Filosofia e patologia in D. F. Wallace. Solipsismo, noia, alienazione... e altre cose (poco) divertenti

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Filosofia e patologia in D. F. Wallace. Solipsismo, noia, alienazione... e altre cose (poco) divertenti

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Guido Baggio

Filosofia e patologia in D.F. Wallace Solipsismo, noia, alienazione ... e altre cose (poco) divertenti

Indice

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La via di ritorno a se stessi. Una introduzione

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1. I.: orrore solipsistico del Tractatus Katè Mistress Seria è la vita Postilla: l'ironia (in)consapevo/e del Tractacus

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2. Oltre il solipsismo. Anzi no: soglia, limite e trauma del linguaggio La filosofia come cura La gabbia del linguaggio

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44 56 56 63

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I 04 113 113 121

3. Dipendenza, depressione e paradossi comunicativi Dipendenza e autoinganno Nodi Solitudine, depressione e paradossi Doppi legami e patologie relaziona/i 4. A costo della vita. I.:eroismo della sincerità e la ricerca di senso Forme dell'ironia tra modernità e postmodernità Il dramma dell'ironia (Post-)Postmodernismo, solitudine ed eroismo della sincerità 5. Della noia, dello scrivere e del filosofare Della noia, dell'intrattenimento e della morte Il venir-annoiati da qualcosa

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L'annoiarsi e il superfluo La noia profonda e la beatitudine Dello scrivere e del filosofare Bibliografia Ringraziamenti Indice dei nomi

A Michela

per favore aprite le tende

Sarah Kane, Psicosi delle 4 e 48 Nessuno può dire di se stesso in modo veritiero di essere una merda. Perché, se io lo dicessi, potrebbe anche essere vero in un certo senso, ma io non potrei essere intriso di questa verità: poiché in tal caso dovrei impazzire, oppure cambiare me stesso. Wittgenstein 1977, tr. it. p. 69

La via di ritorno a se stessi. Una introduzione È impossibile scrivere su noi stessi cose più vere di come noi siamo veri. Questa è la differenza fra scrivere su noi stessi e su cose esterne. Su noi stessi scriviamo esattamente dalla nostra altezza; qui non stiamo sui trampoli o su una scala, ma sui nostri piedi. Wittgenstein 1977, tr. it. p. 71

Vi è a volte un confine labile tra l'esigenza che la mente ha di indagare se stessa e il rischio di una sua circonvoluzione patologica, tra la solitudine come condizione necessaria per uno scavo proficuo nell'interiorità e l'isolamento come dramma esistenziale, tra lo scetticismo come espressione di un dubbio radicale e la sua declinazione sociopatica verso l'alienazione e l'incomunicabilità. La mente si ritrova in questi casi a essere l'unico ed esclusivo referente non solo della relazione del soggetto con il mondo ma della sua stessa esistenza. Filosofia e patologia appaiono qui pericolosamente intrecciate e cercare di sondare questo legame, portarlo alla luce, palesarlo risulta particolarmente arduo. Eppure, questo intreccio è la pietra angolare su cui poggia l'intera opera di David Foster Wallace. Nella sua seri ttura l'outsider Wallace ha trasfigurato il senso profondo di alienazione, irrealtà e incertezza nei confronti del mondo e di se stessi. 1 eoscurità interiore è stata un mistero che lo ha tormentato fino alla fine, esercitando su di lui il fascino di ciò che continuamente si cela agli occhi di chi vuole indagarlo. Attingendo al potere speciale della narrativa di (tras)figurare il soggetto autoriale, (s)mascherarlo, nasconderlo, spersonalizzarlo, sradicarlo attraverso la sua espressione o articolazione, Wallace ha al contempo svelato e dissimulato i propri fantasmi. Nello scandagliare il dramma dell'interiorità umana, nel districare le intime perversioni del profondo, nelrincagliarsi ricorsivamente nel pensiero suicidario, ultima via d'uscita dall'orrore solipsistico 1

Per una descrizione della figura dell'outsider vedi Colin Wilson ( 1956).

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vissuto in carne e ossa, la finzione narrativa ha celato la confessione del suo autore, la sua sofferta fascinazione per le zone d'ombra che si insinuano nella trama di contingenze umane. Come se scavare in quelle zone d, ombra rivelasse l'unica via percorribile per sondare le reali possibilità di un ritorno a se stessi e ogni tentativo di porsi al di sopra della sofferenza umana cadesse tragicamente vittima di quei paradossi psico(pato)logici che tengono sotto scacco la presunta trasparenza tra linguaggio e mondo, tra logica e verità, tra l'io e la sua essenza di vetro. Wallace si è mosso agilmente in un orizzonte di indagine ontologico-esistenziale, sul crinale del paradosso postmoderno e post-strutturalista del linguaggio come limite e redenzione del soggetto. Senza scadere nella mera rappresentazione mimetica della vita ha narrato con l'autorità della sofferenztr' le patologie egotico-consumistiche del «cosiddetto "mondo reale' degli uomini, del denaro e del potere [che ci] accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura e dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell'io». 3 E ci ha mostrato come l'ossessione per l'autonomia e la libertà assolute, che alimenta la percezione idiosincratica di essere sempre e comunque il centro del mondo, «sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio»,4 sia in grado di renderci del tutto ciechi al dolore e all'umiliazione che possiamo provocare agli altri. 5 Non si 2 Espressione

del poeta John Barryman (Haffenden 1982, p. 149). 'Wallace (2009, tr. it. p. 154). 4

Ibidem.

5Su

questo punto difficile è non rintracciare uno stretto legame con Richard Rorty (1989, tr. it. p. 166). Il richiamo a Rorty è rutealrro che casuale, non fosse che per i riferimenti espliciti alle sue opere che ritroviamo nei vari lavori di Wallace. Paradigmatico a tal riguardo è il titolo di un racconto che si trova in Oblio che ricalca il titolo della nota opera di Rorty ( 1979) Philosophy and the Mirror ofNature, una opera di rottura che è anche un elogio funebre della filosofia analitica neopositivista nella quale lo stesso Wallace si è formato e dalla quale poi si è allontanato (Cfr. Max 2012). Nel suo racconto Wallace problematizza proprio la fiducia nella mente come fondamento e garante di una conoscen1.a certa e oggettiva della realtà, immaginando quali effetti una mente distorta possa avere sulla conoscen1.a della realtà riguardo a una prospettiva neutra, "oggettiva" che pretenda di rispecchiare il mondo così come il mondo si mostra. Cutilizzo di un linguaggio pseudo-scientifico che si serve di una terminologia specifica per descrivere i comportamenti tanto degli esseri umani che degli acropidi rende il racconto una parodia del comportamentismo criticato da Rorty nel suo libro, secondo il quale gli eventi mentali sono riducibili ad asserzioni formulate in

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tratta, però, di una esortazione alla rettitudine, quanto piuttosto di una apertura a questioni che riguardano le nostre modalità di relazione con gli altri e che ci interrogano direttamente su ciò che siamo, su cosa possiamo diventare ma soprattutto a che cosa e a chi dobbiamo prestare attenzione. 6 La scrittura di Wallace si rivela così lavoro terapeutico ed edificante in cui depressione, dipendenza, solitudine, relazioni patologiche come forme di autoflagellazione segnano i passi di un cammino soggettivo del vero, un incedere esiscenzialmente ancorato alla ricerca di una sincera relazione intima con l'altro, nonostante la radicale inaccessibilità a cale intimità riveli, sin dall'origine, il dramma insuperabile della nostra solitudine.7 La lettura psicologista del solipsismo di Wittgenstein, che affrontata in particolare nei primi due capitoli di questo lavoro come una onda lunga attraversa anche i capitoli successivi, pone in luce proprio le difficoltà di un rapporto di senso tra soggetto e mondo. Connettendo la categoria metafisica del solipsismo alle condizioni umane di solitudine e alienazione, schiudendo così il passaggio dal piano filosofico al piano patologico, Wallace ha reso ancor più incalzante e indifferibile l'idea wittgensteiniana dell'inutilità di una filosofia inabile a migliorare la nostra capacità di interrogare il mondo che ci circonda e affrontare le questioni realmente importanti per la nostra vita. In particolare, una delle preoccupazioni che secondo Wallace avrebbe impegnato maggiortermini di disposizioni comportamentali (alcuni esempi: respressione della madre «la faceva sembrare sempre follemente spaventata»; «mia madre dava l'impressione di fissarli con terrore idiota»; «Il chirurgo era poggiato al muro, il volto rivolto contro il muro una reazione comportamentale che indicava [... ]»}. In breve, attraverso l'utilizzo di descrizioni comportamentali alla base della teoria sugli stati emotivi/mentali, Wallace fu il verso al problema delridentità mente/corpo declinato nella questione se le sensazioni, nella fattispecie il dolore e la paura, possano essere considerate disposizioni comportamentali (cfr. Rorty 1979, tr. it. p. 75). Vi è in questo racconto una presa di distanza ironica da ogni forma di conoscenza che voglia porsi come rispecchiamento di una interiorità sconosciuta, così come per ogni posizione esternalista che voglia ridurre le sensazioni provate alla loro espressione esterna. Per una analisi approfondita dell'opera di Rorcy cfr. Calcaterra & Kogler (2020). Per una utile introduzione al pensiero di Rorcy cfr. Calcaterra (2016). 6 Cfr. Rorty (1989, tr. it. p. 167) 7 Su una lettura della scrittura terapeutica wallaceana cfr. Baskin (2019). Sulla ripresa della nozione wittgensteiniana di filosofia come "edificante,, vedi anche Rorcy (1979, tr. it. p. 280 ss.).

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mente Wittgenstein negli anni tra il Tractatus logico-philosophims e le Ricerche filosofiche avrebbe riguardato rimpossibilità da parte del linguaggio atomistico di far fronte alla questione fondamentale sul senso della vita. [inattuabile connessione logica tra volontà e mondo, con la conseguente negazione di qualsiasi discorso su etica, valori, spiritualità e responsabilità, avrebbe portato Wittgenstein - la cui biografia secondo Wallace offre l'immagine di una persona che si preoccupava profondamente di ciò che rendeva le cose buone, giuste, meritevoli - a superare il Tractatus nel tentativo di disinnescare il rischio di una deriva patologica della posizione metafisica solipsistica. Purtroppo, con la "scoperta,, del linguaggio come qualcosa di pubblico, anziché salvarci dall'alienazione Wittgenstein ci avrebbe tolto l'unica possibilità di un contatto con il mondo esterno, lasciandoci intrappolati anziché nei nostri pensieri privati nel linguaggio. Fortemente condizionata dal modo problematico attraverso cui Wallace percepiva la propria connessione con la realtà esterna, la sua interpretazione di Wittgenstein rivela qualcosa che lo riguarda da vicino. Sebbene abbia dichiarato che l'idea di un linguaggio privato sia, insieme agli altri «lambiccamenti solipsistici»,8 tanto illusoria quanto falsa, è difficile non rintracciare nella sua opera i segni di questi vari "lambiccamenti,,. Tanto nella narrativa quanto nella saggistica, così come nelle interviste, si intravede scorrere sottotraccia come un fiume carsico la tensione fra il canto delle sirene dell'illusione solipsistica e il terrore della sua deriva alienante, una tensione che palesa la consapevolezza di Wallace della porosità e permeabilità dei confini tra filosofia e patologia. Attraverso l'indagine di questa porosità egli ha accolto l'idea di un soggetto che, immerso nel linguaggio, è consapevole della propria originaria dimensione relazionale e comunicativa; ma ha evidenziato anche come tale dimensione, nella sua paradossale ambivalenza, se da un lato sconvolge i mondi dell'esperienza solipsistica in cui il soggetto rischia di ritrovarsi ingabbiato, si rivela al contempo la fonte stessa della deriva patologica della sua alienazione. 9 Il tentativo di superamento della membrana che divide l'io dall'altro, come vedremo in particolare nel teno capitolo, non è mai compiuto e trova nella dipendenza, nella depressione e nei paradossi 8

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Wallacc ( 1996, tr. it. p. 94) Su questo punto vedi anche Timmer (2017).

comunicativi degli ostacoli che il soggetto stesso si costruisce e rende insormontabili. Le dinamiche di dipendenza e di autoinganno legate alle difficoltà di un rapporto di senso con il mondo, così come le relazioni patologiche radicate su paradossi affettivi destabilizzanti, testimoniano della difficoltà di riconoscimento dell'alterità e di costruzione di rapporti non adulterati. Lo stesso tentativo di Wallace di mostrarsi disarmato attraverso una scrittura della sincerità risulterà, come si vedrà nel quarto capitolo, un sentiero interrotto drammaticamente dall'ineludibile dispositivo ironico. Vi è però forse un'ultima possibilità da sondare attraverso la scrittura, una via d'uscita da se stessi non più rivolta al perforamento della membrana di solitudine ma diretta alla ricerca di una apertura verso l'Altro. Questo sentiero, intrapreso con Il re pallido e drammaticamente interrotto dalla morte del suo autore, appare come un ultimo tentativo di fuga dalla sofferenza attraverso una ricerca di senso che richiede un paradossale abbandono alla noia tanto rassegnato quanto speranzoso. La noia rappresenta infatti un elemento trasversale alla nostra esistenza. Essa è sia uno stato affettivo doloroso che esprime una inconsapevole presa di distanza ironica e perversa dalle norme della società del benessere, sia quello che Heidegger ha indicato come una Grundsti.mmung, uno stato d'animo fondamentale la cui comprensione è condizione di possibilità per un interrogare autentico rispetto al senso ultimo della nostra esistenza. Come proposto nell'ultimo capitolo, è possibile rintracciare una affinità tra lo scrivere di Wallace e il filosofare di Heidegger. Entrambi basano il proprio scavo esistenziale su una condizione di possibilità del filosofare e dello scrivere come modalità dell'interrogare autentico che impegna nella comprensione di cosa significa essere umani. Solo un filosofare e uno scrivere autentici sembrano infatti in grado di interpretare il dolore psichico e le derive sociopatiche associate alla noia per cercare di riscoprirne il carico e la ricchezza esistenziale, aiutandoci a superare la scrittura e la filosofia stesse per giungere alla «roba che conta davvero». 10 In questo senso, il limite labile tra filosofia e scrittura si trova in quel terreno indistinto in cui si mescolano filosofia e patologia e che chiama in causa una «confessione intima», o meglio ancora, una «autoflagellazione». 11

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Wallacc (1996, tr. it. p. 296). Badiou (2009, tr. it. p. 1O).

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1. Corrore solipsistico del Tractatus I think, therefore I am destroyed. Cavell 1988, p. 124 [Il solipsista] ha l'irresistibile tentazione d'usare una certa forma d'espressione; ma noi dobbiamo ancora trovare il perché di questa tentazione. Wittgenstein 1964, tr. it. p. 81

Kate's Mistress Durante il periodo di disintossicazione alla Granada House, il centro di riabilitazione nella quale giunse nel 1989 in seguito a una esperienza esistenzialmente fallimentare come dottorando di filosofia ad Harvard, Wallace riuscì a ultimare una lunghissima, concettualmente densa e particolarmente sentita recensione di Wittgemtein's Mistress di David Markson. Il romanzo, esplicitamente ispirato contenutisticamente e stilisticamente al Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, si sviluppa in una successione di brevi proposizioni (anche se prive dell'ordine crescente dei decimali) attraverso la quale si dipana lo stream ofconsciousness di Kate, una donna che vive sola in una casa in riva al mare e occupa la propria esistenza a registrare fatti presenti, ricordi sfasati e riferimenti a opere letterarie e artistiche intrecciati in (apparentemente) libere associazioni di pensiero. La narrazione ricalca un monologo interiore che cattura i pensieri della protagonista sull'arte, i suoi viaggi nel mondo vuoto e le sue riflessioni sull'imprecisione del linguaggio. La ripetizione che caratterizza la narrazione monadica ricalca la ricorsività del linguaggio e il ritorno ossessivo del pensiero su se stesso: frasi e paragrafi si ripresentano lungo l'intero romanzo, così come le stesse entità, persone e luoghi vengono menzionati più e più volte. 1 Ripetizione, ricorsività e ossessione sono qui parte di un flusso linguistico che sfidando i limiti del senso riesce a mostrare 1

Sulla ricorsività del pensiero di Kate cfr. Kelleher & Keane (2017). Per

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come potrebbe essere la vita in un mondo "Tractatusizzato,,, in cui il solipsismo metafisico è vissuto in carne e ossa, in cui, come scrive Wallace, «cerebrazione & emozione, astrazione & vita vissuta, ricerca della verità trascendente & arrancare quotidiano» 2 si ritrovano inscindibilmente intrecciati. Il pensare di Kate è onnicomprensivo, tragicamente onnimperante: è il suo mondo, cioè r intero mondo, che attraverso razione dello scrivere lei cerca di definire e identificare. Solo le parole scritte sono sicure poiché solo esse riescono a rappresentare quella realtà, al punto che il monopolio che Kate ha sulla parola ci impedisce di sapere se ciò che leggiamo sia il resoconto di una pazza o di qualcuno che vive veramente nella solitudine più totale. Sebbene, infatti, dal racconto trapeli un lucido disincanto rispetto alla possibilità che quelle annotazioni possano raggiungere qualcuno, Kate continua a esistere esclusivamente nel gesto della scrittura. O piuttosto: esiste simultaneamente allo scrivere e solo perché è scritta. 3 Ed è proprio questo suo modo di porsi, che insinua in noi il dubbio sulla sua pazzia, a svelare la stretta affinità tra solipsismo e alienazione. Se si assume con Kate che vita vissuta e pensiero siano inscindibili, considerare il proprio pensiero la totalità del mondo e il segno grafico ciò che la rappresenta porta necessariamente con sé come corollario lo scetticismo esistenziale nei confronti di tutto ciò che è al di fuori del pensiero e come effetto sulla propria esistenza un senso di spaesamento e di totale alienazione. È a partire da questo aspetto che la recensione di Wallace si rivela particolarmente interessante. Libero dalle catene della filosofia accademica ma non ancora dallo spettro della dipendenza, 4 Wallace prende spunto dal romanzo di Markson per offrirci una eterodossa ma tutt'altro che peregrina interpretazione del una ricognizione più ampia sulropera di Markson rimandiamo a Pallcau• Papin (2007). 2 Wallace (2012, tr. it. p. 125). 'Sul legame tra l'esistere e lo scrivere come sua legittimazione particolarmente illuminanti sono le riflessioni di Cavcll (1988, in part. p. 137•88) attorno al racconto di Poe, Il gmio della perversione. I.:esistcre solo in quanto narrati è il dramma vissuto da Lcnorc, la protagonista di La scopa d~J sistema, il primo romanzo di Wallace. Come vedremo nel prossimo capitolo, però, non si tratta per Lenore di ritrovare se stessa in ciò che scrive, come per Kate, ma di essere prigioniera della narrazione che di lei fanno gli altri. 4 Vedi infra, capitolo 3.

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Tractatus e aprire alla possibilità di una lettura integrata in una più ampia cornice patologica dell'opera di Wittgenstein, oltre che della propria. In particolare, partendo da un'analisi della protagonista del romanzo di Markson, alter ego drammatizzato del travagliato filosofo viennese, Wallace giunge a indicare nel solipsismo linguistico sostenuto nel Tractatus il sintomo della condizione di alienazione vissuta dal suo autore, che nella propria particolarità rappresenta il segno della più generale alienazione dell'ego moderno le cui radici si innestano nel cogito cartesiano e nell, annosa disputa tra empiristi e razionalisti su origine e natura dei fatti del mondo. Seguendo una linea interpretativa non isolata, 5 secondo Wallace l'eventualità che i fatti siano prodotti di quella stessa mente che ne deduce resistenza e dà loro la fisionomia di fatti esterni, per cui la loro esistenza può essere ammessa solo attraverso la labilità dei dati di senso e dell'induzione, è stata la causa di quella che ha indicato come la "nevrastenià' delle Meditazioni metafisiche di Cartesio. Tale nevrastenia ha successivamente trovato terreno fertile nello scetticismo humiano e nelridea che tutti gli eventi sono totalmente sconnessi gli uni dagli altri, è poi fiorita nell'io trascendentale kantiano e nella questione sul modo in cui il mondo deve essere affinché il linguaggio e la comunicazione con gli altri sia possibile, ed è infine sfociata nella progressiva alienazione tipica dell'individuo moderno «da tutti gli insiemi naturali & sociali». 6 Di tale alienazione sarebbe stato vittima anche Wittgenstein, il quale ravrebbe compendiata metafisicamente nell'espressione paradigmatica: lo sono il mio mondo7 • I..:idea, infatti, che il linguaggio abbia la ~ Penso ad esempio a Dell'interpmazione. Saggio su Freud di Ricocur ( 1965, tr. it. p. 46-9). 6 Wallace (2012, cr. it. p. 142). 7 Vedi su questo punto le interessanti letture di Gellner (1999) e di Musio (2005). In particolare, il Tractatus risulta agli occhi di Gellner il frutto del carattere distintivo dell'individualista viennese degli ultimi decenni dell'Impero asburgico, un temperamento annoiato dal mondo che anziché arrampicarsi nella sua complessa struttura cd esplorarne la varietà vaga annoiato «su un mosaico e ne nota la ripetitività». Bisogna però stare attenti a non appiattire completamente le circostanze e i motivi dell'elaborazione dell'opera filosofica di Wittgenstein alla crisi della situazione scorico-culrurale. A tal riguardo Gellner mette in guardia dal tentativo di Allan Janik e Stephen Toulmin di rendere conto del pensiero e dello sviluppo di Wittgenstein nei termini del suo background viennese e asburgico Qanik & Toulmin 1975), per quanto ne accolga in parte

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funzione di rispecchiare/ rappresentare la realtà esterna8 e che debba farlo nel modo più preciso e chiaro a disposizione porta con sé l'immagine di un mondo metafisicamente composto solo e interamente di fatti privi di connessione intrinseca tra loro, un mondo in cui > (3); «Nella proposizione il pensiero s'esprime in modo percepibile ai sensi» (3.1 ); «Il segno mediante il quale esprimiamo il pensiero, il lo chiamo il segno proposizionale.» (3.12) 9 Wallace (2012, tr. it. p. 138). 10 Tra le sue annotazioni Wittgenstein scriveva dal fronte il 26 luglio 1916: «È possibile che sia un esilio salutare, ma io adesso lo sento come un esilio. Sono esiliato fra larve umane, e con loro devo vivere in circostanze schifose. E in questo ambiente dovrei condurre una vita buona e purificarmi. Ma è TERRIBILMENTE difficile! Sono troppo debole. Sono troppo debole! Dio mi aiuti.» (Wittgenstein 1987, p. 117) 11 Wittgenstein (1987, p. 117). Cfr. 12 agosto 1916: «Una vita cattiva è una vita irragionevole.» 12 Wittgc:nstein (1977, tr. it. p. 20). 13 Su questo punto vedi anche Micheletti (1973, p. 37); Heller (1978,

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nota Wallace, proprio questa ricerca ha costruito un tipo di mondo che, sebbene nasca per essere il paradiso della logica, è diventato alla fine «un inferno metafisico». 14 Insomma, dietro r"aura,, metafisica del solipsismo linguistico di Wittgenstein si nasconderebbe un dramma esistenziale che si sarebbe potuto dissipare ricorrendo a quel sentimento di simpatia o a quel sensus communis a cui rispettivamente Hume e Kant avevano fatto ricorso per spiegare la possibilità della comunità e travalicare i limiti delrincomunicabilità. Per ammettere tale possibilità sarebbe stato però forse necessario un temperamento più socievole di quello di Wittgenstein. Ma il Wittgenstein del Tractatus, il cui temperamento rigido esaltava il calvario epistemologico della solitudine, sembrava propendere naturalmente verso quelridea atomistica individualistico-universalista della conoscenza, del pensiero, del linguaggio e del mondo. Il suo solipsismo, pertanto, aveva come conseguenza logica, tanto per lo stile dogmatico che non ammette nessuna alternativa quanto per l'universalismo tacitamente assunto, un gelido confinamento solitario auto-imposto che, ammettendo i dati come limite del mondo e l'identica coestensione di mondo e soggetto, garantiva al suo autore vacuità e disperazione. [inerte superficialità del linguaggio del Tractatus, la fredda semplicità della logica composta da atomi isolati, conseguenza della tradizione empirista giunta al suo culmine, tracciava così il sentiero per il totale isolamento, precludendone ogni via d'uscita. La situazione nella quale il soggetto Tractatusizzato si trova non è frutto di una contingenza, esso è un fatto necessario, una affermazione filosoficamente dimostrata. In altre parole, non indica semplicemente la prigione dell'io, ma prova che non vi è via d'uscita da essa. 15 Per quanto la lettura che Wallace suggerisce del pensiero di p. 91). Questa idea fa eco a quanto già Niensche aveva evidenziato in Al di là del bme e del male. «Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad oggi ogni grande filosofia: l'autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mlmoires». (aforisma 6). M Wallacc (2012, tr. it. p. 135). 1 SCfr. anche Gellner (I 999, p. 57, tr. it. nostra): «Cosa è realmente accaduto in quel lavoro, quale stato mentale esprime? Esso esprime la disperazione di un individuo solitario e alienato, in linea con la tradizione del pessimismo romantico: fino a un certo punto, niente di nuovo, differente, forse, dall' originalità e dall'efficacia dei metodi letterari impiegati per questo fine. Ma c'è qualcosa di nuovo: la desolazione dell'anima è presentata come un corollario,

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Wittgenstein possa risultare accademicamente non del tutto ortodossa 16 non risulta così lontana dal quadro che indagando la biografia del filosofo viennese possiamo delineare in base ad alcuni elementi ben noti. Varie sono infatti le testimonianze autobiografiche e biografiche a disposizione che evidenziano i drammi, la solitudine, il rigore e la dedizione totale con cui Wittgenstein ha attraversato la propria esistenza. I suicidi vissuti in famiglia, i momenti di depressione accompagnati da pensieri suicidari, 17 i periodi di isolamento totale, 18 gli anni come soldato volontario in prima linea sul fronte galiziano e italiano con il solo scopo, come confessava lui stesso, di trovarvi la morte, 19 testimoniano di una esistenza inquieta che agognava l'autonomia e la libertà dello spirito per riuscire a rafforzare la propria estraneità al mondo. Significative a tal riguardo sono le annotazioni nel suo diario. In una delle note scritte il 9 novembre 1914, durante il periodo da volontario in prima linea, scriveva: «Sento una conseguenza, delle dispute generali, semplici e incontestabili riguardanti la natura del pensiero e del linguaggio.» 16 Fra gli autori che criticano l'interpretazione wallaceana vedi Ramai (2014, p. 190n) e Horn (2014). Secondo quest'ultimo, in particolare, Wallace non considera l'enfasi che Wittgenstein pone, tanto nel TractattlS quanto successivamente, sul fatto che egli non sta offrendo un argomento, una dottrina o una teoria contro il solipsismo (Horn 2014, p. 246). 17 In numerosi passaggi dei diari e delle lettere Wittgenstein descrive il proprio stato d'animo come depresso e parla del suicidio, ne indichiamo solo alcuni, uno riportato da Engelmann e un paio presenti nel diario (26 febbraio 1915 e 28 marw 1916). ◄