Gli occhi di Beatrice. Com'era davvero il mondo di Dante?
 8842496804, 9788842496809

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Horia-Roman

Patapievici

Gli occhi di Beatrice Conrv’era davvero

il mondo

di Dante?

Bruno Mondadori I

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Horia-Roman Patapievici Gli occhi di Beatrice Conr’era davvero il mondo di Dante?

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Bruno Mondadori

Si ringrazia Gian Mario Anselmi, direttore del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna, che, nell’ambito della collaborazione fra Ateneo di Bologna e Università di Bucarest, ha caldeggiato e incoraggiato la pubblicazione di questo volume.

Titolo originale: Ochzi Beatricei.

Cum arata cu adevàrat lumea lui Dante? © Humanitas, 2004

Traduzione dal romeno di Smaranda Bratu Elian Tutti i dititti riservati © 2006, Paravia Bruno Mondadorti Editori

È vietata la riproduzione, anche patrziale o a uso

interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le

riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15 per cento del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe 2, 20121 Milano, [email protected] Realizzazione: LGL, Peschiera Borromeo — MI Progetto grafico: Massa & Marti, Milano

In copertina: Hieronymus Bosch, L’ascesa all’Empireo, 1500-1504.

La scheda catalografica è riportata nell’ultima pagina del libro

www.brunomondadori.com

Indice

3

Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante?

91

AI lettore. Sulle fonti di questo libro

95

Bibliografia

Gli occhi di Beatrice Com’era davvero il mondo di Dante?

Beatrice in suso, e i0 in lei guardava. Paradiso, II, 22

Volgiti e ascolta; ché non pur né miei occhi è Paradiso. Paradiso, XVIII, 20-21

La viva intelligenza [...] dovrebbe [...] mettere d’accordo [...] le cose viste con quelle non viste. Dionigi Areopagita, Gerarchia celeste, XV, 5

Questo libro vuole essere la risposta a una precisa domanda: “com’era davvero il mondo di Dante?” Per capire la risposta, però, bisogna capire prima la domanda. E per capirla, è necessario che vi spieghi due cose: che cosa intendo qui per mondo e che cosa intendo per davvero. “Mondo” designa il cosmo, l’universo, la totalità dell’esistente, l’insieme di tutto ciò che esiste — in una parola, il Creato... ma probabilmente non il Creatore. Il Creato è il risultato della Creazione ed è condizionato dal Creatore, è relativo al Creatore, mentre il Creatore,

in quanto fonte di ogni creazione, è increato, incondizionato, assoluto. Giungendo a conoscere com’è il mondo

di Dante, noi, beninteso, non conosceremo :l volto del suo Creatore, ma conosceremo alcuni dei suoi attributi.

E ciò per forza di cose, dato che qualunque creazione

contiene, in un certo senso, il proprio creatore. Non iconicamente, forse simbolicamente, in modo chiaro e al

tempo stesso non chiaro. Chiaro, perché la presenza del creatore nelle proprie tracce è cosa più che evidente; non chiaro, perché non sappiamo dire precisamente “come”, “in che modo” egli è presente nella sua creazione. Nel complesso, è come si legge nel bel passo della 3

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prima lettera ai Corinzi,! che parla del nostro modo di conoscere: ora che siamo dentro il nostro corpo, conosciamo “come indovinando”, vediamo come attraverso

uno specchio; solo quando non saremo più dentro il corpo, conosceremo direttamente, senza residui — cioè «a

faccia a faccia». Per il momento, «noi vediamo come in

uno specchio». Più avanti ci renderemo conto di quanto sia importante questo elemento per capire il mondo di

Dante.

Di conseguenza, per “mondo” ox intendiamo il mondo delle conoscenze in possesso di Dante, né il mondo empirico del suo tempo, che ha inizio con la sua nascita a Firenze in un imprecisato momento intorno alla fine del maggio 1265 e si conclude con la sua morte, nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, durante il suo esilio a Ra-

venna. No. Con l’espressione “il mondo di Dante” inten-

deremo il cosmo dantesco, cioè la totalità dell’esistente così com’era concepita non tanto ai tempi di Dante, quan-

to da Dante stesso. Vedremo fra poco perché tale distinzione è importante. Per tutto il resto, il “mondo di Dante”

di allora significa ciò che, eccettuato Dio, i cosmologi e gli

astrofisici di oggi intendono per “universo”. Per capire il senso dell’espressione “davvero” occorre-

rà entrare, invece, nella materia stessa del libro. Come si sa, Dante è vissuto a cavallo tra il Duecento e il Trecento. La Divina Commedia è stata scritta fra il 1300, anno del Giubileo, e il 1321, anno della morte di Dante. Nel 1308,

l’Inferno già circolava, e nel 1313 il Purgatorio era già terminato. Il Paradiso iniziò a diffondersi dopo la morte di Dante, quando gli ultimi canti, che sembravano perduti, furono rinvenuti e subito messi in circolazione. A propo11 Cortr, 13, 9-12.

Gli occhi di Beatrice

sito di questi ultimi vera: dopo la morte gli ultimi canti del non aveva fatto in

canti dispersi, c’è una leggenda, forse di Dante si constatò che mancavano Paradiso e si convenne che il poeta tempo a scriverli. Passarono giorni,

passarono settimane. Poi un suo parente vide Dante in sogno. Per meglio dire, fu Dante a mostrarsi in sogno al

parente, indicandogli, in una delle pareti della camera dove era vissuto a Ravenna, nel palazzo di Guido Novel-

lo da Polenta, una nicchia nascosta dietro a un arazzo: fu

proprio là che vennero infatti trovati i fogli contenenti gli ultimi canti del Paradiso. Noi posteri non avremmo mai saputo come finiva la Divitta Conmedia se il parente di Dante non avesse sognato, e se Dante, dal mondo dell’aldilà, non fosse stato così preoccupato della nostra ignoranza da mostrarsi in sogno a quel parente, indicandoci così il luogo in cui aveva nascosto gli ultimi canti del Paradiso. Le cose di cui parlerò nel libro devono l’essenziale alla visione formulata da Dante in questi ultimi canti. Precisati questi dati cronologici, vediamo ora che cosa sapeva Dante. Dante non era un poeta come possono es-

serlo i poeti di oggi, vale a dire un letterato che, nel migliore dei casi, possiede la cultura umanistica della sua specialità, la poesia. Sebbene fosse un formidabile poeta, Dante non possedeva soltanto la cultura della poesia. Egli era un sapiente, e in quanto tale possedeva l’intera cultura scientifica, filosofica e teologica del suo tempo.

In materia di cosmologia, di scienze, di arti liberali e teologia, sapeva quasi tutto ciò che un uomo del suo mondo, nel 1300, poteva sapere. Se leggiamo i commenti moderni alle tenzoni poetiche di Dante con i suoi amici del

Dolce Stil Novo, restiamo colpiti dal carattere dotto di

quelle poesie. Per noi è quasi inconcepibile che i poeti di allora costruissero metafore poetiche a partire da rigoro-

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sissime teorie scientifiche riguardanti la vista, l’amore, gli

spiriti, la malattia e così via.? Se sfogliamo il Convivio, che nel progetto iniziale prevedeva quindici libri e di cui ne vennero realizzati solo quattro — i quali nondimeno contano più di trecento pagine —, e se leggiamo l’Epzstola

XIII, indirizzata a Can Grande de la Scala, o la Questio de

aqua et terra, ci rendiamo conto che Dante era padrone delle scienze del suo tempo. Egli parlava con disinvoltura il linguaggio degli scienziati nonché quello dei retori dell’epoca. Conosceva le teorie scientifiche correnti della cultura specialistica del suo tempo. Sapere ciò che sapeva Dante-in-quanto-intellettuale dei suoi tempi significa dunque, in senso lato, comprendere ciò che in quei tempi si sapeva al vertice. Mentre, in un senso più sfumato, sa-

pere ciò che sapeva Dante-in-quanto-pensatore-originale equivale a capire ciò che è nuovo in Dante rispetto alla cultura del suo tempo. Se avessi voluto rispondere alla domanda “com’era il mondo di Dante?”, vi avrei presentato un resoconto di come veniva concepito il cosmo al tempo di Dante. Chiedendo però “com’era davvero il mondo di Dante?”, presuppongo di fatto due cose: innanzitutto, che il modello di universo proposto da Dante nella Divina Commedia differisca da quello che Dante aveva assimilato dalla cultura del suo tempo; in secondo luogo, che gli esegeti di Dante credano, in genere, che non vi sia una differenza essenziale fra il modello dell’universo proposto dalla scienza al tempo di Dante e il modello dell’universo di Dante stesso. E c’è almeno un 2 Si veda per esempio G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977, in particolare la parte terza, capp. ILL-IV, VI.

Gli occhi di Beatrice

altro elemento che andrebbe segnalato fin da ora: Dante probabilmente non era consapevole di questa differenza,

nonostante essa emerga, metaforicamente e tecnicamente, dai canti del Paradiso in cui viene descritta l’ascesa di

Dante oltre il Nono cielo.? Le cose che leggerete qui non hanno niente a che fare con la critica o con la teoria letteraria. Esse non si riferiscono a Dante in quanto poeta, letterato o genio artistico, ma a Dante in quanto scienziato, cosmologo, filosofo

e insieme teologo. Sorge però la domanda se questo modo di fare uso dell’opera poetica di Dante sia legittimo o meno. Personalmente ritengo di sì, perché tale modo non è estraneo né a Dante né alla sua posterità. Che non sia estraneo a Dante risulta dalla Vita nuova, dove è possibile osservare come egli interpretasse le tenzoni con i suoi amici poeti e quale statuto — direi scientifico — assegnasse al contenuto delle proprie poesie. Naturalmente, Dante non metteva in rima teorie scientifiche o dottrine mediche alla maniera, alquanto inetta, di un Sully Proudhomme che verseggiava insulse meditazioni filosofiche; egli pensava, e soprattutto immaginava, direttamente in

quei termini. Era così imbevuto di quelle teorie e pensava a tal punto in quei termini, che non è affatto illegittimo affrontare la sua poesia dal punto di vista delle teorie scientifiche che la ispiravano, e sulle quali Dante puntava esplicitamente come su una specifica finalità. D’altronde, è ben noto che la posterità immediata ha preso molto sul serio il contenuto scientifico dell’opera poetica dantesca. E non mi riferisco qui alla scienza filosofica del suo tempo, che vedeva nel neoplatonismo, nelle teorie mediche e, più tardi, in quella che Frances Yates è Paradiso, XXVII, XXVIII.

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avrebbe definito «la tradizione ermetica del Rinascimento»,* una chiave di interpretazione di tutti i segreti del mondo. Mi riferisco al tentativo di tradurre le visioni di Dante in termini geometrici e astronomici precisi.

Vi è tutta una serie di commentatori che ha interpretato la visione descritta da Dante nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso nei termini di geografie, di cosmografie e di cosmologie reali. Il fondatore degli studi di cosmografia dantesca fu un matematico e architetto fiorentino, che, sebbene non potesse dirsi propriamente un umanista, intraprese rigorosi studi letterari, cimentandosi, fra l’altro, in una biografia di Guido Cavalcanti. Il suo nome è Antonio Manetti. Manetti fu colui che insistette presso Lorenzo il Magnifico affinché fossero riportate in patria, a Firenze, le ossa di Dante. Morto nel 1497, Manetti non pubblicò nulla dei suoi studi danteschi; di essi, gli studiosi di Dante vennero a conoscenza

grazie ai primi editori rinascimentali del poeta, vale a dire attraverso i loro commenti: ci riferiamo a Cristoforo Landino, che nella sua edizione del 1481 cita lo studio di Manetti sul Szto, forma et misura dello ’nferno et

statura de’ giganti et di Lucifero, nonché a Girolamo Benivieni e alla bella edizione, datata 1506, di Filippo Giunti (conosciuta anche, per questo motivo, come “la Giuntina”). La Giuntina è la prima edizione dantesca corredata di illustrazioni alle diverse scene dei canti e di una serie di xilografie con immagini del mondo di Dante in senso cosmografico — costruite secondo le idee del

1 FA. Yates, The Hermetic Tradition in Renaissance Science, in Ch.S. Singleton (a c. di), Art, Science, and History in the Renaissance,

The Johns Hopkins Press, Baltimore-London 1968 (1970°2), pp.

255-274.

Gli occhi di Beatrice

Manetti,

che Benivieni, nel suo

commento,°

presenta

sotto forma di dialogo attraverso il quale ne esplicita le

teorie, le costruzioni e i calcoli, vere e proprie misura-

zioni catastali, tanto matematiche quanto ingegneristiche, delle descrizioni di Dante.

Come possiamo vedere, nei primi secoli dopo la morte di Dante le immagini da lui proposte erano prese molto sul serio dai suoi lettori. Fino a tarda epoca, più precisamente fino al xVI secolo, gli studi sull’ubicazione, sulla forma e sull’estensione dell’inferno dantesco erano argomento di un dibattito pubblico che coinvolgeva, in un popolo così passionale come quello italiano, anche le rivalità politiche fra le diverse città. I cittadini di Lucca, per esempio, non se la sentivano di riconoscere ad Antonio Manetti, cioè ai fiorentini, la gloria di aver compiutamente e adeguatamente descritto la cosmografia del genio dantesco, rivendicato da più città italiane. La polemica contro i calcoli e le misurazioni di Manetti venne inaugurata da Alessandro Vellutello, autore di un commento alla Commedria in un’edizione del 1544 stampata a Vene-

zia, nonché cittadino di Lucca e già conosciuto come esegeta di Petrarca (i suoi commenti a Petrarca risalgono al 1525). Vellutello criticò i risultati matematici del Manetti dando vita a una polemica che in sostanza prendeva di mira il monopolio fiorentino su Dante e offrendo le proprie illustrazioni alla cosmografia dantesca. Dopo questo successo dei lucchesi, i fiorentini si mostrarono preoccupati che l’iniziativa dell’esegesi dantesca fosse sfuggita > G. Benivieni, Dialogo di Antonio Manetti, cittadino fiorenti#10, circa al sito, forma et misure dello “Inferno” di Dante Alighieri, 1506, ristampato di su la prima edizione col riscontro del ms. riccardiano, S. Lapi, Città di Castello 1897.

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Imaginatesi che quefto tondo fia tutto el arpo

dello aggreguto dellacqua & della terra,o che quefto triangolo che occupaC ame uoì uede

te5 è la fexta par parte didedto acoregnuto, & che °88'3'%fl;

Il “cono” dell’Inferno, rappresentato secondo i calcoli del Manetti (La Giuntina, 1506). 10

Gli occhi di Beatrice

loro di mano. A questa impazienza diede soddisfazione, con il solito brio, un fiorentino di adozione, un ambizio-

so matematico di appena ventiquattro anni in cerca di incarichi e di soldi, Galileo Galilei, nel corso di due lezioni

tenute all’Accademia fiorentina nell’inverno fra 1588 e il 1589.6 Fu così che, patriotticamente, l’onore dei fiorenti-

ni di essere sagaci interpreti di Dante venne salvato dall’impetuoso futuro inventore della fisica moderna. Tale esempio testimonia che la lettura del poema dantesco attraverso il preciso sguardo e la specifica valutazione quantitativa del matematico e mediante gli strumenti di analisi spaziale dello studioso di geometria non sono una

mera stravaganza per l’esegesi dantesca. Sicuramente, ta-

le interpretazione geometrico-spaziale del poema non sarebbe apparsa stravagante agli occhi di Dante. E ciò per una ragione più profonda della sua semplice opzione intellettuale per determinate teorie dello spazio. Ci riferiamo al tipo di sensibilità intellettuale cui appartiene Dante. Per capire questo aspetto ci vengono in aiuto due saggi di Thomas Stearns Eliot — uno del 1929, dedicato a Dante, e l’altro, del 1936, dedicato a Milton.’ Eliot osserva che Dante possedeva un’immaginazione poetica essen-

zialmente visiva. Così come noi sentiarmo la poesia, egli la

vedeva. AÌ contrario, la sintassi di Milton è, sostiene Eliot,

dominata dalla significazione musicale dei versi: in Milton l’immaginazione uditiva prevale palesemente sull’immaginazione degli altri sensi, di modo che il pensiero stesso di questo poeta assurge a una forma di sonorità. Ri6 G. Galilei, Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante, 1588. 7 T.S. Eliot, Dante, in Il bosco sacro, Bompiani, Milano 1995; Milton I, in Milton: Two Studies, Faber & Faber, London 1968. 11

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guardo a Milton si potrebbe parlare di un’ipertrofia dell’immaginazione sonora a scapito di quella visiva e tattile. In mezzo tra Dante e Milton si collocherebbe Shakespeare, nel quale l’immaginazione uditiva è intimamente fusa con l’immaginazione degli altri sensi, in un equilibrio perfetto fra “la superficie uditiva” della poesia e “il suo senso intimo”. Esisterebbero dunque due tipi di sensibilità intellettuale — una visiva, illustrata in modo esemplare da Dante, e una uditiva, rappresentata da Milton. Per il mio discorso, il caso incarnato da Milton è secondario. Ciò

che è importante è la caratterizzazione di Dante come tipo intellettuale visivo. Dante si serviva delle parole per costruire visioni, a partire da visioni, da teorie o da im-

pressioni. A proposito di tali visioni, Eliot osservava maliziosamente che Dante viveva in un’epoca in cui gli uomini possedevano ancora l’abilità psichica di avere delle visioni, abilità che noi non solo abbiamo perduto, ma che

addirittura disprezziamo — dato che oggi attribuiamo le visioni solo alle persone “anormali” o “incolte”. I sogni di noi moderni, diceva Eliot, sono inferiori, poiché ci vengo-

no dal basso, dall’inconscio, mentre i sogni degli uomini medievali provenivano dall’alto ed erano visioni vere e

proprie. L’intera Divina Commedia rtappresenta una peregrinazione in un mondo che appartiene ai “sogni superio-

ri”, il viaggio fantastico — “fantastico” deriva da una parola greca, phantasia, designante la facoltà che permetteva all’anima di produrre e di riconoscere le immagini; un viaggio, dunque, compiuto con l’aiuto dell’immaginazione, nel mondo aperto a Dante da un’eccezionale visione,

da un’eccezionale capacità visiva. Di conseguenza, per rispondere alla domanda “com’era davvero il mondo di Dante?” dobbiamo sforzarci di visualizzare nel modo più compiuto possibile quello che dice Dante dei mondi che 12

Gli occhi di Beatrice

attraversa. E per fare ciò, dobbiamo partire da quello che Dante sapeva dell’universo prima ancora di immaginare egli stesso qualcosa a proposito dell’universo. In altre parole, inizieremo con il vedere che cosa dell’universo sapevano tutte le persone colte ai tempi di Dante. Anzitutto, bisognerà dire che il modello medievale del cosmo era essenzialmente il modello antico. Più precisamente, si trattava del modello greco, così come era stato elaborato dalla conoscenza che i greci avevano della natura. Tutti coloro che hanno in qualche modo contribuito all’elaborazione di questo modello del cosmo scrivevano in lingua greca. Se dal punto di vista etnico non erano tutti greci — alcuni erano infatti egizi, altri siriani ecc. —, essi appartenevano però tutti alla sfera della cultura e della lingua greca, vale a dire la lingua della scienza e della filosofia durante tutta l’antichità. Il modello greco del cosmo è stato elaborato un po’ alla volta. La sua prima forma è stata delineata nel IV secolo a.C. dagli astronomi Fudosso e Callippo, ma l’immagine completa e armoniosa gli è stata conferita da ‘Tolomeo, nel 1I secolo a.C. Tra

queste due date, decisive dal punto di vista matematico, si trova il contributo di Ipparco, risalente al 11 secolo a.C.;8 dal punto di vista filosofico e fisico — “fisico” nell’accezione greca del termine più vicina alla parola moderna “cosmologico” — si è rivelato invece decisivo il contributo di Aristotele. In linee generali, possiamo dire che l’universo greco deriva dalla combinazione di una forma matematica, dovuta ad astronomi quali Eudosso e 8 ).L.E. Dreyer, A Hzistory of Astronomy from Thales to Kepler, Dover Publications Inc., New York 1953, trad. it. Storia dell'astronomia da Talete a Keplero, Feltrinelli, Milano 1970, capp. IV e vVv.

13

Horia-Roman Patapievici

Ipparco, e di una cosmologia, dovuta a un filosofo come Aristotele.? I principi di questa cosmologia erano due: il primo affermava che tutte le cose si comportano in virtù della propria natura; il secondo sosteneva che queste nature formano un insieme gerarchizzato.!° Di conseguenza, il cosmo gre-

co era una gerarchia rigorosa di nature distinte. E poiché per i greci la sfera era la forma geometrica perfetta, non c’è da stupirsi che anche la forma del cosmo greco fosse sferica. L’universo si presentava dunque sotto la forma di un certo numero di sfere concentriche, che si susseguivano l’una all’altra in funzione della loro natura. Nel centro del mondo stava, immobile, la Terra. La Terra, in quanto og-

getto cosmico, era una sfera uniformemente riempita dall’elemento chiamato “terra”. “Terra” non denominava infatti solo la superficie su cui ci muoviamo noi umani, ma anche uno dei quattro elementi, insieme all’acqua, all’aria

e al fuoco. Intorno alla Terra, secondo una simmetria sferica, erano disposti, in sfere concentriche successive, gli altri

tre elementi. Intorno alla terra si trovavano uno strato sferico d’acqua, uno d’aria e, infine, uno di fuoco. Si potreb-

be chiedere: come mai non anneghiamo nell’acqua, se questo modello è realistico? La risposta a questa domanda costituisce una questione complessa che riguardava un problema fondamentale della cosmologia greca: la ” P. Duhem, La cosmologie hellénique, in Le Système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon è Copernic, Hermann, Paris 1913-1959 (10 voll.), voll. 1 e IL 10 A.C. Crombie, The History af Science from Augustin to Galileo, Dover Publications Inc., New York 1995, vol. I, trad. it. Da sant’Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo, Feltrinelli, Milano 1982,. 14

Gli occhi di Beatrice

combinazione dell’elemento terra e dell’elemento acqua sulla superficie della sfera chiamata Terra. In Questio de aqua et terra, che Dante presentò a Verona nella chiesa di Sant’Elena, di fronte all’alto clero della città, nel gennaio

del 1320, egli tentò di spiegare in termini aristotelici, ma anche ricorrendo ad alcuni elementi di cosmologia bibli-

ca,!! perché, al livello della crosta terrestre, l’acqua coesi-

ste con la terra, formando continenti e mari, e perché non abbiamo semplicemente una sfera di terra continua seguita da una sfera continua di acqua. Sebbene, i7 realtà, l’acqua non occupi tutta la superficie della Terra, ma solo alcune sue zone, tutte, assolutamente tutte le cosmografie medievali, illustrano fedelmente questo principio della cosmologia greca: la disposizione sferica e concentrica dei quattro elementi, a partire dalla terra. Tutte le cose e tutti gli esseri che rientrano nel raggio della nostra esperienza quotidiana sono composti di questi quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco: io, voi, le pareti, gli alberi, gli animali, le nuvole, le sostanze materiali, tutti gli oggetti. Tutti gli oggetti dell’universo? No, non dell’universo: tutti gli oggetti della zona chiamata dai greci “sublunare” e che, come indica il termine stesso, si trova-

vano sotto la sfera della Luna. Tocchiamo ora un punto importante della cosmologia greca: la differenza di natura tra la zona sublunare e la zona celeste, che sta al di sopra della Luna. Tra la Luna e la sfera del fuoco che circondava la Terra vi era un’importante cesura cosmologica: la cesura che divide il mondo dei quattro elementi dal mondo cele!! Sulla cosmologia biblica si vedano i $$ 21 e 22 della Questio de aqua et terra; sul pensiero cristiano condizionato dal linguaggio aristotelico, si veda il $ 18; si veda anche P. Duhem, Le Système du monde, cit., vol. IX. 15

Horia-Roman Patapievici

ste. Il principio di questa cesura è doppio: esso riguarda tanto la temporalità quanto l’ontologia. Un tipo di temporalità regna nella zona sublunare, un altro vige nella zona celeste. Un proverbio romeno dice: “Il tempo corre e picchia, il Tempo sta e temporeggia”. Ebbene, nella zona sublunare il tempo corre e picchia: è una temporalità che corrode e distrugge, che fa e che disfa. È il tempo dei movimenti violenti. In questo mondo, che Aristotele chiamava «della nascita e della distruzio-

ne», ogni cosa nasce, cresce, appassisce

e muore. E un

mondo in cui tutte le cose sono sottoposte a molteplici

trasformazioni. E il mondo del fare, del formare, del tra-

sformare e del disfare. Il tempo lavora, con una mano, per la crescita, con l’altra per la distruzione. Tutti e quattro gli elementi si combinano in composizioni che, una volta realizzate, sono condannate a scomporsi in un dato momento. Si avverte immediatamente l’analogia con il poema sulla vanità del mondo contenuta nell’Ecclesiaste o, ancora,

con il sentimento di inesorabile disfacimento di tutte le cose, presente nel poema di Eliot East Coker, secondo dei

Quattro quartetti (come i quattro elementi): «C’è un tem-

po per costruire e un tempo per vivere e generare / e un

tempo perché il vento infranga il vetro sconnesso». Tuttavia, oltrepassata la cesura cosmologica del cosmo greco, il tempo sublunare del farsi e del disfarsi degli elementi è sostituito da un altro tempo, radicalmente diverso. Nel proverbio citato, non siamo più nel tempo che “corre e picchia”, ma nel Tempo che “sta e temporeggia”. Questo tempo è quello dell’eternità, proprio soltanto a un unico tipo di sostanza, che Aristotele!? ha chiamato a:thér, il “quinto elemento” o quinta essentia 12 De coelo, I, 268b-270b. 16

Gli occhi di Beatrice

— da cui il senso derivato oggi in uso. Si riteneva, cioè, che i

pianeti e le stelle fossero fatti di questo quinto elemento, un elemento che non conosce se non un unico genere di moto, il moto permanente, ininterrotto, dell’eternità — quello circolare uniforme degli astri. Il moto circolare uniforme era il contrario di un movimento violento, perché non aveva fine. Non avendo fine, per i greci esso era eterno. Gli oggetti che popolavano il mondo celeste non nascevano, non si trasformavano, non morivano. Gli astri, dato che avevano le loro

stesse proprietà, gli stessi attrzbuti, equivalevano, in fondo, a delle divinità — erano «deità visibili».!'* La forza degli attributi dell’essere era enorme: essi qualificavano ontologicamente

le sostanze sulle quali esercitavano la loro forza.!4 Îl cosmo

greco poteva dunque essere descritto secondo la formula “un mondo, due ontologie”. Îl cosmo era uno solo, ma gli oggetti contenuti in esso appartenevano a due ontologie distinte, in quanto sostanza e in quanto temporalità. Le due ontologie, quella sublunare e quella celeste, erano separate, ripeto, da una cesura cosmologica. Ma vediamo ora che cosa si trovava al di là di questa linea di cesura cosmologica. Vi era una successione di sfe-

re concentriche, di cui la prima era quella della Luna e l’ultima quella delle Stelle fisse. Queste erano chiamate “Stelle fisse” perché, visto dalla Terra, il loro movimento d’insieme non era accompagnato da una mutazione delle

loro relative distanze. Esse erano dunque fisse e si trovavano come inchiodate nella sfera più esterna del sistema del mondo, che in ventiquattro ore compiva una rotazione completa intorno alla Terra. Siccome la distanza dalla 13 Platone, Timeo, 39e; Aristotele, Metafisica, A (x1D), 8, 1074b.

14 A.M. Frenkian, Les origines de la théologie négative de Parmeénide àè Plotin, in “Revista Clasica”, xVv, 1943, $ II, pp. 17-23. 17

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Terra era colossale, anche la velocità di rotazione era co-

lossale. Si trattava di una velocità enorme, superiore a quella di tutte le altre sfere. Fra la sfera della Luna e la sfera delle Stelle fisse si susseguivano, concentricamente, le sfere dei pianeti Mercurio, Venere, Sole (il sole, per i gre-

ci, non era una stella, ma un pianeta), Marte, Giove e Saturno: in tutto, otto sfere concentriche, o meglio, omocen-

triche. L’intero moto del mondo derivava dalla sfera delle Stelle fisse, che era dotata di un “motore” unico, immobi-

le, eterno, privo di parti e di dimensioni, incorporeo, chiamato da Aristotele Primo Mobile o Dio. Il movi-

mento era trasmesso dal Primo Mobile alla sfera, che veniva mossa non già per spinta o per trazione, come Ari-

stotele sosteneva si propagasse qualsiasi movimento tra i corpi, ma allo stesso modo in cui il desiderio muove chi desidera. Così si metteva in moto l’intero ingranaggio del-

le sfere contenute l’una nell’altra, tramite un meccanismo

di demoltiplicazione che esula qui dal nostro interesse. Non intendo entrare neppure nei dettagli riguardanti la struttura geometrica di queste sfere, né in quelli attinenti al rapporto fra il moto apparente di un pianeta, che, visto dalla Terra, era come a zigzag — la parola “pianeta”, peraltro, deriva da un participio greco che significa “errante” (i pianeti erano effettivamente “le stelle erranti”) —, e ciò che succedeva realmente con il pianeta rispettivo, nella sua sfera celeste.!° Queste precisazioni non sono rilevanti per il nostro argomento e perciò le lasceremo da patrte. i Aristotele, Metafisica, A (xII), 1072b; De coelo, 1, 9, 279a. 16 O. Neugebauer, The Exact Sciences in Antiquity, Dover Publications Inc., New York 1969, cap. 4 (Appendice inclusa), pp. 145-207, trad. it. Le scienze esatte nell’antichità, Feltrinelli, Milano 1974.

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Finora vi ho presentato il cosmo greco. Esso ha costituito il modello scientifico di riferimento non solo del mondo antico, ma anche delle civiltà cristiana e araba. I Padri

della Chiesa hanno adottato il modello greco dell’universo sferico adattandolo ai princìpi vincolanti della creazione biblica,!’ mentre gli arabi hanno coniugato la forma geometrica di questo modello con una cosmologia neoplatonica.!8 La civiltà cristiana medievale (di stampo latino) ha fatto proprio questo amalgama, sottomettendolo a nuove costrizioni dogmatiche, derivanti da alcune elabo-

razioni teoriche della teologia cristiana (per esempio, l’angelologia o la collocazione del paradiso).!'° Se il modello cosmologico greco standard — quello che è sopravvissuto quale modello autorevole lungo tutto il Medioevo — si trova nel secondo libro del trattato De coelo e nel dodicesimo libro della Metafisica di Aristotele,°° il modello co-

smologico standard del cristianesimo latino si trova nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, che opera la sintesi non soltanto di tutto lo scibile medievale riguardante le concezioni degli antichi, ma anche di tutte le riserve dei Padri della Chiesa di fronte alla scienza di matrice pagana.?! Naturalmente, i riferimenti all’astronomia !7 D,S. Wallace-Hadrill, The Greek Patristic View of Nature, Manchester University Press, Manchester 1968, pp. 393-501. !8 P_Duhem, La cosmologie des Pères de l’Eglise, in Le Système du monde, cit., vol. Il, pp. 393-501. 19 P_Duhem, Les sources du néo-platonisme arabe, in Le Système du monde, cit., vol. IV, pp. 321-495. 20 E, Grant, Planets, Stars, & Orbs: The Medieval Cosmos, 1200-1687, Cambridge University Press, Cambridge 1994. 21 ‘Tommaso d’Aquino, Summa

Les

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l’univers

Theologiae, 1, 65-74; Th. Litt,

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‘Publications Universitaires, Louvain 1963.

19

Thomas

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Horia-Roman Patapievici

matematica sono da cercare in altri lavori. Tra la cosmolo-

gia di Aristotele, per esempio, e l’astronomia di Tolomeo de La grande sintassi matematica dell’universo o Almagesto,2 esistono dei contrasti e delle contraddizioni insormontabili. Tuttavia, per chi non si proponga di elaborare delle tabelle di misurazione o di calcolare i moti dei pia-

neti queste differenze non sono importanti. Per noi qui è

significativo che lo stesso Dante non operasse questa differenza; dunque la ignoreremo anche noi. Una cosa va sottolineata con insistenza: il modello standard della cosmologia antica è stato sottoposto, nel Medioevo, alle costrizioni teologiche della dogmatica cristiana. Per Aristotele era relativamente facile conciliare, nella Metafisica, un Dio definito in modo impersonale quale «pensiero di pensiero» o «primo motore immobile» con la geometria statica delle sfere omocentriche successive. La divinità cosiddetta suprema della Metafisica di Aristotele era un Dio integrato nel mondo, eterno come il mondo. Ora, questa cosa era inconcepibile per la dogmatica cristiana, perché il Dio cristiano è un Dio personale, trascendente

rispetto al mondo, Creatore del mondo e suo sostegno per-

manente e attivo, mentre il mondo non è eterno, ma ha

avuto inizio in un preciso momento e in un altrettanto pre-

ciso momento finirà, e al di sopra di questo mondo sta una

complessa gerarchia di angeli e di potestà. In più, il Dio cri-

stiano sostenta il mondo attraverso la sua continua creazio-

ne, il che significa che non è esterno alla propria creazione, senza che però sia, in un modo o in un altro, incluso in essa:

è simultaneamente centro e contenitore.

22 Tolomeo, Sy/axis 1, Almagesto (140); Johannes de Sacrobosco

(John of Hollywood), Tractatus de sphaera. Sacrobosco è stato pro-

fessore all’Università di Parigi tra il 1220 e il 1236. 20

Gli occhi di Beatrice

Eccoci dunque al punto cruciale: come conciliare la limpida geometria del cosmo greco, dotato di un Dio statico e impersonale, con le richieste imposte dalla presenza onnipotente di un Dio ubiquo e attivo, libero da qualsiasi necessità e pieno d’amore e che è contemporaneamente ori-

gine e finalità di qualsiasi creazione, centro e al tempo stesso limite del mondo? Dove collocare n tale Dio? E dove collocare gli angeli di cui parlava Dionigi Areopagita? Dove potrebbero trovarsi, nel modello greco standard, le Gerarchie angeliche? Dove gli eletti di Dio, coloro che Dio ha eletto affinché godessero nel paradiso di una felicità illimitata nel tempo e nella sostanza? Per i greci esisteva soltanto la cesura cosmologica fra il mondo sublunare e il mondo celeste. Per essi il mondo era in tutto e per tutto visibile

e corporeo. Îl mondo cristiano era invece costituito da cose “visibili” e da cose “invisibili” (come recita il Credo); i

cieli avevano un “firmamento” o “un confine” posto da Dio nel secondo giorno della Creazione per «separare le acque dalle acque», vale a dire le acque di sopra da quelle di sotto; e così via.î Dunque, oltre la cesura cosmologica,

l’universo cristiano doveva per forza avere altre due cesure: ]a cesura fra visibile e invisibile (fra corporeo e incorporeo) e la cesura fra creato e increato (fra creatura e Creatore). Ma dove si trovavano queste cesure? È chiaro che tali costrizioni non potevano lasciare immutata la geometria del modello standard. Sotto la pressione di queste costrizioni teologico-cosmologiche, la for23 Gen, 1, 6-8; Th. O’Loughlin, Aquae super caelos (Gen, 1,67): The First Faitb Science Debate?, in “Milltown Studies”, 29, 1992, pp. 92-114; H. Rodnite Lemay, Science and Technology at Chartres: The Case of Supracelesttal Waters, in “The British Journal for the History of Science”, 10 (36), 1997, pp. 226-236. 21

Horia-Roman Patapievici

I

Barthélemy Chasseneux, Catalogus gloriae mundi, 1529. 22

Gli occhi di Beatrice

ma dell’universo sferico, che gli uomini medievali avevano ereditato dai greci, si è vista costretta a modificarsi. Invitiamo il lettore a osservare queste modifiche in una delle numerosissime rappresentazioni medievali del siste-

ma del mondo. Quella che vediamo a lato è tratta dal Cata-

logus gloriae mundi del 1529 di Barthélemy Chasseneux.

Nel centro si vede una sfera, la Terra, intersecata schemati-

camente dai cerchi dei Tropici e dell’Equatore. Intorno, secondo la fisica aristotelica, sono disposte delle fasce concentriche che rappresentano l’acqua, l’aria e il fuoco. Come si può vedere, l’acqua circonda uniformemente tutta la Ter-

ra. La sfera del fuoco è seguita dalle sfere, o, come li chia-

mavano gli uomini medievali, dai cieli dei pianeti: 1) il cielo

della Luna, 2) il cielo di Mercurio, 3) il cielo di Venere, 4) il cielo del Sole, 5) il cielo di Marte, 6) il cielo di Giove, 7) il cielo di Saturno, 8) il cielo delle Stelle fisse, 9) il Cielo cristallino, 10) il Primo Mobile; e a inglobare il tutto, l’Empi-

reo — il cielo degli eletti, delle Gerarchie angeliche, da dove Dio regna su tutto il mondo. Rispetto al modello greco standard, nel modello cristiano del mondo sono apparse due nuove sfere (o cieli). L’Empireo, che si riteneva fosse il cielo creato da Dio nel primo giorno della Creazione con la funzione di segnare la cesura tra visibile e invisibile, tra corporeo e incorporeo, e di offrire un posto alle Gerarchie angeliche, agli eletti e allo stesso Dio — sempre che si possa attribuire un posto a Dio! — e il Cielo cristallino, perfettamen-

te diafano, traslucido, che a volte veniva identificato con il

“confine” posto da Dio fra le acque primordiali nel secondo giorno della Creazione per «separare le acque dalle acque». A volte questo cielo aveva la funzione rivestita per i greci dal Primo mobile, altre volte le funzioni restavano separate, derivandone così ora un sistema a dieci cieli, incluso l’Empireo, ora uno a undici, incluso l’Empireo. Da un au23

Horia-Roman Patapievici

tore all’altro le funzioni attribuite a questi nuovi cieli pote-

vano variare, sicché ciò che un autore attribuiva a un cielo,

altri lo attribuivano a un altro. In alcune rappresentazioni del sistema del mondo, come quella a nove cieli mobili e uno immobile (l’Empireo), anch’essa molto diffusa nel Medioevo, il cielo delle Stelle fisse veniva per esempio identificato con il firmamento, il Primo mobile con il Cielo cristal-

lino, mentre l’Empireo rappresentava il decimo.°* Per noi, in questa sede, che i cieli mobili fossero dieci o soltanto nove è del tutto secondario. Dante ha presentato nella sua visione un sistema del mondo a dieci cieli, nel

quale il primum mobile costituisce il nono (il Cielo cristallino, diafano) e l’Empireo il decimo. Ma indipendentemente dal fatto che i cieli fossero dieci o undici, l’immagine del mondo, nella sua struttura, era la stessa. In sostanza, la rappresentazione del mondo — imago mundi — nel Medioevo era così come è rappresentata nell’immagine appena vista. Ecco ora un’altra immagine dell’universo medievale, riprodotta da una Weltchronik della fine del XV secolo (1493).

Ritroviamo qui lo stesso schema costruttivo: [cosmo medievale] = [ cosmo greco] + [apporti teologici cristiani]. Un tale ragionamento è di tipo additivo, paratattico; secondo esso, la sintesi si ottiene sommando, e il progres-

so della visione è lineare. Come vedremo, Dante ha immaginato e pensato in modo completamente diverso. Per il momento, per noi è importante comprendere co-

24 M.-P. Lerner, Nombre des cieux et lieu du monde, in Le Monde des sphères: genèse et triompbe d’une représentation cosmique, Les Belles Lettres, Paris 1996, vol. I, pp. 195-248, 352381, trad. it. Il mondo delle sfere. Genesi e trionfo di una rappresentazione del cosmo, La Nuova Italia, Firenze 2000.

24

Gli occhi di Beatrice

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Xilografia di una Weltchronik stampata a Norimberga nel 1493 da Anton Koberger.

me questa rappresentazione del mondo fosse del tutto familiare a qualsiasi persona istruita del Medioevo e come, nello stesso modo in cui noi riconosciamo subito, non appena la vediamo, la carta geografica del nostro paese, così gli uomini medievali riconoscevano subito in una simile 25

Horia-Roman Patapievici

immagine l’universo (creazione di Dio) in cui vivevano.

Per riconoscere la carta del nostro paese non sono i dettagli che contano, bensì la forma generica, i contorni, le

frontiere; così succedeva anche per gli uomini durante il Medioevo: una simile rappresentazione agiva quale uno

“stemma” , quale un “emblema” della totalità del mondo

creato. Non appena la scorgesse, qualsiasi uUomo medie-

vale sapeva di che cosa si trattava: si trattava del suo mondo, del suo cosmo, dell’universo il cui scopo, grazie alla volontà di Dio, era proprio li, l’uomo medievale. Ora, i0 mi chiedo: noi moderni abbiamo una rappresentazione altrettanto familiare del nostro cosmo, nella

quale riconoscerci subito, così come il medievale si riconosceva nel suo? Il 24 aprile 1992 i giornali di tutto il mondo hanno riprodotto un’immagine dell’universo ottenuta tramite l’addizione della radiazione cosmica di fondo venuta verso di noi da tutte le direzioni dello spazio. In realtà si tratta di un’immagine sintetizzata, non di un’immagine diretta, la quale però rappresenta la struttura visiva ottenuta registrando tutte le radiazioni che sono giunte fino a noi dal momento del big bang. In altre paro-

le, si tratta di un’istantanea: l’istantanea dell’universo nel

momento in cui stava nascendo lo spazio e prima che la materia si organizzasse in stelle e galassie.” Le differenze di colore derivano dalle leggere anisotropie della radiazione ricevuta, in funzione della direzione: espresse in gradi Kelvin, le differenze equivalgono soltanto a un decimo di millesimo di grado circa. Ciò dimostra che ovunque, in qualsiasi direzione noi guardassimo, vedremmo la stessa cosa. Fatto, riconosciamolo, alquanto strano.

25 R. Osserman, Prefazione a Poetry of the Universe: A Mathematical Exploration of the Cosmos, Phoenix, London 1996, trad. it. La poesia dell’universo, Longanesi, Milano 1998. 26

Gli occhi di Beatrice

http://aether.Ibl.gov/www/projects/cobe/COBE_Home/DMR_Images.html

Ebbene, quest’istantanea offre tanto un’immagine del-

l’inizio del nostro mondo quanto una suggestione riguar-

dante la natura dello spazio in cui ci troviamo. Ciò che vediamo in quest’immagine equivale a un’occhiata diretta all’estremità spaziale del mondo e, contemporaneamente, al suo inizio temporale. E l’informazione più pre-

ziosa che tale immagine ci offre — come capiremo al termine del libro — riguarda la natura dello spazio, vale a dire la notevole uniformità della radiazione che proviene da tutte le parti. Per il momento, bisogna ritenere che il mondo in cui viviamo sia fatto in modo tale che, ovun-

que rivolgiamo lo sguardo, ci sembra di guardare nello stesso punto. D’altra parte, oggi sappiamo che qualsiasi oggetto cosmico guardiamo, esso si allontana da noi a una velocità che aumenta proporzionalmente rispetto alla distanza che ce ne separa (sappiamo cioè che l’universo è in espansione) e che non possiamo vedere nulla che sia più “vecchio” di venti miliardi di anni luce. Questo ci 271

Horia-Roman Patapievici

indica, ora come ora, che il mondo è nato tutto a un tratto, venti miliardi di anni luce fa, e che noi ci troviamo nel suo centro. Per eliminare la suggestione geocentrica,

in cui non crediamo più, possiamo affrontare i dati offerti dall’osservazione soltanto supponendo che l’universo abbia la forma di uno spazio sferico: una sfera la cui superficie non è piana, come quella di una sfera comune, ma tridimensionale, come nel caso di un’ipersfera considerata nelle sue tre dimensioni: solo in questo caso ogni punto della sfera può essere concepito come un centro.°° In un certo senso, possiamo dire che questa palla da rugby rappresenta “la traccia” visiva della /forma del nostro universo, così come essa ci viene fornita dalla scienza, dalle teorie e dai nostri strumenti di misu-

razione. Ovviamente, se guardassimo il cielo a occhio nudo, non vedremmo mai una cosa del genere. L’immagine del 24 aprile 1992 è un’immagine costruita, così come era costruita anche l’izzago mundi dell’uomo medievale. Con una differenza: l’uomo medievale si riconosceva in quell’immagine, mentre noi moderni non abbiamo un’immagine cosologica familiare in cui riconoscerci. Vedendo l’immagine del 24 aprile 1992, nessuno di noi, oggi, esclamerebbe spontaneamente «questo è il nostro

mondo»! Eppure il n0stro universo si presenta in questa forma, dal punto di vista della scienza moderna. Ma a noi il nostro universo è estraneo. Estraneo e scientifico.

Estraneo perché scientifico? No. Quello degli uomini medievali, benché ugualmente scientifico (secondo la

26 W, E gginton, On Dante, Hyperspheres, and the Curvature of the Medieval Cosmos, in “Journal of the History of Ideas”, 60 (2), aprile 1999, p. 197; R. Osserman, Poetry of the Universe, cit., pp. 112 ss.

28

Gli occhi di Beatrice

scienza del loro tempo), era nello stesso tempo religioso,

e, in quanto religioso, era familiare. Invito tutti a medi-

tare su questo fatto: sul fatto, cioè, che noi moderni non abbiamo un’imago mundi attraverso cui rappresentare a

noi stessi il mondo — è come se il nostro mondo, da

quando noi ci siamo dimenticati di Dio, avesse cessato di avere un volto. Ebbene, in modo altamente significativo, per rivelare le differenze essenziali tra l’imago mundi medievale e la vera forma del mondo di Dante dobbiamo tentare lo stesso approccio intellettuale di quello utilizzato per capire davvero “la palla da rugby” che è il nostro universo. Per dirla in breve, questo approccio intellettuale consiste nel passare dalle rappresentazioni mentali della geometria piana a quelle specifiche della geometria sferica. Prima di passare oltre, diamo ancora uno sguardo all’immagine medievale del mondo. E il mondo così come lo capivano e visualizzavano i contemporanei di Dante (e poco conta che le immagini su cui ho costruito la mia dimostrazione risalgano all’inizio del xVI secolo: le rappresentazioni medievali del mondo non registrano alcun cambiamento importante tra il XIII secolo, periodo in cui si articolano scientificamente, e il XVIII, quando scompaiono per le persone colte: la struttura rimane la stessa — una successione di dieci (o undici) sfere concentriche,

comprendente le nove sfere della Luna, di Mercurio, di

Venere, del Sole, di Marte, Giove, Saturno, delle Stelle fisse e del Cielo cristallino, aventi tutte al lJoro centro la Terra

(circondata da tre fasce sferiche, di acqua, aria e fuoco,

nella zona sublunare) e, all’estremità, l’Empireo, dove gli

angeli, i santi, gli eletti e Dio stesso hanno la loro dimora (affermazione ovviamente impropria per ogni entità che, essendo immateriale, è per forza anche a-spaziale). 29

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Così, come in quest’immagine desunta dalla Weltchronik, avrebbe dovuto presentarsi il mondo anche per Dante se Dante non fosse stato Dante, cioè l’autore della Divina

Commedia e, più in particolare, degli ultimi canti del Paradiso. Vediamo ora che cosa bha visto Dante in più rispetto a ciò che sapeva dai suoi contemporanei. Vediamo cioè la differenza fra il modello medievale standard del

mondo e il mondo di Dante, vediamo che forma aveva

davvero il mondo di Dante. Entreremo nel mondo di Dante tramite un’incisione fiorentina, realizzata in un momento imprecisato fra il 1465 e il 1480.

Il personaggio che si trova al centro dell’immagine è

Dante. Egli tiene nella mano sinistra un libro aperto, sul-

le cui pagine si può leggere, in parole fra loro legate e 30

i

Gli occhi di Beatrice

non del tutto corrette, «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai» (per essere precisi, non «ritrovai» ma so-

lo «ritro»), vale a dire l’incipit della Divina Commedia. Con la mano destra Dante ci indica una spaccatura nella terra, dove si trovano alcuni diavoli e alcuni corpi nudi di condannati a espiare in eterno i loro peccati. Il personaggio alato, brutto e disgustoso, la cui testa si erge nella parte superiore dello spacco infernale, è Lucifero: Satana, il Diavolo. Dietro Dante si vede la montagna del Purgatorio, con i sette gironi o cornici che terminano, nella

parte superiore, in un giardino in cui vive chi non è più tormentato dalle pene. E il Paradiso terrestre, il punto della Terra più vicino ai cieli. Al di sopra di esso, vediamo degli archi a piccola curvatura (cioè a grande raggio), quasi un “pentagramma” leggermente concavo: sulle linee del “pentagramma” celeste possiamo distinguere il simbolo della Luna, di alcune stelle (erroneamente collo-

cate) e, proprio al di sopra della cupola del duomo, il simbolo del Sole. Questo pentagramma curvo rappresenta un frammento delle sfere dell’universo greco. Qui, tutto è rappresentato in figura piana. Come possiamo vedere, Dante non sta dentro la città bensì fuori — dalla cupola e dal campanile riconosciamo immediatamente la città di Firenze, con le sue glorie architettoniche, la cupola di Santa Maria del Fiore, opera del Brunelleschi, e il campanile di Giotto (portato a termine dal Talenti). Dante si trova al di fuori delle mura della città perché ne è stato bandito. Osserviamo l’anacronismo: Dante sta in uno scenario urbano apparso o

propriamente compiuto dopo la sua morte. Ciò avviene perché ci troviamo in un’epoca situata cronologicamente prima della nascita della coscienza storica. Ora, salendo a tale altezza per poter vedere in un solo 31

Horia-Roman Patapievici

colpo d’occhio tutta la Terra, e guardando con l’occhio di un esegeta medievale di Dante, noi vedremo qualcosa di molto simile alla figura della pagina seguente, estratta

da un commentario De’l! sito, forma & misure dello Infer-

no di Dante del 1544 firmato da Pier Francesco Giambullari. La “selva oscura”, nella quale Dante penetrerà sottoterra, per cominciare il suo viaggio nell’Inferno, si trova (per chi guarda) a sinistra di Gerusalemme. In un punto diametralmente opposto, sotto Gerusalemme, si trova la montagna del Purgatorio. Tra questi punti terrestri estremi, al centro della Terra (e di tutto il mondo ma-

teriale), nella punta del cono che ospita l’Inferno, si trova

Lucifero. L’Inferno è come un imbuto che assorbe, al pa-

ri di una fogna, la gente dalla zona abitata e la scarica lad-

dove si trova l’angelo scacciato, Lucifero. Là, dove si tro-

va Lucifero, tutte le cose cattive trovano il proprio posto senza più sbocchi. Entriamo ora nella materia della Commedia. Intendo percorrere rapidissimamente i tre regni, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, come se stessimo consultando una guida turistica, per poi soffermarci finalmente di più sui canti XXVII e XXVIII del Paradiso; è in essi, infatti, che vie-

ne configurata la risposta alla mia domanda: che forma aveva il mondo di Dante? Per questo rapido percorso — un curriculum Comoediae, per così dire — ho scelto le illustrazioni alla Divina Commedia realizzate nel 1890 da Phoebe Anna Traquair. Nata nel 1852 e morta nel 1936, Phoebe Anna Traquair è stata la principale animatrice del gruppo Art and Crafts di Edimburgo. Ha praticato un’infinità di arti, dalla pittura al ricamo, dalla miniatura e dalla rilegatura di libri alla decorazione in smalto e alla decorazione murale. Nel suo periodo di gloria, quando mostre di suoi lavori furono ospitate in tutto il mondo, 32

Gli occhi di Beatrice

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N. 455 Pier Francesco Giambullari, De’! sito, forma & misure dello Inferno di Dante, 1544.

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Horia-Roman Patapievici

Phoebe Anna Traquair pubblicò ventuno illustrazioni della Divina Commedia.?’ Le donne intellettuali hanno una presenza molto forte nei commenti a Dante. A mio avviso, il miglior libro che introduce al rapporto di Dante con l’astronomia è opera di una donna. Il libro, intitolato Dante and the Early

Astronomers,

è apparso nel 1913, e la sua autrice

è Mary

Ackworth Orr. Negli ambienti astronomici, la Orr è ricordata in quanto collaboratrice di suo marito, John Evershed (che ha diretto l’Osservatorio Kodaikanal, in

India, agli inizi del Xx secolo), in materia di attività solare.°8 Nella cerchia degli esperti di Dante, il suo ricordo è invece ben più vivo grazie al libro che, da “dilettante” (prendo la parola non nel suo senso corrente e deteriore, bensì nel senso di una persona che si dedica per amore a un oggetto di studio che le regala un piacere squisito), ha dedicato all’astronomia di Dante. Una donna di grande talento e sapienza. Accompagniamo dunque Dante, sfogliando le illustrazioni che ci ha regalato Phoebe Anna Traquair. Vediamo succedersi, una dopo l’altra, rapidamente, nella stessa

immagine, come nei fumetti (in realtà, una tecnica che risale al Paleolitico), la selva oscura, la lonza, il leone, la lu-

pa, l’incontro salvatore con Virgilio — guida di Dante attraverso l’Inferno e parte del Purgatorio. Seguono poi la 27 Dante, Illustrations and Notes. The Illustrations by Phoebe Anna Traquair. The Notes by John Sutherland Black, Privately Printed T.&A. Constable, Edinburgh 1890. 23 M.T. Brick, Mary Ackworth Eversbhed née Orr (1867-1949), solar pbysicist and Dante scholar, in “Journal of Astronomical History and Heritage”, vol. 1, giugno 1988, pp. 45-59. 34

Gli occhi di Beatrice Serusalem

Phoebe Anna Traquair, Dante, Illustrations, 1890, p. xXV.

Porta dell’Inferno, il Vestibolo dell’Inferno e i primi due cerchi: il Limbo e il cerchio dei lussuriosi. Nel centro si osserva uno schema generale dell’Inferno, dove sono raffigurati i sette cerchi infernali, le bolge,

fino al grande dannato, Lucifero. Vedremo più avanti di che cosa si rimpinza questi all’eterno pranzo al quale è stato condannato insieme ad altri. La forma generale dell’Inferno, nella visione di Phoebe Anna Traquair, è quella di uno zigqurat capovolto. Seguono il Terzo cerchio (i golosi), il Quarto (gli avari e i prodighi) e il Quinto (gli iracondi e gli accidiosi). 35

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Phoebe Anna ‘Traquair, Dante, Illustrations, 1890, p. xIX.

Fin qui, abbiamo avuto a che fare con gli incontinenti.°? Da questo momento in poi, Dante e Virgilio penetrano

nella città di Dite, dove incontrano, nel Sesto cerchio, gli eresiarchi.?°

Più avanti penetriamo nel Settimo cerchio, che comprende tre gironi: i violenti contro il prossimo (tiranni, omicidi e predoni); i violenti contro se stessi (i suicidi e gli scialacquatori); i violenti contro Dio nella persona (i bestemmiatori), contro Dio nella natura (i sodomiti) e 2° Inferno, VI-VII. 30 Inferno, IX-XI. 36

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contro l’arte (gli usurai, i seduttori e gli adulatori). Non è il caso di soffermarci qui sull’incontro col centauro Chirone o sulla descrizione del mostro Gerione che condurrà Dante e Virgilio nelle Malebolge — Dante è pieno di dettagli sorprendenti e stimolanti. L’Ottavo cerchio, detto di Malebolge, è un pendio divi-

so in dieci fosse concentriche, chiamate bolge, discendenti verso un pozzo enorme, custodito dai giganti. Nelle bolge sono puniti i fraudolenti contro chi non si fida: i seduttori, i simoniaci, gli indovini, i barattieri, gli ipocriti, i ladri, i consiglieri fraudolenti, 1 seminatori di discordie, i falsari. 37

Horia-Roman Patapievici

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Segue il Pozzo dei giganti: si vede, a sinistra, il dorso di un gigante incatenato (Fialte, colui che affrontò Giove) e, a destra, un altro gigante, che depone gentilmente i due poeti «nel fondo d’ogne reo».’! Dopo il Pozzo dei giganti, segue il Nono cerchio, diviso in quattro giri — qui sono puniti i fraudolenti contro chi si fida: i traditori dei parenti, i traditori della patria, quelli degli ospiti e dei benefattori. Ovviamente, al centro dell’immagine si trova Lucifero, il traditore per eccellenza, che maciulla con le sue tre bocche altri tre famosi traditori imperdonabili: Giuda,

venditore di Cristo, e Bruto e Cassio, assassini di Cesare. 31 Inferno, XXXI, 102. 538

Gli occhi di Beatrice

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Phoebe Anna Traquair, Dante, Illustrations, 1890, p. XxxI.

Osserviamo bene questa figura mostruosa che si trova al centro del mondo materiale.

39

Horia-Roman Patapievici

È l’angelo superbo, Lucifero, il portatore di luce, o, come

dice Dante, «la creatura ch’ebbe il bel sembiante»,°2 e che, in meno di venti secondi dall’inizio della Creazione,

è stato abbattuto.** Eccolo ora laggiù, intento a mostrare al mondo tre facce, ciascuna di un colore diverso, quasi fosse un’orribile deformazione della Trinità: una vermiglia come l’odio, l’altra gialla e scolorita quanto l’impotenza, l’ultima nera come il buio dell’ignoranza.’! Ovviamente, questi colori non possiamo vederli qui, nei disegni di Phoebe Anna Traquair, che sono in bianco e nero. Ma essi esistono in Dante. Tra le enormi ali di «vispistrello» di Lucifero, soffiano tre venti freddi e maligni, corrispondenti alle tre inclinazioni al peccato: l’eccesso, la violenza e la bugia. Al muoversi di quei venti «Cocito tutto s’aggelava»”. Poi, aggrappandosi ai peli ghiacciati di Lucifero e alle «gelate croste», servendosi delle pieghe e dei crepacci della pelle del mostro — il suo corpo enorme misura più di un chilometro di lunghezza —, Dante e Virgilio scendono lungo il fianco di Satana. E ora accade una cosa particolarmente importante e di grande interesse ai fini del nostro libro. Quando Dante e Virgilio arrivano «là dove la coscia si volge, a punto, in sul grosso de l’anche» del sinistro angelo caduto, il cammino dei due poeti interseca il centro della Terra. E in quel momento, in quel lu0ogo — «quel punto» — si produce unm’in-

versione. Dante non se ne rende conto subito. Quando

guarda Lucifero, egli si aspetta di vederlo, come fino a quel momento, davanti a sé, ma a un tratto se lo scopre 32 ITnferno, XXXIV, 18.

33 «Né giugneriesi, numerando, al venti» (Paradiso, XxIX, 49).

4 ITnferno, XXXIV, 37-45. ° Inferno, XXXIV, 45-62.

40

Gli occhi di Beatrice

dietro, e «le gambe in st tenere». A furia di camminare, Virgilio e Dante, benché continuino a scendere, in quel dato punto cominciano a salire — verso l’emisfero australe, dove è collocata la montagna del Purgatorio.*° Da qui, passando per il Paradiso terrestre, saliranno poi nell’Em-

pireo, attraversando le sfere celesti, ma non prima di esse-

re passati attraverso un altro punto di inversione, che segnalerò quando vi saremo arrivati. Questo in cui Dante e Virgilio passano per il centro

della Terra, è, sottolineiamolo, il primo punto di inversione presente nella Divina Commedia: un punto in cui il

senso verso il basso si capovolge, dirigendosi ora verso l’alto, senza che i due abbiano cambiato la loro direzione

di marcia — cosa, questa, molto importante. Lo ritroveremo, in modo identico, nel passaggio dal Nono cielo all’Empireo, dove le nove sfere materiali e visibili, che ruotano intorno alla Terra, si specchiano capovolte nelle nove Gerarchie angeliche, che ruotano intorno al “punto” divino, a Dio. Per capire davvero la forma del mondo di Dante dobbiamo prestare la massima attenzione a questi punti di inversione. Passiamo ora in rassegna, rapidissimamente, i gradini del Purgatorio che Virgilio e Dante salgono dopo essere emersi alla superficie della Terra, nell’emisfero australe, alle falde della montagna del Purgatorio. A sinistra si vede l’Angelo-guida, il «celestial nocchiero» traghettatore di anime, mentre a destra vediamo i due poeti accolti da Catone l’Uticense, colui che si era tolto la vita per la li-

bertà ma che, veniamo a capire, era stato sottratto al

Limbo da Cristo stesso e messo a guardia del Purgatorio.

L’amore di Cristo per un suicida virtuoso, non posso fare 36 Inferno, XXXIV, 88-93. 41

Horia-Roman Patapievici

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Phoebe Anna Traquair, Dante, Illustrations, 1890, p. XXxV.

a meno di confessarlo, mi sembra mirabile. Siamo ormai

nell’Antipurgatorio. Qui Dante incontra Casella, Belacqua e Sordello, conosciuto anche grazie al poema omonimo di Robert Browning. Durante la prima notte trascorsa sull’isola, Dante è trasportato davanti alla porta del Purgatorio, e nell’attraversarla un angelo gli incide sulla fronte le sette “P”, Così segnato, Dante penetra nel primo girone del Purgatorio, dove espiano le loro colpe i superbi. I gironi del Purgatorio sono sette. Nel secondo girone le anime si purificano, tramite pene e tormenti, dall’invidia, nel terzo dall’ira, nel quarto dall’accidia; nel quinto si pur42

Gli occhi di Beatrice

gano gli avari e i prodighi, nel sesto i golosi, nel settimo i

lussuriosi. In tutto, la montagna del Purgatorio è divisa in tre categorie di peccati: nei primi tre gironi si espiano i

peccati per «malo obietto», nel quarto girone si espia il poco amore del bene eterno, negli ultimi tre gironi, il troppo amore dei beni terreni. Nel Purgatorio, quale insieme, appare un’altra inversione rispetto all’Inferno: se nell’Inferno la spirale della discesa è orientata a sinistra, nel Purgatorio la spirale del-

l’ascesa è orientata a destra. D’altra parte, la “gravitazione” dei peccati, propria dell’Inferno, si trasforma nel Purgatorio in una “levitazione” delle anime che sono attratte in direzione ascendente verso Dio:37 in modo implicito — ed è questa una cosa essenziale —, il tempo corre inversamente, non più verso la morte e la distruzione, ma

verso la vita e la resurrezione. Abbiamo così una seconda,

notevole inversione: in Dante i passaggi da un livello all’altro si compiono tramite un’inversione. Questo principio permetterà al poeta di offrirci un mezzo per visualizzare la totalità del suo mondo, in parte visibile e in parte invisibile, e non già separatamente, bensì nel suo insieme. In cima alla montagna del Purgatorio si trova il Paradiso terrestre che — come veniamo a sapere dal dialogo di Dante con Matelda,°8 personaggio misterioso in cui alcuni vedono Giovanna, la giovane che accompagnava Beatrice quando Dante la incontrò e che era l’amante di Guido Ca-

valcanti, miglior amico del poeta (la stessa che, secondo al-

tri, sarebbe stata rappresentata anche da Botticelli nella sua splendida Primavera di Villa di Castello nella figura di

37 M. Wertheim, The Pearly Gates of Cyberspace. A History of Space from Dante to the Internet, Virago Press, London 2000. 8 Purgatorio, XXVIII, 76-148. 43

Horia-Roman Patapievici

farthly Paradise.

Phoebe Anna Traquair, Dante, Illustrations, 1890, p. LIX.

Flora )*° — possiede una flora più esuberante di quella terrestre e non si sottomette più alla fisica sublunare. Le correnti d’aria del Paradiso terrestre sono provocate dal moto delle sfere celesti, l’acqua delle fonti non è alimentata da piogge, e i semi di quella vegetazione sono sconosciuti sulla Terra. In generale, il Paradiso terrestre è concepito da Dante come una sorta di anticamera del Paradiso celeste. Il posto viene descritto come un locus amoenus, visto attraverso le immagini di un’anima che non conosce più né :9° K. Lindskoog, Spring in Purgatory: Dante, Botticelli, C.S. Lewis and A Lost Masterpiece, www.lindentree.org/prima.html.

44

Gli occhi di Beatrice

passione né paura. Dante può vedere ciò che ha di fronte agli occhi solo perché la sua anima è sempre più pura, più pronta per salire alle stelle. Matelda, probabilmente una figurazione del discernimento, gli fa gustare l’acqua di due fiumi santi: quella del Letè, per fargli dimenticare il peccato, e quella dell’Eunoè, per dargli buoni pensieri e aiutarlo a diventare capace di ricevere la grazia divina. Solo dopo tali purificazioni Dante può staccarsi dalla zona sublunare e passare nel Paradiso, cioè nel regno ce-

leste. La sua natura “normale” viene così migliorata e resa

capace di attraversare una barriera ontologica che, normalmente, nessuna persona in carne e ossa potrebbe varcare. I] fatto è esplicitamente segnalato da Dante quando, ritornando dalla «santissima onda», ci dice che è «rifatto

sì come piante novelle rinovellate di novella fronda, puro e disposto a salire a le stelle»."° È importante capire qui che Dante, a misura che sale, vede sempre meglio — per questo, per esempio,

Beatrice gli appare

sempre più

splendente: perché nella sua mente brilla sempre di più, sempre più visibilmente, l’«etterna luce».4! Un altro esempio: nel terzo girone del Purgatorio, quando Marco Lombardo chiede a Dante chi è, il poeta spiega che lui sta salendo verso la «corte» di Dio, per una via che

è — dice con un’espressione precisa e quasi tecnica — «fuor

del moderno uso».*? Si tratta della possibilità di raggiungere, in carne e ossa («con quella fascia che la motrte dis-

solve»), il cielo di Dio, possibilità che, nell’antichità, era

stata offerta a san Paolo.

10 Purgatorio, XxxIII, 143-145. 41 Beatrice gli spiega questa cosa in Paradiso, V, 7-9. 12 Purgatorio, XVI, 42.

‘ Purgatorio, XVI, 36-37.

45

Horia-Roman Patapievici

Dante lascia il Paradiso terrestre a mezzogiorno ed entra nell’eterno meriggio del Paradiso celeste, dove il suo cammino non sarà più interrotto dalle notti, come invece avve-

niva nel Purgatorio. Sotto tali auspici Dante attraversa la prima grande cesura cosmologica del mondo descritta nella Divina Comnmedia: la cesura che separa il mondo sublunare dal mondo celeste, che separa le cose sottoposte alla distruzione del tempo dalle cose eterne. Attraversando la prima cesura cosmologica, Dante cambia registro temporale e cambia anche campo ontologico: dal mondo dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco), passa nel mondo dell’elemento incorruttibile ed eterno. Continuiamo a trovarci nella zona delle cose visibili e corporee ma, a differenza delle cose visibili e corporee del mondo sublunare, queste non sono più sottoposte all’alterazione del tempo. Nei termini di Tommaso d’Aquino, che rappresenta una delle fonti essenziali della visione di Dante, ciò che cam-

bia quando si passa da un regime ontologico all’altro è la luminosità delle cose, il rapporto tra la loro luminosità e la loro trasparenza.!! D’altra parte, non dimentichiamo che, a misura che sale, Dante vede sempre meglio: come

dicevamo prima, tutto il suo essere migliora progressivamente. Perciò Beatrice, che lo guida a partire dal Paradiso terrestre, gli appare sempre più splendente, a mano a mano che lui stesso diventa più trasparente, più virtuoso e meno peccatore: e ciò perché, come ho già detto ripetendo le parole del poeta, nella sua mente risplende in modo sempre più visibile l’etterna luce. D’ora in poi Dante non sarà più guidato da Virgilio. In 14 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, 1, 68, 4.

46

Gli occhi di Beatrice

Phoebe Anna Traquair, Dante, Illustrations, 1890, p. LxxI.

47

Horia-Roman Patapievici

questo luogo, situato assai in alto rispetto al mondo terrestre

vero e proprio, Virgilio non può più essere guida di Dante (lo accompagna soltanto per un breve tratto, in silenzio) perché, malgrado l’eccellenza della «grand’ombra», Virgilio rimane comunque un pagano non battezzato. La missione di guida sarà assunta da Beatrice, che scor-

terà Dante fino alla soglia della contemplazione della Santa Trinità, nel punto più ineffabile del mondo — da qui in poi sarà accompagnato da san Bernardo di Chiaravalle, che gli dirà le memorabili parole, altrettanto valide ora come al tempo di Dante: «[...] quest’esser giocondo [...] non ti sarà noto, tenendo li occhi pur qua giù al fondo».“° Filosoficamente e teologicamente parlando, Virgilio è la luce naturale della ragione, non assistita dalla divinità: con l’aiuto di tale facoltà spirituale possiamo percorrere la Terra, l’Inferno e una parte del Purgatorio, ma non possiamo avventurarci oltre. Stazio, che accompagna Dante in una parte del Purgatorio insieme a Virgilio, rappresenta anch’egli la ragione naturale dell’uomo, ma la ragione illuminata dalla verità divina: egli spiega per esempio a Dante cose che Virgilio non può spiegare. A sua volta, anche a Stazio restano inaccessibili certi arcani che invece possono essere chiariti dalla guida successiva, Beatrice, che raffigura colei che Virgilio chiama, con una famosa definizione, «che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto».*° La-

sciamoci penetrare dall’esatta bellezza di questa definizione: Beatrice è l’ambiente, il “campo” attraverso cui si diffonde la luce tra la verità e la mente. Dante percorrerà l’intero Paradiso trainato verso l’alto

da Beatrice, sospeso concretamente ai suoi occhi, che fis‘ Paradiso, XXxXxI, 112-114. 46 Purgatorio, VI, 45.

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Gli occhi di Beatrice

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Phoebe Anna Traquair, Dante, Illustrations, 1890, p. LXxIX.

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Horia-Roman Patapievici

sano di continuo cose sempre più divine.!’ Negli occhi di Beatrice, che la rispecchiano — e adopero apposta la parola “rispecchiare” perché essa sarà la chiave per comprendere le prime terzine del XxXVIII canto del Paradiso —, Dante potrà ricevere l’intera realtà visiva del mondo invisibile. Ritorniamo però alla nostra scorribanda attraverso la

Divina Commedia. Nel Primo cielo, quello della Luna, si

trovano le anime negligenti dei voti.‘8 Nel Secondo cielo, del pianeta Mercurio, Dante colloca le anime attive e be-

nefiche;° nel cielo di Venere, il terzo, le anime amanti, af-

fettuose e innamorate.”° Segue il cielo del Sole, dove si trovano le anime sapienti — in forma di due corone di santi e di filosofi, francescani e domenicani.°! Nel cielo di Mar-

te, il quinto, si trovano le anime dei guerrieri e dei mattiri per la causa di Dio.*? Queste anime, brillanti come lumi maggiori e minori, come le miriadi di stelle che compongono la Via Lattea — e di cui Dante dice che brulicano come il pulviscolo in un raggio di luce che striscia fra le imposte —, formano una croce greca, inscritta nella grande sfera orbitale.”?

Arrivato poi nel cielo di Giove, il sesto, Dante vede le

47 La “sospensione” di Dante agli occhi di Beatrice costituisce il principale tema iconografico delle illustrazioni del Paradiso dovute a Botticelli (A.E. Baconsky, Botticelli, Divina Comedie, Editura Meridiane, Cabinetul de stampe, Bucuresti 1977). 418 Paradiso, I1-IIl. 419 Paradiso, V-VII. 5 Paradiso, VIII-IX.

1 Paradiso, X-xIlI, 47.

2 Paradiso, XIV, XVII, 51.

°3 Paradiso, XIV, 112-117. 20

Gli occhi di Beatrice

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Horia-Roman Patapievici

anime degli spiriti saggi e giusti, raggruppati nella figura di un’enorme aquila celeste che parla, con un’unica voce formata dalle distinte voci di tutte le anime.’‘ Attenzione, però: qui non vi è nemmeno un briciolo di collettivismo; l’aquila simboleggia soltanto l’armonia del mondo fondata sulla giustizia divina. Queste anime risplendono come gemme. Il re Davide brilla nell’occhio dell’Aquila «per pupilla», mentre Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo Il detto il Buono, re di Sicilia, e Rifeo, difensore di Troia,

«fan cerchio per ciglio» dell’aquila”” E così via. Ci sono tanti particolari sorprendenti nella Divina Commedia. Più in alto, nel Settimo cielo, quello del pianeta Saturno, si trovano gli spiriti contemplativi, ° che Dante paragona a delle fiammelle che scendono e salgono un’altissi-

ma scala luminosa.”” E la scala di Giacobbe (Genesi, 28),

di cui, nel XxII canto del Paradiso, sappiamo che va dalla Terra all’Empireo ed è carica di angeli ma non è usata dagli umani, non perché sia vietata, ma perché nessuno fa più lo sforzo di salirla.”® Arriviamo infine all’Ottavo cielo, quello delle Stelle fisse, dove Dante assiste alla celebrazione del trionfo di Cri-

sto e della Chiesa e viene esaminato intorno alla fede e alle virtù teologali che concedono all’uomo il legame con la divinità:”° l’apostolo Pietro esamina Dante sulla fede, san Tacopo lo esamina sulla speranza, mentre san Giovanni lo esamina sulla carità. 4 Paradiso, XVIII, 52-XX. ” Paradiso, XX, 32-72. % Paradiso, XVIII, 48-xXxII, 101. ”7 Paradiso, XXI, 29-33. 8 Paradiso, XxII, 70-75. % Paradiso, XXII, 102-xx1II.

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Phoebe Anna Traquair, Dante, Illustrations, 1890, p. LXXXVII. 53

Horia-Roman Patapievici

Finalmente arriviamo nella zona di massimo interesse per noi, il Nono cielo. Ma, sorpresa! (A dire il vero non troppo, e vedremo perché.) Esso non è stato raffigurato dalla nostra illustratrice, che per il resto, invece, ha dato

prova di grande attenzione anche per i dettagli più nascosti nel sontuoso drappeggio delle dotte allusioni di Dante. Phoebe Anna Traquair ha concluso il suo ciclo con questa immagine, che vediamo a lato. Osserviamo che qui il Nono cielo, quello cristallino o

diafano, che mette in moto l’intero mondo corporeo, è

segnalato soltanto a parole, in basso a destra, senza essere affatto raffigurato visivamente nell’immagine. È una mancanza grave, perché Dante era, come abbiamo visto, un “tipo visivo”, e le sue visioni, se lette correttamente,

devono poter essere rappresentate sotto forma di immagini. Quando ciò non avviene, significa che esse non so-

no state interpretate in maniera adeguata. In Dante questo criterio è assoluto. In basso a sinistra è indicata la successione dei cieli, ac-

compagnata da una serie di simboli che non sono del tutto chiari. Nello stesso disegno, invece, è ampiamente raffigurato il Decimo cielo, l’Empireo, dove si trovano i nove cori delle Gerarchie angeliche (rappresentate come un brulichio circolare), la Rosa dei beati e la Santa Trinità

e dove la Traquair ci mostra il Gran Giudice del mondo seduto in trono. Nonostante l’imperfezione del disegno, si nota qui un importante elemento di discontinuità fra i primi otto cieli (tutti raffigurati nei disegni, tranne il Nono) e l’Empireo: vi si produce un’inversione della curvatura. Seguendo una tradizione che risale al Medioevo, la Traquair ha rappresentato la grande cesura fra il mondo visibile e il mondo invisibile, quella che separa ontologicamente la 54

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Horia-Roman Patapievici

sfera dell’Empireo dalle altre sfere celesti, attraverso un

capovolgimento dell’esterno nell’interno. È una cosa interessante: la rottura dei livelli è stata pensata come una specie di rivoltamento dello spazio: ciò che nel mondo visibile ci appariva concavo, quando vi eravamo dentro, nel mondo invisibile ci appare convesso, dato che guardiamo dall’esterno. Quando passiamo dall’uno all’altro, ci lasciamo dietro una superficie concava per passare a un’altra convessa. È come se, lungo il confine che separa il visibile dall’invisibile (la seconda grande cesura cosmologica), il mondo visibile si riflettesse capovolto nel mondo invisibile, rappresentato simbolicamente dalla sfera dell’Empireo. Si attua uno spostamento di centro. Questo principio è stato enunciato da Dante, a proposito della relazione fra interno ed esterno, nel Convivio.

Il secondo trattato del Convivio si apre con un dibattito sui sensi di un testo: letterale (il significato delle parole in senso stretto), allegorico (la verità avvolta in una bella

menzogna), z0orale (quello che serve al nostro bene) e

anagogico (il sovrasenso, il chiarimento del significato spirituale).‘° Siccome il significato letterale è «quello nella cui sentenza li altri sono inchiusi», tutti gli altri significati poggiano su di esso. E ciò perché, sebbene il senso letterale non sia il più importante, senza di esso non si può costruire niente di superiore: è questo il principio del mondo creato. Se non esiste il letterale, non esiste

niente: «in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori è impossibile venire al dentro, se prima non si viene al di fuo-

ri». È siccome il viaggio di Dante è una progressiva penetrazione in se stesso, anche il senso di attraversamento delle sfere avviene dall’esterno verso l’interno. Quanto 60 Convivio, II, 1. 56

Gli occhi di Beatrice

più in alto, tanto più verso l’interno.! Per vedere, dun-

que, “l’interno” di un’orbita, la dobbiamo rivoltare. Che cosa significa rivoltare un’orbita? Significa tirarne fuori

il centro. Nello stesso modo in cui, per vedere l’interno

di un guanto, lo rivoltiamo, facendo sì che l’interno divenga esterno. Quando si passa “oltre”, geometricamente parlando, la convessità diviene concavità. Il visibile appare

“convesso” ai terrestri, che “vedono”

concavo

l’invisibile. In altre parole, quando si passa nell’invisibile, il centro del mondo si sposta. Dove avviene questo spostamento? O meglio, in rapporto a quale superficie avviene l’inversione del centro?

Nel xxVII canto del Paradiso, Dante ci dice che la Nona sfera (coelus nonus o coelum cristallinum, il cielo dia-

fano) non si trova più in un luogo; e siccome al di là di quest’orbita non si trova più niente di corporeo né di visibile, essa non può trovarsi («non ha altro dove») che nella «mente divina».° Îl Nono cielo è trasparente, diafano. Attraverso di esso si vede lo splendore di ciò che non è più realmente visibile, ’Empireo, la dimora degli angeli e degli eletti. Che cosa avviene, quindi, nel passaggio dalla Nona sfera al’Empireo? Nel Xxx canto, Dante ci dice che dall’orbita «del maggior corpo», cioè dal Nono cielo, si passa direttamente nell’Empireo.‘’ Di conseguenza, il punto di inversione va cercato sul confine superiore del Cielo diafano, chiamato dai medievali coelum cristallinum. Vediamo ora se queste constatazioni sono state rispettate

dagli illustratori di Dante. Ecco, per esempio, a pagina 59 61 Paradiso, Xx1I, 127.

62 Paradiso, XXVII, 109-110.

63 Paradiso, XXX, 38-39.

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Horia-Roman Patapievici

una delle illustrazioni “standard” del mondo di Dante,

così come esso è stato correntemente raffigurato nella tradizione iconografica. È una “figura universale” della Dvina Commedia, dovuta a Michelangelo Cactani, un nobile agiato e appassionato, come tanti italiani di razza, dei misteri del mondo dantesco. Il disegno che vediamo è stato pubblicato nel 1855, in un opuscolo intitolato La rmateria della Divina Commedia, di soli dieci fogli ma di grande formato, contenente disegni eseguiti dallo stesso autore. Ciò che vediamo in quest’immagine è la rappresentazione corrente, direi addirittura “standard”, del mondo

di Dante. Nel centro del mondo si trova l’ormai noto globo terrestre, con Gerusalemme in posizione diametralmente opposta alla Montagna del Purgatorio. Qui, sulla destra, possiamo indovinare la selva oscura dove Dante si trovò all’improvviso smarrito, nel mezzo del cammin — nel meriggio della propria vita. Da qui Dante è sprofondato nel cono dell’Inferno, scendendo sempre verso sinistra, passando poi per il punto di inversione del centro della Terra e da lì, da quello stesso punto, ha cominciato l’ascesa attraverso i gironi del Purgatorio, salendo sempre verso destra. Dal Paradiso terrestre, attraversando la prima cesura cosmologica che separa il tempo della corruzione dal tempo della conservazione e le sostanze corruttibili da quelle incorruttibili, Dante è passato nel Paradiso. Questo è composto dal Paradiso celeste, con le

nove sfere orbitali, e dall’Empireo, con le nove Gerar-

chie angeliche (Dante le chiama anche milizie). Possiamo

vedere il suo cammino attraverso il cielo della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, con la croce delle anime militanti, di Giove, con l’aquila delle anime giu-

ste, di Saturno, con la scala da cui salgono e scendono di continuo le anime contemplative, raffigurate quali fiam58

Gli occhi di Beatrice

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Horia-Roman Patapievici

me, poi attraverso il cielo delle Stelle fisse, con il trionfo

della Chiesa, e infine attraverso il Cielo cristallino, il Pri-

mo Mobile o «ciel velocissimo»,° che è “il corpo” più rapido di tutto l’universo visibile e contemporaneamente il suo involucro — come la buccia di una cipolla —, fatto di una sostanza diafana, perfettamente trasparente. In questo modo, anche il Paradiso è diviso in due per mezzo della seconda cesura cosmologica, quella che separa le cose corporee e visibili (le nove sfere celesti), dalle cose incorporee e invisibili (che si trovano nella sfera dell’Empireo), il mondo visibile dal mondo invisibile. Una terza cesura cosmologica, alla quale non siamo ancora arrivati e che Dante 107 può attraversare (in quel

momento la sua visione si spezza — «la mia mente fu percossa da un fulgore»®”), separa le cose create dalle cose increate, cioè Dio-Creatore da tutta ]a Creazione.

Tutto questo va bene parole. Quando invece mo nella difficoltà che zione di Michelangelo rappresentato nel suo

finché rimaniamo al livello delle vogliamo visualizzarlo, incappiaimbruttisce anche la rappresentaCactani. Osserviamo ciò che è disegno dopo il Cielo cristallino.

Appare un’emisfera, simile a un paniere di vimini, atta a

rappresentare la rosa bianca, la rosa mistica, la dimora di tutti gli eletti, che Dante chiama «la candida rosa», e che sorregge una distribuzione orizzontale di cerchi o sfere omocentriche — le nove Gerarchie angeliche, che ruota-

no sempre più velocemente verso il loro centro di “gravità”: il punto ineffabile, Dio. Osserviamo che, nella visione di Cactani, l’Empireo è una sorta di escrescenza asim-

metrica, goffamente aggiunta al corpo simmetrico e bello 4 Paradiso, XXVII, 99.

65 Paradiso, XXXIII, 140-141. 60

Gli occhi di Beatrice

del cosmo greco. Il mondo visibile, come ben vediamo

anche nell’illustrazione di Cactani, è simmetrico e bello,

autenticamente greco — ricordiamo le parole di Platone

alla fine del Timeo: l’universo è un animale visibile, un

dio percepibile, impareggiabilmente grande, buono e bello. Invece il mondo invisibile, il mondo propriamente cristiano, sembra una concrescenza maldestra, asim-

metrica, poco chiara, posticcia del mondo visibile dei greci. Se così fosse, il cristianesimo, geometricamente parlando, non varrebbe granché! Inoltre, il poco rigore e lo scarso credito concesso alle indicazioni di Dante sulla relazione fra il mondo visibile e quello invisibile induce a contraddirsi reciprocamente co-

loro che pure praticano lo stesso tipo di rappresentazione.

In Cactani, per esempio, osserviamo che le Gerarchie angeliche si trovano sopra la rosa mistica. Perché? Nell’illu-

strazione di Hans Leisegang, che vediamo nella pagina se-

guente, contenuta in un libro peraltro notevole dedicato all’immagine del mondo di Dante, le Gerarchie angeliche stanno invece sotto detta rosa. È con questo modo di rappresentare il mondo di Dante che intendo polemizzare qui. Questo zon è il vero mondo di Dante. Prima di argomentare la mia opposizione a questo modo di raffigurare l’intero cosmo dantesco, voglio però fare una rapida osservazione sulla “forma”, sul “volto” dell’Empireo e sulla candida rosa. Vi domanderete: da dove mai è sorta?

Nella Divina Commedtia, l’Empireo è visto da Dante in due modi. La prima volta che lo vede, Dante si trova nel Cielo cristallino, nel bilico del mondo (la seconda cesura 66 Platone, Timeo, 92c. 61

Horia-Roman Patapievici

Hans Leisegang, Dante und das christliche Weltbild, p. 15.

cosmologica): da una parte, in basso, c’è il mondo visibi-

le; dall’altra, in alto, il mondo invisibile — in basso c’è il

sistema planetario geocentrico (in realtà “diavolocentri-

co”, perché nel centro della Terra vi è Lucifero); in alto, il sistema angelico, teocentrico. Questo avviene nei canti

XXVII e XXVIII del Paradiso. La seconda descrizione dell’Empireo è fatta da Dante nel XxX canto e ha il volto del62

Gli occhi di Beatrice

la Rosa divina. La candida rosa — il Paradiso in forma di rosa bianca, la rosa della redenzione, la Rosa dei beati — è composta di una miriade di petali, che in una parte rap-

presentano tutti gli eletti che hanno creduto nel Cristo prossimo a venire, cioè prima del suo avvento sulla Ter-

ra: questi posti sono tutti occupati, come è normale, dato che il passato è chiuso. Nell’altra parte si trovano invece i posti degli eletti che hanno creduto a Cristo già venuto, cioè dopo il suo avvento; ovviamente, qui ci sono anche

dei posti liberi, dato che il futuro è aperto. Dante arriva a vedere la candida rosa solo dopo che i

suoi occhi si abbeverano in senso proprio della sostanza

dell’Empireo, il quale gli si presenta sotto forma di un fiume incandescente di luce chiara, dalle «rive dipinte di mirabil primavera».°” Se leggiamo attentamente, osserviamo che Dante ha due modi alternativi di visualizzare l’Empireo, in funzione delle capacità percettive proprie

della sua natura. Su un certo gradino, Dante percepisce l’Empireo come un sistema teocentrico formato di nove

cerchi omocentrici (i cori angelici) — è questa, per così di-

re, la rappresentazione cosmologica dell’Empireo.8 Man

mano però che penetra nell’Empireo, questo genere di visione si dilegua, così come si dilegua e si spegne la luce

delle stelle in cielo allorquando spunta l’alba. L’analogia è dello stesso Dante.° Poi il poeta comincia a vedere diversamente la stessa cosa. Vede la fiumana di faville vive,

la sostanza

stessa del Paradiso,

e quando

Beatrice lo

esorta ad abbeverarsene con gli occhi, la natura di Dante 67 Paradiso, XXX, 61-128. 68 Paradiso, XXVIII, 22-129. 6 Paradiso, XxX, 1-13.

63

Horia-Roman Patapievici

“trasumana”, oltrepassando le possibilità percettive dell’uomo comune, così come lo conosciamo noi.7° In que-

sto momento, trasformato così internamente, trasuma-

nato, Dante vede tutto l’Empireo nella forma della Rosa divina, vale a dire la prima schiera, quella dei beati disposti a formare una rosa dai moltissimi petali, e la seconda

schiera, quella degli angeli, che volano incessantemente tra i beati e Dio, come le api dai fiori all’alveare. Questa

è, per così dire, la rappresentazione mistica dell’Empireo

(il termine non appartiene a Dante).7!

L'Empireo, come d’altronde l’intera realtà, ha il volto

che ciascuno si merita di vedere! Fintanto che i nostri sensi sono normali, vediamo la geometria rigorosamente simmetrica dei due sistemi, visibile e invisibile, centrati uno sulla Terra, l’altro su Dio, in bilico sul confine fra il Cielo cristallino e l’Empireo (rappresentazione cosmolo-

gica). Ma non appena i nostri sensi sono “trasumanati” e

i nostri occhi si sono abbeverati della sostanza stessa del Paradiso, cominciamo a vedere la meraviglia della candida rosa — il volto della redenzione, la Rosa divina (la rap-

presentazione mistica).

Ora guardiamo di nuovo l’illustrazione di Michelange-

lo Cactani. Ho insistito su queste immagini perché ci divengano familiari e perché possiamo “entrare” meglio nella loro logica: chissà che i nostri occhi non siano, a loro volta, un po’ “trasumanati”! Ora capiremo, credo, che rispetto alla bellezza concettuale della costruzione di Dante il volto dell’Empireo immaginato da Cactani è semplicemente indegno, maldestro, inadeguato. La mia —



_



_

-

-

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_

’° «Trasumanar significar per verba non si poria» (Paradiso, I,

70-71).

’l Paradiso, XXXI, 1-24. 64

Gli occhi di Beatrice

obiezione potrebbe essere formulata così: rappresentata in questo modo, come vediamo in Cactani, non esiste un’unità geometrica del mondo di Dante. E ciò, nonostante 1l fatto che le descrizioni di Dante siano formidabilmente concrete e geometriche, formidabilmente visive, precise in quanto immagini e immaginifiche.”? La rappresentazione realizzata da Cactani non è un mondo possibile. Immaginiamoci una sfera enorme che contenga all’interno altre nove sfere e da qualche parte, come una piccola corona, il mondo invisibile di Dio. Non funziona! Non dico questo per screditare Cactani, per il quale nutro anzi una grande, complice ammirazione, ma per suggerire quanto sia difficile immaginare una rappresentazione geometrica coerente a voler prendere sul serio Dante, in senso letterale, ossia parola per parola, e nello stesso tempo anche in modo integralmente visivo, cioè immagine per immagine. Di fronte a tale complessità concettuale, mi sembra che non abbiamo a disposizione rappresentazioni geometriche soddisfacenti. Cactani e Leisegang non sono stati i soli a rappresentare

il cosmo di Dante in questo modo. Così, infatti, pensano e immaginano correntemente gli illustratori di Dante. Per dimostrare questa mia affermazione, ho scelto un’altra rappresentazione del mondo di Dante molto più recente, del 1967, proveniente da un’edizione commentata della 72 Si veda H. Corbin, “Mundus imaginalis” ou l’imaginaire et l’imaginal, in “Cahiers internationaux de symbolisme”, 6, 1964, pp. 3-26; il bilancio teorico di questa posizione è stato realizzato nel saggio Pozur une charte de l’Imaginal, pubblicato come prefazione alla seconda edizione di Corps spirituels et terre céleste, de l’Iran mazdéen è l’Iran sbiite, Buchet-Chastel, Paris 1979, pp. 79, trad. it. Corpo spirituale e terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi, Milano 2002. 65

Horia-Roman Patapievici

ROSA @BEATI O

_/

O

Dante Alighieri, La Divina Commedia, a c. di G. Giacalone, Angelo Signorelli Editore, Roma 1967, Paradiso, p. 2.

Gli occhi di Beatrice

Divina Commedia che, fino al 1987 (anno al quale risale la mia copia), aveva conosciuto diciassette edizioni.” L’autore di questo schema è Giuseppe Giacalone, il quale, così come veniamo a sapere nell’avvertenza alla sua edizione, ha tenuto conto, nel suo commento, dei più

recenti contributi all’esegesi dantesca. Ora, questo genere di imago mundi risulterà familiare al lettore. Nel centro del mondo si vede la Terra e, abbastanza chiaramente rappresentato, il percorso di Dante: “avvolto” a sinistra quando scende nell’Inferno, “svolto” a destra quando

sale nel Purgatorio e, infine, libero, in alto, attraverso le sfere celesti. Attento e didattico, il nostro commentatore

ha annotato tra parentesi, in corrispondenza di ogni cielo, il nome del coro angelico corrispettivo. Come in Michelangelo Cactani, anche qui l’Empireo è eccentrico,

isolato, “spaesato” — non plausibile dal punto di vista visivo. Una coroncina da laureato compunto sullo zuccone

del mondo... Tiene conto una tale rappresentazione del testo di Dan-

te? Sicuramente no.

Ritorniamo allora al testo di Dante. Ciò che cercherò di analizzare qui di seguito si riferisce alla rappresentazione cosmologica dell’Empireo — mi riferisco a una sua comprensione geometrica, sperando così di rendere giustizia alla profonda simmetria dell’intera Creazione, violentata, come abbiamo visto, dalle rappresentazioni standard

del mondo di Dante. Per questo bisogna ritornare nel Nono cielo, cioè al canto XxVII del Paradiso. Ci interessa-

no qui solo i dettagli cosmologici e, per questo motivo, tralasceremo del tutto il significato morale della feroce ’3 La Divina Commedia, a c. di G. Giacalone, Angelo Signorelli

Editore, Roma 1967, p. 2.

67

Horia-Roman Patapievici

invettiva pronunciata proprio qui da san Pietro contro la

degradazione della Chiesa, prima che Dante e Beatrice escano dal mondo visibile e corporeo e s’innalzino verso l’Empireo. Siamo ancora nell’Ottavo cielo, dove, come

abbiamo già visto, si celebra il trionfo di Cristo e della

Chiesa. Ricordiamo che cosa avviene nel canto XXxIII, quando Dante penetra in questo cielo. Cristo gli appare

in forma di sole che illumina uno sciame di luci, il quale rappresenta i beati tutti, che lo circondano. Questa è la messe raccolta dal Redentore attraverso le otto sfere già percorse da Dante e Beatrice. Ebbene, dopo che, nel

canto XXVII, san Pietro inveisce, come ricordavo, contro i

papi che hanno usurpato il suo posto, lo sciame di luci sale vertiginosamente verso l’Empireo, riempiendo l’Ottavo cielo di una luce diffusa che Dante paragona a una

nevicata al rovescio — le luci nevicano verso l’alto, verso

l’Empireo.’1 Osserviamo ancora una volta la presenza delle metafore di inversione. Lo sguardo di Dante non può ancora andare oltre la materia di questo cielo: guardando le luci che fioccano verso l’Empireo, Dante non vede più di quanto vede ogni mortale che guardi in alto, nel cielo, quando nevica. È come una luce opaca. Per il momento. A questo punto, Beatrice consiglia a Dante di guardare in basso. Segue una sorta di ripasso dei cieli già attraversati. Il suo sguardo può penetrare nel mondo materiale fino al punto stesso della sua partenza, nonostante

la formidabile distanza, cosa che invece non era avvenuta

quando aveva tentato di guardare in alto, verso l’Empireo. Ciò che vede sulla Terra che gli permette di vedere, dal punto in cui ce del giorno (ossia lo spazio che separa lo ’4 Paradiso, XXVII, 67-75. 68

direttamente è quel tanto si trova, la lustretto di Gi-

Gli occhi di Beatrice

bilterra dalla sponda dell’odierno Libano, la Fenicia dell’antichità). Dopo aver passato in rassegna i cieli corporei e visibili, guardando in basso, Dante dirige il proprio sguardo verso gli occhi di Beatrice e, così ancorato allo sguardo di lei, lui può ascendere al Nono cielo, più veloce di tutti i precedenti. Però qualcosa di strano è avvenuto! Quando ha lasciato l’Ottavo cielo, Dante si trovava in un punto preciso, ben determinato, dello spazio: si trovava nella costellazione dei Gemelli, nel «bel nido di Leda», come lui stesso specifica. Arrivando nel Nono cielo, Dante scopre però di non avere più nessun punto di riferimento spaziale per orientarsi: tutto intorno è così uniforme e trasparente, che ha la sensazione di poter essere oguidove.”° Egli penetra infatti in un luogo che si trova effettivamente “ognidove”, perché, come gli spiega Beatrice, il luogo dove si trovano ora non è più veramente un luogo dello spazio, ma

un luogo della «mente divina».”°

È una rappresentazione paradossale che però va presa alla lettera, e ciò per due motivi: anzitutto perché così la descrive Dante, e l’autore è sovrano del suo testo; in secondo luogo, perché queste rappresentazioni derivano dai vincoli imposti alla cosmologia antica dalla teologia cristiana, e l’originalità della cosmologia di Dante sorge

da questa fonte.

Beatrice dice inoltre, del Nono cielo, che esso comprende, in un cerchio, luce e amore, così come comprende dentro di sé e muove tutte le precedenti otto sfere. E quando diciamo che le muove, dobbiamo intendere che le muove nel tempo, dato che, secondo Aristotele — al 5 Paradiso, XXVII, 98-102.

76 Paradiso, XXVII, 109-111. 69

Horia-Roman Patapievici

quale Dante si ispira ampiamente—, il tempo è la misura del movimento dal prima al dopo, dall’anteriore all’ulteriore:’7 ma se l’origine del movimento si trova nel Nono

cielo, questo significa che anche l’origine del tempo si

trova qui, nel Nono cielo. O, come ci dice Dante con una

bellissima metafora, le radici del tempo sono nel Nono cielo, mentre le foglie sono sparse in tutti gli altri otto cieli.’8 È l’immagine di un albero capovolto, se visto dalla Terra, e diritto, se visto dall’Empireo. Ancora una volta, viene istituita un’inversione.

È importante capire che quando Dante passa di là da questo cielo, egli passa anche di là dal tempo, oltrepassa le sue condizioni di esistenza. Si decondiziona temporalmente. Ricordiamolo: nel momento in cui era passato nella sfera della Luna, si era lasciato dietro il tempo creatore e distruttore, che genera e insieme distrugge, il tempo che domina il mondo sublunare; ora che passa oltre il Cielo cristallino, Dante si lascia dietro anche il Tempo dell’eternità, il tempo che conserva e mantiene, che ca-

ratterizza i corpi celesti visibili. Insieme alla fonte del tempo, ora si lascia dietro anche il tempo tout court. In questo passo del XXVII canto veniamo a sapere un’altra cosa importante. Così come la misura di tutti i moti delle otto sfere mobili, composte dalla materia sottile dei cieli visibili, è scandita dal movimento del più veloce dei cieli, il Nono, la misura del movimento di questo cielo è scandita dall’Empireo, che lo comprende.” Il principio è semplice: il contenitore dà senso, misura e 77 Artistotele, Fisica, IV, 11, 219b; si veda anche De coelo, I, 9, 219b, 279a.

78 Paradiso, XXVII, 118-120,. ” Paradiso, XXVII, 106-114.,

70

Gli occhi di Beatrice

proporzione al contenuto. L’ultimo cielo visibile con l’aiuto della luce materiale dà senso, misura e proportzione a tutti i cieli materiali compresi in esso; ed esso stesso acquista senso, misura e proporzione dal cielo che lo contiene, cioè dall’Empireo. Di conseguenza, Dante afferma inequivocabilmente che l’Empireo contiene in sé, come una sfera onnicomprensiva, tutti gli altri nove cieli. L’idea che l’Empireo si presentasse come una coroncina messa in capo agli altri nove cerchi è dunque contraddetta dal testo stesso ed è da considerarsi semplicemente sbagliata. Contemporaneamente, ci troviamo di fronte a una prima aporia. Dante dice che l’Empireo contiene in sé tutte le altre sfere celesti.8° D’altra parte, un po’ più avanti, veniamo a sapere che Dio sarebbe, nella visione molto concreta del poeta, il centro geometrico dell’Empireo. E, questa, un’aporia geometrica o teologica? Teologica-

mente, avremmo l’affermazione che Dio è sia centro as-

soluto sia contenitore assoluto di tutta la Creazione. Geometricamente,

saremmo

costretti a chiederci che

forma geometrica abbia la figura che è contemporaneamente centro e circonferenza. Per il momento, non tentiamo di rispondere a questa domanda. Andiamo avanti. Entriamo nelle prime terzine del XXVIII canto, cruciale dal punto di vista geometrico per la cosmologia dantesca. Ecco la successione di immagini con cui si apre il canto. Dante guarda, come al solito, negli occhi di Beatrice. Si sospende a essi, vi si ancora. E come colui che vede in uno specchio la luce di un cero che gli sta dietro, così Dante vede, riflesse negli occhi di Beatrice, le 50 Paradiso, XXVII, 112-114. 71

Horia-Roman Patapievici

luci dell’Empireo. In altre parole, è negli occhi di Beatrice, come in uno specchio, che Dante vede per la prima volta una realtà che può contemplare direttamente, con i propri occhi, solo se si volta, se vi si rivolge con tutto il corpo. I primi tredici versi di questo canto abbondano di immagini e di gesti di inversione, di rivoltamento e di rispecchiamento. Perché? Perché qualcosa succede a Dante, e a noi, quando deve passare dal Cielo cristallino, l’ultimo visibile ai nostri sensi, all’Empireo, la prima zona del cosmo completamente inaccessibile alla nostra percezione. Dante lo dice nella prima terzina del canto: perché lui possa continuare a ricevere la verità verso cui tende, la sua mente deve compenetrarsi di Paradiso; più precisamente, per usare un vocabolo coniato dal poeta stesso, deve #mparadisarsi.8! Ciò significa che le metafore di inversione tramite cui egli descrive il suo primo contatto diretto con il mondo dell’Empireo sono tecnicamente ed epistemologicamente

rigorose. Al Paradiso l’uomo non può giungere se non attraverso

un’inversione,

un

rivoltamento

della

sua

mente. Il procedimento è identico a quello descritto da Platone nella Repaubblica, in particolare nel passo in cui il filosofo definisce la vera conoscenza come il risultato della capacità dell’uomo di pensare in modo divino. A questo

tipo di conoscenza, dice Platone, l’uomo ha accesso se

“fa girare” l’«organo con cui ciascuno apprende»,®2 l’organo della conoscenza, operazione nella quale tutta la sua anima si volge, proprio come in Dante, dal mondo

del divenire verso lo splendore compiuto di ciò che, dav81 Paradiso, XXVIII, 3. 82 Platone, Repubblica, VII, 518c; vedi anche 521c, 526e, 527b. 72

Gli occhi di Beatrice

vero e compiutamente, è. Per Platone l’uomo non può

andare verso la verità che ri-voltando, ri-volgendo verso

l’alto le sue facoltà spirituali, le quali, di solito, sono ri-

volte verso il basso. Ebbene, ora che la mente di Dante è avviata all’mpara-

disamento, e la nostra alla trasumanazione, è venuto il

momento di domandarci: che cosa vede Dante nell’Empireo? Per dirla in breve, Dante vede una successione concentrica di nove cerchi luminosi, che corrispondono ai nove cori angelici descritti da Dionigi Areopagita. I cori angelici ruotano intorno a un punto estremamente

luminoso, che è Dio. Come gli spiega Beatrice, essi girano a una velocità sempre più alta a misura che si avanza dalla periferia dell’Empireo verso il suo centro. E esatta-

mente il contrario di quanto avviene con le sfere del

mondo visibile: ]là, quanto più ci si allontanava dal centro del mondo materiale, ossia dalla Terra, e ci si avvicinava

a] Cielo cristallino, tanto più la velocità aumentava. D’altra parte,

all’improvviso veniamo

a sapere che

l’Empireo, cioè il mondo invisibile e incorporeo, ha una struttura di cerchi concentrici comparabile, in quanto a configurazione geometrica, alla struttura degli altri nove cerchi che compongono il mondo visibile e corporeo. Questa corrispondenza di configurazione viene però invertita, e ciò da due punti di vista. In primo luogo, dal punto di vista del centro: benché Beatrice ci abbia comunicato che l’Empireo avvolge tutto il mondo visibile, la visione diretta di Dante ci dice in-

fatti che l’Empireo ha un altro centro geometrico rispet-

to a quello del mondo visibile. Questo fatto, cui si ag-

giunge il principio della simmetria, suggerisce che le due sfere, quella del mondo visibile e quella del mondo invi-

sibile, abbiano il centro situato simmetricamente, ossia 73

Horia-Roman Patapievici

in modo speculare, rispetto all’ultima superficie, esterna,

del Nono cielo, laddove la “concavità” del visibile passa nella “convessità” dell’invisibile — si tratta però di una formulazione puramente metaforica. La corrispondenza fra i mondi separati dalla seconda cesura cosmologica è invertita anche dal punto di vista cinetico: al cerchio maggiore del mondo visibile corri-

sponde la maggiore velocità di rotazione, mentre nel

mondo invisibile la velocità maggiore corrisponde al cerchio minore. Inoltre, Beatrice ci fa sapere che ogni coro angelico del mondo invisibile “gestisce” — scusate il termine — una determinata sfera celeste del mondo visibile più precisamente, in modo inverso al loro ordine geometrico: il coro più vicino al centro del mondo invi-

sibile gestisce dunque la sfera più lontana dal centro del

mondo visibile. L’ordine della gestione è dato dall’ordine del movimento. Così le “dimensioni” del mondo visibile sono le dimensioni capovolte del mondo invisibile. Altro fattore imbarazzante per l’unità di tale cosmo: il mondo visibile è diavolocentrico, mentre il mondo in-

visibile è teocentrico. L’uno, secondo il principio dell’inversione dantesco, non può che essere l’inverso dell’altro. Ricapitoliamo, per maggiore chiarezza. Osserviamo il

disegno della pagina a fianco, da me eseguito. Per realiz-

zarlo, sono partito da un’immagine del mondo già commentata in precedenza, quella tratta dal Catalogus gloriae mundi di Barthélemy Chasseneux, modificandola in base alla lettura di Dante appena proposta. Ciò che vediamo

non è un’immagine medievale del mondo, ma la modifi-

cazione di un documento medievale secondo la mia in-

terpretazione di Dante.

Descriviamo a parole quest’immagine: nel passaggio 74

Gli occhi di Beatrice

dal Nono cielo all’Empireo si procede da un sistema di

sfere concentriche visibili e corporee, con al centro la Terra, a un altro sistema di sfere concentriche, invisibili e

incorporee, con al centro Dio. Si passa inoltre dalla velocità massima, quella della massima sfera del mondo visibile e corporeo, alla velocità minima, quella della massima sfera del mondo invisibile e incorporeo. Se il sistema visibile aveva nel proprio centro l’elemento più pesante, più inerte e inanimato, il sistema invisibile ha nel proprio centro l’ente più veloce e animato, la fonte stessa della luce. Il sistema visibile è geocentrico e materiale, il sistema invisibile è divinocentrico e spirituale. In questo modo, tutte le categorie cambiano segno. Quando si passa dal visibile all’invisibile, tutto si capovolge, eccet-

to una cosa: la direzione verso l’alto, il “su”, parallelamente alla velocità delle sfere, che, a cominciare dall’orbita della Luna, continua ad aumentare fino all’orbita dei Serafini. Alla Terra, nello schema del mondo visibile, 72

Horia-Roman Patapievici

corrisponde Dio, nello schema del mondo invisibile. Come si esprime Dante proprio all’inizio del XXVIII canto, il passaggio avviene «come in lo specchio». Ora, l’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che

è invertita. Qui, invece, le “dimensioni” sono invertite

perché il cerchio maggiore del visibile è gestito dal cerchio minore dell’invisibile. È le stesse dimensioni “corporee” (dato che nell’Empireo non ci sono più sostanze

corporee) virtù.

sono sostituite, nel mondo

invisibile, dalle

Se così è, ne segue che, dato che le orbite dei pianeti sono mosse dagli angeli (le intelligenze separate dei gre-

ci e degli arabi), il loro movimento non avviene per contactus corporis (come credeva, per esempio, Avicenna), ma

per

contactus

virtutis,

come

sosteneva

Tommaso

d’Aquino.® Le Gerarchie angeliche superiori animano le sfere planetarie anch’esse superiori, mentre le Gerarchie angeliche periferiche muovono le sfere più vicine alla Terra. Il coro angelico più “lontano” da Dio (ovviamente non dal punto di vista dello spazio, che lì non esiste, ma dal punto di vista dell’ardore) è il più “vicino” all’uomo, perché gli angeli sono responsabili del movimento della Luna. La loro “velocità” nel mondo invisi-

bile è infima, così come infima è anche la velocità della

Luna nel mondo visibile. Il mondo visibile si presenta come un vortice dai margini veloci e dai movimenti sempre più lenti a misura che

ci avviciniamo al centro (la Terra), mentre il mondo invi-

sibile si presenta come un vortice dai margini lenti e movimenti sempre più rapidi a misura che ci avviciniamo al centro (Dio).

88 P, Duhem, Le Système du monde, cit., vol. VI, p. 59. 76

Gli occhi di Beatrice

Di fronte a questa simmetria speculare, con la corri-

spondenza invertita Terra (ossia Diavolo)-Dio, si direbbe

che lo schema rovesciato del pireo sarebbe modo tale che

del mondo invisibile sia una sorta di calco mondo visibile, preso dall’interno. L’Emil guanto del mondo materiale rivoltato, in il “dentro” divenga il “fuori”. Se così fos-

se, allora anche l’alto dovrebbe diventare il basso. Ma co-

sì non è. L’intera tradizione antica e medievale afferma che ciò che è superiore sta sempre in alto, e il “su” non ha un valore relativo. Dante non può fare a meno di con-

fermare questa tradizione: di Dio veniamo a sapere che

attira «di su» le Gerarchie angeliche, che “levitano” intorno a Lui, mentre queste attirano Dio «di giù».8 Ci troviamo dunque di fronte alla seguente situazione: benché nell’attraversamento della seconda cesura cosmologica il centro del mondo subisca un’inversione (come

nello specchio), la direzione “alto-basso” rimane immu-

tata. Ora, è chiaro che un tale sistema non può essere visualizzato. Come potrei rappresentare geometricamente, e in modo

unitario, il fatto che la sfera di destra contiene quella di sinistra? Riconosciamo qui un'’illustrazione geometrica del paradosso della divinità che è centro e nello stesso tempo anche circonferenza del mondo. L'’universo dev’essere uno, anche se ha due parti, una corporea e visibile, e un’al-

tra invisibile e incorporea. Come possiamo fare affinché le due formino un’unica figura? Come rappresentare geometricamente l’affermazione

di Dante secondo la quale il Cielo cristallino si trova nel-

la mente divina? Più concretamente, che qualsiasi ogget84 Paradiso, XXVIII, 126-129. 77

Horia-Roman Patapievici

to che si trovi in quel cielo si trova in effetti in qualsiasi posto, cioè dappertutto? Geometricamente è come se dicessimo che la sfera dell’Empireo è tangente alla sfera del Cielo cristallino in tutti i suoi punti contemporaneamente. Nella figurazione piana ho rappresentato, per comodità, le due facce del mondo tangenti in un solo punto. Nella figurazione spaziale, ho indicato che il Primo Mobile è comune alle due sfere. Immaginiamo, dunque, che questa figura formata da due sfere — che, non dimentichiamolo, intende rappresentare in modo unitario il mondo di Dante, che è appunto unitario — debba soddisfare simultaneamente più condizioni: 1) il mondo deve avere un solo centro, quello in cui si trova il suo Creatore; 2) la sfera di destra deve contenere la sfera di sinistra,

in altre parole l’Empireo deve essere tangente in tutti i punti della sua superficie al Cielo cristallino; 3) partendo da qualunque punto del mondo e mantenendo invariata la direzione, si dovrebbe arrivare nello stesso punto. La domanda è questa: esiste una soluzione geometrica unitaria che soddisfi contemporaneamente tutte queste condizioni? Tutto ciò che possiamo dire per ora è che, per essere unitario, l’universo descritto da Dante non può essere euclideo. Gli esegeti di Dante hanno evitato di risolvere la questione, accontentandosi dell’affermazione che le rappresentazioni visive proposte da Dante sono estatiche, extrasensoriali, simboliche — e via di seguito. Ne è risultata la ridicola immagine, già analizzata, dell’Empireocoroncina.

Ebbene, esiste una soluzione geometrica visiva del mondo descritto da Dante. Essa è stata presentata per la 78

Gli occhi di Beatrice

STELLE, SOLE, LUNA E PIANETI

GERARCHIE ANGELICHE \

PRIMO MOBILE "

L’UNIVERSO VISIBILE

L’EMPIREO

prima volta in modo coerente nel 1854 dal matematico Bernhard Riemann, nel suo celebre lavoro Ùber die Hy-

pothesen die der Geometrie zu Grunde liegen (Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria). Non posso dilungarmi qui sull’argomentazione della tesi di Riemann.® Basterà dire che Riemann ci ha aiutato a comprendere come ci rappresenteremmo il mondo se lo spazio non fosse piano, cioè euclideo, bensì sferico. E l’idea dello spazio sferico ci permette di visualizzare in modo unitario, e geometricamente consistente, il mondo diviso risultato dalle descrizioni di Dante. La nostra affermazione forte è proprio questa: il mondo di Dante non è euclideo. Di che cosa si tratta, dunque? Immaginiamo di vivere in un mondo della forma di 5 D. Laugwitz, Bernbard Riemann, 1826-1866: turning points

in the conception of mathematics, Birkhauser, Basel 1999, pp.

219-292.

79

Horia-Roman Patapievici

una piccola palla. Questo significherebbe che lo spazio

sarebbe curvo. Ora, supponiamo che, in un tale mondo, io tenda il braccio davanti a me. Se la sfera del no-

stro mondo fosse molto piccola, sapete che cosa succederebbe? Che la mia mano toccherebbe la mia nuca. Infatti, in un universo sferico di dimensioni sufficientemente ridotte, dotato di una curvatura sufficientemen-

te accentuata, per grattarmi la nuca dovrei tendere il

braccio in avanti. Questa è la buona notizia. La cattiva notizia è che, in un tale mondo, di fronte a me si trove-

rebbe immancabilmente un tizio maleducato che mi volgerebbe continuamente le spalle — e questo tizio sarel 10 stesso!

Però succede anche un’altra cosa, indipendentemente dal fatto che lo spazio sia sferico o meno. Quello che io vedo quando guardo di fronte a me non è una situazione contemporanea a me, ma una situazione avvenuta nel passato: se lo spazio fosse sufficientemente curvo, io vedrei, diciamo, la mia nuca di stamattina, e non la mia nu-

ca di adesso. Guardando il cielo stellato sopra di noi, noi non vediamo il presente, ma il passato della situazione stellare che stiamo guardando: qualsiasi sguardo nella

profondità del cielo è in realtà uno sguardo nel passato, e

per essere più precisi, quanto più lontano guardiamo nello spazio, tanto più lontano penetriamo nel passato, cioè tanto più vicino alle origini del tempo. A rigor di logica, il limite di visibilità del cielo dovrebbe essere l’origine dell’universo. Questa affermazione,

corretta secondo la cosmologia moderna, ci ricorda im-

mediatamente la descrizione fatta da Dante del mondo da lui visto nella sua ascesa. Dante si dirige infatti costantemente verso Dio, cioè verso la fonte e l’origine del mondo: una delle possibili descrizioni del mondo che 80

Gli occhi di Beatrice

Dante ci presenta, e che, sono sicuro, lui stesso sottoscriverebbe, è quella in cui la Terra rappresenta il centro di

un’enorme sfera piena, la cui circonferenza rappresenta l’origine del tempo e dello spazio — ossia Dio, una singo-

larità matematica nella teoria che descriverebbe questo

processo. Per la fisica moderna Dio non è più un’ipotesi esplicativa del mondo, però l’idea che l’universo sia un’enorme sfera piena, la cui circonferenza è la singolarità dell’origine dello spazio e del tempo, è una formulazione scientifica perfettamente intelligibile, anzi una delle descrizioni scientifiche valide della forma del nostro universo. Più precisamente, è la soluzione delle equazioni della relatività generale di Finstein: un’ipersfera, vale a dire una sfera a quattro dimensioni, una sfera la cui superficie sarebbe uno spazio tridimensionale. Nella descrizione di Einstein, l’universo è un’ipersfera. Ebbene, la stessa cosa si può dire dell’universo descritto da Dante. Tale universo è un’ipersfera. Eccone la dimostrazione.

Vediamo, anzitutto, come gli studiosi si rappresentano un’ipersfera. Esistono più procedimenti, ma io mi riferirò qui solo a due di essi, perché solo questi due sono presenti nella Divina Commedia, nei canti XXVII e XXVIII del Paradiso. Il primo si basa su una costruzione conosciuta con il nome di “accostamento dei coni”.3° Îl problema che intende risolvere questo procedimento è quello di visualizzare figure geometriche a più dimensioni (diciamo tre) partendo da figure dello stesso tipo ma con meno

dimensioni (diciamo due). Partiamo dal

cerchio per costruire la sfera. La costruzione è sempli-

86 M.A. Peterson, Dante and the 3-sphere, in “American Journal of Physics”, 47 (12), dicembre 1979, pp. 1031-1035. 81

Horia-Roman Patapievici

ce. Prendo un cerchio. Disegno un punto all’esterno del cerchio e unisco poi tutti i punti della circonferenza a questo punto. Ottengo, ovviamente un cono, diritto, obliquo — poco importa. Partendo poi dallo stesso cerchio, eseguo nuovamente la costruzione in modo simmetrico, ma dall’altra parte del cerchio. Infine, accosto i due coni così risultanti lungo la circonferenza del nostro cerchio. Il risultato, topologicamente parlando, è una sfera. Con lo stesso procedimento, per ottenere un’ipersfe-

ra, dobbiamo partire da una sfera. Per maggior comodità, prendiamo il punto da qualche parte all’interno della sfera. La costruzione consiste nell’unire tutti i punti della superficie interna della sfera al punto prescelto: ne risulta una sfera piena. Facciamo la stessa cosa con un

altro punto e otteniamo un’altra sfera piena. Ora, secondo la ricetta dell’“accostamento dei coni”, l’ipersfera è, topologicamente parlando, la figura formata tramite l’accostamento delle due sfere piene in tutti i punti della superficie esterna. Che cosa si ottiene? Esattamente la figura del mondo di Dante, una figura che rispetta rigorosamente tautte le sue descrizioni — una figura formata dalle due sfere che, nel disegno da me eseguito, dovrebbero essere tangenti in tutti i punti della loro superficie, una delle sfere rappresentando la sfera dei no-

ve cieli visibili, l’altra la sfera dell’Empireo. Questa de87 E.A. Abbott, Flatland.

(1884),

Dover

Publications

A Romance of Many Dimensions

Inc.,

New

York

1992,

trad.

it.

Flatlandia, Adelphi, Milano 2004; I.P. Culianu, System and Hristory, in “Incognita”, I, 1, 1990, pp. 6-17; W. Egginton, On Dante, Hyperspheres, and the Curvature of tbe Medieval Cosmos,

cit., p. 196.

82

Gli occhi di Beatrice

scrizione del mondo di Dante si ritrova nel XXVIII canto del Paradiso. L’altro metodo per visualizzare un’ipersfera è il se-

guente. Immaginiamoci come degli esseri bidimensiona-

1187 e di abitare alla superficie di un brodo che qualcuno fosse intento a mangiare. Come vedo, in questo caso, il cucchiaio? Essendo bidimensionale, non posso sporgermi per vedere che qualcuno sta mangiando. Ciò che vedo io è che sulla superficie del brodo appare prima un punto, nel momento in cui il cucchiaio tocca il brodo, poi una linea curva che si allunga fino a raggiungere la larghezza massima del cucchiaio, poi l’intersezione del cucchiaio con la superficie del brodo che diminuisce fino a diventare di nuovo un punto — nel momento in cui il cucchiaio si stacca dalla superficie del brodo. Dopo, esso appare di nuovo un punto, e via di seguito, anche in senso inverso. Così vedrei io un cucchiaio se fossi bidimensionale e abitassi alla superficie di un brodo. Come vedrei però una sfera, se fossi un essere bidimensionale? La vedrei, ovviamente, come intersezione della rispetti-

va sfera con il piano in cui mi trovo io: all’inizio e alla fine dell’intersezione con il mio piano vedrei solo un punto; e vedrei un cerchio a raggio variabile che cresce fino alla dimensione del cerchio equatore della sfera e poi decresce, con le stesse tappe e proporzioni in cui era cresciuto. Come vedrei un’ipersfera, essendo io quello che sono,

cioè un essere tridimensionale? Dovrei intersecare l’ipersfera con il mondo tridimensionale in cui vivo, con lo spazio tridimensionale-euclideo. Come si presenterebbe questa cosa? Partiamo dall’equazione della sfera di raggio R: la somma dei quadrati delle tre dimensioni x, y, z dello spazio euclideo è uguale al quadrato del raggio (x? + y? + z2 = R2). 82

Horia-Roman Patapievici

Tramite una generalizzazione semplice, se introduco una nuova dimensione, w, otterrò l’equazione dell’ipersfera di raggio R: x° + y? +z? + w° = R. Per intersecare questa ipersfera, che non posso visualizzare, con il mio mondo tridi-

mensionale, che invece posso visualizzare, rendo una di queste quattro dimensioni un parametro fisso: la congelo. Sia questo parametro w = w,. L’equazione della figura che ho ottenuto intersecando l’ipersfera con il mio spazio tridimensionale ha l’equazione x? + y° + z? = R? — w,2?. Ora, questa è l’equazione di una sfera il cui raggio al quadrato è p? = R° — w,?. Dinamicamente, l’intersezione varia così: quando w,= +R, allora l’intersezione dell’ipersfera con il mio mondo è un punto; quando w, cresce da —R a 0, quello che vedo è una sfera il cui raggio cresce da 0 fino a +R; quando w, cresce da 0 a +R, quello che vedo è una sfera il cui raggio decresce da +R fino a 0. Ora, che cosa abbiamo qui? Rappresentiamoci il mondo descritto da Dante come una successione di sfere; il

parametro che nel nostro esempio era w, è, in Dante, la velocità di rivoluzione. Se prendiamo le sfere di Dante secondo l’ordine rigoroso della crescita delle loro velocità di rivoluzione, quello che otteniamo è una successione di sfere identica alla successione che abbiamo ottenuto tramite l’intersezione dell’ipersfera con il nostro spazio tridimensionale.5$ L’enorme ipersfera che è l’universo dantesco interseca il nostro mondo tridimensionale nella forma di una successione di sfere, a cominciare da quella della Luna, dotata del raggio minore e della velocità di rivoluzione minima, per arrivare alla sfera dei Serafini, cioè degli angeli più ardenti, che si trovano più “vicini” a Dio e che ruotano con la massima velocità. 88 M.A. Peterson, Dante and the 3-sphere, cit., p. 1033. 84

Gli occhi di Beatrice

Per quanto strano possa sembrare, quelli che Dante ci descrive con estrema minuzia sono due modi complementari di capire e di costruire la forma completa di quell’universo che chiamiamo dantesco ma che dovrebbe essere chiamato semplicemente l’universo cristiano.

Da una parte, Dante ha descritto come si presenta ciò che noi possiamo vedere della totalità dell’universo cristiano quando tale universo venga proiettato nello spazio tridimensionale, quello in cui ci muoviamo noi mortali: è proprio questa figura, ormai familiare, sviluppata in ordine alla grandezza delle sfere, prima crescenti, poi decrescenti, con il punto di inflessione nel passaggio dalle cose visibili alle cose invisibili (la seconda cesura cosmologica), aventi però la velocità di rivoluzione sempre crescente.

D’altra parte, Dante ha descritto esattamente come deve essere costruita la forma completa dell’universo cristiano, partendo dalle sue visualizzazioni parziali: le due sfere separate dalla seconda cesura cosmologica, fra il mondo visibile e il mondo invisibile. E la figura che compare a pagina 79 (o, in piano, a pagina 75), in cui il fatto che il Primo Mobile sia comune significa che le due sfere devono essere pensate come tangenti in ogni punto della loro superficie. La risposta alla domanda “com’era davvero il mondo di Dante?” è: un’ipersfera. Probabilmente, un’ipersfera simile al nostro mondo, anche se non pretendo che l’ipersfera di Dante fosse esattamente la stessa cosa rispetto alla soluzione delle equazioni di Einstein e nemmeno rigorosamente compatibile con la teoria del big bang. Vi invito solo a meditare su questa provocazione, e cioè che Dante, un uomo medievale, abbia potuto de89

Horia-Roman Patapievici

scrivere un’ipersfera quale soluzione al problema cosmologico derivante dal confronto tra la teoria cristiana e l’astronomia greca. Non sostengo affatto che Dante fosse in possesso delle teorie di Bernhard Riemann o che sapesse che stava parlando di un’ipersfera. Tutt’altro! Dante non sapeva che stava descrivendo un’ipersfera, ma nella sua onestà, nella

sua intelligenza e nella sua geniale capacità di visualizza-

re, quello che ha fatto, per il suo onore e per la nostra for-

tuna, è stato tenere conto sia dei vincoli teologici del cristianesimo (le cesure cosmologiche, gli attributi paradossali della divinità, il principio della simmetria della creazione, le inversioni nel cambiamento dei piani ecc.) sia dell’immagine dell’universo sferico imposta dall’astronomia matematica dei greci. Cosa che sfortunatamente i suoi illustratori, Michelangelo Cactani, Leisegang e altri “esperti studiosi” non sono riusciti a fare, perché hanno tenuto conto soltanto della forma del cosmo greco, ignorando sistematicamente le costrizioni dell’universo cristiano. L’originalità di Dante risiede proprio nell’essere riuscito a rispettare le costrizioni di entrambi gli approcci. Da una parte vi era l’universo così come l’avevano

pensato gli scienziati greci, dall’altra i moduli cosmologici ed epistemologici della vera ontologia, così come era stata pensata dai teologi cristiani. Tenendo conto di queste due costrizioni, non è possibile tuttavia avere un universo schizoide come quello immaginato dagli illustratori — per metà centrato sulla Terra, per metà centrato su Dio. Non funziona! In fondo, Dante dice chiaramente che l’Empireo contiene in realtà tutti gli altri cieli e che nel centro assoluto del mondo sta Dio, perché nel centro del mondo non può stare il Diavolo. Noi non viviamo in un mondo dia86

Gli occhi di Beatrice

volocentrico, ma in un mondo profondamente teocentri-

co. Îl mondo procede da Dio non solo per il fatto che, in

un dato momento, esso è stato creato da Lui, ma anche

perchè senza il suo continuo sostegno ogni forma di esistenza sprofonderebbe, in qualsiasi momento, nel Nulla.8? Se prendiamo in considerazione questi vincoli, approdiamo a una descrizione del mondo che è in realtà l’intersezione di un’ipersfera con lo spazio tridimensionale in cui viviamo noi uomini. Ciò significa che, spingendo fino alle ultime conseguenze le conoscenze che abbiamo noi oggi, scopriamo che l’universo cristiano medievale doveva essere un’ipersfera, avente al proprio centro assoluto l’origine della Creazione. Per concludere, voglio rendere omaggio a coloro che sono sia intelligenti sia onesti, perché Dante non era soltanto intelligente — se non addirittura geniale —: era anche straordinariamente onesto. Lui non “truccava le carte” affinché tutto tornasse. Sebbene non le capisse del tutto, egli teneva conto delle costrizioni nella cui certezza credeva razionalmente. Solo così ha potuto ottenere questo meraviglioso capolavoro che è il Paradiso. Mi sia concessa ancora un’ultima riflessione: Umberto

Eco ha affermato in un dato momento che l’eredità di Dante è alquanto strana, perché quasi tutti apprezzano senza riserve l’Inferno, moderatamente il Purgatorio, e quasi per niente il Paradiso — che è, di conseguenza, la cantica meno letta del capolavoro dantesco. E alla domanda sul perché sia così, Eco ha risposto con sagacia 89 R. Osserman, Poetry of the Universe, cit., pp. 89-91; W. Egginton, On Dante, Hyperspheres, and the Curvature of the

Medieval Cosmos, cit.

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Horia-Roman Patapievici

che noi viviamo in un mondo che ha conservato tutti i

codici dell’inferno — ciò che spiega perché possiamo percepire benissimo le emozioni dei mondi infernali — ma che ha perduto i codici del paradiso: non è più in grado di comprendere le emozioni paradisiache, ed è

per questa ragione che il Paradiso ci appare scarno, no-

ioso e sembra girare a vuoto. Valutazione del tutto falsa! Il Paradiso è in realtà la cantica più bella della Divina

Commedia. Beninteso, per riuscire a sentirlo occorre es-

sere in grado di provare le emozioni proprie delle aspirazioni paradisiache. Apprezzando solo la perfezione dell’Inferno, noi dimostriamo di possedere ancora soltanto una “sensitività” infernale. Infine, vorrei chiudere con un elogio al mondo medievale e a quello di Dante. Era un mondo che si trovava di fronte a un problema che noi moderni abbiamo eliminato. Gli uomini di allora si vedevano costretti a conciliare un’immagine scientifica del mondo, quella greca, pagana e materialista, con un’esigenza assoluta, che derivava dalla certezza della Rivelazione. Per l’uomo medievale esistevano tanto la Ragione quanto la Rivelazione, tanto il mondo dei sensi quanto Dio. Esisteva tanto la parte del mondo centrato sulla Terra quanto quella centrata su Dio, tanto il visibile quanto l’invisibile. Non era facile conciliare questi mondi, ma si viveva fino in fondo in questa tensione, e parte della straordinaria fertilità della cultura medievale deriva proprio dal fatto che gli uomini di quell’epoca sono riusciti a vivere con questa tensione a

un’altezza intellettuale che a noi, che abbiamo optato solo per la metà sinistra dell’immagine, sfugge quasi del tutto. Noi abbiamo scartato quasi completamente la metà destra del mondo, ed è per questo motivo che siamo capaci solo della creatività nel visibile e quasi completa88

mente privi della creatività dell’invisibile. Viviamo come amputati.

Stiamo in guardia! Da quando viviamo solo nel visibile, gli occhi di Beatrice si sono chiusi. A quali occhi potremo ormai ancorare il nostro sguardo? A che sguardo potremo mai aggrapparci?

89

AI lettore Sulle fonti di questo libro

Sono fin dal liceo un appassionato lettore di Dante. La traduzione di Eta Boeriu e 1 commenti di Alexandru Dutu e di Titus Pàrvulescu sono stati i miei primi compagni di viaggio nel mondo della Divina Commedia. Il personaggio Dante mi ha incuriosito e provocato in più modi. Mi ha incuriosito, innanzitutto, per la forza delle sue immagini, e ne ho trovato la spiegazione in Thomas Stearns Eliot. In secondo luogo, come osservava Montherlant, Dante è un eccellente maestro di disprezzo — per ciò che merita disprezzo — e un fidato istigatore al rispetto e all’ammirazione — per ciò che merita rispetto e ammirazione. Per tutto il resto, non ha la minima com-

piacenza. E, cosa che mi ha subito conquistato, non ammicca mai al grande pubblico. In lui non troverete mai l’umorismo quale alibi della vigliaccheria, sia essa morale o intellettuale. Dante dà prova di un’elevatezza morale

che mozza il fiato, ed eleva tutto al suo livello, che è altis-

simo. Îl modo in cui egli parla del mondo che descrive è simultaneamente un atto di valorizzazione e di condanna. Dante non è mai neutrale. E questo mi piace. Inoltre, mi ha incuriosito e provocato il suo cristianesimo, che si rimetteva alla Provvidenza e sferzava i papi e scherniva 91

Horia-Roman Patapievici

l’istituzione storica della Chiesa. È lui che mi ha insegnato a dissociare lo spirito dalla lettera. Tutto ciò e molto altro (come sarebbe la musicalità dei suoi significati) mi hanno spinto a diventare un lettore impenitente di Dante. All’inizio degli anni novanta, durante una delle mie consuete letture della Divina Commedia, mi sono reso

conto che le illustrazioni di Cactani relative ai canti XXVII e XXVIII erano completamente sbagliate. Quella è stata la molla. Come mia moglie sa, da quel momento sono stato colto da una febbre che mi ha tenuto sveglio per diverse notti, disegnando e ridisegnando, calcolando, costruen-

do e comparando i passi fra loro. Ho convocato i miei amici più fedeli, Dragos Marinescu per primo, e, una sera, per me storica, ho presentato loro i risultati ai quali ero arrivato: ero giunto a sapere com’era davvero il mondo di Dante. Allora non sapevo che si trattava di un’ipersfera, ma ero arrivato al modello paradossale che vi ho raccontato, secondo il quale le due sfere dovevano necessariamente essere tangenti in tutti i lJoro punti. Così, ho detto, doveva essere il mondo di Dante.

In seguito, ho cominciato a leggere vari studi sulla relatività generale. Poi il caso ha voluto che vincessi una borsa di studio di un mese presso la biblioteca del famoso Istituto Warburg di Londra che, se l’antisemitismo non fosse giunto al potere in Germania, sarebbe ancora ad Amburgo, città in cui Aby Warburg cominciò a metterla insieme. È una biblioteca formidabile, che non è ordina-

ta secondo l’unità delle singole discipline accademiche, ma come “a tastoni”, secondo la passione della libera ricerca e della scoperta casuale. Vi è, in essa, un intero scaffale dedicato alla cosmologia dantesca, vista da tutte le prospettive, inclusa quella dell’occultismo e della divinazione. Mi sono messo a leggere quei libri. Quello che 92

Gli occhi di Beatrice

vi ho trovato mi ha rattristato ma, contemporaneamente, anche rallegrato. Mi ha rattristato l’aver scoperto che, a quella data, tre autori erano già arrivati alla conclusione che credevo solo mia. Mi ha invece rallegrato trovarvi la conferma della mia scoperta e vedere che altri avevano capito meglio le cose che io volevo dimostrare.

Îl primo di questi autori è Mark Peterson, un matematico che nel 1979 ha pubblicato, sull’“American Journal

of Physics”, una relazione breve e concisa, come si addice a uno scienziato, intitolata Dante and the 3-sphere, nel-

la quale dimostra irrefutabilmente che l’universo di Dante non è euclideo e che è precisamente un’ipersfera. L’'articolo di Peterson deve essere stato guardato dai suoi colleghi fisici dell’Amberst College (Massachusetts) come una bizzarria, tuttavia è stato preso sul serio da un altro

matematico, Robert Osserman, che nel 1995 ha pubblicato un libro delizioso dal titolo The Poetry of the Untverse: A Mathematical Exploration of the Cosmos, in cui parte da quell’immagine straordinaria della totalità del mondo “visibile” offerta dalle misurazioni effettuate dal satellite COBE e pubblicata nel 1992 — in cui egli ha visto una prova di come l’universo in cui viviamo sia in realtà

sferico. Îl terzo autore si chiama William Egginton, è professore a Stanford e, nel 1999, ha pubblicato un lungo saggio in cui, partendo dalla dimostrazione di Mark Peterson, ha tentato di rispondere alla domanda: “com’è riuscito Dante ad arrivare a una descrizione visiva tanto corretta di una cosa che non poteva capire matematicamente?”. La sua risposta è sostanzialmente quella con cui si chiude questo libro, vale a dire il fatto che gli uomini medievali erano abituati a vivere sotto tensione. Il problema teologico-politico in cui vivevano, stretti fra il papa e l’Impero 93

Horia-Roman Patapievici

o, ancora, tra il mondo di Dio e quello sublunare, era per

loro tanto reale quanto insolubile — esso non ammetteva cioè soluzione. Forse avrebbero voluto risolverlo, ma

non hanno saputo come farlo. Quando l’uomo europeo

l’ha risolto, lo ha fatto a favore del mondo secolare — e così è iniziata la modernità. A loro, dunque, mancava la

soluzione semplice ideata dai moderni: mettiamo fra parentesi certe questioni, anche continuando a crederci, le chiudiamo in uno sgabuzzino privato e andiamo avanti

come se esse non ci fossero più. Egginton avanza la se-

guente ipotesi: Dante ha potuto fare tale stupenda de-

scrizione perché aveva una mente abituata a pensare si-

multaneamente le polarità contraddittorie, come in sospensione e in tensione — sapeva cioè tenerle in tensione senza lasciarsele scappare di mano. L’interpretazione di Egginton è in parte corretta e in parte no: tutti gli uomini

istruiti al tempo di Dante e dopo di lui erano infatti sottoposti alla stessa tensione e non si sono affatto avventurati in una simile descrizione del mondo, nemmeno il gigante Tommaso d’Aquino, un genio incomparabile. Probabilmente, però, dobbiamo riconoscere al genio poetico di Dante quello che è stato proprio solo del suo genio poetico — precisamente perché poetico — e della sua formidabile onestà intellettuale, cui porgo un ultimo omaggio.

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SA 100

l’in dalla notte dei tempi, la Dirina Commedia tentativi

di tradurre

la cosmologia

danteseca

ha dato vita ad arditi e raffinati in rigorose

iIMmmagini gsecometriche

e astronomiche., Quasi nessuno, però. fra 1 dotti esegeti e sli abili illusiratori di ogni epoca. ha ravvisato o messo in luce sostanziali differenze ra il trecene | personalissimo modello tesco modello scientifico de l'universo e il singolare “ cui Dante dà prova di ispirarsi nella stesura del suo capolavoro. l’ormidabile poeta. acuto conoscitore della eultura scientifica, lilosofica è teologica del suo tempo. negli ultimi canti del Paradiso Dante ralfigura un mondo molto diverso da quello tradizionalmente accettato dalla eritica: un mondo non euclideo, impressionantemente affine alle teorie dell’universo che Einstein avrebbe lormulato secoli dopo. A svelarci questo Dante lfinora pressoché ignoto e la sua complessa visione delPuniverso è Pavvincente viageto che un fisico di formazione, appassionato lettore della Commedia, intraprende sul filo dell'’iconografia ulficiale per dimostrare come il genio dantesco travalichi 1 confini delle umane lettere e divenga profonda visione in grado di conciliare visibile e invisibile, Dio e ragione, Mondo sensibile e mondo sovrasensibile.

Horia-Roman lino al

Patapievici è stato docente di lisica all’Università

1996, anno

interamente prestigiose e e autore di dell’Istituto

in cui

ha abbandonato

la carriera

accadenica

di Bucarest per dedicarsi

alla cultura amanistica, di cui è oggi una delle voci in Romania pin significative. l’ondatore e direttore della rivista “Idee in dialogo” numerosi saggi mai pubblicati in ltalia, dal 2005 è direttore di cultura romeno,

ISBN 88-424-9680-4

10,00

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