Fondamenti di psicopatologia forense 9788814154164, 8814154163

Nel testo dopo l'analisi delle diverse fattispecie di interesse penale (dalla imputabilità, alla pericolosità socia

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Fondamenti di psicopatologia forense
 9788814154164, 8814154163

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Fondamenti di psicopatologia forense Problemi di metodo e prospettive di sviluppo delle consulenze psicologiche e psichiatriche in ambito giudiziario

PRIMA CHE IL LIBRO SCIENTIFICO MUOIA Il libro scientifico è un organismo che si basa su un equi­ librio delicato. Gli elevati costi iniziali (le ore di lavoro necessarie all'auto­ re, ai redattori, ai compositori, agli illustratori) sono recu­ perati se le vendite raggiungono un certo volume. La fotocopia in un primo tempo riduce le vendite e perciò contribuisce alla crescita del prezzo. In un secondo tempo elimina alla radice la possibilità economica di produrre nuovi libri, soprattutto scientifici. Per la legge italiana la fotocopia di un libro (o parte di esso) coperto da diritto d'autore (Copyright) è illecita. Quindi ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è reato. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti dellS% di ciascun volume dietro paga­ mento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall'accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioniadusodifferentedaquellopersonalepotranno avvenire, per un numero di pagine non superiore allS% del presente volume,soloaseguitodi specificaautorizzazionerila­ sciata da AIDRO, Corso di Porta Romana l 08, 20122 Milano, fax 02 89280864, e-mail: [email protected].

TUTTE LE COPIE DEVONO RECARE IL CONTRASSEGNO DELLA S.I.A.E.

ISBN 88- 1 4- 1 54 1 6-3 ©

Copyright Dott. A. Giuffrè Editore, S.p.A. Milano - 20 1 0 Via Busto Arsizio, 40 - 20 1 5 1 MILANO - Sito Internet: www.giuffre.it La traduzione, l'adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i microfìlm, i film, le fotocopie), non­ ché la memorizzazione elettronica, sono riservati per tutti i Paesi. Tipografia «MORI & C. S.p.A.» - 2 1 1 00 Varese - Via F. Guicciardini 66

INDICE

Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

IX

Capitolo I LE DISCIPLINE PSICOLOGICHE E PSICHIATRICHE NEL MONDO DEL DIRITTO 1.1. 1 .2. 1 .3 . 1 .4. 1 .5 . 1 .6. 1 .7 .

I fondamenti disciplinari del lavoro psicopatologico forense. Dimensione clinica e competenza peritale . . . . . . Finalità del lavoro peritale . . . . . . . . . .. . . . L'incarico peritale: aspetti normativi ed applicativi . Struttura e contenuti dell'elaborato peritale . . Il colloquio clinico nel contesto peritale . . . L e prove psicodiagnostiche i n ambito forense . .

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l

4 7 9 19 27 34

Capitolo II LA PERIZIA PSICHIATRICA IN TEMA DI IMPUTABILITÀ DELL'AUTORE DI REATO 2.1. 2.2. 2.3. 2.4.

Reato e responsabilità penale . . . . . . . . . . . . . Responsabilità penale e imputabilità . . . .. . . . . . Le condizioni che possono incidere sull'imputabilità . Gli artt. 88 e 89 c.p.: imputabilità e psicopatologia . .

39 43 48 53

2.4. 1 . L'infermità che incide sullo stato di mente . .

53

2.4.2. Evoluzione e interpretazione della nozione di infermità

55

2.4.3. I recenti approdi in tema di vizio di mente . . . . . . . .

61

2.4.4. La ricostruzione dello stato di mente al momento del fatto e la

questione del nesso causale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

67

2.4.5. Vizio totale o vizio parziale: il problema della valutazione quanti-

tativa della capacità di intendere e di volere . . . . . . . . . . . . .

71

2.4.6. La metodologia medico legale come strumento fondamentale del 2 .5 . 2.6. 2.7. 2.8.

ragionamento psichiatrico forense . L'azione dell'alcool e degli stupefacenti . I l sordomutismo . . . . . . . . . . . . . . . La minore età . . . . . . . . . . . . . . . . Imputabilità dell'autore di reato: riflessi giudiziari e ruolo del perito .

73 76 83 84 95

VI

Indice

Capitolo III NOZIONE E VALUTAZIONE DELLA "PERICOLOSITÀ SOCIALE PSICHIATRICA" 3.1. 3 .2. 3.3. 3 .4.

3.5.

Pericolosità sociale e misure di sicurezza: cenni normativi e risvolti peritali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di pericolosità sociale e di misure di sicurezza "psichiatriche". . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La valutazione psichiatrico forense della pericolosità del malato di mente autore di reato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Malattia mentale e crimine: dalla "pericolosità sociale" al "risk

lOl

assessment". . . . . . . . . . . . . . . . . .

111

97

108

3.4 .1. La prognosi in psichiatria forense .

111

3 .4.2. Il legame tra malattia mentale e crimine

1 13

3.4.3. La valutazione e la gestione del rischio di comportamento violento: tra test attuariali e indagine clinica . . . . . . . . . . . . . . . . La "pericolosità sociale psichiatrica": criticità attuali e prospettive

121

metodologiche. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1 24

Capitolo IV LA PERIZIA PSICHIATRICA SULL'AUTORE DI REATO: PROPOSTE DI RIFORMA E PROSPETTIVE METODOLOGICHE 4. 1 . 4.2. 4.3. 4.4. 4.5. 4.6.

Proposte di abolizione della perizia psichiatrica . . . . . . . . . . . . . . Proposte di allargamento della perizia psichiatrica: la perizia psicologica o criminologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La valutazione e il trattamento del sofferente psichico autore di reato in alcune legislazioni straniere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La normativa italiana: i progetti di riforma dal '90 ad oggi . . . . . . . . La perizia psichiatrica in tema di imputabilità e di pericolosità sociale: criticità e prospettive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Per una moderna collaborazione tra mondo della giustizia e discipline psicopatologiche: una nuova proposta di quesito penale . . . . . . . . . .

13 1 13 7 140 145 148 153

Capitolo V ALTRI MODELLI DI INDAGINE PSICOLOGICA E PSICHIATRICA IN AMBITO PENALE S.I.

5.2. 5 .3 . 5 .4.

La penz1a psichiatrica sull'autore di reato nell'iter giudiziario penale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'indagine psichiatrico forense in tema di "capacità di partecipare coscientemente al processo" . . . . . . . Disturbo psichico e carcere . . . . . . L'incapacità di rendere testimonianza.

159 1 60 166 1 74

Indice

VII

Capitolo VI LE INDAGINI PSICHIATRICHE E PSICOLOGICHE SULLE VITTIME DI REATO. 6.1. 6.2.

6.3 .

6.4.

La vittima di reato nel processo penale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il contributo psichiatrico forense in tema di circonvenzione di incapace.

1 79 180

6.2. 1 . Aspetti normativi e giurisprudenziali . . . . . . .

180

6.2.2. La metodologia peritale . . . . . . . . . . . . . . . Psichiatria forense e reati contro la libertà individuale .

189 1 94

6.3 . 1 . Violenza sessuale e inferiorità psichica . . . . .

1 94

6.3 .2. "Atti persecutori" e riflessi psichiatrico forensi .

197 200

Il minore vittima di reato . . . . . .. . . . . . . . . . . 6.4. 1 . Il fenomeno del maltrattamento/abuso sui minori

.

200

6.4.2. La testimonianza del minore vittima di reato . . . .

205

Capitolo VII IL CONTRIBUTO PSICOLOGICO E PSICHIATRICO FORENSE NEL PROCESSO CIVILE 7. 1 . 7.2.

Le nozioni di "capacità giuridica" e "capacità di agire": cenni normativi . Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia . . . . . . . . . . . . . . .

211

7.2 . 1 . Amministrazione di sostegno . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

2 15

7.2.2. Le indagini tecniche in tema di amministrazione di sostegno

220

7.2.3. Interdizione e inabilitazione

223

7.2.4. La consulenza psichiatrico forense in tema di interdizione e inabilitazione . . . . . . . . L'incapacità naturale . . . . . . . L'incapacità di disporre per testamento L'identità psicosessuale e la modifica anagrafica.

225 234 236 240

.

7.3 . 7.4. 7.5.

.

2 13

Capitolo VIII LA VALUTAZIONE DEL DANNO BIOLOGICO DI NATURA PSICHICA 8. 1 . 8.2. 8.3. 8.4. 8.5. 8.6. 8. 7 . 8.8. 8.9.

La nozione di danno alla persona i n responsabilità civile Il c.d. danno biologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il danno biologico di natura psichica . . . . . . . . . . . . Dall'evento psicotraumatico al danno all'integrità psichica: la questione del nesso causale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La valutazione clinica del danno all'integrità psichica. . . . . . . . . . Il contributo psichiatrico forense tra danno psichico, morale ed esistenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I l danno psichico alla vittima indiretta: l a valutazione psichiatrico forense del "lutto complicato". . . . . . . . . . . . Il danno psichico da mobbing . . . . . . . Il danno psichico alla vittima di stalking .

245 250 253 257 263 266 2 75 284 289

Indice

VIII

Capitolo IX LE INDAGINI PSICOLOGICHE E PSICHIATRICHE SULLA FAMIGLIA 9.1. 9.2. 9.3. 9.4. 9.5 .

Realtà familiari e contesto giudiziario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'annullamento del matrimonio civile e canonico: aspetti psichiatrico forensi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Adozione e affidamento familiare . . . . . . . . . . . L'affidamento del minore in caso di separazione e divorzio . L'ascolto del minore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

295 303 309 3 18 330

Capitolo X PROBLEMI ETICI E DEONTOLOGICI NEL LAVORO PSICOLOGICO E PSICHIATRICO FORENSE 10. 1 . Doveri del consulente e diritti della persona . . . . . . . . . . 10.2. Le responsabilità del perito: aspetti norrnativì e deontologici 10 .3. Nuove esigenze di formazione del consulente tecnico

34 1 345 350

Bibliografia

353

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PREFAZIONE Dopo dieci anni dalla pubblicazione delle "Lezioni di Psicologia e Psichiatria Forense", che hanno rappresentato una prima raccolta di nozioni destinate in modo specifico agli studenti universitari e posi­ universitari, si è ritenuto, in accordo con le cortesi richieste dell'Edi­ tore, di rivedere in modo sistematico la trattazione della Disciplina, per strutturare un testo che, almeno negli auspici, possa divenire fruibile tanto in ambito formativo quanto in ambito professionale. In quella prima stesura delle lezioni del corso di psicopatologia forense per gli studenti universitari, ho collaborato con uno studioso appassionato, il Dott. Marco Lagazzi, dotato di grande originalità di pensiero. Passati gli anni ho chiesto ancora una volta a Marco di rimettersi al lavoro, per tentare di trasformare quelle "Lezioni" in un vero e proprio strumento di consultazione per coloro che si accingono a lavorare in campo psicopatologico forense, ma ho ottenuto un di­ niego, motivato da altri impegni professionali ed editoriali improcra­ stinabili. È così che ho cercato un'altra vittima e ho trovato il Dott. Gabriele Rocca, appassionato cultore delle Scienze Medico Forensi, che si è tuffato nel lavoro con entusiasmo, contribuendo fattivamente a tra­ sformare quella prima raccolta di lezioni in un testo di riferimento per la Psicopatologia Forense, e cioè per quella materia di insegnamento che afferisce al settore disciplinare MED-43, ma che frequentemente è stata trattata da psichiatri o psicologi clinici, che hanno privilegiato la discussione diagnostica, dando spesso per scontate le competenze medico-legali. È così che per più di un anno ci siamo immersi in un discorso complesso, articolato, fondato su un continuo, quasi estenuante, confronto di nozioni, competenze ed esperienze, che possono appa­ rire a prima vista quasi inconciliabili, ma che sono sempre molto vive ed entusiasmanti. Gabriele ha lavorato molto ed ha contribuito, con originalità e competenza, a rivedere profondamente questo testo, che sarà giudi­ cato dai lettori, ma che penso risponda alle esigenze di un importante settore della disciplina medico-legale.

x

Prefa zione

L'interesse per gli aspetti psicologici e psichiatrici in ambito forense ha origini molto antiche, ma il contributo delle scienze umane al sistema della giustizia ed all'applicazione delle pene, nei suoi attuali significati, si è affermato nel XIX secolo, allorquando, sotto la spinta di illuminati riformatori, si è assistito ad una trasformazione radicale del diritto, attraverso l'apporto delle conoscenze che si sono svilup­ pate in campo medico-psichiatrico e sociologico, ed attraverso il sorgere di discipline specifiche, quali l'Antropologia Criminale, che hanno comportato l'introduzione di nuovi strumenti di definizione, di classificazione e di interpretazione del comportamento umano anti­ giuridico. In campo penale, la tendenza a una sempre maggiore utilizza­ zione delle scienze umane nel processo e la crescente esigenza di attribuire alla pena anche una finalità risocializzativo-riabilitativa ha condotto all'organizzazione di un sistema di misure alternative al carcere, destinate dapprima specificamente ai malati di mente autori di reato e, più recentemente, a una gran parte dei condannati. Anche in campo civile, si è progressivamente ampliata e diffusa la prassi di richiedere al clinico l'accertamento di condizioni psicologi­ che o psicopatologiche che, come quelle relative alle capacità di compiere atti di rilevanza patrimoniale, per molto tempo sono state autonomamente definite e valutate dal giudice. In realtà la collaborazione tra Giustizia e scienze psicopatologi­ che è stata a lungo caratterizzata da una sostanziale intesa, con sintonia delle cognizioni disponibili e reciproca comprensibilità dei rispettivi ambiti semantici, mentre in questi ultimi decenni la sempre più decisa critica, da parte delle discipline cliniche, del binomio "folle incapace", con il riconoscimento di sempre maggiori spazi di autonomia al sofferente psichico, ha fatto sì che venisse a cadere quella sostanziale coerenza che per molto tempo aveva connotato il confronto tra le scienze cliniche e la giustizia. Tutto questo ha determinato l'avvio di un intenso dibattito tra i clinici e i giuristi, con l'obiettivo di ridefinire i termini epistemologici e semantici del confronto tra le rispettive discipline, e con il fine di giungere a una nuova armonizzazione tra il significato del compor­ tamento umano, come viene descritto dalla clinica e come viene espresso dalla legge. =

L'esigenza di verificare le caratteristiche psicologiche o psicopa­ tologiche del cittadino che a diverso titolo viene chiamato a confron­ tarsi con il sistema della giustizia (autore o vittima di reato, attore o convenuto in una causa civile, genitore o bambino appartenente ad un nucleo in difficoltà) rappresenta uno dei temi di maggior delica-

Prefazione

XI

tezza, ai fini di una sempre più corretta applicazione ed evoluzione delle diverse normative. Il medico, lo psicologo, l'assistente sociale, l'educatore, nella loro professione si trovano di fronte a problemi di interesse psicologico o psichiatrico che necessitano quantomeno di una generale compren­ sione del funzionamento del sistema giuridico, delle interazioni tra la realtà clinica e la realtà forense e, in ultima analisi, del significato che le loro parole possono o potranno assumere nel contesto giudiziario. Alla luce di tale evoluzione, ci si trova quindi in un momento di grande interesse, sia per una riformulazione della risposta sociale nei confronti del sofferente psichico che entra in contatto con il mondo della giustizia, sia per la identificazione dei problemi psichiatrici e psicologici che devono essere presi in considerazione ai fini del riconoscimento di capacità specifiche dei cittadini, nei riguardi delle loro interazioni sociali. Per rispondere in modo adeguato e comprensibile ai vari temi in discussione sono stati spesso coinvolti anche gli allievi del Master e del Corso di Perfezionamento in Criminologia e Scienze Psichiatrico Forensi dell'Università di Genova, che hanno contribuito ad appro­ fondire aspetti poco noti e diversificati della materia e che ricordo con gratitudine. Un ringraziamento particolare va all'amico Marco Lagazzi, che oltre ad essere co-autore delle già citate "Lezioni", ha anche collabo­ rato, con la consueta maestria, alla stesura di alcuni capitoli del presente manuale. Ringrazio ancora le colleghe Linda Alfano e Rosagemma Ciii­ berti, brillanti curatrici del capitolo 9, il Dott. Alessandro Zacheo, per il prezioso contributo all'aggiornamento di alcuni temi in ambito civilistico, il Prof. Uberto Gatti, per gli inestimabili consigli e i preziosi suggerimenti criminologici ed infine il Prof. Francesco De Stefano, Direttore del Dipartimento di Medicina Legale dell'Univer­ sità di Genova, per aver sopportato pazientemente la "latitanza" del Dott. Rocca durante l'interminabile elaborazione di queste pagine. TULLIO BANDINI

Università degli Studi di Genova

Capitolo I LE DISCIPLINE PSICOLOGICHE E PSICHIATRICHE NEL MONDO DEL DIRITTO

SoMMARio: 1 . 1 . I fondamenti disciplinari del lavoro psicopatologico forense. - 1 .2. Dimensione clinica e competenza peritale. - 1 .3. Finalità del lavoro peritale. 1 .4. L'incarico peritale: aspetti normativi ed applicativi. - 1 .5 . Struttura e contenuti dell'elaborato peritale. - 1 .6. Il colloquio clinico nel contesto peritale. - 1 .7. Le prove psicodiagnostiche in ambito forense.

1.1. I fondamenti disciplinari del lavoro psicopatologico foren­ se.

La vita dell'uomo, in tutti i momenti del suo sviluppo, si attua attraverso una serie infinita di relazioni o rapporti, posti in essere con altri uomini ( 1 ). Questa interazione tra individui che condividono fini e compor­ tamenti e si relazionano congiuntamente (c.d. Società), richiede un'organizzazione dei rapporti umani secondo norme valide per tutti e tali da costituire quel principio di coesione senza il quale la società civile si dissolverebbe nell'anarchia (2). Il Diritto, per essere valido, deve essere del tutto aderente alla vita e all'uomo e, quindi, deve inevitabilmente confrontarsi con problemi attinenti alla sfera bio-medica. La Scienza Medico Legale è il punto d'incontro tra bio-medicina e Diritto, rappresentando il complesso delle conoscenze bio-mediche necessarie ai fini della corretta elaborazione, interpretazione e appli­ cazione ai casi concreti delle diverse norme giuridiche (3) . La Medicina Forense è l'attività medico-legale a carattere appli­ cativo che si occupa specificamente della collaborazione tra le scienze bio-mediche e il mondo della giustizia, concretizzandosi attraverso lo strumento della "perizia" (4). (') FRANCHINI A., Medicina Legale, Cedam, Padova, 1 982. (2) TRABUCCHI A., Istituzioni di Diritto Civile, Cedam, Padova, 2007. (3) ARBARELLO P. e coll., Medicina Legale, Minerva Medica, Torino, 2005, cit.. (4)

PucciNI C., Istituzioni di Medicina Legale, C.E.A., Milano, 2003 .

2

Fondamenti di psicopatologia forense

L'ordinamento giudiziario italiano, infatti, prevede che, quando è necessario acquisire dati o valutazioni che richiedono cognizioni tecniche riguardanti specifiche scienze o arti, il Giudice possa di­ sporre l'esecuzione di indagini di carattere peritale. Un analogo incarico può essere attribuito dagli avvocati delle parti o, in ambito penale, dalla Procura della Repubblica (5). In campo bio-medico queste indagini possono riguardare la realtà psicofisica di ogni individuo, vivente o deceduto. Possono, ad esempio, essere disposti accertamenti in merito alle cause della morte, all'entità e alle conseguenze di eventi traumatici, alla genesi e rilevanza di malattie di diversa natura, all'influenza sulla salute di determinate condizioni ambientali e/o lavorative, nonché alla stessa identificazione della persona. Per quanto concerne la realtà psichica, che rappresenta lo specifico oggetto di questa trattazione, possono essere disposti accer­ tamenti in merito alla capacità dell'individuo di autodeterminarsi liberamente e di compiere consapevolmente atti di rilevanza giuri­ dica, di partecipare coscientemente ad un processo penale che lo riguardi o di essere o meno un genitore adeguato. Possono essere soggette ad esame peritale, inoltre, le eventuali condizioni di inferio­ rità o di infermità di una vittima di reato, le caratteristiche psichiche di un lavoratore, lo stato di mente e la pericolosità di un autore di reato, la capacità di un testimone di ricordare e riferire, e così via. Ogni accertamento peritale prevede due livelli: il primo livello è clinico e comprende la raccolta anamnestica, l'esame obiettivo, le indagini strumentali, la diagnosi e la prognosi; mentre il secondo è dedicato al confronto tra la valutazione clinica raggiunta e la fatti­ specie giuridica oggetto del procedimento nel cui contesto è stata disposta la perizia stessa, in genere sotto forma di risposta ad uno specifico quesito peritale. In tutti gli accertamenti, diretti al riconoscimento di condizioni cliniche e alla valutazione di fattispecie giuridiche del tutto differen­ ziate, è possibile ravvisare un fondamentale elemento di analogia: si tratta infatti di indagini che, indipendentemente dalle metodiche specialistiche cui fanno riferimento nel loro "primo livello" (psichia(5) Se l'indagine è disposta in ambito penale dal giudice sarà detta perizia, mentre sarà chiamata consulenza di parte negli altri casi (per il P.M. o le parti processuali). In ambito civile si parla solamente di consulenza tecnica, detta "d'Ufficio" (C.T.U.) se disposta dal giudice, e "di parte" (C.T.P.) se richiesta da una parte processuale. in­ formalmente, è comunque frequente parlare di "perizia" anche al di fuori dell'ambito penale, mentre è sempre improprio usare la dizione di C.T.U. per una perizia penale d'Ufficio.

Discipline psicologiche e psichiatriche nel diritto

3

triche, psicologiche, ecc.), identificano nel metodo e nella deontologia medico legali il proprio fondamento (6). La perizia, come ci insegna Franchini (7), indipendentemente dal suo oggetto e dalle sue finalità, rappresenta, dunque, la fondamen­ tale attività pratica del medico legale e costituisce la risposta motivata che questo specialista fornisce ai quesiti tecnici di rilevanza giuridica che gli vengono proposti. Si tratta quindi di un "parere tecnico motivato", con un'artico­ lata e trasparente descrizione dei riscontri oggettivi, delle diagnosi da essi derivanti, e delle deduzioni valutative che hanno portato alla conclusione finale. Come ricordano Ferracuti e Lagazzi, il termine "parere" esprime il fisiologico ed inevitabile grado di soggettività che qualsiasi risposta professionale, per quanto il più possibile ancorata al rispetto dello "stato dell'arte" della disciplina, non può non esprimere. La qualifica­ zione di "tecnico" attiene alla specifica competenza scientifico­ professionale che deve essere versata nell'elaborazione del parere, se­ guendo appunto le regole scientifiche e procedurali che fondano e qualificano la perizia come tale, ed infine la nozione di "motivato" sot­ tende il dovere del perito di esplicitare le basi, i metodi, l'evoluzione e le conclusioni del proprio ragionamento, così da rendere lo stesso ve­ rificabile in ogni sua parte ad opera del committente e dei suoi diversi fruitori (8). Per molti secoli, solo il medico legale, per le sue competenze cliniche e per le sue conoscenze giuridiche, è stato in grado di rispondere a tutti i diversi quesiti che potevano essere posti nell'am­ bito dei procedimenti giudiziari. Più recentemente, il grande sviluppo delle conoscenze scientifi­ che riguardanti i diversi settori medico specialistici e la sostanziale autonomizzazione di alcuni ambiti disciplinari hanno reso impossibile tale pratica, in quanto spesso il singolo professionista non è in grado di rispondere motivatamente a quesiti attinenti a discipline scientifiche distinte, a volte molto lontane tra loro, come, ad esempio quelle della patologia, della tossicologia, della genetica o della psicopatologia. Tutto questo fa sì che il lavoro peritale, pur richiedendo, oggi, ( 6) A questo proposito ci è grato ricordare il contributo di rigore, approfondi­ mento ed innovazione che è stato portato per l'intero secolo scorso alla disciplina medico legale dalla Scuola Genovese, con Maestri come Amedeo Dalla Volta, Domenico Macaggi, Aldo Franchini e Giacomo Canepa. (7 ) FRANCHINI A., op. cit. . ( 8) FERRACUTI S., LAGAZZI M., La perizia psichiatrica e medico-psicologica, in GmsTI G. (a cura di), Trattato di Medicina Legale e Scienze Affini, Cedam, Padova, 2009.

4

Fondamenti di psicopatologia forense

un'approfondita conoscenza delle nozioni proprie delle singole bran­ che specialistiche interessate al "primo livello" di ogni perizia, ri­ sponda comunque a modalità di ragionamento, di valutazione e di deontologia che non sono quelle proprie dell'area medico­ specialistica interessata alla diagnosi, ma fanno riferimento ad una specifica e più ampia formazione medico-legale. Alle scienze bio-medico forensi, infatti, a differenza di quelle cliniche, spetta il compito di partecipare all'acquisizione delle com­ petenze scientifiche di interesse giuridico e questa selezione non può che compiersi attraverso il costante riferimento alle regole del pro­ cesso civile e penale (9). Da ciò si desume come la psicologia e la psichiatria forensi non siano direttamente sovrapponibili alle rispettive discipline cliniche, ma rappresentino un complesso di nozioni, di metodi e di valori, dotato di una propria identità culturale e di una specifica e comune competenza operativa.

1 .2. Dimensione clinica e competenza peritale.

Negli ultimi cinquant'anni, la crescente consapevolezza degli psichiatri e degli psicologi clinici delle pesanti componenti di con­ trollo, di sanzione e di stigmatizzazione, che connotavano l'attività di diagnosi e di intervento nei confronti del sofferente psichico, hanno determinato un diffuso allontanamento di molti specialisti dalla collaborazione con il sistema giudiziario nel suo insieme. Per alcuni anni, quindi, il lavoro psichiatrico forense è stato considerato da molti clinici come un'attività aliena dagli obiettivi e, forse, dalla stessa deontologia degli specialisti ed è stato pertanto svolto da professionisti di formazione eterogenea, ma anche da un ristretto numero di medici legali, criminologi e psichiatri forensi che si sono assunti l'onere di proseguire il dibattito culturale e scientifico in un contesto piuttosto isolato e svalutato. In questa situazione, gli psichiatri e gli psicologi forensi hanno preso atto della necessità di rafforzare la dimensione clinica degli accertamenti peritali, come momento qualificante del contributo da loro fornito all'Autorità giudiziaria ed alle parti processuali. Tutto ciò ha contribuito a valorizzare, nei diversi tipi di indagine psichiatrico e psicologico forense, l'apertura di uno "spazio" clinico nell'ambito del quale, pur senza disconoscere le finalità valutative del(9) BERTOLINO M., Le incertezze della scienza e le certezze del diritto a confronto sul tema della infermità mentale , in Riv. !t. Dir. Proc. Pen. , 2006, 2:539.

Discipline psicologiche e psichi atriche nel diritto

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l'accertamento, rientrano le dimensioni dell'ascolto, dell'empatia, della relazione e della comprensione, indispensabili per l'elaborazione della diagnosi, della prognosi e dei correlati valutativi delle stesse. Ci si è così definitivamente allontanati da un approccio che identificava la perizia come una sorta di replica degli interrogatori giudiziari, diretta all'elaborazione di un'incongrua e indebita "sen­ tenza" nei confronti del soggetto esaminato. In realtà, la disponibilità di valide competenze cliniche da parte del perito garantisce che la realtà del "paziente forense" ( 1 0) sia investigata in modo approfondito, con l'impiego delle migliori e più aggiornate metodiche della pratica diagnostica. L'affermazione della rilevanza della dimensione clinica nel lavoro peritale ha, tuttavia, indotto alcuni studiosi degli scorsi de­ cenni a rivendicare un'assoluta priorità del momento clinico su ogni altra finalità dell'indagine, tanto da attribuire all'intervento dello specialista una pressoché esclusiva connotazione di carattere terapeu­ tico, predominante su ogni altro elemento. Anche tale orientamento non appare percorribile, poiché il contesto dell'accertamento peritale esula comunque dalle fondamen­ tali dimensioni del contratto terapeutico, della libera scelta dello specialista da parte del paziente, dell'alleanza tra i due interlocutori e del segreto professionale, proprie di ogni intervento diretto alla cura del sofferente psichico. La consulenza tecnica, d'altronde, spesso rappresenta la premessa per decisioni giudiziarie che possono com­ portare conseguenze anche pesantissime per la libertà, i diritti, l'autonomia, la vita stessa del periziando. La perizia, quindi, è un'attività che si colloca a metà strada tra il mondo della clinica e il mondo del diritto e che, per questo, deve rispondere in modo trasparente e inoppugnabile a due diversi, e talvolta poco compatibili, sistemi di pensiero e di riferimento appli­ cativo. In questo contesto, al di là ed al di fuori dell'attribuzione al lavoro peritale di contrapposte finalità di carattere "poliziesco" o "salvifico", il contributo del clinico si esprime sia attraverso la preliminare e trasparente informazione del periziando circa le carat­ teristiche, i metodi e le conseguenze della perizia, sia attraverso l'apertura di uno spazio di dialogo e di ascolto che, proprio in virtù della chiara definizione del contesto, consenta un migliore sviluppo della relazione clinica e valutativa. Negli ultimi anni, infine, ha assunto valore giustamente ere(1 0)

Per il quale si usa abitualmente il termine "periziando".

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scente la dimensione della tutela dei diritti dei diversi soggetti interessati, identificabili non solo nel periziando, ma anche nelle altre parti processuali, negli eventuali minori coinvolti dalla perizia ed in generale in qualunque persona che possa essere direttamente o indirettamente interessata dall'indagine. Si è giunti, così, a non considerare pacificamente prioritario l'interesse espresso dal giudice o quello dei diversi soggetti commit­ tenti delle indagini "di parte", ma ad attenersi a una serie di normative e di prassi deontologiche in tema di tutela della riservatezza, di informazione, di consenso, di bilanciamento costi/benefici nell'esecu­ zione degli accertamenti strumentali e testistici, e di protezione dei "soggetti deboli" (primi fra tutti i minori), tanto da rendere abituale l'assunzione di complesse precauzioni di accertamento, di resoconta­ zione e perfino di archiviazione e conservazione dei dati peritali, che fino a poco tempo fa erano del tutto impensate ed impensabili. Ugualmente, il perito di oggi deve saper garantire la validità della propria disamina clinica e valutativa, e tutelare la corretta procedura e i diritti di tutte le parti interessate, in un ambiente sempre più complesso e stratificato nel quale, ad esempio, è abituale il confronto con differenti e molteplici figure professionali (terapeuti privati o dei servizi pubblici, operatori sociali, educatori, insegnanti, personale penitenziario, ecc.), ma deve anche sapersi "muovere", nei casi più eclatanti, rispetto alle sollecitazioni dei Media, alle strategie processuali ed extraprocessuali che possono essere adottate dall'una o dall'altra parte, e così via. In ambito penalistico, poi, con l'introduzione, da parte della riforma del Codice di procedura penale del 1 989, del carattere orale del dibattimento, il perito è anche chiamato a spiegare e motivare le proprie valutazioni dinanzi al giudice ed alle parti, in un contesto nel quale il serrato e spesso pesante gioco dibattimentale richiede buone competenze espositive ed una ancor migliore "tenuta" emotiva, a fronte del sempre cogente dovere di rendere il più possibile traspa­ renti e comprensibili le diagnosi e le conclusioni, in situazioni processuali che, qualche decennio fa, i periti conoscevano solamente attraverso i telefilm giudiziari statunitensi. In ultimo si deve rilevare che la crescente consapevolezza dei pro­ pri diritti e interessi assunta dai periziandi e dai soggetti a diverso titolo coinvolti dagli accertamenti peritali, unitamente all'esplosivo feno­ meno della ricerca risarcitoria, richiedono al perito dei giorni nostri anche una specifica attenzione nel prevenire non solo i comportamenti scorretti, ma anche qualsiasi soggettività procedurale che possa essere anche strumentalmente qualificata come inidonea, ai fini di un ricorso contro il suo operato o, quantomeno, di una doglianza ordinistica. Tale attenzione, ovviamente, riguarda non solo e non tanto la

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tutela di sé, quanto il doveroso impegno di prevenire, per quanto pos­ sibile, qualsiasi contestazione, anche strumentale, delle conclusioni pe­ ritali, poiché, come profeticamente insegnava Franchini (11), spesso è sufficiente il solo sospetto della scorrettezza di un perito perché, nel sempre conflittuale contesto del Foro, si giunga a mettere in discussione l'intero operato dello stesso. Il "saper fare" del perito di oggi è pertanto infinitamente più com­ plesso e stratificato di quello del suo collega di non molti anni or sono. Come già accennato, un tempo il lavoro peritale era appannag­ gio di un ristretto numero di professionisti, che si pronunciavano su fattispecie anche molto differenziate, in un Tribunale nel quale il numero relativamente limitato dei Giudici e degli Avvocati favoriva una approfondita conoscenza reciproca e, pur nel pieno rispetto dei diversi ruoli ed obiettivi, un fair play complessivamente elegante. Oggi l'assai maggiore complessità del settore forense, la diver­ sificazione delle competenze specialistiche per le quali si giunge alla professione peritale, l'attenzione posta dall'opinione pubblica verso le vicende legate alla Giustizia e le spesso prepotenti modalità di articolazione e rivendicazione di diritti ed interessi soggettivi, proprie della nostra Società, prevedono un'identità del perito decisamente differente, ed assai più complessa ed esposta al rischio professionale, rispetto a quella richiesta fino ad alcuni anni or sono. Ciò rende ancor più necessario che il momento clinico ed il momento valutativo, con tutti i diversi correlati e modelli attinenti all'uno ed all'altro di essi, siano ancor più presenti nella competenza e nello stesso mondo interno del professionista, poiché gli stessi, strettamente uniti, costituiscono il fondamento di quella complessa e sempre più sfaccettata identità professionale che viene oggi richiesta.

1.3. Finalità del lavoro peritale.

La funzione del perito, come detto, s'identifica nell'elaborazione di una risposta tecnica motivata rispetto a quesiti di rilevanza giuridica. Tali quesiti, posti dal giudice o dalle parti processuali, non hanno un carattere generale, ma fanno riferimento a specifiche e cogenti fattispecie di legge, o, quantomeno, a consolidati orienta­ menti giurisprudenziali. La risposta che il perito dovrà fornire a tali quesiti non rappre­ senta, quindi, un mero parere clinico, ma richiede che, dopo aver (11)

FRANCHINI A., op. cit. .

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identificato la realtà diagnostica e prognostica del caso, si attui una comparazione tra la stessa e le fattispecie normative previste nel quesito ricevuto. A seconda della nozione giuridica di riferimento, lo spazio di autonomia clinica e progettuale del perito può essere differenziato. In una consulenza tecnica in tema di affidamento o di adozione di un minore appartenente a un nucleo familiare problematico può essere formulato, ad esempio, un quesito che attribuisce allo psico­ logo forense un compito quasi esclusivamente clinico, con la possibi­ lità dì realizzare protratti interventi di verifica e dì promozione al mutamento della realtà familiare, in riferimento a nozioni giuridiche ampie, sfumate e teoriche, come quelle del "prioritario interesse del minore" o dell'"abbandono morale e materiale" dello stesso. In altri contesti, al contrario, il quesito corrisponde rigidamente al dettato di un articolo di legge, e pertanto impone al perito di confrontare il dato clinico con nozioni di stretta pertinenza giuridica, il cui riscontro può addirittura qualificare la stessa sussistenza di un reato (come, ad esempio, per la cosiddetta "circonvenzione di inca­ pace") o può condizionare l'awio o meno della azione giudiziaria. In questi casi la componente di carattere clinico viene quindi ad assumere la connotazione di "premessa" rispetto alla prioritaria rilevanza del momento valutativo, rigidamente articolato sulla base delle previsioni norrnative e giurisprudenziali. In tutti i casi, comunque, deve essere ricordato che la perizia è solamente un "tassello" del procedimento giudiziario e la funzione del consulente sul piano fattuale è quella di un "collaboratore" del giudice o di una parte, che entra nel processo solamente per espletare la propria pur importante funzione e che, conclusa la stessa, ne esce. Tali elementi consentono di comprendere come il quesito peri­ tale rappresenta un complesso e delicato momento di congiunzione tra le necessità del committente dell'accertamento e le incombenze del consulente tecnico. Ponendosi di fronte al quesito che riceve in sede di incarico peritale, l'esperto è quindi chiamato a confrontarsi non solo con l'attribuzione di un compito che può essere estremamente differen­ ziato a seconda delle richieste del momento, ma che può, in taluni casi, essere anche tale da comportare una forzatura dei metodi e dei valori propri della formazione clinica. Spesso, infatti, al perito viene demandata l'elaborazione di risposte dotate di una assoluta certezza diagnostica e prognostica, in realtà non raggiungibile dal clinico, o all'opposto può essere richiesta la costruzione di complesse strutture deduttive, utili per gli interessi

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di giustizia, ma ben lontane da una possibile dimostrazione di carattere scientifico. Alla formulazione del quesito si accompagnano altri due mo­ menti, la cui sussistenza contribuisce a delimitare ulteriormente i "confini" del lavoro peritale e a differenziare lo stesso da quello prettamente clinico. Il primo di tali momenti s'identifica nell'effettuazione di un "giuramento" o di una "dichiarazione di impegno" (imposti al perito o al consulente d'ufficio in sede di conferimento dell'incarico e spesso richiesto - con termini differenti - anche al consulente di parte in sede di audizione nel dibattimentale penale). Tale responsabilizzazione formale sottende una prospettiva di sanzione per la eventuale violazione dei termini dell'incarico e delle incombenze ad esso correlate. Il secondo dei due momenti citati s'identifica nella definizione, da parte del committente, della durata temporale delle indagini peritali. Tale parametro, condizionato da esigenze processuali, conferma l'appartenenza del lavoro peritale a una sfera non sovrapponibile a quella di indirizzo terapeutico, i cui tempi, salvo casi eccezionali, sono per definizione "aperti" e dipendenti unicamente dalla disponi­ bilità del paziente e del suo curante. Da queste premesse è possibile trarre l'immagine di una parti­ colare collocazione dell'indagine clinica esperita in ambito giudizia­ rio, in rapporto alla difficile esigenza, che la caratterizza, di integrare un corretto approccio diagnostico-valutativo con la risposta a quesiti di natura giuridica e con il rispetto di formule e di adempimenti sconosciuti al contesto puramente clinico. Per questi motivi, per lo psicologo e lo psichiatra forense la conoscenza delle fattispecie e delle procedure del Diritto è necessaria ed importante non meno della conoscenza degli strumenti diagnostici e prognostici. In tale ottica è quindi utile, anche in questa sede, richiamare alcuni temi propri della trattatistica medico-legale, attinenti alla definizione dei singoli passaggi che caratterizzano le fasi del lavoro peritale.

1 .4. L'incarico peritale: aspetti normativi ed applicativi.

Come già accennato, nell'ordinamento giudiziario italiano ogni qual volta si renda necessario acquisire informazioni che, per le loro caratteristiche, richiedono specifiche competenze in una determinata

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arte o scienza, è data facoltà di disporre l'esecuzione di una consu­ len za tecnica sia essa d'ufficio che di parte. In ambito penale l'accertamento richiesto dal giudice è definito come "perizia" o, meglio, "perizia d'ufficio", mentre quello disposto da una delle parti (Pubblico Ministero compreso) è definito "consulenza tecnica". In ambito civile, l'indagine disposta dal giudice è definita come "consulenza tecnica d'ufficio" {o, per brevità, C.T.U.), mentre quella espletata su incarico di una delle parti in causa è denominata "consulenza tecnica di parte" (C.T.P.). Entrambi gli accertamenti sono regolamentati da una com­ plessa serie di norme e procedure, che può essere utile riferire in estrema sintesi ( 1 2). Nell'ordinamento giuspenalistico ( 13) l'accertamento tecnico viene disposto sulla base di norme e di modalità differenziate a seconda delle specifiche esigenze di indagine, di formazione della prova o di discussione della stessa, che caratterizzano i successivi momenti della collaborazione dell'esperto con il giudice e con le parti, nelle diverse fasi del procedimento giudiziario. La perizia è disciplinata dall'art. 220 c.p.p., risultando compresa tra i cosiddetti "mezzi di prova", che rappresentano quegli strumenti attraverso i quali le fonti di prova (cose, documenti, persone, ecc.) producono la prova (14) in dibattimento. Art. 220 c.p.p. (Oggetto della perizia).

"La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acqui­ sire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche. Salvo quanto previsto ai fini dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la (12) Da un punto di vista generale si ricorda che con la L. Cost. 23 novembre 1 999, n. 2 e successive modifiche, è stata introdotta la nozione di "giusto processo" come definita all'art. 1 1 1 Cost.: "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata". (13) La bibliografia di riferimento è: CoNTI M., LoFoRTI R., Gli accertamenti tecnici nel processo penale, Giuffrè, Milano, 2006. ( 14) In termini giuridici, la "prova" consiste nell'atto o documento idoneo a

fornire la certezza circa il modo di essere di un fatto relativo al merito del processo (es. innocenza o colpevolezza dell'imputato) ovvero agli aspetti processuali (es. malattia dell'imputato) .

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personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche". In conformità a questo articolato, quindi, il Giudice può di­ sporre la perizia quando occorre acquisire dati o valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche, scientifiche o artistiche. Mentre nei previgenti dispositivi di legge (art. 314 c.p.p. ( 15), abrogato con l'entrata in vigore del nuovo codice) era prevista la "necessarietà" per il Giudice di disporre la perizia in presenza di determinati presupposti, attualmente la giurisprudenza ritiene che tale decisione sia subordinata ad una valutazione discrezionale in ordine alla necessità dell'accertamento peritale (c.d. discrezionalità vincolata) ( 16) . In particolare, la giurisprudenza sottolinea che il Giudice può evitare di ricorrere alla perizia solo ove ritenga di potere giungere alle medesime conclusioni sulla base di altri e diversi elementi di prova; ma non gli è consentito di rinunciare alle specifiche cognizioni tecniche del perito per avvalersi di proprie occasionali e personali conoscenze scientifiche tecniche o artistiche, ancorché corrette ( 17) . Ne deriva che la perizia non può rientrare nel concetto di prova decisiva, costituendo un mezzo di prova sostanzialmente neutro. Sotto il profilo processuale, la perizia adempie a tre funzioni ( 18): consente di svolgere indagini per acquisire dati probatori; permette di acquisire gli stessi selezionandoli e interpretandoli; permette di acquisire valutazioni sui dati assunti. Da qui la possibilità di affermare che la perizia ha la duplice natura di mezzo di prova e di mezzo di valutazione della prova, fornendo elementi direttamente utilizzabili ai fini della decisione. È importante, infine, sottolineare come al secondo comma venga ribadito il divieto di perizia psicologica e criminologica durante il processo: nel giudizio di cognizione (non, dunque, in sede di esecuzione della pena o della misura di sicurezza) non è ammesso disporre un'indagine peritale avente ad oggetto le qualità psichiche dell'indagato o dell'imputato indipendenti da cause patologiche. Qualora, dunque, vengano dedotti, ad esempio, disturbi psichici della persona idonei a incidere sulla capacità di intendere e di volere, e perciò attinenti a profili di ordine patologico, può disporsi perizia per accertarne l'esistenza e la rilevanza; in caso contrario, se la circostanza dedotta esula da ogni deviazione di tipo patologico (ad (15) (1 6) (17) ( 18)

Come modificato dalla L. 18 giugno 1 955 n. 5 1 7. Cass. pen., sez. IV, 9 marzo 200 9, n. 15026. Cass. pen., sez. V, 15 luglio 1 999, n. 9047. CoNTE M., LoFORT1 R., op. cit. .

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es., dedizione del soggetto alla commissione di reati), non è possibile disporre perizia avente ad oggetto aspetti psicologici o criminologici dell'imputato. La perizia può svolgersi in dibattimento (art. 508 c.p.p.), in sede di incidente probatorio (19) (art. 392 c.p.p. e ss.), nella fase dell'udienza preliminare (Corte Cost. 1 0 marzo 1 994, n . 77), nonché nel procedimento d i esecuzione e d i sorveglianza (artt. 666, comma 5 , e 678 c.p.p.). Il giudice nomina il perito scegliendolo tra gli iscritti in appositi albi (20) o tra persone fomite di particolare competenza nella specifica disciplina (art. 22 1 c.p.p.). L'espletamento della perizia può anche essere affidato a più persone (c.d. perizie collegiali) qualora le indagini e le valutazioni risultino di notevole complessità ovvero richiedano distinte conoscenze in differenti discipline. La perizia (e la C.T. per il P.M. durante le indagini preliminari) viene disposta con ordinanza motivata e il giudice procede con alcune formalità prima del conferi­ mento vero e proprio dell'incarico, tra le quali: accertamento delle generalità del perito e di eventuali motivi di incompatibilità (artt. 222 e 223 c.p.p.); avvertimento dell'obbligo connesso al suo ufficio (art. 22 1 c.p.p.) (21) e delle responsabilità connesse allo svolgimento dell'incarico, da cui il giuramento dì fedeltà e verità del perito (22 ) ed il dovere di segretezza sulle operazioni peritali (23 ) . A seguito del giuramento il giudice procede poi alla formulazione dei quesiti in forma chiara e precisa, sentite le partì, che possono fornire altresì il proprio contributo. Con l'assunzione dell'incarico, il perito è vincolato a una serie di specifici adempimenti, attinenti alla formale gestione dei colloqui peritali (artt. 229 e 230 c.p.p.), all'impiego di eventuali ausiliari (art. 228 c.p.p.), alla stesura, se autorizzata, di una relazione scritta (art. 22 7 c.p.p.) ed alla presenza alle successive udienze dibattimentali cui possa essere convocato (artt. 5 0 1 e 508 c.p.p.). In pratica, come sottolinea Tursi (24) , il perito acquista poteri istruttori in qualche misura equiparabili a quelli del giudice, posto che (art. 228 c.p.p.):

(19) Si tratta di un istituto che consente di anticipare rispetto al dibattimento la fase di formazione della prova e di collocarla durante le indagini preliminari. (20) Si vedano al riguardo gli artt. 67 e ss. delle Disposizioni di Attuazione del c.p.p . . (21 ) S i ricorda che, sin dal momento della nomina, i l perito acquista l a figura di pubblico ufficiale, con tutti gli oneri giuridici correlati (art. 357 c.p.). (22 ) A cui è connessa la possibilità, in caso di violazione, di configurazione dei reati di cui agli artt. 373 c.p. (falsa perizia), 377 c.p. (subornazione) e 374 c.p. (frode proccssuale). (23) Art . 226 c.p.p. (Conferimento dell'incarico). "Il giudice, accertate le generalità del perito, gli chiede se si trova in una delle condizioni previste dagli articoli 222 e 223, lo avverte degli obblighi e delle responsabilità previste dalla legge penale e lo invita a rendere la seguente dichiarazione: " consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo nello svolgimento dell'incarico, mi impegno ad adempiere al mio ufficio senza altro scopo che quello di far conoscere la verità e a mantenere il segreto su tutte le operazioni peritali Il giudice formula quindi i quesiti, sentiti il perito, i consulenti tecnici, il pubblico ministero e i difensori presenti". (24) TuRsi A., La gestione processuale della perizia e della consulenza tecnica nel processo penale con particolare riferimento alla materia psichiatrica, Atti dell'incontro di studi "L'evoluzione della scienza psicologica e psichiatrica e l'accertamento giudiziario" organizzato dal C.S.M. a Roma il 1 8 giugno 2008. "·

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previa autorizzazione può prendere visione degli atti e dei documenti acquisiti al fascicolo del dibattimento (25); può essere autorizzato ad assistere all'esame delle parti e all'assunzione di prove, nonché a servirsi di ausiliari di sua fiducia per lo svolgimento di attività materiali non implicanti apprezzamenti e valutazioni; può rivolgersi direttamente, per l'assunzione di notizie, all'imputato, alla parte offesa ovvero a terzi (26) . Sempre in tema di "poteri istruttori" del perito, va ricordato che l'art. 228, comma l, c.p.p. prevede che "il perito provvede alle operazioni necessarie per rispondere ai quesiti", e che l'art. 224, comma 2, c.p.p. recita che il Giudice "adotta tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l'esecuzione delle operazioni peri tali". Sulla base di tale combinato disposto, la Cassazione (2 7) ha affermato che il giudice "possa disporre l'accompagnamento coatto dell'imputato per essere sottoposto a perizia psichiatrica". Inoltre, si riteneva che tra i poteri del giudice in materia di perizia, fossero originariamente compresi anche quelli di disporre misure incidenti sulla libertà personale dell'imputato, dell'indagato o di terzi soggetti, come nei casi di prelievi coattivi di materiale biologico (28) . A tal proposito la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 238 del 9 luglio 1 996, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 224, comma 2, c.p.p. nella parte in cui consente che il giudice "adottando tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l'esecuzione delle operazioni peritali", disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell'imputato, dell'indagato o di terzi, al di fuori di quelle specifica­ mente previste nei "casi" e nei "modi" dalla legge. Recentemente, il Legislatore è intervenuto a dare seguito alle indicazioni della Corte con la Legge n. 85 del 30 giugno 2009, che ha introdotto l'art. 224-bis c.p.p., ai sensi del quale "Quando si procede per delitto non colposo, consumato o tentato, per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni e negli altri casi espressamente previsti dalla legge, se per l'esecuzione della perizia è necessario compiere atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA o accertamenti medici, e non vi è il consenso della persona da sottoporre all'esame del perito, il giudice, anche d'ufficio, ne dispone con ordinanza motivata l'esecuzione coattiva, se essa risulta assolutamente indispensabile per la prova dei fatti".

I contenuti della relazione peritale devono corrispondere a verità e, nel caso in cui si sospetti una loro volontaria alterazione, il perito potrà essere chiamato a rispondere di "falso in perizia" (29), se (2 5) Cass. pen., sez. I, 2 1 ottobre 2002 n. 3 5 1 87: "Non soltanto di quelli già inseriti, ma anche di quelli di cui la legge prevede l'acquisizione a tale fascicolo". (26) Cass. pen., sez. I , 21 ottobre 2002 n. 3 5 1 87: "ponendosi i colloqui psichiatrici in una sfera diversa da quella della prova, rimanendo confinati nell'ambito di quelle attività di natura percettiva, strettamente personali, necessarie all'esperto per la formula­ zione delle proprie valutazioni, delle quali non è prevista alcuna forma di documentazione, essendo sufficiente indicare il procedimento logico-scientifico seguito per formulare la risposta al quesito del giudice" . (2 7) Cass. civ., sez. III, 2 marzo 1 995, n . 2443. (28) TuRsi A., op. cit. . (29) Art . 373 c.p. (Falsa perizia o interpretazione).

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non di possibile "abuso di ufficio" (30) a favore di una parte, o ancora di altri reati. Owiamente la "verità" imposta al perito riguarda fatti circostan­ ziali attinenti allo svolgimento della perizia e, più in generale, con­ ceme l'obbligo di riferire al giudice le informazioni e le notizie delle quali il perito sia venuto a conoscenza, nonché ogni possibile forma di incompatibilità soprawenuta. Circa la "verità" clinica, invece, viene riconosciuto il margine di soggettività interpretativa proprio di ogni consulente, ma può comun­ que essere perseguita come potenzialmente falsa un'interpretazione diagnostica e valutativa che si distacchi in modo abnorme dalle comuni prassi scientifiche e, quindi, dai risultati che sarebbero stati raggiunti applicando le stesse. Disposta la perizia, il Pubblico Ministero e le parti private hanno la facoltà di nominare, senza alcuna formalità, propri consulenti tecnici in numero non superiore, per ciascuna parte, a quello dei periti (art. 225 c.p.p.). I consulenti di parte potranno assistere al conferimento dell'in­ carico, presentando al Giudice richieste, osservazioni e riserve, deter­ minando, eventualmente, un ampliamento dei quesiti, anche con carattere di novità. Iniziate le operazioni peritali, gli stessi potranno richiedere al perito specifiche indagini, delle quali il perito, dovrà dare atto nella sua relazione. La giurisprudenza esclude che i consulenti tecnici di parte possano esaminare direttamente la persona oggetto della perizia. Solo ove la nomina del consulente tecnico sia avvenuta dopo l'esaurimento delle operazioni peritali, gli stessi, oltre ad esaminare la relazione del perito, potranno chiedere al Giudice di essere autorizzati ad esaminare direttamente la persona oggetto della perizia ( 31 ) . Il C.T., infine, potrà presentare al Giudice una propria relazione per confutare le tesi espresse dal perito, ma non potrà procedere in prima persona al controesame del perito ( 32 ) .

"Il perito o l'interprete che, nominato dall'autorità giudiziaria, dà parere o interpre­ tazioni mendaci, o afferma fatti non conformi al vero, è punito con la reclusione da due a sei anni". (30) Art. 323 c.p. (Abuso di ufficio). "Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico sevizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzio­ nalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni". (31 ) TuRst A., op. cit. . (32) In sede dibattimentale, pertanto, si assiste alla singolare scena nella quale il controesame è svolto dagli avvocati e dal P.M. su suggerimento dei rispettivi consulenti.

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Per quanto riguarda l a consulenza tecnica a l d i fuori dei casi d i perizia, i l codice prevede che ciascuna parte può nominare, in numero non superiore a due, propri consulenti tecnici. Questi possono esporre al giudice il proprio parere, anche presen­ tando memorie (art. 233 c.p.p.). In particolare, nella fase delle indagini preliminari, il P.M., sulla base della ripetibilità o meno di un accertamento, potrà disporre una consulenza tecnica esperita in assenza dei consulenti della difesa (art. 359 c.p.p.), ovvero una consulenza tecnica alla quale possono partecipare i consulenti delle parti interessate (art. 360 c.p.p.), con le stesse formalità della perizia. Va altresì ricordata la possibilità per i Difensori, in virtù delle norme di cui all'art. 3 9 1 -bis c.p.p. e ss., di svolgere, al di fuori delle operazioni peritali, veri e propri accertamenti, consistenti in attività integrativa di indagine ricorrendo anche a consu­ lenti tecnici i quali, laddove dovessero svolgere accertamenti irripetibili, dovranno darne avviso al Pubblico Ministero.

Il fatto che il perito e il consulente tecnico possano essere chiamati a chiarimenti dal giudice per motivare, in confronto con i consulenti delle parti, le loro valutazioni, ha sempre rappresentato un'eventualità contemplata sia nel rito civile, sia in quello penale, anche se non frequentemente applicata. Nell'attuale procedura penale l'audizione del perito è invece obbligatoria (art. 227 c.p.p.), nel contesto di un esame incrociato non solo ad opera del giudice o della Corte, ma anche ad opera delle diverse parti rappresentate (artt. 498 e 500 c.p.p.). La partecipazione al dibattimento fa sì che il perito debba sottostare alle domande di tutti i soggetti aventi diritto e debba altresì esplicare la propria formazione, le sue competenze specifiche ed addirittura la coerenza tra quanto sostenuto in quella occasione e quanto espresso in precedenti perizie o pubblicazioni scientifiche. Da un punto di vista processuale, dunque, la figura del perito è assimilabile a quella del testimone (art. 501 c.p.p.), ma con alcune distinzioni così riassunte da Tursi {33):

"entrambi riferiscono sulla base di percezioni sensoriali, ma se la deposizione del testimone si fonda esclusivamente sul ricordo dei fatto, quella del perito è frutto di una elaborazione in cui preval­ gono logica e cognizione scientifica; il testimone depone sui fatti passati, Laddove il perito riferisce sulla osservazione di fatti presenti o passati dei quali permangono tuttavia gli effetti e le tracce, percepiti nel processo; il testimone diviene tale sulla base di fatti estranei al processo, mentre il perito interviene in conseguenza di una volontà proces­ suale, rappresentata dalla nomina del giudice". L'esame incrociato (cross-examination) rende più diretta e spet­ tacolare la funzione peritale e richiede, quindi, che il professionista (")

TuRSI

A., op. cit. .

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sia in grado di sostenere, da un punto di vista argomentativo e psicologico, l'onere di un dibattimento nel quale le sue tesi e la sua stessa persona costituiscano oggetto di critica e, se necessario, di svalutazione. Infine, si ricorda che esistono norme specifiche che prevedono in modo rigido gli onorari concedibili per i diversi tipi di accerta­ mento, la riduzione degli stessi per ritardato deposito dell'elaborato peri tale, o addirittura le possibili sanzioni penali ( 34) e ordinistiche da riservare al perito che, non depositando la sua relazione nei tempi previsti, possa aver causato ritardi ed ostacolo all'applicazione della Giustizia. In ambito civilistico, ai sensi dell'art. 61 c.p.c., "quando è necessario, il giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare compe­ tenza tecnica". La norma non pone quindi al giudice l'obbligo di ricorrere alla nomina di un consulente, ma gli consente di farlo quando lo ritenga necessario ( 35 ) . La natura giuridica della consulenza tecnica d'ufficio, a diffe­ renza di quella della perizia, è molto controversa, poiché il codice di procedura civile ne tratta dapprima tra gli ausiliari del giudice (artt. 6 1 c.p.c. e ss.) e nel prosieguo tra i mezzi di prova (artt. 1 9 1 c.p.c. e ss.) (36). In altri termini, il fine proprio della consulenza tecnica è quello di aiutare il giudice sia nell'apprezzamento delle prove assunte, sia nella valutazione dei fatti che in tal modo risultano accertati, sia nella conseguente soluzione di questioni che comportino "specifiche com­ petenze tecniche" (37 ) , (3 8 ) . Proprio sulla base di tali compiti, la consulenza tecnica è stata considerata una sorta di cerniera tra il processo civile ed il sapere extragiuridico (39) . Sul piano applicativo, il Giudice, quando sussiste la necessità di nominare un consulente tecnico d'ufficio, vi provvede con ordinanza e fissa l'udienza nella quale l'esperto designato deve comparire (art. 1 9 1 c.p.c.). (34) Art. 328 c.p. (Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione). (35) CATALDI M . , La nomina del C. T. V. , in Giur. merito, 2007, 1 1 :2799. (36) MANDRiou C., Corso di Diritto Processuale Civile, Giappichelli, Torino, 1 997. (37) CoMoGuo L., Le prove civili, Utet, Torino, 2004. (38) ANnRiou A., Diritto Processuale Civile, Giappichelli, Torino, 1 979. (39) GRASSELLI G., L'istruzione probatoria nel processo civile riformato, Cedam, Padova, 2000.

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Il consulente tecnico d'ufficio deve essere "normalmente" scelto dal magistrato nell'ambito degli specialisti iscritti agli appositi Albi, esistenti presso ogni Tribunale (40). È tuttavia abituale che professionisti conosciuti siano chiamati a svolgere la propria attività anche al di fuori del distretto ove sono registrati, oppure che siano incaricati di accertamenti peritali anche specialisti non iscritti e che, soprattutto, i giudici non seguano la teorica tumazione degli iscritti agli Albi. Il consulente tecnico d'ufficio viene invitato a comparire innanzi al magistrato (art. 1 92 c.p.c.) ed in tale occasione, ai sensi dell'art. 1 93 c.p.c., presta il giuramento di bene e fedelmente procedere nelle funzioni affidategli, al solo scopo di far conoscere al giudice la verità (41). Una volta assunto i l giuramento, i l C.T.U. ha i l dovere d i portare a termine l'accertamento, con eccezione di rari casi in cui può soprawenire un'incompatibilità, o per gravi motivi di salute. Tutte le operazioni peritali da lui svolte sono coperte da molte­ plici previsioni di segreto, a seconda del fatto che interessino minori, giungano ad ipotizzare fattispecie di reato che il C.T.U. ha il dovere ­ come pubblico ufficiale - di segnalare alla Procura, e così via. Al di là di ciò, resta l'obbligo del segreto professionale, integrato da tutti gli obblighi legati alla tutela della riservatezza dei dati sensibili dei periziandi. Si ricorda infine che al consulente tecnico si applicano le disposizioni del codice penale relative ai periti (art. 64 c.p.c.). Recentemente, la Legge 18 giugno 2009, n. 69, ha introdotto rilevanti modifiche in materia di C.T.U., mosse dall'intento di evitare un allungamento incontrollato del processo in casi di ricorso allo strumento della consulenza d'ufficio. In primo luogo è stata anticipata la formulazione dei quesiti alla pronuncia dell'ordinanza di nomina del C.T.U. da parte del giudice. In precedenza si procedeva in questo modo: il giudice nominava il C.T.U. e fissava l'udienza di comparizione; a tale udienza il C.T.U. giurava ed il giudice formulava i quesiti, fissava l'inizio delle operaArtt. 1 3 e ss. disp. att. c.p.c .. È importante ricordare che gli obblighi legati al giuramento prestato non si esauriscono con il termine dell'incarico ricevuto, ma permangono di fatto pressoché "a vita", poiché anche a distanza di molti anni il C.T.U. può essere chiamato a testimo­ niare sul caso, ed in tale testimonianza vigono sempre gli stessi obblighi, legati alla sua funzione. Ogni possibile condizione di incompatibilità sopravvenuta, o in generale di inopportunità, deve essere pertanto essere in ogni modo prevenuta, anche a distanza di anni dal deposito della relazione peritale, o deve nel caso essere immediatamente dichiarata in caso di richiesta di testimonianza. (40) (41)

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zioni peritali e stabiliva il termine per i deposito della relazione scritta. Con la riforma, il giudice, con lo stesso provvedimento con il quale provvede sulle richieste istruttorie delle parti, formula preven­ tivamente i quesiti e fissa l'udienza per il giuramento del C.T.U . . Questo significa che, ricevuta la comunicazione, prima ancora di prestare il giuramento, il C.T.U. avrà già la possibilità di consultare il fascicolo processuale: all'udienza potrà allora chiedere al giudice di modificare i quesiti formulati, ovvero di aggiungerne altri; inoltre, sarà in grado di offrire al giudice le proprie valutazioni informate sulle richieste dei difensori. Analogamente, i consulenti delle parti (per il tramite necessario del difensore della parte che intende designarli) - letti i quesiti ed esaminati gli atti - potranno suggerire al difensore le integrazioni o modificazioni dell'incarico da sottoporre al giudice nell'udienza fissata per il giuramento (42 ) . Secondariamente è stato modificato l'art. 1 95 c.p.c., ai sensi del quale il giudice fissa al momento dell'affidamento dell'incarico tre termini: quello entro il quale il consulente deve riferire il suo parere alle parti; quello entro il quale le parti devono trasmettere al consu­ lente le proprie osservazioni e quello entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione finale insieme alle osservazioni delle parti ed una sintetica valutazione sulle stesse (43 ) . La giurisprudenza non ritiene indispensabile che ogni attività connessa con l'incarico affidato sia espletata personalmente dal consulente d'ufficio, che può avvalersi, senza necessità di preventiva autorizzazione del giudice, della collaborazione di persone qualifi­ cate, essendo sufficiente che egli valuti le risultanze delle indagini compiute da terzi, facendole proprie o sottoponendole ad elabora­ zione critica nel contesto della relazione, ed utilizzandole, perciò, come fonti strumentali del proprio accertamento e non come fonti del proprio convincimento diretto (44) . Sempre in fase di conferimento dell'incarico, ai sensi dell'art. 201 c.p.c. le parti in causa possono nominare un proprio consulente tecnico, che ha la facoltà di assistere alle operazioni peritali e che può (42) BaVE M., SANTI A., Il nuovo processo civile, Nuova Giuridica, Macerata, 2009. (43) Ibidem. (44) Cass. civ., sez. III, 8 luglio 1 983, n. 4628: "Qualora il consulente recepisca il parere dell'esperto cui ha fatto ricorso, assume al riguardo ogni responsabilità morale e scientifica"; al proposito anche Cass. civ., sez. III, 29 marzo 2006, n. 7243, per la quale "Il consulente tecnico d'ufficio, anche se non espressamente autorizzato, può ricorrere all'opera di esperti per il compimento di particolari indagini o per l'acquisizione di elementi di giudizio da vagliare e trasfondere nel proprio elaborato, assumendo al riguardo ogni responsabilità morale e scientifica" .

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partecipare all'udienza ogni qualvolta vi sia convocato il collega d'ufficio, al fine di garantire la corretta tutela dei diritti del proprio cliente e di contribuire all'opera di acclaramento della verità che ha motivato la disposizione della stessa consulenza tecnica. In tale contesto, il consulente di parte ha facoltà di partecipare attivamente alle indagini del caso e può depositare un proprio elaborato scritto, contenente le deduzioni e le eventuali critiche relative agli accertamenti svolti. Sul piano concreto, quindi, il consulente di parte assume una specifica funzione di controllo della correttezza metodologica, scien­ tifica e procedurale del lavoro del C.T.U., diretta a garantire l'adem­ pimento dell'interesse della parte in causa, in modo di fatto non molto dissimile da quanto avviene per l'avvocato (tanto che, anche per il C.T.P., vale la stessa ipotesi di un possibile "infedele patrocinio", qualora lo stesso non abbia fatto quanto in suo potere per favorire la tesi della parte committente) . Certamente il C.T.P. deve rispettare i limiti deontologici propri della professione medica o psicologica, e non quelli propri dell'Avvo­ catura, ma comunque la sua funzione è legata all'interesse della parte. Tutto questo fa ben comprendere come il consulente, sia esso d'uffficio o di parte, debba costantemente porre attenzione ad una complessa e cogente rete di prescrizioni, imposizioni e responsabilità, definite da un sistema epistemologicamente assai differente da quello della clinica e molto lontano da quello della terapia, sistema che è stato oggetto di studio e riflessione specifica soprattutto da parte della trattatistica medico-legale (45).

1 .5. Struttura e contenuti dell'elaborato peritale. Per sintesi espositiva, in questa sede appare opportuno fare prioritario riferimento soprattutto al modello della perizia o consu­ lenza d'Ufficio. Indipendentemente dal suo specifico oggetto, ogni consulenza tecnica medico-psicologica che sia stata disposta dal giudice si qualifica come una relazione di carattere specialistico, che identifica il proprio obiettivo nella descrizione di una situazione clinica di rilevanza giuridica, e che deve essere il più possibile chiara e "traspa­ rente" , risultando facilmente leggibile e comprensibile per i suoi (45) Tra i tanti: MACCHIARELLI L. e Col! ., Medicina Legale, Minerva Medica, Torino, 2005; DE FERRARI F., PALMIERI L., Manuale di Medicina Legale, Giuffrè, Milano, 2007; NoRELLI G., BuccELLI C., FINESCHI V., Medicina Legale e delle Assicurazioni, Piccin, Padova, 2009.

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destinatari, ovvero per giudici ed avvocati, alieni dalla conoscenza della terminologia medica e, ancor di più, di quella psicologica e psicoanalitica. Ogni relazione peritale deve quindi riferire in modo chiaro e oggettivo tutte le informazioni che il consulente ha acquisito tramite gli atti processuali o tramite l'audizione di terze persone; deve poi riferire tutte le risultanze delle diverse indagini cliniche che sono state realizzate e deve infine riportare per esteso non solo la valutazione conclusiva, ma anche il ragionamento che è stato seguito per giungere alla stessa. Al proposito Franchini (46) afferma che, paradossalmente, è preferibile una consulenza che descriva in modo chiaro i dati utiliz­ zati e le fasi del ragionamento seguite, anche se giunge ad una conclusione medico-legale non condivisibile, piuttosto che una con­ sulenza che, pur proponendo una conclusione corretta giunga a tale conclusione in modo non motivato sul piano clinico e valutativo, e quindi non sottoponibile a verifica da parte dei suoi fruitori. La possibile verifica dell'elaborato peritale da parte del giudice e degli avvocati rappresenta un elemento essenziale, poiché secondo la Legge il risultato della stessa ha unicamente il valore di un contributo tecnico che il giudice è libero o meno di accogliere (svolgendo la funzione del cosiddetto peritus peritorum), e che le parti processuali hanno il diritto di contestare e, nel caso, di far annullare, qualora lo stesso presenti rilevanti carenze metodologiche, scientifiche o proce­ durali. Un elaborato peritale che sia corretto dal punto di vista clinico, ma che sia carente nella sua parte valutativa, o che all'opposto rechi una conclusione condivisibile ma sia inadeguato nella sua parte clinico-diagnostica, o che, ancora, derivi da indagini condotte senza il rispetto della procedura prevista, rappresenta quindi un contributo non fruibile in sede processuale, e viene pertanto giustamente conte­ stato ed annullato. La consapevolezza di questa necessità di "trasparenza" e di chiarezza ha indotto la Medicina Legale a codificare, nel corso dei secoli della sua esistenza, una strutturazione dell'elaborato peritale che, indipendentemente dall'argomento della singola consulenza tec­ nica, rappresenta una traccia di organizzazione e di descrizione e di interpretazione dei risultati del lavoro che è stato svolto. Facendo riferimento alle sintesi che sono state proposte dai Maestri della nostra Scuola, quali Aldo Franchini e Giacomo Canepa, (46)

FRANCHINI A., op. cit.

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ed integrando le stesse con le indicazioni derivanti dalla specifica esperienza peritale, è possibile identificare i più importanti elementi che devono essere rispettati per una corretta strutturazione di un elaborato psichiatrico o psicologico forense. Come in tutte le perizie, nella parte preliminare della relazione devono essere compresi: il nominativo e la qualifica del Magistrato od avvocato che ha conferito l'incarico; la data del conferimento stesso; il quesito ricevuto; i modi ed i tempi di svolgimento delle indagini peritali. il tipo di partecipazione degli eventuali C.T.P. e le caratteristiche della interazione con gli stessi (modalità di convocazione dei consulenti, richieste avanzate o meno in corso di perizia, discussione dei dati, eventuali note critiche, ecc.). Questi dati sono importanti, non solo per una corretta docu­ mentazione del lavoro svolto, ma anche per una chiara dimostrazione del tipo di evoluzione delle indagini esperite, nonché della corretta procedura delle stesse. La prima parte della relazione è dedicata alla sintesi degli atti di causa o processuali, che il perito ha ritenuto necessario visionare per la conoscenza degli eventi che hanno portato alla richiesta di indagine a lui attribuita. Si fa presente al proposito, che il quesito normalmente recita: "Dica il perito, letti gli atti . . . . Tale sintesi non rappresenta un mero atto formale, poiché è utile per descrivere al lettore le informazioni circostanziali e giudi­ ziarie attraverso le quali il perito ha elaborato la propria conoscenza del caso in esame. In questa fase, devono, inoltre, essere ricordati analiticamente tutti i dati derivanti da eventuali perizie precedenti o da documenta­ zioni cliniche prodotte in atti, così da porre le basi per la successiva e necessaria comparazione tra gli stessi e quelli desunti direttamente dal perito. Come precisato dalla trattatistica in materia, lo scopo di questa fase dell'accertamento non si identifica in una mera "scannerizza­ zione" degli atti (peraltro spesso consistenti in centinaia o migliaia di pagine), né in una soggettiva scelta di ciò che il perito abbia ritenuto interessante o, peggio, confacente alla tesi da lui espressa in sede di conclusioni. Viene, infatti, richiesta una "sintesi intelligente" , che dia un adeguato compendio dei dati essenziali e dello svolgersi della situa­ zione del caso, in modo da rendere chiaro ciò che il perito ha letto, "

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compreso e fatto proprio (momento epistemologicamente necessario per poter ricostruire e seguire, da quel punto in poi, il suo ragiona­ mento, nella valutazione della perizia che sarà effettuata da giudici, avvocati, consulenti e parti). Del tutto carenti risultano le non infrequenti consulenze in cui al perito non è stata concessa la lettura degli atti, soprattutto in procedimenti del Tribunale per i Minori o del Tribunale di Sorve­ glianza, con indubbia difficoltà di comprensione del confine tra la soggettiva interpretazione del perito e la realtà documentale. È, infatti, indispensabile che il perito differenzi sempre in modo preciso i dati oggettivi che sono stati raccolti, dai dati risultanti dalla documentazione in atti, così come dalle proprie interpretazioni e deduzioni, rendendo verificabile tutto il ragionamento che è stato seguito. La seconda parte della relazione peritale è dedicata alla compo­ nente clinica degli accertamenti e comprende i dati della raccolta anamnestica, l'esame obiettivo e psicologico-psichiatrico, i risultati dei test mentali o degli esami strumentali che sono stati eseguiti (47) . Circa i dati anamnestici che vengono raccolti si ricorda che tale attività risulta particolarmente importante, anche perché rappresenta abitualmente il primo momento di interazione e comunicazione tra il perito ed il periziando. In tale spazio devono essere raccolti e riportati con completezza tutti gli elementi riferiti dal periziando stesso o dai suoi parenti o aventi diritto. È opportuno che la raccolta di tali dati segua il classico schematismo consigliato in campo medico (anamnesi familiare, fisio­ logica, patologica remota, patologica prossima), anche se in alcune consulenze psicologiche non è presente, o comunque può non essere importante, la ricerca di una "patologia" attuale, ma è pur sempre necessario raccogliere i dati relativi a problematiche, conflittualità, difficoltà di adattamento, relative a situazioni particolari (come, ad esempio, avviene nei casi di divorzio e di affidamento dei figli). La sempre indispensabile registrazione dei dati anamnestici, con annotazione della fonte di informazione, non deve essere accom­ pagnata da eccessivi commenti o interpretazioni, ma deve permettere di riconoscere eventuali patologie familiari o personali, pregresse o attuali, nonché le modalità di sviluppo infantile, il contesto socio­ familiare (di origine e di acquisizione), il rendimento scolastico, lo (47) Ovviamente, se l'indagine interessa più soggetti questo schema deve essere ripetuto per ogni periziando che sia direttamente "oggetto" dell'accertamento previsto dal quesito peritale.

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sviluppo psicosessuale, le esperienze interpersonali, l'attività lavora­ tiva (il servizio militare, ecc.), le abitudini di vita, l'eventuale uso di droghe o psicofarmaci, gli hobbies, ecc. È opportuno ricordare che una corretta raccolta dei dati anam­ nestici è importante non solo ai fini della diagnosi, ma anche ai fini di una eventuale datazione della insorgenza di disturbi psicopatologici. Per chiarezza, è quindi opportuno che questi dati non siano confusi con quelli derivanti dall'esame del vissuto soggettivo del periziando, ma mantengano un carattere il più possibile oggettivo e documentato, e che siano ancor meno confusi, nella loro citazione, da deduzioni, giudizi o interpolazioni del perito. Circa i dati dell'esame obiettivo, si ricorda che nelle indagini di tipo medico-psichiatrico, è opportuno riportare sinteticamente i più importanti elementi dell'esame somatico e neurologico. Si devono poi riportare i dati dell'esame psichico diretto, ese­ guito attraverso colloqui clinico-diagnostici che permettano di pro­ nunciarsi circa il tipo di atteggiamento e collaborazione del soggetto, circa il suo stato di coscienza e di orientamento spazio-temporale, circa l'espressione, il comportamento psicomotorio, la mimica, l'elo­ quio, il linguaggio, il tono della voce, il grado di vigilanza, circa le sue capacità di attenzione, di concentrazione, di memoria, di critica, di autocritica e di ragionamento, nonché circa le sue capacità cognitive, mnemoniche, percettive, volitive, circa le caratteristiche del pensiero, dell'umore, dell'affettività, dell'emotività, dell'esame di realtà e delle risorse di progettazione del futuro e di quant'altro possa risultare importante per la comprensione del periziando. In questa parte, devono trovare largo spazio anche i dati dei "racconti" attinenti ai vissuti dell'individuo, al suo mondo relazionale, ad eventuali conflitti, reazioni, meccanismi di difesa. Nel colloquio clinico, comunque, è importante che il perito lasci spazio a quanto viene espresso dal periziando in merito alla propria storia di vita, alle diverse aree della crescita, della socializzazione e degli affetti, alla vicenda per la quale si è giunti a perizia e, nel caso, in merito ai fatti specifici che costituiscono oggetto della perizia stessa. Ciò, owiamente, non tanto attraverso una sorta di "verbaliz­ zazione" di quanto riferito, con la frequente scorretta estrapolazione di singole frasi o parole del periziando, ma attraverso una sintesi fedele di quanto la persona riferisce. Il lettore della perizia deve, infatti, poter direttamente valutare i contenuti espressi dal soggetto, per verificare se le deduzioni che da essi il perito ha tratto siano condivisibili, o meno. A seconda della tipologia dell'accertamento, in particolare, il colloquio dovrà interessare elementi come, ad esempio, il rapporto tra autore e vittima di omicidio in una indagine per infermità mentale, la

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capacità di gestione del denaro e la autonomia di scelta in un esame per "circonvenzione di incapace", e così via. È per tali motivi che a seconda delle caratteristiche dell'indagine il colloquio può presentare aspetti piuttosto differenziati, assumendo connotati decisamente psicologici (come nelle indagini sui minori) o dedicando particolare rilevanza anche alla disamina di specifici aspetti circostanziali e comportamentali, risultanti dagli atti ed essen­ ziali per valutare la condizione mentale del soggetto all'epoca degli stessi. Poiché in ogni perizia devono essere effettuati molteplici collo­ qui per giungere ad una seria comprensione della realtà in esame, è utile che nella descrizione degli stessi sia evidenziata la sequenza temporale dei singoli incontri e sia dato atto dei contenuti e dei comportamenti che hanno caratterizzato ogni seduta. A fini di documentazione, trasparenza e conservazione dei dati, in alcuni casi è utile che si proceda alla registrazione delle sedute, depositando i supporti audio o video in allegato alla relazione peritale (48). Nei casi in cui sia necessario conoscere a fini diagnostici determinate condizioni cliniche del soggetto, è possibile far sotto­ porre il soggetto - in accordo con i consulenti di parte e con il consenso dell'interessato - ad esami di carattere strumentale (EEG, RX, TC, RM, flussimetrie, ecc.), laboratoristico (indicatori ematolo­ gici ed urinari, ecc.) o clinico-diagnostico (visita specialistica neuro­ logica, intemistica, ecc.). Massima attenzione deve essere riservata all'effettuazione di esami di carattere invasivo o con l'uso di mezzi di contrasto, rispetto ai quali sono necessarie esigenze diagnostico-terapeutiche, non solo valutative. È evidente l'inutilità e inopportunità di esami integrativi, soprat­ tutto se complessi e costosi, nel momento in cui possa essere suffi­ ciente a fini diagnostici e valutativi l'esame diretto del soggetto. In tutti i casi, comunque, il contributo specialistico dovrà essere fatto proprio, e rivisto, dal perito. Ovviamente i dati di ogni tipo di esame, così come ogni altro dato peritale, dovranno essere resi noti ai consulenti di parte e (48) L'uso delle registrazioni audio e video introduce un complesso problema clinico e metodologico, fondamentale soprattutto nelle indagini in tema di asserito abuso sul minore ed in generale in quelle minorili, del quale si darà cenno nelle parti a ciò dedicate. Si deve comunque sin d'ora chiarire che la registrazione delle sedute deve essere preventivamente autorizzata dal Giudice e fruire del consenso informato degli interessati ed aventi diritto.

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discussi con gli stessi, poiché l'intera perizia deve essere improntata al principio della garanzia del contraddittorio. Anche la somministrazione di reattivi mentali (test proiettivi, test di livello intellettivo, ecc.) può essere effettuata qualora sia necessario un documentato esame delle caratteristiche psichiche del soggetto. Per costante giurisprudenza, i reattivi mentali possono essere somministrati da soggetti differenti dal consulente tecnico (i cosid­ detti "ausiliari", come lo psicologo psicodiagnosta), ma devono essere valutati dallo stesso consulente, che riveda e faccia propria la rela­ zione dell'ausiliario. Anche in questo caso i dati dovranno essere stati resi disponibili a tutti i consulenti delle parti e dovrà essere evitata la somministra­ zione di accertamenti non strettamente indispensabili ai fini della diagnosi del caso, fermo comunque restando il fatto che i dati dei test psicologici sono meramente integrativi rispetto a quelli dell'esame diretto del periziando da parte del perito. Può infine essere utile ricordare che, per brevità e migliore chiarezza espositiva, nel corpo della relazione possono essere inserite le sintesi diagnostiche dei test, mentre i protocolli degli stessi possono essere allegati in appendice. La terza parte della relazione peritale deve essere dedicata alla diagnosi e alla diagnosi differenziale. In questa parte, che rappresenta la sintesi di tutti gli elementi documentali e di quelli emersi nel corso degli esami, occorre formu­ lare una valutazione diagnostica, differenziando la stessa dagli altri quadri clinici potenzialmente compatibili con il caso concreto. A tale proposito è opportuno ricordare che il consulente può proporre le considerazioni diagnostiche sulla base di modelli clinici differenziati, da quello nosografico classico fino a quello multiassiale in psichiatria, così come da quello psicanalitico a quello cognitivo o "sistemico" in psicologia, purché espliciti il paradigma a cui si riferisce ed il grado di attendibilità dello stesso rispetto al caso in esame. Per costante giurisprudenza, nella perizia psichiatrica è comun­ que richiesta l'adesione a un modello diagnostico di tipo medico, con esclusione di interpretazioni di carattere puramente psicoanalitico. Anche nelle indagini di matrice maggiormente psicologica, come ad esempio quelle esperite in ambito minorile, è in ogni caso sempre prefcribile far riferimento a modelli diagnostici di carattere generale, che non risentano della possibile contraddittorietà tra l'una e l'altra scuola di pensiero, e che in ogni caso siano scientificamente verificabili.

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La quarta parte della perizia è dedicata alla valutazione medico legale del caso, ovvero al confronto fra i dati acquisiti, la diagnosi raggiunta e le fattispecie di rilevanza giuridica previste dal quesito peritale. Viene quindi richiesta una disamina che risponda agli specifici criteri di accertamento del nesso di causalità tra il dato clinico e la valutazione giuridica. Nelle perizie di carattere prettamente medico tale causalità fa riferimento ad una correlazione sostanzialmente lineare tra causa ed effetto, mentre le consulenze psicologiche prevedono considerazioni assai più fluide, in rapporto alla maggiore indeterminatezza delle fattispecie di riferimento (49). Tale disamina deve essere il più possibile chiara e logica, ed in essa devono essere sempre evitati modelli valutativi basati sulle nozioni di "compatibilità", "evidenza dei fatti", ed in generale su qualsiasi paradigma di carattere autoreferenziale. Ogni fattispecie prevista in un quesito peritale fa riferimento a una serie di nozioni, espresse dalla norma, dalla giurisprudenza e discussa dalla letteratura scientifica: il perito deve tenere conto di tali elementi e non può, quindi, "inventare" una propria criteriologia. Dopo la valutazione medico-legale, deve infine essere esposta la risposta sintetica al quesito peritale che è stato ricevuto. In tale contesto è da considerare negativamente la proposta di conclusioni non "definitive" o possibilistiche: in assenza di dati tali da consentire una risposta certa al quesito ricevuto, il consulente è infatti tenuto ad esprimere la propria impossibilità a rispondere in modo motivato allo stesso. Gli elementi citati devono sempre essere rispettati nell'elabora­ zione di una relazione peritale d'Ufficio. Nella stesura di una consulenza di parte, a seconda dei casi, sarà richiesto un esame completo e dettagliato come quello di una consu­ lenza d'ufficio, oppure potrebbero essere proposte unicamente consi­ derazioni su clementi parziali e specifici, come, ad esempio, la correttezza e la adeguatezza della metodologia d'indagine del consu­ lente d'ufficio, o la discussione di singole risultanze cliniche o valu­ tative.

(49) Si pensi ad esempio alla differenza tra fattispecie rigidamente definite, come quelle della non imputabilità o della circonvenibilità, e nozioni sfumate ed aperte ad interpretazioni anche contraddittorie e condizionate da fattori di molteplice natura, come quella della idoneità di un genitore a vedere il figlio collocato presso di sé.

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1.6. I l colloquio clinico nel contesto peritale.

Le sintetiche osservazioni fin qui condotte fanno comprendere come il lavoro perìtale sia sostanzialmente differente dal lavoro clinico-terapeutico, pur impiegando i metodi propri della pratica clinica o, meglio, della componente diagnostica della stessa. In queste pagine, come già accennato, non si pretende di trattare in modo omnicomprensivo le diverse modalità di esame clinico­ diagnostico adottate e adottabili in psichiatria (50) ed in psicologia clinica (51), considerando come già acquisita questa competenza dal lettore, ma si cerca di centrare l'attenzione soprattutto sulla parte normativa, metodologica e criteriologica di interesse forense. Certo è che l'ampiezza, la profondità e la correttezza dei colloqui clinico-diagnostici rappresentano l'elemento essenziale e fondamen­ tale della consulenza tecnica. Il vero e principale "strumento" del lavoro peritale, dunque, è lo stesso perito, con la sua capacità di comprendere, di ascoltare, di "filtrare" quanto osserva (senza farsi influenzare dai suoi personali valori e problemi) ed in sintesi di cogliere la dimensione clinica, relazionale e sociale dell'essere umano che è chiamato a comprendere ed a valutare. Un consulente privo di una propria competenza e formazione clinica JilOn sarà in grado di entrare realmente in contatto con il periziando, "ascoltandone" anche la comunicazione meta-verbale e percependo la globale realtà dello stesso. Questo tipo di perito, inoltre, non sarà neppure in grado di "ascoltare" se stesso, riflettendo circa le reazioni consce ed inconsce che sono indotte in lui dalla spesso pesante realtà che gli viene descritta, e "ripulendo" la propria valutazione da tali elementi reattivi. Una consulenza esperita in assenza di una formazione clinica rappresenterà quindi, nel migliore dei casi, una mera "verbalizza­ zione" di quanto dichiarato dal periziando, integrata da una diagnosi che spesso sarà unicamente "appiccicata" alla realtà che il perito crede di aver colto, e da una valutazione che farà riferimento soprattutto a generiche nozioni di "senso comune", o che si limiterà a rispecchiare gli stereotipi, se non le personali problematiche dell'os­ servatore. (50 ) Si veda in particolare: CASSANO G.B., PANCHERI P. (a cura di), Trattato Italiano di Psichiatria, Masson, Milano, 2006; KAPLAN H., SAoocK B.J., Comprehensive Textbook of Psychiatry, Lippincott, 2009. ( 51) CANESTRARI R, GooiNI A, La psicologia scientifica. Nuovo trattato di psicologia generale, CLUEB, Bologna, 2008; LEGRENZI P., Textbook of Generai Psychology, Il Mulino, Bologna, 1 997.

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In altre parole, è evidente come la consulenza psichiatrica e psicologica esperita da un perito privo di formazione clinica rappre­ senti un accertamento intrinsecamente limitato e potenzialmente fuorviante, esattamente come, all'opposto, una consulenza condotta da un clinico anche molto competente, che tuttavia ignori prassi, procedure e criteri medico-legali, e che quindi risponda al quesito del giudice sulla base di personali idee circa le fattispecie previste dal quesito peritale. Entrando più direttamente nell'analisi dei colloqui da svolgere in sede peritale, è innanzitutto importante ricordare la prioritaria necessità che il periziando sia correttamente informato circa il contesto e la finalità delle indagini che lo riguardano. Il dialogo peritale rappresenta, infatti, un contesto intrinseca­ mente "squilibrato", nel quale il consulente dispone di specifiche tecniche di indagine e di valutazione, mentre il periziando, in molti casi, non è neppure ben consapevole delle finalità del dialogo che è chiamato ad affrontare, e può essere indotto a confondere la figura del consulente tecnico d'ufficio con quella di un terapeuta, o con quella del suo stesso consulente di parte. Tale squilibrio è d'altronde ovvio, se si pensa che, se è giunto alla perizia, il periziando è comunque un soggetto in grave difficoltà, interessato da un procedimento giudiziario, mentre il perito è un professionista il cui parere può radicalmente modificare, anche in negativo, l'intera esistenza del suo interlocutore, se non anche quella dei suoi figli. Per tale motivo, è quindi indispensabile che nel primo incontro il periziando sia reso edotto della motivazione e delle finalità delle indagini, ad esempio attraverso la lettura e la discussione del quesito peritale, l'esplicitazione del ruolo e degli obiettivi del consulente d'ufficio e di quelli di parte, e l'informazione circa le differenze tra il colloquio peritale ed un "normale" colloquio clinico o terapeutico (come la assenza di segreto circa le informazioni acquisite, il carattere valutativo del dialogo, e lo stesso diritto del periziando di riferire unicamente quanto ritenga opportuno ai fini della tutela dei propri interessi). È anche opportuno ricordare che i consulenti delle parti hanno il diritto di presenziare a tutte le indagini e che quindi la loro eventuale assenza può derivare solamente da scelte metodologiche concordate (come, ad esempio, spesso accade per l'esame su mi­ nori) (52 ). (52) È

anche opportuno suggerire che, in ogni caso, a fini di documentazione,

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Solamente una "trasparente" informazione del periziando circa questi elementi potrà consentire una corretta delimitazione dei con­ fini e delle caratteristiche del dialogo peritale, e potrà quindi permet­ tere un sereno e costruttivo confronto tra i diversi interlocutori. Dopo aver chiarito il contesto dell'indagine, il consulente tec­ nico potrà procedere alla vera e propria effettuazione dei colloqui clinici, facendo riferimento alla formazione ed alla metodologia di lavoro della quale dispone. Pur potendo essere esperite attraverso modalità di colloquio differenziate (da quella di tipo medico-psichiatrico fino, nelle consu­ lenze psicologiche, a quelle di matrice psicoanalitica, cognitiva o sistemico - relazionale), le indagini dovranno comunque sempre tener conto della necessità di acquisire gli indispensabili dati attinenti alla storia ed alla realtà attuale del periziando, e dovranno proporre una metodologia compatibile con le caratteristiche comunque pro­ prie di un accertamento peritale. La metodologia, inoltre, dovrà sempre far riferimento a modelli scientifici conosciuti e verificabili, così da consentirne il controllo e l'eventuale critica da parte del giudice e degli altri successivi fruitori. La differenziazione delle possibili matrici formative dei consu­ lenti tecnici si accompagna alla molteplicità dei contesti di indagine. In una perizia in tema di imputabilità o di "circonvenzione di incapace", connotata da obiettivi più strettamente psichiatrici e medicolegali, il colloquio sarà infatti maggiormente strutturato, poi­ ché dovrà giungere ad acclarare dati clinici specifici, sui quali basare una valutazione altrettanto precisa. In una consulenza psicologica in tema di idoneità genitoriale e di affidamento del minore, come già accennato al paragrafo 1 .3, i colloqui dovranno invece essere condotti in modo da lasciar libera­ mente emergere i vissuti e le risorse dei genitori e degli stessi minori, per giungere ad una descrizione della realtà familiare nella quale, in assenza di dimostrate condizioni psicopatologiche, non si richiedono diagnosi specifiche, ma indicazioni clinico-terapeutiche, circa le mi­ sure di affidamento e di sostegno più opportune per garantire una serena crescita del bambino. Non a caso, infatti, quest'ultimo tipo di consulenze può ottenere molteplici proroghe, giungendo ad una durata di molti mesi se non di anni, al fine di consentire al C .T.U . di "accompagnare" il minore e la famiglia in difficoltà in un percorso di superamento dei conflitti e dei può essere utile formalizzare - ad esempio tramite verbalizzazione - sia i termini di convocazione dei C.T.P. alle sedute peritali, sia l'eventuale scelta di astensione di un consulente da una seduta.

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problemi, se occorre in un'ottica di "rete" insieme ai C.T.P., ai servizi sociali, e all'eventuale psicoterapeuta del bambino. Pur tenendo conto di tali elementi di differenziazione, secondo la corrente esperienza peritale appare comunque opportuno sugge­ rire, nella maggioranza delle consulenze che possono essere richieste, la effettuazione di colloqui "semi-strutturati", nel contesto dei quali il periziando possa liberamente esprimere i propri vissuti e le proprie motivazioni, ma sia nel contempo possibile acquisire, in modo coerente ed ordinato, i necessari dati diagnostici, eventualmente psicopatologici. In ogni caso, non sono ammissibili colloqui strutturati come veri e propri "interrogatori" , diretti esclusivamente a mettere in luce eventuali contraddizioni o menzogne o, ancor peggio, a dimostrare la possibile "colpevolezza". Devono essere analogamente evitate tutte le valutazioni e le considerazioni che attengono a fatti "privati" ed intimi del periziando, che non rivestano una diretta e necessaria importanza ai fini della diagnosi e della prognosi del caso (come le scelte sessuali, eventuali difficoltà economiche, la sussistenza di contagio per immunodefi­ cienza acquisita ed altro). Nell'espletamento di tali colloqui è compito del consulente creare un ambiente il più possibile favorevole alla libera espressione del dialogo, sopperendo con l'empatia e con l'attenzione alle eventuali carenze del luogo di esame, e tenendo conto delle stesse limitazioni di tempo che possono essere imposte dai termini concessi per l'espleta­ mento delle indagini o da specifiche esigenze della struttura ove si realizzino gli incontri. Tale consapevolezza del perito è indispensabile soprattutto nei colloqui condotti in ambienti quali l'infermeria di un carcere, la sala visita di un Ospedale Psichiatrico Giudiziario, o, perfino, una stanza del Tribunale. Circa il numero degli incontri da realizzare, si può escludere l'attendibilità di un'indagine che sia limitata solamente ad un collo­ quio, del tutto insufficiente per la conoscenza del periziando e per la diagnosi del caso. Nel contempo, tuttavia, appare possibile porre altrettanti dub­ bi in merito all'utilità di un'indagine che si articoli attraverso un numero eccessivamente protratto di incontri: un'indagine così può favorire l'emergere nel periziando di aspettative "terapeutiche", atti­ vando un rapporto "inquinato" dalla sovrapposizione tra valen­ ze valutative e valenze di cura, che con la fine della perizia verreb­ be inevitabilmente a cadere, forse compromettendo la disponibili-

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tà del soggetto verso una successiva e "vera" proposta psicotera­ pica (53). Tali precauzioni, che attengono specificamente al lavoro del consulente d'ufficio, possono essere considerate come valide anche per i consulenti di parte, che devono partecipare ai colloqui, ma la cui funzione non può essere finalizzata ad una strumentale informazione o disinformazione del C.T.U . . È chiaro che l a metodologia d'indagine deve essere adattata anche all'età del periziando, con la messa in atto, ad esempio, di specifiche modalità di colloquio con i soggetti in età minore o con quelli in età senile, così da rispettare le peculiari caratteristiche di potenziale vulnerabilità, o le difficoltà di comprensione, degli stessi. L'eventuale convocazione di terzi (congiunti, medici curanti, ecc.) che sia opportuno e lecito sentire a fini di completezza e di integrazione di eventuali elementi anamnestici e diagnostici deve essere sempre concordata con i consulenti delle parti. In ultimo è necessario ricordare la necessità che, in ogni momento, il consulente eviti ogni possibile commento di carattere morale nei confronti del periziando, indipendentemente dalla sua figura e dalla tipologia dei reati eventualmente commessi. Quanto descritto consente di comprendere come la gestione dei colloqui peritali rappresenti una realtà di particolare complessità, nel contesto della quale il consulente tecnico deve comunque essere capace di aprire uno spazio di ascolto, di comprensione e di dialogo, tenendo conto delle specifiche limitazioni, caratteristiche e procedure legate al fatto che l'intervento clinico si inserisce all'interno di un procedimento giudiziario. In questo contesto, un aspetto che per molti anni è stato attivamente dibattuto dalla letteratura è rappresentato dalla simula­ zione e dissimulazione del sintomo psichiatrico. Nel corso degli anni gli studiosi hanno espresso una percezione differenziata di questo tipo di comportamento, passando da una iniziale e aprioristica attribuzione di volontarietà e di strumentalità ad ogni forma di simulazione di sintomi psicopatologici, ad una maggior disponibilità a cogliere le possibili matrici patologiche di comportamenti fittizi, la cui genesi e la cui reiterazione possono (53) Questo tema richiama la funzione inevitabilmente ambigua dello psichiatra forense, che da un lato si propone al "paziente forense" utilizzando, da medico o da psicologo, i metodi della clinica, in modo comunque in parte non dissimile - nel vissuto del soggetto - da un terapeuta, ma dall'altro lato rimane parte del sistema giudiziario, il cui parere può contribuire a decisioni pesantemente afflittive per il suo interlocutore.

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rispondere a problematiche profonde, che si esprimono anche al di là della piena volontarietà del soggetto. Nell'ambito dei comportamenti di tipo simulatorio devono es­ sere inoltre ricomprese le diverse forme di dissimulazione dei sintomi psicopatologici oggettivamente presenti, dei quali il paziente tenta di celare l'evidenza e la rilevanza. L'approccio peritale a questi soggetti è molte volte reso difficile non tanto dal comportamento del periziando, quanto dall'atteggia­ mento pregiudiziale con il quale il consulente si pone nei confronti dello stesso. Non raramente, infatti, accade che consulenti privi di un'ade­ guata formazione clinica si confrontino con una realtà psicopatolo­ gica non immediatamente palese senza adottare un atteggiamento di attenzione e di empatia, ma cercando aprioristicamente le possibili "prove" della simulazione, così da poter qualificare il loro interlocu­ tore come inattendibile e strumentale, e pertanto meritevole di sanzione. A volte, il consulente giunge a stigmatizzare e ad identificare come una scorrettezza (che secondo lui esclude automaticamente una condizione psicopatologica), l'esercizio del diritto del periziando di seguire eventuali consigli del legale in merito alle risposte da fornire, oppure di accentuare le proprie problematiche nel legittimo tentativo di ottenere benefici o di limitare i danni legati alla posizione giudi­ ziaria. Questo tipo di atteggiamento "giudicante", in realtà, attesta unicamente la difficoltà del consulente di sviluppare un sereno dialogo clinico con il periziando, e rappresenta l'espressione di timori c paure dello stesso consulente in merito alla possibilità che l'inter­ locutore, temuto come più abile di lui, condizioni la sua valutazione clinica e medico-legale. È evidente che gli eventuali atteggiamenti inadeguati del consu­ lente sono direttamente proporzionali alla non competenza clinica e al bisogno di autodifesa dello stesso e possono giungere a stravolgere la valutazione dei singoli casi in maniera nettamente più fuorviante di quanto potrebbe realizzarsi a causa del mancato riconoscimento della stessa simulazione. Queste difficoltà e questi errori non interessano un consulente clinicamente qualificato, che in ogni caso si porrà di fronte ad ogni periziando con un identico atteggiamento di "ascolto" e di empatia, grazie al quale potrà comunque cogliere e valutare un'eventuale simulazione. A questo proposito, è opportuno ricordare che l'esperienza psicopatologica è determinata da una profonda e perturbante altera­ zione della percezione della realtà e dell'interazione con l'esterno,

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della quale il clinico è in grado di riconoscere la genuinità tenendo conto non solo dell'enunciazione verbale, ma anche della risonanza emotiva, della mimica, della pastura e di tutti gli altri elementi che consentono di comprendere il carattere alieno e patologico di quanto manifestato. Il colloquio clinico rappresenta, quindi, il principale strumento per cogliere la globalità della condizione psicologica e psicopatologica del periziando e per identificare eventuali forme di simulazione, attribuendo alle stesse il comunque limitato valore valutativo che compete loro. D'altronde, come ha dettagliatamente approfondito Fornari (54), il simulatore è agevolmente identificabile, poiché imita ed esibisce sintomi singoli, ma non potrà mai mimare la genuinità dell'espe­ rienza psicopatologica, la "distanza" con l'interlocutore, la coerenza sintomatologica, e soprattutto, la perplessità proprie del vero malato di mente. In rari casi è possibile che una protratta ed accentuata recita­ zione di sintomi psicopatologici, attuata da soggetti istituzionalizzati, giunga a configurare un vero e proprio quadro psicopatologico, definito come "Sindrome di Ganser" (55) ed inseribile nel contesto delle cosiddette psicopatologie carcerarie. Tale condizione patologica rappresenta, comunque, un ele­ mento che si sviluppa successivamente alla carcerazione e non ha pertanto rilevanza rispetto alle condizioni psichiche al momento del reato, che abitualmente è stato compiuto precedentemente alla de­ tenzione, mentre può assumere valore nell'indagine in tema di com­ patibilità tra lo stato di salute ed il regime detentivo. Nell'ambito dei comportamenti di tipo simulatorio, come già accennato, risultano comprese anche le cosiddette dissimulazioni, dirette a minimizzare od a nascondere un sintomo psicopatologico. ( 54) FoRNARI U., Trattato di Psichiatria Forense, Utet, Torino, 2008. (55) Si tratta di un raro disturbo mentale che si presenta come un quadro in cui il paziente "mimerebbe", tendenziosamente nei primi tempi e poi più probabilmente a livello inconscio, l'immagine che si è fatto della malattia mentale. La caratteristica più rilevante e più descritta sarebbe il fornire "risposte di traverso", grossolanamente errate, pur risultando chiara per il paziente la domanda, quasi dando l'impressione di scegliere intenzionalmente, anche se inconsciamente, la risposta sbagliata. Anche il modo di agire è spesso di traverso e ricorda l'aprassia. Il quadro clinico completo, di rara osservazione, descritto da Ganser era caratterizzato da stato di coscienza crepu­ scolare transitorio con disorientamento, cefalea, distraibilità, allucinazioni combinate oniroidi e cariche di affettività, segni isterici, amnesie circoscritte, risposte di traverso e puerilismo. Il paziente che presenta la sindrome è di solito un detenuto in attesa di giudizio, un traumatizzato cranico con problemi di indennizzo, un militare e avrebbe come guadagno secondario la manipolazione dell'ambiente circostante dando l'impres­ sione della malattia mentale.

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Questo comportamento viene riscontrato in casi peritali in cui un paziente affetto da disturbi psichiatrici intenda difendere le proprie scelte, essendo consapevole della dimensione valutativa e delle possibili conseguenze delle indagini a cui partecipa. In particolare, i temi della simulazione e della dissimulazione sono più cogenti negli accertamenti esperiti in ambito medico legale, ad esempio in tema di valutazione del danno o di accertamenti d'invalidità. Anche in alcuni casi di separazioni coniugali possono essere prospettate condizioni di incapacità lavorativa dell'uno o dell'altro coniuge a fini di mera determinazione dell'assegno di mantenimento, rispetto alla capacità lavorativa dell'uno o dell'altro coniuge. In altri casi, invece, disturbi oggettivamente sussistenti possono essere celati o minimizzati da parte di dipendenti delle Forze Armate o di Enti pubblici, che presentino difficoltà potenzialmente influenti sulla loro idoneità lavorativa. Nell'approccio a questo tipo di comportamenti possono essere adottati gli stessi criteri diagnostici già citati, sempre in un ambito di disponibilità all'ascolto e di empatia nei confronti del periziando e delle sue concrete esigenze.

l . 7. Le prove psicodiagnostiche in ambito forense.

Un successivo e breve approfondimento può essere dedicato all'integrativa, ma sempre importante, tematica dell'utilizzo dei reat­ tivi mentali (56). Il test è per definizione una situazione sperimentale standardiz­ zata, volta a sollecitare una risposta comportamentale che diviene oggetto di studio. I test psicodiagnostici nascono, infatti, dall'esigenza di utilizzare metodi di osservazione che garantiscano la massima obbiettività e "scientificità" possibile (57). Tuttavia, come affermano Sanavio e Sica (58), "tutti i test psicologici sono degli ausili preziosi all'interno del processo diagnostico, sia come fonti di informazione, sia come fonti di ipotesi da approfondire e sia come strumenti di misura di alcuni costrutti, ma non devono essere confusi con una diagnosi di disturbi mentali". (56 ) Per approfondimenti si rimanda all'esaustivo lavoro di FERRACUTI S., I test mentali in psicologia clinica e forense, C.S.E., Roma, 2008. (57) AMERIO L., GRATTAGLIANO I., Quali test psicodiagnostici nelle consulenze in ambito civile?, Riv. /t. Med. Leg. , 2007, 6 : 1 227. (5 8 ) SANAVIO E., SrcA C., I test di personalità. Inventari e questionari. Il Mulino, Bologna 1 999.

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La diagnosi, dunque, non s i fa con i test; anzi, come ricorda Fomari (59), "è scorretto e pericoloso, e quindi da evitare, giungere ad una diagnosi clinica attraverso i test". Detto questo, come rileva Catanesi ( 60), è evidente che "specie in un contesto forense, nel quale il bisogno di dimostrare, di provare, dare sostanza alle proprie valutazioni è più forte e i limiti della sola osservazione clinica e comportamentale sono più sentiti, è impensabile rinunciare all'apporto che i test possono fornire. E, difatti, sono larga­ mente usati nel contesto forense". Esistono diversi tipi di test, dei quali Amerio e Grattagliano forniscono un efficace e sintetico quadro riassuntivo (61 ). A) Reattivi di efficienza che misurano l'intelligenza, intesa come capacità che l'individuo possiede di comprendere, affrontare e risolvere problemi e situazioni in maniera adeguata alla realtà e socialmente adattiva in rapporto all'età. A loro volta, questi test si suddividono in due tipi: Scale di livello e Test "culture fair". Le Scale di livello sono in genere molto articolate, complesse e comprendono un numero piuttosto ampio di prove per esplorare singolarmente le funzioni più impor­ tanti: dal risultato finale emerge il Q.I. (Quoziente di Intelligenza) come rapporto fra età mentale ed età cronologica. Le Scale maggiormente usate per i minori sono la Stanford Binet, la Terman Merrill, la W.I.S.C; per gli adulti le Scale di Wechsler nelle varie formulazioni che sono state elaborate (Wechsler-Bellevue la più antica, Scala Wais, Wais-R più recente). Fra i test non culturali si ricorda anche il PM 38 di Raven, che esplora il ragionamento logico servendosi di stimoli figurati e permette di calcolare anche un Q.I.. In genere i reattivi di efficienza vengono utilizzati quando si ipotizza una conclamata insufficienza mentale, ma si rivelano utili anche per approfondire lo studio qualitativo dell'intelligenza nei deficit lievi e lievissimi, nell'ipotesi di immaturità di soggetti minori e nei dubbi di simulazione. B) Reattivi di Personalità: mirano a dare una descrizione della struttura della personalità. S'individuano due sottogruppi: questionari di autodescrizione e test proiettivi. I primi stimolano la componente razionale ed introspettiva, chiedendo al soggetto di descriversi in base ad alcune tematiche proposte: ad es. il test MMPI, corredato da varie scale cliniche, può fornire dei profili di personalità di indubbio interesse sia come contributo diagnostico sia come descrizione dell'assetto globale del soggetto per alcune aree di funzionamento (cfr. soprattutto le Scale di Contenuto del MMPI-2). Per la ricerca di segnali più specifici (ad es. ansia, depressione) sono disponibili altri questionari (IPAT, CES-D ecc.), di impiego piuttosto semplice. I test proiettivi mirano direttamente alle specifiche dinamiche individuali, aggirando l'ostacolo delle difese razionali. Il termine "proiettivo" parte dal presupposto che "ogni reazione del soggetto è una proiezione o una riflessione del suo mondo

( 59) FoRNARJ U., Trattato di Psichiatria Forense, Vtet, Torino, 2008. (60) CATANESI R., MARTINO V., Verso una psichiatria forense basata su evidenze. in Riv. !t. Med. Leg. , 2006, 6: l O 1 1 . (6 1 ) J\MERIO L., GRATTAGLIANO 1., Op. cit. .

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privato" (62), i test di questo tipo, pertanto, offrono al paziente sollecitazioni quanto più possibile indefinite, per suscitare un particolare comportamento di risposta. Sempre come indicato da Amerio e Grattagliano, i test proiettivi si suddividono in strutturali e tematici: i primi analizzano le modalità di risposta del soggetto di fronte a stimoli figurativi poco strutturati (es. il Rorschach), mentre i secondi sollecitano la libera produzione di materiale verbale a partire da un tema prefissato che può essere una illustrazione o una frase (es. il TAT). Il test di Rorschach, che si basa sulla presentazione di stimoli molto indefiniti, è particolarmente utilizzato per lo studio della struttura di personalità e può ben descrivere le dinamiche più profonde della persona, le sovrapposizioni psicopatologi­ che, la qualità dell'intelligenza ed il suo livello, le attitudini e lo stile relazionale, anche nella minore età. Esistono inoltre test proiettivi tematici, ere presentano stimoli più strutturati e convogliano l'attività del soggetto verso precise aree: ad es. il TAT (Thematic Appercep­ tion Test) e l'ORT (Object Relation Test) in cui figurano personaggi colti in diverse si­ tuazioni e che appaiono indicati per studiare lo stile di vita, il comportamento, le strategie di compensazione, le individuazioni socio psicologiche dei soggetti. Sono ancora utilizzabili, come ci ricordano ancora Amerio e Grattagliano, test specifici come il Patte Noir (PN) di Corman per lo studio delle identificazioni rispetto alle figure parentali, esclusivamente rivolto a bambini; lo ScenoTest di G. Von Staab e il Villaggio di Arthus che prevedono la libera costruzione di una scena con l'impiego di materiale predisposto, anch'essi per bambini e adolescenti; il TIPE che esplora l'immaginario erotico, per adulti, utile in casi specifici come l'accertamento dell'identità di genere o lo studio di soggetti con anomalie del comportamento sessuale.

Tutti questi test si fondano in buona parte su teorie psicoanali­ tiche e sono volti ad indagare gli aspetti delle strutture di personalità, i diversi stadi di sviluppo psico-sessuale, il tipo di relazioni oggettuali nell'ambito dello sviluppo, e possono anche essere utilizzati a fini terapeutico-riabilitativi. Altri strumenti psicodiagnostici di grande utilità sono i test carta-matita, quali il Disegno della Figura Umana, il Baumtest o Disegno di Albero, il Disegno di Famiglie nelle loro diverse formula­ zioni, ed altro ancora. Questi accertamenti, come già accennato, possono essere rea­ lizzati da terzi che vengono investiti della funzione di "ausiliario" del consulente tecnico, ma la valutazione dei dati da essi derivanti deve in ogni caso essere effettuata dallo stesso consulente, la cui funzione valutativa non è delegabile a nessun collaboratore. Con tale principio, la giurisprudenza ha inteso riaffermare la nozione della priorità ed esclusività della funzione peritale, per la quale tutti i diversi elementi clinici acquisiti debbono comunque rientrare in un'unica valutazione, ed essere inseriti nel ragionamento diagnostico e medico-legale espresso dallo stesso consulente tecnico, a pena di nullità dell'indagine. (62 ) RAPAPART D., GILL M.M., ScHAFER K., Diagnostic Psychological Testing, The Year Book Publischers, Chicago, 1 946.

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Ciò esclude l'attendibilità delle indagini medico legali nelle quali, ad esempio, medici privi di competenza clinica possano radi­ calmente delegare al consulente psichiatra o allo psicologo psicodia­ gnosta la "soluzione" del caso, o nelle quali la carenza dei colloqui clinici condotti dal perito sia vicariata dalle risultanze di dettagliati e ridondanti test psicologici. Circa il concreto utilizzo dei test, appare opportuno differen­ ziare le prove esperite nella pratica psichiatrico forense da quelle realizzate nelle consulenze psicologiche. Nella pratica psichiatrico forense, i reattivi mentali di più comune impiego si identificano in alcuni test proiettivi (Test di Rorschach, T.A.T. o altro) integrati da scale di livello (quelli della serie Wechsler, come il WAIS-R , o il PM 38), da questionari di autodescri­ zione, come l'MMPI, e da scale specifiche per individuare sintomi o singole funzioni cognitive. Certamente, se da un lato appare ridondante e inutilmente costoso impiegare un numero eccessivo di test, dall'altro lato si deve precisare che, ove necessaria, la valutazione psicodiagnostica deve essere completa, e non può essere surrogata dalla somministrazione, se occorre reiterata, di prove inidonee in tal senso. Nell'esame dei pazienti senili, ad esempio, è perfettamente inutile reiterare la somministrazione del Minimal Mental State (MMS), test indicativo soprattutto della conservazione dello stato di coscienza e della capacità di mantenere una minima aderenza alla realtà, piuttosto che somministrare un singolo, anche se più com­ plesso, test cognitivo globale come il WAIS-R, indispensabile per integrare la spesso sottile valutazione degli spazi di competenza o di incapacità nella analisi di realtà, nelle funzioni mnesiche e logiche, ed in tutte le altre aree cognitive di interesse peritale. Nella consulenza psicologica, oltre ad alcuni tra quelli già citati, vengono abitualmente impiegati molti altri reattivi mentali. L'applicazione di tali prove nel contesto psicologico, pur rispon­ dendo alle esigenze procedurali proprie della consulenza tecnica, si inserisce in un modello di accertamento maggiormente fluido ed aperto allo studio delle relazioni tra i diversi soggetti interessati. Chiaro è che tutti gli esami psicodiagnostici integrativi possono costituire un riscontro oggettivo rispetto ai dati che emergono dai colloqui clinici, purché siano somministrati e valutati in modo stan­ dardizzato. Il grado di significatività di ogni test, infatti, è direttamente condizionato da una somministrazione e da una valutazione che siano effettuate in modo del tutto rispondente alle prescrizioni del manuale di riferimento, mentre ogni eventuale "autonomia" da parte dell'esaminatore rende la prova inattendibile.

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Per essere utilizzabili in ambito forense i risultati dei test devono, inoltre, essere documentati in ogni loro parte, con la punti­ gliosa precisazione di ogni singolo elemento che abbia caratterizzato gli stessi (tempi di risposta, commenti, richieste, ecc.). Si tratta, pertanto, di accertamenti molte volte indispensabili, ma il cui utilizzo è condizionato dalla correttezza del loro impiego e dalla rispondenza tra il singolo test e l'obiettivo diagnostico da conseguire; l'uso arbitrario di parti di prove al fine di giungere ad obiettivi diagnostici non corrispondenti a quelli per il quale il test è stato elaborato, rappresenta, infatti, una forzatura non accettabile in sede valutativa. Il lavoro peritale, in ogni sua singola fase, comporta una serie di scelte applicative, la cui linearità e rispondenza all'obiettivo della "massima efficacia con il minimo dispendio di risorse" costituisce un segno distintivo della "maturità" operativa del professionista, in questo come in qualsiasi altro settore professionale.

Capitolo II LA PERIZIA PSICHIATRICA IN TEMA DI IMPUTABILITÀ DELL'AUTORE DI REATO

SoMMARIO: 2 . 1 . Reato e responsabilità penale. - 2.2. Responsabilità penale e imputa­ bilità. - 2.3. Le condizioni che possono incidere sull'imputabilità. - 2.4. Gli artt. 88 e 89 c.p.: imputabilità e psicopatologia. - 2.4. 1 . L'infermità che incide sullo stato di mente. - 2.4.2. Evoluzione ed interpretazione della nozione di infermità. - 2.4.3. I recenti approdi in tema di vizio di mente. - 2.4.4. La ricostruzione dello stato di mente al momento del fatto e la questione del nesso causale. - 2.4.5. Vizio totale o vizio parziale: il problema della valutazione quantitativa della capacità di intendere e di volere. - 2.4.6. La metodologia medico-legale come strumento fondamentale del ragionamento psichiatrico forense. - 2.5. L'azione dell'alcool e degli stupefacenti. - 2.6. Il sordomutismo. - 2.7. La minore età. - 2.8. Imputabilità dell'autore di reato: riflessi giudiziari e ruolo del perito.

2. 1 . Reato e responsabilità penale. Il Diritto Penale rappresenta il complesso delle norme (1) con le quali lo Stato, mediante la minaccia di una specifica sanzione (pena), proibisce determinati comportamenti umani, definiti reati (2), in quanto contrari ai beni-interessi sociali e ai fini da esso perseguiti. Il Diritto Penale, cioè, contribuisce ad assicurare le condizioni essenziali della convivenza, predisponendo le sanzioni più idonee alla difesa dei valori socialmente rilevanti e dei beni tutelati dallo Stato. In generale, l'ordinamento giuspenalistico italiano deve essere letto alla luce di due concetti essenziali: il c.d. Principio di legalità (art. 25 Cost. e art. l c.p.), per il quale un individuo può essere punito solo se commette un fatto espressamente previsto dalla Legge come reato, ed il c.d. Principio di colpevolezza (art. 27 Cost. e art. 42 c.p.), secondo cui presupposto della punibilità è la rimproverabilità del­ l'agente per il fatto commesso. (1) Ogni norma penale si compone di due parti: il precetto, che esprime, mediante un comando o un divieto, la regola di condotta da seguire, e la sanzione, che stabilisce le conseguenze giuridiche che seguono alla trasgressione del precetto. (2) I reati si distinguono, in base alla sanzione, in delitti e contravvenzioni.

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Il Legislatore, cioè, ha accolto una configurazione personalistica della responsabilità penale, che da un lato postula la commissione materiale del fatto e la concreta rimproverabilità dello stesso, e dall'altro presuppone la possibilità di far risalire la realizzazione del reato all'ambito delle facoltà di controllo e di scelta del soggetto. In altre parole, affinché un individuo possa essere ritenuto penalmente sanzionabile è necessario accertare che abbia commesso un reato e che sia capace di essere rimproverato per quanto agito. Vediamo, dunque, di analizzare sinteticamente gli istituti giuri­ dici sottesi a tali principi, cercando di focalizzare l'attenzione soprat­ tutto sugli aspetti essenziali nella pratica psichiatrico forense. Secondo dottrina maggioritaria (3), sono assolutamente neces­ sari tre elementi per la sussistenza del reato: il fatto tipico (elemento materiale), la colpevolezza (elemento psicologico) e l'antigiuridicità. Il "fatto tipico" rappresenta quanto l'uomo ha attuato violando il precetto penale e si compone della condotta e dell'evento. L'azione umana da sola (fatta eccezione per i reati c.d. di mera condotta), infatti, non basta a costituire l'elemento materiale del reato, in quanto occorre che ne consegua un risultato che sia l'effetto della condotta stessa. Questo nesso naturalistico tra la condotta e l'evento è definito all'art. 40 c.p. (Rapporto di causalità), per il quale: "Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l'evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l'esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Da ciò si desume che deve essere sempre dimostrato un "rap­ porto di causalità materiale" tra la condotta umana e l'evento occorso: non soltanto l'azione (od omissione), ma anche il risultato esterno richiesto dalla fattispecie incriminatrice debbono essere opera del­ l'agente (4). Questa nozione è precisata nell'art. 41 c.p. (Concorso di cause), ai sensi del quale:

"Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento ... ".

(3) (4)

Per approfondimenti, si rimanda alla numerosa trattatistica di Diritto Penale. FIANDACA G., Causalità (rapporto di), in Dig. Discip. Pen., 1990; 2:119.

La perizia psichiatrica in tema di imputabilità

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Il codice penale, quindi, aderisce ad una concezione "condizio­ nalistica" della causalità, per cui causa penalmente rilevante è ogni antecedente logicamente essenziale, necessario, ineliminabile, ai fini della realizzazione dell'evento (teoria della condicio sine qua non); tale principio di equivalenza causale trova una limitazione solo nella c.d. "causa soprawenuta qualificata", cioè nell'intervento di un antece­ dente concretamente idoneo ad assumere su di sé, da un punto di vista normativa, tutto il peso dell'imputazione causale (5). Di conseguenza, l'accertamento della sussistenza del nesso cau­ sale tra condotta ed evento si fonda sul c.d. giudizio controfattuale (6) , nel senso che il ragionamento deve risalire indietro nel tempo a partire dall'evento che si è verificato, ponendosi il problema di che cosa sarebbe accaduto se la situazione esteriore fosse stata diversa da quella che, sviluppandosi, lo ha prodotto. In pratica, si tratta di una ricostruzione ipotetico-prognostica, che, ipotizzando l'eliminazione della condotta umana sub iudice, owero l'aggiunta (nelle ipotesi di omissione) dell'alternativo compor­ tamento prescritto e conoscibile, cerca di dare risposta al quesito se, nella situazione così virtualmente modificata, sarebbe stata o meno da attendersi la medesima conseguenza che si è concretamente awerata (7) . Secondo giurisprudenza consolidata (8 ), al fine di pervenire ad un giudizio di imputazione oggettiva dell'evento in ambito penale, è (5) BLAJOTTA R., Causalità e colpa: diritto civile e diritto penale si confrontano, in Cass. pen. , 2009, 1 :78. (6) STELLA F., La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione necessaria, in Riv. !t. Dir. Proc. Pen., 1 988; 1 0 : 1 2 1 7 . (7) I n tema s i rinvia a FoRTI G . , Colpa ed evento nel diritto penale, Giuffrè, Milano, 1 990. (8) Cass. pen., SS.UU., 1 1 settembre 2002, n. 30328, secondo cui "devono essere enunciati i seguenti principi di diritto: a) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell'evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. b) Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclu­ sione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con 'alto o elevato grado di credibilità razionale' o 'probabilità logica'. c) L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia con dizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella

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Fondamenti di psicopatologia forense

necessario individuare il nesso eziologico tra condotta ed evento alla stregua della elevata probabilità logica, di talché l'esistenza di even­ tuali spiegazioni causali alternative venga ad essere esclusa "al di là di ogni ragionevole dubbio" (9) . L'art. 42 c.p. definisce, invece, la nozione di "colpevolezza", introducendo i concetti di "coscienza e volontà" (nullum crimen sine culpa): "Nessuno può essere punito per una azione od omissione preve­ duta dalla legge come reato, se non l'ha commessa con coscienza e volontà. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterin­ tenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge . . . ". In pratica, per aversi reato non basta che il soggetto abbia posto in essere un fatto materialmente offensivo, ma è necessario che questo gli appartenga psicologicamente, che sussista cioè non solo un rapporto meccanicistico, ma anche un nesso psichico tra l'agente e il fatto criminoso, per cui quest'ultimo possa considerarsi "opera" di costui (1 0) . L'art. 42 c.p., in sintesi, esprime il giudizio di rimprovero soggettivo che può essere mosso all'agente per non aver "colpevol­ mente" messo in atto un comportamento diverso. Di talché, richiamando la giurisprudenza più autorevole, si può ritenere che "la responsabilità penale è colpevolezza per il fatto", nel senso di "fatto che sia espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i valori della convivenza, espressi dalle norme penali" ( ! ! ) . Il cosiddetto elemento psicologico del reato è specificato, poi, all'art. 43 c.p., che recita: "Il delitto: è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; è preterintenzionale, o oltre l'intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall'agente; produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio" . (9) Art. 5 3 3 c.p.p. (Condanna dell'imputato). "Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio". (10) MANTOVANI F., Diritto Penale, Cedam, Padova, 2007. (1 1) Corte Cost., sent. 24 marzo 1 988, n. 364.

La perizia psichiatrica in tema di imp u tabilità

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è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche s e preve­ duto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosse11!anza di leggi, regolamenti, ordini o discipline . . . " . In questo articolo s i precisano, dunque, i diversi atteggiamenti psicologici in base ai quali viene commisurata la risposta penale nei confronti di un comportamento che la Legge considera reato e ad ognuna di queste condizioni soggettive corrisponde una specifica graduazione della sanzione penale (ovviamente massima nei casi di volontarietà e minima in quelli colposi). Il complesso di norme che è stato sinteticamente analizzato sì applica a tutti gli autori di reato, anche se il codice prevede specifiche condizioni in cui un soggetto, pur essendo responsabile, non viene punito per quanto commesso: la presenza delle c.d. cause di giustifi­ cazione. Queste ultime, in pratica, rappresentano degli elementi negativi (o impeditivi) del reato e possono distinguersi in esimenti (o scrimi­ nanti) e scusanti. Le prime incidono sul requisito materiale del reato, eliminan­ done cioè il carattere antigiuridico, si ricordano il "consenso del­ l'avente diritto" (art. 50 c.p.), "l'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere" (art. 5 1 c.p.) e "lo stato di necessità" (art. 54 c.p.). In sintesi in presenza di queste condizioni un fatto di regola vietato dalla legge perde la connotazione illecita e non viene sanzio­ nato. Le seconde incidono, invece, sull'elemento psicologico del reato escludendo la colpevolezza, e sono: il "caso fortuito o la forza maggiore" (art. 45 c.p.), il "costringimento fisico" (art. 46 c.p.) e "l'errore di fatto" (art. 47 c.p.). In presenza di queste situazioni la condotta perde il carattere cosciente e volontario, perciò il fatto compiuto, difettando della componente psicologica, possiede solo gli elementi oggettivi che, di regola, non sono sufficienti a determinare una responsabilità penale, in quanto deve essere presente "almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica" ( 12 ).

2.2. Responsabilità penale e imputabilità.

Definita sinteticamente la nozione di reato (quale fatto tipico, antigiuridico e colpevole), lo specifico interesse della psicopatologia (12) Ibidem.

Fondamenti di ps icopatol ogia fo re ns e

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forense si concentra su quello che abbiamo definito come "il presup­ posto della responsabilità penale", e cioè la valutazione della capacità dell'autore di essere rimproverato per quanto commesso. La condizione che rende possibile la rimproverabilità dell'autore di reato coincide, infatti, con la nozione di imputabilità, come delineata all'art. 85 c.p.: "Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile.

È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere". Tale articolo rappresenta il cardine, l'architrave, del nostro sistema penale, definendo, con una formula sintetica, i requisiti psichici necessari per poter rimproverare al soggetto agente il fatto commesso e mettergli in conto le conseguenze giuridiche della sua condotta. L'imputabilità costituisce, in sintesi, la condicio sine qua non per poter esprimere la disapprovazione soggettiva del fatto tipico ed antigiuridico commesso dall'agente, in quanto solo riguardo ad un soggetto dotato di capacità di autodeterminazione può parlarsi di rimproverabilità. Tale istituto, dunque, nonostante la collocazione codicistica

(13),

non si limita ad essere una mera capacità di pena o un semplice aspetto della capacità giuridica penale, ma il suo ruolo autentico è quello di definire la condizione dell'autore che rende possibile la rimproverabilità del proprio comportamento. Infatti, come evidenzia Marzano , "ha senso parlare di rimprove­ rabilità di un atto, solo se chi lo commette ha effettiva coscienza dell'illiceità del fatto, ma tale coscienza si può riconoscere solo in quanto l'atto si inserisce nella facoltà di controllo e di scelta dell'agente, altrimenti l'atto stesso rimarrebbe ascrivibile all'autore soltanto per una relazione meccanicistica e meramente oggettiva"

(14).

Perché possa muoversi un rimprovero è perciò necessario che il soggetto sia capace di intendere i propri atti, di rendersene conto, di orientarli; in due parole: di autodeterminarsi consapevolmente. Pertanto, sul piano formale, l'imputabilità è più propriamente definibile come "capacità di reato" o meglio "capacità di colpevolezza"

(13)

L'art. 85 c.p. è collocato all'inizio del titolo IV, dedicato al reo, apparendo

così limitato a definire la qualifica, o status, dell'autore del reato, che lo rende assoggettabile a pena.

(14) MARZANO F., Relazione svolta nell'incontro di studi organizzato dal C. S. M. sul tema "L'evoluzione della scienza psicologica e psichiatrica e l'accertamento giudiziario", Roma, 16-18 giugno 2008.

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(ed in subordine alla pena, quale conseguenza della colpevolezza ( 1 5)), non essendovi colpevolezza senza imputabilità ( 1 6) . L'imputabilità rappresenta, quindi, per il diritto positivo, il presupposto per l'affermazione della responsabilità penale del sog­ getto agente ( 17) , la categoria giuridica "che, in quanto fondata sulla capacità dell'uomo di autodetenninarsi, rappresenta lo spartiacque fra soggetti da considerare penalmente responsabili e soggetti nei confronti dei quali un giudizio di tal genere risulta escluso" (18 ) . Tale istituto giuridico trova, in ultima analisi, il suo fondamento nel principio della libertà di autodeterminazione dell'uomo, per il quale presupposto indispensabile per ritenere penalmente responsa­ bile un soggetto, e quindi sottoporlo a sanzione penale, è che si accerti che nel decidere di porre in essere la condotta illecita, l'agente si sia determinato in maniera libera, autonoma e consapevole. Il problema del libero arbitrio, in verità, costituisce uno dei parametri fonda­ mentali alla luce del quale concepire e valutare il concetto d'imputabilità e più in generale di colpevolezza in diritto penale. Non a caso a seconda del diverso modo di concepire tale problema, a partire dalla seconda metà del XIX secolo si sono manifestate nella disciplina penalistica diverse scuole di pensiero ( 1 9). Secondo la concezione della c.d. Scuola Classica (20), il fondamento dell'impu­ tabilità è il libero arbitrio, cioè la facoltà di autodeterminarsi secondo una libera e totale scelta della propria volontà, per cui ha senso infliggere una sanzione penale in quanto il soggetto che ha posto in essere quella determinata condotta era nelle condizioni di tenere un comportamento diverso. Da questo deriva che gli individui affetti da disturbi psichici, non essendo liberi - perché privi di questa capacità di autodeterminazione - non possono essere rimproverati per il fatto commesso e quindi non possono essere puniti.

( 15) Tale precisazione è d'obbligo, posto che al soggetto non imputabile, come vedremo più avanti, non potrà applicarsi pena alcuna, ma, ove ne ricorrano i presupposti, una misura di sicurezza. (16) Cass. pen., SS.UU., 8 marzo 2005, n. 9 1 63. ( 1 7) Cass. pen., sez. II, 12 ottobre 1972, n. 6 6 1 6: "L'imputabilità costituisce il presupposto non soltanto logico-giuridico ma anche naturalistico della colpevolezza in quanto soltanto chi è capace di intendere e di volere (imputabile) può in concreto determinarsi in modo penalmente rilevante nella coscienza e volontà della condotta, cioè può essere giudicato colpevole. Invero non è concepibile che possa sussistere il riferimento causale della condotta alla rappresentazione intellettiva e alla determinazione volitiva dell'agente, nelle qualificazioni normative in cui tale causalità psichica è considerata come elemento costitutivo del reato (dolo o colpa), ave non sussista, in ipotesi, la stessa capacità dell'intelletto della volizione, cioè il substrato della condizione psichica del soggetto che renda possibile quella causalità psichica della condotta che è rilevante per il diritto penale". ( ' 8) BERTOLINo M., L'imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale , Giuffrè,

Milano, 1 990. ( 1 9) Per ulteriori approfondimenti, si rimanda alla numerosa trattadstica in materia. (20) Tra gli esponenti di tale scuola si ricorda in particolare Francesco Carrara.

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A questa concezione si oppose la c.d. Scuola Positiva (21 ) , che, sulla base delle acquisizioni delle nuove scienze umanistiche (biologia, psicanalisi, sociologia, ecc.) tendeva ad escludere il libero arbitrio, ritenendo che il comportamento non fosse libero, ma determinato. Sulla base di tali presupposti non ha più senso sanzionare con la pena il reo, ma lo scopo dei provvedimenti repressivi deve essere la difesa sociale, per cui coloro che delinquono devono essere sottoposti a "misure di sicurezza", proporzio­ nate non alla gravità del fatto, ma alla pericolosità del reo, e volte a prevenire ulteriori manifestazioni criminose mediante l'allontanamento dei delinquenti dalla società e, ove possibile, loro reinserimento nella vita sociale. Nel tentativo di mediare tra queste due concezioni estreme si affermò progres­ sivamente la c.d. Terza Scuola, e successivamente la Scuola della Nuova Difesa Sociale (22 ) . Tali Scuole, pur riconoscendo il libero arbitrio dell'uomo, al contempo ritengono che in tale libertà di autodeterminazione l'individuo sia fortemente condi­ zionato da fattori interni ed esterni; ne consegue che la funzione della pena deve essere al contempo retributiva (come sostenuto dalla Scuola Classica) e preventiva (come sostenuto dalla Scuola Positiva): da tale interpretazione è nato il sistema del "doppio binario", fondato sul dualismo imputabilità-pena retributiva e pericolosità sociale­ misura di sicurezza, che ancora oggi è alla base del nostro sistema penale.

Se, dal punto di vista formale, l'imputabilità può essere definita "capacità di responsabilità penale", dal punto di vista sostanziale, la norma sancisce che è imputabile chi ha "la capacità di intendere e di volere" al momento della commissione del fatto. Pertanto, risulta evidente che il Legislatore abbia voluto concen­ trare l'attenzione solo "sul momento intellettivo e volitivo, in senso stretto, della psiche, con assoluta esclusione di ogni riferimento ad elementi 'moralistici' o etici o attinenti alla coscienza dell'illiceità del fatto" (23). Il Legislatore ha, cioè, accolto "un concetto di imputabilità psicologica, non di imputabilità morale, nel senso che si ha imputabilità quando esiste autonomia psichica, intesa come processo cognitivo e volitivo che ha il normale decorrere comune alla media degli uomini, esclusa quella necessità psichica determinata da cause psicopatologi­ che" (24). Le capacità di intendere e di volere, pertanto, "esprimono con una formula sintetica quella "normalità psichica" sulla quale si poggia, quale esperienza comunemente condivisa, e al di là delle discussioni filosofiche, il cosiddetto libero arbitrio . . O meglio un libero arbitrio sufficientemente buono" (25). .

( 2 1 ) In particolare si ricordano Enrico Ferri e Cesare Lombroso. ( 22 ) In particolare, Filippo Gramatica. ( 2 3 ) PoRTIGLlATTI BARBos M., MARINI G., La capacità di intendere e di volere nel sistema penale italiano, Giuffrè, Milano, 1 964; MARINI G., voce Imputabilità, in Dig. pen., 1 992, 6:253. ( 24) FRosAu R.A., Sistema penale italiano, Utet, Torino, 1 958. ( 2 ' ) SAMMICHELI L., SARTORI G., Neuroscienze e imputabilità, in DE CATALDO NEUBUR­ GER L. (a cura di), La prova scientifica nel processo penale, Cedam, Padova, 2007.

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Alla luce di tale esegesi, è importante evidenziare come la "capacità di intendere e di volere" ex art. 85 c.p. e la "coscienza e volontà" ex art. 42 c.p. esprimano concetti diversi, in quanto il secondo comma dell'art. 85 c.p. definisce "la nozione di persona

normale alla quale la legge penale può essere applicata, mentre la concreta coscienza e volontà della condotta dà luogo alla responsabilità, cioè a quel rapporto per cui la Legge mette in conto di un determinato soggetto imputabile le conseguenze della sua azione od omissione" ( 26) . Sul piano definitorio, richiamando la giurisprudenza in materia, la capacità di intendere viene definita come l'idoneità psichica del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni, ad orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà, e quindi come la capacità di rendersi conto del significato del proprio comportamento e di valutarne conseguenze e ripercussioni, ovvero di proporsi una corretta rappresentazione del mondo esterno e della propria condotta (27) . In una prospettiva di scomposizione analitica, Arbarello e coll. distinguono diversi gradi o valenze della capacità di intendere. In primo luogo la c.d. coscienza della realtà: essa è presente allorquando il sog­ getto sia consapevole di ciò che accade, mostrando una normale con­ sapevolezza di sé e del mondo. Il soggetto deve, però, anche rendersi conto della propria possibilità di rapportarsi con il mondo esterno, quindi della sua capacità di modificare la realtà esteriore (oltre che interiore), agendo su di essa, e perciò deve comprendere di poter cau­ sare delle modificazioni, migliorative o peggiorative, nella realtà che lo circonda (c.d. consapevolezza comportamentale) . Vi è infine la c.d. ca­ pacità di critica, che consiste nella capacità di effettuare una valuta­ zione critica della situazione e, in via consequenziale, operare la scelta del comportamento da assumere in concreto ( 2 8 ) . La capacità di volere, invece, viene definita come la libertà di scegliere in modo selettivo fra due o più azioni egualmente attuabili, come l'idoneità del soggetto ad autodeterminarsi, in relazione ai normali impulsi che ne motivano l'azione, in modo coerente ai valori di cui è portatore, il potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il motivo che appare più ragionevole o preferì­ bile in base ad una concezione di valore, l'attitudine a gestire una efficiente regolamentazione della propria, libera autodetermina­ zione ( 29) . (26) BERTOLINo M., L'imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Giuffrè, Milano, 1 990. (27) Fra le tante: Cass. pen., sez. I, l giugno 1 990, n. 1 3202. (28) ARBARELLO P. e coli., op. cit. . (29) Fra le tante: Cass. pen., sez. I , 1 990, n . 1 3202.

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Anche a proposito della capacità di volere Arbarello e coll. propongono una scomposizione analitica, ritenendo l'atto volitivo frazionabile secondo una certa sequenza: il primo momento è quello sensoriale percettivo; segue la fase ideativa, ossia la rappresentazione mentale; il soggetto passa indi ad esaminare l'atto da compiere in relazione alle circostanze ambientali, ne valuta pro e contro, fattibi­ lità, ecc. (fase deliberativa); in una quarta fase l'individuo si decide all'azione (fase della decisione); da ultimo, la sequenza si completa con la realizzazione concreta dell'atto ideato, deliberato e deciso (fase esecutiva) (3°) . Tralasciando ulteriori considerazioni in merito, le capacità di intendere e di volere rappresentano, in sostanza, la competenza psichica dell'individuo a conoscere i motivi delle proprie azioni, a sottoporre gli stessi ad esame critico ed a prevedere le conseguenze dei propri atti, scegliendo consapevolmente i comportamenti da attuare. È imputabile chi disponga di entrambe queste capacità (la norma citata, infatti, parla di "capacità di intendere e di volere"): anche la accertata carenza o abolizione, al momento del fatto, di una sola delle due, è quindi tale da integrare una possibile limitazione od esclusione dell'imputabilità del soggetto. La presenza di questa dicotomia legislativa tra la capacità di in­ tendere e la capacità di volere ha, da sempre, suscitato un acceso di­ battito e sollevato numerose critiche, ritenendosi, soprattutto alla luce delle moderne conoscenze psicologiche e psichiatriche, che sia impos­ sibile scindere queste due facoltà mentali, perché "la psiche dell'uomo

è un 'entità fondamentalmente unitaria, per cui le diverse sue funzioni si rapportano l'una all'altra, influenzandosi vicendevolmente" (3 1 ) . Stante la strettissima interconnessione tra tali facoltà mentali, vero è, in concreto, che difficilmente la compromissione dell'una non si rifletterà sull'altra, ma ciò non toglie che questi due concetti debbano essere sempre analizzati ed approfonditi nella loro specifi­ cità.

2.3. Le condizioni che possono incidere sull'imputabilità.

Definita la nozione di imputabilità, lo stesso codice penale elenca poi una serie di articoli che, per motivi di politica criminale e di difesa sociale, precisano in modo dettagliato da un lato le condi(30) (31)

ARBARELLO P. e coli., op. cit. . FIANDACA G., Museo E., Diritto penale, Giappichelli, Torino, 1 989.

La perizia psichiatrica i n tema di imputabilità

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zioni per le quali è possibile dimostrare l'esclusione o la limitazione dell'imputabilità di un autore di reato (32), dall'altro quelle per le quali, pur essendo di fatto sussistente un'incapacità di intendere o di volere, il soggetto è ritenuto comunque imputabile. Il Legislatore, dunque, dopo aver sancito che è imputabile chi h a la capacità di intendere e di volere, definisce l o stato d i non imputa­ bilità attraverso l'elencazione di condizioni "giuridicamente" idonee ad incidere su tali capacità. L'imputabilità allora "diventa il riflesso positivo di un concetto

negativo, la non imputabilità, che viene in gioco solo attraverso le cause di esclusione della stessa" (33). Punto di partenza di tale architettura logico-giuridica è la c.d. "presunzione di imputabilità", per la quale qualsiasi individuo mag­ giorenne (quindi ultra-diciottenne) è, salvo dimostrazione contraria, dotato della capacità di intendere e di volere e, pertanto, imputa­ bile (34). In termini più specifici, come evidenzia Tursi, "la Legge ritiene

che il soggetto maggiorenne, sulla base dell'id quod plerumque accidit, sia capace di compiere libere scelte, avendo raggiunto un 'adeguata maturità psichica, ovvero una capacità di intendere e di volere suffi­ ciente a non soccombere passivamente agli impulsi psicologici che lo spingono ad agire in un determinato modo e a riuscire ad esercitare poteri di inibizione e controllo idonei a consentirgli scelte consapevoli tra motivi antagonistici" (35). A fronte di tale "presunzione", una prima, e fondamentale, distinzione viene effettuata in riferimento all'età dell'autore del reato, sul presupposto che le capacità di intendere e di volere siano "la

risultante dello sviluppo psicofìsico del soggetto, che alla nascita pos­ siede un patrimonio psichico nullo, che con il tempo si sviluppa fino a raggiungere (se la raggiunge) la maturità psichica" (36). Pertanto, i soggetti che non hanno compiuto i 1 4 anni al (32) Molto discusso è il problema circa la tipicità o meno delle cause di esclusione dell'imputabilità: la giurisprudenza, ponendo l'accento più sull'effetto che non sulla causa, ritiene che se ne possano considerare anche altre purché in concreto idonee a compromettere le capacità fondamentali. (33) EERTOLINO M., Fughe in avanti e spinte regressive in tema di imputabilità penale, in Riv. !t. Dir. Proc. pen. , 200 1 , 3:850. (34) La vigenza di una tale presunzione è già documentata in FIANDACA G., Museo E., Diritto penale, Zanichelli, Bologna, 2007; FIORE C., Diritto penale, Utet, Torino, 2004; MANTOVANI F., Diritto penale, Cedam, Padova, 2007; PADOVANI T., Diritto penale, Giuffrè, Milano, 2006. (35) TuRsi A., op. cit. . (36) FRANCHINI A., lNTRONA F., Delinquenza minori/e, Cedam, Padova, 1 972.

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so

momento del fatto sono ritenuti ex lege (c.d. presunzione assoluta) non imputabili (art. 97 c.p.), mentre quelli di età compresa tra i 1 4 e i 1 8 anni al momento del fatto sono considerati imputabili solo se viene accertata in concreto la presenza delle capacità d'intendere e di volere (art. 98 c.p.). Il codice elenca, poi, alcune specifiche condizioni che possono escludere o limitare l'imputabilità: i casi in cui l'autore sia stato reso da altri incapace di intendere e di volere (art. 86 c.p.), il "vizio totale ed il vizio parziale di mente" (artt. 88 e 89 c.p.), !"'ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore" (art. 9 1 c.p.), l'intossi­ cazione acuta da stupefacenti derivata da caso fortuito o da forza maggiore (art. 93 c.p.), la "cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti" (art. 95 c.p.) ed il "sordomutismo" (art. 96 c.p.). Altre condizioni, anch'esse potenzialmente o concretamente tali da ridurre o escludere le capacità di intendere e/o di volere, sono invece tassativamente considerate ininfluenti sull'imputabilità, come i cosiddetti "stati emotivi o passionali" (art. 90 c.p.), l'ubriachezza volontaria o colposa (art. 92 c.p., I cpv.) o la analoga assunzione di sostanze stupefacenti (art. 93 c.p.), ovvero addirittura qualificate quali aggravanti rispetto al reato commesso, come l'ubriachezza o l'assunzione di stupefacenti preordinate al fine di commettere un reato (art. 92 c.p., 2 cpv., e art. 93 c.p.) e la "ubriachezza abituale" (art. 94 c.p.). Tale complessa strutturazione codicistica consente di compren­ dere come la nozione di imputabilità delineata nel nostro ordina­ mento penale sia, al tempo stesso, empirica e normativa, quindi costruita a "due piani", nel senso "che è dato innanzitutto alle scienze

di individuare il compendio dei requisiti bio-psicologici che facciano ritenere che il soggetto sia in grado di comprendere e recepire il contenuto del messaggio normativa connesso alla previsione della sanzione punitiva, mentre spetta poi al Legislatore la fissazione delle condizioni di rilevanza giuridica dei dati forniti dalle scienze empirico­ sociali", dal momento che tale selezione giuridica implica "valutazioni che trascendono gli aspetti strettamente scientifici del problema dell'im­ putabilità e che attengono più direttamente agli obiettivi di tutela persegu iti dal sistema penale" ( 37 ) . Proprio in tale prospettiva, si spiega la scelta del Legislatore di escludere dal novero delle cause di esclusione o limitazione dell'im­ putabilità, le condizioni previste all'art. 87 c.p., per cui "La disposi(37)

Cass. pen.,

SS.UU.,

8 marzo 2005, n. 9 1 63 .

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zione della prima parte dell'articolo 85 non si applica a chi si è messo in stato d'incapacità d'intendere o di volere al fìne di commettere il reato, o di prepararsi una scusa", e, soprattutto, all'art. 90 c.p., ai sensi del quale "gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità". Certo è, come evidenzia Merzagora (38), che tanto le emozioni, intese come stati affettivi di breve durata ad insorgenza improwisa e legata ad awenimenti precisi (p.e. paura, ira, gioia, vergogna, ecc.), quanto le passioni, che sono invece condizioni più durature e che non si configurano come reazioni subitanee nei confronti di un evento (p.e. gelosia, amore, odio, ecc.), ben possono influenzare e non di rado travolgere sia le facoltà di discernimento che quelle volitive, ma in ogni caso il Legislatore ha reputato che passioni ed emozioni facciano parte del patrimonio esperienziale di chiunque, che si tratti cioè di

"condizioni psicologiche e non già psicopatologiche dell'essere umano" (39), e che chiunque possa e debba controllarle: "l'art. 90 fu introdotto con una precisa e non trascurabile funzione pedagogica: per stimolare cioè il dominio della volontà sulle proprie emozioni e pas­ sioni" (40). A tal proposito, nella relazione al progetto sul codice penale si precisava che "le passioni, le emozioni attengono alla valutazione della

quantità del delitto e della pericolosità del delinquente, ed è problema di politica criminale il determinare le ipotesi e la misura, entro le quali debbono o possono essere prese in considerazione" (4 1 ) . Costante, in tal senso, è anche l'orientamento della giuri­ sprudenza, la quale ribadisce che "delle tre facoltà psichiche (senti­

mento, intelligenza e volontà), che caratterizzano l'azione nel suo lato subiettivo, il codice penale - ai fìni dell'imputabilità e quindi anche dell'infermità di mente - prende in considerazione soltanto le ultime due, e non anche la prima: e pertanto le anomalie del carattere e l'insufficienza di sentimenti etico-sociali non possono essere di per se stesse considerate indicative di infermità di mente, ove ad esse non

( 38 ) MERZAGORA BETsos I., Imputabilità, pericolosità sociale, capacità di partecipare coscientemente al procedimento, in Gmsn G. (a cura di), Trattato di Medicina Legale e scienze affini, Cedam, Padova, 2009. (39) FoRNARI U., op. cit. . (40) MANTOVANI F., L'imputabilità sotto il profilo giuridico, in: FERRACUTI F . ( a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense, Vol. 1 3: Psichiatria forense generale e penale, Giuffrè, Milano, 1990. (41) Relazione sul libro I del progetto del guardasigilli ALFREDO Rocco, n. 1 02, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V, Roma 1 929, p. 1 43.

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siano associati disturbi nella sfera intellettiva e volitiva di indubbia natura patologica" (42) . Tale interpretazione è stata recentemente confermata dalla Corte di Cassazione, che ha evidenziato come "la capacità di controllo

delle proprie azioni va distinta dalla capacità di intendere e di volere, in quanto capacità del soggetto di modulare e calibrare la sua condotta in funzione di elementi condizionanti di ordine etico, religioso, educativo ed ambientale, i quali, afferendo ed integrandosi nel nucleo della personalità del soggetto, lo dotano della consapevolezza critica ed autocritica, e che agiscono come modulatori dell'istintualità e dell'im­ pulsività. Ne consegue che l'indebolimento dei freni inibitori, o l'atte­ nuazione della loro funzionalità in determinate aree sensibili, se non dipendenti da un vero e proprio stato patologico, non sono in grado di incidere sulla capacità di intendere e di volere e quindi sull'imputabi­ lità" (43). Il principale riferimento normativa, quindi, a parte l'età e le circostanze "derivanti da caso fortuito o forza maggiore", non è relativo a generiche condizioni di alterazione psicologica o caratte­ riale, ma a cause patologiche, congenite o acquisite, temporanee o permanenti, che siano concretamente tali da aver inciso sulla capacità dell'individuo di valutare la realtà e/o di determinare liberamente i propri comportamenti. Ulteriore supporto a tale considerazione è dato anche dal fatto che nel sistema processuale italiano, come già ricordato nel Capitolo l , la perizia in tema di imputabilità può essere solamente psichiatrica poiché, fatte salve le norme che attengono al processo minorile e quanto previsto ai fini dell'esecuzione della pena e delle misure di sicurezza, non sono ammesse indagini volte a stabilire "le qualità

psichiche indipendenti da cause patologiche" (44). Vediamo, dunque, di analizzare in modo dettagliato le diverse fattispecie di cause di esclusione o limitazione dell'imputabilità, con particolare attenzione per quelle di specifico interesse psichiatrico forense, ricordando in conclusione il monito di Sammicheli e Sartori, per i quali la perizia in tema di imputabilità "non è da un punto di

vista concreto, una perizia come tutte le altre. Al povero perito, infatti, viene chiesto di esprimere un parere su un aspetto che di fatto costitu­ isce il presupposto dell'intero sistema penale" (45 ) .

(42) Cass. pen., sez. I, 1 3 aprile 1 966, in Cass. pen. mass. , 1 967, p. 530; Cass. pen., sez. L 26 giugno 1 968, in Cass. pen. mass. , 1 969, p. 1 2 1 5 . (4 3) Cass. pen . , sez. VI , 3 1 marzo 201 0, n . 1 2 62 1 . (44) Art . 220 c.p.p., cit.. (45) SAMMICHELI L., SARTORI G., Neuroscienze e imputabilità, in DE CATALDO NEUBUR­ GER L. (a cura di), La prova scientifica nel processo penale, Cedam, Padova, 2007.

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53

2.4. Gli artt. 8 8 e 89 c.p.: imputabilità e psicopatologia. 2.4. 1 .

L'infermità che incide sullo stato di mente.

Il principale terreno di incontro (e scontro) tra la scienza psichiatrica e quella giuspenalistica è certamente il tema relativo ai rapporti tra l'istituto giuridico dell'imputabilità ed i concetti, più propri del mondo clinico, di "disturbo psichico" e "psico-patologia". Da un punto di vista generale, il principio secondo cui "chi sia

''folle ': "alienato ", "malato di mente", "affetto da disturbo" o "sofferente psichico" - i termini e il loro valore semantico mutano nel tempo - in modo da vedere compromesse le capacità di comprensione o di libera determinazione debba essere considerato meno o per nulla responsabile dei propri atti è principio di antica data e di quasi universale accetta­ zione" (46) . Tuttavia, le specifiche soluzioni normative adottate nel tempo rappresentano un panorama alquanto eterogeneo, di talché è possi­ bile sistematizzare le diverse opzioni dogmatiche secondo tre princi­ pali interpretazioni (47) . A) Secondo il modello psicopatologico puro, un individuo af­ fetto da patologia psichica che abbia commesso un reato, viene considerato non imputabile, e quindi non punibile, per il solo fatto che il suo disturbo rientri tra quelli specificati dal Legislatore, senza riguardo a quanto il disturbo abbia inciso sulle capacità di intendere e di volere. Si tratta, quindi, di un modello squisitamente nosografico, per cui si dovrà semplicemente accertare la presenza di una delle patologie previste ed automaticamente il reo-malato andrà esente da pena. B) Secondo il modello normativa puro, affinché un soggetto possa ritenersi non imputabile, è sufficiente accertare che lo stesso fosse incapace di intendere e/o di volere al momento del fatto, a prescindere dall'accertamento clinico di un substrato patologico. Pertanto, qualsiasi anomalia psichica, anche momentanea, che abbia viziato la capacità di discernimento o la libertà di autodeterminazione del soggetto sarebbe idonea ad escludere o attenuare la responsabilità penale. (46) MERZAGORA BETsos I., Imputabilità, pericolosità sociale, capacità di partecipare coscientemente al procedimento, in GIUSTI G. (a cura di), Trattato di Medicina Legale e scienze affini, Cedam, Padova, 2009. (47) BERTOLINO M., L'imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Giuffrè, Milano, 1 990; MERZAGORA BETsos I., Imputabilità, pericolosità sociale, capacità di parte­ cipare coscientemente al procedimento, in GIUsTI G. (a cura di), Trattato di Medicina Legale e scienze affini, Ccdam, Padova, 2009.

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Fondamenti di psicopatologia forense

C) Infine, secondo il modello psicopatologico-normativo (misto) bisogna procedere ad una duplice valutazione: in primo luogo occorre accertare la sussistenza di un disturbo patologico (criterio empirico), secondariamente si valuta se lo stesso abbia inficiato la capacità di intendere o di volere dell'agente al momento del fatto-reato (criterio normativa). Nel Codice penale italiano, le fattispecie relative al rapporto trq "malattia mentale" e imputabilità sono previste agli artt. 88 e 89 c.p. L'art. 88 c.p. intitolato "Vizio totale di mente", recita: "Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto,

era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere". L'art. 89 c.p., intitolato "Vizio parziale di mente", recita: "Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita". Da tali definizioni normative deriva il quesito che viene general­ mente posto in sede peritale, di solito strutturato nei seguenti termini:

"Dica il perito se, al momento dei fatti per cui è processo, il periziando fosse, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere, ovvero da scemarla grandemente, senza escluderla". Per rispondere a tale quesito, il perito deve identificare la sussistenza di una condizione di "infermità", deve riferire la stessa al momento del reato, deve valutare se questa infermità abbia inciso sullo stato di mente del soggetto (ed in particolare sulla sua capacità di intendere o di volere) e deve infine valutare l'entità di tale ridu­ zione, poiché uno stato di mente nel quale la stessa riduzione non giunga alla totalità, o alla quasi totalità, non consente il riconosci­ mento di un "vizio di mente". Pertanto, risulta chiaro che il Legislatore italiano abbia adottato il modello c.d. misto, per cui il vizio di mente che incide sull'imputa­ bilità si configura come una costruzione a due piani, il cui primo livello è relativo all'accertamento del substrato patologico (infermità), mentre il secondo livello è relativo alla valutazione dell'incapacità di intendere o di volere determinata dall'infermità: ancora una volta, si rileva come il primo livello appartenga al mondo della clinica ed il secondo al mondo del diritto, qualificando tale accertamento come un "classico" modello di perizia medico legale. Tale interpretazione trova conferma nella scelta effettuata dal Legislatore di una c.d. "normazione sintetica": una tecnica, cioè, mediante la quale "il Legislatore rinuncia in partenza a definire in termini descrittivi tutti i parametri della fattispecie, ma, mediante una

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formula di sintesi, rinvia ad una realtà valutativa contenuta i n una norma diversa, extragiuridica (etica, sociale, psichiatrica, psicolo­ gica)" (48 ) . Come evidenzia Marzano "in tanto, quindi, il dato normativa acquisisce un senso concreto - e personalizzato, individualizzato - in quanto sia chiaro ed accertato, sotto il profilo psico-patologico, il quadro empirico al quale esso deve essere associato; ne consegue che, mai come in questo campo, il giudice è, in effetti, tributario della scienza medica, ad essa deve rivolgersi e su di essa deve fare affidamento per cogliere il dato extragiuridico di riferimento. Se così non fosse, il giudizio sarebbe in radice viziato per la mancanza di un fondamentale termine di riferimento, il dato, appunto, empirico-scientifico" (49) . Allo psichiatra forense, quindi, viene attribuito un compito particolarmente complesso, quello di effettuare una valutazione al contempo tecnica e valoriale; il quesito non è quello di accertare se il soggetto agente si trovasse nei limiti di un determinato confine, ma quello di stabilire lo stesso confine: di distinguere cioè tra normalità e patologia. A fronte delle difficoltà sottese a tale indagine, troppo spesso il perito cade nell'errore di cercare di predeterminare quali categorie cliniche possano essere trasposte sic et simpliciter nelle categorie giuridiche dell' "infermità" e della "capacità di intendere o di volere", con conseguenti oscillazioni interpretative ed applicative estrema­ mente differenziate ed a volte inadeguate alla realtà del singolo caso. È, pertanto, fondamentale approfondire contenuto e limiti delle nozioni di "infermità" e di "stato di mente tale da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere", ricordando comun­ que che si tratta di concetti che restano legati a scopi e funzioni propri del diritto penale, o, meglio, "a funzioni proprie della politica del diritto

penale" (50). 2.4.2.

Evoluzione e interpretazione della nozione di infer­ mità.

Negli ultimi decenni si è sviluppato un intenso dibattito sul significato della nozione di infermità rilevante ex artt. 88 e 89 c.p ., alimentato dalla mancanza di u n unico e condiviso parametro inter­ pretativo di tale espressione normativa, mancanza che trae essenzial(48 ) Cass., pen., SS.UU., 8 marzo 2005, n. 9 1 63 . (49) MARZANO F . , op. cit. , (5°) PILITANò D., L'imputabilità come problema giuridico, in DE LEONARDIS O. (a cura di), Curare e punire, Unicopli, Milano, 1 988.

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mente origine dal difficile rapporto tra Diritto e Psichiatria: il primo che cerca nella scienza psichiatrica un fondamento stabile e razionale per le proprie decisioni e la seconda che tenta di coniugare le incertezze proprie della dimensione clinica con le pretese di certezza del diritto. Tutto ciò ha determinato ineludibili ricadute sul versante della cooperazione tra il sapere scientifico ed il giudice, con la conseguenza che quest'ultimo si è venuto progressivamente a trovare nella difficile situazione di doversi districare tra diversi orientamenti, con inevita­ bili differenze interpretative e applicative ( 5 1 ) . In particolare, in seguito all'evoluzione epistemologico­ metodologica che ha caratterizzato la storia della psichiatria mo­ derna, si è delineato, in seno alla giurisprudenza, una sorta di dualismo interpretativo circa il significato da attribuire alla nozione di infermità, che - come meglio si vedrà in seguito - accanto ad un indirizzo più restrittivo c.d. "medico", ha contrapposto quello c.d. "giuridico", con il conseguente sviluppo di una interpretazione più ampia rispetto al primo. Vediamo dunque di ricostruire, in modo molto sintetico, i motivi di tali oscillazioni esegetiche. Nel codice penale del l 930, il richiamo alla "infermità" era stato letto sulla base dell'allora predominante paradigma esplicativo della "malattia mentale", di stampo essenzialmente organicistico e descrit­ tivo, di talché in tanto un disturbo psichico era ritenuto penalmente rilevante, in quanto avesse un substrato organico documentabile ovvero fosse clinicamente accertabile e catalogabile nella nosografia psichiatrica tradizionale. Tale interpretazione, come detto, si basava sull'impostazione originaria della psichiatria, fondata su un modello epistemologico e metodologico di tipo prettamente medico-biologico, che, dando l'illu­ sione di una scienza forte delle proprie certezze, offriva al diritto sicuri ancoraggi empirici ai quali affidarsi con fiducia, fino a giungere a "un rapporto di singolare soggezione del primo nei confronti della seconda" ( 52 ) . Tale "idillio" tra psichiatria e giustizia è stato progressivamente messo in crisi dal fiorire, all'interno della scienza psichiatrica, di modelli alternativi di spiegazione della "malattia mentale" (approccio (51) BERTOLINO M., L'imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Giuffrè, Milano 1 990. (52) MARCHETTI M., Breve storia della psichiatria forense, in Riv. lt. Med. Leg. , 1 986, 1 :342.

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57

fenomenologico, psicodinamico, socio-relazionale), con il conse­ guente sgretolamento di alcuni dogmi della psichiatria "classica". In particolare, sotto l'influenza delle conoscenze psicoanaliti­ che, l'impostazione medico-biologica inizia a perdere terreno a favore di un modello c.d. psicologico di spiegazione della "malattia mentale", fondato su un paradigma di tipo psicogenetico e interessato princi­ palmente allo studio dei processi e dei meccanismi psicologici della persona-psiche. Il contenuto della nozione di infermità si allarga, così, fino a comprendere qualsiasi anomalia dell'attività psichica ( 53 ) . Intorno agli anni '70 del secolo scorso, si è affermato un terzo modello, c.d. sociologico, fondato su un paradigma sociogenetico, secondo cui la "malattia mentale" non è riconducibile univocamente ad una causa individuale di natura organica o psicologica che sia, bensì a relazioni inadeguate tra individuo e ambiente in cui vive. È da questo nucleo della psichiatria che si sono sviluppati orientamenti ancor più radicali, che hanno estremizzato il ruolo del fattore sociale, fino a rifiutare l'esistenza della "malattia mentale" come fenomeno psicopatologico: non più "malattia psichi ca", ma "condizione socio-esistenziale" (c.d. antipsichiatria) ( 54) . Con la dilatazione dei confini della nozione di infermità e con l'impossibilità di definirla, secondo Ponti, anche in psichiatria forense

"è così iniziata l'epoca della massima discrezionalità, dove qualsiasi disturbo, a seconda dell'abilità del perito, del consulente, o delle variabili convinzioni del giudice, può divenire vizio di mente rilevante per l'imputabilità" ( 55 ) . Tale indeterminatezza interpretativa è stata lucidamente stig­ matizzata dalla dottrina giuridica ( 56 ) , che ha parlato di una vera e propria "crisi del concetto di imputabilità", così grave da far addirit­ tura proporre anche l'abolizione, tout court, di tale categoria giuridica dal sistema penale ( 57 ) . In realtà, la stessa dottrina ha evidenziato che la c.d. "questione

(53) In particolare: FmELBO G., Le Sezioni unite riconoscono rilevanza ai disturbi della personalità, in Cass. pen. , 2005, 6: 1 873. (54) BERTOLINO M., Il nuovo volto dell'imputabilità penale. Dal modello positivistico del controllo sociale a quello funzionale-garantista, in Ind. Pen. 1 998, 2:376; MANNA A., L'imputabilità e i nuovi modelli di sanzioni. Dalle finzioni giuridiche alla terapia sociale, Giappichelli, Torino, 1 997. ( 55 ) PoNTI G., Il dibattito sull'imputabilità, in CERETTI A., MERZAGORA I., Questioni sull'imputabilità, Cedam, Padova, 1 994. (56) BERTOLINO M., La crisi del concetto di imputabilità, in Riv. /t. Dir. Proc. Pen. , 1 98 1 , 1 : 1 90. (57) Si vedano in merito le proposte di legge n. 1 77 del 1 983, n. 1 5 1 del 1 996, n. 845 del 2001 e n. 335 del 2006.

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imputabilità" presenta gli aspetti più problematici nel dare concre­ tezza al primo piano, quello empirico, dell'indagine; nel potersi, cioè, affidare con sicurezza, o quanto meno con apprezzabile, congrua, sufficiente certezza, alla scienza medica, in un contesto in cui "la

classificazione dei disturbi psichici risulta quanto mai ardua e relativa, non solo per la mancanza di una terminologia generalmente accettata, ma anchf! per i profondi contrasti esistenti nella letteratura psichia­ trica" (58). Considerato ciò, come acutamente sottolineato da Romano e Grasso, non si è trattato di una vera "crisi dell'imputabilità. In (relativa) crisi è semmai il concetto di malattia mentale . . . ma non il concetto di imputabìlità come capacità di intendere e di volere che, quale capacità di colpevolezza, rimane del tutto fondamentale e del resto ben saldo nella cultura, nella costruzione e negli sviluppi del diritto penale moderno" (59). In altre parole, la crisi non starebbe dalla parte del "delegante" (il mondo giuridico) , ma dalla parte del "delegato" (il referente scientifico) ( 60). Tale evoluzione dottrinaria ha comportato ineludibili ricadute sul piano giudiziario: da una parte, la Psichiatria ha fatto un mezzo passo indietro, nella consapevolezza " . . . di non possedere alcuna criteriologia

per vagliare la libertà di scelta del suo paziente, la sua quota di respon­ sabilità morale nel momento in cui ha compiuto un atto, lecito o delit­ tuoso che esso sia" (6 1 ); dall'altra, il Diritto ha perso la fiducia nei con­ fronti della scienza medico-psichiatrica, per cui " . . . in questo campo deve ribadirsi . . . che il fondamento e la definizione del principio di im­ putabilità umana è propria della scienza giuridico penale, e, pertanto, sul punto il giurista non deve richiedere né tanto meno delegare all'ambito psichiatrico definizioni che a quell'ambito non competono" ( 62 ). Come già accennato, gli inevitabili riflessi del disorientamento clinico-diagnostico e del conflitto interpretativo apertosi tra le diverse Scuole psichiatrico forensi si sono propagati anche in ambito giuri-

(58) BERTOLINo M., La crisi del concetto di imputabilità, in Riv. /t. Dir. Proc. Pen. 1 98 1 , 1 : 1 90. (59 ) RoMANO M., GRAsso G., Commentario sistematico del codice penale, Vol. II , Giuffrè, Milano, 1 996. (60) SAMMICHELI L., SARTORI G., Neuroscienze e imputabilità, in CATALDO NEUBURGER L. (a cura di), La prova scientifica nel processo penale, Cedam, Padova, 2007. (61 ) PoNTI G., op. cit. . (62) TAGLIARINI F., Ripensamento s u alcuni rapporti fra imputabilità, colpevolezza e pericolosità, Scritti in memoria di Dell'Andro R. , Bari, 1 994.

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sprudenziale, dove si è assistito al delinearsi di due indirizzi di­ versi (63). Il primo orientamento, c.d. "medico", considera infermità solo le vere e proprie malattie del cervello o del sistema nervoso, aventi, cioè, un substrato organico e di cui sono sempre verificabili causa, sintomi ed esiti (filone c.d. organicista) ovvero le alterazioni psichiche riconducibili ad una patologia clinicamente accertabile e catalogata dalla nosografia tradizionale, con la conseguenza che l'indetermina­ tezza del disturbo mentale ne esclude il carattere patologico e, quindi, la rilevanza giuridica (filone c.d. nosografico). Tale indirizzo si attesta, quindi, su posizioni per le quali "le

anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono solo le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cere­ brali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddi­ stinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differi­ scono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità" ( 64 ) ; di talché "esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostan­ ziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fìni dell'applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p., in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico-intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali" (6 5 ) . In sostanza, si esclude che la capacità di intendere o di volere possa subire limitazioni da "alterazioni comportamentali prive di substrato organico", ritenendo che a tali fini l'unica infermità rilevante sia quella derivante "da un 'a lterazione patologica insediatasi stabil­ mente nel soggetto": solo "l'infermità mentale avente una radice pato­

logica e fondata su una causa morbosa può fare escludere o ridurre, con la capacità di intendere e di volere, l'imputabilità, mentre tutte le anomalie del carattere, pur se indubbiamente incidono sul comporta­ mento, non sono idonee ad alterare nel soggetto la capacità di rappre­ sentazione o di autodetenninazione" (66 ) . Dall'indirizzo medico si è distinto quello c.d. "giuridico", che, accogliendo i paradigmi epistemologici che hanno messo in discus­ sione le radici dogmatiche dell'impostazione medico-biologica, ha evidenziato i limiti di un'interpretazione così rigida e restrittiva. ( 6 3) PAVAN G., Sui rapporti fra disciplina dell'imputabilità e nosografia psichiatrica, in Riv. !t. Med. Leg. , 2003, 3:659. (64) Da ultimo: Cass. pen., sez. VI, 12 luglio 2003, n. 266 1 4 . ( 6 5 ) Ibidem. ( 66 ) Cass. pen., Sez. I, l giugno 1 990, n. 1 3202.

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Attraverso questo orientamento giurisprudenziale, dunque, la nozione di infermità viene interpretata in maniera più ampia rispetto all'indirizzo c.d. medico. Più precisamente, diventa predominante accertare la concreta incidenza dell'infermità sulla capacità di intendere o di volere rispetto al requisito della definibilità e classificabilità dell'infermità stessa (6 7) , anche in considerazione del sempre maggiore riconoscimento in capo al malato psichico di residui spazi di capacità e quindi di responsa­ bilità: "scopo dell'accertamento diventa la verifica della presenza di uno

stato psicopatologico nel momento della commissione del fatto, non più un'indagine diretta a trovare nel reo una patologia definibile in astratto alla stregua di una malattia psichiatrica in senso stretto" ( 68 ) . A fronte di tale divergenza interpretativa, Pulitanò ci ricorda, come "in giurisprudenza non esiste un vero concetto di infermità, non tanto per la prepotenza del Legislatore o dei giuristi, quanto per la coesistenza di diverse valutazioni relativamente al trattamento giuridico-penale da riservare allo psicotico, allo psicopatico, al nevro­ tico, all'alcoolista, al tossicodipendente, ecc., indipendentemente dallo stato delle conoscenze della scienza medica circa questa o quella malattia, ma tenuto conto delle caratteristiche soggettive della persona­ lità di un autore di reato, e cioè tenuto conto dei limiti psicologici e psichiatrici di assoggettabilità ad una pena per ogni individuo, nella realtà attuale" (69). Il problema è quindi quello di delimitare i confini della punibi­ lità, senza cadere nell'errore di semplificazioni nosografiche il più delle volte soggettive e comunque sempre troppo mutabili nel tempo, ma senza trascurare le moderne acquisizioni della psichiatria clinica e le indicazioni della politica psichiatrica. La giurisprudenza italiana, come abbiamo visto, ha fornito interpretazioni molto differenziate della nozione di infermità, con una progressiva dilatazione dei limiti della stessa, e con un graduale passaggio da un modello categoriale rigido ad un modello più dimensionale e flessibile. Da sentenze della Suprema Corte che affermano che la qualifica di "infermità" deve essere riservata a quelle "tare patologiche" che derivano da un "substrato organico", si passa a sentenze che affer­ mano che il disturbo psichico è integrabile nella nozione di infermità solo allorquando assuma i contorni precisi e definiti delle psicosi, fino a giungere a sentenze che affermano la necessità di una concreta (67) Ibidem. (68) PAVAN G., op. cit. . (69) PuuTANò D., L'imputabilità come problema giuridico, in DE LEONARDIS O. e Coli. (a cura di), Curare e punire , Unicopli, Milano, 1 988.

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valutazione di "ogni disturbo psichico", indipendentemente da rigide classificazioni nosografiche (70). In concreto, l'unico punto sul quale vi è stato pieno accordo è quello relativo all'esclusione del valore di infermità di quelle altera­ zioni psichiche che sono basate solamente sull'accentuazione di tratti personologici ovvero che descrivono soprattutto uno stile di vita deviante o antisociale. 2.4.3.

I recenti approdi in tema di vizio di mente.

Nella situazione d'incertezza e diversità di soluzioni interpreta­ tive che è stata descritta, si è inserita la già ampiamente citata sentenza delle Sezioni Unite Penali della Suprema Corte di Cassa­ zione n. 9 1 63 del 25 gennaio-8 marzo 2005, che non solo ha chiarito il contrasto giurisprudenziale relativo all'interpretazione della no­ zione di "infermità", ma è stata anche occasione per sviluppare un approccio sistematico all'istituto dell'imputabilità e per un suo inqua­ dramento aggiomato, alla stregua delle ultime acquisizioni scientifi­ che. In sintesi, è stato sancito il principio secondo cui "anche i

disturbi della personalità, come quelli da nevrosi o psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli artt. 88 e 89 c.p. sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa: per converso non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre "anomalie caratteriali" o gli "stati emotivi e passionali", che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeter­ minazione del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo" (71). Con tale pronuncia, dunque, la Suprema Corte, attribuendo valore di infermità anche "ai disturbi della personalità, come quelli da nevrosi o psicopatie" che siano dotati di caratteristiche patologiche idonee, accoglie alcune delle conclusioni a cui era pervenuto l'orien­ tamento giurisprudenziale c.d. "giuridico", sconfessando, invece, l'im­ postazione "medica", nelle sue manifestazioni più radicali. Converrà ripercorrere molto sommariamente la trama motiva(7°) BERTOLINO M., La questione attuale della imputabilità penale, in DE LEONARDIIS O. e Coli., op. cit. ,; FioRAvANTI L., Nuove prospettive di rifonna del trattamento penale del soflèrente psichico, in BANDINI T. e Coli., La tutela giuridica del sofferente psichico, Giuffrè, Milano, 1 993. (71) Cass. pen., SS.UU., 8 marzo 2005, n. 9 1 63, massima in C.E.D. Cass ..

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zionale di questa sentenza, per ricordarne solo qualche passaggio fondamentale e, soprattutto, per analizzare quali sono i riflessi concreti dei principi enunciati rispetto alla pratica psichiatrico fo­ rense e quali, invece, le criticità. La scelta interpretativa sinteticamente espressa nella massima citata parte dal presupposto che se il concetto di imputabilità si struttura sul duplice piano empirico e normativo, "la sua ridefinizione

deve avvenire attraverso la valorizzazione delle più aggiornate acquisi­ zioni scientifiche".

A questo proposito, viene ricordato che attualmente nella scienza psichiatrica prevale un modello integrato di spiegazione della patologia psichica, in virtù del quale si è assistito all'abbandono del concetto di "malattia mentale", sostituito da quello di "disturbo mentale" al quale peraltro fanno riferimento i più diffusi sistemi diagnostici. Vengono quindi richiamati i grandi sistemi di classificazione (ad esempio il D.S.M. o l'I.C.D.) attualmente in uso, ai quali, secondo le Sezioni Unite, non deve essere più attribuito, come in passato, il ruolo di rigido codice di interpretazione e classificazione, ma piuttosto il compito di rappresentare una forma di linguaggio comune. Alla luce di tale ricostruzione epistemologica, comunque non scevra da numerose critiche, soprattutto in relazione alla fruibilità in ambito forense dei citati sistemi diagnostici ( 72 ) , la Corte Suprema puntualizza estensione e limiti della nozione giuridica di infermità. Viene così ricordato ancora una volta che gli artt. 88 e 89 c.p. fanno riferimento non tanto ad una "infermità mentale", quanto ad una "infermità", per cui il rinvio extragiuridico non è circoscritto alle sole infermità psichiche, ma è esteso a tutte le infermità, che, riverberando i loro effetti patologici sulla funzione psichica, possono determinare una diminuzione o un'esclusione della capacità del­ l'agente (p.e. stati tossico-metabolici, infettivi, endocrinologici, ecc.). Inoltre, premessa la distinzione tra i concetti di malattia e di infermità, riconoscendosi "un valore generico al termine infermità e un valore specifico al termine malattia", viene chiarito che devono rite­ nersi definitivamente superati tanto il paradigma organicistico quanto il criterio della necessaria sussunzione del disturbo nel novero di rigide e predeterminate categorie nosografiche. Si afferma, infatti, che, "il termine di infermità deve ritenersi, in

effetti, assunto secondo una accezione più ampia di quello di malattia,

(72) In particolare, FoRNARI U., Il valore di "malattia" alla luce del DSM-III-R, DELL'Osso G., LoMI A., Diagnosi psichiatrica e DSM-Ill-R, Giuffrè, Milano 1 989.

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e già tanto appare mettere in crisi, contrastandolo, il criterio della totale sovrapponibilità dei due termini e con esso quello della esclusiva riconducibilità della infermità alle sole manifestazioni morbose aventi basi anatomiche e substrato organico . . . e proprio a conferma della maggiore ampiezza del termine di infermità rispetto a quello di malattia, non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nel novero delle malattie elencate nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l'attitudine a compromettere gravemente la capacità sia di percepire il disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo". In altre parole, per la Suprema Corte "non è l'infermità in se stessa (neppure, a rigore, la più grave) a rilevare, bensì un tale stato di mente, da essa determinato, da escludere la capacità di intendere o di volere, o da farla ritenere grandemente scemata". Tuttavia, dal momento che la norma espressamente rinvia ad una realtà valutativa extragiuridica, viene stabilito che "quanto al

rapporto ed al contenuto dei due piani del giudizio (quello biologico e quello normativa), il secondo non appare poter prescindere, in ogni caso, dai contenuti del sapere scientifico . . . sicché, postulandosi, nella simbiosi di un piano empirico e di uno normativa, una necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest'ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare - pena la impossibilità stessa di esprimere un qualsiasi giudizio - e, pur in presenza di una varietà di paradigmi interpretativi, non può che fare riferimento alle acquisizioni scientifiche che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più generalmente accolte, più condivise". In tale ottica, come detto, l a Suprema Corte, richiama in particolare i l già citato Manuale Diagnostico e Statistico (D.S.M.), accogliendo l'opinione secondo cui "essendo questo il sistema diagno­

stico più diffuso, ad esso occorre fare riferimento per la riconducibilità classificatoria del disturbo" (73 ) . Tuttavia, trattandosi di stabilire in concreto, e non in astratto, la rilevanza di alcune tipologie di disturbi mentali, le Sezioni Unite sottolineano che "non è sufficiente, ai fini della imputabilità, l'accerta­

mento della infermità (per quanto grave essa possa essere nel suo inquadramento nosografico), ma, nel contesto di un indirizzo bio­ psicologico che si ritiene accolto dal Legislatore, è necessario accertare, in concreto, se ed in quale misura essa abbia inciso, effettivamente, sulla (73) A questo proposito si veda MARAsco M., Nosografia e perizia psichiatrica, in MASTRONARDI V. (a cura di), Criminologia, Psichiatria forense e Psicologia giudiziaria, Delfino, Roma. 1 996.

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capacità di intendere e di volere, compromettendola del tutto o grande­ mente scemando/a". Il riferimento, dunque, deve essere "un disturbo idoneo a deter­ minare (e che abbia, in effetti, determinato) una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura), che, incolpevolmente, rende l'agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeter­ minarsi". Sulla base di tali premesse, la Suprema Corte conclude quindi che ". . . i disturbi della personalità, come in genere quelli da nevrosi e

psicopatie, quand'anche non inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica iscrivibili al più ristretto novero delle malattie men­ tali, possono costituire anch 'esse infermità, anche transeunte, rilevante ai fini degli artt. 88 e 89 c. p., ave determinino lo stesso risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e voli­ tive. Ne consegue, per converso, che non possono avere rilievo, ai fini della imputabilità, altre anomalie caratteriali, disarmonie della perso­ nalità, alterazioni di tipo caratteriale, deviazioni del carattere e del sentimento, quelle legate alla indole del soggetto, che, pur afferendo alla sfera del processo psichico di determinazione e di inibizione, . . . non attingano a quel rilievo di incisività sulla capacità di autodetermina­ zione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma . . . Né, di norma, possono assumere rilievo alcuno gli stati emotivi e passionali, per la espressa disposizione normativa di cui all'art. 90 c.p. . . . salvo che essi non si inseriscano, eccezionalmente, per le loro peculiarità specifiche, in un più ampio quadro di "infermità", avente le connotazioni sopra indicate . . . è, infine, necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causa/mente determinato dal primo". Sintetizzando in chiave psichiatrico forense tale esegesi giuri­ sprudenziale, si sottolinea che, per una corretta traduzione giuridica del sapere scientifico, l'indagine in tema di vizio di mente deve sempre più essere "individualizzata", non limitandosi alla classificazione del disturbo, ma valutando in concreto l'idoneità, il grado, gli effetti del disturbo sullo stato di mente del soggetto e il rapporto tra quest'ul­ timo ed il comportamento illecito. A tal proposito, la scuola genovese - da Macaggi a Franchini, per giungere fino a Canepa (74) - si è sempre preoccupata di ricordare che le interpretazioni della nozione di "infermità" devono essere (74)

CANEPA G., Personalità e delinquenza, Giuffrè, Milano, 1 974.

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fornite dalla giurisprudenza, e non già dalla psichiatria forense, che in caso di riscontro di un qualsiasi disturbo psicopatologico, che si situi al di là ed al di fuori della semplice reazione fisiologico-psicologica, lo psichiatra forense non deve assumersi il compito di fermarsi al livello diagnostico descrittivo (e cioè al primo livello della costruzione a due piani che configura l'imputabilità), ma deve discutere anche il se­ condo livello, relativo alla valutazione delle capacità di intendere e di volere. Il riferimento, infatti, non è !'"infermità mentale", ma l'infermità che incide sullo stato di mente, per cui non vi può essere alcun automatismo tra diagnosi psichiatrica e valutazione di non imputa­ bilità, mentre "ci si dovrebbe sempre più distaccare dal momento

diagnostico nosografico, considerando, anche in psichiatria forense, non tanto la 'malattia', quanto la sindrome od il singolo sintomo psicopatologico, cogliendo in tale sintomo i principali aspetti di gravità, di aderenza o meno al reale, di consapevolezza critica, di adattamento sociale, e valutando in che modo tale sintomo incide sulle capacità del soggetto" (75 ) . In altre parole, è necessario superare il ragionamento tautolo­ gico "infermità mentale vizio di mente", spostando invece l'atten­ zione sul rapporto endiadico "infermità-stato di mente", in modo da verificare se, come e quanto il sintomo o la sindrome abbiano determinato un funzionamento patologico della capacità di compren­ dere il significato del comportamento e/o di agire in conformità dello stesso. La nozione di infermità non può essere considerata come un contenitore con rigidi limiti e confini, tale da costringere il perito a selezionare quadri clinici che superino in astratto determinate soglie quali-quantitative (psicosi, scivolamenti psicotici, ecc.), dal momento che il vero limite valoriale è rappresentato dal concreto funziona­ mento psicopatologico determinato dal disturbo. Condizione necessaria affinché un disturbo psichico possa as­ sumere quel significato di "infermità incidente sullo stato di mente" richiesto dalla norma, è pertanto quello di aver determinato nel caso concreto un "funzionamento psicopatologico" del soggetto agente, tale da compromettere le sue capacità cognitive e/o volitive. A nostro parere, infatti, la nozione di infermità non può essere considerata un contenitore senza limiti e confini, tale da costringere il perito a selezionare quadri clinici che superino in astratto determi=

( 75) BANDINI T., GATTI U., Nuove tendenze in tema di valutazione clinica dell'imputabilità, in FERRAcun F. (a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina criminologica e Psichiatria forense, Giuffrè, Milano, 1 990.

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nate soglie quali-quantitative (psicosi, scivolamenti psicotici, ecc.), dal momento che il vero limite valoriale è rappresentato dal concreto funzionamento psicopatologico determinato dal disturbo. A tal fine, è sempre indispensabile raccogliere in modo accurato ogni informazione anamnestica, clinica e circostanziale disponibile, cercando di descrivere dettagliatamente i sintomi accusati e i segni eventualmente ancora presenti, la loro durata, l'intensità, l'evolu­ zione, ma soprattutto è essenziale valutare l'incidenza del disturbo sul funzionamento psichico di quel singolo individuo; il tutto all'interno di un'indispensabile atmosfera empatico-identificatoria, che consenta realmente di "comprendere" la rilevanza psicopatologica dei dati clinici riscontrati. Certo è, come ricorda Spender, che "per vivere nel mondo,

dobbiamo dargli un nome. I nomi sono essenziali per la costruzione della realtà, perché senza un nome è difficile accettare l'esistenza di un oggetto, di un avvenimento, di un sentimento" (76).

È, pertanto, necessario, nonostante gli evidenti limiti epistemici degli attuali sistemi classificatori, ed in particolare del D.S.M. e dell'I.C.D., tenere in considerazione i parametri di riferimento indi­ cati in tali manuali statistico-diagnostici, al fine di garantire le indispensabili esigenze di verifica e di controllo da parte del giudice circa l'affidabilità e l'attendibilità della prova scientifica, ed al fine di evitare che la psichiatria forense finisca per essere equiparata ad un

"discorso ermeneutico che non ha referenza e la cui spiegazione filoso­ fica è autoreferenziale" (77).

Il perito, quindi, nel dare concretezza al momento clinico dell'indagine in tema di vizio di mente, oltre a dichiarare chiaramente quali tecniche e quali strumenti diagnostici sono stati utilizzati, dovrà riferirsi alle acquisizioni nosologiche "che, per un verso, siano quelle

più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più generalmente accolte, più condivise" (78). In tale prospettiva, il D.S.M. o l'I.C.D., nonostante la natura chiaramente "convenzionale", possono essere utili strumenti per definire in modo verificabile e controllabile il sintomo o la sindrome riscontrati, pur se, come detto, certamente non possono rappresen­ tare la chiave interpretativa della nozione di infermità. Il perito, infatti, dopo aver raccolto con cura, sul piano anam­ nestico, clinico-semeiologico e circostanziale, gli elementi indicativi della presenza di un disturbo psichico, abitualmente dovrà classifi(76) SPENDER D., Man Made Language, Routledge & Kegan, London, 1 985. (77) BERTOLINO M., Le incertezze della scienza e le certezze del diritto a confronto sul tema della infermità mentale, in Riv. !t. Dir. e Proc. Pen. , 2006, 2:539. (78) Cass. pen., SS.UU., 8 marzo 2005, n. 9 1 63 .

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carlo sulla base della nosografia più accolta e condivisa dalla comu­ nità scientifica, senza peraltro ritenere che il suo contributo tecnico si sia così esaurito. A questo punto, infatti, dovrà essere valutata, sulla base della letteratura più aggiornata, l'idoneità scientifica del disturbo diagnosticato ad incidere sulle capacità del soggetto agente e dovrà essere verificato, in concreto, se tale disturbo abbia determinato il funzionamento patologico di tali capacità. In pratica, è indispensabile esplorare l'effettiva incidenza del disturbo sul funzionamento psichico dell'autore di reato, cioè passare dal "cosa ha" al "come funziona" . Solo all'esito di tale indagine si potrà ritenere "scientificamente" accertata la presenza di una "infermità che incide sullo stato di mente", come richiesto dagli artt. 88 e 89 c.p .. Resta chiaro che tale accertamento non permette ancora di configurare il vizio di mente che incide sull'imputabilità. Sono, infatti, necessari due ·ulteriori "correttivi", e cwe la collocazione cronologica dello stato psicopatologico al momento del fatto e, soprattutto, la necessaria sussistenza di un nesso causale tra il funzionamento psicopatologico ed il comportamento illecito, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo. 2.4.4.

La ricostruzione dello stato di mente al momento del fatto e la questione del nesso causale.

Dopo aver cercato di descrivere e commentare le più cogenti interpretazioni della nozione di infermità, vediamo di approfondire gli altri due aspetti certamente essenziali nell'accertamento del vizio di mente. Il primo, come detto, è rappresentato dalla collocazione crono­ logica del "funzionamento psicopatologico" rispetto al momento del reato, che richiede al perito di ricostruire storicamente lo stato di mente del soggetto, così come si è manifestato in un determinato momento della sua vita. Tale processo di ricostruzione presenta notevoli difficoltà in rapporto ai possibili errori di valutazione di una storia clinica che, partendo dai dati attuali, cerca di evidenziare una condizione psico­ patologica talvolta risalente anche a molti anni di distanza. Nell'ambito di tale analisi "storica" il perito deve evitare l'elabo­ razione di ipotesi soggettive, e deve attenersi unicamente ai dati obiettivi dei quali dispone: sia quelli di carattere anamnestico (possi­ bilmente confermati da certificazioni mediche o cartelle cliniche), sia quelli di carattere clinico generale, relativi alla conoscenza dello sviluppo abituale delle singole patologie accertate nel caso concreto.

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Certo è, infatti, che ciò che rileva ai fini dell'esclusione o della limitazione dell'imputabilità è lo stato mentale in cui versava il soggetto al momento della commissione del reato e, di conseguenza, la sua ricostruzione, spesso basata su un ragionamento induttivo a partenza dalla situazione psichica presente al momento dell'esame, il più possibile ancorata ad elementi oggettivi e verificabili. In una prospettiva de iure condendo, per superare le difficoltà sottese all'incoerenza temporale fra il momento in cui viene effettuata la valutazione psichiatrico forense e quello in cui deve essere valutato lo stato psichico del soggetto, potrebbe essere opportuno valutare lo stato mentale del soggetto già durante le indagini preliminari, attra­ verso il meccanismo dell'incidente probatorio, riservandosi poi di utilizzarne i risultati ai fini della valutazione in tema di imputabilità solo in fase processuale ( 79 ) . In particolare, poi, nei casi in cui la responsabilità penale dell'indagato debba ancora essere dimostrata, si condivide l'opinione di Carrieri e Catanesi, secondo i quali la soluzione metodologicamente più corretta potrebbe essere quella di visitare il sospetto autore di reato nell'immediatezza del fatto, subordinando però la valutazione del nesso causale tra stato psicopatologico e reato, solo all'esito positivo dell'accertamento da parte del giudice dell'imputazione og­ gettiva dell'evento (BO) . Il secondo elemento di analisi, ancor più decisivo, è rappresen­ tato, come anticipato, dalla necessaria sussistenza di un nesso causale tra il funzionamento psicopatologico indotto dal disturbo ed il fatto reato. Il nesso causale, cioè, deve essere specifico e diretto nei con­ fronti di ogni singolo comportamento in discussione. Secondo un classico esempio di scuola, se uno schizofrenico paranoide uccide il commesso di un supermercato perché nel suo delirio pensa che il malcapitato gli rubi il pensiero, siamo di fronte ad una causalità diretta tra funzionamento psicopatologico e reato e, pertanto, ad un possibile "vizio di mente"; se, nella stessa occasione, lo schizofrenico paranoide ruba un disco perché ha voglia di ascoltare della musica, non esiste correlazione diretta, quindi il periziando può essere non imputabile per il primo reato ed imputabile per il secondo. Queste considerazioni portano a ribadire ancora una volta il incapace", e cioè tramonto dello stereotipo "malato di mente =

( 79) In proposito anche CoLLICA M.T., Il giudizio di imputabilità tra complessità fenomenica ed esigenze di rigore scientifico, in Riv. !t. Dir. Proc. Pen. , 2008, 3 : 1 1 70. (B0) CARRIERI F., CATANESI R., La perizia psichiatrica sull'autore di reato: evoluzione storica e problemi attuali, in Riv. it. Med. Leg. , 200 1 , 1 : 1 5.

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dell'equivalenza fra follia e difetto di imputabilità: anche un grave sofferente psichico può essere chiamato a rispondere del suo operato, se non viene stabilita una sufficiente correlazione fra patologia, funzionamento psichico e delitto commesso. Anche la citata sentenza delle Sezioni Unite penali accoglie compiutamente questa esigenza, sottolineando che "l'esame e l'accer­

tamento di tale nesso eziologico si appalesa necessario al fine di delibare non solo la sussistenza del disturbo mentale, ma le stesse reali compo­ nenti connotanti il fatto di reato, sotto il profilo psico-soggettivo del suo autore, attraverso un approccio non astratto ed ipotetico, ma reale ed individualizzato, in specifico riferimento, quindi, alla stessa sfera di possibile, o meno, autodeterminazione della persona cui quello specifico fatto di reato medesimo si addebita e si rimprovera; e consente, quindi, al giudice - cui solo spetta il definitivo giudizio al riguardo - di compiutamente accertare se quel rimprovero possa esser mosso per quello specifico fatto, se, quindi, questo trovi, in effetti, la sua genesi e la sua motivazione nel disturbo mentale (anche per la sua, eventuale, possibile incidenza solo "settoriale "), che in tal guisa assurge ad elemento condizionante della condotta: il tutto in un'ottica, concreta e personalizzata" (81). Evidentemente la dimostrazione di un nesso di causa tra una condizione psichica ed un comportamento illecito mostra notevoli difficoltà sul piano clinico, tanto che raramente può declinarsi per­ sino nell'ambito di uno specifico rapporto causa-effetto, articolato secondo i "classici" requisiti medico legali della efficienza causale, della continuità e coerenza temporale e fenomenologica e della esclusione di altre cause (82 ). Al proposito, Catanesi evidenzia come "i principi di causalità in

psichiatria seguono percorsi complessi, una causalità lineare non è postulabile, tenuto conto della variabilità soggettiva, del ruolo svolto dalla personalità di base e del rilievo delle componenti emotive e ambientali, e alcuni dei criteri di giudizio tradizionali (topografico, di continuità fenomenica) risultano spesso inutilizzabili" (8 3 ). La Medicina Legale, d'altro canto, non deve confrontarsi sol­ tanto con parametri clinici, ma deve partecipare ad un'adeguata costruzione della conoscenza, fruibile in ambito giudiziario. Un'efficace ragionamento logico-induttivo per valutare il ruolo eziologico dell' "infermità che incide sullo stato di mente" in una (8 1) (82) (83 )

Cass. pen., SS. UU., 8 marzo 2005, n. 9 1 63. FRANCHINI A., op. cit. . CATANESI R., Valutazione della causalità in psichiatria, i n VoLTERRA V. (a cura di), Psichiatria forense, Criminologia ed Etica psichiatrica, Masson, Milano, 2006.

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causalità così multifattoriale da essere definita "a spirale" ( 84 ) , si potrebbe allora basare sulla tecnica controfattuale, articolata sul 'se ... allora .. .' e costruita secondo la tradizionale 'doppia formula', nel senso che:

a) il funzionamento psicopatologico indotto dal disturbo è condizione necessaria del reato se, eliminato mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l'evento non si sarebbe verificato;

b) il funzionamento psicopatologico indotto dal disturbo non è condizione necessaria del reato se, eliminato mentalmente mediante il medesimo procedimento, l'evento si sarebbe egualmente verificato. E tale spiegazione causale, nella sua irripetibilità, deve struttu­ rarsi su due livelli.

In primo luogo, è necessario fare ricorso al c.d. modello gene­ ralizzante della sussunzione sotto 'leggi scientifiche' (c.d. causalità generale), in base al quale si stabilisce preliminarmente se quel determinato funzionamento psicopatologico è compatibile con un comportamento di quel tipo. Questo accertamento sostanzia il crite­ rio di idoneità scientifica, il primo e fondamentale passo del ragiona­ mento contro fattuale (85 ) . Quando ci si chiede, in particolare, se in assenza di un determi­ nato quadro psicopatologico, ipotizzato o provato nella sua sussi­ stenza, il comportamento illecito si sarebbe o meno verificato, la risposta al quesito deve basarsi anzitutto su di una prima dirimente contro domanda: se sia o meno scientificamente possibile che il disturbo determinante quel funzionamento psicopatologico sia in grado di produrre, da solo o con il concorso di altri fattori, quel determinato comportamento. In altre parole, si valuta se in presenza di quel quadro psicopatologico altri soggetti si sarebbero potuti comportare in maniera diversa rispetto alla condotta posta in essere dal soggetto. Una corretta metodologia medico legale non può comunque fermarsi all'affermazione che una condizione idonea sia equivalente ad una "causa", ma, come detto, deve passare ad un secondo livello, verificare cioè, in concreto, se quel funzionamento, in quel soggetto, in quella situazione, sia stato condizione necessaria di quel compor­ tamento (c.d. causalità individuale) ( 86 ) . Pertanto, il funzionamento psicopatologico può essere configu­ rato come condizione necessaria del fatto-reato solo se, sulla base

(84) MARIGLIANo A., Gli aspetti psichiatrici e psichiatrico-forensi, in VALDINI M. (a cura di), Il dolore nella valutazione del medico legale, Giuffrè, Milano, 2007. (85) FIORI A., Il nesso causale e la medicina legale: un chiarimento indifferibile, in Riv. /t. Med. Leg., 2002, 2:247. (86) Ibidem.

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delle acquisizioni scientifiche frutto della migliore scienza ed espe­ del momento storico e dell'esame di tutte le caratteristiche specifiche del caso (quali l'età, il sesso, le condizioni generali del paziente, la presenza o l'assenza di altri fenomeni morbosi intera­ genti, la vulnerabilità o la resilienza individuale e tutte le altre condizioni presenti che possono influenzare il giudizio di idoneità scientifica), risulta con "probabilità logica" (8 7 ) che il comportamento illecito sia stato epifenomeno del disfunzionamento psichico indotto dal disturbo. Alla luce di quanto esposto, si comprende come la c.d. "perizia psichiatrica" in tema di vizio di mente sia, in realtà, psichiatrica solo in parte; essenzialmente, infatti, è e rimane una perizia medico-legale, fondata sui criteri propri di tale disciplina. Ne deriva che lo psichiatra forense ha il compito importante e decisivo di descrivere e motivare adeguatamente i percorsi che conducono da un disturbo psichico ad un funzionamento psicopato­ logico e da tale stato psicopatologico al reato, differenziandone caso per caso gli elementi rappresentativi, per giungere così alla compren­ sione ed alla spiegazione del rapporto causale intercorrente tra infermità, stato di mente e reato. rienza

2.4.5.

Vizio totale o vizio parziale: il problema della valuta­ zione quantitativa della capacità di intendere e di volere.

Sulla base delle considerazioni sopra riportate, si comprende come il lavoro del tecnico richieda la verifica scientifica della sussi­ stenza o meno di un disturbo, anche transeunte, al momento del fatto, della sua incidenza sullo stato di mente del soggetto e del nesso causale tra il funzionamento psicopatologico così determinatosi ed il reato, di talché la condotta illecita possa essere interpretata come espressione del "vizio di mente" del soggetto agente. Nel caso in cui siano riconosciuti tali elementi, il perito è a questo punto chiamato a valutare quanto il funzionamento psicopa­ tologico abbia inficiato la capacità di intendere o di volere. Non vi è chi non veda come tale disamina faccia riferimento a concetti sicuramente limitativi rispetto alla complessità dei vissuti psichici e delle capacità cognitiva e decisionale di ogni uomo. (87) TARUFFO M., La prova dei fatti giuridici, Giuffrè, Milano, 1 992, secondo cui, "La probabilità logica ha come carattere fondamentale di non ricercare la determinazione quantitativa delle frequenze relative di classi di eventi, ma di razionalizzare l'incertezza relativa all'ipotesi su un fatto riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (o di prova) disponibili in relazione a quell'ipotesi".

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Fonda menti di psicopatologia forense

Si tratta, infatti, di nozioni espresse nell'ambito delle finalità proprie del diritto penale, al fine di indicare con precisione quali siano i confini entro i quali possano essere considerati influenti o meno sulla categoria giuridica dell'imputabilità le varie determinanti psi­ chiche del comportamento umano. Il significato reale di tale valutazione, cioè, non è quello di indagare tout court il grado residuo di capacità psichica dell'autore di reato, ma quello di valutare quanto il funzionamento psicopatologico abbia influito su tali capacità ai fini del giudizio di responsabilità penale. Lo psichiatra forense deve ragionare nella logica del processo penale, e cioè valutare con tutti gli strumenti scientifici che ha a disposizione, l'incidenza del funzionamento psicopatologico sulle capacità di intendere o di volere, nella consapevolezza del valore giuridico di tali "convenzioni" e del concreto ruolo deterministico del disturbo nella produzione del comportamento illecito. A tal proposito, è opportuno richiamare, approfondendo ulte­ riormente, il significato di "capacità di intendere e di volere". Come classicamente rileva Mantovani (88), il perito deve fare riferimento a due nozioni distinte: a) "la capacità di intendere, cioè l'attitudine del soggetto non solo

a conoscere la realtà esterna, ciò che si svolge al di fuori di lui, ma a rendersi conto del valore sociale, positivo o negativo, di tali accadimenti e degli atti che egli compie; b) la capacità di volere, cioè l'attitudine del soggetto ad autode­ terminarsi, a determinarsi cioè in modo autonomo tra i motivi coscienti in vista di uno scopo, volendo ciò che l'intelletto ha giudicato di doversi fare e quindi adeguando il proprio comportamento alle scelte fatte".

Nell'ambito della capacità di intendere non si fa riferimento unicamente alla cosiddetta intelligenza, valutabile attraverso i reattivi mentali, ma s'intende comprendere la globalità delle risorse intellet­ tive, logiche relazionali e morali dell'individuo: in sintesi si tratta quindi di una nozione che s'identifica nel concetto di consapevolezza di sé, del proprio rapporto con l'estemo e del significato dei valori sociali. La capacità di volere corrisponde, invece, alle risorse di auto­ noma scelta decisionale rispetto al comportamento che s'intende realizzare nella situazione concreta, tenuto anche conto delle conse­ guenze da esso derivanti. Nel caso in cui il funzionamento psicopatologico abbia inficiato una di queste capacità, ovvero di entrambe, il perito deve effettuare ( 88) MANTOVANI F., Diritto penale, Cedam, Padova, 2007.

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una quantificazione di tale riduzione, precisando se le capacità d'intendere o di volere al momento del fatto fossero del tutto escluse o grandemente scemate. La nozione di esclusione di tali capacità, contemplata nell'art. 88 c.p. (cosiddetto "vizio totale di mente"), è facilmente comprensibile nell'ambito del modello deterministico espresso dal Legislatore. Meno immediatamente comprensibile appare il dettato dell'art. 89 c.p. (cosiddetto "vizio parziale di mente"), che fa riferimento non tanto ad una esclusione, bensì ad una notevole riduzione (''grande­ mente scemate") di una o di entrambe le capacità. Sul piano applicativo occorre ricordare che il riconoscimento di un "vizio parziale di mente" può essere effettuato solamente nel caso in cui si riscontri una sostanziale e notevole riduzione della capacità di intendere o di volere, intese sia congiuntamente, sia separata­ mente, mentre la semplice diminuzione di tali capacità non rileva a fini forensi. Tale complessa strutturazione normativa può indurre alcune perplessità, legate alla difficoltà di quantificare le soggettive valenze e motivazioni dei singoli autori di reato, con il frequente sviluppo di contrasti valutativi in sede peritale e giudiziaria. A tale proposito è, dunque, indispensabile ribadire ancora una volta che con tali "finzioni giuridiche" il Legislatore ha inteso unica­ mente enunciare i termini di riferimento sui quali indirizzare l'azione penale e non ha di certo inteso esprimersi circa nozioni di rilievo clinico o di senso comune, quali quelle di "sanità mentale" o di "malattia" . Infatti, è evidente che l'esclusione di un vizio di mente incidente sull'imputabilità non significa in alcun modo che il soggetto sia per questo "sano di mente", ma indica soltanto che la sua condizione clinica non rientra in quelle tali da integrare i requisiti normativi e giurisprudenziali richiesti dagli artt. 88 e 89 c.p. In tal caso, l'identificazione di eventuali condizioni di proble­ maticità potrà comunque contribuire alla migliore definizione delle previsioni di attenuazione della responsabilità, che potranno avere rilievo in sede di determinazione della pena e di eventuale ammis­ sione, attuale o futura, a misure di carattere terapeutico e risocializ­ zativo. 2.4.6.

La metodologia medico legale come strumento fon­ damentale del ragionamento psichiatrico forense.

La "griglia" di nozioni che sono state discusse alla luce delle recenti interpretazioni giurisprudenziali, tende ad offrire linee-guida

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sostanzialmente più precise di un tempo e, soprattutto, maggior­ mente vicine alla realtà quotidiana della psichiatria forense, nella quale le preesistenti e forzose limitazioni della esclusione o limita­ zione della imputabilità solamente in riferimento alle psicosi concla­ mate o, più anticamente, alle "tare organiche", molte volte determi­ navano ingiuste ed inadeguate conclusioni. Onde poter rispondere in modo scientificamente corretto ai complessi quesiti che gli vengono posti, risulta essenziale che il perito segua una metodologia medico-legale consolidata, accettata, ripeti­ bile e controllabile. Volendo schematizzare una criteriologia metodologicovalutativa, si può identificare una scala discendente così strutturata: esaminare lo stato psichico del soggetto e valutare l'eventuale presenza di un disturbo psichico, descrivendolo sotto il profilo sia qualitativo che quantitativo (criterio psicopatologico); valutare, sulla base dell'esame clinico effettuato, delle risultanze delle indagini svolte e di tutti i dati disponibili, se vi siano elementi indicativi della presenza di un disturbo psichico al momento del reato, cercando di ricostruirne l'evoluzione cro­ nologica e lo sviluppo fenomenologico (criterio dinamico­

evolutivo); rapportare, alla luce delle migliori e più accreditate acquisizioni scientifiche del momento storico, il disturbo o la sindrome ad un quadro diagnostico riconosciuto, verificabile e ripetibile (crite­ rio nosografìco ); accertare se tale disturbo abbia indotto un funzionamento psicopatologico tale da compromettere le capacità cognitive e/o volitive del soggetto al momento del reato (criterio funzionale); verificare la presenza di un rapporto causale tra il funziona­ mento psicopatologico evidenziato e quel fatto-reato (criterio

causale); stabilire se il funzionamento psicopatologico abbia inciso sulla capacità di intendere o di volere, specificando quantitativa­ mente il grado di compromissione di tali capacità (criterio

quantitativo ) .

A conclusione di tali riflessioni, ribadiamo ancora una volta, che, pur non potendo prescindere dalle necessarie competenze tecnico-scientifiche, rimane comunque compito del giudice valutare complessivamente l'esistenza o meno di un vizio di mente penalmente rilevante, facendosi così garante dell'attendibilità delle prove scienti­ fiche fornite dal perito e verificando ogni volta la correttezza della metodologia di indagine impiegata attraverso un'analisi bilanciata e combinata dei seguenti fattori: la verificabilità della teoria o della tecnica; la conoscenza del livello di errore ad essa relativo e la

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presenza di standard costanti di verifica; il fatto che la teoria o tecnica rimandi a dati o risultati di ricerche ad essa relativi, accettati dalla comunità degli scienziati e pubblicati in riviste accreditate; il grado di accettazione all'interno della comunità scientifica di tale teoria o tecnica (89). Tutto ciò dovrebbe stimolare sempre di più gli psichiatri forensi ad agganciare il loro contributo tecnico alle competenze scientifiche esistenti, a documentarsi sugli strumenti in uso, a presentare i dati con metodologia chiara e trasparente, affinché possa essere realmente "utile" al processo penale. Come ricordano Catanesi e Martino (90), tale contributo può essere importante, "vuoi quando si è in grado di e!>primere un parere

fondato che dirime un dubbio, vuoi quando non lo si può fare per insufficienza di elementi", il tutto aiutando il giudice ad esprimersi nel migliore dei modi possibili. Tutto ciò non significa voler ripristinare l'arbitrio, ma serve semmai a premiare la competenza, sollecitando attenzione al rigore metodologico ed alla puntualità valutativa dell'indagine psichiatrico forense, nella quale la descrizione dell'obiettività psichiatrica deve avere un ruolo centrale. Questo compito può apparire difficile, ma non certamente impossibile, se supportato da adeguate conoscenze medico legali e psicopatologico forensi e se accompagnato da corrette valutazioni cliniche, scientificamente riconosciute e ripetibili, controllabili e falsificabili, ma soprattutto il più possibile basate sull'evidenza. A tal fine, si ritiene che un modello di quesito peritale che prenda spunto dalla criteriologia proposta potrebbe risultare mag­ giormente rispettoso della realtà clinica ed allo stesso tempo fruibile nel contesto giudiziario. Sulla base dei suddetti criteri metodologico­ valutativi, infatti, il consulente psichiatra forense potrebbe parteci­ pare in modo più scientificamente corretto ed attivo a quella "costru­ zione giuridica" della conoscenza che risulta indispensabile per permettere al Giudice un'adeguata e completa valutazione in tema di vizio di mente. (89) Corte Suprema U.S.A., Daubert vs Merrill Dow Pharmaceuticals Inc., 1 993. Ritengono che anche sul terreno della psichiatria e della psicologia i giudici debbano sottoporre i contributi degli esperti ai c.d. criteri della Daubert Rule pure CENTONZE F., L'imputabilità, il vizio di mente e i disturbi di personalità, in Riv. /t. Dir. Proc. Pen. , 2005, 2:293; BERTOLINO M., Le incertezze della scienza e le certezze del diritto a confronto sul tema della infermità mentale, in Riv. /t. Dir. Proc. Pen. , 2006, 2 :539; CoLLICA M.T., Il giudizio di imputabilità tra complessità fenomenica ed esigenze di rigore sc ientifico, in Riv. /t. Dir. Proc. Pen. , 2008, 3: 1 1 70. (90) CATANESI R., MARTINO V., Verso una psichiatria forense basata su evidenze, in Riv. lt. Med. Leg. , 2006, 6 : 1 0 1 1 .

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In conclusione, come evidenzia Catanesi "quando i piani si integrano fra loro, quando dati documentali, indagini medico-legali e testimonianze si sovrappongono con dati clinici ed accertamenti pre­ scelti, quando le ipotesi diagnostiche sono state effettuate secondo adeguata metodologia, può legittimamente ritenersi che la risposta possa dirsi scientificamente orientata, dotata di un grado di probabilità logica fruibile in un 'aula di Giustizia. Una risposta non certa, ben inteso, ma fondata, credibile, logica, metodologicamente scientifica: una reasonable medicai certainty" (91).

2.5. L'azione dell'alcool e degli stupefacenti.

Dopo aver esaminato contenuti e limiti delle fattispecie giuridi­ che relative al "vizio di mente", occorre ora riferire circa i rapporti intercorrenti tra l'istituto dell'imputabilità e l'azione delle c.d. so­ stanze psicoattive (92 ). Nei già citati artt. 91, 92, 93, 94 e 95 c.p., infatti, i l Legislatore propone la sistematizzazione degli indirizzi di politica criminale attinenti all'imputabilità dell'autore di reato che abbia agito sotto l'influenza di alcool o di stupefacenti, distinguendo sul piano "giuri­ dico" i casi in cui tale condizione incide o meno sulla capacità dell'agente di essere rimproverato per il fatto commesso. Tale strutturazione normativa evidenzia ancora una volta, e in modo paradigmatico, come le fattispecie in esame rispondano non tanto alla realtà clinica quanto alle finalità proprie del diritto penale. Dal punto di vista clinico, infatti, è evidente che, indipendente­ mente dalla motivazione e dalle modalità di assunzione delle sostanze psicoattive, chi si trovi in stato di intossicazione possa presentare una menomazione o un'esclusione della capacità di intendere o di volere al momento di un eventuale reato. La Legge, tuttavia, non tiene conto di questo dato di realtà ed interpreta analoghe condizioni cliniche in modo differenziato o addirittura contrapposto, dal momento che il punto focale dell'inte­ resse del Legislatore è rappresentato non tanto dallo stato di mente determinatosi dopo l'assunzione di tali sostanze, ma da quello che era presente al momento in cui il soggetto ha deciso di assumere sostanze tali da influire sulle sue capacità. (91) PoYTHRESS N.G., Reasonable medicai certainty: can we meet Daubert standards in insanity cases?, in l Am Acad Psychiatry Law, 2004, 32:228-230, in CATANESI R., MARTINo V., op. cit. . (92) "Ogni sostanza, naturale o artificiale, che modifica l'attività mentale degli esseri umani", W.H.O., 1 967.

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Infatti, l'obiettivo di politica criminale espresso da tali costru­ zioni normative s'identifica nel prevenire i reati collegati all'uso di alcool o di stupefacenti, esercitando un'azione dissuasiva rispetto al momento in cui la persona, non ancora sotto l'effetto di sostanze, è libera di decidere, o meno, l'assunzione delle stesse. Vediamo, dunque, di analizzare nella loro specificità le singole fattispecie normative.

Art. 9 1 c.p. (Ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore). "Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva la capacità di intendere o di volere a cagione di piena ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore. Se l'ubriachezza non era piena, ma era tuttavia tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, la pena è diminuita". Tale ipotesi va tradizionalmente sotto il nome di ubriachezza accidentale o "involontaria nella causa", in quanto l'alterazione della capacità di autodeterminazione indotta dall'assunzione di alcool è cagionata da un fattore non rimproverabile al comportamento del soggetto agente ( 93 ) . In particolare, l'ubriachezza deriva da caso fortuito o forza maggiore quando è determinata "da un fatto imprevedibile o incalco­

labile, che interferisce di sorpresa nel comportamento del soggetto, in modo da provocare un evento che non si possa, con le ordinarie cautele evitare (caso fortuito, ad esempio quando si scambi per un errore scusabile, dell'alcool puro per una bevanda innocua), ovvero da una energia esterna, naturale od umana, inevitabile ed irresistibile, che soggioga la volontà e la resistenza del soggetto (forza maggiore, come nell'ipotesi dell'operaio addetto ad una distilleria che si è ubriacato per aver lavorato in un ambiente saturo di vapori alcolici in seguito ad un guasto dell'impianto, o del soggetto ubriacatosi per coazione o inganno altrui)" ( 94) . Ciò consente di comprendere come il Legislatore abbia inteso tutelare chi possa avere commesso reati in modo del tutto incolpevole, trovandosi in condizioni di ubriachezza "piena" perché, ad esempio, esposto a vapori alcolici o forzato da altri alla passiva assunzione di elevate quantità di alcolici. (93) In giurisprudenza di merito si ricorda una sentenza del Tribunale di Napoli, 20 febbraio 1 973, che ha ritenuto non imputabile un soggetto che si trovava in stato tossico derivante dall'involontaria aspirazione prolungata di diluente adoperato per tingere e lucidare la carrozzeria di automobili. (94) PoRTIGLIATTI BARBOS M., MARINI G., op. cit. .

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Sul piano peritale, dunque, dovranno essere dimostrati lo stato di intossicazione alcolica acuta e la reale compromissione della capacità d'intendere o di volere indotta dall'alcool al momento del fatto-reato, rimettendo al giudice l'indagine sull'elemento soggettivo e, quindi, la possibilità di diminuire o di escludere la sanzione penale. Art. 92 c.p. (Ubriachezza volontaria o colposa, ovvero preordi­ nata).

"L'ubriachezza non derivata da caso fortuito o da forza maggiore non esclude né diminuisce l'imputabilità. Se l'ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato, o di prepararsi la scusa, la pena è aumentata".

In questo caso si esplicita una forte contraddizione tra la realtà clinica e quella valutativa, poiché è ovvio che una persona ubriaca non disponga pienamente della propria capacità di intendere o di volere o che, superati determinati livelli, possa vedere tali capacità, e lo stesso stato di coscienza, del tutto compromessi. Per i citati fini di politica criminale e sociale, tuttavia, questa condizione non viene riconosciuta nella sua rilevanza clinica e, ove la stessa rientri in una preordinazione ai fini della commissione del reato, è prevista la sua qualificazione come aggravante ai fini dell'ir­ rogazione della pena. Si tratta pertanto di una condizione in cui non è prevista alcuna limitazione o esclusione della imputabilità e quindi della pena, indipendentemente dalle oggettive condizioni cliniche indotte dall'al­ cool, poiché, secondo il principio delle "actiones liberae in causa", il riferimento è la condizione psichica che sussisteva nel momento dell'assunzione dell'alcool e non già le conseguenze della stessa (95). Dottrina e giurisprudenza dominante ritengono, tuttavia, che l'elemento soggettivo vada comunque valutato con riferimento al momento in cui il reato fu commesso. In sostanza, pur nella finzione legale di imputabilità di un soggetto che resta incapace totalmente o parzialmente di intendere o di volere, si richiede al giudice di accertare in ogni fattispecie la colpevolezza dell'agente, indagando in concreto l'atteggiamento psi­ cologico dell'ubriaco nel momento in cui il fatto fu compiuto. Il giudice pertanto dovrà "accertare l'elemento soggettivo che

concretamente ha illuminato il fatto, secondo i normali principi dettati dall'art. 43 c.p., per cui l'intossicazione da sostanze alcoliche o stupefa­ centi sarà 'dolosa' quando il reo, oltre ad aver voluto la condotta (assunzione delle sostanze alcoliche o stupefacenti), se ne rappresenta le (95)

Corte Cost., sent. n. 33 del 1 970.

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conseguenze (il risultante stato di intossicazione); sarà colposa quando il soggetto ha assunto le sostanze alcoliche o stupefacenti, senza rappresentarsi, pur potendolo, la conseguente intossicazione" (96). Art. 93 c.p. (Fatto commesso sotto l'azione di sostanze stupefa­ centi).

"Le disposizioni dei due articoli precedenti si applicano anche quando il fatto è stato commesso sotto l'azione di sostanze stupefa­ centi". Con tale dettato normativa si estende la stessa finalità di carattere preventivo, dissuasivo e sanzionatorio all'uso di sostanze psicoattive diverse dall'alcool, senza che, in questa sede, venga posta alcuna distinzione tra le stesse. Art. 94 c.p. (Ubriachezza abituale) .

"Quando il reato è commesso in stato di ubriachezza, e questa è abituale, la pena è aumentata. Agli effetti della legge penale, è considerato ubriaco abituale chi è dedito all'uso di bevande alcooliche ed in stato frequente di ubriachezza. L'aggravamento di pena stabilito nella prima parte di questo articolo si applica anche quando il reato è commesso sotto l'azione di sostanze stupefacenti da chi è dedito all'uso di tali sostanze". Questa fattispecie, che costituisce la logica prosecuzione appli­ cativa delle finalità sulle quali si fondano le previsioni precedenti, interessa un numero piuttosto elevato di autori di reato, che dal punto di vista clinico, socio-esistenziale e comportamentale si collocano in una fascia di devianza abituale per dipendenza da sostanze (alcool, psicofarmaci, droghe, ecc.). Il Legislatore italiano esprime con tale norma una precisa finalità sanzionatoria verso i consumatori abituali di droga o alcool, nei cui confronti al rimprovero per il fatto illecito commesso, si aggiunge, aggravando la pena, il rimprovero di colpevolezza per la condotta di vita. Ai fini della realizzazione della fattispecie in questione occor­ rono le seguenti condizioni: uno stato di intossicazione acuta (volon­ taria o colposa) da sostanze, la commissione in tale stato di un reato e, soprattutto, l'abitualità dell'abuso. Tale figura giuridica viene definita, al secondo comma, come la risultante di due condizioni: la dedizione all'uso di alcoolici ed il frequente stato di ubriachezza. Secondo dottrina, "la dedizione all'uso indica un vizio continua­

tivo, una consuetudine viziosa di vita. I singoli episodi di intossicazione (06 )

MARINI G., op. cit. .

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infatti devono essere tali da dar luogo ad 'ubriachezza ', ed inoltre devono essere frequenti, e cioè tali da confermare la dedizione all'uso (e non la semplice proclività)" (97). In sostanza occorre che lo stato di ebbrezza nel quale viene commesso il reato, costituisca un episodio del sistema di vita dell'in­ dividuo: fatti saltuari, o anche periodici di ubriachezza, non bastano a stabilire in concreto l'ubriachezza abituale (98) . Tali regole valgono anche per l'intossicazione da stupefacenti; tuttavia, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 94 c.p., perché si abbia abitualità, non è richiesto un frequente stato di stupefazione, ma è sufficiente che il soggetto sia dedito all'uso di stupefacenti. Sul piano psichiatrico forense, l'aspetto peculiare e distintivo del­ l'intossicazione abituale è dato dal fatto che "anche se abituale, è sempre

un 'intossicazione acuta; cioè uno stato transeunte che dà luogo ad una manifestazione episodica di perturbamento delle facoltà psichiche, ma che una volta cessata, lascia il soggetto in condizioni normali" (99). In altre parole, gli elementi essenziali per definire la fattispecie ex art. 94 c.p. sono la transitorietà dell'alterazione psichica indotta dal­ l'uso, pur abituale, di sostanze psicotrope e la correlazione diretta tra disfunzionamento psico-comportamentale e assunzione di droga, di talché "l'intossicazione grave, ma transeunte, non ha rilievo alcuno sul­

l'imputabilità, in quanto le relative manifestazioni psichiche sono diret­ tamente correlate all'azione perturbatrice delle sostanze stupefacenti nel­ l'organismo umano per cui una volta cessati i relativi effetti perversi, lascia il tossicomane in una situazione di normalità, salvo il suo stato di dipendenza che lo risospinge all'uso ripetuto della droga" ( 1 0°) . In concreto, quindi, si dovrà accertare che l'abuso reiterato delle sostanze psicoattive non sia degenerato in un'intossicazione cronica, cioè in un disfunzionamento psichico divenuto indipendente dall'as­ sunzione delle stesse, e che la compromissione delle capacità di intendere e/o di volere presente al momento del reato fosse diretta­ mente causata dagli effetti acuti dell'intossicazione, legittimandosi, pertanto, con la piena responsabilità, anche l'aggravamento della pena, in considerazione del fatto che nei liberi intervalli tra le conseguenze dell'assunzione di droga o alcool il soggetto dovrebbe rendersi conto delle conseguenze degli abusi ed astenersi dagli stessi. (97) PoRTIGLIATII BARBos M., MARINI G., op. cit. . (9 8 ) Ad esempio nel caso di un gruppo di lavoratori che "festeggiano" la sera del "giorno di paga", non è rinvenibile l'ipotesi della abitualità, in quanto la temperanza osservata fra l'una e l'altra ubriacatura fa sì che l'abitudine non si muti in abitualità, cioè in dedizione all'uso di bevande alcoliche. (99) PoRTIGLIATII BARBos M., MARINI G., op. cit. . (10°) Cass. pen., sez. I , 2 9 novembre 1 985, n . 882.

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Art. 95 c.p. (Cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti).

"Per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti si applicano le disposizioni contenute negli articoli 88 e 89 c.p. ". Questa fattispecie, del tutto differente dalla precedente, descrive quella situazione in cui l'assunzione protratta di sostanze psicotrope abbia indotto modificazioni patologiche stabili nell'individuo e nella sua psiche, con l'instaurazione di una vera e propria condizione di "infermità che incide sullo stato di mente". In questi casi, caratterizzati cioè da una condizione di intossi­ cazione divenuta non più dominabile dal soggetto, il Legislatore rinvia alle fattispecie di cui agli artt. 88 e 89 c.p., con la possibilità di riconoscere un vizio parziale o totale di mente e, quindi, di escludere o diminuire la pena. Per molti anni, la giurisprudenza ha inteso la nozione di cui all'art. 95 c.p. in modo rigido e restrittivo, ritenendo che, ai fini dell'esclusione o della diminuzione dell'imputabilità, l'intossicazione cronica dovesse compendiarsi in "uno stato patologico permanente ed irreversibile", cioè caratterizzato da impossibilità di guarigione ( 1 01) . In altre parole, era necessario accertare che, a causa dell'assun­ zione protratta di sostanze psicoattive, si fosse instaurata una "infer­ mità mentale permanente", e cioè "una patologia a livello cerebrale

implicante psicopatie che permangono indipendentemente dal rinno­ varsi di un 'azione strettamente collegata all'assunzione di sostanze stupefacenti, tali da fare apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica" ( 1°2). In realtà, la Corte costituzionale, con sentenza 16 aprile 1 998 n. 1 1 4, ha evidenziato i limiti di tale interpretazione giurisprudenziale. Secondo la Consulta nel sistema normativa è infatti possibile rinvenire una diversa differenziazione tra l'intossicazione abituale e quella cronica. Per la Corte tale distinzione va individuata facendo riferimento alla "colpevolezza" del soggetto: esistente nel caso dell'assunzione abituale; inesistente in quello della cronica intossicazione. In altri termini, per la sussistenza della cronica intossicazione l'elemento essenziale consiste nel riconoscere la presenza di un'alte­ razione psicofisica indotta dall'uso protratto della sostanza, che sia tale da inficiare, al di là della - ed oltre la - concomitante ( 101 ) Tra tante: Cass. pen., sez. I, 1 8 marzo 1 992, n. 3 1 9 1 ; Cass. pen., sez. I, 1 1 aprile 1 994, n. 4096. ( 1°2 ) In particolare, Cass. pen., sez. VI, 22 dicembre 1 998; Cass. pen., sez. VI, 1 6 dicembre 2002; Cass. pen., sez. V , 2 9 ottobre 2002.

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assunzione della stessa, la capacità di valutare il significato e gli effetti della propria condotta e di autodeterminarsi nel momento dell'attua­ zione di questa, rendendo pertanto incolpevole il comportamento del soggetto. In tale ottica, peraltro, se la cronica intossicazione, per rilevare, non deve necessariamente assumere il carattere di irreversibilità, ciò non implica che lo stato di dipendenza importi "automaticamente" l'esclusione o la diminuzione dell'imputabilità. Affinché ciò avvenga, occorre la concreta dimostrazione che l'abuso abbia determinato una modificazione patologica del funzio­ namento psichico dell'individuo, tale da rendeme incolpevole la compromissione della capacità di intendere o di volere. Pertanto, la cronica intossicazione si distingue dall'intossica­ zione abituale in quanto, al di là ed oltre gli effetti acuti della sostanza psicoattiva, si possa identificare la presenza di un disfunzionamento psichico cronico del soggetto indotto dall'abuso, ma divenuto com­ pletamente autonomo ed indipendente rispetto all'assunzione della sostanza stessa. Sul piano peritale, poi, dopo aver accertato la presenza di un'alterazione non transitoria dell'equilibrio psicofisico del soggetto tale da determinare un vero e proprio funzionamento psicopatologico del periziando, si dovrà valutare se e quanto tale condizione abbia concretamente inficiato i processi intellettivi e/o volitivi dell'agente al momento del fatto-reato. Tale complesso articolato di legge richiede, in sede applicativa, una stretta collaborazione tra il magistrato e lo psichiatra forense cui compete la difficile identificazione, nel singolo caso, delle modalità e dei ritmi di assunzione delle sostanze, degli effetti delle stesse sull'or­ ganismo di quella specifica persona e delle eventuali reazioni psico­ patologiche da ciò indotte. La letteratura psichiatrico forense ha dedicato ampio spazio a queste tematiche, evidenziando le difficoltà di differenziazione di alcune delle condizioni previste, come quelle della abitualità e della cronicità, specie nel campo della tossicodipendenza. Per tale motivo è da tutti condivisa la necessità di effettuare indagini particolarmente approfondite, con una diretta attenzione anche nei confronti della realtà somatica, metabolica e neurologica dell'individuo. Da più parti è stata comunque affermata l'opportunità di una revisione di queste previsioni normative, che tenga conto anche dell'estrema differenziazione delle figure di assuntori di sostanze stupefacenti che caratterizza la realtà contemporanea. Lo sviluppo delle conoscenze circa le condizioni di accentuata

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dipendenza psichica indotta da alcune sostanze psicoattive, e la crescente consapevolezza della situazione di estrema fragilità e vul­ nerabilità di ampie fasce di giovani, inducono ad una riflessione critica soprattutto circa il previsto inasprimento di pena per l'assun­ tore abituale di droga o di alcool. In questi casi, è sempre più frequente infatti il riconoscimento in sede peritale di un quadro di "comorbidità" ( 1°3 ) , per cui un numero relativamente più elevato di soggetti con disturbi di dipendenza viene attualmente valutato ex artt. 88 e 89 c.p. ed avviato a strutture di carattere terapeutico, anche in ambito comunitario. Tuttavia, così facendo, si concretizza il rischio del transito agevole di buona parte degli stati di intossicazione abituale da assunzione di sostanze psicotrope nelle previsioni del vizio di mente. È fuori discussione che nella maggioranza dei casi la capacità di comprendere "il significato del fatto-reato" (ovvero la "capacità di intendere") sia conservata nei tossico-dipendenti. Per altro verso è agevole immaginare che un "difetto del volere" possa essere invocato in buona parte delle forme di dipendenza da sostanze visto che, per definizione, chi versi in stato di dipendenza psicologica e/o fisica ha quantomeno un'alterazione della capacità di controllo. Facile dunque prevedere un ricorso, anche strumentale, a questa ipotesi. Anche per queste ragioni molti Autori ritengono che il problema dei delitti commessi da tossicodipendenti potrebbe essere utilmente affrontato piuttosto che con speciali previsioni sull'imputabilità, sul piano del trattamento differenziato, con maggiore attenzione cioè alle possibilità terapeutiche, spostando, in altri termini, il piano di discus­ sione dalla punibilità alla riabilitazione.

2.6. Il sordomutismo.

L'art. 96 c.p. recita:

"Non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità, la capacità di intendere o di volere. Se la capacità di intendere o di volere era grandemente scemata, ma non esclusa, la pena è diminuita". ( 1 03 ) Con tale termine FEINSTEIN definisce la "comparsa di una entità clinica aggiuntiva distinta durante il decorso clinico di un paziente che ha una data malattia", FEINSTEIN A.R., The pre-therapeutic classifìcation of co-morbidity in chronic disease. in 1 Chronic Dis, 1 970, 23:455-469.

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In tale articolo viene riconosciuta l'importanza che l'udito ed il linguaggio rivestono per lo sviluppo delle capacità relazionali di ogni individuo. Tale condizione non viene considerata come un'aprioristica causa di non imputabilità, ma come un fattore che può influire, a seconda della sua gravità e della sussistenza o meno di un tratta­ mento, sulla acquisizione di adeguate risorse maturative. La nozione di infermità prevista dall'art. 96 è quindi differente da quella degli artt. 88 e 89, poiché si riferisce ad uno stato di minorazione sensoriale strutturale, che nel corso degli anni può aver prodotto una carenza nello sviluppo cognitivo e, pertanto, una con­ dizione di sostanziale "immaturità". Gli accertamenti peritali in questo settore sono particolarmente complessi per le difficoltà di comunicazione con il periziando e possono richiedere sia l'effettuazione di specifiche indagini psicodia­ gnostiche, sia l'utilizzo di "interpreti" in grado di esprimersi con le modalità di comunicazione proprie dei sordomuti. Tali accertamenti sono comunque oggi eccezionali, in conside­ razione della disponibilità di valide risorse educative per questo tipo di persone e quindi del venir meno di quelle condizioni di carenza maturativa che, negli anni '30 del secolo scorso, avevano motivato tale formulazione normativa. È anche chiaro che eventuali disturbi psicopatologici di un sordomuto possono essere valutati nell'ambito di una condizione di infermità ex artt. 88 e 89 c.p., così come quelli di qualunque altro autore di reato. Pur non essendo in alcun modo collegabile con il sordomuti­ smo, in questa sede può essere citata unicamente per completezza la cecità, menomazione che comunque non rileva, in quanto tale, nei confronti della imputabilità e che non viene quindi in alcun modo ricordata come influente in tal senso.

2.7. La minore età.

Prima di approfondire il dettato normativa relativo all'imputa­ bilità del minorenne, è necessaria una breve descrizione dell'evolu­ zione e dell'assetto del sistema della giustizia minorile. Le attività del Tribunale per i minorenni si riferiscono a tre settori: la competenza penale, che riguarda i minorenni che commet­ tono reati, la competenza civile, che attiene alla protezione dei minori stessi, nonché un particolare settore, definito della "competenza amministrativa" o rieducativa, concernente i minori che, pur non avendo commesso reati, sono stati giudicati disadattati.

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L a competenza penale del Tribunale per i minori riguarda tutti minorenni, anche se coimputati con adulti. Il Tribunale per i minorenni, fin dalla sua origine, è composto da un magistrato di Corte d'Appello, che lo presiede, da un magistrato di tribunale, e da due cittadini, un uomo e una donna, esperti in discipline mediche, pedagogiche o psicologiche. Presso il Tribunale per i minorenni è inoltre istituito un ufficio del Pubblico Ministero, cui spetta il compito di promuovere l'azione penale per i reati commessi dai minori degli anni 1 8, nonché di promuovere e control­ lare le altre iniziative del magistrato minorile nel settore civile e amministrativo. Contro i provvedimenti del Tribunale per i mino­ renni, ove impugnabili, è possibile il ricorso in Corte d'Appello. Tanto premesso, l'art. 97 del codice penale italiano stabilisce che: i

"Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni".

Il primo comma dell'art. 98 c.p. afferma a sua volta che: "È imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva

compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita . . . " . Il nostro codice, quindi, è ispirato al principio che l'età minore di un individuo influisce sulla sua imputabilità, e cioè sulla sua capacità di intendere e di volere (art. 85 c.p.). Franchini e Introna (104) affermano al proposito che l'imputabi­ lità del minore è subordinata ad un criterio cronologico che passa attraverso due fasi distinte: assenza di imputabilità fino ai 1 4 anni, perché si presume che prima di questa età non esista capacità di intendere e di volere; piena imputabilità dopo i 1 8 anni perché si ammette, in linea di principio, che dopo tale età l'individuo abbia raggiunto un grado di sviluppo fisico e psichico tale da poter com­ prendere il valore etico-sociale delle proprie azioni, da distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. La presunzione assoluta di non imputabilità del minore degli anni quattordici si riflette sul piano formale nell'art. 26 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 448 del 22 settembre 1 988, ai sensi del quale il giudice, in ogni stato e grado del procedimento, quando accerta che l'imputato è minore degli anni quattordici, pronuncia, anche d'ufficio, sentenza di non luogo a procedere trattandosi di persona non imputabile. Tuttavia, al minore non imputabile che viene contestualmente (104) FRANCHINI A., lNTRONA F., Delinquenza minorile, Cedam, Padova, 1 972.

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riconosciuto socialmente pericoloso può essere applicata una misura di sicurezza (105) . Nella fascia cronologica compresa tra i 14 e i 1 8 anni non sussiste invece alcuna presunzione, per cui la capacità d'intendere e di volere al momento del fatto di reato deve essere accertata di volta in volta dal giudice e deve sempre essere motivata nella sentenza. Come afferma la Relazione Ministeriale al progetto del vigente codice, "l'imputabilità è subordinata alla prova che il minore abbia

capacità di intendere e di volere . . . non c'è presunzione né di capacità né di incapacità; ma spetta al giudice convincersi della capacità o della incapacità dei singoli soggetti".

L'accertamento della capacità psichica dell'infradiciottenne non ha carattere astratto, ma deve essere attuato attraverso l'esame concreto del caso; non è vincolato a particolari modalità tecniche di indagine e può essere eseguito direttamente dal giudice, che può utilizzare ogni mezzo a sua disposizione ( 1°6). In genere il giudice motiva la sua decisione sulla base di un'inchiesta psicosociale eseguita dai servizi sociali sul territorio. È infatti da notare che l'incapacità di intendere e di volere non è subordinata, come avviene invece per l'età adulta, ad uno stato patologico, ma che essa può essere semplicemente connessa con caratteristiche tipiche dell'età minore, dato che si tratta di una fascia di età in cui i soggetti raggiungono la capacità richiesta ai fini penali in momenti diversi, a causa delle multiformi varietà ambientali in cui si svolge il processo di maturazione. In base all'art. 98 c.p. il minorenne è imputabile o non è imputabile, e non sono possibili soluzioni intermedie. Nel primo caso potrà essere sottoposto al processo, mentre nel secondo caso sarà prosciolto. L'imputabilità del minore tra i 1 4 e i 1 8 anni può, naturalmente, essere giudicata anche in base alle più generali norme che configu­ rano il vizio totale o parziale di mente, per le quali si rimanda a quanto già ampiamente analizzato in precedenza. Lo studio della vera e propria psicopatologia dell'adolescente assume, comunque, una dimensione particolare, in quanto in tale periodo il confine tra normalità e patologia è ancor più indefinito. Spesso, inoltre, lievi disturbi psichici sono vissuti dall'ambiente circostante come molto gravi, mentre in altri casi vengono sottovalu­ tate patologie psichiche di notevole rilevanza. Non sempre i compor(105) ( 1 06 )

Artt. 36 e 37 D.P.R. n. 448 del 1 988. Cass. pen., sez. l, 13 gennaio 1 973, in Giust. Pen. , 1 974, 2:27.

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tamenti più eclatanti sono i più gravi; in alcuni casi un sintomo psicopatologico è del tutto temporaneo; spesso il disturbo psichico è legato alla crisi adolescenziale, anche se è possibile una sorta di cristallizzazione del sintomo, che blocca lo sviluppo e si sostituisce al fisiologico processo di maturazione. Le problematiche adolescenziali, lo sviluppo raggiunto in questa fase, l'eventuale situazione di crisi, le quasi inevitabili disarmonie della personalità adolescenziale, sono oggetto di studio di ogni indagine psicologica o psicopatologica, volta alla comprensione del­ l'assetto personologico dell'adolescente. In campo minorile risulta pertanto importante non solo lo studio delle caratteristiche psicopatologiche, ma anche di quelle psicologiche (ovvero fisiologiche) dell'autore di reato, onde accertare il grado di sviluppo e di maturazione psichica dello stesso, ai sensi dell'art. 98 c.p . L'applicazione di questa norma di legge delinea gli elementi costitutivi della cosiddetta "immaturità", la cui dimostrazione con­ sente di escludere la capacità di intendere e di volere del minore, anche in assenza di un'infermità. Genericamente è stato affermato che il minore, per essere imputabile, deve possedere, nel momento in cui ha compiuto il reato, la capacità di comprendere il valore dei propri atti, l'attitudine a distinguere il bene dal male e il lecito dall'illecito, la possibilità di valutare i valori etici e sociali. Il minore deve possedere inoltre l'idoneità ad autodeterminarsi con libertà tra i vari motivi sottesi alla condotta (1°7 ). Queste generiche capacità sono state, tuttavia, interpretate in modo estremamente differenziato ( 1 08) . Il concetto di "immaturità" ha, difatti, subito nel tempo una notevole evoluzione. Storicamente si può osservare che in una fase iniziale l'accerta­ mento dell'immaturità si fondava prevalentemente su aspetti biologici e organici della personalità, che si basava quindi sui deficit maturativi clinicamente evidenti e valutabili mediante parametri medici. Si è in seguito diffusa una concezione, ampiamente accettata ed utilizzata, che fa coincidere l'immaturità con una condizione psico­ logica di disagio, di conflitto, di carenza, legata a turbe prevalente­ mente affettive e a problematiche familiari. Tale condizione può .

( 1 07) Cass. pen., sez. II, 10 maggio 1 99 1 , n. 9265; Cass. pen., sez. I, 2 1 dicembre 1 989, n. 2083; Cass. pen., sez. I, 1 1 gennaio 1 988, n. 1 0234; Cass. pen., sez. I, 1 1 luglio 1 99 1 , n. 1 0002. ( 1 08) PAZÈ P.C., L'imputabilità minorile, in BARBARITO G. e Coli. (a cura di), Risposte giudiziarie alla criminalità minorile, Unicopli, Milano, 1 982.

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essere ben individuata mediante gli strumenti classici della psicologia clinica, quali il colloquio, i test di intelligenza, i test proiettivi ecc . . Si è poi andata affermando una concezione più estensiva di immaturità, che corrisponde ad una condizione di disagio e depriva­ zione sociale, quale si può riscontrare nelle famiglie disgregate, condizionate da situazioni economiche difficili, e turbate da fenomeni quali la disoccupazione o l'immigrazione. Siamo quindi decisamente al di fuori delle caratteristiche della "classica" perizia psichiatrico forense, tanto che la disposizione di un accertamento di questo tipo in ambito minorile è riservata ai casi nei quali si sospettino disturbi di carattere psicopatologico o neuropsi­ chiatrico, per i quali sia necessaria una diagnosi medico-specialistica. Un altro elemento di differenziazione è costituito dal fatto che esistono interpretazioni notevolmente divergenti circa il livello di maturità ritenuto necessario affinché un minore tra i 1 4 e i 1 8 anni possa essere considerato imputabile. Vi è infatti chi, come Franchini ( 1 09), sostiene che deve essere esclusa l'imputabilità di quei minori i quali dimostrino, al momento e nei confronti del reato compiuto, un grado di maturità inferiore a quello proprio di un ragazzo considerato normale all'età di 1 4 anni. Un'interpretazione notevolmente diversa { 1 1 0) ritiene che la maturità venga raggiunta solo da quei minori che presentano uno sviluppo analogo ad un giovane "normale" che abbia compiuto i 1 8 anni. Ma l'adesione a questo modello interpretativo farebbe ritenere immatura la quasi totalità dei minori, senza adeguata differenzia­ zione. Un'altra interpretazione, ancora, ritiene che il minore sia impu­ tabile quando ha raggiunto quel livello di capacità di intendere e di volere che è normale nel ragazzo medio della sua età. Quest'ultima interpretazione, maggiormente aderente alla lettera della relazione del Guardasigilli Rocco, appare comunque difficilmente accettabile, in quanto farebbe ritenere immaturo un diciassettenne che ha rag­ giunto le capacità di un normale sedicenne, e maturo un quattordi­ cenne con sviluppo adeguato alla sua età. L'età, comunque, costituisce il primo elemento valutativo nella definizione dell'immaturità, per cui "l'esame della maturità mentale del

minore va compiuto senza trascurare di considerare i tempi di commis(109 ) ( 1 1 0)

FRANcHINI A., op. cit. . BARSOTTI A. e Coli., Sull'imputabilità dei minori tra 1 4 e 1 8 anni, in Riv. !t. Dir. Proc. Pen. , 1 975, 6: 1 232; VERCELLONE P., La imputabilità e punibilità dei minorenni nella legge penale italiana, Atti del Convegno della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile, Camerino, 1 980.

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sione del fatto commesso e di cui il minore è imputato lungo l'arco evolutivo della personalità del soggetto e quindi con un maggior rigore valutativo, allorché tale fatto si colloca nella fase finale dell'età evolu­ tiva" ( 1 1 1 ). Un ulteriore elemento di incertezza è costituito dal fatto che le capacità di intendere e di volere del minore devono essere valutate non soltanto in riferimento al momento in cui è stato compiuto il reato, ma anche in rapporto alla natura del reato stesso, alla dinamica dell'azione criminosa ed al comportamento processuale ( 1 1 2 ) . In questi ultimi anni si è passati, infatti, da un concetto globale ad un concetto relativo di imputabilità, in quanto si è ritenuto "che il

processo di maturazione non progredisce allo stesso modo rifpetto a tutti i comportamenti dello stesso individuo nello stesso periodo, potendo progredire a determinati schemi comportamentali e ritardare rispetto ad altri, determinando l'esistenza di diversi livelli di maturità nello stesso individuo e nella stessa fase o stadio di sviluppo" ( 1 1 3 ).

Si è quindi affermato che la capacità di intendere e di volere può, nei confronti dello stesso soggetto, essere esclusa per un reato e affermata per un altro, introducendo, in sostanza, un ulteriore ele­ mento di soggettività e di discrezionalità di giudizio. Come si può ben comprendere, il condividere l'una o l'altra di queste impostazioni implica notevoli conseguenze dal punto di vista della prassi giudiziaria, con decisioni sull'imputabilità del minore che possono essere diametralmente opposte, a seconda di un giudice o di un Tribunale specifici. L'utilizzo di parametri così soggettivi e non sufficientemente rigorosi ha dato vita ad un concetto di immaturità scientificamente molto evanescente, rendendo discrezionale tutto il percorso valuta­ tivo e lasciando alle tendenze culturali di ogni singolo magistrato il compito di definire in concreto il significato, i parametri di una maturazione adeguata, i campi e le modalità di indagini. Già nel 1 974 il Consiglio Superiore della Magistratura aveva accertato, mediante una propria indagine, l'estrema differenziazione di comportamento dei diversi Tribunali per i Minorenni per quanto riguarda la percentuale di proscioglimenti e di condanne di minori. Tale estrema differenziazione è stata confermata da alcune ricerche, che hanno trovato percentuali di proscioglimenti per imma­ turità estremamente diverse non solo fra tribunali appartenenti ad aree geografiche lontane, ad esempio Milano e Napoli, ma anche fra ( 1 1 1) ( 1 1 2) ("3)

Cass. pen., sez. I, 1 0 novembre 1 987. CANEPA G., op. cit. . MoRELLO M., L'imputabilità del minore, in BARBARITo G . e Coll., op. cit. .

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tribunali territorialmente contigui, quali quelli di Milano e di Bre­ scia ( 1 14) . L'analisi dei dati della ricerca permette di affermare che l'im­ maturità, così come altre formule tipiche del diritto minorile, non corrisponde a parametri scientifici, ma è utilizzabile in modo diffe­ renziato a seconda del contesto giudiziario e a seconda dell'evolversi delle concezioni riguardanti la devianza minorile, la sua gestione e le conseguenti produzioni normative ( 1 1 5 ) . In definitiva, come afferma Ceretti, "la cosa più importante è

quella di individuare tutta una serie di parametri e di leggerli in modo integrato. Se un elemento è assente, come l'educazione familiare, non vuol dire che un minore automaticamente è immaturo, mentre molte volte, sia in dottrina sia in giurisprudenza, si è lavorato in questo modo. Bisogna leggere come ogni parametro ha una ricaduta su tutti gli altri" ( 1 16). La giurisprudenza, recentemente, ha accolto tali osservazioni, giungendo ad affermare che "per i minori di età compresa tra i

quattordici e i diciotto anni, il giudice penale è tenuto ad accertare di volta in volta, con riferimento al singolo episodio criminoso, la capacità di intendere e di volere che, per questa peculiare fascia di età, implica, ai sensi dell'art. 98, comma l, c.p., la verifica della raggiunta maturità, ossia dell'avvenuta evoluzione intellettiva, psicologica e fisica del mi­ nore, della capacità di intendere certi valori etnici, di distinguere il bene dal male, illecito dall'illecito, nonché a determinarsi nella scelta dell'uno o dell'altro comportamento. A tal fine, occorre apprezzare una moltepli­ cità di fattori correlati alle condizioni familiari, socio-ambientali, al grado di istruzione e di educazione raggiunta, alla natura del reato commesso, al comportamento antecedente, contemporaneo e successivo al fatto, tenuto conto anche della natura dello stesso fatto-reato. Pertanto, l'indagine del giudice, da un lato, non può prescindere dagli ( 1 1 4) Lanza, in una ricerca condotta nel 1 979 su 23.601 minori giudicati, ha riscontrato che i minori ritenuti non imputabili a nonna dell'art. 98 C.p. ammontavano al 2 1 ,7 14% nel Tribunale di Milano, al 1 2,068% nel Tribunale di Genova, al 1 7,289% nel Tribunale di Brescia, all'l ,965% nel Tribunale di Napoli. LANZA L., La risposta giudiziaria dei Tribunali per i Minorenni alla devianza penale minori/e, in BARBARITO G. e coli. op. cit. . ( 1 1 5 ) Nel 1 977, ad esempio, con il trasferimento agli Enti locali delle competenze relative all'applicazione delle misure amministrative e civili irrogate dal Tribunale per i minorenni (D.P.R. n. 6 1 6), e con la relativa organizzazione, a livello locale, di ampi programmi di intervento sociale in favore dei giovani, i Magistrati hanno fatto ricorso alla dichiarazione di non imputabilità per immaturità, al fine di trasferire alcuni ragazzi dal sistema della giustizia a quello ritenuto più efficace e meno stigmatizzante dei servizi sociali dei Comuni. ( " 6 ) CERETTI A., Giustizia ripartiva e mediazione penale, in ScAPARRO F. (a cura di), Il coraggio di mediare, Guerini, Milano, 200 1 .

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accertamenti sulla personalità del minore previsti dall'art. 9 D.P.R. 22 settembre 1 998 n. 448, dall'altro implica l'attenta valutazione della natura del reato commesso, in quanto il livello di discernimento varia a seconda della qualità dell'illecito, del bene giuridico offeso, della strut­ tura della fattispecie criminosa. Ne discende che il giudizio sulla maturità del minore, ai sensi dell'art. 98 c.p., non è necessariamente legato a particolari indagini tecniche e ben può essere formulato dal giudice attraverso l'esame della condotta del minore al momento della commissione del fatto, in epoca antecedente e nel corso del giudi­ zio" ( 1 1 7 ) . Vi è ancora da ricordare che alcuni Tribunali per i minorenni utilizzano, a fini di archiviazione, la sentenza della Corte Costituzio­ nale n. 364 del 24 marzo 1 988, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p. nella parte in cui non considera l'igno­ ranza inevitabile o incolpevole della legge penale. Facendo riferi­ mento a questa sentenza, alcuni pubblici ministeri richiedono al Giudice per le indagini preliminari di pronunciare un decreto moti­ vato di archiviazione nei casi in cui la condotta criminosa del minore (ad esempio nomade o extracomunitario) sia da ascriversi ad igno­ ranza scusabile della legge penale. Un nuovo scenario si è sviluppato, infine, con l'emanazione del D.P.R. 22 settembre 1 988, n. 448, che, contestualmente alla più generale trasformazione del c.p.p., ha innovato nel campo della procedura penale minorile. Anche se queste norme non si sono evidentemente pronunciate sulla nozione della imputabilità, che è rimasta ancorata ai già citati articoli del c.p., è tuttavia evidente che il generale cambiamento dell'assetto processuale ha inciso anche sulle tematiche relative all'ac­ certamento della imputabilità. Per raggiungere alcuni importanti obiettivi del nuovo processo minorile (depenalizzazione, decarcerizzazione, educazione e recu­ pero del minore) sono stati introdotti alcuni Istituti, tra i quali assumono particolare rilievo il non luogo a procedere per irrilevanza del fatto ( 1 18 ) e la sospensione del processo e messa alla prova ( 1 1 9 ) , ( 1 17 ) Cass. pen., sez. I, 18 maggio 2006, n. 24271 . (! 18) Secondo l'art. 2 7 del D.P.R. n . 448 del 1 988 i l giudice può dichiarare i l non luogo a procedere in presenza di tre condizioni: la tenuità del fatto; l'occasionalità del comportamento; la valutazione che l'ulteriore corso del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minorenne. ( 1 1 9) Secondo l'art. 28 del D.P.R. n. 448 del 1988 il giudice può sospendere il processo e mettere il minore "alla prova", affidandolo ai servizi minorili dell'ammini­ strazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Al termine del periodo

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che realmente limitano l'utilizzo della dichiarazione di immaturità ex art. 98 c.p. Anche le modalità di accertamento della personalità del mino­ renne sono state affrontate dalle nuove norme processuali minorili, secondo le quali il P.M. e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali ed ambientali del minorenne, al fine di accertare l'imputabilità e il grado di responsa­ bilità, di valutare la rilevanza sociale del fatto, nonché di disporre le adeguate misure penali ed adottare gli eventuali provvedimenti civili. Agli stessi fini il P.M. e il giudice possono sempre assumere informa­ zioni da persone che abbiano avuto rapporti con il minorenne e sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità ( 1 20). Attraverso queste indicazioni, viene introdotta una concezione della personalità molto complessa, con riferimento ad aspetti situa­ zionali, interattivi ed evolutivi, in concreto riferimento alle risorse ed alle possibilità di intervento. Questa nuova concezione, unitamente alle nuove e diverse possibilità operative aperte dalle sopracitate norme processuali, ha condotto ad una sempre minor utilizzazione del proscioglimento per non imputabilità ex art. 98 c.p. Secondo De Leo e Patrizi la congiunzione che nel testo dell'art. 9 del D.P.R. n. 448 del 1 988 lega l'accertamento della imputabilità a quello del "grado di responsabilità" fornisce un'importante indica­ zione circa l'esigenza di una maggior responsabilizzazione del mi­ nore, attraverso scelte processuali che non rinuncino all'azione penale e che utilizzino in tal senso anche l'apporto dei periti, dei consulenti e degli esperti ( 1 2 1 ). Vi è peraltro da ricordare che del tutto recentemente, all'interno della magistratura minorile, si è riaperto un vivace dibattito sulla imputabilità del minore. Di fronte ad una maggioranza di magistrati che ritiene ormai superata la centralità dell'accertamento dell'imputabilità del minore, in quanto le strumentali funzioni di depenalizzazione legate a tale prassi sarebbero di fatto meglio realizzabili attraverso altri e più adeguati strumenti, quali ad esempio l'irrilevanza del fatto e la messa di prova il giudice dichiara estinto il reato se, tenuto conto del comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, ritiene che la prova abbia dato esito positivo. In caso contrario il minorenne viene sottoposto a giudizio. ( 120 ) Secondo l'art. 9 del D.P.R. n. 448 del 1 988 (Accertamenti sulla personalità del minorenne) "Il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali dei minorenni al fine di accertarne l'imputabilità e il grado di responsabilità . . . ( ! 2 1 ) DE LEo G., PATRIZI P., Trattare con adolescenti devianti, Carocci, Roma, 1 999. ".

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alla prova, alcuni magistrati ripropongono l'importanza della incapa­ cità quale formula di proscioglimento del minorenne. Patrone, ad esempio, dopo aver rilevato come il proscioglimento del minore ex art. 98 abbia subito un notevole ridimensionamento, confermato sia nella dottrina, sia nella giurisprudenza di legittimità e di merito, critica questa tendenza della magistratura minorile, che sembra operare secondo una sorta di "nuovo doppio binario" : da un lato un approccio che utilizza ampiamente la messa alla prova e i perdoni per i minorenni più socializzati, dall'altro lato una prassi che utilizza il carcere per i deprivati totali, per i nomadi, per gli extraco­ munitari. Per i primi, secondo Patrone, il problema della immaturità è stato superato in meglio, con un processo che vuole essere respon­ sabilizzante, mentre per i secondi tale problema viene superato in una prospettiva di controllo sociale ( 122) . Alla luce di questa e di altre considerazioni, lo stesso Autore propone un approccio rigorosamente garantista, che tuteli al mas­ simo i minori attraverso tutte le norme che differenziano la posizione del minore da quella dell'adulto, ivi compresa la prioritaria e fonda­ mentale verifica della imputabilità. Ricordiamo infine che per facilitare la responsabilizzazione del giovane senza entrare in una dimensione repressiva, si sta affermando in tutto il mondo, anche se in modo parziale e circoscritto, un nuovo modello di giustizia minorile, fondato sulla mediazione. Per i promo­ tori di tale modello occorre superare la visione del reato comune quale evento isolato e astratto, ma vederlo come un momento di complesse dinamiche relazionali. Nell'ambito di questo modello, realizzabile anche utilizzando l'attuale normativa, si tende alla riso­ luzione dei conflitti e alla riparazione del danno procurato con il reato, e si prendono in considerazione le esigenze della vittima, ignorate in precedenza. Una nuova figura, il mediatore, cerca di fare evolvere una situazione problematica, di far aprire canali di comuni­ cazione bloccati, di evidenziare i punti della questione favorendo una discussione chiarificatrice ( 12 3). L'obiettivo è quello di rispondere a un male, il reato, con un in­ tervento positivo, costruttivo, messo in atto dall'autore in favore di chi ha subito il danno. In questo modo è possibile responsabilizzare l'au­ tore del reato facendolo partecipare a qualcosa che può essere difficile e faticoso, ma risulta utile e costruttivo, evitando quindi la stigmatiz­ zazione che le misure repressive o rieducative comportano. In quasi ( 1 22) PATRONE L, Relazione presentata al Congresso Nazionale dell'associazione giudici per i minorenni e la famiglia, Palermo, 25-28 aprile 1 996. ( 1 2 3 ) CERETTI A., op. cit. .

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tutti i sistemi di giustizia minorile alcuni elementi del modello ripa­ rativo sono presenti, anche se in alcuni paesi si sono affermati prima (p.e. Austria) o sono maggiormente diffusi (p.e. Nuova Zelanda). In Italia a Torino, a Milano, a Bari, a Trento e a Roma, in stretta colla­ borazione con i tribunali peri minorenni, sono iniziate sperimentazioni di questo tipo, che sembrano dimostrare la praticabilità e l'utilità del­ l'approccio riparativo anche nel nostro Paese. Per quanto riguarda i ruoli professionali coinvolti nell'accerta­ mento dell'imputabilità del minore, come già accennato, il magistrato può far ricorso alla tradizionale perizia psichiatrica in caso di sospetta infermità, con l'utilizzazione di psichiatri forensi, ovvero può avvalersi di un'indagine psicologica, con l'utilizzazione di psicologi forensi. Questi due tipi di accertamenti (perizia psicologica e psichia­ trica) vengono di norma riservati a casi particolarmente problematici, mentre nella maggioranza delle situazioni il giudice si avvale del parere, anche informale, di clinici e operatori sociali (medici, psico­ logi, sociologi, assistenti sociali educatori e pedagogisti) che si occu­ pano del settore. L'ampio ventaglio di esperti che possono essere coinvolti in queste indagini è senz'altro giustificato dal fatto che l'imputabilità del minorenne risponde ad una concezione altamente complessa, ove un apporto multidisciplinare è particolarmente utile. L'aver inoltre centrato gli accertamenti circa la personalità del minorenne sulle condizioni e sulle risorse disponibili fa comprendere come il coinvolgimento degli operatori sopra citati, afferenti a servizi che a diverso titolo contribuiscono a programmi di intervento e di socializzazione, sia il più opportuno ai fini di una valutazione che necessariamente comporta vaste implicazioni operative. Di fatto ciò ha quasi completamente sottratto la tematica della imputabilità del minore dalla sfera di interesse dello psichiatra forense, rendendo invece questo tema del tutto centrale per i crimi­ nologi, gli operatori della Giustizia minorile ed il mondo politico, anche in rapporto alla sempre più complessa fenomenologia dei reati commessi da minori appartenenti a gruppi svantaggiati ed a diverse etnie, allo sfruttamento della criminalità minorile da parte delle organizzazioni criminali, ed alle frequenti sperequazioni di tratta­ mento che vengono riservate ai minori stranieri o nomadi, rispetto a quelli italiani. Il dibattito socio-politico sul tema dell'eventuale modificazione dei limiti di età per considerare imputabile un minore è stato molto intenso negli ultimi tempi, ma v'è da dire che, allo stato, non vi sono

La perizia psichiatrica in tema di imputabilità

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evidenze scientifiche che giustifichino o sostengano un cambiamento di ciò che è attualmente previsto. Se è vero difatti che i minori di oggi sono sensibilmente diversi da quelli del 1 930, se è indiscutibile che l'assetto psicologico dei minori non possa dirsi sovrapponibile a quello degli infraquattordi­ cenni di una volta, è egualmente vero che diversità non significa maggiore o minore maturità. Oggi, ad esempio, osserviamo minori con qualità cognitive sicu­ ramente maggiori rispetto ad un passato neppure lontano, ma che per altro verso appaiono più "immaturi" sul piano affettivo e pulsionale. Non sono dunque ragioni "tecniche" a poter motivare un innal­ zamento o abbassamento dell'età minima per l'imputabilità, in quanto non sembrano esistere differenziazioni dell'assetto psicolo­ gico tali da consentire di dire che quella dei 1 3, o dei 1 5 anni, siano età preferibili a quella dei 1 4 anni. Si segnala al più l'opportunità di armonizzare questo limite di età con quelli imposti da altre normative nazionali (ad esempio 1 3 anni per fornire il consenso ad atti sessuali, 1 2 anni per esprimere un parere sull'adozione, ecc.) e con il trend normativa europeo.

2.8. Imputabilità dell'autore di reato: riflessi giudiziari e ruolo del perito.

La perizia psichiatrica sull'autore di reato costituisce il pm tradizionale banco di prova per la competenza dello psicopatologo forense, sia per la frequente difficoltà e complessità di accertamento di situazioni cliniche a volte transitorie e non più obiettivabili, sia per l'esigenza di comprendere i rapporti tra criticità psicopatologiche e comportamenti-reato molte volte poco chiari o negati. È comunque indispensabile che il perito sia sempre consapevole delle importanti conseguenze giudiziarie che la sua valutazione tecnica potrà avere sull'autore di reato. Il riconoscimento di un "vizio totale di mente" comporta l'esclu­ sione dell'autore di reato dalla prospettiva detentiva e, come appro­ fondiremo nel Capitolo successivo, l'eventuale inserimento nel circu­ ito delle "misure di sicurezza"; mentre il riconoscimento di un "vizio parziale di mente" comporta la riduzione della pena irrogata, oltre all'eventuale applicazione di una "misura di sicurezza". Ciò pone in capo al perito una globale responsabilità di carattere morale e sociale, poiché la valutazione da lui indicata, se condivisa dal giudice, potrà contribuire all'assunzione di decisioni in tema di durata della pena o addirittura di esclusione della stessa. In questo tipo di accertamento lo studio degli atti è particolar-

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Fondamenti di psicopatologia forense

mente importante, non solo per comprendere la storia del caso, ma anche per trarre indicazioni (ovviamente da verificare in sede di colloquio) circa l'eventuale rapporto tra autore e vittima del reato, il comportamento tenuto dall'autore di reato, le spesso differenziate dichiarazioni rese nel tempo dello stesso, e così via. Ciò, ovviamente, non per elaborare una sorta di "sentenza" sul caso, ma in rapporto al dovere del perito di verificare un nesso causale diretto tra infermità e comportamento illecito, in un contesto nel quale è giustamente proscritta qualsiasi valutazione di generica "compatibilità" tra i due elementi. Molta attenzione deve essere dedicata alla raccolta di informa­ zioni cliniche sulla condizione antecedente al reato, con l'acquisizione di eventuali cartelle di degenze ospedaliere o trattamenti psichiatrici e con l'acquisizione di eventuali certificazioni attinenti al servizio militare, richieste di invalidità, e così via. È sempre necessario acquisire copia del diario clinico carcera­ rio, che fornisce importanti indicazioni sulla condotta del soggetto, sui trattamenti e su eventuali reazioni o disturbi psichici, così come è utile sentire il personale medico della struttura detentiva, anche per informare lo stesso in merito al carattere traumatico che, in alcuni casi, può rappresentare per il detenuto il ricordo di momenti di vita particolarmente dolorosi, e ciò anche in merito all'incrementato rischio di comportamenti autolesivi. Circa l'esigenza che i colloqui siano condotti in modo empatico ed approfondito già si è detto, ma appare necessario ricordare che, pur operando nel contesto giudiziario, il perito è comunque un medico: indipendentemente dal reato compiuto dal proprio interlo­ cutore, il perito deve quindi astenersi da funzioni "investigative", contestazioni della strategia difensiva del reo, ed ogni altra attività che esuli dalla conduzione di colloqui clinicamente corretti e dal­ l'esclusivo dovere di risposta al quesito peritale ricevuto. Infine, in merito alla relazione peritale appare utile ricordare che, dopo il suo deposito, la stessa sarà oggetto di specifica disamina da parte di altri esperti professionisti, che la valuteranno anche in riferimento alla sua correttezza formale, metodologica e scientifica. Il parere del perito sarà pertanto "vivisezionato", e su di esso si centreranno non solo il dibattimento esperito innanzi al giudice in fase di cognizione, ma anche e soprattutto quello che potrà avvenire in Corte di Assise o in Tribunale, in un contesto spesso connotato dalla massima attenzione dei media. Anche per questo motivo è consigliabile che la relazione sia re­ datta con uno stile espositivo rigoroso, sempre attento al dato concreto, nella consapevolezza del fatto che ogni parola del perito potrà essere utilizzata ai fini di eventuali contestazioni o richieste di chiarimenti.

Capitolo III NOZIONE E VALUTAZIONE DELLA "PERICOLOSITÀ SOCIALE PSICHIATRICA"

SoMMARIO: 3 . 1 . Pericolosità sociale e misure di sicurezza: cenni normativi e risvolti peritali. - 3.2. Evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di pericolosità sociale e di misure di sicurezza "psichiatriche". - 3.3. La valutazione psichia­ trico forense della pericolosità del malato di mente autore di reato. - 3.4. Malattia mentale e crimine: dalla "pericolosità sociale" al "risk assessment". 3.4. 1 . La prognosi in psichiatria forense. - 3.4.2. Il legame tra malattia mentale e crimine. - 3.4.3. La valutazione e la gestione del rischio di comportamento violento: tra test attuariali e indagine clinica. - 3.5. La "pericolosità sociale psichiatrica": criticità attuali e prospettive metodologiche.

3.1. Pericolosità sociale e misure di sicurezza: cenni normativi e risvolti peritali.

L'ordinamento penale italiano poggia le sue fondamenta su due pilastri essenziali: l'istituto dell'imputabilità, che è la colonna por­ tante del sistema delle pene, e la nozione di "pericolosità sociale", che regge invece il sistema delle misure di sicurezza. Tale impostazione è frutto di una sorta di "compromesso" tra gli orientamenti di due contrapposte Scuole di pensiero ( 1 ) che, tra la fine dell'800 e la prima metà del '900, animarono il dibattito dottrinario in tema di politica criminale. In particolare, la nozione di pericolosità sociale si è affermata nell'ambito della concezione positivista, che in campo giuridico si è opposta alla tradizionale Scuola Classica e che ha proposto di sostituire al sistema di pene basato sulla retribuzione, un sistema di misure basato sulla difesa sociale, attraverso interventi di trattamento e di prevenzione. (l) Il riferimento è alla Scuola Classica e alla Scuola Positiva del diritto penale: per la prima il reato è il risultato del libero arbitrio umano, per cui il reo, se rimproverabile, deve essere punito; per la seconda il delitto deve essere considerato il prodotto di un individuo che agisce sotto l'influenza di fattori bio-psico-sociali che ne annullano la libertà di scelta, per cui la risposta deve essere ispirata solo alla difesa sociale, attraverso interventi di prevenzione e di risocializzazione.

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Fondamenti di psicopatologia forense

Mentre la Scuola Classica commisurava la sanzione penale con la gravità del reato, la Scuola Positiva ha cercato di individualizzare gli interventi sulla base delle caratteristiche della personalità dell'au­ tore del reato stesso (2 ). Sulla base di tali premesse, si comprende l'impostazione del nostro attuale ordinamento, nel quale coesistono sia le pene, sia le misure di sicurezza, nell'ambito di un sistema che per questo motivo viene definito a "doppio binario". Tale impianto, costruito sulle coppie 'responsabilità-pena' e 'pericolosità-misura di sicurezza', trova la sua ratio nella diversità di funzioni che sono assegnate rispettivamente alla pena e alle misure di sicurezza. Come sintetizza Padovani, infatti, "la pena è dominata da un 'idea

di prevenzione generale mediante intimidazione, la misura di sicurezza ha una specifica finalità di prevenzione speciale, mediante riabilitazione o neutralizzazione a seconda delle caratteristiche personologiche del delinquente" (3 ) . Da tale assunto, discende la conseguenza che mentre la pena può essere applicata solo all'autore di reato rimproverabile ed impu­ tabile, il giudizio di pericolosità sociale prescinde da tale requisito. Le misure di si�urezza, quindi, sono applicabili anche a soggetti non imputabili o punibili, avendo lo scopo non già di sanzionare un illecito commesso, bensì di neutralizzare la carica antisociale di un soggetto, mediante la convergente applicazione di prescrizioni volte sia al controllo sia alla modificazione dei fattori umani e sociali che hanno portato l'interessato alla commissione di reati (4). In pratica, come sintetizza Fornari, "dall'imputabilità dell'autore

di reato discende la sua punibilità, dalla sua pericolosità sociale deriva l'applicazione delle misure di sicurezza" ( 5) . Sul piano normativa, le misure di sicurezza e la nozione di pericolosità sociale fanno riferimento ad una serie di articoli del codice penale, tra i quali risultano di più immediato interesse, ai nostri fini, i seguenti. (2) La nozione di pericolosità, intesa come probabilità che un individuo com­ metta un reato, è stata elaborata da Enrico Ferri ( 1 930) sulla base di precedenti formulazioni di Raffaele Garofalo ( 1 89 1 ) , che aveva sostenuto la necessità di abban­ donare il concetto di "proporzione penale" e di introdurre quello di "temibilità" del delinquente e di "capacità di adattamento" all'ambiente sociale. (3) PADOVANI T., La pericolosità sociale sotto il profilo giuridico, in FERRAcun F. (a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina criminologica e Psichiatria forense, vol. XIII, Giuffrè , Milano 1 990. (4) Cass., pen., sez. Il, 19 marzo 1 980, n. 1 065. (5) FoRNARI U. , Trattato di Psichiatria Forense, Utet, Torino, 2008, p. 1 35, cit ..

Pericolosità sociale psichiatrica

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Art. 202 c.p. (Applicabilità delle misure di sicurezza).

"Le misure di sicurezza possono essere applicate solamente alle persone socialmente pericolose, che abbiano compiuto un fatto preve­ duto dalla legge come reato . . . " Art. 203 c.p. (Pericolosità sociale).

"Agli effetti della legge penale è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente, quando è probabile che com­ metta nuovi fatti, preveduti dalla legge come reati. La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'art. 133". Da tali norme risulta come il Legislatore ha voluto accogliere due fondamentali principi. In primo luogo ha definito come requisito indispensabile per la dichiarazione di sociale pericolosità, e quindi per l'applicazione delle misure di sicurezza, l'aver commesso un fatto che la legge in astratto configura come reato (6) . In secondo luogo h a stabilito che l'essenza della pericolosità sociale consiste nella probabilità (non solo mera possibilità) che il soggetto possa compiere in futuro fatti specificamente configurabili come reati. In altre parole, il giudizio di pericolosità consiste in una previ­ sione probabilistica di futura condotta criminosa da parte dell'autore di reato, che giustifica la conseguente applicazione di misure finaliz­ zate a neutralizzare tale rischio (7) . Si tratta, in pratica, di una sorta di "prognosi criminale", di competenza del Giudice, che viene valutata sulla base degli elementi indizianti elencati all'art. 1 33 c.p. (8):

"Nell'esercizio del potere discrezionale . . . il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: l) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione; ( 6) L'unica eccezione è data dalle fattispecie indicate negli artt. 49 e 1 1 5 c.p. (c.d. "quasi-reati"): si tratta di ipotesi nelle quali, pur in assenza del fatto tipico, è presente la volontà di commettere il reato. (7) FmRENTIN F., La pericolosità sociale e l'aggravamento delle misure di sicurezza, in Giur. merito , 2009, 3:754. (8) La giurisprudenza ha interpretato in modo più ampio questa disposizione, precisando che "Al fine di accertare l'attuale pericolosità sociale del soggetto, nel momento in cui deve essere applicata in concreto una misura di sicurezza, il giudice deve tenere conto non solo della gravità del fatto-reato, ma anche dei fatti successivi, come il comportamento tenuto durante l'espiazione della pena, quale risultante ad esempio dalle relazioni comportamentali e dall'eventuale concessione di benefici penitenziari o proces­ suali" (Cass. pen sez. I, 30 aprile 2003, n. 24009). ..

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2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole desunta: l) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;

4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo". L'accertamento della concreta pericolosità sociale dell'autore di reato da parte del magistrato, come detto, comporta l'applicazione delle "misure di sicurezza", che consistono in provvedimenti speciali notevolmente differenziati tanto nella loro durata quanto nella loro tipologia. In particolare, il codice distingue le misure di sicurezza in patrimoniali (cauzione e confisca) e personali, queste ultime a loro volta differenziate in detentive (assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro; ricovero in una casa di cura e di custodia; ricovero in un manicomio giudiziario; ricovero in un riformatorio giudiziario) e non detentive (libertà vigilata; divieto di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più province; divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche; espulsione dello straniero dallo Stato). Le misure di sicurezza sono ordinate dal giudice nella stessa sentenza di condanna o di proscioglimento (art. 205 c.p.) ovvero possono essere ordinate, in casi specifici, dal magistrato del Tribunale di Sorveglianza; tale Ufficio giudiziario rappresenta altresì l'organo competente in materia sia di esecuzione penale sia di misure di sicurezza. Tra le altre disposizioni, si ricorda ancora che in qualunque stato o grado del procedimento le misure di sicurezza possono essere applicate anche provvisoriamente, qualora ne sussistano i requisiti (art. 206 c.p.), e che possono essere revocate, allorché le persone ad esse sottoposte abbiano cessato di essere socialmente pericolose (art. 207 c.p.). Tanto premesso, l'interesse psichiatrico forense in relazione a tali nozioni giuridiche deriva dal fatto che in presenza di un autore di reato cui sia stato riconosciuto un "vizio di mente", parziale o totale, al perito può essere chiesto di valutare se sussista la c.d. "pericolosità sociale psichiatrica", ovvero, come si vedrà meglio in seguito, la probabilità che, a causa dell'accertato attuale sussistere dell"'infer-

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mità" che aveva indotto il funzionamento psicopatologico determi­ nante il reato, il soggetto possa commettere in futuro nuovi fatti penalmente rilevanti. In altre parole, al perito può essere richiesto un parere tecnico finalizzato ad identificare, sulla base delle condizioni psicopatologi­ che dell'autore di reato al momento dell'accertamento, la presenza di indicatori clinico-prognostici circa un probabile futuro comporta­ mento illecito del periziando correlato alla persistenza o all'evolu­ zione della patologia. La "pericolosità sociale psichiatrica", se riconosciuta, comporta l'applicazione delle cosiddette "misure di sicurezza psichiatriche": tali provvedimenti, che per molto tempo sono stati rappresentati unica­ mente dall'internamento in manicomio giudiziario ovvero in casa di cura e custodia, negli ultimi decenni hanno subito importanti modi­ fiche tanto nella loro natura quanto nella loro finalità, per cui converrà ripercorrere sinteticamente i principali sviluppi in merito.

3.2. Evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di perico­ losità sociale e di misure di sicurezza "psichiatriche".

Il codice penale del 1 930 nella sua formulazione originaria, prevedeva due forme di pericolosità: quella accertata di volta in volta dal Giudice sulla base dei criteri sanciti dall'art. 1 33 c.p. ; quella presunta dalla legge (ex art. 204 c.p.). In particolare, l'art. 204 c.p., al comma secondo, stabiliva che

"Nei casi espressamente determinati la qualità di persona socialmente pericolosa è presunta dalla legge". Tale presunzione, i n combinato disposto con gli artt. 219 (9) e 222 ( 10) c.p., determinava, per quanto di nostro interesse, una sorta di (9) Art. 2 1 9 c.p. (Assegnazione a una casa di cura e di custodia). "Il condannato, per delitto non colposo a una pena diminuita per cagione di infèrmità psichica o di cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per cagione di sordomutismo, è ricoverato in una casa di cura e di custodia per un tempo non inferiore a un anno, quando la pena stabilita dalla legge non è inferiore nel minimo a cinque anni di reclusione. Se per il delitto commesso è stabilita dalla legge la pena di morte o la pena dell'ergastolo, ovvero la reclusione non inferiore nel minimo a dieci anni, la misura di sicurezza è ordinata per un tempo non inferiore a tre anni ... . ( 10) Art. 222 c.p. (Ricovero in un manicomio giudiziario). "Nel caso di proscioglimento per infermità psichica, ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo, è sempre ordinato il ricovero dell'imputato in un manicomio giudiziario per un tempo non inferiore a due "

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automatismo tra riconoscimento del vizio di mente, giudizio di pericolosità sociale e applicazione delle misure di sicurezza "psichia­ triche", per cui il sofferente psichico autore di reato di una certa rilevanza veniva "automaticamente" ritenuto socialmente pericoloso e, pertanto, internato per un periodo di tempo minimo determinato ex lege in un manicomio giudiziario (poi trasformatosi in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, O.P.G.) ovvero in una Casa di Cura e Custodia (C.C.C.). Il sistema penale introdotto dal Legislatore del 1 930 aderiva, dunque, all'orientamento dominante dell'epoca secondo cui "Debbono

essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi" ( 1 1 ). In altre parole, s i riteneva che l'unica risposta possibile al disagio mentale ed alle conseguenze antisociali che ne potevano conseguire fosse da identificarsi nell'internamento del malato psi­ chico in strutture "neutralizzanti", rappresentate principalmente dai manicomi civili e criminali. Il sistema, come evidenzia Cascini, presentava, quindi, una propria intrinseca coerenza: se la prospettiva custodialistica rappre­ senta la risposta socio-sanitaria alla malattia mentale, ben può assolvere anche alla funzione di tutelare la collettività dai rischi derivanti dalla non punibilità dei sofferenti psichici autori di re­ ato ( 12). Tale impostazione iniziò a sgretolarsi con l'introduzione della anni; salvo che si tratti di contravvenzione o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la legge stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel massimo a due anni, nei quali casi la sentenza di proscioglimento è comunicata all'Autorità di pubblica sicurezza. La durata minima del ricovero nel manicomio giudiziario è di dieci anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena di morte o l'ergastolo, ovvero di cinque se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a dieci anni . . . Le disposizioni di questo articolo s i applicano anche ai minori degli anni quattordici o maggiori dei quattordici e minori dei diciotto, prosciolti per ragione di età, quando abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, trovandosi in alcuna delle condizioni indicate nella prima parte dell'articolo stesso". ( I I ) Art. l, Legge 14 febbraio 1 904, n. 36. (I 2) CASCINI G., Pericolosità sociale, presidi "civili", misure cautelari ed applica­ zione prowisoria di misure di sicurezza: ambiguità normative di un campionario articolato, Atti dell'incontro di studi "Disagio mentale, dipendenza da alcool e stupe­ facenti, tra libertà di autodeterminazione ed esigenze di tutela" organizzato dal C.S.M. a Roma in data 8 febbraio 200 1 .

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Legge 1 3 maggio 1 978, n. 1 80 ( 1 3), che, negando ogni validità terapeutica all'istituzione manicomiale, di cui decretò anche l'aboli­ zione, restituì al sofferente psichico la stessa dignità che hanno le persone affette da altre patologie e trasformò il modello custodiali­ stico di sicurezza sociale in una prospettiva di cura e di superamento, ove possibile, del disagio e della malattia. Non è questa la sede per un'analisi completa della disciplina introdotta dal Legislatore del 1 978, tuttavia, ai nostri fini, basti rilevare che nella legge scompare ogni riferimento alla "pericolosità per sé o per gli altri" del sofferente psichico quale requisito per l'applicazione di un trattamento sanitario obbligatorio, con la previ­ sione che "le cure vengono prestate in condizioni di degenza ospedaliera

solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infenno e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempe­ stive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere" ( 1 4).

Con l'introduzione di tale norma, dunque, si nega l'automatismo tra malattia mentale e pericolosità e, soprattutto, si esclude qualsiasi funzione di difesa sociale dei trattamenti sanitari, cui viene restituita piena ed esclusiva finalità terapeutica. Cade, in sostanza, l'ipocrisia che pretendeva di attribuire natura terapeutica a provvedimenti di carattere preminentemente custodia­ listico, frutto del prevalere delle esigenze di difesa sociale e dei pregiudizi verso la patologia psichica. Sulla base di tali presupposti, l'approvazione della Legge n. 1 80 del 1 978 avrebbe dovuto portare anche ad una completa revisione della disciplina delle c.d. "misure di sicurezza psichiatriche", allo scopo di adeguare il trattamento del sofferente psichico autore di reato alle novità introdotte sul piano sanitario ed assistenziale. Tuttavia ciò non avvenne e negli anni molte delle disposizioni normative ormai in evidente contrasto con i principi costituzionali (art. 32 Cost.) e con le novità introdotte dalla riforma sanitaria sono state progressivamente ridimensionate ad opera della giurisprudenza; si è trattato, però, di interventi settoriali che non hanno modificato l'impostazione di fondo del sistema, nel quale, ancora oggi, perman­ gono contraddizioni ed incertezze, in bilico tra istanze di difesa sociale ed esigenze terapeutiche, ma soprattutto persiste, a dispetto della scelta radicale della Legge 1 80, l'istituzione manicomiale crimi­ nale, oggi denominata Ospedale Psichiatrico Giudiziario, come pre­ valente risposta penale al "malato di mente" autore di reato. (13) ( 14)

C.d. "Legge Basaglia". Art. 2, L. 13 maggio 1 978, n. 1 80.

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Una prima significativa sentenza della Corte costituzionale intervenuta in tale materia è la n. 1 1 0 del 1 974, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale del secondo comma dell'arti­ colo 207 c.p. nella parte in cui non consentiva la revoca della misura di sicurezza prima che fosse decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge. Successivamente quest'ultimo comma è stato formalmente abro­ gato dall'art. 89 della Legge 26 luglio 1 975 n. 354, che peraltro all'art. 69 attribuisce alla Magistratura di Sorveglianza la funzione di prov­ vedere "al riesame della pericolosità, nonché all'applicazione, esecuzione,

trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza". In conseguenza di tali innovazioni normative e giurispru­ denziali è venuta quindi a cadere la presunzione di durata della pericolosità sociale per il periodo minimo prefissato dalla legge ed è stato sancito che il magistrato di Sorveglianza, in qualunque mo­ mento dell'esecuzione, può procedere alla revoca della misura di sicurezza, sempre che le persone ad essa sottoposte abbiano cessato di essere socialmente pericolose. Alcuni anni dopo, due ulteriori pronunce della Consulta sono intervenute in modo significativo sulla previsione di pericolosità sociale presunta: con la sentenza n. 1 39 del 27 luglio 1 982, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità degli articoli 222 c.p., primo comma, 204 c.p., secondo comma, e 205 c.p., secondo comma, nella parte in cui non subordinavano il prowedimento di ricovero in manicomio giudiziario dell'imputato prosciolto per vizio totale di mente al previo accertamento, da parte del magistrato, della persi­ stente pericolosità sociale dell'autore di reato al momento della esecuzione della misura stessa; con la sentenza n. 249 del 1 5 luglio 1 983 la stessa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle disposizioni dell'articolo 2 1 9 c.p. nella parte in cui non subordina­ vano il ricovero in una casa di cura e di custodia del condannato a pena diminuita per vizio parziale di mente all'accertamento della persistente pericolosità sociale al momento della esecuzione della misura stessa. Il principio della necessaria "attualizzazione" della valutazione della pericolosità sociale è stato poi definitivamente codificato dalla Legge l O ottobre 1 986 n. 663, intitolata "Modifiche alla legge sull'ordi­

namento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà", che, all'art. 3 1 , ha abrogato definitivamente l'art. 204 c.p., eliminando tout court la fattispecie della pericolosità sociale presunta (15). ( 1 5)

Art. 3 1 , 2 comma, L . 1 0 ottobre 1 986, n . 663 (c.d. Legge Gozzini): "tutte le

Pericolosità sociale psichiatrica

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Tale innovazione ha rimediato a pesanti ingiustizie, come quella per la quale, ad esempio, chi era stato giudicato affetto da vizio parziale di mente e socialmente pericoloso si trovava ad essere comunque inserito in Casa di Cura e Custodia al termine della pena, anche se, in quegli anni, la sua pericolosità sociale fosse completa­ mente venuta meno. Attualmente, quindi, la pericolosità sociale deve sempre essere accertata dal magistrato, non solo in fase di cognizione, ma anche in fase di esecuzione. Come sintetizza Fomari, solo l'affermazione della pericolosità sociale presente e persistente al momento dell'erogazione del provve­ dimento comporterà l'applicazione delle misure di sicurezza ( 1 6). Pertanto, sul piano pratico, spetterà al giudice della cognizione l'accertamento di tale pericolosità, ex art. 3 1 della Legge n. 663 del 1 986, in rapporto al momento in cui tali misure vengono ordinate; poi spetterà al magistrato di sorveglianza, ex art. 679 c.p.p., il compito di verificare la persistenza della predetta pericolosità nel momento in cui le stesse devono essere eseguite. È importante ricordare che il magistrato di sorveglianza potrà, in tale fase, avvalersi anche della c.d. perizia criminologica, essendo autorizzato, ai sensi dell'art. 220 comma 2 c.p.p., a disporre anche valutazioni sulle "qualità psichiche indipendenti da cause patologiche", che sono invece vietate dallo stesso articolo in fase di cognizione. Recentemente, la Corte Costituzionale è intervenuta nuova­ mente in tale materia, dichiarando incostituzionale il "vincolo rigido

imposto al giudice di disporre comunque la misura detentiva . . . anche quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata . . . , appaia capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale ..."

( 1 7). In conseguenza di tale pronuncia, dunque, al giudice non spetta p iù soltanto stabilire "se" una misura di sicurezza debba applicarsi nei confronti dell' "infermo di mente autore di reato", ma anche "quale" misura di sicurezza eventualmente applicare, dovendo sem­ p re preferire la "misura più efficace terapeuticamente per garantire al

malato di mente prosciolto il diritto alla salute di cui all'art. 32 Cast. ",

m isure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha co mmesso il fatto è persona socialmente pericolosa". (1 6) FoRNARI U. op. cit. . ( 1 7 ) Corte Cast., sent. n . 253 del 2003.

1 06

Fondamenti di p sicopatologia forense

sempre che sia garantita la "presenza sul territorio di efficaci presidi socio-sanitari in grado di assistere il soggetto o di contenere, attraverso la somministrazione di opportune terapie, la pericolosità sociale eviden­ ziatasi al momento del fatto" (18) . Pertanto, in luogo dell'internamento i n O.P.G., è oggi possibile il ricorso alla misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata. Si tratta di misura disciplinata dall'art. 228 c.p. che prevede che

"alla persona in stato di libertà vigilata sono imposte dal giudice prescrizioni idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati", mentre l'art. 232 c.p. (19) ne condiziona l'attuazione alla concreta possibilità di "affidare" il soggetto socialmente pericoloso "a coloro che abbiano obbligo di provvedere alla sua educazione o assistenza, ovvero a istituti di assistenza sociale". Ciò ha aperto la possibilità di prevedere misure di trattamento in ambiti diversi dall'O.P.G. per il sofferente psichico autore di reato socialmente pericoloso, che prima della sentenza era invece inevita­ bilmente destinato all'internamento in questo tipo di strutture, a prescindere da una valutazione critica circa l'adeguatezza della mi­ sura alle problematiche individuali ed alla sua capacità di far fronte e migliorare le condizioni di salute della persona, avendo come unico obiettivo quello di contenerne e neutralizzarne la pericolosità so­ ciale (20). Tale principio nel 2004 è stato esteso dalla Corte Costituzio­ nale (21 ) anche alla fase cautelare, per cui si è ritenuto " . . . costituzio­

nalmente illegittimo l'articolo 206 c.p. nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una misura di sicurezza non detentiva, prevista dalla legge, idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate a contenere la sua pericolosità sociale" (22 ) . ( 1 8) Ibidem. ( 1 9) Art. 232 c.p. (Minori o infermi di mente in stato di libertà vigilata). "La persona di età minore o in stato di infermità psichica non può essere posta in libertà vigilata, se non quando sia possibile affidarla ai genitori o a coloro che abbiano obbligo di provvedere alla sua educazione o assistenza, ovvero a istituti di assistenza sociale. Qualora tale affidamento non sia possibile o non sia ritenuto opportuno, è ordinato, o mantenuto, secondo i casi, il ricovero nel riformatorio, o nella casa di cura e di custodia. Se, durante la libertà vigilata, il minore non dà prova di ravvedimento o la persona in stato d'infermità psichica si rivela di nuovo pericolosa, alla libertà vigilata è sostituito, rispettivamente, il ricovero in un riformatorio o il ricovero in una casa di cura e di custodia". (20) CATANESI R., CARABELLESE F., GRAnAGLIANO I., Cura e controllo. Come cambia la pericolosità sociale psichiatrica, in Giom. !tal. Psicopat. 2009; 1 5:64-74. (2 1 ) Corte Cast., sent. n. 367 del 2004. (22) Art. 206 c.p. (Applicazione provvisoria delle misure di sicurezza).

Pericolosità sociale psichiatrica

1 07

Recentemente la Consulta ha definitivamente sancito la legitti­ mità costituzionale di tale interpretazione anche in riferimento all'art. 2 1 9 c.p., ribadendo che "risulta ormai presente nella disciplina sulle

mis ure di sicurezza il principio secondo il quale si deve escludere l'automatismo che impone al giudice di disporre comunque la misura detentiva, anche quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, accompa­ gnata da prescrizioni stabilite dal giudice medesimo, si riveli capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale. Tale principio, dettato in relazione alla misura del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, vale anche per l'assegnazione ad una casa di cura e di custodia, che è, a sua volta, misura di sicurezza detentiva e quindi segregante, sicché ad essa ben si attagliano le conclusioni circa la violazione del principio di ragionevolezza e del diritto alla salute svolte, in particolare, nella sentenza n. 253 del 2003" (2 3). In conclusione, a seguito di tali interventi della Consulta sembra finalmente essersi aperta la via per "sottrarre" all'O.P.G. ed inserire in strutture comunitarie, o addirittura in trattamento presso i servizi psichiatrici ambulatoriali ed ospedalieri del territorio, i sofferenti psichici autori di reato e socialmente pericolosi. Tale impostazione è stata accolta tout court anche dalla Corte di Cassazione, che recentemente ha ribadito da un lato che "a seguito

della sentenza della Corte Costituzionale del 27 luglio 1 982 n. 139, che ha dichiarato illegittimo l'art. 222 c.p. nella parte in cui non subordina il provvedimento di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario dell'im­ putato prosciolto per infèrmità psichica al previo accertamento da parte del giudice della persistente pericolosità sociale derivante dalla mede­ sima infermità al momento della applicazione della misura, non è più obbligatorio il ricovero in ospedale psichiatrico dell'imputato in caso di proscioglimento ex art. 88 c.p.. Inoltre, in seguito alla dichiarata incostituzionalità dell'art. 222 c.p. nella parte in cui non consente al giudice di adottare un'altra fra le misure di sicurezza previste dalla legge, allorché in concreto ravvisi l'inidoneità del ricovero in ospedale psichia­ trico, il giudice può applicare misura di sicurezza diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico oppure può ritenere di non applicare alcuna "Durante l'istruzione o il giudizio, può disporsi che il minore di età, o l'infermo di mente, o l'ubriaco abituale , o la persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti, o in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti, siano provviso­ riamente ricoverati in un riformatorio o in un manicomio giudiziario, o in una casa di cu ra e di custodia" . (23) Corte Cost., sent. 9 luglio 2009, n. 208.

1 08

Fondamen ti di psicopatologia forense

misura quando la infermità riscontrata al momento del fatto non comporti attuale pericolosità. Da tutto ciò consegue che nella ipotesi in cui il giudice ritenga di applicare una misura di sicurezza ha il dovere di motivare in ordine alla accertata e ritenuta attuale pericolosità sociale dell'imputato" (24) e dall'altro ha riaffermato l'ampiezza dei poteri del magistrato di sorveglianza in tema di esecuzione delle misure di sicurezza (25). Dopo aver riassunto l'iter normativa e giurisprudenziale in materia, vediamo dì approfondire, a questo punto, quale può essere il contributo psichiatrico forense in tema di pericolosità sociale.

3.3. La valutazione psichiatrico forense della pericolosità del malato di mente autore di reato.

Nell'ambito della perizia psichiatrica sull'autore di reato, il quesito relativo alla c.d. "pericolosità sociale psichiatrica" è solita­ mente posto dal giudice dopo quello concernente l'imputabilità, e in linea di massima è così strutturato:

"In caso di riconoscimento di un vizio parziale o totale di mente, dica il perito se, in dipendenza dell'infermità riscontrata, il periziando sia attualmente da considerare persona socialmente pericolosa ex art. 203 c.p." . Tale valutazione implica che, a differenza di quanto previsto per l'imputabilità, l'indagine clinica sull'eventuale presenza della "perico­ losità sociale psichiatrica" dell'autore di reato si riferisca al momento dell'esame peritale e non a quello in cui fu commesso il reato. L'esperto, cioè, deve accertare l'attuale sussistenza dell'infermità che aveva indotto il funzionamento psicopatologico determinante il reato e deve valutare la probabilità che, in base alla natura e all'evoluzione della patologia diagnosticata, il soggetto possa com­ piere in futuro nuovi comportamenti illeciti. (24) Cass. pen., sez. V, 20 febbraio 2008, n. 2 2 1 93. (25) "Potendo procedere in ogni momento al riesame della pericolosità del condan­ nato, è evidente che il magistrato di sorveglianza possa disporre l'esecuzione della misura più adeguata alla sua personalità , traendo elementi di convincimento per la sostituzione o la revoca delle misure di sicurezza sulla base delle disposizioni degli artt. 133 e 203 c.p .. Nulla vieta al magistrato di sorveglianza di sostituire il ricovero in un ospedale psichia­ trico giudiziario con una misura di sicurezza non detentiva (la libertà vigilata) allorché sia stata accertata la diminuzione della sua pericolosità sociale. Così, cessata l'infermità psichica, il magistrato di sorveglianza ben può procedere a un nuovo esame della pericolosità e, se questa permane, applicherà la misura della colonia agricola o della casa di lavoro, se non ritiene di applicare solo la libertà vigilata" (Cass. pen., sez. I, 2 marzo 2007, n. 1 1 273).

Pericolosità sociale psichiatrica

1 09

Pertanto, due sono le operazioni tecniche che devono essere effettuate per rispondere al quesito: la diagnosi e la prognosi. La prima implica l'accertamento della presenza "attuale" del disturbo psicopatologico che aveva "determinato" il comportamento antigiuridico. La seconda consiste in una vera e propria prognosi di recidiva, ovvero nella valutazione specifica del grado di probabilità che il disturbo persista e che possa determinare ricadute psicopatologiche che determinino ulteriori comportamenti penalmente rilevanti. Si tratta, in altre parole, di prevedere l'evoluzione della patologia in atto e di analizzare analiticamente i fattori che possono influire in senso positivo o negativo sul decorso della stessa, cercando di valutare in concreto il rischio clinico di scompensi psico-comportamentali futuri. Tale previsione implica l'approfondita disamina clinica del soggetto e, soprattutto, la valutazione e la misurazione di tutte le variabili bio-psico-sociali che possono influenzare la prognosi psi­ chiatrica del caso specifico. Fornari (26) e Manacorda (27), a tal proposito, hanno proposto l'utilizzo di alcuni indicatori, distinti dal primo in interni ed esterni e dal secondo in intrinseci ed estrinseci. Prendendo spunto da quanto suggerito dai due Autori, possiamo ricordarli come segue:

Indicatori interni/intrinseci: 1 . presenza e persistenza di sintomatologia psicopatologica; 2. valutazione dello sviluppo del disturbo e delle ragioni di scompenso; 3 . evoluzione e prognosi del disturbo in sé considerato; 4. incidenza del disturbo nella commissione del reato; 5. attuale capacità di rielaborazione critica della pregressa condotta illecita: 6. concorrenza di comorbidità o doppia diagnosi; 7. insufficiente o assente consapevolezza di malattia; 8. scarsa o nulla aderenza alle prescrizioni sanitarie; 9. mancata o inadeguata risposta alle terapie; l O. presenza di segni di disorganizzazione cognitiva e di impo­ verimento ideo affettivo e psicomotorio (sensibile compromis­ sione delle abilità sociali e delle risorse premorbose) che impe­ discano un compenso accettabile e affidabile.

Indicatori esterni/estrinseci: (26) ( 27 )

FaRNARI U., op. cit. . MANACORDA A., La perizia psichiatrica nel processo penale, C .I .C., Roma, 2003.

Fondamenti di psicopatologia forense

1 10

l . caratteristiche dell'ambiente familiare e sociale di apparte­ nenza (accettazione, conglobamento, rifiuto, indifferenza); 2. esistenza ed adeguatezza dei servizi psichiatrici di zona, disponibilità e capacità di formulare progetti terapeutici da parte degli stessi; 3. possibilità di (re)inserimento lavorativo o soluzioni alterna­ tive; 4. tipo, livello e grado di accettazione del rientro del soggetto nell'ambiente in cui viveva prima del fatto reato; 5. opportunità alternative di sistemazione logistica; 6. sussistenza di risorse economiche ed abitative. Sulla base di tali elementi, il perito potrà fornire al Giudice dei parametri quali-quantitativi che gli permettano, sulla scia delle già citate pronunce della Corte Costituzionale, di scegliere anche quale misura eventualmente adottare. Ovviamente, nel caso in cui non venga accertata alcuna infer­ mità, il perito non dovrà rispondere al quesito circa l'esistenza della "pericolosità sociale psichiatrica", in quanto l'area di competenza peritale è e rimane solo tecnica, unicamente relativa alla valutazione clinico-prognostica del quadro psichiatrico. È comunque riduttiva e scarsamente utilizzabile una risposta del­ l'esperto formulata sulla semplice affermazione di una situazione di pericolosità sociale tout court, mentre è indispensabile che il perito si preoccupi di offrire al Giudice quelle nozioni tecnico-scientifiche es­ senziali per una corretta valutazione del rischio di ricadute psichiatri­ che e, quando possibile, di ulteriori recidive antigiuridiche, tanto da aiutare lo stesso, in aggiunta a tutti gli altri elementi indizianti di cui all'art. 1 3 3 c.p., ad esprimersi in concreto sulla pericolosità sociale ex art. 203 c.p . . A tale riguardo, anche l a giurisprudenza sottolinea che "la pericolosità sociale di cui all'art. 203 c.p. non può essere confusa con la

pericolosità valutata esclusivamente sul piano psichiatrico, in correla­ zione con la natura e con l'evoluzione dello stato patologico" (2 8 ) e che "ai fini del giudizio di pericolosità, hanno rilevanza anche la natura e gravità dei fatti-reato, per cui il giudice non è tenuto a prendere in considerazione soltanto i dati di natura medico-psichiatrica, ma ben può attribuire rilievo a qualsiasi altro elemento ritenuto utile ai fini della prognosi di pericolosità" (29 ) .

Tutto ciò ricordato, sembra opportuno schematizzare, anche alla luce delle recenti innovazioni di cui si è detto, le differenti ( 28) (29 )

Cass. pen., sez. I, 20 settembre 1 996, n. 8996. Cass. pen., sez. I, 4 maggio 1 984, n. 8552.

Pericolosità sociale psichiatrica

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conseguenze penali che possono essere applicate sulla base delle varie risposte che vengono fornite dal perito circa i due distinti quesiti sull'imputabilità e sulla pericolosità sociale psichiatrica: a) soggetto considerato imputabile = misura penale ed even­ tuale applicazione di misure di sicurezza se giudicato peri­ coloso; b) soggetto con vizio totale di mente, non pericoloso = esclu­ sione della pena (assoluzione per non imputabilità) e non applicazione di misure di sicurezza; c) soggetto con vizio parziale di mente, non pericoloso = ridu­ zione della pena di un terzo e non applicazione di misure di sicurezza; d) soggetto con vizio totale di mente ed accertata pericolosità sociale = esclusione della pena (assoluzione per non imputa­ bilità) ed internamento senza vincoli di durata in O.P.G. (misura di sicurezza) ovvero libertà vigilata, con eventuali obblighi di educazione, assistenza e cura; e) soggetto con vizio parziale di mente ed accertata pericolosità sociale = riduzione della pena e successivo inserimento in Casa di Cura e Custodia (misura di sicurezza) ovvero libertà vigilata, con eventuali obblighi di educazione, assistenza e cura. Ben si comprende, quindi, come le conseguenze delle risposte del perito ai quesiti della perizia psichiatrica possano aprire prospet­ tive molto differenziate ed alle volte del tutto inadeguate alle reali condizioni degli autori di reato sofferenti psichici. 3.4. Malattia mentale e crimine: dalla "pericolosità sociale" al "risk assessment". 3.4. 1 .

La prognosi in psichiatria forense.

Nei primi decenni del secolo scorso l'interpretazione giuridica della nozione di pericolosità sociale di cui all'art. 203 c.p. ed il concetto di "pericolosità per sé e per gli altri", che connotava l'allora predominante paradigma interpretativo della malattia mentale risul­ tavano sostanzialmente sovrapponibili. Queste definizioni corrispondevano ad un modello di tipo de­ terministico, per il quale la malattia mentale costituiva una realtà così devastante, incontrollabile ed irreparabile da determinare, in modo p ressoché automatico, tanto la non imputabilità del malato, quanto la presunzione di pericolosità dello stesso. Non a caso, infatti, sia il malato di mente autore di reato, sia quello che non aveva commesso alcun fatto illecito, erano ugualmente inseriti

Fondamenti di psicopatologia forense

112

in strutture di tipo custodialistico, con l'obiettivo prioritario di neu­ tralizzare il potenziale comportamento "antisociale" derivante dalla loro condizione psicopatologica e di tutelare la collettività nei loro con­ fronti. In altre parole, la "malattia mentale" veniva automaticamente sovrapposta a concetti quali violenza, aggressività, incontrollabilità, contribuendo ad incrementare lo stigma ed il pregiudizio sul soffe­ rente psichico, considerato sempre e comunque pericoloso. Dopo la metà del '900, come detto, grazie anche al fiorire della psicofarmacologia, la psichiatria italiana ha vissuto una trasforma­ zione radicale rispetto ai modelli del passato, restituendo al "matto" la dignità di "malato", e quindi di individuo necessitante cure ed assistenza in modo analogo a qualunque altro paziente "clinico". Tale riforma, tuttavia, ha contribuito a creare un differente equivoco: se da un lato è certo che non esiste alcun automatismo tra malattia psichica e pericolosità, dall'altro non si può negare sic et simpliciter che alcuni disturbi psichiatrici possano rappresentare un fattore di rischio di comportamento violento (30). È evidente, anche se non frequente, il riscontro di individui, malati di mente, che commettono reati violenti in conseguenza della loro condizione psicopatologica e per i quali, in sede psichiatrico forense, può essere necessaria un'indagine finalizzata ad accertarne la "pericolosità", intesa, però, più propriamente come valutazione del rischio di recidiva psicopatologica, con concomitanti e probabili agiti violenti od aggressivi (3'). In realtà, quindi, la nozione giuridica della "pericolosità sociale psichiatrica", intesa come probabilità del sofferente psichico autore di reato di commettere genericamente "nuovi fatti preveduti dalla legge come reati", fa riferimento ad impostazioni dogmatiche superate da decenni e risulta in stridente contrasto con gli sviluppi della cultura psichiatrica contemporanea. Tale contrasto è sinteticamente rappresentato dal "classico" quesito che viene posto al perito in tema di pericolosità sociale, che sembra demandare all'esperto un compito che poco ha a che fare con la scienza, quasi un' "arte divinatoria", e dalla cui risposta peraltro spesso dipende l'iter di selezione e di trattamento del sofferente psichico autore di reato. Per questi motivi, nell'ultimo trentennio, il dibattito psichiatrico

(30)

FAZEL S., GRANN M., The population impact of severe menta[ illness on violent

crime, in Am l Psychiatry, 2006, 163:1397. (31) BoNTA J., LAw M., HANSON K., The prediction of criminal and violent recidivism among mentally disordered offenders: A meta-analysis, in Psychological Bulletin, 1998, 123:123.

Pericolosità sociale psichiatrica

1 13

forense su questo argomento è stato molto intenso, registrando la critica, e spesso il furore e l'impotenza, dei tecnici di fronte a previsioni normative che, nonostante il passare dei decenni, non mutavano in modo sostanziale. Tale situazione di "immobilismo" legislativo sembra aver ini­ ziato un significativo processo di trasformazione in seguito alle già citate pronunce della giurisprudenza che, come evidenziato da Cata­ nesi e coll., hanno di fatto aperto "una nuova stagione" (32 ) nel trattamento del sofferente psichico autore di reato. Anche alla luce di tale cambiamento interpretativo, si ribadisce che il generico concetto di "pericolosità", anche in ambito forense, dovrebbe assumere i connotati più clinici di una "prognosi" e, soprattutto, i contorni più definiti di una vera e propria valutazione e gestione del rischio di comportamento violento da parte del sofferente psichico autore di reato (33). A questo punto sembra opportuno richiamare, in estrema sin­ tesi, i risultati più interessanti delle ricerche che hanno cercato di dimostrare se sussista o meno un rapporto tra "malattia mentale" e crimine e se esistano e quali possano essere gli strumenti utilizzabili nella valutazione e nella gestione del rischio di comportamento violento. 3.4.2.

Il legame tra malattia mentale e crimine.

Molti esempi di costruzione culturale e sociale della "pericolo­ sità" del sofferente psichico sono stati documentati nel corso di tutta la storia delle civiltà, fino al momento attuale, ove il rapido sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e la crescente esigenza di giustificare con la malattia delitti efferati, hanno assegnato al "killer folle" il ruolo di minaccia diffusa e imprevedibile. La propensione dei pazienti psichiatrici a commettere atti criminali ha rappresentato argomento di intenso dibattito anche tra gli studiosi dell'ultimo secolo, alimentato dagli stereotipi negativi e dalle scarse conoscenze scientifiche circa la "malattia mentale". Malintesi e paure, spesso infondate, hanno per lungo tempo riverbe­ rato i loro effetti anche in ambito giudiziario, dove le esigenze di cura del sofferente psichico sono state prevaricate dalle esigenze di con­ trollo e di difesa sociale. (32) CATANESI R., CARABELLESE F., GRATTAGLIANo I., op. cit.. (33) STEADMAN H., MoNAHAN J., RoBBINS P., ArrELBAUM P., GRisso T., KLAsSEN D., MuLVEY E., RoTH L. From dangerousness to risk assessment: implications far appropriate research strategies, in HooGINS S. (a cura di), Menta/ Disorder and Crime, Sage Publica­ tions Inc., Thousand Oaks, CA, 1 993.

Fondamenti di psicopatologia forense

114

Alcune immagini, ripetute ossessivamente nei film e nei pro­ grammi televisivi per tutto il ventesimo secolo, hanno portato alla convinzione comune che la malattia mentale sia associata invariabil­ mente con una forte inclinazione verso il crimine, ed in particolare verso il crimine violento. Anche se il rapporto tra malattia mentale e criminalità è stato scientificamente esplorato fin dalla metà del XIX secolo (34), uno dei primi studi finalizzati ad indagare in modo specifico se i pazienti psichiatrici rappresentino realmente una minaccia criminale per la comunità è stato condotto nel1920

(35).

In questa ricerca, l'Autore ha

seguito un campione di 700 ex pazienti psichiatrici per 3 mesi dopo il loro rilascio dall'ospedale e ha evidenziato che solo 12 di essi erano stati arrestati per reati durante quel periodo. Nei quattro decenni successivi al lavoro di Ashley, ulteriori studi hanno cercato di valutare in modo scientifico l'esistenza di una relazione tra malattia mentale e comportamento criminale, mettendo fortemente in dubbio la consistenza e la frequenza del fenomeno.

Pollock,

analizzando i pazienti rilasciati sulla parola da tutti gli

ospedali psichiatrici dello Stati di New York nel1937, ha evidenziato come questi soggetti venissero arrestati di meno rispetto ai membri della popolazione in generale Successivamente,

Cohen

(36). e Freeman

hanno indagato circa 1700

pazienti rilasciati sulla parola dagli ospedali statali del Connecticut, evidenziando che il tasso d'arresto nella popolazione generale era ben 15 volte superiore al tasso d'arresto nel campione ex psichiatrico Nei primi anni '60, Brille

Melzberg (38),

(37).

in uno studio condotto

su 10.247 soggetti di sesso maschile di età superiore ai 16 anni, dimessi da ospedali psichiatrici, hanno riscontrato che la percentuale di arresto degli ex pazienti nei cinque anni successivi alle dimissioni era del12,22%, mentre il tasso di arresti nei gruppi di controllo era di gran lunga superiore.

Traverso,

in uno studio condotto su 320 pazienti dell'Ospedale

Psichiatrico di Genova, ha segnalato che i precedenti penali di questi soggetti consistevano in reati di scarsa entità e non erano comunque

(34)

GRAY J.

(35)

AsHLEY

P., Homicide in insanity, in Am

l Insanity, 1857, 14:119-143. M., Outcorne of 1,000 cases paroled {rom the Middletown State Hospital, in State Hospital Quarterly, 1922, 8:64-70. (36) PoLLOCK H.H. fs the paroled patient a threat to the cornmunity?, in Psychiatric Quarterly, 1938, 12:236-24 12: (37) CoHEN L., FREEMAN H., How dangerous to the community are state hospital patients?, in Connecticut State Medicai Journal, 1945, 9:697-700. ( 38) BRILL H., MALZBERG B., Statistica! report based on the arrest records of 5.347 male ex-patients released {rom N.Y. State Menta! Hospitals During the Period 1946-1948. A.P.A., Washington D.C., 1962.

Pericolosità sociale psichiatrica

1 15

correlati con la gravità del disturbo psichico, ma piuttosto con condizioni generali di marginalità sociale (39). Zitrin e coll. , in una ricerca condotta negli anni '70 su malati di mente dimessi dal Bellevue Hospital di New York, riportano dati che parzialmente contrastano con i risultati delle precedenti ricerche. Tali autori riscontrano, infatti, che i tassi di arresto del loro campione erano più alti di quelli della popolazione in generale, anche se i tassi di arresto per gravi reati (omicidio e rapina) risultavano più bassi tra i dimessi dell'ospedale psichiatrico che nella popolazione dell'area adiacente al­ l'ospedale. Gli stessi autori, comunque, non ritengono di poter affer­ mare che la malattia mentale costituisca un fattore di pericolosità (40) . Rubin, sempre in quel periodo, attraverso una rassegna delle principali ricerche sulla criminalità dei dimessi da istituzioni psichia­ triche, giunge alla conclusione che tali soggetti hanno percentuali di arresto simili a quelle della popolazione in generale e sottolinea che i fattori maggiormente in grado di predire gli arresti dopo le dimissioni consistono nella giovane età, nell'appartenenza al sesso maschile, nella condizione di non coniugato, disoccupato e appartenente a minoranze etniche: gli stessi fattori, cioè che sono ritenuti predittivi di criminalità nella popolazione in generale (4 1 ) . Cocozza e Steadman , al fine d i verificare nello specifico il rapporto tra malattia mentale e crimini violenti, hanno esaminato i certificati penali di circa 4.000 pazienti dimessi dagli Ospedali psi­ chiatrici di New York negli anni 1 968 e 1 97 5, per un periodo di follow-up di 1 9 mesi. I risultati ottenuti per entrambi gli anni considerati dimostrano che gli arresti dopo le dimissioni sono stati più alti di quelli relativi alla popolazione in generale soltanto nel gruppo di pazienti che già prima del ricovero aveva subito altri arresti, e che i reati violenti erano presenti con maggior frequenza tra i soggetti che avevano avuto numerosi arresti già prima del ricovero nell'istituzione psichiatrica (42 ) . Accanto alla ricerca finalizzata a verificare la consistenza della criminalità tra i pazienti dimessi dalle istituzioni psichiatriche, si è sviluppato un ampio campo di indagine relativo alla recidiva delin(39) TRAVERSO G.B., Social contro/ of abnonnal law violators. Preliminary fmdings of a research on the relations of menta/ illness to crime. Atti delle VI Giornate Internazionali di Criminologia Clinica Comparata, Genova, 1 978. (40) ZITRIN A. e Coli., Crime and Violence among Menta! Patients, in Am J Psych, 1 976, 1 3 3 : 1 4 2 .

(41) RuBIN B., Prediction of Dangerousness i n Mentally Ili Criminals, i n Arch Gen Psvch, 1 97 2 , 27:397. (42) CocozZA J.J., STEADMAN H.J., The Failure of Psychiatric Predictions of Dange­ rousness: Clear and Cnnvncing Evidence, in Rutgers Law Review 1 976, 2 9 : 1 084.

1 16

Fondamenti di psicopatologia forense

quenziale dei malati di mente, comparata con quella dei delinquenti "normali". Morrow e Peterson, in uno studio longitudinale su un campione di delinquenti malati di mente dimessi da un'istituzione psichiatrica del Missouri, hanno riscontrato una sostanziale analogia tra questi soggetti e i delinquenti normali, per quanto riguarda sia il tasso di recidivismo, sia i tipi di reato (predominanza di reati contro la proprietà), sia le variabili prognostiche (condizione economica ed età) (43). Ancora Steadman e Cocozza in un'importante ricerca sulla pericolosità dei delinquenti malati di mente, hanno seguito, per un periodo di quattro anni, 967 pazienti dimessi da un manicomio criminale contro il parere degli psichiatri, a seguito di una decisione della Corte suprema degli Stati Uniti (Baxtrom Decision). Nonostante questi pazienti fossero stati trattenuti per anni nell'istituzione, per il timore che essi si dimostrassero pericolosi, soltanto il 2 1 % dei dimessi mise in atto un comportamento aggressivo dopo le dimissioni; è da notare, inoltre, che solo il 3% mise in atto un comportamento violento tale da determinare un nuovo ricovero in manicomio criminale e che soltanto il 2% fu condannato per crimini violenti nei quattro anni successivi alla dimissione (44) . Analoghi risultati sono stati ottenuti mediante ricerche che si sono occupate di accertare eventuali disturbi psichici negli autori di reato. Guze e Coli. hanno condotto una ricerca longitudinale su 223 soggetti di sesso maschile condannati per reati gravi, sottoponendoli ad un'accurata diagnosi psichiatrica ed integrando i loro dati con quelli di colloqui psichiatrici eseguiti su tutti i parenti di primo grado dei soggetti. I delinquenti e i loro parenti sono stati, inoltre, riesami­ nati a distanza di 8-9 anni. Attraverso la loro indagine, gli autori sopramenzionati hanno dimostrato che "la schizofrenia, la psicosi

maniaco-depressiva, le sindromi psicorganiche, le neurosi e l'omoses­ sualità presentano la stessa frequenza sia nei soggetti delinquenti sia nella popolazione in generale", giungendo alla conclusione che non

esiste una correlazione tra crimine e malattie di mente, se si esclu­ dono le categorie dei sociopatici e degli alcoolisti (45). Boker e Hafner, sulla base dei risultati di una ricerca condotta (43 ) MoRRow W.R., PETERSON D.B., Follow Up of Discharged Psychiatric Offenders, "Not Guilty for Reason of lnsanity" and "Criminal Sexual Psychopaths, in J Crim Law Criminol, 1 966, 57:3 1 . (44 ) STEADMAN H.J., CocozzA J., Psychiatry, Dangerousness and the Repetitevely, Vio lent Offender, in J Crim Law Criminol, 1 978, 69:226. (45) GuzE S.B. e Coli., Psychiatric Disorders and Criminality, in lAMA, 1 974, 227:64 1 .

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nella Repubblica federale tedesca su 533 soggetti malati di mente ed autori di omicidio o tentato omicidio (4 1 0 maschi e 1 23 femmine), giungono alla conclusione che i disturbi psichiatrici non sono corre­ lati con questi tipi di reato. Gli autori hanno infatti rilevato che i malati di mente rappresentano circa il 3% delle persone condannate per omicidio o tentato omicidio e che questa percentuale è analoga alla percentuale di malati di mente presente nella popolazione (valu­ tata attorno al 3-5% in Scandinavia, negli U.S.A. e in Inghilterra) (46 ) . Nel complesso, quindi, le ricerche empiriche effettuate soprat­ tutto dagli anni '60 agli anni '80 sembravano dimostrare non soltanto che i malati di mente non commettessero reati in misura maggiore dei non malati, ma anche che la recidiva delinquenziale dei malati di mente che hanno compiuto reati non fosse dissimile dalla recidiva dei delinquenti in generale. Solo negli ultimi decenni del secolo scorso, alcuni studi hanno provato a rimettere in discussione il rapporto esistente tra malattia di mente e crimine e/o violenza rispetto alla popolazione generale. Swanson e coll. (47) , esaminando i dati del National Institute of Menta! Health's Epidemiologica! Catchment Area Study, hanno eviden­ ziato che i comportamenti violenti erano cinque volte più alti tra i soggetti psichiatrici che tra coloro che non avevano mai avuto disturbi psichici. Un'indagine a campione condotta a Stoccolma (48) , ha esplorato la natura e la portata dei crimini violenti commessi da individui affetti da disturbi psichiatrici maggiori (schizofrenia, disturbi bipolari, ecc.), rispetto a persone che vivevano nella stessa città e che non erano mai state diagnosticate come "psichiatriche". I risultati hanno indicato che gli uomini e le donne con gravi malattie mentali erano stati condannati per crimini violenti, rispettivamente, 4 e 27 volte più della popolazione generale. Link e coli. (49) hanno confrontato il tasso di criminalità tra ex pazienti psichiatrici con quello di 400 adulti che vivevano nello stesso contesto sociale, ma che non erano mai stati trattati per malattia mentale. Correggendo i risultati per età, sesso, etnia e status socio(46 ) BoKER W., HAFNER H., Gefalltaten Geistesgtestorterer. Eine psychiatrische Untersuchung in der BRD, Springer, Berlin, 1 973. ( 47) SwANSON J., HoLZER C., GANJU V., JoNo R., Violence and psychiatric disorder in the community: Evidence from the Epidemiologie Catchment Area surveys, in Hosp. Comm. Psych. , 1 990, 4 1 :761-770. (48) HooGINS S., Menta! disorder, intellectual defìciency, and crime: Evidence from a birth cohort, in Arch Gen Psych 1 992, 49:476-483 . (49 ) LINK B . , ANDREws H., CuLLEN F., The violent and illegal behavior of menta! patients reconsidered, in Am Socio/ Review, 1 992, 57:275-292.

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economico, i ricercatori hanno riscontrato che una maggiore percen­ tuale di ex pazienti erano stati arrestati per crimini violenti, e che tale dato era così significativo da far ritenere che l'associazione tra lo stato mentale del paziente e il comportamento violento fosse "troppo forte

per essere spiegato come artefatto". Questi Autori sottolineano, inoltre, che quando i pazienti erano in preda a sintomi psicotici (per esempio, allucinazioni, deliri) il rischio di violenza era notevolmente aumentato, mentre quando non lo erano, il loro rischio di violenza non era più elevato di quello del campione di controllo. Alla luce di tale evidenza, gli Autori hanno concluso che la gravità dei sintomi sia più predittiva di atti di violenza piuttosto che la semplice presenza di una malattia mentale. Analizzando ulteriormente la sopracitata ricerca, Link e Stueve (5 0) hanno evidenziato che il com­ portamento violento/criminale dei soggetti affetti da disturbi psichia­ trici maggiori era principalmente dovuto alla convinzione patologica che essi sì trovassero ad affrontare un pericolo imminente e, dì con­ seguenza, fossero costretti ad agire per autodifesa. Teplin (5 1 ) rileva che i soggetti affetti da disturbi psichiatrici maggiori con allucinazioni e deliri frequenti hanno maggiori proba­ bilità - ma non in modo così significativo - di essere arrestati di nuovo per crimini violenti anche dopo una lunga carcerazione. Beck (5 2 ) ha descritto una serie di studi che dimostrano che gli atti di violenza delle persone con schizofrenia siano spesso il frutto di deliri e che la loro "pericolosità" possa essere diminuita con l'uso corretto dei farmaci antipsicotici. Alla luce delle citate ricerche di Link e Swanson, Monahan (53 ) ha rivisto la sua posizione precedente sulla correlazione tra disturbo mentale e criminalità, che sosteneva che i soggetti affetti da disturbi psichiatrici maggiori non commettessero più crimini dei membri della popolazione in generale: "Insieme, questi due studi, suggeriscono

che i currently mentally disordered, cioè coloro che sono in fase florida con gravi sintomi psicotici, sono coinvolti in comportamenti violenti a tassi più elevati della popolazione generale, e che questa differenza

(50) LINK B., STuEVE A., Psychotic symptoms and the violent/illegal behavior of menta[ patients compared to community controls, in MoNAHAN J., STEADMAN H. (a cura di), Violence and menta! disorder: Developments in risk assessment, University of Chicago Press, Chicago, 1 994. (51) TEPLIN L.A., Psychiatric and substance abuse disorders among male urban jail detainees, in Am J Pub Health, 1 994, 84: 290-293. (5 2 ) BEcK J.L., Menta[ illness and violent acts: Protecting the patient and public, Paper presented at the annua[ meeting of the American Psychiatric Association, Toronto, Ontario, 1 998. (53) MoNAHAN J., Menta! disorder and violence: Another look, in HooGINS S. (a cura di), Menta[ disorder and crime, Sage, Newbury Park, CA, 1 993.

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persiste anche quando vengono presi in considerazione una vasta gamma di fattori demografici e sociali". Lo stesso Autore conclude, pertanto, che dato "che gli studi sono . stati condotti su campioni rappresentativi, errori di selezione non sono una plausibile spiegazione alternativa per le loro scoperte". Nei primi anni '90 un ambizioso progetto di ricerca coordinato da Steadman e Monahan, ha cercato di superare i limiti metodologici degli studi precedenti circa i rapporti tra malattia mentale e violenza. Il progetto, noto come "MacArthur Violence Risk Assessment Study", ha tentato di identificare i fattori di rischio specifici per il comportamento violento tra le popolazioni psichiatriche e compren­ derne la forza predittiva. Lo studio si è svolto in tre città e ha monitorato ex pazienti, sia uomini sia donne, durante il primo anno dopo il loro rilascio dagli ospedali psichiatrici. I dati ottenuti sono stati confrontati con quelli dei gruppi di con­ trollo, costituiti da persone che vivevano negli stessi ambienti degli ex-pazienti ma che non avevano avuto alcun ricovero psichiatrico. Durante le fasi di preparazione del progetto, gli Autori (54) hanno individuato quattro punti critici sul piano metodologico: la gamma limitata di variabili predittive, la debolezza degli indicatori, i ristretti campioni di convalida e la mancanza di sincronizzazione delle ricerche. Proprio nella consapevolezza di tali criticità sono state gettate le basi per la progettazione globale dello studio: considerando che le ricerche precedenti avevano valutato in modo essenzialmente mano­ dimensionale la prevalenza di comportamenti violenti (in genere desunta dai tassi di arresto o di condanna), il MacArthur ha preferito considerare una varietà di fonti, comprese le confessioni ufficiali, le testimonianze delle persone che avevano contatti regolari con i pazienti ed i verbali della polizia giudiziaria e dei servizi psichiatrici. Questa estensione ha consentito di vagliare un'ampia gamma di condotte violente, che andava dai gravi atti di aggressione alle forme più lievi di violenza. Confermando i risultati di alcuni studi precedenti (55), gli Auto(54) STEADMAN H., MoNAHAN J., Toward a rejuvenation ofrisk assessment research, in STEADMAN H., MoNAHAN J. ( a cura di), op. cit. . (55) JoHNS A., Substance misuse: A primary risk and a major problem of comorbi­ dity, in Int Rev Psych, 1 997, 9:233-24 1 ; SwANSON J., BoRuM R., SwARTZ M., MoNAHAN J., Psychotic symptoms and disorders and the risk of violent behavior in the community, in Crim Behav Ment Health , 1 996, 6:3 1 7-332.

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ri (56) hanno rilevato che i tassi di prevalenza per comportamenti violenti erano influenzati in modo statisticamente significativo dalla presenza o meno di un concomitante disturbo da abuso di sostanze. In particolare, è emerso che gli ex pazienti psichiatrici non solo avevano in assoluto un'incidenza maggiore di problemi correlati all'abuso di sostanze, ma anche che tale associazione incrementava fortemente il rischio di comportamenti violenti. Inoltre, è emerso che i soggetti psichiatrici hanno una maggiore probabilità di commettere atti di violenza endofamiliare, dato questo che è stato condiviso da molti altri ricercatori (57). In definitiva, i dati del MacArthur hanno indicato che il 1 8,7% dei pazienti psichiatrici dimessi hanno commesso nuovi atti violenti nelle 20 settimane di follow-up. I principali fattori risultati associati al rischio di comportamento violento nei soggetti indagati sono stati così schematizzati (58): Sesso: gli uomini sono stati più coinvolti in atti violenti che le donne, ma la differenza non era grande. La violenza da parte delle donne è risultata più frequentemente diretta contro i membri della famiglia e meno grave sul piano delle conse­ guenze. Violenza precedente: l'anamnesi positiva per pregressi compor­ tamenti violenti è risultata fortemente connessa alla violenza futura. Esperienze infantili: essere stati vittime di abusi/maltrattamenti da bambini è un fattore predittivo di un successivo comporta­ mento violento, così come l'avere avuto un genitore, in partico­ lare il padre, criminale o abusatore di sostanze. Diagnosi: la diagnosi di un disturbo mentale maggiore, soprat­ tutto di schizofrenia, è associata con un minor rischio di violenza rispetto ai disturbi della personalità o ai disturbi del controllo degli impulsi. La presenza di un concomitante di­ sturbo da abuso di sostanze è fortemente predittiva di violenza futura. Sintomatologia: deliri e allucinazioni, in generale, non incre(56) STEADMAN H.J., MuLVEY E.P., MoNAHAN J., RoBBINS P.C., APPELBAUM P .S . , GRJsso T. et al., Violence by people discharged {rom acute psychiatric inpatient facilities and by others in the same neighborhoods, in Arch Gen Psych, 1 998, 55:393-40 1 . (57) RuNJONS J., PRuDo R., Problem behaviors encountered by families living with a schizophrenic member, in Can l Psych, 1 983, 28:383-386; STRAZNICKAs K.A., McNEIL D.E., BJNDER R.L., Violence toward family caregivers by mentally ill relatives, in Hosp Comm Psych, 1 993, 44:385-387. (58) MoNAHAN J., STEADMAN H., SILVER E., APPELBAUM A., RoBBINS P., MuLvEY E. et al., Rethinking risk assessment: The MacArthur study ofmenta! disorder and violence, Oxford University Press, New York, 200 1 .

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mentano il rischio di violenza. Quando sono specificamente a sfondo violento il rischio è elevato . Pensieri violenti: il pensare o il sognare ad occhi aperti di danneggiare gli altri sono associati con la violenza, in partico­ lare se i pensieri o i sogni ad occhi aperti sono persistenti. Nonostante questi importanti risultati, gli Autori non sono riusciti comunque a spiegare la natura e la dinamica di questi rapporti e la questione fondamentale di come i diversi fattori intera­ giscano l'uno con l'altro. Alla luce dei dati che sono stati raggiunti e di tali persistenti criticità, i ricercatori del progetto MacArthur si sono comunque concentrati su tutte le più importanti variabili predittive e le relazioni multivariate che sottostanno a questo rapporto ed hanno cercato di fornire le basi per lo sviluppo di un vero e proprio sistema di valutazione e gestione del rischio di comportamento violento del paziente psichiatrico. 3.4.3.

La valutazione e la gestione del rischio di comporta­ mento violento: tra test attuariali e indagine clinica.

Come si è cercato di ricordare, nel diciannovesimo e per gran parte del ventesimo secolo, la valutazione della pericolosità del paziente psichiatrico nel contesto forense è stata demandata tout court alla responsabilità degli esperti clinici, ritenuti sufficientemente qualificati per esprimere giudizi sulla sola base della loro formazione ed esperienza. Dagli anni '60, molte ricerche hanno messo in discussione i metodi puramente clinici impiegati per valutare la "pericolosità" del sofferente psichico, sollevando numerosi dubbi sulle capacità predit­ tive della scienze medico-psichiatriche in tale campo (59). Nel loro studio sugli individui rilasciati in seguito alla citata "sentenza Baxstrom", Steadman e Cocozza (60) hanno evidenziato che i medici, nelle valutazioni di pericolosità, sovrastimavano significati­ vamente il rischio di future violenze da parte degli internati. In realtà, come acutamente affermato da Ennis e Litwack (61) " .••

gli psichiatri hanno mangiato più di quanto potessero masticare, non

(59) AMERICAN PsYCHIATRIC AssociATION, Task Force Report Number 8: Clinica[ Aspects of the Violent Individuai, Washington, DC, Amerìcan Psychiatrìc Association, 1 974. (60) STEADMAN H.J., CocozzA J., Careers of the criminally insane: Excessive social contro[ of deviance, Lexington Books, Lexington, MA, 1 974. (61 ) ENNIS B .J., LrrwAcK T.R., Psychiatry and the presumption ofexpertise: Flipping coins in the courtroom , in California Law Review, 1 974, 62:693-752.

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per loro colpe, di certo, ma per la miopia di leggi che hanno demandato alla psichiatria una responsabilità che non era in grado di assumersi". È significativo, a questo proposito, quanto ritenuto da Lidz e coll., secondo i quali "come i metereologi, gli psichiatri non possono predire il comportamento violento di un paziente se non come una possibilità" (62). Alla luce di tali evidenze, l'attenzione degli studiosi si è quindi spostata sulla ricerca di test statistico-attuariali, come alternativa alla valutazione puramente clinica del rischio di comportamento vio­ lento (63 ) . Come ricordato anche da Giulini (64 ) , le valutazioni attuariali si basano sulla validazione di 'items' statisticamente predefiniti, volti all'identificazione dei fattori di rischio statici di comportamento violento (precedenti episodi di violenza, età, sesso, razza, stato socio-familiare, ecc.). Attraverso una combinazione algoritmica dei fattori predittivi empiricamente identificati come legati alla recidiva, vengono predisposte delle scale con dei punteggi, cosiddette attua­ riali, che possono essere sia generiche sia specifiche, per la tipologia dei delitti a cui si riferisce il rischio di recidiva. La codifica avviene in modo oggettivo, così come la considerazione del risultato a punteggio

("score"). Uno degli primi strumenti attuariali "puri", la Violence Risk Appraisal Guide (VRAG), è stato sviluppato sulla base di un impor­ tante studio longitudinale su circa 800 autori di reati gravi rilasciati da una struttura psichiatrica di massima sicurezza canadese, con la sistematizzazione dei fattori di rischio empiricamente evidenziati in una vera e propria scala attuariale (65). La VRAG è costituita da 1 2 items centrati su caratteristiche demografiche, anamnestiche (prece­ denti penali, ecc.) e psicometriche, e fornisce un punteggio che indica la probabilità che un individuo possa commettere un atto violento in un determinato periodo di tempo. Uno dei principali indicatori predittivi della VRAG è comunque rappresentato dal livello di altera(62 ) Lmz C. W., MuLvEY E. P., GARDNER W., The accuracy ofpredictions ofviolence to others, in fAMA, 1 993, 269: 1 007- 1 0 1 1 . (63) GROVE W.M., MEEHL P.E., Comparative effìciency of informai (subjective, impressionistic) and forma/ (mechanical, algorithmic) prediction procedures: The clini­ cal-s tatistica/ controversy, in Psych Pub Poi Law, 1 996; 2:293-323. (64) GmuNI P., Le problematiche dell'osservazione scientifica della personalità: l'operatore penitenziario tra aspettative deluse e nuove prassi trattamentali. Incontro di studi organizzato dal C.S.M. sul tema "Trattamento sanzionatorio tra magistratura di sorveglianza e giudice di cognizione", Roma, 7-8 febbraio 2008. (65) QuiNSEY V.L., HARRIS G. T., R1cE M.E., CoRMIER C., Violent offenders: Appraising and managing risk, American Psychological Association, Washington, D.C., 1 998.

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zione della personalità, come misurato dalla scala di Hare (PCL­ R) (66) . Il VRAG è utilizzato in molte scale attuariali più complesse ed è stato citato più volte nella letteratura contemporanea come un forte predittore di future violenze (67). Nonostante i tentativi di sviluppare modelli standardizzati che potessero misurare su base statistica i fattori di rischio di compor­ tamento violento marginalizzando al massimo la soggettività clinica e determinando una sorta di automatismo meccanicistico tra pun­ teggio dei test e giudizio di "pericolosità", alcuni Autori (68) hanno sottolineato che tali strumenti non soddisferebbero i criteri conosci­ tivi relativi alla previsione del momento della possibile recidiva, né fornirebbero indicazioni sulle strategie per ridurre i rischi di recidi­ va. A partire da tali limiti, Monahan ha evidenziato come la solu­ zione migliore dovesse trovarsi nella sinergia tra modelli attuariali e valutazione clinica (69 ) . Un esempio di questa fusione è rappresentato dall'Historical Clinica[ Risk Management-20 (HCR-20). Originariamente sviluppato nel 1 995 e rivisitato nel 1 997, tale strumento è diventato il prototipo del c.d. "giudizio clinico strutturato", rappresentando così la vera alternativa alla rigidità dei modelli attuariali puri come la VRAG. L'HCR-20 sfrutta molti indicatori analoghi a quelli della PCL-R, ma cerca di bilanciare sia le variabili statiche che quelle dinamiche. I suoi 20 items, infatti, sono suddivisi in tre sezioni che integrano le informazioni chiave del passato (storico), del presente (clinica) e del futuro (Risk Management) (70). Il tentativo più ambizioso di compendiare entrambi i modelli, clinico e attuariale, è rappresentato, tuttavia, dallo sviluppo dell'Ite-

(66) HARE R., The Hare psychopathy checklist-revised.· Manual, Multi-Health Sy­ stems, Tonawanda, NY, 1 99 1 . (67 ) OuiNSEY V.L., HARRIS G.T., RicE M.E. e coli., Vialent Offenders: Appraising and Managing Risk, 2nd ed., Arnerican Psychological Association, Washington, DC, 2006. (6 ") HART S.D., MICHIE C., CooKE D.J., Precisian of actuarial risk assessment instruments: Evaluating the 'margins of errar' af graup v. individua! predictians af violence, in Brit J Psych, 2007, 49:s60-s65.) (69) MoNAHAN J., STEADMAN H.J., RoBBINS P.C., APPELBAUM P., BANKS S., Grusso T. et al., An actuarial mode! afviolence risk assessment far persons with menta! disarders, in Psych Serv 2005; 56:810-8 1 5 . ( 7°) WEBSTER C . , DouGLAS K., EAvEs D., HART S., Manual far the HCR-20: Assessing risk far violence. Burnaby, Menta! Health Law and Policy Institute, Simon Fraser University , British Columbia, 1 997.

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rative Classifìcation Tree (ITC) e della associata Classifìcation of Violence Risk (COVR) ( 7 1 ) . Sviluppati sulla base delle evidenze fornite dal MacArthur Vio­ lence Risk Assessment Study, l'ICT e la COVR hanno offerto un nuovo modello per la valutazione del rischio di violenza, superando molte delle carenze metodologiche che avevano caratterizzato le ricerche precedenti, dimostrandosi in grado di distinguere efficacemente tra soggetti a basso e ad alto rischio, e proponendosi come utili strumenti tanto in ambito clinico che forense.

3.5. La "pericolosità sociale psichiatrica": criticità attuali e pro­ spettive metodologiche.

Sulla base delle citate ricerche e dello sviluppo di diversi strumenti sia clinici sia attuarili di "violence risk assessment", sembra emergere la possibilità per il perito di usufruire di una vera e propria metodologia "basata sull'evidenza" anche in un ambito delicato quale quello della valutazione della "pericolosità", a lungo ritenuto come un esercizio di carattere meramente divinatorio, del tutto sganciato, sul medio e lungo periodo, da qualsiasi possibilità di fornire una motivata previsione clinico-prognostica. A fronte delle sempre più numerose ricerche incentrate sullo studio del legame tra disturbi psichici e comportamento violento/ illegale (72 ), (73), infatti, emerge che il perito dovrebbe abitualmente indagare la presenza e l'entità di potenziali fattori di rischio, sia statici sia dinamici, che possano fornire in concreto un "risk assessment" del paziente psichiatrico. Tra le variabili maggiormente significative nella predizione della recidiva molte riguardano condizioni riscontrabili nell'anamnesi e nell'esame clinico, come il numero di precedenti ricoveri in strutture psichiatriche, alcune modalità dei reati precedenti, la presenza di disturbi della personalità o del controllo degli impulsi, la scarsa compliance al trattamento e, soprattutto, l'abuso di sostanze. In particolare, secondo alcuni Autori (74) questi ultimi due fattori costi(7 1 ) MoNAHAN J., STEADMAN H., APPELBAUM P. e coli., The classification of violence risk, in Behav Sci Law, 2006, 24:72 1-730. (7 2 ) MARZuK P., Violence, crime and menta[ illness: how strong a link?, in Arch Gen Psychiatry, 1 996, 53:48 1-6. (73) SwANSON J.W., SwARTZ M.S., EssocK S.M., OsHER F.C., WAGNER H.R., GoooMAN LA. et al., The social environmental contex of violent behaviour in persons treated far severe menta[ illness, in Am J Public Health, 2002, 92: 1 523-3 1 . (74) BENNEIT T., HoLLOWAY K., FARRINGTON D., The statistica[ association between drug misuse and crime: a metaanalysis, in Aggr Viol Behavior, 2008, 13: 1 07-18.

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tuirebbero, se contestualmente presenti, importanti elementi predit­ tìvi di comportamento violento. Questo non significa che, allo stato attuale, il perito possa prevedere scientificamente il rischio di recidiva criminale del paziente psichiatrico autore di reato, ma semplicemente che, mediante una metodologia scientifica ancorata alle più recenti evidenze empiriche, si possono valutare i fattori di rischio del caso concreto. Le difficoltà restano, ben inteso, ed i giudizi in taluni casi appaiono davvero proibitivi. Tuttavia, riteniamo che la questione possa e debba essere affrontata senza pregiudizi, limitandosi - come per qualsiasi altra questione clinica - ad analizzare con attenzione le evidenze anamnestico-cliniche ed a valutarie secondo i dati scientifici più accreditati. Come affermano Catanesi e coli., si sta entrando nella "terza fase

di un percorso che, dalla pericolosità intensa come connotazione quasi naturale di un individuo, intrinseca ed indipendente dal trattamento, è transitato in quella della cosiddetta pericolosità condizionata alle cure, per giungere - oggi - ad un progetto terapeutico personalizzato, concreto, specifico, in grado di soddisfare un ambizioso (e rischioso) duplice obiettivo: curare ed evitare la recidiva delittuosa. Un programma indicato dal perito ma imposto dall'Autorità Giudiziaria come condi­ zione per beneficiare della libertà vigilata, che per funzionare richiede necessariamente che il paziente collabori proficuamente al programma, rispettandone cioè tutte le prescrizioni previste ed aderendo ad esse" (75) . N e deriva che al perito dovrebbe anche essere richiesto di indicare se la probabilità di nuovi scompensi psicopatologici e di eventuali potenziali comportamenti illeciti potrebbe diminuire, qua­ lora il paziente fosse sottoposto a precisate cure o venisse affidato a determinate strutture terapeutiche. Tutto ciò nella consapevolezza che nel quotidiano lavoro peri­ tale la valutazione della pericolosità sociale è il solo spazio nel quale si possano concretamente progettare eventuali opzioni terapeutiche alternative all'internamento in O.P.G . . Ampio e complesso, inoltre, è il rilevante fenomeno del compor­ tamento deviante dei pazienti che uniscono una condizione di abuso di alcool e/o sostanze stupefacenti al quadro psicopatologico "prima­ rio" (76). (75) CATANESI R., CARABELLESE F., GRATTAGLIANo 1., op. cit. . (76) ELBOGEN E . , JoHNSON S . , Th e intricate link between violence and menta[ disorder: results {rom the National Epidemiologie Survey an Alcohol and Related Conditions, in Arch Gen Psychiatry, 2009, 66: 1 52- 1 6 1 .

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Si tratta di soggetti nei quali, spesso, la condotta antisociale è un correlato sintomatologico-comportamentale di quella psichiatrica ed esistenziale, rappresentando per questo la classica "utenza cronica" di molteplici agenzie di carattere sanitario (servizi psichiatrici e per le dipendenze, S.P.D.C. nei momenti di scompenso psicotico, centri medici per il trattamento di eventuali patologie infettive, comunità psichiatriche e comunità per le dipendenze) e giudiziario (Forze dell'Ordine, Procure e tutti i gradi possibili di Tribunali della cogni­ zione, del giudizio e della esecuzione, ecc.). Si tratta di persone che spesso vengono inviate in O.P.G., ricevono una qualche forma di contenimento ( owiamente meno idoneo di quello che potrebbero avere in una realtà comunitaria), registrano un miglioramento comportamentale e sono quindi rapida­ mente restituite alla realtà d'origine, in contesti spesso privi di qualsiasi risorsa familiare ed esistenziale, nei quali riprendono l'uso di sostanze e pertanto si espongono nuovamente alla commissione di reati. Anche con la sanzione detentiva, d'altronde, questi soggetti non vengono gestiti e tutelati, poiché la generalmente minore rilevanza dei reati compiuti e la funzione di "contenimento" psicologico propria del carcere, fanno sì che la loro detenzione sia spesso di durata relativa­ mente breve (per "buona condotta") e che la scarcerazione awenga in condizioni di emarginazione ancor maggiori di prima. Ed anche qui la storia si ripete. Si tratta di soggetti per i quali l'adozione di una diretta opzione terapeutica, soprattutto comunitaria, anziché lo sterile inserimento in un circuito basato sulla dichiarazione della pericolosità e sulla deten­ zione, sarebbe estremamente utile, e soprattutto consentirebbe di evitare i costi, la frustrazione e l'intrinseca assurdità di un sistema che crea esso stesso le premesse per favorire quella recidiva che dichiara di voler scongiurare. Ciò fa sì che non raramente, nel tentativo di ridurre le incon­ gruenze più evidenti e di dare la migliore risposta possibile ai singoli casi, si adottino soluzioni di carattere contingente, nelle quali la nozione di "pericolosità" viene affermata o negata non tanto in base ai possibili paradigmi scientifici della stessa, ma solamente in base a ciò che, in quel momento, può essere meno dannoso per la persona e per la collettività. Resta ancora del tutto da risolvere, invece, il fondamentale problema della differenza di trattamento esistente tra i pazienti psichiatrici non autori di reato e quelli autori di reato. Come già ricordato, con la Legge n. 1 80 del 1 3 maggio 1 978 è stata infatti introdotta una radicale modifica dei precedenti modelli di riferimento della psichiatria, con la categorica affermazione che gli

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interventi in favore del sofferente psichico devono essere determinati esclusivamente da necessità terapeutiche e non già da istanze di controllo o di esclusione. Conseguentemente a ciò, il trattamento psichiatrico non può essere basato sul ricovero in strutture custodia­ listiche manicomiali (che devono essere abolite), ma deve basarsi sull'intervento territoriale-ambulatoriale, con ricorso a reparti ospe­ dalieri aperti (ad es. S.P.D.C.) frequentati da tutti gli ammalati, con decise limitazioni rispetto alla possibilità di trattamento al di fuori del libero consenso del paziente (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Si è così concretizzata una netta disparità di percezione e di trattamento tra il malato di mente non autore di reato e quello autore di reato (77). Mentre per i primi è ormai esclusa qualsiasi prospettiva custo­ diale e si è sviluppata una complessa rete di carattere socio assistenziale in ambito territoriale, per i secondi restano disponibili unicamente risorse limitate e sostanzialmente ancora basate sulla prospettiva della sanzione e della protratta custodia in ambito "chiuso". Tale realtà ha solo recentemente registrato un fondamentale cambiamento di rotta, come si desume dal Decreto sulle "Lineè di

indirizzo per gli inteJVenti negli ospedali psichiatrici giudiziari (G.P. G.) e nelle case di cura e custodia" (7B) . In questo Decreto viene infatti finalmente prospettato come l'ambito territoriale costituisca la sede privilegiata per affrontare i problemi della salute, della cura, della riabilitazione delle persone con disturbi mentali, per il fatto che nel territorio è possibile creare un efficace sinergismo tra i diversi servizi sanitari, tra questi e i servizi sociali, tra le Istituzioni e la comunità per il fine fondamentale del recupero sociale delle persone. Il principio del reinserimento sociale, sancito nell'articolo 27 della Costituzione, per coloro che, autori di reato, sono stati prosciolti per infermità mentale e ricoverati in O.P.G. può e deve essere (77) Ciò è tanto più lontano dalla realtà clinica, quanto si considera che la nozione di "reato" è esclusivamente giuridica e che qualsiasi paziente psichiatrico, così come qualsiasi cittadino, può trovarsi in qualunque momento esposto al rischio di commettere reati. Ad esempio, non è raro che sia disposta perizia perché un paziente degente in S.P.D.C., in una crisi di agitazione psicomotoria, ha danneggiato suppellet­ tili o colpito un infermiere (comportamenti molto frequenti in una crisi, ma tali, ove denunciati come inevitabile in una struttura pubblica, da costituire reati). (78) Allegato C al D.P.C.M. 1 9 marzo 2008, "Concernente le modalità e i criteri per

il trasferimento al servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria" .

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garantito attraverso la cura, che ne è fondamentale presupposto, e l'azione integrata dei servizi sociosanitari territoriali. Peraltro il principio di territorialità è parte integrante dello stesso ordinamento penitenziario, che all'articolo 42 stabilisce che

"nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie".

Nonostante ciò, ancora nel 2 0 1 0, i n Italia, esistono ben cinque Ospedali Psichiatrici Giudiziari (a: Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Barcellona Pozzo di Gotto e Aversa) che accolgono più di l 000 internati. L'attuale situazione deve certamente essere mutata radical­ mente, come dichiarato anche nelle più recenti prospettive di riforma della disciplina delle misure di sicurezza per i soggetti affetti da vizio di mente. I Progetti di riforma del codice penale (da quello "Grosso", a quello "Nordio", fino alla proposta "Pisapia", che approfondiamo al Capitolo 4), pur differenziandosi ampiamente nella sistematizzazione della materia, riprendono il problema della pericolosità sociale e delle misure di sicurezza, utilizzando nuove denominazioni e nuove oppor­ tunità di trattamento. In particolare nel Progetto Pisapia non si parla più di pericolo­ sità sociale, ma si prevede che nei confronti dell'agente non imputa­ bile autore di reato sia applicata una "misura di cura e di controllo", con riferimento alla necessità della cura e con durata non superiore a quella della pena che si applicherebbe all'agente imputabile; indican­ dosi poi una vasta gamma di misure di cura e di controllo, tra le quali il giudice dovrà scegliere quella più confacente al caso (ricovero in strutture terapeutiche protette o in strutture con finalità di disintos­ sicazione, ricovero in comunità terapeutiche, libertà vigilata associata a trattamento terapeutico, affidamento a servizi socio-sanitari, svol­ gimento di un'attività lavorativa o di un'attività in favore della collettività, ecc.). Per concludere, occorre quindi ricordare che il problema della valutazione della c.d. "pericolosità sociale psichiatrica" e delle conse­ guenti misure di sicurezza è tuttora molto discusso e necessita di mutamenti radicali non semplici e non rapidi nella loro attuazione. In attesa di una necessaria e improrogabile riforma del sistema e sulla base di quanto già indicato, riteniamo di poter così completare la proposta di riformulazione del quesito peritale in tema di accerta­ mento della pericolosità sociale psichiatrica, con articolazione dello stesso nei seguenti momenti valutativi:

Dica il perito se al momento dell'indagine il soggetto manifesti disturbi psichici, di che tipo e di quale gravità; dica se siano presenti

Pericolosità sociale psichiatrica

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elementi che consentano di valutare il rischio dì recidiva psicopatolo­ gica e di eventuali concomitanti comportamenti violenti; dica infine quale prognosì debba essere formulata, anche tenuto conto delle possi­ bilità e delle necessità assistenziali e terapeutiche del caso.

Capitolo IV LA PERIZIA PSICHIATRICA SULL'AUTORE DI REATO: PROPOSTE DI RIFORMA E PROSPETTIVE METODOLOGICHE

4. 1 . Proposte di abolizione della perizia psichiatrica. 4.2. Proposte di allargamento della perizia psichiatrica: la perizia psicologica o criminologica. 4.3. La valutazione e il trattamento del sofferente psichico autore di reato in alcune legislazioni straniere. 4.4. La normativa italiana: i progetti di riforma dal '90 ad oggi. 4.5. La perizia psichiatrica in tema di imputabilità e di 4.6. Per una moderna collabora­ pericolosità sociale: criticità e prospettive. zione tra mondo della giustizia e discipline psicopatologiche: una nuova proposta di quesito penale.

SoMMARIO:

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4. 1 . Proposte di abolizione della perizia psichiatrica.

In tema di valutazione della imputabilità del malato di mente, come già accennato, in questi ultimi anni si è assistito ad una complessa evoluzione dei rapporti tra psichiatria e giustizia, con alterno successo delle diverse scuole di pensiero e delle diverse posizioni ideologiche. Ad una tendenza che ha cercato di affermare l'utilità di una maggiore considerazione delle scienze umane nel processo penale e di una graduale trasformazione della pena in un processo di terapia e di rieducazione, come teorizzato dalla Scuola Positiva e dalla dottrina della Difesa Sociale, si è contrapposta una tendenza che ha cercato di centrare nuovamente l'interesse del processo penale sul reato, attri­ buendo una sempre minore importanza alla personalità del reo. Secondo quest'ultima impostazione, l'accertamento della malat­ tia mentale deve avere uno spazio estremamente ridotto all'interno del processo penale, poiché lo stesso può condurre a mistificazioni, distorsioni ed abusi, contrari all'interesse della giustizia e spesso anche a quello del reo. Con il pretesto della terapia, in realtà, possono essere violati diritti e garanzie, alla luce di argomentazioni cliniche che in realtà perseguono finalità essenzialmente repressive. Anche gli psichiatri forensi risultano attualmente molto divisi circa questo tema, in quanto, mentre alcuni continuano a sostenere la necessità di un'estensione dell'intervento psicologico e psichiatrico

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Fondamenti di psicopatologia forense

all'interno del processo penale, attraverso la sistematica utilizzazione della cosiddetta perizia "psicologica" o "criminologica", altri sosten­ gono l'ipotesi di limitare o addirittura di escludere l'intervento della psichiatria nel sistema della giustizia, fino a giungere alla proposta di considerare sempre imputabili i rei affetti da patologia mentale. Il 29 settembre 1 983 è stato presentato alla Presidenza del Senato un disegno di legge (D.D .L. n. 1 77) che assumeva, come punto di partenza, una posizione di radicale rifiuto di ogni valutazione psichiatrica sull'imputabilità nell'ambito del processo penale. Cardine della proposta era l'art. l , il quale sanciva il principio secondo cui "l'infermità psichica non esclude, né diminuisce l'imputa­

bilità". Con il disegno di legge sopra menzionato, così come con altre proposte succedutesi nel tempo ( 1 ) , si propone, dunque, di abolire l'istituto della non imputabilità per gli infermi psichici, riconoscendo, tout court, il malato di mente autore di reato capace di intendere e di volere e, di conseguenza, soggetto alle pene previste dalla legge. Queste proposte normative sono state motivate soprattutto dall'esigenza di attribuire al malato di mente, secondo gli obiettivi della psichiatria critica degli anni settanta, gradi di libertà fino ad allora negati, nonché dall'esigenza di facilitare sia il processo tera­ peutico (che presuppone l'acquisizione di responsabilità da parte del paziente), sia il superamento della stigmatizzazione associata con l'attribuzione di incapacità e con l'internamento nelle inaccettabili strutture psichiatriche giudiziarie. Certo è che l'evoluzione della scienza psichiatrica, l'affermarsi di nuove terapie e la diffusione di atteggiamenti più tolleranti nei confronti dei soggetti portatori di disturbi psichici, impongono un modo nuovo di concepire i rapporti tra psichiatria e giustizia. In realtà è da tutti condivisa l'opinione che gli ospedali psichiatrici giudiziari rappresentino strutture tra le più arcaiche e repressive della società italiana e che la perizia psichiatrica in molti casi venga svolta secondo modalità e procedure ascientifiche e strumentali (2). Nonostante l'inderogabile necessità di superamento di queste istituzioni, non sembra comunque facile raggiungere finalità di re­ sponsabilizzazione, di terapia e di conferimento di dignità al malato (') Si ricorda come ancora il 1 4 giugno 2001 e il 3 maggio 2006 siano state presentate identiche proposte di Legge: la n. 845 e la n. 335. (2) MANACORDA A., Il manicomio giudiziario, Di Donato, Bari, 1 982; MANACORDA A., Psichiatria e controllo sociale. A proposito dell'affidamento coattivo del prosciolto per infermità psichica ai Servizi di salute mentale, in Foro !t. , 1 986, 1 :64; MANACORDA A. (a cura di), Folli e reclusi, La Casa Usher, Perugia, 1 988.

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

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di mente autore di reato, attraverso un'artificiosa e rigida afferma­ zione di una sua piena ed aprioristica capacità di intendere e di volere. In passato la persona sofferente di un'infermità psichica veniva considerata, alla luce del paradigma medico-biologico, come conno­ tata in ogni caso da incapacità e da pericolosità (3). In seguito, lo sviluppo di un approccio psico-sociale alla malat­ tia mentale e, in particolare, le importanti acquisizioni della psicoa­ nalisi e l'affermarsi di concezioni che hanno evidenziato le dinamiche sociali sottendenti la definizione ed il trattamento del disturbo psi­ chico, hanno permesso di considerare la sofferenza psichica come una realtà complessa e articolata, accompagnata da differenziati gradi di comprensione e di libertà, anche in relazione agli illeciti penali. Questo tipo di acquisizione deve far superare il pregiudizio che considerava in ogni caso il malato di mente come un incapace, ma non deve condurre al pregiudizio opposto, del tutto contrastante con la realtà clinica, che considera l'infermo psichico come un soggetto comunque e sempre capace di comprendere l'illiceità dei fatti e di autodeterminarsi (4). È questa una considerazione che si basa sull'evidenza clinica, ma che corrisponde, d'altra parte, al comune sentimento di giustizia, che si ribella alla irrogazione di pene indifferenziate nei confronti di gravi malati di mente autori di reato (S) . Anche da un punto di vista terapeutico deve essere ricordato, in ogni caso, che considerare imputabili tutti i malati di mente significa non tener conto della complessità del disturbo psichico, della possi­ bile coesistenza e del possibile altemarsi, in una stessa persona, di parti sane e di parti malate, della necessità di far prendere coscienza, anche al soggetto reo-malato, delle dinamiche patologiche dei suoi reati, della possibile evoluzione della sua situazione psicologica e dell'equità di una legge che tiene conto dei diversi gradi di libertà che sono sottesi al reato. D'altra parte è pur vero che nel difficile rapporto tra psichiatria giustizia non di rado si sono sviluppate tendenze che hanno portato a richiedere al clinico interventi inadeguati, inopportuni e talvolta del tutto irrealizzabili. Il clinico è stato spesso percepito come un tecnico e

(3) PoNTI G., Bovm L., Un nuovo diritto per il malato di mente o una nuova percezione della malattia mentale?, in Riv. /t. Med. Leg. , 1 986, 8 : 1 062. (4) ARATA R., ScoRZA AzzARA L., La tutela del sofferente psichico nel diritto penale, in BANDINI T., LAGAZZI M., VERDE A. (a cura di), La tutela giuridica del sofferente psichico, Giuffrè, Milano, 1 993. ( 5) CHRISTIE N., Abolire le pene, Giuffrè, Milano, 1 974.

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Fondamenti di psicopatologia forense

capace di penetrare la psiche dell'imputato, di cogliere gli aspetti più incomprensibili del reato, di prevedere il comportamento, di trovare soluzioni capaci di conciliare la punizione e la terapia. Dalla ricerca di settore risulta che alcuni magistrati richiedono la perizia psichiatrica per avere elementi, valutazioni, informazioni, non tanto sull'imputabilità del soggetto, quanto piuttosto sulla perso­ nalità del reo e sulle motivazioni del reato. L'enfatica segnalazione, nel corso della perizia psichiatrica, di elementi relativi ai tratti di personalità, alle motivazioni, alle tendenze del reo, può influire grandemente sul processo, sia influenzando il giudice nella graduazione della pena, sia, più gravemente, influenzan­ dolo nella attribuzione del reato all'imputato. Altra fonte di gravi distorsioni è costituita dal fatto che spesso i periti sono pesantemente condizionati dal contesto nel quale operano, ed adeguano acriticamente i loro metodi e le loro valutazioni alle aspettative del committente. In alcuni casi il perito è portato a fornire conclusioni circa l'imputabilità e la pericolosità del soggetto, lasciandosi pesantemente condizionare dalla gravità e dall'allarme sociale suscitati dal reato, owero dall'atteggiamento di minor o maggior collaborazione dell'im­ putato con la giustizia. Accade ancora che i periti si comportino in modo differenziato con i giudici che hanno atteggiamenti e concezioni differenti, in quanto ritengono che un'eccessiva distanza fra il loro operato e le convinzioni del magistrato porterebbe ad un rifiuto globale delle conclusioni della perizia. A volte l'adeguamento del perito ai meccanismi tipici del mondo giudiziario arriva al punto da far sì che la normale tecnica del colloquio venga trasformata in una sorta di indagine inquisitoria, con domande secche e precise, le cui risposte vengono puntualmente e immediatamente trascritte, e qualche volta persino rilette, con il risultato di non giungere mai ad un adeguato rapporto interpersonale tra il perito e il periziando. In alcuni casi abbiamo preso visione di elaborati scritti in cui il perito giunge addirittura a discutere la consistenza delle prove ed a pronunciarsi circa la credibilità delle deposizioni del periziando, da un punto di vista psicologico. Altri gravi errori che sono commessi nella valutazione dell'im­ putabilità dipendono dalla diffusa convinzione che vi sia la possibilità di stabilire un parallelismo o una corrispondenza tra determinate diagnosi psichiatriche e le categorie giuridiche della cosiddetta "piena imputabilità", del "vizio parziale" e del "vizio totale" di mente. Vi è in molti la convinzione che ad una diagnosi di "psicosi" corrisponda il

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

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"vizio totale", che ad una "sindrome marginale" corrisponda il "vizio parziale" e, che alla "psicopatia" corrisponda la piena imputabilità. Come ricorda Culatta, molte volte "la battaglia nosografìca dei

periti si riduce allo stabilire, cosa a volte tutt'altro che facile, se una certa depressione sia psicotica oppure nevrotica, ciò perché la depressione psicotica è considerata vizio di mente, mentre quella nevrotica no" (6). L'utilizzazione di una rigida nosografia psichiatrica impedisce una corretta valutazione della maggior parte dei soggetti periziati, anche nell'ambito dei parametri giuridici vigenti. Sono infatti fre­ quenti i casi in cui il cosiddetto "malato mentale" compie un reato in una condizione che gli permette di comprendere il significato del suo atto e di autodeterminarsi di conseguenza, così come non sono infrequenti i casi in cui una grave sindrome nevrotica costituisce un'infermità tale da escludere la capacità di intendere e di volere del soggetto. Altre difficoltà, in materia di perizia psichiatrica, sorgono in relazione alla incalzante evoluzione che la scienza psichiatrica ha avuto dalle sue origini ad oggi. Negli ultimi trent'anni le posizioni estreme della cosiddetta "antipsichiatria" sono giunte a negare l'esistenza stessa della malattia di mente ed a sottolineare, di conseguenza, la inattuabilità e la inutilità della perizia psichiatrica, considerata unicamente come uno dei tanti strumenti di etichettamento e di emarginazione. Attualmente, comunque, mentre il dibattito sulle cause della ma­ lattia di mente è ancora estremamente aperto, e vede molto distanti le posizioni dei sostenitori delle cause biologiche, di quelle psicologiche e di quelle sociali, così come vede molto distanti le relative ipotesi ed impostazioni terapeutiche, il dibattito sull'esistenza della malattia mentale, sulla sua consistenza, sulla sua definizione, non possiede più l'intensità raggiunta in passato, ma vede affermarsi un sostanziale con­ senso tra tutti coloro che operano nel campo della terapia della malattia mentale, consenso basato su aspetti pragmatici ed operativi. Anche se la presenza di diversi modelli psichiatrici ha introdotto importanti aspetti di relativizzazione ed impone, in qualche modo, di ripensare in maniera più problematica ai criteri fondamentali della perizia psichiatrica, non si può tuttavia sostenere che tale relativizza­ zione giunga al punto di impedire qualsiasi tipo di accertamento della patologia mentale o del sintomo psichiatrico. Esiste un patrimonio di conoscenze attorno al quale è presente un notevole consenso, che (6) GuLOTTA G., Psicologia della testimonianza, in GuwrrA G. (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Giuffrè, Milano, 1 987.

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Fondamenti di psicopatologia forense

permette di accertare il sintomo psichiatrico e la patologia mentale, anche se ciò non avviene più attraverso le rigide nosografie del passato. Ritornando al problema di un'eventuale abolizione di ogni accertamento psichiatrico sulla imputabilità, si ribadisce che un orientamento tendente a considerare tutti i soggetti imputabili, qua­ lunque sia la rilevanza del disturbo psichico, oltre ad apparire profondamente iniquo da un punto di vista clinico, risulta difficil­ mente applicabile. Le normative che seguono questo orientamento, come ad esempio quella svedese, non hanno condotto a buoni risultati e sono rimaste in larga misura inapplicate. Anche il già citato Disegno di Legge n. 177, così come le successive proposte normative presentate, pur meritevoli nelle inten­ zioni ispiratrici, giungono paradossalmente ad introdurre un accer­ tamento della malattia mentale in sede di esecuzione della pena, che comporta benefici e differenziazioni senza le necessarie garanzie, e con il rischio di una psichiatrizzazione diffusa del mondo penitenzia­ rio, del tutto contrastante con gli obiettivi iniziali della proposta. L'applicazione di un trattamento differenziato che non si basi più sul criterio dell'imputabilità, e cioè sulle condizioni psichiche del soggetto nel momento in cui ha commesso il fatto, ma che si fondi unicamente sull'accertamento della malattia mentale nel corso della pena, sembra porre più problemi di quanti riesca a risolverne. Il trasferimento della valutazione psichiatrica dal momento dei fatti al momento dell'esecuzione della pena, al fine di ridurre il peso della sanzione, innesca tutta una serie di pericolose dinamiche difficilmente controllabili, che possono portare i detenuti a simulare la malattia mentale, ad enfatizzare disturbi psichici, o addirittura a contrarre vere e proprie infermità psichiche, analoghe, in qualche modo, alle cosiddette "sindromi da indennizzo". D'altra parte, se si facessero giungere alle logiche conseguenze le premesse di una legge che prevede la piena imputabilità di ogni soggetto, non si realizzerebbe una reale responsabilizzazione del malato di mente, ma si metterebbe in atto un sistema che per alcuni individui sarebbe profondamente antiterapeutico. Diverrebbe quindi impossibile agire terapeuticamente in una situazione nella quale la "parte" patologica ha già sancito una condanna che opera su tutta la persona e nella quale l'eventuale crescita dell'insight farebbe com­ prendere al soggetto non già l'equità della punizione, ma l'assurdo in essa contenuto . Le numerose e profonde critiche che sono state avanzate nei confronti delle finalità della perizia psichiatrica e delle prassi colle­ gate con la sua attuazione devono senz'altro condurre ad una revi­ sione di tale strumento, ma non possono portare ad una sua elimina-

La perizia psichiatrica sull'a utore di reato

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zione, se s i vuol rimanere in una prospettiva che tenga conto della realtà psichica dell'infermo di mente, anche ai fini di una differenzia­ zione della pena, senza giungere ad una indiscriminata repressione.

4.2. Proposte di allargamento della perizia psichiatrica: la peri­ zia psicologica o criminologica.

Molti psicologi e criminologi sostengono la necessità di un allargamento delle indagini psicopatologiche sull'autore di reato, con l'introduzione di quesiti peritali circa la conoscenza di quelle compo­ nenti di tipo psicologico che il codice di procedura penale riserva invece all'esclusiva competenza del Magistrato. Come già ricordato, infatti, il Legislatore degli anni '30 (art. 3 1 4 c.p.p.), così come il riformatore del 1 988 (art. 220 c.p.p.) , hanno affermato il divieto della delega ad altro professionista, sia esso psicologo o criminologo, della valutazione di aspetti del comporta­ mento umano che non derivino da cause psicopatologiche e che quindi possono essere direttamente valutati dal magistrato, sulla base della sua formazione e della sua esperienza professionale. Facendo specifico riferimento ai diversi indici di valutazione previsti dal nostro c.p. circa le caratteristiche di personalità e di condotta del reo e circa la sua "capacità a delinquere" (art. 1 33 c.p.), Canepa sintetizza le ragioni di un inderogabile allargamento delle indagini psicopatologiche, affermando che "Un tempo i "motivi" del

comportamento ed il "carattere" erano considerati elementi suscettibili di una banale valutazione intuitiva e la psicologia era ritenuta esclusi­ vamente come un generico bagaglio di nozioni che ogni uomo colto e di buon seno doveva necessariamente avere. Questa concezione è ormai superata da anni ed è noto anche ai profani che le conquiste scientifiche della moderna psicologia hanno ormai stabilito una somma di nozioni teoriche e pratiche, specialmente in tema di studio del carattere e della motivazione, le quali costituiscono un corpo dottrinale ben definito, che lo psicologo, in senso altamente qualifìcato, pone a fondamento dei suoi studi e delle sue ricerche. Così un fondato parere sui motivi della condotta e sul carattere si basa anche sull'adozione di una particolare tecnica, che specie nel campo delle indagini criminologiche, si avvale di un vero e proprio "strumentario" psicodiagnostico, la cui portata si va sempre più estendendo" (7 ). Sempre discutendo i vari contenuti dell'art. 1 33 c.p., Canepa sostiene che "Lo studio della condotta contemporanea o susseguente al (7) CANEPA G., op. cit. .

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Fondamenti di psicopatologia forense

reato corrisponde a quello che, in criminologia, va sotto il nome di dinamica del reato; che, in psicologia, è sommamente indicativo di aspetti del carattere e della personalità; che, in psichiatria, può essere sintomatico di particolari alterazioni psicopatologiche. Pertanto la dinamica del reato, con il complesso gioco dei motivi che il Di Tullio ha efficacemente denominati crimino-impellenti e crimino-repellenti, è materia di specifica valutazione tecnica, che può essere effettuata solo da chi possieda particolare competenza in materia criminologica, ossia antropo-bio-psicologica, psichiatrica e medico-legale. Non si comprende come il magistrato possa, da solo e sulla base di informazioni di incerta attendibilità (e più spesso senza alcuna base di informazione al ri­ guardo), emettere un così importante giudizio circa la valutazione della capacità a delinquere". Su queste basi Canepa stabilisce che "l'esame dei vari indici di valutazione della capacità a delinquere presenta i caratteri di una indagine tecnica strettamente qualificata, che solo può essere effettuata mediante l'opera di esperti" e conclude affermando che: "È altrettanto chiaro che, allo stato attuale, al magistrato non sono dati gli strumenti per compiere o per far compiere una vera indagine sulla capacità a delinquere, per cui, di fatto, tale indagine non viene svolta e viene frustrato quello che dovrebbe essere il suo significato essenziale, ossia il fornire un criterio atto ad illuminare il giudice, per una concreta applicazione della pena". Queste sentite rivendicazioni di competenza, condivise da molti psicologi e criminologi italiani, hanno indotto il Legislatore a pro­ porre, con diversi progetti di riforma del c.p.p. risalenti agli anni '70 e '80, l'introduzione di una perizia "psicologica", in seguito denomi­ nata "criminologica". In realtà, come già citato, nella versione definitiva del c.p.p. del 1 988, tuttora vigente, la previsione di indagini peritali sulle qualità psichiche dell'autore di reato indipendenti da cause patologiche è esclusa in fase di cognizione, ed ammessa soltanto ai fini della esecuzione della pena o della misura di sicurezza. In tal modo il Legislatore ha inteso riservare lo studio psicolo­ gico della personalità dell'autore di reato solamente per il momento successivo all'accertamento della sua colpevolezza ed alla definizione della sanzione penale da irrogare. In effetti l'esclusione di un'indagine di questo tipo in fase di cognizione è condivisa anche da una buona parte degli psicologi e degli psichiatri forensi, alla luce delle critiche che sono state poste nei confronti degli strumenti di valutazione clinica e di predizione dei quali dispone il clinico che collabora con la giustizia e delle contrad­ dittorie finalità del "trattamento criminologico".

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

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A tale proposito è innanzitutto possibile ricordare che spesso, per rispondere ai quesiti posti dalla perizia criminologica, il tecnico, non potendo ricorrere a strumenti scientificamente consistenti, fini­ sce per accettare un atteggiamento tipicamente giuridico, sostituen­ dosi di fatto al giudice, senza averne le capacità e la preparazione. Il problema dell'adeguamento del perito alla mentalità ed alle aspettative dei giudici, sollevato da molti in riferimento alla perizia psichiatrica, è ancor più grave nel campo della perizia criminologica, in quanto i criteri e la materia oggetto di quest'ultima sono molto sfumati, soggettivi, estremamente incerti da un punto di vista scien­ tifico. Il perito, in mancanza di un chiaro quadro di riferimento, finisce per adattarsi alle posizioni assunte dal committente, fornendo una copertura pseudoscientifica alle valutazioni del giudice. Inoltre vi è il gravissimo rischio che i risultati della perizia criminologica possano essere utilizzati, sia pur indirettamente e involontariamente, come mezzo e fonte di prova. Un'ulteriore difficoltà, connessa con la prassi della perizia criminologica, è quella relativa al diritto alla difesa e alla presenza e all'attività di consulenti di parte, che dovrebbero confrontarsi su elementi di difficile aggettivazione. I criteri di valutazione della personalità sono infatti estremamente soggettivi, i risultati sono difficilmente interpretabili e non appare chiaro come possa essere organizzata una difesa tecnica in questo settore. In conclusione, l'introduzione di un'indagine psicologica nel processo penale, auspicata da molti autori come un elemento di progresso e di maggior efficacia del sistema penale, da altri è consi­ derata come particolarmente problematica e per molti aspetti perico­ losa. Vi è anche il rischio che il tecnico possa essere utilizzato strumentalmente, per prendere decisioni secondo una metodologia e secondo parametri imposti dall'esterno, fornendo una copertura scientifica alle inefficienze del sistema, senza poter introdurre cam­ biamenti reali e innovazioni positive. Con ciò non si vuole affermare, si badi bene, che un corretto giudizio penale debba o possa prescindere dalla conoscenza di ele­ menti relativi alle condizioni e alla vita dell'imputato (come d'altra parte espressamente richiesto al giudice dall'art. 1 33 c.p.). A questi fini si fa presente che ben più corretta ed importante sarebbe l'esecuzione, per tutti i casi, di una semplice inchiesta sociale, tendente a raccogliere dati obiettivi sulla condizione familiare, lavo­ rativa e adattativa del reo. Tutto ciò non deve significare, comunque, una rinuncia ad un

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Fondamenti di psicopatologia forense

diverso ampliamento del contributo che lo psicologo ed il criminologo possono fornire alla giustizia penale, ai fini di meglio comprendere la cultura, le soggettive motivazioni e la stessa sofferenza di molti autori di reato. È chiaro, infine, che anche una prospettiva di inserimento a pieno titolo della perizia psicologico-criminologica nel sistema pro­ cessuale potrebbe essere oggetto di seria considerazione, qualora si addivenisse ad una ridefinizione delle nozioni di base della imputa­ bilità e della pericolosità sociale.

4.3. La valutazione e il trattamento del sofferente psichico au­ tore di reato in alcune legislazioni straniere.

Dopo aver esaminato le difficoltà e le contraddizioni derivanti dalla normativa italiana in tema di imputabilità e di pericolosità sociale, appare utile confrontare la stessa con le previsioni di legge esistenti in alcuni Paesi esteri. In quasi tutti gli ordinamenti penali, infatti, è previsto un particolare trattamento sanzionatorio ovvero un'esenzione da pena nel caso in cui il reato trovi la propria causa in un disturbo mentale. In alcune nazioni il requisito di base della "non imputabilità" s'identifica nella sola diagnosi clinica di una grave patologia mentale, senza alcuna valutazione del rapporto tra essa ed il reato, mentre in altri Paesi tale diagnosi costituisce il "primo livello" della successiva valutazione medico-legale del caso ed in altri, ancora, l'elaborazione giurisprudenziale della norma riveste un'importanza non meno signi­ ficativa di quella della norma stessa. In molti casi, inoltre, l'originaria adesione del metodo di accer­ tamento dell'imputabilità all'uno o all'altro modello (psichiatrico, normativa o "misto") viene radicalmente modificato dalla interpreta­ zione giurisprudenziale, tanto da portare a criteri ed a scelte del tutto opposti a quelli previsti dal Legislatore. Nella maggior parte degli ordinamenti europei le normative appaiono piuttosto vicine, anche se, là dove sono intervenute recenti riforme, si registra una più attenta e aperta impostazione del pro­ blema, soprattutto per quanto riguarda la possibile rilevanza delle malattie meno gravi. In Francia l'art. 1 22- 1 , modificato nel 1 993, prevede che: "Non è

penalmente responsabile la persona affetta, al momento del fatto, da un disturbo psichico o neuro psichico che ha abolito il suo discernimento o il controllo delle sue azioni (. . . )". Secondo il codice penale tedesco, all'art. 20 , modificato nel 1 975, è previsto che "Chi al momento della commissione del fatto, per

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turbe mentali patologiche, per un profondo disturbo della coscienza, per deficienza mentale od altra grave anomalia mentale, è incapace di valutare la antigiuridicità del fatto o di agire secondo tale valutazione, agisce senza colpa" . Il codice austriaco del 1 975 all'articolo 1 1 recita: "chiunque sia, al momento della commissione dell'atto, nell'incapacità di discernere il carattere contrario al diritto dei suoi atti o di agire testimoniando di possedere un tale discernimento, per malattia mentale, per debolezza psichica, per turbamento profondo della coscienza o peraltro per turba­ mento grave dello psichismo equivalente a siffatte condizioni, non agisce in maniera responsabile". Per il codice penale olandese (art. 37) "non vi è imputabilità per condizioni psicopatologiche di carenza dello sviluppo o disturbo mor­ boso delle capacità mentali". Il codice penale belga del 1 978 all'articolo 71 prevede che: "non vi è reato quando l'accusato o il prevenuto era in stato di demenza al momento del fatto, oppure a questo è stato costretto da una forza alla quale non ha saputo resistere". Nel codice penale spagnolo all'art. 20, modificato nel 1 995, si prevede che: "Vanno esenti da responsabilità criminale: l) coloro che al

tempo dell'infrazione penale, per causa di qualsiasi anomalia o altera­ zione psichica non potevano comprendere la illiceità dell'atto o agire in conformità a tale comprensione (. . . ); 2) coloro che per alterazioni della capacità di percezione dalla nascita o dall'infanzia hanno gravemente alterata la coscienza della realtà" . Il codice portoghese, all'art. 1 04, come modificato nel 1 995, prevede che: "Quando l'agente è stato dichiarato non imputabile ed è

stato condannato alla reclusione ma si dimostra che per causa della anomalia psichica di cui soffriva al tempo del crimine, il regime dello stabilimento penitenziario è per lui pregiudizievole o se la sua anomalia psichica è tale da creare serio disturbo al regime dello stabilimento, il tribunale ne ordina l'internamento in un penitenziario riservato ai non imputabili per il periodo corrispondente alla pena". Il codice penale sloveno del 1 995 prevede, all'art. 16, che: "è incapace di intendere e di volere chi, al momento della commissione del reato, non era in grado di comprendere il significato della propria condotta oppure non era in grado di controllare le proprie azioni, a causa di una infermità mentale permanente o temporanea, di disturbi psichici temporanei, di uno sviluppo psichico imperfetto o di altra anomalia psichica permanente e grave. La pena può essere ridotta all'autore del reato, la cui capacità di intendere e di volere risulti sensibilmente diminuita a causa di taluna delle infermità di cui al comma precedente". Il codice penale greco del

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all'articolo

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prevede che:

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Fondamenti di psicopatologia foren se

"l'azione non è imputata all'a utore se, al momento della commissione, a causa di turbamento patologico delle funzioni intellettive o di turba­ mento della coscienza, non possedeva la capacità di intendere la antigiuridicità della sua azione o di agire secondo il proprio intendi­ mento a proposito di questa antigiuridicità". Nel codice penale russo, in vigore dal 1 997, l'articolo 21 prevede che: "non risponde penalmente chi, al momento in cui compiva al fatto

socialmente pericoloso, si trovava in stato di non imputabilità, cioè non era in grado di rendersi conto del carattere effettivo della pericolosità sociale delle proprie azioni (. . . ) o non era in grado di controllarle in conseguenza di cronica malattia psichica, di temporaneo squilibrio dell'attività psichica, di demenza o di altro stato psichico morboso".

Nella confederazione svizzera è i n vigore i l codice penale fede­ rale del 2006, che all'articolo 1 9 recita: "non è punibile colui che al

momento del fatto non era capace di valutarne il carattere illecito o di agire secondo tale valutazione. Se al momento del fatto l'autore era soltanto in parte capace di valutarne il carattere illecito o di agire secondo tale valutazione, il giudice attenua la pena".

Un caso eccezionale è rappresentato dai Paesi Scandinavi, dove si adotta un criterio esclusivamente medico psichiatrico nel giudicare l'imputabilità o meno di un autore di reato. In Gran Bretagna, Canada, Australia, Sudafrica e Nuova Ze­ landa, tutti ordinamenti di common law, si osservano le c.d. "Regole di McNaughten" secondo cui "non è responsabile colui che, durante il

fatto, agiva non avendo la capacità di ragionare (defect of reason), agiva senza avere la capacità di rendersi conto della sua azione o era affetto da una malattia mentale (menta[ disease) per cui non capiva la natura e la qualità del suo atto e non sapeva che era illecito". Negli Stati Uniti d'America, invece, il panorama è molto etero­ geneo: in molti stati si osservano le già citate regole di McNaughten; in altri si utilizzano test diversi o aggiuntivi (Durham o wright-wrong); in altri ancora è stato accolto il "Mode[ Penai Code" secondo sui "non

è considerato responsabile penalmente chi al momento del fatto per il suo stato di minorazione o di malattia mentale non aveva una sostan­ ziale capacità di comprendere il proprio comportamento criminale". Non è questa la sede per un esame più approfondito delle citate normative straniere, tuttavia già da una semplice ricognizione delle diverse disposizioni emerge come, attraverso formule aperte, sia più facile attribuire rilevanza ai disturbi della personalità, non ricompresi nelle patologie psichiatriche in senso stretto: così, ad esempio, nel codice tedesco, in cui è presente il riferimento al "profondo disturbo della coscienza" nonché ad "altre gravi anormalità psichiche" o nel codice sloveno in cui compare, seppure con una equivoca terminolo-

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

1 43

gia, il riferimento a "disturbi psichici temporanei" e ad "altra anoma­ lia psichica permanente e grave" o, ancora, nel codice spagnolo in cui viene data rilevanza a "qualsiasi anomalia o alterazione psichica" oppure nella legislazione portoghese in cui si menziona la semplice "anomalia psichica" o, infine, nello stesso codice francese che fa riferimento al "disturbo psichico o neuro psichico". Si tratta di una tendenza che, come si è visto, in alcuni casi è stata perseguita attraverso interventi legislativi e che è in grado di provocare un'apertura delle maglie della non imputabilità a disturbi meno tradizionali, come appunto quelli c.d. della personalità. È stato il codice penale tedesco del 1 975 ad aprire la strada alla rilevanza di "altre gravi anomalie psichiche", rappresentando un modello per le successive legislazioni. Particolarmente rilevante, ai fini che qui interessano, è l'espe­ rienza della Svezia, che, nel 1 992, con una nuova legge in materia di psichiatria forense, ha introdotto il concetto di "grave disturbo psichico" , che ha sostituito la vecchia formula di "malattia mentale" . Il riferimento al disturbo psichico è stato valutato positivamente dalla dottrina, in quanto si tratterebbe di un concetto che meglio rispecchia il moderno linguaggio psicopatologico e che è in grado di delimitare con maggiore precisione il confine con le altre categorie psichiche. D'altra parte, il requisito della "gravità" del disturbo restringe il campo applicativo della definizione, soddisfacendo, così, anche le esigenze di difesa sociale. È stato messo in evidenza come l'espressione contenuta nel codice svedese finisca per ricomprendere anche "forme gravemente compulsive, come la piromania o la cleptomania ovvero particolari deviazioni sessuali", nonché "stati transitori o disturbi dell'affettività, purché di tale intensità da essere assimilabili ad una psicosi" (8). Ovviamente, anche nelle esperienze straniere in cui sono state utilizzate formule legislative più elastiche esiste un problema di rapporto tra scienza e diritto, che dà luogo ad una serie di equivoci, anche di natura terminologica, situazione che ha contribuito a mettere ancor più in crisi la nozione di imputabilità. Nelle conclusioni del VII Colloquio Criminologico del Consiglio d'Europa (Strasburgo, 25-27 novembre 1 985) si leggono le seguenti osservazioni e raccomandazioni in merito: "1) Le legislazioni penali esistenti negli Stati membri del Consiglio

d'Europa presentano una notevole varietà circa le terminologie ed i (8) BERTOLINO M., Dall'infènnità di mente ai disturbi della personalità: evoluzione e/o involuzione della prassi giurisprudenziale in tema di vizio di mente, in Riv. It. Med. Leg. , 2004, 3:408.

1 44

Fondamen ti di psicopatologia forense

concetti fondamentali concernenti la nozione di responsabilità dell'au­ tore di un reato e dei fattori che possono escludere o atten uare la stessa; 2) la tendenza prevalente è di porre agli esperti un quesito che comprenda, nello stesso tempo, l'aspetto psicopatologico (malattia mentale) e l'aspetto giuridico-normativa (responsabilità o concetti simi­ lari); 3) l'esperto psichiatra, nel momento in cui si pronuncia sullo stato mentale di un delinquente, deve limitarsi al quadro di riferimento della sua professione; 4) per quanto riguarda il quesito sulla responsabilità penale, si limiterà ad una diagnosi psichiatrica (ad esempio quella di psicosi) ed alle sue ripercussioni sul contatto del soggetto con la realtà (. . . ) ; 5) è auspicabile che i quesiti posti agli esperti psichiatri si riferiscano, nella prospettiva di una armonizzazione delle leggi penali degli Stati membri, a valutazioni diagnostiche e prognostiche, legate ad un programma di trattamento". Va infine registrato che nei Paesi stranieri in cui si è realizzato un allargamento delle cause di esclusione dell'imputabilità collegato all'infermità mentale, non si è verificato un aumento preoccupante dei casi di proscioglimento per vizio totale di mente, né un abuso dei meccanismi di riduzione sanzionatoria o, in genere, di trattamento alternativo, a seguito del riconoscimento di situazioni accostabili alla nostra seminfermità, non vi è stata cioè la temuta "rottura dell'argine" che qualcuno temeva e che avrebbe ridotto le capacità generai preventive del sistema penale e la sua efficacia (9). Per quanto concerne la fattispecie della "pericolosità", è possi­ bile rilevare che in molti Paesi europei esistono specifiche normative sul trattamento del sofferente psichico autore di reato che sia ritenuto "pericoloso". Per questo tipo di paziente sono quindi previste risposte specifiche, che nella maggioranza dei casi risultano differenti sia rispetto a quelle irrogate nei confronti dei soggetti qualificati come imputabili, sia rispetto a quelle previste per i sofferenti psichici estranei al sistema della Giustizia. In alcune nazioni la "pericolosità" del reo viene identificata nella generica probabilità di recidiva criminale dello stesso, mentre in altre tale nozione fa riferimento unicamente alla specifica recidiva di gravi reati, ed in altre, ancora, si identifica nel generico rischio di atti distruttivi ai danni delle persone e delle cose. Alcuni Paesi non contemplano alcuna forma di previsione della (9) CoLLICA M.T., Prospettive di rifonna dell'imputabilità nel "progetto Grosso", in Riv. lt. Dir. Proc. Pen. , 2002, 4:890.

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

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recidiva e di irrogazione delle "misure di sicurezza", ma accompa­ gnano alla norma penale la applicazione di leggi di "difesa sociale" che, di fatto, integrano la legge penale. Altre nazioni, invece, attribu­ iscono all'internamento psichiatrico un fine terapeutico, ed altre ancora, in modo del tutto opposto, ravvisano nella ospedalizzazione un esplicito momento di "controllo sociale" del reo. Talvolta la risposta irrogata dalla collettività si identifica nell'in­ ternamento in ospedali psichiatrici "civili" o giudiziari, mentre in altri casi il reo malato di mente può usufruire di trattamenti ambulatoriali o del completo proscioglimento da ogni misura custodiale. Tutto questo denota un quadro connotato da numerose diffe­ renze, da soggettività interpretative ed applicative, e da una globale sovrapposizione tra le istanze di tipo terapeutico e quelle, ben più forti e condivise, di tipo sanzionatorio e segregativo. Indipendentemente dalle soluzioni adottate nei singoli Paesi, è comunque possibile notare che in ogni nazione i ricercatori, i giuristi, e la stessa opinione pubblica, hanno contestato le norme vigenti, richiedendo, a seconda dei casi, l'adozione di indirizzi centrati sulla "difesa" della collettività o, all'opposto, sulla tutela del diritto del soggetto a fruire di una terapia liberamente scelta ( 1 0).

4.4. La nonnativa italiana: i progetti di riforma dal '90 ad oggi.

Negli ultimi venti anni intense e vibranti discussioni hanno animato il dibattito sul tema dell'imputabilità e sulla nozione di infermità. In particolare, sul piano dottrinario e normativa, si sono succe­ duti ben cinque progetti di riforma del Codice penale ( 1 1 ), tutti caratterizzati da peculiari rivisitazioni degli articoli relativi all'istituto dell'imputabilità dell'autore di reato. Per questo motivo, si è preferito riportare sinteticamente le principali proposte di modifica formali e sostanziali sul tema in oggetto presentate nei progetti preliminari, approfondendo soltanto le ultime e rimandando al paragrafo conclusivo le considerazioni in merito. Nello schema di D .D.L. del 1 992 (Progetto Pagliara), si riteneva

"non imputabile chi, per infermità di mente o per altra anomalia, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in condizioni di mente tali da escludere la capacità di intendere o di volere . . . ". (10) fiORAVANTI L., Op. cit.. ( 1 1) In particolare: progetto PAGLIARO, 1 992; progetto Rrz, 1 995; progetto GRosso, 200 l ; progetto NoRD!O, 2004; progetto PISAPIA, 2008.

1 46

Fondamenti di psicopatologia forense L'articolato del D.D.L. del 1 995 (Progetto Riz), prevedeva che

"non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità o gravissima anomalia psichica, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere . . . ". Nel progetto di riforma del codice penale del 200 1 (Progetto Grosso), non era imputabile chi "per infermità o altro grave disturbo

della personalità . . . , nel momento in cui ha commesso il fatto era in condizioni di mente tali da escludere la possibilità di comprendere il significato del fatto o di agire in conformità a tale valutazione . . . ". Quanto al predetto progetto, si legge nella relativa Relazione che

"potrebbe anche ritenersi sufficiente la formula del codice vigente, incentrata sul concetto di infermità, alla luce dell'evoluzione giuri­ sprudenziale cui essa ha dato luogo; ma che, nondimeno, si ritiene "preferibile un chiarimento legislativo, mediante l'introduzione, accanto alla infermità, della formula della grave anomalia psichica, che rende­ rebbe più sicura la strada per una possibile rilevanza, quali cause di esclusione dell'imputabilità, di situazioni problematiche, come le ne­ vrosi e le psicopatie, o stati momentanei di profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero di colpevolezza". Alle obiezioni critiche sollevatesi, si è risposto rilevando che

"nessuna patente di irresponsabilità si vuole dare automaticamente a realtà in cui sia mancato un controllo esigibile di impulsi emotivi: le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell'imputabilità sono situazioni riconoscibilmente abnormi". Ha rilevato poi la Commissione che "la scelta legislativa più ragionevole" è da individuare in quella di "assicurare le condizioni di adeguamento del sistema giuridico al sapere scientifico, evitando prese di posizione troppo rigide e adottando formule atte a recepire la possibile rilevanza dei diversi paradigmi cui dal dibattito scientifico sia ricono­ sciuta serietà e consistenza". La proposta elaborata nel 2004 (Progetto Nordio) all'art. 48 sanciva che "nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge

come reato se nel momento della condotta costitutiva non aveva, per infermità, la capacità d'intendere e di volere, sempre che il fatto sia stato condizionato dalla incapacità . . . la capacità di intendere e di volere è intesa come possibilità di comprendere il significato del fatto e di agire in conformità a tale valutazione . . . " e all'art. 49 prevedeva che "nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se, nel momento della condotta costitutiva, la sua capacità di intendere o di volere era ridotta, per infermità, in misura pressoché totale, sempre che il fatto sia stato condizionato dalla ridotta capacità". In tale progetto, quindi, rimane sostanzialmente immutato l'attuale riferimento lessicale al termine "infermità" e, si legge nel

,

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

1 47

commento di accompagnamento, "si ritiene irrinunciabile il riferi­

mento all'infermità, pur tenendosi presenti i diversi orientamenti teorici, sulla base delle classiche acquisizioni scientifiche della psichiatria, della criminologia e della medicina legale, onde evitare gli sbandamenti applicativi - con apertura a tutti i più originali e diversificati fenomeni in chiave meramente psicologica od emozionale - quanto mai da impedire in questo delicato campo, quali connessi a formule generiche ed onnicomprensive del tipo disturbo psichico, disturbo della persona­ lità, psicopatia (fenomeni, secondo prassi censurabili, valutati anche da non specialisti psichiatrici o medico-legali sulla base di parametri socio-culturali, tipo l'abusata figura del soggetto c.d. borderline)". Lo schema di D.D.L. elaborato dalla Commissione presieduta da Pisapia (2008), infine, agli artt. 21 e 2 2 propone che " . . . non sia

imputabile chi non abbia la capacità di intendere o di volere; non sia punibile chi abbia commesso un fatto previsto dalla legge come reato, se nel momento in cui lo ha commesso non era imputabile; sia esclusa la capacità di intendere o di volere quando l'agente non sia stato in grado di comprendere il significato del fatto o comunque di agire secondo tale capacità di valutazione; siano considerate cause di esclusione dell'im­ putabilità.· l'infermità, i gravi disturbi della personalità, la cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, se rilevanti rispetto al fatto commesso; nei casi in cui l'agente non abbia la capacità di intendere o di volere sia applicata una misura di cura e di controllo". L e principali scelte di fondo adottate da quest'ultima Commis­ sione sono state: a) abolizione del sistema del doppio binario, che prevede l'ap­ plicazione congiunta di pena e misura di sicurezza; b) recepimento, quanto al vizio di mente, dei principi fissati dalla giurisprudenza ( 1 2) , con il conseguente abbandono di un rigido modello definitorio dell'infermità in favore di clausole aperte, più idonee ad attribuire (a determinate condizioni) rilevanza anche ai disturbi della personalità; c) previsione, nei casi di incapacità di intendere e di volere, di misure di cura e/o di controllo, determinate nel massimo e da applicarsi in base alla necessità della cura; d) applicazione, nei casi di ridotta capacità di intendere e di volere, di una pena ridotta da un terzo alla metà finalizzata al superamento delle condizioni che hanno ridotto la capacità del­ l'agente. Nella relazione di accompagnamento si è poi specificato che "il

co ncetto di infermità deve tener conto sia dei cambiamenti profondi (12) Cass. pen.,

SS.UU., 8 marzo 2005, n. 9 1 63.

148

Fondamenti d i ps icopa tologia forense

nella struttura psicopatologica sia dell'aumento di situazioni caratteriz­ zate da una estrema difficoltà di classificazione, anche in quanto sono sempre più frequenti le c.d. forme spurie (es. situazioni di deficit identitari, caratterizzate da estrema [abilità dei confini egoici)". In altri termini, secondo la Commissione, anche i disturbi della personalità possono escludere o grandemente scemare la capacità di intendere e di volere dell'agente, qualora ricorrano determinate con­ dizioni (di consistenza, intensità, rilevanza e gravità), che devono essere accertate in concreto. Ai fini del giudizio sulla capacità di intendere e di volere, dunque, ciò che rileva è la circostanza che il disturbo abbia in concreto compromesso la capacità di percepire il significato del fatto commesso. Per evitare di allargare eccessivamente il campo della non imputabilità, la Commissione ha previsto, poi, un correttivo, costitu­ ito dal legame che deve sussistere tra l'infermità ed il reato commesso, tale da far ritenere che il secondo sia espressione dalla prima:

"affinché il vizio di mente possa avere rilevanza in ordine al profilo dell'imputabilità, il fatto deve trovare la sua origine e la sua causa nella infermità". Secondo questo progetto, quindi, ai fini del giudizio sull'impu­ tabilità, la capacità di intendere e volere al momento del fatto dovrà essere accertata in concreto da parte del perito, che, in altre parole, dovrà valutare quanto il disturbo mentale abbia inciso sulle capacità intellettive e/o volitive dell'agente ed accertare se il reato commesso sia espressione del disturbo stesso.

4.5. La perizia psichiatrica in tema di imputabilità e di pericolo­ sità sociale: criticità e prospettive.

Nel 2004 una Commissione di studio costituita da rappresen­ tanti delle Società Italiane di Medicina Legale, Criminologia, Psichia­ tria Forense e Psichiatria Clinica (13) ha espresso il proprio parere sui temi dell'imputabilità e della pericolosità sociale, per una riforma condivisa del Codice Penale. Aderendo integralmente ai contenuti di tale relazione sulle criticità attuali e sulle prospettive di innovazione del lavoro peritale su questi temi, si ritiene opportuno ripercorrere brevemente le motiva( 13) BANDINI T., CATANESI R., LuBERTO S., MARIGO M., NrvoLI G.C., PALMIERI L., PrRFO E., Rrccr P. e ScAPATI F., Parere sui temi della imputabilità e pericolosità sociale per la Commissione di Studio di riforma del Codice penale presieduta dal Cons. Carlo Nordio,

2004.

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

1 49

zioni espresse in tale documento, prendendone spunto per alcune riflessioni essenziali. Il punto di partenza da cui parte la Commissione è la conside­ razione, certamente condivisibile, che "l'esperienza clinica e medico­

legale, in sintonia con le risultanze della Letteratura in materia, consen­ tono ormai di affermare con decisione quanto sia priva di fondamento l'idea che il malato di mente sia stabilmente privo della facoltà di comprensione degli eventi, come pure che formulare una diagnosi, quale essa sia, identifichi uno stato di incapacità". Il sofferente psichico, infatti, "può scegliere come comportarsi sulla base di valori, idee, motivazioni, che non necessariamente dipen­ dono dalla malattia di cui è portatore; ciò vale per qualsiasi scelta, e dunque anche nell'ipotesi di un reato".

In altri termini, viene ribadito il concetto secondo cui non c'è equivalenza fra disturbo psichico e vizio di mente, con la conseguenza che, come già ampiamente sottolineato, al vizio di mente si può (e si dovrebbe) giungere solo in presenza di chiari e dimostrabili disturbi, che siano stati tali da alterare sensibilmente il funzionamento psi­ chico di un individuo al momento del fatto, in modo da poter ritenere il reato causalmente correlato alla condizione psicopatologica. Certo è che, nonostante le sempre crescenti conoscenze in materia psichiatrica, al perito non è sempre possibile rispondere in modo scientificamente fondato a tutti i quesiti. In realtà, come sottolinea anche la Commissione, comporta­ mento delittuoso e malattia di mente, quando pur presenti in uno stesso soggetto, non sempre sono interconnessi al punto che, curata la malattia, si possa ottenere anche l'adeguatezza del comportamento, per cui "diagnosticare un disturbo non significa avere sempre soluzioni

utili per restituire, contestualmente, corretto funzionamento psichico, benessere soggettivo ed esclusione di recidiva di reato. Con un adeguato percorso di cura, questo può accadere in un apprezzabile numero di casi, ma non sempre e non per tutti", e ciò è del tutto condivisibile. Circa le proposte di modifica del dettato normativa, la predetta Commissione sottolinea che non vi è alcun accordo in merito ad una formula sostitutiva della generica nozione di "infermità" ex artt. 88 e 89 c.p. : "qualsiasi altro termine (ad es. malattia mentale o disturbo

mentale o anomalia) porterebbe infatti inevitabilmente ad analoghi, se non maggiori, problemi di indeterminatezza". I n particolare, viene evidenziato come "la flessibilità interpreta­ tiva associata ad un termine "contenitore" come quello di infermità risulta in grado di venire incontro alle inevitabili correzioni di rotta che la scienza medica nel tempo propone, evitando contestualmente il rischio di adesione ad una nomenclatura psichiatrica che oggi può apparire sintonica con il sapere scientifico ma che, rapidamente, po-

1 50

Fondamenti di psicopatologia forense

trebbe essere sostituita da altra. A ciò si aggiunga che nel tempo, caduti gli steccati giurisprudenziali che limitavano il concetto di infermità alle sole psicosi ed alle cerebropatie, si è venuti incontro a ciò che dottrina criminologica e psichiatrico forense da tempo sostengono, e cioè che non è il diagnosticare una malattia, ovvero qualificarla come "infer­ mità", il punto determinante dell'accertamento peritale quanto mettere in luce la reale incidenza del disturbo diagnosticato sul funzionamento psichico del soggetto e, quindi, su quello specifico reato". Sulla base di tali considerazioni, l a Commissione ritiene, in modo del tutto condivisibile, che si può accettare di continuare ad utilizzare il termine "infermità", lasciando naturalmente che sia la giurisprudenza a dettame nel tempo limiti e confini. Inoltre, secondo la Commissione anche l'aggiunta di altra for­ mulazione al fianco del termine "infermità" sarebbe del tutto inutile e confusiva, e ciò per due ragioni: "se non si pongono rigidi limiti al

concetto in esame non c'è motivo perché anche disturbi della persona­ lità, o altre condizioni morbose possano, in certe situazioni, essere considerati rilevanti ai fini del giudizio di imputabilità; differenziando concettualmente i disturbi della personalità o le gravi anomalie da tutto ciò che invece viene qualificato come infermità, si darebbe quasi l'idea che ad essi si voglia attribuire importanza o significato diverso, enfatiz­ zandone il ruolo". Si condivide il parere della Commissione anche in riferimento all'eventuale aggiunta del concetto di "anomalia": esso infatti appare vago e difficilmente delimitabile, con il rischio che vi potrebbe confluire tutto ciò che la psichiatria è in grado di classificare. La "anomalia", poi, come sottolinea la Commissione, richiamerebbe troppo da vicino l'ambiguo concetto di "normalità", potendo così comprendere anche casi giudiziari "inspiegabili", che sfuggono cioè anche alla capacità di comprensione (ed immaginazione) dei periti, laddove manchi motivazione "apparente" al delitto, o questa appaia inconsistente o francamente abnorme. In altri termini, come puntualizza la Commissione, "si contrasta

l'idea di psichiatrizzare ogni comportamento criminale, che nasconde solo la rassicurante volontà di attribuire a tutto ciò che è inspiegabile, che va al di là della aspettativa comune, ovvero a tutto ciò che esprime eccesso di crudeltà, il significato di malattia di mente".

Molto discusso è anche il fatto che nella perizia psichiatrica la patologia di mente debba essere collegata con due distinte e specifiche capacità, quella di intendere e quella di volere. A tal proposito, si condivide il parere della Commissione circa l'esigenza primaria di centrare l'attenzione "su quegli elementi psico­

patologici in grado di interferire con la corretta decodifica ed adeguata

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

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comprensione degli elementi di realtà, sui processi di attribuzione di significato, sul grado di sintonia cognitiva con il mondo circostante, sulla ricorrenza ed incidenza di eventuali fenomeni distorsivi del pen­ siero (deliri, deliroidi, idee di riferimento, ecc.), di disturbi della perce­ zione o della coscienza; tutti elementi in grado di alterare il significato di quel fatto-delitto messo in atto" e tutto ciò potrebbe trovare migliore accoglienza nella formulazione "comprendere il significato del fatto" rispetto all'attuale "capacità di intendere". Ancor più discussa è poi la possibilità di indagare in modo scientifico il "volere" di un individuo. Le conoscenze cliniche attuali, infatti, non consentono che limitate possibilità di esplorazione e valutazione di quella che oggi è definita dal codice penale come "capacità di volere". Il perito è sicuramente in possesso di strumenti clinici e diagno­ stici efficaci per lo studio del funzionamento psichico ed è in grado di formulare giudizi fondati sulla qualità dell'ideazione, ma spesso può dire poco, sul piano scientifico, in ordine al processo di volontà. Anche la suddivisione in vizio parziale e vizio totale di mente ha sollevato numerose critiche da parte di alcuni clinici, che hanno proposto l'unificazione delle due fattispecie giuridiche. Troppo spesso, infatti, l'attuale categoria del "vizio parziale di mente" si è prestata a facili strumentalizzazioni sul piano giudiziario. D'altra parte si ricorda che in alcuni Paesi, nei quali non è prevista la fattispecie del "vizio parziale di mente", esistono motivate proposte di introduzione della stessa. In realtà, come ricorda la Commissione, quote di capacità residua possono essere rilevabili anche nel grave malato di mente, con la conseguenza che, a certe condizioni, anche il sofferente psichico potrà essere chiamato a rispondere innanzi alla Legge dei propri atti. D'altro canto, vero è che alcuni disturbi possono interferire sulla capacità di adeguata comprensione dei fatti; magari non abolendola, non cancellandola del tutto, ma !imitandola, ed anche sensibilmente. Si condivide, dunque, l'opinione della Commissione, secondo cui la soluzione di mantenere la categoria del vizio parziale di mente

"è quella che oggi meglio corrisponde all'attuale sentire scientifico, che ritiene cioè che il malato di mente sia per lo più imputabile, ma con capacità limitate dalla sua malattia". Per questi motivi, certo è che "la previsione di un vizio totale e parziale di mente, pur con tutti i limiti ben noti, è quella che meglio corrisponde alla multiforme diversità della malattia di mente". uno

In ogni caso, la perizia psichiatrica rimane e rimarrà sempre per la valutazione dell'imputabilità del-

strumento insostituibile

1 52

Fondamenti di psicopatologia forense

l'autore di reato, anche se si ribadisce la necessità di una profonda riforma della normativa e delle prassi ad essa correlate . Anche con l'attuale legislazione, è comunque indispensabile che la perizia psichiatrica, come ogni altro atto medico, sia realizzata in modo da rispettare al massimo i diritti dell'uomo, ed in particolare quelli dell'uomo malato. In tale prospettiva si segnala che, contrariamente a quanto si verifica nell'attuale maggioranza dei casi, il perito può e deve operare mantenendo il massimo della riservatezza, senza svelare aspetti della vita intima del periziando, non pertinenti all'accertamento dell'impu­ tabilità, e che al perito stesso non dovrebbe mai essere consentito di prendere posizione sulla consistenza dei fatti, né sulla coerenza tra il carattere del reo ed il fatto reato ( 1 4). Alcuni esperti suggeriscono la necessità della nomina di collegi peritali che siano sempre costituiti da specialisti di differenti disci­ pline, quali la psichiatria clinica, la psichiatria forense e la medicina legale, e comunque auspicano un approccio di tipo interdisciplinare, che permetta un più corretto contatto con l'imputato ed una più rigorosa valutazione della realtà osservata (15). In generale, si ritiene che la perizia psichiatrica sull'imputabilità non debba essere affidata ai sanitari che si occupano, o si dovranno occupare in futuro, del trattamento del caso. Contrariamente a recenti proposte in tal senso, si sostiene, infatti, che i clinici incaricati di un trattamento non debbano mai svolgere attività di tipo valuta­ tivo, che possano in qualche modo condurre a benefici attinenti alla sanzione. Il rapporto terapeutico può essere fortemente inquinato e com­ promesso dalle attività di tipo valutativo richieste dal magistrato, attività che privano tale rapporto della necessaria libertà e sponta­ neità. D'altra parte tali osservazioni non devono far ritenere che il perito d'ufficio non debba avere anch'esso un atteggiamento di empatia, di comprensione, di coerenza. È comunque fondamentale che il clinico che assume l'impor­ tante funzione di perito non sia coinvolto, in modo prioritario, in attività di trattamento del periziando, in quanto la duplicità dei ruoli può condurre a difficoltà ed errori facilmente comprensibili.

(14) pénale et l'Europe, (15)

BERNHEIM J., Conclusions et récommendations, in Etudes sur la résponsabilité le traitément psychiatrique des délinquants màlades mentaux, Conseil de Strasbourg, 1 986. CANEPA G., op. cit. .

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

1 53

4.6. Per una moderna collaborazione tra mondo della giustizia e discipline psicopatologiche: una nuova proposta di quesito penale.

Il contributo della psichiatria forense, e più in generale delle scienze umane, al problema del trattamento degli infermi di mente autori di reato, non può comunque fermarsi ad una analisi dell'attuale nozione di imputabilità e ad un esame della prassi della perizia psichiatrica, ma deve senz'altro produrre sempre nuovi stimoli, che consentano di affrontare con rinnovato interesse i complessi pro­ blemi di questi soggetti. In tal senso la precitata Commissione di studio ( 16 ) afferma con forza che un corretto ed accettabile lavoro psichiatrico forense possa essere realizzato soltanto qualora siano presenti opportunità di trat­ tamento del malato di mente al di fuori degli abituali Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.), che in Italia sono sopravvissuti anche dopo la radicale riforma psichiatrica del 1 978, che ha condotto ad una totale abolizione degli ospedali psichiatrici civili (Legge n. 1 80 del 1 978). La conservazione degli O.P.G. rappresenta una grave contrad­ dizione rispetto allo spirito della riforma psichiatrica, in quanto continua a proporre, per i malati di mente che hanno commesso un reato, forme di trattamento istituzionale ritenute antiterapeutiche, stigmatizzanti ed emarginanti per tutti gli altri sofferenti psichici {17). Abolito l'O.P.G. e non accettata l'ipotesi di considerare comun­ que imputabile ogni infermo di mente, rimane in discussione l'iden­ tificazione della soluzione migliore per il sofferente psichico autore di reato. La proposta più condivisa, non contrastante con le concezioni della moderna psichiatria, è quella di affidare i soggetti incapaci alle normali strutture sanitarie. Tale proposta ha già trovato, in Italia, numerosi sostenitori ed era stata analiticamente trasferita in un progetto avanzato da un gruppo di operatori psichiatrici al Convegno di Arezzo "Psichiatria e buon governo" già nel lontano 1 979. Tale progetto, confermando il sistema della non imputabilità, tenta di ridurne le conseguenze negative, sopprimendo la misura dell'O .P.G. e prevedendo, alla conclusione del processo penale, l'in(16) BANDINI T., CATANESI R., LUBERTO S., MARIGO M., NIVOLI G.C., PALMIERI L., PIRFO E., Ricci P. e ScAPATI F., Parere sui temi della imputabilità e pericolosità sociale per la Commissione di Studio di riforma del Codice penale presieduta dal Cons. Carlo Nordio,

2004.

(17)

MANAcoRDA

A. (a cura di}, Folli e reclusi, La Casa Usher, Perugia, 1 988.

1 54

Fondamenti di psicopatologia forense

tervento di un organo giudiziario non penale che, con procedura giurisdizionale, valuti se e quali interventi sono necessari nei con­ fronti del prosciolto, secondo una gamma molto ampia di soluzioni. Anche nella legislazione di altri paesi è previsto che il prosciolto per infermità mentale sia assistito dai normali circuiti sanitari. È evidente, tuttavia, che questa soluzione può essere messa in atto soltanto in presenza di un efficiente servizio di assistenza psichiatrica, ed attraverso l'organizzazione di un sistema assistenziale psichiatrico comprendente strutture intermedie, comunità terapeutiche, ecc., ef­ ficienti su tutto il territorio nazionale. La sostituzione delle misure di sicurezza con misure a finalità trattamentali, riabilitative, risocializzanti, il passaggio dalla sociale pericolosità al bisogno di trattamento, sono principi oggi condivisi dalla comunità scientifica, così come lo è il coinvolgimento delle strutture territoriali nella gestione della tutela della salute del paziente-reo. In questo modo si rende difatti possibile articolare le strategie terapeutiche secondo le reali necessità del caso e senza necessaria­ mente ricorrere a misure restrittive, laddove queste non siano neces­ sarie. Poiché tuttavia le misure di cui si discute non hanno solo finalità di trattamento e tutela della salute ma anche - e per certi versi soprattutto - di difesa sociale, ovvero di controllo, è bene ribadire quanto accennato in premessa sul mancato parallelismo fra terapia e controllo. È bene ricordare, cioè, che molti pazienti rispondono bene alle terapie e raggiungono ottimi risultati anche da un punto di vista comportamentale, ma che questo risultato non è ottenibile in tutti i casi. L'esperienza clinica e peritale testimonia come alcuni pazienti siano refrattari o poco sensibili alle terapie, che per alcuni disturbi non vi siano terapie sufficienti ad assicurare adeguatezza di funzio­ namento, tanto meno correttezza di comportamento. Come ribadisce ancora la Commissione, non sempre un per­ corso trattamentale socio-psicofarmacologico, pur adeguato e di ottimale livello multi-professionale, è sufficiente garanzia di efficacia clinica, ovvero di remissione sintomatologica. Ne deriva l'obbligo di prevedere che a "misure di sicurezza e riab ilitative" (secondo il progetto Grosso) o misure "di cura e di controllo" (secondo il progetto Pisapia), si acceda solo dopo che sia stata verificata la concreta fattibilità del progetto terapeutico, preve­ dendo anche la possibilità di trattamenti in ambiente protetto. Nel nostro attuale sistema trattamentale mancano del tutto

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

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strutture in grado di ospitare, magari per lunghi periodi, pazienti violenti ed è bene sottolineare che i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (ovvero le strutture ospedaliere psichiatriche attuali) sono del tutto privi di caratteristiche utili allo scopo. Si tratta dunque, come evidenzia la Commissione, di creare nuove strutture, che si possono immaginare quali presidi sanitari protetti, ad alta intensità assistenziale, articolati di concerto tra il Ministero della Salute e il Ministero di Giustizia ed integrate nella organizzazione sanitaria regionale, nelle quali potrebbero trovare ospitalità sia soggetti non imputabili per i quali si ritenga che le possibilità trattamentali all'esterno non siano sufficienti a modificare le condizioni di incapacità che hanno dato luogo al delitto, sia soggetti non imputabili avviati a soluzioni trattamentali esterne, ambulato­ riali, che siano venuti meno alle prescrizioni concordate e ritenute necessarie. Qualora il Legislatore dovesse aderire ad una simile imposta­ zione (18) sembra opportuno segnalare la necessità di una riflessione clinico-organizzativa finalizzata al necessario adeguamento delle strutture e della formazione del personale. La psichiatria forense può e deve aiutare il Legislatore ad individuare soluzioni che non contrastino con l'evidenza della realtà clinica, nel rispetto dei diritti del malato di mente e tenuto conto dei risultati raggiunti dalla moderna scienza psichiatrica. Prescindendo dalle radicali riforme normative che sono ipotiz­ zabili per la realtà italiana e prendendo comunque atto della necessità di continuare e approfondire la quotidiana collaborazione tra i clinici e il mondo della giustizia, è a questo punto utile interrogarsi circa l'opportunità di delineare quali siano, nella realtà attuale, i confini delle risposte che i periti sono in grado di fornire in modo scientifi­ camente motivato ai quesiti posti dal magistrato. Come già ampiamente ricordato, una diversa formulazione dei quesiti della perizia psichiatrica, più moderna ed accettabile anche se rispettosa dell'attuale divieto contenuto nell'art. 220 del nuovo c.p.p., potrebbe favorire il superamento delle astratte e confusive contrap­ posizioni degli psichiatri forensi sulle nozioni giuridiche di infermità e di pericolosità sociale psichiatrica. Lo psichiatra forense è attualmente in grado di rispondere in modo tecnico ai nuovi quesiti che sono stati già accennati, senza ( 18) A riguardo si veda il già citato D.P.C.M. 19 marzo 2008, "Concernente le modalità e i criteri per il trasferimento al servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria"

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Fondamenti di psicop atologia forense

sovrapporsi al giudice e senza utilizzare nozioni poco definite o addirittura non accettabili dal punto di vista scientifico. Il giudice deve essere aiutato a comprendere se e quanto un determinato comportamento è stato condizionato da istanze psicopa­ tologiche, quale sia stato il decorso di tali disturbi e quale prognosi psichiatrica si possa formulare, al di fuori di attività indefinite da un punto di vista clinico. La diagnosi e la prognosi di malattia spettano al medico, così come l'attribuzione del reato e la previsione di recidiva spettano al giudice. Nei casi in cui emergano evidenti disturbi psichici il giudice potrà e dovrà essere aiutato a comprendere quanto abbiano agito questi disturbi sul funzionamento psicopatologico del soggetto al momento ed in relazione al reato, al fine di applicare correttamente, anche in questi casi, la norma giuridica, senza pericolose ed inaccet­ tabili sostituzioni. Per questi motivi si ritiene indispensabile proporre un nuovo modello di quesito peritale in tema di imputabilità e pericolosità sociale così strutturato:

- dica il perito se, sulla base dell'esame clinico effettuato, delle risultanze delle indagini svolte e di tutti i dati disponibili, vi siano elementi indicativi della presenza di un disturbo psichico al momento del reato, ricostruendone l'evoluzione cronologica e lo sviluppo fenome­ nologico e definendolo alla stregua delle più aggiornate conoscenze scientifiche; - dica se tale disturbo sia idoneo a determinare ed abbia in effetti determinato un funzionamento psicopatologico tale da compromettere le capacità cognitive e/o volitive del soggetto al momento del reato; - dica se sussista un rapporto di causa tra il funzionamento psicopatologico evidenziato e il fatto-reato; - stabilisca in che misura il funzionamento psicopatologico abbia inciso sulla capacità di intendere o di volere, specificando quantitativamente il grado di compromissione di tali capacità. - Dica, altresì, se al momento dell'indagine il soggetto manifesti disturbi psichici, di che tipo e di quale gravità; - dica se siano presenti elementi che consentano di valutare il rischio di recidiva psicopatologica e di eventuali concomitanti compor­ tamenti violenti; - dica infine quale prognosi debba essere formulata, anche tenu to conto delle possibilità e delle necessità assistenziali e terapeutiche del caso. Su questi nuovi quesiti, meno legati alle nozioni puramente giuridiche di infermità e di pericolosità sociale, lo psichiatra forense ha la possibilità di rispondere in modo tecnico, senza sovrapporsi al

La perizia psichiatrica sull'autore di reato

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lavoro del magistrato, ma senza rinunciare alle competenze della scienza psichiatrica, in un processo di interazione con il mondo della giustizia e per un più adeguato avvicinamento alle verità processuali. Lo psichiatra forense dovrà far comprendere al magistrato che il suo aiuto non è meno importante se si limita a fornire una prognosi di malattia anziché addentrarsi in una pressoché impossibile pro­ gnosi di recidiva, che tale compito non può comunque essere di alcuna utilità se è volto a ricercare sterili parallelismi tra tipo di psicopatologia e tipo di incapacità o di pericolosità, e che può divenire francamente dannoso se si sofferma a descrivere condizioni psicolo­ giche che possano in qualche modo esser rilette al fine di una valutazione della addebitabilità del fatto-reato all'imputato. Una corretta descrizione di eventuali condizioni psicopatologi­ che, della loro evoluzione, prognosi ed indicazione terapeutica, può fornire al magistrato elementi preziosi per un giudizio omogeneo e rispettoso dei margini di responsabilità e di autonomia presenti in ogni uomo, anche nell'uomo malato. La perizia psichiatrica rappresenta, tuttora, lo strumento più adeguato alle garanzie dell'imputato, a condizione che si agisca in modo rigoroso e chiaro, sempre attenti a non travolgere i diritti dell'uomo, ed in particolare dell'uomo malato, come giustamente riaffermato anche nel nuovo Codice di procedura penale.

Capitolo V ALTRI MODELLI DI INDAGINE PSICOLOGICA E PSICHIATRICA IN AMBITO PENALE

SoMMARIO: 5 . 1 . La perizia psichiatrica sull'autore di reato nell'iter giudiziario penale. 5.2. L'indagine psichiatrico forense in tema di "capacità di partecipare coscien­ temente al processo". - 5.3. Disturbo psichico e carcere. - 5.4. L'incapacità di rendere testimonianza.

5 . 1 . La perizia psichiatrica sull'autore di reato nell'iter giudizia­ rio penale.

In fase di cognizione, oltre che in tema di imputabilità e di pericolosità sociale, la perizia psichiatrica sull'autore di reato può essere disposta ai seguenti fini: accertare la capacità dell'indagato o dell'imputato di partecipare coscientemente al processo (artt. 70 e ss. c.p.p.); valutare le condizioni di mente dell'indagato o dell'imputato ai fini della disposizione di misure cautelari in luoghi di cura o di assistenza ovvero per l'applicazione provvisoria di una misura di sicurezza (artt. 73, 284, 286 e 3 1 2 c.p.p.) . Queste indagini possono essere esperite mediante l a perizia disposta dal G.I.P. (artt. 392-398 c.p.p.) ovvero la perizia dibattimen­ tale (art. 508 c.p.p.). Nella fase esecutiva, invece, è il magistrato o il Tribunale di sorveglianza a disporre la perizia, che può essere volta a stabilire: la presenza o persistenza di pericolosità sociale psichiatrica al momento dell'applicazione della misura di sicurezza (art. 679 c.p.p.); le condizioni di mente del condannato o dell'internato ai fini dell'esecuzione o prosecuzione della pena ovvero della misura di sicurezza ovvero in vista della concessione di misure alternative (artt. 146, 1 47, 1 48 e 2 1 2 c.p.; L. n . 354 del 1 975 e successive modifiche) . È importante ricordare che l o specifico divieto di perizia psico­ logica sancito dall'art. 220 comma 2 c.p.p., non riguarda la fase di ,

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Fondamenti di psicopatologia forense

esecuzione della pena o di applica zione delle misure di sicurezza, in quanto il reato e la colpevolezza sono già stati accertati.

5.2. L'indagine psichiatrico forense in tema di "capacità di par­ tecipare coscientemente al processo".

L'indagine tesa ad accertare la capacità processuale dell'inda­ gato o dell'imputato s'ispira alla nozione routinariamente diffusa nella prassi processuale nord-americana della cosiddetta "competence to stand trial", che viene verificata in tutti i casi nei quali vi sia il sospetto di una patologia mentale tale da influire sulla capacità dell'indagato o dell'imputato di comprendere le accuse che gli ven­ gono poste e di esercitare validamente il proprio diritto di autodi­ fesa ( 1 ). La sospensione del procedimento per incapacità processuale trova la sua ragione giustificativa nella necessità di consentire all'im­ putato o all'indagato il più ampio dispiegamento del suo diritto di difesa personale e di adottare tutte le iniziative che ritiene necessarie per esercitarlo nel modo per lui più vantaggioso. Infatti, in presenza di uno stato di infermità mentale tale che la partecipazione cosciente al processo non possa avvenire, il diritto di autodifesa non sarebbe adeguatamente tutelato e conseguentemente il procedimento (o il processo) deve essere sospeso. In particolare, il c.p.p. italiano contempla la previsione degli "accertamenti sulla capacità dell'imputato" all'art. 70, che recita:

"Quando non deve essere pronunciata sentenza di prosciogli­ mento o di non luogo a procedere e vi è ragione di ritenere che, per infermità mentale, l'imputato non è in grado di partecipare cosciente­ mente al processo, il giudice, se occorre, dispone anche di ufficio, penzta. Durante il tempo occorrente per l'espletamento della perizia il giudice assume, a richiesta del difensore, le prove che possono condurre al proscioglimento dell'imputato, e, quando vi è pericolo nel ritardo, ogni altra prova richiesta dalle parti. Se la necessità di provvedere risulta durante le indagini prelimi­ nari, la perizia è disposta dal giudice a richiesta di parte con le forme previste per l'incidente probatorio. Nel frattempo restano sospesi i termini per le indagini preliminari e il pubblico ministero compie i soli atti che non richiedono la partecipazione cosciente della persona sotto(!) È importante sottolineare che tale diritto fa riferimento alla difesa materiale, non a quella tecnica delegata al difensore.

Altri modelli di indagine in ambito penale

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posta alle indagini: Quando vi è pericolo nel ritardo, possono essere assunte le prove nei casi previsti dall'art. 392". Nel testo originale dell'art. 70, al primo capoverso, era prevista unicamente una condizione d'infermità mentale "soprawenuta al fatto", ma tale previsione è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale (2 ), in considerazione della necessità di equiparare gli imputati affetti da infermità soprawenuta rispetto a quelli la cui condizione psicopatologica era preesistente. Si tratta, pertanto, di accertare se nell'imminenza del processo vi sia una condizione d'infermità di mente, originaria o soprawenuta, per la quale l'imputato non è in grado di interagire validamente con i diversi protagonisti e momenti della scena processuale. Il quesito derivante da questa norma può essere posto sia nell'ambito dì una perizia psichiatrica in tema di imputabilità e di pericolosità sociale, sia nell'ambito di una indagine autonoma, non correlata con l'accertamento di un vizio di mente. Tale quesito è generalmente così strutturato:

"dica il perito se l'imputato (o l'indagato) sia affetto da infermità di mente tale da renderlo incapace dì partecipare al processo" . Dal punto di vista applicativo i l consulente viene quindi chia­ mato a pronunciarsi sia in merito alla sussistenza di una condizione di infermità mentale, sia alla specifica influenza della stessa sulle singole e diverse risorse dell'individuo, dalle quali deriva la capacità processuale dello stesso. In particolare, si dovrà tener conto di tutti gli elementi di carattere neurologico, psichico e relazionale che consentono all'im­ putato di esercitare in modo attivo e consapevole il proprio diritto alla difesa, al di là della delega tecnica al legale che lo assiste. Dovranno quindi essere valutate, con specifico riferimento alle caratteristiche ed alla complessità dei fatti per i quali si procede, le risorse mnesiche, intellettive, logiche e critiche, dell'infermo di mente. Come elenca Fornari (3), dovrà essere accertato il grado di menomazione dei seguenti comportamenti processuali: "capacità di

recepire significato, contenuti e motivazioni delle indagini fin dalle loro prime battute e dell'eventuale imputazione; preparazione e enunciazione della propria linea difensiva; richiesta di ammissione delle prove a favore e partecipazione all'assunzione delle stesse; non fornitura di prove sfavorevoli; nomina di un difensore; capacità di reggere il con­ traddittorio; di opporre il silenzio; di presentarsi o meno al dibattimento; (2)

(3)

Corte Cost., sent. n. 340 del 20 luglio 1 992. FoRNARI U. , op. cit. .

Fondamenti di psicopatologia forense

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di fornire dichiarazioni spontanee; di presentare istanze, memorie, richieste scritte; e così via". Per Manacorda l'indagine psichiatrico forense dovrà concen­ trarsi "sullo stato di coscienza, con particolare riguardo alla vigilanza ed all'orientamento temporo-spaziale e nei confronti delle persone; alle capacità attentive, tanto spontanee quanto di tipo conativo; alle capa­ cità manesche, tanto a breve quanto lungo termine; alle caratteristiche del pensiero, ivi compresi i suoi caratteri formali e gli aspetti del corso del pensiero stesso; ai contenuti prevalenti del pensiero, rilevando se ve ne siano o meno di francamente patologici; alle capacità di esame di realtà e di giudizio di realtà; al tono dell'umore, valutando se esistano o meno variazioni patologiche in direzione del versante depressivo, od invece di quello espansivo-euforico., alle capacità di esposizione e di comunicazione di eventi che lo riguardano, in maniera priva di vistose incongruenze e di errori patologici" (4) . Recentemente, la Corte Costituzionale (5) è intervenuta a chia­ rimenti in materia, specificando che "anche se l'art. 70 letteralmente si

riferisce ad ipotesi di "infermità mentale", il sistema normativa è chiaramente volto a prevedere la sospensione ogni volta che lo "stato mentale " dell'imputato ne impedisca la cosciente partecipazione al processo. Partecipazione che non può intendersi limitata alla consape­ volezza dell'imputato circa ciò che accade intorno a lui, ma necessaria­ mente comprende anche la sua possibilità di essere parte attiva nella vicenda e di esprimersi, esercitando il suo diritto di autodifesa". Questo significa che la nozione di "infermità mentale" ex art. 70 c.p.p. comprende non solo le malattie definibili in senso clinico come psichiche, ma anche qualunque altro stato di infermità che renda non sufficienti o non utilizzabili le facoltà mentali (coscienza, pensiero, percezione, espressione) dell'imputato, in modo tale da impedirne un'effettiva partecipazione al processo ( 6). D'altro canto, per escludere la cosciente partecipazione al pro­ cesso non è sufficiente il riconoscimento di una patologia psichia­ trica, anche grave, perché in tal modo risulterebbe sempre impossi­ bile procedere al giudizio nei confronti di sofferenti psichici, ma è necessario che l'imputato a causa dell'infermità risulti in condizioni tali da non comprendere quanto avviene e da non potersi difen­ dere (7). Pertanto, è bene evidenziare che le nozioni di "infermità­ capacità di intendere e di volere" e di "infermità mentale-capacità (4) (5 ) (6 )

(7)

MANACORDA A., La perizia psichiatrica nel processo penale, C.I.C., Roma, 2003. Corte Cast., sent. n. 39 del 2004. Ibidem. Cass. pen., sez. l, 1 1 maggio 2006, n. 1 9338.

Altri modelli di indagine in ambito penale

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processuale", pur potendo sovrapporsi, rappresentano due piani ben distinti dell'indagine psichiatrico forense sull'autore di reato ( 8) . Una persona affetta, al momento del reato, da uno scompenso psichico tale da limitare grandemente o da escludere le sue capacità d'intendere o di volere, al momento del processo può aver completa­ mente superato i disturbi preesistenti, owero, pur continuando ad essere affetto dalla stessa condizione psicopatologica, può essere in grado di organizzare validamente la propria strategia difensiva in sede processuale. Al contrario è possibile che un soggetto, pienamente imputabile all'epoca del reato, sviluppi successivamente disturbi psicopatologici tali da impedirgli una cosciente partecipazione pro­ cessuale. In questo tipo di accertamento, comunque, debbono essere presi in considerazione unicamente i concreti disturbi psicopatologici, senza attribuire valore di infermità alle possibili componenti psicolo­ giche reattive (ansia, depressione od altro) che non infrequentemente connotano l'esperienza di chi è sottoposto ad un processo penale. Un ulteriore chiarimento va puntualizzato in merito al rapporto tra l'incapacità processuale e l'interdizione (9). L'interdizione infatti è istituto che trova applicazione quando il soggetto non è in grado di prowedere ai propri interessi (art. 4 1 4 c.c.), mentre presupposto della sospensione prevista dal codice di proce­ dura penale è l'incapacità di partecipare coscientemente al processo. Il procedimento penale dunque può trovare svolgimento quando l'interessato, anche se non in grado di curare i suoi interessi, appare cosciente dello svolgimento del procedimento stesso, in modo da poter essere consapevole protagonista dello stesso ( 1 0). Sul piano applicativo, è interessante notare come negli Stati Uniti la giurisprudenza abbia elaborato criteri specifici con cui valutare la c.d. "competency to stand trial", espressi dalla cosiddetta regola di Dusky (Dusky vs United States, 1 960) che definisce i requisiti psichici minimi che un soggetto deve possedere per poter assumere il ruolo di imputato: affinché sia capace di stare in giudizio, occorre che questi abbia una sufficiente capacità di consultarsi con il proprio awocato con un ragionevole grado di consapevolezza e razionalità, e (8) A tale proposito, Cass. pen., sez. V, 1 7 novembre 2004, n. 47455 evidenzia che "L'incapacità dell'imputato di partecipare al processo (art. 70 c.p.p.) è diversamente disciplinata rispetto alla mancanza di imputabilità (art. 88 c.p.p.), costituendo stati soggettivi che, pur accomunati dall'infermità, operano su piani del tutto diversi e autonomi". (9) Per ulteriori approfondimenti si rimanda al capitolo VII. (10) Cass. p en . , sez. V, 1 3 dicembre 2004, n. 2283.

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Fondamenti di psicopatolog ia forens e

abbia la reale e concreta consapevolezza che si stia procedendo contro di lui ( 1 1 ). Sulla base di tale regola, gli studiosi americani, fin dagli anni '70, hanno cercato di creare una metodologia standardizzata per valutare la capacità processuale dell'autore di reato, proponendo numerosi sistemi clinico-testistici e vagliandoli alla stregua delle già citate Daubert rules ('2). Tali ricerche hanno permesso a Mossman e coli. di elaborare delle vere e proprie linee guida in tema di valutazione della "compe­ tency to stand trial" ( 1 3), nel tentativo di rendere l'indagine in tale ambito il più possibile basata su evidenze scientifiche. Ritornando all'ordinamento italiano, il riconoscimento di una "incapacità a partecipare coscientemente al processo" comporta due principali conseguenze sul piano processuale: la sospensione del procedimento e la nomina di un curatore speciale. In particolare, l'art. 7 1 c.p.p. (Sospensione del procedimento per incapacità dell'imputato), prevede che: "l. Se, a seguito degli accertamenti previsti dall'articolo 70, risulta

che lo stato mentale dell'imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento, il giudice dispone con ordinanza che questo sia sospeso, sempre che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere. 2. Con l'ordinanza di sospensione il giudice nomina all'imputato un curatore speciale, designando di preferenza l'eventuale rappresen­ tante legale. 3. Contro l'ordinanza possono ricorrere per cassazione il pubblico ministero, l'imputato e il suo difensore nonché il curatore speciale nominato all'imputato. 4. La sospensione non impedisce al giudice di assumere prove, alle condizioni e nei limiti stabiliti dall'articolo 70 comma 2. A tale assun­ zione il giudice procede anche a richiesta del curatore speciale, che in ogni caso ha facoltà di assistere agli atti disposti sulla persona dell'im­ putato, nonché agli atti cui questi ha facoltà di assistere . . . " .

Tale norma, in pratica, specifica che se a seguito degli accerta­ menti previsti nell'art. 70 c.p.p., risulta che lo stato mentale dell'im( 1 1 ) RoGERS R, JoHANSSON-LoVE J., Evaluating Competency to Stand Trial with Evidence-Based Practice, in l Am Acad Psychiatry Law, 2009, 37:450-460. ( 12 ) GRJsso T., Evaluating Competencies: Forensic Assessments and Instruments, Kluwer Academic, New York, 2003; CoHEN D.A., Review of the Evaluation of Compe­ tency to Stand Trial-Revised, in Menta! Measurements Yearbook, Lincoln, NE, 2004. ( 1 3 ) MossMAN D. e Coli., AAPL Practice Guideline for the Forensic Psychiatric Evaluation ofCompetence to Stand Trial, in l Am Acad Psychiatry Law, 2007, 35(4):3-70.

Altri modelli di indagine in ambito penale

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putato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al processo, il giudice ne disponga con ordinanza la sospensione, "sempre che non

debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere" (14).

Secondo quanto previsto dall'art. 72 c.p.p. (revoca dell'ordi­ nanza di sospensione), allo scadere del sesto mese dalla sospensione del processo il giudice deve disporre ulteriori accertamenti peritali, con eventuale ripetizione degli stessi a scadenza semestrale, o con verifica anticipata nel caso in cui se ne ravvisi la necessità, fino al momento del recupero delle capacità specifiche del soggetto. Per quanto concerne le conseguenze "sanitarie" dell'accerta­ mento di un'incapacità processuale dell'indagato o dell'imputato, per i quali non sussistano i requisiti per l'applicazione della custodia cautelare, l'art. 73 c.p.p. (Prowedimenti cautelari) prevede che:

"1. In ogni caso in cui lo stato di mente dell'imputato appare tale da renderne necessaria la cura nell'ambito del servizio psichiatrico, il giudice informa con il mezzo più rapido l'autorità competente per l'adozione delle misure previste dalle leggi sul trattamento sanitario per malattie mentali. 2. Qualora vi sia pericolo nel ritardo, il giudice dispone anche d'ufficio il ricovero provvisorio dell'imputato in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero. . . . ".

Pertanto, l'imputato (o l'indagato) il cui stato di mente sia tale da rendere necessario un trattamento sanitario di tipo psichiatrico può essere ricoverato provvisoriamente presso un Servizio Psichia­ trico di Diagnosi e Cura con le forme del T.S.O . . Ulteriori conseguenze derivanti dall'accertamento dello stato di incapacità processuale sono regolate dagli artt. 284, 286 e 3 1 2 c.p.p., dei quali si dirà più approfonditamente nel paragrafo seguente. In conclusione, richiamando il monito di Merzagora e Coll., è importante ricordare come "lo spirito dell'odierno codice di procedura,

il suo essere informato ad un modello accusatorio in cui sono esaltati i ruoli delle parti processuali, obbliga ad un maggiore impegno anche i periti, che non potranno più impigrirsi sui criteri utilizzati per l'accer­ tamento dell'imputabilità, frettolosamente riadattandoli anche per va­ lutare una competenza - quella appunto di partecipare coscientemente al processo - che non è secondaria, che, al pari dell'imputabilità, non solo può decidere le sorti del soggetto, ma diviene imprescindibile momento di garanzia e dunque salvaguardia per un giusto pro­ cesso" (15). (14) Corte App. Milano, sez. I I pen., 1 3 febbraio 2007. (15)

FARINONI P., MARTELLI F., MERZAGORA BETsos 1., La capacità di partecipare

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Fondamenti di psicopatologia forense

5.3. Disturbo psichico e carcere.

Sempre più frequentemente lo psichiatra clinico , ed in minor mi­ sura quello forense, vengono incaricati di accertare la sussistenza di disturbi psichici tali da impedire che l'indagato, l'imputato o il con­ dannato siano sottoposti ad un regime detentivo di tipo carcerario. Questi accertamenti comportano non soltanto un esame della situazione clinica del periziando, ma anche e soprattutto una verifica della possibilità che lo stesso sia adeguatamente curato nel contesto carcerario ovvero in strutture alternative extracarcerarie. Norma centrale in tale ambito valutativo è l'art. 1 1 2 del D .P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (16), che prevede:

"Accertamento delle infermità psichiche l. L'accertamento delle condizioni psichiche degli imputati, dei condannati e degli internati, ai fini dell'adozione dei provvedimenti previsti dagli articoli 148, 206, 212, secondo comma, del codice di procedura penale, dagli articoli 70, 71 e 72 del codice di procedura penale e dal comma 4 dell'articolo 1 1 1 del presente regolamento, è disposto, su segnalazione della direzione dell'istituto o di propria iniziativa, nei confronti degli imputati, dall'a utorità giudiziaria che procede, e, nei confronti dei condannati e degli internati, dal magistrato di sorveglianza. L'accertamento è espletato nel medesimo istituto in cui il soggetto si trova o, in caso di insufficienza di quel servizio diagnostico, in altro istituto della medesima categoria. 2. L'autorità giudiziaria che procede o il magistrato di sorveglianza possono, per particolari motivi, disporre che l'accertamento sia svolto presso un ospedale psichiatrico giudiziario, una casa di cura e custodia o in un istituto o sezione per infermi o minorati psichici, ovvero presso un ospedale psichiatrico civile. Il soggetto non può comunque perma­ nere in osservazione per un periodo superiore a trenta giorni. 3. All'esito dell'accertamento, l'autorità giudiziaria che procede o il magistrato di sorveglianza, ave non adotti uno dei provvedimenti previsti dagli articoli 1 48, 206, 212, secondo comma, del codice penale o dagli articoli 70, 71, e 72 del codice di procedura penale e dal comma 4 dell'articolo 1 1 1 del presente regolamento, dispone il rientro nell'isti­ tuto di provenienza" . S i tratta quindi di indagini che richiedono una specifica cono­ scenza delle diverse risorse sanitarie esistenti, sia in ambito peniten­ ziario, sia in ambito extrapenitenziario. coscientemente al processo: quadro giuridico, soluzioni forensi, suggerimenti operativi, in Riv. /t. Med. Leg. , 2004, 6 : 1 05 1 . (16) "Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà".

Altri modelli di indagine in ambito penale

1 67

Il principio ispiratore di questi accertamenti è espresso in alcuni articoli del c.p.p. e dell'ordinamento penitenziario, che affermano il diritto dell'autore di reato affetto da disturbi psichici ad essere curato nel modo più coerente alle sue necessità ed a non ricevere ulteriore danno dalla detenzione in un ambiente problematico come quello del carcere. Per chiarezza espositiva, riteniamo opportuno trattare prima delle implicazioni psichiatrico forensi circa la c.d. compatibilità detentiva dell'indagato e dell'imputato e poi di quelle relative al condannato. Nel caso in cui lo stato di mente dell'imputato (o dell'indagato) appaia tale da renderne necessaria la cura nell'ambito del servizio psichiatrico e sia del pari necessario applicare una misura cautelare personale ex artt. 273 e 274 c.p.p., le norme di riferimento sono le seguenti. Art. 286 c.p.p. (Custodia cautelare in luogo di cura).

"Se la persona da sottoporre a custodia cautelare si trova in stato di infermità di mente che ne esclude o ne diminuisce grandemente la capacità di intendere o di volere, il giudice, in luogo della custodia in carcere, può disporre il ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero, adottando i provvedimenti necessari per prevenire il pericolo di fuga. Il ricovero può essere mantenuto quando risulta che l'imputato non è infermo di mente . . . . "

Nell'ottica peritale, si rileva che l'accertamento previsto ai sensi del suddetto articolo viene a connotarsi come una vera e propria perizia psichiatrico forense, in quanto è diretta ad accertare se, per infermità mentale, la capacità di intendere o di volere del periziando sia esclusa o grandemente scemata. Nel caso in cui l'indagato o l'imputato affetto da patologia di mente sia ritenuto anche socialmente pericoloso non è possibile assisterlo ex art. 286 c.p.p., dovendosi invece prowedere all'applica­ zione provvisoria di una misura di sicurezza (internamento provviso­ rio in O.P.G. ovvero libertà vigilata) ex artt. 3 1 2 e 3 1 3 c.p.p. (17). ( 1 7) Art. 3 1 2 c.p.p. (Condizioni di applicabilità). "Nei casi previsti dalla legge, l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza è disposta dal giudice, su richiesta del pubblico ministero, in qualunque stato e grado del procedimento, quando sussistono gravi indizi di commissione del fatto e non ricorrono le condizioni previste dall'articolo 273 comma 2 ... " . Art. 3 1 3 c.p.p. (Procedimento). "Il giudice provvede con ordinanza a norma dell'articolo 292, previo accertamento sulla pericolosità sociale dell'imputato. Ove non sia stato possibile procedere all'interro­ gatorio della persona sottoposta alle indagini prima della pronuncia del provvedimento, si applica la disposizione dell'articolo 294.

1 68

Fondamenti di psicopatologia forense

In particolare l'art. 206 c.p. (Applicazione provvisoria delle misure di sicurezza) prevede che:

"Durante l'istruzione o il giudizio, può disporsi che il minore di età, o l'infermo di mente, o l'ubriaco abituale , o la persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti, o in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti, siano provvisoriamente ricoverati in un riformatorio o in un manicomio giudiziario, o in una casa di cura e di custodia. Il giudice revoca l'ordine, quando ritenga che tali persone non siano più socialmente pericolose. Il tempo dell'esecuzione provvi­ soria della misura di sicurezza è computato nella durata minima di essa". Ulteriori norme di particolare rilievo medico legale e psichia­ trico forense in tale contesto sono le seguenti: Art. 275 c.p.p. (Criteri di scelta delle misure). " . . . 4-bis. Non può essere disposta né mantenuta la custodia

cautelare in carcere quando l'imputato è persona affetta da . . . altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere. 4-ter. Nell'ipotesi di cui al comma 4-bis, se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non è possibile senza pregiudizio per la salute dell'imputato o di quella degli altri detenuti, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza . . . " . Art. 286-bis c.p.p. (Divieto di custodia cautelare). " . . . 3. Quando ricorrono esigenze diagnostiche al fine di accertare la sussistenza delle condizioni di salute di cui all'articolo 2 75, comma 4-bis, ovvero esigenze terapeutiche nei confronti di persona che si trovi in tali condizioni, se tali esigenze non possono essere soddisfatte nell'ambito penitenziario, il giudice può disporre il ricovero provvisorio in idonea struttura del Servizio sanitario nazionale per il tempo neces­ sario, adottando, ave occorra, i provvedimenti idonei a evitare il pericolo di fuga. Cessate le esigenze di ricovero, il giudice provvede a norma dell'articolo 2 75". Accanto alle misure cautelari detentive previste dai citati arti­ coli, un'ulteriore alternativa è, ai sensi dell'art. 284 c.p.p. ( 1 8), la Salvo quanto previsto dall'articolo 299 comma l, a i fini dell'articolo 206 comma 2 del codice penale, il giudice procede a nuovi accertamenti sulla pericolosità sociale dell'imputato nei termini indicati nell'articolo 72. Ai fini delle impugnazioni, la misura prevista dall'articolo 312 è equiparata alla custodia cautelare. Si applicano le norme sulla riparazione per l'ingiusta detenzione". ( 18) Art . 284 c.p.p. (Arresti domiciliari).

Altri modelli di indagine in ambito penale

1 69

misura degli "arresti domiciliari", che possono essere esperiti sia presso l'abitazione dell'indagato o dell'imputato, sia presso luoghi di cura o di assistenza, rappresentando così una forma più attenuata di limitazione della libertà personale. Per i soggetti affetti da patologie psichiatriche è frequente l'inserimento in reparti specialistici ospeda­ lieri, ovvero in comunità terapeutiche. È possibile inoltre che il giudice, nell'applicare, sostituire o revocare le misure cautelari personali possa disporre accertamenti psichiatrici senza le formalità della perizia ( 1 9). I risultati di tutte queste verifiche rivestono una notevole impor­ tanza per il giudice e per lo stesso paziente, in quanto da esse deriva non solo un'alternativa tra carcerazione provvisoria e inserimento in strutture terapeutiche, ma anche una possibile alternativa fra tratta­ mento nel servizio sanitario regionale, ovvero in ospedale psichiatrico giudiziario. Queste indagini sono spesso condizionate dalla estrema limita­ tezza dei tempi concessi, a causa della urgenza di collocare il paziente nella struttura più idonea, tenuto conto dei problemi che possono essere legati alla permanenza nella comunità carceraria di soggetti gravemente sofferenti da un punto di vista psichiatrico, ovvero dalla presenza di questi soggetti in reparti psichiatrici, con esigenze di sorveglianza e di custodia del tutto differenti da quelle degli altri ammalati. Tutto questo determina rilevanti problemi applicativi, per i quali è da tempo discussa l'opportunità di attivare specifiche e ristrette strutture per il trattamento dell'imputato o dell'indagato sofferenti psichici. Per ciò che concerne, invece, i soggetti condannati ad una pena detentiva definitiva, la sussistenza di disturbi psichiatrici viene trat­ tata sia nell'ambito delle norme generali attinenti alla compatibilità tra stato di salute e detenzione, sia nell'ambito di norme specifiche. In particolare, per quanto concerne lo spinoso problema della c.d. incompatibilità carceraria per "condizimti di salute di particolare gravità", gli articoli di riferimento sono i seguenti. Art. 146 c.p. (Rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena). "Con il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari, il giudice prescrive all'imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza . . . . ( !9) Art. 299 c.p.p. (Revoca e sostituzione delle misure). " . . . 4- ter. In ogni stato e grado del procedimento, quando non è in grado di decidere allo stato degli atti, il giudice dispone, anche di ufficio e senza formalità, accertamenti sulle condizioni di salute o su altre condizioni o qualità personali dell'imputato . . . . . "

"

1 70

Fondamenti di psicopatologia forense "L'esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita . . . 3) se deve aver luogo nei confronti di persona affetta da . . . altra .

malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario peniten­ ziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative". Art. 147 c.p. (Rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena). "L'esecuzione di una pena può essere differita . . 2) se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica . . . Il provvedimento di cui al primo comma non può essere adottato o, se adottato, è revocato se sussiste il concreto pericolo della commis­ sione di delitti". .

In tali casi è possibile l'applicazione di un provvedimento di inserimento in "detenzione domiciliare" esperibile anche presso un luogo di cura pubblico o privato. Art. 47-ter O.P. " . . . 1-ter. Quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 1 46 e 147 del

codice penale, il tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma l (cioè 4 anni), può disporre la applicazione della detenzione domiciliare, stabilendo un termine di durata di tale applica­ zione, termine che può essere prorogato. L'esecuzione della pena prose­ gue durante la esecuzione della detenzione domiciliare". L'applicazione delle citate fattispecie può richiedere frequenti interventi del medico legale o dello psichiatra forense, finalizzati a valutare se le condizioni di salute fisica o psichica del detenuto siano compatibili con i disagi inevitabilmente connessi con il regime detentivo o se richiedano trattamenti continuativi da attuarsi neces­ sariamente in ambito extracarcerario. Il problema che si pone, a questo punto, è quello di definire che cosa si intende per "condizioni di salute particolarmente gravi" e quali sono i criteri per individuare ed applicare il concetto di grave infermità, tale da consentire una misura alternativa alla detenzione. A tal proposito la giurisprudenza ha chiarito che "Ai fini della

concessione del differimento obbligatorio o facoltativo dell'esecuzione della pena . . . occorre avere riguardo a tre principi costituzionali: il principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge senza distinzione di condizioni personali, quello secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e, infine, quello secondo il quale la salute è un diritto fondamentale dell'indivi­ duo. Ne consegue che: a) le pene legittimamente inflitte devono essere eseguite nei confronti di coloro che le hanno riportate; b) l'esecuzione

Altri modelli di indagine in ambito penale

l7 1

della pena non è preclusa da eventuali stati morbosi del condannato, suscettibili di un generico miglioramento per effetto del ritorno in libertà; c) uno stato morboso del condannato in tanto legittima il rinvio dell'esecuzione, in quanto la p rognosi sia infausta quoad vitam ovvero il soggetto possa giovarsi in libertà di cure e trattamenti indispensabili non praticabili in stato di detenzione, neanche mediante ricovero in ospedali civili o altri luoghi esterni di cura, ovvero ancora, a cagione della gravità delle condizioni, l'espiazione della pena si riveli in contrasto con il senso di umanità. La malattia da cui è affetto il condannato deve essere grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare altre rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione" (2°). Per quanto riguarda la specifica insorgenza di patologie psichi­ che, l'art. 148 c.p. (Infermità psichica sopravvenuta al condannato) prevede che:

"Se, prima dell'esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale o durante l'esecuzione, sopravviene al condannato una infer­ mità psichica, il giudice, qualora ritenga che l'infermità sia tale da impedire l'esecuzione della pena, ordina che questa sia differita o sospesa e che il condannato sia ricoverato in un ospedale psichiatrico giudiziario, ovvero in una casa di cura e di custodia. Il giudice può disporre che il condannato, invece che in un ospedale psichiatrico giudiziario, sia ricoverato in un ospedale psichiatrico civile, se la pena inflittagli sia inferiore a tre anni di reclusione o di arresto, e non si tratti di delinquente o contravventore abituale o professionale o di delinquente per tendenza. Il provvedimento di ricovero è revocato, e il condannato è sotto­ posto alla esecuzione della pena, quando sono venute meno le ragioni che hanno determinato tale provvedimento". La Corte Costituzionale, con sentenza n. 146 del 1 975, è inter­ venuta su tale norma, sancendo che il periodo di ricovero non sospende la pena, ma ne è sostitutivo, equivalendo a tutti gli effetti alla reclusione. Inoltre, in seguito alla sentenza della Corte Costitu­ zionale n. 253 del 2003, è importante ricordare che l'internamento in O.P.G. non è più l'unico provvedimento adottabile, potendo il giudice scegliere la misura maggiormente idonea al soggetto. Dal punto di vista applicativo, in tali indagini si pongono complessi problemi diagnostici e prognostici, poiché il perito deve valutare la sussistenza di disturbi psichici del detenuto, tenendo conto del carattere "fisiologico" di una possibile reazione depressiva alla (20)

Cass.

pen. ,

sez. I.

1 8 giugno 2008, n. 28555.

Fondamenti di psicopatologia forense

172

carcerazione, nonché della possibi le simulazione di sintomi soggettivi o al contrario della dissimulazi one di gravi sintomi psicopatologici che non si manifestano in modo esplicito proprio per la peculiarità dell'ambiente di vita carcerario. Una delle problematiche di maggior difficoltà valutativa che si presenta in tale contesto è rappresentata dal cosiddetto "sciopero della fame" del detenuto, che richiede al perito importanti scelte circa l'ammissibilità delle decisioni del detenuto, in rapporto alla deriva­ zione delle stesse da una motivazione consapevole, ovvero da disturbi psicopatologici. Differenti e specifiche fattispecie interessano infine il soggetto imputabile ma pericoloso condannato all'esecuzione di una misura di sicurezza detentiva ex art. 212 c.p.

(

21

).

Per quanto concerne gli autori di reato alcool-dipendenti o tossicodipendenti, sia in fase cognitiva, sia in fase di esecuzione della pena, sono previste una serie di norme specifiche articolate nel Testo Unico sugli stupefacenti (D.P.R. 309 del1990 e successive modifiche). In particolare: Art. 89 (Provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossicodipen­

denti o alcool-dipendenti che abbiano in corso programmi terapeu­ tici). "l. Qualora ricorrano i presupposti per la custodia cautelare in carcere il giudice, ove non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, dispone gli arresti domiciliari quando imputata è una persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell'ambito di una struttura privata autoriz­ zata . . . e l'intemnione del programma può pregiudicare il recupero dell'imputato ... 2. Se una persona tossicodipendente o alcooldipendente, che è in custodia cautelare in carcere, intende sottoporsi ad un programma di (21) "

Art. 212 c.p. (Casi di sospensione o di trasformazione di misure di sicurezza). .. Se la persona sottoposta a una misura di sicurezza detentiva è colpita da .

un'infermità psichica, il giudice ne ordina il ricovero in un manicomio giudiziario, ovvero in una casa di cura e di custodia. Quando sia cessata l'infermità, il giudice, accertato che la persona è socialmente pericolosa, ordina che essa sia assegnata ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro ovvero a un riformatorio giudiziario se non crede di sottoporla a libertà vigilata. Se l'infermità psichica colpisce persona sottoposta a misura di sicurezza non detentiva o a cauzione di buona condotta, e l'infermo viene ricoverato in un manicomio comune, cessa l'esecuzione di dette misure. Nondimeno, se si tratta di persona sottoposta a misura di sicurezza personale non detentiva, il giudice, cessata l'infermità, procede a nuovo accertamento ed applica una misura di sicurezza personale non detentiva qualora la persona risulti ancora pericolosa".

Altri modelli di indagine i n ambito penale

l 73

recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero una struttura privata autorizzata . . . la misura cautelare è sostituita con quella degli arresti domiciliari ave non ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza ... 3. Il giudice dispone la custodia cautelare in carcere o ne dispone il ripristino quando accerta che la persona ha interrotto l'esecuzione del programma, ovvero mantiene un comportamento incompatibile con la corretta esecuzione, o quando accerta che la persona non ha collaborato alla definizione del programma o ne ha rifiutato l'esecuzione ... Art. 90 (Sospensione dell'esecuzione della pena detentiva). " l . Nei confronti di persona che debba espiare una pena detentiva inflitta per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipen­ dente, il tribunale di sorveglianza può sospendere l'esecuzione della pena detentiva per cinque anni qualora . . . accerti che la persona si è sottoposta con esito positivo ad un programma terapeutico e socio­ riabilitativo eseguito presso una struttura sanitaria pubblica od una struttura privata autorizzata ... 3. La sospensione dell'esecuzione della pena rende inapplicabili le misure di sicurezza nonché le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna . . . 4 . La sospensione della esecuzione della pena non può essere concessa più di una volta . . . . Art. 94 (Affidamento in prova in casi particolari) . "l. Se la pena detentiva deve essere eseguita nei confronti di persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi, l'interessato può chiedere in ogni momento di essere affidato in prova al servizio sociale per proseguire o intraprendere l'attività terapeutica sulla base di un programma da lui concordato con una azienda unità sanitaria locale o con una struttura privata autorizzata . . . Art. 95 (Esecuzione della pena detentiva inflitta a persona "

"

".

tossicodipendente). "l. La pena detentiva nei confronti di persona condannata per

reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendente deve essere scontata in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi ... . Art. 96 (Prestazioni socio-sanitarie per tossicodipendenti dete­ "

nuti) . " l . Chi si trova in stato di custodia cautelare o di espiazione di pena per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipen­ denza o sia ritenuto dall'a utorità sanitaria abitualmente dedito all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope o che comunque abbia problemi di tossicodipendenza ha diritto di ricevere le cure mediche e l'assistenza necessaria all'interno degli istituti carcerari a scopo di riabilitazione . . . . "

Fondamenti di psicopatologia forense

1 74

L'attribuzione di consulenze tecniche su questi temi è assoluta­ mente eccezionale, mentre è abituale che gli psicologi e gli psichiatri forensi partecipino direttamente alle decisioni dei Tribunali di Sor­ veglianza, in qualità di componenti esperti del collegio giudicante.

5.4. L'incapacità di rendere testimonianza.

L'art. 1 94 c. p. p. definisce oggetto e limiti della testimonianza: "l. Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di

prova . Non può deporre sulla moralità dell'imputato, salvo che si tratti di fatti specifici, idonei a qualifìcame la personalità in relazione al reato e alla pericolosità sociale. 2. L'esame può estendersi anche ai rapporti di parentela e di interesse che intercorrono tra il testimone e le parti o altri testimoni nonché alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutame la credibilità. La deposizione sui fatti che servono a definire la personalità della persona offesa dal reato è ammessa solo quando il fatto dell'im­ putato deve essere valutato in relazione al comportamento di quella persona. 3. Il testimone è esaminato su fatti determinati. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti". Secondo il nostro ordinamento, ogni persona è dotata di una generica capacità di testimoniare. L'art. 1 96 c.p.p. recita al proposito:

"Capacità di testimoniare. l. Ogni persona ha la capacità di testimoniare. 2. Qualora, al fine di valutare le dichiarazioni del testimone, sia necessario verificame l'idoneità fisica o mentale a rendere testimo­ nianza, il giudice anche di ufficio può ordinare gli accertamenti oppor­ tuni con i mezzi consentiti dalla legge . . . ". Si comprende, pertanto, come i l Legislatore abbia previsto la possibilità di verificare, attraverso un'indagine peritale, "purché sia indispensabile e sussistano gravi e fondati indizi" (22), la sussistenza o meno di un'idoneità a rendere testimonianza. L'art. 1 20 c.p.p. prevede poi che "non possono intervenire come testimoni in atti del procedimento: i minori degli anni 14 e le persone

palesemente affette da infermità di mente o in stato di manifesta ubriachezza o intossicazione da sostanze stupefacenti o psicotrope. La capacità si presume sino a prova contraria . . . " . (22 )

Cass. pen., sez. I,

14

marzo

1 980.

Altri modelli di indagine in ambito penale

1 75

Si sottolinea che tale principio non vale qualora i soggetti elencati siano vittime di reato. In particolare, consolidata giuri­ sprudenza ritiene che non sussista alcun divieto alla testimonianza dei minori, giacché l'art. 1 2 0 c.p.p. si limita a stabilire "solo una

generale inidoneità delle persone catalogate ad assolvere alla funzione di garanzia che la legge prevede per il compimento di determinate attività, nelle quali l'interessato ha diritto di farsi assistere da persona di fiducia. La minore età di un testimone, quindi, non incide sulla sua capacità di testimoniare, che è disciplinata dal principio generale contenuto nell'ar­ ticolo 1 96, comma 1, del c.p.p., bensì, semmai, sulla valutazione della testimonianza e, cioè, sulla sua attendibilità . . . " (23). Nel caso specifico del minore di 14 anni, poi, l'art. 498 c.p.p. prevede che "L'esame testimoniale del minorenne è condotto dal presidente su domande e contestazioni proposte dalle parti. Nell'esame il presidente può avvalersi dell'ausilio di un familiare del minore o di un esperto in psicologia infantile. Il presidente, sentite le parti, se ritiene che l'esame diretto del minore non possa nuocere alla serenità del teste, dispone con ordinanza che la deposizione prosegua nelle forme previste dai commi precedenti. L'ordinanza può essere revocata nel corso del­ l'esame". Circa lo specifico problema della valutazione psichiatrico e psicologico forense della capacità a testimoniare del minore vittima di reato rimandiamo al Capitolo 6, soffermandoci in questa sede speci­ ficamente sull'idoneità a testimoniare del soggetto maggiorenne. È importante premettere subito che la "capacità a testimoniare" è una nozione diversa, e di maggiore ampiezza, rispetto a quella della capacità di intendere e volere, implicando non soltanto la necessità di determinarsi liberamente e coscientemente, ma anche di discerni­ mento critico del contenuto delle domande al fine di adeguarvi coerenti risposte, di capacità di valutazione delle domande di natura suggestiva, di sufficiente capacità mnemonica in ordine ai fatti specifici oggetto della deposizione, di piena coscienza dell'impegno di riferire con verità e completezza i fatti a sua conoscenza. Il quesito peritale, in base al secondo comma del citato art. 1 96 c.p.p. , interessa dunque l'accertamento dell'idoneità mentale della persona a rendere testimonianza. Peraltro, non sussistendo il divieto di perizia "psicologica" ex art. 220 c.p.p., comma secondo, tale indagine non è vincolata al riscontro di condizioni patologiche. A tal proposito e nello specifico caso della persona offesa-teste, la giurisprudenza sottolinea che "la verifica della "idoneità mentale" è

rivolta ad accertare se la persona offesa sia stata nelle condizioni di (23)

Cass. pen., sez. III, 28 febbraio 2003, n. 1 9789.

1 76

Fondamenti di psicopatologia forense

rendersi conto dei comportamenti tenuti in pregiudizio della sua per­ sona e del suo patrimonio e sia in grado poi di riferire in modo veritiero siffatti comportamenti" ( 24). La letteratura psichiatrico forense ha dedicato una particolare attenzione ai problemi applicativi legati alle difficoltà di valutazione di una fattispecie così delicata e complessa. In primo luogo, è stato evidenziato che esula dal compito del perito ogni valutazione circa la veridicità o meno delle dichiarazioni rese e circa la stessa attendibilità di queste ultime. L'indagine peritale, infatti, non mira ad accertare se il testimone dica o meno la verità, ma deve essere limitata al riconoscimento di specifiche condizioni cliniche che limitino o escludano le risorse mnesiche, logiche e relazionali del soggetto, tanto da impedirgli di ricordare i fatti, di descrivere gli stessi e di interagire adeguatamente con il giudice e con le parti. Dal punto di vista psichiatrico forense, come rileva Fornari (2 5), l'accertamento di questa capacità può risultare particolarmente com­ plesso, in rapporto alla difficoltà di identificare la sussistenza delle condizioni psicologiche, o psicopatologiche, che inficino l'idoneità del teste. In particolare, lo stesso Autore, evidenzia come "quello che

interessa stabilire è se la non idoneità a testimoniare sia da attribuire a cause patologiche psichiche o a disturbi strutturali od emotivi della personalità; o a un quadro di disarmonie dello sviluppo cognitivo e/o relazionale (nella minore età); ovvero se la testimonianza resa sia da iscriversi in una struttura di personalità esente da alterazioni psicolo­ giche o psicopatologiche rilevanti" (2 6). Anche in soggetti immuni da veri e propri disturbi psichici, come insegna la cosiddetta "psicologia della testimonianza" ( 2 7), può infatti accadere che il ricordo e la capacità di descrivere in sede processuale la propria esperienza vengano meno a causa di specifici fattori psicologici e relazionali, rendendo del tutto inattendibile la dichiarazione che viene resa, in piena buona fede, dall'interessato (28). Nella valutazione della idoneità a testimoniare, lo psicologo e lo psichiatra forense devono quindi tener conto del fatto che l'errore (24 ) Cass. pen., sez. III, 4 ottobre 2006, n. 37402. ( 25 ) FoRNARI U., op. cit. . (26) Ibidem. (2 7) Per approfondimenti in tema: DE CATALDO NEuBURGER L., Testimoni e Testimo­ nianze "deboli", Cedam, Padova, 2006. (2 8) GuLOTTA G., Psicologia della testimonianza, in GuLOTTA G. (a cura di), Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Giuffrè, Milano, 1 987.

Altri modelli di indagine in ambito penale

1 77

mnesico, o la vera e propria menzogna, mentre in alcuni casi possono rappresentare la diretta conseguenza di un disturbo patologico in atto (deficit mentale, patologie organiche, sindromi dissociative o mania­ cali, "mitomania", ecc.), in altri casi possono essere indipendenti da ogni fatto psicopatologico. Tutto questo contribuisce quindi a qualificare la perizia in tema di testimonianza come un accertamento a valenza non solo psichia­ trica, ma più globalmente psicologica, tenuto anche conto delle possibili reazioni del soggetto di fronte all'esperienza della partecipa­ zione al processo e dell'esame da parte dei magistrati e degli avvo­ cati (29). La sempre traumatica esperienza dell'essere protagonista di una vicenda giudiziaria, e dell'essere sottoposto ad un "esame incrociato" in sede dibattimentale, può infatti contribuire a destrutturare l'equi­ librio di un testimone e può indurre nello stesso uno stato di forte sofferenza, tale da renderlo del tutto inattendibile e da determinare, in non pochi casi, un sensibile aggravamento di preesistenti proble­ matiche psicopatologiche. Nel caso in cui la testimonianza sia richiesta alla vittima dei fatti per cui è processo, il ricordo di quanto vissuto, ed il diretto confronto con l'autore del reato, possono infine risultare ancor più ansiogeni e disturbanti, tanto da motivare la adozione dì specifiche precauzioni, al fine di tutelare il teste-vittima da un eventuale "danno secondario" . Qualora l'obbligo di rendere testimonianza possa porre concreti rischi di sofferenza o di "scompenso" dì un paziente psichiatrico, è comunque consigliabile che lo psichiatra forense, nel suo elaborato peritale, non si limiti a valutare la capacità specifica del soggetto, ma segnali al magistrato la necessità di disporre particolari misure per la audizione dello stesso. Tali cautele dovrebbero essere adottate in tutti i casi in cui il soggetto interessato dall'indagine peritale presenti un possibile ri­ schio di scompenso clinico e di danno in seguito all'esperienza della testimonianza, e suggeriscono l'opportunità di valorizzare la dimen­ sione medico-psicologica dell'accertamento, tenuto sempre conto del contributo che i terapeuti possono fornire per una adeguata risposta alle problematiche del paziente.

( 29)

FERRIO C.,

Psichiatria clinica e forense, Utet, Turino, 1970.

Capitolo VI LE INDAGINI PSICHIATRICHE E PSICOLOGICHE SULLE VITTIME DI REATO

SoMMARIO: 6.1. La vittima di reato nel processo penale.- 6.2. Il contributo psichiatrico forense in tema di circonvenzione di incapace. 6.2.1. Aspetti normativi e giurisprudenziali. - 6.2.2. La metodologia peritale.- 6.3. Psichiatria forense e reati contro la libertà individuale. 6.3.1. Violenza sessuale e inferiorità psichica. 6.3.2. "Atti persecutori" e riflessi psichiatrico forensi. 6.4. Il minore vittima di reato. 6.4.1. Il fenomeno del maltrattamento/abuso sui minori. - 6.4.2. La testimonianza del minore vittima di reato. -

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6.1. La vittima di reato nel processo penale. Nel diritto penale italiano l'interesse del Legislatore è priorita­ riamente centrato sulla definizione della fattispecie di reato e sulle sanzioni da irrogare nei confronti dell'autore di reato. La vittima del reato rappresenta una figura "impersonale", le cui caratteristiche vengono definite unicamente sulla base della qualità del danno patito, in un'ottica di commisurazione della sanzione del reo. Non infrequentemente, il contrasto tra la sussistenza di specifici diritti dell'imputato e l'assenza di corrispondenti diritti della vittima di reato giunge a produrre vere e proprie forme di "vittimizzazione secondaria" di questa figura, attraverso possibili effetti negativi deri­ vanti dall'attività difensiva del reo(!). La figura della vittima di reato rappresenta, invece, uno dei soggetti sui quali si è centrata con notevole attenzione l'attività di studio e di proposta sociale propria della criminologia degli ultimi decenni. La rilevanza delle ricerche realizzate ha consentito di qualificare la "vittimologia" come una vera e propria disciplina autonoma nel-

(1)

Cfr., al proposito, i danni secondari circa la vittima di reati sessuali descritti

da: TRAVERso G.B. (a cura di), Il comportamento violento sulla donna e sul minore. Norma

giuridica, contesto psico-sociale, strategie di intervento, Giuffrè, Milano, 1988 e da DE CATALDo NEuBuRGER L., Lo stress psicologico da vittimizzazione, in GuLOTTA G. (a cura di), Dalla parte della vittima, Giuffrè, Milano, 1980.

Fondamenti di psicopatologia forense

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l'ambito delle scienze criminologiche, con l'elaborazione di studi e di proposte di intervento relativi alla identità della vittima, alle sue caratteristiche sociali e comportamentali, alle interazioni tra la stessa e l'autore di reato ed alle misure di prevenzione, di tutela, di trattamento e di mediazione che possono essere realizzate in favore della vittima stessa. In questi ultimi anni è aumentata, in generale, la sensibilità sociale circa questi problemi, e si è assistito ad una graduale evolu­ zione delle previsioni normative, dirette al riconoscimento ed alla tutela dei diritti delle vittime di reato. In ambito peritale, le tradizionali indagini medico legali sulle vittime di reato circa l'identificazione e la quantificazione delle lesioni personali e circa i mezzi e le cause della morte, sono state recente­ mente integrate da indagini sempre più ampie e differenziate, di carattere specificamente psicologico e psichiatrico forense. Nell'attuale realtà del lavoro peritale in campo penale, lo psico­ logo e lo psichiatra forensi possono essere chiamati a pronunciarsi in merito a fattispecie che, come quella della circonvenzione di incapace (art. 643 c.p.), non hanno subito importanti modifiche negli ultimi decenni, ovvero in merito ad altre fattispecie, come quelle attinenti alla vittima di reati sessuali (L. 15 febbraio 1996, n. 66 e L. 6 febbraio

2006, n. 38), che hanno registrato una notevole evoluzione, grazie a successivi aggiornamenti legislativi, ovvero in merito a realtà di vittimizzazione secondarie a diverse altre fattispecie di reato nelle quali l'accertamento di manifestazioni psicopatologiche conseguenti alla condotta illecita può rilevare ai fini della commisurazione della pena (art. 571 c.p., Abuso dei mezzi di correzione o disciplina, e 572 c.p., Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli) o della riqualifica­ zione del reato stesso (art. 582 c.p., Lesione personale, e art. 612-bis c.p., Atti persecutori).

6.2.

Il contributo psichiatrico forense in tema di circonvenzione di incapace (2). 6.2.1.

Aspetti normativi e giurisprudenziali.

Nell'ambito delle consulenze psichiatrico forensi sulla vittima di reato, quella in tema di "circonvenzione d'incapace" si configura

(2) Paragrafo redatto con la collaborazione del Dott. Marco LAGAZZI, dottore di ricerca in Psichiatria Forense.

Le indagini sulle vittime di reato

181

senza dubbio come una delle indagini più frequenti, maggiormente complesse ed aperte ad interpretazioni differenziate. La fattispecie in esame è contemplata dall'art. 643 c.p., che recita:

"Chiunque, per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o dell'inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o non inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso, è punito . . . ". I l reato d i circonvenzione di persone incapaci, dunque, postula: la sussistenza di una condizione di infermità o di deficienza psichica del soggetto passivo del reato riconoscibile con certezza "ab extemo"; l'abuso da parte del soggetto agente di tale particolare stato; l'indu­ zione della persona al compimento di atto produttivo di un qualsiasi effetto giuridico tale da poter arrecare danno a lei o ad altri e quanto all'elemento psicologico la conoscenza da parte del soggetto attivo dello stato di infermità o deficienza psichica della persona offesa nonché il fine di procurare un profitto a sé o ad altri (dolo specifico). L'aspetto centrale è rappresentato dalla specifica interazione tra l'autore e la vittima ( 3) e, all'interno della stessa, da una condizione di vulnerabilità del soggetto offeso, derivante da infermità o deficienza psichica, che l'autore del reato abbia riconosciuto e della quale abbia abusato, al fine di indurre la vittima a compiere un atto tale da comportare effetti giuridici dannosi (4), ottenendo un consenso che, ove lo stato di passività e di minorazione non fosse sussistito, non sarebbe stato prestato. La sequenza di riconoscimento inferiorità-abuso-induzione è stata ampiamente trattata dalla giurisprudenza, che ha precisato come la stessa debba seguire una specifica linea temporale e causale, nella quale l'induzione costituisce l'atto finale di un percorso per il quale si passa dal riconoscimento della condizione di inferiorità e vulnerabilità alla coartazione ed alla sopraffazione della volontà della vittima (ovvero "abuso", premessa causale e necessaria dell'indu­ zione), per giungere alla "induzione", cioè alla espressione di una "pressione" grazie alla quale la vittima viene indotta a scelte che, in assenza della stessa "pressione", non avrebbe adottato (5). I "precursori" concettuali della fattispecie in esame possono (') Tanto che una parte della letteratura psichiatrico-forense degli anni settanta e ottanta sosteneva la necessità di estendere la perizia ex art. 643 c.p. anche all'autore del reato, per meglio valutare la relazione intercorsa. (4) Cass. pen., sez. V, 28 settembre 1 973 e Cass. pen., sez. V, 9 giugno 1 976. ( 5 ) Cass. pen., sez. VI, 24 giugno 1 985.

Fondamenti di psicopatologia forense

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essere identificati nella nozione di "abus de confìance" contemplata dall'art. 406 del Codice penale francese del 18 1O e nella successiva elaborazione del Codice italiano del1889, che aveva centrato l'atten­ zione sulla tutela del patrimonio dei soggetti maggiormente esposti all'azione dei terzi, per essere poi a sua volta superato dal Codice Rocco, che con la previsione dell'art. 643 C.p. ha spostato la tutela sulle scelte compiute dalle persone, piuttosto che sul solo concetto di tutela del patrimonio delle stesse (6) . Dal punto di vista giuridico, è possibile notare che quello di cui si tratta è un reato ad evento naturalistico, per il cui riconoscimento da parte del Giudice occorre che sussista una condotta caratterizzata dall'abuso e dalla induzione, che la stessa condotta sia orientata in senso finalistico (ovvero a trarre un profitto) e che la stessa sia rilevante in presenza di determinate condizioni della supposta vittima del reato (come la minore età, o uno stato di infermità o di deficienza psichica). Circa le caratteristiche del reato in esame, occorre precisare che il delitto previsto dall'art. 643 c.p. si distingue nettamente da quello di truffa previsto ex art. 640 c.p.. Si tratta infatti di un reato di pericolo (mentre la truffa è un reato di danno), che fa riferimento a specifiche e particolari condi­ zioni del soggetto passivo del reato, per le quali non è necessario che il colpevole abbia usato, come è invece previsto per il riconoscimento della truffa, artifici o raggiri per indurre la vittima a compiere le azioni da lui desiderate. Il soggetto attivo del reato, avvalendosi di un qualunque mezzo idoneo, deve comunque essersi giovato delle parti­ colari condizioni della vittima, per ottenere da questa un consenso che, ove lo stato di passività e di minorazione non fosse sussistito, non sarebbe stato prestato

( 7) .

Trattandosi - come appena accennato- di reato di pericolo, il delitto di circonvenzione si realizza già nel momento in cui è compiuto l'atto capace di produrre un qualsiasi effetto dannoso per la vittima o per altri

(8 ) . Inoltre, l'effetto giuridico dannoso non deve

consistere necessariamente in un nocumento di carattere patrimo­ niale, ma può consistere anche nell'offesa alla libera esplicazione dell'attività dell'incapace (9). Questo tipo di reato, quindi, sussiste in rapporto al verificarsi di

(6) ARATA R., ScoRZA AzzARA L., op. cit. . (7) Ibidem. (8) Cass. pen., sez. III, l dicembre 2004, (9)

Trib. Lecce, 13 luglio 1991.

n. 48537.

Le indagin i sulle vittime di reato

1 83

due distinti elementi, tra loro consequenziali, che ne rappresentano i presupposti necessari. Il primo riguarda la vittima, e concerne l'identificazione nella stessa o della minore età o di una condizione di infermità o di deficienza psichica, tali da diminuire le sue capacità di comprensione e la sua volontà, escludendo cioè la capacità del circonvenuto di avere oculata cura dei propri interessi; il secondo elemento interessa invece la relazione tra la vittima e l'autore del reato, con l'accertamento della specifica condotta di quest'ultimo (abuso-induzione). In altre parole, la condotta tipica del reato di cui all'art. 643 c.p. consiste nell'abusare dello stato di minorazione del soggetto passivo e nell'indurre quest'ultimo a compiere un atto che comporti un effetto dannoso, per lui o per altri. Tale azione si configura come reato indipendentemente dal ruolo più o meno attivo che la vittima, suggestionata dall'agente, può assumere nell'attuazione dei comportamenti che costituiscono l'og­ getto del reato stesso ( 1 0) . L'abuso indica non tanto la specifica adozione di mezzi di coartazione e di captazione della volontà della vittima, quanto il fatto che il soggetto attivo riconosca le condizioni di inferiorità e di suggestionabilità della vittima e metta in atto una condotta di approfittamento ovvero di strumentalizzazione della minorata resi­ stenza psichica di quest'ultima. Dal momento che la norma non specifica le modalità di una tale condotta, la giurisprudenza ritiene che qualsiasi pressione morale anche se blanda - possa essere sufficiente ad integrare l'abuso, qualora si riveli idonea allo scopo perseguito, tenuto conto delle condizioni della vittima ( 1 1 ) . D'altra parte, la condotta di induzione deve concretarsi in un'apprezzabile attività di suggestione ovvero, ancora, di pressione morale, finalizzata a determinare la volontà minorata del soggetto passivo e la stessa giurisprudenza precisa che l'induzione può consi­ stere nell'uso di qualsiasi mezzo idoneo a determinare o a rafforzare nel soggetto passivo il consenso al compimento dell'atto dannoso. Pertanto, non può escludersi che la circonvenzione possa realizzarsi anche attraverso condotte che implichino l'uso di una violenza morale, cioè di una condotta che si estrinsechi in un atteggiamento di intimidazione del soggetto passivo, in grado di eliminare o ridurre la (10) Cass. pen., sez. V, 1 8 gennaio 1 979; Cass. pen., sez. VI, 28 maggio 1 985; Cass. pen., sez. II, 10 maggio 1 984. ( 1 1 ) Cass. pen., sez. VI, 17 settembre '2008, n. 35528.

Fondamenti di psicopatologia forense

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sua capacità di determinarsi, condizionando la sua già ridotta capa­ cità di agire secondo la propria volontà indipendente ( 12). Tale attività, pertanto, può essere identificata in un novero particolarmente ampio di comportamenti, il cui tratto distintivo è comunque quello della sottomissione della volontà della vittima a quella del reo (13). Tra l'abuso e l'induzione, comunque, deve sussistere un nesso di causalità. Secondo un'ampia giurisprudenza specifica ( 14), l'abuso rappre­ senta infatti la necessaria premessa all'azione di induzione, e quest'ul­ tima rappresenta un'attività specificamente diretta ad influire sulla volontà della vittima, con la finalità di convincerla a realizzare il comportamento desiderato, e a desistere da ogni possibile ripensa­ mento in tal senso. Tale concetto, quindi, esclude che l'attività di induzione possa esaurirsi nella mera richiesta alla vittima di eseguire un determinato comportamento, ma sottende una oggettiva forma di "pressione" sulla stessa, con la concretizzazione di iniziative (ovviamente diverse dalle minacce o dall'uso della forza), finalizzate a piegare la sua libertà decisionale ( 15 ). Esaminando ora la figura della vittima dì reato, è possibile notare che l'articolo in esame prevede la definizione di tre categorie di soggetti potenzialmente circonvenibili: i minorenni, gli infermi psi­ chici e i "deficienti psìchici"; per queste due ultime categorie, è prevista la possibile sussistenza di una "circonvenibilità", anche in assenza di una preesistente pronuncia di interdizione o di inabilita­ zione, ai sensi degli artt. 414 e 4 1 5 c.c. Per quanto riguarda i "minori", ritenuti aprioristicamente "cir­ convenibili", è sufficiente ricordare che, ai fini dell'art. 643 c.p., si considerano tali tutti i soggetti di età inferiore agli anni diciotto, senza che la legge stabilisca distinzioni speciali nell'ambito degli stessi. In tale ottica, la vittima di reato infradiciottenne risulta quindi automa­ ticamente esclusa dall'indagine peritale, essendo la stessa comunque ed in ogni caso ritenuta circonvenibile. Per i soggetti di età superiore ai 1 8 anni, è invece necessario che sia accertata la sussistenza, o meno, dell'una o dell'altra tra le due condizioni sopra citate, ed è proprio sulla presenza di uno stato di ( 12 )

Ibidem.

(14)

Per tutte: Cass. pen., sez. III, 27 gennaio 1 987.

(13) Cass. pen., sez. V, 29 luglio1 978. ( 15) Cass. pen., sez. III, 24 giugno 1 985.

Le indagini sulle vittime di reato

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infermità o di deficienza psichica che lo psichiatra forense viene chiamato ad esprimere un parere tecnico motivato. Il quesito è generalmente strutturato nella seguente formula:

"Dica il perito se al momento dei fatti per cui si procede il periziando si trovasse in una condizione di infermità o di deficienza psichica ex art. 643 c.p.; dica altresì se la condizione del periziando fosse riconoscibile da terzi". Si tratta, pertanto, di accertare la sussistenza di una infermità o deficienza psichica della vittima al momento in cui si è verificato l'evento e, in caso positivo, di esprimersi anche sul fatto che questa infermità o deficienza psichica fossero facilmente, o meno, riconosci­ bili da terzi, in quanto il reo, per approfittarsi ed abusare di tali condizioni, deve senz'altro essere in grado di riconoscere le stesse. È necessario esaminare non soltanto la condizione clinica esistente al momento dell'accertamento, ma compiere una sorta di "ricostruzione storica", facendo riferimento alla situazione sussi­ stente nel momento in cui i fatti si sarebbero realizzati, valutando quanto tale situazione possa aver condizionato uno stato di inferiorità e di suggestionabilità, e possa essere stata utilizzata da terzi per indurre la vittima al compimento di atti incongrui, inadeguati, pericolosi. Nel caso in cui la supposta vittima sia deceduta successivamente ai fatti per cui si procede, può addirittura rendersi necessario un accertamento di tipo "storico", condotto unicamente sulla documen­ tazione clinica e giudiziaria disponibile. Da tutto questo si desume che il perito incaricato di valutare la "circonvenibilità" di un individuo non può limitarsi a valutare le condizioni psichiche dello stesso, ma deve pronunciarsi anche in merito ad elementi maggiormente sfumati e contraddittoriamente interpretabili, relativamente all'applicabilità al caso concreto delle nozioni di infermità o di deficienza psichica ed al confronto fra autore e vittima del reato, e cioè in qualche modo alla dinamica dei fatti, ben al di là di elementi tecnici specifici. Se infine si considera che, come precisato da una costante giurisprudenza sull'argomento, la sussistenza di una condizione di infermità o di deficienza psichica può essere anche transitoria, si comprende con ulteriore chiarezza la difficoltà del lavoro diagnostico e valutativo che questo tipo di indagine richiede allo psichiatra forense. Fatte tali premesse, appare a questo punto necessario centrare la nostra attenzione sui presupposti clinici del reato di circonvenzione di incapace, ovvero sulle nozioni di "infermità o deficienza psichica".

Fondamenti di psicopatologia forense

1 86

In merito alla nozione di infermità, il Legislatore certamente ha inteso identificare una condizione derivante da una causa patologica, analogamente a quanto contemplato per gli artt. 88 e 89 c.p., utilizzando però un termine (infermità psichica) più specifico rispetto a quanto definito a riguardo della imputabilità (infermità che incide sullo stato di mente negli artt. 88 e 89 c.p.). Si segnala infatti che secondo alcuni Autori, fra cui Fran­ chini ( 16), Saltelli e Di Falco ( 1 7) , !"'infermità circonvenibile" dovrebbe solamente diminuire ma non escludere la capacità dell'individuo, poiché l'esistenza di un'incapacità totale di mente impedirebbe l'at­ tuazione di uno dei requisiti del reato, quello della induzione, che richiede il permanere nella vittima di una qualche capacità di auto­ determinazione. La completa passività della vittima escluderebbe quindi gli elementi dell'abuso e della induzione, che sono invece propri del reato in questione. In relazione alla fattispecie della "deficienza psichica", la norma non fa riferimento ad un vero e proprio deficit intellettivo, quanto ad un'ampia serie di condizioni, elaborate dalla giurisprudenza nel corso dei decenni, di carattere sociale, culturale, o addirittura ambientale, grazie alle quali la vittima, anche se immune da cause patologiche, possa risultare sensibile alla azione di abuso e di induzione esercitata dal reo. La possibilità del verificarsi di una condizione di "deficienza psichica" in assenza di cause patologiche è stata ribadita dalla Suprema Corte in molteplici occasioni, tanto da delineare questa fattispecie come una condizione di fatto autonoma rispetto a quella di infermità, ed applicabile in contesti estremamente differenziati. Facendo riferimento ad alcune massime della Suprema Corte, questa nozione può ad esempio trovare applicazione nei seguenti casi: a) per . . . vecchi. . . donne di temperamento debole e duttile . . . . . . anal'+1a. bett . . . rusttct . . . " ( 1 8) ; b) in ". . . tutte le forme non morbose di abbassamento intellet­ "

tuale, di menomazione del potere di critica, di indebolimento della funzione volitiva ed affettiva . . . " ( 19); c) nei casi di menomazione anche transitoria, purché la stessa ( 1 6 ) FRANCHINI A., op. cit. . ( 1 7) SALTELLI C . , D r FALco E.R., Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, Vol. II, Parte I, Tipografia Mantellate, Roma, 1 930. ( 1 8) Cass. pen., 12 luglio 1 942. ( 19) Cass. pen., sez. V, l 7 ottobre 1 979.

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integri l'estremo subiettivo di minorata resistenza psichica della vittima . " (20) ; d) negli stati astinenziali, nei quali, ad esempio, la vittima sia un .

.

tossicodipendente che sia stato indotto a sottoscrivere debiti dietro la promessa di una dose di stupefacente (2 1 ) ; e) per tutti i soggetti che . .. a cagione della loro età o del loro "

stato . . . (siano). . . particolarmente assoggettabili alle pressioni, agli im­ pulsi esercitati su di loro . . . " (22).

Con questa definizione, quindi, il Legislatore ha inteso tutelare non tanto le persone parzialmente o totalmente incapaci, quanto quei soggetti che risultano caratterizzati da condizioni che li rendono particolarmente assoggettabili alle pressioni, agli stimoli e agli im­ pulsi che altri esercitano coscientemente su di loro. È dunque sufficiente che la persona offesa versi in uno stato di minorazione della sfera intellettiva e di indebolimento della capacità volitiva, tale da privarla del normale discernimento e del potere critico, così da compiere atti che una persona di media capacità critica non si sarebbe determinata a fare (23), perché sia dimostrato tale presupposto. In definitiva il concetto di deficienza psichica deve essere inteso

"in senso molto ampio in modo da comprendere qualsiasi minorazione della sfera intellettiva, volitiva e affettiva del soggetto passivo che diminuisca i poteri di difesa contro l'opera di suggestione e contro le insidie altrui" (24) .

In dottrina, le questioni interpretative concernenti l'infermità e la deficienza psichica sono state discusse e approfondite da parte di insigni giuristi, fra i quali Antolisei (25), Manzini (26), Nuvolo­ ne (27), Pisapia (28) e Siniscalco (29) e da parte di medici legali e psichiatri forensi di diverso orientamento, come ricordato tra gli altri da Canepa e Chiazza (30). (20)

Cass. pen., 1 4 novembre 1 949. Cass. pen., sez. I, I l agosto 1 986. Cass. pen., sez. II, 17 giugno 1 988. Cass. pen., sez. Il, l dicembre 2005, n. 3458. Cass. pen., sez. Il, 20 febbraio 2007, n. 7 145. (25) ANToLISEI F., Manuale di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1 966. (26) MANZINI V., Trattato di diritto penale italiano, Utet, Torino, 1 963. (27) NuvoLONE P., Diritto Penale. Delitti contro il patrimonio e la persona, Cisalpino Goliardica, Milano, 1 964. (28) PisAPIA G.D., Circonvenzione di persone incapaci, in Novissimo Digesto Ita­ liano, Vol . III, 1 959. ( 29) SINISCALco M., Circonvenzione di incapaci, in Enciclopedia del diritto, Vol . VII, Milano, 1 960. (30) CANEPA G., CmozZA G., La circonvenzione d'incapace: problemi medico-legali, in

( 21 ) ( 22) ( 23) (24)

1 88

Fondamenti di psicopatologia forense

Molto opportunamente Ponti sottolinea il difficile problema della valutazione della deficienza psichica, richiamando l'attenzione sul fatto che atti dannosi possono essere effettuati anche da persone del tutto capaci, vuoi per errore di valutazione o per calcolo impru­ dente o per rischio mal previsto; ed evidentemente in queste fattispe­ cie non si può far riferimento ad una deficienza psichica, nemmeno adottando i criteri più estensivi (3'). Ad analoghe conclusioni giunge Fomari, che esclude da questa valutazione "tutti i casi in cui, ad esempio, una donazione si fonda sulla presenza di una disposizione emotiva contingente, comprensibile, mo­ tivata, ma non per questo particolare o patologica (la donazione del malato al personale di assistenza; il regalo di una persona anziana ad una più giovane che di lei si sia presa amorevolmente cura; ecc.)", e cioè tutti i rapporti umani che "si costruiscono e si mantengono, in positivo o in negativo, sulla presenza di un certo grado di suggestionabilità reciproca (v. rapporti genitori-figli e insegnanti-discenti; legami di amicizia e di affetto; ecc.)" {32 ). In considerazione della frequenza dei procedimenti per "circon­ venzione di incapace" che interessano i soggetti in età senile, in ambito psichiatrico forense è stata dedicata particolare attenzione alla differenziazione tra il significato "patologico" e quello "fisiolo­ gico" dei disturbi involutivi senili, con il riconoscimento della inevi­ tabilità della sussistenza, nei soggetti geriatrici, di disturbi mnesici e logici, e con la conseguente precisazione della necessità di compren­ dere, caso per caso, se tale condizione possa essere identificata in un "normale" modo di essere dell'individuo, legato alla sua età, o assuma uno specifico valore patologico, tale da influire sulle sue capacità di comprensione e di scelta, e quindi tale da renderlo circonvenibile (33). Una volta verificata la presenza di una infermità o di una deficienza psichica, il compito del perito è quello di ricostruire una specifica correlazione causale tra la condizione riscontrata e lo specifico grado di inferiorità o suggestionabilità del soggetto, nei confronti della eventuale induzione esercitata dal reo. Tale correlazione non può assumere un connotato di mera probabilità, ma deve essere espressa in modo chiaro ed univoco, in senso positivo o negativo, oppure, in assenza di elementi sufficienti FERRAcun F. (a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense, Giuffrè, Milano, 1 990. (3 1 ) PoNTI G., op. cit. . (32 ) FoRNARI U., op. cit . (33) BANDINI T., LAGAZZI M., L'indagine psichiatrico-forense sull'anziano vittima di circonvenzione di incapace, in Riv. !t. Med. Leg. , 1 990, 3:767. .

Le indagini sulle vittime di reato

1 89

per l'una o l'altra affermazione, con l'esplicitazione della impossibilità del perito di esprimere un parere motivato. Certo è che l'ampiezza delle nozioni fondanti il presupposto del reato di circonvenzione di incapace condiziona differenziazioni valu­ tative e difficoltà applicative e, a volte, è alla base di tentativi "atecnici" del perito, che può giungere a proporre valutazioni di mero "buon senso" o "moralismo" (ad esempio, in merito alla redditività, o meno, delle scelte effettuate dalla vittima, od alla correttezza delle stesse verso gli interessi dei figli del periziando, o verso la stessa morale corrente), al di là ed al di fuori degli elementi propri della sua competenza clinica. 6.2.2.

La metodologia peritale.

Alle difficoltà interpretative sopracitate si accompagnano deli­ cati problemi clinici relativi al concreto contesto dell'accertamento peritale. Nello studio del paziente che giunge alla sua attenzione come possibile vittima di "circonvenzione di incapace", lo psichiatra fo­ rense deve sempre tener conto della condizione di particolare diffi­ coltà psicologica e relazionale nella quale lo stesso si trova. L'esperienza di essere chiamato a giustificare le proprie scelte e decisioni o, all'opposto, di dover delegittimare le stesse, rappresenta infatti una situazione particolarmente gravosa, e potenzialmente tale da indurre nel paziente reazioni emotive ed impulsive, le quali, paradossalmente, potrebbero essere identificate da un consulente poco attento nella stessa "prova" della !abilità e della inadeguatezza del periziando. Nella valutazione di questo tipo di pazienti, lo psichiatra forense deve inoltre tener conto del fatto che molto spesso si tratta di persone che vengono sottoposte all'esame peritale contro la loro volontà, a seguito di esposti presentati da terze persone, e quindi al di fuori di qualsiasi possibile "contratto" terapeutico e fiduciario con il perito. È quindi comprensibile, e profondamente legittimo, che il periziando possa essere non collaborativo, non sincero, e che addirit­ tura tenti in ogni modo di celare la propria condizione clinica al perito, ad esempio attraverso l'adozione di un atteggiamento conte­ stativo e critico, grazie al quale tenta di nascondere la propria difficoltà a rispondere alle domande che gli vengono poste. Tutto questo attribuisce alla perizia un mandato particolar­ mente "pesante", poiché il riconoscimento della circonvenibilità rap­ presenta un elemento costitutivo della stessa sussistenza del reato, per il quale è richiesta tassativa certezza, ma che in realtà si basa su

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nozioni molto ampie e talvolta confuse, definite nella giurisprudenza più che nella clinica, e soprattutto richiede un'indagine non solo psicopatologica, ma anche psicologica, in riferimento ad un rapporto interpersonale comunque complesso, che spesso viene riferito dalla supposta vittima in modo reticente o confuso. Per evitare di "entrare in risonanza" con tale complessità (se non caoticità), il primo passo del lavoro peritale, dopo la sintesi degli atti, è ovviamente rappresentato dalla stretta adesione alla corretta proce­ dura dell'indagine medica, con l'acquisizione (anche da congiunti, sanitari curanti, ecc.) di un'anamnesi il più possibile dettagliata, comprensiva delle eventuali cartelle cliniche ed ambulatoriali del periziando. Circa l'indagine medica diretta, appare scontato ricordare che la stessa, soprattutto nei frequentissimi casi attinenti a pazienti senili, deve essere attenta anche alle differenti componenti di carattere somatico, metabolico e neurologico che possono influire sullo stato di mente e sulla stenicità psichica del soggetto. Non si deve, tuttavia, dimenticare che in questo tipo di indagini la esecuzione di complessi esami di tipo tomografico o metabolico spesso non consente di giungere ad una univoca definizione della condizione clinica del soggetto, poiché la sussistenza di deficit anche gravi di determinate funzioni fisiche, o addirittura il riscontro di lesioni anatomiche e funzionali in ambito encefalico, e dei disturbi mnesici e comportamentali da esse derivanti, non necessariamente inficiano la coerenza tra le motivazioni del paziente, le sue scelte, e la definitiva correttezza di queste ultime. Particolarmente utili, in tal senso, possono essere i reattivi mentali, di esecuzione piuttosto agevole e dotati di buona accuratezza ai fini della valutazione delle specifiche aree di competenza logica e mnesica, ma anche del mondo interno, del periziando. Mentre test come i classici WAIS-R e Rorschach, sono pressoché sempre utili, appare criticabile la prassi, sempre più diffusa, di sostituire la somministrazione degli stessi con il Minimal Menta! State, idoneo a valutare lo stato mentale ai fini della diagnosi neurologica in ambito clinico, ma del tutto inidoneo rispetto alle diverse e ben più complesse esigenze della diagnosi peritale. Dopo aver attentamente esaminato le condizioni mediche e psichiatriche del soggetto, al momento dell'accertamento e, dedutti­ vamente, al momento dei fatti per cui si procede, è necessario entrare nella ancor più complessa dimensione psicologica della relazione tra la possibile vittima ed il supposto autore del reato . Ciò richiede un'analisi diacronica, nella quale "sovrapporre" i dati sulla evoluzione clinica della condizione del soggetto con quelli

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attinenti alla evoluzione della situazione relazionale tra lo stesso ed il supposto autore del reato. In tale contesto è fondamentale valutare la "coerenza delle motivazioni" del periziando, osservando se le scelte compiute siano adeguate ai valori e agli affetti che lo avevano anche antecedente­ mente caratterizzato, oppure se, nell'ambito di una sua nuova scelta affettiva ed esistenziale, tali scelte siano da lui percepite come coerenti rispetto ai propri valori ed obiettivi. Entrando più specificamente all'interno delle difficoltà diagno­ stiche proprie di questo tipo di indagine peritale, occorre ricordare che il più delle volte non risulta facile "ricostruire" la dimensione clinica del periziando all'epoca dei fatti per cui si procede, e che a volte non è agevole identificare gli specifici spazi di inadeguatezza e di suggestionabilità di soggetti che non siano affetti da franche patologie psichiatriche. Come insegna la quotidiana esperienza psichiatrico forense, in questo tipo di indagini anche la esecuzione di complessi esami diagnostici di carattere neurologico e strumentale, diretti ad accertare un deterioramento mentale di tipo patologico, spesso non risulta di per sé sufficiente. Si è già ricordata la possibilità che una persona, anche se connotata da specifiche lesioni anatomiche e funzionali in sede encefalica, conservi una sufficiente adeguatezza nella esecuzione di semplici scelte, mentre un'altra persona, caratterizzata da lesioni assai meno gravi, presenti un rilevante decadimento delle capacità logiche, mnesiche e volitive, tale da renderla incapace di resistere all'eventuale azione di abuso e di induzione esercitata dal reo, o comunque di eseguire scelte complesse. In ogni caso, ai fini valutativi è necessario comprendere se, ed in quale misura, un'eventuale condizione clinica abbia influito sulla situazione psichica al momento dei fatti, integrando una condizione di infermità o di deficienza psichica, rilevante in riferimento alla fattispecie normativa (34). Anche nel caso in cui si riscontri una grave patologia psichia­ trica, occorre valutare in modo specifico la misura in cui le scelte del paziente possano essere state da essa condizionate. In un soggetto affetto da disturbi di tipo persecutorio, è ad esempio possibile che si registri un'assoluta resistenza nei confronti di ogni sollecitazione esterna, ivi compresa quella del consulente (34) CANEPA G., CHiazzA G., La circonvenzione di incapace. Problemi medico legali, in FERRAcun F. (a cura di), Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense, Giuffrè, Milano, 1 990.

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tecnico, mentre, all'opposto, è altrettanto possibile che un soggetto caratterizzato soltanto da problemi psicologici carenziali-conflittuali sia specificamente vulnerabile nei confronti di un determinato tipo di sollecitazione, ad esempio di ordine affettivo o emotivo. La risposta al quesito peritale non può pertanto essere limitata ad una generica assimilazione tra infermità, o deficienza psichica, e condotta concreta del periziando, ma deve ripercorrere in modo dettagliato la storia clinica dello stesso, il suo stile di vita ed ove possibile i suoi valori ed affetti, per "restituire" al giudice ed alle parti non l'immagine bidimensionale di un' "etichetta", ma la complessità della vita e delle scelte di un essere umano, con le sue eventuali patologie, i suoi bisogni, le sue fragilità ed il suo diritto a compiere qualsiasi scelta desideri, purché la stessa non sia inficiata, secondo uno specifico e dimostrato nesso causale, dalla predetta condizione di patologia o di menomazione. La stessa disamina diacronica deve essere riservata alla ricono­ scibilità delle condizioni del soggetto da parte dell'autore del reato, proponendo ove possibile una graduazione tra condizioni ravvisabili da chiunque, oppure da chi avesse un'intensa frequentazione con il soggetto, oppure, ancora, disponesse di precise competenze medico -infermieristiche. Tali elementi fanno comprendere sia la complessità di questo tipo di accertamento sul vivente, sia quella, ancor maggiore, dei casi di "indagine sugli atti", per soggetti senili deceduti prima della perizia o, addirittura, in corso di perizia. È ovvio ricordare che, in questi casi, la raccolta documentale ed anamnestica assume ancor maggiore importanza e che particolare attenzione deve essere dedicata alla presenza, o meno, di annotazioni di carattere neuro-psichiatrico e metabolico nella documentazione resa disponibile. Nella valutazione degli atti è compreso l'esame delle testimo­ nianze rese da diversi soggetti (curanti, congiunti, terze persone). È scontato ricordare che, come in qualsiasi altra perizia, le testimonianze possono essere utili come fonte anamnestica, con ovvia priorità per quelle rese da soggetti neutrali e clinicamente qualificati, ma in nessun caso è corretto esprimersi circa l'attendibilità o meno delle stesse o, ancor peggio, basare la diagnosi e la valutazione del caso sui soli dati testimoniali, proponendo una sorta di "sentenza indiziaria" piuttosto che una valutazione diagnostica e medico legale. Molto difficile, infine, è la valutazione del grado di passività e di suggestionabilità dei soggetti che non presentano disturbi specifici, ma che sono connotati da un'accentuata fiducia verso taluni aspetti sot-

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toculturali ed arcaici propri della nostra società, per la quale possono aderire in modo del tutto acritico alle proposte di "maghi" o cartomanti, remunerando le "prestazioni professionali" degli stessi in modo spesso eccessivamente oneroso, e comunque confidando nella soluzione, at­ traverso tale intervento, delle loro problematiche esistenziali. In questi casi, occorre considerare la difficile differenziazione tra il possibile carattere culturale (''normale", anche se discutibile) della adesione del soggetto alle spesso inverosimili proposte del "mago", e l'eventuale sussistenza di specifici aspetti di suggestionabi­ lità e di vulnerabilità, o di vera e propria patologia, che possono aver condizionato il consenso prestato. In questo tipo di indagine il perito deve cercare di non cadere nell'errore di ricoprire un ruolo di "perito-giudice-indovino", con la tendenza a superare le eventuali difficoltà di fornire una risposta mo­ tivata e scientifica con la ricerca di soluzioni strumentali e forzate al raggiungimento di una conclusione in ogni caso precisa e tassativa (35). In tale contesto appare sicuramente poco utile il tentativo, proposto da alcuni, di rispondere alle difficoltà con una "fuga in avanti", centrata sull'ampliamento delle competenze del perito, con la realizzazione di un esame comparativo della vittima, del reo e delle interazioni tra gli stessi, con il rischio di una totale sostituzione del giudice da parte del tecnico. Di fronte a vicende così delicate, è invece opportuno che il tecnico valorizzi la propria competenza clinica, accettando di "entrare" nel mondo del periziando, cogliendone la soggettività e le motivazioni, d­ percorrendo con lui le scelte che sono state realizzate, e valutando in modo oggettivo e sereno gli spazi di comprensione, di autodetermina­ zione e di soggettiva coerenza con le motivazioni della persona, che hanno indirizzato il comportamento della stessa, senza sforzarsi più di tanto di trovare una risposta "definitiva" ai quesiti, ma il più delle volte limitandosi a ricostruire, attraverso una "narrazione" il più possibile oggettiva e scientificamente motivata, quegli elementi clinici che pos­ sano permettere al magistrato di raggiungere una decisione adeguata. Tutto questo, nella consapevolezza che il procedimento penale in tema di "circonvenzione d'incapace" deve essere volto alla tutela dei diritti della supposta vittima del reato, e che non può e non deve trasformarsi in una sorta di "processo" alla stessa vittima, con la sua sottomissione ad accertamenti peritali di carattere "inquisitorio", scarsamente corretti sul piano deontologico e scientifico. Proprio in questo campo di indagine è opportuno ribadire che il (35) BANDINI T., LAGAZZI M., L'indagine psichiatrico-forense sull'anziano vittima di circonvenzione di incapace, in Riv. !t. Med. Leg. , 1 990, 3:767.

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perito deve rifuggire da ogni tentazione di "fare giustizia" o di fornire una "risposta ad ogni costo", ma deve recuperare soprattutto la propria dimensione clinica, cercando di delineare in modo corretto ed approfondito la storia, la personalità ed i bisogni del periziando, confrontando gli stessi con le fattispecie previste dalla legge, senza l'obbligo di fornire sempre e comunque risposte "risolutive", ed evitando in ogni modo indebite sovrapposizioni con le funzioni del giudice.

6.3. Psichiatria forense e reati contro la libertà individuale. 6.3. 1 .

Violenza sessuale e inferiorità psichica.

Nel lavoro peritale, per lungo tempo il clinico è stato chiamato a pronunciarsi in merito alla fattispecie della cosiddetta violenza carnale presunta (art. 5 1 9 c.p. , 2 comma), come contemplata dal Codice penale tuttora vigente. Tale norma era prevista nel titolo IX, che trattava "Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume". In particolare la violenza "carnale" era presunta e direttamente valutata dal Giudice in rapporto all'età della vittima (14 o 1 6 anni a seconda se l'autore di reato fosse un estraneo ovvero un ascendente, tutore o altra persona cui il minore fosse affidato), o al fatto che il colpevole l'avesse ingannato sostituendosi ad altre persone. Il perito era invece chiamato a rispondere in merito ai casi nei quali la vittima fosse "malata di mente, ovvero non in grado di resistere a cagione delle proprie condizioni d'inferiorità fisica o psichica". Negli ultimi anni i contenuti e l a collocazione concettuale dell'art. 5 1 9 c. p. sono stati discussi e criticati, tanto da determinare l'elaborazione di una nuova e specifica normativa (L. 1 5 febbraio 1996, n. 66 e successive modifiche), che ha novellato l'intera materia. Con la nuova normativa, infatti, tali reati sono stati collocati non più tra i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume ma tra i delitti contro la persona e più propriamente fra quelli contro la "libertà personale" e la dizione di "violenza carnale" è stata sostituita da quella di "violenza sessuale". Le pene sono state incrementate, sono stati previsti nuovi limiti di età soprattutto per ciò che riguarda la sessualità tra minori (fino a un minimo di 1 3 anni compiuti se la differenza di età tra i soggetti non è superiore ai tre anni); sono state introdotte la nozione di "violenza ses­ suale di gruppo" e quella relativa al coinvolgimento di minori infra­ quattordicenni nella visione di atti sessuali compiuti in loro presenza. L'elemento di fondamentale interesse per il perito è costituito

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dalla riformulazione del già citato 2 comma dell'art. 5 1 9 c.p., articolo che viene integralmente sostituito con il nuovo art. 609-bis (violenza sessuale), che recita: "Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: l) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi". Il secondo comma di tale articolo non fa più riferimento alla possibile sussistenza di una condizione di "malattia mentale" della vittim,a come indicato nell'abrogato art. 5 1 9 c.p., con il chiaro obiettivo di superare ogni aprioristica attribuzione di capacità di scelta e di consenso per il sofferente psichico, ma ripropone la specifica necessità, di diretta competenza peritale, della valutazione di una possibile condizione d'inferiorità fisica o psichica della persona offesa, in riferimento al momento del fatto. Nell'ambito del più ampio quesito di carattere medico legale, volto ad accertare la natura, l'entità e le conseguenze degli eventi lesivi, allo psichiatra forense può essere richiesto un parere in merito alla sussistenza o meno di una condizione di "inferiorità fisica o psichica", nonché in merito alla sussistenza di un abuso di tale condizione da parte dell'autore di reato. Si tratta, pertanto, di valutare eventuali condizioni intrinseche della vittima (handicap fisici o psichici, deficit motori e intellettivi, patologie psichiatriche, disturbi evolutivi od involutivi, ecc.) che possano aver determinato, al momento dei fatti, una condizione di inferiorità tale da consentire al reo di abusare della stessa, determi­ nando quei fatti il cui concreto accertamento è stato dimostrato dal medico legale oltre che, ovviamente, dall'autorità inquirente. Nell'esame psicopatologico della vittima di violenza sessuale il perito deve tener conto del fatto che nella nuova normativa viene superata la nozione di "incapacità di resistere" propria dell'abrogato art. 5 1 9 c.p., mentre si prevede una valutazione molto più ampia, che contempli qualsiasi condizione che nell'ambito della relazione tra l'autore e la vittima ponga la seconda in inferiorità rispetto al primo. Anche per il malato di mente, così come per qualunque altro tipo di vittima, la condizione di passività e l'avvenuto abuso debbono essere concretamente dimostrati, al di fuori di qualunque preconcetto.

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Ne consegue, pertanto, la possibilità di qualificare come del tutte adeguato l'atto sessuale realizzato da un soggetto affetto da una grave patologia psichiatrica, ma dotato di sufficienti spazi di consapevolezza, di affettività e di scelta, a fronte della inadeguatezza dell'atto compiute da una persona del tutto immune da disturbi psichici, ma caratterizzata dal venir meno, anche se con modalità transitorie, degli elementi che costituiscono le basi di un valido consenso. In base alla nuova normativa viene superata la presunzione d'in­ capacità di consenso del malato di mente, presunzione che in passato aveva negato a quest'ultimo il diritto alla sessualità, e quindi per la configurabilità del reato non è più sufficiente la mera sussistenza del rapporto sessuale con persona in stato d'inferiorità fisica o psichica, essendo necessario che il soggetto attivo induca il soggetto in stato d'inferiorità fisica o psichica all'atto sessuale, abusando della sua con­ dizione. La giurisprudenza in tema di violenza sessuale in danno di persona che si trovi in stato di inferiorità psichica o fisica, ha precisato come la nuova disciplina, in linea con l'intenzione del Legislatore di assicurare anche ai soggetti deboli una sfera di estrin­ secazione della loro individualità, anche sotto il profilo sessuale, purché manifestata in un clima di assoluta libertà, ha inteso punire soltanto le condotte consistenti nella induzione all'atto sessuale mediante abuso delle suddette condizioni di inferiorità (36). L'induzione si realizza quando, con un'opera di persuasione spesso sottile o subdola, l'agente spinge o convince il "partner" a sottostare ad atti che diversamente non avrebbe compiuto. Non è necessario che l'induzione determini un inganno della vit­ tima, essendo sufficiente anche un'opera di persuasione sottile o sub­ dola che convinca il soggetto a compiere o subire l'atto sessuale (37). L'abuso, a sua volta, si verifica quando le condizioni dì menoma­ zione sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della per­ sona che, versando in situazione di difficoltà, viene ad essere ridotta al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità altrui (38). È, pertanto, dovere del giudice espletare un'indagine adeguata per verificare se l'agente abbia avuto la consapevolezza non soltanto delle minorate condizioni del soggetto passivo, ma anche di abusarne per fini sessuali (39). È stato, peraltro, ulteriormente precisato dalla giurisprudenza (3 6) (37) (38) (39)

Cass. Cass. Cass. Cass.

pen., pen., pen., pen.,

sez. III, 3 settembre 2007, n. 33761 sez. III, 7 settembre 2005, n. 3297 1 . sez. III, 1 1 dicembre 2003, n. 47453. sez. III 1 1 ottobre 1 999, n. 1 1 54 1 .

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che nella figura delineata al comma 2, n. l , dell'art. 609-bis c.p. deve sussistere, per quanto viziato dalla condizione di inferiorità, un consenso della vittima all'atto sessuale (40) . La valutazione del giudice, nel caso in cui sia stato contestato l'abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica della vittima, al fine di indurla al compimento di atti sessuali, deve, quindi, necessa­ riamente investire la natura dell'azione posta in essere da colui al quale viene attribuito il reato per convincere il partner, in correlazione con la valutazione del grado di inferiorità del soggetto passivo, in modo da accertare non solo se la persona con la quale è intercorso il rapporto sessuale abbia comunque espresso il proprio consenso, e, cioè, sussista effettivamente una residua capacità di autodeterminazione del partner, in assenza della quale non può neppure propriamente parlarsi di "in­ duzione", ma, altresì, se tale consenso non si configuri quale conse­ guenza di una strumentalizzazione della inferiorità della vittima da parte dell'autore del fatto, che abbia sfruttato le condizioni di minorata capacità di resistenza o di comprensione della natura dell'atto da parte del soggetto passivo per soddisfare le proprie pulsioni sessuali. Quanto riferito consente di comprendere come questo tipo di accertamento sia aperto alla comprensione della specifica realtà clinica e relazionale del periziando, della sua soggettiva percezione della sessualità, della affettività e dei valori, nell'ottica di una vera e propria ricostruzione delle motivazioni e della adesione della persona agli eventi che assumono valore giuridico. 6.3.2.

"Atti persecutori" e riflessi psichiatrico forensi.

Una breve riflessione merita, infine, il novello art. 6 1 2 bis c.p. (Atti persecutori) introdotto con la Legge 23 aprile 2009, n. 38, che va a definire nell'ordinamento penale una fattispecie tipica del cosid­ detto "stalking". Brevemente, tale termine allude al comportamento di chi, per il tramite di attività variamente intrusive della vita privata altrui, perseguita una persona, assurta ad ossessivo oggetto di desiderio (4 1 ) . I n particolare, secondo Galeazzi e Curci, tale fenomeno fa riferimento alla sistematica violazione della libertà personale posta per mezzo di "comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una

(40) (41)

Cass. pen., sez. III, 3 luglio 2003, n. 28505. ZANASI F.M., Violenza in famiglia e stalking, Milano, 2006.

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vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi" (42 ) . Come di recente illustrato ( 43 ) , le condotte di "stalking" si espli­ cano sovente attraverso una vera e propria "escalation persecutoria", che, a prescindere dagli esiti più estremi cui può approdare (violenza sessuale, lesioni o morte della persona offesa), risulta in ogni caso "le­ siva della libertà, della riservatezza, e della tranquillità della vittima, che spesso sviluppa più o meno gravi disturbi di natura psicologica". Da più parti si era lamentata l'inadeguatezza dell'apparato punitivo previgente, nonostante il fatto che i singoli comportamenti dello stalker potessero essere eventualmente sussunti, a seconda dei casi, nei reati di calunnia (art. 368 c.p.), ingiuria (art. 594 c.p.), minaccia (art. 6 1 2 c.p.), danneggiamento (art. 635 c.p.), violazione di domicilio (art. 614 c.p.), violenza privata (art. 6 1 0 c.p.) e via enume­ rando. Tuttavia, nella sua manifestazione elementare (e più diffusa), l'attività persecutoria dello stalker avrebbe integrato la sola fattispecie di molestia e disturbo alle persone (art. 660 c.p.), dotata di presidio sanzionatorio di scarso impatto deterrente. Il nuovo art. 6 1 2-bis c.p. recita: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita . . . " . Con tale norma, dunque, il Legislatore ha voluto rendere punì­ bili quei comportamenti molesti o minacciosi che, turbando le nor­ mali condizioni di vita, pongono la vittima in un grave stato di disagio fisico e psichico, di vera e propria soggezione e che sono capaci di determinare un giustificato timore per la propria sicurezza owero per la sicurezza di persona particolarmente vicina alla vittima e che possono essere prodromici a gravi atti di aggressione anche mortale. Il nuovo art. 6 1 2-bis c.p. è stato introdotto all'interno della sezione codicistica dedicata ai delitti contro la libertà morale ed è strutturato secondo una condotta a forma libera ("minaccia o mole­ stia") di natura abituale (''con condotte reiterate") che deve cagionare una conseguenza. Si tratta, pertanto, di un reato di evento, la cui sussistenza (42 ) CuRcr P., GALEAzzr G.M., SECCHI C., La Sindrome delle molestie assillanti, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. (43) CADOPPI A., Stalking: solo un approccio multidisciplinare assicura un 'efficace azione di contrasto, in Guida al diritto, Il Sole 24 ore, 2007.

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richiede non solo una reiterata condotta molesta o minacciosa, ma anche il verificarsi di un'alterazione dell'equilibrio psichico della vittima (44). Oltre alla connotazione di reato di evento, l'esame del profilo oggettivo del reato di cui all'art. 6 1 2 c.p. porta a inscriverlo nella categoria dei reati di danno. Non è stata, infatti, accolta la versione della commissione giustizia della Camera dei Deputati, che aveva originariamente delineato l'illecito come reato di pericolo, in quanto tale opzione avrebbe ampliato i rischi di indeterminatezza della fattispecie (45). Il dato letterale conferma tale interpretazione poiché l'espres­ sione "cagionare" utilizzata nel testo implica un rapporto di causalità tra la condotta a forma libera e i tre eventi naturalistici del reato che afferiscono ai tre possibili ambiti di aggressione della vittima: il piano strettamente psicologico cui fa riferimento "il perdurante e grave stato di ansia e di paura", il piano del "fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone a lei vicine" e, infine, il piano della lesione alla libera autodeterminazione evocato dall'espressione "co­ stringerla ad alterare le proprie abitudini di vita" (46). Tanto premesso, risulta evidente come, anche in tale tipo di reato, lo psichiatra o lo psicologo forense potranno essere chiamati ad esprimere un parere tecnico relativo alle condizioni necessarie per la realizzazione della fattispecie ovvero ad identificare la presenza o meno di derive prettamente psicopatologiche, che potrebbero, invece, caratterizzare quella nozione di "malattia" propria del delitto di lesioni personali ex art. 582 c.p A tal proposito, infatti, l a giurisprudenza che s i è formata nei primi mesi di applicazione della fattispecie, ha affermato che "il con­ cetto di perdurante e grave stato di ansia o di paura non fa riferimento ad uno stato patologico, addirittura clinicamente accertato, bensì a conse­ guenze sullo stato d'a nimo della persona offesa-quale il sentimento di esasperazione e di profonda prostrazione-concretamente accertabili e non transitorie, in quanto rappresentano la conseguenza di una vessazione continuata che abbia sostanzialmente comportato un mutamento nella condizione di normale stabilità psicologica del soggetto" (47). Infine, lo psichiatra forense potrà essere chiamato ad esprimersi . .

(44) (45) 3 : 1 377. (46 ) 1 1 :2323. (47)

MANTOVANI F., Diritto penale, Cedam, Padova, 2007. VALSECCHI A., Il delitto di atti persecutori, in Riv. !t. Dir. Proc. Pen. , 2009, MAcRl M., Stalking e prospettive di tutela cautelare, in Resp. civ. prev. , 2009, Trib.

Milano,

17

aprile 2009, in Corr. merito, 2009, 650.

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200

anche sul terreno diverso, ma altrettanto arduo, della qualificazione e quantificazione dell'eventuale danno psichico derivato alla vittima, per la cui disamina analitica si rimanda al Capitolo 8 .

6.4. Il minore vittima di reato (48). 6.4. 1 .

Il fenomeno del maltrattamento/abuso sui minori.

L'odierna attenzione del mondo scientifico al fenomeno dell'abuso/maltrattamento sui minori sembra contrastare con il rela­ tivo disinteresse dimostrato verso questo argomento nelle epoche passate e con la realtà, talora spietata, vissuta dai bambini nei secoli scorsi. Voci isolate, specie di medici legali, come Tardieu nel 1 860, e Pa­ risot e Caussade nel 1 926, segnalarono il grave fenomeno delle sevizie nei confronti dei minori e lo scarso allarme sociale suscitato dal feno­ meno, ma soltanto nel 1 962, con il noto articolo di Kempe e coll. sulla cosiddetta "sindrome del bambino maltrattato" (battered child syn­ drome) (49), il mondo medico incluse il maltrattamento dei bambini nella propria competenza diagnostica e terapeutica, coinvolgendo stu­ diosi di altre discipline, quali psicologi, giuristi, sociologi, ecc . . L'ampliamento del campo di osservazione, dai più evidenti maltrattamenti fisici inferti ai bambini, sino agli abusi sessuali o alle violenze psicologiche, che portarono a modificare la definizione della sindrome ( 50 ) , ha contribuito alla predisposizione di sempre più adeguati strumenti di tutela nei confronti dei minori; tuttavia, il tentativo di comprendere il fenomeno nella sua complessità ha condotto taluni ricercatori ad inserire nella definizione di "abuso" ogni situazione potenzialmente in grado di provocare un danno o una sofferenza in tale categoria di soggetti, al punto da produrre un eccessivo proliferare di definizioni e di classificazioni, con il rischio di rendere estremamente difficile il dialogo sul tema. Attualmente per abuso e maltrattamento all'infanzia devono intendersi "tutte le forme di cattivo trattamento fisico e/o affettivo, abuso sessuale, incuria o trattamento negligente nonché sfruttamento (4 8 ) Paragrafo redatto con la collaborazione della Dott.ssa Linda Alfano, psico­ loga, psicoterapeuta e dottore di ricerca in Bioetica, e della Prof.ssa Rosagemma Ciliberti, Associato di Bioetica presso l'Università di Genova. (49) KEMPE H.R., SILVERMAN F.N., STEELE B.F., The battered child syndrome, JAMA, 1 962; 1 8 1 : 1 7. (50) HELFER R.E., KEMPE H.R., Child abuse and neglect: the family and the community, Ballinger, Camhridge, 1 976.

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201

sessuale o di altro genere che provocano un danno reale o potenziale alla salute, alla sopravvivenza, allo sviluppo o alla dignità del bambino, nell'ambito di una relazione di responsabilità, fiducia o potere" (5 1 ). Il maltrattamento può concretizzarsi in una condotta attiva (percosse, lesioni, atti sessuali, ipercura) o in una condotta omissiva (incuria, trascuratezza, abbandono). Qualsiasi forma di violenza, ma in particolare quella sessuale, costituisce sempre un attacco destabilizzante alla personalità in for­ mazione di un bambino, e, se non rilevata , diagnosticata e curata, può determinare conseguenze anche molto gravi sul processo di crescita. Il danno cagionato è tanto maggiore quanto più il maltratta­ mento resta sommerso, non viene individuato, è ripetuto nel tempo, non è accompagnato da una pronta risposta di protezione alla vittima nel suo contesto familiare o sociale, si accompagna a forte dipen­ denza fisica e/o psicologica e/o sessuale tra la vittima e il soggetto maltrattante. Il fenomeno dell'abuso e del maltrattamento all'infanzia si verifica prevalentemente all'interno delle famiglie e resta spesso inespresso e invisibile. A fini illustrativi è utile richiamare la tradizionale classificazione tipologica della violenza all'infanzia: abuso sessuale: è il coinvolgimento di un bambino in attività sessuali. La violenza può non essere esplicita e manifesta, ma è sempre intrinseca all'atto di violazione dell'integrità fisica e psicologica del bambino. Per violenza sessuale s'intende un'in­ terazione (con o senza contatto fisico) tra un bambino e un soggetto, adulto o minorenne, che per età o grado di sviluppo è posto in una posizione di preminenza rispetto alla vittima. Le manifestazioni dell'abuso sessuale sono rappresentate dagli atti di libidine occasionali o reiterate (carezze, esibizionismo ecc.), dalla induzione alla visione di materiale pornografico, dai rap­ porti sessuali veri e propri (genitali, anali, orali), dall'avvio alla prostituzione, dall'utilizzo del bambino per la produzione di materiale o spettacoli pornografici. La gravità degli effetti è condizionata dalle caratteristiche dell'evento (precocità, fre­ quenza, durata, tipo di atti sessuali), dalla relazione con l'abu­ sante e dalla qualità delle risorse di protezione e delle risposte da parte dei contesti istituzionale e familiare; maltrattamento fisico, è un evento dal quale consegue un danno fisico, concreto o potenziale, a seguito di comportamento attivo (51)

WoRLD HEALTH 0RGANIZATioN, World RepoH an Violence and Health, 2002.

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oppure omissivo, che non lo previene e permette che avvenga. Può manifestarsi come episodio singolo oppure ripetuto. Mani­ festazioni del maltrattamento fisico sono le punizioni corporali (frustate, ustioni, urti violenti contro pareti e pavimenti), con conseguenti eventuali ecchimosi, lesioni cutanee, lesioni ocu­ lari, fratture, traumi cerebrali, traumi interni, sino alla morte.

maltrattamento psicologico, anche questa forma di violenza si esprime in atti che producono o hanno un'alta probabilità di produrre danni alla salute fisica e mentale del bambino e al suo benessere sociale ed emotivo. Tali atti includono la limitazione dei rapporti sociali con il gruppo dei pari o altri adulti di riferimento affettivo, aggressioni verbali, minacce, umiliazioni, comportamenti denigranti, discriminanti o che ridicolizzano il bambino e altre forme non-fisiche di trattamento ostile o rifiu­ tante;

patologia delle cure, riguarda quelle condizioni in cui i genitori, o le persone legalmente responsabili del bambino, non provve­ dono adeguatamente ai suoi bisogni, fisici e psichici in rapporto al momento evolutivo e all'età. Tali patologie possono derivare da incuria, o trascuratezza, quando le cure affettive e/o materiali sono carenti; da discuria, quando le cure sono fornite in modo distorto e non appropriato al momento evolutivo del bambino; da ipercura, quando le cure

(52 ) . violenza assistita , secondo la definizione elaborata dal C.I­ .S.M.A.I. ( 53 ) nel 2005 "per violenza assistita si intende l'esperire da parte del bambino/a qualsiasi forma di maltrattamento com­ piuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, ses­ suale ed economica su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative, adulte o minori. Il bambino può farne esperienza direttamente (quando essa avviene nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il minore è a conoscenza della violenza), e/o percependone gli effetti. Si include l'assistere a sono somministrate in modo eccessivo o sproporzionato

(52)

Si ricordano il c.d. "chemical abuse", cioè l'anomala e aberrante sommini­

strazione di sostanze farmacologiche al bambino; il c.d. "medicai shopping", cioè l'esagerazione di malattie del bambino da cui derivano continue richieste di consulta­ zioni mediche da parte dei genitori che percepiscono ogni lieve patologia come una forma di minaccia alla vita stessa del bambino; la più nota "sindrome di Miinchausen

per procura" quando il genitore (spesso la madre), o altra figura di accudimento, segnala malattie del bambino indotte attraverso la somministrazione di sostanze tossiche o alterando campioni di sangue e di urina per ingannare i medici, che sono interpellati continuamente con richieste di cure e analisi.

(53) Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l'Abuso All'Infanzia.

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violenze di minori su altri minori e/o su altri membri della famiglia e ad abbandoni e maltrattamenti ai danni di animali domestici". Altre tipologie di violenza sul minore, segnalate da recente letteratura, e sempre più ricorrenti anche in Italia sono, tra le altre: la c.d. "sindrome da alienazione parentale": è uno stato di malessere psicologico in cui incorrono bambini e bambine coinvolti in gravi conflitti parentali che portano a impedire al bambino di frequentare uno dei due genitori, come accade in separazioni o divorzi caratterizzati da conflittualità patologica e/o violenta; lo sfruttamento illegale o lavorativo del bambino: (accattonag­ gio, lavori agricoli, circuiti criminali organizzati); la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in servitù di un minore a fini affettivi, sessuali o economici. In sintesi, nell'ottica giuspenalistica, la dizione "abuso sul mi­ nore" viene riferita ad un'ampia serie di comportamenti, che com­ prende sia i cosiddetti "maltrattamenti in famiglia" (art. 572 c.p.), sia l' "abuso dei mezzi di correzione e disciplina" (art. 5 7 1 c.p.), sia lavasta e differenziata realtà degli atti sessuali compiuti in danno di minori da parte di loro familiari o da soggetti esterni alla famiglia (L. n. 66 del 1 5.2. 1 996 e L. 6 febbraio 2006, n. 38), sia le fattispecie dell'incesto (art. 564 c.p.) e dell'abbandono (art. 5 9 1 c.p.). L'attuale diffusione di questo tipo di accuse fa sì che specifiche consulenze tecniche possano essere realizzate non solo nell'ambito di richieste provenienti dalla Procura della Repubblica o dal Tribunale penale, ma anche nell'ambito del Tribunale per i Minorenni e di quello Civile ordinario, ad esempio in casi di conflittualità legata alla separazione coniugale ed all'affidamento del minore, con la contem­ poranea attivazione delle diverse sedi giudiziarie, qualora un genitore sporga denuncia per questo tipo di reato, attivando concomitanti azioni giudiziarie di decadenza della potestà dell'altro genitore (di competenza del Tribunale per i Minorenni) e di modifica dello status matrimoniale o delle condizioni di separazione (presso il Tribunale Civile ordinario). Per questo motivo, non raramente accade che uno stesso minore venga interessato da più indagini peritali, disposte dalle diverse sedi giudiziarie di competenza, con la proposta di quesiti a volte anche molto differenziati. In alcuni casi in cui sussistono specifiche forme di lesività, viene disposto un accertamento di natura prettamente medico legale, eventualmente integrato da indagini pediatriche e ginecologiche, finalizzate alla descrizione di eventuali lesioni personali e di segni di

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violenza sessuale, con l'indicazione della natura e dei mezzi degli stessi. In altri casi i quesiti interessano soltanto problematiche di tipo psicologico o psichiatrico forense, per accertare la sussistenza, o meno, nel minore di sintomi reattivi o disturbi psicologici o psicopa­ tologici che possano essere messi in relazione con gli abusi denun­ ciati, ovvero di fornire un parere sull'idoneità del minore a rendere testimonianza in merito a quanto vissuto. Altre volte ancora possono essere richiesti al consulente pareri circa la situazione e circa la collocazione più opportuna per il minore e circa il regime dei suoi eventuali incontri con il supposto autore del reato (se si tratta di un genitore). In un contesto così delicato, è sempre necessario chiarire quali siano i limiti delle competenze e delle possibilità d'intervento del consulente tecnico, tenuto conto della rilevanza che gli accertamenti esperiti in sede civile o minorile possono assumere ai fini di un procedimento penale. È altresì necessario essere consapevoli del fatto che, per l'estrema conflittualità che oppone i diversi protagonisti degli accer­ tamenti che interessano i nuclei familiari, ognuno dei periziandi rappresenta un soggetto che rischia di essere sottoposto a procedi­ mento penale, come autore degli abusi o come responsabile di calunnia nei confronti di quest'ultimo, e che, sempre più frequente­ mente, anche i diversi professionisti (pediatri curanti, medici di pronto soccorso, consulenti di parte) che abbiano attestato la sussi­ stenza di abusi, possono essere a loro volta imputati di reati o illeciti deontologici, per le certificazioni rilasciate o le dichiarazioni rese. Tutto questo può determinare un clima di forti tensioni all'in­ terno del contesto peritale, nel quale sono spesso presenti reazioni emotive incongrue, contrapposizioni esasperate tra professionisti, timori circa le responsabilità che gli stessi consulenti si assumono con le loro valutazioni. Un motivo di difficoltà è relativo alla presenza, in non infre­ quenti casi, di accuse esplicitamente false, rispetto alle quali il bambino è stato indottrinato, tanto da essere soggettivamente con­ vinto della realtà delle stesse, o da accettare, per lealtà verso il denunciante, di riferire in modo accentuatamente ripetitivo e detta­ gliato comportamenti e fatti mai realmente accaduti. In questi casi spesso l'accertamento peritale tende a svilupparsi a�torno alla necessità di accertare la veridicità delle accuse, la prove­ menza delle eventuali strumentalizzazioni, le responsabilità dei di­ versi protagonisti, con l'adesione ad una logica di tipo investigativo, molto lontana dal lavoro clinico e peritale.

Le indagini sulle vittime di reato

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Come ricordano Fornari e Ornato i problemi che sorgono a livello epistemologico sono due: quello dell'accertamento della verità processuale e quello della valutazione della verità clinica (54). Spesso infatti questi due concetti vengono confusi tra loro ed utilizzati come se si trattasse della stessa cosa. Un'ulteriore e fondamentale difficoltà deriva dal fatto che, per l'elevato allarme sociale che è legato a queste problematiche, si è ormai strutturato un vero e proprio "mercato" delle consulenze in tema di abuso, nell'ambito del quale singoli professionisti e Centri specialistici offrono al committente un servizio diretto ad attestare la sussistenza e la dimostrazione degli abusi e delle conseguenze degli stessi, a volte in modo acritico, spesso al di fuori di ogni correttezza deontologica, ed a volte, ancora, in assenza di un esame completo della realtà clinica e relazionale del bambino e del nucleo familiare. 6.4.2.

La testimonianza del minore vittima di reato.

Come già accennato, il quesito sulla capacità di testimoniare non attiene alla veridicità ipotetica del teste, ma, come affermano Fornari e Ornato, riguarda "il tipo di rapporto che il soggetto ha con la realtà e il suo grado di sviluppo intellettivo", e l'eventuale presenza di . . . disturbi della sfera cognitiva e/o affettiva che interferiscano con la percezione del reale e con la capacità di ricordarlo e riferirlo a terzi". Il consulente tecnico si trova quindi nella condizione di dover appurare se vi sia una compatibilità delle dichiarazioni del minore con le caratteristiche tipiche delle affermazioni corrispondenti al livello evolutivo del piccolo testimone. Sarà poi compito del giudice, e non del consulente tecnico, stabilire o meno la loro effettiva veridicità e quindi pronunciare una sentenza e/o prendere un adeguato provvedimento, ma non vi è dubbio che i livelli di accertamento e di ragionamento possono facilmente intersecarsi e, a volte, confondersi con negative e gravi conseguenze. Tenuto conto di tutte le difficoltà ricordate, molti psicopatologi forensi si sono interrogati circa la necessità di garantire ai minori, alle loro famiglie ed alla stessa giustizia una collaborazione maggior­ mente ancorata a parametri scientifici, non inquinata da aspetti emotivi, direttamente fruibile nelle diverse sedi giudiziarie. È stata quindi elaborata una metodologia d'indagine diretta a "

(54) FoRNARI U., ORNATO S., La metodologia d'indagine nella valutazione della testimonianza del minore vittima di abuso sessuale: le regole minime, in Rass. It. Crim., 1 999, 1 :39-52.

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limitare le possibili conseguenze sul minore di reiterati accertamenti peritali, ed a rendere trasparente e documentata ogni fase delle indagini esperite. In questa prospettiva è stata proposta una sempre maggiore standardizzazione delle metodologie dell'accertamento, con la video­ registrazione di tutte le sedute, con l'adozione di domande non suggestive e con l'utilizzazione di protocolli diagnostici specifici e condivisibili. In tale ottica nel 1996 un gruppo di studio composto da magistrati, avvocati e clinici ha realizzato un documento "Linee guida

per l'esame di minore in caso di abuso sessuale", o "Carta di Noto" (55), diretto a fornire raccomandazioni da osservare e attuare allorché ci si trovi coinvolti a titolo professionale nel lavoro con i minori presunte vittime di abuso. Il 7 luglio 2002 la Carta di Noto è stata aggiornata, tenendo conto dell'introduzione di nuove normative, delle innovazioni della ricerca scientifica in materia e del sempre puntuale aggiornamento delle figure professionali coinvolte

{56).

Nella sua attuale versione queste linee guida intendono "garan­

tire l'attendibilità dei risultati degli accertamenti tecnici e la genuinità delle dichiarazioni, assicurando nel contempo al minore la protezione psicologica, nel rispetto dei principi costituzionali del giusto processo e degli strumenti del diritto internazionale". Questo documento, costituisce ormai un riferimento costante per la giurisprudenza e la dottrina. In particolare è da evidenziare la sua portata generale giacché, secondo quanto sancito nella Premessa,

"quando non fanno riferimento a specifiche figure professionali", le raccomandazioni contenute nel documento valgono per qualunque operatore (magistrati, avvocati, psicologi, clinici, forze di polizia, educatori professionali, ecc. ) che instauri, a titolo professionale, un rapporto con il minore presunta vittima di abuso. In particolare, ai fini di una corretta indagine peritale, in questo documento si afferma tra l'altro che: "La consulenza tecnica e la perizia

in materia di abuso sessuale devono essere affidate a professionisti specificamente formati, tanto se scelti in ambito pubblico quanto se scelti in ambito privato".

(55)

Congresso ISISC (Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali),

Noto, 6-9 giugno 1996, sul tema "Abuso sessuale di minori e processo penale", pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 1996 ed in vigore dal 6 marzo

1996.

(56) Sul tema: DE CATALDO NEUBURGER L., GuwrrA G., La Carta di Noto e le linee guida deontologiche per lo psicologo giuridico, Giuffrè, Milano, 2004.

Le indagini sulle vittime di reato

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La specifica formazione tecnica del professionista è, in partico­ lare, una significativa innovazione dell'aggiomamento compiuto nella revisione del 2002 della Carta di Noto che impone una specializza­ zione ed un aggiornamento continuo degli operatori sulla letteratura internazionale in materia di abuso su minore, sulle norme giuridiche e sulle tematiche della psicologia dell'età evolutiva. Circa, poi, il ruolo dell'esperto, viene evidenziato che: "Nel raccogliere e valutare le informazioni del minore gli esperti devono: a) utilizzare metodologie e criteri riconosciuti come affidabili dalla comunità scientifica di riferimento; b) esplicitare i modelli teorici utilizzati, così da permettere la valutazione critica dei risultati". È d a notare che l'adozione di una metodologia condivisibile e trasparente può contribuire a limitare le conseguenze che il minore subisce, sia nell'ambito del cosiddetto "danno primario" direttamente collegato agli abusi, sia nell'ambito del cosiddetto "danno seconda­ rio", derivante dagli interventi realizzati per la sua tutela e spesso, paradossalmente, ben più grave del precedente. La verificabilità e falsificabilità della metodologia costituiscono elementi essenziali per una corretta indagine peritale. Inoltre viene ricordato che "la valutazione psicologica non può avere ad oggetto l'accertamento dei fatti per cui si procede, che spetta esclusivamente all'Autorità giudiziaria. L 'esperto deve esprimere giudizi di natura psicologica avuto anche riguardo alla peculiarità della fase evolutiva del minore". Si segnala, in particolare, che nella versione introdotta nel 2002 è stato precisato il ruolo dell'esperto che deve essere capace di fomi­ re un parere di natura "psicologica" connesso all'accertamento del­ la competenza e delle funzioni psichiche di base legate alla capaci­ tà di rendere testimonianza in relazione alla fase evolutiva del minore. Circa i casi di abuso intrafamiliare, viene evidenziato che "gli accertamenti devono essere estesi ai membri della famiglia, compresa la persona cui è attribuito il fatto, e ave necessario, al contesto sociale del minore. È metodologicamente scorretto esprimere un parere senza avere esaminato il minore e gli adulti cui si fa riferimento, sempre che se ne sia avuta la rituale e materiale possibilità". È da notare che tale indicazione è oggetto di dibattito per la difficoltà di coniugare la comprensione della dinamica familiare nella sua interezza alle esigenze processuali di difesa dell'imputato. Inoltre, viene sottolineato che "si deve ricorrere in ogni caso possibile alla videoregistrazione, o quanto meno all'audioregistrazione, delle attività di acquisizione de lle dichiarazioni e dei comportamenti del

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Fondamenti di p sicopatologia forense

minore. Tale materiale, per essere utilizzato ai fini del giudizio, va messo a disposizione delle parti e del magistrato. Qualora il minore sia stato sottoposto a test psicologici i protocolli e gli esiti della somministrazione devono essere prodotti integralmente ed in originale". Un richiamo importante nella versione del 2002 riguarda la necessità di indicare e produrre i protocolli in originale, al fine di rendere esplicite e chiare le procedure per consentire l'esercizio del contradditorio e una proficua discussione del caso tra i consulenti. La videoregistrazione o quanto meno la audioregistrazione (con trascrizione integrale delle parti rilevanti) risultano di importanza essenziale in relazione alla possibilità di consentire alle parti e al giudice di controllare il corretto svolgimento o meno dell'audizione, ridurre la necessità di ulteriori interviste/audizioni, conservare sia gli elementi verbali che non verbali (videoregistrazione), promuovere da parte dell'interrogante una audizione "corretta" e, ancora, diminuire il rischio di eventuali ritrattazioni della narrazione. Viene poi ricordato che per "garantire nel modo migliore l'obiet­ tività dell'indagine, l'esperto avrà cura di individuare, esplicitare e valutare le varie ipotesi alternative, siano esse emerse o meno nel corso dei colloqui". La disposizione insiste affinché il consulente non proceda cer­ cando conferme alle proprie ipotesi valutative di partenza, ma espli­ citi in modo dettagliato chiavi di lettura alternative motivando la loro eventuale esclusione. A tal fine la Carta richiede che siano effettuati colloqui mirati a valutare significati e rappresentazioni del disagio familiare e utilità e strumentalità della dichiarazione di abuso. In particolare, viene evidenziato che "nel colloquio con il minore occorre consentirgli di esprimere opinioni, esigenze e preoccupazioni;

evitare domande e comportamenti che possano compromettere la spon­ taneità, la sincerità e la genuinità delle risposte, senza impegnare il minore in responsabilità per ogni eventuale sviluppo procedimentale". Sul punto si rileva la piena aderenza a quanto previsto dalla Convenzione Europea sull'esercizio dei Diritti dei Fanciulli, (presen­ tata a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con legge 20 marzo

2003, n. 77), che all'art. 12 prevede che si incoraggi a: "ricercare

l'opinione dei fanciulli e fornire loro tutte le informazioni appropriate".

Si sottolinea inoltre l'incompatibilità per il perito di rivestire il doppio ruolo di consulente e terapeuta. Dal punto di vista procedurale, viene anche evidenziato che

"l'incidente probatorio è la sede privilegiata di acquisizione delle dichia­ razioni del minore nel corso del procedimento". Tale strumento, invero, oltre ad evitare ripetizioni traumatiche per il minore, risponde anche a finalità di preservazione dell'attendi-

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bilità stessa della testimonianza, garantendo anche correttezza del processo investigativo e la qualità della valutazione conclusiva. È noto, infatti, come la ripetizione di un racconto possa indurre il minore a modificare la sua versione nonché a convincersi di cose mai avvenute (falsi ricordi). Nel documento viene poi sottolineato che "i sintomi di disagio che il minore manifesta non possono essere considerati di per sé come indicatori specifici di abuso sessuale, potendo derivare da conflittualità familiare o da altre cause, mentre la loro assenza non esclude di per sé l'abuso". Pur esistendo diversi indicatori del disagio d i un bambino, si segnala che molti di questi non possono essere ricondotti in linea causale ad una ipotesi di abuso. Non esistono cioè indicatori certi di abuso correlati a determinati sintomi o comportamenti manifestati dalla presunta vittima. Il comportamento e i sintomi manifestati dal minore devono quindi essere valutati mediante un esame "incrociato" con le altre informazioni relative al contesto familiare, sociale e scolastico del bambino, oltre che con quanto descritto dal minore, dalle emozioni e vissuti espressi durante il racconto. Tutti questi fattori vanno rappor­ tati alla fase evolutiva/età del bambino ed alla cultura del suo gruppo familiare di appartenenza. Circa, poi, il discusso problema del nesso causale, viene ritenuto che "quando sia fonnulato un quesito o prospettata una questione relativa alla compatibilità tra quadro psicologico del minore e ipotesi di reato di violenza sessuale è necessario che l'esperto rappresenti, a chi gli conferisce l'incarico, che le attuali conoscenze in materia non consen­ tono di individuare con certezza dei nessi di compatibilità od incompa­ tibilità tra sintomi di disagio e supposti eventi traumatici". Accanto alle indicazioni contenute nella Carta di Noto, esistono inoltre altre linee guida specifiche per categorie professionali, come ad esempio, la Dichiarazione di Consenso in tema di abuso sessuale all'infanzia elaborata nel 1 998 dal Coordinamento Nazionale dei Centri e dei Servizi di prevenzione e trattamento dell'abuso in danno dei minori, le Linee Guida Deontologiche per lo Psicologo Forense elaborate dall'Associazione Italiana Psicologia Giuridica nel 1 999, e, ancora le Linee guida della Società Italiana di NeuroPsichiatria dell'Infanzia e del'Adolescenza (SINPIA) (57). Ancora più recentemente (20 1 0), una Consensus Conference intersocietaria, che ha visto coinvolti i maggiori esperti in materia di (57)

SINPIA, Linee guida in tema di abuso sui minori, Erickson, Trento, 2007.

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valutazione della capacità di testimoniare, ha elaborato delle vere e proprie linee guida in tema di "Ascolto del minore testimone" (5�). Il documento, di prossima pubblicazione ed al quale si rimanda integralmente per gli opportuni approfondimenti, sottolinea, quale aspetto irrinunciabile, la documentata competenza professionale del­ l'esperto e il rispetto di una rigorosa criteriologia validata scientifica­ mente, sofferma in particolare l'attenzione sulla memoria e sulla testimonianza del minore, nonché sulle procedure metodologiche dell'esperto nella valutazione della capacità di testimoniare. Tutto ciò fa comprendere come queste indagini debbano essere affidate a consulenti particolarmente preparati, sia da un punto dì vista psicologico e neuropsichiatrico infantile, sia da un punto di vista etico-deontologico, ricorrendo preferibilmente a collegi peritali inte­ grati.

(58)

BANDINI T., CATANESI R., Ricci P., MARCHETTI M., SABATELLO U., CAMERINI G.,

SARTORI G., STRACCIARI A., LoRETTU L., ScAPATI F., GuLDITA G., DE CATALDO L., Ascolto del minore testimone, in Linee Guida Nazionali, Roma, 2010, in press.

Capitolo VII IL CONTRIBUTO PSICOLOGICO E PSICHIATRICO FORENSE NEL PROCESSO CIVILE

SoMMARIO: 7 . 1 . Le nozioni di "capacità giuridica" e "capacità di agire": cenni normativi. - 7.2. Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia. - 7.2. 1 . Amministrazione di sostegno. - 7.2.2. Le indagini tecniche in tema di amministrazione di sostegno. 7 .2.3. Interdizione e inabilitazione. - 7.2.4. La consulenza psichiatrico forense in tema di interdizione e inabilita­ zione. 7.3. L'incapacità naturale. - 7.4. L'incapacità di disporre per testa­ mento. - 7.5. L'identità psicosessuale e la modifica anagrafica. -

-

7. 1 . Le nozioni di "capacità giuridica" e "capacità di agire": cenni normativi.

Nell'ordinamento italiano, l'uomo è riconosciuto come "sog­ getto di diritto", capace, cioè, di essere titolare e di esercitare diritti e doveri. I primi due articoli del vigente Codice Civile, definiscono i requisiti necessari e sufficienti affinché la persona possa diventare soggetto del mondo giuridico. Ai sensi dell'art. l del Codice Civile "La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subor­ dinati all'evento della nascita". I requisiti necessari per l'acquisizione della capacità giuridica sono dunque due: la nascita e la vita. Si ricorda che, in ambito giuridico, per nascita si intende la completa fuoriuscita dal corpo materno del feto, mentre per vita si intende una qualsiasi manifestazione di esistenza propria ed auto­ noma. La completa fuoriuscita dal corpo materno di un feto vivo che abbia compiuto anche un solo atto respiratorio autonomo, pertanto, segna il momento nel quale l'individuo diviene "persona" in senso giuridico, ovvero titolare di diritti e di doveri. Tra essi, definiti come "diritti della personalità", figurano quelli relativi alla vita e alla integrità fisica, alla libertà di pensiero, all'onore

Fondamenti di psicopatologia forense

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e alla reputazione, al nome, nonché quelli correlati al possesso della condizione di cittadino italiano e quelli legati allo stato civile. Nella stessa capacità rientra l'idoneità ad essere proprietario di beni, usufruttuario degli stessi, creditore, debitore, ed altro. La capacità giuridica, in altre parole, è "attitudine, idoneità alla titolarità di diritti e doveri giuridici, ad essere soggetti di diritto" ( ! ) , rappresentandosi come una prerogativa di ogni uomo, in quanto nato, ed estinguendosi solo con la morte, nonostante sia prevista la possi­ bilità che alcuni diritti, come quelli attinenti al patrimonio, siano trasmessi ad altre persone. La persona, pur essendo titolare di diritti e di doveri sin dalla nascita, non può esercitare autonomamente tale titolarità prima del raggiungimento del diciottesimo anno di età. L'art. 2 del Codice Civile stabilisce, infatti, che "La maggiore età fissata al compimento del diciottesimo anno. Con la maggiore età si è acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un 'età diversa" ( Omissis ). Il Legislatore, ricorrendo ad una convenzione inevitabile sul piano pratico, identifica una soglia per l'acquisizione della capacità di agire, presumendo che con la maggiore età sia raggiunto quel livello di maturità psicosociale ritenuto sufficiente a compiere atti di rilevanza giuridica (amministrazione dei propri beni, atti di compravendita, matrimonio, adozione, testamento, donazione ed altro). La capacità di agire, infatti, s i fonda s u specifici presupposti psicologici, legati al pieno sviluppo della personalità ed alla capacità dell'individuo di comprendere la realtà esterna e di esprimere scelte autonome nei confronti della stessa. Nell'ambito di tali presupposti si riconoscono la comprensione delle norme e l'applicazione da parte dell'individuo delle stesse, la valutazione delle conseguenze giuridiche, economiche e morali del­ l'atto che s'intende compiere, la capacità di esprimere il proprio comportamento in modo coerente con le norme e con le esigenze dell'ambiente, adattando lo stesso alle situazioni concrete e finaliz­ zandolo con il conseguimento dei propri obiettivi (2). A questa regola generale (acquisizione della capacità di agire all'età di diciotto anni) sono previste deroghe, con l'identificazione normativa di differenti termini di età per l'esercizio di alcune attività e scelte, come quelle riguardanti il mondo del lavoro, il matrimonio

(1) (2)

RESCIGNO, P., Manuale del diritto privato italiano, VI ed., Napoli, 1 984. ARRARELLO P. e Coli., op. cit. .

Il contributo psicologico forense nel processo civile

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del minore e la sua conseguente emancipazione, la filiazione, l'ado­ zione ed altro (3). Qualora il soggetto, benché maggiore di età, non abbia tuttavia conseguito una piena maturità mentale ovvero, successivamente al raggiungimento della stessa, l'abbia persa, totalmente o parzialmente, si rende necessario assicurare l'adeguata protezione dei suoi diritti ed interessi, la cui salvaguardia non può evidentemente essere garantita attraverso la regola generale dell'art. 2 del Codice Civile. A tale fine, il Legislatore ha predisposto istituti giuridici specifici che, rispettivamente, sostengono, limitano, o annullano, la capacità di agire nella misura in cui ciò è necessario per assicurare una prote­ zione adeguata della persona incapace od impossibilitata a provve­ dere ai propri interessi.

7 .2. Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia (4).

Gli istituti giuridici destinati alla protezione dei soggetti non idonei alla cura dei propri interessi, sono disciplinati dal titolo XII del libro I del Codice Civile, rubricato "Delle misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia". Il titolo comprende due capi: i l primo dei quali contiene gli artt. 404-4 1 3 c.c. e porta la rubrica "Dell'amministrazione di sostegno"; il secondo, al cui intemo sono compresi gli artt. 4 1 4-43 1 c.c., è intitolato "Della interdizione, della inabilitazione e della incapacità naturale". Tale architettura legislativa si deve alla recente legge 9 gennaio 2004, n. 6, che, dopo un percorso di riforma quasi ventennale sviluppatosi nel coso di più legislature (5), ha introdotto profonde e articolate innovazioni nel settore della protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita. I principi ispiratori dell'intervento normativa sono espressa­ mente enunciati nell'art. l , che individua come finalità della legge quella di "tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento (3) Art. 2 c.c, secondo comma, " . . . Sono salve le leggi speciali che stabiliscono un 'età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è abilitato all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro .". (4) Paragrafo redatto con la collaborazione del Dott. Alessandro Zacheo, dottore di ricerca in Medicina Legale e Scienze Forensi. (5) CENDON P., Infermi di mente e altri « disabili " in una proposta di riforma del codice civile, in Pol. dir. , 1 987, 62 1 ss., ove è riportata anche la Bozza di proposta di legge, 653 ss . . ..

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delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente". Si tratta di una formula che deve ritenersi destinata a costituire, per il futuro, il riferimento fondamentale per l'inquadramento dell'in­ tero sistema di protezione delle persone non autonome. L'amministrazione di sostegno costituisce infatti "un regime di protezione" tale da "comprimere al minimo i diritti e le possibilità di iniziativa della persona disabile" e da offrire, però, "tutti gli strumenti di assistenza o di sostituzione che possano occorrere volta a volta per colmare i momenti più o meno lunghi di crisi, di inerzia, di inettitudine del disabile stesso" (6). La tutela civilistica dell'incapace, prima dell'attuale riforma, seguiva un modello, di derivazione ottocentesca, incentrato sul para­ digma "folle

=

incapace

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pericoloso". Di qui il ricorso a misure

orientate ad estromettere, quanto più possibile, il sofferente psichico dal circuito vitale delle attività, mettendolo "al riparo" dalla possibi­ lità di nuocere a se stesso e, soprattutto, agli interessi di terzi. La consapevolezza della assoluta inadeguatezza della realtà normativa predisposta dal Legislatore del 1942 ha indotto, a partire dagli anni '80, l'avvio di un dibattito interdisciplinare diretto a rinnovare radicalmente la materia, identificando forme di tutela meno rigide e penalizzanti dell'interdizione o della stessa inabilita­ zione, al fine di garantire la protezione del paziente psichiatrico non solo in un'ottica patrimoniale, ma valorizzando maggiormente gli spazi residui di autonomia e di scelta dello stesso (7). Con la legge 9 gennaio 2004 n. 6 si delinea un nuovo sistema di protezione, incentrato, per un verso, sulla previsione del nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno e, dall'altro, sul parziale ammorbidimento della normativa relativa ai vecchi istituti della interdizione e della inabilitazione.

(6)

Ibidem, cit., 624.

(7)

Il dibattito volto a sottolineare la rigidità e l'inadeguatezza degli istituti

dell'incapacità legale è frutto di profonde trasformazioni intervenute nei modi di sentire e di pensare della collettività e del graduale affermarsi, in ambito medico­ psichiatrico, di un modo nuovo di guardare alla patologia psichica svincolato dagli schematismi astratti e rigidi del passato, cfr.: FoRNARJ U., Ha dei diritti il malato di mente?, in Riv. !t. Med. Leg., 1983, 3:571; CENDON P., Il prezzo della follia. Lesione della salute mentale e responsabilità civile, n Mulino, Bologna, 1984; PERLINGIERI P., Gli istituti di protezione e di promozione dell'« infermo di mente"· A proposito dell'andicappato psichico permanente, in Rass. Dir. Civ., 1985, l :46; CARRIERI F., GREco 0., CATANESI R., Malattia mentale ed interdizione: rilievi psichiatrico-forensi, in Riv. !t. Med. Leg., 1988,

6:1089; VIsiNTINI G., Considerazioni in tema di tutela civilistica del sofferente psichico, in BANDINI T. e Coll. (a cura di), La tutela giuridica del sofferente psichico, Giuffrè, Milano, 1993.

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Per questi motivi, la legge n. 6 del 2004 segna un vero e proprio "spartiacque", rappresentando un momento importante di un pro­ cesso più ampio, volto ad assicurare piena garanzia ai diritti dei soggetti deboli, a salvaguardare la dignità di tutti coloro che sono privi del tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana: dei malati di mente, degli anziani con patologie di tipo degenerativo e, più in generale, di coloro che soffrono di una infermità o menomazione fisica o psichica. 7 .2. 1 .

Amministrazione di sostegno.

Il nuovo art. 404 c.c., intitolato "Amministrazione di sostegno" individua l'ambito di applicazione dell'istituto ed i suoi destinatari. "La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio". Condizione necessaria perché sia possibile beneficiare dell'am­ ministrazione di sostegno è la sussistenza di una infermità o di una menomazione, fisica o psichica, per effetto della quale il soggetto si trovi a versare nell'impossibilità, sia pure solo parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi. È interessante notare che in tale fattispecie il Legislatore non faccia riferimento ad un substrato specifico, adottando invece for­ mule più aperte quali "infermità" e "menomazione". In particolare: infermità: termine derivato da "infìrmitas", ciò che non sta fermo, che è instabile. Si tratta, in realtà di una definizione alquanto generica ed estensiva che non comprende soltanto le malattie, ma va oltre, includendo anche quelle condizioni clini­ che che non presentano note di dinamicità e di evolutività - che sono le caratteristiche proprie della "malattia" - quali gli esiti delle stesse, oppure i gradi estremi delle anomalie mentali, normalmente considerate semplici variazioni statistiche della norma, per cui se una malattia è da considerarsi sempre una infermità, non sempre è vero il contrario. menomazione: termine di ancor più larga diffusione definito dall'O.M.S. quale perdita o anormalità a carico di strutture o di funzioni psicologiche, fisiologiche, anatomiche (le parole chiave privazione o calo; anomalia deviazione, sono: perdita irregolarità; struttura organi, arti o parti; funzioni quelle fisiologiche degli organi e degli apparati) . =

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In tale ottica, è da ritenere che l'amministrazione di sostegnc possa trovare applicazione in tutti quei casi - fino ad ora sfomiti di tutela - nei quali la persona, anziché soffrire di una malattia in sensc stretto, si trovi ad essere affetta da una semplice menomazione psichica o fisica. L'indebolimento delle facoltà intellettive dovuto, in special modo, all'avanzare dell'età, così come quei disagi psichici che, pur incidendo negativamente su tali facoltà, peraltro non si traducono in un vero stato patologico, appaiono dunque idonei a giustificare, quando determinino un'inettitudine, anche soltanto parziale alla cura dei propri interessi, la sottoposizione della persona alla misura dell'amministrazione di sostegno ( 8 ) . Circa l'estensione alla componente "fisica" non sembra essersi ancora consolidata un'interpretazione condivisa in dottrina. Sul punto si registrano due diversi orientamenti di cui diamo, breve­ mente, conto. Alcuni escludono la fruibilità dell'amministrazione di sostegno da parte di chi, pur colpito da una menomazione di carattere fisico, risulti perfettamente campus sui . Secondo questa interpretazione il Legislatore ha voluto riferirsi "a tutte quelle situazioni in cui un 'infer­ mità o una menomazione appunto fisica abbia non soltanto riflessi di carattere corporeo bensì si ripercuota, in modo negativo, sulle facoltà intellettive della persona, compromettendole in modo più o meno grave o impedendone lo sviluppo" (9) ( 10) . Altri invece includono tra i destinatari della nuova misura "coloro che, pur capaci di intendere e di volere, siano colpiti da menomazioni fisiche o patologie che rendano difficoltosa la cura dei propri interessi sia personali che patrimoniali (ad es. persone colpite da ictus, paraplegici, persone prive di arti, portatori di handicap, ciechi o sordomuti rispetto ai quali non ricorrano le condizioni per l'inabilita­ zione, ecc.)" (1 1); Cendon immagina che "a ricorrervi, nel prossimo futuro, dovrebbero essere statisticamente un numero assai maggiore di persone anziane, o di lungodegenti, o di handicappati fisici, o di ( 8) DELLE MoNACHE S., Prime note sulla figura dell'amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale, in NGCC, 2004, 1 :29. (9) VENCHIARUTTI A., Un confronto dopo l'entrata in vigore della l. 9 gennaio 2004, n. 6: amministrazione di sostegno, interdizione e inabilitazione, www .altalex.com, 2004. (10) DELLE MoNACHE S., "Sipensi alla persona che, a seguito di un incidente, precipiti in uno stato di coma o a chi sia affetto da una patologia che richieda un trattamento farmacologico tale da indurre stati deliranti o di deliquio o comunque fasi di non completa padronanza delle facoltà di mente", op. cit. . ( 1 1 ) FASAN A., Amministrazione di sostegno e ruolo del giudice, Relazione svolta all'incontro di studio "Amministrazione di sostegno", Trieste, 1 6 aprile 2004.

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alcoolisti, o di tossicodipendenti, che non invece di soggetti sofferenti di un disturbo psichico in senso stretto" ( 1 2 ). A nostro parere, anche sulla base del principio costituzionali­ stico di eguaglianza giuridica contro ogni discriminazione basata sulle condizioni personali e di eguaglianza sostanziale, fondato sulla rimozione delle emarginazioni sociali (art. 2), la nuova norma do­ vrebbe essere intesa come diretta ad assicurare il più compiutamente possibile a chi si trovi svantaggiato per le sue condizioni personali, siano esse psichiche o fisiche, il godimento dei diritti fondamentali e, in particolare, i diritti alla dignità, all'eguaglianza e all'autonomia privata. Una volta accertata la sussistenza di una infermità o menoma­ zione fisica o psichica occorre affrontare il secondo presupposto, quello cioè dell'impossibilità conseguente a tale stato di provvedere ai propri interessi. È importante rilevare come ciascuno dei presupposti, da solo, non sia sufficiente, e il primo deve essere causa del secondo. L"'impossibilità" consiste nell'inettitudine della persona alla cura dei propri interessi, da intendersi in senso non esclusivamente economico o patrimoniale, bensì anche con riferimento alla cura della persona nella sfera della sua dignità, dei rapporti di relazione e, più in generale, agli interessi non patrimoniali della vita civile, purché suscettibili di essere pregiudicati attraverso il compimento di atti giuridici. Secondo la previsione del citato art. 404 c.c., l'impossibilità può essere anche soltanto "temporanea", tale da comportare una infermità o menomazione di cui si può ragionevolmente prevedere la guari­ gione o il superamento, e che perciò appaia non avere carattere duraturo o permanente, ovvero può essere soltanto "parziale" quando configura una inettitudine non radicale e assoluta della persona alla cura dei propri interessi. È importante evidenziare che il Legislatore, riferendosi all'im­ possibilità, ha considerato quale regola generale il caso di quella totale e permanente, estendendo espressamente l'applicazione della previsione alle ipotesi dell'impossibilità parziale o temporanea, attra­ verso l'uso della congiunzione "anche". (12 ) CENDON P., Infermi di mente e altri "disabili" in una proposta di riforma del codice civile, in Poi. Dir. , 1 987, cit. ; un analogo orientamento interpretativo è adottato da ERAMO F., L'amministrazione di sostegno, in Dir. Fam. , 2004; 3:534, dello stesso avviso è CAMPESE G., L'istituzione dell'amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, in Fam. Dir. 2004, 2 : 1 28: "Potranno così trovare protezione diverse categorie di soggetti che prima ne erano privi, quali per esempio: anziani non autosufficienti ma non affetti da demenza senile, handicappati motori, soggetti colpiti da ictus, malati gravi non psichici.".

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Sul piano procedurale, la nomina dell'amministratore di soste­ gno compete al giudice tutelare, il quale provvede entro sessanta giorni dalla richiesta con decreto motivato immediatamente esecu­ tivo. Il decreto di apertura deve contenere la definizione dell'oggetto dell'incarico assegnato all'amministratore, indicando, volta a volta, gli atti in cui il beneficiario deve essere sostituito o assistito appunto dall'amministratore di sostegno (art. 405 c.c.). Gli effetti sono stabiliti nel nuovo art. 409 c.c. , per il quale, per tutti gli atti che non ne formano oggetto, il beneficiario conserva la capacità di agire, ferma restando la sua legittimazione a compiere, "in ogni caso", gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana. La prospettiva è dunque rovesciata rispetto a quella operante in tema di interdizione e di inabilitazione: per queste ultime figure giuridiche è stabilita una generale incapacità o semi-incapacità del soggetto, tranne che per gli atti espressamente previsti dal giudice; nell'amministrazione di sostegno, invece, è affermata una generale capacità di agire del beneficiario, tranne che per gli atti espressa­ mente menzionati. L'amministrazione di sostegno rappresenta, in definitiva, uno strumento altamente flessibile, attento alla specificità ed alle concrete esigenze del singolo, proponendosi come "un contenitore suscettibile di essere riempito dei provvedimenti e degli assetti organizzativi più svariati. È il giudice tutelare che decide se ammettere e fino a che punto estendere il sostegno richiesto (e per il quale lui stesso può procedere anche d'ufficio), plasmando volta a volta la risposta secondo le specifi­ che necessità della persona da proteggere" ( 1 '). L'amministratore di sostegno può essere quindi sia un assi­ stente, sia un rappresentante, oppure sia l'uno che l'altro. Questa è una differenza sostanziale rispetto agli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione, dove tutto ruota attorno alla distinzione tra atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione, quali negozi giuridici visti complessivamente nel loro insieme e non come atti puntuali e specifici. Ciò premesso, e tenuto conto delle sue effettive esigenze di tutela, il beneficiario potrà essere privato della capacità di agire limitatamente ad uno o più atti singoli (ad es. la vendita di un certo bene ovvero, più semplicemente, la riscossione della pensione, il compimento di alcune operazioni di conto corrente, ecc.) rispetto ai ( 13) CENDON P., Infermi di mente e altri " disabili » in una proposta di riforma del codice civile, 1 987, op. cit.

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quali la persona si dimostri impossibilitata a prowedenri autonoma­ mente. Non va dimenticato inoltre che, ai sensi dell'art. 407 c.c., è sempre facoltà del giudice tutelare "in ogni tempo, modificare o integrare, anche d'ufficio, le decisioni assunte con il decreto di nomina dell'amministrazione di sostegno". Nel riconoscere al beneficiario dell'amministrazione di sostegno la capacità "in ogni caso" di compiere autonomamente gli atti che rispondono alle esigenze della vita quotidiana, è chiara la volontà del Legislatore di riconoscere il valore "terapeutico" della c.d. microcon­ trattualità, come suggerito dagli orientamenti più recenti della scienza medico-psichiatrica. Si tratta, precisamente, di atti che hanno uno spessore econo­ mico perlopiù modesto, quali l'acquisto di cibo o di vestiti, il paga­ mento della bolletta del gas o del telefono, l'incasso di somme di modico valore, le spese per usuali attività ricreative, ecc., ma che sono connotati da un significativo valore relazionale, sociale e ria­ bilitativo. In linea generale dunque l'amministrazione di sostegno va considerata la misura di protezione ordinaria. Essa è la più appro­ priata perché può essere costruita come risposta ai bisogni più diversi di ogni persona privata o limitata nell'autonomia e perché costituisce la misura di protezione esclusiva per la maggior parte delle situazio­ ni. Non a caso il Legislatore ha collocato la sua disciplina nel codice civile al primo posto (artt. 404-4 1 3 ) , precedendo l'interdizione e l'inabilitazione (artt. 4 1 4-432) ed ha obbligato i responsabili dei servizi sanitari e sociali, quando ne ricorrono le condizioni, a pro­ porre ricorso o segnalazione per promuoverla (art. 406, comma 3, c.c.) mentre non li ha legittimati al ricorso per l'interdizione o l'inabilitazione ( 1 4) .

(14) L'art. 406 c.c. prevede infatti che il ricorso per l'istituzione dell'amministra­ zione di sostegno possa essere proposto, oltre che "da uno dei soggetti indicati nell'art. 417", dallo stesso soggetto beneficiario - "anche se minore, interdetto o inabilitato" ­ nonché dai "responsabili dei sen>izi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona". Per questi ultimi è sancito inoltre un vero e proprio obbligo di attivarsi presso il giudice tutelare competente (la norma impiega la locuzione: "sono tenuti"), in tutte le ipotesi in cui vengano a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l'apertura del procedimento. Trattasi dunque di un vero obbligo giuridico che potrebbe essere assimilato ed equiparato all'obbligo previsto dall'art. 3 3 1 c.p.p. di denuncia delle notizie di reato acquisite nell'esercizio od a causa delle loro funzioni o del loro servizio dagli incaricati di pubblico servizio.

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220 7 .2.2.

Le indagini tecniche in tema di amministrazione di sostegno.

Circa le indagini psichiatrico forensi che possono essere svolte in questo ambito, l'art. 407 c.c. comma 3 contempla l'ipotesi che il giudice tutelare possa disporre, anche d'ufficio, gli accertamenti di natura medica e tutti gli altri mezzi istruttori utili ai fini della decisione. Il consulente del giudice tutelare dovrà dunque formulare il proprio parere tecnico in merito alla sussistenza dei requisiti sostan­ ziali previsti dall'art. 404 c.c.; a tale scopo si tratterà di accertare non soltanto la natura del pregiudizio lamentato dal periziando (infennità

ovvero menomazione fisica o psichica), ma anche l'estensione delle ricadute (impossibilità anche parziale o temporanea) con cui esso si riflette concretamente e direttamente sul piano della capacità di agire di quello specifico individuo. Si tratta dunque di un impegno peritale nuovo, improntato a specifici criteri di analisi e di valutazione. Il nuovo strumento di tutela sposta il fuoco della valutazione dal piano della "patologia" a quello della "disfunzionalità", da quello del­ la "presunzione-approssimazione" a quello della "osservazione-misu­ razione" rivolto all'accertamento di concrete difficoltà ed impedi­ menti specifici che rendono la persona bisognosa di "sostegno" nel compimento di alcuni atti e non di altri. Il lavoro peritale è dunque teso non più - quanto meno non solo e necessariamente - alla formulazione di una diagnosi comprovante una condizione patologica, bensì al riconoscimento di quelle inade­ guatezze e intralci oggettivamente apprezzabili che riducono l'auto­ nomia della persona rispetto all'espletamento delle funzioni della vita quotidiana. Ciò in maniera indipendente da veri e propri quadri patologici, posto che non può qualificarsi come patologico il naturale - e quindi fisiologico - decadimento psicofisico cui va incontro la persona anziana e che tuttavia comporta un deterioramento, più o meno esteso, delle capacità possedute. Il decreto di nomina, infatti, deve contenere il progetto perso­ nalizzato degli atti che il beneficiario può compiere da solo o con l'assistenza dell'amministratore di sostegno e quelli che invece può compiere solo l'amministratore di sostegno in rappresentanza del­ l'amministrato. Si rende così necessaria un'accurata valutazione, improntata ai crismi della scienza medico legale, delle capacità individuali, che esplori i diversi ambiti del vivere civile (capacità di amministrare e dirigere affari economici, capacità di fare testamento, capacità di fare donazioni, capacità di dare un valido consenso per il matrimonio, per

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22 1

i trattamenti sanitari o per sperimentazioni cliniche, e così via) e che evidenzi e valorizzi le capacità residue. Come è stato già segnalato in Letteratura ( 1 5 ) non si deve più procedere ad una valutazione di mera "patologia" e delle sue caratte­ ristiche di incidenza ed abitualità sulla capacità di agire (valutazione necessariamente di tipo presuntivo/approssimativo segnatamente per quanto riguarda l'abitualità), bensì pervenire ad una valutazione di tipo clinico della disfunzionalità tramite l'osservazione/misurazione degli impedimenti specifici, con l'obiettivo di individuare e ricono­ scere i deficit e gli intralci (psico-fisico-sociali) oggettivamente ap­ prezzabili che incidano, riducendola od abolendola, sull'autonomia della persona nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana in tutte le sfaccettature. La valutazione delle capacità individuali deve esplorare i diversi ambiti del vivere civile delineando intorno alla nuova figura del beneficiario il "taglio esistenziale" auspicato dai fautori della nuova norma. Un modello nuovo che, in definitiva, chiede di non etichettare il paziente secondo un quadro psicopatologico, di non ridurre l'uomo ad un sintomo owero a questa o quella patologia, ma soprattutto invita quegli operatori che sono chiamati a far funzionare la legge, a cercare di capire l'esperienza della persona, nel suo essere-nel-mondo, posto che da esso non vive isolato. Siamo certamente di fronte ad un nuovo impegno per la medicina legale, cui è chiesto di indagare e riconoscere i diversi aspetti di funzionalità e disfunzionalità psichica, fisica e sociale mediante una valutazione di tipo "clinico", tale da consentire al Giudice Tutelare di apprestare una protezione del soggetto "debole" che corrisponda alle effettive esigenze di tutela. L'analisi deve condurre il consulente, di volta in volta, ad individuare gli atti o le categorie di atti la cui esecuzione è preclusa in maniera assoluta, owero resa soltanto difficoltosa per effetto della menomazione o dell'infermità del periziando. È richiesta dunque l'acquisizione di una prospettiva nuova, indirizzata a verificare ciò che concretamente la persona è "in grado di fare" owero a sondare le capacità individuali rispetto ai diversi ambiti del vivere civile, al fine di contribuire alla realizzazione di un progetto di tutela che sia dawero personalizzato e il meno incapaci­ tante possibile. (15) BANDJNI T., ZAcHEO A., Amministrazione di sostegno: un nuovo impegno per la medicina legale, in Riv. /t. Med. Leg. , 2005, l :3.

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Fondamenti di psicopatologia forense

E se l'obiettivo primario della amministrazione di sostegno è quello di garantire - oltre che un'adeguata protezione del non autonomo - le migliori condizioni esistenziali del beneficiario, si conferma l'importanza delle competenze psicologico e psichiatrico forensi non disgiunte da una adeguata conoscenza dei problemi etico sociali e bioetici in particolare, per collaborare con il Giudice Tute­ lare, ben al di là e al di fuori dell'eventuale riconoscimento e inquadramento di patologie nosograficamente riconoscibili, in una visione a tutto tondo, come confermato dall'ampiezza e, insieme, dal carattere personale dei compiti dell'amministratore di sostegno, che spaziano dalla rappresentanza, all'assistenza nel compimento di atti giuridici, alla gestione del patrimonio sino a ricomprendere compiti inerenti al soddisfacimento delle variegate e concrete esigenze di cura del beneficiario: valutazione e scelta della collocazione abitativa, elaborazione per il beneficiario di un progetto di vita, manifestazione del consenso informato per trattamenti medici, per trattamento dei dati personali, promozione della vita di relazione, soddisfazione delle esigenze culturali, di svago, ricreative, ecc. ( 16) . La consulenza tecnica in tema di amministrazione di sostegno, specie nei casi più complessi e controversi, potrà costituire quello strumento tecnico di valutazione, di obiettivazione e di chiarifica­ zione che permetterà a questa nuova legge di tutela delle persone di realizzarsi positivamente, proprio attorno alla (e per la) persona stessa, con il superamento degli errori e dei pregiudizi del passato. Non può inoltre trascurarsi che la capacità della nuova misura di protezione di corrispondere alle esigenze del beneficiario dipende anche dalla scelta dell'amministratore di sostegno ( 1 7) e dalla capacità di quest'ultimo di essere un interprete attento e sensibile delle volontà e delle aspirazioni del beneficiario, un mediatore tra le istanze esistenziali della persona e le sue esigenze di assistenza, un promotore delle capacità e amplificatore delle sue aspirazioni, in grado di potenziare le capacità residuali accompagnandolo nella fitta rete dei servizi assistenziali e dei presidi di supporto ed, eventualmente, attivando gli strumenti adeguati ad accompagnare la persona più debole verso la riconquista di spazi di autonomia e di gestione della propria persona e del proprio patrimonio. Fondamentali appaiono, (16) BANDINI T., PALOMBO G., CIL!BERTI R., Dalla incapacitazione al sostegno della persona non autonoma: approccio etico e nuove aree di confronto della psicopatologia forense, in Rass. It. Crim. , 2007; 1 : 1 88-198. (17) Così come del tutore, laddove la nuova formulazione dell'art. 424 c.c. fa espresso rinvio, nella scelta di tale figura, ai criteri di cui all'art. 408 ovvero alla cura e agli interessi della persona.

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allora, le doti di ascolto, sensibilità e umanità che, a dire il vero, non sempre sembrano conciliarsi con quelle espresse dalla realtà profes­ sionale di uno studio legale ( 18) . 7.2.3.

Interdizione e inabilitazione.

Il Legislatore del 2004 ha ritenuto di tenere in vita le misure dell'interdizione e della inabilitazione, come definite negli artt. 4 1 4 e 4 1 5 c.c., apportando, tuttavia, importanti ritocchi normativi all'art. 4 1 4, che attualmente recita: "Persone che possono essere interdette. Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare La Loro adeguata protezione" ( 1 9) . L'istituto dell'inabilitazione non viene eliminato dal Codice Civile e - a differenza dell'interdizione - non è neppure fatto oggetto di alcuna modifica: Art. 4 1 5 c.c. : "Persone che possono essere inabilitate. Il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo all'interdizione, può essere inabilitato. Possono anche essere inabilitati coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici. Possono infine essere inabilitati il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, se non hanno ricevuto un 'educazione sufficiente, salva l'applicazione dell'art. 414 quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi". La pronuncia da parte del giudice, dell'interdizione o dell'inabi­ litazione di un individuo, comporta differenti e rilevanti conseguenze per l'esercizio dei diritti e delle scelte da parte dell'interessato. Nel caso in cui sia dichiarata l'interdizione, la persona interdetta non può esercitare né le scelte attinenti alla sua "ordinaria ammini­ strazione" (20) né quelle attinenti alla "straordinaria amministra( 1 8) BANDINI T., CILIBERTI R., ZACHEO A., Amministrazione di sostegno, interdizione, inabilitazione: innovazione, continuità e convivenza degli istituti di tutela della persona non autonoma, in Riv. /t. Med. Leg. , 2008, 3:685-70 1 . (19) Così l'art. 4 1 4 c.c. prima della L . 9. 1 .2004, n . 6: "Persone che devono essere interdette. Il maggiore di età e il minore emancipato i quali si trovano in condizione di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, devono essere interdetti". (20) Si tratta degli atti che mirano alla conservazione del patrimonio (manuten­ zione, riparazione, pagamento dei tributi), alla fruttificazione del patrimonio stesso, secondo la sua attuale destinazione, ed alla percezione delle rendite.

2 24

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zione" (2 1): cioè, non può contrarre matrimonio, fare testamento, effettuare donazioni, riconoscere il figlio naturale, stipulare contratti, esprimere un valido consenso ai trattamenti sanitari, incassare crediti o pagare debiti, o esercitare una qualsiasi attività che comporti effetti giuridicamente rilevanti. Il giudice provvede alla nomina di un tutore (22), che individua avendo esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario, che in suo nome provvederà alla gestione del patrimonio e ad ogni altra scelta, e sul quale viene di fatto "trasferita" la capacità di agire del soggetto. Nel caso in cui sia dichiarata l'inabilitazione, la persona può contrarre matrimonio, redigere un testamento e gestire anche sul piano economico la propria vita quotidiana (provvedendo alla cosid­ detta "ordinaria amministrazione"), mentre, per le scelte di carattere "straordinario", deve far riferimento ad un curatore, nominato dal giudice. Soltanto in base al nuovo comma dell'art. 427, comma l , c.c. è consentito all'autorità giudiziaria di stabilire che taluni atti di ordi­ naria amministrazione possano essere compiuti dall'interdetto senza l'intervento ovvero senza l'assistenza del tutore, o che taluni atti eccedenti l'ordinaria amministrazione possano essere compiuti dal­ l'inabilitato senza l'assistenza del curatore. Ulteriori innovazioni riguardano la legittimazione attiva a pro­ porre l'istanza, estesa allo stesso interessato (art. 4 1 7 c.c.) e la scelta del tutore o del curatore, che deve ora seguire gli stessi criteri indicati per l'amministrazione di sostegno (art. 424 c.c.). Il Legislatore ha dunque esteso la disciplina dell'art. 408 c.c. riguardante la "scelta dell'amministrazione di sostegno" agli istituti della tutela e della curatela. Ciò significa che, anche per i soggetti sottoposti ad interdi­ zione o inabilitazione, occorrerà operare la scelta del tutore o del curatore, avendo riguardo "alla cura ed agli interessi" di queste persone. La cura degli interessi personali del disabile viene ora ad assumere un ruolo di primo piano, smentendo l'immagine dell'inter­ dizione e dell'inabilitazione come istituti tesi a perseguire prevalen­ temente scopi di natura patrimoniale. (2 ' ) Tali sono gli atti che modificano o alterano la consistenza di un patrimonio (vendita, donazione, accettazione di eredità, mutui. ecc.). (22) Il terzo comma dell'articolo 424 del codice civile è sostituito dal seguente: "Nella scelta del tutore dell'interdetto e del curatore dell 'inabilitato il giudice tutelare individua di preferenza la persona più idonea all 'incarico tra i soggetti, e con i criteri, indicati nell'articolo 408".

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7 .2.4.

225

La consulenza psichiatrico forense in tema di inter­ dizione e inabilitazione.

Sul piano concreto, è prassi abituale che l'esame esperito dal giudice sia seguito da una consulenza tecnica d'ufficio, diretta ad accertare la sussistenza, o meno, dei requisiti di cui agli artt. 4 1 4 e 4 1 5 c.c . . Gli adempimenti relativi agli accertamenti da eseguire sono previsti all'art. 429 c.c. (Mezzi istruttori e provvedimenti provvisori): "Non si può pronunziare l'interdizione o l'inabilitazione senza che sz sw proceduto all'esame dell'interdicendo o dell'inabilitando. Il giudice può in questo esame farsi assistere da un consulente tecnico. Può anche d'ufficio disporre i mezzi istruttori utili ai fini del giudizio, interrogare i parenti prossimi dell'interdicendo o inabilitando e assumere le necessarie informazioni . . . " . Il quesito che viene posto al C.T. V. fa riferimento alle specifiche fattispecie previste dagli articoli sopraccitati ed in genere è così strutturato: "Dica il C. T. U., esaminati gli atti di causa e compiuto ogni opportuno accertamento, se il periziando sia affetto da una infermità di mente abituale ed, in caso affermativo, se tale infermità lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, ovvero, nel caso in cui non sia tanto grave da dar luogo all'interdizione, possa integrare i requisiti necessari ad una inabilitazione". Dal punto di vista applicativo, i l consulente tecnico deve far riferimento a tre presupposti di base: l ) la sussistenza di una condizione di infermità di mente; 2) il carattere di abitualità della stessa; 3) la conseguente incapacità del soggetto, totale o parziale, di provvedere ai propri interessi. Il primo fondamentale requisito da esaminare è quindi quello relativo alla cosiddetta "infermità di mente". L'impiego di tale termine fa comprendere come il Legislatore abbia adottato una nozione più specifica e limitativa rispetto all'am­ pia formula della "infermità che incide sullo stato di mente", come contemplato in sede penale per ciò che riguarda il "vizio totale o parziale di mente" (artt. 88 e 89 c.p.). D'altra parte la giurisprudenza in materia ha rilevato che tale nozione non è sovrapponibile a quella di una "tipica malattia men­ tale". Le interpretazioni giurisprudenziali di tale nozione fanno infatti riferimento non solo a disturbi di carattere prettamente psicopatolo-

226

Fondamenti di psicopatologia forense

gico, ma anche a condizioni di alterazione della personalità e del carattere, che, per le loro conseguenze sul comportamento e sulla capacità di comprensione e di autodeterminazione dell'individuo, possono acquistare valore di malattia, per il grado di alterazione dei processi logici e volitivi, che da essi deriva (2 3 ) . Il valore di "infermità di mente" può essere attribuito anche a fenomeni clinici che non siano tali da abolire le risorse relazionali e comportamentali del paziente, ma che siano comunque tali da influire pesantemente sulle stesse, rendendo in ogni caso il soggetto incapace di prowedere ai propri interessi (24). Il secondo requisito da esaminare, nel caso in cui sussista una condizione di "infermità di mente", è quello della abitualità della stessa. È cioè necessario che l'infermità di mente sia duratura e non suscettibile di risoluzione in breve arco di tempo, anche se non è indispensabile che la stessa sia inemendabile o irreversibile (25). Con tale nozione si vuol affermare che i disturbi patologici devono essere prevalenti nella vita psichica e relazionale del soggetto, anche se discontinui e cioè non continuativamente presenti. Si fa in particolar modo riferimento ai disordini ciclici (psicosi, disturbi bipolari), connotati dalla alternanza di "intervalli lucidi" e di episodi patologici. In tali casi l'infermità di mente è ritenuta abituale poiché, nonostante l'interruzione della continuità patologica, resta comunque costante il rischio di scelte incongrue derivanti dall'improwiso ma prevedibile riproporsi della patologia comunque in atto (2 6) . L'infermità, per essere qualificata come abituale, deve pertanto mantenere caratteristiche di persistenza e di estensione nel tempo, anche senza essere necessariamente costante o inguaribile (27), come d'altronde comprensibile attraverso la previsione di futura revoca della interdizione o della inabilitazione (art. 429 c.c.). ( 23 ) Cass. civ., 1 5 marzo 1 943, n. 6 1 3 , in Rep. Foro it. , 1 943, voce Inabilitazione e interdizione; Cass. civ., 19 giugno 1 962, n. 1 573, in Rep. Foro it., 1 962, voce Inabilita­ zione e interdizione. ( 24 ) LAGAZZI M., Il contributo della psichiatria forense alla tutela dei diritti del sofferente psichico, BANDINI T. e Coli., op. cit. . (25 ) Cass. civ., 1 9 giugno 1 962, n . 1 579; i n dottrina v., per tutti, ScARDULLA F., Interdizione (dir. civ.), in Enc. dir. , XXI , Milano, 1 97 1 . (26) Trib. Milano, 1 7 maggio 1 95 1 , i n Rep. Foro it., 1 95 1 , voce Inabilitazione e interdizione; DEGNI F., Le persone fisiche e i diritti della personalità, in VAsSALLI F. (a cura di), Trattato di Diritto Civile, Utet, Torino, 1 939. (27 ) ScmzzEROTTo G., Interdizione e inabilitazione nella giurisprudenza, in Racc. sist. giur. comm. , Rotondi, Padova, 1 972.

Il contributo psicologico forense nel processo civile

227

Il terzo elemento in esame è quello della incidenza sulla capacità del soggetto di provvedere ai propri interessi. Sulla nozione di "interessi" l'interpretazione prevalente vorrebbe che il giudice, nel valutare se una persona sia incapace o meno di provvedere ai propri interessi, avesse riguardo non soltanto agli affari di indole economica e patrimoniale, ma a tutti gli atti della vita civile, nelle loro espressioni giuridicamente rilevanti, quali la cura della persona, l'adempimento di doveri familiari e pubblici, ecc. (28 ) . Ciononostante, la massima parte della giurisprudenza in mate­ ria mostra di attribuire rilevanza predominante proprio agli interessi patrimoniali dell'incapace. Si ritiene, infatti, che per legittimare la pronuncia di interdizione sia necessario e sufficiente l'accertamento di un pericolo attuale di atti pregiudizievoli al patrimonio dell'inter­ dicendo, anche se non occorre la prova che il pregiudizio si sia già verificato (29). Questo indirizzo trova ulteriore conferma nel fatto che la capacità di un soggetto di attendere ai propri interessi non si commisura in astratto, ma in concreto, ossia facendo sostanzialmente riferimento alla natura e all'entità degli interessi patrimoniali affidati alla sua disposizione e alla sua gestione (3°). Ciò richiede una valutazione di tipo comparativo tra la gravità dell'infermità di mente e la rilevanza degli interessi economici o morali da amministrare. È infatti chiaro che per l'amministrazione di interessi molto rilevanti o complessi occorrono capacità ben maggiori di quelle necessarie per l'amministrazione di interessi modesti, come quelli ad esempio legati alla gestione di una piccola pensione da parte di una persona anziana, priva di beni di rilevante valore (31). La verifica di tali elementi richiede che il consulente entri direttamente "all'interno" della vicenda giudiziaria, dedicando una particolare attenzione alla dimensione economica della stessa, così come indicato dalla documentazione presente negli atti di causa. In tal senso, massima prudenza deve essere impiegata nella (28) Cass. civ., 7 ottobre 1 954, n. 3385, in Rep. Foro it. , 1 954, voce Inabilitazione e interdizione; Cass. civ., 7 aprile 1 972, n. 1 037, in Rep. Giust. civ. , 1 972, voce Interdizione e inabilitazione. (29) PRoTETTI E., PRoTETTI C.A., Patria potestà. Tutela ed emancipazione. Minori. Interdizione e inabilitazione. Alimenti. Atti dello stato civile, in DE MARTINO V. (a cura di), Commentario teorico-pratico al Codice civile, Novara, Roma, 1 974. (30) Cass. civ., 20 aprile 1 942, n. 1 083, in Rep. Foro it. , 1 942, voce Inabilitazione e interdizione, cit., 7 1 2. (3 1 ) Sul punto FRANCHINI A.: "quando gli interessi sono semplici, un deterioramento mentale dovrà essere enorme, mentre, per interessi rilevanti e complessi, si potrà giungere all'interdizione, anche sulla base dell'accertamento di una abituale infermità di mente di grado più modesto", 1 985, op. cit. .

Fondamenti di psicopatologia forense

228

valutazione degli aspetti che, come la descrizione della personalità del periziando, della sua capacità di curare i propri interessi econoillici, o delle sue motivazioni morali e relazionali, risultano in ampia misura estranei alla stretta rilevanza psicopatologica, e che, proprio in rapporto alla loro indeterminatezza e soggettività, possono indurre deduzioni arbitrarie, e scientificamente indimostrate, nei confronti dell'interessato. Nei casi di inabilitazione, oltre agli elementi citati, il consulente deve tener conto che l'art. 4 1 5 c.c. fa riferimento non solo a coloro che presentano una infermità di mente, il cui stato non è talmente grave da dar luogo alla interdizione, ma anche a coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, espon­ gono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici ed a coloro che, essendo sordomuti o ciechi dalla nascita o dalla prima infanzia, non abbiano ricevuto una educazione sufficiente. In questa norma non viene specificamente ricordato il requisito della abitualità per l'infermità di mente, che comunque deve essere tale da alterare profondamente la capacità di agire, tanto da ridurla grandemente, a tal punto da consentire alla persona di provvedere soltanto a quegli atti che non eccedono l'ordinaria amministrazione dei propri beni. Per quanto concerne il requisito della prodigalità, gravemente pregiudizievole a sé ed alla propria famiglia, occorre ricordare che la giurisprudenza ha più volte affermato che "l'esatta nozione giuridica della prodigalità quale causa che legittima l'inabilitazione non consiste nella cattiva amministrazione del proprio patrimonio o nella mancata previsione degli effetti dannosi che si siano verificati a seguito di affari male imposti o erroneamente trattati ancorché per colpa dell'interessato. Essa si concreta, invece, in una abitudine di spendere in modo disordi­ nato e smisurato non confacente con le proprie condizioni patrimoniali ed economiche, così da denotare una anomalia o alterazione psichica, che abolisca o riduca notevolmente le capacità di valutazione del denaro, nonché del pregiudizio economico che consegue allo sperpero o dissipazione delle proprie sostanze" (32) . In questa prospettiva la prodigalità, per poter essere considerata tale da determinare una pronuncia di inabilitazione, deve essere considerata alla stregua di un vero e proprio sintomo di alterazione mentale, che rappresenti realmente un concreto rischio di pregiudizio economico. Analogamente, la legge fa esplicito ed espresso riferimento al (32)

Cass. civ., 13 marzo 1 980, n. 1 680; Cass. civ., 10 febbraio 1 968, n. 428.

Il contributo psicologico forense nel processo civile

229

"grave pregiudizio economico a cui l'inabilitato espone se stesso o la propria famiglia" con riguardo alla inabilitazione per il soggetto che abitualmente abusa di bevande alcooliche ovvero di stupefacenti. Nell'applicazione di tale concetto estensivo di infermità mentale sono ricompresi il cieco o il sordomuto dalla nascita che non abbiano ricevuto una educazione sufficiente. Anche in questi casi, peraltro, si deve comunque dimostrare la presenza di un quadro di ipoevolutismo psichico tale da impedire al soggetto di poter compiere atti che eccedono la semplice amministrazione dei propri beni. Alla luce della recente riforma della materia, il futuro dell'inda­ gine peritale in tema di "interdizione-inabilitazione" sembra comun­ que destinato a parziali modifiche ed integrazioni. Con l'introduzione dell'amministrazione di sostegno, l'interdi­ zione cessa infatti di essere il rimedio necessario e vincolante per le ipotesi di totale e perdurante incapacità di agire e diventa una soluzione meramente residuale e sussidiaria, limitata a quei casi nei quali non possa essere fornita un'adeguata protezione con l'istituto di nuovo conio, mentre l'inabilitazione viene pressoché riassorbita dalla nuova norma. In particolare, le nuove indagini peritali dovranno esprimersi anche su questioni relative alla idoneità della misura dell'interdizione ad assicurare l'adeguata protezione dell'interdicendo in risposta al requisito sostanziale contenuto nella disciplina: "sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione". In mancanza di tale ultimo requisito, dunque, l'incapace psi­ chico totale e permanente non potrà essere interdetto. Il tenore letterale dell'articolo lascia intendere che quando la protezione dell'infermo di mente può essere garantita con misure più appropriate, il giudice non deve, in alcun modo, disporre l'interdi­ zione. In altri termini, il giudice deve compiere una previa valutazione sull'adeguatezza e la proporzione della misura rispetto ai bisogni di tutela del soggetto. Le modifiche apportate all'art. 4 1 4 c.c. instaurano un nuovo sistema di concorrenza tra le due misure, all'interno del quale l'interdizione diventa uno strumento sussidiario rispetto ad altre alternative" (33). Il criterio preferenziale per misure diverse dall'interdizione è (33) PESCARA R., in CIAN G., TRABuccm A. (a cura di), Commentario breve al codice civile, Cedam, Padova, 2004, p. 474; CAMPEsE G., L'istituzione dell'amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, in Fam. dir. , 2004; 1 : 1 28; MoNSERRAT PAPPALETTERE E., Amministrazione di sostegno: la giurisdizione al servizio dei soggetti più svantaggiati, Giur. Merito, 2005, 5 : 1 054.

Fondamenti di psicopatologia forense

230

reso esplicito dall'art. l della legge n. 6 del2004, quando stabilisce che la tutela deve attuarsi "con la minore limitazione possibile della

capacità di agire". La Corte Costituzionale è stata chiamata ad esprimersi

(34) sulla

costituzionalità dell'esistenza nell'ordinamento di misure concor­ renti, prive di indici di selezione: il giudice che ha sollevato la questione di legittimità ha rilevato che l'amministrazione di sostegno, interdizione ed inabilitazione sono istituti sovrapponibili, in ragione dell'estesa sfera di azione del nuovo istituto, applicabile anche alla persona totalmente e permanentemente incapace, e che, per tale motivo, la discrezionalità del giudice nella scelta della misura sembra essere troppo ampia. La Consulta ha dichiarato infondata tale considerazione, affer­ mando che l'ambito applicativo dell'interdizione è assolutamente residuale, trattandosi di una misura più invasiva ed incapacitante, da utilizzare, ai sensi dell'art. 414 c.c., solo quando ciò sia necessario per assicurare alla persona una protezione adeguata. Secondo la Corte, la chiave di lettura e di coordinamento dell'in­ tera disciplina è l'adeguatezza, concetto elastico cui è affidato il ruolo di criterio di selezione della misura più idonea nel caso concreto

(35).

Nell'attuale panorama normativa, quindi, gli spazi per l'interdi­ zione sono limitati, dovendo il giudice preferire la misura che mira a sostenere ed a promuovere l'individuo e non quella che lo diminuisce e tende ad escluderlo ulteriormente dal contesto sociale. Si potrà certamente fare ricorso all'interdizione,

ma solo

quando le altre misure si rivelino in concreto inadeguate alle esigenze dell'infermo. Il Tribunale di Modena, con ordinanza collegiale dellS novem­ bre 2004, interpellato circa lo spazio residuale che sembrerebbe essere stato riservato dal Legislatore alla interdizione, chiarisce che "a seguito dell'entrata in vigore della legge 9 gennaio 2004, n. 6, che ha introdotto la figura dell'amministratore di sostegno, l'interdizione non "deve" più essere pronunciata nei confronti della persona inferma di mente (come disponeva il vecchio testo dell'art. 414 c.c.); perché tale pronuncia, nel mutato quadro normativa, è divenuta facoltativa e va adottata da parte del giudice solo quando ciò è necessario per assicurare l' adeguata protezione dell'infermo di mente". Del medesimo parere sembra essere la pronuncia

(36) che

(34) Corte cost., 9 dicembre 2005, n. 440. (35) BALESTRA L., Sugli arcani confini tra amministrazione di sostegno ed interdizione, in Familia, 2006, 2:366-376. (36)

Trib. Genova, 13 settembre 2005.

Il contribu to psicologico foren s e nel processo civile

23 1

accoglie la domanda di interdizione di persona affetta da "encefalo­ patia postanossica" soltanto dopo aver valutato l'attitudine del prov­ vedimento di interdizione a garantire una tutela migliore del disabile, tenuto conto degli "aspetti esistenziali oltre che di quelli strettamente medici" ed in particolare "dell'entità e della tipologia del patrimonio da amministrare nonché della possibile presenza di conflitti di interesse in ambito familiare . . . quando . . . l'interessato non sia in alcun modo in grado di far valere il proprio punto di vista, tra i familiari più vicini esistano contrasti sui criteri di assistenza del beneficiario, ed inoltre le caratteristiche della situazione patrimoniale (risorse e spese correnti) non consentano di individuare criteri sufficientemente indiscutibili di gestione", la "combinazione tra problematiche oggettive e soggettive" può orientare la scelta del giudice verso l'interdizione piuttosto che verso l'amministrazione di sostegno. La Corte di Cassazione (37), per la prima volta chiamata ad esprimersi in materia, ha concordato su tale conclusione: lo stru­ mento dell'interdizione "ha comunque carattere residuale, intendendo il Legislatore riservarlo, in considerazione della gravità degli effetti che da esso derivano, a quelle ipotesi in cui nessuna efficacia protettiva sortirebbe una diversa misura". In modo ancor più chiaro la Corte Suprema ha recentemente sancito che "Nel giudizio di interdizione il giudice di merito, nel valutare se ricorrono le condizioni per applicare l'a mministrazione di sostegno, rimettendo gli atti al giudice tutelare, deve considerare che rispetto all'interdizione e all'inabilitazione l'ambito di applicazione dell'ammini­ strazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ad alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa, ben potendo il giudice tutelare graduare i limiti alla sfera negoziate del beneficiario dell'amministrazione di sostegno a mente dell'art. 405 c.c., comma 5, nn. 3 e 4, in modo da evitare che quesli possa essere esposto al rischio di compiere un'attività negoziate per sé pregiudizievole" (38). Risalta in questo senso la piena coerenza della base concettuale dell'amministrazione di sostegno con la valorizzazione del principio etico rivolto a promuovere l'autonomia morale della persona biso­ gnosa (39) . (37) (38) (39)

Cass. civ., sez. I, 12 giugno 2006, n. 1 3 5 84. Cass. civ., sez. I, 22 aprile 2009, n. 9628 BANDINI T, CILIBERTI R, ZACHEO A., op. cit. .

232

Fondamenti di psicopatologia forense

Ne sono testimonianza le norme che offrono al beneficiario la partecipazione al provvedimento (audizione obbligatoria), l'obbligo di tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario, l'infor­ mazione degli atti da compiere (art. 4 1 0 c.c.). La volontà del benefi­ ciario non è, cioè, svilita pregiudizialmente in ogni ambito della vita civile, con limitazioni che spesso, nella situazione concreta, mortifi­ cano inutilmente l'incapace nella rete dei suoi rapporti sociali e si spiegano unicamente con la standardizzazione del trattamento giuri­ dico degli interdetti (4°) . Tale orientamento è stato confermato anche dalla Corte Costi­ tuzionale nella recente ordinanza n. 4 del 2007 che sottolinea il diritto dell'interessato di essere sentito e di esprimere anche il proprio dissenso in ordine all'amministrazione (4 1 ) . In linea generale, dunque, l'amministrazione di sostegno è considerata la misura di protezione ordinaria. L'interpretazione proposta è in linea con il rispetto dei diritti fondamentali che impone di evitare inutili compressioni della libertà e della capacità della persona. Questo principio di salvaguardia è implicitamente contenuto dall'art. l della legge n. 6 del 2004, in cui si precisa che la finalità della legge è quella di tutelare, con la minor limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, attraverso interventi di sostegno temporaneo o perma­ nente. L'applicazione di tali canoni comporta che chi è in coma o è affetto da una grave patologia degenerativa, come demenza o morbo di Alzheimer, ed è perciò privo della concreta possibilità d'interagire con il mondo esterno, non ha nessun bisogno di essere "segregato" con l'interdizione per essere protetto in modo efficace perché, in un certo senso, "è la malattia stessa che lo protegge" (42 ) . La nuova normativa mette, inoltre, in evidenza la fluida possi(40) BuGETTI M.N., Nota a Trib. Bologna l agosto 2005, Famiglia e Diritto, 2006; 1 :56-62. (41 ) "l'art. 407 del c.c, nel disciplinare il procedimento per l'istituzione dell'ammi­ nistrazione di sostegno, prevede espressamente che il giudice tutelare deve sentire personalmente la persona cui il procedimento si riferisce e deve tenere conto compati­ bilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa » (. . . ) che tale dato normativa (. . . ) non esclude, ma anzi chiaramente attribuisce al giudice, anche il potere di non procedere alla nomina dell'amministratore di sostegno in presenza del dissenso dell'interessato, ave l'autorità giudiziaria, nell'ambito della discrezionalità riconosciuta/e (. . . ), ritenga detto dissenso (. . . ) giustificato e preva­ lente su ogni altra diversa considerazione". (42) MoNTSERRAT PAPPELETTERE E., op. cit. . «

Il contributo psicologico fo rense nel processo civile

233

bilità di passare d a un istituto all'altro, qualora risultasse evidente che una misura potrebbe essere più utile rispetto all'altra. Il passaggio può avvenire sia dall'interdizione all'amministrazione, sia nel senso di degradare l'amministrazione di sostegno ad interdizione. Come afferma Martinelli (43), il risultato delle innovazioni ap­ portate dalla legge n. 6 del 2004 ci appare oggi, come "una sorta di arcobaleno, nel quale si passa da una forma di sostegno ad un 'altra con una varietà di combinazioni che mette seriamente in dubbio la confi­ gurabilità di confini netti tra interdizione, inabilitazione e amministra­ zione di sostegno intese come categorie sostanziali distinte". Non è più sufficiente per il C.T.U. e per il giudice rinvenire nel soggetto debole un'infermità di carattere abituale, limitativa in asso­ luto della sua capacità di intendere o di volere, al fine di farne conseguire la sua interdizione, ma occorre altresì accertare, in con­ creto, che tale misura sia quella maggiormente idonea al fine di assicurare la più adeguata protezione dell'infermo. Occorre ancora che il C.T.U., alla luce della recente riforma, si esprima in ordine alla fattispecie prevista dall'art. 427, comma l , c.c., individuando cioè le eventuali abilità residue e gli spazi di autonomia conservati dal periziando (44). Tale previsione sembra indicare con chiarezza che il Legislatore ha abbandonato la politica delle misure rigide per i disabili, optando per provvedimenti graduati sulla effettiva disabilità, i quali non comportano più un'incapacità di tipo assoluto. Anche i poteri di rappresentanza del tutore e del curatore non hanno più portata generale, potendo il giudice individuare singoli atti o categorie di atti che l'interdetto e l'inabilitato possono compiere personalmente. L'intenzione del Legislatore è stata quella di "alleggerire il pesante carico di preclusioni che grava, da sempre, sulle spalle dell'in­ terdetto e dell'inabilitato", formulando una normativa che "costituisce un tentativo teso ad evitare un totale isolamento dalla vita quotidiana dei soggetti meno fortunati" (45) . Anche i tecnici che sono chiamati a valutare tali situazioni devono tener conto del primario intento della (43) MARTINELLI P., Interdizione e amministrazione di sostegno, in FERRANDO G. (a cura di), Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, Giuffrè, Milano, 2005. (44) Art. 427, comma l, c.c.: "Nella sentenza che pronuncia l'interdizione o l'inabilitazione, o in successivi provvedimenti dell'autorità giudiziaria, può stabilirsi che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall'interdetto senza l'intervento ovvero con l'assistenza del tutore, o che taluni atti eccedenti l'ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall'inabilitato senza l'assistenza del curatore". (45) MALAVASI B., L'amministratore di sostegno: le linee di fondo, in Notariato, 2004; 2:319.

Fondamenti di psicopatologia forense

234

legge di graduare e di rendere il più possibile flessibile ogni intervento diretto ad escludere o limitare la capacità delle persone.

7.3.

L'incapacità naturale. Al di fuori delle situazioni di incapacità di agire, che derivano

dalla minore età o da un provvedimento di interdizione, è previsto che ogni cittadino, sebbene teoricamente capace, possa trovarsi in situa­ zioni di transitoria incapacità a comprendere il valore e le conse­ guenze di un atto giuridico. In questi casi si pone la specifica esigenza di tutelare la persona dai danni derivanti dall'atto realizzato. Questa tutela viene garantita dall'art. 428 c.c. (Atti compiuti da persona incapace di intendere o di volere), che prevede che: "Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all'autore. L'annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d'intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell'altro contraente. L'azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui l'atto o il contratto è stato compiuto ...". Si tratta, quindi, di una condizione di incapacità "naturale", la cui sussistenza deve essere riferita al momento della stipula dell'atto e le cui determinanti sono estremamente più ampie di quelle previste dall'art. 414 c.c.. Il dettato dell'art. 428 c.c., infatti, fa riferimento a "qualsiasi" causa, anche transitoria, presente al momento del fatto e tale di rendere il soggetto incapace di intendere o di volere. L'atto compiuto non è comunque automaticamente annullabile, ma è richiesta la dimostrazione del "grave pregiudizio" all'autore ovvero, nel caso dei contratti, della "malafede dell'altro contraente". È importante ricordare che il pregiudizio previsto dal primo comma dell'art. 428 c.c. non ha un contenuto esclusivamente patri­ moniale, ma è comprensivo di tutti gli effetti negativi derivanti dall'atto compiuto sull'intera sfera di interessi del soggetto ( 46 ) . In tale ambito il quesito cui il consulente deve rispondere solitamente è così strutturato: (46)

Cass. civ., sez. lav., 4 marzo 1986,

n.

1375.

Il contributo psicologico forense nel processo civile

235

"Dica il C. T. U., esaminati gli atti di causa e compiuto ogni opportuno accertamento se al momento in cui l'atto è stato compiuto il periziando fosse, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere o di volere". Circa le nozioni di "qualsiasi causa" e di "incapacità di intendere o di volere", è fondamentale sottolineare che la giurisprudenza ha precisato come "non è necessaria una malattia che annulli in modo assoluto le facoltà psichiche del soggetto, essendo sufficiente un turba­ mento psichico risalente al momento della conclusione del negozio tale da menomare gravemente, anche senza escluderle, le facoltà volitive ed intellettive, che devono risultare diminuite in modo da impedire o ostacolare una seria valutazione dell'atto o la formazione di una volontà cosciente" (47). D'altro canto, per limitare il rilievo dei c.d. stati emotivi o passionali, la stessa giurisprudenza ha ritenuto che "l'incapacità di intendere e di volere, prevista nell'art. 428 c.c . . . . consiste nella transi­ toria impossibilità di rendersi conto del contenuto e degli effetti dell'atto giuridico che si compie e non può essere data da dispiaceri anche gravi, quale ad esempio la consapevolezza di una malattia propria, o di un prossimo familiare, salvo che essa abbia cagionato una patologica alterazione mentale" (48). Da un punto di vista applicativo, dunque, si tratta di un'indagine particolarmente delicata, poiché richiede, in ogni caso, un accerta­ mento di carattere retrospettivo, nel quale il consulente deve giungere a ricostruire la condizione clinica del periziando in un momento specifico e spesso lontano nel tempo, identificando una situazione anche "transitoria" derivante da "qualsiasi causa" e pertanto non necessariamente dipendente da malattie o infermità di mente, ma di gravità tale da escludere o menomare gravemente, anche senza escluderle, le capacità di intendere o di volere del soggetto. È chiaro, pertanto, che in tale tipo di indagine il momento clinico-diagnostico deve essere molto allargato, comprendendo ogni possibile situazione che può compromettere le capacità psichiche di un soggetto in un determinato momento, sempre che risulti che tali facoltà fossero perturbate al punto da impedire al soggetto una seria valutazione del contenuto e degli effetti dell'atto, e quindi il formarsi di una volontà cosciente. La difficoltà di raggiungere una valutazione di questo tipo è ulteriormente incrementata nei casi in cui, al momento delle indagini, il soggetto da esaminare presenti condizioni psichiche che non (47) ( 48)

Cass. civ., sez. II, 26 maggio 2000, n. 6999. Cass. civ., sez. II, 28 marzo 2002, n. 4539.

Fondamenti di psicopatologia forense

236

esistevano al momento dell'atto, ovvero sia deceduto, rendendo ne­ cessaria un'indagine unicamente "storica", sulla base delle risultanze documentali. A tal proposito, è importante ricordare che, secondo la giuri­

sprudenza, "Accertata la totale incapacità di un soggetto in due deter­

minati periodi, prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussi­ stenza dell'incapacità è assistita da presunzione iuris tantum, sicché, in concreto, si verifica l'inversione dell'onere della prova nel senso che, in siffatta ipotesi, deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo" ( 49 ) . In altre parole, la prova dell'incapacità non deve essere neces­ sariamente riferita alla situazione esistente al momento in cui l'atto impugnato venne posto in essere, essendo possibile cogliere tale situazione da un quadro generale anteriore e posteriore al momento della redazione dell'atto stesso, potendo il giudice trarre da circo­ stanze note, guenti

7.4.

mediante prova

logica,

elementi

probatori conse­

(5°).

L'incapacità di disporre per testamento.

L'art 587 c.c. definisce il testamento come "un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse ... ". Secondo la legge italiana il testamento, nelle sue forme ordina­ rie, può essere olografo (scritto per intero, datato e sottoscritto di mano del testatore) o per atto di notaio (in forma pubblica o segreta). L'art. 591 c.c. fornisce specifiche indicazioni in merito alle condizioni di incapacità a testare:

"Possono disporre per testamento tutti coloro che non sono dichiarati incapaci dalla legge. Sono incapaci di testare:

l) coloro che non hanno compiuto la maggiore età; 2) gli interdetti per infermità di mente; 3) quelli che, sebbene non interdetti si provi essere stati, per qualsiasi causa anche transitoria, incapaci di intendere o di volere nel momento in cui fecero testamento ...". Tale norma precisa, in primo luogo, che la capacità di disporre per testamento è prevista per tutti i maggiorenni non interdetti, salvo dimostrazione contraria.

(49) (5°)

Ibidem. Cass. civ.,sez. I, 6 agosto 1990,n. 7914.

Il contributo psicologico forense nel processo c ivile

237

D a u n punto d i vista psichiatrico forense tale dimostrazione è collegata al riconoscimento di una condizione di "incapacità di intendere o di volere" al momento della stesura dell'atto. Il quesito che viene posto al consulente tecnico nel procedi­ mento diretto ad annullare un testamento risulta sostanzialmente sovrapponibile a quello già citato in tema di "incapacità naturale" ex art. 428 c.c., poiché anche in questo caso si tratta di verificare se la persona fosse, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d'in­ tendere o di volere, al momento dell'atto testamentario. Tuttavia, a differenza di quanto ricordato in relazione all'art. 428 c.c., "l'incapacità del disponente che, ai sensi dell'art. 591 c.c. determina l'invalidità del testamento non si identifìca in una generica alterazione del normale processo di formazione ed estrinsecazione della volontà, ma richiede che, a causa dell'infermità, al momento della redazione del testamento il soggetto sia assolutamente privo della coscienza del signifìcato dei propri atti e della capacità di autodetermi­ narsi così da versare in condizioni analoghe a quelle che, con il concorso dell'abitualità, legittimano la pronuncia di interdizione" (5 1 ). Dal punto di vista applicativo--è possibile riconfermare quanto già enunciato circa la consulenza tecnica ex art. 428 c.c., in merito alle difficoltà proprie di un'indagine storica, diretta all'accertamento di una condizione di incapacità, anche momentanea ed anche indipen­ dente da cause psicopatologiche. D'altro canto, è importante evidenziare che per l'accertamento di un'eventuale incapacità a testare è necessaria l'obiettiva dimostra­ zione di una condizione psichica che al momento dell'atto fosse tale da annullare completamente quelle complesse risorse e competenze che un adulto possiede nell'esercizio della scelta testamentaria. In particolare, è necessario verificare se il testatore fosse capace di intendere il valore economico dell'atto, di valutare le conseguenze morali e giuridiche dello stesso, di esprimere una scelta libera e coerente con le proprie motivazioni e le proprie valenze affettive, e di determinarsi autonomamente, in modo indipendente dalle eventuali pressioni di terzi. Al riguardo è necessaria non una semplice anomalia o altera­ zione delle facoltà psichiche ed intellettive del "de cuius" (5 2) , bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo (51) Cass. civ., sez. II, 29 ottobre 2008, n. 26002. (52) Tale termine è un'ellissi della locuzione latina "is de cuius hereditate agitur" che significa "colui della cui eredità si tratta".

Fondamenti di psicopatologia forense

238

assoluto, al momento della redazione del testamento, della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi (53 ) . A tale fine è innanzitutto indispensabile ricostruire nel modo più preciso possibile le condizioni cliniche della persona al momento dell'atto. Ciò richiede non solo lo studio di eventuali documenti sanitari antecedenti o conseguenti all'atto (con particolare attenzione ad elementi di carattere psicopatologico od a condizioni di alterazione della coscienza, della memoria, dell'orientamento), ma anche la verifica della situazione relazionale e comportamentale del soggetto, tenuto conto della sua realtà familiare, della eventuale conflittualità, della modifica delle scelte amicali ed affettive nel periodo antecedente all'atto, nonché di ogni possibile incoerenza tra gli atteggiamenti mantenuti in quel periodo e quelli precedenti e successivi. Tali informazioni potranno essere dedotte dall'attento esame di eventuali documenti clinici, dalle testimonianze presenti in atti e se necessario, dalla diretta audizione di medici, congiunti o altri testi­ moni (previa autorizzazione del giudice). In alcuni casi potranno essere utilizzati i dati anatomopatologici derivanti dalla eventuale autopsia del testatore, allorquando questi dati siano dimostrativi di malattie somatiche che possano aver inciso sulle condizioni psichiche del soggetto. Particolari difficoltà si incontrano nei casi in cui un testamento sia stato redatto nell'immediata antecedenza del decesso, per cause patologiche comuni o per suicidio. A proposito del testamento del moribondo o del suicida si deve ricordare che l'imminenza del decesso o la scelta suicidiaria non rappresentano un'automatica dimostrazione di incapacità, poiché è noto che un individuo può rimanere del tutto lucido e consapevole fino al momento della morte o della realizzazione del suicidio. Le disposizioni testamentarie che vengono espresse in questi particolari momenti sono in genere il frutto di lunghe meditazioni, effettuate in periodi precedenti e coerenti con le profonde motivazioni e le scelte di vita della persona. Anche in questi casi, pertanto, il consulente non deve trarre alcuna deduzione di carattere aprioristico circa l'incapacità della persona, ma deve valutare e dimostrare caso per caso le specifiche condizioni del testatore. In tutti i casi, e soprattutto in quelli in cui siano stati realizzati diversi testamenti in periodi differenziati, si deve prestare particolare (53)

Cass. civ., sez. II, 6 maggio 2005, n. 9508.

Il con tributo psicologico forense nel processo civile

239

attenzione alla coerenza tra la singola scelta testamentaria e le scelte affettive, morali e relazionali che la persona ha espresso nel corso della sua intera vita. In tale contesto assume particolare importanza lo studio del materiale documentale disponibile, specie relativo a scritti , corrispon­ denza e diari personali del testatore. Grande attenzione deve essere dedicata anche agli stessi atti testamentari, specie nei casi di testamenti olografi, nei quali si potranno verificare sia la globale coerenza e logicità dei contenuti, sia la "appartenenza" delle espressioni utilizzate all'abituale stile espres­ sivo della persona, sia la grafia e la composizione delle frasi, con l'obiettivo di riconoscere eventuali condizioni patologiche, tali da impoverire o comunque alterare il patrimonio psichico dell'individuo. L'eventuale riconoscimento di patologie, anche psichiche, non è comunque sufficiente per affermare la nullità dell'atto, in quanto la capacità d'intendere o di volere può essere mantenuta anche nel contesto di condizioni mentali alterate. Si pensi, al proposito, che la stessa legge prevede che l'inabilitato possa anche testare. Come afferma Franchini, "dal punto di vista medico legale non sarà sufficiente ricostruire uno stato generico di non sanità di mente, o anche di vera e propria infermità, per considerare nullo un testamento. Anche in questi casi sarà necessario applicare il metodo induttivo per valutare la condotta dell'individuo, i fatti concreti della sua vita ed in particolare il rapporto tra le sue condizioni mentali e la più o meno logica motivazione dell'atto testamentario" ( 54) . Affrontando queste indagini il consulente deve sempre essere consapevole che la regola è costituita dalla validità dell'atto testamen­ tario, che la legge riconosce come un atto piuttosto semplice e tale da non richiedere complesse capacità psichiche, e che, di conseguenza, ogni eventuale dichiarazione di nullità dovrà essere fondatamente dimostrata e accuratamente motivata. E poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l'eccezione, come già sottolineato, spetta a colui che impugna il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso spetta a chi vuole avvalersi del testamento dimostrare che esso fu redatto in un momento di lucido intervallo (55). Analoghe procedure valutative devono essere applicate nel caso in cui si tratti non tanto di un testamento, ma di un atto di donazione (54) (5 5)

FRANCHINI A., op. cit. . Cass. civ., sez. II, 30 settembre 2008, n . 24.�0 1 .

Fondamenti di psicopatologia forense

240

774 (56) e 775 (57) c.c., per l'annullamento del quale è altrettanto indispensabile dimostrare una condizione di incapacità

ex artt.

d'intendere o di volere, nel momento in cui l'atto è stato realizzato. Tuttavia, in analogia con quanto ricordato circa l'incapacità naturale ex art. 428 c.c., anche in questo caso non è necessaria la prova che il soggetto, nel momento del compimento della donazione, versasse in uno stato tale da far venir meno, in modo totale e assoluto le facoltà psichiche, essendo sufficiente accertare che tali facoltà erano perturbate al punto da impedire al soggetto il formarsi di una volontà cosciente.

7 .5.

L'identità psicosessuale e la modifica anagrafica. Nella Medicina Legale classica i problemi relativi alla identifi­

cazione e alla eventuale correzione del sesso anagrafico di un indivi­ duo erano collegati all'accertamento delle concrete caratteristiche morfologiche, specie dei genitali esterni, in caso di dubbia trascri­ zione del sesso di soggetti affetti da malformazioni specifiche, quali l'ermafroditismo o lo pseudoermafroditismo (58). La legge italiana, al proposito identificava l'identità sessuale di un individuo, e quindi la sua registrazione anagrafica, unicamente sulla base delle caratteristiche biologico-somatiche del soggetto. In realtà, a partire dagli anni '50, un numero crescente di persone ha espresso il bisogno di rendere il proprio aspetto fisico adeguato alla propria soggettiva identità sessuale, mettendo in luce la limitatezza di una normativa che non poteva tener conto delle condizioni psicologiche, affettive e relazionali di un individuo. Per questo motivo in Italia, specie negli anni '60 e '70, si sono moltiplicati i casi di persone che si recavano in nazioni in cui la normativa era più permissiva, realizzando interventi chirurgici di (56) Art. 774 c.c. (Capacità di donare). "Non possono fare donazione coloro che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni. È tuttavia valida la donazione fatta dal minore e dall'inabilitato nel loro contratto di matrimonio a norma degli articoli 165 e 166. Le disposizioni precedenti si applicano anche al minore emancipato autorizzato all'esercizio di un'impresa commerciale".

(57)

Art. 775 c.c. (Donazione fatta da persona incapace d'intendere o di volere). "La donazione fatta da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per

qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d'intendere o di volere al momento in cui la donazione è stata fatta, può essere annullata su istanza del donante, dei suoi eredi o aventi causa. L'azione si prescrive in cinque anni dal giorno in cui la donazione è stata fatta". (58) FRANCHINI A., op. cit..

Il contributo psicologico forense nel processo civile

241

rettificazione del sesso somatico, e successivamente chiedendo ai Tribunali italiani la modifica del sesso anagrafico, così da rendere lo stesso coerente con quello esteriore. La Corte Costituzionale italiana, con sentenza 1 8 luglio 1 979 n. 98, si pronunciò su questo delicato argomento, affermando che gli aspetti psicologici e psicodinamici della sessualità dovevano essere tenuti in considerazione non meno di quelli somatici, ai fini della determinazione del sesso. Sulla base di queste indicazioni fu emanata la legge n. 1 64 del 1 4 aprile 1 982 (''Norme in materia di rettifìcazione dell'attribuzione di sesso"), che negò il principio di "immodificabilità" del sesso e che affrontò specificamente il problema dei "transessuali", e cioè di quei soggetti in cui il sesso genetico (corredo cromosomico) non corrisponde all'orientamento psicosessuale degli stessi. Questa legge legittimò l'esecuzione di trattamenti medico chi­ rurgici diretti a rendere il sesso somatico il più coerente possibile con quello psicologico, ivi compresi gli interventi di demolizione ricostruzione dei genitali esterni. In virtù di tale normativa, attualmente il "transessuale" può ri­ chiedere una specifica autorizzazione al Tribunale Civile e può, previo accertamento, ottenere il cambiamento del proprio sesso somatico e anagrafico, in modo adeguato al suo orientamento psicosessuale. Tale principio è stato successivamente riaffermato dalla Corte di Cassazione (59) e dalla Corte Costituzionale (60) , che hanno sottoline­ ato come l'intervento di modifica del sesso somatico rappresenti una concretizzazione del prioritario diritto alla salute, che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini e che nel caso dei transessuali viene adempiuto con la ricomposizione dell'equilibrio tra i diversi aspetti somatici, psicologici e relazionali che costituiscono la realtà psicoses­ suale dell'individuo. In particolare, il procedimento previsto dalla Legge n. 1 64 del 1 982 si articola in due fasi, l'una - trattata con l'ordinario rito contenzioso e definita con sentenza - volta all'accertamento del diritto del ricorrente ad ottenere l'attribuzione di un sesso diverso, con conseguente autorizzazione a sottoporsi al trattamento chirur­ gico necessario allo scopo, l'altra - trattata in camera di consiglio ­ volta all'accertamento dell'avvenuta modificazione e all'attribuzione del sesso diverso risultante, pure definita con sentenza, e non con decreto, perché non rettifica un errore dell'atto di nascita, ma presup­ pone un mutamento della persona intervenuto nel corso della vita (61 ) . (59) (60)

(61)

Cass. civ., Ordinanza 20 giugno 1 983, Corte cost., 6 maggio 1 985, n. 1 6 1 . Trib. Pavia, 2 febbraio 2006.

n.

5 1 5.

Fondamenti di psicopatologia forense

242

Sulla base di questa realtà giuridica si sono sviluppate nuove forme di collaborazione tra gli psichiatri forensi ed i magistrati, nell'ambito dell'accertamento del transessualismo e della idoneità del soggetto ad ottenere l'autorizzazione alla modifica della sua realtà somatica ed anagrafica. Al consulente tecnico viene affidato l'incarico di accertare le effettive condizioni psicosessuali del soggetto che richiede la rettifi­ cazione dell'attribuzione del sesso, ed in particolare di verificare la condizione clinica del periziando (ivi compresi gli aspetti genetici ed endocrinologici) e di accertare la sussistenza di una oggettiva condi­ zione di "transessualismo", differenziando la stessa da meno specifici disturbi dell'identità di genere o da motivazioni di carattere psicopa­ tologico o strumentale. Si sottolinea, infatti, come il transessualismo gino-androide rappresenti una vera e propria condizione esistenziale, legata al mancato intimo riconoscimento del proprio sesso biologico e al profondo bisogno interiore di vivere in conformità e secondo i ruoli del sesso opposto. Se, quindi, una persona è l'unione di soma e psiche, è indubbio che è l'aspetto psicologico ed emotivo a dominare la connotazione sessuale, affettiva e sociale di un individuo e che in caso di insupera­ bile dissonanza tra i due elementi, è il soma a doversi adeguare alla psiche, nella misura necessaria e sufficiente ad assicurare alla persona il conseguimento della propria armoniosa identità (62 ). A tale proposito occorre ricordare che il transessualismo si dif­ ferenzia nettamente dall'omosessualità, trattandosi di una condizione per la quale l'individuo si percepisce stabilmente, a partire dall'infanzia, come psicologicamente appartenente al sesso opposto a quello soma­ tico, e prova quindi intensa sofferenza nel riscontro di una conforma­ zione fisica che percepisce come inadeguata, inaccettabile, umiliante. In non pochi casi tale sofferenza si concretizza in un vero e proprio rifiuto della pubertà e dei caratteri sessuali secondari, con gravissime difficoltà nel rapporto con i genitori e con i coetanei, nello sviluppo di relazioni affettive, nell'inserimento sociale e lavorativo. Spesso il transessuale giunge a rifiutare ogni relazione sociale, poiché percepisce come intollerabile l'esibizione dei documenti che lo identificano come appartenente al sesso che non accetta. Anche gli amici ed i colleghi di lavoro a volte ritengono che il transessuale appartenga al sesso opposto a quello anagrafico, poiché si trovano di fronte a persone il cui abbigliamento, la cui psicologia ed (62 )

Trib. Monza, 8 novembre 2005.

Il contributo psicologico forense nel processo civile

243

il cui stile di vita esprimono una chiara appartenenza al sesso femminile per gli uomini ed a quello maschile per le donne. Tale condizione rappresenta un'effettiva e stabile adesione ad una identità di genere opposta a quella biologico - anagrafica, mentre l'omosessualità o il travestitismo esprimono un'ampia e dif­ ferenziata modalità di espressione della sessualità e dei comporta­ menti ad essa correlati, ma non si accompagnano ad un rifiuto della propria realtà somatica ed all'insopprimibile bisogno di appartenere all'altro sesso. Dal punto di vista clinico, ai fini di una corretta diagnosi di transessualismo, è necessario ripercorrere l'intera storia della per­ sona, la sua reazione alla pubertà, i contatti propri dell'età adolescen­ ziale, le sofferte e spesso rifiutate scelte affettive e sessuali, la stabilità del bisogno di modificare chirurgicamente la propria conformazione genitale. Si tratta di persone sempre consapevoli delle proprie difficoltà, che spesso ricorrono ad appoggio psicologico od a trattamenti farma­ cologici, ivi compreso quello ormonale, e che si differenziano in maniera evidente da pazienti sofferenti di disturbi psichiatrici, moti­ vati, ad esempio, da evidenti finalità automutilative o da distorta percezione dello schema corporeo. Dal punto di vista della diagnosi differenziale, estrema atten­ zione deve essere dedicata sia a quei soggetti che sono connotati da istanze di tipo omosessuale, ma che per difficoltà superegoiche non riescono a tollerare tali impulsi ed elaborano un "falso sé" solo apparentemente simile alla condizione psicologica del transessuale, sia ai soggetti stabilmente inseriti in una realtà di travestitismo e di prostituzione, rispetto ai quali è fondamentale l'accertamento degli elementi di carattere simulatorio e mistificatorio da loro presentati. È chiaro che ogni accertamento dovrà comunque essere com­ piuto dopo il pieno raggiungimento della maturità psicosessuale dell'individuo, e quindi nella sua età adulta. In ogni caso, di fronte a situazioni già definite e stabili, ma ancora connotate da conflittualità interiore e da inadeguata consape­ volezza delle conseguenze dell'intervento chirurgico e della comun­ que limitata sessualità che lo stesso consente, è necessario suggerire che il soggetto venga sottoposto ad intervento psicoterapico specifico, prima di una definitiva valutazione medico legale. Lo psichiatra forense deve sempre ricordare che un eventuale errore diagnostico e valutativo può esporre il periziando a gravissime conseguenze: nel caso in cui sia effettuata la castrazione chirurgica di un soggetto erroneamente diagnosticato come transessuale, si de­ terminerà l'irreversibile perdita della sua capacità di procreare;

244

Fondamenti di psicopatologia forense nel caso in cui venga ingiustamente rifiutata l'autonL.Lazione all'intervento, si potranno determinare reazioni psicopatologi­ che o comportamenti autolesivi da parte del transessuale. Tutto questo evidenzia la necessità che le indagini in tema di

transessualismo siano articolate attraverso la collaborazione con i diversi specialisti interessati alla diagnosi (genetista, endocrinologo, chirurgo, ecc.), nonché attraverso l'esecuzione di articolati colloqui clinici, integrati da una completa batteria di esami psicodiagnostici.

Capitolo VIII LA VALUTAZIONE DEL DANNO BIOLOGICO DI NATURA PSICHICA

SoMMARIO: - 8. 1 . La nozione di danno alla persona in responsabilità civile. - 8.2. Il c.d. danno biologico. - 8.3. Il danno biologico di natura psichica. - 8.4. Dall'evento psicotraumatico al danno all'integrità psichica: la questione del nesso causale. 8.5. La valutazione clinica del danno all'integrità psichica. - 8.6. Il contributo psichiatrico forense tra danno psichico, morale ed esistenziale. - 8.7. Il danno psichico alla vittima indiretta: la valutazione psichiatrico forense del "lutto complicato". - 8.8. Il danno psichico da mobbing. - 8.9. Il danno psichico alla vittima di stalking.

8 . 1 . La nozione di danno alla persona in responsabilità civile.

In questi ultimi anni gli psichiatri forensi si sono occupati con sempre maggior frequenza della valutazione di disturbi psicopatolo­ gici a fini risarcitori. Ciò si è verificato in riferimento alla importante e innovativa evoluzione che la giurisprudenza ha espresso in materia di risarcimento del danno e di tutela del diritto alla salute. Brevemente si ricorda che con il termine 'responsabilità civile' (R. C.) si indica l'istituto composto dalle norme cui spetta il compito di individuare il soggetto tenuto a sopportare il costo del pregiudizio ad un interesse altrui, per cui, sinteticamente, può essere definita come l'obbligazione ( !) risarcitoria imposta al soggetto responsabile di un danno. La R. C. si fonda su una molteplicità di norme distribuite in due grandi gruppi di cui agli artt. 2043 e ss. c.c. (c.d. responsabilità extracontrattuale) e 1 2 1 8 e ss. c.c. (c.d. responsabilità contrattuale). Rimandando a testi specifici ulteriori approfondimenti in mate­ ria (2 ), questi articoli prevedono che: ( 1 ) Art. 1 1 73 c.c. (Fonti delle obbligazioni). "Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto, o fatto idoneo a produr/e in conformità dell'ordinamento giuridico" . (2) Fra i tanti: FAVA P. ( a cura di), La responsabilità civile. Trattato teorico-pratico, Giuffrè, Milano, 2009.

Fondamenti di psicopatologia forense

246

2043 c.c. (Risarcimento per fatto illecito) "Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno

Art.

ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno" Art. 1218 c.c. (Responsabilità del debitore) "Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno ...". Il Codice Civile non specifica cosa debba intendersi per "danno", tuttavia la giurisprudenza ha evidenziato che tale nozione fa riferi­ mento alla "lesione di un bene giuridicamente protetto" (3). Pertanto, soltanto il pregiudizio di interessi di rilievo giuridico può configurare il danno risarcibile, inteso appunto come quella perdita conseguente alla violazione di una norma giuridica che dà diritto ad un risarcimento. La nozione di "danno" postula poi un'ulteriore distinzione tra il c.d. danno-evento, cioè la lesione in sé dell'interesse giuridicamente protetto, ed il c.d. danno-conseguenza, rappresentato dalle conse­ guenze pregiudizievoli che ne discendono. Secondo questa impostazione, è dunque necessario, in primo luogo, stabilire se all'azione od omissione illecita ovvero all'inadem­ pimento o al ritardo dell'obbligazione assunta sia derivata una lesione di un diritto (p.e. alla salute); quindi - in caso affermativo accertare quali conseguenze dannose (in termini di sofferenza, com­ promissione della validità psicofisica, pregiudizi patrimoniali, ecc.) ne siano derivate (4 ) . Dal punto di vista valutativo, quindi, il danno risarcibile si può distinguere in due diverse categorie, a seconda che gli effetti si ripercuotano entro o fuori dal patrimonio: a) danno patrimoniale (artt. 2056 e 1223 c.c. ( 5 )) , che com­ prende sia la perdita economica subita dal danneggiato (c.d. danno emergente) sia il mancato guadagno (c.d. lucro cessante);

(3) (4)

Cass. civ., SS.UU., 24 giugno-Il novembre 2008, n.

26972.

REALMONTE F., Il problema del rapporto di causalità nel risarcimento del danno,

Giuffrè, Milano,

1965; TRIMARCHI

P., Causalità e danno, Giuffrè, Milano,

1967;

VrsrNTINI

G., Trattato breve della responsabilità civile, Cedam, Padova, 1999; FRANZONI M., L'illecito, Giuffrè, Milano, 2004; SALVI C., La responsabilità civile, in ZATTI P., IuDICA G. (a cura di), Trattato di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2005.

(5)

Art.

2056

c.c. (Valutazione dei danni).

"Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 ... ".

Art. 1223 c.c. (Risarcimento del danno). "Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta".

La valutazione del danno biologico di natura psichica 24 7

b) danno non patrimoniale ex art. 2 059 c.c. (6). Nonostante questa complessa strutturazione giuridica, per quanto di nostro interesse, si può semplificare dicendo che, ai fini del riconoscimento della responsabilità risarcitoria, sono necessari: una condotta illecita oppure un inadempimento (o il ritardo nell'assolvimento) dell'obbligazione assunta; un danno; un rapporto di causalità tra la condotta illecita o l'inadempi­ mento ed il danno. In riferimento a quest'ultimo, spesso decisivo, aspetto, si ricorda che, alla luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali, lo standard di prova richiesto nel processo civile, è, a differenza del diverso ambito penalistico, quello della probabilità prevalente, ossia del più probabile che no o della preponderance of evidence (7). In sostanza, si ritiene che il giudice civile debba scegliere, tra le varie ipotesi di fatto, quella che appare sorretta da un grado di conferma logica relativamente prevalente rispetto alle altre; a diffe­ renza del giudice penale che deve condannare soltanto quanto la prova della colpevolezza dell'imputato sia stata dimostrata con un grado tale da non lasciare alcun dubbio ragionevole intorno all'inno­ cenza di costui (8 ) . Tanto premesso, l'ambito di interesse della medicina legale e della psichiatria forense in tema di risarcimento del danno è rappre­ sentato dalla valutazione del c.d. danno alla persona. Negli ultimi decenni, la giurisprudenza italiana ha realizzato una vera e propria trasformazione di tale nozione, che da una visione meramente patrimonialistica, ancorata alla capacità di produrre reddito, si è estesa a considerare l'individuo nella sua essenza perso­ nalistica, con la nascita di diverse "voci" di danno volte a tutelare l'integrità della persona in sé e per sé considerata. Il sistema tradizionale, introdotto con il Codice del 1 942, come anticipato, considerava il danno alla persona come danno essenzial­ mente patrimoniale. Veniva riconosciuto al danneggiato anche il danno non patrimoniale, nell'unica veste del c.d. danno morale, solo qualora il comportamento o l'attività illecita posta in essere dal danneggiante integrasse gli estremi di un reato. ( 6)

Art.

2059 c.c. (Danni non patrimoniali).

"Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge". ( 7 ) Da ultimo: Cass. civ., SS.UU., 1 1 gennaio 2008, n. 58 1 . (8) TARUFFo M., La prova scientifica nel processo civile, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ. ,

2005, 4 : 1 079.

Fondamenti di psicopatologia forense

248

Sul piano pratico peritale, pertanto, in caso di lesione dell'inte­ grità psicofisica risarcibile, al medico legale veniva richiesta solo una valutazione delle ripercussioni che la menomazione poteva avere sulle capacità di guadagno e/o di lavoro del danneggiato, mentre il giudice valutava direttamente il pregiudizio di natura "morale", da identifi­ carsi nel patema d'animo soggettivo e transeunte sofferto dalla vittima. Nei primi anni settanta la giurisprudenza genovese e pisana, sulla spinta delle riflessioni dottrinarie in materia, ha cercato di superare i limiti di tale sistema, proponendo un modello risarcitorio non vincolato al solo dato patrimonialistico e, per questo, concedibile indistintamente a tutti coloro che subivano un pregiudizio alla salute. S'individuò così un nuovo tipo di danno, il c.d. "danno biolo­ gico", rappresentato dalla modificazione peggiorativa dell'integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata

(ex art. 32 Cast.), e

cioè a prescindere dalla capacità reddituale del soggetto danneggiato. Tale impostazione venne in seguito consolidata da autorevoli sentenze della Corte Costituzionale

(9 ) , che, sinteticamente, hanno

delineato un sistema risarcitorio così strutturato:

l) il danno biologico, inteso come lesione dell'integrità psicofi­ sica suscettibile di accertamento medico-legale; 2) il danno morale, rappresentato dal turbamento psicologico

(pecunia doloris) e riconosciuto solo nei (ex art. 2059 c.c.);

transeunte del soggetto leso casi previsti dalla legge

3) il danno patrimoniale (distinto nel "danno emergente" e nel "lucro cessante"). A fianco di queste tre voci di danno, alla fine degli anni

'90, parte

della dottrina e della giurisprudenza ha aggiunto una quarta catego­ ria, il c.d. "danno esistenziale". Con tale termine si faceva riferimento ad una fattispecie di danno differente dalle altre, in quanto identificabile nel pregiudizio derivante dalla forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento e/o benessere per il danneg­ giato, ma non conseguente alla compromissione dell'integrità psico­

( IO) .

fisica

2003 8827 e 8828 della Corte di Cassa­

Tale sistema risarcitorio è stato ampiamente rivisitato nel dalle fondamentali decisioni nn. zione.

(9)

In particolare: Corte Cast., sent. nn. 87 e 88 del1979, n. 184 del1986 e n. 372

del 1994.

(10)

Per approfondimenti si veda: CENDON P.,

esistenziale, Giuffrè, Milano, 2003.

Zrv1z P., Il risarcimento del danno

La valutazione del danno biologico di natura psichica 249

Secondo la nuova interpretazione (1 1), nel quadro di un sistema bipolare, contraddistinto dal danno patrimoniale e dal danno non patrimoniale, quest'ultimo non sarebbe limitato al solo pregiudizio morale, ma comprenderebbe ogni danno derivante dalla lesione di interessi di rilevo costituzionale riguardanti la persona non connotati da rilevanza economica. In particolare, come affermato in sentenza, "La tutela risarcito­ ria della persona . . . va ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, quest'ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto (configurabile solo quando vi sia una lesione dell'integrità psicofisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica), del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso (il cui ambito resta esclusivamente quello proprio della mera sofferenza psichica e del patema d'animo) nonché dei pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto" ( 1 2). Tale esegesi è stata condivisa anche dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 233 del 2003, secondo cui "Nell'a stratta previsione della norma di cui all'art. 2059 c.c. deve ricomprendersi ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turba­ mento dello stato d'animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accerta­ mento medico (art. 32 cast.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona" ( 13). Pertanto, secondo la nuova impostazione, il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. comprenderebbe: il danno morale soggettivo, consistente nella sofferenza psico­ logica o nel turbamento d'animo transitorio provocato dal fatto illecito; il danno biologico, inteso come la lesione dell'interesse, costitu­ zionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della per­ sona produttiva di una limitazione, temporanea o permanente, di funzioni biologiche, accertabile sul piano medico legale; il danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona. Tale impostazione giuridica, sul piano pratico, ha determinato il (11) Cass. civ., sez. III., 3 1 maggio 2003, nn. 8827 e 8828. ( l2) Ibidem. { 1 3)

Corte Cost., sent. 1 1 luglio 2003, n. 233.

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riconoscimento, e la liquidazione, del danno non patrimoniale in tre distinte "voci" risarcitorie, rappresentate dai danni biologico, morale ed esistenziale. Questa tripartizione ha determinato un intenso dibattito, in quanto "il nuovo modello è invero in bilico tra diverse applicazioni pratiche, è una corda tesa ai cui estremi si trovano ancora una volta impegnate due diverse squadre di interpreti, le quali si contrappongono tra loro non tanto per mere questioni di nomen delle categorie o di riferimenti normativi entro cui inserire i danni non patrimoniali ma sul senso stesso della responsabilità civile" ( 1 4) . In tale dibattito, recentemente è intervenuta la Corte di Cassa­ zione a Sezioni Unite ( 15), chiarendo che tale tricotomia non deve ritagliare all'interno della generale categoria del danno non patrimo­ niale specifiche figure di danno, etichettate in vario modo, in quanto, a prescindere dal nome attribuito alle conseguenze dannose di una lesione, quello che interessa è accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio subito, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

8.2. Il c.d. danno biologico.

Dopo aver sinteticamente passato in rassegna l'evoluzione giuri­ sprudenziale della nozione di danno alla persona, è opportuno sof­ fermarsi brevemente sulla fattispecie che è di specifico interesse medico-legale e psichiatrico forense, e cioè sul c.d. danno biolo­ gico ( 1 6 ) . La Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni (SIMLA) ha da tempo chiarito contenuti e limiti di tale nozione, definendola come "la menomazione permanente e/o temporanea all'in­ tegrità psico-fisica della persona, comprensiva degli aspetti personali dinamico-relazionali, passibile di accertamento e di valutazione medico( 14) 2004.

MoNATERI P.G., BoNA M., Il nuovo danno non patrimoniale, IPSOA, Milano,

(15) Cass. civ., SS.UU., 1 1 novembre 2008, n. 26972. ( 1 6) Per più dettagliati approfondimenti in tema, si rimanda a: BARGAGNA M. e

coli., Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente. Giuffrè, Milano, 200 1 ; LuvoNI R., MANGILI F., BERNARDI L., Guida alla valutazione medico-legale del danno biologico e dell'invalidità permanente, Giuffrè, Milano, 2002; CJMAGLIA G., Rossi P., Danno biologico, le tabelle di legge, Giuffrè, Milano, 2006; PALMIERI L., UMANI RoNCHI G.C., BoLINO G., FEDELI P., La valutazione medico-legale del danno biologico in responsabilità civile, Giuffrè, Milano, 2007; RoNCHI E., MASTROROBERTo L., GENOVESE U., Guida alla valutazione medico-legale dell'invalidità pennanente, Giuffrè, Milano, 2009.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 25 1

legale ed indipendente da ogni riferimento alla capacità di produrre reddito" ed indicando che "la valutazione del danno biologico è espressa in termini di percentuale della menomazione alla integrità psico-fìsica comprensiva dell'incidenza sulle attività quotidiane comuni a tutti. Nel caso in cui la menomazione stessa incida in maniera apprezzabile su particolari aspetti dinamico-relazionali e personali, la valutazione è completata da indicazioni aggiuntive" ( 1 7). Tale interpretazione, già ampiamente accettata in diversi ambiti normativi ( 1 8), recentemente è stata accolta tout court anche dalla giurisprudenza civile ( 19), che ha sancito come, in presenza di una lesione del bene salute, al danno biologico vada riconosciuta una portata tendenzialmente omnicomprensiva ed ha evidenziato come la definizione secondo la quale "per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell'integrità psico-fìsica della persona, su­ scettibile di valutazione medico-legale, che esplica un 'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito", sia suscettibile di applicazione generale. In quest'ottica, quindi, la nozione di danno biologico com­ prende non solo la lesione psico-fisica in senso stretto, ma anche i riflessi "socio-esistenziali" conseguenti alla compromissione della salute (alla vita di relazione, all'aspetto estetico, alla sfera sessuale, alla capacità lavorativa, ecc.). Tali recenti approdi definitori hanno inciso profondamente sul ruolo del medico legale e dello psichiatra forense in tema di valuta­ zione del danno alla persona e sui quesiti che vengono posti in sede peritale. In ogni caso il C.T.U. viene generalmente incaricato di accertare la natura e l'entità delle lesioni riportate dal danneggiato, di valutare il rapporto causale con il fatto illecito e di determinare il carattere di temporaneità (danno biologico temporaneo, totale o parziale) o di permanenza (danno biologico permanente) della menomazione del­ l'integrità psicofisica dell'individuo, tenuto conto delle preesistenti condizioni di salute dello stesso. Al C.T.U. viene anche chiesto se tale menomazione abbia impe­ dito o impedisca, totalmente o parzialmente, lo svolgersi dell'attività lavorativa e relazionale del soggetto, nonché quali cure siano state o saranno necessarie e quali spese sanitarie siano giustificate e giusti­ ficabili. ( 1 7) 6:675. (1 8) ( 19)

AA.W., Il Decalogo della S/MLA sul danno biologico, in Danno Resp. , 2002, D.lgs. n. 38 del 2000; L. 5 marzo 200 1 , n. 57; D.Lgs. n. 209 del 2005. Cass. civ., SS.UU., 1 1 novembre 2008, n. 26972.

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Per quanto riguarda la valutazione pratica del pregiudizio biologico, il consulente tecnico deve accertare e quantificare l'inabi­ lità temporanea e l'invalidità permanente impiegando, per conven­ zione, espressioni numeriche percentuali. A tal fine, per consentire uniformità ed omogeneità valutativa, sono state elaborate numerose tabelle o barèmes che indicano il valore percentuale con il quale si può rappresentare l'entità della menoma­ zione (percentuali di invalidità); tuttavia si sottolinea che tale indice numerico è sempre orientativo e quindi non può considerarsi un equivalente matematico perfettamente corrispondente alla perdita della validità della persona. Nelle circostanze in cui non siano riportate in tabella le menomazioni oggetto di esame, si provvederà alla quantificazione in percentuale delle stesse adoperando il criterio dell'analogia o dell'equivalenza. Ancora molto discussa è invece la questione sui criteri per la valutazione delle cosiddette ripercussioni dinamico-relazionali che conseguono alla lesione dell'integrità psicofisica della persona. A tal proposito si ritiene condivisibile quanto autorevolmente suggerito da Fiori, secondo cui si possono individuare un primo ed un secondo livello di valutazione medico legale personalizzante: "il primo livello è collocato nell'ambito della quantifìcazione percentuale del danno biologico base . . . che implica quindi un uso modulato dello strumento di quantifìcazione percentuale: cioè relativizza le tabelle . . . il secondo livello riguarda il cosiddetto danno-conseguenza dinamico relazionale che, alla luce dei principi enunciati dalla Corte Suprema, include i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vittima, conseguenti a lesione dell'integrità psicofìsica. Questo tipo di valutazione . . . non richiede quantifìcazioni percentuali bensì soltanto indicazioni descrittive che il giudice o il liquidatore traduce in moneta con liquidazione equitativa" (2°) . Tutto ciò non significa che lo psichiatra forense o il medico legale siano o debbano essere ritenuti gli esperti necessari al fine di valutare o, addirittura, monetizzare l'entità dei pregiudizi dinamico­ relazionali conseguenti alla lesione dell'integrità psicofisica, ma, ri­ chiamando ancora quanto magistralmente affermato da Fiori, "sta di fatto che il giudice ed il liquidatore non visitano il danneggiato e si avvalgono, inevitabilmente, del tramite di un medico il quale, se veramente esperto, attraverso il contatto diretto e tutti gli accertamenti specialistici che può effettuare, è in grado di dare al committente tutte le (20) FioRI A., Per una valutazione personalizzata medico-legale del danno biologico, in Riv. /t. Med. Leg. , 2009, 3:456.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 2 5 3

infonnazioni di cui h a bisogno assoluto per u n risarcimento integrale del danno" ( 2 1 ) . Pertanto, sembra emergere l'esigenza di un nuovo approccio clinico-metodologico da parte dello Psichiatria Forense e della Medi­ cina Legale, che, a fronte di un sistema risarcitorio che, ad oggi, sembrava irrimediabilmente collassare nell'ambito di parametri pre­ valentemente indennitari basati su criteri tabellari, deve tendere il più possibile a personalizzare la valutazione delle conseguenze pregiudi­ zievoli determinate dalla lesione dell'integrità psicofisica della vit­ tima.

8.3. Il danno biologico di natura psichica.

La citata evoluzione giurisprudenziale e dottrinale in tema di danno biologico ha comportato una sempre più attenta valutazione anche della dimensione "psichica" del danneggiato e del possibile ruolo rivestito dai traumi fisici o psichici nella genesi e nella evolu­ zione di un'ampia gamma di disturbi mentali. Non senza fatica la Medicina Legale ha dovuto così prendere atto che la valutazione del danno deve essere sempre più ancorata alle qualità psichiche del leso, e che esistono danni biologici di natura unicamente psichica che devono essere distinti dal cosiddetto danno morale. Dall'alto della sua indiscussa preparazione giuridica specifica, Busnelli, già nel 1 994, affermava al proposito che "la scienza medico­ legale, il cui supporto è fondamentale non soltanto per la valutazione del danno alla salute, ma anche per la delimitazione di tale categoria, è in grado di tracciare una tendenziale linea distintiva tra accertata patologia e fisiologico patema d'a nimo, tra malattia ed emozione", e proseguiva ribadendo che "la fiducia nella competenza e nella serietà dei medici deve prevalere sul disincantato scetticismo, che ha sempre nuociuto a un corretto approccio giuridico alle patologie neurologiche e psichiatri­ che" (22) . Tanto premesso, e riprendendo la citata definizione della SIMLA, il c.d. danno biologico psichico può essere sinteticamente definito come la lesione temporanea o permanente all'integrità psi­ chica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti (21) Ibidem. (22) BusNELLI F.D., Tre "punti esclamativi", "tre punti interrogativi" e un "punto e a capo", in Giustizia Civile, 1 994, 1 2 :3035.

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dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito.

È evidente, dunque, che si tratta di un danno di tipo biologico, che in quanto tale richiede la sussistenza di tutti i presupposti di quest'ultimo. Tale impostazione è stata recentemente ribadita anche dalla giurisprudenza, per la quale, ove siano dedotte degenerazioni patolo­ giche della sofferenza, si rientra nell'area del danno biologico "del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente" (23 ) . In particolare, è stato sottolineato che la nozione di danno biologico di natura psichica si identifica nello "stato psichico con valore di malattia" (24) determinato da un fatto illecito. Nei primi anni di applicazione della nuova categoria del danno biologico, tale fattispecie di pregiudizio è stata riconosciuta unica­ mente al soggetto che era colpito dall'evento lesivo, e cioè è rimasta limitata alle sole "vittime dirette". Nel1994la Corte Costituzionale con sentenza n. 372 ha ritenuto risarcibile anche il danno alla salute psichica subito da un prossimo congiunto a seguito della morte di un familiare, vittima di fatto illecito altrui, allorquando possa essere provato che il disturbo psi­ chico sia causalmente riconducibile all'evento e rappresenti un'alte­ razione di carattere patologico. Viene pertanto considerata la possibilità di risarcire il danno non solo nei confronti della persona lesa, ma anche dei terzi che abbiano subito la perdita (o la grave menomazione) di un familiare in conseguenza di fatto illecito, derivandone un danno "riflesso", o "indiretto", o "di rimbalzo". Sulla base di tale evoluzione, il danno biologico di natura psichica può essere schematicamente classificato in diretto (da traumi/stress psichici, da traumi fisici, ecc.) e indiretto (da lutto complicato, da

wrongful birth, ecc.).

Ponendo primariamente riguardo alle classiche occorrenze traumatiche dirette a localizzazione cranica, è chiaro che in siffatte circostanze l'evidenza della componente organica rende meno arduo il compito del medico legale e dello psichiatra forense, sia sul versante diagnostico sia su quello eziopatogenetico. Si tratta, complessiva­ mente, di situazioni cliniche da tempo note e che spaziano nella vasta gamma che va dalle sindromi confusionali, che possono immediata­ mente conseguire al trauma cranico e che in genere sono transitorie,

(23) (24)

Cass. civ., SS.UU., Cass. civ., sez. III,

11 novembre 2008, n. 26972. 19 maggio 2009, n. 13530.

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a i disturbi psichici persistenti, quali gli stati deficitari (deteriora­ mento, demenza), le sindromi amnesiche, i correlati psichici dell'epi­ lessia, ecc . . I n posizione per così dire "intermedia" fra natura fisiogena e psicogena, rimane a tutt'oggi la c.d. "sindrome soggettiva dei trauma­ tizzati cranici", che riconosce quale antecedente diretto un trauma contusivo o commotivo e che è caratterizzata, come è noto, da una varietà di disturbi, quali cefalea, vertigini, transitorie alterazioni del tracciato ·EEG, facile esauribilità, ipereccitabilità, astenia sensoriale ed emotiva, disturbi del sonno e della potenza sessuale, tremori, iperreflessia tendinea, oscillazioni della pressione e del polso, disturbi disvcgetativi di vario genere, aumento del livello dell'ansia, abbassa­ mento del tono dell'umore, deficit di concentrazione, ecc . . Lo stato nosologico e soprattutto l a genesi della sindrome soggettiva post-traumatica sono da sempre oggetto di controversie; l'insieme di sintomi "quasi organici" e di sintomi soggettivi varia­ mente combinati giustifica i dubbi eziologici persistenti; la sua comparsa anche al seguito di traumi lievi del capo e la frequenza con cui motiva richieste di risarcimento mantengono costantemente at­ tivo l'interesse in ambito medico legale. In letteratura deve registrarsi la perdurante disparità tra chi suggerisce cause fisiologiche e chi sostiene una prevalente eziologia psicologica. Tale sindrome, in vero, non è statica, in quanto un gruppo nucleare di sintomi (cefalea, vertigini, faticabilità), in origine organici, sono per lo più destinati a recedere col passare delle settimane, con un recupero completo nei casi a prognosi favorevole, ma con possibile interferenza di ostacoli di natura prevalentemente psicogena al normale processo di risoluzione. In tal senso può agire, in particolare, la tendenza del paziente a preoccuparsi eccessivamente (o a vivere i propri sintomi con ansia), ovvero il rinforzo positivo che può derivare dall'ambiente circostante, od ancora gli ostacoli che possono emergere da fonti esterne di stress (difficoltà familiari, economiche, lavorative) . Più a lungo i sintomi persistono dopo il trauma, più si potrà ritenere che fattori non organici abbiano rivestito un ruolo importante (2 5). Passando, ora, ad esaminare i disturbi più specificatamente psi­ cogeni, occorre preliminarmente accennare a quei disturbi psichici che insorgono in stretta e diretta relazione cronologica con specifici e gravi eventi emotivi che minacciano l'integrità o il ruolo dell'individuo. L'attuale sistematizzazione del DSM ha cercato di ordinare una (25) BANDINI T., DELL'Osso G., DELL'Osso L., Personalità premorbosa e sindromi psicopatologiche di origine traumatica, Atti del XXX Congresso della Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Bari, 27-30 settembre 1 989, Graphiservice, Bari, 1 989.

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nomenclatura che in questo campo, come per patologie di altri settori, era tanto ricca quanto dispersa e dai confini incerti e, a prezzo di alcuni sacrifici, ha tentato di dare maggiore chiarezza. L'odierna sistematizzazione dei disturbi psicopatologici causati da avvenimenti (c.d. reazioni ad eventi), infatti, è ordinata e ristretta in tre grandi categorie distinte in base a tre requisiti: tipo oggettivo di evento, gravità della risposta del soggetto e durata delle conseguenze (26): l. Disturbi dell'Adattamento (DA); 2. Disturbo Acuto da Stress (DAS); 3. Disturbo Post-traumatico da Stress (DPTS). È evidente che tali categorie nosografiche non esauriscono lo spettro delle possibili reazioni psicopatologiche ad eventi psicotrau­ matici, in quanto tale sistematizzazione cerca solo di individuare quadri clinici peculiari in cui l'elemento causale è parte integrante della definizione diagnostica. Ben più arduo, infatti, è valutare la questione del nesso causale in relazione a fattispecie nosografiche in cui, sul piano eziologico, vi è una maggiore complessità interattiva di fattori indipendenti, quali i disturbi dell'umore, i disturbi schizofreniformi, i disturbi di persona­ lità, ecc. (2 7 ) . Da un punto di vista applicativo, dunque, come ricordano Bandini, Dell'Osso e Dell'Osso, rivestono differente significato: l ) i disturbi psichici direttamente ricollegabili con lesioni orga­ niche (quali le sindromi prefrontali, quelle deficitarie, quelle amnesiche, ecc.), in cui il consulente affronta i problemi del prima e del dopo il trauma, basandosi principalmente su dati obiettivi documentati; 2) le cosiddette "patologie intermedie", nelle quali un'iniziale e limitata componente organica (sindrome commotiva, transi­ tori disturbi elettroencefalografici, disturbi vestibolari, ecc.) si accompagna ad una elaborazione psichica di carattere ansioso-depressivo e spesso rivendicativo, che si innesta su una personalità di tipo ipocondriaco ed insicuro, e che gradualmente assume una concreta rilevanza psicopatolo­ gica in qualunque modo specifica, come nella ben conosciuta "sindrome soggettiva da trauma cranico". In questi casi il riscontro di un trauma fisico specifico iniziale, di una carat­ teristica evoluzione del quadro morboso, e di una altrettanto (2 6 ) Per l'accurata disamina di tali categorie diagnostiche, si rimanda a: PANCHERI P., CASSANO G.B., Trattato Italiano di Psichiatria, III ed., Masson, Milano, 2006. (27) Per approfondimenti in tema si rimanda a: VASAPOLLO D., CERrsou M., La valutazione medico legale del danno biologico di natura psichica , S.E.U., Roma, 2008.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 2 5 7

specifica sintomatologia psicopatologica, rappresenta un dato obiettivo documentato, difficilmente confutabile; 3) i disturbi psichici privi di qualsivoglìa base organica, e cioè quei disturbi psicopatologici che derivano soltanto dall'ela­ borazione psicologica di eventi traumatici a volte unica­ mente psichici, quali stress, lutto, stalking, mobbing ecc . . In questi casi il riconoscimento di dati obiettivi ed evidenti appare spesso difficile e controverso, poiché si tratta di reazioni individuali che si discostano da quelle prevalenti e che si fondano sulle particolari caratteristiche della persona­ lità premorbosa dell'individuo. È soprattutto in questi ultimi casi che si pone con evidenza il problema del riconoscimento di uno specifico nesso di causa tra l'evento traumatico ed il successivo sviluppo di una reazione psico­ patologica, per cui appare necessario approfondire brevemente il tema del nesso di causalità tra evento psicolesivo e danno psichico.

8.4. Dall'evento psicotraumatico al danno all'integrità psichica: la questione del nesso causale.

Il procedimento analitico con cui la medicina legale cerca di offrire la spiegazione causale di un evento dannoso deve prendere le mosse da una prima e fondamentale domanda: è scientificamente possibile che l'azione ipotizzata abbia prodotto, da sola o con il concorso di altri fattori, quel determinato evento? Significa cioè accertare, in via preliminare, la sussistenza o meno di elementi in favore perlomeno di una probabilità scientifica­ mente ammessa in base ai dati della letteratura, owero ammissibile su basi scientifiche logiche in relazione allo stato attuale delle cono­ scenze ( 28) . In realtà nessuno dubita che determinati eventi di vita, pur comprendendo un ventaglio di situazioni anche molto diverse fra loro, siano idonei a perturbare l'equilibrio psichico di chi ne è investito. È pur vero che la dimostrazione del nesso di causa intercorrente fra un evento psicolesivo ed una patologia psichiatrica potrebbe dipendere, in modo esclusivo o concausale, da fattori differenti e riconducibili, ad esempio, a vissuti familiari problematici, a disagio lavorativo, a stati di difficoltà emotiva, a turbamenti del tutto diversi e persino a preesistenti disturbi psichici della vittima. ( 28)

FIORI A., Medicina Legale della responsabilità medica, Giuffrè, Milano, 1 999.

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È opportuno ricordare, infatti, come in questo settore della medicina, ancor più che in altri, non sia possibile procedere lungo i binari della causalità unica ed esclusiva. Il progredire delle cono­ scenze in ambito psichiatrico si è tradotto nel superamento della concezione eziologica unicausale per giungere all'ammissione di una pluralità di fattori concausali (biologici, psicologici, ambientali, socio-relazionali, ecc.) interagenti tra loro in modo circolare (29) o, meglio, "a spirale" ( 30) , in un processo causativo rappresentabile come una figura geometrica "che include ed esclude, nel suo ininterrotto movimento", senza principio né fine, proprio come rappresentato nella struttura spaziale del DNA, che è espressione della vita, che mai si ferma, che tutto trasforma (31 ) . Per tali motivi, da più parti è stato rilevato come la classica criteriologia medico-legale di accertamento del nesso causale mostri i suoi limiti quando si tenti di applicarla in ambito psichiatrico, a causa della variabilità reattiva soggettiva e della peculiare vulnerabi­ lità dell'organismo psichico ricevente l'insulto. Questo perché in realtà, soprattutto in tema di danno psichico, non si tratta di operare in condizioni in cui "le variabili caratterizzanti un problema sono conosciute e la probabilità rispettiva di esiti diffe­ renti, positivi e negativi, è quantifìcata", quanto piuttosto di assumere decisioni in condizioni di incertezza; vale a dire, "pur essendo noti i parametri di un sistema, l'incidenza quantitativa dei fenomeni in gioco non è nota, e dunque si ignora la probabilità di un evento" ( 32 ) . Tale incertezza, tuttavia, non deve legittimare la tentazione di costruire nessi di causa basati su un'ammissione del possibile, del tutto vaga e inaccettabile. Al contrario, come evidenzia Fiori, la complessità della dimostrazione di un nesso causale richiede che il consulente tecnico focalizzi il suo intervento sulla ricerca di una dignità causale apprezzabile, con specifico riferimento a quell'evento illecito di interesse forense dal quale si può far derivare la sintoma­ tologia evidenziata, anche se in termini incerti, ma comunque scien­ tificamente fondati e corroborati da riscontri probatori basati sull'evi­ denza ( 33 ) . (29) PoNTI G., Danno psichico e attuale percezione psichiatrica del disturbo mentale, in Riv. /t. Med. Leg. , 1 992, 4:527. (30) MARIGLIANO A., Gli aspetti psichiatrici e psichiatrico-forensi, in VALDINI M. (a cura di), Il dolore nella valutazione del medico legale, Giuffrè, Milano, 2007. (31) BANDINI T., CILIBERTI R., La psicopatologia forense e la valutazione del danno all'integrità psichica: aspetti etici e metodologici, in Rass. /t. Crim. , 2007, 3 : 1 06. (32) TmMARSH D., The level of risk posed, in BucHANAN A. (a cura di), Care of the mentally disordered offender in the community, Oxford, 2002. {33) FioRI A., Il nesso causale e la medicina legale: un chiarimento indifferibile, in Riv. /t. Med. Leg. , 2002, 2:247.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 259

Tutto questo richiede l'adozione di metodologie diagnostiche e valutative specifiche e rigorose, che consentano di riconoscere gli spazi di genuinità del disturbo clinico che si è sviluppato e che permettano la costruzione di un ponte a ritroso tra tale condizione e l'evento psicotraumatico, tenendo in specifico conto la preesistente personalità, la qualità di vita e lo stile relazionale dell'individuo. Sul piano applicativo, pertanto, l'indagine causale in tema di danno psichico deve sciogliere alcuni nodi decisivi: la criteriologia obiettiva utilizzabile, il rilievo della resilienza e della vulnerabilità ed il problema della preesistenza. In relazione alla criteriologia di accertamento, alcuni Autori hanno evidenziato che unicamente il criterio di idoneità lesiva potrebbe essere concretamente efficace, non solo sul piano della compatibilità fra natura dell'evento e tipo di danno verificatosi, ma anche, e in questo caso soprattutto, nella sua componente proporzionale, cioè di relazione quali-quantitativa fra tipo di evento e tipo di reazione verificatasi. A tal proposito, Buzzi e Vanini ritengono che, da un punto di vista medico legale, la questione centrale dell'accertamento del nesso causale tra l'evento illecito e l'eventuale reazione psicopatologica, è resa complessa dal fatto che "questa reazione da un lato può far emergere in maniera clinicamente conclamata valenze patologiche in precario equilibrio e, dall'altro, può determinare, con un meccanismo di propagazione a cerchi concentrici, effetti disturbanti a carico di diversi aspetti del funzionamento psico-relazionale della persona, spesso anche disomogenei rispetto alla tipologia dell'input scaturito dall'evento" e, pertanto, propongono di effettuare una "pesatura" degli eventi psico­ lesivi, nel tentativo di valutare le conseguenze psicopatologiche in modo proporzionale alla gravità dell'evento (34). Certo è che nella valutazione del danno psichico non esiste quasi mai una corrispondenza diretta e proporzionale tra l'evento lesivo e le conseguenze dello stesso, come in genere si verifica in caso di danno organico post-traumatico, ma ci si deve ogni volta rapportare alla reale incidenza che il trauma, ogni trauma, ha avuto concretamente su un individuo, sulla base del vissuto soggettivo attraverso il quale l'indivi­ duo stesso lo ha elaborato, in modo diretto o mediato, inserendolo nella propria esperienza esistenziale e nella propria realtà psichica. Carta e coll. al proposito affermano che "quando un evento traumatico entra in contatto con una struttura psichica il significato

(34) Buzz1 F., VANINI M., Guida alla valutazione psichiatrica e medico-legale del danno biologico di natura psichica, Giuffrè, Milano, 2006.

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che tale evento assume gli è conferito dalla struttura stessa lo "legge ", utilizzando i suoi codici, non solo semantici, ma anche affettivi" {35). Secondo questi Autori, per comprendere l a reazione patologica che eventualmente ne deriva, e che scompensa l'equilibrio psichico preesistente, "occorre analizzare compiutamente la struttura psichica che guida l'attribuzione di significato all'evento traumatico", e ciò onde poter concretamente verificare la sussistenza del nesso di causalità tra l'evento psicotraumatizzante e le conseguenze psicopatologiche dello stesso (36). Anche Fornari sottolinea che "ogni evento ha un diverso valore psicolesivo a seconda del significato che gli viene attribuito dal danneg­ giato, tanto che un fàtto obiettivamente di scarso impatto emotivo o affettivo . . . può determinare un danno rilevante, o viceversa" (37). E lo stesso Autore precisa poi, in modo del tutto condivisibile, che "di fronte al medesimo accadimento psicotraumatizzante, un soggetto normale, uno nevrotico ed uno psicotico hanno reazioni differenziate; ma non è detto che ad un evento psicotraumatizzante debba corrispon­ dere una risposta patologica da parte di ciascuna di queste persone. Così non è detto che ad un evento lieve corrisponda una risposta lieve e ad un evento grave segua una risposta grave. A seconda del significato che ognuno di noi dà agli eventi che lo colpiscono nella vita, corrisponde una risposta che va da registro del normale a quello del disarmonico e del patologico" (3B). In questo contesto, alla soggettività del periziando deve corri­ spondere un approccio basato su modalità diagnostiche essenzial­ mente cliniche, tali da consentire un'adeguata comprensione della condizione psicopatologica vissuta da quello specifico individuo e su una metodologia valutativa che permetta di ricondurre tale realtà ad un "quanto" e ad un "come", direttamente coerenti con la situazione specifica. Tutto questo, ovviamente, non comporta l'adozione di criteri soggettivi e modellati sul singolo individuo, ma impone una più globale riflessione sulla dimensione individuale del diritto alla salute, con l'obiettivo di elaborare nuovi parametri di riferimento, così da consentire una più corretta definizione del valore che per ogni persona può essere rappresentato dalla menomazione della sua inte­ grità psichica. (35) CARTA I., GALVANO C., PoTENZIO F., La personalità, in BRONDOLO W., MARIGLIANO A. (a cura di), Danno psichico, Giuffrè, Milano, 1 996. (3 6) Ibidem. (37) FoRNARI U., Trattato di Psichiatria Forense, Vtet, Torino, 2008. (38) Ibidem.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 2 6 1

Per questi motivi, risulta fondamentale l a comprensione dei concetti di vulnerabilità e di resilienza, in quanto ci permettono di capire perché, pur con situazioni iniziali simili, si arrivi ad esiti diversi. Il grado di vulnerabilità ovvero quello di resilienza rispetto a situazioni stressanti provenienti dall'ambiente risulta, infatti, spesso grandemente condizionato da numerosi fattori e differenti variabili individuali, tra cui: la struttura di personalità, l'identità di genere, il modo del tutto personale di attribuire un significato all'evento, le strategie di coping impiegate per fronteggiare una situazione che viene percepita come una minaccia, le specifiche risorse personali (l'immagine di se stessi in termini di forza dell'io, di autostima, ecc.), le doti intellettuali (flessibilità e complessità cognitiva, ecc.), le eventuali risorse socio-familiari supportive, ecc. (39) . In altri termini la vita di ognuno di noi si svolge e si sviluppa tra eventi traumatici e possibilità di resilienza, alcuni superficiali altri più profondi, alcuni evidenti, altri invece criptici e tutto questo alla fine si riverbera sulle conseguenze di "sanità o patologia" di un individuo (40) . Confrontandosi con il paziente in modo adeguato e senza pregiudizi di sorta, ci si accorge che la gravità della reazione psico­ patologica può essere certamente ed efficacemente indagata soltanto con il concreto esame dello sviluppo del processo psichico. Questo compito può apparire difficile, ma non certamente im­ possibile, se supportato da adeguate conoscenze medico legali e psi­ copatologico forensi e se accompagnato da corrette valutazioni clini­ che, scientificamente riconosciute e ripetibili, nella consapevolezza che per la stragrande maggioranza dei disturbi psichici di tipo reattivo (da lutto non elaborato, da violenza psicologica, fisica o sessuale, da de­ privazione affettiva, da stress lavorativo, da ingiusta carcerazione, od altro) l'inserimento o meno in una casella di patologia non appare di semplice definizione ed il più delle volte è basata su parametri di gravità piuttosto che di vero e proprio inquadramento qualitativo (4 1 ). Vero è, infine, che per alcuni soggetti è presente una preesi­ stenza patologica dimostrabile ed obiettivabile, ed in questi casi l'accertamento psichiatrico forense è reso ancora più arduo dovendo cercare di differenziare l'aggravamento dalla comorbidità, il peggio­ ramento dalla recrudescenza. Difficile può risultare una schematizzazione definitoria di tali (39) (40) (41)

FAvRETTO G., Lo stress nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, 200 1 . LALLI N . , Manuale di psichiatria e psicoterapia, Liguori, Napoli, 2004. BANDJNI T., CruBERTI R., op. cit. .

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situazioni, che, nella prassi, sono valutate soprattutto alla luce del sapere, dell'esperienza e della sensibilità dell'esperto. A tal fine, è necessario un accurato e complesso esame compa­ rativo tra la condizione clinica presente al momento dell'accerta­ mento e quella preesistente all'evento traumatico, con l'obiettivo di verificare se e quanto i fattori stressanti identificabili abbiano concre­ tamente causato o concausato la risposta psichica che ha condotto allo sviluppo di alterazioni emotive o comportamentali clinicamente significative e di accertare in quale misura siano state ridotte le capacità del soggetto di rapportarsi con l'ambiente, di intrattenere relazioni con gli altri, di esprimere liberamente la propria personalità nelle sue molteplici espressioni. Il confronto tra la situazione clinicamente accertata e la ricostru­ zione storica dell'antecedente realtà dell'individuo si realizza attraverso una corretta analisi della storia di vita della persona, di eventuale do­ cumentazione clinica precedente, ma soprattutto attraverso la com­ prensione dei vissuti della persona, di alcuni aspetti della sua realtà inconscia, della sua stessa motivazione ad una adeguata descrizione o all'accentuazione del sintomo psicopatologico, della sua preesistente personalità, della qualità di vita e dello stile relazionale dell'individuo. Proprio in questi casi, nei quali il riconoscimento di dati obiettivi appare spesso difficile e controverso, trattandosi a volte di reazioni individuali, che si discostano da quelle prevalenti e che si fondano sulle particolari caratteristiche della personalità premorbosa dell'individuo, tanto da indurre nell'osservatore persino il dubbio della non veridicità delle stesse, è evidente che risulti più discusso il problema dell'accertamento del nesso di causa tra l'evento traumatico e il disturbo psichico. Come affermano Brondolo e Marigliano, "dubbio e soggettività" sono i punti di partenza di ogni indagine in questo settore "sia perché la causalità dei disturbi psicopatologici non è mai lineare, sia perché i fenomeni psicopatologici sono in continuo divenire, sia perché il processo conoscitivo descrittivo del disturbo psichico è basato sulle capacità empatiche dell'esaminatore e cioè su un rapporto sempre dinamico e reciprocamente trasformativo" (42 ). Ne deriva, in conclusione, che l'indagine psichiatrico forense ha il compito importante e decisivo di descrivere e motivare adeguata­ mente i percorsi che conducono da un'esperienza traumatica ad un esito psicopatologico, differenziandone caso per caso gli elementi rappresentativi per giungere alla comprensione ed alla spiegazione del rapporto causale. (42)

BRONDOLo W., MARIGLIANO A., Danno psichico, Giuffrè, Milano, 1 996.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 263

Tale approccio potrà consentire una corretta valutazione dei singoli soggetti e, nei casi comunque dubbi e difficilmente risolvibili, potrà consentire di rappresentare al magistrato la situazione clinica in termini reali, senza pronunciarsi sul nesso causale in termini di dimostrabilità, ma di probabilità o di semplice presumibilità, sempre attenti al riconoscimento delle componenti di slatentizzazione, di scompenso, di aggravamento o di acceleramento di predisposizioni o di disturbi psicopatologici già preesistenti. Tali cautele sono in ogni caso indispensabili in un campo di studio nel quale è da tutti riconosciuta la pluralità dei fattori causali del di­ sturbo psichico ed è ammessa la difficoltà o addirittura l'impossibilità di attribuire una causalità lineare alla genesi del disturbo stesso. Condividendo l'opinione di Vasapollo e Cerisoli, tutto ciò non significa voler ripristinare l'arbitrio, ma serve semmai a premiare la competenza, sollecitando attenzione al rigore metodologico ed alla puntualità valutativa dell'indagine psichiatrico forense, nella quale la descrizione dell'obiettività clinica deve avere un ruolo centrale (43). In sintesi, si ribadisce che la questione dell'accertamento del nesso causale è e rimane un problema di metodo: solo un metodo scientificamente condiviso e ripetibile dà la possibilità di raggiungere un'obiettività ed una scientificità tali da permettere al consulente tecnico di offrire pareri tecnici fruibili anche in tale scivoloso quanto essenziale ambito di indagine.

8.5. La valutazione clinica del danno all'integrità psichica.

Da un punto di vista applicativo il consulente che opera in tema di valutazione del danno psichi co deve prestare particolare attenzione alle modalità di raccolta e di interpretazione del dato clinico. In genere, come ricordano Brondolo e Marigliano (44), il proce­ dimento che viene utilizzato per giungere a una diagnosi psichiatrica di rilevanza medico-legale consiste nei seguenti punti fondamentali: raccolta dell'anamnesi senza escludere alcun elemento, anche apparentemente insignificante; esame obiettivo psichico; accertamenti neuropsicologici; accertamenti psicodiagnostici (test di livello e test proiettivi); valutazione epidemiologica; integrazione dei dati raccolti; (43) (44)

VAsAPOLLO D., CERJsou M., op. cit . BRONDOLO W., MARIGLIANO A., op. cit. . .

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uso di uno strumento diagnostico standardizzato per stabilire una diagnosi ripetibile e comunicabile, sia rispetto ai sintomi sia rispetto alla valutazione dell'evento traumatico e del funzio­ namento psicologico, sociale e occupazionale del soggetto m esame (DSM ovvero ICD); indicazione dell'entità della menomazione psichica; connessione eziologica del disturbo con la preesistente struttura di base della personalità del soggetto (preesistenza); definizione dell'inemendabilità della menomazione accertata; inserimento dei risultati diagnostici acquisiti in un processo di valutazione secondo i principi di base della medicina legale. Circa gli strumenti concettuali che possono essere utilizzati per una corretta valutazione del danno psichico, Barbieri afferma che in sede clinica e anche forense occorre tener conto del fatto che un'impostazione prettamente nosografica, solo descrittiva e statistica (per esempio secondo il modello del DSM), rischia di dilatare e confondere il problema, aumentando ancor più le incertezze e le diversificazioni diagnostiche in un campo di studio in cui la parola "depressione" è utilizzata per coprire "un ambito immenso" che spazia "dalla psicologia normale alla psicopatologia" e che com­ prende condizioni "ancora esistenziali" e "non ancora cliniche" (4 s). Sempre Barbieri è del parere, e ciò sembra del tutto condivisi­ bile, che l'inquadramento clinico, così come il successivo parere medico-legale, debba avvalersi di un approccio teorico non solo multidisciplinare, ma soprattutto integrato, in cui i diversi strumenti di matrice nosografica, psicodinamica e antropo-fenomenologica possano rispondere alle esigenze sia "comprensive" sia "esplicative" della valutazione del danno psichico, al fine di differenziare in modo concreto e adeguato le situazioni di effettivo valore psicopatologico dagli stati mentali reattivi ed evolutivi (46). In particolare, condividendo il pensiero di Marigliano, si ricorda che "un esame obiettivo psichico, eseguito all'interno di un 'a tmosfera empatico-identifìcatoria, consente di accogliere parecchie centinaia di dati clinici dotati di corposo valore ermeneutico". Con l'ausilio poi di opportuni esami psicodiagnostici si giunge a raccogliere qualche migliaio di dati che "integrati con quelli già riscontrati dallo psichiatra, ed adeguatamente embricati tra loro, consentono, con elevatissima attendibilità clinico-tecnica, di giungere ad una diagnosi clinica ripeti(45) BARBIERI C., Riflessioni propedeutiche alla valutazione psichiatrico forense del c.d. danno da lutto, in Rass. /t. Crim. , 2002, 3-4: 1 7 1 . (4 6) Ibidem.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 265

bile, verifìcabile e comunicabile, secondo gli specifici criteri di sistemi nosografìci di uso universale" (47). A tal proposito, Buzzi e Vanini (48) descrivono analiticamente le indagini cliniche e psicotestistiche che devono essere utilizzate al fine di raccogliere tutti quegli elementi di obiettività che vengono ritenuti indispensabili per una valutazione medico-legale del danno psichico. Questi Autori ricordano in particolare il Rorschach, l'MMPI, alcune batterie di questionari che indagano su eventuali ambiti disfunzionali della vita psicosociale del paziente, alcune scale di accertamento del tono dell'umore, del livello dell'ansia, di eventuale simulazione o dissimulazione dei disturbi. Queste indagini devono essere scelte ed applicate in modo differenziato, nei singoli casi, al fine di poter indagare sia sulla personalità di base, sia sui disturbi psichici realmente presenti, sempre in una "situazione di setting facilitante e accogliente, tale da far sentire a proprio agio l'esaminato e da allontanare da lui ogni sensa­ zione di indebita o, ancor peggio, fìscale intrusione", come corretta­ mente ricordato dagli Autori citati. Sul piano della concreta quantificazione del danno psichico, a nostro parere, si dovrebbe partire da un'iniziale analitica valutazione percentualistica basata sugli inquadramenti nosologici offerti dalle più condivise classificazioni diagnostiche (momento categoriale­ descrittivo), per poi passare ad un secondo livello di indagine, c.d. "funzionale", nel quale l'esperto dovrà cercare di personalizzare il dato numerico sulla base dei riflessi disfunzionali psico-socio­ esistenziali indotti dallo stesso. Vista la specificità del tema, per ulteriori considerazioni tecnico­ valutative si rimanda agli esaustivi contributi offerti dalle ormai numerose "Guide orientative per la valutazione del danno biologico di natura psichica", tra le quali si ricordano in particolare quelle di Buzzi e Vanini, di Pajardi, Macrì e Merzagora e di Cerisoli e Vasapollo . A prescindere dall'orientamento prescelto, è nostra opinione che il parere peritale debba comunque essere sempre accompagnato dalla più ampia descrizione della realtà clinica precedente e successiva all'evento psicolesivo, così da fornire al magistrato la possibilità di comprendere e di valutare, anche autonomamente, ogni dato acqui­ sito ed ogni interpretazione che è stata proposta in merito allo stesso. D'altro canto, la stretta connessione tra la dimensione clinica e quella valutativa rende necessario, in questo campo, che il consulente (4 7) (48)

MARIGLIANO A., op. cit. . BuzZI F., VANINI M., op. cit. .

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tecnico disponga di una formazione articolata, di carattere clinico e medico legale, ovvero che l'incarico peritale sia attribuito ad un collegio comprendente diverse professionalità.

8.6. Il contributo psichiatrico forense tra danno psichico, morale ed esistenziale.

La rivoluzione che negli ultimi anni si sta compiendo nell'am­ bito della valutazione del danno alla persona testimonia, anche in tale campo, il crescente emergere delle istanze etiche che pervadono la riflessione giuridica e medico-legale. La valorizzazione e, insieme, la salvaguardia della persona nelle sue molteplici componenti esistenziali divengono i cardini concettuali capaci di rovesciare o, quanto meno, porre in secondo piano la tradizionale logica patrimonialistica. Nuove sollecitazioni di pregnante coloritura umanistica si affac­ ciano sempre più frequentemente all'attenzione del Legislatore - con riferimento ai malati, ai minori, ai morenti, ai sofferenti e, in generale, ai soggetti "deboli" - verso la protezione di valori e prerogative volte ad esaltare, al pari e forse ancor più della salute stessa, l'autentico significato dell'esistenza umana. In questo contesto anche la recente svolta avviata dalle ricordate pronunce della Cassazione e della Corte Costituzionale in tema di danno alla persona, dischiude ambiti innovativi di tutela della per­ sona, che al di là e al di fuori della logica patrimonialistica sottesa alla responsabilità civile (già fortemente incrinata con il riconoscimento del danno biologico), sono capaci di cogliere e valorizzare dimensioni pregiudiziali individuali, in precedenza prive di adeguato riconosci­ mento (49). La crescente attenzione nei confronti della persona intesa pre­ liminarmente come essere umano con tutto il suo carico di desideri, emozioni, esigenze affettive, progetti, aspirazioni e bisogni, inducono cioè a commisurare ed esaltare la nozione olistica di salute, primario diritto della persona ben oltre l'assenza di malattie, difetti o lesioni. Accanto a queste condizioni acquistano rilievo, altrettanto signi­ ficativo, le compromissioni che, pur non annoverabili in quello che la scienza medica classifica come "patologiche", possono trasformarsi in cicatrici del vissuto e segnare ingiustamente il cammino dell'esistenza umana perché incidenti sugli scopi vitali che ciascuno assume a (49) CENDON P., ZIVIz P. (a cura di), Il danno esistenziale. Una nuova categoria della responsabilità civile, Giuffrè, Milano, 2000.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 2 6 7

fondamento, sul modo di intendere la qualità di vita, la dignità, la libertà, l'intimità, le relazioni nonché di assaporare e interpretare le policrome espressioni dell'esistenza. In tali termini un'inedita dimensione deontologica della tutela della salute si dipana verso "nuovi ordini" esistenziali della persona, a cui afferiscono strumenti diretti a confrontarsi non esclusivamente e non esaustivamente con la "malattia", ma anche, e in misura altret­ tanto rilevante, con il "ben-essere" della persona, inteso (in sintonia con la previsione di cui all'art. 2 della Cost. che tutela i diritti inviolabili della persona) come possibilità di realizzazione del pro­ getto di vita che è proprio di ciascuna persona. In un contesto culturale innovato da una crescente sensibilità ai valori umani e, anche, dalle grandi avventure della scienza, si rafforza cioè l'esigenza di orientare la fisionomia della medicina verso valori etici fondamentali, che non riguardano solo il "prolungamento della vita" , le "aspettative di vita" o le "percentuali statistiche", ma atten­ gono a una più complessiva cura di sé in cui convergere "utilità sanitarie","beni strumentali","opportunità" , "capacità" e "diritti" (50). In questa evoluzione del diritto, talvolta incerta e contradditto­ ria, anche la medicina legale, specie nei riflessi che riguardano la psicopatologia forense, sembra faticare a rintracciare l'identità delle proprie radici epistemologiche, in una cultura umanistica non più sostenuta da parametri essenzialmente organicistici. Ed, invero, proprio la crescente consapevolezza dei limiti che un approccio riduzionistico determina in campo biomedico, induce a riscoprire nel percorso formativo del medico la rilevanza degli studia humanitatis (5 1) che, attraverso l'integrazione dei diversi saperi, favorisca l'acquisizione di uno sguardo di insieme sull'individuo più completo, in grado di cogliere le interazioni e, nel contempo, la complessità della condizione umana. Rispondere ai problemi posti dal progresso scientifico, dall'or­ ganizzazione sociale della medicina e dal diritto costituisce un'irri­ nunciabile sfida per la medicina legale in generale e per la psicopa­ tologia forense in particolare, che sono chiamate, per loro stessa vocazione, a perseguire un orizzonte elevato di tutela dei diritti (50) CAVICCHI I., Medicina/Sanità, http://www .qlmed.org/Scopi/Cavicchi.htm. (51) Gli studia humanitatis, dovrebbero includere non solo le scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia culturale), ma anche la filosofia sia come episte­ mologia, sia come antropologia speculativa ed etica. In Italia costituiscono un contri­ buto rilevante per l'epistemologia della medicina, gli studi di Dioguardi e di Federspil che, muovendo dalla clinica medica sono approdati ad un'analisi metodologica delle scienze biomediche, del loro tessuto epistemico, del loro valore noetico e del loro linguaggio.

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dell'uomo e a riaffermare quella complessità teleologica della medi­ cina che non dovrebbe tralasciare di porre l'accento sull'uomo come valore, sulle sue prerogative e istanze, senza riduzionismi né biologici né psico-sociologici. Il tema della salute e del ben-essere propone, infatti, un'impo­ stazione articolata, già impressa nell'insegnamento di Ippocrate che, con carattere di assoluta modernità, inquadrava i concetti di salute e di malattia nel contesto dell'equilibrio o della sua perdita tra leggi naturali, istituzioni e leggi umane, sottolineando la complessità dell'intreccio tra esperienza umana e fenomeni di cambiamento e trasformazione ambientale, economica e socio-culturale. Se, invero, l'attenzione si rivolge alla dimensione psichica ed emotiva l'impor­ tanza di queste interazioni si accentua come, anche, acquista rile­ vanza la componente etica di tutela globale della persona

( 52 ) .

In tale ottica, il compito del medico è in pari tempo terapeutico e moralmente rilevante, in quanto finalizzato a riunificare tutte le parti somatiche, psichiche e quindi sociali, economiche, culturali, emotive, affettive e cognitive in un insieme funzionale e operativo diretto al miglioramento della condizione umana nella sua integralità. In questo scenario il profilo risarcitorio si apre verso una tutela più ampia della persona, capace di investire tutti i possibili danni, anche non immediatamente inquadrabili nel bacino di tutela del danno biologico, che ostacolano le attività realizzatrici della persona umana e incidono sulla qualità di vita del danneggiato e, in generale, su alcuni aspetti del modo di esistere. Nel misurarsi con questo impegno, la fisionomia della medicina legale deve ravvivarsi in una visione antropologicamente integrale dell'uomo in quanto tale, della sua complessa relazione corpo-mente, che sfugge ad un approccio rigidamente medicalizzato e ad una catalogazione in parametri e sistemi tabellari intrinsecamente ridut­ tivi, per attingere agli apporti dell'antropologia, della sociologia, della psicologia e della filosofia

( 53 ) .

Dubbi, riserve e resistenze accompagnano il cammino ancora incerto del danno esistenziale verso cui - perpetuando quanto già avvenuto in tema di danno psichico - il sospetto della simulazione sembra coinvolgere lo stesso processo accertativo e valutativo. Forti allora le analogie dei pregiudizi e delle riluttanze che la medicina legale, dopo aver riconosciuto il danno biologico di natura

(52) (53)

BANDINI T., CJLIBERTI R., op. cit.. Ibidem.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 269

psichica, riversa oggi sul danno esistenziale, del quale sono evidenti le contiguità. Ed, invero, come magistralmente ci ricorda Fameti, se le scienze medico-legali, e in particolare la psicopatologia forense e la crimino­ logia, si sono sempre interessate alla psiche dell'uomo, per quanto concerne i profili penalistici e civilistici ad essa correlati, "non altrettanto può dirsi per la compromissione dell'integrità psichica della persona" (54). Certamente le menomazioni all'esistenza e la loro eziopatoge­ nesi - al pari di quelle del danno psichico - non consentono un approccio materialmente oggettivo pari a quello riscontrabile nelle lesioni corporee. Ed, invero, sia nel danno all'esistenza sia in quello psichico gli accadimenti si estrinsecano anche in verità soggettive e vissuti da dipanare ed elaborare, tanto da rendere inutili ed a volte fuorvianti i più classici criteri medico-legali di riferimento eziolo­ gico (55). E se forti sono i turbamenti e le resistenze di una medicina legale sospettosa dei cambiamenti, del moltiplicarsi delle voci di danno, progressivamente più dettagliate e differenziate, allarmata dal timore di duplicazioni valutative e liquidative, e anche, forse, dei profili economici e assicurativi che si possono dischiudere, le cose non vanno meglio per il diritto civile, tradizionalmente impostato ad un'idea tipo della persona del tutto avulsa dalla corporeità e da tutto quello che ruota intorno ad essa. Non già l'uomo, ma un "soggetto di diritto", qualcosa di astratto, capace di ragionare, di obbligarsi, di operare economicamente, ma del tutto eterea è la figura che ci consegna il codice civile del 1 942 (56), sostanzialmente condizionato da una visione organicistica e patrimonialistica. Ma il soffio della problematica esistenziale travolge e umanizza l'intero settore privatistico, in cui nascono e si sviluppano nuove posizioni meritevoli di considerazione: diritto a "non soffrire", "diritto alla bi-genitorialità", alla "sessualità"; diritto alla "realizzazione per­ sonale", diritto al "sostegno" , diritto a "morire con dignità". L'accento sull'esistere, rispetto all'essere, diviene punto cruciale nelle discussioni che ruotano intorno alla fine vita della persona, che sempre più individuano tale momento nella perdita irreversibile della

(54) FARNETI A., Presentazione, in PAJARDI D., MAcRl L., MERZAGORA BETsos I., Guida alla valutazione del danno psichico, Giuffrè, Milano, 2006. (55) BRoNoow W., MARIGLIANO A., op. cit. . (56) FERRANDO G., Diritto e scienze della vita. Cellule e tessuti nelle recenti direttive europee, in Familia, 2006; 6: 1 1 57.

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coscienza, rispetto ad un criterio di morte cerebrale come indicato dal nostro ordinamento (57). La questione del danno psichico e del danno esistenziale pone al centro dell'attenzione della psicopatologia forense, del giurista e del giudice la necessità di abbandonare logiche interpretative isolate, verso la costruzione di modelli interpretativi comuni, circolari e variegati, capaci di guardare e dare ascolto alla persona ben oltre la dimensione meramente biologica. L'impegno che oggi queste nuove figure di danno sembrano sollecitare è appunto, al di là delle differenti nomenclature ed eti­ chette, il superamento di rigide barriere e confini tra le varie disci­ pline le quali, pur conservando aspetti contenutistici e metodologici specifici, devono necessariamente convergere ai fini di un rapporto equilibrato tra scienza e diritto. Gli approcci riduzionisti di carattere analitico, limitandosi ad osservare frammenti di competenze e pezzi di umanità, non colgono la complessità della storia personale e delle molteplici immagini che l'esistenza umana assume e che caratterizza significativamente la condizione di benessere della persona. Le vie per la conoscenza (e la valutazione) delle afflizioni al corpo (soma e psiche) passano invero attraverso un approccio alla persona vista come totalità ed unità, come relazione interumana carica di vissuti esistenzialmente significativi e dunque impegnativa anche sul piano personale. Lo sguardo all'interezza della persona e, insieme, all'inscindibile unità della dimensione psicosomatica e relazionale, della componente statica e di quella dinamica, ammonisce di coniugare alla scienza medica elementi sociali, culturali, antropologici e psicologici, non senza un'adeguata riflessione epistemologica, onde evitare confusione di metodi e linguaggi. E ciò al fine di accogliere le difficili sfumature di tutti quegli stati compresi tra i limiti della c.d. patologia e quelli della c.d. normalità, vista l'impossibilità di stabilire un confine rigido tra le stesse, come ampiamente condiviso dal dibattito psichiatrico contemporaneo. La scissione in una visione parcellare tra aspetto dinamico e aspetto statico del danno alla persona induce Marigliano a doman-

(57) BANDINI T., CILIBERTI R., Danno biologico e danno esistenziale: i difficili confini del danno all'integrità psichica, Atti del XI Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria Forense, Galeazzi, Sassari, 2008.

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darsi "È possibile che ci sia il fare senza l'essere? Oppure è possibile il contrario?" ( s 8 ) . L'essere e l'esistere, ci ricorda sempre Marigliano, non sono categorie scindibili e un approccio schizofrenico all'uomo induce ad un altrettanto approccio schizofrenico della conoscenza. Il soggetto malato, spogliato delle sue note individuali, viene oggettivato in un'entità clinica che rassomiglia di più ad una tabella numerica che ad una storia personale ( 59 ) . La fluidità della dimensione psichica è ben rappresentata dal­ l'impiego di espressioni, quali "disagio", "sofferenza", "malessere", ecc., per qualificare tutti quegli stati dai contorni sfumati e dal carattere intermedio tra patologia e salute. Certo è che non può concludersi, con semplicistico automati­ smo, che in assenza di "infermità" psichica conclamata o, comunque, di una definita caratterizzazione psicopatologica, non sussista danno. Allorché si verifica uno stabile pregiudizio esistenziale, sia in presenza che in assenza di lesioni all'integrità fisica o psichica, ovvero psico-fisica insieme, sarà compito del giudice quantificarne il valore e, prima ancora, rilevarne l'ingiustizia e la rilevanza, al fine di elevarlo a pregiudizio meritevole di considerazione giuridica (60 ). Il riscontro e l'analisi di tali limitazioni - contestualizzate nello specifico assetto psico-comportamentale di ciascuno - costituiscono comunque presupposti essenziali, da indagare con il rigore metodo­ logico proprio della medicina legale e, nello specifico, della psicopa­ tologia forense, al fine di determinare la sussistenza o meno di un danno biologico di natura psichica e/o di un pregiudizio esistenziale. Qualunque sia l'evento scatenante, nell'ambito del danno esi­ stenziale, l'argomento in discussione è comunque "quello relativo al modo di essere dell'uomo, alla personalità, alla qualità della vita, ed in particolare alla dimensione emotiva, relazionale, sociale dell'uomo stesso" (61), e cioè quello di un'analitica descrizione psicologica dei tipi di adattamento, di reazione, di difesa, di interazione e così via. Tale accertamento, come ci ricorda Bona, costituisce un impe­ gno già presente nell'attività del medico legale chiamato a "raccogliere, come già prima del danno esistenziale, più informazioni possibili circa le alterazioni negative dell'evento dannoso, illustrandone la gravità e la (58) MARIGLIANO A., I confini tra danno psichico e danno relazionale, in FARNETI A., Cuccr M., ScARPATI S. (a cura di), Il nuovo danno non patrimoniale, Giuffrè, Milano, 2005. (59) Anche a questo proposito va ricordata la centralità di tale istanza nella psichiatria fenomenologia-antropologica da Binswanger a Zutt. (60) In tal senso: Cass. civ., SS.UU., I I novembre 2008, n. 26972. ( 61) PAIARDI D., MACRl L., MERZAGORA BETSOS l., op. cit..

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compatibilità con le lesioni riportate" (62) e, come confermano Del­ l'Osso e Ingravallo è del tutto condiviso da quei medici legali che hanno colto l'ispirazione del danno alla salute per tendere ad una valutazione volta alla riparazione integrale del nocumento ingiusta­ mente subito dalla persona (63) . Nel settore del danno esistenziale, ancora da indagare per molteplici e complessi aspetti, non sembra invero che il ruolo del medico legale possa essere relegato alla sola diagnosi differenziale con il danno psichico poiché, come afferma Ziviz, "l'accertamento della situazione della vittima e della modificazione della sua struttura psicologica a seguito dell'illecito, risulta�o . . . utili in ogni caso laddove non si parli di patologia vera e propria, al fine di comprendere appieno quali possono essere le ricadute esistenziali indotte dall'illecito" ( 64 ) e per valutare l'adeguatezza dell'evento lesivo in relazione alla persona­ lità dell'offeso. Lungi dall'estraniarsi dal dibattito sulla valutazione del danno psichico rispetto al danno esistenziale, emerge comunque l'urgenza da parte del giurista di individuare criteri generali capaci di conside­ rare il pregiudizio nelle sue molteplici espressioni, senza parcellizzare l'uomo in fattispecie e voci frammentate e disgregate, ma identifi­ cando nell'essere umano quell'integrazione e quella unità composita, ricca di gradazioni e sfaccettature. Occorre altresì riconoscere che la stessa drastica scissione tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, di significativa utilità concettuale, lascia anch'essa aperti momenti di contiguità laddove il danno patrimoniale si rifletta negativamente sull'esistenza dell'indivi­ duo. Si tratta quindi di trovare criteri per effettuare accertamenti e valutazioni del danno - che interferisca anche sull'esistenza della persona - che, in quanto rispettosi dell'unità e, insieme, della complessità della persona, non trovano spazio in un sistema tabellare, necessariamente limitato e incapace di comprendere i molteplici aspetti dell'esistenza. E ciò nel rispetto, come ci ricorda magistralmente Bona, delle

( 62) BoNA M., Il 'Danno esistenziale; ossia un falso problema per la medicina legale: tempo di precisazioni, in Riv. It. Med. Leg. , 2007, 2:563. (63) DELL'Osso G., lNGRAVALLO F., Danno Esistenziale e qualità della vita, in Resp. Civ. Prev. , 2006, 9 : 1 568. ( 64) ZIVrz P., La linea di confine tra danno psichico e danno esistenziale, in MARioTir P., ToscANO G. (a cura di), Danno psichico e Danno esistenziale, Giuffrè, Milano, 2003.

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più nobili conoscenze acquisite dalla dottrina e dalla prassi medico legale ( 65 ) . Un attento psichiatra forense è certamente in grado di analiz­ zare e descrivere obiettivamente il tipo ed il livello di sofferenza psichica di una persona e spesso è in grado di valutare l'eventuale sviluppo della condizione di alterazione anche da un punto di vista prognostico, verso la cronicità ed a volte verso un progressivo e inarrestabile aggravamento, ma è obbligato a ricorrere ad una forza­ tura ed a volte ad una semplicistica adesione ad una interpretazione di comodo, in ossequio ad una pura e semplice finzione giuridica, quando afferma che questa sofferenza assume le caratteristiche di una patologia psichica medicalmente accertabile. Quand'è che una fisiologica (normale) sofferenza psichica (ad esempio per la morte di un figlio) diventa un patologico danno biologico psichico? In altre parole: quand'è che dall'assenza di malattia (pur in uno stato di sofferenza psicologica) si passa alla malattia? Un criterio distintivo potrebbe essere colto facendo riferimento al processo di "elaborazione del lutto". La morte di un congiunto non comporta, automaticamente, lo strutturarsi di uno stato di malattia, nonostante la reazione all'evento sia caratterizzata da un'intensa sofferenza psicofisica. Tuttavia, quando il naturale processo di elaborazione psichica del lutto non si evolve fisiologicamente, il suo insuccesso può sfociare in quello che viene definito "lutto patologico", che per entità ed incidenza sul funzionamento psichico diventa un vero e proprio danno biologico rilevante in ambito di responsabilità civile (66), sia esso temporaneo o permanente. Allo stesso modo si può verificare un'evoluzione della fisiologica sofferenza verso situazioni esistenziali differenziate e deficitarie, pur senza vere e proprie reazioni psicopatologiche. Tali considerazioni inducono a ricordare a tutti i consulenti di medicina legale che si occupano della valutazione di pregiudizi di natura psichica, indipendentemente da una precisa presa di posizione da un lato o dall'altro degli schieramenti di pensiero in ordine alla valutazione del danno psichico, morale e/o esistenziale, che è comun­ que indispensabile il superamento di un sistema valutativo affidato essenzialmente a mere percentualizzazioni, per ricorrere a consu­ lenze ampiamente descrittive ed esplicative. ( 65) BoNA M., op. cit. . (66) BANDINI T . , Il danno psichico da lutto, i n VoLTERRA V. ( a cura di), Psichiatria Forense, Criminologia ed Etica psichiatrica, Masson, Milano, 2006.

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In realtà non compete nemmeno alla scienza medico legale la questione di una concreta differenziazione del danno biologico di natura psichica dal danno morale o esistenziale, nel singolo caso, trattandosi come ci ricorda Bona, "di categorie squisitamente giuridi­ che, ossia di un modo peculiare del diritto di descrivere e di gestire l'obbligazione risarcitoria" (67). Ed, allora, si conviene con Dell'Osso e Ingravallo allorché sosten­ gono che in tema di valutazione del danno all'integrità psichica di un individuo "si chiede, in buona sostanza, al medico legale di non fare né più né meno, di quello che normalmente fa" e ha sempre fatto; gli si chiede, cioè, di effettuare una indagine completa, esaustiva, quasi sempre integrata da competenze psicologiche, con somministrazione dei più opportuni test psicodiagnostici, capaci di esplorare le varie capacità del soggetto. La lettura del DSM ci permette di definire nosograficamente non solo sintomi, ma anche semplici patimenti, disagi e quant'altro, con relativa facilità di inquadramento diagnostico, ma non ci aiuta ad attribuire o meno un "valore di malattia" ad ogni tipo di disturbo classificato. Per la diagnosi del c.d. "Disturbo dell'adattamento", sempre secondo il DSM IV-TR, i criteri diagnostici sono relativi al riconoscimento "di un marcato 'disagio ' che va al di là di quanto prevedibile in base all'esposizione del fattore stressante" e/o di una "compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo". Si vuol sottolineare, con ciò, che l e difficoltà tecniche non sono tanto relative alla possibilità o meno di classificare un disturbo psichico secondo il citato DSM, quanto alla attribuzione della lesione accertata alla categoria soltanto giuridica del danno biologico o di altro danno. La psichiatria moderna è certamente una disciplina "medica", che non può fare a meno del contributo delle neuroscienze, ma che non utilizza, e non può utilizzare, soltanto il modello interpretativo biologico, in quanto mette al centro del suo interesse la "soggettività del paziente e cioè le sue esperienze psicologiche ed i suoi vissuti" (68) avvalendosi, quale strumento elettivo di esame, dell'ascolto, del dia­ logo, dell'incontro empaticamente connotato. Si ribadisce, in conclusione, che non compete alla Medicina Legale definire o distinguere le categorie giuridiche relative al danno non patrimoniale né tanto meno valutare o quantificare pregiudizi morali o esistenziali, ma, richiamando ancora quanto magistralmente (67)

BoNA M., op. cit. .

(68) VENDER S., Prefazione, in GIANNELLI A . (a cura di), Follia e Psichiatria: Crisi di una relazione, Franco Angeli, Milano, 2007.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 2 7 5

affermato da Fiori, "sta di fatto che il giudice ed il liquidatore non visitano il danneggiato e si avvalgono, inevitabilmente, del tramite di un medico il quale, se veramente esperto, attraverso il contatto diretto e tutti gli accertamenti specialistici che può effettuare, è in grado di dare al committente tutte le informazioni di cui ha bisogno assoluto per un risarcimento integrale del danno" (69).

8.7. Il danno psichico alla vittima indiretta: la valutazione psi­ chiatrico forense del "lutto complicato".

L'interesse della Medicina Legale italiana per le conseguenze psicopatologiche correlate con un lutto familiare nasce, per così dire, e si sviluppa sulla spinta della già citata sentenza della Corte Costi­ tuzionale n. 372 del 1 994, che, riconoscendo che il lutto possa avere un'evoluzione in senso patologico, ha legittimato il familiare che ne è vittima a chiedere il risarcimento del danno. L'ipotesi che il lutto possa sconfinare nella patologia - fatta propria dalla giurisprudenza italiana - trova apprezzabili riscontri sul terreno scientifico, con la dimostrazione da parte della Psichiatria, di conseguenti sindromi depressive o ansiose, abuso di alcool, di­ sturbi fobici, suicidio ed altro (7°). Non mancano neppure comprovate evidenze che dimostrano come la circostanza del lutto si associ a diverse condizioni patologi­ che di tipo organico, come ad esempio le patologie del sistema immunitario, gli insulti cardiovascolari e persino le patologie neopla­ stiche (71). Questa maggiore vulnerabilità della persona in lutto rispetto alla malattia corrisponde peraltro ad una consolidata percezione sociale, ben testimoniata dalla locuzione "morto di crepacuore", conservata nel linguaggio popolare per intendere la morte di una persona in stretta successione cronologica rispetto ad un evento luttuoso parti­ colarmente doloroso. Affrontare dunque il tema del lutto in una cornice di tipo medico-legale implica la soluzione di complessi interrogativi che (69) FIORI A., Per una valutazione personalizzata medico-legale del danno biologico, in Riv. !t. Med. Leg. , 2009, 3:456. (7°) PARKES C.M., Bereavement, Tavistock Publications, London, 1 986; PRIGERSON H., BIERHALS A., KARL S.V., REYNOLDS C.F., SHEAR M.K., DAY N., BEERY L.C., NEWSOM J.T., 1AcoBs S., Traumatic griefas a risk factorforphisical and menta/ morbidity, in Am l Psych,

1 997, 1 : 1 54. (71) BIERHALS A.J., PRIGERSON H.G., FRANK E., REYOLDS C.F., FASICZKA A., MILLER M.D., Gender differences in complicated grief among the elderly, Omega 1 995; 1 :32.

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riguardano sia la natura della condizione afflittiva (espressione fisio­ logica del lutto vs manifestazione patologica), sia la derivazione causale/concausale dall'evento, sia la dimensione del pregiudizio invalidante. Il primo momento critico del percorso valutativo medico-legale riguarda, come accennato, la qualificazione dicotomica della condi­ zione afflittiva sul terreno della fisiologia del lutto ovvero della patologia. La perdita di una persona cara generalmente innesca un pro­ cesso inizialmente caratterizzato da sentimenti di sconforto, spesso accompagnati da insonnia, scarso appetito, perdita di peso, sensa­ zione di angoscia somatica e soggettiva, ovvero da timori, insicurezza, sentimenti di colpa, inquietudine, irrequietezza, apatia (72 ) . Molti autori ritengono che il lutto "normale" rappresenti una sindrome definita e abbastanza uniforme, caratterizzata da specifiche fasi di sviluppo (dello shock, della preoccupazione per il defunto, della risoluzione (73 )) , lungo un percorso di durata variabile (2-6 mesi, ma anche 1 2- 1 3 mesi a seconda degli autori), ben individuabile e corre­ labile con la personalità di base, con la cultura di appartenenza e con l'identità di genere del superstite. Sebbene sia universalmente accettato che l'elaborazione del lutto possa fallire o complicarsi dando luogo a problematiche psico­ patologiche riferibili a disturbi di tipo depressivo, ansioso, fobico, ecc., la fase diagnostico-prognostica risulta sempre molto delicata e particolarmente complessa. Interessanti studi clinici hanno accuratamente trattato le possi­ bili cause di alterazione del percorso del cosiddetto "lavoro del lutto", e cioè della fisiologica fase di riorganizzazione adattativa psicosociale che consente di accettare la perdita affettiva, e hanno evidenziato alcune delle condizioni che possono condurre a un lutto patologico, nelle forme del lutto "ritardato" o del lutto "complicato" o "distorto" . Già nel 1 944 Lindemann ( 74) h a descritto cinque varianti delle reazioni luttuose distorte: a) una persistente e compulsiva iperattività, senza senso di perdita; b) l'identificazione con il defunto e l'acquisi­ zione di sintomi riferibili all'ultima malattia dello stesso (sintomi di conversione); c) un deterioramento della salute del sopravvissuto, con (72) BANDINI T, ZACHEO A., La prospettiva medico legale nell'analisi del disturbo da lutto complicato. Considerazione su 58 casi peritali, in Rass. /t. Crim. , 2007, 1 : 1 . (73) BRowN J.T., STOUDEMIRE G.A., Norma/ and pathological grief, JAMA, 1 983, 2:250. (74) LINDEMANN E., Symptomatology and management ofacute grief, in Am l Psych 1 944, 1 : 1 5 1 .

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lo sviluppo di patologie organiche; d) l'isolamento sociale e il ritiro in se stessi; e) una grave depressione. Secondo il DSM-IV-TR alcuni sintomi, se presenti dopo due mesi dalla perdita, possono orientare verso la presenza di un disturbo depressivo maggiore. Questi sintomi sono così sintetizzati: sentimenti di colpa riguardanti cose diverse dalle azioni fatte o non fatte dal soggetto sopravvissuto al momento della morte; pensieri di morte diversi dal sentimento del soggetto sopravvis­ suto che sarebbe meglio fosse morto o che avrebbe dovuto morire con la persona deceduta; pensieri eccessivi e morbosi di inutilità; marcato rallentamento psicomotorio; prolungata e intensa compromissione di funzionamento; esperienze allucinatorie diverse dal pensare di udire la voce, o di vedere fuggevolmente l'immagine della persona deceduta. In realtà l'elaborazione del lutto può essere complicata dall'in­ sorgenza di diversi disturbi psicopatologici, che, utilizzando il DSM IV-TR, possono essere classificati, oltre che nelle categorie dei di­ sturbi dell'umore, anche in quelle dei disturbi d'ansia e dell'adatta­ mento. Horowitz (75), attraverso i dati ottenuti da uno studio clinico su casi di lutto complicato, sostiene che nel DSM dovrebbe essere inserita una specifica categoria diagnostica, per evitare che, a seconda della sintomatologia presentata, in caso di lutto prolungato e grave, i soggetti vengano distribuiti in categorie aspecifiche. Al fine di distinguere i soggetti con disturbo da lutto complicato che appaiono "congelati" nel lutto, da quelli sommersi dalla malinco­ nia o dalla collera o da disturbi dell'identità, l'autore suggerisce di utilizzare il sistema multiassiale, includendo il disturbo da lutto complicato nell'Asse I, accanto al disturbo depressivo maggiore, e differenziando ulteriormente i pazienti nei vari sottogruppi nell'Asse II relativamente ai disturbi di personalità. Il DSM-IV, secondo Horowitz, e altrettanto possiamo dire per il DSM-IV-TR, non possiede categorie sufficienti per differenziare le psi­ copatologie che seguono le esperienze luttuose, in quanto il disturbo depressivo maggiore non copre adeguatamente il quadro dei vari sin­ tomi rilevati nei pazienti che presentano problematiche psicopatolo­ giche riferibili a un'inadeguata elaborazione del lutto, i disturbi del(75) HoRowiTz M.J., Diagnostic criteria far complicated grief disorder, in Am J Psych, 1 997, 1 : 1 54. 10

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l'adattamento sono troppo indifferenziati per costituire una categoria diagnostica sufficientemente rilevante, e i criteri per il DPTS escludono alcune categorie di vittime comunemente osservabili. Per questi motivi questo Autore suggerisce di introdurre nel DSM questa nuova diagnosi, che può aiutare i clinici a formulare e trattare una patologia che non appare adeguatamente coperta dalla nosologia del manuale, proponendo per una diagnosi specifica di

disturbo da lutto complicato i criteri diagnostici sotto elencati: - Criterio relativo all'evento/risposta prolungata da lutto per la perdita di un coniuge, di un altro parente o di un partner almeno 14 mesi prima. - Segni e sintomi: presenza, nell'ultimo mese, di almeno tre dei seguenti sette sintomi, con una gravità che interferisce con il funziona­ mento quotidiano: a) sintomi intrusivi: l) memorie spontanee o fantasie intrusive collegate alla rela­ zione perduta; 2) forti cambiamenti (!abilità) o fitte acute di emozioni violente collegate alla relazione perduta; 3) angosciante e forte brama o desiderio che il deceduto sia presente; b) segni di evitamento o di incapacità di adattamento: l) sensazione di enorme solitudine o di vuoto interiore; 2) eccessivo allontanamento da persone, posti o attività che ricordano il defunto; 3) livelli inusuali di interferenza nel sonno; 4) perdita di interesse nel lavoro, in attività sociali, ricreative o di cura a un livello ma/adattivo. Turrini (76), sulla base di una casistica peritale relativa soprat­ tutto a persone che hanno perso un congiunto in incidenti stradali, segnala come elementi caratteristici di queste sindromi da lutto complicato:

il senso di ingiustizia e di rivendicatività; il rancore; l'assenza di ricerca di cure psichiatriche, fino all'esplicito rifiuto; il fatto che la sofferenza sia ritenuta normale; l'assenza di una vera e propria coscienza di malattia; i sentimenti di colpa e di autorimprovero nei riguardi della vittima; il fatto che, con il tempo, il dolore si acuisce invece di attenuarsi; le modificazioni del sentimento religioso, a volte affievolito o (76)

TuRRINI G., Dal lutto normale al lutto patologico, in !t J Psychopath, 2003, 1:9.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 279

respinto, altre volte dilatato al punto da essere espresso con modalità fanatiche. Nei casi di lutto patologico d'interesse medico-legale è frequente l'osservazione, anche a distanza di tempo, di molti dei sintomi descritti da Horowitz e di molti elementi, che potremmo considerare specifici delle vittime indirette di morti improwise e violente, in genere a causa di incidenti stradali, come indicato da Turrini. Più recentemente la ricerca ha rilanciato lo studio del lutto e delle sue reazioni patologiche, ribadendo come le manifestazioni del lutto complicato non coincidano appieno con quelle tipiche del disturbo depressivo maggiore (DDM) e neppure con nessuna delle categorie diagnostiche che più frequentemente si utilizzano per definire i disturbi d'ansia (Disturbo d'Ansia Generalizzato e Disturbo Post-Traumatico da Stress) tanto da suggerire che le manifestazioni osservate costituiscano una condizione patologica autonoma e defi­ nita (77). A tal proposito Prigerson e coli. (78) propongono un'entità nosografica specifica, definita Disturbo da Lutto Prolungato (Prolon­ ged Grief Disorder), secondo cui devono essere presenti i seguenti sei criteri diagnostici: "A. Criterio evento: lutto o perdita (di un altro emotivamente significativo). B. Distress da separazione: la persona deve sperimentare, giornal­ mente o con un'intensità tale da essere vissuta come stressante o invalidante, almeno l fra i 3 seguenti sintomi: l. pensieri intrusivi relativi alla relazione perduta; 2. intensa sensazione di dolore emotivo, pena, sofferenza derivata dalla perdita della relazione; 3. desiderare intensamente il ritorno della persona che è venuta a mancare. C. Sintomi cognitivi, emozionali, e comportamentali: la persona deve presentare, con una frequenza quotidiana e con un 'intensità tale da essere vissuta come stressante o invalidante, almeno 5 dei seguenti sintomi: l. confusione rispetto al proprio ruolo nella vita o diminuito senso di sé (es. sentire che una parte di sé è morta); 2. difficoltà nell'accettare la perdita subita; (77) SHEAR K FRANK E . . HoucK P.R .. REYNOLDS C.F Treatment ofcomplicated grief; JAMA, 2005; 1 :2 1 . (78) PRIGERSON H.G., HoROWITZ M.J., JACOBS s.e., PARKES C.M., AsLAN M., e coll., Prolonged Grief Disorder: Psychometric Validation of Criteria Proposed far DSM-V and ICD- 1 1 , PLoS Med, 2009, 6(8). .•

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Fandamenti

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evitamento dei ricordi riferiti alla veridicità dell'esperienza della perdita; 4. impossibilità a credere negli altri dopo la perdita; 5. amarezza o rabbia relativa alla perdita; 6. difficoltà nel portare avanti la propria vita (es.: farsi nuovt amici, perseguire interessi, ecc.); 7. assenza di emozioni dopo la perdita; 8. sentire che la vita è vuota, priva di significato, non realizzata 9. sentirsi scioccato, cristallizzato, sospeso, svuotato. D. Durata: almeno 6 mesi dall'inizio del distress da separazione. E. Criterio di danno: il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavora­ tivo o in altre aree importanti di vita (es. responsabilità domesti­ che quali cucinare, fare lavori di manutenzione, fare la spesa ... ). F. Relazione con altri disturbi mentali: Deve essere esclusa la possibilità che tali effetti siano determinati da una condizione psicologica pre-esistente o da una condizione medica intercorrente e che i sintomi non possano essere spiegati come un disturbo depressivo maggiore, come un disturbo d'ansia generalizzato o come un disturbo post traumatico da stress". 3.

Onde poter valutare adeguatamente questo tipo di danno è comunque e sempre necessario tenere nella massima considerazione alcuni elementi relativi all'evento luttuoso ed alcune caratteristiche di personalità delle cosiddette vittime indirette, che sono stati descritti e considerati come fattori che possono favorire o comunque condizio­ nare lo sviluppo di problematiche psicopatologiche.

Parkes (79) , sulla base di un'ampia ricerca su donne che hanno manifestato disturbi psicopatologici "da lutto", segnala i seguenti fattori che sono risultati alla base della mancata elaborazione fisio­ logica del lutto stesso: esperienze di perdita di persone significative, specie nell'infan­ zia; precedenti disturbi psichici, in genere a sfondo depressivo­ ansioso; precedenti "crisi esistenziali"; particolare intensità della relazione con l'estinto (parentela, grado di fiducia, tipo di attaccamento); modalità della morte (repentinità assoluta, necessità di nascon­ dere i propri sentimenti). (79) PARKEs C.M., Detenninants of outcome following bereavement. Omega 1975; 6:303; PARKES C.M., Il lutto: studio sul cordoglio negli adulti, Feltrinelli, Milano, 1980.

La valutazione del danno biologico di natura psichica 2 8 1

Anche altri autori (8°) hanno dimostrato, in particolare, che le caratteristiche e le circostanze della morte della vittima primaria assumono una notevole importanza sulla possibile elaborazione del lutto. Una morte inattesa e improvvisa non permette alla vittima indiretta di prepararsi emotivamente alla perdita, e cioè di affrontare la fase del cosiddetto "lutto anticipatorio" che si elabora nel caso di malattia del proprio caro e che a volte può far sì che al momento della morte della persona amata il processo di elaborazione del lutto risulti pressoché terminato. Nei casi di osservazione peritalc molte volte le circostanze della morte sono vissute dalla vittima indiretta in modo drammatico: i soccorsi sono stati tardivi, il responsabile dei fatti rideva e scherzava, la notizia della morte è stata data per via telefonica, non è stato possibile avvicinarsi e vedere il cadavere per alcuni giorni, il respon­ sabile non si è neppure scusato, l'automobile era stritolata, insangui­ nata ecc. Come sottolineato da Bandini e Zacheo (81 ) , è frequente sentirsi dire da una madre o da un padre che hanno perso un figlio in un incidente stradale che non riescono a superare il dolore da quando hanno saputo che il guidatore dell'automobile assassina era ubriaco o era un tossicodipendente o correva troppo forte o altro ancora. Molte volte il rancore nei riguardi del responsabile della perdita assume i contorni di una vera e propria idea paranoide, che permea profonda­ mente il pensiero e che impedisce una risoluzione fisiologica del lutto. Altre volte i fatti vengono riletti e rielaborati a distanza di tempo, determinando un'interruzione e una complicazione dell'ela­ borazione fisiologica del lutto. Una madre che aveva perso un figlio in un incidente automobi­ listico e che era riuscita a superare le prime fasi del lutto in modo fisiologico, manifestò un lutto complicato, particolarmente grave, allorché si sentì dire dal giudice che la colpa dell'incidente era di suo figlio. La vittima dell'incidente diventava improvvisamente il colpe­ vole, alterando tutto il processo di rielaborazione del lutto e non consentendo alla vittima indiretta di accettare emotivamente questa nuova realtà (82). Altro elemento d'importanza essenziale è relativo alle caratteri(BO) RAPHAEL B., Preventive intervention with the recently bereaved, in Arch Gen Psych 1 977; 34: 1 450. (BI) BANDINI T, ZAcHEO A., op. cit. . ( 8 2) BANDINI T., in VoLTERRA V. (a cura di), op. cit. .

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stiche di personalità del soggetto sopravvissuto. Molte volte nel­ l'anamnesi della vittima indiretta è possibile evidenziare un prece­ dente lutto grave (perdita di un genitore, di un altro figlio o altro), elaborato in modo frettoloso, a volte con le modalità del cosiddetto "lutto assente", per ragioni personali, familiari o sociali, che in occasione del secondo lutto riappare emotivamente e non consente una fisiologica "cicatrizzazione della ferita" (83). Bowlby (84) sottolinea l'importanza, in molti casi di lutto pato­ logico, delle precoci perdite traumatiche nell'infanzia. Lindemann (85) osserva che i soggetti con tratti ossessivi sono più inclini a sviluppare un lutto complicato. In realtà ciascuno di noi porta con sé una personalità premor­ bosa, che in qualche modo lo predispone a una specifica reazione o malattia. Gli antropofenomenologi sottolineano l'importanza del con­ cetto di "vulnerabilità", come elemento cruciale nella dialettica "diatesi-stress". Stanghellini (86) in particolare definisce il concetto di "vulnera­ bilità endotimica" e postula l'esistenza di un "continuum di stati affettivi, che congiunge le fisiologiche oscillazioni timiche, a un 'estre­ mità, con le disposizioni del temperamento e con i disturbi affettivi nella loro piena espressione clinica, dall'altra estremità". Chiaro è che ciascun tipo di personalità "imprime il proprio sigillo sull'oscillazione depressiva o espansiva" e chiaro è che nei casi d'interesse medico-legale il legame tra personalità e patologia rappre­ senta anche un forte elemento di obiettivazione e dimostrazione del quadro clinico. E ancora, nei fattori che possono determinare un lutto patolo­ gico, va segnalata l'importanza della quantità e qualità del legame, nonché del grado e del significato dell'investimento affettivo tra la vittima diretta e quella indiretta. La natura della relazione interpersonale tra il sopravvissuto e il defunto è stata oggetto di numerosi studi descrittivi (87) , i quali hanno dimostrato che la dipendenza eccessiva, l'ambivalenza, a volte l'osti­ lità o altri conflitti nevrotici possono impedire una fisiologica elabo­ razione del lutto. (8 3) BRowN J.T., STOUDEMIRE G.A., op. cit. . (84) BowLBY J., Pathological mouming and childhood mouming, i n J Psychoanalitic Ass 1 963; l : 1 1 . (Bs) LINDEMANN E., op. cit. . (86 ) STANGHELLINI G., Antropologia della vulnerabilità , Feltrinelli, Milano, 1 997. (87) LINDEMANN E., op. cit. ,; RAPHAEL B., op. cit. .

La valutazione del danno biologico di natura psichica 2 8 3

Il genitore che perde u n figlio nel momento della sua maggior conflittualità e contrapposizione adolescenziale molte volte si trova a lottare con reazioni emotive difficilmente riconducibili a un riadatta­ mento psicologico. Infine, sempre nelle cause che rendono difficoltosa una fisiolo­ gica risoluzione del lutto, sono state ricordate le caratteristiche dell'ambiente sociale e familiare. Maddison e Walker (88) in un'interessante ricerca clinica segna­ lano che le vedove che mostravano un'evoluzione complicata del lutto percepivano, rispetto alle altre, l'ambiente circostante (familiare, amicale e sociale) come maggiormente incapace di soddisfare le proprie necessità durante il periodo del lutto. In questa ricerca le vittime di un lutto complicato sono risultate danneggiate dalla man­ canza di incoraggiamento nell'espressione delle proprie emozioni, dall'impossibilità di parlare del proprio marito e da una carenza concreta di aiuti pratici da parte dell'ambiente circostante. È a tutti noto che nella nostra cultura soprattutto i genitori che perdono improwisamente un figlio tendono a chiudersi in una realtà limitata, che non consente loro di ottenere quegli aiuti esterni che potrebbero favorire il superamento della perdita, con conseguenze a volte irrimediabili. Gli aspetti medico-legali relativi a questo tipo di danno e l'importante giurisprudenza di numerosi tribunali e della Corte di Cassazione sono stati ampiamente analizzati e puntualizzati da molti autori. Sono state specificate le caratteristiche di queste consulenze e sono stati indicati i quesiti essenziali che devono essere posti al consulente in tema di valutazione del danno psichico da lutto, owero del "danno biologico da lutto", come Buzzi e Vanini (89) preferiscono che venga denominato, per utilizzare una locuzione che meglio si attagli "ai presupposti biomedici della fattispecie » e che contenga anche le « reazioni psicosomatiche", oltre ai disturbi puramente psichi ci. In particolare, è da tutti riconosciuto che in questo tipo di indagini il consulente avrà il compito essenziale di: diagnosticare correttamente una qualche forma psicopatologica nella vittima indiretta; dimostrare il rapporto di causa tra la perdita affettiva, l'elabo­ razione fisiologica o patologica del lutto e l'eventuale disturbo psicopatologico presente; ( 88) MAnmsoN D . , WALKER W.L. , Factors affecting the outcome of conjugal bereave­ ment, in Br J Psych, 1 967, 1 1 3 : 1 057. (89) Buzzr F., VANINI M., op. cit. .

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Fondamenti di psicopatologia forense accertare la cronicizzazione e la stabilizzazione di tali disturbi; descrivere attentamente e valutare l'incidenza di preesistenze morbose o di diatesi patologiche; considerare concretamente l'entità delle modificazioni peggio­ rative tra il prima e il dopo, valutandola percentualmente.

Come si è cercato di dimostrare, appaiono ben articolati e documentati sia la sintomatologia, sia l'evoluzione, sia i fattori che possono influenzare uno sviluppo patologico del lutto e una sua stabilizzazione. Per ciò che riguarda la possibile fruibilità di questi dati nel campo forense si può senz'altro affermare che una corretta analisi del caso può consentire di giungere a un'obiettiva distinzione tra lutto fisiologico, che verrà considerato ai fini risarcitori nella categoria del cosiddetto danno morale, e lutto patologico, complicato e persistente, che verrà considerato nella categoria del cosiddetto danno biologico. Da un punto di vista clinico risulta tuttavia difficile accettare che le conseguenze di una grave perdita affettiva possano essere distinte in due categorie così differenti e lontane come quelle della normalità o della patologia. Spesso risulta che un soggetto è riuscito a rielaborare il lutto, risolvendo i suoi momenti depressivi o altrimenti patologici, ma rimanendo danneggiato nella sua quotidianità, nella vita di tutti i giorni, nella sua felicità personale. Per questi motivi, proprio in questi casi risulta forte la tenta­ zione dello psichiatra forense di fornire al magistrato una risposta più articolata circa le conseguenze del danno da lutto, che consideri sia la possibilità di una risoluzione dello stesso senza danno personale, sia la descrizione di un eventuale danno esistenziale, sia la valutazione di un danno biologico vero e proprio.

8.8. Il danno psichico da mobbing. In questi ultimi anni la Psichiatria Forense si è occupata con sempre maggior frequenza della valutazione dei disturbi psicopatolo­ gici conseguenti a condotte illecite in ambiente di lavoro. In particolare, ci si riferisce a tutte quelle condizioni di violenza psicologica in ambito lavorativo che, anche a livello mediatico, vengono, spesso impropriamente, racchiuse nel concetto di "mob­ bing". Tale termine deriva dall'inglese "to mob", che significa assalire, soffocare, vessare o malmenare, e nel linguaggio comune indica una

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forma di vessazione, di aggressione, di violenza psicologica perpetrata nei confronti di uno o più lavoratori. Secondo Leymann (90), tale fenomeno può essere definito come una "comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili". Ege (9 1 ), preferisce identificare il "mobbing" con la definizione di "forma di terrore psicologico sul posto di lavoro esercitata attraverso comportamenti aggressivi e ripetuti da parte di colleghi o superiori attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno sei mesi. In seguito a tali attacchi la vittima progressivamente precipita in una condizione di estremo disagio che cronicizzandosi si ripercuote negativamente sul suo equilibrio psico-fisico". La giurisprudenza, infine, ha stabilito che per "mobbing" si intende "una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati compor­ tamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione mo­ rale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità" (92). Gli elementi costitutivi di tale nozione, secondo Ege (93), sono: l'ambito lavorativo; la frequenza, la durata, la reiterazione e la particolare intensità delle azioni vessatorie intraprese, con relativo parimenti intenso e rilevante danno patito dalla vittima; l'intento persecutorio e/o discriminatorio posto in essere nei confronti della vittima. In particolare, la giurisprudenza sottolinea che "ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; h) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del (90 ) LEYMANN H., The content and development of mobbing at work, in Eur I Work Org Psychol, 1 996, 5 : 165. (9 1 ) EGE H., Il mobbing ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro e la situazione italiana, Il Mulino, Bologna, 1 996. (92) Cass. civ.,sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785. (93) EGE H., La valutazione perita/e del danno da mobbing, Giuffrè, Milano, 2002.

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datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fìsica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" ( 94) . Tali azioni, dunque, come rilevano Cerisoli e Vasapollo (95 ), devono essere regolari, sistematiche e di lunga durata; esse vengono perpetrate da uno o più mobber (persecutori) con la finalità di danneggiare intenzionalmente una terza persona (il "mobbizzato"). Si tratta di vere strategie comportamentali mirate ad una distruzione psicologica, sociale e professionale della vittima. Le condotte mobbizzanti sono state sintetizzate da Ege in 5 classi ( 96): attacchi ai contatti umani (limitazione della possibilità di espri­ mersi, rimproveri ed urla, continue critiche, minacce verbali o scritte); isolamento sistematico (assegnazione di un luogo di lavoro in isolamento dai colleghi, esclusione da parte degli altri); cambiamenti delle mansioni (assegnazione di compito senza senso, di lavori umilianti); attacchi alla reputazione (pettegolezzi, voci false, ridicolizza­ zione del lavoratore, attacco alle sue idee politiche); violenza o minaccia di violenza (costrizione del lavoratore a svolgere lavori lesivi per la sua salute, minacce di violenza fisica, ecc.). Sempre secondo Cerisoli e Vasapollo, esistono due tipologie di mobbing: verticale ed orizzontale. Il primo (mobbing verticale) si realizza qualora l'attività persecutoria nei confronti del mobbizzato venga attuata da un superiore gerarchico, il quale, superando i limiti della propria supremazia, sottopone il lavoratore a soprusi e ad umiliazioni. Il mobbing orizzontale, al contrario, ricorre nel caso in cui l'azione discriminatoria venga attuata, come in genere awiene, da colleghi di lavoro o da altre persone, sempre in ambito lavorativo, ma non legate da un vincolo contrattuale. Benché venga spesso utilizzato il termine di "mobbing" quale espressione per definire ogni situazione di malessere e disagio sul luogo di lavoro, nell'ambito clinico ed anche- più recentemente­ nel panorama giuridico si vanno sempre con maggiore precisione delineando figure differenti e maggiormente specifiche nella defini­ zione delle varie situazioni di conflittualità lavorativa che possono

(94) (95) (96)

Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785. CERisou M., VASAPOLLO D., op.cit.. EGE H., La valutazione perita/e del danno da mobbing, Giuffrè, Milano, 2002.

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danneggiare il lavoratore, ma anche l'organizzazione aziendale così come, in senso più ampio, la collettività (97). Una tra queste è il c.d. "straining", categoria mutuata anch'essa dalla scienza medica e così sintetizzabile: mentre il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità, lo straining, in via parzial­ mente coincidente ma in parte diversa, è "una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante" (98) . Secondo la giurisprudenza (99), perché si realizzi tale fattispecie è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (p.e. gravissimo demansionamento o marginalizzazione lavorativa). Tanto premesso, certo è che tali condotte possono assumere un ruolo psicolesivo, andando cioè ad alterare in modo rilevante l'equi­ librio psichico della vittima, e, a volte, determinando delle conse­ guenze psicopatologiche nella vittima tali da configurare un vero e proprio danno biologico di natura psichica. Le principali conseguenze psicopatologiche che, sul piano valutativo-risarcitorio, possono configurare un danno biologico di natura psichica, temporaneo o permanente, nella vittima di mobbing sono ben descritte in Letteratura ( 1°0) ed ampiamente differenziate dal punto di vista nosografico. Secondo Marasco e Zenobi ( 101 ), le patologie più frequentemente registrate nei casi di danno biologico da mobbing rimandano preva(97) EcE H., Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre fanne di conflittualità sul posto di lavoro, Franco Angeli, Milano, 2005. (98) Ibidem. (99) Trib. Bergamo, 21 aprile 2005. (100) BRoDSKY C.M., The harassed worker, Lexington Books, Toronto, 1 976; ZAPF D., KNoRz C., KuLLA M., On the relationship between mobbing factors, and job content, social work environment, and health outcomes, in Eur J Work Org Psychol, 1 996, 5 : 2 1 5-237; KELLOWAY E.K., BARLING J., HuRRELL J., Handbook ofworkplace violence, Sage, California, 2006. ( 101) MARAsco M., ZENOBI S., Mobbing: considerazioni psichiatrico-forensi e medico­ legali, in Difesa Sociale, 2003, 3:75-80.

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lentemente a quadri nosograficamente inquadrabili, secondo i criteri del DSM-IV-TR, nell'ambito del Disturbo d'Ansia Generalizzato, del Disturbo dell'Adattamento, del Disturbo Distimico e del Disturbo Post Traumatico da Stress. Secondo Cerisoli e Vasapollo ( 1 02 ) , il quadro clinico più facil­ mente riscontrabile in corso di mobbing è rappresentato dal "Di­ sturbo dell'Adattamento", mentre per quanto riguarda il "Disturbo Post-Traumatico da Stress", questi Autori ritengono che l'uso di tale diagnosi sia improprio, in quanto "le caratteristiche specifiche di questo disturbo non possono essere applicate ad un simile evento". Certo è che in tutti i casi, la valutazione psichiatrico forense dovrà occuparsi non solo degli aspetti clinico-diagnostici, ma anche dell'accertamento del nesso di causa tra condotta stressante e conse­ guenze psicopatologiche, nonché della definizione prognostica circa il destino delle conseguenze dannose e della complessiva quantifica­ zione dell'eventuale danno biologico derivato alla vittima. Resta owiamente esclusa dalle operazioni peritali l'acquisizione di elementi di prova finalizzata a qualificare la natura illecita di una condotta vessatoria, aggressiva o comunque offensiva realizzata sulla vittima dal diretto superiore o dai colleghi nel contesto lavorativo. Accantonato ormai definitivamente l'indirizzo approssimativo suggerito dalla nota sentenza del Tribunale di Torino del 1 6 novembre 1 999, ove si sostiene che un'indagine di tipo medico legale sarebbe superflua nei casi in cui sia dimostrata l'azione mobbizzante e sia presente una sindrome psicopatologica concomitante, nella consue­ tudine è pacificamente riconosciuto allo psichiatra forense il privile­ gio di cimentarsi per sciogliere il nodo della causalità quando questo intreccia il campo delle psicopatologie ( 103 ) . La dimostrazione del nesso di causa intercorrente fra la con­ dotta persecutoria e la patologia psichiatrica lamentata dalla vittima non può naturalmente ritenersi compiuto e risolto nella semplice constatazione della concomitanza temporale fra l'ingresso della vit­ tima nell'ambiente lavorativo e l'insorgenza della malattia ( 1 04 ). È fin troppo evidente che l'alterazione dell'integrità psicofisica potrebbe dipendere da fattori differenti, dalla vita familiare, da uno (102 ) CERisou M., VASAPOLLO D., op. cit. . (103) MARINELLI E., ZAAMI S., SANTINI I., Il mobbing. Analisi della giurisprudenza e delle proposte di normazione ad hoc nella prospettiva medico-legale, in Zacchia, 2003, 4 : 654 ; MARAsco M., ZENOBI S., Mobbing: considerazioni psichiatrico-forensi e medico­ legali, in Difesa Sociale, 2003, 3:75-80. ( 104) ALt G., Il danno psichico da mobbing attraverso l'analisi di due recenti sentenze del Tribunale di Torino, in Atti del Convegno Nazionale di Medicina Legale Previdenziale di S. Margherita di Pula, 1 1 - 1 3 ottobre 2000.

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stato di difficoltà emotiva, da turbamenti del tutto diversi e persino da comportamenti legittimi del datore di lavoro vissuti tuttavia in modo irragionevole dal prestatore d'opera ( 1 05 ) . Si intende dire, parafrasando il pensiero di Introna (106 ), seppur non riferito a questa specifica tematica, che il superiore o i colleghi potrebbero, in ipotesi, aver tenuto una condotta anche gravemente vessatoria, persecutoria o aggressiva, e ciò nonostante l'evento dan­ noso finale potrebbe non essere dipeso da tale condotta, ma dall'in­ tervento di altro fattore (psicolesivo) sulla persona del lavoratore. Dare inoltre per scontato il nesso di causa dopo che si è accertata una condotta tipo "mobbing" o "straining", significa con­ fondere i piani dell'accertamento della responsabilità aquiliana incar­ dinati nel principio generale del "neminem laedere" dettato dall'art. 2043 c.c., oltre che di quella datoriale contenuta nell'art. 2087 c.c.: si confeziona così un ragionamento presuntivo in cui si deduce il nesso causale senza accertare la reale incidenza avuta dalla condotta sul determinismo dell'evento dannoso. Una corretta valutazione di questi eventi non può, pertanto, essere limitata agli aspetti più prettamente clinico-diagnostici, ma deve addentrarsi nel complesso campo dell'accertamento del nesso causale tra evento psicolesivo e integrità psichica, come ampiamente trattato nel quarto paragrafo di questo Capitolo.

8.9. Il danno psichico alla vittima di stalking.

Sono molteplici gli eventi psicotraumatici che possono interes­ sare le persone nel corso della loro vita (catastrofi naturali, incidenti, separazione, divorzio, allontanamento dei figli, ecc.), ed in particolare quelli derivanti da condotte illecite poste in essere da terzi (violenza sessuale, sequestro di persona, lesioni personali, ecc.). In tutti questi casi, certamente potrà essere richiesto allo psi­ chiatra forense un parere tecnico finalizzato all'accertamento di eventuali conseguenze psicopatologiche sulle vittime, tali da configu­ rare un danno biologico di natura psichica. In tale contesto, tuttavia, negli ultimi anni, ha assunto un ruolo rilevante una specifica fattispecie, che, anche per gli importanti (1°5) GRAGNOLI E., Il mobbing nei rapporti di lavoro, Relazione in Incontro di Studio organizzato dal Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro "Domenico Napoletano" Sezione di Cosenza, 12 aprile 2003. ( 1°6) INTRONA F., Metodologia medico-legale nella valutazione della responsabilità medica per colpa, in Riv. /t. Med. Leg. , 1 996, 17: 1 295- 1 3 50.

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riflessi criminologici, riteniamo opportuno trattare in modo pecu­ liare. La sistematica violazione della libertà personale posta in essere mediante stalking, ovvero per mezzo di "comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e comunica­ zione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi" ( 107) può condurre a reazioni psichiche delle vittime, a volte tali da comportare una vera e propria menomazione della integrità psicofisica della persona tanto da rendere necessaria un'indagine medico legale di valutazione del c.d. danno biologico. Il medico legale il più delle volte prende coscienza dello stalking soltanto in occasione di fattispecie delittuose di maggior portata (violenza sessuale, tentato omicidio, omicidio, omicidio-suicidio, stragi familiari). Solo allora, nel tentativo di comprendere i motivi di un'improvvisa condotta violenta, ecco emergere continue violazioni della riservatezza telefonica e della posta elettronica, appostamenti, pedinamenti, calunnie, minacce di violenza, diffamazioni, scritte offensive sui muri, logoranti dispetti tra vicini di condominio, ritor­ sioni senza fine, lamentele continue, scope battute sulla parete divi­ soria, cause intentate pretestuosamente, assillanti e rabbiose atten­ zioni o persecuzioni di un corteggiatore geloso o rifiutato, ecc . . Spesso ci s i rende conto che gli elementi dello stalking non sono stati segnalati o sono stati ignorati, trascurati e sottovalutati. Luberto ( 108) afferma, al proposito, che il timore di rappresaglie, oppure - specie nello stalking tra ex intimi - il pudore e il senso di colpa che affliggono il partner responsabile di avere interrotto la relazione affettiva, possono molte volte scoraggiare la vittima dal darne segnalazione all'autorità giudiziaria o persino dal parlarne con i propri cari. Si tratta comunque di un fenomeno in larga misura sommerso, principalmente e semplicemente perché sprovvisto di nome, prima ancora che di un'efficace tutela giuridica. In questa prospettiva dunque, anche nel nostro Paese, con il D.L. 23 febbraio 2009, n. 1 1 , convertito nella L. 23 aprile 2009, n. 38, è stato introdotto il novello art. 6 1 2-bis c.p. (Atti persecutori) ( 109), che va ( 107) CuRCI P., GALEAZZ1 G.M., SECCHI C., La Sindrome delle molestie assillanti, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. ( 108) LuBERTO S., Le Molestie Assillanti: profili criminologici, psichiatrico-forensi e medico-legali, in CuRCI P., GALEAZZI G.M. e SECCHI C. (a cura di), La sindrome delle molestie assillanti, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. ( 109 ) "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito . . . chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave

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definire nell'ordinamento giuridico una fattispecie penale tipica per lo stalking, per i cui risvolti psichiatrico forensi si rimanda al Capitolo 6. Sulla base di questa nuova definizione normativa, inoltre, lo psichiatra forense potrebbe essere chiamato ad esprimersi anche sul terreno diverso, ma altrettanto arduo, dell'accertamento di una cor­ relazione causale tra stalking ed eventuali conseguenze psicopatolo­ giche, della determinazione della natura del danno, della definizione prognostica circa il destino delle conseguenze dannose accertate, cioè della complessiva qualificazione e quantificazione dell'eventuale danno biologico derivato alla vittima. In verità nessuno dubita che lo stalking, pur comprendendo un ventaglio di situazioni anche molto diverse fra loro, sia idoneo a perturbare l'equilibrio psichico di chi ne è investito. Le principali conseguenze psicopatologiche che, sul piano valutativo-risarcitorio, possono configurare un danno biologico di natura psichica, temporaneo o permanente, nella vittima di stalking sono ben descritte in Letteratura ( 1 10 ) ed ampiamente differenziate dal punto di vista nosografico. Come compiutamente rilevato da Cingolani e coll. ( 1 1 1 ) , i quadri psicopatologici più comuni sono rappresentati dai Disturbi dell'Umore (Disturbo dell'Adattamento, Disturbo Distimico e Disturbo Depressivo Maggiore), dai Disturbi d'Ansia (Disturbo d'Ansia Generalizzato, Disturbo Post Traumatico da Stress e Disturbo di Panico) e dai Disturbi Somatoformi. In particolare, alcuni Autori ( 1 1 2 ) descrivono una vera e propria sindrome specifica nella vittima di stalking, definita "STS" (Stalking Trauma Syndrome) e caratterizzata da aspetti analoghi ad altre fattispecie quali il disturbo post traumatico da stress, la sindrome da maltrattamento e la sindrome da trauma da rapimento. È pur vero che la dimostrazione del nesso di causa intercorrente fra una condotta tipo stalking e una patologia psichiatrica lamentata dalla vittima potrebbe dipendere, in modo esclusivo o concausale, da fattori differenti e riconducibili, ad esempio, a vissuti familiari problematici, a disagio lavorativo, a stati di difficoltà emotiva, a stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita . . . . ( t t O) MASTRONARDI V., Stalking o Sindrome delle Molestie Assillanti, in VoLTERRA V. (a cura di), op. cit. ; FoRNARI V., op. cit. . ( t t t ) BENEDETTO G., ZAMPI M., Ricci MEssoRI M., CINGOLANI M., Stalking: Aspetti Giuridici e Medico-legali, in Riv. It. Med. Leg. , 2008, 1 : 1 27. ( 1 1 2 ) CoLLINS M., WILKAS M., Stalking trauma syndrome and the traumatized victim, in DAVIS J. (a cura di), Stalking crimes and victim protection, Sage Publications, Beverly Hills, 200 1 . "

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turbamenti del tutto diversi e persino a preesistenti disturbi psichici della vittima, in conseguenza dei quali, comportamenti del tutto legittimi verrebbero percepiti in modo irragionevole e ricondotti ingiustamente entro la cornice dello stalking. Molte condotte attraverso le quali si manifesta lo stalking, pur essendo spesso innocue ed evitabili se singolarmente considerate, viste nel loro ossessivo insieme possono configurare invece una gravissima invasione della sfera personale della vittima, che si trova costretta a cambiare abitudini, talvolta lavoro, domicilio e recapiti telefonici, ed a vivere un'esistenza continuamente condizionata dalla presenza del molestatore. Lo stesso controllo della posta, delle e-mail o degli sms, l'invio di lettere o doni sgraditi, i messaggi nella segreteria telefonica e così via, sono momenti della quotidianità della vittima in cui il molestatore esercita il suo potere destabilizzante. La vita della vittima si svolge nel continuo sospetto e nella paura che la molestia possa sfociare in pericoli per l'incolumità propria o dei propri congiunti. In proposito, Hall ( 1 13) segnala che nell'83% dei casi le vittime di stalking diventano meno socievoli, introversi, più cauti, paranoici, aggressivi e facili da spaventare rispetto a quanto non lo fossero in precedenza. Innumerevoli dunque i riflessi lesivi: tenere a casa i bambini, uscire solo a certe ore, evitare gran parte delle strade, temere ogni stridio di freni, aver paura nel salire in macchina, indugiare sulla porta di casa, sobbalzare ad ogni squillo di campanello, dubitare di ogni passante nel quartiere, esitare a svoltare gli angoli, ecc . . Non meno traumatico risulta lo stalking agito per mezzo di denunce infondate o pretestuose, tali comunque da far sì che la vittima debba sottoporsi ad accertamenti giudiziari inattesi, attendere che la verità venga appurata, sopportare il frequente screditamento della reputazione personale, sostenere le spese legali, ecc . . Certo è che le conseguenze di tali traumi sulla vittima di stalking non necessariamente si esauriscono con la rimozione della causa generatrice né tanto meno in funzione di un ritrovato equilibrio psichico. Molte volte lo psichiatra forense, nella valutazione della vittima di stalking, riesce ad escludere la presenza di conseguenze patologi­ che vere e proprie tali da menomare l'integrità psichica della persona, ( 1 13 ) HALL D.M., The victims of stalking, in MELOY J.R. (ed.), The psychology of stalking, Academic Press, San Diego, 1 998.

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ma evidenzia e descrive importanti modificazioni ed alterazioni della sfera emotiva, affettiva, relazionale, che rappresentano comunque un danno ed una limitazione delle possibilità della persona di realizzarsi autonomamente e di vivere positivamente la sua vita. In tali casi, alla luce dell'ampia accezione del danno non patrimoniale sancita dalle sezioni unite della Suprema Corte ( 1 1 4) quando il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente) come reato, è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conse­ guente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (per esem­ pio c.d. danno biologico ex art. 32 Cost.), ma anche quello conse­ guente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, e tuttavia meritevoli di tutela in base all'ordinamento giuridico (secondo il criterio dell'ingiustizia ex art. 2043 c.c.). In altre parole, quando l'illecito civile è considerato dall'ordina­ mento anche come reato, il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto a prescindere dall'accertamento della lesione di un diritto costituzionale inviolabile della persona ( 1 1 5 ) . L'introduzione nell'ordinamento penale della fattispecie tipica dello "stalking", ha, pertanto, determinato la risarcibilità del conse­ guente danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, per cui, dal punto di vista dell'indagine psichiatrico forense, emerge l'esigenza di raccogliere ed analizzare più informazioni possibili circa le alterazioni negative dell'evento dannoso, illustrandone la gravità e la compatibilità con le lesioni riportate. Un accurato studio clinico, con l'ausilio di specifici test psico­ diagnostici, può permettere di ricostruire le dinamiche attraverso le quali la vittima ha elaborato il trauma inserendolo nella propria esperienza esistenziale e nella propria realtà psichica, così da spiegare i significati personali attribuiti agli atti persecutori che sono stati subiti e dunque gli spazi di genuinità del disturbo che si è sviluppato, nonché di differenziare le diverse situazioni psichiche che possono determinarsi a causa dello stalking.

( 1 14) Cass. civ., SS.UU., 1 1 novembre 2008, n. 26972. ( 1 1 5) PoTETTI D., Sintesi, elaborazione e osservazioni sulla sentenza delle Sezioni Unite Civili, n. 26972 del 2008, in tema di danno non patrimoniale, in Archivio giuridico della circolazione e dei sinistri stradali, 2009, 5:2 1 3 .

Capitolo IX LE INDAGINI PSICOLOGICHE E PSICHIATRICHE SULLA FAMIGLIA ( ! )

SoMMARio: 9. 1 . Realtà familiari e contesto giudiziario. - 9.2. L'annullamento del matrimonio civile e canonico: aspetti psichiatrico forensi. - 9.3. Adozione e affidamento familiare. - 9.4. L'affidamento del minore in caso di separazione e divorzio. - 9.5. L'ascolto del minore. -

9. 1 . Realtà familiari e contesto giudiziario.

Un settore di intervento peritale che in questi ultimi anni continua a registrare una notevole evoluzione è senza dubbio quello dei procedimenti giudiziari che interessano la famiglia. L'impegno degli psicologi e degli psichiatri forensi in questo contesto è alimentato dalla crescente complessità e differenziazione della realtà familiare e dalla conseguente difficoltà dell'Autorità giudiziaria a far fronte, attraverso gli strumenti della legge, alle spesso drammatiche e sofferte situazioni esistenziali dei genitori e dei figli o di altri componenti di nuclei familiari in difficoltà. Nell'approccio a queste delicate problematiche è pertanto neces­ sario essere a conoscenza della evoluzione e della specificità dei modelli strutturali e relazionali attraverso i quali l'istituzione fami­ liare si esprime nella realtà sociale contemporanea. Con il passaggio dall'antica società rurale alla moderna società industrializzata si è intrapreso il processo di disgregazione della struttura familiare di tipo patriarcale, con una marcata riduzione dei suoi membri (passaggio alla famiglia nucleare) e un deciso ridimen­ sionamento dei poteri del capo famiglia. Anche il sistema produttivo (e, oltre a questo, quello politico) ha sollecitato continui mutamenti nella evoluzione della struttura fami­ glia e nell'assetto dei rapporti di genere. Si collocano in questo ( 1 ) Capitolo redatto con la collaborazione della Dott.ssa Linda Alfano, psicologa, psicoterapeuta e dottore di ricerca in Bioetica, e della Prof.ssa Rosagemma Ciliberti, Associato di Bioetica presso l'Università di Genova.

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contesto le conseguenze che il progressivo inserimento della donna in tutti i livelli dell'organizzazione sociale ha determinato nella configu­ razione della struttura familiare e nella continua (ri)definizione dei ruoli. Le profonde rivoluzioni sociali, economiche e, anche, morali degli ultimi anni continuano a sovvertire i tradizionali schemi antro­ pologici della famiglia, determinando un pluralismo di configurazioni e assetti, e condizionando nuovi modelli relazionali e nuovi fenomeni, tra i quali ricordiamo: l'aumento di nuclei familiari composti unicamente da un geni­ tore e da un figlio; la progressiva perdita di figure significative per la vita della famiglia, come quelle dei nonni o di altri congiunti, che spesso sono del tutto assenti dalla vita dei minori, e che, se presenti, non raramente "scompaiono" con la separazione dei coniugi; la sempre maggiore attività lavorativa e quindi la minor pre­ senza, in termini temporali, della donna all'interno della fami­ glia; la crescente espansione, nell'ambito lavorativo, di ruoli direttivi coperti dalle donne con il conseguente riconoscimento di un trattamento economico anche preminente (se non esclusivo), attributivo di una nuova affermazione e identità personale capaci di incidere significativamente nei rapporti con il proprio compagno e nella gestione dci rapporti genitoriali; lo sviluppo di nuove famiglie da parte dei separati e dei divorziati, con la riunione dei figli nati dalle precedenti espe­ rienze, e con lo sviluppo di nuove forme di relazione affettiva nei confronti dei nuovi fratelli, dei compagni dei genitori, e dei congiunti di questi ultimi; la attribuzione della funzione genitoriale anche a soggetti diffe­ renti della coppia, con la autorizzazione alla adozione anche a persone sole, o, in casi ancora rari ed estranei alla realtà italiana, a coppie omosessuali. Si può pertanto affermare che non esiste più un unico modello di famiglia, ma che coesitono esperienze anche molto differenti tra loro, rispetto alle quali è in atto un processo di omologazione culturale, di­ retto a riconoscere il valore di famiglia a quelle forme di convivenza che sono basate sugli affetti e sull'accudimento dell'eventuale prole. Anche il diritto ha contribuito a disegnare nuovi percorsi al nucleo familiare e, al suo interno, alle vite familiari. Si collocano in quest'alveo le numerose leggi speciali e gli

Indagini psicologiche e psichiatriche sulla famiglia

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interventi giurisprudenziali (2 ) che negli anni sessanta e settanta hanno contribuito ad affrancare la donna dal ruolo di emarginazione lavorativa, con la progressiva conquista della parità dei diritti e di una propria indipendenza personale, professionale ed economica, che hanno inciso fortemente sulla tradizionale concezione del matrimo­ nio e della istituzione famiglia, nonché sul modo di vivere lo stesso rapporto coniugale ( 3 ) . In tale contesto si inserisce la depenalizzazione dell'adulterio e del concubinato nel '68, che limitano l'ingerenza pubblica nella sfera personale e privata della coppia e, ancora, l'emanazione della legge sull'adozione speciale (L. n. 3 4 1 del 1 96 7). La tutela che la legge riconosce alla famiglia cessa di essere incondizionata, ma si giustifica in funzione della sua capacità ad esprimere e sviluppare la personalità dei componenti. Alla luce di questa nuova concezione l'ordinamento consente che il rapporto tra genitori e figli sia spezzato e il figlio sia inserito in una nuova famiglia allorquando uno stato di abbandono morale e materiale attesti la completa inidoneità della famiglia di origine ad occuparsi dei figli. È del 1 970 la legge sul divorzio, che rompendo il principio dell'indissolubilità del matrimonio a favore dell'autonomia e dei sentimenti delle persone, esprime il superamento della concezione che individua nella famiglia un interesse superiore a quello degli individui che la compongono. Nel 1 97 1 viene sancita la depenalizzazione della contraccezione, che muta profondamente i comportamenti sessuali e riproduttivi della coppia. Nel 1 975 la riforma del diritto di famiglia, in attuazione al principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, riequi­ libra (almeno in parte) all'interno della coppia i ruoli coniugali e le funzioni genitoriali, sino ad allora fondati su rigidi rapporti gerarchici e su forti asimmetrie di poteri in ragione del genere e dell'età. (2) L. 9 gennaio 1 963, n. 7 sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio; L. 9 febbraio 1 963, n. 66 sul riconoscimento del diritto ad accedere senza limiti a tutti gli uffici e professioni; accordo interconfederale del 1 960 per il settore industriale sulla parità di retribuzione, ecc .. (3) Fino agli anni '70 il rapporto coniugale era un dovere per la donna cui non poteva sottrarsi e, conseguentemente, un diritto per il marito. Celebri giuristi, fra cui il Camelutti, collocavano tra i diritti reali (come quello di proprietà) il diritto del marito sulla moglie, chiamato "ius in corpus" o "ius in corpore". Quando qualche moglie si ribellava e sporgeva denuncia, il marito veniva assolto o, al più, condannato per violenza privata o per percosse, non per violenza carnale. La svolta avvenne con la sentenza n. 1 2857 del 1 976 con cui la Cassazione per la prima volta affermò che "commette il delitto di violenza carnale il coniuge che costringa con violenza o minaccia l'altro coniuge a congiunzione carnale".

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In quegli anni si assiste ad una radicale trasformazione dei rapporti familiari che, tuttavia, trascina ancora vecchi retaggi che testimoniano la permanente presenza della disparità di ruoli: il regime legale della comunione dei beni; la disciplina dell'assegno di separazione e di divorzio; l'affidamento prevalente dei figli alla madre quale figura privilegiata, risultano ancora in sintonia con l'immagine di una famiglia in cui la figura femminile continua ad essere il soggetto debole della relazione coniugale e, al tempo stesso, il riferimento esclusivo, se non prevalente, della casa e dei figli. In un innovato quadro di espansione delle prerogative indivi­ duali in materia di sessualità e vita di coppia, si inquadra anche la Legge n. 1 94 del 1 978 sull'interruzione volontaria di gravidanza e, ancora, il progressivo superamento di quella visione che, nell'idea di preservare la famiglia tradizionale, sanzionava i figli nati fuori del matrimonio quale minaccia per la famiglia e la società e ne determi­ nava un'iniqua discriminazione, bandita da ultimo con la sentenza della Corte Costituzionale n. 1 66 del 1 998. L'esigenza di realizzare il diritto del minore alla propria famiglia ha anche indotto il Legislatore a innovare profondamente la norma­ tiva sull'adozione e affidamento dei minori, riformando significativa­ mente il titolo della precedente legge 1 84 e trasformandolo in "Diritto del minore ad una famiglia" (Legge 28 marzo 200 l , n. 1 49 "Modifiche alla legge 4 maggio 1 983, n. 1 84, recante Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori", nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile) per ben evidenziare il principio di superiorità dell'inte­ resse del minore rispetto a precedenti criteri "adulto-centrici" . Ad esito di questo processo (tutt'altro che concluso) l'immagine della famiglia si distacca totalmente da quella che istituzionalmente la relegava a fondamento dell'ordine sociale, per esprimere, nella varietà dei suoi pluriformi e continuamente cangianti assetti, la formazione sociale preposta ad esprimere la personalità, le aspirazioni e anche i diritti dei singoli componenti, nella innovata prospettiva segnata dall'art. 2 della Costituzione. Ed è sempre nel nuovo modello di famiglia che rispetta le persone e i loro fondamentali diritti che si inquadra la Legge n. 1 54 del 200 1 che risponde ad un'esigenza fondamentale di protezione delle vittime dei cd. "maltrattamenti familiari", introducendo nuove forme di tutela dei diritti delle persone esposte a subire violenza domestica (4). (4) Prima di tale legge non vi erano, infatti, strumenti specifici (quando le esigenze cautelari non giustificassero la custodia in carcere) per evitare che, nelle more del procedimento penale, l'indagato per delitti commessi contro i componenti del

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Espressione di un indirizzo radicalmente riformato, verso una nuova simmetria e condivisione dei compiti di cura e gestione domestica (in cui peraltro il regime di separazione dei beni diviene il modello patrimoniale prescelto dalla coppia), si colloca, inoltre, la possibilità per i padri di godere di quelle provvidenze, come ad esempio i congedi parentali, che in passato erano previsti esclusiva­ mente a favore della madre lavoratrice (Legge n. 53 del 2000; D.Lgs. 1 5 1 del 200 1 ) . Le medesime istanze di eguaglianza tra padre e madre nella trasmissione del cognome ai figli hanno indotto la Corte Costituzio­ nale (sentenza 1 6 febbraio 2006, n. 6 1 ) a rimarcare che "l'attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell'ordinamento e con il valore costituzionale dell'uguaglianza tra uomo e donna". In questo contesto sociale e giuridico, profondamente innovato, si colloca la recente legge sull'affido condiviso (Legge 8 febbraio 2006, n. 54 "Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli"), che nel sancire il mantenimento in linea di principio della bigenitorialità, rispetto all'affidamento esclusivo, sem­ bra promuovere un diverso impegno etico della sfera pubblica diretto, più che a porre "sotto tutela" la famiglia, a esaltarne, proprio nelle difficili situazioni di conflittualità, le responsabilità individuali valo­ rizzando la qualità delle relazioni affettive e i bisogni morali dei figli. Al centro della scena emergono allora i servizi sociali, la media­ zione, l'ascolto, la consulenza, con un approccio flessibile e dinamico nucleo familiare protraesse la propria condotta criminosa, magari intimidendo le vittime degli abusi. Per supplire a tali carenze la giurisprudenza ricorreva all'articolo 283 c.p.p. che disciplina la misura del divieto e obbligo di dimora, adattandone l'applicazione di volta in volta alle specifiche necessità del caso. La nuova legge 1 54 va oltre, prevedendo, in aggiunta al c.d. "allontanamento familiare" anche la possibilità di attribuire coattivamente alle persone offese, in particolari condizioni, una parte del reddito dell'imputato. L'elemento di maggiore novità è costituito, infatti, dall'azione civile, qualificata "ordine di protezione" contro gli abusi familiari che viene introdotto nel codice civile con l'inserimento dell'art. 342-bis che risulta applicabile anche alle convivenze non riguar­ danti i figli minori. In particolare l'art. 342-bis prevede che, quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell'altro coniuge o convivente, e qualora il fatto non costituisca reato perseguibile d'ufficio, il giudice, su istanza di parte, può adottare uno o più provvedimenti di cui all'art. 342-bis c.c., ossia l'ordine di protezione, il pagamento di un assegno e l'intervento dei servizi sociali.

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diretto a salvaguardare i diritti della persona, a valorizzarne le capacità e a recuperarne la centralità e la priorità. In un diritto di famiglia incentrato sulla persona, anche la potestà dei genitori, un tempo potere pressoché assoluto e precluso allo stesso controllo statale, assurge a precise responsabilità da esercitarsi nel rispetto della personalità del figlio (art. 1 47 c.c.), non più oggetto dei diritti degli adulti, ma protagonista attivo, titolare di diritti e di quelle specifiche necessità che la legge qualifica come prioritarie rispetto alle esigenze dei genitori (famiglia "puero­ centrica"). In sintonia con una nuova cultura dell'infanzia, l'attenzione verso i diritti del minore, i suoi vissuti, i suoi sentimenti e le sue emozioni, esprime il riconoscimento della sua dignità, della sua soggettività, della sua alterità e della sua indisponibilità a costituire oggetto di appartenenza. Sono evidenti le implicazioni etiche di questo nuovo approccio giuridico, che rispetto ai precedenti schemi culturali, sottolinea la rilevanza delle relazioni affettive che i figli hanno con ciascun geni­ tore, nonché con i parenti, consentendo di ampliare la sfera degli obblighi, anche morali, dei genitori nei confronti dei figli. Nel rapporto tra genitori e figli è l'interesse del minore a costituire il parametro di riferimento fondamentale che orienta le decisioni che lo riguardano. E, proprio in questa nuova visione, che pone al centro dell'at­ tenzione del Legislatore il bambino, il principio di eguaglianza espande il proprio raggio di azione per superare le residue marginali differenze tra i figli legittimi e quelli naturali, ad oggi presenti nella trama del codice. Significativa, in questo contesto, è la sentenza della Corte Costituzionale, 6 luglio 2006, n. 266 che, nell'escludere che, ai fini dell'azione di disconoscimento della paternità, l'esame delle prove tecniche - da cui risulta "che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre" sia subordinato alla previa dimostrazione dell'adulterio della moglie, incide significativamente sul ruolo del matrimonio nell'attribuzione dello stato di figlio. Nello stesso senso si ricorda che anche la Corte di Cassazione (sentenza 1 7 agosto 1 998, n. 8087), in sintonia con le indicazioni della stessa Corte Costituzionale, non ha mancato di esprimere un orien­ tamento incline a valorizzare una genitorialità fondata su "fattori psico-sociali" di responsabilità, piuttosto che su quelli meramente biologici, allorché ha dichiarato inammissibile il disconoscimento di paternità del figlio nato con seme di donatore anonimo nel caso in cui il marito avesse precedentemente prestato il proprio consenso all'in-

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seminazione eterologa della moglie. Proprio su tale base la Legge 1 9 febbraio 2004, n . 4 0 (''Norme in materia di procreazione medica/mente assistita") prevede all'art. 9 il divieto del disconoscimento della paternità e dell'anonimato della madre. Non quindi la derivazione biologica, ma l'assunzione di respon­ sabilità del marito e della madre diviene il fondamento della legitti­ mità del figlio che, di conseguenza, esclude l'ammissibilità dell'azione di disconoscimento promossa dal padre. Anche le applicazioni del progresso scientifico nelle fasi iniziali della vita umana ha contribuito all'emergere di istanze assolutamente inedite, moralità nuove, sfide impegnative e battaglie di emancipa­ zione che si coniugano con la progressiva affermazione dell'autono­ mia individuale e che si frappongono a pregiudizi e miti del passato. L'avvento della pillola, la scissione del binomio sessualità­ riproduzione e poi, ancora, l'avvento delle tecniche di riproduzione assistita con la rottura di un altro binomio, tradizionalmente consi­ derato inscindibile, riproduzione-filiazione hanno sovvertito parame­ tri biologici consueti e scalzato il tradizionale sistema antropologico della famiglia, per affermare la libera determinazione e la libera scelta dell'uomo laddove, in precedenza, esistevano situazioni di mera necessità. Ai tradizionali rapporti di parentela biologica, le nuove tecnologie della riproduzione hanno sostituito nuovi sistemi parentali fondati anche sulla libera contrattualità (si pensi alle ipotesi di maternità surrogata e cessione di gameti) e su elementi di tipo psicologico ed affettivo. In questo inedito contesto culturale e sociale il matrimonio cessa di costituire l'ambito traguardo esistenziale e di sistemazione economica della donna, entro le cui cornici collocare l'imperativo biologico della riproduzione, per divenire al contrario, una delle possibili manifestazioni cui esprimere la propria personalità, even­ tualmente da subordinare ad altre affermazioni personali o profes­ sionali. La stessa maternità cessa di costituire un destino per la donna, rigidamente sottoposto alle regole biologiche della necessità, per divenire sempre più espressione di una libera scelta responsabilmente attuata in sintonia con le proprie convinzioni e decisioni personali, familiari e professionali. La possibilità di compiere test genetici e indagini prenatali, nonché di monitorare le varie fasi della gravidanza, prevedere ed intervenire precocemente nella correzione di patologie del nascituro esaltano l'autonomia della persona e della coppia, accentuando profili di responsabilità genitoriale che sollecitano anche l'emergere di

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nuove ipotesi di responsabilità civile correlate ai danni per il nasci­ turo. La nuova famiglia, a prescindere dalla diversa configurazione che assume, non trova più fondamento nella necessità biologica della riproduzione, ma piuttosto nella qualità delle relazioni affettive e nella condivisione dell'intimità. Una qualità delle relazioni affettive ampliata dai progressi della scienza e della tecnologia che, non solo hanno elevato le aspettative di vita, ma consentono anche di vivere meglio una maturità nella quale sempre più frequentemente s'intrec­ ciano nuove relazioni, si stabiliscono nuove convivenze e nuovi matrimoni. La c.d. famiglia naturale, eterosessuale, mononucleare e con figli, rappresenta una soltanto delle diverse configurazioni assunte dal modello familiare in una società che appare sempre più diversificata, plurale e differenziata dagli imponenti flussi migratori e da una comunicazione digitalizzata che annulla barriere e confini territoriali, culturali ed etici e capace, anche, di sospingere la sessualità in traiettorie sempre più proiettate nel virtuale. E, allora, nell'attuale contesto tecnologico di manipolazioni genetiche del DNA e crescenti commistioni tra uomo e macchina, artificiale e naturale sono, forse, gli stili di vita individuali e i percorsi antropologici a subire le mutazioni più significative. Cambia il modo di percepire se stessi, il proprio corpo, la propria sessualità, l'altro sesso, e si dissolvono i confini delle identità e dei ruoli maschili e femminili verso generi indifferenziati, flessibili, cangianti, con tutte le incertezze e le contraddizioni che accompa­ gnano le fasi di transizione. Nello stesso tempo le tecnologie della comunicazione digitaliz­ zata e degli strumenti informatici di internet, dei videogiochi, dei telefonini, degli SMS e degli MMS danno vita a nuove forme di comunicazione, capaci di incidere sulla formazione della personalità e degli stili di vita e di condizionare significativamente i rapporti inter-generazionali. La coscienza sociale segue con esitazione e, talvolta, subisce tali novità, reclamando una risposta normativa forte di sbarramento e chiusura che plachi le ansie e i turbamenti da esse elicitate. Anche il diritto, in quanto coscienza riflessa della società, non si adatta immediatamente a tali cambiamenti, ma li segue lentamente, a strattoni. Il suo incedere necessita, infatti, di tempi di catalogazione, elaborazione, maturazione e critica dei dati non facilmente concilia­ bili con il tumultuoso irrompere e proliferare di sollecitazioni sociali e culturali e segnali sconcertanti. Il percorso, ancora tutto da completare, risulta particolarmente

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complicato dagli inevitabili contrasti su temi eticamente sensibili come quelli della vita, della sessualità, della riproduzione e della famiglia. Tuttora insolute sono le questioni delle convivenze di fatto, le unioni tra le persone dello stesso sesso, le famiglie multietniche, le famiglie ricostruite. Pur nelle difficoltà, legate alle inevitabili tensioni fra tradizione e innovazione, risulta evidente l'impegno del Legislatore italiano volto a salvaguardare non già l'inscindibilità dell'unità familiare, ma piut­ tosto, al di là della loro qualificazione formale, la realtà effettiva dei rapporti personali sia tra conviventi sia con i figli ed i terzi, nonché a valorizzare e sostenere libertà individuali, definendo peraltro le re­ sponsabilità familiari (art. 3 1 Cost. e art. 33 Carta di Nizza) e tutelando il preminente interesse dei minori (art. 30 Cost. e art. 24 Carta di Nizza). La sussistenza di diverse e più complesse strutturazioni norma­ tive riguardanti la famiglia, unitamente alla già citata differenzia­ zione delle situazioni e delle esperienze familiari, fanno ben compren­ dere quali e quante siano le forme di confronto tra i singoli nuclei e le agenzie giudiziarie, con il sempre più frequente e inevitabile ricorso allo strumento della consulenza tecnica, in tutti i casi in cui sussi­ stano problematiche di tipo medicolegale, psicologico o psichiatrico.

9.2. L'annullamento del matrimonio civile e canonico: aspetti psichiatrico forensi.

Nel nostro ordinamento l'articolo 29 della Carta Costituzionale sancisce che "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare". Da tale principio discende il concetto che la famiglia giuridica­ mente intesa si identifica con la società naturale costituita da due soggetti che si trovino nelle condizioni per poter contrarre matrimo­ nio. Con il termine di matrimonio s'intende quell'atto mediante il quale si costituisce un rapporto coniugale fondato sulla comunione di vita materiale e spirituale tra i coniugi ( 5 ) . Sono classicamente distinti tre tipi di matrimonio: quello civile, regolato unicamente dal Codice civile; (5)

Cass. civ. , sez. I, 7 ottobre 1 975, n. 3 1 77.

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quello cattolico, disciplinato solo dal Diritto canonico e non produttivo di effetti giuridici; quello concordatario, regolato dal Diritto Canonico e dalle norme di Concordato tra Stato e Chiesa, con il quale si attribu­ iscono effetti civili all'unione celebrata secondo il rito cattolico. Il matrimonio celebrato secondo altri culti religiosi ammessi dallo Stato, non costituisce un'ulteriore forma, in quanto è totalmente sottoposto al Codice Civile. Il matrimonio legittimo, inteso nella duplice forma di atto giuridico e di rapporto che fa sorgere particolari diritti e doveri in capo ai coniugi, come detto, è disciplinato da peculiari norme del Codice Civile. In primo luogo sono previste tre condizioni soggettive (elementi positivi) indispensabili ed essenziali per l'idoneità dei nubendi al matrimonio stesso, e cioè: l'età adeguata; la diversità di sesso e la capacità di intendere e volere. Per quanto riguarda l'età in cui è possibile contrarre matrimo­ nio, l'art 84 c.c. (6) prevede che sia vietato il matrimonio dei mino­ renni, ma ammette la possibilità che "per gravi motivi e successiva­ mente all'accertamento della sua maturità psicofisica" il Tribunale per i minorenni possa concedere l'autorizzazione al matrimonio al mi­ nore dì età compresa tra i 16 e i 18 anni. In questi casi la valutazione della maturità psicofisica del nubendo può essere effettuata attraverso lo strumento formale della consulenza tecnica, ovvero, in modo ìnformale, attraverso i servizi psicologici pubblici. Sono elencate, poi, una serie di condizioni che impediscono la valida celebrazione del matrimonio (elementi negativi), ed in partico­ lare:

l) l'interdizione per infermità di mente (art. 85 c.c.) (7);

2) la concomitanza di altri matrimoni o di vincoli conseguenti agli stessi (art. 86 c.c.) (8);

(6) Art. 84

c.c.

(Età).

"! minori di età non possono contrarre matrimonio. Il tribunale, su istanza dell'interessato, accertata la sua maturità psico-fìsica e la fondatezza delle ragioni addotte, sentito il pubblico ministero, i genitori o il tutore, può con decreto emesso in camera di consiglio ammettere per gravi motivi al matrimonio chi abbia compiuto i sedici anni ...".

(7) Art. 85 c.c. (Interdizione per infermità di mente). "Non può contrarre matrimonio l'interdetto per infermità di mente

(8) Art. 86

c.c.

(Libertà di stato).

..

. ".

"Non può contrarre matrimonio chi è vincolato da un matrimonio precedente ...".

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3 ) la sussistenza di vincoli di parentela, di affinità, di affilia­ zione o di adozione (art. 87 c.c.) (9 ); 4) la preesistenza di tentato omicidio o di omicidio da parte di un nubendo nei confronti del coniuge dell'altro (art. 88 c.c.) (1 °). Tali condizioni rilevano in quanto il matrimonio contratto in violazione dei suddetti requisiti può essere impugnato ed annullato in sede giudiziaria (artt. 1 1 7- 1 1 9 c.c.). In ottica psichiatrico e psicologico forense, specifiche esigenze peritali sono poste dagli artt. 1 20 e 1 22 c.c., che così recitano: Art. 1 20 c.c. (Incapacità di intendere o di volere). "Il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi che, quantunque non interdetto, provi di essere stato incapace di intendere o di volere, per qualunque causa, anche transitoria, al momento della celebrazione del matrimonio. L'azione non può essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno dopo che il coniuge incapace ha recuperato la pienezza delle facoltà mentali". Art. 1 22 c.c. (violenza ed errore) . "Il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo. Il matrimonio può altresì essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso è stato dato per effetto di errore sull'identità della persona o di errore essenziale su qualità personali dell'altro coniuge. L'errore sulle qualità personali è essenziale qualora, tenute pre­ senti le condizioni dell'altro coniuge, si accerti che lo stesso non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute e purché l'errore riguardi: l) l'esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia (9) Art. 87 c.c. (Parentela, affinità, adozione e affiliazione). "Non possono contrarre matrimonio fra loro: l) gli ascendenti e i discendenti in linea retta, legittimi o naturali; 2) i fratelli e le sorelle germani, consanguinei o uterini; 3) lo zio e la nipote, la zia e il nipote; 4) gli affini in linea retta; il divieto sussiste anche nel caso in cui l'affinità deriva da matrimonio dichiarato nullo o sciolto o per il quale è stata pronunziata la cessazione degli effetti civili; 5) gli affini in linea collaterale in secondo grado; 6) l'adottante, l'adottato e i suoi discendenti; 7) i fìgli adottivi della stessa persona; 8) l'adottato e i fìgli dell'adottante; 9) l'adottato e il coniuge dell'adottante, l'adottante e il coniuge dell'adottato". (10) Art . 88 c.c. (Delitto). "Non possono contrarre matrimonio tra loro persone delle quali l'una è stata condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell'altra".

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o deviazione sessuale, tali da impedire lo svolgimento della vita coniu­ gale . . . L'azione non può essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno dopo che siano cessate la violenza o le cause che hanno determi­ nato il timore ovvero sia stato scoperto l'errore . . . " . Circa i contenuti dell'art. 1 20 c.c. è sufficiente precisare che il Legislatore delineando le ipotesi causali di un'eventuale incapacità di intendere o di volere, ha ammesso sia le condizioni di natura prettamente psicopatologica, sia qualunque altra causa, anche tran­ sitoria, che comunque determini una situazione di incapacità a prestare un consenso consapevole e volontario al momento del matrimonio. Nell'accertamento di questa fattispecie il consulente dovrà quindi verificare non solo l'eventuale sussistenza di una infermità di mente qualificabile sul piano nosografico, ma anche ogni possibile condizione di carattere emotivo o di alterazione psichica indotta dall'assunzione di farmaci, di alcool, di droga. Dal punto di vista applicativo, è comunque necessario precisare che il riconoscimento di una incapacità di intendere o di volere non può essere sostenuto su criteri soggettivi ed ipotetici, ma deve essere sempre correlato con una "causa" specifica, della quale sia dimostrata la sussistenza e l'incidenza, anche se eventualmente transitoria, al momento del matrimonio ( 1 1 ) . S i noti che l'azione non può essere proposta s e è trascorso un anno di coabitazione dopo che il coniuge malato ha recuperato la pienezza delle facoltà mentali. Pertanto, il consulente tecnico potrebbe essere chiamato non solo a verificare la presenza o meno di una "qualunque" causa che abbia viziato la capacità di intendere o di volere nel momento della celebrazione del matrimonio, ma anche la durata di tale condizione di incapacità, in quanto la norma pone limiti cronologici precisi in relazione alla remissione della stessa. L'art. 1 22 c.c. prevede tre diverse condizioni di annullabilità del matrimonio: l'estorsione del consenso con violenza o mediante l'in­ duzione di timori di eccezionale gravità; l'errore sull'identità dell'altro sposo e l'errore "essenziale" sulle qualità personali dell'altro coniuge, ed in particolare l'ignoranza di malattie fisiche o psichiche o anomalie o deviazioni sessuali tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale, tenute presenti le condizioni dell'altro coniuge e per le (1 1) FoRNARI U . ,

Trattato di Psichiatria forense, Utet, Torino, 2008.

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quali quest'ultimo, se ne fosse stato edotto, non avrebbe prestato il suo consenso. In riferimento a tale ultima circostanza, deve trattarsi di stati patologici o devianti insorti prima della celebrazione del matrimonio, la cui presenza non sia conosciuta dall'altro coniuge e la cui scoperta determini un turbamento tale da rendere impossibile sul piano affettivo-relazionale lo svolgimento della vita coniugale, tanto che, se fossero stati conosciuti, avrebbero indotto l'altro coniuge a non prestare il consenso al matrimonio. Da un punto di vista applicativo, allo psichiatra forense può essere richiesto di valutare non solo l'esistenza di una malattia fisica o psichica, ma anche quella di una anomalia o deviazione sessuale le quali, in quella specifica relazione matrimoniale, siano tali da incidere negativamente sull'altro coniuge tanto da impedire lo svolgimento della vita coniugale. Tale valutazione può comprendere un ampio novero di cause (alterazioni anatomiche dei genitali, impotenza, disturbi psichici, gravi anomalie del comportamento, disturbi psicosessuali ecc.) e fa riferimento non tanto al momento del matrimonio, quanto allo sviluppo della vita coniugale, tenuto conto anche della personalità, dei valori e dei bisogni dello stesso coniuge che richiede l'impugna­ zione. La giurisprudenza in materia sottolinea infatti che "nel sistema delineato dall'art. 122 cod. civ. l'errore essenziale che consente al coniuge l'impugnazione del matrimonio non è collegato al fatto obiet­ tivo della preesistenza di una malattia non rivelata all'altro coniuge, e neppure alla reazioni soggettive che la scoperta di questa può determi­ nare nel coniuge che ne era all'oscuro, ma riguarda esclusivamente . . . il verificarsi di una malattia fisica o psichica di tale gravità da incidere sulle relazioni intersoggettive in generale e da vanificare la vita coniugale in particolare, secondo le normali aspettative del coniuge in errore, per cui è soltanto in presenza di tale presupposto che il Giudice deve valutare in concreto le aspettative suddette tenendo conto delle sue condizioni, della sua personalità, della sua posizione sociale e di ogni altra circostanza obiettiva emergente dagli atti" ( 1 2). La delicatezza della materia, e la difficoltà di comprendere la situazione relazionale della coppia, suggeriscono l'adozione di un approccio clinico psicologico comunque consapevole degli spazi di relatività che inevitabilmente connotano ogni parere tecnico sull'ar­ gomento. (12) Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2006,

n.

4876.

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Infine, un'ulteriore causa di annullamento del matrimonio è prevista all'art. 123 c.c. (Simulazione), qualora i coniugi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti conseguenti al matrimonio stesso. Si ricorda che uno specifico accertamento peritale può essere richiesto ai sensi dell'art. 3 della Legge n. 898 del l o dicembre 1 970 ("Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio") nei casi in cui debba essere dimostrata la mancata consumazione del matrimonio. Il riconoscimento di tale condizione non è causa di nullità del matri­ monio, ma può essere causa di divorzio anticipato rispetto ai tempi previsti dalla legge. Il matrimonio concordatario, che come già ricordato è dotato di specifica rilevanza in ambito civilistico, fa riferimento al Diritto Canonico sia per la validità dello stesso, sia per le possibili motiva­ zioni di un suo annullamento. Anche per il matrimonio canonico esistono impedimenti di fatto, che risultano in ampia misura sovrapponibili con quelli propri del rito civile, ma che presentano alcune differenze attinenti all'età minima dei coniugi, alla condizione di sacerdozio dello sposo, alla mancanza dei sacramenti fondamentali, e soprattutto alla "impo­ tenza" antecedente e perpetua da parte dell'uomo o della donna. Quest'ultima condizione risulta essenziale per la validità del sacramento matrimoniale, che viene ritenuto valido solamente se regolarmente celebrato e successivamente consumato attraverso l'unione copulativa diretta alla generazione della prole. Così come quello civile, anche il matrimonio religioso può essere oggetto di annullamento, sulla base di specifici capitoli e canoni del Diritto canonico ( 1 3) . In particolare, il Canone l 084 prevede la possibilità di una "impotentia coeundi", antecedente e perpetua, di carattere assoluto o relativo. Tale condizione viene intesa come una incapacità o impossibi­ lità al congiungimento sessuale assoluta (con tutti) o relativa (con quel partner) derivante da cause organiche (mal formative, trauma­ tiche, endocrine, neurogene, ecc.) o funzionali (psicogene). Dal punto di vista psichiatrico forense si pongono delicati problemi diagnostici e valutativi, soprattutto in rapporto ai disturbi di (13 ) Per approfondimenti: CALCAGNI C., MEI E., Medicina legale canonistica, Giuf­ frè, Milano, 2002; BARBIERI C., LuzzAGO A., MussELLI L., Psicopatologia Forense e Matri­ monio canonico, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2005; BARBIERI C. (a cura di), La coppia coniugale: attualità e prospettive in medicina canonistica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2007.

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carattere funzionale, correlabili con problematiche psichiche del singolo individuo o della coppia e tali da rendere impossibile il rapporto sessuale, sia in assoluto, sia relativamente alla sola figura dell'altro coniuge. Nel Canone 1 095 sono specificati i requisiti di una possibile incapacità al matrimonio derivante dalle condizioni psichiche del soggetto, per insufficiente capacità di raziocinio, per grave carenza di comprensione dei diritti e dei doveri del matrimonio, per inadegua­ tezza psichica rispetto a tali obblighi. In questi casi l'accertamento interessa sia una specifica condi­ zione di patologia di carattere neuropsichiatrico, sia una più sfumata e complessa serie di situazioni psicologiche, per le quali, soggettiva­ mente, uno o entrambi i coniugi non siano in grado di farsi consape­ volmente carico degli obblighi morali e materiali derivanti dalla vita coniugale (come specificato dettagliatamente nel Canone 1 096). Il Diritto Canonico fa riferimento ad un concetto di infermità di mente particolarmente estensivo, che comprende sia i disturbi psico­ patologici, sia ogni condizione di anomalia psichica. Tali alterazioni possono avere carattere congenito o acquisito ed essere di durata transitoria o permanente, e devono risalire comun­ que ad una data anteriore al matrimonio. Nel caso in cui sia riconosciuta una infermità o anomalia si dovrà verificare se la stessa fosse tale da influire sulle condizioni psichiche del nubendo al momento della celebrazione del matrimonio. Il Canone 1 098, infine, prevede la nullità del matrimonio a seguito di errore sulle caratteristiche e qualità della persona, pur facendo riferimento ad una condizione di dolo di un coniuge nei confronti dell'altro. Il carattere eminentemente psicologico, oltre che medico­ psichiatrico, di questi tipi di accertamenti peritali, e le particolari modalità procedurali nell'ambito canonico, fanno sì che in molti casi si giunga ad un giudizio di annullamento dopo reiterate valutazioni peritali, articolate su quesiti dettagliati e direttamente attinenti al caso concreto, ed aperte al sostanziale contributo dei consulenti di parte.

9.3. Adozione e affidamento familiare ( 14).

L'adozione dei minori costituisce una prassi che per secoli è stata realizzata in modo informale, attraverso l'assunzione di respon(14) 11

A cura di Linda ALFANO e Rosagemma CILIBERTI.

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sabilità da parte di una famiglia verso gli orfani di congiunti o affini, ed attraverso l'accoglimento di minori abbandonati o bisognosi. La data di riferimento, per parlare di adozione in senso giuri­ dico, è il 1 967. Prima di allora infatti la disponibilità assistenziale di una famiglia nei confronti di un minore non prevedeva l'instaurarsi di un rapporto di filiazione e poteva essere revocata in qualsiasi mo­ mento. Nel 1 96 7, la Legge 43 1 (Modifiche al titolo VIII del libro I del codice civile "dell'adozione " ed inserimento del nuovo capo III con il titolo "dell'adozione speciale "), costituì il primo intervento strutturato che con l'istituto dell'adozione speciale individuò dei criteri (irrevo­ cabilità dell'adozione, preminente interesse del minore, abolizione del requisito dell'assenza di figli naturali) per regolamentare la situazione dei minori che trovandosi in stato dì abbandono venivano accolti all'interno di una famiglia. Il riconoscimento del minore, quale soggetto, persona e figlio, portatore di diritti e non mero oggetto dei diritti degli adulti, com­ portò una non facile rivisitazione dei modelli tradizionali fino ad allora dominanti, che mai avevano previsto che il Legislatore potesse mettere in discussione la sacralità dei legami di sangue e varcare i confini dell'intimità domestica, neppure per impedire maltrattamenti, inadempienze, abusi. In modo più organico ed esaustivo il tema dell'affidamento e dell'adozione è stato normato dalla Legge n. 1 84 del 1 983 (Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori), che ha differenziato i singoli istituti previsti per la tutela dei minori in stato di abbandono e che ha definito i parametri ai quali dovevano fare riferimento i giudici minorili e gli stessi psicologi forensi in questo delicato settore di intervento. Ulteriori modifiche alla disciplina dell'adozione e dell'affida­ mento familiare sono state introdotte dalla legge di riforma delle adozioni internazionali, Legge n. 476 del l 998 (Ratifica ed esecuzione della convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale) e dalla Legge 1 49 del 28 marzo 2001 (Modi­ fiche alla legge 4 maggio 1 983, n. 184, recante disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori) . La nozione fondamentale cui s'ispira la normativa è quella della priorità dell'interesse del minore e, in particolare, è quella del diritto dello stesso di essere educato nell'ambito della propria famiglia. Tale principio, affermato nel 1 983, è stato ulteriormente sotto­ lineato nel 200 1 con la previsione di interventi concreti a supporto delle famiglie in difficoltà e con l'introduzione di maggiori garanzie proccssuali da adottare nella dichiarazione di abbandono dei minori.

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La normativa stabilisce che nel caso in cui il minore risulti essere temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo alla sua educazione è prevista la possibilità di affidare lo stesso ad una famiglia, ad una persona singola, ad una comunità o , se necessario, ad un istituto di assistenza, al fine di garantire il suo accudimento, la sua educazione e la sua istruzione (art. 2, L. n. 149 del 200 1 ). Nel caso in cui vi sia il consenso dei genitori, il minore può fruire di un provvedimento di affidamento (disposto dal Giudice tutelare), mentre nel caso in cui tale consenso non sia presente, lo stesso provvedimento dovrà essere assunto dal Tribunale per i Mino­ renni. L'affidamento familiare cessa quando sia venuta meno la situa­ zione di difficoltà temporanea della famiglia di origine, ovvero nel caso in cui la prosecuzione dello stesso rechi pregiudizio al minore (art. 4, L. 149 del 200 1 ) . L'affidamento s i configura, quindi, come u n provvedimento di­ retto a sostituire temporaneamente la famiglia di origine del minore, con l'obiettivo di garantire l'educazione di quest'ultimo durante un pe­ riodo di difficoltà della sua famiglia e di restituire il bambino alla stessa nel momento in cui la situazione si sia regolarizzata. Tale provvedi­ mento non ha finalità di sostituzione del nucleo di origine, ma, al con­ trario, si propone di consentire un pieno recupero dello stesso. Nelle modifiche di legge del 200 1 viene disposto che il minore sia inserito in una comunità solo a condizione che non sia possibile attivare il suo affidamento eterofamiliare, come a ritenere la solu­ zione comunitaria residuale e marginale rispetto a quella familiare. La pratica clinica invero suggerisce l'opportunità per alcuni minori, particolarmente compromessi nelle loro possibilità di investimento e ricostruzione di nuovi rapporti familiari, di un periodo di perma­ nenza, in struttura residenziale e specialistica quale percorso prefe­ ribile all'esposizione affrettata a dinamiche emozionali ristrette e rievocative di profonde distorsioni e sofferenza ( 1 5 ) . Il carattere transitorio dell'affido familiare è stato ulteriormente rafforzato dall'art. 4 della nuova norma, che dispone che nel provve­ dimento di affidamento sia indicata la durata temporale della colloca­ zione, comunque non superiore ai ventiquattro mesi. Tale periodo è prorogabile solo dal tribunale per i minorenni se ritiene che la sospen­ sione del provvedimento possa comportare un danno al minore. Il tema della temporaneità dell'affido è ampiamente dibattuto dagli operatori sociali, che lamentano l'assenza di una disciplina (15) FADIGA L., L'affidamento fàmigliare, in Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l'Infanzia e l'Adolescenza, Rassegna Bibliografica, 2005.

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intermedia che tenga conto di tutte quelle situazioni (molto frequenti) di inidoneità genitoriali non temporanee, di fronte alle quali appare tuttavia non giustificata e conveniente una procedura di adattabilità. In un'ottica di protezione dello sviluppo del bambino nel rispetto del suo contesto sociale, familiare, relazionale di appartenenza e con riferimento a percorsi di educazione all'affettività del minore stesso, sembrerebbero infatti auspicabili progetti di condivisione perma­ nente delle responsabilità genitoriali nella coesistenza di una pluralità di figure parentali diversamente fondate ( 16). Altro tema oggetto di discussione è la necessità, non prevista dalla norma in vigore, del consenso del minore all'affidamento etero­ familiare anche se di età inferiore agli anni dodici. Finalità del tutto differenti sono invece previste dall'istituto dell'adozione, che prevede un definitivo allontanamento del minore dalla sua famiglia, nel caso in cui sia accertata una situazione di "abbandono", dovuta all'assenza di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi (art. 8). Nel 1 983 la legge specificava quali requisiti necessari per otte­ nere l'adozione di un minore, la necessità che l'adozione fosse effettuata da coniugi, sposati da almeno tre anni, di età che superasse di almeno diciotto anni, ma non più di 40 anni, quella dell'adottando, e che fossero stati giudicati idonei ad educare, istruire e mantenere i minori che intendevano adottare (art. 6). Nel testo del 200 l vengono modificati sia i requisiti di età, sia quelli attinenti al vincolo matrimoniale. Il differenziale di età viene esteso, nel suo limite massimo a quarantacinque anni e viene introdotta la deroga per uno degli adottandi che potrà avere sino a cinquantacinque anni di differenza con l'adottato, qualora l'altro coniuge rientri nei limiti di età previsti dalla legge. Inoltre si può prescindere dai limiti di età anche nei casi di adozione di fratelli di minori già adottati in precedenza o nel caso in cui siano presenti nel nucleo familiare figli naturali o adottivi in età minore. Al riguardo va osservato come la maggior elasticità della legge sui vincoli cronologici rispecchi l'evoluzione sociale caratterizzata da maggiori aspettative di vita e dall'innalzamento della soglia produt­ tiva, relazionale e sociale dell'individuo, anche se la maggiore facilità di adottare minori in tenera età ha certamente comportato una penalizzazione, in termini di minor disponibilità adottiva, dei minori più grandi. (16) Si tratta del disegno di legge n. 5724 del 2005 sul tema dell'adozione mite.

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Per quanto attiene al criterio connesso al vincolo coniugale la nuova normativa ha accettato come prova della stabilità del rapporto di coppia il requisito dei tre anni di convivenza, continuando, tuttavia, a prevedere la necessità dell'unione matrimoniale per poter procedere nelle pratiche adottive ( 1 7) . Il requisito del coniugio (di cui alla L. 1 49 del 200 1 ) cela il problema dell'idoneità all'adozione da parte degli omosessuali, singoli o in coppia, che a tutt'oggi divide l'opinione dei tecnici tra i fautori in nome del principio di non discriminazione e dell'opportunità di una verifica in concreto dell'idoneità genitoriale e coloro che invece ne sostengono l'inopportunità a tutela di quei minori, che già gravati da storie personali difficili e critiche necessitano di modelli familiari già sperimentati e socialmente più adattati. Nel testo di legge sono poi precisati i requisiti dei minori adottabili, con l'indicazione del fatto che gli stessi debbano essere preliminarmente dichiarati in stato di adattabilità (e cioè riconosciuti in stato di abbandono morale e materiale) e con la previsione dell'obbligo di acquisizione del consenso del soggetto quattordicenne, di audizione del dodicenne e di possibilità di audizione, in conside­ razione della sua capacità di discernimento, anche dell'infradodi­ cenne (art. 7). Viene inoltre previsto l'ascolto del figlio naturale della coppia adottiva se di anni quattordici. Lo stato di adattabilità può essere pronunciato unicamente dopo l'effettuazione, da parte del Tribunale per i Minorenni, di un'indagine diretta all'acclaramento delle effettive condizioni di "abbandono" del minore, comprendente anche l'audizione dei geni­ tori e dei parenti fino al 4o grado, con la valutazione delle disponibilità e delle idoneità degli stessi a farsi carico delle esigenze del minore. La nozione giuridica dell'abbandono viene descritta dal Legisla­ tore come la mancanza di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi, in assenza di cause di forza maggiore di carattere transitorio. In molte circostanze l'abbandono è stato valutato, non solo in riferimento a situazioni di assenza materiale, ma, pur nella persi­ stenza della convivenza dei genitori con i figli, o in presenza di un legame stabile, per l'esercizio deficitario delle funzioni genitoriali, di ostacolo alla crescita equilibrata del minore. ( 17) Si segnala, al riguardo una discrasia con quanto affermato dalla recente Legge n. 40 del 2004 in tema di procreazione medicalmente assistita che prevede criteri meno rigorosi per quanto attiene ai requisiti "soggettivi", equiparando la coppia coniugata alla coppia convivente e trascurando il presupposto della stabilità del rapporto.

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La definizione di abbandono, per la sua ineludibile genericità, si è inevitabilmente prestata a interpretazioni differenti, ad una plura­ lità di opzioni valutative determinate dai diversi modelli culturali prevalenti al tempo del giudizio e dalla mutata visione dell'infanzia e della famiglia nell'evoluzione sociale. Dopo la dichiarazione dello stato di adattabilità il minore viene inserito in "affidamento preadottivo" per la durata di un anno, presso una famiglia dichiarata idonea all'adozione e specificatamente valu­ tata rispetto ai bisogni di quel singolo bambino. Trascorso in modo positivo l'affidamento preadottivo può essere dichiarata l'adozione del minore, per la quale quest'ultimo acquista lo stato di figlio legittimo degli adottandi e cessa ogni rapporto con la famiglia d'origine. La legge prevede inoltre una parità di trattamento di tutti i minori stranieri adottati in Italia, a prescindere dal paese di prove­ nienza e l'equiparazione dei requisiti necessari agli adottanti. A tal fine la Legge n. 476 del 1 998 (Ratifica della Convenzione dell'Aja del 1 993) prevede un sistema composito per la verifica dell'idoneità degli adottandi e delle oggettive condizioni familiari e sociali degli stessi. Anche in questi casi è previsto un periodo di affidamento preadottivo della durata di un anno, che può essere seguito dalla dichiarazione di adozione del minore straniero ( 18). Circa il cruciale problema relativo al diritto dell'adottato di conoscere le proprie origini, l'art. 28 della legge sull'adozione è stato completamente riformato dall'art. 24 della novella del 200 1 e dal codice in materia di protezione dei dati personali del 2003. Preliminarmente il Legislatore ha eliminato il segreto sull'ado­ zione indicando tra i compiti dei genitori adottivi quello di informare il figlio del suo stato, nei modi ritenuti più opportuni. Sono poi indicate soluzioni diversificate in relazione all'età, con riferimento al compimento dei diciotto anni ed il raggiungimento dei venticinque. La norma dispone infatti che quando l'adottato sia ancora minorenne ( 1 8) Per affrontare i problemi connessi al controllo del flusso delle adozioni ed al fenomeno tristemente conosciuto col nome di "mercato dei bambini" il legislatore ha introdotto nel procedimento due nuovi soggetti: la Commissione per le adozioni internazionali (CAI) e gli enti autorizzati che curano le pratiche nel paese straniero dove sono accreditati. Il CAI è un'autorità centrale che ha lo scopo di collaborare con gli altri Paesi per dare attuazione ai principi delle Convenzioni in tema di adozione internazionale, di stipulare accordi bilaterali, di verificare e vigilare sull'operato degli enti di intermediazione. Nonostante sia stata proprio l'Italia a proporre il dibattito sull'adozione internazionale in sede europea e a richiedere la formulazione di una Convenzione sul tema, il Parlamento italiano ha atteso cinque anni prima di emanare una legge che ne autorizzasse la ratifica e l'esecuzione.

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"le informazioni concernenti l'identità dei genitori biologici possano essere fornite ai genitori adottivi", su autorizzazione del giudice mino­ ri!e, "se sussistono gravi e comprovati motivi", non necessariamente connessi alla salute dell'adottato, ma anche alla tutela del suo svi­ luppo psichico e relazionale (relativo ad esempio all'opportunità di incontro con fratelli o con lo stesso genitore). Per gravi ragioni di salute il ragazzo di diciotto anni ha diritto ad accedere alle informazioni biologiche che lo riguardano; inoltre in condizioni di necessità e di urgenza, con grave pericolo per la vita del minore, le strutture sanitarie, mediche, ospedaliere hanno diritto alla consultazione delle eventuali necessarie informazioni biologiche. A venticinque anni l'adottato matura definitivamente il diritto ad accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l'iden­ tità dei genitori biologici, fatta eccezione per quei casi in cui la partoriente abbia richiesto la facoltà dell'anonimato (art. 30 c.c.). Il dibattito sull'opportunità di conservare norme che consentano alle donne di partorire senza essere obbligate a stabilire un rapporto giuridico con il figlio è vivace in tutta Europa (19). Attualmente in Italia le norme proteggono il segreto della nascita ed impediscono all'adottato nato da un parto anonimo l'accesso alle informazioni relative sia alla propria origine, sia ai dati sanitari e genetici. Ne fa eccezione la norma che esclude l'anonimato della madre che abbia fatto ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, sia che si tratti di fecondazione omologa, oppure eterologa (sebbene in violazione della legge) (Zo) . Tale soluzione estesa anche al coniuge o all'uomo convivente che l'ha riconosciuto, dà quindi rilievo ad una genitorialità ancorata alla scelta procreativa compiuta dalla coppia, piuttosto che al vincolo biologico, pur sussistente, tra il nato e il terzo, donatore dei gameti. Conseguentemente l'identità del bambino viene ancorata defi­ nitivamente al cognome di coloro che l'hanno desiderato e voluto come figlio, senza che si possa rinnegare tale scelta attraverso il disconoscimento di paternità. Muovendo dall'assunto che il minore ha diritto alla propria identità, alla propria famiglia, a conservare i rapporti con entrambi i ( 1 9) A favore della conservazione del parto anonimo vi sono ragioni di ordine sociale che tendono a tutelare la salute, il parto in sicurezza evitando episodi di abbandono "selvaggio" o di infanticidio. In senso contrario si fa valere il diritto fondamentale del figlio alla propria identità ed alla conoscenza delle proprie origini. (20) L'articolo 9 della Legge 40 del 2004 prevede infatti che la madre, dopo aver voluto coscientemente un figlio, non possa dichiarare la volontà di non essere nominata, diversamente da quanto invece può accadere nelle ipotesi di filiazione "biologica" (in applicazione dell'art. 30, comma l , del D.P.R. n. 396 del 2000).

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genitori, a partecipare alle decisioni che lo riguardano (relative alla legittimazione, al riconoscimento, all'adozione), il problema diventa quello del bilanciamento degli interessi a confronto e del riconosci­ mento delle condizioni necessarie ad una equilibrata crescita. Per tale ragione, anche nelle differenti fasi dei procedimenti di affidamento e di adozione, è abitualmente richiesta la collaborazione degli operatori socio-sanitari dei servizi pubblici, e non raramente è richiesta la consulenza dello psicologo forense, per rispondere a quesiti attinenti alle condizioni del minore, alla sua famiglia d'origine ed all'eventuale famiglia affidataria o adottiva. Il quesito che viene posto al C.T.U. è in genere molto ampio, articolato e strutturato sui seguenti elementi: "Dica il C. T. U., letti gli atti, esaminati il minore, il suo nucleo d'origine e tutti i terzi ritenuti significativi, sentiti gli operatori dei servizi socio-sanitari, ed espletata ogni opportuna e necessaria indagine, quale sia l'attuale situazione del bambino; quali siano i suoi rapporti con le differenti figure di riferimento; quali siano le possibili prospettive di evoluzione della situazione in esame, alla luce dei contributi offerti dai diversi soggetti interessati e dei prioritari bisogni del minore". In questo modo, il consulente tecnico viene "lasciato libero" di descrivere la realtà, le prospettive e gli eventuali interventi relativi alla situazione del minore ed a quella della sua famiglia, senza che gli sia richiesta una diretta valutazione di fattispecie giuridiche controverse e soggettivamente interpretabili, come quelle attinenti "all'abbandono morale e materiale" o alla " temporanea inidoneità del nucleo fami­ liare". Un quesito di questo tipo può essere integrato con precisazioni attinenti alle esigenze dei singoli casi, ad esempio dirette: alla verifica della interazione tra il bambino, il nucleo d'origine e quello affidata­ rio; alla valutazione prognostica del periodo di tempo necessario per un programma di trattamento di genitori tossicodipendenti; o ancora, allo studio dei risultati di un intervento socio-sanitario a favore del minore, come un sostegno educativo o una psicoterapia. Dal punto di vista applicativo è opportuno ricordare che, per le particolari caratteristiche dei genitori appartenenti ai nuclei maggior­ mente emarginati e problematici, in questo tipo di accertamento il consulente tecnico dovrà innanzitutto assicurarsi che i periziandi abbiano effettivamente compreso le caratteristiche e le finalità del­ l'incarico peritale, e siano pertanto in grado di interagire validamente con il C.T.U. e con gli eventuali consulenti di parte. In tale ottica, può essere utile dedicare uno o più incontri alla comune "rilettura" della vicenda giudiziaria, alla discussione del quesito peritale, ed alla definizione dei nominativi e degli indirizzi dei congiunti che, secondo i genitori, potrebbero cooperare alla tutela del minore.

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In secondo luogo occorre ricordare che , in queste indagini, il mandato peritale sottende un'ampia ma precisa connotazione clinica, per la quale il consulente non potrà limitarsi ad una valutazione diagnostica e prognostica, ma dovrà cogliere nei genitori risorse anche limitate ma potenziabili, come quelle relative all'affetto per il bambino ed alla motivazione all'impegno nel superamento delle problematiche preesistenti. Tale interpretazione è peraltro rafforzata anche dalla recente legge sull'affidamento condiviso, il cui pemo centrale si individua nell'attività di promozione, valorizzazione e sostegno delle capacità genitoriali. A differenza di quanto avviene in certi tipi di consulenza tecnica, centrati su un solo periziando, in questa indagine (come anche in quella relativa all'affidamento condiviso) è inoltre necessario esami­ nare l'intero "sistema" familiare, osservando le relazioni esistenti tra i diversi membri del nucleo, i valori trasmessi dall'una all'altra generazione, l'ambiente e gli stili di vita della famiglia ed ogni altro elemento utile per la comprensione della situazione e delle prospet­ tive della famiglia stessa. Ed ancora, è necessario che il consulente tecnico dedichi una specifica attenzione ai risultati ed alle possibili conseguenze dell'in­ tervento dei servizi socio-sanitari, tenendo conto del contributo dei colleghi ai fini della elaborazione di un eventuale "progetto" di trattamento e di assistenza, diretto, se possibile, a garantire il supe­ ramento delle difficoltà esistenti. Ci si confronta anche in questo caso con un modello di consulenza interattivo, evolutivo, dinamico e propulsivo. Un'attenta analisi dei bisogni affettivi, psicologici ed esistenziali dei minori, il più delle volte consente di superare i problemi familiari con forme di affidamento temporaneo. Solamente nelle situazioni del tutto prive di prospettive di miglioramento, è quindi legittimata l'emissione di pareri non suscettibili di revisione, come quelli atti­ nenti alla adozione del minore o al suo pressoché definitivo inseri­ mento in forme di affidamento eterofamiliare "sine die". Tutto questo delinea un compito di rilevante difficoltà, inevita­ bilmente foriero di tensione e sofferenza per lo stesso consulente tecnico, tanto da suggerire l'opportunità di specifiche forme di super­ visione clinica per questo tipo di professionista, in modo non dissi­ mile da quanto avviene per gli psicoterapeuti, così da prevenire possibili reazioni di tipo emotivo, ideologico o "salvifico" verso i periziandi, e da garantire il miglior equilibrio personale e professio­ nale dello stesso consulente tecnico. Un altro tipo di consulenza tecnica, sempre relativo all'adozione del minore, è quello dedicato alla verifica della idoneità delle coppie

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che, pur avendo richiesto di poter adottare bambini italiani o stra­ nieri, sono state ritenute inidonee dal Tribunale per i Minorenni e ricorrono alla Corte d'Appello, al fine di riformare tale provvedi­ mento. A tale proposito è opportuno ricordare che la valutazione dell'idoneità delle coppie che richiedano l'autorizzazione alla ado­ zione viene abitualmente esperita presso le strutture consultoriali e presso lo stesso Tribunale per i Minorenni, attraverso una serie di colloqui, di esami psicodiagnostici e di esami medici. L'emissione di un provvedimento di inidoneità alla adozione è poco frequente, e solitamente interessa coppie connotate da psicopatologie, da irrego­ larità della vita coniugale, o da motivazioni all'adozione che risultino essere potenzialmente lesive dei diritti del minore che verrebbe adottato (come la "sostituzione" di un figlio deceduto, la presenza di eccessive aspettative sociali e scolastiche sul figlio, ed altro). In questo tipo di accertamento, il consulente dovrà tener conto delle particolari motivazioni ed istanze dei coniugi, valutando se le stesse siano centrate sulla percezione dei bisogni del minore o, al contrario, su necessità di autogratificazione degli stessi.

9.4. L'affidamento del minore in caso di separazione e divor­ zio (21).

Un altro ambito particolare di consulenza tecnica, sempre attinente all'affidamento del minore, è quella che può essere esperita nel procedimento di separazione o di divorzio dei genitori del bam­ bino. Questa indagine non interessa quindi la collocazione del minore appartenente ad un nucleo problematico, ma viene disposta dal Giudice qualora sia necessario dirimere il contrasto dei genitori circa l'affidamento dei figli e le modalità di visita. Tale indagine ha subito profondi mutamenti a seguito della recente Legge n. 54 del 2006, recante "Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli", che ha radicalmente mutato l'impianto disegnato dalla normativa del codice civile (già innovato nel 1 975 dalla cosiddetta "Riforma del Diritto di Famiglia", nonché dalla Legge n. 74 del 1 987 "Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio"), fondamentalmente imperniata sul regime di affidamento monogenitoriale del minore, di (21 )

A cura di Linda Alfano e Rosagemma Ciliberti.

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solito alla madre, con ricadute talvolta negative e ostative del rapporto padre e figlio. La corresponsabilizzazione di entrambi i genitori e la loro paritaria presenza educativa quale modalità più idonea, in linea di principio, a rispondere al benessere psicofisico dei minori era, peral­ tro, già presente nella Legge n. 74 del 6 marzo 1 987, (''Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio"), che conce­ piva, allorché possibile e praticabile, l'affidamento congiunto ad entrambi i genitori, quale formula in grado di assicurare al minore quella continuità di rapporti con entrambe le figure genitoriali già vissuta con pienezza all'interno del nucleo familiare. L'applicazione di tale misura veniva, tuttavia, subordinata alla sussistenza di precise condizioni, difficilmente rinvenibili in coppie caratterizzate da forti ostilità: una scarsa conflittualità tra i coniugi; una loro buona capacità di gestione dei rapporti e degli accordi presi; la richiesta congiunta; la concorde volontà dei figli; l'esistenza di stili di vita quanto meno simili; la presenza delle due abitazioni nella stessa città. La rigorosità dei presupposti che ne condizionavano il ricorso ha causato la sostanziale disapplicazione dell'affidamento congiunto e, nel contempo, il progressivo diffondersi dell'affidamento esclusivo, dal momento che lo stesso affidamento alternato - previsto quale ulteriore possibilità dallo stesso art. 6 della L. n. 898 del 1 970 ("Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio") - determinando "un costante mutamento dell'ambiente affettivo e dell'orientamento educativo" del minore, non ha incontrato il favore degli interpreti. Con la recente normativa n. 54 del 2006 il Legislatore italiano, promuovendo un diverso impegno etico della sfera pubblica, rinuncia a patologicizzare l'evento separativo per valorizzare, proprio nelle difficili situazioni di conflittualità della coppia, le capacità e le responsabilità individuali nella cura e nell'attenzione verso i bisogni evolutivi dei figli, tra i quali assume rilievo il diritto di crescere ed essere educato nell'ambito della propria famiglia. Nel nuovo impianto normativa il Legislatore, anche sulla base degli orientamenti etici emersi in sede internazionale, ha inteso infatti attuare il diritto del minore ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambe le figure genitoriali, prevedendo che ambedue i genitori mantengono la titolarità e l'esercizio della potestà genitoriale. Nei molteplici percorsi della vita sentimentale, la separazione e il divorzio rientrano tra le possibili trasformazioni e transizioni dell'esperienza di vita di una coppia di adulti, rispetto alle quali l'intervento del Legislatore si esplica nel valorizzare e sostenere le libertà individuali declinandole, nel contempo, con il principio etico di responsabilità e con il preminente interesse della prole.

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La separazione dei coniugi è disciplinata sia dalle norme contenute nel codice civile (artt. 1 50 e ss.) e di procedura civile, sia da norme speciali. Con la separazione, i coniugi intraprendono il primo passo, al fine di porre fine al rapporto giuridico instauratosi con il matrimonio che, tuttavia, cesserà definitiva­ mente soltanto con la sentenza di divorzio. Con la separazione personale viene meno l'obbligo reciproco della coabitazione. Si attenuano anche altri doveri coniugali, ma non vengono meno gli obblighi - di natura patrimoniale - di assistenza materiale: è per questo che è previsto l'istituto dell'assegno di mantenimento a favore del coniuge economicamente debole. Oggi la separazione può essere chiesta da ciascuno dei coniugi per qualsiasi motivo che renda intollerabile la prosecuzione della vita coniugale, indipendentemente dalla colpa di uno dei due coniugi (art. 1 5 1 c.c.). Tra la separazione ed il divorzio devono intercorrere almeno tre anni, che decorrono dalla data di comparizione dei coniugi separandi dinnanzi al Tribunale. Affinché decorrano i tre anni previsti dalla legge, è quindi necessario che si verifichi una situazione di separazione instaurata nelle forme previste dalla legge e cioè mediante ricorso al Tribunale. Una separazione di fatto, consistente semplicemente nella cessazione della convivenza, non produce effetti sul piano giuridico e non è idonea a far decorrere il termine di tre anni per la richiesta di divorzio. La separazione dei coniugi può essere consensuale o giudiziale. La scelta della separazione consensuale rapprenta la formula più celere e meno costosa per porre fine al proprio rapporto matrimoniale. Essa si fonda sostanzialmente sul consenso dei coniugi circa la cessazione della convivenza che viene manifestato in forma espressa davanti al Tribunale. Le parti procedono alla redazione di un ricorso congiunto, all'interno del quale vengono indicate le condizioni riguardanti i loro rapporti patrimoniali ed il regime di affidamento dei figli se presenti. Il Tribunale effettua un controllo di conformità tra quanto richiesto nel ricorso e la normativa vigente in materia, ponendo particolare attenzione e cura all'aspetto dell'affidamento e del mantenimento della prole. Il giudice può, infatti, opporre il proprio rifiuto allorché tali accordi siano lesivi dei principi fondamentali della tutela della prole, del buon costume, o dell'ordine pubblico (art. 1 5 8 c.c.), senza tuttavia, al di fuori della approvazione o del rifiuto di quanto proposto, poter modificare o integrare gli accordi consensualmente assunti dagli interessati. A differenza di quella consensuale, la separazione giudiziale implica l'instaurarsi di una lite giudiziale in cui, in assenza di accordo tra i coniugi, è il giudice che stabilisce con sentenza le condizioni della separazione. Peculiarità della separazione giudiziale, è la possibilità dell'addebito della separazione ad uno dei coniugi. È infatti possibile che uno dei coniugi chieda espressamente al Tribunale di dichiarare l'altro coniuge come unico responsabile del fallimento coniugale. Il Giudice a tal fine dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione in considerazione del comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio. Diversi sono i comportamenti ed i fatti che possono portare all'addebito della separazione. Oltre a fatti gravissimi quali la commissione di atti di violenza o reati da parte di un coniuge nei confronti dell'altro (che in taluni casi rendono ammissibile anche il divorzio immediato), vi sono altri comportamenti che pur non trovando espresso riferimento in supporti normativi, vengono valutati dai Tribunali per l'adde­ bito della separazione: vessazioni psicologiche, estrema gelosia, atteggiamento del coniuge più facoltoso che fa mancare all'altro i mezzi di sostentamento, infedeltà coniugale, ma solo nel caso in cui essa rappresenti la causa del fallimento coniugale e non la conseguenza della separazione.

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Nel contesto del giudizio di separazione, sia essa consensuale o giudiziale, ven­ gono affrontati svariati aspetti, sui quali il Tribunale si dovrà pronunziare, quali a titolo esemplificativo, l'assegnazione della casa coniugale, la corresponsione di un eventuale assegno di mantenimento a favore del coniuge più debole o dei figli minorennimaggio­ renni, la corresponsione degli alimenti e l'affidamento della prole. Trascorsi tre anni dal giorno della separazione è possibile avviare le procedure per ottenere il divorzio. Da un punto di vista giuridico, in questo tipo di procedimento si impiegano i termini di cessazione degli effetti civili del matrimonio quando si tratta di matrimonio concordatario religioso, ovvero scioglimento del matrimonio quando si tratta di matrimonio civile. La normativa prevede che il divorzio possa essere dichiarato solamente per cause tassative, come ad esempio la separazione ininterrotta per tre anni, che costituisce la ragione principale che consente la pronuncia di divorzio, oppure come la sussistenza di gravi reati a carico di un coniuge, il nuovo matrimonio contratto all'estero dal cittadino straniero, la non consumazione del matrimonio, l'intervenuto mutamento di sesso di un coniuge, ed altro. Dopo la riforma intervenuta con la Legge n. 74 del 6 marzo 1 987, si identificano due tipi di procedimento di divorzio: quello cosiddetto "congiunto", per il quale, qualora non ricorra alcuna menomazione dell'interesse della prole, il magistrato può direttamente ratificare un ricorso sottoscritto da entrambi i coniugi, e quello "conten­ zioso", che risulta essere connotato, come accade per la separazione giudiziale, da una fase presidenziale, da una fase istruttoria, e dalla successiva emissione della sentenza. Anche nella pronuncia del divorzio "contenzioso", così come avviene per la separazione giudiziale, il giudice si esprime circa le più opportune modalità di affidamento e di collocamento della prole, e precisa le incombenze economiche ed educative di rispettiva pertinenza dei genitori. Anche successivamente alla definitiva dichiarazione del divorzio è sempre possibile che, qualora ricorrano "giustificati motivi" (come quelli attinenti alla tutela della prole), uno dei coniugi richieda la modifica delle condizioni vigenti, al fine di adeguare queste ultime alle nuove situazioni che possano interessare la vita dei divorziati e quella dei figli degli stessi. Sulla base di quanto sinteticamente riferito è evidente che, nel corso degli ultimi decenni, la normativa italiana del "diritto di famiglia" ha subito una modifica profonda e radicale, orientandosi verso forme di separazione o di divorzio sempre più ispirate ad un principio di "ridotta conflittualità", con abbandono di ogni forma di sanzione e con sempre maggiore attenzione alla prioritaria tutela degli interessi e dei bisogni della prole.

Ed è proprio in relazione alla maggiore attenzione al "premi­ nente interesse della prole" che la Legge n. 54 del 2006 riconosce la possibilità, da parte dei genitori, di esercitare la loro funzione in modo più completo, nonostante la rottura del rapporto di coppia. In sintonia con quanto già previsto nella Legge n. 1 49 del 200 l in tema di adozione che, all'art. l , sancisce "il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell'ambito della propria famiglia", la nuova legge sul­ l'affidamento condiviso, novellando l'art. 1 55 c.c., introduce il principio del mantenimento dell'affidamento del minore ad entrambi i genitori, indicato come affidamento condiviso (art. 1 5 5 c.c.), coerentemente configurato quale soluzione principale e ordinaria, nonché irrinuncia­ bile quando ne sussista l'applicabilità, rispetto al criterio dell'affida­ mento esclusivo, fino a ieri modello applicativo predominante.

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Viene quindi capovolto l'attuale sistema monogenitoriale di affidamento dei figli, che comprimeva e mortificava i diritti del genitore non affidatario, spesso escluso dalle scelte importanti rela­ tive alla vita e all'educazione dei figli, per prevedere, in sintonia con le nuove istanze etiche, il diritto del figlio minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, posti oggi su un piano paritario, nonché di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi conservando rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Nella nuova configurazione delineata dal Legislatore del 2006 permangono cioè su entrambi i genitori, a prescindere dall'evoluzione dei loro rapporti interpersonali, le responsabilità della cura e di un comune progetto educativo nei confronti dei figli, gravando su chi propone qualcosa di diverso l'onere di provare che si tratterebbe di una soluzione migliore. La legge si muove dall'idea che l'affidamento esclusivo non corrisponda, in linea generale, all'interesse del minore, tendendo a dirottare pericolosamente il genitore non affidatario (generalmente il padre) verso impegni meramente economici, scarsamente significa­ tivi e deresponsabilizzanti sul piano affettivo e costruttivo del minore, ad ingenerare l'idea che il genitore non affidatario non offra garanzie e capacità sufficienti a prendersi cura dei figli e, ancora, ad avvallare nel genitore affidatario (normalmente la madre) l'idea di un possesso da esercitarsi in regime di monopolio (22) . Ricerche sui processi familiari (2 3 ) evidenziano come fattori di rischio, predittivi di comportamenti disadattivi, l'ostilità e la compe­ titività del sistema co-parentale, il coinvolgimento genitoriale sbilan­ ciato (per esempio madre ipercoinvolta e padre periferico), cosl come le difficili situazioni relazionali tra i genitori. Anche importanti studi sulle conseguenze psicologiche del di­ vorzio sui figli minori hanno messo in evidenza come la persistente conflittualità parentale si collochi tra i più rilevanti fattori di rischio nell'insorgenza di disturbi evolutivi. Non sfugge, anche in quest'ambito attinente alla famiglia, un ribaltamento di prospettiva che, progressivamente e sempre più costantemente, percorre varie aree del diritto privato. (22) D'AvAcK L., L 'affidamento condiviso tra regole giuridiche e discrezionalità del giudice, in PATTI S., Rossi CARLEO L. (a cura di), L 'affidamento condiviso, Giuffrè, Milano, 2006. ( 23 ) McHALE J.P., RAsMussEN J.L., Coparental and family group level dynamics during infancy: early family precursor offchild and family functioning during preschool, Development and Psychopathology, Cambridge University, 1 998.

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Abbandonando una rigida impostazione formale, distaccata e, anche, autoritaria, il Legislatore si apre a comprendere il valore essenziale delle relazioni, degli affetti, delle istanze esistenziali delle persone, soprattutto di quelle che in ragione del loro stato o condi­ zione appaiono "deboli". In un'ottica del tutto mutata rispetto al passato, l'intervento pubblico si mostra sensibile ai bisogni, alle vulnerabilità e anche alle carenze di chi è esposto alle altrui, ma anche alle proprie fragilità: prima di tutto i figli, poi i padri, spesso pregiudizialmente esclusi dalla funzione genitoriale, ma anche il/i genitori che, vittima/vittime delle incomprensioni, dei dissidi e delle conflittualità proprie e altrui, possono compromettere la loro funzione educativa, e ancora, i nonni e tutti i familiari che ruotano intorno agli affetti del nucleo famiglia. La condizione di vulnerabilità del nucleo familiare, dei suoi legami e dei suoi componenti sollecita risposte attente, prudenti, rispettose del valore della persona e orientate comunque, non già alla esautorazione, bensì alla restaurazione e alla riqualificazione delle funzioni genitoriali. Anche qui, come in altri settori del diritto, le strategie chiave sono l'aiuto, la comprensione, l'assistenza, il sostegno verso il recu­ pero delle capacità e delle responsabilità individuali. In questo contesto, la fragilità delle persone, dei legami e della coppia costituisce occasione per marcare una funzione sociale e promozionale dell'intervento pubblico inteso a sostenere, assistere, promuovere e tutelare le persone che in una situazione di temporaneo disagio o di malessere possono trovarsi in uno stato di "debolezza", prevedendo la facoltà per il giudice di disporre l'intervento di servizi di supporto per rinforzare le loro capacità. E, allora, da una logica meramente valutativa, incapacitante e anche esclusiva del genitore non ritenuto idoneo, il diritto si indirizza verso un ruolo dinamico e propulsivo rivolto a includere i soggetti, sottolineandone e valorizzandone le capacità e le abilità, piuttosto che comprimerle e reprimerle. Per le coppie che non riescono a superare il conflitto, la normativa individua nella mediazione familiare un possibile percorso di negoziazione, completamente autonomo dal sistema giudiziario e garantito dal rispetto della riservatezza dei suoi contenuti, diretto a sostenere le competenze genitoriali ed a promuovere l'acquisizione di capacità comunicative (24). (24) ScAPARRO F., Sicurezza delle relazioni familiari e ragioni del mediare, Mediares, 2003; 1 :33.

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La novità sostanziale della recente riforma è, quindi, rappresen­ tata dalla scelta del Legislatore di valorizzare l'impegno dei genitori, pur divisi da fratture sentimentali, a trovare un accordo, o, meglio, a condividere e, cioè, a ripartire, anche e soprattutto moralmente, scelte e responsabilità di un comune progetto educativo ( 25 ) , superando la conflittualità esistente. Sulla base del nuovo dettato normativa, i genitori dovranno pertanto assumere di comune accordo le " . decisioni di maggior interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute . . . tenendo conto (in sintonia con quanto stabilisce l'art. 1 47 c.c. allorché la coppia sia unita in matrimonio) delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli" ( 26) . . .

Allo scopo di offrire alla filiazione naturale, forme di tutela identiche a quelle assicurate alla filiazione legittima, è altresì previsto che le nuove norme si applichino anche ai figli dei genitori non coniugati. Un altro aspetto rilevante riguarda i rapporti con i parenti. Il diritto dei nonni e dei parenti di ciascun ramo genitoriale di mante­ nere rapporti significativi con i minori trova, infatti, fondamento nella normativa positiva che accoglie l'idea che, anche sul piano giuridico, la famiglia, non possa più circoscriversi a quella c.d. "mononucleare" (costituita dai genitori e i figli), ma si estenda anche agli ascen­ denti ( 27) . La nuova norma recepisce pertanto i suggerimenti della psico­ logia dell'infanzia circa la significatività, per lo sviluppo psicologico del minore, del valore dei rapporti affettivi e relazionali anche con i propri nonni che, peraltro, in determinate condizioni e sotto specifici aspetti, assolvono ad una funzione vicaria nei confronti dei genitori. L'interesse del minore, quale criterio fondante della nuova normativa, si esprime anche con la previsione contenuta nella nuova normativa dell'ascolto (pratica già instaurata da molti anni in alcuni uffici giudiziari) rivolto a chiarire gli interessi, i desideri e i bisogni del figlio, nonché le sue relazioni con i genitori (art. 1 55-sexies c.c.) ( 2 5) In caso di separazione personale dei coniugi con figli minori, deve essere preferito l'affidamento condiviso, da intendersi non come convivenza del figlio con entrambi i genitori, ma come una maggiore responsabilizzazione di entrambi nel ricercare una comune linea educativa per la prole (Trib. Bari, Sez. I, 1 3 luglio 2007). (2 6) In ogni caso limitatamente alle questioni di ordinaria amministrazione il giudice può autorizzare una potestà disgiunta. (27) La Corte di Cassazione, con sentenza 1 6 ottobre 2009, n. 2208 1 , ha sottolineato che, se da un lato la nuova legge sull'affido condiviso ha riconosciuto e valorizzato il ruolo degli ascendenti e degli altri parenti di ciascun ramo genitoriale, dall'altro - in assenza di una specifica previsione - non fomisce loro concreti poteri ad agire in giudizio per chiedere una revisione delle visite.

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La legge all'art. 1 55-bis c.c. prevede comunque che ciascuno dei genitori possa chiedere l'affidamento esclusivo soltanto quando ri­ tiene che l'affido all'altro coniuge sia contrario all'interesse del mi­ nore. Il problema risulta pertanto quello di valutare le situazioni in cui si possa legittimamente ricorrere all'affidamento monoparentale, che la legge considera con evidente disfavore. Emerge, dunque, che, rispetto al passato, la determinazione del giudice non è svolta in relazione ad una valutazione in positivo circa la maggiore o minore idoneità all'educazione del minore da parte di colui che propone l'affidamento esclusivo bensì, al contrario, in relazione ad una valutazione in negativo, che l'affidamento condiviso, eletto a regola generale, sia nella fattispecie concreta, pregiudizievole per il minore (2 8). In linea generale si ritiene comunque che il parametro di riferimento non possa essere costituito dalla valutazione del rapporto o, meglio, della conflittualità tra i due genitori, se non inserita nel contesto filiale. Nelle separazioni il conflitto di coppia risulta, infatti, frequente elemento di contrasto, alimentato da reciproche pretese e rivendica­ zioni che investono anche i rapporti con i figli. Circa la pretesa di esclusione di un genitore dall'affidamento il Tribunale Messina ha affermato che "In tema di affidamento condiviso, la mera intollerabilità dei rapporti tra i genitori, il clima di tensione, anche aspra, che eventualmente caratterizza le relazioni dopo la separazione, l'assenza della volontà di collaborare, non possono, di per sé, ostacolare l'appli­ cazione di un sistema di affidamento che la legge privilegia, ponendo quale unico limite l'interesse del minore; diversamente opinando, sa­ rebbe agevole frustrare le finalità della normativa (ad es., creando o alimentando situazioni di conflitto), laddove l'interesse del minore è nel senso di conservare rapporti significativi con entrambi i genitori anche dopo la separazione, e proprio a cagione di essa, che inevitabilmente determina il venir meno della sicurezza costituita, di regola, dalla convivenza con entrambi i genitori" (2 9). Ai fini dell'applicazione, o meno, dell'affidamento condiviso il giudice messinese scinde quindi completamente la conflittualità co­ niugale dal rapporto genitori-figli, opportunamente precisando che ( 2 8) Si precisa peraltro che, in base alla nuova normativa, per procedere a tale forma di affidamento non è richiesto che l'affidamento all'altro coniuge rechi un pregiudizio per il figlio (come ipotizzato in alcuni progetti di legge), ma è sufficiente che esso sia contrario al suo interesse. (29 ) Tribunale Messina, ordinanza 1 3 dicembre 2006. Il Giudice istruttore, in applicazione dei riferiti principi di diritto, modificava l'ordinanza presidenziale, disponendo l'affidamento dei tre figli della coppia ad entrambi i genitori.·

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"la non condivisione di modelli comportamentali o di scelte di vita dell'altro genitore . . . non è certamente sufficiente a fondare l'opposizione all'affidamento (anche) all'altro genitore". Al fine di impedire che l'affido condiviso possa comportare di per sé un pregiudizio a carico del minore è altresì previsto che il Giudice, nel suo provvedimento di affidamento, debba anche discipli­ nare in modo dettagliato il quotidiano del minore nei suoi rapporti con le figure genitoriali. Il Giudice infatti dovrà: a) "detenninare i tempi e le modalità della loro (dei figli, ndr) presenza presso ciascun genitore"; b) fissare la "misura e il modo" con cui entrambi i genitori dovranno contribuire non solo dal punto di vista economico, ma anche fattuale, in concreto, con il loro apporto/presenza fisica e supporto morale al "manteni­ mento, alla cura all'istruzione e all'educazione dei figli"; c) prendere atto (dandone ovviamente cenno e riscontro nel suo provvedimento) degli accordi intervenuti tra i genitori; d) adottare ogni altro provve­ dimento relativo alla prole. Nei casi maggiormente conflittuali, o in quelli connotati da problematiche psicopatologiche e relazionali di uno o di entrambi i coniugi, il magistrato potrà inoltre conferire un incarico peritale di tipo psicologico forense, al fine di definire le più opportune modalità di affidamento della prole. I quesiti ai quali, in questo contesto, il Consulente tecnico può essere chiamato a rispondere, sono molto differenziati, in quanto fanno riferimento soprattutto alla generica nozione di "interesse del minore" e risentono dei sempre più tumultuosi mutamenti culturali che in questi ultimi anni hanno investito l'istituzione familiare. Negli scorsi decenni, infatti, i quesiti erano prevalentemente centrati sulla eventuale inidoneità di un solo genitore (per psicopato­ logia, sociopatia, comportamento immorale), mentre in un secondo tempo sono stati diretti ad ottenere un parere circa la maggiore o minore idoneità educativa dei due genitori e, successivamente, sono giunti ad interessare le globali interazioni, le dinamiche, e gli spazi di dialogo e tutela della prole, che caratterizzano il concreto contesto delle singole famiglie in esame. Nella maggioranza dei casi, il Consulente tecnico è attualmente chiamato a rispondere ad un quesito molto ampio, così strutturato: "Riferisca il Consulente tecnico d'ufficio, esaminati gli atti del procedimento, sottoposti ad ogni opportuna e necessaria indagine medico-psicologica i genitori del bambino, i terzi significativi nella vita dello stesso, ed il minore, circa la situazione relazionale esistente. Evidenzi, sentiti i servizi eventualmente interessati ed acquisita ogni opportuna documentazione, quale sia la collocazione più idonea del minore, e quali possano essere le modalità più adeguate per favorire un

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suo adeguato sviluppo psico-affettivo. Precisi le più opportune modalità di contatto tra il figlio ed i genitori". Un quesito così formulato apre molteplici spazi di lavoro per l'indagine dello psicologo forense, e favorisce la possibilità di attuare e di progettare, in collaborazione con i servizi sociali territoriali, importanti percorsi di supporto, di maturazione e di consapevolezza dei ruoli e delle funzioni genitoriali, in sintonia con i contenuti e le proposte della nuova legge sull'affidamento condiviso. Occorre ancora ricordare che questa specifica consulenza si svolge in un particolare momento esistenziale del nucleo familiare, caratterizzato da importanti rivisitazioni e riformulazioni dei propri assetti, dei ruoli e delle identità. È in questa fase di grande vulnerabilità che il consulente, incaricato dal giudice di formulare il progetto più idoneo per il mantenimento, la conservazione, la qualità di tutti i legami affettivi del minore, deve cercare di rintracciare uno spazio relazionale per comunicare, per accompagnare le possibilità adattive e trasformative delle persone verso nuovi percorsi finalizzati al loro benessere e a quello dei figli. Pur nelle differenti modalità degli interventi e tenuto conto delle variegate reazioni individuali e soggettive allo stato di crisi, emerge dunque una nuova consapevolezza della necessità di un costante e continuo coinvolgimento delle persone in tutte le decisioni che le riguardino, il consenso delle quali rappresenta un'essenziale condi­ zione di eticità, ed uno dei primi requisiti di efficacia. Il consulente interviene quasi sempre in una situazione appe­ santita a dismisura da un sovraccarico emozionale, all'interno di una relazione, quella tra un privato cittadino e l'istituzione giudiziaria, che si trova al centro delle preoccupazioni della famiglia; suo compito è dialogare con un linguaggio e con dei contenuti appropriati alle risorse psichiche del nucleo familiare, in modo progressivo e confa­ cente ai diversi stadi della consapevolezza, per stimolare risposte personali autonome, per sostenere la volontà di cambiamento, per promuovere un utilizzo attento delle risorse. In quest'area di confine concetti come intimità, valori, adegua­ tezza genitoriale, dignità, appaiono quanto mai relativi e di difficile definizione. Essi si sfumano e si modificano infinite volte in relazione ai vissuti emotivi di una o dell'altra parte, alle dinamiche interattive, affettive, familiari, in relazione alle possibilità di gestire la situazione in modo coerente con il proprio assetto filosofico-culturale e con le proprie istanze morali e spirituali. Il consulente tecnico, se da un lato può rappresentare per la famiglia, la possibilità di un aiuto, assumendo su di sé le aspettative,

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i desideri e i bisogni delle persone, dall'altro può anche rappresentare i limiti del sapere scientifico e l'ineluttabilità della sofferenza, assu­ mendo per questo su di sé molti vissuti di negazione, rifiuto, aggres­ sività. Le qualità della relazione consulente-famiglia possono dunque avere infinite sfumature, fino ad introdurre meccanismi perversi, di grave danno per l'equilibrio del sistema. La nuova legge sull'affidamento condiviso sembra cogliere la necessità di non patologicizzare l'evento separativo con diagnosi, giudizi, alienazioni, costrizioni della spontaneità dei rapporti, e soprattutto, nel suo riferirsi ai diritti dei figli di conservare il proprio contesto affettivo, sembra suggerire nuovi criteri di intervento. Come a dire che l'esito di una buona consulenza debba consi­ stere non tanto in provvedimenti imposti dall'alto e magari mai discussi, quanto in un percorso maturativo e sperimentale, finalizzato alla restituzione ai figli di due genitori più sereni, responsabili e consapevoli, in un percorso comune di rieducazione alle situazioni di cambiamento degli assetti familiari, con particolare attenzione ai minori, al loro coinvolgimento ed alla loro tutela. Nel nuovo contesto di genitorialità condivisa la consulenza assume, cioè, una funzione di mediazione e progettazione degli interventi più adeguati ad accompagnare e sostenere il percorso trasformativo della famiglia, salvaguardandone gli affetti e le risorse emotive. In questo senso, ancor più che in passato, dovrà prestarsi attenzione non solo all'esame delle funzioni genitoriali considerate singolarmente, ma anche alla funzione di co-genitorialità, intesa come capacità di ciascun genitore di riconoscere l'importanza del ruolo genitoriale dell'altro e di tutelare adeguatamente, nella rela­ zione con il figlio, il mantenimento e la crescita di questo rapporto. Superata la tradizionale richiesta di valutazione del genitore "più o meno idoneo", l'indagine peritale si indirizza, cioè, verso l'individuazione e la ricerca delle risorse affettive, pedagogiche e relazionali che tutti i componenti della famiglia sono in grado di fornire per promuovere un armonico sviluppo psico-fisico del minore, lungo il suo percorso evolutivo. In tale prospettiva, la consulenza tecnica tende a tracciare profili funzionali di genitorialità diretti a promuovere un rapporto equili­ brato tra genitore e figlio. Ciò senza trascurare il contesto di conflit­ tualità ed emotività in cui talvolta si svolge l'indagine peritale, che se non adeguatamente valutato, nelle sue specifiche connotazioni, può incrementare tensioni e generare problematiche ulteriori. Si impone, pertanto, in termini ancora più incisivi rispetto al

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passato, un dovere di cooperazione e interazione tra tutte le figure professionali investite del delicato compito di tutela del bambino, al fine di favorire il processo maturativo genitoriale e di consentire nuovi modelli di espressione della affettività tra i genitori e i figli. In questo campo, più che in altri, particolare attenzione deve essere riservata alla formazione dei consulenti psicologi, mediante specifiche scuole e corsi di specializzazione. Occorrono, infatti, professionisti adeguatamente preparati, ca­ paci di coniugare competenze cliniche (psicologico-psichiatriche) con conoscenze giuridiche e con metodologie forensi accreditate. Il consulente psicologo dovrà sempre ricordare che: il contesto dell'indagine è di tipo "valutativo-giudiziario" e non può confondersi con un lavoro di tipo clinico-terapeutico; i tempi giudiziari sono limitati; si può utilizzare qualsiasi metodologia psicologica, ma devono essere preferite quelle tecniche che consentono di studiare le interazioni tra le persone e tra i gruppi, dato il tipo di indagine che si e richiesti di svolgere; ci si deve adattare a tutte le garanzie che regolano l'attività peritale; ogni indagine deve essere sempre ripetibile e passibile di verifica da parte del magistrato e delle parti; non si può mai prescindere dall'esame di "tutte" le parti in gioco, ivi compreso il "minore", tenendo presente che l'esame del bambino richiede tecniche e competenze peculiari; non si può prescindere da una costante interazione e collabora­ zione con gli operatori dei servizi sociali e con tutti coloro che rivestono un ruolo importante per il bambino; non è necessario arrivare ad una "diagnosi" della situazione, ma é indispensabile giungere ad un "progetto" di vita del bambino. L'adattamento a queste norme generali non è sempre facile ed i rischi che si corrono sono numerosi. In particolare è necessario evitare di adeguarsi acriticamente al progetto del "committente" e cercare sempre di far sì che il lavoro peritale rappresenti un controllo critico, più che un rinforzo di idee preconcette. È inoltre importante ridefinire più volte il proprio ruolo e la finalità del lavoro, sia con le parti in causa, sia con gli altri consulenti, al fine di essere certi di lavorare sempre in modo critico e criticabile costruttivamente. Non pare inutile, a questo proposito, ricordare che il consulente non deve avere alcun "segreto" con le parti e non deve proporre interventi strumentali, volti alla dimostrazione di elementi già in qualche modo accertati. Il consulente non deve mai dimenticare che si muove in un

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terreno di inevitabile relatività e soggettività, con tutti i pericoli di contaminazione derivante dai propri valori, dalle proprie credenze e dalle proprie abitudini di vita. Di fronte a tanti problemi, è importante che il consulente sia in grado di comprendere i messaggi delle parti e di criticare il proprio lavoro, che si svolge in un campo in cui risulta essenziale il rispetto di ogni idea, di ogni diversità di ogni contingenza. Un consulente preparato deve essere capace di collaborare con tutti: con i servizi, con le famiglie, con i giudici, senza contrapposi­ zione, sovrapposizione o, peggio, inversione di ruoli. Il traguardo da raggiungere è quello di mettere in atto un progetto, magari ridotto negli interventi e ampliabile in itinere, ma sempre derivato da discussione e da verifica con tutte le parti, al di fuori di interpretazioni onnipotenti e di meccanismi burocratici chiusi, non trasparenti, molte volte violenti e contrastanti profonda­ mente con gli interessi dei minori che si intendono tutelare.

9.5. L'ascolto del minore (3°).

Per quanto attiene al tema relativo alla tutela dei diritti della persona nell'ambito delle relazioni familiari, molte sono oggi le norme che ruotano intorno alla centralità del minore e che gli riconoscono il diritto a partecipare, a farsi rappresentare e ad essere ascoltato in modo autonomo rispetto all'adulto (31). (30) A cura d i Linda Alfano e Rosagemma Ciliberti. (31) A titolo esemplificativo è sufficiente ricordare come, in campo sanitario, l'art. 38 del Codice di Deontologia Medica (2006) prevede che "Il medico, compatibil­ mente con l'età, con la capacità di comprensione e con la maturità del soggetto, ha l'obbligo di dare adeguate informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà"; nelle sperimentazioni cliniche di medicinali, il D .Lgs. n. 2 1 1 del 2003 prevede che il dissenso del minore prevalga sull'eventuale consenso di chi esercita la potestà parentale; nel processo penale è previsto che il minore abbia un suo personale diritto a farsi assistere da persona di sua fiducia, di nominare persona abilitata a difenderlo, di chiedere il giudizio immediato e abbreviato avendo acquisito una piena capacità processuale con il nuovo codice. E, ancora: a 10 anni il giudice tutelare deve sentire il minore sotto tutela per decidere se avviarlo allo studio o ad un'arte e mestiere (art. 3 7 1 n. l c.c.); l'ascolto è necessario per il bambino che abbia compiuto 1 4 anni in caso di contrasto tra i genitori nell'esercizio della potestà (art. 3 1 6 c.c.); in materia di adozione e affidamento familiare la nuova Legge n. 149 del 2001 ribadisce le ipotesi tracciate dalla Legge n. 1 84 del 1983 in cui si deve procedere all'ascolto del minore (prima che sia disposto l'affidamento familiare, la pronuncia dei provvedimenti provvisori relativi alla verifica dello stato di abbandono, la dichiarazione dello stato di adattabilità, l'emissione del dispositivo dell'affidamento preadottivo e della sentenza di adozione), con la modifica secondo cui il minore deve essere sentito, non più se opportuno, ma in considerazione della sua capacità di discemimento.

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Nonostante la partecipazione del minore ai procedimenti che riguardino la sua tutela sia stata ormai da tempo riconosciuta da diversi documenti internazionali (Convenzione dei Diritti del Fan­ ciullo ONU 1 989, ratificata in Italia nel 1 99 1 , Convenzione Europea sull'esercizio dei diritti da parte dei minori Strasburgo 1 996, ratificata in Italia nel 2003), la sua attuazione non è ancora disciplinata in modo uniforme nella nostra legislazione. L'audizione del minore è infatti prevista nell'art. 1 45 c.c. in caso di disaccordo fra i coniugi sull'indirizzo della vita familiare, per i figli conviventi ultrasedicenni; nell'art. 3 1 6 c.c., nelle controversie sul­ l'esercizio della potestà, per i figli ultraquattordicenni; nei procedi­ menti di sottrazione internazionale per il "minore capace di discerni­ mento"; nell'adozione legittimante per "il minore ultradodicenne e anche quello di età inferiore in considerazione della sua capacità di discernimento"; nella separazione dei coniugi e nel divorzio (art. 1 55 c.c.) per il "figlio minore ultradodicenne e anche di età inferiore ove capace di discernimento". Il consenso e l'audizione del minore non sono invece previsti per i figli minori naturali del nucleo adottivo, per i quali è sufficiente la volontà dei genitori, per i minori collocati in comunità e per quelli in affidamento eterofamiliare. Dietro queste discrepanze e ambiguità normative esiste la grande preoccupazione che la promozione dei diritti soggettivi del fanciullo, con particolare riferimento al suo coinvolgimento nei processi decisionali della sua famiglia, possa, in assenza di adeguati strumenti di protezione e di tutela, comportare pregiudizio alla serenità, alla stabilità, all'equilibrio dei rapporti affettivi, al bisogno di un armonico sviluppo, al rispetto della sua personalità individuale. Significativi in tal senso sono gli studi sulla violenza istituzio­ nale, definita e riconosciuta in America nell'International Conference on Psycological Abuse of Children and Youth ( 1 983) con riferimento a tutte quelle pratiche istituzionali che, invece di proteggere, si tradu­ cono in violenza psicologica per il bambino. In letteratura questa particolare forma di violenza psicologica è stata individuata nelle procedure giudiziarie per i reati sessuali come "vittimizzazione secondaria", con riferimento a quelle situazioni che sottopongono il minore a prassi di lavoro che possono risultare ripetitive e/o traumatiche (il protrarsi nel tempo del processo che riguarda il minore, audizioni effettuate con modalità non protette o comunque tardive rispetto al cambiamento della condizione psicolo­ gica del minore). Altra forma di violenza istituzionale è stata segnalata da autori che hanno sottolineato come in Italia, paese attento ai diritti dell'in­ fanzia, l'organizzazione giudiziaria, pur riconoscendo la specificità del bambino con l'esistenza di un Tribunale per i Minorenni, nelle

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procedure che lo riguardano utilizza tempi eccessivamente lunghi, in media quattro anni per un giudizio in Corte di Cassazione (3 2 ). In tale prospettiva occorre prestare una particolare prudenza al coinvolgimento del bambino nei procedimenti giudiziari che lo ri­ guardano o che riguardano la sua famiglia. Gli psicologi dello sviluppo hanno più volte sottolineato come il bambino, pur essendo un attivo costruttore delle proprie capacità, necessiti di condizioni ambientali e relazionali favorevoli e che lo sviluppo della sua personalità dipende dalla sinergia di elementi interni ed esterni. Nel bambino, o meglio nel soggetto in età evolutiva, la salute assume una valenza particolare, in quanto si realizza all'interno di processi in cui lo sviluppo di potenzialità interne (fisiche, motorie, percettive, cognitive, linguistiche, emotive, relazionali) possono es­ sere favorite, inibite e/o distorte dagli adulti. La salute del bambino dipende dalla qualità delle interazioni precoci avute con gli adulti di cura (caregiver), come gli studi della Psicologia dello sviluppo hanno ampiamente messo in evidenza. Il neonato, pur avendo abilità innate ed essendo un attivo costruttore dello scambio interattivo, necessita infatti di risposte adeguate e di condizioni relazionali e ambientali favorevoli (33) . Il diritto allo sviluppo della propria personalità e il diritto alla salute si realizzano pertanto all'interno di un'attenta previsione di tutte quelle condizioni di rischio che possono danneggiare la crescita. Tutti i principali modelli teorici concordano che lo sviluppo del bambino sia il risultato di un continuo interscambio tra le sollecita­ zioni esterne e le capacità interne del soggetto che osseJVa, organizza e decodifica le informazioni provenienti dal contesto socio-culturale di appartenenza. In particolare, gli studi sullo sviluppo cognitivo (34) evidenziano come il bambino, fin dal suo concepimento, sia un organismo attivo, dotato di capacità innate, che persegue le proprie potenzialità in risposta agli stimoli ambientali e relazionali; la progressiva costru­ zione della conoscenza si realizzerebbe pertanto solo all'interno di questa continua interazione. (32) FAvA VIZZIELLO G.A., SIMONELLI A., Adozione e cambiamento, Bollati Borin­ ghieri, Torino, 2004. (33) BoWLBY J., Attaccamento e perdita, in L'attaccamento alla madre, vol. l , Bollati Boringhieri, Torino, 1 972; STERN D., Il momento presente, Raffaello Cortina, Milano, 2005. (34) PIAGET J., La psicologia dell'intelligenza, Giunti Barbera, Firenze, 1 947; VYGOTSKIJ L.S., Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Giunti Barbera, Firenze, 1 974.

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L'approccio psicoanalitico suggerisce come l'identità e lo svi­ luppo psichico siano il prodotto della risoluzione o meno di conflitti interni, inerenti alle relazioni primarie e alla natura delle esperienze vissute. L'approccio ecologico di Bronfenbrenner (35) inquadra lo svi­ luppo del bambino nell'ambito del complesso sistema ecologico in cui si realizzano le sue interazioni con l'adulto. La teoria dell'attacca­ mento di Bowlby (36) ed i successivi sviluppi descrivono la signifìca­ tività della qualità del legame madre-bambino e delle altre relazioni familiari, riferendo una predisposizione biologica e la necessità primaria del neonato di contatto e conforto, esperita verso una persona di cura (caregiver), da lui riconosciuta come accogliente, contenitiva ed empatica. La qualità degli attaccamenti (sicuro, ansioso/evitante, ansioso/resistente, disorganizzato) vissuti dal bam­ bino nei primi anni di vita, indirizzerebbero il suo successivo sviluppo e le modalità di rapporto con gli altri (37). Tutte queste teorie confermano l'importanza delle prime fasi di sviluppo del bambino ed il ruolo dell'accudimento e dell'interscambio affettivo all'interno della famiglia, mettendo in luce come depriva­ zioni, inadeguatezze genitoriali, persistenza delle conflittualità fami­ liari possano creare danni evolutivo-cognitivi di varia entità. Nell'ascolto del minore occorre dunque considerare che il sog­ getto in età evolutiva non è privo di risorse, desideri e aspettative, ma è una persona attiva con bisogni evolutivi e relazionali, legami affettivi, dimensioni psicologiche e familiari, da garantire (38). Sotto il profilo tecnico anche la nuova legge sull'affidamento condiviso, nella sua formulazione testuale, sembra obbligare il Giu­ dice all'ascolto del minore che abbia compiuto 1 2 anni, ed anche di età inferiore se capace di discernimento (art. 155-sexies c.c.), diffe­ renziandosi dalla precedente normativa che lasciava al magistrato la discrezionalità dell'audizione. Tuttavia la disposizione non stabilisce nulla per quanto attiene alla cogenza della regola dell'audizione del minore, né per quanto attiene alla valutazione della capacità di discernimento del minore. ( 35) BRoFENBRENNER U ., The ecology ofhuman development. Experiments by nature and design, Cambridge, Mass Harvard University Press, 1 979; in trad. it. Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino, Bologna, 1 986. (36) BowLBY J., op. cit. . (37) ArNswoRTH M.D.S., BLEHAR M., WATERS E., WALL S., O{ attachment: assessed in the Strange Situation and at home, Hillsdale N.J., Erlbaum, 1978. (38) GHEZZI D., VADILONGA F. (a cura di), La tutela del minore, Raffaello Cortina Milano 1 996; DELL'ANToNIO A., La partecipazione del minore alla sua tutela, Giuffrè, Milano, 200 1 .

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In dottrina (39) si propende per un'interpretazione elastica della norma allorché l'ascolto possa rappresentare un grave trauma per il minore e il giudice possa motivatamente omettere l'audizione. Il bambino interlocutore nei processi giudiziari è comunque argomento di ampie discussioni sia in ambito giuridico sia psicolo­ gico, in quanto pone molteplici problemi sulle figure più appropriate alla sua realizzazione, sul ruolo degli operatori, sulle modalità, sui tempi e luoghi dell'ascolto, sui modelli teorici di riferimento per decodificare le comunicazioni infantili, per decidere se vi siano nel minore capacità sufficienti per capire ciò che è necessario per il suo benessere; se questi possa decidere autonomamente o possa subire pressioni e condizionamenti da parte dei genitori; quale sia il grado di maturità e di autonomia delle opinioni che esprime. Nel tentativo di definire delle linea guida di riferimento per l'ascolto del minore sono stati elaborati diversi protocolli interpreta­ tivi. Tra questi, il Protocollo dell'Osservatorio per la Giustizia Mino­ rile del Foro di Milano ("Protocollo sull'interpretazione e applicazione della Legge 8 febbraio 2006, n. 54 in tema di ascolto del minore" (40)) fornisce indicazioni, di carattere programmatico e non vincolanti, dirette ad individuare e valorizzare norme di comportamento e prassi organizzative finalizzate a garantire che l'audizione del minore nel processo avvenga con modalità adeguate e rispettose della sua sensi­ bilità. Nella consapevolezza delle pericolose strumentalizzazioni e suggestioni sottese all'ascolto di un minore, il Protocollo richiama il principio della minima offensività e sollecita, in particolare, una limitazione dell'ascolto ai soli procedimenti contenziosi (separazione, divorzio, interruzione conflittuale di convivenza more uxorio) preve­ dendo inoltre che, nei procedimenti consensuali, l'ascolto possa essere disposto soltanto laddove particolari circostanze del caso lo rendano opportuno. La stessa prudenza suggerisce di limitare l'ascolto del minore alle sole ipotesi in cui sia necessario assumere provvedimenti che riguardino l'affidamento, le modalità di visita e tutte le decisioni relative ai figli, escludendo il suo ricorso ai casi in cui la vertenza riguardi esclusivamente gli aspetti economici. Recependo le osservazioni emerse in sede dottrinaria, il Proto­ collo prevede che l'ascolto del minore possa non essere disposto (3 9) ToMMASEo F, Rappresentanza e difesa del minore nel processo civile, Famiglia e Diritto, 2007; 4:409. (40) Consultabile on line al sito http://www .cameraminorilemilano.it.

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allorché, per l e particolari circostanze del caso, il giudice ritenga motivatamente che non sia rispondente all'interesse del minore. Sono stabilite modalità riguardanti i tempi e il luogo dell'ascolto giudiziario al fine di garantire la massima riservatezza e tranquillità al minore. In linea generale si ritiene che per l'ascolto dei minorenni dovrebbe individuarsi un ambiente adeguato e diverso dall'ufficio giudiziario; nel caso in cui ciò non sia possibile, si suggerisce che l'incontro con il minore sia programmato in orari differenti da quelli delle udienze ordinarie. Il Protocollo prevede inoltre la possibilità di un ascolto diretto da parte del Giudice titolare della procedura unitamente al giudice onorario ove previsto, prevedendo in subordine la nomina di un ausiliario ex art. 68 c.p.c. esperto in scienze psicologiche o pedagogi­ che. Parimenti è prevista la possibilità di avvalersi della competenza di tale esperto, per la valutazione della "capacità di discemimento", o della difficoltà o del pregiudizio che l'espletamento dell'ascolto po­ trebbe arrecare al minore. Al fine di evitare condizionamenti, il Protocollo prevede che le parti ed i loro difensori prestino consenso ad allontanarsi dall'aula per non assistere all'ascolto, fatta salva la possibilità che, prima dell'au­ dizione, i legali delle parti possano sottoporre al giudice i temi e gli argomenti sui quali ritengono opportuno sentire il minore. Se il minore richiederà espressamente la presenza di un genitore o di entrambi o di una persona estema al nucleo, in ossequio al diritto ad un'assistenza affettiva e psicologica, questa richiesta, anche in considerazione dell'età del minore, dovrà comunque essere valutata dal giudice. In sintonia con i principi etici che attribuiscono rilievo all'auto­ nomia della persona di età minore e al suo diritto di partecipare in modo consapevole alla sua tutela è previsto che, prima dell'audizione il minore sia adeguatamente informato dal Giudice del suo diritto ad essere ascoltato nel processo, dei motivi del suo coinvolgimento nello stesso, nonché dei possibili esiti del procedimento, precisando che tali esiti non necessariamente saranno conformi a quanto sarà da lui eventualmente espresso o richiesto. Norme sono inoltre previste affinché, qualora si proceda ad un ascolto del minore in sede di C.T.U., anche detto incombente avvenga, così come per l'ascolto avanti al Giudice, senza la presenza delle parti e dei difensori e possa essere richiesto che l'incombente venga videoregistrato, ovvero, ove possibile, anche in considerazione della particolare complessità del caso, venga realizzato con modalità di audizione in forma protetta. Si prevede peraltro che prima dell'audi­ zione i consulenti di parte possano sottoporre al C.T.U. i temi e gli argomenti sui quali ritengono opportuno sentire il minore.

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Le indicazioni che vengono previste nel citato Protocollo appa­ iono adeguate a regolamentare il coinvolgimento del minore nel processo separativo dei suoi genitori e ad individuare criteri omoge­ nei da applicare uniformemente nell'intero territorio nazionale. Permane tuttavia viva la preoccupazione che il minore nel suo essere continuamente stimolato alla conquista di una propria identità personale e sociale possa trovarsi in uno stato di profonda solitudine, gravato da eccessive responsabilità. L'emancipazione da tutto ciò che fondava in passato la vita del bambino, come tradizioni, pregiudizi, credenze e limiti normativi, sem­ bra aver lasciato il posto ad un nuovo ordine, ad uno scenario in cui il minore appare sempre più pienamente sovrano della sua vita, arbitro unico e unico responsabile della forma e della qualità della sua esi­ stenza. Nello stesso tempo, quasi paradossalmente, la società prolunga forzatamente la fase adolescenziale e di dipendenza, ostacolando i per­ corsi di autonomia abitativa, lavorativa ed esistenziale. Se appare dunque meno esposto ai rischi naturali, il bambino contemporaneo è tuttavia molto più suscettibile ai rischi che derivano dalle sue decisioni, alle fantasie di controllo e di superamento di ogni limite, ad un peso via via crescente di responsabilità decisionale, mentre si amplifica il suo bisogno di essere aiutato a riconoscere la precarietà, la fragilità degli assetti psichici individuali, culturali e sociali, ad im­ pegnarsi nella ricerca di sempre nuove rappresentazioni del reale. Vero è che tutti i soggetti coinvolti nelle procedure attivate per la loro tutela, ciascuno nel proprio ruolo, devono avere adeguata con­ sapevolezza dell'area di problematicità all'interno della quale bisogne­ rebbe attuare il "superiore interesse del minore", ma è anche certo che permangono nel merito importanti perplessità su cui soffermare il pensiero e la riflessione: è giusto coinvolgere il figlio nell'esasperata conflittualità dei genitori e correlare in modo prevalente l'audizione del minore alle situazioni di contesa e di dissidio? perché due genitori, solo per il fatto che hanno maturato la decisione di allentare il proprio legame sentimentale devono essere ritenuti non più capaci di interpretare i bisogni e le comunicazioni dei loro figli? è giusto riservare al giudice o al tecnico il ruolo di interprete onnipotente delle comunicazioni infantili? Ci si interroga inoltre sulla possibile confusione dei saperi, dei linguaggi, delle metafore del bambino nel passaggio dal codice affettivo ed emozionale della famiglia a quello razionale, logico, difensivo e rivendicativo dell'aula giudiziaria; sulla responsabilità

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professionale di chi traduce, interpreta e trasferisce i dati della comunicazione nel mutare dei contesti, dei codici, degli obiettivi. L'inserimento di un terzo nella relazione genitori-figli, in un momento così delicato della storia della famiglia, può compromettere la fiducia del bambino nei confronti dei suoi adulti di riferimento? Sono compatibili i tempi del percorso giudiziario con la psicologia del soggetto in età evolutiva? Quali competenze sono necessarie per gestire la componente emotiva del colloquio? In relazione a questi interrogativi, etici, clinici, deontologici è preferibile, anziché riferirsi ad un modello precostituito e imperso­ nale, costruire un percorso, un assetto strutturale all'interno del quale configurare una relazione basata sulla reciproca possibilità di com­ prensione. In quest'ottica può apparire adeguato l'utilizzo di un approccio integrato, clinico ed extragiudiziario che consenta di operare sulle dinamiche emozionali, rispettandole, comprendendole, accompa­ gnandole verso una fisiologica maturazione ed un loro specifico assestamento. Sulla base di una richiesta condivisa di entrambi i genitori e con l'aiuto di un professionista, liberamente scelto o presso i servizi sociali territorialmente competenti o nell'ambito dell'offerta libero-professionale, è possibile seguire un percorso che rivisiti la storia, la qualità delle relazioni, le abitudini del quotidiano, per valutare la positività degli accordi raggiunti, la condivisione ed il rispetto dei bisogni evolutivi di tutte le parti, per apportare con la famiglia eventuali modifiche al progetto educativo condiviso da produrre all'attenzione del magistrato. Tale spazio potrebbe essere individuato anche all'interno dei percorsi di mediazione familiare, opportunamente rivisitati, in modo da consentire la partecipazione attiva dei minori, nei tempi ritenuti più opportuni. Nei procedimenti contenziosi (ad elevata conflittualità e/o nel­ l'ipotesi di una richiesta di affidamento monogenitoriale), la consu­ lenza tecnica sembra invece rappresentare ancora lo strumento più adeguato ad accompagnare e definire i nuovi assetti familiari. Si tratta infatti di uno spazio all'interno del quale esistono regole e procedure definite, chiare e condivise dove la partecipazione del minore può essere garantita e nel contempo protetta mediante un'adeguata individuazione delle tecniche e delle modalità di ascolto. Occorre nel merito ricordare che il bambino non si presenta al tecnico perché ha riconosciuto di aver bisogno di un aiuto o di una consulenza. Qualcun altro, madre, padre, giudice, ha deciso per lui. E, allora, è evidente che quando abbiamo a che fare con un bambino, forzatamente introdotto in uno scenario giudiziario, i

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tradizionali concetti di aiuto, relazione, responsabilità devono essere drasticamente ripensati. Tenendo presente tutto ciò, partiamo dall'assunto che il primo obiettivo del lavoro è la costruzione della relazione con il bambino, che chiede tempo, disponibilità ed empatia. I bambini odiano le domande e soprattutto non sanno cosa rispondere se non comprendono con che tipo di persona si confron­ tano. Serve loro del tempo per scoprire, per intervistare, per racco­ gliere le informazioni che dal loro punto di vista sono altamente pertinenti, per rivolgere domande e ottenere risposte, per decidere infine se interagire. L'individuazione delle strategie conoscitive da utilizzare nello sviluppo di una consulenza è ovviamente dipendente dalla specificità di ogni situazione. In contesti caratterizzati dal rischio di pericolose strumentaliz­ zazioni all'interno del contenzioso familiare, potrebbe essere preferì­ bile avvicinare il bambino con tecniche (come la sand-play, la fìaba­ zione guidata e/o spontanea, il disegno) che, non privilegiando la comunicazione verbale, siano maggiormente in grado di proteggere le espressioni del minore dall'esposizione ad eventuali fraintendimenti, manipolazioni, distorsioni. Con bambini molto piccoli o dove l'obiettivo è la promozione di una maggiore consapevolezza degli adulti sulla qualità delle funzioni genitoriali, possono invece essere utilizzate con profitto tecniche di osservazione delle interazioni familiari, quali il metodo Tavistock, il disegno congiunto, il Lousanna Trilogue Play clinico, e altri. La consegna dei protocolli di osservazione delle interazioni familiari, dei disegni e delle fiabe prodotte dal minore ai consulenti di parte, piuttosto che l'uso della telecamera, rappresenta un valido strumento per favorire la discussione e la comprensione dei vissuti del bambino nel caso in cui i consulenti di parte, come di norma, non ritengano indispensabile e opportuna la loro presenza diretta agli incontri con il bambino stesso. Qualora, tuttavia, particolari circo­ stanze lo richiedano, non deve essere considerata negativamente la partecipazione dei consulenti di parte a tali incontri, sempre che vengano rispettate tutte le metodologie e le modalità di familiarizza­ zione e di costruzione della relazione che il consulente ritiene di dover mettere in atto al fine di svolgere al meglio il proprio lavoro. La necessità di un'analisi approfondita e completa di tutti gli elementi in essere non nasce solo da esigenze etiche o deontologiche, ma anche da istanze squisitamente tecniche, non risultando infatti possibile cogliere la realtà psichica di un minore e il suo interesse morale e materiale se non inquadrandoli nel suo contesto affettivo e relazionale c omplessivo.

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Al proposito, occorre ricordare che nell'elaborazione d i un progetto non si può prescindere dal coinvolgimento del minore dal punto di vista del consenso e dell'impegno consapevole, tenuto conto che in fase attuativa la sua adesione consapevole e la sua condivisione è fondamentale per il buon esito del progetto stesso. In questa specifica situazione lo svolgimento dell'accertamento consulenziale potrebbe travalicare in una funzione trasformativa, che valorizzi l'importanza della perizia quale percorso maturativo della famiglia.

La svolta impressa dalla Legge 56 sull'affidamento condiviso, ha determinato significativi mutamenti nell'ambito delle indagini peri­ tali, comportando un ripensamento delle finalità e delle modalità procedurali e metodologiche delle consulenze d'ufficio espletate nel­ l'ambito dei procedimenti civili di separazione e divorzio. In queste occasioni occorre infatti che la consulenza non deter­ mini un'amplificazione della conflittualità della coppia genitoriale e non suggerisca, suo malgrado, al minore il venir meno delle compe­ tenze educative e di scelta delle sue figure familiari. Un contesto di accoglienza e la chiarezza degli obiettivi, la comune e partecipata gestione di entrambi i genitori alla vita dei figli, dovrebbero contraddistinguere pertanto il setting del consulente. In quest'ottica potrebbero essere maggiormente indicate nella conduzione della consulenza, tecniche narrative, di ricognizione biografica. L'arte del raccontarsi implica infatti un linguaggio complesso fatto di idee e rappresentazioni (di sé, degli altri, del mondo), di emozioni (positive o negative), di valutazioni, di relazioni significa­ tive. Permette di ricostruire, di rivisitare se stessi, di progettare. Ha cioè una finalità trasformativa, educativa e/o autoeducativa per la persona. Il prodotto delle pratiche biografiche è una storia, cioè una costruzione, un racconto, che si fa insieme agli altri: non un'autova­ lutazione asettica, né una descrizione oggettiva, né un elenco di fatti con un loro significato intrinseco. Il suo valore di storia la rende trasformabile, trascrivibile, facilmente fruibile in un contesto che chiede con la trasformazione dei ruoli e delle funzioni familiari, la riprogettazione del Sé e delle relazioni. Le pratiche narrative che accompagnano le biografie costitui­ scono processi di esplicitazione e interpretazione molto importanti nel dar senso alle storie. Per essere efficaci richiedono l'esercizio collettivo della conversazione collaborativa dove ogni idea viene presa in considerazione per quello che è e dove idee diverse possono

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convivere in quanto non c'è l'obiettivo del consenso. Questa è forse la novità principale della legge sull'affidamento condiviso e della nuova consulenza, il fatto che per crescere i figli non è necessario un unico modello educativo, ma un'educazione alla convivenza democratica, alla tolleranza, alla diversità, al pensiero. Questa apertura permette di far dialogare tra loro mondi diversi, in sintonia con le continue trasformazioni delle strutture e dei modelli familiari, con l'emergere di nuovi valori e di etiche differenziate, con il pluralismo etnico. La raccolta delle storie dovrebbe dunque preludere non più a valutazioni psicodinamiche della personalità dell'uno o dell'altro coniuge, bensì a tracciare profili funzionali di genitorialità da utiliz­ zare nella suddivisione dei compiti di accudimento. In un nuovo contesto culturale, ma anche morale, è la qualità del rapporto che ciascun genitore ha strutturato negli anni con il figlio ad assumere un ruolo pregnante, rispetto a stereotipi valutativi diretti a privilegiare le qualità personali del genitore, le sue modalità di relazionarsi con il coniuge e, ancora, ruoli genitoriali rigidamente predeterminati che riservavano alla madre una posizione di suprema­ zia per quanto attiene al rapporto con la prole. In un'ottica profon­ damente innovata, il concetto di persona prevale e sostituisce quello inerente allo status e ad un ruolo rigidamente predeterminato dalle convenzioni sociali e, di fatto, del tutto scalzato dalla attuale flessibi­ lità, intercambiabilità e fluidità delle posizioni dei componenti la coppia. Non vi è dubbio, allora, che l'ascolto del minore debba essere ricondotto all'interno di un setting che lavori sulle relazioni parentali e che operi nell'interesse e in direzione di tutta la famiglia, senza semplificazioni inadeguate, senza strumentalizzazioni inaccettabili, al solo fine di stimolare il dialogo tra i diversi protagonisti della scena, assumendo la prospettiva del bambino come essenziale elemento di comprensione e convergenza. Ascoltare un minore o, meglio, comunicare con un minore che, in ragione del proprio stato non è assolutamente indipendente ri­ spetto alle persone ed ai fatti che lo coinvolgono, vuol dire tentare di comprendere le sue reali esigenze psico-affettive e assumere nuovi paradigmi professionali, consapevoli della rilevanza dei contenuti anche sociali della responsabilità professionale del consulente.

Capitolo X PROBLEMI ETICI E DEONTOLOGICI NEL LAVORO PSICOLOGICO E PSICHIATRICO FORENSE

1 0. 1 . Doveri del consulente e diritti della persona. - 1 0.2. Le responsabilità 1 0.3. Nuove esigenze di forma­ del perito: aspetti normativi e deontologici. zione del consulente tecnico.

SoMMARIO:

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l 0. 1 . Doveri del consulente e diritti della persona. Nella discussione che è stata fino ad ora articolata si è fatto spesso cenno ai diritti ed ai doveri dei periziandi e dei consulenti tecnici, evidenziando come il lavoro peritale debba rispondere non solo ad una consolidata metodologia di tipo scientifico ed alle norme vigenti, ma anche ad una complessa serie di incombenze e di necessità, che attengono sia alla sfera professionale sia, più propria­ mente, a quella etico-deontologica. I doveri dei consulenti, infatti, siano questi di ufficio o di parte, discendono da tre differenti ma concomitanti, livelli di normativa: quello relativo alle leggi che regolano le attività peritali e delineano i possibili profili di illiceità o di responsabilità pro­ fessionale; quello della deontologia (''scienza del dovere"), che attraverso le codificazioni proposte dai singoli ordini professionali definisce le norme comportamentali cui deve uniformarsi ogni iscritto agli stessi ordini; quello dell'etica, che si fonda su valori e norme morali validi non solo per una categoria professionale, ma per l'intera società. Nel loro lavoro, lo psichiatra e lo psicologo forense sono chiamati a confrontarsi costantemente con questi sistemi di riferi­ mento e, a differenza di quanto avviene in quelle discipline che sono connotate da una minore "intimità" di rapporto con le persone, sono sempre coinvolti da pesanti implicazioni e riflessioni di natura etica. La ricerca dei vissuti profondi dei periziandi, la verifica delle loro scelte e motivazioni, l'assunzione di decisioni che comportano conseguenze anche molto pesanti per le persone, le loro famiglie ed i 12

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loro figli, impongono, infatti, una continua "messa in gioco" della stessa dimensione "umana" del consulente tecnico. Negli ultimi anni, in ambito italiano ed europeo, questi argo­ menti sono stati oggetto di un intenso dibattito, grazie al quale si è sviluppata un'importante evoluzione culturale, legata alla sempre più critica riflessione che gli studiosi della disciplina stanno conducendo circa i valori di base, e circa le problematiche deontologiche ed operative della stessa. Negli accertamenti in tema di imputabilità e di "pericolosità sociale" del malato di mente autore di reato, ad esempio, la psicopa­ tologia forense ha vissuto una stagione di profonda innovazione, nell'ambito della quale sono state rifiutate prassi fino a pochi anni orsono pacificamente condivise, come quelle di accettare aprioristici "parallelismi" tra diagnosi psicopatologica e imputabilità, e di attri­ buire al clinico il compito di prevedere, al di là ed al di fuori delle possibilità prognostiche consentite dagli strumenti dei quali dispone, la probabilità di recidiva criminale del sofferente psichico. In questo stesso periodo, il lavoro psicologico e psichiatrico forense è stato anche oggetto di una particolare attenzione da parte dell'opinione pubblica e dei mass media. Il clamore suscitato, ad esempio, dall'efferata recidiva di alcuni soggetti prosciolti e ritenuti "non pericolosi", e il sempre più chiaro indirizzo "punitivo" espresso dalla collettività nei confronti di molte forme di comportamento deviante e delinquenziale, sono alla base di numerose critiche nei confronti delle decisioni dei giudici e dei periti. In non pochi casi, la stampa esprime forti dubbi anche verso l'internamento in Ospedale Psichiatrico Giudiziario dei soggetti autori di gravi reati, e qualifica tale misura come un ingiusto beneficio, biasimando come non suffi­ cientemente rigorosi i periti il cui parere abbia contribuito a "sot­ trarre" il reo ad una lunga pena detentiva. Mentre la psichiatria e la psicologia clinica, e le corrispondenti discipline forensi, esprimono sempre più ampi spazi di "apertura" verso i diritti e la responsabilizzazione del sofferente psichico, il sentire collettivo spesso è connotato da resistenze, limiti, atteggia­ menti essenzialmente critici nei confronti dei clinici e dei consulenti, che vengono sempre più spesso ritenuti potenzialmente "responsa­ bili" degli eventuali atti dannosi auto o eterolesivi commessi dal sofferente psichico (1 ) . ( 1 ) In tal senso si ricordano alcune pronunce significative della giurisprudenza penale: Cass. Pen., sez. IV, 4 marzo 2004, n. 10430; Cass. pen, sez. IV, 1 1 marzo 2008, n. 10795. In dottrina si veda: MASPERO M., Una discutibile sentenza della Cassazione sulla responsabilità penale del medico psichiatra, in Riv. /t. Med. Leg. , 2004, 6: 1 246; MASPERO M., Mancata previsione di evento suicidiario o responsabilità dello psichiatra: creazione di

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In ambito civile, la crescente diffusione del fenomeno della separazione e del divorzio, e il progressivo ampliarsi della sfera degli interventi esperiti dal Tribunale per i minorenni, hanno determinato un sostanziale incremento del numero delle consulenze tecniche che, in modo formale o informale, vengono richieste ai professionisti di formazione prevalentemente clinica, per essere impiegate nell'ambito di vicende giudiziarie che interessano i minori. Nell'attività di molte strutture consultoriali ed ospedaliere, e nell'attività di molti clinici, il rapporto con il sistema giudiziario ha così assunto un ruolo progressivamente crescente, giungendo talvolta ad assorbire gran parte del tempo degli operatori, e ponendo sempre nuovi problemi di carattere giuridico, scientifico e deontologico. Tale realtà sembra portare con sé l'emergere di problemi nuovi e complessi, relativi sia a possibili profili di responsabilità professio­ nale, sia a vere e proprie forme di comportamento censurabile, legati all'attività dei professionisti che, a diverso titolo (consulente d'ufficio o di parte, operatore consultoriale, terapeuta del bambino o di un genitore, ecc.), intervengono nelle vicende giudiziarie che interessano un minore o una famiglia. Circa il problema del consenso nell'ambito della perizia, si ribadisce che l'accertamento peritale "d'ufficio" non rappresenta un'attività di tipo clinico-terapeutico richiesta dall'interessato, ma costituisce una fase di un procedimento giudiziario, nella quale il giudice attribuisce ad uno specialista il compito di acquisire dati di carattere tecnico-scientifico utili ai fini del procedimento stesso. La scelta del consulente tecnico, il quesito peritale e le stesse conclusioni valutative, sono pertanto espressi in modo indipendente dalla volontà e dai desideri del periziando ed a volte tendono a raggiungere obiettivi non rispondenti agli interessi del medesimo. Tutto questo evidenzia una dimensione applicativa che è del tutto diversa da quella propria degli interventi medici o psicologici, poiché in ambito peritale la sola scelta che di fatto può essere espressa dal periziando è quella di aderire o meno all'intera indagine, o all'effettuazione di singole parti della stessa. In questo contesto viene meno la fondamentale dimensione del "contratto", che, attraverso un'informazione puntuale e un consenso articolato e soggetto a revisione, regola i rapporti tra un paziente ed il suo terapeuta (sia in ambito psicoterapico, sia in ambito medico, chirurgico e farmacolo­ gico). un fuzzy set o rilevazione di un ossimoro?, in Riv. !t. Med. Leg. , 2002, 3:91 3 ; FIORI A., BuZZI F., Problemi vecchi e nuovi della professione psichiatrica: riflessioni medicolegali alla luce della sentenza della Cassazione penale n. 10795/2008, in Riv. lt. Med. Leg. , 2008, 6: 1438.

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Tenendo conto di tale oggettiva limitazione dei diritti del peri­ ziando, imposta dalle regole del gioco giudiziario, il consulente tecnico deve farsi comunque carico dell'obbligo di informare detta­ gliatamente il proprio interlocutore circa gli scopi, i tempi e le modalità di espletamento dell'accertamento, prendendo atto in modo formale di eventuali rifiuti o di parziale disponibilità che possono essere espressi. Per ciò che concerne il problema del segreto professionale, si sottolinea che nel lavoro peritale la riservatezza circa le notizie raccolte è tutelata in modo duplice, sia attraverso le previsioni della procedura giudiziaria sia attraverso le norme legislative e deontolo­ giche in tema di attività sanitarie (2). È ovvio che le notizie raccolte dal consulente saranno dettaglia­ tamente descritte nella relazione conclusiva, che sarà messa a dispo­ sizione del giudice e delle parti. Non è comunque inutile ricordare al proposito, che il consulente ha il dovere deontologico di non esplici­ tare quegli elementi di carattere personale e "privato" la cui citazione non sia strettamente indispensabile ai fini della risposta al quesito peritale. La delicatezza della materia, la necessità di utilizzare certifica­ zioni sanitarie spesso poco attente alla tutela dei dati sensibili e le complesse prescrizioni introdotte dalla legge sulla protezione di dati personali contribuiscono comunque a determinare situazioni di dif­ ficoltà del consulente, per le quali a volte è necessario ricorrere ad un parere del giudice circa l'utilizzabilità dei dati proposti. A questo riguardo si ricorda che il nuovo Codice Deontologico medico italiano, ammonisce sulla necessità di un esercizio della medicina legale fondato sulla correttezza morale, sulla consapevo­ lezza delle responsabilità etico-giuridiche e deontologiche che ne derivano, nonché sull'esigenza di un'adeguata competenza tecnica, rifuggendo da "indebite suggestioni di ordine extratecnico e da ogni sorta dì influenza e condizionamento" (3). (2 ) Si rimanda in particolare agli artt. 326 (Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio) e 622 (Rivelazione di segreto professionale) del c.p., al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 1 96 (Codice in materia di protezione dei dati personali) e a quanto previsto nei Codici di Deontologia professionale. (3) Art. 62 C.D.M.: "L'esercizio dell'attività medico legale è fondato sulla correttezza morale e sulla consapevolezza delle responsabilità etico-giuridiche e deontologiche che ne derivano e deve rifuggire da indebite suggestioni di ordine extratecnico e da ogni sorta di influenza e condizionamento. L'accettazione di un incarico deve essere subordinata alla sussistenza di un 'adeguata competenza medico-legale e scientifica in modo da soddisfare le esigenze giuridiche attinenti al caso in esame, nel rispetto dei diritti della persona e delle norme del Codice di Deontologia Medica e preferibilmente supportata dalla relativa

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Rilevanti difficoltà, infine, possono concretizzarsi negli accerta­ menti attinenti ai minori, in rapporto sia alla definizione della validità del consenso degli stessi, sia all'acquisizione e al trattamento di dati riservati, riguardanti comportamenti del minore o dei genitori dello stesso. Tutto questo suggerisce l'immagine di una costante e doverosa attenzione nei confronti dei diritti della persona, anche in merito al suo consenso ed alla riservatezza delle indagini, in un campo di intervento professionale altamente regolamentato e codificato.

1 0.2. Le responsabilità del perito: aspetti normativi e deontolo­ gici.

In primo luogo, occorre sottolineare che i profili di responsabi­ lità professionale dello psicopatologo forense appaiono del tutto peculiari, differenziandosi notevolmente da quelli di altre specializ­ zazioni mediche e psicologiche. Come più volte ricordato l'attività peritale è regolata da precise normative, dirette a codificare i singoli momenti dell'intervento tec­ nico. Questa dettagliata codificazione, e le ben consolidate prassi concernenti l'espletamento dei singoli tipi di accertamento peritale, contribuiscono sicuramente a prevenire molti dei possibili "errori" che possono essere messi in atto dal perito/consulente. In realtà, non pochi periti mancano di un'adeguata formazione integrata, clinica e medico-legale, e si trovano così esposti al rischio di compiere grossolane improprietà, dovute al fatto che viene valoriz­ zato e lumeggiato uno solo dei due aspetti del problema, senza possibilità di raggiungimento di adeguate risposte al quesito peritale. A volte gli errori riguardano il momento diagnostico, per un insufficiente approfondimento degli esami ovvero per un'impropria iscrizione allo specifìco albo professionale. In casi di particolare complessità clinica ed in ambito di responsabilità professionale, è doveroso che il medico legale richieda l'associa­ zione con un collega di comprovata esperienza e competenza nella disciplina coinvolta. Fermi restando gli obblighi di legge, il medico curante non può svolgere funzioni medico-legali di uffìcio o di controparte nei casi nei quali sia intervenuto personalmente per ragioni di assistenza o di cura e nel caso in cui intrattenga un rapporto di lavoro dipendente con la struttura sanitaria coinvolta nella controversia giudiziaria. La consu­ lenza di parte deve tendere unicamente a interpretare le evidenze scientifìche disponibili pur nell'ottica dei patrocinati nel rispetto della oggettività e della dialettica scientifìca nonché della prudenza nella valutazione relativa alla condotta dei soggetti coinvolti. L 'espletamento di prestazioni medico-legali non conformi alle disposizioni di cui ai commi precedenti costituisce, oltre che illecito sanzionato da norme di legge, una condotta lesiva del decoro professionale".

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valutazione dei risultati dei reattivi mentali impiegati in ambito psichiatrico forense. Non è infrequente, infatti, che un consulente poco preparato sul piano clinico tenda a sovrastimare l'attendibilità di questo tipo di sussidi diagnostici, ed emetta diagnosi e valutazioni centrate sull'interpretazione dei test, a volte erroneamente delegata ad altri specialisti. Si ricorda al proposito che, pur essendo consentito al perito di affidare adempimenti materiali e analisi di laboratorio a terzi di sua fiducia, è comunque necessario che lo stesso controlli, sottoponga a vaglio critico e faccia proprio il risultato degli esami eseguiti da terzi. Si ricorda anche che le notevoli limitazioni del tempo concesso per l'espletamento delle indagini, frequentemente rendono difficol­ tosa l'esecuzione di esami completi ed esaustivi. Colin e i suoi collaboratori hanno più volte evidenziato come una corretta indagine psichiatrico forense dovrebbe durare molti mesi, con ripetuti incontri, nei quali si possa giungere ad inquadrare approfonditamente il periziando, ed a prospettare, nel contempo, gli spazi terapeutici più opportuni nei suoi confronti (4). Nel lavoro peritale le possibili contestazioni ed i rilievi relativi agli strumenti utilizzati ed ai risultati raggiunti appaiono, comunque, del tutto sfumati e limitati, mentre non è infrequente che il consulente tecnico sia imputato di "falso in perizia" ex art. 373 c.p . . Tale articolo statuisce che il perito nominato dal giudice, il quale formuli un parere o interpretazioni mendaci o affermi fatti non conformi al vero, venga punito con la pena prevista dall'art. 372 c.p. nel caso di falsa testimonianza, cioè con la reclusione da due a sei anni e con l'interdizione dai pubblici uffici, dalla professione o dall'arte. In realtà la limitazione della previsione di legge alle sole "falsità" effettuate in modo doloso, e la possibilità del perito di non essere punito se ritratta quanto affermato (ex art. 376 c.p.), limitano il rischio di una sanzione a carico dello stesso, pur trattandosi di procedimenti professionalmente e moralmente spiacevoli e squalifi­ canti. Si segnala, inoltre, la possibilità che al perito e al consulente di parte possa essere contestato il reato di "false dichiarazioni o attesta­ zioni in atti destinati all'autorità giudiziaria" (art. 3 74-bis c.p.), in rapporto a soggettive interpretazioni della realtà, dirette (soprattutto nel caso del consulente di parte) ad indurre i giudici a valutazioni non corrispondenti ai dati clinici reali. Un ulteriore aspetto degno di nota è rappresentato dall'art. 64 (4)

CouN M. (a cura di), Etudes de Criminologie Clinique, Masson, Paris, 1 964.

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c.p.c., il quale oltre a prevedere che "si applicano al consulente tecnico le disposizioni del codice penale relative ai periti"; al comma 2 precisa che "in ogni caso è dovuto il risarcimento dei danni causati alle parti". Non è neppure da nascondere il fatto che in questo lavoro è anche frequente raccogliere pareri critici da parte di persone che sono entrate in contatto con il mondo della Giustizia e con le prassi peritali e che hanno sperimentato contraddizioni e storture estremamente marcate, e spesso tali da produrre oggettive sofferenze. Molti ricercatori italiani e stranieri hanno evidenziato come il consulente d'ufficio spesso si trovi lacerato dal contrasto fra la lealtà che, in quanto clinico, deve garantire al sofferente psichico sul quale interviene, e quella che, come perito, deve fornire al magistrato committente del suo intervento, con le possibili conseguenze di controllo e di sanzione dello stesso. In alcuni casi, inoltre, il perito sperimenta come il suo inter­ vento non possa in alcun modo favorire la tutela dei diritti dei "soggetti deboli" con i quali la Giustizia spesso si confronta, e ciò in contraddizione evidente con le nuove istanze del Diritto e con i dettami della Medicina Legale e della Clinica moderna. Appare, dunque, evidente la prioritaria necessità di prevenire i possibili "danni" derivanti da un'applicazione inadeguata del lavoro peritale, anche attraverso l'offerta di una migliore formazione clinica, medico-legale e deontologica agli specialisti che, indipendentemente dalla loro qualifica (medici, psicologi, criminologi, liberi professioni­ sti o dipendenti dei servizi pubblici, ecc.), possono essere chiamati a fornire pareri e valutazioni in ambito psichiatrico forense. Grazie alla evoluzione della dottrina, della giurisprudenza e delle stesse prassi peritali, sembra essere giunto il momento in cui lo psicopatologo forense, consapevole dei limiti e dei rischi delle inda­ gini scientifiche che può realizzare sulla personalità e sulle eventuali espressioni patologiche dell'individuo che deve esaminare, prenda atto della necessità di rivedere i contenuti realmente "tecnici" del suo operato, al fine di non sovrapporsi mai al lavoro del magistrato, senza peraltro rinunciare a fornirgli il più adeguato contributo scientifico. Molte delle considerazioni sopra riferite riguardano, nel con­ tempo, l'attività dello psichiatra forense e quella dello psicologo forense. Un settore di lavoro nel quale si è certamente verificato un incremento di contenzioso, soprattutto nei riguardi di psicologi forensi, è relativo ai procedimenti giudiziari attinenti all'affidamento dei minori. Si fa presente, al proposito, che questi tipi di indagine peri t ale

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spesso interessano nuclei familiari multiproblematici, con l'esigenza

di allontanare uno o più bambini dalla famiglia d'origine, di inserirli

in Istituto o in un'altra famiglia, o addirittura, di prevedere una loro futura messa in adozione, con conseguenze di intensa sofferenza in tutti i soggetti esaminati. Di fronte alla drammaticità delle vicende in esame, ed alla ne­ cessità di adempiere al mandato della tutela del minore, il consulente può essere indotto a "fare giustizia", ad esempio tratteggiando in modo esageratamente negativo la situazione di un nucleo familiare, od omet­ tendo di riferire i dati "favorevoli" allo stesso, con conseguente conte­ stazione o vero e proprio addebito di "falso in perizia". Anche il lavoro psicologico forense in tema di affidamento del minore nelle cause di separazione o di divorzio è accompagnato non raramente da grave conflittualità e da vere e proprie forme di "maltrattamento" del bambino, messe in atto da parte dei genitori in conflitto ed a volte persino da consulenti tecnici sprovveduti ed ignoranti. In non poche occasioni, infatti, la complessa vicenda giudiziaria della separazione e dell'affidamento della prole trova nel momento della consulenza tecnica, atteso come "chiarificatore" e diretto al superamento dei conflitti, un'ulteriore fonte di dubbi, di contrasti e di "compressione" dei bisogni dei minori e di quelli degli stessi genitori. Non infrequentemente accade che il bambino sia sottoposto da un consulente di parte ad indebite e strumentali forme di pressione psicologica e condizionamenti, il cui unico fine si identifica nell'inte­ resse di "vittoria" di uno dei due genitori. In tali casi un genitore accompagna il figlio da un "professionista", con il fine principale di far certificare la negatività del contatto tra il bambino e l'altro genitore, così da poter avviare un procedimento di­ retto a sottrarre alla "controparte" l'affidamento del figlio, ovvero con il fine di ridurre o di interrompere i contatti dello stesso con l'altro genitore. Nella concreta prassi giudiziaria, questo tipo di interventi è così frequente da costituire l'oggetto di una quasi routinaria richiesta, da parte di avvocati e di genitori che agiscono all'insaputa della "con­ troparte", di certificazioni circa le condizioni psico-fisiche dei minori, da impiegare direttamente in ambito giudiziario. L'adesione del clinico ad una richiesta di questo tipo apre di fatto la via per l'inserimento del "professionista" in una disinvolta sequenza di interventi, che lo vede prima proporsi come l'esecutore di strumentali indagini psicologiche e psicodiagnostiche sul bambino, poi come consulente di parte del ge­ nitore che aveva chiesto il suo intervento, poi, ancora, come improba­ bile "psicoterapeuta" del minore, ed infine come possibile testimone su quanto avvenuto durante il periodo in cui ha "assistito" il piccolo pa­ ziente. Tale poliedrico ruolo, oltre a comportare indebite sovrapposi-

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zioni tra funzioni terapeutiche e funzioni peritali, comporta un "in­ quinamento" della situazione in esame, e di fatto concretizza una vera e propria forma di maltrattamento del minore, non condivisibile e giu­ stamente sanzionabile. Tale modalità di intervento viola comunque il diritto di en­ trambi i genitori ad esprimere un consenso informato sull'opera diagnostica e valutativa che interesserà loro figlio, e viola lo stesso diritto del minore a conoscere quanto si attuerà su di lui, esprimen­ dosi, se ne è in grado, sulla propria adesione a tale procedura. Gli accertamenti esperiti rappresentano anche una violazione del dovere del clinico di concretizzare il diretto interesse terapeutico del bam­ bino, poiché si tratta di indagini che vengono realizzate solamente per soddisfare le istanze conflittuali di un genitore, senza nessuna con­ creta motivazione clinica e terapeutica. Si tratta inoltre di accerta­ menti che, in violazione delle stesse indicazioni della letteratura psicologico forense, non realizzano la necessaria comparizione tra i vissuti espressi dal bambino nei confronti delle due figure genitoriali e violano il segreto professionale, poiché riferiscono senza nessuna legittima motivazione i sentimenti e le parole del bambino, spesso esponendo lo stesso a spiacevoli conflitti di lealtà o a vere e proprie contestazioni da parte del genitore "offeso" (5). È per tali motivi che in questi ultimi anni sono aumentati i casi di consulenti poco corretti che sono stati deferiti all'Ordine dei Medici o degli Psicologi o, addirittura, che sono stati interessati da vere e proprie azioni penali, ad esempio per aver certificato situazioni e condizioni svalutative della personalità e dei comportamenti del genitore contro il quale sono intervenuti Un altro profilo di possibile illecito deontologico e penale è rappresentato dalle sempre più frequenti indagini cliniche effettuate in tema di supposto abuso sessuale del minore. Nella esecuzione di questo tipo di accertamenti il tecnico incaricato di realizzare il cosiddetto "ascolto protetto" del minore non raramente mette in atto specifiche forme di "pressione" e di suggestione sul bambino, o propone interpretazioni fantasiose e del tutto soggettive su singole risposte fomite dallo stesso, con esplicite finalità di dimostrazione della sussistenza di un pregresso abuso ai danni del bambino. Tale scorretta procedura è stata già biasimata da specifici documenti deontologici, come la già citata "Carta di Noto" redatta nel 1 996 ed (5) BATTACCHI M., Problemi deontologici e tecnici nella perizia psicologica in merito all'affidamento del minore in cause di separazione, in CAFFo E. (a cura di), Bambini divisi. Unicopli, Milano, 1 984.

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aggiornata nel 2002, ed in alcuni casi ha esposto i professionisti a sanzioni deontologiche e giudiziarie. Le attività forensi che interessano la personalità di un mino­ renne sono comunque a rischio, dal punto di vista di eventuali elementi di responsabilità professionale o di scorrettezze deontologi­ che, tanto da suggerire nuove riflessioni e innovazioni. Pur riconoscendo che è in atto una diffusione delle conoscenze deontologiche in materia, e che diversi Ordini professionali si sono pronunciati circa i limiti di questa attività, si ritiene che sia ancora lungo il cammino che può condurre ad una deconflittualizzazione e normalizzazione del settore psicologico forense. È evidente che è necessaria l'attivazione di ulteriori momenti di riflessione tra i cultori della materia, con l'obiettivo di giungere ad una migliore standardizzazione dei criteri di riferimento e delle procedure adottate e, soprattutto, con l'obiettivo di garantire alle famiglie, ai bambini, agli avvocati ed ai magistrati la disponibilità di professioni­ sti sempre più qualificati, consapevoli ed attenti, il cui contributo possa essere condiviso in sede giudiziaria, e risponda in ogni sua componente a quella prioritaria finalità di tutela del minore che la Legge e la deontologia gli attribuiscono (6) .

l 0.3. Nuove esigenze di fonnazione del consulente tecnico. La disamina fin qui condotta ha tentato di far comprendere come il lavoro peritale si inserisca in un contesto particolarmente complesso, nel quale il consulente tecnico (psichiatra o psicologo forense) deve tener conto delle norme e delle procedure vigenti, non meno che delle regole cliniche e di quelle deontologiche, e deve rapportarsi con le molte figure che sono presenti nella "scena" peritale (il giudice, gli avvocati, i consulenti di parte, e soprattutto i periziandi, interessati dalle indagini esperite). Il lavoro peritale, un tempo svolto da un ristretto numero di medici legali di grande esperienza professionale ed umana, è oggi esperito da numerosi soggetti, che provengono da formazioni diffe­ renti (medici, psicologi, psichiatri, psicoanalisti, ecc.), e che si inse­ riscono in un "mercato" in crescente espansione, sempre più conno­ tato da una stretta interazione con i mass media e con le aspettative della collettività. Non raramente, oggi si assiste alla "spettacolarizzazione" dei (6 ) Si rinvia, al proposito, alle già citate Linee Guida nazionali sull"'Ascolto del minore testimone" in via di pubblicazione.

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dibattiti processuali con ampia discussione delle consulenze tecniche e dei risultati degli accertamenti peritali e con l'attribuzione del valore di "verità" a quelle risposte che maggiormente corrispondono alle attese del pubblico o che, più semplicemente, vengono proposte dai periti più noti e "vicini" ai media. L'incremento dell'attenzione collettiva per le consulenze tecni­ che d'interesse psicologico, la differenziazione delle competenze professionali interessate, la nuova realtà del "mercato" attinente a questo tipo di accertamenti, possono dar vita a veri e propri "mostri" peritali, con la proposta di metodologie di indagine del tutto discuti­ bili, o con la forzatura delle valutazioni conclusive a seconda degli interessi in gioco. Se si accetta l'ingombrante presenza di periti "tuttologi", spesso scarsamente qualificati sul piano tecnico, del tutto disinteressati ai "soggetti deboli" della scena peritale (come gli stessi sofferenti psi­ chici autori di reato, le vittime di reato, i minori o i genitori degli stessi), si rischia di andare incontro ad una progressiva dequalifica­ zione professionale, con la perdita di quella attendibilità e di quella fiducia che, in molti anni di lavoro nelle aule dei Tribunali, è stata acquisita da psichiatri e da psicologi forensi seri e competenti. A tal proposito, già nel 1 989, Portigliatti Barbos (7) delineava le caratteristiche essenziali che dovrebbero far parte del bagaglio umano e culturale di ogni clinico che collabora con la giustizia: "rispettoso della legge, indipendente, capace di astenersi quando oc­ corra, imparziale ed affidabile, competente e cosciente dei limiti, aggior­ nato, riservato e sobrio, completo ed accurato, metodologicamente corretto nel raccogliere i dati e nel vagliar/i, impegnato, puntuale, chiaro, disinteressato . . . Il tutto sintetizzabile in tre valori: rigore scientifico e culturale; grande sensibilità deontologica ed opportuno equilibrio deci­ sionale". Proprio in questo momento è necessario dedicare un'attenta riflessione alla necessità di preparare consulenti tecnici sempre più corretti e qualificati, che siano in grado di dialogare in modo onesto e fermo con i diversi interlocutori della moderna scena giudiziaria, e che non dimentichino mai la loro prioritaria e concomitante forma­ zione di tipo clinico e di tipo medico legale.

(7) PoRTIGLIATTI BARBos M., La responsabilità professionale dell'operatore di salute mentale: profili medico-legali, Atti del convegno di Perugia, 1 8- 1 9 marzo 1 988, Centro studi Giuridici e Politici della Regione Umbria, 1 989.

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