Gli "anni di piombo" nella letteratura italiana 888063769X, 9788880637691

"Gli anni di piombo nella letteratura italiana" prende in esame la produzione letteraria di autori che hanno a

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Gli "anni di piombo" nella letteratura italiana
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IL PORTICO. BIBLIOTECA DI LETTERE E ARTI 164.

Sezione: MATERIALI LETTERARI

a Carlo e alla mia famiglia

Ermanno Conti

Gli “anni di piombo” nella letteratura italiana

LONGO EDITORE RAVENNA

Ringraziamenti Il presente volume è stato in parte realizzato grazie al contributo dell’“Olga Ragusa Fund for the Study of Modern Italian Literature and Culture”. Vorrei ringraziare i professori Andrea Ciccarelli, Massimo Scalabrini, Colleen Ryan, Antonio Vitti e David Hertz per l’aiuto e il supporto nei miei confronti. Ringrazio anche tutti gli altri professori che ho avuto la fortuna di incontrare durante gli anni di studio e di insegnamento nel dipartimento di italiano all’Indiana University di Bloomington. Ringrazio infine Jocelyn Karlan e Tommaso Sabbatini.

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Introduzione

Il periodo storico che va dal 1969 al 1989 ha visto in Italia – più che in altri paesi occidentali – l’affermarsi del fenomeno della violenza politica.1 Dalla strage di Piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre 1969, all’assassinio del senatore e politologo Roberto Ruffilli, compiuto nell’aprile del 1988, la violenza politica di sinistra e di destra e lo stragismo neofascista hanno causato 429 vittime e il ferimento di circa 2000 persone. Soprattutto, il fenomeno ha profondamente influito sulla memoria storica e sulla coscienza collettiva degli italiani, nonché sugli scenari politici degli anni che sono seguiti. Per designare questo periodo gli storici, gli scrittori e i giornalisti hanno usato retrospettivamente i termini “anni di piombo”2 e “anni del terrorismo”. La nostra attenzione sarà posta sulla produzione letteraria di autori italiani contemporanei che nelle loro opere hanno utilizzato e sviluppato il tema della violenza politica. Saranno analizzati in prevalenza romanzi, ma anche opere teatrali e lavori apparentemente saggistici (come ad esempio L’Affaire Moro di Leonardo Sciascia e In questo Stato di Alberto Arbasino) nei quali tuttavia prevale la componente letteraria. Fino ad ora, il periodo in questione è stato analizzato esaurientemente dal punto di vista politico e storico, attraverso la pubblicazione di numerosi testi prodotti da storici e giornalisti. Sono stati inoltre pubblicati alcuni studi sulla sua rappresentazione cinematografica.3 La produzione letteraria invece non ha ancora ricevuto l’attenzione 1 Gli storici non concordano su quando considerare chiusa la stagione della violenza politica. Molti di loro la reputano terminata nella prima metà degli anni ’80, quando la situazione socio-politica in Italia cambia drasticamente. Tuttavia, gli assassinii politici proseguiranno, seppur in maniera sporadica, fino alla fine del decennio (Tarantelli 1985; Conti 1986; Giorgieri 1987; Ruffilli 1988). Inoltre, nel 1999 è ricomparso in Italia il fantasma del terrorismo politico con l’assassinio da parte delle “Nuove Brigate Rosse” del Professor Massimo D’Antona, giuslavorista e consulente dell’allora ministro del lavoro Bassolino. Tre anni dopo, nel 2002, lo stesso gruppo ha ucciso un altro giuslavorista, il Professor Marco Biagi. L’ultimo tragico atto di violenza da parte del terrorismo di sinistra ha avuto luogo nel marzo 2003, quando due membri delle Nuove BR sono stati sorpresi su un treno da una pattuglia della polizia e hanno aperto il fuoco contro gli agenti. Nella sparatoria sono rimasti uccisi l’agente Emanuele Petri e il terrorista Mario Galesi. Le indagini seguite a questo episodio hanno permesso di catturare tutti i membri della nuova organizzazione terroristica. 2 L’espressione “anni di piombo” è la traduzione italiana del titolo del film Die bleierne Zeit (1981), della regista tedesca Margarethe Von Trotta. 3 Vedi A. O’Leary, Tragedia all’italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, Tissi, Angelica,

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Introduzione

necessaria, come è dimostrato dalla scarsità di lavori critici sull’argomento. Nel 2008 è stato pubblicato dalle edizioni Il Maestrale di Nuoro Una tragedia negata di Demetrio Paolin, il quale tuttavia prende in esame quasi esclusivamente le opere scritte nel nuovo millennio. Pur facendo riferimento anche ad alcuni dei testi più rappresentativi dei decenni precedenti, Paolin sostiene che i “conti con gli anni di piombo, per la narrativa, rimangono in sospeso almeno fino al maggio 2003”.4 Uno degli obiettivi del nostro lavoro è quello di dimostrare che anche precedentemente a questa data, a partire dagli anni ’70, gli autori italiani hanno mostrato attenzione verso il fenomeno della violenza politica e hanno prodotto non poche opere letterarie sul tema. A queste, si cercherà dunque di dare una sistemazione il più possibile completa e organica. Con l’analisi e la sistemazione critica di queste opere vogliamo conseguentemente dimostrare come la produzione letteraria, nelle sue varie forme, possa offrire un contributo importante, al pari di quello offerto dalla ricerca storica e dalla memorialistica, per la comprensione globale degli anni di piombo. Lo studio seguirà un ordine prevalentemente cronologico, con una suddivisione per decenni; una prima fondamentale classificazione sarà tra le opere scritte durante gli anni del terrorismo (anni ’70 e ’80) e quelle pubblicate dopo la conclusione del fenomeno (1990-2010). Ciò nonostante, vi saranno continui riferimenti intertestuali e si tracceranno delle linee di continuità e discontinuità tra opere anche distanti temporalmente. L’analisi dei testi verterà non solo sui temi, ma anche sulle forme in cui essi vengono narrati, cercando di mettere in evidenza la ricchezza, la varietà e la multiformità con cui il tema della violenza politica viene sviluppato nei lavori presi in esame. La scelta dell’organizzazione cronologica non è stata compiuta per semplificare la sistemazione delle opere, ma per metterne meglio in luce alcuni aspetti, come ad esempio la loro capacità di prevedere e anticipare determinate situazioni o addirittura eventi specifici.5 Isolarle dal loro contesto storico ne ridurrebbe il loro valore in questo senso. Gran parte dell’interesse dell’Affaire Moro di Sciascia sta nel suo essere scritto proprio a ridosso dell’omicidio del politico democristiano, nel suo essere parte integrante del dibattito successivo alla vicenda, tanto che dal “caso Moro” si passa al “caso Sciascia”. La scelta della sistemazione cronologica risponde anche ad un intento di tipo “filologico”: volendo far riferimento ancora a Sciascia, l’Affaire Moro si pone come punto di partenza di una “tradizione” che chi affronterà di lì in poi il

2007 e C. Uva, Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007. 4 D. Paolin, Una tragedia negata, Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana, Nuoro, Il Maestrale, 2008, p. 24. 5 Attilio Veraldi nel Vomerese anticipa di due anni il rapimento avvenuto, nella realtà, di un alto ufficiale della NATO; Lo stesso Veraldi, D’Eramo, Zandel e Castellaneta nei loro romanzi intercettano il malcontento che serpeggia nelle file del terrorismo di sinistra e in qualche modo prevedono e anticipano il fenomeno del “pentitismo” che si verificherà poco dopo la pubblicazione dei loro lavori.

Introduzione

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caso del sequestro e dell’omicidio del presidente DC non potrà ignorare, a cominciare da Dario Fo, la cui Tragedia di Aldo Moro è posteriore all’Affaire di qualche mese, per finire con i recentissimi lavori di Giampaolo Spinato e Marco Baliani. La rielaborazione letteraria del caso Moro occupa gran parte del nostro studio. Ad essa è dedicato il secondo capitolo nel quale viene preso in considerazione, oltre alle già citate opere di Sciascia e Dario Fo, In questo Stato di Alberto Arbasino. All’inizio verranno invece studiati quei testi che reinterpretano la strage di Piazza Fontana6 di cui hanno scritto con contenuti e forme tra loro molto diversi Dario Fo, Carlo Castellaneta e Paolo Volponi. Ferdinando Camon, con Occidente, cerca di delineare il profilo psicologico degli stragisti neofascisti autori di quel massacro. Tra le prime opere sul terrorismo di sinistra vanno invece annoverati i lavori di Natalia Ginzburg (Caro Michele) e Alberto Moravia (La vita interiore). La parte centrale del lavoro si occupa della produzione letteraria sull’argomento negli anni ’80, particolarmente varia e copiosa, in cui sembra predominare la scelta di “genere”, con l’utilizzo degli schemi del “giallo”, della “spy-story” (Castellaneta, Veraldi, Zandel, Bernari) o del romanzo di “azione” (Luce D’Eramo). Non mancano in questo decennio tentativi di tipo umoristico e surreale (Rugarli e Vassalli) e l’intervento sul tema, seppur dissimulato, di Umberto Eco nel Nome della Rosa. La “riflessione” sugli anni di piombo inizia negli anni ’90 ed è ben testimoniata nelle opere di Erri De Luca, Nerino Rossi,Vincenzo Mantovani e Anna Maria Ortese. L’ultimo capitolo cerca infine di creare dei percorsi di lettura in quella vera e propria proliferazione di testi sul terrorismo manifestatasi con l’inizio del nuovo millennio, che vede tra gli altri protagonisti scrittori giovani (Giorgio Vasta) e meno giovani (Ferruccio Parazzoli). Una parte importante di questi testi torna sul “caso Moro” e su

6 Questo tragico evento, in cui il 12 dicembre 1969 morirono 17 persone e ne rimasero ferite 88, è unanimemente considerato l’inizio della “strategia della tensione” e degli “anni di piombo”. Dal 1969 al 1974, l’Italia fu colpita da una serie di attacchi terroristici indiscriminati, alcuni dei quali causarono la morte di molti civili, come la strage di Piazza della Loggia a Brescia e quella del treno “Italicus” avvenuta in provincia di Bologna. Tuttavia, la più grande strage terroristica ha avuto luogo alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, quando morirono 85 persone e ne rimasero ferite più di 200. Gli autori di tutti questi attacchi (mai rivendicati) furono presumibilmente – perché per molti di essi non si è potuti arrivare a delle condanne in sede processuale – estremisti di destra manovrati e coperti da settori deviati dei Servizi Segreti e delle strutture militari. Lo scopo della strategia del terrore era quello di provocare una svolta in senso autoritario inducendo la popolazione a credere che gli attacchi fossero parte di un progetto di insurrezione comunista. Molti movimenti extraparlamentari di sinistra interpretarono la strage di Piazza Fontana come una “strage di Stato”, mirante a fermare, con metodi terroristici, le conquiste ottenute dalla classe operaia dopo il 1968. Per molti militanti di sinistra, la strage e le sue conseguenze (le accuse all’anarchico Pinelli e la sua morte durante l’interrogatorio) furono un momento decisivo per la scelta di intraprendere la lotta armata. Il terrorismo di sinistra si manifesta in Italia pochi mesi dopo la strage di Milano. Nell’agosto del 1970 vennero fondate le “Brigate Rosse” da Renato Curcio, Margherita Cagol – entrambi studenti all’Università di Trento – e da Alberto Franceschini. La propaganda e gli atti minori di violenza iniziarono nel 1970. Nel 1972 le BR organizzarono il loro primo rapimento e nel 1974 ci fu il loro primo attacco mortale. Le prime due vittime furono due esponenti del partito neofascista “Movimento Sociale Italiano”. Tra il 1974 e il 1988 le Brigate Rosse hanno rivendicato 86 omicidi politici. Durante gli anni ’70 furono attivi molti altri gruppi armati di sinistra. Tra questi “Prima linea” e i “Nuclei Armati Proletari”.

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Introduzione

altri temi affrontati nei decenni precedenti, come il conflitto generazionale (Sartori, Cotroneo, Doninelli). Altri affrontano temi nuovi come la possibilità o l’impossibilità della riconciliazione (Carbone e D’Aloja). Non abbiamo preso in considerazione i numerosi lavori di finzione (romanzi e racconti) recentemente prodotti dagli ex terroristi. La scelta dell’esclusione non è stata di tipo pregiudiziale, ma è motivata dal fatto che è stato già pubblicato uno studio accurato ed esaustivo che si è occupato di questo “corpus” di testi.7 È stata invece talvolta considerata la produzione memorialistica da parte dei protagonisti di quegli anni, là dove essa si trova in qualche modo ad interagire con le opere letterarie esaminate.

7 Vedi G. Tabacco, Libri di piombo. Memorialistica e narrativa nella lotta armata in Italia, Milano, Bietti, 2010.

I. LA VIOLENZA POLITICA E LO STRAGISMO NELLA LETTERATURA DEGLI ANNI SETTANTA

1.1. La strage di Piazza Fontana e la morte di Pino Pinelli: Dario Fo, Carlo Castellaneta e Paolo Volponi La strage di Piazza Fontana, compiuta il 12 dicembre 1969, in cui morirono diciassette persone e ne rimasero ferite ottantotto, segna in Italia l’inizio di una stagione di terrore e di violenza politica ed è unanimemente considerata l’episodio con cui ha inizio la “strategia della tensione”. Tale evento è seguito immediatamente dalla oscura vicenda della morte di Pino Pinelli, ferroviere anarchico che figurava tra i sospettati di aver commesso la strage, avvenuta durante un drammatico interrogatorio al quarto piano della questura di Milano, conclusosi con la misteriosa caduta dalla finestra dell’anarchico. Dario Fo, Carlo Castellaneta e Paolo Volponi hanno rielaborato artisticamente e letterariamente i due eventi – strettamente connessi – rispettivamente con Morte accidentale di un anarchico, La paloma e Il sipario ducale. Fo scrive e mette in scena Morte accidentale di un anarchico nel 1970. Il 5 dicembre si tiene la “prima” a Varese. È dunque un’opera scritta quasi subito dopo il tragico evento, il cui scopo principale è quello di intervenire nella realtà politica italiana del tempo. Dal 1969 inizia infatti per Fo quella che viene definita la stagione del “teatro politico”, che si protrarrà per circa un decennio; non a caso il decennio delle stragi, della “strategia della tensione” e del terrorismo. In un’intervista del 2004, Fo afferma che «l’atto maggiore che un satirico, una persona che fa teatro grottesco deve poter realizzare è l’informazione».1 Morte accidentale è infatti principalmente opera di informazione, più precisamente di contro-informazione, su uno degli episodi più oscuri e determinanti della storia recente italiana, ovvero sulla morte di Pino Pinelli conseguente alla sua incriminazione per la strage di Piazza Fontana. Fo si assume la responsabilità di sfidare la versione ufficiale dei fatti fornita delle autorità portando in scena non una propria reinvenzione dell’evento, ma facendo “parlare”, rielaborandoli artisticamente, le testimonianze e i documenti. È noto che la versione fornita dalle autorità voleva Pinelli suicida dopo la co1 A.

Ciccarelli, Intervista a Dario Fo, «Italica», 81.4, 2004, p. 564.

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Capitolo primo

municazione – non corrispondente a verità – fornitagli dagli inquirenti durante l’interrogatorio, della confessione e dell’ammissione di responsabilità del compagno anarchico Pietro Valpreda. Fin dal giorno della morte di Pinelli, molti suoi amici e giornalisti, raccoltisi attorno alla vedova Licia Rognini, si ribellano all’ipotesi della matrice anarchica della strage e all’ipotesi del suicidio. Danno quindi vita a una contro-inchiesta che culmina nella pubblicazione, nell’estate del 1970, del libro La strage di Stato che rappresenta il primo tentativo di far luce sulla vera matrice delle bombe del ’69 e sull’incriminazione di Pinelli e Valpreda. Nell’autunno dello stesso anno, il commissario Calabresi denuncia per diffamazione il direttore di «Lotta Continua», Pio Baldelli.2 Il processo che ne segue, porta alla luce le innumerevoli contraddizioni delle versioni ufficiali sulla morte di Pinelli. Morte accidentale si appropria sia delle rivelazioni de La strage di stato, sia delle informazioni che scaturiscono dal processo Calabresi-Baldelli, ma Fo conduce in prima persona un’ulteriore indagine: A nostra volta iniziamo il lavoro d’inchiesta. Un gruppo di avvocati e giornalisti ci fa avere le fotocopie di alcuni servizi condotti da giornali democratici e da alcuni fogli della sinistra – ma non pubblicati; abbiamo la fortuna di mettere il naso in documenti riguardanti inchieste giudiziarie, ci è dato perfino di leggere il decreto di archiviazione dell’affare Pinelli.3

Anni più tardi, lo stesso Dario Fo e Franca Rame affermeranno che «raramente un testo teatrale è stato così fedele ai fatti».4 Al centro della vicenda teatrale, che si svolge negli uffici di una questura, non c’è Pinelli, ma un “matto”. Personaggio che ricorre spesso nel teatro di Fo, il matto ha la funzione di far emergere, grazie alla sua follia, le contraddizioni e le menzogne degli altri personaggi, i quali sono modellati sui veri protagonisti della vicenda. Nella prima sequenza il matto è interrogato dal commissario Bertozzo; poi la scena si sposta nell’ufficio “della finestra”, dove opera il commissario “sportivo”.5 Qui il matto, grazie ad un abile travestimento, diventa giudice (primo Consigliere della Corte di Cassazione) e quindi accusatore. Il questore e il commissario vengono energicamente sollecitati a ripercorrere i fatti che hanno portato al (presunto) suicidio di Pinelli e lo fanno con tutte le contraddizioni puntualmente smascherate dal loro accusatore. Il matto porta il suo interrogatorio fino al punto in cui, come in una una sorta di contrappasso dantesco, mette i due nella stessa situazione psicologica vissuta dall’anarchico, usando gli stessi metodi inquisitivi, tanto da indurli a propositi suicidi. Attraverso altre peripezie e dopo la comparsa di una giornalista, si arriverà allo smascheramento del matto, il quale finirà per ritrovarsi – proprio come Pinelli – sul selciato del cortile della questura. 2 Il commissario Luigi Calabresi, a seguito della campagna di stampa contro di lui condotta da «Lotta Continua» che lo riteneva responsabile della morte di Pinelli, denunciò il direttore del giornale per diffamazione. 3 D. Fo, Morte accidentale di un anarchico. Due atti. A cura di Franca Rame, Torino, Einaudi, 2004, p. 4. 4 L. Pinelli e P. Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 143. 5 Il “commissario sportivo” è il commissario Calabresi, così come il “questore” e il “secondo agente” corrispondono rispettivamente al questore Guida e al brigadiere Panessa.

La violenza politica e lo stragismo nella letteratura degli anni Settanta

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I fatti e le testimonianze succedutisi alla morte di Pinelli contengono già in sé il comico e il grottesco, prestandosi dunque perfettamente alla rielaborazione artistica di Dario Fo. Conviene a questo proposito citare uno dei momenti più esilaranti dell’opera, quello nel quale si fa riferimento all’episodio della scarpa di Pinelli. In questa sequenza il matto, che come si è detto in precedenza grazie a uno dei suoi travestimenti si fa credere un giudice, fa parlare il poliziotto, il quale racconta di aver cercato di salvare l’anarchico afferrandolo per un piede, tanto da rimanere con una sua scarpa in mano: SECONDO AGENTE: Sì, mi è rimasta in mano la scarpa, e lui è andato di sotto lo stesso. MATTO: Non ha importanza. Importante è che sia rimasta la scarpa. La scarpa è la prova inconfutabile della vostra volontà di salvarlo! (Osserva attentamente uno dei documenti) COMMISSARIO SPORTIVO: Certo, è inconfutabile! QUESTORE: (all’Agente) Bravo! AGENTE: La ringrazio signor quest… QUESTORE: Zitto! MATTO: Un momento…. Ma qui, qualcosa non quadra. Il suicida aveva tre scarpe? QUESTORE: Come, tre scarpe? MATTO: Eh sì, una sarebbe rimasta tra le mani dell’agente qui presente che l’ha testimoniato anche qualche giorno dopo il fattaccio…. (Mostra il foglio) Ecco qui. COMMISSARIO SPORTIVO: Sì, è vero…l’ha raccontato a un cronista del «Corriere della Sera» MATTO: Ma qui, in quest’altro allegato, si assicura che l’anarchico morente sul selciato del cortile, aveva ancora ai piedi tutt’e due le scarpe. Ne danno testimonianza gli accorsi, fra i quali un cronista dell’«Unità», e altri giornalisti di passaggio! COMMISSARIO SPORTIVO: Non capisco come possa essere successo… MATTO: Neanch’io! A meno che quest’agente velocissimo abbia fatto in tempo, precipitandosi per le scale, a raggiungere un pianerottolo del secondo piano, affacciarsi alla finestra prima che passasse il suicida, infilargli la scarpa al volo e risalire come un razzo al quarto piano nell’istante stesso in cui il precipitante raggiungeva il suolo. QUESTORE: Ecco, vede, vede, riprende a fare dell’ironia! MATTO: Ha ragione, è più forte di me… mi scusi. Dunque, tre scarpe… scusate, non vi ricordate se per caso fosse tripede? QUESTORE: Chi? MATTO: Il ferroviere suicida…se per caso aveva tre piedi, è logico portasse tre scarpe. QUESTORE: (seccato) No, non era tripede! MATTO: Non si secchi, la prego...a parte che da un anarchico ci si può aspettare questo

e altro!6

Il farsesco è già contenuto nei documenti. Nel testo (e sulla scena) Fo in questo caso rielabora, senza però discostarsi dal vero, la testimonianza del brigadiere Panessa (uno dei poliziotti presenti nella stanza dell’interrogatorio al momento del “volo” di Pinelli) che afferma di essere rimasto con una scarpa dell’anarchico in mano nel tentativo di salvarlo; testimonianza smentita da quella di alcuni giornalisti presenti nel cortile della questura al momento della tragedia, i quali videro Pinelli con tutte e due le scarpe ai piedi. Attraverso il riso, Fo vuole quindi smascherare il 6

D. Fo, Morte accidentale di un anarchico, cit., pp. 54-55.

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tentativo di inquinamento e di insabbiamento operato dalle autorità per nascondere come realmente si svolsero i fatti. Morte accidentale, come gran parte del teatro di Fo degli anni Settanta si basa su fatti e documenti, ma non è un “teatro-documento”. Il documento è fondamentale, ma «diventa soprattutto un pretesto di spettacolarità, e in molti casi di ilarità, perché non lo presenta così com’è».7 In Morte accidentale e durante la stagione del teatro politico, gli avvenimenti di cronaca venivano da Fo immersi «ora in una situazione surreale, ora onirica, ora politica, senza mai perdere di vista le esigenze del palcoscenico che rivestiva con l’arte della sua comicità».8 In questa operazione Fo decide di escludere la figura del vero Pino Pinelli, che non può essere in alcun modo assimilabile a quella del “matto”. Questa esclusione corrisponde all’esigenza di impedire l’immedesimazione e di conseguenza la commozione del pubblico. In questo senso Fo si rifà al teatro politico brechtiano che predilige la “situazione” piuttosto che il “personaggio”. Il teatro politico non deve promuovere l’identificazione con il personaggio ma deve favorire la comprensione di una determinata situazione. Va dunque rifiutata la catarsi poiché questa non permette la riflessione e la presa di coscienza che in ultima istanza devono portare alla prassi, fine ultimo del teatro politico di Fo. Di qui la scelta della farsa, forma di teatro popolare che privilegia la situazione e che da sempre è sberleffo dei potenti. Dunque il riso di Fo non è mai fine a se stesso. È un riso che deve provocare una rabbia che deve rimanere nello spettatore nel momento in cui lascia lo spettacolo e che deve indurlo a intervenire sulla realtà: Noi non vogliamo liberare nella indignazione – lo diciamo alla fine – la gente che viene. Noi vogliamo che la rabbia stia dentro, resti dentro e non si liberi, che diventi operante, che faccia diventare razionante il momento in cui ci troviamo, e portarlo nella lotta.9

Fo ha più volte fatto riferimento alla morte di Pinelli come ad una vicenda che già contiene in sé gli elementi del teatro, compresa la presenza di un copione – scritto da chi vuol coprire la verità – che però deve essere continuamente riscritto perché male interpretato dai vari attori. Questo è probabilmente uno dei motivi per cui si ha la presenza di numerosi elementi metateatrali nell’opera.10 Corrado Stajano, giornalista-scrittore che seguì fin dall’inizio le vicende della strage di Piazza Fontana e della morte di Pinelli, riferendosi alla conferenza stampa tenuta dalla polizia dopo la morte dell’anarchico, afferma di avere avuto l’impressione «di aver assistito, in quella stanza del questore, a una scena di teatro, indegna, senza neppure un

7 A.

Bisicchia, Invito alla lettura di Dario Fo, Milano, Mursia, 2003, p. 123. Ibid., p. 144. 9 Collettivo Teatrale La Comune, Compagni senza censura, vol. II, Milano, Mazzotta, 1973, p. 189. 10 All’inizio dell’interrogatorio condotto dal commissario Bertozzo, il matto afferma: « Ma io sono matto: matto patentato! Guardi qua il mio libretto clinico; sono stato ricoverato già sedici volte… e sempre per la stessa ragione: ho la mania dei personaggi. Si chama “istrionomania”, viene da istriones che vuol dire attore. Insomma, ho l’hobby di recitare delle parti sempre diverse. Soltanto che io sono per il teatro verità, quindi ho bisogno che la mia compagnia di teatranti sia composta da gente vera, che non sappia recitare […]». D. Fo, Morte accidentale di un anarchico, cit., p. 10. 8

La violenza politica e lo stragismo nella letteratura degli anni Settanta

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moto di amarezza per la morte di un uomo. Innocente. Dimenticato».11 Come afferma Beatrice Alfonzetti, «Morte accidentale di un anarchico è la parodia tragica (grottesca) del teatro dei poteri giudiziari e di polizia, delle morti coperte dal segreto di stato, di una tragedia ‘politica’».12 Oltre alla vicenda Pinelli, numerosi nel testo sono i riferimenti alla strage di Piazza Fontana.13 Il giudizio di Dario Fo su di essa (un anno dopo i fatti) è deciso: gli anarchici non hanno nulla a che fare con la strage. Essa è stata compiuta da organizzazioni neofasciste aiutate e coperte da settori della borghesia e dello stato preoccupati da una possibile “svolta a sinistra”. Il matto, rivolgendosi alla giornalista entrata in scena nell’atto secondo, afferma: Certo, lei è giornalista e in uno scandalo del genere ci sguazzarebbe a meraviglia… avrebbe solo un po’ di disagio nello scoprire che quel massacro di innocenti alla banca era servito unicamente per affossare le lotte dell’autunno caldo… creare la tensione adatta a far sì che i cittadini disgustati, indignati da tanta criminalità sovversiva, fossero loro stessi a chiedere l’avvento dello Stato forte!14

Nonostante il fatto che la strage dopo quarant’anni non abbia colpevoli dal punto di vista giudiziario, le ipotesi di Fo sono state confermate dalle varie inchieste e dai processi che si sono succeduti fino al 2005. Diverso è l’approccio di Carlo Castellaneta alle vicende della strage di Piazza Fontana e di Pinelli. Castellaneta pubblica il romanzo La paloma nel marzo 1972. Anche questa dunque è un’opera scritta a ridosso degli eventi, a caldo, ma non è affatto un’opera militante come Morte Accidentale. Se Fo, per i motivi che sono stati in precedenza evidenziati, esclude come personaggio principale Pinelli per scegliere come protagonista la figura del matto, Castellaneta fa del ferroviere anarchico il centro del suo romanzo. Crea un suo doppio, Pietro, e cerca di immaginare e trascrivere le sue vicissitudini e i suoi sentimenti vissuti durante gli otto mesi precedenti la sua tragica fine (il primo riferimento temporale è la bomba scoppiata alla fiera di Milano il 25 aprile 1969). La descrizione dei sentimenti e delle situazioni interiori che si nascondono sotto la cronaca dei fatti è una caratteristica anche dei precedenti lavori di Castellaneta, così come nei suoi romanzi precedenti vi era una forte ispirazione di tipo politico – civile. In un’intervista che è anche una dichiarazione di poetica, Castellaneta afferma: La realtà socio-politica contemporanea mi ha sempre influenzato, fin da quando scrivevo, a ventitré anni, i miei primi racconti per l’«Unità». Ma ancora oggi non cessa di affascinarmi il modo in cui l’individuo reagisce di fronte a certi condizionamenti, cercando ogni

11

L. Pinelli e P. Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, cit., p. 136.

12 B. Alfonzetti, Gli anni di piombo e la scena. Satira e tragedia in Dario Fo, «L’illuminista», 2000,

n. 2-3 («Teatro Poesia e Politica»), p. 158. 13 Alla strage di Piazza Fontana si riferisce anche Pum, Pum! Chi è? La polizia!, scritto da Fo nel 1974, che occupandosi più dettagliatamente dell’inchiesta e delle accuse a Valpreda, forma – assieme a Morte accidentale – una sorta di “dittico” sulla strage. 14 D. Fo, Morte accidentale di un anarchico, cit., p.76.

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volta di ricondurre il “politico” al “privato” attraverso la sfera dei sentimenti. Le contraddizioni sono, a questo proposito, il terreno naturale di indagine dello scrittore, il punto su cui mettere a fuoco il suo microscopio. Al sociologo spetta l’analisi dei comportamenti, allo psicologo l’analisi delle motivazioni, e al narratore la descrizione dei fatti “dal di dentro” dei personaggi, cercando di ricondurre gli avvenimenti più anomali a quei meccanismi eterni che governano le nostre scelte.15

Nel romanzo troviamo le note vicende accadute in Italia nel 1969. All’interno della “grande storia” che poi inaspettatamente si abbatterà tragicamente sul protagonista, vengono descritte le attività quotidiane degli anarchici di Milano, in particolare di quelli che si raggruppano intorno al circolo guidato da Pietro. La vicenda principale e unificante del romanzo riguarda il tentativo di questo gruppo di anarchici di far uscire dal carcere il loro compagno Ciro, arrestato dopo essere stato “incastrato” dalla polizia grazie all’aiuto di uno spagnolo di nome Luisito (di qui il viaggio di Pietro, sua moglie Lisetta e alcuni compagni in Spagna). Gli anarchici milanesi si mettono sulle tracce di quest’ultimo nel tentativo di scagionare Ciro. Tuttavia, nella seconda parte del romanzo le vicende narrate coincideranno sempre di più e con maggior verosimiglianza con la vera storia di Pino Pinelli, fino alle ingiuste accuse di strage e alla morte violenta in questura.16 In tutto il romanzo c’è questo interscambio tra realtà e finzione. Nella storia personale e matrimoniale di Pietro e Lisetta c’è molto di quella di Pino Pinelli e Licia Rognini: entrambe le coppie sono appassionate di esperanto; Lisetta è figlia di un anarchico come Licia, e Pietro è stato staffetta partigiana come Pino. La casa dei coniugi nella finzione si trasforma in un luogo di ritrovo di militanti e amici così come nella realtà. Diversamente dai coniugi Pinelli, Pietro e Licia hanno una sola figlia (l’altra non nascerà per un aborto spontaneo). Confrontando le memorie di Licia Rognini Pinelli17 (apparse per la prima volta nel 1982, quindi molti anni dopo la pubblicazione de La paloma) con le vicende narrate nel romanzo, si può notare come l’autore abbia compiuto un lavoro di ricerca sulle biografie dei due coniugi e sull’attività politica di Pinelli, non volendo però riprodurle in maniera identica. Funzionale alla descrizione umana più che politica di Pietro-Pino è la forte presenza nel testo dell’ambiente di lavoro dell’anarchico. Come Pinelli, Pietro è un ferroviere e le ore passate al lavoro sono descritte con grande dovizia di particolari e anche con rigore terminologico: I suoi due uomini si stanno cambiando, Pietro apre lo stipetto di ferro che porta il suo nome scritto col gesso, da un’ora sta piovendo e bisogna indossare i panni dell’acqua, che sarebbe la palandrana di tela cerata, il cappellone, poi i guanti e il fanale. Traversano tutti e tre insieme il fascio dei binari e sono sull’altra sponda dov’è l’ufficio di manovra, ha

15 “…La realtà socio-politica contemporanea mi ha sempre influenzato…”, «Uomini e libri», 63, 1977, p. 36. 16 Nel romanzo la morte dell’anarchico è causata da un malore provocato dal pestaggio durante gli interrogatori e non si parla del famoso “volo” dalla finestra del quarto piano. 17 Si tratta della prima edizione del testo Una storia quasi soltanto mia, citato più volte in precedenza.

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ragione il Papotti che di scarpe dovrebbero passarne un paio al mese adesso che comincia la stagione delle piogge, e non parliamo dei guanti di manovra, discorsi già fatti e sentiti fino alla nausea ma almeno in ferrovia non c’è un padrone, anche se il Diesel è già là impaziente che brontola sulla ventiquattro, Pietro è entrato in ufficio a prendere gli ordini, il quadrante segna adesso le ventidue, c’è da formare un convoglio passeggeri per la Centrale, ricoverare un merci e scartare sei carri che andranno allo scalo Vittoria, ma le più rognose del turno di stanotte son le due letto da tagliare sulla quindici […].18

Per quanto riguarda invece la storia collettiva, Castellaneta è molto preciso su alcuni fatti di cronaca, come quando fa riferimento con esattezza di particolari e di date alle bombe che precedettero quella di Piazza Fontana19 e alla morte dell’agente Annarumma pur non facendone esplicitamente il nome.20 Fa poi riferimento alla strage mantenendone identica la data e persino l’ora, ma la fa avvenire all’interno di un cinema anziché di una banca: La galleria era meno affollata di quando eravamo passate poco prima, ma non vi feci caso subito, solo uscendo all’aperto in piazza del Duomo notai la fiumana che si accalcava alle uscite della Rinascente, automezzi della polizia erano fermi su due file, non si passa, ordinò il vigile, la gente era ferma e guardava il cielo come durante un allarme aereo, e il cielo echeggiava di sirene, un ululato lugubre e fitto che non avevo mai sentito, di colpo la mia rabbia è caduta allo stridio acutissimo della prima autolettiga, ordini concitati si inseguivano, ma cos’è successo? nessuno rispondeva, eppure i negozi stavano chiudendo, bloccato il passaggio delle macchine, anche il Duomo sfumava sinistro in quel vuoto: ci son dei morti, disse l’uomo dei giornali: in un cinema è scoppiata una caldaia.21

Come si diceva in precedenza, Castellaneta intende offrire un ritratto umano di Pinelli e per raggiungere questo obiettivo si serve di un espediente narrativo originale. All’interno del testo si possono individuare due narratori; il primo narratore corrisponde a Lisetta che narra in prima persona e che spesso si sofferma a descrivere Pietro e la loro vita familiare, con le sue soddisfazioni, i suoi problemi e le sue piccole azioni quotidiane: Hai caricato la sveglia? Rantola un sì sul guanciale, appena percettibile, la mano sopra la spalla che tira a sé la coperta; fa sempre così: si addormenta di colpo appena posa la testa sul cuscino, le lenzuola conservano ancora periferie gelate intorno all’impronta del corpo, il vagito dei gatti in amore, i loro appelli struggenti si insinuano fin qui, so che provengono dal lavatoio sotto la scala B sprangato ormai da anni, stanno appollaiati sui gradini e gemono fino al mattino, ecco il primo attacco di tosse: il suo torace risuona come una caverna, l’ultimo colpo non è mai l’ultimo, è stato un inverno interminabile per Pietro, intere nottate coi piedi nella neve [...].22

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C. Castellaneta, La paloma, Milano, Rizzoli, 1972, p. 24. Ci sono riferimenti espliciti alla bomba alla fiera di Milano, scoppiata il 25 aprile e alle otto esplosioni sui treni dell’otto e del nove agosto 1969. 20 L’agente Antonio Annarumma rimane ucciso il 19 novembre a Milano nel giorno dello sciopero per la casa durante violenti scontri tra la polizia e i manifestanti. 21 C. Castellaneta, La paloma, cit., p. 179. 22 Ibid., p. 18. 19

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Oggi è il venticinque del mese e siamo al verde. Uffa Lisetta, che discorsi! Ha inghiottito l’ultimo pezzo di mela, e poi in maggio sulla busta paga dovrebbe esserci un piccolo scatto per la notturna, lo ascoltavo sentendo montare dentro un rancore irragionevole, perché conosco da anni queste ragioni sacrosante, è lui che non sa la fatica di arrivare ogni volta alla fine del mese, una mela, pensavo, montagne di mele, maledizione, ma certo, ci vuole una sede, e poi ci vorrà un giornale, e poi la macchina per il ciclostile, e la rivoluzione che prepariamo, di cui predichiamo l’avvento, ci mangerà anche le briciole, consumerà i nostri abiti, sbriciolerà i nostri mobili […].23

Il secondo narratore si occupa invece di descrivere gli eventi e di assecondare il flusso dei pensieri di Pietro. In entrambe le narrazioni c’è l’uso del monologo interiore, espediente che dà al romanzo una struttura sintattica non convenzionale. È Lisetta che sembra avere una visione superiore e che sembra talvolta giudicare Pietro per il suo eccesso di entusiasmo e per la sua ingenuità. È lei ad esempio che cerca di metterlo in guardia nei confronti del pericolo delle infiltrazioni nel suo gruppo (altro elemento di verosimiglianza con la realtà dei fatti storici, poiché i gruppi anarchici si mostrarono molto permeabili alle infiltrazioni della polizia e dei gruppi neo-fascisti): Quando aggrotta le sopracciglia è suo padre spiccicato: la stessa faccia di suo padre ferroviere che vorrebbe far soggezione. Eppure sa anche lui cosa intendo: quanti sconosciuti accettiamo nelle nostre file senza sapere da dove vengono, chi sono, perché ci stanno, finché un giorno spariscono, e magari sparissero senza lasciare tracce, visto che qualcuno è andato in questura a raccontare anche quello che non sapeva.24

Oltre all’immagine quotidiana dell’uomo Pinelli, Castellaneta fa quindi rivivere l’ambiente degli anarchici milanesi, seguendoli nelle loro riunioni, nei loro discorsi, nella preparazione delle loro azioni e nella loro attuazione. Pinelli e i suoi compagni descritti dall’autore vengono visti come impegnati in una rivoluzione lenta, di lungo periodo, che si affida alla persuasione più che al linguaggio della violenza. Soprattutto qui si può intravedere uno dei messaggi politici del romanzo. Castellaneta vuole difendere gli obiettivi e i mezzi di lotta politica degli anarchici, alieni dall’uso della violenza stragista e indiscriminata: E se Rimoldi avesse ragione? Ma sì, lotta al sistema con tutti i mezzi, non è da oggi che Pietro se lo chiede, ma per attuarla questa violenza bisogna avercela dentro, e lui non ha mai sentito l’impulso di spaccare vetrine, svellere lampioni, incendiare automobili come tanti hanno voglia di fare, forse è la ferrovia che ti insegna a rispettare il materiale, Pietro l’ha visto due volte «La bataille du rail», il film sulla resistenza dei ferrovieri francesi, ma ogni volta che saltavano in aria binari e traversine o deragliavano treni – e sì che c’eran sopra i nazi – in fondo ne soffriva per lo spreco, d’istinto faceva il conto dei danni al materiale rotabile, le ore di lavoro che costa un sabotaggio, forse non sono un libertario vero, è tornato a pensare, visto che lui ha sempre scavalcato con l’immaginazione il primo stadio dell’anarchia, quello del disordine che adesso è così caro a tanti compagni,

23 24

Ibid., p. 42. Ibid., p. 11.

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il piacere perverso di distruggere per il gusto di distruggere, così va all’aria l’ordine borghese, all’aria tutto, perdio! Ma quale ordine? Un binario resta un binario, roba che ti serve anche dopo, quando la rivoluzione è attuata, ci vogliono giornate di lavoro per rimettere in sesto un armamento, e se non capisci questo non sei un ferroviere, non sei un operaio: sei un borghese, e infatti fan presto loro, gli studenti, a gridare di rompere, spaccare, incendiare, perché non sanno cos’è la fatica delle mani, se ci fosse qui il commissario adesso saprebbe spiegarglielo: che un ferroviere che mette una bomba sotto un carro è una bestia, se scoprisse chi è stato lo farebbe correre lui stesso a calci nel culo […].25

Non mancano quindi, pur all’interno del carattere descrittivo e psicologico dell’opera, valutazioni politiche da parte dell’autore, il quale difende senza alcun dubbio gli anarchici dalle accuse di essere i responsabili degli attentati del ’69. La paloma però rimane principalmente romanzo di indagine “privata”, con «la scelta di un discorso poetico, inteso proprio a rendere una maggiore credibilità alla parte degli stati d’animo».26 Con Il sipario ducale, Paolo Volponi affronta la strage di Piazza Fontana e la morte di Pinelli diversamente rispetto a Fo e Castellaneta. Innanzitutto il romanzo viene pubblicato nel 1975, a sei anni di distanza dagli eventi, quando ormai iniziano ad emergere alcune verità sui due episodi e quando diventa possibile una riflessione più ponderata su di essi. La diversità sta però soprattutto nel fatto che l’opera di Volponi trasferisce la vicenda principale lontano da Milano e dagli uffici della questura. I protagonisti della vicenda non sono più gli attori – seppur sotto false generalità – e i luoghi delle reali vicende storiche, come in Morte accidentale e in La paloma, ma sconosciuti personaggi della provincia pesarese-urbinate. Volponi si attiene quindi al canone del romanzo storico manzoniano dove storia (la “grande” storia) e invenzione (i personaggi) si mescolano. Gaspare Subissoni, Dirce, Vives, sono personaggi di fantasia che vivono però in un momento storico ben determinato e descritto dall’autore; questo momento storico agisce su di loro e loro interagiscono con esso. Rispetto alle altre due opere prese in considerazione sugli eventi di Piazza Fontana scritte “a caldo”, Volponi ha più tempo per riflettere sugli eventi e per seguire gli sviluppi anche processuali, ma Sipario Ducale viene ideato e scritto contemporaneamente alla Strage di Piazza della Loggia di Brescia (28 maggio 1974) e a quella del treno Italicus (4 agosto 1974).27 Questa contemporaneità ai due luttuosi eventi spiega il suo carattere “militante”, la sua chiamata al coinvolgimento politico e all’azione. Dopo lo sperimentalismo di Corporale, Volponi torna – con Il sipario – ad una struttura romanzesca più tradizionale con il racconto in terza persona, calibrando ri-

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C. Castellaneta, La paloma, cit., pp. 129-130. C. Bo, La Paloma, «Corriere della Sera», 23 aprile 1972. Il 28 maggio 1974 esplode un ordigno sistemato in un cestino portarifiuti di piazza della Loggia a Brescia; l’esplosione avviene nel corso del comizio durante lo sciopero generale proclamato contro le violenze neofasciste. Otto persone vengono uccise e quasi un centinaio rimangono ferite. Anche per questa strage, come per quella di Piazza Fontana non è stato possibile riconoscere le responsabilità penali (l’ultima assoluzione risale al 16 novembre 2010), ma le varie inchieste hanno ormai appurato la matrice neofascista, così come neofascista è da ritenersi la strage del treno Italicus, avvenuta il 4 agosto 1974 sul treno espresso Roma-Brennero, proveniente da Firenze e diretto a Bologna. Questa strage provocò la morte di 12 persone. I feriti furono 44. 26 27

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gorosamente capitoli alterni dedicati a due opposti nuclei di protagonisti. Il primo nucleo è quello formato dal professor Gaspare Subissoni e sua moglie Vives, coppia di anziani anarchici (si sono conosciuti durante la guerra civile spagnola nel ’39) che ora vivono nella tranquilla Urbino. Subissoni è un tipico personaggio volponiano, un “diverso” che alterna momenti di follia a momenti di estrema lucidità. La sua ossessione è l’unità d’Italia, che considera la causa di tutti i mali del paese. Vives rappresenta invece un elemento di saggezza rispetto al marito; è più consapevole e riesce sempre a leggere meglio la realtà. L’altro nucleo – che conferisce anche un sapore fiabesco al romanzo – è quello formato dal conte Oddino Oddi Semproni, dalle sue due vecchie zie che lo accudiscono premurosamente, e dal losco autista di famiglia Giocondini. I due nuclei verranno a contatto nel diciannovesimo capitolo del romanzo quando compare la giovane prostituta Dirce, che Oddino vuole prepotentemente sposare e che Subissoni riuscirà a proteggere dopo la sua fuga dal palazzo Semproni. La strage di Piazza Fontana ha un ruolo centrale nel romanzo. La prima data che si incontra nella narrazione, citata apparentemente senza significato, è proprio quella del 12 dicembre 196928 e poche pagine dopo viene riportato l’annuncio della deflagrazione trasmesso dagli schermi televisivi: “Dodici morti e cento feriti per un attentato alla filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano… le bombe sono esplose sotto il tavolo al centro dell’atrio dove si svolgono le contrattazioni, particolarmente intense oggi, come ogni venerdì, giorno di mercato…. L’esplosione ha fermato gli orologi della piazza sulle 16.37… una seconda bomba nei locali della Banca Commerciale Italiana è rimasta inesplosa. Quasi contemporaneamente esplodono bombe a Roma, la prima alle 16,45 in un corridoio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro… tredici feriti tra gli impiegati, dei quali uno gravemente; il secondo ordigno esplode su una terrazzo dell’Altare della Patria, sul lato dei Fori imperiali…”.29

Il massacro avvenuto alla Banca Nazionale dell’Agricoltura mette in moto la macchina narrativa, che si concluderà con la data del primo gennaio 1970. Il romanzo ha quindi un’estrema compattezza temporale. In questi ventuno giorni si fondono la vicenda personale di Gaspare Subissoni (la malattia, la conseguente morte della moglie Vives e l’incontro con Dirce) e la vicenda nazionale (la strage, la morte di Pinelli e l’arresto di Valpreda). Gaspare e Vives sono ormai lontani dal vortice della storia, dai tempi in cui combatterono la guerra civile spagnola, ma la strage di Piazza Fontana li costringe in qualche modo ad un esame critico delle loro esistenze e li richiama all’azione.30 Ne 28 Come ha notato Maria Carla Papini, il 12 è un numero fondamentale nel romanzo. Oltre a ritornare due volte nella data della strage, riappare sempre nei momenti decisivi della vita di Subissoni. A livello strutturale, nel dodicesimo capitolo muore Vives e dodici sono i capitoli rispettivamente dedicati ai due nuclei narrativi. (Cfr. M.C. Papini, Paolo Volponi. Il potere, la storia, il linguaggio, Firenze, Le Lettere, 1997, p. 59). 29 P. Volponi, Il sipario ducale, Milano, Garzanti, 1979, pp. 25-26. 30 In Corporale, scritto solo un anno prima, l’ossessione della bomba atomica porta invece il protagonista a progettare un rifugio solitario lontano dalla società.

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Il Sipario ducale assume una rilevanza fortissima questa dicotomia tra l’essere spettatori e l’essere attori della storia. Non a caso, uno dei protagonisti del romanzo è lo schermo televisivo. All’inizio Gaspare e Vives sono solo (tele)spettatori degli eventi, ma già poco dopo l’annuncio della strage, il professore – in uno dei suoi momenti di lucidità – lancia un’invettiva contro la società in generale che, immobile davanti allo schermo televisivo, «resta in silenzio davanti a questo teatrino […] che fa tutto da solo, inventa e commenta: e spaventa».31 Subissoni tuttavia non intuisce subito il significato occulto della strage. È Vives che sente il bisogno di andare oltre l’invettiva e di intervenire sulla realtà; che sente profondamente la limitazione della mediazione – e della distorsione – televisiva e giornalistica: – Caro, – gli disse – m’impegnerò molto in questa vicenda delle bombe. Voglio studiarla, esaminarne ogni aspetto. La Spagna serve come esempio, la sua storia tra il ’30 e il ’39. Io la conosco e debbo metterne le prove a disposizione dei compagni più onesti. Farò un gruppo di studio con alcuni di questi. Annoteremo e discuteremo tutto. Purtroppo non avremo sempre fonti attendibili: bisognerebbe andare sul posto e parlare con tanti: sappiamo bene come esagerano e come inventano i giornali. Non è da escludere che io debba fare presto un viaggio a Milano. Non ti dispiacerà troppo? Tu sai che dobbiamo stare di fronte alle ombre che passano; giudicarle e non cadervi dentro.32

Vives quindi si dedica ad un lavoro teorico di decodificazione degli eventi che dovrà portare all’azione, cioè alla partenza per Milano per immergersi nel flusso degli eventi, per conoscere e guardare in faccia il “nemico”: Dobbiamo conoscerli, è vero. Per troppo tempo abbiamo soltanto letto – disse Vives – e ci siamo illusi dentro questa casa: l’abbiamo anche acquistata, e addirittura fatto i conti degli interessi. Non conosciamo chi comanda. Non conosciamo l’industria. Non conosciamo Milano. Non conosciamo i sindacati. Non conosciamo gli operai. Non conosciamo una collettività. Non conosciamo un comune. Tutto ci appare fatto di parole e di quel brutto latte della televisione […].33

Giuliano Gramigna ha giustamente osservato che «Il sipario ducale è il primo romanzo italiano a tematizzare e trasfigurare l’influenza ulcerante del “treppiede occhialuto” sull’immaginario politico di massa»:34 La vera presenza dominante, il significante-chiave del romanzo è lo schermo televisivo […]. La Tv è così la «Voce», non solo in senso stretto, materiale, ma anche simbolico, a livello di rappresentazione letteraria simbolica, di quella Storia ufficiale che manipola i fatti, uccide, impone le colpevolezze, secondo la logica ottusa, caparbia, eterna del potere. Questa voce- immagine ubiqua e mistificatrice, meccanizza la Storia e gli uomini e si identifica, come una minaccia, con le bombe e la strage, essa è la «comunicazione» di 31

P. Volponi, Il sipario ducale, cit., p. 28. Ibid., p. 69. 33 Ibid., p. 61. 34 G. Gramigna, Dietro il sipario la verità nascosta, «Il Giorno», 25 giugno 1975. 32

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quella pseudo-storia che si serve delle bombe per affermarsi; è dunque, in questa sua «larghezza», una delle invenzioni più affascinanti del testo.35

È Vives che ne intuisce il potenziale pervasivo e invasivo quando afferma che i «cittadini hanno lì la loro verità: è un’unità di canzonette e bombe; di discorsi inutili e di milioni di brutte facce».36 È ancora lei a prevedere, a proposito delle notizie sugli indiziati per la strage, che «la rivelazione avverrà in un momento di maggior ascolto, prima di Carosello, secondo una regia ben fatta, domani o dopodomani».37 Vives tuttavia non riuscirà a partire per Milano, poiché la sua morte è vicina. Come sempre, in Volponi, occorre andare oltre la lettera: nei suoi romanzi il significato metaforico è fondamentale. Ne Il Sipario ducale non è un caso che la malattia di Vives si manifesti proprio in concomitanza con la strage e si aggravi nei giorni della “defenestrazione” di Pinelli e dell’arresto di Valpreda, per portarla alla morte il 23 dicembre, ovvero tredici giorni dopo lo scoppio della bomba. Con la morte di Vives i riferimenti a Piazza Fontana e alle sue immediate conseguenze sembrano terminare nel romanzo, ma il venir meno della tensione eticopolitica è solo apparente poiché attraverso l’incontro fortuito con la giovane prostituta Dirce, Subissoni raccoglie in qualche modo l’eredità della compagna e prenderà finalmente la decisione di di partire con la ragazza – al fine di proteggerla dal conte Oddino – per Milano, cioè là dove in quel momento veniva fatta la storia, come avrebbe voluto fare Vives se ancora fosse stata in vita: Quella Dirce di sotto, che cercava di far rumore per comunicargli la sua presenza, era una creatura di Vives: viva e vera come lei sapeva che fosse la gente… e con il bisogno di ripararsi, di sfuggire ai prepotenti, di trovare compagni e di lavorare serenamente.38

Significative sono le parole di Subissoni prima della partenza, riportate da Volponi con il discorso diretto: «I gennaio 1970. Riparto un’altra volta, per scampare alla stessa peste. Qui dentro non sarebbe mai giunta, ma sono io che debbo andare a curarla».39

Il romanzo si conclude così con la partenza di Subissoni da Urbino per Milano e con la sua intenzione di intervenire sulla storia e sulla vita del Paese, avendo imparato la lezione di Vives. In questo senso quindi, come si è detto all’inizio, quest’ opera di Volponi è un’opera militante: lo è poiché invita all’impegno civile e alla partecipazione. D’altra parte è questo uno dei motivi ricorrenti della letteratura volponiana: il dissidio tra città e campagna, tra provincia e metropoli, tra i luoghi dell’anima (Urbino) e i luoghi dove si fa la storia (Roma, Milano); dissidio che viene risolto nel Sipario ducale (come anche ne La strada per Roma), con la decisione di lasciare la tranquillità della vita urbinate e partire per la metropoli. 35

G. Gramigna, “Il sipario televisivo”, in E. Zinato, ed., Volponi, Palermo, Palumbo, p. 225. P. Volponi, Il sipario ducale, cit., p. 82. 37 Ibid. 38 Ibid., p. 244. 39 Ibid., p. 257. 36

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Il punto di vista di Volponi sulle vicende del dicembre 1969 è da ritrovarsi soprattutto nelle parole di Vives, ma anche in alcuni momenti di consapevolezza di Subissoni. Quando apprende dell’attentato alla banca, Vives, rispondendo alle domande di Subissoni su chi fosse stato a compiere l’attentato, risponde: «Non si sa… fanno solo ipotesi. Mi pare sempre le stesse e allo stesso modo».40 La donna, rispetto a Subissoni – che pure non crede a «nemmeno una parola»41 di quello che sente in televisione o che legge sui giornali – ha la capacità di leggere meglio gli avvenimenti di quei giorni del dicembre 1969 e prova subito a condurre un’analisi politica sulla matrice degli attentati: Gli impazienti sono dappertutto. Ma io non credo che le bombe siano rosse. Se fossero rosse ne sarebbero scoppiate mille: in tanti posti. O sono del governo e allora ne farà scoppiare altre un po’ per volta fino a giustificare lo stato d’emergenza, o sono di fascisti provocatori.42

Come Dario Fo e Carlo Castellaneta, anche Volponi vede quindi nelle bombe un chiaro segno della “strategia della tensione” messa in atto da apparati dello stato e da ambienti neofascisti per fermare l’avanzata delle sinistre e per provocare una svolta autoritaria nel Paese. Inoltre, come Fo e Castellaneta, rileva – attraverso le parole di Vives – le contraddizioni e le manipolazioni delle indagini: Ti pare che questa repubblica borghese […] non sia capace di mentire? Ti pare che non sia capace questa repubblica clericale di accusare a vanvera, di inquisire e soffocare? Non ti pare che abbiano trovato una strada, la più comoda?43

1.2. L’estremismo di sinistra e il romanzo ‘borghese’: Natalia Ginzburg e Alberto Moravia Caro Michele, pubblicato nel 1973, viene spesso identificato come uno dei primi romanzi sul terrorismo italiano. Si cercherà in seguito di stabilire come e quanto questa definizione sia esatta, ma non vi è dubbio che si tratta di una delle prime raffigurazioni letterarie – in un momento in cui la violenza politica in Italia non si era manifestata ancora in tutta la sua distruttività – della militanza eversiva di sinistra. Si tratta di un romanzo epistolare con all’interno brani di raccordo e di spiegazione. Le lettere più frequenti sono quelle scritte da Adriana al figlio Michele, ma molto importanti sono anche le lettere scritte e ricevute da Angelica, sorella di Michele, e quelle di Mara, giovane ragazza-madre. La vicenda si svolge tra il dicembre 1969 e il novembre 1971. Michele, giovane artista figlio della borghesia romana, vive – spesso in compa-

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Ibid., p. 23. Ibid., p. 27. 42 Ibid., p. 57. 43 Ibid., p. 108. 41

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gnia di altri giovani – in uno scantinato a Roma, ma è costretto a partire per evitare un arresto dal momento che fa parte di un gruppo eversivo, lasciando la famiglia. La madre Adriana vive in campagna, ormai disillusa e priva di ogni entusiasmo per la vita assieme alla cognata Matilde. Michele ha due sorelle gemelle: Viola, tutta intesa a perseguire futili gioie mondane e Angelica, a lui molto più vicina, che deve fare i conti con le frustrazioni di un matrimonio fallito. C’è poi Mara, amica di Michele dal quale forse (poiché non si ha la sicurezza sull’identità del padre) aspetta un figlio, che vive in modo nomade la sua esistenza cercando di sopravvivere grazie all’aiuto occasionale di amici e benefattori. Altro personaggio importante è Osvaldo, amico di Michele, del quale – da parte degli altri personaggi – si suppone l’omosessualità e l’attrazione verso Michele. Dopo la morte di Michele in uno scontro violento a Bruges, i vari interlocutori, soprattutto Adriana e Osvaldo, cercano attraverso le loro lettere consolazione reciproca. Questa per grandi linee è la vicenda di un romanzo “senza trama”, dove la stessa struttura epistolare vuole mettere in evidenza la reale mancanza di rapporti fra i personaggi. Scritto dieci anni dopo Lessico famigliare, Caro Michele ne è quasi la negazione, dal momento che rappresenta la dissoluzione dell’istituto familiare e degli affetti che così tanta importanza avevano nel precedente lavoro della Ginzburg, che d’altronde scrive questo romanzo in anni di forti tensioni economiche e sociali quando il “boom” economico è ormai alle spalle, con le speranze e le illusioni degli anni Cinquanta e Sessanta ormai spente, con una situazione di forte malessere sociale e di rifiuto dei valori borghesi da parte delle nuove generazioni. Le relazioni tra i personaggi sono improntate all’estrema precarietà; quasi tutte le relazioni sentimentali si interrompono o sopravvivono estenuate; le amicizie sono costantemente minacciate dal sospetto e dal pettegolezzo reciproco. I diversi personaggi non riescono a capirsi e le ipotesi che fanno sugli altri risultano spesso errate. La figura del padre, così importante in Lessico famigliare, scompare. I maschi sono «maschi ombre, visi pallidi e esangui, uomini in vago odore di omosessualità».44 Lo stesso Michele, sospettato dagli altri personaggi di omosessualità o bisessualità, si caratterizza per l’estrema mobilità nei rapporti – in Inghilterra si sposa, ma il suo matrimonio dura pochissimo – e per la sua impossibilità di assumere responsabilità. Ma se gli uomini sono deboli o inesistenti, le donne non riescono a supplire al loro ruolo poiché anch’esse sono spesso figure negative. La storia dei primi anni ’70, l’eversione e la violenza politica non emergono in primo piano; tuttavia il romanzo risente molto di questi elementi, tanto da esserne caratterizzato nei suoi momenti narrativamente fondamentali, come la partenza di Michele da Roma per Londra e la sua morte violenta a Bruges per mano di un gruppo fascista. Michele parte improvvisamente da Roma nel dicembre 1970 spaventato dall’arresto di un suo compagno. Del gruppo clandestino di Michele il testo non dice molto, ma si può immaginare che si tratti di uno di quei gruppi extraparlamentari di estrema sinistra postisi ai confini della legalità all’inizio degli anni Settanta. Il 1970 in particolare era stato un anno eccezionalmente violento, soprattutto a causa della campa44

C. Garboli, Prefazione in N. Ginzburg, Opere, vol. I, Milano, Mondadori, 1986, p. XXX.

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gna elettorale per le prime elezioni regionali nel paese, con scontri cruenti tra neofascisti e gruppi di sinistra. È in questo momento che i gruppi extraparlamentari e i movimenti studenteschi si dotano di “servizi d’ordine” organizzati, sebbene questi avessero già fatto sporadicamente la loro comparsa negli anni precedenti. Compaiono le prime molotov e soprattutto compaiono «piccoli gruppi clandestini, impegnati in atti di terrorismo per affiancare le violenze di piazza della sinistra extraparlamentare».45 È forse in uno di questi gruppi che milita Michele. Ma la sua militanza è breve e soprattutto incerta; inoltre la sua fuga non è solo politica ma soprattutto esistenziale. Gli elementi della violenza politica degli anni ’70 sono presenti e disseminati nel testo: il mitra, gli scontri, i gruppi extraparlamentari, la morte violenta, ma tutto è lasciato nell’indeterminatezza. La Ginzburg non svolge un’analisi politica e non vuole risalire alle motivazioni politiche per spiegare l’adesione ai gruppi che praticano violenza politica. L’adesione – peraltro in questo caso incerta – all’eversione è uno dei modi per fuggire dagli schemi borghesi, dalla famiglia, dalle responsabilità di marito e di padre. Viene quindi vista in termini esistenziali e non politici. Il rifiuto della famiglia e dei valori borghesi di Michele (ma anche di Mara, figura a lui speculare per il suo nomadismo), si manifesta ad esempio nel completo disinteresse per i beni materiali. Pur provenendo da una famiglia borghese, prima di partire per Londra il ragazzo vive in uno scantinato, nel completo disordine. Un disordine che gli è spesso rimproverato da Adriana, che spesso lo chiama “balordo”, parola che ritorna spesso per definire anche Mara e di conseguenza tutta una generazione: Se tu non fossi così balordo, ti direi di lasciare il tuo scantinato e di installarti di nuovo a via San Sebastianello […]. Però essendo tu come sei mi rendo conto che è meglio che tu resti nel tuo scantinato. Se tu fossi là da tuo padre cresceresti il disordine e getteresti nella disperazione il cameriere.46

Il disordine, la violenza, il completo rifiuto delle responsabilità familiari e sociali mettono a rischio la tranquillità borghese. Il conflitto generazionale e il timore del disordine sociale è bene espresso da Ada, moglie separata di Osvaldo, la quale afferma: “Io sono ottimista per temperamento. Però non riesco a essere ottimista su questi ragazzi che girano. Li trovo insopportabili. Trovo che fanno disordine. Sembrano tanto gentili, ma sotto sotto magari covano la voglia di farci saltare in aria tutti”.47 Uno dei momenti in cui il riferimento alla lotta armata è più ricco di dettagli si trova nella lettera del 3 dicembre 1970 che Michele invia dall’Inghilterra a sua sorella Angelica, nella quale le espone le ragioni della sua partenza improvvisa. In questa lettera prega la sorella di aiutarlo: Mi dimenticavo di dirti che devi portare con te una valigia o una sacca. Dentro la mia stufa c’è un mitra smontato e involtolato in un asciugamano. Partendo me ne sono totalmente

45 G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Torino, Einaudi, 2009, p. 116. 46 N. Ginzburg, Caro Michele, Torino, Einaudi, 2001, p. 6. 47 Ibid., p. 54.

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dimenticato. Ti sembrerà strano, ma è così. Un mio amico che si chiama Oliviero me l’ha portato una sera qualche settimana fa perché aveva paura che da lui capitasse la polizia. Gli ho detto di cacciarlo nella stufa. Non l’accendevo mai quella stufa. Va a legna. Non avevo mai legna. In seguito dell’esistenza di questo mitra nascosto nella mia stufa mi sono dimenticato. Me ne sono ricordato sull’aereo improvvisamente.48

Michele chiede poi ad Angelica di portare con sé una sacca o una valigia per prelevare il mitra: Consegnalo a qualcuno di insospettabile. Per esempio a quella donna che viene da te a pulire. Oppure puoi restituirlo a quell’Oliviero. Si chiama Oliviero Marzullo. Il suo indirizzo non lo so, ma te lo fai dare da qualcuno. Pensandoci bene però quel mitra è così vecchio e rugginoso che forse potresti buttarlo nel Tevere.49

Michele quindi ci infoma che quel mitra non è suo e che non l’ha mai usato. Le sue parole non lo qualificano come “terrorista” e anzi denotano incertezza e presa di distanza. La fuga a causa della sua attività eversiva, potrebbe essere anche fuga dalla attività eversiva e l’abbandono di quel mitra potrebbe rivelare il riconoscere in esso una «metafora dell’ideologia del passato, uno strumento vecchio che il giovane rivoluzionario si lascia dietro senza neppure ricordarsi di averlo conservato».50 Ma se Michele è un incerto e non arriverà fino in fondo nelle sue scelte, molti giovani figli della borghesia decideranno di non gettare il mitra nel fiume e di esprimere attraverso di esso il rifiuto totale del mondo dal quale provengono. Max Henninger afferma a questo proposito che «if the gun is a symbol of the militant’s armed struggle, his uncompromisingly violent attack on the institutions of the capitalist state, the stove that hides it is one of the middle class homeliness in general, and of Adriana’s motherly love in particular.51 Through the image of the gun in the stove, Ginzburg acknowledges the middle class background of many 1970’s militants, and suggests the radicality of their rejection of that background».52 Nella sua interessante lettura del romanzo, anche Beverly Allen mette in luce questo rifiuto e concorda nel sostenere che il personaggio di Michele minaccia la continuità borghese; tuttavia sostiene che Michele, e per estensione i figli della borghesia degli anni ’70 coinvolti nella lotta armata, sono considerati ancora “recuperabili”. Michele è ancora considerato, nonostante tutto, un membro della famiglia, è una sorta di “figliol prodigo” poiché «in Ginzburg’s novel, this is precisely what the “terrorist’ is above all else: a child, specifically a prodigal son, the scion of a bourgeois family whose personal crises far overshadow the clandestine political violence creeping across the Italic peninsula […]. I read the terrorist in 1973 as a son of the bourgeoisie, a good, if errant, Italian, who should and most likely will return 48

Ibid., p. 28. Ibid., p. 29. G. Panella, Tempo della rivolta e momento del quotidiano. Il racconto degli anni di piombo, http://retroguardia2.wordpress.com, 28 novembre 2008, p. 7. 51 La stufa era stata regalata a Michele dalla madre. 52 M. Henninger, Humble killers: literary and cinematic representations of the Italian and German militant left, 1970-1999, doctoral dissertation, New York, CUNY, 2004, p. 472. 49

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to the peninsula and be recuperated by the national institutions – class and family – where he belongs».53 Confrontando Caro Michele con Ombre di Carlo Castellaneta54 che uscirà a nove anni di distanza, Allen nota che nella rappresentazione romanzesca degli anni di piombo questo “figliol prodigo” nel corso degli anni diventerà adulto, non più recuperabile e quindi bandito definitivamente dal corpo sociale italiano. Se quindi all’inizio la borghesia e il romanzo – strumento di autorappresentazione della borghesia per eccellenza – mostrano tolleranza per il fenomeno della militanza eversiva, dieci anni dopo questa tolleranza verrà totalmente meno. Va detto però a questo proposito che quando Ginzburg scrive e pubblica Caro Michele, ovvero nel 1973, nonostante i gravi episodi di violenza e di propaganda armata succedutisi dal 1969 in poi, non si è ancora assistito in Italia all’esplosione del terrorismo di sinistra. L’azione più eclatante compiuta dalle Brigate Rosse fino a quel momento rimaneva il sequestro del capo del personale della Fiat Ettore Amerio, rilasciato dopo otto giorni. Le BR ricorreranno all’assassinio politico per la prima volta solo nel giugno 1974, con l’uccisione, forse non pianificata, di due esponenti del Movimento Sociale Italiano a Padova. Nel 1978, quando Alberto Moravia scrive La vita interiore, il terrorismo di sinistra ha invece già dispiegato tutto il suo potenziale di fuoco e proprio nei giorni in cui il romanzo viene dato alle stampe si consuma l’episodio simbolo degli “anni di piombo”: il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, che segnano simultaneamente l’apice e l’inizio del declino della lotta armata in Italia. Il romanzo moraviano si radica dunque nell’attualità (sequestro di persona e omicidio ricorrono frequentemente nel corso del romanzo), anche se l’idea di un lavoro sul terrorismo era venuta all’autore dieci anni prima nella forma di un romanzo breve dal titolo Operazione Oloferne in cui un gruppo di giovani metteva a segno il rapimento di un industriale.55 Da Operazione Oloferne alla pubblicazione de La vita interiore sono intercorsi sette anni di stesure, dal 1971 al 1978 e a quanto sembra nelle versioni precedenti il tema del terrorismo aveva un rilievo maggiore.56 Il romanzo si dimostra innovativo nella struttura; Moravia abbandona il narratore extradiegetico per affidarsi al procedimento dell’intervista: Desideria, la protagonista racconta retrospettivamente la sua adolescenza stimolata dalle continue domande di un anonimo intervistatore (che Moravia chiama semplicemente “Io”). Desideria è figlia adottiva di Viola, una donna alto-borghese di origine americana; conseguentemente a una visione traumatica (sorprende la madre in un rapporto sessuale 53 B. Allen, “They’re not children anymore: the novelization of ‘Italians’ and ‘Terrorism’”, in B. Allen and M. Russo, ed., Revisioning Italy. National identity and global culture, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997, p. 65. 54 Vedi l’analisi di questo romanzo nel capitolo 3. 55 «L’idea mi è nata nel ’68. Doveva essere un romanzo breve che volevo intitolare Operazione Oloferne. Pensavo a un sequestro, a un rapimento, a un ricatto. Un gruppetto di giovani, per motivi politici lo metteva in atto. Erano anni in cui di sequestri simili non se ne parlava: sarebbero venuti poi. Insomma, questi studenti avrebbero rapito un industriale, avrebbero chiesto denaro alla moglie per finanziare il loro gruppo eversivo. Avevo letto quel che accadeva in Sud-America: i tupamaros conducevano a segno imprese di questo genere. Intuii che i giovani del ’68 le avrebbero importate in Italia». In E. Siciliano, Alberto Moravia, Milano, Bompiani, 1982, p. 117. 56 Cfr. A. Elkann, Vita di Moravia, Milano, Bompiani, 1990, p. 267.

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a tre con la governante e il suo amante) la ragazza inizia a rifiutare Viola e tutto ciò che rappresenta, andando alla ricerca delle proprie origini proletarie. Inizia in questo momento un cambiamento fisico della protagonista, la quale si trasforma da ragazzina bulimica e obesa in una splendida adolescente, attirandosi per questo le attenzioni di Tiberi (amante della madre e amministratore dei suoi beni) e quelle incestuose di Viola. Desideria inizia improvvisamente a sentire una Voce, che le detta un programma (un “piano ideologico”) di trasgressione e dissacrazione che farà di lei una rivoluzionaria. Il programma consiste nella distruzione di valori come la proprietà, la religione, l’amore, la cultura e il rispetto per la vita. Questo presuppone che Desideria dovrà – tra le altre cose – rubare, prostituirsi, dissacrare e uccidere. Il rapporto con la Voce però non è mai di totale asservimento e accettazione; Desideria spesso disobbedisce anche se poi non riesce a fare a meno della sua guida. Durante il suo tentativo di prostituirsi la ragazza conosce Erostrato, personaggio misterioso e politicamente ambiguo il quale le rivela di militare in uno dei gruppi dell’eversione di sinistra. Ad Erostrato, Desideria – il cui obiettivo è quello di sequestrare e uccidere la madre – chiede di essere messa in contatto con qualcuno del “direttivo” di Milano, per potersi unire alla lotta rivoluzionaria. Il direttivo le si manifesta attraverso Quinto, il “compagno di Milano”, al quale, nonostante una istintiva repulsione, concede la propria verginità. Delusa da Quinto, e ormai ribellatasi alla Voce, Desideria lo uccide dopo aver ucciso anche Tiberi. Il romanzo ha una chiusura metaletteraria con Desideria che non rivela all’interlocutore se ucciderà anche Viola e Erostrato (divenuto nel frattempo l’amante della madre) e che si rifiuta di dare una conclusione alla storia: La vita non ha né può avere conclusione, io continuerò a vivere anche dopo quella che tu e la Voce chiamate soluzione del mio problema e allora la mia storia non finirebbe più.57

Con La vita interiore, Moravia ritorna al romanzo borghese. Ritornano inoltre molti dei motivi della sua poetica: il problema dell’amore filiale, l’adolescenza, l’indifferenza, la dissociazione, ma soprattutto il rifiuto della borghesia e dei suoi valori. La rivolta di Desideria non porta solo al rifiuto, ma anche alla volontà di distruzione di quel mondo, simboleggiato dalla madre adottiva Viola che secondo il piano ordito dalla Voce, avrebbe dovuto essere sottoposta al sequestro e all’assassinio. Moravia vede il terrorismo di sinistra quindi come un fenomeno tutto interno alla borghesia e alla sua degradazione, come ribellione dei figli contro i padri che porta alla loro uccisione. La vita interiore, secondo la stessa definizione di Moravia è la ricostruzione del «processo psicologico e sociale che precede l’adesione al terrorismo», un’analisi di «come una ragazza borghese ricca diventa terrorista».58 Nel romanzo, Moravia decontestualizza e de-storicizza il tema della lotta armata. Nelle prime cento pagine non ci sono riferimenti a fatti storici o di cronaca che in qualche modo possano fare inquadrare storicamente gli eventi. Solo a pagina 163,

57 A. 58

Moravia, La vita interiore, Milano, Bompiani, 1978, p. 407. L. Tornabuoni, Moravia e la vergine guerriera, «Corriere della Sera», 7 giugno 1978.

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si riferisce che la «contestazione […] in quel momento divampava (si era nel 1968) […]».59 Questa indicazione si dimostra inoltre fuorviante, in quanto gli episodi centrali del romanzo rimandano il lettore ad azioni cruente dell’eversione di sinistra tipiche di una fase successiva, più vicina alla metà degli anni Settanta. L’evento che determina la svolta nel romanzo è l’incontro di Desideria con la Voce, che la ragazza sente improvvisamente a dodici anni e che sentirà per altri sette anni. Moravia svela proprio nell’incipit del romanzo la genesi di questo elemento drammatico: Desideria: Il mio nome è Desideria. E ho avuto una Voce. Io: Una Voce? Quale Voce? Desideria: Ti risponderò con il passaggio di un libro. Io: Quale libro? Desideria: La vita di Giovanna D’Arco. Anche lei aveva una Voce. Ecco il passaggio: “Arrivò questa Voce verso l’ora di mezzodì, un giorno d’estate, nell’orto di mio padre. La vigilia avevo digiunato. Raramente la udivo senza vedere il chiarore della parte da dove la Voce si fa sentire. La prima volta che udii la Voce, votai la mia verginità finché fosse a Dio piaciuto”.60

La Voce, una sorta di Super-Io freudiano, mostra una funzione duplice e contraddittoria. Desideria prima della comparsa di questa si definisce un’oloturia, volendo sottolineare con questo termine il suo stato quasi subumano. È grazie alla Voce che può iniziare la sua rivolta contro la madre adottiva e contro il mondo e le convenzoni borghesi. La sua comparsa assume quindi un aspetto positivo nell’ambito della poetica moraviana del “personaggio rivoltato”. Moravia inoltre dirà che è proprio la Voce la giustificazione morale che consente a Desideria di fare ciò che non era stato possibile per Michele negli Indifferenti, cioè di portare alle estreme conseguenze la rivolta fino all’omicidio.61 Ma questa Voce si dimostra inattendibile fin da subito, cioè da quando indica a Desideria come sua vera madre una donna che in realtà non lo è. Inoltre provoca in Desideria non solo indifferenza e dissociazione (altre caratteristiche dei personaggi moraviani), ma la completa alienazione. Moravia, «fa della Voce un agente non construens ma destruens, un elemento generatore di crisi, ma soprattutto fonte di corruzione per la protagonista. Quest’ultima è indotta dalla Voce a compiere un percorso rivoluzionario che […] è però in sostanza una progressiva degenerazione morale».62 In altre parole, la Voce, che pur aveva consentito la “rivolta” di Desideria, al tempo stesso deforma e snatura la ragazza, instaurando su di lei una sorta di violenta dittatura. La violenza della Voce, è la stessa violenza del terrorismo, la quale, «agli occhi dello scrittore, consisteva nel potere di snaturamento della rivolta, dello sfiguramento e spegnimento della sua oscurità profonda nell’automatismo astratto e alienato dell’azione rivoluzionaria […]».63

59 A.

Moravia, La vita interiore, cit., p. 163. Ibid., p. 9. 61 Cfr. A. Elkann, Vita di Moravia, cit., p. 266. 62 V. Mascaretti, La speranza violenta. Alberto Moravia e il romanzo di formazione, Bologna, Gedit, 2006, pp. 412-413. 63 P. Voza, Moravia, Palermo, Palumbo, 1997, pp. 88-89. 60

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La Voce non consente a Desideria un reale processo di maturazione e consapevolezza; la incita all’azione, ma ad un’azione fine a se stessa. Spinge Desideria al percorso rivoluzionario, ma non attraverso la persuasione bensì facendo leva su istinti profondi, compresi quelli sessuali: Io: Qui abbiamo tre parole: rivoluzione, compagno e gruppo. Almeno la Voce le organizzava, le collegava l’una all’altra? Desideria: Sì, certo che le collegava; per esempio: per fare la rivoluzione, io dovevo, insieme ad altri compagni, formare un gruppo rivoluzionario. Ma il collegamento non era il risultato di una spiegazione; bensì, come dire? Della voglia che la Voce mi ispirava con quelle tre parole. Io: Voglia? Desideria: Sì, voglia, nel senso di desiderio oscuro, struggente, cioè nel senso di qualche cosa di irresistibile che non viene dalla mente ma da altrove [...]. Con quelle tre parole, la Voce si rivolgeva non già alla mia mente bensì ad un’altra parte del mio corpo che potrei anche chiamare il sesso, se la voglia fosse stata localizzata soltanto lì. Ma era una voglia diffusa per tutto il corpo, anche se in fondo, fisiologica, sessuale. […] Insomma, la Voce non cercava di persuadermi ma di farmi sentire […].64

La Voce parla in continuazione della rivoluzione; «era una parola che agiva in attesa di far agire […]. Era qualche cosa di irrazionale, di affascinante e di ossessivo».65 La voglia di fare la rivoluzione è quindi un desiderio oscuro, sfuggente; qualcosa che non viene dal ragionamento politico ma come da un’ispirazione divina che fa diventare Desideria, come i terroristi nella realtà, prigioniera di un ruolo; «e il ruolo è quello di uccidere […]».66 La Voce quindi, rappresenta il carattere mistico più che politico che per tanti giovani ha avuto l’idea rivoluzionaria. Questa interpretazione moraviana si intravede fin dall’inizio del romanzo, quando Desideria afferma di aver votato la sua verginità «a qualche cosa […] che è pur sempre una specie di divinità, oggi, per molti»,67 ovvero alla rivoluzione. Nella parte finale del romanzo, Desideria si affrancherà progressivamente dalla “dittatura” della Voce e nelle pagine finali, ucciderà – invece della madre – Quinto, il compagno membro del direttivo dell’organizzazione terroristica venuto da Milano. Con lui uccide l’idea rivoluzionaria alla quale aveva votato la sua verginità e la sua vita: Desideria: […] Lo vedevo come un personaggio importante, fatale, decisivo; ma non riuscivo ad atttribuirgli un volto. Era come se avessi aspettato l’uomo della mia vita, senza, però, sapere chi era né come era. Io: L’uomo della tua vita? Desideria: Si dice così, no? forse era la Voce ad avvolgere queste parole in un alone di attesa quasi mistica. Ma, per una volta, io ero d’accordo con la Voce, anche perché ricordavo che la Voce mi aveva fatto promettere di non disfarmi della verginità finché non

64 A.

Moravia, La vita interiore, cit., pp. 177-178. Ibid., p. 177. 66 E. Siciliano, Alberto Moravia, cit., p. 106. 67 A. Moravia, La vita interiore, cit., p. 10. 65

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mi fossi imbattuta in un uomo degno di lei. Ebbene io speravo, che il compagno di Milano sarebbe stato quest’uomo.68

Ma la disillusione e la delusione nei confronti della pratica rivoluzionaria si avverte già nel primo incontro tra i due, alla stazione, quando al posto della figura dell’uomo ideale, mitizzata e idealizzata da ormai sette anni, si presenta un personaggio decisamente poco piacevole dal punto di vista fisico: Era un uomo giovane, intorno ai trent’anni, non tanto alto, con la testa quasi senza collo […]. Aveva un viso bianco e senza colori; gli occhi infossati, di un azzurro slavato […]. Aveva le mani ed i piedi piccoli, il busto lungo e le braccia e le gambe corte. […] Mi ha colpito il fatto che […] fosse perfettamente rasato, alla maniera dei tedeschi negli anni del nazismo.69

Ma sono soprattutto le caratteristiche umane che provocano la disillusione di Desideria, quando si rende conto che si trova di fronte ad un individuo dalle caratteristiche piccolo borghesi, con venature reazionarie e perfino razziste. La disillusione si trasforma presto in aperta ripugnanza e orrore: Quell’ordine da piccolo borghese avaro e meticoloso ed insieme l’idea che fosse un rivoluzionario: in tutto questo, sentivo una contraddizione che mi pareva di potere spiegare in un solo modo e cioè che per vocazione e temperamento, Quinto era un assassino.70

Ribellandosi alla Voce, rinunciando alla rivoluzione e uccidendo Quinto, Desideria ritorna allo stato di “rivoltata”. Quinto è dunque un assassino per «vocazione» e per «temperamento». Si è detto in precedenza di come Moravia decontestualizzi e de-storicizzi il fenomeno terroristico nel romanzo, tralasciando le possibili cause storico-sociali e politiche ed ascrivendolo ad una “vocazione”, quindi ad un fatto privato. Con La vita interiore, Moravia dunque conferma la sua visione del fenomeno della lotta armata, esposta in numerosi articoli e saggi dell’epoca nei quali affermava che le cause della violenza politica degli anni Settanta e Ottanta andassero ricercate nel “privato”: Il terrorista è spietato con i suoi nemici perché è anzitutto spietato con se stesso, ed è spietato con se stesso perchè il male lo ha dentro di sé.71

La vita interiore è una storia privata perché il terrorismo, che è una maniera violenta di fare politica, è prevalentemente “privato”: La violenza non può non essere privata. La persuasione, invece, appartiene alla sfera del pubblico.72

68

Ibid., p. 336. Ibid., p. 338. 70 Ibid., p. 382. 71 A. Moravia, Impegno controvoglia, Milano, Bompiani, 1980, p. 283. 72 Ibid., p. XVII. 69

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1.3. Il terrorismo di destra e il ‘diritto di strage’: Ferdinando Camon Nelle pagine finali di Occidente,73 Ferdinando Camon afferma che «con il terrorismo i gruppi celebrano a un tempo la loro speranza e la loro disperazione, la loro vittoria e la loro fine: perché la morte che esportano è la morte che hanno dentro di sé, i loro atti sterminatori sono esemplari e naturali come un suicidio».74 La sua interpretazione “privata” del terrorismo italiano non si allontana dunque da quella di Moravia. Camon pubblica Occidente nell’Ottobre del 1975. L’eversione di sinistra non ha ancora iniziato il ricorso all’omicidio sistematico (l’ “escalation” inizierà con l’uccisione del giudice Coco nel ’76) e l’azione più eclatante rimane ancora quella del sequestro del giudice Sossi nell’anno precedente, ma il primo quinquennio degli anni ’70 è comunque caratterizzato del protagonismo delle Brigate Rosse, dai loro rapimenti e dalle loro azioni dimostrative e propagandistiche. Sull’altro fronte, quello dell’eversione di destra, l’attentato di Piazza Fontana non è purtroppo rimasto un episodio isolato. Tra gli attentati piu recenti e più gravi, vi sono la strage di Piazza della Loggia a Brescia nel maggio 1974, con i suoi 8 morti e 94 feriti, e la strage del treno Italicus dell’agosto successivo a San Benedetto Val di Sambro, che uccide 12 persone e ne ferisce 44.75 Il romanzo di Camon vuole principalmente raccontare e analizzare – anche se non esclusivamente – il terrorismo stragista, quello che non rivendica apertamente le proprie azioni, la cui matrice va rintracciata nelle ideologie neo-nazifasciste. Lo scrittore veneto può condurre la sua analisi da un osservatorio privilegiato, ovvero Padova, sua città natale ma anche una delle città simbolo del neofascismo italiano. Padovani sono infatti Franco Freda e Giovanni Ventura, legati al movimento neofa73 Nella prefazione all’edizione di Occidente del 2003, Camon afferma: «Questo è, in assoluto, il libro che mi è costato più caro, moralmente parlando. Sia quando lo scrivevo, sia quando l’ho pubblicato, sia quando è diventato un film, sia più tardi ancora, quando la vicenda che esso racconta è diventata storia, e la strage che è il cuore di quella vicenda è diventata una super-strage, la più vasta che il terrorismo abbia inflitto all’Italia». L’autore si riferisce alla strage di Bologna dell’Agosto 1980, in cui morirono 85 persone e in cui 200 rimasero ferite. Soprattutto, si riferisce al fatto che tra i documenti teorici elaborati da una cellula della destra eversiva di cui veniva chiesta la condanna per la partecipazione al massacro, venne trovato un documento manoscritto in cui erano state ricopiate undici pagine di Occidente con le quali «la cellula spiegava a sè stessa e ai propri militanti perché, in nome di che cosa, con quale diritto, era stata compiuta la strage, qual era il bene che scavalcava trecento vite umane […]. Quando ho avuto in mano il testo dell’arringa, ho dubitato sull’innocenza di scriver romanzi. Perché quelle undici pagine, con le quali i supposti autori della più grande strage della nostra storia cercavano di spiegare a se stessi e di comprendersi, erano pagine di “Occidente”. “Occidente” conteneva dunque il “movente” della strage». Tra le 11 pagine manoscritte di certo uno dei passaggi più importanti è quello in cui si rivendica il diritto di strage: «Occorre un’esplosione da cui non escano che fantasmi. Ci sono organismi unicellulari che, schiacciati, risorgono, e mutilati si riuniscono: ma in ognuno c’è un organo delicato dov’è la sede della vita: noi dobbiamo colpire quel nucleo come fanno gli antibiotici, noi dobbiamo dare lì al sistema un colpo tale che ogni coscienza si rimetta a noi con tutta la docilità, con tutta la gratitudine per qualunque cosa faremo di essa. Occorre che il nostro gesto sia così chiaro, da far nascere in tutta la popolazione, inerme e inginocchiata, due sole risposte e nessun dubbio: “Sono loro” e “Finalmente”». 74 F. Camon, Occidente, Milano, Garzanti, 2003, pp. 182-183. 75 Vedi anche nota 27 di questo capitolo.

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scista “Ordine Nuovo”, ritenuti responsabili della strage di Piazza Fontana e di altri attentati.76 Più che nella figura del protagonista del romanzo di nome Franco,77 Freda è presente in Occidente con la citazione di numerose parti di suoi scritti politici.78 Il romanzo infatti si caratterizza per la compresenza di documenti e invenzione. È al tempo stesso un romanzo e un saggio. «È un romanzo aperto, suscettibile di infiniti innesti»,79 aperto alla trascrizione di inserti documentari, di citazioni, oltre alla presenza di interventi in prima persona. Camon riporta numerose e ampie citazioni dalla pubblicistica dell’estrema destra e dell’estrema sinistra e lo stesso autore, nell’Avvertenza posta in conclusione nella prima edizione, svela al lettore le sue fonti.80 Non si può quindi definire Occidente un romanzo tradizionale. Inoltre, i passaggi tra le varie sequenze spesso non rispondono sempre alla logica narrativa, ma richiedono una attiva cooperazione da parte del lettore. Dal punto di vista della forma e del linguaggio c’è altrettanta discontinuità: si va dal flusso di coscienza al dialogo col lettore. Il romanzo, pur essendo ispirato a un rigoroso realismo politico, non fa riferimenti al quadro istituzionale e opera una contrazione della cronologia reale. Fin dall’inizio, Camon raggruppa in una continuità narrativa eventi succedutisi in un più ampio periodo di tempo. I fatti di cui parla si svolgono dal 1969 al 1974 ma tutto sembra avvenire nel volgere di pochi mesi. Occidente dunque a prima vista è un romanzo che si rifà alla cronaca e racconta trame neofasciste e rosse, violenze e stragi, la lotta politica dei gruppi extraparlamentari di destra e sinistra nell’Italia degli anni 70 a Padova. Camon rappresenta questa città come sconvolta dalla migrazione studentesca; descrive lo stato di violenza e di guerriglia permanente, con scontri urbani tra extraparlamentari di sinistra e polizia, scioperi selvaggi e assedi operai. Specialmente nelle pagine in cui è protagonista l’estremista di sinistra Miro, Camon descrive con grande efficacia l’occupazione dell’università, la presa dei mezzi e dei luoghi pubblici, gli assalti alla polizia: 76 Il processo per la strage di Piazza Fontana inizia nel 1971. Freda e Ventura vengono arrestati nel 1973 e dopo la condanna in primo grado finiranno assolti dalle corti d’appello di Catanzaro e Bari, con la conferma della Corte di Cassazione del 1987. La stessa Corte di Cassazione però, nel 2005, assolvendo altri due esponenti veneti di Ordine Nuovo (Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi) stabilisce -grazie alle nuove prove- la responsabilità di Freda e Ventura per la strage, non perseguibili però penalmente a causa della precedente assoluzione. 77 È noto che Franco Freda preferiva essere chiamato con il nome di Giorgio. 78 Camon riprende soprattutto brani dal Manifesto del gruppo di Aristocrazia Ariana, del 1963 e da La disintegrazione del sistema, del 1969. 79 C. Bo, Una nuova e importante opera romanzo-storia, «Corriere della Sera», 16 novembre 1975. 80 «[…] Alcuni militanti di «Lotta Continua» mi hanno spiegato il meccanismo dei controlli contro gli «infiltrati» e delle espulsioni dai gruppi (VI,5) e mi hanno rievocato l’atto di fondazione di «Potere Operaio» (VI, 2). Da altre fonti ho raccolto i resoconti che riguardano operazioni dei capi di movimenti di destra, come il sequestro (VI, 6) […]. Il lettore più esperto riconoscerà nel romanzo lunghi brani di psicologi (Ludwig Binswanger, Victor Frankl), di memorialisti e di politici: specialmente Corneliu Z. Codreanu (condottiero dei nazisti romeni) Il capo di cuib; Giorgio Freda, La disintegrazione del sistema, conferenza tenuta nella riunione del Comitato di reggenza del Fronte Europeo Rivoluzionario a Regensburg nel 1969. […] E riconoscerà infine interi articoli scritti da diversi collaboratori del quotidiano, poi settimanale, «Potere Operaio» […]», in F. Camon, Occidente, Milano, Garzanti, 1975, pp. 315-316.

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Miro fissò un giorno per l’assalto all’università. Bastava partire con venti cinquine di aderenti, gli altri sarebbero stati risucchiati per la strada […]. Girò di corsa sul lato contiguo, dove c’era una porticina secondaria. Sprangata. Proseguì di corsa fino al lato posteriore, dove c’è il portone d’entrata delle auto munite di contrassegno: il portone era chiuso a catenaccio. Il drappello continuò a correre con la certezza che, prima o poi, una porta si doveva aprire, perchè quelli che erano dentro dovevano pur uscire. La gente si fermava sbigottita e ignorante a osservare questo plotone che trottava con le sciarpe al vento dietro una bandiera rossa tenuta su da un esagitato, con gli occhiali che gli ballavano sul naso e davano l’impressione che, con le lenti, dovessero saltar via anche le pupille, piccole, roventi. […] L’università era chiusa, il rettore e i professori e gli impiegati dentro, assediati da una colonna di studenti ininterrotta, perché la coda si riagganciava alla testa; gli assedianti a loro volta erano assediati dai poliziotti armati di mitra e lanciagranate, che bloccavano tutte le strade eccetto una; e i poliziotti erano protetti alle spalle da altri nuclei di studenti che sbarravano le strade, spostavano auto, ammassavano cavalletti e bidoni, costruivano barricate, presidiavano gli incroci. La popolazione era sparita sottoterra o ai piani superiori.81

Padova è dunque è un microcosmo che rappresenta il clima politico di quegli anni e le figure di Franco e Miro esemplificano una storia parallela di opposti estremismi. Il romanzo si apre con la descrizione di una inquietante festa notturna in una villa sui colli intorno alla città. Qui si raduna la borghesia fascista padovana prima di decidere l’apertura di una sede operativa fuori città del “Gruppo d’Ordine”. La necessità di una nuova base operativa nasce come reazione alla nascita in città dell’organizzazione di estrema sinistra “Potere Rivoluzionario”.82 Alla festa partecipa Franco, ma protagonista di questa prima parte è la figura del “Maestro”, che intrattiene i presenti con le sue teorie superomistiche; è lui il riferimento teorico del “Gruppo d’Ordine”. L’attenzione si sposta poi su Franco, il quale viene seguito nella sua perlustrazione della campagna veneta alla ricerca di un casolare che possa fungere da base per le azioni eversive. Qui egli incontra un mondo contadino arcaico e primitivo,83 che gli offre l’occasione per esprimere le sue convinzioni razziste ed elitarie. Dopo le pagine interamente dedicate al discorso di Lupis – uno dei capi del “Gruppo d’Ordine” – nelle quali Camon introduce il programma politico e l’ideologia del neofascismo padovano, si ritorna nuovamente su Franco del quale vengono descritti i disturbi fisici, le angosce e le inquietudini fino al momento centrale del romanzo, la visita dallo psicanalista, nella quale Franco rivela la sua ossessione per la propria morte naturale che lo induce a «importarla tra gli altri» e «esportarla da sé».84 La quinta parte del romanzo è invece dedicata agli scontri urbani tra polizia e estremisti di destra e di sinistra; protagonista – e deuteragonista – è Miro, capo di “Potere Rivoluzionario”, la cui figura ha però narrativamente meno spessore psicologico rispetto a quella di Franco. La lotta si trasferisce poi dalla città alle fabbriche, con la 81

F. Camon, Occidente, cit., pp. 139-140. È facile riconoscere in queste due sigle fittizie le due organizzazioni rispettivamente di estrema destra e di estrema sinistra “Ordine Nuovo” e “Potere Operaio”. 83 È il mondo che ha ispirato i primi romanzi di Camon: Il quinto stato (1970) e La Vita eterna (1972). 84 F. Camon, Occidente, cit., pag. 103. 82

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cronaca dei fatti di Porto Marghera dell’Agosto 1970.85 Proprio dopo questi fatti e le loro conseguenze, Franco decide di compiere la strage in un asilo d’infanzia. Al centro di tutto c’è il “Gruppo d’Ordine”, supportato dall’alta borghesia padovana. L’ideologia del gruppo si caratterizza come razzistico-gerarchica; vengono esaltate l’aristocrazia dello spirito, il culto dell’ordine e della disciplina e il rifiuto violento di tutto il sistema borghese. Si tratta di una aristocrazia esaltata che ha come scopo la distruzione del sistema.86 Il progetto del gruppo d’ordine è infatti quello di distruggere la società com’è costruita. Tale volontà di distruzione porta al delirio ideologico con il quale si teorizza la morte e il diritto delle élite alla strage: Arrecare danni al regime è un errore; il regime te ne chiederà conto. Ma provocarne la disintegrazione, questo è il rimedio. Occorre un’esplosione da cui non escano che fantasmi. Ci sono organismi unicellulari che, schiacciati, risorgono, e mutilati si riuniscono: ma in ognuno c’è un organo delicato dov’è la sede della vita: noi dobbiamo colpire quel nucleo come fanno gli antibiotici, noi dobbiamo dare lì al sistema un colpo tale che ogni coscienza si rimetta a noi con tutta la docilità, con tutta la gratitudine per qualunque cosa faremo di essa. Occorre che il nostro gesto sia così chiaro, da far nascere in tutta la popolazione, inerme e inginocchiata, due sole risposte e nessun dubbio: “Sono loro” e “Finalmente”.87

La contrapposizione fondamentale nel romanzo è quella fra i membri del “Gruppo d’Ordine” e gli extraparlamentari di sinistra di “Potere Rivoluzionario”, ma ve ne è anche un’altra, ovvero quella fra questo gruppo di eletti e gli “imitativi”, i “sottoumani”, le persone semplici. La filosofia di Franco, del “Maestro” e degli altri intellettuali del gruppo si ispira alle teorie di Codreanu, capo del nazismo romeno degli anni ’30 e di Julius Evola. Si vuole l’instaurazione di una gerarchia spirituale, la costruzione di una nuova Europa, di un nuovo occidente governato da pochi eletti, superuomini dotati di “forte sentire” 85 Il 3 agosto si verificò a Porto Marghera uno sciopero di fronte al Petrolchimico con barricate e blocchi del traffico. Il duro intervento della polizia provocò un inasprimento della protesta con l’occupazione del cavalcavia Venezia-Mestre e della stazione. In seguito ad ulteriori incidenti tre operai vengono feriti gravemente dalla polizia. 86 «La prima parte del nostro programma è così vasta, che alla sua attuazione può contribuire anche chi si schieri su posizioni avverse.[...] Com’è stato scritto più volte da un nostro maestro, noi siamo oggi contro tutto il sistema: domani saremo per un altro sistema. Domani distingueremo i nostri nemici. Oggi non rifiutiamo nessuno […], riconosciamo cavallerescamente che il guerrigliero boliviano è più vicino al nostro stile di vita che non lo spagnolo pretesco o il banchiere americano [...]. Per anni abbiamo parlato dell’Europa come se fosse Europa, senza renderci conto che era ormai America [...]. L’Europa non apparirà mai più nei nostri programmi se non come l’oggetto verso il quale abbiamo da compiere soltanto vendette. Noi non vogliamo l’Europa, ma una Nuova Europa. Bruciano lo studio del rettore? Bene, chiunque sia stato. Incendiano una fabbrica? Bene, a qualunque partito siano iscritti gli operai. Sequestrano un aereo in volo? Bisogna arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi, e i treni, e le strade siano insicure: bisogna ripristinare il terrore dei pirati, il terrore dei briganti, la paralisi della circolazione. Questo è anche lo scopo dei nostri nemici: riconosciamo dunque che hanno, essi, il punto di partenza in comune con noi. E al di fuori di noi e dei nostri avversari, con le nostre stesse idee ci sono milioni di uomini oggi in Italia […]. Ci seguiranno, perché ciò che vogliamo è ciò che esse vogliono: la distruzione del mondo borghese», F. Camon, Occidente, cit., pp. 73-75. 87 Ibid., p. 84.

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capaci di garantire elevazione spirituale a milioni di “normali”. Franco e gli altri concepiscono e giustificano gli attentati e le stragi in funzione di un “nuovo ordine”, nel quale pochi sono i capi e molti i gregari, disprezzando l’egualitarismo democratico.88 Nella descrizione che Franco fa delle persone che incontra nella sua ricerca del casolare da adibire a sede del “Gruppo d’Ordine”, ricorrono ossessivamente le espressioni “due gradini sotto l’uomo”, “un abisso sotto l’uomo”. Nel corso di questa ricognizione, dopo essersi imbattuto in una vecchia contadina analfabeta, Franco pensa tra sé: «Che relitti, questa gente […], pare che sia passato il diluvio. Di loro non val la pena di occuparsi: non c’entrano con la storia, neanche come vittime. Potresti anche ucciderla, la vecchietta, non se ne accorgerebbe nessuno, né i carabinieri né il prete né i suoi stessi familiari, spersi e spaventati in qualche fabbrica di Milano o di Torino. Ma i vermi, nel pane della vita, son necessari? Un abisso sotto l’uomo: stesso gradino dell’animale».89

Nel discorso con cui il “Maestro” intrattiene i partecipanti alla festa all’inizio del romanzo, troviamo le teorie sulla della divisione degli uomini tra “imitativi” e “progettativi”, dove i primi devono naturalmente essere subordinati ai secondi. La gerarchia è basata sullo spirito: Quando si sente la bellezza non si può descriverla. […] La gente normale, che lavora e che vive, non ha gusto, è inutile scrivere per la gente […]. Salire più in alto degli altri non significa vedere solo la propria strada, ma anche la strada degli altri […]. Il bambino progettativo parte, per la sua conquista del mondo, da zero, ma il bambino imitativo parte da sotto zero. Il disavanzo psichico che c’è tra un progettativo e un imitativo è lo stesso che c’è fra un normale e un subnormale. […] Quando queste persone sono intere classi, formano le civiltà morte, come oggi quella contadina.90

La figura centrale del “Gruppo d’Ordine” e del romanzo è quella di Franco, descritto minuziosamente nei suoi caratteri – e soprattutto nei suoi mali -fisici e psichici. Franco entra in scena con la descrizione di una festa della borghesia padovana filo-fascista sui colli circostanti la città, per poi essere seguito nella ricognizione alla ricerca della sede operativa, fino ad arrivare all’incontro con lo psicanalista e alla strage finale: Un giovane dai lineamenti minuti, delicato come una femmina, con la faccia gialla e screpolata come una pannocchia e i capelli pochi e biondi, gli occhietti azzurri chiusi per 88 «Quanto al potere, è evidente che il superiore non può venire dall’inferiore; il popolo non può conferire un potere che non ha: il vero potere sul popolo può venire solo dall’alto, e può venire legittimato solo attraverso la sanzione di un’autorità spirituale [...]. Il liberalismo, la democrazia, il razionalismo, l’internazionalismo hanno ridotto le nazioni allo stato di masse labili che si disperdono in ogni direzione, per raggiungere il fondo della china, rappresentato dal bolscevismo. Il nostro primo compito è quello di creare subito un argine, di neutralizzare la tendenzialità centrifuga crando una forza politica centripeta», Ibid., pp. 78- 80. 89 Ibid., pp. 55- 56. 90 Ibid., pp. 27-34.

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abitudine o per natura in modo che doveva vedere il mondo attraverso una fessura come chi spia da dietro una porta [….] aveva osservato la gran confusione con aria di compatimento e nello stesso tempo di estraneità.91

Franco è descritto sofferente fisicamente, affetto da una nevrosi che gli fa contrarre spasmodicamente i muscoli del ventre e che gli provoca fitte al cuore. Tra gli altri disturbi c’è quello dell’insonnia, strettamente legato alle sue angosce: Da qualche giorno era più eccitato del solito, e poiché soffriva di disturbi notturni – una forma di incapacità di sopportare la notte, di accettarla; doveva ingoiare ogni sera dei confetti, per impedirsi di lottare fino all’alba – credette di vederci male.92

Ma sarà il colloquio con lo psicanalista che farà venire alla luce la sua ossessione fondamentale, quella per l’idea della propria morte, che lo divora interiormente: Io… io non riesco a sopportare di morire… naturalmente. Voglio dire che la morte naturale, mia o degli altri… ma mia specialmente, mi è intollerabile. Non riesco a rassegnarmi all’idea della morte... del mio corpo morto… fermo… mentre lì intorno tutti gli altri si muovono.93

La chiave della personalità di Franco è questa inguaribile angoscia provocata dalla paura della morte naturale. Il rimedio contro questa ossessione è importare la morte tra gli altri e esportarla da sé, uccidendo e distruggendo. Portando volontariamente la morte agli altri, egli tenta di sconfiggere la propria, così come tentava di fare il faraone Tutankamon: Aveva paura della morte. Perciò ha voluto due rimedi contro la morte: la morte degli altri e la propria vita. Ogni mattina si faceva portare in lettiga sul deserto dove costruivano la sua piramide, e qui all’ombra e all’aria, coi piedi nel catino pieno d’acqua, guardava gli schiavi morire a mucchi nel calore […]. Questo era il primo rimedio contro la morte: importarla tra gli altri. L’altro rimedio era il seguente: esportarla da sé. Per ottenere questo secondo rimedio, Tutankamon cominciò a preparare la propria tomba fin da quando aveva diciotto anni, come se preparasse la stanza nuziale.94

Franco vede la propria morte naturale tanto più inaccettabile quanto più cambia il mondo attorno a lui. Solo l’arrestarsi di qualsiasi cambiamento gli potrebbe far venire meno questa angoscia. La volontà di affermazione, il culto della violenza e della strage nascondono dunque la paura della morte. Camon mette quindi al centro del suo romanzo la psicologia di questo personaggio la cui avversione per la sinistra è in definitiva segno della paura del cambiamento, dietro al quale si nasconde la paura della morte. Il suo essere reazionario non scaturisce quindi da un’analisi politica ma da questa ossessione. Camon nel suo approccio al terrorismo sceglie quindi

91

Ibid., p. 18. Ibid., p. 51. 93 Ibid., pp. 111-112. 94 Ibid., p. 103. 92

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la strada del romanziere, risalendo dalla psicologia (o dalla malattia) all’ideologia, indagando l’animo di un terrorista nero e andando alla ricerca di che cosa può motivare il compimento di una strage. Il neofascismo stragista è visto dunque come un fenomeno più psicologico che politico e si concentra nella figura di Franco, nell’analisi della sua malattia. Occidente, di conseguenza, non è né realistico né documentaristico come a prima vista potrebbe sembrare. Vi si trovano invece la descrizione dei processi psichici che conducono all’atto terroristico e la spiegazione psicanalitica dell’istinto di morte di cui sono portatori i protagonisti. Perché si fanno gli attentati, i sabotaggi, le vittime? La risposta è nella psicologia: esportando la propria morte in altri, si libera da se stessi l’angoscia. Si dà poi anche una risposta politica all’atto terroristico: il potere è nella folla, e per spingere la folla nella direzione voluta, si crea il terrore. Osserva il narratore a questo proposito: Non serve più che il re, il presidente, il ministro si sentano insicuri: occorre che si senta insicuro l’uomo qualunque, la donna in casa, l’insegnante a scuola, il viaggiatore in treno, il vecchio sulla soglia, la folla in piazza, il pubblico al cinema. Perché il potere non è più nel re, nel presidente, nel ministro: il potere è nella folla, e per spingere la folla nella direzione voluta nessun’arma è migliore del panico, e il panico si diffonde coi giornali, e lo spazio sui giornali si ottiene con l’attentato o la strage.95

Nella parte quinta del romanzo, viene introdotta la figura di Miro, capo del gruppo di sinistra Potere Rivoluzionario. Abbiamo quindi da una parte Franco il nero, e dall’altra Miro, il rosso. Miro non è propriamente un terrorista come Franco; quantomeno nel romanzo non viene descritto nell’atto di compiere azioni omicide, ma fin dalla sua apparizione con il discorso nella sede del Partito Socialista di Padova, al suo ritorno nella città veneta dopo gli anni di lotta a Torino, la violenza viene messa al primo posto come mezzo di lotta politica: Diceva che la classe operaia ha costruito tut-to e quindi può distruggere tut-to, perché tutto può ricostruire. Che la prima e più immediata opera di distruzione è il sabotaggio. Il sabotaggio delle auto, dei tram, degli aerei, delle navi. Devono morire autisti, viaggiatori, donne. Il sabotaggio è l’aurora dell’insurrezione armata. […] La violenza o si riceve o si trasmette. Dobbiamo costituire un gruppo violento, che insegni la violenza, che istruisca sul sabotaggio, città per città, fabbrica per fabbrica, reparto per reparto, pezzo per pezzo.96

L’autore è quindi molto critico anche nei confronti dei gruppi di sinistra, sottolineando le analogie fra le due fazioni, come l’adozione della violenza come unica strategia. Anche Miro e i suoi compagni sono dunque vittime del mito della violenza; anzi, c’è anche in loro una sorta di “misticismo” dell’eversione. Miro – non a caso proveniente come gli altri capi di Potere Rivoluzionario dall’Azione Cattolica – viene descritto come un «uomo di istinti ossessivi, tutti incanalati verso la Rivoluzione, con qualche residuo di istinto sessuale da considerarsi un’incompletezza, un’imperfezione 95 96

Ibid., p.184. Ibid., pp. 127-129.

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della sublimazione, e quindi da liquidare attraverso una condotta che una volta si chiamava ascesi».97 Miro e Franco sono dunque simili; anzitutto nella malattia, poiché entrambi sono afflitti da turbe nervose, da spasmi fisici; entrambi rifiutano la società nella quale vivono e sentono la mancanza di un codice morale che possa dare un senso alla loro vita. L’ideologia e la conseguente violenza diventano quindi un modo per riempire il vuoto lasciato dalla religione e di altri valori “forti” (Miro, fervente attivista cattolico, abbraccia il movimentismo di sinistra subito dopo un alterco con il vescovo locale). In questa analisi Camon si avvicina alle posizioni di Moravia, là dove il terrorismo è visto come una nuova mistica: Potere rivoluzionario non diventava un gruppo, ma un’idea: trascendente o immanente, era al di sopra di qualsiasi capo. A meno che il capo non acquistasse, di fatto e presso tutti, l’autorità sacra dell’infallibilità.98

Per Camon il concetto del cristianesimo come religione al tramonto è fondamentale nella analisi della militanza. La retorica neonazista e il linguaggio ideologico dei rossi servono a soddisfare il bisogno di spiritualità non più assicurato dalle istituzioni religiose. I comunisti hanno bisogno di una autorità assoluta e la loro obbedienza a questa autorità ha sicuramente carattere devozionale. Anche i rossi, dunque, come i neri, agiscono sotto la spinta di un impulso mistico per distruggere. In definitiva Camon vede la deriva violenta di destra e di sinistra come espressione di un sistema in crisi. Le azioni violente dei terroristi non sono altro che un tentativo di esportare il vuoto, la solitudine e la morte che hanno dentro di sé: L’attentato e la strage sono i chiodi che impediscono alla storia di scivolare: non sono le leve della rivoluzione che sbloccano il mondo. Le grandi rivoluzioni sono povere di attentati. Le grandi restaurazioni ne sono piene. Il terrorismo è estraneo ai regimi della fede collettiva. Appartiene alla fede dei pochi, dei gruppi, delle cellule. Con il terrorismo i gruppi celebrano a un tempo la loro speranza e la loro disperazione, la loro vittoria e la loro fine: perché la morte che esportano è la morte che hanno dentro di sé, i loro atti sterminatori sono esemplari e naturali come un suicidio. Ci si uccide perchè si è soli. Chi fa la strage – individuo o gruppo – può non essere malvagio: il bene che porta è così grande che soltanto lui può compierlo, da solo o col suo gruppo. La storia, la massa non possono. A un’immensa fede nel proprio bene si unisce un’immensa sfiducia negli altri, che di quel bene hanno bisogno e non lo sanno. Poiché la sfiducia sconsiglia di far comprendere agli altri il loro bene, l’amore trascina ad imporglielo. Per imporglielo, bisogna averne il potere. L’attentato e la strage sono un mezzo per il potere, e per nient’altro. L’attentato era il mezzo per il potere nelle società aristocratiche ed oligarchiche. La strage è il mezzo per il potere nelle società di massa. Quando è il potere stesso che compie la strage o l’attentato, allora è un potere scaduto: la strage è un atto con cui esso abdica, e ne è anche la spiegazione.

97

Ibid., p. 148. Ibid., p. 139. 99 Ibid., p. 183. 98

II. IL CASO MORO TRA TRAGEDIA E IRONIA: SCIASCIA, FO E ARBASINO

La violenza politica di sinistra in Italia raggiunge il suo punto di massima espansione alla fine degli anni ’70. Il 1977 in particolare è un anno drammatico poiché l’ascesa delle Brigate Rosse e degli altri movimenti terroristici si accompagna a quello che venne definito “un nuovo sessantotto”, ovvero una protesta giovanile molto più violenta rispetto a quella di nove anni prima. Le BR, tra il 1977 e il 1978, mettono a segno una serie impressionante di operazioni terroristiche nelle quali cadono vittime, tra gli altri, il presidente dell’ordine degli avvocati di Torino Fulvio Croce e il vicedirettore della «Stampa» Carlo Casalegno. Non è un caso che questi omicidi avvengano nel capoluogo piemontese. Qui si sta svolgendo il processo ai brigatisti in carcere e sembra che lo Stato sia sul punto di cedere alla violenza eversiva quando – a causa delle intimidazioni dei terroristi – non si riescono a trovare i giurati popolari per celebrare il processo. L’ “attacco al cuore dello stato” raggiunge tuttavia il suo culmine con il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e l’omicidio dei cinque uomini della scorta, avvenuti in via Fani a Roma il 16 marzo 1978. Tra il sequestro e la successiva uccisione di Moro, avvenuta il 9 maggio dello stesso anno, l’Italia vivrà un incubo che «durerà 55 giorni, in una estenuante altalena di speranza e sconforto, tentativo di dialogo e irrigidimenti».1 Oltre ad essere uno degli avvenimenti che più hanno influito sulla politica italiana degli ultimi trentaquattro anni, il “caso Moro” è stato un vero e proprio trauma collettivo, che ha profondamente segnato la memoria storica e la coscienza del Paese. Nelle discussioni e nelle prese di posizione seguite immediatamente al sequestro vengono coinvolti anche gli intellettuali e gli scrittori italiani. In realtà il coinvolgimento degli uomini di lettere nel dibattito pubblico sul terrorismo era già avvenuto nel ’77, in seguito ad un’ intervista al Corriere della Sera di Eugenio Montale. Rispondendo ad una domanda sul problema dei giurati popolari al processo BR di Torino, il poeta ligure aveva confessato di comprendere e condividere le loro paure. Italo Calvino, sul Corriere dell’11 maggio, replicava all’intervento di Montale affermando di sentire «come un pericolo il fatto che il nostro massimo poeta (e per di più un uomo che merita rispetto, anche per la linea che ha sempre tenuto nella vita civile) ci esorti a far nostra la morale di Don Abbondio». Leonardo Sciascia interve1

S. Zavoli, La notte della Repubblica, Milano, Mondadori, 1995, p. 295.

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niva nel dibattito sullo stesso giornale il 9 maggio, schierandosi – sebbene spinto da differenti motivazioni – dalla parte di Montale: Così come non capisco che cosa polizia e magistratura difendano, ancor meno capirei che io, proprio io, fossi chiamato a far da cariatide a questo crollo o disfacimento di cui in nessun modo e minimamente mi sento responsabile. Salvare la democrazia, difendere la libertà, non cedere, non arrendersi, sono soltanto parole. C’è una classe di potere che non muta e non muterà se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito.

Dopo il sequestro del politico democristiano, Sciascia sarà nuovamente chiamato in causa nel dibattito nazionale, questa volta dal direttore di «Paese Sera», Aniello Coppola, il quale gli rimprovera il suo silenzio sulla vicenda.2 Sciascia risponderà molto duramente, accusando Coppola di mettere in pratica del «terrorismo verbale».3 Paradossalmente, sarà proprio il “silenzioso” Sciascia a scrivere pochi mesi dopo, con L’Affaire Moro, quella che ancora oggi si può considerare l’opera letteraria più importante sul sequestro e sull’omicidio del leader DC. Sciascia non è comunque il solo a scrivere “a caldo” sulla vicenda Moro. Dario Fo scrive – e pubblica su alcuni organi di stampa – il primo atto di una tragedia sul modello dei grandi capolavori greci, non riuscendo però ad ultimarla e a rappresentarla in pubblico; Alberto Arbasino propone una sorta di diario, di memoriale, inteso a rappresentare gli umori e le reazioni della società italiana durante i giorni del sequestro. Tutti e tre i lavori non sono opere di finzione, ma – come si potrà evincere dalla loro analisi – sono indubbiamente opere letterarie. Le opere di Sciascia, Fo e – anche se in misura minore – Arbasino, hanno un altro importante elemento in comune: raccontano i giorni del sequestro principalmente attraverso le lettere scritte da Moro durante la prigionia alla famiglia, agli amici, ai colleghi di partito e attraverso gli scritti giornalistici e gli altri testi – compresi i comunicati delle Brigate Rosse – apparsi durante i 55 giorni del sequestro. 2.1. Leonardo Sciascia: dal “Contesto” e “Todo Modo” all’ “Affaire Moro” Il legame dell’Affaire Moro con i due precedenti romanzi scritti durante gli anni ’70 – Il contesto e Todo Modo – è molto forte. Per Sciascia scrivere sulla vicenda Moro è stata «una necessità, quasi una costrizione letteraria, determinata dal fatto di avere già scritto Il contesto e Todo modo, di aver visto verificarsi sulla scena dell’Italia contemporanea eventi e situazioni di cui quei due romanzi sembravano contenere l’annuncio, i segni baluginanti, come in uno splendere e insieme eclissarsi della “luce della verità”».4 È dunque fondamentale, prima di passare all’analisi dell’Affaire Moro, ripercorrere i momenti salienti di queste due opere, che costituiscono indubbiamente 2 A.

Coppola, Non è tempo di cicale, «Paese Sera», 19 marzo 1978. L. Sciascia, Polemica sullo Stato, «Paese Sera», 22 marzo 1977. 4 G. Ferroni “L’Affaire Moro: la letteratura e l’imprendibile verità”, in V.Vecellio, ed., L’uomo solo. L’Affaire Moro di Leonardo Sciascia, Milano, La vita felice, p. 161. 3

Il caso Moro tra tragedia e ironia: Sciascia, Fo e Arbasino

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le due tappe più importanti della narrativa di Sciascia durante gli anni ’70. Dopo Il giorno della civetta e A ciascuno il suo, Sciascia abbandona la Sicilia e ambienta la vicenda del Contesto in un paese immaginario. Viene ucciso un giudice, il procuratore Varga. Dopo il fallimento iniziale delle indagini operate dalla forza pubblica locale, il ministro della Sicurezza Nazionale manda sul posto l’ispettore Rogas, «il più acuto investigatore di cui disponesse la polizia».5 Dopo l’uccisione di altri due giudici, Rogas si convince che si tratta di una vendetta da parte di un uomo condannato ingiustamente, ma dal ministero gli viene consigliato di seguire la pista del “pazzo omicida”. I delitti continuano, ma Rogas ormai ha capito che l’omicida è un farmacista, Cres, condannato ingiustamente per tentato omicidio e rimasto in cella per cinque anni. Cres ora si sta vendicando, uccidendo tutti i giudici che ad ogni livello si sono occupati del suo caso. L’uomo è però introvabile; sotto falsa identità lascia la sua città per continuare altrove le sue vendette. Nella capitale viene ucciso il procuratore Perro, ma le indagini vengono indirizzate verso l’area dei “gruppuscoli” appartenenti alla sinistra extraparlamentare, in particolare verso quello che fa capo alla rivista «Rivoluzione Permanente». A Rogas viene intimato di abbandonare la pista che porta a Cres e di unirsi alla “sezione politica” della polizia. È qui che il romanzo ha la sua svolta. Rogas viene mandato a interrogare Galano, il direttore della rivista, il quale vive ospite – mal sopportato – dello scrittore pseudorivoluzionario Nocio in un ambiente inequivocabilmente alto-borghese. Galano inoltre, si rivela amico di industriali, finanzieri, giornalisti di governo e opposizione. Mentre i giudici continuano a cadere, Rogas viene spinto ad indagare sul padrone di una catena di grandi magazzini, Narco, il quale finanzia un gruppo neoanarchico. Grande è la sua sorpresa quando, entrando nella sua abitazione, Rogas vi trova tra gli altri Galano assieme al ministro della Sicurezza, il quale spiegherà a Rogas la sua familiarità con certi ambienti con queste parole: «Ci sto in mezzo alternando la protezione alla minaccia. Più credono alla minaccia e più io alzo il prezzo della protezione».6 Il ministro descrive poi la situazione politica contemporanea, che si può «condensare in una battuta: il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale».7 Convinto che prima o poi Cres attenti alla vita del presidente della Corte Suprema, Rogas decide di andare a fargli visita, ma arrivato nei pressi dell’abitazione si rende conto che strane manovre politiche stanno per concretizzarsi in quella sede: nota infatti numerose macchine del Servizio di Stato e in particolare quelle del capo della polizia, di un alto ufficiale dell’aviazione e quella del generale della gendarmeria. È chiaro che è quella la centrale del potere dove si cospira ai danni degli ignari cittadini. Per Rogas ora, «si trattava di difendere lo Stato contro coloro che lo rappresentavano, che lo detenevano».8 Rogas, pedinato dagli uomini dei servizi segreti, riesce a parlare con il Presidente della corte suprema Riches, il quale, a proposito dell’errore giudiziario del quale sarebbe stato vittima Cres, ne afferma l’impossibilità: «Il sa-

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L. Sciascia, Il contesto, Torino, Einaudi, 1971, p. 11. Ibid., p. 74. 7 Ibid. 8 Ibid., p. 83. 6

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cerdote può anch’essere indegno […], ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi».9 Lasciato l’appartamento di Riches, Rogas prende l’ascensore e qui ha «per un momento la sensazione di trovarsi di fronte a uno specchio. Solo che nello specchio c’era un altro».10 È Cres, il quale sotto falsa identità vive nello stesso palazzo di Riches. Rogas, pur sapendo che prima o poi il farmacista ucciderà il presidente, non fa nulla – rendendosi così complice- per fermarlo o arrestarlo. Rogas riferisce della cospirazione al suo amico e scrittore Cusan, il quale gli procura un appuntamento con Amar, il segretario generale del Partito Rivoluzionario Internazionale. Il giorno seguente, alla Galleria Nazionale, verranno ritrovati i corpi senza vita di Rogas e del segretario. Mentre del duplice omicidio si dà una versione ufficiale di comodo (i due sono stati uccisi da un barbuto membro di un “gruppuscolo” rivoluzionario), Cusan si incontra con il vicesegretario del Partito Rivoluzionario, il quale gli fornisce una sconvolgente spiegazione: Rogas, evidentemente deluso o provocato dalle parole di Amar dopo le sue rivelazioni sulla cospirazione, ha ucciso il segretario, per poi essere immediatamente ucciso da un uomo dei servizi che lo stava pedinando. A Cusan, che chiede che cosa di tanto sconvolgente avesse potuto dire Amar a Rogas per provocare una così violenta reazione, il vicesegretario risponde: «Siamo realisti, signor Cusan. Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione […]».11 Come in molte altre opere, Sciascia nel Contesto non utilizza un solo registro, e il messaggio non è ovviamente solo narrativo. Il testo contiene implicazioni etiche, storico-politiche, filosofiche e psicologiche. Pur essendo prodotto di fantasia, esso è profondamente immerso nella cronaca e nella storia contemporanea. Come afferma Ambroise, nei romanzi di Sciascia «c’è una diretta immissione della politica nella trama romanzesca. […] Si parte dalla cronaca nera per approdare alle alte sfere politiche».12 Il contesto esce cinque anni dopo di A ciascuno il suo e si pone senza dubbio come un punto di rottura nella produzione di Sciascia. Vengono abbandonati i precedenti moduli realistici per approdare ad una rappresentazione della realtà in senso metafisico-allegorico, con accenti grotteschi e fantastici. Questo avviene in concomitanza con un accentuarsi della sua visione pessimistica della realtà che proseguirà durante il corso del decennio e che, attraverso Todo modo, culminerà nell’Affaire Moro. Improntata al pessimismo è la figura dell’investigatore protagonista. Rogas, come Bellodi e Laurana (tutte figure di investigatori “letterati”) fallisce nella sua ricerca di giustizia, e come Laurana viene ucciso. Rogas inoltre, a un certo punto della vicenda ha l’assassino davanti a sé, ma invece di arrestarlo, si specchia in lui per poi diventare assassino egli stesso. Ma anche di questo non vi è certezza, perché possiamo ragionevolmente dubitare che la versione rivelata a Cusan corrisponda alla verità dei fatti. Questo ovviamente ha delle importanti implicazioni anche per la 9

Ibid., p. 86. Ibid., p. 94. 11 Ibid., p. 117. 12 C. Ambroise, Invito alla lettura di Leonardo Sciascia, Milano, Mursia, 1983, p. 141. 10

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struttura del “giallo” sciasciano, che privo di soluzione finale ormai ha poco o nulla a che fare con quella del “giallo” tradizionale. Sciascia quindi nel Contesto mette in dicussione la verità, la possibilità della realizzazione della giustizia e manifesta il suo scetticismo nella capacità dell’uomo di lettere di intervenire sulle cose. Non viene meno in questo romanzo la capacità di Sciascia di prevedere intuitivamente e “profeticamente” eventi che si compiranno negli anni a venire. In A ciascuno il suo, nel 1966, si poteva leggere nella vicenda del professor Laurana la successiva sparizione e uccisione del giornalista Mauro De Mauro; nel Contesto, scritto nel 1971, Sciascia anticipa di qualche mese l’uccisione del procuratore Scaglione a Palermo, ma soprattutto, con la serie degli omicidi di giudici (che pure, nella sua abnormità seriale, ha un intento parodistico) prefigura gli assassinii e i ferimenti di giudici, politici, giornalisti e rappresentanti dello Stato che si susseguiranno nei tormentati “anni di piombo”. Infine, Sciascia “vede” con congruo anticipo il concretizzarsi del “compromesso storico”. Il Contesto nasce come parodia e Sciascia stesso ne spiega la genesi nella “nota” posta a conclusione del racconto: […] E dunque: ho scritto questa parodia (travestimento comico di un’opera seria che ho pensato ma non tentato di scrivere, utilizzazione paradossale di una tecnica e di determinati clichés) partendo da un fatto di cronaca […]. Un divertimento. Ma mi andò per altro verso: ché ad un certo punto la storia cominciò a muoversi in un paese del tutto immaginario; un paese dove non avevano più corso le idee, dove i principi – ancora proclamati e conclamati – venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il potere per il potere contava. […] La sostanza (se c’è) vuole essere quella di un apologo sul potere nel mondo, sul potere che sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa.13

È soprattutto nella seconda parte del romanzo che questo apologo sul potere si materializza. Rogas si incunea nei suoi labirintici meandri e ne sperimenta la sua capacità fagocitatrice. Si tratta di una forza al tempo stesso concreta e sfuggente, capace di avvolgere tutto. Il clima che si respira nel romanzo è quello di una strategia della tensione che molto assomiglia a quella sperimentata in Italia all’inizio degli anni Settanta. Rogas, il quale ha dei principi «in un paese in cui quasi nessuno ne aveva»,14 è spinto dai suoi superiori a perseguire i “gruppuscoli” di estrema sinistra (peraltro descritti da Sciascia come “utili idioti”, velleitari, portatori di una nuova inquisizione e destinatari all’interno del racconto di un sarcastico componimento in versi), i quali a loro volta sono finanziati e utilizzati da grandi industriali e “controllati” – con alternanza di protezione e minaccia – da parte dello Stato. In questa situazione, funzionale al complotto, gli stessi vertici dello Stato cospirano per tessere trame eversive, la cui mente organizzativa è la persona che più di ogni altro dovrebbe avere a cuore la realizzazione della giustizia, il Presidente della corte suprema Riches. Uno dei nuclei fondanti del romanzo è proprio il discorso di que13 14

L. Sciascia, Il Contesto, cit., pp. 121-122. Ibid., p. 12.

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st’ultimo sulla giustizia – il tema più importante nel testo oltre a quello del potere – dove «il ricorso a metafore attinte alla dogmatica cattolica consente di comprendere inequivocabilmente la natura teologica ed autoritaria, teocratica, dello Stato del Contesto».15 Rogas però «scopre i tortuosi legami che corrono tra le forze di polizia, i ribelli e gli industriali, che li ricevono per rendere frizzante e alla moda il proprio salotto e, sottobanco, addirittura li finanziano. Infine arriva ai vertici stessi dello stato, là dove il potere è ottenuto con il “crisma” di un generale disprezzo e nel consapevole “esercizio dell’iniquità” […]».16 Che lo scenario disegnato dall’autore nel Contesto corrisponda alla visione sciasciana dell’Italia dei primi anni Settanta, è testimoniato da un passo di Nero su Nero, la raccolta di appunti di Sciascia pubblicata nel 1979: […] l’Italia è agitata da un «estremismo che non sta agli estremi», e cioè da un «estremismo di centro». Insomma: tutti gli avvenimenti delittuosi che si sono avuti in Italia negli ultimi anni e che appaiono rivolti contro lo Stato, il governo, lo status quo, le autorità, le istituzioni in realtà servono, con l’inevitabile scompenso di una perdita di prestigio, a mantenere queste cose effettualmente intatte, così come sono. Tutto è emanazione del potere e del modo di gestirlo: anche se coloro che sono al potere nulla ne sanno […]. Ciò vale a dire che c’è in Italia un iperpotere cui giova, a mantenere una determinata gestione del potere, l’ipertensione civile, alimentata da fatti delittuosi la cui caratteristica, che si prenda o no l’esecutore diretto, è quella della indefinibilità tra estrema destra ed estrema sinistra, tra una matrice di violenza e l’altra […].17

Questo “iperpotere” nel romanzo tiene insieme e rappresenta tutto e tutti: il Presidente della corte suprema, il capo della gendarmeria, il ministro della sicurezza, gli industriali, lo scrittore Nocio, i vari gruppi extraparlamentari e i loro capi fino ad arrivare al partito di opposizione, il Partito Rivoluzionario Internazionale. L’equilibrio politico del Contesto «si fonda su un sistema perverso in cui governanti e oppositori, e persino contestatori extraparlamentari, agiscono collusivamente come ingranaggi dell’unica macchina del Potere, funzionante eslusivamente per salvaguardare e perpetuare se stessa».18 Rogas, che ha il «culto dell’opposizione»,19 si trasforma da investigatore in assassino –almeno secondo la versione riferita allo scrittore Cusan – perché Amar, una volta messo al corrente del complotto, gli conferma implicitamente ciò che il ministro della pubblica Sicurezza gli aveva anticipato («il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale»).20 Rogas scopre dunque che il Partito Rivo-

15

M. Onofri, Storia di Sciascia, Bari, Laterza, 1994, p. 162.

16 A. Balduino, Messaggi e problemi della letteratura contemporanea, Venezia, Marsilio, 1976, p. 106. 17

L. Sciascia, Nero su Nero, Torino, Einaudi, 1979, pp. 130-131. O. Barbella, Sciascia, Palermo, Palumbo, 1999, p. 51. 19 L. Sciascia, Il Contesto, cit., p. 116. 20 Ibid., p. 74. 18

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luzionario fa parte del sistema di potere e dunque non può che fare una finta opposizione, ma soprattutto scopre che paradossalmente non vuole la rivoluzione. Sciascia quindi all’inizio degli anni ’70 vede la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista come associati, se non addirittura collusi, nella gestione del potere, prefigurando – e condannando – con qualche anno di anticipo il “compromesso storico”, concretizzatosi nei governi di unità nazionale. Colui che più si adopererà per realizzare questo risultato politico sarà Aldo Moro. Nel 1974 Sciascia pubblica Todo Modo, un altro romanzo “giallo” fanta-politico in cui tuttavia si possono riconoscere fin troppo bene i protagonisti a cui la vicenda allude. Se nel Contesto ciò che emergeva dal punto di vista politico era la condanna del percorso di “avvicinamento al potere” del partito di opposizione, ovvero del PCI, in Todo Modo Sciascia scrive la sua condanna della Democrazia Cristiana, il partito ormai da trent’anni al potere. In Nero su Nero, si può ritrovare l’occasione da cui scaturisce l’idea del romanzo. Tutto nasce da una vacanza estiva di Sciascia con la famiglia in un albergo di Zafferana Etnea (di qui il nome “Zafer” dell’eremo-albergo dove si svolge la vicenda):21 Mi sono trovato una volta, d’estate, in un albergo di montagna dove ogni anno si riuniscono, per gli esercizi spirituali, gli ex allievi di un convitto religioso […]. Arrivavano, gli ex allievi, alla spicciolata: e nello spiazzo davanti all’albergo, scendendo dalle loro grandi automobili, si incontravano con espressioni di sorpresa e di gioia, scherzosi insulti, abbracci e manate.22

Lo scrittore passa poi alla “biografia” e alle attività di questi ospiti all’interno dell’albergo. In queste poche righe c’è già molto di Todo Modo:23 Malversazione, peculato, interesse privato in atti di ufficio; nero su bianco in rubrica giudiziaria. E molti altri ce n’erano, non mai o non ancora rubricati, di cui si diceva illecita la ricchezza, torbida l’incredibile ascesa. Avevo insomma sotto gli occhi, adunati all’insegna dello spirito […], non pochi esponenti di una classe di potere. […] La sera, tutti insieme, recitavano il rosario; andavano su e giù nello spiazzo avaramente illuminato, a passo svelto, con dei dietrofront improvvisi, confusi, aggrovigliati […]. Appunto come nella dantesca bolgia dei ladri. […].24

Fino alla metà del romanzo non c’è nulla che possa far supporre uno sviluppo in senso poliziesco della trama. La narrazione è condotta in prima persona da un pittore affermato – scrittore dilettante di romanzi “gialli”25 – fra i quaranta e cinquant’anni, laico, che arriva quasi casualmente – decidendo poi di rimanere per qualche giorno – nell’eremo di Zafer, un «casermone di cemento orribilmente bucato da fi-

21

Cfr. M. Collura, Il maestro di Regalpetra, Milano, Longanesi, 1996, p. 224. L. Sciascia, Nero su nero, cit., p. 14. 23 Il titolo è ripreso da un passaggio del libro di esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola: “Todo modo para buscar la voluntad divina”. 24 L. Sciascia, Nero su nero, cit., pp. 54-55. 25 È evidente il riferimento a se stesso. 22

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nestre strette e oblunghe».26 La «mostruosa costruzione»27 è gestita da Don Gaetano e qui ogni anno si ritrovano politici, direttori di giornali, avvocati, industriali, banchieri e alti prelati. Gli esercizi spirituali ai quali si sottopongono o dovrebbero sottoporsi nell’eremo mascherano il vero motivo del loro convegno: il rinnovarsi di losche manovre politiche e affaristiche, con l’aggiunta in alcuni casi di relazioni extraconiugali. Il tutto avviene sotto l’abile direzione di Don Gaetano, sacerdote coltissimo e al tempo stesso figura inquietante e diabolica, il quale lungi dallo scandalizzarsi per i giochi di potere e le malversazioni che avvengono nell’eremo, si compiace per la sua abilità nel dirigerli. Fino al primo omicidio, che avviene all’incirca alla metà del racconto, protagoniste della narrazione sono le riflessioni e le descrizioni del pittore-narratore, ma soprattutto le sue conversazioni su temi etico-religiosi con Don Gaetano. I maneggi politico-affaristici e gli esercizi spirituali vengono improvvisamente interrotti dal’omicidio dell’onorevole Michelozzi e di quello – di poco successivo – dell’avvocato Voltrano. Il pittore si trasforma così in investigatore- anche se le indagini “ufficiali” vengono condotte dal procuratore Sgalambri, suo vecchio compagno di scuola – continuando però le conversazioni con Don Gaetano, con il quale evidentemente ha ormai un legame intellettuale di attrazione-repulsione. Ma anche il sacerdote, poco prima della fine del racconto, viene assassinato. Come e più del Contesto, Todo modo è un meccanismo testuale stratificato, dove i vari livelli di lettura assumono senso solo se messi in relazione con gli altri. Sciascia in questo racconto introduce nella tradizione del “giallo” italiano – attaverso il costante colloquio con Don Gaetano – la componente metafisica (“giallo metafisico” fu definito Todo modo da Pasolini). Il filo conduttore della vicenda è infatti la “tenzone” tra don Gaetano e il pittore narratore. Tra i due uomini di opposta formazione culturale, si stabilisce una certa complicità intellettuale. Il pittore laico e “illuminista”, lascia traparire spesso la sua inquietudine religiosa, mentre il sacerdote esibisce tutta la sua spregiudicatezza; il pittore è portavoce di un idealismo perfezionista laico, mentre Don Gaetano (i cui occhiali sono pericolosamente simili a quelli di Satana come raffigurato nel quadro di Rutilio Manetti citato nel testo) – mostra un atteggiamento pragmatico, nichilista, che lo porta ad assolvere anche l’atto più riprovevole, come le malversazioni che avvengono a Zafer. Questo pragmatismo gli fa affermare: Le voglio anzi regalare un piccolo paradosso, a spiegazione del mio classificarmi tra i cattivi non per modestia ma per convinzione: i preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza […], il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai buoni.28

E ancora più avanti, dopo il primo omicidio: Dio esiste, dunque tutto ci è permesso. […] E nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Il delitto, il dolore, la morte: crede sarebbero possibili, se Dio non ci fosse?29 26

L. Sciascia, Todo modo, Milano, Adelphi, 1995, p. 13. Ibid. 28 Ibid., pp. 51-52. 29 Ibid., p. 78. 27

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Don Gaetano è «un personaggio complesso: rappresenta la Chiesa, la sua capacità di adattamento, di connivenza e di superamento del potere, la sua filosofia sempre presente e recuperante, la metafisica intoccabile e la vischiosa pratica quotidiana».30 Uno dei motivi fondamentali del romanzo è dunque la riflessione sul cristianesimo, sulla presenza e sul potere spirituale e temporale della Chiesa cattolica in Italia (soprattutto) e nel mondo. Dal punto di vista della struttura, in Todo modo prosegue «l’aggressione totale alla tradizione del romanzo poliziesco».31 Come nel Contesto, è impossibile accertare la verità e le attese del lettore vengono continuamente deluse. Chi uccide l’onorevole Michelozzi? Perché? Si potrebbe ragionevolmente sospettare di Don Gaetano32 (che sicuramente sa qualcosa e che rimane «impassibile» di fronte all’omicidio), ma nel testo lo svelamento non c’è e gli indizi testuali non permettono di identificare il colpevole e le sue motivazioni con una ragionevole certezza. L’avvocato Voltrano potrebbe essere stato ucciso per aver visto l’assassino (era nella posizione più favorevole al momento dell’omicidio), ma anche per altre ragioni. Il movente degli omicidi è dunque apparentemente invisibile, a meno che non lo si voglia rintracciare nelle misteriose “liturgie” del potere. Le cose sembrerebbero in apparenza più semplici per l’omicidio di don Gaetano. Sciascia anche in questo caso non offre una soluzione, ma alcune evidenze testuali portano a identificare il pittore-narratore come l’esecutore del delitto: «Ecco, vede: l’agente deve essersi addormentato e lei poteva star guardando altrove, quando l’assassino è sgattaiolato fuori. Non c’è altra spiegazione, se vogliamo restare sul terreno della realtà. Se poi vogliamo uscirne, possiamo arrivare dove vogliamo: anche a pensare che uno di noi tre…. Ecco: lei dice di essere rimasto qui, a fare la siesta; ma è lei che lo dice…. E tu» a me «tu dici di essere andato… Dov’è che te ne sei andato?» «A uccidere don Gaetano», dissi. «Lo vedi dove si arriva, quando si lascia la strada del buon senso?»33

Paradossalmente, è la sua confessione che lo scagiona agli occhi dell’amico procuratore (e del lettore “distratto”). Considerando accettabile questa soluzione, avremmo il narratore-investigatore che si fa assassino.34 Anche Rogas nel Contesto si trasformava (forse) in giustiziere, ma si era comunque in presenza di una narrazione in terza persona. Come si diceva in precedenza, nel caso dei romanzi di Sciascia non si può prescindere da una lettura attenta e integrata di tutti i livelli del testo (etico-religioso,

30 V.

Fagone, Parabola della cultura e del potere, «Il Giornale di Sicilia», 3 aprile 1975. M. Onofri, Storia di Sciascia, cit., p. 170. 32 Per quanto riguarda gli aspetti “polizieschi” di Todo modo e per la soluzione dei delitti si veda N. Mineo, “Lo scrittore e il detective”, in A. Motta, ed., Omaggio a Leonardo Sciascia, Manduria, Lacaita, 1991, pp. 33-34. 33 L. Sciascia, Todo modo, cit., pp. 119-120. 34 Le citazioni della Lettera rubata di Poe e de I sotterranei del Vaticano di Gide conducono ad una soluzione in questo senso. 31

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filosofico, psicologico, politico), e solo questa può portare a delle – seppur non assolute – conclusioni e soluzioni. Il motivo del romanzo che più interessa in questa sede, poiché colloca il testo in relazione con L’Affaire Moro, è sicuramente quello politico. In Todo modo Sciascia denuncia con forza il disordine della situazione socio-politica e la crisi della democrazia italiana. I politici che si trovano nell’eremo rappresentano la classe dirigente democristiana al potere ormai da trent’anni, ritratta nelle sue divisioni interne dopo la sconfitta subita con il referendum sul divorzio e sul punto di essere messa sotto accusa per lo scandalo Lockheed:35 […] tutti coloro che si erano in quel luogo raccolti, per esercitare lo spirito e rinnovellarne le forze, rappresentavano il mondo cristiano e cattolico nel governo della cosa pubblica […].36

Il narratore protagonista capisce ben presto che gli esercizi spirituali, per effettuare i quali questa classe dirigente ha raggiunto l’eremo di Zafer, «hanno ben poco a che fare con un itinerarium mentis in Deum e piuttosto mimano la liturgia di un potere indecifrabile».37 Una delle descrizioni più potenti di Sciascia riguarda proprio la misteriosa liturgia della recita del rosario da parte degli ospiti durante la quale, non a caso, avverrà il primo omicidio: Facevano cerchio. Ad un certo punto, forse quando ritennero di essere tutti presenti, il cerchio si scompose e prese forma di quadrato. Don Gaetano, che era stato al centro del cerchio, si trovò nel mezzo della prima fila del quadrato. Così ordinati, stettero un momento fermi e in silenzio: poi si alzò la voce di Don Gaetano […] e il quadrato si mosse. […] Il quadrato marciò dalla porta dell’albergo al margine opposto. Arrivandoci, mi parve si aggrumasse in confusione e stentasse a ricomporsi, mentre in coro recitavano il Padrenostro. Ricomposto, venne verso l’albergo con l’Avemaria: e alla luce che veniva dalla porta e dalla finestra del pianterreno, vidi che in prima fila, con don Gaetano sempre nel mezzo, non c’erano gli stessi di poco prima.38

Il narratore ritrae gli ospiti nelle loro più prosaiche consuetudini quotidiane, nelle quali mettono in opera le loro capacità di tramare, mediare e negoziare: Si sentivano in vacanza: ma una vacanza che permetteva di riannodare fruttuose relazioni, ordire trame di potere e di ricchezza, rovesciare alleanze e restituire tradimenti.39

Ne offre poi una rappresentazione grottesca là dove descrive i loro interessi puramente materiali e la loro propensione all’uso di un linguaggio bassamente figurato: 35 Si trattò di uno scandalo internazionale legato alla fornitura di aerei civili e militari della compagnia americana Lockheed in cambio di tangenti. In Italia furono accusati, oltre a militari e a soggetti importanti della imprenditoria pubblica, anche politici di primo piano tra cui il socialdemocratico Tanassi e i democristiani Rumor, Gui e Leone. 36 L. Sciascia, Todo modo, cit., p. 33. 37 M. Onofri, Storia di Sciascia, cit., p. 176. 38 L. Sciascia, Todo modo, cit., p. 49. 39 Ibid., p. 33.

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Andavo da una coppia all’altra, da un gruppo all’altro, cogliendo parole, frammenti di frasi, intere frasi: sussurrate, a volte sospese ed esitanti, a volte ferme. Nell’insieme, pareva che tutti parlassero della refezione consumata a mezzogiorno e di quella che sarebbe stata consumata tra un paio d’ore: dell’inappetenza di qualcuno e della fame dei più. Quello mangia, quello ha una fame, quello non ha mangiato ancora, non vuole mangiare, deve finire di mangiare tanto, c’è un limite al mangiare; e così via. Mi resi conto che era un parlar figurato, e spinsi la figurazione a vederli tutti annaspare dentro una frana di cibi in decomposizione.40

Pier Paolo Pasolini fu tra i recensori che fin da subito misero in evidenza il livello di lettura politico del romanzo, ravvisandone un severo processo alla classe dirigente democristiana. Per Pasolini «Questo romanzo giallo metafisico di Sciascia […] è anche, […] una sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso […]. Si tratta di una metafora profondamente misteriosa, come ricostruita in un universo che elabora fino alla follia i dati della realtà. I tre delitti sono le stragi di Stato, ma ridotte a immobile simbolo. I meccanismi che spingono ad esse sono a priori preclusi a ogni indagine, restano sepolti nell’impenetrabilità della cosca, e soprattutto nella sua ritualità».41 Pasolini dunque propone una interpretazione a ritroso degli omicidi che avvengono all’interno dell’eremo. Un’altra lettura potrebbe invece interpretarli in relazione ad uno degli «aspetti più inquietanti dei libri di Sciascia: un certo precorrere gli eventi, la capacità di viverli e realizzarli in anticipo»;42 In Todo modo ci sono omicidi e soprattutto omicidi di politici, che colpiscono personalità di spicco del partito che rappresenta “il mondo cristiano e cattolico nel governo della cosa pubblica”, ovvero di quel partito, la Democrazia Cristiana, di cui nel 1974 Aldo Moro era uno degli esponenti più importanti e di cui nel 1976 sarebbe diventato presidente. 2.2. L’ “Affaire Moro” L’Affaire Moro è un pamphlet che intende intervenire “a caldo” su un tema di attualità, scritto d’impeto, sotto la spinta di una «indignazione contro […] il conformismo che si è mosso contro quest’uomo senza più potere».43 Il titolo rimanda chiaramente all’ “Affaire Dreyfus”, all’ “Affaire Calas” e ai relativi interventi di Zola e Voltaire, inscrivendo quindi il testo in una nobile tradizione letteraria di intervento politico che vuole portare una ricerca e una testimonianza di verità. L’Affaire Moro in effetti non passa inosservato; la polemica nasce ancor prima della sua pubblicazione quando sulla «Repubblica» del 17-18 settembre, il direttore del quotidiano Eugenio Scalfari scrive un articolo in cui dissente dalle tesi di fondo del libro.44 40

Ibid., p. 48. P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Torino, Einaudi, 1979, pp. 459-450. Fagone, op. cit. 43 Intervista rilasciata da Sciascia al settimanale «L’Espresso», 24 settembre 1978, in V. Vecellio, Saremo perduti senza la verità, Milano, La vita felice, 2003, p. 208. 44 Scalfari si basa – secondo Sciascia in gran parte equivocandole – su alcune anticipazioni fornite dallo stesso autore in alcune interviste rilasciate a quotidiani e settimanali. 41

42 V.

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Dopo la pubblicazione, Il “caso Moro” si trasforma subito nel “caso Sciascia”. Il settimanale «L’Espresso» avvia il dibattito il 22 ottobre 1978 con gli interventi, tra gli altri, di Alberto Moravia e Giorgio Bocca. Nell’ambito della precedente produzione di Sciascia, l’Affaire si pone in rapporto di continuità con vari lavori precedenti. A proposito della struttura del libro Sciascia afferma: È congegnata un po’ come quella degli altri miei libri di un certo filone: Gli atti relativi alla morte di Raymond Roussel, I pugnalatori, La scomparsa di Majorana. Solo che l’Affaire Moro è scritto con più impeto, come un’invettiva. È una ricostruzione della vicenda attraverso le lettere del presidente della DC, i comunicati delle BR e le successive dichiarazioni degli uomini politici.45

La tesi del libro è che Moro poteva essere salvato. Lo hanno ucciso le Brigate Rosse, ma a portare la responsabilità politica della sua morte, se non a volerla, sono stati i suoi compagni di partito i quali hanno disconosciuto le sue volontà espresse nelle lettere dalla prigione. Queste lettere contenevano la richiesta di uno scambio di prigionieri, soluzione avversata dal cosiddetto “partito della fermezza”, nel quale si riconoscevano la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, ovvero quelle stesse forze politiche – apparentemente inconciliabili – che Moro aveva portato attraverso un paziente lavoro politico al “compromesso storico”. Le prime sette pagine dell’Affaire sono ampiamente dedicate a Pier Paolo Pasolini, «come riprendendo dopo più che vent’anni una corrispondenza».46 Sono passati ormai tre anni dalla sua morte, ma è ancora ben presente a Sciascia il famoso “articolo delle lucciole” nel quale, tra le altre cose, ne viene denunciata la scomparsa. In queste sette pagine introduttive l’articolo è citato quasi per intero. L’apertura del libro che descrive la visione di una lucciola non può non rimandare a Pasolini (le lucciole che ritornano dopo tanti anni): Ieri sera, uscendo per una passeggiata, ho visto nella crepa di un muro una lucciola. Non ne vedevo, in questa campagna, da almeno quarant’anni: e perciò credetti dapprima si trattasse di uno schisto del gesso con cui erano state murate le pietre o una scaglia di specchio; e che la luce della luna, ricamandosi tra le fronde, ne traesse quei riflessi verdastri. Non potevo subito pensare a un ritorno delle lucciole, dopo tanti anni che erano scomparse. […] Era proprio una lucciola, nella crepa del muro. Ne ebbi una gioia intensa. E come doppia. E come sdoppiata. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia […] – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini, per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo paese terribile che l’Italia è diventato, mutato in se stesso […]. Fraterno e lontano, Pasolini per me.47

È un’introduzione dai toni poetici che non lascia dubbi sulla “letterietà” dell’ Affaire Moro. Seguono poche righe fortemente autobiografiche sul rapporto tra i due scrittori. Pasolini è sentito da Sciascia come «fraterno e lontano […]. Di una fra45 V. Vecellio,

Saremo perduti senza la verità, cit., p. 213. L. Sciascia, L’affaire Moro, Milano, Adelphi, 2008, p. 13. 47 Ibid. 46

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ternità senza confidenza […]».48 C’è molto pudore e molto “non detto” nella breve descrizione dei rapporti tra i due; Sciascia qui dice molto meno di quello che invece annota in Nero su Nero: Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo […], specialmente nel periodo in cui lui lavorava all’antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali […]. Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era però come un’ombra fra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. […] Io ero – e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose.49

Quest’ultima frase offre una spiegazione del richiamo a Pasolini e a quello specifico articolo pubblicato sul «Corriere della sera»; un richiamo che assume ulteriori e molteplici significati. In quel famoso articolo del 1975, Pasolini esprime la sua condanna totale del “regime democristiano” distinguendone diverse fasi: prima, durante e dopo la “scomparsa delle lucciole”: Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta). Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”. Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi.50

Il Pasolini che scrive queste pagine – riprese da Sciascia nel testo – è lo scrittore civile sempre alla ricerca della verità che aveva già denunciato il potere un anno prima con i suoi reiterati “Io so” contenuti nell’articolo (sempre sul «Corriere») famoso come “Il Romanzo delle stragi”. Sciascia dunque, con la citazione pasoliniana, si pone come erede e continuatore «di quell’idea di letteratura come continua ricerca della verità».51 Si tratta quindi di riprendere il discorso da dove l’aveva lasciato Pasolini prima della sua morte. Ma l’articolo delle lucciole viene citato anche e so48

Ibid., p. 12. L. Sciascia, Nero su Nero, cit., pp. 175-176. 50 P.P. Pasolini, Il vuoto del potere, «Il Corriere della Sera», 1 febbraio 1975. 51 M. Belpoliti, “L’Affaire Moro: anatomia di un testo”, in V.Vecellio, ed., L’uomo solo. L’Affaire Moro di Leonardo Sciascia, cit., p. 24. 49

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prattutto per un suo specifico riferimento ad Aldo Moro, là dove Pasolini, rintracciando i cambiamenti avvenuti nella “classe di potere”, li identifica soprattutto nel suo nuovo “linguaggio”: Nella fase di transizione – ossia “durante” la scomparsa delle lucciole – gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ’69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.52

In questo brano pasoliniano, riportato da Sciascia, vi sono i nuclei fondamentali de L’Affaire Moro: l’“incomprensibilità” del linguaggio di Aldo Moro;53 il suo essere “meno implicato di tutti” e le “enigmatiche correlazioni”. Il linguaggio di Moro, le sue lettere, sono l’oggetto principale dell’indagine del pamphlet di Sciascia, il quale si applica su di esse con metodo e rigore filologico, proprio nel tentativo di estrapolare da esse il “non detto” di Aldo Moro, che per Sciascia, come per Pasolini, è colui il quale forse ha meno responsabilità (“il meno implicato di tutti”) nella storia del (mal)governo del paese. Le “enigmatiche correlazioni” sono quelle che si stabiliscono tra Moro e i suoi “amici” di partito che si fanno scudo di quel linguaggio fino a quando farà a loro comodo e che lo disconosceranno quando non sarà più utile; ma per Sciascia le “enigmatiche correlazioni” – proprio in virtù del valore pasolinianamente profetico dell’aggettivo “enigmatiche” – vanno interpretate anche in un altro senso: In questo breve inciso di Pasolini – «per una enigmatica correlazione» – c’è come il presentimento, come la prefigurazione dell’affaire Moro. Ora sappiamo che la «correlazione» era una «contraddizione»: e Moro l’ha pagata con la vita.54

Sciascia richiama Pasolini dunque anche come studioso del linguaggio, e in particolare del linguaggio di Moro; questo aiuto gli è indispensabile perché l’Affaire è un libro sul linguaggio, un testo che prende in esame, analizza e decodifica altri testi. Al centro della vicenda c’è il problema del linguaggio di Moro, ma le sue lettere non sono i soli testi che vengono presi in considerazione. Vengono analizzati i comunicati delle Brigate Rosse, gli scritti giornalistici e gli altri testi apparsi durante i 55 giorni del sequestro, anche di natura non scritta (come le comunicazioni dei terroristi con la famiglia e altre persone alla famiglia collegate). Vengono sottoposti ad esame sostantivi, verbi e aggettivi. Insomma, Sciascia applica il metodo filologico sulla totalità di quella che è stata definita «una articolata tragedia della comunicazione».55 I giorni che intercorsero fra il rapimento e l’uccisione del leader democristiano «furono una

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Ibid. Pasolini si era già occupato dell’incomprensibilità del linguaggio di Moro in P.P. Pasolini, Nuove questioni linguistiche, in «Rinascita», a. XXI, n. 51, 26/12/1964, pp. 19-22; ora in P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, pp. 5-24. 54 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p.17. 55 C. Ambroise, Invito alla lettura di Leonardo Sciascia, cit., p. 230. 53

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battaglia… di testi: comunicati, dichiarazioni, interviste, e dopo alcuni giorni, come uno spiacevole segnale, sistematicamente rimosso, le lettere dalla prigione. Forse, a compenso della generale impotenza, sembrava che tutti dovessero scrivere».56 Sciascia riporta spesso quasi per intero gran parte delle lettere del prigioniero (quelle conosciute e pubblicate al momento della stesura del testo), ma prima di compiere questa operazione, da buon filologo, si dedica alla lettura e allo studio degli scritti e dei discorsi di Moro precedenti al sequestro. Grazie a questo lavoro di ricerca può spesso e con successo dimostrare una delle tesi fondamentali della sua opera, ovvero che la condizione di prigionia del presidente della DC non toglieva autenticità alle sue lettere, poiché esse mostravano una ragionevole coerenza con le cose dette e scritte prima del sequestro: Delle lettere di Moro direi che bisogna innanzitutto farne una lettura candida. Voglio dire: bisogna prima sgombrare la nostra mente dal pregiudizio […] che Moro non era se stesso, che era diventato un altro Moro: un uomo che aveva perduto il senso dello Stato, stravolto dalla paura di morire. Se si scorre la vita di Moro negli scritti e nelle azioni, viene fuori invece che Moro continuava a essere se stesso nel modo più lineare e assoluto. […] Una volta stabilito che […] in lui la paura di morire non arrivava al grado di sconvolgerlo – e anzi gli dava una maggiore testamentaria lucidità – si può anche procedere a una decifrazione, più particolare e sottile delle lettere.57

Fin dalla prima lettera inviata ai suoi “amici” di partito Moro cerca di predisporre la Democrazia Cristiana alla trattativa, ovvero allo scambio di prigionieri, argomentando con principi etico-giuridici la propria richiesta. Nella lettera indirizzata al segretario della DC Zaccagnini pervenuta al quotidiano «La Repubblica» il 4 aprile 1978, Moro insiste sullo scambio dei prigionieri e afferma nel brano riportato da Sciascia: Si discute qui non in astratto diritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell’opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l’unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando l’attenzione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile.58

Una nota ufficiale affidata al giornale del partito, «Il Popolo», definisce la lettera «non moralmente ascrivibile» a Moro. Sciascia invece sostiene che Moro ha «sem56

Ibid., p. 236. Saremo perduti senza la verità, cit., p. 203. A questo proposito Sciascia scrive inoltre in Nero su nero: «Io sono di quelli che credono le lettere che Moro manda dalla sua prigione non siano di un altro Moro. E in ciò mi conforta l’atteggiamento della famiglia, giustamente irritata dal fatto che si voglia accreditare l’immagine di un Moro fuori di sé, plagiato, ridotto a chiedere quel che in condizioni diverse, in libertà e in sicurezza, non solo non chiederebbe ma si vergognerebbe di aver chiesto. Ma il fatto è che, una volta accertata la coerenza e lucidità delle lettere che Moro manda dalla “prigione del popolo”, bisogna fare un’operazione retroattiva e rivedere, alla luce dell’oggi, la coerenza e lucidità delle operazioni su cui poggiò la sua fortuna politica. Ed è appunto questa operazione che non si vuol fare». 58 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 21. 57 V. Vecellio,

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pre pensato così»,59 che già qualche anno prima il presidente democristiano sosteneva che «tra il salvare una vita umana e il tener fede ad astratti principi si dovesse forzare il concetto giuridico di stato di necessità fino a farlo diventare principio: il non astratto principio della salvezza dell’individuo contro gli astratti principi. E così non potevano non pensare nel loro essere o dirsi cristiani, gli uomini della Democrazia Cristiana: dalla base ai vertici».60 Per Sciascia, Moro dice queste cose coerentemente con la sua storia di uomo politico, di docente universitario e della sua visione della vita umana e politica. Partendo dalle osservazioni di Pasolini sul linguaggio nuovo e “incomprensibile” di Moro, Sciascia nell’Affaire sostiene che nelle lettere il politico democristiano si serve di quel linguaggio proprio per farsi capire dai suoi compagni di partito:61 Ha dovuto tentare di dire col linguaggio del non dire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e per autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata.62

È questa una delle osservazioni più acute di Sciascia. Mario Moretti, il brigatista che condusse gli interrogatori di Moro e che si occupava anche della sua corrispondenza, affermerà quindici anni più tardi in un libro-intervista che «Moro non tace, rivela molte cose, ma lo fa da democristiano, parlando in codice. […] Ha in mente coloro che posseggono le chiavi del suo linguaggio, sanno di che parla; non pensa, credo, che io lo possa davvero capire. […] Ma fuori chi è in grado di capire deciderà di ignorare. L’intero mondo politico ha deciso di ignorare qualsiasi cosa Moro dica».63 Questo codice secondo Sciascia va dunque analizzato, capito. Le lettere sono spesso documenti criptati che richiedono un’interpretazione. Una delle cose che si addebitarono a Moro durante la prigionia fu l’assenza – in una delle sue lettere in cui parlava delle inefficienze della sua scorta – di parole di pietà verso gli uomini che morirono nell’agguato. Sciascia non giudica questa omissione ma la interpreta: Non era un cinico; e se lo fosse stato, avrebbe calcolato l’effetto a lui favorevole che una parola di compianto per quei cinque morti avrebbe avuto sull’opinione pubblica. Se la è, invece, calcolatamente vietata. Perché? […] È incredibile che non si fosse stabilito un rapporto affettivo. Eppure, uccisi sotto i suoi occhi, non ha per loro una parola di pena. Perché? Forse appunto per questo: perché gli «amici» […] se ne domandassero la ragione e la cercassero.64 59

Ibid., p. 63. Ibid. 61 In un articolo pubblicato su «L’Ora» del 30 gennaio 1965, Sciascia a proposito di Moro dice che «dell’uomo politico meridionale ha tutte le qualità, e principale quella del non dire. […] Genialmente, bisogna riconoscerlo, l’onorevole Moro ha inventato un più rigoroso, quasi scientifico non dire. È sua, se non ricordo male, la trovata delle convergenze parallele: che non significano assolutamente niente, né nella logica astratta né in quella delle cose concrete». 62 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 17. 63 M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana. Intervista di Carla Mosca e Rossana Rossanda, Milano, Mondadori, 2007, p. 159. 64 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 69. 60

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L’Affaire Moro, come abbiamo visto, si apre con una descrizione fortemente poetica ispirata da Pasolini e si conclude con una citazione di Borges. Nel mezzo, vi sono continue citazioni implicite e esplicite di numerose opere letterarie. Pur essendo un pamphlet scritto “a caldo” per intevenire su un tema di attualità politica – quindi in forma saggistica e ovviamente non finzionale- è senza alcun dubbio un’opera letteraria. Anzi, è un’opera che riflette sulla letteratura e che ci consegna le teorie sulla letteratura di Sciascia come punto di arrivo della sua riflessione durante gli anni ’70. All’intervistatore che gli chiede se esista una circolarità tra letteratura e realtà, Sciascia risponde così: Io sono arrivato ormai a non vedere più confini tra letteratura e realtà. Questo caso di Moro è stato proprio una specie di sfondamento di muro del suono, mi è apparso proprio come letteratura. Una letteratura che bisognava restituire alla realtà, rimettere in circuito…65

È nel terzo capitolo che Sciascia parla esplicitamente di letteratura. Lo inizia citando un racconto di Borges,66 il Pierre Menard autore del «Chisciotte», contenuto nelle Ficciones. In questo racconto, Pierre Menard riscrive parola per parola il Don Chisciotte di Cervantes, dando vita ad un testo eguale ma allo stesso tempo diverso. Sciascia lo cita in virtù di una associazione di idée, poiché questo racconto «si adeguava all’invincibile impressione che l’affaire Moro fosse già stato scritto, che fosse già compiuta opera letteraria, che vivesse in una sua intoccabile perfezione».67 Il “caso Moro” è dunque opera letteraria. È una vicenda già scritta e non la si può che riscrivere. «Come Menard riscrive il Don Chisciotte, Sciascia riscrive l’Affaire Moro, e tutto resta dentro i margini della letteratura […]»68 Sciascia cerca di spiegare così questa sua convinzione: Allo stesso modo che don Chisciotte dai libri della cavalleria errante, Moro e la sua vicenda sembrano generati da una certa letteratura. Ho ricordato Pasolini. Posso anche – non rallegrandomene ma nemmeno rinnegandoli – ricordare due miei racconti, almeno due. Il contesto e Todo modo. […] Una sintesi, una tirata di somma: ma nel vuoto di riflessione, di critica e persino di buon senso in cui la vita politica italiana si è svolta, le sintesi non potevano che apparire anticipazioni, che profezie; se non addirittura istigazioni. Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità […] sembrò generata dalla letteratura.69

Come afferma Belpoliti, non è solo «una faccenda d’anticipazione o di previsione, ma proprio di “generazione”. È istigazione: […] lui e Pasolini sono stati degli istigatori».70 65 Intervista rilasciata da Sciascia a «Lotta Continua», 27 ottobre 1978, in V. Vecellio, Saremo perduti senza la verità, cit., p. 227. 66 Nella stessa intervista, Sciascia spiega ciò che più lo attrae nello scrittore argentino: «Questo gioco delle coincidenze, questi due piani in cui la realtà diventa finzione, questa specie di circolarità che ha stabilito tra la letteratura e la vita. È veramente strano questo mondo di coincidenze, coincidenze straordinarie…». 67 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., pp. 25-26. 68 M. Belpoliti, “L’Affaire Moro: anatomia di un testo”, cit., p. 29. 69 L. Sciascia, L’Affaire Moro, op. cit., pp. 28-29. 70 M. Belpoliti, “L’Affaire Moro: anatomia di un testo”, cit., p. 28.

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In un’intervista concessa a Repubblica durante i giorni del sequestro – per difendersi dalle accuse di non essere intervenuto pubblicamente sulla vicenda dopo l’agguato in via Fani- Sciascia aveva affermato: […] come autore di Todo Modo, rivedo nella realtà come una specie di proiezione delle cose immaginate. Per questo mi ha fatto da remora, nell’intervenire, come scrittore […] un senso di preoccupazione e di smarrimento nel vedere le cose immaginate “verificarsi”. […] Come scrittore potrei rallegrarmi di aver scritto Todo Modo, come uomo, in questo momento, non me ne rallegro.71

Non va dimenticato inoltre – e Sciascia lo ricorda ne L’Affaire tramite una citazione dello storico Giorgio Galli – che poco dopo l’uscita del libro, il regista Elio Petri fece di Todo modo una (libera) trasposizione cinematografica, nella quale Gian Maria Volontè aveva interpretato il personaggio del “Presidente” – che viene ucciso poco prima della fine del film – con una caratterizzazione modellata sulla figura di Moro. È dunque proprio la vicenda Moro che – oltre a provocargli una vera e propria ossessione –72 fa maturare in Sciascia riflessioni, spesso inconscie, sulla letteratura: Finito il 24 agosto il pamphlet sul caso Moro, ho passato quattro giorni a rileggerlo, correggendo e ritoccando quasi meccanicamente. Senza che lo volessi, la mia mente svolgeva una meditazione sulla letteratura: ansiosa, febbrile, come sdoppiata, come dialogata. Anche stanotte, insolitamente: ché non riuscivo, forse per eccessiva stanchezza, a prender sonno […]. […] Nell’insonnia, con frammentaria e incandescente perspicuità, mi pareva di essere arrivato a una risposta sulla letteratura, su cosa è la letteratura.73

La risposta è che la letteratura consiste in un “sistema solare”, un «sistema di “oggetti eterni” […], che variamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi […]».74 Ma soprattutto, la vicenda Moro e la stesura dell’Affaire convincono Sciascia che «la letteratura è la più assoluta forma che la verità possa assumere».75 Nell’Affaire quasi tutte le citazioni sono tratte da autori letterari: Borges, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Tolstoj, Poe e altri vengono chiamati a «collaborare all’inchiesta».76 È evidente il richiamo a Dante e alle immagini dell’Inferno. Sciascia definisce le lettere di Moro «documenti del contrappasso»,77 poiché se prima del sequestro – secondo l’intuizione di Pasolini contenuta nell’ “articolo delle lucciole”egli si era servito di un linguaggio oscuro e incomprensibile, ora è costretto ad usare 71 Intervista rilasciata da Sciascia a «Repubblica», 23 marzo 1978, in V. Vecellio, Saremo perduti senza la verità, op. cit., pp. 179-80. 72 Sciascia scrive in Nero su nero: «Ogni anno, qui in campagna, scrivere un libro – un piccolo libro – è per me riposo e divertimento.[...] ma questo su Moro mi ha dato una inquietudine che sconfinava nell’ossessione. E ne esco stanco: però con l’impaziente voglia di mettermi ad altra scrittura, ad altro testo». 73 L. Sciascia, Nero su nero, cit., p. 228. 74 Ibid., p. 231. 75 Ibid., p. 236. 76 C. Ambroise, Invito alla lettura di Leonardo Sciascia, cit., p. 235. 77 Ibid., p. 17.

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quel linguaggio proprio per farsi capire da chi potrebbe salvare la sua vita, ovvero dai quegli amici a cui Pasolini lo vedeva legato da “enigmatiche correlazioni”. Sconta quindi la sua colpa di «falsario del linguaggio»,78 e la sua pena consiste nella consapevole falsificazione della sua identità da parte di chi riceve i suoi messaggi, ovvero dai compagni di partito che dicono di non riconoscerlo. Un’altra presenza di rilievo è quella di Pirandello. Il dramma di Moro, è soprattutto per Sciascia un dramma pirandelliano. La terribile esperienza del sequestro costringe il politico democristiano a spogliarsi della forma, ovvero della forma di uomo del Potere,79 per rivelarsi «creatura»: Moro comincia, pirandellianamente, a sciogliersi dalla forma, poiché tragicamente è entrato nella vita. Da personaggio a «uomo solo», da «uomo solo» a creatura: i passaggi che Pirandello assegna all’unica possibile salvezza.80

Proprio questa condizione pirandelliana di “uomo solo”, condizione che è «il filo comune tra tutti i personaggi di Sciascia»81, porta lo scrittore siciliano ad immedesimarsi con Moro, uomo solo di fronte alla morte, e ad immaginare la sua tragica situazione.82 Il che porta ancora una volta a sottolineare «l’importanza della letteratura: immaginare, identificarsi».83 Solamente un «profondo processo identificatorio, e cioè immaginario, con il prigioniero, […] spiega come Sciascia sia riuscito a scrivere L’Affaire Moro».84 Sciascia non ha mai avuto una grande opinione di Moro come uomo di potere e di governo, né prima e né durante lo svolgersi della sua tragica vicenda. Non lo ha mai amato.85 In lui sicuramente vedeva un uomo simbolo del sistema di potere democristiano che aveva rappresentato, condannandolo senza appello, in Todo Modo. Secondo lui «né Moro né il partito da lui presieduto avevano mai avuto il “senso dello Stato”».86 Eppure, quando vede che i suoi “amici” lo abbandonano, sente per lui un forte sentimento di pietà e vi si immedesima totalmente. Sciascia afferma in un’intervista: L’Affaire Moro è innanzitutto un libro religioso. Il centro del libro è un sentimento di pietà per quest’uomo solo, tradito, dato per pazzo dai suoi stessi amici.87 78

C. Ambroise, Invito alla lettura di Leonardo Sciascia, cit., p. 235. In una delle sue ultime lettere, poco prima della condanna a morte, Moro dirà di non volere ai suoi funerali «gli uomini del potere». Sciascia rileva: «[…] ecco, c’è la parola che per la prima volta scrive nella più atroce nudità: la parola che finalmente gli si è rivelata nel suo vero, profondo e putrido significato: la parola “potere”». 80 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 76. 81 O. Gurgo, “L’Affaire Moro, Sciascia e la solitudine dello scrittore”, in V.Vecellio, ed., L’uomo solo. L’ Affaire Moro di Leonardo Sciascia, cit., p. 103. 82 Sciascia dice in un’intervista a Michelle Padovani pubblicata su «Le Monde»: «Mi sono immaginato di essere al suo posto quanto al posto di qualsiasi sequestrato. Ho compreso la sua sofferenza e la sua angoscia, l’ho compatito nel senso originale del termine…». Ibid., p. 105. 83 C. Ambroise, Invito alla lettura di Leonardo Sciascia, cit., p. 235. 84 Ibid., p. 242. 85 «Moro è stato un uomo da me non amato, e forse non amabile: ma il modo in cui è morto [...] è una grande e tragica lezione», in «La Sicilia», 14 agosto 1978. 86 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 32. 87 O. Gurgo, “L’Affaire Moro, Sciascia e la solitudine dello scrittore”, in V.Vecellio, ed., L’uomo solo. L’ Affaire Moro di Leonardo Sciascia, cit., p. 104. 79

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Le parole “pietà” e “cristianamente” ricorrono con frequenza nel testo. Il cristianesimo di Sciascia, che si era manifestato già in Todo modo, si realizza pienamente ne L’Affaire Moro”. La pietà di Sciascia va soprattutto verso un uomo «che subisce violenza da altri uomini»88 e all’uomo che – ad un certo punto – sa di essere condannato a morte. Nelle pagine di Nero su nero,89 Sciascia manifesta tutto il suo orrore verso il supplizio al quale è sottoposto il condannato alla pena capitale citando l’Idiota di Dostoevskji: « […] Che accade nell’anima in quel momento, a quali convulsioni la portano? È un’affronto fatto all’anima, ecco cos’è!....Uccidere chi ha ucciso è un castigo senza confronto maggiore del delitto stesso. L’assassinio legale è incomparabilmente più orrendo dell’assassinio brigantesco. Chi è assalito dai briganti, chi è sgozzato di notte, in un bosco o altrove, senza dubbio spera di potersi salvare fino all’ultimo momento…Mentre qui tutta quest’ultima speranza, con la quale è dieci volte più facile morire, te la tolgono con certezza; qui c’è una condanna, e appunto nella certezza che non vi sfuggirai sta tutto l’orrore del tuo tormento, e al mondo non c’è tormento maggiore di questo. […] Chi ha detto che la natura umana è in grado di sopportare questo senza impazzire?90

Moro, pur non avendo ucciso nessuno, è stato condannato a morte91 nel “processo proletario” intentatogli dalle Brigate Rosse ed è sottoposto al tormento della privazione della speranza; eppure, secondo Sciascia ha «sopportato questo senza impazzire».92 ln questo egli riconosce la sua grandezza, nell’essere stato lucido fino all’ultimo, nell’aver cercato – come prima del sequestro – fino all’ultimo la mediazione, la trattativa. Questa lucidità è testimoniata dalle sue lettere che lo vedono «vivo, combattivo e acuto»:93 È questo per me il nodo del dramma: il misconoscimento di quest’uomo, l’aver fatto di quest’uomo, che era lucido e continuava a pensare come sempre, un pazzo, un uomo impazzito di paura. Agli italiani è stata offerta questa terribile mistificazione.94

Di qui l’esigenza sciasciana di salvare la memoria di Moro attraverso le sue lettere. Sciascia nell’Affaire si occupa anche di decifrare i comportamenti e gli scritti dei brigatisti rossi. La sua condanna morale e politica dei terroristi è netta, ma cerca di andare oltre e di capire. Concede loro un’etica, quella carceraria. Al di là dei riferimenti di Moro stesso al suo trattamento – il leader democristiano in una lettera alla moglie afferma di essere «ben alimentato e assistito con premura»95 – Sciascia sottolinea che i brigatisti non hanno interesse a disintegrare la personalità e l’identità di Moro, poi88 Intervista rilasciata da Sciascia a «Repubblica», 23 marzo 1978, in V. Vecellio, Saremo perduti senza la verità, cit., pp. 179-80. 89 Sciascia trascrive alcuni passi de L’idiota, senza citare la fonte, anche ne L’Affaire Moro. 90 L. Sciascia, Nero su nero, cit., p. 70. 91 Sciascia tornerà sul tema della pena capitale nel 1987 con Porte aperte. 92 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 34. 93 Ibid., p. 76. 94 Intervista rilasciata da Sciascia al settimanale «L’Espresso», dicembre 1978, in V. Vecellio, Saremo perduti senza la verità, cit., p. 208. 95 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 21.

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ché il loro scopo è di «svelare e analizzare quella identità integralmente, non di disgregarla o sostituirla»,96 dunque «il loro sorvegliare non può e non deve riuscire ad effetti di alienazione e di annientamento […]».97 Di qui la sostanziale veridicità e autenticità delle lettere. Concede loro qualcosa in più quando osserva lo “zelo postale” da loro mostrato nel recapitare «non senza rischio, da cinquanta a sessanta lettere».98 Si riferisce in particolar modo a quelle lettere di carattere strettamente privato fatte recapitare ai suoi cari, dopo la condanna del prigioniero, come quando «un uomo delle Brigate Rosse ha corso un grande rischio soltanto per far giungere gli auguri pasquali di Moro alla sua famiglia».99 Sciascia inoltre intravede, attraverso la lettura “sinottica” delle lettere di Moro e dei comunicati delle BR, una “spaccatura” che si opera all’interno dell’organizzazione terroristica sulla decisione della condanna: [...] il governo potrebbe […] giuocare ad alimentare il dissenso che cova all’interno delle Brigate Rosse: tra coloro che hanno deciso che Moro deve morire e coloro che lo libererebbero contro un cedimento anche simbolico dello Stato italiano. Non c’è – ripeto- nessun segno certo di tale dissenso: eppure lo si intuisce, lo si sente, lo si intravede. Forse perché sto cercando di capire anche loro. […] Di capire quelli di loro che stanno a guardia di Moro e che lo processano; in quella difficile, terribile familiarità quotidiana che inevitabilmente si stabilisce. Nello scambiare parole colloquiali o di accuse e discolpe. Nel consumare insieme i cibi. Nel sonno del prigioniero e nella veglia del carceriere. Nell’occuparsi della salute di quell’uomo condannato a morte.100

Oggi sappiamo che questa spaccatura a livello di organizzazione non ci fu, ma alcuni singoli componenti – come Valerio Morucci e Adriana Faranda, i quali non erano nella “prigione” ma il cui ruolo operativo era quello di recapitare le lettere di Moro – cercarono di opporsi alla condanna tanto da uscire dall’organizzazione dopo la conclusione della vicenda. Lo stesso Mario Moretti, carceriere, inquisitore ed esecutore della “sentenza”, viene così descritto nei giorni precedenti l’esecuzione da Anna Laura Braghetti, la brigatista che fu costantemente nella prigione durante i cinquantacinque giorni del sequestro: Mario […] era molto angosciato. Militarmente, certo, ci eravamo dimostrati più forti […]. Sapeva però che sul piano strettamente politico non avevamo segnato nessun punto nella lotta contro lo Stato. E gli ripugnava uccidere un uomo con il quale aveva trascorso tanto tempo. Lo conosceva, sapeva quanto temesse di lasciare indifesa la famiglia. E lui gli chiese di rivolgersi per un estremo tentativo proprio alla sua famiglia […]. Così, quel giorno, Mario telefonò alla signora Moro da una cabina pubblica […].101

Che le BR non abbiano “segnato nessun punto nella lotta contro lo Stato” e che da Moro non hanno ottenuto nulla, per Sciascia si evince dalla lettura del post-scrip96

Ibid., p. 23. Ibid. 98 Ibid., p.19. 99 Ibid., p. 22. 100 Ibid., p. 98. 101 A.L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 178. 97

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tum del loro comunicato numero nove. Il fatto che i brigatisti, nonostante avessero anticipato in uno dei primi comunicati la pubblicazione dell’interrogatorio (“nulla deve essere nascosto al popolo”), ora decidano di non diffonderlo – se non attraverso canali clandestini – testimonia che Moro ha respinto il processo;102 non ha risposto, «per sé e per la Democrazia Cristiana – così come nel Parlamento della Repubblica l’aveva qualche mese prima respinto per l’onorevole Gui in quanto democristiano […]».103 Moro quindi, secondo Sciascia, rimane democristiano e fedele al suo partito fino all’ultimo, ma dal partito è abbandonato e dunque la tragedia non può che consumarsi. 2.3. La tragedia di Aldo Moro secondo Dario Fo Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro avvengono in un momento in cui Dario Fo sta lavorando su un canovaccio, poi abbandonato, sul terrorismo di sinistra e sulle Brigate Rosse.104 Il protagonista è un operaio che scopre la presenza di brigatisti tra i suoi compagni di lavoro e che, dopo aver cercato di convincerli a rinunciare alla lotta armata, finisce arrestato.105 Ma già qualche anno prima, nel 1975, Fo aveva affrontato quasi profeticamente l’argomento mettendo in scena un finto rapimento, quello di Amintore Fanfani. L’esponente democristiano veniva fatto rapire dal suo compagno di partito Andreotti per suscitare emozione nell’elettorato e far aumentare i voti alla DC, ma credendosi in mano dei brigatisti confessava loro le malefatte del suo governo. Dopo la sua morte, arrivava al cospetto di Dio, della Madonna e di Gesù ma veniva bandito dal Paradiso. Nel finale si scopriva che si trattava di un sogno, ma a quel punto la storia iniziava da capo, con Fanfani che veniva rapito di nuovo, questa volta nella realtà. Come afferma Fo, il «Fanfani rapito è una farsa vera, ideata sulla scia delle commedie di Aristofane. Vi appaiono scene e battute tipiche della commedia dell’arte, come per esempio la classica gag del nano. Anche la situazione è paradossale, grottesca, piena di colpi di scena, nel rispetto della tradizione comica».106 L’eccidio di via Fani e l’esecuzione di Moro portano Fo ad affrontare di nuovo l’argomento terrorismo ma con un approccio diametralmente opposto. Non più con 102 «È evidente che lui ha mantenuto di fronte alle BR la stessa posizione che aveva adottato nel discorso in difesa dell’onorevole Gui. Ha rifiutato il processo alla DC. Secondo me questi atti del processo a Moro, che le BR dicono di avere, non esistono. Moro avrà parlato loro in termini politici, mai in termini penali, da imputato. Avrà riconosciuto errori politici perché li conosceva già da prima, ma non ha avuto paura di loro». (Intervista rilasciata da Sciascia al settimanale «L’Espresso», dicembre 1978, in V. Vecellio, Saremo perduti senza la verità, cit., p. 208). 103 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 128. Sciascia si riferisce al discorso in parlamento di Moro del 9 marzo 1977, quando difese il compagno di partito Gui dalle accuse mossegli per lo scandalo Lockheed. Rispondendo all’intervento del parlamentare Mimmo Pinto che aveva preannunciato processi di piazza per la DC, Moro replicò che la Democrazia Cristiana e i suoi rappresentanti non si sarebbero fatti processare. 104 C. Valentini, Fo ne fa una tragedia, «Panorama», 5 giugno 1979. 105 È una storia che ricorda – e anticipa – quella dell’operaio genovese Guido Rossa, il quale non verrà arrestato ma ucciso dai terroristi. 106 A. Ciccarelli, Intervista a Dario Fo, cit., p. 560.

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gli strumenti della farsa ma con quelli della tragedia, a cominciare dalla denominazione dell’opera. La tragedia di Aldo Moro è infatti il titolo che Fo aveva assegnato a questo lavoro che però non verrà né concluso né rappresentato. Eppure il primo atto era stato anticipato quasi contemporaneamente su «Il quotidiano dei lavoratori» e su «Panorama» nei primi giorni del giugno 1979 e quasi tutta la stampa italiana ne discuteva, annunciandone l’imminente rappresentazione.107 La tesi di fondo contenuta nella tragedia è sovrapponibile a quella sostenuta da Sciascia ne l’Affaire Moro: il politico democristiano Moro è stato ucciso dalle Brigate Rosse, ma i suoi compagni di partito, il governo e i suoi alleati non lo hanno voluto ascoltare e salvare, sacrificandolo alla logica della “ragion di stato”. Fo aveva organizzato la scena secondo il modello della tragedia greca classica, con una cavea concentrica in legno sui cui gradoni si disponevano otto personaggi in nero, gli “amici” di partito di Moro. Il tutto veniva accompagnato dal frastuono di tamburi e flauti con la presenza di satiri e baccanti. Al centro del palcoscenico vi era Moro, che si difendeva, argomentava le sue posizioni e contrattaccava. Fo dice di aver usato «proprio la chiave del grande momento di teatro attico arcaico. Quello della proiezione dell’immagine del prigioniero davanti al consesso degli dei. Cioè, attraverso una specie di grande medium l’immagine di Moro come lo conosciamo è proiettata come era, tangibile quasi, nel contesto di una specie di grande tribunale. Il tribunale è quello del potere».108 Gli otto personaggi recitano con maschere di cartapesta indossate da manichini già disposti sulla scena prima del loro arrivo. Rivelano la loro identità solo quando sono direttamente interpellati da Moro. Vengono menzionati Piccoli, Andreotti, Taviani, Galloni e Zaccagnini. Come in Morte accidentale di un anarchico, Fo utilizza il metodo dell’inchiesta, rimandendo fedele ai fatti. Va alla ricerca dei documenti che in questo caso sono le lettere scritte da Moro durante la prigionia, le dichiarazioni dei politici, i comunicati dei partiti, del governo e gli articoli delle maggiori testate nazionali. Sono quindi reali le battute del Moro protagonista della tragedia, così come quelle pronunciate dagli altri personaggi. Il pubblico ascolta molte delle parole che i vari protagonisti avevano pronunciato durante i giorni intercorsi tra il rapimento e l’omicidio. L’operazione principale che Fo realizza è quella di creare un dialogo – che si trasforma in uno scontro – ravvicinato a più voci: Le risposte sui giornali, i comunicati eccetera di Zaccagnini, di Andreotti, di Piccoli eccetera, vengono messi a confronto con le lettere: in modo che non sono più lettere ma è uno scontro dialettico duro se non tragico […]. Io ho preso il dialogo epistolare e l’ho tradotto in uno scontro continuo. Fatti che staccati, fra loro nel tempo, messi vicini diventano di una violenza… osceni in certi momenti.109

Si ha dunque una sorta di processo il quale vede opposti Aldo Moro e i suoi com107 Il primo atto della tragedia verrà pubblicato in volume solo nel 1992 all’interno del volume Fabulazzo. 108 R. Sciubba, Come una tragedia greca, intervista a Dario Fo, «Avanti», 9 maggio 1979. 109 Ibid.

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pagni di partito, con l’arrivo finale in scena del Papa; un processo nel quale ci sono accuse, controaccuse e dove i toni si fanno progressivamente più concitati, fino ad arrivare alla questione cruciale della scelta tra la possibile trattativa con i rapitori e la “linea della fermezza” nei loro confronti. Fo pone l’accento sin dall’inizio dell’opera sull’importanza della drammatizzazione e della traduzione in termini “acustici” delle parole di Moro al fine di coglierne tutta la sua tragicità: […] Moro parlerà finalmente con la sua voce… e dirà parola per parola quello che ha scritto… V’accorgerete che ben diversa dimensione acquista il dialogo a botta e risposta coi compari d’un tempo… davvero tragico… quasi osceno. Osceno per il potere.110

La parola scritta quindi deve diventare “voce”. Solo dando concretezza fonica agli scritti di Moro, solo portandoli sulla scena, si può riuscire a capire la drammaticità della sua vicenda. La parola detta ha più forza di quella scritta. Ma perché Fo sceglie di ricorrere alla forma tragica? La scelta del genere avviene sulla base delle analogie che Fo ravvisa tra alcune tragedie classiche greche e la vicenda del politico democristiano. I fatti, i conflitti e le contraddizioni dell’affare Moro hanno molti punti in comune con quelli messi in scena da Sofocle, Eschilo e Euripide.111 Fo vede Moro come vittima sacrificale, come capro espiatorio. Nella tragedia classica, secondo Fo, uno degli elementi che ricorre con regolarità è la necessità del potere costituito di accomodare i conflitti all’interno del potere scegliendo un capro espiatorio, il quale, per essere tale «deve fare parte della struttura di potere, essere un “uomo degno”, rappresentativo del suo gruppo».112 La ragione di stato che detta la linea della fermezza è il corrispettivo moderno della legge degli dei che ha come base il sacrificio della vittima nella tragedia greca. Sono soprattutto due le tragedie con le quali Fo stabilisce il parallelo: l’Ifigenia in Aulide e il Filottete di Euripide: Ci sono due tragedie-chiave rispetto a questo: il Filottete e l’Ifigenia. Si ricorderà innanzitutto lo scontro terribile al momento in cui bisogna sacrificare Ifigenia alla possibilità che gli Achei, gli Attici e gli Illiri possano trovare un’unità, un’unità di azione che rassomiglia moltissimo alla situazione della coalizione tra il PCI e la DC. E alla fine tutta la falsità, la follia, l’ipocrisia di questo gruppo di uomini di potere per convincere che questo sacrificio deve essere posto in atto. Ugualmente il Filottete: Filottete è ferito. Potrebbe essere salvato ma si dice che ormai la cancrena è inguaribile.113

La tragedia inizia con il prologo recitato da un buffone sghignazzante, il quale entra dopo l’uscita dei satiri e delle baccanti che a gran voce hanno chiesto il sacrificio del capro espiatorio. Gli otto personaggi hanno già preso posto sui gradoni della 110

D. Fo, Fabulazzo, Milano, Kaos, 1992, p. 174. Cfr. Quei cinquanta giorni: una tragedia greca, intervista a Dario Fo, «Repubblica», 27 maggio 1979. 112 Fo di scena a Grugliasco pensando al dramma su Moro, intervista a Dario Fo, «Stampa sera», 23 giugno 1979. 113 R. Sciubba, op. cit. 111

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cavea. La prima parte del prologo stabilisce il parallelo tra Moro e Filottete: Che misera fantasia ha il potere/osservate come da mille e mille anni, fin dalle tragedie dei greci/egli ripete con ossessiva monotonia/ sempre le stesse storie di truffa/volete un esempio? Che cosa raccontava Euripide nel Filottete/se non di uno smaccato tradimento mascherato da sublime sacrificio?/In quella tragedia si mette in scena la storia di un capo illustre degli Achei/Filottete appunto, un tempo stimato e ascoltato eroe/colpito dalla sventura: una serpe velenosa l’ha morsicato a una coscia./ Tutta la gamba gli va in cancrena, manda un gran tanfo, urla come un ossesso/ i suoi compari lo potrebbero curare e salvare/ma preferiscono invece buttarlo a mare: come vittima è un migliore affare!/ Viaggiando verso Troia, quei figli di una medesima lo scaricano/sopra un’isola deserta a crepare da solo buttato al cesso/ma poi il potere costituito, cioè i vari Ulisse, Agamennone e Menelao/li potete chiamare anche Zaccagnini, Andreotti e Piccoli che fa lo stesso/si ricordano che Filottete s’è tenuto a tracolla il suo arco prodigioso senza il quale è difficile vincere i barbari troiani/è un simbolo, quell’arco, una bandiera per trascinare in battaglia/tutta la gente a farsi accoppare…/E allora lo vanno a trovare nell’isola dov’è prigioniero/chiedono perdono, piangono, si strappano i peli dal petto e le trecce/gli fanno sacre promesse, lo fottono e gli fregano l’arco e le frecce/così quest’ultima storia che andiamo a raccontare:/La tragedia di Moro può sembrare nuova a ogni sprovveduto/ma a saperla guardare per un minuto con attenzione è ancora e sempre la stessa canzone…/la solita fottuta tragedia classica antica.114

Il prologo continua con la presentazione degli otto personaggi sui gradoni e qui il linguaggio del buffone si abbassa nel dileggio fino ad arrivare al turpiloquio: A vederli così addobbati e compunti sembrano uomini eccelsi… superiori. Ma niente hanno di superiore! Basta che una folata di vento arrivi di botto a sollevar loro i panneggi e vedrete di sotto apparire chiappe flaccide come le loro facce… e i testicoli spenti come i loro occhi… e se li insultate allora pisciano e scorreggiano parole più triviali dei loro inferiori!115

La terza parte del prologo invece anticipa l’entrata in scena di Aldo Moro. Qui viene utilizzato un linguaggio alto, modellato sul Prometeo di Eschilo,116 aggiungendo così un nuovo parallelo tragico ai due precedenti: Altissimo sulla roccia inaccessibile agli uomini/fu appeso Prometeo incatenato, prigioniero immolato/alla logica del sacro Stato/ egli era figlio del potere, potere egli stesso ornato d’alloro/adesso sull’ultima cuspide di roccia del Caucaso/cattedrale di pietra sta abbandonato, come l’ultimo servo l’addome squarciato, da lentissima morte crudele assediato/all’irragionevole ragione di Stato immolato […].117

I tre brani citati mostrano come si sia in presenza di una tragedia non convenzionale, in cui prevale la mescolanza degli stili e un’estrema varietà di linguaggio.

114

D. Fo, Fabulazzo, op. cit., p. 174. Ibid. 116 Cfr. B. Alfonzetti, Gli anni di piombo e la scena. Satira e tragedia in Dario Fo, cit., p. 145. 117 Ibid., p. 175. 115

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Pur in presenza di una riproposizione di modelli tragici, Fo non vuole rinunciare all’inserimento di elementi comico-grotteschi né a livello di struttura118 né a livello di linguaggio. È con questa mescolanza che Fo vuole raggiungere un effetto di «ironia tragica».119 Le parole con le quali Moro si presenta sulla scena mettono bene in evidenza il metodo di lavoro di Fo sulle lettere del leader democristiano e su altri documenti che vengono utilizzati per la stesura della tragedia: Non mi è certo facile parlare…. Come potete immaginare mi trovo sotto un dominio pressante e incontrollato. Ma quello che vi dirò lo dirò con la mia voce, che è quella che è… e le mie parole di sempre.120

In questo breve intervento, Fo giustappone e rielabora due stralci di lettere differenti e anche abbastanza lontane tra loro, quella del 29 marzo e quella del 29 aprile. Nella prima, indirizzata a Cossiga, Moro tra le altre cose dice: […] io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato sottoposto a un processo popolare che può essere opportunamente graduato […].121

Nella seconda lettera, il politico reagisce al misconoscimento delle sue lettere con queste parole: […] non ho subito alcuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia.122

Fo si serve dello stesso metodo della “giustapposizione” quando cita interviste e documenti provenienti dal mondo politico o i comunicati delle Brigate Rosse. Il confronto ha dunque inizio, ma sin da subito si capisce che si tratta di un non dialogo, poiché gli amici di Moro lo lasciano parlare per negare, fingendo talvolta di assecondarle, le sue affermazioni. Quando Moro afferma che anche gli “amici” si devono assumere le responsabilità che vengono addebitate a lui in quanto prigioniero, uno di loro, l’“anziano”, risponde: Stai tranquillo, Aldo, nessuno di noi ha intenzione di ignorarle quelle responsabilità, quelle colpe… ammesso che ce ne siano.123

118 Vi sono vari inserimenti comico-grotteschi tipici delle farse di Fo. Uno di questi inserimenti si ha ad esempio quando durante il confronto tra Moro e gli otto si inserisce improvvisamente una voce fuori scena che grida in maniera forsennata: «A morte… a morte e fermezza!» Uno degli otto, l’ “anziano”, replica spazientito: «Per favore, dite a Trombadori di smetterla». Antonello Trombadori, partigiano, critico d’arte e politico comunista fu uno dei più convinti assertori della “linea della fermezza” durante il sequestro Moro. 119 N. Bruzzone, Passione e morte di Moro secondo Fo, «Il lavoro», 1° giugno 1979. 120 Ibid. 121 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 41. 122 Ibid., p. 108. 123 D. Fo, Fabulazzo, cit., p. 175.

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La negazione delle responsabilità e il rifiuto della chiamata di correo vanno avanti fino a quando gli amici vengono allo scoperto negando a Moro la paternità delle sue affermazioni: Anziano: No, no, amici miei, stiamo sbagliando tutto. Ce la prendiamo con lui come se fossero sue parole quelle che va dicendo. Ma stiamo davvero dimenticando che è prigioniero… e che, anche se non li vediamo, i suoi carcerieri sono lì intorno a lui, che lo controllano e che gli impongono i discorsi provocatori che va facendo. Uno degli otto: Certo, certo è una provocazione, e noi ingenui come tanti allocchi ci stavamo cascando. Noi credevamo di dialogare con lui, con il nostro caro Aldo… giacché ne riconosciamo la voce, non certo lo stile… Infatti per la prima volta riusciamo a capire quello che dice. Un altro: Ma riusciamo a capirlo, proprio perché non è lui che parla, ma, per lui, le Brigate rosse. Come dice giustamente Scalfari: ci troviamo davanti al fantoccio… manovrato da altri.124

A questo punto Moro, esasperato, cambia linguaggio e inveisce contro i suoi amici, ma il buffone gli consiglia di non reagire alle loro provocazioni e di supplicarli, se vuole avere ancora un’esile speranza di essere salvato. Così riprende il confronto sulle ragioni della fermezza e della trattativa che però si dimostra ancora più sterile, fino a quando il buffone, strappatosi parrucca e naso finti, espone il suo pensiero con un lungo monologo, cercando di trovare una soluzione al problema. Il buffone accusa gli uomini di potere e i brigatisti di aver costruito un proprio “labirinto macabro”, «innalzando muri di regole assolute, pareti di intransigenza»:125 […] ambedue le costruzioni, per chi le ha messe in piedi, sono templi sacri. Infatti tanto gli uomini che rappresentano lo Stato che i sovversivi che dicono di rappresentare il popolo, pensano e agiscono convinti di essere sacerdoti infallibili di due opposte religioni!126

La soluzione del buffone è quella di «smetterla col mito dello Stato… e ricordarsi che cristiani o no, l’unica cosa che davvero vale su ogni altra è la vita degli uomini […]».127 Le parole del buffone non scalfiscono le posizioni degli otto, e a questo punto solo un miracolo può evitare il consumarsi della tragedia. Tale miracolo sembra poter avvenire quando appare sulla scena il Papa: Arrivano i nostri! I nostri arrivano sempre! E questa volta il Nostro che arriva è addirittura il Santo Padre! Sì, il Papa nostro… Tutti in ginocchio: lui, lui il messaggero di Dio in terra, farà il miracolo!128

Il papa arriva e ripete sulla scena il famoso appello alle Br di Paolo VI, in cui dice di inginocchiarsi di fronte a loro e di amarli come fratelli. Poi arriva l’esortazione alla

124

Ibid., pp. 177-178. Ibid., p. 183 126 Ibid. 127 Ibid., p. 184. 128 Ibid., p. 187. 125

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liberazione, aggiungendo quel “senza condizioni” che Moro interpreta come una sentenza di morte: Come, senza condizioni? Santo padre… ma allora… […] non è a loro, alle Br, che dovete portare la vostra affettuosa intercessione… ma verso loro… Questi altri… li vedete? Questi che stanno seduti sui gradini. Inginocchiatevi davanti a loro. Pregateli. Sono questi che hanno le chiavi della mia prigione.129

Ma anche il Papa si mostra più attento alle ragioni del suo essere capo di stato che a quelle dell’uomo Aldo Moro e afferma: Non posso… non posso, caro Moro, sapeste quanto sono addolorato… ma non posso… è una questione di competenze… voglio dire…non posso interferire in questioni che comporterebbero ingerenze inaccettabili in uno Stato… che non è il mio Stato… Capite? Cercate di capire!130

Siamo dunque in presenza di una tragedia «dove neanche il deus ex machina, incarnato dal Papa, riuscirà a compiere il miracolo».131 Il primo atto dell’opera – l’unico scritto e pubblicato da Fo – si conclude dunque con Moro consapevole della propria condanna a morte e con l’anatema (“il mio sangue ricadrà su di voi”) scagliato sui suoi amici di partito. L’opera incompiuta di Fo presenta evidenti punti di somiglianza con L’Affaire Moro di Leonardo Sciascia. Questi non riguardano solo la di tesi di fondo, ma anche luoghi specifici dei due lavori. Non sorprende constatare una perfetta consonanza di vedute tra lo scrittore siciliano e Dario Fo, date le loro posizioni “trattativiste” durante i 55 giorni del sequestro Moro, ma forse non sarebbe totalmente illogico ipotizzare un’ influenza diretta del pamphlet di Sciascia sulla stesura della tragedia.132 Fo vede lo scontro tra Stato e Brigate Rosse come uno scontro tra due assolutismi, tra due “stalinismi”. Il personaggio Moro, nel confronto con gli otto “amici” di partito, ad un certo punto afferma: […] È terribilmente grottesco come io mi trovi schiacciato fra due ideologie della medesima matrice: stalinisti quelli che mi hanno rapito, stalinisti quelli che mi vogliono olocausto. Che grande beffa! […].133

Sciascia si esprime quasi negli stessi termini ne L’Affaire: Sono di fronte due stalinismi […]; e lentamente e inesorabilmente si avvicinano a schiacciare l’uomo che ci sta in mezzo. Lo stalinismo consapevole, apertamente violento e spie129

Ibid., pp. 187-188. Ibid., p. 188. 131 F. Tummillo, “Il Buffone incatenato. La tragedia di Aldo Moro di Dario Fo”, colloque Littérature et “temps des révoltes” (Italie, 1967-1980), 27, 28 et 29 novembre 2009, Lyon, ENS LSH, 2009, http://colloque-temps-revoltes.ens-lsh.fr/spip.php?article146, p. 5. 132 La pubblicazione dell’Affaire Moro precede di alcuni mesi quella del primo atto della tragedia di Fo. 133 D. Fo, Fabulazzo, cit., p. 176. 130

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tato delle Brigate rosse […] e lo stalinismo subdolo e sottile che sulle persone e sui fatti opera come sui palinsesti: raschiando quel che prima vi si leggeva e riscrivendolo per come al momento serve.134

Il punto di vista dei due autori coincide anche per ciò che riguarda la critica alla “difesa dello stato” da parte della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista. L’accusa del buffone di Fo ai creatori del «mito dello Stato»135 non può non ricordare l’identica posizione di Sciascia, là dove nell’Affaire Moro lo scrittore siciliano ricorre al termine “statolatria”, per descrivere la posizione di intransigenza assunta dalle forze di governo durante il sequestro Moro.136 Per mettere in evidenza le contraddizioni insite in questa posizione, Fo, con le parole del buffone, ricorre all’invettiva e al sarcasmo: E lo Stato…. Il nostro Stato che non permette né flessioni né debolezze non l’avete innalzato forse a dimensione addirittura mitologica? […] Eppure questo è lo stesso sacro labirinto che fino a qualche anno fa tutta l’opposizione denunciava come una specie di baraccone degli orrori, una macchina infame […], che proteggeva gli evasori fiscali, che la faceva da leone nel gioco delle tangenti, e si faceva corrompere dai petrolieri, dagli armatori, dai mercanti d’armi, uno Stato che teneva il sacco agli avventurieri e ai mafiosi di tutte le risme […]. Bene, questa immonda prostituta […] eccola all’istante rigenerata, miracolo!137

Anche Sciascia si stupisce di fronte a questa improvvisa “rigenerazione” ed ironizza sullo Stato italiano miracolosamente guarito da tutti i suoi mali: È come se un moribondo si alzasse dal letto, balzasse ad attaccarsi al lampadario come Tarzan alle liane, si lanciasse alla finestra saltando, sano e guizzante, sulla strada. Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato italiano è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico […]. Ma ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate rosse, lo Stato italiano si leva forte e solenne.138

Sciascia e Fo condividono inoltre l’esigenza di far prevalere le ragioni della vita, della salvaguardia e della dignità del singolo uomo sulla ragion di stato. Nel far questo entrambi, da posizioni laiche, ricorrono al linguaggio evangelico della tradizione della pietà, della carità e della fratellanza. Entrambi avevano per molti anni avversato politicamente la Democrazia Cristiana, la sua politica, i suoi uomini e dunque – sebbene lo considerassero verosimilmente, come Pasolini, “il meno implicato di tutti” – anche Moro. Ma di fronte all’uomo prigioniero delle Brigate Rosse, ormai condannato a morte, entrambi si pongono in un un atteggiamento di compassione e

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L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit. p. 66-67. D. Fo, Fabulazzo, cit., p. 184. Ne L’Affaire Moro, Sciascia parla di “fiamma statolatrica”, di “ardore statolatrico” (p. 63). 137 D. Fo, Fabulazzo, cit., p. 184. 138 L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 65. 135 136

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di immedesimazione. Entrambi vedono quest’uomo spogliarsi tragicamente delle vesti dell’uomo di potere per ritrovarsi nelle condizioni di uomo comune. Da questa condizione Moro può vedere la vera dimensione del potere e scoprire la vera condizione dell’uomo. Fo ritrova in questa spoliazione non un uomo “ridotto”, ma un uomo “sollevato”e dunque proteso verso una possibile salvezza: Oggi nella mia disgrazia ho la fortuna di trovarmi spogliato di ogni potere… mi accorgo che ho dovuto cambiare giorno per giorno anche la mia voce oltre che le mie parole… sono ridotto a uomo comune. Dico ridotto, ma forse dovrei dire sollevato […].139

A ben vedere, si tratta della stessa possibilità di salvezza espressa in termini pirandelliani nell’Affaire Moro da Sciascia: Moro comincia, pirandellianamente, a sciogliersi dalla forma, poiché tragicamente è entrato nella vita. Da personaggio ad «uomo solo», da «uomo solo» a creatura: i passaggi che Pirandello assegna all’unica possibile salvezza.140

Se il primo atto della tragedia si concentra su Aldo Moro e i suoi colleghi di partito, il secondo ed ultimo atto avrebbe dovuto avere come protagonisti i brigatisti rossi. In particolare Fo avrebbe voluto condurre una analisi sulla loro natura e cercare di capire «come si sviluppa nel Potere il terrorismo e come questo si muove fuori dal Potere».141 In realtà, già nel primo atto Fo aveva espresso la sua opinione sui terroristi di sinistra, attraverso le parole del buffone: Non è forse vero che le BR si muovono e parlano come se qualcuno, non si sa chi… certo un essere divino, li avesse eletti a infallibili e implacabili angeli vendicatori, sacri giustizieri dell’apocalisse? Sparano, ammazzano, rapiscono, bruciano, conducono processi, e tutto in nome del popolo, ecco l’entità divina, un popolo che sgomento li vede transitare sulle loro teste… Il popolo non li segue, non li capisce… in compenso, spesso ne viene travolto.142

Il “rivoluzionario” Fo non crede dunque nella possibilità di un cambiamento dell’ordine sociale e politico che si possa compiere attraverso un’avanguardia armata, la quale, a causa del proprio distacco da chi vorrebbe rappresentare, finisce inevitabilemente – anche in virtù dei suoi metodi terroristici – per non essere compresa.143 Nel corso degli anni Fo ha dato in più circostanze spiegazioni sul perché non ha portato a termine l’opera e sul perché non l’ha mai portata sul palcoscenico. La ragione principale è di ordine artistico. Il teatro di Fo è un teatro che non esiste se non

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D. Fo, Fabulazzo, cit., pp. 188-189. L. Sciascia, L’Affaire Moro, cit., p. 76. P. Carizzoni, A. Zeni, Il potere ha ucciso Aldo Moro, intervista a Dario Fo, «Contro», 1979, p. 63. 142 D. Fo, Fabulazzo, cit., p. 184. 143 A proposito dei brigatisti, Fo afferma in un’intervista: «Agiscono secondo una logica che non riuscirò mai a capire. Il Potere si serve del terrorismo per abituare il Paese alla regola del peggio, tentando di convincere tutti che in fondo è possibile rinunciare alle leggi democratiche». In N. Bruzzone, Passione e morte di Moro secondo Fo, cit. 140 141

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sul palcoscenico e dunque è il pubblico che con le sue reazioni decreta se un’opera può andare o no in scena e che ne suggerisce variazioni e trasformazioni. Fo riferisce di un paio di letture pubbliche del primo atto in cui gli spettatori sostanzialmente si annoiavano e non riuscivano a partecipare. Di qui la convinzione che La tragedia di Aldo Moro non fosse teatro, ma solo «un’operazione culturale».144 Dunque Fo, per sua stessa ammissione, non riesce a superare due ordini di difficoltà: da un lato «l’allontanamento dal registro grottesco, che egli aveva sempre privilegiato; dall’altro, la trasposizione in forma dialogica di un materiale originariamente destinato alla lettura».145 Fo comunque non si dà per vinto e tenta ancora di parlare di terrorismo attraverso il teatro: Allora avevo riprovato a raccontare la storia con il mio stile, con il tormentone della polizia che sapeva benissimo dov’era Moro e che in realtà dirigeva il sequestro. Ma anche quella volta non ero riuscito a metterlo in scena perché gli avvenimenti precipitavano, ogni giorno saltava fuori qualcosa di nuovo, gli infiltrati, il covo di via Gradoli, il memoriale. Quel che avevo inventato veniva superato continuamente dalla realtà. E intanto i terroristi continuavano a sparare, ad ammazzare gente.146

Il tentativo avrà successo nel 1981, quando Fo scriverà e porterà in scena Clackson, trombette e pernacchi, nel quale finalmente riuscirà «a parlare di terrorismo, di sequestri di persona, ma all’interno di un teatro di situazione. Il protagonista non era più Moro, ma Gianni Agnelli, che mentre stava per essere rapito da un commando, veniva salvato da un operaio della Fiat».147 2.4. “In questo Stato”. L’ironia di Arbasino Italo Calvino, recensendo L’Affaire Moro di Sciascia, afferma che il valore della riflessione dello scrittore siciliano sta «nell’aver visto il rapimento di Moro come la tragedia di un uomo, ed un uomo rappresentativo di una storia e di un costume»,148 ma in questo Calvino individua anche il suo punto debole, «perché in nessun momento questo dramma può essere considerato come un fatto isolato, senza un prima ed un poi».149 Si potrebbe aggiungere che nell’opera di Sciascia (ma anche in quella di Fo) si sente non solo la mancanza di un prima e di un poi, ma anche l’assenza della società, dell’apertura verso l’opinione pubblica e il Paese in generale. Il contributo offerto da Alberto Arbasino alla produzione letteraria sul caso Moro consiste proprio in questa apertura verso l’esterno, verso le reazioni e gli atteggiamenti della società italiana nei confronti della vicenda del politico democristiano.

144

Cfr. C. Valentini, La beffa più grande, «L’Espresso», 23 ottobre 1979. F. Tummillo, op. cit., p. 3. C. Valentini, La beffa più grande, cit. 147 Fo: un dramma su Moro, intervista a Dario Fo, «Il giornale di Brescia», 30 novembre 1997. 148 I. Calvino, Moro ovvero una tragedia del potere, «L’Ora», 4 novembre 1978. 149 Ibid. 145 146

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Capitolo secondo

Arbasino si afferma come scrittore civile con Fantasmi italiani (1977). Sul finire degli anni Settanta, sente l’esigenza di rivolgere la sua attenzione alla situazione politico-culturale contemporanea per capire le ragioni della profonda crisi e per cercare di offrire delle possibili risposte. Nelle pagine iniziali dichiara i contenuti di questa nuova poetica e ne esplicita le forme: Questo libro si fonda su una decisione: seguire oggi non qualche simpatico o suggestivo Altrove ma l’attualità politica e culturale italiana giorno per giorno, con tutti i rischi della immediatezza troppo “a caldo”; e per tener dietro a una realtà molto in movimento tentare una scrittura/struttura niente affatto seriosa o solenne o “sistematica”, ma piuttosto frammentaria, rapsodica, aforistica, molto corporea, molto parlata, molto vocale, e persino trasversale.150

Parla di Fantasmi italiani, ma potrebbe benissimo riferirsi ai suoi due lavori successivi: In questo Stato (1978) e Un paese senza (1980), che scritti quasi di seguito, vanno a formare – assieme al lavoro del ’77 – una organica trilogia sulla “malattia”italiana. I fantasmi di cui parla nel titolo del libro corrispondono alle eterne contraddizioni e ai difetti degli italiani, la causa dei quali è rintracciata non tanto nelle vicende storiche attraversate dal paese quanto nella «mescolanza di costanti antropologiche negative, quali la faciloneria, il menefreghismo, il dolce far niente e via dicendo».151 Oltre ai difetti di sempre, Arbasino vede nuovi fantasmi all’orizzonte: l’alienazione del linguaggio, soprattutto di quello giornalistico e televisivo; la tendenza alla fuga della realtà del mondo letterario italiano, del quale contesta il suo rivolgersi a una ristretta cerchia di “adepti”; la sovrappolazione selvaggia e, infine, la situazione dei giovani italiani, ovvero di quella generazione che per prima ha sperimentato il benessere figlio del boom economico degli anni ’50 e ’60 ma che ora si trova alle prese con la disoccupazione di massa, tentata dal ricorso alla lotta armata o alla droga. Questi temi si ripropongono e trovano una ulteriore elaborazione in In questo Stato, che è una sorta di diario, una testimonianza “a caldo” e “a nudo” i cui due estremi temporali si collocano tra il rapimento di Aldo Moro e il ritrovamento del suo cadavere in via Caetani. Lo si può dunque definire un “istant book”, un libro che vuole intervenire sull’attualità senza prendere però una posizione pro o contro qualcosa, come nei lavori di Sciascia e di Fo. In realtà non si tratta di un libro sul caso Moro, ma un libro nel quale il caso Moro si propone come pretesto per poter proseguire l’analisi dei vizi, delle contraddizioni e dei difetti degli italiani, nella convinzione che «durante i grandi spasimi come questi l'Italia smaschera più sfrenatamente i propri caratteri e connotati più autentici, e i più profondi fantasmi».152 A differenza di Sciascia e Fo, Arbasino si interessa solo marginalmente alle vicende del sequestro e pone la sua attenzione alla reazione della società italiana, a ciò che dice, a ciò che scrive e che fa durante i due mesi del rapimento, non salvando

150 A. Arbasino,

Fantasmi italiani, Roma, Cooperativa scrittori, 1977, p. 8. E. Bolla, Invito alla lettura di Alberto Arbasino, Milano, Mursia, 1979, p. 135. 152 A. Arbasino, In questo Stato, Milano, Garzanti, 1978, p. 6. 151

Il caso Moro tra tragedia e ironia: Sciascia, Fo e Arbasino

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niente e nessuno dai suoi sarcasmi e dalle sue ironie, dispiegati nella sua tipica prosa esuberante, complessa, intrisa di elenchi, aforismi e citazioni. Ne risulta una «performance del tutto corale, aperta, spalancata, registrazione e rappresentazione “personale” e “politica” rimescolata con gli infiniti paragoni e rinvii che emergono spontanei o coatti dalla cultura, dalla letteratura, dai precedenti storici, dalle analogie inevitabili, dalle conversazioni continue fra la gente per questi interi due mesi».153 Quando apprende la notizia del sequestro di Moro, Arbasino si trova a Londra. Da lì, ha l’impressione che l’evento abbia portato un improvviso sconvoglimento e si aspetta quindi di trovare un paese in trincea, ma al suo ritorno a Roma, già all’aeroporto di Fiumicino, si rende conto che tutto prosegue come prima e che anche il rapimento di Moro non scalfisce minimamente le ataviche abitudini dei suoi connazionali: […] rientrando a Roma pochi giorni dopo, già all'aeroporto le guardie stavano facendo le loro lunghe telefonate familiari e assorte, come al solito, o si dondolavano sognanti abbracciate alle loro mitragliette, benché passassero avanti e indietro ceffi preoccupanti e anche custodie musicali e sportive capaci di contenere un bazooka. Il traffico, il passeggio, gli intasi, i negozi, le immondizie, i golfini, e le chiacchiere, erano assolutamente i medesimi, per le strade.154

I giornali e le televisioni, invece di restituire la complessità di una vicenda tragica trasformano il caso in uno sceneggiato, in un feuilleton che si arricchisce di giorno in giorno di nuove puntate. Come l’Affaire di Sciascia, anche In questo Stato ha un intento “filologico”. Arbasino è «soprattutto un analista del linguaggio, un trascrittore disincantato dei modi di dire, delle espressioni gergali»155 ed è nei tic linguistici, nell’uso aberrante della lingua che egli vede la manifestazione più evidente delle contraddizioni del presente. Già in Fantasmi italiani aveva identificato il linguaggio alienato come uno dei principali problemi della società italiana. Uno dei modi in cui si evidenzia questa alienazione è il “bla bla” e il “birignao” dei giornali, o meglio, il “giornalese”, che trasforma un avvenimento reale come il rapimento di Moro in un continuo luogo comune: Fra i diversi e continui “tradimenti Gutenberg” (come il trasformare un evento effettivamente accaduto in un luogo comune milleusi quale “il bubbone è scoppiato”), denunciare criticamente questa guittaggine del birignao politico-giornalese – lezioso e pretenzioso come il deus ex machina e il lupus in fabula, la camicia di Nesso e il letto di Procuste, il naso di Cleopatra e il vaso di Pandora, lo scheletro nell'armadio e il castello di accuse, il motu proprio e il more uxorio e il modus in rebus, il fiume d'inchiostro e gli addetti ai lavori, lo sparare a zero e il mettere alla frusta e il cavalcare la tigre, il salto di qualità e quello nel buio, la presa di distanza e quella di coscienza, nonché l'anticamera del cervello e la più pallida idea... – non sarà più davvero una battaglia donchisciottesca da Bouvard e Pécuchet stilcritici, o da Karl Kraus apocalittici, bensì (a costo che rischi di apparire quale un'ossessione “celibe”) addirittura un dovere civico: lo smascheramento 153

Ibid., p. 7. Ibid., p. 5. 155 M. Belpoliti, Settanta, Torino, Einaudi, 2001, p. 29. 154

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di un manierismo mistificatorio e regressivo che per pigrizia o complicità o cinismo di bidelli e di uscieri occulta o ricopre sotto un patchwork di “darsi carico” e “fare chiarezza” giornalese qualunque dato e fatto politico e reale, mistificandolo e rendendolo indecifrabile né più né meno come quei certi responsi “sibillini” del Potere.156

Il problema del linguaggio non riguarda solo i luoghi comuni e i mezzi di comunicazione di massa. Arbasino coglie un’altra caratteristica tutta italiana, ovvero l’incapacità di intendere il reale, di parlare in modo concreto di cose concrete, incapacità che conseguentemente impedisce la formulazione e l’attuazione di programmi reali. L’«afasia sul pratico», il «silenzio sul concreto», il «rigetto (cattolicissimo) della Realtà»157 riguardano anche i protagonisti della drammatica vicenda del politico democristiano. Moro e le Brigate Rosse, rispettivamente nelle lettere e nei proclami rivoluzionari parlano secondo Arbasino una lingua simile poiché «possono riconoscersi appartenenti a una stessa tradizione italiana di fraseggio astratto e mai realistico, e dunque trovare soprattutto le affinità nella tortuosità teoretica, giacché la differenza e l'opposizione vera sono con un “discorso” illuministico, pratico, laico […]».158 La distanza dalla realtà riguarda anche e soprattutto gli scrittori e gli intellettuali in generale. Arbasino attacca la narrativa italiana che secondo lui continua a «svolgersi in appartamenti insignificanti» ed è intenta a «descrivere stanze generiche dove si aggirano molti parenti e congiunti con i loro problemi personali», rifiutandosi di guardare ai fatti che accadono «fuori»: Però noi siamo artisti, e non già reporters, ribattono alcuni autori. Siamo sicuri? Allora: i fatti mentre accadono sono soltanto cronaca, loro dicono, e bisogna lasciarseli alle spalle, in prospettiva, perché diventino storia e anche letteratura. Va bene, Guerra e pace. Però anche Balzac non aspettava troppo a lungo per riversare nei suoi romanzi i rapimenti e gli spari e gli affari politici-finanziari-penali del suo tempo, tutto sommato (la differenza coi film e romanzi del nostro tempo che battono l'attualità e rimescolano denunce e messaggi sta nella diversa efficacia della rappresentazione, soprattutto lì). E parecchi fra i romanzi più notevoli del nostro secolo, malgrado la poca simpatia per le smanie presenzialistiche dei loro autori, sono proprio dovuti a reporters “a caldo” come Hemingway in Spagna e Malraux in Cina; e risultano più importanti e più interessanti delle opere di artisti che hanno parlato dei loro parenti e dei loro appartamenti […].159

Fantasmi italiani si concludeva con un angoscioso interrogativo sul futuro delle nuove generazioni. A distanza di un anno Arbasino continua la sua osservazione del mondo giovanile e lo fa analizzando le lettere inviate al quotidiano «Lotta Continua». Ciò che emerge da questa lettura è un impietoso ritratto di individui disperati, preoccupati esclusivamente della propria angoscia esistenziale, che manifestano un netto rifiuto della realtà. Lo scrittore vede in questo la conferma di difetti antichi, come il “piangersi addosso”, il sentimentalismo e l’emotività tipicamente mediterranei. Sono

156 A. Arbasino,

In questo Stato, cit., p. 28. Ibid., p. 52. 158 Ibid., p. 106. 159 Ibid., pp. 125-126. 157

Il caso Moro tra tragedia e ironia: Sciascia, Fo e Arbasino

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totalmente assenti idee o proposte e nei confronti del “sistema” e si delineano due atteggiamenti: O l’ostilità armata definitiva, per colpirlo e distruggerlo (Polifemo, Fafner), massacrandone in mancanza del “cuore” anche gli elementi più irrilevanti e periferici. Oppure la richiesta assistenziale di spazi, strutture, concessioni, agevolazioni, facilitazioni, sconti: a costo di approfittare parassitariamente delle istituzioni contestate e delle loro strutture più deplorevoli. Per esempio, le garanzie avvocatesche “pacifiche” dello stato contro il quale si dichiara lo stato di guerra. Manca invece, nei due casi, e sempre secondo la tradizione italiana, tutto ciò che sa di piano concreto, progetto realistico, programma funzionale, “doit-yourself” civico davvero alternativo per darsi nuove strutture (dal momento che se non ti dai da fare tu stesso e non ti fai un culo così, nessuno ti ha mai dato né ti darà mai niente, se ci speri ti illudi giacché non hai ancora capito che lo Stato sei tu), e istituzioni diverse, lavori più umani […].160

Arbasino, nella sua esposizione, procede spesso per paradossi, mantenendo sempre un forte distacco (di qui l’ironia e il sarcasmo) rispetto alle questioni trattate e con il gusto del paradosso e dell’ironia si aggira attorno alla figura di Aldo Moro. Come Sciascia e Dario Fo, anche Arbasino si occupa delle lettere del presidente democristiano, ma lo scrittore lombardo arriva a conclusioni di segno opposto. Fo e Sciascia riconoscono la veridicità di quelle lettere e ne attribuiscono a Moro la paternità, vedendo in esse la testimonianza di un uomo – nei limiti delle circostanze – lucido, capace di autocontrollo e fedele a se stesso. Arbasino non dubita che siano state scritte in assenza di costrizione, ma trova assurda la loro mancanza di immediatezza, di disperazione, evidenziando gli aspetti di “piccineria” e di “ripicca” nell’ atteggiamento di Moro verso i suoi interlocutori: […] la più vistosa caratteristica di queste lettere così imbarazzanti e sconfessate sembra piuttosto che non rivelano un'angoscia primaria, una disperazione autentica immediata e più che legittimata dalle circostanze – il “salvatemi ad ogni costo!” di chi sta annegando o sta appeso al cornicione – bensì eminentemente meschinità, dispettosità, piccineria, cavillo, e ripicca. (“Non vi voglio ai miei funerali!” e “Quando sarò morta vi verrò a tirare per i piedi!”, quante volte l’ho sentito ripetere da una vecchia parente devastata dagli infarti, alle figlie che secondo lei non le volevano parlare per capriccio).161

Il linguaggio di queste lettere, invece di essere immediato come richiederebbe la situazione, è astratto, burocratico, lontano dalla realtà: tipicamente “italiano” dunque, secondo l’ottica di Arbasino. Se Sciascia cerca di spiegare il richiamo costante di Moro alla famiglia – e al suo essere stato strappato ad essa – con gli strumenti del “detective”, interpretando il termine come riferimento “mascherato” al partito della Democrazia Cristiana, Arbasino vi vede semplicemente una debolezza e un’ inadeguatezza al compito del governare:

160 161

Ibid., p. 146. Ibid., p. 80.

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La famiglia. Quell'insistenza così ossessiva e possessiva sul tema “la mia famiglia che ha grave e urgente bisogno di me” è apparsa subito singolare, fin dalle prime lettere della prigionia di Moro, anche perché ne risultava una visione abbastanza mistificata della realtà: non sarà tanto la famiglia, in effetti, ad aver bisogno del rapito o del malato o della vittima di un grave accidente, bensì il contrario, di solito. Tanto più se si tratta di una famiglia adulta, intelligente, responsabile […]. […] il richiamo esclusivo della famiglia, quando prevale così dichiaratamente sopra il senso dello Stato, non rende singolarmente disadatti a governare appunto uno Stato che viene messo in coda nel rango delle priorità?162

Anche sulla questione della trattativa e della possibile salvezza di Moro, Arbasino si muove sul filo del paradosso, paragonando il leader democristiano a Santa Maria Goretti. Egli non trova così assurdo pensare a un sacrificio personale a favore dello Stato al servizio del quale ci si è dedicati, soprattutto se si pensa che prima del rapimento i sacrifici personali, in ambito sia laico che cattolico, venivano esaltati come modelli da imitare: Anche in tutta la tradizione cattolica vengono molto esaltati tutti i sacrifici umani anche se appaiono futili: se vogliamo, è uno dei pochi punti di contatto fra la panoplia dei valori civili e quella dei valori religiosi. E si può continuare a citare la solita Maria Goretti perché non appartiene a un'antichità mitizzata ma al nostro stesso secolo: eppure qui c'è una sproporzione evidente fra il senso del sesso e il senso dello Stato, se si considera da una parte giusto ed eroico e santo sacrificare una vita umana (“sacra”) per evitare un solo atto sessuale “profano”, mentre d'altra parte si trova apocalittico e sgomentante il solo osar pensare a un qualunque sacrificio personale a favore dello Stato al “servizio” del quale ci si è dopo tutto dedicati, e in nome del quale (e non della letteratura, non del pensiero, non delle belle arti) si è pur fatta “fior di carriera” e goduto “fior di potere”.163

Anche l’intervento del papa viene descritto con sarcasmo. Per Fo, l’apparizione del Papa alla fine della tragedia corrisponde all’intervento – in questo caso senza successo – del deus ex machina della tragedia greca. Per Arbasino, il papa che si inginocchia di fronte ai terroristi è «simile ai preti irlandesi nei film americani che supplicano sempre il gangster di non buttar giù la bambina dal ventiquattresimo piano. Ma sarebbe piaciuto anche di più se si fosse messo in ginocchio anche prima, magari per qualche altro cristiano di terz’ordine…».164 Poco prima dell’epilogo, Arbasino propone un “collage” di lettere di Moro. Ne giustappone alcune – estrapolandone dei brani – senza soluzione di continuità e le fa seguire da due lettere della regina Maria Antonietta prima della condanna a morte. È evidente che con questa organizzazione del testo Arbasino suggerisce al lettore di valutare il diverso atteggiamento dei due personaggi di fronte al loro destino di morte. Il “diario” si chiude con la notizia del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, che arriva durante un momento conviviale all’interno di un seminario sull’Europa al quale lo scrittore è stato invitato: 162

Ibid., pp. 76-80. Ibid., pp. 59-60. 164 Ibid., p. 66. 163

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Si sente ancora per un attimo il termine “ottimismo della volontà”, o forse è della ragione, anche se ormai sarebbe forse più giusto parlare piuttosto di ottimismo del wishful thinking, in fondo a quelle tali macchine corazzate; si esce in giardino per i drinks; sta per piovere, piccola tromba d'aria; allora la colazione viene servita dentro; si rientra; mentre si taglia uno sformato di carciofi, e le forchette stanno per affondarsi nelle crespelle agli spinaci, entrano due ceffi stravolti, si avvicinano ai più autorevoli tra gli onorevoli, sussurrano agli orecchi che è stata trovata la macchina col corpo in via Caetani.165

165

Ibid., p. 189.

III. GLI ANNI ’80: IL TERRORISTA COME PROTAGONISTA

Nei primissimi anni del nuovo decennio si riscontra un intensificarsi delle attività terroristiche di destra e di sinistra e un moltiplicarsi delle organizzazioni eversive. Il 1980 conquista il triste primato del numero dei caduti per fatti di terrorismo. È anche l’anno della strage alla stazione di Bologna, che provoca la morte di 85 persone e della strage di Ustica, che seppur non collegata a fatti di terrorismo, contribuisce a creare un clima di fortissima tensione nel Paese. Eppure il fenomeno eversivo ha iniziato la sua parabola discendente e nel corso del decennio andrà progressivamente eclissandosi. Per quanto riguarda il terrorismo di sinistra, il decennio precedente si era concluso con l’uccisione di Guido Rossa, operaio e sindacalista (1979), che aveva posto fine a qualsiasi residuo consenso per i terroristi negli ambienti di lavoro. Nel 1981 inizia la collaborazione con lo Stato del brigatista Patrizio Peci, il cui esempio sarà seguito presto da altri compagni. Ma c’è anche un forte cambiamento all’interno della società italiana, che tende ormai a privilegiare il privato e a rinunciare all’impegno politico (sono i cosiddetti “anni del riflusso”). La “marcia dei quarantamila” di Torino1 segna simbolicamente un punto di rottura e di svolta. La produzione letteraria sul terrorismo in questo decennio si intensifica e la figura del “terrorista” diventa protagonista dei romanzi. Gli autori – ancora in assenza di informazioni provenienti “dall’interno” – cercano di indagarne la psicologia, i comportamenti e le motivazioni. Al tempo stesso si assiste ad una riflessione storico-politica. In alcuni casi questa si manifesta attraverso l’adozione dei moduli della “spy-story” e del “giallo”. La scelta di “genere” consente ad alcuni autori (Veraldi, Castellaneta, Zandel, Bernari) di indagare il fenomeno terroristico inquadrandolo nel contesto delle trame e degli intrighi politici nazionali e internazionali (alcuni di questi lavori escono in concomitanza con la scoperta della loggia segreta P2).2 In questo caso, la letteratura anticipa la produzione storico-saggistica sul tema 1 È la dimostrazione organizzata il 14 ottobre 1980 dai quadri aziendali e dagli impiegati Fiat per protestare contro il “picchettaggio” che impediva loro di entrare in fabbrica da più di un mese. Questo era stato attuato per contrastare la decisione della Fiat di ricorrere alla cassa integrazione e a licenziamenti per migliaia di dipendenti, soprattutto operai. Anche grazie al successo di questa dimostrazione, la vicenda si concluse con una sostanziale sconfitta per il sindacato. 2 La loggia massonica P2 è stata coinvolta in numerosi scandali e fatti oscuri della storia della Repubblica.

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che inizierà a comparire molto più tardi.3 Tutti i lavori presi in esame nel corso del capitolo evidenziano e talvolta anticipano la parabola discendente del fenomeno terroristico. Le crisi politiche ed esistenziali, il “pentitismo” e le divisioni interne sono ampiamente trattati (D’Eramo, Camon). Emerge anche un filone umoristico, surreale, che si affida all’“abbassamento” linguistico (Vassalli) e all’inverosimiglianza dei contenuti (Rugarli). 3.1. Terrorismo e ‘spy-story’: Veraldi, Zandel e Castellaneta Attilio Veraldi pubblica Il vomerese nel 1980. Traduttore per Feltrinelli e altre case editrici di autori “hard boiled” come Hammett e Chandler (ma anche di Henry Miller, Kurt Vonnegut e – grazie alla sua conoscenza del danese e dello svedese – di Kierkegaard e Lagerkvist), Veraldi è considerato, assieme a Scerbanenco, il fondatore del “giallo” italiano. «È stato grazie a lui e a pochi altri “pionieri”, infatti, se la narrativa italiana in questo settore è riuscita, negli anni Settanta, a liberarsi della pesante subalternità rispetto a quella anglosassone […]».4 In realtà Il vomerese si allontana dai canoni del “giallo” per avvicinarsi a quelli della “spy-story”, del “thriller” politico. Il racconto segue le vicende del gruppo eversivo di sinistra “Azione Rivoluzionaria”, operante a Napoli, il cui leader è Gerardo Guerra. Il gruppo, nel quale spiccano le figure di Gennaro e Sara – i quali intrecciano una contrastata relazione sentimentale –, segue le direttive di un fantomatico “vertice” il cui rappresentante è l’ “onorevole” Aruta. I terroristi di AR, in cambio di fondi e armamenti, devono collaborare con il Fronte Palestinese per portare a termine il rapimento dell’ammiraglio Schneck, capo della base NATO di Bagnoli. Oltre ad AR e al Fronte, partecipa all’azione Felix Cabral, personaggio modellato sulla figura della famosa “primula rossa” del terrorismo internazionale Carlos “lo sciacallo”. Il sequestro è preparato nei minimi dettagli, ma non avrà mai luogo. In realtà le cose cambiano radicalmente: Felix, in contatto con i servizi segreti russi e americani e con il “vertice”, fa saltare l’operazione e uccide – facendoli saltare in aria nella loro auto – i membri più importanti di Azione Rivoluzionaria su suggerimento del “vertice” stesso, che da tempo nutre delle perplessità sull’affidabilità del gruppo napoletano. Secondo i canoni del genere, la storia – complessa dal punto di vista narrativo – è ricca di tensione e “suspense”. «I colpi di scena si susseguono a ripetizione, mon3 I primi testi storico-saggistici che mettono in relazione il terrorismo e il delitto Moro con la P2 e le trame segrete nazionali e internazionali, escono alla fine degli anni ’80. Un punto di riferimento per questo tipo di pubblicistica è l’opera di Sergio Flamigni, autore di numerosi testi, tra i quali: La tela del ragno. Il delitto Moro (1988) e Trame atlantiche: storia della loggia massonica segreta P2 (1996). 4 M. Carloni, L’internazionalizzazione del giallo italiano: i romanzi di Attilio Veraldi, «Narrativa», 25, 2003, p. 47. Carloni prosegue affermando che Veraldi compie un «tenace tentativo di acclimatare in Italia generi e stili tipici della produzione anglosassone e, in particolar modo, statunitense. [...] Nei primi due romanzi, La mazzetta e Uomo di conseguenza, Veraldi presenta la versione napoletana del detective privato di estrazione statunitense».

Gli anni ’80: il terrorista come protagonista

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tati con una tecnica thriller esemplare [...] in cui inseguimenti, trappole, scontri a fuoco scandiscono in maniera forsennata la narrazione, accendendola di ritmo anche quando sono raccontati in flashback».5 Ma il romanzo di Veraldi è interessante soprattutto per il punto di vista adottato, che è quello interno al gruppo eversivo, e per la restituzione dettagliata della psicologia dei suoi protagonisti, in particolare del personaggio citato nel titolo, ovvero il capo della banda proveniente dal quartiere napoletano del Vomero. Il 1980 (anno in cui esce il romanzo) è un anno terribile per ciò che riguarda il terrorismo in Italia. Alla fine dell’anno si conteranno 125 vittime, comprese quelle della strage di Bologna. Per quanto riguarda l’eversione di sinistra, è l’anno in cui tra gli altri vengono assassinati il professor Bachelet, il giudice Galli e il giornalista Tobagi. Eppure, leggendo il fenomeno a posteriori, si può affermare che già in quell’anno il terrorismo sta iniziando la sua parabola discendente. Ci sono divisioni interne e compaiono i primi “pentiti”. Veraldi, con perspicacia anticipatrice, nel romanzo mette in evidenza l’inizio di questa fase involutiva. I componenti del gruppo eversivo infatti, temono che uno di loro, Lucio, arrestato dalle forze dell’ordine e suicidatosi in carcere, abbia “parlato”. Sua sorella Sara – che tenta a sua volta il suicidio per la vergogna – finisce vittima di sospetti tanto che si parla di una sua eventuale eliminazione (in realtà la si vuole eliminare perché ha iniziato una relazione con Gennaro che può mettere a repentaglio la sicurezza del gruppo). L’ipotesi della delazione si dimostrerà infondata, ma il romanzo mette bene in evidenza la stanchezza, le divisioni e i sospetti reciproci che iniziano a serpeggiare nei gruppi eversivi agli inizi dagli anni ’80. I componenti di Azione Rivoluzionaria, proprio per questa loro ossessione maniacale di sicurezza, cambiano il proprio nome continuamente. È vero che quella del “nome di battaglia” era una delle abitudini consolidate dei gruppi eversivi di sinistra, ma Veraldi enfatizza volutamente questa prassi nella narrazione caricandola di significato. Il palestinese Grenoble (in realtà Mahmoude) sottolinea questo aspetto dei rivoluzionari italiani in una sua conversazione con Felix: «[...] E poi non fanno altro che cambiarsi i nomi». «Anche noi abbiamo più di un nome». «Sì, ma loro li cambiano di volta in volta. Quindi succede un casino. Un giorno hai a che fare con un Fausto e il giorno dopo, all’improvviso, ti trovi di fronte un Massimo…».6

Gerardo Guerra è dapprima “il babbo”, “il vecchio”, poi “il professore”. Gennaro si fa chiamare prima Massimo, poi Fausto. Giuseppe è conosciuto come Lucio. Lo stesso avviene per Sara che nel corso della narrazione diventerà Laura e infine Diana. Attraverso il continuo mutare dei nomi l’autore trasmette tutto il senso di precarietà, di alienazione e di spersonalizzazione al limite della schizofrenia che vivono i terroristi, costretti a questo dalla loro paranoica ossessione di sicurezza. Gerardo Guerra, il “Vomerese” protagonista del racconto, viene così descritto:

5

L. Crovi, Introduzione a A. Veraldi, Il vomerese, Napoli, Avagliano, 2004, p. 9. Il vomerese, Napoli, Avagliano, 2004, p. 68.

6 A. Veraldi,

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Doveva aver superato i sessanta da un pezzo [...] con quei suoi capelli fitti e brizzolati, da quarantenne, ma il viso devastato dagli anni e dalle preoccupazioni. [...] Come viveva? Dove viveva? Aveva una famiglia? Indovinavi in lui […] vecchie battaglie e vecchie sconfitte e, forse, qualche rara vittoria che era pur servita a tenerlo insieme [...]. Indovinavi antichi sodalizi che avevano succhiato tutto il suo entusiasmo e cancellato ogni sua spontaneità, lasciandolo vizzo e segnato a trattare ora con dei compagni che potevano essergli figli [...].7

Di lui nel testo si dice che ha preso parte alla Resistenza, che è riuscito a sfuggire con un’evasione a una condanna del tribunale speciale fascista e che ha preso parte alla guerra di Spagna. Veraldi dunque instaura una «continuità ideologica sostanziale tra i vecchi rivoluzionari marxisti degli anni Trenta-Quaranta e le nuove generazioni degli anni Settanta-Ottanta».8 Egli è «il capo, figura carismatica e responsabile politico e militare della Colonna, distaccato dai suoi compagni di lotta, votato a una sconfitta storica e personale, pronto a consegnare il testimone alle generazioni più giovani».9 Indubbiamente uno dei temi centrali del romanzo è il percorso di cambiamento di Guerra, il quale si sente ormai stanco e disilluso, come appare evidente in molti passaggi del romanzo: «È ridicolo non avere pantofole. E neppure sapone da barba». […] «Sono stremato». […] «A che sono ridotto», pensò. «Parlo da solo e ho freddo».10

Ad un certo punto egli pensa anche di distruggere il contenuto della sua preziosa borsa, chiaro simbolo del suo passato, al cui interno ci sono i segreti di una vita: «[...] Da allora, dal mio ritorno in Italia, non sono mai stato costretto a distruggere le tracce vive e palpitanti della mia esistenza, non dal nemico almeno. Cos’è successo ora di tanto minaccioso da decidermi? Sto forse per cambiare vita? [...]».11

Il misterioso “vertice”, il livello superiore dell’organizzazione che ha il suo braccio operativo nell’“onorevole” Aruta, si accorge di questa crisi e decreta la soppressione di Guerra, poiché «[...] le crisi sono più pericolose delle defezioni. Ogni tradimento non è che prodotto di una crisi».12 Ma la stessa crisi attanaglia anche Gennaro, il giovane proveniente dal proletariato napoletano e uomo di raccordo tra Gerardo e la “base”, il quale capisce di aver «buttato via per niente la propria fede e in ultimo, la propria giovinezza».13 È una dichiarazione di resa e di fallimento speculare a quella poco dopo pronunciata – di fronte alla devastazione del suo appartamento – da Guerra:

7

Ibid., pp. 23-24. M. Carloni, op. cit., p. 50. L. Crovi, op. cit., p. 10. 10 A.Veraldi, op. cit., p. 106. 11 Ibid., p. 107. 12 Ibid., p. 180. 13 Ibid., p. 208. 8 9

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Gli parve così di ammirare la rovina stessa della propria vita. Tra quelle macerie erano sepolti i suoi progetti e le sue illusioni, soprattutto i suoi sensi di colpa infiniti.14

La sconfitta di Gerardo Guerra è di tipo esistenziale ma anche e soprattutto politica. Veraldi, attraverso la progressiva presa di coscienza del protagonista, fornisce una possibile interpretazione degli “anni di piombo” o almeno di una parte di essi. Guerra a un certo punto del romanzo si rivolge così all’onorevole Aruta: «Ho impiegato anni a mettere insieme un’organizzazione come la nostra, e voi ve ne state ormai servendo per scopi che non hanno più niente a che fare con quelli della lotta armata per la quale era stata costituita e che soli, ai nostri occhi, ne giustificavano la formazione e l’esistenza.[...]».15

Con l’arrivo di Aruta, Guerra nota un cambiamento sospetto nelle strategie dell’eversione di sinistra: Con lui tutto era cambiato, soprattutto la politica del Vertice. Il salto di qualità c’era stato, ma in senso negativo: gli episodi sanguinosi erano aumentati sproporzionatamente per diventare alla fine puri e semplici scoppi di ferocia. Venivano colpiti i “simboli” dello stato e non lo stato stesso, da chiunque essi venissero impersonate, anzi più umili erano tali impersonificazioni più il vertice sembrava soddisfatto. La situazione era cambiata al punto che ormai persino tra i quadri di base il malcontento era molto diffuso.16

Guerra vuole dunque scoprire chi è veramente Aruta e tentare attraverso di lui di risalire al “vertice”, per scoprirne la vera natura. Perverrà alla constatazione che il “vertice” che li sovrasta non è estraneo alle manovre dei servizi segreti delle grandi potenze, ovvero Stati Uniti e Unione Sovietica, rappresentati nel romanzo dall’americano George e dal russo Valodia. Ciò che traspare dalle pagine del romanzo e che verosimilmente corrisponde al punto di vista di Veraldi, è che i servizi segreti internazionali «si sono infiltrati pesantemente in queste strutture terroristiche e le hanno fatalmente condizionate. [...] Al massimo livello ci sono [...] i veri e propri burattinai, i servizi segreti di Stati Uniti e Unione Sovietica [...], il cui cinismo è pari alla posta in palio, la divisione del mondo in due sfere d’influenza. [... ] In questo contesto, tutti [...] non sono altro che pedine su una scacchiera internazionale e il loro inesistente peso “politico” coincide con la sconfitta personale».17 Siamo in presenza dunque di scenari in apparenza romanzeschi, fantapolitici, funzionali al genere e al risultato estetico della narrazione, che si inseriscono nel-

14

Ibid., p. 219. Ibid., p. 116. Ibid., pp. 124-125. È una affermazione che trova riscontro nella realtà di quegli anni nel momento in cui sotto la guida di Mario Moretti, le Brigate Rosse compiono un salto di qualità dal punto di vista della loro capacità militare e delle loro azioni delittuose. Sulla figura e sul ruolo di Mario Moretti rimangono molti lati oscuri. Alberto Franceschini e Renato Curcio, co-fondatori delle Brigate Rosse hanno in alcune occasioni espresso l’ipotesi che Moretti fosse una spia. 17 M. Carloni, op. cit., pp. 50-52. 15

16

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l’ambito delle “conspiracy theories” in cui è facile imbattersi quando si prende in esame questo difficile periodo della storia italiana. In realtà, nel corso degli ultimi anni, studiosi competenti e magistrati che hanno condotto importanti indagini sugli “anni di piombo”, hanno cercato di studiare il fenomeno terroristico italiano contestualizzandolo nell’ambito della particolare situazione del Paese all’interno della “guerra fredda”, pervenendo a conclusioni non dissimili da quelle ipotizzate da Veraldi nel Vomerese. Il giudice Rosario Priore, titolare di alcune delle più importanti inchieste di terrorismo interno (tra cui il “caso Moro”) e internazionale – dunque in posizione privilegiata rispetto al possesso di informazioni, anche riservate – ha recentemente sostenuto queste posizioni: Io credo che i contesti internazionali abbiano avuto un peso determinante. Determinante sia per la nascita dei fenomeni, sia per la particolare virulenza che essi hanno assunto nel nostro paese. [...] Qualcuno dall’estero ha soffiato sul fuoco italiano e si è avvantaggiato della debolezza del nostro paese e delle nostre isitituzioni. [...] Mi riferisco ai servizi segreti di quei paesi che avevano interesse a giocare determinate partite sul nostro territorio, ovviamente a tutela di interessi propri o dei blocchi a cui appartenevano.18

Si tratta di ipotesi, che però pronunciate da un magistrato competente e informato, conferiscono al romanzo di Veraldi una acuta capacità di lettura del fenomeno terroristico italiano nell’ambito del contesto internazionale, per di più nel momento in cui esso si sta manifestando e non a posteriori. Veraldi inoltre descrive i gruppi eversivi italiani in stretto contatto con quelli stranieri, in particolare con quelli mediorientali. Così Guerra si esprime a proposito dei palestinesi: «[...] Vogliono esportare la loro guerriglia dovunque sia possibile, per il beneficio della loro causa. Ora questa non è esattamente la nostra, però ci fa comodo. Ci fanno comodo soprattutto gli aiuti, quindi se il Fronte dà una mano a noi possiamo benissimo ricambiare dandogli a nostra volta una mano. [...]». 19

Anche questo aspetto, che ad una lettura superficiale potrebbe essere fatto rientrare nelle esigenze della letteratura di “genere”, mostra una sorprendente capacità, da parte di Veraldi, di situare il fenomeno dell’eversione italiana nel contesto dei collegamenti e della solidarietà tra le varie organizzazioni terroristiche internazionali. È posteriore al romanzo di alcuni anni il rilascio di informazioni (allora in possesso solo delle strutture di “intelligence”) sulla effettiva collaborazione fra le Brigate Rosse e le organizzazioni marxiste palestinesi. È lo stesso Mario Moretti, capo delle Brigate Rosse nel periodo più cruento della loro storia, a rivelare nel 1993 gli stretti legami tra le due sponde del mediterraneo: Eravamo molto interessati all’Eta e moltissimo al movimento di liberazione della Palestina. Abbiamo visto soprattutto loro e sempre a Parigi. [...] I compagni palestinesi ci interessavano perché facevano un discorso simile al nostro. […] Contattammo una parte di tendenza 18

G. Fasanella, R. Priore, Intrigo Internazionale, Milano, Chiarelettere, 2010, pp. 18-19. op. cit., p. 56.

19 A. Veraldi,

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comunista, che guardava molto all’Europa. Quel che ci interessava era il rapporto politico, di fraternità, fare qualcosa per l’Olp. [...] L’Italia è un crocevia obbligato per qualsiasi cosa transiti dal Medio Oriente verso il Centronord, ed essi ci chiesero di trovar loro un deposito di armi da tenere come riserva [...]. [...] un piccolo quantitativo di armi era destinato a noi. [...] Salpammo da Ancona per Cipro, dove aspettammo l’appuntamento […]. Il giorno convenuto ci incontrammo al largo di Tripoli nel Libano, e trasbordammo da una barca all’altra le armi che erano state preparate in sacchi di iuta. I palestinesi si sorpresero che preferissimo fare il carico in mare, perché in quel momento avevano il controllo di parte della città […].20

Sorprende nel romanzo la capacità di Veraldi di descrivere l’ambiente del terrorismo di sinistra italiano e le sue relazioni con il terrorismo internazionale, ma soprattutto impressiona la sua di capacità di anticipare situazioni ed eventi che ancora avrebbero dovuto verificarsi. Innanzitutto a Napoli, dove è ambientato il romanzo, è da poco attiva la colonna delle Brigate Rosse guidata da Giovanni Senzani, di cui non si conosceva molto nel momento in cui Veraldi scriveva. Ma soprattutto, l’anno successivo si verificano due episodi che hanno molti punti di contatto con il romanzo: il rapimento del politico democristiano Ciro Cirillo, avvenuto proprio a Napoli, e quello del generale americano e comandante NATO James Lee Dozier, avvenuto a Verona. Soprattutto in questo secondo caso le analogie tra il romanzo e la realtà sono notevoli. La trama del romanzo infatti fa perno sui preparativi per il rapimento – da parte di un gruppo terroristico palestinese appoggiato del gruppo rivoluzionario Azione Rivoluzionaria – di un generale responsabile della base NATO di Bagnoli. Le analogie tra il sequestro di Dozier21 e gli eventi scaturiti dalla fantasia di Veraldi si riscontrano sorprendentemente anche a livello di particolari. In un passaggio del romanzo, i componenti di Azione Rivoluzionaria cercano di avere delle informazioni da un certo Hans, che è in fin di vita, ma non riescono a capirlo perché l’uomo «parla inglese [...]. Siamo in quattro e non lo capiamo».22 Gli stessi problemi ebbero i brigatisti che tennero in ostaggio Dozier, il quale paradossalmente non fu mai interrogato durante la sua prigionia proprio perché nessuno di loro conosceva l’inglese. In un altro punto del romanzo i membri di AR, per compiere una loro azione si travestono da operai del gas proprio come i brigatisti che per sequestrare Dozier si travestirono da idraulici. Il romanzo dello scrittore napoletano è dunque importante e interessante sotto molti punti di vista: legge chiaramente e acutamente un contesto internazionale complesso; anticipa avvenimenti che avverranno di lì a poco a Napoli e nel Paese; infine intercetta e descrive le divisioni e il logoramento che iniziano a serpeggiare nelle file dell’eversione di sinistra. 20

M. Moretti, op. cit., pp. 190-194. James Lee Dozier, sottocapo di stato maggiore al quartier generale di Verona e responsabile delle forze terrestri NATO per il sud Europa fu rapito a Verona il 10 dicembre 1981. Il sequestro durò 42 giorni e terminò con la liberazione dell’ostaggio da parte dei NOCS, le forze speciali della Polizia di Stato. L’ostaggio venne trasferito dopo il sequestro da Verona a Padova, luogo dove avvenne la liberazione. 22 A. Veraldi, op. cit., p. 218. 21

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Veraldi non giudica, non condanna esplicitamente, ma il suo pensiero sul fenomeno terroristico sembra abbastanza chiaro. La lotta armata è inutile nelle sue finalità perché i terroristi lungi dal combattere il potere, finiscono per essere delle pedine inconsapevolmente da esso manovrate. Veraldi «riapproda [...] al tenace pessimismo dei primi due romanzi: in questo mondo non c’è spazio per l’individuo e quindi per i suoi valori e i suoi ideali per quanto distorti, ma solo per ramificati gruppi di potere che a quest’ultimo sacrificano ogni cosa [...]».23 Il terrorismo è inoltre disumano innanzitutto per chi lo esercita, perché priva chi ne aderisce della propria individualità e della propria vita privata, negando la possibilità dei sentimenti. La morte violenta e spettacolare dei componenti di Azione Rivoluzionaria è l’immagine del fallimento e della disintegrazione di quel percorso: [...] ci fu l’esplosione. La macchina scomparve. Forse quello che volò più in alto, oltre il tetto della scuola, verso il cielo terso di quel giorno solare, era un pezzo della sua lamiera; di sicuro c’è solo il fatto che furono notati unicamente i pezzi delle macchine vicine quando poco dopo ricaddero uno dopo l’altro, come una pioggia, sul Largo e sui passanti che, quelli che non erano caduti feriti o fulminati, stavano fuggendo in preda al panico da ogni parte. 24

Massacro per un presidente di Diego Zandel esce nel 1981, un anno dopo Il Vomerese di Veraldi. Si tratta dell’opera prima dello scrittore di origine fiumana.25 La storia ha luogo a Roma e ha come protagonista Raul Radossi. Raul è cresciuto nel campo profughi che accoglie alcuni membri delle comunità fiumane, dalmate e giuliane qui trasferitesi in seguito al trattato di Parigi del ’47 che assegnava quelle terre alla Yugoslavia. Il giovane ha militato nelle formazioni di estrema sinistra, approdando successivamente all’anarchismo armato. In seguito all’accusa di aver preso parte ad un attentato, viene ricercato dalla polizia ed entra in clandestinità. Latitante in Algeria, viene fatto rimpatriare segretamente dal colonnello dei Servizi Segreti Ivo Dolcich, anch’egli appartenente alla comunità del villaggio giuliano. Dolcich gli garantisce l’immunità, ma in cambio Raul dovrà infiltrarsi nei Gruppi Armati Operai, organizzazione terroristica nella quale operano alcuni suoi ex compagni di militanza politica e che ha in programma un terribile attentato – appunto il “massacro” del titolo – che ha come primo obiettivo l’eliminazione del presidente del partito di maggioranza al governo. Dolcich ha scoperto la presenza di settori deviati dei servizi di sicurezza e ipotizza che questi, attraverso l’inserimento di finti rivoluzionari nelle bande armate di sinistra, alimentino il terrorismo per creare le condizioni adatte ad una svolta autoritaria nel paese, in perfetta continuità con la “strategia della tensione”

23

M. Carloni, op. cit., p. 52. op. cit., p. 225. Diego Zandel nasce nel 1948 a Servigliano, nelle Marche, in un campo di profughi provenienti da Fiume, dall’Istria e dalla Dalmazia, territori appena ceduti alla Jugoslavia con il trattato di Parigi del ’47. Si trasferì poi con la famiglia a Roma, in un altro campo profughi alle porte di Roma. Gran parte dei suoi lavori come romanziere hanno a che fare con le sue vicende autobiografiche. Come saggista, ha scritto una monografia sul premio Nobel serbo Ivo Andric edita da Mursia nel 1981 (Invito alla lettura di Ivo Andric). 24 A. Veraldi, 25

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iniziata nell’ormai lontano 1969. Dolcich vuole sapere chi manovra i servizi deviati e, grazie all’aiuto di Raul, scoprirà che il Senatore Farini e il suo collaboratore Galmassi sono le menti del “piano”, utilizzando i servigi del generale Sapori. Il massacro alla fine ci sarà e anche se Raul riuscirà ad uccidere Farini, finirà egli stesso ucciso, così come Dolcich, per mano dei dei servizi deviati. I punti di contatto con il romanzo di Veraldi sono molti, sia per la scelta di un protagonista in crisi che finirà tragicamente sconfitto, sia per la raffigurazione dei terroristi come inconsapevoli pedine manipolate da entità esterne. Con la differenza che in questo caso tutto si svolge all’interno della cornice italiana. La tesi “politica” che sta alla base del romanzo è appunto quella che il terrorismo di sinistra sia in qualche modo condizionato, se non alimentato, da settori “deviati” dello Stato e di ambienti politici ai quali questi settori fanno riferimento. Tale scenario è collocato all’interno di una strategia politica che ha la sua origine nella strage di Piazza Fontana e che attraverso le altre stragi degli anni ’70 doveva poi portare all’instaurarsi di un governo o di un regime autoritario, sul modello di quello greco. I “rivoluzionari” di sinistra sono dunque, nella costruzione narrativa e verosimilmente secondo l’opinione dell’autore, degli ingranaggi inconsapevoli di un meccanismo di potere che li sovrasta. Non per caso, nel corso del romanzo ricorre molto spesso la parola “burattinaio”. Nel momento in cui il colonnello Dolcich “ingaggia” Raul, lo fa subito partecipe dei suoi sospetti: La mia proposta vuol far leva soltanto sul tuo desiderio, se tale è, di scoprire davvero chi o che cosa c’è veramente dietro tutto questo, il burattinaio, capisci? Si dovesse trattare anche di qualcuno annidato dentro lo Stato, non importa. La manovalanza non ci interessa. Può anche essere che loro alla lotta armata ci credano sul serio. 26

Raul accetta di infiltrarsi perché le parole del colonnello confermano quallo che è anche un suo dilemma: [...] mi restava il dubbio, fortissimo, che il terrorismo [...] non fosse che il rovescio della stessa medaglia: un dado in più gettato nel gioco di quelle forze che dalla strage di Piazza Fontana, dell’Italicus e di Brescia [...] lavoravano per preparare una svolta autoritaria al paese, o comunque, anche se indirettamente, le preparassero il terreno.27

Il fatto che il colonnello Dolcich sia a sua volta un esponente dei servizi aggiunge un elemento di complessità al quadro politico descritto nel romanzo, poiché delinea un conflitto all’interno dei servizi segreti dell’epoca (nel romanzo Dolcich pagherà questa divisione con la sua eliminazione). Zandel, nella descrizione dei protagonisti di questo disegno, fa riferimento a personaggi totalmente fittizi e a personaggi – in qualche modo identificabili – che re-

26 D. Zandel, Massacro per un presidente, Milano, Mondadori, pp. 24-25. A pagina 17, Raul, di fronte al suo compagno Fulvio che sta per morire dopo essere stato colpito durante una rapina, gli sussurra: «Fulvio perdonami [...], volevo scoprire il burattinaio che strumentalizzava la vostra buona fede... il burattinaio». 27 Ibid., p. 26.

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almente hanno avuto un ruolo nelle vicende succedutesi durante gli anni della “strategia della tensione”. Uno di questi è – nella finzione – il generale Sapori: Sì, era lui. Il generale Sapori. Quello stesso generale implicato nel processo di Catanzaro per la strage di Piazza Fontana. Un fascista. Ora ricordavo le foto sui giornali il giorno seguente la sua deposizione in tribunale. Fu scagionato per mancanza di prove, ma in tutti coloro che avevano seguito il processo era rimasta l’impressione che il generale Sapori, nella strategia della tensione, si trovasse dentro fino al collo.28

L’allusione è verosimilmente riferibile al generale Gianadelio Manetti, condannato nel processo a cui il passaggio fa riferimento, a quattro anni di reclusione per favoreggiamento.29 Sono invece lasciate molto più nel vago le figure dei suoi referenti politici, ovvero il senatore Farini e il suo braccio destro onorevole Galmassi, i quali non sembrano avere caratteristiche che possano renderli identificabili nella realtà politica di quegli anni. Il romanzo di Zandel ha una forte componente autobiografica che mette in luce una realtà poco conosciuta, quella del villaggio – nato nell’immediato dopoguerra – di profughi fiumani, dalmati e giuliani alle porte di Roma, di cui si mettono in risalto i costumi, la solidarietà e i valori. Il villaggio prende forma e vita nei ricordi e nelle vicissitudini di Raul. Si viene a creare una sorta di romanzo nel romanzo, dove coesistono «un “mondo piccolo” che racchiude l’essenza romanzesca (romanzo di memoria), e l’universo del megaterrore, sbalzato con la cronaca terroristica dei nostri giorni. Il microcosmo è il Villaggio Giuliano [...]. Il macrocosmo [...] è quello del terrorismo».30 Il rapporto di fiducia tra Raul e il colonnello Dolcich – anch’egli profugo istriano e amico di suo padre – si crea proprio in virtù di questo vincolo di appartenenza a una stessa comunità, vincolo che dunque riesce a far superare le differenze ideologiche, sociali e – anche se solo in un secondo momento-generazionali. Le digressioni sono ampie e numerose, ma sempre funzionali alla costruzione narrativa, come la seguente, che giunge dopo che Raul si è recato a visitare sua moglie e sua figlia, le quali vivono poco distanti dal villaggio: Noi, duemila profughi giuliani e dalmati, vivevamo così, completamente isolati. Le case non erano case, ma baracche in muratura, che per la loro forma allungata chiamavamo “padiglioni”. [...] Se pensavo al Villaggio com’era allora, in una notte fredda e stellata come quella che attraversavo, lo rivedevo coi lunghi e bassi padiglioni che biancicavano alla luce degli astri. E lì, nel comune destino, nell’isolamento, sentivi il tepore di una grande, unita famiglia. Qualcosa che si comunicava anche a noi bambini, che non potevamo sentire, per non averne ricordo, il dolore del distacco, la nostalgia delle terre lontane. L’Istria, la Dalmazia vivevano attraverso i canti che avevamo portato da lassù, attraverso i racconti delle pietre e del mare azzurro, trasparente, e l’ansia per quanti, parenti e amici,

28

Ibid., p. 118. Il favoreggiamento fu operato nei confronti di Guido Giannettini, agente dei servizi segreti di cui furono dimostrati i rapporti con Giovanni Ventura, accusato di essere uno dei responsabili della strage di Piazza Fontana. 30 A. Bevilacqua, Recensione a Massacro per un presidente, «Corriere della sera», 18 ottobre 1981. 29

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vivi e morti, avevamo lasciato. E poi non era solo questo. Era anche quella vita nelle baracche a due passi da Roma: quelli che passavano di lì e ti guardavano con sospetto, quasi appartenessimo a un’altra razza, calata da chissà dove per rubare loro il pane. Certo, influiva anche quella strana lingua che parlavamo, e non solo tra noi: verso chiunque ci rivolgevamo, era difficile per gente come mio padre, per non parlare dei vecchi e dei bambini come me, esprimersi compiutamente in un italiano che non avesse la pesante cadenza del veneto e non fosse così infarcito di termini istrioti, dalmati, croati.31

Dopo il ferimento causato dal colpo di pistola sparato dalla compagna Maria – che così reagisce alla sua confessione nella quale le svela di essere un infiltrato – Raul non può chiamare altri che il dottore del villaggio giuliano, il quale, anche se conscio del pericolo che corre andando a soccorrere un terrorista in quel momento ricercato dalla polizia, lo raggiunge e lo cura.Viene messa in evidenza ancora la solidarietà della comunità giuliana, anche nei confronti di chi se ne è allontanato: Come dirglielo che io non avevo più nessuno? Anzi, che paradossalmente per “miei” si stavano rivelando proprio loro, gente di un passato che da tempo avevo creduto non mi appartenesse più. Un passato che proprio di fronte a lui, il dottore, mi rendevo conto, non era dato nemmeno dalla “giulianità”, ma dal comune destino di “profughi”. Perché il dottore anche se parlava il dialetto non era di famiglia giuliana ma meridionale, come si evinceva dal cognome, Zappalà, e dalla forte inflessione siciliana che ricordavo nella parlata in lingua del padre, trasferito a suo tempo, sotto l’Italia, in Istria dove s’era fatto una casa, una famiglia, e poi, per le vicende della guerra, costretto alla stessa odissea della gente del posto, con le stesse pene, gli stessi addii, gli stessi itinerari dei campi profughi... [...]. Come il dottore era accorso a medicarmi quella ferita, non c’era forse anche Dolcich, un altro vecchio del villaggio, a darmi la possibilità di mettermi in qualche modo al sicuro?32

Il romanzo fa anche riferimento allo scontro culturale-generazionale che in molti casi durante gli anni ’60 e ’70 ha portato molti giovani ad abbracciare dapprima i movimenti estremisti e poi la violenza politica. Il padre di Raul, soprattutto a causa dell’esodo, nutre forti sentimenti anti-comunisti, mentre Raul si avvicina giovanissimo prima all’operaismo e poi all’anarchismo, mettendo in discussione valori per i quali suo padre «aveva sofferto e pagato un prezzo altissimo»,33 contrapponendogli quelli appartenenti al suo nemico: L’anarchismo cresceva, avevo preso a collaborare a “Umanità nuova”, organo della FAI. La mia firma su quel giornale provocava le ire di mio padre, che mi gridava vituperi. E mia madre che si richiudeva sempre più impaurita: veramente, si chiedeva, io, suo figlio, facevo parte di quella gente di cui non aveva mai sentito parlare, e che, a stare alle parole di suo marito, erano contro la famiglia, contro la patria, contro il lavoro, contro l’esercito e la polizia, insomma contro tutte quelle cose che da sempre erano stati i punti di riferimento della brava gente?34

31

D. Zandel, op. cit., pp. 35-36. Ibid., pp. 169-170. 33 Ibid., p. 38. 34 Ibid., p. 110. 32

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Raul Radossi non si può definire propriamente un terrorista. O quantomeno il testo non rivela se ha preso parte ad episodi delittuosi. Di sicuro fa parte di quell’area estremista che non disdegna l’uso della violenza. È accusato di un delitto che non ha commesso e per questo è costretto alla latitanza e alla clandestinità. Paradossalmente diventa un vero terrorista quando gli viene chiesto di infiltrarsi nei Gruppi Armati Organizzati, dove dovrà prendersi la responsabilità di un omicidio. Zandel, con una approfondita analisi psicologica ne ricostruisce il dramma vissuto, le nevrosi, i tormenti interiori e la sua crisi esistenziale e politica. Come il Gerardo Guerra di Veraldi, è un personaggio che prefigura e anticipa la fase di stanchezza del fenomeno terroristico, se non la vera e propria crisi. In molte pagine viene descritta la sua incapacità di arrivare ad un distacco totale da quelle cose che non possono più far parte della vita di un clandestino; il pensiero ricorrente rivolto alla neonata figlia Anna esaspera il conflitto tra la vita che conduce e il desiderio di una vita “normale”. Le sue visite alla figlia sono così redarguite dalla compagna Maria: «La clandestinità ha le sue regole, le sue esigenze che devono essere rispettate. Se vi si entra si dà un taglio netto a tutto, passato, amici, famiglia con neonati o meno».35

Ma in lui è ormai troppo forte il richiamo di una vita lontana dalla lotta politica: Ci raggiungeva il soffio della vita normale, di fuori, che continuava a scorrere uguale. Ci saremmo mai tornati noi a quella vita? Mi chiesi.36

Nel racconto di Zandel sono presenti i meccanismi del giallo e della “spy story”, poiché esso contiene “suspence”, tensione, ritmo narrativo, così come un finale imprevedibile; ma sarebbe riduttivo – come d’altronde per il Vomerese di Veraldi – classificarlo semplicemente come romanzo di genere. Come si è cercato di mettere in evidenza, vi sono altri elementi (autobiografia, indagine etno-sociologica e politica, scavo psicologico) che conferiscono a questo lavoro, sotto certi aspetti tragico e intriso di pessimismo, sfumature molto più complesse. Carlo Castellaneta ritorna sul problema del terrorismo nel 1982 con Ombre, a distanza di quasi dieci anni da La paloma,37 dimostrando così una costante attenzione al tema e la volontà di scrivere di esso “in presa diretta”.38 Ma se nel primo romanzo si era occupato di una “vittima” – seppur indiretta – del terrorismo, ovvero di quel Pino Pinelli ingiustamente accusato della strage di Piazza Fontana, con quest’opera egli cerca di “entrare” nella psiche di due eversori. Ombre infatti «presenta a capitoli rigorosamente alternati i due volti in apparenza contrastanti dell’eversione rossa e di quella nera: a una prima persona femminile che racconta i sentimenti che accompagnano il suo passaggio da una normale vita borghese di giovane madre alla

35

Ibid., p. 60. Ibid., p. 64. pagine 15-19. 38 Nel 1977 Castellaneta era già tornato ancora una volta sul tema dopo La paloma. La raccolta di racconti brevi dal titolo Da un capo all’altro della città contiene La prova del fuoco. Vi si descrivono i momenti preparatori di un sequestro di persona da parte di un terrorista di sinistra. 36

37 Vedi

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lotta clandestina nel partito comunista combattente, si alterna una terza persona maschile che costruisce oggettivamente la trama dell’organizzazione terroristica di destra [...]».39 La particolarità della struttura a capitoli rigorosamente alternati è arricchita dall’alternarsi della voce narrante: Marina racconta in prima persona, mentre le vicende dell’altro protagonista, il cui nome non verrà mai rivelato, vengono narrate in terza persona. Come risulterà evidente nel corso dell’analisi di Ombre, ciò avviene perché il personaggio maschile è più consapevole di Marina. Secondo Henninger, «the very fact that the chapters in which he appears are narrated in the third person suggests his perspective affords a more comprehensive overview of the situation than hers».40 Castellaneta cerca soprattutto di descrivere narrativamente il funzionamento del terrorismo stragista di destra, di spiegare come i vari livelli di esso si intersecano. Al livello più alto ci sono le “menti”, che risiedono in oscuri uomini politici, come il “senatore”; al livello più basso vi è la manovalanza ideologizzata; in mezzo, operano i settori deviati delle gerarchie militari e dei servizi segreti che si servono di questi esecutori materiali e di oscuri personaggi legati ai servizi internazionali e del mondo arabo per attuare i loro piani eversivi. La vicenda, che si svolge tra la fine del 1979 e l’agosto del 1980, segue le vicende di Marina, militante di una organizzazione eversiva di sinistra, e di un personaggio legato ad apparati deviati dello Stato che rimarrà senza nome per tutto il corso del romanzo. Quest’ultimo, ex agente segreto coinvolto anche nei processi per la strage di Piazza Fontana, dirige una rivista di economia. In realtà continua a tessere trame eversive in collaborazione con settori deviati dei servizi segreti e delle gerarchie militari. Ha contatti con agenti segreti europei, americani e mediorientali ed è coinvolto in traffici d’armi internazionali. Avrà un ruolo determinante nella realizzazione della strage di Bologna, perpetrata nel romanzo da ambienti reazionari e neofascisti per provocare quella svolta autoritaria che né le stragi degli anni ’60 e ’70, né il terrorismo di sinistra erano riusciti ad evocare. L’uomo ha avuto nel passato una relazione con una ragazza ebrea, Nora, molto più giovane di lui. Ora, dopo la fine del rapporto, il ricordo della ragazza lo ossessiona fino al punto di mettersi sulle sue tracce e, non potendola più possedere, di ucciderla. Dopo la strage di Bologna, sospettato dalla magistratura, riesce a fuggire dall’Italia grazie al suo amico Pollock, agente della CIA. Intanto in Italia, la svolta autoritaria non si verifica. Marina invece è una ragazza madre che abbandona il figlio e i suoi genitori per unirsi alle “Squadre Proletarie” e di conseguenza entrare in clandestinità. Dopo aver preso parte a una rapina, a un omicidio e al rapimento di un grande imprenditore, e soprattutto dopo aver preso coscienza dei suoi errori politici, è arrestata dalle forze dell’ordine. Entrambi i personaggi, quindi, al termine del romanzo, vanno incontro a una sconfitta. Anche il lavoro di Castellaneta, come quelli di Veraldi e Zandel, contiene elementi della letteratura di genere, in particolare della “spy story”, ma non si esauri39

O. Lombardi, Recensione a Ombre, «Nuova Antologia», 552, 1983, p. 406. M. Henninger, op. cit., p. 613. 41 C. Castellaneta, Ombre, Milano, Rizzoli, 1982, p. 105. 40

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sce in essi. Come per gli altri due romanzi, inoltre, il ricorso agli espedienti tipici del genere non esclude una personale interpretazione dell’autore degli “anni di piombo” in Italia e un profonda analisi psicologica sui personaggi principali della vicenda narrata. Le due storie nel romanzo vanno avanti parallele e apparentemente sembra non esserci alcun legame nella costruzione narrativa tra i due personaggi. Marina (che in seguito si farà chiamare Bruna) sceglie la lotta armata e la clandestinità, ma nonostante la sua adesione convinta, non riesce a distaccarsi totalmente dalla sua vita precedente; sono molte le sue debolezze, specialmente nei confronti del figlio. Per lui rompe anche le ferree regole dettate dall’organizzazione e, per potergli parlare, telefona ai suoi genitori dalla “base”. Sono molte le sue riflessioni sulla vita all’interno dell’organizzazione e su come la scelta della lotta armata porti i terroristi a vivere «sotto una campana di vetro [...] tagliati fuori dalla vita della città, mai un cinema, mai un locale pubblico che non sia un bar per una telefonata [...]».41 La sua adesione oscilla costantemente tra tra presente e passato, entusiasmo e disillusione,42 senza mai trovare un punto di equilibrio, fino ad arrivare ad una sorta di “dissociazione” e alla frammentazione dell’identità personale. Come Veraldi, anche Castellaneta traccia un parallelo tra l’uso di nomi fittizi per motivi di sicurezza e lo stato di alienazione in cui vivono i terroristi in clandestinità: Ad esempio mi chiedo perché abbia scelto Bruna come nome di battaglia. Forse mi pareva un nome da partigiana, sbrigativo, poco lezioso. Così sono Marina, ma mi sono abituata a essere Bruna. Per la portinaia sono la signora Fantoni. Ho una patente intestate a Daniela Mazzi, ma con mia fotografia. In certi momenti non so più bene chi sono, anche se è eccitante questo doppio o triplo personaggio che io sono verso gli altri, come se la mia vera identità fosse qualcosa di colpevole, da nascondere persino a me stessa, come se io per strada, in mezzo alla gente, realizzassi il sogno dell’uomo invisibile, sono io ma non sono io, ecco qua i documenti [...]. [...] mi sento smembrata in cento personaggi, uno verso i miei, uno verso gli estranei, un altro verso i miei compagni, e uno ancora verso me stessa, il più oscuro di tutti, che devo approfondire, rimettere insieme come i frammenti di una statuetta andata in pezzi. 43

Castellaneta, attraverso le parole di Marina, tenta inoltre di ricostruire alcuni dei possibili percorsi che hanno portato centinaia di giovani ad arruolarsi nella lotta armata di sinistra. Marco, ad esempio, era «un cattolico fervente, venuto al comunismo dal suo bisogno di totalità e dallo spettacolo delle ingiustizie».44 Marina invece si pone tra coloro che non hanno voluto arrendersi dopo la disillusione seguita alle proteste giovanili:

42 «Mi sento sovreccitata, smaniosa di raccontare, di parlare, una voglia come se avessi bevuto qualche bicchiere di troppo, e che invece devo reprimere perché mi sembra indecente, non è la prima volta che ho l’impressione di essere agita da qualcun’altra, che sia un’altra Marina a pronunciare certe parole, e oggi a commettere un atto di cui non mi credevo capace, la suprema constatazione di com’è facile uccidere, troppo facile perché sia vero». Ibid., p. 97. 43 Ibid., p. 70. 44 Ibid., p. 88.

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[...] spente e rientrate le grandi speranze del ’68, non abbiamo voluto farci riassorbire, tornare a chiedere scusa, così abbiamo scelto la strada dell’insurrezione.45

Ma si pone anche tra coloro le cui motivazioni esulano da considerazioni di tipo politico e nascondono una volontà di autodistruzione: Se mi guardo attorno trovo motivazioni molto diverse: per altri compagni è volontà di ribellione, magari gusto dell’avventura, o pura e semplice fatalità, un caso, come quando accetti un lavoro che non avresti mai pensato di fare, ma per altri invece è un modo per sottrarsi al lavoro, dire no a un impiego da quattro soldi senza prospettive e insieme un modo di sentirsi vivi, ma c’è anche qualcosa di più oscuro e irrazionale, che non oso confessare a me stessa, un desiderio inconscio di autodistruzione, una voglia di martirio come se l’imbracciare un fucile sia il mezzo più rapido per arrivare alla fine, per siglare un fallimento.46

Ci sono riflessioni amare anche sulle finalità del terrorismo. Marina si rende conto che intenti come sono a distruggere la società esistente, i terroristi non riescono ad andare oltre alla tattica e alla strategia di breve periodo, dimenticando il fine ultimo, il punto di arrivo. Anche sulle strategie le opinioni divergono, e in questo Castellaneta, come molti altri scrittori – in particolare Luce D’Eramo- che affrontano il tema del terrorismo, percepisce le divisioni che iniziano a percorrere il mondo dell’eversione di sinistra all’inizio degli anni ’80. Alcuni vorrebbero trasferire la lotta su un piano esclusivamente militare; Marina invece vorrebbe fare azioni veramente popolari, «altrimenti resteremo condannati a rimanere un’elite, l’avanguardia non diventerà mai esercito, qual è il risultato più grosso che abbiamo ottenuto finora? È stato la paura, dobbiamo ammetterlo [...]. [...] una rivoluzione dovrebbe costruire un’immagine positiva di se stessa e non di morte».47 Il protagonista maschile è descritto come un conservatore – reazionario, contrario al divorzio e all’aborto, con un senso di superiorità morale nei confronti di tutte le altre persone con cui si relaziona. Ma dietro questa facciata si nasconde un uomo in preda a perversioni erotiche voyeuristche e feticistiche. È un uomo sposato, ma della moglie non viene detto nulla se non che ormai è abituata al fatto che lui conduca una vita che lo porta a prolungate assenze. Ciò che lo caratterizza di più è la sua ossessione per Nora, giovane ragazza ebrea, che ora lo rifiuta: Detestava dover restare in ozio perché quelle pause lo rendevano più vulnerabile alla sua ossessione, ai sedimenti di un sogno erotico che accompagnava con le sue ombre l’intera giornata. Agire era il solo antidoto, l’unico rimedio efficace.48

45

Ibid., p. 91. Ibid., p. 199. Ibid., pp. 131-132. 48 Ibid., p. 124. 46 47

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Questo pensiero non lo fa dormire; la memoria di lei è costante ed è scatenata anche da sempici somiglianze con altre donne. I ricordi dei suoi momenti con Nora si mescolano anche al suo passato di fascista repubblichino: [...] l’atroce mancanza [...] riproponeva le immagini di sempre, lo sguardo di Nora intenso e insieme lontanissimo mentre lui la esamina come un dottore, il camice bianco e i guanti di gomma [...] . [...] e intanto il basco grigioverde è caduto sullo scendiletto, lo aveva appoggiato sulla coperta ed è caduto, rotolato da chissà quanti anni, il basco della Decima come se fosse ieri, con le sue stellette d’oro di tenente [...].49

Nel corso della narrazione l’aumentare di questa ossessione va di pari passo con il progressivo dispiegarsi del piano criminale che porterà alla strage, alla cui realizzazione l’uomo darà il suo contributo. La perversione sessuale viene dunque associata alla perversione politica; il bisogno dell’azione delittuosa è una compensazione per la mancanza di Nora: Dopo due anni quel vuoto, quell’assenza, quell’immensa mancanza di piacere e la nostalgia sempre più acuta di esso stavano diventando intollerabili, ormai reclamavano un gesto, un intervento, qualcosa che lo togliesse dall’accettazione supina di una congiuntura sfavorevole [...].50

Questo misterioso personaggio ha molte caratteristiche in comune con il terrorista nero Franco, ritratto da Ferdinando Camon in Occidente.51 Come Franco, le sue azioni delittuose, oltre che da motivazioni politiche, sono provocate da profondi disturbi della psiche. In Franco l’azione omicida e la strage dovevano compensare la patologica paura della morte, nel personaggio di Castellaneta si collegano alla perversione e alla ossessione erotica: Mai come ora aveva avuto la sensazione che il gioco dipendesse da lui. Un fragore di vetri in pezzi, lo stato d’assedio, un tuono in lontananza di carri armati...Queste ipotesi infuocate, a cui talvolta cedeva, finivano per lasciargli un vuoto, un senso di diffusa impotenza, appena le commisurava al presente, un’amarezza dietro la quale il fantasma di Nora prendeva consistenza [...] quasi che alla mancanza di lei fosse legato quel desiderio di rivincita, di apocalisse riparatrice che egli non aveva mai dimesso dall’epoca della disfatta. Stavolta la faremo gridare, aveva promesso il Commendatore. Ma anche lei, anche Nora doveva gridare. La popolazione intera doveva gridare.52

Castellaneta dunque, come Camon, instaura questo parallelo tra il terrorismo nero responsabile dello stragismo in Italia e la psiche malata dei suoi fautori. Azioni terroristiche che presuppongono la strage indiscriminata e che pianificano l’uccisione di massa di vittime innocenti non possono che essere attuate da menti disturbate. Il legame tra Marina e l’uomo si stabilisce nel momento in cui il personaggio 49

Ibid., pp. 77-78. Ibid., p. 114. pagine 32-39. 52 C. Castellaneta, Ombre, cit., p. 236. 50

51 Vedi

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senza nome affronta, attraverso le sue riflessioni, la storia degli ultimi undici anni. Così egli si riferisce ai gruppi terroristici di sinistra di cui Marina fa parte: La verità era che, per puro calcolo elettorale, si erano lasciati crescere questi gruppi, quando schiacciarli sarebbe stato facilissimo, fino al punto che ora non era più possibile controllarli, come se nell’organismo del Paese – era un’immagine che gli tornava spesso alla mente – fosse stato inoculato il germe di una infezione che ora sfuggiva alla reazione dei farmaci, distruggendo i tessuti ma senza provocare il collasso definitivo. Era un trattamento iniziato dieci anni prima con l’esperimento alla banca di Piazza Fontana, e poi portato avanti cambiando di volta in volta i reagenti chimici, sostenendo ora questa ora quella fazione, con o senza la benedizione dei governanti, premendo o lasciando il pedale della paura a seconda degli eventi politici e delle convenienze, ma sempre con quell’unico obiettivo: fermare il caos provocato dalle ideologie e restaurare l’ordine.53

Il terrorismo di sinistra dunque, durante gli anni ’70, è stato tollerato, se non alimentato o eterodiretto, per spostare sempre di più a destra l’asse politico del paese54 e l’obiettivo finale doveva essere l’instaurazione di un govero o di un regime autoritario: [...] piazza Fontana, la bomba alla questura di Milano, l’attentato di Brescia, il deragliamento del treno Italicus, tutte azioni ben preparate che però, passato lo sgomento momentaneo, non avevano sortito alcun effetto; gettato il sasso, l’acqua dello stagno si era subito richiusa, il che dimostrava [...] che soltanto un colpo di stato militare poteva risolvere la situazione, oppure erodere la democrazia dall’interno, e in tal caso occorreva che numerosi e sempre più frequenti delitti fossero consumati, ma altresì che essi rimanessero impuniti grazie a inique sentenze che il lassismo e la corruzione, l’inefficienza e la faziosità delle corti consentivano; in altre parole, reati che gridano vendetta al cielo, compiuti dalle associazioni eversive oltreché dalla mafia, se impuniti potevano convincere i cittadini che solo un governo autoritario riuscirebbe a porre fine a un simile scempio, come farebbero senza dubbio i tribunali militari, qualora fossero designati allo scopo da leggi speciali [...].55

Nel romanzo, le “Squadre Proletarie” uccidono il giudice Venturini,56 inconsapevolmente e indirettamente manovrate da apparati deviati dello Stato, timorose che questi sia sul punto di scoprire le loro manovre. Marina in alcuni passaggi del suo monologo sembra rendersi conto di questa manipolazione, ma è soprattutto Er53

Ibid., p. 46. «Il vero danneggiato restava il Partito Comunista [...] e questo era stato finora il solo aspetto positivo dell’operazione, pienamente appoggiata dai colleghi dell’Est, ma attualmente ferma sulle stesse posizioni d’inizio. Queste Brigate Rosse, del resto, avevano fatto comodo un po’ a tutti. E in effetti costoro, impaurendo la borghesia, le avevano restituito un odio per il comunismo che in molti animi si era parecchio indebolito. La si era indotta a votare assennatamente, intensificando gli attentati alla vigilia delle elezioni, ma era necessario andare avanti, fare di più sulla strada di questo convincimento indiretto [...]». Ibid., p. 74. 55 Ibid., p. 193. 56 L’assassinio di questo giudice vuole alludere all’omicidio di Emilio Alessandrini, avvenuto nel 1979 per mano del gruppo terroristico “Prima Linea”. Prima di occuparsi di terrorismo di sinistra, Alessandrini aveva condotto l’istruttoria sulla strage di Piazza Fontana che portò all’incriminazione di Freda e Ventura e al coinvolgimento di esponenti dei servizi segreti. 54

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manno, compagno di militanza di cui si innamora, ad avere questa consapevolezza quando enigmaticamente afferma «so cosa contengo, ma non so da cosa sono contenuto. Cosa c’è sopra di noi, voglio dire...».57 Ma ora, per chi manovra segretamente la vita politica del paese, ci sono due ordini di problemi: i gruppi eversivi di sinistra si moltiplicano e non sono più controllabili, poiché «questi ragazzi sparavano, uccidevano, sequestravano senza più freno, obbedendo solamente al loro capriccio, e ciò non era tollerabile»58. In secondo luogo i continui attentati ai danni di singole persone, di solito servitori dello Stato, non riescono a scatenare la reazione nel paese e la sua domanda di un governo forte che riporti ordine. Essi provocano uno «stillicidio tutto sommato inutile, dato che i danni che esso procurava si rivelavano alla distanza del tutto effimeri: non era lo Stato a essere colpito al cuore, come i terroristi pretendevano, ma piuttosto singole famiglie. E così quei morti [...] alla fine si rivelavano soltanto lutti privati, sciagure personali».59 Dunque nasce l’esigenza di un fatto senza precedenti, di un episodio che sia capace di scuotere il paese alle fondamenta, di metterlo a terra per poi ristabilire l’ordine: Forse era venuto il momento di vibrare il colpo mortale. Un incendio del Reichstag, aveva detto l’Ammiraglio. [...] Esisteva [...] un apparato militare e uomini decisi che, sull’esempio dei colonnelli in Grecia, potevano prendere in pugno la situazione [...].60

L’ “incendio del Reichstag” è la strage alla stazione di Bologna, che viene perpetrata grazie al contributo – senza che di esso venga lasciata alcuna traccia – di varie forze, che per la realizzazione materiale dell’attentato si servono di manovalanza ideologizzata di destra: Fortunatamente c’erano ancora in Italia, nonostante tutto, dei giovani coraggiosi, pronti a rischiare, decisi a non lasciarsi sommergere dalla violenza dei rossi, giovani che avevano capito che tuttavia scrivere non bastava più, che occorreva un gesto, un’azione capace di invertire il corso delle cose, perché l’opinione pubblica non aspettava altro che una svolta sociale, e l’uomo della strada era ormai stanco di tanti governi corrotti.61

Tra i reclutatori di questa manovalanza, emerge nel romanzo la figura di un “commendatore” toscano, che vive a “Villa Briosa”. Il commendatore afferma che «appena successo il finimondo, sarebbero stati indispensabili taluni interventi poiché in questi casi, come insegnava l’esperienza, gli inquirenti non sapevano mai dove mettere le mani, e solo i Servizi di Sicurezza erano in grado di depistare le indagini per qualche giorno [...]».62

57

Ibid., p. 223. Ibid., p. 102. Ibid., p. 74. 60 Ibid., p. 154. 61 Ibid., p. 175. 62 Ibid., p. 194. 58 59

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Sono evidenti le allusioni a Licio Gelli63 e al suo ruolo nel depistaggio delle indagini per la strage di Bologna. Questa allusione è importante soprattutto se messa in relazione al fatto che Castellaneta dedica il romanzo a Giuliano Turone, uno dei magistrati che indagarono sulla loggia massonica segreta P2, il cui “gran maestro” era lo stesso Gelli. La dedica a Turone e il riferimento a Gelli sono importanti perché in qualche modo spiegano e contestualizzano l’approccio dell’autore al tema del terrorismo in questo romanzo. Le indagini sulla P2 infatti rivelarono che gran parte dei vertici delle forze armate e dei servizi segreti dell’epoca erano membri della loggia guidata da Gelli. Le ultime pagine del romanzo vedono i terroristi di destra e di sinistra arrivare a una comune sconfitta, con la fragile democrazia italiana che sembra riuscire a reggere l’urto degli opposti estremismi. «La colonna rossa è allo sbaraglio; la strage alla stazione di Bologna [...] non ha sortito l’effetto di provocare lo Stato a intervenire con mezzi antidemocratici, cioè con quel golpe militare che da Piazza Fontana in poi la destra aveva tentato di rendere inevitabile».64 Il romanzo di Castellaneta si conclude dunque documentando «quella capacità di resistenza per la quale la nostra democrazia, imperfetta e in apparenza fragile, sopravvive al lungo assedio e agli attacchi della distorta logica dell’eversione di destra e di sinistra».65 3.2. Luce D’Eramo e Carlo Bernari: la riflessione sulla violenza Nelle pagine iniziali di Io sono un’aliena, Luce D’Eramo66 afferma di avere «sem63 Licio Gelli è una delle figure più controverse della storia dell’Italia contemporanea. Dopo l’8 settembre, aderì alla Repubblica di Salò e fu ufficiale di collegamento tra il governo fascista e il terzo Reich. In seguito però si unì ai partigiani. Nel dopoguerra collaborò con vari servizi segreti internazionali e fu amico, sodale e collaboratore di vari capi di Stato, tra i quali il leader argentino Peron. Dagli anni Sessanta si dedica alla scalata all’interno della massoneria italiana e diventa “maestro venerabile” della loggia P2. Viene in seguito espulso dalla massoneria, ma la loggia P2 continua ad operare e si configurerà come sede di raccordo e di incontro tra tutte le strutture parallele che gestivano il potere reale in Italia. Furono i giudici milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone a indagare sulla P2 e a scoprirne gli archivi nella villa di Gelli (“Villa Wanda”), in provincia di Arezzo e in una fabbrica da lui gestita. Attraverso la P2 passano la maggior parte degli scandali di quegli anni, come ad esempio quello del Banco Ambrosiano e il “caso Moro” (si scoprì che tra gli alti ufficiali delle varie forze armate e dei servizi segreti che si occuparono delle indagini sul sequestro, ben 57 erano iscritti alla loggia di Gelli). Gelli è stato condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna a 10 anni di reclusione e a 12 anni per la bancarotta del Banco Ambrosiano. 64 O. Lombardi, op. cit., pp. 406-407. 65 Ibid. 66 Nasce a Reims, in Francia, nel 1925 da genitori italiani e vive a Parigi fino al 1938, quando si trasferisce in Italia. Cresciuta in una famiglia di fede fascista (il padre è sottosegretario all’aviazione della Repubblica di Salò) non crede alle voci sui campi di concentramento nazisti e vuole verificare di persona. Scappa di casa nel febbraio 1944 e si arruola come volontaria in un campo di lavoro tedesco. Viene successivamente incarcerata per la sua partecipazione all’organizzazione di uno sciopero. Grazie alla sua famiglia viene liberata e mandata in Italia, ma qui si unisce ad un convoglio di deportati diretto a Dachau. Riesce a fuggire e rimanere in Germania, lavorando come contadina e cameriera. A Magonza, mentre scava nelle macerie provocate dai bombardamenti per soccorrere i feriti, un muro le crolla addosso, provocandole lesioni che la priveranno per sempre dell’uso delle gambe. Queste espe-

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pre amato e studiato gli scrittori che, in ogni epoca, hanno raccontato storie del proprio tempo. Così ho tentato di fare anch’io nei miei romanzi. M’interessano le situazioni estreme, la gente nei lager in Deviazione, i sovversivi in rotta con la società in Nucleo Zero, alcuni ospiti extraterrestri clandestini in Partiranno [...]. Dunque, mi calamita la diversità, quello che non è riconducibile a comportamenti accettati da tutti, “conformi”».67 Questa dichiarazione di poetica di Luce D’Eramo spiega molto della sua concezione della letteratura, che è soprattutto un modo di conoscere la realtà attraverso la scrittura, con particolare attenzione alla contemporaneità e alla diversità: [...] la mia attenzione è stata sempre rivolta agli emarginati, ai diversi [...]. Per questo poi ho avuto una particolare attenzione per i brigatisti rossi, anche loro rappresentavano un piccolo grumo in una società instabile, un grumetto di sovversivi che si chiedevano se dovevano prevenire con le armi il colpo di stato che paventavano.68

Il romanzo di Luce D’Eramo, rispetto a quelli analizzati fino ad ora in questo capitolo, abbandona gli elementi caratteristici della “spy-story”, allontanandosi dalle analisi e dalle ipotesi sulla strategia della tensione e delle trame eversive. Tuttavia, presenta delle affinità con i lavori di Zandel, Veraldi e Castellaneta per la rilevanza data all’azione e al ritmo narrativo. All’apparenza è infatti un romanzo tutto azione; in realtà – oltre all’indagine psicologica – contiene una profonda riflessione sul terrorismo di sinistra negli anni ’70 e ’80 e soprattutto sull’uso della violenza. La scrittrice si dimostra inoltre molto attenta ai meccanismi della comunicazione e ai fenomeni massmediatici, in particolare alla televisione. Il “Nucleo Zero” è una organizzazione sovversiva di sinistra il cui tratto distintivo è l’anonimità e il rifiuto dell’azione sanguinaria. Il suo fondatore è Giovanni Dettore, ex militante delle “Colonne Rosse”, uscito dall’organizzazione in polemica con la sua svolta militare e omicida. Il “Nucleo Zero” si dedica quasi esclusivamente ad azioni di rapina che nell’intenzione del fondatore dovrebbero «erodere a mollichelle il capitale». Le rapine sono caratterizzate dall’imprevedibilità e dalla maniacale perfezione nella loro preparazione, tanto che i “nucleisti” arrivano ad effettuare tre rapine nello stesso giorno nella stessa piazza della capitale. I componenti del gruppo – animati da una completa dedizione alla causa – conducono una doppia vita, poiché non hanno fatto la scelta della clandestinità; comunicano tra loro attraverso squilli telefonici e messaggi cifrati, riducendo al minimo le loro riunioni operative. Oltre a Dettore, vi sono altre due figure dominanti all’interno del gruppo: Lorenza Vallo, compagna di Dettore – anche lei ex colonnista – e Stefano Brandi. Sono proprio questi due personaggi che contribuiranno maggiormente alla dispersione del gruppo. Lorenza entra in contatto con un avvocato innamorato di lei che però è

rienze saranno raccolte nel romanzo autobiografico Deviazione, pubblicato nel 1979. D’Eramo aveva già pubblicato nel 1971 un importante saggio su Ignazio Silone (L’opera di Ignazio Silone). Dopo Nucleo Zero pubblicherà altri cinque romanzi: Partiranno, Ultima Luna, Si prega di non disturbare, Racconti quasi di guerra, Un’estate difficile. Muore nel 2001. 67 L. D’Eramo, Io sono un’aliena, Roma, Il Lavoro, 1999, pp. 26-27. 68 Ibid., p. 34.

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anche amico del vice questore; Brandi, convinto che le rapine non sono sufficienti per condurre l’azione rivoluzionaria, preme per un “patto” con le Colonne Rosse che porti il gruppo ad avere più peso in senso politico. Ovviamente Dettore è contrario a questa evoluzione, ma è in minoranza. Così il patto viene suggellato e il “Nucleo Zero” offre alle “Colonne” uomini e basi per il sequestro dell’imprenditore Perrino – che finirà tragicamente con la sua uccisione –. Da qui in poi tutto crolla attorno al gruppo: Lorenza muore mentre cerca di fuggire; Dettore ha un malore fatale durante un interrogatorio, un altro membro viene ucciso durante un’occupazione di case e gli altri sono costretti a disperdersi. Il libro si chiude con Stefano Brandi – deciso a portare avanti comunque l’esperienza del gruppo – in vacanza con la famiglia che apprende dal telegiornale la notizia della morte di un poliziotto ferito dalla Vallo e del colonnista Toson. D’Eramo descrive minuziosamente i piani e le preparazioni delle rapine, mostrando come i “nucleisti” siano in preda ad una mania di perfezionismo. In tutti loro, ma specialmente in Dettore (che spesso è accusato dagli altri per il suo tecnicismo) la riuscita delle azioni mette in secondo piano l’ideologia. Sebbene il romanzo segua le vicende di molti componenti del “Nucleo Zero”, la storia ruota attorno a Giovanni Dettore e Lorenza Vallo. Giovanni Dettore è un ex professore di filosofia che decide di mollare tutto e di fare un’esperienza come operaio in Calabria, dopo la quale aderisce al partito armato. Con la biografia di Dettore, D’Eramo affronta il problema delle motivazioni alla base della scelta della lotta armata. L’adesione di Dettore alle “Colonne Rosse” viene dapprima spiegata in base ad una consapevole scelta politica («Ai suoi occhi, l’adesione alle Colonne era conseguita a una rigorosa analisi del contesto – economico sociale morale, anche retorico –; era stata una decisione ben pensata e “scientifica” se così si può dire, presa “a prescindere da umori personali [...]”»)69, ma poi si fa strada in lui l’ipotesi che la sua scelta fosse stata frutto della ribellione all’ambiente borghese nel quale era vissuto. Figlio di una famiglia di costruttori, aveva infatti rifiutato di lavorare nella ditta di famiglia per diventare insegnante, poi operaio e infine terrorista. Proviene da un ambiente borghese anche Lorenza Vallo, la quale arriva alla rivolta armata dopo un’esperienza come avvocato dalla parte dei deboli. Il suo caso è emblematico di come per molti l’uso delle armi sostituì l’uso delle parole come mezzo di persuasione. Nei primi capitoli c’ è la prevalenza dell’azione, i dialoghi sono molto serrati e viene resa con cura l’atmosfera metropolitana. D’Eramo segue e descrive minuziosamente le azioni e i pensieri, gli stati d’animo dei protagonisti durante i “colpi” all’ufficio postale e alla gioielleria. In generale all’interno del racconto, pur essendovi la presenza di un narratore che racconta in terza persona, «l’azione è filtrata dalle percezioni e dalla psicologia ora di un personaggio coinvolto, ora di un altro, con l’effetto complessivo di una strana oggettività, fatta di tante soggettività e angolature diversissime che si alternano dietro l’apparenza di un unico impersonale narratore fuori campo».70 69

L. D’Eramo, Nucleo Zero, Milano, Mondadori, 1981, p. 184. D. Ambrosino, Temi, strutture e linguaggio nei romanzi di Luce D’Eramo, «Linguistica e letteratura», 1-2, 2001, p. 197. Ambrosino rileva inoltre a pagina 222 che «In Nucleo Zero la fisicità dell’espressione ha un timbro particolare di acutezza sensoriale, di percezioni amplificate dall’attenzione 70

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Le varie percezioni e psicologie si esprimono inoltre con un un linguaggio che si diversifica e che aderisce ad esse.71 Il romanzo è anche un tentativo di restituire – in un momento in cui ancora non si disponeva di testimonianze dirette – il comportamento, il linguaggio, i meccanismi cifrati dei gruppi eversivi. Come Veraldi, Zandel e Castellaneta, Luce D’Eramo si interessa «non solo a come si diventa terroristi, ma a come si diventa vivendo da terroristi».72 Vi sono riflessioni e osservazioni sulla vita quotidiana dei componenti del “Nucleo Zero”, soprattutto sul loro essere paradossalmente avulsi da quel contesto sociale che dicono di voler cambiare: Lorenza diceva che per i colonnisti ogni città era un luogo passivo, un vuoto attraverso cui raggiungevano appartamenti clandestini come minuscoli mondi chiusi. Per settimane e mesi costretti a nascondersi ogni ora del giorno, vivevano soltanto sulle cartine quadrettate sulle quali preparavano l’azione da compiere.73

Se in Veraldi e Castellaneta l’ossessione e la paranoia per la sicurezza si esprimevano attraverso il cambio dei nomi, in Nucleo Zero questa paranoia porta i membri del gruppo ad eliminare quasi totalmente ogni forma di comunicazione tra di loro. Si riuniscono solo una volta al mese a casa di Dettore, ma per il resto comunicano attraverso un complicato codice telefonico basato sul numero degli squilli, soprattutto per le emergenze come nel caso seguente, in cui Giovanna deve avvertire gli altri dell’avvenuta perquisizione: [...] fra uno sfogo e l’altro, faceva gli squilli telefonici a Marisa, dieci pausa sei. O sette? Il tavolo non era sventrato, dunque sei squilli: “perquisizione senza apparente profitto”. Però poteva scappare fuori qualcosa che esigeva la sette squilli: perquisizione su indizio non identificato”. Purché non la nove, per carità, la temuta “perquisizione con profitto”.74

Questa rinuncia alla comunicazione, alle parole come strumento di convivenza e socialità è uno dei motivi del romanzo, come afferma la stessa D’Eramo:

estrema. In questa storia i sensi di tutti i personaggi sono all’erta. I banditi stanno sempre sul chi vive, anche da soli (‘come se un occhio chi sa dove filmasse ogni sua mossa’, si sente Lorenza dopo una perquisizione; in realtà sono loro che per abito mentale s’imprimono in mente le situazioni in modo indelebile, globale, per analizzarle e ripassarle alla moviola instancabilmente, alla ricerca di dettagli decisivi [...])». 71 «[...] in ogni mio romanzo il ritmo e il linguaggio si modificano [...] a seconda dei personaggi che entrano man mano in azione coi loro mutamenti interni nello svolgersi degli eventi. Alias, una scrittura ogni volta aderente alla mentalità e al punto di vista di chi porta avanti l’azione in quel momento. Come ogni persona al mondo ha la sua impronta digitale, così ogni personaggio per me ha la sua impronta linguistica. Non amo l’omogeneità nella scrittura, la mia è una scrittura e una poetica della discontinuità». In L. D’Eramo, Io sono un’aliena, cit., p. 25. 72 D. Ambrosino, Televisione e terrorismo nel romanzo Nucleo Zero di Luce D’Eramo, «Cahiers d’étudies italiennes», 11, 2010, p. 54. 73 L. D’Eramo, Nucleo Zero, op. cit., pp. 173-174. 74 Ibid., p. 104.

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In Nucleo Zero raccontavo di persone che non credevano più nelle parole, mentre io esprimevo proprio con la parola la perdita di senso delle parole altrui.75

La sopravvivenza e la sicurezza del gruppo hanno la precedenza su qualsiasi altra cosa e ciò finisce per eliminare le esistenze e le identità individuali. I nucleisti sono infatti pronti a cancellare anche fisicamente qualsiasi traccia della loro identità, poiché a loro disposizione, grazie agli enormi proventi delle loro rapine, hanno addirittura una clinica di chirurgia plastica nella quale possono cambiare il loro aspetto e perfino alterare le loro impronte digitali. Due di loro (il ragioniere e il dottore della banda), ricorreranno al drastico cambio di identità. Uno dei motivi di interesse del romanzo e che lo differenzia dagli altri esaminati in precedenza, è la peculiarità del gruppo eversivo descritto. I “Gruppi Armati Operai” di Zandel, le “Squadre Proletarie” di Castellaneta e “Azione Rivoluzionaria” di Veraldi, erano prodotti di fantasia ma potevano essere sicuramente assimilabili alle “Brigate Rosse” o ad altri gruppi come “Prima Linea” o ai “Nuclei Armati Proletari”. Il “Nucleo Zero” invece sembra non avere somiglianze con gruppi operanti nella realtà di quegli anni e si pone anzi in conflitto con quelle che nella finzione vengono chiamate le “Colonne Rosse”, le quali alludono chiaramente alle BR. D’Eramo dunque intuisce profeticamente e forse meglio degli altri autori esaminati, le profonde divisioni che agli inizi degli anni ’80 vi sono nei gruppi terroristici più importanti della sinistra e le frammentazioni a cui queste divisioni danno luogo. I protagonisti principali del romanzo, Dettore e Lorenza Vallo sono dei fuoriusciti delle “Colonne Rosse” che hanno fondato il “Nucleo Zero” in polemica con esse. Dettore più volte definisce le Colonne «setta militare, covo di terroristi», «gang di killer e delatori». Ma nella banda c’è anche il giovane Stefano Brandi, il quale, in disaccordo con Dettore, vuole riorganizzare il “Nucleo Zero” sulla base di una collaborazione con i “Colonnisti”. Il problema posto da Stefano Brandi, e che non può non porsi anche Dettore, è infatti quello di uscire dall’anonimato, di come passare dalle rapine alla politica. Il dibattito interno al “Nucleo Zero” si svolge attorno a questo problema fondamentale: come arrivare alle masse evitando «la macina dei mass media»76 e i «guasti incommensurabili del meccanismo pubblicitario».77 Descrivendo il conflitto interno ai gruppi eversivi e allo stesso “Nucleo Zero”, D’Eramo si mostra molto attenta ai fenomeni massmediatici e in particolare a quelli televisivi.78 In Io sono un’aliena, affermava riferendosi al terrorismo di sinistra: 75

L. D’Eramo, Io sono un’aliena, cit., p. 34. L. D’Eramo, Nucleo Zero, cit., p. 193. 77 Ibid. 78 Vedi D. Ambrosino, Televisione e terrorismo nel romanzo Nucleo Zero di Luce D’Eramo, cit. A pagina 53, Ambrosino scrive: «Luce D’Eramo dava molta attenzione ai mezzi di comunicazione di massa. [...] si è sempre criticamente interessata dell’uso dei media in democrazia e in particolare del medium principe acceso in tutte le case, la televisione. Un suo libro poco conosciuto, del Gennaio 1974, si intitola Cruciverba politico. Come funziona in Italia la strategia della diversione. È un’analisi molto accurata di come la televisione e la stampa avessero trattato un caso all’epoca clamoroso, il caso Feltrinelli/Cederna». 76

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[...] ho scoperto che per esistere aveva bisogno del megafono, di azioni eclatanti, dunque era un prodotto, sia pure ribaltato, della «civiltà» pubblicitaria, per cui era necessario che il capitalismo vivesse per farlo vivere.79

Lo stesso concetto viene espresso da Dettore quando muove alle “Colonne Rosse” l’accusa di essere entrate in un meccanismo perverso: Tempre di latitanti ridotti a larve di latitanti [...] destinati a cadere nel sangue o nel baratro a vita dell’ergastolo. Tutto per l’illusione d’imboccare una scorciatoia alla rivoluzione. E con che cosa? Per mezzo dei mass media. Con le stesse mammelle da cui le masse succhiano il latte del loro assoggettamento. Scambiare l’opinione pubblica con le masse. Confondere il consenso estorto agli sfruttati – questo è l’opinione pubblica – con la loro condizione oggettiva di sfruttati – questo sono le masse. Un piccolo neo [...] che ha fregato tutta la lotta armata. Ci siamo piegati alla politica del consenso. Ci siamo avviliti a pubblicizzare i più infimi tentativi di rivolta come fossero segnali di rivoluzione: azioni esemplari. [...] Appena eseguita, ogni azione esemplare diventa scontata; quasi diminuita, agli occhi dell’opinione pubblica, del suo essere stata fattibile. E ce ne vuole una più esemplare ancora. Un’escalation. Questo lo capite, vero? Per l’obbligo di contentare la platea... [...] Così la lotta armata è degenerata in terrorismo. Colonne e C. ridotte a sbalordire i borghesi. E siccome che ciò che più titilla i borghesi è il delitto, Colonne e Company si sono risolte in comuni associazioni a delinquere. [...] E voi vorreste riammanicarvi con loro, con queste veteroformazioni fuorilegge ormai note a tutte le polizie e a tutti i servizi segreti del mondo, che ne conoscono vita, morte e miracoli [...] di cui si sa quasi sempre chi sono e a volte persino dove latitano.80

Il romanzo si propone inoltre come riflessione sul tema della violenza nella storia e nel mondo iniziato con Deviazione; in questo caso la riflessione è sulla violenza come metodo di lotta politica. Nelle pagine di Io sono un’aliena, D’Eramo instaura un parallelo tra le situazioni storiche nelle quali i suoi due primi romanzi sono contestualizzati, fornendo anche preziose informazioni sulla genesi di Nucleo Zero: [...] nel mio libro Nucleo Zero ho affrontato questa domanda cercando di darmi una risposta. I giovani terroristi si dicevano: «ci si deve ribellare prima che succeda di nuovo ciò che è successo nel ’40». Si chiedevano cioè quello che m’ero chiesta io negli anni bui dei lager. Quando è iniziato il terrorismo, quello delle Brigate Rosse, ho rivissuto il dilemma, le mie paure di allora e ho scritto quel libro a Parigi nel 1972 con il titolo Le bande rosse, per tentare di capire. Poi l’ho riscritto nell’80 a Berlino col titolo definitivo (dopo otto anni di sedimentazione nel cassetto). I miei nucleisti erano terroristi a modo loro, non volevano la violenza, non volevano uccidere, facevano rapine e sequestri per autofinanziarsi, per, a poco a poco, conquistare il potere e toglierlo agli altri. Era un progetto irreale: per non essere “sputtanati”, hanno dovuto uccidere. Ho esaminato fino all’ultimo, fino al midollo, cosa fosse possibile ottenere con la sovversione armata: il terrorismo non risolve nulla. Ripeto ancora: con questo libro ho consumato il sogno della ribellione violenta. Ma è anche vero che continua a esistere la possibilità che insorgano situazioni in cui rivoltarsi sia necessario per non essere ridotti in schiavitù. Ma prima ancora di chiederci: «Quando ribellarsi?», la domanda da porci è: 79 80

L. D’Eramo, Io sono un’aliena, cit., p. 41. L. D’Eramo, Nucleo Zero, cit., pp. 124-125.

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«come prevenire la sopraffazione? Mi accorgerò a tempo della sua minaccia per disinnescarla prima che esploda?». Questa è per me la funzione della cultura: prevenire la necessità di ricorrere alla violenza. Occorre informarsi, osservare, riflettere [...].81

Anche se nel romanzo vi sono momenti in cui la logica dei terroristi può sembrare condivisibile o accettabile, emerge con chiarezza la convinzione dell’autrice che il cambiamento della società in nome del quale gli eversori combattono non può avvenire attraverso il terrorismo e la lotta armata. Una delle affermazioni più nette si incontrano nelle parole di Dettore, che ormai messo in minoranza, cerca di convincere gli altri a non unirsi alle “Colonne Rosse”: Come la classe dominante decide al posto delle masse qual è il loro bene, non avete capito che è da pseudorivoluzionari decidere al posto delle masse qual è il loro riscatto? Non si è rivoluzionari al posto di un altro. Non è il consenso di chicchessia che può fare di me un rivoluzionario. Il consenso è passivo: dice sì alla decisione d’un altro. Non ve l’hanno insegnato i regimi totalitari? [...] Compagni [...], un vero rivoluzionario è uno che cerca d’uscire da questa logica. È uno che non vuole il consenso delle masse ma la loro partecipazione. A maggior ragione presumere di scuotere le masse con lo scandalo è un atto di sfregio, un arrogante errore di valutazione. Sappiamo tutti che il rivoluzionario è uno che vorrebbe aiutare le masse a sfilarsi l’uniforme del consenso, le vorrebbe aiutare dunque a cessare d’essere opinione pubblica, fino a cessare a poco a poco d’essere anche masse per diventare infine comunità di persone che prendono in mano la propria vita. Ma aiutare le classi sfruttate non significa sostituirsi a loro. Chi s’attribuisce il carisma del riscatto altrui è già un potenziale oppressore. Si è rivoluzionari soltanto sulla propria pelle, quando si cessa di sottostare. Ma essere rivoluzionari in prima persona non significa fare la rivoluzione. Ce ne corre. Significa esclusivamente saggiare in anteprima gli strumenti a disposizione della sovversione di massa e tentare di creare quel minimo di condizioni materiali alternative, perché chi non accetta di fare la bestia da soma in questa società non sia costretto a ribaltare nl terrorismo.82

È dunque un giudizio fortemente negativo sul partito armato, sull’avanguardia che si autoelegge a guida delle masse popolari – in virtù di un loro presunto consenso – le quali in questo modo restano escluse da qualsiasi processo rivoluzionario, condannando ogni tentativo in questo senso alla sconfitta già in partenza. 81

L. D’Eramo, Io sono un’aliena, cit., pp. 40-41. L. D’Eramo, Nucleo Zero, cit., p. 193. A pagina 200, Stefano Brandi replica così a Dettore, riuscendo a trovare un compromesso tra le due strategie: «Non basta attaccare di sorpresa i punti di forza visibili del nemico di classe. Bisogna portargli la guerriglia nel cervello, dissestarne gli inquadramenti mentali, sorprenderne le categorie di giudizio. Perciò, facciamo tutti insieme i sequestri politici senza firma e senza sangue, cioè esattamente come noialtri delle Bande facciamo le rapine. [...] L’establishment salta come un picchio, i mass media hanno la loro brava crisi isterica e noi zitti. Quando le emittenti radiotelevisive e i giornali boccheggianti hanno mollato l’osso e parlano d’altro, noi rilasciamo il nostro uomo lindo e pinto, rimesso a nuovo con gentili sciacquature del cervello, confezionato coi fiocchi, che ricompare indesiderato tra i suoi cari. Un fu Mattia Pascal di pirandelliana memoria.[...] Il nostro stile sarà la nostra firma, senza avvilirci in battibecchi e rivendicazioni umilianti, senza impestarci col sangue avariato dei padroni.[...] Mettiamoci d’accordo [...], o abbiamo scelto la lotta armata e allora fatti, niente parole; o non siamo capaci di rinunciare al dialogo e allora restiamo nella controinformazione. O l’uno o l’altro». 82

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D’Eramo sottolinea le contraddizioni della lotta armata anche attraverso le parole di Perrino, l’industriale sequestrato, il quale in uno dei pochi scambi d’opinione con i suoi carcerieri pone loro il problema dell’uccisione di coloro i quali possono a buon diritto ritenersi parte di quelle masse sfruttate che i terroristi dicono di voler difendere: Affermate di seguire l’assunto di Marx secondo cui la condizione oggettiva fa d’un uomo uno sfruttato, anche se non sa d’esserlo e soggettivamente parteggia per il padrone. La mia domanda è: come conciliate questo assunto con gli omicidi di poliziotti, guardie carcerarie e semplici custodi d’azienda, che ultimamente avete compiuto?83

Le pagine del rapimento sono molto importanti e mostrano l’attenzione, da parte di D’Eramo, anche per il dramma delle vittime del terrorismo. È con questa azione che il Nucleo Zero sancisce l’alleanza con le “Colonne Rosse” rientrando quindi a far parte del giro delle azioni politiche. Perrino, il più importante industriale italiano, è rapito da un commando misto di nucleisti e colonnisti e viene tenuto in custodia in un “covo” fornito dal “Nucleo Zero”. I capitoli sul sequestro sono per lo più filtrati attraverso il punto di vista della vittima. Le umiliazioni e le violenze sono esplicitate attraverso la registrazione (con l’utilizzazione di moduli narrativi che si avvicinano a quelli del “flusso di coscienza”) delle emozioni e delle impressioni dell’ostaggio. Perrino è «concentrato, sotto l’occhio dei suoi carcerieri, a controllare ogni proprio gesto, a non farsi sfuggire particolari da cui può dipendere la vita».84 Si tratta di pagine drammatiche ma al tempo stesso – proprio per la loro volontà di fedele registrazione delle sensazioni della vittima – prive di retorica e che talvolta contengono, assieme alla descrizione degli spasmi fisici e delle umiliazioni subite, anche una amara auto-ironia: L’idea di essere osservato mentre si libera gli intestini l’ha umiliato sin dal primo momento, tanto da provocargli contrazioni del colon. Ha bello dirsi che il Re Sole defecava in pubblico ed era un privilegio dei più alti dignitari poter assistere alle sue cacate […]. Sei a Versailles, si ripete, pensa a Luigi quattordicesimo.85

Il giorno degli assassinii (1980) di Carlo Bernari aveva preceduto di un anno l’uscita del romanzo di Luce D’Eramo. Bernari, negli anni Trenta, fu – con Tre operai – tra coloro che avviarono la stagione del “Neorealismo”. Anche questo romanzo è totalmente immerso nella realtà, tanto da prendere le mosse da un reale fatto di cronaca.86 Anche 83

L. D’Eramo, Nucleo Zero, cit., p. 253. D. Ambrosino, Temi, strutture e linguaggio nei romanzi di Luce D’Eramo, cit., p. 222. 85 L. D’Eramo, Nucleo Zero, cit., p. 219. 86 Si tratta di uno dei fatti di cronanca nera più discussi degli anni ’70 e uno dei tanti misteri italiani ancora irrisolti. Ci si riferisce comunemente ad esso come alla “Strage di via Caravaggio”, avvenuta a Napoli nell’omonima via il 29 ottobre 1975. Vengono barbaramente uccisi Domenico Santangelo, la sua seconda moglie Gemma Cenname e la di lui figlia Angela. Sono colpiti con un corpo contundente al capo e poi sgozzati (lui nel salotto-studio, la moglie in cucina, la figlia nella camera da letto dei genitori). Angela viene anche accoltellata. Marito e moglie vengono trascinati nel bagno dell’appartamento e buttati nella vasca da bagno. Assieme ai loro corpi, c’è anche il corpo senza vita del cane. Angela viene spostata dal pavimento e messa sul letto matrimoniale. Viene accusato della strage Domenico Zarrelli, nipote di Gemma. Ha 32 anni, è studente fuori corso di giurisprudenza, figlio di un pre84

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se l’autore non menziona mai la città, è chiaro che la vicenda si svolge a Napoli. Renato Russi, terrorista di sinistra, racconta la sua personale indagine su un triplice assassinio. Si tratta di un orrendo delitto, apparentemente senza movente, che ha sterminato un’intera famiglia – l’assassino non ha risparmiato neanche il cane –. Livio Mangili, Emy Manocci Mangili, Angelica Mangili e il cane sono stati trucidati e gettati nella vasca da bagno. Russi abita, ovviamente sotto false generalità, nella casa della famiglia Rabella. I Rabella (il padre non c’è più) hanno tre figli e con loro vive una domestica, Faustina. Due figli sono avvocati, l’altro, Dino, non si sa bene come si guadagni da vivere, ed è proprio lui – parente di Emy Manocci – ad essere accusato del delitto. Per una buona parte parte del libro viene ricostruito questo personaggio. Il narratore cerca di fare luce su Dino, seguendolo nella sua oscura attività lavorativa, nelle sue frequentazioni con persone di dubbia reputazione, nelle sue relazioni sentimentali e nel suo arresto. Viene anche portato in superficie il lato oscuro e nascosto della vita delle vittime. Tutto quello che leggiamo è frutto di un manoscritto che il Russi redige mentre è in carcere, dov’è rinchiuso con Dino e dove si fa raccontare le vicende della sua vita. Russi si trova in carcere perché si è reso sospetto proprio a causa della sua indagine. Il manoscritto viene recapitato nella casella postale 4536, quella di Carlo Bernari. Bernari sembra utilizzare gli schemi del “giallo” – c’è un delitto, e un’indagine svolta da un anomalo detective –, ma appare subito chiaro che se di giallo si tratta si è in presenza di un giallo “filosofico”, dove «i nodi non sono della o nella trama: ne esistono ad ogni pagina e sono della categoria del romanzo a incastro».87 Bernari indaga le contraddizioni della realtà e della società a lui contemporanea, in preda alla violenza e al caos. Il tema centrale de Il giorno degli assassini è infatti «la violenza vista nelle sue manifestazioni più comuni e nel suo modo di creare disordine morale, civile e politico».88 Nel romanzo sono innumerevoli i luoghi in cui si fa cenno agli episodi di violenza. Non a caso il libro si apre con una eloquente citazione, tratta dal precedente romanzo di Bernari, Tanto la rivoluzione non scoppierà (« “...E di cosa sono fatti i libri? Di delitti sono fatti. Di assassinii. Di questo parlano i libri.”»). Il narratore registra con precisione, attraverso la lettura dei giornali, il disordine e il caos provocati dai continui episodi delittuosi, che provocano un «nerume di orrore»: [...] sparatorie in pieno giorno per estorsioni e racket, reati di stupro, furti e rapine finite nel sangue, sfide a revolverate fra bande di ricettatori o di spacciatori rivali, rinvenimenti di cadaveri mutilati e bruciati in un fossato dell’autostrada o sotto una delle grotte che forano il sottosuolo della città da parte a parte. Tutto l’orrido, il malefico, il terrore politico, l’abuso della violenza per la violenza, sciamava liberamente per strade e piazze, e di rado finiva nelle aule del tribunale [...].89 sidente di corte d'appello deceduto, fratello di un cardiologo e di un avvocato. Il 9 maggio Zarrelli viene condannato in primo grado all’ergastolo. Il 6 maggio 1981 viene assolto in secondo grado per insufficienza di prove. Nel luglio 1983 il secondo grado d’appello lo assolve con formula piena e così confermerà la Cassazione. 87 C. Toscani, Recensione a Il giorno degli assassinii, «Otto/Novecento», vol. 16, I, p. 201, 1981. 88 R. Capozzi, Bernari tra fantasia e realtà, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1984, p. 136. 89 C. Bernari, Il giorno degli assassinii, Milano, Mondadori, 1980, p. 61.

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E ancora in un altro punto dell’opera: Rapine, Rapimenti, Estorsioni, Ferimenti, Aggressioni, Tritolo, Violenze, Furti, Roncolate per gelosia; un completo panorama di morte, sul quale dominava come torre in un deserto Il processo per la strage di via Traiano [...].90

La pervasività della violenza è tale che ormai predomina l’assuefazione, se non la complicità. Non si tratta di una violenza che può essere circoscritta in un luogo, ovvero nella Napoli che Bernari descrive. La gratuità e la ferocia del triplice omicidio di via Traiano sono paradigma di una violenza che esiste «dovunque convivano comunità eterogenee in lotta per la sopravvivenza».91 In questo quadro si inserisce il discorso di Bernari sul terrorismo. Renato Russi, il terrorista di sinistra che racconta, si occupa del triplice omicidio in quanto ossessionato da esso. L’immagine di quell’orrendo delitto lo perseguita e non lo lascia un istante. Cerca di darne una spiegazione e propone varie ipotesi. Ne invidia la perfezione e lo attira soprattutto il fatto che sia un delitto «borghese», quindi in apparenza molto diverso dai delitti politici che compiono lui e la sua organizzazione; ma quando il presunto assassino Dino Rabella viene arrestato, si identifica con lui. «Eppure quel delitto avrei potuto compierlo io stesso»,92 confessa in un punto del romanzo, ed arriva al punto di ipotizzare di dichiararsi colpevole. Il romanzo di Bernari è ambiguo, complesso; più che dare delle risposte lascia aperti molti interrogativi. Il protagonista Russi sembra talvolta mentire a se stesso o quantomeno pronunciare delle mezze verità. Russi infatti sembra interessarsi dell’omicidio perché preoccupato di distinguere violenza privata o comune e violenza politica: D’altronde quella paura che noi andavamo seminando per la città, la città ce la restituiva moltiplicata in cento episodi di violenza delittuosamente tinteggiata di sangue e di morte. L’intensificarsi degli episodi aggressivi, da parte di delinquenti isolati o di bande [...] confondeva in una promiscuità aberrante le nostre azioni: e bisognava quindi correre ai ripari estremi, cambiare i rifugi, allontanarci dai luoghi tenuti d’occhio dalla polizia in seguito ad un’azione banditesca.93

Altrove, fornisce tuttavia una spiegazione diversa e forse più vicina alla realtà : Nel tentativo di attribuire un significato all’inutile strage, mi sentivo come se essa mi coinvolgesse nel suo assurdo disegno, ingiungendomi di assumermene la paternità; non tanto agli effetti legali, quanto su quelli della logica che regola con gli eccidii il sistema, impropriamente chiamato di vita. 94

Se ne vuole dunque assumere la paternità perché vi ritrova la stessa logica della soppressione che usano i terroristi, che con essa vogliono non solo “regolare” il sistema 90

Ibid., p. 182. Ibid., p. 196. 92 Ibid., p. 138. 93 Ibid., p. 137. 94 Ibid., p. 184. 91

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di vita, ma crearne uno nuovo. Il terrore creato dall’eccidio di via Traiano è simile al terrore rivoluzionario. Considerare questo tipo di violenza come “borghese” non è altro che un tentativo vano di allontanarsi da essa: Avendola classificata violenza borghese, inutile, perché fine a se stessa, era come se l’avessi esorcizzata per sempre e non esserne contaminato”.95

In un momento rivelatore, Russi sembra arrivare ad una presa di coscienza e ad una sorta di revisione delle sue posizioni sull’assassinio politico: Uno sterminio così gratuito, ma anche così spietato smitizza tutti i nostri procedimenti, insomma rende la morte un fatto comune, roba da tutti i giorni, a disposizione di chiunque. Chissà, mi domando, se non sia il caso di rivedere quei progetti che partono dalla soppressione dell’avversario...96

Violenza politica e violenza privata sono dunque per Bernari due facce della stessa medaglia; entrambe creano caos e disordine – non a caso nella narrazione interviene anche un’epidemia di colera97– sui quali è impossibile costruire la nuova società. Il giorno degli assassini dunque è un testo complesso, che presenta varie interpretazioni e livelli di lettura. Tra questi c’è quello dell’ indagine vera e propria, che si assume la responsabilità di proporre una verità alternativa rispetto a quella accertata dall’autorità giudiziaria. Sotto questo aspetto il testo rivela la sua filiazione dalla realtà (il famoso “delitto di via Caravaggio”)98 e si presenta come una contro-indagine. Russi, nei momenti in cui segue la vicenda da “detective” intuisce che il delitto non può essere stato commesso da una sola persona: Nel caso di via Traiano l’intelligenza del crimine coincideva con la sua astratta gratuità; spostandola piuttosto in una metafisica lontananza, laddove è impossibile intravedere la volontà omicida di un singolo individuo, quanto piuttosto la volontà sterminatrice di una grande organizzazione.99

Questa grande organizzazione non può essere che la camorra.100 Come si è detto, la vicenda si svolge a Napoli, città nella quale Bernari ha vissuto e di cui intuisce gli umori, le dinamiche e le trasformazioni. Quando Renato Russi afferma di sentirsi colpevole per il triplice omicidio, lo dice 95

Ibid., p. 154. Ibid., p. 145. 97 «[...] la morte propagata dal colera creava un disordine che si sostituiva al non-ordine precedente, sorprendendoci impreparati a instaurare un nuovo tipo di disordine». Ibid., p. 141. 98 Vedi nota 86 in questo capitolo. 99 C. Bernari, op. cit., p. 138. 100 Antonio Nicaso affema: «Bernari ipotizza altri scenari, ma esclude categoricamente che il triplice omicidio possa essere stato il risultato di un raptus. A Bernari quei tre corpi sfregiati fanno pensare a un rituale di stampo camorristico, a un delitto studiato, forse compiuto da più persone. La ripetizione del gesto assolveva invece a un comandamento rituale e, appunto perciò ripetitivo; e non poteva attribuirsi ad un uomo comune, sia pure calato nelle spoglie della belva inferocita». A. Nicaso, Bernari precursore di Saviano, «Rivista di Studi Italiani», Anno XXVI, 2, 2008, p. 153. 96

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indubbiamente perché anch’egli è dispensatore di morte, dispensatore di caos. Al tempo stesso Bernari sembra intuire nella realtà partenopea una convergenza di interessi criminali, possibile in una città difficile come Napoli. In una riflessione Russi arriva a descrivere un intreccio nel quale appare impossibile discernere le singole responsabilità: Eppure conoscevo già il risultato cui volevo pervenire: stabilire cioè che quel triplice delitto non potesse essere stato opera di un singolo assassino, ma dovesse aver richiesto il concorso di più persone congiurate a un medesimo fine punitivo: un disegno al quale io stesso potevo non risultare estraneo, quando fantasticavo costruendo dietro le tre vittime un fondale intrigato di racket, di ricettazione, meretricio d’alto bordo, droga, spionaggio, regolamenti, mafia, sequestri, rapine, riciclaggi di moneta sporca... E laddove le quinte sfumavano nel nulla, proprio lì vedevo risaltare le nostre figure, la mia e quella della Zita e, con noi, alle nostre spalle, tutti quelli che stavano dalla nostra parte contro lo Stato del Capitale.101

Viene dunque intuito un coacervo di realtà affaristico- criminali (compresa quella della eversione politica) la cui oscura rete di alleanze di lì a poco avrà nella realtà manifestazioni eclatanti. A questo proposito, Antonio Nicaso, uno dei maggiori esperti di criminalità organizzata, si esprime così nei confronti del lavoro di Bernari: Bernari disegna uno scenario possibile come quello della camorra che, abbandonata l’intermediazione parassitaria, aveva cominciato a intrattenere rapporti con la ’ndrangheta, ma anche con gruppi terroristici. Bernari coglie questi segnali, intuisce queste presenze. [...] Così come i rapporti con le Brigate rosse che Bernari intuisce nel suo libro, un anno prima del sequestro Cirillo.102

3.3. Ferdinando Camon e la “Storia di Sirio”: una generazione che uccide il padre Ferdinando Camon torna a parlare di terrorismo in Storia di Sirio. Ma lo fa in modo diverso da quello sperimentato in Occidente e non potrebbe essere altrimenti dal momento che sono passati 10 anni dalla sua pubblicazione. Occidente cercava di documentare e spiegare un fenomeno in fase di svolgimento che doveva ancora avere la sua massima espansione,103 mentre Storia di Sirio consiste in una riflessione a posteriori, con la parabola discendente del fenomeno terroristico ormai in atto. Se in Occidente vi erano due protagonisti principali, il terrorista nero Franco e quello di sinistra Miro, nel nuovo lavoro il protagonista è collettivo. Sirio e il suo amico Cino

101

C. Bernari, op. cit., p. 148. A. Nicaso, op. cit., p. 147. Ciro Cirillo, importante esponente della Democrazia Cristiana in Campania, viene sequestrato il 27 aprile 1981 (mentre ricopre la carica di assessore regionale all’urbanistica) dalle Brigate Rosse. Il sequestro si protrae per 89 giorni e la DC opta per la trattativa (contrariamente a ciò che avvenne per il sequestro Moro). Durante le ultime fasi del sequestro si viene a creare un intreccio oscuro in cui sono coinvolti i servizi segreti, le Brigate Rosse, la camorra e i vertici della DC. Cirillo viene rilasciato il 24 luglio. 103 Vedi qui pagine 32-39. 102

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simboleggiano infatti le generazioni passate attraverso il ’68 e il ’77. Nonostante le differenze, ritornano nel nuovo romanzo alcuni temi presenti in Occidente e ricorrenti nell’opera dello scrittore veneto, come l’emarginazione, il sottoproletariato, la fabbrica e le teorie psicanalitiche. Il romanzo è strutturato in quattro parti: la carriera, la rivoluzione, il primo amore, l’autocoscienza. Sono questi i quattro momenti della parabola esistenziale di Sirio, figlio di un grande industriale, il quale possiede gran parte della città. È il suo erede, dunque destinato a conservare e ad allargare il suo ingente patrimonio. Sirio ha un amico, Cino, figlio di un alto dirigente dell’azienda del padre e dunque anch’egli proveniente dall’alta borghesia industriale. Sirio e Cino prendono progressivamente coscienza delle ingiustizie prodotte dal sistema capitalistico-borghese e non accettano più gli schemi e la visione della vita del loro ambiente familiare. Vanno via di casa, decisi a combattere il sistema rinunciando al denaro e alla carriera, sentendosi «improvvisamente padroni della città, di se stessi e della vita».104 Vivono di espedienti ai margini della città, dove incontrano nuovi amici con i quali iniziano un cammino di avventura, trasgressione e contestazione (la casa dello studente, la radio libera, gli assalti, gli incendi. Poi la manifestazione e lo sciopero generale) fino ad «inscenare» la rivoluzione, che li porta ad assaltare la fabbrica del padre di Sirio. L’assalto è un fallimento e da qui in poi le strade dei due giovani si dividono. Cino viene arrestato e, in carcere, perderà se stesso con l’uso della droga, finendo nell’emarginazione. In Sirio subentra la disillusione e il ripiegamento nel privato. Incontra Carla e e scopre l’amore. Lo vive intensamente come una riscoperta del mondo, ma anche l’amore finisce. Così, con altri giovani alla ricerca di se stessi, riflette sulla sua condizione in un gruppo di autocoscienza, convinto che « [...] non c’è mai nessuna rivoluzione se non è anzitutto una rivoluzione interiore».105 È un libro scopertamente pedagogico, didascalico, che nell’intenzione dell’autore vuole avere una destinazione pratica, di insegnamento. L’attraversamento di diverse fasi “iniziatiche” da parte del protagonista fanno sì che Storia di Sirio possa caratterizzarsi anche come “romanzo di formazione”. Camon stesso nel sottotitolo lo definisce una “parabola” e molte parti del romanzo hanno un significato simbolico ed esemplare. La storia narrata funge da esempio (negativo e positivo allo stesso tempo), da “lezione di vita” per le nuove generazioni, destinatarie del testo, le quali potrebbero essere tentate di ripercorrere la strada della distruzione intrapresa da chi le ha precedute. Di qui il linguaggio e la sintassi elementari, con uno stile quasi dimesso che rende questo testo stilisticamente molto differente dai precedenti lavori di Camon. Nella prima sezione, intitolata “Carriera”, il romanzo racconta lo scontro generazionale, la ribellione verso i padri che per molti giovani ha significato non solo un conflitto esistenziale ma politico. Sirio dapprima segue amorevolmente il padre mentre questi gli mostra tutto ciò che un giorno sarà suo, ma presto gli si ribella quasi disgustato. Si ribella a ciò che egli rappresenta, ovvero il capitale, e alla prospettiva di ricalcare le orme della sua esistenza. Viene per lui il momento di cercare la sua iden104 105

F. Camon, Storia di Sirio, Milano, Garzanti, 1984, p. 50. Ibid., p. 150.

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tità e la trova nella rivolta contro la figura paterna. È indicativo il fatto che l’azione che più si avvicina alle modalità terroristiche compiuta da Sirio (insieme a Cino) nella sua fase “rivoluzionaria” sia proprio l’incendio della fabbrica del padre, che rappresenta la volontà di sopprimere la borghesia e il capitale, ma che è anche evidente uccisione metaforica della figura paterna. C’è un punto nel romanzo in cui il conflitto si materializza in un dialogo serrato tra padre e figlio: Così figlio e padre si erano resi conto di essere nemici l’uno all’altro. Tutto ciò che il padre aveva fatto lo aveva fatto per il figlio, ma nulla di ciò che lui aveva fatto era per il figlio accettabile. Tutto ciò che il figlio avrebbe fatto non poteva portare che alla distruzione dell’opera paterna. [...] «Voi avete tutto ciò che noi non abbiamo avuto. Abbiamo speso tutta la vita a questo scopo: darvi tutto ciò che a noi è mancato». «Ma così facendo, padre mio, voi avete colmato i vuoti della vostra vita, e avete fatto di noi una vostra reincarnazione. Noi non siamo noi: siamo i vostri figli, e vi apparteniamo. Tutto ciò che esiste voi mirate a possederlo, il senso della vostra vita sta nel possesso. La vita che ci avete dato, in sostanza ce l’avete tolta».106

Se Camon non giustifica in alcun modo la violenza dei giovani rivoluzionari, non si dimostra neanche indulgente verso i loro padri, i quali non sono riusciti a trasmettere valori ma cose. Più in là nel romanzo, nel momento in cui Sirio si aggrega ai gruppi di autocoscienza, il rapporto genitori-figli sarà uno dei motivi più forti di riflessione tra i giovani, i quali avvertono profondamente la necessità di cambiare l’istituto della famiglia: Il problema dei figli è anzitutto il rapporto con i genitori. Fare la rivoluzione significa in sostanza fare il contrario di quello che vogliono i tuoi genitori. E questo è inevitabile, quando i tuoi genitori sono sbagliati. [...] Tutto è male, e perciò bisogna rifiutare tutto. E rifare tutto. Essere nuovi padri. Nuove madri. Creare nuovi figli, mai visti finora. Amarli diversamente.107

Nella seconda parte, in cui si affronta l’argomento “Rivoluzione”, risulta chiaro come Sirio e Cino rappresentano quelle generazioni che – da posizioni libertarie – hanno partecipato alle contestazioni giovanili del Sessantotto per poi confluire, attraverso il “Movimento”, in organizzazioni della sinistra extraparlamentare;108 queste ultime – come ad esempio Autonomia Operaia – spesso protagoniste di episodi di violenza, talvolta contigue con il terrorismo vero e proprio. Sia Sirio che Cino non vengono descritti da Camon come appartenenti ad organizzazioni armate, ma sem-

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Ibid., pp. 43-44. Ibid., pp. 143-144. «Da quel momento Sirio e Cino si sentirono dentro il giro, nel cuore del Movimento. [...] Terminata la riunione, Sirio e Cino si recarono nella casa dello studente, nel quartiere degli istituti, perché era lì che andavano in gran parte quelli che avevano partecipato alla riunione. E così Sirio e Cino scoprirono quello che, se non era il cuore, era il sistema nervoso della rivoluzione. [...] Guardando quelle stanze piene di lavoro, i ciclostilati che andavano ammucchiandosi negli angoli, la gente che entrava più numerosa [...] Sirio si domandava: “È dunque questa dunque la rivoluzione?”». Ibid., pp. 57-59. 107 108

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brano essere sul punto di fare quel passo se non ci fosse il provvidenziale fallimento dell’assalto alla fabbrica paterna e l’arresto di Cino. La rivoluzione dunque non si realizza109 («L’entusiasmo bastava loro per esplodere […] ma non bastava per vincere»)110 ed arriva puntuale la messa in discussione delle idee e degli entusiasmi che fino a quel momento li avevano guidati: La battaglia era stata perduta su tutto il fronte, e questo obbligava a riesaminarne ogni fase. Era stato sbagliato tutto, forse perché erano sbagliati tutti. Se così è, perdere è stata una fortuna, perché era una disgrazia più grave se avessero vinto degli uomini sbagliati.111

La parabola dei due amici dopo il fallimentare assalto alla fabbrica è anch’essa simbolo di due possibili vie d’uscita da quella logica violenta: la riscoperta di sé, dapprima attraverso il riflusso nel privato e poi con l’analisi – come nel caso di Sirioo l’annientamento del carcere e l’autodistruzione cercata nella droga – come nel caso di Cino.112 Come si è visto in precedenza, Sirio e Cino, nella loro attività rivoluzionaria, “sfiorano” soltanto il terrorismo vero e proprio nelle sue varie forme organizzate. È Cino che con esso avrà un contatto diretto durante il suo arresto. In carcere, egli divide la cella con alcuni terroristi e questo incontro lo delude profondamente. Vede quanto questi uomini siano lontani dalla classe operaia che dicevano di voler rappresentare e non può fare a meno di notare la loro estrazione piccolo-borghese: E così, i mesi di contatto ravvicinato con questi terroristi, cinque esponenti di quella guerriglia armata che aveva infettato l’Italia per una quindicina d’anni, furono per Cino completamente inutili e persino banali; nulla aveva imparato da loro, non un’idea, non un’analisi, non un progetto; aveva soltanto compreso che il carcere, anche il carcere a vita, non li avrebbe stroncati [...]. Forse, ogni cinque, sette anni, avrebbero pubblicato qualcosa: una analisi della sconfitta, un rilancio della lotta, una critica al comunismo ufficiale, un appello per la ripresa delle armi. [...] Per tutta la vita avrebbero continuato a emettere comunicati privi di senso, e questo si chiama pazzia. Il loro passare da un carcere all’altro da un processo all’altro, lanciando proclami, era dunque in realtà un girovagare per i meandri sotterranei della follia, fino a perdersi nel buio e nel silenzio. Della loro opera nel mondo restavano come tracce decine di cadaveri e migliaia di imprigionati: nient’altro. Essi erano apparsi nelle città italiane con lo stesso effetto di un’epidemia mortale.113

Le pagine sulla scoperta dell’amore da parte di Sirio (“Il primo amore”) sono tra le più interessanti e quelle in cui si fa meno sentire l’impostazione pedagogica e di109 «Quella notizia, che appena scoppiato l’incendio già gli operai lavoravano per spegnerlo [...] era per Sirio [...] la prova che era tutto sbagliato, che la rivoluzione era impossibile, che prima della rivoluzione c’era un’altra cosa da fare: preparare la rivoluzione, capire cos’è, quanto costa». Ibid., pp. 72- 73. 110 Ibid., p. 73. 111 Ibid., p. 135. 112 «Quando Cino scoprì che l’eroina toglie il dolore per dare un’angoscia più grande era ormai troppo tardi: l’assenza di dolore era in realtà l’assenza di ogni sensazione, come se un bisturi elettrico avesse tagliato alla base i fasci nervosi: una anestesia destinata a durare senza limite, a produrre un’incoscienza permanente». Ibid., p. 133. 113 Ibid., pp. 128-129.

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dascalica del racconto. La scoperta dell’amore per Sirio è una riscoperta del mondo e il primo passo – necessario ma non sufficiente – per la riscoperta di se stesso: Egli sentiva che amare significava conoscere: l’amore è una forma di conoscenza. In questa conoscenza di tutti e di tutto, era compresa anche la conoscenza di se stesso. Sentiva che c’erano degli oscuri rapporti simbolici fra la conoscenza della Carla e la conoscenza di sé e della città, e che non tutti potevano capirli.114

È un amore completo, totalizzante, che assorbe ogni momento della sua vita e che gli fa dimenticare completamente i progetti rivoluzionari. Al tempo stesso, non è sentito in contrapposizione al suo passato ma come fenomeno conseguente alle sue esperienze precedenti: E gli pareva che tutto il tempo che aveva vissuto finora – quando puntava alla carriera, quando pensava alla rivoluzione – avesse un senso proprio perché lo aveva portato a questo, a conoscere la Carla e a diventare il suo ragazzo e lei la sua ragazza.115

Nella quarta ed ultima parte del romanzo Sirio arriva all’“autocoscienza” (questo è il titolo dell’ultima sezione), alla rivoluzione interiore («non c’è mai nessuna rivoluzione se non è anzitutto una rivoluzione interiore»). Per cambiare il mondo è necessaria la conoscenza di se stessi per potersi cambiare. Camon sembra però convinto che questa ricerca non può avvenire – o quanto meno non può esaurirsi – individualmente. L’obiettivo di questa rivoluzione interiore va perseguito collettivamente, in gruppi di autocoscienza formati da giovani che si riuniscono per cercare il senso della vita dentro di sé. Si tratta di una psicanalisi di gruppo dove i giovani cercano di reimpadronirsi di se stessi, della propria identità e della propria vita – lontano dall’influenza dei padri –, per poter trasformare la società: [...] c’era tanto da analizzare, da capire, da trasformare: praticamente tutto. Bisognava dar vita a tanti di quei Gruppi di Coscienza Rivoluzionaria, in cui ognuno entrava a contatto con gli altri non perdendo ma trovando se stesso. Da quella Coscienza Rivoluzionaria sarebbe derivata una influenza trasformatrice che si sarebbe irradiata intorno in ogni direzione: coppia, famiglia, scuola, ufficio, fabbrica, società. Era cominciata una rivoluzione di cui non vedeva la fine: non c’è mai nessuna rivoluzione se non è anzitutto una rivoluzione interiore.116

Gian Carlo Ferretti ha notato che nel testo c’è una «complessa e articolata religiosità, che percorre l’intero romanzo e che diventa al tempo stesso sostanza e linguaggio di questa storia».117 I richiami alla religione sono già nel sottotitolo, («parabola per la nuova generazione»), e sono percepibili in tutte le parti del romanzo. Quando Sirio si trova ancora sotto l’egida paterna, quelle che sarano le sue proprietà sembrano essere illuminate direttamente da Dio: 114

Ibid., p. 109. Ibid., p. 101. 116 Ibid., p. 150. 117 G.C. Ferretti, La parabola di questa generazione, «L’Unità», 7 aprile 1984. 115

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Ecco perché tutte le sere il padre e Sirio aspettano che si accendano le luci sulla città: perché hanno quasi l’impressione che Dio stesso illumini la mappa delle loro proprietà.118

Le pagine sulla fabbrica119 introducono un parallelo con la religiosità medievale che si riproporrà anche altrove. La fabbrica e la Chiesa sono accomunate nel loro ruolo totalizzante in due periodi distinti della storia: La civiltà industriale è l’ascesi dell’uomo. [...] La fabbrica ha oggi il ruolo che aveva nel Medioevo la chiesa, e io credo che, come nel Medioevo e ancor oggi nei villaggi di montagna la chiesa ha accanto a sé il suo piccolo cimitero [...] oggi sarebbe giusto che il cimitero stesse accanto alla fabbrica, perché è nella fabbrica che gli uomini trovano il senso della loro vita, e l’assunzione è la loro cresima, che li fa soldati della guerra di produzione, una guerra il cui fronte è il fronte stesso del progresso.120

Sono parole che riflettono il punto di vista di Sirio, che non necessariamente coincide con quello dell’autore, il quale narra in terza persona con frequenti inserzioni di monologhi del protagonista. Ma vi sono altre parti del racconto, di impronta più saggistica, dove è chiaramente l’autore che parla, come nelle pagine dedicate al parallelo tra i movimenti neocristiani del medioevo e quelli dell’ultrasinistra contemporanea: L’attività dei movimenti giovanili ha voluto rimettere in discussione tutto: essi si sono attribuiti nella società di questi anni una funzione che in un certo senso ricorda quella dei movimenti cristiani delle origini e del Medioevo. Sia i movimenti giovanili comunisti sia i movimenti cristiani avevano come parte centrale della loro dottrina e della loro opera la rimessa in discussione dei concetti-base: cos’è la salvezza, cos’è il peccato; cos’è la rivoluzione, cos’è la borghesia; cosa fare di sé e della propria vita.121

Come Camon chiarisce nell’Avvertenza posta alla fine del romanzo, il comunismo e il cristianesimo sono visti come forme differenti di un’unica speranza di salvezza, e come il cristianesimo ha dato origine a chiese e dottrine diverse, così oggi vi sono varie forme di comunismo. Le rivolte marxiste giovanili occupano «lo stesso ruolo che fu, nei riguardi del cristianesimo ortodosso, quello dei movimenti spontaneisti ereticali che riempirono le epoche delle grandi riprese religiose [...]».122 Camon pensa che entrambi i movimenti abbiano portato al declino e non al rinnovamento, poiché hanno causato divisione e disgregazione: [...] Tuttavia l’opera dei neocristiani, positiva nel senso della religiosità, era negativa nel senso della religione, perché non la rafforzava, ma serviva soltanto a metterla in crisi. E così l’opera delle rivoluzioni giovanili, positiva nel senso della critica del marxismo, è negativa nel senso della politica, perché disgrega il settore operaio, vi apre un fronte in118

F. Camon, Storia di Sirio, cit., p. 12.

119 Il romanzo di Camon, per l’attenzione riservata ai meccanismi della fabbrica, specialmente nelle

prime pagine, può essere anche annoverato tra quei testi che costituiscono esempi di “letteratura industriale”. 120 F. Camon, Storia di Sirio, cit., pp. 33-34. 121 Ibid., p. 74. 122 Ibid., p. 152.

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terno, lo indebolisce e lo paralizza. E permette alla controparte di cogliere la vittoria senza neanche combattere.123

3.4. Sebastiano Vassalli e Giampaolo Rugarli: terrorismo e umorismo Pur in forme molto diverse, Sebastiano Vassalli e Giampaolo Rugarli raccontano il terrorismo attraverso l’uso della deformazione linguistica, dell’umorismo, della farsa e del grottesco. Abitare il vento, pubblicato nel 1980, arriva dopo altri romanzi “sperimentali” di Vassalli, come Tempo di màssacro (1970) e L’arrivo della lozione (1976). In quest’ultimo lavoro Vassalli aveva dimostrato di voler raccontare storie verosimili e legate all’attualità (in questo caso l’estremismo di destra nei primi anni ’70), quindi più “accessibili” rispetto alle opere più avanguardistiche degli esordi. Abitare il vento è il romanzo che segna un rinnovato interesse dell’autore per la costruzione del personaggio (già intravisto con Benito Chetorni dell’opera precedente) e che al tempo stesso, con il simbolico suicidio del protagonista, chiude una fase del percorso creativo di Vassalli («[...] dovevo liberarmene per arrivare a una scrittura più distesa e per potermi occupare di altri personaggi, forse altrettanto tragici ma più interessanti»).124 La vicenda si svolge alla fine degli anni ’70. Antonio Cristiano Rigotti, detto Cris, proviene da una famiglia cattolica brianzola. È appassionato di enigmistica e di letteratura, specialmente classica. Ha inoltre una sorta di venerazione per Quasimodo e ne cita spesso le poesie (specialmente le sue traduzioni dei lirici greci). Ha alle sue spalle già un arresto per attività sovversiva, ma ora sembra che il suo unico scopo sia quello di condurre una vita errabonda. In preda ad una strana forma di ossessione erotica che lo porta a tenere lunghi monologhi con il suo organo sessuale – che chiama “Grande proletario” o “piccolo borghese” a seconda delle prestazioni –, comincia a girare l’Italia da un capo all’altro. Si autodefinisce spesso “cavaliere errante” («Questa di abitare il vento ragazzi è l’aspirazione fondamentale- segreta della mia erranza da esteta e tutto il resto son balle»)125. Mentre è alla ricerca di una ragazza di cui è stato innamorato in passato, si ritrova suo malgrado nelle maglie dell’eversione di sinistra, in un gruppuscolo sconclusionato e dalle idee molto confuse. Prende parte al rapimento di un adolescente, figlio di un grande industriale, a cui fa da carceriere. Identificato dalla polizia, dai suoi compagni gli viene intimato di abbandonare il gruppo. Lasciato senza soldi (con i quali avrebbe voluto rifarsi una vita in India) e senza possibili vie d’uscita, decide di suicidarsi. Nel romanzo non si parla delle strategie o delle ideologie dei gruppi terroristici; la storia descrive – narrate in prima persona – le situazioni e gli stati d’animo di Cris Rigotti. Nonostante il linguaggio in cui si esprime e le situazioni in cui si trova, Cris è un personaggio tragico, fondamentalmente solo. In lui convivono «la rabbia, la malin-

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Ibid., p. 77. S. Vassalli, Trent’anni dopo. Riflessioni su un personaggio e sulla sua storia, in S. Vassalli, Abitare il vento, Milano, Calypso, 2008, p. 110. 125 S. Vassalli, Abitare il vento, Milano, Einaudi, 1980, p. 60. 124

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conia, la follia, la solitudine, il senso amaro dell’insensatezza di tutte le cose».126 Pur ripetendo ossessivamente che si sente un “cavaliere errante”, e dunque lontano dalla politica e dalle ideologie, si ritrova costantemente in situazioni contigue all’attività terroristica. Nei suoi atteggiamenti e comportamenti si riassumono il male di vivere e la malattia di una generazione che non avendo niente in cui credere, si ribella «contro qualcosa che non si capisce bene cosa sia»:127 Antonio Cristiano Rigotti è un nipote lontano e stralunato di Jacopo Ortis. Come Jacopo, è un orfano di quella rivoluzione che in Italia non c’è stata, e che probabilmente non ci sarà mai. [...] Essendo nato intorno alla metà del secolo scorso, Antonio Cristiano Rigotti non ha punti d’appoggio nelle vicende italiane dell’epoca. [...] Non c’è, per i giovani italiani, l’esperienza della guerra in Vietnam come per i giovani americani; non c’è il muro di Berlino che incombe su di loro come per i loro coetanei tedeschi. La loro è una ribellione metafisica, contro il nulla, e però può anche spingerli ad atti concreti di terrorismo come assaltare un supermercato o sequestrare una persona. Può spingerli a sparare e a uccidere. Quante persone sono morte, in quegli anni, senza una ragione e senza uno scopo: uccise per niente?128

La scelta di un determinato tipo di linguaggio e di situazioni, rivelano il giudizio dell’autore sugli “anni di piombo”. Per Vassalli, gli anni ’70 in Italia sono stati «ridicoli e terribili»,129 dominati da «un’estetica barocca di distruzione e di morte»130 alimentata da «ideologie farneticanti».131 La distanza che intercorre tra l’autore e queste ideologie portatrici di violenza «est rendue par un rabaissement carnavalesque du langage politique».132 Lo si può constatare ad esempio in questa parodizzazione di una delle sigle terroristiche più famose degli anni ’70:133 Poi il Nanno si mette a sbadigliare e dice Cris, chissà come sei stanco e allora andiamo a dormire ma prima mi fa vedere un documento politico delle unità combattenti per la resurrezione del bìschero.134

Il rapimento dell’adolescente Andrea, ovvero una situazione che dovrebbe dare vita – come ad esempio in Luce D’Eramo – ad un esito narrativo tragico, si tra-

126 S. Tamiozzo Goldmann, Abitare il tempo. Note su Sebastiano Vassalli narratore, «Autografo», 19, 1990, p. 40. 127 S. Vassalli, Trent’anni dopo. Riflessioni su un personaggio e sulla sua storia, cit., p. 109. 128 Ibid., pp. 109-110. 129 Ibid., p. 110. 130 Ibid. 131 Ibid. 132 S. Kleinert, “Violence politique et sentiment d’irréalité: la représentation des années 70 chez Balestrini, Camon et Vassalli”, in M. Jansen, P. Jordão, eds., La Valeur de la Littérature pendant et après les années 70: Le cas de l’Italie e du Portugal , Igitur publishing and archiving, http://congress70.library.uu.nl 2006, p. 353. 133 Il riferimento è al gruppo eversivo “Unità Comuniste Combattenti”, attivo dal 1976 al 1979. 134 S. Vassalli, Abitare il vento, cit., pp. 23-24.

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sforma in farsa proprio grazie all’“abbassamento carnevalesco”: Adesso la storia è che finalmente arriva il sequestrato, il merce, di notte dalla scala interna che dà nell’auto rimessa [...]. [...] Così entro nella sonorizzata (stanza) e il merce è lì sotto tenda con la sua brava catena e come mi vede attacca. La scena del terrore rimbalzando da destra verso sinistra e poi da sinistra verso la destra come una rana anzi un rano e grida porco puttano ed altre tante parole senza riguardo tra cui ad esempio bastardo, dunque mi dico questo ce l’ha con me e gli do uno scrollazzo che è uno scrollone calcolato e giusto per la corporatura di un ragazzo, basta! [...] il merce rinviene ma subito attacca coi vomiti, vomita a più non posso con la testa dentro nel secchio, scaracchia e qui le cose si fanno serie, mica posso andare avanti così all’infinito io. [...] poi di colpo attacca a cacare e inzomma prima che c’infilo il secchio si sporca attorno parecchio, o. Forse è la volta che si svuota, piscia dal culo e peta e tira puzze bestiali, così mi parlo e mi convinco che non è il caso di vomitare anch’io, mi trattengo, dico Cris te sei un cavaliere errante e come tale hai delle responsabilità, mica puoi permetterti di svenire per un po’ di odore.135

Il linguaggio è continuamente caratterizzato da espressioni gergali, popolari, fino all’uso aperto della volgarità e della scurrilità. Ne risulta una sorta di umorismo linguistico in cui sono numerose anche le distorsioni lessicali (gnente vs. niente; inzomma vs. insomma). Questo livello stilistico si alterna però con pause liriche, giochi enigmistici, sciarade e anagrammi. La prosa inoltre, è quasi sempre ritmata e assonanzata, come in questo caso: Così adesso penso alla Tatti. Alla Tatti che è bella. Alla Tatti che s’è messa in guerriglia. Alla Tatti che fa la pulzella. Alla Tatti che fa figli di tutti. Alla Tatti che fa figli di nessuno. Alla Tatti che fa le bande coi matti. M’incazzo con la Tatti, dico: te e le tue amiche dei collettivi di lotta. Dei collettivi di potta.136

Il lavoro sulla forma del testo si completa con la componente meta-letteraria del romanzo, visibile dapprima nella rivendicazione della scrittura in prima persona da parte del protagonista («Sono Antonio Cristiano Rigotti detto Cris e comunque sia chiaro che da questo momento mi muovo nel romanzo mio»)137 per lasciare poi spazio alla continua richiesta del personaggio di “conferire” con l’autore quando Cris inizia a sentire la fatica di narrarsi: Adesso dico la verità, sono un cavaliere errante e non ho paura di gnente, ma vorrei conferire con l’autore di questa storia perché c’è qualcosa qui che a me caldamente non piace e che lui forse nemmeno la capisce, autore! Autore per favore. Autore del mio personaggio. Autore dell’ortolano di Baggio. Autore della Fernanda in calore. Autore del Lessandro-Cassandro e del Diarrea e delle nzòchere fiorentine, gnente. Non c’è nessuno qua dentro. Qua dentro c’è soltanto chi vive e chi è vissuto e a me a volte succede di sentirmi vissuto troppo alla svelta e in sbaraglio dentro il malloppo delle responsabilità, perché?138

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Ibid., pp. 49-50. Ibid., p. 22. 137 Ibid., p. 4. 138 Ibid., p. 72. 136

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La troga, pubblicato nel 1988, è il secondo romanzo di Giampaolo Rugarli (il libro d’esordio dell’anno precedente, Il superlativo assoluto, aveva vinto il premio “Bagutta opera prima”).139 Rugarli inserisce la vicenda de La troga nel contesto degli “anni di piombo”, che specialmente all’inizio del racconto vengono evocati costantemente: Ora si sequestrava, si storpiava, si uccideva ogni giorno e queste costumanze, piuttosto cruente, appartenevano alla società, come dire a una maniera di vivere [...]. Le istituzioni rivendicavano il loro buon diritto ad allignare, magari riformate, per non cedere spazio all’allignare del terrorismo, del qualunquismo e delle pulsioni liberticide.140

Uno dei primi avvenimenti di rilievo nel romanzo è una strage terroristica: [...] c’era stato uno scoppio all’agenzia della Banca di Depositi e Sconti in via Due Macelli. I morti erano venti, forse di più; i feriti un centinaio. Si pensava a un attentato terroristico.141

In questo clima generale, il commissario Carlo Pantieri riceve la visita di una vecchia signora che lo implora di indagare su una misteriosa associazione segreta, la “troga”, dalla quale chiede di essere protetta. Scettico di fronte alle sue oscure dichiarazioni, la congeda pensando ad un delirio senile. Ma ben presto tutte le persone a lui vicine iniziano a farsi sfuggire la parola “troga” e soprattutto iniziano a compiersi una serie di delitti. Tra gli altri, vengono uccisi anche l’anziana donna e suo figlio, il professor Gruvi. Di questo omicidio viene accusato Pantieri, abilmente “incastrato”. Riesce ad evadere e a riprendere le sue indagini approfittando di un attentato dinamitardo contro il carcere nel quale era rinchiuso. Da qui in poi si susseguono episodi eclatanti, come il rapimento dell’onorevole Lauro Grato Sabbioneta, che verrà trovato ucciso. Ma nulla è come sembra e solo alla fine ci saranno le soluzioni dei vari enigmi: Sabbioneta è vivo, dopo essere riuscito a sfuggire ai suoi rapitori ed avere inscenato la sua morte. La troga è una creazione dello stesso Sabbioneta (è l’anagramma di uno dei suoi nomi), che però ne ha perso totalmente il controllo. Il suo rapimento è stato voluto dall’onorevole calabrese La Calenda, suo compagno-nemico di partito, oltre che ministro dell’interno (ma con un figlio terrorista). L’intera vicenda è dunque uno scontro di potere senza esclusione di colpi che si gioca fra La Calenda e Sabbioneta.

139 Con Il nido di ghiaccio (1989) e Andromeda e la notte (1990) Rugarli è finalista rispettivamente al premio Campiello e al premio Strega. Con Il punto di vista del mostro (2000) vince il premio Piero Chiara. È anche autore di saggi e commedie. 140 G. Rugarli, La troga, Milano, Adelphi, 1988, p. 15. Vengono menzionati anche il “compromesso storico” e il conseguente governo di unità nazionale, fortemente voluti da Aldo Moro, di lì a poco rapito e ucciso dalle Brigate Rosse: «Sai meglio di me che, entro Natale, verrà affidato a Sabbioneta l’incarico di formare il nuovo governo... farà un governo di solidarietà nazionale. Forse non è una prospettiva entusiasmante, ma una diversa ripartizione delle spoglie porterà un po’ d’ordine, anche se lo scandalo non finirà. Ormai persino i funzionari di polizia pretendono dai delinquenti la loro piccola tangente...». Ibid., p. 25. 141 Ibid., p. 33.

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Con questa trama, La troga potrebbe sembrare un romanzo di genere, un “giallo”, ma una lettura attenta rivela che ne costituisce una sorta di parodia. È strutturato innanzitutto come un’opera teatrale, con tre atti, un prologo e un epilogo e a ben vedere i personaggi principali si muovono come delle maschere: essi non hanno profondo spessore psicologico; sono rappresentativi di vari “tipi” italiani (il politico, il cardinale, il procuratore, il commissario, il terrorista, la prostituta, ecc). C’è per tutta la durata del romanzo un’atmosfera allucinata, da incubo. La vicenda si svolge in una Roma plumbea, battuta continuamente da piogge torrenziali che danno vita ad un paesaggio putrido e paludoso. Il cielo è continuamente sorvolato da dirigibili (si scoprirà che sono frutto di artificio) che si aggirano inquietanti sopra Roma. Troga, la parola che dà il titolo al romanzo non è presente in alcun dizionario ed è dunque pura invenzione dell’autore.142 Al tempo stesso si carica di significati che sono altamente funzionali nell’economia del romanzo. Leonardo Sciascia, entusiasta recensore del libro di Rugarli, ne offre questa spiegazione, in parte basata sulle informazioni offerte dal testo: Dal greco TROGO: corrodo, rodo, divoro, ma anche come anagramma del nome di un protagonista del racconto: Grato. Nell’uso ormai invalso, la parola ha il significato dell’operare, nel governo dello stato, da parte di coloro che ne hanno il potere, a modo di un’associazione criminale. A parte il greco, cui l’autore dichiara il suo debito, la parola raccoglie come un’eco del TROCAR castigliano: «Permutar, dar una cosa per otra. Equivocar, tornar una cosa per otra. Mudarse de genero de vida. Cambiar enteramente una cosa. Vomitar, arrojar lo que se ha comido»: che è quel che nel libro vediamo variamente accadere. Il governo dello stato che si muta in un’associazione a delinquere. Gli uomini che ne sono parte, che ne esercitano il potere, del tutto mutati rispetto alle apparenze: di altra, segreta e delittuosa vita.143

La parola sta dunque a significare in prima istanza il lavoro lento e paziente di corrosione operato ai danni dello Stato da quegli stessi uomini deputati al suo funzionamento e alla sua difesa. Nel libro si possono vedere in filigrana – seppur trasfigurate – le vicende italiane degli anni Settanta e Ottanta: le trame di stato e la strategia della tensione; il terrorismo e i depistaggi; la corruzione e le lotte di potere all’interno della Democrazia Cristiana; il caso Moro e la massoneria (la Troga sembra avere molti punti in comune con la loggia massonica P2 di Licio Gelli).144 142 Sabbioneta alla fine del romanzo rivela: «la troga fu una mia creazione: questa parola, così invadente, non è che l’anagramma del mio secondo nome di battesimo. La mia idea era elementare, persino rozza: mi occorreva un mostro non ben definito, ma dai connotati ripugnanti, al quale riferire l’immenso male che accadeva per vocazione naturale e l’altro poco che io mi ingegnavo di aggiungere». Ibid., p. 230. 143 L. Sciascia, Cronache all’italiana con incubo, «Tuttolibri», Anno XIV, n. 602, 7 maggio 1980. 144 Vedi nota 63 di questo capitolo. Le somiglianze con la P2 si possono rilevare ad esempio in questa descrizione della “Troga” offerta dal professor Gruvi: «Cominciò all’incirca cinque anni fa: eravamo una setta, una società segreta, qualche cosa di simile a una loggia massonica, quello che le pare... Non so proprio perché ci chiamammo “la troga”; [...] Eravamo in molti: personaggi conosciuti, potenti, ricchi. Eravamo organizzati in cellule non comunicanti e quindi io non potrei fare nomi all’infuori di quelli della mia cellula. Con me c’era Lucilla Opitz, la figlia dell’ingegner Gerardo Opitz, il neopresi-

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Rugarli individua l’inizio di questo periodo oscuro della storia contemporanea italiana nella strage di Piazza Fontana: Erano tempi di sazietà e di sospetto. L’inizio dell’era risaliva agli Anni Sessanta quando, in una banca di una grande città, era scoppiata una bomba provocando morti e feriti. Una strage priva di logica e che perciò aveva ispirato logiche sottilissime. [...] ma dopo erano scoppiate altre bombe e c’erano stati altri morti.145

Nel testo, gli eventi e i personaggi rappresentativi di questa “era” sono messi insieme, sottoposti a forza centrifuga. Si viene così a creare una vicenda eccessiva, in gran parte inverosimile, con azioni, delitti e personaggi altrettanto inverosimili (il giudice Biraghi, amico di Pantieri, è l’artefice di un attentato simile a quello di Piazza Fontana e provoca volontariamente un’epidemia di peste; Sabbioneta riesce a sfuggire al sequestro travestendosi da suora). La realtà -già di per sé romanzesca – dei fatti italiani, viene trasportata su un piano surreale e grottesco. Ma, seppur distorti in questa trasposizione “eccessiva”, molti dei protagonisti e degli eventi di quegli anni sono riconoscibili e, come nota Sciascia, «il lettore ne ha come un senso di sdoppiamento: mentre segue con divertimento il vertiginoso ritmo della vicenda “inverosimile” ne va riscontrando nella memoria i particolari veri».146 A questa trama eccessiva, corrisponde una prosa egualmente eccessiva dove non mancano distorsioni linguistiche, elementi dialettali, rime e allitterazioni. Tra gli eventi di quegli anni a cui si allude nel romanzo si possono riconoscere due episodi fondamentali degli “anni di piombo”: il caso Donat-Cattin e il sequestro Moro. L’onorevole La Calenda, ministro dell’interno, ha un figlio segreto, Ciro De Fiore, che è un terrorista. Ad un certo punto la paternità viene resa pubblica, con conseguente scandalo: [...] Ciro De Fiore non era un personaggio insignificante; la Procura della Repubblica di Genova aveva spiccato contro di lui un mandato di cattura: era ricercato per l’uccisione di un magistrato e di un giornalista, per un attentato contro una scuola, per alcune rapine... Era un terrorista. Oh, sì , su questo non pioveva, era un terrorista.147

La vicenda fa chiaramente riferimento a quella di Marco Donat-Cattin, esponente di spicco e tra i membri fondatori del gruppo terroristico di sinistra “Prima Linea”. Suo padre era Carlo Donat-Cattin, uno dei più importanti uomini politici della Democrazia Cristiana, ministro della Repubblica in vari dicasteri dal 1969 al 1978. L’arresto del figlio, avvenuto nel 1980, costrinse Donat-Cattin a dimettersi dai suoi incarichi politici e a lasciare temporaneamente la politica. Rugarli tuttavia distanzia la vicenda in un ambito umoristico e grottesco, anche grazie all’uso esclu-

dente della banca di Depositi e Sconti...». [...] I guai arrivarono quando mi accorsi che anche la troga si stava politicizzando. [...] Non eravamo più degli scellerati, ma dei cospiratori al servizio di un partito o meglio di una corrente di un partito. Non fabbricavamo più peccati, ma volgarissimi delitti politici. Questo era ripugnante». G. Rugarli, op. cit., pp. 69-71. 145 Ibid., p. 15. 146 L. Sciascia, Cronache all’italiana con incubo, cit. 147 G. Rugarli, op. cit., p. 100.

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sivo del dialetto calabrese in cui si esprime il terrorista figlio del ministro: [...] Mi cridia ca patrima fussa ’nu cavalieri, ’nu galantomu, picchì era ministru: ’npeci puru illu arrubbava e uccidìa, ma alla granne. Mi parìa la Fiat de l’assassiniu, d’u latruciniu, de la froda. ’A catina di muntaggiu stava a Roma, dint’u palazzu: era llà che si facìa la ricchizza, era llà che stava lu mulinu, ca stava lu granaru... ’U mulinu macinava ccu la rota du tradimentu... Chisti cose mi ’mparai patrima e io ho capito ca chini ammazza ’nu cristianu è n’ assassinu e chini n’ammazza cientu è ’n omo di Statu... [...].148

Anche il sequestro Moro subisce un “abbassamento” umoristico attraverso le peripezie del sequestro di Lauro Grato Sabbioneta. I riferimenti al rapimento del politico democristiano sono evidenti nella sottolineatura della sua “grafomania” e nelle accuse ai compagni di partito. Ma anche in questo caso, la vicenda viene distanziata e alleggerita attraverso il ricorso ad elementi completamente estranei alla vicenda reale e all’uso di un linguaggio che non esita a ricorrere a termini volgari: Lauro Grato Sabbioneta, dalla prigione in cui lo costringevano i suoi rapitori, spediva messaggi. Per posta, per corriere speciale, per telegrafo, per affissione murale, per cestini dei rifiuti... Bastava adocchiare una carta e con novanta probabilità su cento era una lettera di Sabbioneta. [...] Sabbioneta mandava a dire delle cose orrende: che era stato processato da un tribunale rivoluzionario, che era stato condannato a morte e che non aveva alcuna intenzione di morire. Una bella pretesa. E poi perché questa fisima di salvare la pelle a ogni costo? Perché i suoi compagni di partito erano dei manigoldi, perché il gioco politico non era che una coglionatura, perché gli premeva di ritornare a gingillarsi con la sua raccolta di francobolli. Assolutamente scandaloso. Se Sabbioneta scriveva simili follie, era stato drogato, era stato coartato, era stato deprivato; certo non era più lui. D’altro canto, il prezzo che veniva richiesto per graziare il prigioniero era impossibile: la scarcerazione di un gruppetto di terroristi in attesa di processo. [...] Già le precedenti lettere distruggevano il mito di un uomo e passavano il confine della decenza, ma questa volta l’insigne statista aveva obliato ogni pudore. Copriva di cancheri e di maledizioni i compagni di partito, riaffermava un amore viscerale per la sua raccolta di francobolli, proclamava che la vita umana serviva solo alla ingestione, alla defecazione e di tanto in tanto alla copulazione, concludeva di essere annichilito di fronte al pensiero di dover morire e confessava «di cacarsi sotto dalla paura».149

Nonostante il carattere inverosimile e il tono umoristico del romanzo, nel corso della narrazione vi sono – espresse attraverso vari personaggi – numerose riflessioni dell’autore, il quale vede e denuncia la corruzione partitica e l’incapacità di rinnovarsi della classe politica italiana (appena cinque anni dopo la pubblicazione del romanzo esploderà lo scandalo di “Tangentopoli”). Le riflessioni di Rugarli sul terrorismo di sinistra che si possono individuare nel corso del racconto sono simili a quelle di altri scrittori sin qui analizzati. Il terrorismo, lungi dal destabilizzare il “sistema”, con la sua minaccia lo ha paradossalmente stabilizzato, impedendo il rinnovamento e rinsaldando le vecchie classi dirigenti al potere. Uno dei protagonisti minori della storia, il banchiere Opitz, afferma a questo proposito: 148 149

Ibid., p. 212. Ibid., pp. 146-156.

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Vi è stato un punto in cui l’idillio minacciava di incrinarsi, ma poi, grazie a Dio, è intervenuto il terrorismo e si è incaricato di rinsaldare gli antichi affetti. Il terrorismo ha salvato la democrazia; e, poiché il gioco era pagante, non posso escludere che gruppi di potere costituiti abbiano dato vita a questa o quella banda.150

È lo stesso concetto che viene espresso in termini meno raffinati ma “romanescamente” efficaci da un altro personaggio, il magistrato Raniero Conti, greve e losco procuratore della Repubblica, antagonista di Pantieri: Era una moda il terrorismo: consolidava la democrazzia perché tutti se cacaveno sotto per la democrazzia in pericolo. Insomma: la mejo maniera pe’ tené in piedi l’ammalato era de daje carci ne’ cojoni.151

3.5. Umberto Eco: gli anni di piombo e il medioevo Umberto Eco esordisce come romanziere agli inizi degli anni ’80. Il nome della rosa è un fenomeno editoriale e commerciale di proporzioni straordinarie e dunque si impone come una delle opere letterarie più importanti e rappresentative del decennio. Proprio per questo motivo risulta interessante indagare gli aspetti dell’opera che possono in qualche modo collegarla al discorso che si sta elaborando in queste pagine sugli “anni di piombo” e in generale al clima politico in cui l’opera nasce. Nel corso degli anni ’70, Eco svolge non solo una brillante attività di professore universitario, semiologo e saggista, ma è anche uno degli intellettuali italiani che più spesso intervengono nel dibattito politico attraverso la sua attività di pubblicista. Con i suoi articoli apparsi sul quotidiano «La Repubblica» e sul settimanale «L’Espresso», Eco, sin dal 1977, segue e commenta l’evolversi del fenomeno terroristico (specialmente di sinistra) in Italia.152 Vale la pena richiamare qui alcuni di questi interventi sia per il loro valore di testimonianza – da parte di uno dei nostri intellettuali più importanti – su uno dei momenti più drammatici e complessi nella storia d’Italia, sia per la loro affinità con le tematiche che emergeranno in alcuni passaggi de Il Nome della Rosa. Nell’articolo apparso sull’«Espresso» del 19 maggio 1977, Eco si sofferma su quella che diverrà una vera e propria icona degli “anni di piombo”, ovvero quella foto che immortala la figura di un dimostrante col passamontagna, il quale solo, in mezzo alla strada, impugna con entrambe le mani una pistola puntata verso la polizia. La foto venne scattata a Milano il 14 maggio 1977, quando durante una dimostrazione di piazza organizzata dalle formazioni extraparlamentari di estrema sinistra, alcuni “autonomi” spararono sulla polizia uccidendo l’agente Antonio Custra. Eco comprende subito – profeticamente – il potenziale iconico di questa immagine («questa è una di quelle foto che passeranno alla storia e appariranno su 150

Ibid., p. 121. Ibid., pp. 188-189. Gran parte di questi articoli sono stati raccolti in U. Eco, Sette anni di desiderio, Milano, Bompiani, 1983. 151 152

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mille libri»)153 e ne offre una interpretazione che contiene una severa critica delle frange violente all’interno del movimento del ’77: Cosa ha “detto” la foto dello sparatore di Milano? Credo abbia rivelato di colpo [...] qualcosa che stava circolando in tanti discorsi, ma che la parola non riusciva a far accettare. Quella foto non assomigliava a nessuna delle immagini in cui si era emblematizzata, per almeno quattro generazioni, l’idea di rivoluzione. Mancava l’elemento collettivo, vi tornava in modo traumatico la figura dell’eroe individuale. E questo eroe individuale non era quello della iconografia rivoluzionaria [...], il miliziano morente o il Che ucciso [...]. Questo eroe individuale invece aveva la posa, il terrificante isolamento degli eroi dei film polizieschi americani (la Magnum dell’ispettore Callaghan) o degli sparatori solitari del West [...]. Questa immagine evocava altri mondi, altre tradizioni narrative e figurative che non avevano nulla a che vedere con la tradizione proletaria, con l’idea di rivolta popolare, di lotta di massa.154

Il significato dell’immmagine può dunque estendersi ai gruppi terroristici come le “Brigate Rosse”, le quali essendosi autoproclamate avanguardie armate del movimento operaio, sono lontane e isolate da coloro che vogliono rappresentare proprio in virtù della loro elitarietà. Eco ritorna sul concetto di rivoluzione e sul coinvolgimento delle masse in un altro articolo del 1979, questa volta su «La Repubblica»: [...]le rivoluzioni (di massa) scoppiano e vincono solo quando di fatto esse sono già preparate nei parlamenti. Quando questa lenta legittimazione delle devianze non si verifica, non c’è rivoluzione, ma rivolta periferica, per forte che sia, e chi la teorizza come rivoluzione commette un errore politico.155

Lo scrittore piemontese era intervenuto pubblicamente nel dibattito sul terrorismo anche un anno prima, durante il sequestro di Aldo Moro. Anche in questa occasione, come nell’interpretazione dell’immagine dello sparatore di Milano, svolge una puntuale e minuta analisi di un documento, in questo caso scritto. Eco infatti cerca di decodificare il primo comunicato delle “ Brigate Rosse”, rilasciato dopo il rapimento del politico democristiano, per metterne in evidenza le contraddizioni («[...] non si reagisce affermando soltanto che il comunicato è farneticante, delirante, fumoso, folle. Esso va analizzato con calma e attenzione; solo così si potrà chiarire dove il comunicato, che parte da premesse abbastanza lucide, manifesta la fatale debolezza teorica e pratica delle BR»).156 Nell’articolo si riconosce che le BR, pur rappresentandolo in maniera semplicistica, non si discostano molto dal vero nella loro individuazione di quello che loro chiamano SIM, ovvero il “Sistema Imperialistico delle Multinazionali” che dicono di voler combattere: [...] nessuno si nasconde che la politica internazionale planetaria non è più determinata dai singoli governi ma appunto da una rete di interessi produttivi [...] la quale decide delle 153

U. Eco, Una foto, «L’Espresso», 29 maggio 1977. Ibid. 155 U. Eco, Sul 7 aprile, «La Repubblica», 22 aprile 1979. 156 U. Eco, Colpire quale cuore?, «La Repubblica», 23 marzo 1978. 154

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politiche locali, delle guerre e delle paci [...] .157

Ma proprio perché questo potere delle multinazionali esiste, «l’idea di rivoluzione alla Che Guevara è diventata impossibile». In questo senso, le azioni di guerriglia locali, secondo Eco, sono completamente ininfluenti e inutili. Dovunque venga colpito il sistema, «sarà sempre alla sua periferia».158 Il sistema accetta le piccole guerre locali e anche il terrorismo, perché non ne scalfiscono l’essenza: Il terrorismo non è il nemico dei grandi sistemi, ne è al contrario la contropartita naturale, accettata, prevista. Il sistema delle multinazionali non può vivere in una economia di guerra mondiale (e atomica per giunta), ma sa che non può nemmeno ridurre le spinte naturali dell’aggressività biologica o l’insofferenza di popoli o di gruppi. Per questo accetta piccole guerre locali [...], e dall’altro lato accetta appunto il terrorismo.159

Il terrorismo dunque, secondo Eco, è un male previsto e necessario per il “sistema” che i brigatisti dicono di voler colpire al cuore e paradossalmente quasi “benefico” per la sua sopravvivenza. In una situazione economico-politica in cui le grandi forze si muovono su scala planetaria, Eco vede i brigatisti come perdenti e pericolosi “eroi”: La lotta è tra grandi forze, non tra demoni ed eroi. Sfortunato allora quel popolo che si trova tra i piedi gli “eroi”, specie se costoro pensano ancora in termini religiosi e coinvolgono il popolo nella loro sanguinosa scalata a un paradiso disabitato.160

Lo scrittore, prima della stesura del romanzo, si era dunque lungamente e costantemente occupato degli “anni di piombo”; di conseguenza non stupisce il fatto che nel Nome della Rosa emergano, seppure “in controluce”, dei riferimenti al periodo storico iniziato con la contestazione giovanile e proseguito con la violenza della lotta armata. Non è un caso forse che il testo contenga un riferimento al “Sessantotto” proprio nell’esordio, dove Eco, costruendo l’artificio del manoscritto, ci dice di aver ricevuto il libro uscito dalla penna dell’abate Vallet precisamente «il 16 agosto 1968».161 Un’altro riferimento temporale fondamentale è citato da Eco nelle “Postille” (comparse prima in rivista nel 1983 su Alfabeta e poi nelle edizioni successive del Nome della rosa) nelle quali l’autore tiene a farci sapere che ha «incominciato a scrivere nel marzo ’78».162 È una data importantissima se si tiene conto che il rapimento di Aldo Moro e il massacro della sua scorta avvennero il 16 marzo di quell’anno. Per quanto riguarda il contenuto del romanzo, le pagine in cui è possibile notare i riferimenti agli “anni di piombo” sono ovviamente quelle in cui si discute e si narra dei movimenti ereticali e in particolare dell’eresia dolciniana. La confessione del cellario Remigio, sottoposto all’interrogatorio di Bernardo Guy, è ad esempio una di 157

Ibid. Ibid. Ibid. 160 Ibid. 161 U. Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1984, p. 11. 162 Ibid., p. 511. 158 159

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quelle zone del testo che possono essere lette secondo una duplice prospettiva storica: E abbiamo bruciato e saccheggiato perché avevamo eletto la povertà a legge universale e avevamo il diritto di appropriarci delle ricchezze illegittime degli altri, e volevamo colpire al cuore la trama di avidità che si estendeva da parrocchia in parrocchia, ma non abbiamo mai saccheggiato per possedere, né ucciso per saccheggiare, uccidevamo pr punire, per purificare gli impuri attraverso il sangue [...]. [...] Noi volevamo un mondo migliore, di pace e di gentilezza, e la felicità per tutti, noi volevamo uccidere la guerra che voi portavate con la vostra avidità, perché ci rimproverate se per stabilire la giustizia e la felicità abbiamo dovuto versare un po’ di sangue, [...] era anche sangue nostro, non ci risparmiavamo, sangue nostro e sangue vostro, tanto tanto, subito subito [...].163

Una lettura in chiave contemporanea di questo passaggio sembra giustificata anche dall’impiego dell’espressione “colpire al cuore”, notoriamente usata dai brigatisti in più occasioni nei loro slogan e nelle loro rivendicazioni. Secondo Bruno Pischedda, l’autore del Nome della rosa «vuole parlarci della realtà drammatica degli anni ’70, ma vuole farlo in maniera protetta. [...]. L’insistenza, per esempio, con cui Eco torna sulle eresie e sulla loro base nell’emarginazione sociale, sembra dirci qualcosa di significativo sulla realtà italiana della seconda metà degli anni ’70».164 Vi sono poi dei passaggi in cui, anche grazie a eccezionali e sorprendenti coincidenze, si possono riconoscere dei riferimenti specifici ad alcuni dei protagonisti degli “anni di piombo”. La biografia di Dolcino è pericolosamente simile a quella di Renato Curcio, fondatore e “capo storico” delle Brigate Rosse, il quale iniziò la sua attività politica a Trento,165 città nella quale conobbe Margherita Cagol, diventata poi sua moglie:166 Era un giovane di ingegno acutissimo e fu educato alle lettere, ma derubò il sacerdote che si occupava di lui e fuggì verso oriente, nella città di Trento. E lì riprese la predicazione di Gherardo, in modo anche più ereticale [...].[...] si sa di certo che iniziò la sua predicazione a Trento. Lì sedusse una fanciulla bellissima e di nobile famiglia, Margherita, o essa sedusse lui, come Eloisa sedusse Abelardo [...]. A quel punto, il vescovo di Trento lo cacciò dalla sua diocesi, ma ormai Dolcino aveva raccolto più di mille seguaci, e iniziò una lunga marcia che lo ricondusse nei paesi dove era nato. E lungo il cammino gli si univano altri illusi, sedotti dalle sue parole [...].167

163

Ibid., pp. 387-378. B. Pischedda, Come leggere «Il nome della Rosa», Milano, Mursia, 1994, pp. 91-92. Renato Curcio, tra i fondatori e capo delle Brigate Rosse fino al 1975, anno in cui fu arrestato, visse a Trento dal 1963 al 1969 mentre frequentava la facoltà di sociologia presso l’allora Istituto Superiore di Scienze Sociali. Qui la contestazione studentesca si manifesta prima e in modo più forte che altrove in Italia. Curcio inizia qui la sua attività politica anche se il passaggio alla lotta armata si concretizzerà altrove e in una fase successiva. 166 Margherita Cagol, detta Mara, è co-fondatrice delle BR. Cattolica e proveniente da una famiglia borghese di Trento, sarà una delle presenze più importanti nelle Brigate Rosse fino al giorno della sua uccisione in uno scontro a fuoco con i carabinieri, avvenuto il 5 giugno 1975. Questi avevano fatto irruzione nella cascina dove i brigatisti tenevano prigioniero l’industriale Vallarino Gancia, rapito per finanziare il gruppo eversivo. 167 U. Eco, Il nome della rosa, cit., p. 228. 164 165

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Lo stesso Eco, in un’intervista comparsa su «Lettera Internazionale», non nega un’interpretazione in chiave contemporanea delle vicende medievali in queste parti del romanzo e spiega i rapporti di causa ed effetto tra le suggestioni provenienti dalle due epoche storiche nella stesura del testo: Nel corso della narrazione mi accorsi che emergevano – attraverso questi fenomeni medievali di rivolta non organizzata – aspetti affini a quel terrorismo che stavamo vivendo proprio nel periodo in cui scrivevo, più o meno verso la fine degli anni Settanta. Certamente, anche se non avevo un’intenzione precisa, tutto ciò mi ha portato a sottolineare queste somiglianze, tanto che quando ho scoperto che la moglie di Fra’ Dolcino si chiamava Margherita, come la Margherita Cagol moglie di Curcio, morta più o meno in condizioni analoghe, l’ho espressamente citata nel racconto.168

168 A. Fagioli, Il romanziere e lo storico. Intervista a Umberto Eco, «Lettera Internazionale», Anno XIX, n. 75, I trimestre, 2003, p. 2.

IV. GLI ANNI ’90: L’INIZIO DELLA RIFLESSIONE

All’inizio degli anni ’90 gli “anni di piombo” possono considerarsi definitivamente conclusi, anche se l’ultima vittima delle Brigate Rosse del decennio precedente risale al 1988: il 16 aprile di quell’anno viene ucciso Roberto Ruffilli, professore universitario e senatore della Democrazia Cristiana. Sul finire degli anni ’90, precisamente il 20 maggio 1999, troverà la morte per mano delle cosiddette “Nuove Brigate Rosse” Massimo D’Antona, giuslavorista e consigliere dell’allora ministro del lavoro Antonio Bassolino. Nel decennio intercorso tra i due episodi non ci sono tuttavia fatti di terrorismo di un certo rilievo e dal carcere gli stessi ex terroristi cosiddetti “irriducibili” ufficializzano con un documento che la lotta armata contro lo Stato è finita.1 Dal punto di vista letterario, la conclusione del fenomeno coincide con un approccio che tende al recupero attraverso la memoria di quegli anni e alla riflessione su di essi, come avviene ad esempio nell’opera di Erri De Luca, che con Aceto, Arcobaleno restituisce una disperata e tragica figura di ex terrorista. Nella produzione degli anni ’90 si ritrovano temi già emersi nei decenni precedenti (come ad esempio il conflitto generazionale quale possibile spiegazione della rivolta e della lotta armata, presente nei romanzi di Vincenzo Consolo e Nerino Rossi) ed altri temi nuovi, come l’influenza dei “cattivi maestri” sulla generazione degli anni di piombo, oggetto del romanzo di Vincenzo Mantovani (intitolato appunto Il cattivo maestro) e presente in Alonso e i visionari di Anna Maria Ortese. Mantovani e Consolo introducono in letteratura anche la questione degli “esuli” o rifugiati politici in Francia, ovvero di quegli ex terroristi o presunti tali che sfuggirono alla giustizia italiana approfittando dell’asilo politico concesso dall’allora presidente francese Mitterand.

1Il 23 ottobre 1988, in un documento firmato da brigatisti tra i quali Prospero Gallinari, Francesco Piccioni e Bruno Seghetti, viene ammessa la sconfitta della lotta armata, e si dichiara che la guerra è finita: «Oggi le Brigate Rosse coincidono di fatto con i prigionieri politici delle Brigate Rosse. [...] Occorre portare la propria esperienza storica sul terreno della lotta politica. [...] La prima battaglia da fare è quella per un’amnistia politica generale. [...] La lotta armata contro lo Stato è finita».

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Capitolo quarto

4.1. I ‘cattivi maestri’ di Vincenzo Mantovani e Anna Maria Ortese: Lorenzo Vitali e Antonio Decimo Vincenzo Mantovani2 affronta ne Il cattivo maestro il tema del terrorismo privilegiando due tematiche molto dibattute nelle discussioni sugli anni di piombo. Sviluppa infatti una trama narrativa nella quale i protagonisti principali sono un “cattivo maestro” e alcuni esuli e rifugiati politici italiani in Francia. Il titolo stesso dell’opera mette in evidenza la questione della responsabilità morale di coloro i quali, pur non avendo preso attivamente parte ad azioni di lotta armata, hanno però contribuito a creare il “clima” in cui quelle azioni furono ideate e portate a compimento. Sono appunto quelli che sono stati chiamati i «cattivi maestri», spesso intellettuali e docenti universitari che hanno infiammato gli animi di molti giovani negli anni ’70.3 La vicenda si svolge nella metà degli anni Novanta. Lorenzo Vitali è un ex docente di filologia romanza alla “Statale” di Milano, in esilio volontario a Nizza dopo aver scontato otto anni di carcere per incitamento al terrorismo. È uno di coloro i quali nel 1979 furono al centro del caso “7 aprile”,4 quando la magistratura, convinta di aver scovato la “mente” del terrorismo rosso, lo arrestò con altri amici e collaboratori. Ha ormai sessantacinque anni, sua moglie è morta e pochi e saltuari sono i rapporti con i figli (di cui uno è missionario in Africa). È morta anche Eleonora, la donna più importante della sua vita, uccisa in uno scontro a fuoco con i carabinieri durante gli anni del terrorismo. A Nizza Vitali ha una relazione con Edwina, una ricca donna inglese e, seppur in pensione, si dedica alla stesura di un dizionario di italiano. In Francia c’è ora la presidenza Chirac, la quale, sconfessando la “dottrina Mitterand”,5 opta per una politica di estradizione degli ex terroristi italiani. Lorenzo, in quanto esule volontario, non ha nulla da temere, ma per gli altri militanti di sinistra che non avevano saldato il conto con la giustizia italiana cambiano molte cose. L’estradizione più eclatante è quella dell’ex brigatista Giovanni Ferraresi, detto “Nanni”, il quale dalla prigione in Italia chiede di poter vedere Vitali. Non riuscirà

2 Nato nel 1934, Mantovani è uno dei più conosciuti e stimati traduttori dall’inglese. Ha tradotto per le più importanti case editrici opere di Hemingway, Poe, Roth, Vonnegut, Kerouac, Bellow e molti altri. Ha pubblicato, oltre a Il cattivo maestro, uscito nel 1997, altri cinque romanzi. 3 Tra i “cattivi maestri” degli anni ’70 quello che viene più spesso ricordato e menzionato è senza dubbio Antonio (Toni) Negri. Fu tra i fondatori di “Potere Operaio” e “Autonomia Operaia”, nonché professore di Dottrina dello Stato all’Università di Padova. Nel 1979 fu accusato, tra le altre cose, di essere stato la “mente” del sequestro Moro. Fu scagionato da questa accusa ma non da quella di associazione sovversiva. Nel 1983, in carcere in attesa del processo, ricevette la proposta di una candidatura in parlamento con il Partito Radicale. Fu eletto, e subito dopo decise di fuggire in Francia dove rimase per 14 anni. Il protagonista del romanzo, Lorenzo Vitali ricorda alcuni tratti della biografia e delle vicissitudini di Negri. 4 Fu il giorno in cui il sostituto procuratore della repubblica di Padova Pietro Calogero ordinò l'arresto di un gruppo di dirigenti di “Autonomia Operaia” e “Potere Operaio”: tra questi vi erano Toni Negri, Oreste Scalzone, Emilio Vesce e Franco Piperno, accusati di associazione sovversiva e insurrezione armata contro i poteri dello Stato. Molti di loro si rifugiarono in Francia per evitare l’arresto. 5 Va sotto questo nome (fu ideata dal presidente francese Mitterand) la politica di accoglimento e non estradizione, da parte dello Stato francese, di coloro che in altri paesi avevano avuto problemi con la giustizia per atti violenti d’ispirazione politica. Cominciò ad essere attuata nei primi anni ’80.

Gli anni ’90: l’inizio della riflessione

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mai a potergli parlare, perché ancor prima che Vitali possa prendere la sua decisione, viene ucciso in carcere. Vitali rimane sconvolto dall’episodio e – nonostante tutti i suoi tentativi per dimenticarli – viene di nuovo risucchiato dagli “anni di piombo”. Vuole scoprire perché Nanni è stato ucciso e perché voleva parlargli. Inizia così un’ indagine personale che lo porta a ritroso nel tempo fino al Sessantotto per arrivare all’Italia di Berlusconi. L’indagine lo porterà a Parigi, dalla moglie di Nanni, poi a Milano e a Roma, dove con la mediazione del giornalista inglese Fisher riesce a parlare con Bruno Ratti, vecchio esponente di Ordine Nuovo e poi del Movimento Sociale Italiano. Proprio l’estremista di destra gli confermerà ciò che aveva intuito e soprattutto il motivo per cui Nanni era stato eliminato in carcere: egli aveva scoperto – e poteva rivelare con documenti alla mano – che dietro la “svolta militare”delle BR a partire dal 1977 vi era l’opera di infiltrazione di estremisti di destra. Tra questi, spicca la figura di “Blanco”, il quale riuscì a diventare capo delle BR portandole all’apice della loro potenza militare e al tempo stesso alla loro dissoluzione. Lorenzo arriva fino in Patagonia per ritrovarlo e da questi verrà a conoscenza dei segreti politici ma soprattutto del segreto che più lo ossessiona, ovvero quello della morte di Eleonora. Nel frattempo muore il giornalista Fisher (in un incidente molto sospetto) e Bruno Ratti viene ucciso. Di questo assassinio, sarà proprio Vitali ad essere ingiustamente accusato, opportunamente “incastrato” dai servizi segreti. Il romanzo termina con Lorenzo che viene prelevato dalla polizia. Il testo alterna e mescola verità e finzione ripercorrendo, attraverso un’ imponente documentazione, la storia d’Italia degli ultimi quarant’anni. I fatti e i personaggi hanno molto spesso una loro corrispondenza nella realtà e questo fa sì che il romanzo si presenti al lettore come un testo “ibrido” dove alcune parti sono ricalcate su brani di testi e memorie sugli anni di piombo. L’autore cita le sue fonti nella “nota” finale e ammette di aver incorporato «brani quasi testuali tratti da interviste, confessioni e memoriali [...]».6 Ad esempio, quando Lorenzo racconta di aver incontrato in carcere Matteo, uno dei primi brigatisti e appartenente al gruppo cosiddetto “dell’appartamento” di Reggio Emilia, risulta chiaro che Matteo è il personaggio di finzione dietro il quale si cela Alberto Franceschini, uno dei “capi storici” delle BR. Mantovani, dopo aver fatto riferimento al personaggio, ne riprende parte del suo memoriale e lo cita quasi alla lettera: Uno dei salotti dove si discuteva di lotta armata ogni tanto lo frequentavo anch’io. Ero armato di pistola, come sempre, e una volta, meccanicamente, feci il gesto al quale mi ero abituato rincasando. Me la sfilai di tasca e la deposi sul mobile più vicino. Tutti finsero di non vedere quell’arnese, ma dalle occhiate che si scambiarono alcuni dei presenti compresi che provavano un’emozione difficile da spiegare. Forse stavano pensando che tra loro, in quel momento, c’era un vero guerrigliero. 7

Così infatti scrive Franceschini in Mara, Renato e io: In uno di quei salotti dove si discuteva di lotta armata andavo anch’io. Portavo, come 6 V. 7

Mantovani, Il cattivo maestro, Firenze, Giunti, 1997, p. 393. Ibid., p. 139.

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sempre, la pistola con me e, una volta, feci un gesto meccanico al quale mi ero abituato appena rientravo a casa: l’appoggiai sul tavolino più vicino. Nessuno sembrò notare quell’arnese, ma da qualche sguardo che si scambiarono capii che stavano provando un’emozione da raccontare: da loro c’era proprio un guerrigliero, uno che girava con il revolver nella cintura.8

È evidente che le differenze sono minime e che la porzione di testo è quasi trascritta in modo identico. Lo stesso tipo di “prelievo” avviene su altri testi in altre parti del romanzo.9 Anche dove non c’è un richiamo diretto ai testi, la maggior parte degli episodi su cui viene organizzata la trama del romanzo è costruita su avvenimenti realmente accaduti. Le circostanze in cui muore Eleonora sono quasi identiche a quelle in cui trovò la morte Margherita “Mara” Cagol, alla cui biografia il personaggio di Eleonora si ispira.10 Uno dei motivi ricorrenti del romanzo è il passato che ritorna prepotentemente nonostante tutti i tentativi di allontanarlo. L’esilio volontario in Francia e il risentito allontanamento da tutto ciò che ha a che fare con l’Italia e la sua politica non è sufficiente ad evitare che gli anni di piombo, la loro storia e le loro conseguenze possano riemergere a distanza di anni: Non è bastato buttar via il televisore, troncare i collegamenti telefonici, smettere di comprare i giornali, riempirsi di musica le orecchie per impedire al mondo di far udire la sua voce. Per quanto ci si sforzi di ignorarlo, il passato ci segue. In silenzio, senza farsi scorgere. Come un pedinatore ben addestrato che non si fa seminare da nessuno.11

Tutti i tentativi di ricrearsi un equilibrio ed una nuova vita durante tutti gli anni successivi al carcere vengono vanificati dal riaffiorare di vecchi fantasmi usciti dal passato che Lorenzo pensava di aver cancellato: Nanni è uscito dall’ombra del passato come un baubau dalla sua scatola. Gli ha fatto una pernacchia ed è sparito. Ma alle spalle dell’ex brigatista c’è una vera folla che preme per violare la sua pace, che cerca di irrompere, rumoreggiante e tumultuosa, nel rifugio che Lorenzo si è costruito con tanta cura.12

Lorenzo, malgrado voglia dimenticare il passato, è costretto dagli eventi a ripercorrerlo facendosi “investigatore” e attraverso questa inchiesta, riesce a comprenderlo meglio e a capirne il significato. Il romanzo ha una struttura bipartita. Fino a circa la metà del testo (ovvero fino alla morte di Nanni), c’è una riflessione sugli anni di piombo e una loro storia cominciando dalla contestazione giovanile del Sessantotto. In primo piano vi è la storia di Lorenzo, della sua vita passata e presente e dei suoi tentativi per allontanare da

8 A.

Franceschini, P.V. Buffa, F. Giustolisi, Mara Renato e io, Milano, Mondadori, p. 45. L’autore cita nella “nota” i memoriali dei brigatisti Curcio, Faranda, Fenzi, Moretti, Peci e di Sergio Lenci, vittima sopravvissuta ad un agguato. 10 Vedi la nota 166 nel capitolo 3. 11 V. Mantovani, op. cit., p. 51. 12 Ibid., p. 131. 9

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sé il suo passato e gli anni di militanza. Con l’estradizione e la conseguente morte di Nanni invece si mette in moto il meccanismo del “giallo”. Soprattutto nella prima parte del romanzo Lorenzo guarda continuamente al suo passato. Dal punto di vista privato non può far altro che constatare una totale sconfitta: la moglie morta e mai amata e i figli lontani e abbandonati. Dal punto di vista politico, dapprima il suo atteggiamento è risentito e astioso, soprattutto verso l’Italia, poiché ritiene di aver pagato troppo caro il suo essere stato «cattivo maestro», non avendo mai organizzato azioni violente o partecipato ad alcun fatto di sangue: Io ho fatto otto anni di prigione senza aver azzoppato nessuno. [...] Ero l’organizzatore di tutto. Il Grande Vecchio. Il Pericolo Pubblico Numero Uno.13

In seguito, pur permanendo una certa ambivalenza,14 riuscirà a vedere meglio e a riconoscere la sua responsabilità morale.15 Pur non avendo mai ucciso o ferito nessuno, Lorenzo si rende conto di aver usato, troppo e male, parole come “rivoluzione”, “guerriglia” “lotta armata” ; riflettendo sul suo passato, comincia «a scorgere una precisa relazione tra le sue parole e le azioni dei terroristi. Non come la intendeva la magistratura – le seconde puri e semplici effetti delle prime – che voleva attribuirgli penalmente la responsabilità di qualche reato [...]. Ma nel senso che lui, dentro di sé, si sentiva complice degli stessi delitti che fuori i terroristi commettevano con le armi. Una responsabilità morale. Lorenzo, gran maestro di parole, scopriva di averle usate con troppa leggerezza.[...] Molti dei suoi compagni avevano preso quelle parole alla lettera, proprio come i magistrati che lo stavano interrogando. E i risultati erano sotto gli occhi di tutti».16 Nella seconda parte del testo, quella “investigativa”, c’è la descrizione, sempre tra finzione e realtà, degli intrighi e delle manovre con i quali diversi apparati dello Stato hanno creato e mantenuto, nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, un clima di tensione politica per provocare una svolta autoritaria. Viene ricostruito nei minimi dettagli il piano all’origine della strage di Piazza Fontana e la complessa rete di rapporti tra neofascisti veneti e servizi segreti. Tale strage, viene poi interpretata come causa scatenante della nascita del terrorismo di sinistra: Le bombe del 1969, e la strumentalizzazione che ne fecero il governo e il capo dello Stato, furono interpretate dai gruppi come un atto di guerra contro di loro. Dimostravano che lo scontro era arrivato a un livello molto alto. I fascisti venivano allo scoperto e intimidivano l’opinione pubblica. Tra noi ci furono infinite discussioni, ma le strade erano due: o chiu-

13

Ibid., p. 50. Questa ambivalenza rispetto alla visione sul passato corrisponde alla stessa ambivalenza mostrata venti anni prima. Così lo lo rimprovera Eleonora : «La mattina scrivi articoli incendiari e la sera getti acqua sul fuoco. Di giorno inciti alla rivoluzione e di notte dai mano alle pompe. [...]». Ibid., p. 118. 15 Il suo amico Sandrino, nelle conversazioni che ha frequentemente con Lorenzo, lo aiuta nella progressiva acquisizione di consapevolezza e tra le altre cose gli dice: «Lo so. La tua arma era la lingua. Che ne uccide più della spada, l’hai dimenticato? Oh, li ricordo bene i tuoi sproloqui! Dimmi, perché cianciavi tanto? Per convincere gli altri a fare ciò che non avevi il coraggio di fare tu?». Ibid., p. 39. 16 Ibid., p. 147. 14

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dere con l’esperienza del Collettivo, che nel nuovo clima non aveva più senso; o andare avanti, ma attrezzandosi diversamente.17

Secondo Mantovani, ciò che ha caratterizzato la storia d’Italia degli ultimi quarant’anni e ne permette una corretta interpretazione è l’anticomunismo. In nome di esso si è giustificato tutto: Per capire la storia d’Italia – parlo di quella del dopoguerra, si capisce – non occorrono strumenti particolarmente raffinati. C’è una chiave che apre tutte le porte: il passe-partout dell’anticomunismo. Leggete la storia d’Italia in questa chiave e tutto sarà chiaro, dal Quarto Gabinetto De Gasperi alla P2. In Italia la paura dei comunisti ha sempre spiegato e giustificato ogni cosa. Fino all’ultima campagna elettorale di Cesare Lamiranda [...].18

Come in numerosi romanzi sugli anni di piombo degli anni ’80 – che sono stati esaminati nel capitolo precedente –, anche Mantovani ipotizza che il terrorismo di sinistra possa essere stato eterodiretto, tramite delle infiltrazioni, da apparati il cui fine era quello di creare destabilizzazione e provocare una reazione autoritaria da parte dello Stato.19 Gran parte del lavoro ruota attorno alla figura di Blanco, capo delle Br dal 1977 al 1980 che impone all’organizzazione un’“escalation” di omicidi ed efferatezze. Blanco non è altri che Giulio Sisti20, un ex estremista di destra scomparso dalla circolazione nei primi anni ’70, fintosi morto e infiltratosi nelle BR: [...] ma ti dicevo che in questa storia, Edwina, ci sono due persone la cui vita appare tronca, mozza. Una persona sbucata dal nulla, una scomparsa improvvisamente nel nulla.[...]. Blanco è la prima di queste persone. Quando si materializza, nell’estate del 1974, non sappiamo neppure quanti anni ha. Chi lo incontra gliene attribuisce una ventina o poco più. Blanco scompare nel 1980, ed è come se non fosse mai esistito. La seconda persona è un neofascista. Si chiama Giulio Sisti ed era uno dei gorilla di Bruno Ratti. L’hai visto anche tu, nella cassetta di Nanni. Quello alto col ciuffo sugli occhi, sotto il palco. Di lui so ancora meno di ciò che so di Blanco. Era un piccolo teppista nero. Alla fine degli anni Ses-

17 18

Ibid., p. 102. Ibid., p. 306.

19 Bruno Ratti, ex leader di “Ordine e Progresso” afferma:«Quasi tutti i gruppuscoli della sinistra ex-

traparlamentare furono infiltrati da nostri elementi fidati, che nella maggior parte dei casi agivano anche come leali collaboratori della polizia. Altri agenti provocatori usciti dalle nostre file fecero sì che le manifestazioni organizzate dal Movimento studentesco cominciassero a degenerare in azioni di inutile e feroce vandalismo, mentre scoppiavano le bombe e i giornali ne incolpavano i rossi». Ibid., p. 330. 20 L’avvocato Orsi dice a Lorenzo che Blanco era stato il capo delle BR. «Guarda che Blanco non entra in scena il 7 giugno 1977. Era stato arruolato tre anni prima, quando le Br sembravano in procinto di essere sconfitte dai carabinieri del generale Dalla Chiesa. Frate Mitra, la soffiata della spia, gli arresti del “nucleo storico”, i covi scoperti uno dopo l’altro. Ricordi? Fu un gran brutto momento, per i brigatisti. Vuoi che ti confessi una cosa? Non ho mai capito perché allora lo Stato non diede loro il colpo di grazia. Forse c’erano altri interessi in ballo. Blanco veniva dall’America Latina. Forte della sua esperienza di guerrigliero, diventò immediatamente una specie di consigliere militare. Dicevano che avesse preso parte a non so quali rivolte laggiù. [...] Il terrorismo, che era sembrato alle corde dopo l’ondata di arresti del 1974-75, riprese fiato. Erano azioni più spettacolari, ma anche più sanguinose. E culminarono nel sequestro del Primo Ministro». Ibid., pp. 212-213.

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santa prese parte a qualcuno dei “viaggi di studio” organizzati da “Ordine e Progresso” nella nuova Grecia dei colonnelli. E durante una vacanza estiva a Herro, nelle Canarie, morì. Un banale incidente automobilistico che non mancò di suscitare qualche dubbio, perché Sisti era stato incriminato per lesioni e attentati terroristici e qualcuno sospettava che la morte fosse stata solo un trucco per occultare la sua fuga. Fu persino chiesto di esumare la sua salma, ma la magistratura spagnola non concesse l’autorizzazione. In ogni modo, Sisti morì – ufficialmente – nel 1974. A ventiquattro anni.21

Ciò che Lorenzo non riesce proprio ad accettare, è la sproporzione nel modo in cui sono stati puniti i “rossi” e i “neri”. Il fatto che le stragi “nere” non abbiano avuto colpevoli e che anzi questi siano stati protetti da apparati dello Stato, fa sì che sulla brutta pagina degli anni di piombo non possa essere messa la parola “fine”. Si tratta di uno dei motivi fondamentali del romanzo: Ecco dunque. Sono stati assolti. Nessuno di loro ha pagato. Era questa l’ingiustizia che pesava sulle nostre spalle, e che ora pesa su quelle dei nostri figli. La terribile ingiustizia che ci schiaccia. Una volta c’erano i rossi e i neri [...]. In dieci anni, i primi sono stati sbaragliati. I secondi, no. Coccolati e protetti da settori degli apparati statali, hanno attraversato impunemente ogni bufera giudiziaria. Sono passati altri vent’anni, e i loro scheletri restano ben chiusi negli armadi. Noi rossi abbiamo pagato, tutto, tutto fino all’ultimo centesimo, e in qualche caso più del dovuto. I neri, no.22

Il testo di Mantovani è un romanzo sugli anni di piombo il cui meccanismo narrativo si organizza attraverso le testimonianze degli anni di piombo. L’autore rievoca gli avvenimenti e costruisce il testo attraverso fonti diverse. C’è in esso una sorta di “archeologia” degli anni della rivolta realizzata attraverso le varie forme documentali. La ricerca della verità sull’estradizione e sulla morte di Nanni parte proprio dallo scaffale in cui erano da quest’ultimo custoditi i testi scritti sull’eversione (memoriali, testimonianze, interviste) . Nanni infatti, prima dell’estradizione stava analizzando e “glossando” quei testi organizzando ritagli, foto, appunti: Per la maggior parte sono libri usciti negli ultimi dieci anni, libri che Lorenzo non conosce, non ha letto, non ha voluto leggere. Cronache dei fatti, memorie, ricostruzioni più o meno documentate di quel periodo della storia d’Italia. Ci sono parecchie interviste e autobiografie. Quanto scrivono, questi ex terroristi! Prima hanno fatto parlare di sé con le loro gesta sanguinose. Ora che sono stati resi inoffensivi, si sfogano scrivendo e pubblicando a tutto spiano. Possibile che nessuno senta il bisogno di tacere, come lui?23

Lorenzo dunque continua il lavoro di Nanni su quei testi, iniziando un vero e proprio “studio” sugli anni di piombo: Alcuni libri, i più vecchi, poco aggiungono a quello che sa. Lorenzo li scarta senza prendere appunti e toglie dalla mensola un libro più recente. In altri, scritti durante e dopo la sua carcerazione, trova strane ipotesi e ardite teorie. Esistevano occulte connessioni tra 21

Ibid., p. 353. Ibid., p. 283. 23 Ibid., p. 184. 22

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il terrorismo rosso e quello nero? Le Br erano eterodirette? Che ruolo ebbero i servizi segreti? A poco a poco Lorenzo scopre di poter fare interessanti collegamenti tra episodi che fino a quel momento gli erano apparsi inspiegabili e isolati. Trame cominciano a delinearsi. [...] Così Lorenzo, dopo averlo deliberatamente ignorato per tanti anni, ricostruisce l’ultimo capitolo della storia di Eleonora.24

La ricerca, una volta trovati alcuni indizi, si sposta sul piano delle immagini fisse, attraverso la visita a un fotografo che ebbe l’occasione di scattare numerose immagini di scontri e violenze: Lorenzo era andato da Robi senza riflettere, d’impulso. L’avrebbe fatto, in caso contrario? Forse no. Perché quando Belinda, masticando la sua cicca, apre gli schedari e comincia a squadernargli sotto il naso buste su buste gonfie di fotografie, e da quelle buste, contrassegnate da scritte frettolose col pennarello che dicono Incidenti di via Larga o Annarumma o Zibecchi schiacciato dal gippone o Feltrinelli sotto il traliccio, le foto cominciano a sparpagliarsi sulla scrivania, Lorenzo sente di essere entrato, non nell’archivio di un fotografo, ma in un cimitero. Una morgue di persone e di ricordi. La necropoli di Robi è la camera a gas dei suoi sogni.25

Dalle immagini fisse si passa poi al materiale audiovisivo, quando Lorenzo decide di andare nello studio di un certo Giordano, un programmista RAI scomparso da poco. Vi trova la moglie, la quale gli riferisce che il marito era intenzionato a produrre un documentario sugli anni di piombo. Lorenzo visiona dunque il materiale che Giordano si apprestava a riorganizzare. Qui assiste a una replica di ciò che ha già visto dal fotografo Robi, «solo che stavolta le immagini sono in movimento»:26 Allora, in un lampo, tutto diventa confuso. I candelotti si alzano a parabola, candidi pennacchi di fumo si sprigionano dai piccoli siluri, qualcuno con la faccia coperta da un fazzoletto li raccoglie e li rilancia tra i poliziotti. Quando si arriva al corpo a corpo i manganelli tagliano l’aria, come i manici di piccone che i Katanga del servizio d’ordine, il cranio protetto da un casco da motociclista, hanno sostituito alle aste dei loro vessilli. Lacrime e sangue. Sono gli amici, i compagni. I ragazzi che Lorenzo infiammava con le sue parole. Quelli che si sono sbracciati nelle assemblee, quelli che si sono incolonnati per le strade, quelli che hanno scelto la lotta armata, quelli che sono stati incarcerati, quelli che nelle piazze e in prigione sono morti.27

Vi è dunque una resa progressivamente “dinamica” degli anni di piombo, visti dapprima attraverso la produzione scritta, per poi passare alle immagini fisse della fotografia e alle immagini in movimento dei materiali audiovisivi. Mantovani pone inoltre la sua attenzione nel descrivere la comunità degli “esuli” politici italiani in Francia. La vicenda dell’ “asilo politico” concesso da questo paese a numerosi militanti è indubbiamente una delle questioni più ingombranti ed attuali

24

Ibid., p. 191. Ibid., p. 232. 26 Ibid., p. 139. 27 Ibid. 25

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che gli anni di piombo ancora oggi sollevano nel dibattito politico. La recente vicenda della mancata estradizione del terrorista-scrittore Cesare Battisti ne è una testimonianza. Grazie alla “dottrina” Mitterand, dagli inizi degli anni Ottanta trovarono rifugio oltralpe – soprattutto nella capitale – numerosi militanti di sinistra accusati di atti di terrorismo o di favoreggiamento nei suoi confronti. Numerosi furono coloro che scelsero la via della Francia dopo il famoso “7 aprile 1979”, data in cui il magistrato padovano Pietro Calogero ordinò l’arresto di molti esponenti – in gran parte intellettuali – di “Potere Operaio” e “Autonomia Operaia”.28 Questi esuli ora – con la destra al potere sia in Francia che in Italia- sono descritti nella finzione da Mantovani come in preda all’ansia e al panico per la paura di essere estradati. Mantovani offre di questa “comunità” un quadro particolarmente desolante dal punto di vista umano: Sandrino dice che in quindici anni [...] la comunità degli esuli è diventata un nido di vipere. Gente che già prima si disprezzava cordialmente, ora si odia con tutta l’anima. [...] A Parigi sono circa duecento. Un ricco campionario di miserie e viltà. Chi insegna alla Sorbona, chi ha sposato una francese con la grana, chi riceve un soldo infame dai Servizi segreti di questo o quel paese per sorvegliare i compagni di nascosto, chi sbarca il lunario sbrigando lavoretti occasionali. Qualcuno è morto. Come Duccio, suicida. O come Vasco, di malinconia. Ognuno ha cominciato a badare ai fatti suoi. Oggi si vedono come il fumo negli occhi. Tutti sono contro tutti. Tutti si accusano a vicenda dei più ignobili tradimenti.29

Una delle caratteristiche più evidenti del romanzo consiste nei riferimenti e negli “agganci” alla realtà contemporanea, ovvero agli anni ’90 e all’Italia di Berlusconi durante i quali l’autore scrive. Secondo Mantovani, non c’è soluzione di continuità tra l’avvento della destra neo o post-fascista al potere nel 1994 e gli episodi avvenuti durante gli anni di piombo. La cosiddetta “svolta a destra” parte dalla fine degli anni ’60 e trova compimento con l’elezione di Silvio Berlusconi a primo ministro e con l’ex Movimento Sociale Italiano al governo: Masera ha capito che occorreva allearsi con Lamiranda, il ras della tivù. Risultato: elezioni vinte, sinistre all’opposizione, neofascisti, o post-fascisti, al governo. E Masera ministro dell’Interno.30

Uno dei modi in cui questa continuità si dispiega a livello della trama del romanzo è l’episodio dell’uccisione di Eleonora. Uno dei carabinieri che prese parte allo scontro a fuoco in cui la donna perse la vita, Lomartire, è ora – in virtù del suo aiuto economico fornito alla destra durante la campagna elettorale31 – il capo di gabinetto dell’onorevole Masera, ministro dell’interno e leader dei post-fascisti. Questo aggancio con la contemporaneità si manifesta anche nel riferimento ai vecchi compagni di lotta. Così Sandrino si esprime a proposito di alcuni di loro in una conversazione con Lorenzo: 28 Vedi

nota n. 4 a pag. 128. Mantovani, op. cit., pp. 168-169. Ibid., p. 38. 31 Lomartire ha disponibilità di denaro perché durante l’azione che portò all’uccisione di Eleonora si impossessò illecitamente di una ingente somma in mano ai terroristi. 29 V. 30

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«Non sei stufo di fare penitenza per tutti quelli che hanno pagato con la vita o la loro stupidità o gli intrighi di una cerchia di fanatici e di ambiziosi? » «Di chi parli? Dei compagni?» «Di quelli che ieri inneggiavano alla rivoluzione e oggi dirigono giornali. Di quelli che facevano discorsi più incendiari dei tuoi e oggi fanno miliardi con la televisione».32

L’allusione è rivolta particolarmente a numerosi membri di “Lotta Continua” o della sinistra extraparlamentare che partendo da posizioni rivoluzionarie si sono trovati poi negli anni ’90 in posizioni dirigenziali nei giornali e nelle televisioni di proprietà del grande capitalismo italiano e della destra al potere. Con Alonso e i visionari di Anna Maria Ortese, la narrazione degli “anni di piombo” entra in una dimensione fantastico-visionaria. Il racconto tuttavia mantiene gli agganci con la realtà storica di quegli anni e ne coglie la sua sostanza tragica molto più di altri lavori analizzati fino ad ora. Il lettore viene messo al corrente di un fatto di sangue avvenuto a Prato nel quale ha trovato la morte Julio Decimo, capo di una organizzazione terroristica durante gli anni di piombo, per molti anni rifugiato all’estero. Il fatto – ancora senza colpevole e movente – ha luogo nella casa di suo padre, Antonio Decimo, uomo superbo, intellettuale nichilista-positivista («Egli disprezzava [...] tutto ciò che non fosse la pura intelligenza [...]»)33 e ispiratore di terroristi. Della vicenda discutono Stella Winter (è lei l’io narrante), una signora americana che vive sulla riviera ligure al confine con la Francia, e il suo amico e ospite Jimmy Op, professore statunitense. Egli è amico di Antonio Decimo, ma ne rappresenta l’esatto contrario nel suo essere uomo buono e compassionevole. Op racconta a Stella di un suo viaggio avvenuto trent’anni prima in Arizona con il professor Decimo e suo figlio Decio, in cui incontrarono un mansueto cucciolo di puma (il quale in seguito verrà chiamato Alonso). Decio, buono e sensibile, lo prende e lo vuole portare con sé in Italia nonostante il parere contrario del padre che vede il puma come una minaccia alla sua autorità paterna. Decio però muore in un incidente stradale e il cucciolo simpatizza con l’altro figlio Julio, che in seguito se ne allontanerà non senza aver reso l’animale vittima, assieme al padre, di continui maltrattamenti che ne provocheranno la morte. Proprio con l’allontanamento dal cucciolo avranno inizio per Julio la perdizione e la scelta criminale. La vicenda – che viene in larga parte raccontata attraverso uno scambio epistolare tra Decimo e Op e la lettura di ritagli di giornali che si occupano delle azioni terroristiche di Julio – è caratterizzata da una profonda ambiguità, generata dal sovrapporsi del livello reale con quello fantastico-visionario. Il puma ad esempio, appare e scompare, si trasforma, muore e risorge. Viene messa persino in dubbio la sua reale esistenza. In seguito Op si ammala gravemente e sembra essere coinvolto nell’omicidio di Decio. Viene arrestato, ma solo perché fa di tutto per espiare colpe non sue (Op è un’abbreviazione di Opfering che in tedesco significa “offerta”). Nel frattempo altri personaggi si aggiungono alle conversazioni di Stella e rimangono

32 V.

Mantovani, op. cit., p. 294. Ortese, Alonso e i visionari, Milano, Adelphi, 1996, p. 19.

33 A.M.

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coinvolti nella vicenda, che non ha una vera e propria conclusione poiché rimangono oscure le circostanze della morte di Julio. Una delle ipotesi è che si possa essere ucciso proprio per aver rivisto nella casa di Prato il cucciolo di puma. Ortese afferma di aver scritto un racconto lungo con il puma protagonista nel 1985; in realtà il primo appunto risale al 1981.34 Il riferimento temporale è importante poiché colloca la genesi dell’opera in un momento ancora “caldo” del fenomeno terroristico in Italia. Alonso nasce come una “favola” su una «creatura mutata interiormente in creatura umana in un tempo storico in cui da noi e in molta parte del mondo accadeva [...] il contrario».35 È un romanzo in cui l’elemento realistico si affianca all’elemento fantastico in molti punti. Una chiave di lettura del testo è suggerita dalla citazione in apertura di Brodskij, che suggerisce l’impossibilità di indagare la realtà e la possibilità di avvicinarsi ad essa solo tramite allucinazioni. Ecco dunque che il titolo con il riferimento ai “visionari” assume pieno significato, poiché solo i visionari hanno la possibilità di decifrare la vera realtà. Nell’accezione di Ortese, i visionari sono coloro che – come Jimmy Op – sono illuminati dalla carità, dall’amore e dalla partecipazione alle cose del mondo. La struttura del romanzo è complessa: in esso si mescolano diario, romanzo epistolare, racconto “giallo” e drammatizzazione dialogica. Il testo procede per negazioni e rovesciamenti e le rivelazioni vengono sottoposte a continui mutamenti e trasformazioni. Ortese stessa lo ha definito un “giallo metafisico”. C’è un delitto con conseguente raccolta di indizi e ricerca del colpevole, ma l’investigazione si proietta ben al di là della ricerca dell’assassino per approdare a profondi interrogativi su temi etico-filosofici e all’indagine interiore. Ortese nel romanzo ricerca soprattutto l’origine del male nell’uomo e i segreti che si annidano nel suo animo. Già con i racconti de II mare non bagna Napoli del 1953, indagando sulla realtà della città campana, Ortese aveva dato prova di impegno civile. In Alonso e i visionari il riferimento alla violenza degli anni ’70 e ’80 indica una ripresa di questo impegno. Tuttavia, la scrittrice ha sempre negato che la sua intenzione fosse quella di scrivere un libro sugli anni di piombo, affermando di aver fatto riferimento ad essi «solo perché erano gli anni del terrorismo»36 al momento della sua gestazione. È indubitabile che Alonso e i visionari non sia un libro politico, ma è interessante proprio per il suo implicito giudizio sul terrorismo, per averlo considerato come «segno della esemplarità malefica, senza colore, [...] come cifra della conseguenza dei Cattivi Maestri [...], dando con Julio una figura di sanguinario terrorista “metafisico” in lotta contro lo Spirito del Mondo»:37 Ormai eravamo convinti tutti, [...] che questa di Prato, che aveva coinvolto i Decimo e il professore americano, era stata una storia ben più grande della sua apparente collocazione poliziesca, e della sua matrice politica o criminale che dir si voglia: era stata la sto34 Vedi L. Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Milano, Mondadori, pp. 613-614. 35 A.M. Ortese, Il puma dal cuore umano, «La Stampa», 2 giugno 1996. 36 P. Mauri, Anna Maria Ortese: un drago, un puma e altri animali, «La Repubblica», 26 maggio 1996. 37 E. Paccagnini, Anni di piombo, la memoria degli scrittori, «Vita e Pensiero», 2, 2008, p. 93.

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ria di un peccato molto comune agli uomini, ma il più grave (il primo, penso) di tutti i peccati: il disconoscimento dello Spirito del mondo, della sua mitezza e bontà, della grazia che lo attraversa a ogni istante... e non lo dimentica mai, tale mondo.

Julio diventa terrorista ed omicida perché educato dal padre al disprezzo dell'uomo. Anche in questo romanzo troviamo dunque, anche se in forme molto diverse dai testi fino ad ora analizzati, la tematica dello scontro generazionale, in cui padre e figlio diventano reciprocamente causa del loro tragico destino:38 [...] supponevo, dopotutto, che si trattasse di una brutta storia familiare, una storia di odio tra padre e figlio: il figlio che distrugge col suo comportamento la figura morale del padre, e il padre che, dopo essere stato la causa, forse involontaria, di tanta rovina, si chiude nel silenzio della malattia pur di non contribuire a far luce sul possibile uccisore del figlio.39

Il professor Decimo è un intellettuale e docente universitario. È ritratto come uno dei “cattivi maestri” degli anni di piombo, manipolatore e ispiratore di terroristi che «aveva contribuito a macchiare di sangue, coi suoi insegnamenti falsi e il sognare malvagio, l’ingenua vita a lui intorno».40 Antonio Decimo e Julio adulto impersonano dunque la razionalità, il nichilismo che la Ortese ravvisa nei terroristi e i loro cattivi maestri contrapposti all’innocenza della natura, alla dolcezza, al senso e al valore autentico della vita simboleggiate dal cucciolo di puma e dal Professor Op. Julio ha una possibilità di salvezza finché vicino a lui resta l’animale, ma quando si separa da lui si traforma in «uomo feroce delle cronache del suo tempo».41 Più volte nel testo, viene messa alla radice dell'odio che ha armato la mano dei terroristi contro le loro vittime innocenti «una dolcezza di cui disfarsi»,42 dolcezza che nel testo viene oggettivata nel puma Alonso di cui Julio e Antonio Decimo cercano di disfarsi a più riprese: [...] io vidi che era dolcezza il grande nemico, la cosa che rendeva disperato – come proibita da sempre – l’italiano. Decimo non sognava, da tutta una vita, che di distruggerla, ma cominciò allora, e suo figlio anche. [...] Secondo me [...] proprio lo spirito di dolcezza era il nemico di quella gente. Il cucciolo americano rivelò questo, senza mezzi termini, a me solo, s’intende. Poi, la storia in sé, come sa, appartiene al paese; la magistratura solo può intendersene».43

Ciò che Decimo e Julio hanno commesso, nella loro superbia, è uno sgarbo agli dei: Decimo e Julio sono davvero l’anima senza requie, perché senza spiegazioni, del mondo. 38«Quella sinistra e debole figura di padre moderno diveniva via via sempre più chiara; e così diveniva chiara la peraltro cupa figura del figlio. Orfano di madre come di padre. Chi lo amava? Nessuno. Era diventato adulto, era cresciuto, per questo colpo, rapidamente». A.M. Ortese, Alonso e i visionari, cit., p. 84. 39 Ibid., p. 13. 40 Ibid., p. 182. 41 A.M. Ortese, Il puma dal cuore umano, cit. 42 P. Mauri, op. cit. 43 A.M. Ortese, Alonso e i visionari, cit., p. 48.

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Da ciò il continuo crimine. Ecco la scusa, e attendibile, se vuole: ai criminali, da fanciulli, non furono date mai spiegazioni. Non furono mai nominati – per le loro orecchie – gli dei. Solo le offerte dei fanciulli agli dei avrebbero concesso la pace interiore.44

Gli dei della Ortese non sono necessariamente soprannaturali, poiché secondo la concezione del mondo della scrittrice – oscillante tra misticismo, paganesimo e panismo – anche la terra è una realtà soprannaturale, a patto che si voglia andare oltre la fenomenicità e penetrarla nella sua essenza noumenica. Gli dei dunque possono prendere la forma di animali, spesso sofferenti e abbandonati, come il puma Alonso. Come una rivolta e uno sgarbo agli dei vengono riassunti gli anni della contestazione e della lotta armata, viste anche come manifestazioni di un vuoto totale di valori: Qui la nostra Europa finalmente nasce alla giovinezza che mai aveva veramente avuto, e ciò quando, perduta in una sensibilità senza freno, appariva ormai irrecuperabile. Contestazione – santo nome – è dir nulla. Rivolta vera, e del profondo, agli dei, è questa. Hanno gettato via tutto. Emblemi e sante regole di ieri – la Croce e la Mezzaluna, i ritratti dei Grabdi orientali, ma soprattutto dei Grabdi occidentali. Già tutto. Mai più un limite! Le strade sono piene di rose e di fetore (nessuno le pulisce più). Esco, doverosamente, dalla strada dell’enfasi, ma non cancello nulla, mio caro Op: a te sollevare il velo della calda retorica e distinguere la inimmaginabile realtà che da Parigi, Milano e via via altre capitali è volata nella nostra Roma: e qui esplode in canti e colpi di catene, di spranghe, e presto di mitra, per le strade.45

Ortese spoglia le azioni dei terroristi da qualsiasi motivazione ideologica e politica, relegandoli a semplici e vanesi fautori del male, un male che durante gli anni di piombo si è manifestato, più che in altre epoche, nella sua gratuità: Questo scandalo era sorto intorno a un «movimento di idee», nate nel clima universitario di Roma ad opera di quel maestro di pensiero che fu considerato a lungo Antonio Decimo, e vertevano sul diritto dell’uomo «superiore» a fare giustizia sulla vita. [...] Il figlio e gli altri giovani (pur detestando il professore) l’avevano fatto cosa propria. Di là era nato il «gruppo», politico, precisavano, in realtà della peggiore specie anarchica, e chiaramente banditesco. [...] Per alcuni anni si disse che essi aspiravano a prendere il potere del paese; in verità avevano solo smodate ambizioni e violenza. Desideravano far paura, uccidevano senza scrupoli, ma ammantandosi di purezza, come cacciatori in un bosco. Neppure su questo mi voglio fermare. Gli uomini dell’ordine, calunniati fino all’inverosimile, erano il loro principale bersaglio. Se mi fermai su questa storia, fu perché capivo anch’io che la politica era solo una maschera, e si vedeva: vanità e assassinio gratuito erano i moventi principali. Nemmeno il denaro.46

La disperazione e la solitudine, causate dalla separazione dalla natura e dallo sgarbo agli dei, portano – probabilmente – Julio al suicidio, che avviene per la raggiunta consapevolezza della verità e del tradimento perpetrato nei confronti della Natura:

44

Ibid., p. 158. Ibid., p. 131. 46 Ibid., p. 25. 45

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[...] si uccise perché aveva capito chi e che cosa aveva colpito – prima che politicamente e giuridicamente – e qual era la verità del suo delitto: non eversione, come si dice, lotta contro lo Stato, ma tradimento della sua stessa natura di figlio, figlio di tanta madre, la Natura che genera i cuccioli. Egli aveva tradito il Cucciolo, era stato il “giuda” di questo piccolo “cristo” della patria mondiale. Tutto il resto era venuto di conseguenza.47

Il racconto degli anni di piombo di Ortese è dunque indiretto, poco esplicito, ma la scrittrice napoletana, pur non interessandosi alle cronache poliziesche, politiche o giudiziarie, ne fa rivivere – più di molti altri scrittori che si sono dedicati al tema – il sentimento tragico e oscuro avvolgendo quei fatti e quei tempi in un alone “mitico” di dolore, morte e tragedia. 4.2. Vincenzo Consolo e Nerino Rossi: il conflitto generazionale e la condanna della violenza ne “Lo spasimo di Palermo” e ne “La voce nel pozzo” Come Vincenzo Mantovani, Vincenzo Consolo ne Lo Spasimo di Palermo si avvicina letterariamente al tema degli “anni di piombo” – che è solo uno fra i tanti temi nel romanzo – mettendo in primo piano l’ “esilio” politico in Francia. Gioacchino Martinez è uno scrittore che ormai ha cessato la sua attività. Agli inizi degli anni Novanta va a Parigi per incontrare suo figlio Mauro, esule politico a Parigi. Pur non avendo fatto parte di gruppi armati, Mauro era stato arrestato più di quindici anni prima per attività sovversiva e, libero in attesa del processo, aveva optato per la fuga in Francia. Durante la sua permanenza a Parigi, Gioacchino ricorda la sua infanzia in Sicilia, gli ultimi giorni della guerra con i bombardamenti e le rappresaglie. Ripensa soprattutto al padre e alla sua morte violenta per mano dei tedeschi, che lo punirono per aver nascosto un disertore. Lo tormenta il sospetto (durato tutta la sua vita), di aver causato egli stesso la morte del padre indicando ai soldati il suo nascondiglio. Ricorda i suoi sentimenti ambivalenti verso di lui – persona forte e vitale che alla morte della moglie non si perde d’animo e trova un’amante – e il nascere del suo amore per Lucia, diventata poi sua moglie. I ricordi sfumano negli episodi più recenti della sua vita, come il trasferimento a Milano per alleviare la malattia mentale di Lucia, manifestatasi dopo aver assistito a un attentato di mafia. Nel capoluogo lombardo era nato e cresciuto Mauro, il quale nella stessa città – dopo la contestazione e la rivoltaera stato “sfiorato” dal terrorismo. Per questo motivo aveva dovuto rifugiarsi in Francia per rifarsi una vita. Sempre durante la permanenza in Francia, Gioacchino ha finalmente modo di vedere la conclusione di un film di cui aveva visto l’inizio durante l’infanzia. Il film ha come protagonista un eroe giustiziere, Judex, e Gioacchino non ne potè vedere la conclusione da bambino perché la visione era stata interrotta dai bombardamenti («In quel taglio, quel vuoto, in quel buio erano i fotogrammi segreti della sua storia, della vita sua oscura e inconclusa [...]»).48 Insoddisfatto per l’in-

47

Ibid., p. 240. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p. 47.

48 V.

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contro con Mauro che lo rifiuta sempre di più come padre, Gioacchino ritorna in Italia, in Sicilia, dove ha deciso di passare l’ultima parte della sua vita. Qui però deve constatare il degrado, la speculazione e soprattutto la pervasività del fenomeno mafioso. Il romanzo si chiude con una strage che coinvolge un magistrato antimafia, personaggio modellato sulla persona e sulla vicenda del giudice Paolo Borsellino. L’assassinio avviene proprio nel momento in cui Gioacchino sta scrivendo una lettera a suo figlio, che rimane interrotta. Racconto di memoria, fantasia e storia, Lo Spasimo di Palermo è principalmente un romanzo sul dolore individuale e collettivo. Ferroni lo definisce come «un libro sul dolore, sulla sofferenza per immedicabili ferite, esistenziali e storiche, fisiche e morali: ferite alla vita e alla gioia, ferite alla cultura e alla bellezza, ferite all'amore e alla giustizia, ferite ai corpi e alle menti».49 È un testo di non facile lettura, dove, sebbene ci sia abbondanza di avvenimenti, è difficile trovare un percorso lineare o una trama precisa. Il racconto si organizza in blocchi narrativi dove spesso mancano riferimenti espliciti ai protagonisti e riferimenti temporali. Il lettore è dunque chiamato costantemente ad una rielaborazione e ristrutturazione del testo. Consolo inoltre, dispiega una prosa e una narrazione poetica, con un linguaggio preciso e ricercato. Anche la sintassi è irregolare e la frase è organizzata spesso per accumulo, talvolta senza segni di interpunzione. Il testo stesso contiene una dichiarazione di poetica – e un omaggio al poeta Andrea Zanzotto – quando di Gioacchino si dice che aborriva il romanzo, «questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale, ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo. Invidiava i poeti, e maggiormente il veneto rinchiuso nella solitudine d’una pieve saccheggiata [...]».50 Protagonista del romanzo è la violenza, che si dispiega all’interno del testo nelle forme della guerra – vissuta dal protagonista da bambino –, del terrorismo e della mafia; la violenza che senza soluzioni di continuità si è manifestata nella storia recente del Paese. Come Sciascia ne L’Affaire Moro, Consolo vede delle somiglianze tra criminalità organizzata ed eversione politica, pur nelle diverse finalità e strategie. Sono simili perché entrambi incarnano una caratteristica specifica italiana, ovvero il ricorso alla risoluzione dei problemi al di fuori della legge e con metodi violenti, che generano ulteriori lutti e ingiustizie.51 In questo senso, la figura del giustiziere fuorilegge Judex che tanto spazio ha nel romanzo è emblematica: egli è un vendicatore che «giudica e sentenzia fuori delle leggi».52 Di conseguenza, la giustizia sommaria amministrata in nome del popolo della

49

G. Ferroni, Consolo, il mondo salvato da uno scriba, «Corriere della sera», 30 settembre 1998. Consolo, op. cit., p. 105. 51 Vedi M. Henninger, The postponed revolution: Reading Italian insurrectionary leftism as a generational conflict, «Italica», 81. 3, 2006, pp. 629-648. 52 V. Consolo, op. cit., p. 129. 50 V.

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Sicilia del XVII secolo, non è molto distante dai tribunali del popolo degli anni di piombo: Sostò alla chiesa di Santa Maruzza. Dentro era l’accesso, racconta il Natoli, alle caverne, alle camere segrete dei processi e delle sentenze dei giustizieri. Davanti a quella chiesa era avvenuto l’agguato, là il pravo Duca della Motta era stato preso e portato nei sotterranei, davanti al misterioso tribunale. « “Chi siamo” rispose l’uomo mascherato. “La giustizia, la vera giustizia, quella del popolo che non fallisce...”».53

Così come le strade di Palermo in stato d’assedio, non sono dissimili da quelle di Milano, Roma e Torino durante gli anni di piombo: Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla strada per l’aeroporto! – È una furia bestiale, uno sterminio.54

La violenza, l’ingiustizia e l’illegalità portano Gioacchino a sperimentare e manifestare una forma di esilio diversa da quella del figlio, ovvero lo precipitano nella condizione di chi si sente esiliato in patria: Ora più che mai, lontani come siamo, ridotti in due diversi esili, il tuo forzato e il mio volontario in questa città infernale, in questa casa [...].55

Il testo di Consolo mette inoltre in primo piano il conflitto generazionale. Come in molti altri romanzi sul tema degli anni di piombo, si contestualizza la rivolta degli anni ’60 e ’70 all’interno di uno scontro tra padri e figli. Mauro non riconosce Gioacchino come padre e il loro rapporto è segnato da accuse, recriminazioni, ma soprattutto dal silenzio: Il silenzio, ancora e sempre, il silenzio duro si stendeva tra loro. Quali parole poi, e quale tono? Oppure quali gesti sguardi balbettii?56

Gioacchino però non nega le proprie responsabilità e complicità, seppur involontarie, nelle scelte del figlio; anzi, compie un doloroso esame di coscienza che chiama in causa tutta la generazione dell’immediato secondo dopoguerra. Non aver fatto nulla per creare uno Stato più giusto ha portato alla rivolta dei figli: Gli sembrò di tornare indietro, al tempo cupo dei controlli, squilli, trasalimenti [...], dell’arresto del figlio, dell’irruzione in casa. S’affrettarono i giudici a dichiarare «il padre no, non c’entra». E invece sì. Come ogni padre, ogni complice allora di quel potere, di quello stato, ogni responsabile della ribellione, dei misfatti di quei giovani.57 53

Ibid., p. 108. Ibid., p. 128. 55 Ibid., p. 126. 56 Ibid., p. 52. 57 Ibid., p. 81. 54

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È nella lettera finale a Mauro che Gioacchino esprime con chiarezza le ragioni dell’ “uccisione del padre” compiuta da Mauro e dalla sua generazione. Ma anche questa lettera rimane interrotta (non per caso, a causa di un episodio di violenza) e dunque non verrà mai inviata: So, Mauro, che non neghi me, ma tutti i padri, la mia generazione, quella che non ha fatto la guerra, ma il dopoguerra, che avrebbe dovuto ricostruire, dopo il disastro, questo Paese, formare una nuova società, una civile, giusta convivenza. Abbiamo fallito prima di voi e come voi dopo, nel vostro temerario azzardo. Ci rinnegate, e a ragione, tu anzi con la lucida ragione che sempre ha improntato la tua parola, la tua azione. Ragione che hai negli anni tenacemente acuminato, mentre in casa nostra dolorosamente rovinava, nell’innocente tua madre, in me, inerte, murato nel mio impegno, nel folle azzardo letterario.58

Per una sorta di amaro contrappasso, Gioacchino sconta il suo presunto parricidio59 subendo in vita – seppur metaforicamente – il proprio, stabilendo così una continuità di segno negativo nel rapporto tra le generazioni. Come afferma Max Henninger, «a form of violence that occurs within the family (patricide) becomes the guiding metaphor by which political violence is understood. The transgression of the “law” on which the institution of the family is based (respect for the father) becomes the paradigm for understanding the political transgressions of the insurrectionary left».60 Verso il figlio e la sua generazione, che vede totalmente sconfitta, Gioacchino esprime tutta la sua pena e il suo sconforto: Provò pena per quei naufraghi, rematori sulla galea dell’illusione e dell’azzardo, vittime della follia del capitano, della ferocia del nostromo, superstiti d’un tempo di speranza, prigionieri d’uno slancio, d’una idea pietrificata, esuli sfuggiti alla condanna, privati del ritorno. Per quelli seppelliti nelle galere, uccisi dalle droghe, transfughi negli assoluti, metafisiche di conforto o apocalissi di catarsi. E ancora per i cinici, barattieri d’ideali e dignità, accattoni di condoni e di prebende. Pena per una generazione incenerita da un potere criminale, figlia di padri illusi, finiti anch’essi nei più diversi naufragi.61

Al tempo stesso, ne riconosce e ne condanna il narcisismo e l’avventurismo piccolo-borghese, che fecero naufragare la rivolta e che portarono al terrorismo e alla “follia” della lotta armata: La casa sua e di Daniela era divenuta albergo, approdo d’ogni naufrago. Finché non venne ogni cosa loro sequestrata dai capi, gli strateghi forsennati che avevano deciso di passare alla lotta con le armi. Da loro s’era installato il piccolo borghese, figlio dell’angustia, della frustrazione impiegatizia, del pallore urbano, fattosi in quel frangente il più acceso, il più torbido dei capi, s’era esaltato per l’accoglienza nei salotti, la frequentazione del58

Ibid., p. 126. «Non sono mai riuscito a ricordare, o non ho voluto, se sono stato io a rivelare a quei massacratori, a quei tedeschi spietati il luogo dove era stato appena condotto il disertore». Ibid., pp. 126-127. 60 M. Henninger, The postponed revolution: reading Italian Insurrectionary leftism as generational conflict, cit., p. 642. 61 V. Consolo, op. cit., pp. 38-39. 59

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l’editore, il filosofo, il prete, l’industriale, nudo davanti allo specchio, studiava pose, giocherellava con la pistola. Tornò dal padre, Mauro, deluso, disperato, dichiarò la sua sconfitta, l’assicurò della rottura, dell’allontanamento, suo e di Daniela, dai compagni. « È la follia, ancora la follia! Ingannano i più giovani, gli operai, la gente più indifesa, li portano al disastro...».62

Nel romanzo di Nerino Rossi63 La voce nel pozzo, pubblicato nel 1990, torna in primo piano il tema del conflitto familiare-generazionale. Amico di Aldo Moro e suo compagno di partito nella Democrazia Cristiana (fu anche direttore dell’organo di partito «Il Popolo»), Rossi inserisce nella narrazione elementi autobiografici e contestualizza il romanzo nei mesi del rapimento dell’allora presidente della DC. Il protagonista del romanzo è Aristide, ex partigiano, ora professore universitario e esponente del partito al governo. Tornato nel suo paese natale di Castenaso dove vive l’anziana madre, incontra gli amici di un tempo, i quali hanno condiviso con lui l’esperienza politica e della Resistenza. Tra questi vi è Giovanna, la quale mette al corrente Aristide della sparizione del figlio Luca e gli chiede, in nome della vecchia amicizia, di aiutarla a rintracciarlo. Il giovane ha deciso di aderire alle Brigate Rosse e si è diretto verso Milano. Aristide riesce a trovarlo e a riportarlo a Castenaso, ma Luca scappa di nuovo e successivamente viene coinvolto in uno scontro a fuoco nel quale rimane ferito. Ancora una volta Aristide gli presta soccorso grazie ad un amico medico, ma sarà l’ultima volta in cui potrà vederlo. In seguito Giovanna cercherà di mettersi direttamente in contatto con i terroristi per avere sue notizie, ma senza successo. Nel frattempo, dopo una strage in cui perdono la vita cinque agenti, viene rapito il “presidente” (ovvio il riferimento al rapimento di Moro). Deluso dalle posizioni del suo partito in merito alla possibile liberazione dell’ostaggio e disilluso sulla possibilità della politica di incidere veramente sul corso delle cose, Aristide decide di abbandonare Roma e di ritirarsi definitivamente a Castenaso. Di Luca non si avranno altre notizie. L’allontanamento di Luca dalla famiglia per entrare in clandestinità costituisce l’occasione dalla quale scaturisce il meccanismo narrativo. Come in altri romanzi analizzati in precedenza, l’allontanamento dalla famiglia è problematico e non si realizza – almeno in un primo momento – con la recisione totale dei legami. Luca in un primo momento infatti viene “recuperato” da Aristide che riesce a riportarlo a casa e dopo il successivo distacco, deve contare – a causa del suo ferimento in un agguato – ancora sull’aiuto dell’amico della madre. Ciononostante, Luca infine fa perdere le sue tracce e riesce a portare a termine la totale ribellione contro la famiglia. Rossi, con la vicenda familiare di Luca, drammatizza la ribellione violenta di una generazione nei confronti di quella precedente:

62

Ibid., p. 90. Nato a Castenaso, nel bolognese, come il protagonista del libro, Rossi ha scritto anche La neve nel bicchiere (1977), da cui è stato tratto un fortunato sceneggiato televisivo, Melanzio (1980), La signora della Gaiana (1982), Il ballo di Mara (1985), La Pavona (1992), La pietra forata (1996) , Il detenuto (1998) , La stanza della padrona (2001), Il posto dei papaveri (2005). Con Melanzio è stato finalista al premio “Strega” nel 1980. 63

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Ti sembra il discorso di un pazzo, vero Luca? La verità è che sono pazze, pazze le cose che accadono. Siamo proprio sicuri che non accadrà un’ infamia come quella di un prigioniero che ha davanti a sé, incappucciato, un figlio? Non sarebbe, rovesciata, la stessa cosa che dicevo? Una volta ci ho persino pensato. Perché dovrebbe essere impossibile? Al punto in cui siamo, con le leggi che vi siete dati. Non è forse tutto uguale per voi il resto del mondo, padri compresi?64

Tuttavia, non c’è solo conflitto tra le generazioni, ma anche continuità, seppur in negativo. Dal romanzo emerge infatti una concezione ciclica della storia («Non c’è generazione che si salvi, si disse: prima o poi le tocca in sorte di conoscere un nemico [...]»)65 assoggettata a leggi costanti nel tempo. La violenza della generazione degli anni di piombo viene da lontano ed è ereditata dalla generazione precedente, che non può ritenersi innocente dal momento che non è riuscita a rompere quella continuità: Prossimo ormai alla conclusione, l’uomo sentì che il suo lungo affanno si stava smorzando. Tutta la sua storia, come quella della sua generazione, stava ubbidendo semplicemente alle leggi di sempre. Forse la sua generazione, una parola che aveva sempre in bocca, era stata più presuntuosa di altre e avrebbe voluto fare di più, cambiare di più, e soprattutto completare, rendere compiute le cose. Ma gli errori fatti, le opere mancate, le volontà indebolite, come potevano non rallentare il cammino, e creare quelle situazioni che poi ti chiudono la via? Nulla dunque che la terra non avesse già visto. Non rimaneva allora che lasciare il passo a chi veniva dietro, senza esagerare nei rimpianti, e senza abbassare il capo.66

Il tema della violenza e del suo uso nei conflitti umani – e il relativo fallimento nei tentativi di eliminare il ricorso ad essa – è anch’esso centrale nel testo. Aristide vede in Luca e nella sua generazione la fede cieca, illusoria nella violenza e nella feticizzazione delle armi, che impedisce qualsiasi sbocco positivo della sua ribellione. A questo proposito Rossi inserisce nel romanzo – rispetto ai lavori sin qui presi in esame – un elemento nuovo e molto controverso. Infatti Aristide è un ex partigiano, che nelle fasi finali della Resistenza ha ucciso – per legittima difesa – un soldato tedesco. L’uccisione di questo soldato è rimasta per lui come un trauma non superato, come una colpa mai perdonata a se stesso. Vuole dunque evitare che Luca possa nel suo futuro sentire su di sé la stessa colpa e lo stesso trauma: Sapessi, ragazzo, che cosa passa per la mia testa!, confessò a se stesso. Che non è per generosità che io ti sto aiutando a non sbagliare, ma per le mie debolezze e le mie colpe, di oggi e di ieri. Sì, anche una colpa che ho addosso da quando avevo la tua età. E quello che si fa alla tua età resta, eccome resta.67

In qualche modo dunque Rossi mette discutibilmente in relazione la lotta armata dei gruppi eversivi degli anni ’70 e ’80 con la lotta partigiana, considerando que-

64

N. Rossi, La voce nel pozzo, Venezia, Marsilio, 1998, p. 54. Ibid., p. 34. Ibid., p. 178. 67 Ibid., p. 58. 65 66

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st’ultima non come impegno eroico ma come “debolezza” e “colpa”: All’improvviso Aristide si disperò: certo che quel ragazzo si è fatto inghiottire! C’è una sola speranza: che non gli abbiano ancora consegnato il piombo, come si faceva noi con i partigiani appena arrivati.68

Come afferma Henninger, «Rossi suggests the tragedy of the Red Brigades consists in their mindless “echoing” of the militarist rhetoric of the partisans. In so far as he is himself a former partisan, what Aristide “hears” in Luca is the echo of his own voice».69 Nel testo vengono rievocati – affiancati alla vicenda di Luca – il rapimento di Aldo Moro (chiamato semplicemente “il presidente”) e i drammatici giorni delle trattative prima della sua uccisione. Il riferimento nella trama del romanzo al rapimento e all’uccisione di Moro assume un posto importante ai fini dei significati del romanzo. Il personaggio di finzione Luca e il personaggio reale Aldo Moro finiscono – anche se idealmente e solo nelle riflessioni di Aristide – per incontrarsi, diventando i simboli del conflitto familiare-generazionale: Non sapeva in quale punto della terra stessero un giovane e un anziano, un clandestino armato e un prigioniero inerme; con ogni probabilità erano lontani l’uno dall’altro, ma idealmente erano faccia a faccia. E lui, conoscendoli entrambi, non poteva non sentire più di altri l’assurda crudeltà di questa sfida folle.70

Quando Aristide viene a conoscenza del rapimento, oltre al dolore per l’amico e compagno di partito, prova anche un sentimento di frustrazione per il venir meno di uno dei pochi uomini che potevano ricondurre il conflitto in atto nell’ambito della politica e della negoziazione: Se c’era un uomo che non doveva essere toccato, questo era lui. Nessuno più di lui cercava di capire che cosa stava portando questi giovani alle loro illusioni, nessuno più di lui si interrogava sulle loro ragioni.71

Coerentemente con il richiamo alla non violenza, al perdono e alla compassione che si dispiegano per tutta la durata del romanzo, Rossi giudica la scelta della “fermezza” adottata dopo il rapimento come un errore, come il voler aggiungere un ulteriore atto di ferocia ad una serie di violenze già perpetrate, appoggiando l’ipotesi di una trattativa che il presidente avrebbe sicuramente avviato. La scelta di non tentare una strada che potesse portare alla liberazione del presidente viene condannata attraverso le riflessioni e le parole semplici di Ivo, amico d’infanzia di Aristide e uomo del popolo:

68

Ibid., p. 42. M. Henninger, The postponed revolution: reading Italian Insurrectionary leftism as generational conflict, cit., pp. 639-640. 70 N. Rossi, op. cit., p. 172. 71 Ibid., p. 168. 69

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«C’è un discorso che viene ripetuto ogni giorno: il discorso della ferita. Sarebbe una ferita grave per lo Stato!, gridano tutti insieme. Ma se è vero che lo Stato è tutta la gente, la domanda che ci dobbiamo fare è questa: di che cosa la gente oggi ha più bisogno? Ma ha bisogno che torni la compassione! Che ci sia in giro un po’ di umanità, più pietà. In un mondo in cui si ammazza come si ammazza, la gente ha bisogno di pietà come d’aria. E allora ammettiamo pure che salvare una vita significhi per lo Stato quella famosa ferita; ma intanto la gente ha sentito che c’è stato un atto di pietà e allora lei stessa, che è lo Stato, sa bene come farsela guarire la ferita che ha addosso [...]».72

4.3. Erri De Luca: “Aceto, Arcobaleno”. Il ‘debito’ lasciato dai padri e la possibilità di scelta De Luca73 pubblica Aceto, Arcobaleno nel 1992, ma l’idea del romanzo gli venne alla fine degli anni Settanta, «sull’onda della delusione, quando Lotta Continua fu sciolta».74 Indubbiamente tutti i personaggi del romanzo – in particolar modo quello dell’ex terrorista – sembrano prendere in prestito molto dalla reale vicenda biografica dell’autore, militante della sinistra extraparlamentare e poi muratore, operaio e volontario in Africa. Anche nella forma si può constatare l’influenza dei fatti biografici. La lingua e il modo di raccontare di De Luca risentono molto della sua lettura in ebraico antico della Bibbia, in particolare dell’Antico Testamento, intrapresa intorno ai trent’anni. La prosa tende alla concentrazione della poesia, con l’inserzione frequente di massime sapienziali. Non c’è la verosimiglianza del parlato, della conversazione, ma una «prosa solenne e cantata, quasi una salmodia millenaristica [...]».75 Il protagonista di Aceto, Arcobaleno è un uomo che ha scelto la solitudine e la rinuncia. Si sta ormai lasciando morire in una vecchia casa di campagna che si è costruito da solo. Seduto e addormentato su una sedia a dondolo, viene rianimato da un fulmine che sventra la porta della casa. Inizia a ripercorre così nel ricordo la sua vita, ma ciò che si ridesta nella memoria sono soprattutto tre visite ricevute nella casa da altrettanti amici di gioventù. In questa cornice testuale dunque l’autore inserisce e mette in scena le tre conversazioni con gli amici, nelle quali si riassume la storia e il significato della loro vita. La prima visita è quella di un ex terrorista – poi muratore in Francia – che rievoca tra le altre cose i suoi delitti; la seconda, è quella di un missionario in Africa che ora sta lentamente morendo di cancro; la terza vede come protagonista uno spirito errante che rifiuta qualsiasi legame di appartenenza e che discretamente approfitta dell’ospitalità altrui in giro per il mondo («Posso dire di essere un esperto di arrivederci e addii, uno dei quali si ricordano volentieri i com72

Ibid., pp. 189-190. Militante della sinistra extraparlamentare negli anni Settanta e responsabile del servizio d’ordine di “Lotta Continua”, Erri De Luca ha iniziato ufficialmente la sua carriera di scrittore a quarant’anni nel 1989 con Non ora, non qui. Da allora ha scritto e pubblicato romanzi, poesie, opere teatrali. Ha inoltre tradotto alcuni testi della Bibbia dall’ebraico antico. 74 P. Di Stefano, Eppure, un tempo lottavamo. Una generazione perduta?, «Corriere della sera», 21 ottobre 1992. 75 S. Giovanardi, L’arcobaleno del Duemila, «La Repubblica», 18 novembre 1992. 73

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miati»).76 Il vecchio eremita raccoglie le loro confessioni, i loro sfoghi; gli ospiti si confidano con lui perché egli è un ascoltatore ideale. Da sempre neutrale e alieno agli scontri, alle faziosità,77 ora è totalmente distaccato dalla vita, quasi assente. L’unica vita ora per lui è quella conosciuta attraverso i racconti della vita degli altri. L’esperienza del dolore, della violenza e del continuo vagare da un luogo all’altro accomunano i visitatori – soprattutto i primi due – e attraverso le loro confessioni l’autore cerca di restituire un quadro, un’ immagine di un periodo storico, della condizione dell’uomo nell’ultimo trentennio del secolo scorso. Un secolo che «ha molto intrapreso per ansia di cominciare, senza riuscire a governare il seguito».78 Si tratta di un’esperienza che nel caso del terrorista e del missionario si conclude con la consapevolezza dello scacco subito e di conseguenza con la morte incombente. Più aperta alla speranza è invece la vicenda del “giramondo”. De Luca offre maggior spazio e rilievo alla storia del terrorista, che è anche il primo a presentarsi alla porta della vecchia casa di campagna. Egli ricorda i giorni della scuola, la sua relazione col padre e la decisione di diventare operaio appena terminati gli studi. Già a scuola si misura con le differenze di classe. Lui, proveniente da una famiglia borghese, scopre il diverso trattamento al quale sono sottoposti i figli dei lavoratori. L’ingresso nel mondo del lavoro salariato coincide con la politicizzazione, con la partecipazione agli scioperi e con un’entusiastica adesione ai movimenti di massa. Racconta gli anni della rivolta e degli scontri, ai quali ha partecipato personalmente, restituendo l’immagine di una generazione alle prese con la politica e la sua involuzione violenta: Non si chiedeva di essere d’accordo con un progetto, solo darsi alle lotte. Furono case vuote che vennero occupate, pigioni che non si pagarono più, bollette di elettricità bruciate in piazza. [...] Si era smesso di pagare i conti, si passava a esigere. Quando finiva il tempo della lotta, con risultato buono o cattivo, si cominciava da un’altra parte. [...] Non eravamo convenienti, il nostro metodo era l’urto, tecnica faticosa per ottenere anche poco, a volte niente. Però procurava peso. [...] In quegli anni nessuno voleva essere lieve. Urgeva una diversa gravità che cambiò l’andatura di molti.79

Passati gli anni della rivolta e delle lotte di movimento, c’è il rifiuto di tornare alla vita borghese e alle sue convenzioni o di rifugiarsi nei “paradisi artificiali” della droga. Si verifica così il passaggio dalla lotta alla lotta armata: Poi la gente fu stanca di urti e d’improvviso non ci fu altro da aggiungere. Le migliaia che fummo si sparsero prima a gruppi, poi a polvere. Chi tornò alle professioni di prima, chi agli studi sospesi, mentre altri si sfondavano le vene o si arruolavano in guerre clandestine, io fui tra questi.80 76

E. De Luca, Aceto, Arcobaleno, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 106. «Fuori scuola vedevo le collere improvvise e i litigi che sfociavano nei colpi veloci della zuffa. Provavo a suscitarle in me, ma tutto quello che ottenevo era di spalancare gli occhi e stringere le labbra per qualche secondo, mentre dentro di me non succedeva niente. A uno sgarbo non sapevo rispondere, a una prepotenza cedevo subito». Ibid., p. 14. 78 Ibid., p. 41. 79 Ibid., p. 20. 80 Ibid., p. 21. 77

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Finita la politica degli urti, c’è dunque la “chiamata alle armi” del terrorismo, e quella generazione che insorse nel 1968, «si sfigurò nella primavera del ’78, nella strage di una scorta, nella condanna a morte, pena eseguita, del prigioniero politico Aldo Moro. La generazione che aveva imparato a battersi duramente nella pubblica via, si specializzò in agguati, trasformando la sua volontà di giustizia, in volontà di potenza. Assomigliò ai suoi avversari e il suo diritto si degradò in arbitrio».81 La lotta armata dunque è responsabile della degenerazione politica della contestazione e del “movimento” e ne ha causato il fallimento. Il giudizio negativo sul “partito armato” è netto e senza appello. L’ex terrorista non rinnega nulla, ma riconosce l’errore e afferma che non tornerebbe mai a uccidere e a ferire. Ci sono pagine in cui De Luca descrive la vita del terrorista e soprattutto i momenti che accompagnano e seguono le esecuzioni. Sono descrizioni tra le più riuscite all’interno della letteratura sugli “anni di piombo”, che meritano di essere riportate quasi nella loro interezza: Avevo lasciato le migliaia delle strade, delle veglie notturne per entrare in una trincea che mi seguiva ovunque. Era l’isolamento, privazione più spessa della solitudine, vita sommersa che prescriveva passi di palombaro, gravati di zavorra per camminare sul fondo. Avevo studiato le abitudini dell’uomo da colpire. Offriva all’agguato il vantaggio di orari regolari. Pronto il piano, mi alzai un mattina prima dell’alba. Feci colazione, pulii l’arma ancora una volta e andai di corpo, atto necessario prima di scendere in un’azione. [...] Non lo odiavo. Non avevo bisogno di aizzarmi per colpire. Quando poi ho ucciso ho sentito sgretolarsi dentro di me il movente, la sentenza, quel diritto esercitato a titolo di esempio e tutta l’apparecchiatura di soldato che mi aveva sorretto fino ad allora. Non provai sgomento, non provai niente. A uccidere un corpo bastava il gesto di un altro corpo. Era un atto facile, lo eseguii come una consuetudine dei nervi. Non c’è movente che regga di fronte ad una morte, per uccidere basta solo il corpo. [...] Sono assassino perché sotto la vita, sotto la corteccia di un essere umano c’è un occhio segreto. Io sono stato visto da quell’occhio e messo a nudo. Sono solo un corpo che ne ha ammazzato altri, niente soldato di guerra minore, niente nemici. Questo è un assassino, uno che varca una soglia logorata dall’uso e ne esce spoglio. [...] Avevo la pistola pronta, sparai subito, uscendo allo scoperto con un solo passo e un solo movimento. Un colpo, poi un altro, la macchina ebbe un sussulto all’indietro, l’uomo aveva forse perduto il pedale della frizione. [...] Avevo sparato con un calibro potente, un solo colpo sarebbe stato sufficiente, ma ne sparai tre. Non era un eccesso superfluo. Nella raffica si manifestava una sentenza che andava oltre il condannato e si rivolgeva a tutti quelli che da quel momento erano tenuti a considerarsi dei superstiti. Dopo il primo colpo avrei voluto smettere. Desiderai fermarmi, lasciarlo stare, non maltrattare la sua morte. Ma la questione non era tra noi due, eravamo entrambi i prolungamenti esposti di due folle ostili, dovevamo ammazzare e morire perché a quel grado era giunta l’avversione. [...] Provai il disgusto e sentii forte il chiasso dei due spari seguenti. A questi sensi ho dato voce solo dopo. Sul posto essi erano l’intercapedine vuota tra uno sparo e l’altro.82

Non c’è dunque nessuna ragione valida per uccidere e sembra che nell’apprestarsi all’assassinio, il terrorista sia già consapevole della sua inutilità; così si uccide 81 82

E. De Luca, Pianoterra, Macerata, Quodlibet, 1995, p. 27. E. De Luca, Aceto, Arcobaleno, cit., pp. 36-39.

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per una sorta di riflesso naturale, per una “consuetudine dei nervi”. L’assassinio è considerato quasi esclusivamente nella sua materialità e svincolato da qualsiasi movente politico o personale. Si è dunque solo un corpo che ne uccide altri, ma niente può cancellare l’ “occhio segreto” di chi è ucciso che continua a guardarti e metterti a nudo. La scelta della violenza quindi ha portato solo alla distruzione e all’autodistruzione, ed ora l’ex terrorista si trova chiaramente di fronte allo scacco e ad una strada senza sbocco. Rimane dunque solo la morte, che al termine del racconto è prefigurata come imminente. Anche nell’approccio di De Luca agli anni di piombo il motivo del conflitto generazionale ha un particolare rilievo e si presenta nella fattispecie come debito da pagare lasciato dai padri. È il debito del Fascismo. La partecipazione alla contestazione, alle rivolte del ’68 e l’adesione alla sinistra rivoluzionaria di una generazione dovevano riscattare l’adesione o la passività nei confronti del Fascismo della generazione precedente ed evitare che tutto ciò si potesse riproporre o perpetuare attraverso il regime democristiano.83 L’ex terrorista afferma: Da ragazzo scorgevo violenze dappertutto. Dagli scaffali di mio padre estraevo libri sulla guerra e crescevo sentendo di dover rendere conto di ferite, di offese che un’altra generazione aveva fatto ricadere su quelle a venire. Il novecento era diventato un secolo antico, pieno di maledizioni. Quando vidi nelle strade i colpi, gli urti, ero già pronto. Nella mia prima pietra tirata era già incluso l’uccidere e essere uccisi. La politica fu per me l’organizzazione di un’ira, l’ispessirsi di un callo. Non passarono settimane, ma anni, conobbi le armi, ho ucciso degli uomini, uno e poi un altro.84

Sembra dunque che la rivolta e il suo sbocco violento siano determinati da un insieme di circostanze, soggettive e oggettive. C’è la “maledizione” del secolo, con le sue violenze e c’è l’“ira”, il “callo”, frutto del temperamento ma anche conseguenza delle vicende degli anni precedenti. De Luca non lascia la questione del rapporto generazionale nell’astrattezza e dà ampio rilievo alla relazione dell’ex terrorista con il padre. Le pagine che lo descrivono sono tra le più importanti e riuscite del libro. Viene delineata una figura paterna che insegna ma che al tempo stesso lascia al figlio la possibilità di scelta. “Aceto” e “Arcobaleno”, le parole che danno il titolo al romanzo, sono le prime parole – e le uniche che il protagonista riesce a ricordare – di un dizionario usato dal padre per insegnare l’inglese ai figli e hanno un forte significato simbolico nel romanzo. Sono 83 De Luca ricorda in Pianoterra: «A scuola la storia si fermava sulla soglia del secolo, come se avesse scrupolo di disturbare i lavori in corso. A stento si spingeva fino alla guerra del ’15/18. Non mi bastava, volevo imparare il passato appena prossimo che aveva lasciato tracce di terrore e di scampo nelle persone care e nella città. Presi a leggere i libri di mio padre. Se ne procurava molti che descrivevano i suoi anni, la storia feroce che gli era passata addosso sfiorandolo, mettendolo da parte. Nella mia presunzione di adolescente volevo saperne più di lui. Ma quello che leggevo non era più storia […]. Era improvvisamente vita, vita recente, macellata di fresco […]. Non imparavo una lezione, ricevevo invece senza saperlo, un’educazione sentimentale. Rispondevo dentro di me con ire, sdegni, commozioni e amore. Non so se è stato un bene […]. So invece che i racconti degli adulti mi spinsero a cercare il loro passato e mi trasmisero la responsabilità di esserne figlio e seguito». E. De Luca, Pianoterra, cit., pp. 15-16. 84E. De Luca, Aceto, Arcobaleno, cit., p. 32.

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simbolo di un inizio, di un progetto intrapreso ma non portato a termine, come la vita del protagonista,85 ma sono anche simbolo di due possibili modi di affrontare la vita e le situazioni, ovvero tramite la violenza (aceto) e la nonviolenza (arcobaleno): Tu insegnavi aceto e arcobaleno, senza giudicarli me li mostravi e a me spettava di scegliere tra essi. Così fa il porcospino mostrando ai suoi piccoli ogni cibo, anche il velenoso, lasciando che ognuno di essi decida il proprio pasto.86

De Luca dunque, seppur all’interno di un condizionamento operato dal contesto storico-politico, postula la possibilità di una scelta. La scelta del “cibo velenoso” non è però priva di conseguenze nel rapporto tra i due, poiché provoca una frattura non recuperabile e una incomprensione rese simbolicamente dalla sopraggiunta cecità del padre che dunque non può più vedere suo figlio: Ero arrivato, uccidendo, lontano da lui. Mio padre che non poteva più vedermi, questa era la mia parte: nel buio non lui era stato chiuso, ma il mondo stesso e io.87

È il padre inoltre che lo avverte delle conseguenze della sua scelta, del fatto che dovrà rispondere del male commesso e anche di quello non commesso: In occasione di un mio ritorno a casa […] ci contrastammo, per mia arroganza, intorno alle cose violente che succedevano nelle città. Le difendevo, mentre lui se ne ritraeva sconfortato. In mezzo all’urto dei giudizi abbassò la voce per riannodare l’intesa e mi disse: “Sei di una generazione che vuole rispondere a tutto. Allora ve lo chiederanno e dovrete rispondere di tutto.88

85 «Aceto, arcobaleno: non si sono salvate altre parole, ho trattenuto quelle perché erano l’inizio e solo gli inizi mi hanno lasciato un resto. Perciò ho continuamente smesso lavori e città, eseguendo da capo gli esordi come un compito. In questo mi accorgo di assomigliare al mio tempo, questo è un secolo che ha molto intrapreso per ansia di cominciare, senza riuscire a governare il seguito». Ibid., p. 71. 86 Ibid., p. 46. 87 Ibid., p. 47. 88 Ibid., pp. 46-47.

V. UN FENOMENO EDITORIALE: ANNI DI PIOMBO E LETTERATURA NEL NUOVO MILLENNIO

Nonostante siano passati ormai più di trent’anni dalle prime azioni delle varie organizzazioni armate, nel nuovo millennio si assiste al perdurare, seppure in forme isolate e sporadiche, di fenomeni e sigle che si richiamano agli anni ’70. Le “Nuove Brigate Rosse”, che tre anni prima avevano assassinato Massimo D’Antona, tornano ad uccidere nel 2002, quando a Bologna viene colpito a morte il professor Marco Biagi, giuslavorista come D’Antona e consulente del ministro del lavoro Maroni. Le nuove BR sopravviveranno ancora un anno, fino a quando i due suoi membri più importanti saranno protagonisti di una sparatoria in treno nella quale, il 2 marzo 2003, rimangono uccisi il terrorista Mario Galesi e l’agente di polizia Emanuele Petri. Ad oggi, Petri è l’ultima vittima del terrorismo armato organizzato in Italia. Gli anni di piombo dunque sono ormai lontani – quindi “maturi” per una riflessione su di essi – ma al tempo stesso ancora drammaticamente presenti con i loro colpi di coda nella vita italiana. Forse questo è uno dei motivi per cui, a partire dai primi anni del Duemila, si assiste ad una impressionante proliferazione di romanzi sul tema. Si tratta di un vero e proprio fenomeno editoriale ancora in corso che ha coinvolto tutte le maggiori case editrici italiane. Si possono fare altre ipotesi per spiegare una tale abbondanza di pubblicazioni. A livello politico, i fatti di Genova del 2001 con i violentissimi scontri – in cui morì il giovanissimo manifestante Carlo Giuliani – durante il vertice “G8” hanno fatto rivivere il clima degli anni ’70, riaccendendo l’interesse verso il racconto e la comprensione di quel periodo. Sul versante della produzione artistica, non può sfuggire il fatto che molti dei romanzi di cui si sta parlando vengono pubblicati dopo il grande successo di due opere cinematografiche: Buongiorno Notte di Marco Bellocchio e La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, usciti nel 2003. Entrambi i lavori, seppure con un approccio molto diverso, raccontano gli anni ’70 e la stagione della violenza politica in Italia. Infine, non va sottovalutato il fatto che gli autori che vogliono raccontare il terrorismo hanno adesso a loro disposizione una innumerevole quantità di fonti non reperibile fino a pochi anni prima, ovvero studi storici, biografie, autobiografie, inchieste giornalistiche, atti processuali e parlamentari nonché tutte le opere cinematografiche e letterarie prodotte fino a questo momento. Nelle opere letterarie pubblicate nel nuovo millennio ci sono temi ed elementi comuni. Uno di questi è il conflitto generazionale, già emerso nei testi dei decenni

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precedenti. Nei lavori analizzati in questo capitolo1 viene messo in primo piano nelle opere di Giacomo Sartori, Roberto Cotroneo, Antonella Tavassi La Greca, Gian Mario Villalta e Luca Doninelli. Un altro tema sul quale gli scrittori tentano la rielaborazione letteraria è il “caso Moro”. Tra gli altri, in forme molto diverse se non completamente opposte, vi si cimentano Marco Baliani, Giampaolo Spinato, Giorgio Vasta e Ferruccio Parazzoli. Rocco Carbone e Francesca D’Aloja, attraverso storie private dagli esiti divergenti, si pongono il problema della possibilità di una riconciliazione nazionale dopo il trauma e i lutti provocati dal terrorismo. La figura del “reduce”, ovvero dell’ex terrorista sopravvissuto in qualche modo a quella stagione, è protagonista invece nei lavori di Stefano Tassinari e Antonella Del Giudice. Infine, ci sono autori che – come era avvenuto negli anni precedenti con Arbasino, Rugarli e Vassalli- si confrontano con gli anni di piombo con un tono leggero e umoristico. È questo il caso di Sergio Lambiase e Marco Amato. 5.1. Il conflitto generazionale: i terroristi e i loro padri Il vento dell’odio (2008) di Roberto Cotroneo, La guerra di Nora (2003) di Antonella Tavassi La Greca e Anatomia della battaglia (2005) di Giacomo Sartori, sono indubbiamente romanzi sulla “figura del padre”. È soprattutto in quest’ultimo lavoro che la figura genitoriale maschile è al centro della narrazione e protagonista assoluta del romanzo. L’opera di Sartori2 fa di tutto per predisporre il lettore alla fruizione di un racconto autobiografico. In realtà, assieme agli elementi che permettono di identificare l’autore con il narratore (ad esempio la provenienza trentina e il lavoro come agronomo all’estero), vi sono innumerevoli elementi finzionali, primo fra tutti quello dei trascorsi terroristici del protagonista. Anatomia della battaglia non è un romanzo sul terrorismo, ma pur non essendo suo intento narrare una storia sugli anni di piombo,3 Sartori ne mette in luce molti aspetti e ne offre una possibile spiegazione. 1 Per una ricognizione completa dei testi pubblicati sugli anni di piombo dal 2000 al 2011 si veda in bibliografia. La scelta delle opere analizzate in questo capitolo è avvenuta in base alla loro rappresentatività, agli elementi e alle tematiche in comune e alla continuità con le questioni e le modalità di scrittura già affrontate nei capitoli precedenti. 2 Nato a Trento nel 1958, ha pubblicato altri tre romanzi: Tritolo, Cielo nero e Sacrificio. Ha inoltre pubblicato varie raccolte di racconti. Fra queste Autismi, con la quale ha vinto il premio “Frontiere-Grenzen” nel 2011. 3 Non mancano tuttavia plastiche descrizioni di episodi e di scontri, come la seguente: «I compagni che sono davanti lanciano delle bottiglie incendiarie, e una delle camionette di traverso sul marciapiede prende fuoco. Anche un celerino prende fuoco: brucia dalla testa ai piedi con un fumo quasi trasparente, come un foglio di giornale. Subito cominciano ad arrivare i lacrimogeni, prima isolati, poi una pioggia impressionante, quasi tutti ad altezza d’uomo. I compagni rispondono con altre bottiglie ma sopratttutto con biglie di ferro e sassi. Vicino a noi si incendia una jeep, e poco dopo anche un altro camion: non si riesce a respirare, e si vede a farla grande a qualche metro. Lenin strappa allora fuori dalla mia sacca la rivoltella di mia nonna e tenendosi il fazzoletto sulla bocca prende a sparare nella direzione del cordone di poliziotti davanti alla sede fascista: spara con il braccio teso in avanti, un unico colpo alla volta, come mirando un bersaglio in un poligono di tiro». G. Sartori, Anatomia della battaglia, Milano, Sironi, 2005, p. 74.

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Per fare questo, si rivolge al passato, agli anni della seconda guerra mondiale e del dopoguerra, ma non lo fa seguendo gli schemi di una certa memorialistica che insiste sul legame tra la “Resistenza tradita” e la decisione di prendere le armi negli anni ’70, considerando la lotta armata di sinistra come un’ideale prosecuzione della lotta partigiana. Il suo sguardo al passato si rivolge all’eredità che il periodo fascista, la guerra e le sue conseguenze hanno lasciato in termini di violenza, una violenza rimossa che ha potuto far sì che anche un padre fascista potesse, con i suoi atteggiamenti più che con le sue idee, tramandare quella violenza ad un figlio estremista di sinistra. Nel romanzo di Sartori c’è la storia di una famiglia, ma soprattutto di un una tormentata relazione padre-figlio, raccontata in prima persona – attraverso brevi paragrafi spesso non collegati tra loro e con una continua alternanza di passato e presente – da un quarantenne che tornato in Italia dall’Africa per assistere il padre gravemente ammalato di cancro, si interroga sul suo rapporto con lui e sugli effetti che questo ha prodotto nelle sue scelte e nei suoi comportamenti. Tra queste scelte, c’è stata anche quella della clandestinità e della lotta armata (dopo la militanza in una formazione extraparlamentare di sinistra), che lo ha portato anche ad essere corresponsabile di un omicidio. Questa scelta, assieme a molte altre, è stata compiuta – ma solo apparentemente – in opposizione alle scelte e agli insegnamenti paterni. Il padre morente infatti è un ex fascista che ha aderito alla Repubblica di Salò e che non ha mai rinnegato la sua “fede” dopo la fine della guerra. Al contrario, ha continuato a richiamarsi al fascismo, soprattutto in termini esistenziali, nel suo modo di affrontare la vita e la morte: Amava senza riserve il fascismo, lui che era nato nell’anno della marcia su Roma, ma non aveva mai amato incondizionatamente il Duce: secondo lui parlava troppo. Mio padre credeva nelle azioni e nei fatti, non nelle parole. [...] Il suo fascismo era un afflato ben più profondo e più insidioso di una astratta ideologia: era una disciplina e uno stile di vita, una religione.4

Il narratore – un aspirante scrittore – ha scelto di vivere e lavorare come agronomo nell’Africa del Nord anche per sfuggire alla giustizia italiana. Qui ha incontrato Nora con la quale si è sposato. Durante la permanenza in Africa il padre si ammala e inizia la riflessione sulla figura paterna, della quale viene offerto un ritratto potente grazie alla evocazione dettagliata di episodi, gesti e comportamenti. L’uomo, che ha vissuto e vive in Trentino, è un grande appassionato di alpinismo e ha lavorato sempre come carpentiere. Ha avuto tre figli da una moglie con la quale ha intrattenuto un rapporto non sempre facile. È un uomo rigido, che ha vissuto la sua vita all’insegna del senso dell’onore, del coraggio e della disciplina, ma soprattutto all’insegna della sfida e della “battaglia”, direttamente mutuati dalla militanza fascista mai dimenticata. Il romanzo è per larga parte un resoconto della malattia del padre, del suo atteggiamento di sfida di fronte ad essa, del disprezzo del suo corpo malato e infine del suo atteggiamento di fronte alla morte incombente. Il nodo fondamentale dell’opera è il rapporto tra le generazioni, che in apparenza è di opposizione (le scelte del figlio si organizzano antagonisticamente rispetto a quelle 4

Ibid., p. 25.

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del padre),5 ma che in realtà è caratterizzato da una sostanziale continuità. Le ragioni profonde che hanno portato la generazione del figlio a immergersi e talvolta a perdersi nella lotta politica violenta vanno ricercate nel legame con quella precedente: Io non ero cosciente che serbavo dentro di me il ricordo di una guerra che non avevo vissuto. Pensavo che la guerra riguardasse solo i miei genitori, quelli della loro generazione. Mai una volta mi passò per il capo che potesse esserci una qualche relazione tra il rancore che si accumulava in me e quello di mio padre. Non sapevo che dentro di me sonnecchiava il demone dell’odio. Non me ne accorsi nemmeno quando mi infilai sotto la giacca la rivoltella. La sera dopo l’assalto alla banca ero anzi euforico: un passante era morto, ma io avevo assaporato il palpitante affiatamento che avevo sempre agognato, mi sentivo finalmente in sintonia con le mie idee. Se non fosse stato per M. sarei andato avanti ad ammazzare, perché la guerra mi ripugnava ma l’avevo nel sangue, perché l’odio mi aveva. Sapevo che era una guerra ormai persa, come l’aveva saputo anche mio padre, ma non me ne importava.6

Si è in presenza dunque di una eredità nascosta, latente, che si trasmette da una generazione all’altra nel manifestarsi di una comune sensibilità; è un’eredità che consiste nel culto della violenza e della guerra che il narratore ha sempre condannato nel padre. La scoperta di avere un nonno paterno filonazista coinvolto nella deportazione di prigionieri politici e di ebrei,7 lo convince definitivamente dell’inarrestabilità di questa catena di trasmissione, culminante nella sua adesione alla lotta armata: Probabilmente mio nonno non era responsabile solo del trasferimento in Germania dei lavoratori coatti, era davvero colpevole anche della deportazione di un numero imprecisato di prigionieri politici, forse anche di qualche ebreo. A dispetto dell’edulcorata versione familiare aveva delle precise responsabilità. E quindi anch’io in qualche modo, se non altro per la leggerezza che in famiglia avvolgeva la questione, e che io avevo in fondo sempre avallato, ero responsabile. Il mio stesso coinvolgimento nel terrorismo andava riletto alla luce di quella macchia non espiata. Sapevo che prima o poi avrei dovuto osservare da vicino quel grumo scuro dentro di me.8

Si tratta dunque di uno stringente nesso di causalità: il nazismo del nonno origina il fascismo del padre e da questo si arriva – seppur per apparente opposizione – al terrorismo di sinistra del figlio. La trasmissione di generazione in generazione del culto della “battaglia” e dello scontro come visione del mondo9 esce dai limiti di un 5 «Poi a quattordici anni tagliai anch’io i ponti con i genitori. Mio padre e mia madre erano rimasti fascisti, e io nel giro di qualche mese divenni un membro del “servizio d’ordine” di un gruppuscolo di estrema sinistra». Ibid., p. 19. 6 Ibid., p. 182. 7 «[...] fascista della prima ora, gerarca per molti anni in Alto Adige [...], volontario nella guerra di Spagna [...], responsabile durante l’occupazione tedesca della raccolta e del trasferimento in Germania dei lavoratori coatti, correo verosimilmente della deportazione dei prigionieri politici, forse anche della deportazione di qualche ebreo». Ibid., p. 84. 8 Ibid., p. 241. 9 «Io gli ero riconoscente, che a differenza degli altri genitori non mi avesse mai criticato per i cortei o le occupazioni e che, sebbene la parola d’ordine più frequente fosse “antifascismo”, non mi avesse mai proibito o imposto nulla. Ce l’aveva con i democristiani e i socialisti, non contro i comunisti. Per lui

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fatto privato per diventare paradigma di un destino universale e spiega la cruenta relazione tra presente e passato: Mio nonno a diciotto anni si arruolò volontario nell’esercito italiano [...]. Mio padre a diciotto anni si offerse volontario, visto che per tutta la sua giovinezza gli avevano inculcato il culto del combattimento. [...] Io a diciannove anni mi arruolai, seppure con atteggiamento defilato [...], nella guerra contro i capitalisti e contro lo stato imperialista. Il mio odio per i padroni e le multinazionali era l’odio di mio nonno per gli anarchici e per i bolscevichi, l’odio di mio padre per le ricche potenze straniere e per i preti. Il nostro odio era l’odio di tutte le carneficine in nome delle nuove religioni laiche, l’odio dei genocidi, l’odio dei fanatici religiosi [...]. 10

Il passato violento che si riverbera nel presente è una costante nel romanzo. Si materializza ad esempio nella vecchia pistola avuta in eredità dalla nonna morta sei mesi prima, con la quale il narratore partecipa all’azione violenta che sfocerà nell’omicidio,11 così come nella storia familiare di “Lenin”, suo compagno di lotte, la cui madre è una sopravvissuta al campo di Buchenwald.12 Per il narratore l’educazione alla violenza si attua attraverso un condizionamento ambientale fortissimo che si manifesta con la pervasività della guerra fin dalla sua infanzia:13 La differenza tra gli adulti e i bambini, nella mia infanzia, era che questi ultimi non avevano vissuto la GUERRA. Non avendo vissuto la GUERRA i bambini erano appunto dei bambini, e verosimilmente lo sarebbero restati tutta la vita. Perché l’unico modo per sapere cos’era la guerra era averla FATTA: chi non aveva FATTO LA GUERRA non poteva capire in cosa consistesse la vita, non l’avrebbe mai capito. Quello che avevano in comune mio padre e mia madre [...] era la guerra.14

i comunisti e ancor più l’estrema sinistra lottavano per dare il potere alle masse, vale a dire per l’affermazione dell’inciviltà, ma non per ricavarne un vantaggio personale: sempre meglio di chi si dava invece da fare per arricchirsi. E forse preferiva pur sempre che a differenza dei miei fratelli mi battessi per qualcosa, come alla mia età aveva fatto anche lui. Il mio comunismo era altrettanto integro del suo fascismo, altrettanto intransigente: forse per qualche aspetto si riconosceva. Ci rispettavamo come combattenti di opposte coalizioni, ma con un unico nemico». Ibid., p. 40. 10 Ibid., p. 182. 11 «Lenin era quasi caduto per terra dal ridere, quando gli avevo mostrato la pistola di mia nonna, morta sei mesi prima. Mi aveva detto che non era affatto una P38, e che non valeva proprio niente, in tutti i sensi. [...] Poi però la settimana dopo quando decidiamo di andare anche noi alla manifestazione a Milano per il compagno ucciso dai fascisti mi prende da parte per dirmi di portarla». Ibid., p. 73. 12 «[...] Lenin è morto nell’infermeria del carcere. [...] È stato seppellito nel villaggio dove la madre uscita viva per miracolo da Buchenwald ha la villa». Ibid., p. 118. 13 «Quando sono nato io la guerra era finita da quasi quindici anni, ma in casa mia rappresentava il quadro di riferimento di qualsiasi ragionamento: l’assunto era che tutto quello che era venuto dopo non era stato che rovina e disordine. Per mia nonna, che s’era vista spazzare via definitivamente quel mondo diviso in padroni e servi che per lei era l’unico plausibile, per mio padre, che aveva dovuto sottomettersi al trionfo di quelli che considerava dei traditori, e seppure in misura minore anche per mia madre, la quale dopo la guerra non aveva più ritrovato la spensieratezza della sua gioventù, quella felicità che sentiva anzi sempre più lontana e irraggiungibile». Ibid., p. 177. 14 Ibid., p. 16.

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Questa presenza invisibile fa sì che nel protagonista si crei una sorta di fame di immagini cruente, tanto da farlo diventare, ancora in tenera età, uno spettatore assiduo di documentari bellici, con i suoi occhi che «addentano voracemente ogni fotogramma, come belve che hanno finalmente trovato di che nutrirsi».15 Dalle immagini si passa alle prime letture, anch’esse caratterizzate dall’esclusivo tema della guerra: Mio padre quando io ero bambino leggeva solo libri di guerra.[...] Non mi ricordo come successe, ma anch’io in prima media cominciai a leggerli. Con una rapidità che all’inizio stupì mio padre, ma che presto considerò normale: quando ne avevo finito uno gliene chiedevo un altro, e lui ci pensava un po’ su e poi me lo dava.16

Il narratore prende coscienza delle implicazioni e delle conseguenze che la guerra ha avuto sulla sua famiglia e su di sé, compresa la sua adesione al terrorismo politico, nel momento in cui decide di rappresentare, attraverso la scrittura, la morte del padre. È la scrittura dunque che gli consente di riflettere su se stesso e sul suo rapporto con la violenza. Raccontare la morte del padre e il suo rapporto con lui, è un modo per liberarsi dalla colpa originaria. La violenza dei padri tramandata ai figli e il conflitto generazionale che si esprime nella continuità delle scelte violente si ritrova ne Il vento dell’odio, di Roberto Cotroneo,17 romanzo che presenta numerose affinità tematiche con il romanzo di Sartori. Tuttavia l’organizzazione del racconto è molto diversa. Come nota Umberto Eco, Cotroneo crea «una storia paranoide e mozzafiato che vede dietro ai terroristi una immensa ragnatela di servizi variamente deviati».18 C’è dunque nell’opera di Cotroneo una componente investigativa che – anche attraverso gli schemi narrativi della “spy story” e della “conspiracy theory” – vuole arrivare ad una possibile verità sugli anni di piombo. È presente inoltre un’indagine sulla natura della società italiana, vista a partire dal secondo dopoguerra. I protagonisti de Il vento dell’odio sono Cristiano Costantini e Giulia Moresco. Entrambi negli anni Settanta sono stati coinvolti con differenti ruoli nelle vicende dell’eversione e nel corso della narrazione ripercorrono le loro vicende personali, che hanno come sfondo il terrorismo di sinistra e lo stragismo della destra eversiva. Cristiano è un ex brigatista rosso latitante da venti anni in Argentina dopo essere passato per Parigi, responsabile di numerosi fatti di sangue. Nei capitoli a lui dedicati – il romanzo è strutturato in capitoli che presentano alternativamente la voce di Cristiano e quella di Giulia – racconta la sua formazione e la sua esperienza nella lotta armata, dagli entusiasmi iniziali fino alla disillusione degli ultimi anni prima della fuga. Anche Giulia ha dato il suo contributo alla lotta armata, ma in modo meno evidente. Un amico del padre, residente a Milano l’aveva coinvolta e utilizzata come “staffetta” tra Milano e Parigi. Allontanatasi da quel mondo si è sposata, ha avuto un figlio ed è diventata una donna ricca e di successo. 15

Ibid., p. 17. Ibid., p. 62. 17 Saggista e critico letterario, ha pubblicato numerosi romanzi. Ha vinto il premio “Selezione Campiello” nel 1995 con Presto con fuoco. 18 U. Eco, Voglia di morte, «L’Espresso», 30 ottobre 2008. 16

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L’unico legame tra i due è la comune frequentazione della casa di Cristiano durante gli anni giovanili, dove si tenevano riunioni e si nascondevano anche armi. I loro destini si incrociano di nuovo quando Giulia decide molti anni dopo di comprare proprio quella casa. Durante i lavori di ristrutturazione trova un manoscritto in un tramezzo. È un memoriale del padre di Cristiano. Giulia riesce ad inviarglielo e il contenuto sconvolgente del memoriale convince Cristiano ad abbandonare la latitanza e a tornare in Italia per far luce sul passato. Anche Giulia non ne esce indenne: per riuscire a contattare Cristiano viene a contatto con personaggi ambigui e che sembrano conoscere molto più di lei a proposito di suo padre. Dunque anche i loro padri sono protagonisti della storia, anzi le pagine fondamentali del romanzo sono dedicate a loro. Il padre di Cristiano era un uomo dei Servizi Segreti che non ha mai rinnegato la fede e la militanza fascista; il padre di Giulia era un comunista al servizio del Patto di Varsavia. Sono padri dalla doppia vita (i figli non sono a conoscenza della loro reale professione) che trascorrono lunghi periodi lontano da casa e che nascondono importanti segreti. Tuttavia sono silenziosamente presenti nella vita dei figli, nel senso che da lontano e da “dietro le quinte” indirizzano le azioni di Cristiano e Giulia. Attraverso questo svolgimento narrativo, Cotroneo rappresenta in modo simbolico le responsabilità dei padri verso i figli. Il padre di Cristiano fa parte di quel coacervo di forze oscure responsabili o corresponsabili della strategia della tensione e delle stragi di Stato, compiute nel tentativo di provocare una svolta autoritaria. Leggendo il memoriale del padre, che rivela nei dettagli i disegni di una struttura occulta alla quale reca i suoi servigi, Cristiano viene a conoscenza delle trame eversive e soprattuto del fatto che lo scopo dell’organizzazione era quello di tenere sotto controllo e di “indirizzare” il terrorismo rosso verso gli obiettivi delle forze reazionarie. Il sequestro e l’omicidio di Moro, seppur non ideato o organizzato da queste forze, è stato da loro gestito ed è servito allo scopo di indebolire la sinistra e il Partito comunista. La parte più sconvolgente del memoriale è quella che riguarda direttamente Cristiano, là dove il padre rivela che non solo sapeva della sua attività eversiva e che la teneva sotto controllo («[...] capivo che non soltanto mio padre era a conoscenza delle cose che facevo, ma in un certo senso le generava e le indirizzava.»),19 ma che in più casi, nell’ombra, lo aveva aiutato e salvato in situazioni pericolose. Il padre di Giulia, comunista, seppure da una sponda opposta, lavora paradossalmente per lo stesso obiettivo. I servizi dei paesi del socialismo reale per i quali segretamente presta i suoi servigi vogliono indebolire il PCI e quindi hanno tutto l’interesse a non ostacolare, se non a favorire, il terrorismo di sinistra. Dunque anche 19 R. Cotroneo, Il vento dell’odio, Milano, Mondadori, 2008, p. 181. Il padre nel memoriale racconta del giorno in cui seppe che il figlio era un terrorista, quando offrì le sue dimissioni all’Organizzazione:« Gli offrii le mie dimissioni. Ma lui disse soltanto: ‘Mi stupisco di lei. Nel momento in cui potrebbe esserci ancora più utile vuole lasciarci senza il suo lavoro’. Mio figlio era diventato una pedina perfetta. Un infiltrato senza sapere di essere un infiltrato. [...] Ora, lei non mi crederà, ma ero fiero di lui. Era entrato in guerra, aveva messo una divisa. Era uno dei nostri. In un modo o nell’altro contribuiva a generare un caos su cui poi avremmo potuto intervenire e far nascere un ordine da quel caos. Perché questo facevamo noi». Ibid., p. 150.

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Giulia è segretamente manovrata dal padre che la manda a Milano da un conoscente, Marcello, per il quale la ragazza farà da “corriere” tra l’Italia e la Francia. I padri di Cristiano e Giulia fanno parte di quei due eserciti opposti che non hanno mai abbandonato le armi e che non hanno mai smesso di odiarsi dopo la fine della guerra, tramandando l’odio e la violenza di padre in figlio. Cotroneo va alla ricerca della frattura presente nella società italiana che dalla guerra civile cominciata durante la Seconda Guerra Mondiale è arrivata fino al bipolarismo imperfetto e conflittuale degli ultimi anni: Eravamo e siamo un paese che si odia. Un paese che vent’anni prima aveva combattuto una guerra civile. Un paese che non ha fatto davvero i conti con il fascismo. Un paese fascista nel suo nucleo più profondo. Fascista e rivoluzionario al tempo stesso. Un paese di estremi violenti e distruttivi. In mezzo c’era forse una minoranza illuminata, che pur militando nel Pci, nella DC, pensava cose diverse, cose legali e democratiche. Per il resto era tutto un antistato. Ed era un antistato che contava. Quelli che ci stavano dentro, come mio padre, quelli che c’erano da quando il fascismo era ancora al potere. Quelli che lo stato democratico lo avrebbero fatto a pezzi.20

Nel romanzo i padri si servono dei figli per continuare la loro guerra, una guerra che paradossalmente ha lo stesso obiettivo, quello di favorire il terrorismo interno, seppur per scopi contrapposti. Padri che odiano e che hanno odiato, non possono che ricevere odio dalla generazione successiva,21 che Cristiano così definisce: [...] una generazione schiacciata, che ha odiato i padri, e che dai padri in questo odio è stata ricambiata. [...] Il loro odio di sé, quell’odio che si erano portati dietro per due decenni, e che era fatto [...] dell’orrore della guerra, del dramma della guerra civile, era un odio ipocrita. La loro vigliaccheria era quella di coltivare ancora quell’orrore e quell’odio dentro quei vestiti sempre troppo formali [...], dentro una normalità che non aveva nulla di autentico. Chi si è chiesto, in questi anni, come è potuto accadere deve cercare dentro le famiglie italiane; deve sapere che l’odio dei nostri padri era lo stesso odio che abbiamo ereditato noi.22

Come il protagonista-narratore di Anatomia della battaglia, Cristiano trova la radice del suo odio e della sua violenza non solo nel padre, ma nelle generazioni ancora precedenti, le quali innescando e non interrompendo i comportamenti violenti, hanno fatto sì che il vento dell’odio potesse arrivare fino a lui: Sapevo che la mia lotta armata andava di pari passo con il mio senso di colpa verso il mondo, sapevo di essermi caricato sulle spalle il senso di colpa di mio padre, di mio nonno, 20

Ibid., p. 66. «Gli occhi di mio padre erano sfuggenti, capaci di nascondersi anche quando si incrociavano con i tuoi. Gli occhi sfuggenti di un uomo distante. Una distanza che prima di ogni cosa era una distanza generazionale. Non riuscivamo a vederci, ma soprattutto non sapevamo riconoscerci. La distanza tra noi e loro si faceva ogni giorno più grande, fino a che il nostro mondo non era diventato un luogo quasi invisibile per loro. Fu questo non vedersi a permettere l’orrore di quegli anni». Ibid., p. 26. 22 Ibid., p. 29. 21

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e persino del mio bisnonno Alfredo, che era anarchico, viveva a Carrara e sognava di uccidere il re. E da parte di mia madre, in famiglia, andando indietro per le generazioni, c’era la leggenda di un bisnonno brigante. Discendo da una famiglia di briganti, anarchici, comunisti, fascisti, repubblichini. Io ero il risultato di tutto questo?23

Anche il padre di Cristiano è consapevole di questa linea di continuità, e scrive nel memoriale: Con Cristiano non sono riuscito a essere severo e inflessibile come avrei dovuto. [...] Eppure il carattere d’acciaio che speravo avesse coltivato dentro di sé è venuto fuori d’un tratto. E sa il perché? Perché si nasce in questo modo. E Cristiano era nato come me e suo nonno. E ha poca importanza come sia stato educato. E le dirò di più: non aveva importanza neppure il fatto che avesse scelto la parte politica sbagliata.24

Giulia arriva alle stesse conclusioni. Le origini della violenza degli anni Settanta sono da ricercarsi in quella degli anni e delle generazioni precedenti che è stata trasmessa alla sua generazione senza soluzione di continuità: Forse dovevamo fare i conti con i nostri padri, con i nostri nonni: fascisti, partigiani, o golpisti, o qualunquisti. Ci avevano accusato di essere una generazione violenta, e violenta in un modo inspiegabile. Come fossimo stati un’aberrazione, un’eccezione dolorosa. Una tempesta improvvisa senza un prima e un dopo [...] E invece tutto quello che siamo stati aveva un’origine e non si era perso affatto.25

Il passato lascia inoltre una attrazione irresistibile verso la morte e verso l’autodistruzione, poiché l’odio ereditato è anche e soprattutto odio si sé, che si esprime nel bisogno del sangue e della violenza. Emerge dunque come «anche nel terrorismo nostrano funzionasse (sotterraneo ma potentissimo) un impulso suicida»:26 [...] non eravamo nulla, se non persone che in un clima favorevole avevano dato fuoco a una miccia che stava dentro di noi. E che era miccia autodistruttiva: un’attrazione irresistibile verso la morte, quella data agli altri e quella che poteva capitare anche a noi.27

La Guerra di Nora di Antonella Tavassi La Greca28 è uno dei primissimi testi usciti sul tema del terrorismo negli anni Duemila. Il romanzo si occupa del privato, della dimensione psicologica della protagonista, tuttavia c’è una forte attenzione al presente e alla recrudescenza terroristica manifestatasi con gli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi. Presente e passato si incontrano nel romanzo: per Nora si tratta di un ritorno al passato, ma per molti suoi ex compagni la lotta armata è ancora presente. Ci sono inoltre nel testo importanti riferimenti alla realtà dei “rifugiati” in Francia 23

Ibid., p. 70. Ibid., p. 156. Ibid., p. 172. 26 U. Eco, Voglia di morte, cit. 27 R. Cotroneo, op. cit., p. 51. 28 Con La guerra di Nora, Tavassi La Greca ha vinto il “premio Fregene” 2004. Studiosa di storia romana, ha scritto biografie e romanzi storici ambientati in epoca romana. 24 25

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(Nora è una di loro) e alle problematiche del carcere e del reinserimento sociale. La storia di Nora è raccontata in prima persona attraverso le pagine del suo diario che coprono un arco temporale di tre mesi. È una “fuoriuscita” , ormai da sedici anni a Parigi, che durante gli anni del terrorismo aveva scelto la clandestinità e la lotta armata. Responsabile dell’uccisione di un magistrato, era riuscita a fuggire senza però essere incriminata, dal momento che il suo compagno di vita e di militanza Luca, arrestato dopo l’agguato, non aveva fatto il suo nome. Nel febbraio del 2000 Nora torna a Roma al capezzale del padre malato, ma non riesce a salutarlo per l’ultima volta. Rimane comunque nella capitale e riprende le relazioni con la madre, la sorella Tosca e l’ex compagno Luca, ora in semilibertà dopo anni di prigione ma sul punto di ricadere negli errori commessi in passato. Nel diario Nora racconta del padre (un musicista affermato che aveva garantito agiatezza borghese alla sua famiglia), della madre conformista e soprattutto del suo rapporto con la gemella Tosca, il suo doppio migliore. Il ritorno a Roma e in Italia, alle quali ormai sente di non appartenere più, la fa però ripiombare nel passato: non riesce a sostenere il ricordo dell’omicidio commesso e ne è perseguitata; Luca, con il quale aveva cercato di riprendere la relazione, non è cambiato affatto dal momento che fa ancora progetti eversivi; infine i rapporti familiari non sono più recuperabili. Decide così di tornare in Francia, dall’altro uomo con cui aveva una relazione, lo psicanalista Fernand, che però non può aiutarla come lei vorrebbe. Nora, in preda ai sensi di colpa e alla solitudine, decide così di porre fine alla sua vita. Il rapporto con il padre e in generale con la generazione precedente è fondamentale nel testo e Tavassi La Greca per svilupparlo si affida allo strumento psicanalitico. In Francia Nora aveva intrapreso una terapia con Fernand, ma i due si erano innamorati e aveva dovuto interromperla. L’omicidio commesso da Nora è rievocato sul lettino di Fernand e la sua descrizione, che avviene attraverso dei “flashback”, è disseminata nel corso del romanzo. Il meccanismo narrativo è innescato dal ritorno improvviso a Roma da Parigi per rivedere il padre morente, ma, come accennato, l’incontro dopo sedici anni non avviene, perché Nora non arriva in tempo. L’incontro mancato ribadisce l’impossibilità di fare i conti con la figura paterna, problema irrisolto della vita di Nora. La sua scelta della clandestinità e della lotta armata viene infatti presentata dall’autrice non solo come una lotta contro le istituzioni, ma come momento culminante di una ribellione che è prima di tutto familiare e generazionale. La sua è una rivolta contro le convenzioni e le ipocrisie borghesi – il padre e la madre stanno insieme nonostante abbiano una vita sentimentale altrove – e il conservatorismo («In casa mia anche il gatto era conservatore»).29 Il conflitto si manifesta sin dal momento in cui, nonostante i condizionamenti familiari, Nora si rifiuta di diventare una musicista come il padre, famoso concertista. Rifiuta e modifica poi il proprio nome, che in origine non è Nora ma Norma:30 [...] non Norma, che non ho voluto essere mai, dopo aver cancellato da bambina la m della mia firma sul diario scolastico. Ho rifiutato una volta per tutte di essere Norma, la figlia

29 A.

Tavassi La Greca, La guerra di Nora, Venezia, Marsilio, 2003, p. 44. Il rifiuto ha una doppia valenza simbolica. Rifiuta il nome di una delle più importanti figure femminili nella storia del melodramma e rifiuta la normalità e la regola associate al suo nome. 30

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di un famoso pianista, che avrebbe imparato a suonare la musica felice, come lui.31

La stessa descrizione dell’omicidio compiuto da Nora, con l’insistenza sull’aggettivo “familiare”, lascia intravedere una sorta di “parricidio”: la figura del magistrato ucciso è sostitutiva di quella del padre: Il colore dei miei ricordi è grigio e poi rosso. Era grigio l’angolo della strada, grigio l’asfalto [...]. Grigia era anche l’arma che stringevo senza emozione nelle mani, come avrei potuto stringere il manico della cartella di un bambino, di una borsa da lavoro, o della spesa. Invece quello era un agguato. Noi eravamo i lupi, lui l’agnello. [...] La sua figura mi era familiare, tutto in lui mi era familiare, come si trattasse di un parente o di un vecchio amico. Ne avevo seguito le tracce per mesi.32

Il rapporto padre e figlia è tuttavia complesso, poiché i due sono nonostante tutto profondamente legati. È il padre che permette a Nora con il suo aiuto di lasciare immediatamente il paese33 dopo l’omicidio e le promette il suo aiuto anche in futuro: Subito dopo la mia partenza per Parigi mi aveva scritto una lunga lettera in cui diceva che mi avrebbe aiutato sempre e del resto lo aveva già fatto, ma che era profondamente sconvolto e si interrogava su dove avesse sbagliato, come aveva fatto ad allevare il mostro che ero diventata.34

I sensi di colpa di Nora per il tradimento nei confronti del padre sono così forti che provocano in lei uno sdoppiamento di personalità. La sorella gemella Tosca infatti non esiste (lo si scopre solo al termine del libro); è un doppio che Nora si costruisce per risarcire il padre di tutto ciò che lei non è riuscita a dargli e ovviamente le due gemelle sono l’una il contrario dell’altra. L’inesistente Tosca infatti è un’eccellente pianista e ha una vita perfettamente borghese.35

31 32

Ibid., p. 182. Ibid., p. 126.

33 «In poche battute mio padre mi propose la salvezza, anzi non la propose, la offrì come l’ultima pos-

sibilità: bisognava che partissi subito, prima che qualcuno facesse il mio nome. [...] Scese a comprarmi il biglietto aereo, a ritirare i soldi in banca». Ibid., p. 59. 34 Ibid., p. 24. 35 Il personaggio di Tosca all’interno del tessuto narrativo ha anche la funzione di antagonista dialettico. È una rappresentazione drammatica attraverso la quale Nora cerca di arrivare ad una comprensione superiore di se stessa. Rivolgendosi alla sorella immaginaria, Nora afferma: «Luca non è un assassino, non come lo intendi tu. [...] Anche se non ti piacerà, devi sapere che non ho mai cancellato le scelte politiche che ho fatto in un certo periodo della mia vita. Sono fuggita, è vero, ma non ho rinnegato niente e neanche Luca l’ha fatto. Se non fosse per lui e per altri che hanno taciuto il mio nome, oggi potrei anche io essere in regime di semilibertà o molto peggio... Nella migliore delle ipotesi sarei latitante a Parigi.» Tosca ribatte: «No! [...]. Non posso capirlo. Un assassino non è che un assassino. Non c’è un motivo lecito per uccidere un uomo e se tu ci sei andata vicino... quanto vicino? Non riuscirò a capire né oggi né mai come sia potuto succedere. Speravo che tu fossi pentita, speravo che tu avessi rotto con quel mondo, credevo che Luca fosse scomparso dal tuo orizzonte definitivamente». Ibid., p. 81. In altri momenti del racconto è Tosca che “assolve” Nora: «[...] Perché ti ostini a non concederti niente, perché vuoi punirti? Di che cosa ti vuoi punire, ancora? Puoi dirmelo? [...] Perché continui a sentirti colpevole? Se tu chiarissi almeno questo!». Ibid., p. 137.

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Nora, dopo il suo ritorno a Roma prova a reinserirsi nel contesto familiare e in quello affettivo, ma non riesce a riscostruirsi una nuova esistenza dopo l’esperienza terroristica perché non riesce a uscire dal proprio passato; il rimorso e il senso di colpa la assalgono continuamente. È impossibile per lei cancellare l’omicidio e soprattutto pesa come un macigno il non aver scontato dovutamente quella colpa, mentre altri (come Luca, che era con lei durante l’azione omicida) hanno pagato con il carcere per oltre un quindicennio. Le rimane quindi solo un profondo senso di solitudine e di non appartenenza,36 accentuato dalla scoperta che Luca ed altri ex compagni, nonostante il male arrecato e sofferto in nome della lotta armata, rimangono avvolti in quella spirale e preparano nuovi piani eversivi. Centrale nel romanzo è il mito di Orfeo, richiamato dalla protagonista e da altri personaggi in più occasioni: Nora ha commesso un grave errore nel girarsi, nel tornare indietro.37 Il suo ritorno in Italia fa infatti riapparire fantasmi e conflitti in verità mai veramente eliminati che la porteranno alla ripetizione del gesto violento, questa volta su se stessa. Luca si gira indietro per tornare a perseguire una lotta armata ormai fuori da qualsiasi contesto storico e sociale. In questo girarsi e tornare indietro sta uno dei significati del testo di Tavassi La Greca, che sottolinea l’incapacità di guardare avanti – e quindi di superare il trauma degli anni di piombo – anche da parte della società che con il suo atteggiamento di chiusura non favorisce il reinserimento degli ex terroristi e preclude qualsiasi forma di conciliazione: Trovo molte copie della rivista degli ex detenuti, con articoli firmati da Annalisa, da Luca, da altre vecchie conoscenze. Il gornale parla di ecologia, di reinserimento dei detenuti, pubblica offerte e domande di lavoro, una piccola posta, interviste ad avvocati che rispondono a quesiti legali di vario tipo. I tasti su cui si batte sono due: la solitudine e la difficoltà a essere accettati per chi è stato in carcere, a maggior ragione se ne è uscito solo part-time, e l’esigenza di chiudere i conti del terrorismo, con un’amnistia, una sanatoria di qualche tipo. La guerra è finita- si dice in un articolo- ma nessuno ha firmato ancora la pace.38

5.2. Il conflitto generazionale: i terroristi e i loro figli Nelle opere di Gian Mario Villalta e Luca Doninelli il conflitto generazionale non è più tra i protagonisti degli anni ’70 e i loro padri, ma tra chi prese parte alla stagione degli “anni di piombo” e i loro figli. La vicenda di Tuo figlio (2004) abbraccia circa venticinque anni, dal 1977 al 2001, ma non segue una cronologia lineare; si va avanti e indietro nel tempo con salti continui.

36 «La mia è una posizione singolare. Non posso dimenticare di aver partecipato alla lotta armata, anzi questo marchio a fuoco sembra che nessuno possa togliermelo dalla carne, e prima di tutti non posso farlo io, ma agli occhi dei vecchi compagni mi manca l’alone di martirio che invece Luca e Annalisa possono vantare a pieno titolo». Ibid., p. 70. 37 «Anch’io, per essere definitivamente salva, non avrei dovuto tornare, non dovrei girarmi indietro [...]». Ibid., p. 87. 38 Ibid., p. 94.

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I fatti narrati da Gian Mario Villalta39 hanno luogo in Friuli, nel pordenonese e Riccardo ne è il protagonista principale. A quattordici anni ha subito il trauma dell’abbandono da parte della madre, la quale ha scelto la lotta armata. Riccardo viene accolto da Adamo, un amico e “compagno” di suo padre – morto durante la sua infanzia –, da sua moglie Maria e dalla loro figlia Ornella. La madre finisce agli arresti e dal carcere gli manda lettere che cercano di giustificare la sua militanza. Gli rivela che le sue scelte hanno origine nella storia della sua famiglia: suo nonno fu partigiano, protagonista di quella Resistenza che però ha portato ad una liberazione a metà. Il lavoro deve essere dunque completato. Adamo, ex partigiano, lo avvia ai lavori manuali e cerca di infondere in lui la passione politica, giustificando le scelte di sua madre e ricordandogli che «bisogna fare il male per ottenere il bene». Malata di tumore, la donna muore in carcere. Riccardo rimane quasi indifferente e non vuole partecipare al funerale. In seguito, lascerà la casa di Adamo e andrà a vivere da solo chiudendosi in se stesso. A ricordargli il suo passato rimarrà Silvano, amico della madre, che come Adamo giustifica anzi esalta le scelte della donna. La sua vita cambierà quando, ormai quarantenne, gli verrà affidato l’adolescente Sebastiano, figlio di Ornella morta assieme al marito in un incidente stradale. È proprio il rapporto che si viene a creare tra Sebastiano e Riccardo il nucleo profondo del romanzo. Questa strana paternità adottiva lo riconcilierà con la vita e con la memoria di sua madre. Il tema del romanzo non sono gli anni di piombo. Ciò che interessa all’autore non è la riflessione storico-politica, ma le conseguenze dell’irruzione della storia – e dunque di quel periodo – nel privato, i traumi e le ferite che ha lasciato nei protagonisti, nelle generazioni seguenti e le fratture nelle relazioni familiari. Viene quindi privilegiata la componente personale e interiore. L’abbandono provoca a Riccardo una indicibile sofferenza, che deriva soprattutto dal fatto di non riuscire a capire come sua madre abbia potuto preferire la lotta armata alla condivisione della sua vita. Per questo rigetta tutte le spiegazioni “politiche” che lei stessa, Silvano e Adamo cercano di fornirgli per indurlo a guardare a lei con occhi diversi. Il fatto di sapere che sua madre volesse cambiare il mondo non lo ripaga dell’affetto negato. Non ha successo dunque il tentativo di metterlo al corrente delle ragioni storiche del terrorismo, che gli sono completamente estranee. La guerra contro lo Stato della madre, di Adamo,40 del padre mai conosciuto e del nonno non lo riguardano. Quando Riccardo riceve una lettera dalla madre41 nella quale lei gli chiede di essere fiero di lei e di perdonarla, non risponde alla lettera, ma dialogando con Adamo, replica:

39 Poeta, romanziere e studioso di Andrea Zanzotto, Villalta ha pubblicato numerosi saggi sul poeta veneto e ne ha curato il “Meridiano” per Mondadori. Ha vinto il “premio Viareggio” per la poesia nel 2011 con la raccolta Vanità della mente. 40 Riccardo si rivolge così a Adamo:«La mia sofferenza [...] è venuta da mia madre, adesso viene da te, dal modo assurdo che avete di vivere». G.M. Villalta, Tuo figlio, Milano, Mondadori, 2004, p. 48. 41 «[...] mi basta sapere che tu capisci quanto sono state difficili le mie scelte, quanto mi è costato combattere per una causa che ritenevo e ancora oggi ritengo giusta. Tu sei quello che ha pagato, lo so, anche più di quanto ho pagato e sto pagando io, per il mio destino. Adesso dicono che ho attentato alla sicurezza dello stato, ho commesso dei delitti. Ma quale stato, lo stato di chi? Di quelli che hanno il potere, come sempre, e con il loro potere possono distruggere la vita di chiunque». Ibid., p. 17.

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«Non so per chi fosse scritta quella lettera, ma non per me, lei non sa niente di me, mi ha scritto una lettera che andava bene per i giornali, era falsa. [...] Poteva essere per il figlio di chiunque. Ha scritto delle idee. Niente che avesse a che fare con me, la vita [...]. Un ricordo, volevo, un momento passato insieme, sapere che l’aveva tenuto nella sua testa sempre, come avevo fatto io. Non frasi da libro di storia!»42

Il sentimento che prova per sua madre non è odio ma indifferenza. Apprende della morte di lei dalle pagine di un giornale mentre si trova al bar, ed è costretto anche ad ascoltare dei commenti sgradevoli da parte di alcuni avventori sulle cure in carcere per gli ex terroristi, ma lui «non sente niente, non prova altro che un dispiacere lontano, una nausea appena accennata, ma come per qualcosa che non gli appartiene. Niente gli appartiene veramente, non quella roba, no, quella non gli appartiene».43 L’arrivo nella sua vita, quando ormai è adulto, di Sebastiano, innesca un meccanismo di attenuazione del dolore e di riconciliazione con il passato. Sono due orfani che riescono a salvarsi grazie alla reciproca solidarietà, che riescono finalmente a vivere una vita “reale” lontana da quella che l’ambiente e le famiglie in cui erano inizialmente cresciuti volevano destinargli: “Sebastiano non lo sa che lo stavano addestrando per consegnarlo a una vita irreale, come volevano che fosse la mia” pensa Riccardo. “Com’è stata la vita di mia madre. Una vita nella quale si crede che amputare il male sia utile per maturare il bene, che i legami si rinsaldino con il dolore, che l’eredità dei morti sia più forte dell’animo dei vivi. [...] Quanto bisogna soffrire per diventare così? [...]”44

Sarà sulle questioni della vita reale (come quando si discute se sia il caso o no di comprare un motorino per Sebastiano) e non sulla politica che Silvano riuscirà finalmente ad instaurare un rapporto soddisfacente con Riccardo, mentre la pacificazione con il ricordo della madre avviene attraverso un’immagine, carpita in un vecchio filmato, nella quale Riccardo nota una particolare carezza fattagli da lei con il dorso della mano. La parziale riconciliazione finale non avviene dunque su basi razionali ma istintive. Anche nel romanzo di Villalta vengono affrontate le tematiche presenti nelle opere di Sartori e Cotroneo: la guerra, la violenza del passato e l’odio delle vecchie generazioni hanno effetto – anche se in questo caso non producono ulteriore violenza ma sofferenza interiore – sulle generazioni successive. Non è forse un caso che la riconciliazione di Riccardo con la madre avvenga poco dopo aver rivelato alla funzionaria di polizia il luogo in cui Adamo custodiva le armi conservate dopo la fine della guerra, pronte ad essere usate nuovamente dai nuovi adepti della lotta armata. Nelle opere di Luca Doninelli,45 Claudio Magris ravvisa «una rara capacità di mettere a nudo l’intensità del vivere, la sua grazia e il suo orrore talora insostenibile,

42

Ibid., p. 56. Ibid., p. 59. Ibid., p. 47. 45 Romanziere e autore per il teatro, Doninelli è autore di numerosi romanzi e racconti. Ha esordito nel 1990 con I due fratelli. 43 44

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il cortocircuito fra la banalità e l’assoluto».46 In Tornavamo dal mare (2004), lo scrittore di Leno prende in esame gli anni del terrorismo alla luce del rapporto tra una madre e la figlia. Il libro di Doninelli è ambientato nei primi anni del Duemila ma con continui “flashback” nel passato. Narra la storia di Ester, cinquantenne preside di una scuola e della figlia Irene, che vivono sole tra Milano e la casa in montagna. Sebbene la loro relazione abbia dei problemi, la loro vita scorre senza traumi fino a quando non ritorna improvvisamente il passato di Ester. Dopo venti anni infatti, “Fly”, il vero padre di Irene (Ester è sposata e divorziata con un architetto) le fa visita. Ha ormai pochi mesi di vita a causa di una malattia al cuore e per questo può uscire dal carcere. Fly era il capo della cellula terroristica di sinistra di cui anche Ester faceva parte e fu lui ad iniziarla alla lotta armata. Inizialmente la donna non dice nulla a Irene, anche perché lei non sa che Fly è il suo vero padre, ma poi le confesserà il segreto, che se ne porta dietro altri, come il fatto che Ester negli anni della militanza fu incaricata di uccidere suo fratello Giuseppe, combattente sull’altro fronte, quello neofascista. Fly si era fatto vivo per rivedere Ester e soprattutto conoscere sua figlia, ma il libro si conclude con un mancato dialogo in punto di morte tra i due. Il passato ritorna improvvisamente come un fantasma nella vita di Ester, che non può più eludere il confronto con la verità e la propria storia. Ritornano gli anni di piombo, la violenza e il ricordo di Giuseppe, il fratello assassinato per ordine di Fly. Questo ritorno ha un duplice e opposto effetto su di lei. Ancora innamorata del terrorista, dopo l’incontro inizia a comparire sul suo volto una luce nuova, «una bellezza selvaggia», ma è una bellezza che lei non può vedere. Anzi, insorge in lei una “malattia” dovuta proprio al ritorno di quegli anni e del suo passato rimosso, che ritorna come incubo notturno, asma, febbre47 e crisi di panico: Non riusciva a dominarsi. Non era stata mai così nervosa. Quindici giorni prima aveva avuto un attacco notturno. Si era svegliata verso le tre con la sensazione di non riuscire a respirare e aveva chiamato sua figlia, scuotendola. «Irene! Aiuto!» «Cosa c’è, mamma?» «Muoio!» 48

Le crisi si accompagnano alla continua visione di simboli di morte, persino nel suo stesso corpo: Dentro la bellezza selvaggia [...] si insinuava adesso qualcosa di rigido. Se ne accorgeva anche Ester, da un paio di mesi, la sera, mentre si toglieva il trucco. Talvolta sotto l’ostentata fierezza del suo volto le sembrava di veder balenare la forma del teschio.49

46

C. Magris, Un viaggio al termine del nulla, «Corriere della Sera», 18 gennaio 2004.

47 «La febbre era cominciata la sera stessa dell’arrivo in montagna. Come febbre non era un gran che:

trentasette e cinque, trentasette e sei. Però non passava. Cominciava a farsi sentire verso sera, senza altri sintomi, e proseguiva fino a notte, poi se ne andava, lasciando Ester per tutto il giorno in preda a un’inquieta spossatezza che le toglieva la voglia di fare. “Eppure non ho niente di niente. Che razza di febbre è?”». L. Doninelli, Tornavamo dal mare, Milano, Garzanti, 2004, p. 69. 48 Ibid., p. 24. 49 Ibid., p. 50.

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Doninelli con la vicenda di Ester sembra voler simbolizzare il perdurare e il riproporsi nella società italiana di un passato apparentemente dimenticato, che la condiziona in modo negativo e di cui occorre riparlare e prendere coscienza. È un passato che – nonostante la sua indifferenza e il suo non rendersene conto – riguarda anche Irene («Lo sai dove sei stata concepita, bambina mia? In un carcere, amore mio. Non ho saputo fare meglio di così»),50 dunque anche le nuove generazioni. Il personaggio di Irene ha molto in comune con quello di Riccardo in Tuo figlio. Anche lei si sente indifferente verso il terrorismo e quel periodo storico; ne sa molto poco e, come Riccardo, vuole vivere il presente senza alcun condizionamento. Anche di fronte ai terribili segreti della madre e a quello che più la riguarda, non avverte particolari emozioni.51 Tuttavia la ricomparsa del padre rende inevitabile anche per lei guardare al passato, un passato che però non ha lasciato alcuna traccia positiva per lei. L’indifferenza di Irene verso quegli anni si deve anche alla consapevolezza che essi non hanno prodotto alcunché e non hanno cambiato nulla. Non hanno in alcun modo contribuito ad offrirle una ragione di vita: [...] Ma della storia – il fascismo, la guerra civile, la repubblica, il terrorismo, la fine del terrorismo – di tutto questo cos’era rimasto? Uno zio morto, una madre quasi assassina, amante forse di un criminale – bene, questo avrebbe dovuto rivoluzionare tutto dentro di lei: il modo di giudicare il mondo, il modo di guardare sua madre. Invece non era cambiato niente. Eccola qui, la risposta. Tutto quel dolore, tutte quelle lotte, tutti quei morti, tutte quelle parole d’ordine non avevano saputo dire una sola parola, nemmeno la più piccola delle parole, su di lei, sulla sua vita, su quello che le faceva male e che lei continuava a non sapere, perché nessuno le dava nessuna risposta. La storia – tutta la storia, quella grande e quella piccola, la storia d’Italia e la sua minuscola storia personale – non aveva saputo produrre la più piccola delle risposte. Perciò a lei della storia non importava un bel niente. Niente, pensò. Niente che ci dica qualcosa di noi. Mai.52

È inevitabile dunque che l’attesa dell’incontro tra Irene e suo padre, di cui il romanzo fa prefigurare il compimento, andrà delusa. Irene lo vede, in punto di morte, ma non riesce a parlare con lui. Rimangono due estranei e lei rimane con le sue domande alle quali comunque tenta di darsi un risposta: Altre domande premevano, a proposito di quell’uomo. C’era ancora dell’odio, in lui? Forse sì: forse, pensò Irene, sconfortata, nessuna sofferenza fisica può liberare un uomo da una vita fatta di sospetti, processi sommari – anche interiori, se non intimi – e condanne a morte. La maledizione può oltrepassare i confini di una vita umana: questo lo sapevano bene gli antichi, secondo i quali gli spiriti malvagi sopravvivevano alla corruzione del corpo.53

50

Ibid., p. 131. «Dopo quella notte, Irene si era persuasa di essere una ragazza insensibile. [...] Anche questa storia dello zio sconosciuto e del progettato omicidio, questa grande rivelazione che avrebbe dovuto sconvolgerla tutta, be’, invece non aveva sconvolto un bel niente». Ibid., p. 79. 52 Ibid., p. 108. 53 Ibid., p. 179. 51

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5.3. Il ‘caso Moro’ nelle opere letterarie del nuovo millennio «Dov’ero io in quei cinquantacinque giorni della prigionia di Moro? Di che mi occupavo? Come ero passato dalla lotta politica al teatro? Cos’era accaduto intorno e dentro di me?»54 Nella risposta a queste domande si concretizza Corpo di Stato (2003) di Marco Baliani.55 Baliani compie un viaggio nella memoria e racconta le storie avvenute e le emozioni provate nei cinquantacinque giorni del rapimento, nei quali, nonostante il clima di angoscia e di tensione, la vita non si è fermata. La sua non vuole essere un’ inchiesta sociologica, né una riflessione su quello che significò politicamente e storicamente la vicenda. Il suo è un racconto al tempo stesso personale e corale, dove il punto di vista è quello di un “compagno” all’interno del “movimento”. Dunque Baliani parla al plurale, ripercorrendo le storie di alcuni giovani amici della sinistra extraparlamentare che vissero insieme a lui gli ideali politico-rivoluzionari (come Giorgio, Armando e Riccardo di cui parla nel testo). È in quest’ottica “corale” che assume un senso importante la scelta di impostare la narrazione su due binari paralleli che corrispondono alla morte di Aldo Moro e a quella di Peppino Impastato, ucciso in Sicilia dalla mafia a causa delle sue ripetute denunce dai microfoni di Radio AUT; morti accomunate dalla terribile coincidenza temporale (9 maggio 1978). Impastato è “uno del movimento” , un militante di sinistra la cui morte, al contrario di quella di Moro, passa in secondo piano e viene dimenticata.56 Baliani inizia il racconto con un episodio avvenuto cinque anni prima: l’occupazione della facoltà di architettura a Roma nel 1973. È necessario partire da lontano perché in quei cinque anni si concretizza la sua formazione personale e avvengono importanti trasformazioni all’interno del “movimento”: In aula magna le assemblee sono frequenti. A parlare si alternano i leader dei gruppi extraparlamentari presenti in facoltà. Il comitato politico di Architettura li contiene tutti, da Avanguardia operaia al Manifesto a Lotta continua a Potere operaio, ma le loro posizioni sono diversissime.57

Al tempo stesso si manifesta la vocazione teatrale dell’autore e l’inizio del suo percorso professionale. Nel farne il resoconto Baliani sottolinea alcuni aspetti negativi del movimento che sembrano già in nuce e che contribuiranno a portarlo alla sua disfatta: Da qualche settimana tra gli occupanti più assidui s’è formato una specie di gruppo trasversale di cui faccio parte anch’io. Molti di loro sanno suonare. Così per passare il tempo 54 M. Baliani, Corpo di Stato, Milano, Rizzoli, 2003, p. 94. Il testo letterario edito da Rizzoli è ampiamente basato sul monologo teatrale tenuto ai fori traianei nel 1998 da Baliani nel ’98, trasmesso in diretta dalla RAI in occasione del ventesimo anniversario della morte di Moro. 55 Marco Baliani è un attore teatrale e cinematografico, regista e drammaturgo. È uno dei massimi esponenti del “teatro di narrazione”. Nel 2004 ha pubblicato il romanzo Nel regno di Acilia. 56 «Sono passati venticinque anni da quel 9 maggio 1978. Di Aldo Moro ognuno di noi ha fissata nella memoria l’immagine di un corpo riverso intravisto dal portellone aperto di un’auto, una Renault rossa. Di Peppino Impastato [...], non sono rimaste immagini per la nostra memoria». Ibid., p. 15. 57 Ibid., p. 8.

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ci mettiamo a organizzare piccoli happening musicali, ci viene a trovare Dario Fo, ci racconta del mestiere di attore [...] nasce così in quei mesi una specie di canovaccio teatrale-musicale a partire da una fiaba: Il re è nudo. Un teatro rozzo, semplice, tutto politico. [...] Alla fine dello spettacolo [...] cantiamo Bandiera Rossa coi pugni alzati ma storpiando la canzone in un ritmo di blues e accennando piccoli passi di ballo come fossimo il coretto di un film musicale. [...]«Fuori! Fuori! Ché questi non sono più compagni! Attori sono, attori!». Ero stato marchiato. Fu così che cominciai a fare teatro.58

Arrivando ai giorni del sequestro, Baliani cerca di reperire nella sua memoria le reazioni alla notizia dell’avvenimento e lo svolgimento della vita quotidiana: Camminando con le borse della spesa in mezzo ai banconi del mercato, la gente reagiva nei modi più disparati. C’era uno che diceva: «È una provocazione! Sta’ a vedé che ce riempiono de cari armati, sta’ a vedé che t’o fanno così er colpo de Stato» E un altro gridava: «Ma perché hanno preso Moro? Andreotti dovevano pijà, Cossiga!»59

Roma è blindata, la polizia e i carabinieri sono – inutilmente- ovunque e tutti sono possibili sospettati.60 C’è il ricordo di una visita a un compagno in carcere, l’incontro con la madre di un compagno rimasto ucciso in una rapina e le discussioni sulla scelta tra la”fermezza” e la “trattativa”. La reazione del narratore alla notizia del sequestro è un misto di sorpresa ed euforia: Il 16 marzo del 1978, quando la radio cominciò a trasmettere dell’attacco di via Fani e del rapimento di Aldo Moro, io stavo scendendo dal furgone per andare a fare la spesa al mercato del Testaccio, a Roma. E rimasi lì con la portiera aperta.

58

Ibid., p. 10. Ibid., p. 20. 60 «Qualche giorno dopo l’attacco di via Fani, sarà stato il 21 di marzo, stiamo scendendo, io, Maria la mia compagna e nostro figlio, lungo via Gregorio Settimo, con la nostra Cinquecento gialla tutta scassata. Aveva una portiera bianca che avevamo sostituito dopo un incidente, bisognava tenerla con la mano mentre si guidava, se no si apriva in corsa. All’altezza del ponte sul lungotevere c’è un posto di blocco, come ormai ce ne sono centinaia a Roma. Hanno i mitra in pugno, ci fanno scendere, ci spingono, sempre tenendoci sotto tiro con le armi, ci strattonano, perquisiscono Maria per vedere se magari al posto del bambino tenga nascosta un’arma. Mio figlio Mirto, di appena un anno, comincia subito a piangere. Aprono il cofano, spalancano le portiere, ribaltano i sedili, rovesciano a terra la borsa di Maria, un biberon pieno di latte rotola sul marciapiede, io faccio per chinarmi a raccoglierlo ma non ci riesco, le mie gambe sono irrigidite, ho paura. Guardo i carabinieri, sono tutti più giovani di me. Vedo con quanta facilità potrebbe partire un colpo da quelle armi maneggiate così. Ecco, loro adesso potrebbero sparare e noi crepare qui sull’asfalto, e la legge sarebbe dalla loro parte. Ecco la legge Reale, ora ce l’avevo davanti concreta, tangibile. Per fortuna ci risbattono in auto infuriati perché non hanno trovato nulla. Mirto continua a piangere e io dopo un po’ mi accorgo che sto guidando con le mani contratte sul volante, col corpo inarcato sul sedile. “Essere odiati fa odiare” diceva Pasolini. Sì, è vero, c’era odio nei loro sguardi, ma c’era anche qualcos’altro, una specie di impotenza, di rabbia contenuta a stento, e non solo per l’attacco che lo Stato aveva subito, ma perché cinque dei loro compagni erano stati massacrati. Era il loro senso di appartenenza a un corpo, al corpo dei carabinieri, era questo che era stato violato e loro adesso volevano vendicarsi, presto, subito, solo che non sapevano cosa fare, come comportarsi, erano sbandati, e allora si sfogavano, scaricando la loro rabbia su quelli come noi». Ibid., pp. 23-25. 59

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Subito, in quei primi istanti, fui preso da un senso di eccitazione, una specie di euforia. [...] Ma avevano rapito Moro! Il presidente della Democrazia cristiana, un simbolo del Potere, del Palazzo! Avevano colpito il cuore dello Stato, allora stavolta c’erano riusciti, non erano solo slogan.61

Presto però interviene la riflessione e dunque un ripensamento critico a livello politico, nella consapevolezza che «Moro [...] era sempre stato quello più a sinistra, più aperto al dialogo [...]. [...] era proprio lui che stava addirittura portando il Partito comunista al governo [...]».62 Il giudizio politico sull’uomo di potere lascia progressivamente il posto al rapporto con l’essere umano in quanto tale. La lunga prigionia, le lettere, l’umiliazione suscitano nel narratore e in una parte del movimento la consapevolezza di essere di fronte alla tragedia di un uomo e richiamano al dovere di fare qualcosa.63 Nelle pagine in cui testimonia la vicinanza all’uomo Aldo Moro, Baliani richiama alcune delle pagine più drammatiche dell’Affaire Moro di Leonardo Sciascia: Che cosa stava succedendo dentro di me? Era come se col passare dei giorni, dentro quella prigione non ci fosse più nessun onorevole democristiano. [...] ai miei occhi, dentro di me, Aldo Moro diventava un uomo come tutti gli altri, un uomo come me, uno che non si poteva lasciar crepare così, un uomo da salvare, da salvare e basta.64

Baliani fa sue anche le frasi sciasciane contro il mondo politico – in particolare la Democrazia Cristiana65 – che fa finta di non riconoscere Moro nelle lettere inviate dalla prigione, abbandonandolo al suo destino: Fin dalla comparsa delle sue prime lettere dalla prigione, tutti si affrettavano a dimostrare che non poteva averle scritte lui. [...] Più Moro tentava di comunicare, di farsi capire, di trovare una qualche soluzione, più tutti intorno si affrettavano a screditarlo, a farlo passare per uno incapace di intendere e di volere.66

Il rapimento di Moro fa venire alla luce tutte le contraddizioni di una generazione alla prese con il mito rivoluzionario. Come si è detto in precedenza, Corpo di Stato è un testo corale, il ritratto di una generazione e questa generazione di fronte alla tragedia di Moro si divise e uscì sconfitta. Per Baliani, la prigionia e la fine di

61

Ibid., p. 18. Ibid., p. 21. «Non riuscivo a prendere sonno. Nell’ultimo telegiornale avevo rivisto l’immagine di Moro fotografato dai brigatisti in prigione. Non riuscivo a figurarmi uno come Moro imprigionato. A che cosa stava pensando in quel momento? [...] Quella faccia mi visitava come dovessi farmi carico io della sua reclusione». Ibid., pp. 26-27. 64 Ibid., p. 52. 65«La DC partito della fermezza? Ma dai, se c’è un partito che neanche sa cosa sia la fermezza è proprio la Democrazia cristiana. [...] Stavolta conveniva star fermi e lasciare accoppare Moro, ecco come stavano le cose». Ibid., p. 68. 66 Ibid., p. 64. 62 63

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Moro furono uno “spartiacque”, la maturazione di una lacerazione già esistente. È la lacerazione prodottasi dopo che nelle assemblee sembrano avere la meglio coloro i quali vogliono proseguire le lotte con l’utilizzazione sempre più massiccia delle armi da fuoco, che inneggiano al “salto di qualità”, alla clandestinità e alla P38. La radicalizzazone dello scontro e il ricorso alle armi porteranno alla fine del tentativo di una rivolta non violenta. Il ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani, all’interno della “Renault 4” rossa, pone fine alla tragedia del politico democristiano ma decreta simbolicamente anche la morte del “movimento”: 9 maggio 1978. Aprono il portellone di un’auto. Il corpo di Aldo Moro si rivela. Sarà l’ultima sua immagine pubblica, poi quei fotogrammi rimarranno nel tempo e continueranno a parlare come parlano le immagini della nostra memoria. Guardo quell’auto. La Renault 4 era, per antonomasia, l’auto degli anni Settanta, l’auto del Movimento [...] Su quell’auto abbiamo percorso le prime on the road nostrane, abbiamo fumato i nostri primi spinelli, ascoltato la musica di quegli anni, sempre in troppi pigiati dentro, sui sedili scomodi. La guardo ora, e vedo che in qualche modo ci stanno togliendo anche questo. Quell’auto ora è un carro funebre, ma non si sta celebrando solamente il funerale di Aldo Moro.67

Il tempo materiale (2008) di Giorgio Vasta68 si differenzia notevolmente dalle altre opere sul delitto Moro e sul terrorismo in generale. In esso non vi è traccia del conflitto generazionale e non c’è preoccupazione per l’aderenza ai fatti storici. Prevale invece la componente linguistica, metaforica e simbolica che ne fanno un testo profondamente complesso e aperto a varie interpretazioni. I fatti accadono in una Palermo reale e al tempo stesso immaginaria durante il 1978, anzi si dà un precisio inizio alla vicenda l’otto gennaio. È dunque l’anno del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro. A narrare è Nimbo, preadolescente undicenne introverso e riflessivo, che assieme a due coetanei, Volo e Raggio, fonda una cellula terroristica del tutto simile alle Brigate Rosse. L’agguato di via Fani è importante e sta alla base della narrazione perché fa scattare il processo di emulazione, con la costituzione della cellula eversiva: Io di brigatismo non so niente. Quello che leggo. Qualcosa. Niente. So che se ne parla, che ha a che fare con la morte [...]. In questi giorni vedo in televisione le immagini di via Fani – i morti coperti con i lenzuoli bianchi, i commissari con i pantaloni larghi alla caviglia, i carabinieri con l’uniforme scura e il lampo abbagliante della bandoliera di traverso che camminano tra i bossoli o inginocchiati a disegnare i perimetri col gesso – e ho un prurito che mi mangia la pelle e una cosa nella pancia che mulina e raschia, un presentimento a gorghi che mi si apre sul petto e sul palmo delle mani.69

Nimbo, Raggio e Volo – il quale emergerà come leader e figura dominante del gruppo, nonché quella più spietata – rifiutano totalmente il mondo in cui vivono e vo67

Ibid., p. 70.

68 Vasta è nato a Palermo nel 1970. È consulente editoriale e docente di scrittura creativa presso varie

scuole. Il tempo materiale, con il quale è stato candidato al “premio Strega”, è il suo primo romanzo. 69 G. Vasta, Il tempo materiale, Roma, Minimum Fax, 2008, p. 48.

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gliono distruggerlo, autodistruggendosi con esso, consapevoli della sconfitta finale.70 I tre sono animati da una profonda avversione per il provincialismo italiano, l’«ignobile teatrino del costume» e la loro relazione con il mondo è filtrata attraverso le lenti dell’ideologia così come attraverso l’uso di parole “assolute”. Così i tre si distaccano progressivamente dalla realtà. L’elemento straniante del testo consiste nel fatto che si è in presenza di undicenni che leggono i quotidiani, vedono il telegiornale, seguono le cronache politiche. Vivono e vedono il mondo con occhi adulti e di conseguenza il loro linguaggio è un linguaggio adulto. Attraverso l’uso della lingua, i tre ragazzini si differenziano dai loro coetanei; la loro è una lingua nella quale non vi è alcuna traccia di ironia, dalla quale rifuggono («[...] a me l’ironia fa male. Anzi la odio [...]»)71 o di forme dialettali: Noi conosciamo il piacere del linguaggio [...]. Non soltanto il congiuntivo: Il piacere delle frasi. [...] i nostri compagni di classe non ci riconoscono. Per loro siamo delle anomalie. Degli idioti. Quando poi sentono di che cosa stiamo parlando – le larghe analisi del presente politico italiano, la critica spregiudicata del potere – ci fanno le battute, ci lasciano soli. [...] Nessuno parla come noi, dice Bocca orgoglioso [...]. Non è vero, dice Scarmiglia. Qualcuno c’è. [...] Le Brigate Rosse, dice Scarmiglia. Loro parlano – o meglio scrivono – come noi. I loro comunicati sono complessi, le frasi lunghe e potenti. Sono gli unici in Italia a scrivere così.72

Il linguaggio delle Brigate Rosse diventa dunque oggetto di una attenta analisi linguistica per arrivare alla formulazione di un codice autonomo e originale: Mi sono messo d’impegno a studiare i comunicati delle Br [...], ad analizzarli ancora più approfonditamente di come abbiamo fatto a maggio. Ho cercato di smontarli e rimontarli, di torcere la sintassi e immaginare un altro lessico. Volevo modificarne lo stile, una lingua diversa; tecnica e violenta, sì, ma anche autonoma rispetto a quella delle Brigate Rosse, con un valore esclusivamente nostro. Quando mi rileggo sul giornale mi rendo conto di avere fallito. Mio malgrado sono rimasto imprigionato nella fraseologia che intendevo riformare.73

Ogni particolare della realtà viene minuziosamente definito da Nimbo nei suoi monologhi attraverso un lessico preciso, tanto che le parole finiscono per diventare un fine e non un mezzo. Presto però lui e gli altri ragazzi sentono il linguaggio come eccessivo, superfluo e dunque creano una lingua in codice, l’ «alfamuto», una forma di comunicazione fatta di gesti silenziosi mutuata dall’immaginario televisivo («Le posture le prendiamo da qui, dico. Dai cantanti. Dalle pubblicità. Anche dagli attori. 70 «Fin dall’inizio il nostro sogno è stato diventare dei socrate della lotta armata: inevitabilmente sconfitti ma orgogliosamente sconfitti. E a quel punto, nella sconfitta, invincibili. [...] Ricordati, che lo scopo di tutto questo è la sconfitta. Lo aveva detto. Era qualcosa che aveva compreso e seminato. Non potere e non volere vincere. Contemplare la vittoria soltanto nella retorica linguistica, come miraggio, coltivando nel frattempo una sconfitta perfetta». Ibid., p. 287. 71 Ibid., p. 24. 72 Ibid., p. 61. 73 Ibid., p. 204.

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E dalla televisione e dal cinema»).74 Progressivamente la parola, attraverso il passaggio intermedio dell’«alfamuto», cede il posto all’azione militante: Avete pensato a quello che vi ho detto delle Brigate Rosse?, domanda a un tratto Scarmiglia. Del linguaggio dici?, chiede Bocca. Sì. E del fatto che non si limitano al linguaggio. Agiscono. [...] Essere colpevoli è una responsabilità. Le Brigate Rosse si stanno assumendo questa responsabilità. Stanno rendendo Moro innocente, dico. È vero, fa Scarmiglia, sta succedendo anche questo ma è inevitabile. Se qualcuno ha il coraggio di essere colpevole crea delle conseguenze. E una conseguenza è fare di Moro una vittima.75

Inizia così un’ “escalation” delle imprese violente dei tre undicenni (dalle azioni vandaliche al sequestro di persona e poi all’omicidio) nella quale non è difficile intravedere la progressiva radicalizzazione violenta degli anni ’70, dai roghi nelle fabbriche dei primi anni ’70 agli omicidi politici della fine del decennio. I tre, attraverso una severa disciplina fatta di duri esercizi, creano un mondo non contaminato dagli affetti, totalmente razionale e producono morte, come quella che infliggono al compagno di scuola Morana (il rapimento del quale allude a quello di Moro e la similarità dei nomi non è forse casuale), che avviene con inaudita crudeltà e che segue un «itinerario preciso, tappe collaudate, posture minerali: una via crucis solidificata»:76 La liturgia della distruzione alla quale ho assistito non è fatta di calci e pugni ma di pressione e densità. È una colonna nera che spinge in basso, piega e comprime. La violenza morbida. La violenza gentile. La concentrazione come distruzione. Il corpo di Morana, la tenerezza del suo dolore incosciente. La nostra capacità di compiere il male. [...] Oltre alla pressione simultanea contro schiena e gambe gli facciamo assumere altre posture, sempre esasperandole. Poi gli diamo qualcosa da mangiare, puliamo il vomito e gli escrementi, ma solo lo strato superficiale, senza mai lavarlo a fondo. Lui non oppone resistenza; ogni volta ci guarda e il suo sguardo non ha nessun significato.77

Non manca l’elemento di emulazione del sequestro Moro con lo scatto della fotografia con il giornale in mano: [...] poi prende il giornale che ha comprato la mattina, glielo distende davanti, cerca di farglielo tenere ma le dita di Morana non riescono a reggerlo. [...] Prende una Polaroid, inquadra, scatta; quando si compone, l’immagine è scura ma leggibile, la testa di Morana leggermente china sul petto.78

Sarà lo stesso Nimbo a ribellarsi e a fermare la progressiva radicalizzazione della 74

Ibid., p. 125. Ibid., p. 74. 76 Ibid., p. 256. 77 Ibid., p. 250. 78 Ibid., p. 256. 75

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violenza del gruppo rifiutandosi di sequestrare e uccidere Winbow, una ragazzina creola muta.79 L’ incontro con questa «creatura» gli si rivela come una sorta di epifania, mettendolo di fronte all’accettazione dei sentimenti e del dolore: Per me Wimbow è dove si mescolano euforia e malinconia. La volta celeste della mia immaginazione. L’origine. Pensare alla distruzione di tutto questo è una specie di morte. E il compagno Volo è uno studioso della morte.80

Per il suo disinteresse verso i dati cronachistici, per la sua attenzione rivolta all’infanzia e per la presenza in esso di contenuti simbolici e metaforici, Il tempo materiale presenta notevoli similarità con Alonso e i visionari di Anna Maria Ortese, analizzato nel quarto capitolo. In entrambi c’è lo scontro tra il nichilismo, l’ideologia, la razionalità fredda dei militanti e la forza di creature apparentemente deboli (come il piccolo puma in Alonso e la bambina muta ne Il tempo materiale) che riescono a mettere in contatto l’uomo con il divino, i valori autentici e il senso delle cose. Il testo di Vasta inoltre, rispetto a tutti gli altri, si caratterizza per la ricchezza del linguaggio e per la complessità della scrittura. Il linguaggio diventa il protagonista del libro e attraverso le parole di Nimbo – proprio in apertura del romanzo – l’autore ne offre una possibile chiave di lettura in questo senso: «Mesi fa, agli esami di quinta elementare, mentre raccontavo e il racconto mi nutriva, si nutriva e mi drogava, e intorno a me il pavimento dell’aula era invaso dal sole […] avevo avuto la sensazione di potere andare avanti all’infinito e che il linguaggio fosse un’epidemia dalla quale non cercare scampo. Avevo continuato a parlare così, fermo nel sole e nella percezione degli altri [...] fino a quando la maestra con un sorriso mi aveva appoggiato una mano all’altezza del cuore, mi aveva disinnescato e aveva detto: tu sei mitopoietico. [...] Poi, a casa, avevo cercato. Mitopoietico. Fabbricatore di parole. Ed ero stato contento. Grato e commosso. Riconosciuto».81

Un approccio al caso Moro di tipo visionario si ha con Adesso viene la notte (2008) di Ferruccio Parazzoli,82 pubblicato da Mondadori.83 Il romanzo inizia con la descrizione della stanza di papa Paolo VI dopo la sua morte. In essa vi sono stampati i segni delle lotte del pontefice con il diavolo. Quelle lotte avevano raggiunto l’apice durante i cinquantacinque giorni del sequestro di Aldo Moro, quando Montini si trovò ed essere vittima della sfida lanciata da Satana a Dio, con tanto di blasfema scommessa: il papa non saprà resistere nel vedere il suo amico Aldo84 sequestrato, umi79 «Voglio che lei, per me, resti solo un fenomeno. Una creatura. Senza che niente la sporchi, senza l’oltraggio di una storia. Il suo nome è bambina creola, nient’altro [...]». Ibid., p. 51. 80 Ibid., p. 272. 81 Ibid., p. 14. 82 Parazzoli è nato a Roma nel 1935. È autore di numerosi saggi e romanzi, molti dei quali di argomento religioso. 83 Il romanzo è stato ripubblicato nel 2011 da Il Saggiatore con l’aggiunta di un racconto breve in cui è protagonista Aldo Moro, con il titolo Altare della patria-Adesso viene la notte. 84 I due avevano avuto una lunga consuetudine sin dai tempi della comune militanza nella FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana).

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liato e in pericolo di vita. Soprattutto non riuscirà ad accettare il silenzio di Dio e la sua assenza. Di conseguenza, sottoposto alla tentazione del ripudio della fede in cambio della salvezza di Moro, il pontefice scenderà a patti con il Maligno. La vicenda Moro (la strage della scorta, il sequestro e l’omicidio) diventa dunque pura “rappresentazione” messa in scena da Satana per vincere la sua sfida, con il politico democristiano che svolge il ruolo secondario di agnello sacrificale. Dio e Satana – il primo sotto le mentite spoglie di un parroco di provincia e il secondo nei panni di un gesuita tedesco85 – sono presenti in via Fani al momento dell’agguato: «Ti è piaciuta la rappresentazione?» Chiede con un agro sorriso il Gesuita al Parroco. «E questo è soltanto il prologo. Il resto, a seguire».86

Le “prove” alle quali Satana sottopone Paolo VI iniziano la sera precedente l’agguato, con l’apparizione in sogno di Moro che discute con lui sull’esistenza del diavolo, chiedendo la sua benedizione e la sua protezione («non dimenticare la mia famiglia, qualunque cosa accada»).87 A questa seguiranno altre visioni, come quelle di Zaccagnini, Andreotti, Sturzo e La Pira. La lotta tra Montini e Satana si materializza in aspri dialoghi, come quello che segue di poco il rapimento: «Dov’è quell’uomo, dove l’hanno nascosto? Perché quelle morti? Chi si occuperà di lui, chi verrà a patti per liberarlo?» «Nessuno. Il gioco è tutto qui. Solo tu puoi farlo. Poiché non posso tentare il tuo corpo e il tuo spirito, mi è stato concesso di tentare la tua fede. Un tuo sì o un tuo no e quell’uomo... come si chiama, a proposito? È talmente poco importante per me che non ricordo nemmeno più il suo nome...». «Aldo Moro». «Ecco, appunto, un tuo sì o un tuo no e il tuo amico, quell’Aldo Moro, verrà liberato. Basta che tu ti fidi di me. Quei giovanotti li manovro come mi pare, hanno il caos dentro la testa. Non aspettano altro che una buona scusa per lasciarlo andare libero da sua moglie, dai suoi figli e dai suoi nipotini. [...]»88

Paolo VI viene sottoposto come Giobbe,89 con il consenso di Dio, a numerose

85 «Due uomini, affiancati, camminano lentamente, immersi in una quieta ma impegnativa conversazione. Entrambi indossano l’abito talare: la veste nera, il colletto alto e candido, di celluloide, stretto attorno al collo. L’uno, alto e magro, i capelli candidi [...], parla, pur con lieve accento tedesco, un italiano perfetto, perfino ricercato. L’altro, assai più basso, la pancia sporgente sotto la veste [...], parla un italiano piuttosto approssimativo, con lieve accento dialettale, forse marchigiano. Al primo corrisponde l’immagine che comunenemente ci si fa di un gesuita di Tubinga, al secondo quella di un parroco di qualche modesta parrocchia dell’Italia centrale». F. Parazzoli, Altare della patria-Adesso viene la notte, Milano, Il Saggiatore, 2011, p. 18. 86 Ibid., p. 47. 87 Ibid., p. 51. 88 Ibid., pp. 71-72. 89 «Sei davvero peggiorato dai tempi in cui avevi mandato una scarica di disgrazie a quel mio servo fedele, del quale al momento mi sfugge il nome». «Giobbe. Si chiamava Giobbe». Ibid., pp. 42-43.

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prove di fede ed ingaggia una lotta tenace per non cedere alla disperazione che talvolta si affaccia sottoforma di angoscia e tormento: «Il mio spirito è turbato, i miei giorni si spengono... i miei lamenti sgorgano come acqua perché ciò che io temo mi accade, e ciò che mi spaventa mi sopraggiunge. Non ho tranquillità, non ho pace, non ho riposo, mi assale il tormento... Io non terrò chiusa la bocca, parlerò nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore».90

Nel momento più doloroso, quando tutto ormai appare perduto e non si riescono a trovare soluzioni che possano ridare la libertà a Moro, il papa scrive la famosa lettera agli “uomini delle brigate rosse” in cui chiede il rilascio dell’ “uomo buono e onesto”, dovendo aggiungere quel “senza condizioni” che la farà cadere nell’indifferenza dei terroristi. Poco dopo Moro viene ucciso e il papa concelebrerà il 13 maggio 1978 la messa in suffragio in S. Giovanni in Laterano. Parazzoli riporta nel testo la celebre omelia nella quale Paolo VI rimprovera Dio per il suo silenzio: «Chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della Vita e della Morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente e amico». I volti dei politici, dell’officiante, degli ecclesiastici hanno un moto di riflusso. Può il Papa rivolgersi a Dio con quelle parole nella cattedrale della città di Roma, centro della cristianità? Quale lotta nascondono quelle parole? La voce del Papa si abbassa, si fa cupa, quasi contenga un’affermazione inoppugnabile come una minaccia: «Ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la resurrezione e la vita. Per lui, per lui».91

Dopo appena tre mesi Montini muore, e proprio la sua morte nella fede, confermata dalla seconda parte di quell’invocazione, lo ha reso vincitore così come ha reso vincitore Dio su Satana: Egli ti ha combattuto e vinto, ha vanificato la tua Rappresentazione con la sua stessa vita, nella conferma della sua Fede. Nonostante. La fede è sempre nonostante.92

Adesso viene la notte è un testo che ha le caratteristiche del romanzo metafisico, del noir, ma anche del romanzo fantastico e di quello filosofico-religioso. Nasce inizialmente per il teatro e risente un po’ di questa destinazione nell’andamento della prosa che talvolta sembra procedere per didascalie. In effetti pare di trovarsi di fronte ad una “rappresentazione”, ad un “dramma teatrale”. Parazzoli non racconta il sequestro di Moro e non indaga su quelli che possono essere i punti oscuri della vicenda, anche se ci sono riferimenti alla prigionia e al politico democristiano. Vi sono dati reali e di cronaca, ma spesso vengono completamente trasfigurati. È un testo in cui domina la visione. Si susseguono incubi, fantasmi, apparizioni. Le Brigate Rosse, la DC con i suoi rappresentanti e i politici in generale fanno da sfondo. 90

Ibid., p. 77. Ibid., pp. 122-123. 92 Ibid., p. 25. 91

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Come Vasta e Spinato ma in forme diverse, Parazzoli affronta letterariamente il tema della vicenda Moro da un punto di vista originale. La sua attenzione non è focalizzata sul politico democristiano ma su un personaggio co-protagonista della tragedia, che diventa centrale nella vicenda. L’idea della lotta tra Satana e Paolo VI, che costituisce lo spunto narrativo del romanzo, viene suggerita all’autore dall’enfasi con cui questo papa più volte in pubblico, nei suoi discorsi e nelle sue omelie, aveva affrontato il tema della presenza del maligno. Nel testo vengono riportati – confermando con la presenza di tali inserti la sua natura ibrida e sperimentale – due interventi del 1972. In quello relativo alla solennità di San Pietro e Paolo il papa affermava: «Ho la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio... È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce [...]. [...] Il mio pensiero è che ci sia stato un potere avverso. Il suo nome è il Diavolo, questo misterioso essere... Crediamo in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per impedire che la chiesa prorompa nell’inno della gioia».93

In occasione della festa di S. Alberto Magno, Paolo VI individua con precisione il nemico principale: «...Uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male che chiamiamo il Demonio. [...] San Paolo lo chiama “il dio di questo mondo” e ci mette sull’avviso sopra la lotta al buio che noi cristiani dobbiamo sostenere non con un solo Demonio, ma con una sua paurosa pluralità... Ma uno è principale: Satana, che vuol dire l’avversario, il nemico... [...]».94

L’uso della figura del diavolo nel romanzo ovviamente fa anche riferimento alla letteratura del passato. Uno dei modelli letterari di Parazzoli in questo senso è il Dostoevskij dei Fratelli Karamazov. Viene più volte citato il capitolo dedicato all’incubo di Ivàn Fëdorovic, visitato in sogno dal diavolo. È il libro che si trova – aperto proprio su quelle pagine – sul comodino del papa in vari luoghi del romanzo, anche nel momento della morte. Parazzoli, ripercorrendo una delle vicende più drammatiche degli anni di piombo e della recente storia italiana, affronta una fondamentale questione filosofico-teologica. I nuclei tematici centrali dell’opera sono infatti la presenza del male nel mondo e il silenzio di Dio di fronte al male che colpisce il giusto, lo “scandalo” della sua assenza: «[...] C’è un uomo in questa città chiamata urbe [...], un uomo integro, lontano dal male, estremo baluardo della fede. [...] Ebbene, ti propongo la vecchia sfida: lascia che io colpisca quest’uomo nel cuore e nella mente con lo scandalo del tuo silenzio di fronte al Male che colpisce il giusto... Vedrai se non ti benedice in faccia!»95

93

Ibid., p. 22. Ibid., pp. 36-37. 95 Ibid., p. 20. 94

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Paolo VI alla fine riesce a rimanere “integro”, “lontano dal male”, e Parazzoli lo immortala nel romanzo, dunque all’interno della vicenda Moro, come figura eroica nella sua lotta solitaria, ferma e incrollabile nella fede, nonostante l’angoscia e il tormento interiore. In Amici e nemici (2004) di Giampaolo Spinato96 il presidente Moro e gli avvenimenti che seguono il sequestro tornano in primo piano. I fatti e i personaggi sono riconoscibili anche se l’autore non fa mai i nomi dei protagonisti reali della vicenda e lo stesso Moro è chiamato semplicemente “ il presidente”. La narrazione inizia dalla strage di via Fani, il 16 marzo 1978 (unica data menzionata nel romanzo) e termina con il ritrovamento del corpo del presidente della DC in via Caetani. Tutto inizia dunque con il rapimento e la sua descrizione, che segue l’andamento dei fatti come avvenuti nella realtà storica alla quale però si aggiunge una importantissima “licenza” creativa dell’autore. Sebastiano, ovvero il Comandante Leto, membro del commando che rapisce Moro, rimane ferito nell’agguato e viene a sua volta fatto prigioniero da un terrorista di destra, presente sulla scena dell’agguato al momento dell’azione. Spinato dunque opera una trasfigurazione della realtà facendo coesistere invenzione romanzesca e verità storica. Il misterioso terrorista, aiutato da una donna, sottopone Leto a torture fisiche e psicologiche fino a quando quest’ultimo non riuscirà a liberarsi. Si assiste dunque ad un rapimento nel rapimento, con uno dei rapitori che diventa a sua volta rapito. Nel corso della narrazione si scoprirà che i due eversori di destra sono stati mandati sul luogo del delitto da ambienti legati ai servizi “deviati” (i quali erano al corrente dell’azione delle BR), per assicurarsi che l’operazione si svolgesse senza problemi. La vicenda di Leto è tuttavia solo uno dei “rivoli” narrativi in cui si articola il romanzo. Spinato infatti si sofferma sulla prigionia del presidente, descrivendone lo stato interiore, le reazioni e i movimenti dell’animo. Come nella realtà storica, in Amici e nemici il presidente dopo il rapimento viene imprigionato e processato dai terroristi. Nel corso della lunga prigionia manda messaggi attraverso le lettere al mondo politico che però si attesta su posizioni di “fermezza” e di rifiuto della trattativa. Nel presidente si alternano speranze e disinganno, fiducia e angoscia: Rare parole, ripetute, già remote, tutte nell’ordine di quelle pronunciate tra il momento dell’arrivo e il culmine veloce della crisi che li aveva spaventati. Scambi essenziali, ruvidi: «Queste sono le sue medicine». «Grazie». «E questo uno dei libri che ci ha chiesto». «Ah, grazie, ve ne sono grato...». Dialoghi succinti, rarefatti che, alternati coi silenzi delle ore interminabili trascorse in solitudine, avevano scandito i primi giorni. L’estenuante, intollerabile succedersi di un tempo dilatato, di minuti, di secondi che i rigurgiti improvvisi di interrogativi [...] rendevano ancor meno sopportabili. [...] Nei momenti di lucidità e fiducia, riacquistati con fatica grazie alla concentrazione e alla preghiera, faceva caso a ogni dettaglio. La luce nella gri-

96 Spinato, nato nel 1960 ha esordito con Pony Express nel 1995. Amici e nemici è parte di una “trilogia” che comprende i due romanzi Il cuore rovesciato e Di qua e di là dal cielo, nei quali vi sono alcuni dei personaggi (come Sebastiano e Telonius) che poi confluiranno in Amici e nemici.

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glia appesa alla parete in alto. Le escoriazioni che trapuntavano lo zoccolo del battiscopa. L’ammaccatura sul ripiano in formica del comodino. [...] In qualche caso gli era sembrato di vedere muoversi nella penombra qualche insetto, forse un ragno. [...] Sapeva di non essere riuscito ancora, non del tutto, ad incrinare il guscio d’incredulità e d’angoscia che lo ossessionava. Ma aveva imparato ad anestetizzare il flusso dei pensieri qualche volta.97

Spinato, come Baliani, non è alieno dalle suggestioni dell’Affaire Moro e similmente a Sciascia ritrova la grandezza del politico democristiano nel non aver perduto fino all’ultimo la ragione nonostante la tortura psicologica dell’ incombente condanna a morte: Da dove proveniva quella forza. Da quale influsso un uomo riceveva l’ordine della tenuta. Com’è possibile star dentro, immobili, senza scomporsi, imperturbabili, in una realtà che dilaniava il tempo ora per ora. Nessun uomo può reggere alla tortura di un elastico che ti avvicina e ti allontana da quell’ora.98

Nei sottocapitoli intitolati “Ragazzi” Spinato invece segue le vicende di un gruppo di liceali alle prese con la loro formazione esistenziale e politica, registrando le reazioni alla vicenda del sequestro. Tra questi, segue in particolare le vicissitudini di Telonius e Irene. Telonius è un attivista di “Comunione e Liberazione” che però decide di abbandonare il movimento sia per amore di Irene, leader del gruppo femminista, sia per la volontà di seguire un percorso personale. Come in Corpo di stato di Baliani, vi sono in queste parti del romanzo elementi autobiografici attraverso i quali l’autore offre uno “spaccato” generazionale. Vengono delineate le psicologie dei giovani, le loro paure e soprattutto i loro sogni per il futuro, nel tentativo di mostrare come vivevano i “ragazzi” di allora e quale era la loro percezione degli “anni di piombo”, così come le loro reazioni al succedersi delle notizie sul sequestro: Secondo me son sempre loro. I terroristi?, ma sei scemo. L’han fatto apposta, era una presa per il culo. Ma non hai visto che oggi è uscito il comunicato vero... Magari l’hanno pure già ammazzato. Per me è soltanto un gioco sporco... Sì, dei soliti che stanno in alto. Io non lo so, non ci capisco un cazzo. [...] Chiassosi, a grappoli, nei corridoi, lungo le scale, affamati, in quanto giovani, in tutti i sensi, mescolando il serio col faceto, non potevano comunque in quelle ore fingere di non sapere, non vedere.99

C’è poi un quarto e ultimo tema narrativo, dedicato al Potere. Nelle “Stanze del segreto” Spinato mostra tutte quelle forze occulte – servizi deviati, massoneria, giornalisti compromessi – che cospirano (agendo ma soprattutto non agendo) affinché si

97

G. Spinato, Amici e nemici, Roma, Fazi, 2004, p. 82. Ibid., , p. 201. 99 Ibid., pp. 153-154. 98

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arrivi alla morte di Moro. Così, con accenti danteschi, descrive una riunione massonica: Qui non si entra se non hai un grembiule. [...] Qui l’illazione regna nella nebbia. Qui tutti i volti si cancellano dietro una tessera. [...] Il militare, il finanziere, il faccendiere e, a parte, il prete. Non c’è funzione, vocazione o convinzione esente da questa congrega trasversale con la mano destra al cuore. Di cui non si può dire più di quanto il sogno, la visione delirante possa dire. Perché, come si evince dal grottesco congiungersi di mani sui ginocchi [...]; dai simboli dorati ricamati sugli addobbi, i grembiulini; cazzuole, mattoncini, libri aperti, quei compassi; da tutti questi segni appare chiaro, come si diceva, che tra il bene e il male, tra gli estremi, il terzo incomodo, il reale, che ci sta davanti agli occhi, appare il più inservibile degli elementi. Solo perché il più incredibile da reggere.100

Come si può osservare, nel romanzo c’è una notevole pluralità dei punti di vista: quello di Moro e di Leto su tutti, ma hanno ampio spazio anche le voci del terrorista neofascista e quella del “Potere”, nelle sue manifestazioni visibili e invisibili. A questa pluralità di punti di vista corrisponde una scrittura complessa e un linguaggio che si serve di vari registri linguistici, con l’utilizzo di una prosa spesso ritmata e talvolta con andamento epico. Amici e nemici presenta la più evidente deviazione dal dato storico-cronachistico nell’episodio del rapimento di uno dei brigatisti. Questo elemento “straniante” utilizzato dall’autore ha un duplice significato. Con la presenza sulla scena dei neofascisti inviati dai poteri occulti, Spinato vuole avallare la tesi – già incontrata in alcuni romanzi precedentemete analizzati – che c’è un’altra verità dietro il sequestro e l’omicidio di Moro, ovvero che qualcuno si servì delle Brigate Rosse101 e che queste, se non eterodirette, furono in qualche modo inconsapevolmente “controllate” nell’operazione: [...] «Sanno tutto, loro, conoscevano i dettagli, il giorno e l’ora, i nomi. Sapevano del rapimento e dell’agguato... Forse sono stati loro a suggerirvelo, persino... – Eh, ma tu sei un rivoluzionario, uno che ha fatto il salto, non è vero?» [...] «[...] Tutti quei comunicati... Sfornati uno dietro l’altro... Ma cosa credono? È tutto già deciso! Nessuno lo rivuole indietro. Non illuderti, non ci saranno scambi...»102

Ma vi è anche un significato simbolico nel rapimento di Leto. Ricorrendo alla violenza e al terrore, si fa il gioco del nemico e si finisce per diventare ostaggi del male che si cerca di combattere, venendo in qualche modo da esso “sequestrati”: Nobili ragioni...ultima spiaggia per mentirsi. Non ti ritorna in mente, eh, com’eri da bambino? Io ci ripenso, mmm, ogni tanto...Non hai lasciato, non lo so, qualcuno a cui hai vo100

Ibid., p. 140. «Loro mi pagano, si fidano. [...] Adesso che ti trovi dove non avresti mai pensato... Adesso che lo vedi, puoi vederlo... Sai, di voi... si servono, si sono serviti... E si serviranno... È arrivato il momento di capirlo, ti sei illuso... Avete fatto tutto quello che serviva a loro... Ecco perché ti hanno messo qui, nelle mie mani, i tuoi nemici... hanno deciso di spiegartelo.... i bastardi, eh, quegli assassini, quelli che credete di combattere. Sono qui, nella tua mente... Hanno pensato a tutto... pensaci...» Ibid., pp. 75-76. 102 Ibid., pp. 108-109. 101

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luto bene...[...] Lo capisci finalmente di chi diventiamo ostaggi? Lo vedi adesso, te ne sei reso conto? Di noi stessi...A chi è servito? Eh? A cosa serve tutto questo? Agguati, bombe, ferimenti, tutti i terrorismi... [...] Che vi abbiano infiltrato o che vi abbiano lasciato fare, cosa importa, c’è un solo risultato: da che mondo è mondo il potere ne ricava sempre il suo vantaggio... 103

Lo stesso scrittore, in un’intervista mette in evidenza il rapporto simbolico tra “violenza agita” e “violenza rappresentata” presente nel testo: Finché la rabbia muove una rappresentazione interiore, c’è uno spazio di elaborazione creativo, che permette di capirne le cause e agire sulla realtà, se possibile, o accettarla. Ma nel momento in cui questi ragazzi decidono di far esplodere la frustrazione, una parte interiore muore: è proprio quella parte che aveva generato la rabbia, e che tramite una rielaborazione avrebbe potuto diventare creativa e superare l’ostacolo”. [...] Così – passando dal quotidiano alla storia – avviene per ogni forma di violenza: l’azione uccide prima di tutto chi la compie.104

5.4. Rocco Carbone e Francesca D’Aloja: la pacificazione (im)possibile Libera i miei nemici (2005) di Rocco Carbone e Il sogno cattivo (2006) di Francesca D’Aloja, pubblicati da Mondadori, presentano numerose affinità. In entrambi i lavori gli anni di piombo sono vissuti da un punto di vista privato. Assumono grande importanza le problematiche del carcere, che i due autori conoscono da vicino per motivi professionali,105 e si assiste alla possibilità della riconciliazione con il passato attraverso la ricerca di nuovi rapporti affettivi. Il protagonista di Libera i miei nemici è Lorenzo, quarantenne solitario, metodico, senza amici, che dopo aver abbandonato la carriera universitaria lavora nella redazione di un dizionario enciclopedico. Non ha una vita sentimentale e l’unico legame parentale è quello con un fratello, Carlo, con cui ha un rapporto estremamente conflittuale. Lorenzo esce dalla sua routine solo per svolgere attività di volontariato nella sezione femminile di un carcere, dove insegna grammatica e letteratura. Nella sezione di massima sicurezza sconta la pena Lucia Adavastro, una ex terrorista che ha da poco scritto un libro sulla sua esperienza nella lotta armata. Lorenzo sembra misteriosamente attratto da lei e dopo numerose insistenze riesce a convincerla a seguire i suoi corsi, instaurando con lei un rapporto di fiducia grazie al quale la porterà ad approfittare delle concessioni del regime carcerario, fino a quel momento rifiutate. Il loro rapporto sembra evolvere – soprattutto da parte di Lucia – verso la possibilità di un

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Ibid., pp. 184-185. G. Baioni, Come dare un’anima alla storia, «Città 2000», 4 aprile 2004. Rocco Carbone (1962-2008) è stato saggista e critico letterario, collaboratore di «Nuovi Argomenti» e «Paragone». Ha lavorato come insegnante nel carcere di Rebibbia dal 1998 fino al 2008. Francesca D’Aloja prima dell’esordio letterario con Il sogno cattivo ha avuto esperienze di attrice e regista. Nel 1997 ha realizzato il film-documentario Piccoli ergastoli girato a Rebibbia e interpretato da detenuti e agenti di custodia. 104 105

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legame sentimentale, ma nel finale c’è da parte di Lorenzo una rivelazione che metterà fine al loro rapporto. La struttura del romanzo, in cui si alternano tempi narrativi diversi, è piuttosto elaborata. L’autore alterna il racconto del presente di Lorenzo a quello del suo passato e a quello della terrorista. Attraverso numerosi “flashback” si ripercorrono l’adolescenza e i tempi del liceo di Lorenzo, l’impegno politico con le assemblee e le occupazioni. Ma ormai gli scontri tra militanti di opposti orientamenti ideologici e con lo Stato si manifestano attraverso l’uso della violenza. È durante questi anni che Lorenzo incontra Francesca, di cui si innamora. Seppure entrambi non facciano parte delle frange violente, Francesca rimarrà uccisa casualmente in uno scontro armato fra opposte fazioni. Il passato di Lucia e la sua esperienza nella lotta armata vengono raccontati attraverso la sua deposizione-testimonianza in un importante processo, che Lorenzo guarda attraverso una vecchia videocassetta proprio nei giorni in cui tenta di avvicinarsi alla Adavastro nel carcere. Nel rievocare l’esperienza terroristica di Lucia e quella politica di Lorenzo, l’autore non fa mai riferimento a eventi realmente accaduti o a sigle politiche. Non viene neanche specificato se Lucia sia una terrorista di destra o di sinistra. L’epilogo a sorpresa viene preparato attraverso un progressivo avvicinamento delle due figure femminili, per esempio quando Lorenzo – accompagnando Lucia in una gita al mare durante un permesso – scopre che l’ex terrorista conosce e ama gli stessi luoghi amati da Francesca, in cui lei e Lorenzo avevano passato i loro momenti più belli. L’intreccio delle varie vicende troverà la sua risoluzione nelle ultime pagine del libro, quando l’autore svelerà, con una sorta di vero e proprio colpo di teatro, che fu proprio Lucia Adavastro a sparare e ad uccidere l’amata Francesca. La condizione esistenziale di Lorenzo, il suo rifuggire dagli altri e dalle passioni, la sua solitudine, il suo impegno nel carcere – profuso soprattutto per non pensare a se stesso –, hanno la principale ragion d’essere nel trauma subito, ovvero nella perdita della sua giovane compagna a causa dell’episodio violento accaduto negli anni di piombo. Quello di Lorenzo è un dolore privato molto profondo, una cicatrice indelebile che il tempo non è riuscito a cancellare o attenuare. Il suo presente è dunque conseguenza del passato. Passando dal privato al pubblico, l’autore veicola il messaggio che le tragedie e i lutti provocati dalla violenza di quegli anni non possono essere attenuati né dagli anni di carcere scontati da chi se ne è reso colpevole, né dal passare del tempo. Tra Lorenzo e Lucia dunque non è possibile, nonostante il tentativo operato da Lorenzo, un rapporto di amicizia e tantomento un rapporto sentimentale, anche se Carbone per gran parte del romanzo “inganna” il lettore, indirizzandolo verso questo epilogo. Sembra che Lorenzo vada genuinamente incontro alla terrorista, che la voglia aiutare a reinserirsi nel tessuto sociale e attuare una riconciliazione, superando la logica del “nemico” evocata dal titolo del romanzo e aprendosi al perdono. In questo riesce a vincere le iniziali rigidità della donna che dopo una iniziale intransigenza esce dal suo ruolo di “dura” che in più di diciassette anni non ha mai chiesto un permesso: «Tu mi hai aiutato molto» disse. «Senza di te non sarei riuscita ad avere il primo permesso, e sarà grazie a te se riuscirò tra qualche mese a lavorare fuori dal carcere e rien-

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trarci soltanto per dormire. Da quando ti ho incontrato, la mia vita è cambiata. Sembra stupido dirlo, ma è così. [...]».106

Tuttavia, non è possibile andare oltre e rimane una linea di demarcazione non oltrepassabile tra chi ha usato la violenza e chi ha lottato pacificamente per le sue idee, tra chi ha tolto la vita e chi non lo ha fatto: «Ho pensato anche a te, in tutti questi anni. Mi sono sempre chiesto come hai potuto uccidere una ragazza che non conoscevi, e che non ti aveva fatto niente di male. Io so che allora era molto diverso da adesso, e che si poteva morire più facilmente, per il solo fatto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. So che c’erano ragazzi pronti ad ammazzare e a farsi ammazzare. E so di tutti i morti di quegli anni, da una parte e dall’altra. Morti inutilmente, è questa la verità. Il resto non fa differenza. Chi ha continuato a vivere, come me o come te, ha conosciuto altre cose. Ha potuto vivere. È questa la cosa più importante. Io e te avevamo delle cose in comune, a quel tempo, anche se eravamo su due fronti opposti. [...] Ma c’è un cosa, che ci divide. Qualcosa che non potrà mai essere sanato. Io non ho mai ucciso. Non ho mai tolto la vita a nessuno. Tu l’hai fatto. Nessuno ti ha obbligata. Hai fatto una scelta. Ti sei arrogata il diritto dell’assassinio. E quello che hai fatto non potrà mai essere riparato».107

Libera i miei nemici è anche un libro sul carcere e sulla difficoltà della vita carceraria. L’ambiente del carcere femminile viene descritto nei dettagli. Carbone ne svela i meccanismi e i rapporti umani che vi si creano. Dietro le condanne ci sono le storie delle detenute, alle quali Lorenzo si avvicina attraverso il dialogo, la lettura, consapevole degli equilibri precari sui quali poggiano le relazioni all’interno della struttura. Racconta dunque le storie di Michela, Marina e soprattutto di Laura, che si uccide dopo aver sperato invano nell’amnistia prima annunciata e poi rinviata. Come Carbone, anche Francesca D’Aloja conosce le problematiche della vita carceraria e decide di ambientare gran parte del suo romanzo Il sogno cattivo tra le mura del carcere di Rebibbia, svelandone la vita quotidiana, le tecniche di sopravvivenza e le piccole e grandi burocrazie: Riccardo cercò di vivere quella seconda vita nel migliore dei modi possibili. Fece la scelta più giusta: ci si adattò. Non permise al carcere di entrargli dentro, e dopo tanti anni, continuava a mantenere un contegno, una cura del proprio aspetto, sempre e comunque. [...] Era diventato un punto di riferimento per gli altri detenuti, che gli si rivolgevano per compilare le infinite “domandine”. Domandina: parola d’ordine del carcere. Tutto, ma proprio tutto passava attraverso quel diminutivo [...]. dalla richiesta per l’acquisto del dentifricio, o della limetta di cartone per le unghie, del giornale, di un francobollo, alla visita dentistica.108

Riccardo Serventi è uno dei personaggi di questo romanzo che ha la sua protagonista in Penelope Anselmi, la quale nell’anno 1978 ha diciassette anni e subisce nel volgere di pochi mesi una serie di eventi tragici che sconvolgeranno la sua esistenza. 106

R. Carbone, Libera i miei nemici, Milano, Mondadori, 2005, p. 261. Ibid., p. 264. 108 F. D’Aloja, Il sogno cattivo, Milano, Mondadori, 2006, pp. 56-57. 107

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Perde il padre, assiste al suicidio della madre e la sua amica del cuore, Margherita, svanisce nel nulla dopo aver scelto la militanza politica armata. Penelope rimane sola iniziando un percorso di autoesclusione e autodistruzione che termina nella tossicodipendenza. Dieci anni dopo riesce a ritornare alla vita grazie all’amore di Edoardo. Da questo momento in poi decide di affrontare i fantasmi del passato, in particolare quello relativo all’amica Margherita. Si mette dunque sulle sue tracce, scavando nel passato che da personale diventa collettivo. La può aiutare Riccardo, terrorista in carcere ed ex capo del gruppo armato di cui Margherita faceva parte. Per poter avere le sue confidenze, si fa accreditare come ricercatrice all’interno del carcere. Tra i due nasce una forte amicizia che si tramuterà in un legame sentimentale. Penelope scopre che Margherita aveva avuto una relazione con il gemello di Riccardo, Emanuele (ora “pentito” e con una nuova identità) e che era riuscita a sfuggire alla cattura rifugiandosi in Francia. Alla fine Penelope riuscirà a trovare Margherita, che vive a Parigi con il figlio adolescente Emmanuel. Il trauma subito da Penelope durante gli anni di piombo non è così forte come quello di Lorenzo nel romanzo di Carbone. Non c’è un atto di violenza che porta alla morte di una persona cara, ma la sua scomparsa. Eppure per lei questa è una ferita dolorosa: «[...] avevo un’amica, tanti anni fa, che si è fatta trascinare in quella follia. Non so più niente di lei, nessuno sa più nulla. Quelli che facevano parte del suo gruppo sono stati quasi tutti arrestati, altri sono morti...». [...] Capiva che quella fuga aveva lasciato un segno, una ferita che non riusciva a rimarginarsi e che per Penelope quel vuoto andava riempito. Margherita rappresentava un periodo felice, il più bello della sua vita.109

Per chiudere quella ferita Penelope deve immergersi nel passato e nel corso della narrazione si rende conto che più che ritrovare Margherita (l’incontro con lei a Parigi si rivelerà abbastanza deludente), la sua reale esigenza è quella di riuscire a capire gli anni Settanta, cercare di comprendere il motivo per cui migliaia di giovani decisero di abbandonare tutto e prendere le armi. Raccoglie così le testimonianze delle persone con cui viene a contatto, come quella di Emanuele: Era pieno di gente così, all’epoca, di pazzi che non vedevano l’ora di avere una scusa per sfogare i loro istinti omicidi. Anch’io ero così, sarebbe ipocrita negarlo. Se potessi spiegarti perché, avrei risolto i miei problemi... Sono anni che cerco di trovare una ragione. La nostra avventura andrebbe analizzata in un convegno di psichiatria prima che in un’aula di tribunale. È difficile spiegare quello che succedeva dentro di noi e non voglio cercare nessun tipo di attenuante. [...] Io sono stato posseduto dal male, Penelope, e ti assicuro che quella condizione diabolica aveva in sé qualcosa di incredibilmente potente. Io mi sono sentito Dio. [...] Io non credevo di fare la rivoluzione, ero incazzato quando vedevo morire dei coetanei, il sangue scorreva a fiumi... la violenza chiedeva violenza, il sangue altro sangue, la vendetta... la vendetta era necessaria. Era difficile tornare indietro.110 109 110

Ibid., p. 45. Ibid., pp. 116-118.

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Anche Margherita insiste sulla componente irrazionale della lotta armata («[...] nei due anni in cui mi sono buttata in quella... non so mai come definirla, sai?... Avventura?... Follia?...»),111 non rinnegandola però totalmente, come si evince dalla seguente conversazione con Penelope: «Senti... mi spieghi perché... perché cavolo ti sei messa a fare quella vità? Cosa ti mancava? Cosa volevi?» «Ma non ti ricordi l’atmosfera che c’era in quegli anni? Ti ricordi come tutto sembrava girasse intorno a noi? È stato un momento magico in cui sembrava che il potere potesse davvero finire nelle nostre mani, nelle mani dei ragazzini... Noi credevamo di poter decidere, di poter cambiare le cose... Noi avevamo un sogno». «... Un sogno cattivo». «Un sogno è un sogno. Io non ho più visto nulla di simile a quel fermento, oggi sarebbe impensabile. Sono convinta che quello che è successo, nonostante tutto, è stata la cosa più interessante che il nostro paese abbia espresso negli ultimi vent’anni... e se oggi si fa ancora fatica a parlarne è perché non siamo ancora riusciti a capire la dimensione, l’entità di quegli avvenimenti...» «Sì, ma quegli avvenimenti, come dici tu, hanno prodotto uno scombussolamento che ancora stiamo pagando... Non hanno risolto nulla, hanno solo portato dolore... Io posso riuscire a concepire le intenzioni iniziali, le proteste, il desiderio di cambiamento... Ma poi è degenerato tutto, non puoi dire che sparare, ammazzare la gente fosse una cosa giusta da fare! Come glielo spieghi questo a tuo figlio, eh? Che cosa gli racconti?...»112

Il viaggio di Penelope negli anni Settanta non le fa giustificare chi ha preso parte alla lotta armata, ma le permette almeno di contestualizzare gli eventi, accettando il passato e i suoi protagonisti negativi. Se nel romanzo di Carbone l’incontro tra chi ha subito e chi ha agito la violenza non poteva avere un esito positivo, in quello di D’Aloja si arriva invece a una accettazione totale dell’altro da parte della protagonista. Penelope infatti stabilisce una relazione prima amicale e poi sentimentale con Riccardo, con il quale avrà un figlio. La nascita di Nicola rappresenta dunque il futuro, è il frutto positivo dell’incontro tra una persona che ha causato i traumi della lotta armata e chi quei traumi li ha subiti. Libera i miei nemici e Il sogno cattivo presentano dunque due esiti diversi riguardo alla possibilità di arrivare a una pacificazione con il passato. Sono due storie private che però possono anche essere lette come simbolo di una dimensione pubblica, ovvero della possibilità del Paese di poter superare o meno il trauma degli anni di piombo. 5.5. “L’acquario dei cattivi” e “L’amore degli insorti”: i reduci della lotta armata tra presente e passato I romanzi scritti negli ultimi anni hanno spesso a che fare con figure di ex terroristi che, a distanza di qualche decennio dagli episodi che li videro protagonisti, cer111 112

Ibid., p. 286. Ibid., p. 290.

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cano nuovamente il loro posto nella società e al tempo stesso tentano di fare i conti con il proprio passato. Alcuni di loro hanno scontato una pena ed ora sono liberi, altri sono in regime di semilibertà e altri, riuscendo a sfuggire alle maglie della giustizia, hanno continuato a vivere ricostruendosi vite e carriere in Italia o all’estero. Antonella Del Giudice e Stefano Tassinari, rispettivamente ne L’acquario dei cattivi (2008) e ne L’amore degli insorti (2005), mettono in primo piano la figura del “reduce”, dell’ex terrorista che guarda indietro e fa un bilancio della sua militanza. Antonella Del Giudice113 nel suo romanzo fornisce un crudo ritratto di alcuni reduci della lotta armata. Dopo alcuni decenni trascorsi dalle loro azioni, quattro ex membri del “Gruppo Armato Rivoluzionario” si incontrano in una casa sperduta in riva al mare per fare i conti con il passato. Non si tratta però di una rimpatriata, di un “come eravamo”, ma di un incubo. Presto fuori si scatena la tempesta che imprigiona all’interno gli ospiti, attaccati durante un black-out da un topo che li azzanna alle caviglie. In una atmosfera cupa e quasi allucinata, si susseguono sofferte autoanalisi, confessioni e resoconti, che si alternano a una sorta di “inchiesta” relativa all’uccisione del leader del gruppo Giulio, la cui morte in un’azione armata non è stata mai chiarita. L’altro tema dei loro discorsi riguarda il futuro, cosa fare con il resto delle loro vite. Alla fine, non riusciranno a trovare nulla di meglio che riprendere e proseguire, con una azione assurda e grottesca, la lotta armata. È dunque un testo che non concede molto alla narrazione e al romanzesco per orientarsi verso l’indagine psicologica e il “ritratto”. L’autrice indaga le ferite e i tormenti di ognuno dei quattro protagonisti. La prevalenza dei dialoghi, il tono tragico, l’unità di luogo, tempo e azione contribuiscono a renderlo un romanzo ad impianto “teatrale”. C’è inoltre l’uso di un linguaggio metaforico, denso e lirico, specialmente nelle brevi parti in corsivo – in cui la narrazione si fa corale – che si inseriscono di tanto in tanto nel romanzo: “Ti tengo”, sussurriamo l’uno all’altro. E ancora, a vicenda, a fil di fiato, come a proteggere il sonno di un bambino, con tono di preghiera e panico: “Chi sei”? “Sei tu”? Ci rinneghiamo, divincolandoci come pesci renitenti all’amo che ci uncina per le branchie: non siamo, non fummo, non ne sappiamo nulla, non ci riguarda. Catalogarci per negazioni è la nostra estrema difesa per un’ultima offensiva. La nostra esigenza di rappresentarci esige strategie eversive. Dobbiamo uscire da qui. Dobbiamo tornare insieme, rinascere per evadere da quello che siamo diventati e dire al mondo contingente: non ci hai preso, siamo più forti e pronti a salvare il futuro, poiché il nostro passato non sia rimorso e il presente non sia rimpianto.114

I quattro “attori” sulla scena si interpellano con i loro nomi di battaglia: Floreligio, Giancio, Mosci e Terri. Sono tipi emblematici di diverse condizioni di ex terrorista. Floreligio è uno di quelli che sono rusciti a “farla franca”. Non solo non è stato mai scoperto, ma si è integrato nel sistema e ora è un magistrato. Si illude di continuare la sua battaglia combattendo il sistema dall’interno. Mosci e Terri (l’“Apache”)

113 Antonella del Giudice è nata a Napoli nel 1960. Prima de L’acquario dei cattivi ha pubblicato alcuni racconti e il romanzo L’ultima papessa nel 2005. 114 A. Del Giudice, L’acquario dei cattivi, Padova, Alet, 2008, p. 137.

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hanno invece pagato con il carcere e scontato la pena. Il primo è minato da un cancro, la seconda è colpita da una deformante obesità. Giancio è un “fuoriuscito”, fuggito non in Francia come molti ma in Sudamerica, dove è diventato un attore di telenovelas dopo una operazione di chirurgia plastica facciale. Tutti sembrano essere segnati da una sorta di abbrutimento, causato dal carcere (Mosci e Terri) dall’angoscia (Floreligio) e dalla fuga (Giancio). L’autrice tende a sottolineare questa degenerazione dei loro corpi con una caratterizzazione quasi espressionistica: A Milo repelle guardare Terri mangiare e contemporaneamente parlare sprizzando briciole e saliva. Terri sganascia il suo bolo come un pitone domestico l’offerta viva del suo allevatore. Nello sforzo mandibolare le si asserrandano gli occhi che, tra fronte e zigomi, scompaiono, come pure le labbra, assottigliate fino a farsi risucchiare dentro la tumefazione di un facciale sopraffatto dalla pletora.115

Le ferite ancora aperte del passato fanno sì che tra di loro, si rivolgano continuamente accuse e rinfaccino colpe. È Floreligio ovviamente ad essere preso di mira più degli altri e quello sul quale tendono a cadere i sospetti per la morte di Giulio. Terri, il personaggio indubbiamente più riuscito nel romanzo, gli lancia spesso le accuse più forti («Hai schivato la tua storia. Sei andato a costruirtene un’altra. Sei quello che eri, e che sempre sarai: un vigliacco»),116 alle quali il magistrato replica con altrettanta forza: «[...] Ma guardatevi! Non siete altro che ombre. I corpi li avete persi nel carcere duro, e l’anima nel tubo catodico che ammannisce fumettoni per sguattere. Ma fatemi il piacere!»117

Tuttavia, ciò che li divide allo stesso tempo li accomuna, poiché tutti sono carichi di rancore, di odio verso gli altri e la loro vita “normale”, verso il “sistema” che li ha sconfitti. Rimane in loro, una «vogliaccia sorda e indefessa di linciaggi e incendi»:118 Non ho mai pensato di aver torto, mai. Se penso alle mie vittime, una a una, le beccherei tutte senza esitare, come se loro dal purgatorio me lo chiedessero sbavando. Sono cattiva, Milo, e non ho che questo rancore sordo, radicato, da offrire a una causa di cui ho perso la ragione, ma che pur doveva averne una, se a essa ho votato la mia esistenza. Tutto, pur di non essere la rotellina anonima di un ingranaggio fermo. [...]».119

Per non ammettere la distruzione delle loro vite e il fallimento totale, gli ex terroristi non sconfessano le loro azioni e le loro idee. Pur rendendosi conto della sconfitta, non vogliono dichiararsi vinti e così decidono di riprendere la guerra riformando

115

Ibid., pp. 68-69. Ibid., p. 41. 117 Ibid., p. 54. 118 Ibid., p. 71. 119 Ibid., p. 72. 116

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il gruppo armato, in un progetto eversivo completamente disancorato dalla realtà: «Siamo tutti un po’ acciaccati, Terri, però possiamo ancora farcela. Siamo in tempo. E sono convinto che legioni di scontenti e delusi di buona volontà non aspettano che un esempio per reagire. Noi non dovremmo che attizzare il fuoco mai spento dell’indignazione, della brama di giustizia. Lo dobbiamo, Terri».120

Ancora più convinto di Milo è Giancio, che con toni apocalittico-visionari esprime la convinzione di poter ancora coinvolgere nuovi e vecchi “adepti” nell’utopia rivoluzionaria: «Battezzeremo proseliti. Frequenteremo le ombre. Elaboreremo un codice di riconoscimento. Sarà una sorta di fischio con cui gli adepti si riconosceranno come una stirpe insopprimibile, contagiosa, perniciosa, indomita. Pensate ai protocristiani. Pensate ai topi. Uno di loro va avanti e si immola. È il migliore».121

Ad andare avanti e ad immolarsi dovrà essere Floreligio. È lui che entusiasticamente alla fine decide di sacrificarsi per attuare un assurdo progetto eversivo: il magistrato si farà uccidere dai suoi compagni per annunciare con una azione clamorosa il ritorno sulla scena dei GAR: «Io mi farò arrestare subito dopo che avremo ucciso Eligio – dice Milo –. Così rivendicherò la sua morte e depisterò i sospetti da Terri. Lei e Giancio resteranno operativi mentre io mi costituirò per rendere testimonianza del nostro ritorno [...]»122.

Con questo progetto i quattro portano alle estreme conseguenze la loro follia nichilista, il desiderio di distruzione ed autodistruzione. Nei personaggi protagonisti de L’acquario dei cattivi dunque non c’è alcuna possibilità di evoluzione, poiché essi rimangono come “cristallizzati” nelle forme del passato che non si può dimenticare. Nella visione della Del Giudice, sembra che non ci possano essere speranze dopo aver compiuto una scelta estrema che ha portato alla sconfitta. Il reinserimento nella società è impossibile perché si è prigionieri della propria storia. Il protagonista de L’amore degli insorti di Stefano Tassinari,123 è invece – almeno in apparenza – perfettamente riuscito a “rientrare nei ranghi” dopo l’esperienza in un’organizzazione armata di estrema sinistra. Emilio Calvesi è infatti un architetto di successo, sposato e padre di due figli. Si è ricostruito una vita normale nonostante il fatto che nel passato abbia anche ucciso, riuscendo a sfuggire alla giustizia e ai «colpi di accetta dei pentiti».

120

Ibid., p. 70. Ibid., p. 159. Ibid., p. 158. 123 Tassinari è nato a Ferrara nel 1955. Oltre ad essere stato scrittore di racconti e romanzi è stato sceneggiatore e drammaturgo. I due romanzi precedenti l’opera qui analizzata sono L’ora del ritorno (2001) e I segni sulla pelle (2003), che con L’Amore degli insorti formano una “trilogia della memoria”. Ne I segni sulla pelle l’autore ripercorre i fatti di Genova durante il G8 del 2001, mentre ne L’ora del ritorno è protagonista la Resistenza. 121 122

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La sua tranquillità borghese viene però minacciata da una persona sconosciuta che nelle lettere che gli invia si firma come “Sonia”. Questa persona conosce la sua vita fin nei minimi particolari e lo richiama alle sue responsabilità verso il passato. Oltre alle lettere, gli invia fotografie, oggetti che lo riguardano o gli appartengono. In un primo momento prevale in lui la paura e la curiosità su chi sia la persona che lo sta “inseguendo”: Stanno stringendo il cerchio, anche se non capisco il perché. A chi può interessare, più di vent’anni dopo, scavare nel passato di un uomo di mezz’età, il cui viso di allora sembra quello di un altro? Un uomo in regola con tutto, che ha imparato a tacere anche quando vorrebbe parlare, per paura che una frase pronunciata d’istinto lo possa tradire.124

Sembrerebbe dunque un romanzo “giallo”, ma presto ci si rende conto che il principale interesse di Tassinari sta altrove, poiché il mistero iniziale è un espediente narrativo con il quale l’autore vuole riparlare di un’epoca. Le lettere di Sonia infatti costringono il protagonista ad un bilancio, ad una riflessione sulle sue scelte, sul passato da militante così come a rimettere in discussione la parte più recente della sua vita. Nella sua riflessione, Calvesi riporta se stesso e il lettore nel clima politico degli anni ’70, con i cortei, le occupazioni, gli scontri di piazza e il progressivo passaggio dai collettivi politici alla lotta armata. Dal passato riemerge anche la figura di Alba, l’amore di un tempo e sempre rimpianto, che condivise con lui la militanza politica anche dura, ma non la decisione di passare alla lotta armata. La presenza di Alba è importante perché quest’ultima, assieme alla misteriosa Sonia, rappresenta nel romanzo un punto di vista diverso se non opposto a quello di Calvesi, il quale sembra non rinnegare nulla e non aver cambiato atteggiamento rispetto al passato. Egli infatti rifugge da qualsiasi pentimento e rivendica anzi con forza (« [...] difendo l’unico periodo della mia esistenza di cui possa andare orgoglioso»)125 la sua militanza. Anzi, tra le due vite che ha vissuto, non ha dubbi a scegliere la prima: In questo momento mi sembra di stare seduto sul fondo di quel crepaccio che rappresenta la mia vita. Non tutta la mia vita, ma quella attuale sì. Dal mio cellulare salgono suoni sempre più intensi: sono i lamenti dei miei figli, di mia moglie, del mondo intero che mi sta cercando, e io non li sopporto.126

Nel romanzo riemerge, attraverso le tre prospettive adottate, il dibattito che coinvolse i movimenti antagonisti sull’utilizzo o meno delle armi nella lotta politica. Sonia, in uno dei suoi messaggi chiede all’architetto: «Potevate imboccare un’altra strada?». A questa domanda Calvesi risponde attraverso una delle sue riflessioni, mettendo in evidenza la necessità di dover far seguire alle tante parole di quegli anni, i fatti:

124

S. Tassinari, L’amore degli insorti, Milano, Tropea, 2005, p. 7. Ibid., p. 46. 126 Ibid., p. 143. 125

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[...] avremmo dovuto partecipare a un grande gioco di simulazione, scrivendo “viale Lenin” al posto di “corso Traiano”, e dopo tutti contenti a contare le fiches che abbiamo guadagnato? Oppure scendere in piazza, come facevamo, a gridare: «Dieci, cento, mille Vietnam!», e poi tornare a casa, la sera, a guardare la televisione? O riempire le strade di bandiere rosse con l'effigie del Che, studiare a fondo il suo libro La guerra di guerriglia, mandare soldi ai combattenti di mezzo mondo, cantare a squarciagola: «E allora lotta, lotta di lunga durata, lotta di popolo armata, lotta continua sarà» o, meglio ancora, «Stato e padrone, fate attenzione, nasce il partito dell'insurrezione… Agnelli, Pirelli, Restivo, Colombo, non più parole ma pioggia di piombo», e alla fine organizzare un cineforum con i film sul Terzo mondo, promuovere un dibattito sulla resistenza del popolo Saharawi o fare uno sciopero della fame contro il genocidio degli abitanti di Timor Est? Certo, c'è chi si è accontentato di questo, senza capire quanta distanza ci fosse tra quelle parole apprese o cantate e una pratica che non ha mai dato fastidio a nessuno. Io no, io non ce l’ho fatta a convivere con l’ipocrisia, a far risuonare le strade con un boato di sillabe ritmate e rimate, a gareggiare da un capo all’altro di un corteo a chi lanciava lo slogan più trucido, a gridare con l’espressione dura: «Per i compagni uccisi non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto!» o «Contro lo Stato della violenza, ora e sempre resistenza», e poi a dormire sonni tranquilli nel mio letto, immaginando gli scogli a picco delle mie prossime vacanze. Io no, io non ce l’ho fatta ad aspettare tempi migliori, a limare documenti fino al mattino per poi affermare soddisfatto: «Abbiamo spostato a sinistra l'asse del partito», a spendere le mie giornate per reclutare un militante in più mentre, intorno a noi, i piccoli fuochi diventavano incendi.127

Alba, i cui pensieri vengono ricordati a distanza di anni dal protagonista, non ha invece dubbi sulla scelta di non prendere le armi, pur credendo negli stessi ideali di Calvesi: «Io non starò mai dalla parte dello Stato» mi diceva «ma chi spara non ha capito che tra una democrazia autoritaria e un regime fascista c’è una bella differenza. Al massimo [...] posso accettare che si usino le armi per difendere le sedi o le manifestazioni di massa, ma non per fare secco uno mentre esce di casa subito dopo aver baciato i bambini. [...] certi metodi li usano i mafiosi, non i compagni! Noi siamo diversi e lo dobbiamo dimostrare anche a costo di pagare prezzi altissimi. E poi io sono contraria alla pena di morte, sempre e comunque.»128

Anche Sonia ha uno sguardo severo su chi secondo lei ha «buttato al vento tutta la passione e il romanticismo di un’intera generazione»129 e nell’incontro che finalmente avviene tra i due – nel quale gli rivela di essere figlia sua e di Alba – rivolge ad Emilio queste parole: Di quelli come te ho sempre pensato che foste dei pazzi, dei fanatici e anche dei mostri. E bada bene che non sono di destra, anzi. A Genova non c’ero, ma mi sono riconosciuta in quel movimento, specie quando, dopo le giornate fiorentine, ha definitivamente scelto di chiudere con le pratiche violente. Ed è proprio questo il punto: per voi la violenza era, a seconda dei casi, uno strumento di lotta o un male necessario; per me, e per la stragrande 127

Ibid., pp. 93-94. Ibid., p . 105. 129 Ibid., p. 147 128

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maggioranza dei miei coetanei, è qualcosa di aberrante. In questi anni ho letto libri e ho visto filmati, insomma, mi sono documentata sull’epoca in cui quelli come te avevano la mia stessa età di oggi. Ebbene, ne ho ricavato soprattutto un messaggio di morte, al di là di tutte le buone intenzioni di cui vi riempivate la bocca. Vorrei sapere che cosa si provava a sparare a freddo a una persona inerme, o a rompere la testa a un nemico politico a colpi di chiave inglese.... Voi lo facevate senza problemi [...].130

Il punto di vista del protagonista ha all’interno del romanzo una posizione privilegiata, tanto che durante la lettura si tende naturalmente ad identificare il protagonista con l’autore. In realtà, gran parte dell’interesse del romanzo sta proprio nel riuscire a capire quale sia la posizione di Tassinari rispetto al suo personaggio principale. Le notizie biografiche, ci dicono che lo scrittore partecipò alle lotte e ai movimenti di sinistra degli anni ’70, ma che avversò l’uso della violenza e la scelta della lotta armata. Sembra dunque che il principale intento dell’autore ferrarese sia quello di una “difesa” non della lotta armata, ma di un periodo storico che fu anche altro, ovvero un periodo di straordinaria vitalità politica nel quale una moltitudine di giovani agì in maniera non violenta con passione e generosità; un periodo che la memoria “ufficiale” tende ad annullare totalmente nella condanna della sua deriva terroristica. Il tema della “memoria non condivisa” è posto ugualmente in primo piano quando si fa riferimento al contesto in cui quelle lotte – in tutte le loro forme, anche armate – si verificarono, ovvero nel periodo dei servizi deviati, dei tentativi di golpe e delle “stragi di stato” che non hanno mai avuto un colpevole. 5.6. Il terrorismo tragicomico di Sergio Lambiase e la leggerezza di Marco Amato Nel 1983 veniva pubblicata una delle prime testimonianze “dall’interno” sugli anni di piombo. Patrizio Peci, il primo e più famoso “pentito” delle Brigate Rosse, metteva per iscritto con la collaborazione del giornalista Giordano Bruno Guerri la sua esperienza nell’organizzazione armata. Ne scaturiva un racconto in cui emergeva una feroce autocritica accompagnata spesso da un tono leggero, se non comico: La gente immagina che la vita del brigatista sia tutta violenza, mistero e avventura. Macché. Quei momenti lì sono pochissimi, un’infima minoranza rispetto al resto. Il resto è fatto di problemi quotidiani e di banalità senza nome. Problemi di cuore, di sesso, di casa, di soldi, di vacanze, di affetti famigliari. Soprattutto problemi psicologici, perché tutti gli altri sono aggravati dal fatto di essere fuori dal mondo, contro il mondo, e non sempre – anzi quasi mai – la Causa serve a distrarti o a risolverti una lite con la tua ragazza, ammesso che una ragazza riesca ad averla. Vorrei raccontarla, questa vita quotidiana del “povero brigatista”, non per fare del colore né per suscitare pena o disprezzo, ma proprio per togliere qualsiasi alone mitico e leggendario all’Organizzazione: i ragazzi tentati di entrarci sappiano che non li attende una vita magica e fantastica, ma squallore e tristezze; anche i problemi militari e della clandestinità, i più “belli”, finiscono per presentarsi sempre in forme ridicole o grottesche.131 130 131

Ibid., p. 164. P. Peci, Io l’infame, Milano, Sperling & Kupfer, 2008, p. 83.

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È un brano tratto del paragrafo intitolato “ Brigatisti povera gente”, all’inizio del terzo capitolo. Sorprende come questi toni siano molto simili a quelli usati da Sergio Lambiase132 nel suo romanzo Terroristi brava gente (2005): Mica è avventurosa la vita di un terrorista. È tale solo nei giornali, nelle ricostruzioni della televisione, nei film. Invece, allora: senso profondo di attesa, noia, pippe e scorpacciate di fumetti. Certo, s’aggiungeva una buona dose di angoscia. Col terrore anche d’una porta sbattuta o del fruscio del vento in strada, o di un cane che improvvisamente si metteva ad abbaiare sotto finestre sprangate. Da terroristi vivevamo nel terrore! Allo stesso tempo era riscoperta di amuleti, santini, sangennari piazzati in corridoio in modo che governassero l’uscio, fra bestemmie e preghiere.133

Terroristi brava gente segue in forma di memoriale il percorso di formazione alla lotta armata e le vicende di un gruppo di improbabili terroristi. Nella Napoli dei primi anni Settanta, l’io narrante Febo e i suoi amici sono descritti nel loro passaggio dalle discussioni su Mao e su Marx alla lotta armata. Il gruppo è impegnato politicamente nei collettivi proletari e organizza volantinaggi. Ne fa parte anche Evelina, con la quale Febo ha una relazione. La lotta si fa più aspra in seguito alle bombe sui treni134 e quando una militante comunista viene uccisa dai fascisti durante un volantinaggio. Da quel momento, il gruppo compie gradualmente il passaggio verso la clandestinità confluendo nei Nuclei Armati Comunisti e poi, dopo la morte di un militante, fondando in suo onore la colonna “Gavino Prunas”. Il testo, soprattutto nella prima parte, si caratterizza dunque come “romanzo di formazione”, in cui oltre all’apprendistato politico si descrivono anche altri tipi di esperienze dei giovani, in particolare le picaresche vicende di Febo. Il gruppo è formato per lo più da giovani universitari di estrazione borghese e provenienti dal “Vomero”. Non si rivolgono al mondo delle fabbriche, come le BR, ma al sottoproletariato e ai detenuti. L’autore sottolinea la povertà della loro preparazione politica, il loro disancoramento dalla realtà che li porta ad essere vittime delle loro teorizzazioni e utopie rivoluzionarie. Il passaggio dalle manifestazioni alla lotta armata e alla clandestinità non sembra avvenire per una scelta meditata ma per forza d’inerzia, quasi senza rendersene conto, come ammette Febo: Come sia scivolato a un certo punto nella vita spuria e clandestina non lo capirò mai. Non riesco neanche a ricordare come sia avvenuta questa metamorfosi [...].135 132 Lambiase vive e lavora a Napoli. Studioso del Futurismo (ha pubblicato con G.B. Nazzaro “Marinetti e i futuristi, edito da Garzanti nel 1979), è anche autore e sceneggiatore per la radio e la televisione. 133 S. Lambiase, Terroristi brava gente, Cava de’ Tirreni, Marlin, 2005, p. 94. 134 Galleggiava nell’aria la voglia di scontrarci, al di là dell’ideologia, eravamo rossi da una parte e neri dall’altra, e poco ci mancava che indossassimo le casacche coi relativi colori e ci affidassimo all’arbitro e ai guardialinee. [...] Ma ripeto, ad un certo punto la lotta è degenerata; ed è stato suppergiù all’epoca delle bombe sull’“Italicus” nella galleria tra Bologna e Firenze. Non era più il tempo di innocenti botti e di partite di pallone; il quadro politico generale si faceva “fosco” e adesso era il momento della lotta senza quartiere nei confronti del potere che si serviva dei fascisti eccetera per dare il colpo definitivo alla classe operaia e alle sue avanguardie. Almeno queste erano le nostre convinzioni in quei giorni. Nel frattempo alle spranghe si erano affiancate le molotov [...]. Ibid., p. 13. 135 Ibid., p. 39.

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Lambiase racconta la lotta armata con toni da commedia, con leggerezza e umorismo, dove spesso il comico, per l’inadeguatezza dei protagonisti, scivola nel tragico. Si tratta dunque di un racconto tragicomico degli anni di piombo, dove non mancano momenti di partecipazione e di pietà verso le vicende talvolta drammatiche dei protagonisti. Il comico è presente innanzitutto nei personaggi, a cominciare da Febo, un terrorista sostanzialmente inetto all’uso delle armi, sofferente di narcolessia e cataplessia che spesso lo aggrediscono durante le azioni militari: Piccoli, improvvisi, inattesi colpi di sonno nel bel mezzo dell’azione, quanto di più auspicabile per un “terrorista”! Improvvisamente le gambe s’intorpidivano, le palpebre diventavano pesanti e tutto il mio essere si inarcava in un desiderio incontenibile di abbandono. Una volta m’addormentai mentre lubrificavo la mitraglietta.136

È spesso distratto anche da questioni amorose e impulsi sessuali, rivolti verso Evelina,137 una fanatica rivoluzionaria che però non disdegna di esibirsi come cantante in loschi locali dei Quartieri Spagnoli. Giosuè, il fratello paraplegico di Evelina, compie repentine acrobazie ideologiche passando da Julius Evola alla rivoluzione in nome del comunismo. Tutti i componenti della formazione (Floriano, Peppe, Catello, Gavino e gli altri) evidenziano inadeguatezza, velleitarismo, approssimazione. Tali personaggi non possono che dar luogo ad avvenimenti altrettanto comici, come la riunione di fondazione del gruppo, che diventa in qualche modo paradigmatica per le loro azioni future: Qui succede una cosa buffa, che solo sotto questi climi può accadere. Arriva solerte e allegra un donnone che abita al piano di sotto. È la zia di Rocco Chimenti, il compagno che ci ospita. Ciabattando ci porta una troneggiante moka con dei biscotti fatti con le sue mani “sapendo ca veneva ggente”. Sta in vestaglia, coi bigodini, le pianelle, la puzza di cucina indosso e ci sorride, dà un buffetto gentile sulla guancia del nipote, comprensiva, solerte, allegra, e vorrebbe restare anche lei a fare due chiacchiere [...]. Fu dunque la riunione delle riunioni, la riunione di fondazione, la collocazione della prima pietra, l’incunabolo, l’introibo. Davanti a quel caffè e a quei pasticcini non fummo più gli stessi.138

Un attentato viene organizzato con una «bianchina 500 color zucca matura» e per autofinanziarsi i terroristi rapiscono «un’oculista con gli occhi fuori dalle orbite» che durante la prigionia insegna loro l’arte del tango e che mentre balla effettua precise diagnosi oftalmologiche: Ballando ballando la De Rogatiis ne approfittò per dirmi che il mio occhio destro proprio non le piaceva, la pupilla tendeva a spostarsi dall’asse e anche se non aveva con sé gli strumenti per un esame più approfondito era chiaro che soffrivo d’un principio di “diplo136

Ibid., p. 76.

137 «Nonostante l’esplosivo nel bagno, dunque, continuava il mio amore con Evelina, benché in qual-

che modo Elena mi mettesse in uno stato di turbamento. Il suo odore mi provocava vertigine [...]. Pochissimo rivoluzionario tutto questo, ne convengo, ma non mi riusciva di pensare ad altro (bombe a parte) e bastava un fruscio del suo vestito ad arraparmi». Ibid., p. 54. 138 Ibid., pp. 42-43.

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pia” più una evidente “blefarite” che dovevo assolutamente curare con iniezioni di Ambramicina. [...] Anche Giovanni e Floriano furono sottoposti [...] a visita oftalmica. Il primo aveva una congiuntivite follicolare, il secondo una “bulboblenorrea” da piscina (“Ma se non so nuotare!” Si lamentò Floriano).139

Si tratta di terroristi che paradossalmente non uccidono ma restano uccisi, soprattutto a causa della palese incompetenza nell’uso degli esplosivi ai quali spesso fanno ricorso per le loro azioni: La nostra prima impresa fu quella di mandare in pezzi il portone laterale del carcere di Poggioreale, quello su via Foggia, o almeno di fare un gran botto che servisse a scuotere i proletari dal “letto di contenzione”, ma soprattutto le loro coscienze addormentate. [...] La detonazione fu accompagnata da un frullare impazzito di colombi. I volatili prima si scomposero sopra il tetto [...] poi si riunirono in formazione compatta per dirigersi in direzione del Braccio Puglia tra le urla dei detenuti [...].140

La commedia si trasforma in tragedia quando nel successivo attentato dinamitardo all’ospedale psichiatrico non saranno dei colombi ad avere la peggio, ma lo stesso attentatore, Gavino Prunas.141 Nelle pagine di Lambiase emerge inoltre l’impossibiltà dei terroristi di affrancarsi totalmente dalla mentalità borghese che a parole dicono di voler combattere. Ne vedono le tracce anche negli operai dell’Italsider di Bagnoli, e per questo li disprezzano: Allora l’Italsider era la roccaforte della classe operaia, il presidio sicuro contro i fascisti di tutte le risme. Quando i caschi gialli si muovevano era il quadro stesso di Pellizza da Volpedo che s’animava. Ma la sera amavano rifugiarsi nei loro ventri di balena con le tendine ricamate e le mogli a pavoneggiarsi nelle sottovesti di seta prima di lasciarsi succhiare fra veglia e sonno. Intendo dire che erano stronzetti piccolo-borghesi peggio di noi, anzi noi tentavamo di uscire dalla nostra pelle e loro ambivano ad entrarci, ultrareazionari, anime perse per qualsiasi rivoluzione, nonostante il loro proclamato antifascismo e la voglia sempre pronta di battere tamburi di latta nei cortei.142

Ma anche Febo e i suoi compagni, nell’impossibilità di “uscire dalla loro pelle”, finiscono per replicare uno stile di vita piccolo-borghese, con i vari covi che si tra139

Ibid., pp. 82-83. Ibid., pp. 57-58. 141 Lambiase nel delineare i tratti del gruppo terroristico protagonista del suo romanzo si ispira ad una organizzazione terroristica che ha realmente operato agli inizi degli anni ’70. Si tratta dei Nuclei Armati Proletari (NAP), i cui primi attentati risalgono al 1973. Provenienti anch’essi per la maggior parte dal Vomero e dalla piccola borghesia napoletana, si rivolgevano non tanto al mondo delle fabbriche quanto al sottoproletariato delle periferie, delle carceri. Come quella del gruppo descritto da Lambiase, la loro esperienza fu velleitaria e diede luogo ad esiti tragici, con la morte di molti dei suoi componenti (come i fratelli Mantini). Lambiase narra alcuni degli episodi in cui questi terroristi trovarono la morte, dovuta in molti casi all’imperizia con cui confezionavano gli ordigni esplosivi. Perse la vita anche Giovanni Taras, il quale fu investito dall’esplosione della bomba che lui stesso aveva collocato sul tetto del manicomio giudiziario di Aversa. Si ispira a lui il Gavino Prunas della finzione letteraria. 142 Ibid., p. 11. 140

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Capitolo quinto

sformano in «nidi» nei quali si vorrebbe «mettere radici» e con le compagne che diventano «angeli del ciclostile». La vita clandestina perde così il suo fascino “irregolare” e “maledetto” e finisce per assomigliare alla rassicurante e noiosa “routine” quotidiana: Conducevamo vita carbonara imparando a governarci, a fare bucati, ripulire fornelli, stirare camicie e riparare spine della luce difettose. Era quello il vero tirocinio rivoluzionario, altro che lubrificare mitragliette o trafficare con l’esplosivo...143

Tenta di ripercorrere gli anni del terrorismo con leggerezza e tono scanzonato anche Marco Amato,144 il quale in Una bomba al cantagiro (2007) racconta l’anno che segnò l’inizio della strategia della tensione e della spirale violenta in Italia. La vicenda narrata si svolge infatti nell’estate del 1969, dunque pochi mesi prima della strage di Piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre. Uno dei protagonisti è Ricky Danesi, cantante in declino che si mantiene con alcune serate in locali di periferia ma soprattutto con lo spaccio di droga. Viene scoperto e arrestato, ma il suo destino sembra cambiare quando viene contattato dal famigerato Ufficio Affari Riservati (ovvero l’ufficio del Ministero dell’Interno che si occupava di intelligence). In cambio dell’impunità, gli viene proposto di infiltrarsi al Cantagiro145 di quell’anno, poiché il mondo della musica è considerato dai Servizi una possibile fucina di sovversivi. Danesi deve spiare gli altri cantanti, schedarli e riportare ai superiori le loro eventuali tendenze estremiste o sovversive. Per controllarlo, gli viene affiancato Pino Abbrescia, un celerino ex musicista, che da questo momento, con il nome d’arte di Pino Raggi, è il suo chitarrista. I due parteciperanno al Cantagiro con un brano che inaspettatamente avrà successo, creando non pochi problemi alla loro missione. Presto però si renderanno conto di essere finiti in un gioco molto più grande di loro, che culminerà nell’esplosione della “bomba” del titolo. Ad un certo punto infatti compare un certo ingegner Verri, legato anch’egli ai Servizi, che non nasconde ai due il suo ruolo: «Adesso bisogna andare fino in fondo. Questo Paese è un campo di battaglia, stiamo per cadere nelle mani di chi predica la rivoluzione e la schiavitù. E lo sai cos’è che mi fa incazzare? Che la gente non se ne rende conto. Dobbiamo aiutare gli italiani ad avere paura».

È l’anno dell’“Autunno caldo”, delle manifestazioni “rosse” e degli scioperi in tutte le più grandi fabbriche italiane, ed è l’anno degli attentati dinamitardi, che iniziano a far rumore molto prima di quelli del 12 dicembre. La bomba, che nella finzione romanzesca scoppia al cantagiro il 12 luglio alle terme di Recoaro, diventa una sorta di anticipazione di quella di Milano. Abbrescia, che narra in prima persona, de-

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Ibid., p. 94. Marco Amato è nato a Roma nel 1963. Ha curato per Marsilio l’edizione critica della commedia Il poeta fanatico di Carlo Goldoni. Lavora come sceneggiatore televisivo. Una bomba al cantagiro è il suo primo romanzo. 145 Si tratta di un festival canoro itinerante, tenutosi nella sua formula originale con grande successo dal 1962 al 1974, al quale partecipavano i più importanti nomi della canzone italiana dell’epoca. 144

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scrive il clima di quell’anno che registrerà centoquarantacinque attentati dinamitardi di vario tipo e matrice ideologica: Intanto era scoppiata la primavera del 1969. E continuavano a scoppiare le bombe, qua e là per l’Italia, come mortaretti di San Silvestro. Era capodanno un giorno sì e uno no. Ma c’era poco da festeggiare. Erano in molti a pensare che il nostro paese stava sprofondando nel caos. Io non mi preoccupavo. Non avevo paura delle bombe: per me e per quelli come me era tutto lavoro.146

Il racconto in prima persona di Abbrescia, che nel momento in cui narra è ormai anziano e ha aperto un bar, è intervallato da citazioni di libri (veri e inesistenti), articoli di giornale e rapporti informativi di polizia. È soprattutto da questi che scaturiscono i momenti di comicità nel testo: Si segnalano equivoche frequentazioni della cantante Caterina Caselli. Nel corso delle ultime tappe essa ha ricevuto ogni sera, nella sua camera d’albergo, la visita di un individuo trasandato. Egli viaggia su una Citroen Diane rossa (automezzo notoriamente molto diffuso tra militanti dell’estrema sinistra, scopo reciproco riconoscimento), targata MI 482189. Pregasi accertare generalità del proprietario e segnalare eventuali indicazioni per ulteriori approfondimenti.147

Anche nella descrizione degli scontri e delle manifestazioni dell’epoca, l’autore spesso inserisce elementi umoristici: Nonostante l’apparente clima di festa, c’è una certa tensione. Già stamattina circolava la voce che alcuni gruppi di estremisti locali, supportati dai collettivi degli studenti delle scuole superiori occupate, hanno in programma una manifestazione contro il Cantagiro. E infatti dalla folla spuntano i cartelloni, questi, però, autentici. «VOI CANTATE E FATE I MILIONI - NOI TIRIAMO LA CINGHIA DEI PANTALONI», «IL CANTAGIRO HA AMMAZZATO LA CULTURA», «CANTANTI SERVI DELLA PUBBLICITÀ - VENDETE I DISCHI AI FIGLI DI PAPÀ». [...] Mi ricordo uno slogan che faceva: Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi! Zanicchi, Fontana, manca una settimana!148

Il tentativo di Amato è dunque quello di ottenere una narrazione capace di bilanciare la drammacità degli eventi storici con la leggerezza del tono, dei personaggi e degli avvenimenti inventati; una leggerezza presente e ancora possibile in Italia prima del 12 dicembre 1969, ma che scomparirà dall’orizzonte del Paese per molti anni con la bomba di Milano e l’inizio degli “anni di piombo”: Dopo piazza Fontana niente fu come prima. Assieme alle vite di tante persone, la bomba spazzò via per sempre le speranze di tanti italiani onesti, le lotte democratiche, la sete di verità. Figuriamoci se in questa devastazione, con quello che successe in Italia dopo il 12 dicembre, qualcuno poteva ancora interessarsi a Ricky Danesi. Anche il suo ricordo fu spazzato via.149 146

M. Amato, Una bomba al cantagiro, Casale Monferrato, Piemme, 2007, p. 49. Ibid., p. 111. 148 Ibid., p. 89. 149 Ibid., p. 200. 147

CONCLUSIONE

Nelle motivazioni relative ad una delle sentenze succedutesi per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, gli estensori del testo, ad un certo punto del dispositivo, forniscono un quadro dell’eversione stragista di destra in Italia contemporaneo all’attentato. Tra le altre cose, scrivono: Nel documento manoscritto da Carlo BATTAGLIA e sequestratogli in Latina il 10/9/1980 [...], che, sotto l'intitolazione “Linea Politica”, riporta, con varianti [...] un brano di ‘Occidente’ di F. CAMON, si legge, tra l’altro: “Bisogna arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi e i treni, e le strade siano insicure [...]”. [...] La presenza delle varianti (accuratamente passate in rassegna) è segnalata da PUBBLICO MINISTERO, in RI, C4, pp. 15-16. La presenza di differenze testuali rispetto al libro di CAMON e l’intitolazione “Linea Politica” stanno ad indicare che non ci si trova di fronte alla mera ricopiatura di un brano letterario, ma all’utilizzazione dello stesso come base per l’elaborazione di un programma politico all’interno di un’organizzazione con intenti eversivi.1

Leonardo Sciascia, in Nero su Nero, descrive così l’epifania forse più importante della sua vita di scrittore, legata alla stesura dell’Affaire Moro: Finito il 24 agosto il pamphlet sul caso Moro, ho passato quattro giorni a rileggerlo, correggendo e ritoccando quasi meccanicamente. Senza che lo volessi, la mia mente svolgeva una meditazione sulla letteratura: ansiosa, febbrile, come sdoppiata, come dialogata. Anche stanotte, insolitamente: ché non riuscivo, forse per eccessiva stanchezza, a prender sonno […]. […] Nell’insonnia, con frammentaria e incandescente perspicuità, mi pareva di essere arrivato a una risposta sulla letteratura, su cosa è la letteratura.2

La citazione dei due brani mostra come in alcuni degli autori e dei testi sin qui presi in esame, si sia arrivati ad un vero e proprio “cortocircuito” tra letteratura e terrorismo. Nel primo caso, un’opera letteraria si è trovata – involontariamente e contrariamente alle sue intenzioni – ad essere assunta come manifesto politico di una 1 http://www.stragi.it/2agost80/sen01/pag00542.htm. Il corsivo è mio. Sono stati anche corretti alcuni errori ortografici presenti nel documento. 2 L. Sciascia, Nero su nero, cit., p. 228.

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Conclusione

organizzazione stragista; nel secondo caso, l’ “incontro” con un avvenimento storico altamente rappresentativo degli “anni di piombo” ha fatto sì che uno dei più importanti autori del Novecento letterario italiano potesse darsi e darci una definizione della letteratura.3 Anche se non sempre si è arrivati a punti di contatto tra realtà e impegno letterario come quelli appena descritti, abbiamo voluto dimostrare come la letteratura italiana degli ultimi quaranta anni abbia saputo seguire, raccontare e spiegare gli “anni di piombo”. Lo ha fatto con quelli che sono considerati alcuni dei suoi rappresentanti più importanti (ad esempio Sciascia, Moravia, Fo e Bernari) e con autori che hanno seguito percorsi orientati verso quella che viene definita letteratura di “genere” (Veraldi, Zandel e altri). Si tratta di un “corpus” letterario che presenta molteplici punti di vista e che offre un’ampia varietà negli argomenti trattati: la clandestinità, la psicologia del terrorista, i fuoriusciti in Francia, i “cattivi maestri”, il pentitismo, lo stragismo, il caso Pinelli, il caso Moro, il carcere, il reinserimento nella società del terrorista, il dibattito sulla scelta della lotta armata e sull’uso della violenza, lo scontro generazionale e altri temi di uguale importanza. Spesso si tratta di una letteratura militante (Fo e Volponi) e che si pone obiettivi di controinformazione, altre volte si è in presenza di un’alta testimonianza morale e civile (Sciascia). I temi sono sviluppati con una estrema varietà di forme, stili e generi, che spaziano dalla tragedia alla commedia, dal romanzo storico al romanzo di formazione, dal “pamphlet” all’“autofiction”, dalla “spy story” al giallo, dal romanzo-saggio all’ “istant book”. Il 14 novembre 1974 Pier Paolo Pasolini scrisse un famoso articolo sul «Corriere della Sera», che sarebbe stato poi ricordato come Il romanzo delle stragi. In quell’articolo egli affermava reiteratamente di sapere (“Io so”) i nomi dei responsabili delle stragi avvenute in Italia dal 1969. Pasolini affermava di sapere non perché era in possesso di prove o informazioni incontrovertibili, ma perché era un intellettuale e un romanziere: Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile.4

Per Pasolini il punto di vista del romanziere e dunque della letteratura è imprescindibile per la narrazione e la conoscenza della recente storia d’Italia. Se è evidente che non è possibile fare a meno dello studio delle fonti storiche, è altrettanto evidente 3 Vedi 4

in questo volume il capitolo 2.2. P.P. Pasolini, Che cos’è questo golpe? Io so. «Corriere della Sera», 14 novembre 1974.

Conclusione

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che le opere letterarie scritte sugli “anni di piombo” debbano essere lette, studiate e analizzate, poiché con il loro approccio intuitivo e immaginativo esse offrono un contributo fondamentale per fare luce su uno dei più importanti e decisivi periodi della storia italiana del dopoguerra.

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Indice dei nomi

Agnelli, G., 71 Alessandrini, E., 95n Alfonzetti, B., 15, 15n, 65n Allen, B., 26, 27n Amato, M., 154, 196, 196n, 197, 197n Ambroise, C., 44, 54n, 58n, 59n Ambrosino, D., 99n, 100n, 101n, 104n Amerio, E. 27 Andreotti, G., 62, 63, 65, 170, 176 Andric, I., 86n Annarumma, A., 17, 17n, 134 Arbasino, A., 7, 9, 42, 71, 72, 72n, 73, 74, 74n, 75, 76, 154 Bachelet, V., 81 Baioni, G., 182n Baldelli, P., 12 Balduino, A., 46n Baliani, M., 9, 154, 169, 169n, 170, 171, 180 Balzac, H.d, 74 Barbella, O., 46n Bassolino, A., 127 Battaglia, C., 199 Battisti, C., 135 Bellocchio, M., 153 Bellow, S., 128n Belpoliti, M., 53n, 57, 57n, 73n Berlusconi, S., 129, 135 Bernari, C., 9, 79, 104, 105, 105n, 106, 107, 108, 108n, 200 Bevilacqua, A., 88n Biagi, M., 7, 153, 161 Bisicchia, A., 14n

Bo, C., 19n, 33n Bocca, G., 52 Bolla, E., 72n Borges, J.L., 57 Borsellino, P., 141 Braghetti, A.L., 61, 61n Brodskij, J.A., 137 Bruzzone, M., 66n, 70n Buffa, P.V., 130n Cagol, M., 9n, 124, 124n, 125, 130 Calabresi, L., 12, 12n Calogero, P., 128n, 135 Calvino, I., 41, 71, 71n Camon, F., 9, 32, 32n, 33, 33n, 34, 34n, 35n, 37, 39, 80, 94, 108, 109, 109n, 110, 112, 113, 113n, 199 Capozzi, R., 105n Carbone, R., 10, 154, 182, 182n, 183, 184, 184n, 185, 186 Carizzoni, P., 70n Carloni, M., 80n, 82n, 83n, 86n Casalegno, C., 41 Caselli, C., 197 Castellaneta, C., 8n, 9, 11, 15, 17, 17n, 18, 19, 19n, 23, 27, 79, 90, 90n, 91, 91n, 92, 93, 94, 94n, 97, 98, 100, 101 Cederna, C., 101n Cenname, G., 104n Cervantes, M., 57 Chandler, R., 80 Ciccarelli, A., 11n, 62n Cirillo, C., 85, 108, 108n Clerici, L., 137n

210

Coco, F., 32 Codreanu, C.Z., 35 Collura, M., 47n Colombo, G., 97n Consolo, V., 127, 140, 140n, 141, 141n, 143n Conti, L., 7n Coppola, A., 42, 42n Cossiga, F. 65, 170 Cotroneo, R., 10, 154, 158, 159n, 160, 161n, 166 Croce, F., 41 Crovi, L., 81n, 82n Curcio, R., 9n, 83n, 124, 124n, 125, 130n Custra, A., 121 Dalla Chiesa, C.A., 132n D’Aloja, F., 10, 154, 182, 182n, 184, 184n, 186 D’Antona, M., 7, 127, 153, 161 De Gasperi, A., 132 Del Giudice, A., 154, 187, 187n, 189 De Luca, E., 9, 127, 147, 147n, 148, 148n, 149, 149n, 150, 150n,151 De Mauro, M., 45 D’Eramo, L., 8n, 9, 80, 93, 97, 98, 98n, 99, 99n, 100, 100n, 101, 101n, 102, 102n, 103n, 104, 104n, 115 Di Stefano, P., 147n Donat Cattin, C., 119 Donat Cattin, M., 119 Doninelli, L., 10, 154, 164, 166, 167, 167n, 168 Dostoevskji, F., 60, 178 Dozier, J.L., 85, 85n Eco, U., 9, 121, 121n, 122, 122n, 123, 124, 124n, 125, 158, 158n, 161n Elkann, A., 27n, 29n, Eschilo, 64, 65 Euripide, 64, 65 Evola, J., 35, 194

Indice dei nomi

Ferretti, G., 112, 112n Ferroni, G., 42n, 141n Fo, D., 9, 11, 12, 12n, 13, 14, 14n, 15, 15n, 19, 23, 42, 62, 63, 64, 64n, 65n, 66, 66n, 68, 68n, 69, 69n,70, 70n, 71, 71n, 72, 75, 76, 170, 200 Fontana, J., 197 Flamigni, S., 80n Franceschini, A., 9n, 83n, 129, 130n Freda, F. 32, 95n Galesi., M., 7n, 153 Galli, Giorgio, 58 Galli, Guido, 81 Gallinari, P., 127n Galloni, G., 63 Gancia, V., 124n Garboli, C., 24n Gelli, L., 97, 97n, 118 Giannettini, G., 88n Gide, A., 49n Ginzburg., N., 9, 23, 24, 25, 25n, 27 Giordana, M.T., 153 Giorgieri, L., 7n, Giovanardi, S., 147n Giuliani, C., 153 Giustolisi, F., 130n Goldoni, C., 196n Goretti, M., 76 Gramigna, G., 21, 21n, 22n Guerri, G.B., 192 Guevara, E., 123 Gui, L., 50n, 62, 62n Guida, M., 12n Gurgo, O., 59n Hammett, D., 80 Hemingway, E., 74, 128n Henninger, M., 26, 26n, 91, 91n, 141n, 143, 143n, 146, 146n Impastato, P., 169, 169n

Fagone, V., 49n, 51n Fanfani, A., 62 Faranda, A., 61, 130n Fasanella, G., 84n Feltrinelli, G., 101n, 134 Fenzi, E., 130n

Jansen, M., 115n Jordão, P. 115n Kerouak, J., 128n Kierkegaard, S., 80

Indice dei nomi

Kleinert, S., 115n Kraus, K., 73 Lagerkvist, P.F., 80 Lambiase, S., 154, 193, 193n, 194, 195, 195n La Pira, G., 176 Lenci, S., 130n Leone, G., 50n Lombardi, O., 91n, 97n Maggi, C.M., 33n Magris, C., 166, 167n Malraux, A., 74 Manetti, G., 88 Manetti, R., 48 Mantini, A.M., 195n Mantini, L., 195n Mantovani, V., 9, 127, 128, 128n, 129, 129n, 130n, 132, 133, 134, 135, 135n, 136n, 140 Mao Tse-tung, 193 Maroni, R., 153 Marx, K., 104, 193 Mascaretti, V., 29n Mauri, P., 137n, 138n Miller, H., 80 Mineo, M., 49n Mitterand, F., 127, 128, 128n, 135 Montale, E., 41, 42 Moravia, A., 9, 23, 27, 28, 29, 30n, 31, 31n, 39, 52, 200 Moretti, M., 56, 56n, 61, 83n, 84, 85n, 130n Moro, A., 9, 27, 41, 42, 47, 51, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 59n, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 66n, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 75, 76, 80n, 84, 97n, 108n, 118, 120, 122, 123, 128n, 144, 146, 149, 154, 159, 169, 169n, 170, 171, 174, 175, 175n, 176, 177, 178, 179, 180, 181, 199, 200 Morucci, V., 61 Motta, A., 49n

211

Onofri, M., 46n, 49n, 50n Ortese, A.M., 9, 127, 136, 136n, 137, 137n, 138n, 140, 175 Paccagnini, E., 137n Padovani, M., 59n Panella, G., 26n Panessa, V., 12n, 13 Panvini, G., 25n Papini, M.C., 20n Parazzoli, F., 9, 154, 175, 175n, 176n, 177, 178, 179 Pasolini, P.P., 48, 51, 51n, 52, 53, 53n, 54, 54n, 56, 57, 59, 69, 170n, 200, 200n Paolin, D., 8, 8n Paolo VI, 67, 175, 176, 177, 178, 179 Peci, P., 79, 130n, 192, 192n Pellizza da Volpedo, G., 195 Peron, J.D., 97n Petri, Elio, 58 Petri, Emanuele, 7n, 153 Piccioni, F., 127n Piccoli, F., 63, 65 Pinelli, G., 9n, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 22, 200 Pinto, M., 62n Piperno, F., 128n Pirandello, L., 58, 59, 70 Pischedda, B., 124, 124n Poe, E.A., 49n, 58, 128n Priore, R., 84, 84n Prunas, G., 195n Quasimodo, S., 114

Nazzaro, G.B., 193n Negri, A., 128n Nicaso, A., 107n, 108, 108n

Rame, F., 12 Rognini Pinelli, L., 12, 15n, 16, Rossa, G., 62, 79 Rossi, N., 9, 127, 144, 144n, 145, 145n, 146, 146n Roth, P., 128n Ruffilli, R., 7n, 127 Rugarli, G., 9, 80, 114, 117, 118, 119, 119n, 120, 154 Rumor, M., 50n Russo, M., 27n

O’Leary, A., 7n

Santangelo, A., 104n

212

Santangelo, D., 104n Sartori, G., 10, 154, 154n, 166 Scaglione, P., 45 Scalfari, E., 51, 51n Scalzone, O., 128n Scaramucci, P., 12n, 15n, Scerbanenco, G., 80 Sciascia, L., 7, 8, 41, 42, 42n, 43, 43n, 44, 45, 45n, 46, 46n, 47, 47n, 48, 48n, 49, 49n, 50, 50n, 51, 52, 52n, 53, 53n, 54, 54n, 55, 55n, 56, 56n, 57, 57n, 58, 58n, 59, 59n, 60, 60n, 61, 62, 62n, 63, 66n, 68, 69, 69n, 70n, 71, 72, 73, 75, 118, 118n, 119, 119n, 141, 171, 171n, 172, 180, 199, 199n, 200 Sciubba, R., 63n, 64n Seghetti, B., 127n Senzani, G., 85 Siciliano, E., 27n, 30n Silone, I., 98n Sofocle, 64 Spinato, G., 9, 154, 178, 179, 179n, 180, 180n, 181 Stajano, C., 14 Sturzo, L., 176 Tabacco, G., 10n Tamiozzo Goldmann, S., 115n Tanassi, M., 50n Tarantelli, E., 7n Taras, G., 195n Tassinari, S., 154, 187, 189, 189n, 190, 190n, 192 Tavassi La Greca, A., 154, 161, 161n, 162, 162n, 164 Tavella, P., 61n Taviani, P.E., 63 Tobagi, W., 81 Tomasi di Lampedusa, G., 58 Tolstoj, L., 58 Tornabuoni, L., 28n

Indice dei nomi

Toscani, C., 105n Trombadori, A., 66n Tummillo, F., 68n, 71n Turone, G., 97, 97n Uva, C., 8n Valentini, C., 62n, 71n Valpreda, P., 12, 15n, 20, 22 Vassalli, S., 9, 80, 114, 114n, 115, 115n, 154 Vasta, G., 9, 154, 172, 172n, 175, 178 Vecellio, V., 51n, 52n, 53n, 55n, 57n, 58n, 59n, 60n, 62n Ventura, G., 32, 88n, 95n, 100 Veraldi, A., 8n, 9, 79, 80, 80n, 81, 81n, 82n, 83, 84, 84n, 85, 85n, 86, 86n, 90, 91, 92, 98, 101, 200 Vesce, E., 128n Villalta, G., 154, 164, 165, 165n Volontè, G.M., 58 Volponi, P., 9, 11, 19, 20n, 21n, 22, 22n, 23, 200 Voltaire, 51 Vonnegut, K., 80, 128n Von Trotta, M., 7n Voza, P., 29n Zaccagnini, B., 55, 63, 65, 176 Zandel, D., 8n, 9, 79, 86, 86n, 87, 87n, 88, 89n, 90, 91, 98, 100, 101, 200 Zanicchi, I., 197 Zanzotto, A., 141, 165n Zarrelli, D., 104n, 105n Zavoli, S., 41n Zeni, A., 70n Zibecchi, G., 134 Zinato, E., 22n Zola, E., 51 Zorzi, D., 33n

Indice

Ringraziamenti

p. 6

Introduzione

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I. La violenza politica e lo stragismo nella letteratura degli anni Settanta 1.1. La strage di Piazza Fontana e la morte di Pino Pinelli: Dario Fo, Carlo Castellaneta e Paolo Volponi 1.2. L’estremismo di sinistra e il romanzo ‘borghese’: Natalia Ginzburg e Alberto Moravia 1.3. Il terrorismo di destra e il ‘diritto di strage’: Ferdinando Camon

» 11

II. Il caso Moro tra tragedia e ironia: Sciascia, Fo e Arbasino 2.1. Leonardo Sciascia: dal Contesto e Todo Modo all’ Affaire Moro 2.2. L’ Affaire Moro 2.3. La tragedia di Aldo Moro secondo Dario Fo 2.4. In questo Stato. L’ironia di Arbasino

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III. Gli anni ’80: Il terrorista come protagonista 3.1. Terrorismo e ‘spy-story’: Veraldi, Zandel e Castellaneta 3.2. Luce D’Eramo e Carlo Bernari: la riflessione sulla violenza 3.3. Ferdinando Camon e la Storia di Sirio: una generazione che uccide il padre 3.4. Sebastiano Vassalli e Giampaolo Rugarli: terrorismo e umorismo 3.5. Umberto Eco: gli anni di piombo e il medioevo

» 79 » 80 » 97

IV. Gli anni ’90: l’inizio della riflessione 4.1. I ‘cattivi maestri’ di Vincenzo Mantovani e Anna Maria Ortese: Lorenzo Vitali e Antonio Decimo 4.2. Vincenzo Consolo e Nerino Rossi: il conflitto generazionale e la condanna della violenza ne Lo spasimo di Palermo e ne La voce nel pozzo 4.3. Erri De Luca: Aceto, Arcobaleno. Il ‘debito’ lasciato dai padri e la possibilità di scelta

» 127

V. Un fenomeno editoriale: anni di piombo e letteratura nel nuovo millennio

» 153

7

» 11 » 23 » 32 41 42 51 62 71

» 108 » 114 » 121

» 128 » 140 » 147

214

Indice

5.1. Il conflitto generazionale: i terroristi e i loro padri 5.2. Il conflitto generazionale: i terroristi e i loro figli 5.3. Il ‘caso Moro’ nelle opere letterarie del nuovo millennio 5.4. Rocco Carbone e Francesca D’Aloja: la pacificazione (im)possibile 5.5. L’acquario dei cattivi e L’amore degli insorti: i reduci della lotta armata tra presente e passato 5.6. Il terrorismo tragicomico di Sergio Lambiase e la leggerezza di Marco Amato

» 154 » 164 » 169 » 182 » 186 » 192

Conclusione

» 199

Bibliografia

» 203

Indice dei nomi

» 209

Finito di stampare nel mese di novembre 2013 per A. Longo Editore in Ravenna da Global Print, Gorgonzola MI