Frammenti. Opere logiche e filosofiche. Testo greco a fronte 881703861X, 9788817038614

I frammenti qui presentati appartengono a opere di logica e di filosofia. Si tratta di testi di estremo interesse per ca

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Frammenti. Opere logiche e filosofiche. Testo greco a fronte
 881703861X, 9788817038614

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Aristotele

FRAMMENTI. OPERE LOGICHE E FILOSOFICHE Introduzione, traduzione e commento di Marcello Zanatta

C L A S SIC I GR E C I E L AT I N I

Proprietà letteraria riservata © 2010 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-64893-3 Prima edizione digitale 2013 Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.rcslibri.eu

Alla cara memoria di Gustavo Bontadini

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1. I FRAMMENTI DELLA PRESENTE RACCOLTA Nel presente volume si presentano, introdotti, tradotti e commentati, i frammenti delle opere perdute di Aristotele che Ross (Fragmenta selecta) ha raccolto come frammenti di Opere logiche (Ivi, pp. 100-110) e di Opere filosofiche (Ivi, pp. 111-145). Sotto un profilo strettamente attinente all’aspetto dottrinale, non v’è dubbio che queste seconde rivestano un interesse e un’importanza maggiori, non fosse per altro se non perché vi si annoverano i frammenti dello scritto Sulle Idee e Sul bene che costituiscono due capisaldi dell’ontologia aristotelica. In essi, infatti, lo Stagirita prende posizione critica nei confronti, rispettivamente, della dottrina platonica delle Forme separate e dei principi, e queste critiche costituiscono, per così dire, le premesse a partire dalle quali si sviluppa l’interpretazione della realtà data da Aristotele. Nella Metafisica (I, 9) egli riprende le critiche delle Idee sviluppate nel Peri# ièdew^n, anzi, le richiama in modo del tutto succinto e persino allusivo, rinviando implicitamente a esse per quanto riguarda la loro formulazione completa ed esaustiva; segno palese che non soltanto le considera decisive, ma altresì perfette nella loro enunciazione. Identiche considerazioni egli mostra di avere anche nei confronti delle critiche mosse nel Peri# taègaqop alla dottrina dei princi-

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pi. Nelle Introduzioni ai due trattati e nel relativo commento ho cercato di darne informazione. Intorno a temi di natura ontologica si sviluppano anche le opere Sui Pitagorici, Sulla filosofia di Archita e Su Democrito. L’intendimento prevalente di esse – così ho inteso e in questa prospettiva mi sono sforzato di presentarle – non è né storico, né storiografico, sibbene teoretico, e la teoresi che in tutti e tre i casi interessa allo Stagirita è la concezione della realtà elaborata da quei filosofi. L’interesse – si diceva – non è storico, ossia ad Aristotele non importa tanto accertare che cosa essi hanno «veramente detto», né – ancor meno – è storiografico: trasmettere per far conoscere con sicurezza ad altri i loro pensieri. Al contrario, ciò che allo Stagirita stava a cuore nel redigere questi scritti è, per così dire, «la verità» di ciò che i filosofi chiamati in causa hanno detto. Ed è una verità che attiene innanzitutto e fondamentalmente alla dimensione ontologica. Nei relativi frammenti se ne scorgono chiari e inequivocabili indizi. In quest’ordine di considerazioni è ben comprensibile che l’inquadramento delle dottrine dei pensatori presi in considerazione avvenga entro la prospettiva e sulla base di categorie speculative proprie della filosofia aristotelica, giacché solo su questo piano, agli occhi dello Stagirita, è possibile compiere un’indagine che accerti il vero di quanto è stato proferito e non semplicemente che cosa sia stato proferito. Tra le Opere Logiche Ross ha collocato i frammenti di alcuni scritti che, stando a quella che si è tradizionalmente intesa come la «logica aristotelica», sviluppano tematiche attinenti a questa disciplina. A partire dalle Categorie, e poi in trattati dove la centralità di argomenti propri della dialettica salta subito agli occhi, non disgiuntamente da considerazioni specificamente attinenti al linguaggio. In questa chiave, diciamo così, tradizionale d’intendere gli scritti dell’Organon aristotelico non vi è dubbio che le Categorie, il De interpretatione e poi i Topici siano opere di «logica», e

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poiché i frammenti degli scritti qui in causa si connettono, direttamente o indirettamente, a questi trattati, ben si comprendono la collocazione e la qualificazione che vi ha dato l’illustre studioso. In realtà, potrebbe non essere questa la loro qualificazione più pertinente. Per molti aspetti la raccolta del Ross è la più affidabile, se non altro perché evita le posizioni ipercritiche dell’Aristoteles pseudoepigraphus, accogliendo invece le istanze molto più convincenti delle successive due raccolte del Rose, la cui numerazione dei frammenti Ross non manca di indicare accanto a quella da lui stesso fornita, così come non manca d’indicare la numerazione della raccolta del Walzer, che, pur filosoficamente assai robusta, è tuttavia molto più sintetica; e per altro verso evita gli eccessi dossografici della raccolta del Gigon, non ingiustamente fatta oggetto di alcune riserve (si veda, in particolare, Dorandi-Berti-Rossitto, La nuova edizione). Ma il clima culturale in cui ha redatto la sua edizione dei frammenti era ancora quello nel quale la dialettica veniva intesa come una logica del probabile e, dunque, di rango inferiore rispetto all’analitica. Convinzioni che nei decenni successivi gli studi aristotelici più accreditati hanno smantellato, fino a indicare (con Berti) nel metodo dialettico il momento euristico della filosofia dello Stagirita e a mettere in luce la presenza in tale metodo di aspetti per i quali esso non è soltanto «peirastico» ed «exetastico», ossia critico, ma, permettendo di conoscere il vero e il falso (sia pure in modalità differenti da quelle proprie dell’apodittica), rivela di possedere una valenza anche conoscitiva. Sotto un differente angolo prospettico – ma certamente non lungo una differente linea esegetica complessiva; anzi, in guisa di arricchimento e di ulteriore sviluppo di essa – anche l’esistenza di una «logica» aristotelica è stata messa in discussione. Mi permetto cosi di richiamare l’Introduzione all’edizione italiana delle Categorie da me redatta, dove

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mi sono sforzato di mostrare che la dottrina esposta in quest’opera costituisce un primo tassello dell’ontologia e non già, semplicemente e primariamente, della «logica» aristotelica. Ho cercato, infatti, di mostrare come per un verso tale dottrina derivi dalla critica dello Stagirita al metodo platonico della divisione – una critica intesa, questa volta, non a demolire, come nel caso delle Idee e dei principi, bensì a perfezionare e dare adeguata realizzazione alle effettive possibilità teoriche che quel metodo presenta – e, per altro verso, come essa, una volta formulata, abbia concorso in modo decisivo al rifiuto delle Idee. In senso più generale, nell’Introduzione all’edizione italiana dell’Organon ho cercato di mettere in luce come una «logica» aristotelica – ove per logica s’intenda una teoria del pensiero formale e astratto, così come venne intesa dai Medievali: scientia propter quam, la definiva Tommaso d’Aquino, homo in ipso actu cognitionis ordinate, faciliter et sine errore procedat – non esista affatto, ma quella che così viene denominata altro non sia che la definizione delle strutture e dei modi di connessione del reale, dunque un’ontologia, nel senso più pieno e più proprio del termine. Ma queste precisazioni e, in ultima analisi, questo cambio di paradigma esegetico nulla tolgono alla validità della raccolta del Ross; anzi permettono di leggere i frammenti ordinati dall’illustre studioso in una prospettiva che può anche andare al di là del quadro concettuale complessivo nel quale egli li ha sistemati. In una siffatta prospettiva sono stati qui introdotti e commentati. Se per le Opere filosofiche la questione dell’autenticità è oggigiorno assai meno acuta di un tempo, specialmente per ciò che concerne gli scritti Sul bene e Sulle idee, che, come si diceva, ne costituiscono il centro speculativo, non così stanno invece le cose per ciò che riguarda le Opere logiche. La loro paternità aristotelica è stata ampiamente, e in più casi molto pertinentemente, messa in discussione. In questa

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edizione ho preferito non insistere in modo particolare e primario su questo genere di considerazioni e rivolgere invece l’attenzione alle problematiche che si annunciano essere state affrontate in quegli scritti, considerando in quest’ottica le ragioni a favore e contro che la moderna critica storico-filosofica ha addotto in ordine alla loro pertinenza aristotelica. Così, alle questioni attinenti all’aspetto dell’autenticità – che peraltro per la maggior parte delle opere in questione è oggigiorno quasi scontato in senso negativo – ho dato soltanto alcune indicazioni attraverso opportuni rimandi e ampliando al massimo, sotto questo profilo, la rassegna bibliografica. Ho preferito, invece, concentrare gli sforzi nel mostrare che, siano state scritte o no, queste opere, dallo Stagirita, esse sviluppano in ogni caso tematiche che direttamente si riallacciano a motivi centrali e basilari della filosofia di Aristotele, epperciò (almeno) in questo senso hanno pieno titolo per essere classificate come «aristoteliche». 2. LA QUESTIONE DEI CATALOGHI

Un discorso a parte merita di essere svolto, sia pur in termini succinti, sui cataloghi delle opere aristoteliche, quei cataloghi nei quali sono indicati anche gli scritti di cui sono qui raccolti i frammenti. Dopo gli studi di Moraux (Les listes) e Düring (Aristoteles) vi è accordo pressoché unanime tra gli studiosi nel riconoscere che le opere presenti nel Corpus Aristotelicum riempivano un tempo 106 rotoli di papiro, se si conta un rotolo per ogni libro. La maggior parte di esse è costituita da corsi di lezioni, alcune sono appunti per uso personale, stesi forse per fungere da traccia per le lezioni; solo poche erano destinate con certezza direttamente alla lettura. Sebbene non sappiamo niente di preciso, dobbiamo però supporre che soltanto pochi di questi 106 rotoli furono pubblicati ed

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erano disponibili nelle «librerie» quando Aristotele era ancora vivo. Düring (Aristoteles, pp. 43-53) ritiene che Aristotele, nelle 106 opere pervenuteci, abbia fissato per iscritto tutta la sua dottrina. Ritiene, inoltre, che non abbiamo alcun fondamento per supporre che nelle numerose opere che sono andate perdute Aristotele abbia esposto opinioni diverse, o si sia occupato di settori della scienza diversi da quelli documentati dalle opere conservate. Non esiste, in questo senso, per Düring, un «Aristotele perduto». Un documento importante a riguardo è l’elenco degli scritti aristotelici tramandato nella Vita Aristotelis di Diogene Laerzio,1 il quale, come ha mostrato Düring, lo derivò dalla Vita Aristotelis di Ermippo. È chiaro che il compilatore di questo catalogo non conosceva il nostro Corpus Aristotelicum; tuttavia si possono identificare alcuni degli scritti a noi noti.2 Oltre il libro V, il redattore della lista non conosce alcun altro trattato della Metafisica, e di tutte le opere di scienza naturale conosce soltanto alcuni libri della Fisica e la Storia degli animali. Tutta la singolare storia dei manoscritti aristotelici è tratta da Strabone (XIII, 608-609), già discepolo di Tirannione. Per verificarne l’attendibilità, Moraux svolge un’analisi dettagliata dei cataloghi antichi. Quattro sono le liste antiche delle opere di Aristotele: una redatta da Diogene Laerzio (V, 22-27, dove sono menzionati 146 titoli), una seconda dall’Anonimo della Vita Menagiana (che deriva da Esichio di Mileto), altre due da due autori arabi. Nei cataloghi di Diogene e dell’Anonimo è subito rimarchevole l’assenza della maggior parte dei grandi trattati che costituiscono l’odierno Corpus Aristotelicum, mentre compaiono titoli di opere altrimenti sconosciute. Già nel 1826, Titze (Liber), anticipando Jaeger di un secolo, affermò che le grandi opere di Aristotele non furono scritte in una sola volta, ma dapprima lo Stagirita compose

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piccoli studi, talvolta pubblicati anche separatamente, che in seguito rifuse e munì di una introduzione. La lista di Diogene sarebbe, pertanto, una testimonianza relativa a questi piccoli studi originariamente indipendenti. Ravaisson (Essai, I, pp. 42-51), combinando differenti ipotesi, attribuisce una triplice origine all’abbondanza di titoli della lista. Le opere circolarono in redazioni differenti; le stesse opere potevano avere più titoli; a causa del costo elevato dei manoscritti, si evitò di ricopiare le opere per intero e alcuni libri separati furono designati con un titolo speciale che passò nei cataloghi. Lo studioso, inoltre, crede all’origine alessandrina della lista di Diogene. Valentin Rose (Commentatio, 1854), che ritiene pseudoepigrafe tutte le opere perdute comunemente attribuite ad Aristotele, afferma che la lista è opera di Andronico, il quale avrebbe così prodotto un elenco delle opere aristoteliche da costui non mai edite. Zeller (Griechen) prende posizione contro Rose: non ammette che le opere scolastiche edite da Andronico siano state escluse dalla lista, dimostrando invece che molte parti degli scritti del Corpus si trovano menzionate in essa. Heitz (Verlonen Schriften) nota, innanzitutto, che la lista è incompleta e lo stesso Diogene cita opere che in essa non compaiono. Diogene non conosce nulla del lavoro di Andronico, per cui le sue fonti devono essere più antiche, in particolare devono risalire a Ermippo, bibliotecario alessandrino. Le lacune della lista si spiegano con ciò che Strabone e Plutarco raccontano in merito alle vicissitudini dei manoscritti di Aristotele. La lista di Diogene rappresenta perciò un documento che testimonia la diffusione degli scritti aristotelici prima dell’edizione di Andronico. Jaeger considera la lista di Diogene come una testimonianza del progressivo raggruppamento in «trattati» delle pragmatei^ai aristoteliche. Ad avviso di Moraux, l’autore della lista citata da Diogene avrebbe tenuto a separare i dialoghi e le opere con essi «apparentate» dal resto della produzione di Aristotele.

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2.1 Il catalogo di Diogene e l’anonimo catalogo della Vita

Menagiana Le opere enumerate nel catalogo di Diogene contano un insieme di 445.270 linee; nello stato più antico, ricostruito da Moraux, la lista menzionava 551 libri, ciascuno dei quali doveva quindi contenere, in media, 808 linee; un libro antico contava in media un migliaio di linee. Si considerino per esempio i Topici, già editi in otto libri all’epoca della redazione della lista: nella edizione del Bekker gli otto libri contano complessivamente 4916 linee; sennonché, mentre una linea del Bekker contiene 44 lettere, uno sti@cov antico contava in media 36 lettere; le 4916 linee del Bekker corrispondono, pertanto, (4.916 x 44 : 36) a 6008 stichi antichi di 36 lettere, il che dà per ogni libro una media di 751 linee, una cifra che si accorda molto bene con quella di 808 che si è tratta dalle indicazioni date da Diogene. Il catalogo, in conclusione, non presenta alcuna lacuna importante. La Vita Menagiana di Aristotele (pubblicata per la prima volta da Egide Ménage in appendice alla sua edizione di Diogene Laerzio) termina con una lista di opere che, nella prima parte, presenta forti somiglianze con la lista riportata da Diogene. Questa vita anonima non è altro che l’articolo ˆAristote@lhv della Onomatologia di Esichio di Mileto, ma le fonti di Esichio non sono ancora state identificate con certezza. Nella prima parte (139 titoli; seconda parte, 46 titoli, alcuni dei quali presenti già nella prima; terza parte, 10 titoli di opere date come pseudoepigrafe), alla posizione 111, figura Metafusika# k‰, comprendente (in base agli studi di Jaeger) dieci libri, con l’assenza di a, D, K e L. Nel complesso, l’ordine primitivo della lista è conservato più fedelmente da Diogene. Lo studio comparato delle due liste permette a Moraux di pervenire alle seguenti conclusioni: la lista anonima non è una copia diretta di quella di Diogene e conserva un testo migliore e più com-

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pleto; inoltre, la lista anonima contiene cinque titoli assenti da quella di Diogene (fra i quali quello della Metafisica); ora, il testo di Diogene presenta una lacuna di cinque titoli nella quarta delle cinque colonne, offrendo 30 titoli in luogo dei 35 offerti da ciascuna delle altre colonne. La conclusione appare chiara: i cinque titoli in più proposti dall’Anonimo sono quelli perduti da Diogene, per cui la lista anonima non può derivare dal testo lacunoso di Diogene. Le due liste pertanto (come per primi hanno affermato Heitz e Howald) risalgono a una fonte comune, posteriore alla trascrizione del pinax in cinque colonne e il testo di Diogene è più vicino a questa fonte, anteriore all’era cristiana, conservandone più fedelmente l’ordine. L’ordine ricostruito da Moraux è il seguente: – Catalogo primitivo – Cattive copie dei titoli – Trascrizione in cinque colonne seguita da uno spostamento di posizione e da due interpolazioni – Modello comune (già errato) – Caduta di cinque titoli e leggeri errori – Confusione di cifre (prima dell’era cristiana) – Diogene – Primo correttore (circa 130 a.C., rettifica certe cifre, sopprime i doppioni, corregge dei titoli che gli sembrano sbagliati) – Aggiunta dell’appendice – Secondo correttore – Anonimo

2.2. La fonte di Diogene e dell’Anonimo

Nel XX secolo, l’attribuzione della lista ad Andronico è completamente abbandonata, mentre è Ermippo colui che dai più (Leo, Jaeger, Ross, Howald, Robin) ne è considera-

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to l’autore. Soltanto Gohlke (Aristoteles) ritiene che l’autore sia lo Stagirita, il quale avrebbe redatto contemporaneamente un testamento e la lista prima della redazione delle sue opere di filosofia naturale, in effetti assenti dalla lista di Diogene; più tardi, rifugiatosi a Calcide, avrebbe terminato i suoi lavori scientifici e avrebbe aggiornato la sua lista. In tal modo, Diogene ci avrebbe trasmesso la prima redazione della lista, mentre Esichio avrebbe conservato la seconda. Questa ricostruzione non è stata accettata da nessuno. L’esame dei testi rivela però, ad avviso di Moraux, l’impossibilità dell’attribuzione a Ermippo, giacché la grande varietà che regna nel catalogo mostra che Diogene o gli autori cui egli si ispira hanno tratto le loro informazioni da una pluralità di fonti. In realtà, Ermippo appare come un autore di curiosità piuttosto che un sapiente preoccupato di esattezza e di rigore scientifico e non sembra il soggetto adatto a intraprendere il duro e meticoloso lavoro della redazione di un indice bibliografico; tanto più che i cataloghi della biblioteca di Alessandria e i pi@nakev (che, a differenza dei cataloghi, i quali offrivano soltanto indicazioni sulla presenza di doppioni e sulla provenienza delle opere, davano anche brevi notizie sulla vita degli autori, sulla cronologia e sulla autenticità delle opere circolanti sotto i loro nomi; peraltro i Greci non stabilirono una distinzione netta fra liste bibliografiche e cataloghi di biblioteca, per cui il termine pi@nax serviva a designare tanto un catalogo che una lista bibliografica) di Callimaco gli fornivano un materiale già bell’e pronto. Inoltre, nei cataloghi alessandrini concernenti le opere di un medesimo autore, queste appaiono sempre classificate secondo un ordine alfabetico e non per materia. Rose, Bernays, Diels e Gercke fanno di Andronico l’autore della lista, ma, dice Moraux, ciò è impossibile. Innanzi tutto, verso la metà del I secolo a.C. (l’età di Andronico) si cominciano a commentare le opere esoteriche di Aristotele (risalgono a questo periodo i commenti di Boeto, Aristone

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di Alessandria e Nicola Damasceno); ebbene, se si crede che la lista sia opera di Andronico, si è costretti ad ammettere che questi commentatori conoscevano uno stato del Corpus Aristotelicum (un gran numero di []LRXL_PoLT indipendenti, molto brevi e provviste di titoli differenti da quelli che conosciamo oggi) del tutto differente da quello attestato dopo il II secolo d.C. (Aspasio, Adrasto, Erminio, Alessandro, non avrebbero mancato di sottolineare la differenza). Inoltre è certo che Andronico e i suoi contemporanei lavorarono su un Corpus Aristotelicum molto simile, se non identico, al nostro, e, in ogni caso, molto differente da quello che presenta la lista. 2.3 La vera origine del catalogo secondo Moraux La lista appare come un lavoro scientifico, opera di un uomo capace di stabilire una classificazione razionale nella enorme produzione dello Stagirita: egli si ingegna a raggruppare le opere tenendo conto, di volta in volta, del genere letterario e delle articolazioni interne del pensiero aristotelico (soprattutto utilizzando Metaph., VI, 1), classificando in posizioni diverse (in base alla norma del genere letterario) le lettere e gli hypomnemata (150, 162). Tale procedimento risulta particolarmente bene applicato nelle liste stoiche. La lista è anteriore all’epoca in cui le opere canoniche di Aristotele si trovano provviste dei loro titoli definitivi e raggruppate nel modo che oggi conosciamo; i titoli sono spesso tratti dalla frase iniziale del libro al quale si riferiscono e non sono fissi, tanto che la stessa opera riceve talvolta due o tre denominazioni diverse. L’autore appare provenire direttamente dal Liceo nella fase successiva a Licone (272/68-228/24, terzo successore di Aristotele), soprattutto per l’abbondanza nella lista di scritti di dialettica e di retorica, per la ricchezza di raccolte e collezioni scolastiche, per la concezione platonizzante della dialettica (scienza dell’es-

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sere e scienza del pensiero, metafisica unita alla logica), per la povertà della sezione riservata alla filosofia naturale, per il posto d’onore riservato ai dialoghi, per il posto minimo che tengono le opere di filosofia propriamente detta. Nella biografia di Stratone, Diogene ci trasmette il testamento di questo filosofo, citando come fonte Aristone di Ceo, successore di Licone. Di Aristone resta poco, ma la notizia di Diogene mostra la sua attività di storico del Liceo (tanto che si deve a lui anche la trasmissione dei testamenti di Aristotele, Teofrasto e Licone). Tutti e quattro i testamenti facevano parte di un storia del Peripato (utilizzata da Apollodoro nella metà del II secolo a.C. per le indicazioni relative alla cronologia di Epicuro), nella quale figuravano notizie biografiche e liste di scritti. Appare dunque che Aristone, scolarca del Liceo nell’ultimo quarto del III secolo a.C., è colui che ha redatto la lista. 2.4 Il catalogo di Tolomeo È posteriore ad Andronico (giacché presenta un Corpus Aristotelicum molto simile a quello odierno) ed è stato trasmesso da due Arabi dell’inizio del XIII secolo: nella sua Cronaca dei Sapienti, Ibn al Qifti (1172-1248) dà una lista delle opere di Aristotele (traducendo e traslitterando dal greco); la medesima lista è riprodotta nella Storia dei Medici di Ibn Abi Useibi’a (morto nel 1236), che si basa su una versione non direttamente greca, ma siriana. I due testimoni arabi citano come autore del catalogo che riproducono, un certo Tolomeo el Garib (lo Straniero), che distinguono esplicitamente dall’autore dell’Almagesto. Questo Tolomeo è menzionato nella Vita Marciana e nella Vita Latina, come autore che avrebbe riprodotto il testamento di Aristotele e redatto la lista dei suoi scritti. Dovrebbe trattarsi di Tolomeo Chennos (seconda metà del I secolo d.C.), laddove Ce@nnov sarebbe stato confuso con Xe@nov e tradotto, di conseguenza, lo Straniero.3

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La maggior parte delle opere che figurano nella prima parte (1-25: dialoghi e altri scritti perduti) si riscontrano anche nella lista di Aristone; fra le opere non presenti nel catalogo di Aristone è da segnalare qui la presenza del peri# tw^n aèto@mwn grammw^n g ¿ (il De lineis insecabilibus). Segue la parte dedicata agli scritti “sintagmatici”, cioè ai trattati che noi possediamo ancora (25 b-49), fra i quali è presente un peri# tw^n meta# ta# fusika# ig ¿ (in tredici libri: probabilmente a non è contato separatamente da A). La fonte di Tolomeo è con ogni probabilità lo stesso Andronico, anche se Tolomeo ammette, nell’Organon, il De Interpretazione che invece Andronico rigetta come apocrifo. 3. CONCLUSIONI SULLA SORTE DELLE OPERE SCOLASTICHE DI ARISTOTELE

L’esame del catalogo di Diogene permette a Moraux di affermare che molte delle opere “esoteriche” esistevano (e, presumibilmente, circolavano) a Atene fra il III ed il II secolo a.C.; senza dubbio non si trattava dei manoscritti originali di Aristotele (sempre che questi siano mai esistiti), ma di copie effettuate sia sugli appunti del Maestro, sia sulle note prese dai discepoli durante i corsi. Dell’attuale Organon, sono presenti gli Analitici, Priori e Posteriori, i Topici, le Confutazioni Sofistiche, mentre interpolati in posizione insolita risultano le Categorie e il De Interpretatione; delle opere pratiche e poetiche, risultano presenti una Etica in cinque libri (probabilmente l’attuale Etica Eudemia), la Politica, la Retorica e la Poetica; delle opere fisiche, sono sicuramente riconoscibili la Historia animalium e, forse, alcuni libri della Fisica. Il caso più complicato è quello rappresentato dalla Metafisica, probabilmente presente, però, nella lacuna della quarta colonna. D’altronde, il nome stesso di “metafisica”, del quale si crede di trovare menzione in Nicola Dama-

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sceno, è anteriore ad Andronico. Jaeger (Studien, 177-181) ha ragione, contro Bonitz e Zeller: il numero dei libri (10) fedelmente conservato dall’Anonimo indica che Aristone conosceva uno «stato» della Metafisica anteriore all’aggiunta di a, D, K e L (peraltro, il libro D è presente nel pinax al numero 36 sotto il titolo di peri# tw^n posacw^v legome@non Ô kata# pro@sqesin a‰; lo stesso Aristotele lo cita a più riprese come peri# tou^ posacw^v, precisamente in Metaph., E 4, 1028 a 4-6; Z 1, 1028 a 10-11; I 1, 1052 a 15-16). Nel catalogo di Diogene tale Metafisica era situata fra le opere matematiche e quelle ipomnematiche. L’ordine della sezione teoretica è, pertanto, il seguente: fisica, matematica, metafisica. È il medesimo ordine suggerito da Metaph., E 1. L’appellativo di Metafisica non trae dunque origine dalla posizione nella classificazione operata da Andronico. Simplicio (In Phys., I, 17-21) afferma che il nome di metafisica proverrebbe dal fatto che questa scienza si occupa degli oggetti transfisici, ma l’affermazione appare viziata da chiaro neoplatonismo. Alessandro (In Metaph., 171, 5-7) e Asclepio (In Metaph., 1, 12-22) si avvicinano senz’altro maggiormente alla verità quando cercano di giustificare l’ordine fisica-metafisica attraverso considerazioni didattiche, spiegando che la faiblesse del nostro spirito ci porta a cominciare dallo studio delle cose imperfette e seconde, oggetto della fisica, per passare in seguito a quello degli enti perfetti e primi, oggetto della filosofia prima; è dunque in rapporto a noi che questa viene dopo la fisica e merita il nome di meta# ta# fusika@. 4. LE VICISSITUDINI DELLE OPERE ARISTOTELICHE

V’è da considerare, però, che la biblioteca di Aristotele costituiva una sua proprietà personale; dopo la morte di lui, Teofrasto ereditò i libri del maestro, e a sua volta nel suo testamento fece un legato di tutta la sua biblioteca, inclusi i

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libri già di Aristotele, a Neleo (figlio di Corisco), il quale, già settantenne e ultimo superstite della piccola cerchia di amici personali di Aristotele, vendette oppure donò la parte più cospicua del lascito alla biblioteca di Alessandria (Tolomeo Sotèr aveva cercato di persuadere Teofrasto a trasferire la sua scuola ad Alessandria; Stratone e Demetrio si recarono ad Alessandria, dove Stratone assunse la responsabilità dell’educazione del giovane Filadelfo, mentre Demetrio collaborò all’organizzazione del museo e della biblioteca), lasciò Atene e ritornò alla sua città di origine, Scepsi, portando probabilmente con sé soltanto gli esemplari d’uso personale del suo antico amico: questi manoscritti originali rimasero là per circa 200 anni. Se vogliamo prestare fede alla tradizione antica, dobbiamo ammettere che il Peripato non possedeva alcuna vera biblioteca di scuola; naturalmente Stratone e i suoi successori Licone e Aristone avevano alcune copie personali di certe opere di Aristotele e di Teofrasto, ma la biblioteca era sempre di proprietà dello scolarca. In base a queste considerazioni è, a parere di Düring, più verosimile che il catalogo delle opere che si trova in Diogene sia un semplice inventario delle opere aristoteliche reperibili e possedute dalla biblioteca di Alessandria. Si può pensare che questo inventario sia stato compilato dopo che la biblioteca di Teofrasto giunse ad Alessandria (il suo incendio è probabilmente del 270 d.C., con 40.000 rotoli di papiro distrutti dalle fiamme); questo spiegherebbe perché manchino molti degli scritti didattici a noi noti, quelli, cioè, che Neleo aveva portato con sé a Scepsi. Attraverso Eudemo molte opere aristoteliche giunsero a Rodi. Anche Prassifane, uno scolaro di Teofrasto, era rodio; più tardi a Rodi troviamo Ieronimo, Panezio e Posidonio, che nelle loro opere mostrano sicura conoscenza di Aristotele. Ancora al tempo di Cicerone, Aristotele non era molto letto (Cicerone, Top. 3: qui ab ipsis philosophis

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praeter admodum paucos ignoraretur). Il primo greco che lo annovera espressamente fra i grandi filosofi è Dionisio di Alicarnasso (in un passo scritto dopo il 20 a.C.), presso il quale troviamo anche per la prima volta una citazione aristotelica che rimanda all’edizione romana di Andronico. All’inizio del primo secolo a.C., Apellicone, nato a Teo, ma cittadino ateniese, ricco e bibliofilo (tanto da rubare dall’archivio pubblico gli originali degli antichi deliberati popolari), comprò dagli eredi di Neleo i manoscritti di Aristotele, facendone fare nuove copie e mettendole a disposizione del circolo peripatetico di Antioco. Espugnata dopo un lungo assedio Atene nell’86, Silla trasferì a Roma anche la biblioteca di Apellicone. Lo stesso fece Lucullo, che portò a Roma, insieme a diverse opere provenienti dalle biblioteche dell’Asia Minore, il dotto Tirannione, il quale mise insieme una biblioteca di 30.000 rotoli. Cicerone menziona spesso Tirannione e, per suo tramite, egli conobbe almeno qualcuna delle opere di scuola di Aristotele (nell’Hortensius del 45 scrive che magna etiam animi contentio adhibenda est esplicando Aristotele si legas). Il figlio di Silla morì nel 46, e da quel momento la grande biblioteca passò in custodia a Tirannione. Scolaro di Tirannione era Andronico di Rodi, il cui arrivo a Roma è posteriore alla morte di Cicerone (il quale non ne fa alcuna menzione). L’edizione di Andronico deve essere stata approntata fra il 40 e il 20 a.C. e, in breve, si diffuse tanto da soppiantare del tutto quelle che erano nei tempi precedenti le fonti principali per la conoscenza di Aristotele, cioè i dialoghi, i quali caddero in oblio. La testimonianza più importante sull’edizione romana si trova in Porfirio. Quando costui dovette ordinare e pubblicare gli scritti del suo maestro Plotino, si trovò di fronte a un compito simile a quello di Andronico. Il suo materiale si presentava come una serie di manoscritti di lezioni prive di titolo; egli dunque prese a modello Andronico, la cui edi-

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zione di Aristotele gli era ben nota. Di Andronico ci dice questo: “egli riunì i testi concernenti lo stesso tema, in modo che formassero un’opera, e divise così in libri (pragmateiai) gli scritti di Aristotele e Teofrasto” (Vita Plot., 24, 6-11). L’ordinamento materiale degli scritti del nostro Corpus Aristotelicum risale così ad Andronico, il quale scrisse anche un’introduzione alla sua edizione,4 in cui discuteva la disposizione della materia. A fondamento della sua attività di editore sta una concezione della filosofia aristotelica che fondamentalmente non è aristotelica, bensì schiettamente ellenistica. Egli si aspettava cioè di ritrovare in Aristotele ciò che era tipico della filosofia del tempo suo: un sistema filosofico unitario. Per Aristotele, invece, la parola pragmateia indica un campo del sapere e un’attività intellettuale, mentre per Strabone e Andronico indica un libro; Andronico dunque riunì le lezioni aristoteliche in pragmateiai: ecco perché la Metafisica e la Fisica non possono essere considerate delle “opere”. Con la sua edizione Andronico offrì un’immagine nuova di Aristotele come filosofo. Fondamentalmente Aristotele era un pensatore problematico e un creatore di metodi; aveva certo una forte tendenza sistematica, ma ciò a cui mirava era una sistematica dei problemi: cercava cioè sempre di inquadrare il problema particolare in un ambito più vasto. Anche nell’analisi e nella classificazione delle osservazioni e dei dati di esperienza all’interno di diversi campi della scienza tendeva sempre a una costruzione di pensiero logicamente ineccepibile. Nell’esposizione di risultati già conseguiti non di rado impiega il metodo deduttivo; nelle parti della sua opera di questo tenore, come nel De caelo, la sua esposizione suscita forse un’impressione di dogmatismo. Ma nella maggior parte dei casi egli conduce una ricerca e considera i pro e i contro in un incessante dialogo con se stesso. Era fondamentalmente convinto del fatto che i diversi campi della scienza richiedono diversi metodi, e

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che per conseguenza lo scienziato deve sempre ricercare nuovi principi. Questa varietà delle archai è un’essenziale caratteristica della filosofia aristotelica, ed è quindi assolutamente impossibile trovare in Aristotele un sistema concluso, se si intende con questo termine una filosofia che esponga un edificio dottrinale ben connesso e fondato su un concetto di unità. In realtà, fu Andronico a fondare con la sua edizione la credenza che Aristotele avesse voluto costruire un compiuto sistema filosofico e per l’influenza della magistrale presentazione di Eduard Zeller questa convinzione continuò a prevalere ancora sino agli inizi del XX secolo. Inoltre, Andronico assunse da Antioco l’idea, che poi sviluppò ulteriormente, secondo cui Aristotele negli scritti di scuola espose teorie diverse da quelle contenute negli scritti destinati alla pubblicazione; veramente Antioco aveva soltanto rilevato la differenza di stile fra le opere di etica (quando Cicerone parla di eèxwterikoi# lo@goi, conosce soltanto i passi delle opere di etica in cui ricorre questa espressione) e i dialoghi; ora, Andronico identificò gli exoterikoi logoi con i dialoghi, e ritenne che soltanto gli scritti “acroamatici” fossero le fonti della vera filosofia di Aristotele. V’è in questa impostazione un granello di verità, in quanto nei dialoghi Aristotele permette che si esprimano le più diverse vedute, mentre nei corsi parlava sempre soltanto lui. Nelle scuole neoplatoniche della tarda antichità si interpretava questo fatto nel senso che Aristotele avesse esposto negli scritti di scuola una dottrina esoterica, vale a dire una dottrina occulta, riservata alla sua propria scuola. Gli studiosi del nostro tempo che sostengono la tesi che Aristotele nel Protreptico e nei dialoghi espose un’«altra» filosofia,5 hanno ridato vita alle opinioni di Antioco e di Andronico, e le hanno sempre riempite di contenuto nuovo. L’edizione di Andronico segna l’inizio dell’aristotelismo; per la prima volta, circa 300 anni dopo la sua morte, le ope-

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re di Aristotele erano accessibili in una forma che consentiva una visione complessiva della sua filosofia. Nell’interpretazione di questi scritti ci si trovò però subito di fronte a grosse difficoltà; non v’era stata una continuità come nella scuola platonica; gli scritti erano redatti in una lingua e in uno stile al quale, in quel tempo, si era completamente estranei. Per soddisfare le esigenze del tempo, inoltre, la filosofia di Aristotele doveva essere trasposta in un’esposizione sistematica, perché ci si interessava innanzi tutto al contenuto dottrinale e non all’impostazione dei problemi e alla loro discussione come tali. Fu quindi compito naturale della generazione successiva divulgare Aristotele mediante parafrasi e spiegarlo per mezzo di commentari.

Note 1. Quella di Diogene Laerzio, risalente al III sec. d.C., è la biografia di Aristotele più antica che ci è pervenuta. Diogene, però, «utilizzò una vita di Aristotele scritta verso la fine del III sec. a.C., o da Aristone di Ceo, che fu scolara nel Peripato in quel periodo, (...) oppure da Ermippo, che visse nello stesso tempo e fu bibliotecario di Alessandria. Comunque Diogene Laerzio utilizzò la cronologia dello Stagirita indicata nelle Cronache di Apollodoro, da lui espressamente menzionate, uno storico vissuto ad Atene nel II sec. a.C.» (Zanatta, Introduzione, cit., p. 4). 2. Il numero 36 è Metaph., D; il 38 può essere una delle Etiche; 49-50 i primi e gli Analitici Posteriori; 55 un’edizione dei Topici in sette libri; alcuni libri dei Topici sono elencati come opere singole; il 74 può essere Pol. VII-VIII, il 75 la nostra Politica; il 78 Reth. III; 4145, 90, 91, 115 possono essere trattati singoli della nostra Fisica; il 102 un’edizione delle Storie degli animali in nove libri; 142-143 le Categorie e il De Interpretatione. 3. Secondo la maggior parte degli studiosi (in proposito mi permetto di rinviare a Zanatta, Lineamenti, p. 5), oggigiorno si propende a individuare tale Tolomeo in un neoplatonico della scuola di Giamblico, del IV sec. a.C. 4. Porfirio la cita come Diai@resiv tw^n èAristotelikw^n suggramma@twn, poiché a lui interessa il principio dell’ordinamento delle opere;

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Simplicio parla di uno scritto Peri# A è ristote@louv bibli@wn, Gellio dice Liber Andronici philosophi. Secondo la Vita Marciana, che risale a Tolomeo el Garib, il libro di Andronico conteneva i pi@nakev, cioè il catalogo delle opere, e il testamento. Nessuna fonte antica fa menzione di una biografia, e il nome di Andronico non è mai citato in relazione a una notizia biografica. 5. «In ogni caso l’eterodossia di questi scritti è un fatto incontestabile»: così scrive Jaeger, Aristotele, p. 35.

BIBLIOGRAFIA

RACCOLTE DEI FRAMMENTI

Gigon, Fragmenta = Aristotelis opera, vol. III: Librorum deperditorum fragmenta collegit et adnotationibus instruxit O. Gigon, Berolini 1987. Rose, Commentatio = Rose V., De Aristotelis librorum ordine et auctoritate commentatio, Berolini 1854. Rose, Pseudoepigraphus = Rose V., Aristoteles pseudoepigraphus, Lipsiae 1863. Rose, Librorum fragmenta = Aristotelis qui ferebantur librorum fragmenta, Scholiorum in Aristotelem Supplementum. Index aristotelicum, curavit V. Rose, in Aristotelis opera, edidit Akademia Borussica, vol. V, Berolini 1870 (indicato nella raccolta di Ross con la sigla R2). Rose, Fragmenta = Aristotelis qui ferebantur librorun fragmenta, collegit V. Rose, Lipsiae 1886 (indicato nella raccolta di Ross con la sigla R3). Ross, Fragmenta selecta = Aristotelis, Fragmenta selecta, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W. D. Ross, Oxford, Clarendon Press 1955; reprinted lithographically 1958. Walzer, Dialogorum fragmenta = Aristotelis dialogorum fragmenta, in usum scholarum selegit R. Walzer, Hildesheim, Georg Olms Verlagbuchandlung 1963 (indicato nella raccolta del Ross con la sigla W).

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BIBLIOGRAFIA

STUDI CRITICI

Düring, Aristoteles = Düring I., Aristoteles. Darstellung und Interpretation seines Denkens, Heidelberg, Winter 1966; tr. it. di P. L. Donini, Aristotele, Milano, Mursia 1976. Gohlke, Aristoteles = Gohlke P., Aristoteles und sein Werk, Paderbon 1948. Heitz, Verlorenen Schriften = Heitz E., Die verlorenen Schriften des Aristoteles, Leipzig, Teubner 1865. Jaeger, Aristotele = Jaeger W., Aristoteles. Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlin 1923; tr. it. di G. Calogero, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, Firenze, La Nuova Italia 1935. Moraux, Listes anciennes = Moraux P., Les listes anciennes des ouvrages d’Aristote, Paris 1951. Ravaisson, Essai = Ravaisson F., Essai sur la Métaphysique d’Aristote, 2 voll., Paris, Librarie de Joubert Editeur 1846. Titze, Liber = Titze, F. N., De Aristotelis operum serie et distinctione liber singularis, Berolini 1926. Zanatta, Introduzione = Zanatta M., Introduzione alla filosofia di Aristotele, Milano, Rizzoli 2010 Zeller, Griechen = Zeller E., Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Leipzig, G. R. Reisland, 1892 e ss. AVVERTENZA

La traduzione è stata condotta sul testo stabilito da Ross (Fragmenta selecta), che si produce a fronte.

PARTE PRIMA OPERE LOGICHE

TESTIMONIA

TESTIMONIANZE

Alex. Aphr., In Arist. Top., p. 5, 17-19: della cosiddetta dialettica Aristotele ha trattato anche in altri libri, ma soprattutto in quelli che s’intitolano Topici. Alex. Aphr., In Arist. Top., p. 27, 11: oppure si può chiamare esercizio l’argomento confutativo portato contro ciascuna delle due parti. Una tale specie di argomenti era abituale a coloro che diedero inizio alla dialettica [...] 14-18: ma quando fu aggiunta una tesi, esercitando in vista di essa quella parte di sé che è atta a trovare gli argomenti confutativi, argomentavano confutativamente costruendo e demolendo mediante opinioni notevoli ciò che era oggetto della disputa. E vi sono libri siffatti scritti da Aristotele e da Teofrasto, indicanti come portare l’argomentazione confutatoria alle posizioni contrarie mediante opinioni notevoli. Elias, In Arist. Cat., p. 133, 91-17: pertanto è autentico [...] sulla base del modo di esporre [...] e dell’aver esso dato conto agli esegeti attici. Ché, essendo stati trovati nelle antiche biblioteche quaranta libri degli Analitici e due delle Categorie, essi scelsero quattro soltanto degli Analitici e uno solo delle Categorie. Theon., Prog., 2, p. 165: in Aristotele e in Teofrasto è possibile assumere i modelli di come esercitarsi nelle tesi. Infatti, i loro libri scritti in merito alle tesi sono molti.

SUI PROBLEMI

INTRODUZIONE

1. Lo scritto Sui problemi (Peri# problema@twn) è indicato, in un libro, al n. 51 del catalogo di Diogene Laerzio e al n. 21 del catalogo di Tolomeo, come composto in tre libri.1 Ad avviso di Moraux (Listes, p. 88) lo scritto, che non ha niente in comune con i Problh@mata andati persi di Aristotele, né con la collezione a suo vedere pseudoaristotelica di problh@mata, è in ogni caso un’opera in cui si esponevano alcuni problemi e se ne indicava la soluzione. Proprio quest’ultima annotazione ci permette di incanalare la ricerca lungo una linea per la quale, attenuando il giudizio dell’illustre studioso, ove si mostrasse che i «problemi» sollevati in questo scritto trovano precisi riferimenti dottrinali in Aristotele, così da potersi complessivamente qualificare come aristotelici, e parimenti che le soluzioni proposte ruotano in quest’orizzonte, allora esso, se non può certamente dirsi aristotelico quanto alla redazione, è tuttavia presumibile che sia opera di un Peripatetico, allievo diretto di Aristotele, del quale raccoglie ed espone importanti questioni, con le relative soluzioni. È esattamente ciò che un’attenta lettura pone in chiaro nel frammento raccolto da Ross. 2. La distinzione tra il metodo dialettico e il metodo apodittico o scientifico, cui si fa riferimento nella prima parte del

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OPERE LOGICHE

frammento, non ha soltanto carattere aristotelico, ma rappresenta addirittura uno dei capisaldi della teoria aristotelica sui tipi di argomentazione. Ed è appena il caso di richiamare la nota distinzione per la quale la dimostrazione (aèpo@deixiv), ossia l’argomentazione propria della scienza, tanto da essere chiamata altresì sillogismo scientifico, è quel sillogismo le cui premesse sono proposizioni «vere, prime, immediate, più note, anteriori e cause della conclusione» (Anal.Post., I, 2, 71 b 21-22); in quanto «vere», esse costituiscono determinatamente o una o l’altra parte della contraddizione, mentre le premesse del sillogismo dialettico, essendo concesse dall’interlocutore, possono essere indifferentemente una delle due parti della contraddizione; inoltre sono costituite da «opinioni notevoli (eòndoxa)» o da enunciati che immediatamente discendono da un’opinione notevole. 2.1 La stessa questione a proposito della quale ci si domanda se vada trattata con metodo dialettico o con metodo scientifico, avvertendo che questo secondo sembra quello adatto, benché non costituisca una di quelle che sono specificamente trattate nei Problemi, è però nell’ordine di quelle che si affrontano in questo scritto, per cui si può ben dire che il suo carattere è aristotelico o, comunque, che il contesto dottrinale e culturale in cui si colloca è quello delle ricerche scientifiche che si svolgevano nel Peripato aristotelico. 3. Nel frammento si accenna poi al fatto che il metodo dialettico si usa anche nelle trattazioni di fisica e di etica. Nell’odierno panorama degli studi aristotelici, caratterizzato dalla rivalutazione della dialettica (in proposito si veda, tra gli altri, Berti, La dialettica), forse nessun rilievo più di questo può considerarsi del tutto pertinente e congruo con la dottrina aristotelica.

SUI PROBLEMI

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3.1 Che la dialettica intervenga, in generale, anche nelle questioni scientifiche è ciò che lo Stagirita espressamente afferma attribuendole, oltre a un uso privato, per il quale essa costituisce un formidabile esercizio (gumnas…a), e a un uso pubblico, per il quale essa rende abili nel discutere «negli incontri (™nteÚxeij)», ossia nei dibattiti politici e nei dibattimenti giudiziari, anche un uso per il quale è utile «in rapporto alle scienze filosofiche (pro#v ta#v kata# filosofi@an eèpisth@mav)», ponendosi come strumento insostituibile, per un verso, là dove ci si trovi in presenza di due asserzioni opposte di ugual forza probante, di modo che si determina una situazione di arresto della ricerca. Qui interviene la dialettica, mettendo in atto quel procedimento diaporematico (diaporh^sai, letteralmente «sviluppare le difficoltà») consistente nel dedurre le conseguenze di entrambe le proposizioni, onde accertare se ve ne siano alcune che configgono con se stesse o con la proposizione da cui sono derivate. Tale proposizione viene considerata allora falsa e, di conseguenza, l’altra proposizione vera, trovando così la ricerca uno sblocco e una via d’uscita dalla situazione di stallo in cui era incappata. In effetti, l’esito di tale procedimento è la capacità di «vedere più facilmente il vero e il falso» (Top., I, 2, 101 b 35-36), testimoniandosi in questa considerazione la capacità anche conoscitiva della dialettica, dal momento che la verità è dimensione del conoscere. Ma si tratta di una conoscenza che è, per così dire, frutto di un accertamento, non di un’inferenza dimostrativa. Per altro verso, l’utilità della dialettica «in rapporto alle scienze filosofiche» si attesta a proposito dell’asseverazione dei principi di ogni scienza, i quali, essendo proposizioni prime, non possono essere dimostrati, ossia dedotti da altre proposizioni più originarie, ma la loro verità può essere comprovata soltanto sottoponendo a esame le opinioni espresse in proposito, a partire dagli œndoxa, e primariamente mediante la confutazione delle opinioni che li negano.

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3.2 Che, in particolare, la dialettica svolga una funzione insostituibile ed essenziale nelle trattazioni di fisica e di etica è ciò che traspare alla lettura dei relativi scritti aristotelici. Già Wieland (Fisica) aveva ricostruito i contenuti dottrinali della Fisica facendo vedere come Aristotele proceda per lo più a determinarli in rapporto oppositivo a Platone, avvalorando così, di fatto e di diritto, l’uso della dialettica nell’ambito di questa disciplina. Berti, poi, ha messo in chiaro come sulle procedure proprie del metodo dialettico si costruiscano le argomentazioni della Fisica (Berti, Ragioni, pp. 86 ss.). Per parte mia, proseguendo il discorso, in più occasioni ho cercato di mostrare come la dialettica intervenga nell’esame delle principali questioni oggetto della fisica (cfr. Zanatta, Statuto epistemologico; Zanatta, Fisica, Introduzione, pp. 34 ss.; Zanatta, Natura). 3.3 Ma anche la sua importanza nell’ambito dell’etica è espressamente attestata da Aristotele. In un rilievo di carattere metodologico di Eth. nic., VII, 1 (1145 b 2 ss.), prima di iniziare l’esame dell’intemperanza e dell’incontinenza egli afferma che, come nel caso delle altre argomentazioni di carattere etico, anche in quella presente si sarà raggiunta una sufficiente dimostrazione (dedeigmšnon ¨n e‡h ƒkan~wv) se, dopo aver esposto i fainÒmena, ossia i punti di vista, si sviluppano i problemi, ossia si esaminano diaporeticamente gli argomenti pro e contro (diaporÁsai) e, rifiutando gli aspetti insostenibili, si mostra la verità di tutte le opinioni notevoli (œndoxa) espresse in merito (deiknÚnai p£nta t¦ œndoxa perˆ taàta t¦ p£qh), e se non proprio di tutte, della maggior parte e delle più importanti. Come chiaramente si può dunque osservare, non si tratta di null’altro se non della prima possibilità dell’uso scientifico o filosofico della dialettica. Uso che, essendo atto a fornire una «sufficiente dimostrazione», si conferma provvisto di capacità anche conoscitiva, in quella che è la sua stessa attitudine «peira-

SUI PROBLEMI

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stica» o saggiativa, e manifesta di essere il metodo proprio anche delle scienze pratiche. 4. Mette conto, infine, richiamare i puntuali riferimenti alla dottrina degli Analitici che compaiono alla fine del frammento. Quello ai quattro problemi della ricerca è addirittura testualmente specifico (cfr. la nota n. 3). Quello alla non pertinenza della ricerca del «perché è» e del «che cos’è» alla dialettica richiama espressamente la ricerca delle cause e dell’essenza, che non è compito della dialettica, bensì dell’eèpisth@mh indagare.

FRAGMENTA

FRAMMENTI 1 (R2 199, R3 112)

Alex. Aphr., In Arist. Top., p. 62, 30: si può porre la questione sotto quale genere di problemi saranno ricondotti i problemi del tipo seguente: perché la pietra chiamata magnete attira il ferro e qual è la natura delle acque divinatorie. Sembra, infatti, che queste non si riconducano sotto nessuna di quelle date. Oppure, questi problemi non sono neppure dialettici, ma il discorso verte su di essi e le divisioni hanno essi a oggetto2 [...] p. 63, 11-19: ma esistono i problemi fisici proposti in questo modo, come s’è detto nello scritto Sui problemi. E infatti quegli enti, che sono fisici, dei quali si ignorano le cause, costituiscono dei problemi fisici. Tuttavia anche in merito ad argomenti fisici si originano problemi dialettici, come pure, dunque, in merito ad argomenti etici e ad argomenti logici, ma gli uni sono dialettici perché disposti in questo modo, gli altri sono fisici perché disposti in quest’altro. E tutti i problemi dialettici si possono ricondurre alla ricerca del «che è» e del «se è», i quali sono due dei quattro di cui ha parlato all’inizio del secondo libro degli Analitici secondi.3 Infatti, «perché è» e «che cos’è» non sono problemi dialettici.4

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Note 1 È da far presente che nella prima parte di questo catalogo così com’è attualmente (1-25) compaiono dialoghi e altri scritti perduti. Una interessante ricostruzione del catalogo è stata effettuata da Baumstark (Syrien), per il quale l’ordine originario del catalogo corrisponde esattamente a quello delle divisioni conosciute dai commentatori greci. Littig (Andronikos), dal canto suo, ha ritenuto che gli scritti non dialogici presenti nella prima parte erano originariamente elencati in ordine alfabetico. Si trattava sempre di scritti ipomnematici di dubbia autenticità, ai quali sarebbero stati aggiunti alcuni dialoghi in seguito a un’interpolazione. Un correttore, ritenendo che alcune opere del catalogo che Tolomeo aveva contestato (gli aèntilego@mena) in realtà fossero opere autentiche, le avrebbe collocate in blocco dove si trovano attualmente. Moraux (Listes, p. 300) ha contestato questa riscostruzione, opponendo che soltanto il Peri# problema@twn g èe il Mhcanikw^n problema@twn b èpossono essere classificati con certezza tra le opere ipomnematiche. Sulla qualificazione di «ipomnematiche» data dagli antichi commentatori ad alcuni scritti di Aristotele e su quali opere dello Stagirita furono così indicate si veda la nota n. 1 degli Appunti. 2 Ossia, non sono materia di discussione (tale mi pare il significato di «dialettici»), bensì di argomentazione e di classificazione (tale mi sembra il senso, rispettivamente, di «discorsi», lo@goi, e di «divisioni»). Altrimenti detto: i problemi quali quelli qui presi in considerazione sono oggetto di analisi scientifica, scandita in argomentazioni e in classificazioni, e non di discussioni intese a dibattere se essi debbano o no essere indagati scientificamente e, in caso affermativo, a quale scienza spetti la relativa indagine. 3 Cfr. An. po., II, 1, 89 b 23-24: «gli argomenti che sono oggetto di ricerca, sono uguali di numero a quanti conosciamo. Cerchiamo quattro cose: il “che”, il “perché”, “se è”, “che cos è”». 4 Giacché concernono, rispettivamente, la causa e l’essenza, e il ricercare le cause e il definire l’essenza non appartengono alla dialettica, bensì all’eèpisth@mh.

DIVISIONI

INTRODUZIONE

Le Divisioni (Diaire@seiv, Divisiones) sono state tramandate in quattro testi, uno dei quali è costituito dalla parte finale della Vita di Platone di Diogene Laerzio (III, 80-109), mentre gli altri tre sono, rispettivamente, il codice Marciano greco 257, edito da Mutschmann nel 1906 assieme alle divisioni di Diogene Laerzio (cfr. Mutschmann, Divisiones), il codice Parigino 39, scoperto da Boudreaux nel 1909 (cfr. Boudreaux, Un nouveau manuscrit) e il codice di Leida Q 11, portato alla luce come fonte dello scritto da Moraux nel 1977 (cfr. Moraux, Témoins). Di questi testi, quello più completo e, per più aspetti, più esaustivo è senza dubbio quello del codice Marciano, il quale ai ff. 251-254 riporta un corpo di 69 divisioni con titolo di Divisioni di Aristotele (Diaire@seiv ˆAristote@louv), mentre il codice parigino ai ff. 168-172 reca 39 divisioni, raccolte sotto il medesimo titolo di Divisioni di Aristotele (Diaire@seiv ˆAristote@louv) e il codice di Leida ai ff. 92-96 ne presenta 61 col titolo di Sulle divisione (Peri# diaire@sewv). Le divisioni tramandate da Diogene Laerzio sono in numero di 32, e a motivo della loro collocazione non portano alcun titolo. Va tuttavia segnalato che il dossografo nel suo catalogo delle opere di Aristotele indica in tre luoghi scritti riguardanti le divisioni, con titoli diversi e in un numero

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diverso di libri. Così in V, 23, 6 e in V, 24, 25 riporta uno scritto intitolato Atto a dividere, in un libro (Diairetiko@n a @) e in V, 23, 4 riferisce di un’opera intitolata Divisioni, in 17 libri (Diaire@seiv iz @). Ascrive altresì allo Stagirita un trattato sulle Divisioni sofistiche in quattro libro (V, 22, 21: Diare@ seiv sofistikai@ a )@ e un altro sulle Divisioni degli entimeni in un libro (V, 24, 19: ˆEnqumhma@twn diaire@seiv @a ¿). Inoltre, a uno scritto di Aristotele sulle divisioni fa implicitamente riferimento Alessandro di Afrodisia nel commento ai Topici parlando di «divisione dei beni» (eèn ga#r th^j aègaqw^n diaire@sei), e delle Divisioni di Aristotele dà testimonianza Simplicio nel commento alle Categorie. Il primo dei due passi, già presente come fr. 113 in Rose, Fragmenta, è riportato da Ross come fr. 1; il secondo è racconto da Ross come fr. 4. La storia delle interpretazioni dello scritto in oggetto è un significativo esempio di giudizi che, nelle loro differenze, talvolta così radicali da segnare posizioni antitetiche, e in molti casi nel loro intersecarsi finiscono per ricoprire suppergiù l’intera gamma dei pareri che in proposito è possibile esprimere. In effetti, si assiste a una pluralità di esegesi che, muovendosi tra i poli della asserita e della denegata paternità aristotelica dello scritto, modulano l’una e l’altra posizione con variazioni tali da conferire a tesi esegetiche in ultima analisi allineabili in qualche modo a un medesimo filone, sfaccettature notevolmente diverse, e questo già a partire dal valore dei quattro testi cui è affidata la trasmissione delle Divisioni, considerati in rapporto alla completezza e alla precisione del contenuto dottrinale che attestano. Dico già a partire da quest’aspetto perché, se la maggior parte degli studiosi non ha esitato ad attribuire al testo del codice Marciano una supremazia rispetto agli altri, tanto da presentarlo in sinottico, sulla scorta di Mutschmann, con quello di Diogene Laerzio nella redazione dello scritto, proprio questa scelta, che, riproposta anche nella recente edizione italiana

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delle Divisioni curata da Cristina Rossitto (Rossitto, Divisioni), era stata adottata da Gigon nel comporre il rifacimento del terzo volume della monumentale edizione del Bekker delle opere aristoteliche (Gigon, Fragmenta), ha costituito specifico oggetto di critica mossa da Dorandi a questa nuova edizione. Lo studioso ha infatti rimproverato a Gigon di aver tenuto conto, per ciò che attiene alle Divisioni, del solo codice Marciano e non aver presentato, oltre alla versione di Diogene Laerzio, anche il testo anche degli altri due codici (Dorandi, Ricerche; cfr. anche Dorandi, La tradition manuscrite), finendo così per assegnare loro, di fatto, un’importanza non inferiore al primo. E con ciò è chiaro che la questione delle interpretazioni delle Divisioni s’intreccia con quella dei criteri che hanno presieduto all’elaborazione delle edizioni di questo scritto. Sul piano esegetico, poi, essa s’intreccia, com’è ovvio, con la questione generale del significato dottrinale degli scritti giovanili di Aristotele, in ordine alla quale resta da decidere il peso e il significato delle Divisioni, ove se ne ammetta l’attribuzione allo Stagirita. In questa sede sembra eccessivo provare a ripercorrere con minuzia analitica le interpretazioni dello scritto e il dibattito che, direttamente o indirettamente, esse hanno dato luogo tra gli studiosi. Sarà sufficiente, invece, presentare in modo schematico ed essenzializzato il quadro di quelle più notevoli, di quelle cioè che sono entrate nella storia della ricezione di questo scritto e hanno costituito le pietre miliari per la ricostruzione, tramite esso, del pensiero di Aristotele. Nei termini seguenti: 1) La non attribuzione ad Aristotele delle Divisioni segna una posizione attestatasi prevalentemente nell’Ottocento, soprattutto per opera di due grandi filologi, ossia di Immanuel Bekker, che non comprese nell’edizione critica del Corpus Aristotelicum da lui redatta nessuno dei quattro testi secondo cui sono state tramandate, e Valentin Rose il quale, con un’operazione opposta, ma identica nel significa-

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to esegetico, le inserì invece, secondo il testo del codice Marciano, nell’Aristoteles pseudoepigraphus (1863), ossia in quella raccolta di frammenti di opere spurie che la tradizione attribuisce allo Stagirita, ma erroneamente giacché esse, ad avviso dello studioso, furono per lo più composte da Peripatetici posteriori. In seguito, tuttavia, Rose mutò parere e nelle due successive raccolte dei frammenti di scritti aristotelici da lui redatte (Rose, Librorum fragmenta; Rose, Fragmenta) accolse anche le Divisioni, delle quali riportò sia alcuni brani nelle versioni di Diogene Laerzio e del codice Marciano, e cioè veri e propri frammenti, sia testimonianze di commentatori come Alessandro di Afrodisia e Simplicio che vi fanno riferimento. A favore del carattere non aristotelico dell’opera sembra essersi schierato anche Mansfeld (Physikai doxai), giacché, se è vero che sostiene la derivazione dai Topici della div. 42 del codice Marciano, la quale, assente sia da Diogene Laerzio che dal codice Parigino, si svolge intorno a «i problemi filosofici», giudica però in generale le Divisioni «un piccolo manuale scolastico databile a prima di Diogene Laerzio, che cita grossi brani nella sezione delle Vite dedicata a Platone» (Ivi, p. 327). Questa posizione è stata di recente condivisa da Dorandi, che nel suo saggio (Dorandi, Ricerche), dedicato a Mansfeld, dichiara di approvare la posizione di fondo di questo studioso. Egli, per parte sua, individua nelle Divisioni, che si attribuiscono, sì, ad Aristotele, ma nelle quali è impossibile riconoscere spunti di opere aristoteliche, la fonte di due differenti tradizioni: una cui si rifà la versione di Diogene Laerzio e una seconda, indipendente dalla prima, dalla quale deriverebbero da un lato, attraverso un comune capostipite, le versioni dei codici Marciano e Parigino e da un altro, per una diversa via, il testo del codice di Leida. 2) Altri studiosi sono, invece, decisamente a favore della paternità aristotelica dello scritto, come, per citare soltanto coloro che hanno espresso una tale posizione in modo mag-

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giormente marcato, Bernays (Dialoge), Suchow,1 Jaeger (Aristoteles) e Fortenbaugh (Emotion). Quest’ultimo, in particolare, ha rimarcato l’uso costante che lo Stagirita nei suoi scritti fa del verbo «dividere» (diairei^n) e ha mostrato come nella maggior parte dei passi in cui Aristotele rinvia agli eèxoterikoi# lo@goi possa riscontrarsi la presenza di alcune divisioni; cosa che, ad avviso dello studioso, comproverebbe che il rinvio è alle Divisioni. 3) Altri ancora hanno ritenuto aristotelico lo scritto per i suoi contenuti dottrinali anche se non per la composizione in senso materiale. Cosi, per esempio, Gigon (Fragmenta), per il quale sia il testo delle Divisioni riportato da Diogene Laerzio (da lui indicato come fr. 82) che quello riportato dal codice Marciano (indicato come fr. 83), raccolti nella sezione concernente i To@poi protreptikoi@, sono estratti di dialoghi perduti di Aristotele di carattere etico. Così, per altro verso e sotto un differente profilo, Moraux (Témoins), lo scopritore, come s’è detto, del codice di Leida e fautore di una tesi esegetica secondo cui le Divisioni che ci sono pervenute, pur presentando un contenuto dottrinale di carattere aristotelico, non sono quelle menzionate nei cataloghi delle opere dello Stagirita.2 Così, recentemente, Rossitto (Divisioni), che pur si è mossa lungo una differente prospettiva esegetica. Questa studiosa, in particolare, attraverso un minuzioso commento della versione conservata nel codice Marciano e da Diogene Laerzio, e raccogliendo i frutti di una serrata discussione della basilare bibliografia critica relativa non soltanto allo scritto specificamente in questione, ma, in generale, agli scritti giovanili di Aristotele (cfr. Divisioni, Introduzione, pp. 29 ss.), ha ribadito nella seconda edizione delle Divisioni quanto aveva già sostenuto – e in modo assai convincente – nella prima, e cioè che l’opera, benché «nel testo letterale a noi pervenuto» non sia dovuta alla mano di Aristotele, deriva «tuttavia da uno scritto dello Stagirita composto precisamente nel pe-

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riodo da lui trascorso nell’Accademia di Platone» (Rossitto, Divisioni, p. 38). In modo più determinato, ad avviso di Rossitto le Divisioni deriverebbero «da appunti di corsi di Platone presi da Aristotele durante il suo soggiorno nell’Accademia» (Ivi, p. 44).3 4) Da queste stesse parole è chiaro che, tra coloro che, sia pur a vario titolo, ammettono la paternità aristotelica delle Divisioni e una volta riconosciuta, sia pur in modalità differenti, una tale attribuzione, si apre il problema del carattere aristotelico o platonico dei contenuti in esse espressi. La presenza del momento platonico sembra impossibile a disconoscersi, se non altro perché lo scritto, come la stragrande maggioranza degli studiosi oggigiorno riconosce, si ambienta nel contesto dell’Accademia e, ove attribuito allo Stagirita, al periodo della sua permanenza nella scuola di Platone, cosicché è impossibile che non risenta delle dottrine in essa professate dal grande filosofo. Del resto, quello del dividere per generi era, notoriamente, il metodo indicato da Platone stesso nel Sofista come proprio del filosofo, metodo che qualifica la dialettica cosiddetta discendente e che nel Flebo, caratterizzato com’è dal sapere dividere le Idee secondo i loro effettivi confini, in modo da non tranciarle, ma da separarle mercé una competenza pari a quella espressa dal medico nel separare le membra sulla base di una precisa conoscenza della loro anatomia, viene così contrapposto, con un’immagine fortemente icastica, all’operazione del macellaio che, invece, dilania le carni. Le divisioni che Platone e gli Accademici operavano e alle quali gran parte degli stessi contenuti filosofici era affidata, come si deduce dall’identificazione platonica del filosofo col dialettico, ossia con colui che pratica questo metodo per la soluzione dei problemi, erano certamente ben conosciute da Aristotele, tanto che, come ho cercato di mostrare, la sua dottrina delle categorie trae origine dal perfezionamento di esso e le critiche che lo Stagirita vi muove sono diretta-

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mente intese non già a rifiutarlo, ma a migliorarlo, così da renderlo pienamente adeguato alle notevoli possibilità dottrinali che gli sono insite (Zanatta, Categorie, Introduzione, pp. 57 ss.). a) Ecco dunque che, per un verso, si è ritenuto che le Divisioni presentate da Diogene Laerzio e dal codice Marciano corrispondano a una raccolta di divisioni di carattere platonico, mentre quelle elencate nei cataloghi delle opere di Aristotele e quelle indicate in alcune testimonianze di Alessandro d’Afrodisia si riferiscano a una seconda raccolta di divisioni. È l’opinione di Heitz (Divisiones), che pure incluse le redazioni laerziana e marciana delle Divisioni, le uniche allora conosciute, nell’edizione degli scritti di Aristotele pubblicata da Firmin Didot. b) Per altro verso, nelle Divisioni contenute nelle due redazioni sopraddette si scorse o un’esposizione in cui dottrine platoniche si mescolano assieme a dottrine aristoteliche (Susemhil), o la rielaborazione di un’opera composta da qualche membro dell’Accademia (Zeller), o un manuale di regole in uso nella scuola di Platone (Christ).4 Come di un compendio di regole logiche formulate da Platone e dagli Accademici ne parla Hambruch (Logischen Regeln), con riferimento precipuo alle div. 37 e 64-69 del codice Marciano. Lo stesso Mutschmann (Divisiones), cui si deve la pubblicazione di questo codice in un’edizione delle Divisioni che lo pone come testo base, affiancato sinotticamente a quello di Diogene Laerzio, non mancò di riconoscere il carattere e la derivazione platonici di alcune divisioni. Non molto diversamente, Wilpert (Aristotelische Frühschriften) ha sostenuto che le Divisioni riproducono uno scritto nel quale un membro dell’Accademia riassume le dottrine non scritte di Platone. Sostanzialmente platonici, in effetti, ne sarebbero i contenuti, tra i quali lo studioso segnala per importanza la distinzione degli enti in per sé (kaqˆ auéta@) e relativi (pro@v ti) e dei quali sottolinea la corrispondenza

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con altrettanti contenuti di Metaph., V e, presumibilmente, con lo scritto aristotelico Sui contrari (Peri# eènanti@wn), andato perduto. c) Gli studiosi appartenenti alla cosiddetta Scuola di Tubinga, in linea con le loro posizioni di fondo circa l’insegnamento orale di Platone, accolgono in via generale la tesi della paternità aristotelica delle Divisioni, individuando in questo scritto una delle fonti da cui si conoscono le dottrine non scritte di Platone. In questa prospettiva, Gaiser ha riportato nei Testimonia platonica le div. 27 e 32 di Diogene Laerzio e le div. 23, 67 e 68 del codice Marciano come test. n. 43 e 44,5 e Krämer non soltanto ha fatto altrettanto nell’appendice al volume Platone e i fondamenti della metafisica (Krämer, Fondamenti, App. III, pp. 23-31), ma ha addirittura sostenuto che le div 67 e 68 del codice Marciano e la div. 32 di Diogene Laerzio costituiscono redazioni eseguite da Aristotele delle lezioni orali del maestro (Krämer, Arete, pp. 290-296). 5) Quanto a Ross, la cui edizione delle Divisioni viene riproposta in questo volume, è pienamente condivisibile il giudizio espresso da Rossitto (Divisioni, pp. 34-35), cosicché anch’egli le considera opera di Aristotele. Lo studioso, come si può constatare, ha riportato come fr. 2 la versione di Diogene Laerzio inclusa come fr. 114 in Rose, Fragmenta e come fr. 3 la versione del codice Marciano inclusa come fr. 3 in Rose, Librorum fragmenta. Con estrema finezza, egli non ha riportato integralmente i testi delle raccolte del Rose, ossia i testi di Diogene Laerzio e del codice Marciano sulle quali il filologo ottocentesco aveva fondato le due edizioni. Per cui nel commento ho ritenuto opportuno presentare in nota, in una traduzione integralmente da me eseguita, le divisioni sia di Diogene Laerzio che del suddetto codice (in sinottico, quando la concordanza sussiste), cui nel testo Ross fa riferimento e quelle di argomento affine. L’ho ritenuto indispensabile per offrire al lettore l’oppor-

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tunità di avere tutto il materiale a disposizione, evitando scomodi rinvii. Ma ciò che in questo momento più interessa è che proprio la circostanza per cui Ross nella sua edizione ha fatto espresso riferimento ai frammenti delle due ultime raccolte del Rose, che, come abbiamo detto, mutando parere rispetto all’Aristoteles pseudoepigraphus, aveva alla fine riconosciuto la paternità aristotelica delle Divisioni, lascia ragionevolmente intendere che identico sia stato in proposito il parere anche di Ross.6

FRAGMENTA

FRAMMENTI

1 (R2 110, R3 113) Alex. Aphr., In Arist. Top., p. 242, 1-9: inoltre, ciò che per sé è alquanto bello e alquanto degno d’onore e alquanto lodevole. Come più comune, ora fa uso dei nomi, sia per ciò che è alquanto bello, sia per ciò che alquanto degno d’onore, sia per ciò che è alquanto lodevole. Infatti, nella divisione dei beni afferma che, tra i beni, sono degni d’onore quelli più originari, come Dio, i genitori, la felicità; sono invece belli e lodevoli le virtù e le attività conformi a esse, e le facoltà delle quali è possibile fare un uso buono e cattivo; sono poi utili quelli che sono atti a produrre queste stesse cose e a queste sono finalizzati. E ora sembra portare il bello, il lodevole e ciò che è degno d’onore anche nei beni come facoltà.7 2 (R2 111, R3 114) Diog. Laert., III, 80 (45): , dice Aristotele, distingueva anche le cose secondo il medesimo criterio. Dei beni, alcuni sono nell’anima, altri nel corpo, altri esterni; per esempio, la giustizia, la saggezza, il coraggio, la moderazione e i di questo genere sono nell’anima; la bellezza, la buona condizione, la salute e la forza sono nel corpo; gli amici, la felicità della patria e la ricchezza si annoverano tra gli esterni8 [...] 108 (74): degli enti, alcuni sono per sé, altri si dicono in relazione a qualcosa9 [...] 109 (74): in que-

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sto modo, ad avviso di Aristotele, egli divideva anche le cose prime.10 3 (R2 112, R3 115) Cod. Marc., 257, f. 250: Divisioni di Aristotele. Divide l’anima in tre parti.11 4 Simpl., In Arist. Cat., p. 65, 5: nelle Divisioni [...] 7-8: dopo aver aggiunto le categorie, introduce «intendo dire queste assieme alle loro flessioni».

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Note 1 Traggo notizie su questo studioso da Hambruch, Logischen Regeln, p. 4, nonché da Rossitto, Divisioni, p. 30. 2 Alle esegesi di Gigon e di Moraux si riporta Vallejo Campos, il quale nella sua edizione delle Divisioni si limita a riferire l’opinione di entrambi gli studiosi, senza peraltro esprimersi in proprio (cfr. Vallejo Campos, Fragmenta, pp. 339-341). 3 All’esegesi di Rossitto sembra aderire Berti nel suo recentissimo studio aristotelico, ove riconosce che essa è costruita sulla base di «buoni argomenti» (Berti, Sumphilosophein, p. 141) 4 Traggo anche queste informazioni da Hambruch, Logischen Regeln, p. 4, nonché da Rossitto, Divisioni, p. 30. 5 In proposito si veda anche Gaiser, Principi e Findlay, Plato. 6 «Il fatto [...] che l’illustre editore non abbia riprodotto per esteso il testo – ha opportunamente scritto Rossitto (Divisioni, p. 35) –, ma si sia limitato a segnalarne il luogo (come avviene anche per la sua traduzione inglese), non significa che egli intendesse ridurne l’estensione, perché così facendo egli riprodusse quasi alla lettera le indicazioni dell’ultima raccolta di Rose, le quali rinviavano al testo completo del codice Marciano pubblicato nell’Aristoteles pseudoepigraphus» 7 Sul bene e sulle relative divisioni si veda anche la nota seguente. 8 Queste le corrispondenti divisioni: (*) Divisione n. 5 Cod. Marc. (pp. 1, 5-2, 9 Mutschmann; pp. 84-85 Rossitto): «I beni si dividono in tre: infatti, alcuni di essi sono nell’anima, altri nel corpo, altri esterni. Quelli nell’anima sono la saggezza, la giustizia, il coraggio, la moderazione e gli altri siffatti; quelli nel corpo sono la forza, la bellezza, la salute, la buona condizione e gli altri siffatti; quelli esterni sono gli amici, la ricchezza, la buona reputazione, la felicità della patria. Pertanto, dei beni alcuni sono nell’anima, altri nel corpo, altri esterni». (*) Divisione n. 36 Cod. Marc. (pp. 30, 13 – 31, 14 Mutschmann; pp. 156-157 Rossitto), parallela alla divisione n. 23 di Diogene Laerzio (III, 101-102; pp. 156-157 Rossitto):

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n. 36 Codice Marciano

n. 23 Diogene Laerzio

Il bene si divide in quattro. Infatti, una di esso sono la virtù e la giustizia, una ciò che possiede la virtù, una l’utile, una ciò che produce il diletto e il provare piacere. E cioè, è virtù e giustizia perché ciascuna di queste due cose è detta essere un bene, una poi è ciò che possiede la virtù: per esempio, un cavallo, un uomo e le cose siffatte. Infatti, anche ciascuna di queste è detta essere un bene se possieda la virtù. Ciò che è utile sono, per esempio, l’esercizio ginnico, la medicina e tutte le altre cose che hanno attinenza con la salute e la buona condizione. Infatti, anche ciascuna di queste è detta essere un bene per colui al quale sia utile. Il diletto e il provare piacere sono, per esempio, un attore e un sonatore di aulo: non per il fatto di essere utili sono detti essere un bene, ma per il fatto di procurare diletto.

Il bene si divide in quattro generi. E, di essi, diciamo che colui che possiede la virtù è un bene in senso proprio. Altro : diciamo che la virtù in se stessa e la giustizia in se stessa sono un bene. Un terzo sono, per esempio, i pasti, gli esercizi ginnici convenienti e i farmaci. E diciamo che vi è un quarto bene: per esempio, l’auletica, l’arte dell’attore e le cose siffatte. Pertanto, del bene vi sono quattro specie: una, il possedere la virtù, un’altra la stessa virtù, come terza i cibi e gli esercizi ginnici che procurano giovamento, come quarta diciamo che sono un bene l’auletica, l’arte dell’attore e la poetica.

(*) Divisione n. 47 Cod. Marc. (pp. 57, 22 – 58, 12 Mutschmann; pp. 180-181 Rossitto): «I beni propri e i beni in comune si dividono in cinque. Di essi, infatti, alcuni sono propri di Dio, altri sono propri dell’uomo, altri poi sono comuni a Dio e agli uomini, altri sono comuni agli uomini e agli altri viventi tranne Dio, altri sono comuni a tutti i viventi. Ora, sono propri di Dio l’essere eterno e le cose siffatte, sono propri dell’uomo l’essere moderato e giusto e le cose siffatte, sono comuni a Dio e agli uomini l’essere dabbene, giacché essere dabbene appartiene sia a Dio che all’uomo. proprio dell’uomo è la fortezza, la quale è atta ad allontanare qualche male, invece sta bene dire che a Dio né succede né appartiene un male; e le altre cose siffatte. È comune agli uomini e agli altri viventi tranne Dio il coraggio, giacché esso è atto a resistere a qualche pericolo e paura. E lo sono tutte le cose siffatte. comune a tutte le cose, poi, è il bello». (*) Divisione n. 56 Cod. Marc. (pp. 60, 8 – 61, 14 Mutschmann; pp. 198-201 Rossitto): «Somiglianza dei beni, quelli che concernono l’anima, quelli che concernono il corpo e quelli esterni, è questa: ora, ai termini primi sono simili le cose prime, ai secondi le cose seconde, ai terzi le cose terze, ai quarti le cose quarte. E alcuni sono nell’anima, altri nel corpo, altri esterni. Infatti, la

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saggezza, la quale è nell’anima, è causa del fatto che l’anima versi nello stato migliore, mentre la buona condizione è causa del fatto che il corpo versi in uno stato ottimale. Infatti, chi ha buona fama fa ciò che vuole. Pertanto, ciascuno di questi beni compie le cose prime e la prima somiglianza si assume in questa modalità. E, a sua volta, la giustizia è nell’anima, essa che è anche causa delle parti dell’anima; il bell’aspetto, invece, che è nel corpo, consiste nel buon ordine delle parti del corpo: del freddo, del caldo, del secco e dell’umido. La buona sorte, che è esterno, consiste in una certa disposizione favorevole della composizione dei fatti. Di conseguenza, anche in questo modo si concepisce, di nuovo, la somiglianza dei beni. E, a sua volta, il coraggio, che è nell’anima, consiste in una certa forza e in un vigore di fronte alle paure e alle cose siffatte, invece la forza, che è nel corpo, è forza di fronte alle fatiche e alle sofferenze di mali; gli amici poi, che sono esterno, sono possessori di questa forza rispetto all’aiuto esterno. Infatti, colui che ha molti amici è più forte in una città. Anche in questo modo si concepisce la somiglianza di questi beni. E, a sua volta, la moderazione, che è nell’anima, orna l’anima e produce il vivere misuratamente; invece la bellezza, che è nel corpo, orna il corpo e lo rende proporzionato; la ricchezza, poi, che è esterno, è direttrice e ornamento degli uomini. Anche in questo modo si concepisce la somiglianza di questi beni». (*) Divisione n. 72 di Diogene Laerzio (III, 105; pp. 246-247 Rossitto): «Dei beni vi sono tre generi: gli uni, infatti, possono essere posseduti, altri possono essere partecipati, altri ancora possono sussistere. Ora, quelli che possono essere posseduti sono tutti quelli che è possibile avere, come la giustizia e la salute. Invece possono essere partecipati tutti quelli che non è possibile avere, ma di essi è possibile partecipare: per esempio, non è possibile possedere il bene in sé, ma è possibile partecipare di esso. Possono poi sussistere tutti quelli che non è possibile né avere né partecipare, ma occorre che sussistano: per esempio, l’essere virtuoso e l’essere giusto sono un bene, ed essi non è possibile né possedere né partecipare, ma occorre che sussistano. Pertanto, dei beni alcuni possono essere posseduti, altri possono essere partecipati, altri ancora possono sussistere». Sui beni si vedano anche la divisione n. 23 Cod. Marc. (p. 34, 9 – 35, 2 Mutschmann; pp. 128-129 Rossitto), parallela alla divisione n. 27 di Diogene Laerzio (III, 104-105; pp. 128-129 Rossitto), la divisione n. 55 Cod. Marc. (p. 31, 16 – 32, 9 Mutschmann; pp. 196197 Rossitto), parallela alla divisione n. 24 di Diogene Laerzio (III, 102; pp. 196-197 Rossitto), nonché la divisione n. 68 Cod.

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Marc. (pp. 65, 20 – 66, 13 Mutschmann; pp. 235-237 Rossitto), tutte riportate alla nota successiva. 9 Riferimento alla divisione n. 67 del Codice Marciano (pp. 39, 21 – 40, 7 Mutschmann; pp. 232-233 Rossitto), parallela alla divisione n. 32 di Diogene Laerzio (III, 108-109; pp. 232-233 Rossitto), che leggiamo in sinottico:

n. 67 Codice Marciano

n. 32 Diogene Laerzio

Degli enti alcuni sono in sé e per sé, ossia tutti quanti quelli che sono in modo semplice, non per il fatto che esiste di necessità qualcos’altro, mentre quelli in relazione a qualcosa sono di questo genere: per esempio, il doppio e la scienza. Infatti, il doppio si dice in relazione al mezzo e la scienza in relazione a qualcosa.

Degli enti alcuni sono per sé, altri si dicono in relazione a qualcosa. Ora, quelli detti per sé sono tutti quelli che nella spiegazione non hanno bisogno in aggiunta di nulla. Questi recedono da una spiegazione. Invece fanno parte degli che si dicono in relazione a qualcosa tutti quelli che hanno bisogno in aggiunta di qualche spiegazione, come «maggiore di qualcosa», «più veloce di qualcosa», «più bello di qualcosa» e quelli siffatti. Infatti, il mezzo è mezzo di una cosa più piccola, e ciò che è più veloce è più veloce di qualcosa. Pertanto, degli enti alcuni sono detti in sé e per sé, altri in relazione a qualcosa.

Mette conto leggere anche le altre divisioni del codice Marciano relative alla classificazione degli enti o, comunque, di contenuto ontologico, in parallelo, ove sussistono, con quelle di Diogene Laerzio. (*) Divisione n. 25 Cod. Marc. (pp. 47, 11-17 Mutschmann; pp. 132-133 Rossitto): «gli enti si dividono in tre: alcuni sono secondo essenza, altri per accidente, altri secondo affezione. Quelli secondo essenza sono, per esempio, l’essere uomo e l’essere ciascuno degli enti; quelli per accidente sono, per esempio, il correre, l’essere seduti e altre cose siffatte; l’ secondo affezione è, per esempio, il provare piacere, dolore, coraggio, paura e le altre cose siffatte». (*) Divisione n. 22 Cod. Marc. (pp. 46, 9 – 47, 7 Mutschmann; pp. 124-127 Rossitto): «la divisione del modo di chiamarsi degli enti ha luogo in cinque. Tra essi, infatti, alcuni sono che si dicono come uno rispetto a molti, altri come molti in rapporto a molti e in rapporto a uno, altri come dissimili in rapporto a simili, altri come simili in rapporto a simili, altri come uno in rapporto a uno. Ebbene, quelli come uno in rapporto a molti sono, per esempio, il soggetto più veloce, il soggetto più grande, il soggetto più bello e gli siffatti. Quelli come molti in rapporto a molti e in rap-

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porto a uno sono, per esempio “queste cose di numero maggiore di queste cose”, “queste cose di numero minore di queste cose”, “questi soggetti più belli di questi soggetti” e altri siffatti. Quelli come dissimili in rapporto a simili [†], quelli come simili in rapporto a simili sono, per esempio, i fratelli in rapporto ai fratelli, gli amici in rapporto agli amici e gli siffatti. Quelli come uno in rapporto a uno sono, per esempio, “questo soggetto è più bello di questo soggetto”, “questo soggetto è più veloce di questo soggetto” e gli siffatti». (*) Divisione n. 26 Cod. Marc. (pp. 38, 15 – 39, 13 Mutschmann; pp. 134-135 Rossitto), parallela alla divisione n. 31 di Diogene Laerzio (III, 107-108; pp. 134-136 Rossitto): n. 26 Codice Marciano

n. 31 Diogene Laerzio

Inoltre, degli enti, alcuni sono divisibili in parti, altri sono senza parti, e di quelli divisibili in parti alcuni sono con parti simili, altri con parti dissimili. Gli divisibili in parti sono quelli che eventualmente abbiano divisione: per esempio, la casa, il mantello, il denaro, il podere e gli siffatti; senza parti sono invece quelli che eventualmente siano non divisibili in parti, come l’unità, il punto, il segno, il suono e gli siffatti. E fra gli non divisibili in parti, poi, gli uni sono con parti simili, quelli di cui anche le parti sono simili, come l’acqua, il fuoco, il bronzo e gli siffatti, mentre sono con parti dissimili quelli le cui parti sono dissimili, come la casa e gli siffatti.

Degli enti alcuni sono divisibili in parti, altri non divisibili in parti. Di quelli che sono divisibili in parti gli uni sono con parti simili, altri con parti dissimili. Ebbene, sono senza parti tutti quelli che non hanno divisione né sono composti da qualcosa, come l’unità, il punto e il suono. Sono invece divisibili in parti tutti quelli che sono composti da qualcosa, come le sillabe, le sinfonie, gli animali, l’acqua e l’oro. Sono con parti simili tutti quelli che sono composti di simili e l’intero non differisce in niente dalla parte tranne che per la posizione: per esempio, l’acqua, l’oro, tutto ciò che è fusibile e ciò che è siffatto. Invece sono con parti dissimili tutti quelli che sono composti di parti dissimili, come la casa e gli siffatti. Pertanto, degli enti alcuni sono divisibili in parti, altri senza parti; e di quelli divisibili in parti alcuni sono con parti simili, altri con parti dissimili.

(*) Divisione n. 55 Cod. Marc. (p. 31, 16 – 32, 9 Mutschmann; pp. 196-197 Rossitto), parallela alla divisione n. 24 di Diogene Laerzio (III, 102; pp. 196-197 Rossitto):

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n. 55 Codice Marciano

n. 24 Diogene Laerzio

Ciascuno degli enti si divide in tre: infatti, è o un bene, o un male, o nessuna delle due cose. Ora, uno è un bene quando procuri giovamento a qualcuno o non procuri danno, un altro è un male quando procuri sempre danno, un altro ancora non è nessuna delle due cose: ciò che talvolta procura danno e talvolta procura giovamento, come le passeggiate, i sonni, le piante di elleboro e le cose siffatte, oppure né procura completamente danno né procura giovamento.

Degli enti alcuni sono mali, altri beni, altri nessuna delle due cose. Di questi, diciamo mali i seguenti: quelli che possono procurare sempre danno, come la mancanza di criterio, la stoltezza, l’ingiustizia e le cose siffatte. Le cose contrarie a queste sono beni. Ma quelle cose che possono procurare talvolta giovamento, talvolta danno, come il passeggiare, lo stare seduti e il mangiare, oppure che non possono procurare totalmente né giovamento né danno, queste non sono, per l’appunto, né beni né mali. Pertanto, degli enti alcuni sono beni, altri mali, altri nessuna di queste due cose.

(*) Divisione n. 27 Cod. Marc. (p. 48 2 –18 Mutschmann; pp. 136139 Rossitto): «Divisione delle cose migliori e delle cose peggiori, delle cose più belle e più turpi, di cose più bianche e di cose più nere. Ciascuna di queste si dice in tre modi: ché, o del contrario o dello stesso mezzo: per esempio, come una cosa migliore di una contraria è detto essere il bene del male, al modo in cui la saggezza lo è della scellerataggine e della dissennatezza; come cosa migliore del mezzo è detto essere il bene, per esempio, di ciò che non è né buono né cattivo; come cosa migliore di se stessa si dice, poi, un bene di un bene, se uno dei due sia in misura minore. Similmente anche il bello: infatti è detto essere sia più bello di ciò che è turpe, sia più bello di ciò che non è né turpe né bello, ed è detto essere più bello anche di ciò che è bello e di una cosa minormente bella. In modo simile è detto anche “più bianco”: infatti il bianco è detto essere più bianco sia del nero, sia di ciò che non è né nero né bianco, la qual cosa è un mezzo. Anche delle altre cose che si dicono così, affermate che stanno nel medesimo modo. Pertanto, migliore e peggiore, più bello e più turpe, più bianco e più nero si dicono in tre modi». (*) Divisione n. 23 Cod. Marc. (pp. 34, 9 – 35, 2 Mutschmann; pp. 128-129 Rossitto), parallela alla divisione n. 27 di Diogene Laerzio (III, 104-105; pp. 128-129 Rossitto):

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n. 23 Codice Marciano

n. 27 Diogene Laerzio

I contrari si dividono in tre. Di essi, infatti, uno è l’esserlo come un bene a un male: per esempio, la salute alla malattia, la bellezza alla turpitudine e le cose siffatte; un altro, come nessuna delle due cose a nessuna delle due cose: per esempio, la bianchezza alla nerezza, la leggerezza alla pesantezza e le cose siffatte; un altro, come una cosa da fuggire a una cosa da fuggire: per esempio, la prodigalità all’avarizia, la calorosità alla freddezza, la magrezza alla grassezza e le cose siffatte.

I contrari si dividono in tre: per esempio, diciamo che le cose buone sono contrarie alle cose cattive, come la giustizia all’ingiustizia, la saggezza alla stoltezza e le cose siffatte. E le cose cattive sono contrarie alle cose cattive: per esempio, la prodigalità all’avarizia e l’essere torturati ingiustamente all’essere torturati giustamente. Anche le cose siffatte sono cose cattive contrarie a cose cattive. Ciò che è pesante a ciò che è leggero, ciò che è veloce a ciò che è lento, ciò che è nero a ciò che è bianco come nessuna delle due cose a nessuna delle due cose. Pertanto, dei contrari alcuni sono contrari come beni a mali, altri come mali a mali, altri come nessuna delle due cose a nessuna delle due cose.

(*)

Divisione n. 68 Cod. Marc. (pp. 65, 20 – 66, 13 Mutschmann; pp. 235-237 Rossitto): «I contrari si dividono in questo modo. Di alcuni degli enti vi è qualcosa di contrario, di altri no. Infatti, all’oro, all’uomo, al mantello e alle cose siffatte niente è contrario, mentre alla virtù, al bene al caldo qualcosa è contrario. Ché, al bene è contrario il male, alla virtù il vizio, al caldo il freddo. Ora, degli stessi contrari alcuni hanno qualcosa a mezzo, altri no. Infatti, fra bene e male vi è qualcosa di mediano, mentre tra movimento e quiete non vi è niente a mezzo. Ché, di necessità tutte le cose o sono in movimento o sono in quiete. Anche tra la vita e la morte niente è a mezzo. Ché, di necessità ciò che è atto ad accogliere la vita o vive o è morto. E i contrari stessi si dicono in tre sensi: infatti, o come a un bene è contrario un male: per esempio, alla giustizia l’ingiustizia, alla moderazione l’incontinenza e le cose siffatte; o come nessuna delle due cose è contraria a nessuna delle due cose: per esempio, [†], ché, nessuno di questi è né male né bene; e come un male è contrario a un male: l’eccesso al difetto e le cose dette per eccesso e difetto, come il raffreddarsi eccessivamente al riscaldarsi eccessivamente. Queste cose, infatti, si dicono per eccesso. Anche ciò che difetta di calore a ciò che difetta di freddo. Infatti, anche queste cose sono contrarie per difetto». (*) Divisione n. 48 Cod. Marc. (pp. 23, 19 – 24, 12 Mutschmann; pp. 182-183 Rossitto), parallela alla divisione n. 18 di Diogene Laerzio:

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n. 48 Codice Marciano

n. 18 Diogene Laerzio

Ciascuno degli enti giunge a compimento per quattro cause: infatti, o per la sorte, o per la scienza, o per la natura, o per costrizione, ossia per necessità. Gli enti dovuti alla sorte sono ciò che giunge a compimento per caso, ossia senza un piano, quelli dovuti alla scienza sono le case, le navi e tutte le cose siffatte, quelli dovuti alla natura sono, per esempio, gli uomini, le piante e tutti gli animali, dovuti a costrizione, ossia a necessità, sono, per esempio, le dome degli animali privi di ragione, le dominazione, le tirannidi e le cose siffatte.

Il fine delle cose si divide in quattro specie: in una, le cose assumono il fine per legge, quando si abbia un decreto e la legge le porti a compimento. Le cose assumono il fine per natura: si tratta del giorno, dell’anno e delle stagioni. Le cose assumono il fine per arte: per esempio, quella di costruire case, giacché un’ porta a compimento una casa, e quella di costruire navi, giacché le navi. Il fine per le cose si verifica per sorte quando sopraggiungano in modo diverso e non come uno suppone. Pertanto, il fine delle cose è, da un lato per legge, da un altro per natura, da un altro ancora per arte, da un altro poi per sorte.

(*) Divisione n. 29 Cod. Marc. (p. 49, 7-16 Mutschmann; pp. 142143 Rossitto): «il divenire si divide in quattro. Una di esso è mutare da non ente a sostanza: per esempio, chi non era figlio, diventarlo e quella che non era una statua, diventarla e tutte le cose siffatte. Una è mutare da un luogo in un luogo ed essere posto in un altro: per esempio, coloro che navigano, che camminano e ogni cosa siffatta. Una è mutamento di stato e di disposizione: per esempio, da soggetto senza educazione diventare soggetto educato, da giovane vecchio, da nemico amico. Una è mutamento delle cose: per esempio, diventare da ricco povero, da cittadino privato governante, da governante cittadino privato e altre cose siffatte». (*) Divisione n. 65 Cod. Marc. (p. 64, 8-27 Mutschmann; pp. 224-227 Rossitto): «“Anteriore” si dice in cinque sensi: in effetti, sarà detto o per natura, o per il tempo, o per la potenza, o per la posizione o per l’ordine. Ora, per posizione , per esempio, ciò che siamo soliti dire nel caso di ciottoli giacenti, come “questo è anteriore a questo”. Per ordine, per esempio, il tassiarco al locado, il locado al soldato semplice, la “a” alla “b”. Per potenza diciamo che è anteriore il generale al soldato e, in senso assoluto, il governante al cittadino privato. Per il tempo , per esempio, il padre al figlio e ciò che è più vecchio a ciò che è più giovane. Per natura è anteriore, per esempio, la monade alla diade, la parte all’intero, il genere alla specie e, in senso assoluto, fra tutte quelle cose che non si elimina-

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OPERE LOGICHE

no assieme l’una con l’altra, ciò che produce l’eliminazione è anteriore, mentre ciò che viene eliminato è posteriore per natura: per esempio, se è stata eliminata la monade, sono eliminati la diade e ogni numero; se invece viene eliminata la diade, niente impedisce che esista la monade. Pertanto la monade viene per natura anteriormente alla diade. Similmente, anche se è stata eliminata la parte è eliminato l’intero, mentre se non c’è l’intero niente impedisce che ci sia la parte. Ed è chiaro che, in quanti sensi si dice “anteriore”, in altrettanti si dirà anche “posteriore”. Infatti, diciamo “posteriore” o per natura, o per tempo, o per posizione, o per ordine o per potenza». (*) Divisione n. 66 Cod. Marc. (p. 65, 2-17 Mutschmann; pp. 228231 Rossitto): «In quanti sensi si dicono “anteriore” e “posteriore”, in altrettanti si dirà anche di “insieme”: e cioè o per natura, o per posizione, o per potenza, o per tempo, o per ordine. Ora, per posizione sono assieme le cose siffatte, tutte quelle che per il luogo sono in uguale situazione: per esempio, diciamo che le cose che corrono e le cose che stanno ferme sono insieme. Per posizione sono insieme le cose siffatte: per esempio, coloro che camminano in fila per i gioghi. Per potenza diciamo che sono insieme le cose che non sono possibili una più dell’altra. Per il tempo diciamo che sono assieme le cose siffatte: quelle che esistono nello stesso tempo. Per natura bisogna dire che sono insieme le cose che si eliminano reciprocamente, ossia quelle che non possono esistere l’una separatamente dall’altra, come il doppio e il mezzo. Questi, infatti, si eliminano insieme l’un con l’altro e l’uno è impossibile che sia separatamente dall’altro. Ché, una volta che sia stato eliminato un doppio, non esisterà un mezzo e una volta che sia stato eliminato un mezzo non esisterà un doppio, ossia è impossibile che, esistendo un doppio, non esista un mezzo. Avendo mostrato così queste cose, segue che si parli degli enti». 10 Ossia dei principi. Sia nel Codice Marciano, sia in Diogene Laerzio, sia negli altri due codici non risulta alcuna divisione specificamente attinente ai principi, per cui è credibile che il dossografo faccia qui riferimento alle nozioni basilari dell’ontologia platonica (esposte da Aristotele), che ha illustrato nelle pagine precedenti, quelle che a nostra volta abbiamo documentato nella nota n. 2. 11 Sull’anima si veda la divisione n. 1 Cod. Marc. (pp. 15, 2 – 16, 3 Mutschmann; pp. 76-77 Rossitto), corrispondente alla divisione n. 12 di Diogene Laerzio (III, 90; pp. 76-77 Rossitto).

DIVISIONI

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n. 1 Codice Marciano

n. 12 Diogene Laerzio

L’anima si divide in tre: infatti, una di essa è razionale, una è irascibile, una è appetitiva. La razionale è quella per la quale ragioniamo; la appetitiva è quella per la quale assumiamo i desideri; la irascibile è quella per la quale proviamo ribollimenti dell’animo, montiamo in collera, proviamo ardimento, ci difendiamo e le altre cose siffatte. Pertanto, una dell’anima è razionale, una è irascibile, una è appetitiva.

L’anima si divide in tre: infatti, una di essa è razionale, un’altra è desiderativa, un’altra è irascibile. Di queste, quella razionale è causa del deliberare, del ragionare, del pensare e di tutte le cose siffatte. La parte desiderativa dell’anima è causa del fatto che essa desideri mangiare, fare sesso e di tutte le cose siffatte. La parte irascibile è causa dell’esser ardimentosi, del provare piacere, dell’affliggersi e del montare in collera. Pertanto, una dell’anima è razionale, un’altra è desiderativa, un’altra è irascibile.

APPUNTI

INTRODUZIONE

1. Nella sua classificazione generale degli scritti aristotelici Ammonio indica quelli redatti in forma di appunti (uépomnhmatika@) nell’ambito degli scritti di carattere generale (kaqo@lou), assieme a quelli redatti in forma di trattati (suntagmatika@).1 Il commentatore così li caratterizza: si tratta di opere nelle quali si fissavano i punti principali (kefa@laia) delle questioni, o si trascrivevano passi di particolare rilievo che potevano essere utilizzati per dimostrare una tesi, tratti da scritti più antichi. Insomma, annotazioni, appunti di concetti dello stesso autore o di altri autori, cui era annessa specifica importanza in vista di successive utilizzazioni. In un tempo successivo a questi appunti venne conferito un ordine, così da darvi risalto per la bellezza del discorso e l’eleganza dello stile. Ordine e bellezza stilistica caratterizzavano così gli scritti ipomnematici (Amm., In Arist. Cat., 4, 5). Olimpiodoro nei Prolegomeni (6, 24 s.) ripropone questi medesimi concetti senza aggiungere altre note connotative alla descrizione delle opere in oggetto. Altre caratteristiche degli scritti ipomnematici presenta invece Elia nel suo commento alle Categorie (114, 1-8). Dopo aver ribadito che vi si annotavano soltanto i punti principali (kefa@laia) precisa che in essi mancavano sia l’introduzione che la conclusione ed erano composti in uno stile che

APPUNTI

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non s’addice agli scritti editi (così, il De interpretatione fu considerato uno scritto ipomnematico a causa della sua oscurità fino a che Ammonio non mostrò che aveva un’introduzione e una conclusione). Inoltre, ad avviso di Elia gli hypomnemata non riflettono fedelmente il pensiero di Aristotele, poiché non furono da lui rivisti, come aveva detto Simplicio (In Arist. Cat., 4, 19-21). Ora, quand’anche lo scritto di cui qui sono raccolti una testimonianza e due frammenti non siano di Aristotele, è certo che sono aristotelici i contenuti e l’impronta letteraria. Da quanto è dato vedere, i contenuti non concernono un unico ambito tematico, ma vengono fissati i kefa@laia di argomenti svariati, complessivamente riguardanti il linguaggio. Il loro carattere aristotelico è chiaro da quanto segue. 2. Nella testimonianza di Filopono si fa riferimento a due tipi di epicheiremi:2 uno, indicato come primo, il quale assume che si diano le definizioni e l’altro, indicato come secondo, che assume l’esistenza di dimostrazioni. L’assunzione dell’esistenza di definizioni e dimostrazioni è ciò che colui che pronuncia l’epicheirema si fa concedere dall’avversario e usa come premessa dell’argomentazione, la quale manifesta in questo il suo carattere dialettico. Sono infatti dialettici i sillogismi le cui premesse sono concesse dall’interlocutore (a differenza dei sillogismi scientifici o dimostrazioni, nei quali le premesse sono proposizioni «vere, prime, immediate, più note, anteriori e cause della conclusione» [An.Po., I, 2, 71 b 21-22]); non soltanto, ma corrispondono a «opinioni notevoli (ndoxa)» o a proposizioni immediatamente derivate da opinioni notevoli, e anche per quest’aspetto i due tipi di epicheirema qui menzionati manifestano il loro carattere dialettico. Che esistano definizioni e dimostrazioni è, infatti, un’opinione notevole, in quanto è cosa ammessa da tutti o comunque da tutti gli esperti, e proprio questa è la caratteristica di un’opinione

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OPERE LOGICHE

notevole.3 Evidentemente, chi interroga chiede all’interlocutore se ritiene che si danno definizioni e dimostrazioni, e questi è costretto a rispondere di sì, altrimenti, contraddicendo un’opinione notevole, risulterebbe immediatamente soccombente agli orecchi dell’uditorio. In tal modo, con la sua risposta obbligatoriamente affermativa, egli concede a chi argomenta la premessa dell’epicheirema. Il quale, se procede da una premessa consistente nell’ammissione che esistono definizioni è «primo» rispetto all’epicheirema la cui premessa è l’esistenza di dimostrazioni in quanto la definizione stessa è anteriore alla dimostrazione. Quest’ultima, infatti, procede da una premessa (quella minore) che è costituita da un «principio proprio» (An. Po., I, 2, 71 b 23; 72 a 6; De Gen. Anim., II, 8, 747 b 30; 748 a 8; Magna Moralia, I, 1, 1183 b 1), ossia da una proposizione prima e indimostrabile il cui predicato conviene per sé al solo genere di determinazioni studiate da una data scienza (An. Po., I, 28; An. Pr., I, 30, 46 a 17-23; Metaph., III, 2, 997 a 18-22; 2830), vale a dire al suo gšnoj Øpoke…menon (An.Po., I, 7,75 a 42 – b 1), e tra i principi propri si annoverano le definizioni (Ðrismo…), ossia i discorsi che dicono che cos’è una cosa (Top. I, 5, 101 b 38; An. Po., II, 3, 91 a 1; 10,93 b 29; 39; 94 a 11; Metaph.,VII,5,1031 a 12). Come dunque si vede, la dottrina chiamata in causa dalla testimonianza di Filopono e riferita agli Appunti è pienamente rispondente a quella di Aristotele. 3. Identiche osservazioni debbono essere fatte a proposito dei due frammenti. Nel primo si richiamano le articolazioni e i connettivi quali strutture determinanti il discorso. Lo specifico interesse di Aristotele per questa materia è attestato sia dal cap. 20 della Poetica, dove l’analisi è strettamente linguistica, sia dai cap. 5 e 8 del De interpretatione, dove in riferimento ai connettivi si specifica l’unità o la pluralità del discorso medesimo. Sempre nel primo frammento

APPUNTI

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si chiamano in causa i nomi indefiniti (così sembra di dover intendere quelle che sono dette «negazioni») e le flessioni dei verbi: materia che lo Stagirita esamina in De int., 2 e 3. Si richiamano, infine, le privazioni, le cui analisi aristoteliche sono chiaramente attestate da Metaph., X, 4. Esplicito richiamo alle negazioni, alle privazioni, alle espressioni indefinite e alle flessioni dei verbi compaiono identicamente anche nel secondo frammento, a proposito del quale vanno dunque ribadite le osservazioni formulate per il primo.

TESTIMONIA

FRAGMENTA

TESTIMONIANZE

Philop., In Arist. An. Post., p. 233, 32: Alessandro sostiene che hanno carattere più razionale quegli epicheiremi4 che procedono dalle definizioni, dei quali egli (scil. Aristotele) ha fatto uso come di argomentazioni prime. Assume, infatti, che si danno definizioni e che è possibile definire le cose, ma senza dimostrare quest’assunzione, ossia che si danno definizioni, come pure nel secondo degli epicheiremi razionali assume questo come dato su cui vi è accordo, ossia che si dà dimostrazione.

FRAMMENTI

1 (R2 113, R3 116) Simpl., In Arist. Cat., p. 64, 18: ma perché mai – dicono i seguaci di Lucio5 – abbandonare i connettivi se i vocaboli e questi sono atti a significare ? [...] pp. 64, 29 - 65, 10: ricercano anche in quale categoria linguistica6 saranno ordinate le articolazioni,7 e intorno a esse vale il medesimo discorso.8 Ché, anche queste sono come dei connettivi, che in più significato i generi, ossia il maschile e il femminile, in modo indeterminato. Infatti, non manifestano che cos’è. Perciò da alcuni sono chiamati indefiniti, ma le negazioni, le privazioni9 e le differenti flessioni dei verbi10 in quale categoria lin-

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OPERE LOGICHE

APPUNTI

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guistica11 saranno ordinate? Oppure lo stesso Aristotele le ha distinte negli Appunti. E infatti nel Trattato di metodica e negli Appunti e nelle Divisioni e in un altro libro di appunti intitolato Contro lo stile, il quale, se pure a taluni non sembra autentico di Aristotele, è però certamente di qualcuno dei suoi allievi di scuola, aggiungendo in questi le categorie, inserì «parlo di queste assieme alle loro flessioni», oppure unì alle flessioni, alle negazioni, alle privazioni e alle espressioni indefinite la relativa didascalia. Dexippus, In Arist. Cat., p. 33, 8-13: ma – egli dice – le negazioni, le privazioni, le espressioni indefinite e le flessioni in quale categoria linguistica saranno ordinate? Ora, in questa materia lo stesso Aristotele diede un insegnamento migliore negli Appunti. Avendo, infatti, aggiunto le categorie assieme alle loro flessioni, sia alle negazioni che alle espressioni indefinite unì ad un tempo la relativa didascalia, chiamando ptoseis le flessioni.

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OPERE LOGICHE

Note 1 Cfr. Zanatta, Dialoghi, Introduzione, p. 32. La classificazione di Ammonio è la seguente: dapprima egli divide gli scritti dello Stagirita in particolari (merika@), intermedi (metaxu@) e di carattere generale (kaqo@lou); indi, tra questi ultimi distingue quelli redatti in forma di appunti (uépomnhmatika@) da quelli redatti in forma di trattati (suntagmatika@), nei quali comprende i dialoghi, qualificati anche come opere essoteriche, e gli scritti «in prima persona» (auètopro@swpa), che definisce anche acroamatici. 2 Su che cosa sia l’epicheirema cfr. la nota n. 4. Nel catalogo diogeniano delle opere di Aristotele sono indicati tre scritti aventi per tema gli epicheiremi: gli uŒpomnh@mata eèpiceirhmatika#, in tre libri (Diog. Laer., 63), gli ˆEpiceirhma@twn, in due libri (Diog. Laer., 65) e le Qe@seiv eèpiceirhmatikai@, in 25 libri (Diog. Laer., 70). Ad avviso di Moraux (Listes, pp. 94 s.), le tesi per l’argomentazione dialettica che erano raccolte in quest’ultima opera, dal carattere pressappoco simile a quello degli altri scritti di genere epicheirematico, presentavano tuttavia quest’aspetto peculiare: si sarebbero fondate sull’opinione paradossale di un sapiente e non su una semplice opinione corrente. Rileva ancora lo studioso che l’elevato numero di tesi lascia ragionevolmente pensare che la raccolta comprendeva una collezione completa delle tesi aristoteliche in circolazione all’epoca della compilazione del catalogo. 3 Sono, infatti, opinioni notevoli (eòndoxa, ossia opinioni eèn do@xhj, «in fama») quelle opinioni che «sembrano a tutti o alla massima parte o ai sapienti e, se a questi, o a tutti o alla stragrande maggioranza o a quelli massimamente noti e illustri» (Top., I, 1,100 b 21-23). 4 L’«epicheirema», letteralmente «discorso rivolto contro qualcuno», è il sillogismo dialettico in generale, che può sia concludere che non con la contraddizione, distinto dall’«aporema», ossia dal sillogismo dialettico che conclude espressamente con la contraddizione della tesi avversaria, vale a dire con la contradizione (Soph. El., VIII,11, 162 a 12-18, dove sono altresì indicati altri due tipi di sillogismo: il «filosofema» o sillogismo scientifico e il «sofisma» o sillogismo eristico. In realtà si tratta di un paralogismo, ossia di un discorso che ha l’apparenza di essere un sillogismo, ma di fatto non lo è). Sull’epicheirema si veda anche Top., II, 4, 111 b 12; 5, 111, b 33; VI, 14, 151 b 23; VIII, 11, 162 a 16 ss. 5 Si tratta del Platonico che, assieme a Nicostrato (menzionato nei frr. 5 e 6 dello scritto Sui contrari), fa parte degli oppositori di Aristotele e, in particolare, delle dottrine logiche dello Stagirita (in proposito cfr. Moraux, Aristotelismus, pp. 97 ss.). 6 Letteralmente, «dove» (pou^). 7 Per una discussione su che cosa Aristotele intenda per su@ndesmov e per aòrqon, e perché si possa propendere per attribuire a questo secondo il significato di articolazione piuttosto che di articolo, e al primo

APPUNTI

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quello di connettivo, mi permetto di rinviare alla nota n. 173 del testo della Poetica nell’edizione italiana da me curata (Torino, Utet 2004). 8 Ossia, quello che sottolinea la necessità di non trascurare, assieme ai connettivi, neppure le articolazioni, dal momento che anche queste, al pari di quelli, sono elementi della le@xiv atti a significare. 9 Per «negazioni» sembra che qui si faccia riferimento a quelli che in De int., 3 Aristotele chiama nomi indefiniti, come per esempio «non uomo», perché costituiti dal nome e dalla negazione «non». Per «privazioni», invece, s’intendono i termini composti con un’alpha privativo (per esempio, aèleqh@v). Distinte sia dalle negazioni che dalle privazioni sono poi le negazioni privative, in merito alle quali si veda Metaph., X, 4 (e la nota n. 92 del mio commento a questo trattato). 10 Sulle flessioni del verbo cfr. De int., 3. 11 Letteralmente, qui, «in che cosa».

CATEGORIE

INTRODUZIONE

Sotto il titolo “Categorie” (Kathgori@ai), a differenza di quanto avviene per tutti gli altri scritti di questa raccolta, non sono ordinati i frammenti di un’opera specifica, diversa da altre di cui Aristotele è l’autore, né le due testimonianze si riferiscono a un’opera siffatta, ma gli uni e le altre rappresentano, in realtà, considerazioni sul primo trattato dell’Organon. Insomma, le Categorie, libro cui si riferiscono le testimonianze e i «frammenti» qui ordinati, non sono uno scritto diverso dalle Categorie, primo trattato dell’Organon, ma corrispondono a questo trattato. Lo stesso catalogo laerziano delle opere aristoteliche non reca due scritti intitolati alle categorie, né di due scritti siffatti danno notizia i cataloghi di Tolomeo e dell’Anonimo. Da qui l’eccentricità e, se si vuole, persino l’anomalia di questa presenza delle Categorie nel contesto complessivo della raccolta del Ross e, per altro verso, l’eccentricità dei «frammenti» qui riportati, i quali non sono passi dell’opera cui si riferiscono, bensì, come si diceva, considerazioni su di essa. Eppure, nelle biblioteche dovevano essere presenti e gli Antichi dovevano conoscere due scritti concernenti le Categorie riferiti ad Aristotele, se gran parte delle testimonianze e dei «frammenti» sono univocamente impegnati a sostenere la paternità aristotelica di uno solo di essi, men-

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OPERE LOGICHE

tre del secondo, recante il medesimo titolo (Categorie), o ~n; un titolo di poco differente (Sulle categorie Per… kathgoriw così nella testimonianza 1/b), attestano che non va ascritto allo Stagirita. Si tratta con ogni verosimiglianza e probabilità di un’opera di scuola aristotelica e fors’anche di uno dei discepoli diretti del Maestro, che tuttavia doveva differire da quella autenticamente aristotelica non tanto per lo stile e la brevità, per le quali caratteristiche, anzi, assomigliava assai a essa (cfr. il frammento 1/a), quanto invece per la profondità e la sottigliezza dei contenuti dottrinali, come Boezio non manca di rilevare (cfr. fr. 1/e), nonché per la compattezza teorica e la piena linearità con i concetti che caratterizzano l’argomentare dello Stagirita e sono peculiari del suo pensare (cfr. fr. 1/e). Ma su ciascuno di questi caratteri è opportuno soffermarsi un po’ più analiticamente. Quanto allo stile, il riferimento è a quell’esposizione concisa e stringata dei concetti che effettivamente caratterizza le Categorie dello Stagirita, prive addirittura come sono di un’introduzione – a differenza degli altri principali scritti di Aristotele – e subito avviate all’analisi della materia. Uno stile che, dunque, le rendeva inconfondibili e ben riconoscibili, e sul quale perciò fanno leva le testimonianze e i frammenti. Le differenze sul piano stilistico tra i due scritti riguardano invece alcune espressioni, quali l’incipit, che varia nell’uno e nell’altro. Ma si tratta di differenze di poca rilevanza, soprattutto sotto il profilo della pertinenza dell’espressione rispetto al concetto; quella dell’incipit, in particolare, non sembra rivelare una particolare curvatura impressa all’idea e anche per l’aspetto strettamente formale non lascia scorgere alcuna significativa caratterizzazione, tanto che Ps. Ammonio (fr. 1/c) parla di «inizio che è pressoché identico (hòtiv scedo#n hé auèth@ eèsti)». Anche la concisione delle espressioni, e dunque la brevi-

CATEGORIE

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tà dello scritto, è una caratteristica delle Categorie aristoteliche. Tra le circostanze che lo attestano sembra particolarmente significativa la trattazione della scienza (eèpisth@mh), la quale, annoverata in Cat., 8 nella prima specie delle qualità, ossia tra gli abiti e le disposizioni, in Cat., 7 è detta altresì far parte dei relativi, senza una parola di spiegazione in ordine alla doppia collocazione. Non soltanto, ma, stante che ogni relativo deve avere un correlativo, che va scelto adeguatamente nella sua determinazione concettuale, ossia enucleando lo specifico aspetto per il quale ne è correlativo, fino a coniarne anche il nome, se nella lingua corrente non esiste (per esempio, «testato» come correlativo di testa e «timonato» come correlativo di timone), si fa presente, senza risolverla, la difficoltà che interviene tra la scienza e il correlativo «scibile», nonché tra la sensazione e il correlativo «sensibile». In realtà la soluzione sussiste, e nel nostro commento al trattato abbiamo cercato di individuarla, procedendo lungo la linea indicata dallo Stagirita di fronte a casi nei quali l’espressione linguistica fa insorgere problemi (cfr. Zanatta, Categorie, pp. 378 ss.). Ma ciò che qui interessa porre in evidenza è che la soluzione è soltanto lasciata scorgere al lettore, ma non espressamente formulata. Si tratta di un esempio particolarmente significativo ed eclatante di concisione ben più che stilistica, ma concettuale e dottrinaria. Il rilievo dei commentatori intorno a questa prerogativa dello scritto aristotelico è, dunque, del tutto appropriata e pertinente. E anche in riferimento a essa dalle testimonianze e dai frammenti qui raccolti si evince che le Categorie non aristoteliche non differivano – o comunque non differivano molto – da quelle dello Stagirita. La differenza più rilevante che invece viene segnalata, sia pur tra le righe, riguarda la profondità dei contenuti teorici. Lo si può inferire dalle parole di Boezio secondo cui «il libro (scil. le Categorie aristoteliche) in verità è di Aristotele e di nessun altro, proprio perché in ogni parte della filo-

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OPERE LOGICHE

sofia egli si trova d’accordo con se stesso in merito all’argomentazione di quest’opera, e la stessa brevità e sottigliezza non costituiscono una discrepanza da Aristotele, [...] benché esista un secondo libro di Aristotele che tratta dei medesimi argomenti e che contiene pressoché le stesse cose, pur essendo diverso nell’elocuzione» (fr. 1/e). Da questa basilare testimonianza emerge, oltre che l’attestazione della coerenza dell’argomentare aristotelico con quello delle Categorie (sul che fisseremo l’attenzione tra breve), l’attestazione della sottigliezza di un tale ragionare, unitamente alla brevità: quel carattere brachilogico sul quale abbiamo già riflettuto. Ora, il fatto stesso che, rispetto a questo carattere della sottigliezza, cui è connessa la brevità, Boezio introduca l’altro trattato sulle categorie con una concessiva («benché esista [quamquam extet]») è sintomatico ed eloquente nel far intendere come a questo secondo scritto tali prerogative non appartenessero; o, più precisamente, non vi appartenesse né l’acutezza né quella brevità connessa a questa dote, giacché sotto il profilo meramente formale, relativo cioè alla sola elocuzione, considerata indipendentemente dai contenuti, anche le «altre» Categorie usassero espressioni concise. Espressioni che, tuttavia, ancorché similari, non erano però le stesse, come appare dall’ultimo rilievo («pur essendo diverso nell’elocuzione»). Conviene infine considerare il rilievo concernente la congruità dell’argomentare delle Categorie con quello proprio dello Stagirita, segno manifesto e importantissimo dell’autenticità del primo. Con esso è agevole e normale ritenere che Boezio si riferisse al fatto che le strutture di pensiero teorizzate nelle Categorie si ritrovano alla base del ragionare di Aristotele per l’ampiezza di tutte le sue opere e rappresentino, in particolare, l’ossatura formale del suo modo di pensare. Alle categorie si connette strutturalmente la multivocità dell’ente e, notoriamente, è questa la struttura di pensiero che caratterizza Aristotele. La divisione per

CATEGORIE

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generi e specie, sulla quale si definisce la dottrina delle categorie, rappresenta, inoltre, una costante dell’ontologia e della gnoseologia del Nostro. Le categorie, infine, per il fatto stesso di teorizzare la suddetta pluralità originaria dell’essere stanno alla base del rifiuto aristotelico della metafisica platonica dei principi e, in ultima analisi, definendo questi le strutture formali delle Idee, delle Idee stesse.

TESTIMONIA

TESTIMONIANZE

a) Ps. Amm., In Arist. Cat. (Ven. 1546), f. 13 a: si dice per esempio che nella grande biblioteca furono trovati quaranta libri degli Analitici e due delle Categorie. Dagli esegeti questo delle Categorie è stato giudicato essere autentico di Aristotele, e che lo sono quattro degli Analitici. Il giudizio è stato formulato sulla base dei pensieri, del tipo di espressione e per il fatto che di questo libro il filosofo ha fatto menzione anche in altre trattazioni.1 b) Elias, In Arist. Cat., p. 133, 9-18: sulla base di questi lo diciamo autentico. In effetti, dal tempo antico il presente libro autentico sulla base sia del tipo d’espressione, sia della gravità dei pensieri,2 sia dal fatto che con questo nome egli (scil. Aristotele) menziona il presente libro in altri suoi libri: «com’è detto nelle Categorie»,3 sia da quello che per sua emulazione i suoi compagni4 scrissero libri con lo stesso titolo e hanno usato l’aggiunta «sulle (peri@)», sia dal fatto che esso ha dato conto agli esegeti attici.5 Dei quaranta libri degli Analitici trovati nelle antiche biblioteche e dei due delle Categorie, quattro soltanto degli Analitici si giudicano e uno solo delle Categorie, e se il presente trattato non fosse autentico, l’intera trattazione logica sarebbe acefala.

FRAGMENTA

FRAMMENTI

1 (R2 114, R3 117) (a) Simpl., In Arist. Cat., p. 18, 16-21: racconta Adrasto nell’opera Sull’ordine dei trattati di Aristotele che viene tramandato come di Aristotele anche un altro libro delle Categorie, che è anch’esso breve e succinto nello stile e si diversifica per poche divergenze, e ha come inizio «delle cose che sono, una è». La quantità di righe di ciascuno dei due è la stessa, per cui la brevità stilistica parla come se ciascuno degli argomenti confutativi fosse esposto sinteticamente. (b) Amm., In Arist. Cat., p. 13, 20-25: si deve sapere che nelle antiche biblioteche sono stati trovati quaranta libri degli Analitici e due delle Categorie. Uno dei due ha quest’inizio: «delle cose che sono, alcune si dicono omonime, altre sinonime»; invece il secondo, che ora abbiamo presente, ha questo tipo di descrizione: «si dicono omonime le cose delle quali soltanto il nome è comune, ma la definizione dell’essenza è diversa».6 Questo viene preferito, nella convinzione che sia superiore per ordine e trattazione e che dappertutto dichiari la paternità di Aristotele. (c) Ps. Amm., In Arist. Cat. (Ven. 1546), f. 17 a: essendo stati trovati, come s’è detto, due libri delle Categorie pressoché simili in tutto e per il prologo.7 Infatti, l’inizio dell’uno è «delle cose che sono, alcune sono omonime, altre sinonime». Inizio che è pressoché identico a quello del libro che

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ho dinanzi. Questo libro è stato giudicato essere autentico del filosofo da parte di tutti gli esegeti. (d) Schol. in Arist. Cat., 33b 35 (Brandis): che questo sia autentico, si è dimostrato così [...] 30-33: sulla base del fatto che ha dato conto a tutti gli atticisti e che tutti, con identico parere, hanno giudicato autentico questo soltanto dei due libri che sono stati trovati, come dei quaranta degli Analitici, secondo quanto racconta Adrasto. (e) Boeth., In Arist. Cat., 1, pp. 161d-162a (Migne): il libro in verità è di Aristotele e di nessun altro, proprio perché in ogni parte della filosofia egli si trova d’accordo con se stesso in merito all’argomentazione di quest’opera, e la stessa brevità e sottigliezza non costituiscono una discrepanza da Aristotele, [...] benché esista un secondo libro di Aristotele che tratta dei medesimi argomenti e che contiene pressoché le stesse cose, pur essendo diverso nell’elocuzione. Ma questo libro diede inizio al calcolo di chi ne abbia la paternità.

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Note 1 Cfr. anche la testimonianza 1/b. Per la verità, non risulta che in alcun passo di altri suoi scritti lo Stagirita abbia menzionato il trattato delle Categorie. Risulta, invece, che in più e più occasioni egli ha fatto esplicito riferimento alle categorie, indicandole espressamente nella sostanza, nella qualità, nella quantità, nella relazione e via di seguito, ossia in quelle stesse di cui tratta espressamente nell’omonimo scritto. Sintomatici, tra gli altri, i seguenti luoghi: Gen. corr., I, 3, 319 a 11-12 («queste cose sono state determinate con le categorie. Alcune, infatti, significano un certo questo, altre un quale, altre un quanto»); Eth. nic., I, 4. 1096 a 28-29 («infatti non si direbbe in tutte le categorie»); Magna Mor., I, 1, 1183 a 10-12 («poiché infatti affermiamo che il bene si dice in tutte le categorie, ed effettivamente si dice nella sostanza, nella relazione, nel quando e in generale in tutte quante ecc.); Phys., V, 1, 225 b 6 «se dunque le categorie si dividono nella sostanza, nella qualità, nel dove, nel quando, nella relazione, nella quantità, nel fare e nel patire, ecc.»); Metaph., VI, 1, 1026 a 33 ss. («ma poiché l’ente, enunciato in senso assoluto, si dice in molti sensi, uno dei quali, come s’è visto, è l’ente per accidente, un altro l’ente come vero, e il non ente come il falso, e oltre a questi vi sono le figure delle categorie, ossia il che cosa, il quale, il quanto, il dove, il quando, e se qualche altra significa in questo modo»); Ivi, VII, 9, 1034 b 7 ss. («non soltanto in ordine alla sostanza il ragionamento mostra che la forma non si genera, ma il ragionamento nel suo carattere comune riguarda, parimenti, tutte le cose prime, come la quantità, la qualità e le altre categorie»); Ivi, IX, 10, 1051 a 34 s. («poiché l’ente e il non ente si dicono, da un lato secondo le figure delle categorie, ecc.»); Ivi, XI, 12, 1068 a 3 («se dunque le categorie si dividono in sostanza, qualità, luogo, agire, patire, relazione, quantità»). 2 Non pare vi possa essere dubbio che qui eènqu@mhma non assume il significato tecnico di «entimema», ossia di sillogismo retorico, giacché le Categorie non sono affatto, com’è noto, un trattato di retorica e in nessuna parte di esso si parla di entimemi. Il termine ha invece il senso generico di pensiero, concetto, riflessine e simili (ovvero, ciò che è nel qumo@v). 3 Cfr. in proposito la nota n. 1. 4 Si tratta dei discepoli e, in generale, dei filosofi del Peripato, chiamati «compagni» (eétaoroi) perché assieme ad Aristotele percorrevano la via della ricerca e dello studio. 5 Ossia: ha dato prova delle proprie prerogative autenticamente aristoteliche. Tale il significato, qui, di «aver dato conto» (euèqu@nav dedwke@nai). 6 L’incipit delle Categorie aristoteliche è questo secondo. 7 Per «prologo» (to# prooi@mion) non è qui certo da intendersi un’«introduzione», ché le Categorie non ne hanno affatto, sibbene, in senso generale, l’incipit del trattato. E di «inizio» (aèrch@), in effetti, parla espressamente Ps. Ammonio nel prosieguo.

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INTRODUZIONE

1. Lo scritto Sui contrari (Peri# eènanti@wn a è) è indicato al n. 30 del catalogo di Diogene Laerzio, in un libro, ed è con ogni verosimiglianza da identificare con lo scritto sulla Scelta dei contrari che Aristotele indica nei passi di Metaph., IV, 2, riportato da Ross come test. 1 e Metaph., X, 3, riportato da Ross come test. 2, e che Alessandro di Afrodisia nella test. 3 dice avere lo Stagirita menzionato anche nel secondo libro dell’opera Sul bene. Ond’è che alcuni studiosi hanno creduto di dover identificare questi due scritti, ma erroneamente, come ha mostrato Moraux (Listes, pp. 52-53., dove sono chiariti i termini della questione).1 Il fatto poi che Aristotele citi la Scelta dei contrari in Metaph., X esclude altresì l’identificazione di questo scritto, ossia dello scritto Sui contrari, con il decimo trattato della Metafisica, come già Bonitz e Susemihl avevano dimostrato e Moraux, che li cita (Ivi, p. 52, nota n. 42), ribadisce. Quanto alla datazione, Moraux ritiene lo scritto in oggetto anteriore sia al trattato Sul bene che al primo libro della Metafisica (Ivi, p. 316), e questa collocazione cronologica, del tutto congruente con il quadro delle citazioni cui anzi si è accennato, non risulta sia stata efficacemente contraddetta da alcuno studioso.

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2. Ross annovera tra i frammenti dello scritto Sui contrari anche passi del commento di Simplicio alle Categorie in cui questi ripetutamente cita uno scritto aristotelico Sugli opposti (Peri# aèntikeime@nwn). In particolare, nel passo raccolto da Ross come fr. 1 (In Arist. Cat., p. 387, 17) Simplicio precisa che questo scritto sarebbe servito agli Stoici (evidentemente gli Stoici antichi) come base di studio di argomenti logici e in particolare dei contrari (eèpi# tw^n eènanti@wn); se ne sarebbero serviti anche per reperire la formulazione e, probabilmente, anche la soluzione di «aporie» (aèpori@ai), vale a dire problemi filosofici posti (e risolti) in chiave logica; aporie che il trattato aristotelico Sugli opposti avrebbe contenuto in gran numero (aèporiw^n plh^qov aèmh@canon). Presupposto di un tale interesse degli Stoici per lo Stagirita era la chiarezza con la quale egli aveva esposto la dottrina degli opposti (safh@neiav eòtucen hé tou^ èAristote@louv le@@xiv). Dell’uso da parte degli Stoici dello scritto aristotelico Sugli opposti il commentatore dà attestazione anche nei frr. 2, 5 e 6; nel fr. 4 lo richiama semplicemente, attribuendolo sempre ad Aristotele. Moraux (Listes, p. 316) fa giustamente presente che questo scritto non ha nulla a che vedere con il trattato Sulla scelta dei contrari, ossia con l’opera Sui contrari, e aggiunge che si tratterebbe di uno scritto spurio, che all’epoca di Alessandro era già andato perduto; insomma «uno pseudoepigrafo verosimilmente posteriore all’elaborazione della logica stoica» (Ivi). Un giudizio, quest’ultimo, che per più ragioni non sembra potersi interamente condividere. Va innanzitutto osservato che gli argomenti tratti «dal silenzio» non sono decisivi né da un punto di vista storico né, ancor meno, da un punto di vista logico. Il fatto che Alessandro non lo abbia menzionato, perché non lo conosceva, non attesta di per sé che lo scritto non sia esistito. Da un punto di vista strettamente logico, poi, se vige il criterio secondo cui ciò che viene documentato con una prova sicu-

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ra (quale può essere la citazione di passi dell’opera in sede di commento) è esistente, la negazione dell’antecedente, ossia di detta documentazione, non implica la negazione del conseguente, ossia l’inesistenza dell’opera. Lo stesso va detto a proposito dell’assenza del trattato dal catalogo di Diogene Laerzio così come dagli altri cataloghi delle opere di Aristotele. Ma, per converso, se si tiene conto dell’autorevolezza e del peso della testimonianza di Alessandro, in primis, e di Diogene Laerzio, l’assenza, pur non potendo essere argomento decisivo, dice pur qualcosa. Così, se essa non prova l’inesistenza dello scritto, prova però, in termini altamente plausibili, la sua non paternità aristotelica. Ora, se gli argomenti di cui è data testimonianza essere stati espressamente trattati nello scritto e costituire suo specifico oggetto presentano indiscutibili corrispondenze con la teoria aristotelica degli opposti e con le posizioni assunte dallo Stagirita come conseguenze di questa teoria e comunque come addentellate a essa, l’ipotesi che lo scritto sia realmente esistito e sia stato redatto da un discepolo dello Stagirita, e comunque in ambiente strettamente a lui vicino, si affaccia con una forte connotazione di attendibilità. Anche la non coincidenza con l’opera Sui contrari gravita nell’orbita di una siffatta corrispondenza. Giacché, notoriamente, per Aristotele i contrari costituiscono una specie di opposti, assieme ai relativi, ai contraddittori e al possesso e privazione, com’è detto in Cat., 10, e il commento di Simplicio in cui si parla dello scritto Sugli opposti è proprio un commento alle Categorie. È dunque non soltanto pienamente logico che questo scritto e quello Sui contrari siano opere diverse, ma è pienamente congruente con la materia di entrambi che nell’opera Sugli opposti si sia parlato anche dei contrari (ond’è che bene ha fatto Ross a includere nella racconta dei frammenti Sui contrari anche questo passo di Simplicio relativa allo scritto Sugli opposti). Ebbene, la testimonianza derivante dal commento di Simplicio attesta

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esattamente questo. Dice infatti Simplicio che (1) mercé la teoria degli opposti Aristotele «ha fornito le basi per tutte le questioni», ossia l’impianto teorico in base al quale formulare e risolvere tutti i problemi filosofici, vale a dire quelle «aporie» alla cui trattazione, come anche prima s’è accennato, il primo libro dello scritto dava ampio spazio; (2) di questa formidabile capacità della dottrina degli opposti di risolvere le aporie, presentate dallo Stagirita in gran numero, si erano accorti gli Stoici; (3) i quali tuttavia non tennero conto di tutte, ma unicamente di quelle convergenti con la loro dottrina filosofica; il che significa: i pensatori del Portico si accorsero che la dottrina aristotelica degli opposti era un formidabile strumento logico per risolvere quelle aporie del loro sistema in qualche modo convergenti con quelle presenti nel sistema aristotelico; (4) all’interno della dottrina degli opposti particolare attenzione era rivolta, a questo riguardo, alla teoria dei contrari (chiara impostazione aristotelica, come s’è detto, per la quale i contrari costituiscono una specie di opposti); (5) si enunciano perciò i capisaldi di tale teoria, correggendo la definizione che precedente ne era stata data. Così la «nuova» e più pertinente concezione dei contrari, espressa dalla «nuova» e più pertinente definizione, li pone direttamente in rapporto (a) sia alla distanza, che nel caso dei contrari è massima, (b) sia alla differenza, e al tempo stesso pone in rapporto tra loro la distanza massima e la differenza. Ora non è difficile scorgere in questo quadro le determinazioni che connotano la contrarietà nella dottrina di Cat., 10 e quelle che, ulteriormente sviluppando questa dottrina, ne connotano la specificità teorica nella trattazione di Metaph., X, 4. In effetti, che i contrari costituiscano i termini massimamente distanti entro il genere è la nota che caratterizza questa specie di opposti in Cat., 10. Su di essa, infatti, si fonda sia la tesi secondo cui, a differenza dei relativi, che si dicono l’uno in relazione all’altro, ciascuno dei contrari non si dice

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l’uno in relazione all’altro, ma in senso assoluto, ossia come semplicemente contrario dell’altro (così, bianco non si dice «bianco del nero» né nero si dice «nero del bianco», al modo in cui, invece, servo si dice «servo del padrone» e padrone si dice «padrone del servo», ma si dicono in senso assoluto: come, rispettivamente, contrario del nero e come contrario del bianco; cfr. Ivi, 11 b 32-37), sia quella per la quale i contrari non ammettono intermedi se o l’uno o l’altro di essi è necessario che appartenga alla cosa, o perché necessariamente vi si genera, o perché necessariamente vi si predica; ammettono invece intermedi se non è necessario che o l’uno o l’altro appartenga alla cosa (Ivi, 11 b 38 ss.). Parimenti, la determinazione della contrarietà in base alla differenza e, in stretta relazione con quest’assunto, il rapporto tra la distanza entro il genere e la differenza sono i tratti che caratterizzano l’analisi della contrarietà in Metaph., X, 4. In effetti, nella prima parte di questo capitolo (1055 a 3 ss.) Aristotele fa presente che (1) la contrarietà è differenza perfetta, (2) in quanto differenza perfetta, stante che la differenza è tra due termini, la contrarietà è tra due termini; ossia: a un contrario è opposto un solo contrario; (3) le altre definizioni di contrarietà si ricapitolano in quella testé proposta: (a) quella secondo cui la contrarietà è differenza massima perché la differenza perfetta differisce massimamente; (b) quella secondo cui sono contrarie le cose che entro un medesimo genere distano massimamente tra loro perché è evidente che esse realizzano la differenza massima, e la differenza perfetta è differenza massima; (c) quella secondo cui sono contrarie le cose che distano al massimo grado nel medesimo ricettacolo per il medesimo motivo della precedente, considerando che il genere, in quanto sostrato, è ricettatolo; (d) quella secondo cui sono contrarie le cose che differiscono al massimo grado nell’ambito di una medesima scienza perché ogni scienza concerne un genere di enti, e quella condizione per cui la differenza massima esistente tra gli enti di un determinato

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genere è differenza perfetta, si ripropone identicamente per la conoscenza di tale genere di enti.2 Ora, proprio la compresenza nella definizione dei contrari delle note che specificano questo tipo di opposti non soltanto nella trattazione di Cat., 10, ma anche, per così dire, nel perfezionamento di questa trattazione espresso in Metaph., X, 4 attesta la posteriorità cronologica dello scritto Sugli opposti, menzionato da Simplicio, rispetto ai due suddetti trattati, avvalorando così l’ipotesi che questo scritto, realmente esistente, sia l’opera di un Peripatetico che raccolse e sintetizzò i momenti salienti della teoria aristotelica dell’opposizione, in generale, e della contrarietà, in particolare. 2.1 A questa ipotesi esegetica si potrebbe obiettare di non tenere conto della disamina sui contrari che, nel quadro della trattazione degli opposti, Aristotele sviluppa in Metaph., V, 10. Qui infatti, com’è noto, gli opposti sono indicati in numero di sei e non già di quattro (e precisamente (1) nei contraddittori, (2) nei contrari, (3) nei relativi, (4) nel possesso e nella privazione, (5) nei termini ultimi delle generazioni e delle corruzioni (6) nelle cose che non possono appartenere contemporaneamente a ciò che è atto a riceverle) e, quanto alla contrarietà, si fornisce una casistica minuziosa e particolareggiata nella quale campeggiano le determinazioni della massima distanza e della differenza massima, ma scandite in una pluralità di situazioni teoriche che specificano altrettanti significati di questo tipo d’opposizione.3 Sennonché per ciò che attiene al numero di opposti e, in particolare, al fatto che nell’elenco di Metaph., V, 10 compaiano due significati dell’opposizione (ossia il quinto e il sesto) che non sono presenti in Cat., 10, in altra circostanza ho cercato di mostrare come sia probabile che con il quinto e il sesto significato Aristotele abbia inteso dare specifico risalto a certe proprietà comuni a quelle delle quattro for-

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me di opposizione che specificano tale rapporto in senso esclusivo, realizzando così il modo più radicale di quello «stare l’uno di fronte all’altro» (aènti-kei^qsai) che è propriamente l’«op-porsi». Tali sono l’antifasi, i contrari, il possesso e la privazione, in ciascuna delle quali i termini in causa stano «l’uno di fronte all’altro» (aènti-kei^tai) in modo da escludersi a vicenda, mente nel caso dei relativi il loro stare «l’uno di fronte all’altro» (aènti-kei^sqai) si risolve in un rapporto di reciproca implicazione. Ond’è che la quinta e la sesta nota concorrono a segnare la differenza tra l’opposizione in senso esclusivo e l’opposizione inclusiva.4 Sotto questo profilo la classificazione dei significati di «opposto» presentata in Metaph., V, 10 pare essere meno rigorosa di quella di Cat., 10, e lo stesso può dirsi a proposito del maggior numero di significati di «contrario» indicati nel primo testo, chiaramente inteso a fornire una casistica più che una determinazione teoricamente stringata del concetto di contrarietà, com’è consono alla sua originaria composizione. Metaph., V, infatti, con ogni probabilità all’inizio costituiva un trattato a sé stante, non facente ancora parte della Metafisica, e coincide con lo scritto accademico dello Stagirita intitolato Peri# tw^n pollacw^v legome@nwn (Sulle cose che si dicono in molti sensi), del quale è data notizia nei cataloghi più antichi delle opere di Aristotele (in proposito cfr. Berti, Struttura e significato, pp. 68 s.). Da qui la decisione dell’autore dello scritto Sugli opposti di attenersi, nella sua sintesi della dottrina aristotelica di questa nozione, in genere, e di quella di contrarietà, in specie, alle trattazioni più rigorose e più teoricamente essenzializzate dello Stagirita. 3. Anche negli altri frammenti, come s’è accennato, a eccezione del terzo, Simplicio richiama lo scritto Sugli opposti e sempre, direttamente o indirettamente, con riferimento alla dottrina dei contrari, estrapolando, con ogni evidenza, la

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parte degli opposti che lo scritto del Peripatetico traeva dall’opera giovanile di Aristotele Sui contrari. Il carattere indiretto o diretto del riferimento è dato dal semplice richiamo di questa dottrina, senza la citazione dello scritto, o dall’esplicita e testuale citazione di esso là dove si parla dei contrari. In ogni caso, il riferimento a essi e l’esposizione della relativa dottrina costituiscono l’aspetto prioritario per il quale il commentatore richiama l’opera Sugli opposti. 3.1 Il carattere aristotelico della dottrina dei contrari (chiaro indizio che l’omonima opera è da ascrivere allo Stagirita e che quella Sugli opposti, che la riprende, fu redatta in ambiente peripatetico, da un filosofo che conosceva bene lo scritto aristotelico) si attesta nel fr. 2 in due istanze, che peraltro costituiscono l’asse concettuale su cui il frammento stesso si costruisce. Innanzitutto nella tesi per cui la giustizia è contraria all’ingiustizia. Tesi prettamente aristotelica, affatto inquadrabile nella teoria delle Categorie, dove si afferma che le qualità ammettono contrarietà e nella prima specie di qualità, rappresentata dagli abiti e dalle disposizioni, si annoverano le virtù (Cat., 8, 8 b 26-29) e, di conseguenza, i vizi, giacché anche questi, al pari delle prime, consistono in abiti (Eth. nic., II,4); ora, la giustizia e l’ingiustizia non soltanto costituiscono una virtù e un vizio, ma sono espressamente la virtù e il vizio addotti a esempio da Aristotele per illustrare la caratteristica delle qualità di avere un contrario (Ivi, 10 b 12-13: «sussiste anche contrarietà secondo la qualità (ad esempio, giustizia è cosa contraria a ingiustizia)». Inoltre, nella tesi secondo cui la persona giusta e quella ingiusta non esprimono casi di contrarietà se non nel senso derivato e secondario dovuto al fatto di partecipare di contrari. Si precisa, infatti, nel frammento che due cose possono dirsi contrarie in due sensi: o per sé, ossia perché in se stesse sono contrarie (come quiete e movimento e, per l’appunto,

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virtù e vizio) o per il fatto di partecipare di cose contrarie (come ciò che è in quiete e ciò che è in movimento). Ebbene la persona giusta e quella ingiusta sono contrarie in questo secondo senso, per il fatto di partecipare di quei contrari per sé che sono la giustizia e l’ingiustizia. In tal modo esse, precisa ancora lo Stagirita, non sono propriamente contrarie, ma si dispongono in modo contrario (eè n anti@ w v diakei^sqai), in conseguenza della circostanza che virtù e vizio, in quanto abiti, sono altresì disposizioni (disposizioni permanenti) e come tali, una volta acquisiti, dispongono in un certo modo i relativi soggetti. Non è difficile avvedersi che al fondo di questa tesi gioca quella per cui l’uomo giusto e ingiusto sono qualificati non in quanto tali, ma perché «possiedono» la giustizia e l’ingiustizia; ond’è che il loro essere giusto e ingiusto corrisponde propriamente a un avere, essi cadono cioè sotto questa categoria, e essa, benché Aristotele nelle Categorie non ne parli che molto succintamente e, in particolare, non dica che non ammette contrarietà (cfr. Cat., 9), è tuttavia evidente che non l’ammette, giacché l’opposto del possesso è la privazione e questi danno luogo a un’altra specie di opposizione, espressamente indicata da Aristotele nello stesso trattato delle Categorie come diversa dalla contrarietà (cfr. Cat., 10, 12 a 25 ss.). Il che risulta confermato ove si consideri che in una trattazione più matura dei contrari, costituita dal già richiamato Metaph., X, 4, possesso e privazione sono riferiti alla contraddizione, essendo questa una privazione assoluta, ossia privazione non soltanto della forma, ma anche del ricettacolo che l’accoglie (laddove la contrarietà è privazione della forma soltanto e per questo privazione perfetta). 3.2 Nel frammento n. 3 Simplicio presenta la dottrina aristotelica della contrarietà in rapporto a quella stoica. Innanzitutto è opportuno considerare la struttura del frammento, il che consentirà di formulare alcuni rilievi in ma-

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niera più circostanziata perché intessuti nella specificazione stessa dei singoli momenti. Il frammento si declina come segue: – si precisa che per Crisippo, mentre uno stato, come per esempio la saggezza, è contrario a uno stato (come la stoltezza), la relative definizioni non sono contrarie. La giustificazione dell’assunto in entrambe le parti riprende istanze della dottrina aristotelica delle Categorie, che – già sappiamo dal passo di Simplicio raccolto nel fr. 1 – era tenuta in conto dagli Stoici quale formidabile strumento per la soluzione di problemi filosofici. Uno stato può essere contrario a uno stato perché, come abbiamo già avuto modo di richiamare, per Aristotele gli stati (eçxeiv), unitamente alle disposizioni (diaqe@seiv), costituiscono la prima specie del genere categoriale della qualità, e le qualità ammettono contrario. Ma anche le tesi per cui una definizione non può essere contraria a una definizione poggia su una dottrina aristotelica, espressa anch’essa nelle Categorie, e precisamente in Cat., 6 (5 b 10 ss.), ove si afferma che «alla quantità niente è contrario»; ora, tra le quantità discrete si annovera il discorso (Ivi, 4 b 22-23), e la definizione è un discorso, esattamente «il discorso che significa l’essenza» (cfr. Top., I, 5, 101 b 38: oçrov me#n lo@gov oé to# ti# hùn eiùnai shmai@nwn; cfr. anche Metaph., VII, 4, 1029 b 25-26 dove la definizione è detta «discorso dell’essenza [lo@gov tou^ ti@ hùn eiùnai]»). – Tuttavia, con una debita aggiunta anche una definizione può ritenersi contraria a una definizione. Lo aveva sostenuto già Aristotele e gli Stoici ribadiscono l’assunto. Lo Stagirita, infatti, aveva messo in chiaro che, mentre una cosa e la definizione della cosa contraria non possono dar luogo a un rapporto di contrarietà, giacché possono stare assieme (per esempio, si può dire che la saggezza non è «ignoranza dei beni, dei mali e di ciò che non è né bene né male», che è la definizione della stoltezza, ossia del contrario della saggezza), invece una definizione può opporsi co-

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me contraria a una definizione, ma con un’aggiunta, con la quale si specifichi che le due definizioni sono contrarie non per se stesse, ma in quanto definizioni di cose contrarie. Ora, nella tesi secondo cui una cosa e la definizione della cosa contraria non danno luogo a un’opposizione di contrarietà risuona, nettissimo, l’eco di due teorie aristoteliche, per cui è certamente vera la testimonianza di Simplicio per la quale l’assunto va originariamente ascritto allo Stagirita. La prima teoria aristotelica che vi si rinviene è già indicata nella giustificazione che Semplicio riporta dell’assunto stesso, e cioè che i contrari, a differenza dei relativi, non possono stare assieme, ma si respingono. È dottrina che traspare nettissima da Cat., 10 e che è implicitamente ribadita in Cat., 11 (14 a 7 ss.), ove si precisa che, mentre in cose diverse se c’è un contrario non è necessario che ci sia anche l’altro, nella stessa cosa se c’è l’uno è necessario che non ci sia anche l’altro. Ma vi si rinviene anche la teoria aristotelica per la quale la contrarietà esige identità di genere, essendo i contrari i termini massimamente distanti entro di esso; ma ove siano in causa una «cosa» e una definizione, una tale unità di genere non è affatto garantita, e il caso di specie lo attesta eloquentemente: la giustizia è una qualità, mentre la definizione, come s’è anzi precisato, essendo un discorso, è una quantità. – Infine si richiamano indicazioni tecniche su quando una definizione è contraria a una definizione. Si precisa che lo è se tra esse vige contrarietà del genere o della differenza specifica o di entrambi. Ora che l’indicazione abbia una chiara valenza aristotelica è detto dallo stesso Simplicio nel presentarla, ed è chiaro dal fatto che essa si costruisce sulla dottrina, propria dello Stagirita, secondo cui la definizione è data dal genere (prossimo) e dalla differenza specifica. Ossia: la contrarietà di due definizioni riposa sulla contrarietà degli elementi che Aristotele ha indicato essere costitutivi della definizione stessa.

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Va infine osservato che gli esempi addotti a illustrazione dell’assunto, chiamando in causa istanze di chiara specificità platonica, concorrono a comprovare e dal canto loro rafforzano la datazione dello scritto Sui contrari, da cui la dottrina della contrarietà esposta nel frammento in ultima istanza è tratta, nel periodo accademico di Aristotele, quando, per l’appunto, le teorie del maestro rappresentavano per lui il termine più immediato e diretto di confronto, nei consensi e nei dissensi. Di spessore platonico sono le due definizioni che illustrano la contrarietà perché i generi sono contrari; tali quella che il bene è proporzione tra le parti e quella che il male è sproporzione tra esse. Vi echeggiano le note definizioni platoniche della giustizia e dell’ingiustizia come armonia tra le parti dell’anima (Resp., IV, 434 c-436 a; 441 c-443 b) e come disordine e disaccordo tra le stesse (Ivi, IV, 444 a-e). Al tempo stesso la tesi che due cose sono contrarie perché i loro generi sono contrari manifesta la sua piena paternità aristotelica, essendo congruente con il terzo caso indicato in Cat. 11 (14 a 19-20), dove lo Stagirita precisa che «è necessario che tutti i contrari siano o nel medesimo genere o nei generi contrari, o che siano essi stessi generi»; tanto più congruente perché come esempio di questo terzo caso stesso Aristotele adduce proprio le nozioni di bene e di male (cfr. Ivi, 24-25: «bene e male non sono in un genere, ma essi stessi si trovano ad essere generi di alcune cose»). 3.3 Il fr. 4, a dispetto della sua apparente semplicità e linearità, presenta invece, ove lo si esamini non solo dal punto di vista strutturale, ma anche storico, un movimento di pensiero articolato e complesso, giacché manifesta un interessante intreccio di istanze platoniche e aristoteliche. L’accerta-mento delle prime conferma e ribadisce la datazione pristina dello scritto Sui contrari cui il frammento si riferi-

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sce, le seconde comprovano ancora una volta la paternità aristotelica di quest’opera. Sembra opportuno mettere in luce i due momenti in modo distinto, incominciando col chiarire per quali elementi il frammento presenta aspetti di indiscutibile matrice aristotelica. Un primo è costituito dal fatto che esso si sviluppa intorno a una questione particolare (un’«aporia», secondo l’espressione usata nel fr. 1) che non soltanto s’inquadra in un problema di chiara marca aristotelica: se tra i contrari vi sia qualcosa d’intermedio, ma viene analizzata e risolta sulla base di strutture concettuali stabilite dallo Stagirita. La questione (l’«aporia») è se tra l’opinione vera e quella falsa vi sia o no un intermedio. Che il problema generale entro cui essa s’inquadra sia aristotelico attesta Cat., 10, dove la trattazione del darsi o meno di un intermedio tra i contrari occupa ampia parte dell’indagine sulla contrarietà (cfr. 11 b 37 – 12 a 20). Che, entro questo quadro generale, la specifica questione tematizzata nel frammento venga sviluppata sulla base di istanze ineludibilmente aristoteliche salta agli occhi sia dalla soluzione che se ne dà, sia dal metodo con cui la si guadagna. La risposta negativa che è data alla questione (tra l’opinione vera e quella falsa non sussiste intermedio) è in tutto e per tutto conforme alla dottrina aristotelica secondo cui tra i contrari non sussiste intermedio se è necessario che o l’uno o l’altro di essi appartenga al soggetto (Ivi). Nel caso di specie, l’impossibilità di un intermedio deriva dal fatto che necessariamente un’opinione è o vera o è falsa, ossia che un’opinione per così dire «neutra», tale cioè da non essere né vera né falsa, non si dà. Questa tesi è asseverata attraverso la smentita della tesi contraddittoria, e proprio un tale metodo, tipico dell’uso della dialettica nella soluzione di problemi filosofici, denunzia la sua marca aristotelica. Si rammenti, infatti, che in Top., I, 2 (101 a 36 – b 4) lo Stagirita annovera tra gli usi della dialettica anche quello per il

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quale essa è utile «in rapporto alle scienze filosofiche (prÕj t¦j kat¦ filosof…an ™pisth@mav)». Il caso di specie ne è un esempio lampante. In effetti, si prospetta una situazione che parrebbe smentire l’impossibilità di un intermedio tra opinione vera e opinione falsa e la si smonta, mostrando così, attraverso la sua inconsistenza, la verità della tesi in oggetto. La situazione oppositiva è che tra l’opinione vera e l’opinione falsa, che costituiscono due contrari, si inseriscono, come intermedi, per l’appunto, la scienza e l’ignoranza, giacché talvolta si passa dall’opinione alla scienza o dall’opinione all’ignoranza; ossia: la cancellazione di un’opinione vera o falsa può dar luogo a scienza o a ignoranza, che pertanto si interpongono tra i due tipi di opinione, di modo che questa non è necessariamente o vera o falsa, ma si dà una situazione intermedia costituita dall’assenza dell’una e dell’altra. Tale situazione intermedia è appunto quella della scienza o dell’ignoranza. A questo livello si inserisce il momento platonico della disamina, che va messo distintamente in chiaro. Esso rimanda alle note tesi del libro sesto della Repubblica (509 d – 513 e) in cui Platone mostra che, nella perfetta corrispondenza dei gradi del conoscere ai gradi dell’essere, come sul piano ontologico tra l’essere che assolutamente è, ossia le Idee, e l’assoluto nulla si colloca quale intermedio il divenire, che è essere e assieme non essere, così sul piano gnoseologico tra la conoscenza assolutamente indefettibile e vera della scienza (eèpisth@mh) e l’assoluta assenza di conoscenza espressa dall’ignoranza (aògnoia) si colloca una conoscenza intermedia consistente, per l’appunto, nell’opinione (do@xa). Essa è intermedia tra la scienza e l’ignoranza perché non è né l’una né l’altra, o meglio è l’una e l’altra, così come il corrispondente livello ontologico, costituito dal divenire, è a mezzo tra il puro essere e il puro niente perché non è né l’uno né l’altro, ma l’uno e l’altro.

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In questo quadro, di chiara matrice platonica, si precisa la valenza dell’obiezione alla tesi secondo cui tra l’opinione vera e l’opinione falsa si collocano come intermedi la scienza e l’ignoranza, giacché non sono né l’una né l’altra. La risoluzione dell’obiezione consiste nel far presente che scienza e ignoranza (nella stessa prospettiva platonica nella quale sono assunte come termini oppositivi della tesi in questione) sono «ciò tra cui» l’opinione, vera o falsa che sia, è un intermedio e non già l’intermedio tra la verità e la falsità di un’opinione. La prospettiva dalla quale muove l’obiezione rovescia, per così dire, l’effettivo stato di cose, giacché fa surrettiziamente passare i termini entro i quali l’opinione vera e quella falsa si pongono, ossia la scienza e l’ignoranza, come termini intermedi tra i due tipi di opinione. Ma indebitamente, perché è l’opinione, vera o falsa che sia, non cessa di essere opinione, ed è l’opinione a collocarsi tra scienza e ignoranza, non queste tra la verità e la falsità dell’opinione. 3.4 A tutta prima l’appartenenza del fr. 5 alla raccolta Sui contrari potrebbe sembrare strana. Non certo perché non si fa riferimento alcuno a questo scritto, sibbene a quello Sugli opposti. Nell’ipotesi esegetica che si è avanzata la dottrina dei contrari presente in quest’ultimo trattato estrapola o comunque si rifà direttamente a quella esposta nel primo, per cui non è sotto questo profilo che eventuali perplessità potrebbero sorgere. Potrebbero invece ingenerarsi al pensiero che, di fatto, nel frammento non si parla di contrarietà, sibbene di possesso e privazione, vale a dire di un tipo diverso di opposizione. Ma si tratterebbe di una perplessità che va subito fugata, riflettendo che – come già abbiamo richiamato (cfr. ante, p. 91) – la contrarietà si riporta a una forma di privazione, e precisamente alla privazione perfetta o privazione della forma, e proprio di questo tipo di pri-

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vazione e del corrispondente possesso si discute nel frammento. La cui architettura vede contrapposti, nel quadro complessivo di una discussione intorno al possesso e alla privazione, da un lato il platonico Nicostrato, autore di una minuziosa e serrata polemica nei riguardi delle Categorie di Aristotele,5 dall’altro la dottrina di costui, asseverata dagli Stoici, che in quest’occasione appaiono alleati dello Stagirita contro Nicostrato. Il frammento è come diviso in due parti, nella prima delle quali è a tema se si possa passare dalla privazione al possesso. Nicostrato nelle argomentazioni polemiche che costruiva contro Aristotele in materia etica, non soltanto lo affermava, ma lo faceva. Aristotele fa presente che vi sono più generi di privazioni, ossia che le privazioni possono essere di molti tipi e concernere i costumi, cose naturali, denaro e altro, e che di alcune non è possibile liberarsi, passare cioè dalle privazioni ai possessi. Al fondo di queste considerazioni echeggia, come si accennava, la distinzione tra privazione assoluta e privazione della forma o privazione perfetta, ed echeggia la tesi di Cat., 10 secondo cui non si può passare dalla privazione al possesso. Nella seconda parte – dove la dottrina posta in campo non è soltanto quella di Aristotele, ma anche quella di Crisippo, messa assieme da Giamblico, che ne riferisce, alla prima e assimilata a tal punto con essa da poter alludere, come sembra, allo scritto Sugli opposti come «scritto aristotelico e crisippeo (eòk te tou^ ˆAristotelikou^ kai# Crusippei@ou bibli@ou)» – si fa presente che non si dà privazione di un contrario. Dottrina prettamente aristotelica, giacché già sappiamo che per lo Stagirita un contrario è una privazione, e precisamente privazione della forma, e non è possibile privare una privazione. Si fa presente, inoltre, che non si dà privazione dei beni dell’anima e concernenti la scelta deliberata (proai@resiv), e anche questa è dottrina che affonda

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le sue radici in Aristotele, sia per il riferimento ai beni dell’anima, nella loro implicita distinzione dai beni del corpo e dai beni esteriori, che, già presentata da Platone, si trova tematizzata dal giovane Aristotele nel Protrettico (cfr. fr. 3 Ross; Zanatta, Dialoghi, p. 235), sia per il richiamo della «scelta deliberata», che è tema basilare dell’etica aristotelica (cfr. Eth. Nic., III, 6) in quanto in essa consiste propriamente l’azione virtuosa. Si fa infine presente che ogni privazione è o un male o un indifferente, e qui è chiaro che la dottrina aristotelica è mescolata assieme a quella stoica, alla quale appartiene la nozione di «indifferente (aèdia@foron)». 3.5 Anche nel fr. 6 la dottrina aristotelica dei contrari viene per ampio tratto mescolata a quella stoica. In un quadro complessivo dei tipi di contrari, che probabilmente veniva tracciato dal Peripatetico autore dello scritto Sugli opposti, il frammento ne chiama direttamente in causa quattro: (1) contrarietà di un bene a un male; (2) contrarietà di un male a un male o a un bene; (3) contrarietà di ciò che non è né bene né male a ciò che non è né bene né male; (4) contrarietà di un indifferente a un indifferente. I primi tre tipi di contrarietà trovano senz’altro riscontro in Aristotele; anche il terzo, che nell’orizzonte tematico e dottrinale dello Stagirita designa quello stato in cui il soggetto, senza essere ancora pervenuto alla virtù, sta tuttavia compiendo, per incitamento di un maestro e sotto l’influenza delle buone leggi, atti virtuosi che lo porteranno ad acquisire l’abito della virtù (cfr. la nota n. 17 del commento al frammento). Invece il quarto tipo di contrarietà chiama in causa una nozione che non trova spazio in Aristotele, ma che è invece basilare nell’etica degli Stoici, quale è, per l’appunto, quella di «indifferente». Se, com’è logico credere, Simplicio traeva ciò che riferisce, direttamente o indirettamente, dallo scritto Sugli

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opposti, allora occorre ritenere che il Peripatetico autore di esso, benché seguace della filosofia aristotelica, su un punto abbia però interpretato a suo modo il pensiero del maestro, finendo per assimilare surrettiziamente la dottrina dello Stagirita con quella stoica. Mi riferisco all’identificazione di contrati quali bianco/nero, dolce/ aspro, quiete/movimento con ciò che per Aristotele non è né buono né cattivo, ossia con la condizione del soggetto sopra indicato, sull’evidente presupposto che tali determinazioni, che in realtà gravitano nell’ambito della fisica, non appartengono all’etica, dove invece campeggiano i concetti di bene e di male. Si tratta di un’identificazione arbitraria, ma che l’autore del trattato ha compiuto, sovrapponendo una sua interpretazione a una tesi dello Stagirita, probabilmente perché influenzato, sul punto, dalla filosofia stoica. Anzi, dovette esserne talmente influenzato da andare oltre e identificare la condizione che aristotelicamente non è né un bene né un male, pensata come denotante ciò che, gravitando nell’ordine del fisico, non ha rilevanza etica, con quella che gli Stoici indicavano con la nozione di «indifferente». Simplicio che, come si diceva, dovette attingere, direttamente o indirettamente, allo scritto Sugli opposti, riprese identicamente questa posizione e la fece valere contro le obiezioni portate dal platonico Nicastro, critico dello Stagirita, alle tesi di costui. In questa chiave la linea di sviluppo del frammento è presto tracciata: Nicastro contrappose ad Aristotele di non aver preso in considerazione, nella tavola dei contrari, la contrarietà di un indifferente a un indifferente. Egli probabilmente conosceva lo scritto Sugli opposti, ma si era reso conto che la nozione aristotelica di ciò che non è né un bene né un male è altra da quella stoica di indifferente, e in base a ciò aveva mosso la sua critica. Alla quale Simplicio, che segue l’identificazione operata

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dal Peripatetico autore dello scritto, oppone che di fatto, menzionando la contrarietà di ciò che non è né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un male, si era posta in campo la contrarietà di un indifferente a un indifferente.

TESTIMONIA

TESTIMONIANZE

Arist., Metaph., IV, 2, 1003b 33 – 1004a 2: tante specie vi sono dell’uno, quante ve ne sono dell’ente. E l’indagare su di esse, che cos’è , è compito di una scienza identica per il genere: dico, per esempio, indagare sull’identico, sul simile e sulle altre determinazioni di questo tipo. E pressoché tutti i contrari si riportano a questo principio.6 Queste cose per noi siano state indagate nella Scelta dei contrari. Arist., Metaph., X, 3, 1054a 29-32: come abbiamo descritto nella Scelta dei contrari, dell’uno sono propri l’identico, il simile e l’uguale, mentre della moltitudine il diverso, il dissimile e il disuguale. Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 250, 17-19: per ciò che riguarda il conoscere che quasi tutti i contrari si riconducono all’uno e alla moltitudine come al loro principio,7 ci rimanda alla Scelta dei contrari, sul presupposto d’averne trattato particolarmente. Di una tale scelta ha parlato anche nel secondo libro dell’opera Sul bene8 . Syrian., In Arist. Metaph., p. 61, 12-17: differenze dell’uno, come sue specie, sono l’identico, il simile, l’uguale, il retto e, in senso complessivo, la serie delle cose migliori, come le è conseguente quella che ha più bisogno dei molti. Ne ha

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FRAGMENTA

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trattato particolarmente anche questo filosofo stesso, effettuando la scelta di tutti i contrari e ponendone alcuni sotto l’uno, altri sotto i molti. Asc., In Arist. Metaph., p. 237, 11-13: per ciò che riguarda il conoscere che quasi tutti i contrari si riconducono all’uno e alla moltitudine come al loro principio, ci rinvia alla Scelta dei contrari, sul presupposto d’averne trattato particolarmente. Di una tale scelta ha parlato anche nel secondo libro dell’opera Sul bene.9 Simpl., In Arist. Cat., p. 382, 7-10: risulta che Aristotele abbia tratto le sugli opposti dal libro di Archita intitolato Sugli opposti, libro che egli non ordinò assieme al discorso sui generi, ma ritenne degno di una trattazione propria. Simpl., In Arist. Cat., p. 407, 15: dopo che il discorso sulla differenza dei contrari è stato completato da parte di Aristotele, si possono ben esporre anche le di Archita su di essi [...] p. 407, 19-20: non lo trascurò chi indagò il libro di Aristotele Sugli opposti.

FRAMMENTI

1 (R2 115, R3 118) Simpl., In Arist. Cat., p. 387, 17: ma poiché l’elocuzione di Aristotele ha avuto in sorte la chiarezza, osserviamo quante elaborazioni i più illustri degli interpreti hanno apportato al luogo. Stante che gli Stoici hanno grandi pensieri nella discussione di argomenti logici, sia nel caso degli altri ma anche in quello dei contrari si danno cura di mostrare che

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Aristotele ha fornito le basi di tutte le nel primo libro dell’opera che ha intitolato Sugli opposti, nel quale vi è anche una quantità straordinaria di aporie. E di esse, quelli hanno presentato una piccola parte. E mentre non è logico inserire le altre in un’introduzione, bisogna esporre, invece, tutte quelle che gli Stoici disposero in modo concorde con Aristotele. Ebbene, lasciata cadere l’antica definizione relativa ai contrari, di cui anche prima abbiamo fatto menzione, ossia tutte le cose che nel genere sono massimamente distanti tra loro, Aristotele nell’opera Sugli opposti ne corresse la definizione, mettendola alla prova in molte specie. E infatti stabilì se le cose che differiscono sono contrarie, se la differenza può costituire contrarietà, se ogni distanza è quella che differisce massimamente, se «le cose che distano massimamente» è identico a «le cose che differiscono massimamente», qual è la distanza e come bisogna venire a sapere che vi è la massima distanza. E se queste cose appaiono assurde, bisogna aggiungere qualcosa al genere, perché la definizione sia «le cose che massimamente sono distanti nel medesimo genere». E stabilì quali assurdità conseguono a questa , se la contrarietà è alterità, se sono contrarie le cose che sono massimamente diverse, e altre obiezioni in numero maggiore. p. 388, 13-14: questa è la minima parte delle cose di cui Aristotele nella trattazione Sulle contrarietà10 sviluppò i problemi. 2 (R2 116, R3 119) Simpl., In Arist. Cat., p. 388, 21: I seguaci della Stoa si servirono, dunque, di tutte queste cose e seguirono immantinente Aristotele nelle altre definizioni concernenti i contrari, avendo egli dato le basi per esse nello scritto intitolato Sui contrari, basi che essi elaborarono nei loro libri [...] p. 389, 4-10: essendo l’insegnamento stoico di questo genere, vedia-

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mo come lo trassero dalla tradizione di Aristotele. Questi, infatti, nell’opera Sugli opposti afferma che la giustizia è contraria rispetto all’ingiustizia; non afferma però che il giusto si dice come contrario dell’ingiusto, ma che si dispone in modo contrario . E se queste cose sono contrarie, egli sostiene, «contrario» si dirà in due sensi: ché, i contrari si diranno o per sé: per esempio, virtù e vizio, movimento e stasi; oppure per il fatto di partecipare di contrari: per esempio, ciò che è in movimento a ciò che è in quiete e ciò che è buono a ciò che è cattivo. 3 (R2 117, R3 120) Simpl., In Arist. Cat., p. 389, 25 – 390, 7: perciò afferma che, mentre la saggezza è contraria alla stoltezza, la definizione non è più, in corrispondenza, contraria alla definizione. Ma facendo riferimento a quelle cose,11 essi12 opponevano anche le definizioni, secondo un’unione. Queste cose13 in Aristotele, che lo segnalò per primo, erano distinte, non ritenendo egli giusto che un contrario non si possa porre assieme alla definizione di un contrario: per esempio, che la saggezza non è il contrario dell’ignoranza dei beni, dei mali o di nessuno dei due, ma semmai opporre una definizione a una definizione secondo un’unione e di dirle contrarie per il fatto di essere di cose contrarie. E applica pienamente un accorgimento tecnico, ossia che un discorso definitorio è contrario a un discorso nel caso in cui qualcosa sia contrario al genere o alle differenze o a entrambi; per esempio, la definizione di «bene», se per caso è questa, è «proporzione delle parti tra loro»; contrario a essa è «sproporzione delle parti tra loro».14 E si dà la contrarietà al genere, ma in altri casi alle differenze: per esempio, il bianco è il colore capace di scindere la visione, il nero il colore capace di comporla; in questi casi il genere è il medesimo, mentre la contrarietà è

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secondo le differenze. Si è detto, dunque, come un discorso è contrario a un discorso ; anche i discorsi atti a mostrare l’essenza saranno contrari. Ma è sufficiente che questi argomenti siano stati portati fino qui. 4 (R2 118, R3 121) Simpl., In Arist. Cat., p. 390, 19-25: lo stesso Aristotele nel libro Sugli opposti condusse questa ricerca: se chi perde uno dei due non necessariamente assume l’altro, vi è forse qualcosa in mezzo a essi o non vi è del tutto? Infatti, chi perde l’opinione falsa non assume necessariamente l’opinione vera, né chi perde quella vera assume necessariamente l’opinione falsa, ma talvolta muta da quest’opinione o nel non assumere assolutamente nulla o nella scienza, e tra un’opinione vera e una falsa nulla è a mezzo se non si tratta di ignoranza né di scienza. 5 (R2 119-120, R3 122-123) Simpl., In Arist. Cat., p. 402, 26: Simpl., In Arist. Cat., 402, 26: assurdamente ,15 costruendo le argomentazioni oppositive a partire dalle privazioni concernenti il costume, sostiene di mutare anche la privazione nel possesso [...] 30: Invece Aristotele non assunse il possesso e la privazione nelle argomentazioni oppositive che muovono dal carattere, ma in quelle per natura, per le quali l’antitesi secondo il possesso e la privazione si dice anche in senso principale. Serviamoci dunque delle stesse tesi di Aristotele contro Nicostrato. Infatti, nello scritto Sugli opposti egli sostiene che alcune privazioni si proferiscono delle cose secondo natura, altre delle cose che si collocano nell’ambito del costume, altre dei guadagni, altre di altri soggetti: la cecità fa parte delle cose per natura, la nudità di quelle che si collocano nell’ambito del costume, la privazione di denaro di quelle

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che sopraggiungono nell’uso. Ma vi sono anche altre privazioni, in numero maggiore, e da alcune privazioni non è possibile una liberazione, da altre è possibile [...] 403, 5-24: ma dal libro aristotelico e crisippeo è possibile assumere la piena dottrina sulle privazioni, e anche Giamblico ne trascrisse una che suona in questi termini: “Poiché avere si dice in molti sensi, come già abbiamo mostrato, la privazione si estende a tutti i significati di avere, ma non si estende, inoltre, anche ai contrari. Infatti, la privazione è qualcosa d’uguale a una distruzione, per cui non si può parlare di privazione di un male, poiché neppure si può avere distruzione di un male o di una cosa dannosa, ma di un bene o di una cosa utile. In effetti, colui che si è liberato di una malattia o della povertà, non si può dire che è stato privato di una malattia o della libertà, ma piuttosto colui che ha subito la perdita della salute o della ricchezza. La cecità è privazione di un bene (infatti la vista è un bene), mentre la nudità è privazione di un indifferente (infatti il mantello è un indifferente, ossia non è né un bene né un male). Per questo nessuna privazione è un bene, ma o è un male o è un indifferente. E si può avere privazione o di tutti i beni o della stragrande maggioranza. Ma Aristotele afferma che non si verifica privazione dei beni che risiedono nell’anima e che riguardano la scelta deliberata. Nessuno, infatti, dice di essere privato della giustizia e chi dice ‘nessuno sopporta la scienza’ parla a partire dalla medesima concezione. Dunque, le privazioni hanno piuttosto per oggetto la ricchezza, la fama, i beni di questo genere e, soprattutto, i cosiddetti beni concernenti il possesso. Per questo alla stragrande maggioranza delle privazioni fanno seguito compassione e pietà”. Tuttavia Aristotele paragona ora (scil. nelle Categorie) l’antitesi delle privazioni naturali a quella dei contrari. Ma di questi argomenti si è detto a sufficienza.

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6 (R2 121, R3 124) Simpl., In Arist. Cat., 490, 15: alle cose dette sui contrari aggiunge queste [...] 17: che al bene è totalmente contrario un male, ma al male talvolta è contrario un bene, talvolta un male16 [...] 30: nell’opera Sugli opposti a questi modi dei contrari ha aggiunto anche quello delle cose che non sono né beni né mali in rapporto alle cose che non sono né beni né mali, dicendo così che il bianco si oppone come contrario al nero, il dolce all’aspro, l’acuto al pesante, la quiete al movimento17 [...] 410, 25-30: Nicostrato muove un rimprovero, che la distinzione dei contrari è imperfetta. Infatti, non ha aggiunto che anche un indifferente si oppone come contrario a un indifferente.18 Ma in realtà questo nel libro Sugli opposti lo aggiunge, dicendo che vi è un modo dell’antitesi che è proprio delle cose che non sono né beni né mali in rapporto alle cose che non sono né beni né mali, come s’è detto prima.19 Queste cose non le ha chiamate indifferenti, come ritengo, perché il nome di indifferente, posto dagli Stoici, come si sa è più recente.

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Note 1 La prova decisiva che lo studioso adduce è che Alessandro non cita il passo della Scelta dei contrari al quale Aristotele fa riferimento nel Sul bene, ma si limita a richiamare l’allusione dello Stagirita; non cita passi della Scelta dei contrari neppure là dove, nel corso del suo commentario alla Metafisica, illustra le tesi aristoteliche in merito alla dottrina platonica dei principi (chiaro riferimento, lasciato inesplicato da Moraux, probabilmente a motivo della sua evidenza, al commento di Metaph., I, 9). Ma Alessandro conosceva lo scritto Sul bene, e d’altro canto non avrebbe mancato di citare i passi dell’opera aristotelica che gli serviva per il commento, come si può facilmente desumere dal suo usuale modo di procedere. Per cui, se la Scelta dei contrari coincidesse con lo scritto Sul bene, che il commentatore aveva sotto gli occhi, non si sarebbe limitato a menzionare il semplice rinvio dello Stagirita, ma lo avrebbe citato direttamente. 2 Sulla dottrina aristotelica della contrarietà in Metaph., X,4 si veda, tra gli altri, la lucida disamina di Rossitto, Opposizione. 3 Si dice, infatti, che sono contrarie (1) le cose, differenti per genere, che non possono essere contemporaneamente presenti; (2) le cose più distanti entro un medesimo genere; (3) le cose che entro un medesimo soggetto atto ad accoglierle differiscono massimamente; (4) le cose che cadono sotto la medesima facoltà e che differiscono massimamente; (5) ciò che differisce massimamente (a) o in senso assoluto, (b) o secondo il genere (c) o secondo la specie; (6) le cose che (a) possiedono i contrari, (b) o sono atte a ricevere i contrari, (c) o sono atte a produrre o a patire i contrari; (d) o producono o patiscono i contrari; (e) sono perdite o acquisizioni di contrari; (f) possessi o privazioni di essi (Metaph., V, 10, 1018 a 20- 38). 4 Cfr. Zanatta, Metafisica, nota n. 140 nel commento del libro decimo, dove ho altresì presentato lo status quaestionis e le soluzioni che altri studiosi hanno proposto 5 In proposito cfr. la nota n. 15. 6 Come le specie dell’ente sono da individuare nelle categorie, ossia nei significati in cui originariamente si divide l’ente in quanto ente, così le specie dell’uno sono i significati che l’uno stesso assume originariamente, ossia nelle differenti categorie. E nella sostanza l’uno significa l’identico, nella quantità l’uguale, nella qualità il simile (cfr. Metah., X, 3, 1054 a 30-31). Ebbene, poiché l’uno e l’ente sono «la stessa cosa e una sola natura» (cfr. Metaph, IV, 2, 1003 b 23), alla medesima, unica scienza che studia l’ente in quanto ente, ossia alla filosofia prima in quanto ontologia, compete di studiare anche l’uno. E poiché l’uno si dice in molti significati, a tale, unica scienza, competendo di studiare che cos’è l’uno, compete eo ipso di studiare che cos’è l’identico, che cos’è l’uguale, che cos’è il simile e così via. Non soltanto, ma vi compete di studiare anche che cos’è ciascuno dei contrari di queste

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determinazioni, vale a dire il diverso, il disuguale e il dissimile, giacché la scienza dei contrari è la medesima, e all’uno si riconducono in ultima analisi i contrari dei suoi originari significati. In quanto tale, l’uno è «principio». È quanto si riscontra al fondo del commento di Alessandro secondo cui «con “principio” intende la coppia dei contrari costituita dall’uno e da ciò che è opposto all’uno, ossia i molti. Infatti, l’identico è un’unità, mentre il diverso è una molteplicità e in una molteplicità. Allo stesso modo il simile e l’uguale sottostanno all’uno, mentre il dissimile e il disuguale sottostanno al molteplice» (Alex., In Arist. Metaph., 250, 14-18). 7 Cfr. Metaph., X, 3, 1054 a 20 ss., dove Aristotele, richiamato che l’essere dell’uno è l’essere l’indivisibile (come ha determinato in Metaph., X, 1, 1052 b 16: to# eèni# eiè^nai to# aèdiaire@twj eèstˆn eiè^nai) e, di conseguenza, che l’essere dei molti è il divisibile, dapprima stabilisce che l’opposizione tra l’uno e i molti è per contrarietà, non essendo ammissibile che (a) l’indivisibile, assunto nella valenza di uno, sia la negazione del divisibile, assunto nella valenza di molteplice e con ciò escludendosi che si tratti di contraddittorietà, (b) né essendo ammissibile che il primo sia privazione del secondo, (c) né che il rapporto sia tra relativi. Indi, posto che l’uno come indivisibile si chiarisce a partire dal molteplice in quanto divisibile, essendo quest’ultimo più noto rispetto a noi, ossia secondo la sensazione, Aristotele stabilisce che uno significa (1) identico, (2) simile, (3) uguale; molteplice significa (1) diverso, (2) dissimile, (2) disuguale. Indica quindi i significati (1) di identico, stabilendo che è tale ciò che è uno (a) secondo il numero, (b) secondo il numero e la nozione, vale a dire sia per la materia che per la forma, (c) secondo la nozione della sostanza prima, vale a dire per il fatto di avere la medesima forma o essenza; (2) di simile: sono tali (a) le cose che, essendo diverse come concreti individui, hanno identica forma; (b) le cose cui ineriscono affezioni qualitative del medesimo grado; (c) le cose che hanno la medesima affezione qualitativa, indipendentemente dal relativo grado; (d) le cose che hanno più aspetti identici che diversi. Indica quindi i significati di diverso, stabilendo che è tale (a) l’opposto di identico; (b) ciò di cui tanto la materia quanto la nozione non sono unitarie; (c) ciò la cui nozione non è unitaria. Precisa poi che identico e diverso si oppongono come contrari e non come contraddittori (il contraddittorio di identico è non-identico). Da ultimo stabilisce che sono diverse le cose che si distinguono in senso generale, mentre sono differenti le cose che si distinguono per un particolare, identico aspetto, il quale può riguardare o il genere (cosicché le cose sono differenti per genere) o la specie (cosicché le cose sono differenti per la specie). 8 Riportato anche come fr. 5/1 del Sul bene. 9 Riportato anche come fr. 5/3 del Sul bene. 10 Questo lo@gov Sulle contrarietà (peri# eènantioth@twn) non è certamente un’opera, oltre quelle Sui contrari (o Sulla scelta dei contrari) e Sugli opposti, bensì, con ogni verosimiglianza, una parte (lo@gov ha qui,

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infatti, il significato di trattazione ed equivale perciò a pragmatei@a) o, forse, un intero libro di quest’ultimo scritto. Sulle contrarietà potrebbe così essere il titolo di questa sezione del trattato Sugli opposti. In effetti, com’è detto da Simplicio nella prima parte del frammento, in questo trattato la dottrina aristotelica della contrarietà era esposta anche in funzione della formulazione e della soluzione di molte «aporie», ossia di molti problemi filosofici. Per «contrarietà» (eènantioth@seiv) sono perciò da intendersi questi problemi, qualificati con tale termine (che probabilmente costituiva il titolo della parte dello scritto Sugli opposti in cui l’autore ne trattava o, quanto meno, il titolo col quale gli Stoici indicavano questa parte dello scritto) a motivo del fatto che i problemi (le «aporie») consistevano in concezioni, per l’appunto, contrarie, intorno a determinati argomenti; concezioni effettivamente sostenute da precedenti filosofi e semplicemente presentate come possibili dall’autore dello scritto. 11 Ossia «cose» come la saggezza e la stoltezza, vale a dire a realtà che sono contrarie in se stesse e in senso assoluto, senza cioè bisogno di qualcos’altro, come un’aggiunta. 12 Ossia gli Stoici. 13 Ossia «cose» come la saggezza e la stoltezza, da un lato, e le definizioni, dall’altro. 14 Chiaro eco della teoria di Platone secondo cui la giustizia è armonia delle parti dell’anima (Resp., IV, 434 c-436 a; 441 c-443 b), mentre l’ingiustizia è disordine e subbuglio tra esse (cfr. Ivi, IV, 444 a-e). In proposito si veda l’Introduzione, ante, p. 98. 15 Sul platonico Nicostrato di Atene, autore di uno scritto polemico contro le Categorie di Aristotele, si veda Moraux, Aristotelismus, pp. 97 ss. 16 Il riferimento è alla dottrina aristotelica delle virtù etiche, le quali, notoriamente, costituiscono il giusto mezzo tra un difetto e un eccesso, che sono entrambi vizi, ossia mali. Ora, rispetto a uno dei due estremi (che è un male), e cioè al difetto o all’eccesso, sono contrari sia il mezzo (cioè un bene), sia l’altro estremo (cioè un altro male). È quanto Aristotele espone in Eth. nic., II, 8. 17 Come si vede, se si eccettua la coppia acuto/pesante, tra i quali non si vede come possa sussistere contrarietà, tutte le altre specificano termini che aristotelicamente designano indiscutibilmente dei contrari. Si tratta di termini riferibili a realtà naturali, e probabilmente per questo l’autore del trattato Sugli opposti, che, pur essendo con ogni verosimiglianza un Peripatetico, sul punto assimila però la dottrina di Aristotele con quella degli Stoici, constatando che detti termini fuoriescono dalla sfera dell’etica, dice che si riferiscono a «cose che non sono né beni né mali», intendendo con ciò gli indifferenti stoici, come comprova il successivo rilievo di Simplicio, il quale, trovando probabilmente attestato, direttamente o indirettamente, nello scritto Sugli opposti l’identificazione del concetto aristotelico di «ciò che non è né buono né cattivo» con quello stoico di «indifferente», può così ribatte-

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re a Nicostrato, che accusava l’autore del suddetto trattato e, dietro di lui, lo stesso Aristotele di non aver tenuto conto del fatto che anche gli indifferenti possono essere contrari, e rispondergli che, in realtà, si è tenuto conto anche di questo tipo di contrari, adducendo a prova la contrarietà proprio dei termini qui richiamati (bianco/nero, dolce/ aspro, ecc.). Ma è una sovrapposizione surrettizia, questa che assimila ciò che per lo Stagirita non è né buono né cattivo con ciò che per gli Stoici è un indifferente. In realtà, per Aristotele ciò che non è né buono né cattivo non ha niente a che fare con gli «indifferenti» stoici, né riguarda quei contrari fisici, quali bianco/nero, dolce/aspro, ecc., ai quali malamente l’autore dello scritto Sugli opposti lo assimila, ma denota lo stato etico di chi, senza essere ancora virtuoso, ossia senza avere ancora acquisito l’abito della virtù, sta tuttavia compiendo (sotto la guida di un maestro e, soprattutto, delle leggi) quegli atti virtuosi per la cui abituale esecuzione giungerà a possedere la virtù (in proposito cfr. Eth. nic., II, 1; Metaph., X, 4, 1055 b 23-25 nonché la nota n. 287 di Zanatta, Metafiusica, libro V). È opportuno far presente che «pesante», ove fosse correttamente opposto a «leggero», designando questo secondo la qualità peculiare di ciò che si porta verso l’alto (il fuoco, innanzitutto, e poi l’aria) e il primo quella di ciò che si porta verso il basso (la terra, innanzitutto, e poi l’acqua) sarebbe servito, assieme al leggero, a indicare non soltanto il termine di una coppia di determinazioni autenticamente contrarie, ma tali da costituire, per Aristotele, i paradigmi stessi della contrarietà secondo il luogo: in quanto proprietà di «alto» e «basso» che per lo Stagirita non sono direzioni né posizioni, bensì «luoghi propri», in riferimento ai quali si definisce primariamente nell’ambito fisico la contrarietà. Infatti, gli altri luoghi contrari, ossia sinistra/destra e avanti/indietro, sono successivi ad alto/basso. 18 Per esempio, la malattia alla salute. Entrambe, infatti, nell’ottica della morale stoica sono «indifferenti» (ancorché la seconda rappresenti un «indifferente preferito», mentre la prima un «indifferente respinto»), e sono contrari. 19 Da tutto ciò ritengo che sarebbe azzardato sostenere che Nicostrato non aveva letto lo scritto Sugli opposti e così non si era potuto avvedere del fatto che, con la contrarietà di ciò che non è né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un male, era posta in campo anche la contrarietà di un indifferente a un indifferente. Ritengo invece più consono opinare che Nicostrato lesse quello scritto e prese atto dell’identificazione operata dal suo autore dei due concetti, ma, ritenendola surrettizia, ebbe così modo di denunciare che nel quadro delle opposizioni per contrarietà presentato in quello scritto stesso mancava quella di un indifferente a un indifferente.

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PARTE SECONDA OPERE FILOSOFICHE

SUL BENE

INTRODUZIONE

1. Lo scritto aristotelico Sul bene (Peri# taègaqou^) è riportato al n. 20 del catalogo di Diogene Laerzio, che lo indica in tre libri, al n. 20 del catalogo dell’Anonimo, che lo presenta in un solo libro e al n. 9 del catalogo di Tolomeo, che lo segnala in cinque libri. Ne dà notizia altresì la Vita marciana (p. 433, 10-15 = fr. 1) e lo ricordano i commentatori di Aristotele, a partire da Alessandro, che ne fa espressamente menzione in più luoghi (In Arist. Metaph., 56, 35 = fr. 2; 85, 16-18 = fr. 2; 59, 28 – 60, 2 = fr. 4; 250, 17-20 = fr. 5; 262, 18-26 = fr. 5) ed è con ogni probabilità la fonte alla quale si rifanno anche gli altri, e cioè Giovanni Filopono, Asclepio, Simplicio e lo Ps. Alessandro (nei passi raccolti nelle Testimonianze e nei frr. 2, 5 e 6). In merito al numero di libri in cui lo scritto era redatto è pressoché impossibile esprimersi con sicurezza. Se si dà credito alla testimonianza di Alessandro, che conosceva direttamente lo scritto aristotelico e in due circostanze fa espresso riferimento a un secondo libro (In Arist. Metaph., p. 250, 17-20 = fr. 5; 262, 18-26 = fr. 5), è ragionevole credere che lo scritto constasse di più libri, sì da ritenere poco probabile la notizia della sua composizione data dall’Anonimo, e che Aristotele abbia organizzato la materia in modo da esporre in un libro o più libri la dottrina dei principi,

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essendo questa, come subito vedremo, l’oggetto dell’opera, e formulare in un altro libro o in altri libri le sue critiche a essa. Che i libri fossero complessivamente due, è l’ipotesi più probabile. Ciò comporterebbe che in un solo libro lo Stagirita abbia raccolto assieme ed esposte le dottrine di Platone e dei Platonici, e in un altro le abbia prese in considerazione insieme per muovervi contro obiezioni, senza mescolarle, ovviamente, ma neppure senza separarle così nettamente da impiegare più libri per ricostruire, in alcuni, e criticare, in altri le dottrine accademiche separatamente considerate. Una distinzione, questa, che non è confacente allo Stagirita neppure là dove, in Metaph., XIII e XIV, espone e critica le teorie dei numeri di Platone e degli Accademici. Donde, come si diceva, l’ipotesi più ragionevole è che l’opera sia consistita in due libri. Già quest’architettura ne metterebbe allora in risalto la complessità e la vastità, le quali caratteristiche risulterebbero ancor più marcate se si dovesse dar fede alla notizia che ne vuole la composizione in più libri ancora. 2. S’è detto che il contenuto dello scritto riguarda la dottrina dei principi, e ciò è quanto risulta dalle testimonianze e da tutti i frammenti, il cui esame pone altresì in evidenza, come analiticamente vedremo, che i principi in causa sono di natura matematica. Tanto che Alessandro, nel presentarli, afferma che essi, pensati dagli Accademici come principi delle Idee e, di conseguenza, dell’intero esistente, erano fatti coincidere con i principi del numero (cfr. In Arist. Metaph., p. 55, 20-57, 28 = fr. 2; 85, 15-18 = fr. 2 e la nota n. 2 di questa Introduzione). Mette conto, allora, illustrare perché mai l’opera faccia riferimento al bene, fin già nello stesso titolo. Il fatto si è che, come si ricava dalla testimonianza di Aristosseno (Harm., 2, 20, 16 – 31, 3) ed è riconosciuto dagli studiosi che ammettono l’esistenza delle cosiddette «dottrine non scritte» (aògrafa do@gmata) di Platone, queste

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riguardavano, per l’appunto, l’esposizione dei principi, alla quale Platone dedicò una famosa lezione in cui annunciava che avrebbe parlato del bene. La connessione tra il bene e i principi si salda sulla circostanza che al primo nella Repubblica è assegnata la funzione di principio delle Idee, nella duplice valenza di ratio essendi, in quanto è ciò che ne spiega l’essere, e di ratio cognoscendi, essendo ciò che da un lato le rende intelligibili e, dall’altro, rende l’intelletto intelligente, ossia capace di coglierle – al modo in cui sul piano sensibile il sole, del quale il bene è l’analogo sul piano dell’intelligibile, causa la vita delle cose sensibili e rende, da un lato, visibili queste cose stesse, dall’altro veggente l’occhio (Resp., V, 580 a ss.). Le Idee, infatti, fin dalla loro istituzione, individuabile nel celebre passo del Fedone (99 e ss.) in cui Socrate raccolta di aver compiuto una «seconda navigazione» e di aver ricercato la cause delle cose non più nelle cose stesse, ma nei lo@goi, sono presentate come «ipotesi» (uépoqe@seiv) e come «postulati» (aièth@mata): ossia come cause paradigmatiche che bisogna «ipotizzare» per dar conto delle cose sensibili, ovvero come ciò che è richiesto, e cioè «postulato», per renderne ragione. Cosicché, per dar conto di quelle ipotesi e di quei postulati che sono le Idee, occorre ipotizzare e postulare l’esistenza di altre Idee, e queste a loro volta richiedono che si ipotizzino e si postulino altre Idee ancora, fino a pervenire, in questo procedimento che segna un momento essenziale della dialettica nella sua linea ascendente, a un principio anipotetico, espresso, per l’appunto, dal bene. Se, dunque, il bene è il principio delle Idee e quindi, in ultima analisi, essendo le Idee le cause delle realtà sensibili, della totalità dell’esistente, una volta riconosciuto, come effettivamente Platone riconobbe nell’ultima fase della sua filosofia, che esse hanno natura matematica e i loro principi sono i principi stessi dei numeri, trattare del bene equivaleva a trattare dei principi matematici delle Idee.

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Da qui, il disagio in cui vennero a trovarsi gli uditori di quella lezione, secondo quanto testimonia Aristosseno, che riferisce un racconto dello stesso Aristotele; questi, infatti, vi assistette e, come altri che la udirono (cfr. Simpl., In Arist. Phys., p. 151, 6-19 = fr. 2; pp. 453, 25-454, 19 = fr. 2), ne stese un resoconto, il quale costituisce il nucleo del Peri# aègaqou^. Ora, Aristosseno narra che la stragrande maggioranza di coloro che parteciparono alla lezione sul bene, erano andati ad ascoltare Platone «supponendo che avrebbe preso uno di questi che sono ritenuti beni umani, ossia la ricchezza, la salute, la forza, complessivamente una qualche meravigliosa felicità. Ma quando risultò che i discorsi vertevano sulle matematiche, sui numeri, sulla geometria, sull’astronomia e, alla fine, che il bene è l’uno, si manifestò loro qualcosa, credo, di completamente paradossale». 2.1 Parlando della dottrina dei principi si è fatto riferimento agli «studiosi che ammettono l’esistenza delle cosiddette “dottrine non scritte”» (aògrafa do@gmata) di Platone. In realtà, la dottrina dei principi che Aristotele attribuisce a Platone non si trova enunciata in nessuno dei Dialoghi, anche se nel Flebo e nel Timeo si rinvengono considerazioni teoriche che non soltanto sono del tutto compatibili con essa, ma sembrano esserne un palese richiamo e un’eloquente attestazione. Donde il problema della veridicità delle affermazioni dello Stagirita, ad alcuni studiosi essendo sembrato che esse non ne abbiano alcuna, ma le «dottrine non scritte» siano soltanto un’invenzione di Aristotele, che attribuì al maestro questa teoria al solo fine di poterne più drasticamente e più vigorosamente muovere obiezioni; in realtà, Platone non l’avrebbe mai professata. È la tesi radicale che trova in Cherniss il suo più deciso e notevole assertore,1 ma che a vario titolo annovera tra i suoi sostenitori anche Ast, il primo Zeller, Techmuüller, Shorey, Kluge, Ritter, Natorp, Isnardi Parente.2

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Si tratta però di una posizione minoritaria, rispetto alla quale la maggior parte degli studiosi dà credito alla notizia di Aristotele, ritenendo che Platone abbia effettivamente professato un dottrina dei principi accanto a quella delle Idee e che, mentre questa seconda è attestata dai Dialoghi, la prima è il frutto di un insegnamento orale. Tuttavia, alcuni di coloro che condividono questa linea esegetica ritengono che la dottrina dei principi percorra interamente il pensiero di Platone, costituendone la struttura di fondo non mai esposta ex professo, ma non per questo assente dai Dialoghi, nei quali in realtà sarebbe riscontrabile in espressioni manifestamente allusive di essa.3 Per altri, invece, essa è assente dai Dialoghi e corrisponde soltanto a un’acquisizione del tardo Platone, che ne fece oggetto di un’esposizione unicamente orale, nella famosa lezione sul bene.4 È questa l’opinione oggigiorno più condivisa, la quale, come si vede, è anche la meno provvista di radicalità nel sostenere un impianto metafisico in Platone sempre e dovunque riscontrabile o nel negarne totalmente l’esistenza. 3. Che il Peri@ taègaqou^ avesse per oggetto la dottrina platonica dei principi, e quali essi fossero, appare dalle notizie dei commentatori, e innanzitutto da Alessandro, il quale, servendosi di questo scritto per illustrare alcuni passi della Metafisica, lo cita espressamente nel commento di luoghi in cui Aristotele parla di tale dottrina in modo molto stringato, indicandola come un’elaborazione teorica ulteriore a quella delle Idee separate e addirittura come contrapposta a essa, o semplicemente vi allude. In tal senso il commento di Alessandro risulta prezioso, innanzitutto, perché permette di rendersi conto del motivo di tale e tanta brachilogia dello Stagirita là dove si riferisce alla dottrina in oggetto, potendosi chiaramente intendere che nei passi in cui la presenta in maniera così scarna egli in realtà riassume argomenti più diffusamente enunciati nel Peri# taègaqou^ e, parimenti, che pure le criti-

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che che succintamente vi muove sono semplici indicazioni di obiezioni più articolatamente formulate e strutturate in quell’opera; ma risulta prezioso anche – e soprattutto – perché, presentando il contenuto del Peri# taègaqou^, o in maniera diretta, attraverso la citazione di suoi brani, o anche riassumendo soltanto il contenuto di altri, permette così di conoscere, assieme a siffatte, più scandite formulazioni dottrinali, le ragioni su cui si reggevano le tesi platoniche intorno ai principi, e cioè le motivazioni che Platone e gli Accademici ne portavano a sostegno. 3.1 È quanto paradigmaticamente si riscontra nel commento a Metaph., I, 6, 987 b 18-29. Qui lo Stagirita, confrontando Platone e i Pitagorici, afferma: poiché le Idee sono cause (aiòtia) per le altre cose, ritenne che gli elementi (ta@ stoicei^a) di esse fossero elementi di tutti gli enti. Ebbene, che il Grande e il Piccolo sono principi come materia (wév uçlhn ... aèrca@v), mentre come essenza (wév ouèsi@an) l’Uno. Da quelli, infatti, per partecipazione all’Uno (kata# me@qexin tou^ eéno@v), derivano le Idee. Ma in realtà, quanto al fatto che l’Uno è sostanza (ouòsian) e che qualcosa che sia diverso non si predica come uno, egli disse in modo analogo ai Pitagorici, e come loro si espresse anche per ciò che attiene all’essere i numeri cause per le altre cose della loro sostanza. Invece, nell’aver posto in luogo dell’illimitato, inteso come unità, una Diade, e che l’illimitato deriva dal Grande e dal Piccolo, questo gli è peculiare.5 E inoltre, egli afferma che i numeri sono accanto alle cose sensibili, mentre essi che i numeri sono le cose stesse, e non pongono gli enti matematici come intermedi tra queste.

Dal passo aristotelico (secondo la lezione di Jaeger, che ho seguito) si ricava che per Platone le Idee, le quali sono causa e dunque principi delle cose, hanno esse stesse due prin-

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cipi: un principio formale, consistente nell’Uno, e un principio materiale, consistente nel Grande e nel Piccolo. Si ricava inoltre che le Idee derivano dalla partecipazione (me@qexiv) del Grande e del Piccolo all’Uno, situazione che le colloca direttamente in rapporto con i numeri pitagoricamente intesi, giacché anch’essi derivano, ad avviso di questi filosofi, dall’azione dell’uno sull’illimitato, in luogo del quale Platone pose, con identica finzione di principio, per l’appunto, materiale, la Diade di Grande e Piccolo. Donde l’ipotesi che le Idee stesse siano numeri, che coincidano cioè con quei numeri ideali, distinti dai numeri matematici, di cui ancora Aristotele parla in Metaph., I, 9 e XIV; un’ipotesi che apre un importante e difficile problema esegetico, il quale si acuisce e si complica anche per un aspetto filologico. In effetti, nella prima frase del passo in oggetto la tradizione manoscritta, alla riga 22, reca ta# eiòdh eiùnai tou#v aèriqmou@v: dal Grande e dal Piccolo «per partecipazione all’Uno derivano le Idee, cioè i numeri», ponendo così che le stesse Idee sono numeri ideali. In questo senso intendono Alessandro (In Arist. Metaph., 53, 5-9) e Asclepio (In Arist. Metaph., 48, 14-18), che pur legge ta# eiòdh eiùnai tou#v aèriqmou@v («derivano le Idee e i numeri»). Di per sé, tuttavia, il testo non autorizza a porre una tale identità, ma lascia aperta anche la possibilità che Idee e numeri ideali siano diversi, potendosi individuare nel testo tradito (ta# eiòdh eiùnai tou#v aèriqmou@v ) un nesso asindotico (dal Grande e dal Piccolo «per partecipazione all’Uno derivano le Idee, i numeri») e, al di là dell’interpretazione che dà Asclepio, coincidente nella sostanza con quella di Alessandro, l’aggiunta di kai@ da lui proposta avalla indiscutibilmente la separazione dei due tipi di enti ideali. Questa stessa ambivalenza si rafforza negli emendamenti avanzati dai moderni editori. Ross (Metaph., I, p. 172), pur avvertendo che la soppressione di ta# eiòdh o di tou#v

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aèriqmou@v lascia il senso invariato, espunge tuttavia ta# eiòdh; così aveva già fatto Gillespie. Al contrario Jaeger, seguendo Christ, espunge tou#v aèriqmou@v. La frase scandisce pressoché identicamente il seguente pensiero: le Idee per Platone sono causa delle altre cose; ma le Idee hanno come loro elementi, ossia come loro principi, il Grande e il Piccolo, in funzione di principio materiale, e l’Uno, in funzione di principio formale: infatti esse derivano per partecipazione del Grande e del Piccolo all’Uno. Di conseguenza, i suddetti principi delle Idee sono causa di tutte le cose. Così secondo il testo stabilito da Christ e Jaeger. Il testo proposto da Gillespie e Ross richiede un passaggio ulteriore, ma lascia invariata la sostanza speculativa: le Idee per Platone sono causa delle altre cose; ma esse derivano dalla partecipazione del Grande e del Piccolo (in funzione di principio materiale) all’Uno (in funzione di principio formale), quel Grande e Piccolo e quell’Uno che sono altresì principi dai quali derivano i numeri; dunque, questi principi sono cause anche delle altre cose. Come si vede, l’identità delle Idee con i numeri ideali non risulta né asserita né smentita da nessuna delle due lezioni. Né risolve la questione la seconda frase, dove Aristotele istituisce un confronto tra Platone e i Pitagorici. (1) Due aspetti avvicinano le rispettive posizioni: (a) i Pitagorici hanno posto l’Uno come sostanza, nel significato di essenza; lo stesso è per Platone, giacché per costui l’Uno non si predica che di se medesimo; (b) i Pitagorici hanno posto i numeri come cause delle cose; parimenti fa Platone, dal momento che, come s’è visto nella frase precedente, dal Grande e dal Piccolo e dall’Uno derivano i numeri ideali (siano essi coincidenti o meno con le Idee), e se, come s’è detto, il Grande e il Piccolo e l’Uno sono cause di tutte le cose e da essi derivano i numeri ideali, questi saranno causa di tutte le cose. (2) Tuttavia, (a) i Pitagorici come principio materiale dei numeri pongono l’illimitato, ossia un principio unico e unitario;

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Platone pone invece una Diade, coincidente con quel Grande e quel Piccolo nel quale già in precedenza aveva indicato la causa materiale (cfr. 987 b 20) e che esprime l’infinitudine nella duplice direzione della grandezza e della piccolezza. (b) Lo stesso illimitato pitagorico (quale principio materiale da cui, in seguito all’azione dell’Uno, si generano i numeri) deriva per Platone dalla diade di Grande e Piccolo. Il fatto si è che – occorre precisare – i numeri in questione al punto 2/a per i Pitagorici sono numeri matematici (ossia aggregati di unità, pensate a loro volta come monadi dotate di posizione o volumi minimi, donde la loro esistenza concreta e, di conseguenza, la loro coincidenza eo ipso con le cose, come vien detto subito appresso; in quanto tale, ciascuno di essi deriva dall’azione limitante dell’uno, che svolge perciò funzione di principio formale, su una materia infinita avente esistenza reale, ossia fisica), mentre per Platone si tratta di numeri ideali, ciascuno dei quali deriva dall’azione dell’Uno (principio formale intelligibile) su una materia intelligibile costituita dalla diade di Grande e Piccolo. Essa rappresenta a sua volta, in quanto materia intelligibile, la forma di quell’infinità fisicamente esistente che costituisce la materia dei numeri pitagoricamente, ossia matematicamente intesi. Essa, infatti, specifica l’infinità della materia fisicamente esistente nella duplice direzione della grandezza e della piccolezza, vale a dire dell’aumento e della diminuzione, e l’azione dello specificare è pur sempre un’azione formale, ond’è che la Diade stessa, principio materiale dei numeri ideali, è, per così dire, la forma del principio materiale dei numeri matematici. Questi poi come loro principi formali hanno i numeri ideali, nel senso che ciascuno di tali numeri, che sono limitati alla decade, esprimendo la dualità, la ternità, la quaternità e così via, esprime per ciò stesso l’unità formale dei due, dei tre, dei quattro e così via quali quantità unitariamente determinate (in quanto costituite dall’aggregazione di due, di tre e di

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quattro unità) su una quantità illimitata. La sottolineatura della differenza del principio materiale (l’illimitato per i Pitagorici, il Grande e il Piccolo per Platone) su cui fissa l’attenzione Aristotele mi sembra marcare questa diversità tra numeri ideali e numeri matematici. Ma al di là di questo pur importante, specifico aspetto, la coincidenza o meno tra Idee e numeri ideali, nella loro distinzione dai numeri matematici, resta indecisa. Tuttavia ciò su cui in questo momento interessa fissare primariamente l’attenzione è l’impianto della testimonianza aristotelica. Essa informa che le Idee, cause, e cioè principi, delle cose, hanno esse medesime due principi; indica quali Platone pensava che fossero: l’Uno e la Diade di Grande e Piccolo; accosta questo secondo principio all’illimitato dei Pitagorici e confronta le due posizioni, ma non dice perché proprio l’Uno e la Diade di Grande e Piccolo erano indicati da Platone come principi delle Idee e, in particolare, perché Platone nella funzione di principio materiale delle Idee sostituiva l’infinito dei Pitagorici con il Grande e il Piccolo. In particolare, nel prosieguo del passo Aristotele, dopo aver mosso una critica a questa dottrina dell’Uno e della Diade, presenta la derivazione dei numeri pari da questo secondo principio, nei termini sui quali ci soffermeremo più innanzi; ma non illustra perché i principi siano l’Uno e la Diade, e anche nell’ipotesi che le Idee coincidano con i numeri ideali, questo basilare aspetto non risulta trattato. Altro, infatti, è spiegare «come» i primi quattro numeri dispari, ossia le Idee individuate in queste fattispecie di numeri, derivano dalla Diade e altro spiegare «perché» proprio la Diade e non l’infinito pitagorico è il principio da cui derivano le Idee-numeri. Una discrepanza, questa, che a proposito dei numeri dispari risulta ancor più marcata. Questi numeri, infatti, come spiega Alessandro (In Arist. Metaph., 57, 24-26), «si ge-

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nerano con l’aggiunta, a ciascuno dei numeri pari, di una unità», ma, precisa subito appresso il commentatore, essa «non è l’Uno inteso come principio, giacché questo non è un principio materiale, bensì un principio produttore di forma», ossia: l’unità che, sommata ai numeri dispari, produce i numeri pari è l’unità matematica, cioè l’uno inteso come numero matematico che, come tale, rientra nell’ambito della materia dei numeri, non l’Uno quale principio formale di essi. Qui, dunque, ancor più che nel caso dei numeri dispari, la differenza tra «come» si generano i numeri e «perché» principi dei numeri siano l’Uno e la Diade appare lampante, dal momento che l’uno in forza del quale si formano i numeri in oggetto, ossia quelli dispari, è l’uno aritmetico, laddove l’Uno che presiede alla loro costituzione è il principio-Uno, ossia il principio che unifica, e cioè determina, un molteplice. Ché, precisa subito appresso Alessandro, al fine di marcare la differenza tra l’Uno quale principio produttore di forma e l’unità aritmetica che interviene nella generazione dei numeri dispari, «come il Grande e il Piccolo diventavano due una volta determinati dall’Uno, così anche ciascuno di essi si dice che è un’unità quando è determinato dall’Uno». Ebbene, nel suo commento al passo di Metaph., I, 6 qui a tema (= fr. 2) Alessandro spiega «perché» l’Uno e la Diade di Grande e Piccolo siano stati pensati da Platone, nella ricostruzione che ne effettua Aristotele, come principi delle Idee. Ne fornisce, infatti, quattro giustificazioni, e tutte, per quanto s’è detto, ripropongono un contenuto del Peri# taègaqou^. 3.2 La prima giustificazione («Platone ... tutte le cose»; fr. 2 = Adv. Math., 55, 20 – 56, 5) si struttura in tre passaggi: innanzitutto, sul presupposto che «principio è ciò che è primo e ciò che è incomposto», si affermano due tesi: (1) il primato dei numeri tra le cose, ossia che i numeri sono principi

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delle cose e (2) il primato delle Idee rispetto alle cose, ossia che le Idee sono principi delle cose. Sono questi i momenti decisivi dell’intera argomentazione, l’asse portante sul quale essa si regge. (1) Il primato del numero è provato attraverso la riduzione delle cose a numeri, con il seguente ragionamento: «rispetto ai corpi sono prime le superfici – infatti, sono prime per natura le cose più semplici e quelle che non si distruggono assieme –, rispetto alle superfici, le linee, secondo il medesimo ragionamento, e rispetto alle linee, i punti, che i matematici chiamavano segni ed essi monadi: realtà che sono assolutamente incomposte e che non hanno nulla prima di sé. Ma le monadi sono numeri; dunque, i numeri sono i primi degli enti». (2) A giustificazione del primato delle Idee rispetto alle cose si porta il motivo principe sul quale si fonda la loro stessa istituzione (nel passo del Fedone, ove il Socrate prosopo narra d’aver compito una seconda navigazione, che si è sopra richiamato), ossia il fatto che le cose «da esse hanno l’essere». Si tratta – come si è detto – del motivo di principe, e Aristotele, attraverso questa testimonianza di Alessandro, sembra metterlo in luce facendo presente che in realtà l’esistenza delle Idee era provata anche con altri argomenti («che esse esistano, cerca di dimostrare con più »), ma il motivo or ora richiamato raggiunge la loro stessa essenza e ne esprime la ragion d’essere, ed è perciò quello basilare. L’esito del ragionamento fin qui istituito è espresso dalla conclusione del seguente sillogismo: le cose prime sono i numeri, ma le Idee sono le realtà prime, dunque le Idee sono numeri («le forme sono numeri»). (3) Il terzo momento discende da questa conclusione e ne costituisce un corollario: se le Idee sono numeri, allora i principi dei numeri sono eo ipso principi anche delle Idee; ma principio del numero è l’uno (si tace in questa prima

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giustificazione la Diade di Grande e Piccolo), per cui l’uno è principio delle Idee e, in ultima analisi, di tutte le cose; precisamente: «se (...) ciò che è uno per forma è primo rispetto agli enti che sono in relazione a esso, e nulla è primo rispetto al numero, allora le forme sono numeri. Perciò sosteneva che i principi del numero sono principi delle forme e che l’uno è principio di tutte le cose». Due rilievi s’impongono. Innanzitutto occorre osservare una certa ambiguità nella struttura dell’argomentazione tra numeri matematici e numeri ideali. Quando, infatti, si afferma che le cose sono numeri perché i corpi si riportano alle superfici, queste alle linee, queste ai punti, i quali sono unità, e il numero è una somma di unità (momento 1), è evidente che il numero è qui inteso come numero matematico, e parimenti l’uno, principio del numero, è l’unità aritmeticamente intesa. Per contro, là dove si dice che le Idee sono numeri (momento 3) è chiaro che i numeri in questione non sono più quelli matematici, bensì quelli ideali, ovvero le Idee-numeri. Se infatti si trattasse dei numeri matematici e le Idee fossero identificate con essi, la posizione platonica sarebbe già risolta in quella di Speusippo il quale, notoriamente, eliminava le Idee e le riduceva a numeri matematicamente intesi. Tuttavia, a ben vedere, quest’ambiguità non specifica affatto una confusione, non corrisponde, cioè, a un’indebita sovrapposizione dell’un tipo di numeri all’altro tipo. Al contrario, se, con occhio più vigile e superando l’impatto istantaneo, la si inquadra nel contesto in cui è collocata, si trova che essa utilizza la nozione di numero a un livello volutamente anteriore a quelli delle nozioni tecniche di numero matematico e di numero ideale, una nozione, per così dire, neutra rispetto a queste due che sono dottrinariamente specificate in quanto corrispondono alla nozione «tecnica» del numero, propria dei Pitagorici e di Platone, laddove parla di numeri matematici, e alla nozione anch’essa «tec-

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nica» di numero, propria di Platone laddove parla di Ideenumeri o numeri ideali. Ma proprio qui risiede, a ben vedere, il nocciolo del problema e, in fondo, la sua soluzione. Se infatti si tien conto che ciò che con questa prima giustificazione si intende provare è la tesi che i numeri sono il principio delle Idee e, quindi, delle cose, e che questa tesi si colloca nel confronto tra i Pitagorici e Platone ed è presentata come tesi comune alla filosofia di entrambi, è logico che debba fare riferimento a una nozione di numero che s’adatti sia alla nozione di numero matematicamente, ossia tecnicamente, inteso (la quale accomuna sia il numero concepito dai Pitagorici che l’identico tipo di numero ammesso dallo stesso Platone), sia alla nozione, parimenti tecnica, perché calibrata in una specifica scansione teorica e provvista di una propria connotazione dottrinale, del numero ideale, usata da Platone. Insomma, una nozione di numero che sia «neutra» tra il numero matematico e il numero ideale e che, in questa valenza, permetta di asserire che tanto chi ha concepito il numero secondo una connotazione propriamente aritmetica, quanto chi l’ha concepito secondo una valenza prettamente filosofica e ideale, ha ammesso che il numero è, in ultima analisi, il principio di tutte le cose. Con un secondo rilievo occorre poi rimarcare il modo in cui nel momento 2 Alessandro, riportando con ogni verosimiglianza l’espressione aristotelica del Peri# taègaqou^, ha indicato le Idee: «le forme e le idee» (ta# eiòdh kai# aié iède@ai). Si dice, infatti, «le forme sono prime e le Idee sono prime (ta# eiòdh prw^ta@ te kai# aié iède@ai prw^tai). Ora, l’uso della correlazione te ... kai@, che – notoriamente – indica un nesso strettissimo tra i termini, impedisce di attribuire a kai@ valore di «ossia» (intendere «le forme, ossia le Idee»). Ove – ancora una volta – s’inquadri il rilevo nel contesto di comparazione tra Pitagorici e Platone in cui si colloca la relativa argomentazione, non è difficile vedere che si è cercata, anche qui, un’espressione che risulti adeguata alle determinazioni con-

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cettuali degli uni e dell’altro. «Forme e Idee» sembra adattarsi bene a questa finzione, giacché «forme» (eiòdh) richiama direttamente le cose nella loro sagoma (nella loro forma, per l’appunto), e per i Pitagorici le cose si riportano in ultima analisi ai «corpi» geometricamente intesi e questi, riportandosi alle superfici e poi alle linee e quindi ai punti, si riportano ai loro aspetti visibili, ossia alle loro «forme». Per altro verso, anche le Idee platoniche sono forme: certamente non sensibili e immanenti alle cose stesse, ma pur sempre forme, così indicandole espressamente lo stesso Platone. Sembra pertanto che con l’espressione «le forme e le Idee» (ta# eiòdh te kai# aié iède@ai) Aristotele da un lato abbia inteso usare un modus dicendi che s’adattasse tanto alla forma delle cose pitagoricamente intesa quanto alla forma intesa in senso platonico, dall’altro abbia suggerito che le stesse Idee platoniche non sono che l’ipostatizzazione nel soprasensibile, ossia la cristallizzazione nell’indiveniente, delle forme sensibili delle cose. E poiché le forme sensibili si riconducono in ultima analisi a numeri, come hanno indicato i Pitagorici, qui risiede la ragione profonda della tesi secondo cui le Idee sono numeri, con la conseguenza che l’uno, essendo principio di questi secondi, è per ciò stesso principio anche delle prime. Certamente non l’uno aritmeticamente inteso, bensì – daccapo – l’uno cristallizzato nel soprasensibile e ipostatizzato in quel regno dell’invisibile (to# aèor@ aton) che, come viene indicato nel Fedone, è il regno delle stesse Idee: l’Uno, insomma, fungente da principio metafisico. 3.3 Una seconda giustificazione, contenuta nel passo immediatamente successivo alla prima («Inoltre ... è divisa»; fr. 2 = Adv. Math., 56, 6 –12), è propriamente un’appendice di questa, nel senso che, mentre la prima, come abbiamo visto, chiamava in causa soltanto l’uno, nell’ambiguità che si è segnalata, questa nomina ancora l’uno, nella medesima ambivalenza, ma vi affianca nella funzione di principio la anche

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Diade, e spiega perché proprio questa. L’attenzione, anzi, in questa seconda giustificazione cade espressamente sulla Diade. Che si tratti di una sorta di appendice attesta il fatto che si presuppone che il numero è principio delle Idee, cosicché i principi del numero sono principi anche delle Idee («le forme sono principi delle altre cose, e delle Idee, che sono numeri, sono principi i principi del numero»): esattamente la conclusione dei momenti 1 e 2 della prima giustificazione; e tutto il discorso verte intorno alla determinazione della Diade quale principio del numero e, quindi, delle Idee stesse. Il presupposto del ragionamento giustificativo è ancora che principio è ciò che è primo. Per cui, si dice, nel numero ciò che è primo è, innanzitutto, la monade, ossia l’unità (qui è chiaro che l’unità è l’uno aritmetico; ma al tempo stesso è chiaro che esso, avendo funzione di principio, e di principio non soltanto dei numeri, ma anche delle Idee, esprime una dimensione formale; è cioè l’Uno-principio. Esattamente l’ambivalenza riscontrata nella prima giustificazione). Inoltre, poiché nei numeri è presente, oltre la dimensione dell’unità, anche quella del molto e del poco, loro principio è altresì la prima determinazione che, dopo l’uno, esprime il molto e il poco, e tale è la diade («poiché [...] nei numeri vi sono l’uno e ciò che è oltre l’uno, ossia molti e pochi, ciò che per primo è in essi oltre l’uno, questo ponevano come principio dei molti e dei pochi. Ma la diade è prima oltre l’uno, avendo in sé sia il molto che il poco. Infatti, il doppio è molto, mentre il mezzo è poco, ed essi sono nella diade»). A questa giustificazione, l’ultima parte del passo ne aggiunge un’altra: unità e molteplicità, che sono dimensioni entrambe presenti nel numero e dunque entrambe postulano un principio che le giustifichi, sono contrarie tra loro. Dunque, anche i loro principi dovranno essere contrari tra loro. Ebbene, la diade è contraria all’uno giacché è divisibile, mentre l’uno è indivisibile («ed è contraria all’uno, se veramente questo è indivisibile, mentre essa è divisa»).

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3.4 La terza giustificazione («Inoltre ... per la forma»; fr. 2 = Adv. Math., 56, 13-21) si scandisce nel modo seguente: (1) dapprima si dice che la totalità del reale si divide in enti per sé (ta# kaq è auéta# oònta) e in enti opposti (ta# aèntikei@mena ). (2) Indi si pone che gli enti, nella divisione or ora detta, «si riconducono» (aèna@gein) all’uguale e al disuguale (to# iòson kai# to# aònison), sottintendendo con ciò che questi sono i loro principi. (3) Si afferma, infine, che (a) l’uguale s’iscrive sotto la monade, ossia sotto l’uno, mentre (b) il disuguale s’iscrive sotto l’eccesso e il difetto (hé uéperoch^ kai# hé eòlleyiv); e poiché «disuguale» significa grande e piccolo (me@gav kai# miVro@n), ossia eccedente ed ecceduto (uépere@con kai# eèllei@pon), che sono «due» determinazioni «indefinite» (aèo@rista), il disuguale è perciò espresso dalla «Diade» «indefinita» (aèo@ristov dua@v). Quest’ultima – si chiarisce nella parte finale del passo – non è «la diade che è nei numeri», ossia il numero due, giacché questo numero è definito, subisce cioè, per così dire, l’azione dell’Uno, che a sua volta non è il numero uno, bensì l’Uno-principio. Di conseguenza l’Uno e la Diade indefinita sono i principi degli enti. Ora, la classificazione degli enti in «per sé» (kaqˆ auéta@) e «opposti» (aèntikei@mena), ricordata da Alessandro, corrisponde, con ogni probabilità, a una classificazione invalsa nell’Accademia e richiama quella, più nota, tra enti «per sé» (ta# kaq èauéta@) ed «enti relativi» (ta# pro@v ti) la quale, di chiara origine platonica, come comprova il fatto di comparire in Soph., 255 c, era entrata a far parte del patrimonio dottrinale della scuola. Essa compare, infatti, al n. 67 delle Divisiones aristoteleae e in Senocrate (cfr. fr. 12 Heinze). In ogni caso il problema di fondo in questo momento è comprendere in che modo l’Uno e la Diade di Grande e Piccolo o Diade indefinita, ossia l’uguale (cui si riconduce l’Uno) e il disuguale (cui si riconduce la Diade), siano principi di tutti gli enti. Potrebbe infatti sembrare che l’Uno sia princi-

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pio degli enti per sé e la Diade di Grande e Piccolo (o Diade indefinita) principio degli enti che stanno tra loro in rapporti di opposizione, ma quest’ipotesi manifesta immediatamente la sua debolezza non soltanto perché, come ha opportunamente osservato Berti (Primo Aristotele, p. 210), «le due classi sono collegate dalle congiunzioni correlative te ... kai@, le quali indubbiamente stanno a significare che entrambe hanno come principi l’Uno e la Diade», ma anche perché non si capirebbe per quale moltivo gli opposti debbano significare indeterminatezza, espressa per l’appunto dalla Diade. 3.4.1 Un basilare aiuto a risolvere il problema è offerto, sulla scorta degli studi di Wilpert (Neue Fragmente) e, soprattutto, di Berti (Primo Aristotele, pp. 211 ss.), dal confronto tra la classificazione degli enti richiamata da Alessandro e quelle che Sesto Empirico (Adv. Math., 10, 263-265) e il platonico Ermodoro (come riferisce Simplicio, In Arist. Phys., 248, 2-5 nel suo commento a Phys., I, 9, 192 a 3, dove Aristotele afferma che Platone chiamava la materia [th#n uçlhn] «grande e piccolo» [me@ga kai# mikro@n]) attestano essere state stabilite da Platone. Le ultime due ripropongono, nella sostanza, quella di Alessandro, che appare più semplificata, e non ingiustificatamente, in quanto riferisce soltanto i termini essenziali, ma con il rischio, effettivamente verificatosi, di far comprendere di meno e, in specie, di abbisognare, nella sua estrema stringatezza, com’è proprio dello stile di Aristotele, dal cui Peri# taègaqou^ Alessandro direttamente attinge, di ulteriori elementi, offerti invece dalle altre due classificazioni. Queste, a loro volta, pur coincidendo nella sostanza e pur chiamando in gioco i medesimi tipi di enti, si differenziano però per il diverso grado di precisione con cui ne articolano la scansione. Tra esse, quella più precisa è la classificazione di Ermodoro, secondo la quale

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delle cose che sono, alcune dice essere per sé (kaqˆ auéta@), come uomo e cavallo, altre in relazione ad altre (pro#v eçtera), e di queste alcune come in relazione a contrari (pro#v eènanti@a), quali buono e cattivo, altre come relativi (pro@v ti), e di esse le prime come definite (wérisme@na), le seconde come indefinite (aèo@riosta)».6

Gli enti, dunque, risultano qui divisi in (1) per sé (kaqˆ auéta)@ e (2) in relazione ad altri (pro#v eçtera), suddivisi a loro volta in (2/a) in relazione a contrari (pro#v eènanti@a) e (2/b) relativi (pro@v ti). Quanto poi alla distinzione tra cose definite e cose indefinite, di cui si dice nell’ultima parte del passo, è importante il prosieguo dell’esposizione di Ermodoro (Simpl., In Arist. Phys., 248, 5-13),7 dove si afferma che (A) «le cose dette come grande in relazione a piccolo hanno tutte il più e il meno (to# ma^llon kai# hé^tton)», (B) invece «le cose dette come l’uguale, l’immoto e l’adatto, non hanno il più e il meno, mentre i loro opposti lo hanno». Ora, se si considera che (A) col primo genere di cose si allude a quella specie degli enti in relazione ad altri costituiti dai relativi (2/b), mentre (B) al secondo genere appartiene l’altra specie degli enti in relazione ad altri, ossia i contrari (2/a) e che, di questi, (2/a/1) alcuni, come l’uguale, sono definiti, ossia non ammettono più e meno, invece (2/a/2) i loro opposti, come il disuguale, sono indefiniti perché ammettono il più e il meno, ci si avvede che (A) tra le cose determinate si comprendono (1) gli enti per sé e (2/a/1) gli opposti come l’uguale e l’immoto che non ammettono variazioni in più e in meno; invece (B) tra le cose indeterminate si annoverano (2/b) i relativi e (2/a/2) quei contrari che, come il disuguale e il mobile, ammettono più e meno. 3.4.2 Ad analoga conclusione si perviene considerando altresì la classificazione di Sesto Empirico, il quale, ben-

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ché faccia espressamente riferimento ai Pitagorici, presenta tuttavia, com’è stato dimostrato, 8 notizie ampiamente attribuibili all’ambiente accademico, tanto che si è persino potuto sostenere che tale classificazione altro non sia che la citazione da parte di Sesto di un passo tratto da un resoconto della lezione platonica sul bene diverso da quello del Peri# taègaqou^ aristotelico.9 Ebbene, vi si dice Tra gli enti, affermano i Pitagorici, alcuni sono pensati secondo differenza (kata# diuafora@n), altri secondo contrarietà (kat è eènanti@wsin), altri in relazione a qualcosa (pro@v ti). Secondo differenza dicono essere i sostrati per sé (uépokei@mena kaq èauéta@) e secondo il proprio ambito, come uomo, cavallo, terra, acqua, aria, fuoco: ciascuno di questi, infatti, è pensato in modo assoluto (aèpolu@pwv) e non per il suo stare in relazione ad altro; secondo contrarietà esistono (uépa@rcein) tutti quelli che sono pensati in base all’opposizione di uno all’altro, come buono e cattivo, giusto e ingiusto, utile e inutile, lecito e illecito, pio e empio, mosso e quieto, e tutti gli altri che a questi conseguono; in relazione a qualcosa si trovano (tugca@nein) quelli pensati secondo il loro stare in relazione ad altro, come destro e sinistro, in alto e in basso, doppio e mezzo (Sext., Adv. Math., 10, 263-265).

Come si può agevolmente constatare, (1) gli enti secondo differenza corrispondono esattamente agli enti per sé della classificazione di Ermodoro, e ben lo attesta il fatto che essi sono costituiti da sostrati per sé, ossia da enti quali uomo, cavallo, terra, acqua, aria, fuoco, e proprio enti quali uomo e cavallo, si dice nella classificazione di Ermodoro, sono per sé. Nell’un caso come nell’altro si tratta di enti che, secondo la dottrina aristotelica delle categorie, sono sostanze. Donde la pregnanza del loro essere detti per sé, in entrambe le classificazioni, e sostrati, nella classificazione di Sesto Empirico. Quanto poi (2) agli enti secondo contrarietà e (3) a

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quelli in relazione a qualcosa, ossia relativi, di questa classificazione, la loro corrispondenza con i rispettivi tipi di enti indicati nella classificazione di Ermodoro come (2/a) enti in relazione a contrari ed (2/b) enti relativi o in relazione a qualcosa balza immediatamente agli occhi e la stessa identità degli esempi (buono/cattivo) portati nelle due classificazioni lo ribadisce, con la differenza che in quella di Ermodoro gli enti dell’uno e dell’altro tipo sono raggruppati come specie del genere enti in relazione ad altri, mentre Sesto Empirico li indica come due generi di enti. Da qui, come si diceva, la maggiore precisione della classificazione di Ermodoro, in virtù dell’articolazione più minuziosa che rappresenta, pur nell’identità sostanziale con quella di Sesto Empirico. Il che permette di riferire anche a quest’ultima la distinzione indicata da Ermodoro e accertata nella sua classificazione tra quali enti debbono considerarsi definiti (wérisme@na) e quali indefiniti (aèo@riosta). Ma Sesto, nel proseguimento della sua analisi, offre un ulteriore, interessante elemento. Sempre parlando dei «figli dei Pitagorici», ma dovendosi estendere il rilievo ai Platonici, dapprima fa presente che essi «attribuiscono come genere delle cose pensate per sé l’Uno (to# eçn); a quelle contrarie l’uguale e il disuguale (to# iòson kai# to# aònison), di cui il primo non ammette il più e il meno, mentre il secondo lo ammette; a quelle relative l’eccesso e il difetto (uéperoch# kai# eòlleyiv)» (Adv. Math., 273). Indi riconduce questi tre generi a due principi, e cioè all’Uno e alla Diade indefinita, secondo questa scansione: l’uguaglianza si riduce all’uno: infatti l’Uno è uguale a se stesso in modo primario, mentre la disuguaglianza mira all’eccesso e al difetto. Ma anche l’eccesso e il difetto sono ordinati secondo la ragione della Diade indefinita, poiché il primo eccesso e difetto è il due, l’eccedente e l’ecceduto (Adv. Math., 275).

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Ora, contrariamente a Wilpert (Aristotelische Frühschriften, p. 191) e a coloro che, sulla scorta di questo studioso, hanno creduto che nella tripartizione dei generi l’Uno sia indicato come principio delle cose che ammettono uguaglianza, mentre la Diade indefinita come principio delle cose che ammettono disuguaglianza ed eccesso e difetto,10 pare opportuno opporre che, al di là del medesimo nome, nella sostanza speculativa altri sono i criteri che sorreggono la tripartizione suddetta e altri quelli in base a cui si fissano i due principi, cosicché non vi può essere corrispondenza automatica tra questi secondi e i primi. In particolare, altro è l’Uno come «genere» di un certo tipo di enti e altro è l’Uno come «principio» e, parimenti, altro sono l’uguale e il disuguale, da un lato, l’eccesso e il difetto, dall’altro, come «generi» di due tipi di enti, e altro sono l’uguaglianza e la disuguaglianza che, in virtù dell’eccesso e del difetto che quest’ultima comporta, definiscono il criterio secondo cui è introdotto il «principio» della Diade indefinita. In questo caso, ancor più che per l’Uno, la discrepanza risulta ancor più evidente e marcata ove si ponga mente al fatto che, come esprimenti un «genere», uguaglianza e disuguaglianza concorrono assieme a definire il tipo di enti che in quel genere si raccoglie, mentre sul piano dei «principi», la disuguaglianza disgiuntamente e non già congiuntamente all’uguaglianza concorre, mercé l’eccesso e il difetto che comporta, a definire la Diade indefinita. Questa stessa, inoltre, poiché esprime altresì eccesso e difetto, si definisce anche sulla base di queste determinazioni, assieme alla disuguaglianza, la quale invece, sul piano dei «generi», ne definisce, assieme all’uguaglianza, uno (quello dei contrari) diverso da quello nel quale si raccolgono gli enti che ammettono eccesso e difetto, ossia i relativi. Tutto ciò pone in chiaro che l’Uno e la Diade indefinita non operano come principi separatamente, e cioè il primo come principio di certi enti e la seconda come principio di

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certi altri, ma che, invece, essi operano congiuntamente e assieme come principi di tutti gli enti. Giacché ciò che fa capo all’Uno sono alcune proprietà o attributi e ciò che fa capo alla Diade sono altre proprietà e attributi, ma (1) sia le prime che le seconde sono o possono essere proprietà del medesimo ente e (2) gli enti sono definiti dalle loro proprietà. Ecco perché tutti, (1) avendo o potendo avere attributi che hanno come principio quello della determinazione, espresso dall’Uno, e altre proprietà che hanno come principio quello dell’indeterminazione, espresso dalla Diade indefinita, e (2) ciascuno essendo definito dalle sue proprietà, tutti ricadono sia sotto il principio dell’Uno che sotto quello della Diade indefinita. Un esempio può chiarire il concetto: un uomo è un «sostrato per sé», è o può essere giusto o ingiusto, servo o padrone; un cavallo, a sua volta, è anch’esso un «sostrato per sé», può essere veloce o lento, grande o piccolo. Ora, l’uomo qui in oggetto è quell’ente definito dalle proprietà che abbiamo detto, alcune delle quali appartengono al genere delle cose per sé, altre al genere dei contrari (giusto/ingiusto), altre ancora a quello dei relativi (servo/padrone). Ma se la sua realtà è definita da queste proprietà e alcune (quelle appartenenti al genere delle cose per sé, come l’essere un sostrato, l’essere o il poter essere giusto, ossia un contrario determinato) cadono sotto il principio dell’Uno mentre altre (quelle appartenenti al genere dei contrari indeterminati, come l’essere o il poter essere ingiusto, e quelle appartenenti al genere delle cose che ammettono eccesso e difetto, ossia i relativi, come l’essere servo o padrone) cadono sotto il principio della Diade indefinita, è evidente che il medesimo uomo è contemporaneamente definito da entrambi i principi. E lo stesso dicasi, nell’esempio, per il cavallo: in quanto è un sostrato ed è o può essere veloce, e dunque è definito da proprietà che rientrano nel genere delle cose per sé, la prima perché tale è l’essere un sostrato, la seconda perché è un con-

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trario determinato, esso cade sotto il principio dell’Uno, ma al tempo stesso, in quanto è definito da proprietà indeterminate come quella di essere o poter essere lento, che rientra nel genere dei contrari indeterminati e da proprietà che ammettono eccesso e difetto, come quella di essere grande o piccolo, che rientrano nel genere dei relativi, cade anche sotto la Diade indefinita. Non si tratta soltanto di intendere la distinzione tra i generi degli enti come semplice distinzione di generi di predicati,11 ma di acquisirla sotto un segno più forte e radicale, per il quale anche quest’aspetto logico le appartiene, ma non primariamente, giacché innanzitutto è da tenere presente che l’ordine dei predicati è quell’ordine delle proprietà o degli attributi dai quali l’ente è definito nella sua stessa realtà e che pertanto attengono, primariamente e innanzitutto, al piano ontologico. Resta piuttosto da considerare la discrepanza tra queste classificazioni platoniche e accademiche degli enti e quella aristotelica espressa dalla dottrina delle categorie. Donde, agli occhi dello Stagirita, l’inevitabile insoddisfazione delle prime, anche al di là del loro far riferimento ai principi dell’Uno e della Diade indefinita (o Diade di Grande e Piccolo) contro i quali egli polemizza. Anzi, nella misura in cui, come sembra dalle testimonianze di Ermodoro e di Sesto Empirico, questa dottrina dei principi è introdotta dai Platonici, secondo la lettura di Aristotele, a partire dalle caratteristiche del tipo di enti in cui essi dividevano la totalità dell’esistente, o comunque è richiesta ed è perciò la conseguenza di questa caratterizzazione, l’assurdità della prima dipende in gran misura anche dall’inadeguatezza di questa seconda, ossia: la dottrina platonica e accademica dei principi non è ammissibile perché dipende in ampia misura da un modo inadeguato in cui sono state pensate le prerogative degli enti, secondo la classificazione che ne hanno dato Platone e i Platonici. I principi, infatti, sono come il suggello di tale modo di classificare gli enti e di carat-

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terizzarne le prerogative. Così, in particolare, i relativi, secondo la testimonianza di Sesto Empirico (Adv. Math., 270, 273), erano ritenuti ammettere eccesso e difetto (uéperoch# kai# eòlleyiv). In Cat., 7, 6 b 24 s. Aristotele precisa che non tutti i relativi ammettono il più e il meno (ma^llon kai# hé^tton), e porta l’esempio del doppio: un numero non è più o meno doppio di un altro, ossia non ammette eccesso o difetto di doppiezza. Ancora, sia secondo la testimonianza di Sesto Empirico, sia secondo quella di Ermodoro, per gli Accademici uno dei contrari è indeterminato. In Cat., 10 proprio la determinazione di entrambi i contrari sta alla base della possibilità, ivi teorizzata, che tra i contrari si diano o non si diano intermedi. Ma, soprattutto, nelle classificazioni accademiche degli enti manca la netta definizione di enti sostanziali ed enti accidentali che invece sta alla base della dottrina aristotelica delle categorie; una distinzione alla quale quella tra enti per sé, enti relativi ed enti contrari supplisce solo latamente e imperfettamente, nella misura in cui non precisa il carattere basilare della sostanza di non essere mai in un soggetto, di non inerire, cioè, a nulla, ma di essere essa stessa sostrato di inerenza, che invece Aristotele stabilisce in Cat., 5. 3.4.3 In ogni caso, ora possediamo tutti gli elementi per reperire la soluzione del problema che la terza giustificazione dei principi nella classificazione di Alessandro ha sollevato. Ché, se questa classificazione è congruente con quelle di Ermodoro e di Sesto Empirico e in queste, nell’ultima in particolare, come abbiamo mostrato, l’Uno e la Diade sono da intendersi come principi di tutti gli enti e non già il primo di un certo tipo di enti e la seconda degli enti di un altro tipo, allora lo stesso dovrà dirsi anche per ciò che attiene alla classificazione aristotelica presentata da Alessandro. Ora, la perfetta congruenza di questa classificazione con le due sopra esaminate è lampante: (1) gli enti per sé (ta# kaqˆ

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auéta# oònta) sono indicati in tutte e tre le classificazioni; (2) quanto invece agli enti opposti (ta# aèntikei@mena ), enunciati nella classificazione di Alessandro, ove si ponga mente al fatto che gli opposti per Aristotele comprendono sia i relativi (ta# pro@v ti) che i contrari (ta# eènanti@a), com’è specificato in Cat., 10, e che questi enti sono indicati sia da Ermodoro, come specie degli enti in relazione ad altri, sia da Sesto Empirico, come due distinti generi, ci si avvede che anche in questo caso si verifica una perfetta corrispondenza tra la classificazione aristotelica presentata da Alessandro e le altre due. Si può, anzi, constatare come, in riferimento al secondo caso, quella presentata da Alessandro sia «propriamente» e «tipicamente» aristotelica, risponda cioè al modo in cui lo Stagirita inquadrava nella propria teoria i contrari e i relativi, unificandoli, per l’appunto, negli opposti, laddove, con ogni verosimiglianza e probabilità, gli Accademici li intendevano come generi separati di enti o come unificati in un sommario e impreciso genere di enti in rapporto ad altri enti. Donde un ennesimo riscontro dell’appartenenza all’aristotelico Peri# taègaqou^ del passo di Alessandro in cui si espone detta classificazione degli enti.12 La conclusione sopra enunciata secondo cui Uno e Diade indefinita sono principi di tutti gli enti, a questo punto si manifesta valere anche per la classificazione di Alessandro e il relativo problema può considerarsi risolto. 3.4 La quarta giustificazione («Inoltre, il primo numero ... Sul bene»; fr. 2 = Adv. Math., 56,21-35), che termina citando espressamente il Peri# taègaqou^ come opera nella quale Aristotele dà conto della dottrina platonica dei principi e, in particolare, del fatto che Platone li indicava nell’Uno e nella Diade indefinita, si scandisce nei seguenti passaggi: (a) si prende in considerazione il 2, considerato il primo numero (per il motivo esposto alla nota n. 28 del corrispondente

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passo) e si osserva che in esso sono contenuti il doppio e il mezzo; (b) ma il doppio e il mezzo comportano che qualcosa sia eccedente e qualcos’altro sia ecceduto; (c) ora, eccedente ed ecceduto si rapportano al doppio e al mezzo come loro principi, giacché non tutto ciò che è eccedente è doppio e non tutto ciò che è ecceduto è mezzo, mentre tutto ciò che è doppio è eccedente e tutto ciò che è mezzo è ecceduto; (d) principio del numero 2 è perciò una “Diade” (che indichiamo con l’iniziale maiuscola per distinguerla dalla diade come numero 2), ossia un principio che chiama in causa due elementi: l’eccedente e l’ecceduto, ovvero il grande e il piccolo; (e) essa non è principio soltanto del numero 2, ma anche del 3, del 4 e, in generale, di ogni numero, giacché ogni numero è scandito da qualcosa di eccedente e da qualcosa di ecceduto: nel 3, infatti, sono presenti il triplo e il terzo, nel 4 il quadruplo e il quarto, e così via, e triplo e terzo, quadruplo e quarto, ecc. sono momenti dell’eccedente e dell’ecceduto; (f) ma nel 2 il doppio, che è indeterminato, si determina, nel 3 il triplo, che è indeterminato, si determina e, in generale, in ogni numero l’eccedente e l’ecceduto, che sono elementi indeterminati, si determinano; (g) ora, determinare significa dare unità, per cui ciò che definisce è l’Uno, inteso come principio unificatore e determinante (e perciò distinto dall’1 quale unità aritmetica); (h) principi del 2 e, in generale, dei numeri sono, dunque, la Diade di grande e piccolo, ossia la Diade indefinita, tali essendo il grande e il piccolo, vale a dire l’eccedente e l’ecceduto, e l’Uno. In modo più stringato l’intera argomentazione può riassumersi così: appartiene alla natura di ogni numero, ovvero del numero in quanto tale, di contenere un elemento eccedente e un elemento ecceduto, vale a dire un grande e un piccolo (il 2 contiene il doppio e il mezzo; il 3 contiene il triplo e il terzo, e così via; ma doppio, triplo ecc. sono momenti dell’eccedente; mezzo, terzo, ecc. momenti dell’ecce-

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duto). Dunque, principio del numero è una Diade (eccedente/ecceduto, grande/piccolo), la quale esprime indeterminatezza, perché tali sono le dimensioni, per l’appunto imprecisate, dell’eccedente e dell’ecceduto, del grande e del piccolo. Ma in ogni numero il momento dell’eccedente e dell’ecceduto non resta indeterminato, ma si determina, e ciò che determina è un principio unitario e unificante, ossia un Uno. Ecco pertanto che principi del numero sono la Diade indefinita o Diade di Grande e Piccolo e l’Uno. 4. Negli altri passi in cui dà notizia del Peri# taègaqou^, Alessandro riprende sostanzialmente i contenuti del commento a Metaph., I, 6. 4.1 In quello riferito da Simplicio nel suo commento alla Fisica di Aristotele, raccolto da Ross sotto il fr. 2 (Alex. Aphr. presso Simpl., In Arist. Phys., p. 454, 19-455, 14), Alessandro, che nomina espressamente il Peri# taègaqou^ e attribuisce a quest’opera aristotelica il contenuto della sua testimonianza, non aggiunge alcuna nuova informazione di rimarchevole spessore dottrinale a quelle riferite in precedenza circa la teoria accademica dei principi, ma, sintetizzando la prima e la quarta giustificazione del commento a Metaph., I, 6, fornisce una visione certamente meno analitica, ma altrettanto certamente più percepibile in modo diretto e immediato dell’essere i principi, per i Platonici, principi della totalità dell’esistente. In effetti, che essi fossero principi di tutte le cose e che coincidessero con i principi del numero, costituiva il contenuto saliente della prima giustificazione, com’è risultato dal relativo esame. Questo, infatti, ci ha permesso di vedere che la «giustificazione» non era primariamente volta a dar ragione di quali fossero i principi, che essi, cioè, risiedono nell’Uno e nella Diade indefinita, quanto piuttosto a esplicare perché i principi dei numeri sono i principi di tutte le cose. Per contro, nelle al-

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tre tre giustificazioni, e in particolare nella quarta, giudicata dagli studiosi la più persuasiva,13 l’accento cadeva determinatamente sui motivi che stavano alla base dell’individuazione dei principi nei due anzidetti. Ebbene, nel passo ora in oggetto Alessandro sintetizza la prima e la quarta giustificazione, offrendo un quadro complessivo dal quale risulta perché i principi dei numeri sono i principi di tutte le cose e perché l’Uno e la Diade indefinita, o Diade di grande e piccolo sono i principi dei numeri. In effetti, nella prima parte del frammento, che riprende la prima giustificazione, si dice che il numero è primo rispetto alle altre cose e, come in essa, lo si prova attraverso la riduzione dei corpi a solidi geometrici (chiaro motivo pitagorico, ampiamente presente anche nel Timeo; donde la continuità tra la dottrina professata in questo dialogo con la dottrina dei principi – o addirittura, come sostengono gli esponenti della cosiddetta «Scuola di Tubinga e Milano», la presenza di questa dottrina in quella del Timeo14), indi dei solidi a superfici, di queste alle linee e delle linee ai punti, che sono «monadi dotate di posizione». Da qui la conclusione: «poiché (...) il numero è per natura primo rispetto alle altre cose, riteneva che (...) i principi del primo numero fossero anche principi di ogni numero» e, per conseguenza, di ogni cosa. Indi, stante che il primo numero è il 2, si dimostra che suoi principi sono l’Uno e il Grande e il Piccolo, ossia la Diade indefinita. La dimostrazione riprende la quarta giustificazione. Si afferma così che nel due sono presenti il doppio e il mezzo, nei quali si esprimono i molti e i pochi, e che questi aspetti si riportano all’eccesso e al difetto, i quali sono aspetti duali e indefiniti. Cosicché, sotto questo profilo, principi del 2 e, in generale, di ogni numero sono la Diade indefinita di Grande e Piccolo. Ma nel due il Grande e il Piccolo assumono una forma unitaria: quella, per l’appunto, della dualità, e ciò richiede un principio di determi-

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nazione, vale a dire di unificazione (essendo la determinazione una unificazione), consistente nell’Uno. Donde la conclusione: se «i numeri sono elementi di tutti gli enti» e principi dei numeri sono l’Uno e la Diade indefinita, allora «l’Uno e il Grande e il Piccolo, ovvero la Diade indefinita sono anche principi di tutte le cose». «Ma Platone sosteneva che anche le Idee sono numeri». Qui non se ne dà la giustificazione, ma essa è implicita: «elementi (ossia cause) di tutti gli enti sono i numeri», ma le Idee costituiscono le cause paradigmatiche delle cose, per cui le Idee sono numeri. Dicendo questo è probabile che Alessandro non si riferisca a tutte le Idee, bensì alle Idee-numeri o numeri ideali. In ogni caso, se le Idee sono numeri, «è logico, dunque, che dei principi del numero abbia fatto i principi anche delle Idee». L’Uno e la Diade indefinita sono, dunque, principi anche delle Idee, o – più esattamente – sono principi di tutte le cose perché sono principi delle Idee. Le ultime righe del passo rivestono particolare interesse perché indicano in che senso la Diade di grande e piccolo è principio d’indeterminazione. Essa, vi si dice, «è la natura dell’indeterminato, poiché il grande e il piccolo, ovvero il maggiore e il minore non sono definiti, ma possiedono il più e il meno, il quali procedono verso l’illimitato». Alcuni studiosi hanno inteso queste affermazioni nel senso che l’indeterminatezza della Diade dipende dal fatto che grande e piccolo esprimono indifferenza lungo le due opposte direzioni, ossia nell’aumento e nella diminuzione;15 per altri, invece, la sua indeterminatezza non va intesa in senso direzionale, ma, per così dire, strutturale, quale espressione, cioè, della costitutiva e intrinseca assenza di determinazione che la caratterizza in essenza. Insomma, la Diade è indeterminata perché ciascuno dei due termini di cui si compone è indeterminato.16 È probabile che entrambe le interpretazioni siano cor-

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rette nella misura in cui definiscono l’indeterminatezza della Diade sotto aspetti differenti. Quale principio delle Idee e dei numeri ideali è logico che rappresenti l’infinito sotto il profilo qualitativo, ond’è che la sua stessa indeterminatezza è di questa natura, avvalorandosi in questo la prima esegesi; ma quale principio dei numeri matematici è logico che il Grande e il Piccolo significhino indeterminatezza nella valenza di indeterminato aumento e diminuzione, nei termini chiariti dalla seconda esegesi. In effetti, la Diade indefinita è principio tanto delle Idee e, in specie, delle Idee-numeri o numeri ideali, quanto delle cose, come in più luoghi dello stesso Peri# taègaqou^ è precisato. Ora, come si può evincere da Metaph., I, 6, 987 b 27 s., dove Aristotele confronta la concezione del numero dei Pitagorici con quella dei Platonici e rileva che, mentre per i primi «i numeri sono le cose stesse», i Platonici «pongono gli enti matematici come intermedi tra i numeri ideali e le cose», la Diade indefinita di Grande e Piccolo, fungendo da principio materiale dei numeri ideali, esprime la forma dell’illimitato quale principio materiale dei numeri matematici, in quanto, per così dire, lo specifica nella direzione dell’infinito crescere e decrescere. Essa esprime cioè, per così dire, il principio materiale dei numeri matematici nella forma crescente e decrescente della sua infinitudine. I numeri ideali rappresentano poi il principio formale dei numeri matematici in quanto ciascuno di essi, esprimendo l’essenza di una quantità determinata, definisce un’unità (l’unità della dualità, della ternità e così via) che «dà forma» all’indeterminatezza di un infinito crescere e decrescere. 4.2 Questa doppia valenza del carattere d’indeterminatezza della Diade e al tempo stesso la diversità dei profili sotto i quali si specificano, da un lato, l’idea del suo procedere indefinitamente nella direzione dell’accrescimento e della diminuzione, da un altro l’idea della strutturale indetermi-

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natezza degli elementi di cui si compone, ossia delle nozioni di grande e di piccolo, si possono rinvenire nel passo di Porfirio riportato da Simplicio (In Arist. Phys., 453, 25 – 454, 19) e raccolto da Ross tra i frammenti n. 2. Un frammento che si rivela altresì interessante per il giudizio di Simplicio circa il «carattere enigmatico» (cfr. aiènigmatwdw^v) della lezione sul bene tenuta da Platone e per la notizia, che anch’egli riferisce, dei resoconti che ne stesero Aristotele, Eraclide, Estieo e altri membri della scuola. Ma maggiore interesse, dal punto di vista da cui ora le esaminiamo, le parole di Simplicio rivestono per la contrapposizione tra la natura indefinita della Diade e il suo essere collocata da Platone, oltre che nell’ordine del sensibile, in quanto principio delle cose, anche sul piano dell’intelligibile, evidentemente per il fatto stesso di essere principio pure delle Idee, che sono, per l’appunto, di questa natura. L’indeterminatezza – così sembra doversi intendere il rilevo – è caratteristica della materia, e perciò non stride che sia attribuita alla Diade in quanto principio delle realtà sensibili, giacché esse sono provviste di materia. Stride, invece, l’attribuirla alla Diade pensata come principio (anche) delle Idee. Con ciò Platone trasferisce nell’intelligibile una prerogativa del sensibile. Sullo sfondo del motivo polemico s’affaccia così – tacitamente, perché non nominata ex professo, quanto massicciamente – la figura speculativa della Diade quale materia intelligibile, contro cui si rivolge in essenza l’obiezione. È da leggersi la denunzia di una contraddizione e dunque una critica alla dottrina dei principi, che s’allinea a quella di Alessandro che troviamo indicata ancora in Simplicio, in In Arist. Phys., 151, 6-19 = fr. 2 (cfr. infra), sempre relativamente alla Diade. In entrambi i passi, anzi, è molto probabile che Simplicio abbia derivato la critica da Alessandro, ossia, in ultima analisi, dal Peri# taègaqou^ di Aristotele dal quale Alessandro ha attinto per i suoi commenti allo Stagirita.

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Quanto alla testimonianza di Porfirio, là dove si afferma che, «procedendo nella direzione dell’accrescimento e della diminuzione, ciò che partecipa di essi [scil., la Diade] non s’arresta né giunge a compimento, ma procede verso l’indefinito dell’illimitatezza», cosicché, sotto questo profilo, in una grandezza, per esempio nel cubito, si rinviene «racchiusa una certa natura dell’illimitato, o piuttosto più nature: una che procede verso il grande e una che procede verso il piccolo», il carattere indefinito della Diade sembra affermato in ragione del carattere indefinito degli elementi che la compongono, il Grande e il Piccolo; si tratta, dunque, di una indeterminatezza di ordine strutturale, in quanto attiene alla «natura» della Diade. Ma dove si afferma che «la Diade indefinita» perché è «costituita dalla monade che procede verso il grande e dalla monade che procede verso il piccolo», la sua indefinitezza sembra essere intesa nel senso direzionale dell’aumento e della diminuzione. Anche qui, tuttavia, si riprende il tema, già ampiamente apparso in Alessandro, secondo cui il determinarsi della Diade nel due richiede un principio di determinazione, espresso dall’Uno. La testimonianza di Porfirio riveste, infine, non poco interesse anche per il collegamento che istituisce tra il Flebo e la dottrina dei principi, dando così attestazione che questa corrisponde a una struttura portante anche degli ultimi Dialoghi di Platone, oltre che del suo insegnamento orale, non a una teoria a lato di quelle riscontrabili nelle opere scritte del filosofo. 5. Si è fatto riferimento a un motivo polemico di Aristotele, riferibile in ultima analisi, attraverso la testimonianza di Simplicio e di Alessandro, al Peri# taègaqou^, nei confronti della dottrina platonica dei principi, e nel caso in cui lo scritto aristotelico sia stato redatto in più di un libro, come vogliono alcune indicazioni dell’opera riferite all’inizio, è

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logico supporre che lo Stagirita abbia sviluppato la polemica separatamente dalla ricostruzione della dottrina, dedicando all’una e all’altra parti separate dell’opera. 5.1 Bersaglio principale della polemica aristotelica sembra essere stata la Diade indefinita. Contro di essa si indirizza la critica già esaminata in Simplicio, In Arist. Phys., 453, 25 – 454, 19 (= fr. 2), e ancora contro di essa si rivolge Aristotele nella critica riferita sempre da Simplicio (In Arist. Phys., pp. 453, 25 – 454, 19 = fr. 2), il quale riporta un passo di Alessandro che, per quanto si è detto, è probabile che anche in questo caso attinga direttamente al Peri# t¢gaqou^. È nuovamente nominata la lezione tenuta da Platone sul bene e si fa nuovamente riferimento alla redazione da parte di Aristotele e di altri membri dell’Accademia di resoconti di essa. Si ritorna ancora sul nesso tra la dottrina dei principi e le dottrine pitagoriche, facendo presente che «in molti luoghi Platone segue» questi filosofi. Ma l’aspetto più interessante del frammento, quello per il quale qui se ne fa espresso oggetto di analisi è costituito dall’affermazione secondo cui è verisimile che per Platone l’Uno e la Diade indefinita siano principi di «tutte» le cose, ma è assurdo che la Diade sia principio delle Idee, rivestendo la funzione di materia di esse, così espressamente avendo il filosofo qualificato il Grande e il Piccolo, giacché egli stesso nel Timeo afferma che la materia esiste soltanto nel mondo sensibile, dove vi è generazione, mentre le Idee né sono soggette a generazione, né sono di natura sensibile. Anche qui, dunque, ricompare la medesima critica – formulata in termini più chiari e più netti che nel passo precedentemente esaminato – secondo cui la nozione di Diade indefinita quale principio materiale delle Idee è un’assurdità: «materia intelligibile» è espressione che contiene una contradictio in adiecto, e l’essere infinito è caratteristica propria del sensibile e del materiale.

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5.2 Più radicali e incisive sono le critiche di Aristotele alla dottrina platonica dei principi che Alessandro riferisce nel commento a Metaph., I, 9, 990 b 17-22, dove peraltro richiama contestualmente quella dottrina e il Peri# taègaqou^. Questo scritto, infatti, è espressamente indicato da Alessandro come l’opera in cui lo Stagirita ha esposto quella teoria dei principi alla quale, nel suddetto luogo della Metafisica, imputa di configgere con le Idee e che, parlando in prima persona, e dunque annoverandosi ancora tra i Platonici, dichiara stare loro più a cuore delle Idee stesse.17 Ebbene, il commentatore (In Arist. Metaph., 85, 15-18 = fr. 2), che conosceva il Peri# taègaqou^, precisa che i principi cui Aristotele allude sono l’Uno e la Diade indefinita di grande e piccolo, e con riferimento a essi esplica le tre obiezioni che nel passo della Metafisica Aristotele espone in maniera assolutamente succinta.18 Esse sono le seguenti: capita che non sia prima la diade, ma il numero, e che il relativo sia prima del per sé, e capiteranno tutte quelle cose secondo le quali taluni che seguono le opinioni sulle Idee si sono messi in contrasto con i principi (Metaph., I, 9, 990 b 17-22).

Non vi è dubbio che qui lo Stagirita abbia soltanto sintetizzato i tre rilievi polemici che aveva, invece, diffusamente esposto nello scritto Sul bene, non diversamente da come aveva fatto nelle righe appena precedenti (990 b 8-17), dove si era soltanto limitato a richiamare gli argomenti di Platone e dei Platonici a favore dell’esistenza delle Idee (l’argomento «dalle scienze», dell’«uno sopra i molti», del «pensare alcunché quando si è corrotto» e poi gli «argomenti più rigorosi») e le sue critiche a essi, argomenti e critiche che invece nel Peri# ièdew^n aveva diffusamente esposti e formulate. E, come vedremo, pure in questo caso Alessandro, che aveva conoscenza diretta anche del Peri# ièdew^n,

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esplicava le brevi indicazioni di Metaph., I, 9 con i corrispondenti passi di quello scritto.19 5.2.1 La prima critica aristotelica, nell’esposizione diffusa del Peri# taègaqou^ riferita da Alessandro, si declina in questi termini: in quanto principi delle Idee, l’Uno e la Diade indefinita vengono prima di queste, ma – obietta Aristotele – le stesse considerazioni che inducono a postulare le Idee hanno per conseguenza che il numero sia anteriore alla Diade. In effetti, il predicato comune, essendo per i Platonici un’Idea, sussiste per sé e come tale è anteriore a ciò di cui si predica. È questa, infatti, la caratteristica dell’Idea e in questo modo la pensano i Platonici, come il predicato comune per sé sussistente, separato dalle cose di cui si predica e, di conseguenza, anteriore a esse. Ma in tal modo il rapporto tra la Diade indefinita e le Idee si inverte. Infatti, (a) della Diade indefinita si predica la diade (ossia il due), la quale, in quanto predicato, sarà un’Idea e dunque anteriore alla Diade indefinita; (b) non soltanto, ma della stessa diade si predica il numero, che, in quanto predicato, sarà un’Idea (come effettivamente sostengono i Platonici, per i quali le Idee sono numeri) e dunque anteriore alla stessa diade. Ne consegue che la diade (ossia il due) non sarà il principio dei numeri, vale a dire il primo numero, ma che il numero, in quanto Idea, sarà anteriore alla diade; (c) ora, se il numero, in quanto Idea, è anteriore alla diade e questa, in quanto Idea, è anteriore alla Diade indefinita, il numero, ossia le Idee (stante che per i Platonici le Idee sono numeri) sono anteriori alla Diade indefinita, con la conseguenza che questa non può essere principio delle Idee.20 In merito a quest’argomentazione, che è stata accreditata, tra gli altri, da Schwegler (Metaph., III, p. 84), Bonitz (Comm., p. 112), Ross (Metaph., I, p. 196) e Reale (Metaph., III, p. 196), non è mancato chi, per contro, abbia rilevato una con-

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fusione da parte di Alessandro tra la nozione di diade, ossia del numero due, e quella della Diade indefinita di Grande e Piccolo e, comunque, abbia scorto nell’argomento una serie di incongruenze alla cui radice riposa in buona sostanza la mancata distinzione tra le due nozioni. In questo senso sembra essersi espresso Cherniss (Plato, pp. 300-305; 513-524) ove parla di modi differenti di anteriorità, la cui mancata distinzione da parte di Aristotele, che invece li assimilerebbe, falsa i rapporti tra le determinazioni in gioco. Ma, forse, la scansione dell’argomento in tre momenti concettualmente distinti e non in due, come sembrerebbero interpretare taluni studiosi nelle loro ricostruzioni (così, per esempio, sembra fare Viano, Metaph., p. 219, nota 1), destituisce (o, meglio, concorre a destituire) l’accusa di un fondamento teorico, in quanto vede distintamente chiamati in causa prima il rapporto tra la diade e la Diade indefinita, indi quello tra il numero e la diade e infine, quale momento ove si compie l’inferenza tra i primi due, il rapporto tra il numero e la Diade indefinita. Così letto, il senso dell’argomento sembra essere proprio quello che Alessandro illustra quando specifica che per i Platonici la Diade indefinita, assieme all’Uno, essendo principio delle Idee e queste essendo numeri, è anche principio del numero. Ma l’argomento or ora esaminato, dimostrando che i presupposti teorici stessi che portano a istituire le Idee esigono che queste siano anteriori ai principi, dimostra, assieme al successivo, «che le Idee distruggono i principi. Ma una volta distrutti questi, verranno meno anche le cose che sono dopo i principi, posto che da questi derivano, quindi anche le Idee» (85, 18-21). Ossia, in ultima istanza, la teoria delle Idee si distrugge da se stessa, sulla base degli stessi presupposti che porterebbero a postularla. 5.2.2 Il secondo argomento che conduce a un tale esito prende le mosse dalla conclusione del primo, ossia che, in

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realtà, non la Diade indefinita è principio del numero, ma questo è principio di quella, di modo che l’assurdo che mostra essere insito in quest’assunto può, sotto un certo profilo, intendersi come una prosecuzione e un ulteriore ribadimento della medesima infondatezza della postulazione delle Idee già mostrata nel primo argomento. L’assurdo, spiega Alessandro (In Arist. Metaph., 86, 6-11), consiste in questo: «se il numero è un relativo, giacché ogni numero è numero di qualcosa, e se è il primo tra gli enti, dato che lo è anche rispetto alla Diade, che i Platonici considerano principio, allora ciò che è relativo dovrebbe essere anteriore, secondo i Platonici, a ciò che è per sé. Ma è assurdo, poiché ogni relativo è posteriore. Il relativo, infatti, indica la proprietà di una realtà preesistente, la quale è prima rispetto alla proprietà che le si è aggiunta». Qui non è tanto la nozione di relativo quale risulta da Cat., 7 che sembra essere chiamata in causa. Se così fosse, si sarebbe dovuto dire che il relativo, essendo costitutivamente relativo di un correlativo (Cat., 7, 6 b 28; 7 a 22-23), è simultaneo a questo (Cat., 7, 7 b 15) e dunque non può mai essere il primo. Sembra invece che sia in causa la nozione accademica di «enti relativi (ta# pro@v ti)» nella loro distinzione dagli «enti per sé (ta# kaqˆ auéta@)» (cfr. Platone, Soph., 255 c-d; Divis. Arist., n. 67), come induce a credere il rilievo che il relativo esprime la proprietà di un ente e, in quanto tale, non può essere per sé, rilievo nel quale si concentra l’essenza della distinzione accademica suddetta; e inoltre, come fa pensare il fatto che il numero nelle Categorie non è detto essere un relativo, bensì una quantità, ed esattamente una quantità discreta (Cat., 6, 4 b 22-23). Questo non significa, ad avviso di chi scrive, che nel momento di formulare questa critica della dottrina delle Idee Aristotele non aveva ancora elaborato la dottrina delle categorie, ma piuttosto che, riferendosi determinatamente all’idea accademica di enti relativi e assimilando a questo

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tipo di enti il numero in quanto esprimente una certa proprietà di una cosa, ha con ciò stesso inteso rimarcare una contraddizione interna alla teoria delle Idee. Insomma, la distanza dall’idea di relativo definita nelle Categorie per assumere l’idea accademica di enti relativi sembra essere alcunché di deliberatamente voluto dallo Stagirita e una scelta strategica del suo argomentare. In quest’ordine di considerazioni, anzi, il prosieguo del commento di Alessandro sembra avvalorare l’ipotesi che questo stesso argomento presuppone la dottrina delle categorie. Se infatti si chiedesse che tipo di proprietà delle cose è il numero, sarebbe logico rispondere che è una quantità. Esattamente alla quantità fa riferimento il commentatore quando, subito appresso, quasi volendo correggere l’assunto che il numero è un relativo – o, meglio, quasi volendo precisare che tale assunto non corrisponde a una tesi di Aristotele, ma che questi, così qualificando il numero, si è volutamente rifatto a una dottrina accademica –, osserva che, «anche se si volesse dire che il numero è una quantità e non un relativo, ne seguirebbe che, per i Platonici, la quantità è prima della sostanza» (Alex., In Arist. Metaph., 86, 11-12). Ma proprio le Categorie, come s’è detto, pongono che il numero è una quantità. La precisazione di Alessandro, nel modo stesso in cui è asserita, sembra richiamare questa circostanza. 5.2.3 Le altre incongruenze cui accenna Aristotele in merito al conflitto tra le Idee e i principi sono, ad avviso di Alessandro (In Arist. Metaph., 87, 3-24), le seguenti: (a) l’esistenza dei principi è vanificata dal fatto che anteriore a essi sarebbe l’Idea di principio. Ché, «se il termine comune che si predica di alcune cose è principio e Idea di esse, e se “principio” è il predicato comune dei principi ed “elemento” degli elementi, dovrebbe esserci qualcosa di anteriore e principio dei principi e degli elementi. Ma in tal modo non potrebbe essere né principio né elemento». (b) L’Uno e la

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Diade indefinita non possono essere principi perché sono Idee e «non c’è un’Idea che sia anteriore a un’altra, poiché tutte le Idee sono principi allo stesso modo». (c) Se l’Uno e la Diade indefinita sono principi e, precisamente, il primo è principio formale e la seconda principio materiale, poiché la materia è determinata dalla forma si avrà che l’Idea di Diade, ossia la Diade in sé, sarà informata dall’Idea dell’Uno, ossia dall’Uno in sé. Ma «è assurdo che un’Idea riceva la sua forma da un’altra Idea, dal momento che tutte le Idee sono forme». (d) «Se» invece «i Platonici non diranno che la Diade indefinita è un’Idea», a essa, che pure è principio, ossia determinazione prima, sarà anteriore l’Idea di diade o Diade in sé. (e) «Le Idee sono semplici»; come tali non possono «derivare da principi» che siano «diversi tra loro», come per l’appunto sono l’Uno e la Diade indefinita. (f) Se si pone una Diade in sé, una Diade indefinita e la diade matematica, ossia il numero due, «ci sarà un incredibile numero di diadi». 6. Nel seguito del passo in cui indica le quattro giustificazioni dei principi, Alessandro dà notizia di come da questi si generano i numeri. Egli adduce tale spiegazione, che corrisponde al riassunto di un luogo del Peri# taègaqou^, a commento di Metaph., I, 6, 987 b 34 ss. dove Aristotele, a conclusione del confronto tra Platone e i Pitagorici in merito alla concezione del numero,21 afferma che «l’aver posto una Diade come l’altra natura ebbe come causa il generare naturalmente da essa i numeri, eccetto quelli primi, come da un qualche materia plasmata e informante». Indi muove una critica a questo procedimento. Si tratta della generazione dei numeri pari, dal momento che quelli che sono detti fare eccezione a tale generazione sono i numeri dispari, in questi dovendosi identificare i «numeri primi», come la maggior parte degli studiosi riconosce.22

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È subito importante osservare la «natura diversa» della Diade rispetto a quella dei numeri sia ideali che matematici, dal momento che essa funge da principio del loro generarsi e il principio non ha la stessa «natura» del principiato. Donde, rispetto ai numeri matematici (di cui qui è questione), la logica conclusione che, essendo la serie di questi numeri infinita, ossia indeterminata, l’indeterminatezza della Diade dovrà essere, per un verso, dello stesso tipo di quella della serie numerica, così da indicare un indeterminato aumentare e diminuire, ma, per altro verso, dovrà essere di tipo diverso da questa, per il fatto stesso di essere l’indeterminatezza del principio rispetto a quella del principiato, e significare perciò una dimensione qualitativa e non già direzionale, intrinseca alla Diade stessa. È una riconferma dell’ipotesi esegetica avanzata nell’analisi delle due testimonianze riportate da Simplicio, nelle pagine precedenti. La spiegazione di Alessandro, attinta direttamente dal Peri# taègaqou^, della generazione dei numeri pari fa ricorso alla Diade come fattore di duplicazione, nei termini seguenti: gli sembrava che la Diade fosse atta a dividere tutto ciò a cui veniva riferita. Per questo la chiamava anche produttrice del due. Infatti, duplicando ciascuna delle cose alle quali viene riferita, in qualche modo la divide, non permettendo che resti ciò che era. E questa divisione è generazione di numeri. Come le materie plasmate e informanti, ossia gli stampi, rendono simili a sé tutte le cose che sono state adattate dentro di essi, così anche la Diade, come se fosse una materia plasmata e informante, diviene atta a generare i numeri successivi a essa, rendendo due e doppio ciascuno al quale venga riferita. Infatti, essendo riferita all’uno, produsse i due (infatti, due è due volte uno), ed essendo riferita ai due produsse i quattro (infatti, i quattro sono due volte due), e d essendo riferita al tre produsse il sei, e similmente negli altri casi (Alex., In Arist. Metaph., 57, 3-11 = fr. 2).

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I numeri dispari, poi, si generano per aggiunzione di un’unità a quelli pari, come ancora Alessandro precisa: se viene aggiunta una monade a ciascuno dei numeri pari, si producono quelli dispari, ma una monade che non sia l’uno come principio – giacché questo è produttore di forme, ma non della materia –, bensì, come il grande e il piccolo definiti con l’uno erano il due, così anche ciascuno di essi definito con l’uno è detto essere una monade (Alex., In Arist. Metaph., 57, 24-28 = fr. 2).

Berti (Primo Aristotele, p. 292) ha mostrato con solidi argomenti grammaticali e logici che colui che considerava la diade «produttrice del due (duopolio@v)» fu Platone, non Aristotele, e che quest’ultimo riferisce una dottrina del primo. Sennonché, la spiegazione data da Alessandro, accolta e avvalorata tra gli altri da Bekker (Diairetische Erzeugung, pp. 464-501), Stenzel (Zahl, pp. 30-53) e Wilpert (Aristotelische Frühschriften, pp. 207-209), trova un forte motivo d’opposizione nel fatto di veder attribuita alla Diade una funzione attiva nella generazione dei numeri, in contrasto con il suo essere principio materiale e dunque passivo. Inoltre, tale spiegazione trascura completamente la strutturale indeterminatezza della Diade indefinita, composta com’è dal Grande e dal Piccolo, dal difetto e dall’eccesso (cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 294). Sono state così proposte interpretazioni del passo in esame ben diverse da quella fornita da Alessandro. Tra esse, particolare attenzione riveste l’interpretazione di Ross (Ideas, pp. 202-205). Convinto che il Grande e il Piccolo derivino direttamente dal più e dal meno del Filebo e che pertanto la Diade esprima una pluralità indefinita, lo studioso respinge l’idea che per Platone essa potesse avere una funzione duplicatrice. Individua invece nel processo di generazione dei numeri un processo di successive determinazioni

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operate dall’Uno, in quanto principio formale, su tale pluralità indeterminata o, più precisamente, sull’indeterminato rapporto fra due grandezze, costituito dalla Diade. Così l’Uno, operando in modi diversi su tale rapporto indeterminato, produce quei rapporti determinati che sono i numeri e agisce perciò come principio formale su un principio materiale. Ross ritiene che, se questa è l’effettiva dottrina di Platone, quella presentata da Aristotele nel Sul bene si riferisce invece a Senocrate. Questi, infatti, confuse i numeri ideali con quelli matematici, e i numeri di cui Aristotele indica qui il processo generativo sono di tipo aritmetico. Ma proprio quest’ultima annotazione permette di respingere la conclusione che Aristotele attribuisce a Platone una dottrina di Senocrate. In effetti, se ciascuno dei numeri ideali costituisce un’unità formale, ossia, per così dire, l’Uno della dualità, della ternità, della quaternità e via seguitando, e d’altro canto la Diade indefinita di Grande e Piccolo, principio materiale dei numeri ideali, esprime la forma di quell’indeterminato o di quell’indefinito che costituisce il principio materiale dei numeri matematici, è di questi ultimi che nel passo in esame bisogna vedere indicata la genesi, a partire, per l’appunto, dall’azione della Diade quale forma del principio materiale di questi numeri stessi. E che la Diade non sia soltanto principio materiale (dei numeri ideali), ma anche forma (del principio materiale dei numeri matematici) è ben testimoniato dal termine eèVmagei^on qui usato dallo Stagirita per designarla (esso compare già in Platone, Thaet., 191 c; 196 a; Tim., 50 c). Tale termine, come ha ben spiegato Berti, non indica semplicemente la materia, ma una materia che a sua volta conferisce ad altro la forma che riceve. «ˆEVmagei^on – ha scritto lo studioso – è propriamente il recipiente di creta in cui viene versato il bronzo fuso destinato a formare la statua. Come tale, esso riceve la forma dall’azione plasmatrice dell’arti-

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sta, e dunque può essere considerato principio passivo, materiale; ma a sua volta esso trasmette la forma al bronzo che vi è introdotto, e dunque svolge anche una funzione attiva, formatrice» (Berti, Primo Aristotele, p. 296). La Diade, in quanto eèkmagei^on (ho tradotto il termine con «materia plasmata e informante» proprio per indicare la duplice natura al tempo stesso passiva e attiva della diade; Reale, più sinteticamente, lo rende con «matrice», e questo termine è usato anche da altri studiosi) riceve la forma dell’Uno, concorrendo così alla generazione di numeri ideali e, a sua volta, permette la formazione di quell’infinito indeterminato avente funzione di materia sul quale i numeri ideali, agendo come principio formale, generano i numeri matematici e, in particolare, i numeri dispari. In effetti, il principio materiale di tali numeri, quel principio, cioè, di cui la Diade indefinita è forma, proprio in quanto deriva da questa, che è indefinita nella direzione del grande e del piccolo, ossia dell’infinito accrescimento e dell’infinito decrescere, è materia che indefinitamente moltiplica e divide quell’unità che di volta in volta riceve dal principio formale. Detta unità, come si accennava, è espressa da ciascun numero ideale. In tal modo la dualità, la ternità, la quaternità e così via, agendo ciascuna come un’unità sulla materia derivante dalla Diade, vedono infinitamente raddoppiati i due, i tre, i quattro, insomma i numeri fino al dieci di cui esprimono l’unità formale. La dualità dà luogo così al 2, al 4, all’8, al 16; la ternità al 3, al 6, al 12, al 24; la quaternità al 4, all’8, al 16, al 32. Come si vede, i numeri in causa sono numeri matematici, ma di essi si può ben dire che derivano dall’azione dei numeri ideali su una materia derivante dalla Diade indefinita di Grande e Piccolo. La ragione che induceva Ross ad attribuire la dottrina qui a tema a Senocrate, pertanto, cade, e la dottrina stessa rivela il suo carattere pienamente platonico.

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La critica di Aristotele cui si accennava, formulata in Metaph., I, 6, 988 a 1 ss., è chiara:23 è la forma che, applicandosi a una materia, genera molte volte (è l’unica forma del tavolo che, applicata a più legni, genera più tavoli, ed è lo sperma maschile, principio formale nella generazione degli animali, che può informare più gameti femminili, i quali hanno funzione di materia); ma Platone attribuisce questa capacità generatrice in senso distributivamente plurale alla materia, capovolgendo lo strutturale rapporto tra materia e forma.

TESTIMONIA

TESTIMONIANZE

Aristox., Harm., 2, 20, 16 – 31, 3: come Aristotele raccontava spesso, la stragrande maggioranza di coloro che avevano ascoltato da Platone la lezione sul bene, provava questi sentimenti. In effetti, ciascuno vi era andato supponendo che avrebbe appreso uno di questi che sono ritenuti beni umani, ossia la ricchezza, la salute, la forza, complessivamente una qualche meravigliosa felicità. Ma quando risultò che i discorsi vertevano sulle matematiche, sui numeri, sulla geometria, sull’astronomia e, alla fine, che il bene è l’uno, si manifestò loro qualcosa, credo, di completamente paradossale. Arist., Phys., IV, 2, 209b 11-16: per questo, anche Platone nel Timeo afferma che la materia e lo spazio sono identici:24 infatti, il ricettacolo e lo spazio sono un’unica e medesima cosa. E, pur parlando in modo diverso qui25 e nelle cosiddette dottrine non scritte, tuttavia ha dichiarato identici il luogo e lo spazio. Them., In Arist. Phys., 106, 21-23: eppure, che la materia accolga le Idee, nel Timeo afferma in un modo, nelle dottrine non scritte in un altro: là, infatti, per partecipazione, mentre nelle dottrine non scritte per somiglianza. Philop., In Arist. Phys., 515, 29-32: se nel Timeo

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chiamò la materia in modo diverso, denominandola «ricettacolo», mentre nelle conversazioni non messe per iscritto la chiama «grande e piccolo», non facciamo nessuna differenza, tranne che egli sostiene che il ricettacolo sono lo spazio e il luogo. Philop., In Arist. Phys., 521, 9-15: ossia, chiamando la materia nel Timeo in un modo e in un altro nelle dottrine non scritte, ossia nelle conversazioni non messe per iscritto. , nelle conversazioni non messe per iscritto chiamava la materia «grande e piccolo», come in precedenza ha detto Aristotele, e noi esponiamo per quale motivo la materia è grande e piccolo; invece nel Timeo chiama la materia «ricettacolo» per il fatto che riceve le Idee. Lo stesso Aristotele mise per iscritto le conversazioni di Platone non messe per iscritto. Simpl., In Arist. Phys., 503, 10-18: , avendo mostrato che l’infinito è avvolto più che avvolgere e che per sua stessa natura è inconoscibile, confuta l’esplicazione superficiale delle dottrine di Platone. Poiché Platone nelle dottrine Sul bene aveva sostenuto che la materia è il grande e il piccolo, che diceva anche indeterminata, e che tutte le cose sensibili sono avvolte dall’infinito, e che sono inconoscibili per il fatto di avere natura materiale, indeterminata e mobile, egli sostiene che a una tale dottrina sembra fare seguito che anche negli intelligibili vi siano quelli che colà sono il grande e il piccolo, nella qual cosa consiste la Diade indefinita, la quale è anch’essa principio assieme all’Uno di ogni numero e di tutti gli enti. Le Idee, infatti, sono numeri. Simpl., In Arist. Phys., 542, 9-12: egli (scil. Aristotele) afferma che nel Timeo chiamò la materia in un modo, nelle conversazioni non messe per iscritto in un altro. In

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effetti, nel Timeo la chiama «ricettacolo» (giacché in un qualche modo assai aporetico riceve l’intelligibile), mentre nelle conversazioni non messe per iscritto la chiamava «grande e piccolo». Simpl., In Arist. Phys., 545, 23-25: il ricettacolo, nelle conversazioni Sul bene non messe per iscritto lo chiamava «grande e piccolo», nel Timeo materia, che denominava anche luogo e spazio. Arist., De an., I, 2, 404b 18-21: in pari modo si sono date definizioni anche nello scritto Sulla filosofia, ossia che il vivente in sé deriva dalla stessa idea dell’uno e dalla prima grandezza, larghezza e profondità, e che le altre cose derivano in maniera simile.26 Philop., In Arist. De an., 75, 34-76, 1: chiama le cose che ha trascritto Sul bene, Sulla filosofia. In esse Aristotele racconta le conversazioni di Platone non messe per iscritto. Il suo libro è legittimo. In esso, dunque, racconta l’opinione di Platone e dei Pitagorici sugli enti e sui loro principi.27 Simpl., In Arist. de an., p. 28, 7-9: ora chiama Sulla filosofia il trattato Sul bene, da lui trascritto dalla conversazione di Platone, trattato nel quale racconta le opinioni dei Pitagorici e dei Platonici sugli enti.28 Ascl., In Arist. Metaph., p. 77, 2-4: tuttavia sosteniamo che non esistono Idee di cose cattive. Infatti, la cose cattive sussistono senza un solido fondamento e sopravvengono, com’è detto nelle conversazioni platoniche.

FRAGMENTA

FRAMMENTI

1 (R2 22, R3 27) Vita Aristotelis Marciana, p. 433, 10-15: Aristotele fu molto misurato nel carattere, se nelle Categorie sostiene che non ci si deve pronunciare frettolosamente, ma dopo aver riflettuto molte volte, e che, di certo, neppure svolgere soltanto le difficoltà è senza utilità. E nell’opera Sul bene che bisogna ricordarsi che è uomo non soltanto colui che ha successo, ma anche colui che opera dimostrazioni. 2 (R2 23, R3 28) Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 55, 20-57, 28: Platone e i Pitagorici ipotizzavano come principi degli enti i numeri, poiché sembrava loro che fossero principio ciò che è primo e ciò che è incomposto, e che prime rispetto ai corpi sono le superfici – infatti, sono prime per natura le cose più semplici e quelle che non si distruggono assieme –, rispetto alle superfici, le linee, secondo il medesimo ragionamento, e rispetto alle linee, i punti, che i matematici chiamavano segni ed essi monadi: realtà che sono assolutamente incomposte e che non hanno nulla prima di sé. Ma le monadi sono numeri; dunque, i numeri sono i primi degli enti. E poiché le forme sono prime e le Idee sono prime rispetto agli enti che, a suo avviso, sono in relazione a esse e da esse hanno l’essere – e che esse esistano, cerca di dimostrare con più –, diceva che le forme sono numeri. Se infatti

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ciò che è uno per forma è primo rispetto agli enti che sono in relazione a esso, e nulla è primo rispetto al numero, allora le forme sono numeri. Perciò sosteneva che i principi del numero sono principi delle forme e che l’uno è principio di tutte le cose. Inoltre, le forme sono principi delle altre cose, e delle Idee, che sono numeri, sono principi i principi del numero. E sosteneva che principi del numero sono la monade e la diade. Poiché, infatti, nei numeri vi sono l’uno e ciò che è oltre l’uno, ossia molti e pochi, ciò che per primo è in essi oltre l’uno, questo ponevano come principio dei molti e dei pochi. Ma la diade è prima oltre l’uno, avendo in sé sia il molto che il poco. Infatti, il doppio è molto, mentre il mezzo è poco, ed essi sono nella diade. Ed è contraria all’uno, se veramente questo è indivisibile, mentre essa è divisa. Inoltre, ritenendo di dimostrare che l’uguale e il disuguale sono principi di tutte quante le cose, sia di quelle che sono per sé che di quelle contrarie – tutte, infatti, cercava di ricondurre a questi, come se fossero le più semplici – poneva l’uguale sotto la monade e il disuguale sotto l’eccesso e il difetto. Infatti, la disuguaglianza consiste in due cose, nel grande e nel piccolo, i quali sono eccedente e difettante. Per questo, la chiamava anche Diade indefinita, perché nessuno dei due, né ciò che eccede né ciò è ecceduto, in quanto tale, è definito, ma indefinito e illimitato. Ma, dopo esser stata definita dall’uno, la Diade indefinita diventa la diade che è nei numeri, giacché la diade siffatta è un uno per la forma. Inoltre, il primo numero è la diade,29 e principi di questa sono ciò che eccede e ciò che è ecceduto, poiché nella prima diade si trovano il doppio e il mezzo. Infatti, il doppio e il mezzo sono, , eccedente ed ecceduto, mentre non sempre ciò che eccede e ciò che è ecceduto sono doppio e mezzo. Di conseguenza, questi sono elementi del doppio; e poiché ciò che eccede e ciò che è ecceduto,

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quando siano stati definiti, divengono doppio e mezzo – infatti, essi non sono più indefiniti, come non lo sono neppure il triplo e il terzo, o il quadruplo e il quarto, o una delle altre cose con eccesso già definito – e questo produce la natura dell’uno (infatti, ciascuno è un’unità, in quanto è un certo questo, ossia una cosa definita), elementi delle diade che si trova nei numeri saranno l’Uno e il Grande e il Piccolo. Ma la diade è il primo numero; questi, dunque, sono elementi della diade. E per certe ragioni di questo genere Platone poneva l’Uno e la Diade come principi dei numeri e di tutte quanti gli enti, come afferma Aristotele nell’opera Sul bene. 57, 3: questo perché gli sembrava che la Diade fosse atta a dividere tutto ciò a cui veniva riferita. Per questo la chiamava anche produttrice del due. Infatti, duplicando ciascuna delle cose alle quali viene riferita, in qualche modo la divide, non permettendo che resti ciò che era. E questa divisione è generazione di numeri. Come le materie plasmate e informanti, ossia gli stampi, rendono simili a sé tutte le cose che sono state adattate dentro di essi, così anche la diade, come se fosse una materia plasmata e informante, diviene atta a generare i numeri successivi a essa, rendendo due e doppio ciascuno al quale venga riferita. Infatti, essendo riferita all’uno, produsse i due (infatti, due è due volte uno), ed essendo riferita ai due produsse i quattro (infatti, i quattro sono due volte due), ed essendo riferita al tre produsse il sei, e similmente negli altri casi [...] 57, 24-28: infatti, se viene aggiunta una monade a ciascuno dei numeri pari, si producono quelli dispari, ma una monade che non sia l’uno come principio – giacché questo è produttore di forme, ma non della materia –, bensì, come il grande e il piccolo definiti con l’uno erano il due, così anche ciascuno di essi definito con l’uno è detto essere una monade.

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Alex. Aphr. presso Simpl., In Arist. Phys., p. 454, 19-455, 14: e Alessandro, convenendo di parlare anch’egli a partire dai discorsi di Platone Sul bene, che Aristotele e gli altri compagni di Platone raccontarono, ha scritto queste cose: «Platone, infatti, cercando i principi degli enti, poiché gli sembrò che il numero fosse per natura primo rispetto alle altre cose (e infatti i limiti della linea sono punti, e i punti sono monadi dotate di posizione, e senza linea non esistono né superficie né solido, mentre il numero può esistere anche indipendentemente da questi), poiché dunque il numero è per natura primo rispetto alle altre cose, riteneva che questo fosse principio e che i principi del primo numero fossero anche principi di ogni numero. Ma il primo numero è la diade, i cui principi diceva che sono l’Uno e il Grande e il Piccolo. Infatti, in quanto è diade, ha in sé moltitudine e pochezza: infatti, in quanto in essa vi è il doppio, c’è moltitudine (ché, il doppio è moltitudine, eccesso e una certa grandezza); in quanto, invece, vi è il mezzo, c’è pochezza. Perciò, secondo queste , in essa vi sono eccesso e difetto, grande e piccolo. Ma in quanto ciascuna delle sue parti è una monade, ed essa è una certa forma unitaria, ossia quella diadica, essa partecipa della monade. Perciò sosteneva che principi della diade sono l’Uno e il Grande e il Piccolo. Ed affermava che essa è una diade indefinita per il fatto di avere, partecipando del grande e del piccolo, ovvero del maggiore e del minore, il più e il meno. Questi infatti, procedendo nella direzione dell’accrescimento e della diminuzione, non si arrestano, ma avanzano verso l’indefinito dell’illimitatezza. Poiché dunque il primo dei numeri è la diade, e principi di essa sono l’Uno e il Grande e il Piccolo, necessariamente questi sono principi anche di ogni numero. Ma i numeri sono elementi di tutti gli enti. Per cui l’Uno e il Grande e il Piccolo, ovvero la Diade indefinita, sono anche principi di tutte le cose. E infatti ciascuno dei numeri, in quanto è questo determinato

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, uno e definito, partecipa dell’Uno, ma in quanto si divide ed è una quantità, partecipa della Diade indefinita. Ma Platone sosteneva che anche le Idee sono numeri. È logico, dunque, che dei principi del numero abbia fatto i principi anche delle Idee. E sosteneva che la Diade è la natura dell’indeterminato, poiché il grande e il piccolo, ovvero il maggiore e il minore non sono definiti, ma possiedono il più e il meno, i quali procedono verso l’illimitato». Aristotele dunque, dopo aver esposto in questi termini in quali cose i Pitagorici ponevano l’indeterminato e in quali lo poneva Platone, di seguito racconta che cosa i Pitagorici dicevano che è l’illimitato e per quale motivo. Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 85, 16-18: Principi sono l’Uno e la Diade indefinita, come egli (scil. Aristotele) poco prima ha esposto30 e ha raccontato nell’opera Sul bene. Ma a loro avviso (scil., dei Platonici), questi sono principi anche del numero. Simpl., In Arist. Phys., p. 151, 6-19: Alessandro afferma che «ad avviso di Platone, principi di tutte le cose e delle stesse Idee sono l’Uno e la Diade indefinita, che chiamava Grande e Piccolo, come anche Aristotele ricorda nell’opera Sul bene». Lo si può assumere anche presso Speusippo, Senocrate e gli altri che furono presenti alla lezione di Platone sul bene. Tutti, infatti, trascrissero e custodirono la sua opinione, ed affermano che egli fece uso di questi principi. Ed è del tutto verisimile che Platone sostenga che l’Uno e la Diade indefinita sono principi di tutte le cose (infatti, il ragionamento è dei Pitagorici, e in molti luoghi appare che Platone segue i Pitagorici), ma il sostenere che la Diade indefinita costituisce anche un principio31 delle Idee, chiamandola Grande e Piccolo indicando con questi la materia, in che modo è, inoltre, conseguente, specificando Platone che la materia esiste nel solo mondo sensibile e

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dicendo chiaramente nel Timeo che è propria della generazione, e che in essa si genera ciò che si genera? E sostenne che le Idee sono conoscibili con il pensiero, mentre la materia «può essere creduta con un ragionamento bastardo». Simpl., In Arist. Phys., pp. 453, 25-454, 19: dicono, infatti, che Platone affermava che l’Uno e la Diade indefinita sono principi anche delle cose sensibili, ma, dopo aver posto la Diade indefinita pure tra le cose intelligibili, sosteneva che è illimitata, e sosteneva anche che il Grande e il Piccolo, che aveva posti come principi, sono un illimitato, in quei discorsi Sul bene32 avendo assistito ai quali Aristotele, Eraclide, Estieo e altri amici di Platone misero per iscritto in forma enigmatica le cose che erano state dette, nel modo in cui erano state dette; invece Porfirio, annunciando di correggerle, di esse, nel Flebo, ha scritto queste cose: «egli (scil., Platone) pone il più e il meno, e l’intensamente e il dolcemente sono propri della natura dell’illimitato. Infatti, dove questi siano insiti procedendo nella direzione dell’accrescimento e della diminuzione, ciò che partecipa di essi non s’arresta né giunge a compimento, ma procede verso l’indefinito dell’illimitatezza. Similmente stanno anche il maggiore e il minore e le cose nominate da Platone in luogo di essi, ossia il Grande e il Piccolo. Si abbia, infatti, una certa grandezza limitata, per esempio un cubito; essendo questo diviso in due, se lasceremo uno dei due semicubiti indiviso e, tagliando invece l’altro semicubito, lo aggiungessimo a poco a poco a quello indiviso, il cubito avrebbe due parti: una che procede verso il minore e l’altra che procede verso il maggiore, ininterrottamente. Infatti, tagliando non giungeremmo mai a una parte indivisibile: giacché il cubito è continuo, e il continuo si divide in sempre divisibili. Ebbene, un tale ininterrotto tagliare mostra una certa natura dell’illimitato racchiusa nel cubito, o piuttosto più nature: una che procede verso il gran-

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de e una che procede verso il piccolo. In questi casi si scorge anche la Diade indefinita, costituita dalla monade che procede verso il grande e dalla monade che procede verso il piccolo. E queste cose appartengono sia ai corpi continui che ai numeri. Infatti, la diade è il primo numero pari, e nella natura del pari sono racchiusi sia il doppio che il mezzo, ma il doppio in un eccesso, il mezzo in un difetto. Nel pari vi sono, dunque, eccesso e difetto. La diade tra i numeri è il primo pari, ma, mentre in sé è indefinita, è definita per la partecipazione all’Uno. La diade, infatti, è definita in quanto è una certa forma unitaria. Pertanto, l’Uno e la Diade sono elementi anche dei numeri: il primo come che determina e produce la forma, mentre la seconda è indeterminata sia in eccesso che in difetto». Queste cose disse Porfirio quasi letteralmente, avendo annunciato di correggere le cose che erano state dette in forma enigmatica nella conversazione Sul bene, e forse perché esse erano concordanti con quelle scritte nel Flebo. 3 (R2 24, R3 29) Sext. Emp., Adv. Math., III, 57: ma in realtà Aristotele [...] afferma che ciò che vien detto da costoro (scil. dai geometri), ossia una lunghezza senza larghezza, è inintelligibile, però a noi è possibile giungere alla nozione indipendentemente da ogni difficoltà. E istituisce l’argomentazione su di un esempio piuttosto efficace ed evidente: effettivamente – egli dice – afferriamo la lunghezza di un muro anche senza fissare insieme lo sguardo sulla sua larghezza, per cui sarà pure possibile intendere la lunghezza di cui parlano i geometri indipendentemente da una certa larghezza. Sext. Emp., Adv. Math., IX, 412: ma in realtà Aristotele sosteneva che la lunghezza senza larghezza pres-

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so i geometri è inintelligibile (però afferriamo la lunghezza di un moro – egli dice – indipendentemente dal considerare la larghezza del muro). 4 (R2 25, R3 30) Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 59, 28 – 60, 2: si ricercherà come mai, pur avendo Platone parlato della causa efficiente là dove dice: «è compito, dunque, ricercare e mostrare il facitore e il padre di ogni cosa»,33 ma anche della causa finale e del fine, con le con cui, di nuovo, dice: «tutte le cose riguardano il re di tutte le cose e tutte sono finalizzate a lui»,34 Aristotele non si sia ricordato di nessuna di queste due cause nella opinione di Platone? O perché là dove parlava delle cause non si è ricordato di nessuna di queste, come ha mostrato nell’opera Sul bene; oppure perché non le pone come cause delle cose che si trovano nella generazione e nella corruzione, e neppure ha prodotto alcunché intorno a esse. 5 (R2 26, R3 31) Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 250, 17-20: per ciò che riguarda il conoscere che quasi tutti i contrari si riconducono all’uno e alla moltitudine come al loro principio, ci rimanda alla Scelta dei contrari, sul presupposto d’averne trattato particolarmente. Di una tale scelta ha parlato anche nel secondo libro dell’opera Sul bene.35 Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 262, 18-26: tramite l’espressione «infatti da parte nostra sia stata assunta l’induzione» ci rimanda di nuovo a ciò che ha raccontato nel secondo libro dell’opera Sul bene. Asclep., In Arist. Metaph., 237, 11-14: per ciò che riguarda il

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conoscere che quasi tutti i contrari si riconducono all’uno e alla moltitudine come al loro principio, ci rinvia alla Scelta dei contrari, sul presupposto d’averne trattato particolarmente. Di una tale scelta ha parlato anche nel secondo libro dell’opera Sul bene.35 Asclep. Aphr., In Arist. Metaph., p. 247, 17-21: dopo aver detto che tutti i contrari si riportano all’uno e alla moltitudine, e ciò mediante quella raccolta dei contrari che è stata operata nel secondo libro dell’opera Sul bene, e dopo aver assunto anche che i contrari sono elementi degli enti e della sostanza, afferma che da queste è chiaro che la speculazione sull’ente in quanto ente è propria di una sola scienza. Ps. Alex., In Arist. Metaph., p. 615, 14-17: infatti, nell’opera Sul bene ha operato una divisione, come abbiamo detto anche in altri , mediante la quale ha ricondotto tutti quanti i contrari alla moltitudine e all’uno. Ora, l’identico, il simile e l’uguale sono propri dell’uno, mentre della moltitudine sono propri il diverso, il dissimile e il disuguale. Ps. Alex., In Arist. Metaph., p. 642, 38-643, 3: queste prime contrarietà dell’ente, egli dice, tanto che si tratti della moltitudine e dell’uno, o della somiglianza e della dissomiglianza, o di alcune altre, siano state poste. Infatti, quali esse siano ha detto nel suo libro, scritto Sul bene. Ps. Alex., In Arist. Metaph., p. 695, 23-26: dopo aver detto queste cose, afferma: «che anche la causa finale, oltre che nelle cose che abbiamo detto, esista in quelle immobili, mostra la divisione», chiamando «divisione» quella nella quale sovente ha sostenuto d’aver operato la raccolta dei contrari. E l’ha operata nel libro scritto Sul bene.

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6 Asc., In Arist. Metaph., p. 79, 7-10: vogliono maggiormente, anzi moltissimo, che i principi esistano. Infatti, per loro i principi sono principi anche delle stesse Idee. Essi sono l’Uno e la Diade indefinita, come s’è detto poco prima e come egli (scil. Aristotele) ha raccontato nell’opera Sul bene.36

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Note 1

Cfr. Cherniss, Plato. Cfr. Ast, Platons, p. 390; Zeller, Darstellung, pp. 199-200; 295-300; Techmuüller, Fehden, pp. 228-232; Shorey, Doctrina, pp. 31-39; Kluge, Darstellung, pp. 65-74; Ritter. Platon; Natorp, Ideenlehre, pp. 384-456; Isnardi Parente, Accademia platonica. 3 È questa la tesi della cosiddetta Scuola di Tubinga, portata avanti da Krämer (Arete) e Geiser (Ungeschreiebene Lehre), ripresa di recente da Szlezàk (Platon) e Reale (Nuova interpretazione), ma che già in precedenza era stata proposta da Gomperz (System, pp. 426-431). 4 Tra i sostenitori di questa linea esegetica vanno ricordati Zeller (Griechen, II, 1, pp. 985-986), Trendelenburg, Doct(rina), Susemhil (Entwickelung, pp. 507-508), Jackson (Plato’s later theory; 10, 1881), Burnet (Greek philosophy, I, pp.178, 214, 313), Taylor (Plato, pp. 10, 503, 504), Frank (Platon, pp. 93-95), Stenzel (Zaahl), Robin (Rapports, pp. 134-136), Wilpert (Aristotelische Früschriften), De Voegel (Problems), Ross (Ideas, pp. 142-153), Mansion A. (Aristotelisme), Berti (Primo Aristotele, pp. 202 ss.). 5 Anche il passo «poiché le Idee ... peculiare» è controverso, e anche per esso non posso discutere analiticamente le interpretazioni che sono state date, perché ciò equivarrebbe a discutere una bibliografia critica che di fatto abbraccia l’intero volume degli studi sulle cosiddette dottrine non scritte di Platone e il valore che in merito a esse va attribuito alla ricostruzione aristotelica. La quale in questo passo, a proposito della basilare questione dell’identità o meno delle Idee con i numeri ideali, lascia aperta entrambe le possibilità, senza stringere in modo decisivo a favore di una. Si veda a riguardo l’Introduzione a questo scritto, pp. 148 ss. 6 Simplicio, In Arist. Phys., 248, 2-5. Come ha puntualizzato Berti (Primo Aristotele, p. 251, nota n. 128) con la precisione e la maestria che contraddistinguono questo studioso, il frammento di Ermodoro, messo in luce da E. Zeller, De Hermodoro Ephesio et Hermodoroi platonico, Marburg 1859 e Griechen, II, 1, p. 982, nota n. 1 fu studiato da Susemhil, Entwickelung, II, pp. 522 ss.; Heinze, Xenocrates, pp. 3840; P. Natorp, s.v. Hermodoros, in R. E. Pauly-Wissowa, V Suppl., 1861; Robin, Théorie, pp. 645-647; Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp. 183-194; Id., Neue Fragmente, pp. 227-229; Cherniss, Plato, p. 89, nota n. 60 e pp. 170-171; De Vogel, La dernière phase; Krämer, Arete, pp. 282-285. 7 Sulle difficoltà che intorno a questo testo sono state sollevate e sulle relative soluzioni (quelle proposte da Heinze, cfr. Xernocrates, pp. 37-40, innanzitutto, e da Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp. 229-236. Ma si veda anche C. De Vogel, Greek philosophy, Leiden, Brill 1950, p. 277) cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 251, nota n. 131. 8 Cfr. Merlan, Baiträge, I; Wilpert, Neue Fragmente; De Vogel, La dernière phase; Berti, Primo Aristotele., p. 214. 2

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Così Krämer, Arete, p. 260, nota n. 11. Così, per esempio, Ross, Ideas, p. 186. 11 In questo modo ha pensato la distinzione qui a tema Berti, aprendo così, al tempo stesso, la strada alla soluzione del problema, sì che anche per quest’aspetto il suo contributo è illuminante e decisivo, ma – forse – limitandone la portata. Ponendo, infatti, fortemente l’accento sull’«origine logica della classificazione degli enti, su cui giustamente insiste Cherniss (Plato, pp. 169-170, nota n. 96)», così si è espresso lo studioso: «è vero che a questa distinzione logica corrisponde una distinzione ontologica, come afferma Wilpert (Aristotelische Frühschriften, p. 184), ossia una distinzione fra aspetti della realtà, ma è anche vero che tali aspetti, distinti dal pensiero, si riconducono tutti alle stesse realtà». Cosicché, conclude lo studioso, «i generi di cui si fa questione sono generi di predicati, i quali nella realtà appartengono tutti a uno stesso soggetto: ad esempio, di Socrate possiamo dire che è uomo, nel qual caso gli avremo attribuito un predicato del genere del per sé; che è giusto o ingiusto, nel qual caso gli avremo attribuito un predicato del genere dei contrari; che è grande o piccolo, nel qual caso gli avremo attribuito un predicato del genere dei relativi. Alcuni predicati, ad esempio quello di uomo e di giusto, conferiscono determinatezza; altri, ad esempio quello di ingiusto, di grande o piccolo, conferiscono invece indeterminatezza. Perciò in virtù dei primi un ente, ad esempio Socrate, dipende dal principio di determinazione, l’Uno; in virtù degli altri dipende dal principio di indeterminazione: la Diade indefinita. Dunque non è giusto dire che alcuni enti dipendono da un principio e altri dal principio opposto, ma si deve dire che ciascun ente, in virtù di alcuni suoi predicati dipende da un principio e in virtù di altri suoi predicati dipende dal principio opposto» (Berti, Primo Aristotele, pp. 215 s.). 12 Può essere utile indicare in sinossi le tre classificazioni e così riscontrarne la perfetta corrispondenza 10

Alessandro kaqˆ auéta@

Ermodoro kaqˆ auéta@

aèntikei@mena pro#v eçtera 13

{

Sesto Empirico kata# diafora@n = uépokei@mena kaqˆ auéta@

pro#v eènanti@a

kata# eènanti@wsiv

pro@v ti

pro@v ti

Cfr. Berti, Primo Aristotele., p. 219. 14 In proposito cfr. Reale, Nuova interpretazione, pp. 387 ss. 15 Così, per esempio, Stenzel, Zaahl, pp. 52 s.; Wilpert, Aristotelische Frühschriften, p. 197; Krämer, Arete, p. 254. 16 Ciò è stato ben colto da Berti, Primo Aristotele, p. 220. 17 Nel citato passo di Metaph., I, 9, infatti, Aristotele, come quarta critica alla teoria delle Idee oppone che «in generale, le argomentazio-

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ni sulle Idee eliminano le cose che vogliamo che esistano più dell’esistenza delle Idee», alludendo con ciò ai principi. 18 Questo l’intero commento di Alessandro, di cui solo una parte (qui indicata in corsivo) è riportata da Ross come fr. 2: «ciò che ai Platonici sta più a cuore e a cui tengono più che a ogni altra cosa è l’esistenza dei principi, i quali sono per loro principi anche delle stesse Idee. Principi sono l’Uno e la Diade indefinita, come egli (scil. Aristotele) poco prima ha esposto [riferimento a Metaph., I, 6, 987 b 18-22] e ha riferito nell’opera Sul bene. Ma a loro avviso (scil., dei Platonici), questi sono principi anche del numero. Ebbene, Aristotele sostiene che questi argomenti che dimostrano le Idee distruggono i principi». 19 È opportuno considerare, nel quadro complessivo dell’analogia tra i due casi, il carattere redazionale di «appunti» (uépomnh@mata) per l’insegnamento, comune ai passi in esame. Proprio perché erano annotazioni di Aristotele per lo svolgimento di una lezione, non occorreva mettere nuovamente e diffusamente per iscritto ciò che si era già esposto in altra circostanza, in una specifica opera, ma bastava soltanto richiamarlo. Esattamente come si fa in una sorta di scaletta didattica. In tal senso e per questo motivo, il modo assolutamente brachilogico che caratterizza questi passi di Metaph., I, 9 non denota affatto un segno di inadeguatezza, neppure sotto il profilo stilistico. 20 Alex., In Arist. Metaph., 85, 21-86, 3: « Se, infatti, al di sopra di tutte le cose di cui si predica il termine comune esiste un qualcosa di separato, vale a dire un’Idea, e se anche della Diade indefinita si predica la diade, dovrebbe esserci qualcosa di anteriore a essa e che è Idea: così la Diade indefinita non sarebbe più principio. A sua volta la diade non sarebbe più né prima né principio, perché, daccapo, anche di essa, in quanto Idea, si predica il numero. Le Idee, infatti, sono considerate dai Platonici numeri; di conseguenza per loro il numero, che è un’Idea, sarebbe la realtà prima. Se le cose stanno in questo modo, il numero sarà anteriore alla Diade indefinita, che per loro è principio, e non viceversa. Posto ciò, la Diade non sarà più principio, se è ciò che è per partecipazione a qualcosa» 21 In merito cfr. anche ante, p. 148. 22 Cfr., per esempio, Berti, Primo Aristotele, pp. 291 s. Differenti interpretazioni sono state date da Trendelenburg e Swegler, per i quali si tratta dei numeri ideali, in analogia con Metaph., XIV, 6, 1080 b 22; 7, 1081 a 4, 23, e da Taylor, che ritiene siano indicati i primi due numeri. In proposito si vedano Ross, Metaph., I, pp. 173-173 e Robin, Théorie, pp. 661 s. Il punto d’appoggio di coloro che nei «numeri primi» vedono indicati i numeri dispari è – ancora una volta – il commento di Alessandro (In Arist. Metaph., 57, 24-28), il quale attesta che così Aristotele li concepisce in rapporto ai numeri pari. 23 Questo il passo: «Eppure le cose avvennero proprio in senso contrario, giacché non era logico che in quel modo. Ché, dalla materia essi producono molte cose, mentre la forma genera

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un’unica volta soltanto. Ma risulta che da una sola materia deriva un solo tavolo, mentre chi apporta la forma, pur essendo uno solo, ne produce molti. Similmente si comportano anche il maschio e la femmina: ché, questa è fecondata da un solo accoppiamento, mentre il maschio feconda molte . Eppure, queste sono imitazioni di quei principi. Platone, dunque, ha definito in questo modo le cose sulle quali indaghiamo». 24 Cfr. Timeo, 51 a – 52 d 25 Ossia nel Timeo. 26 Riportato anche come fr. 9 del Sulla filosofia. 27 Riportato anche come fr. 11/5 del Sulla filosofia. 28 Riportato anche come fr. 11/4 del Sulla filosofia. 29 L’uno, infatti, più che un numero è il costitutivo dei numeri, che sono, per l’appunto, aggregati o somme di unità. Si sente in questa tesi l’eco della teoria pitagorica secondo cui, dividendosi i numeri in pari e dispari, l’uno è entrambi: «parimpari», perché aggiunto a un numero pari ne genera uno dispari e aggiunto a uno dispari ne genera uno pari. Ora, i Platonici sembrano aver ragionato nel modo seguente: se i numeri sono o pari o dispari e l’uno non è né pari né dispari, allora più che essere entrambi non è un numero. Il primo numero è perciò il due. 30 Riferimento a Metaph., I, 6, 987 b 18-22 31 Letteralmente «principi (¢rc£j) delle Idee», giustificandosi il plurale «principi» col fatto che la Diade è (specificata da) «due» aspetti, ossia il Grande e il Piccolo, come del resto subito appresso si dice. 32 Si tratta evidentemente della lezione sul bene che Platone tenne nell’Accademia e che, secondo la testimonianza di Aristosseno (Harm., 2, 20, 16 – 31, 3 = Test.), lasciò sconcertati gli uditori. 33 Tim., 28c. 34 Ep. II, 312e. 35 Riportato anche come testimonianza 3° del Sui contrari. 36 Riportato anche come testimonianza 5° del Sui contrari.

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INTRODUZIONE

1. Lo scritto “Sulle Idee” nelle testimonianze dei commentatori e dei dossografi Dello scritto aristotelico Sulle Idee (Peri# ièdew^n) è data specifica testimonianza da Alessandro di Afrodisia in tre luoghi del suo commentario al libro Alpha della Metafisica, ed esattamente in In Arist. Metaph., 94, 4; 85, 11; 98, 22 Hayduck. Da queste testimonianze, e precisamente dal fatto che nelle prime due il riferimento è al libro primo dell’opera mentre nella terza è al secondo, si ricava che lo scritto era in due libri. Ancora in due libri lo presentano altri commentatori della Metafisica aristotelica, e precisamente Siriano (cfr. fr. 1a e 1b), Ps.-Alessandro (cfr. fr. 1c) e Ps.-Filopono (cfr. Testimonianze, 1). Ne attesta invece l’esistenza, ma s enza indicare in quanti libri sia stato redatto, Dionisio Trace (cfr. fr. 2). Forniscono poi testimonianze che vanno con ogni probabilità riportate al De ideis Diogene Laerzio, il quale al n. 54 dell’elenco delle opere di Aristotele parla di un Peri# th^v iède@av a @, l’Anonimo, che al n. 45 dell’elenco degli scritti aristotelici annovera anch’egli un Peri# th^v iède@av a @ e Tolomeo, che nel suo catalogo indica al n. 45 un Peri# eièdw^n g @. Lo stesso Diogene Laerzio dà notizia al n. 31 del suo

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elenco anche di uno scritto aristotelico intitolato Peri# eièdw^n kai# genw^n a @e lo stesso Anonimo al n. 28 riporta un’opera dal titolo Peri# eidw^n a @, ma – com’è stato giustamente osservato da Leszl (Ideis, p. 58) – in nessuna delle due è congruo vedere un riferimento al Sulle Idee, che in tal caso sarebbe indicato due volte e con titoli diversi, trattandosi piuttosto di opere intorno alle specie e ai generi, ossia di carattere logico, come comprova anche il contesto degli scritti nel quale sono menzionate. 2. Problemi esegetici e di datazione Benché l’opera sia andata perduta, se ne può tuttavia ricostruire il contenuto sia perché lo Stagirita stesso lo ha riassunto nella critica alle dottrine di Platone contenuta in Metaph., I, 9 e sia perché Alessandro di Afrodisia, che la possedeva, ne ha riportato ampi brani a commento del suddetto testo aristotelico. La maggior parte degli studiosi è concorde nel datare il Sulle Idee nel periodo accademico di Aristotele, ambientandolo nel quadro della discussione intorno alle Idee che si svolse quando Platone era ancora in vita.1 Il Sulle Idee rappresenterebbe pertanto il contributo offerto da Aristotele a questa discussione.2 Un contributo essenziale e per noi prezioso per il modo stesso in cui – nel testo di Alessandro – è strutturato: dapprima la ricostruzione degli argomenti con i quali era fatta valere l’esistenza delle Idee, indi la critica dello Stagirita. Entrambi questi momenti, quello cioè della ricostruzione degli argomenti a favore dell’esistenza delle Idee e quello delle critiche di Aristotele, sono stati oggetto di giudizi differenti e talora persino opposti da parte degli studiosi. Tali giudizi sono legati alla cifra complessiva che viene data alla formazione della filosofia dello Stagirita e molti di essi, soprattutto in un recente passato, erano sensibilmente con-

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dizionati dall’ipotesi genetico-evolutiva (anche se – va messo in luce – Jaeger nel suo Aristoteles non si era soffermato con particolare insistenza sul Sulle Idee nel delineare lo sviluppo storico del pensiero aristotelico), oggigiorno poco praticata dagli esegeti o, comunque, molto meno accreditata presso di loro. Ma anche al di là dell’ipotesi genetico-evolutiva, i problemi intorno ai quali il testo aristotelico è andato soggetto riguardano, per un verso, l’attendibilità e l’esattezza degli argomenti attribuiti ai sostenitori delle Idee, con l’annessa questione se essi debbano ascriversi a Platone o agli Accademici e, per altro verso, è chiamato in causa il valore delle critiche aristoteliche. Com’è evidente, i due versanti problematici sono strettamente connessi, avendo molti punti in comune e presentando le soluzioni di volta in volta date sull’uno basilari e inevitabili ricadute su quelle prospettate sull’altro, cosicché solo in modo formale essi possono schematizzarsi come esegeticamente distinti, anche se concettualmente la distinzione tra l’un tipo di questione e l’altro sussiste. Quanto al primo versante, con la maggior parte degli studiosi vi è da rilevare che gli argomenti così come sono esposti nel Sulle Idee non trovano riscontro nei Dialoghi. Il che innesca anche sotto questo profilo e da quest’angolatura prospettica la vexata quaestio del valore degli agrapha dogmata. Ci si è così chiesti se le prove a favore dell’esistenza delle Idee formulate nel nostro scritto (1) siano «invenzioni» di Aristotele, che le avrebbe costruite al solo fine di colpire quella teoria, (2) o argomenti effettivamente fatti valere nell’Accademia e dunque a giusto titolo chiamati in causa dallo Stagirita, almeno nella loro ossatura teorica di fondo se non anche nella formulazione in cui sono presentati. E, in questo secondo caso, (2a) se essi siano da ascrivere a Platone (2b) o a quei membri della sua scuola che condividevano con lui l’esistenza delle Idee, ancorché in un assestamento dottrinale e in una configurazione teo-

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rica differente. Ma con ciò, come facilmente si constata, si è anche invaso il secondo versante problematico. Tra coloro che ritengono che non si tratti in «invenzioni» di Aristotele, ma di argomenti effettivamente in vigore nell’Accademia – e oggigiorno questa è l’opinione prevalente degli studiosi –, Robin (Théorie, pp. 15-25) sembra attribuirli sia a Platone che ai Platonici. Di fatto egli si limita a esporli (travisandone il senso, almeno nel caso dei relativi, ad avviso di Leszl, De ideis, p. 77). Quanto poi alle critiche di Aristotele, esse, essendo costruite sull’alternativa univocità-equivocità (Ivi, pp. 71 s.), avrebbero consentito agli argomenti criticati di sottrarsi alla morsa stringente in cui lo Stagirita li prende. In questo senso in esse si scorgono anche dei «travisamenti», che l’interprete non manca di denunziare e a sua volta di criticare (Ivi, p. 181). Il loro senso complessivo è, comunque, quello di mirare a porre i Platonici in contraddizione con se stessi circa la quantità di cose per le quali occorre postulare l’esistenza di Idee. Che le critiche di Aristotele colpissero istanze platoniche intese ad affermare l’esistenza delle Idee, ma nelle formulazioni che ne avevano dato gli Accademici, sembra il tratto comune delle esegesi, per il resto tra loro molto differenti, di Karpp, Peri# ièdew^n e di Philippson, Peri# ièdew^n: il Karpp ritenendo, in particolare, che il Sulle Idee presentava la genesi delle Idee anche nello stesso modo in cui Aristotele ne spiega l’origine in Metaph., I, 6 e XIV, 4; credendo Philippson, in conseguenza della datazione assai pristina da lui assegnata al Sulle Idee, composto, a suo avviso, addirittura anteriormente al Parmenide (cfr. la nota n. 2), che le critiche di Aristotele più che colpire la teoria platonica delle Idee, parte basilare della sua formazione nel periodo iniziale del suo discepolato presso l’Accademia, tendessero a metterne in luce gli aspetti aporetici e che, invece, gli argomenti contro cui esse muovono erano quelli assai scolastici dei Platonici.

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Che le critiche di Aristotele fossero rivolte contro argomenti dei Platonici, che mostrino scarsa penetrazione di essi e che pertanto risultino poco pertinenti, è quanto ha sostenuto Cherniss (Plato). Ciò che esse intendevano colpire era propriamente la natura separata delle Idee, non l’aspetto di principi formali per il quale era stata postulata la necessità della loro esistenza. In effetti, sulla base della sua dottrina dell’astrazione, lo Stagirita fa valere che la giusta esigenza di attribuire agli universali un modo d’essere differente da quello degli individui empirici non comporta l’esistenza di Idee separate, ma è garantito, per l’appunto, da quella dottrina (Ivi, pp. 142, 236, 239, 274). La separatezza delle Idee era stata accentuata dai Platonici, e a costoro vanno fondamentalmente riportati gli argomenti nella formulazione in cui sono presentati da Alessandro. In questa formulazione, di essi non vi è traccia nei Dialoghi. In realtà, essi ripropongono istanze platoniche, delle quali così come sono costruiti rappresentano una sorta di formalizzazione (Ivi, pp. 224-234). Sulla linea dell’esegesi di Chernis per ciò che attiene al concentrarsi delle critiche di Aristotele sul carattere di separatezza, ossia di autosufficienza, delle Idee e sull’astrazione quale struttura concettuale che permette di superare le aberrazioni cui va incontro, in esse, la giusta esigenza di attribuire all’universale una modalità ontologica differente da quella degli individuali, in virtù della quale le Idee stesse sono state postulate, si muove l’interpretazione di S. Mansion (Peri# ièdew^n, pp. 199–201). Questo è particolarmente evidente, ad avviso della studiosa, nelle critiche agli argomenti meno rigorosi (Ivi, pp. 177 s.). In particolare, in linea con l’esegesi di Cherniss (cfr. la nota n. 2), S. Mansion ritiene che il «terzo uomo» rappresenti una formulazione dell’«uno sopra i molti» applicata alla predicazione essenziale (Ivi, pp. 190-192) e che gli argomenti contro i quali si rivolge la critica secondo cui occorrerebbe ammettere Idee

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anche di negativi e, in generale, di realtà per le quali i Platonici negavano che esistessero, sono argomenti ascrivibili non già a Platone, bensì agli Accademici. Forte della convinzione che il Sulle Idee sia stato scritto successivamente alla morte di Platone, Wilpert (Aristotelische Früschriften, p. 26) ascrive agli allievi di costui gli argomenti a favore dell’esistenza delle Idee nella forma in cui li espone Alessandro, pur riconoscendo la loro origine platonica (Ivi, pp. 50-51). Le critiche che lo Stagirita vi rivolge li colpiscono sia sul piano gnoseologico, mettendo in chiaro come essi non adeguino le condizioni di possibilità del conoscere in virtù delle quali sarebbero richieste le Idee (Ivi), sia sul piano ontologico, mostrando come l’esigenza di postulare entità universali distinte da quelle empiriche non ne comporti anche la separatezza e l’autosufficienza (Ivi, pp. 54-55), le quali corrispondono, per così dire, a un’aggiunta ontologica a una giusta esigenza epistemologica. Donde l’errore dei Platonici. In particolare, le critiche agli argomenti meno rigorosi mostrano come tali argomenti portino a riconoscere l’esistenza di entità oggettive universali, ma non la loro esistenza separata: in tal modo essi vanno al di là di quanto possono provare (Ivi., pp. 54-55; 72-73; 80). Quelle agli argomenti più rigorosi, poi, mostrano l’inammissibilità delle Idee, indicandone l’intrinseca contraddittorietà nell’argomento dei relativi (Ivi, p. 80-81; 89) e denunziando l’assurdità di un regresso all’infinito nel «terzo uomo» (Ivi, pp. 82; 90). Rileva infine lo studioso una sostanziale tendenza di Aristotele a preferire la teoria dei principi a quella delle Idee, in virtù del suo carattere più marcatamente metafisico, così risolvendosi la contrapposizione tra l’una e l’altra, additata a motivo di critica dalla stesso Stagirita (Ivi, pp. 97 s.; 118). Molte delle posizioni di Cherniss, di Mansion e di Wilpert sono condivise e avvalorate da Berti nel suo Primo Aristotele, in quello cioè che a tutt’oggi continua a essere lo studio più completo e più profondo degli scritti accademici dello

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Stagirita. Di Wilpert egli non condivide la datazione del Sulle Idee, ma condivide senz’altro la tesi, a diverso titolo rintracciabile anche nelle esegesi degli altri due studiosi, che gli argomenti a sostegno delle Idee corrispondono alla formulazione irrigidita data dagli Accademici a istanze platoniche (Ivi, p. 203), cosicché contro costoro più che contro Platone stesso si rivolgono le critiche di Aristotele (Ivi, p. 207). Esse mirano fondamentalmente a negare la separatezza delle Idee (Ivi., pp. 218, 211, 217, 224 s., 229, 249, 553), cui lo studioso italiano, riprendendo i rilievi di Cherniss e Mansion, ma correggendo la direzione di quello del primo studioso e avvalorando invece lo spessore di quello della studiosa di Lovanio, contrappone la dottrina dell’astrazione (Ivi, p. 204): per Cherniss, come abbiamo richiamato, essa costituisce il presupposto teorico appoggiandosi al quale le critiche dello Stagirita finiscono per essere poco pertinenti; per Berti, invece, in ciò concordando con S. Mansion, la teoria dell’astrazione rappresenta uno degli esiti più significativi delle critiche stesse del nostro filosofo alle Idee. L’approdo a tale teoria conferisce peraltro, ad avviso di S. Mansion e di Berti, un carattere decisamente costruttivo a quelle critiche stesse. Proprio nella chiave del superamento della separazione tra le Idee e le cose Berti legge, approfondendo una posizione di Wilpert, la contrapposizione operata da Aristotele tra la dottrina delle Idee e quella dei principi e la preferenza accordata dal filosofo a quest’ultima (Ivi, p. 232), ond’è che la critica stessa dello Stagirita dà corpo all’esigenza di rendere le istanze platoniche più fondate e rigorose (Ivi, p. 249). Sul motivo dell’identificazione tra il piano logico-gnoseologico e il piano ontologico quale momento decisivo e basilare delle critiche di Aristotele agli argomenti portati a sostegno delle Idee aveva in precedenza posto l’accento De Striker, associandosi anch’essa, in questo, alla linea esegetica di S. Mansion e Wilpert (Séparation, pp. 127 s.). Allan, a sua volta, per il quale gli argomenti cui Aristotele si oppone

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rappresentano una versione scolastica di istanze platoniche (Aristotle, p. 17), aveva additato nell’autosufficienza delle Idee il tema di fondo delle critiche di Aristotele a questa dottrina; critiche che, al di là della formulazione degli Accademici, colpivano nel segno e mettevano a nudo autentiche difficoltà concettuali insite in essa (Ivi., p. 14-16). E anch’egli indicava nella teoria dell’astrazione il rimedio proposto dallo Stagirita (Ivi). Ancora sul motivo della separazione aveva particolarmente insistito Stark (Aristotelesstudien), giungendo a dire che questa prerogativa delle Idee e non già il loro carattere di principi formali è ciò che Aristotele rifiuta nel nostro scritto (Ivi, p. 21). Dal canto suo Cadiou (Le problème), nel quadro di un’esegesi intesa anch’essa a individuare il fulcro delle critiche di Aristotele nella separazione delle Idee, appuntava particolarmente l’attenzione sul fatto che nell’Idea le relazioni, anziché essere attribuite alle cose, come dovrebbero, vengono invece ipostatizzate. Una menzione a parte va riservata all’esegesi di Düring, per la sua eccentricità rispetto ai motivi prevalenti rintracciabili nelle altre interpretazioni e la radicalizzazione del carattere di debolezza delle critiche aristoteliche. Le quali, ad avviso dello studioso, si rivolgono ad argomenti genuinamente platonici e sono poco pertinenti, come già aveva osservato Cherniss, per il fatto di non distinguere, nelle Idee, l’aspetto di predicati da quello di realtà a sé stanti, in funzione di modelli delle cose, con la conseguenza di leggere la somiglianza tra queste e quelle nei termini di un rapporto modello-copia (Aristotles, pp. 245 ss.). Va poi ricordato lo studio di Leszl (De ideis), che riporta altresì il testo del commento di Alessandro relativo al Sulle Idee stabilito da Harlflinger, in sostituzione della tradizionale edizione critica dell’intero commento dell’Afrodisiense al libro Alpha della Metafisica ad opera di Hayduck (Alessandro, In Arist. Metaph.), e la traduzione italiana di esso da lui stesso eseguita; riporta altresì, accanto alla re-

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censio vulgata, la recensio altera, ossia la versione dei codici L e F. Leszl analizza con meticolosità e minuzia tutti gli argomenti, che anch’egli ritiene di origine platonica, ma esposti in una forma data dagli Accademici, e le critiche di Aristotele, rispetto alle quali concorda sostanzialmente con Wilpert e Berti nel ritenere che non intendono tanto respingere le Idee quali principi formali, quanto piuttosto l’inadeguatezza del modo in cui rappresentano l’universale, inteso per l’appunto come un individuale ipostatizzato.3 A mia volta, anticipando esiti che la successiva trattazione si propone di mostrare, ritengo che l’esame complessivo degli argomenti addotti contro le Idee metta in luce come la critica di Aristotele si sia sviluppata fondamentalmente intorno a due motivi: a) innanzitutto che l’universale espresso dall’Idea è un falso universale, in quanto si istituisce e si configura secondo una scansione che non è quella autentica;4 b) quindi che le Idee, vale a dire siffatti pseudo-universali, non sussistono e contraddicono le stesse esigenze che, ad avviso di Platone, ne postulano l’esistenza o quelle che, nelle teorie dei loro sostenitori, ne caratterizzano l’assunzione o quelle ancora che ne definiscono la struttura. Conformemente a quanto ho fatto, con intendimenti diversi e, di conseguenza, disponendo la materia secondo una logica essa stessa differente, sia nell’Introduzione alle Categorie (pp. 97 ss.) che nel commento al cap. 9 del primo libro della Metafisica (vol. I, pp. 319 ss.), anche in questa sede – ma con intendimento ancora diverso – saranno dapprima esposti gli argomenti platonici contro i quali Aristotele obietta, indi le critiche dello Stagirita. 3. Il primo gruppo di argomenti Ebbene, un primo gruppo di argomenti con i quali nel suo commento a Metaph., I, 9 (990 b 8-15) Alessandro attesta

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che i Platonici provavano l’esistenza delle Idee e contro i quali il commentatore riferisce le critiche portate da Aristotele nel primo libro del Sulle Idee sono (1) l’argomento desunto dalle scienze, (2) l’argomento dell’«uno sopra i molti» e (3) l’argomento desunto dal pensare. Gli uni e le altre sono stati raccolti da Ross nella prima parte del fr. 3. Aristotele li richiama molto succintamente nel citato capitolo della Metafisica in quella che è la seconda delle ventisei obiezioni alle dottrine platoniche, rivolte sia a quella delle Idee che a quella dei principi. In tale seconda obiezione lo Stagirita fa rifermento ai tre suddetti argomenti come a prove che finiscono per dimostrare l’esistenza di Idee anche di realtà per le quali i Platonici negavano che esistessero, menzionate assieme ad altre con le quali, invece, essi pretendevano che le Idee fossero dimostrate, ma che di fatto non dimostrano nulla perché non sono veri argomenti.5 3.1 L’argomento «dalle scienze» L’argomento «dalle scienze» viene presentato da Alessandro in tre versioni, corrispondenti, con ogni probabilità, a tre diverse formulazioni con le quali esso ricorreva nell’Accademia. Nella prima (Alex., In Arist. Metaph., 79, 6-9) esso fa forza sul fatto che oggetto di ciascuna scienza è qualcosa di uno (eçn), identico (tauèto@n) e quindi eterno (aiòdion), il quale, proprio per avere queste caratteristiche, non trova spazio tra le cose sensibili. L’esistenza di enti siffatti è inferita dall’esistenza stessa delle scienze (poiché ci sono le scienze – così si declina l’argomento –, ed esse hanno un oggetto, e i loro oggetti sono alcunché di uno, sempre identico ed eterno, dunque ci sono enti siffatti), e tali sono per l’appunto le Idee. L’argomento non si limita ad asserire la necessità dell’esistenza delle Idee, ma menziona espressamente

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anche il rapporto modello-copia secondo cui le cose sono spiegate dalle Idee. Potrebbe sembrare una sorta di intrusione fuori luogo di una dimensione ontologica in un contesto di natura gnoseologica, ma a ben vedere non è affatto così, giacché il rapporto di mimesi, nell’atto stesso di dare ragione delle cose in virtù dell’essere imitazioni delle Idee (momento ontologico) fa con ciò stesso anche conoscere (momento gnoseologico) l’Idea nella sua funzione di causa paradigmatica. Insomma, il momento ontologico è inscindibile da quello gnoseologico. Nella seconda formulazione (Alex., In Arist. Metaph., 79, 9-12) la caratteristica degli oggetti delle scienze in base alla quale si deve dire che essi non albergano tra gli enti empirici, ma sussistono al di là di questi e sono, per l’appunto, le Idee, è la determinatezza (cfr. aié de# eèpisth@mai wérisme@nwn), di contro all’infinità e all’indeterminatezza delle cose sensibili (cfr. aòpeira@ te kai# aèo@rista). È chiaro che il rapporto di opposizione or ora richiamato permette di dire che la determinatezza delle Idee è di tipo sia numerico (esse sono di numero finito, mentre le cose corrispondenti a ciascuna di esse sono numericamente infinite) che logico-ontologico (le Idee sono compitamente definite in se stesse, mentre la definizione delle cose è labile, a motivo del loro divenire). La struttura dell’argomento è identica a quella della precedente formulazione: esistono le scienze, i loro oggetti sono realtà in sé determinate, tali realtà non possono trovarsi tra le cose, che sono indeterminate sia numericamente che ontologicamente e gnoseologicamente, dunque esistono oltre le cose e tali sono le Idee. Il riferimento alla determinatezza è strutturalmente legato all’identità della prima formulazione. Per cui le due versioni sembrano essere modi complementari di articolarsi di un medesimo motivo. Nella terza formulazione (Alex., In Arist. Metaph., 79, 12-16) l’argomento ritorna sostanzialmente sul motivo, già

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espresso nella prima, che oggetto delle scienze è qualcosa di uno e di identico, che qui, tuttavia, viene indicato come determinazione in senso assoluto, ossia «in sé» (è chiaro che soltanto in riferimento all’Idea l’in sé ha un’estensione pari a quella dell’uno: infatti, fuori di questo riferimento, l’in sé è prerogativa unicamente della sostanza, mentre l’uno ha un’ampiezza semantica che si estende anche ad altre categorie oltre quella della sostanza, nella quale si specifica come identico). La critica di Aristotele a quest’argomento (che va considerato unitario nelle sue tre versioni) si sviluppa anch’essa in tre argomenti, l’ultimo dei quali sembra unire i motivi polemici degli altri due. Il primo è che l’argomento «dalle scienze» non prova l’esistenza delle Idee, ossia di entità in sé, eterne e separate, ma soltanto che vi è qualcosa che oltrepassa i singoli enti di una classe e che esprime ciò che è loro comune (la salute di tutte le singole situazioni sane, l’uguale e il commensurabile di tutte le singole uguaglianze e di tutte le singole commensurabilità, e così di seguito), e tale è l’universale correttamente inteso: come, per l’appunto, l’unità del molteplice. Dunque, perché vi siano le scienze non occorrono le Idee, ma il loro oggetto è l’universale. Di conseguenza, «tali ragionamenti non dimostrano ciò che si sono proposti», ossia «che esistono le Idee, ma dimostrano che esistono alcune cose oltre quelle individuali e sensibili» (Alex., In Arist. Metaph., 79, 16-17): esattamente, gli universali. Infatti, prosegue il commentatore, «se esistono alcune cose che sono oltre quelle individuali, queste non sono affatto Idee. Infatti, oltre le cose individuali vi sono quelle comuni, e queste sosteniamo anche che le scienze hanno per oggetto» (Alex., In Arist. Metaph., 79, 17-19). Alessandro presenta pure un secondo motivo di opposizione dell’argomento «dalle scienze». Il quale fa perno sul fatto che anche gli oggetti delle diverse arti sono alcunché

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di unico, di non individuale, ma di comune a tutti gli individui di una medesima classe e di stabile e, dunque, secondo quegli argomenti, un’Idea; cosicché da quegli stessi argomenti occorrerebbe dedurre che esistono Idee anche degli oggetti delle arti; il che non era ammesso da Platone e dai Platonici (Alex., In Arist. Metaph., 79, 19 – 80, 7).6 Lungo una linea esegetica che annovera tra i suoi sostenitori Schwegler (Metaph., III, p. 82), Ross (Metaph., I, pp. 190-193) e Reale (Metaph., III, pp. 75 s.), l’interpretazione di Alessandro delle critiche di Aristotele all’argomento «dalle scienze» è attendibile e corretta. Si deve allora riconoscere che entrambe dovettero esser state enunciate dettagliatamente nel De ideis, e la formula estremamente generica che compare nella Metafisica («secondo le argomentazioni derivanti dalle scienze vi saranno Idee di tutte quelle cose delle quali vi sono scienze») non ne è che una sommaria indicazione, in cui tuttavia pare intenzionata innanzitutto e primariamente la seconda obiezione. Contro questa ipotesi è stato fatto valere che nei Dialoghi platonici non solo non si trova traccia dell’inesistenza di Idee di artefatti, ma, al contrario, in più casi le Idee sono riferite agli oggetti delle arti. Così altri studiosi, tra cui Bonitz (Comm., p. 110) e Chernis (Plato, pp. 239 s.), fissando l’attenzione sul fatto che nel testo nella Metafisica non si parla di «prodotti delle arti», ma, genericamente, di «tutte quelle cose delle quali vi sono scienze (pa@ n twn oç s wn eèpisth^mai@ eièsi)», hanno ritenuto che Aristotele abbia inteso riferirsi all’esistenza di Idee anche degli enti non sostanziali, portata come critica alla teoria platonica delle Idee anche in Metaph., 990 b 22-29. Anzi, Cherniss (Ivi) ha altresì ipotizzato che il medesimo argomento nel De ideis avrebbe fatto valere l’esistenza di Idee anche di manufatti, mentre nel passo della Metafisica anzi citato quella di Idee di non-sostanze (in proposito cfr. anche Viano, Metaph., p. 214, nota, 1).

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Sennonché occorre osservare che, (1) ove quest’esegesi intenda ovviare al fatto che l’inesistenza di Idee di manufatti cozza con i Dialoghi, altrettanto occorre dire per l’inesistenza di Idee di non-sostanze: a tal punto che nello stesso scritto platonico in cui è testimoniata la scoperta delle Idee, ossia il Fedone, il passo che le istituisce fa riferimento all’Idea del bello (100 d) e dell’uguale (101 b), dunque di qualità e non di sostanze. (2) Pare invece più verisimile credere che la stessa inesistenza di Idee di manufatti, della cui attestazione da parte di Alessandro non vi è più motivo di dubitare, corrisponda non già a un contenuto dottrinale espressamente asserito da Platone e dai Platonici, ma a un contenuto dottrinale che Aristotele pone come conseguenza della dottrina platonica delle Idee, sulla base della considerazione che queste sono eterne, dunque non hanno un inizio, mentre i prodotti artigianali hanno costitutivamente e strutturalmente un inizio, giacché si caratterizzano per il fatto di essere «costruiti», ossia posti in essere dall’opera di un tecni@thv; per cui è impensabile che i relativi paradigmi ideali non contemplino la presenza in sé di un inizio, cozzando in tal modo contro il suddetto carattere di eternità delle Idee. In quest’ipotesi, nella critica all’argomento platonico «dalle scienze» Aristotele darebbe alla teoria delle Idee una curvatura che corrisponde a ciò che in essa è in nuce: nel dire, cioè, che tale argomento configge contro il «fatto» che per Platone non esistono Idee di prodotti artigianali egli chiama in causa un «fatto» che non corrisponde a «ciò che ha veramente detto Platone», ma, per così dire, alla «verità di quello che egli con tale teoria ha detto». Resta in ogni caso il carattere ineccepibile del primo rilievo riferito da Alessandro, ossia che per costruire le scienze non servono le Idee, ma bastano gli universali, ed è questo, a quanto pare, l’assunto di fondo della critica all’argomento «dalle scienze».

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3.2 L’argomento dell’«uno sopra i molti» Con l’argomento che in Metaph, I, 9, 990 b 13 è detto «uno sopra molti (to# e°n eèpi# pollw^n)» – espressione che con ogni probabilità riferisce la denominazione con la quale l’argomento veniva indicato nell’Accademia – la necessità dell’esistenza delle Idee era inferita dall’esserci certi termini che fungono da predicati unitari di una classe di individui: tali predicati non s’identificano con nessuno degli individui di cui si predicano, ma sono qualcosa di distinto da essi, separato ed eterno. E queste sono esattamente le proprietà delle Idee (cfr. Alex., In Arist. Metaph., 80, 8-15). La critica di Aristotele fa valere che tale argomento «istituisce Idee anche delle negazioni e delle cose che non sono», giacché «anche la negazione», restando una e identica, «si predica di molte cose», si predica anche «delle cose che non sono» e «non è identica a nessuna delle cose delle quali si dice con verità». Così, per esempio, vi sarà l’Idea di non-uomo, che «si predica sia del cavallo, sia del cane, sia di tutte le cose oltre l’uomo», «non è identica a nessuna delle cose di cui si predica» e, rimanendo una e identica, «continua sempre a dirsi con verità in modo simile delle cose simili», ossia dell’Idea di un termine positivo, il quale, dicendosi di tutti gli individui di una classe, si dice di cose simili, mentre la negazione si dice di cose dissimili quali, per l’appunto, il cane e il cavallo (Alex., In Arist. Metaph., 80, 16 – 81, 2). Proprio questo, l’esserci cioè «un’Idea unica di cose che non appartengono al medesimo genere e che sono differenti in ogni aspetto» costituisce una prima difficoltà circa l’esistenza di Idee di negazioni (Alex., In Arist. Metaph., 81, 2-5). Una seconda difficoltà è data dal fatto che «ci sarà un’Idea unica anche di molte cose indeterminate» (Alex., In Arist. Metaph., 81, 5); una terza dal fatto che vi saranno Idee «anche di ciò che è primo e di ciò che è secondo», come il genere e la specie, giacché «sia uomo che animale so-

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no non-legno», mentre gli stessi Platonici negavano l’esistenza di tali Idee. Il senso della critica aristotelica è volto, anche in questo caso, a rimarcare l’inutilità di ricorrere alle Idee, bastando invece la nozione di universale correttamente posta. Tanto deve leggersi nell’affermazione conclusiva secondo cui «anche quest’argomentazione non conduce ad ammettere l’esistenza delle Idee, ma tende anch’essa a dimostrare che il predicato comune è diverso dai singolari di cui si predica» (Alex., In Arist. Metaph., 81, 7-10). Aristotele è pienamente d’accordo con i Platonici circa l’esistenza di tale predicato e circa il fatto che esso non coincide con nessuna delle cose di cui si predica, vale a dire circa il suo essere un «uno sopra i molti». Ma nega che esso corrisponda a un’Idea. Proprio in questa negazione si manifesta la distanza che separa la concezione aristotelica di un tale «uno sopra i molti» da quella che professavano i Platonici. Costoro, infatti, concependolo come un’«Idea», vale a dire come un’entità separata e per sé, lo pensavano come un’entità che sta «di fronte» alle cose: propriamente un «uno di fronte ai molti»; e ritenevano che soltanto dall’avere detta unità una siffatta fisionomia fossero soddisfatte le condizioni per le quali un termine può predicarsi di una molteplicità di individui. L’argomento dei Platonici postulava infatti – l’abbiamo visto – la separatezza di una tale unità, vale a dire l’esistenza di Idee come condizione che soddisfi (a) l’essere il termine predicato distinto dalle cose di cui si predica e (b) il predicarsi di esse sempre nello stesso modo. Ora, proprio la concezione aristotelica dell’universale soddisfa entrambe queste esigenze della predicazione senza dover postulare le Idee, che, anzi, la mortificano. L’unità di significato sussiste se il predicato denota una mi@a fu@siv (e su ciò vi è accordo tra Aristotele e i Platonici), ma essa non sta oltre le cose, bensì corrisponde al carattere comune di esse, sicché una tale unità è sempre e costitutivamente in funzione di esse. Se ne distingue, certo,

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nel senso che non coincide con nessuna; ma tale distinzione non è una separazione, che ponga da una parte la natura unitaria e dall’altra le cose. Essa esige, invece, che il predicato comune sia strutturalmente rivolto agli individui, esprimendone, per l’appunto, la comune natura. In questo senso esso è un «uno sopra i molti».7 L’ultima annotazione del commentatore dal nostro punto di vista è particolarmente interessante perché permette di confermare anche a proposito di questo secondo argomento ciò che si è ipotizzato a proposito del primo circa il modo in cui Aristotele nel Sulle Idee (in modo più diffuso e nel passo parallelo di Metaph., I, 9, in modo più succinto) ricostruisce la dimostrazione platonica delle Idee. Alessandro fa presente, infatti, che l’argomento dell’«uno sopra i molti» dimostra l’esistenza di Idee di negazioni anche nel caso in cui la negazione non venga intesa, com’era nella precedente ricostruzione, quale nozione plurima che si dice univocamente di una pluralità eterogenea di cose, ma quale nozione unitaria che si dice univocamente di esse. In effetti – rileva Alessandro – è riferendosi ad alcunché di uno che si negherà qualcosa di più cose, poiché quando si dice che l’uomo e il cavallo non sono bianchi, non si sta negando un attributo proprio di ciascuno di essi presi singolarmente, ma, facendo riferimento a qualcosa di uno, si nega di tutti la stessa bianchezza (Alex., In Arist. Metaph., 81, 9-11). In tal senso la negazione presenta la stessa unità della nozione positiva, giacché «anche colui che afferma la stessa cosa di più cose non affermerà di ciascuna una cosa diversa, ma ciò che afferma sarà qualcosa di unico: per esempio, l’uomo in riferimento a qualcosa di unico e di identico. Ché, similmente a come la negazione, anche l’affermazione» (Alex., In Arist. Metaph., 81, 12-19). Ora, che la nozione negativa («non bianco») sia una nozione unitaria è assunto che non trova riscontro negli scritti di Platone; eppure Aristotele gliel’attribuisce se la sua critica all’argomen-

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to dell’«uno sopra i molti» dev’essere letta nel senso che, contrariamente a quanto affermavano Platone e i Platonici, da esso si può comprovare l’esistenza anche di Idee di negazioni pensate non solo come nozioni plurime (prima ricostruzione dell’argomento), ma anche come nozioni unitarie (seconda ricostruzione). Ma allora è agevole ipotizzare che il rifiuto di Idee di negazioni intese come nozioni unitarie non corrisponde a «ciò che hanno veramente detto» Platone e i Platonici, ma alla «verità di ciò che essi hanno sostenuto» rifiutando il darsi di Idee di negazioni. Un tale rifiuto, nell’ottica di Platone e dei Platonici, faceva unicamente riferimento al carattere non-unitario, ossia indeterminato, di una negazione, donde l’impossibilità che un’Idea, la quale, in quanto «in sé», esprime la determinatezza paradigmatica, abbia come suo contenuto un indeterminato. Ma nell’ottica aristotelica la stessa logica che portava Platone e i Platonici a respingere l’esistenza di idee di negazioni in quanto nozioni plurime, doveva portarli a respingere l’esistenza di Idee di negazioni considerate anche come nozioni unitarie, e anche in questa curvatura egli presenta il «loro» argomento. «Loro», per l’appunto, non perché propone ciò che hanno veramente detto, ma la verità di ciò che hanno detto. 3.3 L’argomento desunto dal pensare L’inadeguatezza del modo di concepire l’universale secondo i tratti dell’Idea e, dunque, l’istituzione della genuina valenza dell’universale, sono motivi che si ritrovano al fondo anche della critica di Aristotele all’argomento desunto dal pensare, quello che in Metaph., I, 9, 990 b 14 è detto del to# noei^n ti fqre@ntov. Quest’argomento conclude all’esistenza delle Idee dalla premessa che il pensiero è sempre pensiero di ciò che è; difatti, anche quando le cose sono venute meno il pensiero permane.8 Ma ciò che è, è l’Idea, essendo che gli enti empi-

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rici non vivono, propriamente, nell’essere, ma nel divenire e nella corruttibilità. La critica di Aristotele nella ricostruzione di Alessandro (che non è riportata da Ross, ma che è reperibile nell’edizione di Leszl) consiste nella denunzia di due assurdi, ciascuno dei quali intende porre in chiaro che l’argomento porta a dimostrare l’esistenza di Idee di cose per le quali Platone e i Platonici non le ammettevano: (1) innanzitutto, che esso conduce ad ammettere «Idee anche delle cose che si corrompono e che si corruppero e, in generale, delle cose individuali e corruttibili», come ad esempio di Socrate e di Platone: anche costoro, infatti, li pensiamo e ne conserviamo e custodiamo la rappresentazione anche quando non ci sono più, poiché anche delle cose non più esistenti rimane in noi una rappresentazione; (2) in secondo luogo, che porta a porre Idee anche di «cose che non esistono affatto, come il Centauro o la Chimera» (Alex., In Arist. Metaph., 82, 1-7).9 Ora, anche a questo riguardo occorre osservare che il rifiuto delle idee di cose inesistenti (seconda critica) corrispondeva con ogni verosimiglianza a un effettivo assunto di Platone e dei Platonici, giacché l’Idea esprime il paradigma delle cose empiriche, e se la cosa non esiste è logico e congruente credere che non esista neppure la relativa Idea. In caso contrario, infatti, essa sarebbe il paradigma di un nulla. Dunque, nella seconda critica presentata da Alessandro, nell’affermare cioè che l’argomento in oggetto conduceva ad ammettere l’esistenza di Idee di cose per le quali Platone e i Platonici non ammettevano le Idee, vale a dire Idee di cose non esistenti, Aristotele ribatteva contro i sostenitori delle Idee un’istanza da loro effettivamente sostenuta. Ma che Platone e i Platonici non ammettessero l’esistenza di Idee «delle cose che si corrompono e che si sono corrotte (tw^n fqeirome@nwn te kai# eèfqarme@nwn)» rasenta l’in-

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credibile, giacché le Idee rappresentano l’essere eterno e incorruttibile di ciò che, nell’esperienza, si presenta come mutevole e corruttibile: insomma ciò che è di contro a ciò che, divenendo, è e non è. Per cui, nella stessa (prima) critica secondo la quale anche delle cose che si corrompono e che si sono corrotte, quando si siano effettivamente corrotte, si conserva l’immagine, dunque un contenuto positivo, per esplicare il quale Platone e i Platonici postulano l’Idea, contrariamente a quanto essi stessi asserivano, è agevole ipotizzare che Aristotele opponeva ai sostenitori delle Idee non un assunto che essi affettivamente asserivano, ma un assunto che egli riteneva congruo e conseguente a ciò che essi asserivano e che per questo presenta come intrinseco momento del loro stesso argomento. Un assunto per il quale, se le Idee, in quanto costituiscono l’autentico essere di ciò che, divenendo, autenticamente non è, sono essere, allora di ciò che non è, perché si è corrotto (si badi, di questo, non di ciò che è corruttibile, fqarto@n), non può esserci un’Idea. Insomma, nella logica che postula l’esistenza delle Idee come essere (e che proprio in quanto autentico essere, eterno e immutabile, fungono da paradigma delle cose che propriamente non sono, ma divengono), Aristotele trova che è vero dire che, dunque, non possono esserci Idee di ciò che non è. Esiste l’Idea della cosa corruttibile, non della cosa che si è corrotta, giacché questa è non essere e di ciò che non è non può esserci l’essere. Si tratta della «verità» dell’istanza platonica e dei Platonici secondo cui l’Idea è il vero essere, non di ciò che essi «hanno veramente asserito» dicendo che essa è l’essere che autenticamente è. Se si riconosce questo, si può allora ipotizzare che la prima critica dello Stagirita all’argomento in oggetto, pensato «nella verità» del detto platonico, doveva configurarsi nei termini seguenti: per i sostenitori delle Idee non possono esistere Idee di cose che si corrompono e si sono corrotte, ossia di cose che non esistono più; ma tali sono le cose sen-

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sibili una volta che di esse si abbia soltanto l’immagine, per dar conto della quale, quando si siano distrutte, quei filosofi hanno postulato l’esistenza delle Idee, contrariamente a ciò che essi stessi credono. Ma è una postulazione inutile. Ancora una volta, la critica di Aristotele intende far valere che l’argomento platonico, assunto sia «in ciò che veramente dice» (seconda critica) sia «nella verità di ciò che dice», non prova l’esistenza di Idee. È esattamente la conclusione di Alessandro: «perciò neppure quest’argomento dimostra che esistono le Idee» (Alex., In Arist. Metaph., 82, 7). Al fondo di queste critiche si trova pertanto che l’obiettivo cui si rivolge la polemica dello Stagirita è il modo in cui i Platonici, ponendole come Idee, configuravano le determinatezze che sono oggetto di pensiero, vale a dire gli universali nella dimensione della loro pensabilità. Per i Platonici tali determinatezze, per potersi offrire al pensiero ed essere pensate, devono porsi come determinatezze in sé, tali essendo esattamente le Idee. Aristotele, obiettando che, se si pone che il pensare esige l’in sé delle determinatezze, si pone allora l’assurdo di Idee anche di individui, sgancia le determinatezze che si danno a pensare dall’essere degli in sé per rivendicarne la genuina fisionomia di determinatezze qua tales, vale a dire la genuina fisionomia di universali. Egli asserisce, cioè, che il pensare, lungi dal richiedere l’in sé delle determinatezze, richiede invece la genuinità della loro universalità. In che consista questa dimensione di genuinità e di autenticità dell’universale, ci è noto: l’essere esso un carattere comune, che, in quanto tale, non esiste separatamente dagli individui, ma in funzione di essi. Soltanto in queste condizioni e unicamente in questa fisionomia gli universali sono autenticamente oggetto di pensiero. In questa scansione, infatti, nella critica all’argomento qui a tema risulta messa in discussione la stessa valenza dell’universale per la quale, nell’argomento precedente, esso veniva caratterizzato co-

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me un «uno sopra i molti». Ma mentre là la critica di Aristotele era espressamente e tematicamente intesa a rivendicare, contro la tesi dei Platonici, il carattere non separato di una tale unità, qui determinatamente ne rivendica, invece, sempre in opposizione alla concezione accademica, il carattere di non-inseità. I due caratteri sono complementari, e per questo la presente critica può intendersi, in certo senso, come il completamento di quella del precedente argomento. Che la determinatezza che i Platonici pongono come in sé, vale a dire come Idea, debba pensarsi come universale, è attestato dai termini stessi in cui Aristotele, nella ricostruzione di Alessandro, presenta la prova accademica: «quando pensiamo un uomo o un terrestre o un animale», uomo, terrestre, animale denotano, per l’appunto, degli universali. Ed è perciò dell’universale che qui Aristotele, negando che debba pensarsi come un in sé, rivendica la dimensione di carattere comune. 4. Gli argomenti più rigorosi Seguono quindi quelli che in Metaph., I, 9, 990 b 16 Aristotele chiama «gli argomenti più rigorosi (aèkribe@steroi tw^n lo@gwn)», ossia l’argomento dei relativi e la riduzione al «terzo uomo». Intorno alla qualificazione di «più rigorosi» si è molto discusso. Per Alessandro questi argomenti sono tali perché, a differenza dei precedenti, che provano «semplicemente l’esistenza di qualcosa di comune al di là dei singolari», dimostrano «l’esistenza di un modello delle cose di quaggiù che esiste in senso proprio», e l’essere modello «pare sia la caratteristica saliente delle Idee» (In Arist. Metaph., 83, 1922). Questa spiegazione è stata accettata da Schwegler (Metaph., III, 83-84), Bonitz (Comm., p. 111) e, in tempi più recenti, da Reale (Metaph., III, p. 193), ma ha contro il pa-

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rere di molti interpreti. E, forse, non a torto (cfr. Ross, Metaph., I, p. 194), giacché è senz’altro vero che la paradigmaticità rappresenta una caratteristica peculiare delle Idee, ma non per questo si può considerare la nozione comune ai molti, ossia l’universale, che le Idee esprimono ipostatizzata nell’unità e nell’identità di un individuo trascendente i molti stessi, come una caratteristica a esse non altrettanto peculiare. Sono state avanzate perciò differenti esegesi. Per Robin, Théorie, pp. 19-20, nota 16 gli argomenti sono detti «più rigorosi» perché permetterebbero di distinguere le conseguenze dedotte da Aristotele dalle tesi di Platone e dei Platonici. Per Ross, Metaph., I, p. 194 si tratta di argomenti nei quali Platone con maggior precisione e nettezza distingue le conseguenze derivanti dalla teoria delle Idee, conseguenze che non erano accettate dai membri dell’Accademia. Cherniss, Plato, pp. 275-279 ritiene che «più rigorosi» indichi il carattere di maggior precisione sotto un profilo prettamente logico di certi argomenti dai quali la funzione di modello attribuita alle Idee risulta con la massima nettezza dal fatto di essere state respinte altre prospettive. Ad avviso di S. Mansion, Peri# ièdew^n, pp. 192-193 l’argomento dei relativi e del terzo uomo sono «più rigorosi» in quanto, a differenza di quello dell’«uno sopra i molti», hanno attenzione per il modo il cui il predicato viene attribuito al soggetto, il primo considerando i predicati che non gli appartengono per sé, il secondo i predicati che concorrono a specificare l’unità della sua essenza. Per Berti, Primo Aristotele, p. 222 l’argomento dei relativi e del terzo uomo sono «più rigorosi» perché rappresentano una più rigorosa versione dell’argomento dell’«uno sopra i molti», in virtù dell’attenzione che, a differenza di quest’ultimo, essi prestano al modo in cui l’uno viene predicato dei molti. Wilpert, Aristoteliche Frühschriften, pp. 40-41, 74-75 ha creduto che la qualificazione di «più rigorosi» né fosse platonica, né fosse presente nel De ideis, e che Alessandro, non

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comprendendola, anche perché non avrebbe conosciuto questo scritto, ma unicamente la Metafisica, ne avrebbe data una sua, non accettabile, interpretazione. Heinze, Xenocrates, p. 55, nota 2 ha supposto che la qualifica di «più rigorosi» non attenga agli argomenti dei Platonici, bensì alle critiche di Aristotele. Una rapida, ma acuta rassegna di queste interpretazioni vedasi in Viano, Metaph., p. 261, nota 2. Tra le altre proposte esegetiche segnalo quella di Leszl, De ideis da me medesimo fatta propria nella monografia introduttiva alla mia edizione delle Categorie (cfr. Zanatta, Categorie, p. 112). Secondo tale esegesi, questi argomenti sono «più rigorosi» in quanto si costituiscono sulla distinzione, introdotta da Platone e avvalorata dagli Accademici, tra enti per sé ed enti relativi (cfr. Platone, Soph., 255 c-d; Divis. Arist., n. 67), cosicché, dimostrando l’esistenza delle Idee in rapporto a ciascuno di questi due tipi di realtà, ne áncorano la prova in quelle che sono le istanze fondamentali della dialettica platonico-accademica. Come s’è detto, di tali argomenti, gli uni sono quelli che dimostrano («producono [poiou^sin]», dice il testo aristotelico; cfr. Metaph., I, 9, 990 b 17) l’esistenza di Idee di relativi, gli altri sono indicati dallo Stagirita come quelli che «affermano (le@gousin)» il terzo uomo (Ivi, 18). 4.1 L’argomento dei relativi L’argomento che, secondo l’esegesi che qui seguo, dimostra l’esistenza delle Idee dei relativi (e non delle Idee in generale, come pure alcuni studiosi hanno sostenuto),10 si scandisce nel modo seguente: dapprima si indicano tre casi in cui la predicazione è «non-omonima»: (1) innanzitutto, quando ciascuna delle cose il cui predicato viene attribuito in senso proprio e primario è ciò che esso stesso significa (predicazione non-omonima in senso proprio: ad esempio, «uomo» si predica degli uomini in carne e ossa); (2) inoltre,

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quando le cose sono copie di quelle cui si attribuisce il predicato in senso proprio (predicazione non-omonima derivata: per esempio, «uomo» è predicato di dipinti raffiguranti uomini); (3) infine, quando le cose sono l’una il modello e le altre l’immagine, ossia quando l’una è ciò che il predicato significa in senso proprio e le altre ciò che significa in senso derivato (predicazione non-omonima mista: per esempio, «uomo» viene predicato degli uomini in carne e ossa e dei dipinti). Indi si rileva che, in riferimento esclusivamente agli enti empirici, l’«uguale» si predica in senso omonimo, giacché tali enti, (1) non avendo la stessa definizione, mutando continuamente e nessuno di essi potendo ricevere la definizione di «uguale» in senso proprio, né ammettono la predicazione non-omonima di «uguale» in senso proprio, (3) né ammettono la predicazione non-omonima di uguale in senso misto, in quanto non ve n’è nessuno che, potendo ricevere la predicazione in senso proprio, possa fungere da modello. (2) Per quanto poi attiene alla predicazione non-omonima di «uguale» in senso derivato, essa, se si considerano unicamente gli enti empirici, risulta esclusa dal fatto stesso che per nessuno di essi vale quella in senso proprio. Se perciò, in riferimento a questi enti, l’«uguale» si predica in senso «non-omonimo», non resta che una predicazione in senso derivato nella quale il modello non sia nessuno degli enti empirici stessi, ma sia l’uguale in sé (Alex., In Arist. Metaph., 82, 11-83, 17). All’esistenza delle Idee provata da quest’argomento lo Stagirita oppone le seguenti critiche: (1) innanzitutto, che gli Accademici stessi «non dicevano esservi Idee di relativi (tw^n de# pro@v ti ouèk eòlegon eiè^nai iède@av)» (sicché si segnala una contraddizione tra la prova dell’argomento e questa negazione), in quanto le Idee, come realtà per sé e sostanze, sono autosufficienti, mentre i relativi necessitano dei correlativi (cfr. Cat., 7, 6 b 28; 7 a 22-23); (2) in secondo luogo, che l’argomento porta a moltiplicare le Idee

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dell’«uguale», dal momento che anche l’uguale ideale avrà un correlativo (l’«uguale in sé» sarà uguale all’«uguale in sé», altrimenti non sarebbe neppure uguale);11 (3) infine che, nella logica dell’argomento, si dovrà affermare l’esistenza dell’Idea anche del «disuguale», ma, per ammissione degli stessi Accademici, il «disuguale» si trova in cose diverse, per cui non può esserci un’Idea (Alex., In Arist. Metaph., 83, 24-30). 4.1.1 Questioni esegetiche: Idee o Idee di relativi? Le questioni esegetiche sorte intorno a quest’argomento riguardano sostanzialmente due ordini di problemi: (A) innanzitutto, il valore che va riconosciuto all’esistenza di Idee di relativi che l’argomento stesso attribuisce ai Platonici; (B) in secondo luogo, in che senso deve intendersi la nonomonimia del secondo e del terzo caso. Circa la prima questione va ricordato innanzitutto che Aristotele, nel passo di Metaph., I, 9 in cui menziona gli «argomenti più rigorosi», dichiara – come abbiamo letto – che alcuni producono Idee di relativi. Invece Alessandro – il quale, come hanno mostrato Robin, Théorie, p. 462 e Wilpert, Aristotelische Früschriften, p. 124, di contro all’opinione di Rose, Fragmenta, p. 213, pure nel riferire quest’argomento si serve direttamente del Sulle Idee – lo introduce come comprovante l’esistenza «anche di relativi (kai# tw^n pro@v ti)». Ma, come ha rilevato Berti, Primo Aristotele, p. 212, la testimonianza, se attentamente considerata, non depone, contrariamente a quanto a tutta prima parrebbe, a favore della dimostrazione di Idee generali tra le quali anche quelle dei relativi, ma l’aggiunta «anche» va riferita agli «argomenti più rigorosi» nel loro complesso, «i quali dimostrano Idee anche dei relativi nel senso che alcuni di essi dimostrano soltanto queste Idee, mentre altri ne dimostrano altre».

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Alcuni interpreti hanno ritenuto che l’argomento dimostri l’esistenza di Idee in generale e non determinatamente di Idee di relativi12 e, tra costoro, mentre alcuni – come S. Mansion – hanno indicato nel riferirsi di Aristotele all’uguale il suo intendimento di porre specificamente a tema l’uguale in sé, così da delineare l’argomento come avente la struttura di una reductio ad absurdum, altri hanno scorto nel fatto che lo Stagirita presenta l’Idea dell’uguale, la cui affermazione egli ritiene conseguente alla dottrina dei Platonici, come Idea di un relativo, il sovrapporsi del suo proprio punto di vista a quello genuinamente platonico-accademico. Paradigmatico quanto a questo proposito afferma Isnardi Parente. Dopo avere connesso – molto giustamente – le determinazioni della sostanza e dei relativi alla divisione accademica degli enti in kaqˆ auéta@ e in pro@v ti e dopo avere messo in chiaro che questa divisione si riallaccia a sua volta alla teoria platonica dei principi dell’Uno e della Diade di Grande e Piccolo, intesi rispettivamente come principio di uguaglianza, di ordine e di identità e come principio di indeterminatezza,13 la studiosa osserva che, ponendo l’uguale come esempio dei relativi, lo Stagirita contraddice le impostazioni platonica e accademica, le quali «assegnano il rapporto di uguaglianza a quella parte del reale che si pone sotto la categoria dell’Uno, dell’ordine e della misura, in una parola della razionalità e del definito» (Isnardi Parente, Per l’interpretazione, p. 19). E così prosegue: «nello schema categoriale di Ermodoro come in quello della fonte di Sesto non c’è posto per una definizione dell’uguale come pro@v ti, come puro relativo, quindi come indeterminato. Aristotele sembra qui sovrapporre un suo punto di vista a quello degli avversari contro cui si schiera, e il rimprovero ai sostenitori delle Idee di ammettere, con l’idea dell’uguale, l’Idea di un relativo, cadendo in contraddizione con l’esclusione precedente dei relativi dal novero delle Idee, sembra asso-

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lutamente ignorare il fatto che per i sostenitori delle Idee l’uguale, se non può porsi tra le sostanze, non può nemmeno considerarsi rientrare nel campo delle relatività indefinite, delle quali è contrario per sua natura» (Ivi, pp. 20-21). Da tutto ciò la studiosa conclude che l’argomento non è diretto a dimostrare l’esistenza delle Idee dei relativi. È Aristotele che attribuisce agli Accademici di dover ammettere, conseguentemente alle loro dottrine, l’esistenza di queste Idee, e il suo intento è quello di confutarli ad hominem, di mostrare, cioè, che i loro argomenti li costringono ad affermare ciò di cui negano l’esistenza (cfr. Ivi, p.p. 21 s.). Anche Robin (Théorie, pp. 129 ss.) ritiene che Aristotele abbia sovrapposto il proprio schema dottrinale alle istanze platoniche, ma non perché abbia pensato l’Idea dell’uguale come Idea di un relativo – ché, anzi, lo studioso ritiene che Platone abbia ammesso l’esistenza delle Idee dei relativi –, ma per aver dichiarato che sussiste una contraddizione tra l’essere l’Idea dell’uguale un’Idea e l’essere un relativo, giacché, a suo avviso, proprio questo era ammesso dai Platonici. Il rilievo critico di Aristotele si configurerebbe perciò come un equivoco.14 In effetti, ad avviso dello studioso Aristotele con la sua critica ha obiettato ai sostenitori delle Idee che i loro argomenti li costringevano ad ammettere l’esistenza di quelle Idee di relativi che essi invece negavano (Ivi, pp. 189-190), ma proprio per questo, e cioè proprio per aver creduto che i Platonici non ammettevano tali Idee, sulla base dell’equivoco tra sostanzaialità e raletività anzi indicato, egli non ha compreso il loro pensiero, anzi, lo ha frainteso. Nell’intendere la critica di Aristotele all’argomento dei relativi nel modo che s’è detto, Robin sostanzialmente s’allinea a quegli interpreti che hanno sostenuto che essa procede analogamente a quella che lo Stagirita ha rivolto all’argomento «dalle scienze», vale a dire di portare tale ar-

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gomento ad ammettere l’esistenza delle Idee degli artefatti che gli Accademici negavano.15 Un’interpretazione, questa, che è stata decisamente respinta da Wilpert (Aristotelische Früschriften). In senso diametralmente opposto si sono espressi Berti e Leszl, per i quali (a) l’argomento di natura accademica dimostra l’esistenza non delle Idee in generale, ma determinatamente di quelle dei relativi; (b) l’esistenza di tali Idee non corrisponde alla traduzione da parte dello Stagirita della platonica Idea dell’uguale nello schema dottrinale del proprio punto di vista, ma a una posizione peculiare della dottrina degli Accademici; (c) infine, la critica di Aristotele consiste nel rilevare l’assurdità di tali Idee, o perché la loro esistenza è implicitamente negata dagli argomenti degli stessi sostenitori delle Idee (così Berti), o perché il filosofo la indica come in se stessa assurda (così Leszl).16 L’interpretazione precedente si reggeva sull’avvaloramento della negazione da parte degli Accademici delle Idee dei relativi («affermavano che dei relativi non vi sono Idee» [tw^n de# pro@v ti ouèk eòlegon eiè^nai iède@av]), intesa come attestazione fornita da Aristotele di un’effettiva posizione platonico-accademica; donde – tocchiamo così una seconda, basilare istanza di quella interpretazione – la denunzia dell’equivoco segnalato, che non ha consentito allo Stagirita di avvedersi del fatto che l’Idea dell’uguale era espressamente ammessa dai sostenitori delle Idee e, in particolare, che essa è apertamente nominata da Platone in Fedone, 74 a-c come in altri Dialoghi.17 In merito al primo punto Wilpert (Aristotelische Früschriften, p. 78, nota n. 87) aveva sostenuto che il testo riportato da Alessandro, dove si dice che gli Accademici ouèk eòlegon esserci Idee di relativi, non deriva dal De ideis, ma corrisponde a un rilievo personale del dossografo, il quale, considerando il tenore delle critiche aristoteliche ai precedenti argomenti e, soprattutto, il fatto che gli Accademici

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successivi a Platone effettivamente non ammisero Idee di relativi (cfr. Siriano, In Arist. Metaph., 107, 8-30; 111, 12; 114, 5), ha creduto che anche in questo caso la critica di Aristotele individui una contraddizione tra la conseguenza dell’argomento e le tesi degli Accademici. Contro quest’interpretazione si era efficacemente espressa S. Mansion (Deux écrits), la quale rivendicava l’appartenenza del passo al De ideis. Ma anche senza giungere a negare tale appartenenza, i sostenitori dell’esegesi sopra esaminata vi hanno letto il riscontro da parte di Aristotele della negazione accademica di Idee di relativi (operata sulla base del fraintendimento anzi segnalato). Berti e Leszl hanno interpretato, invece, detta negazione come conseguenza cui sono costretti a incorrere i sostenitori delle Idee in base alle loro dottrine, conseguenza che lo Stagirita oppone, come rilevamento di una contraddizione, al fatto che essi «producono (poiou^sin)» Idee di relativi, intendendo quest’ultima espressione non già nel senso di «ammettono implicitamente», bensì di «pongono esplicitamente».18 Quanto poi al fatto che l’Idea dell’uguale è stata espressamente affermata da Platone nei Dialoghi, e innanzitutto nel Fedone, viene ribadito che «Aristotele non ha di mira la posizione di Platone, bensì quella degli altri Accademici» (Berti, Primo Aristotele, p. 215). Si dichiara, inoltre, che «l’origine platonica dell’argomento nel suo complesso sembra essere indubbia, [...] tuttavia l’argomento accademico presenta certamente alcuni sviluppi rispetto alla sua meno tematica e meno tecnica formulazione nel Fedro, [...] la distinzione fra omonimia e sinonimia (= non omonimia), il connesso uso di definizione e descrizione come criteri dell’una e dell’altra, il ricorso a un contrasto assai netto tra termini relativi e termini sostanziali» (Leszl, De ideis, p. 244; cfr. anche Berti, Primo Aristotele, p. 214), insomma tutta una serie di «novità» che lasciano intendere una ripresa

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e una riabilitazione di un’istanza platonica su di una base dottrinale più complessa. Conformemente a quanto è stato acquisito con questi rilievi, l’istanza platonica espressa dall’argomento viene presentata nella seguente scansione: «l’assunto da cui si parte è che la predicazione di uno stesso termine a una pluralità di enti non può essere omonima, ma deve essere sinonima, cioè deve mostrare una certa natura comune, per soddisfare il criterio della razionalità. Ci si chiede con quale dei tre casi di sinonimia [...] è analoga la predicazione dei relativi (di un relativo: l’uguale). [...] Si afferma che l’uguale si può predicare solo in modo omonimo (equivoco) quando questa predicazione venga fatta con riferimento esclusivo alle cose di quaggiù. [...] Si ribadisce che la predicazione di un relativo fatta in riferimento agli enti empirici soltanto contraddice la condizione della predicazione sinonima in senso proprio e della predicazione sinonima mista. Quanto alla predicazione sinonima derivata, si mostra che essa non ha luogo nella predicazione dei relativi alle cose di quaggiù con riferimento esclusivo alle cose di quaggiù, vale a dire non si applica agli enti empirici quando si verifichi una situazione paragonabile a quella per cui alcune di queste cose (per esempio le statue) possono essere chiamate «uomini» perché sono copie di altre cose pur appartenenti al mondo empirico (cioè agli uomini in carne e ossa)» (Leszl, De ideis, pp. 193-194). E con ciò si afferma che la predicazione sinonima derivata si applica alle cose di quaggiù quando il modello, non essendo una di esse, le trascende, vale a dire esprime la determinatezza dell’uguale in senso assoluto: e tale è l’Idea. Berti (Primo Aristotele, p. 214), a proposito di questa predicazione sinonima (o non-omonima) derivata si esprime in modo diverso, asserendo che si può riconoscere che è questa che l’argomento fa valere a proposito dei relativi empirici; ma poiché, facendo propria la posizione di S.

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Mansion (Peri# ièdew^n, pp. 182 s.), egli ritiene che l’uguale di cui si parla nell’argomento sia l’uguale in sé, risulta allora che le cose empiriche rientrano nel caso della non-omonimia in senso derivato perché esse sono copie dell’uguale in sé. Sicché dunque il motivo esegetico di fondo è il medesimo. Un sostanziale accordo lungo un’identica linea esegetica di fondo – quella, per l’appunto, secondo cui nelle critiche di Aristotele si scorge l’attestazione da parte del filosofo dell’assurdità delle Idee dei relativi nel quadro della medesima teoria delle Idee – sussiste anche tra le interpretazioni che i due studiosi hanno dato di queste critiche stesse. Lungo questa linea, la prima critica viene intesa – sé detto – come denunzia di una contraddizione interna alla dottrina delle Idee, essendo conseguente a essa che i relativi, in quanto si definiscono in rapporto ad altro, ossia ai correlativi, non possono essere Idee, le quali, essendo in sé sussistenti, sono invece sostanze (e dunque autosufficienti).19 La seconda critica contrappone – come abbiamo visto – all’unicità dell’Idea la necessità che vi siano più Idee dell’uguale, dal momento che i relativi ideali, non diversamente da quelli empirici, sono tali in rapporto a un correlativo (l’«uguale in sé» è uguale all’«uguale in sé»). La terza critica fa valere che la logica che postula le Idee esige che si affermi l’esistenza anche dell’Idea del disuguale; il che secondo i Platonici stessi è assurdo, perché il disuguale è più cose eterogenee e dunque non può essere ricondotto all’unicità dell’Idea. 4.1.2 L’omonimia L’altra questione esegetica, riguardante la nozione di non-omonimia, si è, per così dire, aperta su due lati: in uno ha impegnato gli studiosi a chiedersi se essa debba ritenersi equivalente a quella aristotelica di sinonimia; nell’altro ha

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fatto riflettere in che senso nel secondo e nel terzo dei tre casi indicati la predicazione è non-omonima. È innanzitutto opportuno fare presente che, al fine di ovviare alle difficoltà emerse dall’intendere la valenza in cui tale nozione interviene nel secondo e nel terzo caso, Robin (Théorie, pp. 19-21) ha creduto di ricorrere, oltre che alla recensio vulgata, adottata da Hayduck nello stabilire il testo di Alessandro, anche alla recensio altera, quella cioè dei codici L e F, dove i due casi a tema vengono considerati più o meno omonimi. Si tratta, in tutta chiarezza, di un espediente molto poco convincente, e per questo rifiutato in termini perentori da Wilpert, il quale ha mostrato come la versione dei codici suddetti, calibrando i termini oémwnu@mwv e mh# oémonumwv in un senso decisamente aristotelico e non platonico, non possa derivare dal Sulle Idee. In specie, quanto al terzo caso di non-omonimia, nel testo di Alessandro, Wilpert riconosce che si tratta di un errore, anche se non di importanza fondamentale (Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp. 41-43). Ad avviso di Cherniss (Plato, pp. 229-233), nel testo di Alessandro oémwnu@mwv compare in due significati diversi, uno, propriamente platonico, per il quale il termine indica «in modo tale che il nome sia comune e la natura derivata», l’altro, squisitamente aristotelico, per il quale si chiama in causa l’omonimia come equivocità. Comunque, secondo Cherniss e Wilpert, l’argomento tende ad affermare la seconda possibilità della predicazione non-omonima, ossia quella derivata. Per S. Mansion (Peri# ièdew^n, pp. 181-181) la predicazione nel secondo e nel terzo caso è considerata omonima perché non riguarda to# iòson, bensì – come abbiamo visto – to# iòson auèto@; e poiché l’argomento, a suo giudizio, si configura nei termini di una reductio ad absurdum, l’uguale in sé può essere predicato non-omonimamente in riferimento agli enti

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empirici soltanto se, postulando un modello trascendente, si riporti al terzo caso. Ad avviso di Owen (Peri# ièdew^n, pp. 103-111) oémwnu@mwv rivesta, nell’argomento, un significato platonico; la predicazione di «uomo» in riferimento alle immagini è dichiarata non-omonima perché «uomo» non è un termine relativo, come «uguale», e in quanto tale è predicato per sé sia degli uomini sensibili che delle immagini: ché, nel contesto platonico, il modello costituisce l’essenza delle sue copie. Quanto invece all’uguale, anche Owen riconosce che si tratta dell’uguale in sé, e afferma che la sua predicazione alle cose di quaggiù si riconduce al secondo caso ed è considerata omonima perché riguarda l’uguale in senso assoluto. Per lo studioso, inoltre, l’argomento ammette una sorta di rapporto logico fra cose ed Idee analogo a quello che Aristotele chiama «omonimia in relazione all’uno», anche se, però – rileva Leszl (De ideis, p. 196) –, egli connette la sua tesi alla nozione di sinonimia e non a quella di omonimia, come avevano fatto Cherniss e Robin. Per Lugarini (Categorie, p. 34) mh# oémwnu@mwv non significa «sinonimamente», in senso aristotelico, ma «ha invece il compito di opporre all’omonimia platonica operante nei Dialoghi della maturità (scil., l’uguaglianza del nome, la quale, dato che questo manifesta direttamente la natura della cosa – presupposto naturalistico –, denota per ciò stesso anche una medesima natura delle cose a cui si applica) il criterio (diremo con Kucharski) della eteronomia, invalso negli ultimi Dialoghi in connessione con la metodologia diairetica»; criterio in forza del quale si ricerca «il fondo unitario comune a più eide, vale a dire la mia physis, che costituisce il loro elemento identico e la loro ousia» (Ivi, p. 32). Su questa base lo studioso, prendendo in esame il terzo caso di non-omonimia presentato nel testo di Alessandro e mettendolo a confronto con il primo capitolo delle Categorie, dove l’attribuzione del medesimo

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nome all’uomo in carne e ossa e ai dipinti che lo raffigurano è citata come esempio di omonimia, individua la distanza dottrinale tra i due testi nel fatto che, se si postula la realtà in sé della natura (comune al modello e alle immagini), segue che il modello e le immagini sono nonomonime (così in Platone), mentre se (come per Aristotele) si pensa che esistenti in sé siano i singoli individui (empirici) delle copie e il singolo individuo (empirico) del modello, allora gli individui/copie e l’individuo/modello sono ontologicamente diversi, cioè non hanno la stessa natura. Sicché l’avere lo stesso nome è pura omonimia (Ivi, pp. 39-41). Per Leszl, infine, mh# oémwnu@mwv equivale sempre all’aristotelico «sinonimamente», e questa è anche la linea interpretativa di Berti. Leszl, in particolare, interpreta il terzo caso di non-omonimia (= di sinonimia) nel senso che «la natura dell’originale è presente anche nelle sue copie, ma in forme differenti, cioè con delle qualifiche: l’umanità dell’uomo dipinto non è un’umanità pura e piena, com’è quella di un uomo in carne e ossa, ma è appunto come può essere umano ciò che è dipinto» (Leszl, De ideis, p. 201). Insomma, si verifica una predicazione sinonima, anche se distinta da quella precedente («data l’identità di natura fra copie e modello che viene ammessa dai Platonici – scrive per l’appunto Leszl –, questa situazione viene considerata indicare che le copie sono chiamate come il modello perché hanno la sua stessa natura, ma in modo derivato: meno pieno rispetto al modello» [Ivi]). Ad avviso dello studioso questo stesso schema serve a inquadrare la situazione dei termini relativi. La predicazione di «uguale» presenta, infatti, un parallelismo con quella di «uomo» in quanto, «mentre “uomo” può essere predicato in modo primario e incondizionato rispetto agli uomini di questo mondo, cioè alle realtà empiriche – per cui vale il contrasto tra questa predicazione e la predicazione di un uomo applicata alle

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immagini di queste realtà (empiriche) –, questo non si verifica nel caso della predicazione di termini come “uguale”, che non si predica mai in modo incondizionato delle cose di questo mondo, ma solo dell’Idea» (Ivi, p. 203). Da qui, come abbiamo visto, si ha che l’argomento porta a postulare Idee di relativi e non Idee di cose per sé o sostanziali, «giacché la predicazione sinonima è già incondizionata quando si applica alle cose sostanziali di questo mondo» (Ivi). 4.2. Il “terzo uomo” Il secondo gruppo degli «argomenti più rigorosi» è quello degli argomenti che «dicono il terzo uomo», e anch’esso è riferito da Alessandro, che lo trae dal De ideis, nel commento a Metaph., I, 9, 917 b 7. Egli riferisce tre differenti esposizioni dell’argomento e quattro diverse versioni della riduzione al terzo uomo, delle quali la prima è attribuita ad Aristotele, la seconda ai Sofisti, la terza a Polisseno, la quarta ancora ad Aristotele. L’ordine di successione degli argomenti e delle critiche è il seguente: (1) primo argomento; (2) secondo argomento; (a) prima critica; (b) seconda critica; (c) terza critica; (3) terzo argomento; (d) quarta critica. I tre argomenti ripropongono la medesima istanza dell’«uno sopra i molti», e cioè la necessità di postulare nell’Idea trascendente l’essere autenticamente tale della determinatezza quale condizione perché gli enti empirici si qualifichino secondo questa. Sotto tale profilo essi possono considerarsi differenti formulazioni di un unico argomento, che rigorizza quello dell’«uno sopra i molti» sia per la forma, per appunto più precisa, con cui presenta l’assunto comune, sia perché nelle diverse esposizioni si declina sotto il profilo della predicazione e della partecipazione. (1) Sulla predicazione si appoggia espressamente la pri-

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ma formulazione, la quale fa valere che il predicato comune degli enti sostanziali si attribuisce in senso proprio soltanto all’Idea, essendo soltanto essa in senso proprio ciò che esprime il predicato, mentre agli enti empirici si attribuisce in modo derivato, poiché essi non sono in senso proprio quello che sono (cfr. Alex., In Arist. Metaph., 83, 34-84, 1: «dicono che i predicati comuni delle sostanze sono tali in senso proprio, e questi sono Idee»). È immediatamente da rilevare che il grado di pienezza del predicarsi di una determinazione è posto in diretta corrispondenza con l’essere le cose di cui si predica autenticamente quello che la determinazione dice essere. In questo senso l’argomento stabilisce un’assoluta corrispondenza tra il livello logico – quello per l’appunto della predicazione – e il livello ontologico – l’essere la cosa ciò che è secondo la determinazione espressa dalla predicazione –, sicché la condizione per cui la predicazione sia in senso proprio è che la cosa sia tale in senso proprio. Sennonché l’argomento non si limita a porre quest’istanza, ma – esattamente com’era stato a proposito dell’«uno sopra i molti» – stabilisce l’esistenza in sé della determinazione per osservare che soltanto di essa si ha predicazione in senso proprio. Reduplica cioè la determinazione, facendone una «cosa», un «ente» dotato di un’esistenza autonoma, al fine di poter dichiarare che a esso, che è quella determinazione e nient’altro, la determinazione conviene in senso proprio. Così la determinazione si predica in senso proprio dell’Idea e di essa soltanto, perché l’Idea è l’in sé della determinazione, vale a dire è la determinazione propriamente tale, mentre non si predica in senso proprio degli enti empirici perché essi non sono quella determinazione e nient’altro, ossia non sono la determinazione nella sua pienezza. Come dunque immediatamente si evince, il presupposto su cui si regge l’argomento è che la determinazione, la quale esprime un universale (per esempio, «uomo»), si confi-

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guri in un’esistenza in se stessa, abbia cioè un’esistenza autonoma. Perché, appunto, soltanto a questa condizione si dà una «cosa» che è totalmente e autenticamente quella espressa dalla predicazione, sì che la predicazione stessa sia in senso proprio. Ed è esattamente una tale concezione dell’universale che Aristotele respinge nella sua critica, la quale ne pone espressamente a tema l’assurdità esibendo l’inghippo nel quale si incorre quando si pensa l’universale non semplicemente come un ente, ma come un ente separato da ciò di cui si predica. Con Leszl (De ideis, p. 246) converrà osservare come qui non si asserisca più, contrariamente che nell’argomento dei relativi, che uomo si predica in senso proprio degli enti empirici. Ciò in quanto gli enti sostanziali empirici, che non sono in senso proprio quello che sono, si predicano in senso proprio rispetto ai relativi, non rispetto alle Idee, vale a dire alle sostanze che sono in senso proprio quello che sono. (2) Nella seconda esposizione l’argomento fa forza sul motivo che la somiglianza delle cose empiriche si spiega in funzione della partecipazione all’Idea in quanto ente che è in senso proprio quella determinazione sotto il cui profilo le cose empiriche sono simili (cfr. Alex., In Arist. Metaph., 84, 1-2: «le cose simili l’una all’altra, sono simili l’una all’altra per partecipazione a qualcosa di identico, che è in senso proprio questa ; e questo è l’Idea»). Considerato nella sua struttura logica, l’argomento si scandisce in due istanze: innanzitutto dichiara che la determinazione per la quale le cose empiriche sono simili dev’essere alcunché di sempre identico, ossia dev’essere alcunché che è tale in senso proprio. E con ciò si esclude che possa essere una delle cose empiriche stesse (giacché queste, per il fatto stesso di esser empiriche, e per ciò divenienti, non sono sempre quella proprietà e non sono sempre nello stesso modo). In questo l’argomento, in tutta chiarezza, non fa che ripresentare la medesima istanza fat-

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ta valere nell’esposizione precedente, e dunque postula l’esistenza dell’Idea secondo la stessa concezione dell’universale che prima si è illustrata. Stabilisce poi che le cose empiriche possiedono tale determinazione (in modo non proprio, ovviamente), essendo così simili tra loro, perché la partecipano da quell’alcunché che la incarna in senso proprio, vale a dire dall’Idea. La situazione nella prima e nella seconda formulazione dell’argomento è dunque la medesima: in entrambe si presuppone (per le stesse ragioni) che le cose empiriche non sono quello che sono in senso proprio e che l’attribuzione della determinazione (a esse che non la possiedono in senso proprio) è possibile soltanto a partire da ciò che la possiede in senso proprio. La differenza è che nella prima esposizione tale attribuzione viene considerata nella prospettiva logica della predicazione, mentre in questa seconda è considerata in quella ontologica della partecipazione.20 (3) La medesima esigenza della separazione dell’universale quale condizione del suo predicarsi con verità dei molti, è espressamente affermata anche nella terza formulazione, la quale non si presenta come un’esposizione «nuova» in senso vero e proprio, ma piuttosto come un’esposizione delle tesi che portano alla riduzione del terzo uomo. Ecco perché l’argomento che essa enuncia si riconnette a quelli precedenti: riferisce solo in modo più ampio la formulazione basata sulla predicazione e istituisce con quella basata sulla partecipazione il medesimo rapporto secondo cui abbiamo visto che questa si relazione alla prima. «Il terzo uomo – si legge nella terza formulazione – si dimostra anche così: se ciò che è predicato con verità di più cose esiste anche come diverso oltre quelle delle quali si predica, essendo separato da esse – questo, infatti, credono di dimostrare coloro che pongono le Idee. Ché, per questo a loro avviso esiste qualcosa come l’uomo in sé, ossia perché l’uomo si predica con verità degli uomini individuali che sono più d’uno,

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ed è diverso dagli uomini individuali –, se è così, vi sarà anche un terzo uomo» (Alex., In Arist. Metaph., 84, 21-28). Com’è immediatamente riscontrabile, nella seconda parte sono riproposte le medesime istanze avanzate a sostegno delle Idee nell’argomento dell’«uno sopra i molti»: il termine predicato deve concepirsi come separato (*) perché si predica con verità di molti individui e (**) perché è differente da essi (cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 222; Leszl, De ideis, p. 229). Ma anche la prima istanza comporta la separazione dell’universale. In essa, infatti, non si pone soltanto che il termine predicato si predica di ciascun individuo di un certo tipo, ma si pone che tali individui costituiscono una pluralità. Ora, nessuno degli individui empirici di detta pluralità si predica in senso proprio, vale a dire con verità. Ma poiché deve esserci un termine che si predichi in senso proprio e con verità (pena il venir meno della possibilità di predicare sinonimamente gli individui di quella stessa classe), esso dovrà essere separato. La critica di Aristotele, in tutte le sue formulazioni, è interamente volta a mettere in luce l’assurdità della separazione dell’universale che funge da predicato comune delle sostanze, di concepirlo cioè come un’Idea. Pensato, infatti, come Idea separata, il predicato comune cessa propriamente di essere tale e diviene esso stesso un elemento della classe delle cose che godono della proprietà espressa dal predicato, con la conseguenza che tale proprietà, essendo comune agli individui empirici e all’Idea, postula l’esistenza di un’altra Idea, e così di seguito all’infinito. In tal modo, oltre agli uomini empirici e all’Idea di uomo dovrà postularsi un «terzo Uomo», ossia un’ulteriore Idea di uomo, e poi una quarta, una quinta, e così di seguito all’infinito. Il che colpisce al cuore la dottrina delle Idee quali cause paradigmatiche, richieste per dar conto dei caratteri delle cose empiriche: giacché con il rinvio all’infinito la spiegazione di tali caratteri risulta anch’essa rimandata all’infinito e

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dunque tralasciata. Viene meno, perciò, la ragione stessa per la quale nei Dialoghi Platone introduceva le Idee (cfr. Fedone, 99 a ss.). Se dunque l’universale come predicato comune è un «uno verso i molti» e non «sopra i molti», vale a dire una determinazione unitaria la quale, non coincidendo con nessuno dei molti di cui è predicata, per questo è strutturalmente rivolta a essi («unum versus alia») e in funzione di essi, l’Idea, ponendosi invece come costitutivamente separata dagli individui empirici rispetto a cui è Idea e per questo potendo fare parte, come individuo sui generis essa stessa, della classe degli individui di cui si predica la proprietà, si contrappone agli individui empirici e perciò non è autenticamente un universale.21 Donde il contrasto tra la sua pretesa di essere «predicato comune» e assieme «separata», come individuo essa medesima, dagli individui di cui surrettiziamente vuol essere il predicato comune. L’assurdo denunziato dal terzo uomo dà appunto corpo a un tale contrasto. Ciò è particolarmente evidente nella seconda formulazione della critica di Aristotele: «se questo (scil., come s’è detto nella terza formulazione dell’argomento), ci sarà un terzo uomo. Se, infatti, (*) l’ che si predica è diverso da quelli dei quali si predica ed è sussistente per proprio conto, (**) e l’uomo si predica sia degli individuali che dell’Idea, vi sarà un terzo uomo oltre sia quelli individuali che l’Idea. Ma in questo modo anche un quarto: quello che si predica sia di questo, sia dell’Idea, sia degli individuali, e similmente anche un quinto, e questo all’infinito» (Alex., In Arist. Metaph., 84, 27-85, 3). Il predicarsi di «uomo» dell’Idea di uomo, com’è richiamato dalla premessa (**), è la diretta conseguenza del fatto che l’Idea di uomo si pone, in quanto individuo (sui generis) in sé sussistente e separato, accanto ad altri individui, costituiti dagli uomini empirici, sì da formare con essi la classe degli uomini; ma in tale giustapporsi agli individui

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empirici essa manifesta di non esprimere, se non inadeguatamente, il predicato «uomo» che è loro comune, vale a dire di non essere, se non surrettiziamente, un universale: giacché non può essere, in quanto separata e in sé sussistente, in funzione degli uomini empirici e costitutivamente rivolta a essi: condizione, questa, per la quale l’autentico «predicato comune» uomo «è diverso dalle cose di cui si predica e sussiste per conto proprio», ossia non coincide con nessuno degli uomini empirici, com’è detto nella premessa (*). Il contrasto tra l’essere il predicato alcunché di «comune», vale a dire un universale, e il suo essere annoverato nella medesima classe degli enti dei quali si predica, vale a dire il suo essere alcunché di esistente per sé, separato da quelli e loro giustapposto, costituisce l’asse portante anche della prima formulazione della critica aristotelica, ancorché il motivo sia espresso in maniera meno evidente e implicita, mettendosi invece più marcatamente a tema il salto logico per cui, se il predicato «comune» è distinto dagli enti di cui è predicato, nel senso che non s’identifica con nessuno di essi, allora deve pensarsi «al di là di essi», vale a dire come separato. «Ma se questo (scil., com’è stato detto nelle premesse delle formulazioni dell’argomento), e il predicato comune di alcune cose non sia identico ad alcuna di quelle delle quali si predica, qualcosa d’altro oltre esse – per questo, infatti, l’uomo in sé è un genere, perché, predicandosi di quelli individuali, non è, come affermiamo, identico a nessuno di essi – vi sarà un terzo uomo oltre quello individuale, come Socrate e Platone, e l’Idea, la quale è anch’essa una di numero» (Alex., In Arist. Metaph., 84, 2-7). Se dunque la determinazione predicata si suppone come in sé sussistente e separata, essa non costituisce un universale (un «uno verso i molti»): poiché l’universale è sì distinto dagli individui di cui si predica, ma tale distinzione, lungi dal configurarlo come un in sé, e dunque come giustapposto e

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persino contrapposto a ciò di cui è predicato, è invece la condizione del suo essere l’unità della caratteristica comune. La quale non esiste che negli individui, reale in tale immanenza. La riduzione al terzo uomo conosce questo concetto dell’universale come «predicato comune» e non come «uno sopra i molti», giacché proprio questa unità essa contrappone alla separazione della determinatezza, al fine di denunziarne l’assurdo. Come infatti abbiamo visto, la riduzione, evidenziando che la distinzione dell’universale da ciò di cui è predicato, moltiplica all’infinito la postulazione dell’universale stesso pensato come in sé sussistente, ne contrappone la genuina nozione di «predicato comune» a quella surrettizia che lo fa essere un’Idea. E così si rende chiaro che, se si pensa l’universale come l’unità della determinazione comune, allora esso non può essere un’Idea, oppure, se lo si pone come determinazione ideale, allora si compromette irrimediabilmente il suo stesso carattere di universalità.22 Questi rilievi consentono d’intendere appieno il motivo fondamentale del rigetto aristotelico dell’Idea. Gli studiosi hanno rilevato che la prima e la seconda formulazione dell’argomento coincidono con quelle usate da Socrate nel Parmenide rispettivamente in 132 a e in 132 d-e, e che la stessa riduzione aristotelica al terzo uomo ripropone l’obiezione avanzata da Platone nel medesimo Dialogo contro la separazione dell’Idea (132 a-b), con la sola differenza che, mentre qui si tratta dell’Idea di uomo, là si argomenta sull’Idea di grande. Prescindendo in questa sede dal problema del rapporto storico tra la critica del Parmenide e il De ideis23 e considerando invece la portata della critica stessa in questo medesimo ordine d’indagine, la questione essenziale consiste nel decidere se la critica aristotelica e quella platinica abbiano lo stesso valore. Con motivazioni diverse lo hanno negato S. Mansion e

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Lugarini. La prima rilevando che non si tratta né dello stesso argomento, né delle stesse critiche, giacché nel nostro trattato è in causa l’Idea di un termine sostanziale, quale è per l’appunto quella di uomo, laddove nel Parmenide è in causa l’idea di un relativo, com’è quella del grande, e mentre l’Idea di uomo è omogenea rispetto agli uomini empirici, cosicché l’uomo si può nuovamente predicare di essa, questo non è consentito a proposito dell’idea del grande, la quale è eterogenea rispetto al grande sensibile (Mansion S., Peri# ièdew^n, pp. 189-192; Deux écrits, p. 404). Lugarini, dal canto suo, che pur rifiuta quest’esegesi, contestandole che l’eterogeneità dell’Idea del grande in relazione al grande empirico nel Parmenide non è ammessa, ma è proprio ciò che viene posto in discussione (Lugarini, Terzo uomo, pp. 47 s.), sostiene tuttavia – come già abbiamo avuto modo di richiamare – che la critica del Parmenide colpisce l’Idea nella sua unità, mentre la riduzione al terzo uomo del De ideis la colpisce nel suo essere realtà in sé, vale a dire nella sua esistenza (Ivi, pp. 36-46).24 Ora, in quest’ipotesi la «novità» dottrinale dell’intervento aristotelico è chiaramente espressa, e si tratta di una «novità» totale nell’ipotesi di S. Mansion, più circoscritta ma pur sempre rilevante e, anzi, decisiva in quella di Lugarini. A favore di un’esegesi che riconosce il medesimo valore teoretico della critica del Parmenide e di quella del De ideis si è invece espresso Berti (Primo Aristotele, pp. 221 s.: «comunque stiano le cose, è certo che la stessa critica del Parmenide e quella del De ideis hanno lo stesso valore teoretico»). Tale valore, ad avviso dello studioso, consiste nel rilevare le difficoltà che insorgono a proposito del carattere separato dell’Idea, carattere che il Parmenide pone in questione e che Aristotele nel De ideis rifiuta. Peraltro, questo rilevamento delle difficoltà si sostanzia ancor più marcatamente se si considera – come del resto fa Berti stesso – che Platone, nonostante la critica del

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Parmenide, continuò a sostenere la separatezza delle Idee,25 di contro al tematico rigetto di esse da parte dello Stagirita. In ordine alla questione anche chi scrive si è espresso in senso affermativo, e alle relative pagine (Zanatta, Categorie, pp. 143-145) rinvia per la giustificazione dell’assunto.

TESTIMONIA

FRAGMENTA

TESTIMONIANZE

[Philopon.], In Arist. Metaph., f. 67 B, apud Ravaisson, Essai sur la Métaph., I, p. 75, n. 1: quelle cose che ho scritto sulle Idee in due libri, diversi da quelli che sono questi XIII e XIV e al di fuori della composizione della Metafisica.

FRAMMENTI

1 (R2 180, R3 185) Syrian., In Arist. Metaph., p. 120, 33 – 121, 4: che contro l’ipotesi delle Idee non abbia da formulare nessuna di più di queste, manifestano sia il primo libro di questa trattazione, sia i due libri Sulle Idee da lui composti. Infatti, portando pressoché queste medesime obiezioni in ogni luogo e talora dividendole e separandole, talora invece enunciandole in modo più conciso, cerca di correggere i filosofi vissuti prima di lui. Syrian., In Arist. Metaph., p. 195, 10-15: sono le medesime che in questi Aristotele oppone alle teorie dei Pitagorici e dei Platonici, che, in realtà, comprendono pure quelle proferite nel libro Alpha grande, come ha segnalato anche il commentatore Alessandro. Per-

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ciò anche noi, essendoci opposti con queste , pensiamo di non aver tralasciato neppure quelle; ma neppure tutto quello che contro tali filosofi ha enunciato nei due libri dell’opera Sulle Idee. Ché, anche qui egli ricicla pressoché queste medesime . Ps. Alex., In Arist. Metaph., p. 836, 34 – 837, 3: dicendo queste cose, riassume tutto quanto il ragionamento esponendo «quelle che sono, dunque, le conclusioni» per coloro che affermano i numeri ideali, che pongono gli enti matematici come separati e che sostengono che le suddette sono cause degli enti fisici; «e se ne potrebbero riunire in numero ancor maggiore di queste», vale a dire le cose che egli ha scritto nei due libri dell’opera Sulle Idee, le quali sono diverse da quelle dei libri XIII e XIV, ossia stanno fuori dell’ordinamento della Metafisica. 2 (R2 181, R3 186) Scol. In Thrac., p. 116, 13-16 Hilgard: si deve sapere che le definizioni fanno parte delle realtà universali e che permangono sempre, come anche Aristotele ha detto nell’opera Sulle Idee, che è stata da lui composta contro le Idee di Platone. Tutte le cose particolari mutano e non sono mai nello stesso modo, mentre quelle universali sono immutabili ed eterne. 3 (R2 182. R3 187) Alex. Afrod., In Arist. Metaph., p. 79, 3 – 83, 30: per l’istituzione delle Idee si servono delle scienze in più modi, come afferma nel primo libro dell’opera Sulle Idee. Gli argomenti che ora sembra bene ricordare sono di questo tipo: se ogni scienza compie la sua opera riportandosi a qualcosa di uno e identico, e non la compie mai in

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rapporto ad alcuna delle cose individuali, conformemente a ciascuna scienza vi sarà qualche altra eterna oltre quelle sensibili, ossia un modello delle cose che si producono secondo ciascuna scienza. Una tale è l’Idea. Inoltre, le cose che sono oggetto delle scienze, queste cose esistono. Ma le scienze hanno per oggetto alcune cose diverse oltre quelle individuali, giacché queste sono infinite e indeterminate, mentre le scienze hanno per oggetto cose determinate. Vi sono, pertanto alcune oltre quelle individuali, e queste sono le Idee. Inoltre, se la medicina non è scienza di questa determinata salute, ma della salute semplicemente, vi sarà una salute in sé; e se la geometria non è scienza di questo determinato uguale e di questo determinato commensurabile, vi saranno l’uguale in sé e il commensurabile in sé, e questi sono le Idee. Ora, tali ragionamenti non dimostrano ciò che si sono proposti, che, come si è detto, è che esistono le Idee, ma dimostrano che esistono alcune cose oltre quelle individuali e sensibili. Ma, se esistono alcune cose che sono oltre quelle individuali, queste non sono affatto sono Idee. (a) Infatti, oltre delle cose individuali vi sono quelle comuni, e queste sosteniamo anche che le scienze hanno per oggetto. (b) Inoltre, il fatto che vi sarebbero Idee anche delle cose prodotte dalle arti, giacché anche ogni arte riferisce ad alcunché di unico le cose che vengono all’essere per sua opera, e quelle cose che le arti hanno per oggetto, esistono, e le arti hanno per oggetto certe cose diverse oltre quelle individuali. (c) Ma l’ultimo , oltre a non mostrare neppure esso che vi sono Idee, sembrerà istituire Idee anche delle cose di cui non vogliono che vi siano Idee. Ché, se per il fatto che la medicina non è scienza di questa determinata salute, ma della salute semplicemente, esiste una salute in sé, esisterà anche nel caso di ciascuna delle arti. Infatti, non hanno per oggetto l’individuale né questa data cosa, ma semplicemente la cosa intorno a cui vertono:

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per esempio, l’arte del costruire, semplicemente la panca, ma non questa data , e semplicemente il letto, ma non questo . In modo simile anche la scultura, la pittura, l’architettura e ciascuna delle altre arti si rapportano alle cose che ciascuna produce. Dunque, vi sarà un’Idea anche di ciascuna delle cose prodotte dalle arti, il che non vogliono. p. 80, 8: per istituire le Idee fanno uso anche di un argomento di tal genere: se ciascuno dei molti uomini è un uomo e ciascuno di molti animali è un animale e similmente anche nel caso degli altri enti e di ciascuno di essi non c’è qualcosa che sia predicato esso di se stesso, ma vi è qualcosa che si predica anche di tutti questi non essendo identico a nessuno di essi, ci sarà qualcosa di questi che sia oltre gli enti individuali, separato da essi, eterno. Sempre, infatti, si predica in modo uguale di tutte le cose che si differenziano per numero. Ma ciò che è uno sopra i molti, separato da essi ed eterno, questo è un’Idea. Dunque, esistono le Idee. sostiene che quest’argomento istituisce Idee anche delle negazioni e delle cose che non sono. Infatti, anche la negazione si predica come una e identica di molte cose e delle cose che non sono, e non è identica a nessuna delle cose delle quali si dice con verità. Ché, «non uomo» si predica sia del cavallo, sia del cane, sia di tutte le cose oltre l’uomo, e per questo è un uno sopra i molti, e non è identica a nessuna delle cose di cui si predica. Inoltre, continua sempre a dirsi con verità in modo simile delle cose simili. Infatti, «non musico» si dice con verità di molte cose (ché, di tutto ciò che non è musico), similmente a come «non uomo» di ciò che non è uomo. Di conseguenza, vi sono Idee anche delle negazioni. Il che è assurdo. In effetti, come potrebbe esserci un’Idea del non essere? Ché, se si accetterà questo, allora vi sarà un’Idea unica di cose che non appartengono al medesimo genere e che sono differenti in ogni aspetto:

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della linea, se capti così, e dell’uomo. Infatti, tutte queste cose non sono cavalli. Inoltre, vi sarà un’Idea unica anche delle cose indeterminate. Ma anche di ciò che è primo e di ciò che è secondo: infatti, sia l’uomo che l’animale sono non-legno, e di essi uno è primo, l’altro secondo. Ma sono cose delle quali non vogliono che ci siano, come si diceva, né generi né Idee. È chiaro che neppure quest’argomento prova che esistono Idee, ma anch’esso vuole mostrare che ciò che si predica in modo comune è diverso dalle cose individuali di cui si predica. Inoltre, quelli stessi che vogliono dimostrare che ciò che si predica in comune di più cose è alcunché di unico e che esso è un’Idea, lo istituiscono a partire dalle negazioni. In effetti, se colui che nega qualcosa di più cose negherà riferendosi a qualcosa di unico – infatti, colui che dice «l’uomo non è bianco», «il cavallo non è bianco» non nega di ciascuno di questi qualcosa che è loro proprio, ma facendo riferimento a qualcosa di unico nega di tutte il medesimo bianco –, anche colui che afferma la stessa cosa di più cose non affermerà di ciascuna una cosa diversa, ma ciò che afferma sarà qualcosa di unico: per esempio, l’uomo in riferimento a qualcosa di unico e di identico. Ché, similmente a come la negazione, anche l’affermazione. Vi è dunque qualcosa che è diverso oltre ciò che è nelle cose sensibili, che è causa dell’affermazione vera per molti casi e comune, e questo è l’Idea. p. 81, 25: l’argomento che istituisce l’esistenza delle Idee a partire dal pensare è del genere seguente: se, quando pensiamo un uomo o un terrestre o un animale, pensiamo qualcuna delle cose che sono e nessuna di quelle individuali – infatti, il medesimo pensiero permane anche dopo che queste si sono corrotte –, è chiaro che ciò che pensiamo è oltre le cose individuali e sensibili, sia che esse esistano, sia che non esistano; infatti, allora non pensiamo qualcosa che non è. E questo è la forma, ossia l’Idea.26 p. 82, 11: l’argomento che istituisce Idee anche dei relati-

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vi è del genere seguente: nei casi in cui qualcosa di identico si predica di più cose non omonimamente, ma come alcunché che manifesta una qualche, unica natura, di esse si dice con verità o per il fatto che queste sono in senso proprio ciò che è significato dal predicato, come quando diciamo uomo Socrate e Platone, o per il fatto che esse sono immagini di quelle vere, come nel caso dei dipinti, quando predichiamo l’uomo – infatti, nel caso di questi indichiamo le immagini degli uomini, significando una qualche natura identica per tutti –, oppure come se una di esse fosse il modello e le altre le immagini, come se dicessimo uomini sia Socrate che le sue immagini. Ma delle cose di quaggiù predichiamo l’uguale stesso come predicato in senso omonimo di esse. Infatti, né la stessa definizione conviene a tutte esse, né significhiamo le cose che sono veramente uguali, giacché la quantità nelle cose sensibili è soggetta a cambiamento e muta continuamente e non è determinata. Ma neppure esiste qualcuna delle cose di quaggiù che accolga in modo esatto la definizione dell’uguale. (3) Ma neppure come se una di esse fosse il modello e un’altra l’immagine, giacché una delle due non è maggiormente modello o immagine dell’altra. Anche se si accogliesse che l’immagine non è omonima al modello, segue sempre che queste cose uguali sono uguali come immagini di ciò che è uguale in senso proprio e vero. Ma se vale questo, vi è qualcosa di uguale in se stesso e in senso proprio, in riferimento al quale le cose di quaggiù vengono all’essere e si dicono uguali come immagini, e questo è l’Idea, modello e figura per le cose che in rapporto a essa vengono all’essere. p. 83, 22-30: Ebbene, dice che quest’argomento istituisce l’esistenza di Idee anche dei relativi. Effettivamente la prova che ora è stata indicata si riferisce all’uguale, che si annovera tra i relativi. Ma affermavano che dei relativi non vi sono Idee per il fatto

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che a loro avviso le Idee sussistono di per sé, essendo delle sostanze, mentre i relativi hanno l’essere nello stare gli uni in rapporto agli altri. Inoltre, se l’uguale è uguale all’uguale, vi saranno più Idee dell’uguale, giacché l’uguale in sé è uguale all’uguale in sé. Se, infatti, non fosse uguale a niente, non sarebbe neppure uguale. Inoltre, secondo il medesimo argomento occorrerà che vi siano Idee anche delle cose disuguali, giacché vi saranno o non vi saranno Idee in pari modo degli opposti. Ma si è d’accordo, anche a loro avviso, che il disuguale è in più cose. 4 (R2 184, R3 188) Alex. Afrod., In Arist. Metaph., p. 83, 34 – 89, 7: l’argomento che introduce il terzo uomo è di questo genere: dicono che i predicati comuni delle sostanze sono tali in senso proprio, e questi sono Idee. Inoltre, le cose simili l’una all’altra, sono simili l’una all’altra per partecipazione a qualcosa di identico, che è in senso proprio questa ; e questo è l’Idea. Ma se questo, e il predicato comune di alcune cose non sia identico ad alcuna di quelle delle quali si predica, qualcosa d’altro oltre esse – per questo, infatti, l’uomo in sé è un genere, perché, predicandosi di quelli individuali, non è, come affermiamo, identico a nessuno di essi –, vi sarà un terzo uomo oltre quello individuale, come Socrate e Platone, e l’Idea, la quale è anch’essa una di numero [...] 84, 21: il terzo uomo si dimostra anche così: se ciò che è predicato con verità di più cose esiste anche come diverso oltre quelle delle quali si predica, essendo separato da esse – questo, infatti, credono di dimostrare coloro che pongono le Idee. Ché, per questo a loro avviso esiste qualcosa come l’uomo in sé, ossia perché l’uomo si predica con verità degli uomini individuali che sono più d’uno, ed è diverso dagli uomini individuali –, se questo, vi sarà un terzo uo-

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mo. Se infatti l’ che si predica è diverso da quelli dei quali si predica ed è sussistente per proprio conto, e l’uomo si predica sia degli individuali che dell’Idea, vi sarà un terzo uomo oltre sia quelli individuali che l’Idea. Ma in questo modo anche un quarto: quello che si predica sia di questo, sia dell’Idea, sia degli individuali, e similmente anche un quinto, e questo all’infinito. Quest’argomento è identico al primo, poiché si poneva che le cose simili sono simili per partecipazione a qualcosa di identico. Infatti, gli uomini e le Idee sono simili [...] 85, 9: ebbene, della prima esposizione del terzo uomo hanno fatto uso altri e, chiaramente, Eudemo di Rodi nell’opera Sullo stile, mentre dell’ultima ha fatto uso Aristotele nel primo libro dell’opera Sulle Idee e in questo (scil. nel libro I della Metafisica), tra poco. 85, 18: Ebbene, egli afferma che questi argomenti che istituiscono le Idee eliminano questi principi.27 Infatti, una volta eliminati questi, saranno eliminate anche le cose che vengono dopo i principi, se davvero derivano da essi; per cui saranno eliminate anche le Idee. Se infatti nel caso di tutte le cose di cui si predica, il termine comune è separato e un’Idea, e anche la diade si predica della Diade indefinita, vi sarà qualcosa che è prima di essa ed è un’Idea. In questo modo, la Diade indefinita non sarà più un principio. Ma neppure la diade a sua volta sarà prima e principio, giacché, a sua volta, anche di essa, in quanto è un’Idea, si predica il numero. Infatti, per loro (scil., i Platonici) le Idee sono numeri. Di conseguenza, per loro il primo sarà il numero, essendo un’Idea. Ma se vale questo, il numero sarà primo rispetto alla Diade indefinita, che per loro è principio, e non la diade prima rispetto al numero. Se vale questo, essa non sarà più principio, se in realtà è tale per partecipazione a qualcosa. Inoltre, si suppone che sia principio del numero, ma secondo il ragionamento anzi formulato il nume-

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ro è primo rispetto a essa. Ma se il numero è un relativo – giacché ogni numero lo è di qualcosa –, e il numero è il primo degli enti, se pertanto è primo anche rispetto alla diade, che essi suppongono principio, il relativo, secondo loro, sarà primo rispetto a ciò che è per sé, e questo è assurdo, dal momento che ogni relativo è secondo. Infatti, il relativo significa possesso di una natura preesistente, la quale è prima rispetto al possesso che le è sopraggiunto [...] 86, 11: Ma se anche qualcuno dicesse che il numero è una quantità e non un relativo, per loro conseguirebbe che la quantità è prima rispetto alla sostanza. Ma lo stesso Grande e Piccolo fanno parte dei relativi. Inoltre, consegue loro di dire che il relativo è principio del per sé ed è primo, nella misura in cui, a loro avviso, l’Idea è principio delle sostanze; ma per l’Idea l’essere Idea consiste nell’essere un modello, e il modello è un relativo, giacché il modello è modello di qualcosa. Inoltre, se per le Idee l’essere consiste nell’essere modelli, allora le cose che si producono in relazione a esse e delle quali le Idee sono , saranno immagini di esse, e così si dirà che tutte le cose che sono costituite secondo natura, a loro avviso diventano dei relativi, giacché tutte sono o immagini o modelli. Inoltre, se l’essere per le Idee consiste nell’essere modelli, e il modello è in vista di ciò che si produce in relazione a esso, e ciò che è a causa di altro è maggiormente privo di valore di esso, le Idee saranno maggiormente prive di valore delle cose che si producono in relazione a esse. Tali sono gli argomenti che, oltre a quelli prima formulati, mediante la posizione delle Idee eliminano i loro principi. Se ciò che si predica in comune di alcune cose è principio e Idea di esse, e il principio si predica in comune dei principi, e l’elemento degli elementi, vi sarà qualcosa che è primo e principio dei principi e degli elementi. Ma così non vi sarà né principio né elemento.

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Inoltre, un’Idea non è anteriore a un’Idea, giacché tutte quante le Idee sono principi in pari modo. Ma l’uno in sé il due in sé sono Idea in pari modo dell’uomo in sé, del cavallo in sé e di ciascuna delle altre Idee. Pertanto, tra esse non vi sarà una che è prima rispetto a un’altra, per cui neppure principio. Dunque, l’Uno e la Diade indefinita non saranno un principio. Inoltre, è assurdo che un’Idea sia fatta Idea da un’Idea, giacché tutte sono Idee. Ma se l’Uno e la Diade indefinita sono principi, un’Idea sarà fatta Idea da un’Idea. Infatti, il due in sé è fatto Idea dall’uno in sé. Così, infatti, dicono che questi sono principi, supponendo che l’Uno sia forma e la Diade materia. Pertanto, questi non sono principio. E se diranno che la Diade indefinita non è un’Idea, sarà primo qualcosa che è primo rispetto a essa, che pure è principio: ossia la diade in sé, per partecipazione della quale anch’essa è diade, giacché essa non è la diade in sé. Infatti, la diade sarà predicata di essa per partecipazione, dal momento che lo sarà anche delle diadi . Inoltre, se le Idee sono semplici, non deriveranno da principi diversi, ma l’Uno e la Diade indefinita sono diversi. Inoltre, la quantità delle diadi sarà sorprendente, se altra è la diade in sé, altra la Diade indefinita, altra quella matematica, della quale ci serviamo quando numeriamo e che non è identica a nessuna di quelle, e ancora, oltre a queste, quella che si trova nelle cose numerabili e sensibili. Queste sono assurde, per cui, seguendo poste da loro circa le Idee, è chiaramente possibile eliminare i principi, che per loro sono più pregiati delle Idee [...] 88, 20 – 89, 7: vi è anche l’argomento che dice la causa delle cose che si generano ordinatamente, istituendo il modello per il generarsi di qualcosa, e che questo è l’Idea, non nel caso delle sole sostanze. Ma anche quello che l’afferma a partire dal fatto che ciò che parlando diciamo con verità, questo sussiste – dicendo che gli accordi sono cinque o tre

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e tre le armonie, esse, pertanto, sono anche di questo numero. Ma il numero delle cose di questo mondo è infinito, pertanto vi sono alcune altre cose eterne in conformità delle quali diciamo il vero –, e quest’argomento non ha per oggetto le sole sostanze. Ma vi sono altri argomenti di questo tipo, in numero maggiore. 5 (R2 184, R3 189) Alex. Aphrod., In Arist. Metaph., 97, 27 – 98, 24: che, non come ritenevano Eudosso e alcuni altri, le altre cose esistano per mescolanza delle Idee, afferma che è possibile raccogliere molte impossibilità conseguenti a quest’opinione. Potrebbero essere di questo tipo: se le Idee si mescolano con le altre cose, esse, innanzitutto, saranno corpi, giacché la mescolanza è propria dei corpi. Inoltre, avranno contrarietà tra loro, giacché la mescolanza ha luogo secondo contrarietà. Inoltre, saranno mescolate così che in ciascuna delle cose alle quali sono mescolate vi sia o un’ intera o una sua parte. Ma se vi è un’Idea intera, l’uno per numero sarà in molte cose; l’Idea, infatti, è un uno per numero. Se invece vi è in parte, sarà uomo ciò che partecipa della parte dell’uomo in sé, non ciò che partecipa dell’intero uomo in sé. Inoltre, le Idee saranno divisibili e ripartibili, pur essendo impassibili. In più saranno costituite di parti simili, se tutte le cose che possiedono una parte da una medesima cosa sono simili tra loro. Ma com’è possibile che le Idee siano costituite di parti simili? Ché, non è possibile che la parte dell’uomo sia un uomo, come la parte dell’oro è oro. Inoltre, come anch’egli (scil. Aristotele) afferma proseguendo un poco, in ciascuna cosa non sarà mescolata una sola Idea, ma molte. Se infatti altra è l’Idea di animale

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e altra quella di uomo, e l’uomo è sia animale che uomo, parteciperà di entrambe le Idee. Pure l’uomo in sé, ossia l’Idea, in quanto è anche animale, parteciperà pure dell’animale in sé. Ma così le Idee non saranno semplici, bensì composte di molte cose, e alcune di esse saranno prime, altre seconde. Se invece non è animale, come non è assurdo dire che l’uomo non è animale? Inoltre, se si mescolano con le cose che sono in relazione a esse, come saranno ancora modelli, come essi affermano? Neppure è così, infatti, che i modelli sono cause per le immagini della somiglianza a essi, ossia con l’esservi mescolati. Inoltre, si corromperebbero anche insieme alle cose corruttibili nelle quali sono. Ma neppure sarebbero separabili, pur essendo in sé e per sé, bensì nelle cose che partecipano di esse. Oltre a queste non sarebbero, in più, neppure immobili. Vi sono, ancora, tutte le altre che ha mostrato nel secondo libro dell’opera Sulle Idee, esaminando quest’opinione che ha in sé delle impossibilità. Per questo, infatti, egli dice: «è facile raccogliere insieme molte impossibilità contro quest’opinione». In effetti, qui sono state raccolte.

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Note 1 In questo senso si sono espressi, tra gli altri, Karpp. Peri# ièdew^n; Philippson, Peri# ièdew^n; Moraux, Listes anciennes, pp. 328-337; Allan, Aristotle, pp. 16-21 (tr. it., pp. 18 ss.); Düring 1956; Berti 1962, p. 200; Leszl, De ideis, pp. 348-352. Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp. 97-118 ha ritenuto che la composizione dello scritto risalga al periodo immediatamente successivo alla morte di Platone. Jaeger, Aristoteles ammette la possibilità che il trattato sia stato scritto durante il soggiorno di Aristotele nell’Accademia, nonostante asserisca l’adesione del filosofo alla teoria delle Idee. 2 Così Berti, Primo Aristotele, p. 200. Anche Düring, Aristotle and Plato ha ritenuto di dover datare lo scritto in un tempo immediatamente successivo alla composizione del Parmenide, ossia intorno al 360 a.C. Ma nell’Aristoteles (pp. 49, 245 s.) ha affermato che esso era probabilmente anteriore al dialogo platonico. Una tale datazione era già stata sostenuta in termini non dubitativi, ma certi da Philipson, Peri# ièdew^n. Per questo studioso Aristotele scrisse il Sulle Idee prima ancora del Parmenide, che, anzi, a suo avviso sarebbe stato composto da Platone proprio nell’intento di sottrarsi alle critiche dello Stagirita. Ma questa tesi è stata confutata con validi e convincenti argomenti da Moraux, Listes anciennes, pp. 329-333 e da Cherniss, Aristotle’s criticism, pp. 538-539. Leszl, De ideis, p. 79 sul punto concorda con questi due ultimi studiosi. 3 Si sono qui volutamente prese in considerazione alcune delle più significative interpretazioni generali del Sulle Idee, sul presupposto e nella convinzione che soprattutto gli studi di quest’ordine complessivo rivestano particolare utilità a fungere da base per un orientamento di massima nelle intricate e difficili questioni che lo scritto solleva. Si sono perciò volutamente tralasciati gli studi su temi specifici del Sulle Idee. Tra essi vanno segnalati, per profondità d’indagine e importanza dei risultati, quello di Isnardi Parente, Platone e la prima Accademia, ove si prende in esame il problema degli artefacta e si mostra come il rifiuto di riconoscere l’esistenza di Idee anche per questo tipo di enti aveva alla base una sorta di disconoscimento di valore da parte degli Accademici e dello stesso Aristotele e il convincimento della loro inferiorità sul piano ontologico rispetto agli enti naturali. Va poi ricordato il saggio di Owen, Peri# ièdew^n dedicato all’argomento dei relativi, delle cui Idee soltanto, ammesse dai Platonici, e non di quelle di ogni genere di enti esso è volto a negare l’esistenza. A quest’argomento è dedicato anche il saggio di Isnardi Parente, Per l’interpretazione, che giunge a conclusioni opposte a quelle di Owen: i Platonici non ammettevano l’esistenza di Idee di enti relativi e la critica di Ari-

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stotele mette in evidenza come essi, in contraddizione con se medesimi, per essere coerenti con le istanze della loro dottrina avrebbero invece dovuto ammetterle. L’argomento del «terzo uomo» è invece l’oggetto di un importante studio di Wilpert, Dritten Menschen: in polemica con Baeumeker, Polixenus, per il quale il «terzo uomo» del Parmenide sarebbe l’argomento del sofista Polisseno di Fania, egli mostra che la terza versione di quest’argomento presentata da Alessandro, quella cioè di Polisseno, è differente sia da quella che il commentatore attribuisce ad Aristotele, sia da quella del Dialogo platonico. Ancora intorno al «terzo uomo» è da segnalare lo studio di Arpe, tri@tov aònqrwpov, per il quale tutti i riferimenti che lo Stagirita fa di esso sono alla seconda versione in cui Alessandro lo presenta, quella cioè che ad avviso del commentatore è di origine sofistica, con la conseguenza che la critica di Aristotele non sarebbe intesa a mostrare l’assurdità del regresso all’infinito comportata da tale argomento, come invece, fraintendendo, vorrebbe Alessandro. Una tesi, questa, che Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp. 85 ss. ha confutato. È inoltre da segnalare il saggio di Lugarini, Terzo uomo, secondo cui la critica di Aristotele in quest’argomento, volta com’è a polemizzare contro la separatezza dell’Idea, non riprende quella del Parmenide, che invece è diretta contro l’unità dell’Idea. Berti, Primo Aristotele, pp. 436 ha confutato questa ipotesi esegetica. Vanno infine ricordati gli studi di Diano, Studi e saggi, per il quale il «terzo uomo» mostra l’antinomia tra il momento della storicità, espresso dall’evento, e quello logico, espresso dalla forma, e di Vlastos, Third man, che analizza la struttura logica della riduzione «terzo uomo». 4 Così, in particolare, Robin (Théorie, p. 26: «le Idee sono per Aristotele universali eretti a sostanze») e Chersiss, Plato, p. 260: le Idee, nella loro separatezza, non sono che ipostatizzazione dell’«uno sopra i molti». 5 Cfr. Metaph., I, 9, 990 b 8-11: «In più, le Idee non risultano secondo nessuno di questi modi secondo cui abbiamo mostrato che esistono. In effetti, da alcuni non è necessario che si abbia un sillogismo, da altri si hanno Idee anche di quelle cose delle quali non crediamo (ћƲƨƣҭƩƠƧ·ƮҒưƲƯфƮƳưƣƤрƩƬƮƫƤƬᅠƲƨ ћƱƲƨƲҫƤѷƣƦƩƠu·ƮᅧƧоƬƠƴƠрƬƤƲƠƨƲƮхƲƷƬїƭїƬрƷƬƫҭƬƢҫƯƮᅧƩ чƬнƢƩƦƢрƢƬƤƱƧƠƨƱƳƪƪƮƢƨƱƫфƬїƭїƬрƷƬƣҭƩƠұƮᅧƵҢƬƮѳфƫƤƧƠ ƲƠхƲƷƬƤѷƣƦƢрƢƬƤƲƠƨ)». Lo Stagirita non si sofferma analiticamente su quei primi. Tuttavia dal commento di Alessandro siamo informati anche su quali erano quei falsi sillogismi. «Tale sarebbe (a) quello per cui, se c’è qualcosa di vero, allora devono esserci le Forme, perché nessuna delle cose di quaggiù è vera. (b) Oppure: se c’è la memoria, esistono anche le Forme, perché la memoria riguarda

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ciò che permane. (c) Ancora: il numero si riferisce all’essere, mentre le cose di questo mondo non sono essere; ma se è così, allora il numero si riferirà alle Forme; dunque le Forme esistono. (d) Lo stesso discorso vale anche per l’argomento secondo il quale le definizioni si riferiscono agli esseri, mentre nessuna delle cose di quaggiù è essere» (In Arist. Metaph., 78, 14-18). Il commentatore nel presentare le critiche di Aristotele ai due tipi di argomenti formula due ipotesi: secondo la prima, tutti gli argomenti proverebbero più di quanto avrebbero dovuto, in quanto avallerebbero l’esistenza di Idee anche di realtà per le quali ad avviso di Platone e dei Platonici non vi sono Idee, ma gli uni, oltre a questo, sarebbero anche sillogismi scorretti, ossia «argomenti inconcludenti», altri invece sono concludenti, vale a dire autentici sillogismi, ma con conclusioni eccedenti ciò che vorrebbero dimostrare. In tale ipotesi, conclude Alessandro, «alcuni di questi argomenti falliscono sotto entrambi gli aspetti [scil. quello di provare di più di quanto con essi si vuole provare e quello di essere falsi sillogismi], altri ricadono in ogni caso in uno dei due errori [scil. quello di provare più di quanto con essi si vuole provare]» (78, 6-13). Secondo l’altra ipotesi, invece, Aristotele intenderebbe dire che i primi argomenti sono «assolutamente falsi e nient’affatto probanti» (78, 13-14). Pertanto, ad avviso del commentatore, lo Stagirita non ne menzionerebbe nessuno proprio per il fatto che non sono argomenti (78, 19). Sulla linea già indicata da Bonitz (Comm., pp. 109 s.), la maggior parte degli studiosi accetta, oggigiorno, come più probabile la seconda alternativa, nonostante il parere contrario di Cherniss (Plato, p. 495). 6 È questa che abbiamo proposto l’interpretazione più comune dell’argomento «dalle scienze» (cfr. per esempio, Cherniss, Plato, pp. 236 s.; Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp. 53 ss.; Berti, Primo Aristotele, pp. 204 s.; Profilo, pp. 80 ss.). Ad avviso di Leszl, invece, i due rilievi critici non scandiscono due obiezioni distinte, ma presentano una compattezza strutturale giacché entrambi fanno tutt’uno nel sottolineare un’implicazione delle obiezioni ad hominem basata sull’inaccettabilità delle Idee degli artefatti. Il senso complessivo della critica di Aristotele è così delineato dallo studioso: essa parte «dall’impossibilità, ammessa dai Platonici stessi, che gli argomenti provino l’esistenza di Idee di artefatti per inferire che (dato che, se questi argomenti provano le Idee, devono provarle anche nel caso degli artefacta) essi non la provano in nessun caso» (Leszl, De ideis, p. 105). Insomma, «se ci sono delle forme nel caso degli artefacta (e ci debbono essere perché essi siano conoscibili), esse debbono essere immanenti (una tesi almeno implicitamente ammessa dai Platonici stessi); siccome gli argomenti desunti

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dalle scienze provano (se provano affatto qualcosa di separato) forme anche nel caso degli artefacta, essi debbono essere non validi; non resta che ammettere delle forme immanenti in entrambi i casi, quelli degli artefacta e quello delle cose naturali» (Ivi, p. 107). 7 «Aristotele – scrive opportunamente Leszl, De ideis, p. 166 – non può trattare l’universale come in un certo senso identico agli individui [...] quando ciascuno di essi sia considerato in quanto membro della classe a cui appartiene [...] Da questo punto di vista non è nient’altro che l’identica natura o prima essenza che essi hanno in comune e in virtù della quale sono identici». E inoltre: «per Aristotele anche nel caso degli enti empirici è possibile determinare un aspetto sufficientemente determinato, il quale sia condizione oggettiva sufficiente per la determinatezza semantica che è necessaria al linguaggio» (Ivi, p. 147). 8 In questo senso, con il riferimento alle cose particolari, presente nell’affermazione che «quando pensiamo [...], pensiamo qualcuna delle cose che sono e nessuna di quelle individuali», mi pare che Alessandro ponga l’accento non tanto sull’aspetto della singolarità come tale, quanto piuttosto su quello della corruttibilità degli enti individuali. Individuale, infatti, è soltanto l’ente empirico, il quale, in quanto tale, è corruttibile. La congruità di questo modo d’intendere mi sembra attestata, oltre che dal senso complessivo dell’argomento, anche dal rilievo immediatamente seguente con il quale il commentatore segna il contrasto tra l’affermazione del pensiero e l’essere venute meno «queste », vale a dire le cose individuali, espressamente menzionate: « infatti, il medesimo pensiero permane anche dopo che queste si sono corrotte». Parimenti, anche quando Alessandro, a conclusione dell’argomento, asserisce che «è chiaro che ciò che pensiamo è oltre le cose individuali e sensibili», mi pare che chiami in causa non tanto (o non immediatamente) la non-individualità, vale a dire l’universalità delle determinazioni che si pensano (quasi ne richiamasse l’aspetto per il quale essa si ponga, nei termini dell’argomento precedente, come un «uno sopra i molti»), quanto piuttosto e in prima istanza l’aspetto per cui essa è un «ciò che è». Le cose individuali, in quanto cose empiriche, sono soggette a corruzione, per cui, se «ciò che pensiamo è al di là delle cose individuali», allora ciò che pensiamo è incorruttibile, vale a dire è ciò che propriamente e autenticamente è. E tale è, appunto, l’Idea. E, infatti, anche in questo caso il rilievo immediatamente seguente che «allora non pensiamo qualcosa che non è», depone a favore dell’interpretazione che qui si propone, attestandosi che proprio in tale non pensare ciò che non è si puntualizza il significato essenziale dell’essere ciò che pensiamo «oltre le cose individuali».

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9 fh@si dh# tou^ton to@n lo@gon kai# tw^n fqeirome@nwn te kai# eèfqarme@nwn kai# oçlwv tw^n kaq è eçkasta@ te kai# qfartw^n iéde@av kataskeua@zein, oié^on Swkra@touv, Pla@twnov. Kai# ga#r tou@touv noou^men kai# fantasi@ av auètw^n fula@ssomen kai# mhke@ti oòntwn. fa@ntasma ga@r ti kai# tw^n mhke@ti oòntwn sw@zomen. Aèlla# kai# ta# mhd èoçlwv oònta noou^men, wév éIppoke@ntauron, Ci@mairan, wçste ouède# oé toiou^tov lo@gov iède@av eiè^nai sullogi@zetai [ebbene, dice che quest’argomento istituisce Idee anche delle cose che si corrompono e che si corruppero e, in generale, delle cose individuali e corruttibili, come di Socrate e di Platone. E pensiamo anche costoro e di loro e delle cose che non sono più custodiamo le rappresentazioni. Ché, salviamo una qualche rappresentazione anche delle cose che non sono più. Ma pensiamo anche le cose che non esistono affatto, come l’Ippocentauro e la Chimera, per cui neppure il discorso siffatto argomenta che esistono Idee]. 10 Così, per esempio, Cherniss, Plato, p. 3. 11 Berti, Primo Aristotele, p. 213 rileva che questa critica ricorda chiaramente il passo del Parmenide (133 c-134 e) in cui si afferma la correlazione tra le Idee dei relativi. Ma – osserva lo studioso – «mentre là si avanzava come obiezione l’inconoscibilità delle Idee, qui la conseguenza obiettata è un’altra, ossia che vi saranno più Idee di una stessa cosa, per esempio più uguali in sé». Lugarini, Categorie, pp. 45-46 connette questa critica a quella del «terzo uomo», traendo motivo da tale connessione per illustrare il senso che nell’argomento assume l’espressione mh# oémwnu@mwv. Per parte mia, ritengo essenziale rimarcare la specificità dell’obiezione aristotelica, e cioè che la moltiplicazione delle Idee di una stessa cosa compromette la funzione paradigmatica dell’Idea stessa. 12 Così, per esempio, Cherniss, Plato, p. 3. 13 Su questa divisione accademica degli enti in kaq è auéta@ e in pro@v ti si vedano, tra gli altri, Berti, Dalla dialettica, pp. 189-190; Gercke, Ursprung, p. 426; Merlan, Poseidonios, p. 200; Eldesr, One, pp. 25 ss.; Isnardi Parente, Kaq èauéta@ e duna@mei, pp. 130-131. 14 «È poco verisimile – ha scritto lo studioso –, stante l’argomento dei pro@v ti, che Platone abbia negato che vi siano Idee di relativi [...] ma, si dirà, poiché il relativo è ciò che è minormente sostanza, mentre le Idee posseggono una sostanzialità assoluta, Platone aveva serie ragioni per non sottostare a ciò che, comunque, poteva esigere la sua dottrina: poteva non attribuire al relativo l’esistenza assoluta dell’Idea. È, com’è risaputo, la dottrina di Aristotele: fra tutte le categorie, la relazione è quella che è minormente sostanza; e forse è sulla base del riscontro di un’analoga osservazione in Platone che Aristotele ha fondato la sua testimonianza sulle Idee dei relativi. Tuttavia dal fatto che la sostanzialità,

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vale a dire l’esistenza indipendente e assoluta, non apparterrebbe ai relativi, si deduce che egli non poteva aver avuto l’Idea dei relativi? Non sembra; su questo punto, come su molti altri, le conseguenze tratte da Aristotele sembrano essere andate molto al di là dei dati sui quali egli le fondava» (Robin, Théorie, p. 129). 15 Così Jackson, Plato’s later theory, p. 355, nota n. 2; Heinze, Xenocrates, p. 55; Zeller, Platonische Studien, p. 261; Id., Griechen, II, 1, p. 587. 16 Il senso dell’opposizione diametrale di questa linea esegetica rispetto a quella anzi indicata è manifestamente espresso da Berti quando dichiara che «in questa luce la critica di Aristotele all’argomento che dimostra Idee dei relativi appare esattamente l’inverso di quella agli argomenti che partono dalle scienze. Mentre a proposito di questi egli rimprovera agli Accademici di implicare direttamente Idee che essi esplicitamente negavano, a proposito dell’argomento che dimostra Idee dei relativi egli rimprovera agli Accademici di porre esplicitamente Idee che erano implicitamente escluse dalle loro stesse dottrine» (Berti, Primo Aristotele, pp. 216 s.). E così precisa il senso di tale critica: «in entrambi i casi si tratta di critiche interne; tuttavia, mentre le critiche aristoteliche alle dimostrazioni delle Idee che partono dalle scienze finiscono per essere degli argomenti ad hominem, in quanto si richiamano alla particolare funzione di coloro che compiono la dimostrazione, indipendentemente dal valore di tale funzione, la critica alla dimostrazione delle Idee dei relativi ha, a mio avviso, un significato diverso, in quanto si richiama alle posizioni dell’intera Accademia, ossia alla ripartizione degli enti in kaq èauéta@ e pro@v ti» (Ivi). Proprio questo riconoscere da parte di Berti che la critica aristotelica alle Idee di relativi non è condotta ad hominem, facendo particolarmente rimarcare il momento dottrinale della critica stessa sul quale si sofferma in maniera precipua Leszl, sfuma la differenza che, all’interno di questo medesimo indirizzo esegetico, distingue l’interpretazione dei due studiosi. Per Leszl, infatti, Aristotele «nelle sue critiche cerca di provare l’assurdità dell’ammissione delle Idee dei relativi» e – prosegue l’interprete – «senza suggerire che tale assurdità fosse stata riconosciuta dagli Accademici stessi» (Leszl, De ideis, p. 225). 17 Sul che si è soffermato con particolare insistenza Ross (Ideas, pp. 165 s) come conseguenza cui incorre la critica di Aristotele. 18 Cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 215; Leszl, De ideis, p. 203; cfr. anche Wilpert, Aristotelische Früschriften, p. 75; Cherniss, Plato, pp. 279-280; Mansion S., Peri# ièdew^n, pp. 183-184. Circa eòlegon Berti scrive che «non è necessario attribuire ad Alessandro questo genere di equivoco (scil., quello denunziato da Wilpert): egli stesso, infatti, nel

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riferire le ragioni per cui gli Accademici ouèk eòlegon esservi Idee di relativi, lascia intendere il vero significato di quest’espressione. La ragione è costituita dal fatto che le Idee, qualora siano intese come separate dalle cose, vengono a essere delle sostanze, e dunque esistono per sé, mentre i relativi non possono che essere in relazione ad altro. In altre parole, l’Idea separata di un relativo sarebbe contraddittoria, perché come Idea separata dovrebbe essere in sé, mentre come relativo dovrebbe essere in relazione ad altro. Questi rilievi presuppongono chiaramente la divisione del reale in due generi: gli enti kaq èauéta@ e gli enti pro@v ti, reciprocamente escludentisi. Si tratta di una divisione schiettamente platonica e accademica [...] Si comprende così il significato dell’espressione di Alessandro, secondo cui gli Accademici ouèk eòlegon esservi Idee di relativi. Essa indica una conclusione indiretta, implicita, derivante come conseguenza dalle stesse dottrine accademiche» (Berti, Primo Aristotele, p. 216). Leszl, in diretta polemica con Isnardi Parente, mostra, sulla base di rilievi filologici, l’impossibilità di intendere kataskeua@zwn del passo di Alessandro come indicante che «la prova cui Aristotele allude non vuole essere una dimostrazione dell’esistenza delle Idee di realtà relative, ma semplicemente una dimostrazione dell’esistenza di Idee trascendenti, modelli separati, applicata a una realtà come l’uguale» (Leszl, De ideis, p. 212). E cita a documentazione l’Index aristotelicum di Bonitz a p. 347, 6 s. e il dizionario del Liddel- Scott, s.v., p. 911. Quanto poi a ouèk eòlegon, anch’egli afferma in tutta chiarezza che l’espressione «indica un’implicazione degli argomenti degli Accademici» (Ivi). 19 Cherniss (Plato, pp. 181-183) ha sostenuto che Aristotele in questa critica confonde il significato ontologico con quello logico di kaq èauéto@, col primo intendendosi una categoria che è opposta a quella della relazione, col secondo invece la capacità di sussistere in modo indipendente. Al che Berti (Primo Aristotele, p. 229) ha obiettato che «la confusione tra il piano logico e il piano ontologico è proprio ciò che Aristotele rimprovera all’argomento che dimostra Idee dei relativi, in quanto questo conferisce una sussistenza ontologicamente indipendente a proprietà distinguibili solo logicamente» (cfr. anche S. Mansion, Peri# ièdew^n, pp. 185 s.). Per parte sua Leszl (De ideis, p. 232) precisa che l’errore che Aristotele attribuisce ai Platonici «non è quello di saltare dal piano logico a quello ontologico, ma quello di arrivare a un’ontologia sbagliata partendo da una logica sbagliata, una logica che ammette che ci sia un relativo, e cioè quello in sé, che però può essere concepito isolatamente da tutti gli altri termini relativi». 20 Cfr. Wilpert, Aristoteliche Frühschriften, pp. 92 s.: «nur der Wechsel, der einmal logiche, das andere Lame in ontologischer ist,

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unterscheidet die beiden Ideenargumente». Cfr. anche Lugarini, Terzo uomo, pp. 15-17. 21 Che l’Idea, nella precisa fisionomia in cui viene qui configurata, sia considerata anch’essa dallo Stagirita come un individuale, è testimoniato da due passi di Metaph., XIII, 9. In 1086 a 32-34 si dice, infatti, che açma ga#r kaqo@lou te poiou^sin ta#v iède@av kai# pa@lin wév cwrista#v kai# tw^n kaq è eçkaston, e in 1086 b 10-11 si legge: wçste sumbai@nei scedo#n ta#v auèta#v fu@seiv eiè^nai ta#v kaqo@lou kai# ta#v kaq è eçkaston. 22 Owen (Peri# ièdew^n, pp. 37 s.), dopo avere indicato che la dimostrazione dell’esistenza delle Idee fornita dall’argomento qui in oggetto si basa su due premesse: (a) la non-identità di soggetto e predicato, vale a dire del termine predicato e di ciò di cui si predica e (b) il predicarsi del predicato non soltanto degli individuali empirici, ma anche delle Idee, rileva come Aristotele, di fronte alla necessità di rinunziare o all’assunto dell’autopredicazione o a quello della non-identità di soggetto e predicato, distingua due tipi di predicazione riguardanti la sostanza: (1) la predicazione che dice l’essenza (con la quale si salva l’autopredicazione, ma non la differenza di soggetto e predicato) e (2) la predicazione che attribuisce alla sostanza qualcosa che non fa parte della sua essenza (predicazione accidentale), predicazione mediante cui si preserva la differenza, ma non l’autopredicazione. A questa interpretazione si è opposto Leszl, il quale ha fatto valere che «l’universale è sempre distinto dall’individuo, e questo fatto deve avere una sua giustificazione anche nel caso della predicazione essenziale, nella categoria della sostanza» (Leszl, De ideis, p. 276). Inoltre lo studioso fa presente che «nel caso di “l’uomo è animale bipede” o “l’uomo è animale” non si tratta certo di autopredicazione, ma di asserzioni d’identità – identità completa fra genere e specie più differenza specifica; identità parziale fra genere e specie» (Ivi). 23 Alcuni studiosi ritengono che la riduzione al terzo uomo sia stata originariamente formulata nel De ideis e da qui il Parmenide l’abbia desunta (così, per esempio, Philippson, Peri# ièdew^n, p. 24; Wundt, Parmenides, p. 65). Altri rovesciano diametralmente il rapporto, indicando nel Parmenide la primitiva esposizione della riduzione stessa, ripresa successivamente da Aristotele nel De ideis (così, sia pur dando un significato diverso alla derivazione aristotelica, tra gli altri, Robin, Théorie, pp. 609-612 e Wilpert, Aristotelische Früschriften, pp. 83-85; Dritten Menschen, p. 56). Per altri studiosi, infine, Aristotele avrebbe desunto la riduzione platonica non direttamente da Platone, ma da una sua riproposizione accademica. Su questa linea Ross, Metaph., I, pp. 194-196 e Cherniss, Plato, pp. 292 s. pensano che anche Platone nel Parmenide, non

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meno di Aristotele, avrebbe desunto la critica da un terzo autore ignoto. 24 Per contro cfr. Berti, Primo Aristotele, p. 221, per il quale tanto nel Parmenide quanto nel De ideis la critica è diretta contro l’unità dell’Idea. «Del resto – precisa lo studioso – la distruzione dell’unità dell’Idea comporterebbe la distruzione della sua stessa esistenza, poiché, in base all’argomento che si vuole criticare, l’Idea ha ragione di essere solo in quanto unità di una molteplicità» (Ivi). 25 Su ciò cfr. anche Cherniss, Plato, pp. 287-300. 26 Nel testo di Alessandro segue la critica di Aristotele a quest’argomento. Poiché Ross nella sua raccolta non la riporta, anch’io ho tralasciato qui di presentarla. La presento, invece, nell’Introduzione, sia nel testo greco che in traduzione italiana (cfr. pp. 202, nota n. 9). 27 Ossia l’Uno e la Diade indefinita di grande e piccolo, di cui Aristotele riferisce nell’opera Sul bene.

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INTRODUZIONE

1. Lo scritto Sui Pitagorici (Peri# tw^n Puqagorei@wn) è indicato al n. 101 del catalogo di Diogene Laerzio (V, 25), in un libro, dopo che al n. 97 il dossografo dà notizia di uno scritto dello Stagirita Contro i Pitagorici (Pro#v tou#v Puqagorei@ouv), anch’esso in un libro. Se, come non vi è ragione per non credere, si tratta di due opere distinte,1 è logico pensare che la prima rispondesse nel suo impianto di fondo all’intendimento dello Stagirita di esporre le dottrine di quei filosofi, mentre nella seconda egli raccoglieva le critiche di cui quelle dottrine erano passibili. L’uno e l’altro aspetto trovano, infatti, preciso riscontro negli scritti di scuola e in particolare in quella prima storia della filosofia, scritta con intendimento teoretico e critico, che è il libro Alpha della Metafisica. Ebbene, anche qui le dottrine dei Pitagorici sono fatte oggetto di riflessione in due momenti: in effetti, nel capitolo quinto lo Stagirita s’impegna fondamentalmente nella loro esposizione. Essa è, sì, animata dall’intento di mostrare che i Pitagorici non posero soltanto la causa materiale, ma intravidero anche quella formale: un’esposizione, dunque, operata in chiave non storiografica e non certamente con il proposito di riferire le dottrine in oggetto per sé stesse, ma non per questo inefficace sotto il profilo dell’offerta di un’ampia e basilare messe di mate-

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riale a partire da cui ricostruire le tesi di quei filosofi. Per converso, nel capitolo ottavo Aristotele ritorna sulle dottrine pitagoriche, ma per sottometterle a una serrata critica. Il piano secondo cui si delinea l’impianto di fondo dei due capitoli di Metaph., I ripropone, dunque, il disegno complessivo dei due trattati sopra menzionati. 2. In ogni caso è ragionevole credere che la trattazione dello scritto Sui Pitagorici sia stata più ampia e analitica delle due disamine di Metaph., I; senz’altro per ciò che attiene all’esposizione delle dottrine di questi filosofi, ma probabilmente, perché ne è un ben logica conseguenza, anche per ciò che attiene alle critiche portate dallo Stagirita a esse. Ho parlato di esposizione delle dottrine, ma sarebbe stato più corretto dire «esposizione delle opinioni», giacché, a ben vedere, proprio la prima parte dei frammenti dello scritto Sui Pitagorici pone in evidenza una serie di credenze dei Pitagorici intorno alla figura di Pitagora e di considerazioni sui suoi eccezionali poteri, confinanti con il magico, che appartengono con ogni verosimiglianza al contenuto delle «opinioni» professate da quei filosofi, ma che certamente non possono qualificarsi come loro «teorie» in senso vero e proprio né considerarsi facenti parte del loro patrimonio dottrinale strettamente inteso. Si tratta invece di «opinioni», riconducibili in ultima analisi alla credenza della natura divina del fondatore della scuola. Una credenza invalsa tra gli adepti, fino ad annoverarsi, essa sì, tra i motivi salienti del loro sostrato culturale e fatta valere, per quanto è possibile sapere, dallo stesso Pitagora. In realtà essa è del tutto coerente con il tipo di atteggiamento col quale egli, notoriamente, si presentava agli allievi, cui parlava dietro una tenda, sì da dare un senso oracolare e, per l’appunto, divino al suo dire, dopo lunghi periodi durante i quali essi potevano soltanto ascoltare. Tanto che non è mancato chi, per cercare di risolvere certe discrepanze

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all’interno della dottrina pitagorica e taluni momenti di essa in (reale o presunto) conflitto tra loro abbia avanzato l’ipotesi che in realtà si tratta, da un lato, di cose dette agli «acusmatici» e, dall’altro, di cose mostrate ai soli «matematici», ossia a soggetti già divenuti membri del gruppo pitagorico e avanzati nell’apprendimento della dottrina. Un’ipotesi certamente poco credibile perché provvista di scarsa attendibilità sul piano storiografico, come ha osservato Isnardi Parente (Pitagorici, III, p. ),2 ma che altrettanto certamente è significativa a conferire ulteriore avallo al carattere sacrale della parola di Pitagora e alla conseguente credenza nella divinità della sua figura. Ora, come si accennava, la ricca gamma di opinioni riportate nello scritto Sui Pitagorici in ordine a tale credenza, è assente dalle trattazioni di Metaph., I. E questo fatto permette di leggere il predetto parallelismo tra Metaph., I, 5; 8, da un lato, e gli scritti Sui Pitagorici e Contro i Pitagorici, dall’altro, in una chiave esegetica tale da lasciar ragionevolmente credere che nei primi due logoi Aristotele abbia ripreso, rispettivamente, l’esposizione della dottrina e le critiche a essa già mosse e formulate più ampiamente nei due ultimi scritti. In ordine ai quali è così possibile trovare un termine ante quem per la loro datazione: la composizione, per l’appunto, del libro Alpha della Metafisica. 3. È interessante rimarcare il fatto che agli occhi degli adepti la divinità del maestro fosse attestata – e i frammenti dell’opera Sui Pitagorici lo attestano a chiare lettere – da una serie di episodi di natura magica e miracolistica; non soltanto, ma che – come s’è detto – tale modalità di manifestarsi della natura divina di Pitagora facesse parte del patrimonio culturale dei Pitagorici e si annoverasse tra i contenuti delle loro credenze. In realtà, questa convinzione è essa stessa rivelatrice del

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modo in cui quei filosofi concepivano il divino, e non soltanto ad avviso di Aristotele ma di fatto, giacché su questo specifico aspetto la testimonianza di Aristotele appare quanto mai attenta a cogliere il livello più profondo e l’essenza della credenza pitagorica. Almeno tre momenti dell’indagine, se adeguatamente considerati, lo attestano. Essi si dispongono come tre successivi segmenti di una medesima linea, ovvero come tre fasi di uno stesso itinerario speculativo, colto in un progressivo crescendo. 3.1 Innanzitutto il momento seguente: è noto che per i Pitagorici nell’ordine del divino, ossia di ciò che, essendo altro dalla materialità dei corpi, è caratterizzato dal perdurare dopo il disfacimento di questi, se non eternamente, almeno per un certo volgere del tempo e per un certo numero di reincarnazioni – nell’ordine del divino così inteso si iscrivono i demoni. Ossia: il demonico rappresenta per questi filosofi un aspetto basilare e, probabilmente, l’aspetto eminente del divino. Ma per altro verso i demoni, essendo di natura diversa dal somatico, sono per ciò stesso invisibili, ovvero tali dovrebbero essere. Ebbene, due frammenti del nostro scritto attestano che in alcuni uomini di particolare eccellenza il demone – il loro demone, ossia quello che in essi è incarnato – si rende visibile, sì che, guardandoli, si scorge «la forma del demone». Tale, per l’appunto, la loro divinità. Pitagora si annovera tra questi uomini. Così nel fr. 3 Apuleio (De deo Socr., 20, 166-167), al fine di dar credito alla possibilità che in Socrate si poteva scorgere un demone, porta la testimonianza di Aristotele secondo cui per i Pitagorici la forma del demone è visibile in certi uomini di particolare levatura. Il riferimento, ovviamente, è a Pitagora, nel quale i suoi seguaci «erano soliti ammirarla pienamente». Da qui la sua divinità. Una divinità che, se nell’attestazione di Apuleio è comprovata dal fatto che quell’uomo eccezionale rende manifesta la forma del demone che

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alberga in lui (giacché i demoni «accompagnano per tutto il tempo dell’incarnazione»; Clem. Al., Strom., VI, 6, 53, 2-3 = fr. 3), Giambico, nel passo raccolto come fr. 2, fa addirittura coincidere con l’eccezionalità di quell’uomo medesimo, divino perché esso stesso demone: «e assieme agli dèi – attesta per l’appunto Giambico – annoverano poi Pitagora, convinti che si tratti di un demone buono e filantropo». Da entrambi i frammenti si ricava, dunque, che per i Pitagorici (1) un aspetto eminente del divino è il demone («assieme agli dèi ... un demone buono»); (2) Pitagora rende manifesta la forma del demone che è in lui e addirittura è gli stesso un demone; (3) donde egli stesso è un dio («assieme agli dèi annoverano poi Pitagora») o, comunque, è un uomo divino. Dove è chiaro che in tanto egli è tale in quanto il divino stesso è concepito da quei filosofi nella determinazione della demonicità, che Pitagora con la sua stessa persona rende visibile. Attribuendo dunque a Pitagora natura divina perché rivelatore del demone, i Pitagorici manifestano eo ipso la loro concezione del divino. Lo scritto Sui Pitagorici lo mostra in modo eloquente. 3.2 Qui interviene, per così dire, un secondo livello della testimonianza aristotelica del nostro scritto. Se Pitagora, poiché manifesta il demone, è divino (sull’evidente presupposto che il demonico rappresenta una dimensione eminente del divino), allora in Pitagora debbono riconoscersi i segni e le fattezze di un dio. Ecco pertanto che egli non è considerato soltanto un demone, o la manifestazione visibile di un demone, quello presente in lui, ma coincide con lo stesso dio Apollo, è cioè una sua epifania, in senso proprio: Apollo prende forma in Pitagora, ovvero Pitagora è una figurazione – o, meglio, una delle figurazioni – di Apollo. Già nel passo di Giambico raccolto nel fr. 2 si dice che «gli uni [consideravano Pitagora] come Apollo Pizio, altri

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come Apollo Iperboreo, altri come Apollo Peana», aggiungendo subito appresso – al fine di dare ulteriore rinforzo all’equazione demone/divino – che «altri ancora [lo ritenevano] come uno dei demoni che abitano la luna». La medesima individuazione in Pitagora di una figurazione di Apollo risuona in una serie di altri passi raccolti come frammenti del nostro scritto. Così in Aelian., V. H., II, 26 (= fr. 1): «Aristotele afferma che Pitagora era chiamato dagli abitanti di Crotone Apollo Iperboreo»; così in Diog. Laert., VIII, 1, 11 (9 = fr. 1): «e di lui gli allievi diffondevano la fama che era Apollo venuto dagli Iperborei»; così ancora in Iambl., V. P., 28, 140-143 (= fr. 1): «dicono, infatti, che fosse Apollo Iperboreo». Lo stesso Eliano (V. H., IV, 17 = fr. 1) attesta che «Pitagora insegnò agli uomini d’essere stato generato da semi migliori che secondo la natura mortale». Detti «semi migliori» di quelli umani sono, per l’appunto, quelli divini: Pitagora stesso avvalorava, dunque, la credenza d’essere un dio, perché generato da dèi. Anche il racconto del suo rapporto con Abaris e della donazione da parte di costui della freccia con la quale trovava la direzione nel cammino non è che una variante della divinità apollinea di Pitagora. Abaris era, infatti, un sacerdote di Apollo (cfr. la nota n. 20), possessore e gestore, per così dire, della medesima potenza del dio (Iambl., V. P., 28, 140-143 = fr. 1: «Si dice che Abaris venisse dagli Iperborei raccogliendo oro per il tempio e predicendo una pestilenza. Albergava nei santuari e non fu mai visto né bere né mangiare alcunché. Si dice che anche a Sparta celebrò le cerimonie impeditive3 e per questo a Sparta in seguito non si verificò mai più una pestilenza»). Il rapportarsi a lui di Pitagora è perciò un diverso modo per esprimere il suo contatto con la potenza divina di Apollo. 3.3 Ma ciò che più conta è considerare la ragione per la quale i Pitagorici vedevano nel maestro un dio, e innanzi-

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tutto, come s’è detto, una figurazione di Apollo. Il passo di Eliano sopra ricordato (V. H., IV, 17 = fr. 1) è esemplare a riguardo. Dopo aver richiamato il racconto di Aristotele secondo cui Pitagora stesso dichiarava la sua divinità, dicendo di non essere nato da seme umano, ma divino, enuncia la prova che lo Stagirita ne indica, una prova che, con ogni verosimiglianza, era addotta dagli adepti al pitagorismo e che il filosofo presenta. Essa è la seguente: «Infatti, egli (scil. Aristotele) dice, nello stesso giorno e alla medesima ora fu visto a Metaponto e a Crotone. E a Olimpia mostrò che una delle sue due anche era d’oro. Rammentò anche al crotoniate Millia che egli era il Frigio Mida, figlio di Gordia; e accarezzò l’aquila bianca, che rimaneva ferma. Ma fu anche invocato dal fiume Kasa mentre lo attraversava, dicendogli il fiume “salve, Pitagora”» (Ivi). I medesimi episodi e altri dello stesso genere trovano attestazione anche nelle narrazioni di altri autori, raccolte nei frr. 1-2. Essi sono rivelatori di una potenza che eccede le possibilità dell’umano, e come tale è divina, e al tempo stesso ha natura magica. La divinità di Pitagora è affidata alla «prova» di possedere una tale potenza, e la credenza nella sua divinità è la credenza nel possesso di essa. E se Pitagora è divino, anzi è una figurazione dello stesso dio Apollo perché ne è portatore, allora è chiaro che la stessa nozione del divino si attesta, nell’ottica di una tale credenza, sul piano di una coincidenza col magico. Ecco il sostrato dottrinariamente più interessante che emerge da siffatti racconti. Su di essi occorre fissare l’attenzione non soltanto perché attestano sul piano storico una credenza dei Pitagorici, ma anche perché, attraverso essa, manifestano il modo in cui i Pitagorici concepivano il divino: un modo, per l’appunto, magico. Tale concezione costituisce, infatti, il presupposto dei racconti sulla divinità di Pitagora e delinea lo sfondo sul quale essi si collocano, assumono senso e prendono risalto.

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3.4 Queste conclusioni e, in particolare, che questa sia la concezione del divino che Aristotele attribuisce ai Pitagorici richiamando i sopraddetti episodi, trovano una conferma indiretta nel carattere iniziatico della scuola pitagorica. Nel fr. 15 Ross del Sulla filosofia lo Stagirita attesta che per gli iniziati l’esprienza del divino non è il risultato di un apprendimento e non corrisponde affatto a una conoscenza (maqei^n), sibbene è il risultato di un’emozione (paqei^n).4 Ed esattamente per dare un’emozione erano, a ben vedere, costruiti quei racconti intorno alle straordinarie capacità di Pitagora, addotte a prova della sua divinità. Si tratta, infatti, di episodi mirabolanti, capaci di per sé di suscitare un’ammirazione che in nient’altro consiste se non nel suscitare un’impressione (un pa@qov) in chi li ascolta. La nozione del divino che vi traspare quale loro sfondo e presupposto si radica, dunque, in un pa@qov, non in un ma@qhma, rivelando anche in questo modo il suo carattere magico. 4. Una considerazione a parte va riservata al modo in cui i Pitagorici si rapportavano agli dèi tradizionali, quale traspare dalla notizia che Aristotele dà nel nostro scritto. Essa viene presentata da Diogene Laerzio (Diog. Laert., VIII, 1, 33 = fr. 5), il quale prima informa dei divieti e delle interdizioni prescritte da Pitagora ai seguaci della sua dottrina, indi riferisce l’interpretazione dello Stagirita. Tali divieti e dette interdizioni permettono a chi le osserva di mantenersi puro, e proprio in stato di purezza il precetto pitagorico prescriveva di accostarsi agli dèi, come il dossografo richiama nella parte iniziale del frammento, dove pure informa della regola di non tributare agli dèi e agli eroi identici onori, ma «agli dèi sempre, con parole benedicenti, coperti di bianchi mantelli e», per l’appunto, «essendo puri; invece agli eroi dalla metà del giorno». Non vi è dubbio che gli dèi ai quali si fa riferimento siano le divinità venerate dalla religione ufficiale. Quelle divi-

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nità alle quali i Greci erigevano templi, ove più direttamente venire in contatto con esse, perché accostate in luoghi loro consacrati, nei quali, dunque, più forte e più viva se ne poteva avvertirsi la presenza. Qui, è logico credere che le suppliche e le implorazioni fossero ritenute più intense e qui, in particolare, dovevano essere eseguite le pratiche misteriche, ove il culto della divinità ne prevedeva la celebrazione, come nel caso dei misteri delfici ed eleusini, dedicati ad Apollo. Ebbene, verso questi dèi della religione tradizionale il precetto pitagorico prescrive rispetto, espresso nei termini che si sono richiamati: vesti bianche, stato di purezza, onori in misura pari alla loro dignità, ossia sempre, ma null’altro; non, in particolare, devozione, non preghiere, in senso complessivo, nessuna di quelle espressioni che caratterizzano l’atteggiamento del devoto verso la divinità e ne specificano la pietas. Segno evidente che le divinità alle quali i Pitagorici si sentivano effettivamente legati e che appartenevano al loro patrimonio culturale e religioso erano quei demoni, di origine orfica, sopravviventi alla consunzione del corpo e soggetti a metempsicosi, dei quali s’è detto, mentre per le divinità ufficiali del culto greco, soltanto rispetto, ma nessuna dedizione. È questo un primo dato emergente dal frammento qui in oggetto. Ma perché mai, ci si potrebbe allora chiedere, se le divinità cui i Pitagorici attribuivano valore erano i demoni, non quelle della religione tradizionale, per queste erano prescritti rispetto e attenzione? Perché non indifferenza? La spiegazione di un tale precetto si può scorgere nella notizia di Porfirio (V. P., 41 = fr. 6) secondo cui Pitagora «diceva anche in modo mistico, per simboli (sumbolikw^v), alcune cose che Aristotele registrò per la maggior parte: per esempio, chiamava il mare lacrima di Crono, le orse [scil., l’orsa maggiore e l’orsa minore] mani di Rea, la costellazione delle Pleiadi lira delle Muse, i pianeti cani di Persefone».

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Qui l’accento cade su «per simboli (sumbolikw^v)». Gli dèi della tradizione religiosa greca diventano nel pensiero di Pitagora simboli di fenomeni fisici, sia astronomici che geografici. Un rimando simbolico che consiste altresì in un’allegoria e, assieme, in una metafora. È arduo credere che un uomo provvisto di una mentalità razionale e matematica quale era Pitagora potesse credere che realmente il mare fosse costituito dalle lacrime di Crono (il mitologico dio primigenio, figlio di Urano e di Gea, che evirò il padre e ne prese il posto nella guida del mondo, ma fu a sua volta spodestato dal figlio Zeus, salvato dalla madre Rea, sorella e al tempo stesso sposa di Crono, dalla furia con la quale questi divorava i suoi figli non appena partoriti); più semplice intendere che la vastità delle acque marine rinvia – ecco il simbolo (qualcosa sta per qualcos’altro) e assieme l’allegoria (il dire una cosa per significarne un’altra)5 – alla grandezza del dolore di Crono per essere stato spodestato; un dolore che, come ogni sofferenza, è espressa dal pianto. Il mare, nella vastità delle acque che raccoglie, è simbolicamente e assieme metaforicamente significato dalla quantità delle lacrime di Crono per la sorte subita. E Crono, il dio della religione tradizionale, non interessante per sé, ma per il fatto di poter fungere, con il suo dolore e le sue lacrime, vasto il primo e abbondanti le seconde tanto quanto immenso era il suo dominio sul mondo, da simbolo e metafora per significare l’ampiezza delle acque marine. Dunque, è il fenomeno naturale nella sua caratteristica di quantità sterminata di acque ciò che interessa esprimere, e il dio della tradizione è funzionale a esprimerla. Parimenti, le due costellazioni dell’orsa maggiore e dell’orsa minore, nel loro dare l’orientamento, rinviano allegoricamente alle mani di Rea, che, strappando il neonato Zeus alla voracità di Crono, orientarono la vita del mondo a un nuovo corso. Le Pleiadi disegnano nel cielo una lira, uno strumento

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musicale con cui si accompagnavano anche le melodie poetiche, e ben sette delle nove Muse (così almeno nella Teogonia di Esiodo) hanno direttamente a che fare con la musica, o perché con Tersicore ispiravano la danza, o perché erano le dee di sei generi di poesia (Calliope di quella epica, Erato di quella amorosa, Euterpe di quella flautistica, Polimnia di quella mimica, Talia di quella comica, Melpomene di quella tragica). Ancora: nella narrazione mitologica, Persefone, la figlia di Demetra, fu rapita da Ade, che la portò nell’oltretomba per farla sua sposa, ma per intercessione di Zeus, che così venne incontro al dolore della madre, ritornava periodicamente, per sei mesi, sulla terra, dalla madre Demetra, per poi rimanere, altrettanto periodicamente, per sei mesi, nel buio dell’Averno. Donde il regolare alternarsi di primavera ed estate all’autunno e all’inverno. Così, il suo periodico e regolare trascorrere l’esistenza ora sulla terra, ora nell’oltretomba è figurazione simbolica e assieme allegorica che richiama i pianeti i quali, con il loro «andare errando» nel cielo (donde la loro denominazione), disegnano periodici e regolari movimenti. Ora, di fronte a «divinità» che sono tali perché, nel loro essere allegorie di fenomeni che costantemente ritornano nella vita dell’universo, si rivestono esse medesime di quell’attributo dell’eternità che caratterizza il divino, nessuna devozione, nessuna supplica, nessuna preghiera è ammissibile. Verso di esse si addicono, invece, rispetto e ammirazione. 5. Eppure, nel medesimo passo in cui dà notizia del modo simbolico in cui Pitagora esprimeva «alcune cose» (tina), ampiamente registrate poi da Aristotele nello scritto Sui Pitagorici, Porfirio parla anche di «un modo misterico» (misterikw^j tro@pwj) con il quale Pitagora asseriva «alcune cose» identicamente registrate dallo Stagirita. Benché Por-

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firio non distingua le une cose dalle altre, tuttavia dal prosieguo della sua testimonianza è chiaro che le prime, come abbiamo visto, sono gli dèi tradizionali; quanto alle seconde, così dice: «l’eco che si origina dal bronzo battuto è la voce di uno dei demoni (tinov tw^n daimo@nwn) rinchiuso nel bronzo» (fr. 6). Qui il riferimento non è più agli dèi tradizionali, bensì ai demoni, ossia alle divinità che trasmigrano in altri corpi dopo la morte di quello attuale; divinità che, come abbiamo letto, i Pitagorici ritenevano di poter effettivamente vedere (fr. 3) e alle quali credevano appartenesse Pitagora, identificato con Apollo (fr. 2), nel quadro e sullo sfondo di un modo magico di concepire il divino demonico. Esattamente quel modo che – anche questo si è accertato – si lega al carattere iniziatico delle credenze professate dai Pitagorici. Tale carattere, a sua volta, porta all’osservazione di Aristotele secondo cui la nozione del dio attinta dagli iniziati è il risultato dello sconvolgimento emotivo provato da costoro nella celebrazione dei misteri: una nozione, dunque, ancorata a una dimensione essenzialmente irrazionale, e ai misteri erano iniziati i Pitagorici, e di «modo misterico» parla Porfirio riferendosi alla credenza pitagorica del demone che, racchiuso nel bronzo, emette voce quando il bronzo viene percosso. A questo punto il cerchio si chiude e dall’insieme di questi riferimenti è possibile fare luce sull’ultima parte della testimonianza di Porfirio e sulla sua connessione con la prima. Nei termini seguenti: non v’è dubbio che la credenza secondo cui il risuonare del bronzo percosso rappresenta l’emissione della voce da parte di un demone in esso presente sia l’interpretazione magica di un fenomeno naturale.6 Risulta pertanto che, (1) nel riferire «alcune cose» sostenute dai Pitagorici e registrate da Aristotele nel nostro scritto, Porfirio assimila nella forma espositiva, ma distingue nella sostanza dottrinale (a) le «cose» che quei filosofi

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ritenevano in merito agli dèi tradizionali e (b) quelle che ritenevano in merito ai demoni e alla lettura demonica che essi davano dei fenomeni fisici. (2) Il carattere magico di questa lettura è connesso al carattere misterico e dunque iniziatico col quale i Pitagorici si accostavano al divino demoniaco, (3) cosicché questa dimensione stessa del divino era da loro concepita nella modalità or ora indicata. (4) In funzione demonica potevano essere interpretate, anzi, di fatto erano interpretate dagli adepti al pitagorismo anche talune delle divinità della religione tradizionale, e innanzitutto Apollo, ma in una chiave assolutamente diversa da quella secondo cui le si leggeva come divinità della religione ufficiale. Lette in questa seconda chiave, esse erano simboli e assieme allegorie di fenomeni naturali, ma intese come demoni e, in particolare, identificato Apollo con un demone, questo dio manteneva pur sempre le fattezze essenziali attribuitegli dalla tradizione, a partire dalla conoscenza profetica e dalla profondità del conoscere che caratterizzava la sua figura di inventore delle arti, ma trasfigurate in modalità, per l’appunto, demoniache, ossia cariche di una potenza e di un’eccezionalità che sopravanzano il razionale. Una tale potenza e una tale eccezionalità del dio della tradizione greca trasformato in demone potevano cogliersi soltanto nella nozione che ne aveva l’iniziato ai misteri, in virtù di un intenso pathos. Pitagora, a motivo delle sue doti eccezionali, che gli venivano dall’identificazione con Apollo, appariva agli adepti in queste fattezze. In lui, infatti, erano ritenute presenti sia le doti cognitive dell’Apollo della religione tradizionale, sia quelle dell’Apollo demoniaco. In tal modo, egli era visto – e a buona ragione – come uomo capace di indagare l’universo e di fondare una dottrina della sua origine basata sulla razionalità del numero e sulla matematica e, al tempo stesso, come soggetto provvisto di prerogative magiche. L’eccezionalità singolare e portentosa con cui si riteneva

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ammantata la sua figura si connotava di entrambe le dimensioni. E così, proprio in Pitagora si compendiano paradigmaticamente i due basilari aspetti secondo cui i Pitagorici si accostavano al divino, a quello demoniaco e a quello colto negli dèi tradizionali. Essi risuonano nella notizia di Porfirio, che risulta assai interessante anche per la testimonianza che offre in ordine all’ampiezza con cui Aristotele nello scritto Sui Pitagorici registrava le loro credenze in proposito. Ed è ragionevole supporre che proprio nel mettere in luce questa duplicità del loro modo di pensare il divino risiedeva l’aspetto eminente della trattazione aristotelica. 6. A ben vedere, il doppio registro, cognitivo (dunque, in ultima istanza, razionale) e magico, che si riscontra nella testimonianza aristotelica sul modo dei Pitagorici di pensare le divinità, Apollo e Pitagora in primis, ricompare identicamente nella notizia dello Stagirita sui divieti loro prescritti, quali si leggono nei frr. 4 e 5. Come si riscontra nella testimonianza di Diogene Laerzio (fr. 5), in essa è dominante il momento giustificativo del precetto, il quale, per altro verso, considerato in sé e per se stesso, appare ispirato a una concezione magica dell’esistenza e, in specie, del divino. Anzi, la giustificazione, ossia l’aspetto propriamente razionale della norma, così come Aristotele la presenta, è, per così dire, interna a questa concezione, giacché consiste nell’istituzione di rapporti e nella definizione di collegamenti in virtù dei quali la caratteristica di un fenomeno fisico o la proprietà di una cosa naturale sono trasferite a entità demoniache e occulte. Donde il verso magico e tabuico della norma, il cui altro verso è, invece, la motivazione razionale. 6.1 Alcune di tali motivazioni sono fornite con l’esibizione di una metafora, la quale, come precisa lo Stagirita, consiste

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nel trasferimento del nome da una cosa a un’altra7 operato sulla base di una somiglianza tra le due. Tanto che, afferma ancora lo Stagirita, l’essere capaci di scorgere le somiglianze è condizione essenziale per effettuare metafore,8 e il saper cogliere somiglianze è un’abilità di natura intellettiva e conoscitiva, giacché la somiglianza stessa è di per sé e in quanto tale una conoscenza. Ond’è che l’usare metafore a titolo di giustificazione è fornire una motivazione che, per essere basata su una conoscenza, è eo ipso di natura razionale. Ora, proprio una somiglianza tra la cosa naturale e l’entità occulta e magica risalta nella spiegazione dei precetti pitagorici attestata dallo Stagirita. Pochi casi sono sufficienti a suffragarlo. Pitagora prescriveva di astenersi dal mangiare le fave «o perché sono simili (oçmoioi) ai sessi, [...] o perché sono cosa simile (oçmoion) alla natura del tutto». In queste due spiegazioni la somiglianza è addirittura tematica e salta immediatamente agli occhi, sia quella tra le fave e gli organi sessuali maschili, sia quella tra questi legumi e «la natura del tutto», giacché, come illustra Timpanaro Cardini (Pitagorici, III, p. 247), riferendo la spiegazione di Diogene Laerzio, 24, «le fave, essendo piene di vento, partecipano maggiormente dell’anima universale»: dov’è chiara la somiglianza, nell’abbondanza di vento, tra le fave e la natura universale.9 Insomma, le fave sono una metafora del sesso maschile e della natura del tutto, e per questo non bisogna cibarsene: il farlo corrisponderebbe infatti a divorare l’organo sessuale e a distruggere la natura del tutto. La razionalità del precetto è evidente: esso ha una giustificazione, di esso si porta una ragione, ed è una ragione che consiste nell’individuazione di una somiglianza, dunque in un atto conoscitivo. Ma al tempo stesso questa giustificazione razionale si tinge altresì di un carattere tabuico e magico, in quanto trasferisce l’effetto che si determinerebbe sulla cosa – le fave – alla cosa cui le fave metaforicamente alludono – il sesso maschile, la natura del tutto, e

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rovinare la prima equivale a rovinare le seconde. La razionalità del precetto si attesta specificamente nell’accertamento di somiglianze: in dettaglio, nella somiglianza tra la forma della fava e la forma dell’organo maschile, tra la capacità delle fave di produrre vento e la prerogativa dell’universo di animarsi di vento; il suo carattere tabuico e magico si manifesta nell’intendere la somiglianza come trasferimento della natura di una delle due cose simili all’altra cosa, e precisamente, nel credere che la fava, poiché ha forma simile a quella del sesso maschile, ha per ciò stesso la natura di quest’ultimo, investendo così la somiglianza della forma di una dimensione che attiene, invece, alla natura della cosa, cosicché mangiare le fave equivale eo ipso a mangiare l’organo genitale dell’uomo, o che l’animazione prodotta dal vento nell’universo è prodotta altresì dal vento delle fave, di modo che, ancora una volta, mangiare le fave equivale a distruggere l’animazione universale. In entrambi i casi, il divieto carica la somiglianza, cognitivamente e dunque razionalmente accertata, di una dimensione che eccede il dato accertato, attribuendogli una facoltà il cui possesso non corrisponde più a un accertamento, ma a un fantasioso trasferimento, ritenuto «vero» e «indubitabile» in virtù di una credenza di carattere irrazionale. La coincidenza di razionalità e magia risiede espressamente in un tale rapporto. 6.2 Altre motivazioni sono fondate sul carattere simbolico della cosa proibita, e anche in questo caso la razionalità della norma è chiaramente attestata, giacché il simbolo indica, nella sua stessa etimologia (sun-ba@llein: gettare assieme), un’unità originaria – quell’unità primigeniamente espressa dal combaciare delle due metà della tavoletta spezzata che sta all’origine del simbolo stesso –, e l’unità è di per se stessa motivo di razionalità, comportando la capacità di scorgere il momento comune, in misura ancor mag-

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giore della metafora. Ché, se nella metafora questo è dato da una somiglianza, nel simbolo è dato da un’identità. Ma al contempo, anche in questa fattispecie la razionalità dell’accertamento è investita di una carica tabuica, nella misura in cui all’identità, razionalmente accertata, viene attribuita una potenza che eccede l’accertamento dell’aspetto comune, di modo che una cosa, per il fatto di essere identica a un’altra per un aspetto, è ritenuta identica all’altra anche per altri aspetti, se non addirittura nella sua stessa natura. Ancora la proibizione di cibarsi delle fave è paradigmatica. Una delle sue motivazioni, oltre quelle che abbiamo letto, è che esse «sono cosa tendente all’oligarchia (in effetti con esse si operano i sorteggi)» (fr. 5). Il riferimento è alla pratica di sorteggiare i magistrati con una fava bianca,10 in vigore nei governi democratici; ond’è che la fava diviene il simbolo di questa forma di governo, con la conseguenza che l’astenersene è, per converso, espressione di sentimenti oligarchici (cfr. Giambico, V. P., III, 620).11 Ancora il carattere simbolico del gallo bianco in rapporto al Mese sta alla base della proibizione di cibarsene.12 Un carattere simbolico espresso sia dal fatto che il gallo, segnando le ore con il suo chicchirichì, rimanda alla scansione delle ore di cui il mese è costituito, sia dall’essere esso «supplice» del Mese in quanto – come ha sottolineato Delatte, Études, p. 290 – la sua immagine, rappresentata sulle urne mortuarie di Locri, è simbolo funerario del tempo vissuto; e ancora, perché la bianchezza è simbolo del bene, mentre il nero lo è del male. Anche due delle motivazioni addotte a giustificazione del divieto di disperdere il pane hanno chiaramente carattere simbolico: «su un solo (eçna) pane si riunivano gli amici dei tempi antichi» (fr. 5), ossia il pane è simbolo dell’«unità» degli adepti al credo pitagorico. Qui l’unità del pane è chiaramente simbolo di quella della comunità. E ancora: «perché dal pane ha origine l’intero» (fr. 5), dove «l’intero»

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(tÏ Óélon) è l’universo nell’unità organizzata delle sue parti13 e dellecose che vi sono raccolte. Ancora una volta, dunque, l’unità del pane simboleggia una tale unità raccogliente. 7. Ma l’uso della metafora non è soltanto una strategia che permette di giustificare, sul duplice registro del razionale e del magico, l’imposizione di divieti; essa costituisce altresì il criterio che sottostà alla formulazione di molti precetti prescritti da Pitagora ai suoi seguaci. Certo, qui non si assiste più al raccordarsi, nella metafora, del duplice registro, razionale e tabuico, che stava invece alla base della giustificazione dei divieti. Ond’è che – si potrebbe a tutta prima credere – la metafora, liberata dalla carica di veicolare assieme al momento razionale momenti di natura magica, si attesta in quella valenza di forma espressiva elegante e raffinata che Aristotele le attribuisce nella Poetica, particolarmente adatta in virtù di questa caratteristica a conferire forza suadente all’enunciato del precetto. Ma a ben vedere non è così. Nella formulazione del precetto essa perde, sì, la funzione di raccordare al momento razionale un momento magico, che nella fattispecie non si dà, ma assume la funzione di caricare il precetto di un pathos che esso altrimenti non avrebbe e che lo rende maggiormente passibile di essere osservato. Un pathos – si badi – che eccede la raffinatezza della forma espressiva posta in essere dalla metafora, che non dipende, cioè, da questa, ma che vi si aggiunge come elemento ulteriore. Ond’è che attraverso la metafora si veicola pur sempre una dimensione che sopravanza il mero accertamento razionale e tocca invece una dimensione emotiva, che grazie alla metafora si aggiunge alla prima e rende così l’enunciato più rimarchevole ed efficace. In una modalità ancor più forte e decisa che nelle motivazioni dei divieti. In effetti, nel caso dei precetti la metafora è presente in quella specie dell’analogia, illustrata in Poet., 21, che senza alcun dubbio è la spe-

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cie principale e più incisiva di tale figura e, in particolare, quella nella quale la capacità della metafora di far conoscere, e dunque la sua capacità razionale, si attesta con maggior decisione. Ché nell’analogia, intesa nel significato propriamente aristotelico di uguaglianza di rapporti (A : B = C : D), la nozione di ciascuno dei quattro termini del rapporto prende risalto dagli altri tre, e da essi è altresì ricavabile. Eppure, proprio questa specie di metafora nella quale – come stiamo rimarcando – il momento cognitivo e razionale è massimamente visibile, funge da strategia per un trasferimento del nome di una cosa a un’altra che, se non può certo dirsi carico di una valenza tabuica e magica, lo è però di una valenza emotiva; più propriamente, la metafora è lo strumento razionale con cui emotivamente si carica qualcosa del nome di qualcos’altro. In Poet., 21 (1457 b 17 ss.) Aristotele, dopo aver precisato che il trasferimento del nome di una cosa a un’altra cosa, che caratterizza in senso proprio la metafora, può avvenire o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o da una specie a una specie, ciascuno di questi tre processi definendo una specie di metafora, fissa l’attenzione su una quarta specie di questa figura, chiarendo che essa si attua mediante un’analogia, e precisamente, se i termini sono tali che il secondo sta al primo come il quarto sta al terzo, (a) quando si dice il quarto termine in luogo del secondo o il secondo in luogo del quarto, (b) o quando si aggiunge a un termine quello al quale esso si rapporta (per esempio, stante che la coppa sta a Dioniso come lo scudo sta ad Ares, ossia che la coppa si rapporta allo scudo come Dioniso ad Ares, chiamando la coppa «scudo di Dioniso» o lo scudo «coppa di Ares»).14 Ebbene, l’esame di molti precetti di cui dà notizia Porfirio (V. P., 42) nel fr. 7 attesta che essi si giustificano sulla base della quarta specie di metafora or ora illustrata. E al tempo stesso mette in chiaro come con l’uso di questa for-

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ma di metafora l’accertamento di una somiglianza sia caricato di una valenza rivelatrice di una maniera emotivamente forte di concepire la cosa. Anche qui, pochi casi basteranno a documentare la circostanza. Uno dei precetti suona: «Non strappare la corona»; il che, aggiunge Porfirio, significa: «non corrompere le leggi: queste, infatti, sono corone delle città». La metafora nella seconda delle due forme di analogia sopra illustrate balza agli occhi: posto, infatti, che il soggetto umano sta alla corona (ne è infatti l’abbellimento) come la città sta alle leggi (anch’esse ne sono l’abbellimento. Ecco la somiglianza), a un termine del rapporto (le leggi) è aggiunto quello al quale esso si rapporta (la corona), sì da poter chiamare le leggi «corone della città». E al tempo stesso è chiaro che, così chiamate le leggi, l’invito a non trasgredirle espresso nei termini di «non strappare la corona» assume una portata emotiva che ne rafforza l’efficacia. Essa non sarebbe possibile se le leggi non fossero metaforicamente rappresentate come una corona. Rispondono al medesimo criterio anche i seguenti precetti: «“Non mangiare il cuore”, ossia non addolorare se stessi con afflizioni» (fr. 7). Posto che l’addolorare se stessi sta all’afflizione come il mangiare sta al cuore, in luogo del primo rapporto (addolorare se stessi con un’afflizione) si enuncia il secondo (mangiare il cuore), dicendo il terzo termine (mangiare) in luogo del primo (addolorare se stessi) e il quarto (il cuore) in luogo del secondo (afflizione). Il divieto di addolorare se stessi con un’afflizione diviene allora il divieto di mangiare il cuore (s’intende, il proprio cuore), con l’esito di rafforzarne l’incisività grazie al pathos che la metafora produce. «“Non stare seduto sul chenice”, ossia non vivere inoperoso» (fr. 7). Posto che il vivere sta all’inoperosità come lo stare seduti sta al chenice (un misurino di alimenti solidi

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come l’orzo e il grano), anche qui in luogo del primo rapporto (vivere nell’inoperosità) si enuncia il secondo (stare sul chinice), dicendo il terzo termine (stare) in luogo del primo (vivere) e il quarto (il chinice) in luogo del secondo (inoperosità). Il divieto di vivere nell’inoperosità diviene allora il divieto di stare sul chinice, divieto di cui il pathos prodotto dalla metafora accresce l’incisività. «“Non volgersi indietro quando si parte”, vale a dire non stare, morenti, attaccati alla vita» (fr. 7). Posto che lo stare attaccati alla vita sta al morire come il volgersi indietro sta al partire, in luogo del primo rapporto (stare attaccati alla vita quando si muore) si enuncia il secondo (volgersi indietro quando si parte), dicendo il terzo termine (volgersi indietro) in luogo del primo (stare attaccati alla vita) e il quarto (partire) in luogo del secondo (morire). Il divieto di stare attaccati alla vita quando si muore diviene allora il divieto di volgersi indietro quando si parte. La metafora del partire e del voltarsi a guardare il luogo che si lascia, conferisce un pathos al precetto, il quale ne accresce l’incisività. Anche i precetti riferiti da Geronimo (Adv. Libros Rufini, III, 39 = fr. 7) e mancanti nel resoconto di Porfirio sono costruiti secondo la medesima logica. L’analisi di uno solo basta a provarlo. Il secondo suona: «“Non ferire il fuoco con la spada”, ossia non provocare un animo gonfio d’ira con parole piene di malevolenza». L’analogia in questo caso è la seguente: il provocare un animo gonfio d’ira sta alle parole maledicenti come il ferire il fuoco sta alla spada. Ebbene, in luogo del primo rapporto (provocare un animo gonfio d’ira), nel precetto si enuncia il secondo (ferire il fuoco con la spada), dicendo il terzo termine (ferire il fuoco) in luogo del primo (provocare un animo gonfio d’ira) e il quarto (spada) in luogo del secondo (parole maledicenti). Il divieto di non provocare chi ha l’animo gonfio d’ira diviene allora il divieto di non ferire il fuoco con la spada.

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Quest’ultima espressione, dovuta alla metafora, è carica di un pathos superiore alla prima, cosicché il precetto risulta rafforzato nella sua incisività. 8. L’uso della metafora in funzione di strategia intesa a far convivere il momento propriamente razionale, che caratterizza la metafora stessa in modo basilare e primario, col momento tabuico e magico, non sta alla base, nel complessivo orizzonte del pitagorismo presentato da Aristotele, della sola prescrizione dei divieti, ma investe anche la lettura di proprietà matematiche. In effetti, proprio sul criterio della metafora, intesa nel senso stretto della trasposizione del nome di una cosa a un’altra di natura del tutto diversa, in virtù di una somiglianza, si regge la denominazione di «desiderio» (cupido) data all’unità, secondo la testimonianza di Aristotele presentata da Marziano Capella nel fr. 8. L’unità, infatti, definisce in se stessa una situazione di paradigmatica identità a se medesima che, espressa in termini metaforici, corrisponde al non desiderare altro che sé (quod se cupiat) e al non rivolgere che a sé i propri ardori (in se proprios detorquet ardores). Per questo è nominata «desiderio» (cupido). La situazione qui rappresentata è interessante per due ordini di motivi: innanzitutto perché mette in chiaro l’interpretazione di una proprietà aritmetica – quella per l’appunto dell’assoluta identità a se stessa dell’unità – in termini animistici. Ond’è che – e tocchiamo così il secondo motivo –, così interpretata ed espressa, tale proprietà permette il trasferimento del nome «desiderio» alla stessa unità, ossia a un’entità matematica. Come si vede, il duplice registro tabuico e razionale che abbiamo constatato presiedere allo scandirsi della nozione del divino e poi, identicamente, alla definizione dei divieti, presiede altrettanto identicamente alla stessa interpretazione di una proprietà matematica. In essa, infatti, il mo-

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mento tabuico è evidente dal fatto di pensare l’unità come cosa desiderante, sì da potervi attribuire il nome di «desiderio»; ma al contempo in quest’atto, vale a dire in questa medesima attribuzione, si attesta altresì, in uno con momento magico, il momento razionale, espresso sia dall’uso della metafora (che – abbiamo visto – rappresenta in se stessa un momento cognitivo e dunque razionale), sia dalla riflessione di natura squisitamente matematica che l’unità è uguale a se stessa. Questa proprietà – in altri termini – la cui razionalità non viene minimamente meno, ma resta intatta, è caricata di un’interpretazione tabuica e magica, sicché la metafora che presiede al chiamare l’unità «desiderio» lascia trasparire l’uno e l’altro momento. 9. In generale, la convivenza di questi due momenti è visibile nell’intera gamma delle interpretazioni pitagoriche del mondo naturale e morale in chiave numerica. È questo il dato emergente del resoconto aristotelico, in tutte le testimonianze che ne sono state date. È subito da mettere in luce che le notizie in merito alla dottrina del numero raccolte da Ross come riferibili al nostro scritto sono assai scarse. Esse si riducono, di fatto, al fr. 9, dove lo studioso riporta un resoconto di Teodoro di Smirne (Math., p. 21, 20; 22, 5-9, Hiler) nel quale si attesta che nello scritto Sui Pitagorici Aristotele riferisce della divisione dei numeri in pari e dispari e della particolare natura dell’unità, considerata da quei filosofi «parimpari», vale a dire sia pari che dispari, perché, aggiunta a un numero pari se ne ottiene uno dispari e, aggiunta a un numero dispari, se ne ottiene uno pari, nonché alle notizie riferite da Diogene Laerzio (In Arist. Metaph., p. 38, 8) nel fr. 13 intorno a queste stesse dottrine e su quella concernente il carattere determinato del dispari e il carattere indeterminato del pari. Le altre notizie sul numero pitagoricamente inteso non concernono più le sue proprietà strettamente matematiche,

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ma i rapporti tra i numeri e le cose; dottrine, dunque, di spessore eccedente il livello matematico in quanto tale e attinenti in senso proprio all’ontologia, come attesta eloquentemente il fatto che Aristotele stesso in Metaph., I, 5 le presenta al fine di mostrare che anche i Pitagorici nel fare filosofia indagarono le cause e i principi e che tipi di cause presero in considerazione, e sotto questo stesso profilo le critica in Metaph., I, 8. Ora, l’indagine eziologia appartiene di diritto alla ricerca ontologica, non a quella matematica strettamente intesa, e alla prima occorre dunque riportare, in essenza, le dottrine pitagoriche sul rapporto tra numeri e cose nonché sulla prerogativa del numero di essere principio di tutte le cose. Con ogni probabilità Ross ha raccolto come frammenti dello scritto qui a tema soltanto i luoghi in cui, nell’esposizione delle dottrine pitagoriche sul numero, esso viene direttamente citato. Da qui l’esiguità del materiale strettamente matematico. Ma è logico ritenere che nello scritto Sui Pitagorici lo Stagirita abbia esposto la dottrina propriamente matematica del numero elaborata da questi filosofi per un’ampiezza tale da ripercorrerla interamente, sì da poter ascrivere con ampio margine di probabilità all’opera in esame un’informazione su di essa nella sua sostanziale completezza, quale cioè ci è nota per via di altre fonti. Ebbene, sia dai momenti di questa dottrina richiamati nei frr. 9 e 13 che dall’esame di essa ricavabile da altre fonti, chiaramente appare il suo carattere interamente razionale. Intendo dire che nessun elemento se non la pura riflessione matematica interviene nella dottrina pitagorica del numero. Non così, invece, per ciò che attiene all’interpretazione che, sulla base della loro teoria del numero, i Pitagorici davano dell’universo, fisico e morale. In quest’ambito, infatti, alla dottrina prettamente matematica del numero, che è sempre riscontrabile nella sua purezza razionale, si con-

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giunge una dimensione magica di esso, la quale costituisce, al pari della prima, elemento essenziale per il delinearsi della concezione pitagorica del mondo, tanto nella sua sfera fisica quanto in quella etica. E, ancora una volta, è l’uso della metafora a raccordare le due dimensioni. Essa assume perciò presso i Pitagorici il ruolo di strategia basilare anche nella costruzione della fisica e dell’etica. 9.1 In un passo del suo commento a Metaph., I, 5 Alessandro di Afrodisia (In Arist. Metaph., p. 38, 8 = fr. 13) così specifica il modo in cui i Pitagorici concepivano il rapporto tra i numeri e le cose e, in particolare, la logica che si sottende alla loro dottrina che i numeri costituiscono la natura delle cose. « – scrive il commentatore – sostenevano che alcune somiglianze tra i numeri sono in relazione con le cose che sono e divengono». E subito dopo, richiamando espressamente il fatto che « lo fece vedere», illustra l’istanza con un primo, significativo caso. Esso ripropone una dottrina pitagorica della quale lo Stagirita stesso dava conto, indicando, in particolare, la struttura del pensiero che portava i suoi assertori a formularla: supponendo, infatti, che il proprio della giustizia fossero il contraccambio e l’uguale, avendo trovato che ciò si verifica nei numeri, per questo sostenevano anche che il primo numero al quadrato fosse la giustizia. Infatti, per ciascuna cosa, ciò che si indica quando viene nominata è fondamentalmente la prima delle che hanno il medesimo logos (fr. 9).

Nel caso in oggetto, la «somiglianza del numero con la cosa» risiede nel fatto che tanto la giustizia quanto il numero al quadrato esprimono il rapporto della determinazione con se stessa. Si ha allora che il numero al quadrato definisce la natura della giustizia (anzi – più precisamente – il

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primo numero al quadrato, giacché in esso si affaccia determinatamente e si specifica la proprietà, che poi i successivi numeri al quadrato ripropongono) in quanto presenta la medesima proprietà della giustizia. Passando da questo specifico caso a un’interpretazione generale, vige che il numero definisce la natura della cosa perché possiede la medesima caratteristica o proprietà di questa. In ciò risiede l’«avere il medesimo logos». Ora, tale somiglianza, vale a dire siffatta identità del logos si manifesta in un’analogia, e precisamente: la proprietà della cosa sta alla cosa come una proprietà del numero sta al primo numero che verifica detta proprietà. Nel caso di specie: il contraccambiare in modo uguale sta alla giustizia come il moltiplicarsi per se stesso sta al primo numero al quadrato (si tratti del quattro o del nove).15 Sulla base di quest’analogia i Pitagorici affermano che la giustizia «è» il primo numero al quadrato. Si tratta in tutta chiarezza della prima forma della quarta specie di metafora sopra indicata, attribuendosi al secondo termine (la giustizia) il nome del quarto (il quatto o il nove). Sennonché nell’affermare che la giustizia «è» il quattro o il nove quei filosofi non le attribuivano soltanto il nome di quel numero, ma definivano la sua reale determinazione, vale a dire la sua natura e la sua «realtà». Per loro, infatti, il quattro o il nove rappresentano la giustizia nella sua concreta e reale consistenza. Ossia: assumono il quattro o il nove non semplicemente come determinazioni numeriche con cui chiamare la giustizia, ma come determinazioni nelle quali la realtà della giustizia consiste. In generale, assumono la determinazione nella quale si esprime la proprietà della cosa non come nome con cui chiamarla, ma come ciò in cui consiste la realtà stessa di quella cosa. Con questo, essi sostantificano la proprietà; nel caso in oggetto, sostantificano il quattro o il nove, assumendo il loro essere rappresentazione numerica, in quanto quadrati (ossia in quan-

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to numeri che primariamente verificano la proprietà di essere il prodotto di se stessi), della proprietà della giustizia di realizzare il contraccambio, come realtà della giustizia medesima. In ciò consiste l’aspetto magico e tabuico del loro modo di concepire il rapporto tra il numero e la cosa. Un aspetto che, anche in questo caso, trova effettiva possibilità di attuarsi nella metafora, nella forma che abbiamo illustrata. A questo livello, la concezione pitagorica del numero si manifesta in una prospettiva nella quale si assiste a un diametrale capovolgimento, giacché ci si avvede che la sua rappresentazione nei termini di una realtà concretamente intesa, e cioè di una cosa, ha il suo radicamento profondo nella sostantificazione di una proprietà di tipo quantitativo. Certo, i Pitagorici concepivano i numeri come cose perché li intendevano come aggregati di unità, e ritenevano che l’unità fosse «dotata di posizione» (mona#v eòcousa qe@ sin), vale a dire un volume minimo. Per cui anche l’aggregato di unità, ossia il numero, risulta essere una realtà spazialmente definita, perché avente un certo volume. Ma questo modo di raffigurare l’unità, e dunque il numero, in quanto formato dall’aggregazione di unità, è l’esito della sostantificazione della proprietà di cui il numero è portatore e in cui specificamente consiste la sua natura. Pensata una tale proprietà come determinazione realmente sussistente, segue che il numero stesso sia una siffatta determinazione. E poiché il numero è costituito da unità, essendo la somma di una data quantità di esse, anche l’unità viene conseguentemente concepita nella logica e secondo il criterio della sostantificazione. Così, in quanto parte del numero, ossia di una «cosa», spazialmente definita, è essa stessa una cosa, ossia una realtà attestata nello spazio: tale, per l’appunto il suo essere un volume; in quanto, poi, parte elementare del numero, è la porzione più piccola di spazio: volume minimo, ossia «co-

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sa» più piccola, per l’appunto, secondo la definizione che abbiamo richiamato. A ben vedere, allora, il numero non è una determinazione realmente sussistente perché è un aggregato di unità intese nel modo che s’è detto, ma vige l’inverso e in tanto l’unità è pensata come volume minimo e come dotata di posizione spaziale in quanto è il costitutivo del numero concepito nell’ottica e sulla base della sostantificazione di una proprietà quantitativa – quella in cui esso consiste –, resa possibile grazie a una metafora. È, insomma, la sostantificazione del numero – più determinatamente, della proprietà quantitativa di cui esso è portatore e nella quale esso consiste – la causa del modo d’intendere l’unità come volume minimo, non questa rappresentazione dell’unità la causa della concezione del numero nel modo di una determinazione realmente sussistente. In ciò risiede il rovesciamento di prospettiva che si diceva. Esso appare al fondo della riflessione sul rapporto numeri/cose non appena si consideri che il numero stesso è una cosa in virtù di una sostantivazione e di un modo metaforico di rappresentare la sua somiglianza con la cosa. 9.2 La medesima logica presiede all’interpretazione pitagorica anche della realtà fisica e cosmologica. Anch’essa, infatti, è detta consistere nella sua essenza in numeri sulla base di un processo di sostantificazione di una proprietà numerica identico a quello che si è or ora riscontrato operante nell’interpretazione matematica di una realtà morale. E anche nel caso delle realtà fisiche e cosmologiche è la metafora, nella forma dell’analogia, a definire la strategia di una tale sostantificazione. Il caso del «momento opportuno» (kairo@v), presentato nel fr. 13, è quanto mai sintomatico. La ragione per la quale i Pitagorici lo identificavano col numero sette è che importanti fenomeni naturali, relativi sia al mondo umano che a

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quello cosmico, si scandiscono secondo una frequenza settenaria e in questa scansione raggiungono stati di compiutezza, e cioè di perfezione («le cose naturali – recita testualmente il frammento – possiedano i loro tempi opportuni perfetti, sia della generazione che della fine, secondo periodi di sette»). Così l’uomo è partorito di sette mesi, e per natura gli spuntano i denti ad altrettanti mesi, ed entra nella pubertà intorno al secondo periodo di sette anni, e genera intorno al terzo. In questo modo sostengono che anche il sole, poiché – egli dice – sembra sia esso la causa dei momenti opportuni, si pone in una posizione che è conforme al settimo numero, nel quale affermano consistere il momento opportuno. Infatti, esso tiene il settimo posto dei dieci corpi che si muovono intorno al mezzo, vale a dire la hestia. Ché, si muove dopo la sfera delle stelle fisse e le cinque sfere dei pianeti; e dopo questa, come ottava, vi è la luna e, come nona, la terra, dopo della quale vi è l’antiterra.

Ora, l’attuarsi secondo scadenze di sette anni è cosa diversa dal numero sette, per cui se il momento opportuno, vale a dire lo stato di perfezione, si attua secondo la suddetta scadenza, è chiaro che non coincide con il numero sette, ma trova in questo numero la quantità dei suoi ritmi di attuazione. Di conseguenza, identificare il momento opportuno e il sette in tanto è possibile in quanto si identifichi la proprietà aritmetica che regola lo stato di perfezione con questo stato stesso e si ipostatizzi tale proprietà, nella sua coincidenza con lo stato di perfezione, con il sette. Si è così in presenza di un doppio salto: per un verso, quello per cui si identifica uno stato (la compiutezza) con una sua proprietà numerica (l’attuarsi in ritmi settenari) e, per un altro, quello per il quale si identifica un tale stato, vale a dire la proprietà numerica che ne ritma il verificarsi, con un numero secondo cui esso si ritma. Si è, insomma, in

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presenza di una duplice identificazione, e l’una e l’altra si effettuano sulla base di una metafora, in quanto si scorge nel sette una somiglianza tra uno stato di perfezione (di un dato fenomeno) e una sua proprietà e si ipostatizza tale numero. Nel prosieguo del suo resoconto sul numero sette, Alessandro informa che con esso i Pitagorici indicavano anche la dea Atena, sempre in virtù di una somiglianza tra questa divinità e quel numero. In effetti, poiché il sette né genera alcuno dei numeri compresi nella decade, né è generato da alcuno di essi, per questo motivo dicevano che esso è anche Atena. Infatti, il due genera il quattro, il tre il nove e il sei, il quattro l’otto e il cinque il dieci e, per converso, il quattro, il sei, l’otto, il nove e il dieci sono generati; invece il sette né genera qualche , né è generato da qualcuno. Ma tale è anche Atena, che non è madre ed è sempre vergine (fr. 13).

Qui la somiglianza, individuata nella comune prerogativa del sette e di Atena di non generare (quella di non essere generato appartiene soltanto al sette, non anche alla dea, che invece nella tradizione mitologica greca è nata dalla mente di Zeus; del resto, lo stesso commentatore richiama unicamente la sua verginità, senza fare il minimo cenno al non essere stata generata: evidentemente perché era consapevole che ciò non corrisponde affatto alla storia mitologica di Atena) è espressa dalla seguente analogia: il non generare figli sta ad Atena come il non produrre numeri sta al sette. Donde, metaforicamente, Atena è il sette, attribuendo il quarto termine al secondo, in conformità con la prima forma della quarta specie di metafora anzi presentata. Ma in realtà la conclusione di questo procedimento è ben di più di una semplice metafora, o – meglio – la metafora che così impostata è il mezzo attraverso cui si attua

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un’identificazione che va ben oltre questa figura. La metafora comporterebbe, infatti, che Atena «si nominasse» col sette, che si attribuisse cioè alla dea il «nome» di questo numero. Invece non è questo che facevano i Pitagorici, i quali invece «dicevano che il sette è Atena» (kai# èAqhna#n eòlegon auèto@n), assimilavano cioè Atena al sette, di modo che nella struttura matematica dell’esistente la realtà della dea era ritenuta specificata da quel numero. Con ciò essi mostravano di intendere la relazione tra la proprietà di non produrre alcun numero, espressa dal sette, e quella di non generare figli, espressa da Atena, non come semplice «somiglianza», ma come vera e propria identità. Giacché la somiglianza tra le due proprietà avrebbe dato luogo a una metafora specificamente intesa, vale a dire al trasferimento del «nome» dal sette alla dea, ovvero alla denominazione di questa seconda con il primo, non all’«identificazione» di costei col sette. Presupposto di tale identificazione è l’identificazione stessa del generare figli col produrre numeri, ossia l’attribuzione di una prerogativa dei viventi a un’entità matematica. E con ciò l’assunzione della proprietà matematica del sette nell’ottica di una concezione magica e tabuica è lampante. Il numero sette, che, considerato sotto il profilo strettamente matematico, è fatto oggetto di considerazioni a pieno titolo razionali, perché strutturate sulla logica di questa disciplina (né produce alcuno dei numeri compresi entro il dieci, né è prodotto da essi), pensato nell’ottica del rapporto con le cose viene assunto un una connotazione tale che all’elemento strettamente matematico si aggiunge uno di tutt’altra natura.

TESTIMONIUM

FRAGMENTA

TESTIMONIANZA

Arist., Metaph., I, 5, 985b 23: contemporanei a costoro e anche prima di costoro,16 i cosiddetti Pitagorici,17 essendosi applicati alle scienze matematiche,18 per primi le portarono innanzi e, allevati in esse, credettero che i loro principi fossero i principi di tutte le cose [...] 986a 8-13: e poiché sembra che il dieci sia perfetto e che comprenda in sé tutta la natura dei numeri,19 anche le cose che si muovono lungo il cielo sostengono essere dieci, ma poiché ne sono visibili soltanto nove, per questo pongono come decima l’antiterra.20 Su questi argomenti, da parte nostra sono state date specificazioni in modo più preciso in altre opere.21

FRAMMENTI

1 (R2 186, R3 191) Apollon., Mirab., 6: venuto dopo costoro,22 Pitagora, figlio di Mnesarco, dapprima profuse le sue fatiche nell’ambito delle conoscenze matematiche e dei numeri, ma in ultimo non si allontanò dalla creazione di prodigi di Ferecide.23 E infatti a Metaponto, mentre una nave con un carico entrava nel porto e coloro in cui s’imbatteva facevano voto perché arrivasse sana e salva, per via della merce, egli, fattosi innanzi, disse:

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«allora questa nave vi apparirà come un corpo che porta un cadavere». Un’altra volta in Caulonia,24 come sostiene Aristotele, presagì l’orsa bianca, e il medesimo Aristotele afferma per iscritto di lui anche molti altri prodigi e, dice, egli uccise a morsi il serpente velenoso che in Tirrenia25 lo morsicava. Preannunciò pure ai Pitagorici la sollevazione che avvenne.26 Per questo fece vela alla volta di Metaponto, senza essere visto da alcuno. Ancora, dal fiume Cosa,27 mentre lo attraversava, udì assieme ad altri una voce grande e sovrumana: «salve Pitagora». E coloro che erano presenti divennero pieni di terrore. Una volta apparve sia a Crotone che a Metaponto nel medesimo giorno e alla medesima ora. Una volta, mentre era seduto in teatro, si sollevò, come afferma Aristotele, e a coloro che erano seduti mostrò la propria coscia come d’oro.28 Di lui si raccontano anche altri avvenimenti paradossali, ma noi, non volendo compiere l’opera dei copisti, terminiamo qui il discorso. Aelian., V. H., II, 26: Aristotele afferma che Pitagora era chiamato dagli abitanti di Crotone Apollo Iperboreo,29 e il figlio di Nicomaco (scil. Aristotele stesso) aggiunge anche queste cose, ossia che una volta, nello stesso giorno e nella medesima ora, fu visto da molti sia a Metaponto che a Crotone. E a Olimpia, in teatro, durante la gara, Pitagora, sollevatosi, mostrò che una delle sue due cosce era d’oro. Il medesimo afferma che fu invocato dal fiume Cosa mentre lo attraversava, e afferma che molti hanno udito quest’invocazione. Aelian., V. H., IV, 17: Pitagora insegnò agli uomini d’essere stato generato da semi migliori che secondo la natura mortale. Infatti, egli (scil. Aristotele) dice, nello stesso giorno e alla medesima ora fu visto a Metaponto e a Crotone. E a Olimpia mostrò che una delle sue due cosce era d’oro. Rammentò anche al crotoniate Millia30 che egli era il Frigio

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Mida, figlio di Gordia; e accarezzò l’aquila bianca, che rimaneva ferma.31 Ma fu anche invocato dal fiume Cosa mentre lo attraversava, dicendogli il fiume «salve, Pitagora». Diog. Laert., VIII, 1, 11 (9): e si dice anche che era molto dignitoso, e di lui gli allievi diffondevano la fama che era Apollo venuto dagli Iperborei. Vi è il racconto secondo cui, eseguendo egli un esercizio quasi nudo, si vide che la sua coscia era d’oro; ed erano in molti a sostenere che il fiume Nasso,32 mentre lo attraversava, lo chiamò. Iambl., V. P., 28, 140-143: ritengono che la credibilità delle concezioni in vigore presso di loro risieda in questo, ossia nel fatto che colui che le proferì per primo non era uno qualsiasi, bensì il dio. Anche questa è una delle cose che si udivano: «chi sei, Pitagora?». Dicono, infatti, che fosse Apollo Iperboreo. Ne erano prove che, levatosi nel teatro, mostrò la sua coscia d’oro, e che accoglieva al suo focolare l’iperboreo Abaris33 e gli tolse la freccia con cui si dirigeva.34 Si dice che Abaris venisse dagli Iperborei raccogliendo oro per il tempio e predicendo una pestilenza. Albergava nei santuari e non fu mai visto né bere né mangiare alcunché. Si dice che anche a Sparta celebrò le cerimonie impeditive35 e per questo a Sparta in seguito non si verificò mai più una pestilenza. Avendo dunque accolto questo Abaris, che aveva una freccia d’oro, senza la quale non era in grado di trovare le vie, gli fece fare un accordo.36 E a Metaponto, poiché taluni facevano voto perché avessero ciò che si trovava sulla nave che vi faceva vela, «allora – disse – avrete un cadavere». E mostrò che la nave portava un cadavere. E a Sibari afferrò e allontanò il serpente irsuto che uccideva. Similmente, anche nella Tirrenia il piccolo serpente che uccideva a morsi. A Crotone accarezzò l’aquila bianca, che rimaneva ferma, come si racconta. Poiché un tale voleva ascol-

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tarlo, gli disse che non avrebbe parlato in nessun modo prima che si fosse mostrato un qualche segno, e dopo questi fatti in Caulonia si verificò l’orsa bianca. E a chi stava per annunciargli la morte del figlio egli la enunciò prima . E al crotoniate Millia rammentò che era Mida, figlio di Gordio, e Millia andò sul continente per compiere tutte le cose che gli aveva comandato sulla tomba . Dicono anche che colui che aveva comprato la sua casa e aveva scavato, non osò dire a nessuno ciò che vide, ma per quest’errore fu catturato e condannato a morte a Crotone per saccheggio di templi. Infatti, fu colto in flagrante mentre prendeva la barba d’oro che era caduta dalla statua. Questi fatti, dunque, e altri di tal genere enunciano per la credibilità . 2 (R2 187, R3 192) Iambl., V. P., 6, 30: e assieme agli dèi annoverano poi Pitagora, convinti che si tratti di un demone buono e filantropo: gli uni come Apollo Pizio, altri come Apollo Iperboreo, altri come Apollo Peana, altri ancora come uno dei demoni che abitano la luna [...] 31: pure Aristotele nell’opera Sulla filosofia pitagorica narra che tra le cose su cui vi è il massimo segreto viene custodita da quegli uomini anche tale distinzione: del vivente razionale fanno parte, da un lato dio, da un altro l’uomo, da un altro ancora Pitagora. 3 (R2 188, R3 193) Apul., De deo Socr., 20, 166-167: credo che la maggior parte di voi creda ciò che in modo alquanto esitante ho appropriatamente esposto e ammiri con interesse la forma spesso veduta del demone di Socrate. E infatti, se qualcuno dicesse di non aver mai visto un demone, Aristotele, come credo, sarebbe testimone sufficientemente idoneo del fatto

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che i Pitagorici erano soliti ammirarla pienamente. Ché, se a taluno può sopraggiungere la facoltà di contemplare un’immagine divina, perché non avrebbe potuto toccare prima di tutto a Socrate [...]? Clem. Al., Strom., VI, 6, 53, 2-3: Isidoro, figlio di Basileide e assieme suo discepolo, nel primo dei libri esegetici del profeta Parcore scrive anch’egli alla lettera: «pure gli Attici affermano che qualcuno ricordava a Socrate che un demone lo seguiva, e Aristotele afferma che tutti gli uomini si sono serviti di demoni che li accompagnano per tutto il tempo dell’incarnazione, assumendo quest’insegnamento profetico e ponendolo nei suoi libri, senza convenire da dove trasse questo discorso». 4 (R2 189, R3 194) Gell., 4, 11, 11-13: anche Plutarco, uomo di solida autorità nella dottrina,37 nel primo dei libri che compose su Omero scrisse che il filosofo Aristotele aveva messo per iscritto quelle medesime considerazioni sui Pitagorici, ossia che non si astennero dal mangiare gli animali se non certa poca carne . Ho scritto qui di seguito le parole stesse di Plutarco, poiché la cosa è inopinata: «Aristotele sostiene che i Pitagorici si astengono dalla matrice, dal cuore, dall’ortica marina e da alcune altre parti di questo genere, mentre fanno uso delle altre». L’ortica marina (aèkalh@fh) è un animale marino che viene detto ostrica. Porph., V.P., 45: invitava ad astenersi anche da altri alimenti, come dalla matrice, dalla triglia, dall’ortica marina e all’incirca da tutti quanti gli altri animali marini.

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Diog. Laert., VIII, 1, 19 (18): ma più d’ogni cosa prescriveva di non mangiare né il pesce fragolino né il melanuro, e di astenersi sia dal cuore che dalle fave. Aristotele sostiene che talvolta anche dalla matrice e dalla triglia. 5 (R2 190, R3 195) Diog. Laert., VIII, 1, 33-36 (19): agli dèi e agli eroi non si devono tributare onori uguali, ma agli dèi sempre, con parole benedicenti, coperti di bianchi mantelli ed essendo puri; invece agli eroi dalla metà del giorno. La purezza è causata dai riti della purificazione, dai lavacri, dalle abluzioni e dal mantenersi puri da un cadavere, da una puerpera e da ogni miasma, e dall’astenersi da porzioni di carne di morti naturalmente come cibi, da triglie, da melanuri, da uova e dagli animali ovipari, dalle fave e dalle altre cose che prescrivono anche coloro che nei templi celebrano i riti misterici. E per ciò che riguarda le fave, Aristotele nell’opera Sui Pitagorici afferma che egli (scil. Pitagora) proclama di astenersi dalle fave, o perché sono simili ai sessi, o perché lo sono alle porte dell’Ade (infatti sono la sola pianta non articolata), o perché corrompono, o perché sono cosa simile alla natura del tutto, o perché sono cosa tendente all’oligarchia (in effetti con esse si operano i sorteggi).38 Comandava loro (scil. ai discepoli) di non raccogliere ciò che cade dalla tavola, per il motivo di abituare a non mangiare in modo incontinente o perché a causa della morte di qualcuno39 [...]; di star distante dal gallo bianco, perché è sacro al Mese e suo supplice (il che, come sosteniamo, è proprio dei buoni)40 e per il fatto di essere sacro al Mese, giacché indica le ore. E il bianco è proprio della natura del bene, mentre il nero di quella del male.41 Comandava di star lontani dai pesci, quanti sono sacri. Infatti, non si devono ordinare le stesse cose per gli dèi e per gli uomini, come neppure per i liberi e per gli schiavi. Comandava di non spezzare il

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pane, perché su un solo pane si riunivano gli amici dei tempi antichi, come inoltre anche ora fanno i barbari.42 E comandava di non dividerlo giacché li riunisce. Alcuni riferiscono al giudizio nell’Ade, altri al fatto di creare viltà in guerra, altri ancora perché dal pane ha origine l’intero [...] 36: Tanto Alessandro afferma di aver trovato queste nelle Memorie pitagoriche, quanto Aristotele quelle che derivano da esse. 6 (R2 191, R3 196) Porph., V. P., 41: diceva anche in modo mistico, per simboli, alcune cose che Aristotele registrò per la maggior parte: per esempio, chiamava il mare lacrima ,43 le orse44 mani di Rea, la costellazione delle Pleiadi lira delle Muse, i pianeti cani di Persefone, e che l’eco che si origina dal bronzo battuto è la voce di uno dei demoni rinchiuso nel bronzo. Aelian., V. P., 4, 17: indicava anche l’origine del terremoto: non è nient’altro che una riunione dei morti, e diceva che l’arcobaleno è un raggio del sole, e l’eco che cade molte volte nelle orecchie è voce dei migliori. 7 (R2 192, R3 197) Porph., V.P., 42: vi era anche un’altra specie di simboli, di tal fatta: «non oltrepassare il giogo della bilancia», vale a dire non pretendere di più. «Non raschiare il fuoco col rasoio», il che significava: non muovere colui che è gonfio d’ira45 con parole provocatorie. «Non strappare la corona», vale a dire non corrompere le leggi: queste, infatti, sono corone delle città. E, a loro volta, anche altri , del genere seguente: «non mangiare il cuore», ossia non addolorare se stessi con afflizioni; «non stare seduto sul chenice»,46

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ossia non vivere inoperoso; «non volgersi indietro quando si parte», vale a dire non stare, morenti, attaccati alla vita; «non camminare per le vie maestre», col che distoglieva dal seguire i pareri della massa e invece a inseguire quelle delle poche persone fornite di cultura; «non accogliere rondini in casa», vale a dire, uomini ciarlieri e non rendere le persone che vivono sotto il medesimo tetto incontinenti nelle lingue; «aiutare ad alzare il peso coloro che lo sollevano, non deporlo assieme», col che non esortava nessuno a collaborare in vista dell’ignavia, bensì in vista della virtù; «non portare le immagini degli dèi sugli anelli», vale a dire non avere l’opinione degli dèi e un discorso a portata di mano né manifesto, e non portarlo a molti;47 «fare libagioni agli dèi lungo l’orecchio delle coppe». Da qui, infatti, diceva in modo enigmatico di onorare gli dèi e d’inneggiare loro con la musica, giacché questa passa per le orecchie. Hieronimus, Adv. Libros Rufini, III, 39: sono pitagorici sia quei celebri precetti: cioè, le cose degli amici sono comuni [...], sia quei famosi enigmi, che con molta diligenza Aristotele descrive nei suoi libri, ossia: «non oltrepassare la stadera», vale a dire non andare di là della giustizia; «non ferire il fuoco con la spada», ossia non provocare un animo gonfio d’ira con parole piene di malevolenza; «non si deve strappare la corona», vale a dire si devono custodire le leggi delle città; «non bisogna mangiare il cuore», ossia si deve allontanare la tristezza dall’animo; «una volta che tu sia partito», disse, «non tornare indietro», vale a dire non desiderare la vita stessa dopo la morte; «non camminare lungo la via pubblica», ossia non tener dietro all’andar qua e là della massa; «non si deve accogliere una rondine in casa», ossia non si devono avere sotto il medesimo tetto uomini ciarlieri e verbosi; «si deve aiutare a portare il peso coloro che ne sono carichi, non associarsi a coloro che lo depongo-

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no», ossia si devono aumentare i precetti a coloro che marciano verso la virtù, invece si devono abbandonare coloro che si attardano nel non fare nulla. 8 (R2 193, R3 194) Mart. Cap., VII, 367-368: d’altro canto Aristotele, uno dei miei seguaci, dal fatto che essa (scil. l’unità) è l’unico uno e vuol essere sempre ricercata, asserisce che è stata chiamata desiderio (cupido) perché desidera (cupiat) se stessa, se in realtà non ha niente di più e, priva di qualsiasi trasporto o vincolo, rivolge verso di sé i propri ardori. 9 (R2 194, R3 199) Theod. Sm., Math., p. 21, 20 (Hiler): operano il primo taglio dei numeri in due: sostengono, infatti, che alcuni di essi sono pari, altri dispari [...] 24: alcuni sostennero che la monade è il primo dei numeri [...] 22, 5-9: Aristotele nel libro Sui Pitagorici afferma che l’uno partecipa della natura di entrambi , giacché, aggiunto a uno pari, ne forma uno dispari e, aggiunto a uno dispari, ne forma uno pari; il che non sarebbe possibile se non partecipasse di entrambe le nature. Per questo l’uno è chiamato anche parimpari.48 10 (R2 195, R3 200) Simpl., De cael., p. 386, 9: ebbene, i Pitagorici, dopo aver ricondotto tutte le antitesi a due serie, una peggiore e l’altra migliore, ovvero di ciò che è buono e di ciò che è cattivo, e dopo aver completato ciascuna delle due con la decade, come avesse valore di simbolo per ogni numero, assunsero ciascuna antitesi del dieci in questa modalità, ossia come se mostrasse assieme tutte le sue affinità. 49 E come tipiche delle condizioni di luogo assunsero, dunque, la destra e la

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sinistra [...] 19-23: da queste mostrarono anche le altre antitesi di luogo: chiamavano dunque «bene» la destra e l’alto e il davanti, invece dicevano che la sinistra e il basso e il dietro sono un male, come lo stesso Aristotele raccontò nella Raccolta delle cose che piacciono ai Pitagorici.50 11 (R2 196, R3 201) Stob., I, 18, 1 (Wachsmuth e Hense): nel primo libro dell’opera Sulla filosofia di Pitagora scrive che il celo è uno, che dall’infinito s’immettono il tempo, il soffio e il vuoto, che sempre delimita le regioni di ogni genere di cose.51 12 (R2 197, R3 202) Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 75, 15-17: nel secondo libro dell’opera Sulla dottrina dei Pitagorici fa menzione della disposizione nel cielo che i Pitagorici ritenevano propria dei numeri.52 13 (R2 198, R3 203) Alex. Aphr., In Arist. Metaph., p. 38, 8: sostenevano che alcune somiglianze tra i numeri sono in relazione con le cose che sono e divengono; lo fece vedere: supponendo, infatti, che il proprio della giustizia fossero il contraccambio e l’uguale, avendo trovato che ciò si verifica nei numeri, per questo sostenevano anche che il primo numero al quadrato fosse la giustizia. Infatti, per ciascuna cosa, ciò che si indica quando viene nominata è fondamentalmente la prima delle che hanno il medesimo logos.53 Questo, alcuni sostenevano che è il quattro, poiché, essendo il primo quadrato, si divide in uguali ed è uguale (infatti, è due

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volte due), altri invece che è il nove, il quale è il primo quadrato a partire da un dispari, il tre, moltiplicato per se stesso. A sua volta, sostenevano che il momento opportuno è il sette, poiché sembra che le cose naturali possiedano i loro tempi opportuni perfetti, sia della generazione che della fine, secondo periodi di sette, come nel caso dell’uomo. E infatti è partorito di sette mesi,54 e per natura gli spuntano i denti ad altrettanti mesi, ed entra nella pubertà intorno al secondo periodo di sette anni, e genera intorno al terzo. In questo modo sostengono che anche il sole, poiché – egli dice – sembra sia esso la causa dei momenti opportuni, si pone in una posizione che è conforme al settimo numero, nel quale affermano consistere il momento opportuno. Infatti, esso tiene il settimo posto dei dieci corpi che si muovono intorno al mezzo, vale a dire la hestia.55 Ché, si muove dopo la sfera delle stelle fisse e le cinque sfere dei pianeti; e dopo questa,56 come ottava, vi è la luna e, come nona, la terra, dopo della quale vi è l’antiterra. E poiché il sette né genera alcuno dei numeri compresi nella decade, né è generato da alcuno di essi, per questo motivo dicevano che esso è anche Atena. Infatti, il due genera il quattro, il tre il nove e il sei, il quattro l’otto e il cinque il dieci e, per converso, il quattro, il sei, l’otto, il nove e il dieci sono generati; invece il sette né genera qualche , né è generato da qualcuno.57 Ma tale è anche Atena, che non è madre ed è sempre vergine. Sostenevano che le nozze sono il cinque, poiché le nozze sono l’unione di un maschio e di una femmina, e a loro avviso il dispari è maschio e il pari è femmina, e questo è il primo numero che si genera dal primo numero pari, ossia dal due e dal primo numero dispari, ossia dal tre. Infatti, come abbiamo detto, il dispari per loro è maschio, mentre il pari femmina.58 E sostenevano che l’uno è intelletto e sostanza: afferma, infatti, che l’anima è l’intelletto, e dicevano che l’intelletto, per il fatto di essere stabile, simile sotto ogni aspetto e atto a comandare, è la mo-

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nade e l’uno.59 Ma è anche sostanza, poiché la cosa prima è sostanza. L’opinione è il due, per il fatto di essere atta a mutare nell’uno e nell’altro senso. E sostenevano che essa è anche movimento e aggiunta.60 Ebbene, eleggendo tali somiglianze delle cose con i numeri, ipotizzarono che i numeri fossero loro principi, sostenendo che tutte le cose sono costituite da numeri. Ma vedendo che anche le armonie sono costituite secondo un certo numero, dicevano che i numeri sono principi anche di queste: infatti, quella di ottava consiste in un rapporto doppio (2 : 1), quella di quinta in un rapporto emiolo (3 : 2), quella di quarta in un rapporto epitrio (4 : 3). E dicevano che anche l’intero cielo è costituito secondo una certa armonia [...] 39, 23-41,15: perciò è costituito di numeri e secondo numero e armonia. Poiché, infatti, i corpi che traslano intorno al mezzo hanno distanze scandite da rapporti proporzionali,61 e alcuni traslano più velocemente, altri più lentamente, e poiché nel loro muoversi quelli più lenti producono anche un suono grave, mentre quelli più veloci un suono acuto, , questi suoni, generandosi secondo la proporzione delle distanze, rendono armonioso il rumore che proviene da esse. E dicendo a buon diritto che il numero è principio di quest’armonia, posero il numero come principio sia del cielo che del tutto. In effetti, eccoli a dire che la distanza del sole dalla terra è in un rapporto doppio di quella dalla luna, che la distanza di Venere è in rapporto triplo, quella di Mercurio in un rapporto quadruplo, e per in ciascuno degli atri ritenevano che esiste un determinato rapporto aritmetico, e che il movimento del cielo è armonioso; e che i che si muovono alla distanza massima, si muovono nel modo più veloce, quelli che si muovono alla distanza minima, si muovono nel modo più lento, quelli che si muovono a una distanza intermedia, si muovono secondo l’analogia della grandezza della circonferenza. 62 Ora, da queste somiglianze negli enti rispetto ai nu-

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meri supposero che le cose, ossia gli enti, fossero costituiti da numeri e che fossero determinati numeri. Ritenendo che i numeri fossero primi rispetto a tutta la natura e a tutti gli enti per natura – infatti, indipendentemente dal numero non è possibile che qualcuno degli enti né esista né sia interamente conosciuto, mentre il numero si conosce anche indipendentemente dalle altre cose –, posero gli elementi e i principi dei numeri anche come principi di tutti questi63 enti. Essi erano, come s’è detto, il pari e il dispari, e di questi ritennero che il dispari fosse determinato, invece il pari indeterminato; e che principio dei numeri fosse la monade, costituita sia dal pari che dal dispari. La monade, infatti, è insieme parimpari;64 il che mostrò tramite il suo essere atta a generare sia il numero dispari che quello pari. Ché, aggiunta a un numero pari ne genera uno dispari, e a uno dispari, uno pari. E assumendo senz’altro come evidenti tutte quelle cose che ritenevano concordanti, nei numeri e nelle unioni conformi alle armonie,65 rispetto alle affezioni e alle parti del cielo, mostravano che il cielo è costituito da numeri e secondo armonia. E se risultava che alla sequenza numerica dei che appaiono nel cielo ne mancavano alcuni, questi li aggiungevano essi stessi, e cercavano di colmare affinché tutta la loro trattazione fosse coerente. E in effetti, poiché, per esempio, ritenevano che la decade fosse un numero perfetto, ma tra le cose che appaiono vedevano che le sfere in movimento sono nove, e cioè sette quelle dei pianeti, ottava quella delle stelle fisse e, nona, la terra – e infatti ritenevano che anche questa si muovesse in circolo intorno alla hestia, che stava ferma; il che a loro avviso è fuoco –, essi aggiunsero nelle loro dottrine anche una certa antiterra, che supponevano essere opposta alla terra e per questo essere invisibile a coloro che sono sulla terra. parla di questi argomenti sia nel De caelo66

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che, in modo più preciso, nelle Dottrine dei Pitagorici. Poiché pensavano che i corpi in movimento, dai quali è costituito il cosmo, fossero dieci, ritenevano che la loro posizione fosse conforme ad armonia, e cioè che fossero lontani tra loro secondo distanze armoniche, e che si muovessero conformemente alla proporzione delle distanze, come prima ha detto, ossia alcuni di essi più velocemente e atri più lentamente, e che con le loro traslazioni producessero suoni: quelli che traslano più lentamente, suoni più gravi, mentre quelli che traslano più velocemente, suoni più acuti, e che dal prodursi di questi con proporzioni armoniche il suono diventava armonioso, ma noi non lo udiamo, perché ne siano avvezzi fin da bambini. Ne ha parlato anche nel De caelo, e in quest’opera ha mostrato che non è vero. Che poi il pari costituisca per loro ciò che è indeterminato, mentre il dispari ciò che è determinato, e che siano principio della monade – derivando, infatti, da questi, la monade è parimpari –, ma anche di ogni numero, se è vero che le monadi sono, a loro volta, i principi dei numeri, e che l’intero cielo è numero, ossia che lo sono tutte le cose nel cielo, le quali costituiscono gli enti: ebbene, queste espone anche ora,67 ma in modo più ampio ne ha parlato in quelle opere, concernenti quell’argomento.68 14 (R2 199, R3 204) Simpl., In Arist. De caelo, p. 511, 25: i Pitagorici affermano il contrario. Questo, infatti, significa «in modo contrario» quando dicono che essa (scil. la terra) non intorno al mezzo, ma sostengono che nel mezzo del tutto vi è il fuoco;69 sostengono invece che l’antiterra trasla intorno al mezzo, che è anch’essa terra, ma è chiamata antiterra per il fatto di essere nella posizione contraria a questa terra. «Dopo l’antiterra, questa terra che trasla anch’essa intorno al mezzo; e dopo la terra la luna»: così, infatti, egli (scil. Ari-

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stotele) racconta nell’opera Sui Pitagorici [...] 512, 12-14: per questo alcuni chiamano il fuoco «torre di Zeus», come egli (scil. Aristotele) narra nell’opera I Pitagorici,70 mentre altri lo chiamano «guardia di Zeus», come dice in quest’opera, altri ancora «trono di Zeus», come altri sostengono. Procl., In Eucl., p. 90, 14 (Friedlein): in realtà i Pitagorici ritenevano giusto chiamare il polo «sigillo di Rea» [...] p. 90, 17-18: il centro «guardia di Zeus». 15 (R2 200, R3 205) Simpl., In Arist. Caelo, p. 392, 16-32: com’è che, dice , i Pitagorici pongono noi sopra e a destra, e quelli là sotto e a sinistra, se poi, come egli racconta nel secondo libro della Raccolta delle dottrine pitagoriche, essi affermano che dell’intero cielo vi sono il sopra e il sotto, e che il sotto del cielo è a destra mentre il sopra a sinistra, e noi siamo nella parte sotto? Oppure ha affermato che il sopra, detto allora anche presso coloro che sono a destra, non lo è secondo quella che è la sinistra per lui, ma secondo i Pitagorici. Essi, infatti, disponevano a destra l’alto e il davanti, e a sinistra il basso e il dietro. Ma Alessandro pensa piuttosto che le cose contenute nella Raccolta delle dottrine pitagoriche siano state trascritte in modo diverso da qualcuno, dovendo invece essere così: l’alto del cielo è a destra e il basso a sinistra, e noi siamo nella parte in alto, non in quella in basso, com’è stato scritto. Così, infatti, vi sarà concordanza con le cose sostenute colà,71 e cioè che noi, dicendo di abitare in basso e per ciò anche nelle regioni a sinistra, se veramente il basso è connesso con la sinistra, diciamo in modo contrario a come i Pitagorici dicono in alto e a destra. E forse il fatto che la scrittura sia stata diversa ha una ragione, se Aristotele conosceva che essi connettevano l’alto alla destra e il basso alla sinistra.

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Them., In Arist. De caelo, p. 96, 17-22: se davvero i Pitagorici sostengono che la parte superiore è quella che è costituita dalla regione di destra, al modo in cui abbiamo trovato che Aristotele lo comprova nei commentari che scrisse contro le opinioni dei Pitagorici, là dove discute contro di loro, che per contro sostenevano che la parte superiore è la destra. 16 Stob., Ecl., I, 26, 3: secondo il racconto di Aristotele e quello di Filippo d’Opunte, alcuni Pitagorici affermarono per la frapposizione talvolta della terra, talvolta dell’antiterra. Ma tra i più recenti72 ve ne sono alcuni cui sembrò giusto che per dilatazione di una fiamma, la quale si accende a poco a poco in modo ordinato, fino a produrre il plenilunio perfetto, e di nuovo analogamente diminuisce fino alla congiunzione secondo la quale si spegne completamente. 17 (R2 185, R3 190) Clem. Al., Strom., I, 14, 62, 2: Pitagora, dunque, figlio di Mnesarco, era di Samo, come afferma Ippoboto;73 invece, come sostengono Aristosseno nella Vita di Pitagora,74 Aristotele75 e Teopompo, era tirreno.

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Note 1 Moraux (Listes anciennes, p. 107), sulla base del fatto cheAlessandro cita soltanto il Peri# tw^n Puqagorei@wn, ritiene che i due trattati furono riuniti in una sola opera in due libri prima del II sec. a.C. Lo studioso sottolinea poi, in modo del tutto persuasivo, come sia del tutto logico e congruente ritenere che Aristotele scrisse un trattato sui Pitagorici, giacché a esso rinvia in Metaph., I, 5, 986 a 12-13. E questo varrebbe quand’anche si dovesse ritenere che i frammenti costituiscano degli pseudoepigrafi. Del resto, anche il catalogo dell’Anonimo indica al n. 88 un’opera dal titolo Peri# tw^n Puqagorei@wn. 2 Su questa distinzione tra «acusmatici» e «matematici» si veda anche ciò che la studiosa dice in Pitagorici, I, p. 6, dove in modo assai convincente ne rintraccia le radici nel modo d’insegnare di Pitagora, connettendola al fatto che «Pitagora non diceva tutto a tutti, ma a ciascuno quello che poteva capire». Ond’è che «il famoso segreto pitagorico questo valore appunto aveva, di divieto di diffondere fra gli estranei, e all’interno della scuola fra i non abbastanza preparati, le dottrine più difficili e le più eterogenee rispetto al modo di pensare comune». 3 Ossia, sacrifici apotropaici. 4 Cfr. Synes., Dio, X, 48 a = fr. 15 Ross: «come ritiene Aristotele, gli iniziati non devono imparare alcunché (maqei^n), ma provare sentimenti e porsi in uno stato d’animo (paqei^n), essendone evidentemente adatti». Per un commento mi permetto di rinviare a Zanatta, Dialoghi, pp. 438 ss. 5 Delatte, Études, p. 278 ritiene che l’espressione «lacrima di Crono» non costituisca un’allegoria, ma riproponga un antico mito cosmogonico con cui si spiegava l’origine del mare, mito dal quale l’espressione deriverebbe (in proposito cfr. Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, pp. 244 s.). Per parte mia dissento dal disconoscere valore anche allegorico (e metaforico) all’espressione in oggetto. La sua valenza allegorica (e assieme metaforica) non esclude quella di simbolo, ma fa tutt’uno con essa, in una strutturale impossibilità di distinzione concettuale tra l’allegoria, la metafora e il simbolo che ricalca il modo primigenio di intendere. In esso, infatti, il dire la cosa non si separa ancora (o non si separa con la nettezza della mentalità posteriore) dalla cosa stessa, ma l’espressione verbale di una sua prerogativa fa tutt’uno con la prerogativa stessa. Ond’è che anche il significare la cosa un’altra cosa (tale propriamente il simbolo) non si distingue dal dire quella cosa per un’altra cosa (tale propriamente l’allegoria) e dal trasferire la prerogativa nominata in una cosa a un’altra cosa (tale propriamente

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la metafora). In ogni caso, anche ammettendo (e per nulla concedendo) l’ordine concettuale proposto dal Delatte la situazione non muta: il dio Crono non interessa per se stesso, ma soltanto perché rinvia simbolicamente al mare, per il fatto, cioè, di dare spiegazione del suo essersi costituito, non per l’intrinseca portata religiosa della divinità. 6 Al punto che Delatte, Études, p. 268 ha potuto dire che tale credenza attesta il sopravvivere di un modo d’intendere animistico assai primitivo. Lo studioso ha però rintracciato la spiegazione di questa credenza in «uno scolio a Omero II, 408 e in Eustazio, p. 1067, 58, ch’egli ritiene derivi da un commento pitagorico a Omero: solo il bronzo, delle cose inanimate, sembra avere voce. E i pitagorici dicono che il bronzo risuona a ogni soffio di sopravvivenza divina» (Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, p. 245). 7 Cfr. Poet., 21, 1457 b 7: «metafora è l’imposizione di un nome di un’altra cosa (oèno@matov aèllotri@ou eèpifora@)». 8 Cfr. Poet., 23, 1459 a 6 ss.: «è d’importanza massima l’esser capaci di fare metafore. Ché, questa capacità non si può assumere da un altro, ma è segno di buona natura. Infatti, il fare buone metafore è vedere ciò che è simile». 9 In realtà, la studiosa riporta anche la seguente spiegazione addotta dal dossografo: «è igienico l’astenersi dalle fave, perché il ventre resta più regolato, e le immagini dei sogni più lievi e tranquille» (Pitagorici, III, pp. 247 s.); e aggiunge: «in questa motivazione il tabù coincideva col precetto igienico» (Ivi). Ebbene, nella misura in cui un precetto igienico è pur sempre espressione di razionalità, perché regola razionalmente una funzione del corpo, si ritrova anche così quella compresenza del razionale e del magico di cui si sta dicendo. 10 Tutte le testimonianze antioche su questa pratica sono citate in Pauly Wissowa, III, 620. 11 Cfr. Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, p. 248, dove peraltro si fa presente che questa «motivazione, tendente a spiegare il divieto come un fatto politico, dovette essere conseguente al costituirsi di governi democratici». Il che è certamente probabile, ma in questa sede non è su quest’ordine di ragioni, pur molto pertinenti, che interessa porre l’accento, sibbene sul carattere simbolico, e dunque razionale, della motivazione. In ogni caso, prosegue la studiosa, «da questa testimonianza di Aristotele appare che la regola dell’astinenza delle fave fosse, a quanto a lui risultava, ancora osservata alla lettera. Ma già se n’era smarrito il motivo originario, donde la ricerca di altri motivi seguendo diversi ordini di idee, finché il razionalista Aristosseno con spirito polemico affermerà la predilezione del Maestro per le fave (cfr. Gellio, IV, 11, 1)».

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12 Cfr. fr. 5: «Comandava [...] di star distante dal gallo bianco, perché è sacro al Mese e suo supplice (il che, come sosteniamo, è proprio dei buoni) e per il fatto di essere sacro al Mese, giacché indica le ore. E il bianco è proprio della natura del bene, mentre il nero di quella del male». 13 In questo propriamente «l’intero» (to# oçlon) differisce da «il tutto» (to# pa^n), per il fatto cioè di essere un’unità organizzata in modo tale che lo spostamento o il venir meno di una delle sue parti comporta un’alterazione dell’insieme, che non è più lo stesso di prima (cfr. Metaph., V, 26, 1024 a 1 ss.). 14 Precisa inoltre lo Stagirita che la metafora per analogia può essere usata per denotare ciò che non ha un nome: per esempio, non vi è un nome che designi il lanciare la fiamma da parte del sole; ma l’analogia tra un tale lanciare e il sole, da un lato, e il lanciare il grano e il grano stesso, dall’altro, permette di denotare quel lanciare col nome con cui si indica il lanciare il grano, ossia «seminare», e denotare perciò quell’anonimo lanciare come «seminare la fiamma da parte del sole». Precisa ancora il filosofo che un quarto modo d’usare la metafora per analogia consiste nell’attribuire alla cosa il nome proprio di un’altra secondo la relazione base specificata in (a) e nel negare una delle determinazioni che convengono alla seconda (per esempio, stante che Ares sta allo scudo come Dioniso sta alla coppa, nel chiamare lo scudo «coppa» – ossia il secondo termine col nome del quarto – ma precisando che si tratta di una coppa «senza vino»). 15 In proposito si veda la nota n. 52. 16 Ad avviso di Diels e di Ross, si tratta degli atomisti Leucippo e Democrito (nominati da Aristotele per ultimi nel precedente Metaph., I, 4); invece, ad avviso di Timpanaro Cardini (Pitagorici, III, pp. 57-58), si tratta di quei filosofi (citati dallo Stagirita a partire da Metaph., I, 4, 983 b 6) che avvertirono la necessità di un’altra causa oltre quella materiale per poter spiegare i fenomeni. 17 Come riferisce Reale (Metaph., III, pp. 45 s.), a quest’espressione «i cosiddetti Pitagorici» (che ricompare anche in Mertaph., 989 b 29; De caelo, 284 b 7, 13; 293 a 20) sono stati attribuiti fondamentalmente tre diversi significati: (1) essa denoterebbe l’incertezza di Aristotele nell’indicare la persona e la dottrina di Pitagora (così Bonitz, Comm., p. 77; Ross, Metaph., I, p. 143; Tricot, Métaph., I, p. 41, nota 4); (2) con essa lo Stagirita distinguerebbe i veri Pitagorici da coloro che a partire dalla seconda metà del VI sec. a.C. si riunivano in una sorta di setta orfica (Frankl); (3) con essa Aristotele metterebbe in risalto il carattere di équipe della filosofia pitagorica, di contro alla rilevanza personale di quella degli altri Presocratici (Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, pp. 9 ss., in particolare p. 13).

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18 Cfr. Proclo, In Euclid., p. 65 Friedl. = Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, B 1, pp. 48-49. 19 Il dieci corrisponde alla somma dei primi quattro numeri, a partire dai quali si formano tutti gli altri. Da qui la ragione della sua «perfezione». 20 Com’è spiegato da Alessandro d’Afrodisia nel passo riportato come fr. 13, i corpi che si muovono nel cielo sono le stesse fisse, i cinque pianeti, il sole, la luna, la terra e, per l’appunto, l’antiterra. 21 Il riferimento non è certamente a De caelo, II, 13, 293 a 23 ss., come taluni hanno creduto, bensì proprio al trattato Sulle dottrine pitagoriche (cfr. Reale, Metafisica, III, p. 49, nota 9; Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, pp. 61 s.; Bonitz, Comm., p. 79), coincidente con ogni verosimiglianza con quello il cui titolo viene indicato come Sui Pitagorici. 22 Si tratta di Epimenide, Aristea, Ermetico, Abaris e Ferecide, accomunati dall’essere facitori di prodigi. 23 Cfr. Diogene Laurzio, I, 116 ss. = D. K. 7 A 1: «molte e meravigliose cose si tramandano sul suo conto: che passeggiando lungo la spiaggia di Samo, vedendo una nave che veleggiava con il vento favorevole, disse che dopo non molto tempo sarebbe affondata. Ed essa affondò davanti ai suoi occhi. Che, avendo bevuto dell’acqua tratta da un pozzo, predisse che di lì a tre giorni vi sarebbe stato un terremoto, e questo ci fu. Che, andando da Olimpia a Messene, consigliò il suo ospite Perilao a sloggiare con tutta la famiglia; questi si rifiutò e Messene fu conquistata». Porfirio, presso Eusebio, Praep. Evang., X, 3, 6 (= D. K. 7 A 7) riferisce che Androne nello scritto Tripode (cfr. F. H. G., n. 347) racconta il medesimo prodigio dell’acqua attinta dal pozzo e della predizione del terremoto, ma lo attribuisce a Pitagora. Riferisce inoltre che di questo e altri prodigi compiuti da Pitagora parlò anche Teopompo (cfr. Gr. Hist. F., 115 F 70 II 549), che tuttavia, onde evitare il rimprovero d’averli derivati da Androne, li attribuì a Ferecide di Siro e cambiò il luogo ove furono compiuti. 24 Città della Calabria, sullo Ionio. 25 Espressione equivalente a «in Italia». 26 A riguardo cfr. Diogene Laerzio, II, 46 = D. K. 58 A = Timpanaro Cardini, Pitagorici, I: Vita di Pitagora, test. 15, p. 55 e Iambl., V. P., 248 = D. K., 44 Aa e 46 = Timpanaro Cardini, Pitagorici, I: Vita di Pitagora, test. 16. 27 È il nome del fiume che scorreva presso Metaponto (cfr. Bacchilide, X, 119). Diogene Laerzio, VIII, 1, 11 (infra) indica invece il fiume Nasso (Ne@ssov), in Tracia (cfr. Herod., VII, 126). 28 Come spiega Luciano in uno scolio (p. 124 Rabe), la coscia d’oro di Pitagora era un segno della sua natura apollinea.

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29 Il culto di Apollo è originario della regione iperborea, un nord mitico le cui tracce si perdono lungo l’asse danubiano dell’età del bronzo. Borea è il vento gelido che soffia dai monti della Tracia e sua madre Eos è la splendida «Aurora dalle rosee dita». 30 Fu il marito di Timica di Sparta, filosofa greca vissuta nel IV sec. a.C. e appartenente assieme a Millia alla scuola pitagorica di Crotone. È citata da Clemente Alessandrino negli Stromata e da Giambico nella Vita di Pitagora. 31 Cfr. Iambl., V. P., 142. 32 Nei racconti di Apollonio e di Eliano è invece indicato il fiume Cosa (cfr. supra). 33 Sacerdote di Apollo. In effetti, la maggior parte dei miracoli ascritti a Pitagora è legata ad Apollo, e questo attesta il loro carattere divinatorio, ossia rivelatore. Ciò s’allinea perfettamente con quanto dice Diog. Laert., VIII, 8, il quale riferisce la testimonianza di Aristosseno secondo cui Pitagora ricevette la maggior parte dei precetti morali dalla sacerdotessa deifica Temistoclea. 34 «Qui occorre dare un significato particolare al verbo aèfei@leto, dal momento che in verità la freccia fu donata da Abaris a Pitagora e non sottratta da quest’ultimo. La cosa non cambia, perché in ogni caso Pitagora privò involontariamente Abaris del beneficio di quell’arnese. Del resto Abaris gliel’aveva consegnata, più che regalata, perché lo identificava con Apollo Iperboreo» (F. Romano, in Giambico, Summa pitagorica, a cura di F. Romano, Milano, Bompiani 2006, p. 291, nota n. 77). 35 Ossia, sacrifici apotropaici. 36 L’accordo consisteva nel fatto che Abaris sarebbe rimasto presso di lui e con lui cooperasse in attività educative, ricevendo in cambio insegnamenti di particolare importanza (cfr. Iambl., V. P., 90-93). 37 È opportuno rilevare come doctrina e disciplina indichino il medesimo oggetto, ossia un contenuto di sapere, ma dal punto di vista di colui che lo insegna, la prima, e di colui che l’apprende, la seconda. 38 Era usanza nei governi democratici sorteggiare i magistrati con una fava bianca (si vedano le testimonianze antiche in proposito in Pauly Wissowa, III, 620). La fava diviene perciò simbolo di questi regimi, per cui l’astenersene è espressione dell’opposta tendenza oligarchica (cfr. Timpanaro Cardini, Pitagorici, III. P. 248). 39 Il significato di questa difficile espressione, che di proposito si è voluto rendere in modo letterale, è che ciò che cade da tavola può fungere da alimento a un morto (il quale, albergando nell’Ade, che è «sotto» terra, abbisogna che il cibo «scenda». Ecco, dunque, la metafora del cadere). La morte di qualcuno è così la causa della

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caduta del cibo. Un’idea, questa della morte come causa della caduta, espressa da eèpi@ e il dativo (eèpi# teleuth^j tinov). 40 Contrariamente a Timpanaro Cardini (Pitagorici, III, p. 249), che intende tw^n aègaqw^n come neutro e interpreta il rilievo nel senso che l’essere supplici appartiene a quelli che, nella lista degli opposti, sono i beni, propenderei per intendere tw^n aègaqw^n come maschile: l’essere supplici è proprio delle persone dabbene. La costruzione del pensiero è più semplice e la motivazione più immediata. Inoltre, non risulta alcun luogo in cui l’essere supplici sia annoverato nella lista dei beni, mentre non c’è bisogno di reperire uno specifico luogo per dar credito a un’affermazione così evidente e generale com’è quella che risulta dall’esegesi proposta. 41 La sacralità del gallo bianco è dunque dovuta al suo stesso essere bianco, colore che è simbolo della bontà, e al fatto che, come il Mese, anch’esso, con il suo chicchirichì, scandisce le ore. In tal senso si può anche dire che il gallo è simbolo del Mese, e per questo gli è sacro. Delatte, Études, p. 290 richiama altresì la circostanza che sulle urne mortuarie trovate a Locri è raffigurato un gallo, che diviene perciò simbolo funerario. In quanto poi «sacro (iéero@v)» al Mese (perché suo simbolo), il gallo è altresì suo «supplice (ièke@thv)», giacché la consacrazione a qualcuno è in se stessa una forma di devozione e di supplica verso costui. Questa seconda prerogativa del gallo sembra, perciò, subordinata alla prima e quasi un suo corollario. 42 Come segnala Timpanaro Cardini (Pitagorici, III, p. 249), il divieto di non spezzare il pane impone di non sbriciolarlo e disperderlo; «amici» (fi@loi) è espressione tecnica e denota propriamente la comunità degli adepti al credo pitagorico. 43 «Di Crono» () è integrazione proposta da Stanley, sulla base di Plutarco, de Is., 364 a e Clemente Alessandrino, Strom., V, 49, dove tuttavia si parla delle «lacrime di Zeus» (da@krua Dio@v), che nel linguaggio simbolico degli Orfici simboleggiavano la pioggia (cfr. D. K., 1 B 22; cfr. anche 31 B 6, 3, nonché Timpanaro Cardini, Pitagorici, III, p. 244). 44 S’intende, la costellazione dell’orsa maggiore e dell’orsa minore. 45 Splendida endiadi. Letteralmente, infatti, «colui che è gonfio ed è irato». 46 Misuratore di sostanze solide, per lo più di farina, o di orzo, o di grano. 47 In proposito si veda anche Iambl., V. P., 84. 48 Qui, dunque, all’uno è attribuita la funzione di parimpari. L’istanza non è esente dal porre problemi e, in particolare, solleva la questione se siamo in presenza di una dottrina pitagorica, o

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dell’interpretazione aristotelica di una dottrina pitagorica, riferita da Teodoro. In effetti, in Filolao B 5 Timpanaro Cardini (= Stob. Ecl., I, 21, 7 c, p. 188, 9 W.) il parimpari non coincide più con l’unità, ma è indicato in una terza specie di numero, oltre il pari e il dispari e risultante dalla mescolanza di questi. Parimenti, in Metaph., 987 a 17-19 lo Stagirita attesta che per i Pitagorici l’uno e l’apeiron costituiscono la sostanza delle cose e che l’uno ha funzione di principio limitante e s’identifica col dispari. Queste discrepanze hanno fatto concludere a Cherniss, Criticism, p. 45, nota 173 che la tesi qui presentata non corrisponde affatto a una teoria pitagorica, bensì all’interpretazione di Aristotele. Anche sullo specifico punto l’insigne studioso ha seguito la via di dar poco credito allo Stagirita quale fonte e testimonianza di teorie filosofiche, come ampiamente egli fa a proposito delle indicazioni del filosofo a proposito delle (presunte) dottrine non scritte di Platone. Per contro, con Timpanaro Cardini, I Pitagorici, II, p. 343 si deve osservare che in Metaph., 986 a 19 (= D. K. 58 B 5) Aristotele attribuisce ai Pitagorici la tesi secondo cui l’uno è parimpari. Il che potrebbe riabilitare il valore della testimonianza dello Stagirita in merito all’effettiva paternità pitagorica della dottrina qui in oggetto e sollevare, invece, il problema della sua conciliabilità, all’interno del pitagorismo, con quella che fa dell’uno il principio limitante. Tra le possibili ipotesi che si possono avanzare, forse non è priva di plausibilità quella che individua nelle due tesi, due dottrine sostenute da Pitagorici differenti e, probabilmente, in fasi cronologicamente differenti. 49 Il significato di questa frase, che nella traduzione di proposito ho voluto mantenere aderente alla lettera del testo greco, è il seguente: fecero di ciascuna delle antitesi comprese nel dieci, ossia di ciascuna delle dieci antitesi, l’espressione di tutte quelle affini a essa. 50 «Tutte le determinazioni di luogo erano comprese nella destra-sinistra, la quale aveva un titolo di preferenza sulle altre, perché conteneva un significato etico-religioso» (Timpanaro Cardini¸ Pitagorici, III, p. 186). Infatti, come lo stesso Simplicio attesta nella parte lasciata tra parentesi, i Pitagorici assunsero questa coppia di contrari come espressione delle opposizioni del luogo perché destra e sinistra «esprimono il bene e il male; infatti, usiamo dire “destra natura” e “destra fortuna” per indicare la natura buona e la buona fortuna, e sinistra le contrarie». Un’altra ragione della preferenza data alla coppia destra-sinistra – continua la studiosa nella sua esegesi del frammento – era che «le cose che hanno una destra e una sinistra, hanno necessariamente anche un sopra e un sotto [per parte mia, ho preferito rendere aònw e ka@tw rispettiva-

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mente con alto e basso], un davanti e un dietro; mentre non è vero l’inverso, come ha ben spiegato Aristotele, perché destra e sinistra presuppongono il movimento, che non è di tutti gli esseri; infatti la piante hanno solo il sopra e il sotto (De caelo, 284 b 17). Anche l’antitesi davanti-dietro suppone il movimento, quindi poteva anch’essa avere un valore paradigmatico; ma a favore di destrasinistra dovevano valere per i Pitagorici le ragioni etico-religiose anzidette, a cui si deve aggiungere quella del sorgere e tramontare degli astri». Da qui la critica dello Stagirita: anziché destra-sinistra, sarebbe stato preferibile assegnare valore paradigmatico all’«opposizione sopra-sotto, perché questa l’hanno tutti gli esseri, anche quelli privi di movimento (es. le piante, che non hanno destra-sinistra), e perciò in essa la diafora@ tra i due termini è massima: infatti nel destra-sinistra c’è solo differenza di du@namiv (mano e piede destri hanno la stessa figura di mano e piede sinistri, solo hanno più forza), mentre nel sopra-sotto c’è differenza di sch^ma (testa e piedi differiscono totalmente)» (Ivi, p. 187). 51 Cfr. Aristotele, De caelo, 279 a 11, dove è evidente il richiamo della dottrina qui menzionata del tempo esterno al cosmo e in esso inspirato assieme al soffio e al vuoto. Da questa circostanza Timpanaro Cardini, I Pitagorici, III, p. 184 giudica la dottrina in oggetto attendibile nel quadro del pitagorismo. 52 I numeri, dunque, hanno una disposizione e un ordinamento (ta@xiv) nel cielo. Ecco la notizia che Aristotele dava nel secondo libro dell’opera perduta Sulla dottrina dei Pitagorici. 53 Ossia, nel caso della giustizia, il primo dei numeri al quadrato. Il significato complessivo di quest’articolata frase (che non è stato possibile tradurre letteralmente) è che la determinazione della cosa è espressa dal primo dei numeri che ha la medesima caratteristica o proprietà (logos) di essa. Tale numero è indicato esso stesso come «cosa» (ecco il neutro to# prw^ton) perché, notoriamente, per i Pitagorici i numeri, essendo aggregati di unità, pensate come volumi minimi, erano essi stessi realtà dotate di volume e, dunque, coincidevano con ta# oònta, le cose; e come «cosa prima», ovvero come primo dei numeri aventi la medesima proprietà della cosa perché, in quanto primo, è presente in tutti i successivi numeri che esprimono la medesima proprietà: nel caso della giustizia, il primo dei numeri che godono della proprietà di essere quadrati. Da qui, come si dice nelle righe immediatamente successive, il problema se il numero che esprime la giustizia sia il quattro, ossia il primo dei numeri al quadrato, o il nove, ossia il primo dei numeri dispari al quadrato. Si tratta di opinioni differenti maturate con ogni probabilità da gruppi diversi di Pitagorici intorno a un medesimo problema (qual è l’essenza della giustizia). È verisimile cre-

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dere che in tale differenza – e nella registrazione che di essa fornisce Aristotele – sia da leggere un dibattito e una discussione interna ai Pitagorici. Interessante notare, poi, come essa rappresenti un’ennesima occasione atta a rivelare l’opposizione tra il pari e il dispari, nonché, sotto un certo profilo, la messa in discussione del primato del dispari sul pari: un aspetto, verosimilmente, esso medesimo della discussione. Ché proprio qui il quattro, ossia un numero pari, ritenuto inferiore al numero dispari per la sua continua divisibilità, in virtù di questa proprietà di essere divisibile in parti uguali può contendere col numero dispari nove la capacità di definire la giustizia. 54 Nel senso che a sette mesi è completo e dunque può essere partorito (cfr. Hippocr., Peri# eèpt., VII, p. 436 ss. L.). 55 Parimenti in Filolao, 16 B Timpanaro Cardini. La hestia, ossia il focolare. 56 Ossia quella del sole, la settima. 57 Su questa proprietà del sette cfr. Filolao B 20 Timpanaro Cardini, Pitagorici, II, p. 238. 58 Si rammenti, infatti, che il dispari per i Pitagorici ha funzione limitante, ossia determinante e definitoria, e l’elemento maschile, a loro avviso, era quello che definiva le qualità del nuovo soggetto umano nella procreazione; per contro, il pari coincide con l’illimitato, ossia con l’indeterminato, e tale sembrava loro l’elemento femminile, che può essere fecondato da semi maschili diversi e originare individui connotati da differenti caratteri. 59 Il soggetto sottinteso di «afferma» (eiè^pe) è, ovviamente, Aristotele. In effetti in Metaph., 985 b 30 egli afferma, più sommariamente, che per i Pitagorici yuch@ e nou^v erano un certo numero e nelle Opinioni dei Pitagorici, l’opera che Alessandro sta ora commentando, identifica l’anima con l’intelletto e questo con l’uno, dichiarando altresì che l’uno è sostanza (e spiegandone la ragione). Si tratta, tuttavia, di una dottrina che non tutti i Pitagorici accettavano, come appare eloquentemente dal fatto che Filolao (cfr. A 12 Timpanaro Cardini) riportava l’intelletto, assieme alla salute, al numero sette. In realtà, ciò che più conta è la teoria della corrispondenza delle cose ai numeri (e, dunque, quella per cui i principi di questi secondi erano intesi come principi anche delle prime), mentre le precise corrispondenze delle singole specie di cose a determinati numeri, potendo essere soggette anche a interpretazioni differenti di identiche proprietà, ma, s’intende, sempre in chiave numerica, non stupisce che talvolta variassero da filosofo a filosofo. 60 «Aggiunta di uno a uno», precisa Ross nell’apparato critico. 61 Letteralmente, «hanno le distanze nella proporzione».

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62 Ossia, la velocità del movimento è proporzionale all’ampiezza delle loro orbite. 63 Ossia, degli enti naturali. 64 L’unità (la monade) ha in sé la natura sia del pari che del dispari, ossia è entrambi (parimpari) perché con la sua aggiunta genera sia l’uno che l’altro. Come si vede, la natura dell’unità è ricavata dalla capacità che ha insita. 65 Vale a dire, negli accordi musicali. 66 Cfr. De caelo, II, 13 (293 a 23 ss.). 67 Ossia nei trattati della Metafisica che Alessandro sta commentando. 68 Ossia le Opinioni dei Pitagorici, menzionate da Alessandro poco prima, e come opera nella quale Aristotele espone le dottrine pitagoriche «in modo più preciso» (aèkribe@steron). 69 Si tratta della hestia (il focolare), di cui si dice nel fr. 13. 70 È la stessa opera che prima è stata citata con il titolo di Sui Pitagorici. 71 Ossia, nel De caelo, rispetto al quale Simplicio rileva la discrepanza indicata nel testo circa la dottrina della destra e della sinistra che trova esposta nella Raccolta delle dottrine pitagoriche, come, prima di lui, aveva evidentemente riscontrato Alessandro. Accettando la soluzione proposta da costui, ossia che si tratti di una cattiva trascrizione di qualche copista, egli salva l’esposizione del De caelo dalla possibile accusa di essere erronea. 72 Concordo con Timpanaro Cardini (I Pitagorici, III, pp. 204205) nel ritenere improbabile che il riferimento sia ai «Pitagorici» più recenti, tanto per la difficoltà di individuare chi potrebbero mai essere, quanto – soprattutto – per la stranezza di ritenere che essi avrebbero abbandonato la teoria pitagorica della luce per una che non si vede in che cosa segni un progresso. Con la studiosa ritengo perciò preferibile pensare che l’allusione sia agli Ionici, i quali, a eccezione di Talete, ritenevano la luna dotata di luce propria. 73 Vissuto nel I sec. d.C. e autore di un Catalogo dei filosofi. 74 Si tratta con ogni probabilità del medesimo scritto citato da Diog. Laert., I, 118 col titolo Su Pitagora e le sue dottrine (Peri# PuqagÒrou kai# tw~n gnwri@mwn auètou^) (cfr. Timpanaro Cardini, I Pitagorici, III, pp. 35-36) 75 I codici recano èAri@starcov (Aristarco), ma pare da preferirsi la lezione èAristote@lhv, secondo la correzione proposta dal Preller e accolta anche da Ross, sulla scorta di Thaeodoret, Graec. affect. cur., I, 24, dove compare èAristote@lhv. 76 Così anche Herod., II, 51; Plat., Leg., 738 c.

SULLA FILOSOFIA DEL TRATTATO DI ARCHITA

INTRODUZIONE

1. Lo scritto aristotelico in tre libri Sulla filosofia del trattato di Archita (Peri# th^v èArcutei@ou filoso@fiav a,@ b @, g )@ è indicato nel catalogo di Diogene Laerzio al n. 92 e compare col titolo Peri# th^v èArcutei@ou filoso@fiav g @ al n. 83 del catalogo dell’Anonimo. Come giustamente rileva Moraux (Listes anciennes, p. 201), è impossibile distinguere la lezione corretta. Ancora lo studioso (Ivi, p. 106) fa presente come non vi sia nulla di strano che Aristotele abbia scritto una monografia sul pensiero di Archita, anche se al filosofo pitagorico egli nelle opere che ci sono rimaste fa allusione una sola volta. Del resto, l’attenzione dello Stagirita per questo personaggio traspare dal fatto che sulle sue dottrine, unitamente a quelle di Timeo, egli scrisse un’altra opera, in un solo libro, riportata da Diogene Laerzio al n. 94 con il titolo ta# eèk tou^ Timai@ou kai# tqn ˆArcutei@wn a @)».1 Uno scritto che è con ogni verosimiglianza altro da quello Sulla filosofia del trattato di Archita, se è vero che, secondo quanto ancora Moraux (Ivi, p. 107) fondatamente ritiene, al primo va riportata l’allusione di Simplicio (In Arist. De caelo, 379, 14-17) a una su@noyiv hà eèpitomh# tou^ Timai@ou composta da Aristotele. In tal senso, mentre lo scritto Sulla filosofia del trattato di Archita rappresenterebbe una vera e propria disamina delle teorie del Pitagorico, ta# eèk

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tou^ Timai@ou kai# tw^n èArcutei@wn non sarebbe che una sintetica esposizione delle principali tesi di Timeo e Archita, presentate sinotticamente attraverso citazioni dirette dalle loro opere. Donde, per l’appunto, il carattere di epitome che compare nel titolo assieme a quello di su@noyiv. Va inoltre ricordato che nel catalogo di Tolomeo, al n. 9, viene indicato, in una lista comprendente dialoghi e altri scritti di dubbia autenticità aristotelica (quelli che Baumstark indica come scritti ipomnemonici), uno scritto intitolato ¿[email protected] 2. Ci si potrebbe chiedere perché mai lo Stagirita, già autore di uno scritto Sui Pitagorici, abbia avvertito la necessità di dedicare al pitagorico Archita uno scritto a parte. La risposta, in mancanza di una qualsiasi indicazione testuale che la suffraghi in modo diretto sul piano documentario, non può che essere congetturale, ma tuttavia, pur nell’ambito della congettura, molte considerazioni, benché indirette, lasciano ragionevolmente credere che essa sia da cercare nella forte personalità del soggetto, che le testimonianze presentano in maniera univoca come individuo di alto profilo, nella schiera dei Pitagorici, dal punto di vista scientifico, etico e politico. Insomma, un soggetto che nell’amorfa anonimia dei Pitagorici, i quali, com’è noto, in quanto costituenti una setta, non amavano avere risalto individuale, almeno agli inizi della scuola, si staglia per l’eccellenza che lo connota sia come uomo di stato, sia come scienziato, sia come figura etica. A questa motivazione, che, comunque, già da sola sembra bastare a fornire una risposta plausibile e convincente, se ne affianca poi una seconda, la quale fa forza sulla vicinanza tra Archita ed Aristotele circa il modo d’intendere la costruzione del sapere, i riscontri empirici a cui deve attenersi e il complessivo afflato di cui deve ammantarsi, come gli interpreti più accreditati hanno specifica-

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mente messo in luce. Ond’è che all’alto apprezzamento per lo scienziato, oltre che per il politico e la figura etica, si univa con ogni probabilità in Aristotele anche una sorta di simpatia personale per il personaggio. Mi riferisco al fatto che, al pari di Aristotele e a differenza di Platone, Archita rinunciava a dare al sapere un’intonazione mistica e tale da non disgiungerlo dal senso del divino, dall’allegoria e dalla rivelazione; al contrario, Archita «era rivolto al mondo sensibile [...] e tutto preso dall’esigenza di vedere le cose come sono, attraverso l’esperienza» (Timpanaro Cardini, Pitagorici, II, p. 263). E ancora: «ciò che contraddistingue l’opera e il pensiero di Archita è [...] il suo atteggiamento verso la realtà: egli la guarda con l’occhio dello scienziato, non del metafisico [...] Quello che in Archita sembra scomparso, è l’afflato mistico verso la verità, e lo sgomento e il segreto di cui si circondano verità eterodosse, che potrebbero turbare e dare scandalo (gli irrazionali, gl’incommensurabili). Questo sentimento che pure ancora si trova in Platone, sembra assente da Archita; almeno non ve n’è traccia in quanto ci è rimasto. Egli rivela una mentalità che diremmo aristotelica e archimedea» (Ivi, p. 267). Prescindiamo dal giudizio sulla visione «metafisica» della realtà e dalla sua identità o comunque dalla sua complementarietà con la visione mistica di essa, come l’insigne studiosa sembra lasciare intendere e che in questa sostanziale equivalenza non pare condivisibile, tanto più se riferita per antonomasia ad Aristotele, termine di riferimento e di commisurazione, ad avviso della Timpanaro, della stessa concezione della scienza di Archita. Al di là di questa inaccettabile equivalenza è vero, invece e in ogni caso, che la concezione della realtà di Archita non è metafisica, in quanto il suo universo concettuale e categoriale è anteriore alla genesi storica del pensiero metafisico, ed è vero che, senza essere metafisica, essa non è affatto ammantata

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da aloni di mistero e da intuizioni allegoriche. Ed è vero che in questa valenza la vicinanza con Aristotele salta agli occhi. 3. Forse il miglior ritratto di Archita è stato tracciato nel Suida (A 2 Timpanaro Cardini), schematico e lapidario, ma attento a cogliere i momenti salienti della sua poliedrica personalità di statista, di politico, di uomo stimato, di scienziato di alta vaglia e di soggetto di forte senso etico: «Archita di Taranto – vi si legge –, figlio di Estieo, o di Mnesagete, o di Mnesagora, filosofo pitagorico. Costui salvò Platone dalla morte minacciatagli dal tiranno Dionisio. Fu a capo della confederazione italiota (scil., la lega italiota), essendo stato eletto con pieni poteri dai concittadini e dai Greci dei paesi limitrofi. Poiché anche insegnava filosofia, ebbe scolari illustri e scrisse molti libri». È subito bene chiarire l’episodio che lo vide in prima persona nel sottrarre Platone alla pena capitale, cui fa riferimento Suida, perché attesta il prestigio e l’autorevolezza di cui Archita godette a livello internazionale – si direbbe oggigiorno –, essendo stimato e accreditato a tal punto presso Dionisio II di Siracusa da poter intervenire presso di lui, che aveva condannato a morte il filosofo delle Idee, e ottenerne la liberazione e il ritorno sano e salvo ad Atene. Si tratta dello sventurato, terzo e ultimo viaggio di Platone in Sicilia del 361 a.C.; del resto era stato proprio Archita – che aveva conosciuto Platone in occasione del suo primo viaggio in Sicilia (390 a.C.), durante il quale si era fermato a Taranto, e che per opera e mediazione dello stesso Platone, in occasione del secondo viaggio di costui in Sicilia (366 a.C.), aveva potuto stringere rapporti con Dionisio II di Siracusa – a sollecitare e incoraggiare Platone, restio a intraprendere una terza avventura siciliana, riuscendo alla fine a vincere i suoi dubbi e farlo partire, come

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si ricava anche dalla platonica Settima lettera (cfr. A 5 Timpanaro Cardini). 3.1 Della statura morale di Archita, dei sentimenti di umanità e di rispetto per gli uomini, di chiunque si fosse trattato, perfino dei servi e degli schiavi, nonché del rigido controllo di sé e delle passioni, sono documenti eloquenti alcune testimonianze che è bene chiamare all’attenzione. Cicerone nel Cato maior (12, 39 = A 9 Timpanaro Cardini) mette in bocca a Catone il riassunto di un discorso di Archita del quale l’Uticense dichiara d’avere avuto ragguagli quando, assieme a Quinto Massimo, si trovava a Taranto, la patria natale di Archita, nella quale questi rivestì cariche politiche e militari (ne diremo subito appresso). Ebbene, in quel discorso Archita condannava i piaceri fisici, e per converso lodava la sobrietà di vita e il controllo di sé di fronte ai piaceri, sia sotto il profilo di un’etica personale che sotto quello di un’etica pubblica e della responsabilità di fronte allo stato.3 Dell’umanità di Archita è testimonianza eloquente ciò che Giamblico (V. P., 197 = A 7 Timpanaro Cardini) dice a proposito del suo comportamento verso i famigli del suo podere: tornato dalla spedizione militare dei Tarantini contro i Messapi e recatosi nei suoi campi per controllare i raccolti, accortosi che né il fattore né i servitori braccianti ne avevano avuto adeguata cura, «preso da ira e sdegno, per quanto la sua natura lo consentiva, disse ai servi che avevano avuto fortuna ch’egli fosse adirato con loro; che se ciò non fosse avvenuto, non sarebbero rimasti impuniti per così grave mancanza». Insomma, una dura sgridata verbale aveva tenuto il luogo di una severa punizione. È testimonianza, inoltre, l’atteggiamento che egli, «uomo di stato e filosofo», come espressamente sottoli-

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nea Eliano (V. H., XII, 15 = A 8 Timpanaro Cardini) per accentuare il fatto, aveva verso i bambini dei suoi servi, con i quali amava intrattenersi e scherzare, e con i fanciulli in generale, cui donava la raganella (cfr. Suida = A 2 Timpanaro Cardini: «una specie di ordigno che produceva suono e rumore») perché potessero liberamente giocare senza danneggiare le suppellettili di casa, nella piena consapevolezza «che i giovani non possono stare fermi» (Aristotele, Pol., VIII, 6, 1340 b 25 = A 10 Timpanaro Cardini). 3.2 Quanto alla sua attività di uomo politico, in campo di politica militare, è sufficiente richiamare che per le sue eccezionali qualità fu eletto per ben sette volte stratega, in deroga alla stessa legge che proibiva a un cittadino di essere nominato in questa carica più di una sola volta, e si tramanda che non ebbe mai subito alcuna sconfitta. Sempre legato alla politica militare, ma con chiare ricadute in campo di politica civile, a lui si deve l’allestimento di una potente flotta e di un altrettanto potente esercito con i quali difendere, rispettivamente, gli interessi commerciali di Taranto nel golfo e la città dalle possibili incursioni delle popolazioni appenniniche. Il fatto si è che, com’è stato ben rilevato, «Archita era un matematico insigne e dotato di singolare attitudine alla meccanica; onde si può supporre che creasse nella sua città una vera e propria scuola di meccanica militare e provvedesse alla difesa con macchine da guerra» (Timpanaro Cardini, Pitagorici, II, p. 264). Inoltre Archita esercitò un’importante opera di mediazione politica in Taranto tra l’antica classe aristocratica, legata a Sparta e in declino dopo la sconfitta nella guerra contro gli Iapigi (471 a.C.) e la nuova classe emergente dei mercanti, che vieppiù aveva acquistato importanza grazie alle ricchezze accumulate con i commerci maritti-

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mi. Ond’è che la conseguente instaurazione del governo democratico in Taranto fu caratterizzata, grazie all’opera di Archita, che a questo si adoperò in modo precipuo, ravvisandovi la condizione necessaria per la stabilità politica della città e, di conseguenza, della sua floridezza, da un sostanziale equilibrio tra le classi. Tanto che Strabone (VI, p. 280 = A 4 Timpanaro Cardini) ha potuto dire che «una volta i Tarantini sotto un governo democratico ebbero grandissima importanza, richiamando contestualmente il lungo governo di Archita nella città. Né va passato sotto silenzio il fatto che lo stesso Aristotele in Pol., 1320 b 9, con una chiara allusione ai meriti politici di Archita, riconosce espressamente che il governo democratico instauratosi in Taranto, dove le cariche erano attribuite sia per elezione, onde il suffragio venisse dato ai migliori, che per sorteggio, onde tutti i cittadini vi potessero accedere, e dove i poveri potevano godere dell’usufrutto dei beni demaniali, era senz’altro da imitare. 3.3 Ma la fama principale di Archita è legata anche agli occhi di Aristotele alla sua attività di scienziato e di filosofo, e in questo campo eccellono le sue qualità di matematico. In realtà egli si applicò, e con notevole successo, in tutte le branche della matematica prese in considerazione dai Pitagorici, vale a dire nell’aritmetica, nella geometria, nella musica e nell’astronomia. In campo aritmetico mette conto ricordare che Archita, opponendosi all’opinione allora prevalente tra i Pitagorici, sostenne il primato dell’aritmetica sulla geometria, adducendo come motivazione la capacità di questa disciplina sia di dar conto anche di entità quali gli irrazionali e gli incommensurabili, sia di fornire dimostrazioni anche là dove la geometria non riesce.4 In campo geometrico l’invenzione di maggior spicco di Archita è legata alla soluzione del problema di come in-

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serire fra due grandezze due medie proporzionali in proporzione continua. Un problema al quale Ippone di Chio aveva ricondotto quello, classico, della duplicazione del cubo (cfr. Ippone di Chio, test. 4 e 4a Timpanaro Cardini, in Pitagorici, II, pp. 61 ss.) e al quale Eutocio di Ascalona, il grande commentatore delle opere di Archimede e, più tardi, delle Coniche di Apollonio, fiorito nella prima metà del VI sec. d.C., dedicò ampio spazio, richiamando una soluzione di Archimede da lui mai conosciuta e ricostruendo invece con molta minuzia quella fornita da Archita, in un importante testo raccolto come fr. 14 da Timpanaro Cardini nel secondo volume dei Pitagorici (pp. 296 ss.). In campo astronomico Archita s’impegnò in modo particolare a riflettere sull’infinitezza del mondo (e, di conseguenza, della materia), asserita sulla base di un ragionamento che suona nei termini seguenti: «se mi trovassi all’ultimo cielo, cioè quello delle stelle fisse, potrei stendere la mano o la bacchetta al di là di quello, o no? Ch’io non possa, è assurdo; ma se la stendo, allora esisterà un di fuori, sia corpo sia spazio (non fa differenza, come vedremo). Sempre dunque si procederà allo stesso modo verso il termine di volta in volta raggiunto, ripetendo la stessa domanda; e se sempre vi sarà altro a cui possa tendere la bacchetta, è chiaro che anche sarà infinito. E se è corpo, la proposizione è dimostrata; se è spazio, spazio dicesi appunto quello in cui un corpo è o potrebbe essere; ma nelle cose eterne ciò che esiste in potenza deve essere posto come esistente; dunque il corpo, anche lo spazio, sarà infinito» (Eudem., In Arist. Phys., fr. 30 apud Simpl., In Arist. Phys., 467, 26 = A 24 Timpanaro Cardini). In campo musicale e acustico i contributi di Archita si segnalano, innanzitutto, per aver egli indicato nel movimento e nell’urto le condizioni da cui si origina il suono, il quale viene così riportato alla sfera della meccanica, senza

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tuttavia perdere, per le prerogative che Archita non manca di precisare e di cui subito diremo, la sua specificità di fenomeno uditivo. Esso è dovuto, infatti, all’urto di un corpo contro un altro, o perché i corpi si muovono in direzioni opposte, o perché si muovono nella medesima direzione, ma con velocità diverse (cfr. Porph., In Ptol. Harm., p. 56 Düring = B 1 Timpanaro Cardini: «non può esserci rumore senza che si produca un urto tra due cose tra loro. E l’urto avviene [...] quando due cose in movimento battono l’una contro l’altra. Quando dunque cose che si muovono da direzioni opposte s’incontrano e si frenano a vicenda, oppure quando, muovendosi nella medesima direzione, ma con velocità diseguale sono raggiunte dalle sopraggiungenti, allora urtandosi producono un rumore»). Si tratta di una teoria che Aristotele fece propria, come appare dall’analisi di De an., II, 8, 419 b 9 ss., ma approfondendola attraverso il rilievo secondo cui il corpo percosso deve essere rigido e liscio. A partire da queste condizioni Archita deduceva le proprietà tipiche del suono, e innanzitutto quella per la quale la sua trasmissione nell’aria, per esempio la trasmissione del suono di una corda che oscilla o di una verga che vibra, è dovuto al fatto che l’aria stessa viene urtata dalla corda o dalla verga. Non soltanto, ma alla velocità del movimento, e dunque alla forza dell’urto, nonché alla distanza a cui si produce egli legava l’intensità del suono, e in rapporto all’intensità determinava la possibilità del suono stesso di essere percepito dall’orecchio umano, avvertendo che questo ha natura tale da non poter cogliere un suono o troppo lieve o troppo intenso. «Molti [...] rumori – prosegue Porfirio nel suo resoconto (B 1 Timpanaro Cardini) – non possono essere percepiti dalla nostra natura, alcuni per la debolezza dell’urto, altri per la grande distanza da noi; alcuni anche per l’eccesso stesso della loro intensità, giacché non penetrano nel

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nostro orecchio i rumori troppo grandi, così come anche nel collo stretto di un vaso quando vi si versi qualcosa in massa, nulla vi entra». Ancora è da rilevare la vicinanza di queste dottrine di Archita della trasmissione e della percettibilità dei suoni a quella aristotelica, la quale, quanto alla trasmissione, fa espressamente riferimento alla necessità che anche il suono, come del resto ogni altra sensazione, si produca non già per diretto contatto del sentito col senziente, bensì attraverso un mezzo, che nel caso di specie è costituito dall’aria, innanzitutto, ma anche dall’acqua (De an., II, 8, 420 a 12). Quanto poi alla caratteristica dei suoni troppo lievi o troppo intensi da non essere percepiti, le tesi di Archita collimano perfettamente, nella loro impostazione teorica e nei loro assunti di fondo, con quelle dello Stagirita, il quale anche in virtù di una più raffinata conoscenza anatomica dell’orecchio determina con più esattezza la fisiologia del suono attraverso l’urto dell’aria esterna (il mezzo) sull’aria interna all’orecchio, quella cioè contenuta congenitamente nel labirinto, e di questa sul sensorio (il timpano) (De an., II, 8, 420 a 4 ss.); ond’è che, ove l’urto sia troppo violento, il sensorio trae un danno che non permette la percezione; oppure, ove l’urto sia troppo lieve, il sensorio non ne è affetto e dunque non percepisce (De an., II, 10, 422 a 25 ss.; 12, 424 a 28 ss.). Il prosieguo del resoconto di Porfirio pone ulteriormente in chiaro l’impianto fondamentalmente meccanico della teoria del suono elaborata da Archita e al tempo stesso la sua vicinanza a quella aristotelica. Precisate le condizioni di udibilità dei suoni, il Tarantino, sempre sulla base del movimento e dell’urto, ne determinava l’acutezza e la gravità. «Quelli prodotti da urti rapidi e forti si sentono acuti, quelli prodotti da urti lenti e deboli si sentono gravi» (B 1 Timpanaro Cardini). Aristotele esplicherà, manifestando anche in proposito maggiore esat-

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tezza nella descrizione del fenomeno, che i caratteri di acutezza e di gravità dei suoni dipendono non solo dall’intensità del movimento e dell’urto, ma anche dal tempo: il suono acuto, dirà lo Stagirita, deriva da molto movimento in poco tempo, quello grave da poco movimento in molto tempo, in analogia con l’acutezza e l’ottusità delle sensazioni tattili (420 a 28 ss.). Nella teoria di Archita questa componente del tempo è certamente riscontrabile come presente, per cui non si è in errore se si dice che per il grande matematico le caratteristiche del suono ora in oggetto erano date dal rapporto tra l’intensità dell’urto e il tempo, ma – stando al resoconto di Porfirio – la dimensione temporale è individuabile in modo soltanto implicito, e cioè nel riferimento alla rapidità e alla lentezza del movimento e dell’urto («urti rapidi», «urti lenti») – come del resto, a ben vedere, la stessa componente dell’intensità dell’urto medesimo, ossia della velocità del movimento, è attestata solo implicitamente dagli aggettivi «forti» e «deboli». Dalla testimonianza di Porfirio del modo in cui Archita dimostrava la suddetta dottrina dell’acutezza e della gravità dei suoni risulta poi come essa non fosse formulata soltanto sulla base di considerazioni puramente teoriche, ma si appoggiasse anche sull’analisi di dati empirici ben evidenti, come appare dall’esplicito richiamo alle verghe agitate nell’aria, ai flauti, all’emissione della voce nel parlare e nel cantare, agli auli, ai rombi che si odono nelle cerimonie misteriche, ai suoni emessi dalle canne quando vi si soffia dentro. Insomma, la teorizzazione matematica veniva a determinare concettualmente dei dati sperimentalmente accertati e acquisiti. Peraltro quest’impostazione di tipo meccanico-matematico non era limitata soltanto allo studio dell’acustica, ma abbracciava, in Archita, ogni campo del sapere, e in particolare lo studio dei fenomeni naturali. «Nel moto naturale –

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diceva Archita, secondo quanto si legge in Aristotele, Probl., 16, 9, 915 a 25 ss. = A 23a Timpanaro Cardini a proposito della questione «perché le parti delle piante e degli animali, che non compiono una funzione organica, sono tutte arrotondate: delle piante il tronco e i rami, degli animali le gambe, le cosce, le braccia, il torace; e invece, né il corpo intero, né alcuna singola parte è a forma di triangolo o di poligono» – è insito il rapporto di parità (ché tutto si muove secondo rapporto), e questo rapporto è il solo che ritorna su se stesso, cosicché, quando ha luogo, crea cerchi e superfici rotonde». Mette conto, da ultimo, richiamare come la scienza matematica sia stata coltivata da Archita anche in quella branca di essa costituita dalla musica. E che tale fosse considerata la musica è ben evidente dal ritenere i Pitagorici e, in specie, Archita che le armonie «consistono in rapporti numerici», e più precisamente in rapporti numerici tra movimenti veloci, che danno luogo a suoni acuti, e movimenti lenti, che danno luogo a suoni gravi (Theo Smyrn., p. 61, 11 Hill = A 18b Timpanaro Cardini). Ebbene, su base matematica Archita pose mano alla costruzione di una teoria delle armonie che prevedeva tre gamme musicali e il reperimento di nuovi intervalli (se ne veda l’esposizione in Ptolem., Harm., I, 13, p. 30, 9 Dür. = A 16 Timpanaro Cardini). Anche il linguaggio, in quanto costituito di suoni, dotati di un ritmo e convergenti nel definire uno stile, era riportato da Archita alla musica in quanto teoria di essi e dunque, in ultima analisi, alla matematica; e – si badi – stando alla testimonianza di Quintiliano (I, 10, 17 = A 19a Timpanaro Cardni) non il linguaggio poetico, con riferimento alla musicalità dei versi, bensì il linguaggio in quanto tale. Alla musica, infatti, dice Quintiliano, egli riteneva soggetta (subiectam) «la grammatica (grammaticem)», ossia la teoria dei suoni linguistici. Certo, il linguaggio poetico lo era a maggior titolo,

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aggiungendo all’essere costituito su base grammaticale la musicalità del verso. Ond’è che si riporta alla musica per due ragioni. Ma ciò che qui è innanzitutto interessante è specificato dal primo motivo. Ebbene, di fronte a una personalità di tanto e tale spessore dottrinale, rispetto alle cui teorie acustiche Aristotele non poteva non riscontrare una sostanziale somiglianza d’impianto con quelle da lui medesimo professate, è comprensibile che lo Stagirita abbia avvertito un particolare fascino, tale da giustificare la dedicazione ad Archita di uno scritto a parte nel quadro complessivo dell’esposizione dei Pitagorici. 4. 1 Dei due frammenti che Ross attribuisce ad Archita, ritengo che il primo, nel quale pur tuttavia non si fa menzione del Tarantino, ma di Timeo di Locri e che per questo Timpanaro Cardini non riferisce al nostro, sibbene al secondo personaggio, sia comunque attinente ad Archita. Il punto sul quale occorre fissare soprattutto l’attenzione mi sembra essere il richiamo che «Aristotele conosceva queste cose», ossia queste tesi, o queste teorie, fatto in un contesto dove è a tema la generabilità del mondo, in virtù della sua natura sensibile. Ora, se si pone mente a che tra le ragioni che inducono a credere all’esistenza dell’infinito lo Stagirita annovera la difficoltà di concepire il limite (cfr. Phys., III, 1, 203 b 21-23: «ciò che è limitato sempre ha un limite in rapporto a qualcosa; per cui è necessario che niente sia limite, se, di necessità, sempre una cosa ha un limite in rapporto a un’altra») e, «soprattutto e in senso principale», il fatto che «per l’impossibilità per il pensiero di sopprimere l’infinito» si ritengono infiniti non soltanto i numeri e le grandezze geometriche, ma anche «ciò che è fuori del cielo», ossia lo spazio che si estende fuori del primo cielo, o cielo delle stelle fisse (Ivi, 23-25), e che proprio Archita, come abbiamo segnalato, sosteneva

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l’impossibilità di concepire un limite dell’universo e la finitudine del cielo, ben ci si avvede che il riferimento alle «cose che Aristotele conosceva», posto in premessa alla teoria platonica della generabilità, ossia alla finitudine, del mondo, può ragionevolmente essere il riferimento alle tesi e alle teorie secondo cui l’universo è infinito; tra le quali teorie primeggiava quella di Archita, filosofo che, come abbiamo illustrato, non poteva non suscitare l’interesse di Aristotele e con le cui dottrine Aristotele stesso si confrontava, in positivo e in negativo, per formulare e comprovare le proprie. Ecco pertanto che il frammento è – a me sembra – molto plausibilmente riferibile ad Archita, come per l’appunto ha ben visto Ross, e il suo senso complessivo è il seguente: Aristotele – attesta Simplicio nel commento al De caelo –, che ben conosceva le teorie sull’infinitezza del mondo e, tra esse, in primis, quella di Archita, ha per contro preso in considerazione la tesi platonica secondo cui il mondo è generato e, dunque, è finito, riassumendo in tal senso i contenuti del Timeo. Istanza, quest’ultima, che trova conferma nella notizia di Diogene Laerzio (V, 25 = Timpanaro Cardini, Timeo, A 2; Pitagorici, II, pp. 404 s.) il quale al n. 94 del catalogo degli scritti di Aristotele riporta un’opera, in un libro, intitolata Dottrine dal Timeo e dai libri di Archita (ta# eèk tou^ Timai@ou kai# tw^n èArcutei@wn a/). Titolo che – fa osservare Timpanaro Cardini (Ivi) – «si riferisce evidentemente a due opere: il Timeo platonico e i libri di Archita», contrariamente al titolo dell’opera dello Stagirita, sempre in un libro, indicata al n. 85 del catalogo di Esichio (e riportata nella medesima testimonianza): Dalle dottrine di Timeo e di Archita (eèk tw^n Timai@ou kai# èArcu@tou a/). Qui, infatti, commenta Timpanaro Cardini (Ivi), il riferimento «sembra piuttosto essere ai due autori: Timeo e Archita». All’esegesi che si è proposta potrebbe essere opposto

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che la finitudine del mondo asserita da Platone nel Timeo, le cui tesi Aristotele riassunse, è una finitudine nel tempo: in un certo momento il Demiurgo, plasmando la cw@ra secondo il modello delle Idee e secondo rapporti matematici, ha dato origine al mondo; laddove l’infinitudine del mondo asserita e provata da Archita nel modo che abbiamo visto è chiaramente di tipo spaziale. Ma il rilievo, peraltro assai pertinente in senso assoluto, specificato in riferimento ad Aristotele non sembra scalfire l’interpretazione avanzata. Ché, ove si pensi che per Aristotele – giacché a lui occorre riportarsi, in quanto è lui che nella testimonianza di Simplicio poneva comparativamente assieme la tesi platonica della finitudine del mondo con quella di Archita della sua infinitezza – l’infinito, in quanto luogo senza corpo, è al tempo stesso sia temporale che spaziale e che, per converso, stante l’inesistenza dell’infinito come entità in atto, sarebbe impensabile che qualcosa avesse origine nello spazio ma non nel tempo, perché ciò significherebbe ammettere che il tempo è attualmente infinito, e ancor più impensabile sarebbe che qualcosa avesse avuto origine nel tempo ma non nello spazio, perché ciò comporterebbe l’assurdo di ammettere l’esistenza di uno spazio, ossia di un luogo, infinito; posto, di conseguenza, che l’origine, ossia la finitezza nel tempo comporta eo ipso anche la finitezza nello spazio, è chiaro che l’obiezione viene meno in quanto propone di distinguere un indistinguibile. 4.2 Se la sensibilità, legata com’è alla materia, è additata nel primo frammento come condizione della generabilità degli enti che ne sono affetti, di contro all’ingenerabilità quale prerogativa di ciò che è immateriale (ciò che è sensibile e, dunque, materiale è soggetto a generazione, di contro alle Idee, che sono di natura intelligibile, ossia immateriale, e come tali sono ingenerabili), nel secondo frammen-

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to la sensibilità nel suo legame con la materia è indicata come sintomo di mutevolezza. Tra le due determinazioni cui la sensibilità è riferita, ossia la generabilità e la mutevolezza, sussiste ovviamente uno stretto legame concettuale, giacché ciò che muta, ove il mutamento sia assunto nel senso – aristotelicamente – più radicale, si genera e si corrompe. Ciò tuttavia non toglie che si tratti di due determinazioni concettuali distinte: tanto nel contesto aristotelico quanto in quello platonico, nel quale i due frammenti qui a tema si collocano. E in entrambi il momento platonico è posto a confronto con quello pitagorico, in generale, e di Archita, in particolare. Ond’è che sotto questo profilo tra i due frammenti sussiste una strutturale compattezza. Nel secondo la scansione concettuale è la seguente: Platone indica come «altre cose (ta# aòlla)» gli enti sensibili, che sono materiali, e la materia stessa. Il termine in riferimento a cui dà loro questa denominazione sono le Idee, le quali hanno natura non già materiale, bensì intelligibile. Ma anche Pitagora, secondo quanto Aristotele riferisce nello scritto Su Archita, qualificava le cose come «altre (¥lla)», cosicché questa di rivolgersi a esse con tale qualificazione è consuetudine (sunh@qeia) comune all’uno e all’altro filosofo; ma la motivazione per cui Pitagora le chiamava così è diversa – ancorché concettualmente connessa – da quella per la quale così le indicava Platone. Questi, abbiamo detto, usava per esse tale appellativo in quanto «altre» rispetto alle Idee; Pitagora invece le chiamava «altre» in riferimento al loro mutare, ossia diventare altre, di contro all’immutabilità dei loro costituenti numerici, che per lui costruivano l’aèrch@. Insomma, l’«alterità» delle cose è, per Platone, relativa alla loro materialità e alla loro sensibilità, di contro all’intelligibilità delle Idee, laddove per Pitagora le cose sono «altre» in quanto mutevoli, permanendo invece i fondamenti di esse, ossia i numeri.

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Benché l’identica qualificazione si appoggi, in Platone e in Pitagora, a determinazioni concettuali diverse, tra esse sussiste – si diceva – un legame strutturale. Ché, le stesse cose empiriche, sensibili e materiali di Platone, in quanto «altre» dall’immutabilità delle Idee, sono soggette a mutamento, come per l’appunto sono «altre», perché divenienti, le cose nella prospettiva di Pitagora.

FRAGMENTA

FRAMMENTI

1 (R3 206)5 Simpl. In Arist. de caelo, p. 296, 16-18: Aristotele conosceva, dunque, queste cose. Il fatto si è che, riassumendo il Timeo di Platone, scrive: « dice che è generabile, giacché è sensibile; e ipotizza che ciò che è sensibile sia generabile, mentre ciò che è intelligibile sia ingenerabile». 2 (R2 201, R3 207)6 Damasc., Pr., II, 172, 16-22 (Ruelle): pertanto è meglio rimanere saldi nella sua definizione, secondo la consuetudine pitagorica e quella dello stesso Platone, pensando che «altre» siano le cose materiali e la stessa materia. Infatti, nel Fedone le chiama così, «le altre cose»,7 dicendo che, rispetto alle Idee, le cose sensibili sono altre. E Aristotele nel trattato Su Archita racconta che anche Pitagora chiamava la materia «altra cosa»,8 in quanto scorrevole e sempre diveniente altro.9 Di conseguenza, anche Platone è chiaro quando definisce così le altre cose.

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Note 1 Sulla connessione in Aristotele tra le dottrine del pitagorico Timeo e quelle del pitagorico Archita cfr. supra, pp. 383 ss. 2 Moraux (Listes anciennes, p. 301), affiancando nel suo giudizio questo scritto a quello Sui Pitagorici indicato al n. 18, 2° parte del catalogo di Tolomeo, ritiene che si tratti di opere che, a torto o a ragione, la pinacografia ha considerato essoteriche. Al tempo di Tolomeo i dialoghi e le altre opere aristoteliche pubblicate tendevano a sparire dalla circolazione a vantaggio dei trattati di scuola. L’attenzione di Tolomeo si rivolgeva primariamente a questi secondi, diversamente da Aristone, che s’interessava invece soprattutto delle prime. 3 Ecco le precise parole di Cicerone: «nessun malanno più rovinoso la natura ha dato agli uomini del piacere corporeo, perché gli appetiti, avidi di esso, spingono gli uomini a procurarselo senza discernimento né freno. Da qui, diceva, nascono i tradimenti della patria, da qui i sovvertimenti degli stati, da qui i colloqui clandestini coi nemici; non c’è, insomma, nessun delitto, non c’è mala azione al cui compimento non spinga la libidine del piacere. E, invero, stupri, adulteri e ogni altro cotal malanno da nessun’altra lusinga son provocati se non da quella del piacere. E mentre all’uomo è stato dato, sia dalla natura, sia da qualche dio, un bene che non ha l’uguale: la mente, a questo privilegio e dono nulla è tanto nemico quanto il piacere. Né infatti, finché domina la libidine, c’è luogo a temperanza, né in alcun luogo nel regno della volontà può dimorar la virtù. E perché ciò potesse essere meglio compreso, egli consigliava di immaginare un uomo in preda al massimo eccitamento sensibile che si possa provare: nessuno, egli credeva, poteva essere in dubbio che costui, finché godeva in tal modo, potesse intendere, o ragionare, o pensare alcunché. Donde concludeva nulla essere tanto detestabile e funesto quanto il piacere; che se mai fosse troppo intenso e prolungato, estinguerebbe ogni luce dell’anima». 4 Cfr. Stobeo, I, pr., p. 18, 8 Wachsmuth = B 4 Timpanaro Cardini: «la scienza del calcolo sembra avere, in rapporto alla sapienza, una netta superiorità sulle altre discipline; poiché anche più efficacemente della geometria riesce a trattare ciò che vuole e dove la geometria a sua volta si dà per vinta, la scienza del calcolo ne sa fornire anche la dimostrazione, ed egualmente riguardo alle forme, ove si possa dare delle forme una qualche dimostrazione scientifica». 5 Il passo da «Il fatto si è che» fino alla fine è accolto da Timpanaro Cardini, Pitagorici, II, pp. 404 s. come testimonianza n. 2b su Timeo.

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6 Il passo da «E Aristotele» alla fine è accolto da Timpanaro Cardini, Pitagorici, II, pp.294 s. come testimonianza n. 13b su Archita. 7 Cfr. Phaed., 83 b. 8 Come ha indicato Zeller (Zeller-Mondolfo, II, p. 463, nota n. 2), che per questo riteneva inattendibile la notizia data da Damascio, il riferimento ad Aristotele riguarderebbe Metaph., 1087 b 26, dove lo Stagirita afferma che alcuni filosofi contrapponevano all’uno (eçn) il diverso (eçteron) e l’altro (¥llo) come principio materiale. Notizia che lo Ps. Alessandro, ad loc. riferisce arbitrariamente ai Pitagorici, traendo così in errore Damascio. Ma, come ha osservato Timpanaro Cardini (Pitagorici, II, p. 294), «il riferimento del commentatore ai Pitagorici è in parte spiegabile, perché la polemica di Aristotele 1087 b 26 non ha un bersaglio univoco, e qualche allusione non è chiara». 9 Ad avviso di Timpanaro Cardini (Pitagorici, II, p. 295) il concetto di aòllo come ciò che è sempre mutevole si può rintracciare anche prima di Platone, e precisamente in Eraclito, il cui pensiero sull’eterno divenire delle cose costituisce in un certo qual senso l’ambito dove questo specifico motivo si pone. Ora, in questo motivo stesso della mutevolezza dell’aòllo si potrebbe individuare addirittura l’origine storica e teorica di «quella dottrina che faceva generare da un punto scorrente la linea, dalla linea scorrente la superficie, da questa scorrente il solido (cfr. Erone, def. 2; Simpl., Phys., p. 722, 28; Procl., in Eucl., p. 97, 6)». Una dottrina che, relativamente alla generazione della linea e della superficie, rispettivamente, dal punto e dalla linea stessa, è attestata anche da Aristotele in De an., 409 a 4 con un generico «fasi@». Come soggetto del quale, Sesto Empirico, Adv. Math., X, 281 indica in modo esplicito i Pitagorici.

SU DEMOCRITO

INTRODUZIONE

1. Lo scritto col titolo Su Democrito (Peri# Demokri@tou) non compare nel catalogo di Diogene Laerzio, che invece reca al n. 124 uno scritto intitolato Problemi derivanti dalle opere di Democrito (Problh@mata eèk tw^n Dhmokri@tou), in due o in cinque libri,1 e al n. 154 un altro dal titolo Contro Democrito (Pro#v Dhmo@kriton). 2. Nell’unico frammento riportato da Ross è innanzitutto da fissare l’attenzione sulle parole con le quali Alessandro, secondo quanto riferisce Simplicio, presenta il pensiero di Aristotele su Democrito. Esse sintetizzano quella che può a buon diritto considerarsi la cifra complessiva dell’ontologia dell’Abderita: il nascere e il perire delle cose intramondane non è che l’aggregarsi e il disgregarsi di enti che né nascono né muoiono, ma eternamente sono. Tale intuizione fondamentale, che sta al fondo del pensiero dei Pluralisti, in generale, e degli Atomisti, in specie, in riferimento a questi secondi e, in particolare, a Dmocrito, si carica per Aristotele di una contraddizione, resa ancor più acuta dal confronto tra il suo delinearsi nel sistema filosofico democriteo e in quello di Empedocle, un altro Pluralista, ritenuto tale dallo stesso Stagirita,

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che tuttavia qui lo allinea a Eraclito, emblematico sostenitore dell’opposta intuizione dei Monisti. Ma vediamo nel dettaglio. Va subito fatto presente che Aristotele formula il suo giudizio – e così Alessandro e Simplicio lo presentano – entro un quadro teorico complessivo segnato da nozioni derivate dalla propria dottrina fisica. Tali, espressamente, le nozioni di «alterazione» (aè l loi@ w siv) e «alterarsi» (aèlloiou^sqai), contrapposte a quelle di «generazione e corruzione» (ge@nesiv kai# fqora@), in parallelo con le corrispondenti azioni del «generarsi» e del «corrompersi» (gi@gnesqai kai# qfei@resqai). È noto che per Aristotele generazione e corruzione, generarsi e corrompersi sono mutamenti (metabolai@) nei quali ne va del sostrato, mentre l’alterazione è quel movimento (ki@nhsiv) nel quale il sostrato permane, cambiando invece le sue affezioni qualitative.2 2.1 Su questa base e alla luce di questi concetti si comprendono le parole iniziali del commento di Alessandro riferito da Simplicio, le quali rappresentano un primo livello di considerazioni: ai filosofi che sostengono che «il tutto talvolta è in uno stato e talvolta in un altro» va ascritta una concezione per la quale esso si altera piuttosto che generarsi e corrompersi, mentre di generazione e di corruzione in senso proprio occorre parlare a proposito di quei pensatori, emblematicamente rappresentati da Democritio, per i quali i mondi, al pari delle singole cose, sono composti di enti che in se stessi né si generano né si corrompono, ma permangono, formandosi dalla loro aggregazione e dissolvendosi per la loro disgregazione. Insomma, la generazione sia dei mondi che delle singole cose coincide con l’aggregazione di tali enti (in Democrito, degli atomi) e la corruzione con la loro disgregazione.

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Non vi è dubbio che la contrapposizione sia tra l’intuizione dei pensatori monisti e quella dei pensatori pluralisti, di cui l’Abderita è l’espressine più rappresentativa. Entrambi considerati da Aristotele come «fisici» (fusikoi@) o «fisiologi» (fusiologikoi@) per aver fatto coincidere la totalità dell’esistente con la «natura» (fu@siv), vale a dire con una realtà in divenire, caratterizzata dall’avere in sé il principio del movimento e della quiete, e nondimeno come «filosofi», perché, in forza di questa identificazione, parlando della «natura» parlarono per ciò stesso del tutto, e l’occuparsi di questo segna la cifra della filosofia,3 essi sono, sì, accomunati dall’intuizione che il tutto è soggetto a perenne divenire, ma si differenziano per il modo in cui danno forma dottrinale a tale intuizione, concependo il perenne divenire stesso del tutto secondo scansioni diverse. 2.1.1 Per i Monisti, il tutto è quell’elemento primordiale o aè r ch@ (come l’acqua, o il fuoco, o l’aria, o l’apeiron) che, trasformandosi, dà origine alle cose e le riassorbe in sé al tempo della loro dissoluzione. Il loro nascere e il loro perire coincidono con le trasformazioni dell’elemento primordiale e sono, propriamente, «stati» in cui via via questo, inteso come sostanza/sostrato, si trasforma. L’elemento primordiale, infatti, per il fatto di non scadere nel nulla lungo il corso delle sue eterne trasformazioni, vale a dire di permanere, e di esistere in sé, è ricondotto da Aristotele alla «propria» nozione della sostanza, e gli «stati» che esso assume nel suo divenire esprimono determinazioni di ordine qualitativo, diverse l’una dall’altra, di quella (unica) sostanza. Che si tratti di determinazioni di ordine qualitativo è chiaro dal fatto che l’elemento primordiale, ossia la sostanza, divenendo, si trasforma in questo fiore, in questa pietra, in quest’ani-

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male, ecc., e ciascuno di questi enti esprime uno «stato» dell’eterno trasformarsi dell’unica sostanza diverso qualitativamente dall’altro. E poiché il mondo è la totalità delle cose, del loro nascere e del loro perire, ed esse sono stati qualitativamente diversi assunti dall’unica sostanza nel suo eterno divenire, vige allora che il mondo, coincidendo con l’essere della sostanza «talvolta in uno stato e talvolta in un altro», non è che l’alterarsi di questa e le cose stesse non sono che alterazioni dell’elemento primordiale pensato come sostanza. A questo livello non si può parlare di generazione e di corruzione, perché esse, come abbiamo visto, comportano il mutamento della sostanza, mentre nella situazione rappresentata non è questa a mutare, ma mutano le sue determinazioni qualitative. Per questo stesso motivo bisogna, invece, parlare di alterazione (aèlloi@wsiv), essendo propriamente questa il movimento (ki@nhsiv) nel quale la sostanza permane e a divenire è la qualità. 2.1.2 Per contro, si può parlare di generazione e corruzione a proposito della concezione di Democrito e, in generale, dei Pluralisti. Ciò che giustifica questa considerazione è il fatto che nel movimento degli atomi (così come degli omeomeri di Anassagora e delle quattro radici di Empedocle) ne va, almeno in un certo senso, della sostanza degli enti, e dunque dei mondi come insieme di enti e aggregazioni di atomi. In un certo senso, s’è detto (ed è il senso che sorregge le considerazioni di Aristotele a questo primo livello), considerando cioè come sostanza l’aggregato e non già i singoli atomi di cui esso è formato. È questo un primo, basilare livello sul quale è lecito considerare, nei termini aristotelici, la sostanza delle cose nella concezione democritea. Ed è una considerazione ampiamente provvi-

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sta di plausibilità, giacché le cose e i mondi sono «sostanzialmente» aggregati di atomi e non già semplicemente atomi. Gli atomi da soli, infatti, non costituiscono ancora le cose e i mondi, ma ciò che li definisce nella loro «sostanzialità», vale a dire nel loro essere in sé, è, per l’appunto, l’aggregazione degli atomi. È interessante notare la contrapposizione, carica di valore sintomatico e pregnante, tra «il tutto» che «talvolta è in uno stato e talvolta in un altro», e in queste fattezze incentra su di sé il nucleo speculativo della prima concezione, e gli «infiniti mondi» che campeggiano nella seconda. «Il tutto», infatti, chiama in causa una pluralità unificata, ossia un’unità, espressa, nella situazione in oggetto, dall’unico elemento primordiale; donde la plausibilità di attribuire la corrispondente concezione del nascere e del perire delle cose all’ipotesi monistica. Per contro, gli «infiniti mondi» alludono già in se stessi a una visione del nascere e del perire che non s’attaglia all’ipotesi monistica, giacché la supposizione che quei processi diano vita a una pluralità infinita di mondi e al tempo stesso consistano nel trasformarsi di un’unica sostanza originaria sarebbe chiaramente stonata, ma fa riferimento all’idea che gli elementi primordiali sono molti. 2.2 A un secondo, più approfondito livello, però, la stessa concezione pluralista, in genere, e quella di Democrito, in specie, del formarsi e del dissolversi dei mondi presenta caratteristiche strutturali per cui non è possibile parlare di generazione e corruzione, ma anche a proposito di essa occorre parlare di alterazione. È una tesi che Aristotele fa valere come critica all’Abderita e ai Pluralisti. Nel sistema del primo, i termini dell’opposizione sono lampanti. In effetti, ciò di cui in ultima analisi sono costituite le cose e i mondi sono gli atomi, ed essi ne rappresentano

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la vera sostanza, giacché non si generano né si corrompono, ma permangono, e il loro aggregarsi e disgregarsi sono affezioni locative di queste «sostanze». Le uniche affezioni cui siano soggetti. E poiché, com’è noto, le differenze qualitative delle cose sono dovute, per Democrito, all’aggregarsi degli atomi di forma geometrica diversa, e nell’aggregarsi e nel disgregarsi degli atomi consistono la formazione e la dissoluzione dei mondi, anche nella concezione democritea la formazione di essi corrisponde a un’alterazione, e parimenti a un’alterazione corrisponde la loro dissoluzione, in quanto si tratta di processi che vedono in causa il mutare non già delle «sostanze» (gli atomi), che in se stesse permangono, bensì delle loro affezioni locative, ossia del loro occupare questa o quella posizione nel vuoto. L’alterazione, ovviamente, non concerne gli atomi, non sono cioè questi ad alterarsi (diversamente dalla sostanza primordiale nell’ipotesi monistica), bensì quei loro aggregati che sono le cose e dunque i mondi. È esattamente quanto attesta Simplicio, riferendo, attraverso il commento di Alessandro, il pensiero di Aristotele, ed è quanto lo Stagirita direttamente afferma in un celebre passo della Metafisica nel quale mette in chiaro che la causa ricercata dai Naturalisti presocratici è la causa materiale. Per provarlo, infatti, così scrive Aristotele: la stragrande maggioranza dei primi che filosofarono ritenne che principi di tutte le cose fossero soltanto quelli nella forma della materia. Infatti, ciò da cui tutti gli enti derivano, ossia la cosa prima dalla quale vengono all’essere e nella quale alla fine si corrompono, permanendo la sostanza ma mutando nelle sue affezioni, questa sostengono essere elemento e questa essere principio degli enti, e per questo ritengono che niente né si generi né si distrugga, nella convin-

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zione che una tale natura si salvi sempre: come neppure diciamo che Socrate né viene totalmente all’essere quando diventi bello o musico, né si distrugge quando muti questi stati, per il fatto che permane il sostrato, ossia Socrate stesso, così neppure alcuno degli altri . Infatti, esiste sempre una certa natura, o una sola o più di una, dalla quale vengono all’essere gli altri , mentre essa si salva. 4 (Metaph., I, 3, 983 b 6-18)

Come ho cercato di mostrare nel commento all’edizione della Metafisica da me redatto (cfr. Zanatta, Metafisica, I, pp. 387 s.), qui, contrariamente a quanto a tutta prima potrebbe sembrare, Aristotele non si riferisce soltanto ai Monisti, ma ai Naturalisti presocratici (ai fisici o fisiologi) nel loro complesso, e dunque anche ai Pluralisti. Che l’allusione sia ai Monisti, è del tutto evidente e non c’è necessità di provare il riferimento.5 Che essa si estenda anche ai Pluralisti appare dal fatto che nell’ipotesi di questi pensatori, e nel caso di specie di Democrito, le affezioni concernenti il mutare degli atomi in quanto sostanze primordiali di ordine materiale sono quelle locali: gli atomi, infatti, non si trasformano, ma permangono saldi in se stessi, e il solo divenire cui sottostanno è quello di aggregazione e di disgregazione, ossia il mutamento locale. E poiché gli atomi hanno forme geometriche diverse e le qualità delle cose e dunque, in ultima analisi, dei mondi dipende dall’aggregarsi degli atomi, ecco pertanto che anche nell’ipotesi democritea il nascere e il perire corrispondono a processi di alterazione. Le cose, infatti, mutano nelle loro qualità pur permanendo la loro «sostanza» atomica di cui sono costituite. 2.3 Un ultimo aspetto su cui occorre soffermarsi concerne l’assimilazione di Empedocle a Eraclito nell’aver in-

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terpretato la formazione e la dissoluzione dei mondi in termini di alterazione e non già di generazione e corruzione. Si tratta di un’assimilazione che a tutta prima suona per lo meno strana, in quanto pone sullo stesso piano una concezione monistica dell’elemento primordiale, qual è quella dell’Efesio, e una concezione pluralistica, quale quella dell’Agrigentino. Le quattro radici, infatti, in quanto aèrcai@ sarebbe congruo intendere che permangano ciascuna in se stessa e l’unico movimento a cui sono soggette sia quello locale, necessario per la loro aggregazione e disgregazione. Per questo, la condizione che regola il formarsi e il distruggersi del tutto nell’ottica empedoclea delle quattro radici appare del tutto differente da quella del fuoco eracliteo, che si trasforma, invece, in aria, in terra e persino nell’acqua, il suo contrario. Ond’è che, se a proposito di quest’ultima l’invocare il processo di alterazione della sostanza primordiale è pienamente congruo e comprensibile – il fuoco, infatti, permane nelle trasformazioni sopraddette, giacché aria, terra e acqua non sono «sostanze», ossia in sé, ma «stati» (eçxeiv) che esso di volta in volta assume, ossia sue affezioni, e sue affezioni di ordine chiaramente qualitativo –, l’invocarlo anche a proposito delle prime è alquanto strano. Ma alla luce di quanto Aristotele afferma in Metaph., I, 8, 889 a 22 ss., dove obietta a Empedocle aver inopportunamente indicato nella quattro radici il fondamento, giacché questo permane in se stesso,6 mentre quelle si mutano l’una nell’altra, ciò si avvede della vicinanza, agli occhi dello Stagirita, della posizione di questo pensatore con quella dell’Efesio. Si tratta soltanto di rendersi conto della prospettiva da cui muove Aristotele: non certamente quella di ricostruire il pensiero di Empedocle per quello che egli «ha

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veramente detto», sibbene, anche in questa circostanza, quella di far emergere «la verità di ciò che ha detto». In questa prospettiva e da questo punto di vista non soltanto l’assimilazione di Empedocle a Eraclito, ma altresì l’assimilazione della posizione di questi due pensatori a quella di Democrito assumono un rilievo del tutto primario.

FRAGMENTA

FRAMMENTI

1 (R2 202, R3 208) Simpl., In Arist. De Caelo, p. 294, 23 – 295, 26: anche questo aggiunge Alessandro, e cioè che coloro che sostengono che il tutto talvolta è in uno stato e talvolta in un altro, parlano di un’alterazione del tutto più che di una sua generazione e corruzione;7 invece – egli dice – coloro che sostengono che il mondo è corruttibile come qualunque altro tra i composti, saranno i seguaci di Democrito.8 In effetti, come, a loro avviso, ciascuna delle altre cose si genera e si corrompe, ebbene, così anche ciascuno degli infiniti mondi. E come nel caso delle altre cose ciò che nasce non è identico a ciò che si corrompe se non, dunque, per la specie, così dicono anche per i mondi.9 Ma se gli atomi permangono identici, essendo impassibili,10 è chiaro anche che costoro parleranno di alterazione ma non di corruzione dei mondi, come in realtà sembrano sostenere Empedocle ed Eraclito.11 Poche trascrizioni tratte dall’opera di Aristotele Su Democrito mostreranno il pensiero di quegli uomini. «Democrito ritiene che la natura delle cose eterne consista in piccole sostanze infinite di numero;12 come luogo per esse ipotizza un’altra cosa, infinita per la grandezza; e chiama il luogo con i nomi del genere seguente: vuoto, nulla, infinito, mentre chiama ciascuna delle sostanze con quello di qualcosa, di solido, di essere.13 Ritiene che le sostanze siano così piccole da sfuggire ai nostri sensi,14 e che vi appartengono forme d’ogni tipo, ossia figure d’ogni tipo

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e una differenza per grandezza.15 Ebbene, da queste come già da elementi si generano, ossia si compongono le masse manifeste allo sguardo, vale a dire sensibili; esse sono instabili e si muovono nel vuoto a causa della loro disomogeneità e delle altre differenze che abbiamo detto, e muovendosi cadono e si compongono in un intreccio tale da far sì che esse vengano in contatto e siano vicine tra loro.16 Tuttavia, in verità, da esse non si genera un’unica natura, né una natura qualsiasi, giacché è perfettamente ingenuo che due o più cose talvolta diventino un’unica cosa.17 Al fatto che le sostanze permangano assieme l’una con l’altra fino a un certo momento si imputano i mutamenti e gli scambi dei corpi: giacché alcuni di essi sono scaleni, altri a forma d’uncino, altri cavi, altri convessi, altri dotati altre innumerevoli differenze. Fino a tanto tempo, dunque, ritiene che restino unite tra loro stesse e permangano assieme, ossia fino a che una necessità più forte, derivante da ciò che le contiene,18 le scuota e le disperda lontano». Afferma che la generazione e la separazione opposta a essa non concernono soltanto gli animali, ma anche le piante e i mondi e, in senso complessivo, tutti quanti i corpi sensibili. Se pertanto la generazione è riunione di atomi e la corruzione separazione , anche ad avviso di Democrito la generazione sarà una certa alterazione. E infatti anche Empedocle sostiene che ciò che diviene non è identico a ciò che si corrompe se non per la specie, e similmente Alessandro afferma che egli ipotizza un’alterazione ma non una generazione.

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Note 1 I codici di Diogene Laerzio oscillano, infatti, tra Problh@mata eèk tw^n Dhmokri@tou z è e Problh@mata eèk tw^n Dhmokri@tou b è (in proposito cfr. Moraux, Listes anciennes, p. 280, nota n. 6). In due libri lo riporta anche il catalogo dell’Anonimo, al n. 116, col titolo Problema@t wn Dhmokritei@wn b @. Rose (Fragmenta) interpreta «problemata duo non problematum libri duo, ut Hesychius», ma è opinione poco condivisibile. Ancora Moraux (Ivi, pp. 210 s.) informa che i Problh@mata eèk tw^n Dhmokri@tou erano una collazione d’excerpta tratti dalle opere filosofiche dell’Abderita. Da essi proverrebbero gli oèli@ga eèk tw^n èAristote@louv peri# Dhmokri@tou paragrafe@nta di cui parla Simplicio (294, 36), sulla base di una notizia derivata da Alessandro, nel frammento qui riportato. Va da sé che in tal caso peri# Dhmokri@tou non indicherebbe il titolo dell’opera aristotelica, ma soltanto il complemento di argomento. Sempre ad avviso di Moraux (Ivi, p. 121), all’esposizione delle tesi di Democrito sarebbe stato dedicato anche lo scritto, in un libro, Parabolai@, del quale dà notizia Diogene Laerzio al n. 126 del suo catalogo delle opere aristoteliche. Lo studioso, infatti, ritiene che parabolai@ qui non significhi «comparazioni», bensì «congiunzioni d’astri», e poiché l’Abderita scrisse un’opera di astronomia matematica intitolata Me@gav eèniauto#v hà ¢stronomi@h, para@phgma (cfr. Diogene Laerzio, IX, 48) e d’altro canto l’interesse del Peripato per l’astronomia democritea è attestato anche dall’esistenza di uno scritto di Teofrasto su questo specifico tema, il Peri# th^v Dhmokri@tou ¢strologi@av (cfr. Diogene Laerzio, V, 43), ipotizza che le Parabolai@ siano una raccolta di excerpta tratti dal para@phgma democriteo. 2 Mi riferisco alla classificazione di Phys., V, 1-2, dove Aristotele divide il mutamento (metabolh@), da un lato in generazione e corruzione, dall’altro nel movimento (ki@nhsiv), distinto a sua volta nell’alterazione, nell’aumento e nella diminuzione e nella traslazione. In Phys., V,1, in particolare, egli giustifica l’impossibilità di ascrivere la generazione e la corruzione – che sono mutamenti (metabolai@) – al movimento (ki@nhsiv) con la ragione per cui esse comportano non-essere (si genera ciò che non è e si corrompe ciò che cessa di essere), e il non-essere non è soggetto a movimento, così come all’essere in quiete, in nessuno dei sensi in cui il non-essere si dice: né secondo sintesi e diairesi, né secondo la potenza, né come non-sostanza individuale. Movimenti (kinh@seiv) sono, invece, soltanto i mutamenti da un sostrato a un sostrato (laddove generazione e corruzione sono mutamenti da un non-sostrato a un sostrato e da un sostrato a un non-sostrato, ossia mutamenti secondo la con-

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traddizione), e sono sostrati o i contrari o gli intermedi (225 a 2032). Ma in Phys., III, 1 generazione e corruzione, alterazione, aumento e diminuzione e traslazione sono considerate quattro specie del movimento (ki@nhsiv). Qui, infatti, dopo aver definito il movimento come passaggio dalla potenza all’atto o, più precisamente, come «l’entelechia di ciò che è in potenza, ma solo in quanto è in potenza» (201 b 4-5) e dopo aver dimostrato che le categorie secondo le quali tale passaggio si attua sono quelle della sostanza, della qualità, della quantità e del luogo (226 a 23-26), Aristotele fa presente che il passaggio dalla potenza all’atto secondo la sostanza definisce la generazione e la corruzione (ge@nesiv kai# fqora@), caratterizzate dal fatto che, assumendo il sostrato il possesso di una forma, dalla condizione di relativa privazione in cui prima versava (generazione), o venendo privato della forma che precedentemente possedeva (corruzione), la cosa muta in ciò che essa è (per esempio, l’uomo, morendo, ossia venendo privato della forma di uomo, cessa di essere tale. Il cadavere, infatti, non è un uomo). Il passaggio dalla potenza all’atto secondo la quantità definisce l’accrescimento e la diminuzione (auçxhsiv kai# mei@wsiv); quello secondo la qualità, l’alterazione (aèlloi@wsiv); quello secondo il luogo, la traslazione (fora@), la quale può essere o rettilinea o circolare: la prima come movimento imperfetto perché finito, la seconda invece come movimento perfetto perché unico e continuo (la dimostrazione che il movimento circolare è unico e continuo occupa l’intera trattazione di Phys., VIII, 8) e quindi pienamente compiuto. Sui problemi esegetici sollevati dalle due classificazioni, su una loro possibile soluzione e, soprattutto, sulle ragioni per le quali la classificazione di Phys., V, 1-2 è da considerarsi dottrinariamente più matura, mi permetto di rinviare all’Introduzione di Zanatta, Fisica, pp. 34 ss. 3 Il che traspare in modo emblematico dalla celeberrima definizione della filosofia come «scienza dell’ente in quanto ente (eèpisth@mh tou^ oòntov hjà oòn)» (cfr. Metaph., IV, 1, 1003 a 21), la quale, essendo contrapposta alle scienze «particolari», ossia alle scienze che «ritagliano una parte dell’ente» (cfr. Ivi, 24-25: me@rov auètou^ ti aèpotemo@menai), facendo così di un determinato aspetto di esso l’oggetto della loro speculazione, è eo ipso considerata scienza dell’ente in totalità, ovvero scienza della totalità dell’ente. 4 Qui Aristotele presenta globalmente la dottrina dell’aèrch@ di quei pensatori che altrove chiama «fisiologi» o «fisici», ossia dei cosiddetti Naturalisti presocratici: tanto dei Monisti, ai quali dedica la maggiore attenzione, quanto dei Pluralisti, ai quali fa riferimento alla fine del passo menzionando «più di una» natura. La «natura» è appunto l’aèrch@, il principio, che lo Stagirita, inquadran-

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dolo nello schema categoriale della propria dottrina, assimila alla sostanza. In effetti, della sostanza aristotelica l’aèrch@ presocratica, sia monisticamente che pluralisticamente intesa, presenta la caratteristica essenziale: sussiste in sé, mentre le cose che dall’aèrch@ derivano e in essa fanno ritorno al tempo della loro dissoluzione esistono nell’aè r ch@ , ossia in alio, sono cioè accidenti di essa. Nell’ipotesi monistica le cose corrispondono alle trasformazioni dell’aèrch@, la quale è eterna non perché resti sempre uguale a se medesima (l’acqua sia sempre acqua, l’aria sempre aria), ma perché lungo il corso delle sue eterne mutazioni non scade nel nulla. Le trasformazioni dell’aèrch@, non comportandone il venire meno, attengono perciò alle sue affezioni. E le cose, il cui venire all’essere e il cui dissolversi corrispondono al trasformarsi dell’aèrch@, coincidono esattamente con tali affezioni. Benché Aristotele non lo espliciti, è tuttavia chiaro che nella concezione monistica del principio le affezioni che mutano sono di tipo sia qualitativo (l’acqua si trasforma in aria, in terra, in fuoco), che quantitativo (trasformandosi in aria e in terra, l’acqua rispettivamente aumenta e diminuisce), che locale (trasformandosi in terra, l’acqua occupa un luogo basso, trasformandosi in aria e in fuoco occupa luoghi vieppiù alti). Anche sotto questo profilo si può dunque dire che Aristotele inquadra l’assunto basilare della concezione monistica del fondamento nello schema della propria dottrina, portandola perciò alla verità della sua espressione. Nell’ipotesi pluralista le sole affezioni concernenti il mutare delle aèrcai@ sono quelle locali: le aèrcai@, infatti, non si trasformano, ma permangono salde in se stesse, e il solo divenire cui sottostanno è quello di aggregazione e di disgregazione, ossia il mutamento locale. A un tale divenire si riconduce anche quello quantitativo, cui Aristotele fa riferimento più oltre a proposito dei quattro elementi di Empedocle (in proposito cfr. la nota n. 11). Anche in quest’ipotesi le cose, coincidendo nel loro nascere e nel loro dissolversi con l’aggregarsi e il disgregarsi delle aèrcai@, sono «affezioni» della sostanza, ossia del fondamento. Ebbene, entro questo quadro Aristotele legge la complessiva concezione naturalistica dell’aèrch@ come attestazione della causa materiale: causa in quanto il principio esplica il «perché» ultimo delle cose; materiale, in virtù del fatto che esso in tutte le modalità in cui, monisticmente o pluralisticamente inteso, è stato pensato, si riporta alla dimensione della sostanza nella valenza di sostrato, e l’essere sostrato è prerogativa della materia (su quest’aspetto ha fissato particolarmente l’attenzione Tricot, Métaph., I, p. 26, n. 1). Occorre infine porre l’accento sulla circostanza che il principio viene qui presentato anche come «elemento» (stoicei˜on): giacché, essendo ciò di cui le cose sono affezioni, non

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è ulteriormente risolvibile (mentre le cose si risolvono nel principio), e tale è il significato basilare di «elemento». 5 In ogni caso mi permetto di rinviare, a documentazione anche di questo punto, alla nota n. 43 di Zanatta, Metafisica, I, 3. 6 Il relativo passo è riportato alla nota n. 11. 7 Riferimento all’intuizione fondamentale dei Monisti (i Milesi ed Eraclito), per i quali il venire all’essere e il perire degli enti non è che il trasformarsi dell’unico sostrato (identificato o nell’acqua, o nell’apeiron, o nell’aria, o nel fuoco), che non viene meno nel corso di tali trasformazioni, ma permane; anzi, il cui permanere consiste propriamente nel non scadere nel nulla lungo il suo eterno trasformarsi (secondo una concezione segnata dall’idea che il permanere non soltanto non è opposto al divenire, ma coincide con esso perché si attua in esso). Ond’è che, se il sostrato permane, non si può parlare di generazione e di corruzione, perché viene meno la condizione stessa in base a cui queste nozioni si istituiscono. Al contrario, poiché le cose nel loro nascere e nel loro distruggersi corrispondono, in quanto trasformazioni dell’elemento/sostrato, a mutamenti del suo modo d’essere, e a mutamenti che riguardano la sua qualità (il fiore che sboccia dal mutare dell’elemento/sostrato specifica un suo modo d’essere qualitativamente diverso da quello segnato dal suo trasformarsi in questa pietra, o in quest’animale, o in questo frutto), si deve parlare di alterazioni. Come si vede, Aristotele – e Alessandro e Simplicio, che ne presentano il pensiero – legge così il pensiero dei Monisti nell’ottica delle sue categorie dottrinali e, in specie, delle nozioni di generazione/corruzione e alterazione da lui istituite. Con ciò, come si è cercato di mettere in chiaro in altre occasioni e innanzitutto nella stessa introduzione a questo frammento, lo Stagirita, più che «distorcere» il pensiero di questi filosofi, lo riporta alla sua autentica consistenza, facendo così emergere la verità del loro dire, se non ciò che essi hanno veramente detto. 8 E, possiamo aggiungere, in generale dei Pluralisti, eccezion fatta per l’aspetto concernente la pluralità infinita dei mondi, che costituisce una tesi dei soli Atomisti (Leucippo e Democrito). Si tratta di un primo livello al quale si pone la riflessione sul modo in cui questi pensatori concepiscono il formarsi e il dissolversi delle cose. 9 Le cose che si generano e si corrompono sono diverse dal punto di vista dell’individuo, giacché non sono gli stessi atomi che concorrono con il loro aggregarsi e il loro disgregarsi alla loro formazione e alla loro dissoluzione, ma atomi diversi; sono invece identiche dal punto di vista della specie, giacché tutte quelle raggruppabili in una data classe si formano dall’aggregarsi nel medesimo modo di atomi della medesima forma e del medesimo peso

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(ancorché non si tratti dei medesimi atomi), e il loro dissolversi consiste del disgregarsi di tali atomi. Paradigmatico il caso delle anime: esse sono individualmente diverse perché ognuna è formata di atomi diversi, ma specificamente identiche perché tutte sono costituite da atomi che possiedono le medesime caratteristiche della sfericità, della natura ignea e della mobilità a più elevato grado. Atomi che, come attesta Cicerone, per queste caratteristiche sono detti «divini» (De nat. deor., I, 43, 120 = D. K., 68 A 74: «principia mentis quae sunt in eodem universo deos esse dicit»). 10 Ossia senza subire alcuna affezione (pa@qov), né di ordine qualitativo né di ordine quantitativo, a eccezione del muoversi nel vuoto. 11 Che per il monista Eraclito i processi di formazione e di distruzione degli enti, corrispondendo a trasformazioni dell’elemento primordiale o aèrch@, individuato nel fuoco, non consistano in processi di generazione e corruzione, ma di alterazione, è chiaro. L’alterazione, infatti, nell’ottica della dottrina aristotelica, entro la quale va inquadrato il rilievo, comporta il permanere del sostrato e il mutare delle sue affezioni qualitative. Ora, nel caso in esame, il sostrato è l’elemento primordiale, che non scade nel nulla, ma permane nel corso del suo eterno trasformarsi: in aria, in terra, persino nell’acqua, che ne è il contrario, e le affezioni qualitative sono esattamente queste determinazioni. Esse, infatti, in quanto non sono «in se stesse», ma trasformazioni del fuoco, sono sue affezioni o – come ha asserito Simplicio nel passo introduttivo al frammento – suoi «stati» (eçxeiv), e sono affezioni di ordine qualitativo, in quanto specificano qualità diverse. Meno chiaro, invece, è che i processi di formazione e di dissoluzione delle cose quali si scandiscono nel pensiero di Empedocle costituiscano anch’essi processi di alterazione e non già di generazione e corruzione. Se infatti, queste ultime, come abbiamo richiamato anche poc’anzi, sono caratterizzate dal venire meno del sostrato e nell’ipotesi pluralista le aèrcai@, nel caso di specie le quattro radici (aria, acqua, terra e fuoco), in quanto costituiscono la sostanza/sostrato, permangono, mutando soltanto locativamente, è difficile comprendere come si possa assimilare la posizione a quella di Eraclito e parlare di alterazione delle radici stesse, giacché di alterazione del fuoco si tratta nell’Efesio. Ché, l’alterazione, nell’ipotesi empedoclea e, in generale, pluralista, concerne il composto, non le aèrcai@ o elementi primordiali, e il caso di Democrito l’ha ben messo in chiaro. Il giudizio su Empedocle si comprende, invece, se si tiene conto di ciò che Aristotele ha scritto a suo carico in Metaph., I, 8, un capitolo nel quale, tracciando come una sorta di bilancio complessivo sul modo in cui i Presocratici pensarono la causa, pone in chiaro le apo-

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rie delle loro dottrine a riguardo e formula alle loro ipotesi precise e articolate critiche. Il giudizio in questione si comprende alla luce non già della dottrina empedoclea quale Aristotele presenta, ma alla luce della critica che lo Stagirita muove a tale dottrina. In effetti, a Empedocle, al quale peraltro in Metaph., I, 4, 985 a 29 ss. riconosce il merito di aver introdotto come cause del movimento non un solo principio, ma due principi opposti, egli obietta di aver fatto derivare gli elementi l’uno dall’altro e perciò di avere malamente indicato in essi i principi, perché il principio resta sempre il medesimo. «Empedocle – scrive infatti lo Stagirita – afferma che la materia consiste di quattro corpi. Infatti, necessariamente anche a costui capitano da un lato le stesse , da un altro specifiche. Infatti, vediamo che si generano gli uni dagli altri, come se il fuoco e la terra non restassero sempre il medesimo corpo» (Metaph., I, 8, 889 a 22 ss.). Evidentemente, questa critica, che prende concreta espressione nella Metafisica, era già stata formulata dallo Stagirita al tempo della stesura del Su Democrito. Essa, nel quadro tematico e per il risvolto teorico che qui interessano, fa valere che Empedocle, pur essendo un pluralista, ha tuttavia trattato le quattro radici alla maniera monistica di concepire l’elemento primordiale. Su questa base l’assimilazione della sua dottrina a quella di Eraclito è pienamente plausibile. 12 Si tratta, in tutta chiarezza, degli atomi, che è opportuno rimarcare che qui vengono denominati «sostanze» (ouèsi@ai) in virtù del loro permanere, ossia dell’essere in sé, essendo questo il carattere basilare della sostanza che interessa, nell’ottica di Aristotele, la concezione presocratica dell’aèrch@. In parallelo con questa qualificazione degli atomi si colloca quella di esprimere l’essere, di contro al vuoto, che esprime il non-essere. La sostanza, infatti, per Aristotele rappresenta il significato primo dell’essere ed è, dunque, perfettamente congruo che gli atomi, in quanto essere, siano sostanze e, viceversa, in quanto sostanze siano essere. 13 Cfr. anche Aristotele, Phys., I, 5, 188 a 22 = D. K. 68 A 45: «Democrito il solido [scil., il pieno, ossia gli atomi] e il vuoto, dei quali considera il primo come essere e il secondo come non-essere». In questa identificazione degli atomi con l’essere e del vuoto con il non-essere è da riscontrarsi la presenza della dimensione propriamente eleatica di Democrito. Spiega bene Reale (Pensiero antico, p. 184 s.) in una pagina che chiama direttamente in causa Leucippo, in quanto si riferisce in generale all’atomismo, di cui Leucippo è l’iniziatore e il primo rappresentante, ma che si adatta in tutto e per tutto anche a Democrito, anzi, ancor più a questo pensatore. «L’intuizione fondamentale del si-

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stema, Leucippo – scrive per l’appunto lo studioso – la dovette trarre dal grande frammento 8 di Melisso: “se esistessero i molti – diceva Melisso –, questi dovrebbero essere quali io dico che è l’Uno” (D. K. 30 B 8); e, così dicendo, egli credeva di ridurre all’assurdo il pluralismo in cui gli uomini credono: i molti, per essere, dovrebbero essere eterni, perché questo è lo statuto dell’essere: essi dovrebbero durare senza mutare; invece mutano continuamente, e dunque non sono. E Leucippo rovesciò contro Melisso l’argomento, facendo di quello che nell’Eleate era un ragionamento per assurdo il fondamento del proprio sistema: i molti sono, perché possono essere come l’Uno melissiano, possono durare sempre ed essere immutabili, ossia essere conformi al supremo statuto dell’essere. Non si tratta, però, del molteplice empirico datoci dai sensi, ma di un molteplice ulteriore, non percettibile, fondamento e ragion d’essere dello stesso molteplice sensibile. E come il pluralismo empedocleo e anassagoreo rovesciava in senso positivo l’ipotesi melissiana di una molteplicità che mantenesse identica la propria qualità, così il pluralismo degli atomi di Leucippo ancor più compiutamente realizzava in senso positivo l’ipotesi di una molteplicità che, mantenendo identica la propria natura qualitativamente indifferenziata, fosse ragion d’essere della molteplicità fenomenica qualitativamente differenziata». 14 Viene qui fatto riferimento al carattere intelligibile dell’atomo, carattere sul quale si veda Sesto Empirico, Adv. Math., VIII, 6 = D. K. 68 A 69: «i seguaci di Platone e di Democrito riconobbero come vero soltanto l’intelligibile, ma Democrito perché la natura, per lui, non ha alcun sostrato sensibile, essendo gli atomi – che compongono ogni cosa – privi di ogni qualità sensibile», e cioè percepibile con i sensi. 15 Aristotele nel passo della Fisica (= fr. 45 D. K.) di cui si è citata la prima parte nella nota n. 13 informa che per Democrito gli atomi si distinguono per posizione (qe@sei), figura (sch@mati) e ordine (ta@xei), precisando subito appresso che per posizione sono da intendersi i contrari «in alto», «in basso», «davanti», «di dietro», mentre la loro figura può essere «angolare», «retta», «circolare», ecc.: si tratta, insomma, di figure corrispondenti a forme geometriche. Da qui nel passo in oggetto del frammento la precisazione «forme (morfai@) di ogni tipo, ossia figure (sch@mata) di ogni tipo». Quanto all’ordine, è intuitivo che, chiamando in causa questa proprietà, Aristotele intendesse far presente che per Democrito una caratteristica degli atomi era anche il venire a trovarsi di volta in volta, nel loro volteggiare precosmico (giacché a questo primordiale livello del moto se ne specificano le proprietà essenziali; sul movimento precosmico degli atomi, consistente, per l’appunto, in

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un volteggiare e distinto da loro movimento cosmogonico, che è invece in forma di vortice, e da quello nel cosmo, secondo il quale gli atomi si staccano dagli aggregati, si veda Alfieri, Atomos idea, pp. 84 s.), prima o dopo di altri atomi. Nel frammento in esame non si indicano la posizione e l’ordine, mentre si indica la grandezza, che Aristotele non nomina nel fr. 45 D. K., ma che è attestata da Aezio (I, 3, 18 = D. K. 68 A 47):«Democrito nomina soltanto due qualità : la grandezza e la figura, mentre Epicuro ne aggiunge una terza, e cioè il peso». La grandezza degli atomi è sì, differente, ma sempre sotto il livello della percettibilità sensibile, come si attesta all’inizio della frase. Per questo probabilmente Aristotele non considerava la prerogativa degli atomi democritei di avere grandezze differenti così rilevante come quella di essere in ogni caso di grandezza tale da non potersi percepire con i sensi e di avere forme geometriche diverse. Contrariamente ad Aezio, lo Stagirita attesta che anche gli atomi di Democrito hanno peso, e pone in rapporto la loro prerogativa ponderale al loro volume. In effetti, in De gen. corr., I, 8, 326 a 9 (= D. K. A 60) così scrive: «eppure Democrito dice che l’atomo è più pesante a seconda dell’eccedenza »; e parallelamente in De caelo, IV, 2, 309 a 1 (= D. K. A 60) scrive: «quelli che affermano che sono solidi hanno più ragione di dire che, di essi, quello più grande è anche più pesante. Nei composti, invece, poiché è manifesto che non tutti hanno questa proprietà, anzi, vediamo che molte cose di volume minore pesano di più, come per esempio il bronzo in confronto con la lana, ecc.». È probabile (nonostante il parere decisamente contrario di Alfieri; cfr. Atomos idea, pp. 88 ss.) che il peso non sia una proprietà originaria degli atomi, ossia che gli atomi nel movimento precosmico non abbiano peso, ma ne acquisiscano nel vortice del movimento cosmogonico, in quanto in questo movimento esercitano una resistenza negli urti con altri atomi, e in virtù di essa si determinerebbe il loro peso. Lo proverebbe la testimonianza di Simplicio che, nel commento al De caelo di Aristotele, dapprima fa presente che per «Democrito e successivamente per Epicuro [...] gli atomi, i quali sono tutti di ugual natura, hanno peso» e immediatamente appresso attesta che «essendovi degli atomi più pesanti, quelli più leggeri vengono spinti fuori dai più pesanti» (Simpl., In Arist. de caelo, 569, 5 = D. K. 68 A 61). Il riferimento, in tutta evidenza, qui è al vortice, e nel vortice si parla di peso degli atomi. 16 Da rimarcare, nella frase «ebbene ... tra loro», dove non si parla ancora, propriamente, delle cose, bensì di aggregazioni di atomi tali da formare masse che si muovono nello spazio vuoto e, incontrandosi e scontrandosi, formano le cose, due istanze. Innan-

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zitutto, la percettibilità di tali aggregazioni, dovuta al fatto di essere somme di corpi sensibili, ancorché di dimensioni infime (gli atomi, per l’appunto) e, in secondo luogo, il loro murare (l’instabilità), dovuto al fatto che, muovendosi in modo disomogeneo nel vuoto a causa della diversità delle loro forme e delle loro grandezze (e, di conseguenza, del loro peso; cfr. la nota precedente), si compongono in corpi di diverse dimensioni. 17 Viene qui rimarcato che le qualità delle cose non sono originarie, ma dipendono dalla forma degli atomi di cui sono costituite (sferici, cilindrici, conici, ecc.) e dal modo del loro aggregarsi, ossia, in ultima analisi, che le qualità (colore, sapore, ecc.) sono epifenomeni di quantità. Paradigmatica la testimonianza di Galeno (De el. sec. Hipp., I, 2 = D. K. 68 A 49), il quale informa che per Democrito «tutte quante le qualità sensibili, che egli suppone relative a noi che ne abbiamo sensazione, derivino dalla varia aggregazione degli atomi, ma che per natura non esistano affatto bianco, nero, giallo, rosso, dolce, amaro». 18 Riferimento al vortice (di@nh), su cui cfr. Alfieri, Atomos idea, p. 84: esso «si produce quando, per la presenza di un vuoto, di considerevole ampiezza, si ha un affluire o un concorrere di atomi di varia forma e di vario peso in quello spazio libero. Quello stesso concorrere di elementi materiali di massa diversa produce un movimento turbinoso, in cui, operando la legge primaria dell’aggregazione che è quella dell’attrazione del simile verso il simile, il vortice opera a guisa di vaglio, sicché gli elementi più pesanti si dispongono al centro del vortice, quelli più minuti si dispongono verso il vuoto esteriore».

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INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI PRESENTI NELLE TESTIMONIANZE E NEI FRAMMENTI1

Abluzione (perirranth@rion); la purezza si attua nelle a.: 339. Acuto (oèxu@v): l’a. si oppone al pesante come ciò che non è né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un male: 119. Aggiunta (eèpi@qesiv): per i Pitagorici l’opinione è a.: 351. Alterazione (aèlloi@wsiv): coloro per i quali il tutto è ora in uno stato, ora in un altro, parlano di a. più che di generazione e corruzione: 403; così Empedocle ed Eraclito: 403. Alterità (eétero@thv): Aristotele stabilì se la contrarietà è un’a.: 111. Alto/sopra/parte superiore (aònw, pars superior): per i Pitagorici l’a. è un bene: 347; disponevano a destra l’a. e il davanti: 357; il s. del cielo è a sinistra: 357; la p. s. del cielo è la regione di destra: 359. Amico (fi@lov, amicus): gli a. sono un bene esterno: 51; le cose degli a. sono comuni: 343. Anello (daktu@liov): non portare le immagini degli dèi sugli a.: 343. Anima (yuch@): beni che sono nell’a.: 51; divisione dell’a. in tre parti: 53; non si ha privazione dei beni dell’a. riguardanti la scelta deliberata: 117. 1 In questo indice sono stati introdotti anche quei nomi propri che denotano nozioni.

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Animale (animal): i Pitagorici si astenevano dal mangiare a.: 337; l’ortica marina è un a. marino chiamato ostrica: 337. Antiterra (aènti@cqwn): per far sì che i corpi celesti fossero dieci, i Pitagorici posero l’a.: 353; l’a. trasla intorno al mezzo: 355; è chiamata a. perché occupa una posizione contraria alla terra: 355; le eclissi di luna si verificano per la sovrapposizione talvolta della terra, talvolta dell’a.: 359. Antitesi (aènti@qesiv): Aristotele paragona l’a. delle privazioni naturali a quella dei contrari: 117; i Pitagorici ricondussero ogni a. a due serie e completarono ciascuna con la decade: 345; fecero delle a. del dieci il simbolo delle a. di ogni numero: 354; a. del luogo sono la destra e la sinistra: 345-347. Apollo Iperboreo ( èApo@llwn éUperbo@reiov): Pitagora era chiamato A. I. 331, 333; era così considerato: 335. Aporia (aèpori@a): presenza delle a. nella trattazione di Aristotele sui contrari: 111. Aquila (aèeto@v): Pitagora accarezzò l’a. bianca, che rimaneva ferma: 333. Arcobaleno (iè^riv): Pitagora diceva che l’a. è un raggio del sole: 341. Argomento confutativo/oppositivo (eèpicei@rhsiv): è esercizio portato contro ciascuna delle due parti: 31; ma in seguito fu usato dalla dialettica per demolire o costruire una tesi sulla base di opinioni notevoli: 31; Aristotele non assume il possesso e la privazione negli a. o. concernenti il carattere, ma in quelle per natura: 115. Armonia (aérmoni@a): per i Pitagorici le a. sono costituite secondo certi numeri, per cui i numeri sono loro principi: 351-353; il cielo è costituito secondo a.: 351, 353. Articolazione (aòrqron): ricerca della categoria linguistica sotto cui porre le a.: 69; le a. sono come dei connettivi che in più significano il genere in modo indeterminato: 69.

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Aspro (pikro@v): il dolce si oppone all’a. come ciò che non è né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un male: 119. Atomo (aòtomov): gli a. permangono identici, essendo impassibili: 403. Attività (eène@rgeia): le a. conformi a virtù si annoverano tra i beni belli e lodevoli: 51. Atto a dividere (diairetiko@v): la diade è a.a.d.: 199. Atto a significare (shmantiko@v): i vocaboli e i connettivi sono a. a s.: 69. Autentico (gnh@siov): libri a. di Aristotele: 81, 85. Avere (eòcein): la privazione si estende a tutti i significati di a.: 117. Basso/sotto (ka@tw): per i Pitagorici il b. è un male: 347; disponevano il b. e il dietro a sinistra; il s. del cielo è a destra: 357. Bellezza (ka@llov): è un bene del corpo: 51. Bello (kalo@v): sono beni b. le virtù, le attività conformi a esse e le facoltà che si possono usare bene o male: 51. Bene (aègaqo@n): divisione dei b. in belli, degni d’onore, lodevoli e utili: 51; in beni dell’anima, del corpo ed esterni: 51; è proporzione delle parti tra loro: 113; la cecità è privazione di un b.: 117; nessuna privazione è un b.: 117; non si ha privazione dei b. dell’anima riguardanti la scelta deliberata: 117; al b. è totalmente contrario il male, ma al male talvolta è contrario un b., talvolta un male: 119; talvolta ciò che non è né b. né male è contrario a ciò che non è né b. né male: 119; gli uditori della lezione sul b. ritenevano di sentir parlare di b. umani: 189; il b. è l’Uno: 189; il bianco è proprio della natura del b.: 339; per i Pitagorici b. sono la destra, il davanti e l’alto: 347. Bianco (leuko@v): il b. è colore capace di scindere la visione: 113; si oppone al nero come ciò che non è né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un male: 119; Pitagora presagì l’orsa b.: 331; accarezzò l’aquila b. che ri-

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maneva ferma: 333; comandava di stare distanti dal gallo b.: 339; in Caulonia apparve l’orsa b. come segno di un prodigio richiesto da Pitagora per parlare: 335; il b. è proprio della natura del bene: 339. Brevità (brevitas): criterio per valutare l’autenticità aristotelica delle Categorie: 85. Bronzo (calko@v): Pitagora diceva che l’eco che si origina dal b. battuto è la voce di un demone ivi racchiuso: 341. Buona condizione (euèexi@a): è un bene del corpo: 51. Buono (aègaqo@v): Pitagora era considerato un demone b. e filantropo: 335; i Pitagorici ricondussero ogni antitesi alla serie di ciò che è b. e di ciò che è cattivo e completarono ciascuna con la decade: 345. Cadavere (kh^dov): la purezza si attua nel mantenersi puri da un c.: 339. Camminare (badi@zein, deambulare): non c. per le vie maestre: 343. Cane (ku@wn): Pitagora chiamava i pianeti c. di Persefone: 341. Capace di comporre (sugkritiko@v): il nero è il colore c. d. c. la visione: 113. Capace di scindere (diakritiko@v): il bianco è il colore c. d. s. la visione: 113. Carattere (eòqov): Aristotele non assume il possesso e la privazione nelle argomentazioni oppositive concernenti il c., ma in quelle per natura: 115. Carne (kre@av): la purezza si attua nell’astenersi da porzioni di c. di animali morti naturalmente come cibi: 339. Casa (oièki@a, domus): chi comprò la c. di Pitagora non osò dire ciò che vide e per questo incorse in una sventura: 335; non accogliere rondini in c.: 343. Categoria (kathgori@a): presentazione delle c. e delle loro flessioni: 53; ricerca della c. linguistica sotto cui porre le articolazioni, le negazioni, le privazioni e le flessioni dei verbi: 69-71; menzione delle c. linguistiche in scritti ari-

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stotelici o di scolari di Aristotele: 71; due libri sulle c. trovati nelle biblioteche, ma uno soltanto è di Aristotele: 81, 83. Cattivo/male (kako@v): non si ha privazione di un m.: 117; al bene è totalmente contrario il m., ma al m. talvolta è contrario un bene, talvolta un m.: 119; talvolta ciò che non è né bene né m. è contrario a ciò che non è né bene né m.: 119; non esistono le Idee di cose c.: 193; i Pitagorici ricondussero ogni antitesi alla serie di ciò che è buono e di ciò che è c. e completarono ciascuna con la decade: 345; per i Pitagorici la sinistra, il basso e il dietro sono un m.: 347. Causa (aiòtion): sono oggetto di problemi fisici gli enti fisici di cui si ignorano le c.: 39; Platone ha parlato della c. efficiente e della c. finale: 209; con la divisione Aristotele ha mostrato l’esistenza della c. finale anche nelle cose immobili: 211; i numeri ideali e gli enti matematici sono c. degli enti fisici: 267. Cecità (tuflo@thv): è una privazione per natura: 115; è privazione di un bene: 117. Chenice (coi^nix): non stare seduti sul c.: 341. Chiarezza (safh@neia): l’elocuzione di Aristotele ha avuto in sorte la c.: 109. Cibo (to# brwto@n): la purezza si attua nell’astenersi da carni di animali morti naturalmente come c.: 339. Cielo (ouèrano@v): per i Pitagorici i corpi che si muovono nel c. sono dieci, anche se soltanto nove sono visibili: 329, 355; il c. è uno: 347; disposizione dei numeri nel c.: 347; il c. è costituito secondo armonie: 351; da numeri e secondo armonie: 353; principio del c. è il numero: 351; il sotto del c. è a destra, il sopra a sinistra: 357. Cinque (pe@nte): i Pitagorici identificavano le nozze col c.: 349. Ciò che è in movimento (to# kinou@menon): è contrario a ciò che è in quiete per il fatto di partecipare del contrario: 113.

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Ciò che è in quiete (to# eésthko@): è contrario a ciò che è in movimento per il fatto di partecipare del contrario: 113. Città (po@liv, urbs): le leggi come corone delle c.: 341; custodire le leggi delle c.: 343. Colore (crw^ma): il bianco è il c. capace di scindere la visione, il nero il c. capace di comporla: 113. Compassione (eòleov): alla stragrande maggioranza delle privazioni fanno seguito c. e pietà: 117. Comune (communis): le cose degli amici sono c.: 343. Connettivo (su@ndesmov): è atto a significare: 69; le articolazioni sono come dei c. che in più significano il genere in modo indeterminato: 69. Conoscenza matematica/disciplina matematica (ma@qhma): i Pitagorici si applicarono alle d. m. e le fecero progredire: 329; Pitagora all’inizio si applicò alle c. m.: 329. Contraccambio (aèntipeponqo@v): per i Pitagorici proprio della giustizia sono il c. e l’uguale: 347. Contrarietà (eènantio@thv, eènanti@wsiv): Aristotele indagò se la differenza può costituire c.: 111; se la c. è un’alterità: 111; la mescolanza comporta c.: 285. Contrario (eènanti@ov): tutti i c. si riconducono all’uno e al molteplice come loro principi: 107, 109, 209, 211; differenza dei c.: 109; Aristotele ha sviluppato tutte le questioni sui c.: 109-111; sono c. le cose massimamente distanti nel genere: 111; quelle che sono massimamente diverse: 111; gli Stoici seguirono Aristotele nelle definizioni dei c.:111; la giustizia è c. all’ingiustizia: 113; c. per sé e c. per il fatto di partecipare di c.: 113; la saggezza è c. alla stoltezza: 113; una definizione può essere c. a una definizione, ma assunte in unione alle cose c. di cui sono defini-zioni: 113; un discorso definitorio è c. a un discorso definitorio se qualcosa è contrario al genere o alle differenze o a entrambi: 113; se tra i c. vi sia un medio: 115; Aristotele paragona l’antitesi delle privazioni naturali a quella dei c.: 117; al bene è totalmente c. il male, ma al male talvolta è

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c. un bene, talvolta un male: 119; talvolta ciò che non è né bene né male è c. a ciò che non è né bene né male: 119; l’uno è c. alla diade per essere indivisibile: 197; tutti i c. si riconducono all’uno e al molteplice come loro principi: 107, 109, 209; tutti i c. sono elementi degli enti e della sostanza: 211; l’antiterra è così chiamata perché occupa una posizione c. a quella della terra: 355. Coperto di bianco mantello (leuceimonw^n): agli dèi bisogna rivolgersi coperti di b. m.: 339. Coppa (eòkpwma): fare libagioni agli dèi lungo l’orecchio delle c.: 343. Coraggio (aèndrei@a): è un bene dell’anima: 51. Corona (stefano@v, corona): non strappare la c.: 341, 343. Corpo (sw^ma): beni che sono nel c.: 51; se le Idee si mescolano, sono c.: 285; i c. celesti che traslano intorno al mezzo hanno distanze scandite da rapporti proporzionali: 351. Corruttibile (fqarto@v): se le Idee si mescolano con le cose, saranno c.: 287; il mondo è c.: 403. Corruzione (fqora@): coloro per i quali il tutto è ora in uno stato, ora in un altro, parlano di alterazione più che di generazione e c.: 403; così Empedocle ed Eraclito: 403; per Democrito la c. è separazione di atomi: 405. Coscia (mhro@v): Pitagora mostrò di avere una c. d’oro: 331, 333. Costellazione delle Pleiadi (pleia@v): Pitagora chiamava la c. d. P. lira delle Muse: 341. Costume (eòqov): la nudità è una privazione relativa al c.: 115. Creazione di prodigi (teratopoi@a): Pitagora non si allontanò dalla c. d. p.: 329. Credibilità (pi@stiv): la c. delle dottrine di Pitagora poggiava sul fatto di essere creduto un Dio: 333. Cuore (kardi@a, cor): i Pitagorici non mangiano il c.: 337, 339; non mangiare il c.: 341, 343. Davanti (eòmprosqen): per i Pitagorici il d. è un bene: 347; disponevano a destra l’alto e il d.: 357.

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Decade/dieci (deka@v): è numero perfetto perché comprende in sé tutta la natura dei numeri: 329, 353; per i Pitagorici i corpi celesti sono d.: 329, 355; i Pitagorici completarono ogni serie di antitesi con la d.: 345; fecero delle antitesi del d. il simbolo delle antitesi di ogni numero: 354. Definizione (oérismo@v): carattere più razionale degli epicheiremi che procedono dalle d.: 69; il darsi di d.: 69; d. di contrario e sua correzione da parte di Aristotele: 111; gli Stoici seguirono Aristotele nelle d. dei contrari: 111; una d. può essere contraria a una d., ma assunte in unione alle cose contrarie di cui sono d.: 113; le d. sono realtà universali e permangono sempre: 267. Degno d’onore (ti@miov): sono beni d. d. o. Dio, i genitori e la felicità: 51. Demone (dai@mwn; daemon): Pitagora era considerato un d. buono e filantropo: 335; il d. di Socrate: 335; i Pitagorici ritenevano di poter vedere la forma di un d.: 335-337; Pitagora diceva che l’eco che si origina dal bronzo battuto è la voce di un d. ivi racchiuso: 341. Denaro (aèrgu@rion): la privazione di d. è una privazione che sopraggiunge nell’uso: 117. Desiderio (cupido): l’unità vuole essere chiamata d.: 345. Destra (to# dexio@n): per i Pitagorici antitesi del luogo sono la d. e la sinistra: 345-347; disponevano a d. l’alto e il davanti: 357; la d. è un bene: 347; il sotto del cielo è a destra: 357. Determinato (peperasme@nov): i numeri dispari sono d.: 353, 355. Diade (dua@v)2: principi del numero sono la monade e la d.: 197; è prima oltre l’uno: 197; ha in sé il molto e il poco: 197; è contraria all’uno per essere divisa: 197; la Diade 2 Vengono registrati i luoghi in cui il termine che compare è «diade», anche se in alcuni casi si tratta della Diade indefinita (cui è stata riservata un’apposita voce, sotto la quale si registrano i luoghi in cui specificamente compare quest’espressione) o Diade di Grande e Piccolo.

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indefinita, definita dall’uno, diventa d.: 197, 207; la d. in sé è indefinita, ma è definita in quanto è una certa forma unitaria: 207; è il primo numero: 197, 201; il primo numero pari: 207; principi della d. sono l’eccedente e l’ecceduto: 197; l’Uno e il Grande e il Piccolo: 201; il Grande e il Piccolo sono suoi elementi; è atta a dividere: 199; per questo è produttrice del due: 199; è come materia plasmata e informante: 199; esprime la natura dell’indeterminato: 201; i principi del primo numero, ossia della d., sono principi di ogni numero: 201, 207; se esistessero le Idee, non la Diade indefinita, ma la d., anzi il numero sarebbe principio: 279; se la Diade indefinita è altra dalla d. in sé e dalla d. matematica, la quantità delle d. sarà sorprendente: 283. Diade indefinita (aèo@ristov dua@v)3: consiste nel Grande e Piccolo: 191; perciò assieme all’Uno è principio dei numeri e degli enti: 191; di tutte le cose: 201; è prima oltre l’uno: 197; ha in sé il molto e il poco: 197, 201; è indefinita perché contiene l’eccedente e l’ecceduto: 197, 201; e perché procede nella direzione dell’accrescimento e della diminuzione: 205; è costituita dalla monade che procede verso il grande e dalla monade che procede verso il piccolo: 207; la D. i., definita dall’uno, diventa d.: 197; la D. è elemento anche dei numeri e precisamente elemento di indeterminazione; principi delle Idee sono l’Uno e la D. indefinita o D. di Grande e Piccolo: 203, 213; con la D. indefinita Platone indicava la materia: 203; che essa sia principio anche delle Idee corrisponde perciò a un’incongruenza: 203-205; se esistessero le Idee, non la D. indefinita, ma la diade, anzi il numero sarebbe principio: 279; l’Uno e la D. indefinita non sarebbero principi: 283; se l’Uno e la D. indefinita fossero principi un’Idea sarebbe fatta Idea da un’Idea: 283; oppure, se la D. inde3

Cfr. la nota n. 2.

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finita non è principio, sarà principio la diade in sé: 293; se la D. indefinita è altra dalla diade in sé e dalla diade matematica, la quantità delle diadi sarà sorprendente: 283. Dialettica (dialektikh@): Aristotele ne ha trattato soprattutto nei Topici: 31; all’inizio era esercizio confutatorio portato contro ciascuna delle due parti, ma in seguito divenne argomentazione confutativa intesa a costruire o demolire sulla base di opinioni notevoli: 31. Dialettico (dialektiko@v): questioni non d. poste in modo d.: 39; tutti i problemi d. si riconducono alla ricerca del “che è” e del “se è”: 39. Didascalia (didaskali@a): d. delle negazioni e delle espressioni indefinite: 71. Dietro (oòpisqen): per i Pitagorici il d. è un male: 347; disponevano il basso e il d. a sinistra: 357. Differente/distante (diafe@rwn): sono contrarie le cose massimamente d. nel genere: 111. Differenza (diafora@): d. dell’uno: 107; d. dei contrari: 109; Aristotele indagò se la d. può costituire contrarietà: 111; un discorso definitorio è contrario a un discorso definitorio se qualcosa è contrario al genere o alle d. o a entrambi: 113. Differire (diafe@rein): Aristotele stabilì se ogni distanza d. massimamente: 111; se le cose che d. sono contrarie: 111; «le cose che d. massimamente» è identico a «le cose che distano massimamente»: 111. Dignitoso (semnopreph@v): Pitagora era molto d.: 333. Dilatazione (eèpine@mhsiv): le eclissi di luna si verificano per d. di una fiamma: 359. Dimostrare, operare dimostrazioni (aèpodeiknu@nai): è uomo chi o. d.: 195. Dimostrazione (aèpo@deixiv): si dà d.: 69. Dio (qeo@v): è un bene degno d’onore: 51; Pitagora era ritenuto un D.: 333; del vivente razionale fanno parte D., l’uomo e Pitagora: 335; agli d. e agli eroi non si devono

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tributare uguali onori: 339; agli d. bisogna rivolgersi con parole benedicenti, coperti di bianchi mantelli ed essendo puri: 339; non si devono ordinare le stesse cose per gli d. e per gli uomini: 339; non portare le immagini degli d. sugli anelli: 343; fare libagioni agli d. lungo l’orecchio delle coppe: 343. Discorso definitorio (lo@gov oéristiko@v): un d. d. è contrario a un d. d. se qualcosa è contrario al genere o alle differenze o a entrambi: 113. Dispari (peritto@v): i Pitagorici divisero i numeri in pari e d. 345; il d. è maschio: 349; è determinato: 353, 355. Dissimile (aèno@moiov): si riconduce al molteplice: 211. Distanza (aèpo@stasiv, dia@stasiv): Aristotele stabilì se ogni d. differisce massimamente: 111. Distare (aèpe@cein): «le cose che differiscono massimamente» è identico a «le cose che distano massimamente»: 111. Distruzione (aèpw@leia): la privazione è uguale a una d.: 117. Disuguaglianza (aèniso@thv): consiste nel grande e nel piccolo. Disuguale (aònisov): l’uguale e il d. sono principi di tutte le cose: 197; si colloca sotto l’eccesso e il difetto: 197; si riconduce al molteplice: 211; se vi sono Idee di relativi vi sarà anche l’Idea di d.: 277. Diverso (eçterov): Aristotele indagò se sono contrarie le cose massimamente d.:111; si riconduce al molteplice: 211. Divisibile (diaireto@v): se le Idee si mescolano con altre Idee per una loro parte soltanto, saranno d. pur essendo impassibili: 285. Divisione (diai@resiv): con la d. Aristotele ha mostrato l’esistenza della causa finale anche nelle cose immobili: 211. Dolce (gluku@v): il d. si oppone all’aspro come ciò che non è né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un male: 119.

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Due (du@o): i Pitagorici identificavano l’opinione col d.: 351. Eccedente (uépere@cwn): l’e. e l’ecceduto sono indefiniti e illimitati: 197; principi della diade sono l’e. e l’ecceduto: 197. Ecceduto (uépereco@menov): l’eccedente e l’e. sono indefiniti e illimitati: 197; principi della diade sono l’eccedente e l’e.: 197. Eco (hècw@): Pitagora diceva che l’e. che si origina dal bronzo battuto è la voce di un demone ivi racchiuso: 341; che l’e. che cade molte volte nelle orecchie è voce dei migliori: 341. Elemento (stoicei^on): e. della diade sono l’Uno e il Grande e il Piccolo: 199; i numeri sono e. di tutti gli enti: 201; l’Uno e la Diade sono e. anche dei numeri, l’Uno come e. di determinazione e la Diade come e. di indeterminatezza: 207; i contrari sono e. degli enti e della sostanza: 211; per i Pitagorici gli e. e i principi dei numeri sono principi di tutti gli enti: 353. Elocuzione (le@xiv, oratio): diversità dell’altro libro sulle categorie dalle Categorie aristoteliche per e.: 85; l’e. di Aristotele ha avuto in sorte la chiarezza: 109. Ente (oòn): vi sono tante specie dell’uno quante ve ne sono dell’e.: 107; è compito di un’unica scienza, identica per genere, indagare su una determinata specie di e.: 107; l’Uno e la Diade indefinita sono principi degli e.: 191; le forme sono prime rispetto agli e.: 195; le Idee sono prime rispetto agli e.: 195; i numeri sono elementi di tutti gli e.: 201; tutti i contrari sono elementi degli e. e della sostanza: 211; i numeri ideali e gli e. matematici sono cause degli e. fisici: 267. Epicheirema (eèpicei@rhma): carattere più razionale degli e. che procedono dalle definizioni: 69. Eroe (hçrwv): agli dèi e agli e. non si devono tributare uguali onori: 339; agli e. bisogna rivolgersi dopo la metà del giorno: 339.

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Essere puro (aégneu@ein): agli dèi bisogna rivolgersi essendo p.: 339. Esterno (eèkto@v): beni e.: 51. Eterno (aiòdiov): le cose universali sono eterne: 267; per Democrito la natura di cose e. consiste in piccole sostanze infinite di numero: 403. Facoltà (du@namiv): le f. che si possono usare bene o male si annoverano tra i beni belli e lodevoli: 51. Fava (ku@amov): Pitagora proibiva di mangiare le f.: 339. Felicità: (euèdaimoni@a): è un bene degno d’onore: 51; la f. della patria si annovera tra i beni esterni: 51. Fiamma (flo@x): le eclissi di luna si verificano per dilatazione di una f. 359. Figlio (uiéo@v): Pitagora annunciò a un tale la morte del f. ancor prima che egli parlasse; 335. Figura (sch^ma): per Democrito le sostanze hanno f. di ogni tipo: 403. Filantropo (fila@nqrwpov): Pitagora era considerato un demone buono e f.: 335. Fisico (fusiko@v): sono oggetto di problemi f. gli enti f. di cui si ignorano le cause: 39; anche in merito a problemi f. si originano problemi dialettici; 39; i numeri ideali e gli enti matematici sono cause degli enti f.: 267. Fiume (potamo@v): Pitagora fu invocato e salutato dal f. Cosa mentre lo attraversava: 331, 333; fu chiamato dal f. Nasso: 333. Flessione (ptw^siv): presentazione delle categorie e delle loro f.: 53; ricerca della categoria linguistica sotto cui porre le f. dei verbi: 69, 71. Forma (eiè^dov, morfh@, forma): le f. sono prime rispetto agli enti: 195; le f. sono numeri: 195, 197; i principi del numero sono principi delle f.: 197; la diade è un uno per la f.: 197; i Pitagorici ritenevano di poter vedere la f. di un demone: 335-337; per Democrito le sostanze hanno f. di ogni tipo: 403.

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Forza (ièscu@v): è un bene del corpo: 51. Freccia (oièsto@v): Pitagora tolse ad Abaris la f. con cui si dirigeva: 333. Fuoco (pu^r, ignis): non raschiare il f. col rasoio: 341; non ferire il f. con la spada: 343; nel mezzo del tutto vi è il f.: 355; è chiamato torre di Zeus e guardia di Zeus: 357. Gallo (aèlektruw@n): Pitagora comandava di stare distanti dal g. bianco: 339. Generabile (genhto@v): ciò che è sensibile è g.: 389; per cui il mondo, che è sensibile, è g.: 389. Generazione (ge@nesiv): coloro per i quali il tutto è ora in uno stato, ora in un altro, parlano di alterazione più che di g. e corruzione: 403; per Democrito la g. è riunione di atomi: 405. Genere (ge@nov): le articolazioni sono come dei connettivi che in più significano il g. in modo indeterminato: 69; è compito di un’unica scienza, identica per g., indagare su una determinata specie di enti: 105; sono contrarie le cose massimamente distanti nel g.: 111. Genitori (gonei^v): sono un bene degno d’onore: 51. Giorno (héme@ra): Pitagora apparve a Crotone e a Metaponto nel medesimo g. e nella medesima ora: 331; agli eroi bisogna rivolgersi dopo la metà del g.: 339. Giustizia (dikaiosu@nh): è un bene dell’anima: 51; è contraria all’ingiustizia: 113; proprio della g. sono il contraccambio e l’uguale: 347; perciò fu identificata col quattro o col nove: 347-349. Giusto (di@kaiov): il g. si dispone in modo contrario all’ingiusto: 113. Grande e Piccolo (to# me@ga kai# to# mikro@n): Platone chiamò la materia G. e P.: 191, 193; anche negli intelligibili vi sono il G. e P.: 191, 205; coincidono con la Diade indefinita: 191; la disuguaglianza consiste nel g. e p.: 197; elementi della diade sono il G. e P.: 199; G. e P. sono suoi principi: 201, 205; essi sono principi di ogni numero: 201, 205; e

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principi di tutte le cose: 201, 205; procedono verso l’indefinito e l’illimitato: 201, 203; verso l’aumento e la diminuzione: 205, 207; col G. e P. Platone indicava la materia: 203; che essi siano principio anche delle Idee corrisponde perciò a un’incongruenza: 203-205; il G. e P. fanno parte dei relativi: 281. Grandezza (me@geqov): per Democrito il vuoto è infinito per g.: 403; le sostanze differiscono per g.: 495. Idea (eiè^dov, iède@a): la materia accoglie le I.: 189; il vivente in sé deriva dall’I. dell’uno e dalla prima grandezza, larghezza e profondità: 193; non esistono le I. di cose cattive: 193; le I. sono prime rispetto agli enti: 195; i principi del numero sono principi delle I.: 197; per Platone anche le I. sono numeri: 203; principi delle I. sono l’Uno e la Diade indefinita o Diade di Grande e Piccolo: 203, 213; che la Diade indefinita sia principio anche delle I. corrisponde a un’incongruenza nel pensiero di Platone: 203205; argomenti a favore dell’esistenza delle I. e relative critiche di Aristotele: formulazioni dell’argomento “dalle scienze”: 267-269; critiche di Aristotele: gli universali che le scienze hanno a oggetto non sono le I.: 269; vi sarebbero I. anche dei manufatti: 269; vi sarebbero I. anche di cose delle quali sostengono che non ve ne sono: 269-271; argomento dell’ “uno sopra i molti”: 171; critiche di Aristotele: si avranno I. anche delle negazioni e delle cose che non sono: 271-273; ci sarà un’I. unica anche di molte cose indeterminate: 273; argomento “dal pensare”: 273; argomento dell’esistenza di I. di relativi: 273-275; critiche di Aristotele: gli stessi Platonici negavano l’esistenza di I. di relativi: 275-277; si moltiplica l’I. dell’uguale: 277; si dovrebbe porre l’I. anche del disuguale, che invece nella logica dei Platonici è inammissibile: 277; argomento che porta al “terzo uomo”: formulazioni dell’argomento: 277; prima critica: se il predicato comune è alcunché d’altro oltre le cose di cui si predica, vi sarà un terzo uo-

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mo: 277; seconda critica: se ciò che è predicato con verità di più cose esiste come alcunché di diverso e separato da esse, vi sarà un terzo uomo: 277-279; terza critica: se l’uomo che si predica è diverso da quelli dei quali si predica e sussiste per proprio conto, e l’uomo si predica degli uomini individuali e dell’I., vi sarà un terzo uomo: 279; le I. eliminano i principi: 279, 281; se esistessero le I., non la Diade indefinita, ma la diade, anzi il numero sarebbe principio: 279; il numero, ossia un relativo, sarebbe principio rispetto a ciò che è per sé: 279-281; oppure una quantità, se il numero è quantità, sarebbe principio rispetto alla sostanza; 281; le stesse I., in quanto modelli, sono dei relativi e i relativi sarebbero principi del per sé: 281; e sarebbero maggiormente prive di valore delle cose che per esse si producono: 281; l’Uno e la Diade indefinita non sarebbero principi: 283; è assurdo che un’I. sia fatta I. da un’I., cosa che avverrebbe se l’Uno e la Diade indefinita fossero principi: 283; oppure, se la Diade indefinita non è principio, sarà principio la diade in sé: 293; se le I. sono semplici non possono procedere da principi: 283; incongruenza dell’ammissione di I. anche non di sostanze: 283-285; se le I. si mescolano, sono corpi: 285; vi sarà opposizione tra loro: 285; tanto se un’I. si mescola tutt’intera con altre I., tanto se vi si mescola soltanto per una sua parte, si hanno incongruenze: 285; se le I. si mescolano con le cose, nella medesima cosa si mescoleranno molte I.: 285-287; le I. non saranno più modelli: 287; si corromperanno assieme alle cose: 297; non sarebbero separabili, pur essendo in sé: 287; non sarebbero immobili: 287. Identico (tauèto@n): compete a un’unica scienza indagare sull’i.: 107; si riconduce all’uno: 107, 211. Il molto e il poco (to# polu# kai# to# oèli@gon): la diade ha in sé i m. e i. p.: 197. Illimitato, indeterminato (aòpeirov): la materia è i.: 191; l’ec-

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cedente e l’ecceduto sono i.: 197; la diade esprime la natura dell’i.: 203; appartiene alla natura dell’i. procedere verso l’accrescimento e la diminuzione: 205. Immagine (eièkw@n): non portare le i. degli dèi sugli anelli: 343. Immobile (aèki@nhtov): con la divisione Aristotele ha mostrato l’esistenza della causa finale anche nelle cose i.: 211; se le Idee si mescolano con le cose, non saranno più i.: 287. Immutabile (aòtreptov): le cose universali sono i.: 267. Impassibile (aèpaqh@v): gli atomi permangono identici, essendo i.: 403; se le Idee si mescolano con altre Idee soltanto per una loro parte, saranno divisibili e ripartibili, pur essendo i.: 285. In relazione a qualcosa (pro@v ti): enti per sé ed enti i. r. q.: 51. Incomposto (aèsu@nqetov): i punti sono i.: 195. Inconoscibile (aògnwstov): l’infinito è i.: 191. Indefinito/indeterminato/infinito (aèo@ristov): didascalia delle espressioni i.: 71; ricerca della categoria linguistica delle espressioni i.: 71; l’eccedente e l’ecceduto sono i.: 197; la Diade è i. perché contiene l’eccedente e l’ecceduto: 197; dall’argomento dell’uno sopra i molti segue che ci sarà un’Idea unica anche di molte cose i.: 273; dall’i. si immettono il tempo, il soffio e il vuoto: 347; i numeri pari sono i.: 353, 355. Indifferente (aèdia@foron): la nudità è privazione di un i.: 117; opposizione di un i. a un i.: 119. Indivisibile (aèdiai@retov): l’uno è i.: 197. Infinito (aòpeirov): è inconoscibile: 191; per Democrito la natura di cose eterne consiste in piccole sostanze i. di numero: 403; per lui il luogo è i. per grandezza: 403; lo chiama i.: 403. Ingenerabile (aège@nhtov): ciò che è intelligibile è i.: 389. Ingiustizia (aèdiki@a): la giustizia è contraria all’i.: 113.

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Ingiusto (aòdikov): il giusto si dispone in modo contrario all’i.: 113. Inintelligibile (aèdiano@htov): una lunghezza senza larghezza, come dicono i geometri, è i: 207, 209. Intelletto (nou^v): per i Pitagorici l’uno è i. e sostanza: 349351. Intelligibile (nohto@v): anche negli i. vi sono il Grande e il Piccolo: 191; Platone ha posto la Diade indefinita anche tra le cose i.: 205; ciò che è i. è ingenerabile: 389. Lacrima (da@kru): Pitagora chiamava il mare l. di Crono: 341. Lavacro (loutro@n): la purezza si attua nei l.: 339. Legge (no@mov, lex): le l. come corone delle città: 341; custodire le l. delle città: 343. Libero (eèleu@qerov): non si devono ordinare le stesse cose per i l. e per gli schiavi: 339. Limite (pe@rav): i punti definiscono i l. della linea: 201. Linea (grammh@): le l. sono prime rispetto alle superfici: 195; rispetto alle l. sono primi i punti: 195; i punti definiscono i limiti della l.: 201. Lira (lu@ra): Pitagora chiamava la costellazione delle Pleiadi l. delle Muse: 341. Lodevole (eèèpaineto@v): sono beni l. le virtù, le attività conformi a esse e le facoltà che si possono usare bene o male: 51. Logico (logiko@v): gli Stoici hanno grandi pensieri nella discussione di argomenti l.: 109. Lunghezza (mh^kov): una l. senza larghezza, come dicono i geometri, è inintelligibile: 207, 209. Luogo (to@pov): lo spazio per Platone è identico al l.: 189; è un ricettacolo: 191; antitesi del l. sono la destra e la sinistra: 345-347; Democrito concepisce il l. come infinito per grandezza: 403; lo chiama vuoto, nulla, infinito: 403. Manifesto allo sguardo (oèfqalmofanh@v): per Democrito dalle sostanze si compongono masse m.a.s.: 405.

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Mano (cei@r): Pitagora chiamava le orse m. di Rea: 341. Mantenersi puro (kaqareu@ein): la purezza si attua nel m. p. da un cadavere, da una puerpera e da ogni miasma: 339. Manufatto (to# uépo# ta#v te@cnav): dall’argomento “dalle scienze” segue che vi sarebbero Idee anche dei m.: 269. Mare (qa@latta): Pitagora chiamava il m. lacrime di Crono: 341. Marino (qala@ssiov; marinus): l’ortica marina è un animale m. chiamato ostrica: 337; i Pitagorici invitavano a non mangiare animali m.: 337. Massa (oògkov): per Democrito dalle sostanze si compongono m. manifeste allo sguardo, cioè sensibili: 405; esse si muovono nel vuoto e si compongono tra loro: 405. Matematico (maqhmatiko@v): i m. chiamano i punti monadi: 195; i numeri ideali e gli enti m. sono cause degli enti fisici: 267; se la Diade indefinita è altra dalla diade in sé e dalla diade m., la quantità delle diadi sarà sorprendente: 283. Materia (uçlh): identità per Platone di m. e spazio: 189; accoglie le Idee, per partecipazione o per somiglianza: 189; è chiamata da Platone “ricettacolo” e “grande e piccolo”: 191, 193; è indeterminata: 191; con la Diade indefinita Platone indicava la m.: 203; donde un’incongruenza: 203-205; altre sono le cose materiali e la m.: 389; la m. come “altra cosa”: 389. Materia plasmata e informante (eèkmagei^on): la Diade è materia plasmata e informante: 199. Materiale (eònulov): le cose sensibili hanno natura m.: 191; altre sono le cose m. e la materia: 389. Matrice (mh@tra): i Pitagorici non mangiano la m.: 337, 339. Medio/mezzo/metà (me@sov): se tra i contrari vi sia un m.: 115; agli eroi bisogna rivolgersi dopo la m. del giorno: 339; i corpi celesti che traslano intorno al m. hanno distanze scandite da rapporti proporzionali: 351; nel m. del tutto vi è il fuoco: 355; l’antiterra trasla intorno al m.: 355.

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Melanuro (mela@nourov): Pitagora proibiva di mangiare il m.: 339. Mescolanza (mi^xiv): la m. comporta contrarietà: 285. Miasma (mi@asma): la purezza si attua nel mantenersi puri da ogni m.: 339. Mida (Mi@dav): Pitagora diceva di essere il frigio M.: 331333, 335. Mistico (mistiko@v): Pitagora parlava in modo m. e per simboli: 341. Mobile (réeutiko@v): le cose sensibili hanno natura m.: 191. Modello (para@deigma): le Idee, in quanto m., sono dei relativi e i relativi sarebbero principi del per sé: 281; le Idee sono m. delle cose: 283; se le Idee si mescolano con le cose, non saranno più m.: 287. Moderazione (swfrosu@nh): è un bene dell’anima: 51. Molteplice/molteplicità/molti/moltitudine (polla@, plh^qov): si riconducono al m. il diverso, il disuguale e il dissimile: 107, 211; tutti i contrari si riconducono all’uno e al m. come loro principi: 107, 109, 209, 211; la serie delle cose che hanno più bisogno dei m. segue quella delle cose che si riconducono all’uno: 107; argomento dell’ “uno sopra i m.” e critiche di Aristotele: 171-173; le l’Idea si mescola tutta intera con altre Idee, l’uno sarà m. cose: 285; nella cosa si mescolano m. Idee: 285-287. Momento opportuno (kairo@v): per i Pitagorici il m. o. è il sette: 349. Monade (mona@ v ): i Platonici chiamano i punti m.: 195; principi del numero sono la m. e la diade: 197; l’uguale si colloca sotto la m.:197; la m. aggiunta a un numero pari ne genera uno dispari e aggiunta a un numero dispari ne genera uno pari: 199; per i Pitagorici la m. è parimpari: 353, 355; le m. sono i principi dei numeri: 355. Mondo (ko@smov): per Democrito ciascuno degli infiniti m. si genera e si corrompe: 403.

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Mortale (qnhto@v): Pitagora diceva d’essere stato generato dai semi migliori della natura m.: 331. Morte (qa@natov): Pitagora annunciò a un tale la m. del figlio ancor prima che egli parlasse; 335. Morto naturalmente (qnhsei@ d iov): la purezza si attua nell’astenersi da carni di animali m. n. come cibi: 339. Movimento (ki@nhsiv): è il contrario per sé della stasi: 113; la quiete si oppone al m. come ciò che non è né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un male: 119; per i Pitagorici l’opinione è m.: 351. Muse (mou^sai): Pitagora chiamava la costellazione delle Pleiadi lira delle M.: 341. Natura (fu@siv): Aristotele assume il possesso e la privazione nelle argomentazioni oppositive concernenti la n.:115; la cecità è una privazione per n.:115; le cose sensibili hanno n. materiale, indeterminata e mobile: 191; il dieci è perfetto e comprende in sé tutta la n. dei numeri: 329; Pitagora diceva d’essere stato generato dai semi migliori della n. mortale: 331; il bianco è proprio della n. del bene: 339; per i Pitagorici i numeri sono primi rispetto a tutta la n. e a tutti gli enti per n.: 353; per Democrito la n. di cose eterne consiste in piccole sostanze infinite di numero: 403; dal comporsi delle masse democritee non si genera un’unica n.: 405. Nave (ploi^on): Pitagora predisse l’affondamento di una n. che a Metaponto entrava in porto con un carico di merci: 329-331, 333. Necessità (aèna@gkh): per Democrito le sostanze restano assieme fino a che una n. più forte le scuota e la disperda: 405. Negazione (aèpo@fasiv): ricerca della categoria linguistica sotto cui porre le n.: 69, 71; dall’argomento dell’uno sopra i molti segue che si avranno Idee anche delle n.: 271273. Nero (me@lav): è il colore capace di comporre la visione:

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113; il banco si oppone al n. come ciò che non è né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un male: 119. Nozze (ga@mov): i Pitagorici identificavano le n. col cinque: 349. Nudità (gumno@thv): è una privazione relativa al costume: 115; è privazione di un indifferente: 117. Nulla (ouède@n): Democrito chiama il luogo nulla: 403. Numero (aèriqmo@v): l’Uno e la Diade indefinita sono principi dei n.: 191; Platone e i Pitagorici ipotizzarono come principi degli enti i n.: 195, 201, 351; per i Pitagorici il n. è principio del cielo e del tutto: 351; il cielo è costituito secondo n. e armonie: 353; i n. sono primi rispetto a tutta la natura e a tutti gli enti per natura: 353; le forme sono n.: 195, 197; i principi del n. sono principi delle forme: 197; principi delle Idee: 197; principi del n. sono la monade e la diade: 197, 201; l’Uno e il Grande e il Piccolo: 201; le monadi sono i principi dei n.: 355; la diade è il primo n.: 197, 201; la monade è il primo dei n.: 345; aggiunta a un n. pari ne genera uno dispari e aggiunta a un numero dispari ne genera uno pari: 199; i n. sono primi rispetto alle altre cose: 201; i principi del primo numero, ossia della diade, sono principi di ogni numero: 201; i n. sono elementi di tutti gli e.: 201; per i Pitagorici gli elementi e i principi dei n. sono principi di tutti gli enti: 353; per Platone anche le Idee sono n.: 201; l’Uno e la Diade sono elementi anche dei n., l’Uno come elemento di determinazione e la Diade come elemento di indeterminatezza: 207; se esistessero le Idee, non la Diade indefinita, ma la diade, anzi il n. sarebbe principio: 279; il n., ossia un relativo, sarebbe principio rispetto a ciò che è per sé: 279-281; oppure, se il n. è una quantità, una quantità sarebbe principio rispetto a una sostanza: 281; il dieci è perfetto e comprende in sé tutta la natura dei n.: 329; Pitagora all’inizio si applicò allo studio dei n.: 329; i Pita-

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gorici divisero i n. in pari e dispari: 345; fecero delle antitesi del dieci il simbolo delle antitesi di ogni n.: 345; indicarono la disposizione dei n. nel cielo: 347; ricondussero la somiglianza delle cose a quella dei n.: 347; le armonie sono costituite secondo certi numeri, per cui i n. sono loro principi: 351-353; i n. pari sono indeterminati, quelli dispari determinati: 353; per Democrito la natura di cose eterne consiste in piccole sostanze infinite di n.: 403. Numero ideale (eièdhtiko#v aèriqmo@v): i n. i. e gli enti matematici sono cause degli enti fisici: 267. Onore (timh@): agli dèi e agli eroi non si devono tributare uguali o.: 339. Opinione (do@xa): talvolta si muta dall’o. falsa nel non avere alcuna o. nella scienza, non nell’o. vera: 115; le o. dei Pitagorici sono raccontate nel Sul bene: 193; nella sua o. su Platone, Aristotele ha tralasciato di richiamare che egli considerò la causa efficiente come causa finale: 209; i Pitagorici identificavano l’o. col due: 351; dicevano che l’o. è anche movimento e aggiunta: 351. Opinione notevole (eòndoxon): la dialettica divenne capacità di argomentare confutativamente per demolire o costruire sulla base di o. n.: 31. Opposto (aèntikei@menov): dottrina aristotelica degli o.: 109. Ora (wòra): Pitagora apparve a Crotone e a Metaponto nel medesimo giorno e nella medesima o.: 331. Ordine (ta@xiv): criterio per decidere sulla paternità aristotelica di uno dei due libri sulle categorie: 83. Orecchio (ouè^v): fare libagioni agli dèi lungo l’o. delle coppe: 343. Orsa (aòrktov): Pitagora presagì l’o. bianca: 331; in Caulonia apparve l’o. bianca come segno di un prodigio richiesto da Pitagora per parlare: 335; chiamava le o. mani di Rea: 341. Ortica marina (aèkalh@fh): l’o. m. è un animale marino chiamato ostrica: 337; i Pitagorici si astengono dal mangiarla: 337.

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Ostrica (urtica): l’ortica marina è un animale marino chiamato o.: 337. Oviparo (wèjoto@kov): la purezza si attua nell’astenersi da animali o.: 339. Pane (aòrtov): Pitagora comandava di non spezzare il p.: 339-341; né di dividerlo: 341. Pari (aòrtiov): nel p. vi sono eccesso e difetto: 207; i Pitagorici divisero i numeri in p. e dispari: 345; il p. è femmina: 349; i numeri p. sono indeterminati: 353, 355. Parimpari (aèrtiope@rittov): la monade è p.: 353, 355. Parola benedicente (euèfhmi@a): agli dèi bisogna rivolgersi con p. b.: 339. Parte (me@rov): il bene è proporzione delle p. tra loro: 113; se le Idee si mescolano con altre Idee soltanto per una loro p., saranno divisibili e ripartibili, pur essendo impassibili: 285; tutte saranno incongruentemente costituite di p. simili: 295. Partecipare (mete@cein): cose contrarie per il fatto di p. di contrari: 113; se l’Idea si mescola con altre Idee per una sua parte soltanto, sarà uomo ciò che p. soltanto di una parte dell’uomo: 285. Partecipazione (me@texiv): la materia accoglie le Idee per p.: 189. Particolare (meriko@v): tutte le cose p. mutano: 267. Partire (aèpodhmei^n, proficisci): non volgersi indietro quando si p.: 343; una volta p. non tornare indietro: 343. Patria (patri@v): la felicità della p. si annovera tra i beni esterni: 51. Per sé (kaq è eéauta@/ kaq è auéta@): enti p. s. ed enti in relazione a qualcosa: 51; contrari p. s.: 113; se esistessero le Idee, il numero, ossia un relativo, sarebbe principio rispetto a ciò che è p. s.: 279-281; le stesse Idee, in quanto modelli, sono dei relativi e dunque un relativo sarebbe principio del p. s.: 281. Per simboli (sumbolikw^v): Pitagora parlava in modo mistico e p. s.: 341.

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Perfetto (te@leiov): il dieci è p. e comprende in sé tutta la natura dei numeri: 329, 353. Pesante (baru@v): l’acuto si oppone al p. come ciò che non è né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un male: 119. Pesce (iècqu@v): Pitagora comandava di star lontano dai p.: 339. Pesce fragolino (eèruqi@nov): Pitagora proibiva di mangiare il p. f.: 339. Peso (forti@on, onus): aiutare ad alzare il p. coloro che lo sollevano e non deporlo assieme: 343. Pianeta (planh@thv): Pitagora chiamava i p. cani di Persefone: 341. Pietà (oiè^ktov): alla stragrande maggioranza delle privazioni fanno seguito compassione e p.: 117. Polo (po@lov): i Pitagorici chiamano il p. sigillo di Rea: 357. Posizione (qe@siv): i punti sono monadi dotate di p.: 201. Possesso (eçxiv): Aristotele non assume il p. e la privazione nelle argomentazioni oppositive concernenti il carattere, ma in quelle per natura: 115. Principio (aèrch@): tutti i contrari si riconducono all’uno e al molteplice come loro p.: 107, 109, 209, 211; i p. del primo numero, ossia della diade, sono p. di ogni numero: 201; p. della diade sono l’Uno e il Grande e il Piccolo: 201; l’Uno e la Diade indefinita, o Diade di Grande e Piccolo, sono p. dei numeri e di tutti gli enti: 191, 201, 203; Platone e i Pitagorici ipotizzarono come p. degli enti i numeri: 195, 351; per i Pitagorici il n. è p. del cielo e del tutto: 351; p. del numero sono la monade e la diade: 197, 201; le monadi sono i p. dei numeri: 355; i p. del numero sono p. delle forme: 197; e p. delle Idee: 197; per i Pitagorici gli elementi e i p. dei numeri sono p. di tutti gli enti: 353; l’uno è p. di tutte le cose: 197; le forme sono p. delle cose: 197; l’uguale e il disuguale sono p. di tutte le cose: 197; p. della diade sono ciò che eccede e ciò che è ecceduto:

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197; che la Diade indefinita sia p. anche delle Idee corrisponde a un’incongruenza nel pensiero di Platone: 203205; p. delle stesse Idee per Platone sono l’Uno e la Diade indefinita: 213; le Idee eliminano i p.: 279, 281; se esistessero le Idee, non la Diade indefinita, ma la diade sarebbe p., anzi il numero: 279; il numero, ossia un relativo, sarebbe p. rispetto a ciò che è per sé: 279-281; oppure la quantità sarebbe p. rispetto alla sostanza: 281; le stesse Idee, in quanto modelli, sono dei relativi e dunque un relativo sarebbe p. del per sé: 281; l’Uno e la Diade indefinita non sarebbero p.: 283; se l’Uno e la Diade indefinita fossero p., un’Idea sarebbe fatta Idea da un’Idea: 283; oppure, se la Diade indefinita non è p., sarà p. la diade in sé: 293; se le Idee sono semplici non possono procedere da p.: 283. Privazione (ste@rhsiv): ricerca della categoria linguistica sotto cui porre le p.: 69, 71; Aristotele non assume il possesso e la p. nelle argomentazioni oppositive concernenti il carattere, ma in quelle per natura: 115; la cecità è una p. per natura: 115; la nudità è una p. relativa al costume: 115; la p. di denaro è una p. che sopraggiunge nell’uso: 117; la p. si estende a tutti i significati di avere: 117; è uguale a una distruzione: 117; non si ha p. di un male: 117; la cecità è p. di un bene: 117; la nudità è p. di un indifferente: 117; nessuna p. è un b.: 117; non si ha p. dei beni dell’anima riguardanti la scelta deliberata: 117; alla stragrande maggioranza delle p. fanno seguito compassione e pietà: 117; Aristotele paragona l’antitesi delle p. naturali a quella dei contrari: 117. Privo di valore (aòtimov): le Idee, se esistessero, sarebbero maggiormente p. d. v. delle cose che per esse si producono: 281. Problema (pro@blhma): sono oggetto di p. fisici gli enti fisici di cui si ignorano le cause: 39; anche in merito a p. fisici si originano p. dialettici; 39; tutti i p. dialettici si riconducono alla ricerca del “che è” e del “se è”: 39.

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Produttrice del due (duopoio@v): la diade è p. d. d.: 199. Proporzione (summetri@a): il bene è p. delle parti tra loro: 113. Puerpera (le@cov): la purezza si attua nel mantenersi puri da una p.: 339. Punto (stigmh@): sono primi rispetto alle linee: 195; i matematici li chiamano segni, i Platonici monadi: p, 195; i p. sono monadi dotate di posizione: 201. Purezza (aègnei@a): condizioni della purezza: 339. Quantità (poso@n): se esistessero le Idee, una q. sarebbe principio rispetto alla sostanza: 281. Quiete/stasi (sta@siv): è contraria per sé del movimento: 113; la q.. si oppone al movimento come ciò che non è né un bene né un male a ciò che non è né un bene né un male: 119. Raggio (auègh@): Pitagora diceva che l’arcobaleno è un r. del sole: 341. Rasoio (ma@caira): non raschiare il fuoco col r.: 341. Razionale (logiko@v): carattere più r. degli epicheiremi che procedono dalle definizioni: 69; del vivente r. fanno parte Dio, l’uomo e Pitagora: 335. Relativo (pro@v ti): argomento dell’esistenza di Idee di r. e critiche di Aristotele: 273-277; se esistessero le Idee, il numero, ossia un r., sarebbe principio rispetto a ciò che è per sé: 279-281. Ricchezza (plou^^tov): si annovera tra i beni esterni: 51. Ricettacolo (metalhptiko@n): per Platone lo spazio è un r.: 189, 191; la materia è un r.: 191; il luogo è un r.: 191. Ripartibile (meristo@v): se le Idee si mescolano con altre Idee soltanto per una loro parte, saranno r., pur essendo impassibili: 285. Rito di purificazione (kaqarmo@n): la purezza si attua nel praticare r. d. p.: 339. Riunione (su@gkrisiv, su@nodov): per Democrito la generazione è r. di atomi: 405; Pitagora diceva che il terremoto è una r. di morti: 341.

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Rondine (celidw@n, hirundo): non accogliere r. in casa: 343. Saggezza (fro@nhsiv): è un bene dell’anima: 51; è contraria alla stoltezza: 113. Salute (uégi@eia): è un bene del corpo: 51. Scelta deliberata (proai@resiv): non si ha privazione dei beni dell’anima riguardanti la s. d.: 117. Schiavo (dou^lov): non si devono ordinare le stesse cose per i l. e per gli s.: 339. Scienza (eèpisth@mh): è compito di un’unica s., identica per genere, indagare su una determinata specie di enti: 107; indagare sull’identico, sull’uguale, sul simile e sui loro contrari, cioè sul diverso, sul disuguale e sul dissimile: 107; talvolta si muta dall’opinione falsa nel non avere alcuna opinione o nella s., non nell’opinione vera: 115; argomento “dalle s.” e critica di Aristotele: 267-269. Segno (shmei^on): i Platonici chiamavano i punti s.: 195; in Caulonia apparve l’orsa bianca come s. di un prodigio richiesto da Pitagora per parlare: 335. Seme (spe@rma): Pitagora diceva d’essere stato generato dai s. migliori della natura mortale: 331. Sensibile (aièsqhto@v): tutte le cose s. sono avvolte dall’infinito e inconoscibili per il fatto di avere natura materiale, indeterminata e mobile: 191; Platone ha posto l’Uno e la Diade indefinita come principi anche delle cose s.: 205; ciò che è s. è generabile: 389; per Democrito dalle sostanze si compongono masse s.: 405. Senso (aiòsqhsiv): per Democrito le sostanze sono così piccole da sfuggire ai nostri s.: 403. Senza larghezza (aèplath@v): una lunghezza s. l., come dicono i geometri, è inintelligibile: 207, 209. Separabile (cwristo@v): se le Idee si mescolano con le cose, non saranno s., pur essendo in sé: 287. Separazione (dia@krisiv): per Democrito la corruzione è s. di atomi: 405. Serie (sustoici@a): la s. delle cose migliori si riconduce

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all’uno: 107; i Pitagorici ricondussero ogni antitesi a due s. e completarono ciascuna con la decade: 345. Serpente (oòfiv): Pitagora uccise a morsi un s. velenoso che lo morsicava: 331, 333; e un s. irsuto che uccideva: 333. Sette (eépta@): i Pitagorici identificavano Atena con il s.: 349. Simbolo (su@mbolon): simboli pitagorici: 341-343; i Pitagorici fecero delle antitesi del dieci il s. delle antitesi di ogni numero: 354. Simile (oçmoiov): compete a un’unica scienza indagare sul s.:107; si riconduce all’uno: 107, 211; se le Idee si mescolano con altre Idee soltanto per una loro parte, tutte saranno incongruentemente costituite di parti s.: 285. Sinistra (aèristero@n): per i Pitagorici, antitesi del luogo sono la destra e la s.: 345-347; disponevano a s. il basso e il dietro: 357; la s. è un male: 347; il sopra del cielo è a s.: 357. Soffio (pnoh@): dall’infinito si immette il s.: 347. Sole (hçliov): Pitagora diceva che l’arcobaleno è un raggio del s.: 341; per i Pitagorici ha affinità col sette: 349. Solido (nasto@v): Democrito chiama ciascuna delle sostanze “s.”: 403. Sollevazione (sta@siv): Pitagora preannunciò una s.: 331. Somiglianza (oémoi@wsiv): la materia accoglie le Idee per s.: 189; i Pitagorici ricondussero la s. delle cose a quella dei numeri: 347. Sostanza (ouèsi@a): i contrari sono elementi degli enti e della s.: 211; se esistessero le Idee, una quantità sarebbe principio rispetto alla s.: 281; incongruenza dell’ammissione di Idee anche non di s.: 283-285; per i Pitagorici l’uno è intelletto e s.: 349-351; per Democrito la natura di cose eterne consiste in piccole s. infinite di numero: 403; egli chiama ciascuna delle s. “qualcosa”, “solido”, “essere”: 403; ritiene che le s. siano così piccole da sfuggire ai nostri sensi: 403; hanno forme e figura d’ogni tipo: 403; differiscono per grandezza: 405.

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Sottigliezza (subtilitas): criterio per valutare l’autenticità aristotelica delle Categorie: 85. Sovrapposizione (aènti@fraxiv): le eclissi di luna si verificano per la s. talvolta della terra, talvolta dell’antiterra: 359. Spada (gladium): non ferire il fuoco con la s.: 343. Spazio (cw@ra): identità per Platone di materia e s.: 189; lo s. è un ricettacolo: 189, 191; è identico al luogo: 189. Specie (eiè^dov): vi sono tante s. dell’uno quante ve ne sono dell’ente: 107; è compito di un’unica scienza, identica per genere, indagare su una determinata s. di enti: 107; per Empedocle ciò che diviene non è identico a ciò che si corrompe se non per s.: 405. Sproporzione (aèsummetri@a): è contraria alla proporzione delle parti tra loro: 113. Stadera (statera): non oltrepassare la s.: 343. Stile (le@xiv): tanto le Categorie aristoteliche quanto l’altro libro sulle categorie sono succinti nello s.: 83. Stoltezza (aèfrosu@nh): è contraria alla saggezza: 113. Superficie (eèpi@pedon): le s. sono prime rispetto ai corpi: 195; le linee sono prime rispetto alle s.: 195. Svolgere le difficoltà (diaporei^n): il solo s. l. d. non è inutile: 195. Tavola (tra@peza): Pitagora comandava di non raccogliere ciò che cade dalla t.: 339. Tempo (cro@nov): dall’infinito si immette il t.: 347. Terra (gh^): l’antiretta è così chiamata per occupare una posizione contraria a quella della t.: 355; le eclissi di luna si verificano per la sovrapposizione talvolta della t., talvolta dell’antiterra: 359. Terremoto (seismo@v): Pitagora diceva che il t. è una riunione di morti: 341. Tesi (qe@siv): la dialettica divenne esercizio di argomentazione confutativa in vista della demolizione o della costruzione di una t. a partire da opinioni notevoli: 31; in

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Aristotele e in Teofrasto si trovano i modelli di come esercitarsi nelle t.: 31. Tornare indietro (redire): una volta partiti, non t. i.: 343. Triglia (tri@glh, trigli@v): Pitagora invitava ad astenersi dal mangiare le t.: 337, 339. Uguale (iòsov): compete a un’unica scienza indagare sull’u.: 107; si riconduce all’uno: 107, 211; l’u. e il disuguale sono principi di tutte le cose: 197; si colloca sotto la monade: 197; se vi sono Idee di relativi si moltiplica l’Idea dell’uguale: 277; agli dèi e agli eroi non si devono tributare u. onori: 339; per i Pitagorici propri della giustizia sono il contraccambio e l’u.: 347. Unità (unitas): l’u. è l’unico uno e vuol essere chiamata desiderio: 345. Universale (kaqo@lou): le definizioni sono realtà u. e permangono sempre: 267; le cose u. sono immutabili ed eterne: 267; gli u. che le scienze hanno a oggetto non sono le Idee: 269. Uno (eçn): vi sono tante specie dell’u. quante ve ne sono dell’ente: 107; tutti i contrari si riconducono all’u. e al molteplice come loro principi: 107, 109, 209, 211; all’u. si riconducono l’identico, l’uguale e il simile: 107, 211; vi si riconduce la serie delle cose migliori: 107; differenze dell’uno: 107; la serie delle cose che hanno più bisogno dei molti segue quella delle cose che si riconducono all’u.: 107; il bene è l’U.: 189; assieme alla Diade indefinita è principio dei numeri e degli enti: 191; il vivente in sé deriva dall’Idea dell’u. e dalla prima grandezza, larghezza e profondità: 193; l’u. è principio di tutte le cose: 197; la diade è prima oltre l’u.: 197; l’u. è indivisibile: 197; per questo è contrario alla diade: 197; la Diade indefinita, definita dall’u., diventa diade: 197; elementi della diade sono l’U. e il Grande e il Piccolo: 199; l’U. e il Grande e il Piccolo (o Diade indefinita) sono principi della diade: 201; e di ogni numero: 201; e di tutte le cose: 201, 203; l’U.

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è elemento anche dei numeri, e precisamente come elemento di determinazione: 207; principi delle stesse Idee per Platone sono l’U. e la Diade indefinita: 213; argomento dell’ “u. sopra i molti” e critiche di Aristotele: 171-173; se esistessero le Idee, l’U. e la Diade indefinita non sarebbero principi: 283; se l’Idea si mescola tutta intera con altre Idee, l’u. sarà molte cose: 285; l’unità è l’unico u.: 345; l’u. aggiunto a un numero pari dà luogo a un numero dispari e aggiunto a un numero dispari dà luogo a un numero pari: 345; il cielo è u.: 347; l’u. è intelletto e sostanza: 349-351. Uomo (aè n@ qrwpov): è u. non solo chi ha successo, ma anche chi opera dimostrazioni: 195; argomento che porta al “terzo u.” e critiche di Aristotele: 277-279; se l’Idea si mescola con altre Idee per una sua parte soltanto, sarà u. ciò che partecipa soltanto di una parte dell’u.: 285; del vivente razionale fanno parte Dio, l’u. e Pitagora: 335; non si devono ordinare le stesse cose per gli dèi e per gli u.: 339. Uovo (wjèo@n): la purezza si attua nell’astenersi dalle u.: 339. Utile (wèfe@limov): sono u. i beni atti a produrre cose che si possono usare bene o male: 51. Verbo (réh^ma): ricerca della categoria linguistica sotto cui porre le flessioni dei v.: 69. Via maestra/pubblica (lewfo@rov, via publica): non camminare per le v. m.: 343. Virtù (aèreth@): è un bene bello e lodevole: 51; è contraria per sé del vizio: 113. Visibile (fanero@v): i corpi v. del cielo: 329. Visione (oòyiv): il bianco è il colore capace di scindere la v.: 113. Vivente (zwj^on): del v. razionale fanno parte Dio, l’uomo e Pitagora: 335. Vivente in sé (auèto# to# zwj^on): deriva dall’Idea dell’uno e dalla prima grandezza, larghezza e profondità: 193.

INDICE DEI PRINCIPALI CONCETTI

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Vizio (kaki@a): è il contrario per sé della virtù: 113. Vocabolo (le@xiv): i v. sono atti a significare: 69. Voce (fwnh@): Pitagora udì una v. grande e sovrumana che lo salutava mentre attraversava il fiume Cosa: 331; diceva che l’eco che si origina dal bronzo battuto è la v. di un demone ivi racchiuso: 341; che l’eco che cade molte volte nelle orecchie è v. dei migliori: 341. Volgersi indietro (eèpistre@fesqai): non v. i. quando si parte: 343. Vuoto (keno@v): dall’infinito si immette il v.: 347; Democrito chiama il luogo v.: 403; le masse si muovono nel v. e si compongono tra loro: 405;

GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI E DELLE EQUIVALENZE CON L’ITALIANO1

aèeto@v: aquila aègaqo@n: bene aègaqo@v: buono aège@nhtov: ingenerabile aègnei@a: purezza aègneu@ein: essere puro aògnwstov: inconoscibile aèdia@foron: indifferente aèdiai@retov: indivisibile aèdiano@htov: inintelligibile aèdiki@a: ingiustizia aòdikov: ingiusto aèkalh@fh: ortica marina aiòdiov: eterno aiòsqhsiv: senso aièsqhto@v: sensibile aiòtion: causa aèki@nhtov: immobile aèlektruw@n: gallo aèlloi@wsiv: alterazione amicus: amico aèna@gkh: necessità

aèndrei@a: coraggio aèniso@thv: disuguaglianza aèno@moiov: dissimile aè n@ qrwpov: uomo animal: animale aònisov: disuguale aènti@qesiv: antitesi aèntikei@menov: opposto aèntipeponqo@v: contraccambio aènti@cqwn: antiterra aènti@fraxiv: sovrapposizione aònw: alto aèo@ristov: indefinito aèo@ristov dua@v: Diade indefinita aòpeirov: indefinito, indeterminato, infinito aèpaqh@v: impassibile aèpe@cein: distare aèplath@v: senza larghezza aèpo@deixiv: dimostrazione

1 In questo indice sono stati introdotti anche quei nomi propri che denotano nozioni.

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GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI

aèpo@fasiv: negazione aèpo@stasiv: distanza aè p odeiknu@ n ai: dimostrare, operare dimostrazioni aèpodhmei^n: partire è A po@ l lwn é U perbo@ r eiov: Apollo Iperboreo aèpori@a: aporia aèpw@leia: distruzione aèreth@: virtù aèrgu@rion: denato aèriqmo@v: numero aèristero@n: sinistra aérmoni@a: armonia aèrtiope@rittov: parimpari aòrqron: articolazione aòrktov: orsa aòrtiov: pari aòrtov: pane aèrch@: principio aèsu@nqetov: incomposto aèsummetri@a: sproporzione aòtimov: privo di valore aòtomov: atomo aòtreptov: immutabile auègh@: raggio auèto# to# zwj^on: vivente in sé aèfrosu@nh: stoltezza badi@zein: camminare baru@v: pesante brevitas: brevità communis : comune cor: cuore

corona: corona cupido: desiderio ga@mov: nozze ge@nesiv: generazione ge@nov: genere genhto@v: generabile gh^: terra gladium: spada gluku@v: dolce gnh@siov: autentico gonei^v: genitori grammh@: linea gumno@thv: nudità daemon: demone dai@mwn: demone da@kru: lacrima daktu@liov: anello deambulare: camminare deka@v: dieci, decade dexio@n: destra di@kaiov: giusto dia@krisiv: separazione dia@stasiv: distanza diai@resiv: divisione diairetiko@v: atto a dividere diaireto@v: divisibile diakritiko@v: capace di scindere dialektikh@: dialettica dialektiko@v: dialettico diaporei^n: svolgere le difficoltà diafe@rein: differire

GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI

diafe@rwn: differente, distante diafora@: differenza didaskali@a: didascalia dikaiosu@nh: giustizia domus: casa do@xa: opinione dou^lov: schiavo dua@v: diade du@namiv: facoltà du@o: due duopoio@ v ; produttrice del due eòqov: carattere, costume eiè^dov: forma, idea, specie eièdhtiko#v aèriqmo@v: numero ideale eòkpwma: coppa eièkw@n: immagine eèkmagei^on: materia plasmata e informante eèkto@v: esterno eòleov: compassione eèleu@qerov: libero eòmprosqen: davanti eçn: uno eènanti@ov: contrario eènanti@wsiv: contrarietà eènantio@thv: contrarietà eòndoxon: opinione notevole eène@rgeia: attività eònulov: materiale eçxiv: possesso eèèpaineto@v: lodevole

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eèpi@qesiv: aggiunta eèpi@pedon: superficie eèpine@mhsiv: dilatazione eèpisth@mh: scienza eèpistre@fesqai: volgersi indietro eèpicei@rhma: epicheirema, argomento oppositivo, obiezione eèpicei@rhsiv: argomento confutativo/oppositivo eépta@: sette eèruqi^nov: pesce fragolino eçterov: diverso eétero@thv: alterità euèdaimoni@a: felicità euèexi@a: buona condizione euèfhmi@a: parola benedicente eòcein: avere hçliov: sole héme@ra: giorno hçrwv: eroe hècw@: eco qala@ssiov: marino qa@latta: mare qa@natov: morte qe@siv: posizione, tesi qeo@v: Dio qnhsei@diov: morto naturalmente qnhto@v: mortale hirundo: rondine

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GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI

iède@a: idea ignis: fuoco iè^riv: arcobaleno iòsov: uguale ièscu@v: forza iècqu@v: pesce kaqareu@ein: mantenersi puro kaqarmo@n: rito di purificazione kaq è eéauto@: per sé kaqo@lou: universale kairo@v: momento opportuno kaki@a: vizio kako@n: male kako@v: cattivo ka@llov: bellezza kalo@v: bello kardi@a: cuore kathgori@a: categoria ka@tw: in basso keno@v: vuoto kh^dov: cadavere ki@nhsiv: movimento ko@smov: mondo kre@av: carne ku@amov: fava ku@wn: cane le@xiv: elocuzione, stile, vocabolo leuko@v: bianco leuceimonw^n: coperto di un bianco mantello

le@cov: puerpera lewfo@rov: via maestra logiko@v: logico, razionale lo@ g ov oé r istiko@ v : discorso definitorio loutro@n: lavacro lu@ra: lira ma@qhma: conoscenza, scienza matematica maqhmatiko@v: matematico marinus: marino me@geqov: grandezza me@lav: nero mela@nourov: melanuro meriko@v: particolare meristo@v: ripartibile me@rov: parte me@sov: medio, mezzo, metà metalhptiko@n: ricettacolo me@texiv: partecipazione mete@cein: partecipare mh^kov: lunghezza mh@tra: matrice mhro@v: coscia mi@asma: miasma Mi@dav: Mida mi^xiv: mescolanza mistiko@v: mistico mona@v: monade mou^sa: musa nasto@v: solido no@mov: legge nohto@v: intelligibile

GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI

nou^v: intelletto oògkov: massa oièki@a: casa oiè^ktov: pietà oièsto@v; freccia oçmoiov: simile oémoi@wsiv: somiglianza oèxu@v: acuto oòn: ente onus: peso oòpisqen: dietro oratio: elocuzione oérismo@v: definizione ouède@n: nulla ouèrano@v: cielo ouè^v: orecchio ouèsi@a: sostanza oè f qalmofanh@ v : manifesto allo sguardo oòfiv: serpente oòyiv: visione para@deigma: modello pars superior: parte superiore patri@v: patria pe@nte: cinque peperasme@nov: determinato pe@rav: limite perirranth@rion: abluzione peritto@v: dispari pikro@v: aspro pi@stiv: credibilità planh@thv: pianeta

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pleia@v: costellazione delle PLeiadi plh^qov: molteplice/molteplicità/moltitudine ploi^on: nave plou^^tov: ricchezza pnoh@: soffio po@liv: città po@lov: polo polla@: (i) molti poso@n: quantità potamo@v; fiume proai@resiv: scelta deliberata pro@blhma: problema proficisci: partire pro@v ti: in relazione a qualcosa, relativo ptw^siv: flessione pu^r: fuoco redire: tornare indietro réeutiko@v: mobile réh^ma: verbo safh@neia: chiarezza seismo@v: terremoto semnopreph@v: dignitoso shmantiko@v: atto a significare shmei^on: segno spe@rma: seme sta@siv: quiete/stasi, sollevazione statera: stadera

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GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI

ste@rhsiv: privazione stefano@v: corona stigmh@: punto stoicei^on: elemento subtilitas: sottigliezza su@gkrisiv: riunione sugkritiko@v: capace di comporre sumbolikw^v: per simboli su@mbolon: simbolo summetri@a: proporzione su@ndesmov: connettivo su@nodov: riunione sustoici@a: serie sch^ma: figura sw^ma: corpo swfrosu@nh: moderazione ta@xiv: ordine tauèto@: identico te@leiov: perfetto teratopoi@ a : creazione di prodigi ti@miov: degno d’onore timh@: onore to# brwto@n: cibo to# eésthko@: ciò che è in quiete to# kinou@menon: ciò che è in movimento to# me@ g a kai# to# mikrio@ n : Grande e Piccolo to# polu# kai# to# oè l i@ g on: il molto e il poco

to@pov: luogo to# uépo# ta#v te@cnav: manufatto tra@peza: tavola tri@glh: triglia trigli@v: triglia tuflo@thv: cecità uégi@eia: salute uiéo@v: figlio uçlh: materia unitas: unità uépereco@menov: ecceduto uépere@cwn: eccedente urbs: città urtica: ostrica calko@v: bronzo cei@r: mano celidw@n: rondine coi^nix: chenice cro@nov: tempo crw^ma: colore cw@ra: spazio cwristo@v: separabile fanero@v: visibile fqarto@v: corruttibile fqora@: corruzione fi@lov: amico fila@nqrwpov: filantropo flo@x: fiamma forti@on: peso fro@nhsiv: saggezza

GLOSSARIO DEI TERMINI GRECI E LATINI

fusiko@v: fisico fu@siv: natura fwnh@: voce via publica: via pubblica yuch@: anima

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