FrC 3.5 Kratinos frr. 218-298 [1 ed.] 9783949189623, 9783949189609

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FrC 3.5 Kratinos frr. 218-298 [1 ed.]
 9783949189623, 9783949189609

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Fragmenta Comica Kratinos Seriphioi – Horai Seriphioi Trophonios Cheimazomenoi Cheirones Horai

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Fragmenta Comica (FrC) Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie Projektleitung Bernhard Zimmermann Im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften herausgegeben von Glenn W. Most, Heinz-Günther Nesselrath, S. Douglas Olson, Antonios Rengakos, Alan H. Sommerstein und Bernhard Zimmermann

Band 3.5 · Kratinos, Seriphioi – Horai

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Leonardo Fiorentini

Cratino Seriphioi – Horai (frr. 218–298) Traduzione e commento

Verlag Antike

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Dieser Band wurde im Rahmen der gemeinsamen Forschungsförderung von Bund und Ländern im Akademienprogramm mit Mitteln des Bundesministeriums für Bildung und Forschung und des Ministeriums für Wissenschaft, Forschung und Kultur des Landes Baden-Württemberg erarbeitet.

Die Bände der Reihe Fragmenta Comica sind aufgeführt unter: http://www.komfrag.uni-freiburg.de/baende_liste

Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über https://dnb.de abrufbar. © 2022 Verlag Antike, Theaterstraße 13, D-37073 Göttingen, ein Imprint der Brill-Gruppe (Koninklijke Brill NV, Leiden, Niederlande; Brill USA Inc., Boston MA, USA; Brill Asia Pte Ltd, Singapore; Brill Deutschland GmbH, Paderborn, Deutschland; Brill Österreich GmbH, Wien, Österreich) Koninklijke Brill NV umfasst die Imprints Brill, Brill Nijhoff, Brill Hotei, Brill Schöningh, Brill Fink, Brill mentis, Vandenhoeck & Ruprecht, Böhlau, Verlag Antike, V&R unipress und Wageningen Academic. Alle Rechte vorbehalten. Das Werk und seine Teile sind urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung in anderen als den gesetzlich zugelassenen Fällen bedarf der vorherigen schriftlichen Einwilligung des Verlages. Umschlaggestaltung: disegno visuelle kommunikation, Wuppertal

Vandenhoeck & Ruprecht Verlage | www.vandenhoeck-ruprecht-verlage.com 978-3-949189-62-3

Sommario Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Σερίφιοι (Seriphioi) (“Uomini di Serifo”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Τροφώνιος (Trophōnios) (“Trofonio”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54 Χειμαζόμενοι (Cheimazomenoi) (“Travolti dalla tempesta”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90 Χείρωνες (Cheirōnes) (“Chironi”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91 Ὧραι (Hōrai) (“Stagioni”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259 Indici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 281

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Premessa Il lavoro qui presentato costituisce un tentativo di commento di quanto resta di cinque commedie di Cratino: Seriphioi, Trofōnios, Cheimazomenoi, Cheirōnes, Hōrai. L’ edizione di riferimento resta quella stabilita da Rudolf Kassel e da Colin Austin, e nota universalmente come Poetae Comici Graeci, che ospita Cratino nel vol. IV, e queste commedie alle pp. 233–267. Non ho riproposto una nuova edizione critica, data l’eccellenza di quella di Kassel e Austin, ma ho rivisto, per quanto possibile, la tradizione manoscritta dei principali testimoni. Questo non ha portato alla valutazione di diverse lezioni, salvo rari casi sempre segnalati; piuttosto, il lavoro editoriale ha condotto a una diversa valutazione, e dunque a una diversa collocazione, di alcuni repertori, talora accolti qui come testimoni, omisso nomine poetae. Nella traduzione dei testimoni non ho potuto esser preciso rispetto agli estremi della citazione, in quanto non sempre in italiano le parole possono seguire l’ordine del greco. Inevitabilmente, dunque, si rimanda alla traduzione completa del frammento per una più perspicua restituzione. In linea con le consolidate norme editoriali codificate da KomFrag – Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie, la numerazione dei frammenti segue quella di Kassel e Austin; rispetto agli apparati dei PCG si è optato per una riduzione delle mantisse critiche, specialmente per le varianti grafiche, in quanto si è ritenuto di dar conto di quel tipo di materiale in sede di commento. Le abbreviazioni degli autori antichi seguono principalmente quelle del DGE e, per le sigle di repertori moderni, quelle dell’Année Philologique. Ringrazio sentitamente Bernhard Zimmermann, che mi ha accolto nel progetto e che ha permesso che questo volume arrivasse a una conclusione. Con lui ho potuto discutere, sia nei miei soggiorni a Freiburg sia a Merano presso l’Accademia di Studi Italo-Tedesca, di alcuni frammenti qui presenti. Altrettanto ho potuto fare con Piero Totaro, Douglas Olson, Andrea Bagordo, Francesco Paolo Bianchi, Virginia Mastellari, Massimiliano Ornaghi, Christian Orth, Anna Novokhatko, Stylianos Chronopoulos, in occasioni diverse e sempre proficue. Giunga il mio ringraziamento a Giovanna Alvoni, Luigi Bravi, Marco Ercoles, Valentina Garulli, Camillo Neri, Renzo Tosi, che hanno discusso con me numerose questioni cratinee, e che mi hanno fornito spunti importanti per la stesura del commento. Ringrazio Alberta Lorenzoni per le importanti segnalazioni e per i suggerimenti. Come sempre, devo molto a un maestro nello studio della commedia greca, Vinicio Tammaro, che generosamente ha discusso con me ogni frammento. La prima persona ad avviarmi allo studio di Cratino è stata Angela Maria Andrisano, maestra a sua volta di teatro greco, cui dedico queste pagine.

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Σερίφιοι (Seriphioi) (“Uomini di Serifo”)

Bibliografia Kock (1880, p. 75); Kaibel (1895, p. 445); Geissler (1969 = 1925, p. 31 e p. XII); Coppola (1936, p. 112); Wiercielińska (1937); Schmid (1946, p. 42); Edmonds (1957, pp. 94s.); PCG IV p. 233; Karamanou (2006, p. 128); Bakola (2010, pp. 158–168); Bowie (2010, p. 147); Storey (2011, pp. 376s.); Bianchi (2017, pp. 134–137); Marcucci (2020, pp. 97s.) Titolo Il titolo può esser accostato ad altri simili, come i Krētes di Apollofane (PCG II pp. 518–523, cf. Orth 2013, pp. 376–378) e di Nicocare (PCG VII pp. 39–49, cf. Orth 2015), i Samioi di Cratete (PCG IV pp. 101–104, cf. Perrone 2019, pp. 160–162), forse le Dēliades di Cratino (PCG IV pp. 134–139, cf. Bianchi 2016, pp. 149–154), se il titolo rimanda a ragazze di Delo. In questi casi il titolo pare rimandare agli abitanti di un’ isola. Altre commedie, per cui etnonimi o nomi di abitanti di una polis definiscono i titoli della commedia, sono ad esempio i Lydoi di Magnete; Persai ē Assyrioi di Chionide; Persai di Ferecrate; Babylōnioi di Aristofane, i Makedones di Strattide, i Lakōnes di Eupoli (salvo errori nel testimone dell’unico frammento superstite), di Platone Comico, di Nicocare e di Eubulo, oltre che di Cratino stesso. I titoli di queste commedie sono fra loro simili, ma non si può stabilirne un contenuto preciso e neppure se il titolo rimandi effettivamente alla compagine corale, cosa che resta, come che sia, la soluzione più plausibile nella maggior parte dei casi. Contenuto Dei Seriphioi di Cratino sono conservati quindici frammenti, tutti di tradizione indiretta. In taluni casi (frr. 218, 221, 223.3 forse, 224, 227, 232), i testimoni del frammento o di una sua parte sono più d’ uno, nonostante spesso sia evidente come essi siano esito di un coerente plesso di informazioni e forse dunque dipendenti da una medesima fonte antica; in altri casi, si tratta chiaramente della Synagoge aucta, per cui sarà preferibile considerare i vari testimoni più propriamente come portatori di varianti, nonostante una differenziazione stemmatica (frr. 220, 229, dove le informazioni lessicografiche sono anche in Polluce); in altri, invece, il testimone risulta propriamente uno solo, tanto che eventuali varianti saranno da valutare, tradizionalmente, nei manoscritti e non anche nella costellazione (frr. 219, 222, 225, 226, 230, 231); infine, il fr. 223 presenta tre testimoni distinti, uno per i vv. 1s. e forse due per il v. 3, congiunti da Bergk nel 1835 (cf. ad l.). Nel dettaglio si tratta di: un frammento testimoniato da Efestione; due da Polluce; uno dal lessico dell’ Antiatticista; quattro da Esichio; uno da Stefano di Bisanzio; sei da Fozio; forse due da Σb (il caso di Σb α 644 si può discutere); tre dall’ Etimologico Genuino (quindi due dal Magno e uno dal Simeoniano); uno dal Magno; tre dalla Suda; due da Eustazio; tre, non singolarmente, dalla tradizione scoliastica (per quanto due testimonianze siano da considerare un solo testimone, cf. ad fr. 227); uno da

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Cratino

Apostolio. Numericamente superiore dovrà dirsi la presenza di testimoni lessicografici rispetto agli altri, a segnalare, in generale, una primazia di interessi linguistici più che antiquari quale occasione delle citazioni o delle menzioni dei Seriphioi. I frammenti di cui restano gli ipsa verba dell’ antico copione sono nove (frr. 218–226), di cui tre certamente esametrici (frr. 222–224), e forse esametrico o almeno dattilico potrà dirsi anche il fr. 226. Alla commedia sono stati tentativamente riportati altri frammenti: il fr. 343 (κἀνθένδ’ ἐπὶ τέρματα γῆς ἥξεις καὶ Κισθήνης ὄρος ὄψει, “e da qui verrai ai confini della terra e vedrai il monte Cistene”), anepigrafo, fu ricondotto da Meineke (1823, p. XVIII n., poi 1839b, p. 136) ai Seriphioi, seguito in questo con sicurezza da Edmonds (1957, p. 94), che addirittura lo stampò fra quelli dei Seriphioi, e poi dalla Bakola (2010, p. 163 n. 138). Il fr. 343 presenta coincidenze con le profezie di Prometeo rivelate a Io della tragedia pseudo-eschilea (cf. da ultimi Olson-Seaberg 2018, p. 123), come i frr. 222 e 223 dei Seriphioi, e ammette elementi che si riferiscono a episodi della saga di Perseo. Anche il fr. 363 è stato assegnato a questa commedia da Edmonds (1957, p. 98), poi, con cautela, da Storey (2011, p. 419). Inoltre, Kassel e Austin segnalano un prudente «de Seriphiis cogitare possis», in calce al fr. 433, dove, in relazione a Cratino, si legge un probabilissimo hapax, costruito sul nome della Gorgone Γοργο.ρ.α.κον.οδοκα. Alcuni frammenti adespoti sono stati ricondotti a Cratino: Com. adesp. fr. 729, fu attribuito da Meineke (1841, p. 672) a questa commedia. Quanto a Com. adesp. fr. 1104, papiraceo, il testo rappresenta un commentario a una commedia dove appariva Perseo e dove era presente forse Polidette; da segnalare inoltre la presenza della macchina del volo: come P.Oxy. 2742 (XXV [1968]), il testo fu pubblicato da Lobel (quindi da Austin 1973 in CGFP come Cratin. *74), e fu l’ editor princeps a suggerirne tentativamente l’ attribuzione ai Seriphioi, cf. Perrone (2008) ed Ead. (2009, pp. 39–50), per le varie altre ipotesi di attribuzione. E sempre ai Seriphioi, Kock propose di assegnare il suo adespoto comico 1238, ora Trag. adesp. 393; quanto a Com. adesp. fr. 951, è un proverbio (Zen. vulg. 3.77 = Diogen. 4.55), che Edmonds (1957, p. 96) stampava nei frammenti dei Seriphioi, sulla scia di Leutsch. Il titolo della commedia, ben attestato nei testimoni nonostante alcune corruzioni, rinvia molto probabilmente al coro che potrebbe aver preso le sembianze degli abitanti di Serifo. D’ altra parte, il peso della piccola isola delle Cicladi (cf. Ps.-Scyl. 58.1, Strab. 10.5.9), o delle Sporadi (cf. Steph. Byz. σ 110) nelle vicende ateniesi del V sec. a. C. parrebbe di fatto inesistente, se si eccettua qualche rara menzione, del resto tesa a segnalare l’ irrilevanza dell’ isola (cf. Ar. Ach. 541), come si capisce in qualche modo per via epigrafica da IG I3 281 c. II.49. Nella direzione di una commedia con un contenuto di fatto mitologico (cf. infra) si sono orientati i vari editori. L’ argomento avrebbe a che vedere evidentemente col mito di Perseo, per cui cf. Ps.-Apoll. Bibl. 2.4.1–5: Perseo giunge all’ isola di Serifo chiuso in una cassa con la madre Danae, sarà tratto in salvo e allevato da Ditti; avviato poi dal re dell’ isola Polidette a uccidere la Gorgone mortale, Medusa – impresa che porterà felicemente a termine con l’ aiuto divino – rientra a Serifo, non prima di

Σερίφιοι

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aver salvato la principessa etiope Andromeda grazie anche a Pegaso, scaturito dal sangue della decapitata Medusa. Giunto a Serifo, Perseo pietrificherà Polidette e i suoi amici, per mezzo della Gorgone, in modo da difendere la madre Danae contro cui Polidette aveva tentato di esercitare una violenza1. Nel caso di un richiamo alla componente mitologica non si può dire a quale momento della sinossi Cratino facesse riferimento. Più probabilmente, si dovrà riconoscere come non sia dato sapere quale tipo di commedia fossero i Seriphioi, in quanto mancano elementi sicuri su cui basare una qualunque interpretazione. Tale infatti non potrà dirsi Strab. 10.5.10 – dove il geografo ricorda i fatti mitici legati a Serifo e ne spiega l’aspetto arido concludendo con un accenno a οἱ κωμῳδοῦντες –, passo richiamato senza pretese di collegamenti diretti con la commedia di Cratino da alcuni editori, come Kock (1880, p. 75) e Kassel e Austin (PCG IV p. 233). Ma, che le parole di Strabone non vadano necessariamente messe in relazione con Cratino e probabilmente neppure con il teatro comico vide già Runkel (1827, p. 56), dal momento che in Strabone il verbo κωμῳδεῖν non indica un riferimento al genere comico (cf. e. g. 3.4.13 Πολυβίου δ᾽ εἰπόντος τριακοσίας αὐτῶν καταλῦσαι πόλεις Τιβέριον Γράκχον, κωμῳδῶν φησι τοῦτο τῷ Γράκχῳ χαρίσασθαι τὸν ἄνδρα, τοὺς πύργους καλοῦντα πόλεις, ὥσπερ ἐν ταῖς θριαμβικαῖς πομπαῖς; o anche 10.3.18 Ἀθηναῖοι δ᾽ ὥσπερ περὶ τὰ ἄλλα φιλοξενοῦντες διατελοῦσιν, οὕτω καὶ περὶ τοὺς θεούς. πολλὰ γὰρ τῶν ξενικῶν ἱερῶν παρεδέξαντο ὥστε καὶ ἐκωμῳδήθησαν). E proprio in Strabone, Ziegler (1912, c. 1639) ipotizzava l’ esito di un’ errata interpretazione avanzata da parte del geografo stesso di un passo, certamente serio, come Pind. P. 12.12 (vv. 9–12 τὸν παρθενίοις ὑπό τ᾽ ἀπλάτοις ὀφίων κεφαλαῖς / ἄϊε λειβόμενον δυσπενθέϊ σὺν καμάτῳ, / Περσεὺς ὁπότε τρίτον ἄνυσεν κασιγνητᾶν μέρος / ἐνναλίᾳ Σερίφῳ λαοῖσί τε μοῖραν ἄγων)2. Come che sia, la presentazione dei fatti di Perseo in Strabone segue una tradizione mitologica consolidata, evidente dalla Pitica di Pindaro appena menzionata (cf. anche Pind. P. 10.75), e da quanto si ricava da Pherecyd. FGrHist 3 F 11 (ap. schol. Ap. Rh. 4.1515). Difficile stabilire se alla base di Ps.-Apoll. Bibl. 2.4.2s. e di P. Oxy. 31.2536 (uno scolio di Teone al luogo pindarico sopra citato), passi in cui si trova menzionata una scena di supplica, sia da annoverare la tradizione ferecidea o piuttosto la rielaborazione che del mito propose Euripide, quando nel 431 a. C. portò in scena il Diktys (cf. Ar. Byz. Argum. Eur. Med. p. 90.40 Diggle). Certamente, le sporadiche menzioni di episodi riconducibili a Serifo nel V sec. a. C. sembrano collegarsi al mito di Perseo più che ad eventi contemporanei, come può dimostrare la tragedia euripidea e come si evince da Ar. Th. 414–417 (cf. Austin-Olson 2004, p. 183), dove si dice che gli Ateniesi sono abituati a tenere le donne sotto chiave, con un possibile

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Per il mito di Perseo, cf. Ogden (2008). Per un regesto dei passi drammatici citati da Strabone nella Geografia, cf. Bianchi (2020, pp. 55–59).

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Cratino

riferimento alla Danaē di Euripide (cf. Eur. fr. 320). Secondo Bowie (2000, p. 319, cf. Id. 2010, p. 147), i Seriphioi sono una commedia mitologica, vale a dire una delle «comedies that took mythological subjects as their principal themes, either by treating a particular myth comically or by putting characters from mythology into new situations» (2010, p. 143). Secondo la Bakola (2010, pp. 158–168) i riferimenti metateatrali – se tali vanno considerati il fr. 218, e il 222, in realtà molto incerti – possono indurre a pensare a una paratragedia, e i riferimenti sarebbero da individuarsi nelle tragedie che hanno trattato il mito di Perseo: di Eschilo le Forkides (frr. 261s.) e il Polydektēs (di cui resta il titolo); di Sofocle l’ Andromēda (frr. 126–136); di Euripide il Diktys (**330b-348, su cui Karamanou 2006), del 431 a. C. Tutto ciò resta speculativo, e una conclusione non pare avvicinabile anche per il fatto che mancano esempi completi di commedie mitologiche o di travestimenti tragici del mito (cf. comunque infra). Dai frammenti superstiti dei Seriphioi di Cratino, non emergono precisi riferimenti al mito di Perseo, se non forse dal fr. 231, da cui si ricaverebbe un richiamo ad Andromeda (su cui cf. infra e ad l.). Gli esametrici frr. 222 e 223 sono invece indizi deboli per ciò che attiene alla presenza del mitema nel copione comico: il fr. 222, due esametri in forma dialogica, evoca un viaggio da compiersi anche in volo, il che potrebbe rimandare all’ eroe. Il fr. 223.1s. costituisce una parodia di Od. 4.84s., con alcune variazioni (cf. ad l.): il passo omerico, che rappresenta il modello sotteso al frammento di Cratino, rievoca il viaggio di Menelao e le sue numerose tappe, fra cui anche la terra degli Etiopi, da collocarsi a sud dell’ Egitto, forse con maggior realismo geografico di quanto non avvenga in Il. 1.423–425 e Od. 1.22–26. Cratino muta l’ indicazione epica sostituendo agli Etiopi i Saci, cioè gli Sciti, secondo la denominazione persiana nota anche a Erodoto (7.64.2, quindi Steph. Byz. σ 15, Phot. σ 29 e 30). Il commediografo, dunque, utilizza un riferimento geografico che ha una localizzazione di fatto opposta a quella omerica. Lo scopo esatto della sostituzione parodica sfugge: da notare, tuttavia, come, secondo la sinossi mitografica, fu in Etiopia l’ incontro salvifico di Perseo con Andromeda; se il contenuto del fr. 223 (una profezia? un ordine?) viene rilasciato a Perseo, la perdita dell’ indicazione dell’ Etiopia e l’ individuazione di un percorso ben lontano dalla patria di Andromeda potrebbero rappresentare un aprosdoketon (misogino?) per quel pubblico nel pubblico che conosceva con precisione il mito. In quale misura e in quale modo il riferimento mitologico fosse presente nella commedia non è dato sapere, non si conosce cioè se i Seriphioi siano stati un travestimento comico di una versione della sinossi mitica, alla maniera ad esempio degli Odyssēs; o se siano il travestimento comico del mito nella sua forma tragica, in cui l’ elemento propriamente teatrale assumeva un ruolo non irrilevante. Il riferimento alle maschere del fr. 218 può suggerire un motivo metateatrale, ma l’ esiguità del frammento e l’ occasione affatto etimologica della sua citazione non permettono di estendere all’ intera commedia una patina metateatrale. Più sicure considerazioni, a favore della metateatralità di una parte della commedia, sarebbero avanzabili qualora si dimostrasse che il commentario parzialmente conservato in P. Oxy. 2742

Σερίφιοι

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(= Com. adesp. 1104 cf. supra) reca parti dai Seriphioi. In tal caso, l’ attenzione alla macchina del volo scopertamente richiamata, fra le altre cose, a disvelare l’illusione in atto, sarebbe un elemento per segnalare una non occasionale attenzione nella commedia a motivi tipici dello spettacolo tragico. Non esistono però elementi che portino attualmente ad annoverare il frammento papiraceo fra quelli cratinei e più precisamente dei Seriphioi. Una qualche attenzione alla tragedia quale genere, tuttavia, questa commedia di Cratino deve averla posta, considerati i richiami precisi al Prometeo (v. 709 Σκύθας δ᾽ ἀφίξῃ nel fr. 223.1 Σάκας ἀφικνῇ), richiami che forse rivelano un’ attenzione più vasta al testo pseudo-eschileo: West (2013, p. 171 n. 15: si tratta di un aggiornamento di un precedente lavoro del 1979), ad esempio, segnalava nei toni profetici dei frr. 222 e 223 un andamento generalmente simile alle profezie rilasciate a Io da Prometeo, ed escludeva, in tal modo, quelle parallele rilasciate a Eracle nel Prometeo liberato, per la nota posizione dello studioso che non riconosce la paternità di Eschilo per il Prometeo incatenato e ne fa un prodotto teatrale più vicino, sul piano cronologico, ai Seriphioi (cf. infra). Certamente, la commedia conteneva riferimenti all’ attualità ateniese, anche politica, come si ricava dal fr. 223.2s., e dai frr. 227 e 228. Nel fr. 223.2s. si parla di una città di schiavi, di arricchiti, persone dunque spregevoli à la Androcle (probabilmente PA 870, PAA 128255), attaccato da Cratino anche nelle Hōrai (fr. 281, cf. Ar. Ve. 1187 con il relativo scolio testimone del frammento delle Hōrai). Difficile capire se questo Androcle, degli anni Venti, sia la stessa persona ricordata da Thuc. 8.65.2 per la profanazione delle Erme (cf. Andoc. 1.27) nel 415 a. C., ma certamente l’ elemento politico nel fr. 223.3 grazie alla menzione di Androcle appare garantito. Nei frr. 227 e 228, entrambi sine verbis, si fa riferimento, secondo i testimoni, in malam partem, rispettivamente ad Aminia (PA 737, PAA 124575), figlio di Pronape, e a Cleone, entrambi presenti nella politica ateniese degli anni Venti, specialmente il secondo. Tali richiami, stante il fr. 223.2s., non sembrano occultati per forza dietro la veste mitologica, come probabilmente avvenne nel Dionysalexandros, dalla cui hypothesis papiracea (P.Oxy. 663) si apprende che nella commedia era dileggiato in vesti mitologiche lo stesso Pericle, colpevole, dice sempre la hypothesis, di aver trascinato Atene in guerra. Dove si svolgesse questa commedia risulta assolutamente indefinibile: se si tratta di una rappresentazione comica della forma tragica del mito, l’ ambientazione potrebbe essere Serifo, ma non sarà il fr. 225 a poter dimostrare una simile ipotesi; e l’ etnonimo del coro non è determinante, dal momento che anche in tragedia titoli come Phoinissai (di Euripide, in questo caso), indicano un coro di donne che non determina un’ ambientazione coerente. Sul piano scenico si potrebbe ammettere un impiego della macchina del volo, ma ciò risulta estremamente incerto, cf. infra ad fr. 222. Datazione Le notizie su Aminia nelle fonti sembrerebbero tutte concentrate nei tardi anni Venti (cf. ad fr. 227), se anche le Poleis di Eupoli dove Aminia era menzionato (fr. 222.1) vanno collocate in quel periodo (cf. Olson 2016, p. 229).

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Cratino

Kaibel, convinto dalle argomentazioni di Brandes che la frammentaria commedia di Eupoli andasse datata al 422 a. C., e coniugando questa proposta con le date di Nuvole e Vespe dove Aminia viene menzionato, fissava i Seriphioi «circa eadem tempora» (1895, p. 445), seguito in questo da West (2013, p. 171 n. 15). Pur segnalando gli stessi argomenti di Kaibel, Geissler (1969 = 1925, p. 31) ipotizzò, alternativamente, il periodo che va dal 428 al 425 a. C., dunque nell’ ottantottesima Olimpiade, dal momento che la Pytine (del 423 a. C.) sarebbe, secondo molti critici fra cui lo stesso Geissler, l’ ultima commedia di Cratino; ma lo studioso nel proprio Nachtrag (1969, p. XII) concesse maggiori chances alla datazione del 423/422 a. C. Che dopo la Pytine Cratino si fosse definitivamente ritirato dalle competizioni drammatiche, risulta una conclusione non dimostrata (cf. le opportune osservazioni di Mastromarco 2002 e di Bianchi 2017, p. 312) e, anzi, probabilmente da superare. Meno certa delle altre l’ ipotesi di Coppola (1936, p. 112), secondo cui la menzione degli abitanti di Serifo in Ar. Ach. 541 sottintenderebbe un richiamo alla commedia di Cratino. In definitiva, l’ ipotesi di Kaibel risulta quella più adatta alla collocazione cronologica della commedia e potrebbe esser alternativa, in termini di agone della messinscena, a quella delle Hōrai, cui si rimanda. fr. 218 K.–A. (205 K.) αἶρε δεῦρο τοὺς βρικέλους 〈αἶρ’〉 αἶρε Kock (1880, p. 76) cl. Ar. Pax 1

alza e da’ qua i brikeloi Et. Gen. β 259 (sim. Et. M. 213.39 = Et. Sym. 139.8–11) βρίκελος· Κρατῖνος (poetae nomen om. Et. M. 213.39)· αἶρε — βρικέλους. ἔστι δὲ βαρβαρικὸν τὸ ὄνομα· τίθεται δὲ καὶ ἐπὶ προσώπων τραγικῶν (Meineke 1839b, p. 140 : βαρβαρικῶν AB). καὶ εἴρηται οἱονεὶ βροτῷ εἴκελος, ἢ Βριξὶν εἴκελος. Βρίγες γὰρ ἔθνος βαρβαρικόν. ἄλλοι δὲ βρικέλους τοὺς κελέοντας (Hemsterhuys: κελεύοντας AB), παρὰ τὸ βρι καὶ τὸ κέλομαι. ἢ τοὺς ἱστόποδας brikelos: Cratino: alza — brikeloi. È un nome barbaro: si usa anche per le maschere tragiche. Ed è stato detto come brotōi eikelos (simile a un mortale), o Brixin eikelos (simile ai Briges). I Briges sono infatti una popolazione barbara. Altri invece con brikeloi (intendono) i fili verticali, da bri e kelomai. Oppure le aste del telaio Hsch. β 1152 βρίκελοι· οἱ μὲν τοὺς ἱστόποδας, ἀπὸ τοῦ βάρους καὶ τοῦ ξύλου· οἱ δὲ βαρβάρους· Δίδυμος δὲ (Lex. Com. fr. 2, p. 29 S.) τὰ τραγικὰ προσωπεῖα, παρὰ Κρατίνῳ, οἷον βροτῷ εἴκελοι, ἐν Σεριφίοις brikeloi: alcuni le aste del telaio, da baros (peso) e xulon (legno); altri intendono i barbari: Didimo invece (Lex. Com. fr. 2, p. 29 S.) le maschere tragiche, in Cratino, come brotōi eikeloi (simili a un mortale), nei Seriphioi

Σερίφιοι (fr. 218)

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Eust. Od. 1395.49 βρίκελοι διὰ διχρόνου, τὰ μορμολυκεῖα. Παυσανίας μέντοι (β 20) περὶ τούτου φησὶν ὅτι βρίκελα (sic) προσωπεῖα βροτῷ ἴκελα, ἢ Βριξὶν ἴκελα. οὕτω δέ, φησίν, ἔλεγον τοὺς βαρβάρους brikeloi ancipite, gli spauracchi. Pausania dunque (β 20) in merito a questo dice che brikela (sono) maschere simili a un mortale, o simili ai Briges. In questo modo, afferma, chiamavano i barbari

Metro sequenza probabilmente giambica (ammessa anche l’interpretazione trocaica)

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Bibliografia Meineke (1839b, p. 140); Meineke (1847, p. 47); Kock (1880, pp. 75s.); Edmonds (1957, pp. 94s.); PCG IV p. 233; Bakola (2010, p. 159); Rusten (2011, pp. 208s.); Storey (2011, pp. 378s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato dall’ Et. Gen. β 259, anepigrafo (nel derivato Et. M. 213.39 risulta adespoto). In Hsch. β 1152, da una notizia di Didimo (Lex. Com. fr. 2, p. 29 S.), si spiega la difficile parola βρίκελοι e la si riconduce ai Seriphioi, attribuendone a Cratino uno specifico impiego come maschera tragica. La notizia di Eustazio Od. 1395.49 risale esplicitamente all’ atticista Pausania, di cui Erbse ha ricostruito la glossa (β 20), utilizzando anche Esichio e dunque nell’ ipotesi che l’ atticista si fosse servito di Didimo (fr. 2 S.); senz’ altro anche il Genuino impiega qui Pausania, cui dunque andranno ricondotte le informazioni sulle maschere, sulla paretimologia βροτῷ ἴκελα e quella alternativa Βριξὶν ἴκελα, la quale però, sulla base di Esichio, non si direbbe rientri nell’ esegesi connessa al frammento dei Seriphioi. Le varie notizie derivano dunque dal medesimo plesso di materiali, e le differenze possono spiegarsi probabilmente come esito dei processi di epitomazione più o meno drastica cui questi materiali sono notoriamente andati incontro (cf. Nesselrath 2010, in part. pp. 424–430). In Esichio, facendo esplicito riferimento a Didimo (fr. 2 S.), si ricorda che si tratta di maschere tragiche. Questa precisazione che assegna la maschera a un contesto e a un genere non si trova nel Genuino, la cui tradizione offre concorde βαρβαρικῶν, corretto da Meineke (1839b, p. 140), che conosceva solo l’ Etimologico Magno, in τραγικῶν: la soluzione di Meineke ha molte chances sul piano ecdotico e la ratio corruptelae ha una plausibilità in quanto nel codice A del Genuino βαρβαρικόν riferito a τὸ ὄνομα si trova esattamente in corrispondenza di βαρβαρικῶν della riga successiva; in B, invece, βαρβαρικῶν si trova a inizio rigo e in corrispondenza del lemma nella riga precedente. Se il codice A riflettesse la disposizione dell’ antigrafo, meglio si chiarirebbe l’ errore comune ai due manoscritti. L’informazione secondo cui βρίκελοι sono maschere tragiche potrebbe esser implicita in Eustazio quando parla dei μορμολυκεῖα, altrove chiosati appunto come maschere tragiche (cf. Orth 2017, p. 186). Testo Dal punto di vista metrico il frammento potrebbe essere di ritmo giambico, che Kock (1880, p. 76) espliciterebbe con la ripetizione del verbo all’ inizio, dunque 〈αἶρ’〉 αἶρε, sulla base di Ar. Pax 1 (αἶρ᾽ αἶρε μᾶζαν ὡς τάχος τῷ κανθάρῳ).

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Cratino

In alternativa, la Bakola (2010, p. 159 n. 128) suggerisce un ritmo trocaico, con la presenza però di un dattilo, raro ma ammissibile (cf. White 1912, p. 205, GentiliLomiento 2003, p. 265). La soluzione più semplice è il giambo. Interpretazione Cosa significhi esattamente questo frammento risulta incerto e non si potrà darne una spiegazione definitiva. Nemmeno sul piano dell’ azione scenica risulta tutto intelligibile: può esser un personaggio che chiede delle maschere senza alludere necessariamente a una scena di travestimento che annunci un momento metateatrale, oppure, come volle Kaibel, potrebbe trattarsi proprio di una situazione di tal genere. Lo studioso propose (ms. ap. Kassel e Austin) infatti di individuare qui Perseo che chiede un costume tragico. In Cratino, il personaggio che impartisce l’ ordine non chiede una maschera ma delle maschere, e questo può ridimensionare la suggestiva ipotesi di Kaibel: per quale motivo Perseo, o un personaggio comico che vuol interpretare Perseo, chiede delle maschere (al plurale) e non una maschera? Potrebbe trattarsi, forse e piuttosto, di un personaggio che chiede maschere per sé e per altri, ciò che non per forza implica l’ identificazione di Perseo. Questa azione annunciata e, si presume, realizzata o almeno realizzabile, può avere un valore metateatrale, ma non necessariamente tale. Il fatto che i testimoni spieghino βρίκελοι come maschere tragiche, peraltro con difficoltà, non suggerisce dunque la conseguenza che la scena sia di metateatro3. Con sicurezza, invece, si capisce che in scena ci sono almeno due personaggi, e che quello parlante sta dando all’ altro un ordine. L’ imperativo αἶρε indica la richiesta di prender su qualcosa e di, eventualmente, darla a qualcuno: cf. Ar. Pax 1, 1227, Av. 850, Th. 255. Non si tratta di sola lexis comica, ma già epica e tragica, cf. Il. 6.264 e Soph. Ai. 545. In particolare, si potrà segnalare Soph. Ai. 545, che rappresenta il caso in cui, col verbo, si trova anche l’ avverbio δεῦρο, come in Cratino: nella tragedia, Aiace chiede al servo di sollevare il figlio e di passarglielo fra le braccia. Nel caso di Cratino, si può immaginare che qualcuno ordini a un altro di prendere una maschera e di dargliela. Il caso di Ar. Th. 255, dove ‘Agatone’ fornisce i costumi al Parente, ha una somiglianza stilistica con questo passo in quanto vi si trova αἶρε νῦν στρόφιον, ma la somiglianza potrebbe limitarsi a questo, perché non si può dire se nei Seriphioi a fornire le maschere sia un poeta tragico, come nelle Tesmoforiazuse. τοὺς βρικέλους la parola è hapax. Secondo le fonti si tratterebbe di una glossa straniera per indicare delle maschere, segnatamente tragiche. La (para)etimologia βροτῷ εἴκελος può essere di Didimo, avrebbe potuto trovarsi magari in Cratino 3

Cf. Ar. fr. 130: A. τίς ἂν φράσειε ποῦ ’ στι τὸ Διονύσιον; B. ὅπου τὰ μορμολυκεῖα προσκρέμαται, γύναι. Come ha mostrato Alvoni (1992), non si tratta di maschere teatrali, per cui la spiegazione offerta dal relativo testimone, schol. Ar. Pac. 474, può esser fonte di sovrainterpretazioni in tal senso: οὕτως δὲ ἔλεγον τὸ ἐκφόβητρον (εἰσφόβητρον R) καὶ τὰ προσωπεῖα τὰ αἰσχρὰ μορμολύκεια, {ἀφ’ οὗ} (secl. Bergk) καὶ τὰ τραγικὰ καὶ τὰ κωμικά. Diverso il caso di Ar. fr. 31, dove l’ elemento metateatrale può esser ammesso (cf. Orth 2017, pp. 185s.).

Σερίφιοι (fr. 219)

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e potrebbe esser rifluita nella fonte dei testimoni. In tal caso, i testimoni conserverebbero una sezione diversa dello stesso frammento, probabilmente subito successiva rispetto agli ipsissima verba del Genuinum. Va segnalato come la paretimologia in questione impieghi un lessico aulico per compiere un’ esegesi, visto che il nesso βροτῷ εἴκελος ricorre in H. Hom. 7.20s. (con θνητοῖσι βροτοῖσιν). La parola potrebbe non esser greca, come attestano le fonti, dunque la paretimologia potrebbe avere un effetto comico se fosse stata presente nel testo di Cratino. fr. 219 K.–A. (210 K.) ἀλλ’ ἀπίωσιν ἐν χορῷ ἐς βόθυνον ἱέναι 1 duo versus primus distinxit Bekker (1814, p. 85.1–3) ἀπιοῦσι ἐκ χορῶν Bothe (1855, p. 43) 2 ἐς βόθυνον. 〈ἐς βόθυνον〉 ἱέναι Sauppe (1850, p. 231) ἱέναι Bergk (1838, p. 27) : ἰέναι cod.

ma vadano nella schiera a (?) lanciare nel buco Antiatt. β 20 βόθυνον· οὔ φασι δεῖν λέγειν, ἀλλὰ Σόλων ἔφη ἐν τοῖς νόμοις (fr. 60c R.). Κρατῖνος Σεριφίοις· ἀλλ’ — ἱέναι (Bergk 1838, p. 27 : ἰέναι cod.). ἔστι δὲ παιδιά τις “ἐς βόθυνον ἱέναι” (Bergk 1838, p. 27 : ἰέναι cod.) both non (buco): affermano che non bisogna usarlo, ma Solone lo ha usato nelle leggi (fr. 60c R.). Cratino nei Seriphioi: ma — buco. Esiste un gioco “lanciare nel buco”

Metro trochei?

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Bibliografia Runkel (1827, p. 58); Bergk (1838, p. 27); Meineke (1839b, pp. 137s.); Sauppe (1850, p. 231); Bothe (1855, p. 43); Kock (1880, p. 77); Sicking (1883, pp. 56–58); Kaibel (1899, p. 208); Taillardat (1951, pp. 5–9); Edmonds (1957, pp. 98s.); PCG IV p. 234; Storey (2011, pp. 378s.) Contesto della citazione Il testimone del frammento è Antiatt. β 20 che cita il frammento dei Seriphioi di Cratino, dopo la menzione di Solone (fr. 60c R.), come esempi di impiego del termine βόθυνος presso autori attici, contro la rigida prescrizione di impiego di βόθρος. La glossa prosegue con la precisazione secondo cui si tratta di un gioco. La costellazione lessicografica appare articolata: in particolare, si segnala Moer. β 32 (da cui Thom. Mag. 56.11) che prescrive come attico il solo βόθρος. Kaibel (1899, p. 208 ad gl. 112 = gl. Ital. 119 K.–A.) considerò una corruzione l’ indicazione finale di Hsch. ε 6174 (ἐς βόθυν〈ον〉 (Voss)· εἶδος παιδιᾶς. Ταραντίνοις), che lo studioso corresse in παρὰ Κρατίνῳ, salvo poi non riprendere

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Cratino

l’ ipotesi nei propri lavori preparatori ai comici greci. L’ idea di correzione risultò persuasiva a Latte alle prese con l’ edizione di Esichio ed è presente anche nella recente revisione di Cunningham. Testo La situazione testuale molto difficile del frammento spinse Meineke a scrivere: «equidem nec sensum nec constructionem expedio» (1839b, pp. 137s.), valutazione che risulta del tutto condivisibile. Il Coisliniano ha due volte ἰέναι, corretto tacitamente da Meineke (1839b, p. 137) in ἱέναι, sulla scia di Bergk (1838, p. 27), cf. Poll. 9.103 ἀφιέντες στοχάζονται βόθρου τινός (cf. 9.102). Il testo tràdito fu difeso da Sicking (1883, pp. 57s.), che ipotizzava che il gioco di cui l’Antiatticista parla fosse nel nesso ἀπίωσι ἐς βόθυνον, ma una simile attestazione non si trova. La costruzione del testo risulta difficoltosa, perché non sono chiari i nessi sintattici e il senso preciso di alcune parole. Di simili problemi danno prova le varie traduzioni: 1. Bothe (1855, p. 43) «sed abeuntibus ex choris, ut in foveam mittant», a prezzo di profondi cambiamenti nel testo (ἀπιοῦσιν ἐκ χορῶν); 2. Edmonds (1957, p. 99) «but they may go and play cherry-pit / among the chorus», con cui lo studioso, pur non intervenendo sul testo, attribuisce ai due verbi una sostanziale uniformità sintattica, che però essi non hanno; 3. Storey (2011, p. 379) «but let them go away as a chorus to shoot at a hole», con cui lo studioso rende ἐν χορῷ come un predicativo del soggetto. Il nucleo della citazione è ἐς βόθυνον, che non ha motivo di esser oggetto di sospetto; anche il verbo ἱέναι rappresenta un elemento, pur congetturale, relativamente sicuro, a determinare con ἐς βόθυνον una sola espressione (“lanciare nel buco”): ciò è coerente con attestazioni legate a un gioco simile se non identico, chiamato τρόπα (sostantivo o avverbio, cf. in particolare infra), e specialmente con quanto afferma Poll. 9.103 (l. c.) ἀφιέντες στοχάζονται βόθρου τινός. Il passo di Polluce contribuisce a respingere la lezione tràdita ἰέναι in Cratino, che peraltro non dà senso. La prima parte del frammento è difficile e altrettanto lo è il rapporto, se esiste, di questa con ἐς βόθυνον ἱέναι. Che cosa significa ἀπίωσιν ἐν χορῷ, ammesso ci sia una correlazione sintattica fra il verbo ἀπίωσι e il nesso ἐν χορῷ? Forse, con molta incertezza, si potrebbe pensare che ἐν χορῷ indichi “nella danza” e che l’ espressione ἀπίωσιν ἐν χορῷ nel suo complesso possa in qualche modo assimilarsi a qualcosa come ἐς χορὸν ἔρχεσθαι (Il. 15.508, Anacr. PMG 204.2), o a espressioni come χοροῖο νέον λήγοντα (Il. 3.393s.), ma anche in tal caso quella di Cratino parrebbe un’ espressione poco plausibile: “se ne vadano nella danza” non sembra garantire un senso accettabile; se si intende “andarsene nella schiera” con un valore di ἐν χορῷ simile al traslato Pl. Euthyd. 279c (τὴν σοφίαν ποῦ χοροῦ τάξομεν;), il significato appare maggiormente accettabile, pur rimanendo estremamente incerto. Una costruzione forse avvicinabile a questa di Cratino si reperisce in Plut. Mor. 133d κελεύσομεν αὐτοὺς μὴ ἐνοχλεῖν, ἀλλ’ ἀπιόντας ἐν τῷ ξυστῷ ταῦτα καὶ ταῖς παλαίστραις διαλέγεσθαι τοῖς ἀθληταῖς, dove l’ infinito διαλέγεσθαι dipenderà da

Σερίφιοι (fr. 219)

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κελεύσομεν ma i locativi ἐν τῷ ξυστῷ … καὶ ταῖς παλαίστραις non riguardano direttamente il participio ἀπιόντας. Come in Plutarco si impone ad alcuni di andare a dialogare con gli atleti, allontanandosi dal banchetto di cui si parla prima, per dirigersi nel portico e nelle palestre, allo stesso modo si potrebbe pensare che in Cratino ad alcuni si chieda di allontanarsi ἐν χορῷ, ma cosa questo sia esattamente non è inequivocabilmente ricavabile dal frammento né dal contesto. Il parallelo non può dirsi in alcun modo esatto, a mio avviso, vista la posizione di ταῦτα in Plutarco. Sul piano sintattico, dunque, non è sicuro, ma solo possibile (cf. infra), che in Cratino ἀπίωσι si leghi all’ infinito ἱέναι. Data l’ esiguità e la difficoltà del frammento non sembra il caso di emendare il testo: in AG 1.173.26 Bk. (Isae. fr. 5) si legge ἐν βοθύνοις ἀπιόντι, corretto da Sauppe (1850, p. 231) in ἐς Bόθυνον ἀπιόντι. Il participio ἀπιόντι, in Isae. fr. 5 (ex AG 1.173.26 Bk.), si trova nella stessa frase con ἐς βόθυνον, ed è esattamente per questa ragione che Sauppe (1850, p. 231) sospettava che il frammento di Cratino, col suo testimone, soffrisse di qualche guasto della tradizione: proponeva pertanto di intervenire sul testo di Cratino e dell’ Antiatticista, concludendo la citazione dai Seriphioi con ἐς βόθυνον, per proseguire poi il testo dell’ Antiatticista con 〈ἐς βόθυνον〉 ἱέναι, in modo da sanare una presunta corruzione aplografica. Pur interessante, come osservava Kaibel, difficilmente il passo di Iseo da cui muoveva l’ ipotesi di emendamento di Sauppe può accostarsi a quello di Cratino, salvo, con Sauppe, ipotizzare una corruzione nell’ Antiatticista. Sarei dunque molto cauto rispetto alla possibilità che le due espressioni ἀπίωσιν ἐν χορῷ ed ἐς βόθυνον ἱέναι siano strettamente legate sul piano sintattico con l’infinito in dipendenza dal participio, ma certamente il testimone giudicava il pezzo tramandato come una espressione compiuta. Anche sul piano metrico persistono delle incertezze: Bekker (1814, p. 85.1–3) proponeva un andamento probabilmente trocaico distinto su due versi, seguito in questo da Runkel (1827, p. 58), Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin) e da Kassel e Austin, mentre Bergk (1838, p. 27) sosteneva la possibilità di un cratineo, nonostante lo iato che si produce (χορῷ ἐς), e Kock (1880, p. 77) pensava a un gliconeo polischematico per evitare il dattilo (ma si vedano le osservazioni di Kassel e Austin che menzionano i casi di Ar. Ach. 318, Ve. 496, dove si trova il dattilo, e si veda anche la documentazione di White 1912, p. 205 e supra ad fr. 218, cf. Bianchi 2017, p. 267). Interpretazione Il gioco di cui qui si parla sembra accostabile a ciò che è noto con τρόπα (si ignora se avverbio o sostantivo, cf. LSJ 9 1826A), e che Svetonio nel Περὶ παιδιῶν (1.26, ex schol. Areth. Pl. Lys. 206e) spiegava in questi termini: τρόπα δ’ ἐστὶν ἡ εἰς βόθυνον ἐκ διαστήματος βολή (“tropa è il lancio nel buco da una distanza”)4. Una descrizione simile ricorre in Poll. 9.103 ἡ δὲ τρόπα καλουμένη παιδιὰ γίνεται μὲν ὡς τὸ πολὺ δι’ ἀστραγάλων, οὓς ἀφιέντες στοχάζονται βόθρου 4

Per questo gioco cf. Costanza (2019, p. 119).

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Cratino

τινὸς εἰς ὑποδοχὴν τῆς τοιαύτης ῥίψέως ἐξεπίτηδες πεποιημένου (“il gioco chiamato tropa avviene, come di sovente, con gli astragali: li lanciano mirando un buco realizzato di proposito per ricevere un lancio di tal genere”; cf. anche Hsch. τ 1485 τϱόπα· εἶδος παιδιᾶς, καθ’ ἣν στρέφουσι τοὺς ἀστραγάλους εἰς τὸ ἕτερον μέρος, Phot. τ 493 τϱόπα· διὰ ἀστϱαγάλων παιδιά). Cratino richiama altrove il gioco (fr. 180). Stanti queste spiegazioni e soprattutto quello che dice il testimone nella parte che segue il testo di Cratino, si può ritenere con un discreto margine di probabilità che qui Cratino parli di quel gioco, che rappresenta il nucleo della citazione. Considerata l’ incertezza della prima parte del frammento, non si può proporre null’ altro, né si può capire la funzione esatta, e dunque il senso pieno, di ἐν χορῷ. L’ esiguità del frammento, le molte incertezze che lo affliggono non permettono di proporre un’ ipotesi di collocazione nella commedia. v. 1 ἀπίωσιν il valore esatto del verbo non è chiaro (cf. supra). ἐν χορῷ nell’ incertezza generale di questo frammento, l’ espressione può assumere ciascuno dei principali valori che χορός ha, in quanto può valere come “nella danza”, o “nel coro, nella schiera”, o “nel luogo della danza”: considerando, tuttavia, le varie occorrenze comiche di ἐν χορῷ, con molta cautela si potrebbe concedere più chances al primo significato, “nella danza”, cf. Ar. Ve. 1060, Ra. 729, o, ancora meglio, a qualcosa come “nella schiera” (cf. Pl. Euthyd. 279c, Ar. Ra. 549 ma al plurale). v. 2 ἐς βόθυνον l’ espressione andrà intesa in senso generico e non come il luogo preciso della via sacra di cui parla Harp. 74.1 (β 15), e già Isae. fr. 5. ἱέναι per il lancio cf. Poll. 9.103 (l. c.), Phot. α 1816. Si veda Taillardat (1951, pp. 5–9). fr. 220 K.–A. (206 K.) οὕτω σταθερὸς τοῖς λωποδύταις ὁ πόρος πεινῶσι παφλάζει σταθερὸς Suda : σταθερῶς Phot.

così veemente (fermo?) il passaggio, per i predoni famelici, strepita Phot. σ 489 (= Suda σ 982) σταθεϱόν· ὀξύν· ἰσχυϱόν· ἢ θεϱμόν· … ϰαὶ Kϱατῖνος δ᾽ ἐν Σεϱιφίοις ἐπὶ τοῦ ὀξέος (Phot. z post corr., Suda-G : τοῦ ὀξέως z ante corr., Suda G) ἢ ἰσχυϱοῦ· οὕτω — παφλάζει statheron: rapido, forte o caldo … anche Cratino nei Seriphioi (utilizza il termine) per rapido o forte: così — strepita

Metro tetrametro anapestico catalettico. Operante la cosiddetta correptio Attica (παφλάζει baccheo)

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Σερίφιοι (fr. 220)

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Bibliografia Runkel (1827, p. 57); Meineke (1839b, p. 136); Bothe (1855, p. 43); Naber (1864, pp. 57s.); van Herwerden (1872, p. 76); Kock (1880, p. 76); Cohn (1884, pp. 804s.); Edmonds (1957, pp. 94s.); Tichy (1983, p. 248–252); PCG IV p. 234; Storey (2011, pp. 378s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da una lunga glossa di Phot. σ 489 (= Suda σ 982), che riporta frammento, autore e opera. Alcune informazioni lì contenute sono presenti anche in Phot. σ 487 e 488, oltre che in una vasta costellazione lessicografica (per cui cf. l’ apparato di Theodoridis 2013, p. 389), nella quale vale la pena di sottolineare lo stesso Phot. Amphil. 21.18s. W. (ἀλλὰ γὰϱ ϰαὶ τὸ σταθεϱὸν οὐ τὸ στάσιμον μόνον, ἀλλὰ ϰαὶ τὸ ἰσχυϱὸν ϰαὶ θεϱμὸν ϰαὶ ὀξὺ σημαῖνον εὑϱίσϰεται). Stando a Naber (1864, pp. 57s.), quindi a Cohn (1884, pp. 804s.) – entrambi recepiti da Theodoridis – la fonte della glossa sarebbe Boeto, di cui Fozio dirà poi di aver letto il lessico dei termini platonici (Bibl. cc. 152–154)5, e presumibilmente il Patriarca se ne sarà servito nella compilazione del proprio Lessico: questa glossa, del resto, si occupa principalmente dell’ esegesi di Plat. Phdr. 242a. La glossa, di stampo sinonimico-differenziatore, interessa Cratino per la parte che coinvolge il lemma σταθερόν inteso stranamente ἐπὶ τοῦ ὀξέος (per la forma con l’ avverbio cf. infra). Testo Il testo, in anapesti, non presenta difficoltà particolari se non la variante σταθερῶς offerta dai manoscritti di Fozio, alternativa a σταθερός presente in modo compatto in quelli della Suda, e riferibile a πόρος. Nessuna delle due alternative modifica l’ andamento ritmico. La variante che si trova in Fozio, σταθερῶς, appare più affine al testo della glossa, dove il frammento di Cratino è introdotto da ἐπὶ τοῦ ὀξέως, in Fozio e nel codice G della Suda, contro ἐπὶ τοῦ ὀξέος dello zavordense di Fozio (post corr.) e dei restanti codici della Suda. La scelta della forma avverbiale si trova in Theodoridis (2013, p. 389), tanto nel testo della glossa quanto nel frammento vero e proprio di Cratino: lo studioso potrebbe aver compiuto questa scelta per la condivisibile indicazione editoriale di non modificare il testo dei manoscritti quando non si può stabilire se l’ errore o la variante non si sia prodotta certamente a valle della compilazione del lessico. Ma Theodoridis non propone, in apparato, l’ ipotesi che σταθερός sia la lezione di Cratino. La scelta con l’ avverbio fu anticipata da Meineke (1839b, p. 136). Kassel e Austin prediligono σταθερός, che pare meglio chiarire la sintassi del frammento, dal momento che il dativo λωποδύταις non si lega esclusivamente al verbo (cf. infra). La generale difficoltà interpretativa indusse Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin) a proporre πόθος al posto di πόρος, che sposta sul piano del tutto metaforico il testo e il senso del verbo. Interpretazione Il frammento fin da Meineke (1839b, p. 136) fu interpretato come la constatazione di un pericolo in relazione a una navigazione: «in praecedentibus poeta fretum descripsisse videtur a praedonibus vehementer infestatum».

5

Cf. le osservazioni di Martone (2006).

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Cratino

Ma, come osservò van Herwerden (1872, p. 76), tale valutazione non sembrerebbe attagliarsi alla presenza dei λωποδύται, che sarebbero invece ladri «qui vestibus spoliabant viatores», dunque predoni sulla terraferma. L’ osservazione lessicale di van Herwerden è confermata da Aristot. EN 1122a 7 (ὁ μέντοι κυβευτὴς καὶ ὁ λωποδύτης καὶ ὁ λῃστής), che non individua una serie sinonimica pura, ma differenzia all’ interno della categoria dei briganti. E una perfetta equivalenza fra λωποδύτης e λῃστής non sembrerebbe riscontrabile con sicurezza nonostante casi come schol. Od. 13.224 (λώπην· ἱμάτιον … λωποδύτης ὁ τούτων ἀφαιρέτης, λῃστής) o Syn. Ep. 132.18 (οὐδὲ γὰρ ἄξιον αὐτοὺς πολεμίους, ἀλλὰ λῃστὰς ἢ λωποδύτας ἤ τι τοιοῦτον ὄνομα), dove si trova una sorta di possibile sinonimia fra i due termini. D’ altra parte, però, va sottolineato come né il termine λῃστής significhi per forza “pirata” (cf. e. g. Soph. OT 842), nonostante sia ovviamente questa l’accezione più diffusa (cf. p. 87), a proposito di sinonimie con altre parole legate al brigantaggio, né πόρος si attagli pienamente al senso di “via terrestre”. Se dunque le osservazioni di van Herwerden sono plausibili, come non mancano di notare Kassel e Austin, l’ interpretazione poi prospettata da van Herwerden stesso, con estrema cautela («nisi forte»), secondo il quale, qui, con πόρος Cratino richiama il demo Πόρος della tribù Acamantide, di cui parla Harp. 253.13 (π 81), appare azzardata; e lo studioso, infatti, non mancava di concludere «illa vi ὁ πόρος erit accipiendus». Nell’ indicare un guado (cf. e. g. Il. 2.592), πόρος può riferirsi a un passaggio su cui agiscono briganti di terra. Difficile cogliere il senso autentico di σταθερός, nucleo della citazione, visto che significa, abitualmente, “calmo”, “fermo” e non si può escludere che anche in Cratino il senso fosse questo, poi oggetto di interpretazione erronea nella tradizione. Tuttavia, proprio la tradizione cui Fozio attinge rimanda a qualcosa di aspro, di difficile («vehementer» parafrasava Meineke 1839b, p. 136, «acriter» rendeva Bothe 1855, p. 43): Fozio (/Boeto) potrebbe aver totalmente frainteso il passo, ma non vedo sufficienti elementi per dirlo. Se il πόρος è σταθερός, la posizione di λωποδύταις in qualche modo ne condiziona il senso: non chiaro il fatto che un passaggio sia veloce per i predoni, mentre è più semplice capirne il senso se si intende qui σταθερός come sinonimo di ἰσχυρός. Nella generale incertezza e nella considerazione del fatto che non si sa nulla sull’ identità della persona loquens, si potrebbero tentare, con cautela, alcune interpretazioni, del tutto diagnostiche. Fatto salvo il senso di «passaggio» per πόρος, qui si potrebbe alludere a un viaggio di qualcuno – forse Perseo, dramatis persona (cf. supra nell’ introduzione della commedia) – molto preoccupato per la sua misera mantella (cf. fr. 222), magari pure oggetto di possibile scippo da parte di affamati ladri. Oppure, i versi potrebbero richiamare l’ attualità, certamente nota agli spettatori (cf. IG I3 45.5, del 445 a. C. ca., dove i predoni sono oggetto di un decreto). Allo stato presente, nel frammento risulta invece difficile rilevare significati politici, magari allusivi a Cleone (cf. fr. 228) – che pure veniva richiamato in questa commedia – e magari fondati su παφλάζει (su cui cf. infra). σταθερός rispetto alla sinonimia offerta dai testimoni si direbbe che non sembrano esservi altre testimonianze che confermino con sicurezza questa prescri-

Σερίφιοι (fr. 220)

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zione, eccettuata ovviamente la costellazione lessicografica, che ne è la promotrice. Di questo aspetto sembrerebbe essersi avveduto lo Stephanus ThGL VII 641B («at in hoc l. Cratini […] Photius e Cratini l. c.»). λωποδύταις in generale, il termine indica i ladri di vestiti, di qui la valutazione di van Herwerden (1872, p. 76, cf. supra) rispetto all’ interpretazione generale del frammento: slittamenti semasiologici, giustificati dal contesto, non sono rigorosamente verificabili nel materiale superstite. Quanto al crimine in sé, esso risulta annoverato in IG I3 45.5 (cf. supra), quale significativa minaccia in Attica (cf. anche Pl. Resp. 575b, Xen. Mem. 1.2.62, Aristot. Ath. 52). Cf. anche Dunbar (1995, 341s.) a proposito di Ar. Av. 497. Il dativo a indicare ciò di cui pullula qualcosa, comunemente, non rientra nei complementi della sintassi verbale di παφλάζειν (cf. van Herwerden 1872, p. 76 «poetice»), né il verbo ha propriamente questo senso, dunque λωποδύταις non si riferirà solo al verbo, ma direi anche all’ aggettivo, vale a dire che non può esser accostato a casi come Aesch. Ag. 659s. (ὁρῶμεν ἀνθοῦν πέλαγος Αἰγαῖον νεκροῖς / ἀνδρῶν Ἀχαιῶν ναυτικοῖς τ’ ἐρειπίοις), ma, al più, sarà simile a Eubul. fr. 108.2 (vv. 1s. προσγελῶσά τε / λοπὰς παφλάζει βαρβάρῳ λαλήματι), col valore di dativo etico o con valore causale. πόρος il sostantivo indica, di solito, il reale passaggio e più spesso un guado, fin da Omero, cf. e. g. Il. 2.592. Non si direbbe che in questo frammento di Cratino emerga il senso traslato di πόρος, ignoto, di fatto, fino al corpus di Eschilo6 – a eccezione del dubbio Prometeo (cf. e. g. v. 59, ripreso da Ar. Eq. 759) – e di Sofocle, e presente invece in Euripide (cf. e. g. Me. 260), dunque pur sempre disponibile a Cratino. παφλάζει il verbo, di fatto onomatopeico, si trova già in Omero a indicare acque strepitanti (cf. Il. 13.798). Il valore che si ricava da Omero, appena traslato, ricorre in Emped. VS B 100.7, e di fatto in Cratino: Tichy (1983, pp. 248–252 e specialmente p. 251) segnala come per Cratino si possa definire un significato di questo tipo: «so beständig plätschert die Meerenge zur Freude der hungrigen Diebe». Si direbbe che un significato in qualche modo politico, o almeno retorico, associato al verbo si debba ad Aristofane, segnatamente a indicare le intemperanze demagogiche di Cleone (cf., oltre all’ abbondanza di ricorrenze nei Cavalieri frutto anche del paretimologico Παφλαγών, Nu. 581, Pax 314), ma cf. già Alcae. fr. 72.5 (νυκτὶ παφλάσδει), in cui il verbo – che pure mantiene il senso proprio – viene di fatto associato a Pittaco, il cui atteggiamento tirannico risulta in generale delineato dall’ avversario Alceo. In Timocl. fr. 17.3 il verbo viene impiegato per Iperide, la cui torrenziale verbosità si trova già reificata nell’ immagine del fiume al v. 1. È operante la cosiddetta correptio Attica.

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Cf. tuttavia Suppl. 806s., dove il senso non sarà quello di “stratagemma”, quanto di “via di scampo”, effugium, come ha segnalato Marzullo (1993, p. 225).

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Cratino

fr. 221 K.–A. (214 K.) ἀμοργοί, πόλεως ὄλεθροι ὄλεθροι Phot., Eust. : ὄλεθρος Suda

spremitori, flagelli della città Phot. α 1235 (= Suda α 1627) ἀμοργοὶ πόλεως ὄλεθροι· Κρατῖνος Σεριφίοις (Suda : οὕτως Κρ. Phot.). καλοῦσι δὲ αὐτοὺς (αὐτοὺς om. Suda) καὶ μοργούς, τὸ α ἀφαιροῦντες κτλ. amorgoi poleōs olethroi: Cratino nei Seriphioi. Li definiscono anche morgoi, sottraendone l’ alpha Eust. Od. 1608.57 ἀμοργοί, φασί, πόλεως ὄλεθροι. οἱ δ’ αὐτοὶ καὶ μοργοί. οἱ ἀμέλγοντες δηλαδὴ τὸ κοινὸν καὶ ἐκμυζῶντες οἱονεὶ τὰ ἀλλότρια amorgoi, dicono, poleōs olethroi. Gli stessi anche morgoi. Costoro mungono evidentemente ciò che è pubblico e quasi succhiano i beni altrui

Metro anapesti. Operante la cosiddetta correptio Attica (ὄλεθροι anapestico)

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Bibliografia Meineke (1839b, pp. 140s.); Bothe (1855, p. 44); Kock (1880, p. 78); Taillardat (1951); Edmonds (1957, pp. 96s.); PCG IV p. 235; Tosi (1998); Tosi (1998b); Storey (2011, pp. 378s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato principalmente da Phot. α 1235 (= Suda α 1627), che conserva il testo di Cratino, l’ indicazione dell’ autore ma non il titolo della commedia, presente nella Suda; si trova anche in Eust. Od. 1608.57, senza indicazioni autoriali. A questi testimoni va ricondotta la difficile – e non raramente dubbia in termini di costituzione testuale – quantità di materiali eruditi che riflettono attorno al significato e alla forma di ἀμοργός. Essi, tutti segnalati da Kassel e Austin (PCG IV p. 235), sono: Phot. α 1233 (ἀμοργοί· τὰ κοινὰ διαμοργοῦντες καὶ λυμαινόμενοι ἄνδρες) ed Eust. Il. 838.54 (Παυσανίας φησὶν ὡς ἀμολγοὶ ἐλέγοντο καὶ οἱ ἀμέλγοντες τὰ κοινὰ ῥήτορες καὶ διαφοροῦντες δημόσια. οἱ δ’ αὐτοί, φασί, καὶ μοργοὶ ἢ ἀμοργοί), da cui si ricostruisce Paus. Att. α 94, fonte probabilmente del parallelo Eust. Od. 1608.57, su cui cf. supra; a questi va aggiunto schol. vet. Ar. Eq. 963 (= Eratosth. fr. 9, Ἐρατοσθένης μολγὸν καὶ ἀμολγὸν τὸν αὐτόν· ἀμολγοὺς δὲ παρὰ τούτοις φησὶ λέγεσθαι τοὺς ἀμέλγοντας τὰ κοινά), anch’ esso segnalato da Kassel e Austin. Lo scolio aristofaneo risulta incentrato su una complessa discussione a proposito di μολγός, con svariati materiali eruditi, fra cui Eratosth. fr. 9, probabilmente scorciato nella tradizione superstite. E converrà appunto ripartire proprio da Eratostene per delineare la storia del frammento di

Σερίφιοι (fr. 221)

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Cratino e per valutare la consistenza di ἀμοργός. Secondo Tosi (1998b, p. 337), presupposto linguistico delle note di Eratostene sarebbe l’ equivalenza fra μολγός e ἀμολγός in virtù di una funzione di alpha nota ai grammatici antichi, e pienamente accolta dai linguisti moderni. Ciò considerato, Eratostene sarebbe intervenuto nella discussione su una glossa epica (Hes. Op. 590) per la cui spiegazione il Cireneo prendeva posizione a sostegno di chi «connetteva ἀμολγός e ἀμολγαῖος con ἀμέλγω», e su questi presupposti avrebbe «costruito la propria esegesi su passi comici forse specificando per ognuno la peculiare valenza» (Tosi 1998b, p. 338). La forma del frammento di Eratostene comporta che lo scolio ai Cavalieri rappresenti uno stadio avanzato nella tradizione e una versione ridotta della discussione dell’ erudito, visto che egli non poteva interpretare il passo dei Cavalieri con l’ idea che, in quel caso, μολγός significasse “ladro ai danni dello stato, delle finanze pubbliche”. Considerata la stretta somiglianza con Eust. Il. 838.54 (fonte del perduto Pausania) per quanto attiene alla discussione di ἀμολγός qui come “ladro ai danni dello stato, delle finanze pubbliche”, la soluzione più semplice sarà che Eratostene, se per definire questa spiegazione semantica utilizzava Cratino, aveva sicuramente un testo con ἀμολγοί (cf. anche Tosi 1998, p. 133 e 1998b, p. 337). E la possibilità di intendere ἀμολγός come “ladro ai danni dello stato, delle finanze pubbliche” vel sim. q., da Pausania in avanti, deriva certamente da Eratostene in quanto in Eratostene essa viene istituita o almeno segnalata. L’ equivalenza semantica fra ἀμολγός e ἀμοργός, stando alla tradizione, spetterebbe invece a Pausania o a una sua fonte, che, per questa parte, non sarà Eratostene, in quanto Eratostene ignorava l’ esistenza di ἀμοργοί (ἀμοργός). Esistono, pertanto, alcuni punti fermi rispetto alla parola che rappresenta il nucleo della citazione del frammento di Cratino: 1. di questo termine non esistono attestazioni al singolare7; 2. le attestazioni di questo significato di ἀμοργοί si trovano solo nelle fonti connesse a Cratino, ed è per questo motivo che tutte danno la medesima spiegazione semantica in quanto derivano tutte più o meno direttamente dalla stessa fonte; 3. non esiste μοργός, se non nelle fonti erudite che illustrano ἀμοργός, ed è dunque pura invenzione lessicografica (cf. Taillardat 1951, p. 13). Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, se sia esistito ἀμοργοί con il significato che si riconosce in Cratino o se non si debbano concedere maggiori chances alla discussione di Eratostene e stabilire in Cratino ἀμολγοί. Allo stato attuale delle conoscenze, la soluzione più adeguata sarà il mantenere il rarissimo (unico, in tal senso) ἀμοργοί, del resto plausibile sul piano linguistico, e, a partire dal verbo, attestato su quello semantico. D’ altra parte, nemmeno di ἀμολγοί in Cratino si potrebbe esser sicuri, perché se da un lato l’ aggettivo è ben attestato, d’ altra parte col senso di “ladro ai danni dello stato, delle finanze pubbliche” non si trova, se 7

Il caso di Cratin. fr. 103 ἀμοργόν richiede una correzione in ἀμοργίν, stabilita fin da Meineke, cf. PCG IV p. 172. Quanto ad Emped. VS B 84.3 non vedo altra soluzione che quella prospettata da Tosi (1998, pp. 133s.), secondo cui le lanterne ἀμοργοί sarebbero quelle fatte col filo di malva. Diversamente, bisognerebbe anche qui correggere.

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Cratino

non nella spiegazione, compressa e scorciata, di Eratostene. A ciò va aggiunto che ἀμολγοί e ἀμοργοί possono scambiarsi facilmente nella tradizione manoscritta: e se Ar. Eq. 326 non può essere una prova in quanto ἀμέργει non è v. l. del tràdito ἀμέλγει ma approvatissima congettura moderna, le due forme potrebbero però essere oggetto di scambi e confusioni: cf. Et. M. 129.7, dove si trova lo scambio etimologico fra lambda e rho nei due verbi. Altri scambi del genere sono piuttosto frequenti, come si osserva e. g. in Ap. Rh. 1.882. Testo Il testo non presenta problemi significativi. Fu Meineke (1839b, p. 141) a suggerire che πόλεως ὄλεθροι siano parole di Cratino, opzione che ha trovato un sostegno – ma non conferma, ovviamente – nella punteggiatura offerta dai codici di Fozio z, b; soprattutto, la presenza delle successive parole già in Cratino pare spiegabile in relazione all’ errore del testo utilizzato da Eratostene: non vedo altrimenti come proporre una equivalenza fra ἀμολγός, che altrove non significa mai “ladro ai danni dello stato”, se nel testo di Cratino visto da Eratostene non ci fosse stata una coppia contigua e ritenuta certamente sinonimica, come ἀμολγοί, πόλεως ὄλεθροι. Interpretazione La sequenza si direbbe di anapesti, che, per il contenuto verisimilmente politico, potrebbero derivare dalla parabasi, per quanto una simile collocazione non sia inevitabile. πόλεως ὄλεθροι l’ espressione ricorre più o meno simile altrove, cf. D.H. Ant. 8.21.3, e si vedano già Lys. 12.60 e Pl. Resp. 434b 7; per il singolo termine in commedia cf. Th. 860, Lys. 325, Eccl. 934, Men. Dysc. 366. Si veda Perusino in Perusino-Beta (2020, p. 200).

fr. 222 K.–A. (207 K.) (A). ἐς Συρίαν δ’ ἐνθένδ’ ἀφικνῇ μετέωρος ὑπ’ αὔρας. (B). ἱμάτιον μοχθηρόν, ὅταν βορρᾶς καταπνεύσῃ 1 ἀφικνῇ C, Edmonds (1957, p. 94) : ἀφικνεῖ FS, ἀφικνεῖτο A (1886, p. 160)

2 βορέας van Herwerden

A. Sollevato dalla brezza giungi da qui in Siria. Β. Una cattiva mantella, qualora soffi la bora Poll. 7.69 συρίαν δὲ ἱμάτιον Κρατῖνός φησι Σεριφίοις· ἐς — καταπνεύσῃ Cratino nei Seriphioi dice che la syria è un mantello: sollevato — bora

Σερίφιοι (fr. 222)

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Metro esametri dattilici. Al v. 1 risulta operante la cosiddetta correptio Attica (ἀφικνῇ anapestico), per cui cf. fr. 223. Al v. 2 risulta operante la cosiddetta correptio Attica (καταπνεύσῃ ionico a minore)

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Bibliografia Runkel (1827, pp. 56s.); Meineke (1839b, pp. 132s.); Bothe (1855, p. 43); Meineke (1857, p. XL); Kock (1880, p. 76); Edmonds (1957, pp. 94s.); PCG IV p. 235; Rusten (2011, p. 208); Storey (2011, pp. 378s.); Marcucci (2020, pp. 99–101) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Polluce (7.69) che, discettando dei mantelli, ricorda come Cratino nei Seriphioi dimostri che la συρία sia un mantello. Non è possibile verificare direttamente, attraverso le parole del frammento, l’ interpretazione, probabilmente corretta, che si ricava dall’ Onomastico, e non può soccorrere in questa operazione qualche altro testo comico in quanto mancano ulteriori confronti precisi. Polluce garantisce come il termine fosse diffuso (7.61, 10.64), ciò che risulta probabile dalle occorrenze papiracee (cf. infra). Alla stessa costellazione si riconduce Hsch. σ 2769, tuttavia con informazioni che si direbbero diverse da quanto si ricava dal frammento, perché per Esichio e per Poll. 7.61 si tratterebbe di un mantello spesso, mentre dal frammento di Cratino sembrerebbe trattarsi di un mantello inadatto al vento freddo, come notava van Herwerden (1886, p. 160). Testo Il testo non ha problemi: la forma ἀφικνῇ di C è raccomandata da Edmonds (1957, p. 94) e accolta da Kassel e Austin, per pertinenza linguistica e stilistica con il fr. 223. Non ci sono motivi di accogliere βορέας di van Herwerden (1886, p. 160), in quanto il tràdito βορρᾶς è pienamente accettabile (cf. Aristonym. fr. 7, Alex. fr. 47.1). L’ articolazione tra due personaggi fu prospettata da Meineke (1839b, p. 133), quindi Meineke (1857, p. XL). Interpretazione Il frammento in esametri sembra un dialogo, dove un personaggio profetizza a un altro il suo arrivo in Siria in volo e il secondo risponde con un calembour, in quanto sostituisce l’ area geografica (la Siria) col nome etnico di un tipo di mantello che, stando all’ affermazione del personaggio, non è adatto a riparare dalla bora. Kaibel, basandosi sull’ estrema rarità di ὑπ’ αὔρας, ipotizza che il gioco comico si generi a partire da un altro equivoco, vale a dire che il secondo personaggio fraintenda ὑπ’ αὔρας come un modo per indicare ὑφ’ εἵματος oppure ὑπὸ χλαίνης.8 Tale proposta è stata giudicata eccessivamente artificiosa da Kassel e Austin (PCG IV p. 235). In effetti, non si capisce come mai il frammento possa esser incluso da Polluce per illustrare il termine συρία, se la battuta non giocava sul nome del mantello. Non sembrano del tutto chiare le informazioni della costellazione onomastica e lessicografica rispetto al frammento: in particolare Esichio (σ 8

Meritano attenzione Hsch. π 3682 e Et. M. 23.21 ἀήσυρον· ἀσθενές, κενόν, ἄκοσμον, μάταιον, ἀκόλαστον· ἔνιοι κοῦφον, ὑπ’ αὔρας φερόμενον (cf. Ps.-Aesch. Pr. 452).

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Cratino

2769) parla di un mantello spesso, ma se fosse questo il tratto distintivo del mantello in questione non si capisce per qual motivo dovrebbe esser inadatto a ripararsi quando spira la bora. Forse la questione sta nel fatto che la foggia, piuttosto che il peso del mantello, lo rendeva particolarmente volatile (cf. forse P. Hib. 38.7, dove un lotto di mantelli di questo tipo, alzatosi il vento, vola sulla cabina della nave)? Oppure nella prosecuzione del testo si chiariva la reale pesantezza della συρία. Diversa l’ esegesi di Kock (1880, p. 76): «sed ut erat crassa, ita etiam vento pervia». La forma esametrica può confermare che si tratti di una sorta di profezia, piuttosto che un percorso di imprese imposte a Perseo. L’ esametro recitato, in commedia, si trova infatti spesso impiegato a restituire sulla scena oracoli o predizioni, almeno nella drammaturgia aristofanea (cf. Pretagostini 1995/1996). L’ipotesi di una suddivisione dei due esametri tra due interlocutori risale a Meineke (1839b, pp. 132s.): «suspicor autem Cratini verba colloquentium vicibus ita esse distinguenda», ed è stata unanimemente accolta dai vari editori. Chi sia la persona loquens al v. 1 è impossibile a dirsi (Polidette, tentativamente secondo Meineke ad l., il coro dei Serifii secondo Kaibel), mentre appare più semplice provare a definire chi sia il personaggio che pronuncia il secondo verso. Certamente, Perseo deve esser in scena, perché nella sinossi mitografica è il predestinato a dover affrontare il viaggio evocato nel verso precedente. Condivisibile la scelta di Kassel e Austin di segnare con un cauto punto interrogativo l’ indicazione di Perseo come persona loquens, in assenza di ulteriori e definitivi dati; vorremmo suggerire che un’ ipotesi alternativa potrebbe esser quella di uno schiavo o più genericamente di un personaggio che nella funzione di bōmolochos accompagna Perseo. Non si può sapere se in una scena successiva fosse poi impiegata la μηχανή: un’ espressione come μετέωρος ὑπ’ αὔρας indica che ci sarà un volo, ma esso può esser semplicemente rievocato e non eseguito in scena. L’ aggettivo, in commedia, ricorre talora in situazioni in cui è impiegata la macchina del volo, come in Pax 80s. (ὁ δεσπότης γάρ μου μετέωρος αἴρεται / ἱππηδὸν εἰς τὸν ἀέρ’ ἐπὶ τοῦ κανθάρου), 152s. (ὡς εἰ μετέωρος οὗτος ὢν ὀσφρήσεται, / κατωκάρα ῥίψας με βουκολήσεται), ma non risulta obbligato a simili situazioni. In Poll. 4.128 (cf. schol. Clem. Alex. Protr. II 12) si legge ἡ μηχανὴ δὲ θεοὺς δείκνυσι καὶ ἥρως, τοὺς ἐν ἀέρι Βελλεροφόντας ἢ Περσέας, con riferimento verisimilmente a tragedie euripidee, il Bellerofonte e l’ Andromeda, ma se anche in questa commedia vada prevista una parodia tragica con la detorsio della opsis attraverso un uso scopertamente comico della macchina del volo non si può dire. Insicura deve dirsi anche la proposta di Lobel, avanzata del resto con molta cautela, secondo cui P. Oxy. 2742 (Com. adesp. fr. 1104) potrebbe essere un lacerto di commentario ai Seriphioi. Queste considerazioni servono, tuttavia, solo a chiarire che l’ ipotesi della presenza della macchina del volo non va esclusa (cf. Introduzione alla commedia). v. 1 ἐς Συρίαν la Siria è normalmente presente in commedia per l’ abbondanza e la raffinatezza di profumi (cf. e. g. Hermipp. fr. 63.13), così come in tragedia (cf. e. g. Eur. Ba. 144).

Σερίφιοι (fr. 222)

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ἀφικνῇ Kassel e Austin ricordano i precedenti omerici del viaggio di Odisseo agli estremi confini del mondo (Od. 12.39 e 127), come evocati dalla profezia di Circe. Operante la cosiddetta correptio Attica. μετέωρος per il senso dell’ aggettivo e per un suo impiego in commedia cf. supra. ὑπ’ αὔρας l’ espressione in sé è rarissima (cf., dopo Cratino, D.C. 63.28.2), e potrebbe qualificarsi come accusativo plurale o come genitivo singolare. Forse è preferibile il senso di causa efficiente e considerare l’ espressione al genitivo singolare, dunque con un valore passivo dell’ aggettivo: cosa che pare senz’ altro possibile senza forzature sintattiche (cf. ThGL VIII 283D-284A e si vedano le traduzioni di Storey 2011, p. 379 «on the breezes», che intende come accusativo plurale e riprende Bothe, e quella di Edmonds 1957, p. 95, che rende con «by the breeze» e intende come genitivo). v. 2 ἱμάτιον μοχθηρόν la battuta funziona grazie al fatto che esisteva un mantello chiamato συρία, come è garantito da Poll. 7.61 (αὐτόποκον), 10.64, da Hsch. σ 2769 (che ne parla come di un mantello spesso, συρία· ἡ παχεῖα χλαῖνα. ἤτοι ἀπὸ τοῦ σισύρνης. ἢ ὅτι ἐν Καππαδοκίᾳ γίνεται. οὗτοι Σύροι cf. Poll. 7.70) e da P. Hib. 38.7 e 51.3. In questo secondo papiro (una lettera del 245 a. C.) un lotto di mantelli di questo tipo viene valutato sei dracme (per la cifra cf. GrenfellHunt 1906, p. 196), un prezzo modesto, forse, cosa che potrebbe meglio chiarire il senso della battuta. Si direbbe che il mantello siriano abbia una sua fortuna in commedia, almeno stando alle informazioni che ne dà Polluce (7.61), quando afferma che il nome diffuso è συρία, mentre i comici lo chiamano αὐτόποκον (ἣν δὲ συρίαν οἱ πολλοί, ταύτην αὐτόποκον ἱμάτιον οἱ κωμικοί = Com. adesp. 797)9. Sulla ragione per cui un mantello spesso dovrebbe esser inadatto al vento freddo, cf. supra Interpretazione. Α ragiοne Wilamowitz (1880, p. 77) paragonava il frammento di Cratino ad Ar. Ve. 1137 dove un nome di un mantello persiano coincide con l’ etnonimo (Περσίδα … καυνάκην). L’ impiego nelle Vespe è uno hapax nella letteratura superstite ed è ripreso autoschediasticamente in Poll. 7.59, che cita appunto lo stesso Aristofane. καταπνεύσῃ il verbo ricorre solo qui in Cratino; nella forma semplice o composta, con questa o con altra preposizione, è relativamente diffuso in commedia. Da segnalare, per più stretta pertinenza, Ar. Ra. 314 (αὔρα τις εἰσέπνευσε μυστικωτάτη), nonché Alex. fr. 47.1 πρότερον μὲν εἰ πνεύσειε βορρᾶς ἢ νότος (cf. Turpil. fr. 21 antehac si flabat aquilo aut auster). Operante la cosiddetta correptio Attica.

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Per simili osservazioni di onomastica comica in Polluce cf. 4.128 l. c.

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Cratino

fr. 223 K.–A. (208 K.) εἶτα Σάκας ἀφικνῇ καὶ Σιδονίους καὶ Ἐρεμβούς, ἔς τε πόλιν δούλων, ἀνδρῶν νεοπλουτοπονήρων, αἰσχρῶν Ἀνδροκλέων, †Διονυσοκουρώνων versus 1s. cum 3 coniunxit Bergk (1835, p. 120) 1 Σάκας : Σάβας Holstenius (1684, p. 103) cl. Dion. Per. 959 2 δούλων om. P 3 Διονυσιοκουρεοπόρνων Dindorf ap. Meineke (1839b, p. 134), Διονυσιοκουρομυρώνων vel Διονυσιοκυρτομυρώνων Meineke ibid., Διονυσιοκρουοπυρώνων Luppe (2005, pp. 128s.) cl. Antiatt. κ 15, Διονυσιοκυριοπυρρῶν Marcucci (2016, p. 256)

quindi dai Saci giungi e dai Sidonî e dagli Erembi, e a una città di schiavi, di nuovi riccastri, di Androcli schifosi, di †Dionisokuroni 1s. Steph. Byz. δ 117 Δούλων πόλις· πόλις Λιβύης, Ἑκαταῖος ἐν Περιηγήσει (FGrHist 1 F 345) 〈…〉 (lac. ind. Jacoby) “καὶ ἐὰν δοῦλος εἰς τὴν πόλιν ταύτην λίθον προσενέγκῃ, ἐλεύθερος γίνεται, κἂν ξένος ᾖ” (Anonymus). ἔστι καὶ ἑτέρα Ἱεροδούλων, ἐν ᾗ εἷς μόνος ἐλεύθερός ἐστι. φασὶ καὶ κατὰ Κρήτην Δουλόπολιν εἶναι χιλίανδρον. σημειωτέον δ᾽ ὅτι Κρατῖνος ἐν Σεριφίοις “πόλιν δούλων” φησίν, Ἀπολλωνίου φήσαντος (GG II/3 p. 63.36–41) μὴ δεῖν ταύτας τὰς παραθέσεις ἐναλλάσσειν δίχα ποιητικῆς ἀνάγκης, ὥς φησι Κρατῖνος· εἶτα Σάκας — νεοπλουτοπονήρων κτλ. Di schiavi città (Doulōn polis): città della Libia. Ecateo nella Periegesi (FGrHist 1 F 345) 〈…〉 (lac. ind. Jacoby) “e se uno schiavo porta una pietra a questa città, diventa libero, anche se straniero” (Anonimo). Esiste anche un’ altra (città) di schiavi del tempio, dove uno solo è libero. Dicono anche che a Creta c’è una Dulopoli di mille uomini. Va segnalato che Cratino nei Seriphioi dice “città di schiavi”, ma Apollonio dice (GG II/3 p. 63.36–41) che non bisogna scambiare le due parti accostate tranne per ragioni poetiche, come dice Cratino: quindi dai Saci — nuovi riccastri 3 Hsch. δ 1890 Διονυσοκ{ρ}ουροπυρώνων (del. Salmasius)· Κρατῖνος ἐν Σεριφίοις· αἰσχρῶν — Διονυσοκουρώνων. ἔνιοί φασιν ἐν τῷ αὐτῷ πέντε κωμῳδεῖσθαι, Αἶσχρον (Αἴσχρωνα Kaibel), Ἀνδροκλέα, Διονύσιον, Κῦρον, Πυρῶν (Πύρωνα Kaibel), ἁμαρτάνοντες· οὐδεὶς γὰρ Ἀθηναίων ἀναγράφεται Κῦρος. δεῖ οὖν γράφειν Διονυσοκουροπυρώνων (sic)· τὸν γὰρ Διόνυσον (sic) κουρέα ὄντα κωμῳδεῖ (-ν del. Toup)· κουρεὺς δὲ ἦν πρὸς πάππου, ὡς δηλοῖ ὁ τὰς Ἀταλάντας συνθείς (Call. fr. 3) Dionysok{r}ouropyrōnōn (del. Salmasius): Cratino nei Seriphioi: Androcli—†Dionysokuroni. Alcuni dicono che in questo verso sono presi in giro in cinque, Aischron (Aischrōna Kaibel), Androcle, Dionisio, Ciro, Pyrōn (Pyrōna Kaibel), ma sbagliano: nessun ateniese si chiama Ciro. Bisogna pertanto scrivere Dionysokouropyrōnōn: infatti Dioniso era preso in giro in quanto era un barbiere: era barbiere per parte di nonno, come mostra chi ha composto le Atalantai (Call. fr. 3).

Σερίφιοι (fr. 223)

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3? schol. Ar. Ve. 1187 Ἀνδροκλέα δὲ Κρατῖνος Σεριφίοις (σερίφοις codd.) φησὶ δοῦλον καὶ πτωχόν Cratino nei Seriphioi dice che Androcle era schiavo e parassita

Metro esametri dattilici. Al v. 1 risulta operante la cosiddetta correptio Attica (ἀφικνῇ anapestico), per cui cf. fr. 222. Al v. 2 risulta operante la cosiddetta correptio Attica (νεοπλου- anapestico). Al v. 3 risulta operante la cosiddetta correptio Attica (Ἀνδροκλέ- dattilico)

lkklkkl|llkklkkll lkklll|llkklkkll lllkkl|†kklklll

Bibliografia Bergk (1835, pp. 119s.); Meineke (1839b, pp. 133–135); Meineke (1847, p. 45): Bothe (1855, p. 43); Kock (1880, pp. 76s.); Edmonds (1957, pp. 96s.); PCG IV p. 236; Bona (1992); Luppe (2005); Bultrighini (2011, pp. 39–41); Storey (2011, pp. 378s.); Marcucci (2016); Fiorentini (2018); Marcucci (2020, pp. 101–108) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato per i vv. 1s. da Stefano di Bisanzio (δ 117, cf. Hsch. δ 2258 e in particolare Phot. δ 729 = Suda δ 1423)10, per il v. 3 da Esichio (δ 1890), mentre testimone sine ipsissimis verbis potrebbe dirsi, con molta cautela, schol. Ar. Ve. 1187 (cf. infra). I versi tràditi da Stefano di Bisanzio (δ 117) servono a testimoniare la forma poetica πόλις δούλων sulla scorta di Apollonio Discolo (GG II/3 p. 63.36–41); il v. 3 è testimoniato da Esichio, per chiarire un nomen fictum, però non senza problemi. Che lo scolio alle Vespe sia senz’ altro testimone di questo frammento non si può dire con sicurezza, se si considera la genericità delle accuse rivolte ad Androcle (cf. infra ad fr. 227, per Aminia), per quanto l’ indicazione δοῦλος possa orientare in direzione di questo frammento. Il verbo φησί indicherà una parafrasi o una puntuale citazione, come mostra ad esempio il caso di Cratin. fr. 511. A ciò si aggiunga che non si può considerare αἰσχρός nel fr. 223 quale sinonimo di πτωχός (dello scolio), dal momento che non si reperiscono chiose di tal genere né in lessicografia né nella scoliografia (si veda tuttavia schol. Ar. Nu. 922): esso semmai andrà considerato una sorta di sinonimo di δοῦλος. Se dunque, tutto considerato, la collocazione dello schol. Ar. Ve. 1187 ribadita da Kassel e Austin resta la più economica e probabilmente la più corretta, ci si può legittimamente chiedere se essa non rimandi a un ulteriore frammento. Testo La vicenda testuale del frammento è assai complessa. Fu Bergk, nel 1835 in una lettera spedita al recente editore di Andocide, Schiller, e da costui pubblicata in coda all’ edizione andocidea, a suggerire la possibilità di unire quanto si legge in 10

Le indicazioni di Fozio dipendono in parte dalla medesima fonte di Stefano di Bisanzio, fino all’ indicazione della Dulopoli cretese, poi i due lessici divergono; pertanto, Fozio non rientrerà tra le fonti di Cratino.

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Cratino

Stefano con il verso esichiano, tràdito con qualche grave incertezza di dettato (cf. infra). Il suggerimento di Bergk è stato accolto nelle varie edizioni sin da Meineke (1839b, p. 134). Si tratta, complessivamente, di tre esametri (cf. Wilamowitz 1921, p. 422 n. 2), struttura ben testimoniata nel fr. 222 della medesima commedia; e forse, oltre al tono oracolare, è stata anche la stessa forma metrica a suggerire a Meineke (1839b, p. 134) l’ idea secondo cui il frammento deriva dalla medesima scena del 222. Al v. 1 lo Holstenius (1684, p. 103) suggeriva Σάβας, un tentativo che si direbbe motivato dalla volontà di conferire maggior coerenza geografica alle presunte localizzazioni dei popoli menzionati nel testo comico in quanto parodia delle tappe del Menelao omerico. In tal senso, perlomeno, interpretava Kock: «bene Holstenius Σάβας: nam Sacae […] minus recte commemorantur quam Sabaei» (1880, p. 77). Nella propria editio maior dei comici, Meineke (1839b, p. 133) stampava Σάκας senza manifestare perplessità, ma nell’ editio minor del 1847 segnalava la congettura dello Holstenius, Σάβας, «valde probabiliter» (p. 45), posizione ribadita nell’ edizione di Stefano di Bisanzio (1849, p. 237), quindi nel Comicorum dictionum index (1857, p. XL). Lo Holstenius (l. c.) aveva avanzato la propria correzione sulla base di Dion. Per. 959 e non gli era sfuggito come al v. 963 fossero menzionati gli Erembi, ricordati anche qui e nella matrice omerica di Cratino (cf. infra). Tuttavia, l’ ipotesi dello Holstenius si può respingere per due ragioni: 1. non si capisce dove vivrebbero questi Σάβαι, considerate le numerose indicazioni di città con questo nome, ma non di popoli. 2. Quanto all’ etnonimo Σάβαι pare che esso si trovi solo in Dionigi Periegeta (3x), mentre altrove si trova Σαβαῖοι. E anche in Dionigi Periegeta, in realtà, la situazione testuale è tutt’ altro che lineare: l’ etnonimo Σάβαι compare al v. 959 (l. c.), a proposito di popolazioni arabiche vicine al Mar Rosso. Si trova quindi al v. 1069, in relazione ai Persiani, ma non va esclusa la possibilità che Σάβαι sia un errore della tradizione o più facilmente d’ archetipo se non d’ autore, e che dunque sia utile una segnalazione in apparato di un più probabile Σάκαι. Infine, al v. 1141, si offre uno spaccato in cui l’ etnonimo è connesso agli Indiani, ma anche in tal caso pare un errore. Secondo Tkač (1920b, cf. Id. 1920, c. 1492), la forma che si trova in Dionigi, e che lo studioso riconosce nel solo v. 959, costituisce una neoconiazione fondata su ragioni metriche: che siano queste le motivazioni per cui Dionigi avrebbe Σάβαι non si può dimostrare, ma certamente esso rappresenta uno hapax in greco. Ci si può chiedere se Dionigi, per il suo Σάβαι del v. 959 (quindi dei due successivi?), non si sia basato, certamente indotto poi a una qualche confusione, su espressioni come quella di Strab. 16.4.10 τῷ δ’ Ἀντιφίλου λιμένι ἑξῆς ἔστι λιμὴν καλούμενος κολοβῶν ἄλσος καὶ Βερενίκη πόλις ἡ κατὰ Σαβὰς καὶ Σαβαί, πόλις εὐμεγέθης, dove la sequenza κατὰ Σαβὰς καὶ Σαβαί, come ha interpretato condivisibilmente Radt (2005, p. 369), significa «bei Sabai und Sabai», e non «dopo i Sabei e Saba» ecc.: infatti, si tratta sempre della città. Al v. 3 si trova una situazione testuale disperante: Διονυσοκ{ρ}ουροπυρώνων (del. Salmasius)· Κρατῖνος ἐν Σεριφίοις· αἰσχρῶν Ἀνδροκλέων Διονυσοκουρώνων. ἔνιοί φασιν ἐν τῷ αὐτῷ πέντε κωμῳδεῖσθαι, Αἶσχρον (Αἴσχρωνα Kaibel),

Σερίφιοι (fr. 223)

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Ἀνδροκλέα, Διονύσιον, Κῦρον, Πυρῶν (Πύρωνα Kaibel), ἁμαρτάνοντες· οὐδεὶς γὰρ Ἀθηναίων ἀναγράφεται Κῦρος. δεῖ οὖν γράφειν Διονυσοκουροπυρώνων (sic)· τὸν γὰρ Διόνυσον (sic) κουρέα ὄντα κωμῳδεῖ (-ν del. Toup)· κουρεὺς δὲ ἦν πρὸς πάππου, ὡς δηλοῖ ὁ τὰς Ἀταλάντας συνθείς. La prima alterazione da segnalarsi è senz’ altro recente: la forma con rho (-κρου-) non sarà stata originariamente nel lemma, perché la discussione contenuta nell’ interpretazione non prende minimamente in considerazione la presenza di una forma, nominale o verbale, con rho. Se ne rese conto il Salmasius, a differenza del Musuro che la mantenne. La citazione da Cratino, inoltre, pare non tener conto della parte finale della parola glossata, in quanto reca -κουρώνων anziché -κ{ρ}ουροπυρώνων, sicché si potrebbe pensare che un’ ulteriore alterazione sia intervenuta o nella citazione di Cratino oppure, ancora, nel lemma che comunque costituisce il nucleo della citazione. Già gli antichi discettavano sulla forma, obiettando innanzitutto che non vi si può individuare il nome Κῦρος perché nessun ateniese si chiama così (precisazione che confermerebbe la pertinenza ateniese di questa parte del frammento). Pur non potendosi scartare l’ ipotesi di un errore reciprocamente determinatosi fra il lemma e la spiegazione del composto, è vero che l’ idea per cui l’ errore principale è senz’ altro nella citazione di Cratino resta la più economica, oltre che testimoniata dall’ infrazione metrica che vi si rileva. Numerosi e non certo definitivi sono stati i tentativi di correzione del testo: l’ inserzione di iota (dunque Διονυσ〈ι〉ο-), ad esempio, appare inevitabile ed è tacitamente presente nell’ edizione di Latte dopo la citazione di Cratino. La parte finale del composto appare ancor più oscura: Luppe (2005) ha ipotizzato Διονυσιοκρουοπυρώνων, con significato osceno, in quanto il composto alluderebbe a una liaison omoerotica fra un Dionisio e tal Pirone, garantita, secondo Luppe, da κρούειν, nel significato ambiguo che del verbo indica Antiatt. κ 15, vale a dire ἀντὶ συγγενέσθαι, precisamente ἐν τῇ συνηθείᾳ. Bergk (1835, pp. 119s.) aveva stampato Διονυσιοκουροπυρώνων, senza fornire nessuna esegesi del composto; Meineke (1839b, p. 133) riproponeva il testo suggerito da Bergk, senza rinunciare tuttavia a segnalare in apparato come «fortasse Cratinus scripserat Διονυσιοκουρομυρώνων» (p. 134), o anche Διονυσιοκυρτομυρώνων (cf. p. 135). Se tal Dionisio è un non meglio noto barbiere e se in κουρ-, come vorrebbe la glossa di Esichio, si cela un richiamo al mestiere, allora va ribadito quanto segnalava W. Dindorf (ap. Meineke 1839b, p. 135), per cui si dovrebbe leggere -κουρεο-, tanto che Dindorf arrivava a suggerire Διονυσιοκουρεοπόρνων. Marcucci (2016, p. 256) suggerisce tentativamente Διονυσιοκυριοπυρρῶν, a segnalare un rapporto servile di un qualche tipo. Nel medesimo verso si può considerare, con Bergk (1835, p. 119), l’ ipotesi di un’ unica espressione αἰσχρῶν Ἀνδροκλέων, senza considerare l’aggettivo come sostantivato. Per la situazione testuale del frammento cf. Fiorentini (2018). Interpretazione È stato evidenziato da tutti gli studiosi, come il v. 1 riprenda Od. 4.84 Αἰθίοπάς θ’ ἱκόμην καὶ Σιδονίους καὶ Ἐρεμβούς, quando Menelao rievoca le tappe del proprio nostos, durante il quale ha potuto accumulare immense ricchezze

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Cratino

(cf. vv. 90s.). Andrà ribadito come la ripresa omerica possa spingersi all’ inizio del v. 2 del frammento, per un paio di ragioni: in Od. 4.85 si trova il richiamo a un luogo (καὶ Λιβύην), e non a un popolo, proprio come nel frammento di Cratino; inoltre, all’ epoca di Cratino era noto che Dulopoli fosse una πόλις Λιβύης (cf. Bona 1992, p. 142), come sembrerebbe aver segnalato Ecateo (FGrHist 1 F 345)11, richiamato sine verbis sempre nella glossa di Stefano di Bisanzio (δ 117), che conserva anche Cratin. fr. 223.1s. Seppur non con troppa precisione, il poeta che ha delineato il viaggio di Menelao sembra aver avuto un proprio orizzonte geografico, per lo più rivolto ad alcune zone costiere del Golfo arabico e del Mar Rosso, anche se non del tutto localizzabili. Nel caso di Cratino le tappe hanno una diversa dislocazione, in quanto l’ approdo alla città degli schiavi consiste nell’ arrivo a un luogo che, per i suoi komodoumenoi, sembra rispecchiare i clichés di alcune delle caratteristiche negative ateniesi. L’ ordine delle tappe del favoloso viaggio comico, forse, è volutamente casuale, indicando zone estreme e lontane, all’ occorrenza con un richiamo a Hes. fr. 150.15 (= 98.15 M.) Αἰθίοπάς τε Λίβυς τε ἰδὲ Σκύθας ἱππημολγούς. West (2013, p. 171 n. 65), a integrazione di una propria osservazione precedente (1979, p. 141 n. 65) e in linea con altri studi (cf. Bakola 2010, p. 162), ha chiarito che i frr. 222 e 223 dei Seriphioi costituiscono una parodia del Prometeo (vv. 700–741 e 786–817), segnatamente delle peregrinazioni cui sarà costretta Io, come evocate dal Titano nella tragedia. Si aggiunga che l’ itinerario profetizzato da Prometeo a Io è il medesimo, però articolato in direzione opposta, di quello intrapreso dai Titani-coreuti del Prometeo liberato eschileo (cf. frr. 191s.): ne consegue che il richiamo di West al solo Prometeo incatenato si spiega col fatto che, secondo la nota posizione dello studioso, il Prometeo incatenato è, nella facies dei manoscritti, un prodotto più recente rispetto a Eschilo, e dunque più prossimo alla data della messinscena della commedia di Cratino. Per maggior pertinenza lessicale cf. il v. 709 della tragedia, che presenta un esplicito e profetico richiamo proprio al raggiungimento di quegli Sciti, il cui nome persiano è Saci: Σκύθας δ’ ἀφίξῃ. Il viaggio semimitico, e certamente in parte epico, si conclude con l’ arrivo in una città di schiavi, dunque il contrario della ricca Libia dell’ Odissea: nell’ indicazione di almeno un personaggio ateniese chiaramente identificabile, Androcle, e nell’ indicazione dell’ interpretamentum di Esichio (della sua fonte) che rifiuta l’ idea che nel composto ci siano nomi non ateniesi, risulta abbastanza chiaro che l’ arrivo sia un’ allusione a un luogo che è Atene o che ne costituisce un suo doppio. Da notare, infine, che l’ idea della città di schiavi rappresenta un parziale controsenso per la concezione politica democratica (cf. e. g. Aristot. Pol. 1280a 1 οὐ γὰρ ἂν εἴη πόλις ἐξ ἀπόρων πάντων, ὥσπερ οὐδ’ ἐκ δούλων), ma che nella fantasia comica esiste e si identifica in qualche modo in Atene, parzialmente deformata. Sull’ idea che una città di schiavi non possa esistere cf. Eup. fr. 212 (Εὔπολις Μαρικᾷ οὐκ ᾤμην

11

Jacoby ad l. pensava a un errore per Eforo, sulla base di Phot. δ 729 = Suda δ 1423. Si vedano le valutazioni di Bultrighini (2011, p. 33).

Σερίφιοι (fr. 223)

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εἶναι λέγει Δούλων πόλιν. ἔστι δὲ ἐν Κρήτῃ καὶ Λιβύῃ) e Anaxandr. fr. 4 (οὐκ ἔστι δούλων, ὦ ’ γάθ’, οὐδαμοῦ πόλις). Cf. Iordanov (1993). Risulta incerto chi sia a pronunciare questa battuta e a chi: se la scena è la stessa del frammento precedente, il personaggio parlante potrebbe identificarsi con quello che nel fr. 222 abbiamo indicato con A; in questo fr. 223 il personaggio sarà rivolto a Perseo, certamente in scena anche nel caso del fr. 222, ma non identificabile con colui che in quel frammento viene indicato con B. Si può notare, en passant, che in Ar. Av. 1700, nella sezione in trochei cantata dal Coro a richiamare favolosi mirabilia, si parla di un luogo lontano, in realtà specchio di Atene, dove vivono dei barbari i cui nomi sono Gorgia e Filippi (al plurale). v. 1s. per la ripresa di Od. 4.84s. cf. supra. Σάκας si tratta del nome persiano degli Sciti, stando almeno a Hdt. 7.64.2, Steph. Byz. σ 15, Phot. σ 29 e 30. E il popolo dei Saci è variamente ricordato da Erodoto, nelle vicende della storia greca, in quanto essi furono presenti al fianco dei Persiani a Maratona (6.113.1 e 7.96.1), quindi a Platea (9.31.4s.): pertanto, possono a buon diritto ritenersi noti al pubblico ateniese degli anni Venti grazie almeno alle pubbliche letture di Erodoto. Inoltre, gli Sciti erano presenti ad Atene, come schiavi e come parte della polizia nel corpo degli arcieri, e sfruttati anche sulla scena comica (basti pensare alle Tesmoforiazuse di Aristofane). Per questo popolo ad Atene cf. Tuci (2004), Braund (2006), Marcucci (2016). Da segnalare, in particolare, il menzionato Hdt. 7.96.1s., dove i Saci sono ricordati in un passo in cui appaiono anche i Sidonî, così come nel verso di Cratino. Marcucci (2020,

p. 103) ha proposto che la presenza degli Sciti, noti e presenti ad Atene, sia funzionale anche alla tirata successiva dei vv. 2s. ἀφικνῇ cf. ad fr. 222. Σιδονίους secondo lo schol. Od. 4.84 (a1–3 P.), sulla scorta di Strabone (1.2.33, da cui Eust. Il. 1327.47–52), si tratterebbe di coloni fenici sul Mar Rosso, già distinti dai Fenici stessi, pare, in Il. 23.743 (cum schol.)12. Ἐρεμβούς da segnalare che il passo omerico alluso e ripreso da Cratino è l’ unico, in Omero, in cui la popolazione compare. Nella discussione già antica, li si voleva un popolo mitico o comunque connesso al mondo dei morti; la posizione di Aristarco, menzionata dallo scolio relativo, non appare chiara, perché risulta difficile pensare che il filologo alessandrino pensasse agli Arabi (cf. Helck che integrava 〈οὐ〉); l’ identificazione con gli Arabi era comunque un’ ipotesi circolante, che incontrava il favore di Zenone (SVF I 275, richiamato sine nomine da Eust. Od. 1483.63), secondo Strabone (1.2.34), tanto che lo stoico sarebbe arrivato a emendare il passo omerico, introducendovi esplicitamente gli Arabi. Tale identificazione era approvata da Strabone, che rifiutava però l’ emendamento di Zenone con l’ argomento che la lezione è antica, come del resto dimostra Cratino (cf. anche Bona 1992, p. 140). 12

Non così nei cosiddetti scholia D.

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Cratino

v. 2 la trama intertestuale fornita dall’ Odissea permette di meglio inquadrare i versi successivi. In Omero si passa a descrivere la Libia (cf. Od. 4.85–89) come terra opulenta e felice, per cui West (2014, p. 38) ha osservato che «there can be no doubt that the reference is to Cyrenaica, and that it dates from about the first generation of Greek settlement in that region, that is, the last third of the seventh century» (rimanda a Dickie 1995). Si definisce in tal modo un paragone antifrastico con la città cui è destinato il personaggio comico di Cratino. ἔς τε πόλιν δούλων l’ espressione costituisce il nucleo della citazione ed è la motivazione per la quale il testimone, Stefano di Bisanzio, cita i due versi di Cratino, non senza una spiegazione di natura stilistica. Rilevante è che la città degli schiavi di Cratino, corrispondente alla favolosa Libia dell’ Odissea, sia collocata dal testimone di Cratino proprio in Libia, sulla scorta di Ecateo (FGrHist 1 F 345). In Hsch. δ 2258, vengono indicate due città con questo nome, una a Creta (cf. Mnas. fr. 38 C.) e una in Libia (cf. Sosicr. FGrHist 461 F 2), dopo aver ricordato Eup. fr. 212: Εὔπολις Μαρικᾷ οὐκ ᾤμην εἶναι λέγει Δούλων πόλιν. ἔστι δὲ ἐν Κρήτῃ καὶ Λιβύῃ. Il richiamo alla Libia appare anche in Phot. δ 729 (= Suda δ 1423), che, come indicato sopra, condivide con Stefano di Bisanzio una delle fonti: dalla glossa esichiana si può segnalare la testimonianza riportata secondo cui in Teopompo c’era notizia di una Poneropoli (Πονηρόπολις) in Tracia (FGrHist 115 F 110), sezione ripresa in Suda π 203913. L’ allusione omerica è operante anche in questo verso, ma per antifrasi, perché mentre la Libia omerica evoca un luogo felice, qui si richiama invece una città di schiavi. A questa formulazione si collegano Prov. Bodl. 675, Zen. Ath. 3.κε’. Crusius (1910, pp. 79–82), alle prese col proverbio οὐκ ἔστι δούλων πόλις, osservava come l’ espressione sia un controsenso perché «nur freie Männer können eine Polis bilden» (p. 79), soprattutto per la cultura ateniese, per la quale «war der Begriff δούλων πόλις eine Utopie» (p. 80). Col richiamo alla città degli schiavi, Cratino si riferirà probabilmente ad Atene come esempio di cattivo governo, se si considera Prov. Coisl. 214 (App. Prov. 2.84) ἔστι καὶ δούλων πόλις· ἐπὶ τῶν πονηρῶς πολιτευομένων. νεοπλουτοπονήρων il composto, un hapax, individua nei nuovi ricchi i πονηροί. Il richiamo a Ar. Ve. 1309 (νεοπλούτῳ Φρυγί), segnalato da Kassel e Austin, suggerisce l’ identificazione dei nuovi ricchi con ex schiavi. Il tema della ricchezza recente emerge chiaramente in larga parte della pubblicistica ateniese coeva (e greca in generale anche in epoche precedenti), con accenti per lo più negativi. In Cratin. fr. 171.70 (dai Ploutoi), l’ aggettivo ἀρχαιόπλουτος richiama Aesch. 13

La notizia di Teopompo risulta interessante sul versante della poesia comica e più in generale della morale popolare, visto che l’ elenco dei cittadini di Poneropoli risulta simile a un elenco tipicamente comico di personaggi dalla malferma moralità: sicofanti, falsi testimoni, avvocati e altri soggetti discutibili. Di questo nome della città, che in Teopompo rappresenta una storpiatura di Filippopoli (Plovdiv, in Bulgaria), in Tracia, esistono altre attestazioni: Steph. Byz. π 209, Plut. Mor. 520b, Plin. NH 4.41. Per una Dulopoli egizia, cf. il testimone, Stefano di Bisanzio, e Lehrs (1837, p. 85).

Σερίφιοι (fr. 224)

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Ag. 1043 (cf. Soph. El. 1393), passo tragico che rientra nella critica ai nouveaux riches per cui cf. almeno Anon. Iambl. 2.8 (II p. 401 D.-K.), Aristot. Rhet. 1391a 14s., nonché, forse, Eur. El. 253, Suppl. 741s. e già Anacr. PMG 388. v. 3 nel verso si assiste a una climax ascendente, col composto finale, che, per quanto corrotto, appare come un insieme di svariati nomi. αἰσχρῶν Kaibel (ms. ap. K.–A.) propose di intenderlo come un soprannome, sulla scorta del testimone che parla di cinque komodoumenoi, ma mancano riferimenti storicamente compatibili, a meno che non lo si intenda come un nomen fictum e, in qualche modo, parlante. Meineke (1839b, p. 134) sosteneva la necessità di interpungere dopo αἰσχρῶν, seguito in questo dai successivi editori, in reazione a Bergk (1835, p. 119) che lo intendeva invece come una qualifica di Ἀνδροκλέων. In generale, cf. Fiorentini (2018, pp. 108s.). Ἀνδροκλέων il personaggio (PA 870; PAA 128255; LGNP II 30; Sommerstein 1996, 346) è ricordato dallo stesso Cratin. fr. 281, cui si rimanda per un profilo biografico. Per l’ impiego dei plurali di un nome proprio, talora in senso spregiativo, si vedano in particolare Maas (1902, in part. p. 499), che segnala Ps.-Long. Subl. 23.3, passo in cui si commentano i plurali fatti sui nomi propri. Lo studioso indicava esempi del genere per delineare espressioni di sdegno; cf. anche Fraenkel (1950, p. 679), per Aesch. Ag. 1439, Austin-Olson (2004, p. 214), per Ar. Th. 547 e cf. Ra. 1043, ma soprattutto Av. 1700. Come mi fa opportunamente notare Simone Beta (per litt.), nel nome di Androcle declinato insolitamente al plurale, e per ragioni sintattiche al genitivo, emerge il nome di Cleone, che nella commedia era senz’altro evocato (cf. infra ad fr. 228). †Διονυσοκουρώνων il composto non sembra sanabile. Per i principali tentativi di correzione cf. supra (Testo). fr. 224 K.–A. (209 K.) οἰκοῦσιν φεύγοντες, ἀίδρυτον κακὸν ἄλλοις οἰκοῦσιν Meineke (1839b, p. 135) : οἰκοῦσι cod.

vivono in esilio, un danno senza stabile dimora per altri Hsch. α 1798 ἀίδρυτον κακόν· Κρατῖνος Σεριφίοις (ἐριφιοῖς cod.)· οἰκοῦσι — ἄλλοις. κακοΐδρυτον, ἢ οἷον ἄλλοι αὑτοῖς οὐκ ἂν ἱδρύσαιντο, τὴν φυγήν, ὡς εἴ τις ἄγαλμα ἱδρύσαιτο danno senza stabile dimora. Cratino nei Seriphioi: vivono — altri. Mal stabilito, o per dire che altri non stabilirebbero per sé, l’ esilio, come se uno stabilisse una statua Et. M. 42.10 ἀίδρυτον κακόν· τὸ κατάρατον, ὃ οὐκ ἄν τις αὑτῷ ἱδρύσαιτο danno senza stabile dimora: sciagura, che uno non stabilirebbe per sé

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Cratino

Phot. α 547 ἀίδρυτα· τὰ κακὰ (= Σb α 644), τὰ κατάρατα, ἃ ἄλλοι αὑτοῖς οὐκ ἄν ἱδρύσαιντο senza stabile dimora: i danni, le sciagure, che altri non stabilirebbero per sé

Metro esametro dattilico

lllllk|klllkkll

Bibliografia Runkel (1827, p. 57); Meineke (1839b, pp. 135s.); Bothe (1855, p. 43); Kock (1880, p. 77); Edmonds (1957, pp. 96s.); Storey (2011, pp. 380s.); Marcucci (2020, pp. 108–110) Contesto della citazione Il frammento è citato da Esichio (α 1798), dove il lemma rappresenta anche il nucleo della citazione. Per quanto riguarda il lemma e l’ interpretazione, appartengono alla stessa costellazione anche Phot. α 547 (con un caso di coppia contigua, coincidente con Σb α 644) ed Et. M. 42.10: per maggior pertinenza al testo cratineo ha la precedenza l’ Etimologico. Sia Fozio che l’ Etimologico non hanno il frammento di Cratino. La spiegazione offerta da Esichio desta qualche perplessità: l’ impiego del verbo ἱδρύω si motiverà soprattutto per fornire una spiegazione del composto. Testo L’ aggiunta del nu finale nel verbo οἰκοῦσι, assente nel manoscritto, si deve a Meineke (1839b, p. 135), come la definizione dei confini del frammento dopo ἄλλοις e non prima. Interpretazione Il frammento, stante la spiegazione, si riferisce a persone che vivono in esilio. Secondo Esichio e la costellazione che ne condivide l’ interpretazione, si indicherebbe in questo modo un esilio volontario che costoro – non si capisce chi – avrebbero comminato a se stessi. Meineke (1839b, p. 135) assegnava il frammento alla sezione da cui proverrebbero anche il fr. 222 e il fr. 223, il che è possibile dal momento che anche in questo frammento si può parlare di popoli differenti; e spiegava il difficile passo in questi termini: «loquitur poeta de nescio quibus hominibus, qui voluntario exilio solum verterant et alio habitatum concesserant». L’ interpretazione è stata superata da Edmonds (1957, p. 97), Storey (2011, p. 381) e di recente da Marcucci (2020, pp. 109s.), che ipotizza ci si riferisca qui a popoli nomadi e non in esilio, dunque una «minaccia vagante» (p. 110). A tal proposito cf. Plut. TG 9.5 (ἄοικοι καὶ ἀνίδρυτοι μετὰ τέκνων πλανῶνται καὶ γυναικῶν). Stando al testimone e al testo di Cratino, la dimensione dell’ esilio deve certamente esser presa in considerazione, ma non è necessario immaginare che essa sia una scelta che gli esuli hanno compiuto. Come che sia, l’ esegesi ha un taglio politico, che ἀίδρυτον può garantire, visto che è raccolto in Poll. 6.130, dove ἀνίδρυτος si trova in una sequenza di parole che servono a delineare quanti producono un turbamento per la dimensione civile. ἀίδρυτον l’ aggettivo, normalmente come ἀνίδρυτον, esprime senso di instabilità, ma anche di assenza di fissità e dunque di stabile dimora. Henderson (1987, p. 173) ha osservato che queste caratteristiche si accompagnano all’ idea di

Σερίφιοι (fr. 225)

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un’ intenzione non pacifica, come si evince da Eur. IT 970s., detto delle Erinni; in Ar. Lys. 808, l’ aggettivo indica il vagabondare di Timone, dunque anche qui con una dimensione antisociale, ed esprime l’ altro senso dell’ aggettivo, vale a dire dell’ assenza di una sede fissa, ciò che comunque costituisce un tratto di ciò che non è stabile, anche sul versante sociale. fr. 225 K.–A. (211 K.) χαίρετε πάντες ὅσοι πολύβωτον ποντίαν Σέριφον ὅσοι Dobree (1820, p. 127) : θεοὶ AI, θεοὶ οἱ C sim. mendum ap. Hipp. Vict. 1.11 ind. V. Schmidt ap. Kassel et Austin

salve, voi tutti, quanti la ferace, marina Serifo Heph. 15.8 (p. 50.1) ἐκ δακτυλικῆς τετραποδίας καὶ τοῦ αὐτοῦ ἰθυφαλλικοῦ … παρὰ δὲ Κρατίνῳ ἐν τοῖς Σεριφίοις (σερίφοις codd.) οὐκέτι ἀκατάληκτόν ἐστι τὸ δακτυλικὸν τὸ ἡγούμενον τοῦ ἰθυφαλλικοῦ, ἀλλὰ καταληκτικὸν εἰς δισύλλαβον· χαίρετε ― Σέριφον. dalla tetrapodia dattilica e dallo stesso itifallico […] in Cratino nei Seriphioi non è più acateletto il dattilo antecedente l’ itifallico, ma catalettico in disyllabum: salve — Serifo

Metro asinarteto composto da un alcmanio catalettico e da un itifallico

lkklkklkkll|lklkll

Bibliografia Runkel (1827, p. 56); Meineke (1839b, p. 137); Bothe (1855, p. 43); Kock (1880, p. 77s.); Edmonds (1957, pp. 98s.); PCG IV p. 237; Bakola (2010, p. 158); Storey (2011, pp. 380s.) Contesto della citazione Il frammento è citato da Efestione (15.8), per segnalare come l’ antico asinarteto di ‘origine’ archilochea composto da alcm / ithyph sia stato adottato da Cratino con la variazione alcm^ / ithyph nei Seriphioi (cf. anche fr. 363 e Ar. fr. 452). L’ affermazione di Efestione, di per sé, non può portare a concludere che il fr. 363 di Cratino, incertae fabulae, derivi anch’ esso dai Seriphioi. Testo Il frammento si presenta incompleto sul piano sintattico, ma situazioni del genere non sono rare in Efestione, interessato evidentemente a questioni metriche e non contenutistiche. Il testo presenta un errore in quanto reca θεοὶ (AI), oppure θεοὶ οἱ (C), ed è stato corretto da Dobree (1820 add. p. 127), con un intervento confermato dalla segnalazione di V. Schmidt ap. Kassel e Austin (cf. apparato) di corruzioni simili. Interpretazione La formula di saluto inserita in un canto potrebbe esser parte di una sezione innodica o di una preghiera in un pezzo lirico, autonomo o meno. La struttura metrica si presenta come variazione dell’ asinarteto determinato dall’ as-

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Cratino

sociazione di alcmanio e itifallico, impiegato da Archiloco (cf. fr. 188.1). Non si può tuttavia dire se questa di Cratino sia un’ imitazione con variazione, dal momento che la variazione metrica non corrisponde a una qualche similarità contenutistica14. La struttura dell’ alcmanio catalettico in disyllabum in associazione asinarteta con l’ itifallico ha paralleli precisi, come si diceva sopra, nello stesso Cratino (fr. 363 αὐτομάτη δὲ φέρει τιθύμαλλον καὶ σφάκον πρὸς αὐτῷ, / ἀσφάραγον κύτισόν τε νάπαισι δ’ ἀνθέρικος ἐνηβᾷ / καὶ φλόμον ἄφθονον, ὥστε παρεῖναι πᾶσι τοῖς ἀγροῖσι, su cui cf. Olson-Seaberg 2018, pp. 174–176) e in Aristofane (fr. 452). Al di là dell’ assegnazione dell’ anepigrafo fr. 363 a questa commedia o alle Hōrai secondo la proposta di Storey (2011, p. 419) – ma ai Ploutoi secondo Bergk (1838, pp. 198s.) – non si direbbe che il contenuto di quel frammento aiuti a circoscrivere questa sequenza per assegnarla a qualche sezione della commedia dalla chiara formalizzazione; lo stesso vale per Ar. fr. 452. Chi pronunciasse queste parole è dunque oscuro e oggetto di discussione sin dall’ edizione di Meineke. Come riportato da Kassel e Austin, Meineke (1839b, p. 137)15 pensava al coro a mo’ di saluto agli dèi. L’ idea che sia il coro a pronunciare questo verso appare supportata da pochi elementi probanti. Se la metrica non soccorre, per la lexis si potrà segnalare come espressione più facilmente accostabile a questa Cratin. fr. *235 (χαίρετε δαίμονες, οἳ Λεβάδειαν Βοιώτιον οὖθαρ ἀρούρης), probabilmente dal Trophonios. Kaibel pensava a Perseo, in partenza o di ritorno all’ isola, preceduto in questo da Bothe (1855, p. 43), ipotesi contestata da Schmid (1946, p. 82 n. 12), che non concede che il metro possa essere proprio di un canto di un personaggio. Anche a chi si rivolgessero queste parole non pare immediata deduzione: potrebbe trattarsi di un saluto agli abitanti di Serifo, se non si tratta del coro a parlare, o alle divinità (con Meineke 1839b, p. 137). Un’ intonazione parodica o comunque una pointe comica andrà riconosciuta dal momento che nell’ aulico saluto la sassosa Serifo viene definita ferace (πολύβωτον): tale elemento ironico funziona sul piano comico anche se questa battuta nella vicenda drammatica viene pronunciata prima della pietrificazione a opera di Perseo, visto che il pubblico conosceva la Serifo del proprio tempo come sassosa (cf. anche infra). Secondo la Bakola (2010, p. 158), questo frammento proverebbe che almeno parte della commedia si svolgeva a Serifo. χαίρετε πάντες ὅσοι l’espressione ha una qualche ascendenza epica e si trova, e. g., in Il. 5.877 (ἄλλοι μὲν γὰρ πάντες ὅσοι θεοί εἰσ᾽ ἐν Ὀλύμπῳ, cf. Il. 8.451), utile forse a capire anche la genesi dell’ errore tràdito nei mss. di Efestione, assieme a cogenti evidenze paleografiche, già segnalate da V. Schmidt e richiamate da Kassel e Austin. Si tratta di un’ espressione tradizionale, cf. infra ad fr. 237. Per la presenza del relativo cf. infra ad fr. *235.

14 15

Per alcuni reimpieghi dei metri archilochei cf. frr. 32, 62, 360. In generale per la presenza di Archiloco in Cratino cf. Rosen (2000, pp. 32–34). Kock (1880, p. 78).

Σερίφιοι (fr. 226)

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πολύβωτον ποντίαν la coppia aggettivale asindetica costituisce un elemento stilistico riscontrabile fin dall’ epica (cf. e. g. Il. 1.551 dove si tratta di posizione contigua, Il. 19.225, dove si tratta di posizione non contigua), presente nella tragedia (Soph. Tr. 770s., in posizione contigua, Aesch. Th. 864 in posizione non contigua) e anche in Aristofane. Per stare a quest’ ultimo, la sequenza, sia con gli aggettivi in posizione contigua che con parola interposta, appare molto raramente, cf. e. g. Nu. 335, 1024s., Th. 121. Si tratta di tre casi, scelti in una ricerca non sistematica, in cui il brano costituisce un pezzo lirico corale: anche Nu. 335, che nei fatti è la citazione da parte di Strepsiade di un ditirambo, citazione che potrebbe essere un’invenzione di Aristofane, ma comunque plausibile per quel genere, dunque corale. Per la questione delle coppie aggettivali nella letteratura latina, cf. Leo (1906, pp. 4–6) e Timpanaro (1994, pp. 70–74, ma l’ articolo risale al 1988: da questo lavoro ho tratto alcuni degli esempi sopra riportati). L’ aggettivo πολύβωτον coincide nel significato con quello a vocalismo breve (Chantraine DELG 186B), col precedente aulico di Aesch. Th. 774 (cf. Od. 15.406). Per le ipotesi relative all’etimologia della parola da un tema in labiovelare, si vedano le indicazioni segnalate e discusse con condivisibile prudenza da Chantraine DELG 186B. Quanto a ποντίαν, l’ aggettivo parrebbe confermare il tono parodico generale, dal momento che è presente nella poesia aulica (cf. e. g. Pind. P. 8.48, Aesch. Pers. 103). I paralleli più stringenti sono Eur. fr. 759a.73 (Λήμνου ποντίας), dove l’ aggettivo si riferisce all’ isola di Lemno, ed Eur. fr. **330b (Σέριφος ἅλμῃ ποντίᾳ περίρρυτος), attribuito da Körte al Ditti. Come osservato principalmente da Kock (1880, p. 78), l’ aggettivo πολύβωτον avrà valenza ironica a giudicare dall’ aspetto arido e petroso di Serifo (cf. e. g. Strab. 10.5.10, Sen. Cons. Helv. 6).

fr. 226 K.–A. (213 K.) πολυτρήτοις φῳσί πολυτρήτοις Miller (1868, p. 305) : πολυτρίτοις AB

con vesciche variamente forate Et. Gen. AB φῷδες· Ἀριστοφάνης Πλούτῳ (v. 535)· πλὴν φῴδων ἐκ βαλανείου. καὶ ἐν Κωκάλῳ (Ar. fr. 359) … καὶ Κρατῖνος Σεριφίοις (ερίφιοις AB)· πολ. — φῳσί vesciche: Aristofane nel Pluto (v. 535): tranne le vesciche dai bagni. Anche nel Kōkalos (Ar. fr. 359) […] e Cratino nei Seriphioi: con — forate

Metro dattili? Pare operante la cosiddetta correptio Attica (πολυτρή- anapestico)

kklllk

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Cratino

Bibliografia Miller (1868, p. 305); Kock (1880, p. 78); Edmonds (1957, pp. 98s.); PCG IV p. 237; Storey (2011, pp. 380s.); Marcucci (2020, p. 110) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato dall’ Etimologico Genuino nell’ àmbito di una discussione su φῷδες, e segue la citazione di Ar. Pl. 535 e del fr. 359. Nella medesima discussione rientrano senz’ altro Hsch. φ 1083 φῴς· τὰ ὑπὸ πυρὸς ἐν σώματι γινόμενα ἐκφυσήματα. οἱ δὲ τὰ φλυκταίνα, χ 276 χειράδα· ἐν τοῖς ποσὶ ῥάγαδας· ἔνιοι δὲ φωΐδα e φ 665 φόα· ἐξανθήματα ἐν τῷ σώματι. Il lemma non indica i geloni, ma le bolle della scottatura, le vesciche che derivano dall’ avvicinarsi a fonti di calore, come appare evidente dal contesto di Ar. Pl. 535 e come spiegato da Degani per Hippon. fr. 61 (cf. ad l.). Testo Il testo non presenta difficoltà a parte πολυτρίτοις ristabilito in πολυτρήτοις da Miller (1868, p. 305). L’ errore si spiega come pronuncia itacistica. Interpretazione Sul piano metrico la sequenza è leggibile più facilmente come un ritmo pari, soprattutto se si postula l’ operatività della cosiddetta correptio Attica dopo –λυ- (come Od. 1.111, cf. infra); il metron prototypon che meglio si adatterebbe a spiegare la sequenza è il dattilo (sebbene si possa anche pensare a un anapesto). Considerato il ritmo, mantenuto il significato passivo dell’ aggettivo (cf. infra), e considerato l’ impiego del sostantivo nella poesia giambica con il precedente di Ipponatte e con il successivo esempio dal Pluto, si può immaginare una scena che evoca una povertà niente affatto eroica: la condizione del disgraziato che ha le vesciche forate tuttavia viene trattata forse in modo parodico, dunque un contenuto umile che contrasta con uno stile elevato come dimostrano il raro ed epico aggettivo (cf. infra), e il ritmo. πολυτρήτοις il valore dell’ aggettivo sarà quello tradizionale di “forato”, con πολυ- a indicare diversa qualità o almeno varietà piuttosto che notevole quantità16. Da scartare dunque l’ opinione di Kock (1880, p. 78 «Homerici epitheti nova significatione usus est, pustulas cutem multis locis perforantes dicens»), motivata verisimilmente da un’ errata interpretazione del sostantivo, mentre da accogliere quanto ipotizza Müller (1974, p. 52). L’ aggettivo, prima di Cratino, sembrerebbe ricorrere nel solo Omero (Od. 1.111 οἱ δ’ αὖτε σπόγγοισι πολυτρήτοισι τραπέζας / νίζον e 22.439 = 453 ὕδατι καὶ σπόγγοισι πολυτρήτοισι καθαίρεν), e dunque si può ipotizzare che Cratino operi una detorsio della lingua aulica. Nel periodo successivo si riscontra l’ aggettivo in età tarda e sempre nella poesia dattilica, per cui Marcucci (2020, p. 110) ricorda ad esempio AP 10.41.7 οὗτος ὁποῖα μέλισσα πολυτρήτοις ἐνὶ σίμβλοις, Nonn. D. 5.228 = 41.219 δαιδαλέην ὠδῖνα πολυτρήτοιο λοχείης e per gli strumenti a fiato Arch. AP 7.214.3 οὐδὲ πολυτρήτοιο μέλος καλάμοιο χορεύων, Nonn. D. 15.56 ὃς πολυτρήτοιο βοῇ δεδονημένος αὐλοῦ.

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Per converso, μεγάθυμος e non *πολύθυμος, visto che il coraggio è di una qualità e non di molte.

Σερίφιοι (fr. 227)

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fr. 227 K.–A. (212 K.) schol. Ar. Ve. 74 Ἀμυνίας μὲν· ὧδε μὲν ὡς φιλόκυβος ὁ Ἀ μ υ ν ί α ς κωμῳδεῖται· ἐν δὲ Σεριφίοις (σερίφοις V) Κρατίνου (Dindorf : κράτην V) ὡς κόλαξ καὶ ἀλαζὼν καὶ συκοφάντης Aminia: in questo modo Aminia viene preso in giro come giocatore d’ azzardo; ma nei Seriphioi come adulatore e spaccone e sicofante schol. Ar. Nu. 691 (sim. Tz.) Κρατῖνος (κράτης E, κατεγόρησεν M) δὲ ἐν Σεριφίοις (ἐν σερίφοις V, ἐν δ’ ἐρίφοις M, ἐν διοσάφοις E) ὡς ἀλαζόνα καὶ κόλακα καὶ συκοφάντην Cratino nei Seriphioi (prende in giro Aminia) come spaccone e adulatore e sicofante

Metro non deducibile Bibliografia Runkel (1827, p. 58); Meineke (1839b, p. 138; Bothe (1855, p. 44); Kock (1880, p. 78); Kaibel (1895, pp. 442–445); Edmonds (1957, pp. 98s.); PCG IV p. 238; Storey (2011, pp. 380s.) Contesto della citazione Il frammento, sine verbis, è testimoniato nell’esegesi antica e bizantina ad Aristofane. La struttura suggerisce che i due scolî condividano la medesima fonte e pertanto, sulla scia di Kassel e Austin, andrebbero considerati come un solo testimone. Interpretazione Il dileggio comico a carico di Aminia sarebbe stato triplice, stando ai testimoni: κόλαξ, ἀλαζὼν καὶ συκοφάντης. Si tratta di accuse quanto mai generiche e pertanto risulta del tutto condivisibile la scelta, da ultimi, di Kassel e Austin di non spazieggiare κόλαξ, ἀλαζών καὶ συκοφάντης, perché queste non sono parole sicure del dramma di Cratino, mentre il nome proprio sicuramente sarà stato evocato nel corso della commedia. Si veda Harp. 177.16 (κ 59) che ricorda come Strattide (fr. 18) avesse composto un’ intera commedia su Cinesia, commedia che aveva per titolo il nome del ditirambografo, e nella quale Strattide καὶ τὴν ἀσέβειαν αὐτοῦ κωμῳδεῖ. Allo stesso modo, la rappresentazione di un personaggio come adulatore (κόλαξ), spaccone (ἀλαζών), nonché sicofante (συκοφάντης) è talmente diffusa nella commedia greca che non è immediata e logica conseguenza il fatto che simili accuse fossero espressamente formulate in questi termini da Cratino per mezzo della lexis, e che pertanto costituiscano parte del copione dei Seriphioi17. La genericità delle accuse, inoltre, sembra da ricondursi a uno stesso tipo di personaggio, quello dell’ impostore (cf. Gil 1981/1983). La forma del nome, con hypsilon, è stata contestata da Dover (1968, p. 97), che in Ar. Nu. 31 (e seguenti) stampa Ἀμεινίας, offerto da V, in quanto la forma risulterebbe estranea all’ attico del V sec. Il che si direbbe esatto, ma, come os17

Si veda Gil (1981/1983, in part. p. 47 e n. 14 su Cratino).

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Cratino

servato da Molitor (1973), anche in Tucidide molti nomi propri non presentano corrispondenza tra la forma dei manoscritti e le attestazioni epigrafiche (cf. anche Mastromarco 1983, p. 86). Su Aminia (PA 737; PAA 124575), figlio di Pronape (Ar. Ve. 74), le notizie si concentrano in particolare nei tardi anni Venti (cf. Bianchi 2017, p. 144). Secondo le ricerche di Davidson (1997, pp. 69–77) e già di Davies (1971, nr. 12250), Aminia appartenne a una famiglia facoltosa se il padre va identificato col dedicatario del monumento celebrativo dell’ acropoli per il risultato riportato ai giochi panellenici per la corsa dei carri (PAA 789545 ~ 789555 ~ 789575)18: in Nu. 689–692, che dà il destro allo scolio testimone del frammento cratineo, Aristofane parla di Aminia in questi termini: (Σω.) πῶς ἂν καλέσειας ἐντυχὼν Ἀμυνίᾳ; / (Στ.) ὅπως ἄν; ὡδί “δεῦρο δεῦρ’, Ἀμυνία”. (Σω.) ὁρᾷς; γυναῖκα τὴν Ἀμυνίαν καλεῖς. / (Στ.) οὔκουν δικαίως, ἥτις οὐ στρατεύεται;. Tale fama potrebbe essergli derivata dal mancato servizio militare esplicitamente ricordato dallo stesso Aristofane nel citato passo delle Nuvole, quindi in Ve. 1271 dove si menziona quale causa del sollevamento di Aminia dal servizio militare un’ ambasceria a Farsalo di data incerta e di cui non si conosce nulla. Essa, se avvenuta, sarà forse da collocarsi prima delle Nuvole del 423 a. C. e magari in corso di svolgimento durante il 424 a. C., se in Eq. 570 esiste un’ allusione malevola alla debolezza di Aminia, giocata kat’ antiphrasin sul nome nel corso dell’ elogio dell’ eroismo degli antenati (vv. 569s. οὐ γὰρ οὐδεὶς πώποτ’ αὐτῶν τοὺς ἐναντίους ἰδὼν / ἠρίθμησεν, ἀλλ’ ὁ θυμὸς εὐθὺς ἦν ἀμυνίας). In Eup. fr. 222 si richiama una certa propensione di Aminia a raffinatezze inadatte alla sua caratura, giudicata piuttosto rozza (cf. Olson 2016, p. 247). L’ accusa mossa da Cratino ad Aminia di essere sicofante, certo generica, non trova precise corrispondenze in Aristofane o in Eupoli. La κολακεία e l’ ἀλαζονεία potrebbero invece trovare un parallelo in alcuni passi delle Vespe: la κολακεία ai vv. 1268–1274, e l’ ἀλαζονεία in Ve. 466 e 1267. Nella prima pericope segnalata, compresa nella seconda parabasi delle Vespe, si ricorda la presenza di Aminia alla tavola dell’aristocratico Leogora, se ne paragona la voracità a tal Antifonte di non facile identificazione (per recenti e differenti posizioni si veda Storey 1985, p. 321) e se ne segnala l’indigenza (cf. Com. adesp. fr. 244). Quest’ultima caratteristica sarà uno scherzo di Aristofane che gioca sul fatto che Aminia era invece membro di una famiglia facoltosa (cf. Davies 1971 nr. 12250). Nulla invece prova che questo Aminia vada identificato con quello cui fa riferimento Hermipp. fr. 5 (in questa direzione si esprimeva Kaibel 1895, pp. 442–445, seguito da MacDowell 1965, pp. 50s., più scettici Biles-Olson 2015, p. 109). La spacconeria del personaggio (ἀλαζών) ben si addice dunque a un atteggiamento che ne segnala l’ appartenenza alle classi sociali più agiate e forse una qualche rozzezza di comportamento, e ben si adatta all’ abitudine (filolacedemone?) di

18

Si vedano MacDowell (1971, passim e già MacDowell 1965), e Kaibel (1895, pp. 442– 445).

Σερίφιοι (fr. 228)

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Aminia di portare i capelli lunghi (cf. Ar. Ve. 466 e 1267). A questa caratteristica, vera o presunta, si addice il sofisticato patronimico “figlio di Sello” (Ar. Ve. 1267), che ha ascendenza giambica (Archil. fr. 118), per cui cf. Bossi (1990, pp. 207–210), precedentemente Bonanno (1980, p. 79).

fr. 228 K.–A. schol. Luc. Tim. p. 116.9–15 Κλέωνι· … τὰ δὲ ὑπὸ τὴν ὄψιν ἦν ἀργαλέος καὶ μάλιστα τὰς ὀφρῦς, ὡς Κρατῖνος Σεριφίοις (V : σερίφοις Γ2) … ἐκωμῳδεῖτο δὲ καὶ ἐπὶ μανίᾳ, ὡς Κρατῖνος Σεριφίοις (σερίφοις Γ2, ὡς Κ. Σ. om. V) a Cleone: […] era tremendo alla vista anche in particolare per le sopracciglia, come (si evince da) Cratino nei Seriphioi […] era preso in giro in commedia anche per la follia, come (si evince da) Cratino nei Seriphioi

Metro non deducibile Bibliografia Schmid (1946, p. 82 n. 13); Kurz (1947, p. 88); Edmonds (1957, pp. 98–101); Welsh (1979); PCG IV p. 238; Olson (1999); Storey (2011, pp. 380s.) Contesto della citazione Il frammento sine verbis si trova testimoniato in uno scolio, redatto da Alessandro vescovo di Nicea (X sec.), al Timone di Luciano, scolio in cui si ricordano come testimonianza i Seriphioi di Cratino per alcune qualità negative di Cleone (PA 8674; PAA 579130), e si cita anche Ar. Ve. 36 per la voce del demagogo (cf. schol ad l.). Il frammento deriverà all’ esegesi lucianea da trattati sui demagoghi ateniesi, come ha ipotizzato condivisibilmente Bompaire (1958, p. 189 n. 4, quindi Tomassi 2011, p. 368), forse dallo stesso Idomeneo di Lampsaco19 come esito, magari, di una tradizione che discende da Antistene, il filosofo socratico, e da Stesimbroto di Taso (cf. Saldutti 2013, p. 88, con nuove ipotesi in Id. 2022). Idomeneo è ricordato nello scolio fra Aristofane e Cratino, a proposito dell’ attività di cuoiaio praticata da Cleone. Il passo di Luciano che dà il destro alla nota esegetica non sembrerebbe invece adombrare una particolare allusione a qualche passo comico noto (cf. Schulze 1883, p. 13). L’ indicazione di un frammento nuovo di Cratino si trova in Rabe (1906, p. 116), nell’ edizione degli scolî a Luciano, ed è stata recepita nelle varie edizioni successive (cf. Edmonds 1957, p. 98), e in alcuni studi (cf. Schmid 1946, p. 82 n. 13 che riprende, anticipandone alcuni contenuti, la tesi di Kurz 1947, p. 88, che a questo frammento ricollegava Cratin. fr. 470, che reca μείξοφρυν). Interpretazione La doppia ‘citazione’ di Cratino serve a esemplificare alcuni aspetti negativi di Cleone. Una rappresentazione di Cleone è ampiamente attestata, 19

Egli compose, pare, un trattato sui demagoghi di Atene (FGrHist 388 F 2).

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Cratino

con tratti molto severi, in commedia, cf. e. g. Hermipp. fr. 47, Eup. frr. 211, 316 e 331, Pl. Com. fr. 115, Com. adesp. frr. 461 e 957, oltre ai celebri attacchi sferrati da Aristofane nei Cavalieri, e Ach. 6, 299–301, 377–382, 659–664, Nu. 584–594, Ve. 36 (cf. supra), 62, 596s., 1030–1035 (con lo schol. 1034), 1223s. (nel simposio cui parteciperà Filocleone, cf. ad fr. 254), Pax 47s., 647–656, 725–728. Si tratta di un’ immagine certamente per molti aspetti caricaturale anche in virtù del genere, però essa ha comunque lasciato un segno nella trattatistica successiva (cf. Aristot. Ath. 28.3, questo peraltro ripreso nello scolio, Pol. 1291b 30–1292a 7). In generale, resta controverso quanto sia attendibile sul piano storico ciò che viene detto di Cleone in commedia: ad esempio, quasi nessuna delle imputazioni aristofanee dei Cavalieri trova riscontro in Tucidide; tuttavia, il richiamo a Cleone da parte di Cratino, come anche i paralleli attacchi dei comici, pongono questa commedia dopo i fatti del 426 a. C. (cf. Introduzione alla commedia), un periodo che Marzullo (1993, p. 211s. n. 31) ha considerato, non a torto, prodromico a una sorta di golpe bianco. Per la carriera politica di Cleone cf. Connor (1992, p. 91–98, 128–134, 151–183), Lind (1990). In nessuno dei luoghi comici menzionati appare un’ immagine di Cleone paragonabile a quella che Cratino avrebbe impiegato per il volto e specificamente per il peculiare aggrottarsi delle sopracciglia dell’ uomo politico. Welsh (1979) ne ha ricavato la prova sulla base della quale sarebbe dimostrabile l’ esistenza nel teatro comico greco delle maschere-ritratto, diversamente dalla tesi di Dover (1967) secondo cui maschere di questo tipo non sarebbero esistite, per difficoltà tecniche e per ragioni drammaturgiche. In generale, la proposta scettica di Dover resta condivisibile, almeno in quanto non ha trovato argomenti concreti che possano falsificarla; e, certamente, questo scolio col suo riferimento ai Seriphioi di Cratino non concorre davvero a questo scopo dal momento che non si può dire se Cleone fosse una dramatis persona della commedia, magari sotto mentite spoglie come avvenne per Pericle nel Dionisalessandro di Cratino, per stare allo stesso autore e a una forma della commedia che potrebbe esser accostabile a quella dei Seriphioi. Nel medesimo scolio si denuncia anche un atteggiamento folle di Cleone, sempre secondo la testimonianza di Cratino nei Seriphioi. È altamente probabile che le due indicazioni derivino dallo stesso passo e che siano in stretta correlazione. Come ha osservato Olson (1999), l’ evocazione delle sopracciglia di Cleone indicherebbe in tal senso atteggiamenti intimidatori manifestati anche attraverso l’ espressione del volto: ne conseguirebbe dunque che l’ interpretazione dello scolio denuncia «some allusion to the demagogue’ s habitual glower or sneer» (p. 321) e non a un particolare aspetto somatico. Questo atteggiamento del politico e la spiegazione che dello scolio ha fornito Olson meglio spiegano quell’ inclinazione folle, registrata anche da Thuc. 4.39.3, come osservano Kassel e Austin. L’interpretazione di Olson può trovare sostegno in Ar. Nu. 582 (τὰς ὀφρῦς ξυνήγομεν / κἀποιοῦμεν δεινά): si tratta della parabasi dove le Nuvole dichiarano di aver aggrottato le sopracciglia per manifestare il proprio dissenso alla rielezione proprio di Cleone, come se Aristofane avesse raccolto un tratto peculiare del politico rovesciando

Σερίφιοι (fr. 229)

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la prospettiva cratinea (cf. anche Catenacci 2013, p. 43, per valutazioni in parte differenti anche in quanto persuaso dell’esistenza delle maschere-ritratto, anche di Cleone); oppure, se il passo delle Nuvole è uno di quelli rifatti daccapo e completamente – un’ opzione probabile considerandone la collocazione parabatica – si potrebbe immaginare che Aristofane abbia in questo modo omaggiato Cratino, l’ antico e più anziano rivale. Per l’immagine delle sopracciglia in relazione a una retorica altisonante cf. Ar. Ra. 925, per lo stile di Eschilo.

fr. 229 K.–A. (215 K.) Phot. α 2810 (= Σb α 2119) ἀ ρ ι σ τ ε ρ ο σ τ ά τ η ς (ἀριστάτης Phot.)· ἐν τῷ κωμικῷ καλεῖται χοϱῷ, ἐν δὲ τῷ τραγικῷ μέσος ἀριστεροῦ. Κρατῖνος Σεριφίοις quello di sinistra: si chiama (in questo modo) nel coro comico, in quello tragico centrale (del rango) di sinistra. Cratino nei Seriphioi

Metro non deducibile. Ritmo di parola giambico o trocaico

klklkl

Bibliografia Runkel (1827, p. 58); Meineke (1839b, p. 138s.); Bothe (1855, p. 44); Edmonds (1957, pp. 98s.); Pickard-Cambridge (1968, p. 241); PCG IV p. 238; Storey (2011, pp. 380s.); Olson-Seaberg (2018, p. 301) Contesto della citazione Il frammento, sine ipsissimis verbis, è testimoniato nel Supplementum dello Zavordense, Phot. α 2810 (= Σb α 2119), dunque Σ . Si tratta di una glossa antiquaria che rientra in una costellazione certamente più vasta, che annovera almeno Hsch. α 7241 ἀριστεροστάτης· ὁ πρωτοστάτης τοῦ χοροῦ (“colui che sta nel rango di sinistra: il capo del coro”), Poll. 2.161 e 4.106, come segnalato da Kassel e Austin. Non sarei sicuro, però, che la glossa di Esichio sia testimone del frammento, omisso nomine poetae, dal momento che in questo significato la parola ricorre anche altrove (Ael. Arist. Or. 3.154). Dal punto di vista dell’ esegesi si dovrà ricordare anche Phot. τ 476 (cit. infra) che non presenta la parola presumibilmente impiegata da Cratino ma che completa l’ informazione che da Phot. α 2810 si ricava. Solo il lemma è parola dei Seriphioi, come vide già Kock (1880, p. 78), e non anche μέσος ἀριστεροῦ. Ne potrebbe dare conferma Phot. τ 476 (= Et. Gen. AB, cf. schol. Aristid. Or. 3.154 III p. 535.18–24 e III p. 536.5–7), citato da Meineke a mo’ di confronto: τϱίτος ἀϱιστεϱοῦ· ἐν τοῖς τϱαγιϰοῖς χοϱοῖς τϱιῶν ὄντων στοίχων ϰαὶ ζυγῶν, ὁ μὲν ἀϱιστεϱὸς στοῖχος ὁ πϱὸς τῷ θεάτϱῳ ἦν· ὁ δὲ δεξιὸς πϱὸς τῷ πϱοσϰηνίῳ· συνέβαινεν οὖν τὸν μέσον τοῦ ἀϱιστεϱοῦ στοίχου τὴν ἐντιμοτάτην ϰαὶ τὴν οἷον τοῦ πϱωτοστάτου χώϱαν ἐπέχειν ϰαὶ στάσιν (“il terzo del rango di sinistra: nei cori tragici c’ erano tre ranghi e file, dunque il rango di sinistra era

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Cratino

quello verso il pubblico; quello di destra verso il proscenio: pertanto succedeva che il centrale del rango di sinistra occupava la posizione e la zona più prestigiosa come del capo”). L’ espressione di Phot. τ 476, e più in generale l’ intera glossa, riguarderebbe infatti una questione onomastica del solo coro tragico. Interpretazione In Phot. τ 476, si segnala che il rango di sinistra era quello più vicino al pubblico, e, stando alla glossa che preserva la testimonianza di Cratino, si viene a sapere che l’ uomo che stava al centro di questo rango nel coro tragico era, appunto, il μέσος ἀριστεροῦ. La notizia, però, non calza perfettamente col coro comico, perché il coro tragico era composto da tre ranghi, ciascuno di cinque coreuti, sicché il rango aveva un elemento centrale (μέσος), ma il coro comico, secondo Poll. 4.108s., entrava disposto in quattro ranghi di sei elementi, il che implica che non esistesse un vero e proprio μέσος. Ragionevolmente, come osservano Olson-Seaberg (2018, p. 301), ci si dovrà rivolgere alla terza o quarta posizione del rango di sinistra del coro, quello rivolto verso il pubblico, dove sarà stato presente il performer più capace e, dunque, corifeo (cf. Men. fr. 130.2s., su cui Pickard-Cambridge 1968, p. 241 = trad. it. 1996, p. 329 e Olson-Seaberg 2018, p. 301 n. 233), come si ricava dalla glossa di Esichio (α 7241), ricordata sopra. Un richiamo in commedia al nome del corifeo sulla base della posizione assunta nel rango d’ entrata ha un intento probabilmente metateatrale. Da segnalare che anche altrove Cratino in qualche modo richiama la composizione corale, come si ricava dal fr. 186, il cui testimone dice che Cratino dimostra come le file del coro (comico) sono sei, un’ informazione in linea d’ altra parte con numerose altre attestazioni successive (cf. Poll. 4.109). In generale, potrebbe trattarsi in entrambi i casi – qui e nel fr. 186 – di autoreferenzialità del coro in un momento dell’ esecuzione del testo. fr. 230 Κ.-Α. Phot. α 2866 ἀ ρ ρ α β ώ ν· διὰ τῶν β ρρ. ἡ χρῆσις ἀφθονωτάτη ἐστὶ παρὰ τοῖς Ἀττικοῖς. Κρατῖνος Σεριφίοις. τὸ δὲ σημαινόμενον δῆλον. ἡ λέξις Φρυνίχου (tantum z in marg.) arrabōn (caparra): con due rho. L’ uso è abbondantissimo presso gli Αttici. Cratino nei Seriphioi. Il significato è evidente. È un lemma di Frinico

Metro non deducibile Bibliografia

PCG IV p. 238; Storey (2011, pp. 380s.)

Contesto della citazione Il frammento, sine ipsissimis verbis, si trova testimoniato nel cosiddetto Fozio zavordense (α 2866): la fonte della glossa è Frinico, secondo l’ indicazione a margine del codice, da annoverarsi, fin da Reitzenstein (1907, pp. XXIX e XXXIX-XLII), tra le fonti dirette del lessico. L’ opera di Frinico cui si riferisce la glossa è la Praeparatio sophistica, in quanto nella Synagoge aucta

Σερίφιοι (fr. 231)

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non ci sono tracce dell’ Ecloge (cf. ad esempio Fischer 1974, p. 48 e Alpers 1981, p. 64). La glossa di Σb α 2147 viene fatta risalire a Or. B 44 (ἀρραβών· ἐν τοῖς δύο ρ λεκτέον), dunque a una prescrizione atticista: non si tratta necessariamente di un testimone omisso nomine poetae, ma di un lacerto della stessa dottrina (Alpers 1981, p. 211 commenta: «de Photio non constat»). Interpretazione Quale sia il valore esatto con cui Cratino nei Seriphioi impiegò il termine, non è dato circoscrivere. In commedia, esso appare in Pl. Com. fr. 80 (testimoniato da Phot. α 2867) e in un verso identico in Antiph. fr. 121.6, in senso traslato: che anche in Cratino lo fosse, tuttavia, appare difficilmente dimostrabile, in quanto la glossa di Fozio che conserva il testimone del nuovo frammento di Platone (α 2867) segue e si distingue da quella che conserva la testimonianza di Cratino (α 2866): l’ interpretamentum sembrerebbe suggerire piuttosto un significato concreto. Una forma proverbiale è in Com. adesp. *284 (ἀρραβῶνα Σίφνιον ap. Hsch. α 7416, cf. σ 786, si veda anche Zen. Ath. 3.54 = Com. adesp. *942), con valore osceno: non sono dimostrabili rapporti con Cratino.

fr. 231 K.–A. (216 K.) Poll. 10.156 τὴν δὲ Ἀνδρομέδαν Κρατῖνος ἐν τοῖς Σεριφίοις (ερ- FS, tit. om. A) δ ε λ ε ά σ τ ρ α ν καλεῖ. Νικοφῶν δὲ τὰς τοιαύτας πάγας ἐν Ἀφροδίτης γοναῖς (fr. 4) δελέαστρα εἴρηκεν Cratino nei Seriphioi chiama Andromeda “esca”. E Nicofonte nella Nascita di Afrodite ha definito simili trappole “esche”

Metro non deducibile

kkll

Bibliografia Runkel (1827, p. 58); Meineke (1839b, p. 140); Bothe (1855, p. 44); Kock (1880, p. 78); Edmonds (1957, pp. 98s.); PCG IV p. 239; Storey (2011, pp. 380s.) Contesto della citazione Testimoniato da Polluce, il frammento, sine ipsissimis verbis, si colloca in una discussione sinonimico-differenziatrice su alcuni nomi e tipi di trappole. Correttamente, Kassel e Austin identificano come parola dai Seriphioi il solo δελεάστραν, certamente al femminile singolare, stando a Polluce, non necessariamente all’ accusativo, invece, in quanto esso è richiesto dalla sintassi del testimone. Il termine sarebbe affibbiato da Cratino ad Andromeda: non si può tuttavia dire se il nome della principessa etiope figurasse vicino a δελεάστρα. Né da qui si può esser certi che Andromeda fosse dramatis persona. Immediatamente dopo il richiamo di Cratino, Polluce ricorda come il termine fosse stato impiegato da Nicoph. fr. 4 al neutro plurale. Probabilmente di qui derivavano le perplessità di Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin) che si sarebbe

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Cratino

atteso un neutro, magari confortato dal fatto che il neutro si trova nella tradizione lessicografica tardoantica e bizantina: Hsch. δ 588 (δελέαστρα· παγίδες) viene considerato testimone di Nicoph. fr. 4 da Cunnningham, nell’ edizione aggiornata di quella di Latte, probabilmente a ragione, poiché la lezione tràdita, δέλεστραι, non dissimile da Phot. δ 169, δελέαστραι, che in qualche modo ne discende20, è errore21. Quanto a Suda δ 200, si dovrà segnalare che la tradizione manoscritta ha il neutro plurale. Testo Sulla forma della parola intervenne Blaydes (1890, p. 10) che ipotizzava δελεάστριαν, ma la formazione consegnata dalla tradizione manoscritta non crea alcuna difficoltà22, ed è anzi coerente con alcune altre trattate da Polluce nella pericope dove si trova il testo di Cratino. Interpretazione Quale funzione precisa attribuisse Cratino al termine δελεάστρα in relazione ad Andromeda non è dato sapere: Meineke (1839b, p. 140) ipotizzava che il commediografo figurasse in questo modo l’ innamoramento di Perseo; la stessa linea interpretativa fu seguita da Kock (1880, p. 78), che aggiungeva a mo’ di confronto Plaut. Asin. 221 (esca est meretrix e cf. v. 179 quasi piscis itidemst amator lenae). Come osservano Kassel e Austin, in Luc. Dial. Mar. 14.1, si legge come Cefeo avesse esposto Andromeda quale δέλεαρ per il mostro marino. Il termine δέλεαρ è comune in prosa, mentre in tragedia ha occorrenze in Euripide (Andr. 264, Hel. 755, Tro. 699, fr. 981.59), cf. in particolare in IT 1181 καὶ μὴν καθεῖσαν δέλεαρ ἡδὺ μοι φρενῶν. Si potrà osservare che Andromeda fu esca per il mostro e, in senso traslato ed erotico, per Perseo. In particolare, si dovrà segnalare il frammento di romanzo dell’ età della Seconda Sofistica (cosiddetto Protagora) recuperato da Alpers (fr. 7), dove la sequenza ἀσπαλιεύθην ὡς οὐκ οἶδ’ εἴ τις ἰχθῦς ὑπὸ τοῦ δελέατος τῆς ἡδονῆς riprende il peculiare uso in senso erotico del verbo da parte di Aristaen. Ep. 1.17, come ha notato lo studioso (Alpers 1996, p. 51), valenza erotica che si trova anche in δέλεαρ. Nel medesimo romanzo sono numerosi, nei 41 frammenti superstiti, i termini che rimandano alla commedia attica del V sec. a. C. (cf. Smith 2014, p. 331), sicché non si può escludere che anche questa immagine possa in realtà risalire all’ archaia. Quanto all’invenzione formulata da Cratino di uno hapax quale δελεάστρα, ci si può limitare a identificare il termine come fatto di parole poetica, ma si dovrà perlomeno segnalare che, se essa fosse legata all’idea dell’ esca d’ amore, Cratino anticiperebbe l’ ideazione dell’ immagine a un periodo che precede l’ età alessandrina, periodo in cui tali riscontri sono attestati (cf. le equilibrate valuta-

20 21 22

Nella forma attuale dei manoscritti, evidentemente, l’ assenza di alpha in Esichio costituisce un errore successivo alla redazione foziana e peculiare del Marciano. Pellegrino (2013, p. 33) avanza la possibilità che il tema amoroso fosse presente in Nicofonte, in relazione ad Afrodite, evocata nel titolo della commedia (cf. τοιαύτας?). Per il piano linguistico cf. DELG 260A.

Σερίφιοι (fr. 232)

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zioni di Slater 1999). Per l’ immagine dell’ esca come metafora d’ amore cf. Hölzer (1899), Koppenfels (1973). Non si può capire se il frammento di Cratino possa esser ricondotto a un caso come quello evocato da Aristofane nelle Nuvole (vv. 553–556 = Phryn. Com. T 8a–c), da cui si ricava che il commediografo Frinico avrebbe avuto la trovata di esporre una vecchia ubriaca che rischia di esser divorata da un mostro marino: sul non meglio identificato pezzo la scoliografia antica ha individuato una detorsio del mito (sulla scena tragica?) di Andromeda (cf. Stama 2014, pp. 38–40 e 349). Per un impiego della medesima radice in commedia, in cui però le esche sono essenzialmente mezzi retorici, cf. Ar. Eq. 789, su cui cf. Beta (2004, p. 227).

fr. 232 K.–A. (217 K.) Σ (Phot. τ 128, Et. Gen. AB = Et. M. 751.5, unde Et. Sym. V fol. 197v, Suda τ 257) τ ε λ ε ν ι ϰ ί σ α ι (- ῆσαι Suda)· ἐν Σεϱιφίοις τὸ ϰενῶσαι· ἀπὸ Tελενίϰου τινός, ὡς τὸ εἰϰός, πένητος παντελῶς· ϰαὶ λέγεταί τις (τις om. Et. Gen. A) Tελενίϰειος ἠχώ· ἐϰ μεταφορᾶς ἀπὸ τῶν ϰενῶν ἀγγείων telenikisai: nei Seriphioi “vuotare”, da un tal Telenico, come sembra, del tutto indigente: e si dice un’ eco di Telenico, per traslato dai recipienti vuoti Hsch. τ 408 τελενικῆσαι· ἀντὶ τοῦ {μὴ} (secl. Valesius, recte) κενόν (lacunam stat. editores, vd. Cunnigham ad. l.) ποιῆσαι telenikēsai: al posto di {non} render vuoto Apost. 16.23 Τελενίκoυ πενέστερος· ὅθεν καὶ τὸ ϰενῶσαι τελενικῆσαι λέγουσιν οἱ Σερίφιοι ἀπὸ τούτου, ὡς τὸ εἰϰός, πένητος παντελῶς· λέγεται ϰαὶ Tελενίϰιος ἠχὼ μεταφορικῶς. ἀπὸ τῶν ἀγγείων τῶν μὴ ἐχόντων ἔνδον τι più indigente di Telenico: pertanto gli abitanti di Serifo dicono anche l’ azione di vuotare telenikēsai da costui, come sembra, del tutto indigente: si dice anche eco di Telenico in modo traslato. (Deriva) dai recipienti che non hanno qualcosa dentro

Metro non deducibile Bibliografia Runkel (1827, p. 59); Meineke (1839b, pp. 139s.); Leutsch (1851, p. 663); Bothe (1855, p. 44); Edmonds (1957, pp. 98s.); Marzullo (1959, p. 146); PCG IV p. 239 Contesto della citazione Il frammento è testimoniato dalla fonte comune di Phot. τ 128 e di Et. Gen. AB, dunque Σ secondo gli studi di Cunningham. Da questo stadio della tradizione discendono Et. M. 751.5 (= Et. Sym. V fol 197v) e Suda τ 257. L’ assenza del nome del poeta, ma la presenza del titolo, rendono certa

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Cratino

l’ attribuzione in questi testimoni, come dimostrato da Kassel e Austin PCG III/2 p. 87 (Ar. fr. 121), ai cui esempi si possono aggiungere Hsch. ι 801 (Ar. Eq. 225), σ 1215 (Epich. frr. 83 e 127), Phot. α 1905 (Men. fr. 184), Gloss. Pap. Ox. 1803 (Men. fr. 394). Della costellazione fa parte anche Hsch. τ 408, che non riporta indicazione di poeta e commedia: tuttavia, il lemma è hapax assoluto e costituisce una sicura formazione comica (cf. infra), pertanto deriva con ogni probabilità dal medesimo luogo, vale a dire i Seriphioi. Se anche gli errori che coinvolgono la redazione delle glosse possano esser prova dell’ unità della costellazione, dunque di matrice diogenianea, è difficile dire, per la loro genericità: mi riferisco in particolare alla forma τελενικῆσαι offerta dal codice di Esichio e da quelli della Suda, che si può considerare facilmente errore poligenetico per itacismo. Non si può escludere dalla costellazione Apost. 16.23, che, come osserva Leutsch (1851, p. 663), ha frainteso la Suda, da cui trae le informazioni. Testo Che la formazione di Cratino calcata sul nome Τελένικος si presentasse in questa forma nei Seriphioi è dubbio, in quanto forse lemmatizzata. Interpretazione Ai testimoni sfuggiva l’ identità di Telenico, elemento non irrilevante per la comprensione della neoconiazione di Cratino. Meineke (1839b, pp. 139s.) riteneva di poterlo identificare nell’ omonimo poeta di Bisanzio di cui parla Phaen. fr. 10 (ap. Ath. 14.638c), che lo ricorda come poeta dozzinale. Una simile interpretazione poggia principalmente sulla glossa di Esichio, su cui Meineke intervenne accettando l’ espunzione di μή23 e integrando ᾆσμα fra κενόν e ποιῆσαι «vel simile quid» (ibid.). Questa esegesi, ripresa da Bothe (1855, p. 44), fu attenuata se non addirittura rifiutata dal suo promotore: «nunc repudiat» (scil. Meineke), segnalava Schmidt nella propria edizione di Esichio (1862, p. 138), a proposito dell’ integrazione, il che non implica che Meineke non credesse più nel richiamo a Telenico di Bisanzio quale bersaglio del verbo inventato da Cratino. Il cambio di valutazione operato da Meineke è passato per lo più inosservato, in quanto non se ne trova traccia in Kock (1880, p. 79), che, sulla base della prima interpretazione di Meineke, propose di mantenere μή nella spiegazione di Esichio, integrandola (μὴ κενὸν 〈ψόφον〉 ποιῆσαι), e di aggiungere la negazione anche al lemma, per suggerire una censura da parte di Cratino di un «inanem verborum strepitum». Sulla stessa linea esegetica e con esplicita approvazione di Meineke si pose Leutsch (1851, p. 663), il quale, sempre seguendo Meineke, intese Τελενίκειος ἠχώ come «carmina incondita atque inanium verbum plena», per suggerire quindi l’ idea di canti ‘ditirambici’. Edmonds (1957, p. 99) immaginava in Esichio la caduta di τι, dunque da integrarsi per ottenere μὴ κενόν 〈τι〉 ποιῆσαι (cf. Cratin. fr. 156 e Marzullo 1959, p. 146; per casi di scambi o aplografie con τι e π cf. Porson 1837, pp. 104s.). Tuttavia, che Τελενίκειος ἠχώ vada ricondotto all’ esegesi di Cratino non appare sicuro per la struttura della glossa del principale testimone. Inoltre, 23

Intervento ampiamente attestato fin dal Valesius, cf. quindi ThGL VII 1965C.

Σερίφιοι (fr. 232)

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come ha osservato Schmidt, la cronologia di Telenico di Bisanzio è tutt’ altro che definibile, visto che l’ unica notizia sul poeta sta nel frammento di Fania di Ereso riportato da Ateneo (cf. supra). In definitiva, nella generale incertezza e in attesa di eventuali e nuovi dati, sarà preferibile considerare Τελένικος un non meglio identificabile personaggio, sconosciuto anche all’ esegesi comica antica, come segnala il testimone principale24. Tutto ciò considerato, si può sostenere che Cratino ha coniato un verbo a partire dal nome di una persona proverbialmente povera a indicare l’ idea di svuotare, forse perché Telenico fu giudicato una sorta di parassita. A tal proposito, potrebbero esser utili confronti alcune forme paremiografiche dalla struttura simile a quella di Apostolio (cf. supra) e che si applicano a πτωχοί: cf. Diogen. 3.73 γυμνότερος λεβηρίδος, forma diffusa e ampiamente variata in commedia (cf. Zen. vulg. 2.95 = Hsch. γ 1003, brev. Prov. Bodl. 268, Suda γ 491; Ath. 8.362b; Phot. τ 581 = Suda τ 1217 probabilmente dal ricostruito Paus. Att. τ 54), impiegata ἐπὶ τῶν πάνυ πτωχῶν, e soprattutto Zen. Ath. 1.54 (p. 354 Miller) che presenta un meccanismo di variazione del proverbio e della sua origine simile a quello che si trova nella costellazione di Cratino, in quanto reca πτωχότερος λεβηρίδος. Che poi κενός si impieghi anche per casi di proverbiale indigenza dimostra la variazione del proverbio appena discusso κενότερος λεβηρίδος attestata nella costellazione sopra citata e specialmente nel trimetro comico adespoto (Stratt. fr. 52?) conservato in Ath. 8.362b. τελενικίσαι i verbi con l’ infisso -ιζ possono indicare atteggiamenti caratteristici, alla maniera di qualcuno: si veda Olson (2017, pp. 337s.), a proposito di Eup. fr. 99.25. Rispetto alla coniazione di verbi con questo infisso a partire da nomi propri di persona in commedia, si veda il celebre Cratin. fr. 342.3 εὐριπιδαριστοφανίζων (su cui Olson-Seaberg 2018, p. 122), nonché βακίζων di Ar. Pax 1072, e πυθαγορίζειν legato a una dieta pauperista di Antiph. fr. 225.8.

24

È difficile anche un’ identificazione col Telenico padre di Telea (LGPN II, s. v. [2], p. 425; PAA 878910), segretario dei tesorieri di Atena nel 415/4, cf. già Ar. Pax 1008 (su cui Olson 1998, p. 262), e certamente Av. 1205 (e probabilmente già v. 168, su cui Dunbar 1995, p. 189), Phryn. Com. fr. 21 (su cui Stama 2014, pp. 152s.); cf. Sommerstein (1996, p. 347). Un Telenico rientra anche fra gli ermocopidi della lista di Teucro in And. 1.35 (su cui Pritchett 1953, p. 232): Droysen (1835, p. 194 n. 39) ipotizzò che costui fosse il Telenico di Cratino, ma non risulta semplice dimostrare questa ipotesi.

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Τροφώνιος (Trophōnios) (“Trofonio”)

Bibliografia Bergk (1838, pp. 214–218); Meineke (1839b, pp. 144s.); Kock (1880, p. 79); Edmonds (1957, pp. 100s.); PCG IV p. 239; Arnott (1996, p. 670); Bonnechère (1999); Quaglia (2000); Storey (2011, pp. 382s.); Orth (2014, pp. 320s.); Bianchi (2017, pp. 137s.) Titolo Commedie dal titolo analogo, tutte successive, sono note per Cefisodoro (PCG IV pp. 63–68, cf. Orth 2014, pp. 318–323), Alessi (PCG II pp. 154s., cf. Arnott 1996, pp. 669–672), Menandro (PCG VI/2 pp. 222–224). Di nessuna di queste risulta possibile ricostruire qualcosa, e non esistono trame tragiche che possano suggerire ipotesi interpretative25. La difficoltà è determinata soprattutto dalla numerosità dei mitemi e dalla complessità nel ricomporre le versioni del mito di Trofonio. Gli studiosi distinguono essenzialmente il mito in due filoni, non necessariamente indipendenti (cf. Bonnechère 1999, p. 277), nella sinossi mitografica. Una prima versione, parzialmente nota da Pindaro (fr. 2)26 e raccolta da Plut. Mor. 108f-109b, segnalerebbe che Trofonio e il fratello Agamede, costruttori del tempio di Apollo a Delfi, chiesero al dio una ricompensa per questo atto di devozione, e ottennero un sonno eterno, dopo sette giorni dalla richiesta. Plutarco, che ricorda Pindaro (e forse lo parafrasa, se va considerato come Pind. fr. 3), mette in relazione questo episodio a quello, di fatto analogo, di Cleobi e Bitone. L’ acquisizione della facoltà oracolare post mortem da parte di Trofonio rappresenta, nel racconto di Plutarco e forse già di Pindaro, un elemento che delinea la caratteristica principale di Trofonio: che l’ antro di Trofonio fosse a Lebadea induce a ipotizzare che la morte in sonno di Trofonio e di Agamede sia avvenuta a Lebadea e non ancora a Delfi. A questa versione se ne intreccia un’ altra, non alternativa e decisamente antica, tramandata nell’ inno omerico ad Apollo (vv. 294–299), dove Trofonio e Agamede, figli di Ergino re di Orcomeno, sono ricordati per il tempio di Delfi, però non come costruttori tout court, bensì come coloro che hanno posato la pietra con cui la costruzione ha avuto avvio; e sono lì definiti come amati dagli dèi, senza cenni alla ricompensa per Trofonio attraverso la morte del dono profetico. Si tratta di una versione cui fa cenno anche Pausania (10.5.13), ma in modo cursorio rispetto a quella cui dà maggior spazio, allorché si occupa di Lebadea. Una seconda versione, decisamente più sinistra, si trova appunto in Pausania (9.37.5s.): i due fratelli architetti costruiscono il tesoro di Irieo, inaccessibile a chiunque tranne a loro, grazie a uno stratagemma architettonico, con cui riescono a entrare nella stanza del tesoro e a sottrarre progressivamente alcune ricchezze. 25 26

Le menzioni di Trofonio nello Ione di Euripide (vv. 300, 393, 405) non sono determinanti in tal senso. Snell e Maehler segnalano un possibile richiamo a Trofonio in una lacuna del peana 8 (vv. 100–111), dove si parlerebbe del tempio di Apollo eretto da Trofonio e dal fratello.

Τροφώνιος

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Una versione simile a quella di Pausania si trova in Carasso di Pergamo (FGrHist 103 F 5), ma ambientata in Elide in relazione ad Augia e, per alcuni aspetti, raccolta in schol. Ar. Nu. 508. Non è definibile l’ antichità della storia di Pausania, mentre quella di Carasso pare aver qualche riscontro in Proclo in relazione alla Telegonia (cf. Chrest. 309–312). Il rapporto con Lebadea si trova in Pausania che segnala come alla morte di Trofonio questi fosse sprofondato nella terra circostante. E, almeno all’ epoca di Pausania (9.39.10), la stanza sotterranea dell’ antro sarebbe stata un deposito di ricchezze, come erano stanze sotterranee per i tesori quelle di Irieo e Augia costruite da Trofonio e Agamede, e di cui un ramo della tradizione mitografica aveva dato conto. Anche il legame di Trofonio con la Beozia, nelle varie versioni del mito, appare diffuso, sia nella circostanza in cui Trofonio sia figlio di Ergino, re di Orcomeno, sia nei casi in cui appare come figlio di Apollo (cf. West 1985, p. 6). Quanto ai rapporti con altre divinità, gli indizi sono molto scarsi e difficilmente ricollegabili all’ epoca di Cratino: si conosce un riferimento sicuro a Zeus Trofonio (cf. Strab. 9.32.8 e Liv. AUC 45.27.8 e si veda anche IG VII 3090 del III sec. a. C.); in Paus. 8.10.2 si ricorda l’ episodio secondo cui Trofonio costruì il tempio di Posidone a Mantinea27. Il rituale per l’ accesso all’ antro e la relativa catabasi gode di alcune descrizioni non coeve a Cratino, la più dettagliata delle quali deve dirsi quella di Pausania (9.39.5), che segnala un pasto di carne derivante dai sacrifici, e l’ astensione da bagni caldi. Non chiara la questione della focaccia di miele che chiede Strepsiade prima di entrare nel Pensatoio socratico in Ar. Nu. 507s., paragonato all’ antro di Trofonio, ovviamente in modo comico. In ciò non aiuta il fr. 19 di Dicearco (ap. Ath. 14.641e) dove, nel trattato a proposito della discesa all’ antro di Trofonio28, l’ erudito ricorda la presenza di seconde mense, ma non si può capire se con esse Dicearco si riferisse a un aspetto del rituale o ad altro, perché il frammento è troppo breve per trarre delle conclusioni. Sempre stando al resoconto di Pausania, chi veniva fatto accedere all’ antro ne usciva in uno stato di incoscienza e veniva fatto accomodare sul trono della Memoria, dal quale l’ iniziato riferiva i responsi ricevuti, per poi rinvenire. Che le descrizioni di Pausania siano complessivamente attendibili per l’ epoca di Cratino non si può dire (cf. Deubner 1900, p. 15 n. 4, Bonnechère 1999, p. 261 e ad fr. 233), ma il commediografo poteva ben conoscere l’oracolo di Trofonio a Lebadea (per le ricerche a proposito del luogo e dell’ antro cf. Bonnechère 2003, pp. 1–26), esattamente come il suo pubblico, in quanto esso era noto almeno dalla Telegonia, dall’ inno omerico ad Apollo e da Pindaro, ma anche, e verisimilmente, da Erodoto (1.46 e 8.133). Non ci sono elementi esplicitamente 27 28

Si può osservare che il fr. 2 di Pindaro deriva da quelli ‘istmici’. Dell’ oracolo di Trofonio si occupò specificamente Dicearco (frr. 13–22), in un’ opera (Περὶ τῆς εἰς Τροφωνίου καταβάσεως) almeno in due libri, seguendo Ath. 14.641e (= Dic. fr. 19, ma cf. Cic. Ad Att. 13.33.2 = fr. 18c, dove Cicerone accenna forse a un libro): non si può escludere che l’ erudito si sia servito anche di notizie desunte da Cratino, ma non è possibile circoscriverle.

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Cratino

riconducibili a Cratino nelle altre descrizioni perlopiù tardo-antiche dell’oracolo (cf. Philostr. VA 8.19). Per l’oracolo di Trofonio cf., fra gli altri, Simonetta (1994) e Bonnechère (2003). Contenuto Del Trophōnios si conservano undici frammenti sicuri e due attribuiti: uno, privo di titolo ma con l’ indicazione di Cratino, si riconduce a questa commedia (fr. *235); l’ altro conserva il solo titolo, ma non il nome di Cratino (fr. *240). Sono tutti tràditi per tradizione indiretta: un frammento si trova in Ateneo; due in Arpocrazione; tre in Polluce; due in Efestione; uno nello Pseudo-Erodiano; quattro in Esichio; uno in Mario Plozio Sacerdote; uno in Σb; cinque in Fozio; uno nell’ Etimologico Genuino, quindi nell’ Etimologico Magno; uno negli scolî di Cherobosco a Efestione; uno nella Suda; due nel Lessico dello Pseudo-Zonara; uno in Apostolio: non ho distinto fra testimoni indipendenti o reciprocamente collegati e magari considerabili un solo testimone, per dare conto in tal modo della 'fortuna' del frammento; l’indicazione di un eventuale solo testimone, nei casi di lessici che presentano testi ed esegesi identici, si trova invece nell'apparato. Che cosa mettesse in scena il Trophōnios non si conosce. Secondo Bowie (2010, p. 160) si tratterebbe di una commedia rituale, come altre di Cratino (Boukoloi, Dēliades, Thraittai)29, ma che cosa esattamente intendessero affrontare opere di tal genere non è chiaro per la scarsità dei frammenti. Nel caso della commedia in questione non ci sono riferimenti a personaggi specifici, non si capisce chi costituisse il coro e non si può dire se Trofonio avesse un ruolo oppure fosse solo evocato. Neppure dove si svolgesse la vicenda drammatica è possibile dire. Secondo la ricostruzione di Quaglia (2000, p. 462), la vicenda poteva vedere un protagonista ateniese che, magari con una spalla comica, si recava a Lebadea per ricevere un oracolo e sottoporsi ai rituali, comicamente istruito in essi dal coro. Si tratta di un’ ipotesi che resta speculativa. Se si prende a mo’ di confronto il Pluto di Aristofane, quello del 388 a. C., si apprende che concorrenti assieme ad Aristofane furono Nicocare coi Lakōnes, Aristomene con l’Admētos, Nicofonte con l’ Adōnis, Alceo con la Pasiphaē. Di molte di queste opere si potrebbe azzardare un riferimento mitologico, se ci si basa sul titolo, ma in realtà, almeno per il Pluto, ciò va rigorosamente escluso. Quanto al coro della commedia, Quaglia pensa ai sacerdoti dell’ oracolo (2000, p. 462), dal momento che, secondo lo studioso, il fr. *235 apparirebbe troppo rispettoso per esser pronunciato da pellegrini di Atene, ma cf. Orth (2014, pp. 319s.). L’ ambientazione a Lebadea, sulla base del fr. *235, è possibile (cf. Quaglia 2000, p. 459), ma poggia su basi decisamente fragili: il Pluto di Aristofane si svolge essenzialmente ad Atene e una forma di saluto alla divinità poliade, una volta che Pluto ha riacquisito la vista grazie ad Asclepio al santuario di Epidauro, si può riscontrare ai vv. 775–779, al ritorno del dio ad Atene, a casa di Cremilo. Dal momento che nel fr. *235 di Cratino manca un riferimento verbale, non si può definire un dato 29

Cf. Bianchi (2017, p. 103). Forse anche gli Empipramenoi (cf. Bianchi 2016, p. 388).

Τροφώνιος

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spaziale: se vi si trovasse ἔχετε vel sim. q., l’ ambientazione a Lebadea potrebbe esser meno incerta, ma non si può escludere qualcosa come (ἐξ)ελίπετε vel sim. q. (cf. e. g. Sapph. fr. 1.7), soluzione che sposterebbe la localizzazione ad Atene. Le Nuvole del coro dell’ omonima commedia di Aristofane, ad esempio, arrivano ad Atene dall’ Oceano (v. 276 ἀρθῶμεν), e altrettanto farà la Musa nel finale della Lisistrata (v. 1297 ἐκλιπῶἁ), abbandonato il Taigeto. Alcuni elementi che possono esser parodia dei rituali sono riscontrabili, forse, nel fr. 233, se non si tratta di misure che intendono rovesciare le consuete prescrizioni. E anche il fr. 236, con alcuni divieti rispetto alla dieta, ha connotati di ordine comico. Probabilmente i frr. 241 (con un richiamo a serpenti grandi ma innocui) e 245 (con un riferimento a elementi luminosi) si rifanno a circostanze del rito incubatorio. I richiami alla danza sono presenti nei frr. 234 e 237 con certezza, anche se l’ elemento rituale sembrerebbe superato da alcuni possibili richiami metateatrali nel fr. 234: e forse alla stessa scena potrebbe ricondursi il fr. 242 per la presenza di un verbo con cui si intende l’ intonazione di una nota su un aulos. Il fr. *240 potrebbe riferirsi al costo degli oracoli, mentre di difficile spiegazione dovrà dirsi l’evocazione di Formione di Crotone nel fr. 238, anch’egli però protagonista di un fatto soprannaturale prodottosi in somno, come nel caso di Trofonio (cf. ad l.). L’assenza di personaggi noti agli spettatori in quanto komodoumenoi non è indizio del fatto che il Trophōnios fosse una commedia priva di risvolti politici, espliciti o allusi. Come osserva Sommerstein (2009, p. 286) a proposito delle classificazioni di Platonio alle prese con gli Odyssēs, commedia che si vorrebbe priva di riferimenti politici e dunque ‘modello’ per tutte le altre che ne sono prive, «his (scil. di Platonio) statement that the play ‘has no censure of anyone’ is consistent with the surviving fragments, but the absence of personal satire from these fragments may be a mere accident of preservation; there are three other comedies of Kratinos from which we have substantial numbers of quotation fragments and in which none of them includes overt satirical reference to any contemporary individual, and we know that one of these (scil. il Dionysalexandros) was readily interpreted, both by most of those who saw it and by Hellenistic scholars, as a sustained satire on Perikles»30. Al Trophōnios di Cratino sono stati assegnati due frammenti anepigrafi: Bergk (1838, p. 217) ipotizzò che il fr. 358 potesse derivare da questa commedia, perché ha lo stesso metro, un priapeo, e una tematica affine, la presenza della triglia, rispetto al fr. 236. Il fr. 507 fu assegnato da Hemsterhuis a questa commedia, in quanto lo studioso ipotizzava che il tràdito †κρατὶ ὑοστρόφοιο fosse esito di corruzione del nome del commediografo e del titolo di questa commedia (cf. Olson-Seaberg 2018, p. 352).

30

Si vedano anche le caute osservazioni di Zimmermann (2011, p. 724 e n. 236). Cf. Bianchi (2017, p. 107), che richiama Sommerstein e Zimmermann.

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Cratino

Datazione La data della commedia è ignota. Quaglia (2000, p. 460) ipoteticamente la colloca poco prima delle Nuvole, i cui vv. 506–508, secondo lo studioso, farebbero riferimento al Trophōnios, ma l’ ipotesi resta molto speculativa.

fr. 233 K.–A. (218 K.) οὐ σῖτον ἄρασθ’, οὐχ ὕπνου λαχεῖν μέρος ἄρασθ’ Bekker (1814, p. 358) : ἄρασθαι Phot. (z), αἴρασθ’ Suda (T), αἴρασθαι Phot. (b), αἴρεσθ’ Suda (-T), αἴρεσθαι Σb, Ps.-Zon. ὕπνον Σb

non sollevare cibo, non avere una parte di sonno Phot. α 637 (= Σb α 567, Suda αι 279, hinc Ps.-Zon. 93.1s.) † αἴρασθαι †· προσενέγκασθαι. Κρατῖνος Τροφωνίῳ· οὐ — μέρος † airasthai †: prendere. Cratino nel Trophōnios non — sonno

Metro trimetro giambico; operante la cosiddetta correptio Attica (ὕπνου giambico)

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Bibliografia Runkel (1827, p. 59); Bergk (1838, pp. 216s.); Meineke (1839b, p. 141); Bothe (1855, p. 45); Kock (1880, p. 79); Deubner (1900, pp. 14s. n. 4); Edmonds (1957, pp. 102s.); Luppe (1963, p. 199); PCG IV p. 240; Quaglia (2000, pp. 460s.); Storey (2011, pp. 382s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Phot. α 637, ma già ampiamente noto, pur con errori, prima della pubblicazione dei due codici foziani b e z, dalla restante costellazione lessicografica (Σb α 567, Suda αι 279, da cui dipende Ps.-Zon. 93.1s., omisso nomine poetae). Il frammento sembrerebbe citato per il peculiare impiego di ἄρασθαι (αἴρασθαι nella tradizione, cf. infra) nel senso di “prendere, scegliere” (cf. Xen. Cyr. 4.2.41). Qui il significato si intende, alla luce del complemento oggetto, come equivalente di “mangiare”. Testo Gli errori che affliggono i testimoni (cf. apparato) sono facilmente emendabili, come già vide Bekker (1814, p. 358.2s.). La distribuzione delle mende può indicare in Σ l’ errore del lemma. Quanto alla citazione, la presenza diffusa anche qui dell’ errato αἴρασθαι (senza contare l’ ulteriore e normalizzato αἴρεσθαι) in tutta la tradizione tranne nello Zavordense di Fozio, può far presupporre che anch’ esso si sia generato inizialmente nella citazione a livello di Σ e che abbia trascinato l’ errore nel lemma nella fase rappresentata da Σ . Ne consegue che la lezione di z nella citazione non sia l’ esito di una tradizione intatta, ma una congettura, certo felice ed esatta, del copista.

Τροφώνιος (fr. 233)

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Interpretazione L’ esegesi del frammento fu tentata da Bergk (1838, pp. 216s.) secondo due strade ermeneutiche: «aegroti enim homines potissimum oracula deorum adire solebant, ut ab iis opem auxiliumque peterent»; più avanti ipotizza che «fortasse autem versus ita est explanandus, ut dicatur is, qui incertus de rebus suis deum sciscitaturus in antrum descenderat, neque cibum neque somnum ibi capere potuisse», per poi ricondurre il frammento a una situazione analoga, forse la stessa scena, da cui deriverebbe anche il fr. 236 (cf. infra). La proposta di Bergk non fu presa in considerazione da Meineke, nella propria edizione, ma fu ricordata da Kock, e contestata da Deubner (1900, p. 14 n. 4), il quale opponeva a Bergk il fatto che Trofonio non era un dio che curava, e respingeva poi l’ altra ipotesi come priva di senso. Deubner proponeva (1900, p. 15 n. 4) un’ altra spiegazione, vale a dire che il frammento si riferisca a quell’ astinenza da cibo e sonno che avrebbe reso gli incubati più disponibili ad accogliere la presenza divina: in Cratino dunque sarebbe evocato un rito preparatorio. Come osservato da Kassel e Austin, la discesa all’ antro di Trofonio era preceduta da un abbondante banchetto, secondo la testimonianza di Paus. 9.39.5, testimonianza considerata però non affidabile da Deubner, senza precise spiegazioni; e Bonnechère (1999, p. 261) giudica i dettagli della testimonianza di Pausania «trop véridiques pour être anciens». Se quanto riferito da Pausania (cf. supra per il Titolo) fosse invece attendibile anche per l’ epoca di Cratino, allora queste prescrizioni di astensione potrebbero esser un rovesciamento rispetto al banchetto di carni e al sonno estatico. Secondo Quaglia (2000, pp. 460s.) si tratterebbe di una prescrizione che un sacerdote rilascia a un Ateniese prima della discesa nell’ antro di Trofonio. In ogni caso, l’ assenza di qualunque contesto non permette di collocare la scena e di coglierne i riferimenti. Quanto al rapporto col fr. 236, si potrà segnalare che esso è una sequenza stichica di priapei (cf. ad l.), e che non ci sono esempi di priapei in contiguità ai trimetri giambici, pertanto, se può esser accettabile la provenienza dei due frammenti dalla stessa scena, non è probabile che si tratti di passaggi strettamente contigui. ἄρασθ’ pare piuttosto evidente che si tratti dell’ infinito, come anche alcuni testimoni intendono con scriptio plena. Per l’ elisione di -σθαι Luppe (1963, p. 199) rimanda e. g. ad Ar. Th. 1012, Ra. 794, ma non escluderei una pronuntiatio plena, dunque una sinalefe al posto dell’ elisione, soprattutto in considerazione del fatto che l’ elisione verrebbe a trovarsi in corrispondenza della cesura. Cf. in generale Rossi (1969) e Fiorentini (2008). Per una formulazione simile, che potrebbe anche spiegare in parte la ratio corruptelae, Luppe (1963, p. 199) rimanda a Et. Gud. 168.22 ἀποδαρθεῖν· “μήτ’ ἄρτον αἴρεσθαι (de Stef., αἱρεῖσθαι cod., ἄρασθαι Luppe 1963, p. 199) μήτ’ ἀποδαρθεῖν”, τουτέστι κοιμηθῆναι. Per il senso del verbo in una situazione di banchetto, però laico, cf. Thphr. Char. 2.10. οὐχ ὕπνου λαχεῖν μέρος la prescrizione non implica affatto che il vaticinio non avvenisse comunque per somnum (cf. Orig. Cels. 7.35 e Deubner 1900, p. 8 n.2).

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Cratino

fr. 234 K.–A. (219 K.) ξίφιζε καὶ πόδιζε καὶ διαρρικνοῦ 1

καὶ om. Et. Gen. B

πόδιζε Perger : σπόδιζε Ett., σπάδιζε Ps.-Zon. (σπάθιζε K)

fa’ la figura della spada e salta e muovi le anche Et. Gen. AB s. v., (sim. Phot z. δ 427, Et. M. 270.4–9, Ps.-Zon. 529.17) διαρριϰνοῦσθαι· τὸ τὴν ὀσφῦν φορτικῶς περιάγειν. Κρατῖνος (Κρ. in marg. Phot., Κράτης Et. M., Ps.-Zon.) Τροφωνίῳ, οἷον· ξίφιζε — διαρρικνοῦ , ἐκ τοῦ ῥη. (i.e. lexicon Rhetoricum quod dicitur, tantum Et. Gen. A, unde Et. M. 270.5, Τρ. κτλ. om. Phot.) muovere le anche: il far ruotare il sedere in modo volgare. Cratino nel Trophōnios, ad esempio: fa’ — anche, dal Lessico retorico Poll. 4.99 ἐκαλεῖτο δέ τι καὶ ξιφισμὸς καὶ ποδισμὸς καὶ 〈διαρ〉ριϰνοῦσθαι (suppl. Kaibel 1895, p. 432), ὅπερ ἦν τὸ τὴν ὀσφῦν φορτικῶς περιάγειν un (genere di danza) era chiamato anche della spada e del salto e muovere le anche, che era il far ruotare il sedere in modo volgare

Metro trimetro giambico

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Per una suddivisione coincidente coi metra nel trimetro comico cf. e. g. Ar. Eq. 5, ma più probabilmente καί va giudicato alla stregua di prepositiva e dunque si può pensare a una sola cesura pentemimere. Bibliografia Meursius ap. Gronovius (1699 s. v. ποδισμός); Runkel (1827, pp. 59s.); Meineke (1839b, p. 142); Bothe (1855, p. 45); Kock (1880, p. 79); Kaibel (1895, p. 432); Latte (1913, pp. 4s.); Lawler (1945, p. 69); Edmonds (1957, pp. 102s.); Luppe (1963, pp. 199s.); PCG IV p. 240; Quaglia (2000, p. 463); Storey (2011, pp. 382s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Fozio (δ 427), e più diffusamente negli Etimologici e nel lessico cosiddetto di ‘Zonara’ (529.17), che richiamano il (perduto) Lessico retorico. Per la precisione, in Fozio le parole di Cratino non sono state ricopiate dal copista di z, pertanto non è solo a Fozio che va ricondotta la costellazione, quanto piuttosto si dovrà pensare che essa derivi da uno stadio più antico. Agli editores veteres, oltre al testo, anche la commedia di provenienza era nota grazie agli Etimologici e a ‘Zonara’, in quanto la glossa di Fozio è tràdita dal solo Zavordense 95 (z). Nel Genuino si certifica che la paternità della serie di imperativi è di Cratino, mentre in seguito ad abbreviazione nel Magno e in ‘Zonara’ si trova Cratete, erroneamente, come avvertì Runkel, che nella propria edizione di Cratino sentenziava: «ubi falso» (1827, p. 59). Assegnava pertanto e senza esitazioni il frammento a Cratino, così come tutti gli editori successivi,

Τροφώνιος (fr. 234)

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anche perché, come constatava Meineke (1839b, p. 142), «Crates non scripsit Trophonium». Il codice A del Genuino e quindi il Magno introducono la specificazione per cui la notizia sarebbe tratta dal Lessico retorico, che Theodoridis, sulla scia di Wentzel (1895, p. 486), considera coincidente col lessico di Fozio; in realtà, questo repertorio andrà più probabilmente identificato con una fonte diversa, anche se talora non sensibilmente, rispetto a Fozio (cf., in particolare, Tosi 1984, pp. 191s.). In qualche modo, il frammento può esser considerato alla base di una costellazione più ampia, che coinvolge Poll. 4.99 (la sua epitome), in quanto l’erudito, nell’ occuparsi della danza, introduce anche ξιφισμὸς καὶ ποδισμὸς, καὶ 〈διαρ〉ρικνοῦσθαι. Per un qualche rapporto del frammento con Polluce si sono pronunciati i vari editori (cf. già Meursius ap. Gronovius 1699 s. v. ποδισμός), ma senza concludere che Polluce sia un elemento della tradizione indiretta di Cratino, e propriamente una parafrasi omisso nomine poetae. Non è tanto la presenza dei tre lemmi in Polluce, quanto la loro successione ciò che potrebbe far presupporre che, seppur non recta via, il frammento di Cratino sia probabilmente alla base della nota esegetica che costituisce la fonte dell’ erudizione antica e poi bizantina, affiorante tanto in Fozio, negli Etimologici e in ‘Zonara’, quanto in Polluce. L’ erudito è dunque un vero e proprio testimone ancorché sine ipsissimis verbis. Sarei incline a trovarne conferma nel fatto che in Polluce si conserva la medesima esegesi degli altri testimoni, rispetto a 〈διαρ〉ρικνοῦσθαι, quando afferma ὅπερ ἦν τὸ τὴν ὀσφῦν φορτικῶς περιάγειν (τὸ — περιάγειν negli Etimologici e in ‘Zonara’); la scomparsa dal testo di Polluce della citazione del frammento comico, o almeno il riferimento al Trophōnios e a Cratino, può essersi determinata in séguito al processo di epitomazione. Non si può invece annoverare Hsch. δ 1265 nei testimoni ma tra i passi paralleli, perché la spiegazione utilizza parole diverse da quelle di Polluce, di Fozio, degli Etimologici e di ‘Zonara’, inoltre non mostra legami di altra natura col frammento di Cratino. La fonte comune ai lessici e ad Ateneo nel passo dove ricorda alcune danze qui menzionate (14.629e-630a) potrebbe essere Trifone, stando a Latte (1913, pp. 4s. per le danze coinvolte nel frammento di Cratino e p. 8 per le fonti comuni a Polluce e Ateneo). Testo Quanto al testo del frammento, Runkel promosse un suggerimento di Perger «notis mss in Etym.» (pp. 59s.), che propose di leggere πόδιζε anziché il tràdito σπόδιζε, preferito da Meineke (1839b, p. 142) e forse da Kock (1880, p. 79), che lo stampava a testo ma congetturava in apparato σπύρθιζε. Kassel e Austin, da ultimi, stampano πόδιζε, senza spiegazioni. La scelta di Kassel e Austin è condivisibile perché la sequenza di Polluce ξιφισμὸς καὶ ποδισμὸς καὶ 〈διαρ〉ρικνοῦσθαι contribuisce a confermare in Cratino la congettura πόδιζε, che ha il vantaggio di esser più economica di διπόδιζε suggerita da Kaibel (1895, p. 432): quest’ ultima non è impossibile, ma πόδιζε è più vicino alla situazione testuale offerta dalla tradizione.

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Cratino

Interpretazione Si tratta di tre verbi connessi alla dimensione orchestica, ma sfugge il contesto in cui essi sono stati pronunciati e da chi. La connessione col fr. 237, dove in cretici si intona un canto probabilmente corale, forse di chiusura, non risulta un referente obbligato per questo trimetro giambico, dove sembrano esser mescolate danze che rimandano a generi teatrali diversi. La serie di imperativi sembra rivolta a qualcuno in scena cui si danno istruzioni di danza confuse: chi sia il referente non si può dire. Il trimetro giambico impone cautela, in quanto potrebbe trattarsi di una sequenza la cui attribuzione può esser molto diversa in base agli eventuali raffronti. Ad esempio, potrebbe trattarsi di un personaggio che parla a un altro, impartendo prescrizioni. Una situazione del genere doveva esser proposta da Eupoli, se nella parafrasi del testo comico che ne costituisce il fr. 18 il testimone papiraceo afferma πυρριχίζων, ἐν δὲ Αἰξὶν Εὐπόλ[ιδος] τὸ μαλακὴν κε[λ]εύειν τὴν Ἀθηνᾶν ποεῖν. σκλη[ρ]ῶ̣ς̣ ποι̣οῦντο[ς] τοῦ ἀγροίκου τὸ σχῆμα τῆς Ἀθηνᾶς ὁ διδ[ά]σκαλος ἐκέλευσεν μαλακῶς αὐτὸ ποιεῖν (“lui danza la pirrica, e nelle Aiges di Eupoli l’ ordine di eseguire Atena con grazia. Dal momento che lo zotico eseguiva con durezza la figura di Atena, il maestro gli ordinò di farla aggraziatamente”). Si potrà immaginare che il citato maestro possa essere un elemento di confronto col passo cratineo, se si assume che il dialogo in Cratino sia fra due personaggi. Si veda inoltre PMG 864. Oppure, ma forse con meno probabilità, potrebbe trattarsi di un invito al coro formulato dal corifeo: in tal caso si direbbe preferibile però un metro recitativo in Cratino. In alternativa, si potrà pensare a un elemento di autoreferenzialità come accade in taluni passi corali. Se le cose stessero in questi termini, il trimetro andrebbe inteso come un giambo lirico (cf. e. g. Ar. Nu. 1303), ma non sembra una prospettiva praticabile; inoltre, l’ elemento autoreferenziale prevederebbe cambi nell’ esecuzione immediati e forse poco consoni a una performance. Le ultime due eventualità possono contemplare richieste simili: ne è un esempio Ar. Th. 659s. (εἶα δὴ πρώτιστα μὲν χρὴ κοῦφον ἐξορμᾶν πόδα / καὶ διασκοπεῖν σιωπῇ πανταχῇ), in recitativo, rispetto a quanto offerto poco dopo in Th. 954–956 (ὅρμα, χώρει, / κοῦφα ποσίν, ἄγ’ εἰς κύκλον / χειρὶ σύναπτε χεῖρα)31, ma nessuno dei due casi prevede cambi di esecuzioni tanto veloci quanto prevederebbe il frammento di Cratino. L’ unica opzione alternativa sarebbe ipotizzare una scena come quella dei Carciniti nelle Vespe (1501–1537), oppure di Ar. Pl. 255 nei tetrametri giambici della parodo (ἴτ’, ἐγκονεῖτε, σπεύδεθ’, ὡς ὁ καιρὸς οὑχὶ μέλλειν). Per una sorta di mimo nel finale delle Vespe si veda Rossi (1978). In generale, dunque, sarà più semplice immaginare un personaggio che si rivolge a un altro prescrivendo figure di danza, per annunciare in tal senso una scena di taglio, forse, metateatrale. Difficile dunque accogliere un’ interpretazione

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Per Ar. Th. 982, dove si legge διπλῆν, e dove talora si è inteso vedere una danza, valgano le rigorose valutazioni di Zimmermann (1985, II p. 195) che esclude un richiamo a una danza, e di Totaro (in Mastromarco-Totaro 2006, pp. 524s. n. 143).

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che vede in questo elenco di ordini un richiamo a danze del rito di Trofonio (Hani 1975, p. 111 ritiene che possano esser storicamente accettabili). ξίφιζε in Poll. 4.99 e in Ath. 14.629f si dà conto di una danza chiamata ξιφισμός, senza particolari spiegazioni, presenti invece nella lessicografia: Hsch. ξ 73 osserva che il verbo si usa per la mano tesa e per una danza (forse, intende dire per una danza con la mano tesa, come si legge in Fozio) mentre in ξ 75 osserva che si tratta di uno schema di danza dell’ emmeleia. Simili informazioni ricorrono poi in Phot. ξ 33 (da cui Suda ξ 73 e 74), nonché in Eust. Od. 1167.22 e 1604.51, che cita esplicitamente Pausania atticista (coi ricostruiti ξ 3 e ξ 4) dalle cui indagini deriverà presumibilmente la tradizione lessicografica. Theodoridis ad l. rimanda, inoltre, a Choerob. Orth. ap. An. Ox. 2.242.8 (da cui Et. Gen. B ξιφίσματα = Et. M. 611.10 ~ Et. Sym.V ap. Gaisford Et. M. 1737), Hsch. ξ 77 (ξιφισμάτων· ὀρχημάτων). A giudicare da queste testimonianze e dal legame che potrebbe esser esistito tra l’ emmeleia e la figura di danza detta ξιφισμός, si potrebbe ritenere con un qualche ottimismo che il passo sia metateatrale, forse di andamento parodico. πόδιζε come segnalato supra (Testo), si tratta di una congettura confermabile attraverso Poll. 4.99 che ha ποδισμός. Che tipo di danza o che tipo di schema sia questo si ignora, ma escluderei che il ποδίζειν vada identificato col διποδίζειν. Il διποδίζειν ha una propria rappresentazione scenica nel finale della Lisistrata (v. 1243) ed era una danza nominata da Cratino stesso (fr. 173), con accenni alla grazia dell’ esecuzione: le fonti antiche la considerano una danza spartana, il cui ethos sarà da giudicare serio, stando a Eust. Il. 772.6, che ricorda come essa fosse adatta a celebrare imprese eroiche. Se non si tratta di un autoschediasmo rispetto al finale della Lisistrata, si potrà immaginare che l’ azione connessa a questa danza, il διποδίζειν, non possa essere identificata con quella collegata al ποδίζειν, stanti attestazioni come Soph. fr. 63, dove il verbo implica l’ idea di esser legato o stato legato nei piedi (vv. 1s. ἀνήρ / κῶλον ποδισθείς), ed è impiegato spesso, ovviamente, per i cavalli. Il Sopingius (ad Hsch. π 2677) accostò la danza ποδίκρα raccolta nella glossa esichiana al ποδισμός di cui parla Poll. 4.99: si tratterebbe di una danza eseguita sul piede (ὄρχησις πρὸς πόδα γινομένη). Secondo Meineke (1839b, p. 142), del ποδισμός, che difetta di altre attestazioni, sarebbe forse nome alternativo βίβασις che Poll. 4.102 individua come danza laconica e di pertinenza femminile (cf. ταῖς κόραις), danza che si compone di salti con cui toccare le natiche. Forse questa danza spartana accompagna la conclusiva canzone della Lisistrata, subito dopo la διποδία e meno solenne di questa, in quanto la βίβασις, se di essa si tratta, sarebbe più veloce (vv. 1302s. ἔμβη … πάδη e 1317 ποδοῖν τε πᾶλον, per i salti con ricaduta su un piede cf. Aesch. Eum. 372–374, Ar. Ra. 244, su cui Andrisano 2010, pp. 22s.). Che nel finale della Lisistrata fosse ballata la βίβασις e che la βίβασις coincida col ποδισμός/ποδίζειν, non si può dire, ma si tratta di una suggestione interessante. Se l’ ipotesi coglie nel segno, si assiste in Cratino a una climax discendente sul piano dell’ ethos, ma ascendente sul piano del ritmo: quello delle parole (tre sillabe, tre sillabe, quattro sillabe) e quello della danza evocata. Stando al verso superstite, infatti, prima si trova uno schema della solenne e tragica emmeleia, poi una danza

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Cratino

più veloce e forse saltata (cf. almeno Lawler 1945, p. 69 che segue Séchan 1930, p. 196), infine una danza oscena. Come ha messo in luce Andrisano (2002), nella catabasi di Dioniso nelle Rane, la presenza di Ἔμπουσα può esser stata realizzata da un ballerino e il nome del mostro potrebbe esser stato richiamato da Aristofane per una reviviscenza paretimologica volta a deformare, in modo comico, il vacuo virtuosismo della nuova danza (e della connessa nuova musica), di una danza su un piede. Ci si potrebbe chiedere se il ποδίζειν sia accostabile a danze e a schemata di questo tipo: secondo gli editores veteres di Polluce l’ ipotesi era da prendere in considerazione, come si evince da Hor. Carm. 1.36.12, ricordato da Hemsterhuis, in calce a Poll. 4.99s., ipotesi confermata poi da Andrisano (2010, p. 23) che richiama Plut. Nu. 13.7s., con la descrizione della danza che accompagna i canti dei Salii. διαρρικνοῦ si tratta del nucleo della citazione, per cui le fonti confermano un’intenzione volgare ὅπερ ἦν τὸ τὴν ὀσφῦν φορτικῶς περιάγειν (cf. Hsch. δ 1265). Cf. anche Phot. ρ 124 ῥιϰνοῦσθαι· τὸ διέλϰεσθαι ϰαὶ παντοδαπῶς διαστρέφεσθαι ϰατ᾽ εἶδος· λέγεται δὲ ϰαὶ ῥιγνοῦσθαι, τὸ ϰαμπύλον γίγνεσθαι ἀσχημόνως ϰαὶ ϰατὰ συνουσίαν ϰαὶ ὄρχησιν ϰάμπτοντα τὴν ὀσφῦν. Σοφοϰλῆς ᾽Iχνευταῖς (fr. 316), quindi Suda ρ 166 (cf. anche Hsch. ρ 319, ρ 372). L’ azione orchestica sarà di tipo comico, dal momento che la descrizione sembra sovrapponibile a quella offerta per il cordax da schol. Ar. Nu. 540. Si considerino anche Ar. Ve. 1487 (πλευρὰν λυγίσαντος, su cui cf. Biles-Olson 2015, p. 503, quindi Hsch. σ 1992), Eup. fr. 88.3s. (κἀπικινεῖ ταῖς κοχώναις / καὶ † πείθεις † ἄνω σκέλη). L’ elemento osceno parebbe confermabile da un papiro magico di cui ha dato conto Beta (1992, p. 98 n. 17), in relazione a Cratino. Nel papiro, il verbo è esito di congettura dell’editore, che, dove si legge ἐὰν τινα θέλῃς μυρικωαι (sic) ἄνδρα, correggeva in θέλῃς μὴ ῥικνῶσαι: «die Herstellung oder vielmehr Lesung zeigt ein Verbum ῥικνόω in obscöner Bedeutung. ῥικνόομαι wird von einem obscönen Tanze und überhaupt von obscöner Stellung des Körpers gebraucht Poll. IV.99, Luc. Lexiph. 8 (ἐρρικνοῦντο τὴν ὀσφῦν)» (Dietrich 1891, p. 188). L’ipotesi è interessante, ma non sicura. La sillaba -ρι- di διαρρικνοῦ in Cratino è interessata dalla cosiddetta correptio Attica. fr. *235 K.–A. (220 K.) χαίρετε δαίμονες οἳ Λεβάδειαν Βοιώτιον οὖθαρ ἀρούρης οἳ D : οἱ alii codd. -D

salve, numi, che Lebadea seno beota di terra fertile Heph. 8.2 (p. 24.20) ἐπισημότατον δὲ ἐν αὐτῷ ἐστι τὸ τετράμετρον καταληκτικὸν εἰς συλλαβήν … κέκληται δὲ Ἀριστοφάνειον οὐκ Ἀριστοφάνους αὐτὸ εὑρόντος πρώτου, ἐπεὶ καὶ παρὰ Κρατίνῳ ἐστὶ χαίρετε — ἀρούρης (hinc Apost. 18.8d), ἀλλὰ διὰ τὸ τὸν Ἀριστοφάνην πολλῷ αὐτῷ κεχρῆσθαι· καὶ πρὸ Κρατίνου παρ’ Ἐπιχάρμῳ

Τροφώνιος (fr. *235)

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(nell’ anapesto) è famosissimo il tetrametro catalettico in syllabam […] è stato chiamato anche aristofaneo non in quanto Aristofane l’ ha inventato, dal momento che (è) anche in Cratino “salve — fertile”, ma in quanto Aristofane se ne è servito spesso: e prima di Cratino (c’ è) in Epicarmo

Metro tetrametro anapestico catalettico

lkklkklkkll|llkklkkll

Bibliografia Elmsley ined. (cf. Comentale 2016, p. 101); Runkel (1827, p. 61); Bergk (1838, p. 217); Meineke (1839b, p. 142); Bothe (1855, p. 45); Kock (1880, p. 80); Pieters (1946, p. 172); Edmonds (1957, pp. 102s.); Luppe (1963, p. 200); Kassel (1981, p. 14 n. 1); PCG IV p. 241; Quaglia (2000, pp. 459 e 461s.); Storey (2011, pp. 382s.); Comentale (2016, p. 101) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Efestione (8.2 p. 25.4) alle prese con il tetrametro anapestico catalettico. Dopo aver citato Ar. Nu. 959 e dopo aver chiarito che il nome aristofaneo del verso non deriva da una primazia cronologica di Aristofane, ma da una sua predilezione per questo tipo di verso, si serve di Cratino per dimostrare quanto affermato, in quanto precedente ad Aristofane. L’ assenza di titolo non permette di ricondurlo certamente al Trophōnios, ipotesi tuttavia tentata da Runkel (1827, p. 61) e accolta da tutti i successivi editori. Come ha segnalato Comentale (2016, p. 101), l’ assegnazione era stata avanzata da Elmsley qualche anno prima, verisimilmente fra il 1822 e il 1825, in un appunto inedito e non datato. Il richiamo ai numi di Lebadea induce ad assegnare il frammento a questa commedia, ma è senz’ altro preferibile mantenere il prudente asterisco con cui l’ assegnano al Trophōnios Kassel e Austin. Il frammento appare tal quale in Apost. 18.8d, con l’ indicazione del poeta. Testo Il testo non presenta difficoltà di alcun genere. Si segnala la v. l. οἳ (D) rispetto a οἱ della restante tradizione. Preferibile dovrà dirsi οἵ, con la proposizione relativa di queste forme di saluto, tipicamente ma non esclusivamente innodiche (cf. Norden 1913, pp. 168–176, Kranz 1933, pp. 288s., Willi 2003, pp. 34s.). Interpretazione Il breve frammento anapestico potrebbe derivare da numerose sezioni della commedia, tutte quelle in cui effettivamente gli anapesti sono ammessi. Se il testo annuncia un inno, una collocazione parabatica non pare fuori luogo, nel momento in cui si usa come termine di confronto Aristofane, dove gli inni e le preghiere sono spesso parabatici: ma va sottolineato come tali inserti siano essenzialmente sezioni liriche (cf. Fraenkel 1962, 189–211 e Willi 2003, p. 35). Si può pensare, in alternativa, a una sezione come quella delle Nuvole, dove la preghiera di Strepsiade in tetrametri anapestici (vv. 263–274) precede l'inno della parodo (vv. 275–290 strofe e 298–313 antistrofe, separate da un dialogo in anapesti). La struttura, certamente tradizionale (cf. Norden 1923, p. 287), risulta molto simile a quella registrata nel fr. 225, e si rifarà ad andamenti lessicali e sintattici molto antichi, che prevedevano, nella relativa, l’ indicazione senz’ altro del luogo di venerazione, prima ancora delle potenze e delle qualità della divinità

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Cratino

invocata. Sul piano stilistico la sequenza anapestica presenta una forma ‘dattilica’ (cf. Kassel 1981, p. 14 n. 1 con rimando ad Ar. fr. 233). Chi siano le divinità evocate non è dato conoscere: secondo Bergk (1838, p. 217) si tratta di parole del coro con cui vengono invocate varie divinità, quelle precisate da Paus. 9.39.5s. (cf. anche Pieters 1946, p. 172 e Luppe 1963, p. 200). A causa della formula di saluto, Quaglia (2000, p. 459) pensa anch’ egli a un’ invocazione che coinvolga le divinità menzionate da Pausania e immagina che il verso derivi dalla parodo come battuta del corifeo, ciò che dovrà dirsi quanto mai incerto. Secondo queste ipotesi, oltre a Trofonio, sarebbero salutate le divinità menzionate da Pausania, dunque Apollo, Crono, Zeus, Era, Demetra (cf. Paus. 9.39.5s.): tuttavia, si può dubitare del fatto che le notizie di Pausania possano trasferirsi sic et simpliciter al V sec. a. C., e si può avanzare un qualche scetticismo sulla possibilità che quelle divinità all’ epoca di Cratino fossero definibili δαίμονες, semplicemente (cf. infra). Che questa battuta contribuisca a collocare a Lebadea la scena pare molto incerto (cf. supra Titolo). χαίρετε per questo genere di formule di saluto e di rallegramento, cf. infra ad fr. 237. δαίμονες la parola deriva da δαίομαι, e, soprattutto al plurale, è originariamente sinonimo di θεοί (cf. Wilamowitz 1931, I pp. 356–367), ma dall’ epoca di Cratino comincia a delinearsi una distinzione tra i due termini (cf. West 1978, p. 182), per quanto non del tutto netta (cf. Andres 1918, cc. 282s., François 1957 passim, cui rimanda Arnott 1996, pp. 680s.), ma si veda poi il noto Pl. Smp. 202e, detto di Eros. Cf. Ar. fr. 381 dove il singolare è impiegato, si direbbe, per la dea Bendis. οἳ la presenza del relativo in situazioni tradizionali di questo genere risulta molto diffusa (cf. Norden 1923, p. 287 n. 51 con numerosi esempi fin da Omero, quindi Willi 2003, p. 36). Λεβάδειαν per il luogo in relazione a Trofonio cf. in part. Paus. 9.39.3–5 e Steph. Byz. τ 68, cf. inoltre Hsch. λ 481 (Phot. λ 134, Suda λ 213), che dipendono da Arpocrazione testimone di Lycurg. XII fr. 2. Per il richiamo esplicito alla Beozia, cf. in particolare Strab. 9.4.13. Βοιώτιον l’aggettivo in commedia ricorre per lo più in senso negativo: questa pointe vale anche per Cratino, cf. fr. 77 συοβοιωτοί e forse fr. 346 col commento di Olson-Seaberg (2018, p. 131). Nel caso in questione, tuttavia, l’ impiego appare piuttosto neutrale e simile a passi come Il. 17.597, dove indica semplicemente provenienza. οὖθαρ ἀρούρης il nesso è omerico, cf. Il. 9.141, 9.283 (detto della terra di Argo), H. Hom. 2.450 (detto della terra di Eleusi), mentre οὖθαρ ricorre anche in IG I3 503/504 lapis C r. 2, tutti esametrici32. Sul versante comico si veda Ar. fr. 112, cui rimandano Kassel e Austin per prossimità formale (v. 2): χαῖρε … οὖθαρ ἀγαθῆς χθονός.

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Nell’ epigrafe da Maratona la patina ionica resta conservata. Per la questione linguistica del testo cf. recentemente Tentori Montalto (2013).

Τροφώνιος (fr. 236)

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fr. 236 K.–A. (221 K.) οὐδ’ Αἰξωνίδ’ ἐρυθρόχρων ἐσθίειν ἔτι τρίγλην, οὐδὲ τρυγόνος οὐδὲ δεινοῦ φυὴν μελανούρου 2 οὐδὲ δεινοῦ φυὴν Casaubon (1600, p. 354) : οὐ δεινουφην A, οὐδὲ δειλοῦ φυὴν susp. Kock (1880, p. 80)

e non mangiare più la triglia rubente di Essone, e neppure la pastinaca né l’ occhiata terribile per indole Ath. 7.325e Κρατῖνος δ’ ἐν Τροφωνίῳ φησίν· οὐδ’ — μελανούρου Cratino nel Trophōnios: e non — l’ occhiata terribile per indole Hsch. α 2015 (sim. Phot. α 606, Suda αι 243 = Ps.-Zon. 81.2s., sim. Prov. cod. Par. suppl. 676 ) Αἰξωνίδα τρίγλην· δοκοῦσι κάλλισται εἶναι αἱ Αἰξωνικαὶ τρίγλαι triglia di Essone: ritengono che le triglie di Essone siano le migliori

Metro due priapei. Forse operante la cosiddetta correptio Attica nella terza sillaba di ἐρυθρόχρων

lllkklkl|lklkkll lulkklkl|lklkkll

Bibliografia Casaubon (1600, p. 354 = 1621, c. 540); Schweighäuser (1803b, p. 197); Runkel (1827, p. 60); Bergk (1838, p. 217); Meineke (1839b, p. 141); Bothe (1855, pp. 44s.); Kock (1880, p. 80); Deubner (1900, p. 16); Edmonds (1957, pp. 102s.); Luppe (1963, pp. 200s.); PCG IV p. 241; Quaglia (2000, p. 461); Storey (2011, pp. 382s.) Contesto della citazione Nel corso di quel settimo libro dedicato ai pesci, la cui fonte è principalmente Dorione, collettore a sua volta di numerose testimonianze erudite (cf. Wellmann 1905, c. 1536), Ateneo si sofferma sulla triglia (7.324c-325f), di cui illustra le peculiarità zoologiche, senza trascurare peraltro elementi linguistici del nome del piccolo pesce. Sul piano (para)etimologico, Ateneo segnala la possibilità del pesce di procreare tre volte l’ anno (cf. e. g. Aristot. HA 543a 5, Ael. NA 9.51 e 10.2, o Artem. On. 2.14). Sempre grazie a uno spunto paretimologico, Ateneo indica la presenza della triglia nei riti di Ecate (325a), per affinità del nome del pesce con gli epiteti della divinità (Apoll. FGrHist 244 F 109a), un fatto sfruttato in commedia anche da Charicl. fr. 1, Antiph. fr. 69.14s. A concludere la trattazione sulla triglia, il Naucratita si sofferma su quelle triglie che si trovano nel mare che bagna Essone, un demo dell’ Attica, e cita il frammento di Cratino, seguito da Nausicr. fr. 1.6–11, interessato alla connessione del pesce con Ecate. Fra i testimoni vanno annoverati alcuni lemmi tràditi dai repertori lessicografici, Hsch. α 2015 (Suda αι 243 = Ps.-Zon. 81.2s.), Phot. α 606: la peculiare forma Αἰξωνίδα induce

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Cratino

a giudicare la costellazione a pieno diritto fra i testimoni del frammento, omisso nomine poetae. Theodoridis (ad l.), quindi Kassel e Austin segnalano anche Prov. cod. Par. suppl. 676 (CPG suppl. I p. 72 nr. 3 C.): il ms. offre Αἰξωνίαν τρίγλην, ma la iunctura e l’ interpretamentum sono indizi di un riferimento talmente prossimo a Cratino, come segnalava in qualche modo del resto lo stesso Cohn (1887, ad l.), che sembrerebbe dunque preferibile annoverare anche questa glossa fra i testimoni. Testo Il testo è in priapei, una delle forme del tetrametro catalettico gliconico derivante dall’ associazione di gliconeo e ferecrateo. L’ impiego stichico dei priapei si trova in Anacr. PMG 373, con una sequenza rara rispetto alla più consueta presenza del priapeo in clausola di strofe liriche in contesti ritmici omogenei o meno. Sul piano del rapporto coi contenuti andrà perlomeno segnalato come sia in Anacreonte, sia nell’ altro frammento di Cratino dove si troverebbe un priapeo (fr. 358) – però costituito da un unico verso e dunque impossibile a precisarsi nel contesto ritmico generale – sia in Pherecr. fr. 138 – dove il priapeo viene alternato ai cratinei – il contesto risulta sempre gastronomico o simposiale: fu per similarità di temi e identità di metro che Bergk (1838, p. 217) ricondusse al Trophōnios appunto l’ anepigrafo fr. 358, che deriva sempre da Ath. 7.305a–b33. Il frammento non presenta particolari difficoltà testuali, se si eccettua l’ aplografia con mancata divisio verborum del v. 2 (al v. 1 forse nel ms. si trova εἰ τι, corretto da Dalechamps). La scrittura erronea fu emendata da Casaubon (1600, p. 354) in οὐδὲ δεινοῦ φυήν: l’intervento risulta accolto dai successivi editori, compreso Kock (1880, p. 80), che però in apparato suggeriva in alternativa οὐδὲ δειλοῦ φυήν, cl. Ael. NA 1.41. Sul versante paleografico, l’ intervento di Casaubon risulta quello preferibile, e in definitiva esso deve dirsi migliore anche per l’ interpretazione del nesso che ne consegue, dal momento che φυή va inteso come sinonimo di φύσις, nel senso di “indole”, secondo un impiego del sostantivo individuabile, e. g., in Il. 2.58, come interpreta Eust. Il. 172.41–173.534 che cita Pind. O. 2.86, e in Opp. Hal. 1.639 (cf. ThGL VIII 1103a, e infra al lemma). Sul piano sintattico φυήν sarà accusativo di relazione, per la sua collocazione fra (il recuperato) δεινοῦ e μελανούρου. Non è sicuro che questo sia complemento oggetto del precedente ἐσθίειν, ed è sulla base di questa considerazione che Kock (1880, p. 80) ipotizzò la presenza di un verbo successivo come γεύσασθαι in quanto non sarebbe perspicua la dipendenza sintattica dei genitivi del v. 2 da ἐσθίειν, al pari dell’ accusativo τρίγλην, soluzione offerta invece da Casaubon35. Al di là della scelta specifica di Kock (si potrebbe 33 34 35

Si veda il commento di Olson-Seaberg (2018, pp. 155s.). Cf. schol. Il. 2.58a1–2, che esprime concetti analoghi. Nell’ edizione del 1612 Casaubon richiamava Dalechamps: «neque mullos, neque pastinacam, neque atrum melanurum»; è stata poi inserita (1612) a fianco del testo greco la sua correzione al testo tràdito, in base a cui si risolveva a rendere il testo greco con «neque pastinacam, neque solertis ingenii melanurum», Animadversiones (c. 564). Schweighäuser (1803b, p. 197) riconduceva tutti i sostantivi al solo verbo presente nel frammento.

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pensare anche a qualcosa come ἅπτειν), la doppia reggenza sintattica appare forzata, ma può trattarsi di una variatio. Interpretazione Il frammento rimanda a qualcuno costretto ad astenersi dal mangiare i pesci indicati (cf. infra), una prescrizione che il titolo della commedia e la presenza di ἔτι inducono a considerare come un divieto rituale (cf. ad fr. 233). Tale ipotesi interpretativa può contare, e. g., su D. L. 8.33 che ricorda come triglie e melanuri fossero un tabù alimentare pitagorico (cf. Rohde 1870, p. 560, per un confronto con schol. Luc. Dial. Meretr. 7.4, e si veda Deubner 1900, p. 15), e su Paus. 1.37 che indica come più generalmente i pesci fossero vietati nei riti eleusini36. L’ elemento metrico-ritmico e le sue attestazioni sopra menzionate possono però aggiungere un tratto non serio all’ eventuale divieto mistagogico, un’ intonazione comica che si evince anche dal richiamo a specifiche triglie, quelle di Essone37, e all’ aprosdoketon costituito da τρυγόνος, la pastinaca, un pesce mai espressamente vietato in regimi alimentari misterici. Tutti questi pesci sono presenti in Artemidoro (On. 2.14), delineati con una propria simbologia onirica: la triglia indicherebbe torture per gli schiavi, febbri per i malati ma anche fertilità per le donne; la pastinaca annuncerebbe pericoli e complotti; il melanuro incontri con uomini furbi e spiacevoli. In definitiva, il frammento si colloca in un passo del settimo libro dei Deipnosofisti in cui l’ attenzione alla triglia si circoscrive a situazioni misteriche e religiose, sicché andrà considerato come la fonte di Ateneo, o forse già Cratino stesso, inserissero questa sequenza in un contesto religioso, che peraltro la commedia suggerisce. Tutti questi pesci, inoltre, se sognati sono annuncio di situazioni negative e la prescrizione potrebbe dunque cercare di stornare la possibilità appunto di sognarne le fattezze, forse in un momento che precede un’ incubazione, prevista nei riti dell’ antro (cf. Introduzione alla commedia). vv. 1s. οὐδ’ … οὐδὲ … οὐδὲ per la successione delle negazioni cf. Denniston GP p. 193 (cf. K.-G. II/2 p. 94) e più di recente Austin (2006, pp. 113s.): il primo οὐδέ sarà avverbiale, il secondo connettivo tra due frasi se va ipotizzato, con Kock, un verbo nel verso successivo da cui dipendano i genitivi, il terzo connettivo tra sostantivi (e in tal caso si potrebbe ipotizzare forse οὔτε). Nel caso della doppia reggenza del verbo, la questione non si pone. Αἰξωνίδ(α) … τρίγλην secondo le testimonianze lessicografiche ed onomastiche riconducibili a questo frammento, si tratta di una triglia quanto mai prelibata e sarà verisimilmente la triglia di scoglio (Mullus surmeletus L.). Non si può determinare se la notizia non sia piuttosto autoschediastica, visto che le triglie migliori sarebbero di Taso, Teo ed Eritre secondo Archestr. fr. 42. In generale, la triglia, sia di fango (Mullus barbatus L.) sia di scoglio, di per sé veniva annoverata 36 37

Cf. Guidorizzi (1989, p. 175) che ricorda anche i divieti alimentari ittici dei sacerdoti egiziani, secondo quanto riporta Plut. Mor. 353c. Cf. Quaglia (2000, p. 461), che individua qui un «paradosso comico».

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fra i cibi considerati squisiti e gode di ampie attestazioni nel versante parodico e comico della poesia, evidentemente gastronomica (cf. e. g. Archestr. fr. 42.4s., Matro 1.27–31, Epich. frr. 57 e 122.5, Philyll. fr. 12.3, Mnesim. fr. 4.38, Nausicr. fr. 1.6–11, col menzionato sacrificio delle triglie a Ecate). Nella produzione superstite di Cratino, il pesce viene menzionato proprio nel fr. 358, l. c., che, come si diceva sopra, è costituito da un solo verso priapeo. Cf. Thompson (1947, pp. 264–268), García Soler (2001, pp. 184s.), Mastellari (2020, p. 421). Va segnalato come in riferimento alla τρίγλη l’aggettivo Αἰξωνίς sia unico in Cratino e nei lessici menzionati, e come altre attestazioni di questa forma femminile di aggettivo si trovino solo in Steph. Byz. α 136 e α 189 (cf. schol. Call. H. 3.173), con informazioni di origine grammaticale. Cf. anche Poll. 6.63, per il generale apprezzamento delle triglie di Essone (τρίγλαι Αἰξωνικαί). In commedia, gli abitanti del demo di Essone erano oggetto di dileggio ὡς βλασφήμιοι (cf. Hsch. α 2014 e Phot. α 607–609, Eust. Il. 741.20, da materiale di Suet. βλασφ. 255). ἐρυθρόχρων si tratta di hapax, ma composti analoghi sono diffusi, cf. ξανθόκρωτες in Nausicr. fr. 1.7 detto sempre della triglia, oppure Opp. Hal. 1.130 (τρίγλης τε / ῥοδόχροα φῦλα), o Matro fr. 1.27 (μιλτοπάρῃος), o γαλακτόχρωτα detto del rombo sempre in Nausicr. fr. 1.12. Da considerare in àmbito latino Sen. Nat. 3.18.5 tunc, ut quisque peritior est, monstrat: «uide quomodo exarserit rubor omni acrior minio!». Al di là del contesto ittico, composti con una nota cromatica al primo membro e χρόα al secondo appaiono nella poesia seria, cf. e. g. Theocr. 18.31, Anacreont. 53.22. La cosiddetta correptio Attica non è operante in ἐρυθρ-, mentre, in uno schema più usuale del gliconeo, dovrebbe esserlo nella sillaba successiva (ma cf. Koster 1962, p. 212). v. 2 οὐδὲ si può interpretare come trocheo o come spondeo. τρυγόνος trygon pastinaca Cuv. È una sorta di razza dalla lunga coda (cf. Aristot. HA 489b 31), che ha un pungiglione. Viene elencata nelle numerose pietanze di Mnesim. fr. 4, segnatamente al v. 39, e, per stare alla commedia, si trova in Antiph. fr. 27.23, oltre che già in Epicarmo, che ne rilevava il pungiglione (fr. 59 τρυγόνες τ’ ὀπισθόκεντροι). Cf. Thompson (1947, pp. 270s.), García Soler (2001, pp. 157), Mastellari (2020, p. 421). δεινοῦ φυὴν μελανούρου si tratta dell’ oblata melanura L., vale a dire l’ occhiata. Il pesce, comune nel Mediterraneo, viene menzionato in commedia (Epich. fr. 49.2, Henioch. fr. 3.4) o nella poesia gastronomica (Matro 1.51). Da segnalare, rispetto alla correzione di Casaubon, il senso del recuperato aggettivo δεινοῦ, che lo studioso circoscriveva in rapporto all’ indole, sulla base di Ael. NA 1.41 e Opp. Hal. 3.443s., cf. anche Artem. On. 2.14. Quanto a φυή, come “indole”, cf. Il. 2.58, P. O. 2.86 (εἰδὼς φυᾷ). Questa dovrebbe esserne l’ interpretazione più appropriata, piuttosto che quella legata all’ aspetto che non indicherebbe tanto bruttezza quanto una dimensione notevole, tuttavia non riscontrabile nella realtà zoologica. Sul melanuro cf. Thompson (1947, pp. 159s.), García Soler (2001, p. 182), Mastellari (2020, p. 218).

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fr. 237 K.–A. (222 K.) ἔγειρε δὴ νῦν, Μοῦσα, Κρητικὸν μέλος χαῖρε δή, Μοῦσα· χρονία μὲν ἥκεις, ὅμως δ’ ἦλθες οὐ † πρίν ἐλθεῖν † ἴσθι σαφές· ἀλλ’ ὅπως 3 οὗ Choerob. U πρίν ἐλθεῖν Heph. A : πρὶν ἐλθεῖν cett., πρίν γε δεῖν Porson (ap. Gaisford 1855, p. 78), πρίν μ’ ἀθλεῖν Bothe (1855, p. 46), πρὶν λαθοῦσ(α) Kaibel ms. ap. Kassel et Austin, οὗ πρίν σε χρῆν Kaibel ms. ap. Kassel et Austin, πρὶν παροῦσ(α) vel πρὶν χοροῦσ(α) Marzullo (1959, p. 147) 〈4 εὔτονον τοῖς θεαταῖσιν ᾄσει μέλος〉 suppl. Porson e. g. (ap. Gaisford 1855, p. 78)

suscita adesso, Musa, il canto cretico salve, Musa! Sei giunta tardi, e tuttavia sei arrivata non † prin elthein † sappilo chiaramente: ma per Heph. 13.1 (p. 40.5) παιωνικὸν … καλεῖται δὲ καὶ ὑπ’ αὐτῶν τῶν ποιητῶν κρητικόν, ὥσπερ ὑπὸ Κρατίνου ἐν Τροφωνίῳ· ἔγειρε — μέλος, εἶτα ἐπιφέρει· χαῖρε — ὅπως il peonico […] dai poeti stessi è chiamato cretico, come da Cratino nel Trophōnios: suscita — cretico, poi aggiunge: salve — per schol. Choerob. 13.1 (p. 248.6) καὶ φέρει παράδειγμα τὸ Κρατίνου ἐν Τροφωνίῳ ἄνω· χαῖρε — ὅπως e porta come esempio questo nel Trophōnios di Cratino sopra: salve — per Mar. Plot. Sacerd. GL VI 542.20s. paeonicum metrum multi creticum nuncupaverunt … unde Cratinus dicens ‘age (Keil : agemus AB, agamus C) Musa, dicamus Creticum modum’ intulit metrum paeonicum in tanti hanno considerato cretico il metro peonico […] per cui Cratino quando ha detto ‘avanti, Musa, cantiamo il modo cretico’ introdusse il metro peonico Hsch. κ 4088 Κρητικὸν μέλος· οὕτω Κρῆτες (-αι cod.) ῥυθμοὶ ἐλέγοντο ἀπὸ Κρητῶν. καὶ γένος ὀρχήσεως canto cretico: in questo modo erano definiti ritmi cretesi a partire dai Cretesi. Anche un tipo di danza Phot. κ 1089 Κρητικόν· μέλος τι καὶ ῥυθμός cretico: un canto e un ritmo

Metro trimetro giambico, due tetrametri cretici. Al v. 1 operante la cosiddetta correptio Attica. Al v. 2 nel secondo metron, e al v. 3 nel terzo metron, il cretico assume la forma soluta di peone IV.

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Cratino

klkll|lklklkl lkllkkklkllkl lkl†kll†lkkklkl Bibliografia Porson ap. Gaisford (1855, p. 78); Runkel (1827, p. 60); Bergk (1838, p. 218); Meineke (1839b, p. 144); Bothe (1855, p. 46); Kock (1880, p. 81); Kock (1888, p. 712); Edmonds (1957, pp. 204s.); Marzullo (1959, p. 147); Luppe (1963, pp. 202–204); PCG IV p. 242; Quaglia (2000, p. 463); Storey (2011, pp. 384s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato, principalmente, da Heph. 13.1 (p. 40.5) alle prese coi cretici talora soluti come peoni (qui adotterò la definizione di cr). Il metricista cita i versi dichiarandoli dal Trophōnios a fini esemplificativi, e tramanda pertanto un trimetro giambico cui seguirebbe un distico di tetrametri cretici. Alla tradizione indiretta del v. 1 del frammento andrà ascritto anche Mar. Plot. Sacerd. Ars gramm. (de metris) GL VI 542.20s., i cui manoscritti recano agemus (AB), agamus (C), corretti da Keil in age. Difficile dire se il testo del metricista latino dipenda da una fonte in greco (o con il testo di Cratino in greco) o da un testo già del tutto in latino: certamente age recuperato da Keil riflette il greco δή (cf. e. g. Val. Flac. Arg. 6.516), a differenza dei tràditi agemus o agamus. Nella tradizione indiretta dei vv. 2s. va invece annoverato lo schol. Heph. 13.1 di Cherobosco (p. 248.6 C.), che non mostra particolari scostamenti dal testo tràdito di Efestione, a parte il pronome οὗ al v. 3. A questi testimoni, o comunque alla tradizione del v. 2, Runkel (1827, p. 60) e poi Meineke (1839b, p. 144) riconducevano anche Hsch. κ 4088 (Κρητικὸν μέλος· οὕτω Κρῆτες ῥυθμοὶ ἐλέγοντο ἀπὸ Κρητῶν. καὶ γένος ὀρχήσεως): non escluderei che nella tradizione indiretta lessicografica possa esser ricompreso anche Phot. κ 1089 (Κρητικόν· μέλος τι καὶ ῥυθμός), come esito di una compressione della tradizione di Diogeniano e dunque di Esichio, e come esempio di coppia contigua. Testo La disposizione editoriale proposta da Kassel e Austin appare la più commendabile fra quelle suggerite, a segnalare un cambio di ritmo fra il v. 1 e i successivi. Il testimone non dice che il trimetro giambico precede immediatamente i cretici, ma l’ ipotesi potrebbe essere la più probabile, perché in Efestione – per quel che può valere il criterio dell’ usus scribendi in un’ epitome di un’ opera strumentale – il verbo ἐπιφέρειν sembra indicare contiguità (cf. p. 44.7s. a proposito della strofe saffica), e altrettanto sembrerebbe poter dirsi di εἶτα (cf. e. g. p. 42.6). Appare problematico il v. 3: la situazione testuale offerta dai manoscritti è contra metrum, in quanto il secondo colon è rappresentato da un baccheo, che non trova posto nelle sequenze di cretici38, quanto sembra bastare a individuare una corruzione 38

Sequenze liriche di cretici e bacchei, occasionalmente, si trovano nella tradizione manoscritta dei testi drammatici, cf. e. g. Soph. El. 1086 (~ 1094), 1277, 1420 (~ 1421), e forse v. 200 (~ 220). In una diversa articolazione si potrebbe pensare a 4cr / cr / ba 2 cr (cf. Soph. OC 1478 ~ 1492) o ancora come 4 cr / cr do / cr (cf. Soph. OC 1685 ~ 1712).

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che ha conosciuto svariati interventi. Ha riscosso successo πρίν γε δεῖν di Porson (ap. Gaisford 1855, p. 78, la cui prima edizione risale al 1810), che si trova in Bergk (1838, p. 218), poi nell’ edizione di Meineke (1839b, p. 144) e di Kock (1880, p. 80). L’ ipotesi di Porson non ha convinto Marzullo (1959, p. 147), che ha suggerito πρὶν παροῦσ(α) o, in alternativa, πρὶν χοροῦσ(α). Le valutazioni di Marzullo in qualche modo ripercorrono una delle note (a quel momento inedite) di Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin), che suggeriva πρὶν λαθοῦσ(α), ο anche οὗ πρίν σε χρῆν. Alle considerazioni di Marzullo ha guardato con favore anche Luppe (1963, p. 203), almeno nel respingere l’ emendamento di Porson. Kock tornò sul passo negli Addenda (1888, p. 712) con la proposta di interpungere dopo ἦλθες, e intendere «sero quidem venisti, attamen venisti; hora novissima sane, ut dicam quod sentio», ma la situazione testuale ed esegetica, come ha osservato Marzullo, non si rende in questo modo più agevole. Ci sono elementi che vanno considerati sicuri, in questo attacco, come la presenza di ἦλθες, sorta di Schlagwort innodico (cf. e. g. Sapph. 1.5, 1.8 e 1.25, per cui cf. Neri 2021, pp. 538 e 545); la presenza di epiteto in apertura, ancorché scherzoso; il saluto alla Musa con il richiamo alla χάρις (cf. e. g. Ar. Ach. 437, Ve. 389, 764s., Pax 386, Th. 311, 314, 981, 982, 1231 e infra); la presenza di un imperativo (ἴσθι) oltre a quello della formula di saluto, per quanto in casi del genere, normalmente, la richiesta si riferisca a manifestazioni della divinità e dunque i verbi abbiano a che fare con il movimento39: ne consegue che, a meno di non voler ipotizzare ἴθι al posto di ἴσθι con ulteriori conseguenze sul piano metrico e testuale (σαφές sarebbe inappropriato), si dovrà segnalare come l’ imperativo ἴσθι sia meno presente nella poesia innodica rispetto ad altri. In definitiva, l’ ipotesi di Kassel e Austin di considerare irrimediabilmente corrotta la sequenza πρίν ἐλθεῖν è la più commendabile, magari mantenendo πρίν di A, manoscritto più antico e che potrebbe, forse, conservare una lezione più antica e dunque suggerire un pronome o una particella atona o una forma di pausa subito dopo. In netta alternativa, si potrebbe pensare che πρίν ἐλθεῖν sia una glossa intrusiva per ὅμως δ’ / ἦλθες e che dunque si possa stabilire una sequenza cretica, priva di πρίν ἐλθεῖν, ma con qualcosa come οὗ σοὶ πρέπει, ἴσθι σαφές (cf. Ar. Lys. 1297). Ovviamente le congetture si potrebbero moltiplicare, ad esempio οὐκ ἀκλεής, o, ipotizzando che la negazione sia errore d’ archetipo anche negli scolî, si potrebbe suggerire ὦ φιλτάτη, per cui cf. Ar. Pax 582 χαῖρε χαῖρ’, ὡς ἀσμένοισιν ἦλθες, ὦ φιλτάτη. Per concludere la frase lasciata sospesa dal taglio della citazione, Porson (ap. Gaisford 1855, p. 78) ipotizzò 〈εὔτονον τοῖς θεαταῖσιν ᾄσει μέλος〉 a titolo esemplificativo. Interpretazione Il frammento si presenta come una sequenza di 4cr 4cr, preceduta da 3ia. Il ritmo cretico è ben testimoniato in commedia: tuttavia, prendendo come riferimento le commedie integre di Aristofane – le uniche di cui ci 39

Cf. Willi (2003, p. 31 e n. 97).

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Cratino

si possa in qualche modo servire per delineare un rapporto fra metro, contenuto e drammaturgia – si direbbe che al cretico Aristofane gradualmente preferì, nel corso della propria carriera, altre soluzioni. Il fatto che i cretici siano rappresentati specialmente negli Acarnesi, non sembra poter esser significativo sul piano cronologico per un raffronto con Cratino, dal momento che la cronologia del Trophōnios sfugge del tutto. Successioni di cretici sono riscontrabili in Ar. Ach. 208–218 (~ 223–233) e 665–675 (~ 692–702): quest’ ultimo rappresenta un raffronto significativo per questo frammento di Cratino, in quanto costituisce un’ invocazione alla Musa (cf. infra). I cretici, dove i tetrametri potrebbero essere in recitativo ma non necessariamente (cf. Parker 1997, 145), sono, sempre negli Acarnesi, in 971–987 (~ 988–998), chiusi da un 4tr∧. Cretici alternati ai trochei sono in Ar. Ach. 284–301 (~ 335–346)40; alternati ai giambi e ai docmi nel lungo amebeo di Ach. 1190–122341. Interessante sarà anche la sequenza di cretici in recitativo della seconda parabasi delle Vespe (vv. 1275–1283 ~ 1284–1291). Sequenze di 4cr, paragonabili a quella di Cratino, si trovano in Ar. Av. 243–245, chiusi da 4cr^, alternati ai docmi nella coppia strofica di Av. 327–335 (~ 343–351), presenti inoltre nell’ ode della seconda parabasi in Av. 1066s. (~ 1096s.). Sul piano della poesia comica in frammenti dove si trovino cretici, saranno da segnalare, per una qualche affinità di ordine stilistico col frammento di Cratino, Eup. fr. 173 (dai Kolakes del 421 a. C.), Theop. Com. fr. 39 e Ar. frr. 112, 348, 719 (cf. Parker 1997, p. 45), la cui esecuzione sarà da riconoscere in recitativo. In Cratino si direbbe preferibile l'ipotesi dell'esecuzione cantata. Quale fosse la collocazione del frammento all’ interno della commedia risulta tuttavia difficile chiarire, dal momento che i raffronti non sono sufficientemente stringenti. Il parallelo offerto da Ar. Ach. 665, parabatico, e sfruttato da Kock (1880, p. 80, quindi Schmid 1946, p. 74 n. 6, e da Whittaker 1935, p. 188) per una collocazione analoga, presenta somiglianze metriche (3cr 3cr, cf. supra) e lessicali (δεῦρο Μοῦσ’ ἐλθὲ φλεγυρὰ πυρὸς ἔ- / χουσα μένος ἔντονος Ἀχαρνική) con Cratino. Non potrà invece deporre a favore della collocazione parabatica semplicemente il fatto che questo frammento di Cratino, assieme ad altri come Eup. fr. 173 o Ar. fr. 112, compaia in Efestione assieme ad Ar. Ve. 1275, che indiscutibilmente proviene dalla sizigia epirrematica della seconda parabasi. L’ idea di collocazione del frammento in una seconda parabasi, sul modello delle Vespe, si scontra anch’ essa col fatto che, in Aristofane, la sequenza di cretici è preceduta da trochei e presenta un'esecuzione in recitativo, cosa che mi pare difficile per Cratino. Si deve osservare che la contiguità in Cratino fra il trimetro giambico e i cretici, rispetto a una collocazione parabatica, è priva di attestazioni (cf. Fraenkel 1962, p. 199 n. 1). E se è certo che questo elemento non ha paralleli, pur tuttavia non sarà sufficiente a escludere in Cratino l’ ipotesi della parabasi, verisimilmente 40 41

Per la sizigia di questi versi sulla base dell’ interpretazione antica eliodorea conservata nelle annotazioni scoliastiche, cf. Holwerda (1967, pp. 250s.). Per una ricognizione complessiva si rimanda all’ indice di Zimmermann (1985, II p. 103).

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di una parte lirica. Si potrà segnalare, tentativamente, che numerose invocazioni alla Musa, in Aristofane, provengono dalle parabasi (cf. infra nei lemmi); e si potrà osservare, sempre tentativamente, come l’ ode della seconda parabasi degli Uccelli di Aristofane sia preceduta da un trimetro giambico, ovviamente recitato, e sia costituita da sequenze di anapesti e cretici, per cui ai vv. 1066s. (~ 1096s.) si trovano 4cr. Se a pronunciare la battuta fosse un coro, ipotizzerei un coro maschile, visto che in Aristofane i cori che impiegano i cretici sono principalmente maschili (cf. Parker 1997, p. 46). Diversa l’ ipotesi di Bergk (1838, p. 218), che pensava al finale del Trophōnios, suggestione ripresa poi in toto da Meineke (1839b, p. 144), senza chiarire le ragioni di una simile adesione, che, si può immaginare, si fonderà sull’ indicazione della Musa giunta tardi. A favore di questa proposta si potrebbe segnalare Soph. OC 1724–1726 (~ 1737–1739b), dalla seconda coppia strofica del duetto lirico fra Antigone e Ismene che precede immediatamente gli anapesti finali (vv. 1751–1779) dove a un 3ia lirico fa seguito un 2cr. Se si trattasse di un inno con cui Cratino concludeva la commedia, si dovrebbe pensare che la sequenza in cretici non fosse lunga e che fosse intessuta di altri metri e ritmi. A titolo esemplificativo, si potrà considerare il canto rivolto dallo Spartano alla Musa, con cui si conclude la Lisistrata di Aristofane (vv. 1296–1321b), che ha alcune affinità lessicali, ma non metriche. In quale punto della commedia si inserisse dunque questo frammento, appare impossibile a dirsi, sicché alle valutazioni avanzate (cf. supra) se ne possono solo aggiungere altre: come un passaggio della parodo, o un canto di un personaggio (magari un sacerdote del culto di Trofonio) di invocazione alla Musa, però monodico (cf. Ar. Ra. 849 Κρητικὰς … μονῳδίας), o in un duetto amebeo fra il personaggio e il coro, non necessariamente nel finale. Il frammento ha l’ aspetto dell’ attacco di un inno, introdotto appunto da un trimetro giambico dove si invita la Musa a innalzare un canto cretico. In modo simile, per quanto non del tutto sovrapponibile, Ar. Ra. 370, che presenta affinità lessicali col frammento di Cratino (ἀνεγείρετε μολπήν), annuncia in anapesti un inno per Demetra, dove si rilevano svariati elementi di autoreferenzialità del coro: come ha osservato Willi (2003, p. 26), «its cognate μέλπω is confined to one choral hymn in Thesmophoriazusae (961, 970, 974, 989)». Per un’autoreferenzialità del coro, per quanto finto e sui generis, sarà da indicare l’ innodico Ar. Th. 115 (ἀείσατε), intonato dal tragediografo Agatone, per l’ occasione personaggio della commedia di Aristofane. In questi esempi aristofanei, si tratta di un momento del dramma in cui il coro invita a intonare un canto, secondo uno schema che potrebbe esser riferibile anche al trimetro del frammento di Cratino, dove però l’ invito al canto si rivolge alla Musa (in Pax 776 la Musa viene invitata alla danza). Oltre ad Ar. Ra. 370, Kassel e Austin segnalano Lyr. adesp. PMG 967 (ap. D. H. Comp. 25) molto simile a questo testo di Cratino, in quanto sul ritmo cretico si avvia il relativo canto con un elemento di autoreferenzialità performativa simile a quella del frammento cratineo Κρησίοις ἐν ῥυθμοῖς παῖδα μέλψωμεν (si veda

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Cratino

Wilamowitz 1921, p. 62 n. 3). In Ar. Ec. 1165 Κρητικῶς οὖν τὼ πόδε42, il ritmo cretico si trova solo nell’ avverbio. Un’ altra ipotesi potrebbe rimandare all’ iporchema, dal momento che appare perfettamente attendibile la testimonianza di Sosib. FGrHist 595 F 25 (ex schol. Pind. P. 2.127), secondo cui ὑπορχήματα πάντα μέλη Κρηταϊκὰ λέγεσθαι (ad esempio, Bacchyl. fr. 15 è un iporchema oloritmico in cretici). Che in Cratino il ritmo abbia un’ intenzione virile se non addirittura in qualche modo bellica non si può dire43, per quanto alcuni esempi di impiego stichico del cretico nel dramma, come in particolare nel citato passo di Ar. Ach. 665–675 (~ 692–702), possano suggerire una simile ipotesi44, sostenuta, come si diceva sopra, dall’ impiego maschile dei cretici nei corali aristofanei. In generale, l’ importanza di Creta nella dimensione orchestica, con le danze estatiche dei Cureti, è consolidata (cf. Lawler 1951 e Orth 2013, pp. 376s.), ma che esista una relazione di un qualche tipo tra le danze cretesi e Lebadea risulta impossibile da stabilire45. v. 1 ἔγειρε per il verbo in un contesto simile cf. Ar. Ra. 370 (ἀνεγείρετε μολπήν, l. c.) nell’ inno a Demetra. Si vedano inoltre Cratin. fr. 171.63 e Pind. O. 9.47 (ἔγειρ’ ἐπέων σφιν οἶμον / λιγύν), Ν. 10.21 (εὔχορδον ἔγειρε λύραν). δὴ νῦν la lunghezza di hypsilon non determina il significato del termine, da verificarsi di volta in volta, qui con valore temporale (cf. e. g. l’ innodico Sapph. fr. 1.25). Sarà da far risalire a Demetrio Triclinio, probabilmente, l’ equivalenza semantica fra δή e νυν enclitico (cf. i mss. tricliniani di Ar. Pl. 975). Per la questione si veda Fiorentini (2012). v. 2 χαῖρε la formula di saluto riflette gioia per la divinità invocata (cf. Race 1982, pp. 8–10, Olson-Seaberg 2018, p. 161), e normalmente rientra in forme innodiche alla divinità (cf. Furley-Bremer 2001, I pp. 61–63), come si ricava ad esempio da Ar. Nu. 274 (χαρεῖσαι) e Av. 1743 (ἐχάρην ὕμνοις), e, per stare propriamente all’ imperativo in questione, e. g. Cratin. frr. 225 (pl.), *235 (pl.), 359 (col commmento di Olson-Seaberg 2018, p. 161), *361.1, Ecph. fr. 4; Il. 10.462; Alcae. fr. 308.1, Eur. Hipp. 63 e 70. Se si tratta del finale, come volle Bergk (1838, p. 218), si possono considerare formule analoghe come Ar. Lys. 1296 (cf. Ar. Th. 129, col congedo dell’ inno amebeo di ‘Agatone’), H. Hom. 1.20, H. Hom. 3.545, H. Hom. 4.579. Per una raccolta cf. Willi (2003, p. 31 n. 96 nr. i), Austin-Olson (2004, p. 97), Olson (2014, pp. 29s.). Μοῦσα numerose invocazioni in commedia alla Musa, che non viene qualificata, sono presenti nelle parabasi, normalmente all’ inizio. Oltre al citato Ar. Ach. 42 43 44 45

Cf. schol. Ar. Ec. 1165 (Suda κ 2410). In generale, cf. Wilamowitz (1921, p. 62 n. 3). Secondo quanto riportava Strab. 10.4.16. Per il coro femminile di Aesch. Suppl. 418–437, che canta contenuti virili anche in ritmo cretico, cf. Jouanna (2002). Questo sospetto si trova in Bonnechère (1999, p. 287 n. 82), sulla base di Eur. Ba. 120s. dove si usano termini simili per l’ antro di Trofonio e il riparo di Zeus a Creta.

Τροφώνιος (fr. 238)

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665 (inizio dell’ ode in cretici), cf. Ar. Pax 775 (inizio dell’ antode, di ritmo dattilico, si consideri il χοροῦσα del v. 776), Av. 737 (all’ inizio dell’ ode, di ritmo dattilico), Ra. 674 (inizio dell’ ode, cho ionmi epitria). Questo tratto non è, ovviamente, obbligatorio, cf. Ar. Lys. 1296s. (Μωἁ / μόλε Λάκαινα). χρονία per questo aggettivo con un verbo di movimento, Kassel e Austin rimandano a Eur. Ion 403 e a Hel. 566. ἥκεις spesso in tragedia si riferisce all’arrivo in scena di una divinità, normalmente nei prologhi (cf. Eur. Hec. 1, Tro. 1, Ion 5, Ba. 1), ma non necessariamente (cf. Aesch. Suppl. 40, Ps.-Aesch. Pr. 284, Eur. Ba. 660). La tendenza si riflette in forme parodiche della tragedia (cf. Ar. fr. 1.1, Callim. fr. 191.1 su cui Pfeiffer 1949, p. 161). Dal valore perfettivo del verbo (cf ThGLIV p. 122) si può supporre che si immagini qui la Musa come già presente al canto e alla danza evocati, forse idealmente, come penso; o forse come personaggio, come sarei meno incline a sostenere per quanto questo non sia impossibile, specialmente qualora il canto si trovi nel finale della commedia, come volle Bergk (1838, p. 218), per cui la Musa potrebbe comportarsi alla stregua di alcune ipostasi in alcuni finali aristofanei, come nella Pace o negli Uccelli. Interessante dovrà dirsi la compresenza di χαῖρε – molto comune in invocazioni per la divinità in quanto l’invito a godere e rallegrarsi del canto e della danza si rivolge al dio che ne sarà beneficiario – con ἥκεις – più raro in questi contesti in quanto l’ invito a partecipare rappresenta un vantaggio per l’ orante (cf. Willi 2003, p. 32). v. 3 ἦλθες per la presenza di questo verbo in un inno cletico cf. Neri (2021, p. 538), e in generale si vedano Furley-Bremer (2001, I pp. 61–63).

fr. 238 K.–A. (223 K.) schol. vet. Ar. Pac. 348e ὁ δὲ δεύτερος ἦν κωφός· μέμνηται † καὶ Στράττις (-άτης V). τρίτος μοιχός. Κρατῖνος Ἀταλάντῃ † (Stratt. fr. *6). τέταρτος Κροτωνιάτης ἀρχαῖος. Κρατῖνος Τροφωνίῳ. πέμπτος ἀρχαῖος Ἀθηναῖος μετὰ Σόλωνα ἄρξας. Εὔπολις ἐν Δήμοις (fr. 138) il secondo era muto: se ne ricorda † anche Strattide. Il terzo un adultero. Cratino nell’ Atalantē † (Stratt. fr. *6). Il quarto di Crotone, antico. Cratino nel Trophōnios. Il quinto un antico Ateniese che governò dopo Solone. Eupoli nei Dēmoi (fr. 138)

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, pp. 143 e 232); Meineke (1840, p. 1230); Bothe (1855, pp. 45s.); Kock (1880, p. 81); Edmonds (1957, pp. 104s.); Luppe (1963, pp. 205s.); PCG IV p. 242; Moscati Castelnuovo (1995, p. 151); Storey (2011, pp. 384s.) Contesto della citazione La menzione di Formione (PA 14958; PAA 962785) in Ar. Pax 346 (ἃς ἔλαχε Φορμίων) offre il destro per una lunga chiosa negli scolî preservati da V de diversis Phormionibus ricordati in commedia. Terminata la

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Cratino

minuziosa prosopografia del Formione aristofaneo (per cui cf. Olson 1998, pp. 142s.), lo scolio procede a illustrare altri quattro uomini di nome Φορμίων, tutti menzionati in commedia. Testo La situazione testuale si presenta difficoltosa, perché, a rigore, manca l’ indicazione di una commedia, e, soprattutto, è attribuita a Cratino una pièce, l’ Atalantē, altrimenti ignota nel novero delle sue opere. Se si tiene conto che, per il resto, nel punto difettoso dello scolio la struttura è comunque rispettata nell’ ordinamento numerico (δεύτερος … τρίτος), quindi anche nell’ indicazione della qualità per cui quel Formione è ricordato, si dovrà postulare un errore recepito negli scolî di V: condivisibilmente Holwerda stampa lo scolio senza indicare nulla a testo, in quanto l’ errore si sarebbe generato a monte della versione tràdita. Considerata insomma la situazione testuale dello scolio, pare ineccepibile la scelta degli ultimi editori dei comici, Kassel e Austin, di inserire fra cruces il testo (PCG VII p. 628). Rispetto al Trophōnios, la situazione sembra chiara; quanto all’ altra e precedente menzione di Cratino, compresa nella sezione problematica, non si può avanzare una soluzione, in quanto potrebbe trattarsi dello stesso testo, come anche di un frammento cratineo ora anepigrafo ma da altra commedia, mentre è meno probabile che il nome di Cratino sia esito di un’ errata trascrizione rispetto a quello di Callia. Interpretazione Il Formione del Trophōnios è quello ricordato da svariati storiografi, in particolare da Theopomp. FGrHist 115 F 392 tràdito da Suda φ 604 (Hsch. φ 779 potrebbe costituire una versione fortemente ridotta della fonte della Suda). Si tratterebbe di un generale – stando a Esichio – di Crotone in qualche modo coinvolto (forse il responsabile) nella disfatta della battaglia del fiume Sagra (il Turbolo, in Calabria). La datazione della battaglia, pur circoscritta al VI sec., è controversa46: sulla scorta di Teopompo, Bicknell ha intrapreso una propria via esegetica anticipando la tradizionale datazione degli anni Venti al 580–576 a. C. Il richiamo di Cratino, che pur rappresenta la più antica testimonianza superstite sul crotoniate, non illumina sulla data della battaglia, né quel che si sa della battaglia (per un regesto delle fonti, cf. Bicknell 1966) contribuisce a chiarire il senso della menzione di Formione di Crotone nel Trophōnios. Secondo Meineke (1840a, p. 1230), approvato poi da Wilamowitz (1913, p. 234), la tradizione di quel Formione crotoniate si sarebbe sovrapposta al Formione di cui parla diffusamente Paus. 3.16.2s. (cf. anche Plut. Mor. 1103b), spartano e coinvolto in eventi soprannaturali. Come ha dimostrato la Moscati Castelnuovo (1995), non sembra ci siano ragioni per respingere l’ ipotesi di Meineke, se non per altro, almeno per il fatto che non si hanno altre notizie di un Formione spartano; per il fatto che il Formione di Crotone ha avuto un soggiorno numinoso a Sparta; per il fatto che tanto nella

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Cf. Bicknell (1966, p. 294) per una rassegna delle diverse posizioni.

Τροφώνιος (fr. 239)

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versione di Teopompo, quanto in quella di Pausania (e Plutarco) esistono rapporti tra Formione e Cirene, dove il generale sarebbe giunto47. Si potrà segnalare, inoltre, come in Phot. α 936 (cf. e. g. Zen. Ath. 1.58, Zen. vulg. 2.17, ma già Ael. NA 11.10, e in latino Cic. ND 3.13) si trovi un’ ulteriore connessione con Sparta, allorché nella voce del lessico si segnala come la notizia della vittoria del piccolo esercito di Locri sull’ armata di Crotone raggiunse Sparta che aveva rifiutato a Locri un supporto militare; e come, sempre in Fozio, si segnali l’ intervento divino dei Dioscuri (cf. Strab. 6.1.10, Cic. ND 2.6), ospitati dal Formione spartano ricordato da Pausania. Non esistono tuttavia altri elementi per il frammento di Cratino che ne sorreggano un’ esegesi, ed è pertanto impossibile valutare se ci fosse in Cratino un elemento soprannaturale, come forse il versante religioso della commedia potrebbe aver favorito. Né si potrà valutare se il frammento incertae fabulae 488, dove Cratino avrebbe menzionato il fiume Sagra (cf. le opportune osservazioni di Olson-Seaberg 2018, p. 324) in chiave paremiografica, abbia rapporti con questo frammento. Quanto a Com. adesp. fr. 957 conservato da Ps.-Zon. 1366 (Or. fr. A 65), non si potrà valutare con sicurezza l’ ipotesi, suggestiva ma indimostrabile, di Meineke (1839b, p. 232), secondo cui l’ autore sarebbe Cratino in quanto lo stesso testimone ne tramanda il fr. 357 anepigrafo: non ci sono elementi per l’attribuzione del frammento adespoto né si riesce a capire a quale Formione si faccia riferimento.

fr. 239 K.–A. (226 K.) Poll. 7.103 ἀπὸ δ’ ἀργύρου ἀργυροκόπος, ὡς Φρύνιχος ἐν Ἐφιάλτῃ (fr. 5), ἀργυροκοπεῖον, ὡς Αἰσχίνης ἐν Ῥίνωνι (fr. 39 Ditt.)· ἀ ρ γ υ ρ ο κ ο π ι σ τ ῆ ρ α ς δὲ λ ό γ ω ν (λέγων Luppe 1967, pp. 290s.) ἐν Τροφωνίῳ παίζει Κρατῖνος dal denaro d’ argento (deriva) coniatore, come Frinico nell’ Ephialtēs (fr. 5), bottega del coniatore, come Eschine nel Rhinōn (fr. 39 Ditt.): e coniatori di parole dice scherzando Cratino nel Trophōnios Hsch. α 7073 ἀργυροκοπιστήρ· τραπεζίτης. ἢ ὁ τὰ ἀργυρεῖα ἐργαζόμενος coniatore: cambiavalute. O colui che lavora il denaro

Metro non deducibile

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Le obiezioni cronologiche poste ragionevolmente da Bicknell (1966) nel caso in esame sono in realtà superabili attraverso qualche errore nelle fonti. Per un riesame di queste tradizioni cf. Giangiulo (1983) e Moscati Castelnuovo (1995).

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Cratino

Bibliografia Runkel (1827, p. 60); Meineke (1839b, p. 143); Bothe (1855, p. 45); Kock (1880, p. 81); Peppler (1910, p. 443); Fraenkel (1912, p. 53); Luppe (1963, p. 204); Edmonds (1957, pp. 104s.); Luppe (1967, p. 290); PCG IV p. 243; Quaglia (2000, p. 466); Storey (2011, p. 383s.); Stama (2014, p. 73) Contesto della citazione Alle prese coi composti di ἄργυρος, Poll. 7.103 introduce ἀργυροκοπιστῆρας come lemma di Cratino, dal Trophōnios. La pericope cratinea sembra estendersi al successivo λόγων. Il conio verbale di Cratino in Polluce sembrerebbe presentato come un sinonimo di ἀργυροκόπoς, il coniatore di monete, termine menzionato subito prima dal testimone in relazione a Phryn. Com. fr. 5, che ne rappresenta la più antica occorrenza sicura (su cui Stama 2014, pp. 72s.). Nella costellazione, e da annoverarsi fra i testimoni di Cratino in quanto la glossa cratinea costituisce uno hapax legomenon, c’ è Hsch. α 707348, dalla stessa fonte di Polluce che in modo compendiario introduce una perfetta sinonimia con un cambiavalute, oltre che con un coniatore. Testo L’ impiego del plurale ἀργυροκοπιστῆρας non è richiesto dal testimone, e si potrebbe dunque ipotizzare che il lemma comparisse al plurale nel Trophōnios. Non si può affermare lo stesso per l’ accusativo che è invece obbligato dalla sintassi. Il breve lacerto presenta almeno un problema testuale che investe la forma esatta del testo di Cratino, se recuperabile in qualche modo, vale a dire la presenza o no di λόγων in Cratino. Se gli spettatori di Cratino hanno avvertito nel composto ἀργυροκοπιστῆρας una storpiatura di ἀργυροκόπoς ciò sarà avvenuto per aver colto la presenza di κοπισ-; il semplice κόπις in Eust. Od. 1749.28, da cui Taillardat (1967, p. 57) ricostruisce un lacerto di Svetonio (βλασφ. 153), è glossato da ὁ φλύαρος (cf. Et. M. 529.27): a quale passo sia da collegare la glossa si ignora, sebbene il luogo più appropriato sia da riconoscere in Eur. Hec. 131s. (ὁ ποικιλόφρων / κόπις ἡδυλόγος δημοχαριστής), detto di Odisseo. Al passo di Euripide, tacitamente, potrebbe aver fatto riferimento Meineke (1839b, p. 143) allorché di κόπις sosteneva che «versutum oratoratorem significat», se si considera l’ estrema rarità del termine semplice, che sembra sicuro, oltre che in Euripide, ad esempio in Lyc. Al. 763 (detto sempre di Odisseo), mentre più incerta mi sembra la sua presenza come ipsissimum verbum in Eraclito (VS 22 B 81)49. La radice parrebbe essere interpretabile in malam partem sul versante etico, cf. Hsch. κ 3556 (κοπίζειν· ψεύδεσθαι), normalmente citato, ma anche ε 1555 (ἐκοπίσθη· ἠπατήθη. εἰς ὄρκον διετέθη). Dalle attestazioni, κόπις sembra coinvolgere la sfera della pa-

48 49

Mi sembra in parte diverso il caso di α 7079 ἀργύρου κόπις· ἀργυρολόγος in cui il tràdito ἀργυρουκόπις è esito di errore, cf. Phot. α 2788. Se ci si attiene al termine semplice, d’ altra parte, l’ unico luogo certo e coevo a Cratino è la pericope euripidea. Quello che potrebbe essere un precedente, Heracl. VS 22 B 81, può essere una parafrasi delle parole del filosofo. Wilamowitz (1927b, p. 278) ritenne che Euripide, forse, trasse la parola da Eraclito. Improbabile dovrà dirsi l’ipotesi per cui in Achae. fr. 13 si faccia riferimento a degli imbrogli e non a dei coltelli.

Τροφώνιος (*fr. 240)

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rola, e forse anche per questa ragione si è sospettato di λόγων, la cui autenticità come termine derivante da Cratino è stata messa in dubbio: Luppe (1967, pp. 290s.) ha ritenuto che λόγων sia esito di corruzione e che sia da leggersi piuttosto λέγων in Polluce, sottraendo dunque la parola al Trophōnios, cl. Poll. 4.19. Ma Polluce, come testimone del frammento, e il menzionato Hsch. α 7073 non annotano l’ hapax ἀργυροκοπιστήρ nei termini sopra descritti bensì come equivalente di ἀργυροκόπoς; e per queste ragioni, semmai, il pubblico avrà potuto confermare in κόπις una valenza malevola, del resto chiara in tutte le attestazioni del termine, sicché forse la parola inventata da Cratino suggerisce l’ idea del falsario, però in àmbito retorico, da cui l’ inevitabile presenza di λόγων, che andrà dunque mantenuto come parte del frammento di Cratino. L’ idea della sfera retorica peraltro si ricava anche dal passo dell’ Ecuba dove Odisseo è κόπις e nondimeno ἡδυλόγος. Interpretazione Fin da Meineke, cf. quindi Fraenkel (1912, p. 53s.) che rimandava a Peppler (1910, p. 433), si pensa a un calembour contro la cultura sofistica, disposta a produrre discorsi eticamente discutibili ma retoricamente convincenti, beninteso dietro pagamento, ciò che può esser plausibile ma non necessario, in quanto i riferimenti sopra citati relativi a κόπις (vale a dire Eur. Hec. 131s., Lyc. Al. 763) limiterebbero l’ interpretazione a un’ esegesi di àmbito politico, un attacco a una cultura genericamente demagogica50. Per la struttura Kassel e Austin rimandano in particolare a Aesch. Ag. 437 χρυσαμοιβός … σωμάτων (cui si può aggiungere lo schol. ad l. che chiosa χρυσαμοιβός con ἀργυραμοιβός). *fr. 240 K.–A. Hsch. κ 4108 κ ρ ι θ ῶ ν ὄ χ λ ο ς· ἐν Τροφωνίῳ· παρέθηκε δὲ παίζων τὸ ἀργύριον una gran quantità d’orzo: nel Trophōnios: ha confrontato (equiparato?) per scherzo il denaro

Metro non deducibile Bibliografia Runkel (1827, p. 61); Meineke (1839b, p. 144); Bothe (1855, p. 46); Kock (1880, p. 81); Edmonds (1957, pp. 104s.); Luppe (1963, pp. 206s.); PCG IV p. 243; Bonnechère (1999, p. 283 n. 64); Quaglia (2000, p. 266) Contesto della citazione Il frammento, sine ipsissimis verbis, è testimoniato da Esichio, il cui lemma sarebbe un frammento di un Trophōnios. Che si tratti del Trophōnios di Cratino dovrà dirsi ipotetico, dal momento che il testimone non riporta il nome dell’ autore, né Cratino è l’ unico autore di una commedia con questo titolo. Non a caso, Meineke (1839b, p. 144) non annovera la glossa esichiana tra 50

Opportunamente, Quaglia (2000, p. 466) respinge ogni ipotesi di rapporto con l’ esazione di denaro al santuario.

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Cratino

i frammenti della commedia, seguito in questo da Bothe (1855, p. 46) e da Kock (1880, p. 81). Più possibilista fu Runkel (1827, p. 61), sulla base di una presunta attenzione di Esichio per Cratino a scapito, almeno, di Cefisodoro. Certamente a favore della paternità di Cratino si pronunciò Kaibel ms. ap. K.–A., cui va aggiunta l’ indipendente opinione di Luppe (1963, p. 206s.), anch’ egli persuaso da valutazioni simili a quelle di Runkel, cui aggiungeva la constatazione che non sono pervenuti da Esichio frammenti del Trophōnios di Alessi e di quello menandreo e in generale nessun frammento di Cefisodoro. I dubbi di Meineke non sono tuttavia dissipabili con la sola constatazione che non ci sono frammenti da quelle commedie di quegli autori in Esichio, e tuttavia si possono svolgere altre considerazioni sul testimone. Numerosi frammenti di Cratino sono testimoniati da Esichio o anche da Esichio: un numero esiguo dei quali indica il titolo della commedia ma non l’ autore. Si tratta di Hsch. α 2475 (fr. 15), dove la paternità appare tuttavia accertabile dal fatto che una commedia dal titolo Ἀρχίλοχοι (Ἀρχίλοχος ms.) non ha altri riscontri al di fuori della produzione di Cratino51. Analogamente, in Hsch. β 1273 (fr. 103) manca il nome dell’ autore ma i Μαλθακοί sono del solo Cratino. Per stare alla lessicografia, in Phot. φ 122 (fr. 101), si trova una situazione analoga, perché anche in tal caso il titolo Κλεοβουλῖναι è del solo Cratino; e considerazioni analoghe si possono avanzare per il fr. 232 dai Seriphioi (cf. supra). Per quanto attiene ad Alessi e a Menandro, autori anch’ essi di un Trophōnios, non si riscontrano casi in cui Esichio indichi il titolo di una loro commedia ma non l’ autore, magari individuabile con facilità per gli studiosi moderni. Fra le osservazioni che accompagnano Ar. fr. 121, dove il testimone (Phot. ε 492) non segnala l’ autore della commedia, Kassel e Austin individuano casi analoghi in lessicografia: si tratta di situazioni in cui l’ editore moderno non può nutrire eccessivi e ragionevoli dubbi sull’ authorship, in quanto, come nei casi cratinei sopra esposti, il titolo di commedia contenuto nella glossa rimanda a un’ opera nota per un solo autore. Il caso in questione però è diverso in quanto il titolo Trophōnios identifica commedie di autori diversi, pertanto l’ indagine richiede maggior cautela. Queste sono le glosse dell’ intero lessico di Esichio in cui si segnalano commedie con l’ indicazione del titolo e non dell’ autore: α 2475, β 857, β 1273, δ 2230, ε 4416, ν 530, σ 206, σ 1215 (2x), oltre alla glossa in discussione κ 4108. Il numero di occorrenze corrisponde complessivamente a poco meno dell’1% delle glosse di Esichio che conservano materiale comico52. Di questi casi, α 2475 e β 1273 derivano da Cratino 51 52

Più consueti i casi di Hsch. β 147 (fr. 54), δ 1925 (fr. 7), σ 2754 (fr. 77) in cui si segnala l’ autore ma non il titolo. Il calcolo non può che essere approssimativo, in quanto ci sono casi in cui si può riconsiderare l’ assegnazione comica proposta dagli editori del lessico: a mio avviso, sarebbe opportuna, in generale, maggior prudenza. Il calcolo serve di fatto a dare un ordine di grandezza e si confronta comunque con dati complessivi di tale dimensione che anche un atteggiamento radicalmente scettico non modificherebbe. Per chiarezza si segnala che ho costruito l’ elenco, pur coi dubbi che ho sopra sommariamente espresso rispetto

Τροφώνιος (fr. 241)

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(frr. 15 e 103), β 857 e δ 2230 da Aristofane (frr. 332.10 e 382), ε 4416 da Archippo (fr. 5), ν 530 da Filemone (fr. *55), σ 206 da Alceo (fr. 29), σ 1215 da Epicarmo (frr. 83 e 127). Nello specifico, solo il caso rappresentato da ν 530 può esser paragonato a quello in discussione di κ 4108, perché in tutti gli altri il titolo di commedia è noto per un solo autore (α 2475, β 1273, ε 4416, σ 206), oppure si tratta di casi in cui Esichio rappresenta uno dei testimoni del frammento, non il solo, e si affianca pertanto ad altri che hanno porzioni più ampie di testo o informazioni più dettagliate fra cui il nome dell’ autore della commedia, vale a dire sempre Aristofane (β 857, δ 2230). I due frammenti offerti da σ 1215 potrebbero esser ugualmente dubbi, ma per ragioni diverse da quelle del presente frammento. Considerata la rarità dei casi, potrebbe valere la pena di rivalutare i dubbi di Meineke e certamente mantenere almeno l’ asterisco proposto da Kassel e Austin rispetto all’ incertezza sulla paternità, rimandando all’ unico caso certamente analogo a questo in Esichio, vale a dire Philem. fr. *55. Interpretazione La glossa non presenta particolari difficoltà esegetiche, e d’ altra parte il testimone orienta la spiegazione, in quanto afferma che si parla di denaro. Secondo Bonnechère, si tratterebbe di un richiamo, beninteso giocoso, al costo esoso dell’ oracolo (1999, p. 283 n. 64), come registrava Dicaearc. fr. 18, mentre per Quaglia (2000, p. 466) questa sarebbe una constatazione sulle abitudini alimentari del tempio, ma, in tal caso, non si capisce esattamente la funzione di ὄχλος. Un’ espressione che potrebbe suffragare l’ ipotesi di Bonnechère, utilizzata però in senso proprio e non figurato, si trova in Hippon. fr. 48.2s., dove l’ io lirico chiede, forse al solito Hermes, κριθέων / μέδιμνον, per un ciceone come rimedio alla miseria. L’ intento giocoso di Ipponatte risulta ben evidente se si considera come la quantità sia spropositata per la preparazione del ciceone53. Che anche nel testo comico in questione l’ espressione κριθῶν ὄχλος fosse posta con enfasi in enjambement non si può dimostrare.

fr. 241 K.–A. (225 K.) Harp. 238.9 (π 26) παρεῖαι ὄφεις· Δημοσθένης ὑπὲρ Κτησιφῶντος (18.260). π α ρ ε ῖ α ι ὀνομάζονταί τινες ὄφεις παρὰ τὸ παρειὰς μείζους ἔχειν, ὡς καὶ Κρατῖνος ἐν τῷ Τροφωνίῳ ὑποσημαίνει serpenti ganascioni: Demostene Per Ctesifonte (18.260). Si chiamano ganascioni alcuni serpenti per il fatto di avere ganasce piuttosto grandi, come anche Cratino indica nel Trophōnios

53

ad alcune assegnazioni, basandomi sull’ edizione più recente di Esichio, integrata dalle glosse raccolte nel vol. VIII di Kassel e Austin, dedicato agli adespota comica. Cf. Degani (2007, p. 105).

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Cratino

Metro non deducibile Bibliografia Runkel (1827, p. 61); Meineke (1839b, p. 143); Bothe (1855, p. 45); Kock (1880, p. 81); Edmonds (1957, pp. 104s.); Luppe (1963, pp. 204s.); PCG IV p. 243; Quaglia (2000, pp. 465s.) Contesto della citazione Il frammento, sine verbis, è testimoniato da Harp. 238.9 (π 26 K.), per ragioni semantiche interessato a spiegare l’ espressione παρεῖαι ὄφεις in Dem. 18.260, usata a proposito dei riti cui prendeva parte Eschine. Dall’ Epitome di Arpocrazione, che non ricorda Cratino, discende una costellazione lessicografica, che comprende almeno Hsch. π 765, Phot. π 344 (= Suda π 585). Quanto a Phot. π 345, si dovrà riconoscere con Theodoridis che la glossa rientra nella stessa costellazione ma non dipende dall’ Epitome. Allo stesso plesso di notizie andrà forse ricondotta parte dell’ esegesi che si trova in schol. vet. Ar. Pl. 690. Testo Nell’ affermare che alcuni serpenti sono chiamati παρεῖαι perché hanno grandi ganasce, il solo Arpocrazione ricorda come anche Cratino nel Trophōnios abbia segnalato questo dato, il che porterà a ritenere parola sicura di Cratino παρεῖαι54 e non necessariamente l’ espressione παρεῖαι ὄφεις che dà il destro alla glossa di Arpocrazione. In qualche modo, e soprattutto, farà parte del frammento di Cratino il concetto espresso da Arpocrazione con παρὰ τὸ παρειὰς μείζους ἔχειν vel simile quid, come già rilevava Kaibel ms. ap. K.–A., nella costellazione che discende dall’ Epitome. Phot. π 345 spiega παρεῖαι ὄφεις con ὄφεις παρειὰς ἔχοντες μεγάλας ἱεϱοί. L’ espressione ricalca sul piano concettuale quanto si trova nell’ Arpocrazione amplior, allorché in Fozio si trova un ordo verborum meno prosastico di quello della restante costellazione lessicografica e si raccoglie l’ indicazione ἱεϱοί che manca invece in Arpocrazione, nella versione amplior e nell’ Epitome da cui Fozio pare dipendere: possibile sia che l’ indicazione derivi da un’ iniziativa autoschediastica di Fozio, sia che arrivi al Patriarca da un manoscritto antecedente l’ archetipo dell’ Epitome di Arpocrazione. Si potrà notare, en passant, che la sequenza παρειὰς ἔχοντες μεγάλας ἱεϱοί assomiglia al trimetro catalettico ex antisp ion (cf. schol. Pind. O. 1 ep. 12 sulle aggregazioni docmiache), come mi ricorda Luigi Bravi. Accertato che il frammento cratineo non sarà tanto παρεῖαι ὄφεις cioè la glossa di Arpocrazione, quanto piuttosto il solo sostantivo e magari la spiegazione che Cratino avrebbe dato di παρεῖαι in riferimento ai serpenti, forse la sequenza παρειὰς ἔχοντες μεγάλας ἱεροί cela il frammento comico. Interpretazione Il richiamo al Trophōnios non può tuttavia implicare che questi animali fossero altrettanto coinvolti nel culto di Trofonio. Certamente, a conferma del carattere numinoso di questo serpente, si possono segnalare, ad esempio, Teofrasto (Char. 16.4), Eliano (NA 8.12), in qualche modo già Aristofane, dove il serpente viene richiamato in contesto incubatorio (Pl. 690 cf. infra), e anche Phot.

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Il semplice παρεῖαι annovera riscontri in e. g. Ar. Pl. 690, Thphr. Char. 16.4.

Τροφώνιος (fr. 242)

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π 345. Il serpente in questione potrebbe essere l’ Elaphe quatuorlineata55, animale sacro ad Asclepio secondo Ael. NA 8.12: già in Ar. Pl. 690, Carione, nel ricordare l’ incubazione di Pluto al tempio del dio guaritore, paragona un proprio fischio a quello del serpente παρείας, cosa forse non casuale se si considera che Paus. 9.39.3 segnala una confusione fra la figura di Trofonio e quella di Asclepio (cf. anche Quaglia 2000, pp. 464s.). Nell’ orazione demostenica richiamata da Arpocrazione, παρεῖαι ὄφεις sono presenti nel culto di Sabazio. In Thphr. Char. 16.4 il superstizioso ἐπὰν ἴδῃ ὄφιν ἐν τῇ οἰκίᾳ, ἐὰν παρείαν Σαβάζιον καλεῖν, ἐὰν δὲ ἱερὸν ἐνταῦθα ἡρῷον εὐθὺς ἱδρύσασθαι56. Lo schol. vet. Ar. Pl. 690 ricorda come questo serpente fosse presente anche nei templi di Dioniso. fr. 242 K.–A. Phot. ε 864 ἐ ν δ ώ σ ω· ἀπὸ τῶν ἐνδοσίμων αὐλημάτων. Κρατῖνος Τροφωνίῳ intonerò: da arie per auli che danno la nota chiave. Cratino nel Trophōnios

Metro non deducibile Bibliografia

PCG IV p. 243; Quaglia (2000, p. 464)

Contesto della citazione Il frammento, sine verbis, deriva dal cosiddetto Fozio zavordense ε 864. La voce verbale lemmatizzata si trova anche in Hsch. ε 2842, chiosata coi più attesi significati ὑποσημανῶ, παρέξω, δηλώσω, mentre per l’ aggettivo ἐνδόσιμον cf. Hsch. ε 2818. Interpretazione Il verbo in relazione all’idea di intonare una nota si trova in Aristot. fr. 528 (ex Ath. 12.520b), D. H. Ant. 7.72. Da segnalare, semmai, come nei contesti prosastici indicati sopra il verbo si riferisca a note che hanno a che vedere con la danza. Secondo Aristotele, i Crotoniati avrebbero sfruttato a proprio vantaggio l’ inconsueta abitudine dei Sibariti di intonare melodie adatte a esibizioni orchestiche per i cavalli. In Dionigi di Alicarnasso si richiama l’ insegnamento di un uomo ad altri di figure di danza. Ovviamente non si può stabilire da un frammento tanto scarno se qui Cratino facesse riferimento a elementi orchestici oppure no e in quale modo. La glossa sembrerebbe poter dire qualcosa di più rispetto alla semplice intonazione, in quanto rimanda, se attendibile, a un’ eventuale esecuzione al suono dell’ aulo (cf. e. g. Ar. Ra. 1302). Quaglia (2000, p. 464) ipotizza che questo frammento condivida lo stesso contesto musicale e orchestico da cui deriverebbero i frr. 234 e 237, il che può esser possibile ma indimostrabile. 55 56

Cf. Bodson (1981). Il serpente chiamato ἱερός sarebbe estremamente velenoso secondo Aristot. HA 607a30–33 (con variante ἱερά).

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Cratino

ἐνδώσω Rispetto al verbo, sono più diffusi l’ aggettivo, anche sostantivato (cf. LSJ9 561B), e il sostantivo. Quanto alla forma impiegata da Cratino, potrebbe esser accettabile l’ ipotesi del futuro come originale, mentre non si può esser certi che la prima persona singolare fosse di Cratino e non sia piuttosto l’ esito della lemmatizzazione.

fr. 243 K.–A. (224 K.) Harp. 125.2 (ε 97) ἐπιθέτους ἑορτάς … ἐ π ι θ έ τ ο υ ς δὲ ἐπιστολὰς (fort. etiam hoc verbum ad Cratinum referre possis) Λυσίας ἐν τῷ κατὰ Θρασυβούλου τινὰς ὀνομάζει (fr. 158), λέγοι δ’ ἂν τὰς δοθείσας τισὶν ὥστε διακομίσαι· λέγειν γὰρ ἦν εἰθισμένον “ἐπέθηκεν ἐπιστολήν” ἀντὶ τοῦ παρέδωκεν, ὡς Δημοσθένης ἐν τῷ ὑπὲρ Χρυσίππου πρὸς τὴν Φορμίωνος παραγραφήν (34.28). Κρατῖνος δ’ ἐν Τροφωνίῳ 〈…〉 (lac. ind. Sauppe 1850, I p. 189) feste aggiunte […] e “aggiunti” Lisia chiama alcuni messaggi nell’ orazione Contro Trasibulo (fr. 158), e si potrebbe dire quelli consegnati a certuni in modo da esser recapitati: era stata un’ abitudine dire “aggiunse un messaggio” per “consegnò”, come Demostene nella Per Crisippo rispetto alla procedura contro Formione (34.28). Cratino nel Trophōnios 〈…〉

Metro non deducibile Bibliografia Runkel (1827, p. 60); Bergk (1838, p. 218); Meineke (1839b, pp. 143s.); Bothe (1855, p. 45); Kock (1880, p. 81); Edmonds (1957, pp. 104s.); Luppe (1963, p. 205); PCG IV p. 244; Quaglia (2000, p. 464) Contesto della citazione La glossa di Harp. 124.14–125.1 (ε 97) è sinonimicodifferenziatrice. All’ illustrazione dell’ espressione ἐπιθέτους ἑορτάς attraverso Isocr. 7.29 e Lys. fr. 224, segue la variazione ἐπιθέτους ἐπιστολάς a indicare in tal modo la consegna, come dimostra Lisia (fr. 158); la glossa registra che ciò avviene con la sostituzione di ἐπέθηκεν all’ atteso παρέδωκεν, come si ricava da Demostene (34.28). A questo punto, si introduce la menzione di Cratino col Trophōnios su cui si termina, nella tradizione manoscritta, la glossa di Arpocrazione. Testo Gli ipsissima verba di Cratino non sono tramandati. Sauppe (1850, I p. 189) ipotizzò la caduta della citazione, il che è possibile, ma potrebbe anche trattarsi di un caso in cui Arpocrazione si sia limitato a menzionare il poeta comico. Secondo Bergk (1838, p. 218), la menzione della commedia serviva ad illustrare ulteriormente questa espressione, mentre Luppe ipotizza una terza espressione, ovviamente imprecisabile (1963, p. 205). La struttura della glossa rende improbabile l’ ipotesi di Luppe, in quanto ci si aspetterebbe la terza espressione prima e non dopo la menzione di Cratino: analizzando a campione alcune glosse di Arpocrazione, si può infatti rilevare come tendenzialmente il lessico in glosse sinonimico-differenziatrici prediliga una disposizione in cui la nuova definizione o la nuova espressione sono seguite dall’ esempio tratto da testi, cf. e. g. pp. 7, 10,

Τροφώνιος (fr. 244)

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30, 51, 67, 90, 91, 96, 103. Eccezionale dovrà dirsi una situazione come p. 60, che potrebbe suffragare, unica nel proprio caso, l’ ipotesi di Luppe. Interpretazione Considerata la struttura della glossa, si potrà valutare come cratineo l’ aggettivo di cui la glossa si occupa, ἐπίθετος, senza che se ne possa ipotizzare caso e numero, piuttosto che il verbo, come segnalato da Kassel e Austin. Sarei incline a pensare che forse anche ἐπιστολάς fosse presente in Cratino, sempre alla luce della struttura della glossa, e per tal motivo ho preferito spazieggiare questa occorrenza dell'aggettivo e non quella del lemma. Se dunque l’ espressione nel Trophōnios poteva essere ἐπιθέτους ἐπιστολάς, resta del tutto oscuro l’ impiego che ne fece Cratino. Bergk (1838, p. 218) immaginava un uso mantico («deo vaticinante»), in quanto considerava come la parola non indichi necessariamente un’ epistola, ma un ordine, secondo un uso che si presenta altrove, anche in Cratino (fr. 316, su cui Olson-Seaberg 2018, pp. 58s., che osservano come in commedia la parola ricorra solo in questo commediografo), acclarato da Or. fr. A 42 (ap. Ps.-Zon. 804), testimone del frammento cratineo. La tragedia utilizza il termine al plurale, nel senso appunto di ordine e ammonimento (cf. Aesch. Suppl. 1012, Pers. 783, Ps.-Aesch. Pr. 3, Eur. Ba. 442, Soph. OC 1601). Questa di Bergk risulta dunque una suggestiva ipotesi, accolta recentemente con favore da Quaglia (2000, p. 464). A parziale sostegno e pur segnalandone l’incertezza, può esser utile ricordare Harp. 88.13 (δ 24), dove, alla differenza semantica introdotta con l’ esempio di Pl. Resp. 429e1–430a3, segue Diphil. fr. 73 a segnalare il medesimo significato traslato per metonimia. Se la glossa che tramanda Cratino fosse accostabile a questa, si potrebbe ipotizzare che nel testo comico si intendesse il plurale ἐπιστολάς come “comunicazioni” nel senso di “ordini del dio”, con un recupero di un significato ben attestato in tragedia.

fr. 244 K.–A. Ps.-Hdn. Philet. 58 (VP) λ ῃ σ τ ι κ ό ν· τὸ σύστημα τῶν λῃστῶν. Κρατῖνος ἐν Τροφωνίῳ (poetae nomen et titulum tantum V servat). λῃστρικὸν δὲ τὸ κτῆμα, οἷον τὸ ξίφος καὶ πλοῖον καὶ εἴ τι ἄλλο lēistikon: il gruppo dei pirati. Cratino nel Trophōnios. Lēistrikon invece l’ equipaggiamento, per esempio il pugnale e l’ imbarcazione e se mai qualcosa d’ altro

Metro non deducibile Bibliografia

PCG IV p. 244

Contesto della citazione Il frammento, sine ipsissimis verbis, si trova conservato nel Philetairos pseudo-erodianeo, in una glossa di taglio semantico dedicata alla pirateria. Vi si afferma che, nel Trophōnios, Cratino ha usato λῃστικόν per indicare l’ equipaggio piratesco. L’ impiego risulta simile, ma non identico, a quanto si trova,

88

Cratino

ad esempio, in Thuc. 1.4.13, dove lo storiografo parla della talassocrazia cretese e del conseguente ridimensionamento della pirateria. Ugualmente, Tucidide si serve di λῃστικόν in 2.69.1, dove si riferisce più propriamente agli equipaggi dei pirati: lo scolio relativo segnala la medesima dottrina del testimone di Cratino (τὸ μὲν ἐκτὸς τοῦ ρ σημαίνει τὸ σύστημα τῶν λῃστῶν, τὸ δὲ μετὰ τοῦ ρ τὸ κτῆμα). Interpretazione di certo.

Sul contesto di impiego di questo aggettivo non si può dir nulla

fr. 245 K.–A. (9 Dem.) Poll. 10.115 καὶ κατὰ Ἡρόδοτον (e. g. 2.62.1) λύχνα. οὗτος μὲν γὰρ καὶ λυχνοκαΐαν (ibid.) εἴρηκεν, καὶ λ υ χ ν ο κ α υ σ τ ε ῖ ν (λυχνοκαυτεῖν Kaibel ms. ap. Kassel et Austin) μὲν ἔφη Κρατῖνος ἐν τῷ Τροφωνίῳ, Μένανδρος δὲ ἐν Θεττάλῃ λύχνων ἁφάς (fr. 175) e secondo Erodoto (2.62.1) lychna. Costui (ibid.) infatti ha detto anche lychnokaia (“accensione delle lampade”), e Cratino disse lychnokaustein (“accendere lampade”) nel Trophōnios, mentre Menandro nella Thettalē (disse) lychnōn haphas (fr. 175)

Metro non deducibile Bibliografia Kock (1888, p. 712); Deubner (1900, p. 26 n. 2); Demiańczuk (1912, p. 35); Edmonds (1957, pp. 104s.); Luppe (1963, p. 205); PCG IV p. 244 Contesto della citazione Stando a un ramo della tradizione dell’ Onomasticon di Polluce (mss. CL), Cratino nel Trophōnios avrebbe utilizzato λυχνοκαυστεῖν, che si direbbe essere hapax: pur sine ipsissimis verbis, sarà in una formazione di questo genere e non nel precedente λυχνοκαΐαν, come segnalato invece dagli editores veteres sprovvisti di un’ edizione aggiornata ai mss. CL (cf. Kock 1880, p. 81, ma poi Id. 1888, p. 712 segnalò la lezione autentica grazie all’ ispezione di Maass 1880, p. 619), che andrà individuato il lemma cratineo. Si direbbe che alla medesima costellazione rimonti la tradizione lessicografica, cf. e. g. Hsch. λ 1472, 1473, 1474, 1475, 1477, 1478, quindi Phot. λ 968, 970, 971, 973, 974, con una sequenza di fatto simile a quella di Polluce nella versione dei mss. FS, dunque priva del segmento καὶ λυχνοκαυστεῖν μὲν ἔφη. Il passo di Polluce si inserisce in un dibattito semantico sinonimico-differenziatore attraversato a quanto pare da qualche interesse atticista, come dimostrerebbe Phryn. PS 35.9 che accoglie come attica la forma λυχνοκαυτία. Da segnalare anche Ath. 15.701a–b che si inserisce nella medesima costellazione lessicale: Ateneo cita a tal proposito Ceph. fr. 11 (su cui Orth 2014, p. 357) cui va ricondotto Hsch. λ 1475. Tra queste testimonianze, quella di Frinico e quella di Phot. λ 493 (λυχνοκαυτίαι· οὐχὶ λυχνοκαΐαι), che riflette Frinico (o la sua fonte), suggerirebbe di considerare con molta cautela λυχνοκαυστεῖν come uno hapax legomenon. Probabilmente,

Τροφώνιος (fr. 245)

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era su questo genere di considerazioni, oltre che sulla base del confronto con Poll. 7.178 che presenta la sequenza λυχνοκαΐα — λυχνοκαυτεĩν, che Kaibel proponeva di leggere in Poll. 10.115, dunque in Cratino, λυχνοκαυτεĩν. A simili conclusioni giungeva indipendentemente Demiańczuk (1912, p. 35). Interpretazione Il significato del verbo appare pienamente comprensibile. Quanto alla forma, rispetto a un originario *καϝειν, ciò che Polluce indica come di Cratino può esser giudicato un denominativo a partire da forme già attestate nell’ epica, come περίκαυστος di Il. 13.564, o di alternative seriori come l’ aggettivo verbale καυτός, poi καυστός (cf. Chantraine DELG p. 480A). Sul piano linguistico simili oscillazioni rendono plausibile la forma cratinea, senza che l’ intervento proposto da Kaibel si imponga. Quanto all’ aspetto, la forma raccolta da Polluce, senz’ altro lemmatizzata, parrebbe un presente. Cf. in generale Mossakowska (1996) e Bagordo (2013, p. 277), interessati ad altri composti simili. Luppe (1963, p. 205) ha ipotizzato, con tutte le cautele del caso, che il verbo possa esser ricondotto ai riti legati all’ antro di Trofonio, magari in una scena in cui qualcuno riferisce l’ episodio mantico, simile alla notte trascorsa da Pluto al tempio di Asclepio, scena in cui, come ricorda Luppe, Carione fa riferimento alla questione del buio (cf. Ar. Pl. 668). Una simile interpretazione era stata avanzata, pur sull’ erroneo λυχνοκαΐαν, da Deubner (1900, p. 26).

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Χειμαζόμενοι (Cheimazomenoi) (“Travolti dalla tempesta”)

Arg. I Ar. Ach. (p. 4, 37–40 Wilson) = Olson = Cratin. Test. 7a K.–A. = Test. IXa Storey ἐδιδάχθη ἐπὶ Εὐθύνου ἄρχοντος ἐν Ληναίοις διὰ Καλλιστράτου· καὶ πρῶτος ἦν. δεύτερος Κρατῖνος Χειμαζομένοις. οὐ σῴζονται (post Νουμηνίαις Elmsley 1818, p. 56). τρίτος Εὔπολις Νουμηνίαις (La commedia Acarnesi) fu messa in scena durante l’ arcontato di Eutino alle Lenee per la regia di Callistrato: (Aristofane) si classificò primo, secondo Cratino coi Cheimazomenoi. Non sono conservati. Terzo (si classificò) Eupoli con le Noumēniai

Bibliografia Elmsley (1818, p. 56); Meineke (1839b, p. 145); Kock (1880, pp. 81s.); Geissler (1969 = 1925, p. 34); Schmid (1946, p. 75); Edmonds (1957, pp. 104s.); Mensching (1964, p. 37 n. 211); PCG IV p. 244; Olson (2002, p. 63); Storey (2011, pp. 384s.); Bianchi (2017, pp. 308s.) Titolo Di questa commedia non resta nulla a parte il titolo. Esso può forse esser accostato a titoli come gli Ἐμπιπράμενοι sempre di Cratino dove ci si riferisce a dei Bruciati, ma non si conosce cosa questo significhi (Bianchi 2016, pp. 386–388). Secondo Kock (1880, pp. 81s.), il titolo si potrebbe interpretare riferito agli Ateniesi «mala calamitate conflictantes». Nel suggerire la propria esegesi del titolo, Kock rimandava ad Ar. Ra. 355 (τῆς πόλεως χειμαζομένης), dove il senso è traslato e al singolare. Il significato può esser sia proprio che metaforico. Contenuto Nell’ Argumentum, si segnala che la commedia non è conservata, il che implica che non è giunta alla Biblioteca di Alessandria (cf. Pfeiffer 1968, p. 288). Elmsley (1818, p. 56) osservava che la commedia eupolidea coagonale (su cui Olson 2016, p. 227) ha avuto il medesimo destino post drammatico e pertanto proponeva una trasposizione di οὐ σῴζονται alla fine dell’ argumentum. Datazione Del 425 a. C. Si tratta di una delle tre commedie di Cratino datate, assieme ai Satyroi (alle Lenee del 424 a. C., coagonali ai Cavalieri) e alla Pytinē (alle Dionisie del 423 a. C., coagonali delle Nuvole). Singolarmente, di questa commedia e dei Satyroi non ci sono frammenti ma solo l’ indicazione cronologica e il piazzamento agonale.

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Χείρωνες (Cheirōnes) (“Chironi”)

Bibliografia Hanow (1830, pp. 57s.); Bergk (1838, pp. 219–249); Meineke (1839b, pp. 161s.); Cobet (1840, pp. 22–26); Kock (1880, p. 82); Koerte (1922, c. 1650); Goossens (1935, pp. 413–416 e 434); Schmid (1946, pp. 83s.); Pieters (1946, pp. 112–116); Schwarze (1971, pp. 55–64); Tammaro (1978/1979); PCG IV p. 245; Luiselli (1990); Farioli (2000); Ruffel (2000, pp. 486–488); Noussia (2003); Di Marco (2005); Guidorizzi (2006, pp. 132s.); Bakola (2010, pp. 54s.); Storey (2011, pp. 386s.); Bianchi (2017, pp. 138–143); Marcucci (2020, pp. 111–113) Titolo Nato da Crono e dall’ oceanina Filira (cf. Ps.-Apoll. Bibl. 1.2.4), il centauro Chirone lega la propria fama a quella di maestro sia sul versante delle armi57, dunque nella vita attiva, sia sul versante delle arti58 e della cura59, dunque nella vita contemplativa, cui avviò e in cui educò numerosi eroi. Fu colpito da una freccia avvelenata e prima di divenire una costellazione traspose la propria immortalità in Prometeo (cf. Ps.-Apoll. Bibl. 2.5.4). Si tratta dunque di una figura in cui l’elemento ferino, nella tradizione, è ridotto a favore di quello civile. In generale, cf. GislerHuwiler (1986, pp. 237–248). Le fonti antiche presentano un’ oscillazione nella grafia del nome (cf. Threatte 1980, pp. 193s.), in quanto la forma Χίρων si trova nelle iscrizioni vascolari. Nonostante questo, e sebbene in Apoll. Dysc. Constr. 3.2 (= Tr. adesp. *34e) si trovi ὅδ’ ἐγὼ Χίρων, risulta preferibile evitare, nel caso di Cratino, una resa priva di dittongo dal momento che sarebbe inattestata nelle testimonianze della commedia. Commedie nel cui titolo compare Chirone sono attestate per Ferecrate (PCG VII pp. 178–186, cf. Franchini 2020 pp. 239–242), Cratino il Giovane (PCG IV pp. 342s., cf. Mastellari 2020, pp. 114s.) e negli Pseudoepicharmea (PCG I pp. 168–171). La forma del titolo, al plurale, si può accostare ad altri titoli plurali, se questi vanno ricondotti a una stessa tipologia; per Cratino, si segnalano Archilochoi, Dionysoi, Kleoboulinai, Odyssēs, Ploutoi. Sono state sviluppate alcune ipotesi su cosa indichi il titolo. Bergk (1838, p. 220) osservava: «numerus autem pluralis, ut in aliis Cratini comoediis indicat chorum ex istis Chironibus constitisse, qui Centaurorum aliquam speciem prae se ferentes praecepta, quae ad vitae communis institutionem pertinebant, videntur tradidisse». Kock (1880, p. 82) ipotizzava un «Chironum chorum», senza altro chiarire, e forse anticipava in qualche modo 57 58 59

Cf. e. g. Il. 11.632; Hes. fr. 40; Pind. P. 4.102s. e N. 3.53s.; Xen. Cyn. 1.2s.; Ps.-Apoll. Bibl. 3.4.4 e 3.13.5. Cf. e. g. Pind. P. 3.63s. Cf. e. g. Pind. P. 3.6s.; Ps.-Apoll. Bibl. 3.10.3 e 3.13.8; Verg. Georg. 3.550; Plin. NH 20 passim (nel corso del libro Chirone viene più volte annoverato tra i medici); D. L. 8.78; Marc. Sid. AP 7.158.9; Suda χ 267.

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Cratino

la proposta di Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin), secondo cui il coro sarebbe costituito «ad exemplum unius Chironis Hesiodei». Anche Koerte (1922, c. 1650) pensava a una «Vervielfältigung des einen mythischen Chiron zu einem Chor von Chironen». Come ha osservato la Farioli (2000, p. 406 n. 1), in qualche modo si potrebbe pensare all’ esempio di Sileno e dei sileni, per cui la studiosa richiama Goossens (1935, pp. 413s.), il quale comunque pensava a Chirone e ai Centauri, una proposta rilanciata da Kassel e Austin (PCG IV p. 245) e più recentemente da Guidorizzi (2006, pp. 132s.) e da Storey (2011, p. 386). Meineke (1839b, p. 162)60 e Coppola (1936, p. 34) ritenevano che il coro non andasse ricondotto precisamente al centauro ma al suo ruolo di precettore e che dunque fosse composto da generici maestri, fra cui Coppola inseriva forse («grandi del passato che resuscitavano») lo stesso Solone, il che non pare accettabile (cf. infra ad l.). Che un maestro potesse esser chiamato, comicamente, “Chirone”, appare attestato, come si evince ad esempio per Damone, quale Chirone di Pericle, secondo Pl. Com. fr. 207.2. L’ accostamento ai Ploutoi – piuttosto che alle altre commedie di Cratino con titolo plurale di un nome proprio, atteso invece al singolare – sviluppato da Koerte, è interessante, ma si dovrà riconoscere come i Ploutoi sembrerebbero esser i δαίμονες … πλουτοδόται di Hes. Op. 122–126 (cf. PCG IV p. 204), mentre una condizione di Chirone ‘moltiplicato’ non si rintraccia nella poesia precedente al commediografo. Appare più appropriata dunque la scelta ribadita dagli ultimi editori, Kassel e Austin, per cui col titolo Cheirōnes si intendono Chirone e i Centauri. La proposta risulta peraltro coerente sul piano tipologico con alcune notizie sui Centauri in commedia: ad esempio col titolo Kentauroi di Apollofane (cf. Orth 2014, pp. 373–375) e forse di Nicocare61, e con la commedia di Aristofane Dramata ē Kentauros, se affrontava temi di giustizia ed educazione (cf. forse il fr. 278). Nei vari testimoni il titolo appare sovente corrotto in Χείροσι, al punto di spingere Casaubon (1600, p. 542) a intraprendere una discussione in merito. Contenuto I Cheirōnes sono giunti con un numero cospicuo di frammenti e con un numero elevato di versi, tanto da essere una fra le commedie di Cratino meglio conservate. Ne restano ventidue frammenti sicuri, cui se ne aggiunge uno, il *259, unanimemente accolto fra quelli dei Cheirōnes nelle edizioni moderne. Si contano: due frammenti da Plutarco; uno da Elio Aristide, privo del nome dell'autore; uno da Efestione; uno da Erodiano; due da Ateneo; quattro da Polluce; uno da Diogene Laerzio; due da Esichio; due dalla Synagoge; sei da Fozio; uno dall’ Etimologico Genuino; uno da Marcellino; uno da Eustazio; sette dalla Suda; nove di provenienza paremiografica (cinque da Zenobio, due dai Prov. Bodl., due da Apostolio; dieci da corpora scoliastici (tre da quelli ad Aristofane, cinque da quelli a Platone, uno da quelli a Sofocle, uno da quelli a Tucidide). Va precisato che nel breve regesto sopra riportato sono distinti i testimoni anche qualora tramandino lo stesso frammento 60 61

Cf. Hanow (1830, pp. 57s.). Si veda anche il carme di Laso di Ermione (PMG 704).

Χείρωνες

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o parte di esso, e anche casi in cui un testimone tramandi un frammento omisso nomine poetae in quanto portatori di potenziali varianti. Che la commedia potesse avere un tratto mitologico è possibile (cf. Bowie 2010, p. 147), ma nessun frammento può suggerire che fosse questo l’ elemento tematico dominante, perché, a parte il fr. 253, in cui i Chironi si presentano, non ci sono altre pericopi che riconducano la commedia in modo inequivocabile a una dimensione mitologica: oltre a esser numerosi e rilevanti i richiami politici all’ età periclea, la presenza in scena dell’ombra del defunto Solone (fr. 246) delinea il testo come connotato politicamente. D’ altra parte, l’ hypothesis papiracea del Dionysalexandros conferma come, anche in quella commedia, dietro la parodia del mito si celassero chiari riferimenti politici, e chiaramente identificabili (cf. Sommerstein 2009, p. 286 e supra nel commento al Trophōnios). L’ età periclea si direbbe esser stata negativamente tratteggiata (cf. frr. 251, 258, *259, forse 260, 261, 267, 268), non solo sul piano politico, ma più generalmente culturale e pedagogico, come potrebbero confermare alcuni motivi di attenzione alla musica (frr. 247, 248, 254 e forse 263). Non è chiaro, per assenza di contesto, a cosa si riferissero i riti parodicamente evocati nei frr. 249 e 250, anche se forse nel fr. 250 una pointe contro Pericle si può rinvenire nell’ impiego della parola σχῖνος per la scilla, utile a sferrare l’ ennesimo attacco alla pretesa deformità somatica della testa di Pericle (cf. comunque Revermann 1997). Un qualche ruolo doveva avere l’ ombra di Solone, dramatis persona apparsa (cf. fr. 246), forse a seguito di un rito necromantico. I frr. 256s., probabilmente di ritmo molto simile, paiono essere una laudatio temporis acti, non priva tuttavia di qualche sfumatura ironica, almeno nel fr. 257. Del coro sono note le parole conclusive, riportate da Elio Aristide (fr. 255), un esametro dattilico; e si direbbe che un altro esametro conservato da Efestione (il fr. 253 di Cratino) per ragioni prosodiche potesse riportare le parole d’ esordio del coro. Quale fosse la trama precisa non è possibile dire, ma si può cogliere come il coro giungesse nel luogo in cui si svolge la vicenda forse con l’ intento paideutico di correggere i costumi presenti corrotti (cf. probabilmente fr. 253, e forse i frr. 248 e 258s.), anche con richiami a illustri esempi del passato, come potrebbe suggerire il ricorso forse – conviene ribadire l’incertezza – a una necromanzia per richiamare la figura di Solone (fr. 246). Da questi punti di vista, alcune tematiche possono ricordare – e precedere – i Dēmoi di Eupoli (su cui cf. da ultimo Olson 2017, pp. 295–304). Che il coro innervasse la prospettiva educativa generale, quella interna alla commedia, e quella esterna rivolta al pubblico, è certamente possibile, in quanto Chirone rappresenta il versante non aggressivo e selvaggio dei centauri. La battuta esametrica del coro, che si autodefinisce (fr. 253) menzionando l’ operetta di Esiodo pseudoepigrafa sui Precetti di Chirone, contribuisce senz’ altro a determinare questa prospettiva. Se ci fossero komodoumenoi in scena non è possibile dire: Pericle era certamente oggetto di attacchi (frr. 250, 258 e, attraverso Aspasia, fr. *259, nonché forse per alcune teorie mistagogiche nel fr. 249), ma se e come la sua figura fosse adombrata in scena non si conosce dai frammenti superstiti. Non si può definire

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Cratino

neppure se questa fosse una commedia indirizzata pienamente contro lo statista ateniese, ciò che pare possibile, ma risulta difficile capire in quali termini, visto che Aristofane ha giudicato i propri Cavalieri – certamente successivi – una novità (cf. Nu. 546–548, Ve. 1029–1037, Pax 748–761), orgoglio che potrebbe derivargli dalla centralità di Cleone assunta nella commedia del 424 a. C. (cf. Sommerstein 2000) e non dal tema politico in sé. Dai frr. 246, 251, 253, forse dal fr. 257, si potrebbe ipotizzare con un discreto margine di sicurezza che la scena si svolgesse ad Atene. Alla commedia sono stati ascritti gli anepigrafi frr. 324 e 364 (da Coppola 1936, p. 40), 349 (da Crusius 1889, p. 40), 367 (da Welcker 1848, p. 52), 443 (da Schweighäuser 1803b, p. 197). Datazione La data in cui Cratino presentò i Cheirōnes non è definibile, ma come terminus ante quem varrà la morte di Pericle (429 a. C.). A parte questo aspetto implicito, che deriva dagli attacchi riservati allo statista o ad Aspasia, non ci sono altri elementi per delineare una cronologia precisa della rappresentazione dei Cheirōnes, come osservava ad esempio Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin). Cobet (1840, pp. 22–25) ritenne che la notizia del testimone del fr. 255, Elio Aristide, fosse del tutto inattendibile, e che Cratino con l’ indicazione del biennio intercorso prima della rappresentazione intendesse riferirsi all’ abrogazione del decreto di Morichide (440/439–437/436 a. C.), che avrebbe impedito una rappresentazione precedente della commedia. Anche Coppola (1936, p. 30 n. 2 e p. 32) collegò la commedia al decreto di Morichide, nel senso che ne sarebbe stata l’ occasione scatenante in quanto antipericlea, e si orientava a fissarne la messinscena al 440 a. C. A quel periodo, ma sulla base di altre valutazioni, si rivolgeva Schwarze (1971, pp. 60–64), che riteneva invece attendibili le parole di Elio Aristide e pensava che il fr. 258 con l’ evocazione della Στάσις si riferisse all’ ostracismo di Tucidide di Melesia (nel 444/443 a. C.): e l’ ostracismo definirebbe la data dopo la quale andò in scena la commedia, cui vanno aggiunti almeno i due anni di lavoro dichiarati nel fr. 255. Secondo la Farioli (2000, pp. 427–431), la datazione va abbassata al 431 o al 430 a. C., in quanto, per la studiosa, il fr. 250 farebbe riferimento a un rito collegato alla richiesta degli Spartani di allontanare da Atene Pericle, secondo quanto riportato da Plut. Per. 33.1; la studiosa propone dunque una data simile a quella suggerita da Kock (1880, p. 82) e da Geissler (1969 = 1925, pp. 20s.). Pieters (1946, p. 112) e poi Storey (2011, p. 387) pensano a un periodo da collocare subito dopo la fine dell’ applicazione del decreto di Morichide, e in particolare Storey si orienta fra il 436 e il 432 a. C. Stante il fr. 251 (cf. ad l.) una datazione bassa risulta più prudente.

Χείρωνες (fr. 246)

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fr. 246 K.–A. (228 K.) οἰκέω δὲ νῆσον, ὡς μὲν ἀνθρώπων λόγος, ἐσπαρμένος κατὰ πᾶσαν Αἴαντος πόλιν abito l’ isola, com’ è fama tra gli uomini, sparso per ogni parte della patria d’ Aiace D. L. 1.62 ἐτελεύτησε (scil. Solon) δ’ ἐν Κύπρῳ βιοὺς ἔτη ὀγδοήκοντα, τοῦτον ἐπισκήψας τοῖς ἰδίοις τὸν τρόπον, ἀποκομίσαι αὐτοῦ τὰ ὀστᾶ εἰς Σαλαμῖνα καὶ τεφρώσαντας εἰς τὴν χώραν σπεῖραι. ὅθεν καὶ Κρατῖνος ἐν τοῖς Χείρωσί φησιν, αὐτὸν ποιῶν λέγοντα· οἰκέω — πόλιν morì (scil. Solone) a Cipro a ottant’ anni, dopo aver affidato ai suoi questa indicazione, di ricondurre le sue ossa a Salamina e di spargerle nel territorio dopo averle bruciate. Di qui anche Cratino nei Cheirōnes dice, facendolo un personaggio parlante: abito — Aiace

Metro trimetri giambici

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Bibliografia Runkel (1827, p. 64); Hanow (1830, p. 58); Bergk (1838, pp. 240s.); Meineke (1839b, pp. 149s.); Bothe (1855, p. 47); Kock (1880, p. 82); Edmonds (1957, pp. 104s.); Luppe (1963, p. 208); PCG IV p. 245; Storey (2011, pp. 386s.); Bianchi (2019, pp. 61s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da D. L. 1.62. Il testimone si riferisce al trasferimento delle spoglie di Solone a Salamina, secondo Diogene Laerzio patria del poeta legislatore, le cui ceneri sarebbero state sparse lì per volontà di Solone stesso. Diogene utilizza dunque Cratino come elemento probante di una simile notizia biografica, che risulta però per la prima volta in Cratino, sicché Bergk (1838, p. 240) si chiese se essa non vada ascritta alla fantasia del poeta comico: gli consigliavano maggior prudenza l’ espressione conclusiva del v. 1, che rimanderebbe a una sorta di vulgata, e Plut. Sol. 32.4, che riconduceva la notizia ad Aristototele (fr. 392 R.3), ma cui Plutarco non sembrerebbe concedere grande credito. La stessa informazione si trova in Ael. Arist. Or. 44.172. Mi pare probabile che la fonte di Plutarco possa esser Didimo (cf. Plut. Sol. 1), che ha ripreso certamente Aristotele (cf. Schmidt 1854, pp. 307s.) e che di Cratino largamente si è occupato62. Pertanto ne consegue che non può esser escluso che la notizia dello spargimento delle ceneri di Solone a Salamina sia effettivamente frutto della fantasia comica di Cratino.

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Una simile ricostruzione si può ipotizzare rispetto al fr. 300 sempre dalla biografia plutarchea di Solone (cf. Piccirilli 1976).

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Cratino

Testo Il testo non presenta problemi. Da segnalare la patina dialettale ionica, come già notato da Meineke (1839b, p. 150), cl. Sol. fr. 29.4 (= fr. 32.4 W.), testimoniato da Plut. Sol. 14.9. La caratterizzazione dialettale non stupisce in un testo comico (cf. Colvin 1999, pp. 265–271 per lo ionico in commedia). Interpretazione Dal testimone si ricava che le parole del distico sarebbero di Solone, mentre dal contenuto si dovrà ipotizzare semmai dell’ ombra del defunto Solone, come rilevato dai principali commentatori moderni (cf. e. g. Hanow 1830, p. 58, Bergk 1838, p. 240, Meineke 1839b, p. 151, Kaibel ms. ap. Kassel e Austin, Luppe 1963, p. 208), sulla base, evidentemente, del contenuto del v. 2. Lo statista sarà stato dunque persona loquens della commedia. Non si può accostare questo frammento ad Eup. fr. *101, se non in via del tutto speculativa, in quanto non si può in alcun modo esser certi che il frammento eupolideo vada ascritto ai Dēmoi (cauti in tal senso Kassel e Austin, che infatti registrano il frammento con un prudenziale asterisco, e scettico Olson 2017, pp. 370s.) e che la persona loquens sia Solone, secondo l’ ipotesi di Telò (2007, pp. 535s., sulla scorta di Keil 1912, p. 244). Stando a quanto osservato a proposito del titolo, infine, si dovrà segnalare come esistano altre commedie, tutte in frammenti a parte le Rane di Aristofane, dove si assiste a un vero e proprio recupero dall’ Ade dell’ ombra di un defunto, richiamato per risollevare le sorti della paideia contemporanea. Non mette conto qui di discutere se si tratti di commedie con una catabasi o in cui erano proposti riti necromantici, come forse si può arguire per il caso in esame. Non si può accertare in quale parte della commedia questi versi potessero esser originariamente collocati, e quindi in quali circostanze esser pronunciati: nulla impedisce che i trimetri fossero all’ inizio della commedia, come suggeriva Kaibel nelle sue note raccolte da Kassel e Austin, magari alla stregua di prologhi pronunciati da fantasmi o simili (Eur. Hec. 28, Andr. 16s.), soprattutto se con l’ idea di inizio non si intendono strettamente i primi due versi, opzione sconsigliabile in quanto non mi pare che si possano reperire sicuri esempi di prologhi con un δέ incettivo. Anche l’ idea di una necromanzia preceduta da un qualche rito, come ipotizzato da Bergk (1838, p. 240), costituisce un’ ipotesi accettabile ma non sicura (cf. Telò 2007, p. 534 n. 719), collocabile in parti diverse della commedia. La presenza di Solone (PA 12806; PAA 827640) in commedia si riscontra con certezza in questo frammento; egli fu quasi certamente personaggio (redivivo) dei Dēmoi di Eupoli secondo quanto si può riscontrare da schol. Ael. Arist. 3.365 (III 672.5–11 Dindorf, = Eup. Dēmoi test. *1b, su cui da ultimo Olson 2017, pp. 286 e 296–303); e fu personaggio dell’ Esopo di Alessi come si ricava dal fr. 9 (cf. Arnott 1996, pp. 75–79). Menzioni di Solone in commedia, tutte legate essenzialmente al ruolo di legislatore, si trovano con una certa frequenza in Cratino: cf. frr. 134 e 135, per cui Bergk (1838, p. 135), approvato da Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin), ha ipotizzato che Solone fosse anche qui un personaggio della commedia (Nomoi), mentre Quaglia (1998, p. 39) ha pensato che nel fr. 132 si facesse riferimento a un’ evocazione infera di Solone; e cf. fr. 300 (su cui Piccirilli 1976 e Olson-Seaberg

Χείρωνες (fr. 246)

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2018, pp. 18–23); in Aristofane (Nu. 1187 e Av. 1660–1666); in Eubulo (fr. 57.6); in Alessi (fr. 131); in Filemone (fr. 3.1–4). Per ulteriori indicazioni cf. Bianchi (2019). v. 1 οἰκέω l’ attacco è simile, sul piano fonetico e ritmico, a un altro esempio di ionico in commedia, Ar. Pax 47 δοκέω μέν κτλ., sulla cui patina ionica cf. Colvin (1999, p. 265). ὡς λόγος l’ espressione ha una propria diffusione in tragedia. Tuttavia, non si riscontrano sicuri casi in cui l’espressione, pronunciata in questi termini, derivi da prologhi: potrebbe tentativamente costituire un parallelo Eur. fr. 846, forse dall’ Archelao secondo le testimonianze antiche e derivato dalla sezione delle Rane di Aristofane dove sono valutati i prologhi (vv. 1206–1208), ma che esso derivi dal prologo è insicuro63. Un’ espressione simile, ma non del tutto sovrapponibile, in un prologo, è in Soph. Tr. 1 (λόγος … ἀρχαῖος), mentre più diffusa essa dovrà dirsi rispetto ad altre collocazioni variamente distribuite nelle diverse sezioni delle tragedie: cf. Aesch. Suppl. 230, Soph. OC 377, Eur. IT 532 e 534. v. 2 ἐσπαρμένος il verbo in commedia non si trova associato alle ceneri, e normalmente ha che vedere con la semina, pur non mancando contestualizzazioni diverse, cf. Ar. Ve. 1044, Antiph. fr. 4.4, decisamente metaforici. Luppe (1963, p. 208) ha osservato che l’ espressione appare paradossale rispetto all’ ipotesi di un personaggio della commedia che appare in scena e che si dichiara sparso nell’ isola. L’ idea di spargimento mi pare amplificata da πᾶσαν che indica la totalità considerata nelle sue diverse parti. La paradossalità, in quanto inserita in un contesto comico, tuttavia, non dovrebbe costituire un ostacolo all’ipotesi che a pronunciare questi versi fosse l’ombra di Solone, interpretata da un attore visibile al pubblico. Αἴαντος πόλιν una simile espressione ricorre in Pind. I. 5.48, dove πόλις appare funzionale a indicare l’ isola come patria di Aiace e a includerla nel contesto degli Eacidi (cf. Privitera 1998, p. 198). Nel caso di Cratino, il nesso, oltre a costituire una perifrasi di tipo aulico – sia per πόλις a indicare un’ isola, però riconducibile a una patria (Il. 2.677, 14.230), o più in generale come territorio (Ar. Pax 251, cui va ricondotto Hsch. π 2787), sia per l’ espressione stessa (cf. Bergk 1838, p. 241 con numerosi esempi) – serve a consolidare il rapporto dello statista con l’ isola che una tradizione avrebbe voluto esser il luogo nativo (oltre al menzionato D. L. 1.62 cf. D. S. Bibl. 9.1.1)64. Per la morte di Solone a Salamina cf. anche AP 7.87. Per una discussione su questi aspetti biografici cf. Davies (1971, pp. 323s.) e Noussia-Fantuzzi (2010, p. 4).

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64

Secondo Kannicht (2004, p. 886), Aristofane avrebbe scherzato su una tragedia euripidea non arrivata ad Alessandria (cf. test.1.28 e 57s.), mentre Stoessl (1957, c. 2339) ha ipotizzato che il frammento sia stato giudicato un prologo per un errore di memoria del commediografo, mentre andrebbe collocato dopo il vero prologo dell’ Archelao (fr. 228.1–8), il che è possibile ma si scontra con gli effettivi prologhi presentati nelle Rane. Secondo Aesch. 1.25 e Dem. 19.251, gli abitanti di Salamina avrebbero eretto una statua a Solone nella piazza dell’ isola.

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Cratino

fr. 247 K.–A. (229 K.) ὄνοι 〈δ’〉 ἀπωτέρω κάθηνται τῆς λύρας ὄνοι 〈δ’〉 Meineke (1839b, p. 150) : ὄνοι Eust. Od. 1601.45, ὡς ὄνος schol. schol.

ἀπωτέρῳ

da asini siedono piuttosto lontano dalla lira schol. Areth. Pl. Theaet. 146a (ex Suet. Περὶ παιδιῶν p. 69.10s.) ἐν τῇ διὰ σφαίρας ὀνομαζομένῃ παιδιᾷ … τοὺς μὲν νικῶντας βασιλεῖς ἐκάλουν … τοὺς δ’ ἡττωμένους ὄνους. Κρατῖνος δὲ Χείρωσι (-οσι cod.) χαριέντως ὁμοῦ ἐγκαταμίξας καὶ τὴν ὄνος λύραν παροιμίαν ἔπλεξε τὸν λόγον οὕτως· ὡς ὄνος — λύρας. τοὺς γὰρ ἡττωμένους, ὡς ἔφαμεν, ὄνους καθῆσθαι ἔλεγον, βασιλεῖς δὲ τοὺς νικῶντας nel cosiddetto gioco con la palla […] chiamavano re i vincitori […] i perdenti asini. Cratino nei Cheirōnes con grazia ha mescolato insieme anche il proverbio un asino (ascolta) la lira intrecciando il discorso in questo modo: come l’ asino — dalla lira. Come affermavamo, dicevano che i perdenti stanno seduti in quanto asini, ma re i vincitori Eust. Od. 1601.44s. (ex Suet. Περὶ παιδιῶν p. 69.10s.) ὅτι δὲ τῶν αὐτὴν (scil. σφαῖραν) παιζόντων τοὺς μὲν νικῶντας βασιλεῖς ἐκάλουν … ὄνους δὲ τοὺς ἡττωμένους … “ὁ δὲ ἁμαρτὼν καθεδεῖται … ὄνος …” (Pl. Theaet. 146a). τὴν δὲ ἀπὸ Κρατίνου οἷον· ὄνοι — λύρας. τοὺς γὰρ ἡττωμένους ὄνους καθῆσθαι ἔλεγον fra quelli che giocano a palla chiamavano re i vincitori […] asini i perdenti […] “chi sbaglia andrà a sedersi […] come asino […]”. Questo proverbio da Cratino, ad esempio: “da asini — dalla lira”. I perdenti dicevano che andavano a sedersi come asini

Metro trimetro giambico

klklkl|klklkl

Bibliografia Runkel (1827, p. 66); Hanow (1830, pp. 59s.); Meineke (1839b, pp. 150s.); Bothe (1855, p. 47); Kock (1880, pp. 82s.); Edmonds (1957, pp. 104–107); Luppe (1963, p. 209); PCG IV p. 246; Storey (2011, pp. 386s.); Tosi (2017, nr. 590); Costanza (2019, p. 208) Contesto della citazione Il frammento si trova negli scolî a Platone redatti da Areta e in Eustazio, e risale in qualche modo e in entrambi i casi al perduto Περὶ παιδιῶν di Svetonio (cf. Fresenius 1875, p. 34). Dalla formulazione di Areta si ricava che la commedia da cui proviene il frammento di Cratino sono i Cheirōnes, allorché il solo nome del poeta si trova menzionato anche in Eustazio. Vi si segnala un intreccio fra due espressioni, una proverbiale (ὄνος λύρας) e l’ altra più probabilmente gergale riconducibile già al testo di Platone, al cui tempo era nota se si trova riadattata in Cratino: la forma gergale pare che avesse a che fare col gioco della palla, secondo il perduto Svetonio, e suona ὄνος κάθηται (o con l’imperativo secondo una forma asseverata nello scolio al Teeteto e richiamata da Arsen.

Χείρωνες (fr. 247)

99

12.83b), a indicare chi, nel corso gioco, perdeva e veniva chiamato “asino”. Tali compressioni di espressioni diverse, in commedia, non sono inusuali, né mancano casi in cui l’ invenzione comica produca calembours a partire da proverbi (cf. Tosi 1988, p. 206 e Bühler 1999, pp. 232–234). Notizie simili a quelle dello scolio si trovano in Poll. 9.106 e 9.112, senza la citazione di Cratino. Testo Il testo non sembra soffrire di particolari guasti. Lo scolio di Areta presenta la probabile dittografia οὕτως ὡς65: ritengo che ὡς si spieghi per dittografia sul piano paleografico, e che si motivi sul piano esegetico come l’ esplicitazione del valore predicativo di ὄνος / ὄνοι. Si segnala un adeguamento sul proverbio standard citato subito prima di Cratino del singolare ὄνος nonostante il plurale κάθηνται: si tratta di errori assenti in Eustazio, sicché si può pensare che essi non siano di Areta ma, più verisimilmente, della sua tradizione. Il testo di Eustazio presenta uno iato, facilmente corretto da Meineke (1839b, p. 150) in ὄνοι 〈δ’〉 ἀπωτέρω, generalmente accettato (cf. fr. 56 dove si legge ὁ ὄνος δ’ ὕεται, cf. Luppe 1963, p. 209). Interpretazione Come ha illustrato Tosi (2017, nr. 590), il proverbio standard ὄνος λύρας (ἀκούων) è ampiamente attestato (cf. e. g. Men. Mis. 696 e fr. 418, Macho 140, Varro Sat. 349 B. ed è, soprattutto, titolo di una delle Satire Menippee). Come evidenziato in svariate raccolte paremiografiche (Diogen. 7.33, Greg. Cypr. 3.29, vd. anche Apost. 12.91a), o da fonte paremiografica rifluita nella lessicografia (Phot. ο 355 = Suda ο 391, che cita Men. fr. 418), indica una rozza stupidità. Esso potrebbe derivare da un favola di cui a oggi non si ha traccia, né mostrano di averla avuta i commentatori bizantini cui la testimonianza risale nella forma attuale (dell’ operetta svetoniana Περὶ παιδιῶν resta pochissimo). Come ha osservato Olson (2016, p. 422) a proposito di Eup. fr. 279 (ὄνος ἀκροᾷ σάλπιγγος), potrebbe esser ripresa l’ idea tipicamente greca che associa l’ incultura all’ incapacità di rapportarsi alla musica, e in particolare alla citaristica (cf. Ar. Ve. 959 κιθαρίζειν γὰρ οὐκ ἐπίσταται su cui Biles-Olson 2015, p. 365). Il caso eupolideo prevede l’assimilazione di qualcuno all’ animale, secondo un processo riscontrabile in numerosi casi comici (cf. e. g. Cratin. frr. 56 e 135, Diocl. fr. 6, Theop. Com. fr. 41.2, e cf. in generale l’ ampia discussione e i numerosi esempi raccolti da Orth 2014, p. 209). Diversi e più rari sono gli esempi delle trasformazioni in atto, per lo più col verbo γίγνομαι (cf. Ar. Th. 236s., Stratt. fr. 4), certamente più frequenti in latino (Plaut. Bacch. 665, Curc. 150, Epid. 311, 349, su cui Fraenkel 1960, pp. 24 e 46s.). Nel caso in esame, lo scolio al Teeteto dice che si fa riferimento, oltre al proverbio, anche al gioco della palla, dove si prevedeva che i perdenti fossero qualificati come “asini” e forse allontanati a sedersi. Fin qui, ciò che può dirsi relativamente sicuro rispetto al frammento o almeno altamente plausibile. Non escluderei, in via del tutto ipotetica e speculativa, che questo frammento, alla luce di altri riferimenti musicali della presente commedia e specialmente di quello che pare esser stato presente nei lacerti parafrasati nel fr. 65

Sulla forma del proverbio si veda Tosi (1988, p. 206).

100

Cratino

248 in relazione alla musica e alle persone sapienti, richiamasse un qualche riferimento alla musica celeste, udibile solo dalle persone irreprensibili, riconducibile in primis alle dottrine pitagoriche, con varie e note riprese successive66. Come ha sottolineato Tosi (2017, nr. 590), sulla scorta della Deschamps (1979), l’ asino rappresenta un animale contrapposto ad Apollo – basti pensare all’ episodio di Apollo, Marsia e Mida, con le orecchie d’ asino quale punizione di Mida e la cetra apollinea presente nella gara – dunque alla musica delle sfere. Un esito tardo di questa tradizione, che ricomprende il proverbio, potrebbe esser individuabile in Mart. Cap. 8.807 saltem Prieneiae ausculta nihilum grauate sententiae et, ni ὄνος λύρας, καιρὸν γνῶθι. Per il Fortleben del proverbio cf. Tosi (2017, nr. 590). ὄνοι per l’ asino in commedia cf. e. g. Cratin. fr. 56, Crates fr. 38, Ar. Ve. 191, Ra. 159, fr. 199.2, e in generale Olson (2016, p. 422), con un’ ampia raccolta di materiali; si vedano Olck (1907), Padgett (2000), rispetto all’ immagine dell’ asino nella ceramica attica come segno di marginalizzazione, nonché Griffith (2006, pp. 227s.), però senza il riferimento all’ asino e alla lira, Kitchell (2014, pp. 57–59).

fr. 248 K.–A. (230 K.) schol. (Φ) Thuc. 8.83.3 τὸ ἐπιφέρειν ὀργὴν ἐπὶ τοῦ χαρίζεσθαι καὶ συγχωρεῖν ἔταττον οἱ ἀρχαῖοι. μάρτυς Κρατῖνος ἐν Χείρωσι (Lucas 1828, p. 6 : Χειρ F, cp. M, Χείρωνι CPl) λέγων τ ὴ ν μ ο υ σ ι κ ὴ ν ἀ κ ο ρ έ σ τ ο υ ς ἐ π ι φ έ ρ ε ι ν ὀ ρ γ ὰ ς β ρ ο τ ο ῖ ς σ ώ φ ρ ο σ ι ν, ἀντὶ τοῦ χαρίζεσθαι τοῖς σώφροσιν gli antichi (scrittori) usavano epipherein orgēn nel senso di “rendersi gradito” e “concedere”. Ne è testimone Cratino nei Cheirōnes quando dice che la musica alimenta insaziabili passioni nei mortali temperati, invece di dire che è gradita alle persone temperate

Metro non deducibile Bibliografia Grotius (1626, pp. 492s.); Runkel (1827, p. 66); Lucas (1828, p. 6); Hanow (1830, pp. 60s.); Bergk (1838, p. 229); Meineke (1839b, pp. 156s.); Cobet (1840, pp. 25s.); Bothe (1855, p. 49); Kock (1880, p. 83); Blaydes (1896, p. 9); Edmonds (1957, pp. 106s.); PCG IV p. 246; Storey (2011, pp. 388s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da schol. Thuc. 8.83.3, in relazione al passo dello storiografo dove si afferma che Astioco alimentava gli umori di Tissaferne a proprio vantaggio (πάντων τε Ἀστύοχον εἶναι αἴτιον ἐπιφέροντα ὀργὰς Τισσαφέρνει διὰ ἴδια κέρδη). Lo scoliasta, per spiegare l’ espressione ἐπιφέροντα ὀργάς di Tucidide, cita a testimonianza i Cheirōnes (secondo la

66

Basterebbe Pl. Resp. 614B–d. Cf., fra gli altri, Junge (1948), Paterlini (1992, pp. 68s.).

Χείρωνες (fr. 248)

101

correzione di Lucas 1828, p. 6) di Cratino e una porzione di testo della commedia, evidentemente parafrasata in quanto essa non rispecchia alcuna forma metrica. Testo Il testo non presenta difficoltà, se non nel ricostruirne la facies ritmicometrica originaria, in quanto quella offerta sarebbe una successione inedita. Si registrano svariati tentativi67, tutti altamente ipotetici, pertanto va considerata condivisibile la scelta di Kassel e Austin di non restituire alcuna forma metrica precisa, in quanto ciascuna delle sistemazioni segnalate in nota può esser accettabile (cf. Meineke 1839b, p. 157: «sed aut exigua aut nulla ad persuasionem fide»). Interpretazione Il nucleo della parafrasi risiede nel nesso ἐπιφέρειν ὀργάς, presente in Tucidide, nello scolio e in Cratino. Non sono sicuro che lo scolio avesse inteso l’ indicazione per certi versi in malam partem dell’ espressione tucididea, giusta la chiosa ἀντὶ τοῦ χαρίζεσθαι τοῖς σώφροσιν, per quanto in relazione alla parafrasi di Cratino. L’ interpretazione del frammento non può dunque prescinderne, sicché un’ esegesi come quella di Hanow (1830, p. 61), «musica effici, ut homines intemperantes obsequantur hominibus temperatis», in parte seguita da Bergk (1838, p. 229), appare in definitiva non necessaria in quanto complicata. Il senso sarà, più o meno, quello rilevato da Meineke (1839b, p. 157) «musicam impense favere hominibus moderatis», come del resto interpretava lo scolio. Non mi sembra si possa dire se l’ esegesi di Cobet (1840, pp. 25s.), accolta da Kock (1880, p. 83) e ricordata, però solo a titolo informativo, da Kassel e Austin, sia pienamente corretta. Lo studioso ipotizzava che la μουσική qui menzionata fosse la poesia comica, adatta e utile ai sapienti fra gli spettatori, e ostile oltre che sgradita gli altri. Non è stato dato peso al fatto che Cobet concludeva in questi termini: «itaque non esse, cur honesti viri et recti amantes inique ferant pristinam ridendi licentiam poetis comicis esse restitutam», nell’ àmbito di una discussione sui decreti di censura al dileggio ad personam. Cobet si avvaleva dunque di Cratino per avallare un’ ipotesi sul periodo di sospensione dell’ onomasti komodein, e faceva riferimento a passi come Eup. fr. 392.8, dove si legge μὴ φθονεῖθ’ ὅταν τις ἡμῶν μουσικῇ χαίρῃ νέων ma dove difficilmente il termine μουσική sarà la commedia, quanto piuttosto la poesia, magari performativa68. Anche il nesso βροτοῖς σώφροσιν risultava per Cobet probante per la propria tesi, dopo aver richiamato Ar. Ra. 727 e il sospetto Pl. 387. 67

68

Lucas (1828, p. 6) si cimentò con i giambi ἡ μουσικὴ / ὀργὰς ἀκορέστους ἐπιφέρει τοῖς σώφροσιν / βροτοῖς, già in qualche modo di Grotius (1626, p. 493 ἡ δὲ μουσικὴ / ὀργὰς ἐπιφέρει σώφροσ’ ἀκορέστοις βροτοῖς). Da segnalare Meineke (1839b, p. 157) μουσικὴ δὲ / ὀργὰς ἀκορέστους ἐπιφέρει τοῖς σώφροσιν βροτοῖσιν, quindi Bothe (1855, p. 49) sempre nella direzione dei giambi ἡ δὲ μουσικὴ βροτοῖς / ὀργὰς ἀκορέστους ἐπιφέρει τοῖς σώφροσιν. Kock (1880, p. 83) propose a sua volta dei giambi ἡ γὰρ μουσικὴ βροτοῖς ἀεὶ / ὀργὰς ἀκορέστους ἐπιφέρει τοῖς σώφροσιν. La soluzione di Kock fu accolta da Blaydes (1896, p. 9) con la variazione di βροτοῖς in βροτῶν. Olson (2014, p. 147) traduce il passo di Eupoli con «arts», precedentemente intendeva «poetry» (2002, p. 285).

102

Cratino

Il passo potrebbe collegarsi al fr. 263, stanti alcuni aneddoti riportati dalla costellazione e relativi al potere della poesia nel placare gli animi e indirizzarli alla pace. Non si può escludere un’ interpretazione paradossale e comica se si ammette che fossero di Cratino tanto ἀκορέστους quanto σώφροσιν, dal momento che i due termini mostrano una generica opposizione semantica. μουσικήν in Cratin. fr. 338 (su cui Olson-Seaberg 2018, p. 110), che rappresenta l’ unico altro luogo del commediografo in cui appare il termine, significa “musica”, inequivocabilmente, come “musica” andrà inteso in Ephipp. fr. 7.2, Eup. fr. 4 (cf. Olson 2017, p. 111), Theophil. Com. fr. 5.2. In commedia il termine assume significati differenti e non sempre può esser facilmente distinguibile il senso preciso che esso assume: se “poesia”, verisimilmente performativa, pare sicuro in Ar. Ach. 851, Ra. 729, 797, 1493, Eup. frr. 366 e 392.8, meno certi sono Eq. 188, Pl. 190, Anaxil. fr. 27, Antiph. fr. 209.2, Philetaer. fr. 17.4. ἀκορέστους ἐπιφέρειν ὀργάς l’ espressione ἐπ. ὀργ. è il nucleo della citazione dello scoliasta dal momento che si trova nel testo di Tucidide. L’ aggettivo, assente nel passo di Tucidide, costituisce un unicum con ὀργή: la caratura dell’ attributo è aulica (cf. e. g. Il. 13.621, 639, 20.2, sempre col genitivo e assente nell’ Odissea; H. Hom. 5.71; Hes. fr. 10a.53; Ps.-Hes. Sc. 459), perlopiù69, il che induce a ritenerlo parte autentica di Cratino70: in particolare, si veda Aesch. Ag. 1331s. τὸ μὲν εὖ πράσσειν ἄκόρεστον ἔφυ / πᾶσι βροτοῖσιν. L’ espressione non ha un esatto parallelo, ma si può segnalare Eur. Me. 638 (vv. 636–639 στέργοι δέ με σωφροσύνα, / δώρημα κάλλιστον θεῶν· / μηδέ ποτ’ ἀμφιλόγους ὀργὰς / ἀκόρεστά τε νείκη κτλ., cf. Aesch. Ag. 927s.), che appare come una sorta di endiadi. βροτοῖς σώφροσιν la caratura generale anche di questo nesso risulta rara e aulica (cf. Eur. Hel. 47, Soph. Ph. 304): basterebbe a garantirne l’ ascendenza dalla poesia seria il sostantivo βροτός (la cui prima attestazione prosastica si trova in Pl. Resp. 566d), notoriamente presente in Aristofane per lo più in momenti in qualche modo parodici (cf. e. g. Nu. 462 in un contesto lirico, Pax 180, 236, 285) – o autenticamente tali (Th. 1023, adattato da Eur. fr. 123; Ra. 1187 = Eur. fr. 158) – talora con collocazione parabatica (Eq. 601, comunque parodico in quanto si tratta dell’ assalto navale mosso dai cavalli dei coreuti, Av. 687, che richiama una sorta di teogonia orfica). Il sostantivo ricorre in Cratino nel fr. 256 sempre dai Cheirōnes e nel fr. 62.1: esso appare anche in Com. adesp. 1105.69, talora attribuito a Cratino; da segnalare anche Eup. fr. 173 (cf. Olson 2016, p. 96), per contiguità cronologica. Quanto a σώφροσιν, si intenderà qui, presumibilmente e se si tratta di parola di Cratino, della valenza più diffusa, per cui cf. Dover (1974, pp. 59 e 66–69), il quale osservava come la definizione aristotelica della σωφροσύνη (Rhet. 1366b 13–15 σωφροσύνη δὲ ἀρετὴ δι’ ἣν πρὸς τὰς ἡδονὰς τὰς τοῦ σώματος οὕτως ἔχουσιν ὡς

69 70

Il caso di Xen. Smp. 8.15 non si lega a ὀργή vel simile quid. Credo sia troppo complesso immaginare l’ aggettivo come espressione dello scoliasta, nonostante schol. Ps.-Aesch. Pr. 370s.

Χείρωνες (fr. 249)

103

ὁ νόμος κελεύει) non rispecchi l’ uso probabilmente più invalso, per quanto tale definizione non sia estranea ad esso (cf. anche Dover 1993, p. 283). In Ar. Nu. 529 il termine viene opposto a καταπύγων, mentre in Lys. 1.38 il σωφρονεῖν si oppone ad ἀδικεῖν.

fr. 249 K.–A. (231 K.) οἷς ἦν μέγιστος ὅρκος † ἅπαντι λόγῳ † κύων, ἔπειτα χήν· θεοὺς δ’ ἐσίγων 1 οἷς codd. : εἷς schol. Pl. Phaedr. 228b (W) οἷς οὖν schol. Pl. Phaedr. 228b λόγῳ codd. : ἐν παντὶ λόγῳ schol. Pl. Phaedr. 228b

2 ἅπαντι

avevano un grandissimo giuramento † hapanti logō † il cane, poi l’ oca; ma tacevano gli dèi schol. Pl. Ap. 22a (= schol. Pl. Reip. 399e = Phot. ρ 17 = Suda ρ 13) Ῥαδαμάνθυoς ὅρκος ὁ κατὰ κυνὸς ἢ χηνὸς (κατὰ χ. ἢ κ. schol. Ap., Phot., Suda) ἢ πλατάνου ἢ κριοῦ ἤ τινος ἄλλου τοιούτου· οἷς — ἐσίγων. Κρατῖνος Χείρωσι. τοιοῦτοι δὲ καὶ οἱ Σωκράτους ὅρκοι il giuramento di Radamanti quello sul cane o sull’ oca o sul platano o sul montone o su altro del genere: avevano — dèi. Cratino nei Cheirōnes. Simili erano anche i giuramenti di Socrate schol. Pl. Phaedr. 228b (cf. Apost. 15.17) ὁ Ῥαδαμάνθυoς ὅρκος ὁ κατὰ κυνὸς ἢ χηνὸς ἢ πλατάνου ἢ κριοῦ ἤ τινος ἄλλου τοιούτου· οἷς — χήν, καὶ τἆλλα. Κρατῖνος Χείρωσι. κατὰ τούτων δὲ νόμος ὀμνύναι, ἵνα μὴ κατὰ θεῶν οἱ ὅρκοι γίγνωνται il giuramento di Radamanti quello sul cane o sull’ oca o sul platano o sul montone o su altro del genere: avevano — oca, e altro. Cratino nei Cheirōnes. È norma giurare su queste cose, perché i giuramenti non avvengano sugli dèi Zen. vulg. 5.81 (breviora docent Prov. Bodl. 818, Hsch. ρ 14) Ῥαδαμάνθυoς ὅρκος· Κρατῖνός φησιν (φ. οm. Prov. Bodl.). ἐπὶ τῷ χηνὶ καὶ τῷ κυνὶ (τὸν ἐ. τῷ κ. καὶ χ. Prov. Bodl.) καὶ τοῖς τοιούτοις ὅρκον Ῥαδαμάνθυϊ ἀνατιθέασιν (ἀνατίθησι Prov. Bodl.), ὡς καὶ Σω〈σι〉κράτης ἐν δευτέρῳ Κρητικῶν (FGrHist 461 F 3b, οm. Prov. Bodl.). ἵνα μὴ θεοὺς ὀμνύωσι (διὰ τὸ μὴ θεοὺς ὀμνύειν Prov. Bodl.) il giuramento di Radamanti, lo dice Cratino. Per l’ oca e per il cane e per cose simili fanno un giuramento a Radamanti, come dice anche Sosicrate nel secondo libro dei Kretika. Perché non giurino sugli dèi

Metro tetrametri giambici catalettici

llklkll

†klkkl†klklk|lklkll

104

Cratino

Bibliografia Runkel (1827, p. 62); Hanow (1830, p. 59); Bergk (1838, pp. 232s.); Meineke (1839b, pp. 155s.); Bothe (1855, p. 49); Kock (1880, p. 83); Edmonds (1957, pp. 106s.); Luppe (1963, pp. 209s.); Perusino (1968, pp. 106s.); PCG IV pp. 246s.; Storey (2011, pp. 388s.); Torrance in Sommerstein-Torrance (2014, pp. 123s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato, con informazioni variamente dettagliate, da una vasta costellazione di fonti. Di fatto identici sono schol. Pl. Ap. 22a, schol. Pl. Reip. 399e, Phot. ρ 17, Suda ρ 13, che riportano, oltre al frammento, anche autore e opera. La fonte della costellazione va ricondotta, con molta probabilità, a Elio Dionisio (ρ 1), come segnalato da Cohn (1884, p. 811): occasione del commento è l’ espressione νὴ τὸν κύνα, formula giudicata attica e comica da Cohn (cf. infra). Alla medesima costellazione potrebbero esser ricondotti schol. Pl. Phaedr. 228b, e Zen. vulg. 5.81, anche se rappresentano stadi diversi e fra loro distinti della tradizione. Lo scolio al Fedro è prodotto dal medesimo interesse degli altri scolî platonici (νὴ τὸν κύνα), riporta testo, autore e opera, ma con alcune lievi modifiche, poiché il frammento citato manca della parte finale relativa alle divinità olimpiche, mentre vi si trovano contenuti coincidenti con quelli espressi da Zen. vulg. 5.81, pur senza la indicazione esplicita di Sosicrate (FGrHist 461 F 3b). Tali variazioni si saranno verificate a valle della compilazione di Elio Dionisio, o a valle dello scolio e pertanto nella sua tradizione manoscritta; e a un’ ulteriore variazione recente credo si possa imputare l’ assenza di Cratino e del titolo della commedia in Apost. 15.17. Questa fonte intermedia avrà presumibilmente prodotto la conflazione di altri materiali, presenti poi in Apostolio e reperibili in schol. Ar. Av. 521 (con la menzione di Sosicrate), e dallo scolio rifluiti quindi in Suda λ 93 (Macar. 7.49 offre una testimonianza coerente nei contenuti ma diversa nella forma e comunque da non annoverarsi fra i testimoni di Cratino), estranei però a Cratino e riconducibili dunque a un diverso filone. Alla costellazione cui appartengono i principali testimoni del frammento di Cratino andrà ricondotta la forma parafrastica e abbreviata di Hsch. ρ 14, in quanto cita i due soli animali presenti in Cratino, cane e oca (in ordine inverso rispetto a Cratino)71: la fonte intermedia della glossa sarà quella di Prov. Bodl. 818, identico a Esichio a eccezione del nome del commediografo, che in Esichio manca mentre c’ è in Prov. Bodl. 818, che costituisce a sua volta forma abbreviata di Zen. vulg. 5.81. Che Hsch. ρ 14, Zen. vulg. 5.81, Prov. Bodl. 818 possano appartenere tutti a un sottogruppo della costellazione di cui condividono una fonte intermedia, potrebbe dimostrarsi per la presenza comune dell’ accusativo ὅρκον, necessario nella sintassi dei paremiografi mentre appare altrimenti immotivato in Esichio. L’ assenza della menzione di Cratino in Esichio, infine, può più agevolmente spiegarsi come un errore (o scelta) di un copista più probabilmente a valle della compilazione. Non si può 71

Si noti che l’ ordine inverso seguito poi da altri animali si trova anche nella spiegazione che precede il frammento di alcuni fra i testimoni principali, schol. Pl. Ap. 22a, Phot. ρ 17 e Suda ρ 13.

Χείρωνες (fr. 249)

105

escludere che in Cratino venisse definito come Ῥαδαμάνθυoς ὅρκος vel sim. q. la prassi descritta nel frammento. Testo Il testo presenta alcune difficoltà. La principale è di ordine metrico: a rintracciare trimetri giambici si risolvevano Bekker e Porson, nelle rispettive edizioni degli scolî a Platone e del lessico di Fozio; ad asinarteti di dattili e trochei pensava Bergk (1838, p. 232), che interveniva sul testo (οἷσιν) e restituiva una scansione che credo sia interpretabile come ithyph | hemm 3ia^. Una proposta alternativa si trova in Gaisford (1855, p. 15 n. g e già in Meineke, il quale richiama Gaisford evidentemente nella prima edizione del 1810), che vi individuava un giambelego (o trimetro prosodiaco), seguito da un trimetro giambico catalettico: un brano lirico, dunque, che Meineke (1839b, p. 156) considerò plausibile (οἷς — λόγῳ / κύων — ἐσίγων), in subordine alla successione dei tetrametri giambici catalettici, che egli aveva proposto a testo (1839b, p. 155). La proposta dei tetrametri giambici catalettici rappresenta una soluzione accolta anche da Kaibel (ms. ap. K.–A.) e da Kassel e Austin stessi, pur con la necessità di porre fra cruces l’ inizio del v. 2 dove l’ espressione ἅπαντι λόγῳ è inedita e determina anche un anapesto strappato in seconda sede (cf. Perusino 1968, p. 107). Come accennato, nessuno degli editores veteres ritenne di dover segnalare, come anomalia stilistica e ritmica al v. 2, l’ espressione ἅπαντι λόγῳ, posta fra cruces da Kassel e Austin, sulla scorta dei dubbi espressi da Kaibel (ms. ap. K.–A.). Il problema ritmico dello strappo può esser superabile, quello stilistico meno se si considera come l’ espressione sia uno hapax. Luppe (1963, p. 209) ha proposto ἐν παντὶ λόγῳ sulla scorta del dettato offerto da schol. Pl. Phaedr. 228b, ma si determina in tal modo un inizio del verso percepibile come anapestico. In definitiva, la soluzione prospettata da Kassel e Austin (già da Kaibel) risulta quella più adeguata alla situazione testuale offerta dalla tradizione manoscritta, sulla quale gli interventi si potrebbero all’ occorrenza moltiplicare per rimediare alla corruzione all’ inizio del v. 2 (e. g. ἁπλῷ λόγῳ, attestato in poesia drammatica, cf. Ps.-Aesch. Pr. 975 ἁπλῷ λόγῳ τοὺς πάντας ἐχθαίρω θεούς). Interpretazione Il frammento si occupa dunque di un giuramento, sul cane e sull’ oca. Stando a Platone, Socrate avrebbe giurato sovente sul cane e su Era (cf. Sommerstein 2008) con un’ espressione che Cohn (1884, p. 811) riteneva comica, ma – andrà aggiunto – del tutto assente in Aristofane che pure a Socrate e alla nuova cultura sofistica ha dedicato numerose attenzioni. Il giuramento sul cane da parte di Socrate non sarà stato percepito in sé come empio, dal momento che, se lo fosse stato, difficilmente un allievo devoto come Platone lo avrebbe registrato a più riprese nei propri dialoghi. Tuttavia, nel frammento di Cratino potrebbe essere segnalata una punta di empietà nel giuramento sul cane e sull’ oca, dal momento che si dice che coloro che compivano il giuramento tacevano rispetto alle altre divinità, s’ intende quelle olimpiche, a meno che non si intenda dire che come nel caso di Radamanti (cf. infra) costoro non giuravano sulle divinità tradizionali. Normalmente, i critici hanno avanzato due interpretazioni opposte:

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Cratino

1. Cratino evoca qui un tempo passato statutariamente felice, in modo coerente con quanto emergerebbe dai frr. 248, 256, 25772. Il fatto che il fr. 249 sia collegato in qualche modo alla figura di Radamanti73 ne farebbe fede: si muove su questa linea l’ esegesi di Meineke (1839b, pp. 155s.), e per lo più quella già di Bergk (1838, p. 233), su cui si veda infra. 2. Opposta l’ interpretazione di Hanow (1830, p. 59) e di Schmid (1946, p. 84 n. 2), che di fatto ipotizzano qui un attacco di Cratino ai filosofi contemporanei. In realtà, le due ipotesi interpretative possono completarsi a vicenda. Come osservato opportunamente da Bergk (1838, p. 233), la presenza dell’ imperfetto rinvia a un tempo precedente quello della rappresentazione. Ne consegue che la proiezione nel passato agevola un’ interpretazione in bonam partem del frammento. Ma stando al passo di Sosicrate dal secondo libro dei Kretika (FGrHist 461 F 3b), ricordato in alcuni dei testimoni di Cratino (cf. Zen. vulg. 5.81 e, senza il nome di Sosicrate ma con la stessa fonte intermedia, schol. Pl. Phaedr. 228b, si veda anche schol. Ar. Av. 521), Radamanti avrebbe giurato sugli animali per non giurare sugli dèi, ispirato da una tensione di profonda religiosità, differentemente da quell’ impiego truffaldino riconosciuto invece, da una prospettiva comica, a Lampone in Ar. Av. 521 promotore del giuramento sull’ oca. Non sembra chiaro se l’ associazione fra questi giuramenti e Radamanti, con una conseguente proiezione delle formule in un passato mitico e felice in quanto giusto, fosse nota al pubblico ateniese, né soccorrono in tal senso passi come Ar. Ve. 83 (μὰ τὸν κύν’, ὦ Νικόστρατ’, οὐ φιλόξενος). Tuttavia, in quanto qui compresi nell’ Erwartungshorizont del genere comico, i giuramenti di Radamanti potrebbero esser stati rappresentati come truffaldini, non già di per sé, ma nell’ impiego eventualmente fattone dai fisiologi contemporanei74. Come dire che casi come i giuramenti sul Vortice nelle Nuvole di Aristofane, o passi come Av. 521 sono una distorsione comica della filosofia contemporanea rispetto al pensiero sviluppato nei riguardi della religione tradizionale coeva, vale a dire olimpica, in quanto la sensibilità del pubblico permetteva di decifrare in comicum quel tipo di battute. Se considerata in tal senso, l’ esegesi del fr. 249 di Cratino ammette dunque una lettura seria, di elogio di un tempo passato, dietro cui traspare un’ accusa alla contemporanea tendenza intellettuale che pure faceva ricorso, in qualche modo, a simili e antichissimi giuramenti, ma che, nel sentire comune, erano percepiti come empi e inaffidabili. 72 73

74

Tuttavia, come segnalato ad l., non sempre tale lettura sarà autorizzata (cf. il commento ad l.), senza vedere anche qualche distorsione comica. La dossografia su Radamanti come emblema del giusto è molto estesa e certamente antica, cf. Hes. fr. 141.13, Ibyc. PMGF 309; altrettanto dovrà dirsi per la caratteristica di saggezza riconosciutagli, cf. Thgn. 701. Collocato fin da Omero nella piana Elisia, fra i beati (Od. 4.563s.), Radamanti si trova con questi connotati in Pind. O. 2.75, P. 2.73. Si tratterebbe di un procedimento comico non troppo diverso, ad esempio, da quello che investe la caratterizzazione di Socrate nelle Nuvole, cf. almeno Cerri (2012) e Sommerstein (2014).

Χείρωνες (fr. 250)

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Come ricordato, il frammento sarà probabilmente da intendersi in tetrametri giambici catalettici, secondo l’ interpretazione principale di Meineke (1839b, p. 155), ampiamente accolta (cf. Perusino 1968, p. 106). Bergk propose un’ esecuzione pienamente lirica (1838, p. 232), ciò che non permette di circoscrivere la sezione drammatica di pertinenza. In questo caso, se per Cratino vale la distribuzione dei tetrametri giambici osservabile in Aristofane, il frammento deriverà da sezioni come la parodo o l’ agone, escluso invece l’ esodo – plausibile in teoria – probabilmente in esametri dattilici (cf. ad fr. 255). v. 1 μέγιστος ὅρκος l’ espressione, nonostante l’ ascendenza omerica (cf. Il. 15.37, Od. 5.185), non è solo della poesia (cf. Hdt. 4.68.7, Thuc. 8.75.2, Xen. Cyr. 8.8.4). v. 2 κύων, ἔπειτα χήν i giuramenti sul cane ricorrono ampiamente come parole socratica nei dialoghi platonici (si veda in particolare Dodds 1959, a commento di Gorg. 482b e Patzer 2003, pp. 98s.), dove verisimilmente non hanno una connotazione di religiosità. Al di fuori degli scritti di Platone, un’ occorrenza si trova già in Ar. Ve. 83 (l. c., col commento di Biles-Olson 2015, p. 112). Quanto ai giuramenti sull’ oca, cf. il citato Ar. Av. 521 (l. c.), dove l’ idiomatico νὴ (μὰ) τὸν χῆνα è assonante con νὴ (μὰ) τὸν Ζῆνα. Altri giuramenti, pienamente comici in quanto del tutto stravaganti, sono repertoriati da Olson (2017, p. 253) a commento di Eup. fr. 79: si tratta di stravaganze però limitabili, credo, al solo e circoscritto contesto, come e. g. Ar. Nu. 814 (οὔτοι μὰ τὴν Ὁμίχλην), mentre i giuramenti sugli animali possono avere scopi comici meno angusti. Per una disamina di simili giuramenti cf. Torrance (2014 e in part. p. 124 per Cratino) e per quello del cane Lilja (1976, pp. 74s.). Sul giuramento di Radamanti cf. Hirzel (1902, pp. 90–108). fr. 250 K.–A. (232 K.) ἄγε δὴ πρὸς ἕω πρῶτον ἁπάντων ἵστω καὶ λάμβανε χερσὶν σχῖνον μεγάλην v. 1 σχίνου κεφαλήν tempt. Blaydes (1890, p. 10), nec non Marzullo (1959, p. 147) cf. Luppe (1963, p. 212)

allora, prima di tutto sta’ rivolto verso oriente e prendi tra le mani una grossa cipolla schol. Soph. OC 477 (L) χοὰς χέασθαι στάντα πρὸς ἕω· … καὶ οἱ τοὺς καθαρμοὺς δὲ ἐπιτελοῦντες πρὸς τὴν ἕω ἵσταναι. Κρατῖνος ἐν Χείρωσι (-ωνι cod.)· ἄγε — μεγάλην versare le libagioni stando rivolto verso oriente: […] e coloro che compiono i riti di purificazione stanno in piedi rivolti verso oriente. Cratino nei Cheirōnes: allora — cipolla

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Cratino

Metro tetrametro anapestico catalettico, inizio di un tetrametro anapestico catalettico

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Bibliografia Runkel (1827, p. 66); Hanow (1830, p. 64); Bergk (1838, p. 239); Meineke (1839b, pp. 151s.); Bothe (1855, p. 48); Kock (1880, p. 83); Blaydes (1890, p. 10); Edmonds (1957, pp. 106s.); Marzullo (1959, p. 147); Gelzer (1960, p. 181); Luppe (1963, pp. 212s.); PCG IV pp. 247s.; Farioli (2000, pp. 427–431); Storey (2011, pp. 388s.) Contesto della citazione Testimone del frammento è schol. Soph. OC 477 (L), χοὰς χέασθαι στάντα πρὸς πρώτην ἕω, a dimostrazione del fatto che οἱ τοὺς καθαρμοὺς ἐπιτελοῦντες πρὸς τὴν ἕω ἵστανται (LR), uno spunto motivato dal passo sofocleo e dalla sua principale spiegazione πρὸς ἕω· πρὸς τὴν ἀνατολήν (cf. Hsch. π 3758 πρὸς ἕω· πρὸς ἀνατολήν). Testo Il frammento, in tetrametri anapestici catalettici, non presenta difficoltà testuali. Al v. 2, Blaydes (1890, p. 10) suggeriva σχίνου κεφαλήν, seguito da Marzullo (1959, p. 147), sulla base di Ar. fr. 266, dove compare la sequenza in senso proprio a indicare la testa, vale a dire la parte superiore, della cipolla. L’ intervento di Blaydes insiste specialmente sulla sostituzione di μεγάλην, esplicitando, così, il calembour ai danni di Pericle, supposto bersaglio del rito, secondo alcuni studiosi (cf. infra). Interpretazione Le principali questioni sono dunque di ordine esegetico, nel dettaglio quale scena esattamente questa sia e a chi essa faccia riferimento. Il testimone del frammento e il frammento stesso non aiutano in un eventuale approfondimento interpretativo: conviene pertanto attenersi al fatto che lo scolio cita il frammento in quanto vi si tratterebbe di un rito di purificazione. La σχῖνος può essere l’elemento che garantisce il rito lustrale (cf. Rohde 1898, II p. 406, Gow 1952, II p. 114), ma a quale rito ci si riferisca esattamente non è chiaro. La Farioli (2000, p. 427) ipotizza che si tratti dell’espulsione del pharmakos, che identifica in Pericle, dal momento che la σχῖνος era impiegata in questi riti nel corso delle apollinee Targelie (cf. Hippon. fr. 6.2 βάλλοντες ἐν λειμῶνι καὶ ῥαπίζοντες / κράδῃσι καὶ σκίλλῃσιν ὥσπερ φαρμακόν). Ma contro l’ indicazione dell’ esatto contesto pesa anche il dato secondo cui le lustrazioni erano presenti in altri e diversi riti, segnatamente in quelli psicagogici (cf. schol. Eur. Alc. 1128, già segnalato da Bergk), sebbene non sia chiaro se nei momenti lustrali dei riti necromantici la σχῖνος fosse impiegata. Da considerare, inoltre, come la scilla fosse elemento utilizzato anche contro il malocchio, come si ricava da Plin. NH 20.101 (cf. Luppe 1963, p. 212). Da segnalarsi, infine, che da Artemidoro (On. 3.50) si apprende che la pianta era associata all’ asfodelo, forse quale richiamo al mondo infero. Che in Cratino si evochi dunque un rito lustrale, sembra possibile, ma le varie interpretazioni che delineano l’ esatto contesto (cf. supra) non possono esser considerate più che ipotesi. Da alcuni eventuali confronti lessicali (cf. infra), si potrà

Χείρωνες (fr. 250)

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segnalare, tutt’ al più, il rito psicagogico evocato in Aesch. frr. 273 e specialmente 273a, in anapesti, con un attacco equivalente (ἄγε νῦν), e con l’ analoga indicazione ἵστω̣. A quale parte della commedia vada ricondotto il frammento, non si può stabilire (cf. infra), sebbene alcuni elementi possano far pensare a una parabasi, ma solo come ipotesi vaga (cf. infra), oppure a un dialogo, magari da un agone (Gelzer 1960, p. 181, che riprende Goossens 1935, p. 415). Se questo frammento deriva dalla stessa scena del precedente, in tetrametri giambici catalettici, si può preferire l’ agone. Bergk (1838, p. 239) ipotizzava che questi versi fossero pronunciati dal coro dei Chironi rivolti a un personaggio intenzionato a richiamare dall’ Ade l’ ombra di Solone, il che appare possibile: la proposta esegetica di Bergk è fatta propria da Kerkhecker (1999, p. 16 e n. 43). Per certi versi nella prescrizione rituale avrebbe potuto esser contenuta un’ allusione a Pericle, ciò che spiega la scelta in senso parodico del termine σχῖνος. Come noto, la forma della testa dello statista fu oggetto di calembours comici (cf. infra ad fr. 258), dal momento che Pericle fu chiamato anche σχινοκέφαλος (Cratin. fr. 73, nonché Poll. 2.43, Hsch. σ 3026, che dipendono dall’esegesi di Cratino): si potrebbe dunque ipotizzare che la scelta del termine al posto del più diffuso ed equivalente σκίλλα – come si ricava dalle descrizione di quei riti in cui questa pianta si impiegava normalmente (cf. Hippon. fr. 6 l. c., Diphil. fr. 127.3, Theocr. 5.121 e v. 129, nonché 7.107 e 26.11) – abbia una pertinenza comica. E che in σχῖνον andasse riconosciuta una pointe contro Pericle era persuaso Hanow (1830, p. 64), ma con una diversa interpretazione, perché riteneva che Pericle fosse l’ oggetto del rito lustrale per correggere i costumi corrotti: «ut post, abiectis moribus pristinis, civitati bene consuleret» (1830, p. 64). Kaibel invece, coerentemente con le informazioni sui riti di espulsione del pharmakos dove effettivamente la cipolla era presente, affermava (ms. ap. Kassel e Austin): «expurgandam ab improbis civibus rem publicam adgrediuntur Chirones» (cf. anche Coppola 1936, pp. 58s.). v. 1 ἄγε δή la formula equivale a ἄγε νῦν, in un caso impiegata davanti a parola con consonante nell’ altro con parola iniziante per vocale. Si direbbe che, con l’ imperativo, essa indichi l’ introduzione nell’ azione di una figura non necessariamente presente in scena (cf. e. g. Ar. Th. 107), oppure l’ attiva partecipazione di qualcuno all’ azione (cf. e. g. Ar. Nu. 489, Th. 652), contribuendo così a segnalare un momento di passaggio (cf. Ar. Th. 778). Nei tetrametri anapestici, ἄγε δή si trova solo in Ar. Av. 685, che costituisce l’ attacco della parabasi, ma, considerata l’ equivalenza di ἄγε δή alle espressioni già segnalate sopra, il raffronto di Av. 685 non può obbligare il frammento di Cratino all’ inizio di una parabasi: si veda a tal proposito la presenza di ἄγε νῦν negli anapesti, non parabatici, di Ar. Ve. 381 (4an^), Av. 1744 (2an), Th. 947 (4an^), Ra. 382 (4an^). Nessuno dei passi menzionati può a buon diritto essere accostato sul piano dei contenuti e della struttura sintattica al frammento di Cratino, allorché l’ unica espressione complessivamente simile, però in un trimetro giambico, si trova in Ar. Pax 956 (vv. 956s. ἄγε δή, τὸ κανοῦν λαβὼν σὺ καὶ τὴν χέρνιβα / περίιθι τὸν βωμὸν ταχέως ἐπιδέξια), segnalato da Kassel e

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Cratino

Austin. Sarà inoltre da segnalare il menzionato Aesch. fr. 273a.1s. (ἄγε νῦν, ὦ ξεῖν᾽, ἐπὶ ποιοφύτ̣ων / ἵστω̣ σ̣ηκῶν φοβερᾶς λίμνας), per pertinenza lessicale e sintattica. πρὸς ἕω subito dopo la citazione del frammento di Cratino, lo scolio, testimone del frammento, conclude riprendendo parte del verso sofocleo πρὸς πρώτην ἕω, certamente da escludersi nel verso di Cratino in quanto inaccettabile sul piano metrico. Da notare come l’ espressione sia rara in poesia, confinata, si direbbe, a Soph. OC 477 e ad Ar. Ec. 312. Dei due passi – come dei molti altri coevi e prosastici – l’ unico effettivamente accostabile al frammento di Cratino è quello sofocleo, il cui scolio, attento ad alcune prescrizioni rituali, non per caso cita proprio Cratino. ἵστω il verbo indica, in questo contesto, azione rituale, come dimostra ancora Soph. OC 477 (στάντα). Come segnalato da Kassel e Austin la forma si trova in commedia solo in Ar. Ec. 737, nel catalogo degli oggetti di un personaggio della commedia (Cremete?). Da segnalarsi le ricorrenze in tragedia: Aesch. fr. 273a.2, quindi Soph. Ai. 775, Ph. 893, nonché in Ps.-Eur. Rh. 685, che però costituisce un luogo corrotto. λάμβανε χερσὶν per l’ espressione cf. e. g. Hdt. 9.55.8, Eur. Or. 517 e soprattutto Ar. Nu. 506s. (εἰς τὼ χεῖρε νῦν / δός μοι μελιτοῦτταν πρότερον), in una situazione mistagogica, non priva di coincidenze lessicali. v. 2 σχῖνον μεγάλην la parola σχῖνος (cf. e. g. Plut. Per. 3.4, Hsch. σ 3027) non si rintraccia prima del V sec. a. C. (cf. e. g. Hdt. 4.177.4). Si tratterebbe della σκίλλα (urginea maritima), le cui proprietà apotropaiche sono note dalle fonti antiche (cf. Thphr. HP 7.13.4, Plin. NH 20.101, schol. rec. Theocr. 7.107 βοτάνη δηλητήριος άκανθώδης … καθάρσιος, άλεξιφάρμακος): la pianta pare esser stata precocemente impiegata in svariate situazioni rituali (cf. supra), ad esempio nell’ eliminazione del pharmakos durante le Targelie, come dimostra Hippon. fr. 6, citato da Tz. Chil. 5.728–758 coi frr. 26–30, Thphr. Char. 16.14 σκίλλῃ ἢ σκύλακι . . . περικαθᾶραι. Per la σκίλλα e la sua presenza nei riti di purificazione cf., fra gli altri, Steier (1927), Lambach (1970, pp. 63–65), Parker (1983, pp. 231s.), Diggle (2004, p. 374). fr. 251 K.–A. (233 K.) καὶ πρῶτον μὲν παρὰ ναυτοδικῶν ἀπάγω τρία κνώδαλ’ ἀναιδῆ πρῶτον μὲν Porson (1812, p. 284) : πρῶτα μὲν codd., πρῶτα μὲν 〈οὖν〉 Meineke (1823, p. 70) παρὰ ναυτοδίκας Bergk (1838, p. 242) nec non van Herwerden (1903, p. 8), πρὸς ναυτοδίκας Koerte (1933, p. 240 adn. 1)

e per prima cosa da parte dei magistrati navali trascino in giudizio tre svergognati mostri schol. Ar. Av. 766 (cf. Suda ν 213, π 1641) οὐδὲν σαφὲς ἔχομεν οὔτε τίς ὁ Πεισίου οὔτε περὶ τῆς προδοσίας· ὅτι δὲ τῶν λίαν πονηρῶν ἐστι δηλοῖ Κρατῖνος ἐν Χείρωσι (Dindorf : -οσι codd.), Πυλαίᾳ (fr. 185), Ὥραις (fr. 282).

Χείρωνες (fr. 251)

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εἴη δ’ ἄν τι συμπεπραχὼς τοῖς ἑρμοκοπίδαις … ἄλλως … Κρατῖνος Χείρωσι (Dindorf : -οσι codd.)· καὶ— ἀναιδῆ, Π ι σ ί α ν , Ὀ σ φ ύ ω ν α , Δ ι ϊ τ ρ έ φ η (φησί add. Marzullo 1959, p. 148) non abbiamo nulla di chiaro né chi fosse il figlio di Pisia né quale la colpa: Cratino nei Cheirōnes dimostra che è fra i veri delinquenti, nella Pylaia (fr. 185), nelle Hōrai (fr. 282) . Sarebbe un congiurato con gli ermocopidi […] diversamente […] Cratino nei Cheirōnes: e per prima cosa — mostri Pisia, Osfione, Diitrefe

Metro tetrametro anapestico catalettico

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Bibliografia Meineke (1823, p. 70); Runkel (1827, p. 66); Bergk (1838, p. 242); Meineke (1839b, pp. 152s.); Bothe (1855, p. 48); Meineke (1857, p. 22); Kock (1880, pp. 83s.); van Herwerden (1903, p. 8); Koerte (1933, p. 240 n. 1); Edmonds (1957, pp. 106s.); Marzullo (1959, pp. 148s.); Luppe (1963, pp. 210–212); Sifakis (1971, p. 19); PCG IV p. 248; Farioli (2000, pp. 411–414); Storey (2011, pp. 388s.); Bianchi (2019, pp. 66s.) Contesto della citazione Il testimone è di fatto uno, schol. Ar. Av. 766, il cui spunto esegetico nasce dalla menzione del figlio di Pisia nel relativo passo comico (εἰ δ’ ὁ Πεισίου προδοῦναι τοῖς ἀτίμοις τὰς πύλας): Pisia o suo figlio furono coinvolti nella profanazione delle erme, secondo lo scolio, visto che da Aristofane si ricava che il figlio di Pisia sarebbe un πανοῦργος, per usare una definizione dello scolio, come un delinquente è il padre (Ar. Av. 766s.). Le glosse di Suda ν 213 e π 1641 non portano significative variazioni e, in questo caso, rappresentano un ramo della tradizione degli scolî aristofanei(cf. infra p. 202 n. 207). L’ attribuzione ad Aristofane delle parole consegnate dalla paradosi di Suda ν 213 e da π 1641 (νεόττιον· γέννημα.  Αριστοφάνης … καὶ αὖθις· τρία κνώδαλα ἀναιδη, Πισίας  Οσφύων, Διϊτρέφης, e Πισίαν· τρία κνώδαλά φησιν  Αριστοφάνης, Πισίαν,  Οσφύωνα, Διϊτρέφη) risalirà probabilmente a una confusione motivata dal passo degli Uccelli alla base della tradizione scoliastica, piuttosto che essere indizio del fatto che la fonte ellenistica della costellazione fosse Aristofane di Bisanzio (cf. le condivisibili osservazioni di Marzullo 1959, p. 148). Questioni cronologiche inducono ad escludere che il figlio di Pisia fosse citato nella commedia di Cratino (cf. infra Testo). Più presumibilmente la menzione dei Cheirōnes in merito a questo anonimo personaggio sarà stata trascinata dal padre, Pisia. Testo Il frammento presenta alcuni problemi testuali significativi, specialmente nel contesto della citazione, i cui confini vanno comunque stabiliti, in quanto l’ indicazione dei tre nomi propri è stata oggetto di dibattito. Hanow (1830, p. 59) suppose che i tre nomi propri fossero verba di Cratino, in un passo in giambi o in trochei, e qui giustapposti dalla fonte del frammento; la proposta fu rifiutata da Bergk (1838, p. 242), che riteneva i tre nomi facenti parte dello stesso frammento cui appartiene l’ anapesto: si tratterebbe, dunque, di un frammento lirico. L’ ipotesi di Bergk si trova solo menzionata, pur con riguardo, da Meineke (1839b, p. 153).

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Cratino

L’ idea di Hanow va almeno in parte ridiscussa, alla luce di quanto riporta lo schol. Ar. Nu. 100175, che conserva Eup. fr. 112 (su cui Olson 2015, pp. 411s.): nel testo delle Nuvole si evocano i figli di Ippocrate (PA 7640; PAA 538615), e lo stesso avviene in Eupoli, dove i nomi propri dei figli di Ippocrate non ci sono, ma vengono poi recuperati nello scolio stesso76. Se lo schol. Ar. Nu. 1001 è senza dubbio il più prossimo parallelo al testimone del frammento di Cratino, sarà pur vero che esistono delle differenze rilevanti fra i due casi, e cioè che mentre in Aristofane ed Eupoli le tre persone sono considerate un solo soggetto – in quanto figli di Ippocrate – e fra loro intrattengono un evidente legame parentale e nondimeno etico, nel caso di Cratino non si danno elementi che colleghino le tre figure che non sia la loro supposta illegittima cittadinanza. L’ indicazione dei tre nomi nella fonte dei testimoni del frammento di Cratino può dunque spiegarsi in due modi: o si tratta di un errore, sicché i nomi non vanno considerati come cratinei, esattamente come i nomi dei figli di Ippocrate non sono in Aristofane né in Eupoli; o essi erano presenti altrove rispetto alla zona dei Cheirōnes da cui deriva il frammento, e magari le tre figure non erano neppure in successione contigua nel testo comico ma erano comunque richiamate a maggior chiarezza per il pubblico. Nel primo caso, la restituzione testuale del frammento sarà quella di Kassel e Austin; nel secondo, invece, i tre nomi vanno considerati non tanto quali ipsissima verba di Cratino ma come lemmi riconducibili alla tradizione della commedia. Certamente, che non si tratti di una perfetta successione di due versi sembra ormai accettato: per una spiegazione cf. Marzullo (1959, p. 148), che fa proprie alcune valutazioni di Kock (1880, p. 84) il quale a sua volta partiva dal parallelo strutturale di schol. Ar. Nu. 1001 segnalato da Dindorf. Tutto ciò considerato, l’ ipotesi più prudente sarà quella di ricomprendere i tre nomi propri non già nel frammento ma nella tradizione della commedia, in quanto la personalità di chi si celava dietro le bestie evocate nel frammento doveva esser stato un dato in qualche modo chiarito al pubblico. Esiste poi un altro, più lieve problema: nella prima parte dello scolio si parla dell’ identità del figlio di Pisia. Cratino, dunque, avrebbe almeno menzionato Pisia nei Cheirōnes, per quanto nella Pylaia (fr. 185) e nelle Hōrai (fr. 281) avesse fatto riferimento al figlio di Pisia? La sistemazione del frammento e del suo testimone data da Kassel e Austin poggia sull’ idea che, nei Cheirōnes, si sarebbe parlato solo di Pisia e non anche di suo figlio. Negli Uccelli di Aristofane, del 414 a. C., si richiamano certamente il figlio di Pisia, ma anche Diitrefe più oltre e per due volte (vv. 798 e 1442), mentre non è per nulla sicuro che si richiamasse Pisia77. La legge 75 76

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Il parallelo fu indicato per la prima volta, che io sappia, da Dindorf. Il testo dello scolio recita: ὑώδεις τινὲς καὶ ἀπαίδευτοι κωμῳδοῦνται. καὶ τάχα ἂν εἴησαν προκέφαλοί τινες, ὡς ἐν Γεωργοῖς (Ar. fr. 116) καὶ ἐν Τριφάλητι (Ar. fr. 568). καὶ Εὔπολις ἐν Δήμοις· (fr. 112) … τὰ δὲ ὀνόματα αὐτῶν Τελέσιππος, Δημοφῶν, Περικλῆς. Difficile capire se Pisia stesso col soprannome che lo contraddistingueva fosse richiamato al v. 1292, ma credo che in definitiva gli argomenti di Totaro ap. Mastromarco-Totaro

Χείρωνες (fr. 251)

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periclea sulla cittadinanza con l’ ammissione alle fratrie e soprattutto ai demi, sui cui casi dubbi i ναυτοδίκαι erano chiamati a giudicare, ha certamente coinvolto i nati dopo l’ entrata in vigore del decreto nel 451/450 a. C., ma anche coloro che saranno stati prossimi all’ ingresso nel demo al momento della promulgazione, dunque i nati attorno al 469 a. C., in assenza di registri di nascita; sarà ragionevole pensare che essa abbia probabilmente dovuto coinvolgere anche coloro che non erano inclusi nei demi al momento della promulgazione78. Infatti, se i nomi di Pisia, Osfione (?) e Diitrefe erano nei Cheirōnes, non si potrà pensare che costoro fossero tutti nati dopo il 451/450 a. C. (sul periodo di nascita di Diitrefe cf. infra) e che, contestualmente, avessero un peso politico abbastanza rilevante, nonostante la giovane età, nel torno di tempo in cui andò in scena la rappresentazione, al punto di esser menzionati nella commedia: ne consegue che probabilmente almeno Pisia sia nato ben prima del 451 a. C., perché negli anni Venti (per la datazione delle Hōrai cf. infra) doveva avere un figlio in età da esser noto al pubblico e dunque menzionabile in commedia; e, soprattutto, una simile condizione doveva esser soddisfatta senz’ altro nel 414 a. C. perché lo si potesse segnalare (Ar. Av. 766) per una proposta politicamente presentabile. Quanto alla pericope di testo sicuro, andrà accolta la proposta di Porson (1812, p. 284), che restituisce un tetrametro anapestico catalettico (approvato in Meineke 1857, p. 22 dopo aver tentato l’ integrazione di οὖν, cf. 1823, p. 70). Il nesso παρὰ ναυτοδικῶν è stato oggetto di svariate perplessità. Bergk (1838, p. 242) segnalava un suo precedente emendamento: «conieceram igitur olim παρὰ ναυτοδίκας scribendum esse», poi però rifiutato sulla base di alcuni paralleli giudicati (cf. Bergk l. c.) inappropriati da Meineke (1839b, p. 152). Alla stessa prima ipotesi di Bergk pervenne van Herwerden (1903, p. 8). Insoddisfatto dal testo tràdito fu anche Koerte (1933, p. 240 n. 1) che suggeriva πρὸς ναυτοδίκας (cf. Ar. fr. 237 ἐθέλω βάψας πρὸς ναυτοδίκας ξένον ἐξαίφνης). Queste ipotesi, non economiche per la correzione che impongono, hanno il solo, e però non necessario, vantaggio di normalizzare il testo rispetto a un contenuto che si vorrebbe concluso nell’ àmbito del frammento stesso. Alternativamente, il testo può esser giudicato sano, sia se si considera la resa di Meineke (1839b, pp. 152s.) «abducam, exturbabo ex civitate impudentes istos homines nautodicarum iudicio condemnatos»; sia se si tiene conto che il frammento poteva concludersi con parole, non conservate, con cui si indicava una diversa magistratura: cf. in tal direzione esegetica Kock (1880, p. 84) che interpreta il mancante testo con qualcosa che alluda ad eliastas; o, meglio, Marzullo (1959, p. 148): «il frammento avrebbe potuto anche compiersi con un πρὸς τοὺς ἕνδεκα vel τοῖς ἕνδεκα» (cf. Dem. 24.113). Si potrebbe considerare Luc. Dial. Mer. 2.2.9, che, se fosse memore del passo di Cratino, autorizzerebbe la correzione di Bergk, in quanto recita ὁ δὲ παρὰ ναυτοδίκας ἀπήγαγεν αὐτόν. Uno

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(2006, p. 199 n. 166) per evitare l’ identificazione siano i più corretti. Così, opportunamente, Humphreys (1974).

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Cratino

scambio simile si trova nella tradizione di Dem. 25.27, dove la tradizione diretta ha πρός … ἀπήγαγε, mentre la indiretta rappresentata da Phot. α 3263 ha παρά … ἀπήγαγε, sempre con l’ accusativo. Tutto considerato, nessuna delle opzioni può dirsi certa e dunque la proposta di non intervenire sul testo resta la più opportuna. Interpretazione La struttura anapestica ha condotto Kaibel (ms. ap. K.–A.) a suggerire una possibile collocazione parabatica (cf. anche Sifakis 1971, p. 19): si tratta di un’ ipotesi plausibile ma non unica e non meno probabile di quella che considera il frammento tratto da un epirrema agonale (cf. Gelzer 1960, p. 181, già Goossens 1935, p. 415, e si veda la discussione di Totaro 2000, p. 10 n. 29). Coppola (1936, p. 58s.) ipotizzò una collocazione nella parodo, anch’ essa non impossibile. Per nessuna delle tre ipotesi esistono elementi interni e stilistici che possano condurre con sicurezza in una direzione interpretativa a scapito delle altre. Chi fossero i tre personaggi menzionati non è del tutto noto, visto che neppure di Pisia, occasione della citazione scoliastica, si riesce a cogliere un’ identità non più che generica (cf. infra). Il contesto di Ar. Av. 766, dove si menziona il figlio di Pisia e dove si evocano qualità negative di Pisia, è politico, e del resto in tal direzione si muove lo scolio che ne delinea un’ eventuale partecipazione alla mutilazione delle erme (οἱ μὲν τὸν Πεισίαν ἕνα εἶναι τῶν ἑρμοκοπιδῶν, οἱ δὲ τὸν υἱὸν αὐτοῦ), un fatto noto alla data di rappresentazione degli Uccelli, ma compiuto in un tempo successivo rispetto alla rappresentazione dei Cheirōnes, quale che sia stata la data esatta dell’ agone (cf. l’ introduzione alla commedia). Anche il richiamo alla magistratura navale conferma una lettura engagée del frammento, orientata verso un’ accusa – comica e non generica (cf. infra) – di cittadinanza sospetta, accusa che sarebbe valutata dalla competenza giuridica attribuita ai magistrati navali (cf. infra). Secondo la Farioli (2000, p. 413), confortata dal caso di Agnone la cui cittadinanza nei Plutoi (fr. 171.66s.) viene messa in discussione per colpire in realtà la sua ricchezza dalle origini non chiare, si potrebbe sospettare che nei Cheirōnes «qualcuno – forse il coro – conferisca alla vicenda una dimensione giudiziaria, trascinando gli imputati davanti ai ναυτοδίκαι». Se la presenza dei magistrati navali pertiene qui ad accuse di mancata cittadinanza, si potrà considerare, come ha mostrato MacDowell (1993, pp. 370s.), che simile accusa, almeno in Aristofane (cf., per più stretta pertinenza contenustica e formale, Ar. fr. 237 cit. supra), non appare né generalizzata né generica, e tendenzialmente intende colpire personaggi la cui origine ateniese era oggetto di discussione, in quanto per il kōmōdoumenos in questione si annoverava fra gli antenati un non greco (piuttosto che un non ateniese). Significativo a tal proposito dovrà dirsi proprio il caso di Essecestide, menzionato come di origini carie anche in Av. 764s., vale a dire a ridosso della menzione del figlio di Pisia. ναυτοδικῶν Harp. 211.9s. (= ν 5), testimone di Crater. FGrHist 342 F 4 (su cui Erdas 2002, pp. 82–101) e di Ar. fr. 237, ricorda che i magistrati navali sono una ἀρχή αd Atene e cita i due passi menzionati in relazione a questioni di piena cittadinanza. Fino all’ azione normativa di Pericle del 451/450 a. C., si potevano

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esercitare i diritti di ingresso nelle fratrie se si aveva il padre ateniese, mentre in seguito a questo intervento si restrinse l’ ammissione a chi aveva entrambi i genitori ateniesi. Una simile prassi rimase in vigore per un lasso di tempo non chiaro nelle fonti: essa fu forse sospesa o abrogata se si intende la notizia per cui nel 403/402 a. C. la norma fu ripresa come un indizio di una sua reintroduzione (cf. MacDowell 1993, p. 380); oppure si può pensare che quella del 403/402 non sia una reintroduzione della vecchia norma ma una sua precisazione applicativa (Humphreys 2018, p. 590 n. 77 e p. 777). Andrewes (1961, p. 13) ritiene che proprio agli anni Trenta facciano riferimento la legge menzionata da Cratero e il decreto di Filocoro (FGrHist 328 F 35): contesta radicalmente questo assunto Carawan (2008, p. 391 n. 33), che arriva dunque ad escludere che nel frammento di Cratino si faccia riferimento a una questione di cittadinanza. Humphreys (1974 e 2018, p. 590) ritiene invece che la legge «covered all those who were not already deme members when it was passed, and that the question of eligibility for phratry membership, if not already covered in the law, would rapidly be seen to be relevant» (cf. supra). Certamente sarà proprio negli anni Trenta che la legge periclea avrà creato le maggiori tensioni, vale a dire quando i nati dopo la sua promulgazione raggiunsero l’ età per l’ accesso alla fratria e soprattutto per l'ingresso nel demo, ma questo non implica l’ interpretazione restrittiva di Andrewes (1961), anzi, proprio l’ interpretazione di questo frammento sconsiglia una simile ipotesi. Secondo la Humphreys i ναυτοδίκαι furono istituiti nel 444 a. C. (2018, p. 589 n. 76), tuttavia con alcune precisazioni, in quanto essi «were evidently created to take over part of the polemarch’s load of cases concerning non-citizens, and hence were in existence at the time of the decree for Phaselis (IG I3 10), which implies that there was an alternative to the polemarch’ s court. However, that decree may well belong to the period after c. 454 (SEG 51.27), when Athens was anxious about her position in the E Mediterranean; it is not necessary to assume that it preceded Ephialtes’ reforms, since the presiding magistrate continued to declare the court’ s verdict (dikazein) even after the introduction of jury courts». In IG I3 41.90 fr. e (SEG 21.26) del 446/445 a. C. i ναυτοδίκαι sembrano menzionati nel giudicare (αὐτοι μενὶ hοι ναυτοδ[ί]-) su alcuni aspetti del decreto di Hestiaia (AIUK 4.2 n. 3), ma in questo caso, probabilmente, non su questioni strettamente connesse alla cittadinanza, ma su cui la cittadinanza ha comunque un qualche rilievo giuridico. Su questa magistratura navale e sulla sua giurisdizione in tema di cittadinanza cf. anche Cohen (1973, pp. 163–167)79. ἀπάγω il verbo, notoriamente e come segnalato da Kassel e Austin nella loro terza mantissa di apparato, ha pertinenza giuridica, indica l’ azione di intentare causa a qualcuno: cf. Dem. 23.31; 24.113; 25.57 e specialmente Aeschin. 1.158, che fa riferimento a un processo legato alla legittima cittadinanza. Che il significato

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In merito ai poteri dei giudici navali de peregrinitate, cf. anche Andrewes (1961, pp. 13s.), Carawan (2008, pp. 391–393), oltre a Imperio (1998, 253 e n. 68).

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possa esser questo anche nel frammento di Cratino è probabile, anche considerando favorevolmente l’ interessante tentativo di Marzullo (1959, p. 148) di concludere la pericope con qualcosa come πρὸς τοὺς ἕνδεκα vel τοῖς ἕνδεκα. κνώδαλ(α) il termine ha ascendenza aulica, spesso a indicare un essere mostruoso, fin da Od. 17.317. In commedia ha poche occorrenze ed esse sono sempre riferite a esseri umani, come si evince da Ar. Ve. 4, detto di Filocleone – ma in qualche modo il sostantivo richiamerà anche il coro zoomorfo cui Filocleone risulta assimilabile (cf. Hsch. ζ 267 ζωυφίοις … κνωδάλοις … σφηξίν) – Lys. 476, detto delle mogli. Sempre a esseri umani si trova applicato in tragedia in Eur. Suppl. 146 (Tideo e Polinice), ma cf., per certi versi, anche Aesch. Suppl. 762, e specialmente Eum. 644, detto delle Erinni nel contesto processuale. Nelle fonti erudite il termine rimanda essenzialmente a creature marine mostruose: così, ad esempio, in Hsch. κ 3156 (unde Phot. κ 174, Suda κ 1880s., Ps.-Zon. 1225.5), ma si vedano anche gli Etimologici, che fanno parte della medesima costellazione (cf. Et. M. 522.39–42), nonché schol. V Ar. Ve. 4a, Lys. 476. In svariati casi, viene segnalato il passo omerico (cf. Hsch. κ 3157) come esempio di impiego del termine per animali terrestri. In tal accezione, tuttavia, la parola sembrerebbe da intendersi in e. g. Hes. Th. 582 (si veda anche lo scolio relativo), H. Hom. 4.188, Pind. P. 10.36, N. 1.50, Aesch. Suppl. 264, 1000, Ps.-Aesch. Pr. 462. Il termine è chiaramente impiegato in riferimento alla sfera marina in Alcm. PMGF 89.5, Aesch. Ch. 587. Non riferibili a un àmbito terrestre o marino sono Aesch. Ch. 601, Soph. Tr. 716 e probabilmente lo stesso Aesch. fr. 47a.775. Si direbbe che la diffusa e principale spiegazione, che si trova nelle fonti erudite, di κνώδαλον come mostro marino, vada ricondotta all’ esegesi di Alcmane, perché il testimone del frammento, Apollon. Soph. p. 488s., cita i versi di Alcmane per suffragare l’ interpretazione restrittiva che di κνώδαλον dava Apione come θηρίον θαλάσσιον. Nel caso di Cratino non si può definire una pertinenza terrestre o marina al termine, sebbene vada considerato come sia proprio la sfera delle bestie terrestri ad autorizzare l’ applicazione di κνώδαλον a persone (cf. supra e Biles-Olson 2015, p. 79), ma non sarà possibile trascurare un’eventuale reviviscenza metaforica grazie a ναυτοδικῶν che richiami anche l’ idea del mostro marino. È possibile, ma non sicuro, che da àmbito comico derivi la voce κνώδαλον all’ excerptum svetoniano di M del Περὶ βλασφημιῶν (p. 55 Taillardat nr. 94). Πισίαν per questo e per i successivi nomi propri, non si può garantire come originario l’ accusativo. La forma più corretta sembrerebbe Πεισίαν (anche in Ar. Av. 766), corrotto nella forma con iota e senza dittongo per pronuncia itacistica. Chi fosse Pisia si ignora. Questo Pisia, o, più probabilmente il figlio, fu coinvolto nella mutilazione delle erme, secondo il testimone del frammento di Cratino (cf. supra). Si chiamava Pisia il padre di Melete (PA 9802) e dunque nonno paterno del ditirambografo Cinesia80. Secondo van Leeuwen, approvato poi da Sommerstein (1996, p. 346 n. 134), Pisia sarebbe il padre di Cleombroto (PA 8579; PAA 577015),

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Cf. Pherecr. fr. 6.2, su cui Pl. Gorg. 502a.

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ciò che non può dirsi sicuro. Come ha evidenziato Totaro (ap. MastromarcoTotaro 2006, p. 199, con bibliografia), il figlio di Pisia menzionato in Ar. Av. 766 sarà un uomo politico, non identificabile, che all’ epoca della rappresentazione aveva forse avanzato la proposta di «un decreto per reintegrare fra i cittadini di pieno diritto gli átimoi fuggiti in esilio», in conseguenza degli scandali del 415 a. C. Ciò chiarisce la ragione per cui nello scolio egli sia menzionato come uno dei possibili complici della mutilazione delle erme, il che significa che, se vi ha partecipato, avrà avuto un ruolo marginale. La menzione di Essecestide subito prima di quella del figlio di Pisia negli Uccelli (vv. 764s.) e il riferimento a tal figlio di Pisia in una commedia come gli Uccelli, attenta ai temi della piena cittadinanza, in tal prospettiva assumono maggior chiarezza: forse il figlio di Pisia, quasi per tradizione famigliare, sarà stato titolato, malevolmente beninteso, a occuparsi di non piena cittadinanza. Se il figlio di Pisia era nominato nella Pylaia e nelle Hōrai, oltre che negli Uccelli, per una proposta sulla reintegrazione degli átimoi, e se non era menzionato nei Cheirōnes, dovrebbe esser nato non prima del 440 a.C., dunque Pisia sarà nato ben prima del 451/450 a. C.81 Si potrebbe pensare, semmai, che la data di nascita di Pisia possa esser non antecedente al 469 a. C., poiché, se la legge periclea del 451/450 a. C. impediva la cittadinanza a chi non fosse ateniese per parte di padre e di madre, in assenza di atti di nascita essa si sarà applicata anche a coloro che sono nati prima di quella data, ma non abbastanza da avere un’ età sufficiente affinché, al momento di promulgazione della legge, essi avessero già fatto l’ ingresso nel demo82. Per una possibile identificazione col Πειθίας del fr. 171.74, proposta da Koerte, cf. PCG IV p. 209 e Bianchi (2017, p. 149). Ὀσφύωνα Osfione sarebbe inattestato nell’ onomastica, dunque forse Spitzname inventato da Cratino: così si era espresso Bergk (1838, p. 247). Non è possibile dire chi si celi dietro questo appellativo. Se ha un valore peculiare in Cratino, si può segnalare Eust. Od. 1466.22: a proposito dei genitali femminili Hsch. κ 1923 attesta che Cratino ha usato ἀμφίκαυστις, mentre Eustazio ricorda questo impiego presso i comici (κωμικοὶ δὲ καὶ ἐπὶ γυναικείου μορίου φασί), ma Cratino avrebbe chiamato in questo modo i lombi (fr. 409 Κρατῖνος δὲ τὴν ὀσφῦν οὕτως ἔφη). In generale si veda Beta (1992). Διϊτρέφη forse più corretta la grafia Διειτρέφης (PAA 323750) – per la resa grafica del nome si vedano le opportune considerazioni di Lang (1990, pp. 42s.) e Dunbar (1995, p. 484): fu nipote per linea paterna dell’ omonimo Diitrefe I, per quanto non ci sia accordo su quale dei figli di Diitrefe I fosse il padre di questo Diitrefe83. Non c’ è dubbio, in ogni caso, sull’ appartenenza a una famiglia impor81 82

83

Il che sarebbe una prova del fatto che la tesi di Humphreys (1974) coglie nel segno. Cf. Humphreys (1974, p. 94 n. 13, che rimanda a Carter 1967). Si consideri anche Ar. Av. 1650, da cui si ricava che i nothoi non potevano entrare nella fratria e lo stesso si direbbe in relazione ai demi (cf. Dem. 57.53). Si veda la rassegna di Karkavelias (2014, p. 147). Si vedano anche le valutazioni già di Brandes (1886, p. 17).

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Cratino

tante sulla scena politica ateniese: Nicostrato (PA 11011; PAA 718750 cf. PAA 717980), il padre o più probabilmente lo zio, figlio minore di Diiterfe I, fu generale a più riprese negli anni Venti (cf. Thuc. 3.75.1 per il 427/6, 4.129.2 per il 423/2, 5.61 per il 418, anno di morte nella battaglia di Mantinea), oggetto di attenzione comica in Ar. Ve. 81s.84 Considerato il torno di tempo in cui si trovò a ricoprire la carica, coincidente con gli incarichi di Nicia, si potrebbe ipotizzare che Nicia fu di poco più giovane del padre di Diitrefe II, il che spiega una menzione di Diitrefe II nei Chēirones, menzione magari precoce qualora fosse proprio Nicostrato e non suo fratello maggiore Ermolico il padre del komodoumenos. Quanto al meno noto Ermolico, l’altro possibile padre di Diitrefe, si dovrà almeno considerare IG I2 527, una dedica sull’ acropoli databile agli anni Quaranta (cf. Keesling 2004). Questo Diitrefe II ebbe l’ avventura di esser generale nella spedizione dei 1.300 mercenari traci a Micalesso (Thuc. 7.29s.) e di essere colui che rovesciò il regime di Taso nel 412/1 (Thuc. 8.64.2). Risulta dunque molto attivo negli anni Dieci e in questa direzione si muovono alcune testimonianze di ordine comico: oltre ai due passi degli Uccelli (798s. e 1442), si potranno considerare Pl. Com. fr. 30, dove viene definito τὸν μαινόμενον, τὸν Κρῆτα, τὸν μόγις Ἀττικόν e Ar. fr. 321 (con lo stesso testimone del frammento di Platone, schol. Ar. Av. 798). Che il demagogo di Eup. fr. 99.33 sia Diitrefe, come proposto da Tuci (2014), resta altamente ipotetico. Non ci sono motivi per concludere che questo Diitrefe fosse una persona diversa da quella menzionata da Cratino, come ritenne Geissler (1969 = 1925, p. 53), se non forse la rara persistenza per un periodo tanto lungo per un kōmōdoumenos. Se si scorrono i registri di Sommerstein (1996), sono pochi i kōmōdoumenoi non di primo piano presenti a lungo all’ attenzione comica. Fra essi, dubbio, semmai, sarà il solo caso di Diopite (PA 4308? id. 4309) presente in Ar. Eq. 1085, Ve. 380, Av. 988, quindi in Amips. fr. 10 (dal Conno su cui Orth 2013, p. 222 e pp. 243–247), Phryn. Com. fr. 9 (su cui Stama 2014, p. 87), Telecl. fr. 7 (di difficile datazione, su cui cf. le equilibrate considerazioni di Bagordo 2013, pp. 46s.). Se si accetta la datazione alta degli Anfizioni di Teleclide, intercorrono circa venti anni fra la più antica e la più recente menzione di Diopite, ma tale distanza temporale non può dirsi sicura. Tuttavia, non si può sostenere che questo sia un argomento sufficiente per suffragare la tesi di Geissler, che piuttosto puntava sulla giovane età di Diitrefe negli anni Dieci, fatto smentibile da Ar. Av. 1442. Ai fini dell’ esegesi di Cratino, piuttosto, andrà notato come Diitrefe e anche lo zio o il padre Nicostrato avessero rapporti con la Tracia (cf. supra), che Karkavelias individua come eminentemente commerciali (2014, pp. 159s.), sulla scorta soprattutto di Pl. Com. fr. 30 (cui si sarebbe potuto aggiungere Ar. fr. 321 interpretandolo come Davies 1971, p. 428 n. 1, vale a dire con τράπεζα come banco e non come mensa). Non escluderei, per meglio chiarire il richiamo di Cratin. fr. 251, un’ origine tracia della madre di Diitrefe, regione con cui la famiglia del generale potrebbe aver avuto rapporti di commercio.

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Per l’ identificazione cf. MacDowell (1965).

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fr. 252 K.–A. (234 K.) ἐξ ἀσαμίνθου κύλικος λείβων κύλικος del. Bothe (1855, p. 49) prob. Kaibel (1895, p. 429)

libando da una vasca come una coppa Poll. 6.97s. καὶ ἀσάμινθος δὲ ποτήριον ἂν εἴη, ὡς Ὅμηρός τε μηνύει (Od. 4.128), Τηλεμάχου διδόντος Μενέλεῳ δύ’ ἀσαμίνθους, καὶ Κρατῖνος ἐν Χείρωσιν· ἐξ — λείβων e l’ asaminthos sarebbe un recipiente per bere, come testimonia Omero (Od. 4.128), con Telemaco che dà a Menelao due asaminthoi, e anche Cratino nei Cheirōnes: libando — coppa Poll. 10.64 ἔν γε τοῖς Κρατίνου Ἥρωσι (Χείρωσι Meineke 1827, p. 23, sed. vid. Kassel et Austin, ut legas Κράτητος) τὴν ἀσάμινθον κιβωτὸν νοοῦσιν, ἔνιοι δὲ ἔκπωμα negli Hērōes di Cratino pensano che l’ l’ asaminthos sia una cassetta, alcuni invece un bicchiere

Metro anapesti, per cui risulta impossibile definire se si tratti di un dimetro completo o se sia parte di un tetrametro

lkkllkklll

Bibliografia Meineke (1827, p. 23); Runkel (1827, pp. 62s.); Bergk (1838, p. 240); Meineke (1839b, pp. 157s.); Bothe (1855, p. 49); Kock (1880, p. 84); Kaibel (1895, p. 429); Edmonds (1957, pp. 106–109); Luppe (1963, pp. 213s.); PCG IV pp. 248s.; Storey (2011, pp. 388s.) Contesto della citazione Il frammento si trova in Polluce (6.97s.) che, alle prese con tipologie di ποτήρια, introduce l’ ἀσάμινθος, con alcune cautele (ἂν εἴη). Si tratta della testimonianza principale e forse la sola plausibile, considerati i dubbi che gravano sull’ altra, assai ipotetica, che si trova sempre nell’ epitome di Polluce (10.64). A ricondurre Poll. 10.64 al frammento di Cratino fu Meineke (1827, p. 23), che corresse il titolo Ἥρωσι in Χείρωσι: un analogo intervento fu suggerito da Bergk (1838, p. 240), senza menzionare Meineke (cf. Meineke 1839b, p. 157 «quod fugit»). La proposta di Meineke fu accolta poi da Kock (1880, p. 84). Anche Kassel e Austin annoverano fra i testimoni del frammento Poll. 10.64, tuttavia con numerosi e motivati dubbi, dal momento che in apparato osservano «parum igitur constat recte restitui ap. Poll. 10.64 fabulae Cratineae nomen; praestat fortasse Κράτητος Ἥρωσι»: a sostegno di questa ipotesi ricordano i casi di Crates frr. 8 e 12, nei cui testimoni (cf. infra) si assiste al facile scambio di nome fra i due commediografi, complici in molti casi alcune rese tachigrafiche. L’ ipotesi degli ultimi editori sembra la più commendabile, per le seguenti ragioni. In svariati casi il nome

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Cratino

di Cratete è stato corrotto in quello di Cratino (si veda l’ elenco in PCG IV p. 121): oltre ai ricordati casi di Poll. 7.179 (cod. A, esatto nei restanti manoscritti) per il fr. 8, e di Phot. α 1797 (codd. b, z) per il fr. 12, si vedano Phot. δ 287 (g in marg.) per il fr. 54, anepigrafo; Poll. 8.26 (codd. FS, esatto nei restanti manoscritti), per il fr. 56, anepigrafo; esiste una resa tachigrafica e abbreviata in Suda α 2234 (codd. AF) per il fr. 12; in Phot. α 1738 (cod. b, estesa invece in z) per il fr. 52, anepigrafo. In definitiva si tratta di circa l’8% dei casi, valutati sui testimoni dei frammenti sicuri (si escludono dunque i dubia) e non sui frammenti stessi. Degli Hērōes di Cratete sopravvivono sei frammenti (frr. 10–15), nei cui testimoni non si riscontrano mai casi di corruzione del titolo. Quanto alla corruzione del nome di Cratino in quello di Cratete si vedano: schol. Ar. Ach. 671 (codd. EG) per il fr. 6, dagli Archilochoi, ma si consideri come l’ altro e principale testimone del frammento, Ath. 4.164d–e, sia immune da corruzioni; schol. Ar. Ve. 74b (cod. V) per il fr. 227, dai Seriphioi; Ath. 9.392f per il fr. 264, dai Cheirōnes; Phot. α 2097 (Sz) per il fr. 290 dalle Ηōrai; schol. Ar. Pl. 66 (cod. M, esatto nei restanti manoscritti) per il fr. 307, anepigrafo; Et. Sym. β 131 (esatto nella restante costellazione degli Etimologici) per il fr. 335, anepigrafo; Et. M. 194.23 (esatto nella restante costellazione degli Etimologici) per il fr. 424, anepigrafo. Altrove la possibile confusione è esito di tachigrafia: Phot. α 2097 (cod. b) per il fr. 290; Phot. α 2231 (cod. b) per il fr. 414, anepigrafo; Et. M. 299.30 (cod. D, esatto in M e nella restante costellazione degli Etimologici) per il fr. 446, anepigrafo; Phot. σ 642 (cod. g, in forma estesa ed esatta z) per il fr. 494, anepigrafo; Phot. υ 272 (codd. g, z, ma esteso ed esatto in Suda υ 622) per il fr. 498, anepigrafo. Restano fuori da questo elenco i frr. 436 e 439, pur problematici (PCG IV p. 121) per la complessa situazione testuale dei testimoni. Approssimativamente, circa il 2% dei casi in Cratino, valutati sui testimoni dei frammenti sicuri (si escludono anche qui i dubia) e non sui frammenti stessi, sono attribuiti dai testimoni a Cratete, erroneamente. Quanto al titolo Χείρωνες, se si trascurano casi facilmente emendabili (per lo più si tratta della forma Χείροσι), il titolo appare corrotto nei testimoni dei frr. 248, 250, 263, in cui si trova al singolare. Tutto ciò considerato, appare difficile accettare sic et simpliciter la correzione di Meineke e ascrivere Poll. 10.64 fra i testimoni del frammento con sicurezza, anche se ciò non si può escludere. Poll. 10.64, quale che sia il possibile emendamento, conserva traccia di un’ antica discussione su cosa fosse l’ ἀσάμινθος, e riferisce come alcuni pensino a una κιβωτός e altri a un ἔκπωμα. Rispetto al frammento di Cratino, osservano a ragione Kassel e Austin, non è chiaro come in Cratino si potrebbe pensare a una κιβωτός. Alla medesima e residuale discussione antica che si trova nei due passi di Polluce, certamente fra loro connessi, credo vada ricondotto con un buon margine di probabilità Hsch. α 7621, una glossa sinonimico-differenziatrice, dunque dall’ impostazione fortemente onomastica: dopo aver segnalato come con ἀσάμινθος si intenda una vasca per il bagno, si legge come interpretazione alternativa λέβης μέγας, per procedere con καὶ πᾶν τὸ κοῖλον ἢ κιβωτός. Secondo Latte, in sede di edizione di Esichio, λέβης μέγας andrebbe riferito a passi come Od. 3.468. Mi sembra da segnalare come κιβωτός sia presente

Χείρωνες (fr. 252)

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in Poll. 10.64, e pertanto, in Esichio, la parte precedente col suo riferimento al λέβης μέγας, un’ esegesi originale, potrebbe esser invece da riferirsi al solo Od. 4.128, ricordato da Poll. 6.97s. e che costituisce un momento esegetico di fatto erroneo in Esichio, ma anche un momento eccezionale in Omero, in cui le due vasche sono di argento e dunque passibili di esser considerate ciascuna al pari di un grande lebete, oggetto nominato 22x nei poemi, di cui 14x nell’Odissea, e che nella sola Odissea si trova 6x nell’ espressione formulare ἀργυρέοιο λέβητος, cioè nel materiale da cui sono costruite le vasche per Telemaco di Od. 4.128, menzionato da Polluce. Tutto ciò considerato si potrebbe ipotizzare che: 1. i due passi, Poll. 6.97s. e Poll. 10.64, sono legati alla stessa discussione ma non necessariamente Poll. 10.64 ha a che vedere col frammento di Cratino. 2. i due passi di Polluce potrebbero piuttosto derivare da un repertorio in cui si utilizzavano passi comici in una discussione su impieghi e forme diversi dalla vasca da bagno per quanto riguarda ἀσάμινθος; da questi, sarebbe stato trascinato Od. 4.128 in Poll. 6.97, a sostegno dell’ idea che con ἀσάμινθος si possa intendere (erroneamente, beninteso) una coppa, complici il fatto che in quel passo omerico il materiale è lussuoso in quanto le vasche sono d’ argento, e che in Cratino ἀσάμινθος si trova a fianco del termine κύλιξ quasi ne fosse un sinonimo. Testo Il frammento non sembra soffrire di problemi testuali, sebbene le difficoltà esegetiche (cf. infra) abbiano indotto Bothe (1855, p. 49) a eliminare κύλικος, parola percepita dallo studioso come una intrusive gloss, ciò che lo indusse a tradurre con «e poculo libans». Similmente si era espresso Kaibel (1895, p. 429), il quale recupera con sicurezza al passo di Cratino la testimonianza offerta da Poll. 10.64 con la relativa discussione e rileva che «non poterat enim dubitari arcula an poculum intellegendum esset, si κύλικος addidisset poeta». Dal punto di vista puramente formale un’ associazione simile in asindeto non costituisce uno hapax, come sottolineò Bergk (1838, p. 240), che adduceva a mo’ di esempio Phryn. Com. fr. 42, Theop. Com. fr. 31.4, esempi integrati da Meineke (1839b, p. 157) con Anaxandr. fr. 42.26 e Pherecr. fr. 113.19, cui Stama (2014, p. 241) aggiunge Crates fr. 13 (cf. Perrone 2019, p. 92). Dal punto di vista sostanziale il testo può restar tale come offerto dalla tradizione di Poll. 6.97, perché nel passo introduttivo del testimone si propone dubitativamente che l’ ἀσάμινθος possa esser giudicata anche un oggetto per bere, e nel richiamare l’ omerico Od. 4.128 appare abbastanza chiaro come Polluce (la sua fonte?) interpreti erroneamente il passo epico. Quale che sia l’ origine dell’ eventuale errore esegetico, né in Omero né altrove si ricavano elementi per ricondurre l’ ἀσάμινθος ai ποτήρια. In Omero il termine ricorre nei seguenti passi, sempre in funzione di vasca: Il. 10.576, Od. 3.468, 4.48, 4.128 (il passo richiamato da Poll. 6.97), 8.450, 8.456, 10.361, 17.87, 17.90, 23.163, 24.370. Certamente, nel solo 4.128 esso appare non legato a scene di bagno ma costituisce un dono per Telemaco, e ciò potrebbe aver indotto a un’ errata interpretazione, di cui non si trovano altre tracce nell’ esegesi antica. Possibile dunque che essa sia stata trascinata qui dal frammento di Cratino, iperbolico come

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Cratino

avviene in commedia, la cui forma asindetica induce a pensare a un poculum. Il termine κύλικος sarebbe dunque tutt’ altro che una glossa intrusa, ma parola del frammento che induce un accostamento improbabile in quanto iperbolico. Interpretazione Gli scarsi elementi a disposizione, unitamente alla complessa situazione testuale del testimone, non permettono di dare un’ esatta esegesi del frammento. Meineke (1839b, p. 157) ipotizzava che il senso fosse qualcosa come «ex asamyntho tanquam ex calice libans», corretto da Kock (1880, p. 84) con «ex poculo tanto, ut ἀσάμινθος». Ma se i passi comici paralleli sopra segnalati costituiscono, almeno in parte (specialmente Phryn. Com. fr. 42), una serie di paralleli formali precisi per Cratino, il senso del frammento sarà in qualche modo riconducibile a quello individuato da Meineke: qualcuno compie una libagione servendosi di una ἀσάμινθος come κύλιξ, piuttosto che l’ ipotesi per cui qualcuno compie una libagione con una κύλιξ molto grande, tanto quanto una ἀσάμινθος, vale a dire una vasca. Da quale parte della commedia provenga questo frammento non è semplice definire: il ritmo anapestico si attaglia a varie parti lirico-epirrematiche di un testo comico, e, se fosse orginariamente un dimetro anapestico, il frammento potrebbe derivare anche da un pezzo lirico variamente collocabile. Si potrebbe pensare che il luogo sia lo stesso del fr. 250 (anapestico), con un giuramento e magari una libagione dai tratti iperbolici e stranianti; e, se si trattasse dello stesso luogo del 249 (in tetrametri giambici), allora si potrebbe pensare all’ agone. ἐξ il nesso è un’ evoluzione dello stilema omerico ἐκ ῥ’ ἀσαμίνθου (Od. 3.468, 8.456, 17.90) ο ἐκ δ’ ἀσαμίνθου (Od. 23.123, 24.370). Per la forma ἐκ con un recipiente da cui versare una sostanza in libagioni religiose, cf. e. g. Ap. Rh. 3.1036 (λείβων ἐκ δέπαος), in riferimento al miele nell’ àmbito di un rito sacrificale per Ecate. ἀσαμίνθου indica una vasca. Considerati il vasto impiego omerico (per i passi cf. supra) e le scarse attestazioni letterarie successive, in qualche modo la tradizione erudita andrà per lo più ricondotta all’ esegesi omerica. Per l’ etimologia della parola cf. West (1966/1967, pp. 144s.), Renehan (1968) e più di recente Reece (2002). fr. 253 K.–A. (235 K.) σκῆψιν μὲν Χείρωνες ἐλήλυμεν, ὡς ὑποθήκας μὲν PDI : μὲν ὦ A ὡς PDI : ὥς A prob. D’ Arnaud (1728, p. 106), Kaibel ms. ap. Kassel et Austin, εἰς Elmsley ined. (cf. Comentale 2016, p. 101)

con la forma pretestuosa di Chironi siamo arrivati, per i precetti Heph. 1.9 (p. 6.16) φησὶ δὲ ὁ Ἡλιόδωρος τὸ μ ἐπιφερόμενον ἀφώνῳ ἧττον τῶν ἄλλων ὑγρῶν κοινὰς ποιεῖν ἐν τοῖς ἔπεσι 〈τὰς〉 συλλαβάς· διὰ τοῦτο καὶ Κρατῖνος ἐν τοῖς Χείρωσι πεποίηκε σκῆψιν —

Χείρωνες (fr. 253)

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ὑποθήκας, ἀντὶ τοῦ ἐλήλυθμεν. ὅπερ ἐξηλέγξαμεν ψεῦδος ὄν. πρὸς γὰρ τῷ μυρίαν εἶναι τὴν χρῆσιν παρὰ τοῖς ἄλλοις ἐδείξαμεν ἔτι καὶ παρ᾽ αὐτῷ τῷ Κρατίνῳ πολλάκις οὖσαν, ὡς ἐν Κλεοβουλίναις· (fr. 94) … καὶ ἐν Πανόπταις· (fr. 161) … καὶ ἐν Ὥραις· (fr. 280) … ἄλλως τε καὶ τὸ ἐλήλυμεν ἐδείξαμεν καὶ ἐν ἄλλοις μέτροις συνήθως αὐτοῖς λεγόμενον, ὡς παρὰ Ἀχαιῷ ἐν Κύκνῳ· (fr. 24) … παρ᾽ ᾧ καὶ τὸ δεύτερόν ἐστιν ἀκολούθως πρόσωπον· (fr. 43) Eliodoro dice che un mu che segue la muta, meno delle altre liquide rende le sillabe ancipiti nei versi epici: per questo anche Cratino nei Cheirōnes ha scritto “con la forma — precetti”, al posto di elēluthmen. Noi abbiamo dimostrato che questa affermazione è falsa. Infatti, abbiamo mostrato già che l’ impiego è diffuso presso altri e presso lo stesso Cratino c’è spesso, come nelle Cleoboulinai (fr. 94) […] e nei Panoptai (fr. 161) […] e nelle Hōrai (fr. 280) […] soprattutto abbiamo dimostrato che elēlumen è detto anche in altri metri abitualmente, come in Acheo, nel Kyknos (fr. 24.2) […] presso cui si trova coerentemente anche la seconda persona (fr. 43)

Bibliografia D’Arnaud (1728, pp. 106s.); Runkel (1827, pp. 64s.); Hanow (1830, p. 58); Bergk (1838, p. 225); Meineke (1839b, pp. 153s.); Bothe (1855, p. 48); Gaisford (1855, p. 14); Kock (1880, p. 84); Whittaker (1935, p. 184); Edmonds (1957, pp. 108s.); Luppe (1963, pp. 114s.); PCG IV p. 249; Farioli (2000, pp. 407s.); Bakola (2010, p. 54); Storey (2011, pp. 388s.); Comentale (2016, p. 101); Stamatopoulou (2017, p. 188); Marcucci (2020, pp. 113s.) Metro esametro dattilico

lllllk|klkklkkll

Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Efestione nell’ àmbito di una rettifica ad alcune ipotesi di Eliodoro sulla cosiddetta correptio Attica (cf. Bergk 1842, pp. 376s.) negli esametri: segnatamente, secondo Eliodoro, qualora una consonante occlusiva sia seguita da mu, sarebbero preferite forme alternative volte a eliminare la successione di consonanti. Per contestare la tesi di Eliodoro, Efestione cita i frr. 94, 161, 280 dello stesso Cratino, ritmicamente omogenei a quello citato da Eliodoro, tutti con correptio Attica operante nel gruppo occlusiva e mu. Nel caso del fr. 253, stando a Eliodoro, sarebbe la forma ἐλήλυμεν ad aver evitato ἐλήλυθμεν, in realtà inattestato. Efestione aggiunge poi altri impieghi ἐν ἄλλοις μέτροις della forma ἐλήλυμεν e cita pertanto i trimetri giambici di Achae. fr. 24.2 cui aggiunge il fr. 43 (ἐλήλυτε), quest’ ultimo inadatto al contesto argomentativo. Testo Il frammento non presenta particolari difficoltà di tipo testuale quanto semmai di ordine interpretativo. Consbruch valutò il frammento come esametro dattilico catalettico (cf. p. 419, nell’ indice): lo si deduce dall’ ordine in cui l’ editore dispone i passi s. v. ἔπος, visto che inserisce prima un luogo in cui Efestione non si riferisce propriamente a un esametro – p. 4.2 (Soph. Eleg. fr. 1) – poi – p. 9.16 (Corinn. PMG 657) – un esametro, però non senza una scansione iniziale problematica (cf. Gentili-Lomiento 2003, p. 24 n. 27), e poi tutti i luoghi in cui col termine ἔπος Efestione indica esametri dattilici. Della medesima opinione era

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Cratino

Gaisford nella propria edizione di Efestione (1855, pp. 14s., «in hexametris» e già nella prima edizione del 1810), quindi Bergk (1838, p. 226) che nell’ introdurre il fr. 254, dopo la discussione di questo frammento segnala «alium heroicum»85. Non sembra praticabile un’ altra ipotesi86. Quanto ai manoscritti del testimone, in A si trova ὥς come variante del maggioritario ὡς: la lezione di A fu valutata con interesse da D’ Arnaud (1728, p. 106) e risulta approvata da Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin) che la poneva, senza interpunzione, in successione diretta con quanto precede. Dal punto di vista ecdotico, quella di A più che una lectio difficilior sembrerebbe la congettura di un copista-filologo, insoddisfatto da un ὡς da lui valutato come preposizione, secondo un’ interpretazione non dissimile in fondo da quella che portò Elmsley a congetturare εἰς (recuperato da Comentale 2016, p. 101). Tuttavia, che ὡς sia una preposizione non si può dimostrare, e, in realtà, quale sia l’ esatto valore di ὡς non si può dire allo stato attuale dei materiali. Da segnalare infine Χείρωνες, che Meineke (1839, p. 75 n. 34) interpretò come vocativo87, per poi recepire nell’ editio maior dei frammenti l’ esegesi di Hanow (1830, p. 58) e di Bergk (1838, p. 225) come nominativo, interpretazione accolta da tutti i successivi editori. Interpretazione Considerato il testimone, interessato al testo di Cratino solo per ragioni prosodiche, non si riesce ad avere alcun appiglio per tentarne un’ interpretazione sicura dei contenuti. Hanow (1830, p. 58) avanzò l’ ipotesi di un coro sub specie Chironum in cui fosse presente Solone, che avrebbe pronunciato questo verso: si tratta di un’ ipotesi ardita, a fronte di cori mai a tal segno caratterizzati. Più probabile l’ interpretazione di Bergk (1838, p. 225), secondo cui a parlare sarebbe il coro dei Chironi nella sua totalità e non con qualche inattestata individualità interna. E sempre Bergk (l. c.) ritenne che questo frammento sia la battuta d’ ingresso del coro, mentre Kock (1880, p. 84), meno assertivamente, osservava come «si non prima, at certe ex primis haec verba videntur esse chori in orchestram ingredientis». Non risulta che l’ ipotesi della parodo sia poi stata respinta (cf. Whittaker 1935, p. 184), a eccezione di Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin) e di Luppe (1963, p. 214) che ipotizzano invece una provenienza parabatica. Il confronto, suggerito da Kassel e Austin e precedentemente da Luppe (1963, p. 214), con Cratin. fr. 171, dai Pluti88, indurrebbe a pensare che questo passo dei Chironi sia tratto dalla parodo (cf. in particolare i vv. 11s. Τιτᾶνες μὲν γενεάν ἐσμ[εν / Πλοῦτοι δ᾽ ἐκαλούμεθ᾽ 85 86 87 88

L’ idea che sia un esametro si trova esplicitamente espressa anche in Whittaker (1935, p. 184), Farioli (2000, p. 410 n. 3) e in Bakola (2010, p. 54). Casi di parodia di testi esametrici non presuppongono in commedia lo stesso ritmo, come si ricava da Ar. Ve. 652 – che riprende formule quali e. g. Il. 8.31. Tale interpretazione, del resto, appartiene già al cod. A, in quanto reca μὲν ὦ. Non si trovano indicazioni negli editores veteres in quanto il frammento papiraceo dei Pluti fu editato per la prima volta da Medea Norsa e Girolamo Vitelli nella collezione dei PSI nel 1935.

Χείρωνες (fr. 253)

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ὅτ’ [ἦρχε Κρόνος), come appartiene alla parodo il lungo frammento papiraceo dei Pluti. A favore di tale collocazione del frammento depone anche l’ unico confronto aristofaneo sicuro in cui il coro comico, in apertura di un proprio intervento, fa un esplicito riferimento a se stesso, Ar. Nu. 275–277, peraltro in un ritmo dattilico, hemm 6 da. La forma esametrica si attaglia all’ ipotesi di Bergk (1838, p. 225), che individuò in questo frammento di Cratino un’ allusione a un poemetto attribuito a Esiodo89 che passa sotto il nome di Χείρωνoς ὑποθῆκαι secondo alcune testimonianze antiche (cf. Quint. Inst. 1.1.15), e a cui in commedia avrebbero fatto riferimento anche Ferecrate – forse direttamente nel controverso fr. 162.1–3, esametrico90 – e Ar. fr. 239 (= Hes. fr. 284)91. All’ idea che in Cratino si annunciasse un’ allusione del poemetto esiodeo hanno dato credito anche gli editori successivi alla nota di Bergk, da Bothe (1855, p. 48) a Kock (1880, p. 84), da Luppe (1963, pp. 214s.) fino a Kassel e Austin. Più prudente Meineke, almeno in prima istanza, quando nella Historia critica osservava «minus etiam Cratini versui tribuerim […] in quo Χείρωνoς ὑποθηκῶν mentionem fieri suspicatus est Gaisfordius» (1839a, p. 75 n. 34); nell’ edizione (1839b, p. 154) appare più decisamente a favore dell’allusione da parte di Cratino al poemetto. Non ci sono dubbi, direi, sulla possibilità che Cratino conoscesse il testo che andava sotto l’ authorship di Esiodo, poeta ben noto nella Ionia e ad Atene92, ma non può dirsi sicuro che in quell’ epoca il titolo del testo fosse Χείρωνος ὑποθῆκαι. Quanto, più nel dettaglio, alla presenza di Esiodo e dei versi esiodei o pseudo-esiodei in commedia, si considerino e. g.: Ar. Ra. 1033 (= Hes. T 17), Cratin. fr. 349 che riprende parodicamente Hes. Op. 299s. (cf. OlsonSeaberg 2017, pp. 138s.), ma soprattutto gli Esiodi di Teleclide (cf. Bagordo 2013, pp. 117–120, in part. 118), cui si potrebbe forse ricondurre l’ esametro di Telecl. fr. 49 (τῶν δυνατῶν τι κέλευ’· οὐ γὰρ παρὰ Κενταύροισιν, su cui Bagordo 2013, p. 243). L’ opera pseudo-esiodea era nota a Pindaro (cf. Pind. P. 6.22 e il relativo scolio che riporterebbe l’ inizio del testo = Hes. fr. 283; si veda anche Pind. N. 3.52), forse a Bacchilide (Ep. 5.191–193 = Hes. fr. dub. 344)93, certamente ad Aristofane (fr. 239 e Av. 609, cf. Dunbar 1995, pp. 403s.). Appare meno sicuro, e però non è trascurabile, il fatto che nella Titanomachia (fr. 6) vi possa essere un riferimento al poemetto (cf. West 1978, p. 23) nei concetti espressi.

89 90 91 92

93

Si trova anche in Gaisford (1855, p. 16), che lo anticipò, dal momento che l’ ipotesi è cursoriamente accennata già nella prima edizione del 1810. Si tratta di un centone che richiama certamente passi esiodei e omerici, e che vorrebbe riprendere il poemetto pseudo-esiodeo. Il frammento di Aristofane potrebbe essere la parte finale di un esametro, come volle Dindorf: «probabiliter» commentano Kassel e Austin. Cf. e. g. Heracl. VS 22 B 40 e 57 (= Hes. T 113a–b), Xenoph. VS 21 B 11 (= Hes. T 97), Hdt. 2.53.2 (= Hes. T 10 e 98), Hipp. VS 86 B 6 (= FGrHist 6 F 4 = Hes. T 17), Thuc. 3.96.1 (= Hes. T 30 ), Pl. Resp. 377c-378c (= Hes. T 99). Cf. Cingano (2009, pp. 100 e 128s.).

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Cratino

Non si può esser certi che sia bastata la contiguità di Χείρωνες … ὑποθήκας in Cratino per riportare alla mente del pubblico il poemetto e la funzione paideutica di Chirone, perché non è affatto sicuro che nel V sec. a. C. quei versi didascalici andassero sotto il titolo di Χείρωνoς ὑποθῆκαι: in Pind. P. 6.22s. si trova Φιλύρας υἱόν … παραινεῖν, e in Paus. 9.31.4 (= Hes. T 42) il poemetto viene chiamato παραινέσεις Χίρωνος. La più antica testimonianza attestata del titolo nella forma Χείρωνoς ὑποθῆκαι parrebbe risalire a Ar. Byz. fr. 407 – che atetizzò l’ opera – ammesso che Quint. Inst. 1.1.15, testimone di Aristofane di Bisanzio, riprenda il testo dell’ erudito alessandrino alla lettera, quando impiega il termine ὑποθῆκαι. Alla luce di quanto segnalato, si può affermare che presumibilmente nel testo si facesse riferimento all’ operetta didascalica pseudoesiodea, ma non si può esser certi che già da questa battuta il pubblico potesse averne colto il riferimento, in quanto non appare sicuro che con solo questo titolo essa circolasse ad Atene. Per il coro che arriva in scena dichiarandolo cf. forse Aesch. fr. 190, dove si tratta dei Titani che compongono il coro del Prometeo liberato. σκῆψιν Kassel e Austin e già Luppe (1963, p. 214) rimandano a Cratin. fr. 171.27 (σκῆψις πρώτη), dai Plutoi, quale parallelo utile anche all’ esegesi del fr. 253. Il lungo brano papiraceo dei Plutoi proviene dalla parodo e l’ espressione σκῆψις πρώτη, difficilmente spiegabile per le lacune che la circondano, è di poco preceduta (v. 24) da ἐσύθημεν (“uscimmo”), come gli editori non mancano di notare. D’ Arnaud (1728, p. 107) per primo promosse una resa di σκῆψιν con «monitu», cl. Aesch. Ag. 886 (cf. tuttavia Fraenkel 1950, II p. 402). Alla medesima interpretazione di D’ Arnaud, ma senza richiamare Eschilo, addivenne indipendentemente Meineke (1839a, p. 75 n. 34) che restituiva il greco con «praetextu». Una via esegetica un po’ diversa e più vicina al senso attestato nell’ Agamennone eschileo si deve ad alcuni esegeti successivi: Kock (1880, p. 84 «Chirones personati huc advenimus, ut praecepta»), Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin, «σκῆψιν μὲν (i. e. πρόφασιν vel λόγῳ) Χίρωνες εἶναι δοκοῦντες τὰς τοῦ παλαιοῦ Χίρωνος ὑποθήκας, ἔργῳ δὲ τοῦ ποιητοῦ τὴν γνώμην ὑμῖν δηλώσομεν») e Luppe (1963, p. 214 «vorgeblich zwar sind wir als Cheirones gekommen»). Più decisamente avverbiale la resa di LSJ9 1069B, condivisa anche da GI3 1828C e da Farioli (2000, p. 407), che traduce il frammento con «noi Chironi siamo giunti (con la) scusa di … precetti …». Il solo Gaisford (1855, p. 14, e già nell’ edizione del 1810) aveva ipotizzato che il sostantivo indicasse la città omonima, tanto da intervenire sul testo, dunque Σκῆψιν μὲν Χείρωνος94. L’ esegesi di Gaisford si può accantonare in quanto modifica immotivatamente il testo. Quanto alle altre menzionate, fra loro non profondamente dissimili, nessuna trova perspicui paralleli rispetto a un impiego di σκῆψιν avverbiale, impiego che resta comunque ipotizzabile: l’ equivalenza con πρόφασιν, segnalata da Kock (1880, p. 84), è già in Hsch. σ 695 (Cyrill. cod. E =

94

Ipotesi rifiutata decisamente da Meineke per primo, senza nominarne il promotore (1839a, p. 75 n. 34).

Χείρωνες (fr. 253)

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Lex. Greg. 172, 11, Ep. Hom. σ 8 = Et. Gud. 503.53, Ps.-Zon. 1653) e in Phot. σ 318 e 320 (= Σa σ 118, Suda σ 589). La prima occorrenza del sostantivo in Aesch. Ag. 886 (cf. schol. ad l. σκῆψις· πρόφασις) può confermare una sorta di equivalenza fra il sostantivo e il verbo, e dunque l’ ipotesi che il senso in Cratino sia da intendersi come σκηπτόμενοι Χείρωνες εἶναι, come volevano già Kock (1880, p. 84) e di fatto Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin) – fra altri, ma più esplicitamente95 – piuttosto che un impiego di σκῆψιν che lo obbligherebbe sintatticamente non tanto a Χείρωνες, quanto a ὡς ὑποθήκας. Χείρωνες se a parlare è il coro – con una certa autoreferenzialità – nella parodo, il passo parallelo più simile a questo può essere Ar. Nu. 275s. (l. c., cf. supra). ἐλήλυμεν il verbo è attestato in questa forma unicamente in questo frammento di Cratino e in Achae. fr. 24.2 (cf. Phot. ε 610, ricordato da Kassel e Austin negli Addenda del vol. V) citato da Efestione subito dopo i passi di Cratino, per dimostrare come forme del genere non solo non siano destinate a evitare l’ incontro di occlusiva e mu, ma anzi ricorrano ἐν ἄλλοις μέτροις, qualunque cosa significhi precisamente in Efestione questa espressione. Nonostante si tratti di hapax, l’ evidenza metrica suggerisce di considerare sano il testo, mentre il dato quantitativo rispetto alla ricorrenza impone di valutarla come residuale. Per gli aspetti linguistici cf. Schwyzer GG I p. 769 n. 7, e specialmente Wackernagel (1904, p. 17) e Szemerényi (1964, pp. 20–29). La forma che si vorrebbe evitata è ἐλήλυθμεν, come osservano Efestione e poi Cherobosco negli scolî relativi (p. 202.19 C.), ma si consideri l’ omerico εἰλήλουθμεν dei soli Il. 9.49 e Od. 3.81, su cui Schwyzer GG I p. 769 («möglich ἐλήλυθμεν»)96. Il valore risultativo anche di questo perfetto appare piuttosto chiaro pur nella generale incertezza in cui il frammento versa. Meno definibile invece un eventuale senso espressivo, come ad esempio in Ar. Nu. 239 (ἐλήλυθα, cf. Chantraine 1926, p. 171). ὑποθήκας considerate le incertezze sul titolo con cui circolava l’ opera nel V sec. a. C., sarà più prudente mantenere, in sede di edizione, la lettera minuscola al fine di non determinare l’ idea per cui senz’ altro il pubblico già qui cogliesse un esclusivo riferimento all’ opera pseudo-esiodea di stampo didascalico e precettistico.

95 96

Per questo impiego assoluto di πρόφασιν in commedia cf. Ar. Eq. 466 (il primo esempio parrebbe in Il. 19.302). Tutte le altre attestazioni sono esplicitamente collegate a un passo omerico oppure all’ altro, e pertanto non hanno valore linguistico, quanto semmai di testimonianza antica della storia del testo omerico. I passi in cui le forme omeriche sono riprese sono questi: D.H. Comp. 8.13.42 e 9.4.37, sul passo dell’ Iliade; Strab. 10.2.11.14, sul passo dell’ Odissea; Philox. 406.2; Et. Gud. 436.18 (Et. M. 298.46 e Ps.-Zon. 641.4). Eustazio alle prese col luogo iliadico richiama l’ autorità di Eraclide.

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Cratino

fr. 254 K.–A. (236 K.) Κλειταγόρας ᾄδειν, ὅταν Ἀδμήτου μέλος αὐλῇ cantare il Clitagora, qualora uno intoni sull’ aulo l’ Admeto schol. Ar. Ve. 1238 Ἀδμήτου λόγον· καὶ τοῦτο ἀρχὴ σκολίου (PMG 897) … καὶ ἐν Πελαργοῖς (Ar. fr. 444)· … . Ἀμμώνιος (Susemihl 1889, p. 751 : †Ἁρμόδιος† codd., Ἡρόδικος Dobree 1874 II p. 204, Süvern ut monuit Meineke 1839, p. 13, Bergk 1838, p. 227) δὲ ἐν τοῖς Κωμῳδουμένοις (FGrHist 350 F 2) καὶ τὸν Ἄδμητον ἀναγέγραφε (Dobree 1874, II p. 204 : ἀνάγει γραφὴν codd.) παραθεὶς τοῦ Κρατίνου ἐκ Χειρώνων· Κλειταγόρας — αὐλῇ. Ἀπολλώνιος δὲ ὁ Χαίριδος (fr. 1 Berndt), ὡς Ἀρτεμίδωρός φησιν, περὶ μὲν τῆς Κλειταγόρας τῆς ποιητρίας, ὅτι ὡς ἀνδρώνυμον (Schneider : ἀνδρωνύμενον codd., ἀνδρωνυμικόν Koster) ἀναγέγραφε Κλειταγόραν Ἀμμώνιος, ἀπελέγχει αὐτόν, περὶ δὲ τοῦ Ἀδμήτου παρεῖχεν la storia di Admeto: e questo è l’ inizio dello skolion (PMG 897) […] e nei Pelargoi (Ar. fr. 444) […]. Ammonio nei Kōmōidoumenoi (FGrHist 350 F 2) aveva registrato anche Admeto citando un passo dai Cheirōnes di Cratino: cantare — Admeto. Apollonio figlio di Cheride (fr. 1 Brendt), come dice Artemidoro, lo confuta rispetto a Clitagora la poetessa, poiché Ammonio aveva registrato Clitagora come un nome da uomo, ma presentava Admeto

Metro esametro dattilico

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Bibliografia Runkel (1827, pp. 65s.); Bergk (1838, pp. 226–228); Meineke (1839b, pp. 154s.); Bothe (1855, p. 48); Kock (1880, pp. 84s.); Steinhausen (1910, pp. 6–8); Edmonds (1957, pp. 108s.); Luppe (1963, pp. 215s.); Van der Valk (1974, p. 19); Vetta (1983, pp. 126–128); Bagordo (1998, pp. 74–76); Storey (2011, pp. 388s.); Broggiato (2014, p. 54); D’ Alessandro (2018, pp. 148–151); Marcucci (2020, pp. 114–117) Contesto della citazione Il frammento, un esametro dattilico, si trova nel materiale scoliastico che illustra Ar. Ve. 1238, sia antico (VG) che triclinano (Lh). Nelle più recenti edizioni si tende a dividere lo scolio in due parti, immotivatamente97. Seguo pertanto Kassel e Austin che invece mantenevano un solo testo. Lo scolio intende certificare l’ inizio del canto simposiale, dà quindi conto di un altro reimpiego aristofaneo (fr. 444) e riporta il frammento dei Cheirōnes di Cratino che sarebbe stato ricordato da Ammonio in un catalogo di komodoumenoi, dove l’ erudito aveva registrato anche Admeto: se le cose stanno in questi termini, senza ulteriori spiegazioni, si tratta di un equivoco dell’ erudito in quanto qui si tratta del canto simposiale. È possibile che i vari frammenti risalgano in qualche modo a un’ unica fonte comune con una propria sistemazione nello scolio, dove sono re-

97

Si vedano le opportune valutazioni di Montana (2017, pp. 195–200).

Χείρωνες (fr. 254)

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cepite informazioni di Ammonio (FGrHist 350 F 2* = Ammon. T 9 D’Alessandro), secondo il restauro del testo suggerito da Susemihl (1889, p. 751)98 e dell’ oscuro Apollonio figlio di Cheride99. Per l’ interpretazione dello scolio cf. Steinhausen (1910, pp. 6–8) e D’ Alessandro (2018, pp. 149–151). Interpretazione Condivisibile dovrà dirsi l’ interpretazione che del frammento suggerì Bergk (1838, p. 228), allorché segnalò come Cratino «reprehendere videtur negligentiam illam et contemtionem artis cum solerent Athenienses, si tibicen modos cantilenae in Admetum praeierit, canere scolium Clitagorae», segnalando peraltro la somiglianza del dettato di Ar. Lys. 1237 (1236s. ὥστ’ εἰ μέν γέ τις / ᾄδοι Τελαμῶνος, Κλειταγόρας ᾄδειν δέον) col precedente di Cratino. Nella Lisistrata gli Ateniesi riportano quanto accaduto nel simposio con gli Spartani, da cui si apprende che uno Spartano al simposio ha intonato un carme sbagliato non già per ragioni di contenuto, ma per il tipo di aria. Anche in tal caso, si sarebbe trattato di un errore di sostituzione in cui era coinvolto il Clitagora. Quella di Bergk appare come l’ interpretazione più prudente e in definitiva condivisibile, e può essere integrata forse da qualche minima osservazione relativa alla struttura metrico-ritmica dei due skolia: il Clitagora è un docmio100, l’ Admeto è interpretabile fra i metri gliconici come un saffico di sedici sillabe, che la poetessa di Lesbo impiegò per l’ intero libro terzo secondo l’ edizione alessandrina (cf. Sapph. fr. 228–228a, quindi già i distici dei frr. 53–57 e la testimonianza di Heph. p. 10.6, che rappresenta il fr. 229)101, un metro noto anche fra i moderni come asclepiadeo maggiore102. La critica sottesa al frammento, se di critica si tratta, sarebbe dunque rivolta all’ incapacità di distinguere un canto da un altro sul piano melodico e ritmico. Non escluderei, tuttavia, anche un’ interpretazione di ordine politico. Il canto Admeto (Praxil. PMG 749 = 897 = 14 Fabbro, su cui cf. infra), in commedia ricorre nel passo delle Vespe il cui scolio è occasione della citazione del frammento di Cratino, e in Ar. fr. 444, che ha lo stesso testimone. Nel caso delle Vespe, la citazione dell’ Admeto potrebbe avere anche un risvolto politico immediato: il reale canto del fittizio simposio ha certamente un’ ascendenza di ordine aristocratico (cf. su questo canto in particolare Van der Valk 1974). Lo scarto fra l’ ambiente democratico radicale del finto simposio e l’ atmosfera aristocratica del banchetto e dell’ Admeto servirà a costituire un comico contrasto che segnala forse un atteggiamento non 98

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Più probabilmente che Erodico (di Babilonia), il cui nome era stato avanzato indipendentemente prima da Dobree (1874, II p. 204) e poi da Bergk (1838, p. 227). Cf. a favore di Ammonio anche Broggiato (2014, p. 54). Su Ammonio cf. ora D’ Alessandro (2018) e sul passo in particolare p. 107 n. 1. Cf. Montana (2012, p. 47), con bibliografia. Ben presente nella produzione drammatica: Ps.-Aesch. Pr. 575; Soph. OT 1346; Eur. Hipp. 1271; Hel. 687; Ar. Av. 1191, 1194 (cf. Gentili-Lomiento 2003, p. 239). Cf. Neri (2021, pp. 7, 9, 42, 655–663, 891–893). Forse l’ impiego saffico spiega anche una delle attribuzioni alla poetessa, come del resto quella ad Alceo che lo utilizzò a sua volta, cf. frr. 50, 343–349b.

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Cratino

certo filoaristocratico di Cleone e della sua cerchia103, ma per certi versi opaco, come ha segnalato MacDowell (1971, p. 289): «although these men claimed to protect the rights of ordinary Athenian, they were not themselves regarded as ordinary Athenians but as important men». Esiste poi la possibilità che il richiamo all’ Admeto abbia ulteriori implicazioni, sempre di ordine politico: l’ ambientazione tessala del mito di Admeto e un suo possibile esito attico (cf. Phanod. FGrHist 325 F 26) potrebbero essere un omaggio a una precisa linea politica, in direzione filotessala. Che essa sia dovuta alla recente ambasciata di Aminia, evocato nel finto simposio, presso i Tessali per rinsaldarne l’ alleanza antispartana (cf. Vetta 1983, 126–128), resta più che mai dubbio in quanto l’ attendibilità di questo evento politico non esiste. In direzione filotessala rientra scopertamente invece l’ altro canto, Clitagora (PMG 912), citato nel frammento di Cratino, e menzionato più volte anche da Aristofane, nella scena delle Vespe del finto banchetto (v. 1245)104, quindi in Ar. Lys. 1237 e nel fr. 271. Si potrebbe dunque valutare, con tutte le cautele del caso, come accanto a un’ interpretazione musicale, che resta comunque quella principale, possa esservi anche un elemento di ordine politico inerente il rapporto di alleanze ateniesi con la Tessaglia: un personaggio lamenta che quando si sarebbe dovuto cantare un canto tradizionalmente aristocratico, l’ Admeto, qualcuno lo avrebbe sostituito con un canto filotessalo, il Clitagora, un errore indotto dalla possibilità di ‘piegare’ canti tradizionali in direzione filotessala a partire dall’ ambientazione. Una simile ipotesi non orienta comunque nella datazione della commedia, dal momento che l’ alleanza tessala costituisce uno dei cardini della politica periclea, fin dalla vittoria riportata dal partito di Pericle su Cimone. Ma l’ aspetto politico può assumere un’ ulteriore valenza nella dinamica comica, allorché si consideri che il rapporto filotessalo della politica periclea non è stato in realtà esclusivo di Pericle, in quanto ha antecedenti nella storia ateniese che rimontano al periodo del contrasto fra Pisistratidi e Anchimolio (Hdt. 5.63.3). A considerare come Pericle sia esplicitamente delineato come un tiranno nel fr. 258, i canti tessalici Admeto e Clitagora possono costituire un elemento per alcuni aspetti atteso in relazione alla politica estera periclea e dei democratici ateniesi in generale, ma d’ altra parte possono costituire un aprosdoketon rispetto all’ origine aristocratica almeno dell’ Admeto. Interpretato in tal senso, l’ Admeto qui evocato non è più un generico manifesto aristocratico, talora tautologico (cf. le opportune osservazioni di Van der Valk 1974, p. 13), ma una reviviscenza di opzioni filotessale (cf. anche Vetta 1983, p. 127). 103 104

Semmai, del solo Teoro (cf. Vetta 1983, p. 128 e, in generale, Colesanti 1999, p. 258). In relazione alle presunte e millantate ricchezze di Eschine (su cui cf. Ar. Av. 823 e Dunbar 1995, p. 493). Da segnalare, con Biles-Olson (2015, p. 445), che la collocazione tessala delle ricchezze di Eschine non si riferisce solo al canto simposiale ma evidentemente anche alla sua ambasciata in Tessaglia, giusta l’ interpretazione politica avanzata da Vetta (1983, pp. 126–128).

Χείρωνες (fr. 254)

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Κλειταγόρας del canto risulta noto solo l’incipit (PMG 912b) da Ar. Ve. 1245, mentre altrove se ne ricavano menzioni, tutte da materiale della commedia del V sec. (Ar. Lys. 1237, fr. 271), oppure da materiale esplicativo in qualche modo collegato a quei passi (schol. Ar. Ve. 1238, 1245, schol. Ar. Lys. 1237). Se ne concluderebbe, dunque, che Clitagora sarebbe stata una poetessa di origine tessala (schol. Ar. Ve. 1238), o spartana (schol. Ar. Lys. 1237), o lesbia (Hsch. κ 2913): nessuna di queste informazioni risulta dimostrabile, e anzi esse possono essere a buon diritto sospettate di autoschediasmo, nel caso degli scolii, o neppure di questo nel caso esichiano, la cui fonte potrebbe esser influenzata dall’ idea che la poesia lirica e femminile par excellence venisse da Lesbo (cf. Neri 2003, p. 37). L’ ipotesi che Clitagora fosse una prostituta (PAA 575647), essenzialmente sulla base dello schol. Ar. Nu. 684, non è dimostrabile, ed è anzi difficile pensare che si possa interpretare in tal senso il passo delle Nuvole, in quanto, come ha osservato Dover (1968, p. 184), «they were also quite ordinary Athenian women’ s names (cf. Lysilla in Ar. Th. 374), and unless there was a well-known ‘firm’ or ‘team’ of prostitutes (cf. Ar. Ach. 527) of whom four bore these names the audience could hardly understand the line as a reference to actual person». Non è nota la data di composizione del canto: se di ambiente ateniese, il che è molto insicuro, sarebbe ascrivibile, secondo Bowra (1973, p. 584), al periodo in cui i Tessali aiutarono i Pisistratidi contro Anchimolio (Hdt. 5.63.3 cf. supra), oppure a un tempo immediatamente successivo al 476 a. C. quando Menone di Farsalo aiutò Cimone contro Eone (Dem. 23.199). Dal finto simposio delle Vespe (v. 1245) risulta che il primo verso, un docmio, suonava χρήματα καὶ βίον Κλειταγόρας τε κἀμοὶ μετὰ Θετταλῶν, accogliendo l’ emendamento di Tyrwhitt, al posto del tràdito βίαν. Che si tratti di un canto garantisce il verbo (cf. Ar. Ve. 1231, Lys. 1237, fr. 444), e, per espressioni similari, cf. Hyper. Phil. 15b.2.12 (ἔπειθ᾽ ὅ τι ἐν νόμῳ γράψας ὁ δῆμος ἀπεῖπεν μήτε λέγειν ἐξεῖναι 〈μηδενὶ〉 κακῶς Ἁρμόδιον καὶ Ἀριστογείτονα μήτ᾽ ᾆσαι ἐπὶ τὰ κακίονα)105, per quanto esso non sia obbligato ai canti simposiali (cf. Ar. Ve. 1240); per un significato sovrapponibile in un’ espressione solo apparentemente opposta cf. Ar. Nu. 1371106, dove forse il nesso potrebbe garantire l’ idea che il verbo si riferisca anche alla recitazione (cf. Wilamowitz 1921, p. 26). Ἀδμήτου μέλος l’ Admeto (Praxil. PMG 749 = 897 = 14 Fabbro) costituisce un noto canto simposiale, variamente attribuito. L’ authorship del carme fu identificata in Saffo (fr. °296 su cui Neri 2021, pp. 934s.), Alceo o Prassilla di Sicione (PMG 749) – tre opzioni indicate da Eust. Il. 326.39 (sulla scorta del ricostruito Paus. Att. α 25); qualche credito a Prassilla si trova anche nello schol. Ar. Ve. 1238. Concedendo pochissimo credito alle testimonianze, Bowra ipotizza (1973, p. 554) che, in definitiva, esso possa risalire all’ episodio dei Pisistratidi e di Anchimolio (Hdt. 5.63.3 cit. supra), ma nulla esclude che in realtà il canto già esistesse e che

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Cf. Reitzenstein (1893, p. 27). Su cui cf. Tammaro (1980/1982).

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Cratino

poi fosse stato reimpiegato, all’ occorrenza, in quei contesti. Saranno da accogliere dunque le valutazioni di Vetta (1983, p. 127 e della Fabbro 1995, p. 159), per cui la questione dell’ authorship si potrà provvisoriamente abbandonare a favore, semmai, della vasta circolazione del carme motivata anche da tematiche non strettamente ateniesi (Van der Valk 1974, p. 7), in cui la menzione della poetessa di Sicione non rappresenta un tratto di autorialità, ma di storia delle tradizione. Della vicenda di Admeto, re di Fere e marito di Alcesti, la sinossi mitografica sembra aver fornito versioni diverse, la più nota delle quali resta quella euripidea del 438 a. C. dell’ Alcesti, complice anche l’ ampio naufragio di altri testi; sviluppi attici del mito sono garantiti da Phanod. FGrHist 325 F 26. I precetti impartiti ad Admeto da Apollo ed evocati da Bacch. 3.76–84 si trovano forse anche nello scolio in questione (cf. Wilamowitz 1931, I p. 39 n. 1 e Fabbro 1995, p. 156). αὐλῇ l’ espressione, considerata anche la struttura complessiva del verso, sarà da accostare ad Ar. Ve. 1236s. e a Lys. 1237. Rispetto alla Lisistrata, dove il senso di sbagliare canto può esser il medesimo di Cratino (cf. supra), si dovrà riconoscere che nelle Vespe – malgrado la minor somiglianza formale – l’ espressione sul piano sintattico è più simile a quella rintracciabile in Cratino in quanto vi si delinea un momento eventuale da collocarsi in futuro (cf. Smyth § 2399), mentre nella Lisistrata il banchetto ha già avuto luogo. L’ accompagnamento con lo strumento a fiato si ricava anche da Ar. Ve. 1219 e parrebbe sottinteso in Lys. 1237.

fr. 255 K.–A. (237 K.) ταῦτα δυοῖν ἐτέοιν ἡμῖν μόλις ἐξεπονήθη ⊗? ἐτέοιν Meineke (1847, p. 57) : ἐτοῖν codd., 〈ἐν〉 ἐτοῖν Meineke (1839b, p. 161) sec. Dindorf, iam Pierson ined. ap. Keil, 〈δι’〉 ἐτοῖν Fritzsche (1860, p. 58) || etiam quod Aelius postea dicit (τοῖς δ’ ἄλλοις ἐν ἅπαντι βίῳ προτιθέναι … ποιηταῖς μιμεῖσθαι) fortasse ad finem comoediae pertinet

questa fatica abbiamo concluso a stento in due anni Ael. Arist. 28.92 ἀλλ᾽ ἔγωγε κωμῳδοποιοῦ τινος ἤκουσα σεμνολογουμένου θαυμαστὰ οἷα. καίτοι ἐάν τις ἔρηται τοὺς τῆς κωμῳδίας ποιητὰς ἐφ᾽ ὅτῳ μέγα φρονοῦσιν, φαῖεν ἄν, οἶμαι, ὅτι γέλωτα κινοῦσιν, ὥσπερ καὶ αὐτῶν τις ὡμολόγηκεν οὐδενὸς ἐρωτῶντος (an Aristophanes ap. Pl. Smp. 189b? susp. Keil)· ἀλλ᾽ ὅμως καὶ οὗτοι χωρὶς ἀξιοῦσιν εἶναι τά τε τῶν ἀστείων σκώμματα καὶ τὰ τῶν πολλῶν. καί τις αὐτῶν ἐν ἀρχῇ τοῦ δράματος μεγαλαυχούμενος ὡς προφήτης προαγορεύει τοιάδε (schol. Par. gr. 3005 Εὔπολις λέγει τοῦτο ἐν τῷ Μαρικᾷ) (Eup. fr. 205)· … διδάξας δὲ τοὺς Χείρωνας προσπαραγράφει πάλιν αὖ μάλα ὑπερηφάνως ἐπὶ τελευτῆς· ταῦτα — ἐξεπονήθη, τ ο ῖ ς δ ’ ἄ λ λ ο ι ς ἐ ν ἅ π α ν τ ι β ί ῳ π ρ ο τ ι θ έ ν α ι φησὶ π ο ι η τ α ῖ ς μ ι μ ε ῖ σ θ α ι, δηλονότι ὡς οὐδένα ἐφιξόμενον

Χείρωνες (fr. 255)

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Ma io stesso ho saputo di un commediografo che diceva solennemente frasi grandiose di questo genere. E se uno chiedesse per cosa vanno fieri i poeti comici, risponderebbe – credo – del fatto che fanno ridere, come anche uno di loro ha ammesso nonostante nessuno lo avesse chiesto (Pl. Smp. 189b?). E ugualmente questi ritengono che siano diverse le battute dei cittadini per bene da quelle dei più. E uno di loro all’ inizio della commedia come fosse un profeta si vanta pronunciando frasi iniziali del genere (schol. Par. gr. 3005 Eupoli dice questo nel Marikās): […] (Eup. fr. 205), e mettendo i scena i Cheirōnes nuovamente aggiunge con enfasi nel finale: questa — anni, agli altri poeti, dice, propone di imitarlo nell’ arco di un’ intera vita, evidentemente perché nessuno sarebbe in grado di farlo

Metro esametro dattilico

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Bibliografia Hanow (1830, p. 65); Bergk (1838, p. 224); Meineke (1839b, pp. 161s.); Cobet (1840, pp. 22–25); Meineke (1847, p. 53); Bothe (1855, pp. 50s.); Kock (1880, p. 85); Wilamowitz (1927, p. 11 n. 1); Coppola (1936, p. 32); Edmonds (1957, pp. 108s.); Luppe (1963, pp. 225s.); PCG IV pp. 250s.; Farioli (2000, pp. 425–427); Olson (2007, p. 115 Β 46); Bakola (2010, pp. 54s.); Storey (2011, pp. 390s.); Marcucci (2020, pp. 117–119) Contesto della citazione Nel corso di un’ articolata discussione sul valore e sul significato di forme autocelebrative Elio Aristide cita il frammento. L’ orazione si occupa dell’ autoelogio, e la tecnica compositiva, in termini di citazioni, parafrasi e riprese sembra procedere per esempi tratti da diversi generi, nell’ ordine: epica, lirica, storiografia classica, tragedia, commedia. Arrivato dunque a trattare l’ autoelogio da parte dei poeti comici, Elio Aristide riporta, nell’ ordine: un frammento che l’ erudito (la sua fonte?) non assegna, il presente frammento dei Cheirōnes, e altre parole in qualche modo riconducibili sempre al frammento dei Cheirōnes, infine tre passi di fatto contigui di Aristofane, da individuarsi in Ve. 1030, 1043, 1046s. Dalla struttura sintattica si direbbe che nel testo di Elio Aristide si ritiene che l’ autore del primo e del secondo frammento sia il medesimo. A fornire maggiori precisazioni interviene lo schol. Par. gr. 3005 al passo, che assegna il primo frammento al Mariκās di Eupoli (fr. 205)107, da cui consegue che va ascritto solo il secondo ai Cheirōnes: nello scolio non si indica l’ autore del frammento dei Cheirōnes, ma non ci sono dubbi che si tratti di Cratino. Già Hanow (1830, p. 65) aveva mosso sospetti sulla situazione testuale offerta da Elio Aristide, di cui aveva corretto il testo, suggerendo di leggere 〈ὁ〉 διδάξας δέ (〈ὁ〉 δὲ διδάξας Luppe 1963, p. 226), in quanto «priores autem versus alius cuiusdam sunt». Molto probabilmente l’ ipotesi di Hanow coglie nel segno, considerate anche le indicazioni autoriali dello scolio (cf. Olson 2016, p. 210); tuttavia risulta discutibile sul piano 107

Cf. Olson (2016, p. 210). Wilamowitz (1927, p. 11 n. 1) assegnava il frammento ad Eupoli, mentre Fraenkel (1962, p. 176 n. 1) riteneva che il testo fosse riconducibile a Cratino, contro la testimonianza dello scolio e senza motivare il proprio dissenso rispetto a Wilamowitz.

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Cratino

metodologico intervenire nel testo di Elio Aristide in quanto non si può conoscere la cronologia dell’ errore: esso può collocarsi a monte della compilazione (come ritengo più probabile) o, meno probabilmente, può esser frutto dell’interpretazione di Elio stesso (cf. πάλιν αὖ), o collocarsi a valle, nella tradizione del testo di Elio Aristide. Se si trattasse dell’ ultima ipotesi, si può ipotizzare, con Luppe (1967b, p. 392), una conoscenza del testo di Cratino da parte dell’ erudito (ma cf. infra). Elio Aristide evidenzia come la pericope dai Cheirōnes sarebbe tratta dal finale della commedia, mentre dichiara che il primo frammento è tratto dal prologo: se l’ assegnazione al prologo di Eup. fr. 205 può ragionevolmente esser messa in discussione, la posizione finale del frammento di Cratino ha maggiori chances (cf. Interpretazione). In generale, risulta abbastanza complicato immaginare che Elio Aristide abbia sostenuto il proprio ragionamento con esempi tratti direttamente dalle commedie citate, mentre sarà più probabile l’ impiego di un repertorio in cui i frammenti erano trascritti, e dove l’ identità (e la forma) dei frammenti era stata in parte oscurata da guasti meccanici o dimenticanze. Testo Il testo di Cratino presenta una difficoltà dopo la citazione vera e propria in quanto vi si trova una sorta di parafrasi. Da segnalare che la paradosi non sembra aver generalmente conservato sensibilità ritmica, visto che l’ archetipo di Elio Aristide non è alterato solo dalla parafrasi: errori metrici si riscontrano anche nella citazione visto che nel verso conservato si legge δυοῖν ἐτοῖν, contra metrum, e certamente errore d’ archetipo in quanto presente nell’ intera tradizione manoscritta. Provvide a correggerlo in δυοῖν ἐτέοιν Meineke nell’ editio minor, (1847, p. 57)108, però come proposta alternativa relegata in apparato. Lo studioso fin dall’ editio maior osservava anche come le parole della parafrasi si potessero in qualche modo adattare a costituire un ulteriore esametro (1839b, p. 161), ma con cautela ammetteva: «non credo tamen ipsa verba Cratini Aristidem servasse». Se il contenuto resta chiaro, la facies precisa della parte parafrasata non può invece esser ricostruita. Si potrà notare come le modalità di citazione di Elio Aristide, combinate con alcuni appunti di lexis di Cratino, possano in qualche modo tornare utili non già per ricostruire la parte parafrasata ma per orientarne l’ edizione. Cratino è nominato da Elio Aristide esplicitamente due volte, per due frammenti anepigrafi: in 2.72 il retore propone una citazione-parafrasi (fr. 324) e in 3.51109 senza nominare il commediografo. Una menzione di Cratino con citazione sempre anepigrafa si trova in 34.51 (fr. 364), mentre in 28.92 cita il frammento qui in esame senza il nome del poeta ma solo col titolo della commedia. Che Cratin. fr. 229 possa trovarsi ripreso senza nessun riferimento in 3.154 mi

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Nell’ editio maior αccoglieva il suggerimento di Dindorf 〈ἐν〉 ἐτοῖν, avanzato anche da Pierson ined. ap. Keil. Sul testo intervenne anche Fritzsche (1860, p. 58) con 〈δι’〉 ἐτοῖν in sede di commento di μόγις ἐξερμηνεύθη in Luc. Hist. Conscr. 1.27. Un seconda mano del ms. R segnala l’ ipotetica paternità cratinea (alternativamente suggerisce Eupoli) = schol. B (III 471.23 Dind.).

Χείρωνες (fr. 255)

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pare da escludere (cf. ad l.), mentre Vix (2016, p. 379) annovera il passo fra le citazioni cratinee omisso nomine poetae. Altri commediografi appaiono richiamati dal retore: Aristofane specialmente, Eupoli, Platone e Menandro110. Stando a Vix (2016, pp. 389s.), Elio Aristide avrebbe privilegiato le parabasi comiche quali serbatoio di citazioni paideutiche, ma nel caso specifico il testimone stesso afferma che il frammento deriverebbe dal finale (cf. anche infra). Quanto poi ai modi di citazione, basterebbe il caso di Cratin. fr. 324 (ex Ael. Arist. 2.51) per mostrare la vasta modalità di adattamento del testo comico originario. Allargando lo spettro all’ intera orazione da cui deriva il presente frammento, sono significativi i casi di: 1. § 22 dopo aver citato Hes. Th. 22, Elio Aristide lo parafrasa e ricorda il dono del bastone da parte delle Muse a Esiodo come se si trattasse di un verso contiguo, in realtà nella paradosi si tratta del v. 30, che ha ἔδον sostituito da Elio Aristide col più prosastico λαβεῖν. 2. § 24 cita Hes. Th. 32 e poi per alcuni aspetti lo parafrasa inserendo ὑμνεῖν, ricavato da Th. 33, al posto del verbo esiodeo. 3. §§ 31s. cita Il. 1.273, quindi i vv. 269s. secondo una modalità per cui sembrerebbe invece che in Omero i vv. 269s. seguano il v. 273. 4. § 37 subito prima di citare Il. 23.634–637 introduce il testo con alcune parole in parte fuorvianti. 5. ibid. subito dopo la citazione iliadica introduce una parafrasi senza dichiararla. 6. §71 da segnalare la notevole alterazione, però tacita, di Thuc. 2.59s. Se non ci fosse il testo di Tucidide si potrebbe sospettare che si tratti degli ipsa verba dello storiografo. Combinati questi dati con alcuni impieghi tipici del lessico comico, si noti come προτίθημι appare certamente solo in Eubul. fr. 13.4, mentre le altre due possibili occorrenze sono quanto mai incerte, trattandosi in entrambi i casi di luoghi coinvolti da forme di parafrasi, Cratin fr. 124 (ex Ath. 15.667f) e Chion. fr. 7 (ex Ath. 4.137e)111; anche nel caso del frammento in esame il verbo potrebbe esser esito di parafrasi da parte di Elio Aristide. Non si può chiarire se ποιηταῖς sia del testo che segue la citazione oppure ricavato da un verso precedente e sottinteso in ἄλλοις; tanto più che il retore utilizza ποιητής diffusamente nelle proprie orazionι (28x), e non necessariamente in relazione alla poesia (cf. 28.72 dove è detto di Tucidide a introdurne la citazione di 6.16.1). Il nesso ἄλλοις ποιηταῖς può esser stato suggerito a Elio Aristide dal frammento cratineo in termini di contenuti, mentre la forma può dipendere dal precedente frammento di Eupoli (ἀφυπνίζεσθαι 〈…〉 χρὴ πάντα θεατήν, / ἀπὸ μὲν βλεφάρων αὐθημερινὸν ποιητῶν λῆρον ἀφέντα). Il nesso ἐν ἅπαντι βίῳ è hapax assoluto, tanto che non credo vada assegnato sic et

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Cf. Vix (2016, pp. 377–379) per le occorrenze. Per alcuni tentativi di ricostruzione che ricomprendono nel frammento anche il verbo in questione cf. Bagordo (2014, p. 65).

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Cratino

simpliciter a Cratino ma neppure a Elio Aristide: sarà forse un errore d’ archetipo per il più diffuso ἐν ἅπαντι τῷ βίῳ, comunque assente in poesia112. Un’ espressione prosastica simile, con esplicito richiamo alla commedia, si trova in Jul. Or. 7.204a ἦ πολλὰ γίνεται ἐν μακρῷ χρόνῳ· τοῦτο ἐκ κωμῳδίας ἀκηκοότι ἐπῆλθεν ἐκβοῆσαι (cf. Perusino in Perusino-Beta 2020, p. 192). A proposito dell’ articolo da ristabilirsi, andrà almeno segnalato come in Ael. Arist. 28.93 (poco dopo dunque la citazione e la parafrasi di Cratino), la citazione di Ar. Ve. 1030, che sembra peraltro una parafrasi ma di fatto coincide col testo delle Vespe, manca dell’ articolo τοῖς da ristabilire certamente in Elio Aristide in quanto prodottosi più facilmente a valle che a monte della composizione dell’ orazione. Difficile dunque capire se il nesso ἐν ἅπαντι βίῳ presentato dalla tradizione di Elio Aristide sia davvero risalente al testo di Cratino, o se si tratti di un’ aggiunta di Elio Aristide, poi corrottasi con la perdita dell’ articolo. Interpretazione Il frammento, quale che sia la pericope da cui la parafrasi ha origine, può esser collocato nella parte finale della commedia come indicato dal testimone, sia per il contenuto che esprime sia per il metro, vale a dire un ritmo dattilico piuttosto che veri e propri esametri, riscontrabili nell’ esodo di Ar. Ra. 1528–1533. Sul piano del contenuto, si tratta di un autoelogio del poeta, secondo la linea dell’ orazione e in accordo anche col precedente frammento eupolideo (v. 2, l. c.). Come anticipato, quanto segue il frammento appare come una parafrasi di cui non si può ricostruire l’ originale nei suoi termini lessicali. Se il testo del frammento citato sia iperbolico o no, non sembra possibile dire, non essendo praticabile una ricostruzione attendibile dei tempi di composizione delle commedie e delle tragedie. Cobet (1840, pp. 22–25) ritenne invece che il frammento non facesse minimamente riferimento al tempo di composizione della commedia, ma all’attesa di veder abrogato il decreto di Morichide (440/439–437/436 a. C.) che avrebbe impedito la rappresentazione della commedia. Anche Coppola (1936, p. 30 n. 2), in qualche modo, collegò la commedia all’ intervento censorio del decreto, ma in senso opposto, vale a dire che questa commedia – in fondo antipericlea – sarebbe la causa della promulgazione del decreto. La spiegazione di Elio Aristide appare tuttavia perfettamente accettabile e pertanto non si ravvedono ragioni per respingerla. A essa fa riferimento Olson (2007, p. 115) che ipotizza come il frammento si riferisca al fatto che l’ anno precedente la messinscena dei Cheirōnes Cratino non avesse ottenuto il coro dall’ arconte. La Bakola (2010, p. 152) pensa piuttosto alla possibilità che con questo passaggio Cratino si riferisse al fatto di non aver deliberatamente partecipato al concorso nell’ anno precedente. ταῦτα stando al testimone Cratino sta facendo riferimento all’ opera stessa. μόλις l’ avverbio è in Aesch. Ag. 1082 (οὐ μ., cf. anche Eum. 864), per la prima volta. Si tratta di una forma riscontrabile nella poesia e nella prosa accanto al più antico μόγις. Stando alle edizioni di riferimento, μόγις diviene nel tempo più raro 112

Per stare alla commedia cf. invece Ar. Lys. 256s. (ἐν / τῷ μακρῷ βίῳ).

Χείρωνες (fr. 256)

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di μόλις, ma non sempre è possibile chiarire se la facies dei testi sia autentica o se l’ uno sia corruzione dell’ altro. La posizione dell’ avverbio permette di considerare come esso si riferisca a ἐξεπονήθη. ἡμῖν per il numero del pronome nei cori drammatici cf. Kaimio (1970). ἐξεπονήθη il πόνος a indicare il frutto della fatica piuttosto che la fatica stessa ha svariati precedenti talora connessi, esplicitamente o meno, al prodotto poetico, cf. in particolare Pind. frr. 52h.22 (Paean. 7b) e 70c.16, quindi N. 3.12113. Un precedente potrebbe esser rinvenibile in Alcm. PMGF 1.88s., e un parallelo per Pindaro si trova in Sim. PMG 549.6. In particolare, andrà segnalato Ar. fr. 347 (ἡνίκα Κράτης τό τε τάριχος ἐλεφάντινον / λαμπρὸν ἐνόμιζεν ἀπόνως παρακεκλημένον), per cui cf. Pellegrino (2015, ad l.) e in particolare Lorenzoni (2017, p. 435), nonché Imperio (2022). Da segnalare, per la fatica, se non propriamente poetica ma verisimilmente performativa (di una performance, per così dire, evocata), Aesch. fr. 57.3, e, con valore certamente metateatrale, Trag. adesp. fr. 646a.23114. Il termine, impiegato in tal senso, ritorna ad esempio in Callim. Ep. 6.1, Asclep. AP 7.11.1 (= Εrinn. T4)115, e cf. AP 9.184116. La Bakola (2010, p. 55 n. 125) richiama Eur. IA 209 (Ἀχιλλέα, τὸν ἁ Θέτις τέκε καὶ Χείρων ἐξεπόνησεν) e sostiene che il senso del verbo in questo passo sia «forming by instruction», ciò che si attaglierebbe al ruolo anche didattico del coro e dei suoi occasionali componenti, ‘moltiplicazione’ del centauro Chirone. Per l’ idea del πόνος in relazione all’opera ‘letteraria’ per la durata di un’ esistenza cf. Ar. test. 3.9s. (schol. Areth. Pl. Ap. 19c): διό⟨τι⟩ τὸν βίον κατέτριψεν ἑτέροις πονῶν.

fr. 256 K.–A. (238 K.) 〈l〉 μακάριος ἦν ὁ πρὸ τοῦ βίοτος βροτοῖσι πρὸς τὰ νῦν, ὃν εἶχον ἄνδρες ἀγανόφρονες ἡδυλόγῳ σοφίᾳ βροτῶν περισσοκαλλεῖς 1 〈l〉 : 〈ὡς〉 Wilamowitz (1921, p. 270 and. 1) fortasse recte βίοτος Bothe (1855, p. 46), nec non Headlam (1899, p. 5), Wilamowitz l. c., Marzullo (1959, p. 148) : βροτός Σb α 249, βίος Bekker (1814, p. 335.16) 2 βροτοῖσιν cod., del. Marzullo (1959, p. 148) 3 ἀγανόφρονος ἁδυλόγου σοφίας Headlam l. c. (ἡδυλόγου σοφίας Kock 1880, p.  85) 4 βροτῶν : «offendit tamen etiam nunc repetitio» Bergk (1838, p. 234), τρόπων van

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Non direttamente da ricongiungersi all’ opera poetica Pind. P. 6.54. Su cui in particolare cf. Battezzato (2006) e Cipolla (2011). Per ulteriori passi di poesia ellenistica, cf. Neri (2003, p. 187) e per un commento generale Hunter (1993, pp. 36s.), Id. (1996, p. 15). Su cui Ercoles (2013, pp. 506s.).

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Cratino

Herwerden (1878, p. 56), φρενῶν Id. (1893, p. 150), πόθῳ Kock (1880, p. 85), δρόσῳ Headlam l. c. cl. Pind. P. 5.85, I. 6.64 περισσοκαλ⟨λ⟩εῖς Bekker (1814, p. 335.19)

felice per i mortali era quel sistema di vita rispetto a ora: l’ avevano uomini gentili per sapienza dal dolce eloquio, di gran lunga splendidi fra i mortali Σb α 249 1–4 ἀγανόν· καλόν, ἡδύ. Ἀριστοφάνης Λυσιστράτῃ (vv. 885s.) ... Κρατῖνος Χείρωσιν· μακάριος ἦν ― περισσοκαλ⟨λ⟩εῖς (corr. Bekker 1814, p. 335.19) gentile: bello, dolce. Aristofane nella Lisistrata (vv. 885s.) […] Cratino nei Cheirōnes: felice ― mortali Σb α 153 = Phot. α 111 3s.

Metro dimetro anapestico, trimetro giambico catalettico, dimetro anapestico, dimetro giambico catalettico

〈l〉kkkklkklkkl klklklklklk kklkklkklkkl klklkll

Bibliografia Bekker (1814, p. 335); Bekker (1821, p. 1106); Bergk (1838, pp. 233s.); Meineke (1839b, pp. 146s.); Bothe (1855, p. 46); Meineke (1857 I p. 21); van Herwerden (1878, p. 56); Kock (1880, p. 85); van Herwerden (1893, p. 150); Headlam (1899, p. 5); Wilamowitz (1921, p. 270 n. 1); Edmonds (1957, pp. 108s.); Marzullo (1959, pp. 148s.); Luppe (1963, pp. 217–219); PCG IV pp. 251s.; Farioli (2000, pp. 423s.); Storey (2011, pp. 390s.) Contesto della citazione Il frammento è tràdito nella sua interezza da Σb α 249, da cui sono ricostruiti Ael. Dion. α 15 e Phryn. PS fr. 49; i vv. 3s. si trovano anche in Σb α 153 (glossa extra ordinem) che si presenta uguale a Phot. α 111, dove la glossa coincide con la citazione, senza che Cratino sia nominato117: il testo è citato come esempio dell’ impiego di ἀγανόν con un caso di coppia contigua (cf. Eust. Il. 200.2, e per il caso di coppia contigua Or. Sib. 2.140). Testo Il frammento denuncia una qualche difficoltà metrica, e alcune mende testuali, con un reciproco condizionamento per la corretta definizione dei due piani. Sul piano metrico-ritmico la soluzione più semplice, soprattutto per non alterare eccessivamente il testo, è stabilire con Wilamowitz (1921, 270 n. 1, segnalato da Kassel e Austin) un ritmo asinarteto di anapesti e giambi, simile a Ps.-Aesch. Pr.

117

Si potrebbe ipotizzare che in Fozio le voci α 109–111 derivino in qualche modo tutte da una stessa spiegazione (cf. Suda α 145).

Χείρωνες (fr. 256)

139

545–552 e 553–560 (cf. Gentili-Lomiento 2003, p. 213 n. 17)118, e in qualche modo rintracciabile anche nel frammento seguente. Questa ipotesi era stata suggerita en passant anche da Bergk (1838, p. 234). La Dunbar (1995, p. 647) individua nel v. 4 del presente frammento un parallelo preciso rispetto ad Ar. Av. 1314 (1326) e 1322 (1334) che interpreta come ia ba (p. 646), in una sequenza ritmica che alternerebbe strutture dattiliche acefale e l’ associazione di giambi e bacchei (cf. Parker 1997, p. 339). La distribuzione colometrica adottata qui segue quella proposta da Wilamowitz (1921, p. 270 n. 21), di cui accolgo anche le scelte testuali. A una simile sistemazione colometrica, col v. 2 iniziante da βροτ. ma con un solo verso finale asinarteto dato dalla composizione dei presenti vv. 3 e 4, e soprattutto con altre soluzioni lessicali che inducono una diversa interpretazione metrico-ritmica, era addivenuto Bergk (1838, p. 234), preceduto da Hermann (in una nota segnalata ap. Bachmann), seguito da Meineke in sede di addenda et corrigenda (1857, I p. 21) e da Kock (1880, p. 85). Sul piano della lexis al v. 1 la tradizione ha βροτός, corretto in βίος da Bekker (1814, p. 335.16, e 1821, p. 1106 per alcune annotazioni sul frammento), accolto da Meineke (1839b, p. 146), da Kock (1880, p. 86) e da Kassel e Austin. Fu Bothe (1855, p. 46) a proporre piuttosto βίοτος, ripreso da Headlam (1899, p. 5) e seguito in questo da Wilamowitz (1921, p. 270 n. 1), da Marzullo (1959, p. 148) e da Luppe (1963, p. 217). Marzullo (1959, p. 148) ritiene intruso il tràdito βροτοῖσιν (v. 2), perché anticiperebbe, ripetendolo, il concetto espresso nella relativa: il che è condivisibile, ma l’ espunzione di βροτοῖσιν, privo qui del nu secondo l’indicazione di Hermann ap. Bekker, forse complicherebbe eccessivamente la ratio corruptelae circoscritta al passaggio secondo cui βίοτος (o βίος) è divenuto βροτός119. Sul piano metrico si ricava un andamento che rimanda alla poesia alta, mentre la lexis, pur presentando paralleli aulici, ha riscontri anche di natura prosastica o propri della poesia comica (cf. il commento ai lemmi). Mentre il tràdito βροτός del v. 1 appare chiaramente una corruzione, il plurale βροτῶν del v. 4 dà senso. Secondo Bergk (1838, p. 234), seguito in questo da numerosi studiosi, si tratta di una ripetizione da correggere (cf. apparato), ma nessuna correzione, in realtà, appare necessaria. Interpetazione Il frammento, assieme al successivo, costituisce una sorta di laudatio temporis acti (cf. πρὸ τοῦ … πρὸς τὰ νῦν), nella forma di un makarismos, tema ricorrente in commedia, come evidenziano opportunamente Kassel e Austin col rimando ad Ar. Nu. 1024–1028: ὦ καλλίπυργον σοφίαν / κλεινοτάτην ἐπασκῶν, / ὡς ἡδύ σου τοῖσι λόγοις / σῶφρον ἔπεστιν ἄνθος. / εὐδαίμονες ἄρ᾽ ἦσαν οἱ ζῶντες τότε. Poiché manca il contesto del frammento di Cratino, non si può sapere se questo affresco della felicità d’ antan si riferisse a un’ età precisa o 118 119

Diverso il caso di Soph. Tr. 1008. Si dovrebbe immaginare questo difficile passaggio: βίοτος => βροτός => βροτός βροτοῖσι.

140

Cratino

meno120 e mostrasse poi una detorsio in comicum tale da travolgere l’ atmosfera soave qui evocata (cf. infra ad fr. 257). Kassel e Austin segnalano anche Soph. fr. 278 (εὐδαίμονες οἱ τότε γέννας / ἀφθίτου λαχόντες / θείας), che il testimone presenta, fra le altre cose, come riferito a περὶ τοῦ ἀρχαίου βίου. Per la struttura cf. Ar. Nu. 43 (ἐμοὶ γὰρ ἦν ἄγροικος ἥδιστος βίος). v. 1 〈 – 〉 l’ integrazione proposta da Wilamowitz (1921, p. 270 n. 1), ὡς, è probabile, cf. e. g. Ar. Ach. 254s. (con la proposizione relativa), ma non ha riscontri nella poesia aulica. μακάριος il nesso μακ. β. non appare esattamente in questi termini nella poesia aulica, ma la formulazione di Cratino trova riscontro in Ar. Pl. 555, ed è certamente sovrapponibile a Xen. Cyr. 7.2.28; per una più generale prossimità concettuale cf. Dionys. Trag. fr. 2.2, nonché Aesch. Pers. 710s. (ὡς … ζηλωτός ὤν / βίοτον εὐαίωνα … διήγαγες) cum scholl., dove ζηλωτός è chiosato con μακαριστός. vv. 1s. βίοτος / βροτοῖσι è tràdito βροτός βροτοῖσι, una dittografia emendata da Bekker (1814, p. 335.16) per primo con la lettura βίος al posto del tràdito βροτός. Sul piano stilistico, la caratura di βίοτος è più alta rispetto a quella di βίος e ne è possibile equivalente concettuale (cf. e. g. Il. 4.170, Aesch. Pers. 360). Per la posizione contigua di βίοτος e βροτοῖσι, cf. Aesch. fr. 196.5 e, in particolare, Eur. HF 699 (vv. 696–700): Διὸς ὁ παῖς· τᾶς δ᾽ εὐγενίας / πλέον ὑπερβάλλων 〈ἀρετᾷ〉 / μοχθήσας τὸν ἄκυμον / θῆκεν βίοτον βροτοῖς / πέρσας δείματα θηρῶν. In Telecl. fr. 1.1, si ritrova il passo forse più prossimo, sul piano concettuale, a quello di Cratino (λέξω τοίνυν βίον ἐξ ἀρχῆς ὃν ἐγὼ θνητοῖσι παρεῖχον): vi si intende βίος come «Lebenszustand» (cf. Bagordo 2013, p. 55), un valore che Leo (1901, p. 96) riteneva da rintracciarsi anche nel presente frammento di Cratino: forse, questo significato può esser preso in considerazione per βίοτος, sulla base del citato Eur. HF 699. v. 3 ἀγανόφρονες il rarissimo aggettivo è il nucleo della citazione ed ha chiara ascendenza omerica, cf. in part. Il. 20.467 (nonché Il. 24.772 e Od. 11.203, dove appare il sostantivo). Che però, come vuole il testimone, la prima parte del composto rimandi, con ἀγανόν, a ciò che è καλόν o ἡδύ, appare esito di coppia contigua – favorito dai due successivi composti della citazione. Si consideri che le fonti erudite spiegano sempre il composto attraverso un richiamo alla πραότης (cf. e. g. Hsch. α 317, Phot. α 106, Et. Gud. α 6), e anche come quest’ultimo concetto non sia mai glossato con καλόν, per quanto appaia però come spiegazione e non come glossa, in endiadi con ἡδύ (cf. e. g. Hsch. ε 2619, Et. Gud. ε 474). L’ aggettivo compare in commedia anche in Ar. Av. 1321 e, accettando l’ emendamento di Reisig, in Lys. 1289. ἡδυλόγῳ σοφίᾳ il nesso è molto raro, tanto da comparire solo qui, in Timo Phlias. SH 841.14, segnalato da Luppe (1963, p. 217) e da Kassel e Austin – con 120

La Farioli (2000, pp. 423s.) pensa all’ età di Cimone che vedrebbe evocata come felice età dell’ oro anche nel fr. 258, ma sarei piuttosto cauto in considerazioni di questo tipo. Cf. ad fr. 258.

Χείρωνες (fr. 257)

141

valore negativo – e, sebbene con una variazione retorica (un’ enallage), in un epigramma di Nicarco (AG 7.159.2 Νέστωρ γλώσσης ἡδυλόγου σοφίῃ). L’aggettivo ha ascendenza lirica, cf. Sapph. fr. 73a.4, Pind. O. 6.96, ed è presente in Eur. Hec. 132 (cf. ad fr. 239, e per il verbo cf. Phryn. Com. fr. 3.4s.); per simili composti affini sul piano semantico cf. Neri (2021, p. 696). La caratura dell’ aggettivo pare abbassarsi nel corso del tempo, tanto da divenire elemento per l’ interpretazione di glosse come dimostra Hsch. η 137 (= Phot. η 62, Suda η 109), dal momento che non può trattarsi di un caso di coppia contigua, se la glossa spiega, come unanimemente riconosciuto, Il. 1.248. Il nesso al dativo, come ha visto Luppe (1963, p. 217), si riferisce a (ἄνδρες) ἀγανόφρονες. v. 4 βροτῶν secondo Bergk (1838, p. 234), «offendit tamen etiam nunc repetitio ista verborum». Lo studioso rimandava poi a un possibile e venturo intervento di Meineke («sed haec Meinekius acute et ingeniose, ut solet, emendabit», ibid.). E in molti (cf. supra), ma non Meineke (1839b, p. 146), ritennero opportuno intervenire con correzioni per così dire diagnostiche, in quanto nessuna di esse appare risolutiva. Del resto un emendamento non appare realmente necessario. περισσοκαλλεῖς la correzione di Bekker (1814, p. 335.19), che integrava un lambda, è l’ unica accettabile, anche se produce uno hapax, tuttavia plausibile (cf. e. g. Opp. Hal. 1.312, Nonn. D. 20.266). Da segnalare, Diocl. AG 12.35.1 (ὁ περισσός / κάλλει), nonché Hsch. π 1724 (περικαλλέος· περισσῶς καλοῦ). Considerati i richiami alla lingua e agli stilemi della poesia aulica, si potrebbe sospettare che la neoconiazione di Cratino sia una comica, iperbolica variazione di περικαλλής, similmente a Ps.-Aesch. Pr. 328 (unico nel corpus eschileo), dove περισσόφρων appare variazione dell’ omerico περίφρων (cf. Phot. π 424 = Suda π 1345).

fr. 257 K.–A. (239 K.) ἁπαλὸν δὲ σισύμβριον 〈ἢ〉 ῥόδον ἢ κρίνον παρ’ οὖς ἐθάκει, μετὰ χερσὶ δὲ μῆλον ἕκαστος ἔχων σκίπωνά τ’ ἠγόραζον 1 〈ἢ〉 Meineke (1814, p. 62)

μετὰ Meineke (1839b, p. 142) : παρὰ A

una molle menta acquatica o una rosa o un giglio stava all’ orecchio, ciascuno, una mela e un bastone fra le mani, passeggiava nella piazza Ath. 12.553e καὶ τὸν ἐπὶ Θεμιστοκλέους δὲ βίον Τηλεκλείδης ἐν Πρυτάνεσιν ἁβρὸν ὄντα παραδίδωσι (fr. 25), Κρατῖνός τ’ ἐν Χείρωσι τὴν τρυφὴν ἐμφανίζων τὴν τῶν παλαιτέρων φησίν· ἁπαλὸν — ἠγόραζον e Teleclide nei Prytaneis mostra come la vita ai tempi di Temistocle fosse raffinata (fr. 25), e Cratino nei Cheirōnes nel mostrare il lusso degli antichi dice: una molle — piazza

142

Cratino

Et. Gen. AB σισύμβριον· σισύμβριον (om. B) ἔχων (A : ἔχω B) παρὰ τὸ οὖς menta acquatica: con una menta acquatica all’ orecchio

Metro incerto, forse asinarteto formato da un dimetro anapestico e un dimetro giambico catalettico (cf. Soph. El. 158/178? 2an^ 2ia^). Forse la cesura del v. 1 non va intesa propriamente come tale (cf. Ar. Nu. 273? però anapestico)

kklkklkklkkl|klklkll kklkklkklkkl|klklkll

Bibliografia Meineke (1814, p. 62); Hermann (1816, p. 593); Runkel (1827, pp. 62s.); Hanow (1830, p. 30); Bergk (1838, pp. 234s.); Meineke (1839b, pp. 146s.); Bothe (1855, p. 46); Kock (1880, p. 86); Wilamowitz (1921, p. 270 n. 1; p. 388 n. 1; p. 610); Edmonds (1957, pp. 108–111); Luppe (1963, pp. 218s.); PCG IV p. 252; Farioli (2000, p. 424); Storey (2011, pp. 390s.); Olson-Seaberg (2018, p. 180) Contesto della citazione Il frammento è citato da Ateneo, nel corso di una discussione sulla tryphé. Dopo la menzione di Telecl. fr. 25 (καὶ τὸν ἐπὶ Θεμιστοκλέους δὲ βίον Τηλεκλείδης ἐν Πρυτάνεσιν ἁβρὸν ὄντα παραδίδωσι)121, Ateneo cita il frammento di Cratino, quindi un lungo passo di Clearco (fr. 25). Prima di questo plesso di citazioni, il Naucratita si era soffermato su esempi di tryphé a partire da unguenti e profumi, con una serie di citazioni tratte dalla commedia e inaugurate però da Heracl. Pont. fr. 61 (Ath. 12.553a); dopo svariati passi drammatici, si trovano appunto Teleclide, Cratino e Clearco, dove i passi comici di Teleclide e di Cratino sembrerebbero esser stati menzionati da Clearco stesso, piuttosto che contenuti in Eraclide Pontico. Se la questione va posta in questi termini, si potrà ipotizzare che, ai fini dell’ interpretazione di Cratino, proprio Clearco possa risultare utile, in quanto se l’ erudito ha citato Cratino per argomentare le proprie tesi, un qualche rapporto di contenuto fra il testo di Cratino e le affermazioni di Clearco deve esistere. Certamente, Clearco avrebbe potuto fruire già di un testo frammentario, anche se ciò risulta improbabile, o avrebbe potuto alterarne il contenuto per adeguarlo ai propri fini illustrativi ma ciò non toglie che, in assenza di altri dati, la distanza temporale non eccessiva fra Cratino e Clearco, e la maggior disponibilità di commedie per Clearco, rendono l’ erudito una fonte imprescindibile per il commento a Cratino. Fra i testimoni si potrà annoverare probabilmente anche Et. Gen. AB (s. v. σισύμβριον): già Kock (1880, p. 86) aveva indicato senza dubbio questa opzione ecdotica, superando in tal modo le caute posizioni di Meineke (1869, p. 455), che, nel redigere alcune note al Genuinum dopo l’ edizione di Miller, aveva notato dubitativamente che la glossa etimologica poteva in qualche modo riflettere il frammento cratineo.

121

Cf. Bagordo (2013, pp. 143–145).

Χείρωνες (fr. 257)

143

Testo Il frammento presenta alcune difficoltà di ordine testuale, che si riflettono nella definizione di un assetto metrico-ritmico. Si direbbe che molti interventi sul testo, non registrati da Kassel e Austin ma segnalati da Meineke nelle propria editio maior (1839b, pp. 146s.), si spieghino con la volontà di ricondurre il testo di Cratino a uno schema metrico noto (cf. infra). Ma stando al piano della sintassi e della facies lessicale, si direbbe che la sistemazione testuale migliore sia proprio quella suggerita da Meineke (1814, p. 62 e 1839b, pp. 146s.), accolta anche da Kassel e Austin: si tratta di un ἤ da inserirsi al v. 1, intervento che altera evidentemente il ritmo generale; e di sostituire il tràdito παρά del v. 2 con μετά, intervento che non modifica l’ assetto metrico. Meineke (1839b, p. 146) suggeriva anche di inserire ἕκαστος al v. 2 in quella che individuava come lacuna: una più approfondita lettura del codice A di Ateneo, già nell’ edizione di Kaibel, testimonia che la congettura di Meineke, in realtà, si trova nel codice e quindi va certamente stampata. La sostituzione di παρά del v. 2 con μετά conferisce al frammento un andamento lessicale più usuale (cf. infra). La presenza di παρά potrebbe spiegarsi, se si tratta di errore, come attratto dal παρά che si trova al v. 1. Quanto alla sintassi, si dovrà rilevare che i due versi potrebbero non difettare di nulla: in tal caso, come sospettato con molta cautela da Bergk (1838, p. 235) e come sostenuto convintamente da Meineke (1839b, p. 147), che respingeva qualunque altra ipotesi, i tre fiori sono il soggetto di ἐθάκει. Da questo punto di vista il parallelo offerto da Sophr. fr. 4.4 dovrà dirsi non più che esteriore; si potrebbe invece segnalare Soph. OT 19s. (τὸ δ’ ἄλλο φῦλον ἐξεστεμμένον / ἀγοραῖσι θακεῖ), simile sul piano sintattico e su quello dell’immagine che evoca, ovviamente senza alcun intento di natura non seria. Una sintassi diversa è intesa dall’ altro testimone, l’ Etymologicum Genuinum, secondo la cui parafrasi la struttura sintattica avrebbe σισύμβριον come complemento oggetto: a una tal interpretazione sono addivenuti anche alcuni commentatori moderni senza addurre spiegazioni. Il plurale ἠγόραζον fu stampato al singolare da Meineke (1839b, p. 146), come aveva fatto Hermann (1816, p. 593). Meineke, nel divinare il poi confermato ἕκαστος nel Marciano, segnalava che, se si accoglie ἕκαστος, può tenersi ἠγόραζον: il pronome si trova effettivamente nella tradizione di Ateneo, sicché anche la presenza del plurale può considerarsi accettabile e dunque non sarà necessario intervenire. Dalla definizione del testo deriva anche l’interpretazione metrica, non semplice. Wilamowitz (1921, p. 270 n. 1) accogliendo di fatto il testo di Meineke ipotizzava un ritmo asinarteto di anapesti e giambi. Questa potrebbe esser una sistemazione accettabile, che non costringe ad alterazioni profonde del testo, come volle invece Porson, accolto infine da Wilamowitz (1921, p. 388 n. 1, e definitivamente nei Nachträge und Berichtigungen p. 610), che proponeva in particolare l’ espunzione di ῥόδον (anche Elmsley aveva avanzato questa ipotesi); o di Hermann (1816, p. 593), anch’ egli favorevole all’ inserzione di 〈ἢ〉 nel v. 1, salvo poi modificare il testo in θἀπαλόντε. Bergk (1838, p. 235) avvertiva una mancanza al v. 2, dopo χερσί, e proponeva παρὰ χερσὶ δὲ μῆλον ἔχων λάσιον σκίπωνά τ’ ἠγόραζεν, con un

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Cratino

ritmo confrontabile con quello stabilito infine da Meineke. La struttura asinarteta individuata qui potrebbe trovar riscontro nel fr. 364, anepigrafo, su cui cf. OlsonSeaberg (2018, p. 180). Interpretazione Secondo Bergk, «Cratinus enim beatam illam, sed simplicem (non recte Athenaeus luxuriosam appellat) antiqui temporis vitam laudibus extollit opponitque suae aetati omnibus voluptatibus diffluenti» (1838, p. 234): in sostanza questa sarebbe una vera e propria laudatio temporis acti, interpretazione rilanciata da Meineke (1839b, p. 146) anche sulla scorta di Hdt. 1.195.2, Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin), che non lo cita, e certamente anche da Farioli (2000, p. 424), la quale mette in relazione il frammento a quelli successivi nell’ edizione di Kassel e Austin che rappresentano invece la corruzione del tempo coevo a Cratino, opposti al tempo felice dei valori patrii di Temistocle, evocato in Telecl. fr. 25 menzionato subito prima. L’ ipotesi è condivisibile e certamente sostenuta anche da passi come Thuc. 1.6.3 (cf. anche Ar. Eq. 1331), già menzionato a proposito di Cratino da Hanow (1830, p. 64, cf. anche Bagordo 2013, pp. 143s.). Non ci sono motivi per respingere interpretazioni che rimandino a un passato felice, non perfettamente mitico e anzi in qualche modo riconducibile a un’ età storica: che questa sia da individuarsi, come per Teleclide, nell’ età di Temistocle, pare indimostrabile. Se il frammento di Cratino è stato inserito da Clearco a spunto o dimostrazione di un proprio commento è possibile che qualcosa dell’ esegesi di Clearco derivi, tuttavia, da una non eliminabile interpretazione di Cratino. Le valutazioni di Clearco, pur in un testo per alcuni aspetti accidentato, sono piuttosto chiare: l’ impiego di fiori e di frutti rimanda a elementi di bellezza e sovente d’ amore. Ne fanno testimonianza gli elementi stessi evocati (cf. anche infra), dove le rose e le mele in particolare hanno valenze erotiche, almeno fin da Saffo (per le rose e le mele assieme cf. fr. 2.6; per le rose e. g. frr. 94.13, 96.13; per le mele cf. fr. 105a, e si veda infra nei singoli lemmi), e hanno conosciuto una notevole fortuna in seguito. In particolare, la mela come pegno d’ amore e segno di fecondità (cf. e. g. Theocr. 2.120, 5.88, Luc. Dial. Mer. 12.1, Catull. 65.19), in commedia, come le melegrane, assume talora significato osceno (cf. e. g. Ar. Nu. 978, Lys. 155, fr. 623), anche dove si può intendere il frutto quale regalo d’ amore (cf. Ar. Ve. 1268b con il commento di Biles-Olson 2015, p. 451). La concentrazione di tali elementi topici nel frammento di Cratino doveva avere una relazione coi contenuti segnalati da Clearco, almeno nell’ esegesi che Clearco dava del frammento cratineo, se, come ipotizzato, Cratino arriva ad Ateneo per via di Clearco. Secondo Kaibel ms. ap. Kassel e Austin «non haec vetustae luxuriae (τρυφῆς) imago sed nitidae olim elegantiae», il che può esser accettabile, ma si scontra con l’ esegesi di Clearco, che non possiamo sapere quanto sia distorsiva delle reali e inattingibili intenzioni del commediografo. Si può allora ipotizzare che Cratino abbia tentato la compressione di due significati culturali nell’ unico significante poetico: egli potrebbe aver concentrato elementi che contribuiscono all’ evocazione di un tempo felice tout court e inevitabilmente stilizzato; tuttavia, proprio in

Χείρωνες (fr. 257)

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virtù dell’ accumulo di tali elementi, egli avrà suggerito una tensione erotica che potrebbe esser stata intesa contestualmente anche come una generale irrisione dei tempi passati, irrisione di cui non si possono delimitare contorni e bersagli con precisione. D’ altra parte, l’ erbario erotico risulta ampiamente attestato nella poesia lirica precedente, specialmente in Saffo, per cui si consideri ad esempio fr. 96.11–13 δ’ 〈ἐ〉έρσα κάλα κέχυται τεθά- / λαισι δὲ βρόδα κἄπαλ’ ἄν- / θρυσκα καὶ μελίλωτος ἀνθεμώδης. Nelle Nuvole, nel corso di un violento scambio di battute in antilabe fra i due Discorsi, a fronte delle pesanti offese del Discorso Migliore, l’ avversario reagisce affermando che di fatto quelli del Discorso Migliore sono complimenti (vv. 910s.): ῥόδα μ’ εἴρηκας … κρίνεσι στεφανοῖς, il che non rimanda evidentemente a cedimenti ad atti di seduzione ma senza dubbio indica, in comicum, un complimento; senz’ altro le battute non stanno a richiamare una eleganza antica. Per Cratino, se si accetta tal direzione esegetica, vale a dire di una presenza di più significati nel segno dell’ eleganza ma anche della lascivia d’ antan, meglio si spiega l’ interpretazione di Ateneo (attraverso Clearco?), per alcuni aspetti condannata da Bergk (l. c.). Del resto, in Ar. Pa. 1001, quando nella ritrovata abbondanza a seguito della ristabilita pace (ri)compaiono, fra le altre cose, le mele sull’ agorà, il contesto resta comunque burlesco. Sul linguaggio erotico di Cratino cf. Beta (1992, in part. pp. 98–100) e Bianchi (2017, pp. 176–182). v. 1 ἁπαλόν l’ aggettivo è già dell’ epica, cf. soprattutto Il. 19.92, 19.285 (detto del collo), Od. 13.222 νέῳ … / παναπάλῳ, Hes. Th. 3s. detto della danza delle Muse (καί τε περὶ κρήνην ἰοειδέα πόσσ’ ἁπαλοῖσιν / ὀρχεῦνται καὶ βωμὸν ἐρισθενέος Κρονίωνος), quindi della lirica, cf. Alcm. PMGF 3.68 (3. fr. 3 c. II 68) dove si parla di Astimelusa che viene ritratta come ἢ χρύσιον ἔρνος ἢ ἁπαλὸ[ν ψίλ]ον. Da Saffo almeno, assume un chiaro valore erotico, sia se associato a piante tipicamente collegate a una valenza d’amore (cf. fr. 96.12, l.c.), sia quando esplicitamente riferito alle persone (cf. Sapph. fr. 126 δαύοισ’ ἀπάλας ἐτάρας ἐν στήθεσιν, o Synes. H. 9.6 = Sapph. 250F.6 Neri ἁπαλαῖς οὐκ ἐπὶ νύμφαις). σισύμβριον si tratterebbe della mentha aquatica (cf. Thphr. HP 6.1.1). Lo schol. vet. Ar. Av. 160 considera la pianta come tipica delle ghirlande nuziali (cf. Suda σ 339), probabilmente in modo autoschediastico sulla base del passo degli Uccelli, dove sono menzionati (vv. 159s.) τὰ λευκὰ σήσαμα / καὶ μύρτα καὶ μήκωνα καὶ σισύμβρια. Da notare come i papaveri non sembrino di pertinenza nuziale; ma da notare anche che in Suda σ 339 (cf. supra) si registrano a lemma σήσαμα καὶ μήκωνα καὶ σισύμβρια quali piante per le corone degli sposi e vi si trascurano stranamente i mirti. Per stare alla commedia, la pianticella si trova ad esempio in Cratin. 105.3, 116.3, Pherecr. fr. 2.3 (dubium an Strattidos), Antiph. fr. 105.5, mentre è soprannome di una prostituta in Theophil. Com. fr. 11.2. Il richiamo erotico esplicito in Teofilo può essere un elemento che contribuisce all’ interpretazione del frammento quale proposta sopra. Per Cratin fr. 105.3, gli editori rimandano a Hsch. σ 742, dove si fa appello a Didimo, sicché è verisimile ipotizzare con Schmidt (fr. 10, p. 36) che l’ informazione rimonti allo studio sulla lexis comica approntato dall’ erudito. Quanto a Cratin. fr. 116, basta il testimone, schol. Theocr. 19.11, a

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Cratino

segnalare la valenza erotica, almeno di alcuni elementi. Per il doppio senso osceno di σισύμβριον cf. Henderson (1991, p. 136 n. 138). ῥόδον anche le rose compaiono nel ricco erbario di Cratin. fr. 105.2 immediatamente prima del giglio, come in questo caso. Le rose sono parte dell’ erbario erotico (e afroditico, almeno da Saffo), quale elemento di seduzione, cf. e. g. Sapph. fr. 2.6 (si veda Neri 2021, p. 546 e 548). Per Cratino cf. fr. 116.2, e in generale per le rose con valore erotico Henderson (1991, p. 135 n. 126). κρίνον cf. Thphr. HP 6.6.8, indica il lilium candidum. Anche in questo caso il fiore si trova in Cratin. fr. 105.2, subito dopo le rose. Ci si potrebbe chiedere se anch’ esso possa rientrare nell’ erbario afroditico, per quanto non ve ne sia traccia in Saffo, se non congetturale nel fr. 92.4 (lo proponeva Edmonds 1909). παρ’ οὖς Kassel e Austin seguono Luppe (1963, p. 219) nel rimandare a Sophr. fr. 4.4 πὰρ τὸ ὦας. ἐθάκει il verbo è aulico e non è mancato chi vi ha voluto vedere un soggetto umano, ipotizzando un verbo nella parte naufragata che abbia come complemento oggetto i fiori elencati nel verso. A una tal costruzione sintattica fa riferimento evidentemente anche l’ Etymologicum Genuinum. v. 2 μετὰ χερσὶ … ἔχων come osservato si tratta di un’ espressione già omerica, cf. Il. 23.780, 24.345 = Od. 5.49, Od. 9.346, 24.2. μῆλον per le mele in commedia come elemento di seduzione si veda e. g. Ar. Nu. 997 (μήλῳ βληθεὶς ὑπὸ πορνιδίου), col commento di Dover (1968, p. 220); come elemento esplicitamente sessuale, cf. Cratin. fr. 116.3. La connotazione appare tradizionale, se i rami dei meli ombreggiano il boschetto sacro del rito afroditico di Sapph. fr. 2 (vv. 3–7 ἄγνον ὄπρ[αι ] χάριεν μὲν ἄλσος / μαλί[αν], βῶμοι δ’ ἔνι θυμιάμε- / νοι [λι]βανώτῳ· ἐν δ’ ὔδωρ ψῦχρον κελάδει δι’ ὔσδων μαλίνων, βρόδοισι). Le mele sono simulacro femminile in Sapph. fr. 105a; si veda quindi Ibyc. PMGF 286.1s. (ἦρι μὲν αἵ τε Κυδώνιαι / μηλίδες). L’ immagine ha larga fortuna successiva (cf. supra), anche in connessione al lancio della mela come tentativo di seduzione (cf. Neri 2021, pp. 882s. con numerosi ulteriori esempi). Si veda Henderson (1991, p. 122 n. 58). σκίπωνα la parola (lat. scipio) è ionica e si trova in poesia (Ar. Ve. 727, Eur. Hec. 65). In Aristofane, a portare il bastone sono i vecchi del coro, che secondo Biles-Olson (2015, p. 314) potrebbero esser assimilabili, sul piano visivo, a certe immagini dei vasi italioti, cf. PhV2 #20, 21, 24, 33, 37, 122. ἠγόραζον per il verbo cf. e. g. Ar. Ach. 625 (720, 750, Pl. 984, fr. 2.1, Nicostr. Com. fr. 4.1, Amphis fr. 26.1) dove si indica l’ azione di chi va a fare la spesa. Per quel che si può capire dal frammento, il senso in Cratino sarebbe quello dell’ azione di chi trascorre del tempo nell’ agorà. Il verbo appare anche in Ar. Eq. 1374, e in Lys. 556 o 633, dove tuttavia non può esser inteso col medesimo significato che pare abbia in Cratino, dal momento che nei Cavalieri il verbo restituisce l’ idea dei due personaggi come di bighelloni, mentre nella Lisistrata si direbbe serva a delineare una situazione per certi versi bellica, per quanto ridicolizzata; l’ idea di aggirarsi per l’ agorà nel testo cratineo ha una nuance certamente positiva e

Χείρωνες (fr. 258)

147

comunque pacifica, mentre nei Cavalieri e nella Lisistrata questo aspetto non si può rilevare. Cf. Chadwick (1996, pp. 34–39).

fr. 258 K.–A. (240 K.) Στάσις δὲ καὶ πρεσβυγενὴς Κρόνος ἀλλήλοισι μιγέντε μέγιστον τίκτετον τύραννον, ὃν δὴ κεφαληγερέταν θεοὶ καλέουσι 2 Κρόνος anon. ap. Estienne (1599, p. 98c) : Χρόνος codd. PCG IV p. 253

6 καλέουσι θεοί Austin

Discordia e Crono antenato, unitisi l’ una con l’ altro, generarono un grandissimo tiranno, che gli dèi chiamano adunatore di capi Plut. Per. 3.4 οἱ δ’ Ἀττικοὶ ποιηταὶ σχινοκέφαλον αὐτὸν ἐκάλουν· τὴν γὰρ σκίλλαν ἔστιν ὅτε καὶ σχῖνον ὀνομάζουσιν. τῶν δὲ κωμικῶν ὁ μὲν Κρατῖνος ἐν Χείρωσι (χείροσι codd.) στάσις δέ, φησί, καὶ — καλέουσι I poeti attici lo chiamavano schinocefalo: infatti talora definiscono la cipolla scilla schinos. Fra i comici Cratino nei Cheirōnes “Discordia”, dice, “e — capi”

Metro metro giambico, prosodiaco (o hemiepes femminile), prosodiaco (o hemiepes femminile) itifallico, prosodiaco, reiziano

klkl lkklkkll lkklkkll lklklu llkklkkl klkkll

Bibliografia Grotius (1626, pp. 492s.); Runkel (1827, p. 64); Sintenis (1835, pp. 299–301); Bergk (1838, p. 236); Meineke (1839b, p. 147); Emperius (1847, p. 218); Bothe (1855, p. 47); Kock (1880, p. 86); Edmonds (1957, pp. 110s.); Luppe (1963, pp. 219–221); Schwarze (1971, p. 54); Tammaro (1978/1979, pp. 207–209); PCG IV p. 253; Tammaro (1984/1985, p. 42); Luiselli (1990); Farioli (2000, pp. 421–423); Ead. (2001, pp. 48–50); Noussia (2003), Di Marco (2005); Olson (2007, pp. 207s. E12); Mosconi (2011, pp. 67s.); Rusten (2011, p. 212); Storey (2011, p. 390s.)

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Cratino

Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Plutarco nella biografia di Pericle, per dimostrare come i poeti comici avessero assimilato la testa dello statista a una cipolla (cf. le osservazioni di Mosconi 2011, p. 66 e n. 2). Lo scherzo deriverebbe da una malformazione congenita che avrebbe riportato Pericle, di cui Plutarco (Per. 3.3s.) illustra l’ attenzione artistica ricevuta da scultori, intenti a celare il difetto scolpendo un elmo sul capo di Pericle nei ritratti, e dai commediografi che con mirati calembours enfatizzavano tale deformazione. Il nucleo della citazione, pertanto, sta in κεφαληγερέταν ‒ hapax comico calcato sull’ omerico νεφεληγερέτα ‒ e in null’ altro. Plutarco cita dunque il frammento in questione e il fr. 118 dalla Nemesis; e sempre in merito al capo di Pericle procede menzionando Telecl. fr. 47 (su cui Bagordo 2013, pp. 232–238) ed Eup. fr. 115 (su cui Olson 2017, pp. 416–418 e Telò 2007, pp. 458–462). Di qui sarebbe stata in qualche modo favorita un’ associazione di Pericle con Zeus (cf. Revermann 1997, p. 199). Ma l’ assimilazione Pericle-Zeus sarà avvenuta rispetto alla prospettiva ‘tirannica’ del potere di Pericle. Plutarco, più avanti (13.9), nel ripercorrere la progettazione e la costruzione dell’ Odeion (443 a. C.), cita Cratin. fr. 73 (dalle Thrattai), dove si trova l’ esplicito σχινοκέφαλος e l’ assimilazione di Pericle a Zeus (cf. Bakola 2010, p. 184), cf. Poll. 2.43. Testo Dal punto di vista metrico il frammento presenta metri-ritmi lirici variamente interpretati dai diversi editori, le cui principali soluzioni sono: Στάσις — μέγιστον / τίκτετον τύραννον / ὃν — καλοῦσιν122; Στάσις — μιγέντε / μέγιστον — τύραννον / ὃν — καλοῦσιν123; Στάσις — πρεσβυγενὴς  / Χρόνος  —  μιγέντε / μέγιστον — τύραννον / ὃν — κεφαληγερέταν / θεοὶ καλέουσι124. Proporrei una sequenza riconducibile ai kat’ enoplion epitriti, che mi sembra avere più sicuri riscontri in commedia, dunque ia oppure epitria prosc prosc ithyph prosa reizc. Nella seconda parabasi dei Cavalieri (vv. 1264–1273 = 1290–1299)125 si possono riscontrare forme metrico-ritmiche simili a quella proposta, e altrettanto si può dire per la parodo delle Vespe (vv. 273–280 = 281–290)126, e si veda in particolare la parabasi della Pace (vv. 775–795 = 796–818). Da segnalare che, con la sistemazione avanzata, l’ aprosdoketon del v. 4 coincide col passaggio al ritmo trocaico, per poi riprendere, più solennemente, col ritmo ion cho del v. 5, speculare e inverso rispetto a quello dei vv. 2s. Il frammento non presenta particolari problemi testuali. Tuttavia saranno da segnalare gli interventi avanzati sui vv. 2 e 6, in particolare sul v. 2 perché coinvolge l’ interpretazione complessiva del frammento. Per la necessaria prudenza nell’ utilizzare come inevitabile termine di paragone Aristofane cf. Zimmermann (2000, p. 279).

122 123 124 125 126

Meineke (1839b, p. 147), cf. Bergk (1838, p. 236) Στάσις — τύραννον / ὃν —καλοῦσιν. Kock (1880, p. 86), già di Runkel (1827, p. 64). Kassel-Austin PCG IV p. 253, Parker (1997, p. 31). Cf. Totaro (2000, pp. 35s.). Cf. Bravi (2002), Id. (2017).

Χείρωνες (fr. 258)

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v. 2 il verso è stato investito da una secolare discussione che coinvolge il tràdito Χρόνος, emendato, con alterne fortune, in Κρόνος fin da prima del 1599, allorché tale intervento, però anonimo, si trova in un’ edizione di Plutarco. L’ emendamento fu indipendentemente avanzato da Bergk (1838, p. 236) in quanto l’ assimilazione di Pericle a Zeus imporrebbe («legendum est») la discendenza da Crono. E Κρόνος quale «Anonymi … emendatio» accettava Meineke (1839b, p. 147), per le medesime ragioni di Bergk, assunte poi da Kock (1880, p. 86) e da Edmonds (1957, p. 110), ma non da Kassel e Austin che accolgono il testo tràdito, come già faceva il Grotius (1626, p. 493) che nella propria traduzione rendeva con «Tempus longum» (p. 492), quindi Runkel (1827, p. 64)127, Bothe (1855, p. 47 che riporta la versione del Grotius), e, di recente, Rusten (2010, p. 212). Il testo tràdito è stato difeso da Noussia (2003), in quanto la manifestazione della tirannide richiederebbe qualche tempo, secondo una concezione ben nota agli Ateniesi fin dai componimenti di Solone (frr. 83–85). E Olson ha ritenuto preferibile il testo tràdito, spiegato in questi termini: «perhaps the point is that Pericles had exercised enormous political power for years and seemed likely to go on doing so ‘for ever’» (2007, p. 207). Kassel e Austin hanno inoltre argomentato che l’ età di Crono è tradizionalmente collegata all’ idea di un tempo felice, ciò che mal si addirebbe a questo contesto (rimandano pertanto a Cratin. fr. 176). Difendono il testo tràdito, inoltre, attraverso il richiamo a Pherceyd. Syr. 7 B 1 (Ζὰς μὲν καὶ Χρόνος ἦσαν ἀεὶ καὶ Χθονίη. Χθονίῃ δὲ ὄνομα ἐγένετο Γῆ, ἐπειδὴ αὐτῇ Ζὰς γῆν γέρας διδοῖ), con un passo però di ordine filosofico e a sua volta gravato da una sostanziale incertezza di dettato, oltre che da un’ assenza di riferimenti alla genealogia di Zeus che invece in Cratino è evocata. L’ accettazione di Χρόνος, che conferisce una nota orfica a questa comica teogonia concepita da Cratino, viene sostenuta da Kassel e Austin anche attraverso il richiamo a Pind. O. 2.17, in cui Χρόνος è ὁ πάντων πατήρ, ma si potrà segnalare perlomeno che nel medesimo componimento Radamanti è, stranamente rispetto alla sinossi mitografica più diffusa, figlio di Crono (v. 76). Sempre Kassel e Austin, a difesa di Χρόνος, ribadiscono come il Tempo abbia una propria adeguata collocazione «in theogoniae imitatione», per cui rimandano anche ad Ar. Av. 685–722 per stare alla commedia. Eppure, nel passo aristofaneo Χρόνος non compare, cosa che porta a non escludere l’ influenza, oltre a Esiodo (cf. vv. 693s.), di una teogonia orfica esametrica nella parabasi (cf. Dunbar 1995, p. 428), ma che non appare esattamente rintracciabile in Cratino. Si può notare invece che il testo di Cratino non presenta un esplicito richiamo a Zeus, che però si trova nel nucleo della citazione, κεφαληγερέταν, rifatto sull’ omerico νεφεληγερέτα; e che il testimone, Plutarco, è ben consapevole (dalla sua fonte?) dell’ assimilazione Pericle-Zeus, in quanto è questo uno degli aspetti che egli commenta. Il testo di Cratino non permette un’ accettabile assimilazione di Pericle a Zeus, senza accogliere l’ emendamento Κρόνος, in quanto Crono è il padre di Zeus. Tammaro

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Tuttavia possibilista rispetto a un eventuale Κρόνος.

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Cratino

(1978/1979, p. 208) ha osservato come in commedia (cf. e. g. Ar. Av. 469) il vecchio Crono sia normalmente associato alla «nozione di un passato ormai lontano» e felice, statutariamente. Il che non può esser trascurato, anche perché nel testo di Cratino non appare in nessun punto l’ idea per cui l’ età di Crono preannunciasse già i tratti negativi dell’ età presente. A ciò si aggiunga che, mantenuta l’ identificazione Zeus-Pericle, e sottratta la tradizionale madre di Zeus qui sostituita per l’ occasione con un’ ipostasi, la Discordia, non si capisce come l’ assimilazione fra Zeus e Pericle sarebbe comprensibile al pubblico se fosse travolta anche la linea maschile di parentela, con la sostituzione di Crono col Tempo. Difficile dunque sostenere che il testo di Cratino avesse Χρόνος, poi mantenutosi in Plutarco e specialmente nella sua tradizione; né appare probabile che il testimone del frammento, Plutarco, potesse aver commesso l’ errore fra Χρόνος e Κρόνος: piuttosto, Χρόνος sarà errore d’ archetipo della biografia periclea. v. 6 Gli editori hanno preferito mantenere l’ ordine delle parole offerto dalla tradizione manoscritta, e solo Austin, cautamente, ha suggerito un’ inversione (che determina un ritmo anapestico) non dimostrabile e pertanto opportunamente segnalata solamente in apparato. Inoltre, sarà da accogliere il dettato della tradizione manoscritta, che preserva lo ionico καλέουσι in luogo delle forme contratte e con nu efelcistico proposte invece dai precedenti editori. Interpretazione Il frammento costituisce dunque una sorta di teogonia in comicum (cf. Ar. Av. 685–702). Secondo le valutazioni testuali sopra avanzate, il frammento è un brano lirico corale in cui viene attaccato il potere politico di Pericle assimilato alla tirannide di Zeus. Il frammento si inserisce pertanto in quella polemica antipericlea tipica della commedia di questo periodo. Da segnalare il possibile rapporto con un filone tradizionale noto, si direbbe, solo da Ps.-Aesch. Pr. 199–202128, perché non risulta che altrove appaia il motivo della lotta fra le divinità per il potere, divise in partiti a favore di Zeus o di Crono (cf. infra). Si registrano tentativi di individuare un referente storico per Κρόνος129, ma credo

128 129

Cf. Tammaro (1978/1979, p. 209). In particolare, Di Marco (2005) ipotizza che dietro a Κρόνος si celi Pisistrato, in nome di una propensione tirannica che sarebbe comune a Pericle, e in forza di un’ affinità somatica e di atteggiamenti, anche nell’ oratoria, segnalata da Plut. Per. 7.1; e sempre Plutarco aveva indicato come i componenti della cerchia di Pericle fossero definiti nuovi Pisistratidi (Per. 16.1). Nell’ àmbito di una distorsione comica, Cratino, secondo la proposta di Di Marco, avrebbe dunque sfruttato l’ avversione della pubblicistica ateniese nei confronti di Pisistrato e avrebbe reimpiegato alcune assimilazioni dell’ epoca di Pisistrato all’ età di Crono in ambienti evidentemente nostalgici della tirannia: tali assimilazioni sono testimoniate da Aristot. Ath. 16.7 e dallo stesso Plut. Per. 16.1 (= Com. adesp. fr. 703). Questa proposta di Di Marco potrebbe trovare conforto in un elemento in realtà trascurato che consiste nella presenza di Solone nei Cheirōnes (cf. fr. 246), utile a giustificare un’ allusione a Pisistrato, oltre a segnalare un’ indiretta parentela con Pericle. Su Pisistrato come tiranno per eccellenza nella commedia ateniese, cf.

Χείρωνες (fr. 258)

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che in realtà non vada riscontrato nessun personaggio specifico, per le seguenti motivazioni: 1. risulta nota l’ identificazione fra Zeus e Pericle in commedia, cf. Cratin. frr. 73 e 118, Hermipp. fr. 42, Telecl. fr. 18, Ar. Ach. 530, Com. adesp. 701. Come accennato, lo hapax κεφαληγερέταν costituisce poi l’ aprosdoketon che suggerisce l’ identificazione e, direi, favorisce anche l’ idea che Pericle fosse esclusivamente evocato in questo modo nel contesto immediato del frammento di Cratino, senza esser nominato esplicitamente, sicché risulterebbe difficile per il pubblico, che fruiva oralmente del testo, cogliere, peraltro in modo retroattivo, un altro richiamo a un ulteriore personaggio della politica ateniese; 2. se il fr. *259 appartiene alla medesima commedia e probabilmente allo stesso canto del fr. 258, ci si potrebbe chiedere come mai a Crono-Pisistrato o Crono-Cimone si alluda (cf. supra n. 129) quale padre di Era-Aspasia, cosa invece perfettamente comprensibile se si ammette che nessun personaggio del passato politico ateniese si celi dietro il padre di Zeus ed Era. Per gli attacchi a Pericle cf. in particolare Schwarze (1971, passim), Banfi (2003). v. 1 Στάσις il termine, con connotazione politica, emerge già in Alcae. fr. 208.1, dove è associato ai venti, in un’ allegoria destinata a varia fortuna130. Da segnalare Sol. 4.19 (στάσιν ἔμφυλον), soprattutto per il ruolo del poeta come personaggio di questa commedia di Cratino131. L’ impiego di στάσις in Ps.-Aesch. Pr. 199–202, dove con στάσις (στάσις τ᾽ ἐν ἀλλήλοισιν ὠροθύνετο) si indica appunto l’ inizio del contrasto fra gli dèi e quindi il tentativo di sedizione di alcune divinità contro Crono e di altre contro Zeus, costituisce certamente il parallelo più significativo per il frammento di Cratino, segnalato da Tammaro (1978/1979, p. 209, cf. supra). In generale, il valore precipuamente politico sembrerebbe emergere in modo preponderante a partire dalla metà del V sec. a. C. (cf. in part. Pind. N. 9.13, Eur. Andr. 475, HF 34, 590, fr. 453.10132, Ar. Th. 788, Ra. 359)133, segnatamente in Tucidide. Per il termine nel lessico politico, cf. lo specifico Radici Colace-Sergi (2000).

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Schwarze (1971). A un’ identificazione fra Κρόνος come lezione ristabilita nel testo e un personaggio rilevante della politica ateniese è addivenuta la Farioli, che ha ipotizzato che dietro il mitico padre di Zeus vada intravvista la figura di Cimone: «poiché Cratino era un estimatore di Cimone, egli avrà inteso dire che l’ età dell’ oro di Atene era coincisa col governo cimoniano e che la στάσις che l’ aveva abbattuta corrispondeva all’ ascesa di Efialte e di Pericle» (2000, p. 421), confortata in ciò dal paragone fra l’ età di Cimone e quella di Crono, secondo Plut. Cim. 10.1 e 10.7, ammesso che il paragone non sia plutarcheo anziché della sua fonte. Non indicherà la bonaccia quanto, semmai, il conflitto dei venti. Cf. anche Thgn. 51, quindi Hdt. 8.3 e già Alcae. fr. 70.11 ἐμφύλω ... μάχας. Per un commento al termine στάσις in Solone, cf. Noussia (2010, p. 248). Harder (1985, pp. 109s.) ha suggerito la personificazione del concetto, dunque Στάσιν. In Aesch. Ag. 1117 (su cui Fraenkel 1950, III p. 505), il valore non è pienamente politico: da segnalare che anche nel caso tragico però il concetto è per certi versi personificato.

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Cratino

v. 2 πρεσβυγενής significa qui “antenato”, forse “progenitore” (cf. Di Marco 2006, p. 95): il raro aggettivo in Il. 11.249, quindi in Tyrt. fr. 4.5 e in Eur. Tro. 593, indica «first-born» (LSJ9 1462B), cf. Hsch. π 3248 (unde Σa π 589, Phot. π 1153, Suda π 2253), e non sembrerebbe avere un valore generico di antichità, come si ritiene significhi per il passo di Cratino, sorta di equivalente di παλαιγενής: πρεσβυγενής invece è aggettivo più specifico rispetto a παλαιγενής134, pertanto in Ps.-Aesch. Pr. 220, dove Crono è definito παλαιγενής, sarà da considerarsi generica qualifica, e non epiteto specifico della divinità. Del resto, nel passo in questione, Prometeo sta evocando la guerra intestina degli dèi (cf. supra) dove Crono, per alcune divinità e in generale nelle aspettative del pubblico, è da considerarsi appunto non già πρεσβυγενής ma più genericamente «antico». v. 3 μιγέντε la forma al duale, come osservato da Kassel e Austin, è nel solo Od. 10.334 (v. l. μιγέντες, in Eustazio ad l.), dove al verso successivo appare ἀλλήλοισι, ma non riferito a μιγέντε. Da segnalarsi anche Il. 14.295 e Hes. Th. 927. Per la iunctura μιγ. … ἀλλήλοισι cf. invece Epiph. Haer. 1.280.23. vv. 3s. μέγιστον … τύραννον l’ espressione con il superlativo si trova, prima di Cratino, in Aesch. Ch. 357, e, successivamente, ma sempre nella poesia drammatica, in relazione al concetto di tirannide, in Eur. Ph. 506, precisamente nel corso di quell’ agone in cui Giocasta, per l’ occasione arbitro della contesa tra i figli, sciorina un nuovo pantheon, a smentire l’ altro evocato, però in malam partem, da Eteocle, che appunto richiama la μεγίστην … Τυραννίδα. Quanto all’ idea della generazione del tiranno non da persone, va ribadito lo spunto suggerito da Kassel e Austin attraverso Soph. OT 873 (ὕβρις φυτεύει τύραννον). Per Zeus come tiranno cf. e. g. Ps.-Aesch. Pr. 222 e Ar. Nu. 563, con μέγας e il cui valore non pare connotato negativamente (cf. anche il v. 549 dove l’aggettivo viene impiegato, di nuovo negativamente, per Cleone). vv. 5s. l’ espressione rimanda alla concezione greca – ma non solo (cf. il poema norvegese Alvíssmál, s. 9–34)135 – secondo cui esiste una lingua delle divinità distinta da quella umana, cf. e. g. Il. 1.402–404, 2.813s., 14.290s., 20.74, Od. 10.305, 12.61, Hes. Th. 831 (cf. 197), Ps.-Hes. fr. 296, Pind. frr. 33c.4–6 e 96, Pl. Phdr. 252b, Philox. Leuc. PMG 836e.3s. Il modulo ricorre altrove in Cratino (cf. fr. 352). Per la discussione antica sul linguaggio divino cf. e. g. Pl. Crat. 391d, Clem. Strom. 1.143.1, quanto ai moderni cf. Lobeck (1829, pp. 858s.), Güntert (1921), West (1966, pp. 387s.) e Colvin (1999, pp. 44s.). κεφαληγερέταν l’ epiteto è rifatto sull’ omerico νεφεληγερέτα, detto di Zeus (36x nei poemi omerici). Si tratta di un Witz che certamente aiuta a suggerire l’ assimilazione di Pericle a Zeus, e costituisce il nucleo della citazione, in quanto questo hapax, secondo il testimone, sarebbe stato coniato da Cratino per censurare

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Significativo rispetto a questa distinzione va considerato Strab. 16.4.25, dove la tradizione offre il sostantivo. West (1966, p. 387), con ampia documentazione qui in parte citata.

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la forma oblunga della testa di Pericle. L’ immagine di Pericle come «adunatore di teste» potrebbe fermarsi qui, limitata in definitiva a una distorsione dell’ epiteto omerico, in conformità con lo scherzo mossogli in altri momenti da Cratino, come da altri commediografi (cf. supra); Tammaro (1978/1979 e 1984/1985) ha suggestivamente ipotizzato che l’epiteto possa rinviare anche alla capacità esibita da Pericle di radunare persone attorno a sé, con un tratto demagogico. Cf. anche Tammaro (1990/1993, p. 127), per una convincente esegesi di κεφάλαιον in Eup. fr. 115, a proposito di Pericle, con la compressione di due significati in un significante.

fr. *259 K.–A. (241 K.) Ἥραν τέ οἱ Ἀσπασίαν τίκτει Καταπυγοσύνη παλλακὴν κυνώπιδα v. 1 τέ οἱ Estienne (1599, p. 165d) ex Schott (non vidi), unde Sintenis (1835, p. 32), Emperius (1847, p. 218, iam 1837, censens Sintenis 1835) : θ’ οἱ codd. Ἀσπασίαν del. Cobet (1873b, p. 135) v. 2 Καταπυγοσύνη Emperius (1847, p. 218 ad Sintenis 1835) : καὶ καταπυγοσύνην codd., καὶ del. Sintenis (1835, p. 32)

Sfrontatezza gli genera anche Era-Aspasia, concubina dallo sguardo di cagna Plut. Per. 24.9 ἐν δὲ ταῖς κωμῳδίαις Ὀμφάλη τε νέα καὶ Δηιάνειρα (Com. adesp. fr. 704) καὶ πάλιν Ἥρα προσαγορεύεται (scil. Aspasia). Κρατῖνος δ’ ἄντικρυς παλλακὴν αὐτὴν εἴρηκεν ἐν τούτοις· Ἥραν — κυνώπιδα in commedia viene chiamata (scil. Aspasia) sia nuova Onfale sia Deianira (Com. adesp. fr. 704) e ancora Era. Cratino apertamente la definisce concubina in questi versi: Sfrontatezza — cagna schol. Pl. Menex. 235e Κρατῖνος δὲ † Ὀμφάλῃ τύραννον αὐτὴν καλεῖ χείρων Εὔπολις Φίλοις (fr. 294), ἐν δὲ Προσπαλτίοις Ἑλένην αὐτὴν καλεῖ (fr. 267). ὁ δὲ Κρατῖνος καὶ Ἥραν, ἴσως ὅτι καὶ Περικλῆς Ὀλύμπιος προσηγορεύετο (cf. Ar. Ach. 530) ma Cratino † Omphalēi tiranno la chiama peggiore Eupoli nei Philoi (fr. 294), ma nei Prospaltioi la chiama Elena (fr. 267). E Cratino anche Era, forse perché anche Pericle era chiamato Olimpio Marcellin. ad Hermog. Stat. (Rh. Gr. IV 186.14–18 W.) τὰ ἐσχηματισμένα, ἐν οἷς δεῖ τὸν μεταχειριζόμενον ἄλλο μὲν λέγειν, ἄλλο δὲ διὰ τοῦ ἤθους ἐμφαίνειν· οἷον τοῦ Περικλέους Ὀλυμπίου κληθέντος, εἰσηγεῖται Ἀριστοφάνης Ἥραν τὴν Ἀσπασίαν καλεῖν

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Cratino

le figure in cui bisogna che chi le tratta dica una cosa e ne mostri un’ altra attraverso il carattere: ad esempio, poiché Pericle è chiamato “Olimpio”, Aristofane dà la possibilità di chiamare Aspasia “Era”

Metro prosodiaco, prosodiaco, dimetro trocaico catalettico

llkklkkl llkklkkl lklklku

Bibliografia Meineke (1827, p. 47); Sintenis (1835, p. 32 e 298); Bergk (1838, p. 238); Meineke (1839b, pp. 148s.); Bothe (1855, p. 47); Cobet (1873b, pp. 135s.); Kock (1880, pp. 86s.); Edmonds (1957, pp. 110s.); Luppe (1963, pp. 221s.); Schwarze (1971, p. 59); PCG IV p. 254; Farioli (2000, pp. 419s.); Storey (2011, pp. 390s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato come anepigrafo in Plut. Per. 24.9 per segnalare come Cratino avesse definito senza riserve (ἄντικρυς) Aspasia παλλακή di Pericle, subito dopo aver garantito come i commediografi l’ avessero chiamata una nuova Onfale, una Deianira e anche una Era. La menzione del frammento di Cratino, dove Aspasia viene apostrofata come concubina e come Era, si trova subito dopo l’ indicazione qui sopra riportata con i vari appellativi mitici destinati alla donna. Kassel e Austin, sulla scia dei precedenti editori, pertanto estrapolano la sezione con gli appellativi e la indicano quale Com. adesp. 704, ma vi aggiungono, opportunamente senza spazieggiarla, la parte dedicata a Era, in quanto, sebbene forse ‘trascinata’ nella fonte dal frammento cratineo, sintatticamente essa appartiene alla frase dove si elencano i paragoni mitici in commedia per la donna. Queste informazioni sono per lo più coerenti con quelle contenute in schol. Pl. Menex. 235e (p. 270 C.), dove di Aspasia si segnalano il padre e la patria, i rapporti con Pericle, si ricorda Socrate, secondo la testimonianza di Diodoro (FGrHist 372 F 40); si ricordano quindi Lisicle e Poriste, e le capacità di Aspasia di impartire precetti retorici, secondo Eschine di Sfetto (fr. 23 Ditt. = VI A 66), forse nella sua Aspasia; infine si trova una serie di indicazioni dalla commedia, appena distanti dalle negative indicazioni dell’ Aspasia di Antistene (SSR V A 13)136. Nella costellazione si inserisce anche Harp. 61.13–62.10 (α 249)137. Ricorda come Aspasia si fosse risposata dopo la morte di Pericle di cui sarebbe stata, in un certo modo, maestra di retorica – cf. Call. Com. fr. *21, e, meno probabilmente, Eup. fr. 294, dal medesimo scolio platonico in un punto prossimo a questo e di complessa costituzione138. Lo scolio presenta una situazione testuale corrotta da 136 137 138

Cf. le osservazioni di Tulli (2007, pp. 307s.), sul ruolo di Antistene e della biografia della donna quale fonte per una parte della tradizione, specialmente di Plutarco. Dalla cui epitome discende la Synagoge allargata (Σb α 2252 = Phot. α 2984 = Suda α 4202). Cf. Olson (2016, p. 455).

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alcuni guasti, che coinvolgono il nome del poeta e una parola che potrebbe celare il titolo della commedia. All’ inizio della pericope, si trova il nome di Cratino, quindi l’ indicazione Ὀμφάλῃ τύραννον αὐτὴν καλεῖ χείρων. Da scartare l’ ipotesi che qui ci sia confusione tra il più famoso Cratino e Cratino il Giovane (frr. 4s.), autore di una Omphalē, poiché l’ errore avrebbe una genesi molto articolata e poco economica: sarebbe frutto di una sovrainterpretazione di una fonte, comune a Plutarco e allo scolio, e di un processo di corruzione per il quale, a partire dall’ Omphalē di Cratino il Giovane, qualcuno avrebbe ipotizzato che in realtà ci si riferisca al più noto Cratino e di lì gli si sarebbe attribuita l’ invenzione di associare Aspasia con Onfale, arricchendo magari la notizia con altre identificazioni promosse dai commediografi dell’ archaia. Una simile corruzione della fonte sarebbe poi penetrata come generica notizia in Plutarco, senza l’ indicazione di alcun commediografo specifico. In tal modo, oltre a una spiegazione molto complessa, forse troppo, non si risolve la presenza di χείρων nel testo dello scolio, errato per la sintassi e anche per il senso. Si potrebbe innanzitutto ipotizzare χείρων come corruzione di un’ aggiunta marginale recuperata dall’ antigrafo, intrusa in un punto errato dello scolio e corrispondente a Χείρωσι (come mi suggerisce Alberta Lorenzoni, per litt.). Simili corruzioni si trovano anche nel testimone lessicografico del fr. 266 e nello stesso Plutarco, allorché cita il fr. 258 (cf. supra). A proposito di una possibile ratio corruptelae, e di eventuali soluzioni, è da considerare la proposta di Meineke (1839b, p. 149) Κρατῖνος δὲ Ὀμφάλην αὐτὴν καλεῖ Χείρωσι, τύραννον δὲ Εὔπολις Φίλοις, che riprendeva e rettificava la proposta di Bergk (1838, p. 238) Κρατῖνος δὲ τύραννον αὐτὴν καλεῖ Χείρωσι, Ὀμφάλην Εὔπολις Φίλοις. Meineke, peraltro, ipotizzava che Hsch. τ 1666 τυραννοδαίμονα, glossa riferita a una donna e che ora rappresenta Com. adesp. 433, vada intesa rispetto ad Aspasia e che anzi lo scolio al Menesseno vada corretto esattamente con questa glossa. Suggestivo il tentativo avanzato in sede di apparato da Kassel e Austin di intendere nel testo dello scolio ὀμφαλητύραννον, significativo miglioramento di Κρατῖνος δὲ Ὀμφάλην τύραννον αὐτὴν καλεῖ di Blaydes (1896, p. 10). Da segnalare la proposta di Schwarze (1971, p. 59), che riteneva che χείρων non sia una corruzione del titolo ma l’appellativo con cui Eupoli nei Philoi avrebbe chiamato Aspasia. Questa ipotesi ha il vantaggio di richiedere una correzione semplice ma costringe a mantenere la presenza dell’ Omphalē di Cratino il Giovane, per produrre una situazione testuale in cui, fra i paragoni mitici tutti femminili raccolti anche in Plutarco, si inserisce quello del centauro Chirone, mentre scompare quello a Onfale, che, sebbene in forma corrotta, si trova nello scolio, oltre che in Plutarco. Nel testo plutarcheo, la presenza del frammento di Cratino è dopo la menzione di Onfale, Deianira ed Era quali immagini mitiche di Aspasia, tutte di derivazione comica. Dunque, la soluzione più semplice sarebbe quella della glossa marginale nello scolio, come segnalato sopra da Alberta Lorenzoni, glossa magari abbreviata e penetrata nel testo dello scolio in un punto sbagliato, cioè non dove dovrebbe trovarsi, vale a dire nel passo in cui si dice che Cratino ha definito Era la contemporanea Aspasia, ma più in alto, vicino ad Aspasia paragonata a Onfale

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Cratino

(tiranna?). In alternativa, si può pensare che l’ indicazione del titolo Cheirōnes non sia affatto fuori posto, ma si riferisca esattamente a quando si dice che Cratino ha definito Aspasia un’ Onfale. In tal caso, ai Cheirōnes va ascritto un nuovo frammento (cf. Edmonds 1957, p. 110). Ciò potrebbe spingere a sottrarre ai Cheirōnes l’ indicazione successiva, dove si dice che Cratino ha definito Aspasia come Era. Un’ultima ipotesi: escludendo la possibilità che il richiamo a Onfale-Aspasia sia dai Cheirōnes, non ci sono motivi di escludere la veridicità della parte circostante dello scolio, in cui sarebbe stato proprio Cratino a impiegare Onfale come appellativo di Aspasia139: la facies testuale determina come sia percorribile, in definitiva, l’ ipotesi per cui qui vi sia un nuovo frammento di Cratino, sine ipsissimis verbis. Il presunto, nuovo, frammento di Cratino sarà però da porre in parte fra cruces, considerati i molti e non risolutivi tentativi140 di sanare il testo, intervenuti specialmente nel corso del diciannovesimo secolo. In generale, la struttura dello scolio appare intelligibile, in quanto identifica alcuni paragoni mitici per Aspasia, prima di tutto Onfale, quindi Elena e infine Era: l’ ordine dei paragoni è simile, ma non identico, mancando nello scolio una qualche testimonianza di identificazione mitica fra Deianira e Aspasia – mai altrove attestata, se non in Plutarco: che essa fosse nel punto corrotto dove si dice che Eupoli nei Philoi si occupò di Aspasia, senza però che sia conservato con quale paragone mitico? In tal caso la sequenza sarebbe Aspasia paragonata a Onfale, a Deianira, a Elena, a Era. In Plutarco manca il paragone con Elena, tuttavia autonomamente ricavabile dai compilatori di sussidi alla commedia greca, e comunque presente in Harp. 61.13–62–10 (α 249), appartenente a questa costellazione (cf. Ar. Ach. 526–529; Eup. fr. *101.7)141. In particolare, per ipotizzare una qualche fonte comune, si potrà segnalare che non solo i paragoni mitologici di cui fu malevolmente gratificata Aspasia sono simili, ma che l’ impianto del passo plutarcheo e quello dello scolio sono prossimi. Non a torto Wilamowitz (1893, I pp. 263s.) ipotizzò una biografia ellenistica su Aspasia, quale fonte comune alle diverse compilazioni, allorché Schwartz (1894) immaginò invece una compilazione sulle prostitute142, compilazione che può esser esistita ammettendo più facilmente che essa derivi dalle stesse fonti che Ateneo dichiara di utilizzare per questo tema in 13.566e–567d. Rispetto all’ excursus plutarcheo su Aspasia (oltre a Tragelia e Milto), Tulli (2007, p. 310) ipotizza un interesse allo schema tradizionale della τέχνη ἢ δύναμις che condizionano e spiegano alcune scelte. Alternativamente, ma meno probabilmente, si potrà ipotizzare una biografia periclea, dove una parte era occupata da Aspasia, secondo una prospettiva simile, ad esempio, allo spazio dedicato a Lagisca nella bio139 140 141 142

Un richiamo a Onfale, probabilmente di impianto comico, si trova in Suet. fr. 202 Reiff. Bergk (1838, p. 238), ad esempio, tentò, in seconda istanza, di ipotizzare il nome di Deianira nei Philoi di Eupoli. Nello stesso Dionysalexandros, se Paride era il corrispettivo mitico di Pericle, si poteva intravvedere Aspasia in Elena. Cf. Sauppe (1867) e, in generale, Tulli (2007, pp. 312s.).

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grafia ermippea di Isocrate, alla base delle informazioni di Ateneo, di Arpocrazione e di una biografia tardoantica su Isocrate, dove si ricorda Lagisca143. Per il rapporto fra Plutarco e lo scolio platonico, cf. anche Wilamowitz (1895, pp. 71s. n. 128). Secondo Kassel e Austin si potrebbe considerare un ulteriore e possibile testimone, omisso nomine poetae, Marcellin. in Hermog. Stat. (Rh. Gr. IV 186.14–18 W.), dove tuttavia si parla del solo Aristofane. Qui la notizia, per cui il commediografo col precedente di Pericle Olimpio avrebbe dato l’abbrivio a gratificare Aspasia con l’ appellativo “Era”, potrebbe essere una deduzione di Marcellino o l’ esito compendiario di una più ampia notizia che comprendeva Cratino, simile alla parte riportata qui dello scolio platonico. Che il frammento tràdito da Plutarco derivi dai Cheirōnes fu ipotesi avanzata senz’ altro da Sintenis (1835, p. 298)144 ed è stata sempre accolta dai vari studiosi successivi. Nonostante la proposta non sia una constatazione inequivocabile e indiscutibile – per cui risulta condivisibile la scelta di Kassel e Austin di indicare il frammento con un prudente asterisco – la generale dizione e l’ esegesi metrica pros pros tr^, tuttavia, depongono a favore di una collacazione analoga a quella del fr. 258145. Testo Da segnalarsi lo iato che si determina con la sequenza τέ οἱ già presente nell’ edizione di Plutarco del 1599 (cf. poi Sintenis 1835, p. 32 e la recensione di Emperius 1847, p. 218, pubblicata già nel 1837) e recepita da Meineke fin dall’ edizione maior dei comici del 1839: sembrerebbe una correzione tacita, per sanare l’ ametrico θ’ οἱ della tradizione manoscritta. Casi analoghi di iato sono reperibili nella poesia coeva, cf. Soph. Tr. 650 (cf. infra). Cobet (1873b, pp. 135s.) ritenne glossa intrusa il nome Ἀσπασίαν, non immotivatamente se si considera come nel testo del fr. 258 il nome di Pericle non compaia esplicitamente: ma gli elementi per l’ espunzione non sono definitivi, in quanto Cratino avrebbe potuto giocare sull’ aggettivo ἀσπασία, aggettivo già epico (cf. infra); inoltre, come segnalato supra, il possibile assetto metrico sopra descritto depone a favore della presenza del nome di Aspasia. La correzione Καταπυγοσύνη, rispetto al testo tràdito καὶ καταπυγοσύνην, si deve a Emperius (1847, p. 218) come progresso della proposta di Sintenis (1835, p. 32) di eliminare καί, ma senza indicazioni rispetto all’accusativo. Interpretazione Il frammento è da collegarsi col precedente: che l’ ordine nella commedia fosse prima il 258 e poi questo non risulta inevitabile. Come già osservato, potrebbe trattarsi della parodo o forse di un canto parabatico. La struttura appare molto simile all’ altro frammento: un concetto ipostatizzato (qui la Καταπυγοσύνη) genera a qualcuno – a Crono se il passo va ricondotto al 143 144 145

Cf. Stratt. fr. 3, sulla cui tradizione cf. Menchelli (2003) e Fiorentini (2017, p. 60). Quindi Bergk (1838, pp. 236s.), che non ricorda esplicitamente Sintenis, ma ne riprende le parole (p. 237). Su questo andamento colometrico in commedia cf. Lomiento (2014, p. 134 e n. 4).

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Cratino

precedente – Era-Aspasia che sarebbe una παλλακή, la stessa condizione, forse, dell’ Aspasia storica nei confronti di Pericle. v. 1 Ἥραν l’ assimilazione, come notava Marcellino pur non riferendosi esplicitamente a Cratino ma ad Aristofane almeno nella tradizione pervenuta, deriverà da Pericle a più riprese accostato a Zeus (cf. supra ad fr. 258). Cf. Schwarze (1971, pp. 58s., 165). τέ οἱ per lo iato con dativo etico nella poesia omerica cf. Wackernagel (1916, pp. 108s.), Meister s. v. οἱ, e, per questo frammento, le osservazioni di Nauck (1894, p. 65). Quanto a una situazione simile di iato cf. Soph. Tr. 650 (ἁ δέ οἱ φίλα δάμαρ)146. Ἀσπασίαν la donna (PAA 222330, Davies 1971, pp. 458s., Nails 2002, pp. 58–62) era originaria di Mileto, secondo una consolidata tradizione, su cui cf. almeno Wilamowitz (1893, I pp. 263s. n. 7) e Tulli (2007, p. 305). Le alternative per la patria fornite da altre testimonianze non sembrano attendibili (cf. Davies 1971, p. 458). Invece, appare controverso lo status della donna, se libera o meno – sia prima che dopo la sua unione con Pericle a partire dagli anni Quaranta, quando Pericle divorziò dalla moglie – a partire da numerose e articolate fonti: in Eup. fr. 110.2, ella viene presentata come una prostituta, e forse questo tratto pur non dimostrabile incontrovertibilmente può esser in qualche modo accettabile, vista anche la comica rappresentazione di Ar. Ach. 526–529 (cf. infra rispetto a παλλακή, e si vedano le osservazioni, fra gli altri, di Olson 2002, p. 210). D’ altra parte, l’ idea comica aristofanea, espressa da Diceopoli, per cui la guerra peloponnesiaca si sarebbe iniziata per il furto di due prostitute, in qualche modo rimanda all’ archetipica guerra troiana, già sfruttata e sfruttabile dalla fantasia dei comici, ciò per cui si spiega l’ assimilazione di Pericle a Paride nel Dionysalexandros (test. 1), dunque forse di Aspasia ad Elena, appellativo con cui la apostrofò (due volte almeno?) Eupoli, per cui cf. supra e Olson (2016, p. 363). Il rapporto con Pericle fu letto anche come una (malevola) influenza della donna sullo statista, vista come maestra di retorica (cf. e. g. Call. fr. 21, Aeschin. Socr. fr. 23 = VI 66 A ex Harp. 61.13–62.10 (α 249), e soprattutto Pl. Menex. 235e-236c, dove il discorso di Aspasia rappresenta un contraltare di quello pericleo in Tucidide). Nel passo di Cratino, per il nome di Aspasia, considerato il contesto teogonico e l’ impiego di una dizione formulare (cf. infra), si può forse pensare che il poeta volesse richiamare qui anche l’ aggettivo ἀσπασίη, già omerico. Per Aspasia cf. in particolare Schwarze (1971, pp. 33–36, 57–60, 91–93, 169–172), Henry (1995, pp. 9–56), Tulli (2007), Cataldi (2011). v. 2 Καταπυγοσύνη il significato originario del termine si deduce dall’ elemento etimologico (πυγή), che assume un significato più generale ben presto. 146

Si potrebbe considerare, per la discussione, anche Aesch. Ag. 1147, dove però la dizione corretta sarà quella ormai comunemente accettata, sulla base delle osservazioni di Hermann, περέβαλον γάρ οἱ (περίβαλον γάρ οἱ Hermann), ma si vedano le argomentazioni sullo iato, avanzate da Enger (1855) a sostegno del suo π. γέ οἱ, poi abbandonato a favore della soluzione di Hermann.

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Per elementi lessicali e contestuali che contribuiscono a determinare ipostasi e concettualizzazioni presenti nei composti, cf. Schwyzer GG I pp. 430s. e II 475, quindi Milne-von Bothmer (1953) e Fraenkel (1954, pp. 42s.), che si concentrano su questo composto. Per la forma del sostantivo in -σύνη, cf. lo specifico Wyss (1954). v. 3 παλλακήν era una donna che conviveva al di fuori del matrimonio per un tempo più o meno lungo, sul cui statuto giuridico esiste notevole incertezza. Dem. 23.53 riporta un brano della legge di Dracone sugli omicidi che in qualche modo allinea le παλλακαί alle altre donne libere: ἢ ἐπὶ δάμαρτι ἢ ἐπὶ μητρὶ ἢ ἐπ’ ἀδελφῇ ἢ ἐπὶ θυγατρί, ἢ ἐπὶ παλλακῇ κτλ., cf. tuttavia Lys. 13.10, che riconosce a queste donne uno statuto inferiore rispetto alle parenti strette di un uomo. Secondo Harrison (1968, I p. 13), se la donna era stata un’ etera sarà pur possibile che «it may well be that in the early period when this rule was first framed such women would often be captives of war» e dunque, all’ occorrenza, originariamente dello stesso livello sociale dei propri padroni; ma va anche notato che allo scomparire di quella società aristocratica un simile tipo di παλλακή non si rintraccia nelle fonti salvo, ovviamente, riferimenti al mito147. Quanto all’ assimilazione alle etere delle παλλακαί cf. Men. Sam. 508s. A., dove il termine è riferito a Criside. Vi si viene a sapere che la donna era un’ etera di Samo (cf. v. 21): in preda alla collera, Nicerato afferma παλλακὴν δ’ ἂν αὔριον / πρῶτος ἀνθρώπων ἐπώλουν. La frase non si giustifica sulla base della precedente condizione di etera della donna, quanto piuttosto con la precaria e fragile posizione di una παλλακή non ateniese. Resta il fatto, però, che una simile definizione può avvicinare la figura della concubina a quella della prostituta in quanto questa assimilazione è comprensibile al pubblico. Che Aspasia fosse sul piano giuridico una παλλακή resta un’ opzione controversa (cf. Wallace 1996, pp. 4s.). κυνώπιδα l’ aggettivo è noto fin da Omero, cf. Il. 3.180, Od. 4.145, detto di Elena considerata spudorata. In relazione a Era l’ aggettivo si trova in Il. 18.396, detto da Efesto che deplora il comportamento della madre, senza nominarne il nome. Sul piano interpretativo si può notare, forse con un eccesso di sottigliezza, che il tema dei nothoi, presente in qualche modo nei Cheirōnes (cf. almeno fr. 251), si accompagna spesso al motivo figurativo del ritorno di Efesto: che Aspasia sia Era per l’ olimpio potere di Pericle risulta chiaro; lo sguardo di cagna richiamato a evocare la spudoratezza della donna è la prima e certa motivazione, ma forse l’ associazione fra Era e l’ epiteto, associazione presente solo in Omero e solo nel passo citato, potrebbe suggerire al pubblico più colto il motivo dei figli illegittimi e della piena cittadinanza, su cui anche Pericle intervenne (cf. supra ad fr. 251). Per il cane o la cagna come esempio tradizionale di assenza di pudore, cf. anche Il. 1.225, Od. 11.424, 19.91, Hes. Op. 67, per limitarsi alla poesia più antica. Da non trascurare per pertinenza di genere e per prossimità cronologica Ar. Ve. 1032

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Si veda anche Bushala (1969).

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Cratino

(cf. Pax 785), dove si parla della prostituta Cinna – il cui nome (d’ arte?) richiama la cagna – di cui Aristofane ricorda il saettante sguardo, evidentemente in una dimensione erotica (cf. Pind. fr. 123.2s.). Per la cagna cf. Lilja (1976, pp. 69–90) e Franco (2003, pp. 153–249). fr. 260 K.–A. (242 K.) schol. Ar. Nu. 924h μέμνηται τοῦ Π α ν δ ε λ έ τ ο υ καὶ Κρατῖνος Χείρωσι si ricorda di Pandeleto anche Cratino nei Cheirōnes Suda π 171 Πανδελετείους γνώμας. τουτέστι δυστρόπους. ἐπεὶ Πανδέλετος συκοφάντης ἦν καὶ φιλόδικος καὶ γράφων ψηφίσματα, καὶ ἦν εἷς τῶν περὶ τὰ δικαστήρια διατριβόντων. μέμνηται αὐτοῦ καὶ Κρατῖνος ἐν Χείρωσι sentenze di Pandeleto: cioè malevole. Pandeleto era un sicofante e appassionato di tribunali e compilatore di decreti, ed era uno che passava il tempo nei tribunali. Se ne ricorda Cratino nei Cheirōnes

Metro non deducibile Bibliografia Runkel (1827, pp. 66); Meineke (1839b, pp. 158s.); Bothe (1855, p. 50); Kock (1880, p. 87); Edmonds (1957, pp. 110s.); Dover (1968, p. 212); PCG IV p. 254; Storey (2011, pp. 392s.); Caroli (2012, pp. 101s.) Contesto della citazione Da schol. Ar. Nu. 924h e dal connesso Suda π 171 si ricava che nei Cheirōnes Cratino si sarebbe ricordato di tal Pandeleto, menzionato nelle Nuvole (v. 924 γνώμας τρώγων Πανδελετείους): come noto, la Suda si avvale della scoliografia aristofanea (cf. infra p. 202 n. 207), pertanto, da un punto di vista ecdotico i due testimoni non vanno propriamente distinti. Non sono preservati gli ipsissima verba di Cratino, né dalle fonti si ricava se il commediografo lo abbia menzionato nei termini in cui lo dipingono scholl. Ar. Nu. 924f–g e la Suda π 171 (συκοφάντης ἦν καὶ φιλόδικος καὶ γράφων ψηφίσματα, καὶ ἦν εἷς τῶν περὶ τὰ δικαστήρια διατριβόντων). Tutto questo materiale vorrebbe per Pandeleto una caratterizzazione negativa ma generica, specie per l’ esser sicofante (cf. Pellegrino 2010, in part. pp. 77–79). In assenza di ulteriori dati su chi fosse Pandeleto, non sarà chiaro se la spiegazione dell’ esegesi antica, più che biograficamente fondata, sia invece in qualche modo autoschediastica, tanto da poter considerare Pandeleto, forse, un personaggio divenuto proverbiale (cf. Cratin. fr. 153.2 τἀπὶ Χαριξένης) piuttosto che una dramatis persona, nonché un komodoumenos vero e proprio di questa commedia. Una simile opinione era già di Kaibel ms. ap. K.–A. (cf. anche Pape-Benseler s. v.), che intravvedeva qui anche un gioco (para)etimologico nel nome: «non tam proprium videtur hominis nomen quam ioculare, tamquam mala omnium esca». In Cratino non esiste un contesto utile a capire se si sia qui in

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presenza di un nome parlante, mentre nel passo delle Nuvole si direbbe che ciò vada escluso (cf. K.-B. I 540). Nel commentare la commedia aristofanea, Dover (1968, p. 212) aveva ipotizzato anch’ egli che con questo nome si individuasse un «proverbial character». Secondo Caroli (2012, pp. 101s.), in quanto «già attestato come personaggio dei Chironi, portati in scena tra il 443 e il 431 a. C., Pandeleto doveva essere figura così popolare ad Atene da poter essere richiamato, anche solo di sfuggita, nelle più tarde Nuvole».

fr. 261 K.–A. (244 K.) Phot. o 674 (= Suda o 934) οὐρανία αἴξ· ᾗ οἱ εὐχόμενοι πάντως ἐπετύγχανον … Κρατῖνος Χείρωσι· α ἲ ξ ο ὐ ρ α ν ί α celeste capra: coloro che le rivolgevano una preghiera avevano fortuna completamente […] Cratino nei Cheirōnes: capra celeste Phot. α 660 (= Suda αι 237, Zen. vulg. 1.26 = Prov. Bodl. 28, sim. Prov. cod. Par. suppl. 626) α ἲ ξ ο ὐ ρ α ν ί α· τὰ τοῦ λευκοῦ κυάμου γένη, ᾧ ἐπεψήφιζον καὶ ἐχειροτόνουν (= Hsch. α 2011, τὰ—δὲ. om. Zen. vulg., Prov. Bodl.). ὁ δὲ Κρατῖνος (φησὶ add. Zen. vulg. 1.26). καθάπερ τοῦ Διὸς αἶγα  ̓Αμαλθείαν τροφόν, οὕτως καὶ τῶν δωροδοκούντων αἶγα οὐρανίαν. οἱ δὲ τὰ (τοὺς Zen. vulg.) εἰς τὸ ἀργυρίζεσθαί τισιν ἀφθόνως ἀφορμὴν παρέχοντα (Phot., -ας Zen. vulg., Prov. Bodl., Prov. Par.) οὕτως εἰώθασι λέγειν κωμῳδοῦντες {καὶ καταλαμβάνειν} (secl. Reitzenstein 1907, p. 55), ἐπεὶ καὶ ὁ τῆς Ἀμαλθείας τὸ κέρας ἔχων πᾶν ὃ ἐβούλετο εἶχεν (Zen. vulg., sim. Suda, ἐπεὶ — εἶχεν om. Phot.), seq. alia expl. ap. Suda ex alio fonte (de quo vd. ad comm.) capra celeste: le tipologie di fave bianche, con cui votavano ed eleggevano. Cratino (dice, add. Zen. vulg.). Come la capra Amaltea era nutrice di Zeus, ugualmente anche una capra celeste (nutriva) i corrotti. Altri, scherzando, sono abituati a chiamare in questo modo le situazioni che forniscono in abbondanza una risorsa a certuni per estorcere denaro, dal momento che chi possedeva il corno di Amaltea aveva tutto ciò che desiderava

Metro non deducibile Bibliografia Runkel (1827, pp. 66s.); Bergk (1838, p. 248); Meineke (1839b, p. 160); Bothe (1855, p. 50); Kock (1880, p. 87); Crusius (1885, p. 223 n. 1); Cohn (1887, p. 9); Schwabe (1890, p. 95 n. 1); Drexler (1894, pp. 334–336); Wernicke (1894, cc. 1721–1723); Wilamowitz (1931, I p. 131); Erbse (1948); Edmonds (1957, pp. 110s.); Luppe (1963, p. 223); PCG IV p. 255; Spyridonidou-Skarsouli (1995, pp. 229–235); Farioli (2000, p. 415 n. 4); Storey (2011, pp. 392s.); García Soler (2012, p. 315) Contesto della citazione Il frammento si presenta sine ipsissimis verbis, ma non sono mancati tentativi di restauro e di recupero (cf. infra Testo). Vasta dovrà dirsi la costellazione dei testimoni da suddividersi in due filoni, uno che in qualche modo risale al ricostruito Elio Dionisio (α 43) secondo Erbse, seguito da Theodoridis (cf.

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Cratino

ad o 674), e un altro, che va ricondotto a Pausania atticista (α 48). Nel filone che dipende da Elio Dionisio si colloca il solo Phot. o 674, quindi l’ identico Suda o 934. Questa voce dà l’ informazione che Cratino nei Cheirōnes impiegò αἲξ οὐρανία, senza chiarire con quale significato. A questa testimonianza possono ricondursi parte di Hsch. α 3410 e l’ intero Phot. α 1105 (cf. anche Prov. Bodl. 48). Quanto al secondo gruppo di testi, più ampio e dalla situazione testuale confusa (cf. infra), si compone dei lessici della Synagoge, segnatamente Phot. α 660 (= Hsch. α 2011, che conserva solo la prima parte fino a ἐχειροτόνουν, Suda αι 237, che presenta un’ aggiunta finale da altra tradizione), e di espressioni paremiografiche di fatto sovrapponibili nel dettato ai lessici, ciò che fa ipotizzare una comune fonte, appena differente nella trasposizione, cf. Zen. vulg. 1.26 (= Prov. Bodl. 28): in Fozio manca la parte finale. Alla fonte comune di questo secondo gruppo di testi può esser ascritto anche Zen. vulg. 2.48 ex., come vide Erbse (1948, p. 189): εἴρηται οὖν ἡ παροιμία ἐπὶ τῶν ἀφθόνως τισὶ παρεχομένων τὰς τοῦ πλουτεῖν ἀφορμάς· ἐπεὶ καὶ ὁ τὸ κέρας τῆς Ἀμαλθείας ἔχων, πᾶν ὃ ἐβούλετο ἀφθόνως ἐλάμβανεν. La sezione pare significativa in quanto adombra una fonte comune coi lessici della Synagoge e in modo simile con i paremiografi, che recitano οἱ δὲ τὰ εἰς τὸ ἀργυρίζεσθαί τισιν ἀφθόνως ἀφορμὴν παρέχοντα οὕτως εἰώθασι λέγειν κωμῳδοῦντες {καὶ καταλαμβάνειν}. Si potrà osservare, in aggiunta, che lo stato di conflazione di vari materiali emerge anche (e soprattutto) nella Suda, che conclude con il catasterismo della capra: αἲξ οὖν οὐρανία, ἐπὶ τῶν τυγχανόντων ὅσων βούλονται. τὴν γὰρ αἲγα τὴν Διὸς τροφὸν κατηστερίσθαι φασί. καί φασι τὸν ἐπιφθασάμενον ἐπιτέλλουσαν αὐτὴν ἐπιτυγχάνειν ὅσα ἂν εὔξηται. Quale sia la fonte comune di questo secondo gruppo di testi non è semplice a dirsi. Si può sospettare che il plesso di materiali possa risalire all’ atticista Pausania, secondo quanto emerge da Eust. Il. 917.16 (in sede di commento di Il. 13.21): ἰστέον δὲ ὅτι ἀπὸ τῆς κατὰ τὸν Ὀλύμπιον Δία αἰγὸς καὶ μάλιστα τῆς κατὰ τὴν Ἀμάλθειαν φέρεται καὶ παροιμία τὸ αἲξ οὐρανία ὁμοία τῷ λευκὴ ψῆφος κατὰ Παυσανίαν (α 48). ὡς γὰρ ἡ Ἀμάλθεια, φησί, τροφὸς ἦν τοῦ Διός, οὕτω καὶ ἡ τοιαύτη ψῆφος ἔτρεφε τοὺς δωροδοκοῦντας δικαστάς. ἢ καὶ ἄλλως, ὥσπερ ὁ τὸ τῆς Ἀμαλθείας Αἰγὸς ἔχων κέρας πάντ’ εἶχεν, οὕτω καὶ οἱ κυαμεύοντες, φησί, τὰς ἀρχὰς καὶ τἆλλα ἀργυριζόμενοι. διὸ καὶ αἲξ οὐρανία ἔοικε λέγεσθαι οἱονεὶ θεία καὶ ὑψοῦσα τοὺς δικαστάς, ὅσοι δῶρα ἐλάμβανον. Eustazio non menziona Cratino e però rientra a pieno titolo fra le testimonianze, sul proverbio, in riferimento a questioni di corruzione, ma non rientra fra i testimoni di Cratino. In Eustazio si fa esplicita menzione del fatto che αἲξ οὐρανία fosse un proverbio, e pertanto non costituisce un dato sorprendente che in Phot. α 660 la parola παροιμία sia nel margine di z. Questo non significa una dipendenza diretta di una fonte dall’ altra, ma contribuisce a suffragare l’ ipotesi di Erbse (1948, p. 191) di una derivazione di ampia parte di questa linea di testi da Pausania (cf. infra), come afferma rigorosamente Eustazio. Rispetto a quei testimoni del secondo gruppo di testi (lessici della Synagoge e paremiografi) che menzionano Cratino, credo che la precedenza vada data a Fozio e non a Zenobio, perché questi lessici (e già Hsch. α 2011) hanno informazioni

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nella parte che precede la menzione di Cratino, che mancano invece nella paradosis dei paremiografi. Dal momento che non si può dire che l’ impiego cratineo avesse a che vedere con la corruzione dei giudici, ma solo con l’ esito favorevole di una votazione, sarei incline a preferire la fonte con più informazioni e non c’ è dubbio che essa sia Fozio e non Zenobio, dove, conviene ribadirlo, manca la prima parte. Testo La ricostruzione del contesto della citazione, che si deve a Erbse, ha portato lo studioso a concludere che «Kratinos war lediglich als Belegstellte für αἲξ οὐρανία genannt» (1948, p. 190), seguito da Luppe (1963, p. 223) e da Kassel e Austin, contro i tentativi di Kock (1880, p. 87) e, meno convintamente, di Meineke (1839b, p. 160) e indipendentemente di Leutsch-Schneidewin (1839, p. 8) di estendere la citazione a δωροδοκούντων, per non dire dell’ ipotesi di Schwabe (1890, p. 95 n. 1) che addirittura aveva ricostruito da Zenobio due trimetri anapestici catalettici di Cratino. Erbse segnalava l’ inutilità e l’ impossibilità di verificare «ob in der postulierten Lücke ein ganzer Kratinosvers oder gar ein längeres Bruchstück gestanden hat», e concludeva scetticamente: «erforderlich ist diese Annahme nicht» (1948, p. 190). Se si considerano la Synagoge allargata e Zenobio (vulgatus) in relazione all’altro e minoritario filone (per cui cf. supra Contesto della citazione), si ricava che il solo nesso αἲξ οὐρανία può esser sicuramente di Cratino. L’ elemento essenziale per delineare quanto può esser certamente di Cratino è il testo di Eustazio: la frase che nella linea Synagoge-Zen. vulg. segue immediatamente la menzione di Cratino (καθάπερ τοῦ Διὸς αἶγα  ̓Αμαλθείαν τροφόν, οὕτως καὶ τῶν δωροδοκούντων αἶγα οὐρανίαν), viene ascritta in Eustazio a Pausania atticista e riportata con parole molto simili e comunque volte a esprimere un significato identico (ὡς γὰρ ἡ Ἀμάλθεια, φησί, τροφὸς ἦν τοῦ Διός, οὕτω καὶ ἡ τοιαύτη ψῆφος ἔτρεφε τοὺς δωροδοκοῦντας δικαστάς). Quanto segue questa frase rappresenta una spiegazione lievemente alternativa e sempre concentrata su tentativi illeciti, qui di concussione: anch’ essa ha riscontri nei lessici della Synagoge e nei paremiografi (οἱ δὲ τοὺς εἰς τὸ ἀργυρίζεσθαί τισιν ἀφθόνως ἀφορμὰς παρέχοντας οὕτως εἰώθασι λέγειν κωμῳδοῦντες, ἐπεὶ καὶ ὁ τὸ τῆς Ἀμαλθείας Αἰγὸς ἔχων κέρας πᾶν ὃ ἐβούλετο εἶχεν) come in Eustazio, seppur con ordine inverso (ἢ καὶ ἄλλως, ὥσπερ ὁ τὸ τῆς Ἀμαλθείας Αἰγὸς ἔχων κέρας πάντ’ εἶχεν, οὕτω καὶ οἱ κυαμεύοντες, φησί, τὰς ἀρχὰς καὶ τἆλλα ἀργυριζόμενοι)148. La parte che precede la menzione di Cratino nei lessici della Synagoge, e che nella paradosis delle fonti paremiografiche manca, non ha invece una corrispondenza in Eustazio. Nei lessici si legge che l’espressione αἲξ οὐρανία indica τὰ τοῦ λευκοῦ κυάμου γένη, ᾧ ἐπεψήφιζον καὶ ἐχειροτόνουν. Questa espressione manca in Eustazio che, quando dà inizio alla spiegazione di αἲξ οὐρανία, dice che si tratta della capra di Zeus ἀπὸ τῆς κατὰ τὸν Ὀλύμπιον Δία αἰγὸς καὶ μάλιστα τῆς κατὰ

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Erbse (1948, p. 189) riteneva incomprensibile l’ espressione di Eustazio οὕτω καὶ οἱ κυαμεύοντες, φησί, τὰς ἀρχὰς καὶ τἆλλα ἀργυριζόμενοι, ma mi pare che essa sia volta semplicemente a indicare che esistevano anche tentativi di corruzione e concussione in sede di sorteggio.

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Cratino

τὴν Ἀμάλθειαν φέρεται e poi che si tratta di παροιμία τὸ αἲξ οὐρανία ὁμοία τῷ λευκὴ ψῆφος. Il punto di contatto unico fra Eustazio e la costellazione dei lessici della Synagoge sta nell’indicazione del voto che Eustazio riconduce a un proverbio analogo testimoniato da Diogen. 6.9 (= Macar. 5.57), ἐπὶ τῶν εὐδαιμόνως βιούντων, che indica chi vive in prosperità, a meno che non si consideri il participio equivalente di βίον ἔχειν vel βίον ποιεῖσθαι. Si potrebbe concluderne che nel commentario all’ Iliade la parte ἀπὸ τῆς κατὰ τὸν Ὀλύμπιον Δία αἰγὸς καὶ μάλιστα τῆς κατὰ τὴν Ἀμάλθειαν φέρεται siano parole di Eustazio, mentre il richiamo al proverbio λευκὴ ψῆφος sia effettivamente dovuto a Pausania e che esso si ritrovi nei lessici testimoni di Cratino nell’ espressione τὰ τοῦ λευκοῦ κυάμου γένη, ᾧ ἐπεψήφιζον καὶ ἐχειροτόνουν. La descrizione di Eustazio nel commentario all’Iliade si concentra principalmente sulla questione dei giudici corrotti, trascurando completamente una qualche menzione comica, sicché mi pare si possa ristabilire il testo dei lessici della Synagoge e di Zenobio con una pausa dopo il nome di Cratino e associarlo, come vide Erbse, al solo nesso αἲξ οὐρανία (e alla questione dei voti, assente in Zenobio). Quanto all’espressione αἲξ οὐρανία, in sé, considerata solo sul piano formale, si può notare che essa non presenta particolari difficoltà testuali e non c’ è dubbio che in Cratino l’ ordine fosse sostantivo-aggettivo, non tanto per il fatto che questa è la forma lemmatizzata nel filone più consistente della costellazione, quanto per il fatto che proprio nell’altro, rappresentato da Fozio (Suda ο 934) nella glossa οὐρανία αἴξ, si dice rigorosamente che Cratino ha usato la forma αἲξ οὐρανία. A questo frammento fu accostato da Bergk (1838, p. 248), sulla scia di Boettiger, Com. adesp. fr. 708, conservato da Plut. Mor. 27b–c (εὐδαίμων Πολίαγρος, οὐράνιον αἶγα πλουτοφόρον τρέφων): l’ espressione ha altro significato da quello delineato per Cratino, quindi difficilmente si potrà sospettare che il passo adespoto vada riassegnato al commediografo. Interpretazione Secondo Erbse (1948, p. 190), «Kratinos hatte die αἲξ οὐρανία nur für die weissen Stimmsteine gesagt, ohne die Nebensinn der Bestechnung mit dieser Bezeichnung zu verbinden». Stando ad Eustazio, il proverbio sarebbe omologo di λευκὴ ψῆφος, che nei paremiografi è spiegato come ἐπὶ τῶν εὐδαιμόνως βιούντων (Diogen 6.9 = Macar. 5.57), l. c. Si può segnalare anche Zen vulg. 6.13 (τὰς ἐν τῇ φαρέτρᾳ ψηφῖδας). Considerata la situazione testuale e soprattutto la sistemazione offerta da Eustazio, migliore di quella dei lessici e dei paremiografi, si dovrà accogliere pienamente la cauta considerazione già di Erbse per cui con αἲξ οὐρανία Cratino ha inteso sicuramente le pietre bianche del voto, dunque un esito della votazione che si presume auspicato, cosa che spiega l’evocazione della capra celeste da cui, tradizionalmente, si ottiene quanto si desidera149. Luppe (1963, p. 223) e poi Kassel e Austin hanno accolto questa ipotesi, questi ultimi non escludendo tuttavia l’ idea di Meineke (1839b, p. 160) e poi di Kock (1880, p. 88) 149

Si veda anche la spiegazione più ampia della Suda (αι 237) per cui come fa notare Crusius (1885, p. 223 n.1) «dass derjenige, welcher die aufgehende αἲξ sieth, das Glückskind ist».

Χείρωνες (fr. 261)

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di un qualche coinvolgimento del detto anche in Cratino rispetto alla questione della corruzione. Con molta cautela Meineke (1839b, p. 160) aveva avanzato infatti questa ipotesi («finxerat igitur Cratinus profligatos homines, qui pecunia se corrumpi paterentur et publico furto ditescerent, caelestem capram alere»), accolta con sicurezza da Kock (1880, p. 88) e in LSJ9 40B («as a source of mysterious and suspected wealth»), oltre che recentemente da García Soler (2012, p. 315), che, al pari della Farioli (2000, p. 415 n. 1), inserisce questo detto in una polemica contro la corruzione coeva che avrebbe ingaggiato Cratino nei Cheirōnes. L’ unico dato sicuro, tuttavia, è che Cratino impiegò αἲξ οὐρανία in relazione al voto: nella tradizione nulla prova che il commediografo lo usò per parlare di prassi corruttive. In quello che per Eustazio era il proverbio omologo, λευκὴ ψῆφος, si intende l’ espressione come riferita a coloro che vivono felicemente coi mezzi di sussistenza che hanno; e anche l’ altro proverbio accostato a αἲξ οὐρανία non prova che in Cratino l’espressione αἲξ οὐρανία si usasse per episodi di corruzione, perché di Ἀμαλθείας κέρας si segnala che esso viene applicato a quanti liberalmente forniscono ricchezze a certuni (cf. Hsch. α 3410, ο 1833), non per forza per corrompere. Nelle fonti del frammento di Cratino, sembrerebbe che l’ espressione αἲξ οὐρανία venne usata in modo scherzoso (dai comici? cf. κωμῳδοῦντες) per stigmatizzare casi di corruzione e concussione. Che sia stato Cratino a svolgere questa abusio, dal sapore tipicamente comico, non risulta nella tradizione: che questa opzione vada senz’ altro esclusa per Cratino è un altro discorso, ma si deve riconoscere che neppure l’ espressione κωμῳδοῦντες impiegata nei lessici della Synagoge e nei paremiografi può esser considerata un sicuro richiamo a Cratino, perché vi si potrebbe facilmente scorgere un riferimento ad altri passi, tuttavia non noti150. Che il corno di Amaltea fosse presente in commedia in questioni politiche si evince dal difficile Ar. fr. 707 (su cui cf. Bagordo 2017, pp. 94–96). L’ ipotesi per cui qui Cratino avrebbe fatto cenno a episodi di corruzione, ipotesi formulata da Meineke, per primo (e contemporaneamente da Leutsch-Schneidewin 1839, p. 8), variamente ripresa in seguito, dunque, non ha elementi della tradizione per esser sostenuta, ma non sembra che possa esser scartata del tutto, come hanno opportunamente sottolineato Kassel e Austin (cf. Spyridonidou-Skarsouli 1995, p. 334). Ci si potrebbe chiedere se velate accuse di corruzione e concussione nelle cariche elettive, rapportabili dunque agli episodi di cui questa tradizione si occupa, siano in Ar. Ach. 607–613, dove si parla di quanti riescono a farsi eleggere, oltre alla più esplicita critica al sistema non pienamente democratico (cf. Olson 2002, p. 231). Sempre per stare alla commedia, Alberta Lorenzoni mi segnala Antiph. fr. 131.1–4 (τῶν χερσαίων δ᾽ ὑμῖν ἥξει / παρ᾽ ἐμοῦ ταυτί· / βοῦς ἀγελαῖος, τράγος ὑλιβάτας, / αἲξ οὐρανία κτλ.). 150

A tal proposito va tenuta in considerazione la valutazione di Wilamowitz (1931, I p. 131): «Wir verstehen nun erst ganz die Scherze der Komiker über eine Αἲξ οὐρανία, was die Grammatiker nur halb verstanden, wenn sie sagen ὁ τὸ τῆς Ἀμαλθείας Αἰγὸς ἔχων κέρας πᾶν ὃ ἐβούλετο εἶχεν».

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Cratino

αἲξ οὐρανία come già indicato, l’ espressione implica la votazione ma il riferimento primario è alla capra che avrebbe allattato Zeus. Nell’ esegesi di Eustazio (cf. supra) si chiarisce l’ aggettivo οὐρανία, aggettivo che appare in tutto simile a quello che impiega Arat. Phaen. 163, quando, fra le costellazioni, ricorda la αἲξ ἱερή, nutrice di Zeus (cf. Eratosth. Cat. 27, Hyg. Astr. 2.13): dal dettato si evince che per Arato si tratta di una leggenda (λόγος) cui attribuisce un credito estremamente ridotto. Ed è forse a simili tentativi per certi versi evemeristici che Callimaco reagisce quando dichiara che Amaltea era il nome della capra che aveva allattato Zeus (H. 1.49, cf. Ps.-Epim. fr. 3 Fowler, FGrHist 457 F 17, 468 F 1, VS B 20, dove si legge τῆς αἰγὸς τῆς ὀνομαζομένης Ἀμαλθείας, ma il testo si trova come parafrasi in D. S. Bibl. 5.70): egli opera dunque un’ identificazione tra la ninfa e la capra, che, per quel che sembra, inizialmente non aveva nome151. Da Ps.-Apoll. Bibl. 2.7, che dipende esplicitamente da Ferecide (FGrHist 3 F 42), si apprende che Amaltea, figlia di Emonio, aveva un corno di toro da cui sgorgava ogni ricchezza (τούτο δέ, ὡς Φερεκύδης λέγει, δύναμιν ἔχει τοιαύτην ὥστε βρωτὸν ἢ ποτόν, ὅπερ 〈ἂν〉 εὔξαιτό τις, παρέχειν ἄφθονον)152: verisimilmente, si tratta della ninfa menzionata già in 1.1 dove si parla dell’ allattamento di Zeus infante con il latte di Amaltea. Sulla capra che ha allattato Zeus cf. Wilamowitz (1931, I pp. 130s.). Sul corno di Amaltea cf. già Anacr. PMG 361 (ἐγὼ δ’ οὔτ’ ἂν Ἀμαλθίης / βουλοίμην κέρας οὔτ’ ἔτεα / πεντήκοντά τε κἀκατὸν / Ταρτησσοῦ βασιλεῦσαι) e Phocyl. fr. 3 (χρηίζων πλούτου μελέτην ἔχε πίονος ἀγροῦ· / ἀγρὸν γάρ τε λέγουσιν Ἀμαλθείης κέρας εἶναι). Un’ ulteriore interpretazione dell’ espressione si deve a Drexler (1894), che aveva associato l’ immagine dell’ elemento celeste e le meteore alle pietre per il voto, senza che essa possa però avere un qualche riflesso, almeno allo stato attuale delle conoscenze, nell’ esegesi di questo frammento di Cratino. fr. 262 K.–A. (245 K.) Hdn. GG 2.947.25s. Ξοῦθος τὸ κύριον· Δῶρός τε Ξοῦθός τε (Hes. fr. 9). Βοῦθος Πύθια νικήσας (Meineke 1839b, p. 158 : ἐνίκησα cod.). παροιμία Β ο ῦ θ ο ς π ε ρ ι φ ο ι τ ᾷ , Κρατῖνος Χείρωσι. τάττεται δὲ {καὶ} (secl. Meineke 1839b, p. 158) ἐπὶ τῶν εὐήθων καὶ παχυρίνων. Xouthos nome proprio: sia Dōros sia Xouthos (Hes. fr. 9). Bouthos vinse i giochi pitici. (Esiste) un proverbio “Bouthos vaga qua e là”, (che ha usato) Cratino nei Cheirōnes. Si applica alle persone stupide e dal naso grosso Zen. vulg. 2.66 (Prov. Bodl. 216, Ps.-Plut. 1.33) Βοῦθος περιφοιτᾷ· ταύτης μέμνηται Κρατῖνος ἐν Χείρωσι. τέτακται δὲ ἐπὶ τῶν εὐήθων καὶ παχυφρόνων, ἀπό τινος Πυθιονίκου Βούθου μετενεχθεῖσα. 151 152

Il nome della ninfa era stato ampiamente oggetto di dibattito nei secoli precedenti (cf. Broggiato 2002). Cf. Fowler (2013, pp. 323s.).

Χείρωνες (fr. 262)

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Bouthos vaga qua e là: si ricorda di questo (proverbio) Cratino nei Cheirōnes. È stato applicato alle persone stupide e lente di mente, traslato da tal Bouthos vincitore ai giochi pitici

Metro non deducibile

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Bibliografia Runkel (1827, p. 65); Meineke (1839b, p. 158); Bothe (1855, p. 49s.); Kock (1880, p. 88); Edmonds (1957, pp. 110s.); Luppe (1963, pp. 223s.); PCG IV p. 255; Storey (2011, pp. 392s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Erodiano (GG 2.947.25s.) alle prese con la corretta pronuncia e accentazione dei nomi bisillabici che terminano in -θος: ricorda dunque il nome proprio Ξοῦθος con l’ esempio di Hes. fr. 9, e di Βοῦθος, vincitore ai giochi pitici e menzionato da un proverbio, usato anche da Cratino nei Cheirōnes. La forma del proverbio, l’ impiego cratineo, la derivazione da tal Buto vincitore ai giochi pitici sono informazioni presenti anche in Zen. vulg. 2.66 (quindi Prov. Bodl. 216, Ps.-Plut. 1.33, cf. Macar. 2.81), mentre l’ àmbito di applicazione è appena diverso da quello chiarito da Erodiano (cf. infra). Nella costellazione, ma forse non fra i testimoni, può esser segnalato anche Hsch. β 893 (cf. Suda β 417) che non ha indicazioni relative a Cratino: la glossa risulta tuttavia utile nell’ indicare in Aristotele (fr. 616 R.3) una fonte (καὶ Ἀριστοτέλης) per la vittoria di tal Buto ai giochi pitici, per quanto non sia possibile ricavare la cronologia di tale successo: Βοῦθος περιφοιτᾷ· παροιμία ἐπὶ τῶν εὐήθων καὶ παχυφρόνων ἀπὸ Βούθου τινὸς μετενεχθεῖσα τοῦ Πύθια νικήσαντος, ὃν ἀναγράφει καὶ Ἀριστοτέλης (fr. 616 R.3) νενικηκότα. Considerata la spiegazione fornita dai paremiografi e da Esichio, si potrebbe sospettare che esistesse una fonte comune, da individuarsi forse qui in Diogeniano (da Diogeniano Esichio dichiara di attingere materiali nell’ epistola prefatoria a Eulogio), che avrà conservato probabilmente la menzione di Aristotele e quella di Cratino coi Cheirōnes, tanto che non si può escludere che sia proprio lo Stagirita la prima fonte del frammento di Cratino sine ipsissimis verbis. Testo Sarà da segnalare la spiegazione, in tutto uguale nei varî testimoni, eccezion fatta per il composto che segue εὐήθων153, e che suona παχυρίνων in Erodiano, ma παχυφρόνων negli altri. Gli aggettivi offerti dalla tradizione più propriamente paremiografica, εὐήθων e παχυφρόνων sono un’ endiadi a indicare una persona non intelligente. Diverso il caso – fisiognomico si direbbe – di παχυρίνων. Evidentemente, un termine rappresenta una variante dell’ altro, ma non ci sono elementi decisivi a favore dell’ una o dell’ altra lezione. Verrebbe da chiedersi se la difformità di spiegazione non rifletta anche l’ originaria lexis comica di Cratino,

153

Trascurabile sul piano ecdotico la variante semplificatoria ἀσυνέτων di Suda β 417 e di Ps.-Zon. 397.21s., glossa coinvolta da molteplici errori, probabilmente esito di una conflazione di glosse.

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Cratino

come dire che nel contesto in cui Cratino ha impiegato il proverbio era presente anche qualcosa che l’ erudizione successiva ha colto come ragionevole spiegazione: in tal caso, uno dei due termini fra παχυφρόνων e παχυρίνων (magari al singolare in Cratino?) va fatto risalire a Cratino. Certamente si tratta di due termini quasi unici, e sarà dunque da scartare qualunque ragionamento di lectio difficilior; a favore di παχυφρόνων esiste la possibilità che παχυρίνων ne costituisca una sorta di aplografia. Tuttavia, παχυρίνων potrebbe contare su Aristot. Phgn. 811a 28–30 (οἱ δὲ τὴν ῥῖνα ἄκραν παχεῖαν ἔχοντες ῥάθυμοι· ἀναφέρεται ἐπὶ τοὺς βοῦς), magari con un gioco di parole su Βοῦθος/βοῦς. Come che sia, la situazione testuale non permette di decidere quale delle due sia esatta e se risalente a Cratino. Interpretazione La forma Βοῦθος περιφοιτᾷ (restituita in Erodiano da Meineke 1839b, p. 158, sulla base del confronto con Zen. vulg. 2.66) è stata accostata a Cratin. fr. 56 (ὄνος ὕεται, su cui Bianchi 2016, pp. 333s.) da Kock (1880, p. 88), con sicurezza, e da Kassel e Austin con maggior prudenza. Data la penuria di informazioni, appare preferibile la cautela di Kassel e Austin in tal senso. Da segnalare, che, se esisteva in Cratino un gioco di parole fra Βοῦθος e βοῦς accostata all’ idea del vagare da parte dell’ animale senza una meta precisa, si possono considerare espressioni simili sul piano formale come Hor. Carm. 4.5.17 (tutus bos etenim rura perambulat). Per un gioco fra un animale e un accostamento umano di chi chiacchiera vagando si può considerare Σb α 486 (αἰγιάζειν· ἀντὶ τοῦ περιάγων λαλεῖς seq. Eup. fr. *3). Hsch. β 893 ricorda Aristot. fr. 616 R.3 fonte in qualche modo di tutta la costellazione da cui si apprende la notizia, riflessa in Erodiano, secondo cui Buto fu vincitore ai giochi pitici: Luppe (1963, p. 223) ne traeva la conseguenza che il proverbio si riferisse a questo Βοῦθος, come dicono le fonti, colpevole di un’ eccessiva vanteria in seguito al successo agonale. L’ ipotesi resta altamente speculativa, soprattutto se si considera che la spiegazione si riferisce piuttosto a persone stupide. Βοῦθος Luppe (1963, p. 224) pensa a una Kurzform a partire da nomi come quelli registrati da Bechtel (1917, p. 98 e. g. Βούθοινος, Βουθήρας). περιφοιτᾷ dopo Cratino, il verbo appare in età imperiale, ma si vedano per l’ aggettivo περίφοιτος Parm. VS 28 B 10.4 e Callim. Ep. 28.3, 38.2; il verbo, inoltre, ha attestazioni fin dall’ epica nella forma semplice (Il. 24.533, Od. 11.539), ed esistono numerosi esempi della formazione con altre preposizioni: e. g. Sapph. fr. 96.15 (ζαφοίταιϲ’) o Ar. Av. 557 (δια-), Hdt. 7.15.2 (ἐπι-); oltre a casi di composti di caratura molto elevata come νυκτίφοιτος di Ps.-Aesch. Pr. 675. fr. 263 K.–A. (243 K.) Zen. vulg. 5.9 μ ε τ ὰ Λ έ σ β ι ο ν ᾠ δ ό ν· παροιμία ταττομένη ἐπὶ τοῖς τὰ δεύτερα φερομένοις … μέμνηται τῆς παροιμίας ταύτης Κρατῖνος ἐν Χείρωσι

Χείρωνες (fr. 263)

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Dopo il cantore di Lesbo: proverbio riferito a coloro che riportano il secondo posto […] si ricorda di questo proverbio Cratino nei Cheirōnes Phot. μ 318 (= Suda μ 701 = Apost. 11.27, brev. Diogen. Vind. 6.36) μετὰ Λέσβιον ᾠδόν· παρὰ Κρατίνῳ παροιμία λεγομένη ἐπὶ τῶν τὰ δεύτερα φερομνέων … Dopo il cantore di Lesbo: in Cratino proverbio detto per coloro che riportano il secondo posto […]

Metro incerto, ma se il proverbio appariva esattamente in questa forma può trattarsi di un ritmo anapestico

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Bibliografia Bergk (1838, p. 229); Meineke (1839b, pp. 159s.); LeutschSchneidewin (1839, p. 118) Kock (1880, p. 87); Edmonds (1957, pp. 110s.); Luppe (1963, p. 224); PCG IV p. 256; Gostoli (1990, pp. 122s.); Neri (2003, p. 105); Storey (2011, pp. 392s.); Neri (2021, p. 780) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato principalmente da Zen. vulg. 5.9, che conserva autore e opera da cui proviene il frammento; che si tratti dei Cheirōnes manca in Phot. μ 318 (= Suda μ 701 = Apost. 11.27, da cui si ricostruisce Paus. μ 14), che tuttavia assegna il frammento a Cratino. Nello spiegare il proverbio anche in relazione a Cratino, Zenobio e poi Fozio dicono che il detto era applicato a chi arriva secondo, annotazione che manca nelle restanti testimonianze del proverbio. Gli altri testimoni del proverbio sono privi di qualunque cenno all’ impiego da parte del commediografo, sia quelli paremiografici (Diogen. Vind. 6.36, Ps.-Plut. 2.110), che Esichio (λ 694, μ 1004), sia Eust. Il. 741.16–18, che il materiale erudito ricollegabile a questa costellazione (schol. EQ Od. 3.267, Heraclid. Exc. polit. §11), pertanto essi potranno esser considerati elementi di confronto per il proverbio, ma forse non sarà opportuno considerarli testimoni omisso nomine poetae, a parte Diogeniano (cf. infra). Il plesso di testimonianze va fatto risalire, e forse complessivamente, ad Aristotele. Dello Stagirita resta un frammento (fr. 551 G. ex Eust. Il. 741,16–18 = Terp. test. 60 c G.), da cui si ricava che il proverbio si riferisce a Terpandro, in virtù delle abilità musicali, quindi al genos, che Eustazio riconduce, in generale, ai poeti di Lesbo. Notizie analoghe si trovano in Plut. Mor. 558a (= Terp. test. 60d G.) e in Hsch. μ 1004 (= Terp. test. 60h G.). Sempre da Eustazio si ricostruisce Ael. Dion. λ 7, che individuava non necessariamente in Terpandro il cantore lesbio del detto, ma eventualmente Evenetide o Aristoclide (il maestro di Frinide). Di alcune alternative rispetto al maestro di Antissa dà conto anche la costellazione di Prov. Bodl. 71, Hsch. λ 694 e Phot. λ 206 (si tratta, pur se non riferito all’intera costellazione, di Terp. test. 60e, 60g G.), che richiamano Evenetide o Frinide (Frinico in Fozio, come esito di errore). L’ immagine di Terpandro come pacificatore sociale a Sparta con la vittoria alle Carnee appena istituite (676/673 a. C., cf. Terp. test. 1 G.) ricorre comunque in relazione alle capacità musicali di

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Cratino

Terpandro (schol. EQ Od. 3.267 = Terp. test. 12 G. e Heraclid. Exc. Polit. §11 = Terp. Test. 13 G.) e certamente in relazione al detto μετὰ Λέσβιον ᾠδόν, almeno nella costellazione che ha a che vedere con Cratino. Secondo la Gostoli (1990, p. 79), lo scolio omerico all’ Odissea (= Terp. test. 12 G.) sarebbe obbligato a materiale peripatetico, più precisamente agli studi di Demetrio Falereo, nominato poco sopra (fr. 191). Proprio alla luce della testimonianza aristotelica, appare più probabile che, se la fonte dello scolio omerico è Demetrio, esso in realtà sia da ricondursi più facilmente al magistero e al materiale di Aristotele; e, del resto, si potrebbe ricondurre alla medesima fonte Heracl. Lemb. Exc. polit. § 11 (= Terp. test. 13 G.). Dall’ esame delle testimonianze che attestano il proverbio o che in qualche modo sono riconducibili alla primazia di Terpandro o di un altro cantore lesbio, non si coglie mai l’ applicazione esplicita a chi arriva secondo, come vorrebbero i testimoni di Cratino. Ne consegue che sarà molto probabile che propriamente di Cratino fu questo impiego e che dunque Diogen. Vind. 6.36 che reca la sola spiegazione ἐπὶ τῶν τὰ δεύτερα φερομένων sarà un testimone di Cratino senza l’ indicazione autoriale154. Interpretazione A quanto consta, la prima attestazione di questa forma del proverbio sarebbe dunque in Cratino, una gnome dunque che Meineke (1839b, p. 159) ricollegava a Sapph. fr. 106 (πέρροχος, ὠς ὄτ’ ἄοιδος ὀ Λέσβιος ἀλλοδάποισιν), sulla scia di Bergk (1838, p. 229), il che non è sicuro; sembra più probabile, per spiegare un eventuale e non escludibile rapporto col frammento saffico, quanto suggeriva Schneidewin, secondo il cui parere «potius locus ille Sapphonis similesve alii ansam dederunt fingendo proverbio, postea vulgo trito» (1847, p. 52)155. D’ altra parte, l’ idea di eccellenza e primato dei cantori di Lesbo non sarà solo di Saffo, cf. Pind. N. 3.79156. Bergk ipotizzava che le testimonianze antiche sbagliassero nel riferirsi a Terpandro con l’indicazione Λέσβιος ᾠδός, e avanzava l’esegesi complessiva, sulla scorta di Zen. vulg. 5.9, secondo cui: «immo cum Lesbii primum ceteris Graecis arte canendi praestarent […] Lesbii cantores tamquam principes habiti sunt, itaque vulgo dictum μετὰ Λέσβιον ᾠδόν de eo, qui in quacumque re secundum obtineret locum» (1838, p. 229). Tuttavia, considerata la costellazione, l’ ipotesi che con μετὰ Λέσβιον ᾠδόν ci si riferisca a un generico secondo posto sarà attribuibile all’interpretazione di Cratino e non al proverbio in se stesso, che prima di Cratino avrà forse inteso indicare una prassi agonale per cui veniva chiamato un musicista dopo che si era esibito un cantore di Lesbo. Non si può escludere che, in un processo di reviviscenza metaforica, Cratino se ne servisse a cominciare da un àmbito musicale – la commedia in questione certamente mostrava attenzione ad alcuni tratti musicali (cf. frr. 247, 248 e 254) – travolgendo questa opzione ed estendendola a una generica 154 155 156

Gli editores veteres opportunamente rimandano a Zen. vulg. 5.9. Si vedano le considerazioni di Neri (2021, p. 780). Si veda Neri (2003, p. 195) e ora Id. (2021, p. 780).

Χείρωνες (fr. 264)

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secondarietà di qualcuno. D’ altra parte quand’ anche l’ àmbito autentico dell’ interpretazione fosse quello musicale, non si può conoscere a chi si riferisse Cratino, se a Terpandro, come si potrebbe sospettare dal testimone, o a Frinide, ad esempio, la cui presenza nella tradizione erudita per esplicitare chi sia il cantore di Lesbo del proverbio resta da chiarire, e potrebbe esser spiegata da un riferimento di tipo comico. La gnome, nell’ indicare chi ha qualità che gli assegnano un secondo posto, potrebbe accostarsi a tipi di definizioni analoghe, come quella che vorrebbe che Eratostene di Cirene fosse soprannominato beta, secondo una notizia conservata nella voce biobibliografica di Suda ε 2898 (cf. Pfeiffer 1968, p. 170 n. 3). fr. 264 K.–A. (246 K.) Ath. 9.392f ἡ δὲ ὀρτυγομήτρα καλουμένη, ἧς μνημονεύει Κρατῖνος (Casaubon 1600, p. 424 : Κράτης A) ἐν Χείρωσι λέγων Ἰ θ α κ η σ ί α ὀ ρ τ υ γ ο μ ή τ ρ α. λέγει δὲ περὶ αὐτῆς ὁ Μύνδιος Ἀλέξανδρος (I fr.16) ὅτι ἐστὶ τὸ μέγεθος ἡλίκη τρυγών, σκέλη δὲ μακρά, δυσθαλὴς καὶ δειλή quella chiamata quaglia madre, di cui si ricorda Cratino nei Cheirōnes quando dice l ’ i t a c e s e q u a g l i a m a d r e. Rispetto a essa, Alessandro di Mindo (I fr. 16) dice che ha la grandezza delle tortore, ma con le zampe lunghe, cresce poco ed è paurosa

Metro non deducibile Bibliografia Runkel (1827, p. 62); Meineke (1839b, p. 158); Bothe (1855, p. 49B); Kock (1880, p. 88); Edmonds (1957, pp. 110s.); Luppe (1963, p. 224); PCG IV p. 256; Storey (2011, pp. 392s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Ath. 9.392f, nel quadro di una trattazione su alcuni uccelli e, nel dettaglio, sulle quaglie. Il Marciano offre Κράτης corretto da Casaubon (1600, p. 424) in Κρατῖνος in quanto non si conoscono Cheirōnes di Cratete. Si parla della ortigometra, letteralmente “quaglia madre”157 (Crex crex): l’ erudito attinge le proprie informazioni da Alessandro di Mindo (I fr. 16); e da Alessandro di Mindo potrebbe dipendere Hsch. ο 1340 (cf. Phot. ο 533), attraverso Panfilo, come anche Ateneo (cf. Wellmann 1891, p. 483). Kassel e Austin, sulla scia di Meineke (1839b, p. 158) e diversamente da Bothe (1855, p. 49B) e da Kock (1880, p. 88), non ritengono il testo tout court citato, sicché il nominativo, contro la sintassi, non andrebbe ascritto direttamente a Cratino. Tuttavia, ci sono buone ragioni per sostenere che con λέγων il Naucratita 157

Così, opportunamente, Totaro (ap. Mastromarco-Totaro 2006, p. 210 n. 188), diversamente dalla resa corrente “re delle quaglie” che può esser oggetto di errore interpretativo rispetto al greco. Si vedano anche LSJ9 1257A e GI3 1420C. Chantraine DELG 698B segnala che, pur etimologicamente connesso a μήτηρ, non rappresenta questo un termine legato alla sfera della famiglia.

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Cratino

abbia introdotto una sorta di citazione vera e propria, con poche modifiche (ci sarebbe uno iato): questa modalità di citazione in Ateneo non manca di attestazioni, cf. e. g. 3.75a (Ar. fr. 110), 3.82d (Theocr. 2.120), 4.158d (Sop. fr. 1), 4.160a (Timo Phlias. fr. 3 = SH 777), 7.289b (Ephipp. fr. 17), 9.392e (Eup. fr. 226); inoltre, se si pensa a una parafrasi a tutti gli effetti, si dovrebbe rivedere del tutto l’ assetto del fr. 265 (su cui cf. infra), che Kassel e Austin ascrivono a Cratino come citazione e dove in Polluce si trova egualmente λέγων. In definitiva, credo che l’assetto testuale di Meineke e di Kassel e Austin sia preferibile alla citazione con iato, ma appare necessario segnalare come il testo sia probabilmente vicinissimo al dettato originario. La descrizione dell’ animale fornita da Alessandro di Mindo (τὸ μέγεθος ἡλίκη τρυγών, σκέλη δὲ μακρά, δυσθαλὴς καὶ δειλή) spinse Schweighäuser (1803b, p. 197) a riconoscere nell’ anepigrafo Cratin. fr. 443 (su cui Olson-Seaberg 2018, p. 275) un tassello di questa commedia. Cratin. fr. 443 è testimoniato da Hsch. δ 2578 (δυσθαλής· δυσαυξής. Κρατῖνος) ed effettivamente l’ aggettivo rappresenta uno hapax, poiché si trova soltanto in Ateneo (Alessandro di Mindo) per illustrare le caratteristiche fisiche della ὀρτυγομήτρα subito dopo la citazione del frammento dei Cheirōnes. In Esichio, come si vede, si segnala semplicemente che l’ aggettivo δυσθαλής si trova in Cratino. Con questi dati, quella di Schweighäuser pare una proposta plausibile158: sarà possibile ipotizzare che in Panfilo le notizie tratte da Alessandro di Mindo fossero più diffuse e dettagliate, e che, nell’ illustrare l’ ὀρτυγομήτρα, l’ erudito riportasse testimonianze letterarie, come quella di Cratino, da cui traeva autoschediasticamente elementi descrittivi. Se fosse così, δυσθαλής sarà parte di questo stesso frammento, magari non in posizione contigua a Ἰθακησία ὀρτυγομήτρα. Interpretazione Potrebbe trattarsi di una kenning al pari della possibile interpretazione di Sapph. fr. 42 (cf. Neri 2021, p. 633) – sempre rivolta a volatili – per un personaggio o una situazione non chiaribili, in assenza di contesto. Bothe (1855, p. 49B) e Kock (1880, p. 88) ritennero che Cratino alludesse a Odisseo, in quanto primo degli Achei per intelligenza: per il ruolo dell’ uccello di guida delle quaglie, forse e se proprio si vuol pensare a Odisseo, si può ipotizzare che il gruppo sia quello dei soli Itacesi compagni di viaggio di Odisseo, in quanto l’ ὀρτυγομήτρα sarebbe la guida delle quaglie mentre migrano (Aristot. HA 597b 7 ὅταν δ’ ἐντεῦθεν ἀπαίρωσιν, ἥ τε γλωττὶς συναπαίρει καὶ ἡ ὀρτυγομήτρα καὶ ὁ ὦτος καὶ ὁ κύχραμος). Tuttavia la descrizione che Alessandro di Mindo propone del volatile, se dipende più ampiamente dall’ esegesi alessandrina anche di Cratino, non si addice alla sua identificazione con Odisseo. Inoltre, si potrà notare che il nome del volatile è femminile e percepito in quel genere non solo sul piano grammaticale ma anche semantico per la presenza di -μήτρα come seconda parte del composto. Ci si potrà chiedere se qui sia in atto un aprosdoketon possibile 158

Obbligatoriamente da ritenersi tale, dal momento che, come ricorda Luppe (1963, p. 224), si potrebbe trattare di una coincidenza.

Χείρωνες (fr. 265)

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qualora nel nome dell’ uccello si dovesse percepire l’ isola non già di Itaca ma di Ortigia, dove Latona avrebbe partorito Artemide (cf. H. Hom. 3.16) che dall’ isola trasse un proprio epiteto (Soph. Tr. 213), forse cultuale: un gioco insomma con una logica forse simile a quello di Ar. Av. 870, dove per il nuovo pantheon vengono stabiliti epiteti cultuali ornitologici alle divinità olimpiche. L’ assenza di contesto, ovviamente, non permette di stabilire alcun dato certo sul piano esegetico. Ἰθακησία: l’ aggettivo, unico in commedia, ha ampia ascendenza epica, e non si riferisce necessariamente a Odisseo (cf. Il. 2.184, Od. 2.25), nonostante resti l’ eroe il referente principale (cf. e. g. Od. 2.246). Questa rappresenta la forma attesa dell’ aggettivo, ma si veda anche l’ equivalente e più raro Ἴθακος di Eur. Cycl. 103, di Ar. Ve. 185 (con un chiaro riecheggiamento omerico dell’ intera scena), di Sop. fr. 13, in tutti i casi applicato a Odisseo; e, ancora per Ἴθακος, SEG 15.535 (III–II a. C), detto ancora di Odisseo. ὀρτυγομήτρα attualmente, l’ areale del volatile, Crex crex, non comprende la Grecia, ma una conoscenza di questo uccello in Grecia va considerata come certa per l’ età classica, come dimostrano le trattazioni aristoteliche in primis, ma anche casi come Ar. Av. 870, dove assume un valore scherzoso come epiteto di Latona (cf. Dunbar 1995, p. 511). Si tratterebbe dunque di un uccello che secondo Aristotele guida le quaglie in volo (HA 597b 7 l. c.159, Plin. NH 10.66). In commedia, il sostantivo appare qui e nel menzionato Ar. Av. 870. Le quaglie (Coturnix coturnix) raramente furono un pasto ma più spesso utilizzate nel gioco della ὀρτυγοκοπία e nei combattimenti fra uccelli (cf. Eup. fr. 269 e forse 226, Poll. 9.102s. – testimone di Eup. fr. 269 – e 9.108s., con dettagliata descrizione). fr. 265 K.–A. (247 K.) Χαλυβδικὸν στόμωμα ferro temprato calibdico Poll. 10.186 καὶ στόμωμα μὲν σιδηροῦν ὅστις ἐν τοῖς ἀποθέτοις σκεύεσιν ἀριθμοῖ, Κρατῖνος ἂν αὐτῷ συναινοῖ, λέγων ἐν Χείρωσι· Χ. σ. e il ferro temprato chiunque può annoverarlo fra gli arnesi preziosi, Cratino può confermarlo, quando nei Cheirōnes dice: ferro temprato calibdico Poll. 7.107 στομοῦν … στόμωμα, Κρατῖνος γὰρ ἔφη Χ. σ. affilare […] ferro temprato, Cratino infatti ha detto “ferro temprato calibdico”

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Secondo Aubert-Wimmer (1868, ad l.) e d’ Arcy Thompson (1910, ad l.) κύχραμος sarebbe nome alternativo di ὀρτυγομήτρα.

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Cratino

Metro sequenza giambica o trocaica

klklklk

Bibliografia Runkel (1827, p. 64); Meineke (1839b, p. 158); Kock (1880, p. 88); Edmonds (1957, pp. 110–113); Luppe (1963, pp. 224s.); Drews (1976, p. 26); PCG IV p. 256; Storey (2011, pp. 392s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Polluce, per due volte, in 7.107 e 10.186. Condivisibile la scelta di Kock (1880, p. 88), poi riproposta da Kassel e Austin, di invertire l’ ordine dei testimoni rispetto alla successione che si trova nell’ epitome di Polluce, in quanto le informazioni fornite in 10.186 sono certamente più dettagliate: si tratterebbe di un oggetto di ferro da mettere ἐν ἀποθέτοις, e l’ impiego di Cratino nei Cheirōnes ne sarebbe, stando a Polluce, una testimonianza. Molto prossimo a Polluce dovrà dirsi Steph. Byz. χ 19 (περὶ τὸν Πόντον ἔθνος ἐπὶ τῷ ποταμῷ Θερμώδοντι, περὶ ὧν Εὔδοξος ἐν α ), segnalato da tutti gli editori, e testimone di Eudox. fr. 282 L. (ἐκ δὲ τῆς Χαλύβων χώρας ὁ σίδηρος ὁ περὶ τὰ στομώματα ἐπαινούμενος ἐξάγεται), tuttavia non dirimente nel definire in cosa consistano precisamente gli στομώματα prodotti col ferro dei Calibi. E non si è mancato di segnalare sempre Steph. Byz. χ 19 anche per la forma Χαλυβδικός (λέγεται καὶ μετὰ τοῦ δ Χαλυβδικός τὸ κτητικόν): il passo del lessicografo va considerato il lacerto di un’ annotazione grammaticale, la cui fonte ignota non necessariamente aveva fra i loci il passo di Cratino, in quanto in Stefano Χαλυβδικός è già corredato di un passo letterario, Lyc. Al. 1109, che, a sua volta, avrà reso in tal modo un dotto omaggio alla tradizione drammatica del V sec., cf. Eur. Hcld. 161 (ἄτερ Χαλυβδικοῦ). Alla costellazione può essere ricondotto anche Steph. Byz. λ 19, generalmente sfuggito160 (στομωμάτων τὸ μὲν Χαλυβδικόν, cf. Eust. Il. 453.26 come commento a Il. 2.581, e cf. Eust. D. P. 767), che forse non ha come fonte Eudosso e l’ esegesi che ne discende, o Demaco, qui menzionato per altre questioni da Stefano (FGrHist 65 F 4). Interpretazione Che cosa intendesse esattamente Cratino col nesso non si può definire con sicurezza. Il richiamo ai Calibi delinea coloro che inventarono la tempra del ferro, secondo Callim. fr. 110.48. Significativa dovrà dirsi la serie di passi tragici che si servono dell’ etnonimo in modo antonomastico a indicare il ferro ben temprato: rimandano a un’ arma (cf. Aesch. Th. 728–730), come a uno strumento non necessariamente bellico (cf. Eur. fr. 472.6). Eust. Il. 453.26 ne richiama l’ impiego non tanto ed esclusivamente per armi, quanto più generalmente εἰς τὰ τεκτονικά. Significativo dovrà dirsi Soph. Tr. 1260s. che recita χάλυβος … στόμιον: qui si tratta di Eracle, che chiede un morso di ferro per soffocare ogni grido di dolore nella morte. Al di là della vicinanza fonetica e in qualche modo etimologica tra στόμιον e στόμωμα, lo spunto resta speculativo, in quanto vago e incerto per interpretare il passo di Cratino. Dal frammento e dal suo contesto 160

Non a Blümner (1887, p. 344 n.1), che viene richiamato da Kassel e Austin.

Χείρωνες (fr. 266)

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non si può cogliere se il valore attribuito da Cratino al nesso vada inteso in senso proprio o traslato, alla maniera, ad esempio, dell’aggettivo di Ar. Nu. 1160 (ἀμφήκει γλώττῃ λάμπων), o del verbo di Ar. Nu. 1108, 1110, magari appunto richiamando una valenza etimologica di στόμωμα, come fa Poll. 7.107 occupandosi della sfera etimologica del verbo (cf. supra). Χαλυβδικόν l’ impiego di Χαλυβδικός è raro, e, per l’ età classica ed ellenistica, confinato ai casi già segnalati, mentre non mette conto segnalare casi di tradizione erudita che attestano la forma, in quanto sono per lo più testimoni dei passi letterari. Più diffuse sono le forme Χάλυψ e Χάλυβος, che si trovano, sempre de ferro, e. g. in Aesch. Th. 728–730 (Χάλυβος … ὠμόφρων σίδαρος), Ps.-Aesch. Pr. 133 e soprattutto 714s. (σιδαροτέκτονες … Χάλυβες), Eur. Alc. 980 (ἐν Χαλύβοις … σίδαρον), fr. 472.6 (Χαλύβῳ πελέκει), Soph. Tr. 1260s. (l. c.). Cratino non sembra discostarsi da questa tradizione, o, almeno, non si ricava una simile interpretazione dal testimone e neppure dal frammento. Quanto alla localizzazione dei Calibi cf. Steph. Byz. χ 19, che li colloca sul Mar Nero, sulla scia di una tradizione non del tutto univoca, ma certamente non contraddittoria, che ha un passaggio significativo in Xen. An. 4.7 e poi 5.5,1, cf. quindi Strab. 12.3.19, che, dopo aver dichiarato che οἱ δὲ νῦν Χαλδαῖοι Χάλυβες τὸ παλαιὸν ὠνομάζοντο, segnala anche come οὐ γὰρ νῦν μὲν δυνατὸν γέγονεν ἐκ Χαλύβων Χαλδαίους λεχθῆναι, πρότερον δ’ οὐκ ἐνῆν ἀντὶ Ἀλύβων Χάλυβας (12.3.20). Si vedano pertanto anche Hsch. χ 119 (quindi Σa χ 13) che dipende dall’ esegesi di Ap. Rh. 1.1323, e Hsch. χ 120, dove la regione di provenienza dei Calibi è esplicitamente individuata in Scizia. Per la localizzazione dei Calibi cf. anche Drews (1976, pp. 71–73). στόμωμα la parola appare parzialmente generica, ma, secondo l’ interpretazione e l’ impiego in età antica (cf., oltre a Polluce, Phot. σ 586, che forse dipende da Lex. Rhet. 302.19), il termine sembrerebbe aver assunto il senso di ferro ben temprato (cf. Aristot. Met. 383a 33, Plin. NH 34.108). Questo significato vale anche nel caso di Cratino, specialmente in relazione a quanto segnala l’ aggettivo (cf. Blümner 1886, 344 n. 1); che poi il nesso potesse indicare qualcosa che va ἐν τοῖς ἀποθέτοις σκεύεσιν in quanto raro (vd. Luppe 1963, pp. 224s., sulla base di Poll. 10.186) non si può escludere.

fr. 266 K.–A. (248 K.) Hsch. α 8483 (cf. Phot. α 3260) α ὐ τ ό φ ο ρ τ ο ι· αὐτοδιάκονοι. κυρίως δὲ οἱ ἐν τοῖς ἰδίοις πλοίοις. Σοφοκλῆς Θυέστῃ Σικυωνίῳ (fr. 251). ὁ δὲ Κρατῖνος ἐν Χείρωσι (Meineke 1829, p. 47 : χειρῶσι cod., Χείρωvι Mus.) τοὺς τὰ κοινὰ φορτιζομένους ἔφη (φορτ. 〈κοινοφόρτους〉 suppl. Kock 1880, p. 88) autophortoi: che si portano i bagagli da soli. Propriamente i (carichi) nelle proprie imbarcazioni. Sofocle nel Tieste sicionio (fr. 251). Cratino nei Cheirōnes invece definisce coloro che si caricano per sé le cose comuni

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Cratino

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1829, p. 47); Id. (1839b, p. 160); Kock (1880, p. 88); Edmonds (1957, pp. 112s.); Luppe (1963, p. 225); PCG IV p. 257; Jouanna (1998, p. 69); García Soler (2012, p. 315) Contesto della citazione Il frammento, sine ipsissimis verbis, è testimoniato da Hsch. α 8483: alla costellazione di Esichio va ricondotto Phot. α 3260, che ne discende e non tramanda il titolo, ma solo l’ autore. La forma del nominativo plurale maschile αὐτόφορτοι può essere dunque esito di lemmatizzazione. La glossa ha forma sinonimico-differenziatrice, sicché si può dubitare che il termine significhi necessariamente la stessa cosa tanto in Sofocle quanto in Cratino, come sembrerebbe intendere LSJ 9 Suppl. 61B («transporting one’ s own baggage or cargo») per i due drammaturghi. Anzi, in Esichio sembra piuttosto chiara la differenza di impiego del composto in Sofocle rispetto a Cratino, per cui si sottolinea, per opposizione (δέ), come l’ impiego del commediografo sarebbe stato quello di coloro che trasportano beni o cose di una collettività. Kock, nel condividere di fatto l’ interpretazione di Meineke (per cui cf. infra), aveva tuttavia ipotizzato un errore nel testo di Esichio, e sospettava che αὐτόφορτοι fosse la forma su cui Cratino avrebbe modellato lo hapax κοινόφορτοι. Interpretazione Meineke (1839b, p. 160)161 riconduce ipoteticamente il significato del termine presso il commediografo a quanti «publica civitatis bona diripiunt et in suos ipsorum usus convertunt»162, sulla base, si direbbe, dell’ interpretamentum di Esichio, che avrà avuto una propria fonte, meglio aggiornata – Panfilo, presumibilmente – giacché nessun altro passo che impiega il composto può accostarsi a questa spiegazione163. Il termine è raro, e, oltre alle due menzioni offerte da Esichio, sembrerebbe ricorrere in questi luoghi: Aesch. Ch. 675 (sing.), Plut.

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162

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Lo studioso segnalava anche come in un proprio precedente intervento (1829, p. 47) avesse sottratto il lemma a Cratino il Giovane (si veda Runkel 1827, p. 108) ristabilendo Χείρωσι nel testimone principale (Hsch. α 8483) – e per lui unico in quanto la glossa di Fozio si trova nello Zavordensis: in realtà, una verifica autoptica del manoscritto rileva che χειρῶσι si trova già nel codice esichiano, come ristabilito correttamente in apparato da Cunningham (2018, p. 387); fu il Musuro a proporre un singolare Χείρωvι, destinato ad annoverare la glossa fra quelle di Cratino il Giovane, autore di un Χείρων. Si veda anche García Soler (2012, p. 315): «il poeta non perde l’ occasione di sottoporre a pubblica derisione gli individui che nei Chironi (fr. 266 K.–A.) sono definiti αὐτόφορτοι, gente di pochi scrupoli che, utilizzando i fondi pubblici a proprio beneficio, faceva del tesoro della città una sorta di capra Amaltea, dal cui corno si ottenevano ricchezze inesauribili. Questa malversazione provocò ad Atene l’emergere di un’ enorme quantità di νεόπλουτοι, tutti quanti πονηροί secondo Cratino che costruisce il suo hapax νεοπλουτοπόνηροι (fr. 223 K.–A., dei Serifi), con il quale presenta i nuovi ricchi, di moralità per niente chiara, come gente spregevole». Cf. anche Luppe (1963, p. 225).

Χείρωνες (fr. 267)

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Aem. 9.3 (pl.) e Mor. 467d 2 (sing.), Zon. Hist. 357.17 (sing.), Const. Man. Chron. 4887 (sing.). In Eschilo l’impiego non è chiaro, in quanto gli studiosi sono incerti a proposito di αὐτ-, fra un valore pienamente riflessivo (“col peso del proprio carico”) – come promosso ad esempio da Garvie (1988, p. 229), e come appare più probabile per le numerose voci in tal senso costruite (cf. e. g. Hsch. α 8355, 8364, 8370, 8404, 8408, 8433, 8435, 8462) – o comitativo (“assieme al carico”) – come suggerito da Jouanna (1998, pp. 71s.)164, il quale aveva in qualche modo accostato l’ aggettivo αὐτόφορτος ad αὔτανδρος in particolare (si vedano ad esempio la relativa voce di Hsch. α 8363 e Callim. fr. 7.33). In Plutarco il senso comitativo risulta pienamente accettabile, ma in generale non mi pare che i due significati si escludano a vicenda. Ovviamente, in assenza di contesto non è ragionevole pensare di stabilire una volta per tutte il valore che l’ aggettivo può aver avuto in Sofocle o in Cratino. Tuttavia, per Sofocle si potrà aderire più facilmente all’ idea del riflessivo e, comunque, a quell’ impiego riferito alle imbarcazioni che si registra rigorosamente in Plutarco. Da segnalare che per il senso di αὐτοὶ τὸν φόρτον φέροντες, certamente più atteso, si potranno vedere almeno Crobyl. fr. 1.1 (su cui anche Hsch. α 8462, menzionato sopra) e Com. adesp. fr. *269 (ex Hsch. α 8408, menzionato sopra). Quanto a Cratino, infine, si potrà postulare un impiego idiomatico, sulla base della spiegazione che Esichio offre. fr. 267 K.–A. (249 K.) Poll. 7.211 β ι β λ ι α γ ρ ά φ ο ν δὲ (εὑρήσεις) παρὰ Κρατίνῳ ἐν Χείρωσιν. βιβλιογράφος παρὰ Ἀντιφάνει ἐν Σαπφοῖ (fr. 195). παρὰ δὲ τῷ νεωτέρῳ Κρατίνῳ ἐν Ὑποβολιμαίῳ (FS, Ἀπεμπολημένῃ A) βιβλιοθήκη (fr. 11) (troverai) bibliagraphos in Cratino, nei Cheirōnes. Bibliographos invece in Antifane nella Sapphō (fr. 195). In Cratino il Giovane, invece, bibliotheke nell’ Hypobolimaios (fr. 11)

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, p. 159); Kock (1880, p. 88); Edmonds (1957, pp. 112s.); Luppe (1963, p. 225); PCG IV p. 257; Caroli (2012); Mastellari (2020, p. 132); Olson (2021, pp. 22s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato dal ms. A che tramanda Poll. 7.211 (il passo si trova al termine del libro), e con numerose mende dai mss. FS, in una discussione dedicata ai composti e derivati di βίβλος corredati da citazioni, né solo comiche: Ar. fr. 795, Pl. Com. fr. 218, Hdt. 1.125.2, Aristomen. fr. 9 precedono la menzione di Cratino, mentre Antiph. fr. 195, Cratin. Iun. fr. 164

Sul significato preciso dell’ aggettivo si interrogava già Kock (1880, p. 88).

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Cratino

11, Antiph. fr. 160, Hdt. 5.58.3 la seguono. Polluce, col richiamo a Cratino e ad Antiph. fr. 195, non prende posizione, secondo un atteggiamento più descrittivo che prescrittivo, in quella che sembra essere una più vasta discussione di ordine atticista sulla corretta ortografia della parola. La costellazione lessicografica (su cui cf. infra), se si eccettua Polluce, non presenta mai richiami a poeti del V e IV sec., e in nessun caso è menzionato qualche erudito antico per smentire o confermare una di queste prescrizioni. Tuttavia, si direbbe che la disputa grammaticale abbia il proprio fulcro attorno alla dottrina atticista, segnatamente attorno a Phryn. Ecl. 59 e PS 52.13, che nella costellazione lessicografica sembrerebbe il solo a sostenere βιβλιαγράφος a scapito di βιβλιογράφος come esclusiva forma attica. Alla lettura delle varie testimonianze, si capisce dunque che la prescrizione ortografica ricavabile da Frinico nella dottrina antica non è prevalente (cf. infra), o non lo è con sicurezza, dal momento che appare ben più rappresentata la norma indicata da Or. fr. A 20 (βιβλογράφος, οὐχὶ βιβλιαγράφος), che si ritrova in Philem. Gramm. 356 C. (cf. Id. 393.28 R., quindi Phot. β 308), in Thom. 53.9 e, ovviamente, in Ps.-Zon. 388 quale fonte per recuperare Oros; alla dottrina ‘di Oros’ si può ricondurre anche Hdn. GG 1. 234.26165. In definitiva, non si può dire se la (usualmente) stringente prescrizione di Frinico sia corretta, ma, sulla base di una verifica delle ricorrenze di βιβλιαγράφος, si potrebbe sostenere che la dottrina di Frinico sia stata per un determinato periodo percepita come esatta. Luc. Ind. 24 sembrerebbe il solo ad aver impiegato la forma con alpha βιβλιαγράφος: ciò appare rilevante, in quanto Luciano è autore in qualche modo atticista e profondo conoscitore della commedia greca, e l’ Adversus Indoctum è opera in particolare ricca di dotte allusioni e citazioni in tal senso. Interpretazione Sul piano grammaticale il termine risulta pienamente accettabile: si tratta di parola composta dove la prima parte risulta declinata, cf. e. g. Ἑλλησπόντος, νυκτιλαμπής, νουνεχής. Sul piano metrico può esser facilmente adottato in un trimetro giambico, senza che operi la correptio Attica. La parola indica un copista (cf. e. g. Caroli 2012, Olson 2021, p. 23 e Orth 2014, p. 69). A chi si riferisse Cratino risulta essenzialmente impossibile a dirsi data l’assenza di qualunque elemento contestuale o riconducibile in qualche modo al testo comico. La citazione risulta totalmente decontestualizzata, e pertanto non si può avanzare alcuna interpretazione. Meineke (1839b, p. 159), tentativamente, collegò il frammento in esame al 260, sicché il βιβλιαγράφος sarebbe lo stock character Pandeleto. Ha tentato una spiegazione approfondita di questo accostamento Caroli (2012), per concludere che Pandeleto potesse essere un βιβλιαγράφος, in quanto autore di proposte di contestazione di recenti ψηφίσματα (cf. Caroli 2012, p. 105). Alternativamente,

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Un anonimo grammatico autore di un lessico ortografico pubblicato da Reitzenstein (1892/1893, p. 4) s. v. ἱστιορράφος, a proposito della presenza di iota, osserva ἐν δὲ πολλοῖς καὶ διὰ τοῦ α … καὶ βιβλιαγράφος. Ἀττικοὶ μέντοι βιβλογράφος ἄνευ τοῦ ι φασίν.

Χείρωνες (fr. 268)

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sempre Caroli ipotizza con molta prudenza che il termine vada riferito a chi aveva trascritto le Χείρωνος ὑποθῆκαι del fr. 253 (cf. Caroli 2012, p. 99).

fr. 268 K.–A. (454 K.) Phot. z (ined.) ψ ε υ δ ο μ α ρ τ ύ ρ ι ο ν· Πυλαίᾳ (fr. 192), Χείρωσιν caso di falsa testimonianza: nella Pylaiā (fr. 192), nei Cheirōnes Poll. 8.31 ψευδομαρτυρία· Κρατῖνος δὲ καὶ ψευδομαρτύριον εἴρηκεν falsa testimonianza: Cratino ha detto anche caso di falsa testimonianza

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, p. 213); Kock (1880, p. 129); Sandys (1895, p. 72); PCG IV p. 218 Contesto della citazione Che il lemma ψευδομαρτύριον fosse presente anche in Cratino era noto da Poll. 8.31, e pertanto annoverato da Kock tra i frammenti cratinei incertae fabulae. La scoperta del ms. Zavordensis ha permesso di assegnare il lemma, inedito, sia alla Pylaiā che ai Cheirōnes, perché in Fozio sono indicati entrambi i titoli, sebbene manchi il nome del commediografo, un’ assenza, quella del nome dell’ autore pur in presenza del titolo, che rappresenta un’ opzione rara (cf. supra p. 83). Per maggior quantità di informazioni sarà dunque Fozio la fonte principale del frammento. Testo Polluce, si direbbe, riteneva normale la forma ψευδομαρτυρία, nonostante la rarità del femminile singolare, per cui cf. Isae. 12.6 e Dem. 41.16. Risulta invece diffuso il plurale del femminile: ne consegue che forse Polluce si è limitato a lemmatizzare la forma femminile al singolare. Il neutro si direbbe più raro, specialmente considerando risultato di corruzione di un originario -ιῶν i numerosi esiti -ίων (cf. Sandys 1895, p. 73 e LSJ9 2020B). Il neutro appare sicuro in Pl. Theaet. 148b e Aristot. Ath. 59.6, sempre al plurale, sicché si potrebbe sospettare che, come il singolare ψευδομαρτυρία del diffuso femminile plurale sia frutto di lemmatizzazione, allo stesso modo lo sia il neutro singolare segnalato per Cratino nella Pylaiā e nei Cheirōnes. Interpretazione Qualunque interpretazione deve esser valutata con cautela e considerata senz’ altro speculativa. Se il lemma indica una falsa testimonianza, si potrà notare, almeno, come verisimilmente il fr. 267 rimandi a elementi giudiziali, forse a un caso di γραφὴ παρανόμων, al pari del fr. 251 in riferimento al ruolo dei magistrati marittimi a proposito dei diritti di piena cittadinanza.

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Ὧραι (Hōrai) (“Stagioni”)

Bibliografia Hemsterhuis (1706, II p. 1023); Welcker (1832, pp. 585–587); Meineke (1839b, p. 171); Wilamowitz (1870, p. 29); Geissler (1969 = 1925, pp. 30s.); Schmid (1946, p. 84); PCG IV p. 258; Guidorizzi (2006, p. 125); Sidwell (2009, p. 151); Storey (2011, pp. 394s.); Bianchi (2017, pp. 143s.); Marcucci (2020, pp. 119–121) Titolo Tutta la tradizione della commedia di Cratino tramanda compatta il titolo ὯΡΑΙ. Sono note altre due commedie con identico titolo, le Ὧραι di Aristofane (PCG III/2 p. 296–303, cf. Delneri 2006, pp. 71–124, Bagordo 2020 ad l.) e le Ὧραι di Anassila (PCG II p. 294, cf. Tartaglia 2019, pp. 185s.). Lo stesso titolo reca anche Tr. adesp. fr. 11 (TrGF II p. 24). Si tratta di una tipologia accostabile, probabilmente, a casi noti e numerosi: come forse le Eumenides dello stesso Cratino (PCG IV pp. 156s., su cui cf. Bianchi 2017, p. 113); le Mousai di Epicarmo (PCG I pp. 56–58), di Frinico (PCG VII pp. 409–412, cf. Stama 2014, pp. 190–196), di Eufane (PCG V pp. 280s.); o come le Charites di Anassila (PCG II pp. 293s.) e di Eubulo (PCG V pp. 257s.); le Moirai di Ermippo (PCG V 579–584, cf. Comentale 2017, pp. 159–161)166; le Seirēnes di Epicarmo (PCG I pp. 94s.), di Teopompo (PCG VII pp. 732s.) e di Nicofonte (PCG VII pp. 70s., cf. Pellegrino 2013, pp. 161s.); le Gorgones di Enioco (PCG V p. 552, cf. Mastellari 2020, pp. 199s.). Un trattato intitolato Ὧραι si deve al sofista Prodico di Ceo167. Note sin dall’ epica, le Hōrai sono divinità: in Omero preposte alla custodia delle porte dell’ Olimpo (Il. 5.750s. e 8.394s.)168, o del carro di Era (Il. 8.433–435), esse compaiono anche in Esiodo (Th. 901s., Op. 73–75), oltre che in H. Hom. 3.194, Cypr. fr. 4.1, Panyas. fr. 17.1169. Lo Hōrai non solo forniscono i frutti della terra agli uomini, ciò che implica una sovrapposizione – attesa nell’ epica – fra le divinità e le stagioni (ὧραι), ma sono evocate in situazioni di seduzione (cf. infra). E in tal caso, esiste una riconoscibile e poeticamente sfruttabile connessione con ὥρα, la bellezza, forse presente in qualche modo in Cratino (fr. 298). A scene di seduzione rimandano e. g. Cypr. 4 (vv. 1–3 εἵματα μὲν χροῒ ἕστο, τά οἱ Χάριτές τε καὶ Ὧραι / ποίησαν καὶ ἔβαψαν ἐν ἄνθεσιν εἰαρινοῖσιν, / οἷα φέρουσ’ ὧραι), Ibyc. PMGF 288.1 (Εὐρύαλε γλαυκέων Χαρίτων θάλος, / καλλικόμων)170, forse Hermipp. fr. 5 (καιροσπάθητον

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Si veda Bagordo per una presentazione dettagliata di materiali di questo tipo. In generale si veda di recente Mayhew (2011). Cf. West (1966, p. 406). Fortemente ipotetica dovrà dirsi la presenza in Sapph. fr. 9.5. Per uno studio sul fr. 4 B., cf. Verzina (2015). L’ integrazione si impone dall’ edizione di Page, che segue Bergk.

Ὧραι

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ἀνθέων ὕφασμα καινὸν Ὡρῶν), e Theocr. 1.149171. In Esiodo si rintraccia la prima attestazione del numero tre per le Hōrai (Th. 902 Εὐνομίην τε Δίκην τε καὶ Εἰρήνην τεθαλυῖαν), cf. anche Alcm. PMGF 20 (12 Cal.), Hipp. Aër. 1.10, Aristot. GA 784a 19. Il numero non pare definitivamente di tre, in quanto sono quattro le Hōrai di Pind. N. 8.1: certamente, però, il numero non è davvero indefinito. Quanto all’ idea del valore di nome comune, si potrà segnalare come il collegamento col mondo vegetale delle Hōrai sia rintracciabile sin dalle prime attestazioni (cf. West 1966, p. 406s.), e forse varrà la pena di menzionare Pind. O. 4.1a-2b con l’ incipitaria menzione delle Ὧραι di Zeus, ἑλισσόμεναι, a indicare il volgere del tempo attraverso le stagioni (cf. Lomiento ap. Gentili-Catenacci-Giannini-Lomiento 2013, p. 433), come in Ar. Av. 696. Dai frammenti superstiti, non è possibile stabilire inequivocabilmente se, con questo titolo, Cratino facesse riferimento alle dee o al nome comune. Considerato dunque questo immaginario poetico, dove l’ azione delle Hōrai è ben attestata (si vedano le osservazioni recenti di D’ Alessio 2019, pp. 19–24), non mi pare che Cratino potesse da esso prescindere nell’ affrontare, ed eventualmente sovvertire poi, l’ Erwartungshorizont del pubblico. A tale orizzonte di attesa concorrerà anche la dimensione cultuale se almeno all’ epoca di Cratino va fatta risalire la notizia di Paus. 9.53.2 che segnala un culto ateniese per due Hōrai, Thallo e Karpo, i cui nomi denunciano quel richiamo al rigoglio vegetale che forse va riconosciuto anche nella processione autunnale delle Pianopsie per Helios e le Hōrai. Lo stesso attidografo Filocoro testimonia un tempio ateniese e sacrifici con carne bollita, non arrostita, per le Hōrai, e la presenza di un altare per Dioniso Orthos e le Hōrai in una località dell’ Attica (FGrHist 328 F 5b, 15b e 173). In generale, per la commedia di Cratino, non pare si possa indicare nemmeno un dato che sia sicuro: che fosse il coro a dare il titolo alla commedia non può dirsi. In aggiunta si consideri il non trascurabile fatto, direi, dell’incongruenza tra il numero delle Hōrai secondo la tradizione mitografica e il numero dei coreuti della commedia, ventiquattro. Rispetto all’ ipotesi per cui un titolo plurale sia facilmente riconducibile a compagini il cui numero non può di per sé rispecchiare quello dei coreuti, non mi sembra che esistano riferimenti sicuri. Da escludere, ad esempio, la possibilità che le Moire (nella tradizione mitografica sono tre) che danno il titolo alla commedia di Ermippo costituissero il coro, più probabilmente composto da Satiri (cf. da ultimo Comentale 2017, p. 160). Nulla si può dire delle Cariti che hanno ispirato il titolo delle commedie rispettivamente di Anassila e di Eubulo, se cioè ne costituissero il coro, sempre con un’ alterazione di numero, per scarsità di dati172. E neppure del diffuso titolo Mousai si può dire che indicasse il coro delle varie commedie che hanno questo titolo: secondo Harvey (2000), l’ ipotesi del coro

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Cf. Headlam-Knox (1922, p. 359), con un’ ampia raccolta di passi. Si vedano le considerazioni di Hunter (1983, pp. 213s.).

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Cratino

di Muse per Frinico sarebbe in definitiva sicura, ipotesi cui aderisce Stama (2014, p. 190), ma, opportunamente, con maggior cautela. Quanto alle Seirēnes non sembrano esserci riferimenti per nessuna delle commedie con questo titolo. Pare poco utile prendere a mo’ di esempio il caso delle Eumenidi di Eschilo col coro iniziale di Erinni, per due motivi: che le Erinni fossero tre è notizia difficilmente trasferibile al contesto culturale di Eschilo; in secondo luogo, le Erinni sembrano costituire meno un gruppo e presto un concetto, nuovamente ipostatizzato da Eschilo. Sarei dunque molto cauto ad estendere ai titoli plurali indicazioni di compagini corali dove il numero atteso dalla tradizione mitografica lo sconsigli173, salvo quando si tratti di rari e circoscritti accenni174. Fra le commedie superstiti di Aristofane nessuna si presta a un utile confronto tipologico. Le ipotesi per cui le Hōrai di Cratino potrebbero esser dei personaggi della commedia magari secondari, alla maniera di Pluto nell’ omonima commedia aristofanea, o personificazioni mute tout court, come la Pace, sempre per utilizzare riferimenti di Aristofane verificabili, non paiono vie esegetiche praticabili, in quanto si tratta, per Aristofane, di personaggi singoli, mentre il titolo di Cratino inequivocabilmente è plurale. Mi pare, in conclusione che ci siano solo tre ipotesi percorribili: 1. come per le Eumenidi di Eschilo, il numero dei coreuti non rispetta quello della tradizione mitografica, ma bisogna ribadire che mentre le Erinni/ Eumenidi non sono un numero notoriamente stabilito nell’ epoca di Eschilo, le Hōrai lo sono ben da prima dell’ età di Cratino, e per lo più nel numero di tre, o due se si pensa ai nomi ateniesi testimoniati da Pausania, meno probabilmente, se si pensa a Pind. N. 8.1, quattro. 2. In alternativa all’ idea del coro con un numero però abusivo rispetto alla tradizione, si potrà valutare l’ ipotesi secondo cui della commedia di Cratino il titolo comprime i due significati nello stesso significante, alludendo alle divinità e al nome comune; tale titolo non rimanda a elementi strutturali della drammaturgia, come sarebbe un coro e, tentativamente, si potrebbe ipotizzare che esso sia alternativo a un altro per noi ignoto, titolo poi che avrebbe finito per imporsi nella tradizione, come unico175. 3. Oppure le Hōrai erano un 173

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Più sicuro di questo, invece, Harvey che a proposito delle Hōrai di Aristofane e segnatamente del fr. 581.14 osserva: «the plural ὑμᾶς in line 14 [fr. 581,14] seems to refer to traditional gods, and they may have constituted the chorus. Alternatively, there might have been semi-choruses of old and new gods. In either case, a chorus of twenty-four presents no problems» (2000, p. 103). Ad esempio, in Pind. O. 4.1s., l’ immagine delle Ὧραι / ὑπὸ ποικιλοφόρμιγγος ἀοιδᾶς ἑλισσόμεναι ha senz’ altro il valore primario di volgersi delle Stagioni come riconosciuto da Lomiento (2013, p. 433, per il passo pindarico cf. supra), e potrebbe temporaneamente essere un secondario e rapido richiamo autoreferenziale alla performance corale in atto o imminente, ma, comunque, non si tratta di un titolo. Come noto, la prassi dei doppi titoli dei drammi è ben attestata (cf. Sommerstein 2002), e si può ipotizzare con un discreto margine di probabilità che i titoli fossero posti dal drammaturgo o, almeno, che abbiano origine molto antica, ma è inverosimile che all’ autore risalgano anche i doppi titoli. Se dunque il titolo di Cratino fosse il titolo

Ὧραι

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coro secondario ma significativo al punto di dare il nome alla commedia, come le rane dell’omonima commedia di Aristofane. Contenuto Tutti i frammenti delle Hōrai sono di tradizione indiretta, giunti attraverso la tradizione manoscritta medioevale. Nella fattispecie, la distribuzione vede due frammenti da Ateneo, due da Arpocrazione, cinque da Polluce, tre dal lessico dell’ Antiatticista, uno da Efestione, quattro da Esichio, uno nel cosiddetto Lexicon Messanense de iota adscripto (vale a dire da Oros), quattro dalla Synagoge, dodici dal lessico di Fozio, sei dalla tradizione scoliastica, cinque dalla Suda. Questa sintetica rassegna, che per le ragioni già illustrate in sede di commento di altri titoli non tiene conto di eventuali testimoni dipendenti l’ uno dall’ altro come in alcuni casi lessicografici, e che meglio si chiarisce nell’ index fontium, serve solo a rilevare alcuni aspetti della tradizione delle Hōrai: innanzitutto, che la commedia ha avuto attenzione nella tradizione erudita per ragioni principalmente lessicali, poiché i compilatori o le loro fonti hanno citato o menzionato Cratino al fine di illustrare il significato o l’ impiego di una parola. Più raramente l’informazione riguarda aspetti storico-sociali: in tal caso si tratta soprattutto di komodoumenoi (su cui cf. infra). Solo il frammento tràdito da Efestione si giustifica nell’ epitome come esempio di un fatto prosodico, quindi metrico. In nessun caso si registrano errori gravi nella trasmissione del titolo di Cratino, al punto di determinare dubbi sull’ authorship di un frammento: semmai, si potrà segnalare come non tutti i frammenti fossero noti agli editores veteres per una minor disponibilità di manoscritti, ciò che ha determinato l’ assenza del fr. 270, o l’ assegnazione fino a Kock di alcuni frammenti tra gli incertae fabulae. Che l’ anepigrafo fr. 357 (φαίνεσθαι χρυσῆν, κατ’ ἀγροὺς δ’ αὖθις αὖ μολυβδίνην) vada ricondotto alla commedia, suppose, tentativamente, Wilamowitz (1870, pp. 34s. n. 18) in relazione al fr. 278 (cf. ad l.), dove si riscontra l’ assenza di Dioniso da un luogo (ἀποδημοῦντος τοῦ Διονύσου informa Σa π 9, recuperando il dato dal testo comico, anche se forse non recta via). L’ adespoto papiraceo 1110 (P.Oxy. 2807.17) fu ricondotto alle Hōrai da Lobel (1971 ad l.), con molta cautela, sulla base del fr. 298 (cf. ad l.). L’ ipotesi è stata contestata da Luppe (1973), ma i dati ortografici della tradizione e la distribuzione della rara glossa coinvolta nell’ attribuzione (ὡρᾴζεσθαι) sono tali da rendere l’ ipotesi di Lobel significativa. Non sono stati segnalati testi assegnabili con sicurezza alle Hōrai alternativo e suonasse come ὧραι, si potrà proporre a mo’ di confronto puramente diagnostico il caso della Lisistrata di Aristofane, per cui è attestata due volte l’ alternativa Διαλλαγαί (nell’ Index Ambrosianus = Ar. test. 2a.19 e in schol. vet. R Ar. Lys. 1114), che trae il nome (al plurale) da un κωφὸν πρόσωπον, la Διαλλαγή, nominata al v. 1114 della commedia. Se non si avessero che frammenti della Lisistrata e queste testimonianze erudite che spiegano il titolo alternativo, si potrebbe ipotizzare, erroneamente, che con Διαλλαγαί si intendesse il coro. Un altro esempio, meno definibile in quanto derivante da una commedia frammentaria, costituisce l’aristofaneo Δράματα ἢ Νίοβος, su cui cf. le annotazioni di Kassel e Austin (PCG III/2 pp. 158s.), per i rapporti con l’altra commedia Δράματα ἢ Κένταυρος, sempre di Aristofane.

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Cratino

di Cratino dopo l’ edizione di Kassel e Austin, né risultano articolate proposte di assegnazione in tal senso. La numerosità dei frammenti non compensa la loro brevità, che impedisce una qualche ricostruzione della trama. Secondo Bowie (2010, p. 143), si può pensare a una commedia mitologica176, per la cui definizione nell’ ottica dello studioso, cf. supra Seriphioi. Guidorizzi (2006, pp. 124s.) non assegna pienamente a questa categoria le Hōrai, ma preferisce invece, con cautela, rivolgersi alle commedie cosiddette rituali, «se il parallelo con l’ omonima commedia di Aristofane ha qualche senso» (p. 125); cf. anche Schmid (1946, p. 84). Ovviamente, ogni tentativo di ricostruzione di una pur non precisa trama resta altamente speculativo, come osservava Meineke (1839b, p. 171), il quale si spingeva a supporre solo che nella commedia «magnas […] Dionysi partes fuisse». Pur condividendo la prudenza di Meineke – impegnato a respingere le ricostruzioni di Hemsterhuis (1706, II p. 1023, in sede di commento di Poll. 10.76) e quella molto audace di Welcker (cf. infra) – si potrà valutare un supplemento di scetticismo anche sulla presenza di Dioniso: i dati, infatti, non permettono di dire neppure che Dioniso fosse dramatis persona, visto che il testimone del fr. 278 (Σa π 9), che sembra avere una fonte molto informata, si limita a dire ἀποδημοῦντος τοῦ Διονύσου, il che non implica che Dioniso agisse in scena in qualche momento dell’ opera177. Proprio attorno alla figura di Dioniso si concentrava la ricostruzione di Welcker (1832, pp. 585–587), che volle ricostruire la trama della commedia probabilmente sulla falsariga della Pytinē, immaginando il dio travolto da due passioni, una per la legittima sposa, fuor di allegoria le tragedie allestite alle Grandi Dionisie, e una per la concubina, le tragedie delle Dionisie rurali. L’ ipotesi che Dioniso fosse dramatis persona ritorna di recente in Sidwell (2009, p. 151), che ha ipotizzato che il dio adombrasse Alcibiade. Queste ricostruzioni sono fortemente speculative. L’ unico elemento, rispetto a Dioniso, che mi pare abbastanza sicuro si riscontra in un dato contestuale consegnato dal già menzionato Filocoro (FGrHist 328 F 5b), che segnala un altare per Dioniso Orthos e per le Hōrai in Attica: di difficile localizzazione, un richiamo generico di questo altare, dei riti che vi si tributavano, potrebbe aver suggerito al pubblico l’ espressione ἀποδημοῦντος τοῦ Διονύσου vel simile quid, se di Cratino (cf. ad fr. 278). Non molto si potrà dire anche per i komodoumenoi, che sono senz’ altro quattro: Gnesippo (fr. 276), Androcle (fr. 281), il figlio di Pisia (fr. 282), Iperbolo (fr. 283). Essi saranno stati certamente nominati nel corso della commedia, e non si può escludere che fossero anche presenti come personaggi dell’ opera, ma ciò non è dimostrabile. In tempi recenti, Marcucci (2020, pp. 122 e 125) con condivisibile cautela ha ipotizzato una qualche parodia filosofica, ai danni di Prodico, auto-

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Cf. Bianchi (2017, p. 102). Da notare come le Hōrai appaiano presto in connessione anche con Dioniso (Panyas. fr. 17).

Ὧραι

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re anch’ egli di un’ opera, beninteso filosofica, intitolata Ὧραι. L’ ipotesi maturata dallo studioso deriverebbe dal fr. 280 (οὐδὲ πρὸς εἶδος ἄρ’ ἦν οὐδὲν προσιδόντι τεκμαρτόν), dove egli intravvede un richiamo alla differenza tra forma e sostanza. Si potrebbe aggiungere che nell’ Assioco pseudo-platonico Socrate ricorda i discorsi di Prodico che renderebbero desiderabile la morte (266c-269b)178, pezzi di bravura retorica in cui non mancano riferimenti mitici come Trofonio, oggetto di attenzione di Cratino. Nulla di tutto questo può tuttavia suggerire un richiamo alle teorie prodicee nelle Hōrai. Volendo percorrere, sempre tentativamente, la via del rovesciamento comico della filosofia, si potrà semmai notare che un più generale attacco alla sofistica e a un certo naturalismo anassagoreo, uniti comicamente nel Socrate comico179, interessò anche Aristofane nelle Nuvole, nello stesso torno di tempo in cui Cratino presumibilmente metteva in scena questa commedia. Qui il titolo aristofaneo che evoca il fenomeno fisico-meteorologico e per certi versi un ‘nuovo’ culto si presta a numerose e compresenti interpretazioni, perfettamente rappresentate nello Schlagwort μετεωροσοφιστής (v. 306). In tal prospettiva le Hōrai potrebbero, con tutte le cautele del caso, richiamare l’ interesse per lo studio della natura di parte della filosofia presocratica. Quale fosse dunque il tema della commedia sfugge del tutto. Se le Hōrai sono parte del corteggio di Afrodite e coinvolte in scene di seduzione, non si potrà escludere che un qualche elemento di questo tipo fosse evocato nella commedia, tenendo conto, ad esempio, del fr. 276, dove del didaskalos di tragedie Gnesippo si evocano i molli e sensuali pezzi, con un doppio senso erotico su μέλη; e il richiamo a un coro di depilatrici è certamente falso ma efficace nel restituire una tensione erotica dominante i pezzi di Gnesippo, almeno secondo la distorsione comica. E forse un valore erotico si può rinvenire sulla base del fr. 278, dove si evoca la concubina di Dioniso e dove si dichiara il dio μακάριος τῶν παιδικῶν. Se è impossibile ricostruire la trama della commedia, si potrà comunque constatare come alcuni tratti drammaturgici siano sicuri. Certamente, sarà stato presente qualche aspetto metateatrale, come si potrebbe ipotizzare dal fr. 270, dove si dichiara di voler intonare una monodia, dal fr. 276, dove si parla del didaskalos di tragedie Gnesippo per i suoi licenziosi canti, e forse dal fr. 294. Di nessun frammento sembra possibile indicare con certezza la collocazione all’ interno della commedia, ma si potranno perlomeno individuare alcuni elementi caratteristici sul piano metrico: tenuto conto dei soli frammenti di cui si può circoscrivere un ritmo sicuro, si osserva una prevalenza, come atteso, di trimetri giambici (frr. 269–274, forse anche i frr. 275, 278); e alla misura giambica possono esser ricondotti i dimetri del fr. 276, forse dunque agonale; si trovano quindi un tetrametro trocaico catalettico (fr. 277), un tetrametro anapestico catalettico (fr.

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Cf. Farioli (1998, p. 241s.). Esemplari i vv. 93–98, dove sono contigui i ritratti di Socrate come cosmologo (vv. 93–96) e come antilogico (vv. 97s.). Cf. Cerri (2012).

186

Cratino

279), e forse la misura anapestica andrà assegnata al fr. 298. Le misure anapestiche possono esser ricondotte a numerose parti cantate o in recitativo di una commedia e non pare che i contenuti aiutino a circoscriverle. Più o meno lo stesso può dirsi dei tetrametri trocaici (uno al fr. 277, come segnalato sopra), escludendo, semmai, l’ agone. Alla commedia va assegnato anche un esametro dattilico (fr. 280). Datazione Sul piano cronologico tutti i dati portano a collocare la commedia negli anni Venti, ma nessun elemento può dirsi decisivo per delineare un anno o addirittura un agone preciso. Secondo Wilamowitz (1870, pp. 29s.) si può pensare a un periodo immediatamente precedente gli Acarnesi, forse al 428, e in tal direzione si rivolse anche Geissler (1969 = 1925, pp. 30s.), accolto, pur con cautela, da Bianchi (2017, pp. 23 e 39). Kaibel ms. ap. Kassel e Austin segnalava per il fr. 283 (cf. infra) come «verba plana nec ullis coniecturis temptanda. Aliud est num vere poeta dixerit, quamquam illis temporibus multa fieri potuisse quae legibus contraria non negaverim»: e proprio la menzione di Iperbolo nel fr. 283 lo portava a concludere che «scripta est fabula post ad rem publicam accessum, quamquam certius nihil hinc colligi potest» (PCG IV p. 258). In sede di edizione del fr. 283 (cf. anche infra), dove si parla di Iperbolo e sinteticamente se ne delinea l’ attività politica, Kassel e Austin osservavano: «ad rem publicam accesserat (scil. Hyperbolus) anno 424», e richiamano a sostegno Ar. Eq. 739. La constatazione è stata contestata da Casanova (1995), ma essa trova un proprio fondamento nei passi aristofanei citati dagli editori di Cratino (cf. anche infra ad fr. 283). Si può dunque abbassare la cronologia dell’ opera alla seconda metà degli anni Venti, in coerenza con alcuni komodoumenoi menzionati nella commedia: di Iperbolo in primis non ci sono menzioni prima degli Acarnesi (425 a. C.), o dei Cavalieri (424 a. C.), per la sua attività politica. Il figlio di Pisia (fr. 282) appare negli Uccelli (414 a. C.), e, si direbbe, nella P laiā. Di Androcle (fr. 281) si parla nei Seriphioi (fr. 223.3) ascrivibili al 423/422 a. C. Anche Gnesippo (fr. 276) sarebbe menzionato sempre in commedie degli anni Venti o prossime a quel periodo. Gli agoni teatrali della seconda metà degli anni Venti vedono Cratino aver certamente partecipato alle Lenee del 425 a. C., dove giunse secondo coi Cheimazomenoi, e a quelle del 424 a.C. dove ottenne ancora il secondo posto coi Satyroi. Alle Dionisie del 424 a. C. andranno ascritte con ogni probabilità le Dēliades, forse ancora un secondo posto180. Alle Dionisie del 423 a. C. va collocata la vittoria con la Pytinē. Dal momento che la cronologia dei Seriphioi non andrà oltre il 422 a. C. per la menzione di Cleone, si potrà suggerire che le Hōrai abbiano una collocazione cronologica alternativa a quella dei Seriphioi: le Lenee del 423 a. C. o le Dionisie del 422 a. C., soluzione che, in ogni caso, contribuisce a confermare l’ ipotesi di Mastromarco (2002) di vedere in Ar. Pax 700–703 una stoccata ai Lakōnes, che dunque costituiscono l’ ultimo 180

La ricostruzione di Neri (1994/1995) è la più probabile fra le varie avanzate a sostegno dell’ ipotesi già di Bergk sul fatto che Cratino partecipò a questo agone con le Dēliades. Cf. anche Bianchi (2017, p. 39).

Ὧραι (fr. 269)

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dramma noto di Cratino. Se si accetta la cronologia qui proposta delle Hōrai, essi si collocano alle Lenee del 421 a. C., dal momento che le Dionisie del 422 a. C. potrebbero esser occupate dai Seriphioi o dalle Hōrai. L’ unica altra ipotesi possibile è che le Hōrai, col loro riferimento a Iperbolo, vadano ascritte a pochissimo prima dei Cavalieri, dunque alle Dionisie del 425 a. C., sui cui partecipanti non ci sono informazioni certe (cf. almeno già Wilamowitz 1870, p. 35, Pickard-Cambridge 1996, pp. 141–175, da ultimi Millis-Olson 2012, pp. 160–167). fr. 269 K.–A. (250 K.) ἀλλ’ ἦν ὅτ’ ἐν φώσωνι τὴν ἴσην ἔχων μετ’ ἐμοῦ διῆγες † οἴναρον ἕλκων τῆς τρυγός 1 FS habent, om. A 2 † οἴναρον FSA, damn. Kassel et Austin : διῆγε μοῖραν Meineke (1847, p. 53), prob. Bothe (1855, p. 51b), σμικρόν Kock (1880, p. 89), ψίαθον Kaibel ms. ap. Kassel et Austin, cl. Prov. Coisl. 175 (App. Prov. 2.47), οἰνάρι’ Pieters ms. ap. Kassel et Austin, ὦ μέλ’ van Herwerden (1893, p. 150)

ma c’era un tempo in cui, avvolto in una tela grezza, vivevi la mia stessa vita passando il tempo con me † oinaron e bevevi il vino non raffinato Poll. 6.18 τὸν δ’ οἶνον καὶ τρύγα ἐκάλουν ὡς Κρατῖνος ἐν Ὥραις· ἀλλ’ — τρυγός chiamavano il vino anche trux, come (mostra) Cratino nelle Hōrai: ma — non raffinato

Metro trimetri giambici

llklllk|lklkl kklklk|†lkklllkl

Bibliografia Runkel (1827, p. 70); Meineke (1839b, p. 164); Meineke (1847, p. 53); Bothe (1855, p. 51); Kock (1880, p. 89); van Herwerden (1893, p. 150); Edmonds (1957, pp. 112s.); PCG IV p. 258; Bakola (2010, p. 56 n. 128); Storey (2011, pp. 394s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Poll. 6.18 nell’ àmbito della trattazione del vino e, nella fattispecie, come esempio di una sinonimia tra il comune οἶνος e il più circoscritto τρύξ. La medesima sinonimia si trova in Plut. Mor. 692d (cf. anche Hsch. τ 1559 pr. expl.; in generale, dopo Esichio, cf. Phot. τ 525 tert. expl., schol. Theocr. 7.70, schol. Ar. Pl. 1085). Testo Il testo presenta una difficoltà testuale al v. 2 che, di per sé, non compromette irrimediabilmente la comprensione generale del verso stesso né, più complessivamente, del frammento. Meineke (1839b, p. 164) osservava, con ragione: «non intellego quid sit οἴναρον τρυγός». Proseguiva in questi termini:

188

Cratino

«intelligerim si οἰνάριον», ma non riconosceva a questo tentativo di soluzione grandi chances. Lo studioso inaugurava in questo modo, dopo che Runkel (1827, p. 70) aveva accettato il testo tràdito, una corrente dubitazionistica destinata ad esser maggioritaria, tanto da arrivare fino a Kassel e Austin, inclini a considerare il termine quale locus desperatus181. Va notato come la corruzione in qualche modo coinvolga il nucleo della citazione: il senso di essa, secondo Polluce, consiste nel certificare la sinonimia fra οἶνος e τρύξ, pertanto van Herwerden (1893, p. 150) arrivò a individuare in οἴναρον l’ esito di una corruzione di una glossa intrusiva182. Se le cose stanno in questi termini, fra la prima parte del trimetro (= penth ia) e quella finale, preservata da corruzione, si deve ipotizzare una lacuna determinata dall’ assenza di un bisillabo trocaico o di un trisillabo, più probabilmente in forma di tribraco che di dattilo. Interpretazione L’ interpretazione del frammento più appropriata e tuttora accreditata risale a Meineke (1839b, p. 164), allorché suggeriva che queste sarebbero parole rivolte a una persona che «ex tenui et angusta vivendi condicione ad lautiorem sortem enisus erat». Si tratta di un topos abbastanza frequente né solo comico: cf. e. g. Anacr. PMG 388, in part. vv. 1–4, dove si delinea l’ abbigliamento misero e d’antan di Artemone, ora arricchito (v. 10)183. Le tracce di povertà, o almeno di una condizione modesta, ormai superata da parte dell’ anonimo personaggio cratineo, sono da individuare nel tipo di abbigliamento un tempo dimesso, e nel richiamo al vino col termine τρύξ (cf. infra). A tal proposito, Kassel e Austin ricordano due casi menandrei. In Sam. 377s., si trovano versi particolarmente significativi, sia per il fatto che si tratta di commedia, che per alcuni aspetti formali: si tratta del momento in cui Demea caccia di casa Criside (καίτοι πρὸς ἔμ’ ἦλθες ἐνθάδε / ἐν σινδονίτῃ … πάνυ / λιτῷ … τότ’ ἦν ἐγώ σοι πάνθ’, ὅτε / φαύλως ἔπραττες). Kassel e Austin rimandano anche a Men. Sic. fr. 3 K. (ex Phot. σ 613), affine, per quel che si può capire, al quadro della miseria passata delineato da Cratino (λιτόν ποτ’ εἶχες χλαμύδιον). È

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Meineke rivedrà la propria posizione nell’ editio minor (1847, p. 53) con διῆγε μοῖραν, ipotesi stampata anche da Bothe (1855, p. 51b), ma non da Kock (1880, p. 89) che manteneva il testo tràdito con l’ interpunzione dopo οἴναρον, ma contestualmente suggeriva di correggere οἴναρον in σμικρόν. Nei suoi appunti manoscritti Kaibel proponeva di correggere in ψίαθον, cl. Prov. Coisl. 175 (App. Prov. 2.47), con poca probabilità. Pieters (ms. ap. K.–A.) proponeva οἰνάρι’ sulla scia di Meineke (cf. supra), mentre van Herwerden (1893, p. 150) ipotizzava un vago ὦ μέλ’, e spiegava οἴναρον come corruzione di οἰναρίου, glossa intrusiva di τρυγός. Penso che sia più probabile che la glossa intrusiva, poi corrotta, potesse riferirsi a un vino. Alternativamente, si potrà ipotizzare un avverbio che definiva il διῆγες precedente, ma la sua eventuale posizione dopo il verbo non sarebbe del tutto appropriata. Cf. Tosi (1988, pp. 137–139), che ricorda, fra gli altri, le posizioni decisamente scettiche di Wilamowitz (1914, p. XXIX) e di Fraenkel (1950, I p. 10) sulla possibilità di risolvere i casi di glossa intrusiva. Cf. Neri (2011, pp. 259–261).

Ὧραι (fr. 269)

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possibile che il frammento di Cratino opponga al tempo passato una mollezza presente a cui si sarebbe concesso l’ interlocutore della persona loquens, magari su toni più simili a quelli giambici di Anacreonte che a quelli più sentimentali menandrei. Il passo di Plutarco, menzionato sopra a testimonianza della medesima sinonimia certificata da Polluce, potrebbe in qualche modo contribuire a definire l’orizzonte concettuale cui il frammento può essere ascritto: vi si evoca l’ esperienza di tal Nigro, un filosofo che critica l’ ipotesi di filtrare il vino. Contro questa pratica egli sottolinea che la privazione della τρύξ comporta una sorta di strappo della radice che compromette il valore del vino. Condanna questa pratica di raffinazione come un segno di decadenza in quanto il filtraggio servirebbe ad alleggerire il vino per berne in maggior quantità. In questo contesto, Nigro avanza l’ equivalenza linguistica fra οἶνος e τρύξ come habitus lessicale di non meglio definiti παλαιοί, ma non si può esser sicuri che Plutarco riecheggi qui il commediografo. In quest’ ottica, il frammento di Cratino potrebbe riflettere una fase passata della vita del personaggio cui ci si sta rivolgendo, considerata forse più autentica delle mollezze presenti, ma nulla nel testo superstite autorizza a leggervi qualcosa del genere. Una simile opposizione, notoriamente topica, e che coinvolge la τρύξ a delineare una vita semplice e autentica si trova, nello stesso periodo delle Hōrai, in Ar. Nu. 50 (se il verso risale alla prima versione della commedia): συγκατεκλινόμην ἐγὼ / ὄζων τρυγός, τρασιᾶς, ἐρίων, περιουσίας (vv. 49s.). La presenza di ἕλκων in Cratino potrebbe rimandare a un simposio, beninteso povero, secondo un’ evocazione topica e compatibile con la celebrazione di una vita rustica d’ antan, similmente a quanto emerge in Ar. Pax 1131–1133 (πρὸς πῦρ διέλ-/ κων μετ’ ἀνδρῶν ἑταί-/ ρων φίλων) e fr. 111 (dai Georgoi), su cui cf. Totaro (2000, p. 114). La scarsità di informazioni sul frammento di Cratino non permette di capire se il quadro dell’ antica vita fosse elogiativo di un tempo più povero e più sobrio, oppure malevolmente inteso a denunciare un tempo antico di miseria. In qualche modo, il passo delle Nuvole appena citato si fonda su questa ambiguità, perché il quadro di Strepsiade della propria antica vita agreste, punteggiato di elementi realistici tout court spiacevoli, potrebbe non esser stato condiviso dall’ uditorio. Nel frammento di Cratino, a tal proposito, la parola τρύξ, alla luce di ciò che resta del testo poetico e del testimone, permette di considerare operante questa ambiguità, se era effettivamente presente. Secondo Bakola (2010, p. 56 n. 128), col suo riferimento al vino, rientrerebbe fra quei frammenti che «can have been meant as authorial statements», il che non sembra dimostrabile. v. 1 ἐν φώσωνι Secondo Poll. 7.71, il φώσων (anche φώσσων) sarebbe una tunica di lino grezzo di origine egizia: ἔστι δὲ καὶ ὁ φώσων χιτὼν Αἰγύπτιος, ἐκ παχέος λίνου, ἦ που δὲ καὶ τὸ ἡμιφωσώνιον (cf. Blümner 19122, p. 198). Non se ne conosce l’ etimo, che si potrebbe supporre egizio al pari dell’ origine dell’ indumento (cf. Bagordo 2018, p. 14 in sede di commento di Ar. fr. 826). Che si tratti di un segno di condizione modesta o addirittura di miseria si potrebbe dedurre dal fatto che, con lo stesso termine, si indicano delle vele, cf. e. g. Phot. φ 384 (= Suda φ 674 φωσσώνιον· λινοῦν τι, ἤτοι σινδόνιον. ἢ καὶ τὸ ἱστίον τῆς νεὼς πεφυσημένον, cui seguono altre spiegazioni non perspicue per Cratino) e schol.

190

Cratino

Lyc. Al. 26 (φώσσωνας τὰ λαίφη, τὰ ἅρμενα παρὰ τὸ φῶ τὸ λαμπρύνω· λευκὰ γάρ, dove la seconda parte dell’ interpretazione è paretimolοgica), Hsch. φ 1125 (φώσσων· τὸ λινοῦν ἅρμενον). Il termine è unico in commedia, ma cf. Ar. fr. 826 ἡμιφωσώνιον su cui Bagordo (2018, p. 14). τὴν ἴσην l’ espressione col sostantivo sottinteso, che si assume esser μοῖραν (cf. il conseguente emendamento di Meineke 1847, p. 53, già perplesso per l’ assenza del sostantivo nell’ editio maior), ricorre in Il. 11.705, Od. 9.42 (= 549), appunto con μοῖρα sottinteso. Si veda anche Thuc. 1.15.2, più vicino sul piano cronologico a Cratino (οὐ δ’ αὖ αὐτοὶ ἀπὸ τῆς ἴσης κοινὰς στρατείας ἐποιοῦντο). v. 2 ἕλκων τῆς τρυγός se l’ accusativo retto dal verbo non si trovava al posto del corrotto οἴναρον, con una disposizione delle parole non consueta, il passo sintatticamente più simile dovrà dirsi Ar. fr. 111.3s. διελκύσαι / τῆς τρυγός, ma cf. anche Eubul. fr. 56.7 εἷλκον Διὸς σωτῆρος (su cui Hunter 1983, p. 143). Sono questi i passi sintatticamente più vicini a quello di Cratino, se il verbo reggeva il genitivo. In generale, se ne possono aggiungere altri per il verbo e il contesto: Ar. Eq. 107(però con l’ accusativo), Pax 1131s., Telecl. fr. 27.1 (con le osservazioni di Bagordo 2013, pp. 150s.), Stratt. fr. 23, Antiph. frr. 75.4, 205.2, 234.3, Alex. fr. 88.3. La rassegna è completata da Totaro (2000, p. 114) con passi di altri generi e coi corrispondenti latini trahere (Hor. Ep. 14.4) e ducere (Prop. 2.9.21, Hor. Carm. 1.17.22 e 4.12.14). Il sostantivo non sarà di per sé inevitabilmente negativo, in quanto τρύξ può avere un significato in bonam partem, come vino nuovo (cf. Ar. frr. 111 l. c. e 402, ma anche Anacr. PMG 352). Tuttavia, esiste ben attestato il senso di “feccia”, come in Archil. fr. 4.6, o in Ar. Pl. 1085. Non escluderei, dunque, anche alla luce del testimone e in considerazione del fatto che null’ altro esiste del contesto del frammento, che qui potessero esser compressi i due significati184, che ho cercato di rendere come “non raffinato” anche alla luce del menzionato Plut. Mor. 692d. Per i nomi dei vini e la loro funzione cf. Dalby (2000). fr. 270 Κ.-Α. (10 Dem.) βούλει μονῳδήσωμεν αὐτοῖς ἕν γέ τι; οὐκ ἂν μονῳδήσειεν ἐκπεπληγμένος v. 1 βούλει cod. : βούλῃ Kaibel ms. ap. Kassel-Austin γέ τι (Rabe 1892, p. 450) prob. Kassel-Austin cl. Ar. fr. 506.1, Pl. 413 (codd. -R), et cf. f. 276v (r. 8) δέ τι : γέτι cod., γ’ ἔτι Kaibel ap. Rabe (1895, p. 148)

vuoi che facciamo loro una qualche monodia? non potrebbe fare una monodia scosso 184

In generale, si veda Edwards (1991, pp. 157–161).

Ὧραι (fr. 270)

191

Lex. Mess. San Salv. 118, f. 274v ll. 14–24, versus a ll. 16–18 servati = p. 450 (add. 148) Rabe μονῳδεῖν σὺν τῷ ι. Ἀριστοφάνης· (Pax 1012) … καὶ τὰ ἐξ αὐτοῦ. Κρατῖνος Ὥραις· βούλει — γέ τι. καὶ πάλιν· οὐκ — ἐκπεπληγμένος. μονῳδία σὺν τῷ ι, ἡ ἀπὸ σκηνῆς ᾠδὴ ἐν τοῖς δράμασι. καὶ μονῳδεῖν τὸ θρηνεῖν· ἐπιεικῶς γὰρ πᾶσαι αἱ ἀπὸ σκηνῆς ᾠδαὶ ἐν τῇ τραγῳδίᾳ θρῆνοί εἰσιν. ἐκαλοῦντο δὲ ἀπὸ σκηνῆς αἱ τῶν ὑποκριτῶν. Κρατῖνος Ὥραις monōidein con lo iota. Aristofane (Pax 1012) […]. E le forme derivate. Cratino nelle Hōrai: vuoi — monodia? E di nuovo: non — scosso. Monōidiā con lo iota, il canto dalla scena nei drammi. E monōidein il cantare un canto funebre: verisimilmente, tutti i canti dalla scena in tragedia sono canti funebri. Chiamano (canti) dalla scena i (canti) degli attori. Cratino nelle Hōrai

Metro trimetri giambici; potrebbe esser operante la cosiddetta correptio Attica in ἐκπεπληγμένος

llklllk|lllkl llklllk|lklkl

Bibliografia Rabe (1892, p. 450); Rabe (1895, p. 148); Edmonds (1957, pp. 114–117); PCG IV pp. 258s.; Storey (2011, pp. 394s.) Contesto della citazione Il testo di Cratino si trova in una porzione di lessico pubblicata per la prima e unica volta da Rabe su «Rheinisches Museum für Philologie» del 1892 (pp. 404–413), con alcune precisazioni e correzioni uscite nel 1895 (pp. 148–152)185. Il lessico – non completo visto che si inizia dalla lettera mu e arriva a omega senza concludere la trattazione e con l’ omissione di tutte le parole che cominciano con una lettera compresa fra rho e phi – si trova al termine del codice S. Salv. 118 (274v-278v)186, conservato presso la biblioteca regionale universitaria di Messina. Il codice, trascritto per Basilio “grammatico” come si evince dal f. 149v, è membranaceo, con fogli di 18 x 13 cm; su ogni pagina sono tuttora piuttosto evidenti i segni delle rigature per predisporre 26 righe, su ciascuna delle quali ci sono circa 30 lettere di scrittura. Secondo Rabe il codice sarebbe del XIII sec., ma si direbbe che alcune caratteristiche di natura formale, come la forma di epsilon, possano rimandare più a un periodo precedente, forse all’ XI sec. (cf., fra gli altri, Irigoin 1986), o al X (cf. Perria 2011, Lucà 2012), datazione cui aderisce la Rodriguez (2017, p. 84). Sulla paternità non ci sono esplicite menzioni nel manoscritto, anche se i punti di contatto con quello che resta di Oros negli etimologici hanno indotto Reitzenstein (1897, 289–292) per primo a individuare qui, in qualche modo sistemati, i relitti del Περὶ ὀρθογραφίας del grammatico (cf. ora anche Alpers 1981, 80 e n. 1 che dà conto, tra l’ altro, di una lettera del 1894 inviata da Rabe a Reitzenstein). Nel 1895, sempre sulle pagine della medesima rivista, lo stesso Rabe pubblicò un Nachtrag con importanti rettifiche e nuove 185 186

Alcune glosse di taglio atticista sono poi state rieditate da Alpers (1981). Rabe numerava i fogli diversamente (280v-283v), ma qui seguiamo l’ attuale numerazione.

192

Cratino

letture derivategli da una seconda ispezione del manoscritto e da comunicazioni di altri studiosi (p. 148). Attualmente, i danneggiamenti sono di maggior entità, si direbbe, rispetto all’epoca di Rabe: se svariate ispezioni autoptiche fanno prendere atto, con una qualche fiducia, di alcuni segni non registrati dall’ editor princeps, d’ altro lato non è possibile leggerne altri che sembrerebbero esser stati invece chiarissimi a Rabe. Il frammento di Cratino dalle Hōrai è citato al f. 274v dopo Ar. Pax 1012 a proposito di μονῳδεῖν, esattamente collocato fra le righe 16 e 18, mentre la glossa occupa le righe 14–24. Il passo di Cratino non era altrimenti noto prima dell’ individuazione e della pubblicazione del lessico. Testo Il frammento consta di due parti non necessariamente contigue, in quanto la presenza di πάλιν solitamente introduce un frammento dello stesso autore e, spesso, della stessa opera (cf. D. S. Bibl. 12.40.6), senza che questo implichi immediata successione (si veda Marzullo 1994, p. 176). Ne consegue che la scelta editoriale di Kassel e Austin sia la più adatta. Sulla parte finale del v. 1 non esiste chiarezza di dettato in quanto il ms. presenta γετι senza spazi e con un debole segno di accento acuto in corrispondenza di epsilon piuttosto che di iota: dunque, in una trascrizione diplomatica si leggerà γέτι. Mancherebbe un segno di spirito dolce – solitamente invece presente, ancorché non in maniera sistematica – se si volesse leggere γ’ ἔτι con Kaibel (ap. Rabe 1895, p. 148). La proposta di Kaibel appare appropriata sul piano stilistico, ma nel caso specifico non sarà questa la miglior soluzione. Stando al versante paleografico, il copista non dà mai indicazioni di elisione, per cui appare significativo al f. 276v (r. 8) δέτι, opportunamente diviso, nel Nachtrag del 1895 (p. 150), in δέ τι, dopo un iniziale δ’ ἔτι (1892, p. 410). Quanto all’ aspetto della storia della tradizione, come osservano Kassel e Austin, in Ar. Pl. 413 il Ravennate divide ἕν γ’ ἔτι contro il resto della tradizione, ma nel caso specifico tutti gli editori hanno scelto la lezione ἕν γε τι (ἕν γέ τι), l’ unica che dia senso pieno (cf. Ar. fr. 506.2 εἷς γέ τις)187. Tutto ciò considerato, il primo testo stabilito da Rabe nell’ edizione del 1892 e poi accolto da Kassel e Austin appare il più appropriato. Interpretazione L’ inclinazione della monodia tragica alle lamentazioni trenodiche non può dirsi talmente vasta da definirne un’ autentica forma di equivalenza con le monodie, come si registra invece in parte della tradizione lessicografica. In Hsch. μ 1645a si legge μονῳδεῖν· μονοθρηνεῖν (Phot. μ 522, μονῳδεῖν· θρηνεῖν che Theodoridis 1998, p. 578 sospetta derivante dalla successiva 527): ne consegue che l’ equivalenza fra μονῳδεῖν e θρηνεῖν della Synagoge allargata (su cui cf. infra) sarà una semplificazione, oppure, quella di Esichio una sovrainterpretazione. La glossa viene ora divisa da Cunningham in una successiva spiegazione (μ 1645b) μονῳδία λέγεται, ὅταν εἷς μόνος λέγῃ τὴν ᾠδὴν καὶ οὐχ ὁμοῦ ὁ χορός = Σa μ 262 (ABCD Cyr. A μον 29) = Phot. μ 528 = Suda μ 1244 tert. inter. La dottrina che ispira la spiegazione nel Lexicon Messanense sembrerebbe in qualche modo presente anche a 187

Cf. Bagordo (2020, p. 58).

Ὧραι (fr. 270)

193

Phot. μ 527 μονῳδία· ἡ ἀπὸ σκηνῆς ᾠδὴ ἐν τοῖς δράμασι. καὶ μονῳδεῖν τὸ θρηνεῖν. (= Suda μ 1244 pr. et sec. inter.) ἐπιεικῶς γὰρ πᾶσαι αἱ ἀπὸ σκηνῆς ᾠδαὶ ἐν τῇ τραγῳδίᾳ θρῆνοί εἰσιν (= Suda μ 1242 alt. inter.). Quanto a Suda μ 1244, si noterà come la glossa raccolga anche altri aspetti dell’ esegesi: … μονῳδία ἐστὶ θρῆνος ᾠδῆς μήτε προσωποποιΐαν ἔχων μήτ’ ἠθοποιΐαν. καὶ τὸ μεῖζον, οἱ μὲν ἄλλοι τοὺς ἐκπεπτωκότας σοφίας θρηνοῦσι, σὺ δὲ ὡς ἀλιτηρίους καὶ μηδέποτε γευσαμένους αὐτῆς τεθρήνηκας. Alla luce della costellazione lessicografica, sarei incline a vedere nella tradizione lessicografica l’ esito di un’ interpretazione del non del tutto chiaro Aristot. Po. 1452b 14–18 e 24s. (μέρη δὲ τραγῳδίας οἷς μὲν ὡς εἴδεσι δεῖ χρῆσθαι πρότερον εἴπομεν, κατὰ δὲ τὸ ποσὸν καὶ εἰς ἃ διαιρεῖται κεχωρισμένα τάδε ἐστίν, πρόλογος ἐπεισόδιον ἔξοδος χορικὸν, καὶ τούτου τὸ μὲν πάροδος τὸ δὲ στάσιμον, κοινὰ μὲν ἁπάντων ταῦτα, ἴδια δὲ τὰ ἀπὸ τῆς σκηνῆς καὶ κομμοί … κομμὸς δὲ θρῆνος κοινὸς χοροῦ καὶ ἀπὸ σκηνῆς)188. Probabile che nella tradizione di esegesi del passo della Poetica siano confluite fonti comiche: alla commedia, non a caso, pensava Naber, nella sua edizione di Fozio, a proposito delle glosse μ 522 e 527 (1864, p. 428). In generale, non si direbbe che il verbo o il sostantivo indichino necessariamente un threnos, visto che in Ar. Ra. 849 si legge ὦ Κρητικὰς συλλέγων μονῳδίας, dove il cretico si associa, nella tradizione, a una danza idealmente vigorosa (cf. supra ad fr. 237), se l’ indicazione di Sosib. FGrHist 595 F 25 (τὰ ὑπορχήματα πάντα μέλη Κρηταϊκὰ λέγεσθαι) può dirsi esatta (cf. Dover 1993, p. 298). Eppure nelle parodie aristofanee dei canti luttuosi di Euripide il cretico ha un proprio ruolo espressivo (cf. infra). In generale, l’ associazione μονῳδίαθρῆνος, riflessa poi meccanicamente nella tradizione lessicografica successiva, non è inspiegabile: il dettato del passo di Aristotele può indurre, erroneamente, a una simile equivalenza; ma soprattutto si dovrà considerare come nei casi in cui un personaggio di Aristofane imita μονῳδίαι tragiche, di fatto si profonde in θρῆνοι a tutti gli effetti. Evidenti saranno il caso di Ar. Th. 1077 (ὦγάθ’ , ἔασόν με μονῳδῆσαι), dove il Parente chiede di poter continuare la monodia in anapesti lirici con cui si apriva la perduta Andromeda euripidea (fr. 114); e il caso di Ra. 1330 (1329s. βούλομαι δ’ ἔτι / τὸν τῶν μονῳδιῶν διεξελθεῖν τρόπον) che introduce un lamento modellato sulle monodie euripidee; e infine il caso del fr. 162 (θεράπευε καὶ χόρταζε τῶν μονῳδιῶν), il cui contesto appare tuttavia irrecuperabile (si veda anche infra al lemma). A ciò si aggiunga il caso, ricordato anche dal testimone di Cratino, di Ar. Pax 1012 (εἶτα μονῳδεῖν ἐκ Μηδείας) cui seguono anapesti lirici189. L’ equivalenza suggerita della tradizione lessicografica fra μονῳδεῖν e θρηνεῖν può avere origini comiche, dove con μονῳδεῖν ci si riferirà a cantica protagonistici, di tensione luttuosa. A giudicare dall’ interpretazione del testimone e dall’ impiego 188 189

Cf. di recente Scattolin (2011). Per le proposte di attribuzione del frammento tragico in Aristofane si veda Olson (1998, p. 263), e la suggestiva ipotesi di Marzullo (1993, p. 560), che pensa che in Aristofane sia in atto una parodia di Eur. Me. 96–98. Sulle monodie di Aristofane cf. ora Di Virgilio (2021).

194

Cratino

aristofaneo di μονῳδία si potrebbe pensare che anche in Cratino si introducesse la parodia di un threnos: certamente, il ritmo dei trimetri di dodici sillabe ciascuno appare modellato su quello tragico190. Si può ipotizzare un tratto metateatrale ma non molto altro: il plurale appare di difficile comprensione considerato il senso del lemma, ma certamente la formazione lessicale (μον-) e l’ effettivo impiego nella dottrina antica del composto (sia verbale che nominale) in relazione a solisti non permette di pensare a un coro né che la persona loquens sia il corifeo. Piuttosto si farà riferimento qui ad alcuni personaggi in scena. Chi sia a proporre la monodia e per quale ragione non si conosce, né si può intendere il senso completo del verso successivo. Dal punto di vista della consequenzialità logica non credo si possa dire che siano versi contigui. Se non si può dir nulla o quasi sull’ interpretazione del frammento si potrà almeno segnalare come, nel v. 2, si dica che un personaggio non potrebbe svolgere una monodia in quanto scosso: si intenderà forse con un nesso causale determinato in qualche modo dal perfetto? Se le cose stessero in questi termini, Cratino starebbe deridendo, forse, la tendenza nella tragedia a lui contemporanea a profondersi in canti virtuosistici per esprimere un sentimento di prostrazione luttuosa, con un effetto melodrammatico. Dovranno dirsi rilevanti, per pertinenza cronologica con le Hōrai, Eur. Me. 131–213, struttura amebea lirico-epirrematica in anapesti, dove prorompe il lamento di Medea; Eur. Hipp. 669–679191; e non escluderei Ps.-Aesch. Pr. 88–127 e 561–608192. La presenza delle monodie a carattere trenetico si proporrà anche nelle sezioni proodiche delle parodoi193: ne danno esempio gli anapesti lirici di Ecuba (Eur. Tro. 98–152), e, molto significativamente, l’ aria in anapesti di Elettra nell’ omonima tragedia sofoclea (El. 86–120)194, cui non mancano tratti di autoreferenzialità della performance (vv. 94 ὅσα … θρηνῶ, quindi 103s. ἀλλ’ οὐ μὲν δὴ λήξω θρήνων / στυγερῶν τε γόων). I kommoi antistrofici offrono esempi di threnoi, per cui si veda e. g. di nuovo l’ Elettra sofoclea che esibisce un kommos antistrofico della parodo (v. 232 ἀνάριθμος ὧδε θρήνων). Cratino avrebbe potuto, in definitiva, cogliere questa tendenza agli assolo tragici, che effettivamente hanno avuto una qualche diffusione come mostrato qui sopra; la tradizione lessicografica, anche sulla spinta

190 191 192 193 194

Al. v. 2 sarei incline a considerare operante la correptio Attica sulla base della forma attica del verbo al v. 1. Come antistrofe al breve intervento corale dei vv. 362–372, su cui Barrett (1964, pp. 287). Su questa seconda sezione, la monodia danzata di Io, cf. ora Andrisano (2019). Non può dirsi tale, ad esempio, il canto di Ione precedente la parodo (Ion 82–183). Per le monodie precedenti la parodo cf. Taplin (1977, p. 246). Non necessariamente si tratta di un canto spiegato continuo, almeno secondo Finglass (2007, ad l.). Tuttavia, le parti liriche non possono esser circoscritte ai soli vv. 88s.: il v. 94 (l.c.) non ha dieresi fra i due metra anapestici, come normalmente avviene negli anapesti lirici. In definitiva la lettura di anapesti lirici dell’ intera sezione proodica, avanzata dalla Lomiento (in Dunn-Lomiento-Gentili 2019, pp. 367s.), risulta la migliore possibile.

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di un’ interpretazione non esatta di Aristotele dove si mescolavano fonti comiche, avrebbe potuto intendere μονῳδεῖν e i suoi derivati come sinonimo di θρηνεῖν per l’ ampia diffusione delle monodie tragiche come trenodie. Quindi, non necessariamente in Cratino il verbo sarà stato legato a un threnos, ma questa resta l’ipotesi più significativa. L’ ipotesi di Kaibel ap. Kassel e Austin, incline a vedere in Cratino uno scherzo sugli assolo tragici, è dunque la più pertinente, se si pensa alla possibilità di una parodia di canti tragici monodici, tipici delle innovazioni euripidee e in parte sofoclee (cf. Barner 1971, pp. 279s. e 285–287, Marzullo 1993, pp. 562–566, 571). v. 1 μονῳδήσωμεν Il verbo è raro, al pari del sostantivo, e né l’ uno né l’ altro sembra utilizzato a distinguere su un piano tecnico l’ assolo, e le sue caratteristiche nel dettaglio. Non si tratta, in definitiva, di un termine degli antichi eruditi, ma, ovviamente, legato alla prassi: a ripercorrerne le occorrenze nel V sec. a. C., si direbbe che il termine sia usato in commedia a delineare la monodia tragica almeno laddove un significato sia ricostruibile dal contesto. Oltre al citato Ar. Pax 1012, vale la pena di richiamare nuovamente (cf. supra) Th. 1077, in quanto la richiesta del Parente e la successiva esibizione canora hanno referenti precisi nell’ Andromeda di Euripide195, il cui canto è un threnos, destinato a fortuna performativa, se ironicamente Luciano (Hist. Conscr. 1.2) richiama l’ episodio del Nachleben della tragedia che impressionò gli Abderiti travolti anche dalla passione per le monodie di Euripide (ἐμονῴδουν)196. Quanto ad Ar. Ra. 849 e a Ra. 944, non è possibile stabilire un qualche riferimento ai threnoi e neppure ad altri generi, tuttavia sono possibili alcune considerazioni. Ad esempio, si potrà notare, in riferimento al v. 849, sulle monodie cretesi, come nelle parodie aristofanee delle monodie di Euripide si trovino svariati cretici spesso in associazione ai giambi, col cretico che poteva essere protratto alla misura del dimetro giambico, con un virtuosismo certamente dirompente non già di Aristofane ma del tragediografo parodiato197. E sempre per stare al richiamo alle monodie cretesi, non sfuggirà l’ invocazione ai Cretesi (Ra. 1356–1360), protagonisti di tragedie euripidee (frr. 460–470 e 471s.), proprio nella sezione parodica delle monodie di Euripide, ovviamente fondata su un ritmo cretico. Il v. 944 della medesima commedia richiama

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Cf. Zimmermann (1985, II p. 14), Pretagostini (1989, pp. 113–117 e 125s.), Di Virgilio (2021). Il passo di Luciano è opportunamente menzionato da Marzullo (1993, p. 564 n. 37), a proposito delle monodie: ἅπαντες  γὰρ  ἐς  τραγῳδίαν  παρεκίνουν  καὶ  ἰαμβεῖα  ἐφθέγγοντο  καὶ  μέγα  ἐβόων,  μάλιστα  δὲ  τὴν  Εὐριπίδου  Ἀνδρομέδαν  ἐμονῴδουν καὶ τὴν τοῦ Περσέως ῥῆσιν ἐν μέρει διεξῄεσαν. Cf. Kugelmeier (1996, p. 269): «Das von Kretikern bestimmte Metrum gehört eher in die Komödie […] und wird erst bei Euripides in seinen metrisch abwechslungsreich gestalteten Monodien verwendet. Aristophanes greift also mit der Nachbildung gerade dieses Versmaßes den für die euripideischen Monodien charakteristischen Zug des metrischen Variationsreichtums auf, der als Beispiel für das Abweichen der modernen Tragödie von ihrer eigenen klassischen Norm steht».

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Cratino

le monodie, più probabilmente come innovazione euripidea. Quanto al fr. 162, sembrerebbe poter esser in qualche modo associabile, sul piano dei contenuti, a Ra. 849, con tutte le cautele date dall’ assenza di contesto. In Pl. Leg. 764d–e, emerge un uso di μονῳδία che non potrà dirsi tecnico (cf. anche 700a–b)198. Secondo Pfeiffer (1968, p. 283), dunque, il termine, quando nella letteratura erudita assumerà un valore più tecnico, sarà «strictly applied to the song of a single actor in tragedy» e non in relazione a una modalità di esecuzione slegata dal genere199. αὐτοῖς si potrebbe riferire al pubblico, magari in una situazione scenica che può esser paragonata a quella con cui si aprono le Rane di Aristofane (cf. vv. 1–3 εἴπω τι τῶν εἰωθότων, ὦ δέσποτα, / ἐφ’ οἷς ἀεὶ γελῶσιν οἱ θεώμενοι; / ΔΙ. νὴ τὸν Δί’ ὅτι βούλει γε). v. 2 ἐκπεπληγμένος il verbo appare sin da Omero nella poesia aulica, e segnatamente in tragedia (cf. Eur. Me. 8, Hipp. 38, Soph. OT 922). A giudicare dai contesti tragici richiamati a mo’ di esempio, si direbbe che il personaggio che non potrebbe prodursi in una monodia è scosso per un dolore. Da segnalare che la forma al perfetto si trova nell’ Ippolito e nell’ Edipo re sempre alla fine del verso.

fr. 271 K.–A. (251 K.) μῶν βδελυγμία σ’ ἔχει; πτερὸν ταχέως τις καὶ λεκάνην ἐνεγκάτω βδελυγμία σ’ ἔχει C : βδελυγμία ἔχει L, βδελυγμ’ ἔχειν S, μαέλυγμ’ ἔχειν F persona cogitat Kassel ad v. 2

de altera

ti ha preso la nausea, vero? Presto! Qualcuno porti fuori una piuma e il catino! Poll. 10.76 καὶ γὰρ ἵνα ἐξεμοῦσι, καὶ τοῦτο λεκάνην ὠνόμαζον, ὡς Κρατῖνος μὲν ἐν Ὥραις ἔφη· μῶν — ἐνεγκάτω e infatti dove vomitano, chiamavano anche questo lekanē, come ha detto Cratino nelle Hōrai: ti ha preso — catino

Metro secondo emistichio di un trimetro giambico seguito da trimetro giambico

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Cf. Fäber (1936, p. 16) e Davies (1988, p. 58 e n. 41), che riprende le conclusioni di Fäber e di Pfeiffer (l. c.) Un simile impiego deve dirsi decisamente tardo (cf. Davies 1988, p. 58 n. 41).

Ὧραι (fr. 271)

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Bibliografia Runkel (1827, p.70); Lucas (1828, pp. 23s.); Meineke (1839b, pp. 165s.); Bothe (1855, pp. 51s.); Kock (1880, p. 89); Edmonds (1957, pp. 112s.); PCG IV p. 259; Storey (2011, pp. 394s.) Contesto della citazione Il frammento si trova in Poll. 10.76, alle prese con recipienti: secondo l’ erudito, la lekanē sarebbe impiegata anche come recipiente dove vomitare, e cita, come esempio, il frammento delle Hōrai di Cratino. Testo Il testo non soffre di problemi testuali ed errori della tradizione che non siano stati facilmente sanati in passato con emendamenti poi confermati da uno studio sistematico della tradizione. Interpretazione Restano in larga parte irricostruibili l’ articolazione drammatica e il senso del frammento. Che si possa trattare di una scena su una barchetta, infrequente ma non impossibile in commedia, non può dirsi sicuro: sia per assenza di contesto, nonostante Phryn. PS 54.4 garantisca in tal senso specifico il termine βδελυγμία (ἡ ναυτία ἡ κινοῦσα ἔμετον), e sebbene la medesima dottrina atticista si riscontri in Hsch. β 383 (βδελυγμίαι· ναυσίαι) che forse appartiene alla medesima costellazione di Frinico, a giudicare anche dagli errori dei rispettivi manoscritti; sia per l’ impiego registrato dallo stesso Poll. 6.44 del termine βδελυγμία in relazione alla condizione di nausea determinata dall’ eccesso di cibo, secondo Xen. Mem. 3.11.13 (ὁρᾷς γὰρ ὅτι καὶ τῶν βρωμάτων τὰ ἥδιστα, ἐὰν μέν τις προσφέρῃ πρὶν ἐπιθυμεῖν, ἀηδῆ φαίνεται, κεκορεσμένοις δὲ καὶ βδελυγμίαν παρέχει). In sede di apparato, Kassel ha proposto di dividere i versi fra due interlocutori differenti, il che è probabile, se si considera il piano quantitativo delle ricorrenze di μῶν, impiegato in teatro per domande seguite immediatamente da risposte di altri personaggi (cf. e. g. Eur. Hipp. 318, 1160, Tro. 55, Cycl. 158, Ar. Ach. 418, Pax 258, Th. 31–33, Av. 109, 1014, Ec. 986). Non si tratta tuttavia di una condizione automatica (cf. Eur. Hipp. 794, Ar. Ach. 329, Av. 96), e, d’ altra parte, non si può escludere che in taluni casi, dunque anche in Cratino, la risposta sia stata fornita anche e soprattutto, se non esclusivamente, sul piano dell’ azione fisica. In Eur. Cycl. 156–159, la domanda di Odisseo μῶν τὸν λάρυγγα διεκάναξέ σου καλῶς; (v. 158) si verifica quando Sileno ha già bevuto il vino (vv. 156s.), con soddisfazione: ne consegue che una risposta in realtà era prevedibile, e tuttavia Sileno reagisce (v. 159), in quanto fornisce la risposta, affermativa, che Odisseo non vorrebbe ascoltare e per cui aveva utilizzato μῶν (sul senso di μῶν cf. infra). Una situazione simile si potrebbe riconoscere in Ar. Ach. 329s., dove il corifeo chiede μῶν ἔχει του παιδίον / τῶν παρόντων ἔνδον εἵρξας; cui segue una risposta non verbale, peraltro forse ovvia, perché il corifeo continua con ἢ ’ πὶ τῷ θρασύνεται; frase con cui si dà l’ avvio alla scena paratragica del cesto di carboni di Diceopoli. La proposta del cambio di interlocutore in Cratino può esser stata suggerita a Kassel dal confronto con Ar. Ach. 584–586 (φέρε νῦν ἀπὸ τοῦ κράνους μοι τὸ πτερὸν. / :: τουτὶ πτίλον σοι. :: τῆς κεφαλῆς νῦν μου λαβοῦ, / ἵν’ ἐξεμέσω· βδελύττομαι γὰρ τοὺς λόφους.), o da Ar. Nu. 907 (δότε μοι λεκάνην), puntualmente segnalati, dove è chi si accinge a vomitare a chiedere l’ occorrente per intensificare e accelerare i conati (cf. Plut.

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Cratino

Mor. 801a, che, nell’ introdurre parti di Pl. Com. fr. 201, ha riportato o parafrasato verisimilmente parole del testo comico); una scena analoga si potrà riscontrare nel difficile in quanto corrotto Polyzel. fr. 4, inutile tuttavia per valutare cambi di interlocuzione o meno in Cratino (cf. anche Theop. Com. fr. 41.1). Il fr. 292 (cf. ad l.) deriva probabilmente dalla stessa scena e meglio si spiega se gli oggetti richiesti qui fossero stati rifiutati, magari in quanto non disponibili, al richiedente (cf. Lucas 1828, pp. 23s.). v. 1 μῶν (= μὴ οὖν). Non si direbbe che l’ interesse retorico di μῶν, almeno in teatro, risieda nella risposta, che generalmente si attende come negativa, ma che non necessariamente lo è (cf. supra). Piuttosto, sarà da considerare l’intenzione con cui l’ interlocutore pone la domanda, che in quanto introdotta da μῶν esibisce di fatto una riluttanza dell’ interlocutore, variamente giustificata sulla base dei contesti (cf. Barrett 1964, p. 314s., ripreso da Orth 2017, p. 241), rispetto all’ idea che la risposta possa essere invece affermativa. In commedia, a queste intenzioni etologiche si aggiungeranno effetti comici, in quanto nello scambio di battute l’ impiego di μῶν contribuisce ad ampliare lo scarto inatteso fornito dalla risposta, come avviene in Ar. Th. 31–33, dove il gioco si realizza non solo grazie agli aggettivi, inadatti al tragediografo Agatone, ma anche grazie a μῶν (cf. Dover 1968b, p. 828). Nel caso di Cratino, considerata l’ esiguità del frammento e le ragioni della citazione da parte di Polluce, non si può delineare l’ intenzione con cui μῶν è stato impiegato. βδελυγμία σ’ ἔχει il termine nella tradizione atticista indica la nausea provocata dall’ oscillazione delle imbarcazioni, come informa Phryn. PS 54,4 (cf. supra), la cui dottrina rifluisce in Hsch. β 383 (cf. supra). Che il senso sia tanto specifico non è sicuro, cf. Xen. Mem. 3.11.13 (cf. supra), dove la nausea è determinata dall’ eccesso di cibo. L’ espressione che vede coinvolto passivamente il soggetto rispetto a una condizione – reale o astratta – con ἔχειν ha origine aulica (cf. Od. 24.244 ἀδαημονίη σ᾽ ἔχει, e σέβας μ᾽ ἔχει in Od. 3.123, 4.75, 4.142, 6.161, 8.384, o anche ἄγη μ᾽ ἔχει in Il. 21.221, Od. 3.227, 16.243), ricorre probabilmente in Sapph. fr. 63.5 (ἔλπις δέ μ᾽ ἔχει). Oltre a numerose occorrenze tragiche (cf. e. g. Aesch. Suppl. 379 φόβος μ᾽ ἔχει φρένας, Ag. 1243 φόβος μ᾽ ἔχει, fr. 132c.12 αἰδώς μ᾽ ἔχει, Soph. Tr. 350 ἀγνοία μ᾽ ἔχει, OC 652b τοῦ μάλιστ᾽ ὄκνος σ᾽ ἔχει; frr. 314.278 φόβος μ᾽ ἔχει, 953.1 θανόντι κείνῳ συνθανεῖν ἔρως μ᾽ ἔχει, Eur. Me. 356 οὐ γάρ τι δράσεις δεινὸν ὧν φόβος μ᾽ ἔχει, Hec. 970 αἰδώς μ᾽ ἔχει = Or. 460 = Ba. 828, HF 515, Hcld. 891s. σ᾽ ἔχει / νεῖκος, IA 837 ἀφασία μ᾽ ἔχει), l’ espressione più vicina a quella di Cratino, e di cui, allo stato attuale delle conoscenze, Cratino di fatto costituisce il primo esempio comico, è Ar. Th. 904 ἀφασία τίς τοί μ᾽ ἔχει, ma cf., per il tipo di effetto simile a quello di cui si parla in Cratino, il v. 484 στρόφος μ᾽ ἔχει τὴν γαστέρ᾽, ὦνερ, κὠδύνη, con doppio accusativo. v. 2 πτερόν la pratica di solleticare la gola per provocare i conati di vomito risulta nota, né solo dalla commedia. Oltre alla scena di Ar. Ach. 584–586, ai menzionati Plut. Mor. 801a nell’ introdurre un verso di Pl. Com. fr. 201 con espressioni parafrasate dal commediografo stesso, e Theop. Com. fr. 41.1, cf. Nic. Alex. 361s.,

Ὧραι (fr. 271)

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nonché Martial. 3.82.9 (stat exoletus suggeritque ructanti / pinnas rubentes cupidesque lentisci), Suet. Claud. 33 (su cui Ramírez de Prado 1607, p. 278). λεκάνην come osserva Arnott (1996, p. 369), nel commentare Alex. fr. 129.5, si tratta di uno dei numerosi derivati di λέκος. Non è del tutto chiara la forma del recipiente200, mentre dalle testimonianze antiche si ricava una notevole varietà di impieghi (cf. Arnott l. c.), fra cui anche quella di raccogliere il vomito, cf. Ar. Nu. 907 e Polyzel. fr. 4, menzionato supra, che richiama il recipiente per il medesimo scopo di Cratino, e, non per caso evidentemente, condivide col frammento di Cratino il testimone. Per l’ impiego come recipiente per gli effetti della nausea, si potrebbe considerare Ar. fr. 402.6 (τρυγός τε φωνὴν εἰς λεκάνην ὠθουμένης). ἐνεγκάτω non si può esser certi che l’ ordine sia stato esaudito, in quanto lo stato frammentario non permette di chiarire una simile opzione. Il verbo di per sé non garantisce che quanto richiesto sia portato alla vista degli spettatori, come in altri casi. Probabilmente, sarà piuttosto il composto con ἐκ- ciò che meglio suffraga l’ ipotesi che un servo porti in scena quanto ordinato: cf. Ar. Ach. 1109, dove con ἐξένεγκε si richiede che qualcuno porti fuori un λοφεῖον; in Ar. Nu. 19 κἔκφερε implica l’ azione del servo che porti alla vista del pubblico il registro dei conti di Strepsiade201; in Ar. Ve. 860 si richiede di portar fuori fuoco e incenso. Il verbo semplice, accompagnato dall’ avverbio ἔνδοθεν, si trova in Ar. Ach. 805 (ἐνεγκάτω τις ἔνδοθεν τῶν ἰσχάδων, cf. Lys. 199), e, ad esempio, in Ar. Th. 238 (ἐνεγκάτω τις ἔνδοθεν δᾷδ’ ἢ λύχνον). In tali casi, l’ attuazione scenica è garantita da ἔνδοθεν (cf. supra). Tutte le altre ricorrenze del verbo semplice e privo di avverbio andranno valutate caso per caso in termini di economia e pertinenza scenica: se dunque Ar. Nu. 1490 (ἐμοὶ δὲ δᾷδ’ ἐνεγκάτω τις ἡμμένην) prevederà l’ arrivo in scena di una torcia per la scena finale202, non vale lo stesso in Ar. Ra. 1304 visto che alla richiesta della lira segue subito un contrordine. Né si può esser certi di una visibile realizzazione scenica del comando impartito da Trigeo in Ar. Pax 1149 e 1153 di portare (ἐνεγκάτω τις … ἔνεγκε) innumerevoli leccornie. Il passo che più si avvicina a questo di Cratino è forse Ar. Ve. 529 ἐνεγκάτω μοι δεῦρο τὴν κίστην τις ὡς τάχιστα: si tratta di una richiesta di Bdelicleone in risposta alla spada domandata poco prima da Filocleone in procinto di affrontare una tenzone di parole (v. 522); né la spada né il cestino sono con sicurezza portati in scena, se si considera come la loro presenza sia in realtà secondaria rispetto alla tensione drammatica costruita dalla parola203.

200 201 202 203

Cf. Richter-Milne (1935, pp. 23s.), Amyx (1958, p. 204s.), Sparkes-Talcott (1958, figg. 13, 20, 22), Sparkes (1962, pp. 128s.). Cf. Dover (1968, p. 95). Cf. almeno Zimmermann (2006) e Sommerstein (1973, p. 109). Per la presenza di questi oggetti cf. da ultimi Biles-Olson (2015, p. 253).

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Cratino

fr. 272 K.–A. (252 K.) “ταῦτ’ 〈αὐτὰ〉 πράττω”, ’ φασκ’ ἀνὴρ οὐδὲν ποῶν ταῦτ’ 〈αὐτὰ〉 Dobree (1874, III p. 52) : ταῦτα Phot., Suda 167) : πράσσων Phot., Suda, πράσσω Toup (1790, II p. 232) accentu : ποιῶν Suda (-GM)

πράττω Meineke (1839b, p. ποῶν Suda GM, Phot. sine

“È proprio quello che faccio”, diceva un uomo che non faceva nulla Phot. τ 81 (= Suda τ 173) ταῦτα πράσσων — ποῶν· Κρατῖνος  Ὥραις. ἡ γὰρ παροιμία ἐπὶ τῶν μηδὲν ποιούντων è proprio — nulla: Cratino nelle Hōrai. Il proverbio si usa per coloro che non fanno niente

Metro trimetro giambico

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Bibliografia Toup (1790, II p. 232); Dobree (1874, III p. 52); Meineke (1839b, p. 167); Meineke (1847, p. 54); Bothe (1855, p. 52); Cobet (1858, p. 476); Kock (1880, p. 89); Crusius (1889b, p. 448); van Herwerden (1903, p. 36); Edmonds (1957, pp. 112s.); PCG IV p. 259; Storey (2011, pp. 396s.); Orth (2017, p. 240) Contesto della citazione Il trimetro, come ricostruito con alcuni interventi moderni, è tramandato da Phot. τ 81 e ripreso in Suda τ 173: le due glosse per lo più condividono gli errori, specialmente l’ omissione di -ὐτὰ e dunque un’ errata divisio verborum, ciò che non basta a considerare, come volle Naber, recentemente ripreso da Theodoridis (1998), la Suda dipendente da Fozio per via diretta, come se l’ archetipo della Suda costituisse, per certune glosse, un codice descritto di Fozio. Anche questa glossa non ostacola l’ ipotesi avanzata fin da Wentzel (1895, p. 480) di una comune fonte fra i due lessici, da identificarsi nella Synagoge allargata204 (cf. anche ad fr. 234). Testo Il testo non presenta particolari difficoltà: nella forma tràdita il trimetro manca di una sillaba nel primo metron, di qui la proposta di Dobree (1874, III p. 52) di leggere ταῦτ᾽ αὐτὰ πράσσω, ipotesi generalmente accolta dai vari editori del frammento comico e segnalata con favore da Theodoridis nella sua edizione di Fozio. Cobet (1858, p. 476) propose di mantenere il testo tràdito preceduto da τί: l’ intervento, apprezzato da Naber (1865, p. 202), ha meno probabilità di quello avanzato da Dobree. Da segnalare che l’ emendamento di Cobet era stato già proposto da Toup (1790, II p. 232). Sempre a Toup (ibid.) si deve la lieve ma decisiva correzione del participio πράσσων della tradizione nell’ indicativo

204

Per un’ ampia discussione si veda almeno Tosi (2001, pp. 347–351).

Ὧραι (fr. 272)

201

πράσσω, modificato nella forma attica πράττω da Meineke205, che andrà con tutta probabilità accolta, sulla base di Ar. fr. 41.1, τοῦτ’ αὐτὸ πράττω (cf. Orth 2017, p. 240). Con questa forma, si crea anche un’ insistenza sulla dentale sorda assente invece con πράσσω. Interpretazione Secondo il testimone, si tratterebbe di un proverbio, assente però nelle raccolte dei paremiografi, e indicherebbe chi non fa nulla: la spiegazione appare autoschediastica. Forme simili adattate in comicum sono diffuse nella tradizione paremiografica, cf. Prov. Bodl. 750 (App. Prov. 4.15 οἶκος φίλος, οἶκος ἄριστος· ἔνιοι τὴν παροιμίαν ἐπὶ τὸ γελοιότερον μεταφράζοντες, ταύτην ἐπὶ τῆς χελώνης φασίν), Zen. vulg. 6.42 (χαῖρε φίλον φῶς· γραῦς θέλουσα ἀκολασταίνειν γυμνὴ, ἵνα μὴ τὴν ῥάκωσιν τοῦ σώματος ἐλέγξῃ, τὸν λύχνον ἀποσβέσασα εἶπε, χαῖρε φίλον φῶς), su cui Haupt (1876, p. 396, ma la lezione risale al 1868) e già Hemsterhuis (1811, p. 395, 2 ed. postuma), in sede di commento ad Ar. Pl. 1066, meno sistematicamente in quanto interessato ad altri aspetti; cf. per forme simili anche Lucil. Sat. 531 M. ‘hoc aliud longe est’, inquit, qui cepe serebat (su cui Crusius 1889, p. 448). Questa prassi ha un intento faceto, evidentemente, ma non per forza trae origine dalla commedia, dal momento che esiste anche come impiego letterario non per forza frutto di prassi allusiva alla commedia, cf. Theocr. 15.77 (κάλλιστ’. “ἔνδοι πᾶσαι” ὁ τὰν νυὸν εἶπ’ ἀποκλᾷξας). Da segnalare, per tangenza di genere e per struttura sintattica, Ar. Ve. 1183s. ὦ σκαιὲ κἀπαίδευτε – Θεογένης ἔφη / τῷ κοπρολόγῳ, καὶ ταῦτα λοιδορούμενος (cf. anche Suet. Tib. 61). La ricostruita espressione di Cratino ha un parallelo esatto in Ar. fr. 41.1 (τοῦτ’ αὐτὸ πράττω, cf. tuttavia la lieve variazione di Ar. Pl. 414 τοῦτ’ αὐτὸ δρῶ)206. Probabilmente, essa può ricondursi a un intercalare ben attestato in commedia quale ταῦτα ποιήσω, cf. e. g. Ar. Lys. 506, 842, 948s., Ra. 1515, Alex. fr. 129.14; per δράσω ταῦτα cf. Ar. Nu. 436s., Pax 426s. Per la struttura col verbo sottinteso, cf. Ar. Ach. 815, Eq. 111, Ve. 142, 851, 1008, Pax 275. Si direbbe che si tratti di espressione diffusa anche in tragedia, per lo più realizzata come δράσω τάδε: cf. e. g. Soph. OC 1773, Eur. Me. 183s., 259, 267, 926s., Hipp. 1087s. Che si tratti di espressione generalmente colloquiale suggerisce Fraenkel (1962, pp. 80–89), che rimanda a numerosi passi di Platone (pp. 83s.). Sarà da considerare, inoltre, Soph. El. 319 (φησίν γε· φάσκων δ’ οὐδὲν ὧν λέγει ποεῖ), già segnalato da Toup (1790, II p. 232 e richiamato da Dobree 1874, III p. 52).

205 206

Lo studioso indicava questa forma in sede di commento nell’ editio maior e la stampava a testo nella minor (1847, p. 54). Cf. van Herwerden (1903, p. 36).

202

Cratino

fr. 273 K.–A. (253 K.)

〈kl〉 πυρορραγὲς κακῶς 〈τ’〉 ὠπτημένον ἴσως π. Suda ubi a Cratini verbis ἴσως seiunxit Luppe (1969, p. 225) ut ἴσως verbum Sudae esset : ἴδ’ ὣς π. Porson (1812, p. 285), sed ἰδέ comicis ignotum adm. Kock (1880, p. 89), ἴσως secl. Bernhardy (1853, p. 575) {καὶ} κακῶς 〈τ’〉 Küster (1710, Notae, p. 126, sed vd. Id. 1705, 245) : καὶ κακῶς Suda contra metrum

rotto al fuoco e cotto male Suda π 3231 πυρορραγής· σαθρός, ἄχρηστος. ἀπὸ τοῦ ἐν ταῖς καμίνοις διαρρησσομένου κεράμου (= Phot. π 1564). πυρορραγῆ κεράμια καλεῖται ὅσα ἐν τῷ πυρὶ ῥήγνυνται ἐν τῷ ὀπτᾶσθαι (cf. Suda ψ 127). Κρατῖνος ἐν  Ὥραις ἴσως· πυρορραγὲς — ὠπτημένον. ὁ δὲ κέραμος πυρορραγὴς γενόμενος σαθρὸν ἠχεῖ (cf. schol. Ar. Ach. 933a nec non Suda ψ 127). purorragēs: infranto, inutilizzabile. (Si dice) a partire dal vaso rotto nei focolari. Si chiamano purorragē i vasi di ceramica, quanti sul fuoco si spaccano nella cottura. Cratino nelle Hōrai allo stesso modo: rotto — male. Un vaso di ceramica diventato purorragēs risuona come cosa infranta Poll. 7.164 πυριρραγὴς δὲ Κρατίνου εἰπόντος ἐν Ὥραις ἐφαρμοστέον τοὔνομα τῇ κεραμευτικῇ, ἐπεὶ καὶ Ἀριστοφάνης ἐν τοῖς (τ. om.FS) Ἀχαρνεῦσιν εἴρηκεν seq. v. 934 purirragēs Cratino ha detto nelle Hōrai, bisogna usare la parola con la ceramica, visto che anche Aristofane negli Acarnesi ha detto (seq. v. 934)

Metro trimetro giambico

〈kl〉klkl|klllkl

Bibliografia Porson (1812, p. 285); Meineke (1839b, p. 167); Bernhardy (1853, p. 575); Bothe (1855, p. 52) Kock (1880, p. 89); Edmonds (1957, pp. 112s.); Luppe (1969, p. 225); PCG IV p. 260; Tosi (1988, pp. 154s.); Storey (2011, pp. 396s.) Contesto della citazione Il frammento rientra in una costellazione lessicografica di stampo sinonimico che ha interessi in qualche modo atticisti. La forma più ampia della glossa è Suda π 3231, per la prima parte identica a Phot. π 1564; l’ enciclopedia bizantina prosegue poi con una precisazione che si vorrebbe ricompresa nella tradizione cui appartengono anche schol. Ar. Ach. 933a207 e la parte 207

Che nella Suda si debba riconoscere o meno un terzo ramo della tradizione scoliastica aristofanea, è questione dibattuta. Acquisizioni importanti in tal senso si trovano in Alpers (2009, pp. 84–86). Le ipotesi dello studioso possono trovare conferma anche in questa costellazione, dove la forma πυρο- si trova nella Suda e negli scolî aristofanei. Mi pare più complesso pensare che la Suda abbia ripreso il lemma da Fozio per poi correg-

Ὧραι (fr. 273)

203

conclusiva di Suda ψ 127; prosegue quindi con la citazione di Cratino, e con una precisazione finale che si direbbe collegabile all’ esegesi del passo aristofaneo (cf. anche Suda ψ 127). L’ indicazione di Cratino, però sine verbis, si trova anche anche in Poll. 7.164, che conclude la notizia con la citazione di Ar. Ach. 934, dove il senso è traslato (vv. 932–934, ἐπεί / τοι καὶ ψοφεῖ λάλον τι καὶ / πυρορραγὲς / κἄλλως θεοῖσιν ἐχθρός). Quale sia la fonte da cui discende questo materiale è difficile a dirsi, ma si potrebbe ipotizzare un repertorio comune, variamente epitomato in alcuni testimoni. Testo Il testo presenta alcune difficoltà. Nessuno, mi pare, ha messo in dubbio che nel passo della Suda si trovi un trimetro di Cratino ottenibile attraverso alcuni emendamenti: ciò che non trova un consenso invece sono i confini della citazione. Se non si emenda il testo, emerge che Cratino – allo stesso modo di Aristofane (ἴσως)? – intende un oggetto in terra cotta che si rompe sul fuoco di cottura e qualcosa di cotto male. Gli emendamenti non paiono dunque obbligati a uno stato del testo altrimenti disperato per la sua comprensione. Fin da Porson (1812, p. 285), l’ avverbio che si vorrebbe iniziale nel frammento ha destato sospetti: lo studioso provvide a correggere in ἴδ’ ὣς. La proposta di Porson, che aveva interessato Meineke («fortasse recte», 1839b, p. 167), fu rifiutata da Kock (1880, p. 89) perché ἰδέ sarebbe «comicis ignotum». Se la soluzione di Porson può esser incerta, si dovrà perlomeno valutare come l’ avverbio ἴσως nel frammento abbia destato dubbi anche di altri studiosi oltre a Meineke: a cominciare da Bernhardy (1853, p. 575), che lo atetizzò, per continuare in tempi più recenti con Luppe (1969, p. 225), che lo attribuiva al testimone, a mio avviso correttamente208. Se si scorrono gli indici di Meineke assieme a quelli di Austin, si ricava che ἴσως si trova in Cratino solo nel fr. 197, non in posizione incipitaria. E si dovrà riconoscere che né questa né tantomeno alcuna delle altre occorrenze comiche dell’ avverbio è minimamente avvicinabile al testo tràdito dalla Suda: in qualche modo, il frammento di Cratino, se sano, sembra presupporre un ordine delle parole inatteso, ragione per cui l’ idea che ἴσως non sia del frammento ma la conclusione delle parole del testimone appare perspicua. Quanto alla sequenza tràdita καὶ κακῶς, si dovrà segnalare come essa sia evidentemente contra metrum se si intende ricostruire un trimetro giambico: è stato dunque generalmente accolto l’ emendamento di Küster in sede di edizione degli Acarnesi (1710, Notae, p. 126; nell’edizione della Suda 1705, p. 245 traduceva il testo tràdito), che propose un semplice {καὶ} κακῶς 〈τ’〉.

208

gerlo sulla base della tradizione scoliastica aristofanea, con cui sarebbe implementata la glossa. Cf. Tosi (1988, p. 155). Non richiamo qui la cinquantina di casi in cui Polluce impiega questo avverbio, ma si vedano comunque 6.58, 6.90, 7.136, 8.39, 9.43. A voler seguire l’ ipotesi di Porson, ma senza trascurare le obiezioni di Kock, si potrà comunque ipotizzare ἰδών oppure ἰδού.

204

Cratino

Interpretazione L’ interpretazione del frammento non può esser tentata in quanto manca il contesto, né si può stabilire se il passo vada valutato in senso letterale, o almeno parzialmente metaforico. Nel luogo degli Acarnesi il valore prevalente è uditivo: a sostegno si potrebbe segnalare quanto indica Gaisford (1834, c. 3189). Che qui si alluda in qualche modo a Iperbolo (PA 13910; PAA 902050, cf. ad fr. 283) e alla sua professione di commerciante di lampade è un ipotetico tentativo esegetico di Müller Strübing (1890, p. 532 n. 10), che rimane speculativo. πυρορραγές la v. l. attestata nella tradizione è πυριρραγές, sia per i testimoni di questo frammento (cf. apparato), sia ad esempio in schol. Il. 2.219 (la lezione di T è πυριρραγές).

fr. 274 K.–A. (254 K.) ἔδει παρασχεῖν ὅ τι τις εὔξαιτ’ ἔμβραχυ παρασχεῖν Cobet (1873, p. 208) : παρέχειν T schol. Pl. Gorg. : ἐνβράχυν schol. Pl. Theag.

ἔμβραχυ schol. Pl. Hipp. min., ν supra μ

si doveva fornire ciò che eventualmente uno richiedeva, per dirla in breve schol. Pl. Theag. 127c = schol. Pl. Gorg. 457a = schol. Pl. Hipp. min. 365d ἔμβραχυ (ν supra μ schol. Gorg., schol. Hipp. min.) συντόμως καὶ ἁπλῶς seq. Hyper. fr. 41 J. (= B.) … et Ar. Th. 390 … , Κρατῖνος Ὥραις· ἔδει — ἔμβραχυ embrachu: insomma, semplicemente seq. Hyper. fr. 41 J. (= B.) […] e Ar. Th. 390 […], Cratino nelle Hōrai: si doveva — in breve

Metro trimetro giambico

klkll|kkklllkl

Bibliografia Elmsley (1810, p. 238); Meineke (1839b, pp. 167s.); Bothe (1855, p. 52); Cobet (1873, p. 208); Kock (1880, p. 90); Wyse (1904, p. 634); Edmonds (1957, pp. 112s.); PCG IV p. 260; Storey (2011, pp. 396s.) Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da alcuni scolî platonici, da ascriversi a una più ampia tradizione atticista raccolta in una costellazione lessicografica rappresentata, fra gli altri, da Hsch. ε 2311 ἔμβραχυ· μικρόν. ἢ καθόλου, ὅλως. συντόμως. ἁπλῶς, cf. quindi Σa ε 328, Phot. ε 705, Suda ε 955, Ps.-Zon. 712.19, sim. Lex. Rhet. 258.22, Tim. ε 17, Ps.-Did. 22209. Per rilevare l’ impiego di ἔμβραχυ, gli scolî platonici citano Hyper. fr. 41 J. (= B.), Ar. Th. 390 e il frammento di Cratino, garantendo come esso provenga dalle Hōrai. 209

Per un approfondimento della costellazione e dei rapporti con la tradizione platonica si rimanda a Valente (2012, pp. 133 e 270).

Ὧραι (fr. 274)

205

Testo Il frammento è tràdito contra metrum, e pertanto necessita di un intervento. Nell’ edizione di Kassel e Austin si impone il παρασχεῖν di Cobet (1873, p. 208) al posto del tràdito παρέχειν, preferito ad altre soluzioni, come l’ inserzione di σε (Elmsley 1810, p. 238) – apprezzata ma non stampata a testo da Meineke (1839b, p. 167s.) – o di δέ (Bothe 1855, p. 52), entrambe prima di παρέχειν. Che l’ errore si annidi altrove, fu ipotizzato da Blomfield (1810), che, in sede di commento di Ps.-Aesch. Pr. 768, integrava ὅ τι 〈ἄν〉 τις, contestato poi da Elmsley (l. c.), che in sede di recensione all’ edizione di Blomfield del Prometeo indicava la propria integrazione (cf. supra) e segnalava come quella di Blomfield potesse funzionare col presente δεῖ e il congiuntivo εὔξηται. Ci sono esempi di corruzione che dovrebbero indurre a ipotizzare che l’ errore sia in παρέχειν o subito dopo: Men. Dysk. 287, per cui PBodm. ha πάρεχε σ〈ε〉αυτόν, mentre la tradizione indiretta, rappresentata dal ms. S di Stobeo e confusa, prima della scoperta del papiro menandreo, con quella del fr. 218, ha πάρεσχε, cui va preferito πάρεχε; e Diphil. fr. 98, dove una parte della tradizione (Zen. vulg. 4.18) presenta un errore di aplografia vicino al verbo. Rispetto alla scelta fra il presente e l’ aoristo di questo verbo, si potrà notare come in commedia l’ aoristo sia più raro del presente, anche nei modi non finiti, situazione riscontrabile anche in tragedia, per cui cf. Eur. Hec. 842, il cui παράσχες fu difeso da Porson, che tuttavia notava che «it is not much in use»210. Tutto ciò considerato, si direbbe che l’ intervento di Cobet si imponga per semplicità e in favore di una scelta difficilior. Interpretazione L’ interpretazione del frammento è destinata a rimanere oscura. Nel tentarne un’ esegesi Kock (1880, p. 90) ipotizzava che «ceterum poeta loqui videtur de cornu copiae», il che resta molto speculativo. παρασχεῖν come segnalato sopra l’ aoristo è piuttosto raro in commedia (10x nelle commedie integre di Aristofane e 6x nei frammenti comici). ἔμβραχυ si tratta del nucleo della citazione, da intendersi, secondo i testimoni, come συντόμως καὶ ἁπλῶς. Fu Heindorf, nel commentare Pl. Gorg. 457a, a segnalare come l’ avverbio significhi, di fatto, qualcosa come ὡς ἔπος εἰπεῖν (cf. 1829, p. 34), utilizzato però solo con le frasi subordinate relative (cf. anche Cobet 1873, p. 208). L’ avverbio si trova normalmente dopo la congiunzione relativa come negli altri due casi indicati dai testimoni del frammento di Cratino – Hyper. fr. 41 J. (= B.) e Ar. Th. 390 – o prima, come avviene in quasi tutti i passi di Platone su cui si concentra la tradizione scoliastica – Gorg. 457a, Smp. 217a, Hipp. min. 365d, cui si può aggiungere Ar. Ve. 1120. Solo nel caso di Pl. Theag. 127c, notoriamente dubbio, e in questo frammento di Cratino l’ avverbio si trova dopo il verbo della relativa (cf. Wyse 1904, p. 634). Si tratta di linguaggio colloquiale (cf. Austin-Olson 2004, p. 178).

210

Per chiarezza, segnalo che nell’ edizione si tratta del v. 830, e che ho potuto consultare solo l’ edizione del 1840 che conserva la nota di Porson. La citazione si trova dunque in Major (1840, p. 76).

206

Cratino

fr. 275 K.–A. (255K.) ἐκεῖνος αὐτὸς ἐκμεμαγμένος post αὐτὸς FS οὕτως add. : οὕτως ἐκεῖνος αὐτὸς Toup (1790, IV p. 383), ἐκεῖνος αὐτὸς οὗτος Salmasius, ἐκεῖνος οὗτος αὐτὸς Edmonds (1957, p. 112), de v. l. αὐτὸς /οὗτος cogitat Kassel (1973, p. 102)

proprio lui spiccicato Poll. 9.130s. καὶ εἰκόνα ἄν τις εἴποι … καὶ ἐκμεμαγμένον. οὕτω γὰρ καὶ Κρατῖνος ἐν ταῖς Ὥραις· ἐκεῖνος — ἐκμεμαγμένος uno potrebbe dire sia un ritratto […] sia plasmato / spiccicato. In tal modo infatti anche Cratino nelle Hōrai: proprio — spiccicato

Metro giambi?

klklklklku

Bibliografia Toup (1790, IV p. 383); Meineke (1839b, p. 165); Bothe (1855, p. 51); Kock (1880, p. 90); Edmonds (1957, pp. 112s.); Kassel (1973, p. 102); PCG IV p. 262; Austin-Olson (2004, p. 207); Storey (2011, pp. 396s.) Contesto della citazione Il frammento è tràdito da Poll. 9.130s., alle prese con aggettivi utili a indicare somiglianza e a vagliare il tasso di tale somiglianza. Per la raccomandazione secondo cui si può esprimere una perfetta somiglianza con εἰκών o col participio perfetto ἐκμεμαγμένος cita Cratino, quindi Ar. Th. 514 (λέων, λέων σοι γέγονεν, αὐτεκμάγμα σόν). Alla stessa dottrina rimontano anche Hsch. ε 1511 (ἐκμαγεῖον· ἐκτύπωμα, ὑπογραμμός, σφραγίς) – da cui si ricostruisce Ael. Dion. ε 26 – e la successiva glossa ε 1512 (ἐκμαγεῖσαι· ἐκτυπωθεῖσαι), quindi ε 1513 (ἐκμαγειωθείς· ἐξομοιωθείς), queste ultime due più direttamente avvicinabili a Poll. 9.131. Testo Il testo non presenta difficoltà: si segnala la presenza di οὕτως dopo αὐτός nei mss. FS, appartenenti alla medesima famiglia, che già il Salmasius propose di modificare in οὗτος, come fece poi indipendentemente e con minime variazioni Edmonds (1957, p. 112). La proposta dunque muove dall’ idea che i mss. che non presentano οὕτως tramandano un errore aplografico. Toup (1790, IV p. 383) ritenne di eliminare οὕτως o di trasporlo all’ inizio della citazione. Certamente l’ intervento meno accettabile sarà da definirsi quello del Salmasius (e la reciproca inversione di Edmonds) in quanto sequenze quali ἐκεῖνος αὐτὸς οὗτος (Salmasius) o ἐκεῖνος οὗτος αὐτός (Edmonds) non pare abbiano riscontri probanti. Edmonds si affidava al parallelo di Aristot. Poet. 1448b 7, che tuttavia reca ἐκεῖνος οὗτος. Si potrebbe ipotizzare una ratio corruptelae fondata sulla presenza di una v. l. αὐτός/ οὗτος (a casi del genere rimanda Kassel 1973, p. 102) conservata in un ms. utiliz-

Ὧραι (fr. 275)

207

zato nella sottofamiglia cui appartengono i mss. FS, quindi trasformato in avverbio οὕτως favorito anche dall’ attrazione di οὕτω con cui si introduce il frammento. Quanto al perfetto composto, del tutto plausibile, non si potrà escludere, però solo tentativamente, εὖ μεμαγμένος, data la diffusione di simili processi di corruzione: cf. Men. fr. 255.1, dove εὖ τεθραμμένος fu ristabilito da Hirschig a fronte di ἐκτεθραμμένος dei mss. del testimone; Phot. ε 2255 (Et. Gen. B, Et. M. 393.43) εὐναῖος· ἐγκεκρυμμένος (εὖ κεκρυμμένος Et. Gen. B)211. Se si tratta di un ritmo giambico, si deve ipotizzare che manchi almeno un piede giambico all’ inizio o più probabilmente alla fine, caso in cui – quello dell’assenza del piede alla fine – ci sarebbe una regolare incisione pentemimere, come mi fa osservare Marco Ercoles. Interpretazione La porzione di verso rimanda a un concetto di somiglianza la cui icastica resa passa dall’ idea di impastare qualcosa, probabilmente dell’ argilla o della cera (cf. Poll. 7.164, 10.189, Hsch. κ 629). Nello stesso àmbito si colloca l’ immagine di Ar. Th. 514 richiamata da Polluce subito dopo il frammento di Cratino. Nel caso aristofaneo la somiglianza sarebbe tra padre e figlio, ciò che ha indotto gli interpreti fin da Meineke (1839b, p. 165) a individuare anche in Cratino un rapporto di somiglianza filiale. Si tratta di un’ ipotesi dal momento che le due citazioni sono accostabili sul piano dei contenuti in quanto esprimono somiglianza fra due soggetti e per il tipo di immagine. Che si tratti di un padre e di un figlio non è sicuro ma certamente possibile (cf. infra). Per le questioni di somiglianza come elemento positivo cf. West (1978, pp. 215s.), cui rimandano anche AustinOlson (2004, p. 207). Per l’ idea della somiglianza attraverso un’ immagine di cera plasmata cf. Theocr. 2.38, con la ripresa di Verg. Ecl. 8.80 (cf. anche v. 74s. terque haec altaria circum / effigiem duco; v. 80 et haec ut cera liquescit). Forse un’ idea di somiglianza si trova sottesa nell’ altrimenti inattestato proverbio di Aesch. Ag. 264s. ἐκεῖνος αὐτός cf. Eur. Cycl. 105 con la nota di Kassel (1973). Qui per ἐκεῖνος non si potrà stabilire se ha valore enfatico o distintivo (cf. K.-G. I 648s.): il passo euripideo indurrebbe a considerare come prevalente il senso enfatico. ἐκμεμαγμένος per il perfetto medio in attico cf. Chantraine (1926, pp. 90–96): qui il valore sarà stativo. La preposizione indica derivazione, ciò che agevola l’ espressione traslata, giacché il significato non è quello primario, noto fin e. g. da Archil. fr. 2, ma quello metaforico garantito dal testimone. A parte il caso aristofaneo di Th. 514, esatti paralleli sia sul piano del significato che su quello del significante non sono reperibili: quello che più si avvicina a questi due passi si individua forse in Soph. fr. 314.146, in cui si legge σώματ’ ἐκμεμαγμένα. Quanto invece all’ impiego di participi perfetti medi con preposizione ἐκ- in commedia cf. Eup. fr. 361 (sul controverso valore del verbo cf. Olson 2014, p. 83), Eubul. fr. 95 (cf. Headlam-Knox 1922, p. 54).

211

Si vedano le osservazioni di Austin che per Ar. Th. 500 propone εὖ κεκαλυμμένον a fronte di ἐγκεκαλυμμένον tràdito da R (cf. Austin-Olson 2004, p. 204).

208

Cratino

fr. 276 K.–A. (256 K.) ἴτω δὲ καὶ τραγῳδίας ὁ Κλεομάχου διδάσκαλος † μετὰ τῶν † παρατιλτριῶν ἔχων χορὸν Λυδιστὶ τιλλουσῶν μέλη πονηρά 2 ὁ Κλεομάχου glossam esse susp. Luppe (1969b, p. 218) 3 μετὰ τῶν A : del. Toup (1790, I p. 212) prob. Meineke (1839b, p. 163), μετὰ τῶν κακῶν Bergk (1838, p. 34), μετ’ αὐτὸν ὁ Kaibel (1890, p. 410)

esca anche quel didaskalos di tragedia, il figlio di Cleomaco, col coro di depilatrici † meta tōn † che pizzicano pezzi osceni alla maniera lidia Ath. 14.638d–f ὁ δὲ τοὺς εἰς Χιωνίδην ἀναφερομένους ποιήσας Πτωχοὺς Γνησίππου τινὸς μνημονεύει παιγνιαγράφου τῆς ἱλαρᾶς μούσης, λέγων οὕτως (Chion. fr. 4)· “ταῦτ᾽ οὐ μὰ Δία Γνήσιππος οὐδ’ ὁ Κλεομένης / ἐν ἐννέ᾽ ἂν χορδαῖς κατεγλυκάνατο”. καὶ ὁ τοὺς Εἵλωτας δὲ πεποιηκώς φησιν (Eup. fr. 148 = Stesich. Tb38 Ercoles)· “τὰ Στησιχόρου τε καὶ Ἀλκμᾶνος Σιμωνίδου τε / ἀρχαῖον ἀείσαι. ὁ δὲ Γνήσιππος ἔστ᾽ ἀκούειν, / ὃς νυκτερίν᾽ εὗρε † μοιχοῖς † ἀείσματ᾽ ἐκκαλεῖσθαι / γυναῖκας ἔχοντας ἰαμβύκην τε καὶ τρίγωνον”. Κρατῖνος ἐν Μαλθακοῖς (fr. 104)· “τίς ἄρ᾽ ἔρωτα † μοιδεν † ὦ Γνήσιππε, ἐγὼ † πολλη χολη †; / οἴομαι 〈k〉 μηδὲν οὕτως μωρὸν εἶναι καὶ κενόν”. σκώπτει δ᾽ αὐτὸν εἰς τὰ ποιήματα καὶ ἐν Βουκόλοις (fr. 17)· “ὃς οὐκ ἔδωκ᾽ αἰτοῦντι Σοφοκλέει χορόν, / τῷ Κλεομάχου δ᾽, ὃν οὐκ ἂν ἠξίουν ἐγὼ / ἐμοὶ διδάσκειν οὐδ᾽ ἂν εἰς Ἀδώνια”. ἐν δὲ ταῖς Ὥραις· ἴτω — πονηρά. Τηλεκλείδης (fr. 36) δὲ ἐν τοῖς Στερροῖς καὶ περὶ μοιχείας ἀναστρέφεσθαί φησιν αὐτόν. Chi ha composto gli Ptōchoi attribuiti a Chionide, menzionando un tal Gnesippo, autore di paignia di ispirazione umoristica, parla in questi termini (fr. 4): «Per Zeus, né Gnesippo né Cleomene sulla loro melassa a nove corde avrebbero potuto addolcirlo» . E colui che ha composto gli Eilōtai dice (Eup. fr. 148 = Stesich. Tb38 Ercoles): «Cantare le cose di Stesicoro e di Alcmane e di Simonide è cosa vecchia: Gnesippo si deve ascoltare! Ha scovato canti notturni per chiamar fuori le donne † per uomini? † con in mano iambuke e trigonon». Cratino nei Malthakoi (fr. 104): «Chi amore † moiden †, Gnesippo, io † polle chole †? Credo non ci sia nulla di tanto stupido e vuoto». Lo prende in giro per le composizioni anche nei Boukoloi (fr. 17): «Non ha dato il coro a Sofocle, che lo chiedeva, ma lo ha dato al figlio di Cleomaco che io non farei didaskalos neppure alle Adonie». E nelle Hōrai: «Esca — lidia». Teleclide negli Sterroi (fr. 36) dice che costui fu coinvolto anche in merito ad adulterî.

Metro tre dimetri giambici (vv. 1s., 4), un dimetro giambico catalettico

klklklkl kkkklklkl †kkl†kklkl klklklkl llklkll

Ὧραι (fr. 276)

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Bibliografia Toup (1790, I p. 212); Dobree ap. Porson (1820, p. 125); Runkel (1827, pp. 68s.); Bergk (1838, pp. 33s.); Meineke (1839b, pp. 166s.); Bothe (1855, p. 51); Kock (1880, p. 90); Maas (1912); Hoffmann (1951, p. 108); Edmonds (1957, pp. 114s.); Luppe (1969b, pp. 217s.); PCG IV p. 261; Conti Bizzarro (1999, pp. 84–86); Davidson (2000); Hordern (2003); Prauscello (2006); Olson (2007, p. 177); Storey (2011, pp. 396s.); Fiorentini (2021) Contesto della citazione Il frammento deriva da Ath. 14.638f, alle prese con il non altrimenti noto Gnesippo (TrGF 27, p. 144s.), di cui riporta testimonianze esclusivamente comiche: Chion. (?) fr. 4, Eup. fr. 148, Cratin. frr. 104 (qui Gnesippo sembrerebbe dramatis persona), 17 e 276, quindi, sine verbis, Telecl. fr. 36. Nei frammenti che chiudono il cameo di Gnesippo – Cratin. frr. 17 e 276 – e nella menzione che ne avrebbe fatto Telecl. fr. 36, il poeta non è nominato esplicitamente ma la fonte di Ateneo, o lo stesso Naucratita, trattano questi frammenti come materiale su Gnesippo. L’ ordine in cui i frammenti compaiono, se esso è della fonte di Ateneo, sembra rispondere a criteri tematici, visto che solo dai frammenti che concludono la sequenza si apprende come egli fosse un didaskalos tragico (cf. infra): si tratta di quei frammenti in cui – si noterà – il nome di Gnesippo non compare. Più complesso sarà invece capire se tutti questi frammenti parlino dello stesso Gnesippo. Il primo problema è cronologico, ma tutti i frammenti raccolti in Ateneo possono risalire a un periodo che va dagli ultimi anni Trenta alla fine degli anni Venti del V sec. a. C., anche nel caso di Chionide, dove i dubbi sugli Ptōchoi (anche in 4.137e per il fr. 7) sono analoghi a quelli che il Naucratita registra per i Persai (3.78d): non si registrano altre commedie intitolate Ptōchoi, ma non si può escludere la possibilità di riallestimenti. Quanto al genere praticato da Gnesippo, non ci sono ragioni per escludere che le notizie conservate in Ateneo siano esatte (cf. infra Interpretazione). Testo La comprensione del frammento non sfugge, almeno ad un senso più generale. Occupandosi del fr. 17.2, Dobree correggeva il τῷ Κλεομάχῳ del Marciano come τῷ Κλεομάχου, e sentenziava «ut mox in Horis» (Dobree ap. Porson 1820, p. 125): l’ intervento nel fr. 17 si impone ed è stato, di fatto unanimemente, accolto, ciò che va segnalato per l’ ipotesi dell’ unico personaggio, Gnesippo, delineato in questi brevi ritratti comici. Al solo Luppe (1969b, p. 218) si deve l’ ipotesi che ὁ Κλεομάχου del fr. 276 sia una glossa intrusiva. Più grave il problema che affligge il v. 3, se solo ad esso va confinato il guasto, e conseguentemente sono stati numerosi i tentativi di correzione. L’ espressione μετὰ τῶν παρατιλτριῶν ha portato Toup (1790, I p. 212) a eliminare μετὰ τῶν, scelta accolta con favore da Meineke (1839b, p. 163), ma non da Bergk (1838, p. 34), che si era risolto per l’ emendamento μετὰ τῶν κακῶν, con una scelta metrica diversa dall’ ipotesi che sarà di Meineke (l. c.) e poi invalsa dei dimetri giambici, visto che disponeva il verso come trimetro. E della necessità di intervenire sul testo era convinto Kaibel (1890, p. 410), in sede di edizione di Ateneo, che aveva ipotizzato μετ’ αὐτὸν ὁ.

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Interpretazione Che cosa e chi intenda colpire questo frammento non è del tutto chiaro, e l’ intero passo di Ateneo è oggetto di discussione. La soluzione più disponibile è aderire al plesso di testimonianze riportate da Ateneo e attribuire a Gnesippo il ruolo di didaskalos tragico, impegnato in innovazioni musicali e verisimilmente orchestiche, giudicate lascive e degne dunque di arie notturne. Esistono alcune difficoltà esegetiche: ci si chiede in primis se sia esistito un solo Gnesippo, tragediografo (PAA 279690), oppure citarodo (PAA 279680; Stefanis nr. 556), o due. A fianco di queste difficoltà, si colloca la questione di Notippo (TrGF 26, p. 144), noto anch’ esso dal solo Ateneo (8.344c) ed esclusivamente da testimonianze comiche (Hermipp. fr. 46.3 e Telecl. fr. 17): se Notippo sia stato un drammaturgo con una propria identità storica distinta da quella di Gnesippo, o se piuttosto Notippo sia uno storpiamento del nome Gnesippo, o se viceversa Gnesippo sia un nomignolo affibbiato a Notippo212. Alla questione dell’ identità di Notippo mi pare non si possa dar definitiva risposta. Quanto ai frammenti comici riportati su Gnesippo, Bergk (1838, p. 33) ritenne che in Ateneo si parli della stessa persona, un tragediografo. Favorevole all’ idea di un solo personaggio ««tragicus et hilarodus» era Wilamowitz (1870, p. 27). Su questa linea, cf. poi, ad esempio, Conti Bizzarro (1999, pp. 85s.), Olson (2007, p. 177), Snell e Kannicht nell’ edizione dei tragici213. Meineke (1839b, p. 20) mostrava qualche scetticismo rispetto all’ idea che Gnesippo potesse essere un tragediografo e si risolveva a considerarlo «lyricorum poetarum futilissimus», in quanto, osservava lo studioso, Ateneo nell’ introdurne la produzione parla di τὰ ποιήματα, ma cf. Ath. 10.429a, dove il termine si applica ad Aristofane. Nel redigere la voce Gnesippos per la RE, Maas nel 1912 osservava alcune sciatterie in Ateneo e concludeva la discussione con alcune valutazioni prudenti: che il protagonista dei vari passi sia sempre la medesima persona di nome Gnesippo «muss problematisch […] bleiben» (c. 1481). Con queste considerazioni, però, lo studioso, come osserva correttamente la Prauscello (2006, p. 61 n. 53), non si pronunciava definitivamente a favore (o a sfavore) dell’ esistenza di due persone distinte di nome Gnesippo e unificate qui da Ateneo (o dalla sua fonte) in una sola personalità artistica, come talora se ne è invece dedotto214. Dopo Maas, l’ idea di due personalità distinte è stata proposta

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Che il Notippo (LGPN II s. v. [6]; PAA 720940; TrGF p. 144) di Hermipp. fr. 46.3 e di Telecl. fr. 17, sia un nomignolo per Gnesippo appare ipotesi suggestiva (fin da Wilamowitz 1870, p. 27) ma indimostrabile. Per una ricognizione puntuale della questione, a partire dalle considerazioni di Wilamowitz (1870 e 1875), cf. Bagordo (2013, pp. 127s.) e Comentale (2017, p. 179s.). Tale nomignolo, qualora si fosse trattato della stessa persona, vorrebbe ricordare un’ opposizione tra i cittadini a pieno titolo (ΓΝΗΣ-) e i figli illegittimi (ΝΟΘ-). In apparato gli studiosi segnalano comunque i dubbi che la critica moderna ha via via sollevato. Cautamente, Kassel e Austin scrivono in sede di edizione di Cratin. fr. 17: «tragicus poeta […] vel potius διδάσκαλος (cf. Dem. 21.58), […] fort. diversus ab illo citharoedo

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con decisione da Luppe (1969b, p. 217), che la raccoglieva da Hoffmann (1951, p. 108). Sulla questione di Gnesippo è tornato, fra gli altri, Davidson (2000), che ha ritenuto che egli sia stato una sorta di precursore del mimo lirico a contenuto erotico, con un’ ipotesi contestata da Hordern (2003) e, immediatamente dopo Hordern, dalla Prauscello (2006), inclini a veder in questa figura «a “perverted” son of a broader lyric tradition (the kitharodia)»215. Non ci sono motivi, tuttavia, per negare che Gnesippo fosse un didaskalos tragico le cui arie sono state usate autonomamente, secondo prassi consolidate. In Chion. (?) fr. 4, Gnesippo si trova insieme a Cleomene (PMG 838), lo stesso poeta, si direbbe, che Epicrat. fr. 4 (Sapph. test. 276A Neri) definisce in questi termini: τἀρωτίκ’ ἐκμεμάθηκα ταῦτα παντελῶς / Σαπφοῦς, Μελήτου, Κλεομένους, Λαμυνθίου. Meleto sarebbe lo stesso citato da Ar. Ra. 1302, uno da cui Euripide, stando all’ Eschilo aristofaneo, avrebbe tratto i propri materiali lirici (vv. 1301s. cf. infra). Che costui sia altra persona rispetto al tragediografo Meleto I (TrGF 47), non è dimostrato: l’incertezza si motiva per la confusione delle fonti e dunque della cronologia216 in merito a diverse persone di nome Meleto217. Tuttavia, non paiono esserci nemmeno elementi che possano senz’ altro negare l’ identificazione fra il Meleto tragediografo, il Meleto citato da Epicrate e quello delle Rane, tanto più che il tragediografo Meleto I fu ben noto komodoumenos dello stesso Aristofane che lo dileggiò altrove (fr. 117 e 156.9s.). Anche Eup. fr. 148, citato da Ateneo per Gnesippo subito dopo il frammento pseudo-chionideo, dimostra un’ attenzione agli aspetti musicali. Le difficoltà di dettato, certamente significative, non pregiudicano l’ interpretazione generale del frammento, che Olson da ultimo considera un rimando a casi di «informal performances of lyric and elegiac poetry (including lyric sections from tragedy and comedy) at dinner parties and symposia» (2016, p. 17), ben documentati in commedia (cf. e. g. Ar. Nu. 1359–1362). Quanto al fr. 104 di Cratino andrà indicata nuovamente la dimensione erotica che ne emerge, mentre il richiamo alle Adonie nel fr. 17 segnala un «carattere lascivo», che «poteva essere appropriato per la poesia del ‘figlio di Cleomaco’» (Bianchi 2016, p. 123). E si potrà notare come proprio le Adonie avessero una parte notturna licenziosa e, a suo modo, performativa (cf. Ar. Lys. 392), come si evince dalla Samia di Menandro (vv. 38–49, in particolare v. 43 θεατής e v. 46 ὠρχοῦντ’, ἐπαννύχιζον). Del resto, la rappresentazione di ‘Agatone’ nelle Tesmoforiazuse, alle prese con le prove del suo canto amebeo, non risulta dissimile dal ritratto di Gnesippo. Concluso il canto di ‘Agatone’, il Parente ne sottolinea il carattere lascivo: non per i contenuti, si noterà, quanto per i ritmi e per la musica orientali (vv. 130–133): ὡς ἡδὺ τὸ μέλος ὦ

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quem spectare videntur Chionides, Eupolis, Cratin. fr. 104». Prauscello (2006, p. 56), che si esprime negli stessi termini di Hordern. Ci sarebbero due autori di nome Meleto, uno dei quali fu il noto accusatore di Socrate. La scelta di Radermacher di mettere una pausa dopo σκολίων in Ar. Ra. 1302 (cit. infra a testo), dove si parla di Meleto, mi pare confliggere con la generale struttura della sequenza di Aristofane.

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πότνιαι Γενετυλλίδες / καὶ θηλυδριῶδες καὶ κατεγλωττισμένον / καὶ μανδαλωτόν, ὥστ’ ἐμοῦ γ’ ἀκροωμένου / ὑπὸ τὴν ἕδραν αὐτὴν ὑπῆλθε γάργαλος. Si tratta di una serie di crude constatazioni preparate già all’ apparizione di ‘Agatone’, scambiato per Cirene (v. 98): il richiamo alla nota prostituta induce l’ idea di qualcosa in più di un attacco all’ effeminatezza di ‘Agatone’, poiché suggerisce una tensione erotica certificata dal canto imminente. Si deve a Marzullo l’ intuizione secondo cui il repertorio della musica euripidea come evocato da Aristofane nelle Rane rientra nel medesimo orizzonte d’ attesa delle scelte estetiche menzionate per Gnesippo218. L’ ipotesi dello studioso pare del tutto condivisibile e si dovrà riconoscere che il passo delle Rane rientra a sua volta nello stesso orizzonte concettuale della monodia di ‘Agatone’. Nelle Rane, ‘Eschilo’ richiama le fonti musicali di Euripide con l’ evocazione di canti di (o da) prostitute, skolia di Meleto, arie per aulo dalla Caria, canti luttuosi, danze (vv. 1301–1303 ἀπὸ πάντων μὲν φέρει, πορνῳδιῶν, / σκολίων Μελήτου, Καρικῶν αὐλημάτων, / θρήνων, χορειῶν) e conclude con l’ invito alla Musa euripidea in persona a mostrarsi. Ed essa si rivela nei panni di una brutta suonatrice di nacchere, al cui arrivo Dioniso osserva che costei οὐκ ἐλεσβίαζεν, οὔ. Il verbo è stato oggetto di numerose interpretazioni, fra cui mi pare preferibile quella di chi sostiene che siano qui compresenti due significati: la Musa di ‘Euripide’ non proviene da Lesbo in quanto non conosce l’ antica e nobile tradizione che dal lesbio Terpandro deriva; e contestualmente la Musa è brutta, quindi non ha praticato la fellatio, cui il verbo rimanda senz’ altro in quel periodo219. Da segnalare, sul piano ermeneutico, il legame con alcuni elementi fisici, che accentuano il tratto osceno e in qualche modo sovrappongono e identificano corpo e musica. L’ esempio più eclatante di questo procedimento si trova, esteso, in Pherecr. fr. 155, ma non sfuggirà neppure Ar. Th. 130–133 (l. c.). Quanto a Ferecrate, la Musica o la Poesia (cf. su questo Napolitano ap. Franchini 2020, pp. 249s.), entra in scena (εἰσαγαγεῖν, e anche su questo aspetto i dubbi sono ormai superati dopo le osservazioni di Napolitano 2012, pp. 109–112; Olson 2016, p. 29, e Olson 2017, pp. 463s.) come donna (ἐν γυναικείῳ σχήματι), che lamenta gli strazi subiti dagli innovatori musicali coevi, con doppi sensi, variamente indagati220, dove il referente alluso e adombrato è quello fisico e non quello musicale, che invece appare esplicito (cf. vv. 4s., 15, 24s.)221, a creare il pun erotico-osceno. Se

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Cf. Marzullo (1993, p. 499), che osserva come nelle Nuvole la critica svolta da Fidippide agli usati modi del simposio promossi da Strepsiade ricordi Eup. fr. 148 (su cui cf. supra), dove si oppone «a simili anticaglie tale Gnesippo, inventore di oscene canzonette da richiamo». Cf. almeno Dover (1993, p. 352) e Totaro (ap. Mastromarco-Totaro 2006, pp. 682s. n. 208). Si vedano in particolare Restani (1983, p. 143), Dobrov–Urios-Aparisi (1995), Dobrov (1997), Conti Bizzarro (1999, p. 135). Rimando a Napolitano (ap. Franchini 2020, pp. 260, 279, 288–291) per una puntuale disamina e per ulteriori riferimenti bibliografici, intesi a spiegare i doppi sensi.

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il testo di Ferecrate segue sul piano cronologico quello di Cratino, ma precede le Tesmoforiazuse (cf. Napolitano ap. Franchini 2020, p. 241), si potrà segnalare che un altro (il primo in assoluto?) esempio noto di un gioco sull’innovazione musicale formulato in senso erotico sia proprio il presente frammento di Cratino. Ciò che viene colpito dunque del didaskalos tragico Gnesippo sono le discutibili scelte estetiche e le compromettenti ricadute morali di esse, beninteso in comicum, sulla falsariga delle teorie damoniane. Cf. Zimmermann (2008, pp. 145s.) per un quadro di questo genere di innovazioni nel cosiddetto ‘nuovo ditirambo’, e cf. Andrisano (2021) per alcune declinazioni orchestiche di simili innovazioni; cf. Fiorentini (2021) per una riattribuzione di Gnesippo alla tragedia. La sequenza dei dimetri giambici con o senza chiusura catalettica si trova in commedia nello pnigos degli agoni, come in canzoncine: un esempio vicino, anche cronologicamente, a questo è Ar. Eq. 375–381, dall’ agone, ma cf. anche la parodo della Lisistrata (vv. 260–264). v. 1 ἴτω il passo ha intonazione aulica – cf. e. g. Aesch. Th. 964, e i parodici Ar. Av. 229, 856 – presto travolta dai successivi contenuti: se l’ interpretazione avanzata coglie nel segno, questo aspetto è significativo perché la sequenza, peraltro cantata, prosegue (si conclude?) con un esito osceno. τραγῳδίας si tratta di una delle prime attestazioni del termine, assieme a quelle di Ar. Ach. 399, 412, 464 (cf. Olson 2002, p. 178 e ora Novokhatko 2020, p. 190). Certamente, con τραγῳδία non si indicherà qualcosa di identificabile in toto con la definizione aristotelica (Poet. 1449b, 24–28), ma non serve eccedere nella ricerca di distinzioni fra arte tragica, composizione tragica o esecuzione tragica nelle varie occorrenze del termine negli anni Venti, in quanto la prassi attesta la compresenza, spesso, di poeta e regista (cf. anche infra) nella medesima figura. L’ impiego del termine e la sua alterazione sul versante comico in τρυγῳδία concorrono a farne un sostantivo che indicava in quest’ epoca qualcosa di sostanzialmente chiaro per i fruitori. v. 2 ὁ Κλεομάχου διδάσκαλος che il Gnesippo tragediografo (PAA 279690) non vada distinto da un citarodo (PAA 279680; Stefanis nr. 556) è dunque probabile (cf. supra). L’ espressione per segnalare l’ identità del poeta col patronimico ricorre anche in Cratin. fr. 17.2 (per cui cf. Olson 2007, p. 177 e Bianchi 2016, p. 121), come τῷ Κλεομάχου (Dobree : τῷ Κλεομάχῳ A): si tratta del frammento che precede questo nella successione che Ateneo offre su Gnesippo. Quanto alla definizione di διδάσκαλος, essa si applica a colui che istruisce il coro, ma in genere viene utilizzata per il poeta stesso, cf. Ar. Ach. 628 ἐξ οὗ γε χοροῖσιν ἐφέστηκεν τρυγικοῖς ὁ διδάσκαλος ἡμῶν, Pax 638 ἄξιος εἶναί φησ’ εὐλογίας μεγάλης ὁ διδάσκαλος ἡμῶν (cf. ora, in particolare, Novokhatko 2020, p. 190). v. 3 παρατιλτριῶν il rarissimo termine, inattestato dopo Cratino fino a Philostr. VA 4.27, si trova nei repertori onomastici e lessicografici. La prescrizione di Phot. π 319 (παρατίλτρια, οὐ δρωπαϰήστρια· ϰαὶ παρατιλλόμενος, ὁ πιττούμενος) va considerata alla luce di repertori rigorosamente atticisti come Phryn. Ecl. 384 (δρωπαϰίζειν ἀδόϰιμον, ἀρχαῖον δὲ τὸ παρατίλλεσθαι ἢ πιττοῦσθαι),

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Cratino

o atticisti con un atteggiamento meno severo come Poll. 7.165 (παρατίλτρια, παρατίλλεσθαι), che dimostrano antichità e provenienza attica della parola. Il verbo appare invece relativamente diffuso, cf. in particolare Ar. Ra. 516b (κἄρτι παρατετιλμέναι), detto di alcune ballerine, in un contesto evidentemente osceno, ma si vedano anche Ar. Lys. 87–89, 151, 827s., Th. 537s. (mentre diverso sarà il senso di 543, cf. Hsch. τ 890), Ec. 723s., Pl. Com. fr. 188.14, quasi tutti segnalati da Kassel e Austin, cui si possono aggiungere le immagini vascolari della coppa conservata all’ Antikenmuseum Berlin nr. inv. 3757, o la hydria di Napoli, Museo Nazionale nr. inv. 2422, che dimostra una diffusione della pratica della depilazione (cf. Kilmer 1982). Nella generale presentazione di Gnesippo, Ateneo ricorda situazioni adulterine o adulteri (cf. Eup. fr. 148 e in Telecl. fr. 36), sicché l'improbabile coro di depilatrici, oltre al valore osceno e a innescare la metafora musicale, potrebbe rievocare quei casi di punizione con depilazione comminata agli adulteri (cf. Ar. Nu. 1083). v. 4 Λυδιστί l’ avverbio fa parte di simili e diffuse formazioni come Δωριστί, Φρυγιστί. Qui si assiste a una compressione di più significati nello stesso significante, perché l’ avverbio fornisce indicazione certamente musicale, ma anche etica su base etnica. Sul piano musicale il modo lidio si trova – al pari di fatto del frigio e col missolidio – in opposizione al modo dorico (cf. Pl. Resp. 398d), tradizionale e austero (cf. e. g. Pind. fr. 67, Pl. Lach. 188d), opposizione recepita anche dai promotori della nouvelle vague musicale, come si ricava da Telest. PMG 806.2s. Λυδὸν ὃς ἅρμοσε πρῶτος / Δωρίδος ἀντίπαλον μούσας κτλ. D’ altra parte le harmoniai rilassate (ἐπανειμέναι, χαλαραί) sono varianti delle scale lidia e ionica (cf. Ercoles 2017, p. 137 n. 23)222. L’ elemento molle intrinseco alla scala lidia ripete in musica un tratto etologico della popolazione ben noto alla tradizione poetica; cf. almeno Hippon. fr. 95.2s. (e forse il fr. 183a–d se ascrivibile tra i frammenti), dove λυδίζουσα del v. 1 è seguito e tradotto al v. 2 dallo hapax del tutto decifrabile πυγιστί: in Ipponatte il participio non indicherà una generica lascivia ma la lingua della persona che parla, per quanto una punta ironica in senso erotico non sarà mancata se si considera il contesto generale, ripreso poi da Petron. Sat. 138.1–3223. Da segnalare Anacr. PMG 481, dove i testimoni garantiscono che con Λυδοπαθεῖς il poeta intendeva ἡδυπαθεῖς. Verisimilmente l’ avverbio, al pari del verbo, può dunque assumere una venatura morale, cf. Eust. Il. 741.2–25 (sui verbi), forse da materiale di Svetonio (per un elenco cf. Olson-Seaberg 2018, p. 234). E dalla Lidia non mancano racconti lascivi come quello degli amori di Eracle e Onfale, oggetto di attenzione forse anche comica224, o proverbi – magari gnomai – come Com. adesp. fr. 944. 222 223 224

Cf. Pratin. PMG 712a (μήτε σύντονον δίωκε / μήτε τὰν ἀνειμέναν Ἰαστὶ / μοῦσαν, ἀλλὰ τὰν μέσαν / νεῶν ἄρουραν αἰόλιζε τῷ μέλει). Da notare come una delle integrazioni proposte nel v. 2 dopo il superstite παρ- sia παρατιλῶ suggerito da Knox (1929, p. 65). Si veda supra ad fr. *259.

Ὧραι (fr. 277)

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vv. 4s. τιλλουσῶν anche il participio comprime due significati in un solo significante, in quanto l’ idea di pizzicare indicherà tanto l’ attività primaria delle depilatrici, quanto quella di suonatrici di strumenti a corda per pezzi volgari. Un impiego traslato del verbo nel senso di “biasimare” si riscontra già in Anacr. PMG 349 (τίλλει τοὺς κυανάσπιδας, per cui cf. Hsch. τ 889), ma in particolare andrà considerato Hsch. τ 890, da riferire ad Ar. Th. 543 (τιλλομένη· λοιδορουμένη), quindi Herond. 8.71, puntualmente segnalato dagli editori. Nel caso di Eronda si fa riferimento a critici letterari (τὰ μέλεα πολλοὶ κάρτα τοὺς ἐμοὺς μόχθους / τιλεῦσιν ἐν Μούσῃσιν, cf. Ov. Pont. 4.16.1 inuide quid laceras Nasonis carmina? Gell. NA 4.15.1 plura inscite aut maligne uellicant), probabilmente allusivo a Cratino, dove però il verbo non si applica alla critica ma all’ esecuzione, sicché sembra preferibile la resa «disperdere» di Meineke (1839b, p. 163) rispetto al «discerpere» di Kock (1880, p. 90), come osservato da Headlam-Knox (1922, p. 395). πονηρὰ μέλη l’ espressione esibisce anch’ essa un gioco di parole, sfrutta i due principali significati del sostantivo coerentemente con l’ andamento generale del frammento. Si tratta dunque di “pezzi osceni” tanto in senso anatomico quanto in senso musicale. Per l’ aggettivo cf. almeno Dover (1974, p. 64). Come osservato da Kassel e Austin e come già segnalato, il passo di Cratino può esser stato ricordato da Herond. 8.71 (cf. supra).

fr. 277 K.–A. (257 K.) 〈lk〉 ἐφθάρη μαρίλης τὴν φάρυγα πλέαν ἔχων lac. stat. Dobree (1820, p. 127), et ἐφθάρη 〈kl〉 possis (cf. Kock 1880, p. 90 nec non K.–A. ad l.) : ἔφθη Porson (1820, p. 112) φάρυγα Dobree (1820, p. 127) : φάρυγγα A, om. cett. codd.

è stato ucciso con la gola piena di cenere Suda μ 196 μαρίλη. ἀμαυρὸν πῦρ. ὁ χνοῦς, καὶ τὸ λεπτότατον τῶν ἀνθράκων … καὶ Κρατῖνος ἐν Ὥραις· ἐφθάρη — ἔχων seq. Ar. Ach. 350 marilē: brace invisibile. Cenere e il più sottile (la parte più sottile?) dei carboni […] Anche Cratino nelle Hōrai: è — cenere, seq. Ar. Ach. 350

Metro tetrametro trocaico catalettico

〈lk〉lklkll|lkkkklkl

Bibliografia Meineke (1839b, p. 167); Bothe (1855, p. 52); Kock (1880, p. 90); Edmonds (1957, pp. 114s.); PCG IV p. 262; Theodoridis (1993, p. 495); Storey (2011, pp. 396s.)

216

Cratino

Contesto della citazione Contenuto in una glossa sinonimico-differenziatrice, Suda μ 196, il frammento non ha altri testimoni, nonostante il lemma della Suda rientri in una costellazione più ampia (Hsch. μ 284, Phot. μ 114): alla medesima discussione si possono ricondurre Poll. 10.111, Erotian. μ 24. Dopo un passo anonimo nella Suda – ma riconosciuto come Jul. Or. 7.223a da Theodoridis (1993, p. 495) al termine dell’ Anhang a un lavoro sulle glosse della Suda – e prima di Ar. Ach. 350, nella Suda si cita il frammento delle Hōrai di Cratino. Testo Il frammento è un tetrametro trocaico catalettico che manca di un piede iniziale, come vide Dobree (1820, Addenda p. 127), rettificando in tal modo la proposta di Porson di emendare il tràdito ἐφθάρη in ἔφθη (1820, p. 112). Sempre Dobree (ibid.) ristabilì la grafia φάρυγα rispetto a φάρυγγα del codice A della Suda, lezione peraltro assente negli altri manoscritti. Interpretazione Il testo non permette un’ interpretazione inequivocabile, perché quella qui articolata potrebbe essere un’ affermazione che si sviluppa su un piano metaforico. Le due citazioni fra cui si trova incastonato il testo di Cratino, in qualche modo, presentano un livello che distorce quello basilare: nel caso di Giuliano225 un livello traslato non so se fino a che punto sia davvero ipotizzabile, mentre Aristofane sviluppa una sorta di umanizzazione dell’ oggetto in quanto dotato di un sentimento proprio, nella fattispecie la paura. Si potrà notare come in Ar. Ach. 609 un personaggio sia chiamato Μαριλάδης, ma il pun si baserà sul fatto che il nome finto è affibbiato a un carbonaio; che però il soprannome Καπνός per delineare i boriosi sia impiegato in Aristofane (cf. e. g. Ve. 323 e soprattutto 459)226 può aiutare a chiarire altri impieghi traslati del sostantivo. Se dunque il supplizio cui si fa riferimento in Cratino abbia un valore anche solo vagamente traslato non si può dire con i dati a disposizione, ma la possibilità non va esclusa. Supplizi analoghi non sono del tutto noti, ma si veda quello di Crasso secondo cui la gola della testa mozzata del triumviro sarebbe stata riempita di oro fuso (Dio Cass. 40.17). La collocazione del frammento non è inequivocabile, il tetrametro trocaico catalettico trovandosi soprattutto nelle sezioni epirrematiche delle parodoi (Acarnesi, Cavalieri, Pace, Uccelli)227, o delle parabasi (Ach. 676–691~703–718, Eq. 565–580~595–610, Nu. 575–594~607–626, Ve. 1071–1090~1102–1121, Av. 753–768~785–800, Ra. 686–705~718–737). ἐφθάρη il verbo semplice in contesti simili è raro (cf. Ar. Av. 1069) in commedia, in quanto i paralleli disponibili sembrano riferirsi a esclamazioni (cf. in particolare Ar. Ach. 460, nonché Pl. 598, 610). Per il valore colloquiale del verbo, in cui il senso letterale di distruzione risulta secondario, cf. ad fr. 288.

225 226 227

Che recita: χαλκεὺς οἷά τις γέμων καπνοῦ καὶ μαρίλης. Si vedano le valutazioni di Dorati (2002, p. 83 n. 18). Cf. Perusino (1968, p. 44).

Ὧραι (fr. 278)

217

τῆς μαρίλης nucleo della citazione, il termine, come spiegato dai vari glossatori, indica sia la brace che la cenere: si direbbe che si tratti dell’ esito di un lungo processo interpretativo, che si inizia, allo stato attuale delle conoscenze, con Aristot. Prob. 967b 5. Se in Hippon. fr. 61.1 il senso sarà quello di brace (cf. Degani 2007, p. 29), secondo l’ interpretazione generalmente accolta, in commedia il termine è attestato in Ar. Ach. 350 col valore inequivocabile di cenere, quale quello presente in Cratino.

fr. 278 K.–A. (258 K.) μακάριος τῶν παιδικῶν beato per l’ amata Σa π 9 (= Phot. π 23 = Suda π 858) παιδικά· ἐπὶ θηλειῶν καὶ ἀρρένων ἐρωμένων τάττεται ἡ λέξις. παραδείγματα τοῦ ἐπὶ μὲν τῶν ἀρρένων τάττεσθαι πολλά … ὅτι δὲ ἐκάλουν οὕτως καὶ τὰ πρὸς τὰς γυναῖκας, Εὔπολις (fr. 356) … καὶ Κρατῖνος δὲ  Ὥραις (Küster 1705, p. 66 : ὁρᾷς mss.), τ ῆ ς π α λ λ α κ ῆ ς ἀ π ο δ η μ ο ῦ ν τ ο ς τ ο ῦ Δ ι ο ν ύ σ ο υ ἐ ρ ώ σ η ς, φησὶν ἐπ’ αὐτοῦ· μακάριος — παιδικῶν paidikà: si applica agli amati di genere femminile e maschile. Gli esempi dell’ impiego per i maschi (sono) molti. Eupoli dimostra che chiamavano in questo modo anche le donne (fr. 356) […] e Cratino nelle Hōrai, mentre Dioniso è lontano dalla concubina che lo ama, dice di lui: beato — amata schol. in Ael. Arist. III 59.31 παιδικὰ τὰ ἐρώμενα λέγει … κέχρηται δὲ Κρατῖνος καὶ ἐ π ὶ γ υ ν α ι κ ὸ ς ἐν Ὥραις chiama paidikà gli amati […] Cratino nelle Hōrai se ne serve anche per una donna

Metro giambi?

kkklllkl

Bibliografia Runkel (1827, p. 68); Welcker (1832, pp. 476s. e n. 214); Meineke (1839b, p. 166 e p. 171); Bothe (1855, p. 52); Kock (1880, p. 91); Cohn (1884, pp. 822s.); Edmonds (1957, pp. 114s.); PCG IV p. 262; Sidwell (2009, p. 151); Storey (2011, pp. 396s.) Contesto della citazione Il frammento si trova conservato in un’ ampia dissertazione semantica su παιδικά della Synagoge allargata rifluita in vari repertori lessicografici, Σa π 9 (= Phot. π 23 = Suda π 858), che ne costituisce la fonte. Secondo Cohn (1884, p. 823), la costellazione pare avere origine nell’ esegesi della commedia, e in generale conferma un’ indicazione stilistica di stampo atticista: vi si ricostruisce infatti Ael. Dion. π 1. Ad essa andranno ricondotti, come si è

218

Cratino

osservato (cf. Theodoridis 2013, p. 138, per una trattazione più ampia)228, schol. Pl. Parm. 127b (Reip. 3.402e), Hsch. π 62, Ath. 13.564a, Antiatt. π 17. Secondo la dottrina espressa nella glossa, il termine παιδικά si applica agli ἐρώμενοι (cf. del resto Pl. Smp. 178e), dunque ai maschi, e i frammenti riportati servono a chiarirne gli impieghi: quello convenzionale, illustrato a mo’ di esempio da Soph. fr. 153 (che compare adespoto ma con il titolo) e da Cratin. fr. 163 (dai Panoptai); l’ impiego eccezionale per ragazze in Eup. fr. 356 e nel presente frammento di Cratino; un uso riferito alle persone genericamente amate illustrato con Pl. Phaedr. 236b229; infine, si trova un sinonimo senza esempi. Puntualmente segnalato dagli editori, nella costellazione rientra anche schol. Ael. Arist. III 59.31 Dind. (ad I p. 163 Dind.), che richiama di nuovo l’ esempio delle Hōrai di Cratino per indicare come il termine possa esser usato anche per le donne, o, nel caso di Elio Aristide, per una donna (cf. infra). La glossa dello scolio sembra dipendere da una fonte riconducibile al plesso della Synagoge. Testo Il testo conserva non solo gli ipsissima verba di Cratino ma anche parte del contesto della scena: qualcuno userebbe la frase citata nei lessici riferendola a Dioniso in relazione alla sua παλλακή innamorata. Questo non implica che Dioniso sia dramatis persona in quanto il frammento potrebbe esser parte di una battuta di un personaggio che ricorda la situazione occorsa al dio. Nessuno dei termini circostanti la citazione può essere con sicurezza ascritto al testo di Cratino, tuttavia, si può ragionevolmente pensare che in qualche modo fossero quasi tutti presenti nel testo comico in questa forma, ciò che mi ha convinto a commentarli, a differenza del fr. 255 dove la pericope parafrasata difficilmente riprende il dettato del commediografo, ma solo i concetti. Sarei scettico, però, solo su ἐρώσης che potrebbe essere esito di una pur attendibile parafrasi del testo comico. Quanto allo scolio ad Elio Aristide, si è ritenuto di spazieggiare ἐπὶ γυναικός, non tanto come parola di Cratino ma per il riferimento di genere e per il numero. Interpretazione L’ interpretazione generalmente accolta risale a Meineke (1839b, p. 166): «peregre abiit Dionysus, cuius absentiam quum aegre ferret quam solam domi reliquerat concubina, nescio quis felicem praedicat deum ob fidum amicae desiderium». A questa esegesi si sono rifatti i successivi studiosi, con poche puntualizzazioni: Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin), ad esempio, pensava a una situazione tra Dioniso e Arianna, mentre Pieters (1946, p. 152) pensava che la παλλακή fosse una personificazione della Commedia: questa seconda ipotesi costituisce una revisione della più datata idea di Welcker (1832, pp. 476s.), che voleva Dioniso combattuto fra la moglie legittima, la Tragedia delle Grandi Dionisie, e la sua concubina, la Tragedia delle Dionisie rurali. Ma nessuna di queste suggestioni ha elementi di sostegno, e lo stesso dovrà dirsi per l’ ipotesi di Sidwell, che dietro 228 229

Per Σa lo studioso annota come si debba considerare l’unione di fol. 120r + 126r+v. Si fa riferimento al trasporto di Fedro per l’ arte retorica di Lisia, per l’ occasione dunque παιδικά.

Ὧραι (fr. 278)

219

il Dioniso qui menzionato vedrebbe Alcibiade (2009, p. 151). Kaibel attribuiva l’ espressione al coro. Certamente, quella di Meineke è l’ interpretazione più verisimile, considerato che il frammento di Cratino, assieme al precedente Eup. fr. 356, è citato per suffragare l’ impiego del termine in relazione alle donne. In assenza di altri dati conviene considerare questa come la soluzione più ovvia, ma non sfugge come – ad eccezione di questi frammenti – con παιδικά si indichi un amato, maschio. In sede di commento a Eup. fr. 356, Olson (2014, p. 75) ha manifestato pertanto qualche dubbio sulla possibilità che il frammento di Eupoli sia oggetto di equivoco e che dunque non vi si parli di una ragazza, ma di un ragazzo. Se le cose stessero in questi termini, il Dioniso assente di Cratino viene giudicato beato, perché, proprio in quanto lontano, può dedicarsi a un giovane amante? In tal caso l’ esegesi sarebbe rovesciata, rispetto a quanto si capisce dal testimone. Per l’ assenza di altre indicazioni conviene attenersi, con tutto lo scetticismo del caso, al dettato dei testimoni. τῆς παλλακῆς a chi si faccia riferimento si ignora (cf. supra). Per lo statuto della παλλακή cf. supra ad fr. 259. Nel caso del contesto della citazione, considerata pertinente la presenza del frammento di Eupoli per delineare donne pur con il termine παιδικά, si potrà notare come in Eupoli la donna coinvolta sia una flautista, notoriamente appartenente a una condizione servile e talora richiesta ai simposi in qualità anche di prostituta (cf. Ar. Ach. 551; Ve. 1345s., 1368s.; Ra. 513s.; Metag. fr. 4.3s.; Xen. Smp. 2.1s., ricordati, con altri, da Olson 2014, p. 74; cf. Glazebrook-Henry 2011). ἀποδημοῦντος τοῦ Διονύσου l’ assenza di Dioniso, in un contesto comico, sembra avere perlomeno un’ intonazione parodicamente religiosa conferita dal verbo, per cui cf. e. g. Pind. P. 4.5 (οὐκ ἀποδάμου) detto di Apollo, e 10.37, sempre in litote, detto della Musa presente fra gli Iperborei. μακάριος per il termine applicato a Dioniso cf. Ar. Ra. 353. In Aristofane, si tratta in realtà di μάκαρ. Per una discussione dell’ aggettivo, cf. West (1978, pp. 186s.). Per l’ impiego col genitivo cf. e. g. Ar. Ve. 1292. τῶν παιδικῶν si tratterà di un plurale per un singolare, come afferma lo scolio ad Elio Aristide, ciò di cui non mancano esempi, cf. Ar. Ve. 1026; Th. 1.132.5; Xen. Hell. 6.4.37: chi sia la persona coinvolta si ignora, non solo sul piano dell’ identità, in quanto non è certo dalle parole del testimone che si tratti della παλλακή, ciò che resta comunque l’ ipotesi più probabile, secondo quanto suggerito da Meineke (1839b, p. 166), cf. supra. Per l’ indicazione di chi si ama o è oggetto di desiderio senza un’ immediata specificazione se si tratti di un uomo o di una donna, cf. e. g. Ar. Ra. 55–57 e Dover (1974, p. 213).

220

Cratino

fr. 279 K.–A. (259 K.) ὥσπερ ὁ Περσικὸς ὥραν πᾶσαν καναχῶν ὁλόφωνος ἀλέκτωρ come il gallo persiano risonante a tutta voce in ogni parte del giorno Ath. 9.374d λέγεται δὲ καὶ ἀλεκτορὶς καὶ ἀλέκτωρ … Κρατῖνος Ὥραις· ὥσπερ — ἀλέκτωρ si dice anche alektoris e alektōr […] Cratino nelle Hōrai (dice): come — parte del giorno Phot. ο 252 (= Suda ο 203) ὁλόφωνος (g : ὀλ- z)· ὁ ἀλεκτρυών. οὕτως Κρατῖνος holophōnos: il gallo. così Cratino Hsch. ο 644 ὁλόφωνος· ὁ ἀλεκτρυών· ἢ ἀπὸ τοῦ λόφου, ἢ ἀπὸ τοῦ ἐν τῷ ᾄδειν ὅλον αἴρεσθαι καὶ μετεωρίζεσθαι holophōnos: il gallo: o dal lophos (“cresta”), o dall’ innalzarsi completamente nel cantare e dal sollevarsi

Metro tetrametro anapestico catalettico

lkklkkllll|kklkklkkll

Bibliografia Runkel (1827, p. 69); Meineke (1839b, p. 162); Bothe (1855, p. 51); Kock (1880, p. 91); Ammann (1936); Kretschmer (1938, pp. 53s.); Edmonds (1957, pp. 114s.); PCG IV pp. 262s.; Storey (2011, pp. 398s.) Contesto della citazione Il frammento è tràdito da Ath. 9.374d, che, discettando dell’ impiego maschile e femminile di ἀλεκτρυών, introduce i casi, distinti per genere, di ἀλεκτορίς e di ἀλέκτωρ. Dopo aver riportato Simon. PMG 583, ricorda il presente frammento di Cratino: è possibile che nella fonte del Naucratita i due frammenti fossero vicini, non solo e non tanto per la presenza di ἀλέκτωρ, non rarissimo (cf. infra) come si evince da Ar. Nu. 666 citato da Ateneo subito prima, quanto per l’ aggettivo che si accompagna al lemma ἀλέκτωρ, in Simonide ἱμερόφωνος230, in Cratino ὁλόφωνος. Il solo aggettivo ὁλόφωνος come lemma dalle Hōrai di Cratino si trova in Phot. ο 252 (= Suda ο 203, priva dell’ indicazione autoriale la glossa nel ms. A). Fra i testimoni, omisso nomine poetae, si dovrà annoverare anche Hsch. ο 644, che conserva il raro aggettivo in relazione al gallo, un caso unico in quanto attestato nel solo Cratino, al punto che i testimoni les-

230

Sull’impiego dell’ aggettivo in relazione alla voce del gallo e sul reimpiego di un aggettivo che fu già di Sapph. fr. 136, cf. Poltera (1997, pp. 364 e 403). Si vedano in generale anche le osservazioni di Catenacci-Di Marzio (2004, pp. 73, 82).

Ὧραι (fr. 279)

221

sicografici sono casi di coppia contigua, con la ‘normalizzazione’ di ἀλέκτωρ in ἀλεκτρυών231. Testo Il frammento non presenta problemi testuali: semmai si potrà segnalare il rarissimo Hsch. η 255 ἠικανός· ἀλεκτρυών. Il lemma costituisce hapax assoluto. Al di là degli aspetti etimologici discussi opportunamente da Ammann (1936) e da Kretschmer (1938, p. 35s.), il frammento di Cratino potrebbe aver avuto un qualche rapporto con la glossa esichiana, alla luce del testimone, sul piano della tradizione. Secondo Ammann, ἠικανός sarebbe un lemma epico di un testo perduto e indicherebbe il gallo in quanto l’ animale canta all’ alba. Il frammento di Cratino, valorizzato dallo studioso, servirebbe allo scopo etimologico, evidente in καναχῶν. Associazioni di questo verbo (onomatopeico?) con il gallo non sono attestate al di fuori di questo frammento, né si può trascurare come Ateneo, dopo la citazione di Cratino, introduca una paretimologia su ἀλέκτωρ di origine sconosciuta (εἴρηται δ᾽ οὕτως ἐπειδὴ καὶ ἐκ τοῦ λέκτρου ἡμᾶς διεγείρει). Un’altra paretimologia, che però non ha a che vedere con quella registrata da Ateneo, ma sempre, in relazione a ὁλόφωνος, si trova nella menzionata glossa di Hsch. ο 644, testimone del frammento comico ὁλόφωνος· ἀλεκτρυών … ἢ ἀπὸ ἐν τῷ ᾄδειν ὅλον αἴρεσθαι καὶ μετεωρίζεσθαι. Si potrebbe ipotizzare che il frammento di Cratino rientrava in repertori di spiegazioni (para)etimologiche sui nomi variamente attestati del gallo, corredate da un passo letterario. Oltre a ἱμερόφωνος e a ὁλόφωνος, qualificherebbe l’ animale sempre sul piano del canto anche l’ altrimenti ignoto ἠικανός, che si vuole poetico: dell’ epica, secondo Ammann (1936, p. 9), ma forse hapax comico. Interpretazione Lo scarso numero di dati non permette di contestualizzare il frammento e di darne una qualche interpretazione plausibile. Da rilevare, al più, il ritmo anapestico, tipico di agoni e parabasi, ma riscontrabile anche nelle parodoi: e proprio a un agone pensava Gelzer (1960, p. 181). Parte dell’ interpretazione deriverà dalla corretta esegesi di ολοφωνος (lo segnalo senza segni di aspirazione e accenti, per le ragioni che seguono), privo di accento nel Marciano di Ateneo, 231

Aristot. fr. 264 G., desunto da Ath. 9.394a, costituisce un caso problematico, in quanto si tratta di parafrasi dello Stagirita in cui apparirebbe ἀλέκτωρ, mentre in tutti gli altri luoghi si trova ἀλεκτρυών (cf. e. g. HA 536a 28, 536a 31, 559b 18, 592b 12, 508b 27). Probabilmente, non si tratta di correggere il più raro ἀλέκτορος in ἀλεκτρυόνος, nel testo di Ateneo dunque in Aristotele, ma di rettificarlo in ἀλεκτόριδος, sovente attestato in Aristotele. Cobet (1859, pp. 45s.), alle prese con la glossa di Fozio, propose di emendare alcuni luoghi in cui ἀλεκτρυών si sarebbe sostituito al più raro ἀλέκτωρ, riflessione che ha un valore per la storia della tradizione, ma che non si impone nell’ edizione di testi strumentali come i lessici, né, direi, in situazioni come Ar. Nu. 1430, dove la tradizione reca compatta ἀλεκτρυόνας detto da Strepsiade, rispetto alla cui etologia si direbbe più appropriata la forma ἀλέκτορας; opportunamente, al v. 851, nel secondo e riuscito tentativo di persuadere Fidippide a recarsi al Pensatoio Strepsiade utilizza, more Socratis, la forma più rara ἀλέκτορα.

222

Cratino

inteso come ὁλόφωνος da Casaubon (1600, p. 407, quindi 16212); nella forma ὁλόφωνος si trova nel Marciano di Esichio, mentre in Fozio si può osservare la v. l. ὀλόφωνος dello Zavordense contro ὁλόφωνος del Galeano. Meineke (1839b, p. 162) stampava la proposta di Casaubon, salvo poi segnalare che «fortasse praestat scribere ὀλόφωνος … quasi dicas ὀλεθριόφωνος». Certamente suggestiva, l’ ipotesi risente tuttavia dell’ assenza di paralleli grammaticalmente sufficienti: se il vocativo ὀλέ per ὀλοέ si trova in Alcm. PMGF 116, è da rilevare come non ci siano composti con ὀλοός, a parte ὀλοόφρων, e che quello attestato prevede la geminazione della vocale oltre a trovarsi solo nell’ epica omerica; verificato che composti con l’ equivalente οὖλος sono di fatto inattestati (Aesch. Suppl. 750 è congetturale), ci si attende, più probabilmente, qualcosa come ὀλέφωνος, per cui cf. e. g. Pratin. fr. 3.12. In definitiva, converrà leggere ὁλόφωνος, presente in parte della tradizione lessicografica. Meineke, del resto, non ripresentava il proprio tentativo nell’ editio minor, dove invece si limitava a un rimando a ὁλόφωνος dei lessici232. L’ insoddisfazione di Meineke non era del tutto immotivata, perché non è chiaro cosa si intenda con ὁλόφωνος in relazione a un gallo. Lo studioso sul piano letterale suggeriva «gallus perpetuo clamore enecans», ma valutava anche un senso traslato, e suggeriva che dietro al gallo ὀλόφωνος (si veda la resa «enecans») si celasse un non identificabile «clamosum poetam» (1839b, p. 162). In tal caso, allora, l’ ipotesi di Meineke sarebbe forse da riferire magari più a un perfomer piuttosto che a un poeta tout court (cf. Pl. Com. fr. 138). Ludwig Dindorf suggeriva qualcosa di simile allorché compiva un’ esegesi dell’ aggettivo quale «qui totis viribus vocem edit» (ThGL V 1916C). Se interpretato in tal senso, piuttosto che in quello di Esichio che non spiega l’ aggettivo ὁλόφωνος, l’ ipotesi che qui ci si riferisca a una persona può essere assolutamente plausibile. Chi pronunci questi anapesti non può esser stabilito: Gelzer pensava al bōmolochos in quanto attribuiva il frammento all’ agone; Pieters ms. ap. Kassel e Austin immaginava che queste fossero le parole d’ ingresso del coro. ὥσπερ ὁ Περσικός … ἀλέκτωρ si tratta del gallo, introdotto in Grecia dalla Persia intorno all’ VIII sec. a. C. Ignoto a Omero, appare per la prima volta in Thgn. 864. L’attenzione sull’animale sembra rivolta al suo impiego nei combattimenti (un guerriero omerico in Il. 17.602 si chiama Ἀλεκτρυών), come vide opportunamente Kretschmer (1938, p. 36), nonostante la specializzazione domestica (cf. Pind. O. 12.14)233. In merito ai noti paralleli aristofanei, Περσικός ricorre in Av. 485, 707, 833: da rilevare per più stretta pertinenza come i vv. 485 e 707 siano entrambi anapestici. Per la prassi linguistica con cui un etnonimo indica la provenienza di un animale, si veda Ar. Av. 277 (Μῆδος), per cui si esclude un’ identificazione piena con il gallo detto Περσικός (cf. Dunbar 1995, p. 332); per forme analoghe cf. ὁ

232 233

Αlla voce dedicata nell’ indice del 1857, a p. 699 si ritrova, forse ad opera di Iacobi, «ὁλόφωνος (an ὀλόφωνος?)». Cf. anche Aesch. Eum. 861 e il relativo scolio.

Ὧραι (fr. 280)

223

φασιανός da Φάσις (cf. Ar. Av. 68, su cui Dunbar 1995, p. 157). Quanto ad ἀλέκτωρ cf. Fraenkel (1912, I p. 154): il termine si direbbe impiegato prevalentemente in dorico (cf. i menzionati Pind. O. 12.14 e Simon. PMG 583), ma non solo, in quanto presente in Ps.-Hom. Batr. 192 (cf. successivamente Herond. 4.12) e soprattutto in contesti tragici. Quanto alla commedia la distribuzione di ἀλέκτωρ si direbbe quasi del tutto compresa in contesti anapestici, tranne Ar. Nu. 663, per cui Fraenkel (l. c.) osservava: «aus dieser Empfehlung des Sokrates folgt zugleich, dass ἀλέκτωρ dem gemeinem Manne des athenisches Volks eine ungewohnte Bezeichnung war». Forse, sarà da registrare un impiego più raro e magari percepito di caratura alta in ἀλέκτωρ, tale per cui il termine si trova nella tragedia e, fra i comici, nel lessico del Socrate delle Nuvole. Nei frammenti comici, oltre che in Cratino ἀλέκτωρ si trova in Pl. Com. fr. 231. ὥραν per il significato di “ora”, non ci sono numerose attestazioni nel V sec. a. C., ma cf. Hdt. 2.109.3; il significato di “parte del giorno”, ma forse anche di “stagione” mi pare accettabile. καναχῶν l’ onomatopea restituisce il peculiare valore acustico della radice (ThGL IV 929). Il verbo ricorre in commedia solo in Cratin. fr. 198.2; sarà da segnalare dunque più stretta pertinenza epica (Hes. Th. 367), quindi tragica (Aesch. Ch. 152, Soph. Ant. 130, Tr. 642, sempre in lyricis), del verbo come di suoi derivati, sostantivi e aggettivi. Si direbbe dunque che qui, coerentemente con la scelta di ἀλέκτωρ, l’ orientamento sia parodico, poiché Cratino sceglie una lexis elevata per una situazione fin domestica. ὁλόφωνος per analoghe formazioni in commedia si veda e. g. Pherecr. fr. 113.13 ὁλόκνημος. fr. 280 K.–A. (260 K.) οὐδὲ πρὸς εἶδος ἄρ’ ἦν οὐδὲν προσιδόντι τεκμαρτόν osservando non c’ era allora nulla di determinabile sulla base dell’ aspetto esteriore Heph. 1.9 (p. 7.6) vd. ad fr. 253 καὶ (πάλιν add. I) ἐν Ὥραις· οὐδὲ — τεκμαρτόν e nelle Hōrai: osservando — esteriore

Metro esametro dattilico. Operante la cosiddetta correptio Attica (οὐδὲ πρός, -δόντι τεκμ-)

lkklkkl|llkklkkll

Bibliografia Meineke (1839b, p. 164); Bothe (1855, p. 51); Kock (1880, p. 91); Edmonds (1957, pp. 114s.); PCG IV p. 263; Storey (2011, pp. 398s.); Marcucci (2020, pp. 121–126)

224

Cratino

Contesto della citazione Il testimone è Heph. 1.9 (p. 7.6), che, alle prese con la cosiddetta correptio Attica – nella fattispecie indagata negli esametri – riporta alcuni frammenti di Cratino, e precisamente il 253 (cui si rimanda per ulteriori precisazioni sulle parole del testimone), nell’ àmbito di una discussione di alcune teorie eliodoree, poi il 94, il 161 – due frammenti in cui la correptio Attica risulta operante – quindi il presente passo, dove la correptio è operante due volte, nel primo (οὐδὲ πρός) e nel quinto piede (-δόντι τεκμ-), tradizionalmente dattilico. L’ operatività della correptio Attica si rileva in circa la metà degli esametri della commedia aristofanea, unico esempio che abbia un campione statisticamente rilevante (cf. White 1912, p. 365 e si veda supra al fr. 253). Testo Il frammento non presenta problemi testuali di alcun genere, ma questa situazione sostanzialmente sana della tradizione non garantisce un’interpretazione del frammento persuasiva, in quanto non si coglie nulla del contesto, né chi stia parlando e neppure esattamente di cosa. Le esegesi che traspaiono dalle traduzioni sono dunque diverse in modo sostanziale: «nec praeter formam quidquam signi inveniebat spectator» (Bothe 1855, p. 51); «so looking at the external appearance there is nothing to be determined» (Storey 2011, p. 399). Tuttavia, il confronto con i pochi casi in cui si registra l’ aggettivo verbale τεκμαρτέον, come Aret. CA 1.1 (però del II sec. d. C.), dove si legge τ. πρός τι, lascia supporre che il senso sia differente. A Dem. 27.22 (εἴ τι δεῖ τεκμαίρεσθαι πρὸς τὸν ἄλλον αὐτοῦ τρόπον καὶ τὴν ἀναίδειαν) rimandano Kassel e Austin e osservano «iunge πρὸς εἶδος τεκμαρτόν», opzione sintattica confermata da Aret. CA 1.1 (cf. supra). Sul piano dei contenuti gli studiosi segnalano i casi di Eur. Me. 516–519 (ὦ Ζεῦ, τί δὴ χρησοῦ μὲν ὃς κίβδηλος ᾖ / τεκμήρι’ ἀνθρώποισιν ὤπασας σαφῆ, / ἀνδρῶν δ’ ὅτῳ χρὴ τὸν κακὸν διειδέναι / οὐδεὶς χαρακτὴρ ἐμπέφυκε σώματι;), Hipp. 925–927, cui si può aggiungere il fr. 382.2, segnalato da Mastronarde (2002, p. 257), in sede di commento del passo della Medea. Interpretazione La scarsità di dati sul frammento e l’ assenza di informazioni sul contesto non permettono di capire se il tono intenda rifarsi alle medesime situazioni euripidee, che a loro volta rielaborano il motivo tradizionale della differenza tra apparenza e sostanza: se riferito a una persona, si potrebbe trattare di una ripresa, parodica, sia del ‘nuovo’ motivo euripideo sia della kalokagathia della morale e dell’ estetica aristocratiche, fin da Omero (cf. e. g. Il. 3.167), le cui apparenti eccezioni come Paride servono a confermare la regola (cf. Neri 2021, p. 563). Anche l’ elemento metrico non risulta decisivo sul piano esegetico. Se si tratta di un esametro recitato, si potrà riconoscere come in Aristofane questo tipico metro dell’ epica sembri riandare più facilmente a parodie appunto epiche o a oracoli, più o meno seriamente intesi (cf. e. g. Ar. Eq. 197–201, 1015–1020, 1030–1034, 1037–1040, 1067–1069, Pax 1063–1114, Av. 967s., 983–985, 987s.). Gli esametri di Ar. Eq. 1051–1060 sono caratterizzati da un linguaggio enigmatico (vv. 1051–1053) e da una parodia (vv. 1056s.) della Ilias parva (fr. 2.4s. B. = fr. 2a D.). Fra gli esempi noti, a nessuno di essi si lascia ricondurre facilmente questo fram-

Ὧραι (fr. 280)

225

mento di Cratino, che non si può accostare nemmeno ad altri esametri del poeta già affrontati supra; tale condizione di assenza di adeguati passi confrontabili con il frammento di Cratino mi pare si possa registrare anche per un eventuale ricorso agli esametri aristofanei verisimilmente in recitativo. Tutto ciò sarà determinato non tanto da una qualche rarità o eccezionalità – pur sempre possibile – quanto piuttosto dalla difficoltà nel cogliere il significato specifico di Cratino. Ovviamente, la presenza di un solo esametro non permette di stabilire se si trattasse di un contesto oracolare come sovente accade per gli esametri nella commedia arcaica e nella mese (cf. White 1912, pp. 149–153 e le approfondite riflessioni di Pretagostini 1987, pp. 250s.; Id. 1995/1996, pp. 167–171), di un indovinello o di una sezione che richiama l’ epica. Né si potrà stabilire se l’ esametro fosse in una sequenza stichica che va oltre la mera, eventuale, allusione parodica. Secondo Marcucci (2020, p. 122), si potrebbe ipotizzare, con tutte le cautele del caso, una parodia delle teorie prodicee. Non risultano, però, esametri parodici della nuova filosofia, almeno nell’ archaia. Valorizzerei, semmai, l’ impiego di δυστέκμαρτος in tragedia (Ps.-Aesch. Pr. 497, Soph. OT 109, Eur. Hel. 712), applicato al divino, in generale, e nel dettaglio all’ arte mantica, intesa come oscura nel Prometeo, alle tracce delle antiche colpe nell’ Edipo re, alla divinità nell’ Elena. Da segnalare, sul piano stilistico, la ripetizione di medesimi fonemi del primo piede (οὐδὲ πρός) dopo la cesura pentemimere (οὐδὲν πρoσ-) e la ripresa semantica con diversa apofonia tra l’ inizio del secondo piede (εἶδος) e il passaggio fra quarto e quinto (-ιδόν-). εἶδος secondo Austin-Olson (2004, p. 140), in sede di commento ad Ar. Th. 267, il termine potrebbe esser inteso come una sorta di esempio di lessico aulico, in quanto raro in commedia (cf. Ar. Pl. 317, lirico e parodico della cosiddetta Nuova musica), ciò che sembra l’ opzione esegetica più appropriata, almeno nel V sec. a. C. Se si osserva infatti la distribuzione in commedia della parola, si assiste a una sua maggior presenza nella mese (si vedano gli indici di Iacobi ap. Meineke 1857, I p. 336). Non è stato segnalato Theop. Com. fr. 33.2, riferito tuttavia a un recipiente per bere, con un andamento evidentemente parodico dello stile aulico (γενναῖον εἶδος). ἄρ’ ἦν l’ espressione idiomatica (GP p. 36), rimanda a un’azione del passato di cui si realizza l’ entità nel presente. Cf. Fraenkel (1950, II p. 275) e Denniston-Page (1957, p. 122). προσιδόντι per il verbo in commedia, cf. P. Colon. 14 (142.4 MP3) testimone di Ar. Lys. 153, su cui Perusino in Perusino-Beta (2020, p. 177). τεκμαρτόν si tratta di hapax assoluto e indica la possibilità di ricavare un elemento di prova su cui basare una conclusione. Si potrà segnalare un’ evoluzione concettuale all’ epoca della rappresentazione della commedia di Cratino, allorché l’ antico senso, anche divinatorio o più generalmente semiotico, assume gradatamente il valore di ciò che pertiene a un àmbito inferenziale, complice la nuova temperie culturale, sofistica e razionalistica. Significativo dovrà dirsi il ricorrere

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Cratino

del sema in Erodoto (11x) e nel corpus Hippocraticum (85x)234. In commedia, è significativo Ar. Ve. 75s. ἀλλ’ οὐδὲν λέγει. / μὰ Δί’, ἀλλ’ ἀφ’ αὑτοῦ τὴν νόσον τεκμαίρεται, detto a proposito del tentativo operato da Aminia di diagnosticare la malattia che affligge Filocleone; il verbo composto ὑποτεκμ- si trova in Ar. fr. 205.7. Dalla commedia cosiddetta antica si potrà segnalare Pl. Com. fr. 36.1, tuttavia meno probante per Cratino rispetto al passo aristofaneo; per la mese, cf. Alex. fr. 291.2. fr. 281 K.–A. (263 K.) Σb α 1235 Ἀ ν δ ρ ο κ ο λ ω ν ο κ λ ῆ ς (Ἀνδρ⟨ηλιθι⟩οκολωνοκλῆς tempt. Meineke 1839b, p. 171)· ἀντὶ τοῦ ἠλίθιος (B : μίσθιος Meineke 1839b, p. 171). Κρατῖνος ἐν Ὥραις ἀντὶ τοῦ φάναι ἠλίθιον (B : μίσθιον Meineke 1839b, p. 171) Ἀνδροκλέα (Fritzsche 1836, p. 145 : Ἐτεοκλέα B) οὕτως ὑφ’ ἓν καὶ διὰ μιᾶς λέξεως ἔφη, διὰ τὸ εἶναι ἐκ Κολωνοῦ (διὰ τὸ εἶναι 〈ἠλιθίους τοὺς〉 ἐκ Κολωνοῦ Ribbeck 1861, pp. 10s. adn. 19, cf. Cunningham 2003, p. 607) Androkolōnoklēs: al posto di sciocco. Cratino nelle Hōrai disse così invece di definire Androcle sciocco, in una volta e per mezzo di una sola parola, in quanto Androcle proveniva da Colono schol. Ar. Ve. 1187 (VΓ) Ἀνδροκλέα δὲ Κρατῖνος Σεριφίοις φησὶ δοῦλον καὶ πτωχόν (fr. 223.3), ἐν δὲ Ὥραις (om. Γ) ἡταιρηκότα 〈εἰ〉 ἄρα τὸν (Fritzsche 1836, p. 145 : ἆρα τὸν V, ἆρα Γ, Ἀριστοφάνης Bergk 1835, p. 119) αὐτόν· Τελεκλείδης δὲ ἐν Ἡσιόδοις (fr. 16) καὶ Ἐκφαντίδης (fr. 4) βαλλαντιοτόμον nei Seriphioi Cratino definisce Androcle servo e parassita (fr. 223.3), mentre nelle Hōrai uno che si era prostituito, se si tratta dello stesso: Teleclide negli Hesiodoi (fr. 16) ed Ecfantide (fr. 4) lo definiscono un borseggiatore

Metro non deducibile lkklkl (giambi?) oppure lkklll (dattili?) Bibliografia Bergk (1835, pp. 119s.); Fritzsche (1836, pp. 144s.); Meineke (1839b, p. 171); Bothe (1855, p. 53); Ribbeck (1861, pp. 10s. n. 19); Kock (1880, p. 92); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 263; Beta (2007); Storey (2011, pp. 398s.) Contesto della citazione Il frammento è una glossa di Σb α 1235: si tratta di uno hapax, Ἀνδροκολωνοκλῆς, che sarebbe impiegato, stando all’ interpretazione, come sinonimo di ἠλίθιος. A questa glossa potrebbe collegarsi schol. Ar. Ve. 1187, dove, nel commentare chi fosse Androcle, si menzionano i Seriphioi, evidentemente per il fr. 223.3 (cf. ad l.), e si segnalano le Hōrai, però con alcuni dubbi sull’ identità di Androcle, già antichi dunque, secondo la ricostruzione fornita da Fritzsche (1836, p. 145, cf. a testo) e unanimemente accolta. Se ne ricava che, pur

234

Cf. Marzullo (1986/1987, pp. 223–232), Id. (1993, p. 152), Perilli (1988/1989).

Ὧραι (fr. 281)

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non conoscendone la flessione, la neoformazione Ἀνδροκολωνοκλῆς fosse nella commedia. Rispetto a ἡταιρηκώς (l’ accusativo si deve alla sintassi richiesta dallo scolio), si tratterà di un elemento che dovrebbe esser pertinente al contenuto ma non per forza in questa forma. Testo La glossa di Σb α 1235 è oscura e ha dato esito a numerosi tentativi di correzione, intesi a una più profonda comprensione del dettato e dunque dello scherzo di Cratino. Le difficoltà sono le seguenti: 1. non si vede quali implicazioni abbia Eteocle, menzionato nell’ interpretazione; 2. non si capisce se l’ Androcle qui ricordato sia il demagogo del demo di Pitto (sul quale cf. infra), identità su cui si registrano dubbi nel menzionato scolio alle Vespe secondo la restituzione, unanimemente accolta, di Fritzsche (l. c.); 3. non risulta chiaro per qual motivo la neoformazione dovrebbe rimandare a una qualche stupidità, come si evince dall’ interpretamentum, caratteristica che non traspare nel composto. Quanto alla lezione tràdita, Ἐτεοκλέα, nell’ interpretamentum, essa è stata giudicata, non immotivatamente, un errore per Ἀνδροκλέα: l’ iniziativa di emendamento promossa da Fritzsche (1836, p. 145) ha avuto sempre favorevole accoglienza nelle varie edizioni, e l’ assenza della correzione nel testo della glossa nell’ edizione di Cunningham si spiegherà in considerazione del fatto che non si può fissare una cronologia dell’ errore, se a valle o a monte della redazione della glossa (cf. tuttavia infra). Interpretazione Pur con un margine di incertezza, che Androcle di Pitto (PA 870; PAA 128255; cf. Sommerstein 1996, p. 346) possa esser la persona menzionata nella glossa pare la soluzione più semplice, sia per il fatto che nel periodo di riferimento non sembrano essere acclarate altre persone con questo nome, sia in quanto il dubbio registrato nello scolio delle Vespe sull’ identità di Androcle sarà stato nella fonte e potrebbe motivarsi proprio sulla base dell’ indicazione che troverà poi nella glossa della Synagoge la forma διὰ τὸ εἶναι ἐκ Κολωνοῦ (scil. Androcles): all’ origine delle fonti dello scolio e della glossa dunque potrebbe collocarsi un catalogo di komodoumenoi235. Se si tratta della stessa persona, non può essere motivo di dubbio la falsa provenienza da Colono, in quanto in commedia simili invenzioni sono acclarate e giustificate dallo scherzo in atto236. Inoltre, il richiamo a Iperbolo in questa commedia di Cratino (fr. 283) permette di considerare l’ Androcle oggetto dello hapax proprio Androcle di Pitto, che di Iperbolo fu collega di partito nei 235 236

A una fonte comune sembrerebbe rimandare anche Steinhausen (1910, p. 26). Sui demotici in commedia si veda Tammaro (1978/1979b). Basterebbe pensare a Cleofonte, sulla cui supposta origine straniera cf. Canfora (2017, p. 523), o l’ interpretazione scoliastica data ad Ar. Pax 681 su Iperbolo, il cui padre viene chiamato nello scolio Cremete, evidentemente falso e probabilmente tratto da passi comici (cf. infra, ad fr. 283).

228

Cratino

populares, e che condivise con Iperbolo un’ opposizione tanto dura ad Alcibiade che gli costò la vita (Thuc. 8.65.1, cf. infra) nello stesso torno di tempo in cui anche il suo collega di partito fu ucciso (411 a. C.)237. Rispetto all’ espressione διὰ τὸ εἶναι ἐκ Κολωνοῦ sarà dunque da chiarire, piuttosto, il motivo della collocazione colonea, quale che essa sia, il demo o un luogo dell’ agorà (cf. infra e Fuks 1951). Che in generale la notizia della glossa sia non del tutto chiara, si ricava dall’ interpretazione, allorché si dichiara che il composto sarebbe impiegato ἀντὶ τοῦ ἠλίθιος. Del tutto insoddisfatto – non a torto – dello stato testuale della glossa, Meineke (1839b, p. 171, cf. già Bergk 1835, p. 119) ritenne di avanzare due ipotesi di soluzione: innanzitutto, propose di integrare l’ aggettivo nel composto per ricavarne Ἀνδρηλίθιοκολωνοκλῆς, per poi segnalare, dubitativamente, anche la possibilità di modificare piuttosto il dettato dell’ interpretazione in ἀντὶ τοῦ μίσθιος. L’ opzione di meglio chiarire la definizione di ἠλίθιος nella glossa fu in qualche modo perseguita anche da Ribbeck (1861, pp. 10s. n. 19)238 che, per giustificare il nesso di ἠλίθιος con Colono, ipotizzò di integrare, alla fine della glossa, διὰ τὸ εἶναι 〈ἠλιθίους τοὺς〉 ἐκ Κολωνοῦ. Tuttavia, non ci sono elementi conservati nella tradizione che identifichino i demoti di Colono come sciocchi, sicché l’ integrazione di Ribbeck dovrà dirsi altamente ipotetica. Ha forse maggior possibilità l’ ipotesi di Meineke (1839b, p. 171) di correggere ἠλίθιος in μίσθιος, perché, come osservava lo studioso, si tratterebbe «de forensi […] illo Colono […], quae mercenariorum erat statio»239. Che esistessero due luoghi noti come Κολωνός, è acclarato (cf. e. g. Harp. 181.17–182.9 = κ 72, Soph. OC Arg. II, su cui Franchini 2020, p. 207; cf. anche Poll. 7.132): se qui ci si riferisce a quello ἀγοραῖος, cosa non dimostrabile, la correzione μίσθιος avanzata da Meineke diventa plausibile, specialmente se si considera come un nome alternativo del luogo fosse proprio Κολωνὸς μίσθιος (schol. Ar. Av. 997)240. Il luogo fu oggetto di attenzione comica, cf. Pherecr. fr. 142 e Com. adesp. fr. 828: nel caso del frammento adespoto, esso si inscrive in una costellazione di tipo proverbiale (Hsch. ο 2078 ~ Prov. Bodl. 717, Prov. Coisl. 397, Suda ο 1075, cf. Hsch. κ 3410). Stante, poi, lo schol. Ar. Ve. 1187, Androcle si sarebbe dedicato alla prostituzione secondo Cratino (per l’ impiego del verbo in questo senso, significativamente al perfetto, cf. e. g. Lys.14.41, Aeschin. 1.52), e ad altre pratiche non lecite, visto che secondo Teleclide ed Ecfantide sarebbe stato un borseggiatore241: si tratta di notizie non necessariamente veritiere. Bergk (1835, p. 119) sottrasse la notizia a Cratino per assegnarla ad Aristofane, con una congettura 237

238 239 240 241

Mi sembra eccessivo lo scetticismo di Schwarze (1971, p. 95 n. 4) rispetto alla possibilità di identificare l’ Androcle di cui si parla nelle commedie degli anni Venti (cf. infra) con l’ Androcle menzionato nei fatti degli anni Dieci da And. 1.27, Thuc. l. c., Plut. Alc. 19.1, su cui cf. infra. Ne richiama le integrazioni Cunningham (2003, p. 607). Già Bergk (1835, p. 120). Cf. anche Crusius (1889, p. 42) e Fuks (1951, p. 173). Cf. Bagordo (2013, pp. 125s.) e Pellegrino (2010, p. 16 n. 9).

Ὧραι (fr. 281)

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«perelegans» (Meineke 1839b, p. 171), ma in definitiva non necessaria, alla luce del fr. 223.3 e, soprattutto, qualora nel fr. 223.3 si accolga αἰσχρῶν Ἀνδροκλέων, senza interpunzione, proprio come suggerito da Bergk stesso (1835, p. 119). Da tutto ciò consegue che i motivi dell'associazione di Androcle a Colono (demo, o, come credo, più probabilmente il luogo dell'agorà con questo nome) non sono chiaribili; in generale però, le accuse comiche rivolte ad Androcle di essere un farabutto, per quanto generiche, sembrano adattarsi meglio a Colono come luogo dell'agorà dove potevano svolgersi alcuni scambi talora semi-illeciti o comunque moralmente discutibili. La formazione cratinea è composta da due parole, Ἀνδροκλῆς e Κολωνός, assemblate in una forma che ha svariati paralleli in commedia e che si potrebbe definire intesa a costruire un mot valise, mancando un rapporto sintattico fra le parti che compongono la neoconiazione, rapporto tipico invece della paronomasia242. Rispetto al mot valise, cf. e. g. Ar. Eq. 996 δωροδοκιστί, Pax 215 Ἀττικωνικοί, e Ve. 592 Κολακώνυμος, detto di Cleonimo243. Casi come, e. g., Ar. Ach. 603, 605, non sono assimilabili al nostro, pur trattandosi di nomi propri, e forse lo stesso dovrà dirsi sia per Eup. fr. 424 Ἀμφιπτολεμοπηδησίστρατος (su cui cf. Olson 2014, p. 191), sia per il soprannome, che si direbbe comico, di Ieroclide (Hermipp. fr. 39 e Phryn. Com. fr. 18) conservato in Hsch. κ 3309, Κολακοφωροκλείδης. Androcle di Pitto (PA 870; PAA 128255) fu un leader dei democratici. Sul piano strettamente storico le fonti informano sui seguenti fatti: 1. Androcle fu tra i principali accusatori di Alcibiade nel 415 a.C., sul sacrilegio dei misteri eleusini alla vigilia della partenza per la Sicilia (Plut. Alc. 19.1–3 e And. 1.27); 2. nel 411 a. C. fu ucciso, secondo Tucidide, in vista del ritorno di Alcibiade (8.65.2). Si può ribadire, en passant, come le azioni politiche di Androcle non siano di molto diverse, per tempi, per collocazione di parte e per esiti, da quelle di Iperbolo, anch’ egli nominato in questa commedia (fr. 283). Androcle fu bersaglio della produzione comica, da ascriversi, quando databile, agli anni Venti: 1. in Ar. Ve. 1187 appare menzionato insieme a Clistene (cf. Fritzsche 1836, pp. 142–158 e Biles-Olson 2015, p. 430), come Teoro; 2. in Telecl. fr. 16 e in Ecph. fr. 4 viene presentato come un volgare ladro (la fonte è sempre lo scolio alle Vespe); 3. sulla caratterizzazione che riceve nei Seriphioi di Cratino cf. ad l. Fra le rappresentazioni comiche si vedano anche Com. adesp. frr. 278 (ex Hsch. α 5716 ἀπ’ αἰγείρων· Ἀνδροκλέα τὸν ἀπ’ αἰγείρων ἀντὶ τοῦ συκοφάντην, ἐπειδὴ ἐκ

242 243

Si veda Beta (2007). Come ha mostrato Sampino (2011, p. 68), non si tratta di giustapposizione, ma di una forma di intreccio tra i due componenti.

230

Cratino

τῆς ἐν τῇ ἀγορᾷ αἰγείρου τὰ πινάκια ἐξῆπτον, τουτέστιν ἐξήρτων, οἱ ἔσχατοι)244 e 951.1 (ἐν δὲ διχοστασιῃσι καὶ Ἀνδροκλέης πολεμαρχεῖ). Nel caso dell’ adespoto fr. 278 non esiste una costellazione lessicografica o più generalmente erudita cui ascrivere il testo, che si direbbe un riadattamento di una forma apparentemente diffusa, di cui si servì anche Cratino, come si evince dall’ anepigrafo fr. 372 (su cui Olson-Seaberg 2018, pp. 194s.), tràdito da Phot. α 505 (Σb α 497). Il frammento adespoto, nella comica deformazione volta a colpire Androcle come sicofante, si rifarà a un impiego dell’ espressione inteso a significare quanto rilevano Suda α 2952 (Σb α 1651) ed Eust. Od. 1523.53–5, da cui si ricostruisce Paus. Att. α 128 (ἦν γοῦν φασιν αἴγειρος Ἀθήνῃσιν ἐπάνω τοῦ θεάτρου ἀφ’ ἧς ἐθεώρουν οἱ μὴ ἔχοντες τόπον. ὅθεν καὶ ἡ ἀπ’ αἰγείρου θέα ἐλέγετο. καὶ παρ’ αἴγειρον θέα, ἡ ἀπὸ τῶν ἐσχάτων. καὶ ἦν φασιν εὐωνοτέρα ἡ παρ’ αἴγειρον θέα)245. Quanto a Com. adesp. fr. 951, si dovrà segnalare come esso sia testimoniato propriamente nei corpora paremiografici (Zen. vulg. 3.77 = Prov. Bodl. 421 = Diogen. 4.55 = Suda ε 1154 = Apost. 7.16)246, e come un verso simile si registri quale Eleg. adesp. fr. 12. Dell’ eloquenza di Androcle dà un saggio Aristot. Rhet. 1400a 9–13 (IV p. 153 Sauppe), definendone lo stile a mo’ di esempio di quel genere di luoghi che consiste nel dire cose che non sarebbero credute come vere, se non fossero accadute o non fossero sul punto di accadere. Si viene dunque a sapere che Androcle intervenne κατηγορῶν τοῦ νόμου per sostenere come necessaria una legge che corregga le leggi dal momento che anche i pesci, pur cresciuti nell’acqua salata, hanno bisogno di sale per la conservazione, al pari delle olive pressate che hanno bisogno dell’olio.

fr. 282 K.–A. (261 K.) schol. Ar. Av. 766 (cf. Suda ν 213, π 1641) οὐδὲν σαφὲς ἔχομεν οὔτε τίς ὁ Π ε ι σ ί ο υ οὔτε περὶ τῆς προδοσίας· ὅτι δὲ τῶν λίαν πονηρῶν ἐστι δηλοῖ Κρατῖνος ἐν Χείρωσι (fr. 251), Πυλαίᾳ (fr. 185), Ὥραις non abbiamo nulla di chiaro né chi fosse il figlio di Pisia né quale la colpa: Cratino nei Cheirōnes (fr. 251) dimostra che è fra i veri delinquenti, nella Pylaia (fr. 185), nelle Hōrai

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246

Se l’ Androcle menzionato è quello di cui si sta qui discutendo, l’ idea che fosse sicofante non necessariamente sarà veritiera, essendo l’ accusa piuttosto diffusa e generica in commedia (cf. Pellegrino 2010, pp. 75–96). Nella medesima costellazione cf. Hsch. α 1695 (= Suda αι 35), θ 166, Phot. θ 47, e soprattutto Hsch. π 513 che si rifà all’ autorità di Eratostene (fr. 3), ciò che conferma l’ antichità di una fonte ellenistica, comune al plesso di informazioni. Nella mantissa di commento di Leutsch-Schneidewin (1839, p. 75), si legge che «adagium e Cratino ductum videtur» (per una simile struttura concettuale, senza ovviamente nessun intento comico, cf. Eur. Hipp. 988s. οἱ γὰρ ἐν σοφοῖς / φαῦλοι παρ’ ὄχλῳ μουσικώτεροι λέγειν).

Ὧραι (fr. 283)

231

Metro non deducibile Bibliografia Runkel (1827, p. 71); Meineke (1839b, p. 168); Bothe (1855, p. 53); Kock (1880, p. 91); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 263; Sommerstein (1996, p. 346); Totaro 2006 (ap. Mastromarco-Totaro 2006, p. 199); Storey (2011, pp. 398s.); Bianchi (2017, p. 148) Contesto della citazione Il testimone è lo stesso del fr. 251. Lo scolio dichiara di non sapere chi sia il figlio di Pisia: nel caso del fr. 251 si direbbe che in realtà Cratino non intendesse occuparsi del figlio di Pisia, ma di Pisia, considerata la citazione successiva e il resto della spiegazione: nel caso delle Hōrai, invece, lo scolio certifica che vi si parlava del figlio di Pisia (cf. Sommerstein 1996, p. 346 e Bianchi 2017, p. 148). Interpretazione Chi fosse il figlio di Pisia e quale ruolo avesse nella politica ateniese dei tardi anni Venti e degli anni Dieci (vista la sua menzione negli Uccelli, del 414 a. C.) non è dato sapere con sicurezza. Si vedano a tal proposito le considerazioni di Totaro (ap. Mastromarco-Totaro 2006, p. 199, con bibliografia), richiamate anche nel fr. 251, cui si rimanda.

fr. 283 K.–A. (262 K.) schol. Luc. Tim. p. 115.5–8 (Ὑπ ε ρ β ό λ ου, dat. in Luc.) Κρατῖνος δὲ ἐν Ὥραις ὡς παρελθόντος νέου τῷ βήματι μέμνηται καὶ παρ’ ἡλικίαν καὶ Ἀριστοφάνης Σφηξὶ (cf. v. 1007) καὶ Εὔπολις Πόλεσι (fr. 252) (Iperbolo) Cratino nelle Hōrai lo menziona per essersi avvicinato da giovane alla politica e in un’ età inappropriata, anche Aristofane nelle Vespe (cf. v. 1007) ed Eupoli nelle Poleis (fr. 252)

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, p. 169); Bothe (1855, p. 53); Kock (1880, p. 91); Müller-Strübing (1890, pp. 525s.); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 264; Casanova (1995); Olson (2016, p. 306) Contesto della citazione Il frammento, sine ipsissimis verbis, si trova in un’ informata annotazione scoliastica a Luciano di stampo prosopografico, forse derivante da un catalogo di komodoumenoi (cf. Olson 2016, p. 306), che sarà da collocarsi non prima della fine del IV secolo a giudicare dalle fonti citate (cf. infra). La scheda potrebbe poi esser stata assemblata da Alessandro di Nicea (supra p. 45). La struttura del dotto commento sembra procedere con un andamento sostanzialmente biografico che segue lo svolgersi della vita di Iperbolo (PA 13910; PAA 902050). Quanto alle fonti dichiarate, dopo la menzione di Androzione (FGrHist 324 F 42) per la genealogia e per la pratica dell’ ostracismo, di And. fr. 4 (= 5 Bl.-F.) per

232

Cratino

le origini, e di Teofrasto (fr. 640a) per l’ ostracismo che colpì Iperbolo, evento anticipato già nella testimonianza di Androzione, si passa di nuovo alla presunta origine straniera, richiamata attraverso alcune testimonianze comiche (Polyzel. fr. 5 e Pl. Com. fr. 185); quindi si ricorda Teopompo (FGrHist 115 F 95) per indicare un nome del padre di Iperbolo diverso da quello fornito da Androzione; si passa di nuovo ai comici per l’ attività politica di Iperbolo – con le menzioni di Cratino, Aristofane ed Eupoli – infine si menziona ancora una volta Teopompo (F 96a) per la morte a Samo. Vi si afferma che a un’età troppo giovane Iperbolo salì alla tribuna assembleare (cf. infra), secondo una considerazione che si troverebbe nelle Hōrai di Cratino, nelle Vespe di Aristofane (v. 1007?) e nelle Poleis di Eupoli (fr. 252). Quali fossero le parole esatte di Cratino, si ignora. Certamente hanno ragione Kassel e Austin a ipotizzare che il nome di Iperbolo fosse evidentemente presente nel passo comico parafrasato. Si direbbe che il richiamo alle Vespe appaia immotivato: Iperbolo è menzionato solo al v. 1007 della commedia (κοὐκ ἐγχανεῖταί σ’ ἐξαπατῶν Ὑπέρβολος) con un richiamo generico alla sua attività politica. MüllerStrübing (1890, pp. 525s.) ritenne che il richiamo ad Ar. Ve. 1007 sia un errore per Pax 680s., ma in realtà nemmeno il passo della Pace (v. 680 ὅστις κρατεῖ νῦν τοῦ λίθου τοῦ ’ ν τῇ πυκνί) appare perspicuo rispetto alla considerazione avanzata nello scolio, se non molto parzialmente: non vi si fa riferimento all’ età di Iperbolo ma al suo ruolo di oratore politico, ciò che rende assimilabile questo passo, da questo punto di vista, a Ve. 1007, motivo per cui non si vede dove risieda il progresso esegetico conseguito dalla correzione. Il passo della Pace, nel tentativo esegetico di Müller-Strübing, potrà in realtà solo sembrare più vicino alle informazioni dello scolio lucianeo per come si presenta il v. 680 (l. c.) – riferito a Iperbolo – in quanto confortato da Hsch. λ 999 (τὸ ἐν τῇ Ἀθηναίων ἐκκλησίᾳ βῆμα, cf. anche λ 1003), ma si dovrà rilevare che l’ espressione aristofanea presente nella Pace è diffusa (cf. infra e soprattutto Meineke 1841, p. 644). È da rilevare, invece, che è il plesso di informazioni dello scolio a Luciano riferite ai comici ad esser simile a quelle di schol. Ar. Pac. 680: ed è questo ciò che rende la menzione delle Vespe nello scolio a Luciano esatta sul piano della tradizione, nel senso che essa non sarà esito di corruzione, e al più derivante da una interpretazione errata di qualche antica fonte del plesso di notizie247. In tutti questi casi, non ci sono richiami all’ età di Iperbolo. Quanto alla menzione delle Poleis, non si può rilevare nulla in quanto non restano tracce del frammento eupolideo. 247

Nel dettaglio sarà da segnalare come la menzione di And. fr. 4 (= 5 Bl.-F.) nello scolio lucianeo trovi corrispondenza con la citazione del passo di Andocide in schol. Ar. Ve. 1007, il quale procede poi con la citazione di Theop. FGrHist 115 F 96b (cf. nota successiva) che risponde alle notizie presenti nell’ ultima parte dello scolio lucianeo (rr. 8–12), dopo l’ indicazione dei passi comici. Quanto a schol. Ar. Pac. 681b, andrà notato come la falsa notizia del nome Cremete per il padre di Iperbolo si trovi nello scolio lucianeo come notizia di Teopompo e nello scolio alla Pace; la parte finale dei due scolî coincide alla lettera.

Ὧραι (fr. 283)

233

La quantità e la contraddittorietà di alcune informazioni dello scolio lucianeo possono essere in una delle fonti consultate per il catalogo dei komodoumenoi: per la parte che va dalla menzione di Polizelo in avanti, la fonte potrebbe essere tutta individuata in Teopompo, che dai comici deve aver attinto il dibattito sull’ origine, pur sempre sospetta di essere barbara, di Iperbolo. Del resto, nel medesimo passo citato dallo scolio a Luciano, si osserva che nel trattato Sui demagoghi Teopompo, alle prese con la genealogia di Iperbolo, riportava che il nome del padre di Iperbolo era Cremete: si tratta di un nome chiaramente comico (da Platone?), vagamente servile (dunque affibbiato a uno straniero?) e certamente falso, visto che, come ricorda Androzione e, soprattutto, come si evince dagli ostraka su Iperbolo (cf. Lang 1990, p. 64 #307–309, Phillips 1990), il nome dell’ uomo era Antifane. Testo In generale, lo stato del testo dello scolio non sembra soffrire di errori, almeno per ciò che riguarda la parte cratinea, motivo per cui Kaibel (ms. ap. K.–A.) riteneva, condivisibilmente, di respingere la pur formalmente lieve correzione di Müller-Strübing (1890, p. 526, ma avanzata già precedentemente e ricordata con qualche difformità argomentativa da Kock 1880, p. 91) di νέου in νέον. Tuttavia, non ci sono motivi per rifiutare l’ ipotesi che Iperbolo dal 424 a. C. iniziò a tenere discorsi all’ Assemblea (cf. supra alla datazione della commedia): l’ aggettivo fa riferimento normalmente ai ventenni, cf. Pl. Smp. 198a in merito alla prima vittoria di Agatone, ma in commedia sembra usato anche in modo estensivo a indicare qualcuno considerato comunque giovane per una determinata situazione. In tal senso sarà da intendersi Ar. Ach. 601, detto con una nota spregiativa del quarantenne Lamaco (cf. Olson 2002, p. 228). Se ne ricava, dunque, che forse a Cratino esclusivamente, piuttosto che anche ad Aristofane e a Eupoli, potrà esser fatto risalire il senso dell’ indicazione παρ’ ἡλικίαν, magari non espressa in questi termini; comune invece a tutti i tre commediografi ci sarebbe il ricordo dell’ attività oratoria all’ assemblea, segnalata in commedie dello stesso torno di tempo, visto che all’ attività politica si riferisce Aristofane in Ve. 1007, vale a dire nel 422 a. C., anno a cui vanno forse ascritte anche le Poleis, se non al precedente (cf. Olson 2016, p. 229). Interpretazione Iperbolo fu un ricco commerciante di lampade (cf. fr. 209), nato verisimilmente alla metà del V sec. a. C., con qualche possibile ascendenza non ateniese (cf. infra). Fu un’ eminente figura politica ateniese dalla metà degli anni Venti, fino alla morte violenta che lo colse a Samo nel 411 a. C., dopo alcuni anni dall’ ostracismo (Theop. FGrHist 115 F 96b) che lo colpì non prima della primavera del 416 a. C.248 quale esito, si direbbe, dell’ azione congiunta di Nicia e di 248

L’ ostracismo di Iperbolo, l’ ultimo ostracismo della storia ateniese, resta tuttora argomento molto dibattuto per lo meno quanto a datazione. Secondo Theop. FGrHist 115 F 96b, ἐξωστράκισαν τὸν Ὑπέρβολον ἓξ ἔτη, il che ha condotto a fissare la data del procedimento politico al 417 o al 416 a. C. In IG I3 85.6 compare il nome di Iperbolo per un’ orazione assembleare: se la datazione dell’ iscrizione va fissata al tardo anno attico,

234

Cratino

Alcibiade, dopo che Iperbolo stesso avrebbe tentato di trarre un profitto sul piano politico in seguito all’ ostracismo che avrebbe dovuto colpire uno fra Alcibiade e Nicia, da tempo reciproci rivali (Thuc. 8.73.3; Plut. Nic. 11, Alc. 13, Arist. 7.3s.; cf. Lang 1990, p. 64 #307–309). Una versione minoritaria dell’ episodio segnala come lo scontro fosse tra Alcibiade e Feace, non fra Alcibiade e Nicia, e anche in questa versione Iperbolo risulta colpito dall’ ostracismo (Thphr. fr. 639 ricordato da Plut. Nic. 11.10). Menzioni di Iperbolo in commedia si trovano soprattuto, ma non solo, nelle prove degli anni Venti: Ar. Ach. 846, Eq. 738–740, 1303–1305, 1358–1363, Nu. 551, 623, 874–876, 1065, Ve. 1007, Pax 681, 690, Th. 840, Ra. 570, cui si aggiungono il Maricante di Eupoli (per cui lo schol. Ar. Ra. 569 garantisce che εἰς ὃν καὶ Εὔπολις ἔγραψε τὸν Μαρικᾶν = Eup. test. iv alla commedia), commedia lenaica del 421 a. C. (cf. Olson 2016, p. 129), il cui protagonista sarebbe lo stesso Iperbolo secondo Quint. Inst. 1.10.18 (Eup. fr. 208); il poeta lo menzionò anche nelle Poleis (fr. 252, su cui cf. supra); Iperbolo fu poi bersaglio delle Hartopolides di Ermippo (Ar. Nu. 557 col relativo schol. ad l.), commedia la cui datazione non è nota, ma da fissarsi al 420 o al 419 a. C. (cf. Comentale 2017, p. 68); e, notoriamente, è esplicito protagonista dell’ Iperbolo di Platone comico (cf. schol. Ar. Nu. 558 = test. ii alla commedia)249. Attacchi e menzioni che la tradizione consegna come circoscritti e più sporadici sono nello stesso Cratino (fr. 209, a proposito della professione di produttore di lanterne esercitata da Iperbolo), Leuco fr. 1 (per cui si noti che la commedia da cui il frammento deriva risale al 421), Polyzel. fr. 5, Com. adesp. fr. 846. La più antica menzione in Aristofane è quella degli Acarnesi (v. 846 ), mentre la più recente si trova nelle Rane (v. 569), evidentemente post mortem: il frammento di Cratino andrà fissato dunque attorno all’età dei Cavalieri, a causa del richiamo alla tribuna politica, come osservato da Kassel e Austin (cf. anche BilesOlson 2015, p. 377). Si tratta di un’ indicazione non accolta da svariati studiosi (cf. e. g. Casanova 1995, p. 105), ma non pare esistano definitivi argomenti per respingerla, se si intende l’ espressione παρελθεῖν τῷ βήματι applicata all’ àmbito politico: cf. e. g. Eup. fr. 220.3 (ἀναβὰς γὰρ ἐπὶ τὸ βῆμα detto di Siracosio), Aristot. Ath. 28.3 (detto di Cleone), Dem. 18.66 (e 60). Quanto ad Ar. Ec. 677 (τὸ δὲ βῆμα τί σοι χρήσιμον ἔσται;), sarei incline, come Kassel e Austin e a differenza ad esempio di Ussher (1973, p. 170), a considerare l’ indicazione del βῆμα come un richiamo

249

in un periodo compreso fra la sesta e l’ ottava pritania del 418/7, l’ ostracismo potrà risalire al 417 a. C. in linea teorica, ma sarà in realtà più verisimilmente successivo (cf. Woodhead 1949). Uno studio dettagliato delle fonti sull’ ostracismo di Iperbolo hanno fornito, fra gli altri: Rhodes (1994), incline all’ ipotesi di collocarlo nel 415 a. C.; Heftner (2000), che pensa al 416 a. C.; Mossé (2000); Cuniberti (2000, in part. pp. 116–120), anch’ egli per il 416 a. C.; Rosenbloom (2004), sicuro del 415 a. C. Su Iperbolo si vedano anche Davies (1971, p. 517), Connor (1992, pp. 60–62), Imperio (2018). Che il fr. 203 di Platone, anepigrafo, derivi dall’ Iperbolo è un’ ipotesi tutt’ altro che unanime: per una panoramica di alcune proposte cf. l’ apparato di Kassel e Austin ad l.

Ὧραι (fr. 285)

235

alla tribuna politica e non a quella dei tribunali, proprio in quanto i tribunali sono richiamati immediatamente prima (v. 676): forse per questa menzione, lo schol. Ar. Ec. 677 fa riferimento alle sedi giudiziarie. Per le testimonianze sull’ attività politica di Iperbolo cf. anche IG I3 85 (418/417 a. C.) e forse 82.5 (421/420 a. C.), per cui si considerino le opportunamente prudenti indicazioni di Makres (2014), a proposito dell’ integrazione del nome di Iperbolo. La più antica testimonianza sicura, nel novero di quelle che riferiscono di interventi politici di Iperbolo, resta dunque Eq. 1303.

fr. 284 Κ.–Α. (367 K.) Phot. (z) α 2510 (sim. Σb α 1854 et Suda α 3348) ἀ π ο κ ε ῖ σ θ α ι π ό ρ ρ ω· ἀτιμάζεσθαι. Κρατῖνος Ὥραις (in marg. Phot., οὕτως Κρ. tit. om. Σb et Suda) essere messo a distanza, lontano: essere disprezzato. Cratino nelle Hōrai

Metro non deducibile Bibliografia

Meineke (1839b, p. 190); Kock (1880, p. 117); PCG IV p. 264

Contesto della citazione Il frammento, sine ipsissimis verbis, tràdito come di Cratino da una costellazione lessicografica che rimonta, nel suo stadio più antico noto, a Phot. α 2510 (sim. Σb α 1854 = Suda α 3348, privi del titolo), è stato recuperato alle Hōrai solo a séguito del ritrovamento del codice Zavordensis 95, il cui compilatore spesso affida al Supplementum (Sz) o ad annotazioni marginali l’ indicazione degli autori e delle opere di varie citazioni che riporta (cf. Theodoridis 1982, pp. LXIs.). Di questa prassi, la glossa in questione costituisce un esempio. Interpretazione L’ interesse tutto lessicale del frammento pertiene alla storia della semantica greca, in quanto la sinonimia proposta dalla glossa non rappresenta uno hapax, ma si direbbe che l’ espressione cratinea per indicare qualcosa di messo lontano con disprezzo sia il primo caso noto di questa valenza dell’ espressione.

fr. 285 K.–A. (264 K.) Antiatt. ψ 4 ψ ή φ ι σ μ α ἔ θ η κ ε ν· ἀντὶ τοῦ ἔγραψε. Κρατῖνος Ὥραις, Πλάτων Ποιητῇ (fr. 123) depositò un decreto: al posto di “scrisse”. Cratino nelle Hōrai, Platone nel Poiētēs (fr. 123)

Metro non deducibile

236

Cratino

Bibliografia Meineke (1839b, p. 170); Bothe (1855, p. 53); Kock (1880, p. 92); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 264 Contesto della citazione Il frammento, forse sine ipsissimis verbis come si potrebbe ipotizzare dalla forma lemmatizzata e dalla presenza di due riferimenti letterari distinti per la stessa espressione (Cratino e Pl. Com. fr. 123), è conservato dal solo Antiatt. ψ 4. Il lessico tramanda altri nove frammenti di Cratino: in β 20 (fr. 219, cf. supra), γ 33 (fr. 291, cf. infra), δ 66 (fr. 165), ε 48 (fr. 37), ε 101 (fr. 36), κ 76 (fr. 86), κ 107 (fr. 190), μ 35 (fr. 473, anepigrafo), ω 2 (fr. 298, cf, infra). Di essi, tre derivano dalle Hōrai. Testo Lo stato della glossa non sembra presentare alcun problema di tipo testuale né esegetico. Segnalo: la menzione ulteriore del Poiētēs di Platone subito dopo, in ψ 6 (fr. 126)250; l’ indicazione di due autori, peraltro riferibili allo stesso genere251. Si può osservare, inoltre, che l’ espressione ψήφισμα τιθέναι è abbastanza rara e comunque tarda, cf. Prol. de com. 1.97.

250

251

Di Platone comico sono citati 13 frammenti – oltre a questo e a quello di ψ 6 – in α 62 (fr. 63), α 68 (fr. 155), δ 32 (fr. 157), ε 107 (fr. 67), ι 19 (fr. 68), κ 20 (fr. 41), κ 40 (fr. 158), κ 67 (fr. 171), κ 97 (fr. 74), λ 21 (fr. 12), λ 22 (fr. 124). Indico fra parentesi i casi in cui almeno una menzione delle varie presenti nella glossa derivi dalla commedia. Trascuro il caso di α 152 dove si menziona Strattide, in quanto non appare chiara la collocazione dell’ indicazione della commedia (cf. Valente 2011, Fiorentini 2017, p. 284). Questi i casi: α 1, α 20 (dove tuttavia l’ autore è sempre il commediografo Antifane), α 55 (Ar. Pax 415, Eup. fr. 213), α 57 (Hyper. fr. 157 S., Com. adesp. fr. *86), α 66, α 101 (Men. fr. 365, Alex. fr. 79), α 108 (Arar. fr. 6), α 115 (Pl. Resp. 420c 5, Men. Dysc. 159), α 125 (Alex. fr. 302, Xen. Smp. 4.31), α 127 (Antipho fr. 48 S., Din. fr. 1), α 130, α 136 (Ar. Th. 904, Il. 17.695), β 1 (Hdt. 8.106.3, Men. fr. 112, Eup. fr. 26, Hom. passim), β 4 (Pl. Gorg. 488a8, Euth. 287e2, Ar. Pl. 325), β 5, β 7 (Alex. frr. 24.3, 178.9, 178.18, Antiph. fr. 71.1), β 11 (Eup. fr. 19, Eur. Ph. 28), β 13, β 16 (Alcae. Com. fr. 6, Aristot. fr. 404.3 G.), β 20 (Sol. fr. 60c, Cratin. fr. 219), β 23 (Eur. fr. 694, Canth. fr. 3), β 31, γ 1 (Philippid. fr. 2, Pherecr. fr. 96), γ 4, γ 5, γ 29, δ 6 (Eueth. fr. 1, Epich. frr. 240.1, 241 ex suppl. Tsantsanoglou),), δ 23, δ 24 (Hdt. 4.113.3, Nicoph. fr. 16), δ 65 (Ar. Pax 420, Nu. 984, Th. 1.126.6), ε 6 (Dem. 24.52, Com. adesp. fr. 88, Th. 3.83.1, Pl. Resp. 349b 5), ε 9, ε 15 (Eup. fr. 27, Pl. Resp. 606b 8), ε 19 (Philemo fr. 18, Anaxandr. fr. 63), ε 21, ε 22 (Xen. Mem. 3.11.4, Hdt. 1 passim, Com. adesp. fr. 89), ε 53, ε 65, ε 81 (erroneo il riferimento a Tucidide), ε 105 (Eup. fr. 319, Hdt. 1.78.2), ζ 3, η 1 (Soph. fr. 669, Ar. Th. 742), θ 3, θ 4 (Hdt. 4.42.3, Eup. fr. 215), θ 17, κ 1 (Alex. fr. 226, Diphil. fr. 8), κ 10, κ 12 (dove l’ autore è sempre Euripide), κ 18 (Eub. fr. 83, Pherecr. fr. 111, Aesch. fr. 432), κ 31 (Phryn. Com. fr. 50, Philemo fr. 190), κ 109, λ 1, λ 6, μ 13, μ 21 (Alex. fr. 29, Anaxil. fr. 31, Alex. fr. 186), ο 1, ο 12 (Sophr. fr. 148, Epich. fr. 138), ο 22, π 3, π 11, π 18 (Philemo fr. 57, Il. 24.734), ρ 6 (in cui forse l’ Apollodoro che vi si nomina potrebbe esser il commediografo, assieme a Dem. 54.8), σ 1, σ 2 (Archipp. fr. 61, Alex. fr. 327), τ 5, υ 1 (Hdt. 4.120.2 e 4, Ar. Ra. 174), ψ 6 (Pl. Com. fr. 126 per cui cf. supra, Aristot. HA 527a30).

Ὧραι (fr. 286)

237

Interpretazione Priva del tutto di qualunque contestualizzazione, la glossa non può esser oggetto di interpretazioni articolate che non rischino di esser del tutto prive di una qualche plausibilità. In relazione alla rarità dell’ espressione, interessante dovrà dirsi Liban. Prog. 7.1.5 (cf. Decl. 26.1.15) ψηφίσματα γράφειν, νόμους τιθέναι, che potrebbe riflettere la differenza tra i due sostantivi (cf. Pl. Theaet. 173d, Aristot. EN 1137b 29, Dem. 20.92, che polemicamente rileva una mancanza di differenza tra decreti e leggi, che dunque in teoria sarebbe dovuta esser operante), pur non sempre riscontrabile (cf. Ar. Ve. 377s. ἵν’ εἰδῇ / μὴ πατεῖν τὰ / ταῖν θεαῖν ψηφίσματα). Si direbbe che il verbo sia normalmente applicato a νόμος in contesti del genere, e che forse Cratino (e Platone comico?) possano aver utilizzato l’ espressione a significare una sorta di abusio sul piano normativo, dove un decreto ha sostituito una legge.

fr. 286 K.–A. (11 Dem.) Phot. α 1443 ἀ ν α γ ω γ ή· ἐπὶ πλοῦ. Κρατῖνος Ὥραις anagoge: a proposito della navigazione. Cratino nelle Hōrai

Metro non deducibile Bibliografia p. 264

Reitzenstein (1907, p. 109); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV

Contesto della citazione Il frammento, sine verbis, si trova in Phot. α 1443, testimoniato dai mss. berlinese e zavordense, dunque riconosciuto come di Cratino solo a partire dall’ edizione del berlinese stabilita da Reitzenstein (1907), e, per i comici, dal Supplementum di Demiańczuk (1912). Secondo Theodoridis, la glossa potrebbe aver ascendenza atticista e più propriamente frinichea, pur con tutte le cautele del caso, cl. PS 14.10 ἀναγωγή· ἐπὶ πλοίου (ἐπὶ πλοῦ Theodoridis)252. Alla costellazione potrebbe esser riconducibile Hsch. α 4252 al. inter., dove si registra come col termine ἀναγωγή si intende ὁ ἐκ τῆς Ἑλλάδος εἰς τὴν Τροίαν ἀπόπλους καὶ ὁ 〈ἐκ〉 τοῦ ναυστάθμου ἐπὶ τὴν Ἴλιον πλοῦς. Che questa spiegazione di Esichio vada ricondotta al perduto Cratino, può essere un’ opzione praticabile però tutt’ altro che sicura: ne consegue che non va ricavato qualche elemento di sostegno in Phot. α 1438, l’ altra glossa del lessico dedicata al termine ἀναγωγή, inteso allo stesso modo di Hsch. α 4252 pr. inter. vale a dire come ἡ τῶν πραθέντων 252

L’indicazione di Frinico si deve a Theodoridis. Kassel e Austin ricordano che si potranno tener presenti, però marginalmente a mio avviso rispetto a Frinico, le indicazioni di Suda α 1835 ἀναγωγή· ὁ τῶν νηῶν ἔκπλους (seq. Arr. Parth. fr. 68, D. S. Bibl. 33.28b.3), schol. Luc. 41.13.

238

Cratino

ἀνδραπόδων ἀνάδοσις, ἐχόντων αἰτίαν τινά. Questa interpretazione di ἀναγωγή si riferirebbe a Pl. Leg. 916a. Testo La ricostruzione di questa parte di costellazione che si fonda sul fatto che Hsch. α 4252 pr. inter. è identico a Phot. α 1438, non implica l’ automatica conseguenza per cui il senso di quanto si legge rispetto a Cratino in Phot. α 1443 sia integrabile grazie a Hsch. α 4252 al. inter.: che in Omero il termine sia impiegato in questo senso – cf. schol. Il. 13.627, su cui Lehrs (1882, p.111), cf. anche schol. Il. 11.22 ed Eust. Il. 968.35 – e che anche Cratino usi ἀναγωγή per la navigazione, stando al testimone, non significa che necessariamente il commediografo facesse riferimento alla navigazione greca verso Troia.

fr. 287 K.–A. (12 Dem.) Phot. α 1797 (sim. Suda α 2234 et Σb α 1254) ἀ ν ε κ ά ς· ψιλῶς, τὸ ἄνω λέγουσι· καὶ ἀνέκαθεν τὸ ἄνωθεν. Εὔπολις Αὐτολύκῳ (fr. 57, postea ἐπαίρω in Eup. versu def. Σb, versum om. Phot. b, hinc def. Phot. z) καὶ Κράτης (Κρατ Suda AF, Κρατῖνος cett.) Ἥρωσι (fr. 12, postea def. Suda, duo versus om. Phot.) καὶ Κρατῖνος Ὥραις (Phot. tantum b habet) anekas (su, da su): non aspirato, intendono “su” e anekathen “da su”. Eupoli nell’ Autolykos (fr. 57) e Cratete negli Hērōes (fr. 12) e Cratino nelle Hōrai

Metro non deducibile Bibliografia p. 264

Reitzenstein (1907, p. 129); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV

Contesto della citazione Il frammento è testimoniato dal solo Fozio berlinese (Berolinensis graec.oct. 22), ora α 1797, pertanto ignoto a Kock e recuperato da Demiańczuk nel Supplementum del 1912 dopo l’ edizione del codice berlinese di Fozio condotta da Reitzenstein (1907). Si tratta dunque del contesto dei lessici della Synagoge, nella forma (parzialmente) ricostruita Σ – come si ricava da Suda α 2234 che si interrompe con la citazione di Crates fr. 12 – e di Σb α 1254, che si interrompe ad ἐπαίρω nella citazione di Eup. fr. 57, frammento che precede quello di Cratete. È interessante notare come a fronte della forma plenior della Suda che conserva le citazioni ma non fa menzione di Cratino, e di quella del codice B della Synagoge che si interrompe con parte della prima citazione, probabilmente per la difficoltà testuale253 di Eup. fr. 57, il berlinese di Fozio tagli tutte le citazioni ma non l’ indicazione dei commediografi e dei relativi titoli, e conservi quella di Cratino, sicché si potrà ipotizzare che in Σ la citazione cratinea fosse presente, 253

Il che suffraga la scelta di Olson di inserire una crux dopo ἐπαίρω in Eup. fr. 57 (Olson 2017, p. 205).

Ὧραι (fr. 287)

239

confermando lo schema ricostruttivo avanzato da Cunningham (2003, p. 14). Il codice zavordense di Fozio non ha le citazioni e si interrompe alla menzione della commedia di Eupoli. Interpretazione Il plesso di testimonianze, in parte, segnala un’ ascendenza atticista (cf. Phryn. PS 32.11 ἀνεκάς· Ἀττικῶς. καὶ σημαίνει τὸ ἄνω, Plut. Thes. 33.3 τὸ γὰρ ἄνω τοὺς Ἀττικοὺς ἀνεκάς ὀνομάζειν καὶ ἀνέκαθεν τὸ ἄνωθεν), tuttavia che la prescrizione possa circoscrivere un uso davvero attico mi pare non del tutto accettabile (cf. infra). Quanto al senso generale della testimonianza, cf. anche Erotian. α 24 σύγκειται … ἐκ τοῦ ἄνω καὶ τοῦ ἑκάς, schol. Ar. Ve. 18 ἀντὶ τοῦ ἄνω καὶ πάνυ ἑκάς, Σb α 1276, schol. Luc. 28.25, che potrebbero garantire come nei lessici della Synagoge si intenda che non sia operante l’ aspirazione: quella dell’ assenza di operatività dell’ aspirazione è una sottolineatura senz’ altro singolare (cf. DELG 328A), ma non sembra che le notizie lessicografiche intendano dire che la seconda parte del composto vada ricondotta a qualcosa di diverso da ἑκάς, con l’ intenzione in qualche modo di rettificare ciò che si osserva in Erotian. α 24 e in schol Ar. Ve. 18. Alla stessa costellazione dei lessici della Synagoge vanno forse ricondotte le notizie di schol. Pind. O. 2.22 (38a) che interpreta l’ avverbio ἀνεκάς come ἄνωθεν· ἢ ἄνω, ciò che si direbbe essere l’esito di una semplificazione e compressione di una più vasta argomentazione. Grazie al confronto con i frammenti conservati di Eupoli e di Cratete, si potrà agevolmente ipotizzare che fosse presente ἀνεκάς in Cratino, magari come nei due altri commediografi inteso a indicare il movimento di una parte del corpo (τὸ σκέλος in Eupoli – cf. Eup. fr. 447? – e τὸν αὐχένα in Cratete, su cui cf. le opportune osservazioni di Perrone 2019, p. 91). Si può avanzare questa ipotesi poiché le altre attestazioni comiche dell’ avverbio non coinvolgono parti del corpo ma oggetti, cf. Ar. Ve. 18 (ἀσπίδα / φέρειν ἐπίχαλκον ἀνεκὰς εἰς τὸν οὐρανόν) e fr. 192.2 (ὁ μηχανοποιὸς ὁπότε βούλει τὸν τροχὸν / ἐᾶν † κἀνεκάς † λέγε χαῖρε φέγγος ἡλίου); si potrebbe aggiungere Pherecr. fr. 180, se vi si accetta la correzione ἀνεκὰς τὸ κρίβανον, avanzata da Valckenaer (1767, p. 285), per il tràdito ἂν ἑκάστῳ τὸ κρίβ. La più antica attestazione di ἀνεκάς risale a Pind. O. 2.22 (ὅταν θεοῦ μοῖρα πέμπῃ / ἀνεκὰς ὄλβον ὑψη- / λόν), il lemma è quindi presente in Ippocrate (cf. e. g. Epid. 5.1.2 = 5.204.13 Littré; Mul. 143.8 = 8.316.8 Littré), quanto basta a rifiutarne la pertinenza squisitamente attica suggerita in Frinico e in Plutarco. Rispetto all’ accentazione, ossitona o proparossitona, oggetto di discussione nelle teorie grammaticali antiche, cf. Apoll. Dysc. Adv. 2.2.1 (p. 160.21). Schneidewin (1848, p. 118s. e n. 5), alle prese con l’ avverbio e le sue attestazioni poetiche, recuperò l’ ipotesi di accentazione proparossitona in attico: sulla stessa linea interpretativa si poneva Kaibel ms. ap. Kassel e Austin («videtur igitur ἄνεκας paradosis scripsisse» PCG IV p. 90).

240

Cratino

fr. 288 K.–A. (13 Dem.) Phot. α 1893 ἀ ν ε φ θ ά ρ η· ἀντὶ τοῦ μετὰ φθορᾶς ἀνέστη. Κρατῖνος Ὥραις è andato a rovinarsi: in luogo di si è allontanato con danno. Cratino nelle Hōrai

Metro non deducibile Bibliografia p. 265

Reitzenstein (1907, p. 135); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV

Contesto della citazione Il frammento è testimoniato da Fozio: pubblicata per la prima volta da Reitzenstein nella sua edizione del codice berlinese del lessico (1907), poi da Demiańczuk nel Supplementum comicum (1912), la glossa si trova, identica, nel codice zavordense. Interpretazione Il frammento è evidentemente sine verbis: in generale, si tratta di un’ espressione colloquiale che presuppone un’ idea di movimento, ed esprime in qualche modo una valutazione, s’ intende spregiativa (cf. Dover 2002, p. 86)254, in quanto indica il concetto di andare alla malora, quando non ha valore letterale (cf. ad esempio supra p. 216). Segnatamente, come osserva Collard (2018, p. 55), «the idea of dismissal is much more prominent than the literal sense of destruction, and the usage is an instance of colloquial exaggeration». Si direbbe che l’ espressione più vicina a quella di Cratino, almeno per il tipo di preposizione, sia in Ar. Av. 916 (κατὰ τί δεῦρ’ ἀνεφθάρης;), ma, negli Uccelli, la direzione è chiarita da δεῦρο, tanto che si potrà tradurre con “giungere / arrivare” (scil. “a rovinarsi”) mentre in Cratino, vista l’esegesi antica ἀνέστη (cf. Eur. HF 59), si direbbe che il senso non sia perfettamente identico. In aggiunta, si potranno considerare anche Pax 72 (ἐκφθαρεὶς οὐκ οἶδ’ ὅποι) ed Ec. 248 (ἢν Κέφαλός σοι λοιδορῆται προσφθαρείς): si tratta di casi in cui l’ idea di movimento riemerge in una sorta di reviviscenza metaforica. Altri esempi non presuppongono un movimento reale del personaggio: Ar. Ach. 460 (φθείρου λαβὼν τόδε)255, Eq. 892 (= Nu. 789 οὐκ ἐς κόρακας ἀποφθερεῖ;), Pl. 598, 610 (φθείρου), e forse fr. *686 οὐ φθερῇ, κάθαρμα …; che, pur oggetto di alcuni interventi, sembrerebbe conservare un valore del tutto traslato; si aggiunga anche Sann. fr. 11. Una simile gradazione si riscontra nell’ impiego che ne fa Euripide, dove il senso di movimento appare meno oscurato dall’ uso in HF 290 (οὐ γῆς τῆσδ’ ἀποφθαρήσεται;), Andr. 708 (εἰ μὴ φθερῇ τῆσδ’ … ἀπὸ στέγης), 715 (φθείρεσθε τῆσδε, δμῶες); mentre in Hcld. 284 e nel fr. 610 l’ impiego traslato è 254 255

Per l’ espressione cf. in generale Collard (2018, pp. 55s.), Bagordo (2001, p. 121), per passi specifici almeno Taillardat (1965, p. 116 § 229) e Rau (1967, p. 31). Olson (2002, p. 193) richiama Aesch. Ag. 1267 ἴτ’ ἐς φθόρον, per cui Fraenkel (1950, III p. 585) ricordava piuttosto Ar. Nu. 789 e in particolare Soph. OT 430, 1146; su questo insisteva anche nelle note inedite conservate presso l’ archivio del Corpus Christi College di Oxford (II.20).

Ὧραι (fr. 289)

241

pienamente operante (φθείρου). Dal IV sec. si considerino, per il versante comico della poesia, Men. Per. 526 (οὐκ εἰσφθερεῖσθε θᾶττον ὑμεῖς ἐκποδών;), Sam. 373, 574, 627, Sic. 343, Herond. 6.15s. (ἐκποδὼν ἡμῖν· / φθείρεσθε, νώβυστρα).

fr. 289 K.–A. (386 K.) Phot. α 2046 (sim. Σb α 1528) ἀντα〈να〉γνῶναι (b, z, suppl. Reitzenstein, recte Σb)· οὐκ ἀντιβάλλειν. οὕτως Κρατῖνος Ὥραις (tit. om. Σb et z) antanagnōnai (aver letto confrontando): non (si usa) antiballein. Così Cratino nelle Hōrai

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, p. 190); Kock (1880, p. 120); Reitzenstein (1907, p. 144); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 265 Contesto della citazione Il frammento come di Cratino, pur sine verbis, era noto già da Σb α 1528, tuttavia anepigrafo. Fu Reitzenstein nel 1907, in sede di edizione del codice berlinese di Fozio, ad assegnarlo alle Hōrai, segnalando il grave stato di conservazione della glossa e la difficoltà a leggervi svariate lettere del titolo, specialmente omega e alpha. Assente dal Supplementum comicum di Demiańczuk (1912), il frammento appare ora come glossa dalle Hōrai nell’ edizione di Kassel e Austin. Il repertorio cui la glossa appartiene è di origine atticista: alla medesima costellazione vanno ricondotti Phryn. PS 47.16 (ἀνταναγνῶναι χρήσιμον· οὐκ ἀντιβάλλειν οὐδ’ ἀντεξετάσαι) ed Ecl. 188 (ἀντιβάλλειν· καὶ τοῦθ’ ἕτερον σημαίνει καὶ ἑτέρως ὑπὸ τῶν πολλῶν λέγεται, σημαίνει γὰρ τοιοῦτόν τι ὁποῖον τὸ ἀντιτιθέναι· λέγεται δὲ νῦν ἀντὶ τοῦ ἀνταναγνῶναι), oltre a Et. Sym. che in qualche modo risale alla dottrina frinichea, o alle sue fonti, e che aggiunge un dettaglio utile per chiarire il significato del verbo (ἀνταναγνῶναι καὶ ἀντεξετάσαι βιβλίον· τὸ γὰρ ἀντιβάλλειν βάρβαρον φαίνεται). Nella stessa costellazione va considerato Hsch. α 5318 (ἀνταναγνῶναι· ἀντιβάλλειν βιβλίον). Come si vede, i varî repertori danno indicazioni simili, con l’ eccezione di Esichio, che forse, più che contraddittoria andrà intesa come una spiegazione che si avvale dello sviluppo storico dell’ impiego del verbo oltre la prescrizione atticista, per cui da una sostanziale differenza di uso tra ἀνταναγνῶναι e ἀντιβάλλειν (cf. Phryn. PS 47.16 e Phot. α 2046) si giunge a una sorta di sinonimia certificata appunto da Esichio, dove non ipotizzerei la caduta di un οὐκ prima di ἀντιβάλλειν, ma, di fatto, una semplice spiegazione (cf. Phryn. Ecl. 188). Testo Il lemma di Fozio presenta, sia in b che in z, un errore aplografico, evidentemente del comune antigrafo, che aveva ἀνταγνῶναι, corretto in ἀνταναγνῶναι da Reitzenstein (1907, p. 144) in sede di edizione del manoscritto berlinese.

242

Cratino

L’ errore sarà del solo Fozio o della sua tradizione, essendo assente nel lemma della Synagoge. Interpretazione A cosa il verbo fosse esattamente applicato in Cratino non si può dire. Che l’ analoga glossa del Simeoniano e la glossa di Esichio riguardino Cratino non può dirsi sicuro: in altre parole, non si può esser certi che in Cratino ci fosse un richiamo a qualcuno che collaziona un libro (cf. ThGL I/2, c. 854, «exemplar unum cum altero conferre legendo»), sebbene l’ ipotesi non sia da escludersi. Va notato che esempi di riferimenti a lettura silenziosa sembrano abbastanza facilmente accertabili nei testi teatrali, cf. e. g. Eur. fr. 369.6 (dall’ Eretteo)256, Ar. Ra. 52257. In Dem. 20 Arg. 8 ἀνταναγνῶναι si trova usato per le leggi, ma, considerate l’ altezza cronologica di compilazione del testo e l’ impossibilità di conoscere qualcosa sul contesto di Cratino, non pare prudente stabilire un caso analogo, magari invocando il fr. 285 a mo’ di confronto.

fr. 290 K.–A. (14 Dem.) Phot. α 2094 ἀ ν τ ί δ ο σ ι ς· οὐ μόνον ἐπὶ τριηραρχίας, ἀλλ’ ἐπὶ παντὸς οἵου τε ἀποδοθῆναι. Κρατῖνος (Reitzenstein 1907, p. 147: Κράτης Sz, κρατ b) Ὥραις antidosis (scambio): non si riferisce solo alla trierarchia, ma a tutto quello che si può dare indietro. Cratino nelle Hōrai

Metro non deducibile Bibliografia p. 265

Reitzenstein (1907, p. 147); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV

Contesto della citazione Il frammento, sine verbis, si trova nel solo Fozio (α 2094), sconosciuto agli editores veteres e recuperato dal cosiddetto Fozio berlinese. Fu Reitzenstein (1907, p. 147), nell’ editare il testo, a proporre di restituire il tachigrafico κρατ come Κρατῖνος. L’ abbreviazione di b sarà esito aplografico e risale a un livello alto della tradizione dal momento che il compilatore del Supplementum dello zavordense ha l’ impossibile Κράτης, che può essere l’ esito di un errato scioglimento. Interpretazione Considerato il tono generale della spiegazione offerta nella seconda parte dell’ interpretamentum, non si può dire che Cratino nelle Hōrai facesse certamente riferimento alla procedura giuridica di scambio di proprietà fra la

256 257

La data dell’ Eretteo non è nota ma sarà da collocarsi tra il 438/7 a. C. e il 411 a. C. (cf. almeno Kannicht 2004, p. 349 e Sonnino 2010, pp. 16–18). Si veda in generale almeno Mastromarco (2006).

Ὧραι (fr. 291)

243

persona individuata dalle autorità come incaricata della liturgia, dopo che tale prescelto avesse individuato qualcuno più adatto di lui a sostenere l’ onere economico, e tale soggetto individuato; nondimeno, anche l’ impiego del termine nelle sue implicazioni giuridiche può esser accolto. In tal caso, l’ antidosis come pratica di esenzione è nota fin da IG I3 254 (cf. ll. 5–7 per l’ antidosis), da Ikarion, che è da datarsi attorno al 440 a. C., mancando ogni elemento ionico nell’ alfabeto in cui l’ epigrafe è redatta258. La procedura si trova attestata dopo l’ epigrafe del demo di Ikarion e dopo il frammento cratineo in259 Ps.-Xen. Ath. 3.4, Lys. 3.20, 4.1s., 24.9, fr. 486, per stare al V sec. a. C. Successivamente, saranno da segnalare Xen. Oec. 7.3 dove sono chiaramente richiamate le due principali liturgie – trierarchia e coregia – Isocr. Pax 128 e l’ intera orazione 15 (Περὶ τῆς ἀντιδόσεως)260, Dem. 4.36, 20.40, 21.78–80, 28.17, Ps.-Dem. 42, Hyper. fr. 137 J., Aristot. Ath. 56.3, 61.1, Rhet. 1416a 28–35, su un’ antidosis che vide coinvolto Euripide; per la lessicografia cf. almeno Σb α 1460 (Lex. Rhet. 197.3). Secondo Gabrielsen (1987) e Christ (1990, p. 161 n. 68), l’ idea per cui la procedura ha una qualche ascendenza soloniana non è attendibile e questa autorevole paternità giuridica potrebbe piuttosto esser un’ invenzione del IV sec. a. C.

fr. 291 K.–A. (265 K.) Antiatt. γ 33 γ α λ ι δ ε ύ ς (Bekker 1814, p. 88 : γαλλ- cod.)· ὁ τῆς γαλῆς σκύμνος. Κρατῖνος Ὥραις galideus: il cucciolo della donnola. Cratino nelle Hōrai Hsch. γ 100 (cf. Phot. γ 18) γαλιδέως (corr. Schmidt, γαλίδεως cod., -έα cod. p. c. : γαλιδέα Ruhnken ap. Valckenaer 1779, p. 402a, sed non vidi; I. Voss ap. Alberti, qui et γαλινθέα coniecit)· Κρατῖνος. λέγει δὲ ὡς τὸν (cod. : οὕτως τὸν Ruhnken, {ὡς} τὸν Kaibel, ἰδίως Erbse 1955, p. 136, ὡς γένει Latte) εὐτελῆ καὶ ὡς γαλῆς (Meineke, 1839b, p. 170 : γαλῶν Ruhnken, γαλὸν cod.) παῖδα γαλιδέα (Voss, qui et Γαλιηθέα coniecit : γαληδέα cod.) del galideus: Cratino. Indica uno di qualità modesta e il cucciolo della donnola è il galideus

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, p. 170); Bothe (1855, p. 53); Kock (1880, p. 92); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 266; Valente (2015, p. 140)

258

259 260

Matthaiou (2009). Per l’ interpretazione dell’ epigrafe, cf. Davies (1971, p. XXII n. 8), Whitehead (1985, pp. 215 217) e soprattutto Wilson (2015, in part. pp. 117–119), quindi Csapo-Wilson (2020, p. 158). Cf. Gabrielsen (1987, pp. 10s.) e Christ (1990, p. 163 n. 78). Per la forma del titolo, con o senza articolo, cf. Pinto (2012).

244

Cratino

Contesto della citazione Il frammento si trova in Antiatt. γ 33 e in Hsch. γ 100. L’ Antiatticista conserva autore e titolo a fronte di Esichio che invece si limita all’ indicazione di Cratino. Da notare come l’ Antiatticista offra il termine lemmatizzato al nominativo singolare mentre Esichio al genitivo, variamente emendato (cf. supra). Alla medesima costellazione, e al novero dei testimoni, però omisso nomine poetae, va ricondotto Phot. γ 18 (γαλιδεύς· εὐτελής, οἷον γαλῆς παῖς), considerata la forma esegetica. Del termine non esistono ulteriori attestazioni, già secondo la ricognizione di Perpillou (1973, p. 88). Testo Quali fossero la forma precisa e il contesto, quindi il senso esatto dello zoonimo in Cratino, non è noto, tuttavia la voce al genitivo singolare di Esichio potrebbe suggerire, con tutte le cautele del caso dovute eventualmente all’ipotesi di un errore, che la mancata lemmatizzazione rifletta la forma originaria in Cratino, come pensava Kock (1880, p. 92), che la stampò nella propria edizione. Interpretazione È da ipotizzare un uso traslato del termine, riferito a una persona di scarso valore, se la spiegazione di Esichio (λέγει δὲ ὡς τὸν εὐτελῆ) e di Fozio (εὐτελής) che precede l’ indicazione propriamente zoologica va ricondotta a Cratino261. La formazione col suffisso -(ι)δέυς degli zoonimi è ampiamente attestata per i cuccioli (cf. Curtius 1879, p. 647, Hatzikadis 1909, Perpillou 1973, pp. 88, 384s., che conferma la formazione come recente, essenzialmente postomerica, cf. Neri 2011, p. 212): nomi con questa terminazione furono raccolti nelle note di linguistica zoologica approntate da Aristofane di Bisanzio (frr. 172A-180). Slater, con cautela, riconduce dunque Antiatt. γ 33 ad Aristofane di Bisanzio (1986, p. 60)262, ma forse si potrebbe includere nella tradizione di Aristofane anche la glossa di Esichio. Sul versante giambico della poesia la prima attestazione nota di esiti in -(ι)δέυς è il celebre Hippon. fr. 42.1, Μαιαδεῦ (su cui Degani, in Degani-Burzacchini 1977, p. 55 e Neri 2011, pp. 212s.), che tradisce una presenza consolidata della suffissazione -(ι)δέυς degli zoonimi, pena la non riconoscibilità dello scherzo, nonostante una loro diffusione si registri a partire dal V sec. a. C. Lo stesso Cratin. fr. 190 utilizza κορωνιδεύς, testimoniato da Antiatt. κ 107: alla medesima costellazione andranno ricondotti Hsch. κ 3745 e Phot. κ 1003 (cf. Ar. Byz. fr. 215)263.

261

262

263

Molto probabilmente il soggetto di λέγει è il poeta, non il sostantivo a lemma, ma questa osservazione non rispecchia tutti i casi in Esichio dove si trova λέγει in posizione analoga. Perpillou (1973, p. 88), senza addurre spiegazioni, indicava «figurément». Una qualche dipendenza dell’ Antiatticista da Aristofane di Bisanzio è nota, e l’ impiego diretto dell’ opera di Aristofane da parte dell’ anonimo compilatore del lessico appare probabile (cf. Slater 1986, p. XVI). La presenza di λυκιδεύς in Solone (cf. Perpillou 1973, p. 83 e Slater 1986, p. 61) non è sicura in quanto si tratta di una pericope della trattazione di Plut. Sol. 23.1 che riporta Demetr. Phal. fr. 147: qui appare λυκιδεύς, ma non sembra possibile dire che la parola sia di Solone. Escludono questa possibilità i più recenti editori delle elegie.

Ὧραι (fr. 292)

245

Come ricordato sopra, che l’ impiego figurato fosse presente in Cratino è una possibilità fondata sulla constatazione che il termine di Cratino è hapax esattamente come hapax e figurato, per certi versi, è Ar. Pax 1067: con ἀλωπεκιδεῦσι πέπεισθε Ierocle indica gli Ateniesi che si sono fidati di Spartani-volpi. Non può dirsi esattamente hapax Ar. Av. 1356 (πελαργιδέας), dal momento che la formazione si registra in Plut. Mor. 992b: si dovrà rilevare come nel passo degli Uccelli le leggi delle cicogne di cui si parla sono riconducibili alla giurisdizione soloniana (cf. Dunbar 1995, p. 657, e per il contesto Totaro in Mastromarco-Totaro 2006, pp. 260s. n. 284, con una ricognizione della bibliografia precedente) e dunque sono riportabili a una situazione umana. Si potrà inoltre considerare Ar. Ach. 866 con un gioco molto complesso, dove con Χαιριδῆς ci si riferisce ai flautisti che accompagnano il Tebano, per l’ occasione paragonati a dei calabroni (βομβαύλιοι), sicché il tratto zoologico persiste e si contamina con l’ elemento umano. Questi impieghi aristofanei, applicati ad ogni modo a situazioni ben riconoscibili dal pubblico, possono indurre il sospetto che anche in Cratino gli zoonimi potessero avere una pertinenza concettuale umana, ciò che meglio giustifica la prima parte dell’ esegesi offerta in una forma difficoltosa da Esichio (λέγει δὲ ὡς τὸν εὐτελῆ), quindi da Fozio. Non è immediata constatazione che tutte le glosse riconducibili alla trattazione di Aristofane di Bisanzio e che hanno suffisso -(ι)δέυς siano esempi letterari, in quanto mancano riscontri. Significativi dovranno dirsi casi di trasferimento di simili formazioni alla sfera tout court umana (cf. Isocr. Ep. 8.1, υἱϊδεύς)264, annunciati già per certi versi dal citato Ipponatte, dove però -(ι)δέυς si usa per un dio, beninteso filantropo. Per la donnola come animale legato al parto di Alcmena, oltre che accreditata di una modalità di parto giudicato mostruoso in quanto avverrebbe attraverso la bocca (Ant. Lib. Met. 29), cf. Bettini (1998). La vista dell’ animale vale anche come presagio funesto capace com’ era di succhiare il cervello delle vittime (cf. Ernout-Meillet DELL s. v. galea, e Bettini 1998, 250s.). fr. 292 K.–A. (266 K.) Hsch. κ 2574 κ ή τ ε ι ο ν (κήτιον cod.)· μέγαν … . καὶ ἐμετήριον ἀπὸ λαχάνου ἀγρίου, ὅπερ ἀντὶ πτερῶν (Stephanus : πυρῶν cod.) καθίεσαν εἰς τὸ στόμα, ὡς Κρατῖνος ἐν Ὥραις σημαίνει. καὶ ἥδυσμα … . οἱ δὲ τὰ Ὀψαρτυτικὰ συνθέντες διὰ τοῦ γ φασὶ γήτιον kēteion: grande […]. Anche un emetico da erba selvatica, che infilavano in bocca in luogo della piuma, come mostra Cratino nelle Hōrai. E un condimento […]. Coloro che compongono i ricettari dicono gētion (“cipolla”) con gamma

264

Cobet (1858, p. 151) in Pherecr. fr. 252 leggeva κλεπτιδεύς per il tràdito (e plausibile) κλεπτίδης.

246

Cratino

Metro non deducibile Bibliografia Lucas (1828, p. 23); Meineke (1839b, pp. 165s.); Bothe (1855, p. 52); Kock (1880, p. 92); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 265 Contesto della citazione Il frammento si trova in Hsch. κ 2574 all’ interno di una glossa sinonimico-differenziatrice265: tra le varie funzioni semantiche del lemma si segnala anche che Cratino nelle Hōrai ha impiegato κήτειον per indicare un emetico alternativo all’ abituale piuma (cf. fr. 271). Secondo Meineke (1839b, pp. 165s.), nell’ esegesi esichiana andrebbero riconosciuti alcuni errori interpretativi, non più menzionati nell’ editio minor, e però ribaditi con convinzione da Kock (1880, p. 92)266. Testo La segnalazione da parte di Kassel e Austin di Theogn. Can. 700 (An. Ox. II 128.14 = Hdn. I 372.9, cf. Phot. κ 680), che prescrive κήτειον ἡ βοτάνη τῇ ἀνθέρικι παραπλήσιον εἰς ἔμετον ἐπιτήδειος, conferma il dittongo e allontana l’ ipotesi che κήτειον sia forma alternativa di γήτειον, la cipolla. Non sarà necessario collegare in qualche modo al passo cratineo la spiegazione finale registrata in Esichio, quando si segnala che οἱ δὲ τὰ Ὀψαρτυτικὰ συνθέντες διὰ τοῦ γ φασὶ γήτιον. La notizia sarà forse da ricondurre a esegesi come Ath. 9.371e: ἐπαίνετος δ’ ἐν Ὀψαρτυτικῷ τὰ κεφαλωτὰ καλεῖσθαί φησι γηθυλλίδας, che, come ricorda Ateneo subito dopo, sono chiamate anche τὰ γήθυα. L’ impiego cratineo del termine potrebbe derivare dalla medesima scena da cui proviene il fr. 271, come vide già Lucas (1828, p. 23) e come hanno ribadito poi sia Meineke (1839b, p. 165) sia Kassel e Austin.

fr. 293 K.–A. (267 K.) Phot. μ 615 Μυσικάρφης· ὄνομα· Μυσικάρφους (ὄνομα, ἡ γενικὴ Μυσικάρφους Theodoridis 1998, p. 587) οὗ μνημονεύει Ἀπολλοφάνης ἐν Κρησίν (fr. 8). Ἀρίσταρχος δὲ ἐπ’ ὀνόματός (“ἀπ’ ὀνόματος scripserim, i. e. Aristarchus intellexit hominem quendam inepte ridentem” Theodoridis 1998, p. 587) τινα ἀηδῶς ἐπιγελῶντα (ἐπιγελῶντα Alberti 1766, p. 638 : ἐπιγλῶτταν codd.). οἱ δὲ ἀνέγνωσαν μ υ σ ι κ α ρ φ ί (corr. Stephanus ThGL V 1311A et vd. Hsch. μ 1946 : μυσικάρφει codd.), ὡς ἀκονιτί, τὸ μεμυκότως (μεμυκότος codd.) καὶ ξηρῶς, μὴ (〈καὶ〉 μὴ Theodoridis 1998, p. 587) ἐκ φανεροῦ γελᾶν. Κρατῖνος Ὥραις

265 266

Per il concetto cf. Bossi-Tosi (1979/1980) e Tosi (2015). Kock (1880, p. 92) si esprimeva in questi termini: «confundit Hesychius κήτειον (a κῆτος) inmanem, γήτειον»; aggiungeva quindi «κήθιον vel κηθίδιον, κηθάριον», con un rimando ad Ar. Ve. 674, dove appare κηθάριον (“urna”). Kock (1880, p. 92) concludeva con una valutazione ulteriore, rispetto a Meineke, su quella che sarebbe dovuta essere la parola usata da Cratino: «hoc extremum Cratinus commemorasse videtur», intendendo in Cratino il κηθάριον come il recipiente in cui vomitare.

Ὧραι (fr. 293)

247

Musikarphēs: nome, (gen.) Musikarphous, di cui fa menzione Apollofane nei Krētes (fr. 8). Aristarco (ha spiegato che si usa) in relazione al nome (dal nome?) di un uomo che ride in modo sguaiato. Altri hanno letto musikarphi, come akoniti, il ridere in modo chiuso (= a bocca chiusa?) e seccamente, non apertamente. Cratino nelle Hōrai Hsch. μ 1946 μ υ σ ι κ α ρ φ ί· Κρατῖνος ἐν Ὥραις. οἱ μὲν ἀνέγνωσαν ὡς ἀκονιτί, καί φασιν ὅτι τὸ μεμυκότως καὶ ξηρῶς γελᾶν (corr. Schmidt : ποιεῖν cod., παίζειν Von der Mühll ap. Latte) οὕτω λέγουσιν. ἢ ὡς ὀνομαζομένου τινὸς οὕτως ὡς (corr. Von der Mühl ap. Latte : οὕτω καὶ cod.) μηδὲν ἀφ’ ἑαυτοῦ γλαφυρὸν σκώπτοντος, ἀλλ’ ἐπιγελῶντος {τε} (secl. Musurus) ἀηδῶς (corr. Musurus : ἡδέως cod., Meineke 1839b, p. 168). ὄνομα γάρ ἐστι Μυσίκαρφος, οὗ μνημονεύει καὶ Ἀπολλοφάνης ὁ κωμικός (fr. 8). ὥς τινες δὲ τὸν † ἀρχιμάχον (cod., “Ἀρχίλοχον?” Kaibel ap. K.–A.) musikarphi: Cratino nelle Hōrai. Alcuni hanno letto come akoniti e dicono che così definiscono il ridere in modo chiuso (= a bocca chiusa?) e seccamente. Oppure in quanto veniva chiamato così uno in quanto non prendeva in giro da sé nulla con eleganza, ma rideva in modo sguaiato. Un nome è Musikarphos, di cui fa menzione anche il commediografo Apollofane (fr. 8). Alcuni poi †archimachon

Metro non deducibile Bibliografia Alberti (1766, pp. 638s. n. 31); Meineke (1839b, p. 168); Bothe (1855, pp. 52s.); Iacobi ap. Meineke (1857, p. XLIII); Kock (1880, pp. 92s.); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 266; Orth (2013, pp. 395–397) Contesto della citazione Il frammento, sine verbis, si trova riferito da Phot. μ 615 e da Hsch. μ 1946, assieme ad Apolloph. fr. 8 (su cui Orth 2013, pp. 395–397). Nonostante le notizie conservate nei due lessici non siano di molto differenti e presuppongano una fonte comune (Diogeniano?), la redazione di Fozio appare leggermente più completa in relazione a Cratino di quanto non sia quella di Esichio. Fozio sottolinea come Μυσικάρφης sia un nome proprio di cui si ricorda Apollofane nei Krētes, nome riferito da Aristarco a τινα ἀηδῶς ἐπιγελῶντα. Nella glossa segnala poi che altri hanno letto μυσικαρφί, di cui si dà la spiegazione, per concludere con la menzione di Cratino. L’ avverbio sarebbe impiegato per il ridere μεμυκότως (μεμυκότος codd.) καὶ ξηρῶς, μὴ ἐκ φανεροῦ. Esichio parte dall’ avverbio e da Cratino, con la stessa ma più succinta spiegazione che si trova in Fozio. Segue una spiegazione alternativa sul nome che in qualche modo ricalca quella che in Fozio si vorrebbe come aristarchea, e si spiega come Μυσίκαρφος sia effettivamente un nome, di cui si ricorda Apollofane. La parte finale della glossa esichiana non è chiara: non si capisce se ἀρχιμάχον vada inteso come nome proprio267, né in tal caso chi sia costui, e se il sostantivo vada corretto; non è precisabile neppure se si faccia riferimento a Cratino o, più verisimilmente direi, ad Apollofane. 267

Cf. Ps.-Dem. 43.45 su una persona con questo nome (PAA 213635) e le osservazioni di Orth (2013, p. 396 n. 695).

248

Cratino

Testo Secondo Kassel e Austin, Cratino avrebbe impiegato l’ avverbio, ciò che sembrerebbe esser la soluzione più semplice. In alternativa, si potrebbe pensare, con Meineke (1839b, p. 168), a una discussione filologica (οἱ δὲ ἀνέγνωσαν), risalente forse all’ età di Aristarco, su una variante o congettura antica nel testo comico, per cui Aristarco indicherebbe lo stesso nome proprio usato anche da Apollofane: nella prospettiva esegetica di Aristarco, si tratterebbe di un nome proprio, beninteso parlante; altri non meglio precisati avrebbero indicato l’ avverbio a segnalare uno specifico modo di ridere. Interpretazione In entrambe le prospettive esegetiche il collegamento al riso appare comunque cogente, sebbene secondo ipotesi interpretative diverse, dunque esso sarà stato presente in Cratino. Nel caso del nome (parlante?) si potrebbe segnalare come la traccia etimologica sia di fatto assente. Nel caso dell’ avverbio si coglie uno scostamento semasiologico rispetto agli abituali referenti, perché la prima parte del composto, secondo l’ indicazione antica, rimanda a μύειν, detto normalmente degli occhi (cf. e. g. Il. 24.637, Eur. Me. 1183), mentre la seconda parte sembrerebbe da associarsi a κάρφειν, detto anche in relazione alla pelle (cf. e. g. Od. 13.398, Hes. Op. 575, Archil. fr. 188.1). Che tipo di risata esattamente sia da individuarsi in questa espressione non risulta chiaro: si intende una persona che ride a bocca chiusa (τὸ μεμυκότως … μὴ ἐκ φανεροῦ γελᾶν)? Ma in tal caso καὶ ξηρῶς, forse da ricondurre a ciò che nella neoconiazione sarebbe -καρφ-, a cosa si riferisce esattamente? Kaibel (ms. ap. Kassel e Austin) optava per questa spiegazione, e non rilevava alcuna difficoltà esegetica nel composto ma si limitava a richiamare un’espressione aristofanea detta di Cratete (Eq. 539 ἀπὸ κραμβοτάτου στόματος μάττων ἀστειοτάτας ἐπινοίας)268 e concludeva con «nam κάρφη sunt arida ligna». Da notare come questa opzione non si attagli completamente al tipo di risata che individuerebbe la tradizione che rimonta ad Aristarco e che forse identificherebbe il nome proprio, per quanto, anche in Aristofane, l’ ipotesi della risata a bocca chiusa o a denti stretti sembri accettabile (cf. Ar. Th. 978, Pl. Phaed. 62a, Thphr. Char. 2.4, dove l’ adulatore morde il mantello per fingere di trattenere la risata davanti a una insipida battuta dell’ adulato, e forse Plut. Mor. 531c). Da segnalare come lo schol. Ar. Eq. 539 interpretasse l’ aggettivo κραμβότατον con ἡδυτάτου, ξηροτάτου. fr. 294 K.–A. (268 K.) Harp. 216.9 (ξ 6) ξυστίς· … ἔστι μὲν καὶ τραγικόν τι ἔνδυμα οὕτω καλούμενον, ὡς Κρατῖνος ἐν Ὥραις (ex Epit., Phot. ξ 71 ξυστίς· … ἔστι μέντοι ϰαὶ τραγιϰόν τι ἔνδυμα οὕτω ϰαλούμενον, ὡς Kρατῖνος ἐν ῞Ωραις) 268

Cf. Perrone (2019, pp. 43, 45s.) che richiama (p. 45), opportunamente, Hsch. κ 3941 (κραμβόν· καπυρόν τινα γέλωτα καὶ ξηρόν φασιν).

Ὧραι (fr. 294)

249

xustis: […] esiste anche una veste per la tragedia che si chiama in questo modo, come (dice) Cratino nella Hōrai

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, p. 169); Bothe (1855, p. 53); Kock (1880, p. 93); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 266 Contesto della citazione Il frammento, sine verbis, è testimoniato da Harp. 216.9 (ξ 6), all’ interno di una glossa sinonimico-differenziatrice269, dedicata al sostantivo ξυστίς, da cui si apprende che col termine si designa una veste femminile sontuosa, un abito usato in tragedia, oppure di pertinenza equestre (si direbbe dell’ auriga sulla base delle testimonianze richiamate, cf. infra). La glossa, nella versione dell’ Epitome, viene recepita da Phot. ξ 71, che, ovviamente, non costituisce una seconda testimonianza, quanto semmai una forma apografa dell’ Epitome di Arpocrazione. Alla medesima costellazione si dovranno ricondurre lo schol. Ar. Nu. 70a–b, da cui Suda ξ 169, nonché Poll. 4.116, ἐσθῆτες μὲν τραγικαὶ ποικίλον (οὕτω γὰρ ἐκαλεῖτο ὁ χιτών), τὰ δ’ ἐπιβλήματα ξυστίς, e 7.49. Notizie simili, prive di indicazioni testuali e della parte dedicata all’ àmbito equestre, si ricavano da Lex. Rhet. 284.14 (ξύστις· χιτὼν ποδήρης γυναικεῖος· οἱ δὲ τραγικὸν ἔνδυμα ἐσκευοποιημένον καὶ ἔχον ἐπιπόρπημα· οἱ δὲ τὸ λεπτόν, παρὰ ξύεσθαι. ἰδίως δὲ τὸ τῶν τραγῳδῶν ἔνδυμα) – da cui Et. M. 612.27 (= schol. Pl. Reip. 420e, Suda ξ 169, cf. Tim. ξ 3 e Hsch. ξ 195270) – e da Hsch. ξ 196 ξυστίς· τραγικὸν ἔνδυμα· τινὲς δὲ χιτῶνα ποδήρη γυναικεῖον· ἄλλοι τὸ λεπτόν ⟨…〉 (lac. stat. Latte) παρὰ τὸ ξύεσθαι. Ad altre indicazioni, non pertinenti con quelle riferibili a Cratino, corrispondono le notizie di schol. Theocr. 2.74b–c, schol. Clem. Al. Paed. 2.10.111.2. Interpretazione Nella poesia comica, il termine si trova applicato a tutti gli àmbiti richiamati dalla glossa di Arpocrazione: come veste femminile in Ar. Lys. 1189 (su cui Perusino in Perusino-Beta 2020, p. 307), fr. 332.7, Antiph. fr. 99; come veste degli aurighi in Ar. Nu. 70. Si aggiunga che in Eubul. fr. 132 il termine indica invece una coperta ricamata271. Nel senso di veste impiegata in tragedia l’ unica attestazione è quella di Cratino, ma sarà da escludersi l’ idea di un termine tout court tecnico, cf. Poll. 4.116, che cataloga la ξυστίς assieme ad altri indumenti, propriamente mantelli: si potrebbe ipotizzare che in tragedia fosse impiegato per personaggi maschili di alto rango, se, come afferma lo schol. Ar. Nu. 70 a-b, il termine si trova impiegato per l’ abbigliamento dei re (cf. Pl. Resp. 420e).

269 270 271

Cf. Bossi-Tosi (1979/1980) e Tosi (2015), e cf. supra n. 265. L’ idea della veste comica recepita in Timeo e in Esichio sarà forse esito di corruzione (cf. Meineke 1839b, p. 169). Ci si può chiedere se si tratti effettivamente di una coperta o semmai di un indumento usato come coperta, alla maniera dei drappi purpurei dell’ Agamennone di Eschilo che non sono tappeti, ma sono usati come tali.

250

Cratino

fr. 295 K.–A. (269 K.) Poll. 10.40 οὐ μὴν φαῦλον τετηρηϰέναι ὅτι τὸ ναυτιϰὸν ὑπηρέσιον ἰδίως Kρατῖνος ἐν ταῖς ῞Ωραις π ρ ο σ ϰ ε φ ά λ α ι ο ν 〈…〉 (lac. stat. editores, vd. Bekker 1846, p. 410) τοῦτο μὴ ϰαλεῖσθαι νομιζόντων, ἀλλ᾽ ὑπηρέσιον μόνον certamente non è trascurabile aver notato che il cuscino propriamente da rematore Cratino nelle Hōrai (ha chiamato) proskephalaion (guanciale) 〈…〉 reputano che non vada chiamato in questo modo, ma soltanto cuscino da rematore

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, p. 170); Bothe (1853, p. 53); Kock (1880, p. 93); Pritchett (1956, pp. 253s.); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 266; Comentale (2017, p. 222) Contesto della citazione Il frammento, sine ipsissimis verbis, è conservato da Poll. 10.40, in una discussione che potrebbe avere qualche pertinenza atticista, come sembrerebbe potersi ricavare da Et. M. 780.47–49. Il passo di Polluce è stato riconosciuto come lacunoso, ma certamente è in generale comprensibile: Bekker (1846, p. 410) propose 〈εἴρηϰε, τῶν δεινῶν εἰς ὀνομάτων ϰρίσιν προσϰεφάλαιον〉 come integrazione exempli gratia, per definire più precisamente il passo di Polluce. Vi si segnala un impiego da parte di Cratino forse improprio di προσκεφάλαιον: par di capire che sarebbe forse preferibile ὑπηρέσιον a indicare il cuscino dei rematori. L’ informazione conservata in Polluce ha un qualche vago riscontro in Phot. π 1340 (προσϰεφάλαιον ϰλητέον, ἀλλ᾽ οὐ τὸ Ῥωμαϊϰὸν ὄνομα· ϰαλεῖται δὲ οὕτως ϰαὶ τὸ ὑπηρέσιον), come notò W. Dindorf ap. ThGL VI p. 1945B. Si potrà aggiungere Hsch. π 3142, segnalato già da Kassel e Austin. Interpretazione L’ impiego di Cratino trova un sicuro conforto in Hermipp. fr. 54.2 (1s. ὥρα τοίνυν μετ’ ἐμοῦ χωρεῖν τὸν κωπητῆρα λαβόντα / καὶ προσκεφάλαιον, ἵν’ εἰς τὴν ναῦν ἐμπηδήσας ῥοθιάζῃς), testimoniato da Hsch. π 355272. Lo scostamento semasiologico riguarderà l’ esplicito etimo di προσκεφάλαιον, termine impiegato qui e in Ermippo, però non per appoggiare la testa (cf. invece e. g. Ar. Lys. 912) ma come ὑπηρέσιον, dunque per i rematori διὰ τὸ μὴ συντρίβεσθαι αὐτῶν τὰς πυγάς (schol. Th. 2.93.2, cf. Suda υ 415). Per un impiego non navale ma comunque non come appoggio comodo del capo, cf. Pl. Resp. 328c, Thphr. Char. 2.11; si vedano anche Poll. 6.9 (cf. 2.42) e Theocr. 15.3. Per una discussione sull’ oggetto cf. Pritchett (1956, pp. 253s.), Rotroff (1978, p. 199).

272

Cf. Comentale (2017, p. 222).

Ὧραι (fr. 296)

251

fr. 296 K.–A. (270 K.) Harp. 270.13 (ρ 9) ῥυτὰ συνεσταλμένως εἶδός ἐστι ποτηρίου· Δημοσθένης κατὰ Μειδίου (21.158). ἐκτεταμένως τὰ παρ’ ἡμῖν λεγόμενα ὁμοίως· Kρατῖνος ἐν Ὥραις (ex Epit., Phot. ρ 193 ῥυτά· … ἐϰτεταμένως παρ᾽ †ἥβην† λεγόμενα) rhuta (con hypsilon) abbreviato è un tipo di boccale: Demostene Contro Midia. Con (hypsilon) allungato quelli detti da noi ugualmente: Cratino nelle Hōrai Phot. ρ 192 ῥυτά· πήγανα. οὕτως Kρατῖνος rhuta: rute. Così Cratino

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, p. 169); Bothe (1855, p. 53); Kock (1880, p. 93); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 267 Contesto della citazione Il frammento va ricondotto a una complessa costellazione lessicografica. L’ indicazione di Harp. 270.13 (ρ 9) non potrà dirsi esaustiva in termini di testimonianza, in quanto andranno considerate anche le glosse di Phot. ρ 192 e 193, di cui la glossa di Arpocrazione – beninteso nella forma dell’ Epitome – rappresenta la fonte: la prima migliora quanto dall’ interpretamentum di Arpocrazione si apprende; mentre la seconda riprende l’ interpretamentum del testimone principale, dunque non costituisce una testimonianza autonoma o complementare da un apografo (cf. fr. 294, per un caso analogo). Si tratta, in generale, di un processo di frantumazione e semplificazione dell’ originaria struttura273. La glossa di Arpocrazione nella forma plenior fornisce le seguenti informazioni: che il termine con hypsilon breve si riferisce a un tipo di recipiente per bevande274 come si ricaverebbe da Dem. 21.158; sottolinea poi come con allungamento (scil. di hypsilon) la parola indichi τὰ παρ’ ἡμῖν λεγόμενα come nelle Hōrai di Cratino, senza indicare a cosa si fa riferimento con τὰ παρ’ ἡμῖν λεγόμενα. La glossa di Phot. ρ 192 aggiunge l’ informazione dei πήγανα e omette, come sovente, il titolo della commedia. Da notare come, in generale, il termine sia interpretato sempre come neutro indipendentemente dal significato e dalla semivocale radicale, breve o lunga. Testo Si potrà ipotizzare che nella forma plenior, fra ὁμοίως e Kρατῖνος in Arpocrazione, fosse indicato che con ῥυτά Cratino faceva riferimento ai πήγανα 273

274

Cf. Tosi (1988, pp. 142s.). Si veda anche Hsch. ρ 533, dove non si fa alcun riferimento a Cratino e dove ciò non appare neppure necessario del tutto, se si pensa che la spiegazione con πήγανον è comunque diffusa per il pur raro termine (cf. anche infra). Si sofferma ampiamente su questo boccale Ath. 11.496f–497e, il cui interesse riguarda specialmente alcune forme date da antichi artigiani ai ῥυτά.

252

Cratino

proprio nelle Hōrai, con un evidente errore morfologico, visto che ῥυτά a indicare la ruta non è neutro plurale, ma femminile singolare. L’Epitome avrà riflesso questo stato di cose senza l’ indicazione del titolo della commedia, sulla base di un processo ben rintracciabile altrove nell’ Epitome di Arpocrazione e che consiste nell’ eliminazione o nella semplificazione della seconda menzione letteraria (cf. e. g. p. 270.17–271.1 e la forma dell’ Epitome che si ritrova in Phot. σ 6). Questo processo sarà stato affiancato da un errore nell’ Arpocrazione plenior, nella fase redazionale che sta fra la realizzazione dell’ Epitome e l’ archetipo dell’ Arpocrazione plenior. Un’ ipotesi alternativa che spieghi la tradizione lessicografica può essere costituita dalla collazione da parte di Fozio di fonti diverse, l’ Epitome di Arpocrazione e un lessico della tradizione Σ per integrare ciò che neppure forse nell’ Arpocrazione plenior era presente dopo λεγόμενα: il compilatore avrebbe trovato la notizia della ῥυτά come πήγανον e avrebbe adattato il sostantivo al numero (plurale, dunque) che riteneva essere quello di ῥυτά. Hsch. ρ 533 mostra informazioni del genere, probabilmente da fonti che, magari non recta via, coincidono con quelle cui in qualche modo ha attinto Arpocrazione275. Interpretazione Sulla base della struttura lessicografica e alla luce degli errori che la caratterizzano per questa voce, mi pare si possa giungere a queste conclusioni: che Cratino ha utilizzato ῥυτ- in senso botanico, a indicare la Ruta graveolens; che questa pare la più antica attestazione in tal senso del termine, unica in commedia. Non si può invece esser certi in alcun modo del caso e del numero, in assenza del contesto sintattico; non sarei sicuro neppure della patina dialettale utilizzata, in quanto ῥυτά, attestato dalla tradizione lessicografica, potrebbe essere un errore di trascinamento dal neutro plurale ῥυτά con hypsilon breve per indicare i boccali e non una trascrizione esatta dalle Hōrai. Il termine ῥυτά di Cratino, se in questa forma, avrebbe una patina dorica, ciò che sarebbe in linea con le informazioni linguistiche sul termine, visto che, nel commentare ῥυτή di Nic. Th. 523, la tradizione scoliastica segnala il sostantivo come dorico del Peloponneso, o, più precisamente, come forma laconica, secondo Eutecn. Th. Par. p. 48.20276. Sul versante linguistico, sarà inoltre da segnalare il latino ruta, per cui cf. Varro LL 5.103, informato dell’ equivalente πήγανον, in un passo opportunamente ricordato da Kassel e Austin ad l. Nella commedia attica, l’ unico esempio continuativo di dorico – più propriamente di laconico – è da rintracciarsi in una serie di passi della Lisistrata (cf. almeno Colvin 1999, pp. 119–263). Altri brevi passi in laconico, spesso decontestualizzati per la condizione frammentaria che li caratterizza, sono piuttosto scarsi sul piano numerico: Epil. fr. 4, Eup. frr. 147 e 149, Com. adesp. fr. 1035. Altri

275 276

Cf. Lex. Rhet. 299.31, Phot. ρ 191. In Esichio, correttamente, si trova il singolare πήγανον. Per la presenza di glosse nel testo di Nicandro, ancorché adeguate a una presunta forma epicizzante, cf. Jacques (2002, p. XCVI).

Ὧραι (fr. 297)

253

passi in dorico non dell’ area laconica sono: Crates fr. 46, Philyll. fr. 10, Apolloph. fr. 7, Telecl. fr. 63, Call. fr. 36. Non si può dire se qualcuno di questi frammenti si può avvicinare a quello di Cratino: in generale, si potrebbe ipotizzare che, se il commediografo ha effettivamente impiegato la forma dorica ῥυτά, essa avrà inteso marcare la provenienza della persona loquens, o, nel caso di un personaggio che riporta parole altrui, si tratterà del tentativo di riprodurre la parlata originale del personaggio assente. Le due opzioni sono ben attestate in Aristofane, dove i passi più lunghi e articolati sono di personaggi di provenienza non attica: ciò vale per il dialetto laconico nella Lisistrata, ma anche per il beotico e per il megarese negli Acarnesi; nei casi che si possono constatare come realmente più circoscritti – in quanto derivanti da commedie integre – si tratta di personaggi attici che imitano un dialetto straniero, come si ricava e. g. da Ar. Pax 212–214, in laconico. Dai frammenti sopra citati di altri commediografi non mi pare si possa intuire alcun dato contestuale sicuro. Quanto a Cratino, qualunque ipotesi resta altamente congetturale su questo piano. Per la ruta in commedia indicata con πήγανον, cf. Ar. Ve. 481, Alex. fr. 132.8, e, in generale, le osservazioni di Andrews (1948), Fabbro (2007) e Rodríguez Alfageme (2019, pp. 78–81).

fr. 297 K.–A. (271 K.) Harp. 300.3 (φ 10) τὰ πετρώδη καὶ αἰγίβοτα χωρία φ ε λ λ έ α ς ἐκάλουν· Κρατῖνος Ὥραις, Ἀριστοφάνης Νεφέλαις (v. 71) chiamano phelleis i luoghi pietrosi e adatti alle capre: Cratino nelle Hōrai, Aristofane nelle Nuvole (v. 71)

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, p. 170); Sauppe (1841, pp. 59–64); Bothe (1855, p. 53); Kock (1880, p. 93); Edmonds (1957, pp. 116s.); Dover (1968, p. 103); PCG IV p. 267; Olson (2002, p. 151); Nesselrath (2006, pp. 196–202); Krasilnikoff (2008) Contesto della citazione Il frammento, sine ipsissimis verbis, deriva da Arpocrazione e rappresenta quella che è una delle più antiche attestazioni del termine φελλεύς, la prima essendo quella di Ar. Ach. 273277 (cf. infra). Subito dopo nella successione cronologica, φελλεύς si trova nelle Nuvole, dove il termine compare al v. 71 (cf. infra) e nelle Hōrai: tutti questi sono drammi sostanzialmente coevi. La questione, come segnalato già da Sauppe (1841, pp. 59–64), poi da Nesselrath 277

Se si segue per le Hōrai una datazione più alta di quella che deriva dalle indicazioni di Kassel e Austin, si tratterebbe della più antica in assoluto.

254

Cratino

(2006, p. 197), però con soluzioni diverse, consiste nello stabilire se φελλεύς sia un nome comune, oppure un nome proprio; in taluni casi, inoltre, sarà necessario stabilire se la parola è un singolare o un plurale – si tratti di situazioni decontestualizzate come questa di Cratino, o dalla tradizione controversa come Pl. Crit. 111c 1s. Testo Queste le attestazioni principali del termine, da cui escludo Cratino, e che riporto secondo le edizioni di riferimento, dunque senza necessariamente aderire all’ipotesi del nome comune o proprio: Ar. Ach. 273 (τὴν Στρυμοδώρου Θρᾷτταν ἐκ τοῦ φελλέως); Ar. Nu. 71 (ὅταν μὲν οὖν τὰς αἶγας ἐκ τοῦ φελλέως); Isae. 8.42 (κατέχει τὸν ἀγρόν, φελλέα δὲ {χωρία ἄττα} ἐκείνῳ δέδωκε); Pl. Crit. 111c 1s. (τότε δὲ κέραιος οὖσα τά τε ὄρη γηλόφους ὑψηλοὺς εἶχε, καὶ τὰ Φελλέως νῦν ὀνομασθέντα πεδία πλήρη γῆς πιείρας ἐκέκτητο); Alciphr. Ep. 2.18.2 (ἐκ τοῦ φελλέως) e 3.34.2 (φελλέα ἐκκαθαίρειν); Ael. Ep. 2 (φελλεῖ ἐπέκοψε σκέλος). Vi si potrebbe aggiungere Clem. Al. Protr. 47.7 (τοῦ φελλεάτα καλουμένου λίθου). Si considerino inoltre le tracce epigrafiche: IG II2 1582.53 (Καλλίου φελλεύς, del 348/7 a. C.); IG II2 2492.1 (κατάδε ἐμίσθωσαν Αἰξωνεῖς τὴν Φελλεῖδα) e 32s. (οἱ μισθωταὶ τῆς Φελ-⎢λεῖδος 346/5 a. C.); SEG 24.152 (metà del IV sec. a. C.). L’ esegesi antica delinea un’ interpretazione che riflette, non necessariamente in modo corretto, la difficoltà di intendere i diversi passi. L’ epitome di Arpocrazione, che riprende solo in parte l’ Arpocrazione plenior, è alla base di una costellazione che coinvolge Et. Gen. AB s. v. φελλέα (unde Et. M. 790.13 = Et. Sym. V fol. 194v, cf. Lex. Rhet. 315,10), Phot. φ 104 e in parte Suda φ 189 (da cui secondo Theodoridis potrebbe discendere Ps.-Zon. 1802). A un’ esegesi simile a quella di Arpocrazione si rifanno i lessici e i materiali eruditi direttamente o no riconducibili alla Synagoge, a cominciare da Σa φ 64, Et. Gen. AB s. v. φελλεύς· σκληρός (σκληρῶς A, unde Et. M. 790.14 = Et. Sym. V fol. 194v), Phot. φ 105, schol. Pl. Cr. 111c, cf. schol. Ar. Ach. 273a e già Poll. 1.227, Moer. φ 27 (~ Cyr. φελ g4A1 = Hsch. φ 281), Hsch. φ 284 (ma la glossa per errore è φελλός), e probabilmente alla stessa esegesi di Tim. φ 5. L’ idea del nome proprio è in Steph. Byz. φ 47, schol. Ar. Ach. 273a–c (cf. schol. Clem. Al. Protr. 47.7, I p. 318,11 S.), a indicare un monte. Da segnalare infine schol. Ar. Nu. 71a che interpreta il sostantivo come un luogo dell’ Attica, senza precisare l’ ipotesi del monte. In nessuno dei passi letterari e in nessuna delle testimonianze epigrafiche il termine si trova certamente al plurale: anche in Platone, per le ragioni indicate da Nesselrath (2006, pp. 196–202), pare più plausibile il singolare. Costituirebbe dunque un eccezionale esempio di plurale l’ aggettivo sostantivato τὰ φελλία di Xen. Cyn. 5.18, ma non si tratta, appunto, del sostantivo. Sul numero, dunque, ritengo che sia più probabile che Cratino abbia utilizzato il singolare, dal momento che il plurale φελλέας in Arpocrazione si spiega col fatto che Arpocrazione o la sua fonte ritengono φελλεύς esclusivamente un nome comune. Un altro errore si trova nel testo di Iseo, dove il nesso χωρία ἄττα è una intrusive gloss, dunque da espungere come vide Dobree. Una situazione di confusione analoga (φελλεύς

Ὧραι (fr. 298)

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inteso solo come nome comune) – chiarirebbe in termini di ratio corruptelae la v. l. φελλέας di Platone (cf. senz’ altro Nesselrath 2006, p. 201). Interpretazione Risulta impossibile anche solo ipotizzare se in Cratino il termine fosse usato come nome comune a indicare un’ area pietrosa o meno, in quanto lo stato del testo non ammette alcuna inferenza. Fu Sauppe per primo, di fatto, a escludere che il termine potesse riferirsi a un luogo e dunque essere un nome proprio (1841, pp. 59–64), seguito in questo da Olson (2002, p. 151) e, da ultimo, da Krasilnikoff (2008), tutti orientati a spiegare il termine φελλεύς come terreno sassoso, e, in ogni caso, come nome comune. Riesaminando le occorrenze epigrafiche e quelle letterarie di V-IV sec. a. C., non mi pare che questa interpretazione sia sempre inequivocabile, anzi, tale mi pare solo in Iseo e in IG II2 1582.53, mentre i passi aristofanei, quello di Platone e IG II2 2492.1 e 32s. si possono più agevolmente interpretare come “piana/pietraia del Felleo”. Su SEG 24.152.2 mi pare che i dubbi di Dover (1968, p. 103)278 siano attuali, nonostante la sicurezza di Papazarkadas (2007, p. 158) che interpreta φελλεύς senz’ altro come nome comune rimandando (n. 15) a LSJ9 s. v. φελλέυς (Suppl.), che eliminano l’ ipotesi del nome proprio precedentemente adottata da ogni possibile occorrenza. In definitiva, credo si possa acquisire la prudente esegesi di Nesselrath, quando conclude: «Ebenen des Phelleus würden auf ein bestimmtes steiniges Gelände im Inneren Attikas […] hinweisen», esegesi cui lo studioso ricondurrebbe i due passi di Aristofane279, IG II2 2942.1 e SEG 24.152.2 (2006, p. 201). Nel testimone l’ uso di Cratino viene accostato a quello delle Nuvole di Aristofane, dunque si potrebbe cautamente ipotizzare che, se φελλεύς in Aristofane indica una zona precisa, questo possa valere anche per Cratino.

fr. 298 K.–A. (272 K.) Antiatt. ω 2 ὡρᾴζεσθαι (Usener ap. Lentz 1868, p. 586 : ὡραΐζεσθαι cod.)· Κρατῖνος Ὥραις essere nel fiore dell’ età (horaizesthai): Cratino nelle Hōrai

Metro non deducibile Bibliografia Meineke (1839b, p. 170); Bothe (1855, p. 53); Usener (ap. Lentz 1868, p. 586); Cobet (1873, p. 74); van Dam (1873, p. 45); Kock (1880, p. 93); Edmonds (1957, pp. 116s.); PCG IV p. 267; Olson (2014, p. 153); Valente (2015, p. 248) 278 279

Rispetto al passo delle Nuvole Dover segnala la difficoltà di una posizione. In sede di apparato di Ar. Ach. 273, Wilson si è espresso in questi termini: «Φελλέως ut nomen loci interpretari possis», con rimando allo scolio e a Dover (1968, p. 103).

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Cratino

Contesto della citazione Il frammento, sine verbis, è testimoniato da Antiatt. ω 2, ma lo stato della glossa non permette di capire che cosa si intendesse indicare in uno stadio precedente e più autentico. Si potrebbe considerare Phryn. PS 75.16 θρύπτεσθαι· ὡραΐζεσθαι. ἄμφω seq. Eup. fr. 393 (ὡρᾳζομένη καὶ θρυπτομένη). Per una possibile allusione in Eliano, cf. Drago 2022. Secondo de Borries, in sede di edizione della glossa di Frinico, il senso della glossa sarebbe da intendersi come θ. 〈καὶ〉 ὡ. ἄ. 〈δόκιμα⟩, ma Vahlen (1908, p. 308) aveva qui individuato un caso particolare di spiegazione lessicografica che circa sessant’anni dopo Marzullo identificherà come meccanismo della coppia contigua (1968). Allo stato attuale delle conoscenze, non mi pare si possa cogliere cosa la fonte dell’Antiatticista intendesse mostrare sul piano grammaticale o lessicale: secondo Olson (2014, p. 153) la glossa che testimonia Cratino «must originally have been intended to make the same point — ὡρᾴζομαι/ὡραΐζομαι is legitimate Attic usage», vale a dire un’equivalenza fra ὡρ. e θρυπτ., ma ciò è incerto, e forse le valutazioni cui l’ Antiatticista (la sua fonte) faceva riferimento sono di altro tipo. Poiché lo stato della glossa dell’ Antiatticista non permette di capire quale ne fosse l’ intendimento, ci si potrà limitare alle seguenti osservazioni di superficie: a. la metatesi quantitativa vocalica derivante dalla semplificazione di αιι in Attico è ᾱι, ma l’ esito di αιι può essere anche ᾰϊ (cf. Schwyzer GG I p. 266); b. la scrittura ᾰϊ si trova attestata in Men. fr. 672 (ὡραΐζετ’) in un trimetro e poi, pressocché sistematicamente, nei manoscritti fin dal II sec. d. C. nei supporti papiracei; c. in Eup. fr. 393 e in Com. adesp. fr. 1110.17 (P. Oxy. 2807.17), le uniche due attestazioni del lemma di età classica, la tradizione offre ὡραϊζ- ma il metro impone ὡρᾳζ-280; d. la tradizione grammaticale, fin dal periodo cui presumibilmente risale la glossa dell’ Antiatticista, ma non necessariamente la forma del verbo, non sembra del tutto compatta, cf. Lentz ad Hdn. GG 2.585.20, ma Choerob. Orth. 281.7 (ὡριαΐνεσθαι· αι δίφθογγος· ἀπὸ τοῦ ὡραΐζεσθαι) con posizioni diverse. Testo Ne consegue che, come osservò Usener (ap. Lentz 1868, p. 586 adn.), la forma più probabile in Cratino sarà stata ὡρᾴζεσθαι, al medio e con l’ esito attico ᾱι (ᾳ) dell’ originario αιι281. La rarità del verbo nel V sec. a. C., può portare a concludere che Com. adesp. fr. 1110.17 possa esser riconducibile a Cratino, secondo l’ ipotesi dell’ editor princeps, Lobel, ovviamente avanzata con prudenza (1971 ad l.). I dubbi sollevati a tal proposito da Luppe (1973, p. 324), pur comprensibili, possono esser superati a favore dell’ ipotesi di Lobel grazie alla rarità del verbo in età pienamente classica ; inoltre, si deve osservare che ὡρᾳζομενο[ (v. 17) è certo

280 281

Impossibile valutare se Aesch. fr. 281a.10 preveda il verbo: vi si legge ]ϊσμένη. Alle conclusioni di Usener giunsero Cobet (1873, p. 74) e contestualmente van Dam (1873, p. 45), che rimanda a Cobet stesso. Si veda anche l’ apparato di Valente (2015, p. 248).

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sulla base del metro. Con ciò non si intende dire che l’ ipotesi di Lobel sia senz’ altro da accogliere, ma non ci sono elementi sufficienti per confutarla. Interpretazione Non si può avanzare alcuna interpretazione, mancando per questo frammento qualunque dato contestuale o ricavabile dal testimone: si potrà, semmai, notare la corradicalità del verbo col titolo della commedia.

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281

Indici Index fontium Aelius Aristides 28.92: fr. 255 (Cheirōnes) Antiatticista β 20: fr. 219 (Seriphioi) γ 33: fr. 291 (Hōrai) ψ 4: fr. 285 (Hōrai) ω 2: fr. 298 (Hōrai) Apostolius 15.17: fr. 249 (Cheirōnes) 16.23: fr. 232 (Seriphioi) 18.8d: fr. *235 (Trophōnios) Athenaeus 7.325e: fr. 236 (Trophōnios) 9.374d: fr. 279 (Hōrai) 9.392f: fr. 264 (Cheirōnes) 12.553e: fr. 257 (Cheirōnes) 14.638f: fr. 276 (Hōrai) Diogenes Laertius 1.62: fr. 246 (Cheirōnes) Etymologicum Genuinum β 259: fr. 218 (Seriphioi) διαρριϰνοῦσθαι: fr. 234 (Trophōnios) σισύμβριον: fr. 257 (Cheirōnes) τελενιϰίσαι: fr. 232 (Seriphioi) φῷδες: fr. 226 (Seriphioi) Etymologicum Magnum 42.10: fr. 224 (Seriphioi) 213.39: fr. 218 (Seriphioi) 270.4: fr. 234 (Trophōnios) 751.5: fr. 232 (Seriphioi) Etymologicum Symeonis V fol. 197v: fr. 232 (Seriphioi) Eustathius Od. 1395.49: fr. 218 (Seriphioi) Od. 1608.57: fr. 221 (Seriphioi) Harpocratio 125.2: fr. 243 (Trophōnios) 216.9: fr. 294 (Hōrai) 238.9: fr. 241 (Trophōnios) 270.13: fr. 296 (Hōrai) 300.3: fr. 297 (Hōrai) Hephaestio 1.9: fr. 253 (Cheirōnes)

Hephaestio [cont.] 8.2: fr. *235 (Trophōnios) 13.1: fr. 237 (Trophōnios) 15.8: fr. 225 (Seriphioi) Herodianus et Ps.-Herodianus GG 2.947.25: fr. 262 (Cheirōnes) Philet. 58: fr. 244 (Trophōnios) Hesychius Alexandrinus α 1798: fr. 224 (Seriphioi) α 2015: fr. 236 (Trophōnios) α 7073: fr. 239 (Trophōnios) α 8483: fr. 266 (Cheirōnes) β 1152: fr. 218 (Seriphioi) γ 100: fr. 291 (Hōrai) δ 1890: fr. 223 (Seriphioi) κ 2574: fr. 292 (Hōrai) κ 4088: fr. 237 (Trophōnios) κ 4108: fr. *240 (Trophōnios) μ 1946: fr. 293 (Hōrai) ο 644: fr. 279 (Hōrai) ρ 14: fr. 249 (Cheirōnes) τ 408: fr. 232 (Seriphioi) Lexicon Messanense S. Salv 118 f. 274v: fr. 270 (Hōrai) Marcellinus in Hermog. Stat. 186.14–18: fr. *259 (Cheirōnes) Marius Plotius Sacerdos GL VI 542.20: fr. 237 (Trophōnios) Photius α 111: fr. 256 (Cheirōnes) α 547: fr. 224 (Seriphioi) α 606: fr. 236 (Trophōnios) α 637: fr. 233 (Trophōnios) α 660: fr. 261 (Cheirōnes) α 1235: fr. 221 (Seriphioi) α 1443: fr. 286 (Hōrai) α 1797: fr. 287 (Hōrai) α 1893: fr. 288 (Hōrai) α 2046: fr. 289 (Hōrai) α 2510: fr. 284 (Hōrai) α 2810: fr. 229 (Seriphioi) α 2866: fr. 230 (Seriphioi)

282

Index fontium

Photius [cont.] α 3260: fr. 266 (Cheirōnes) γ 18: fr. 291 (Hōrai) δ 427: fr. 234 (Trophōnios) ε 864: fr. 242 (Trophōnios) κ 1089: fr. 237 (Trophōnios) μ 615: fr. 293 (Hōrai) ο 252: fr. 279 (Hōrai) o 674: fr. 261 (Cheirōnes) π 23: fr. 278 (Hōrai) ρ 17: fr. 249 (Cheirōnes) ρ 192: fr. 296 (Hōrai) ρ 193: fr. 296 (Hōrai) σ 489: fr. 220 (Seriphioi) τ 81: fr. 272 (Hōrai) τ 128: fr. 232 (Seriphioi) ψευδομαρτύριον: fr. 268 (Cheirōnes) Plutarchus Per. 3.4: fr. 258 (Cheirōnes) Per. 24.9: fr. *259 (Cheirōnes) Pollux 4.99: fr. 234 (Trophōnios) 6.18: fr. 269 (Hōrai) 6.97: fr. 252 (Cheirōnes) 7.69: fr. 222 (Seriphioi) 7.103: fr. 239 (Trophōnios) 7.107: fr. 265 (Cheirōnes) 7.164: fr. 273 (Hōrai) 7.211: fr. 267 (Cheirōnes) 8.31: fr. 268 (Cheirōnes) 9.130: fr. 275 (Hōrai) 10.40: fr. 295 (Hōrai) 10.64: fr. 252 (Cheirōnes) 10.76: fr. 271 (Hōrai) 10.115: fr. 245 (Trophōnios) 10.156: fr. 231 (Seriphioi) 10.186: fr. 265 (Cheirōnes) Proverbia Bodleiana 28: fr. 261 (Cheirōnes) 818: fr. 249 (Cheirōnes) Proverbia cod. Par. suppl. 676 p. 72 nr. 3 C.: fr. 236 (Trophōnios) scholia in Ael. Ar. III 59.31: fr. 278 (Hōrai) scholia in Ar. Av. 766: fr. 251 (Cheirōnes) Nu. 691: fr. 227 (Seriphioi) Nu. 924h: fr. 260 (Cheirōnes)

scholia in Ar. [cont.] Ve. 74: fr. 227 (Seriphioi) Ve. 1187: frr. 223.3 (dubitanter; Seriphioi), 281 (Hōrai) Ve. 1238: fr. 254 (Cheirōnes) scholia Choerob. in Heph. 13.1: fr. 237 (Trophōnios) scholia in Luc. 115.5–8: fr. 283 (Hōrai) 116.9–15: fr. 228 (Seriphioi) scholia in Pl. Ap. 22a: fr. 249 (Cheirōnes) Gorg. 457a: fr. 274 (Hōrai) Hipp. min. 365d: fr. 274 (Hōrai) Men. 235e: fr. *259 (Cheirōnes) Phaedr. 228b: fr. 249 (Cheirōnes) Reip. 399e: fr. 249 (Cheirōnes) Theaet. 146a: fr. 247 (Cheirōnes) Theag. 127c: fr. 274 (Hōrai) scholia in Soph. OC 477: fr. 250 (Cheirōnes) scholia in Thuc. 8.83.3: fr. 248 (Cheirōnes) Stephanus Byzantius δ 117: fr. 223 (Seriphioi) Suda α 1627: fr. 221 (Seriphioi) αι 237: fr. 261 (Cheirōnes) αι 279: fr. 233 (Trophōnios) μ 196: fr. 277 (Hōrai) ο 203: fr. 279 (Hōrai) o 934: fr. 261 (Cheirōnes) π 171: fr. 260 (Cheirōnes) π 858: fr. 278 (Hōrai) π 3231: fr. 273 (Hōrai) ρ 13: fr. 249 (Cheirōnes) σ 982: fr. 220 (Seriphioi) τ 173: fr. 272 (Hōrai) τ 257: fr. 232 (Seriphioi) Synagoge lexeon chresimon Σa π 9: fr. 278 (Hōrai) Σb α 153: fr. 256 (Cheirōnes) Σb α 249: fr. 256 (Cheirōnes) Σb α 567: fr. 233 (Trophōnios) Σb α 644: fr. 224 (Seriphioi) Σb α 1235: fr. 281 (Hōrai) Σb α 1528: fr. 289 (Hōrai) Σb α 2119: fr. 229 (Seriphioi)

Index locorum Zenobius vulgatus 1.26: fr. 261 (Cheirōnes) 2.66: fr. 262 (Cheirōnes) 5.81: fr. 249 (Cheirōnes)

Zonaras (Ps.-Zonaras) 93.1: fr. 233 (Trophōnios) 529.17: fr. 234 (Trophōnios)

Index locorum Achaeus fr. 24.2: 123, 127 Aelianus NA 1.41: 68, 70 NA 8.12: 84s. NA 9.51: 67 NA 10.2: 67 NA 11.10: 79 Aelius Aristides Or. 2.72: 134 Or. 3.51: 134 Or. 3.154: 134 Or. 28.22: 135 Or. 28.24: 135 Or. 28.31: 135 Or. 28.34: 135 Or. 28.71: 135 Or. 28.92: 134 Or. 34.51: 134 Or. 44.172: 95 Aeschines Or. 1.52: 228 Or. 1.158: 115 Aeschines Socraticus fr. 23 (= VI A 66): 154 Aeschylus et Ps.-Aeschylus Ag. 437: 81 Ag. 659: 23 Ag. 886: 126, 127 Ag. 1043: 37 Ag. 1082: 136 Ag. 1117: 151 n. 133 Ag. 1147: 158 n. 146 Ag. 1243: 198 Ag. 1331: 102 Ag. 1439: 37 Ch. 152: 223 Ch. 357: 152 Ch. 675: 176 Eum. 372: 63

Aeschylus et Ps.-Aeschylus [cont.] Eum. 644: 116 Eum. 864: 136 Pers. 710: 140 Pers. 783: 87 Pr. 3: 87 Pr. 133: 175 Pr. 199: 150, 151 Pr. 220: 152 Pr. 222: 152 Pr. 284: 77 Pr. 328: 141 Pr. 497: 225 Pr. 545: 138s. Pr. 575: 129 n. 100 Pr. 675: 168 Pr. 700: 34 Pr. 709: 13, 34 Pr. 714: 175 Pr. 786: 34 Pr. 975: 105 Th. 728: 174, 175 Th. 774: 41 Th. 864: 41 Th. 964: 213 Suppl. 40: 77 Suppl. 230: 97 Suppl. 379: 198 Suppl. 750: 222 Suppl. 762: 116 Suppl. 806: 23 n. 6 Suppl. 1012: 87 fr. 57.3: 137 fr. 132c.12: 198 fr. 196.5: 140 fr. 273: 109 fr. 273a: 109 fr. 273a.2: 109, 110 fr. 281a.10: 256 n. 280

283

284 Alcaeus lyricus fr. 72.5: 23 fr. 208.1: 151 fr. 308.1: 76 Alciphro Ep. 2.18.2: 254 Ep. 3.34.2: 254 Alcman PMGF 1.88: 137 PMGF 3: 145 PMGF 89.5: 116 PMGF 116: 222 Alexander Myndius I fr. 16: 171 Alexis fr. 9: 96 fr. 47.1: 27 fr. 88.3: 190 fr. 129.5: 199 fr. 129.14: 201 fr. 131: 97 fr. 132.8: 253 fr. 291.2: 226 Ammonius F 2 (= T 9 D’Alessandro): 129 Anacreon PMG 204.2: 18 PMG 349: 215 PMG 352: 190 PMG 361: 166 PMG 373: 68 PMG 388: 188 PMG 481: 214 Anacreontea 53.22: 70 Anaxandrides fr. 4: 35 fr. 42.26: 121 Anaxilas fr. 27: 102 Andocides Or. 1.27: 13 Or. 1.35: 53 n. 24 Androtio F 42: 231 Antiatticista δ 66: 236 ε 48: 236 ε 101: 236

Index locorum Antiatticista [cont.] κ 15: 33 κ 76: 236 κ 107: 244 μ 35: 236 π 17: 218 Antipho fr. 27.23: 70 fr. 69.14: 67 fr. 75.4: 190 fr. 99: 249 fr. 121.6: 49 fr. 160: 178 fr. 195: 178 fr. 205.2: 190 fr. 209.2: 102 fr. 225.8: 53 fr. 234.3: 190 Antisthenes philosophus et rhetor V A 13: 154 Apollodorus et Ps.-Apollodorus Bibl. 2.7: 166 F 109a: 67 Apollonius Rhodius 1.882: 26 Apollophanes fr. 7: 253 fr. 8: 247 Apostolius 12.91a: 99 Aratus Phaen. 163: 166 Archestratus fr. 42.4: 70 Archilochus fr. 2: 207 fr. 4.6: 190 fr. 118: 45 fr. 188.1: 248 Aristomenes fr. 9: 177 Aristonymus fr. 7: 27 Aristophanes Ach. 6: 46 Ach. 208: 74 Ach. 273: 253, 254 Ach. 284: 74 Ach. 299: 46

Index locorum Aristophanes [cont.] Ach. 318: 19 Ach. 329: 197 Ach. 350: 215, 216, 217 Ach. 377: 46 Ach. 399: 213 Ach. 412: 213 Ach. 418: 197 Ach. 460: 216, 240 Ach. 464: 213 Ach. 526: 156, 158 Ach. 530: 151 Ach. 541: 10, 14 Ach. 551: 219 Ach. 584: 197 Ach. 601: 233 Ach. 603: 229 Ach. 605: 229 Ach. 609: 216 Ach. 625: 146 Ach. 628: 213 Ach. 659: 46 Ach. 665: 74, 76 Ach. 676: 216 Ach. 703: 216 Ach. 805: 199 Ach. 815: 201 Ach. 846: 234 Ach. 851: 102 Ach. 866: 245 Ach. 934: 203 Ach. 971: 74 Ach. 1109: 199 Ach. 1190: 74 Av. 68: 223 Av. 96: 197 Av. 109: 197 Av. 229: 213 Av. 243: 74 Av. 277: 222 Av. 327: 74 Av. 485: 222 Av. 521: 106 Av. 557: 168 Av. 609: 125 Av. 685: 109, 149 Av. 687: 102 Av. 707: 222 Av. 737: 77

Aristophanes [cont.] Av. 753: 216 Av. 766: 113, 114, 117 Av. 785: 216 Av. 798: 112, 118 Av. 833: 222 Av. 850: 16 Av. 856: 213 Av. 870: 173 Av. 916: 240 Av. 967: 224 Av. 983: 224 Av. 987: 224 Av. 1014: 197 Av. 1066: 74 Av. 1069: 216 Av. 1205: 53 n. 24 Av. 1314: 139 Av. 1322: 139 Av. 1356: 245 Av. 1442: 118 Av. 1660: 97 Av. 1700: 35, 37 Av. 1743: 76 Av. 1744: 109 Ec. 312: 110 Ec. 677: 234s. Ec. 723: 214 Ec. 737: 110 Ec. 986: 197 Eq. 107: 190 Eq. 111: 201 Eq. 188: 102 Eq. 375: 213 Eq. 539: 248 Eq. 565: 216 Eq. 570: 44 Eq. 601: 102 Eq. 738: 234 Eq. 892: 240 Eq. 996: 229 Eq. 1015: 224 Eq. 1030: 224 Eq. 1037: 224 Eq. 1051: 224 Eq. 1056: 224 Eq. 1067: 224 Eq. 1264: 148 Eq. 1303: 234

285

286 Aristophanes [cont.] Eq. 1331: 144 Eq. 1358: 234 Lys. 87: 214 Lys. 151: 214 Lys. 153: 225 Lys. 155: 144 Lys. 199: 199 Lys. 256: 136 n. 112 Lys. 260: 213 Lys. 392: 211 Lys. 476: 116 Lys. 506: 201 Lys. 808: 39 Lys. 827: 214 Lys. 842: 201 Lys. 912: 250 Lys. 948: 201 Lys. 1189: 249 Lys. 1237: 129, 130, 131, 132 Lys. 1243: 63 Lys. 1296: 76, 77 Lys. 1297: 57 Lys. 1302: 63 Lys. 1317: 63 Nu. 19: 199 Nu. 43: 140 Nu. 50: 189 Nu. 70: 249 Nu. 71: 254 Nu. 239: 127 Nu. 274: 76 Nu. 275: 125 Nu. 335: 41 Nu. 436: 201 Nu. 462: 102 Nu. 507: 55 Nu. 529: 103 Nu. 551: 234 Nu. 557: 234 Nu. 563: 152 Nu. 575: 216 Nu. 581: 23 Nu. 582: 46 Nu. 584: 46 Nu. 623: 234 Nu. 663: 223 Nu. 666: 220 Nu. 689: 44

Index locorum Aristophanes [cont.] Nu. 814: 107 Nu. 874: 234 Nu. 907: 197, 199 Nu. 978: 144 Nu. 997: 146 Nu. 1024: 41, 139 Nu. 1065: 234 Nu. 1083: 214 Nu. 1108: 175 Nu. 1110: 175 Nu. 1160: 175 Nu. 1187: 97 Nu. 1359: 211 Nu. 1371: 131 e n. 106 Nu. 1430: 221 n. 231 Nu. 1490: 199 Pax 1: 15, 16 Pax 47: 46, 97 Pax 80: 28 Pax 152: 28 Pax 180: 102 Pax 215: 229 Pax 236: 102 Pax 251: 97 Pax 258: 197 Pax 275: 201 Pax 285: 102 Pax 314: 23 Pax 386: 73 Pax 426: 201 Pax 582: 73 Pax 638: 213 Pax 647: 47 Pax 680: 232 Pax 725: 46 Pax 775: 77 Pax 776: 75 Pax 785: 160 Pax 956: 109 Pax 1008: 53. n. 24 Pax 1012: 192, 193, 195 Pax 1063: 224 Pax 1067: 245 Pax 1072: 53 Pax 1131: 189, 190 Pax 1149: 199 Pax 1153: 199 Pax 1227: 16

Index locorum Aristophanes [cont.] Pl. 190: 102 Pl. 317: 225 Pl. 387: 101 Pl. 413: 192 Pl. 414: 201 Pl. 535: 42 Pl. 555: 140 Pl. 598: 216 Pl. 610: 216 Pl. 668: 89 Pl. 690: 84 Pl. 984: 146 Pl. 1066: 201 Ra. 1: 196 Ra. 3: 196 Ra. 52: 242 Ra. 159: 100 Ra. 244: 63 Ra. 314: 29 Ra. 353: 219 Ra. 359: 151 Ra. 370: 75, 76 Ra. 382: 109 Ra. 513: 219 Ra. 516: 214 Ra. 549: 20 Ra. 570: 234 Ra. 674: 77 Ra. 686: 216 Ra. 727: 101 Ra. 729: 20, 102 Ra. 794: 59 Ra. 797: 102 Ra. 849: 75, 193 Ra. 944: 195 Ra. 1033: 125 Ra. 1187: 102 Ra. 1302: 211 Ra. 1304: 199 Ra. 1330: 193 Ra. 1356: 195 Ra. 1493: 102 Ra. 1515: 201 Ra. 1528: 136 Th. 31: 198 Th. 98: 212 Th. 121: 40 Th. 130: 212

Aristophanes [cont.] Th. 236: 99 Th. 238: 199 Th. 255: 16 Th. 267: 225 Th. 311: 73 Th. 314: 73 Th. 390: 204, 205 Th. 484: 198 Th. 500: 207 n. 211 Th. 514: 207 Th. 537: 214 Th. 547: 37 Th. 659: 62 Th. 788: 151 Th. 840: 234 Th. 904: 198 Th. 947: 109 Th. 954: 62 Th. 978: 248 Th. 981: 73 Th. 982: 73 Th. 1012: 59 Th. 1023: 102 Th. 1077: 193 Th. 1231: 73 Ve. 4: 116 Ve. 18: 239 Ve. 36: 45 Ve. 75: 226 Ve. 81: 118 Ve. 83: 106 Ve. 142: 201 Ve. 185: 173 Ve. 191: 100 Ve. 273: 148 Ve. 323: 216 Ve. 377: 237 Ve. 381: 109 Ve. 389: 73 Ve. 459: 216 Ve. 466: 44, 45 Ve. 481: 253 Ve. 496: 19 Ve. 522: 199 Ve. 529: 199 Ve. 592: 229 Ve. 596: 46 Ve. 727: 146

287

288 Aristophanes [cont.] Ve. 764: 73 Ve. 851: 201 Ve. 860: 199 Ve. 959: 99 Ve. 1007: 232 Ve. 1008: 251 Ve. 1030: 46, 133 Ve. 1032: 159 Ve. 1043: 133 Ve. 1044: 97 Ve. 1046: 133 Ve. 1060: 20 Ve. 1071: 216 Ve. 1120: 205 Ve. 1137: 29 Ve. 1183: 201 Ve. 1187: 229 Ve. 1219: 132 Ve. 1223: 46 Ve. 1231: 131 Ve. 1236: 132 Ve. 1240: 131 Ve. 1245: 131 Ve. 1267: 44, 45 Ve. 1268: 44 Ve. 1268b: 144 Ve. 1275: 74 Ve. 1292: 219 Ve. 1309: 36 Ve. 1345: 219 Ve. 1368: 219 Ve. 1487: 64 fr. 41.1: 201 fr. 111: 189 fr. 111.3: 190 fr. 112: 66, 74 fr. 117: 211 fr. 130: 16 n. 3 fr. 156.9: 211 fr. 162: 193 fr. 192.2: 239 fr. 199.2: 100 fr. 237: 113, 114 fr. 239: 125 fr. 271: 130, 131 fr. 321: 118 fr. 332.7: 249 fr. 348: 74

Index locorum Aristophanes [cont.] fr. 359: 42 fr. 381: 66 fr. 402.6: 199 fr. 444: 128, 129, 131 fr. 452: 39 fr. 506.2: 192 fr. 623: 144 fr. *686: 240 fr. 707: 165 fr. 719: 74 fr. 795: 177 fr. 826: 189 Aristophanes Byzantius fr. 172A: 244 fr. 215: 244 fr. 407: 126 Aristoteles EN 1122a 7: 22 EN 1137b 29: 237 HA 489b 31: 70 HA 543a 5: 67 HA 597b 7: 172, 173 Met. 383a 33: 175 Phgn. 811a 28: 168 Poet. 1448b 7: 206 Poet. 1452b 14: 193 Poet. 1452b 24: 193 Pol. 1280a 1: 34 Pol. 1291b 30: 46 Prob. 967b 5: 217 Ath. 16.7: 150 n. 129 Ath. 28.3: 234 Ath. 52: 23 Ath. 56.3: 243 Ath. 59.6: 179 Ath. 61.1: 243 Rhet. 1366b 13: 102 Rhet. 1391a 14: 37 Rhet. 1400a 9: 230 Rhet. 1416a 28: 243 fr. 264 (G.): 221 n. 231 fr. 392 (R.3): 95 fr. 528 (G.): 85 fr. 616 (R.3): 167, 168 Artemidorus On. 2.14: 67 On. 3.50: 108

Index locorum Asclepiades AP 7.11.1: 137 Athenaeus 3.75a: 172 3.78d: 209 3.82d: 172 4.137e: 135, 209 4.158d: 172 4.160a: 172 4.164d: 120 7.289b: 172 8.344c: 210 8.362b: 53 9.392e: 172 13.564a: 218 13.566e: 156 14.629e: 61 15.701a: 88 Callias Comicus fr. *21: 154 fr. 36: 253 Callimachus Ep. 6.1: 137 Ep. 28.3: 168 Ep. 38.2: 168 H. 1.49: 166 fr. 110.48: 174 fr. 191.1: 77 Carmina convivalia PMG 897: 129, 131 PMG 912: 130, 131 Catullus 65.19: 144 Charicles fr. 1: 67 Chionides fr. 4: 209, 211 fr. 7: 135, 209 Choeroboscus Orth. 281.7: 256 Cicero ND 2.6: 79 ND 3.13: 79 Clearchus fr. 25: 142 Clemens Alexandrinus Protr. 47.7: 254 Comica adespota fr. 244: 44

Comica adespota [cont.] fr. 278: 229 fr. *284: 49 fr. 433: 155 fr. 461: 46 fr. 701: 151 fr. 703: 150 n. 129 fr. 704:154 fr. 708: 164 fr. 828: 228 fr. 846: 234 fr. *942: 49 fr. 951: 230 fr. 957: 79 fr. 1035: 252 fr. 1104: 10, 13, 28 fr. 1105.69: 102 fr. 1110.17: 256 Craterus F 4: 114 Crates fr. 8: 119 fr. 12: 119, 120 fr. 13: 121 fr. 38: 100 fr. 46: 253 Cratinus fr. 17: 209, 210 n. 214, 211 fr. 17.2: 213 fr. 32: 40 n. 14 fr. 56: 99, 168 fr. 62: 40 n. 14 fr. 62.1: 102 fr. 73: 109, 148 fr. 77: 66 fr. 94: 123, 224 fr. 104: 208, 209, 211 n. 214, 211 fr. 105.2: 146 fr. 105.3: 145 fr. 118: 148, 151 fr. 124: 135 fr. 132: 96 fr. 134: 96 fr. 135: 96 fr. 153.2: 160 fr. 156: 52 fr. 161: 123, 224 fr. 163: 218 fr. 171: 124

289

290 Cratinus [cont.] fr. 171.27: 126 fr. 171.63: 76 fr. 171.70: 36 fr. 173: 63 fr. 176: 149 fr. 180: 20 fr. 186: 48 fr. 190: 244 fr. 197: 203 fr. 198.2: 223 fr. 209: 233, 234 fr. 300: 95 n. 62 fr. 316: 87 fr. 324: 134, 135 fr. 338: 102 fr. 342.3: 53 fr. 346: 66 fr. 349: 125 fr. 352: 152 fr. 357: 79, 183 fr. 358: 57, 68, 70 fr. 360: 40 n. 14 fr. *361.1: 76 fr. 363: 10, 39 fr. 364: 134, 144 fr. 372: 230 fr. 443: 172 fr. 470: 45 fr. 488: 79 fr. 507: 57 fr. 511: 31 Crobylus fr. 1.1: 177 Demetrius Phalereus fr. 147: 244 n. 263 Demosthenes et Ps.-Demosthenes Or. 4.36: 243 Or. 18.60: 234 Or. 18.66: 234 Or. 18.260: 84 Or. 20 Arg. 8: 242 Or. 20.40: 243 Or. 20.92: 237 Or. 21.78: 243 Or. 21.158: 251 Or. 23.53: 159 Or. 23.199: 131 Or. 24.113: 113

Index locorum Demosthenes et Ps.-Demosthenes [cont.] Or. 25.27: 114 Or. 27.22: 224 Or. 28.17: 243 Or. 34.28: 86 Or. 41.16: 179 Or. 42: 243 Or. 43.45: 247 n. 267 Didymus (Ps.-Didymus) Lex. 22: 204 Dio Cassius 40.17: 216 Diocles fr. 6: 99 Diodorus Siculus Bibl. 5.70: 166 Bibl. 9.1.1: 97 Bibl. 12.40.6: 192 Diogenes Laertius 8.33: 69 Diogenianus Paroemiographus 3.73: 53 4.55: 10, 230 6.9: 163, 164 7.33: 99 Dionysius Halicarnassensis Ant. 7.72: 85 Ant. 8.21.3: 26 Dionysius Periegeta 959: 32 1069: 32 1141: 32 Diphilus fr. 73: 87 fr. 98: 205 fr. 127.3: 109 Ecphantides fr. 4: 76, 229 Elegiaca adespota fr. 12: 230 Ephippus fr. 7.2: 102 Epicharmus et Ps.-Epicharmus fr. 49.2: 70 fr. 57: 50 fr. 59: 70 fr. 122.5: 50 Epilycus fr. 4: 252

Index locorum Eratosthenes Cyrenaeus Cat. 27: 166 fr. 9: 24 Erotianus α 24: 239 μ 24: 216 Etymologicum Genuinum s.v. εὐναῖος: 207 s.v. φελλέα: 254 s.v. φελλεύς: 254 Etymologicum Gudianum 168.22: 59 Etymologicum Magnum 129.7: 26 194.23: 120 299.30: 120 393.43: 207 529.27: 80 612.27: 249 780.47: 250 790.13: 254 790.14: 254 Eubulus fr. 13.4: 135 fr. 56.7: 190 fr. 57.6: 96 fr. 95: 207 fr. 108.2: 23 fr. 132: 249 Eudoxus fr. 282: 174 Eupolis fr. 4: 102 fr. 57: 238 fr. 79: 107 fr. 88.3: 64 fr. 99.25: 53 fr. 99.33: 118 fr. *101: 96 fr. *101.7: 156 fr. 112: 112 fr. 115: 148, 153 fr. 147: 252 fr. 148: 209, 211, 212 n. 218, 214 fr. 149: 252 fr. 173: 74, 102 fr. 205: 134 fr. 211: 46 fr. 212: 34, 36

Eupolis [cont.] fr. 220.3: 234 fr. 222: 44 fr. 226: 172, 173 fr. 269: 173 fr. 279: 99 fr. 294: 154 fr. 316: 46 fr. 331: 46 fr. 356: 218, 219 fr. 361: 207 fr. 366: 102 fr. 392.8: 102 fr. 393: 256 fr. 424: 229 Euripides et Ps.-Euripides Alc. 980: 175 Andr. 16: 96 Andr. 475: 151 Andr. 708: 240 Ba. 1: 77 Ba. 144: 28 Ba. 442: 87 Ba. 660: 77 Ba. 828: 198 Cycl. 103: 173 Cycl. 105: 207 Cycl. 156: 197 Cycl. 158: 197 Hcld. 161: 174 Hcld. 284: 240 Hcld. 891: 198 Hec. 1: 77 Hec. 28: 96 Hec. 131: 80 Hec. 132: 80, 141 Hec. 842: 205 Hec. 970: 198 Hel. 47: 102 Hel. 566: 77 Hel. 687: 129 n. 100 Hel. 712: 225 HF 34: 151 HF 515: 198 HF 590: 151 HF 699: 140 Hipp. 38: 196 Hipp. 63: 76 Hipp. 70: 76

291

292 Euripides et Ps.-Euripides [cont.] Hipp. 318: 197 Hipp. 669: 194 Hipp. 794: 197 Hipp. 925: 224 Hipp. 988: 230 n. 246 Hipp. 1087: 201 Hipp. 1160: 197 Hipp. 1271: 129 n. 100 Ion 403: 77 IA 209: 137 IA 837: 198 IT 1181: 50 Me. 8: 196 Me. 96: 193 n. 189 Me. 131: 194 Me. 183s.: 201 Me. 259: 201 Me. 267: 201 Me. 356: 198 Me. 516: 224 Me. 638: 102 Me. 926: 201 Me. 1183: 248 Or. 460: 198 Ph. 506: 152 Rh. 685: 110 Suppl. 146: 116 Tro. 1: 77 Tro. 55: 197 Tro. 98: 194 Tro. 593: 152 fr. 114: 193 fr. 123: 102 fr. 158: 102 fr. **330b: 41 fr. 369.6: 242 fr. 382.2: 224 fr. 453.10: 151 fr. 472.6: 174 fr. 610: 240 fr. 759a.73: 41 fr. 846: 97 Eustathius D.P. 767: 174 Il. 200.2: 138 Il. 453.26: 174 Il. 741.20: 70 Il. 772.6: 63

Index locorum Eustathius [cont.] Il. 838.54: 24 Il. 917.16: 162 Il. 968.35: 238 Od. 1523.53: 230 Od. 1608.57: 24 Od. 1749.28: 80 Gellius NA 4.15.1: 215 Gregorius Cyprius 3.29: 99 Harpocratio 74.1: 20 88.13: 87 177.16: 43 181.17: 228 211.9: 114 270.17: 252 Hecataeus F 345: 34, 36 Heniochus fr. 3.4: 70 Heraclides Ponticus fr. 61: 142 Heraclitus B 81: 80 Hermippus fr. 39: 229 fr. 42: 151 fr. 46.3: 210 fr. 47: 46 fr. 54.2: 250 fr. 63.13: 28 Herodianus GG 2.585.20: 256 Herodotus 1.125.2: 177 4.68.7: 107 4.177.4: 110 5.58.3: 178 5.63.3: 130 6.113.1: 35 7.15.2: 168 7.64.2: 12, 35 7.96.1: 35 9.31.4: 35 Herondas 6.15: 241 8.71: 215

Index locorum Hesiodus et Ps.-Hesiodus Op. 67: 159 Op. 575: 248 Op. 590: 25 Th. 22: 135 Th. 32: 135 Th. 367: 223 Th. 831: 152 Th. 927: 152 fr. 141.13: 106 n. 73 fr. 150.15: 34 fr. 283: 125 fr. 296: 152 Hesychius Alexandrinus α 1695: 230 n. 245 α 2475: 82 α 3410: 162 α 4252: 237 α 5318: 241 α 5716: 229 α 7079: 80 n. 48 α 7241: 47 α 7621: 120 β 383: 197 β 857: 82 β 893: 167 β 1273: 82 γ 1003: 53 δ 588: 50 δ 1265: 61 δ 2230: 82 δ 2258: 31 δ 2578: 172 ε 1511: 206 ε 1512: 206 ε 1513: 206 ε 1555: 80 ε 2311: 204 ε 2818: 85 ε 2842: 85 ε 4416: 82 ε 6174: 17 ζ 267: 116 η 137: 141 η 255: 221 κ 629: 207 κ 2913: 131 κ 3156: 116 κ 3309: 229

Hesychius Alexandrinus [cont.] κ 3556: 80 κ 3745: 244 λ 481: 66 λ 999: 232 λ 1472: 88 λ 1473: 88 λ 1474: 88 λ 1475: 88 λ 1477: 88 λ 1478: 88 μ 284: 216 μ 1645a: 192 μ 1645b: 192 ν 530: 82 ξ 73: 62 ξ 75: 62 ξ 77: 62 ξ 196: 249 ο 1340: 171 ο 2078: 228 π 62: 218 π 355: 250 π 765: 84 π 2677: 63 π 3142: 250 π 3248: 152 ρ 533: 251 n. 273 σ 206: 82 σ 695: 126 σ 742: 145 σ 1215: 52, 82 σ 3026: 109 σ 3027: 110 τ 889: 215 τ 890: 215 τ 1485: 20 τ 1559: 187 φ 665: 42 φ 779: 78 φ 1083: 42 φ 1125: 190 χ 119: 175 χ 120: 175 χ 276: 42 Hippocrates Epid. 5.1.2: 239 Mul. 143.8: 239

293

294 Hipponax fr. 6: 109, 110 fr. 6.2: 108 fr. 42.1: 244 fr. 48.2: 83 fr. 61: 42 fr. 61.1: 217 fr. 95.2: 214 ‘Homerus’ Il. 1.225: 159 Il. 1.273: 135 Il. 1.402: 152 Il. 1.551: 41 Il. 2.58: 68 Il. 2.184: 173 Il. 2.592: 22 Il. 2.677: 97 Il. 2.813: 152 Il. 3.180: 159 Il. 5.877: 40 Il. 6.264: 16 Il. 8.451: 40 Il. 9.141: 66 Il. 9.283: 66 Il. 10.462: 76 Il. 10.576: 121 Il. 11.249: 152 Il. 11.424: 159 Il. 11.705: 190 Il. 13.21: 162 Il. 13.564: 89 Il. 13.798: 23 Il. 14.230: 97 Il. 14.290: 152 Il. 14.295: 152 Il. 15.37: 107 Il. 15.508: 18 Il. 17.602: 222 Il. 18.396: 159 Il. 19.91: 159 Il. 19.92: 145 Il. 19.225: 41 Il. 19.285: 145 Il. 19.302: 127 n. 95 Il. 20.74: 152 Il. 20.467: 140 Il. 21.221: 198 Il. 23.634: 135 Il. 23.743: 35

Index locorum ‘Homerus’ [cont.] Il. 23.780: 146 Il. 24.345: 146 Il. 24.533: 168 Il. 24.637: 248 Od. 1.111: 42 Od. 2.25: 173 Od. 2.246: 173 Od. 3.123: 198 Od. 3.227: 198 Od. 3.468: 120, 121 Od. 4.48: 121 Od. 4.75: 198 Od. 4.84: 33, 35 Od. 4.85: 34, 36 Od. 4.128: 121 Od. 4.142: 198 Od. 4.145: 159 Od. 4.563: 106 n. 73 Od. 5.49: 146 Od. 5.185: 107 Od. 6.161: 198 Od. 8.384: 198 Od. 8.450: 121 Od. 8.456: 121 Od. 9.42: 190 Od. 9.346: 146 Od. 10.305: 152 Od. 10.334: 152 Od. 10.361: 121 Od. 11.539: 168 Od. 12.39: 29 Od. 12.61: 152 Od. 12.127: 29 Od. 13.222: 145 Od. 13.398: 248 Od. 15.406: 41 Od. 16.243: 198 Od. 17.87: 121 Od. 17.90: 121 Od. 17.317: 116 Od. 22.439: 42 Od. 22.453: 42 Od. 23.163: 121 Od. 24.2: 146 Od. 24.244: 198 Od. 24.370: 121 H. 1.20: 76 H. 2.450: 66

Index locorum ‘Homerus’ [cont.] H. 3.16: 173 H. 3.545: 76 H. 4.579: 76 H. 7.20: 17 Horatius Carm. 1.17.22: 190 Carm. 1.36.12: 64 Carm. 4.5.17: 168 Carm. 4.12.14: 190 Ep. 14.4: 190 Hyginus Astr. 2.13: 166 Hyperides fr. 41: 204, 205 fr. 137: 243 Ibycus PMGF 286.1: 146 PMGF 309: 106 n. 73 Ilias parva 2.4: 224 Inscriptiones Graecae I2 527: 118 I3 45.5: 22 I3 85.6: 233 n. 248 I3 254: 243 I3 503/504 lapis C r. 2: 66 II2 1582.53: 254 II2 2492.1: 254 II2 2492.32: 254 Isaeus Or. 8.42: 254 Or. 12.6: 179 fr. 5: 19, 20 Isocrates Ep. 8.1: 245 Or. 15: 243 Pax 128 (Or. 8.128): 243 Julianus Or. 7.204a: 136 Or. 7.223a: 216 Leuco fr. 1: 234 Lexeis Rhetorikai 197.3: 243 258.22: 204 284.14: 249 299.31: 252 n. 275 302.19: 175

Libanius Prog. 7.1.5: 237 Decl. 26.1.15: 236 Longinus (Ps.-Longinus) Subl. 23.3: 37 Lucianus Dial. Mar. 14.1: 50 Dial. Mer. 2.2.9: 113 Dial. Mer. 12.1: 144 Hist. Conscr. 1.2: 195 Ind. 4: 99 Ind. 24: 178 Lucilius Sat. 531: 201 Lycophro Al. 763: 80, 81 Al. 1109: 174 Lyrica adespota PMG 967: 75 Lysias Or. 1.38: 103 Or. 3.20: 243 Or. 4.1s.: 243 Or. 12.60: 26 Or. 13.10: 159 Or. 14.41: 228 Or. 24.9: 243 fr. 158: 86 fr. 486: 243 Macarius 5.57: 164 7.49: 104 Macho 140: 99 Martialis 3.82.9: 199 Martianus Capella 8.807: 100 Matro fr. 1.27: 70 fr. 1.51: 70 Menander Dysk. 287: 205 Mis. 696: 99 Per. 526: 241 Sam. 43: 211 Sam. 46: 211 Sam. 373: 241 Sam. 377: 188

295

296 Menander [cont.] Sam. 508: 159 Sam. 574: 241 Sam. 627: 241 Sic. 343: 241 Sic. fr. 3: 188 fr. 130.2: 48 fr. 218: 205 fr. 255.1: 207 fr. 418: 99 fr. 672: 256 Mnaseas fr. 38: 36 Mnesimachus fr. 4.38: 70 Moeris β 32: 17 Nausicrates fr. 1.7 : 70 fr. 1.12: 70 Nicander Alex. 361: 198s. Th. 523: 252 Nicopho fr. 4: 49 Oppianus Hal. 1.130: 70 Hal. 1.639: 68 Hal. 3.443: 70 Orus A 20: 178 A 42: 87 B 44: 48 Ouidius Pont. 4.16.1: 215 P. Hib. (Hibeh Papyri) 38.7: 28, 29 51.3: 29 Parmenides B 10.4: 168 Pausanias 3.16.2: 78 9.31.4: 126 9.39.3: 66 Petronius Sat. 138.1–3: 214 Phaenias fr. 10: 52

Index locorum Phanodemus F 26: 130 Pherecrates fr. 2.3: 145 fr. 113.13: 223 fr. 113.19: 121 fr. 138: 68 fr. 142: 228 fr. 155: 212 fr. 162: 125 fr. 180: 239 Philemo fr. 3.1: 96 fr. *55: 83 Philemo grammaticus (ed. Cohn) 356 (= 393.28 R.): 178 Philetaerus fr. 17.4: 102 Philochorus F 35: 115 Philostratus VA 4.27: 213 Philyllius fr. 10: 253 fr. 12.3: 70 Phocylides fr. 3: 166 Photius Amph. 21.18: 21 Lex. α 505: 229 Lex. α 936: 79 Lex. α 1105: 162 Lex. α 1233: 24 Lex. α 1438: 237 Lex. α 1738: 120 Lex. α 1797: 120 Lex. α 1816: 20 Lex. α 2097: 120 Lex. α 2231: 120 Lex. α 2788: 80 n. 48 Lex. α 2984: 154 n. 137 Lex. α 3263: 114 Lex. β 308: 178 Lex. δ 169: 50 Lex. δ 287: 120 Lex. δ 729: 31, 36 Lex. ε 492: 82 Lex. ε 610: 127

Index locorum Photius [cont.] Lex. ε 705: 204 Lex. ε 2255: 207 Lex. θ 47: 230 n. 245 Lex. κ 680: 246 Lex. κ 1003: 244 Lex. λ 134: 66 Lex. λ 493: 88 Lex. λ 968: 88 Lex. λ 970: 88 Lex. λ 971: 88 Lex. λ 973: 88 Lex. λ 974: 88 Lex. μ 114: 216 Lex. μ 522: 192 Lex. μ 527: 192 Lex. μ 528: 192 Lex. ξ 33: 63 Lex. ο 355: 99 Lex. ο 533: 171 Lex. π 319: 213 Lex. π 344: 84 Lex. π 345: 84 Lex. π 424: 141 Lex. π 1153: 152 Lex. π 1340: 250 Lex. ρ 124: 64 Lex. ρ 191: 252 n. 275 Lex. σ 6: 252 Lex. σ 318: 127 Lex. σ 320: 127 Lex. σ 487: 21 Lex. σ 488: 21 Lex. σ 586: 175 Lex. σ 613: 188 Lex. σ 642: 120 Lex. τ 476: 47 Lex. τ 493: 20 Lex. τ 525: 187 Lex. τ 581: 53 Lex. υ 272: 120 Lex. φ 104: 254 Lex. φ 105: 254 Lex. φ 384: 189 Phrynichus Ecl. 59: 178 Ecl. 188: 241 Ecl. 384: 213

Phrynichus [cont.] PS 14.10: 237 PS 32.11: 238 PS 35.9: 88 PS 47.16: 241 PS 52.13: 178 PS 54.4: 197 PS 75.16: 256 Phrynichus Comicus fr. 5: 80 fr. 18: 229 fr. 42: 121, 122 Pindarus I. 5.48: 97 N. 3.12: 137 N. 3.52: 125 N. 9.13: 151 N. 10.21: 76 O. 2.17: 149 O. 2.22: 239 O. 2.75: 106 n. 73 O. 2.86: 68 O. 6.96: 140 O. 9.47: 76 O. 12.14: 222 P. 2.73: 106 n. 73 P. 4.5: 219 P. 6.22: 125 P. 6.54: 137 n. 113 P. 8.48: 41 P. 10.37: 219 fr. 52h.22: 137 fr. 70c.16: 137 Plato et Ps.-Plato Crit. 111c 1s.: 254 Euthyd. 279c: 18, 20 Leg. 700a: 196 Leg. 764d: 196 Leg. 916a: 237 Phaed. 62a: 248 Phaedr. 236b: 218 Phaedr. 252b: 152 Resp. 328c: 250 Resp. 434b 7: 26 Resp. 575b: 23 Smp. 178e: 218 Smp. 198a: 233 Theaet. 148b: 179 Theaet. 173d: 237

297

298 Plato Comicus fr. 30: 118 fr. 36.1: 226 fr. 80: 49 fr. 115: 46 fr. 185: 232 fr. 188.14: 214 fr. 201: 198 fr. 203: 234 n. 249 fr. 218: 177 fr. 231: 223 Plautus Asin. 179: 50 Asin. 221: 50 Bacch. 665: 99 Curc. 150: 99 Epid. 311: 99 Epid. 349: 99 Plinius NH 4.41: 36 n. 13 NH 10.66: 173 NH 20.101: 108, 110 NH 34.108: 175 Plutarchus Aem. 9.3: 177 Alc. 13: 234 Alc. 19.1: 229 Arist. 7.3: 233 Cim. 10.1: 151 n. 129 Cim. 10.7: 151 n. 129 Nic. 11: 234 Per. 3.4: 110 Per. 7.1: 150 n. 129 Per. 13.9: 148 Per. 16.1: 150 n. 129 Sol. 1: 95 Sol. 14.9: 96 Sol. 23.1: 244 n. 263 Sol. 32.4: 95 TG 9.5: 38 Thes. 33.3: 238 Mor. 27b: 164 Mor. 133d: 18 Mor. 467d 2: 177 Mor. 520b: 36 n. 13 Mor. 801a: 198 Mor. 992b: 245 Mor. 1103b: 78

Index locorum Pollux 2.42: 250 2.43: 109, 148 2.161: 47 4.19: 81 4.102: 63 4.106: 47 4.108: 48 4.109: 48 4.116: 249 4.128: 28 6.9: 250 6.44: 197 6.63: 70 7.49: 249 7.59: 29 7.61: 27, 29 7.71: 189 7.132: 228 7.165: 214 7.178: 89 7.179: 120 8.26: 120 9.102: 18, 173 9.103: 18, 19, 20 9.106: 99 9.108: 173 9.112: 99 10.76: 184 10.189: 207 Polyzelus fr. 4: 198, 199 fr. 5: 232, 234 Pratinas PMG 712a: 214 n. 222 Praxilla PMG 749: 129 Prolegomena de comoedia 1.97: 236 Propertius 2.9.21: 190 Proverbia Bodleiana 48: 162 717: 228 750: 201 Proverbia Coisliniana 175: 187, 188 n. 181 214: 36 397: 228

Index locorum Quintilianus Inst. 1.1.15: 125 Sannyrio fr. 11: 240 Sappho fr. 1.5: 73 fr. 1.8: 73 fr. 1.25: 73, 76 fr. 2.6: 144, 146 fr. 9.5: 180 n. 169 fr. 42: 172 fr. 63.5: 198 fr. 73a.4: 141 fr. 94.13: 144 fr. 96.11: 144 fr. 96.15: 168 fr. 105a: 144, 146 fr. 106: 170 fr. 126: 145 fr. 136: 220 n. 230 (fr.) 250F.6: 145 fr. °296: 131 scholia in Ar. Ach. 273a: 254 Ach. 671: 120 Ach. 933a: 202 Av. 160: 145 Av. 521: 104 Av. 997: 228 Eq. 963: 24 Nu. 70a: 249 Nu. 71a: 254 Nu. 540: 64 Nu. 684: 131 Nu. 922: 31 Nu. 1001: 112 Pac. 680: 232 Pl. 66: 120 Pl. 690: 84 Pl. 1085: 187, 190 Ra. 569: 234 Ve. 18: 239 Ve. 1007: 232 n. 247 scholia in Eur. Alc. 1128: 108 scholia in Il. et in Od. Il. 11.22: 238 Il. 13.627: 238

scholia in Il. et in Od. [cont.] Od. 4.84: 35 Od. 13.224: 22 scholia in Luc. 28.25: 239 41.13: 237 n. 252 scholia in Lyc. Al. 26: 190 scholia in Pind. O. 2.22: 239 scholia in Pl. Parm. 127b: 218 Reip. 402e: 218 Reip. 420e: 249 scholia in Soph. OC Arg. II: 228 scholia in Theocr. 2.74b: 249 7.70: 187 7.107: 110 scholia in Thuc. 2.93.2: 250 Simonides PMG 549.6: 137 PMG 583: 220 Solon fr. 4.19: 151 fr. 29.4: 96 fr. 60c (R.): 17 Sophocles Ai. 545: 16 Ai. 775: 110 Ant. 130: 223 El. 94: 194 El. 103: 194 El. 232: 194 El. 319: 201 OC 377: 97 OC 477: 110 OC 652b: 198 OC 1601: 87 OC 1724: 75 OC 1773: 201 OT 19: 143 OT 109: 225 OT 873: 152 OT 922: 196 OT 1346: 129 n. 100

299

300 Sophocles [cont.] Ph. 304: 102 Ph. 893: 110 Tr. 1: 97 Tr. 213: 173 Tr. 350: 198 Tr. 642: 223 Tr. 650: 157, 158 Tr. 770: 41 Tr. 1260: 174, 175 fr. 63: 63 fr. 153: 218 fr. 278: 140 fr. 314.146: 207 fr. 314.278: 198 fr. 953.1: 198 Sophro fr. 4.4: 143, 146 Stephanus Byzantius α 136: 70 α 189: 70 λ 19: 175 π 209: 36 n. 13 τ 68: 66 φ 47: 254 χ 19: 174, 175 Strabo 1.2.33: 35 1.2.34: 35 3.4.13: 11 6.1.10: 79 9.4.13: 66 10.3.18: 11 10.4.16: 76 n. 43 10.5.10: 11, 41 12.3.19: 175 12.3.20: 175 16.4.10: 32 16.4.25: 152 n. 134 Strattis fr. 3: 157 n. 143 fr. 4: 99 fr. 18: 43 fr. 23: 190 fr. 52: 53 Suda α 145: 138 n. 117 α 1835: 237 n. 252 α 2234: 120, 238

Index locorum Suda [cont.] α 4202: 154 n. 137 αι 35: 230 n. 245 β 417: 167 e n. 153 δ 200: 50 δ 1423: 31, 36 ε 2898: 171 λ 93: 104 λ 213: 66 μ 1242: 193 μ 1244: 192, 193 ν 213: 111 ξ 169: 249 ο 391: 99 ο 1075: 228 π 585: 84 π 1345: 141 π 1641: 111 π 2253: 152 σ 339: 145 σ 589: 127 υ 415: 250 φ 189: 254 φ 604: 78 φ 674: 189 ψ 127: 203 Suetonius Claud. 33: 199 Tib. 61: 201 Βλασφ. 94: 116 Βλασφ. 255: 70 Παιδ. 1.26: 19 fr. 202: 156 n. 139 Supplementum Epigraphicum Graecum 24.152: 254, 255 Synagoge lexeon chresimon Σa ε 328: 204 Σa μ 262: 192 Σa π 589: 152 Σa σ 118: 127 Σb α 486: 168 Σb α 1254: 238 Σb α 1276: 239 Σb α 1460: 243 Σb α 1651: 230 Σb α 1854: 235 Σb α 2147: 49 Σb α 2252: 154 n. 137

Index locorum Teleclides fr. 1.1: 140 fr. 7: 118 fr. 16: 229 fr. 17: 210 e n. 212 fr. 18: 151 fr. 25: 142, 144 fr. 27.1: 190 fr. 36: 209, 214 fr. 47: 148 fr. 49: 125 fr. 63: 253 Telestes PMG 806.2: 214 Theocritus 2.38: 207 2.120: 144 5.88: 144 5.121: 109 5.129: 109 7.107: 109 15.3: 250 15.77: 201 18.31: 70 26.11: 109 Theognis 701: 106 n. 73 864: 222 Theognostus Can. 700: 246 Theophilus Comicus fr. 5.2: 101 fr. 11.2: 145 Theophrastus Char. 2.4: 248 Char. 2.11: 250 Char. 16.4: 84 Char. 16.14: 110 HP 6.1.1: 145 HP 6.6.8: 146 HP 7.13.4: 110 Theopompus Comicus fr. 31.4: 121 fr. 33.2: 225 fr. 39: 74 fr. 41.1: 198 fr. 41.2: 99

Theopompus Historicus F 95: 232 F 96a: 232 F 96b: 232 n. 247, 233 e n. 248 F 110: 36 F 392: 78 Thucydides 1.4.13: 88 1.6.3: 144 1.15.2: 190 2.59: 135 2.69.1: 88 3.75.1: 118 4.39.3: 46 4.129.2: 118 5.61: 118 7.29: 118 8.65.1: 228 8.73.3: 234 8.75.2: 107 Timaeus ε 17: 204 ξ 3: 249 φ 5: 254 Timo Phliasius SH fr. 841.14: 140 Timocles fr. 17.3: 23 Tragica adespota fr. 646a.23: 137 Turpilius fr. 21: 29 Tyrtaeus fr. 4.5: 152 Valerius Flaccus Arg. 6.516: 72 Varro LL 5.103: 252 Sat. 349: 99 Vergilius Ecl. 8.80: 207 Xenopho et Ps.-Xenopho An. 4.7: 175 An. 5.5.1: 175 Ath. 3.4: 243 Cyn. 5.18: 254 Cyr. 7.2.28: 140 Cyr. 8.8.4: 107

301

302

Index verborum Zenobius vulgatus 2.17: 79 2.48: 162 2.95: 53 3.77: 230 4.18: 205 6.13: 164 6.42: 201 Zonaras (Ps.-Zonaras) Lex. 712.19: 204

Xenopho et Ps.-Xenopho [cont.] Mem. 1.2.62: 23 Mem. 3.11.13: 197 Oec. 7.3: 243 Smp. 2.1: 219 Smp. 8.15: 102 n. 69 Zenobius Athous 1.54: 53 1.58: 79

Index verborum ἀγανόφρων (ἀγανόφρονες): 140 ἀγοράζω (ἠγόραζον): 146 Ἀδμήτου μέλος: 131s. Αἴαντος πόλις (Α. πόλιν): 97 ἀίδρυτος (ἀίδρυτον): 38 αἲξ οὐρανία: 166 Αἰξωνίς (Αἰξωνίδα): 69s. αἴρω: 16 (αἶρε), 59 (ἄρασθαι) αἰσχρός (αἰσχρῶν): 37 ἀκόρεστος (ἀκορέστους): 102 ἀλέκτωρ: 222s. ἀμοργός (ἀμοργοί): 24s. ἀναγωγή: 237 ἀναφθείρομαι (ἀνεφθάρη): 240 Ἀνδροκολωνοκλῆς: 227–230 ἀνεκάς: 238s. ἀνταναγιγνώσκω (ἀνταναγνῶναι): 241s. ἀντίδοσις: 242s. ἀπάγω: 115s. ἁπαλός (ἁπαλόν): 145 ἀργυροκοπιστήρ (ἀργυροκοπιστῆρας): 80 ἀριστεροστάτης: 47s. ἀρραβών: 48s. ἀσάμινθος (ἀσαμίνθου): 122 Ἀσπασία (Ἀσπασίαν): 158 αὔρα (αὔρας): 29 αὐτόφορτος (αὐτόφορτοι): 176s. ἀφικνέομαι (ἀφικνῇ): 28 βδελυγμία: 198 βιβλιαγράφος: 178 βίοτος: 140 βόθυνος (βόθυνον): 20 Βοῦθος περιφοιτᾷ: 168

βρίκελος (βρικέλους): 16s. βροτός: 102 (βροτοῖς), 140 (βροτοῖσι), 141 (βροτῶν) γαλιδεύς: 244s. δαίμων (δαίμονες): 66 δελεάστρα: 49s. διαρρικνόομαι (διαρρικνοῦ): 64 διδάσκαλος: 213 ἐγείρω (ἔγειρε): 76 εἶδος: 225 εἶμι (ἴτω): 213 ἐκεῖνος αὐτός: 207 ἐκμάσσω (ἐκμεμαγμένος): 207 ἐκπλήσσω (ἐκπεπληγμένος): 196 ἐκπονέω (ἐξεπονήθη): 137 ἔμβραχυ: 205 ἔνδιδωμι (ἐνδώσω): 85 ἐπιφέρω: 101, 102 Ἐρεμβοί (Ἐρεμβούς): 35 ἔρχομαι: 77 (ἦλθες), 127 (ἐλήλυμεν) ἡδυλόγος (ἡδυλόγῳ): 141s. ἥκω (ἥκεις): 77 Ἥρα (Ἥραν): 158 ἵημι (ἱέναι): 20 Ἰθακήσιος (Ἰθακησία): 173 ἱμάτιον: 29 ἵστημι (ἵστω): 110 καναχέω (καναχῶν): 223 καταπνέω (καταπνεύσῃ): 29 Καταπυγοσύνη: 158 κεφαληγερέτας (κεφαληγερέταν): 152s. κήτειον: 246 Κλειταγόρα (Κλειταγόρας): 131 κνώδαλον (κνώδαλα): 116

Index verborum κριθῶν ὄχλος: 81, 83 κρίνον: 146 Κρόνος: 149s. κύλιξ (κύλικος): 121s. κυνῶπις (κυνώπιδα): 159 κύων: 107 λεκάνη (λεκάνην): 199 λόγος: 97 Λυδιστί: 214 λυχνοκαυστέω: 88s. λωποδύτης (λωποδύταις): 22, 23 μακάριος: 140, 219 μαρίλη (μαρίλης): 217 μελάνουρος (μελανούρου): 70 μέλος: 131s. (μέλος), 216 (μέλη) μετὰ Λέσβιον ᾡδόν: 171 μετέωρος: 29 μῆλον: 146 μόλις: 136s. μονῳδέω: 195 Μοῦσα: 76s. μουσική (μουσικήν): 101 μυσικαρφί: 248 μῶν: 198 ναυτοδίκαι (ναυτοδικῶν): 114s. νεοπλουτοπόνηρος (νεοπλουτοπονήρων): 36 νῦν: 76 ξιφίζω (ξίφιζε): 63 ξυστίς: 249 οἰκέω: 97 ὄλεθρος (ὄλεθροι): 26 ὁλόφωνος: 222, 223 ὄνος (ὄνοι): 99s. ὀργή (ὀργάς): 102 ὅρκος: 107 ὀρτυγομήτρα: 173 οὖθαρ: 66 παιδικά (παιδικῶν): 219 παλλακή: 158s. (παλλακήν), 219 (παλλακῆς) παρατίλτρια (παρατιλτριῶν): 213s. παρεῖαι ὄφεις: 84 παρέχω (παρασχεῖν): 205 παφλάζω (παφλάζει): 23

περισσοκαλλής (περισσοκαλλεῖς): 141 Περσικός: 222s. ποδίζω (πόδιζε): 63 πόλις δούλων (πόλιν δ.): 36s. πολύβωτος (πολύβωτον): 41 πολύτρητος (πολυτρήτοις): 42 πόντιος (ποντίαν): 41 πόρος: 23 πρεσβυγενής: 152 πρὸς ἕω: 110 προσκεφάλαιον: 250 πυρορραγής (πυρορραγές): 204 ῥόδον: 146 ῥυτά: 251–253 Σάκαι (Σάκας): 32, 34s. Σιδόνιοι (Σιδονίους): 35 σισύμβριον: 145s. σκῆψις (σκῆψιν): 126s. σκίπων (σκίπωνα): 146 σπείρω (ἐσπαρμένος): 97 σταθερός: 22s. Στάσις: 151 στόμωμα: 175 Συρία/συρία (Συρίαν/συρίαν): 28 σχῖνος (σχῖνον): 110 τεκμαρτός (τεκμαρτόν): 225s. τελενιϰίζω (τελενιϰίσαι): 51 τίλλω (τιλλουσῶν): 215 τραγῳδία (τραγῳδίας): 213 τρίγλη (τρίγλην): 69s. τρυγών (τρυγόνος): 70 τρύξ (τρυγός): 190 τύραννος (τύραννον): 152 ὕπνος (ὕπνου): 59 Φελλεύς (φελλεύς): 253–255 φέρω (ἐνεγκάτω): 199 φυή (φυήν): 70 φῴς (φῳσί): 41 φώσων (φώσωνι): 189 χαίρω: 40 (χαίρετε), 76 (χαῖρε) Χαλυβδικός (Χαλυβδικόν): 175 χήν: 107 χορός (χορῷ): 20 ψευδομαρτύριον: 179 ὡρᾴζομαι: 256

303

304

Index rerum Adonie: 211 Admeto: 129s., 131s. Agamede: 54s. Agatone: 211s., 233 Amaltea: 165s. Aminia: 13, 31, 43s. Androcle: 36s., 226s., 228–230 Andromeda: 49s. asindeto: vd. coppie Aspasia: 154s., 158 aulos, auloi: 85, 132 autoreferenzialità corale: 48, 62, 75, 127 194 brigantaggio: 22 cagna: vd. cane Calibi: 174s. cane (e cagna): 104, 105s., 159 capra celeste: 162s., 164s. Carciniti: 62 Centauri: 92s. Chirone: 91–93 Cimone: 131, 151 n. 129 Cleone: 22, 37, 45s. Clitagora: 129s. 131 concubina: 159, 184s., 218 coppie aggettivali in asindeto: 40, 223 corruzione (tentativi di): 165s. cretico: 73, 75s., 193, 195 Crono: 148, 149s. Crotone: 57, 78 danza: 18, 20, 61–64, 75, 77, 85, decreto di Morichide: 94, 136 Diitrefe: 112s., 117s. Dioniso: 181, 183, 184s., 218s. elisione: 59, 192 figlio di Pisia: 111s., 230s. Felleo (felleo): 254s. Formione: 77–79 gallo: 221s. giglio: 146 giuramento: 105s. Gnesippo: 185s., 209, 210s., 213 incubazione: 69, 84 inno: 73, 75, 76, 77

Iperbolo: 186, 231, 233s. Itaca: 172, 173 itacismo: 41, 52, 116 laudatio temporis acti: 93, 139, 143 Lebadea: 54s., 56, 66 macchina del volo: 10, 12, 13, 28 maschere: 15, 16s. mela: 144, 146 Meleto I: 211 menta acquatica: 145 metateatro: 12, 16, 48, 57, 62s., 137, 185, 194 monodia: 192–195 musica: 93, 99, 101, 130, 169s., 210–212, 214s. necromanzia: 93, 96 oca: 104, 105s., 107 Odisseo: 28, 172s. Onfale: 154s., 156 e n. 139, 214 Osfione: 117 Pandeleto: 160 Pericle: 13, 46, 93, 108s., 112, 130, 147s., 149, 150s., 152, 154, 158 Perseo: 10–12, 16, 22, 28, 50 pirateria: 87s. Pisia: 111, 112, 114, 116s. Pisistrato: 150 n. 129 Polidette: 10s., 28 Precetti di Chirone: 93, 127 quaglia: 171, 172s. rosa: 144, 145, 146 Saci: 34s. Sagra (fiume): 78s. Salamina: 95, 97 scilla: 93 Serifo: 10s., 13, 40s. serpente: 84s. sinalefe: 59 Solone: 92s., 95–97 sonno (sogno): 69 threnos: 193, 195 tribunale: 160, 234 Trofonio: 54–56, 59 vino: 189, 190