Frugando tra i mercati di Palermo. Una foto, una storia. Ediz. illustrata [Illustrated] 8898777868, 9788898777860

Gaetano Basile, commentando le fotografie dell’amico Andrea Ardizzone, pagina dopo pagina riesce a trasmettere la storia

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Frugando tra i mercati di Palermo. Una foto, una storia. Ediz. illustrata [Illustrated]
 8898777868, 9788898777860

Table of contents :
Frontispizio
Indice
Introduzione
Ballarò
Via Porta di Castro
Un mare di tetti
San Nicolò e la torre
Chiesa della Madonna del Carmine Maggiore
Biblioteca comunale
Attaccagghieddi
Macerie e degrado
Commercianti
Gente che tratta, tira sul prezzo, discuute
Sicilian Street Food
Da Umberto a Ballarò
Polpo bollito
Tavolozza primavera-estate
Totò e le sue diversificazioni commerciali
Il concorrente di Totò
Totò e le arance
Don Carmelo quattro stagioni
Il fumo di contrabbando
Vendeva limoni
Il five o’ clock palermitano
Il fumo dell’autunno
banchi del pesce
Tunnina
Pescecane
Quarume, roba calda o fredda, dipende
Trippa
Frattaglie
Gli orrori
Cascavaddaru
Frittolari
Abbanniata
Murales
African Market
Tutti a messa
Capo
Porta Carini
La strada del mercato
Immacolata Concezione
La Pupa del Capo a Palazzo Serenario
Mestieri: ieri e oggi
Il coppo
Arancina Lesson One
Il franchising di sfincione e sfincionello
Pupaccena
Capone
Sarto & C.
Il chioschetto
Mura puniche
Quattro Coronati
Via Sant’Agostino
Il putto oppure i Santi Quaranta Martiri?
Sant’Ippolito
Chiesa di San Gregorio
Antica sede dei Beati Paoli
Via Beati Paoli con poltrona
Lapa Beati Paoli
Chiesa di Santa Maruzza dei Canceddi
Madonna della Mercede
Edicole votive
Vucciria
Il Palazzone Comunale
Palazzo Lo Mazzarino
La fontana del Garraffello
Via Argenteria
Piazza Caracciolo
Piazza Garraffello
(Spoon River)

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Gaetano Basile, palermitano doc, è giornalista e autore di testi teatrali, ma anche enogastronomo appassionato e narratore awincente. Ha alle spalle un'intensa attività giornalistica televisiva come divulgatore di tutto ciò che è cultura siciliana. Ha scritto di Sicilia e di Palermo, di cucina e di cavalli, di Storia e storie, con toni lievi, talora graffianti, mai seriosi. Viaggiatore attento e testimone di una cultura antica, sa parlare alla memoria della gente che seduce, prescindendo da stereotipi e luoghi comuni. Capace di farsi leggere e amare da grandi e piccini, siciliani e non, toccando la parte più profonda dell'anima dei lettori. I suoi libri sono pubblicati da Dario Flaccovio Editore e da Edizioni Kalòs di Palermo. Ha diretto la rivista di etnoantropologia «il Pitrè»; oggi collabora con la RAI e numerose testate nazionali ed estere. Dall'Associazione Giornalisti Stampa Estera è stato premiato come miglior divulgatore della cucina italiana per l'anno 2011. Vive e lavora a Palermo.

Andrea Ardizzone, imprenditore di successo nel campo della moda,si accosta alla fotografia a partire dagli anni Sessanta. Ben presto si rende conto che non bastano l'attitudine e la capacità di scegliere un click piuttosto che un altro, c'è bisogno di imparare dai più grandi. Sono gli anni Ottanta quelli degli stage con Ferdinando Scianna, Fulvio Roiter, Franco Fontana,Angelo Cozzi, Giorgio Lotti, Melo Minnella. "Questi signori mi hanno insegnato la fotografia",ammette. Eppure,la voglia irrinunciabile di catturare una situazione, un viso, un'abside, un panorama lui la possedeva già. Non parla mai di macchine fotografiche, di diaframmi, di tempi di esposizione, ma solo di quello che sta davanti al suo obbiettivo: la Sicilia. Nel 1995 passa il testimone dell'azienda ai due figli per dedicarsi completamente alla fotografia. Cominciano le mostre e le pubblicazioni. Nasce la collaborazione con la Fondazione Salvare Palermo, della quale diventa socio benemerito, e con la rivista «Per».

In copertina Particolare dell'opera di Alessandro Bazan, Faces are places (2018), in una fotografia di Andrea Ardizzone.

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Scatti che mettono a fuoco la realtà. Volumi che puntano a tradurre gli oggetti del mondo in immagini reali , in racconti da sfogliare.

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Si ringrazia Giorgia Guerrieri per aver contribuito all'elaborazione grafica dell'immagine a p. 72

© 2019 Andrea Ardizzone per le fotografie

© 2019 Gaetano Basile per i testi © 2019 Edizioni Kal6s Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione totale o parziale dei testi e delle immagini se non autorizzata dall'editore.

Cura redazionale Luana Lupo Progetto grafico e impaginazione Flavia Fi lpi

Edizioni Kal6s

via Giulio D'Alcamo. 15/17 90143 Palermo t ( +39) 091 7320918 e [email protected] w edizionikalos.com

Basile. Gaetano Frugando tra i mercati di Palermo· una foto. una storia I Gaetano Basile commenta Andrea Ardizzone. - Palermo : Kal6s, 2019. (Obbiettivi) ISBN 978-88-98777-86-0 1. Mercati al minuto - Palermo. I. Ardizzone, Andrea . 3811809458231 CDD-23 SBN PAL0322117 CIP - Biblioteca centrale della Regione sici liana "Alberto Bombace"

GAETANO BASILE ~

ANDREA ARDIZZONE

Frugando tra i mercati di Palermo Una foto, una storia

Indice

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Introduzione

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Ba li arò

59 99

-

Capo

Vucciria

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Un mio vecchio amico francese, infaticabile scorridore dei sette mari e dei cinque continenti, dichiarò d'essersi innamorato di Palermo. Non della Sicilia come succede a chi viene da fuori. No, lui s'era preso una cotta per Palermo. Diceva che è una città unica. La sua posizione al centro del Mediterraneo le ha fatto assorbire tutti gli umori che qui, da sempre, giungono da ogni dove. È la concentrazione di una cultura millenaria, di una diversità enogastronomica cresciuta nello splendore, nella contraddizione e nella sofferenza. Trasmette la sua storia attraverso i mercati per giungere sulle tavole in piatti e bicchieri. In questa città, ciò che per molte culture è strano diventa quotidiano. Basti pensare all'agrodolce, all 'amaro, al salato, al dolce, al piccante, messi tutti insieme. In questa città le dominazioni si leggono, come pagine di storia, riflesse nei piatti. Nei mercati, grazie al cibo di strada, si ritrovano piatti antichi di oltre duemila anni come le stigghiole, la quarume, le verdure bollite, le cipolle infornate... Mi fece notare che all'Orto Botanico convivono piante tropicali e subtropicali, accanto a pini nordici, pioppi e betulle; la lingua che usiamo è, come la nostra cucina, il risultato degli apporti civili di chi arrivò via mare. Il mio amico adorava gironzolare per i nostri mercati "storici". Così come hanno deciso di chiamare quei mercati ormai celebri come Ballarò, Capo e Vucciria. Assieme agli odori, alle voci, ai colori mediorientali, ci trovò quella islamica indolenza o musulmana indifferenza, come diceva, che ci ha permesso di soprawivere alle quotidiane sopraffazioni, alle mane, corruttele, governanti ladri e amministratori incapaci. Forse aveva ragione lui. Qui l'arte del vendere e comprare, con trattative interminabili, generò il marketing oltre mille anni fa. Così come l'uso di vendere cibi cotti da mangiare con le man i, nei pressi di antiche taverne, diede vita allajoint-venture. Che è roba difficile da spiegare se non si abita a Palermo. Noi palermitani, poi, siamo riusciti addirittura a fornire una nuova divinità femmini le al pantheon indù ed è Santa Rosalia. I tamil le rendono omaggio ogni domenica salendo anche loro sul monte Pellegrino. Palermitani e cingalesi insieme, nel punto più alto della più cosmopolita città italiana. Capì, il mio amico globe trotter, che qui chiunque è il benvenuto. O quasi. Come se tutti comprendessero le solitudini e lo sperdimento altrui. Dal l'Asia, dallf\frica, dallf\merica latina, dall'Est europeo, tutti quanti hanno trovato un clima a loro familiare, colori e profumi immutati da tremila anni. I nostri vicoli dove si accumula l'immondizia, tra le macerie del '43, i crolli recenti, gli abusi edilizi di ogni epoca, odorano anche di fritture e grigliate, basilico, curry e chiodi di garofano. Bottegucce e bancarelle vendono mango secco accanto a sontuose parrucche africane, fagioli neri del Centro Africa e banane da friggere.

Difficile è restarci dato che manca il lavoro e il futuro è solo domani. Al dopodomani ci pensa Dio. Diciamo noi tutti che ci viviamo. A Palermo girando tra i mercati si possono assaporare tutti i colori dell'umanità, tutte le sfumature dell'anima, tutte le tonalità del sorriso. Tra questi vicoli trovò i suoi modelli il grande Giacomo Serpotta che con i suoi stucchi, marmi da poveri, trasformò povere macilente prostitute in elegantissime "Virtù" e bambini emaciati, tristi, affamati in putti paffuti e bellissimi. Un vero atto d'amore per Palermo e i palermitani. Da qualche tempo le cose sono cambiate. La mafia si è impossessata della città, il pizzo ai commercianti dei mercati ha sostituito la tassa comunale, malgrado Falcone e Borsellino e tanti altri che hanno sacrificato le loro vite per sradicarla. Le tiwù scendono a Palermo alla ricerca del colore, delle abbanniate, del fumo delle stigghio/e, dei fichidindia sbucciati davanti alle telecamere, dell'antimafia espressa nelle ricorrenze con le autorità in primo piano. Negli antichi mercati tanti godono di questo interesse facendo le comparse di se stessi, lasciandosi intervistare per raccontare tante sciocchezze, contenti di "andare in televisione" con il sorrisetto complice e strizzando l'occhio al vicino di bancone. Una volta in quei mercati si leggeva poesia, quella che trasmisero grandi scultori come i Gagini, l'abate Giovanni Meli e più tardi Franco Franchi, Ciccio lngrassia, Pino Caruso e altri cantori della Palermo del dopoguerra e oltre. Nessuno si accorge che ci stiamo allontanando dalla realtà per vivere uno sceneggiato che ci allontana sempre di più dalle cose essenziali della vita. Mi piace ricordare le parole del grande documentarista e regista palermitano Vittorio De Seta, in una lontana intervista. «La poesia esiste sempre a Palermo, ma è più difficile scoprirla. Imbarazza e spaventa perché non abbiamo gli strumenti per interpretare la realtà. È una città che fa paura perché tutto rimane a basso voltaggio. Nasconde la poesia e se oggi dovessi cercarla guarderei a coloro che dedicano la propria vita agli altri, a coloro che fanno volontariato in ambienti disagiati e continuano a credere in qualcosa». Molto è cambiato negli antichi mercati. Nelle botteghe e sulle bancarelle che occupano abusivamente il suolo pubblico si sono aggiunti, ai prodotti di un tempo, quelli della odierna società dei consumi. Droga compresa. Naturalmente.

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Oggi si stenta a credere che Ballarò sia un mercato perché con questo termine si intende generalmente una piazza, uno spazio delimitato, qualcosa che già a prima vista deve fare capire che si tratta di un posto entro il quale si vendono merci, alimentari o meno. Il suo nome spiega meglio e subito che si tratta di un suk mediorientale: SOq a/-bal/arat, cioè il mercato degli specchi, dei cristalli, dei vetri. Un mercato saraceno, citato già dal viaggiatore arabo lbn Hawqal nel 973, nato fuori dalle mura cittadine che da quelle parti coincidevano all'incirca con l'attuale via dei Biscottari dove ancora si vedono le mura punico-romane. Più giù il letto del torrente Kemonia, Malutempu o Cannizzaro a seconda della lingua parlata in quel momento, che era all'epoca il vero confine naturale con la città chiusa entro le mura. Un mercato improvvisato, senza regole, dove ognuno proponeva ciò che aveva da vendere. E tale è rimasto dopo oltre mille anni. Anche se la città le è cresciuta attorno. Soltanto nel 1468 il Senato (il Comune, per intenderci) se ne accorse e si abbatterono alcune case in modo da trasformare una strada in una piazza. Tre secoli dopo, esattamente nel 1784, fu avanzata la proposta di costruire dei portici lungo il perimetro, ma non se ne fece nulla perché si sarebbe rifatta, in pratica, una strada stretta. Si tentò allora di allargare il mercato nell'attigua piazza del Carmine. Questa volta vi si opposero i proprietari delle case che si svilivano commercialmente ... Finalmente nel 1929, davanti alla chiesa del Carmine, si costruì una grande tettoia sorretta da eleganti colonne in ghisa e destinata al mercato del pesce. Ebbe vita breve perché venne rimossa alcuni decenni dopo per dare maggiore spazio al mercato allargandone il perimetro oltre la cortina degli edifici danneggiati dai bombardamenti aerei. Che ancora là stanno ... Il mercato, insegnano gli studiosi della materia, non è qualcosa di immobile e fisso, al contrario vive, si evolve secondo le esigenze economiche e sociali, e Ballarò ne è la dimostrazione. Si è dilatato invadendo parte dell'Albergheria, certamente la parte più antica della città fenicia. Anche se il suo intrigante nome venne dalla Albergaria Centurbi et Capici i quando, nel 1243, vi furono "albergati" (deportati, per l'esattezza ...) gli abitanti di Centuripe e Capizzi che si erano rivoltati contro Federico 11. Stupor mundi, lui in persona. È Briarìa in siciliano, e briariuoti gli abitanti che parlarono, fino all'avvento della tivvù, con un loro accento che li identificava nel contesto cittadino. Il mercato di Ballarò ha cominciato a ramificarsi sul versante Porta Sant'Agata, e giù fino alla cortina delle mura trecentesche e sul retro del magnifico Palazzo Cutò. Discretamente, in silenzio, abusivamente. Con lo sviluppo turistico il commercio si è aggiornato adeguandosi a ciò che l'ospite cerca in un mercato del genere. La frutta (immancabile il

ftcodindia già sbucciato) è offerta ai malcapitati, a prezzo forfetizzato, in vaschette di plastica, ma con contorno-omaggio di abbanniata e posa per selfte-souvenir. Ma dicono tenchiù e gubbài. Tanto l'inglese, anche se non lo parlano, lo capiscono tutti. Vigili urbani, polizia, carabinieri? " Ma per favore, qui lavoriamo per campare la famiglia". Quelli che disturbano sono i venatori che periodicamente vengono a sequestrare uccellini in gabbia catturati di frodo e ricercatissimi dagli intenditori. Ora ci sono pure i nivuri cioè africani, tamil, indiani, cinesi, ucraini, russi, polacchi ecc., ma loro hanno un loro mercatino di roba usata, recuperata nei cassonetti dei rifiuti, che s'allunga fino all'Ospedale dei Bambini; e pure una loro lingua creata spontaneamente per intendersi. Un po' come il sabìr in uso nel Mediterraneo tra la gente di mare per oltre mille anni. E poi hanno i loro prodotti, i loro negozi, i loro barbieri. Ci stanno bene come a casa, assicurano. È un quartiere assai intrigante con una toponomastica che fa pensare. Come via e piazzetta dello Zucchero che ci riporta alla canna da zucchero che cresceva lungo le rive del torrente ai piedi del grande complesso di San Giovanni degli Eremiti. Che, poveracci, non c'entrano per nulla visto che di Sant'Ermete si trattava ... Meravigliosa città capace di storpiare ogni cosa. Forse per renderla più gradevole agli altri. .. Ballarò oggi è lontano anni luce da quello della mia adolescenza. Lo percorrevo due volte al giorno a piedi per andare dal corso dei Mille al Convitto Nazionale. Il trascorrere del tempo, dei mesi, delle stagioni era scandito dalle abbanniate. Mi incantavano quelle dei pescivendol i: sarde a gennaio, minuti a febbraio, vope a marzo, triglie ad aprile, tunnina a maggio, pescespada a giugno; poi c'era il tripudio estivo di luvari, ucchiati, asineddi e, finalmente, capuni e 'nfanfari a settembre segnavano il rientro a scuola, fino alle murene, anguille e capitoni di dicembre. Era il mercato della povera gente, di coloro che prima di comprare se lo giravano da cima a fondo, tenendosi stretto al petto il portamonete. La qualità spesso non era eccelsa, ma il prezzo conveniente. C'era il settore abiti usati, cappotti, impermeabili, giacche; camicie e cravatte americane pacchianamente floreali. C'erano uniformi militari, fez e camicie nere, scarponi chiodati, fino all 'intimo mai esibito sui banchi, ma pudicamente venduto in negozietti dove era pure difficile muoversi. Alcuni chianchieri avevano l'affettatrice Berkel con cui staccavano fette imponenti di carne che non andavano oltre i cinquanta grammi. Si vendevano bambole e giochi per bambini poveri: si vedeva a occhio che erano diversi da quelli in vendita dal mitico Studer di via Napoli. C'erano le salsamenterie, le carnezzerie, uova & polli, vino & olio, lo sf,nciaro non ancora panellaro, tante taverne ("qui si fa da mangiare") con il democratico tavolone dove si tra-

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vavano accanto muratori, chianchieri, pescivendoli , mastri e gente di passaggio. Larancina e lo sfmcionel/o si trovavano solo al mattino come la mezza mafalda con tre pane/le; le stigghiole dopo le 17 come il frve o' dock degli inglesi. In inverno era di rito il piatto con la quarume al pomeriggio, ma peri, carcagnola, mussu ecc. in estate, rinfrescati e serviti con la spruzzata di limone. Che era il verdello. Si tornava alla taverna per il quartino con la gazzosa al limone. Ci si riconciliava con la vita dopo una giornata di stenti. Le putìe erano aperte fino alle 21: era l'ora in cui si vendevano povere cose, quando il marito tornava dal lavoro con quello che aveva guadagnato quel giorno. Sennò "si scriveva" nel nero quadernetto dei poveri. È quartiere ricco di monumenti importanti come il Carmine, San Nicolò, Casa Professa e San Saverio. Numerosi sono gli oratori di antiche confraternite e maestranze che ci ricordano l'operosità degli abitanti la cui attività era legata alla trasformazione e vendita di prodotti agricoli. Oggi quel ruolo sociale è nelle mani di giovani volontari che tentano di recuperare alla civiltà quanto si è perso strada facendo. Anche a combattere l'incipiente arroganza razzista. È un continuo brulicare di gente d'ogni colore, già da quando nacque. La presenza di tanti immigrati ha ridato la vita al rione, case e vicoli fatiscenti sono popolati da chi è sfuggito a guerre, persecuzioni, carestie. Molti portano negli occhi storie d'ingiustizia e di violenze. Mi resta l'antico piacere di entrarci dai punti a me più graditi. Amo molto passare sotto l'arco di Cutò, creato sotto il magnifico Palazzo dei Filangeri, oppure da via delle Pergole che è un vicolo che si dà delle arie ... Mi piace pure l'aristocratica via del Bosco con quei palazzi splendidi che nessuno degna di uno sguardo. Non è male neppure l'accesso da Casa Professa con la visione del duecentesco campanile di San Nicolò, costeggiando la taverna della Perciata che usava Cagliostro per dileguarsi ... Ma non manco di rifare il percorso che facevo con mio nonno partendo da San Giovanni degli Eremiti. Dipende. Dipende dalle giornate invernali o estive, dalle ore del giorno che danno sempre luci e colorazioni diverse alle cose; dalla mia voglia di ricordi, dal mio umore. Anche.

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Via Porta di Castro

Fu il gioco di tante domeniche mattina con nonno Gaetano. Mi faceva percorrere la via Porta di Castro, l'antico letto del nume Kemonia, che scorreva sotto i nostri piedi, a un paio di metri sottoterra. Era stato interrato alla fine del Cinquecento, mi diceva, per evitare i danni che procurava quando era ingrossato dalle piogge. E mi faceva rivivere con i suoi racconti la porta abbattuta a fine Ottocento, le rive ricche di vegetazione dove prosperavano canne da zucchero, i cannizzi dicevano... Deviando, mi portava a piazzetta dello Zucchero: figuratevi, unica piazza al mondo titolata allo zucchero. Su quelle rive crescevano pure tante verdure, a seconda delle stagioni, che venivano vendute nel vicino mercato di Ballarò... e mi faceva notare che il fiume andava diritto perché non aveva ostacoli. Dopo l'interramento scomparvero gli ortolani e, come succede sempre a Palermo, ci fabbricarono case, tante

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case, quelle che si vedono ancora oggi in quella che si chiama via Porta di Castro. Mi faceva risalire una delle rive che aveva il nome bizzarro di "salita del Banditore", perché ci abitava il banditore degli editti del Senato palermitano, e si divertiva a cercarne il domicilio, chiedeva dove fosse finita la famiglia Peri no (così si chiamavano quelli che per oltre due secoli fecero questo mestiere). Era un mago quel nonno! Riusciva a incantarmi con le sue storie. E seguendo il fiume si arrivava a Casa Professa e, più oltre, al Ponticello. Perché c'era un ponticello di ferro per attraversarlo soprattutto in inverno. Ecco perché quel nome alla via ... Che meraviglia! Quando sfociavamo a Bai Iarò mi ricordava immancabilmente che già "a suo tempo" il mercato era fiorente e affollato, visitato da mercanti catalani, genovesi, pisani, amalfitani, napoletani, lombardi; e pure maltesi, tunisini ... Era tutta gente che veniva per affari e ognuno vestiva alla maniera del suo Paese. Non dimentichiamo che fu uno dei mercati più antichi e affollati dell'isola. Un mercato alimentare dove si trovava di tutto. Preciso come ora. Ecco perché per giungere a Ballarò mi piace iniziare da San Giovanni degli Eremiti: è un godimento lasciarsi scivolare lungo il letto del Kemonia per finire tra vicoli, piazzette, prima di giungere alle voci, agli odori, ai colori dell'antico mercato. Provate pure voi a rifare lo stesso percorso cercando di immaginare come dovevano essere una volta quei luoghi. Con gli stessi suoni, gli stessi odori, le stesse tende colorate ... È un modo per entrare nell'anima di quel mercato incredibilmente vivo che è ancora oggi Ballarò.

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Un mare di tetti

Osservate bene. A sinistra la cupola di Casa Professa, mentre a destra si vede quella del Carmine con il suo bel lanternino. Due isole che sorgono da un mare di tetti. Tegole come onde smosse dal vento. Sotto c'è l'Albergheria e il mercato di Ballarò. Sembra di sentirne gli odori e le voci.

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San Nicolò e la torre La chiesa di San Nicolò c'era già nel Duecento. Il suo interno oggi ci appare dimesso perché nel corso dei secoli ci hanno messo le mani in tanti producendo solo danni. Purtroppo. Ci scoprirete, in ogni caso, un quadrone, datato 1749, che ci mostra com'erano la zona dell'Albergheria e il mercato di Ballarò all'epoca. Occasione per fare pure voi un piccolo viaggio nel tempo. Rimane di grande interesse il prospetto che rivela elementi medievali accanto ad altri dal sapore rinascimentale. Assai elegante il portale che è sormontato da un'edicola barocca con una statuina della Madonna di bella fattura. La torre campanaria non c'entra per nulla con la chiesa trattandosi di una "torre civica" a difesa delle mura e del quartiere. Nel Cinquecento ci fu pure un orologio meccanico, rimosso e scomparso negli anni Sessanta, per mettere in luce la bifora a cui era stato attaccato. Si prevedeva di posizionarlo più in basso contro il muro, ma non se ne fece più nulla ... Siamo a Palermo e allora non chiedetevi mai il perché.

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Chiesa della Madonna del Carmine Maggiore

Me la fece conoscere nonno Gaetano. Fu in una calda giornata d'agosto e lui per farmi riposare mi portò in questa chiesa freschissima. Mentre s'allentava la cravatta togliendosi il panama, mi disse di guardarmi in giro e dirgli cosa mi piacesse. Gli risposi che questa Madonna mi piaceva molto. «Hai visto? Rassomiglia alla pescivendola che c'è qui davanti perché il pittore voleva una popolana ». Era vero. Mi disse che era stata dipinta mentre Cristoforo Colombo era per mare. Scoprii più tardi che era tutto vero. Tomaso da Vigilia la dipinse nel settembre del 1492. Non l'ho mai dimenticato. La chiesa attuale è secentesca anche se i padri carmelitani ci stanno sin dall 'epoca normanna. A loro si deve l'arrivo dalla Palestina di una melanzana gene-

ticamente modificata e non velenosa come quella più antica, la badingian portata dagli arabi, che per questo fu detta "mela insana" a causa dell 'eccesso di solanina. La chiesa non è stata costruita su un pianoro, ma è stato ribassato il livello della piazza per cui si ricorse a una scalinata interna che mai si vide in una chiesa. Serpotta e i Gagini hanno lasciato opere splendide da non perdere. Tra tende colorate, montagne di frutta, fumi di stigghiole, fa l'occhiolino la possente cupola rivestita di maioliche colorate e con quattro giganteschi telamoni che la sostengono. Non lasciatevi distrarre dal mercato...

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Biblioteca comunale Ogni volta che passo davanti alla chiesa della Casa Professa vado indietro di tanti anni, quando la vidi distrutta dalle bombe e con tanti operai che setacciavano le macerie mettendo da parte ogni pezzetto di marmo e ogni mattone che sarebbero serviti per la sua ricostruzione, che vidi giorno dopo giorno andando a scuola. A piedi, come si usava. Fu di grande utilità l'Archivio Alinari che possedeva le foto di ogni dettaglio. Grande fu la mia emozione quando mi portarono a vederla ultimata. Ricordo ancora le lacrime di mia madre. Nell'antica Casa Professa dei Gesuiti si trova la Biblioteca comunale che conserva l'anima stessa di questa città: le sue memorie, non solo cartacee, ma pure una importante collezione numismatica. È il luogo della memoria dal 1775 quando i libri vennero da case patrizie, monasteri e conventi, frutto spesso di generose donazioni.

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Attaccagghieddi

Un bello spirito sull'aletta di questo scatolone pieno di antichi libriccini scrisse (sbagliando pure l'ortografia) questo: "ATTACCAGHEDD/" che nella nostra lingua sta per nastrini e robetta da merceria, se con ortografia corretta ... Meraviglioso proprio in questo tempio della nostra cultura!

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Macerie e degrado

l'.ultima guerra è ormai un ricordo per tutti gli europei. Meglio ancora: non se la ricorda più nessuno, tanto che ripetiamo gli stessi errori di prima. Basta leggere i giornali dei nostri giorni. Soltanto da noi è possibile vedere le macerie dei bombardamenti alleati del '43. Quell 'auto e il cassonetto ci fanno capire che è foto dei giorni nostri. Forse si provvederà alla loro rimozione, ma non sappiamo quando. Fa un certo senso osservare il banano cresciuto in mezzo a questo squallore: la natura ha ripreso il sopravvento sulla stupidità degli uomini.

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Intanto resta il relitto del bel palazzetto settecentesco con il portale elegantissimo della chiesetta. Tutto quanto murato da mani pietose che hanno messo un sudario su quelle rovine. Fa riflettere l'edicola votiva realizzata di recente e protetta dalle auto con un paio di dissuasori "fatti in casa"...

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Commercianti

Ieri come oggi: osservate bene i prodotti, chi vende, chi acquista ... Certamente "a suo tempo" non c'era il pomodoro, il cartellino con il prezzo, la plastica, ma c'era il kasher e l'ha/al che fanno ancora parte della nostra cultura e tradizione alimentare, assieme alla gioia e al sorriso dei piccoli davanti a tutto questo ben di Dio. Non vi stupite, vestivano così anche i nostri nonni. Il mercato di Ballarò è sempre stato uno spazio di frontiera in cui confluiscono le diversità. Le contrapposizioni tra "noi e loro" si dissolvono. È così da sempre da queste parti.

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Gente che tratta, tira sul prezzo, discute

Il mercato è, fin dall 'origine, luogo di negoziazioni: si compra, si vende. Qui prevale il concetto di domanda/offerta e così si discute, si tira sul prezzo prima di concludere. Per qualsiasi cosa: merci, carni, frutta e verdura, pesci, cibo cotto, oggetti. Per questo motivo si fondono proprio qui passato e presente, antico e moderno che ora possono dialogare, trattare. Questo mercato è stato definito dai sociologi un "fatto sociale totale" perché i rapporti tra gli uomini attraverso gli scambi non sono soltanto aspetti economici, ma pure aggregativi, ludici, relazionali.

S~Fo-o-cl

Sicilian Street Food

Ho visto la stessa foto in bianco e nero alcuni anni fa in occasione di una mostra sulla nostra emigrazione negli USA. Una contadina siciliana con lo stesso sguardo, con un fazzolettone in testa e due bambini tristi e coperti di stracci ai lati; dietro c'era una bottega con la scritta "ltalian-Sicilian Food". Preciso. Questa immagine ci mostra i bambini ben vestiti e sorridenti. Vuoi vedere che qui riescono a trovarsi bene pure loro? ... Benvenuti a Palermo.

~'WIIL'it!DJ - -

e; t l'ieet fo-o-d,P~metan.o27

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Da Umberto

a Ballarò

C'è qualcuno che saprebbe resistere davanti a questo ben di Dio? Quello che non è esposto lo trovate fotografato. No, non è possibile stare a dieta in un posto del genere. Capito perché Ballarò resta il mercato delle mille tentazioni? Andate in giro con gli occhi pronti a cogliere le mille sfumature che vi vengono offerte. Noterete che qui civilmente "si convive", perché accanto allo sfmcione c'è il kebab.

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Polpo bollito

Questi turisti non hanno potuto fare a meno di cedere alla tentazione della foto. Un bel majulinu con i suoi otto tentacoli e quel colore che sembra uscito dalla tavolozza di Guttuso ... Ma l'avranno assaggiato?

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Tavolozza • primaveraestate

Non si può restare indifferenti davanti a una esposizione di frutta e verdura come questa. Ne è compiaciuto il proprietario e si vede. Questo non è un banco di fruttivendolo, ma una tavolozza di colori e accostamenti studiati da un artista. Anche se i broccoli sono fuori stagione!

Totò e le sue diversificazioni commerciali

In questa chiesetta sconsacrata dal magnifico portale che da solo farebbe la gioia di una città, esercita "Odori e sapori da Totò". A cornice del carrettino leggiamo "uva passa - pinoli - canditi - frutta secca - caramelle - legumi - spezie". C'è l'i mbarazzo della scelta. Qualche mese dopo Totò ha rinnovato la sua attività commerciale con un assortimento di "baccalà originale" che ci induce a pensare che ci sia in giro un falso baccalà o delle imitazioni cinesi o giapponesi. E poi c'è il cartellino del prezzo a € 7, 99 che fa riflettere su un concorrente agguerrito ...

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Il concorrente di Totò

... E, difatti, lo abbiamo trovato! È lui che vende "filetti di baccalà a€ 8 Kg", ma in una "Torrefazione". In nessuna parte del mondo a qualcuno verrebbe in mente di acquistare baccalà in una torrefazione di caffè ...

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Totò e le arance

Ma il nostro Totò non si arrende. Esce finalmente allo scoperto e ci fa capire che si è adeguato alle esigenze del mercato. Arance questa volta, ma si è fatto furbo. Come vedete fa la concorrenza a se stesso. Tarocchi differenziati dalle arance bionde con prezzi diversificati, come insegnano i manuali di economia. Monoprodotto, d'accordo, ma con diversificazione qualità/prezzo per meglio aderire alle richieste del mercato. Del marketing Totò ha capito tutto.

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Don Carmelo quattro stagioni

Quando da bambino attraversavo Ba li arò per andare a scuola mi rendevo conto del trascorrere del tempo, delle stagioni, proprio dai banchi e dalle abbanniate. Un esempio sono le immagini che ci mostrano don Carmelo e la sua epa, ben protetta da maglie di lana, in pieno inverno con tanto di colbacco e i magnifici finocchi in primo piano. Odorano di terra e l'argilla che resiste ricorda agli intenditori che sono ricchi di quei sapori sulfurei che ricevono dalla zolla di terra rossa.

A giugno don Carmelo protegge la sua epa con appena una canottiera. Davanti a lui il pomodoro costolato tipico di giugno e le pullanchel/e che gli italiani chiamano pannocchie. Sbagliando pure loro: difatti le pannocchie sono le inflorescenze maschili in cima alla pianta. Il termine esatto è spiga. l'.avreste mai pensato? E chi lo dice al nostro don Carmelo? A luglio il caldo a Palermo si fa feroce. È tempo di Fistinu, tempo di babbaluci. Don Carmelo è passato allo short avvinto all'epa grazie all 'ausilio delle bretelle. Manca il cartellino del prezzo dei babbaluci: non è mai esistito perché è "a merito", cioè a seconda della faccia di chi li compra. Se vi presentate in giacca e cravatta li pagherete a prezzo di caviale del Volga ...

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Il fumo di 36

contrabbando A Ballarò troverete di tutto e di più. Come se fosse zona franca, non facesse parte del territorio della Repubblica italiana. Non poteva mancare la bancarella con le sigarette estere di contrabbando. Però tutto bene ordinato con tanto di listino prezzi. Noterete che si viene incontro anche a coloro che non possono disporre della cifra per il pacchetto. In basso a sinistra il listino prevede infatti "sigarette sfuse a € 0,30 l'una". Come noterete, l'assortimento soddisfa tutti i gusti e tutte le borse.

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Vendeva limoni

Non la vedo da molto tempo. Me la ricordo ancora perché vendeva soltanto limoni: belli da vedere, da mangiare, da spremere. Qualche volta aveva anche i cedri, delizia di noi ragazzini. Ci era proibito il coltellino e allora li grattavamo contro i muri per morderli poi come una mela ... Chissà che fine ha fatto? Non ho mai chiesto il suo nome anche se la conoscevo da anni. E poi non amava farsi fotografare. Soltanto Andrea c'è riuscito una volta, quasi sorprendendola mentre trattava con una cliente.

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Il five o' clock

palermitano

Non è una via di Beirut e neppure di Damasco. Ballarò più che un mercato è un fatto sociale. È la continuazione della piazza medievale dove tutti s'incontrano e mangiano passeggiando ... Le stigghiole c'erano già quando nacque il mercato oltre mille anni fa. Sono passate da poco le ore 17 e s'innalzano verso il cielo i fumi delle budelli ne arrostite sulla brace. Roba da far venire l'acquolina in bocca pure agli dèi dell'Olimpo. Per favore non chiamatele "budelline" o peggio "stigliale" che sarebbe un conato di italiano che mal si addice a un così nobile piatto siciliano che deve il suo nome al latino extilia, cioè "interiora", e dunque il diminutivo affettivo di extilio/a dimostra tutto il nostro affetto. Da quando si servivano nel Thermopolion delle città greche di Sicilia, surrogarono la costosissima carne, lontana anni luce dalle possibilità economiche dei poveracci. Dalla faccia dello stigghiolaru non pare che tutto questo lo possa impressionare più di tanto.

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Il fumo dell'autunno

Quando s'innalza il fumo odoroso e bianco da quel tubo di ferro che sembra il cubilotto di un'acciaieria, allora è autunno. Si può passare alla camicia con manica lunga e magari a una giacchetta. Sono le castagne arrostite, neppure parenti delle italiane caldarroste. Le nostre sono biancastre per il sale marino che, messo a piene mani sul fuoco, ricopre le castagne scoppiate di una patina biancastra e piacevolmente salata. Quel tanto che ci farà apprezzare il dolce della castagna. Un tempo indicava a noi ragazzi l'inizio della scuola. Era il regalo che ci facevano le nostre madri che venivano a prenderci a scuola. Bastava non chiederlo.

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Banchi del pesce

Non solo tendoni e ombrelloni, ma arch itetture effimere rinnovate giorno per giorno non tralasciando neppure la foto della "buonanima del fondatore" della ditta. Lo spettacolo più effimero è quello del banco del pesce. Deve essere cambiato spesso per far capire, subito, che "non è il pesce di ieri ", perché il cliente ha buona memoria. E quindi il banco va rinnovato creando innanzitutto l'abbondanza vistosa delle merci con codici cromatici che non sono mai casuali. I pesci minuti e da taglio sono distribuiti sul ghiaccio tritato o sull'alga aggiungendo pure motivi ornamentali come ross i pomodori laddove c'è il merluzzo, una testa d'aglio aperto tra sgombri e pesce azzurro in genere, un letto d'alga per il pesce più pregiato. Non manca mai il mezzo limone o un bel ciuffo di prezzemolo. A parte montagnole di cozze e vongole. Assolutamente sul marmo bianco il polpo majulino ben disposto in modo che si possano vedere gli otto tentacoli; in una cassetta, con tanto ghiaccio tritato sotto, i gamberi rossi e soprattutto esposto a parte in "bellavista" il gamberone di Mazara, per far passare magari in secondo piano il cartellino con il prezzo ... A dominare sulla massa ci deve essere il pescespada che "deve" mostrare la sua carne e soprattutto la spina centrale per far capire agli intenditori che di spada si tratta e non di delfino! Lo deve attestare sempre la presenza della testa con spadone in alto. È un lavoraccio, ma un indicatore della qualità del pescivendolo. Se poi vorrà conquistarsi le simpatie delle signore dovrà sventrare il pesce domandando sempre come sarà cucinato per sapere se deve lasciare le scaglie. Tentazione dei buongustai sono il "bicchierino" con il giallo-arancio dei ricci e quello con il nero di seppia già pronto per essere versato sul bucatino. Mai spaghetto, per favore. t..:abbanniata? .. .Deve ricordare al viandante il mese in cui ci troviamo e il pesce che in quel momento abbonda e, per conseguenza, costa anche meno. Le boghe di marzo (vopi) e le sardine fresche sono come uno squillo di tromba per le brave massaie che faranno il piatto classico per la festa di San Giuseppe: pasta con le sarde e vope arrostite.

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Tunnina

Chiariamo subito che il tonno è, per noi siciliani, un pesce; quello che portiamo in tavola è tunnina, al femminile. No, non sbagliamo. Anzi. Seguiamo i dettami di Archest rato di Gela che già quattrocento anni prima della nascita di Cristo ci consigliava di dare la preferenza alla carne delle femmine perché più gustosa, più tenera ... E poi lasciate perdere la pubblicità televisiva: il tonno pinna gialla è il meno buono, noi amiamo il tonno rosso. Che, garantito, non si spezzò mai con un grissino. Era quello che si pescava nelle nostre tonnare tra maggio e giugno. Era il "porco di mare", come si diceva, perché non si buttava nulla e quello che non si mangiava fresco si conservava sotto sale. Mangiamo fresco pure il lattume che, stando al pudico dizionario del Traina, è «sostanza bianca consistente

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che si trova nei maschi al tempo della fregola e con la quale essi fecondano le uova », insomma lo sperma del tonno che, bollito e fritto, è una delizia. Si conservava il resto: pensate alla bottarga, uova di tonno, alla f,cazza che è il salame di tonno, al prumuneddu che sono i polmoni del tonno seccati e salat i. Brutto segno quando il venditore ci piazzava sopra due garofani rossi. Nel discreto linguaggio del marketing dell'epoca significava che eravamo attorno a San Giovanni o San Pietro, fine giugno, e senza frigo e ghiaccio quello che rimaneva puzzava già. Ebbene, le nostre nonne lo compravano a buo n prezzo e dopo averlo bollito lo mettevano sottolio in una burnìa (barattolo nella nostra lingua) con due foglie di alloro, del pepe in grani e una scorzetta di limone. La chiamarono vugghiuta , tonnina bollita, e fu la nonna del tonno in scatola! Quello che avete visto è un bel tonno e si stanno preparando gli "stalli" come si chiamano i tagli del tonno - che sono 25: roba per intenditori perché ogni parte ha una sua destinazione culinaria. Fatevi consigliare prima di acquistarlo. Viziosi? Per nulla. La gola non fu mai un vizio e neppure un peccato. Soltanto una sfida, il guanto lanciato a colesterolo e trigliceridi.

Pescecane

Discorso a parte meritano i pesci poveri per la zuppa. In parole povere i pescecani. La pesca degli squali lungo le nostre coste fu , ed è ancora così ai giorni nostri, soltanto occasionale. Se qualche specie incappa nelle reti non si butta via. È facile trovare sui banchi del mercato il surci 'mpiriali, squalo volpe, il palumbo nelle due varietà palummo e "palumbo stellato" detto però 'mpiriali. Non manca la vintrisca, cioè lo squalo ventresca, il gattopardo attupardu, fino al più umile muzzòlu che sarebbe lo squalo canesca. In genere vengono esposti privi di testa e di pelle per evitare che si possano facilmente identificare e magari impressionare l'acquirente. È buona tecnica, in attesa di ripulirli per l'esposizione, mostrarli di schiena, come si vede nell 'immagine. La loro carne è reputata necessaria nelle solenni zuppe di pesce dove abbonda ancora lo zafferano. Per molti raffinati intenditori sono leccornie se cucinati in una agghiotta o "alla matilotta", francesismo che sta per "marinara" nel trapanese. Lasciatevi sempre consigliare dal pescivendolo. Se vi dovesse indicare lo squatru non dite di no: si tratta dello Squalus squatina dei biologi marini, delizia raffinata se cucinata proprio alla matilotta.

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Qua rum e, roba calda o fredda, dipende ...

Quando la canicola si abbatte sui poveri palermitani c'è una sola via di scampo: mangiare roba fredda. In questo caso mammella, trippa, omaso, piedini anteriori e posteriori, musetto di vitello ecc. con un pizzico di sale, una spruzzata di limone, verdello si capisce, come si nota nella foto. Non quello giallo ricoperto di cera che chissà da dove ci arriva ... È in pratica quello che vi serviranno caldo in brodo in pieno inverno con il nome di quarume, caldume, roba calda.

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Trippa

Scusate, osservate bene: ci vuole un notevole senso artistico per presentarvi la trippa fredda su un vassoio, ma più che altro su una bella foglia verde di cavolo. Non è un caso e neppure una messa in scena : qui esiste l'antica arte del marketing. Esporre le merci in modo appetitoso è un'arte appresa durante i secoli. Qualcuno riuscirebbe a resistere a tanta tentazione? Un'opera d'arte in tutti i sensi. Ecco cosa s'intende per cibo a Ballarò!

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Frattaglie

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Se poi siete di quelli che non amano le cose già cucinate comprate in strada, allora ecco l'antico strifrzzaru, cioè il venditore di frattaglie crude da portare a casa. Osservate gli sguardi attenti e competenti degli acquirenti. Ci sono secoli di esperienza a guidarli nelle loro scelte. Ricordate sempre che un piatto di quarume è un indicatore della brava cuoca: ogni buon palermitano che si rispetti riconoscerà sempre quella della mamma, della moglie, della suocera, della figlia o della nuora ... È un po' come la caponata!

Gli orrori 47

Certo non è un bello spettacolo vedere quelle povere bestiole appese ai ganci come trofei e le teste con gli occhi vitrei che vi guardano e forse vi rimproverano, quei cuori che sembrano ancora palpitanti. Oltre l'orrore c'è anche l'errore di quella "ORFETTA a € 2,50 l'una". Si incespica sempre con l'ortografia quando si deve scrivere in una lingua straniera come l'italiano...

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Cascavaddaru

È termine dispregiativo perché fu sempre colui che vendeva caci per strada senza neppure un tetto addosso. Esistono ancora a Ballarò e vi fanno venire voglia di comprare. Grossi caciocavalli ragusani dalla caratteristica forma a parallelepipedo, il parmigiano, il canestrato dalla scorza nera e matura, i pecorini profumatissimi. .. E pensare che quel mestiere diventa offensivo per indicare uno che non ha neppure bottega ...

Frittolari 49

Per vendere frittola ben calda ci vuole un panaru reso termico da una coperta di lana e poi una mappino fresca di bucato con uno spazio per introdurre la mano. Tutto qui. Non c'è bisogno di bilancia o di cartellino con il prezzo. Si vende ancora a cartata. Una volta su una foglia di vite, di fico, di noce, di gelso ... secondo stagione. Oggi si usa la carta oleata che si tiene nel palmo della mano sinistra e si porta alla bocca risucchiandone il contenuto. Poi la carta si butta nell'apposito contenitore e vi ritroverete con le mani pulite. Qualche problema può sorgere per via della barba o del baffo. Ma non si può chiedere di più. È cibo di inattesa delicatezza che vale la pena assaggiare. Nella prima foto un fritto/aro vecchia maniera mentre preleva la frittola con il suo pugno-unità di misura, mentre nell'altra c'è l'immagine più moderna di Antonino Serio, fritto/aro 3.0 per usare un

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termine di oggi. È un piatto nato attorno al 1454 quando, nel macello della "Bocceria nuova", si mise in funzione un sistema quasi industriale per produrre safn in spagnolo, saìmi in siciliano, strutto in italiano. Ciò che rimaneva dei carnaggi portati ad alta temperatura veniva buttato perché non interessava né cani e né gatti. Fu la materia prima per un piatto da vendere in strada. Bastava rimettere un poco di strutto, zafferano, pepe, foglia d'alloro e scorzetta di limone, far soffriggere il tutto, ed ecco pronto un piatto di gusto appagante! Oggi si produce in maniera diversa, ma resta sempre una piccola delizia da non perdere.

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Abbanniata

Voci, suoni, rumori sono un intreccio indissolubile nei mercati palermitani. L'.abbanniata è l'invito di chi esalta la sua merce senza bisogno di microfono e impianto di amplificazione. Lui è uno all'antica che urla la bontà della sua merce. Manca l'audio, ma è come se ci fosse: vi arriva la sua voce stentorea? Il sistema sonoro del mercato rimanda a un passato in cui la comunicazione aweniva con il parlato. Anche se ci furono la carta e la stampa, la trasmissione del sapere restò affidata all'oralità. Non dimentichiamo che i fatti della cronaca erano materia del cuntastorie che riscuoteva successo proprio nei mercati affollati di gente che "voleva sapere". L'.abbanniata del commerciante fu l'enfasi declamatoria per attirare l'attenzione del pubblico. Esattamente come il cuntastorie, con la differenza che

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il suo è un linguaggio pubblicitario dove si ricorre a figure retoriche, come la metafora soprattutto: fave e piselli dolci come il miele, il peperone meglio della carne, lo zibibbo biondo come i riccioli di una femmina, il pomodoro che ha rubato il colore al sole ... !..'.enfasi dell'abbanniata arriva spesso a toni licenziosi e allusivi come succede ancora oggi nell'abbanniare zucchine, cetrioli, certi pesci. .. Teniamo presente che ci troviamo nel più antico supermercato alimentare a cielo aperto.

Murales 53

Tra macerie, vicoli , degrado, serbatoi dell 'acqua, tende e panni stesi, hanno lavorato tanti street artist che hanno aggiunto un tocco di colore, di arte, come omaggio a Ballarò. Sono opere d'arte che meritano una visita e i loro autori degni d'essere ricordati per questo loro impegno: Igor Scalisi Palminteri, Andrea Buglisi, Alessandro Bazan, Fulvio Di Piazza e CrazyOne che ha concluso con un suo personalissimo Franco Franchi. Così il nuovo cancella il vecchio. Sulle rovine della città storica sorgono nuove espressioni di avanguardie artistiche, i ruderi sono trasformati in totem.

African Market 54

Come si è sempre fatto, ci sono in questo grande mercato, internazionale fin dalla sua origine, le merci "degli altri ": sotto gli alberi, sopra una stuoia, o in un negozietto. Pure un barbiere per farti sentire come a casa tua ciarlando del più e del meno, magari ricordando il luogo che si è lasciato alle spalle, il viaggio per mare sul canotto ... Questo fu sempre luogo di scambio, non solo di merci, ma anche di saperi e di esperienze; un luogo di comunicazione che è l'elemento fondante di ogni cultura.

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Tutti a messa

Ballarò resta un deposito di memorie, come succede da quando è sorto. li coro per la messa domenicale fa sentire tutti più vicini e come a casa. Bai Iarò oasi interetnica, in un momento assai delicato per il nostro Paese in cui soffiano venti razzisti e si discute sull 'ospitalità per gente che viene da guerre, fame, torture. Con una politica che crea e cavalca paure, incita all'odio, predica intolleranza, Palermo resta una città civile. Ballarò porto dell 'accoglienza, un esempio di integrazione dove si dissolvono le differenze.

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Questi due sorrisi colti al volo a Ballarò ci fanno ben sperare per il nostro futuro e quello dei nostri figli e nipoti. Siamo riusciti a farli sorridere. E ne siamo fieri.

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Il nome è già curioso per questa brevità. Capo, ma di che? Bisogna ricordarlo tutto intero quell'antico Caput Seralcadii, metà latino e metà arabo: così si indicava la parte superiore della strada che portava alle spalle della Cala ove c'era la residenza del cadì. Sari-a/-Qadi, e il cadì era un giudice di pace per i musulmani. Anche questa lunghissima, tortuosa strada-mercato sorse fuori le mu ra cittadine, dal lato opposto di Ballarò. Pure questo mercato oltre un fiumiciattolo, il Papireto, un torrente che scorreva sotto le mura puniche. In questa zona, sulle due rive, si insediarono gli schiavoni, mercenari dalmati arrivati con le loro famiglie al seguito dei saraceni, e impiegati per il traffico degli schiavi. Fu allora che vi sorse anche un grande mercato citato soltanto nel Trecento, epoca in cui venne inglobato entro le mura cittadine che fin lì s'erano estese. Sorse sugli odierni assi viari costituiti da Porta Carini, via Beati Paoli , via Sant'Agostino, via Bandiera, via Cappuccinelle ... Fino al tardo Quattrocento fu zona ricca di acque con giardini e orti coltivati a legumi. Alla fine del Cinquecento venne coperto il Papireto e, scomparsi gli ortolani, la zona fu abitata da artigiani e commercianti. È il ventre molle di Palermo, citato nei primi del Seicento da Vincenzo Di Giovanni come «[... ] abbondante di ogni sorta di frutti per essere più propinqua ai giardini, e di pesci per essere nella strada di Carini e di Castellammare». Con la nuova cinta muraria cinquecentesca il mercato venne a trovarsi ristretto tra il Bastione Gonzaga, il Bastione d'Aragona e il Bastione della Ba lata. Undici secoli di storia ricchi di vicissitudini, a cominciare dalla prima ferita inferta con il taglio della odierna via Maqueda nel Seicento, poi, nel Novecento, con il taglio di via Roma. Due coltellate che, se sono cicatrizzate, lo hanno amputato di quei rami importanti che si sviluppavano verso il mare, verso i mercati saraceni delle spezie di Al Atharin, Lattarini. Insomma quella zona fu il centro della città araba ed ebraica che si lambivano, si toccavano quasi a dimostrare la perfetta convivenza tra i suoi abitanti, arabi o ebrei che fossero. La città era, in pratica, tutta un pullulare di attività commerciali. È mercato di grande fascino anche per i beni monumentali che allietano la passeggiata. Sono veramente tanti. Non resta che scoprirli, magari con l'ausilio di una buona guida della città. Mi dichiaro un innamorato del Capo. Mi piace entrarvi da Porta Carini, un monumento barocco che male si lega al suk che gli sta attaccato ai piedi. Ci ricorda pure la nostra inveterata abitudine all'abusivismo. La porta, infatti, non è allineata alle mura antiche che si trovano più distanti di quasi cento metri. l'.entrata dal lato opposto me la fece scoprire una indimenticata maestra delle elementari del Convitto Nazionale. Ricordò a noi bambini il Papireto ricoperto e ci portò a sen-

tirne lo scorrere delle acque mettendo l'orecchio sulle balate, non lontano dall'abside della cattedrale e dalla nostra scuola. Wadi è il nume in arabo e, deformato in Guilla, diede nome a quella parte del Capo che esibisce ancora le due rive che scendono verso il suo antico letto. Qui tutto rimanda a un tempo trascorso di cui restano tracce visibili nelle pietre, nelle chiese, nella toponomastica, nelle edicole votive, in quelle macerie che ricordano a tutti le ferite di una guerra che magari vi sembrava già dimenticata. È mercato da percorrere lentamente osservando, ascoltando, guardandosi attorno per scoprire mille facce, volti sorridenti di giovani, preoccupati di anziani, felici di giovani coppie, di gente che viene da ogni angolo del mondo, tutti quanti con in mano qualcosa da mangiare. Prima del boom degli anni Cinquanta la via Sant'Agostino era tutta da leggere: "fittasi abiti cerimonia uomo-donna-ragazzo", "abito da sposa si affitta", "impermeabili-cappotti-mantelline - usato e mercato", "cappelli come nuovi uomo-donna", "corredi rateali ", "lenzuola occasione", fino a "camicienotte occasione - mai usate". Oggi, con la stessa aria delle nostre madri e nonne, vi sfilano donne con il volto coperto. Da dove verranno? Basta guardare i loro abiti coloratissimi ed eleganti. Passeggiare è un piacere incredibile perché si passa da colori e odori di cibo ad archi di trionfo di reggisen i e mutande, zineffe e tappeti, abiti da sposa e chincaglieria, donne con il saio e rose in mano per Santa Rita la "aggrizzamariti", come la chiamano. Già, l'unica che può richiamare all'ovile mariti fedifraghi dediti al pascolo abusivo in letti altrui. .. Anche questo è il Capo. Il mercato si è allargato in tutti i sensi. Fino agli anni Cinquanta esistevano le botteghe e alcuni banchi di frutta e verdura allineati contro i muri. In mezzo transitavano auto e carretti. La porta era sgombra e non affollata di abusivi come oggi. Proprio in una delle botteghe vicino alla porta sorse nel 1951 la prima "Pizzeria napoletana" con tanto di pizzaiolo verace. Fu un successo. I chianchieri di allora esibivano la loro merce in macabre esposizioni: ai loro ganci capretti sanguinanti appena uccisi, teste di agnelli, di vitelli, di maiali con gli occhi sbarrati che colavano sangue, quarti interi che penzolavano come impiccati al soffio del vento. Per contro, i pesci erano esposti come ancora guizzanti, su letti di alghe, sotto la luce di lampade enormi che ridavano vita a quei pesci morti. Si invitava il cliente a toccare con mano le ventose del majulinu ancora vivo, e si disprezzava il frajeddu del concorrente. Di polpi si trattava se non l'avete capito. La gente affollava il mercato per la qualità di carni e pesci, per le verdure esposte sempre in bellavista, accostando sapientemente il cuore verde di lattughe con i rossi dei ravanelli e le lunghe code dei finocchi; i carciofi esibivano colori che si accoppiavano

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ad aranci e mandarini, pere d'inverno e mele rosse come gote di fanciulle in fiore. Non sempre c'era il cartellino con il prezzo, alle volte un pezzetto di carta con scarabocchiata una cifra che stava per il prezzo lire/chilo. Si comprava il pane al panificio Morello solo per rifarsi gli occhi con il mosaico floreale-liberty della Pupa; pure per quei commercianti sempre pronti alla battuta, all 'abbanniata spesso a doppio senso ... Poi il Palazzo di Giustizia, inaugurato a metà degli anni Cinquanta, portò clientela di qualità e il mercato rifiorì. C'erano anche i vigili urbani, allora. E tutti avevano la licenza e le bilance controllate. In tutto il quartiere si parlava capiòto, un accento particolare assai divertente perché aveva la "a inglese", come dicevamo scherzandoci sopra. Abbanniavano lo sfmcionello con "Chi cièvuru" e si offendevano con "Sdisenurètu" ... E poi erano fieri di avere inventato il Fistinu perché il saponaro/ cacciatore Vincenzo Bonelli, quello che aveva permesso il riconoscimento delle ossa di Santa Rosalia nel 1624, era uno di loro. In questi ultimi anni ai vecchi commercianti si sono sostituiti giovani arroganti e violenti che, in barba a leggi e ordinanze, hanno invaso strade e vicoli con le loro attività. Lo spaccio ne fa parte. Da queste parti la licenza è soltanto un optional. Quando ci porto ospiti mi chiedono sconsolati se fa parte del territorio della Repubblica. Bofonchio qualcosa di incomprensibile e gli altri capiscono il mio imbarazzo. Intanto i turisti sono felici di trovare tanto colore, tanto caos, pure un mondo fatto apposta per le riprese: è quello che si attendevano. E sono contenti e sorridenti come i bambini a Pasqua. Ci vado spesso di domenica. Al mattino attendo che escano di casa i nuovi palermitani, elegantissimi nei loro abiti festivi, con le signore che esibiscono acconciature da regine e abiti con colori da farfalla. Gli uomini in bianco. Tutti sembrano usciti da Via col vento ... Mi piace anche per questo il Capo.

Porta Carini 63

• Quella originaria non è questa, naturalmente. La più antica creata nel Duecento era un semplice varco in pietra da taglio sormontato da un arco a tutto sesto privo di decorazioni e allineato alle mura, quindi arretrato di circa un centinaio di metri rispetto a oggi. Resistette all'attacco angioino rimanendo danneggiata, ma venne ricostruita da Umbertino La Grua che ebbe in concessione le terre di Carini. Nel Cinquecento si tracciò la "strada dritta" che portava al convento di San Francesco di Paola. I palermitani non resistettero alla tentazione di costruire abusivamente contro le mura per cui il Senato pensò bene di spostare la porta! Non avendo i fondi necessari ne barattarono lo spostamento con le monache del vicino convento di San Vito. In cambio ebbero la concessione del baluardo Gonzaga per impiantarvi un loro giardino. Correva l'anno 1782, anche se sembra una storia comunale dei nostri giorni. Le

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monachelle passarono alla storia cittadina non certo per questo baratto, ma per aver creato già nei primi anni del Settecento uno sfmcione, quello detto di San Vito, bianco o dei Monsù. Non essendoci ancora il pomodoro sulle nostre mense lo fecero in bianco ricoprendo la superficie di quella pasta profumata di caciocavallo fresco, con interiora di pollo, besciamella, pisellini e finalmente con una spolverata di pangrattato e graniglia di mandorla tostata. Uno splendore che venne rifatto pari pari dai Monsù delle grandi casate. Esiste ancora a Bagheria e Ficarazzi, ma è uno sfmcione bianco raccontato e mai visto perché nessuno dei poveracci di quelle terre lo assaggiò mai. E allora lo rifecero in base ai racconti delle serve, reinventando quel bianco della delicata besciamella con tanto, troppo cacio di pecora per avere il colore bianco. Ecco perché lo s(lncione resta ancora ai nostri giorni la specialità del Capo. In questi ultimi anni il mercato è esondato fino a occupare lo spazio davanti alla bella porta. Le bancarelle hanno invaso gli spazi alberati di via Volturno. Naturalmente tutti abusivi. Che volete farci? ...Viva Palermo!

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La strada del mercato

È mezzogiorno di una calda giornata estiva palermitana, ma sotto queste tende colorate diventa piacevole pure passeggiare. Aprima vista vi sembrerà di essere alla Medina di Marrakech, a Tunisi o al Cairo. Invece siamo al Capo. Ma si capisce soltanto per le cancellate delle chiese che sono bene ordinate sulla sinistra della via. Fino a un decennio fa le merci esposte erano arretrate di un paio di metri. Poi, un poco alla volta, hanno provato a occupare il centro della via e non è successo niente. "Perché che doveva succedere?"...

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Immacolata Concezione

Fu la chiesa dell'immenso monastero benedettino creato alla fine del Cinquecento da Laura Barbera Ventimiglia che ospitò, tra madri, suore, converse, serve e schiave, oltre tremila donne. Dopo l'Unità d'Italia fu trasformato in ospedale e abbattuto nel 1932 per costruirvi, sull'area di risulta, il nuovo Palazzo di Giustizia, ultimato a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso a causa delle interruzioni dovute agli eventi bellici. La chiesa fu edificata nei primi del Seicento su progetto di Orazio Nobili in puro barocco romano, tendente a uno sviluppo in altezza. La sua bellezza è tutta espressa nell'interno a unica navata con uno sfarzo di marmi policromi,

mischi e tram ischi, splendide statue e tele, ferri battuti dorati e colonne di marmo di Billiemi a sorreggere il coro. Non esistono spazi non decorati! l'.occhio si perde tra le mille tentazioni di forme e di colori. I quattro paliotti degli altari laterali sono un collage di pietre dure e vetri colorati che rimandano a elaborate architetture, dimostrazione del valore dell'artigianato palermitano secentesco. Due paliotti come quelli che si vedono furono donati a Vittorio Amedeo di Savoia quando fu incoronato re di Sicilia; li fece portare a Torino ma non si conosce che fine abbiano fatto. Il pavimento è un grande tappeto di pregiati marmi colorati. Con la decorazione del soffitto a stucchi dorati e affreschi di Olivio Sozzi, nel 1738 fu finalmente completata. Ci volle più di un secolo per realizzare questo capolavoro. Sull'altare maggiore si trova la splendida tela dell 'Immacolata Concezione di Pietro Novelli, la cui figlia Rosalia (pittrice anche lei) posò per dare il volto alla Madonna. Ritroveremo il suo viso in diverse altre madonne e sante dipinte dal padre. La cupola del presbiterio con le sue otto finestrature illuminava un tempo quel volto per tutta la durata del giorno. Un'altra invenzione geniale di Pietro Novelli. I restauri per il recupero della chiesa sono andati avanti dal 1980 al 2003.

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La Pupa del Capo a Palazzo Serenario

Quando via Cappucci nelle si allarga per formare la piazza Sant'Anna, lasciatevi rapire i sensi da un panificio. Quello voluto da Salvatore Morello come regalo di nozze alla figlia nell'anno 1921. Imperava il liberty di Ernesto Basile con quei decori fascinosi e lui volle qualcosa che ricordasse lo sfarzo di Villa lgiea, insomma un suo panificio diverso. Fu Salvatore Gregorietti a realizzare il prezioso mosaico con quella Demetra flessuosa incorniciata in una cascata d'oro su un fondale blu, che rimanda subito alle donne voluttuose e sensuali dipinte da Gustav Klimt. Godetevela tutta. E poi la scritta "Panificio S. Morello" tutta in caratteri d'oro. Arredi interni e lampadari assolutamente liberty per la gioia di

quanti entravano per una mafalda, un parigino, un torcigliato o un macallè ... Per i palermitani fu subito a Pupa ru Capu. Il panificio ha chiuso i battenti forse per sempre e la Pupa è stata recuperata in tempo dai soci benemeriti di "Salvare Palermo". Con il contributo economico di molti sponsor privati. Evviva! Nessuno, purtroppo, alza gli occhi per ammirare il palazzo che lo contiene: vi nacque e visse il grande pittore palermitano Gaspare Serenario (1707-1759). Fu allievo del fiammingo Guglielmo Borremans quando il maestro venne in Sicilia. Decoratore sfarzoso di dipinti e affreschi in chiese e palazzi siciliani. Pare che anche il palazzo vedrà tempi migliori grazie a un'azione di recupero e ripristino. Meno male. Non perdetevelo. E alzate pure gli occhi in alto per bearvi con quella loggetta belvedere da cui, una volta, si godeva il panorama della città fino al mare. Se chiedete in giro ve lo indicheranno come il Palazzo di La Motta, perché ne I Beati Paoli è tra quelle mura che Luigi Natoli fece abitare don Raimondo Albamonte della Motta!

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Mestieri: . . . 1er1 e oggi

La disoccupazione da queste parti è endemica, e così ognuno cerca di soprawivere come può. È così da secoli. Purtroppo. 11 nostro venditore di sfrncione e sfrncionel/o esibisce i due generi imparentati tra loro. Avrà saputo (per le vie imperscrutabili degli illetterati) che al Capo è nato losfrncione nel Settecento e da allora ha dato da mangiare, in tutti i sensi, a intere generazioni di capiòti. Funziona, e si vede dall'aria soddisfatta dei suoi clienti turisti buongustai. Poi c'è il venditore di "Pani cà meusa", uno sprovveduto che del mestiere non conosce nulla. Gli serve solo per tirare a campare, e si vede. Infatti lui non ven-

de la mafalda, cioè il pane, ma, a norma HACCP, tiene dei panini rotondi, delle focacce che nella nostra lingua si chiamano guastedde. Nobilissimo nome che ci viene dal francese dei normanni gastel, etimo dell'odierno francesegateau. Lui non lo sa, gli sembra brutto, troppo dialettale; ignora pure che il suo mestiere si chiama cacciuttàru e non guastiddaru. Il suo carrettino è opera colta di un moderno "pittatutto" che, evitando le maniere dei carretti, si è prodotto in una più turistica immagine, compendio dell'abusato cliché turistico. A latere un'altra bancarella, proprio a pochi metri dal luogo ove nacque Procopio de' Coltelli che portò i gelati a Parigi. La sua "Grattatella all'Antica" non offese mai gli esigenti palati dei palermitani, ma fu una finta granita creata a Roma in tempi molto più recenti dei nostri gelati. Quel suo travestimento in finto siciliano dalla cintola in su la dice lunga sui danni creati su certe anime semplici dal marketing turistico. Esprime, in ogni caso, la nostra voglia di "piacere e/o compiacere", magari raccontando un sacco di balle. Vizio antico che, in

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ogni caso, fornì materiale per un best seller che vende ancora oggi. Si chiama Odissea. Concentrato di tutte le sciocchezze raccontate dai nostri nonni ai marinai di passaggio, già all'età del Bronzo. "Totò truffa" che campeggia alle sue spalle non ricorda soltanto un film di Totò, ma pure la sua 'nciuria. Chissà perché. Totò, col cappellino fuori moda e pure fuori stagione, vende pane/le e cazzi/li ricchi di prezzemolo, cosa degna di merito, e nella vetrinetta si vedono arancine accarne e abburro tutto quanto pronto per finire nell'olio bollente. E fin qua ogn i cosa è degna di citazione e di elogio. Si capisce che il nostro ha tentato di incrementare il suo mercato, come marketing insegna, rivolgendosi ai turisti "che misch ini non sanno" che la sua azienda può fornire pure "Specialità caponata siciliana", esibito in inglese, tedesco e francese. Questo dovrebbe consentirgli un allargamento della sua utenza oltre i confini della nostra lingua. Quel cartello trilingue profuma tanto di Europa: bravo. Lui, da solo, è riuscito ad ampliare anche il concetto di street food che, fino a ieri, non prevedeva la caponata. Da comunicare alla FAO che pure di queste cose si occupa.

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Il coppo

D'accordo con voi per quel "Mele golden smith - Deliziose prov. ITALIA'' ... però vogliamo mettere la difesa dell'ambiente? È ancora uno di quelli che rifiuta la plastica che ci sta soffocando, per fornire ai suoi clienti il famoso coppo in carta perlina. È un ragazzo che va incoraggiato per la difesa dell'ambiente e delle tradizioni. Ve li ricordate i coppi di una volta? ... Che ci consentivano anche di aprire uno spiraglio nella chiusura per assaggiare strada facendo ... Poi quei coppi venivano riutilizzati per la munnizza che, ieri come oggi, si lanciava o lasciava sui marciapiedi delle vie cittadine. Sarà stato pure incivile, ma era tutta roba biodegradabile. Vogliamo mettere?

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Arancina Lesson One

È popolarissima Liviana Ruisi da queste parti. Tra i vicoli porta i suoi ospiti. Illustra chiese e palazzi, racconta di Beati Paoli, di Procopio de' Coltelli, del Festino che qui vide la luce. Ma non solo. Come vedete, inizia pure i suoi commensali alle gioie del cibo di strada, da mangiare con le mani. Racconta storie e aneddoti su pane/le, cazzi/li, sfmcione e guastedde con la meusa. Senza colorite sciocchezze. La prima lezione verte su come si mangia l'arancina. Già, noi lo sappiamo dalla nascita, ma a chi è nato lontano dall'ombra di monte Pellegrino bisogna pure spiegare la pressione che va esercitata per evitare che la palla di riso si disintegri tra le dita o rotoli per terra. Anche così si fa cultura: brava!

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Il franchising di sfincione e sfincionello

Lo sfincione come sappiamo è nato al Capo, esattamente come il Festino. Una creazione di quelle suorine che barattarono lo spostamento della nuova Porta Carini con un tratto di baluardo cittadino nel 1782. Quello con il pomodoro nacque sul finire dell'Ottocento e non raggiunse mai quelle vette. Si misero assieme pomodoro, acciuga, tanta cipolla, spolverata di volgarissimo caciocavallo e si travisò la delicatezza tutta femminile che lo aveva creato. Certo una conseguenza delle focacce medievali, anche se non è stato ricostruito il suo cammino fino al Settecento.

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Una nota a parte merita lo sfmcionello, modesta rivisitazione, venduto per strada per palati meno esigenti e stomaci di ferro visto che, come si dice ancora, è "scarsu d'ogghiu e chinu ri pruvulazzu": insomma scarso d'olio e ricco di polverone della strada ... Ciò non toglie che anche lo sfmcionello abbia i suoi fan. Ebbene con quella modesta focaccia, se è permesso il termine per meglio definirlo, lazza Sarina, un'intraprendente signora della Guilla, creò a piazza Sant'lsidoro il primo franchising alimentare. Di notte si lavora davanti ai forni in modo che all'alba di ogni giorno le /ape possano "fare il pieno" di sfincionello e sfincione da portare in giro per le strade cittadine; al rientro si pesa la resa e si paga il venduto. Per non confondere le idee alla clientela, lazza Sarina fornì ogni tapa di un altoparlante che diffonde una abbanniata, identica per tutte in capiòto stretto con "chi cièvuru, iu bellu cci u fazzu ... è càvuru càvuru e chi cièvuru...". La voce è quella della buonanima di zzu Pietru, un capiòto naturalmente, deceduto da pochi anni. Anche lazza Sarina ci ha lasciato dopo una lunga vita di lavoro, ma la sua attività continua. Ogni mattina all'alba le /ape si mettono in coda per il carico e poi via tutte quante per rallegrare la mattinata dei palermitani con la loro scia di cièvuru ... Grazie zza Sarina anche se nessuno ha mai pensato di nominarla "Cavaliere del Lavoro". Peccato.

Pupaccena 77



Nascono al Capo anche le ultime pupaccene. Pupi di zucchero coloratissimi che hanno rallegrato le festività dei "Morti" per quasi cinque secoli accompagnando bambole e trombettine, fuciletti e cavallini di legno, primizie, frutta secca , regalati ai più piccini dai "Morti". Prima che imperversasse Halloween. Per favore continuate a comprare questi pupi di zucchero, fatelo per educazione, per amor di patria, per salvare questa nostra antica tradizione: se non lo fate non si fabbricheranno più. Siamo noi il mercato. Chiaro? Ma che significa pupaccena? Esattamente sta per "pupi a cena". La cena fu quella in onore del giovane principe Enrico, figlio del re di Francia Enrico Il

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e di Caterina de' Medici. Nell'anno 1574 era stato ospite della Serenissima Repubblica di Venezia e quando decise di partire si pensò bene di offrirgli una sontuosa cena. Per decorare le mense si chiamarono i giovani di bottega del Sansovino che scelsero lo zucchero di canna siciliano, materiale caro quanto e forse più dell'argento, per realizzare delle sculture (pupi per i siciliani) che ebbero grande successo. San Marco e il leone, dei colombi alla fontana, una regina a cavallo come omaggio alla madre dell'ospite che montava a cavallo alla moda virile. La notizia della cena e di quei pupi di zucchero giunse alle orecchie dei marinai siciliani che, una volta a casa, raccontarono di quelle meraviglie. Che furono riprese, naturalmente, senza il supporto dell'arte dei giovani di bottega del Sansovino. Pazienza se i colori sono quelli del carretto ... Per favore continuate a far trovare ai più piccoli le pupaccene per i "Morti". Se non lo farete questa antica arte finirà per scomparire. E sarebbe un vero peccato. E poi il riferimento" ... al sapore dei bei ricordi" è ricco di cultura. Pensate soltanto alle madeleines di Proust.

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Capone

È ottobre in Sicilia, come si desume dall'abbigliamento, tempo di lampughe. Pesce di passa, come si dice. In pratica un pesce stagionale. li pescivendolo ne mostra un bell'esemplare dalla elegante livrea grigio-azzurra. Non dite lampuga a un siciliano perché non capirebbe. Infatti la Coriphaena hippurus è conosciuta come capuni a Palermo, sfoderu a Catania, pauni a Messina, catatuzzu a Siracusa. Quando supera i dieci chili allora ci aggiungeranno un improbabile 'mipiriali che risolve ogni loro dilemma ittico. È un pesce migratore che depone le uova in autunno, pescato già in epoca minoica con reti a circuizione quando cerca zone d'ombra create dall'uomo con foglie di palma legate tra loro. Nulla ha a che vedere, naturalmente, con la caponata .. . Ditelo in giro, per favore.

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Sarto &C.

Andrea Vajuso è sarto di mestiere. Lo fa da una vita anche se la musica è stata sempre la sua passione. E così assieme ad alcuni artigiani, suoi amici, ha messo su un complessino di strumenti a plettro nella sua bottega che ha già il sapore d'antan. Un angolo del mercato dove si fanno rivivere tempi andati. I loro nomi? Paolo Cacioppo, Roberto Ursumando, Michele Ruolo, Matteo Cernie Giovanni Parisi. Questo angolo del Capo fece il giro del mondo alcuni anni fa quando ci portai Tony Bourdin, il cuoco di origini francesi che girava il mondo per conoscere "la cucina degli altri". Si fece prendere le misure per un vestito al suono emozionante di tarantelle e serenate d'amore. Mi raccontò, più tardi, che questo "pezzo" ebbe più successo di una caponata!

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Il chioschetto

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È la più bella barba del Capo e il suo chiosco ha dissetato diverse generazioni di palermitani assetati. Fino a qualche decennio fa esibiva una "acqua e zammù" che faceva venire voglia di bere anche a gennaio. Quella nuvoletta bianca affondata sul fondo del bicchiere risaliva lentamente verso la superficie per impreziosire un comune bicchiere d'acqua, quella dell'acquedotto comunale. La trasformava in una bevanda da emiro, da visir ... Roba che mi faceva sognare la strada che da quella piazza conduceva alla residenza del cadì, Sari al Qadi, giù, giù fin quasi alla Cala. Benedetti i nostri nonni saraceni che crearono quella delizia con i fiori del sambuco (zammùcu nella nostra lingua) che cresceva spontaneo, uniti all 'alcool creato da queste parti con al ambich. Certo, quelli che potevano ci misero i semi dell'anice stellato che costava troppo per le tasche dei nostri antichi, creando il pastis in Francia, l'anis in Spagna, l'ouzo in Grecia ... Lasciate perdere le lattine colorate e dissetatevi con "acqua e zammù". Roba che vi farà sognare le huri sempre vergini del paradiso di Allah. Se poi volete spendere, fatevi servire una spremuta di agrumi con una spruzzata di seltz. Un tempo, quando la sua barba era nera, lo faceva schizzare fuori da quel "sifone" che conserva gelosamente ...

Mura puniche 83

I resti delle mura puniche ve li trovate davanti quando meno ve l'aspettate. Anzi, nessuno ci fa caso. Attirano di più quei murales colorati che non quelle vecchie pietre che portano le cicatrici del tempo. Quei massi d'arenaria stanno lì da quasi tremila anni. Fanno parte della cinta muraria più antica della città. Mura che seguivano il corso dei due fiumi, Kemonia e Papireto, che creavano un fossato naturale rendendo in tal modo la città militarmente più sicura. Divideva la paleapolis, la città più antica che finiva a piazza Pretoria, dalla neapolis, quella sorta in un secondo periodo e che arrivava in via Roma angolo via Vittorio Emanuele. Anche dopo l'occupazione romana rimasero al loro posto e così fino all'arrivo dei saraceni. Il mare stava sempre là, costituendo un porto naturale immenso: giungeva in via Roma sotto lo sperone di roccia che sovrasta la Vucciria dove ci misero la chiesetta di Sant'Antonio Abate, quello del porcello ... Da lì si poteva calare la lenza ... l'.attuale piazza Marina era parte di quel porto protetto da una scogliera su cui si costruì, più tardi, lo Steri, fino ad arrivare alla sua estremità ove sorse l'attuale chiesa della Madonna della Catena. Si potevano fare i bagni dove sorge la chiesa di San Francesco d'Assisi. La via Paternostro, infatti, con il suo andamento disegna ancora oggi l'antica linea di costa. Così mi raccontava nonno Gaetano quando vedevo quei grandi massi a cui solo i bambini facevano caso.



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Quattro Coronati

La chiesetta dei Santissimi Quattro Coronati, con maiuscole di rispetto, me la fece scoprire mio nonno Gaetano. Per lui il Capo non era solo un mercato, un posto dove fare la spesa, ma pure un intrigo di vicoli dove fare delle scoperte. Ci si nutriva il corpo e l'anima. Fu lui a raccontarmi di quella chiesetta, voluta da muratori e manovali, quasi nascosta nel vicoletto, e pure con quel curioso nome. Dietro quel plurale si celano i Santi Severo, Severiano, Carpofaro e Vittorino, scalpellini martirizzati al tempo di Diocleziano. Da anni mi chiedo se qualcuno ha mai avuto un amico, un parente, un conoscente che si chiamasse Carpoforo. La chiesa è del 1674, ma è stata arredata come appare oggi soltanto nei primi anni del Novecento. Ricordo che mi ci ritrovai in

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una calda giornata estiva e mi fermai a osservare il bel soffitto. Mi sorpresi a sognare per una suorina che suonava il flauto dolce in un tripudio di colori dorati. E pure per il racconto delle mille traversie della chiesa e delle confraternite che si sono succedute. Se vi capitasse, non perdetevi il cuntu del martirio dei quattro martiri raccontato da un vecchio confratello della "Venerabile Congregazione di Santa Rosalia ai Santissimi Quattro Coronati", come esattamente si chiama ... Non bastarono tre birre al bar di fronte per arrivare alla fine del racconto per intero!

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Via Sant' Agostino

Un bazar? Un angolo di una città araba? Sarà la foto ricordo della turista europea che, a mani in avanti, fa capire che non vuole essere fotografata? No, si tratta semplicemente di via Sant'Agostino a Palermo in un giorno feriale qualsiasi. C'è solo da guardare e godere di quel tripudio mediorientale che è pure casa nostra.

Il putto oppure i Santi Quaranta Martiri?

Losapetetutti che i mercati palermitani sono fatti anche di sguardi. Tutti ci muoviamo in una ragnatela percettiva. Guardiamo, ma sappiamo bene di essere guardati: ci guardano pescivendoli, cacciuttari, fruttivendoli, pa-

ne/lari, carnezzieri, ciabbattini, stigghiolari, cascavaddari. E pure arance e limoni, passolina e pinoli, fave e piselli, gli occhi neri dei muluna, le patate bollite dal fondo di quelle grandi pentole. Tutti guardano e si fanno guardare in questo grande teatro all 'aperto che è il mercato. Siamo una città fatta di sguardi che si incrociano, si sfiorano, si raccontano, si minacciano talvolta. E lo sguardo si lascia sedurre, fuorviare, come è successo ad Andrea davanti alla chiesetta dei Santi Quaranta Martiri. Lui ha colto qualcosa di più importante di quelle vecchie mura. Si è lasciato sedurre da un putto: sarà un maschietto o una femminuccia? Non se lo è chiesto perché ha capito che è soltanto un putto, senza sesso come un angelo, con braccia e gambette grassocce, uno di quelli immortalati da Giacomo Serpotta. Uno di quelli che possiamo incontrare negli oratori dei mercati. L.:avete capito anche voi: Palermo ci guarda con occhi di stucco. Il putto sta là a esibirsi davanti alla chiesetta che ormai passa in secondo piano. È quel putto il soggetto. Una sola immagine per raccontarci che la nostra è una città fatta di sguardi.

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Sant'Ippolito

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Confessate che ci siete passati davanti senza degnarla di uno sguardo. La sua facciata trae in inganno perché è simile alle tante chiese palermitane del Settecento. Infatti le fu appiccicata soltanto nel 1728 su progetto dell'architetto Andrea Palma. Ma solo per adeguarla alla moda del barocco imperante. In realtà la chiesa c'era già nel Duecento e nel Medioevo dava addirittura il nome alla contrada! Poi ci misero mano nel Cinquecento, e così a ogni secolo qualcuno volle mettere, togliere, abbellire ... Ma non è la sua storia architettonica che mi affascina. Lo confesso. Mi piace entrarci e pensare a quella sera da tregenda del 10 di febbraio dell'anno 1624, quando don Pietro Lo Monaco, il parroco, venne chiamato al capezzale di un moribondo che stava alla Pannaria; lo conoscevano tutti come saponaro-cacciatore, ma di suo faceva

Vincenzo Bonelli. Imperversava la peste e il poveretto voleva confessarsi e raccontare quello che gli era successo quando aveva deciso di buttarsi giù da monte Pellegrino dopo la morte di peste della giovanissima moglie. Grazie a don Pietro la confessione fu messa nero su bianco alla presenza di un notaio e con quella dichiarazione si certificò che "le ossa ingastate nella pietra trovate in una grotta erano quelle di Santa Rosalia". Ewiva! Insomma ossa sante certificate, con tanto di atto notarile! l..'.intero rione esultò: portate in processione scongiurarono la peste e si fece festa, una festa popolare grande, immensa: un Fistinu! Chiaro? Sempre al 10 di febbraio, ma dell'anno 1651, il suo successore battezzò con i nomi di Francesco e Procopio il figlio di Onofrio Cutò e Domenica Samarqa, nato il giorno prima. Lo attendeva un futuro da disoccupato perché allora a Palermo le cose andavano esattamente come oggi: non c'era lavoro e si emigrava per campare. Il ventenne Procopio finì a Parigi dove, assieme a un armeno, vendette caffè in un chioschetto di legno. Era prodotto esotico il caffè come il gelato, e il nostro intraprendente capiòto pensò di mettersi in proprio vendendo granite, gelati, rosolio e caffè. La fortuna aiuta gli audaci (e i palermitani di buona volontà) e in breve il nostro fece fortuna, ma cambiò il suo Cutò in un meno francese e più esotico de' Coltelli, come marketing insegna. Il suo locale "Procope" esiste ancora al 13 di rue de l'Ancienne Comédie. Mi emoziona l'ovale in marmo che recita "Qui il siciliano Procopio de' Coltelli portò per la prima volta i sorbetti in Francia".

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Chiesa di San Gregorio

Qu i fra nutrimento del corpo e nutrimento dell'anima è questione di pochi centimetri. Anche San Gregorio è stato un uomo e forse non avrebbe resistito neppure lui alle sollecitazioni di tanto ben di Dio davanti a casa sua ...

Antica sede dei Beati Paoli

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Da queste parti c'è ancora chi è pronto a giurare su una galleria che portava dalla chiesa di Santa Ma ruzza alla rocca sotto Monreale. Storie tutte nate dalla presenza di antiche cave fenicie di tufo, qanat arabi, catacombe cristiane, ingrottati scavati dallo scorrere delle acque sotterranee e in cui si mossero per oltre un secolo i Beati Paoli. Un "falso-vero-storico" nato da quel Beati Paoli che fu un appunto a margine sul testo di Jean Lévesque de Burigny Storia Generale di Sicilia della metà del Settecento. Storie e personaggi resi immortali e popolari più tardi dalla penna di Luigi Natoli. Dei tanti racconti e novelle che circolavano in città, lui ne fece un romanzo popolare con uno sfondo esortativo che propone virtù e modelli di eroi in cui il lettore si identifica traendone gratificazioni. Natoli utilizzò il sottosuolo palermitano che è una groviera come location di alcuni episodi, trasformando il verosimile in vero-reale. Usò personaggi realmente esistiti e la città stessa dell'epoca come pareti a cui appendere i quadri con le gesta dei suoi personaggi. Con questi elementi riuscì a coinvolgere i lettori nella nostra atavica fame di giustizia. Anche se poi i "giustizieri" nostrani appartengono anche a malavitose cosche! A rendere indubitabili quelle sue storie ci si mise anche la toponomastica comunale che, visto il successo del romanzo del Natoli, titolò via e piazza Beati Paoli. E fu affissa pure la lapide con l'indicazione dell'antica sede dei Beati Paoli. Mah! Praticamente fu la certezza, la conferma comunale, dell'esistenza dei Beati Paoli. E se lo dice il Comune ...

VIA B~ATI PAOLI

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Via Beati Paoli con poltrona

Questa poltrona con tanto di plaid, all'angolo della via, invita a tante riflessioni sul ritiro della immondizia in città. Ma potrebbe essere una sottesa proposta ad accomodarvi per ascoltare la vera storia dei Beati Paoli raccontata da un anziano del quartiere ... Non sarebbe poi tanto male. Volete mettere il piacere sottile del divertimento?

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Lapa Beati Paoli

È ancora vivo il ricordo dei sicari con il saio e il cappuccio tra cunicoli, grotte e vicoli del quartiere. Pensate soltanto al proprietario di questa /apa decorata con alcune scene de I Beati Paoli. Come magari avrebbe fatto suo nonno carrettiere? Sissignori, come si faceva una volta con i masciddari dei carretti. Coloro che ancora ne subiscono il fascino sono quei palermitani, anime semplici magari, che si consolano con storie di giustizia gestita da altri, ma aspiranti a quella "giustizia giusta" che da secoli viene loro negata. Purtroppo.

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Chiesa di Santa Maruzza

dei Canceddi Nella piazza spicca per il suo portale barocco con le due colonne tortili e la nicchia che contiene la Madonna con Bambino. Per tutti è Santa Maruzza ri Canceddi. Perché sede della maestranza di asinai e mulattieri (sciccàri e burdunàri) che in quella piazza stazionavano facendo trasporti in città. Chiariamo che con canceddu al singolare s'intende «lo strumento a guisa di forbici che si lega al basto per accomodarvi le some», come recita il dizionario del Mortillaro. Insomma su asini e muli si caricavano quei materiali che oggi si mettono sulla lapa. La chiesa esisteva già nel Trecento, ma fu abbellita alla fine del Seicento con lo splendido elegantissimo portale. l'.interno è assai banale, ma è interessante il sito perché secondo tradizione, lateralmente alla chiesa, in vicolo degli Orfani, c'era l'entrata ai sotterranei utilizzati dai Beati Paoli per le loro riunioni. Infatti esiste ed è visitabile un sotterraneo scavato nell'arenaria a cui si accede con una comoda scalinata. Bello da raccontare, interessante per ciò che rappresenta per l'intero rione, orgoglioso di aver visto tra queste strade i vendicatori di tanti torti subiti dalla povera gente ... E chi glielo dice che si tratta di un'antica cava di arenaria, di tufo adoperato per costruire le case che stanno attorno?

Madonna della Mercede La chiesa ve la trovate davanti su una piccola altura e una scalinata per raggiungerla. Dietro quella facciata assai banale di chiara impronta novecentesca si cela una chiesetta normanna con conventino edificata nel 1088 con il titolo di Sant'Anna. E così si chiama il sagrato in acciottolato ammorsato come si usava. Il timpano spezzato esibisce al centro una statua della Madonna che, pare, sia stata recuperata in mare da gente del Capo. Così si racconta, ma chissà se sarà vero. Più tardi, nel 1463, nel conventino furono ospitati i padri mercedari appartenenti a un ordine fondato nel 1218 in Spagna, a Barcellona, per il riscatto "del li priggioni nostri padri e fratelli " catturati dai pirati turcheschi. Non sempre ci riuscirono perché molti dei prigionieri si rifiutarono di tornare in Sicilia preferendo la loro condizione di schiavi ben nutriti, con tanto di famiglia con più mogli, piuttosto che liberi a morire di fame in patria! Non dimentichiamo che molti giovani siciliani catturati dai pirati frequentarono scuole coraniche, madrase e puregiaima, divenendo alim, cioè persone colte. In altri casi, furono pirati a loro volta, commercianti, allevatori e acquisirono grande potere nelle città in cui erano stati condotti. Quello dei padri mercedari fu un ordine mendicante dal saio bianco con emblema rosso e oro tratto dallo stemma aragonese giacché sotto la protezione di re Carlo I d'Aragona. Scattata in occasione della sua festa che si celebra "all'ultima" domenica di settembre, nella foto in basso spiccano i colori rosso e oro aragonesi e la solenne statua della Madonna opera di Girolamo Bagnasco del 1813. È stata realizzata da un tronco di cipresso perché l'odore fortemente aromatico lo preservasse dai tarli e dai parassiti del legno. La Madonna è ingioiellata come tradizione vuole: un tripudio di corone, collane, orecchini, anelli e bracciali per raccontarne ai fedeli l'opulenza. Da queste parti quando si vede in giro una donna ingioiellata si dice che "pare a Maronna a Mmiccè". La sua festa impegna tutto il rione del Capo e fu definita per importanza "il secondo Festino di Palermo".

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Edicole votive

Fino alla metà del secolo scorso, nei contratti matrimoniali delle ragazze capiòte che andavano spose lontano dal rione si faceva inserire la clausola con cui il marito s'impegnava, nero su bianco, a portare la sposa, almeno per tre volte nella vita, alla festa della Madonna della Mercede. È lei, infatti, la Patrona del Capo. I devoti la onorano da sempre anche con due edicole votive, ben celate come a proteggerla, poste in luoghi che solo i capiòti sanno. Sanno bene anche che la loro Madonna non è una che si formalizza e che rispetto e affetto vanno oltre le facciate, i muri dove sono posizionate: purché la devozione sia sincera. E questo le basta. A prescindere, dunque, dal luogo dove

stanno. Qui ci abita gente che si guadagna il pane e la vuole vicina. A portata di muro. Così è facile intravedere queste edicole tra ceste, fagioli, pomodori e ombrelloni. Una in particolare, restaurata nel 2006 dal buon cuore di Scurato Mariano, si offre alla pubblica devozione in un tripudio, una sorta di gran pavese, di mutande e reggiseni .. . "E che c'è di male? ...Non portava anche lei l'intimo?", fece osservare una signora.

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Tutti i palermitani ricordano quel "quannu s'asciucanu i balati di la Vucciria" per dire MAI , in maniera chiara, netta, precisa. Ebbene, ora sono asciutte, si "asciucàru" dicono sconsolati i pochi commercianti rimasti. E mi dispiace. Perché in quella piazza, tra vicoli e vane/le, la mia generazione ha vissuto adolescenza e giovinezza. Quel mercato fu la Macondo d'intere generazioni, luogo fuori dall 'ordinario, un pezzo di questa città scoperta come in un sogno. Quella città immaginaria, creata dalla penna del grande Gabriel Garda Marquez, con un nome che rimanda a una mitologia familiare dove la realtà e la fantasia - il tangibile e la fiaba - disegnano la fantastica e incredibile storia dei Buendia, attraverso più generazioni. Quella fu la mia Vucciria. Che è corruzione del francese boucherie anche se oggi sta per baccano, chiasso, sicuramente per il gran vociare che caratterizza da sempre i mercati. Il nome si rifà a un antico macello d'epoca angioina. Ma solo un macello e nulla di più. Solo dalla fine del Trecento è documentata una "piazza di grascia" chiamata "Bucceria grande" per la vendita di carni e più tardi divenuta mercato come "Bocceria della foglia" dove, secondo il Di Giovanni, nel Seicento si «[...] vendono frutti di mandra, salsicce e altri salumi, frutti e foglie d'ogni sorte[ ...] anco vi sono mezzani che vendono robbe allo incanto». Durante il governo del viceré Caracciolo, nel 1783, si costruirono portici att orno alla piazza quadrata abbellita di una elegante fontana al centro. Troppo bello per durare. A fine Ottocento altra coltellata al cuore medievale di Palermo fu inferta con il taglio di via Roma. A pagarne le spese fu anche la Vucciria che vide l'abbattimento di tutta la parte occidentale della piazza e l'edificazione di un "palazzone" di facciata dove si sistemarono alcuni uffici comunali. I fornici rimanenti divennero botteghe. Tutt'at torno nei vicoli si erano installati, nel tempo, abili artigiani creando una serie di "strade dei mestieri", dove i palermitani accorrevano senza bisogno delle "pagine gialle". Orafi e argentieri in contrada Argenteria Vecchia, quelli che lavoravano l'ambra in vicolo Ambrai, falegnami in via Cassari, i pastai in discesa o salita Maccheronai (dipende dai punti di vista .. .) e ci fu il vicolo Pantalonai, via Bottonari, via Pannieri, via Materassai, vicolo dei Crivellari, vicolo Frangiai ecc. In quell 'intrigo di vicoli fatiscenti, una sorta di nostrana casba, già in tempo di guerra e di tessere annonarie si poteva trovare di tutto: dalla farina alla penicillina, dal pane all 'olio d'oliva fino al caffè quello vero e allo zucchero in zollette. Pure i dischi americani con la musica jazz proibita dal regime. Piazza Caracciolo è stata sempre il suo palcoscenico "quattro stagioni". A Natale esibiva due barche riempite d'acqua di mare con capitoni e anguille vive che si prendevano con il

coppo: erano per la "Vigilia", rigorosamente di magro. Poi, dopo il '43 e l'arrivo degli Alleati, pagando in AM-Lire si trovarono sigarette di contrabbando vendute sfuse, preservativi e ciunca americani, lamette Gillette-Madeinusa, si cambiavano dollari, si ricettava merce rubata, si alzavano i fumi della graticola di stigghiolari, c'erano i panari dei fritto/ari, le calze di nailon senza la riga, si vendevano sarde salate e aringhe già pulizziate, pulcini "vivi a scelta", pane/le, arancine, brioche con la panna, guastedde "schiette e maritate". Nei pomeriggi estivi dai fruttivendoli si trovavano fagiolina e patate bollite, cipolle e peperoni infornati. Uno di loro aveva un bellissimo gallo che girava tra la merce esposta beccando al volo api e mosche, ma scendeva a terra per fare i suoi bisogni. Non c'erano ancora turisti a scattare foto. Ma un giovane Renato Guttuso che guardava con occhi incantati. Le taverne erano tante e tutte affollate a qualsiasi ora: il quartino con gazzosa servito nel boccale andava alla grande, più della birra Messina. La taverna più popolare e modesta era il "Pirtusiddu", la più imponente quella del "signor Graziano", la più elegante la "Taverna Azzurra" che ebbe successo con il suo "Sangue siciliano". Con pochi soldi si mangiava allo "Shangai'' con vista sulle tende multicolore, il pesce fresco si comprava da Sampino o da Mancino, due cognomi "sanpitrani", del rione San Pietro distrutto dai bombardamenti aerei del '43, dove tutti quanti erano pescivendoli, con quei due soli cognomi. .. I nomi propri? Pietru e Nnirìa, i due santi fratelli che con i loro nomi onorarono sempre i primi nati! C'erano le salsamenterie, le carnezzerie, i "polli & uova", e qualcuno cercava ancora lo strif,zzaru (venditore di frattaglie di prima della guerra), "droghe & coloniali " avevano un significato diverso da oggi, "si rammendano calze" c'era su alcune vetrine, e il "Dottore del brodo" non aveva bisogno di insegna. Censuales e Catania erano le salumerie dove nel dopoguerra famelico si poteva trovare lo svizzero originale, la mortadella "verabologna", il "salamemilano" affettato obliquo, il burro che non era rancido, la ricotta "arrivogiornaliero". Ai clienti in coda i banconisti facevano assaggiare salame e mortadella, primosale e pecorino in modo che non sentissero il disagio della lunga attesa. Il signor Tinì aveva salsamenteria in un paio di metri quadrati ricavati in uno dei fornici settecenteschi e quando sfilava una paranza (borsaioli) invitava tutti a mettersi al riparo, magari ad agosto, con un improbabile "riparativi ca chiovi". Un locale simile ospitava l'alivaru che aveva un viso dello stesso colore e forma delle sue olive. Poi arrivarono vespa e lambretta, la penna biro, la 600, la televisione, il frigo lndes da 49.000 lire e il supermercato Standa. La crisi, il treno del sole, Milano-Torino, la Germania, gli anni bui della Repubblica ...

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Addio Vucciria. Si sono asciugate le balate. Non è stata una malattia, ma un suicidio di massa. A fine degli anni Novanta tutti quanti si credettero attori, comparse di se stessi dopo che cinema e tivvù li avevano portati in giro per il mondo. E arrivarono la "bustina", "il fumo", la "pasta" e fu la fine. Si tentò la rianimazione, ma fu intervento vano. li Comune non intervenne in tempo per il recupero, e tutto finì in macerie. A ottobre del 1998, quando si portò la Palermo che conta a una serata con tanto di musica, artisti e gente che stava tentando di salvare quel mercato, tutti i commercianti abbassarono le saracinesche e se ne andarono a casa, facendo capire agli intervenuti che a loro non importava assolutamente nulla di ciò che si stava facendo per salvare loro e quel mercato. Una risposta corale. Poco alla volta sono venuti giù edifici fatiscenti, sono scomparsi i clienti del mercato sostituiti da "quelli della movida". Una Vucciria fasulla, un brand di cartapesta per far divertire alcuni giovani palermitani con il ricordo di ciò che fu un mercato dichiaratamente canaglia. Di cui non sanno assolutamente nulla. Un pezzo della mia città cupa e già rassegnata al proprio disfacimento. Si cena sulle ba late asciutte, si beve, si spaccia. Però, ora che non è più un mercato, viene presidiato dalle forze dell 'ordine che controllano, osservano, multano e arrestano anche. Sì, cari turisti, avete capito bene "mercato kaputt". Come mi disse, con fare interrogativo, un tedesco stupito. Ma che capì subito guardandosi attorno.

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Il Palazzone Comunale

Questa città che inaugurava via Roma, arteria del regime fascista, non sopportò che si vedesse quell'intrigo di vicoli, di tende colorate, di banchi, insomma di tutto quell'esotico orientale da città africana che avrebbe portato disdoro alla città capitale della Sicilia. E così si pensò a una serie di "palazzoni" che celassero quel tessuto medievale che non era "ameno spettacolo" per turisti d'epoca. Si salvarono la chiesetta di Sant'Antonio Abate e la torre civica che indicava la fine della città antica, quella che si chiudeva con la Porta dei Patitelli, che erano i fabbricanti di zoccoli. La grande strada doveva alleggerire il traffico della parallela via Maqueda e favorire un rapido collegamento con la Stazione centrale e con il porto. Tutto questo comportò la distruzione del centro medievale della città, soprattutto quello ebraico, e di tante testimonianze d'arte e di storia. Furono abbattuti i palazzi Monte leone, Ajroldi e Fitalia, le chiese di Santa Rosalia, di San Giovanni Evangelista e di San Vincenzo dei Confettieri.

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Palazzo Lo Mazzarino

Qui nacque Giovan Pietro Mazzarino e De Franchis, padre del famoso cardinale Mazzarino. Me lo ricordo ancora di barocca solennità con il busto di Carlo V in una nicchia e una trifora sul fianco sinistro a cui sono state rubate le belle colonnine tortili. Mi ricordo che di fronte, al civico numero 30, c'era il portone a bugne e frontone curvilineo di Palazzo Sperlinga. Mi raccontava nonno Gaetano che lì, nell 'Ottocento, ci fu un famoso ristorante che si chiamava "Villa di Milano".

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La fontana del Garraffello

Davanti ci fu la bellissima fontana del Garraffello, inizialmente addossata alla Loggia dei catalani, poi spostata nel 1754 al centro della piazza. Mi si stringe il cuore pensando che era la piazza della Loggia per la presenza delle logge dei mercanti: erano messinesi, pisani, genovesi, catalani, napoletani, amalfitani che fecero ricca questa città grazie ai loro traffici. Che Dio li abbia in gloria dovunque essi si trovino. E che non vedano quello che abbiamo compiuto con la nostra ignoranza e incuria.

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Via Argenteria

Ecco com'è ridotta la Vucciria oggi. Questa è via Argenteria. Le balate si sono asciugate, nessun negozio aperto, poch issimi i passanti che non hanno più motivo d'andarci. È un pezzo di Palermo che è morto. Pace all 'anima sua.

Piazza Caracciolo

Questo fu il cuore pulsante del mercato della Vucciria. Sull'angolo a sinistra c'era la taverna " Pirtusiddu", sopra, in quel terrazzo, ci fu lo "Shangai'', ristorante dove si mangiavano tutte le cose buone che si vendevano di sotto: dalle grandi fritture di pesce, alla carne e salsiccia dei chianchieri, che poi erano i clienti dell 'ora di pranzo.

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Piazza Garraffello

Incuria, sporcizia, degrado e spirito tutto palermitano per quel cuoco che emerge dai rifiuti. ..

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Le foto di oggi non mi dicono più nulla: sono le tombe di Spoon River. Mi ricordano un passato recente che ho vissuto tra vicoli , piazzette, botteghe, taverne e i tanti abitanti di un tempo ormai lontano. Lontanissimo, come mi disse un sopravvissuto ... Insomma, in due parole, la Vucciria non esiste più. Ce ne siamo accorti noi tutti palermitani veraci tranne i pubblicitari. Ma questi dove vivono? Chi sono questi "creativi" che pubblicizzano con cartelloni attaccati in tutta la città una salsa pronta di pomodoro con la scritta "Dolce come i colori della Vucciria"? Serve a fare sognare una Vucciria come la vide e la dipinse Renato Guttuso. Forse ci sarà un motivo recondito per cui i pubblicitari (quello in questione, quanto meno) utilizzino una mummia per un falso evidente. Che la Vucciria sia morta e da un pezzo lo sanno pure le massaie che avranno avuto un sorriso di compatimento che certamente renderà assolutamente inutile quello svarione che ha così compromesso la campagna pubblicitaria del produttore di "salsa di datterini" ...

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Per i visitatori attenti di questo cimitero ci sono, come in tutti i cimiteri che si rispettino, i fantasmi. Che vengono fuori all 'improvviso, senza che nessuno li evochi come la famosa "Salsamenteria Genovese", bottega vicina alla chiesa di Sant'Eulalia dei Catalani. Una facciata salvata da un restauro attento che ha fatto ritornare in vita, anche se cancellata a suo tempo, l'insegna, sbiadita, quasi velata, di quella salumeria. Pardon !, salsamenteria che è più colto termine e anche più elegante, riferendosi ai vaso salsamentaria dei nostri nonni romani che ci mettevano dentro la roba salata (sa/sum).

• •• 1..'.intero complesso di Sant'Eulalia dei Catalani è stato restaurato. Una grande struttura che arriva fino alla via della Rosa Bianca che sta sul retro. Come un cenotafio ci ricorda quei mercanti catalani che stavano a Palermo già dal Duecento; la chiesa della

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Nazione catalana è però quattrocentesca. È del Cinquecento il bellissimo fronte monumentale tipicamente spagnolo. Vengono da Barcellona le belle colonne dell'interno. Nel corso degli anni fu spogliata e derubata di molti oggetti preziosi anche se parte degli arredi e le tele si trovano al sicuro al Museo Diocesano. Sotto il cortiletto d'ingresso si sente scorrere ancora il Papireto. Una tomba che tuttora sussurra e fa sentire la sua voce ai pochi che sono in grado di godere di queste piccole cose. Voci che ci vengono da un tempo remoto. Se siete fortunati potrà capitarvi di sentirle, voci lontane, quasi incomprensibili anche perché non sono nella nostra lingua di oggi. Ve lo garantisco sono quelle degli antichi mercanti catalani che qui trovarono fortuna in vita e una tomba quando giunse la loro ora. Qui nella nostra terra .

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Quasi di fronte c'è la raccolta piazzetta del Garraffo: ci viene dall'arabo gharraf cioè "polla d'acqua". Infatti già nell'anno 1575, nel tratto compreso tra via Argenteria e via dei Frangiai, si trovava una imponente fontana murale. Nel 1693 fu sostituita con un'altra fontana barocca che in pratica finì per occupare quasi tutto lo spazio della piazzetta. La fontana del Garraffo fu eseguita da Gioacchino Vitagliano su progetto dell'architetto del Senato Paolo Amato. Una vasca che termina con la dea dell'Abbondanza che sta sopra un'aquila in lotta con un'idra. li perimetro è a forma di quadrato e poggia su un basamento di tre gradini centrato su una piattaforma marmorea. Ai lati della fontana ci fu il Genio di Palermo con due sante: queste furono rubate alcuni anni fa, come pure gli stemmi dei quartieri della città. Evidentemente sottratti da palermitani che molto tenevano a queste loro opere d'arte... Si salvò soltanto il Genio forse perché ricordasse ancora ai palermitani che "suos devorat alienos nutrit'', che un bello spirito del posto tradusse in un più chiaro "facciamo campare gli altri mentre noi ci puzziamo di fame" ...

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••• Dopo l'Unità d'Italia la ingombrante fontana venne spostata a piazza Marina a maggior gloria dei felici abitanti di questa città. Venne semidistrutta da un bombardamento aereo alleato del '43 e le sue macerie abbandonate sul posto fino al 1958, quando un pietoso Consiglio comunale decise di curarne il restauro. Desidero ricordare a quanti avessero sentito le solite sciocchezze sulla nostra cucina che la zucca rossa in agrodolce, piatto t ipico cittadino detto spiritosamente "(lcatu di Settecannoli", non viene dalle zucche rosse esposte sui sette cannoli della fontana ... che in effetti non sono sette, ma dalla zona di Settecannoli dove si trovavano gli orti palermitani.

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La Vucciria fu celebre per le sue taverne. Resiste la famosa "Taverna Azzurra" che esibisce come un cimelio napoleonico una bottiglia del suo "Sangue siciliano", un vino dolce in auge per decenni! Resta pure il famoso "Pirtusiddu"; mentre di quella celebre dello zzu Totò solo uno sbiadito ricordo in una più moderna trattoria. Dell'antico gestore, detto "Budda" da noi ragazzi per l'epa prominente, restano vecchie foto sbiadite in bianco e nero. Di quella di Ciccino Cacioppo che stava proprio di fronte, soltanto un portone chiuso. Dietro quel portone forse ci saranno ancora le enormi botti con le scritte "Alcamo vecchio", "Alcamo bianco fresco", "Stravecchio di Partinico", "Nero di Vittoria", "Vermut legale" (sic) "Marsala vecchio originale", "Vino Zibibbo" ... Di molte altre ricordo poco perché fummo sempre clienti fedeli di queste citate.

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••• C'era sempre il "Dottore del brodo" con il suo broru e pitanza con cui salvò la vita a tanta gente durante l'epidemia di spagnola dei primi del Novecento. Fu per aver salvato più vite della medicina ufficiale che il popolo conferì a Giuseppe Catanese quel titolo ad honorem ...

••• E poi c'era il mondo degli stigghiulara dalle ore 17 in poi, la più celebre fu lazza Maddalena con griglia e banco accanto alla fontana di piazza Caracciolo. Due le griglie: una per la carne e l'altra per il pesce. Una vera artista dello sgombro arrustutu. L'altro si metteva dalle parti del Garraffello. Ricordo ancora u niputi du zzu Minicu che vendeva frittola in un panaru bene ancorato sul retro della sgangherata bicicletta, ed esibiva quella curiosa ragione sociale attaccata al manico del paniere .

••• I cacciuttari furono due. Il più celebre "Vassa trasi" stava accanto alla chiesa di Sant'Eulalia dei Catalani

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e abbanniava "Vassa trasi ca cc'a cuonsu: a vuoti schietta o maritata?". Sapevamo tutti che era il fratello di Conticello dell'Antica Focacceria di San Francesco. L'altro, più modesto, si trovava davanti al "Pirtusiddu".

• •• Tanti i pane/lari, ma maggiormente noti con il più autenticamente corretto titolo di sfmciari: pane/le, cazzi/li, maccarruneddu fritto, verdure in pastella secondo stagione, fino alla delizia attesissima dei carduni e delle granfe di polpo fritte ...

••• Tre i purpari disseminati da piazza Caracciolo fin quasi alla Cala: a loro bastavano un fornello "a pibigas" e un pentolone, accanto a un pezzo di marmo e un piatto di ceramica. Allora i polpi erano majulini e freschi, non surgelati... Era un piacere guardare l'esposizione di frutta e verdura del putiaru che stava di fronte alla fontanella: in mezzo a quella tavolozza di colori s'aggirava un bellissimo gallo che scattava come una molla per ingoiare mosche e api; quando doveva fare i suoi bisogni saltava giù pronto a riprendere il suo posto tra l'indifferenza di tutti!

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I Sampino e i Mancino, necessariamente "sanpitrani ", vendevano pesce: una meraviglia i loro banchi dominati dall'alto da cernie e dentici, merluzzi enormi, aricciole e pesci San Pietro, pescespada accanto a decine di aragoste vive. Accanto c'era Pitrinu che, a richiesta, e a pagamento, sbucciava gamberi, mi pare ancora di vederlo all'opera. Era Natale di un tempo il loro momento d'oro, quando al centro della piazza venivano sistemate due barche, due gozzi pieni d'acqua di mare con dentro anguille e capitoni guizzanti che tutti quanti si affollavano a comprare appena arrivati per tenerli vivi nella vasca da bagno perché più ci si avvicinava al Natale e più il prezzo saliva ... E poi i primi arrivati avevano la possibilità di scegliere i pezzi più grossi!

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t.:alivaru fu in un bugigattolo accanto da Cimino: e qui mi debbo fermare. I loro fantasmi sono legati alla mia infanzia. Al panificio Cimino, per antica tradizione, si vendeva panna montata fresca e profumatissima che veniva servita in una brioche calda di forno. Una vera delizia che comportava una tecnica personale per evitare di restare alla fine con soltanto un pezzo di brioche senza panna: la tecnica, come spiegavo, era quella del bacio perché bisognava spingere la panna con la lingua fino a farla trovare alla fine ... t.:alivaru invece fu la vittima di nonno Gaetano, noto per la sua avarizia. Lui gli ordinava le olive facendo un rapido calcolo di quanti saremmo stati a tavola e quante ne sarebbero toccat e a persona. Una volta stabilita la quantità numerica si sentiva rispondere implacabilmente "Cava/eri ne facciamo mezzo chilo?'' e mio nonno rispondeva con ''Ti ho detto il numero e quanto pesano pesano...". Praticamente l'indomani si vedeva restituite le olive che avevano superato l'ordinazione...

••• Mia nonna materna ci veniva a fare la spesa il sabato o la domenica mattina. Lasciata la carrozza a piazza Borsa si serviva di uno dei tanti ragazzini a piedi nudi che con una cesta a tracolla facevano da "carrello vivente". Carne, pesce, frutta, verdure finivano nella cesta e alla fine il ragazzino li portava alla carrozza in cambio di qualche monetina. Il nostro giro continuava perché c'erano sempre cose buone da assaggiare, a cominciare dalla brioche con la panna. Un giorno il ragazzino si attardò e me lo trovai davanti mentre stavo per addentare la brioche con la panna: mi guardò con due occhi che non dimenticherò mai e che mi fecero allentare la presa per offrirgliela. Ma non lo dissi mai a nessuno quasi vergognandomi di quel gesto. Il gelato sempre da Lucchese "ai Maccarrunara" angolo piazza San Domenico: il "rosso" stava al banco e componeva gelati barocchi con gesti da artista. Quando ci andavamo da soli invece del "cono grande da lire 25 " prendevamo quelli da 5 lire; magari due e tre, cosa che lo mandava in bestia. Avevamo fatto il conto che c'entrava più gelato di uno da 15 o 20 lire ... Ci passò una vita dietro quel banco e pure da pensionato bazzicava sempre da quelle parti che erano il suo mondo .

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A partire dal giovedì il mercato era percorso da uno che faceva la riffa, una lotteria abusiva centrata sull 'estrazione dei numeri al Lotto del sabato sera. Sul telaio di una vecchia carrozzella da bebè montava un panaru pieno di delizie, in pratica la spesa per una domenica con carne o pesce, formaggi e salami, frutta e verdura e un paio di bottiglie di vino. Tutto questo ben di Dio andava a colui che aveva il biglietto con il primo numero estratto sulla ruota di Palermo.

• •• Anche la domenica mattina restavano aperte le due salumerie della piazza, Censuales e Catania, mai rivali e sempre affollate per le loro prelibatezze. Ricordo ancora i volti dei loro salumieri, bravissimi nel tagliare formaggi al peso esatto chiesto dal cliente, affettare a mano salami e prosciutti. Per fare sopportare le attese distribuivano discretamente assaggi di formaggi o salumi con un cortese "Virissi comu cci pari... ".

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••• Noi ragazzini impazzivamo per il coccodrillo impagliato che c'era in un negozio di generi alimentari al numero 45 di via Argenteria, vicino la chiesa di Sant'Eulalia dei Catalani. Era un bestione di quasi tre metri appeso al soffitto con le enormi fauci spalancate. Ci raccontarono storie terribili su quel bestione. La più divertente lo voleva proveniente dal Nilo e giunto per misteriose vie d'acqua sotterranee fino al lago del Papireto e da qui poi. .. Bello da raccontare a turisti creduloni tra una mafalda con le panelle e una stecca di stigghiole. In effetti fu soltanto l'antica insegna di un negozio di "droghe e coloniali" come si diceva una volta. Negozi di generi esotici che esibivano scimmie impagliate, teste di leone, serpenti enormi imbalsamati, a dimostrazione dei lontani luoghi di provenienza delle loro merci. Dopo più di quaranta anni di disonorato abbandono, l'attuale proprietario del locale, il signor Vincenzo Amadeo, lo ha fatto restaurare e rimesso al suo posto. Pure lui un antico innamorato della Vucciria sensibile al richiamo dei suoi fantasmi. ..

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••• All'Argenteria, come si dice a Palermo, c'erano gli orafi, gli ingastatori, gli argentieri, i gioiellieri, tutti discendenti da quegli ebrei che qui portarono la loro arte. Si sono trasferiti in parte dietro la chiesa di San Domenico, altri hanno portato altrove le loro botteghe. C'è rimasto il ricordo della loro miseria. Tutti li credevano ricchi perché "maniavano oro, argento e pietre preziose" non sapendo che la materia prima era fornita dai ricchi committenti. Avevano il fuoco acceso tutto il giorno per saldare, fondere, aggiustare, e le mogli ne approfittavano per cuocere roba da poveri, soprattutto un piatto che passerà alla storia: il cosiddetto cacio all'argentiera. Era una fetta di caciocavallo fresco messo a cuocere a bagnomaria con un filo d'olio, aglio e origano: quel piatto spandeva attorno lo stesso profumo del coniglio alla cacciatora e tutto il vicinato a invidiare la moglie dell 'argentiere che poteva permettersi quel piatto ricco ... Ebbero una loro congregazione con sede nella chiesa di Sant'Eligio, oggi solo un rudere, come il resto. A cavallo tra Sette e Ottocento strariparono nella strada che congiunge le piazze Garraffello e Caracciolo che per questo motivo fu battezzata "Argenteria Nuova".

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Via Materassai è diventata moderna, entrata a far parte della movida palermitana. Al mattino presto quando gli ultimi ubriachi hanno deciso di lasciare il campo e le bottiglie di birra coprono il lastricato, fermatevi per un attimo. Prestate l'orecchio e osservate bene quelle ombre che si dissolvono in lontananza: sono i fantasmi di Ciccio lngrassia e Franco Franchi, più lontano ci sono pure i fantasmi dei Florio che qui, venendo dalla Calabria a fine Settecento, ci abitarono ed ebbero bottega prima di arricchirsi. Più avanti, dove c'era la Loggia vi potrà succedere di sentire voci con accenti strani, sono catalani e amalfitani, genovesi e napoletani, lombardi e pisani, maghrebini e maltesi che chiedono prezzi, contrattano, acquistano e vendono .

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Ai Casciari abitarono i Gagini che venivano da Lugano e vicino la chiesa della Madonna del Lume nacque Giovanni Meli. Può capitarvi di incontrarli. Fate finta di niente. Ma se vi capitasse di vedere un fantasma grassottello con i capelli lunghi tenuti assieme da una reticella come si faceva una volta salutatelo con rispetto: è proprio lui, Giovan Battista Maria Bassanelli, il titolare della famosa "Taverna di li Casciara" dove assieme al buon cibo a disposizione dei clienti c'erano libri su Palermo e la Sicilia e "nobili decaduti in grado di intrattenere dottamente" avventori stranieri. Conservò il suo accento lombardo, essendo nato a Gravedona in provincia di Como. Morì a Palermo in un'afosa giornata d'agosto del 1787. Non riuscì a vedere la Rivoluzione francese. Il nostro fu sepolto nella chiesa di San Giacomo alla Marina nella "cappella dei Lombardi", com'era giusto che fosse. La chiesa subì i danni del 1860 e nel 1862 quella cappella fu demolita. Lui se n'ebbe a male ed ecco perché gira sempre da quelle parti inveendo in lombardo contro quei palermitani che non lo rispettarono abbastanza. Mentre lui li aveva amati. E tanto .

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"Si ricorda di me? ... sugnu Vicinzinu, u f,gghiu di Jachinu ... Chi risati nni faciamu cu Paluzzu ci pensi? E ti ricordi quando andammo a rubare /uppini?". E questo me lo ricordo perché ha conservato il suo accento genovese anche se stava a Palermo da più di dieci anni. .. "Vicienzu panzuni, Nnirìa u purparu, u zzu Rafeli, Mattia immurutu, Bastianu sempre assieme a Giacuminu a cumminari tocchi nelle taverne, Tanu Baccalaruni che cummattìa cu piscistoccu e baccalà, Michiluzzu venditore di carrubbe e fave atturrate, ... ". "Si ricorda? ... Sugnu u figghiu d'a Vaiassa a napulitana ... ".

Enzina arriva con il suono della sua chitarra; faceva il barbiere, applicava mignatte, curava scu/u, con rispetto parlando, e faceva serenate a pagamento. Certo che me lo ricordo. Pure quando gli sparò un marito incazzato. Che la cosa finì sui giornali. .. Sento ancora le loro voci, il loro accento e come succede con i fantasmi le loro sagome appaiono sfumate, lievi, ondeggiano alla minima brezza ... fino a scomparire. "Dunque ora che il mondo finiù, come vosi Ddiu, e che putìe non ce ne sono più ... non rida , la prego, ma non voglio fare l'aceddu di malagguriu, ma tra pochi anni di putìe non ce ne saranno più. Diciamocelo bello chiaro chiaro. Lei m'insegna che siamo arrivati a fare la spesa al supermercato, che è cosa vecchia, ora a spisa si fa con il compiutu e ce la portano fino postudintra, a domicilio come si dice ... E allora? Non faccia sta faccia schifiata. Noi siamo stati i primi ad anticipare questa fine del mondo. Ci mittissi che non si può arrivare con la maghina e bonanotti a tutti i sunaturi ... ". Quel suo modo di parlare me lo ricordo benissimo. Metteva assieme italiano e siciliano con la voce gutturale e profonda. Non mi viene il suo nome, -ma la putìa me la ricordo ancora, era ai Casciari: lenticchie, fagioli, ceci, fave secche, castagne secche cioè cruzziteddi, balle di crine per materassi, zucchero sfuso e tante altre cose assai curiose ... E poi mi arrivano pure le voci di quel trio di cardaturi che passavano di casa in casa a cardare la lana dei materassi degli agiati ...

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Mi sono risvegliato che era già domenica mattina a piazza Caracciolo. Attorno a me tanti tavoli di bar affollati di turisti che poveracci non hanno capito dove sono capitati. Qualcuno legge ancora con attenzione la Guida e si guarda attorno smarrito. È come se uno tsumani avesse cancellato tutto di botto, portando via ogni cosa di quel mercato immortalato da Renato Guttuso. È descritto così bene nelle guide non ancora aggiornate. Per sgranchirmi le gambe faccio un giro tutt'attorno. Quei sopravvissuti hanno facce antiche, invecchiate, perché le ricordo com'erano trenta, quaranta anni prima ... u zzu Tanu Gambino l'arrotino, Basile u cacciuttaru, tre o quattro pescivendoli con banchi miserabili. ..

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La banda intona una marcia funebre di rito, con quattro gatti che, elegantissimi, portano a spalla la Madonna del Lume al Garraffello. Una sorta di spettacolo che sembra montato apposta per quattro turisti con tanto di macchina fotografica. Uno spettacolo felliniano tra mura fatiscenti, murales coloratissimi e un silenzio reale di morte. Forse è il funerale della Vucciria. Buonanima.

Prima ristampa

Finito di stampare nel mese di gennaio 2020 da Tipografia Lussografica (Caltanissetta) per conto di Edizioni Kal6s