Fuori di sé. Identità fluide nel cinema contemporaneo 8868970856, 9788868970857

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Fuori di sé. Identità fluide nel cinema contemporaneo
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Leonardo Gandini

Fuori di sé

nemaespanso

Identità fluide nel cinema contemporaneo

Leonardo Gandini e Professore Associalo

di Storio del cinomo ed Estetica del cinema

presso l'Universilò di Modena e Reggio

Emilia e docente di Iconografia del Cinema presso il Dams di Bologna

Ho pubblicalo, in veste di autore o curatore,

diversi volumi sul cinema hollywoodiano classico e contemporaneo.

Tra i titoli più recenti, è stato curatore de Il cinema americano attraverso i film

(Roma 2011 ) e autore di Voglio vedere il sangue Lo violenza nel cinema contemporaneo (Milano Udine 2014).

E* membro del comitato scientifico della

collana di cinema 'Mimesis-Cinergie'e del Comitato di direzione della collana “Pandoro Comumcazione/Cinemo'’.

ci nemaespanso - 14-

Collana diretta da Christian Uva (Università Roma Tre) (Comitato seleni ilici n Pierpaolo /Xntoncllo (University of Cambridge) Simone Arcagni (Università di Palermo) Giu» Gargiulo (Università de Paris OucM-Nanterre l-a Defense) Marco Maria Ga zzano (Università Roma Tre) l^aurent Jullier (Università de Paris Ill-Sorbonnc Nouvellc) Ben Lawton (Port hi e University) Giancarlo lombardi (College of Staten Island-City University of New York) Paolo Russo (Oxford Brookes University) laica Venzi (Università di Siena).

Leonardo Gandini

Fuori di sé Identità fluide nel cinema contemporaneo

Bulzoni Editore

L'illustrazione (in copertina) è tratta dal film Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Michel Gondry, 2004)

TUTTI I DIRITTI RISERVATI E vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dcll’arL 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-6897-085-7

© 2017 by Bulzoni Editore S.r.l. 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

Ai miei genitori

Se gli altri sono lo strumento del no­ stro supplizio è solo perché sono in primo luogo indispensabili alla no­ stra salvezza. Siamo coinvolti a essi in modo tale che dobbiamo, bette o male, stabilire 1*ordine di questo caos. Maurice Merleau-Ponty

INDICE

13

Introduzione

29

Capitolo primo. Un cinema che si fa altro

45

Capitolo secondo. Corpi e memorie

61

Capitolo terzo. Ricordare, immaginare

77

Capitolo quarto. Identità c differenza

91

Bibliografìa

INTRODUZIONE

Oggi va di moda dire che il cinema è cambiato, come se fosse la prima volta. Invece a dire il vero non ha mai smesso di farlo, cor­ redandosi lungo la strada di elementi — dal sonoro al colore, per fare solo due esempi — capaci di accrescerne le potenzialità spettacolari e il potere di attrattiva sul pubblico. Tuttavia proprio in quest'ambito, quello del rapporto con lo spettatore, è innegabile che per molto tempo nulla sia cambiato, visto che l'impatto tecnologico non ha mai davvero alterato le coordinate fondamentali del l'appuntamento fra pubblico e film, che per oltre mezzo secolo ha continuato ad ave­ re nella sala cinematografica il proprio luogo di elezione. È proprio quando, con l'irruzione della programmazione ci­ nematografica nei palinsesti televisivi, le coordinate del rapporto fra film e spettatore hanno cominciato a cambiare, che hanno inizialo a levarsi grida d'allarme circa il fatto che il cinema non più lui, che quello che veniva incontro allo spettatore fosse in realtà un im­ postore, un film sotto mentite spoglie. Sebbene ogni tappa del l'evoluzione tecnologica del cinema sia stata corredata da una mole imponente di riflessioni al riguardo, che con grande vivacità intellettuale si sono interrogate sulla misura e la prospettiva delle innovazioni, la messa in discussione della sua identità ha dunque avuto inizio quando sono cambiate le coordina­ te sul piano della fruizione. Un'esperienza ravvicinala col film, lad­ dove mediata dallo schermo della televisione, quando non addirittu­ ra interrotta dalle interruzioni pubblicitarie, era — secondo alcune interpretazioni - qualcosa che aveva a che vedere non col cinema, ma con una sua versione fraudolenta c dunque deprecabile. Questa linea di pensiero è andata naturalmente accentuandosi a mano a mano che la tecnologia ha moltiplicato le risorse e le pos­ sibilità con cui lo spettatore può avvicinarsi ad un film, guardarlo, (anche distrattamente), vederlo (anche in modo intermittente), ap­ prezzarlo (anche in maniera frammentata: una sequenza, uno spezzone, un trailer). Quanto più alla sala cinematografica si sono affiancate nuove possibilità di esperienza di un film, tanto più è aumentata la riflessione critica che si è interrogata - non di rado con 13

Fuori di sé

toni apocalittici e necrofili - sull’opportunità di continuare a chia­ mare cinema qualcosa che nel frattempo aveva cambiato fisionomia in modo così radicale. Il fenomeno ormai è tutt’altro che contempo ran co: già quindici anni fa usciva negli Stati Uniti un volume dal titolo più che significa­ tivo, The End of Cinema As We Know Jz, nelle cui pagine introduttive il curatore, Jon Lewis affermava: “Sono tante le indicazioni che ci fanno pensare che l’esperienza di ‘andare al cinema’ possa essere in via di esaurimento”. Qualche riga più avanti Lewis azzardava poi una previsione — “possiamo prevedere un futuro poi non così distante in cui non dovremo mai uscire di casa per vedere un film” — che si è ri­ velata, ora possiamo dirlo, del tutto centrata1. Nello stesso tempo, non è un caso che queste trasformazioni siano state considerate sufficienti a decretare, sin dal titolo, la “fine del cinema”, se non altro per il mo­ do con cui lo “(ri)conosciamo”: l’identità del cinema, questo il pre­ supposto teorico alla base del volume, passa dunque attraverso il rap­ porto con lo spettatore. È questa una premessa teorica importante per le riflessioni al centro di questo libro: l’identità (di un oggetto, anche non cinematografico) si misura a partire dall’alterità, di colui, in que­ sto caso lo spettatore, che la attesta, la certifica ed eventualmente la conferma. Naturalmente il paradigma del cambio di identità ha ricevuto ulteriore slancio dal fatto che il cinema negli ultimi vent’anni ha cambiato, oltre alle modalità di approccio allo spettatore, anche la propria pelle. Il passaggio dalla pellicola al digitale ha infatti corre­ dato di una metamorfosi radicale, ontologica, le trasformazioni in­ tervenute sul piano della ricezione. Anche senza spettatore — o me­ glio senza quella forma di alterità rappresentata dal rapporto con lo spettatore - il cinema non è più lui, visto che nel frattempo è cam­ biata, per così dire, la materia prima con la quale si realizzano i film. Al contempo va osservato come il digitale, per motivi essen­ zialmente di natura commerciale, si sia rapidamente assestato su posizioni estetiche non dissimili da quelle del cinema in pellicola: come bene ha scritto David Rodowick, il realismo fotografico rima­ ne “il santo Graal dell’immagine digitale”, al punto che per valutar­ ne la portata innovativa spesso “l’accezione culturale di ‘cinemato­

1 J. Ijcwìs, The End ofCinema As IVe Know It and I Feel.An Introduction to a Boo% on Nineties American Film, in J. lorwis (a cura di), The End of Cinema As We Know It, New York-London, New York University Press, 2001, p. 3. 14

Introduzione

grafico’ e la nozione di ‘realismo* rimangono in moki casi la pietra di paragone”2. Della stessa opinione si rivela Andrea Tagliapietra:

La conseguenza diretta del realismo ontologico del cinema è, al­ lora, quella di estendere il reale e i suoi indici di conferma senso­ riali in modo da comprendere al loro interno anche quanto sem­ brava fantastico e inverosimile. Per questo oggi continuiamo a catalogare molte pellicole quali “cinema dal vero” c non come cinema d'animazione, benché la loro lavorazione e la loro stessa possibilità dipendano dalle tecniche di costruzione dcH’immaginc al computer e non vi sia, a rigor parlando, alcuna realtà tranne quella del film3.

È quindi sul fronte della ricezione che il mutamento è stato per­ cepito come profondo e rivoluzionario, soprattutto da coloro che — ar­ roccandosi su una linea di retroguardia incline a valorizzare le moda­ lità tradizionali di fruizione — si sono improvvisati difensori di una presunta santissima trinità della visione di un film, che dovrebbe, per avere piena cittadinanza nel territorio del cinema, essere contrasse­ gnata da tratti di comunità, continuità e completezza. Gli stessi, in so­ stanza, che caratterizzano l’esperienza in sala e la distinguono da quella domestica, dove appunto possono prevalere forme singolari (guardo il film da solo) e frammentarie (lo guardo un po’ per volta, ne guardo solo uno spezzone, magari quello reperibile su YouTube) di visione. Al di là delle forme di fondamentalismo cinefilo, rimane co­ munque il fatto che il cinema si presenta oggi ai suoi spettatori in fog­ ge molteplici, non di rado estremamente fluide ed estemporanee, la cui dimensione innovativa non andrebbe osteggiata né difesa, ma, più semplicemente, riconosciuta. E che questo mette certamente in di­ scussione la sua identità, portandogli studiosi ad interrogarsi su quale possa essere oggi il suo identikit più attendibile. Come bene ha scritto Franco Marineo in un recente volume sul cinema del terzo millennio: ciò che oggi pare più rilevante è spostare l’attenzione dall’ag­ gettivo ‘contemporanco’ al sostantivo ‘cinema’, perché è pro-

2 D.N. Rodowick, Il cinema nell’era del virtuale, Milano, Olivares, 2008,

p. 29.

5 A. Taglia|>ietra, Il cinema e la filosofìa dell’immaginey in R. Mordacci (a cura di), Comefarefilosofìa con i film, Roma, Carocci, 2017, pp. 28-29. 15~

Fuori di sé

prio questo a essere completamente rivoluzionato: dobbiamo misurarci con un oggetto che sta trasformandosi vertiginosa­ mente, rendendo problematico stabilire con esattezza che cosa sia oggi il cinema, e soprattutto cosa sia destinato a diventare*. La vocazione metamorfica del cinema odierno non contempla tuttavia, almeno per ora, una palingenesi totale delle sue coordinate di fondo, nemmeno nella sua relazione con lo spettatore, pure og­ getto, come abbiamo appena visto, di innumerevoli controversie. Pur nella loro profondità, i mutamenti sono riconducibili ad un pa­ radigma nel quale l’identità del cinema si evolve (o regredisce, come sostengono i suoi detrattori) gradualmente, senza mai abbandonare del tutto la propria fisionomia originaria. Come bene ha scritto Francesco Casetti, quella del cinema odierno è “un’identità basata non sulla semplice ripetizione del medesimo, ma sull’accettazione delle variazioni e delle differenze”, in omaggio al fatto che il cine­ ma, nel corso della sua storia, “ha sempre potuto essere qualcosa d’altro, e ha sempre voluto essere lo stesso. Non ha negato le tra­ sformazioni, ma le ha vissute come continuità”4 5. Il gioco delle varianti e delle variabili prevede dunque punti fermi, tratti di permanenza ed elementi di continuità, grazie ai quali tutto il resto può essere oggetto di cambiamento. Tra questi il prin­ cipale riguarda proprio il rapporto con lo spettatore, segnato da quello che Rodowick definisce una “modalità di desiderio”:

La specificità cinematografica diventa il “luogo” di una variabi­ le costante, l’istantanea di una determinata forma di desiderio che è nello stesso tempo scmiologica, psicologica, tecnologica e culturale. [...] Per tutto il ventesimo secolo i processi tecnolo­ gici della produzione cinematografica si sono innovati costan­ temente, le sue forme narrative si sono evolute continuamente e anche le sue forme di distribuzione e di fruizione si sono am­ piamente differenziate. Ma ciò che ha resistito è una certa mo­ dalità di investimento psicologico, una modalità di desiderio6. Alla base (e all’origine, verrebbe da pensare) di tutto c’è dun­ que la voglia di vedere un film, non importa dove e come, nella spe­

4 F. Marineo, Il cinefila del terzo millennio, Torino, Einaudi, 2014, p. 43. 5 F. Casetti, La galassia Lumière, Milano, Bompiani, 2015, pp. 17, 153. 6 D.N, Rodowick, Il cinema nell'era del virtuale, cit., p. 39. 16

Introduzione

ranza che riesca a fare breccia nella nostra emotività. Le nuove for­ me di visione cinematografica consentite dalle tecnologia in fondo non sono altro che una risposta a questa voglia, un tentativo di sod­ disfarla in circostanze e contesti ritenuti improbabili e impraticabili fino a qualche tempo fa. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che la trasformazione ri­ guardi solo le forme della visione e non i suoi contenuti. Per conser­ vare la propria centralità all’interno del panorama mediale, il cine­ ma contemporaneo deve anche mettere in guardia il pubblico su quanto è avvenuto, avvisarlo che l’evoluzione della tecnologia può averne generate altre sul piano testuale. L’identità flessibile del ci­ nema produce in questo caso film flessibili, malleabili, che richie­ dono allo spettatore la duttilità necessaria a vederli non come oggetti compiuti, ma piuttosto come crocevia di possibilità. E appunto a partire da queste ultime, dalla loro compresenza all’interno di una medesima struttura narrativa, che certi film contemporanei vanno sempre più somigliando ad un ipertesto, assumendo quella che al­ trove ho chiamato una “impressione di ipertestualità” e che Marineo a sua volta definisce “patina intertestuale”7. In ottemperanza alla quale il film, pur conservando una identità narrativa definita e non malleabile — perché altrimenti ci ritroveremmo nel campo dell’interattività pura e semplice, come avviene ad esempio nei videogiochi — la fa emergere come una occorrenza che si fa largo tra altre, alterna­ tive e possibili, che pure hanno avuto diritto di cittadinanza nel rac­ conto, sebbene non sia stato loro concesso di avere l’ultima parola. La ricorrenza di questo tipo di film nel panorama contempo­ raneo ha fatto sì che se ne parlasse come di un filone ben definito, che prende il nome di puzzle film o mind game filmy in riferimento ai tratti di competenza e destrezza interpretativa che vengono ri­ chiesti allo spettatore. In realtà, se allarghiamo il campo al di là di questi “film rompicapo”, problematici negli sviluppi e negli esiti, è possibile accorgersi di tunic nel cinema contemporanco sia andata gradualmente affermandosi una tendenza alla relativizzazione dei contenuti e dei personaggi, ad esempio a partire da quello che que­ sti ultimi vivono e vedono, o meglio credono di vivere e vedere. Pro­ prio l’estrema fragilità della loro condizione esistenziale e percettiva

7 L. Gandini, Schermi ipertestuali, in «Imago» 3 (Rivoluzioni digitali e nuove forme estetiche), Roma, Bulzoni, 2011, p. 86; F. Marineo, Il cinema del terzo millennio, cit., p. 63. 17

Fuori di sé

ha fatto sì che questi film pongano, come osserva Elsacsser, “pro­ blemi epistemologici e dubbi ontologici”8, chiamando lo spettatore ad interrogarsi sull’identità non tanto e non solo dei personaggi, quanto delle narrazioni che li ospitano e, in definitiva, dei film che contengono gli uni e le altre. Quasi che il cinema, cambiando pelle, abbia finito per contrarre un virus destinato inevitabilmente a con­ tagiare i film anche sul piano narrativo, conferendo loro un’identità fluida, segnata dalla polivalenza e dall’ambiguità. Destinatario di questo processo è appunto lo spettatore, chia­ mato oggi a rapportarsi in modo nuovo al cinema e ai film, quindi a sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di novità che riguardano con­ temporaneamente le modalità e i contenuti della visione. Come an­ cora scrive Elsaesser, in gioco ci sono “nuove forme di coinvolgi­ mento dello spettatore e nuove forme di approccio al pubblico”9: le uno rimandano alle altre, in un ambito dove lo spettatore è indotto a guardare un film più volte dal suo contenuto (per via della sua complessità) e incoraggiato a farlo dalle nuove conquiste della tec­ nologia (che glielo rendono visibile su diversi dispositivi e in diversi luoghi). Al riguardo lo studioso conia un termine, quello di “dvd~ enabled film”, film compatibile con il dvd, che reputa esemplare di un cinema “multipiattaforma e adattabile, capace di unire i vantaggi del ‘libro’ con l’utilità del ‘videogioco’”10. E le cui caratteristiche so­ no evidentemente del tutto coincidenti con quelle del mind game filmy che richiede di essere guardato e riguardato a partire dalla complessità della trama e dalla necessità di orientarsi in un corridoio di specchi dove personaggi e intreccio non sono mai quello che sembrano in principio. Senza dimenticare che, come ha osservato Adam Lowenstein, la sollecitazione dello spettatore non riguarda semplicemente le nuove modalità di visione domestica, ma chiama in causa anche il modo in cui egli si rapporta al film in sala:

Quello di navigare attraverso i capitoli di un dvd per riorganiz­ zare la cronologia di un film è certamente un atto che i puzzle

* T. Elsaesser, The Mind-Game Film, in W. Buckland (a cura di), Puzzle films. Complex Storytelling in Contemporary/ Cinema, Oxford, Wiley- Blackwell, 2009, p. 15. 9 Ibidem, p. 16. ™ Ibidem, pp. 38-39. 18

Introduzione

film si aspettano dai propri spettatori, come parte della vita po­ stuma del film stesso; tuttavia questi film sono anche costruiti in modo tale da invitare gli spettatori a operare in modo analo­ go sul piano intellettuale durante la visione in sala11. Alla luce di questo, la struttura di tali film apre però una serie di questioni che vanno ben al di là delle strategie commerciali cui sono congruenti. Sebbene, come afferma Valentina Re, la complessità nar­ rativa venga oggi perlopiù ricondotta, sulla scia della lettura di Elsaesser, “alle nuove pratiche di consumo partecipativo e alle nuove forme di circolazione dell’audiovisivo”12*, non andrebbero sottovalutate le questioni ontologiche ed epistemologiche che vi rimangono impiglia­ te. E che risultano interessanti in sé, al di là delle implicazioni com­ merciali e delle variabili di consumo. L’impressione è che questo tipo di cinema provi insomma a dare al pubblico una lezione in merito al­ la possibilità di vedere nei film creature multiformi, plurime, che vanno guardate sì più volte e su più piattaforme, ma soprattutto con occhi ed un atteggiamento nuovo, capace di riconsiderare a fondo tut­ te le questioni inerenti l’identità. Sotto questo profilo, i film in questione sanciscono un fonda­ mentale un punto di rottura sia col passato che col presente holly­ woodiano. Nel primo caso, ad essere messa da parte è la possibilità di un’identità stabile e compiuta dei personaggi, vero centro motore del­ la narrazione classica nel suo rapporto con lo spettatore. Nel cinema tradizionale la saldezza delle identità individuali è la condizione pre­ liminare alla costruzione di quelle logiche antagonistiche ed oppositi­ ve che costituiscono l’architrave della narrazione. Una volta acquisita la consapevolezza che, per dirla con le parole di Paul Ricoeur, “l’opposizione non è altro che una figura empirica particolarmente appariscente e spettacolare deH’altcrità”15, Hollywood l’ha sfruttata in tutte le direzioni e varianti possibili, le une e le altre sempre dipcn-

11 A. Lowenstein, Dreaming of Cinema, Spectatorship, Surrealism and the Age of Digital Media, New York, Columbia University Press, 2015, p. 74. 12 V. Re, Vero come le finzioni: cinema e mondo-versioni, in V. Re, A. Cinquegrani, L’innesto, Realtà efinzioni da Matrix a 1084, Milano-Udine, Mimesis, 2014, p. 68. K P. Ricoeur, Simpatia e rispetto. Fenomenologia ed etica della seconda per­ sona, in E. Levinas, G. Marcel, P. Ricoeur, Il pensiero dell’altro, Roma, Edizioni Lavoro, 1999, pp. 34-35. 19

Fuori di sé

denti però da un repertorio di identità rigide, uniformi, tali da potere innescare un conflitto c renderlo credibile nel tempo. Il poliziotto può dare la caccia al criminale a condizione che l’uno e l’altro si assestino, dal principio alla fine, su sponde opposte della legalità (anche quan­ do, si pensi ad Heat [1995] di Michael Mann, scoprono di avere tratti in comune); i terrestri possono affrontare gli alieni, in modo più o meno pacifico, a condizione che una nozione condivisa e comune di umanità faccia da elemento divisorio fra gli uni e gli altri; l’amore “impossibile”, ad esempio quello fra personaggi di ceto sociale oppo­ sto, può avvenire solo se la disparità economica dei due innamorati rimane tale nel corso del film, e così via. Nel cinema contemporaneo invece le identità si fluidificano, assumono forme soggette a continui processi di smaterializzazione e riconfigurazione. Questo vale sia per i personaggi, che possono da un momento all’altro essere risucchiati dentro la mente del protago­ nista che li ha partoriti (senza che peraltro noi ne fossimo consape­ voli: è il caso, per fare solo un esempio, di A Beautiful Mind [2001]) sia per la narrazione, che può procedere in senso orizzontale anzi­ ché verticale, proponendo versioni alternative anziché consecutive, della medesima vicenda, in ognuna delle quali l’identità del perso­ naggio stesso può subire cambiamenti bruschi e radicali {Fight Club [1999]), lenti e progressivi (Groundhog Day [1993]) o di natura in­ certa da definire (esemplare al riguardo il finale di Shutter Island [2010], sul quale torneremo). In tutti questi casi, a cambiare sempre e in modo profondo è l'identità delfilm* che di punto in bianco, senza preavviso, si gira su se stesso, cambia la propria posizione rispetto allo spettatore, obbligan­ dolo a guardarlo da una prospettiva diversa. Differente non perché condizionata dalle modalità di ricezione, ovvero dai supporti tecnolo­ gici che la consentono, ma in quanto il film in corso d'opera ha cam­ biato fisionomia, imponendo al pubblico, già nel corso della prima vi­ sione, di adottare nei suoi confronti un punto di vista nuovo. In sintesi, perché questi film cambino sotto i nostri occhi, non è necessa­ rio che trasmigrino da un supporto o da uno schermo all’altro, posto che la loro metamorfosi è dettata da tratti strutturali, narrativi e stili­ stici, presenti sin dal principio. In virtù dei quali essi rompono non solo con il passato e la tra­ dizione del cinema hollywoodiano, ma anche cqn una parte signifi­ cativa del suo presente, nella fattispecie con il blockbuster, che — per citare l’egregio studio di Marco Cucco sull’argomento — “deve pre­ sentarsi al grande pubblico con un’identità semplice, immediata e 20

Introduzione

facilmente comunicabile”14. Ovvero con caratteristiche di cui i film in questione sono privi, ruotando al contrario, sotto il profilo drammaturgico e filosofico, intorno a nozioni quali ambiguità, va­ riabilità c pluralità, dei mondi e delle identità. A spese, se necessario, della possibilità di essere promossi in modo efficace e conciso: diffì­ cile sintetizzare in poche parole film come Shutter bland o Inception, innanzitutto perché non è chiaro come vadano a finire. Come si può vedere, siamo ben al di là di una strategia com­ merciale volta a sollecitare il pubblico a modalità multiple e reiterate di visione; dentro semmai quella che lo stesso Lowenstein definisce una “estetica della riorganizzazione e della rivisitazione”15, in ot­ temperanza alla quale il film cambia in corso d’opera le proprie coordinate di fondo, in primo luogo la consistenza dei personaggi e la progressione cronologica della trama che li contiene. E ad essere multipla è anche la posta in gioco, poiché questi film invitano il pubblico a riconsiderare la questione dell’identità su diversi piani e in diversi ambiti.

Il più prossimo è senz’altro quello del cinema. Ogni film di questo tipo rimanda alla categoria cui appartiene, recentemente soggetta, come abbiamo visto in principio, a metamorfosi profonde. Rispetto alle quali il film stesso assume dunque la forma, al con­ tempo, di un esempio e di un apologo: testimonia della malleabilità del cinema con tempora neo, ma anche, sul piano narrativo e temati­ co, della difficoltà di abitare il cambiamento, dei traumi che esso può generare quando il gioco delle mutazioni e delle varianti assu­ me cadenze vertiginose, come appunto avviene nella nostra epoca, in cui il rapporto col panorama audiovisivo somiglia ad un cantiere dove i lavori in corso sembrano proseguire ad oltranza. Ma se il cinema contemporaneo talvolta genera l’impressione, per usare una felice espressione di Franco Mari neo, di non bastare a se stesso’A, questa lezione di trascendenza diffìcilmente può essere contenuta e spiegata all’interno del pur complesso territorio dei me­ dia. E inevitabile allora pensare che questi film possano, nella loro programmatica trasgressione dei concetti di linearità (della narrazio­ ne) e integrità (dei personaggi), sancirne l’anacronismo che li caratteH M. Cucco, Ilfilm blockbuster, Roma, Carocci, 2010, p. 46. 15 A. Lowenstein, Dreaming of Cinema. Spectatorship, Surrealism and the Age of Digital Media, cit., p. 74. 16 F. Marinco, Il cinema del terzo millennio, cit., p. 81. 21

Fuori di sé rizza su molti altri fronti. Ad esempio, in un recente studio sul cinema digitale, William Brown ha giustamente suggerito di pensare alla struttura non lineare dei racconti contemporanei come all’inevitabile risposta ad una configurazione dell’universo che, questo ha attestato la scienza in tempi recenti, si muove secondo dinamiche più casuali che casuali e traiettorie più parallele che progressive: Nei sistemi aperti e viventi, sia organici che non organici, si pos­ sono produrre solo il nuovo c delle cronologie multiple. In que­ sta prospettiva, l’universo è semplicemente una macchina che genera il nuovo grazie alle sue caratteristiche non classiche, non lineari e quasi causali. [...] Ed è questo che il cinema digitale pare suggerire, non da ultimo attraverso il rifiuto delle tecniche narrative classiche, posto che la narrazione classica è basata su leggi lineari e causali. Dunque invece che in un’epoca di narra­ zione classica ci troviamo in quella che Thomas Elsacsser ha de­ finito “un’epoca post-narrativa”, [la quale] riflette il modo in cui una comprensione dei caos e della complessità [...] determina l’insostenibilità della narrazione classica77.

Dunque l’identità multipla di certo cinema contemporanco può essere ricondotta ad un contesto che ha confini molto più ampi di quelli del panorama audiovisivo. In quest’ottica, tali film provano ad allenarci a pensare la flessibilità in rapporto non al mondo del ci­ nema, quanto piuttosto al mondo tout court. Sulla stessa lunghezza d’onda si può collocare il discorso che ha per oggetto il polimorfismo dei personaggi. Certo, possiamo pen­ sare che la loro complessità sia semplicemente figlia della necessità di indurre lo spettatore a rivedere il film in altri formati c su altre piattaforme. Ma questo ci costringerebbe ad ignorare che, lontano dagli schermi — di qualsivoglia dimensioni essi siano — l’identità de­ gli individui ha nel frattempo assunto confini labili e incerti. Ve­ diamo ad esempio quanto scrive Remo Bodei in un recente volume sulla nozione di limite: Negli ultimi decenni le biotecnologie hanno superato limiti che si pensavano invalicabili e intrinseci alla natura umana. Hanno confutato radicate convinzioni c abolito abitudini c idee ritenute finora basate su irremovibili evidenze o sulfinW. Brown, Supercinema, Film-Philosophy for the Digital Age, New York-Oxford, Berghahn, 2013, p. 108. 22

Introduzione

sondabile volontà divina. Nessuno ad esempio aveva finora dubitato del fatto che gli esseri umani potessero venire al inon­ do in un modo diverso dal rapporto sessuale, con un corpo e una mente esposti a infermità e deformazioni congenite, o che soffrissero, godessero e morissero assieme a tutti i loro organi. Oggi si elidono le linee di separazione non solo tra animali e uomini [...|, ma addirittura tra il vivente e il non vivente [...]. Per effetto di simili innovazioni mutano i nostri sentimenti e vacilla la percezione della nostra identità. [...| Non siamo, inevitabilmente, ancora in grado di assorbire lo choc di questi straordinari mutamenti. Non abbiamo potuto valutare a suffi­ cienza — depurato dagli elementi immaginari o retorici che gli sedimentano sopra — il significato della metamorfosi in corso dallo stadio dell’umano a quello del posthumanIB.

Dalle parole del filosofo emerge un certo scetticismo a conside­ rare Timmaginario come un supporto, anziché un deterrente, alla comprensione dei fenomeni che stanno oggi ri modulando la nozio­ ne di identità. Ma forse invece il cinema, in particolare nella forma dei film che analizzeremo, può aiutarci a guardare al problema con occhi diversi — ancora una volta, ad acquisire al riguardo un pensiero flessibile. Certo, si potrebbe obiettare che al compito assolve - peraltro non da oggi, ma già in epoca classica — il cinema che racconta storie di mutazione. Tuttavia, vale la pena ribadirlo, la novità introdotta nel panorama contemporaneo non riguarda solo la metamorfosi dei personaggi, quanto quella del film stesso, la cui identità cambia in modo direttamente proporzionale al numero di varianti narrative che propone e allinea davanti allo spettatore. Questo perché, come bene ha spiegato Paul Ricoeur in riferimento alla letteratura classica, l’identità di un personaggio è solitamente legata a doppio filo a quella della vicenda che la contiene: La persona, intesa come personaggio del racconto, non è un’en­ tità distinta dalle sue “esperienze”. Al contrario: essa condivide il regime dell’identità dinamica propria della storia raccontata. Il racconto costruisce l’identità del personaggio, che può esser chiamata la sua identità narrativa, costruendo quella della storia raccontata. L’identità della storia fa l’identità del personaggio19.

18 R. Bodei, Lìmite, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 21-25. 19 P. Ricoeur, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993, pp. 239-40. 23

Fuori di sé

Appunto a partire da questa condizione di reciprocità possiamo dunque affermare che le questioni identitarie innescate dal cinema contemporaneo non riguardano la possibilità che i personaggi, all’interno di una struttura narrativa rigida e definita, compiano o su­ biscano una trasformazione; quanto quella che il racconto stesso — per motivi che, come vedremo meglio nei capitoli successivi, possono andare dalla natura porosa del tempo alla fragilità psicologica del pro­ tagonista agli effetti della clonazione - trascini i personaggi in un vor­ tice di possibilità alternative che finisce per riconfìgurare l’identità di entrambi (quindi, anche quella del film nel suo complesso).

Infine, l’atto di pensare alla questione dell’identità in modo fles­ sibile rappresenta oggi qualcosa di più di una inevitabile forma di adeguamento intellettuale ad un repertorio di scoperte e conquiste acquisite in ambito scientifico e (bio)tecnologico. Se consideriamo l’argomento in chiave sociale, è facile vedere come la nozione di iden­ tità sia al centro di dispute politiche le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto in ragione di processi che, al contempo, ne cristallizzano e ideologizzano determinate caratteristiche. Oltre trent’anni fa, in un libro sul carattere nazionale degli italiani, Giulio Bollati analizzava già il fenomeno con mirabile lucidità: L’essenza, la natura, il carattere, è la forma in cui un gruppo etnico tende a rappresentarsi a se stesso rispondendo al bisogno di costruire c difendere la propria identità. Questo bisogno sor­ ge in presenza di un altro gruppo, la cui diversità costituisce un pericolo esistenziale: I’identita propria si definisce per differen­ za c si sostiene sulla svalutazione o la negazione dell’identità dell’altro20.

Alla luce di questa riflessione, molto più profetica di quanto l’autore stesso avrebbe voluto, non è difficile comprendere come l’identità — ne abbiamo esempi tutti i giorni — sia anche, oggi più che mai, un luogo generatore di conflitti. Per dirla con le parole di Zygmunt Bauman: “ogni volta che senti questa parola, puoi star certo che c’è una battaglia in corso. Il campo di battaglia è l’habitat naturale per l’identità”21.

20 G. Bollati, L'italiano. Il carattere nazionale come storia e come inuenziowe, Torino, Einaudi, 1983, p. 41. 21 Z. Bauman, Intervista sull’identità y Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 75. 24

Introduzione

Si tratta di battaglie che non possono prescindere da un pen­ siero incline a fossilizzare l’identità, con tutte le problematiche che le sono connesse, all’interno di categorie rigide, immutabili, separate le une dalle altre* Come bene ha scritto l’antropologo Francesco Remotti, quella dell’identità è una “logica fatta di purezza e di rifiu­ to del compromesso”22. Prima che materiali i muri sono mentali, impediscono di pensare all’identità in modo flessibile, come ad una categoria fluida, naturalmente portata alla trasformazione. I film di cui ci occuperemo nei prossimi capitoli rappresentano un tentativo, piccolo ma comunque significativo, di mutare il panorama, ponen­ do al centro della narrazione non una disputa fra identità (rappre­ sentate da altrettanti personaggi in conflitto fra loro), ma una dispu­ ta /«//'identità: eventi, personaggi e scansioni cronologiche possono infatti, da un momento all’altro, cambiare la fisionomia del film, farne un oggetto plurimo e quasi inafferrabile. Rimane aperta una questione: riguarda la possibilità, per que­ sto cinema della fluidità, di risultare comunque appassionante agli occhi dello spettatore. Si tratta di un problema non da poco, se pen­ siamo a come, ncH’economia del rapporto tra film e pubblico, giochi un ruolo fondamentale la contrapposizione fra identità riconoscibili e permanenti. Se sul più bello di Titanic scoprissimo che il perso­ naggio di Leonardo Di Caprio è stato partorito dalla mente malata e allucinata di Kate Winslet, ci sarebbe difficile continuare ad appas­ sionarci per le loro sorti, dubiteremmo del fatto che la ragazza si trova effettivamente su una nave che sta colando a picco e cominceremmo ad interrogarci sulla natura illusionistica del cinema, non sulla sopravvivenza dei due protagonisti. La questione peraltro non riguarda solo il cinema. Già nel 1990 Paul Ricoeur, trattando l’argomento in ambito letterario, aveva scritto:

Che la narratività abbia anche i suoi casi sconcertanti, il teatro c il romanzo contemporanco lo insegnano a volontà. In prima ap­ prossimazione questi casi si lasciano descrivere come finzioni sulla perdita d’identità. Con Robert Musil per esempio, L’uomo senza qualità [...] diventa al limite non identificabile in un mon­ do, viene detto, di qualità (o di proprietà) senza uomini. [... J Per precisare la posta in gioco filosofica di una siffatta eclissi

22 F. Remotti, L’ossessione identitaria, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 91-92. 25

Fuori di sé

dcH’idcntità del personaggio, è importante sottolineare che, a mi­ sura che il racconto si avvicina al punto di annullamento del [per­ sonaggio, il romanzo perde anche le sue qualità propriamente narrative, sia pure interpretate nel modo più flessibile e dialetti­ co. Alla perdita di identità del personaggio corrisponde, così, la perdita di con figurazione del racconto e in particolare una crisi della chiusura del racconto2*.

Nel caso del romanzo di Musil, questa la conclusione di Ri­ coeur, “la decomposizione della forma narrativa, parallela alla per­ dita di identità del personaggio, fa oltrepassare i limiti del racconto e attrae Topera letteraria nelle vicinanze del saggio”2*. Ad esiti non dissimili, in tempi più recenti, è giunta la rifles­ sione sui puzzle movies e mind gamefilms, in riferimento al loro rap­ porto con il pubblico. Thomas Elsaesser ad esempio parla della cen­ tralità acquisita dalle “regole del gioco” {rules ofthe game}, le logiche compositive alla base della narrazione: questi film, scrive, “possono mostrare come il cinema è cambiato: più che ‘riflettere* la realtà, oscillare tra illusionismo e realismo o alternare l*uno all’altro, [...] creano una propria referenzialità, laddove il referente è rappresenta­ to soprattutto dalle ‘regole del gioco*”23 2526 24 . Valentina Re a sua volta os­ serva come essi, oltre ad incrinare il nostro senso sella realtà, abbia­ no la facoltà di “suggerire una riflessione proprio sui processi di costruzione che lo sottendono”20. Pare dunque assodato che il cinema della fluidità abbia un orientamento brechtiano, volto a mettere in luce le logiche interne della composizione delTintreccio. Le quali, esattamente per questo motivo, interne non lo sono più, posto che vengono squadernate da­ vanti allo spettatore e fatte a loro volta oggetto di conflitto. Al punto che, lo vedremo, talvolta i personaggi si ritrovano prigionieri di mec­ canismi narrativi dei quali devono scegliere e padroneggiare gli svi­ luppi come e quanto uno sceneggiatore. E probabile che fra le pieghe di queste narrazioni sia possibile rinvenire un monito (o un invito) rivolto al pubblico, affinché a sua

23 P. Ricoeur, Sé come un altro, cit., p. 241. 24 Ibidem, p. 241 (corsivo nostro). 25 T. Elsaesser, The Mind-Game Film, cit., p. 39. 26 V. Re, Vero come lefinzioni: cinema e mondo-versioni, cit., p. 85. 26

Introduzione

volta prenda dimestichezza con un repertorio di racconti che, com­ plici le meraviglie del digitale e le lusinghe dell’interattività, può ora essere riconfigurato e ristrutturato anche da lui. Più complicato veri­ ficare se e in quale misura la natura straniarne e la vocazione didat­ tica di questo cinema siano compatibili con la sua necessità, per ra­ gioni di carattere commerciale, di essere anche appassionante e coinvolgente, avvincente ed emozionante. Sulla questione, a riprova della sua importanza, si sono soffermati diversi studiosi. Al riguardo Maria Poulaki ad esempio scrive:

Questi riferimenti diretti e continui alle condizioni di organizza­ zione del film potrebbero essere considerati anti narrativi, poiché rivelano che il film è stato costruito da agenti esterni ed ha dun­ que, come ogni artefatto, una natura artificiosa c talvolta persino illusoria. Tuttavia tali tecniche autoriflessive, invece di distanzia­ re gli spettatori o farli riflettere sul film, li coinvolgono in forme di comunicazione sempre più complesse27.

Sulla stessa lunghezza d’onda si pone Allan Cameron: Se i testi mediali contemporanei mostrano una tendenza ad esporre i meccanismi narrativi, questo non necessariamente produce una “frattura** modernista o una prospettiva critica sulla narrazione stessa. Questi giochi possono piuttosto genera­ re nuove forme di piacere narrativo2*. Anche sotto questo profilo i film in questione sono dunque chiamati ad una ennesima prova di duttilità, che in questo caso coincide col ripristino di quella “modalità di desiderio” che, come abbiamo visto, Rodowick ritiene specifica del cinema e, per lo stesso motivo, felicemente impervia ad ogni innovazione. All’argomento volgeremo, nei prossimi capitoli, un occhio di riguardo: interrogan­ doci dunque non soltanto sulle modalità attraverso le quali certi film si fanno “altri” già sul piano testuale, ma anche sull’eventualità

27 M. Poulaki, Puzzled Hollywood and the Return of Complex Films, in W. Buckland (a cura di), Hollywood Puzzle Films, New York-London, Routledge, 2014, p. 4L 24 A. Cameron, Modular Narratives in Contemporary Cinema, Houndmills, Palgrave Macmillan, 2008, p. 22. Sull’argomento vedi anche J. Mitici!, Narrative Complexity in Contemporary American Television, in “The Velvet Light Trap” 58, 2006, pp. 29-40.

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Fuori di sé

che essi, una volta usciti definitivamente dai binari delle identità precostituite e permanenti, possano ancora coinvolgerci nelle storie che raccontano.

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Capitolo primo

UN CINEMA CHE SI FA ALTRO

Nel cinema contemporaneo si fa dunque strada una tendenza a parlare di alterità da un punto di vista non soltanto tematico, ma an­ che narrativo e stilistico. Essa tuttavia solo negli ultimi anni assume la forma di quella che abbiamo definito una orizzontalità narrativa, in­ tesa come possibilità del racconto di schiudersi a modelli alternativi di costruzione e percezione degli eventi. In un primo momento invece si manifesta piuttosto come una forma di riflessione sulla ambiguità che caratterizza le immagini, la loro origine e la loro identità. E in questo modo che il cinema prende gradualmente dimestichezza con l’idea che - per affrontare propriamente il tema deiralterità, per parlare dell’altro — è necessario farsi a stia volta altro, ovvero mettere costan­ temente in discussione la propria identità estetica. Questa tendenza a rimescolare le carte contemporaneamente sul piano tematico e stilistico può essere ricondotta ad un film dei primi anni ottanta, Zelig (1983), incentrato su un personaggio afflit­ to da una patologia che lo porta rapidamente ad assumere, nei tratti fisici e nel comportamento, le sembianze del proprio interlocutore, con conseguenze inevitabili sul piano della sua identità, quanto mai indecifrabile e inafferrabile. Ad assumersi il compito di curare que­ sta figura mercuriale è una psicanalista, la dottoressa Fletcher, la quale sin dal principio della terapia decide, all’insaputa del pazien­ te, di filmare le sedute, nella convinzione che l’immagine cinemato­ grafica, in quanto testimonianza visiva delle metamorfosi fisiche di Zelig, possa esserle d’aiuto nella cura. “Bisogna vederlo, non lost può leggere" spiega la dottoressa al cugino per convincerlo a filmare di nascosto le sedute, rivelando così una completa fiducia nella poten­ za documentaria del cinema, in grado di arginare, con la sola forza della riproduzione su pellicola, la baraonda identitaria che affligge il suo paziente. Tuttavia, prima ancora che le peripezie dei personaggio Zelig mettano in seria crisi le strategie della dottoressa, il film Zelig ha già 29

Fuori di sé

provveduto ad irridere il progetto, poiché il suo regista e principale interprete, Woody Alien, gli ha dato la forma e la sembianza di un falso documentario d’epoca, costruito con i crismi dell’autenticità — dalla voce fuori campo ai materiali di repertorio — che di solito carat­ terizzano questo genere di cinema. Mentre dunque la dottoressa Fletcher (e con lei lo spettatore) si appassiona al caso di un uomo che fa della contraffazione identitaria la propria condizione esisten­ ziale, il regista ha contraffatto il film con una perizia tale da rendere altamente problematica la sua identità complessiva. In Zelig il ci­ nema di finzione anni ottanta si traveste da cinema documentario anni trenta, e al tra vestimento contribuiscono ulteriori derive identi­ tarie, da quella di intellettuali autentici (Bruno Bettelheim, Susan Sontag, Saul Bellow) — che stanno al gioco fingendo di avere cono­ sciuto Zelig e di essersene fatti un’opinione a quella del direttore della fotografia Gordon Willis, i cui trucchi fotografici utilizzati per invecchiare la pellicola costituiscono di fatto, per gli anni ottanta, un esempio di cinema tecnologicamente avanzato. Nel preciso momento in cui sullo schermo appaiono le imma­ gini delle sedute della dottoressa Fletcher filmate di nascosto dal cu­ gino, lo spettatore si ritrova dunque al centro di un labirinto visivo e concettuale senza via d’uscita: un film fasullo, che fìnge costantemente di essere ciò che non è, contiene scene fittizie (ma spacciate per documentarie e avvalorate come tali) di un uomo che finge compulsivamente di essere ciò che non è; condizione peraltro co­ mune al personaggio e all’interprete, posto che — come tutti gli attori di successo — anche Alien deve le sue fortune hollywoodiane alla propria capacità di uscire da un ruolo per entrare in un altro. E evi­ dente che in ’Zelig protagonista e film — i quali peraltro, in un enne­ simo gioco di specchi, portano lo stesso nome — si guardano a vicen­ da, affratellati da una sorta di irriducibilità identitaria che li porta ad essere, sempre c comunque, altri da séy oltre che cronologicamente altrove, aspetto a dove, nella società degli anni trenta come nel ci­ nema degli anni ottanta, ci aspetteremmo di trovarli. Da questo punto di vista Zelig può essere considerato, in rela­ zione ai temi trattati in questo libro, un film capostipite, poiché apre la questione dell’identità ad una lettura duplice, che riguarda al contempo i contenuti del film e le modalità con cui questi vengono presentati. Il fatto che l’elusività del personaggio rimandi a quella del film (e viceversa) pone lo spettatore in una condizione simile a quella della dott.ssa Fletcher; l’uno e l’altra costretti a prendere le misure ad un oggetto che si sottrae continuamente alla possibilità di 30

Un cinema che si fa altro

una classificazione univoca c stabile. Nello stesso tempo le parole con cui, nel corso della vicenda, il personaggio Zelig viene ripetu­ tamente definito una figura tipica della sua epoca sono altrettanto pertinenti al film Zelig, poiché è proprio negli anni ottanta che il ci­ nema americano comincia — soprattutto attraverso l’esplosione del fenomeno del remake — a sollecitare il pubblico sulla questione dell’identità in forme e modi che trascendono i contenuti. La questione dell’identità accomuna temi e forme in modi an­ cora più complessi ed articolati, che vanno al di là di una semplice corrispondenza, in due film usciti a inizio millennio, Far From Heaven (2002) e Cache (2005). Nel primo il regista Todd Haynes — riprendendo alla lettera lo stile del cinema melodrammatico di Douglas Sirk, in particolare di uno dei suoi film più celebri e cele­ brati, All That Heaven Allows (1955) — ambienta, negli anni cinquan­ ta e alla maniera estetica degli anni cinquanta^ una storia borghese di discriminazione razziale e sessuale che ha per argomento una cop­ pia emotivamente ingabbiata in un matrimonio infelice dal quale è impossibile uscire, poiché tutte le vie di fuga - il marito è gay, la moglie innamorata di un uomo di colore — sono inesorabilmente precluse dal conformismo sociale dell’epoca. A differenza delle pra­ tiche usuali nel campo del remake, dove contenuti e stile vengono entrambi attualizzati (è il caso ad esempio di un ulteriore rifacimen­ to del medesimo film di Sirk, La paura mangia Vanima, girato da Rainer Werner Fassbinder negli anni settanta) o lasciati inalterati ri­ spetto al modello originale, Haynes sceglie di ricalcare fedelmente la messa in scena originale, coniugandola però ad una trattazione di argomenti — dall’amore omosessuale a quello interrazziale — che sa­ rebbero stati impensabili in un film degli anni cinquanta. In questo modo, come bene ha scritto Marcia Landy, “la commistione di me­ morie del cinema del passato e di cinema contemporaneo complica le espressioni passate e presenti di genere, razza e omosessualità in seno alla famiglia bianca ed eterosessuale"1. In questo modo lo spettatore si ritrova di fronte un film che, al pari di Zelig,, pone la questione dell’identità su due livelli diversi. Il primo riguarda i personaggi, la loro lotta per trovare un improbabile punto di conciliazione fra l’apparenza della serenità coniugale e la sostanza di un matrimonio lacerato da pulsioni sessuali centrifughe.

1 M. Landy, Far From Heaven, in L. Gandini (a cura di), Il cinema ameri­ cano attraverso ifilm, Roma, Carocci, 2011, p. 175, 31

Fuori di sé

Il secondo contempla un film che sul piano dei contenuti, in virtù del tono esplicito con cui vengono trattati, tradisce quella stessa at­ tualità che contemporaneamente provvede ad occultare sul piano dello stile. Mentre in Zelig il parallelismo fra protagonista e film emerge, oltre che dal titolo, da una logica della contraffazione che caratterizza entrambi, in Far From Heaven la questione dell’identità accomuna personaggi e messa in scena nel segno di un rapporto problematico fra superficie e profondità, apparenza e sostanza. Alla luce di quanto afferma Zygmunt Bauman, secondo cui “nel nostro mondo fluido le identità sono vestiti da indossare e mostrare, non da mettere da parte e tenere al sicuro”2, è possibile trac­ ciare una linea divisoria fra identità e alterità che corre lungo lasse delfesteriorità e della visibilità. L’alterità non si oppone allora all’identità ma vi appartiene^ ne costituisce semmai la zona oscura, un tratto complementare che l’individuo prova, peraltro senza riuscirvi, a tenere nell’ombra. E esattamente ciò che avviene nel film — ai suoi personaggi, infelicemente protesi verso un’esistenza quotidiana capa­ ce di disinnescare e mascherare la loro emotività — ma anche al film, la cui sapiente opera di riscrittura dell’estetica anni cinquanta viene fatta deflagrare da contenuti che, in virtù della loro stessa presenza, ri­ velano che Far From Heaven, a dispetto dell’inappuntabile eleganza vintage del suo “abito”, in realtà guarda a quell’epoca da mezzo secolo di distanza. Sotto questo punto di vista, se Zelig è per eccellenza il film della contraffazione, Far From Heaven è quello che ne sancisce l’impraticabilità. Non perché certe questioni identitarie — con tutto il retaggio di discriminazioni c pregiudizi che sono loro proprie — negli anni cinquanta non fossero presenti e problematiche (in fondo, il film sostiene proprio il contrario); ma perché oggi, alla luce delle centralità filosofica e politica assunta dal tema dell’identità, è diventato impossi­ bile non metterle al centro del palcoscenico. Attraverso questa strada, rendendo problematica la propria stes­ sa identità di genere, il film chiama in causa lo spettatore e lo coinvol­ ge nell’argomento. In Far from Heaven, come bene scrive ancora Landy, “la violazione dei confini sociali viene sancita in termini per­ cettivi”3; infatti è appunto la modalità dello sguardo — dal quello atto­ nito della moglie sul marito colto in flagrante con l’amante dello stes­ so sesso a quello stupefatto della pettegola del paese che vede la donna

2 Z. Bauman, Intervista su iridentità, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 87. 3 M. Landy, Far Front Heaven, cit., p. 175. 32

Un cinema che si fa altro

in compagnia di un uomo di colore — a designare la portata dell’inter­ dizione sociale. Ed è nello stesso modo, sempre attraverso lo sguardo, che il pubblico è indotto ad affrontare la questione dell’identità. Se in Zelig lo spettatore si trovava di fatto a prendere le misure al film nel medesimo momento in cui la dottoressa Fletcher cercava di fare lo stesso con l’omonimo protagonista, qui i momenti di massima tra­ sgressione dei personaggi risultano, per chi li osserva da fuori, scon­ certanti in quanto anacronistici rispetto allo stile e alla ambientazione. Quasi che il film nella sua interezza si stesse cui upoi landò in modo indebito rispetto all’identità che gli abbiamo attribuito in partenza, contenesse tratti inappropriati non rispetto ai nostri codici morali, ma alle nostre aspettative circa quella tipologia di pellicola. A dispetto del­ la messa in scena, il film dunque cambia pelle sotto i nostri occhi, sifa altro, rompendo convenzioni non meno consolidate di quelle che re­ golano, all’interno della narrazione, le relazioni fra i personaggi. In entrambi i casi dunque ad essere messo in discussione è lo statuto delle immagini, di fatto il passaporto attraverso il quale il ci­ nema contemporaneo introduce lo spettatore al tema dell’identità e delle sue metamorfosi. Ne rappresenta un ulteriore esempio Caché di Michael Haneke, dove ancora una volta la relazione tra identità e alterità, quasi fosse troppo complessa e gravida di conseguenze per essere contenuta dalla struttura narrativa, finisce per tracimare e fluidificare anche il linguaggio con cui viene raccontata la storia. Al centro della quale troviamo un intellettuale parigino, conduttore di un apprezzato programma televisivo di letteratura, che improvvisa­ mente comincia a ricevere da un mittente sconosciuto videocassette in cui viene ripreso l’esterno della sua casa e strani disegni infantili dal contenuto cruento. I suoi sospetti al riguardo lo portano a rie­ sumare dalla propria infanzia un episodio di maldicenza in virtù del quale era riuscito ad impedire che i suoi genitori adottassero un bambino algerino, calunniato per far sì che essi appunto desistessero dal proposito di dargli un fratello. Nel film il rapporto del protagonista con l’alterità assume quin­ di, sul piano tematico, due forme: la prima in relazione ad un altro da sé — il ragazzino algerino di cui egli ha fatto modo di sbarazzarsi, ac­ cusandolo di una colpa inesistente; la seconda in relazione ad un altro sé, coincidente con il bambino capace di un gesto che in seguito, da adulto, egli aveva provveduto ad occultare dall’orizzonte dei propri ri­ cordi, poiché incongruente con la sua immagine/identità pubblica di intellettuale illuminato e politicamente corretto. Ad essere cruciale, per la definizione dell’argomento, è il fatto 33

Fuori di sé che l’episodio torni ad affacciarsi nella vita di Georges sotto forma di immagini prive di identità* nella fattispecie di quella forma di attri­ buzione identitaria rappresentata dalla firma o dal nome di chi le ha prodotte e spedite. Perché è su questo piano, sull’impossibilità di contestualizzare le immagini nel modo dovuto, che il film fa della questione dell’identità l’anello di congiunzione fra racconto e messa in scena da una parte, personaggi e spettatori dall’altra. In Caché siamo infatti costantemente dipendenti da immagini di cui non co­ nosciamo la natura nella stessa misura in cui il personaggio ne igno­ ra l’origine. Un’ambiguità esplicitata sin dalla sequenza iniziale, nella quale la lunga ripresa fissa della facciata del palazzo dove vive il protagonista assume improvvisamente un significato diverso allor­ ché fanno irruzione le voci fuori campo di due personaggi — quelle del protagonista e della moglie — che commentano le immagini e se ne chiedono il senso. Sancendo il passaggio dell’immagine del pa­ lazzo da un ambito cinematografico c descrittivo (un regista sta mo­ strando un edificio, quindi il film ha inizio in esterno e in modo neutro) ad uno proprio del video e diegctico (i coniugi stanno, in­ sieme a noi, guardando una videocassetta: quindi la narrazione ha avuto già inizio, peraltro in un interno, quello del loro salotto, non in esterno), l’assenza e la successiva presenza delle voci evidenziano l’ambiguità delle immagini, la precarietà del loro senso e, soprattut­ to, l’estrema difficoltà del compito di coloro che, come gli spettatori, sono chiamati ad attribuirgliene uno. Anche in seguito il film continuerà a cogliere di sorpresa il pubblico, da una parte giocando sulla sovrapposizione di immagini video e cinematografiche che, avendo gli stessi contenuti, risultano di fatto indistinguibili fra loro; dall’altra prendendosi gioco delle sue aspettative, come avviene nella sequenza finale, del tutto speculare alla prima (titoli di coda al posto di quelli di testa, ripresa frontale, fissa e prolungata di un edificio, questa volta quello della scuola fre­ quentata dal figlio del protagonista) ma priva del corredo di voci fuori campo che caratterizzavano il prologo. Voci che però, esatta­ mente per questo motivo, ci attendiamo da un momento all’altro. Naturalmente il semplice fatto che la ripresa finale sia priva di voci rivelatrici della presenza di qualcuno che le sta osservando in­ sieme a noi non esclude la possibilità di un osservatore ulteriore; al contrario, i rimandi alla sequenza iniziale sono tali che la sua pre­ senza sembra quasi aleggiare sulle immagini, a dispetto della assen­ za di una traccia sonora in grado di attestarne l’esistenza. Il che con­ sente al film di concludersi sulla stessa nota con cui si era aperto, nei 34

Un cinema che si fa altro

segno della suprema elusività delle immagini e della nostra conse­ guente difficoltà a riconoscerle - ovvero, ad attribuire loro un’iden­ tità. Peraltro nemmeno il protagonista è davvero riuscito a venire a capo dell’enigma innescato dall’arrivo delle videocassette e dei dise­ gni, posto che l’uomo che accusa del misfatto — il ragazzino a suo tempo calunniato, ora a sua volta un adulto — compie un gesto di follia che potrebbe suonare da ammissione di colpa ma anche, in modo altrettanto plausibile, tradire l’esasperazione di un individuo nuovamente, a distanza di decenni, perseguitato senza ragione. In questo modo Cache si chiude lasciando irrisolte tutte le que­ stioni identitarie aperte in principio. In perfetta coerenza col titolo originale, designa una poetica dell’occultamento destinata a mettere in difficoltà i personaggi quanto gli spettatori, costretti entrambi allo sfòrzo di destreggiarsi con identità labili e differenze precarie, talvolta impercettibili. Se la calunnia di cui si era macchiato Georges da bam­ bino rappresentava un tentativo di forzare la questione nel segno di una distinzione netta, tracciata lungo l’asse innocenza/colpa, tra la propria identità e quella del ragazzo algerino, nel suo presente la que­ stione della colpevolezza dell’altro, e dunque della sua diversità, toma a farsi opaca e confusa. Sul fronte della ricezione, lo spettatore viene a sua volta costretto in continuazione ad interrogarsi sull’origine di immagini ambigue sul piano del linguaggio; esattamente come, sul piano narrativo, il fatto che siano sprovviste di identità alimenta la confusione e i sensi di colpa del personaggio. Sarebbe improprio trascurare le forti implicazioni politiche del film di Haneke, legate al fatto che l’Algeria era un tempo una colo­ nia della Francia e che il bambino da adottare era il figlio di genitori che avevano perso la vita durante un noto episodio di repressione della polizia francese. Peraltro anche i due film precedenti, pur am­ bientati entrambi in epoche a noi distanti, sollevano questioni di estrema attualità, ancora oggi a dir poco controverse: se Far From Heaven fa appello ai sentimenti per parlare di identità razziale e di genere, Zelig si interroga sulla possibilità che l’identità individuale venga offuscata e obliterata da un desiderio, che il protagonista in­ carna nelle sue forme più patologiche, di conformismo e omologa­ zione sociale. Tuttavia, a distinguere questi tre film da innumerevo­ li altri che trattano temi impegnati e spinosi, è appunto la volontà di porre lo spettatore in una condizione diversa da quella che perlopiù gli viene inflitta in queste circostanze, basata sulla necessità indotta di solidarizzare automaticamente per qualsiasi forma di alterità venga, sullo schermo, discriminata, repressa ed emarginata. 35

Fuori di sé

L’identità in questo caso non rappresenta un tema da guardare dall’alto, assestandosi su una posizione morale innescata dalla defi­ nizione dell’intreccio e dei personaggi, ma una questione viva, che trafigge il film da parte a parte, penetrandone la carne. E sollecitan­ do nel pubblico forme problematiche di riconoscimento e attribu­ zione delle immagini, poiché Io stesso atto della visione viene inve­ stito di una serie di questioni che fanno della relazione controversa fra identità e alterità preliminarmente una esperienza percettiva ed estetica. E così che il film, lungi dal limitarsi all’esposizione di un argomento, se ne appropria al punto da esserne condizionato sul piano materiale, del linguaggio, al di là dei suoi contenuti. La precarietà identitaria delle immagini va peraltro ricondotta anche a ragioni di ordine storico ed estetico. Infatti sia il film di Al­ ien che quello di Haynes, sebbene realizzati a vent’anni di distanza l’uno dall’altro, possono essere contestualizzati al cinema postmo­ derno, nel quale, come bene scrive Luca Malavasi, “i modelli prove­ nienti dal passato — e più in generale l’idea stessa di cinema — sono continuamente sottoposti a processi di attualizzazione, riscrittura, deformazione e contaminazione”4. Quanto a Cache, appartiene in pieno alla poetica di un regista, Haneke, che della manipolazione delle immagini ha fatto un caposaldo del proprio cinema sin dal principio del suo percorso autoriale. Nello stesso tempo, questi tre film possono essere considerati dei precursori di una tendenza che andrà affermandosi nel cinema odierno, dove sono sempre più fre­ quenti le opere cinematografiche in cui la questione dell’identità non investe più semplicemente il piano dei contenuti, ma anche quello dell’immagine e della narrazione. Se, come scrive Francesco Remotti, “i valori della coerenza, dell’unità, della stabilità vanno nella direzione dell’identità”5, allora possiamo dire che questi valori vengono fatti deflagrare attraverso un articolazione del racconto e della messa in scena che lì lascia felicemente andare alla deriva. Nella convinzione che questo sia, oggi, il modo più adatto per in­ durre lo spettatore sì ad abitare la flessibilità che lo circonda sul pia­ no mediatico, secondo la tesi cara a Elsaesser, ma anche a rimpian-

4 L. Malavasi, Im stagione postmoderna, in G. Cariuccio, Malavasi, F. Villa (a cura di), Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche, Carocci, Roma, 2015, p. 143. 5 F. Reinotti, L’ossessione identitaria, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. XXI. 36

Un cinema che si fa altro

geme una dose maggiore in ambiti — politici, sociali e culturali — dove se ne sente drammaticamente la mancanza. I tre film presi in esame in questo paragrafo rappresentano quindi una sorta di primo sintomo di una intrigante tendenza, nella produzione contemporanea, ad affrontare le questioni dell’identità in modo più organico di quanto avviene nel campo del cosiddetto cinema impegnato. A riprova di questo, ritroveremo nelle pagine successive — in opere che slabbrano le maglie del racconto fino a farne un reticolo di possibilità alternative — le medesime questioni incontrate in precedenza: l’identità plurale, il suo rapporto col pas­ sato, la dialettica fra ripetizione e differenza, il ruolo giocato in quest’ambito dall’intreccio e dallo sguardo.

Cominciamo proprio da qui, dalla relazione fra sguardo e iden­ tità. Per affrontare la quale utilizzeremo un metodo apparentemente poco ortodosso, fondato sul confronto fra le parole di un personaggio cinematografico e quelle di una studiosa di cinema, in ragione dell’assoluta consonanza, concettuale e persino terminologica, delle due affermazioni. Diamo dunque la precedenza alle riflessioni di Deborah Knight, la quale, nella voce “Personal Identity” del presti­ gioso Routledge Companion to Philosophy and Film, afferma: L’identità personale è forse un aigomento che non può, nel ci­ nema narrativo c di finzione, essere esaminato compiutamente nella prospettiva contemplata dai suoi principali sostenitori fi­ losofici. Il cinema solitamente non ci consente di avere accesso allo stato soggettivo dei suoi protagonisti 1...]. Il cinema ci li­ mita l’accesso alle esperienze in prima persona; dunque, al massimo, i film che prendono in esame l’argomento ci permet­ tono dì vedere come le questioni relative all’identità personale possono apparire in terza persona, da quel punto di vista6.

Le parole di Knight giungono al termine di un saggio la cui prima parte è stata dedicata ad una disamina delle principali posi­ zioni filosofiche sul tema dell’identità. Le stesse che, secondo la sua opinione, il cinema narrativo non riesce ad affrontare come dovreb­ be, in ragione appunto di una adesione solo parziale, e comunque

* D. Knight, Personal Identity, in P. Livingston, C. Plantinga (a cura di), The Routledge Companion to Philosophy and Film, London-New York, Rout­ ledge, 2008, p. 619. 37

Fuori di sé

insufficiente, alla sfera soggettiva dei personaggi. L’affermazione suona sorprendente soprattutto alla luce del fatto che risale al 2009, dunque ad un periodo in cui il cinema ha già mosso passi decisivi verso una nuova rappresentazione della soggettività dei protagonisti. Ad esempio in un film dei fratelli Farrelly, Shallow Hai, protagoni­ sta un ragazzo ossessionato dalla bellezza femminile che, complice un guru della persuasione occulta, a sua insaputa viene suggestiona­ to in modo tale che improvvisamente le donne obese o sgraziate gli appaiono avvenenti e desiderabili. Quando il suo migliore amico, ir­ ritato dalla metamorfosi, intimerà al guru di riportare Hai alla con­ dizione originaria poiché ciò che vede in quello stato non è reale, questi gli domanderà con tono ironico che cosa gli impedisce di es­ serlo l^Whal keeps it from being real?”), ricevendo una risposta che fa nuovamente appello alla neutralità di uno sguardo “in terza perso­ na” if Third Part Perspective! People agreeing that is real!”). La prospettiva in terza persona pare dunque essere l’elemento a partire dal quale, in ragione della sua presenza o assenza, la que­ stione dell’identità può essere affrontata in modo appropriato e quella della soggettività, per contro, in maniera parziale e insoddi­ sfacente. In realtà il film dei Farrelly rappresenta un ottimo esempio di come, nel cinema contemporaneo, i due temi possano essere rac­ cordati con profitto. Poiché Shallow Hai adotta, come auspicato dal­ la Knight, una prospettiva in prima persona, corredata da due solu­ zioni che ne caratterizzano l’utilizzo. La prima, più convenzionale, prevede che al punto di vista soggettivo se ne affianchi uno diverso, oggettivo, in questo caso rappresentato appunto dall’amico. La se­ conda, decisamente più originale, prevede che lo sguardo alterato del protagonista non venga affatto contraddistinto come tale sotto il profilo formale. In altre parole, non vi è alcuna figura di stile che se­ gnali allo spettatore quanto sta accadendo al protagonista: il contro­ campo al suo sguardo sulle donne segue, dopo l’incontro col guru, criteri identici a quelli che lo caratterizzavano in precedenza. Alla base del film dei Farrelly, e più in generale di quelli che tratteremo in questo capitolo, sta lo strano paradosso di un cinema che si complica (sul piano narrativo) quanto più si semplifica (su quello stilistico). Poiché è evidente che l’assenza di tratti formali ca­ paci di segnalare al pubblico che lo sguardo di Hai è stato condizio­ nato finisce per destabilizzare lo spettatore, mettendolo in una con­ dizione precaria e alla lunga costringendolo, come bene ha scritto Giacomo Manzoli, “a sentirsi per una volta molto meno virtuoso dello stesso protagonista del film”. Veniamo infatti ridotti 38

Un cinema che si fa altro

al rango di shallow audience, dove la deficienza visiva del pro­ tagonista svela la ‘demenza’ dello spettatore, incapace di vedere la bellezza intcriore del personaggio femminile; il film in effetti ci pone costantemente di fronte a una serie di corpi che sareb­ bero classicamente definiti freaks ma che sono invece piena­ mente “soggettivati”, inseriti a pieno titolo nel racconto. Agenti che si comportano c fanno procedere il racconto esattamente come i personaggi normodotati, nonostante [...] menomazioni o diversità che siamo abituati a inquadrare appunto nel frame della mostruosità o del patetico7. Da qui l’importanza improvvisa di una prospettiva in terza persona, la stessa a cui fa appello l’amico di Hai per convincere il guru dell’arbitrarietà, percettiva e morale, del suo esperimento. Ma fondamentale anche per metterci nella situazione imbarazzante ap­ pena descritta: infatti - in assenza di figure di stile capaci di sancire una distanza fra i momenti in cui Hai ha occhi solo per la bellezza esteriore da quelli in cui vede solo quella interiore — si rende neces­ saria l’irruzione di uno sguardo impersonale, non soggettivo, tale da renderci improvvisamente consapevoli che le donne “da sogno” in­ contrate da Hai sono fisicamente sgraziate, quando non addirittura menomate. Saremmo tentati di scrivere che sono in realtà fisicamente sgra­ ziate, quando non addirittura menomate, se non fosse per il fatto che il film stesso — astenendosi dal segnalare stilisticamente l’eccentricità delle visioni del protagonista dopo l’incontro col guru - ha vanificato il senso di questa espressione. Ed è proprio qui — nel processo di smaterializzazione di quello che siamo convenzionalmente abituati a chiamare “reale” in un film - che Shallow Hai allarga gli orizzonti del rapporto fra identità e alterità al di là dei confini del politicamente corretto e del diversamente abile. Poiché ritroviamo qui, perfettamen­ te allineate ed equiparate, due modalità di sguardo che portano il film in direzioni opposte: se prima dell’incontro col guru le visioni di Hai tracciano la parabola delle disavventure sentimentali di un personag­ gio edonista e ossessionato dalla bellezza femminile, quelle successive descrivono il suo ingresso graduale nel mondo della solidarietà sociale e delle azioni umanitarie. In altre parole, Hai diventa un altro nel

7 G. Manzoli, I Farrelly e altri stooges: la demenza come fattore di decostru­ zione della vita sociale, in G. Cariuccio (a cura di), America oggi. Cinema, media, narrazioni del nuovo secolo, Torino, Kaplan, 2014, p. 202. 39

Fuori di sé

momento in cui il film a sua volta sifa altro. Ovvero, la sua superficia­ lità viene meno parallelamente a quella del film, che nella parte con­ clusiva si popola di corpi sgraziati e menomati, belli dentro anziché fuori, al contempo svelando allo spettatore di avere sin lì barato con gli sguardi e la loro rappresentazione. È appunto in virtù di questo gioco di prestigio, senza il quale ci troveremmo semplicemente da­ vanti ad un edificante ma stucchevole racconto di formazione, che il film supporta la trasformazione del personaggio con la propria. Nello stesso tempo, è interessante che Tidentità di entrambi, del film come del protagonista, dipenda da uno sguardo, inteso come forma di approccio alla, e relazione con, l’alterità. Non ha dunque tutti i torti il compare di Hai quando, lamentandosi col guru della suggestione visiva inflitta al protagonista, reclama a gran voce che gli venga restituito l’amico (/ want my friend bacf!): implicando evi­ dentemente non che egli sia scomparso, ma che il modo di guardare e concepire l’alterità sia alla base della sua identità (e della loro ami­ cizia). In parallelo, se come spettatori vogliamo fare amicizia con Shallow Hai, dobbiamo sia prendere dimestichezza col suo modo di guardare l’alterità - nel quale di tanto in tanto sguardi soggettivi ed oggettivi possono collimare oppure collidere, a seconda dei momenti — sia accettare il fatto che, per lo stesso motivo, la sua identità sia fluida quanto quella dei personaggi. I film dove i canoni di rappresentazione dello sguardo cam­ biano in corsa rimandano dunque a quella che nei nostri tempi or­ mai si è fatta, più che una verità filosofica, un’urgenza politica, mi­ rabilmente sintetizzata da Umberto Curi laddove afferma che “la relazione con l’altro costituisce la condizione senza la quale non è possibile il riconoscimento e l’affermazione della propria identità”.8 Nel cinema contemporaneo questa relazione, come vedremo anche in seguito, si manifesta secondo certe particolari occorrenze esteti­ che, che qui nella fattispecie riguardano i modi percettivi di rappor­ tarsi all'alterna. Da una parte l’essere e il guardare sono condizioni tutt’altro che automatiche; dall’altra sono fra loro fortemente corre­ late, al punto che da tale rapporto dipende l’identità delle narrazioni e dei personaggi che li abitano. Prendiamo ad esempio due film di un certo successo, l’uno più cupo e di nicchia, Fight Club di David Fincher, l’altro più conven­ zionale e vincitore di oscar, A Beautiful Mind di Ron Howard. In

* U. Curi, Straniero, Milano, Raffaello Cortina, 2010, p. 17. 40

Un cinema che si Fa altro

entrambi i casi il protagonista soffre di turbe mentali che lo portano a relazionarsi ad interlocutori immaginari che finiscono per condi­ zionarne profondamente il com porta mento. Nel mettere in scena il loro malessere, i registi tuttavia obbediscono nuovamente al mede­ simo principio di semplificazione che abbiamo visto essere alla base di Shallow Hai: nessuna figura di stile ci permette di ricondurre questi personaggi alle allucinazioni del protagonista, dunque di di­ stinguerli da quelli che invece ne popolano realmente resistenza. Il suo delirio quindi viene condiviso dallo spettatore per buona parte del film, sino a quando — nelle ultime sequenze in Fight Cluby a me­ tà racconto in A Beautiful Mind — egli viene improvvisamente in­ formato del fatto che il racconto ha barato sulla consistenza di alcu­ ni personaggi. Questo existential game changer, per usare la felice definizione di Garrett Stewart910 , riconfigura la relazione con lo spet­ tatore sotto tre aspetti differenti. Da una parte, come bene afferma lo stesso autore, mette in dubbio l’intera costruzione diegctica del film. In altre parole, il colpo di scena ci autorizza ad avere dubbi sulla consistenza anche degli altri personaggi, apparentemente immuni al delirio percettivo e psicologico del protagonista. Gli interrogativi di William Brown su Fight Club - pur sapendo che Tyler è una manife­ stazione esteriore della psicologia interiore del narratore, possiamo essere sicuri che lo stesso non valga per tutti gli altri personaggi del film™? sono dunque non soltanto condivisibili, ma anche estendibili al film di Howard, dove addirittura di figure simili ne abbiamo tre. In secondo luogo, riprende ed estremizza l’idea di Shallow Hai che l’identità dell’individuo sia innanzitutto ancorata al modo di vedere, guardare e giudicare l’altro. Le azioni dei protagonisti, da sempre fondamentali per la loro definizione caratteriale e valoriale, sono in questi film subordinate a quello che essi vedono o credono di vedere: che ne sarebbe ad esempio del progetto eversivo di Fight Club se il narratore non incontrasse Tyler Durden? In terzo luogo, questa finzione bulimica, per sfamare la quale la natura illusoria dei personaggi si estende oltre i confini della narrazione iniziale e prin­ cipale, consente al film di avere un’identità plurima. Perché è ap­ punto la presenza di Durden a consentire a Fight Club di abbando­ 9 G. Stewart, Fourth Dimension, Seventh Senses: the Wor% of MindGaming in the Age of Electronic Reproduction, in W. Buckland (a cura di), Hol­ lywood Puzzle Films, London-New York, Routledge, 2014, p. 168. 10 W. Brown, Supercinema. FiIm-Philosophy for the Digital Age, New York-Oxford, Bcrghahn, 2013, p. 66. 41

Fuori di sé

nare l’analisi di un personaggio stressato dalla vita metropolitana per diventare un altro film, improvvisamente innervato di una fisici­ tà e di una violenza che gli erano inizialmente estranee; allo stesso modo, i tre compagni immaginari del matematico John Forbes Nash consentono a Beautiful Mind di assumere tratti ora goliardici (nella sequenza in cui i due studenti scaraventano la scrivania fuori dalla finestra) ora spionistici (quando il protagonista viene ingaggia­ to dai servizi segreti), comunque distanti dal (melenso) melodram­ ma familiare che prenderà il sopravvento dopo la loro scomparsa. Questi personaggi fungono dunque, nell’economia narrativa del film, da maschera: la loro apparizione o sparizione ne determina l’identità, gli attribuisce determinati tratti piuttosto che altri. Sotto questo profilo, bene scrive Warren Buckland quando, nell’introdu­ zione ad un suo volume sull’argomento, afferma che i puzzle films appartengono ad una cosiddetta “excessive side” di Hollywood11. Un’eccessività identitaria, che mette in gioco la fisionomia comples­ siva del film riconfigurando e problematizzando - è il caso di dirlo, sotto i nostri occhi — il concetto di visione. Emblematica al riguardo la posizione dei tre personaggi di Beautiful Mind, i quali — a differenza di quanto avviene con Tyler Durden, che sparisce da Fighi Club nel momento in cui il protagoni­ sta prende coscienza della sua natura fantasmatica — finiscono ai margini del racconto ma pur sempre dentro la messa in scena, presen­ ti negli ambienti attraversati da Nash, verso il quale — in attesa di esse­ re da lui eventualmente interpellati - gettano sguardi ora risentiti, ora speranzosi. Se Fighi Club espelle la diversità, pagandone un prezzo in termini narrativi — il film da lì a poco si conclude — e iconografici - il crollo conclusivo dei palazzi rimanda simbolicamente ad un collasso del racconto — Beautiful Mind la tiene a bordo campo, pronta a rien­ trare in partita. Non per caso lo stesso Nash, in un dialogo rivelatore con un collega, paragona la sua condizione di uomo consapevole del­ la impalpabilità dei suoi interlocutori, e quindi della necessità di igno­ rarli, a quella di un individuo a dieta: l’eccesso - di racconto, di op­ zioni narrative — va appunto evitato, per il bene del personaggio e, probabilmente, del film. È per questo che si esce da Beautiful Mind con la sensazione che la schizofrenia del protagonista sia condivisa dal film, a sua volta in equilibrio precario fra diverse possibilità narra­

11 W. Buckland, Introduction, in W. Buckland (a cura di), Hollywood Puzzle Films, cit., p. 2. 42

Un cinema che si fa altro

tive; e che le questioni relative ai confini dell’identità e agli orizzonti della visione finiscano, un po’ come il treno nel celebre aneddoto sulla prima proiezione del cinematografo Lumière, per tracimare dallo schermo ed invadere la platea. Nello stesso tempo la figura di Nash è emblematica di un ten­ tativo, faticoso e dall’esito incerto, di prendere gradualmente dime­ stichezza col concetto di un’identità plurima, che può contrarsi ed estendersi in consonanza al rapporto con l’alterità. In questa scelta troviamo racchiuse due lezioni. I-a prima, di carattere filosofico, riguarda l’idea che l’identità sia flessibile proprio perché legata a filo doppio all’alterità, ovvero ai modi con cui guardiamo (in senso, come abbiamo visto, non soltanto meta­ forico) e ci rapportiamo ad essa. La seconda riguarda invece più da vi­ cino il cinema, i suoi spettatori, a loro volta sollecitati a prendere gra­ dualmente dimestichezza con un’identità precaria, quella del film che scorre davanti ai loro occhi, sempre pronto ad inoltrarsi in direzioni narrative differenti da quelle intraprese all’inizio; in altre parole, sem­ pre pronto a diventare altro, a dispetto delle premesse di partenza. Una dimostrazione di flessibilità narrativa che per il pubblico si tra­ duce puntualmente in un apologo sulla relatività identitaria sia del cinema che degli individui che ne popolano le storie. Vedremo nel prossimo capitolo come questo tema — a riprova della sua centralità nel panorama contemporaneo — possa reggersi su impalcature formali e narrative differenti da quelle affrontate qui, che generano una mol­ tiplicazione non degli sguardi ma dei corpi.

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Capitolo secondo

CORPI E MEMORIE

All’interesse del cinema odierno per l’identità possiamo senz’al­ tro ricondurre il tema della clonazione, che, pur non essendo inedito, occupa un posto di rilievo nella fantascienza contemporanea. Come già in passato, esso risulta idoneo a sollecitare interrogativi che metto­ no in dubbio la cosiddetta concezione continuista dell’identità, fonda­ ta su un ideale di identità pura e omogenea nel tempo, che di fatto rappresenta, come scrive Vincenzo Costa, “la matrice formale che guida l’intera storia della metafisica”. 1 Nello stesso tempo l’argo­ mento apre questioni di essenzialità e replicabilità che non hanno per oggetto soltanto l’identità dell’ individuo ma anche quella del cinema, a sua volta oggi, in ragione dell’aflfermazione del digitale, controversa e tutt’altro che definita. Come bene scrive Luca Malavasi: Le classiche figure del doppio c del clone [sono] destinate oggi, come rivela moka fantascienza “umanistica” contemporanca[...], a confrontarsi con gli originali nel segno di una dispu­ ta sempre più problematica suH’identità. Sono implicati qui temi come ('autenticità dell’esperienza c della memoria ma, anche, l’analisi di un reale tecnologico che appunto fa eccezio­ ne deH’umano, o lo assimila al punto di neutralizzarlo: la dis­ soluzione tecnologica di un principio dì autenticazione dell’originale finisce così per toccare il nocciolo “ontologico” della digitalizzazione2.

La figura del clone appare però anche idonea ad introdurre un discorso sul rapporto fra identità e alterità che non ruota più attorno

1 V. Costa, Alterità, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 71. ‘ L. Malavasi, Dopo il postmoderno. Il cinema contemporaneo, in G. Car­ iuccio, L. Malavasi, F. Villa (a cura di). Il cinema. Percorsi storici e questioni teo­ richey Carocci, Roma, 2015, p. 179. 45

Fuori di sé

al tema dello sguardo, come abbiamo visto nel capitolo precedente, ma al corpo e alla fisionomia dell’interprete, la cui natura duplicabi­ le apre questioni che finiscono inevitabilmente per sommuovere l’intera struttura narrativa. Sino al punto in cui, ancora una volta, a farsi “altro” non è semplicemente il personaggio, ma il film nel suo complesso, implicato in relazioni instabili e fluide dove la precarietà identitaria dei corpi determina quella del racconto, c viceversa. Ve­ diamo al riguardo due film suH’argomento che presentano fra loro più di un’analogia, Moon (2009) e Oblivion (2013). Fra queste, due assai significative: la prima è rappresentata da un’introduzione che in entrambi i film spiega come, per vari motivi, il nostro pianeta ab­ bia subito un deterioramento tale da richiedere missioni spaziali alla ricerca di fonti alternative di energia e di vita; la seconda dal detta­ glio che vede i due protagonisti, che in queste missioni svolgono un ruolo cruciale, prendere consapevolezza di essere un clone soltanto a racconto inoltrato, dunque quando ormai il film pare avere preso una strada, e quindi assunto un’identità, compiuta. La parte introduttiva di Moon vede l’astronauta Sam condurre, nella navicella spaziale di stanza sulla luna, una vita solitaria, scan­ dita sul ritmo di abitudini che mettono in scena relazioni e opposi­ zioni canoniche per il genere fantascientifico. Da una parte quella fra uomo e macchina — egli conversa e bisticcia con un computer dalla voce suadente, Gerty, che rimanda evidentemente al cervello di 2001 - dall’altra quella fra uomo e donna, segnata dalla distanza e dalla nostalgia: per rinfrancarsi e prepararsi all’ormai imminente ri­ torno sulla terra, nei momenti liberi Sam guarda videoregistrazioni dove la moglie, Tess, lo conforta e gli dice quanto lei e la figlia sen­ tano la sua mancanza (“1F? miss you!”). Sequenze che corroborano l’identità del film, sancendone l’appartenenza al genere fantascienti­ fico, e quella del personaggio, figura di astronauta solitario ma con un retroterra sociale (ha una famiglia) e di tecnologo dal volto uma­ no, come bene evidenziano i colloqui semiseri con Gerty. Almeno sino a quando lo you della frase pronunciata da madre e figlia si fa improvvisamente problematico, in seguito all’apparizione sulla na­ vicella di un altro Sam, identico al primo, la cui presenza obbliga il film a diventare altro a sua volta^ modulando relazioni e conflitti non sulla lunghezza d’onda di antitesi consolidate ed evidenti, ma al confine, quanto mai sottile e precario, fra identità e differenza. Infatti da questo momento l’alterità, abbandonato ogni criterio di opposizione, si manifesterà come una forma di differenza nell’identità, posto che i due Sam sono identici, varianti clonate di 46

Corpi e memorie

un originale che non vedremo mai. Piccole tracce esteriori - dovute prima ad una colluttazione, poi al deterioramento fisico del clone da più tempo sulla navicella, destinato appunto ad essere rimpiazzato dal nuovo arrivato - consentono allo spettatore di distinguere i due personaggi, nel frattempo a loro volta impegnati a prendere dimesti­ chezza con una versione speculare del sé, di conseguenza con l’idea di non essere unici, tanto meno irripetibili. A venire messo in discussione dalla clonazione è quello che Paul Ricoeur, in un testo sull'identità, chiama “il primato epistemo­ logico delTio”, basato sulla tendenza a valutare gli altri in base ad un principio di analogia con la propria soggettività: “chiunque dice 'io' vuole dire che incontra 4tu soltanto come colui di cui sa che dice *io'per se stesso”*. In questo caso tuttavia la specularità vanifica sul piano ontologico la possibilità di un primato epistemologico, offuscando i confini identitari dell’io, senza i quali è obiettivamente difficile, per rimanere all’esempio di Ricoeur, azzardarsi a dire “tu”. Come peral­ tro bene evidenziato da uno dei primi dialoghi fra i due, nel corso del quale ciascuno è riluttante ad abbandonare la posizione propria dell’io - Why do I lool^ lihe you and dont' you looh Uh? chiede con tono sospettoso un clone all’altro - nella illusione che essa possa certificare, se non un’originalità assoluta, almeno una priorità onto­ logica. La risposta che ottiene — “Z guess that tve looh Hhe each other” — sancisce una condizione di reciprocità sotto il segno della quale si svolgerà poi il resto della vicenda, nel corso della quale i due cloni, abbandonata ogni forma di diffidenza e ostilità, provvederanno ad allearsi per rispedire sulla terra almeno uno dei due e smascherare così la corporation che li ha ingannati, occultando la replicabilità della loro natura. Non è sorprendente che, nel corso della loro controffensiva, il pubblico da un lato apprenda che Tess è morta da tempo, dall’altro sia testimone dello spegnimento di Gerty, ostile all’ammutinamento dei due cloni. Questo perché il film, come abbiamo detto, muta anch’esso pelle, quasi fosse a sua volta generato da una clonazione che lo rende apparentemente uguale a quello precedente — gli spazi sono gli stessi, il genere è il medesimo — ma in realtà diverso, poiché le relazioni originarie, basate su nozioni di identità e alterità ben de-

' Giustizia, amore e responsabilità. Un dialogo tra Emmanuel Levinas e Paul Ricoeur, in E. Ix:vinas, G. Marcel, P. Ricoeur, Il pensiero dell'altro, Roma, Edizioni lavoro, 1999, pp. 74-75, 87. 47

finite, vengono ora rese obsolete e soppiantate da rapporti identitari nuovi, più complessi da raccontare e definire. Il film su\Vindividua­ lità, di un astronauta nello spazio, diventa improvvisamente un film sulla pluralità, alla nuova conformazione del quale lo spettatore de­ ve adattarsi in fretta, accettando a sua volta di orientarsi nel labirinto delle identità e delle differenze con quanto avvenuto in precedenza. Come infatti la differenza fra i due cloni corre lungo l’asse del dete­ rioramento — quello che sta per scadere sarà, da un certo momento in poi, visibilmente più malridotto deH’altro — così quella fra i due film riguarda la presenza nel “primo” di stereotipi che non ritrovia­ mo nel “secondo”, dove l’iconografia del genere viene finalizzata a riflessioni di stretta attualità. Queste riguardano il cinema ma non solo, considerato che Moon obbliga il suo pubblico a riconsiderare la questione dell’identità da prospettive nuove, in termini di pluralità piuttosto che di individualità. Non è un caso infatti che il tema della clonazione sia tornato in auge nel cinema contemporaneo proprio ora, in una congiuntura storica nella quale l’associazione fra immagine e identità pare — ed è tutt’altro che una buona notizia - essersi fatta più salda e diffusa. Come bene scrive, in un recente volume di filosofia dell’immagine, Federico Vercellone: Per un verso le immagini producono identità. Potremmo anzi affermare che l’identità moderna matura attraverso l’imma­ gine. Dal ritratto alla fotografia, dalla fotografia alla polaroid, dalla polaroid al selfie per venire all’ecografia del nascituro, l’immagine del sé, sempre più tecnologicamente connotata, fa­ cilitata quanto ai mezzi della propria produzione, si propone come un’immagine stilizzata della propria identità. In tutti questi casi si tratta in fondo di un’identità idiosincratica ma universale in quanto essa viene stilisticamente mediata, resa ri­ conoscibile a tutti per il tramite di una tecnologia condivisa. [...] L’identità, anche quella più regressiva, si universalizza così paradossalmente attraverso il medium tecnologico. L’ap­ partenenza a... si esprime attraverso le immagini’.

È proprio rispetto a tale scenario che questi film vanno contro­ corrente; ed è significativo che a farlo sia appunto una forma spetta-

4 F. Vercellone, // futuro dell'immagine, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 91,95.

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colare, il cinema, che sul rapporto univoco fra immagine e identità, lo dimostra ad esempio il fenomeno del divismo, ha basato le pro­ prie fortune. In questo caso invece lo sdoppiamento dei protagonisti problematizza la questione, a partire dall’evidenza che vede il corpo di un attore, quindi di un personaggio, assumere un’identità dupli­ ce, con conseguenze che, come abbiamo potuto vedere, non possono non ricadere sull’identità, questa volta narrativa, del film. Lo stesso meccanismo è all’opera nel più recente Oblivion, do­ ve però si colora di sfumatole ukeiiuii, legale essenzialmente al fat­ to che nel ruolo del protagonista troviamo un divo hollywoodiano come Tom Cruise, qui nei panni di Jack Harper, addetto al control­ lo delle fonti energetiche in un futuro — risorse esaurite, pianeta ter­ ra desertificato e ravvivato da qualche relitto - non meno distopico di quello prefigurato da Moon. Anche in questo caso la scena clou è quella dell’incontro/scontro fra i due cloni, il 49 e il 52, dove la tran­ sizione dalla sorpresa all’aggressività è persino più rapida che in Moon, poiché la posta in gioco qui non riguarda più soltanto un personaggio, di cui i due sono varianti, ma anche l’attore. In Obli­ vion infatti il vero “altro” — come pure in un altro film di cui ci oc­ cuperemo più avanti, Edge of Tomorrow — è appunto Cruise, nella fattispecie la sua immagine ed identità di star del cinema d’azione. È per questo motivo che lo scontro fra cloni non prelude ad un’alleanza come in Moon, ma ne lascia vivo solo uno: i cui compiti, da quel momento in poi, non saranno più di semplice sorveglianza dei droni che difendono i generatori di energia, ma di combattimen­ to alla guida dei ribelli che su di essi vogliono mettere le mani. Sul piano narrativo il clone sopravvissuto prende gradualmente consa­ pevolezza di avere militato, in origine, nella fazione opposta a quel­ la in cui si trova ora; ed è appunto con i ribelli che torna a schierarsi, una volta resosi conto di essere stato, in precedenza, manipolato da una forza aliena. Ma il colpo di scena naturalmente è funzionale al riallincamcnto di Cruise, e del film intero, sulla mappa del cinema d’azione, dove personaggio ed attore possono finalmente trovarsi, e muoversi, a loro agio. Ancora una volta quindi il cambio d’identità riguarda anche il film, posto che Oblivion nella prima parte, quella in cui clone 49 obbedisce ignaro alla volontà aliena - mette in scena una fantascienza algida e high-tech che tarpa le ali all’eroismo del protagonista e alla necessità della trama di incanalarsi lungo i binari del genere che lo possono consentire. La frase che esprime la gioia dei ribelli per avere ritrovato il loro leader, sia pure nella forma di un clone dell’originale — “Welcome bacl^t Commanded — rimanda dun­ 49

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que anche ad un’altra soddisfazione, quello dello spettatore, che può implicitamente dare del bentornato al tipo di film che presumi­ bilmente si aspettava sin dal principio. La questione identitaria, qui come in Moon, dunque corre pa­ rallela su due fronti, fra loro accomunati dall’idea che l’alterità non si opponga all’identità, ma sia ad essa strettamente connessa, nel se­ gno della differenza. In entrambi i film nei protagonisti l’accetta­ zione della propria natura di cloni passa attraverso un processo di consapevolezza che la propria identità, lungi dalTessere inviolabile ed irriducibile al prossimo, può al contrario essere replicabile, quin­ di altra, senza per questo perdere di valore. E in quanto cloni, con­ sci e forse persino orgogliosi di esserlo, che i personaggi prendono in mano il proprio destino, aprendo i rispettivi film a possibilità nuove, altre rispetto a quanto prefigurato all’inizio. In quest’ottica anche il preambolo distopico che accomuna i due film, sotto il segno di una terra devastata c disperatamente alla ricerca di nuove fonti di ener­ gia, può essere letto come metafora di un cinema che ha oggi neces­ sità di approvvigionarsi altrimenti, di alimentarsi con narrazioni al­ ternative, svincolate da contrapposizioni identitarie troppo risapute e convenzionali. E capaci di aprirsi a suggestioni che rimescolano le carte del rapporto fra immagine e identità, minando il principio di complementarità rigida che dovrebbe saldare l’una all’altra. Nello stesso tempo la riflessione sull’identità passa, nei film sulla clonazione, anche attraverso il tema della memoria. Poiché sia Moon che Oblivion non affrontano l’argomento a partire dalla du­ plicazione di un esemplare umano originale, mettendo invece al centro della ribalta solo e soltanto creature replicate, rimane aperta la questione del ricordo, attorno al quale si gioca la possibilità che il clone sia dotato, al di là delle fattezze esteriori, di una identità for­ giata nel tempo. E soprattutto Oblivion ad approfondire l’argo­ mento, anche in virtù del fatto che il corpo stesso di Cruise reca su di sé le tracce di una memoria cinematografica di genere che, conic abbiamo visto, il film alla lunga non può permettersi di ignorare. Tormentato da ricordi frana mentali della sua vita terrena in compa­ gnia della moglie Julia, il clone 49 di Harper viene in principio invita­ to dal clone femminile che ne supporta il lavoro, Vika, a sbarazzarsi del passato (“Oz/r job is not to remembermentre in seguito proprio Julia rivolgerà al clone 52 parole che vanno nella direzione opposta (“Those memories are you, Jac%”). Tra una frase e l’altra la vicenda traccia quindi una parabola di graduale riappropriazione dei ricordi da parte di Jack, che nella sua versione 52 non solo riacquista padro­ 50

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nanza del proprio ruolo di comandante dei ribelli, ma rimette a fuoco anche la sua relazione con la moglie. Ed è appunto sotto il segno del ricordo di un’affettività condivisa fra i due cloni, accomunati dalle stesse memorie, che si materializza il paradosso di un’identità al con­ tempo singola e multipla, individuale e plurale, suggellata dalla frase che clone 52 - in procinto di ricongiungersi definitivamente alla mo­ glie dopo avere sconfitto gli alieni - pronuncia pensando al suo prede­ cessore: “1 know him, I am him and I'm home'. Certo, possiamo leggere il paradosso di una prima persona che si fa terza semplicemente in rapporto al genere, la fantascienza, e al tema, la clonazione. Ma quanto detto in precedenza consente di ri­ ferirlo anche al suo interprete, che può ora — complice un film che ha cambiato identità in corso d’opera— sentirsi davvero “a casa”. I personaggi interpretati da Cruise nel territorio del cinema d’azione hanno caratteristiche analoghe ai cloni: simili ma non uguali, iden­ tici ma diversi. L’analogia permette dunque alla memoria di giocare in Oblivion un ruolo cruciale su piani differenti, testuali ed interte­ stuali, facendo del film una sorta di apologo sull’identità — fluida, duttile e quindi replicabile — sia dell’attore che del personaggio. Nel cinema contemporaneo sono frequenti i casi in cui la memoria rappresenta lo specchio girevole nel quale il film fa ruotare la propria identità narrativa, replicando in questo modo i tratti pro­ blematici che essa assume nella definizione dei personaggi. Non è per caso che nei film a rompicapo, come bene ha fatto notare Tho­ mas Elsaesser, “la schizofrenia e l’amnesia sono le due forme predi­ lette di disordinamento dell’identità e dissociazione del personag­ gio”5. Nello stesso tempo, entrambe sono egregiamente funzionali ad innescare quello che abbiamo definito il paradosso supremo di questo cinema, quanto più semplice nello stile, tanto più complicato nella narrazione. In ambedue i casi ad essere rimosse dalla messa in scena sono infatti le tracce formali che definiscono e circoscrivono le allucinazioni del protagonista o i suoi viaggi a ritroso nel tempo. L’effetto, quando si parla di figure afflitte da amnesia, è un offu­ scamento dei confini tra passato e presente, in seguito al quale — nella vita del protagonista - il primo tende a mescolarsi al secondo in modo disordinato e incoerente. Le conseguenze sul fronte identitario sono

5 T. Elsaesser, The Mind-Game Film, in W. Buckland (a cura di), Puzzle films. Complex Storytelling in Contemporary Cinema, Oxford, Wiley- Blackwell, 2009, p. 24. 51

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inevitabili, posto che, come afferma ad esempio la sociologa Barbara Misztal, “la memoria e l’identità dipendono Tuna dall’altra non solo da quando è l’identità ad essere radicata nella memoria, ma anche da quando ciò che è ricordato viene definito da una data identità”6. Ad uscirne scompaginata, come vedremo nei tre film che prenderemo ora in esame, è però anche la struttura narrativa, che fino all’ultima se­ quenza stenta a trovare un assetto stabile e definito. Alla base di questi film troviamo un grave incidente stradale, trasparente metafora spaziale — qui come in svariati altri casi - di una linearità e una direzionalità interrotte: inceppatasi la possibilità di un racconto progressivo, sulla superficie del film vengono così a galleg­ giare una serie di frammenti narrativi, sotto forma di oggetti e di icone che non trovano una loro collocazione precisa. In Stay (2005) è Hen­ ry, la vittima dell’incidente nel quale sono morti la ragazza e i genitori che si trovavano con lui in automobile, a partorire, mentre giace ago­ nizzante sull’asfalto, uno scenario fantasmatico che rielabora in chia­ ve narrativa e caratteriale le persone accorse in suo aiuto. Questa sorta di epifania agonica, dove la memoria dell’evento è stata obliterata dal­ lo choc subito, coincide con la narrazione quasi sino alla conclusione, dove finalmente verrà svelata la natura soggettiva, precaria e allucina­ ta dei personaggi e degli eventi rappresentati in precedenza. Tuttavia, sebbene il film riservi per il finale questa sovversione di attendibilità del racconto, l’epifania di Henry — nella quale il ra­ gazzo che lo assiste sulla strada, Sam Foster, è il suo psichiatra, al quale egli annuncia di volersi togliere la vita entro tre giorni, e la ra­ gazza accorsa a sua volta in aiuto, Laila, la sua fidanzata — viene rac­ contata in modo così frammentario e disorganico da risultare quasi subito improbabile. Da una parte la vicenda è segnata da una serie di ricorrenze - un palloncino scappato di mano ad un bambino, il Broo­ klyn Bridge visto da un auto in corsa, una ragazza che prova VAmleto — che ossessionano Sam, vero protagonista della storia, in quanto “at­ traversato” dalla immaginazione del moribondo che la sta partorendo. Dall’altra il racconto nella parte conclusiva si inceppa e ritorna osses­ sivamente sulle medesime scene, dando l’impressione di cercare a fa­ tica una strada narrativa su cui poter finalmente scorrere. In questo modo il film riflette, proprio a partire dal modo in cui gli episodi della vita di Sam immaginata da Henry si sparpagliano disordinatamente

6 B. Misztal, Sociologìa della memoria, Milano, McGraw-Hill, 2007, p. 167. 52

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per il racconto, il disorientamento di un uomo che ha improvvisa­ mente perso, oltre alla memoria, le coordinate spazio-temporali della propria esistenza. Stay dunque non rappresenta il trauma di Henry, arginandone la confusione mediante criteri stilistico-narrativi di equi­ librio spaziale e linearità temporale, semmai si sintonizza sulla lun­ ghezza d’onda del suo smarrimento, accumulando e reiterando fram­ menti cui solo alla fine verrà attribuita una parvenza di ordine e senso. In un saggio sui racconti cinematografici ‘dai sentieri che si biforcano” (con esplicito riferimento alla novella di Borges), David Bordwell giunge alla conclusione che sarebbe meglio definirli come “narrazioni a versioni multiple”, con l’ultima in ordine cronologico che si presenta come la “revisione più completa e soddisfacente”.7 Stay rappresenta un egregio esempio al riguardo, in quanto la sua identità narrativa rimane aperta e flessibile praticamente fino all’ultima sequenza. Forse persino oltre: il film infatti si chiude su Sam e Laila che, traumatizzati dal contatto ravvicinato con un mo­ ribondo, decidono di andare a prendere un caffè insieme, innescan­ do così una dinamica di interesse reciproco che richiama il rapporto di coppia fra i due immaginato da Sam nella sua allucinazione. Il che da un lato dà al delirio del ragazzo riverso sulla strada un tono di premonizione, dall’altra genera l’impressione nel pubblico che il film sia prigioniero di un loop, che lo condanna, nelle ultime inqua­ drature, a fare da prologo a se stesso. Dunque non una poetica della rivisitazione ma della ripeti­ zione anima internamente questi film. Le ridondanze che li caratte­ rizzano ne generano poi una complessiva, che chiama in causa il film nella sua interezza, impossibilitato ad eludere la propria preca­ rietà narrativa, dunque ad assumere un’identità stabile. Sotto questo punto di vista il cinema fa proprio un assunto ormai consolidato nel campo della sociologia, quello che vede nella narrazione il punto di ancoraggio delfidentità individuale. Come bene scrive Alberto Melucci, “il narrare è uno dei modi per rispondere alle sfide dell’iden­ tità”, in quanto “la narrazione come spazio che contiene e che apre nello stesso tempo [...] sembra rispondere al difficile compito di te­ nere insieme la molteplicità e l’incompiutezza dell’io contempora­

7 D. Bordwell, Poetics of Cinema, London-New York, Routledge, 2007, p. 184. 53

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neo e il suo bisogno di riconoscersi e di essere riconosciuto”8. Certo cinema contemporaneo obbedisce alle medesime caratteristiche proprio in casi come questo, dove l’identità del film si fluidifica di pari passo con la narrazione, venendo da essa trascinata in un vorti­ ce di precarietà e provvisorietà. E in quest’ambito che il tema del ricordo — o meglio della sua assenza — gioca un ruolo cruciale. Annette Kuhn ha in modo per­ suasivo affermato che “le storie memoriali possono certamente esse­ re trattate come narrazioni”, sebbene di un tipo particolare, poiché in esse “il tempo raramente è continuo o sequenziale: le storie me­ moriali vengono spesso narrate sotto forma di montaggio di vignet­ te, aneddoti, frammenti, istantanee”.9 Il tema dcll’amnesia o della memoria lacunosa - proprio perché, nelle sue rappresentazioni, in­ termittente, non conseguenziale, ridondante - diventa lo strumento che permette al film di slabbrare la propria identità contempora­ neamente a quella del personaggio. Prendiamo ad esempio due film apparentemente molto di­ stanti fra loro, The Machinist (2004) e 50 First Dates (2004), dram­ matico e cupo il primo, comico e leggero il secondo. All’origine di entrambe le vicende troviamo nuovamente il motivo dell’incidente stradale, riconducibile letteralmente al(la) protagonista, defila) qua­ le giustifica l’amnesia, e metaforicamente al film, che ci appare sin dal principio come sinistrato, fuori asse, narrativamente scoordinato. In 50 First Dates l’amnesia di Lucy, una ragazza che dopo l’inci­ dente ogni mattina si risveglia senza ricordare nulla del giorno pre­ cedente, sollecita nei suoi cari reazioni e rimedi differenti. Da una parte abbiamo il piano orchestrato dal padre e dal fratello, basato su un principio di ripetizione', i due uomini ogni giorno inscenano una replica letterale della giornata dell’incidente, in cui si sarebbe festeg­ giato il compleanno del padre: stessa torta, stessa partita di football alla televisione, stessa copia del quotidiano. Dall’altra abbiamo Hen­ ry, il ragazzo che nel frattempo si è innamorato di lei, il quale trac profitto dalla situazione per orchestrare una serie di varianti della me­ desima giornata, il cui copione consiste prima nella conoscenza “ca­ suale” della ragazza, poi nella sua seduzione, infine in un bacio ro-

s A. Malucci, Costruzione di sé, narrazione. riconoscimento, in D. Della Porta, M. Greco, A. Szakolczai (a cura di), Identità, riconoscimento, scambio, Roma-Bari, Interza, 2000, pp. 3-8-39. ° A. Kuhn, An Everyday Magic. Cinema and Cultural Memory, IjondonNew York, Tauris, 2002, p. 11. 54

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mantico sullo sfondo di uno scenario, anche in questo caso, sempre uguale (in quanto suggestivo e pittoresco), e sempre diverso (in quan­ to mai identico alla volta precedente). Così facendo Henry, che pure potrebbe, date le premesse, essere considerato come un personaggio cinico ed approfittatore, salva la ragazza e soprattutto il film, la cui li­ nearità narrativa è frustrata dalla rappresentazione delle repliche mes­ se in scena dai suoi familiari. Lo stratagemma del ragazzo permette dunque a 50 First Dates di essere al contempo fedele sia all’identità di­ chiarata nel titolo — dopo tutto, ogni incontro con Lucy coincide con una first date — che a quella di genere, poiché di fatto quella cui stia­ mo assistendo è proprio una commedia romantica, sia pure incline ad evolversi in orizzontale piuttosto che in verticale. Una orizzontalità dal valore ermeneutico;, poiché contiene una lezione di flessibilità indirizzata allo spettatore. La quale si fa più nitida nella seconda parte, quando siamo testimoni di un radicale cambio di prospettiva, che cambia profondamente l’identità del film. Nella prima parte infatti osserviamo la ragazza dall’esterno, attra­ verso la mediazione rappresentata dallo sguardo di chi ne conosce il problema (e prova ad occultarlo nei modi che abbiamo spiegato); nella seconda invece il pubblico comincia a considerare la questione direttamente con lei, dal suo punto di vista, poiché nel frattempo Henry ha ideato un sistema — complice una videocassetta che con­ densa gli eventi degli ultimi mesi - per dotarla artificialmente di una memoria pregressa. Da questo momento Lucy vive dunque le proprie giornate nella piena consapevolezza della labilità dei propri ricordi; ma soprattutto, in ragione di questo, diventa protagonista di un reper­ torio di situazioni che non le appaiono più ingannevolmente nuove, ma semmai sempre in bilico fra originalità e ripetizione. Della quale è ora del tutto consapevole, come rivelano le frasi in occasione degli in­ contri romantici con Henry: se la prima - “Niente batte il primo ba­ cio” - è ancora figlia dell’amnesia, che le fa appunto credere di stare baciando quel ragazzo per la prima volta, la seconda - “Ma perché non ti ho conosciuto un giorno prima?” — rivela invece una coscienza della propria condizione. A partire dalla quale il film trova finalmente una sua linearità, che gradualmente subentra alla ripetitività, con o senza varianti, che lo aveva caratterizzato in principio. Nello stesso tempo il personaggio di Lucy, col quale non a ca­ so siamo infine chiamati a condividere la visione del mondo, rap­ presenta un egregio esempio di carattere fluido, capace di destreg­ giarsi, sia pure in modo problematico, con una dialettica fra identità e alterità che segna in profondità il suo rapporto col mondo e il no­

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stro rapporto col film. Non va dimenticato infatti che Lucy è a sua volta una spettatrice, e che la sua memoria, in quanto luogo di for­ mazione dell’identità, dipende in misura rilevante dalle immagini che le vengono sottoposte alla visione. Quelle introdotte dai familia­ ri (la partita di football) congelano il ricordo, quelle proposte da Henry lo dinamizzano e rivitalizzano. Le une e le altre definiscono la sua identità, secondo un processo che rimanda simbolicamente alla lezione di flessibilità che lo spettatore può a sua volta trarre da un film simile, orchestrato secondo un percorso che porta prima dalla ripetizione alla variante, poi da questa alla progressione. In un film come questo, ad essere appassionante — per tornare alla questione della “modalità di desiderio” affrontata in chiusura dell’introduzione — non è un conflitto fra identità nel film, ma la na­ tura altamente problematica deH’identità del film, apparentemente prigioniero del loop legato all’amnesia di Lucy. Se l’identità è ancorata alla possibilità di narrare il sé, le storie di amnesia provvisoria e suc­ cessivamente risanata danno al film la possibilità di scindersi: ad una prima parte in cui tutto — personaggi, figure, situazioni - sembra ri­ tornare ossessivamente su se stesso ne fa seguito una in cui i tasselli cominciano progressivamente ad assumere una forma compiuta. In The Machinist non abbiamo cinquanta primi appuntamenti, ma una serie di figure che, come in Stay, fluttuano in modo disordi­ nato sulla superficie del film: la luce rossa di un semaforo, un ac­ cendino da automobile, una torre stretta alla base e larga alla som­ mità, un cartello stradale che reca la scritta Route 666. Tracce in attesa di essere propriamente allineate e metabolizzate sul piano narrativo dal protagonista Trevor, operaio che - rimosso il trauma dell’investimento in auto di un bambino — deve tuttavia fare i conti con la presenza costante, ncH’orizzonte mentale suo e in quello ico­ nografico del film, di motivi riconducibili all’evento ma contraffatti dalla sua psiche. A differenza di quanto avviene in 50 First Dates, The Machinist aderisce sin dal principio al punto di vista del perso­ naggio immemore, rispettandone la confusione mentale e i mecca­ nismi di difesa che lo portano a dare significati “altri” agli oggetti che potrebbero ricondurlo all’evento traumatico. Questo non soltan­ to pone gli eventi sotto un alone di indecifrabilità e precarietà, ma relativizza l’identità del racconto nello stesso momento in cui de­ scrive quella del protagonista. Perché l’enigmatica personalità di Trevor venga finalmente alla luce, perché noi si possa cogliere le ra­ gioni profonde della sua inquietudine e della sua insonnia, è infatti necessario che quelle stesse tracce trovino una loro coerenza. Come 56

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avviene nella sequenza conclusiva, dove finalmente esse tutte in­ sieme, nell’ordine giusto, si raccolgono intorno alla rappresentazio ­ ne dell’incidente. E dove la memoria, facendosi infine racconto, dà una sembianza definita e leggibile al personaggio di Trevor. Ma possiamo veramente, a ragion veduta, parlare di un “ordine giusto”? Quando si arriva a questo punto, infatti, i tortuosi meandri psichici di Trevor, con la dispersione narrativa e iconografica che ne è conseguita, hanno nel frattempo fluidificato l’identità del film al pun­ to da renderla labile oltre ogni limite e possibile risoluzione. Quella che vede in Trevor un assassino per caso, dilaniato dal rimorso (dopo l’impatto è scappato, senza fermarsi a soccorrere il bambino) e afflitto da una rimozione incompiuta dell’evento, assume allora più la forma di una possibilità narrativa che di una necessità drammaturgica. Esemplare al riguardo, sin dal titolo, è il tema della meccanicità dell’esistenza, che attraversa il film innanzitutto per via della profes­ sione di Trevor, metalmeccanico, più volte inquadrato nello spazio plumbeo e cavernoso di una officina. Ma la macchina, quale esito conclusivo di un lavoro di montaggio delle singole componenti, è an­ che la metafora di un processo di assemblaggio dell’intreccio che, ap­ punto perché si svolge davanti ai nostri occhi, finisce per acquisire tratti di provvisorietà. Alla faticosa ricerca di un”identità, il film alla fi­ ne ne trova una. Ma non è detto che sia quella giusta; o meglio, non è detto che sia quella definitiva. Peraltro, come in Fighi Club e Beautiful Mindy anche Trevor ha un amico immaginario, Ivan, ripreso sempre in modo del tutto ordinario, così da occultarne la natura allucinatoria; a lui spetta il compito che è di Henry in 50 First Dates, quello di aiuta­ re il protagonista a prendere consapevolezza del proprio passato. Tut­ tavia la sua stessa inconsistenza contribuisce a dare all’epilogo una fluidità narrativa che risulta essere in continuità con il resto del film. Se le narrazioni, come spiega la sociologia, sono l’architrave della formazione di un’identità, i film che ne sposano più di una fi­ niscono inevitabilmente per sancire non solo l’ambivalenza del per­ sonaggio, ma anche la propria. Il prezzo da pagare per fluidificare l’identità dei personaggi è la precarizzazione del film nel suo com­ plesso, in quanto esso e costretto ad operare, sul piano narrativo, in termini di possibilità più che di necessità. Il legame con l’alterità — più tangibile nei film che mutuano la propria struttura dai videogio­ chi, come vedremo nell’ultimo capitolo — è pur presente anche qui, sia pure in modo sfumato: neH’allusione al fatto che, in fondo, gli eventi avrebbero potuto assumere una fisionomia diversa, visto che lo hanno già fatto almeno una volta, sotto gli occhi degli spettatori. 57

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È quanto avviene ad esempio in Shutter Island (2010), ennesimo film scisso quanto la personalità del suo protagonista. Al centro del­ la vicenda c’è Andrew Laeddis, uxoricida afflitto da deliri allucinatori che i suoi terapisti decidono di assecondare in modo teatrale, met­ tendo in scena, per usare le parole di uno di loro, “il più radicale gioco di ruolo” mai intrapreso in ambito psichiatrico. E così che a Laeddis è consentito di fingersi un agente del Fbi, Edward “Teddy” Daniels, impegnato nell’indagine di una donna scomparsa, Rachel Solando, che si svolge nel manicomio criminale dove egli è in realtà ricoverato e dove tutti stanno al gioco, compreso il suo medico cu­ rante, Sheehan, pronto a fingersi un agente federale che lo supporta nell’investigazione, Chuck Aule. La prima battuta del film — Pull yourself together, Teddy - pronunciata da quest’ultimo all’indirizzo del protagonista, mentre i due sono sul traghetto che li porta al ma­ nicomio, è, nella sua ambivalenza, rappresentativa dell’intera co­ struzione del film: l’agente Aule, visto il collega Daniels vomitare in mare, lo invita a riprendersi; ma nello stesso tempo, la frase è altret­ tanto significativa se la guardiamo dal fronte terapeutico: il dottor Sheehan sta invitando Laeddis, il suo paziente a, letteralmente, “ri­ mettersi insieme”. La storia di Shutter Island è di quelle che avrebbero reso felice Billy Wilder; il quale però, da cineasta e sceneggiatore ancorato alla tradizione classica, ci avrebbe sin da principio resi consapevoli della finzione orchestrata dentro al film, così da garantire un sapore melo­ drammatico alla scelta di assecondare il delirio del protagonista (vede­ re per credere, il finale di Sunset Boulevard). Qui invece tutto si svolge all’insaputa dello spettatore, a sua volta partecipe, in qualità di osser­ vatore, di un gioco di ruolo radicale anche perché grande quanto il film; almeno sino alle battute conclusive, quando il medico cala il si­ pario sulla finzione, spiegandone i motivi, e il regista Martin Scorsese alza quello sul passato del personaggio, illustrando in flashback il trauma di Laeddis (ha ucciso la moglie dopo avere scoperto che que­ sta aveva annegato i loro figli). In quel preciso momento, come bene scrive Pietro Montani, il film si fa altro: Tutto si ripete e insieme tutto cambia. Si pensi alla prima scena: Andrew e il suo conato di vomito sul battello che lo sta conducendo all’isola (primo ma inefficace tentativo di liberazione ca­ tartica) e poi l’acqua, con il potente valore simbolico che ci di­ venterà chiaro solo gradualmente. Tutto è uguale — certo, stiamo rivedendo lo stesso film! — ma tutto è diverso: è proprio Mun altro 58

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film”! Perche le guardie di sorveglianza defissola sono così preoccupate? ma perché sanno che Teddy è un malato pericolo­ so e violento. Perché Chuck è così maldestro con la fondina della pistola? Ma perché non c affatto un poliziotto ma uno psichiatra. E così via10.

Come emerge da queste considerazioni, l’akerità di Shutter Island è retrospettiva, si diffonde a macchia d’olio sulla superfìcie del film nella parte conclusiva, invitandoci appunto a riconsidciai e quanto visto sino a quel momento e ad attribuire significati “altri” ad eventi e personaggi. Tuttavia a ben vedere questa flessibilità tra­ scende i confini della spiegazione fornita dal medico, in virtù della quale il film si limiterebbe ad essere nulla più che un ordinario thriller dal finale a sorpresa. Poiché il protagonista Laeddis/Daniels esce dalla rivelazione non guarito, come auspicavano i medici, ma certamente consapevole di quanto l’identità — sua, di coloro che lo circondano, del mondo che abitano — sia una costruzione flessibile, precaria e duplice. Tant’è vero che nell’ultima scena egli si incam­ mina verso la lobotomia — dopo che la sua persistenza nel credersi un agente del Fbi sembra avere vanificato il gioco di ruolo orchestra­ to dai terapisti per riportarlo alla realtà — con una frase, “Which would be the worse? To live as a monster or to die as a good man?”, che chiude il film nel segno di quella stessa ambiguità sotto cui si era aperto. In altre parole, non sappiamo più se Laeddis crede di essere un agente federale o invece finge di crederlo, consapevole di andare così incontro ad una forma radicale, e per lui benefica, di rimozione delle proprie memorie. Sebbene il film sia ambientato negli anni cinquanta, il perso­ naggio di Laeddis ci appare qui tutt’altro che arretrato e bisognoso di terapie d’urto. Al contrario, la sua figura risulta straordinariamen­ te attuale, proprio a partire dalla capacità di trarre dal gioco di ruolo che In ha visto protagonista una profonda lezione filosofica di flessi bilità ontologica. Inutile in quel decennio, ma preziosa oggi, in un’epoca in cui, per dirla con Zygmunt Bauman, “le identità ormai svolazzano liberamente e sta ai singoli individui afferrarle al volo usando le proprie capacità e i propri strumenti”11.

10 P. Montani, Il lutto inelaborabile di Shutter Island, in “Fata Morgana” 23 (“Azione”), maggio-agosto 2014, pp. 141-42. 11 Z. Bauman, Intervista sull’identità' Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 31. 59

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Inoltre, ancora una volta la sua ambiguità contagia profonda­ mente l’identità narrativa del film. Poiché ad un certo punto, nel cor­ so del gioco di ruolo, Laeddis/Daniels si imbatte davvero in Rachel Solando, la donna sulla cui scomparsa crede di dover indagare. Anzi, ne incontra addirittura due: ma se la prima è interpretata da un’in­ fermiera, coinvolta dai terapisti nella messinscena di cui egli è prota­ gonista inconsafievole, la seconda è una presenza misteriosa, che Laeddis/Daniels scova negli anfratti di una scogliera dove pensa che si sia smarrito il suo (presunto) partner di indagini. Questo personaggio rappresenta di fatto un corpo estraneo al film, sotto il profilo visivo non compare in nessun’altra sequenza — e narrativo, in quanto la spiegazione conclusiva dei terapisti non ne fa menzione. Potremmo dunque presumere che abbia una natura inconsistente, che sia parto­ rita daH’immaginazione di Laeddis/Daniels, per l’ennesima volta oc­ cultata come tale da modalità neutre di rappresentazione, che equipa­ rano la donna agli altri personaggi. Ma mai come in questo caso il condizionale è d’obbligo, poiché nella sequenza in questione la “dot­ toressa Rachel Solando” (così si presenta e viene denominata nei titoli di coda), dopo avere rivelato a Laeddis di essere un medico allontana­ to dal manicomio per dissensi sull’utilizzo di psicofarmaci che mani­ polavano la mente dei pazienti, lo mette in guardia circa la possibilità che, una volta tornato in corsia, egli venga, nell’eventualità voglia sconfessare lo staff medico, screditato e neutralizzato, come avverrà poi puntualmente nella sequenza successiva. L’identità girevole di Laeddis/Daniels è dunque propria anche di un film, che — aperto e chiuso, come abbiamo visto, da due frasi di suprema ambivalenza — si apre a possibilità molteplici di lettura, nell’ambito delle quali il protagonista può assumere indifferentemen­ te, ovvero senza che la struttura narrativa cambi di un millimetro, il ruolo di paziente (di medici che provano a salvarlo, arrendendosi poi all’evidenza della sua malattia) o di vittima (di medici che vogliono ridurre al silenzio un uomo a conoscenza di verità scomode e com­ promettenti). La natura polimorfa di Shutter Island\ impervia ad ogni possibile forma di lobotomi a interpretativa, impartisce allo spettatore una lezione esemplare sulla possibilità che l’alterità si annidi dentro l’identità, non fuori di essa. Vedremo nel prossimo capitolo come questa stessa idea generi esiti ulteriori, in direzione di una prolifera­ zione di identità, sia individuali che narrative, che il cinema contem­ poraneo non prova nemmeno più ad arginare.

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Capitolo terzo

RICORDARE, IMMAGINARE

Riuscito o meno, Esperimento dei terapisti di Shutter Island dimostra egregiamente come l’alterità non debba necessariamente avere tratti che si oppongono all’identità o anche semplicemente se ne differenziano in partenza, poiché quest’ultima, in virtù della sua natura plurima, può già farsi “altra” rispetto ad una condizione pre­ cedente. L’idea che l’alterità non sia fuori ma dentro di noi è, in tempi di contrapposizioni etniche e culturali, scarsamente praticata, poiché le strategie di resistenza e difesa della propria comunità, più o meno estesa, non possono rinunciare a quella che Francesco Re­ motti chiama la “promessa di certezza e di stabilità” che l’identità si porta dietro in ambito sociale e politico1. Sebbene obsoleta e impo­ polare, l’idea è comunque tutt’altro che nuova, visto che già a metà del diciottesimo secolo il filosofo scozzese David Hume era arrivato a paragonare l’identità ad una sorta di confederazione: Una repubblica, [...] uno Stato, in cui diversi membri sono uniti da un vincolo reciproco di governo e di subordinazione, e danno vita ad altre persone, le quali continuano la stessa repubblica nel l’incessante cambiamento delle sue parti. E come una stessa repubblica non soltanto può cambiare i suoi membri, ma anche le sue leggi c la sua costituzione, nello stesso modo una medesi­ ma persona può mutare carattere e disposizione, così come le sue impressioni e le sue idee, senza perdere la propria identità2.

In tempi più recenti il concetto è stato poi ripreso dal filosofo americano Derek Parfit, il quale paragona la persona ora ad una

1 F. Remotti, L'ossessione identitaria, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. XI. 2 D. Hume, Trattato sulla natura utnanay in Opere filosofiche, vol. I, Ro­ ma-Bari, Laterza, 1987, p. 273. 61

Fuori di sé

nazione, ora ad un club3. Teorie simili, basate su una concezione re­ lazionale della identità, non possono naturalmente esimersi dallo spiegare come, a fronte di tanta eterogeneità, sia possibile attribuire all’individuo — e per l’individuo stesso attribuirsi - tratti di continui­ tà e coerenza. E infatti, come bene spiega Davide Sparti: Hume non nega che nell’uomo vi sia un’inclinazione o pro­ pensione ad attribuire coerenza, coesione ed unità a ciò che si percepisce, ma questa propensione è frutto dcll’opciato della memoria e della immaginazione, e non ha - pur nella sua im­ portanza - alcuna fondazione empirica. La mente stessa appare così un insieme o aggregato, più o meno arbitrario, di stati, di percezioni, di sequenze di coscienza coese per similarità e per causalità. Grazie a queste operazioni, ma solo grazie ad esse [...], possiamo pensare l’io come Punita di una costruzione lo­ gica o di un concetto teorico4.

Dunque nella riflessione di Hume la memoria e l’immagi­ nazione rappresentano il mastice in virtù del quale un agglomerato eterogeneo di sensazioni può comunque arrivare a cementare un’identità percepita come omogenea e continua. Possiamo quindi comprendere a fondo le ragioni che hanno spinto il cinema tradi­ zionale a trattare con un certo riguardo stilistico proprio questi stessi due elementi, la memoria e l’immaginazione. Non è per caso infatti che gli atti di ricordare ed immaginare siano, immancabilmente nel cinema di ieri e spesso in quello di oggi, circoscritti da tratti formali tali da segnalare allo spettatore che il personaggio in questione è al­ tro da sé, poiché temporaneamente attraversato da fantasticherie o ricordi. Questa scelta naturalmente legittima e supporta sul piano visivo e narrativo una concezione identitaria forte, senza la quale il film non potrebbe mettere in campo il gioco di associazioni e con­ trapposizioni sul quale poggia l’intreccio. Al contrario che in Hume, nel cinema memoria e immaginazione non supportano l’identità del personaggio ma la destabilizzano, così che diventa necessario confinarle in zone estetiche di confine, ai margini del film e del lin­ guaggio ordinario che lo caratterizza. Invece in certo cinema contemporaneo, più affine all’idea di un’identità fluida cara a Hume, memoria e immaginazione vengo-

1 D. Parile, Ragioni e persone, Milano, Il Saggiatore, 1989. 4 D. Sparti, Identità e coscienza, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 36-37. 62

Ricordare, immaginare

no semplificate sul piano della resa stilistica proprio perché questo consente al film di fluidificare i tratti dei personaggi, estremizzan­ done la pluralità interiore. Più che altro da sé, il protagonista dà vita ad un altro sé, anzi li moltiplica in serie, sorretto da una struttura narrativa che, simile in questo ai terapisti di Shutter Island, incorag­ gia questa metamorfosi nella stessa misura in cui — in assenza di marche stilistiche particolari — la occulta allo spettatore. Tuttavia, ancora una volta, il cinema non può permettersi di pregiudicare a fondo ridcntità dei suoi personaggi senza mettere contemporanea­ mente a repentaglio anche la propria. Vediamo al riguardo alcuni film che affrontano la questione senza uscirne immuni sul piano della identità narrativa. I primi due, Identity (2003) e The Ward (2010), sono incentrati su un protagonista dall’identità scissa e frantumata in mille pezzi, a ciascuno dei quali corrisponde un personaggio diverso. Sin dal principio esteriorizzate e proiettate su uno spazio autentico — un motel di periferia nel primo caso, una clinica psichiatrica per ragazze nel secondo - le figure che popolano il teatrino della sua mente vengono quindi raccontate e rappresentate come se fossero personaggi autonomi, occultando allo spettatore la loro inconsistenza. Trattandosi di un’identità scissa in modo traumatico e problematico, le figure che ne vengono partorite inoltre risultano fra loro incompatibili al punto da generare quella re­ te di conflitti e collisioni che è lecito attendersi da un thriller. In Iden­ tity i personaggi convergono tutti, in una notte di burrasca, in un mo­ tel dove presto alcuni di loro vengono assassinati, innescando nei sopravvissuti un gioco di sospetti reciproci; in The Ward invece è la clinica psichiatrica ad essere teatro di delitti e sparizioni misteriose, che esasperano ed intimoriscono le ragazze superstiti. Entrambi i film quindi assumono la sembianza e le scansioni di un thriller dal finale a sorpresa, che coinciderebbe con lo smascheramento del colpevole; l’identità di quest’ultimo finisce però per risultare irrilevante nello stesso momento in cui c il film nel suo complesso a cambiare identità, facendo per così dire rientrare tutti i personaggi nella mente malata del (la) protagonista — un omicida seriale nel caso di Identity, una ra­ gazza rapita e violentata da bambina in quello di The Ward, In ambedue i casi la flessibilità della narrazione poggia su un atto di disconoscimento di quella forma di opposizione fra interno ed esterno che - come sosteneva Jacques Derrida già alla fine degli anni sessanta — è fondamentale in qualsiasi tipo di processo identitario: “Tenere di fuori il fuori [...] è il gesto inaugurale della ‘logica’ stessa, del buon ‘senso’ quale si accorda con l’identità a se stesso di 63

Fuori di sé

ciò che è: l’ente è ciò che è, il fuori è di fuori e il dentro è di dentro”5. Se dunque la esteriorizzazione della condizione mentale dei prota­ gonisti rappresenta un elemento in grado di confondere lo spettato­ re, è perché, come già in Fight Club e Beautiful Mind, quello che pensiamo fuori dal personaggio, quindi estraneo alla sua identità, è in realtà dentro di lui, gli appartiene, ne definisce l’identità. In Identity e The Ward il processo è però più estremo, per due motivi. In primo luogo qui la finestra della immaginazione non ge­ nera semplicemente una galleria di figure fantasmatiche in dialogo col protagonista, ma un vero e proprio spazio narrativo, un palco­ scenico mentale sul quale si muovono e confliggono svariati perso­ naggi. In seconda battuta, la deriva identitaria provocata dall’esteriorizzazione di un’interiorità turbata non trova risoluzione nem­ meno nell’epilogo. Dove i protagonisti, apparentemente pacificati dai rispettivi psicoterapeuti, proprio nell’ultima sequenza si trovano nuovamente a fronteggiare i fantasmi della propria mente, che così all’improvviso — in qualità di personaggi autonomi, dunque nelle vesti con cui ci erano apparsi nella prima parte - riemergono alla su­ perficie del film, rimettendone in gioco i confini identitari. Come la terapia fallisce nel compito di contenere le turbe de) paziente, così il film a sua volta non riesce a contenere fino in fondo le pulsioni cen­ trifughe dei personaggi, che lo trascinano in direzioni distanti da quelle che ci attenderemmo. Più che controllare il protagonista, il film in definitiva ne è controllato, completamente alla mercé delle sinuosità del suo delirio. Franati gli argini espressivi entro i quali il cinema conteneva e dava una sembianza alle memorie e all’immaginazione dei personag­ gi, l’identità del film riflette dunque nella sua stessa costruzione i trat­ ti di fluidità e polivalenza che segnano quella dei protagonisti. Se da una parte è improbabile che dietro questa tendenza del cinema con­ temporaneo a lasciarsi scompaginare dal polimorfismo dei personaggi stiano motivi di ordine psicologico o antropologico — l’individuo odierno non sembra essere più complicato e lacerato di quello del se­ colo scorso — dall’altra è vero che le ragioni di carattere sociale o cultu­ rale non possono essere ricondotte per intero all’universo dei media, secondo la tesi del dud-enabledfilm cara a Elsaesser. La flessibilità che il cinema odierno al contempo propone (sul piano dei contenuti), su­

5 J. Derrida, La farmacia di Platone., Milano, Jaca Book, 1985, p. 111. 64

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bisce (sul piano della organizzazione narrativa) e sollecita (sul piano della ricezione) rappresenta, per lo spettatore, una risorsa da utilizza­ re ben oltre il suo rapporto coi media, posto che oggi le questioni identitarie lo tempestano da ogni parte, spesso in modo traumatico e al di là della sua volontà. Da questo punto di vista, sarebbe semmai il caso di parlare di world-enabled film, ovvero di un cinema che prova non a parlare di identità — come ha peraltro sempre fatto — ma a parla­ re l’identità, ovvero a trovare una sintassi narrativa che ne rifletta in modo adeguato la complessità con tcmpoi anca. La questione tuttavia, nei film di cui ci stiamo occupando, non assume mai tratti esclusivamente concettuali, che finirebbero per trascinarli fuori dai confini dell’intrattenimento di massa. Come be­ ne ha scritto Jason Mittell, in questo cinema “la riflessività ci invita ad appassionarci al mondo narrativo e al contempo ad apprezzarne la costruzione”6. Perché questo avvenga, perché i due piani possano coesistere, è però necessario che la complessità identitaria, oltre a co­ stituire il principio organizzatore e l’anima filosofica del film, rap­ presenti anche la posta in palio sul piano narrativo, l’obiettivo verso cui tendono i personaggi, opportunamente ostacolati da antagonisti che si muovono nella direzione opposta, lungo direttrici che mirano a semplificare l’identità e inaridire i canali che ne irrigano la memo­ ria e l’immaginazione. Vediamo ad esempio due film — Eternal Sun­ shine of the Spotless Mind (2004) e Inside Out (2015) — sin troppo eloquenti sull’argomento, per il modo esemplare con cui introduco­ no, sul piano narrativo e tematico, il conflitto fra un’identità sempli­ ce, definita e compiuta nei suoi diversi stadi cronologici, ed una complessa, che segue invece, non senza problemi e battute a vuoto, una logica di ibridazione e stratificazione temporale. Il punto di maggior forza di Eternal Sunshine, ed insieme quel­ lo di maggiore originalità rispetto al nostro argomento, è rappresen­ tato dalla scelta di dare all’identità una dimensione non individuale ma relazionale. Al centro della storia sta infatti una coppia, anzi un rapporto di coppia, quello fra il timido Joel e l’estroversa Clementi­ ne, usurato dal tempo c conclusosi dopo (’ennesimo litigio. Alle pre­ se con le scorie del rimorso e della nostalgia, entrambi i personaggi allora si rivolgono, ciascuno per proprio conto, ad una compagnia high tech, lacuna, capace di rimuovere tecnologicamente ogni trac-

* J. Mittell, Narrative Complexity in Contemporary American Television, in “The Velvet Light Trap" 58, 2006, p. 35.

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eia di ricordo che ha per oggetto il/la partner di un tempo. L’identità di coppia, oltre che la propria singola identità nella coppia, andrebbe in questo modo eliminata completamente dal loro orizzonte menta­ le. Come si può vedere, la premessa è fantascientifica, posto che la narrazione postula l’esistenza di una sorta di tecnologia anti-psicoanalitica in grado di presiedere alla rimozione dei ricordi sgradevoli. Tuttavia, in quella che è solo la prima di una serie di incongruenze temporali che caratterizza il film su tutti i piani, questa stessa tecno­ logia opera grazie ad una macchina che appare obsoleta e visibil­ mente vintage. Come bene ha fatto notare Allan Cameron:

L’attrezzatura per lo scanning del cervello della Lacuna, che prende di mira e distrugge memorie sgradite, consiste in una cuffia voluminosa collcgata ad un computer portatile vagamente antiquato. E quella stessa cuffia, fatta di fili cd ingombranti pez­ zi di metallo, rimanda in modo ironico alla tecnologia da realtà virtuale degli anni novanta. Invece di avere l’apparenza di un af­ fusolato congegno del futuro, la cuffia pare un oggetto recupera­ to in un ferrivecchi7.

L’immagine antiquata del meccanismo evidenzia come, per quanto futuribile, l’idea di tracciare un confine netto tra passato e presente sia retrograda e incompatibile con la nostra epoca. Tant’è vero che il progetto naufraga quasi subito, un po’ per volontà del protagonista maschile, che in corso d’opera cambia idea e decide di fare mentalmente resistenza ai processi della macchina; un po’ per­ ché la tecnologia può garantire un effetto di rimozione ma non pre­ cludere la possibilità che i diretti interessati, una volta (ri)imbattutisi l’uno nell’altra, tornino a piacersi e frequentarsi, come puntualmen­ te accade: il passato torna così a manifestarsi nel presente non sotto forma di ricordo, ma di attualità. Da questo punto di vista il film può essere considerato la ver­ sione aggiornata di un genere hollywoodiano degli anni trenta, quello della “commedia del rimatrimonio”, improntato alle scher­ maglie sentimentali di una coppia che, rotto il sodalizio sentimenta­ le, utilizza gli incontri successivi per verificare la possibilità di dare alla propria storia ancora una opportunità. Come afferma Stanley Cavell, che all’argomento ha dedicato un volume intero:

7 A. Cameron, Modular Narratives in Contemporary Cinema, Houndmills, Palgrave Macmillan, 2008, p. 8-5. 66

Ricordare, immaginare

Il nostro genere evidenzia il mistero del matrimonio scoprendo che né la legge né la sessualità (...) sono sufficienti per assicu­ rare un vero matrimonio c sostenendo che ciò che fornisce la legittimazione è la reciproca disponibilità a risposarsi, a una sorta di continua riaft'crmazione, in cui è generalmente marca­ lo l’isolamento della coppia dal resto della società; essi formano come una specie di mondo altrove8.

Ed è proprio questo “mondo altrove”, che nella commedia hol­ lywoodiana classica ha pur sempre tratti di ordinarietà e contiguità con quello ordinario, che Eternal Sunshine reinventa in modo radica­ le, forzando i confini identitari del racconto e della sua cronologia. Poiché gli sforzi tecnici della Lacuna per vincere le resistenze mentali di Joel producono in quest’ultimo una matassa di fantasticherie e ri­ cordi che il film non si preoccupa minimamente di dipanare, facendo al contrario della singola sequenza il punto di convergenza di un uni­ verso mnemonico, onirico e fantastico piu ristratificato sul piano tem­ porale c spaziale. È così che ad esempio vediamo la coppia, seduta su un divano nel loro appartamento, essere improwi sa mente sorpresa dalla pioggia, che li (e ci) conduce in una giornata di maltempo nella casa d’infanzia di Joel, dove d’un tratto Clementine appare molto più grande di lui ed indossa gli abiti di sua madre, sulla cui eleganza, per lei vintage, non può trattenere un commento ammirato. Questa con­ tinua contaminazione fra piani temporali è legittimata sul piano nar­ rativo dal fatto che la Clementine dei sogni di Joel, consapevole del processo di rimozione in atto, gli consiglia di portarla al riparò dei ri­ cordi d’infanzia, dove le tecniche della Lacuna non dovrebbero poter arrivare. Su un piano più generale, sancisce il trionfo di un processo di ibridazione fra memoria, immaginazione e attualità che fertilizza il film in modo costante, nelle immagini come nei dialoghi. Non di ra­ do infatti i due protagonisti, ad esempio nella fantasmagoria ambien­ tata nella casa al mare dove si sono conosciuti e saranno destinati a ri­ vedersi, si scambiano frasi che rivelano una condizione temporal­ mente ubiqua, che li porta, nella stessa conversazione, a guardarsi

* S. Cavell, Alla ricerca della felicità, Torino, Einaudi, 1999, p. 124. Sull’argomento vedi anche W. Day, I Don’t Know, Just Wail: Remembering Remar­ riage in Eternal Sunshine of the Spotless Mind, in D. LaRocca (a cura di), The Philosophy of Charlie Kaufman, Lexington, University Press of Kentucky, 2011, pp. 132-154. 67

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indietro, ricordando i dettagli de! loro primo incontro, ed avanti, commentando malinconicamente i progressi della Lacuna nell’oblio terare anche quello spazio dalla memoria di Joel. Il “mondo altrove” di Eternal Sunshine è dunque innanzitutto interiore, partorito dall’attrito fra un meccanismo di rimozione e le strategie mnemoniche ed oniriche messe in atto per opporvisi. Ma nello stesso tempo è anche esteriore: da una parte perche trova, sul piano della messa in scena, forme sorprendenti ed originali di spazializzazione, dall’altra perché, in virtù di queste medesime forme, è il film stesso ad essere altrove rispetto ai canoni convenzionali del cinema di ieri e di oggi. La sfera della memoria e quella della im­ maginazione non vengono circoscritte stilisticamente, come nel ci­ nema tradizionale passato e odierno, ma nemmeno neutralizzate ed occultate, come abbiamo visto nei film analizzati in precedenza. Ai contrario, l’una e l’altra trovano, nell’ambito di una scena e talvolta persino in una semplice, singola inquadratura, forme estemporanee e bizzarre di compresenza. Se pensiamo che la Lacuna opera — at­ traverso la cancellazione dei ricordi - per tracciare un confine tra passato e presente facendo terra bruciata del primo, possiamo dun­ que considerare come sua antagonista non tanto il personaggio di Joel quanto il film stesso nella sua interezza, proteso verso una con­ cezione dell’identità — la propria prima ancora di quella del prota­ gonista - plurima, flessibile e stratificata. Da qui l’inevitabilità di un finale più interlocutorio che lieto, come si conviene ad un film che, rigettata sin dal principio l'idea di uniformità sul piano narrativo e stilistico, non può di conseguenza approdare ad un epilogo compiuto. Un attimo prima di essere defi­ nitivamente cancellata dalla memoria di Joel, Clementine gli dà ap­ puntamento sulla spiaggia dove si erano conosciuti la prima volta; ed è lì che lui, in preda ad un impulso apparentemente irrazionale, si reca una mattina in cui dovrebbe andare al lavoro. Ne segue una scena di attrazione reciproca che — essendo posta all’inizio — pren­ diamo per originale quanto i personaggi, compiaciuti della “nuova” complicità creatasi col partner. Almeno sino a quando una audio­ cassetta inviata a Joel da una ex dipendente della Lacuna rivela ad entrambi, con tanto di dettagli sui difetti che l’uno non sopporta nell’altro, che quel rapporto è ben lontano dall’essere allo stadio del primo approccio. Il fatto che questa sequenza, consecutiva all’altra in termini cronologici, cada invece nella parte finale del film evidenzia come, nella sua costruzione, la storia di Eternal Sunshine rimandi ad un ci­ 68

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nema che prova ad insegnare allo spettatore il sottile piacere della variante, del l’identità “altra”. Se le due sequenze fossero state dispo­ ste consecutivamente, avremmo ripensato in modo diverso all’in­ contro in spiaggia, che invece ora, dopo novanta minuti di film, può ancora apparirci possibile, ovvero romanticamente compatibile. An­ che i protagonisti peraltro, una volta ascoltato il nastro, compiono un tragitto parallelo: dopo un’iniziale reazione di rifiuto e allonta­ namento reciproco, tornano sui propri passi e, nella scena conclusi­ va, si dicono che vale comunque la pena di provare a proseguire il rapporto, il cui passato burrascoso e rovinoso non può né deve costi­ tuire un deterrente alla possibilità di rimetterlo in piedi. Possiamo dunque tracciare una sorta di corrispondenza tra l’audiocassetta e i protagonisti da una parte, e il film e i suoi spetta­ tori dall’altra. Nel segno di un processo di graduale dimestichezza con la variante quale elemento di raccordo fra identità e alterità. Joel e Clementine prendono coscienza che la loro storia d’amore è bipar­ tita nella stessa misura in cui gli spettatori si abituano, nel corso del film, a leggerla in termini di duplicità, cercando di scorgere nei det­ tagli — dal paraurti ammaccato di un automobile al colore dei capelli di lei — altrettante varianti di una storia d’amore che, apparentemen­ te identica a se stessa negli spazi e nei personaggi, è in realtà diversa nel tempo. Sotto questo profilo la lezione appresa infine dai prota­ gonisti — pensare al rapporto non come una costruzione monolitica dotata di un principio e di una fine, ma come un processo in diveni­ re — vale anche per gli spettatori, a loro volta impegnati a pensare, e soprattutto guardare, al film in termini di flessibilità. L’alterità non si contrappone all’identità, ma ne costituisce una parte essenziale; a condizione che, come ci spiega Hume, a memoria ed immagina­ zione venga consentito, per così dire, di fare il loro lavoro. L’una e l’altra trovano spazio — nel senso letterale e metaforico del termine — anche in Inside Outy un film che con Eternal Sunshine condivide peraltro tratti ulteriori, a partire dall’assunto filosofico di ba­ se: la natura essenzialmente plurale di quella che pure ci ostiniamo a chiamare identità individuale. Anche qua infatti, come in Identity e The Ward, il protagonista è plurimo, sebbene la moltiplicazione della sua identità non giunga come una rivelazione alla fine della storia, né venga legittimata dal suo stato di alterazione mentale. Al contrario, in Inside Out si postula sin dal principio che la pluralità sia la condizione ordinaria di un individuo normale, in questo caso una bambina di nome Riley, figlia di due genitori che incarnano in modo esemplare Tamerican tvay of life. In seconda battuta, si dà a questa pluralità 69

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un’ampia risonanza drammaturgica e spaziale, immaginando uno spazio di controllo dove, davanti a una console, si alternano cinque pupazzi che incarnano altrettante condizioni emotive della bambina. L’alternanza ai comandi è però tutt’altro che pacifica, poiché la vita di Riley è costantemente segnata da situazioni passibili di suscitare nella bambina reazioni differenti, a seconda di chi fra i cinque, nei piani al­ ti della sua emotività, riesce ad avere la meglio nel l’orientarne la sen­ sibilità. Le schermaglie fra i cinque addetti ai comandi traducono dunque con comica evidenza l’idea di Hume di una confederazione identitaria, sia pure, in questo caso, estremamente litigiosa; nello stes­ so tempo, ribadiscono la centralità della variante quale fattore capace di valorizzare la natura plurale e non rigida dell’identità, poiché Riley, complici i litigi fra chi muove i fili della sua emotività, talvolta espri­ me una reazione che un attimo prima pareva poter prendere una di­ rezione diversa, se non opposta. Tuttavia l’idea di moltiplicazione dell’identità singola riguarda Inside Out anche su un piano più strutturale, poiché il film, invece di limitarsi alla rappresentazione del quadro comandi e dei paradossali litigi fra i suoi addetti, improvvisamente si apre a fisarmonica, spazializzando altri tratti interiori della ragazza: in primo luogo la memoria — labirinto di pareti piene di palline colorate, a ciascuna delle quali corrisponde un ricordo — poi l’immaginazione (spazio costellato di edifici surreali: il castello di carte da gioco, la casa di patatine fritte, il palazzo di nuvole), la sfera onirica, disegnata a immagine e somi­ glianza di uno studio cinematografico, infine l’inconscio, abisso scuro e silenzioso. Nel segno della pluralità è dunque non solo la caratte­ rizzazione della giovane protagonista, ma l’intero universo narrativo e iconografico di Inside Out, che inoltre assume presto la forma di un film tripartito: il mondo di Riley, sconvolto dalla decisione dei genitori di lasciare il Minnesota per trasferirsi in California; i territori della memoria, deH’immaginazione e del sogno, dove si aggirano sperdute, dopo esserci cadute dentro loro malgrado, due dei cinque responsabili delle scelte emotive della ragazza; lo spazio della console, dove si in­ tensificano i litigi fra i tre rimasti. Ognuno dei tre ambiti collegato agli altri da una relazione che è al contempo di identità — stiamo sempre e comunque parlando di un solo personaggio, Riley — e di alterità, posto che le vicende ambientate in questi luoghi per buona parte del film corrono in parallelo. Da questo punto di vista, Inside Out ed Eternal Sunshine muo­ vono dallo stesso principio narrativo che è alla base di Inception (2010): prendere un personaggio e far scaturire dalla sua testa un 70

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mondo intero, la cui complessità si espande poi a macchia d’olio sulla superficie del film al punto da renderlo una sorta di mappa della sua interiorità. In più, per attestare sul piano visivo l’idea che ad una stabilità esteriore possa coincidere una fluidità interiore, cia­ scuno dei piani obbedisce ad un’estetica differente. Per tornare ad Inside Outy la parte che ha per protagonista Riley e i genitori poggia su un’animazione molto tradizionale, basata su una riproduzione realistica delle fattezze degli esseri umani e dei luoghi; quella che si svolge nello spazio della console è incelili ala su figure di pupazzi monocromi ma antropomorfi (parlano, ridono, ecc.) e su un am­ biente che ricorda una navicella spaziale; infine quella ambientata nei territori della memoria, del sogno e dell’immaginazione segue principi di composizione delle forme e dei colori evidentemente de­ bitori del surrealismo e delle avanguardie, quindi felicemente di­ stanti da ogni criterio di verosimiglianza. Spingendo fino in fondo questa linea di interpretazione, si potrebbe dire che la prima parte, dominata dal conflitto generazionale fra Riley (che sarebbe voluta rimanere in Minnesota) e i genitori, responsabili del trasferimento, si rivolge a un pubblico di ragazzi, la seconda, piena di pupazzi e si­ tuazioni farsesche, strizza l’occhio ai bambini, mentre la terza, estremamente sofisticata sotto il profilo estetico e delle citazioni in­ tertestuali, punta all’apprezzamento di un pubblico adulto. Tre film in uno: Inside Out riesce così contemporaneamente a raccontare ed incarnare l’idea di un’identità plurale. Inoltre, come detto in precedenza, sia Eternal Sunshine che In­ side Out fanno della complessità identitaria del(la) protagonista la posta in palio della narrazione, l’elemento che le consente di essere appassionante. Esattamente come nel primo sono drammatici e commoventi gli strenui sforzi con cui Joel resiste alla cancellazione della sua memoria — e quindi ad un processo che determinerebbe una semplificazione della sua identità schiacciandola sul presente così nel secondo Gioia e Tristezza, le addette all’emotività di Riley cadute fuori dal piano dei comandi, corrono contro il tempo per ri­ guadagnare la loro posizione e restituire all’identità emotiva della ragazza una natura complessa. In loro assenza ha infatti, tra i tre rimasti, avuto la meglio Rabbia, decisiva nella decisione di Riley di punire i genitori scappando di casa e prendendo un bus che la ripor­ ti in Minnesota. Solo il ritorno all’ultimo momento (come si con­ viene alle narrazioni basate su una deadline) delle due permetterà alla ragazza di tornare sulla sua decisione e soprattutto di riacquisire un’identità multiforme, nella quale la tristezza, lungi dall’essere un 71

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deterrente alla gioia, ne rappresenta semmai il naturale e necessario complemento9. Il tema dell’identità assume dunque un ruolo di rilievo anche sul piano narrativo, aprendo questi film ad una dimensione eviden­ temente metatestuale. Tuttavia, sebbene si abbia qui a che fare con quelle che Elsaesser, a proposito dei mind gamefìlms, definisce le “regole del gioco”, esse vanno ben lontano dal produrre l’effetto straniante che soluzioni simili determinavano nel cinema della mo­ dernità. Al contrario, posto che l’intreccio di fatto descrive un perso­ naggio in balìa degli eventi - nella fattispecie di coloro che, reggendo le fila del suo destino, li determinano - il film finisce per prendere una forma melodrammatica, come si conviene ad una storia il cui protagonista è alle prese con forze a lui superiori. In questo modo, da una parte lo spettatore viene introdotto in un mondo esplicita­ mente metanarrativo, dove, posto che alcuni personaggi — dai tecnici della Lacuna ai cinque responsabili dell’emotività di Riley — svolgo­ no di fatto il ruolo di sceneggiatori della vicenda cui sta assistendo, il conflitto riguarda le sue possibili direzioni di sviluppo; dall’altra la stessa condizione del protagonista, segnata da un’impotenza, par­ ziale o totale, a cambiare gli eventi, finisce per catalizzare sulla sua figura le attese c le simpatie del pubblico. La dinamica è ancora più evidente in un film come Stranger Than Fiction (2003), dove si immagina che una scrittrice di successo, Karen Eiffel, specializzata in romanzi dall’epilogo tragico, debba improvvisamente fronteggiare la contrarietà di un suo personaggio, Harold Creek, tutt’altro che convinto dell’opportunità di morire giovane. A dispetto del paradosso che caratterizza questa strategia di interferenza fra livelli diegetici, il film tuttavia prende inizialmente un’altra strada, mettendo al centro del palcoscenico non i travagli creativi di Karen ma quelli esistenziali di Harold, descritto come individuo solitario e metodico da una voce fuori campo che in prin­ cipio pare appartenere — come d’abitudine in questi casi — ad un narratore esterno ed onnisciente. La cui sovrapposizione con la Eif­ fel, figura dunque non esterna ma interna alla narrazione, verrà pa­ lesata attraverso 1’espediente di far improvvisamente sentire le sue parole anche ad Harold, che ne rimarrà sconvolto, prima per i modi (sente una voce, ma non ne conosce la provenienza), poi per i con­

9 Sull’identità complessa dei personaggi della Pixar, vedi C. Uva, Il siste­ ma Pixar, Bologna, Il Mulino, 2017. pp. 109-160.

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tenuti (una volta ricondottala alla scrittrice, comprende quale sarà il suo destino). Ancora una volta il tema dell’identità del personaggio — cosa ne sarà di Harold — passa quindi attraverso quello dell’iden­ tità del film, che improvvisamente smette i panni di una narrazione ordinaria, ancorata alle descrizioni di una voce over, per assumere quelli, infinitamente più complessi, di una dove la narratrice non è né invisibile a noi - tant’è vero che svariate sequenze la vedranno protagonista, curva sulla macchina da scrivere - né inaudibile al per­ sonaggio nel momento stesso in cui lo descrive. Come in Eternal Sunshine era paradossalmente l’intervento della Lacuna a rendere Joel consapevole della centralità della me­ moria nella formazione della sua identità, così in questo film Ha­ rold, complice la traumatica scoperta che la sua vita si sta facendo racconto, prende coscienza non solo della propria identità, ma an­ che di quanto essa sia precaria e mutevole. Anche in questo caso ad essere fondamentale, come abbiamo visto nel capitolo precedente, è il nesso fra identità e narrazione. Come bene scrive Assunta Vitteritti, “la mediazione narrativa sembra soccorrere l’individuo che cerca una versione soddisfacente della propria storia-”. Infatti narrandosi l’individuo cerca di darsi c di ricostruire la propria identità. L’esperienza della psicoterapia, come quella dell’ami­ cizia o dell'incontro d’amore, divengono, in misura molto diver­ sa fra loro, i luoghi dove l’individuo si narra, si cerca, domanda c dice all’altro l’unicità della sua storia, una storia che può conti­ nuare, che può essere circoscritta a eventi senza chiudersi. L’individuo costruisce visioni di sé, ricerca congruenze c motiva discrepanze: richiede risposte e fornisce versioni di storie10.

Da qui la necessità per il protagonista di aprire la propria iden­ tità a nuove opportunità, sentimentali e artistiche, che, facendola usci­ re dai binari della regolarità e della solitudine, la complicano e soprat­ tutto la rendono un processo in divenire. La narrazione precarizza ridentità di Harold^ la rende felicemente instabile. Se, per usare le pa­ role di Zygmunt Bauman, “l’identità ci si rivela unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto, come il traguardo di uno sforzo, un ‘obiettivo’”11, questa rivelazione in Stranger Than Fic­

10 A. Vittcritti, Identità e competenze, Milano, Guerini c Associati, 2005, P. 55. 11 Z. Bauman, Intervista stdl'identità, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 13. 73

Fuori di sé

tion assume per il protagonista la forma di un incontro con la narra­ zione, con la possibilità e persino la necessità di esserne oggetto. Nello stesso tempo, l’identità precarizza la narrazione, ne scom­ pagina le coordinate di fondo, anche ai di là dello scompenso de­ terminato da una voce apparentemente over che improvvisamente si manifesta al personaggio. Nella seconda parte del film infatti la voce della Eiffel torna a descrivere le azioni e i pensieri di Harold, senza che però questi dia più segno di averla sentita o ascoltata. Come dobbiamo leggere la presenza della sua voce in queste sequenze? Quando siamo tentati di attribuirle nuovamente un ruolo tradizio­ nale di commento, ecco che i livelli diegetici tornano a convergere: una telefonata di Harold alla scrittrice, di cui ha finalmente scoperto l’identità, viene prima introdotta dalla voce over della Eiffel, poi — a rimarcare la continuità tra parole e scrittura - corredata dall’ imma­ gine di lei alla macchina da scrivere e del foglio su cui sono impresse le parole the phone rings, infine dal suono del telefono che, nel suo studio, comincia a squillare. Sarebbe improprio ridurre queste sequenze ad un mero eserci­ zio di virtuosismo metatestuale, poiché da esse trapela uno sforzo identità rio, per dirla con Bauman, questa volta proprio non del per­ sonaggio ma del film. L’equilibrio instabile di Harold, il complicato processo di compatibilità tra i tratti vecchi e nuovi del suo carattere, trovano corrispettivo in una narrazione che alterna forme convenzio­ nali e paradossali di descrizione del personaggio, distanziando e rav­ vicinando fra loro i livelli diegetici come lame di una forbice. L’idea che Harold sia destinato a morire perché questa è la natura della tra­ gedia e la Eiffel ha scritto sempre e solo racconti tragici — questa la spiegazione che viene data al protagonista da un accademico di lette­ ratura che conosce e ammira il lavoro della scrittrice — lega a doppio filo l’identità (di genere) della narrazione e quella del personaggio. L’una e l’altra si muovono sul filo di possibilità alternative: perché Harold la faccia franca, perché la sua vita continui, è necessario che l’identità del racconto della Eiffel prenda una direzione diversa da quella a lei consueta; ma anche, nello stesso tempo, che il film, facen­ do convergere i piani diegetici, avvicini Harold alla scrittrice quel tan­ to che basta per commuoverla sul suo destino (“Hotv many persons did I tyll?”, chiede alla sua assistente dopo averlo incontrato, con riferi­ mento ai protagonisti dei suoi romanzi precedenti) e poi, riallonta­ nandoli nuovamente, metta fra i due la distanza necessaria alla ro­ manziera per riscrivere il finale e fare, di un incidente mortale, un grave infortunio. Finale lieto, ma soprattutto altamente funzionale ad 74

Ricordare, immaginare

un’idea di flessibilità che il film sembra ereditare dal suo personaggio, e viceversa. Nell’opinione di Bauman, è possibile paragonare i processi di formazione dell’identità a quelli di composizione di un puzzle, a condizione però di riconoscere che nel secondo caso “la completez­ za dei pezzi e il loro reciproco incastro sono garantiti prima che tu cominci”, mentre nel caso dell’identità

L’intera impresa è orientata ai mezzi. Tu non parti dall’immagine finale, ma da una certa quantità di pezzi di cui sei già en­ trato in possesso o che ti sembra valga la pena di possedere, e quindi cerchi di scoprire come ordinarli c riordinarli per otte­ nere un certo numero (quante?) di immagini soddisfacenti. Fai esperimenti con ciò che hai'2. In film come Eternal Sunshine, Inside Otti e Stranger Than Fic­ tion la narrazione dapprima assume la sembianza di una costruzione, della quale alcuni personaggi sono i responsabili ed altri i destinatari. In secondo luogo, sebbene questa costruzione obbedisca evidente­ mente al principio di composizione del puzzle» dunque sia in buona misura predeterminata, questo stesso principio viene occultato in fa­ vore di una parvenza di arbitrarietà e sperimentazione. Da un lato questo consente al film nel suo complesso di entrare in un rapporto di consonanza con i personaggi, a loro volta impegnati ncH’assemblarc un’identità compiuta, per gli altri o per se stessi. Dall’altro permette allo spettatore di trarre dalla visione una lezione di fluidità identitaria che riguarda i personaggi e, più in generale, il cinema.

12 Ibidem, p. 56. 75

Capitolo quarto

IDENTITÀ E DIFFERENZA

Già nel secondo capitolo, introducendo il tema della clonazio­ ne, abbiamo accennato al ruolo cruciale giocato dal tempo nella co­ struzione dell’identità c nel suo rapporto con qualsiasi forma di alteri­ tà. questione è centrale soprattutto nel dibattito filosofico sull’aigomento: semplificando in modo estremo, possiamo dire che laddove nel campo della sociologia e dell’antropologia l’alterità coincide con un individuo diverso da noi (per razza, religione, etnia, condizione sociale, ecc.) col quale può essere problematico relazionarsi, la filoso­ fia tende invece ad interrogarsi — lo abbiamo visto con Hume, la cui teoria rappresenta al riguardo un tentativo di risposta — sulla possibili­ tà che l’alterità sia dentro di noi, destinata presto o tardi, da qui la sua natura altrettanto problematica, a sfrangiare i confini della nostra identità. Dunque, secondo la linea filosofica di approccio all’argo­ mento, per imbatterci ncU’altcrità non abbiamo assoluta necessità di relazionarci al prossimo. Sarà il tempo, in questo caso tutt’altro che galantuomo, a renderci consapevoli di quanto possiamo diventare al­ tri, o estranei, a noi stessi, complicando non poco il compito di una fi­ losofia impegnata a tracciare i limiti dell’identità. Già nel 1950 un grande filosofò americano, Willard Van Orman Quine, apriva un saggio sul tema con la seguente considerazione:

bidenti tà è sempre stata fonte di perplessità filosofica. Dal mo­ mento che io sono soggetto a un perenne cambiamento, come si può dire che continui ad essere me stesso? Se è vero che nel giro di un limitato numero di anni ha luogo una completa sostitu­ zione della mia sostanza materiale, come si può dire che io con­ tinui ad essere io anche, se non altro, dopo tale periodo?1

' W. Van Orman Quinc, Identità, ostensione e ipostasi^ in A. C. Varzi (a cura di), Metafisica. Classici contemporanei* Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 191. Per una 77

Fuori dì sé E di tutta evidenza che la questione riguarda da vicino anche il cinema contemporaneo. Trascorsa l’epoca in cui il cosiddetto “specifi­ co cinematografico” veniva cercato e focalizzato attraverso puntigliosi e estenuanti lavori di comparazione con arti limitrofe — teatro, pittura, fotografia — oggi il cinema si interroga sulla misura in cui il tempo, nella fattispecie quello della sua evoluzione e propagazione su sup­ porti e piattaforme diversi da quelli della sala e dello schermo, abbia potuto mettere in discussione la propria identità. E lo fa anche attra­ verso film che guardano alla relazione fra identità (dei personaggi) e tempo (della narrazione) secondo prospettive nuove, più originali e complesse rispetto al passato. Sotto questo profilo, possiamo dire che laddove il cinema tradizionale ha sempre rivolto una particolare at­ tenzione alla concezione deU’alterità privilegiata dalla prospettiva so­ ciologica e antropologica, costruendo relazioni e soprattutto contrap­ posizioni con forme di alterità connotate ad esempio in chiave etnica o razziale, i film di cui ci occupiamo in queste pagine preferiscono pensare alTakerità come ad una sorta di forma interna dell’identità, quasi un suo destino, segnato dal (e scolpito nel) passaggio del tempo. In quest’ambito è fondamentale l’attenzione che il cinema contemporaneo dedica all’universo dei videogiochi. Essa si basa in­ nanzitutto su ragioni di ordine commerciale, dovute da una parte alla possibilità di prolungare la filiera intertestuale — se gli adatta­ menti dei romanzi attraggono naturalmente gli appassionati di let­ teratura, quelli dei videogiochi avranno inevitabilmente la stessa presa sui videogiocatori — dall’altra a quella di attirare le giovani ge­ nerazioni, che ormai da qualche decennio costituiscono l’utenza privilegiata dei film, fuori e dentro le sale. Come bene scrive, in un recente volume sull’argomento, Riccardo Passone: Appropriandosi delle formule dei generi cinematografici, il vi­ deogioco a partire dagli anni Novanta sembra voler sfruttare la familiarità del cinema popolare rispetto a un pubblico di vidcogiocatori sempre più spesso transmedialc, capace cioè di sc-

prospcttiva sociologica e storica suirargomcnto — basata su una disamina della “pluralità degli orizzonti che contemplammo in passato, in ragione della pluralità intrinseca del sé, della molteplicità delle aspirazioni e dei progetti che siamo stati in grado di intravedere al di là di ciò che abbiamo poi attivamente perseguito” — vedi P. Jcdlowski, Memorie delfi auro» Roma, Carocci, 2017.

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guìre traiettorie di consumo culturale che sì spostano dal cine­ ma alla televisione ai videogame2*.

Al di là delle strategie commerciali, il cinema però trova anche nella logica stessa del videogioco, nella sua filosofia, un perfetto in­ termediario per accedere alle questioni relative al rapporto fra iden­ tità e tempo. Poiché la dialettica fra ripetizione e differenza alla base del videogioco — ogni partita apparentemente uguale all’altra ma in realtà potenzialmente diversa, se il giocatore, come spesso avviene, farà passi avanti o indietro rispetto a quella precedente — materializ­ za alla perfezione l’idea che la sua identità possa essere certamente intaccata dal c nel tempo, ma non al punto da smarrire del tutto le proprie caratteristiche originarie. Nello stesso tempo, il cinema che mutua i propri tratti narrati­ vi dal videogioco trae vantaggio da questa prossimità per testare i propri confini identitari, la loro saldezza e flessibilità. E per questo che i film più interessanti al riguardo non sono tanto quelli tratti di­ rettamente dai videogiochi, quindi volti a replicarne aspetti narrativi e iconografici, quanto quelli che si ispirano alla loro struttura, tro­ vandola funzionale ad una riflessione che chiami in causa la possi­ bilità per il cinema stesso di aprirsi a forme drammaturgiche diffe­ renti senza snaturarsi in modo completo. A scongiurare questo pericolo c’è naturalmente la conscguenzialità che caratterizza co­ munque il film, a dispetto delle suggestioni provenienti da forme al­ ternative e ipertestuali di narrazione. Come bene ha fatto notare Al­ lan Cameron in riferimento alle narrazioni modulari: Andrebbe messo in rilievo il fatto che i film sono modulari a li­ vello concettuale. In senso letterale, continuano infatti a mani­ festare la forma lineare che a lungo è stata parte integrante del cinema narrativo. Nondimeno, questi film si presentano com­ posti da unità temporali o narrative discrete, disposte in moda­ lità che guardano alla non linearità5. Se la non linearità rappresenta dunque, come sostiene Came­ ron, una sorta di punto di fuga verso il quale i film narrativi possono protendersi, senza però arrivare mai a raggiungerlo, la struttura del

2 R. Passone, Cinema e uideogiochi, Roma, Carocci, 2017, p. 27. 5 A. Cameron, Modular Narratives in Contemporary Cinema, Houndmills, Palgrave Macmillan, 2008, p. 5. 79

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videogioco — conseguenziale nella ripetizione, non suo malgrado — è ideale alla manifestazione di un processo che porta il cinema ad ibridare la propria identità, senza però mutarla del tutto. Vediamo al riguardo due film esemplari sotto questo profilo: Source Code (2011) e Edge of Tomorrow (2014). E, per cogliere al meglio questa loro esemplarità, cominciamo con Banalizzarli al netto delle loro affinità strutturali con i videogames. Diremo allora che il primo racconta la storia di un insegnante, Sean Fentress, chiamato a sventare un attentato dinamitardo sul treno di cui è un passeggero, mentre nel secondo un reporter televi­ sivo di nome William Cage, dopo essere stato spedito suo malgrado in prima linea nella guerra contro un esercito alieno che ha invaso la terra, si trova infine a fronteggiare Omega, il leader degli extraterre­ stri. Entrambi i protagonisti riusciranno infine a portare a termine la propria missione, come di regola nel genere cui i due film apparten­ gono, Taction movie. Tuttavia, a fronte di un’identità (di genere) ri­ gida, il racconto al contempo ne prevede anche una mobile e protei­ forme, appunto sul fronte della caratterizzazione del personaggio. Per quale motivo infatti, e soprattutto per quali strade, un insegnan­ te dovrebbe essere in grado di sventare un attentato terroristico e un reporter televisivo porre fine ad un’invasione aliena? È evidente che la natura dilettantesca, rispetto all’impresa che sono chiamati a compiere, dei due protagonisti rimanda all’assoluta estraneità spazio-temporale ed esistenziale del videogiocatore rispet­ to all’universo di ferro, fuoco e fiamme nel quale spesso si trova ad agire da eroe e fiero combattente. E che questa inadeguatezza ri­ chiede una fase di apprendistato e iniziazione improntata alla ripe­ tizione infinita di situazioni che in principio si presentano come imperscrutabili e insormontabili, poi appaiono solo difficili, infine vengono neutralizzate in virtù della dimestichezza acquisita, nel tempo, dal giocatore. E per questo che Source Code si compone di una serie apparentemente infinita di sequenze ambientate sul treno in questione, che iniziano allo stesso modo - seduto in uno scom­ partimento, il personaggio si sveglia ail’improwiso davanti a una ra­ gazza che gli si rivolge in tono confidenziale, come se lo conoscesse - ma proseguono poi in modo sempre leggermente diverso, poiché Fentress ad ogni singola occorrenza acquisisce, grazie alla memoria di quanto accaduto negli episodi precedenti dal momento del suo ri­ sveglio a quello della esplosione, dimestichezza con la situazione. In virtù della quale riesce inizialmente ad uscire indenne da piccoli contrattempi - evita ad esempio che un passeggero maldestro gli ver­ 80

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si addosso del calìe - infine ad individuare l’attentatore e a evitare che il treno salti in aria. Analoga è la struttura di Edge of Tomorrow, che nella prima parte ruota ossessivamente intorno alla medesima sequenza, ambientata su un campo di battaglia e incentrata sulla morte di Cage, fulminea in principio ma poi sempre meno scontata e rapida, a mano a mano che egli, appresa la propria capacità di tra­ scendere la morte e quindi di rimediare agli errori che l’hanno pro­ vocata, impara a schivare i pericoli. Nel momento in cui i due film rispettano la progressione tipica del genere, in fondo alla quale l’eroe deve infine avere ragione dell’an­ tagonista più temibile, mettono la propria identità strutturale in rap­ porto dialettico con una forma “altra”, rappresentata in questo caso dai videogiochi. Tale progressione dunque si combina alla ripetizio­ ne, se ne appropria e insieme se ne fa condizionare. Esattamente co­ me sul piano narrativo il protagonista viene sollecitato dalla sua stessa condizione a modulare l’identità (della situazione di partenza) sulla lunghezza d’onda di una diversità che corrisponde al suo tempo di sopravvivenza in essa, così su quello strutturale il film manifèsta una fisionomia che combina progressione e ripetizione, o meglio genera progressione nella ripetizione. E infatti inesatto dire, come sostenuto da molti (tra cui in passato, ahimè, anche il sottoscritto)4, che il film replica per lo spettatore le modalità dell’utente di un videogioco, poi­ ché la struttura di questi film lo colloca semmai nella posizione deWosservatore di un videogioco: un osservatore interessato, a condi­ zione tuttavia che l’abilità del videogiocatore sia tale da permettergli di progredire nel gioco, senza battute a vuoto né passi indietro. L’esemplarità di Source Code e Edge of Tomorrow consiste allora nel modo in cui l’identità si coniuga all’alterità su diversi piani. A sal­ vare i due film da un loop di ripetizioni infinite della medesima se­ quenza sono infatti le varianti introdotte dai progressi compiuti dai personaggi nel leggere le situazioni, che registrano un’evoluzione ne­ cessaria alla loro sopravvivenza quanto a quella del film nella sua in­ terezza. Inoltre la dialettica fra identità e alterità gioca un ruolo cru­ ciale anche nella caratterizzazione dei personaggi. Poiché in Source Code ad un certo punto veniamo informati che Sean Fentress altro non è che la versione virtuale di un soldato ferito in Afghanistan, Colter Stevens, il cui corpo giace in stato neurovegetativo nei locali di

4 L. Gandini, Schermi ipertestuali, in «Imago» 3 (Rivoluzioni digitali e nuoveforme estetiche), Roma, Bulzoni, 2011, pp. 85-92. 81

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un’organizzazione militare, ^escamotage narrativo - si immagina che un programma informatico altamente sofisticato permetta di proietta­ re la sua mente nel passato e in un corpo altro, così da sventare un at­ to terroristico che in realtà è già avvenuto - sdoppia la figura del pro­ tagonista c mette al centro del film la possibilità che Stevens riesca efficacemente a indirizzare la propria competenza verso il suo alter ego sul treno. Un insegnante non può sventare un attentato dinami­ tardo, a meno che non sia posseduto dallo spirito e dall’intraprendenza di un soldato di professione. Nello stesso tempo però la postura e l’abbigliamento di un innocuo insegnante permetto­ no a Fentress di muoversi sul treno senza destare i sospetti che provo­ cherebbe un soldato in tenuta da battaglia. La riuscita dell’impresa dipende dunque dalla capacità del personaggio di essere altro da sé, in entrambe le direzioni: flessibilità identitaria che nel frattempo, per co­ sì dire ai piani superiori del film, sta già giocando un ruolo cruciale a livello di struttura e narrazione*. In Edge of Tomorrow è invece all’opera la medesima dinamica intertestuale che abbiamo già visto in Oblivion,, segnata in principio dalla presenza come protagonista di Tom Cruise, in seguito dalla sua dimestichezza con l’eroismo tipico del cinema d’azione. L’ini­ ziale inettitudine di Cage nel combattere gli alieni crea dunque un orizzonte d’attesa che non riguarda tanto il personaggio quanto l’attore che lo interpreta, la sua capacità di tornare ad un ruolo che gli è congeniale e per il quale gli spettatori lo attendono al varco. Il film registra così gradualmente la faticosa presa di possesso di Cage, il personaggio, da parte di Cruise, l’attore: quasi che ogni ripetizio­ ne coincida col ciak di un film dove l’attore comincia ad avere, per quel ruolo, qualche ruga e anno di troppo. Alla fine, proprio come in Source Code,, l’identità si forma a partire da un rapporto fertile con l’alterità: se in quel caso è determinante il momento in cui il corpo dell’insegnante e il cervello del combattente cominciano a lavorare all’unisono, qui ad essere decisiva è l’allineamento del personaggio di Cage ai ruoli solitamente interpretati dall’attore che lo incarna. Edge of Tomorrow può dunque essere letto come la storia sia del ritorno di Cruise alla propria identità di attore action, sia della assoluta

s Per un'analisi ulteriormente approfondita del film nelle sue relazioni con la struttura del vidcogioco, vedi W. Buckland, La logica del videogame in Source Code, in “Imago” 12 {Oltre il corpo del cinema. Reti, virtualità, apparati), Roma, Bulzoni, 2015, pp. 153-166. 82

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necessità di questo ritorno perché il film torni alla propria identità di genere. Su entrambi i piani, perché questo avvenga si rende necessa­ ria una relazione dialettica con (’alterità - le iterazioni e variazioni ti­ piche del videogioco da una parte, l’inadeguatezza iniziale del perso­ naggio dall’altra. Ne consegue un’immagine dell’identità come forma transitoria, processo scolpito dal e nel tempo, che procede per tentativi e correzioni di rotta. Ma perché Edge of Tomorrow diventi un action movie nel senso pieno della paiola, è anche necessario che lo spettatore sappia a sua volta destreggiarsi fra identità e alterità, prendendo piena coscienza, una volta che il racconto torna ad avere tratti di linearità e conse­ quenzialità, di guardare la variante di un evento che in precedenza ha già avuto innumerevoli versioni. Come rivelano alcune frasi di Cage alla partner che ne condivide lo stato di immortalità mentre procedo­ no insieme sul campo di battaglia - “non riusciamo ad andare oltre quel punto”, in riferimento ad un elicottero del quale vorrebbero met­ tersi alla guida - o intere sequenze - nell’incontro con un generale, Cage è in grado di anticipare alla lettera le battute del suo interlocuto­ re - il film nella seconda parte segue un principio di selezione di epi­ sodi molto simili l’uno all’altro, dei quali però vediamo questa volta solo una singola occorrenza narrativa. E che tuttavia sappiamo rico­ noscere come tale, a partire da ciò che la distingue e la accomuna alle altre che le sono state precedenti: in caso contrario, senza questa competenza improntata ad un’idea di identità e differenza, una frase come “non riusciamo ad andare oltre quel punto” risulterebbe del tut­ to insensata. Il film finisce così per introdurre un percorso di appren­ dimento e lettura dell’akerità nel tempo che appare duplice, poiché riguarda il protagonista da una parte e lo spettatore dall’altra. Nel momento in cui Cage dimostra di sapersi avvalere di un’identità, la propria, sfumata e sfaccettata, lo spettatore nel frattempo a sua volta ha imparato a leggere il film nella stessa direzione. Il mulo siiuuuralc giocato dalla variante nell’economia narrati­ va del film contribuisce inoltre ad evidenziare la componente metate­ stuale già espressa dallo status divistico di Cruise come eroe action che sta entrando in ruolo. Se dunque nella prima parte possiamo leggere le sue morti seriali come altrettanti ciak della medesima sequenza, nella seconda ogni sequenza ci viene presentata come esito di un la­ voro di selezione che l’ha privilegiata su altre simili. Tuttavia Edge of Tomorrow rimane in definitiva un film d’azione appassionante e spet­ tacolare come si conviene al genere, nel quale la variante non serve a straniare il pubblico dagli eventi, ma a renderlo partecipe della fluidità 83

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dei processi identità ri su vari fronti, a partire dalla caratterizzazione dei personaggi sino alla organizzazione delle sequenze. Perché la variante narrativa non faccia da deterrente alla pos­ sibilità del film di essere coinvolgente, non è peraltro necessario che la storia ruoti intorno a combattimenti ed atti terroristici. A riprova che essa può essere utilizzata con profitto anche in film tutfaltro che brechtiani nel rapporto con lo spettatore, analizziamo ad esem­ pio la sua funzione in una commedia sentimentale comedo»/ Ti­ me (2013). Al centro della quale c’è il percorso di crescita e maturità di un ragazzo, Tim Lake, cui il padre tramanda un importante se­ greto di famiglia: la possibilità di procedere leggermente a ritroso nel tempo per cambiare alcuni eventi della propria esistenza. Come per i protagonisti di Source Code e Edge of Tomorrow, an­ che quella di Tim è essenzialmente la storia di un personaggio che deve dapprima fare i conti con l’idea che il suo tempo non è irreversi­ bile, poi imparare a trarre debitamente profitto da questa opportunità. A differenza dei personaggi nei due film precedenti, egli tuttavia non si trova a fronteggiare situazioni estreme né a lottare per la propria so­ pravvivenza, il che paradossalmente rende più complicato il suo pro­ cesso di apprendimento all’alterità: per quali situazioni può valere la pena forzare l’identità del tempo? In principio Tim manifèsta, nella gestione della dialettica fra ripetizione e differenza, un impaccio non dissimile da quello di Stevens e Cage: prima si concede una seconda occasione per sedurre l’amica della sorella ma non riesce nell’intento, poi torna indietro nel tempo per aiutare un amico in difficoltà invece che recarsi a una fèsta, dove però aveva incontrato una ragazza che ora rischia di non rivedere più, poiché la seconda occorrenza della medesima serata ha annullato la prima. Nel registrare gli incerti passi del giovane Tim in un mondo che ha la flessibilità temporale di un videogioco, il film ovviamente non sfugge alla risonanza metatestuale innescata dal meccanismo delle varianti, che ancora una volta riman­ dano ai ciak di una medesima sequenza. Tuttavia questa costruzione, ben lontana dal generare un effetto di straniamento, crea anche qui una sorta di parallelismo tra personaggio e spettatore, che nel corso del film vengono entrambi gradualmente istruiti nell’arte di leggere l’alterità nell’identità, la possibilità nella necessità. Tim comprende che la sua vita può prendere altre direzioni nello stesso momento in cui chi lo guarda realizza che il film nel suo complesso può, a propria volta, prendere altre direzioni. Inoltre, esattamente come Source Code e Edge of Tomorrow rimangono saldamente ancorati al genere action, con quello che ne 84

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consegue in termini di tensione drammatica e, per quanto acciden­ tata, linearità narrativa, About Time non deroga alla sua funzione di commedia sentimentale. Ne rappresenta anzi un esempio molto tradizionale, soprattutto alla luce della promozione dei valori fami­ liari, che giocano un ruolo cruciale nella caratterizzazione del prota­ gonista. Al contempo questa presenza assidua e affettuosa del nucleo familiare, nel segno di una continuità generazionale sancita da gusti musicali e passatempi comuni (partite a ping pong, sassi gettati in ac­ qua), è un segno di irreversibilità cronologica che di padre in figlio, quindi in modo lineare, si oppone alle opportunità di replica e revi­ sione offèrte dai passi indietro nel tempo. Non per caso questi ultimi possono generare scompensi familiari tali da convincere Tim ad avva­ lersene con cautela: quando scopre che i viaggi a ritroso in un tempo precedente alla nascita dei suoi figli possono, una volta tornato nel presente, decretarne la scomparsa o l’alterazione (per evitare a sua so­ rella un incidente automobilistico, Tim compie un tragitto all’indietro al termine del quale scopre di non essere più padre di una bambina ma di un maschio), egli decide di non intervenire. La nozione di discendenza familiare, quale simbolo di una con­ tinuità temporale che procede in modo lineare e irreversibile, diventa quindi nel film il limite che argina l’onnipotenza cronologica del pro­ tagonista. Tim non permette ai suoi giochi di prestigio col tempo di sfaldare la propria struttura familiare. Al contempo questa stessa scel­ ta garantisce ad About Time di rimanere, a dispetto delle sue contor­ sioni cronologiche, una commedia sentimentale a pieno titolo, com­ movente nei punti - matrimonio del protagonista, morte del padre, nascita dei figli - dove ci si aspetta che lo sia. La dialettica fra ripetizione e differenza, messa ai margini del film nel momento in cui Tim ne coglie l’aspetto disgregante per la propria vita affettiva, torna nella sequenza finale, laddove siamo spettatori di una duplice versione della medesima giornata di lavoro, vissuta dal diretto interessato in modo stressato e nervoso nel primo caso, con buonumore e flemma nel secondo. E interessante osserva­ re come in questo punto About Time diverga da Edge of Tomorrow, dove — come abbiamo visto — nel finale il gioco delle varianti veniva lasciato all’immaginazione di uno spettatore ormai istruito a leggere il film in quella direzione. In primo luogo perché al centro del film non abbiamo le azioni del protagonista quanto i suoi stati d’animo, che, come ci conferma la voce fuori campo che correda la sequenza, sono ora improntati alla rilassatezza (“cerco di vivere ogni giornata come se ci fossi tornato indietro apposta, per viverla come se fosse la mia 85

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ultima”): l’idea di progressione propria dell’^cz/ow movie alla quale infine Source Code ed Edge of Tomorrow si allineavano lascia qui spazio, come si conviene ad una commedia, ad una ricognizione dell’emotività del protagonista, nello specifico ad un confronto tra due sue differenti filosofie del tempo. La doppia versione della giornata di lavoro di Tim provvede però anche ad evidenziare come la relazione fra identità e differenza si giochi sul crinale di una metamorfosi del personaggio, che — una volta acquisita padronanza della sua dote — è diventato un altro nel tempo, non tanto perché può lo percorrere in due direzioni, quanto perché ora sa in che modo percorrerlo, con quale atteggiamento. Se About Time non si sbarazza progressivamente delle varianti, come invece avveniva negli altri due film, è perché la loro permanenza te­ stimonia una flessibilità che il film vuole mantenere in linea col per­ sonaggio. Possiamo dunque affermare che anche il film, nel tempo che separa l’inizio dalla fine, si apre radicalmente a quella stessa al­ terità narrativa che Edge of Tomorrow e Source Code ospitavano in­ vece in modo provvisorio, prima di tornare ad essere se stessi. Ed è con questa doppia alterità che deve fare i conti lo spettatore, alle pre­ se con un personaggio e un film che cambiano identità senza tutta­ via rendersi mai del tutto irriconoscibili. Ci si potrebbe chiedere quale diritto di cittadinanza abbia, nell’ambito di un cinema che guarda alla replicabilità cronologica dei videogame, un film come questo, che non presenta né uno sce­ nario di combattimento, come nel caso di Edge of Tomorrow, né uno sdoppiamento del personaggio come in Source Code, dove Stevens e Fentress occupano rispettivamente le posizioni del giocatore e del suo avatar. Ma in realtà, come abbiamo spiegato all’inizio del capi­ tolo, la logica del videogioco, quando intrecciata alla narrazione ci­ nematografica, ci interessa perché pone questioni relative da una parte alla relazione, nella struttura stessa del film, fra ripetizione e differenza, dall’altra alia possibilità che il personaggio fluidifichi la propria identità sulla scia di un rapporto anomalo col tempo. Sotto questo profilo About Time., nella forma e nel contenuto altro da sé pur conservando fino in fondo la propria identità originaria, risulta un film pienamente pertinente. Per gli spettatori, una lezione pluristratificata di flessibilità identitaria che raramente si riscontra nel ci­ nema che mette in scena videogiochi o narra storie di personaggi aggrappati alla console. Dove per contro le questioni fra identità e al­ terità vengono perlopiù affrontate e risolte sul piano estetico secon­ do un criterio di divisione rigida fra l’universo del gioco e quello del 86

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giocatore; peccato cui non va esente nemmeno Source Code* che per questo risulta in definitiva un film meno interessante — sebbene più analizzato a livello critico — di Edge of Tomorrow. Un’eccezione al riguardo è costituita da un film di ormai quasi vent’anni fa, Existenz (1999), che, pur prendendo il titolo da un vi­ deogioco del quale mette in scena contenuto e giocatori, cerca all’opposto di offuscare i confini tra il mondo della finzione cinema­ tografica e quello della finzione videoludica. Il film si apre in una sala conferenze dove una celebre creatrice di videogames, Allegra Geller, è stata inviata per una demo del suo nuovo gioco, da testare dal vivo in­ sieme ad alcuni volontari. Laddove sarebbe lecito aspettarsi, alla luce di questo incipit, una demarcazione fra il mondo dei giocatori e quel­ lo del gioco, Existenz invece rimescola le carte in maniera tale da ren­ dere impercettibile il passaggio dall’uno all’altro. Sul piano narrativo, un tentativo di assassinio di cui è oggetto Allegra ci fa presumere che il racconto sia ancora in una fase estranea al gioco, quando in realtà esso, come vedremo più avanti, è già iniziato; inoltre gli sviluppi suc­ cessivi vedono i due protagonisti, la stessa Allegra e il suo ragazzo Ted Pikul, alle prese con joystick che danno loro accesso ad una realtà vir­ tuale e videoludica ulteriore, che lo spettatore però, convinto che il gioco debba ancora iniziare, non coglie come tale. Sul piano stilistico, la contraffazione poggia su un uso rigoro­ samente tradizionale del montaggio, sulla totale assenza di effetti spe­ ciali e su un utilizzo accorto dei raccordi di sguardo e del sonoro (ad esempio, il rumore di piatti che introduce l’entrata dei giocatori in un ristorante cinese ha inizio quando ancora ad essere inquadrati sono i giocatori stessi, nella loro stanza d’albergo). In questo modo lo spetta­ tore, ancora una volta grazie ad un cinema tanto più complesso sul piano narrativo quanto più scolastico su quello formale, si ritrova dentro un film pensato e progettato come un disegno di Escher, un racconto a scatole cinesi che però - a differenza di quanto avviene in film strutturalmente simili, ad esempio Inception o Sucker Punch — gli preclude la possibilità di capire quando la singola scatola narrativa ne contiene altre e quando invece ne è contenuta. Nell’opinione dell’antropologo Francesco Remotti, la ricerca dell’identità

implica due operazioni diametralmente opposte e che tuttavia si richiamano l’un l’altra: un’operazione di separazione e un’ope­ razione di assimilazione. Se l’identità viene ricercata verso l’alto (verso la generalità) prevale l’operazione di assimilazione: 87

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l’uragano Felix viene assimilato ad altri fenomeni fatti rientrare nella categoria ‘‘uragani” (...]. Se invece l’identità viene ricer­ cata verso il basso, privilegiando gli elementi di particolarità, è allora l’operazione di separazione ad essere decisiva: Felix vie­ ne individuato come un uragano a parte, a tal punto da confe­ rirgli un nome proprio. Separazione c assimilazione sono due leve che ogni processo di identificazione è costretto a utilizzare. Si tratta di operazioni opposte e complementari [...J; ma an­ che di operazioni a cui si può fare ricorso su piani diversi, otte­ nendo così una diversa strutturazione del quadro classificatorio della realtà6. Nel film dunque il concetto di identità viene fluidificato attra­ verso un atto di offuscamento dei piani che potrebbero permettere le operazioni di assimilazione e separazione. Non soltanto infatti Existetiz prevede che i personaggi siano impegnati in un videogioco, ma nel finale, quando teatro degli eventi torna ad essere la sala conferen­ ze - lo spettatore scopre che il tentato assassinio di Allegra faceva già parte del videogioco, poiché tutto quanto è passato sullo schermo, a partire dalla prima sequenza sino a quel momento, appartiene ad un videogame ulteriore, Trascendenz, ideato da un altro game designer, Nourish, del quale la ragazza è attrice, non ideatrice. Non esiste dun­ que quasi nulla, nel film, che non corrisponda alla rappresentazione del contenuto di un videogioco: il problema è che di videogiochi ce n’è più d’uno, e le dinamiche con cui Existenz si combina a Trascendenz sono talmente fluide da risultare spesso imperscrutabili. La mancanza di una linea di confine tra i due videogiochi da una parte, e tra questi e il film (che non a caso condivide con uno di loro il titolo) dall’altra impedisce di fatto allo spettatore di poter ope­ rare quelle operazioni di assimilazione e separazione che gli per­ metterebbero di contestualizzare le singole sequenze e ricondurle all’universo di riferimento. , Al punto che la battuta finale del film — are we still in the game?, pronunciata nella sala da un personaggio che, nel momento in cui gli vengono puntate due pistole davanti al­ la faccia, non capisce più se la minaccia di morte è reale o virtuale riflette perfettamente il totale disorientamento dello spettatore, or­ mai completamente smarrito in un labirinto di specchi che non ha vie di entrata né, come dimostra la frase conclusiva, di uscita. Come bene ha scritto al riguardo Adam Lowenstein:

6 F. Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 7-8. 88

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Existenz non permette mai agli spettatori di tracciare linee de­ finitive di demarcazione tra gioco “innocuo” e realtà “minac­ ciosa**, né tra caratteristiche del videogioco comunemente per­ cepite come “interattive” e caratteristiche cinematografiche spesso ritenute “passive”7.

Ad essere significativo, in questa citazione, non è solo il conte­ nuto, ma anche l’uso frequente delle virgolette, che cercano stoica­ mente di compensare e cirroscrivere con la scrittura le varie identità che il film invece continua inesorabilmente a sovrapporre. Seguendo in questo una logica opposta ai film analizzati in precedenza, nei quali la dialettica fra ripetizione e differenza innescava, per i protago­ nisti impegnati ripetutamente nelle medesime situazioni, una meta­ morfosi della propria identità nel tempo, Existenz inceppa il tempo per moltiplicare le identità invece di replicarlo per dare loro uno svi­ luppo. Tanto per cominciare, in questo film non abbiamo scenari ed eventi che si ripetono, fatta eccezione per la prima e l’ultima se­ quenza, ambientate entrambe nella sala conferenze, ma riconduci­ bili, come abbiamo visto, a due videogiochi diversi, l’uno innescato dall’altro e quindi, apparentemente, in esso contenuto. In seconda battuta il passaggio da un videogioco all’altro prevede un ribalta­ mento completo e brusco delle identità dei personaggi, in ottempe­ ranza al quale programmatori ed oppositori ideologici del videoga­ me si scambiano improvvisamente i ruoli: in Trascendenz alla fine Allegra e Ted militano nello stesso gruppo clandestino, votato al ri­ pristino del realismo e all’abolizione della realtà virtuale, che in Exi­ stenz invece li braccava c voleva eliminare, in quanto responsabili della creazione e della promozione dei videogiochi. In terza battuta il film, attraverso il ribaltamento finale, fa terra bruciata di ogni pos­ sibile autonomia del cinema dal videogioco: come detto in prece­ denza, la rivelazione su 'Trascendenz lascia intendere che, dalla pri­ ma alla penultima sequenza, la narrazione cinematografica sia coincisa perfettamente con quella videoludica. Nella scelta iconografica di dare ai dispositivi per il gioco una forma organica, immaginando poi che essi vadano installati diret­ tamente nel corpo del giocatore attraverso una piccola operazione chirurgica, possiamo allora vedere qualcosa che va al di là delle con­

7 A. Lowenstein, Dreaming of Cinema. Spectatorship, Surrealism and the Age of Digital Media* New York, Columbia University Press, 2015, p. 60. 89

Fuori di sé

suete ossessioni del regista David Cronenberg per i rapporti tra la dimensione tecnologica e quella biologica dell’esistenza. L’assenza di confine tra l’organico e il tecnologico è anche una metafora del modo in cui il cinema, nel caso di questo film, non può né vuole scrollarsi di dosso rimmaginario del videogioco, che gli si aggrappa fino a diventa­ re tutt’uno con lui. La fluidità identitaria che caratterizza i personaggi e la narrazione - forte e pervasiva al punto da impedirci di compiere operazioni sensate e stabili di distinzione e ripartizione delle figure e degli spazi — determina un rapporto con Talterità che il passaggio del tempo non contribuisce ad evolvere, né a chiarire. Al contrario, Existenz testimonia in modo esemplare il grado estremo di trasformazione di un cinema che, una volta aperta la pro­ pria identità a varianti ed alternative, può, come in questo caso, esser­ ne scavato in profondità al punto da risultare un oggetto bifronte, una macchia di Rorschach fatta film. L’assenza di confini tra i vari livelli è garanzia di una pluralità congenita, di struttura e di lettura. Ancora una volta, potremmo permetterci di leggere la questione in termini squisitamente estetici, riconducendola al panorama mediale della no­ stra epoca e alle sue molteplici modalità di fruizione dei testi audiovi­ sivi, se non fosse per il fatto che nozioni come quelle di pluralità e as­ senza di confini rimandano oggi a scenari decisamente più ampi. In ragione dei quali non è eccessivo vedere in Existenz un film politico e nel suo contenuto una preziosa lezione di flessibilità, destinata in primo luogo a circostanze svincolate dalla visione di un film.

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