Filosofia della comunicazione
 9788842076506

Table of contents :
Indice......Page 176
Esergo......Page 2
Prefazione......Page 177
1. Combinare espressioni: sintassi......Page 3
2. Afferrare pensieri: semantica......Page 17
3. Capire e farsi capire: pragmatica......Page 42
4. Analizzare testi: semiotica......Page 68
5. Interpretare discorsi: ermeneutica......Page 90
6. Persuadere: retorica......Page 111
7. Conoscere attraverso parole: epistemologia......Page 134
Bibliografia......Page 155
Gli autori......Page 167
Indice dei Nomi......Page 173

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Manuali Laterza

a cura di

C. Bianchi e N. Vassallo

Filosofia della comunicazione

Gt

Editori Laterza

Lui: «Hai l’impressione che non comunichiamo più?» Lei: «Ma certo che comunichiamo. Possiamo non parlarne?».

Woody Alien Melinda e Melinda

I.

Combinare espressioni: sintassi di Andrea Moro

1. Dalle parole alle frasi: cosa comunica la sintassi Un leone sbranò una tigre, una tigre sbranò un lèone-, stesse paro­ le, sintassi diversa, diversa comunicazione. La sintassi è proprio questo: è l’informazione veicolata dalla composizione delle paro­ le. Detto così sembra un fatto banale, ma non appena ci adden­ triamo nel tema ci accorgiamo che i fatti non sono semplici e che rivelano aspetti cruciali della comunicazione umana e più in ge­ nerale del funzionamento della mente. Proveremo a toccare alcu­ ni temi centrali del rapporto tra comunicazione e sintassi, ridu­ cendo al minimo gli aspetti formali della sintassi (per i quali ri­ mandiamo a Graffi 1994). Cercheremo in particolare di mettere in luce la natura delle regole sintattiche secondo una prospettiva di indagine che a partire dalla metà del secolo scorso ha cambia­ to radicalmente la nostra conoscenza del linguaggio, quella della grammatica generativo-trasformazionale (per un testo introdutti­ vo, cfr. Chomsky 1988). Un primo dato importante, fondante in questo dominio di ri­ cerca, è che le regole sintattiche sono in certa misura indipenden­ ti dall’informazione lessicale, cioè, detto in parole semplici, dalla conoscenza dei significati delle parole. Immaginiamo di udire questa frase: il gulco gianigiava le brale. Noi non sappiamo cosa sia un gulco, né cosa sia una brala, né cosa mai voglia dire gianigiare. Eppure sappiamo che se volessimo dire ‘il contrario’ di quello che abbiamo udito dovremmo dire le brale gianigiavano il gulco. Evidentemente è vero che l’informazione sintattica viaggia indipendentemente dalla conoscenza lessicale, altrimenti non ci

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spiegheremmo la capacità di passare da una frase all’altra pur non avendo alcuna conoscenza del significato di tutte le parole della struttura. Questa proprietà, che tecnicamente si suole chiamare ‘autonomia della sintassi’, costituisce un aspetto centrale della struttura del linguaggio: ci autorizza ad analizzare la sintassi come sistema dotato di leggi proprie, indipendente da altri componen­ ti del linguaggio umano e, più in generale, della mente. La sintassi dunque fornisce degli schemi entro i quali le paro­ le assumono dei valori che le mettono in relazione l’una all’altra: se ilgulco precede gianigiare e si accorda con esso, sarà il gulco che gianigia le brale. Se le brale precede gianigiare e si accorda con es­ so, saranno loro a gianigiare il gulco. Questo processo di inter­ pretazione, sebbene sia dipendente dal lessico, non si esaurisce in esso: la struttura sintattica fornisce un tipo di informazione che il lessico di per sé non è in grado di fornire. Una volta isolata la sintassi come fenomeno autonomo, si apro­ no almeno due linee possibili di ricerca: da una parte si cerca di arrivare a una teoria che senza ambiguità dia, a partire dall’insie­ me delle parole di una lingua, tutte e solo le sequenze possibili (analisi strutturale esplicita, altrimenti detta ‘generativa’); dall’al­ tra si prova a comprendere come tali combinazioni vengano in­ terpretate, sia all’interno di una sola lingua che tra lingue diverse (analisi interpretativa). I due aspetti non sono totalmente indi­ pendenti: anzi, una delle maggiori difficoltà teoriche è proprio quella di cercare di non confondere dati interpretativi e dati strut­ turali. Cerchiamo di capire questo punto con qualche semplice esempio. Partiamo dall’italiano, considerando una coppia di frasi famo­ sa nella tradizione della grammatica generativa (per una sua sto­ ria, cfr. Graffi 2001): molte frecce colpirono il bersaglio e il bersa­ glio fu colpito da molte frecce. Le due frasi, da un certo punto di vista, sono simili: sono sequenze dove due sintagmi nominali (cioè due gruppi di parole che ‘gravitano’ attorno a un nome: molte frec­ ce e il bersaglio') sono separati da voci verbali dello stesso verbo. Innanzitutto il sintatticista deve descrivere la struttura delle frasi, deve cogliere l’organizzazione delle parole e sapere che, ad esem­ pio, il verbo si accorda con il sintagma nominale che sta a sinistra del verbo e non con quello che sta a destra. Non si può cioè dire: * molte frecce colpì il bersaglio e * il bersaglio furono colpite da mol­

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te frecce (l’asterisco preposto a una sequenza sta per convenzione a indicare che la sequenza è agrammaticale). Oppure che l’artico­ lo determinativo deve precedere il nome cui si riferisce e non se­ guirlo (* bersaglio il), come accadrebbe in altre lingue (ad esempio il basco). L’analisi strutturale deve cogliere in modo esplicito tutti gli aspetti che fanno di queste sequenze due sequenze possibili in una particolare lingua. Tecnicamente, si suole definire una gram­ matica completa ed esplicita di una lingua una ‘grammatica gene­ rativa’, prendendo in prestito il termine ‘generativo’ dalla mate­ matica. Il linguista, tuttavia, non può fermarsi a questo dato strut­ turale. E evidente che la comprensione di una lingua non può non tener conto del fatto che le due frasi sono interpretate da un cer­ to punto di vista come se fossero ‘la stessa frase’, anche se ci sono delle differenze (ad esempio nell’accordo del verbo): c’è un ber­ saglio, ci sono delle frecce, delle frecce sono state scoccate contro il bersaglio. Questo dato intuitivo è così forte che è stato colto fin dalle prime riflessioni sul linguaggio ed è noto anche nelle gram­ matiche elementari di uso scolastico come differenza tra diatesi ‘attiva’ e ‘passiva’ della stessa frase. L’analogia di interpretazione sta alla base della nozione di ‘trasformazione sintattica’, secondo la quale, a partire da uno stesso nucleo strutturale organizzato sul­ la base di una stessa scelta di parole, la struttura si trasforma se­ condo precisi algoritmi formali, fino a dar luogo alla struttura fi­ nale che poi viene pronunciata effettivamente. La struttura fina­ le, che per una lunga fase dello sviluppo della grammatica gene­ rativa venne chiamata ‘struttura superficiale’, mantiene dunque una traccia del legame strutturale alla base del legame interpreta­ tivo tra la frase attiva e la sua corrispondente frase passiva (defi­ nito per contrasto ‘struttura profonda’). Se ciò non fosse non si riuscirebbe a giustificare il fatto che un parlante, quando sente molte frecce colpirono il bersaglio e il bersaglio fu colpito da molte frecce, le interpreta come se indicassero una situazione ‘simile’, mentre se sente il bersaglio colpì molte frecce no. Una grammatica generativa, che rende esplicito questo tipo di legami associativi tra frasi, si suole definire ‘generativo trasformazionale’ (cfr. ad esem­ pio Chomsky 1965, 1995). Per chi si interessa degli aspetti comunicativi del linguaggio, l’esistenza di frasi attive e passive costituisce un fatto interessante. Indipendentemente dalla struttura delle frasi, che non verrà illu­

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strata in dettaglio, la domanda naturale che sorge da questi dati è come mai ci troviamo di fronte a un’opzione strutturale. In altri termini: perché in una lingua si può esprimere con due strutture diverse una situazione simile, come molte frecce colpirono il bersa­ glio e il bersaglio fu colpito da molte frecce? Da un certo punto di vista, la domanda non ha senso. Come vedremo in seguito, esisto­ no ormai fortissimi argomenti a favore dell’ipotesi che gli elementi strutturali (sintattici ma non solo) di una lingua umana non ab­ biano una natura convenzionale ma siano biologicamente deter­ minati: se ciò è vero, chiedersi perché esistono frasi attive e frasi passive è come chiedersi perché esistono maschi e femmine. Le due varietà del regno animale sono l’esecuzione di un progetto ge­ netico che nel corso della storia ha interagito con l’ambiente dan­ do questi risultati, e quindi non ha senso chiedersi perché le cose stiano così. L’unica cosa che un ricercatore può fare nell’indagine scientifica è capire cosa distingue le due varietà e simultaneamen­ te capire cosa le accomuna. Detto questo, non è ovviamente in­ sensato domandarsi se frasi attive e passive abbiano funzioni di­ verse dal punto di vista della comunicazione. Di fatto la differen­ za esiste e, sulla base dell’esempio scelto, non è difficile renderse­ ne conto. Si può infatti mostrare che la trasformazione che dà luogo a una struttura attiva o passiva non lascia intatta l’interpretazione. Le due frasi, così apparentemente simili, nascondono in realtà due scenari ben diversi. Come fare per rendersene conto? Una possi­ bilità ci è offerta da un esperimento che coinvolge la negazione. Proviamo a negare le due frasi: molte frecce non colpirono il ber­ saglio e il bersaglio non fu colpito da moltefrecce. Qual è la loro in­ terpretazione? Basta soffermarsi un istante per rendersi conto che le situazioni compatibili con le due frasi non sono le stesse. Nel primo caso, stiamo dicendo che il bersaglio può essere stato col­ pito da così tante frecce da esserne nascosto, anche se molte di es­ se sono cadute altrove. Nella seconda frase, invece, stiamo dicen­ do che, per quante frecce siano state scoccate, il bersaglio rimane quasi vuoto. Si tratta ovviamente di due situazioni ben diverse. Da cosa deriva la differenza? Ne è responsabile la semplice inserzio­ ne della negazione non? Ovviamente, no. La differenza c’era an­ che prima, solo che non era facile rendersene conto. Questo fatto evidenzia una cosa importante: la possibilità di scelta tra frasi pas­

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sive e frasi attive da parte di un parlante non è indipendente dal­ la comunicazione. Diverse strutture veicolano diverse informa­ zioni: l’atto comunicativo si muove tra i binari strutturali imposti dalla sintassi, ma un margine di scelta pur sempre rimane. Com­ pito del linguista può solo essere quello di scoprire quali sono questi binari e mettere in evidenza le differenze e le analogie fra strutture diverse come nel caso illustrato. Nella lingua esistono molti casi simili a quello delle frasi attive e passive: di fatto non è possibile a priori sapere quali sono gli spa­ zi entro cui il parlante può muoversi, optando a scopi comunica­ tivi tra diverse strutture sintattiche. Ovviamente, è facile indicare i casi nei quali il parlante non può scegliere: chi parla inglese non può scegliere se mettere il soggetto prima o dopo un verbo, come ad esempio in John runs (John corre) e * runs John (corre John), ma, come risulta chiaro dalle glosse tra parentesi, chi parla italia­ no questa opzione ce l’ha. Il linguista deve cercare di vedere qua­ li sono gli effetti comunicativi che differenziano le due possibilità. Si può ricorrere a un semplice test. Immaginiamo di prendere una frase, costruire la corrispondente frase negativa e aggiungere una nuova frase composta dalla congiunzione ma e da una nuova pa­ rola. La situazione è più semplice di quanto non appaia. Si consi­ derino le seguenti frasi: Gianni corre e corre Gianni, apparente­ mente sinonime. Proviamo a operare sulla prima dicendo: Gian­ ni non corre ma salta. La frase è una frase sensata in italiano. Pren­ diamo ora invece la seguente frase: *Gianni non corre ma Pietro. Questa frase non suona bene: la struttura non permette il tipo di interpretazione contrastiva. Cosa accade se opero in modo analo­ go sull’altra frase? Vediamo i risultati: non corre Gianni ma Pietro, *non corre Gianni ma salta. A meno di forzature intonative, la si­ tuazione si capovolge: le due frasi di partenza non sono del tutto ‘sinonime’, altrimenti darebbero lo stesso esito quando vengono modificate. Il semplice esperimento proposto qui mostra invece che le due frasi presentano di fatto due possibilità interpretative diverse, e che quindi devono essere associate a due strutture di­ verse. Il parlante automaticamente, cioè senza avere conoscenza delle diversità strutturali, seleziona una delle due opzioni per le sue esigenze comunicative. Ancora una volta, la grammatica for­ nisce semplicemente i binari entro i quali, senza aver consapevo­ lezza delle relazioni strutturali, scegliamo come muoverci.

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Queste osservazioni naturalmente vanno condotte in modo si­ stematico su una lingua, cercando di scoprire tutte le analogie possibili fra strategie comunicative. L’esempio appena preso in considerazione, dove un verbo e un sintagma nominale o ‘SN’ (qui rappresentato dal nome proprio Gianni) permutano dando luogo a interpretazioni diverse, non è l’unico caso dove si realiz­ za questo tipo di constrasto. In altre parole, l’asimmetria non av­ viene solo in associazione a una variazione d’ordine del tipo SNVerbo invece di Verbo-SN. Si può mostrare che la stessa asimme­ tria si ha in associazione a una sequenza invariante del tipo SNVerbo-SN, a patto che il verbo sia un verbo ‘speciale’: il verbo es­ sere. Consideriamo due esempi: Gianni è la causa della rivolta e la causa della rivolta è Gianni. Apparentemente, come nei casi pre­ cedenti, siamo di fronte a due frasi con lo stesso valore comuni­ cativo. Anche in questo caso possiamo mostrare che le cose non stanno così. Basta pensare a due frasi come le seguenti: Gianni non è la causa della rivolta ma la causa della pacificazione e * Gian­ ni non è la causa della rivolta ma Pietro. La seconda frase non è una frase grammaticale esattamente come non lo è * Gianni non arriva ma Pietro. Analogamente, se diciamo la causa della rivolta non è Gianni ma Pietro e *la causa della rivolta non è Gianni ma il colpevole cogliamo un contrasto netto, del tutto asimmetrico ri­ spetto alla frase precedente. Il linguista si trova in questo caso di fronte a un’occasione particolarmente interessante. Non solo le due coppie di frasi, Gianni corre e corre Gianni da una parte e Gianni è la causa della rivolta e la causa della rivolta è Gianni, pre­ sentano delle inaspettate analogie rispetto al test della negazione, ma offrono anche un’indicazione importante, dove il fatto inter­ pretativo fornisce un dato euristico non banale. Il sintagma no­ minale Gianni nella frase la causa della rivolta è Gianni si com­ porta esattamente come Gianni nella frase: corre Gianni. Per ren­ dercene conto basta applicare lo stesso tipo di test che coinvolge la negazione e la congiunzione ma\ la causa della rivolta non è Gianni ma Pietro, non corre Gianni ma Pietro. In altri termini, i due sintagmi nominali (qui rappresentati dal nome proprio Gian­ ni) si comportano entrambi come soggetti ‘focalizzati’ della frase, cioè soggetti della frase che vengono presentati come dato nuovo al livello della comunicazione di informazione. Sulla base di que­ ste analogie interpretative, è stato possibile arrivare a costruire

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una teoria delle frasi copulari che cogliesse i fatti in questione spiegando fenomeni apparentemente inspiegabili, per ricondurli entro i binari della teoria generale. Non indagheremo oltre le frasi con il verbo essere (per le qua­ li rimandiamo a Moro 1997). Quello che ci preme notare qui è che, esaminando i gradi di libertà che le strutture sintattiche la­ sciano al parlante in termini comunicativi, possiamo ottenere da­ ti interessanti anche per l’indagine della struttura sintattica stessa. Sintassi e comunicazione sono sì indipendenti, ma l’indagine combinata dei due domini può portare a dati significativi in en­ trambi i sensi. 2. Limiti biologici delle strutture sintattiche

Abbiamo accennato all’ipotesi sècondo la quale il linguaggio umano, e in particolare la sintassi, non sia un fenomeno di natura convenzionale ma abbia una guida biologicamente determinata. Solo cinquant’anni fa, in un testo che è diventato ormai un classi­ co delle neuroscienze, Eric Lenneberg sentiva l’esigenza di scri­ vere, non senza una nota polemica, quanto segue: «Una ricerca biologica sul linguaggio appare necessariamente paradossale dal momento che viene così ampiamente ammesso che le lingue con­ sistono di convenzioni culturali di natura arbitraria. Wittgenstein e i suoi seguaci parlano di gioco linguistico, assimilando quindi le lingue ai complessi di regole arbitrarie dei giochi di società e de­ gli sport. Mentre viene correntemente ammesso che si parli di psi­ cologia del bridge o del poker, una discussione sui fondamenti biologici del ‘bridge contratto’ [termine tecnico del gioco del bridge] non riusulterebbe molto interessante. Effettivamente le regole delle linguq naturali assomigliano in superficie alle regole di un gioco, ma mi auguro di riuscire a dimostrare [...] come le differenze tra regole delle lingue e regole dei giochi siano più so­ stanziali e fondamentali. Le prime sono biologicamente determi­ nate, le seconde hanno carattere convenzionale» (1967, p. 8). Negli ultimi cinquant’anni la ricerca si è mossa così rapida­ mente e profondamente da rendere questa posizione difensiva del tutto anacronistica: in particolare, le indagini condotte sul cervel­ lo di soggetti normali in vivo ha permesso di indagare le strutture

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biologiche soggiacenti al linguaggio secondo una prospettiva im­ pensabile nei secoli precedenti. Mentre fino alla seconda metà del XX secolo occorreva aspettare un evento patologico, e in defini­ tiva l’autopsia sul cadavere, per poter avere accesso all’esame del­ le strutture corticali, con l’avvento delle neuroimmagini si sono potuti ottenere dati diretti su tali strutture (cfr. Perani e Cappa 1996 e Friston 1997). Occorre riconoscere con chiarezza che l’av­ vento delle nuove tecniche non ha permesso la decifrazione com­ pleta della struttura funzionale del cervello (sempre che questa sia un giorno accessibile alla conoscenza scientifica): le neuroimma­ gini ci danno solo una misura dell’afflusso ematico nell’encefalo in associazione ai compiti cognitivi. Se pensiamo che la rete costitui­ ta dai neuroni raggiunge lo sbalorditivo numero di milioni di mi­ liardi di contatti, non è difficile rendersi conto della sproporzione tra le misure in nostro possesso e la realtà biologica soggiacente. Tuttavia, sulla base di queste tecniche semplici, è possibile ottene­ re qualche risultato che illustreremo tra breve. Per chi studia gli aspetti della comunicazione che interesse può avere sapere che le grammatiche hanno una guida biologicamente determinata? Il fatto fondamentale è che se una guida biologicamente de­ terminata esiste allora non è possibile pensare di progettare a ta­ volino delle lingue artificiali che siano migliori di quelle naturali, almeno nello stesso senso in cui non è possibile progettare un gat­ to o un baobab migliori di quelli che già esistono. Potranno esse­ re diverse per certi aspetti (così come una pianta può essere resa più resistente alle intemperie) ma non potranno contraddire al­ cuni aspetti strutturali cruciali. Per chi si occupa di comunicazio­ ne questo dato di fatto diventa decisivo: è come se l’architettura delle lingue naturali avesse dei limiti massimi entro i quali poter­ si muovere. Distoreere le strutture oltrepassando i limiti in que­ stione condurrebbe alla creazione di oggetti diversi dalle lingue naturali. Non sappiamo se ciò apporterà svantaggi o vantaggi; quel che è certo è che la ricerca è solo all’inizio e che questo ini­ zio sembra far intravedere un dominio molto vasto del quale ora non vediamo che tratti indistinti. Prima di passare all’ultimo aspetto della relazione tra sintassi e comunicazione (la nascita di lingue semplificate), vorremmo il­ lustrare in modo molto sintetico il tipo di dati fornito dall’indagi­

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ne con tecniche di neuroimmagini. Partiamo da una riflessione sul formato delle regole grammaticali. Una delle convinzioni più ro­ buste della teoria della sintassi, comprovata da un’enorme massa di dati, è che in tutte le lingue del mondo le regole sintattiche non possono avere qualsiasi formato concepibile. Ad esempio, le re­ gole sintattiche non si possono basare sul numero delle parole di una frase, sulla posizione di una parola in una certa sequenza li­ neare o sull’inversione delle parole di una sequenza. Limitandoci a questi casi, è possibile formulare il cosiddetto principio di di­ pendenza dalla struttura, stando al quale la sintassi non ‘vede’ se­ quenze di parole bensì strutture gerarchiche: i casi appena citati, dunque, non sono altro che manifestazioni della dipendenza dal­ la struttura. Perché esistono tali limitazioni? La domanda non è semplice e chiaramente ne sottintende due. Innanzitutto si po­ trebbe chiedere perché esistono limitazioni in generale, ovvero perché nelle grammatiche non sono realizzate tutte le regole pen­ sabili; in secondo luogo perché esistono proprio queste limitazio­ ni sui tipi di regole e non altre. Cerchiamo di riflettere sulle due domande tenendo presente il tema centrale che stiamo affrontan­ do, cioè quello del legame fra sintassi e comunicazione. Dal punto di vista della comunicazione, meno regole ci sono più informazioni possiamo veicolare in quanto maggiore è il nu­ mero delle strutture disponibili. Perché mai dunque una lingua, se è fatta per comunicare, deve contenere delle regole, vale a dire un filtro che esclude alcune delle combinazioni possibili? Non è irragionevole pensare che ima restrizione sul numero delle regole possibili sia un vantaggio in termini di apprendimento: per un bambino, scartare un certo numero di combinazioni a priori co­ me impossibili deve essere un grande vantaggio. La convergenza verso la grammatica parlata nella sua comunità è molto più rapi­ da se può contare su un numero ristretto di combinazioni. Natu­ ralmente, questo discorso ha senso solo se il bambino è davvero dotato di un ‘setaccio’ indipendentemente dall’esperienza, cioè se il setaccio è innato: se ciò non fosse, l’idea che esistano regole per facilitare l’apprendimento sarebbe implausibile. Si noti, tuttavia, che la risposta proposta non dà una spiegazione necessaria: non è affatto detto che la natura debba fare favori ai bambini rendendo più semplice l’apprendimento del linguaggio. Si tratta di una con­

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gettura, e tuttavia non sembrano esserci tante alternative, se non quella di ammettere che le regole di restrizione esistano per puro caso. Rimane però una domanda: perché esistono proprio queste re­ gole, e non altre? La risposta non è affatto ovvia. Prendiamo ad esempio una regola stando alla quale una frase affermativa diven­ ta negativa se la negazione viene inserita diciamo dopo la terza pa­ rola della frase affermativa stessa. La regola sembra fatta apposta per esser semplice, da descrivere e da apprendere. In termini di facilità di comunicazione sarebbe molto vantaggiosa. Tuttavia, co­ me abbiamo visto, in nessuna lingua del mondo risultano regole di questo tipo: in ogni lingua vale la dipendenza dalla struttura. L’assenza di regole ‘aritmetiche’ è stata proprio la chiave di volta di una serie di esperimenti di neuroimmagini che hanno mostra­ to come la dipendenza dalla struttura non sia una convenzione ma sia il riflesso di una precisa organizzazione neurofunzionale (cfr., per una presentazione dettagliata, Moro et al. 2001 e Musso et al. 2003). A un gruppo di persone parlanti native del tedesco, mai venu­ te in contatto con altre lingue, venne insegnato un frammento di grammatica dell’italiano, includendo, a insaputa di queste perso­ ne, delle regole che violano il principio di dipendenza dalla strut­ tura, proprio del tipo descritto prima per la negazione. Il risulta­ to sperimentale ha mostrato che, quando i soggetti apprendevano le regole che violavano la dipendenza dalla struttura, l’attività cor­ ticale del cervello cambiava rispetto a quando i soggetti appren­ devano regole che non violavano la dipendenza dalla struttura. In particolare, si è osservato che l’attività dell’area di Broca (nel giro inferiore frontale dell’emisfero sinistro del cervello umano) dimi­ nuiva progressivamente nel caso delle regole che violavano la di­ pendenza dalla struttura mentre si accentuava per quelle che non la violavano. L’esperimento è stato poi riprodotto insegnando ai soggetti un frammento di grammatica del giapponese, sempre in­ cludendo regole che violano il principio della dipendenza dalla struttura. Anche in questo secondo caso, il cervello dei soggetti ‘smistava’, per così dire, le regole facendo trattare quelle possibi­ li dalle aree deputate al trattamento della sintassi (area di Broca) e quelle impossibili da aree non dedicate alla sintassi.

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Torniamo dunque alla questione della comunicazione, sinte­ tizzando quanto abbiamo visto fin qui. Primo, l’esistenza di rego­ le sintattiche che riducono le combinazioni possibili è svantag­ giosa per la comunicazione ma è sicuramente vantaggiosa per l’apprendimento (a patto che le regole siano parte del patrimonio innato della mente del bambino). Secondo, l’assenza di un certo tipo di regole, anche molto semplici, non è plausibilmente dovu­ ta a una convenzione, o al caso, ma all’effetto di una precisa ar­ chitettura neurofunzionale che iniziamo forse a intravedere sulla base di esperimenti sul cervello in vivo. Per chi studia il rapporto fra sintassi e comunicazione è cosa non da poco: non sarà più pos­ sibile immaginare che una lingua possa essere ‘progettata’ per fi­ ni comunicativi senza alcun fimite, o che questa struttura sia più funzionale di altre. Una lingua che includesse una regola che non segue la dipendenza dalla struttura potrebbe essere benissimo ap­ presa: semplicemente ciò non avviene in quanto per natura le grammatiche sono limitate dalla struttura del cervello. Allo stesso modo non possiamo reinventare la stazione eretta o la nostra cam­ minata, perché esistono limiti biologici ai quali dobbiamo sotto­ stare.

3. Semplicità e comunicazione: lo strano caso delle lingue creole

Abbiamo illustrato dei dati di tipo neurobiologico a favore dell’i­ potesi che i limiti riscontrati nel formato delle regole delle varie lingue del mondo non siano strutture convenzionali ma riflettano la struttura neurobiologica del cervello. Ne abbiamo concluso che, per quanto la comunicazione sia un fatto intrinsecamente le­ gato al linguaggio, non ci si può aspettare che la funzione ‘modi­ fichi l’organo’. Se questa ipotesi è vera, ne seguono conseguenze importanti. Una delle principali è che non ci si aspetta di trovare tra le varie lingue differenze sostanziali, riguardo alla loro complessità, esat­ tamente come non ci si aspetta di trovare differenze sostanziali nel fegato o nel cuore degli individui sani della nostra specie al varia­ re delle culture. Supponiamo però che per necessità comunicati­ ve qualche gruppo, o qualche individuo, inventino davvero una

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lingua più facile. Cosa accadrebbe? Quale sarebbe il destino di una lingua più semplice se fosse appresa dai bambini di una co­ munità? Il quesito, che per ovvi motivi, etici e scientifici, non ha mai trovato una risposta scientifica, è stato affrontato da Derek Bickerton in alcuni lavori pionieristici che sfruttano una situazio­ ne sperimentale assolutamente unica (cfr., ad esempio, Bickerton 1984). Bickerton si trovò a poter analizzare dal punto di vista lingui­ stico una comunità di parlanti delle isole Hawaii, costretti nel pe­ riodo dell’infanzia in condizioni di segregazione ed esposti a una lingua pidgin come prima lingua. Una lingua pidgin (l’etimo pro­ babile è una storpiatura del nome della città di Beijing, Pechino) è una lingua semplificata nata in seguito ai contatti commerciali tra popolazioni di lingua diversa, come avvenne per la lingua par­ lata sulle coste cinesi durante le intense attività di scambio tra in­ glesi e popolazioni autoctone. La lingua pidgin studiata da Bicker­ ton aveva una morfologia ridotta all’osso, una struttura sintattica semplificata e un lessico misero rispetto alle lingue dal contatto delle quali era nata. Per quanto semplificata, la lingua pidgin fun­ zionava agli scopi pratici: serviva egregiamente per commerciare e comunicare tra persone che altrimenti non si sarebbero mai in­ tese; permetteva di concludere contratti e risolvere questioni pra­ tiche. Dal punto di vista della comunicazione, in un certo senso, era ciò che di meglio si potesse aspettare: una specie di ‘esperanto na­ turale’ che forniva uno strumento agile e semplice da apprendere ma sufficientemente ricco da permettere alla gente di intendersi e intraprendere commerci. Se non fosse stata sviluppata una teoria che lega il linguaggio a un progetto biologicamente determinato, la scoperta di Bickerton ci sembrerebbe un assurdo. Bickerton si rese infatti conto che i bambini allevati in quella comunità, ed esposti al pidgin come prima lingua, ricomplicavano letteralmen­ te la grammatica, inserendo nuovamente elementi morfologici, sintattici e lessicali che la rendevano molto distante dal modello cui erano stati esposti. Perché mai se una lingua è così comoda da diventare un passepartout facile da apprendere dovrebbe andare incontro a un processo di ricomplicazione? Non è forse la facilità di comunicazione la vera ragion d’essere di un linguaggio? Evi­ dentemente no. Evidentemente, la struttura biologica che sotten­

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de una lingua umana deve esprimersi in un certo modo: a costo di manifestare strutture che all’occhio razionale sembrano compli­ cazioni, ma che invece sono le venature naturali della struttura del linguaggio umano. 4. Binari della comunicazione: struttura, biologia e uso

La relazione tra sintassi e comunicazione non si esaurisce certo ai temi che abbiamo qui trattato; molti sarebbero gli spunti di di­ scussione, come quelli inerenti al legame tra genetica e linguaggio, sia in senso filogenetico (cfr., ad esempio, Hauser et al. 2002, Mo­ ro 2002 e Boncinelli 2003) che tassonomico (cfr. Cavalli-Sforza 1996) che ontogenetico (cfr. Dupoux e Mehler 1990 e Piattelli Paimarini 1990). Ci siamo infatti limitati a una sintetica illustra­ zione dei temi di ricerca in questo campo: il ruolo della struttura sintattica nella comunicazione, la natura non convenzionale delle proprietà universali della sintassi delle lingue umane e i limiti alla semplificazione dovuti alla natura di progetto biologicamente de­ terminato della facoltà di linguaggio umano. Questo tipo di os­ servazioni, pur non limitando la possibilità dell’uomo di sfruttare al massimo la comunicazione con ogni mezzo possibile, pone la natura biologica del fenomeno come confine ai possibili interventi sulle strutture linguistiche. La comunicazione viaggia entro i bi­ nari fissati dalla struttura biologica, che fissa limiti all’esperienza ma che dell’esperienza non può ovviamente fare a meno per svi­ lupparsi. Studiare questi cqnfini diventa quindi fondamentale sia per decifrare il funzionamento del linguaggio umano, sia per ca­ pire quali sono i margini di intervento possibili per migliorare la comunicazione nei vari campi dell’agire umano, non ultimo quel­ lo informatico. Al di là di ogni speculazione fantalinguistica, sembra comun­ que ragionevole assumere la posizione che appare oggi più ade­ rente ai dati empirici: qualunque sia la funzione che ha il linguag­ gio, qualunque sia l’esperienza che sta alla base dell’apprendi­ mento del linguaggio da parte di un bambino, qualunque sia la storia evolutiva di questo tratto della natura umana, esistono li­ miti biologicamente determinati entro i quali la struttura deve e può svilupparsi. Ciò, pur non dicendo nulla sull’uso che un esse­

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re umano fa della lingua né del tipo e della quantità di informa­ zione che gli esseri umani si scambiano, suggerisce che lo studio del linguaggio non può sottrarsi al metodo d’indagine che si adot­ ta quando si studiano lo sviluppo e i limiti di variazione delle ca­ ratteristiche costitutive degli organismi viventi.

II.

Afferrare pensieri: semantica di Èva Picardi

1. Conoscenza del significato

Wittgenstein scrive: Ma come si fa, in generale, a comunicare qualcosa? - Quando, di­ ciamo che qualcosa viene comunicato? - Qual è il gioco linguistico del comunicare? Vorrei dire: tu consideri fin troppo ovvio che si possa comunicare qualcosa a qualcuno. Vale a dire: Siamo così abituati alla comunica­ zione fatta parlando, conversando, che tutto quanto il succo della co­ municazione ci sembra consistere nel fatto che un’altra persona affer­ ri il senso delle mie parole - un che di mentale - che lo accolga, per così dire, nella sua mente. Se poi se ne faccia qualcosa, questo non rien­ tra nello scopo immediato del linguaggio (1953, § 363).

Con questa osservazione Wittgenstein non vuole negare un da­ to ovvio della nostra esperienza ordinaria, nell’intento di metter­ ci in guardia dai fraintendimenti più grotteschi e dalle interpreta­ zioni più improbabili cui le nostre parole possono prestarsi. Quel che intende dire è che le ragioni dell’ovvio non sono ovvie: è pro­ prio quel che ci sta costantemente sotto gli occhi che non riuscia­ mo a collocare nella giusta luce. Posto dunque che la comunicazione sia un dato, la domanda filosoficamente interessante è: che cosa la rende possibile? L’in­ dagine sulle condizioni di possibilità di un fenomeno è sempre in bilico tra la riflessione sulle condizioni empiriche che ne rendono possibile il verificarsi (la conformazione del cervello umano, il pa­

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trimonio genetico, la storia evolutiva dell’Homo Sapiens) e quella di sapore trascendentale circa quel che è concettualmente costi­ tutivo di un fenomeno, nel senso che una spiegazione che non ren­ desse conto di tali aspetti non sarebbe né descrittivamente né esplicativamente adeguata. La risposta alla domanda posta da Wittgenstein che per prima viene alla mente è questa: è il fatto che A e B parlino la stessa lin­ gua (l’italiano, poniamo) che spiega come mai un contenuto pos­ sa passare dalla mente di A a quella di B. B capisce il significato delle parole di cui è composto l’enunciato prodotto da A poiché entrambi conoscono sia il significato che le parole che lo compon­ gono hanno in italiano sia le costruzioni grammaticali e sintattiche in cui le parole possono figurare. La risposta poggia sull’assunto che vi sia un legame strettissimo fra linguaggio, pensiero e comu­ nicazione, da un lato, e conoscenza e comprensione, dall’altro. Inoltre, suggerisce che il linguaggio abbia la priorità esplicativa sul pensiero nell’identificazione sia di ciò che è esprimibile me­ diante un enunciato, sia di ciò che è effettivamente espresso in un’occasione specifica del suo uso (ad esempio, l’asserzione fatta in una data circostanza, il cui contenuto è ciò che ci riproponia­ mo di comunicare a chi ci ascolta). In questo rudimentale abbozzo di spiegazione figurano le pa­ role ‘significato’, ‘comprensione ’, ‘conoscenza’, ‘condivisione’, ‘lingua comune’, ‘composizione’, ‘sintassi’, ‘asserzione’, ‘contenu­ to espresso’, ‘contenuto comunicato’, insomma quanto basta per suscitare intricatissime controversie filosofiche che investono l’i­ dea stessa di linguaggio. E infatti qualcuno (il nostro alter ego scettico) potrebbe do­ mandare: ma come fai a sapere che conosci il significato di una pa­ rola? Che cos’è, esattamente, che ritieni di conoscere? Come si manifesta questa conoscenza? E che ragioni hai per supporre che l’altro ti capirà come vorresti? Fortunatamente, ed è lo stesso Wittgenstein (1953, § 289) a ricordarcelo, usare una parola o una frase senza avere una giustificazione o senza saper dare una giusti­ ficazione non significa usarla a sproposito. ‘Conoscere’ non equi­ vale in ogni caso a essere in grado di dare giustificazioni o ragio­ ni. Una simile ignoranza non interferisce con l’uso che quotidia­ namente facciamo della nostra lingua materna, ma è fonte di gran­ di perplessità filosofiche.

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Qualcun altro (il nostro alter ego dogmatico), che veste i pan­ ni dello scienziato cognitivo e lavora alla ‘naturalizzazione’ della semantica, potrebbe obiettare che il pensiero ha la priorità espli­ cativa sul linguaggio. La spiegazione di ciò che fa sì che un conte­ nuto passi dalla testa di A a quella di B è un’altra: siamo tutti co­ struiti (programmati) allo stesso modo, abbiamo un’architettura neurale assai simile, anche se in gran parte ignota. E inoltre ab­ biamo la stessa storia evolutiva, condividiamo lo stesso ecosiste­ ma e viviamo in aggregazioni sociali assai simili. È per questo che pensiamo tutti allo stesso modo, proprio così come respiriamo, di­ geriamo, copuliamo e moriamo più o meno allo stesso modo. Le lingue naturali si limitano a codificare il pensiero per gli scopi del­ la comunicazione. Il quesito scientifico interessante è: come deve essere fatto un sistema fisico affinché gli si possano attribuire sta­ ti mentali provvisti di contenuto, capaci, cioè, di vertere sul mon­ do ed essere valutabili come veri o falsi, esibendo così la caratte­ ristica dell’intenzionalità, ossia la direzionalità verso un oggetto, che Brentano scambiava per il contrassegno del mentale? (cfr. Picardi 1998). Ma il ‘mentale’ non ha qualcosa a che vedere con la cultura, la tradizione, le forme di vita, insomma con quel che è specificamen­ te umano e che non ereditiamo per via genetica ma che appren­ diamo dagli altri con l’insegnamento, l’esercizio e l’imitazione? Non svolge il linguaggio un ruolo fondamentale in questo pro­ cesso di «acquisire una mente» (McDowell 1994)? La conoscen­ za del linguaggio in generale e del significato in particolare non è un fatto bruto della nostra storia naturale, come l’aver sviluppato arti particolarmente versatili che ci consentono di far fronte a in­ numerevoli compiti. E dunque, da filosofi, dovremmo poter dire qualcosa sulla nostra conoscenza del significato. Ad esempio, si tratta di conoscenza teorica o di conoscenza pratica o di un misto di entrambe? E conoscenza implicita, accessibile alla coscienza, o conoscenza ‘inconscia’, codificata a livello neurale e come tale inaccessibile alla coscienza? Inoltre vi è il sospetto fondato che nelle sue speculazioni il nostro alter ego dogmatico dia per acqui­ sita la nozione di contenuto pensabile e comunicabile, che invece è proprio quello che vogliamo capire meglio.

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2. Costituzione del contenuto Di che cosa si occupa la semantica? Le teorie semantiche ideate per gli scopi della logica, ossia per studiare la relazione di conse­ guenza logica che intercorre fra gli enunciati che possono funge­ re da premesse e conclusione di un argomento, si propongono di fornire una rappresentazione sistematica del modo in cui il valo­ re di verità di un enunciato dipende dal valore semantico delle sue parti componenti (nomi propri ed espressioni predicative) e dal modo in cui sono combinate. Per ‘modo di combinazione’ si in­ tendono, grosso modo, le costruzioni sintattiche alle quali nella formalizzazione corrispondono i connettivi enunciativi (l’equiva­ lente di ‘non’, ‘e’, ‘o’, ‘se... allora...’) e i quantificatori (‘tutti’, ‘al­ cuni’, ‘almeno uno’ ecc.); per ‘parte’ si intendono le parole che ri­ corrono nell’enunciato (nomi propri, espressioni predicative, av­ verbi). A tal fine occorre fissare un dominio di enti e una funzio­ ne di interpretazione. Ciò di cui la semantica formale vuole ren­ der conto è, ad esempio, come la validità di un argomento (il fat­ to che la verità sia preservata nel passaggio dalle premesse alla conclusione) sia connessa alla forma logica degli enunciati che fun­ gono da premesse e da conclusione, oppure se un insieme di for­ mule ha un modello o, nel caso delle logiche modali, quali formu­ le sono valide relativamente a una certa interpretazione in mondi diversi da quello attuale. Non è della semantica formale (nel sen­ so di Tarski 1944, ad esempio) che ci occuperemo qui. Frege, che è il padre sia della logica che della semantica mo­ derne, voleva individuare quegli aspetti del significato complessi­ vo delle parole ricorrenti in un enunciato che sono rilevanti ai fi­ ni della sua verità o falsità (ciò che egli chiamava il «valore di ve­ rità» dell’enunciato). Egli riteneva inoltre che un, enunciato po­ tesse svolgere un ruolo inferenziale (figurare come premessa o co­ me conclusione di un argomento) proprio perché è dotato di un contenuto semantico collegato, in modo da specificare, alla parti­ colare scomposizione sintattica (forma logica) cui l’enunciato può essere sottoposto. Un enunciato come ‘Espero è un pianeta’ è ve­ ro se ciò che il nome proprio ‘Espero’ designa gode della proprietà indicata dal predicato ‘essere un pianeta’ (oppure: cade nell’e­ stensione del predicato, formata dall’insieme di tutti e solo gli og­ getti che soddisfano la condizione di essere pianeti). La forma lo­

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gica esibita da questo enunciato è quella funzione-argomento (nella logica tradizionale si parlava di soggetto e predicato). Ma non è solo la verità che ci interessa dal punto di vista cognitivo, bensì il pensiero espresso. Tutte le espressioni di una lingua (na­ turale o formalizzata) hanno un senso, e la maggior parte di esse ha anche un riferimento (Bedeutung). Il senso di una parola è con­ cepito da Frege (1891 e 1892) sia come il contributo che essa dà alla determinazione delle condizioni di verità di un enunciato di­ chiarativo in cui figura sia come ciò che occorre conoscere per identificarne il valore semantico (riferimento) nel contesto di un enunciato. La questione di quale sia il riferimento e il senso delle parole va formulata considerando gli enunciati in cui esse posso­ no ricorrere. Questo è ciò che il celebre Principio del contesto, for­ mulato nei Fondamenti dell’aritmetica del 1884, intima. Frege ap­ plica la distinzione fra senso e riferimento anche all’enunciato e dice che l’enunciato esprime un senso, che egli chiama «pensie­ ro», e designa un oggetto logico, il vero o il falso. Stando alla teo­ ria di Frege, se nell’enunciato ‘Espero è un pianeta’ sostituiamo alla parola ‘Espero’ la parola ‘Fosforo’, il senso dell’enunciato (il pensiero espresso) cambia, poiché viene modificato il valore co­ noscitivo che l’enunciato può rivestire nel pensiero e nella comu­ nicazione. Il valore di verità invece resta immutato. A quanto pa­ re anche i nomi propri hanno un senso: esso è caratterizzato da Frege (1892) in relazione alla lingua cui il nome proprio appar­ tiene - esso è, innanzi tutto, il senso di un’espressione linguistica. Frege concepisce il senso come una caratteristica oggettiva delle espressioni linguistiche. Per ‘oggettivo’ egli intende non solo con­ divisibile da molti, ma che sussiste autonomamente, indipenden­ temente dall’essere afferrato o meno. Come vedremo, la riflessio­ ne filosofica successiva ha messo in luce la problematicità di que­ sto assunto. E oggi quasi un luogo comune dire che una delle caratteristi­ che costitutive, non negoziabili, delle lingue naturali è la produt­ tività, la proprietà, cioè, di rendere possibile l’espressione di un numero infinito di pensieri mediante l’impiego di un numero fi­ nito anche se molto grande di parole e di un ristretto numero di modi di costruzione sintattici. Il Principio di composizionalità for­ mulato da Frege (cfr., ad esempio, Frege 1923-1926) afferma che la comprensione del pensiero espresso da un enunciato che non

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abbiamo incontrato in precedenza è resa possibile dalla com­ prensione del senso (noto) delle parti che compongono l’enun­ ciato e dal modo in cui sono combinate. Per certi aspetti questo sembra una banalità. Infatti, da che cosa potrebbe dipendere la comprensione del significato dell’enunciato ‘Se domani piove non vado a scuola in bicicletta’ proferito, poniamo, da Vera rivolgen­ dosi a un’amica con cui si reca solitamente a scuola, se non dalla comprensione del significato delle parole ‘piovere’, ‘recarsi’, ‘scuola’, ‘bicicletta’, dalla costruzione condizionale (‘Se... allo­ ra...’), dalla negazione ‘non’ e dalla preposizioni ‘a’ e ‘in’? Uno dei compiti principali della semantica è specificare in che modo le pa­ role che ricorrono in questo enunciato, e che possono ricorrere in innumerevoli enunciati della lingua, contribuiscono al pensiero che Vera intrattiene quando formula il proposito che, se piove il giorno successivo a quello in cui formula la frase, allora non an­ drà a scuola in bicicletta. Si tratta di un pensiero semplicissimo, che però contiene due dispositivi (la costruzione condizionale e la negazione, tanto basilari quanto ardui da spiegare), variamente iterabili, cui probabilmente solo l’utente di una lingua può avere accesso. Per ‘composizionalità del significato’ non si intende solo’ la produttività resa possibile dai dispositivi sintattici di iterazione e combinazione delle parole. Non è solo la struttura logica del pensabile (i dispositivi ricorsivi e induttivi studiati dalla logica) che ci interessa. Come Wittgenstein (1922, 4.027) dice, fa parte dell’essenza della proposizione l’essere capace di comunicarci un senso nuovo. La proposizione usa vecchie espressioni per comuni­ care un senso nuovo. Certo, la comprensione del significato complessivo dipende da quella delle parti componenti. Ma è anche esaurita da questa com­ prensione? Non c’è altro da sapere per capire quello che è stato detto? Conviene distinguere tra due formulazioni del Principio di composizionalità a seconda che lo si riferisca alla costituzione del significato o alla comprensione del significato. Si potrebbe soste­ nere (cfr. il dibattito tra Fodor e Lepore, da un lato, e Horwich e Sainsbury, dall’altro, in Borg 2002) che la costituzione del signifi­ cato è composizionale mentre la comprensione non è tale. Vedia­ mo perché. Supponiamo che Vera dica: ‘La scuola è un carcere’. Indub­ biamente un primo passo per sapere che cosa Vera intende è co­

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noscere il significato letterale che le parole che compongono l’e­ nunciato hanno in italiano. Però probabilmente Vera in questo specifico contesto non intende la parola ‘carcere’ nel suo signifi­ cato letterale, bensì ne fa uso traslato: per capire il pensiero espresso occorre fare congetture sulla proposizione intesa che è diversa da quella letteralmente espressa. Non è detto che vi sia una sola proposizione intesa, né è chiaro se ciò che le metafore si­ gnificano abbia un formato proposizionale. Altri esempi di scar­ to fra coinposizionalità del significato e composizionalità della comprensione sono forniti dagli enunciati semanticamente e sin­ tatticamente ambigui, come ‘Il libro di Carlo è un best-seller’ (il libro scritto da Carlo? il libro che Carlo sta leggendo?), oppure ‘La conoscenza umana è inesauribile’ (la conoscenza della natura umana? la conoscenza ottenibile dagli esseri umani? le capacità cognitive tipiche degli umani?), ‘Ogni evento ha una causa’ (vi è una sola causa per tutti gli eventi? oppure ogni evento ha una so­ la causa?). In questi casi è solo il contesto del discorso {circostan­ ze esterne unitamente alle intenzioni dei parlanti) che può chiari­ re qual è la lettura giusta. Alcuni però potrebbero obiettare che il Principio di composizionalità si applica all’enunciato disambigua­ to: in ciascun caso dato la comprensione del significato è compo­ sizionale. Vi sono poi gli usi idiomatici delle parole, che vanno im­ parati individualmente. Un tratto particolarmente comico delle traduzioni affrettate è la traduzione letterale delle espressioni idiomatiche: non sarebbe una buona idea tradurre composizionalmente in inglese l’espressione italiana ‘tirare le cuoia’ così co­ me non sarebbe una buona idea tradurre l’idioma inglese ‘to kick thè bucket’ come ‘dare un calcio al secchio’, poiché è equivalente a‘tirare le cuoia’. Un altro caso in cui la comprensione del pensiero espresso non è desumibile dalla semplice conoscenza del significato delle paro­ le componenti è quello in cui figurano espressioni dimostrative come ‘questo’, ‘quello’ (usate accompagnandole con un gesto di indicazione ostensiva), pronomi personali ‘io’, ‘tu’, ‘noi’ ecc., av­ verbi di tempo e luogo come ‘ora’, ‘ieri’, ‘domani’, ‘qui’ ecc. Per capire il pensiero espresso in una determinata circostanza non ba­ sta conoscere il significato delle parole, ma occorre sapere qual­ cosa sulle circostanze in cui le parole sono prodotte, sull’identità del parlante, sulle intenzioni referenziali e identificative di par­

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lante e ascoltatore. Lo studio di queste parole, il cui riferimento è determinato dal contesto complessivo in cui vengono prodotte, è al centro degli studi contemporanei di semantica e di pragmatica. Altri casi in cui c’è tensione fra i due principi sono quelli di­ scussi da Charles Travis (1997), in cui lo stesso enunciato (ad esempio ‘La pallina da squash è rotonda’), senza essere in alcun modo ambiguo, consente due letture in una delle quali l’asserzio­ ne fatta è vera (si parla della pallina prima dell’impatto con una superficie) e in un’altra è falsa (al momento dell’impatto la palli­ na non è più rotonda). La verità o falsità dell’asserzione va vista alla luce dell’interesse prevalente da cui è mosso chi chiede infor­ mazioni sulla forma della pallina. Forse una caratteristica comu­ ne a questi enunciati è l’assenza di specificità (cfr. Sainsbury 2002a), una caratteristica semantica che non è in conflitto con il requisito di composizionalità. Questa tematica è al centro di mol­ te ricerche in corso, e già questo indica che la composizionalità è tutto fuorché una banalità.

3. Modelli rappresentazionali e modelli inferenziali della comprensione

La semantica delle condizioni di verità, che ha la sua origine ne­ gli scritti di Frege e nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgen­ stein, è stata ripresa negli anni Settanta del secolo scorso da Do­ nald Davidson, che l’ha riproposta nel formato di una teoria del­ l’interpretazione. I modelli inferenziali o modelli del ruolo con­ cettuale si richiamano a vario titolo alla visione del linguaggio e del significato che troviamo negli scritti del Wittgenstein maturo, e nelle Ricerche filosofiche in particolare. Stando al primo model­ lo capire un enunciato significa capire come stanno le cose se è ve­ ro. I pensieri sono l’immagine logica dei fatti. Gli enunciati mu­ niti di senso hanno la funzione di descrivere, raffigurare stati di cose possibili. Stando al secondo modello capire un enunciato equivale a saper fare qualcosa con esso, ad esempio sapere che conseguenze comporta la sua accettazione. Il primo modello non dice qual è ‘la cosa giusta’ che mi attendo che il mio interlocuto­ re faccia in risposta a quel che gli comunico o qual è la cosa giu­ sta che devo fare io per reagire adeguatamente alle sue parole.

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Non spiega cioè il gioco linguistico del comunicare. Wittgenstein (1953, § 7) caratterizza il ‘gioco linguistico’ come l’insieme for­ mato dalle parole e dalle attività con cui le parole sono intessute. Il modello rappresentazionale è inoltre parziale poiché non rende conto di tutta la varietà di giochi linguistici il cui scopo precipuo non è la rappresentazione dei fatti. Se identifichiamo il significato di una parola con l’immagine mentale evocata dal suono della parola oppure con l’oggetto per il quale la parola sta, risulta misterioso capire in che modo l’im­ magine o l’oggetto riescano a guidarci in tutte le applicazioni che possiamo fare della parola. E dunque più promettente pensare il significato di una parola come costituito dall’uso che ne facciamo in una varietà di giochi linguistici. Da questo punto di vista la co­ noscenza del significato assomiglia più a un saper fare qualcosa (saper suonare il piano) che non a un sapere che (sapere quanto è alto il Monte Bianco o sapere che l’universo è in espansione). Una volta compiuta questa mossa non abbiamo certo risolto tutti i pro­ blemi. E questo per due ragioni. In primo luogo perché la cono­ scenza del significato non è riducibile a un’abilità pratica. Questa riduzione non rende conto del modo in cui l’accettazione di un’as­ serzione fatta da altri possa fare una differenza o contribuire in qualche modo alla mia immagine del mondo. Ci chiediamo con­ tinuamente quali credenze dobbiamo rivedere se accettiamo un determinato enunciato, in che condizioni epistemiche è legittimo asserirlo, quali sono le prove a suo favore, a che conseguenze la sua accettazione mi impegna (cfr. Dummett 1991). La seconda ra­ gione è che anche se abbiamo caratterizzato la comprensione del significato di una parola in modo non rappresentazionale (allu­ dendo a campioni significativi del suo impiego e alle illustrazioni che un parlante è in grado di offrire) non abbiamo spiegato in che modo la tecnica d’uso così acquisita determini^ applicazioni fu­ ture, sia cioè, come si suol dire, proiettabile sui casi futuri. La con­ cezione rappresentazionale non ha questo problema, perché tace su quasi tutto eccetto la forma logica e, in particolare, su ciò in cui consiste usare un enunciato per fare un’asserzione e riconoscere che le condizioni di verità di un enunciato sono soddisfatte, quan­ do di fatto lo sono. Ci dice semplicemente che ‘I neutrini non hanno massa’ è vero se e solo se i neutrini non hanno massa, cioè se l’entità che la parola ‘neutrino’ designa gode della proprietà

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espressa dal predicato ‘essere privo di massa’. È la realtà che de­ termina di suo pugno la verità o la falsità dell’enunciato, posto che esso abbia un senso determinato. Chi invece connette il significa­ to all’uso non può cavarsela così a buon mercato, ed è tenuto a di­ re qualcosa circa le conseguenze logiche e teoriche che questo enunciato comporta nell’ambito della teoria scientifica che parla di neutrini, che cosa conta come evidenza per la sua verità, in che circostanze riterremo che la proporzione espressa sia da rivedere. La tecnica d’uso delle parole che abbiamo acquisito e la corri­ spondente disposizione non è sufficiente a decidere qual è la co­ sa giusta da fare in ogni caso che si possa presentare: a volte ri­ corriamo a convenzioni arbitrarie per dirimere i casi controversi (un po’ come fanno i matematici alle prese con la divisione per ze­ ro), a volte semplicemente la risposta giusta non c’è. Eppure spes­ so ragioniamo come se dovesse esistere in ogni caso la risposta giusta. Occorre liberarsi da questa immagine. Il significato di una parola, la cui comprensione si manifesta nella capacità dei parlanti di usarla in modo corretto nella maggior parte dei casi, conver­ gendo nei giudizi con gli altri parlanti della lingua, è perfetta­ mente determinato anche se vi sono casi in cui siamo in dubbio circa la sua corretta applicabilità. Un concetto vago non è un con­ cetto difettoso. Tutt’altro. 4. Regole e regolarità Talvolta la posizione di Wittgenstein (1953) viene esposta dicen­ do che egli concepisce il significato delle parole come retto da re­ gole, e che tutto il peso delle sue argomentazioni poggia sul ca­ rattere normativo della pratica del seguire una regola, e, in parti­ colare sulla distinzione fra credere di seguire una regola e seguir­ la effettivamente. Ma molti filosofi hanno criticato questa conce­ zione, sostenendo che la nozione di regola, così come quella di convenzione, ha una parte marginale nella spiegazione della com­ prensione del significato. Conviene distinguere fra regole e rego­ larità. Tutti convengono che la pratica linguistica presenta regola­ rità, ma non tutti concordano nel vedere questa regolarità come dovuta all’intenzione dei parlanti di conformarsi a certe specifi­ che regole e convenzioni. Una regolarità, in quanto tale, può es­

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sere generata da tantissime regole. La semplice constatazione di regolarità nella pratica di parlare una lingua non ci autorizza a di­ re che chi parla sta usando le parole in conformità a una regola o nell’eseguire un atto linguistico intende conformarsi a una con­ venzione. Quando diciamo che lo scopo della comunicazione è di tra­ smettere informazioni vere e pertinenti stiamo dicendo che que­ sto è ciò che possiamo constatare tramite un’indagine sociologica o psicologica? O stiamo dicendo che il dire qualcosa di vero e di pertinente è un ideale regolativo cui i parlanti aspirano a confor­ marsi, anche perché ritengono che anche gli altri lo faranno, es­ sendo il valore pratico delle proposizioni vere superiore a quello di quelle false? Questa è ad esempio l’opinione di David Lewis (1969): egli ritiene che per rendere conto del funzionamento del linguaggio adottato da una popolazione è hecessario descrivere i parlanti come agenti che aspirano consciamente a conformarsi a una determinata convenzione, anche perché sanno che a loro vol­ ta gli altri lo faranno e perché ritengono che il conformarsi sia un modo utile per risolvere problemi di coordinazione. Donald Da­ vidson (1986) ha sollevato obiezioni contro il punto di vista di Lewis e, indirettamente, contro quelle interpretazioni di Witt­ genstein che spiegano il carattere sociale del linguaggio come de­ rivante da convenzioni e regole condivise dai parlanti. Davidson ha obiettato a Lewis che per descrivere il pattern di razionalità esi­ bito dall’uso del linguaggio non occorre che i parlanti condivida­ no regole e significati, stabiliti in anticipo e in questo senso con­ venzionali, anche se di fatto questo è quel che avviene nella mag­ gior parte dei casi. Per cogliere l’essenza del linguaggio il ricorso alla nozione di convenzione e di regola è superfluo. In generale, per capire l’altro dobbiamo escogitare una teoria del significato che ci consenta di interpretare quello che dice. La ‘teoria del si­ gnificato’ è costruita secondo il modello che Alfred Tarski ha pro­ posto per caratterizzare l’estensione del predicato ‘vero’ nelle lin­ gue formalizzate. La teoria del significato si propone di dare un modello del modo in cui ‘deriviamo’ le condizioni di un enuncia­ to particolare dato sulla base di un insieme finito di assiomi di de­ signazione e di soddisfacimento e di stipulazioni relative a con­ nettivi e quantificatori (cfr. Sainsbury 2002b). Detto in termini un po’ approssimativi, l’idea alla base del programma di Davidson è

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di utilizzare la nostra lingua come metalinguaggio semantico e for­ mulare in essa le condizioni di verità degli enunciati appartenen­ ti a una lingua che non conosciamo (e che funge da linguaggio og­ getto). Se riusciamo a individuare condizioni di verità che rendo­ no conto della condotta linguistica dei parlanti della lingua sco­ nosciuta, allora possiamo usare tali condizioni di verità (necessa­ riamente estensionali) per interpretare il significato degli enun­ ciati producibili nella lingua. L’impresa parte dall’assunto che noi e i parlanti della lingua sconosciuta abbiamo molte credenze vere e condivise sul mondo. Nell’interpretazione proiettiamo noi stes­ si nell’altro, avvalendoci di una serie di principi ermeneutici (ca­ rità, umanità, empatia), che ingiungono di non attribuire all’altro errori logici e credenze vistosamente false, ma di renderlo il più possibile simile a noi. E importante notare che per ‘interpretazio­ ne’ Davidson non intende il genere di attività in cui si impegnano i filologi, gli ermeneuti o gli psicoanalisti. Ed è anche per questo che la sua posizione non confligge (almeno superficialmente) con la fondamentale intuizione di Wittgenstein (1953, § 201) che c’è un modo di concepire una regola che non è un’interpretazione, pena il regresso delle interpretazioni. 5. Olismo, traduzione, interpretazione

Quine è stato il filosofo contemporaneo che più di ogni altro ha contribuito a problematizzare l’idea che i significati delle parole siano non solo oggettivi, bensì oggetti veri e propri, alloggiati in un regno platonico di entità astratte, che in un modo misterioso afferriamo. Questo è (in parte) il modello prospettato da Frege e criticato da Wittgenstein. Quine (1960) immagina un linguista che si trovi alle prese con una comunità di persone che parlano una lingua del tutto irrelata alla propria e di cui non esistono traduzioni né dirette né indiret­ te nella propria lingua. Il linguista dovrà fare congetture sul si­ gnificato delle frasi prodotte dagli indigeni, basandosi quasi esclu­ sivamente sull’osservazione del comportamento di assenso e dis­ senso che essi produrranno dietro sua sollecitazione. Ad esempio, egli sottoporrà agli indigeni la frase ‘Gavagai’, in circostanze che giudica percettivamente salienti, per mettere alla prova la tradu­

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zione che egli ritiene più probabile della frase ‘Gavagai’. Sulla scorta dell’osservazione della loro condotta linguistica e non lin­ guistica il linguista è giunto alla conclusione che la frase abbia a che fare con i conigli. L’ipotesi è che, se gli indigeni danno il loro assenso a ‘Gavagai’ nelle stesse circostanze in cui egli dà il suo as­ senso a ‘Ecco un coniglio’, e dissentono da ‘Gavagai’ in circo­ stanze in cui anch’egli lo farebbe, probabilmente ‘Ecco un coni­ glio’ è una traduzione possibile di ‘Gavagai’. Ovviamente c’è an­ cora moltissima strada da fare, ed è tutta in salita, visto che il pro­ blema non è solo quello di collegare le parole a porzioni di mon­ do in situazioni di osservazione saliente, ma di collegare le parole ad altre parole in assenza di stimoli provenienti dall’ambiente esterno. L’esperimento è volto a minare le nostre certezze sulla de­ terminatezza dei significati e dei riferimenti delle parole della no­ stra lingua: siamo talmente abituati alla pratica di usare una lin­ gua che anche l’ontologia ingenua che essa suggerisce ci pare ‘ov­ via’. Meno ovvia ma pur sempre intuitiva ci sembra l’idea che i si­ gnificati delle parole siano enti determinati, ancorché astratti e difficili da caratterizzare. Ma, secondo Quine, i significati così concepiti non svolgono alcun ruolo predittivo ed esplicativo. Ciò che possiamo sperare di identificare (pur con un margine notevo­ le di indeterminatezza) è il riferimento dei termini singolari, l’e­ stensione dei predicati, e i connettivi vero-funzionali. Ma il modo in cui il riferimento è dato (conosciuto, determinato, individuato) grazie anche al significato della parola - ciò che Frege (1892) chia­ mava «senso» - è ancora più indeterminato del riferimento. È possibile che manuali di traduzione diversi assegnino referenti di­ versi alle medesime parole della lingua esotica. Purché però le di­ verse traduzioni degli enunciati prodotti dagli indigeni rendano conto delle loro disposizioni all’assenso e al dissenso, la possibilità di più traduzioni tutte ugualmente adeguate non deve allarmarci: c’è chi pesa in libbre, e chi in chilogrammi. Ovviamente l’asse­ gnazione di referenti alle parole va fatta con l’occhio rivolto a tut­ te (o quasi) le possibili occorrenze della parola gavagai, intesa que­ sta volta come termine e non come enunciato, negli enunciati pro­ ducibili nella lingua indigena. Infatti, secondo Quine (1953), è la lingua nel suo complesso, e non l’enunciato singolo, che costituisce l’unità di misura del si­ gnificato. Il significato di una parola non è qualcosa che possiamo

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indagare isolando la parola dal resto della lingua. Quine estende l’ingiunzione di Frege, di considerare il significato di una parola solo nel contesto dell’enunciato in cui ricorre, all’intera lingua cui la parola appartiene. L’olismo del significato è una tesi contro­ versa: fa dipendere sia il significato di una parola sia la compren­ sione che ne abbiamo dall’intera lingua cui essa appartiene. Tut­ to ciò che si può sensatamente sostenere è che non è possibile spiegare il contributo che una parola dà all’enunciato singolo sen­ za dire qualcosa sul contributo che essa può dare agli innumere­ voli enunciati in cui essa può ricorrere. Le spiegazioni ‘induttive’ (in senso logico, non empirico), di cui si nutrono le teorie della ve­ rità costruite secondo il modello della semantica ideata da Alfred Tarski, fanno appunto questo. Il Principio dicomposizionalità pre­ suppone che le parole abbiano già un significato, ben prima della loro occorrenza nel singolo enunciato, e, a prima vista, sembra in conflitto con il Principio del contesto. L’olista, a differenza dell’a­ tomista à la Fodor, per il quale la singola parola ha significato e ri­ ferimento avulsa dal contesto, o del molecolarista à la Dummett, che sostiene che è possibile isolare un frammento di enunciati co­ stitutivo del significato della parola, deve ricavare il significato delle parole dalla costruzione del manuale di traduzione o della teoria dell’interpretazione (cfr. Picardi 1999 e Dell’Utri 2002). Il significato delle singole parole è il punto di arrivo, non quello di partenza, dell’impresa interpretativa. 6. Credenza, significato e analiticità L’argomento principale su cui l’olismo semantico fa leva è che una lingua è un tutto articolato, in cui gli enunciati svolgono funzioni diverse e sono connessi fra loro da legami logici e di supporto in­ duttivo. In questo intreccio è difficile scindere credenza e signifi­ cato. Ad esempio, le note caratteristiche ‘animale’, ‘essere viven­ te’, ‘felino’, ‘di media grandezza’, ‘mammifero’ fanno parte del si­ gnificato della parola ‘gatto’ oppure sono estratte dalle credenze prototipiche o stereotipiche in possesso di coloro che parlano di gatti? Ciò che milita per la seconda alternativa è che non sappia­ mo bene dove termina l’elenco delle note caratteristiche. Se ter­ mina è solo perché noi decidiamo di farlo terminare, non perché

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ci sono ragioni di principio che dicono che e dove deve termina­ re (cfr. Violi 1997). Ciò che milita a favore della prima alternativa è che di colui che negasse che i gatti sono animali saremmo più propensi a dire che non conosce il significato della parola, e non che usa la parola in modo idiosincratico o che ha credenze stra­ vaganti sui gatti. Analogamente, alle prese con uno che applicasse la parola ‘scapolo’ a un amico comune ma negasse che costui è un maschio, oppure che è un adulto o che non è sposato resteremmo assai perplessi, visto che la parola ‘scapolo’ sembra non solo con­ tingentemente ma per definizione dotata dello stesso significato di ‘maschio adulto non sposato’. Se però consideriamo bene la de­ finizione vediamo che essa consente ampia latitudine circa l’ap­ plicazione dei termini ‘maschio’, ‘adulto’ e ‘non sposato’. Nulla ci vieta di immaginare una comunità in cui vale la stessa definizione di scapolo che anche noi adottiamo, ma in cui l’età adulta inizi a dodici anni. In questo caso vi sarebbero divergenze nelle applica­ zioni della parola ‘scapolo’ nelle rispettive lingue, e forse non tra­ durremmo con ‘scapolo’ la parola corrispondente, anche se la de­ finizione è la medesima. Ciò mostra quanto arduo sia scindere l’e­ lemento convenzionale dall’elemento fattuale nel significato com­ plessivo di un enunciato..Possiamo convenire con Quine (1953) che la distinzione analitico/sintetico è una distinzione di grado e non di sostanza e che, nondimeno, è una distinzione che svolge un ruolo importante nella pratica d’uso di una lingua. Infatti possia­ mo basarci solo sulle parole usate dal nostro interlocutore, senza doverci procurare informazioni fattuali, per prevedere a che sor­ ta di inferenze minime l’uso della parola ‘gatto’, in un enunciato come ‘Sono allergico ai gatti’, lo vincola (ad esempio, ‘Se gatto al­ lora felino’, ‘Se gatto allora carnivoro’, ‘Se gatto allora provvisto di artigli’ ecc.). Nel fare queste congetture ci basiamo sia sulle cre­ denze presumibilmente condivise sui gatti sia sulle informazioni enciclopediche che sono per caso in nostro possesso (cfr. Eco 1984 e Marconi 1999). Questa è l’intuizione alla base delle seman­ tiche del ruolo concettuale, che identificano il possesso di un con­ cetto con la capacità di trarre inferenze (materiali e logiche), e, più in generale, con il ruolo che il concetto espresso dalla parola ha nel ragionamento e nella condotta pratica del singolo (cfr. Bran­ dom 1994, 2000 e Marconi 1999). L’impossibilità di tracciare la distinzione analitico/sintetico non è un ostacolo per l’esecuzione

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Filosofia della comunicazione

di questo programma. Quel che importa è se un certo enunciato venga trattato come analitico, non se sia tale. Davidson ha seguito Quine nell’olismo semantico e nel rifiuto della distinzione analitico/sintetico e ha difeso inoltre una conce­ zione individualistica del significato. La teoria dell’interpretazio­ ne radicale ha molti punti in comune con quella della traduzione radicale. Il parlante cooperativo desidera essere interpretabile (farsi capire) e quindi rivolgendosi al suo specifico interlocutore adotterà una teoria embrionale di come l’ascoltatore lo interpre­ terà: il successo comunicativo sarà raggiunto quando l’ascoltato­ re avrà interpretato il parlante nel modo in cui egli desidera esse­ re interpretato rivolgendosi a lui. Secondo Davidson lo scopo del­ la comunicazione è capire l’altro, non afferrare correttamente i si­ gnificati che le parole hanno nella lingua comune. C’è una varietà di casi che possono presentarsi in cui l’ingiunzione di Davidson è ovviamente appropriata: se una persona ci dice che gli hanno tro­ vato molto polistirolo nel sangue, noi correggeremo automaticamente il lapsus e gli attribuiamo la credenza che ha il colesterolo alto, discostandoci dal significato che la parola ‘polistirolo’ ha in italiano. Se uno studente di filosofia usa intercambiabilmente ‘tra­ scendentale’ e ‘trascendente’ proveremo a capire se vuol parlare di condizioni di possibilità dell’esperienza o di. qualcosa che tra­ scende per principio la possibilità di essere esperito. Avanziamo congetture su quale sia l’accezione che egli dà alla parola, e le met­ teremo alla prova per costruire un’interpretazione degli enuncia­ ti in cui usa la parola nel corso dell’esame. Può darsi che questa ‘teoria transitoria’ sia adeguata, nel senso che ci permette di dare una qualche coerenza alla sua esposizione, può darsi invece che lo studente sia confuso e che intenda la parola in un’accezione deci­ samente non filosofica. Ad esempio, quando un conoscente di ri­ torno dalle vacanze ci dice che in fondo il posto dove è stato non è ‘niente di trascendentale’, capiamo al volo che intende dire che non è niente di straordinario. Forse anche il nostro studente in­ tende la parola in questa accezione ‘impropria’. Ma perché poi ‘impropria’? La descrizione giusta della situazione, secondo Da­ vidson, è che lo studente di filosofia che usa la parola ‘trascen­ dentale’ nel senso di ‘straordinario’ non commette alcun errore. Semplicemente nella sua lingua la parola ‘trascendentale’ signifi­ ca ‘straordinario’ (cfr. Davidson 1986). Possiamo bocciarlo all’e-

IL Afferrare pensieri: semantica

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same di filosofia, ma non a quello di italiano. Quel che abbiamo detto per ‘trascendentale’ vale per qualsiasi parola, anche la più umile. E del resto che autorità abbiamo noi per interferire con la lingua (.idioletto) che gli altri usano? La questione è mal posta: non occorre che vi sia un’autorità costituita affinché la distinzione fra giusto e sbagliato abbia un fondamento: quello che Dummett (1991, cap. 4) ha chiamato il «paradosso» del linguaggio è che, benché si tratti di una pratica soggetta a standard di correttezza, non c’è alcuna autorità ultima che li impone dall’esterno. 7. Atteggiamenti proposizionali

Come abbiamo visto, anche coloro che a vario titolo sottolineano il carattere sociale e in questo senso pubblico del significato pos­ sono differire drammaticamente sul carattere condiviso o meno dei significati che ciascun parlante annette alle parole e sull’onto­ logia dei significati (che tipo di enti sono i significati: entità astrat­ te come, ad esempio, i numeri? ruoli concettuali associati alle pa­ role? regole d’uso delle parole? disposizioni ad applicare le paro­ le in certi contesti?). Inoltre ci si può interrogare sull’origine cau­ sale dei significati: che cosa fa sì che la parola ‘camelia’ si riferisca alle camelie, che ‘acqua’ si riferisca ad H2O (con impurità più o meno vistose)? Una risposta semplicistica ma da non sottovaluta­ re è che è il contatto causale con le camelie ad essere responsabi­ le, in ultima istanza, della presenza della parola ‘camelia’ nel no­ stro vocabolario. La parola ‘camelia’ si riferisce alle camelie pro­ prio perché sono state le camelie a causare il contenuto mentale corrispondente. Ma nel nostro vocabolario ci sono anche le paro­ le Leviatano, Faust, Charlie Brown, etere, flogisto, e, del resto, an­ che le camelie finte in circostanze particolari possono causare contenuti mentali ‘come se’ di camelia. E questo come si spiega? Occorre studiare quella parte deUa teoria del riferimento che trat­ ta di entità fittizie, ma non possiamo farlo in questa sede. Il tratto caratteristico della semantica estensionale è che tutto ciò che conta per l’assegnazione di un valore di verità agli enun­ ciati sono gli oggetti e gli insiemi di oggetti cui le espressioni del­ la lingua sono associati e non il modo in cui oggetti e proprietà so­ no specificati, ossia le differenze di senso che intercorrono fra i

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Filosofia della comunicazione

predicati veri degli stessi o fra i nomi propri che designano lo stes­ so oggetto. Neppure il modo in cui è fissato il riferimento di cer­ te espressioni (nomi propri, descrizioni definite, nomi di genere naturale) rientra nell’ambito della semantica formale. La seman­ tica fondazionale, a differenza di quella descrittiva (per usare un’espressione di Stalnaker 1997), si occupa invece proprio di queste questioni: si interroga sulle nozioni di riferimento, neces­ sità, valore conoscitivo, e cerca di capire come le parole funzio­ nano anche in contesti in cui non vale il principio di sostituibilità salva ventate di espressioni codesignative. Benché ‘Giocasta’ e ‘la sposa di Laio’ designino la stessa perso­ na, finché Edipo non sa che Laio è l’unico x tale che x ha generato Edipo (cioè se stesso) e Giocasta l’unica x che ha portato in grem­ bo Edipo (cioè se stesso), non sa di aver ucciso suo padre e giaciu­ to con sua madre. Vera può credere che la Stella del mattino sia un pianeta che ha un periodo di rivoluzione minore di quello della Terra. Però se Vera ignora che la Stella del mattino è identica alla Stella della sera può non credere, senza cadere in contraddizione, che la Stella della sera abbia un periodo di rivoluzione minore di quello della Terra. Frege (1891) descrive la situazione dicendo che abbiamo a che fare con pensieri diversi, che differiscono tra loro non solo tipograficamente (contengono una parte equiforme, il predicato, e una parte non equiforme, i nomi propri), ma perché il senso del nome proprio ‘Stella del mattino’ è diverso da quello del nome proprio ‘Stella della sera’. Qui dobbiamo concepire queste espressioni al pari di nomi propri non strutturati (le paro­ le ‘Espero’ e ‘Fosforo’ sono più idonee), e non come descrizioni definite nel senso di Russell (1905), ossia espressioni del tipo ‘il padre di Edipo’, ‘l’attuale presidente della Repubblica’, ‘il suc­ cessore immediato di 3’, ‘l’autore della Divina commedia'. Vedia­ mo qui all’opera il Principio di composizionalità (meglio, di funzio­ nalità) applicato al meccanismo di valutazione semantica: esso di­ ce che il valore di verità di un enunciato semplice o composto è funzione del valore semantico delle parti costituenti. Tutta la se­ mantica estensionale è fondata su questo principio. Se però l’e­ nunciato p figura in una subordinata retta da un verbo di atteg­ giamento proposizionale, ad esempio ‘Vera crede/sa/si illude/ che p’, e sostituiamo un’espressione che figura in p con un’altra che ha senso diverso ma identico riferimento, non abbiamo alcuna ga­

II. Afferrare pensieri: semantica

ranzia che il valore di verità resti immutato,1 per le ragioni appena illustrate. Abbiamo individuato una classe di contesti intensionali, o comunque non puramente estensionali, che richiede un trat­ tamento semantico a sé stante. Secondo Frege in questi contesti non abbiamo a che fare con il senso e il significato (riferimento) ordinari delle parole, ma con il loro senso e significato (riferimen­ to) indiretti. Così com’è formulata la teoria è insostenibile: le pa­ role non possono cambiare di senso passando da una costruzione sintattica all’altra. Quel che dobbiamo capire è come funzionano i verbi di atteggiamento proposizionale e, soprattutto, come trat­ tare l’enunciato che figura nella costruzione nominalizzata. Frege concepisce i verbi di atteggiamento'proposizionale co­ me indicanti una relazione (credere, sapere, ad esempio) che un soggetto intrattiene con un senso (un pensiero), inteso questa vol­ ta non come un modo in cui il riferimento è dato, ma come un’en­ tità autonoma. E questo è insoddisfacente per vari motivi. Molto spesso le credenze che formiamo sono basate su esperienze per­ cettive e in questi casi non si vede perché si debba concepire la credenza come una relazione fra un soggetto e il senso di un enun­ ciato anziché come una relazione fra un soggetto e gli oggetti su cui verte il suo pensiero. Questa era, ad esempio, l’intuizione di Russell. Russell, a differenza di Frege, concepiva le proposizioni singolari come combinazioni di oggetti e proprietà: è il Monte Bianco con tutte le sue falde di neve che è parte del pensiero sin­ golare che intrattengo quando penso che è alto più di 3000 metri. Per Frege, invece, un pensiero è composto di entità omogenee (sensi) collegate fra loro così come le parole sono collegate nell’e­ nunciato. Per Russell oltre alle proposizioni singolari vi sono quelle ge­ nerali, ad esempio quelle corrispondenti a enunciati che conten­ gono descrizioni definite, la cui funzione non è di presentarci di­ rettamente un oggetto ma di descriverlo come l’unico x che sod­ disfa una certa proprietà, qualunque esso sia e posto che ci sia. Quando affermiamo che il re di Francia è calvo, non stiamo for­ mulando una proposizione singolare bensì una proposizione ge­ nerale, che possiamo rendere dicendo che esiste un x tale che x è un re di Francia, e per qualsiasi y se y è un re di Francia è identi­ co a x, e l’x in questione è calvo. Se la Francia non è una monar­ chia nel momento in cui l’enunciato è prodotto, esso risulta falso,

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e la sua negazione vera (più precisamente: l’enunciato ‘È falso che il re di Francia sia calvo’ è vero, mentre ‘Il re di Francia non è cal­ vo’ è anch’esso falso per la ragione indicata). Le descrizioni, a dif­ ferenza dei nomi propri, hanno un campo d’azione, essendo di fatto quantificatori. Secondo Russell l’affermazione di esistenza fa parte della proposizione che formuliamo, anche se la forma logi­ ca superficiale può indurci a concepire la proposizione generale come avente la forma soggetto-predicato. Frege ha un’intuizione semantica diversa e considera l’esistenza dell’oggetto designato dal termine singolare (nome proprio o descrizione) una presup­ posizione dell’uso del termine. Se questa presupposizione esi­ stenziale non è soddisfatta l’asserzione risultante non è né vera né falsa, o forse non facciamo neppure un’asserzione, ma scivoliamo inavvertitamente nel regno della finzione. Questo era a suo pare­ re un grande difetto delle lingue naturali che un linguaggio for­ malizzato deve evitare. La ricerca del trattamento semantico ade­ guato per le attribuzioni di credenza è lungi dall’essere conclusa: molte trattazioni identificano il contenuto della credenza con una proposizione russelliana unitamente a un modo di presentazione. Il ‘modo di presentazione’ può essere semplicemente costituito dall’espressione tipografica (‘Espero’ differisce tipograficamente da ‘Fosforo’) oppure può essere un modo di pensare l’oggetto, una prospettiva da cui l’oggetto è dato, o anche una descrizione. Ciò che questi trattamenti escludono è che il modo di presenta­ zione fissi o determini il riferimento del nome proprio, che assol­ va cioè a una delle due funzioni che Frege assegnava ad esso. 8. Teorie del riferimento Un assunto della ‘nuova’ teoria del riferimento è che le descrizio­ ni definite funzionano in modo radicalmente diverso dai nomi propri. L’idea alla base della teoria del riferimento diretto avan­ zata da filosofi come Saul Kripke, Hilary Putnam e David Kaplan è il convincimento che vi sia una differenza sostanziale fra questi due casi. Secondo Kripke (1980) quando usiamo il nome proprio ‘Kurt Godei’ vogliamo riferirci a colui che è stato battezzato con questo nome e non a colui che soddisfa la maggior parte delle de­ scrizioni che riteniamo vere di Kurt Godei e che in qualche mo­

II. Afferrare pensieri: semantica

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do associamo (individualmente o collettivamente) al nome ‘Kurt Godei’. Se per caso scoprissimo che è Schmidt ad aver dimostra­ to i celebri teoremi di completezza e incompletezza non diremmo che il nome ‘Godei’ si riferisce a Schmidt o che usando questo no­ me noi intendevamo riferirci a Schimdt. Il nome proprio non esprime un senso fregeano né equivale a una descrizione: o me­ glio, anche ammesso che vi sia qualcosa nell’espressione linguisti­ ca, oltre alla sua forma fisica, che renda conto dei problemi che incontriamo nelle attribuzioni di credenza, questo qualcosa non contribuisce alla fissazione del riferimento. L’intenzione referen­ ziale è ancorata all’oggetto all’origine della catena causale che ini­ zia col battesimo, che spesso, fortunatamente, è anche quello alla base delle informazioni sul portatore del nome, anche se a volte qualcosa va storto. Il nome Madagascar (per usare un esempio di Gareth Evans 1982) originariamente era usato per far riferimen­ to alla terra ferma; però, per un malinteso, esso venne usato come nome della grande isola africana. Oggi chi impiega il nome ‘Ma­ dagascar’ intende far riferimento all’isola e non alla terra ferma antistante. La differenza fra nomi propri e descrizioni è partico­ larmente rilevante nei contesti modali e temporali. Kripke formu­ la le sue concezione del riferimento in contrapposizione a quella che egli chiama la teoria dei nomi propri di Frege-Russell, poiché ritiene (a torto) che per Frege il senso di un nome proprio sia sem­ pre equivalente a quello di qualche descrizione definita. Ma non potrebbe una descrizione definita, così come Russell la intende, essere usata referenzialmente per indicare l’oggetto su cui verte il pensiero senza descriverlo in termini generali? Una ca­ tegoria di espressioni in bilico fra nomi propri in senso stretto (espressioni come ‘Vienna’, ‘Aristotele’, ‘2’, ‘Tevere’) e descrizio­ ni definite come ‘l’unico x tale che... x...’ è costituita dalle descri­ zioni dimostrative incomplete, ossia espressioni come ‘quell’uo­ mo’ impiegate in presenza dell’oggetto, visto magari a grande di­ stanza, sul quale vogliamo attirare l’attenzione del nostro interlo­ cutore per dirne qualcosa, ad esempio ‘Quell’uomo si appoggia al bastone’. Un caso molto discusso nella letteratura è quello che tro­ viamo in un articolo di Donnellan del 1966 (cfr., ad esempio, Picardi 1992, cap. VI) in cui viene tracciata una distinzione fra uso attributivo e uso referenziale di una descrizione definita. L’idea di Donnellan è, grosso modo, che possiamo ottenere un successo re­

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Filosofia della comunicazione

ferenziale, cioè identificare, rivolti a un ascoltatore, la persona o la cosa che abbiamo in mente anche usando una descrizione che non vi si attaglia. Supponiamo che a una festa io voglia attirare la tua attenzione su un distinto signore, percettivamente saliente per entrambi, dicendo ‘Quel tale che sorseggia un Martini è un inge­ gnere’ e supponiamo che l’uomo sia effettivamente un ingegnere ma stia sorseggiando acqua tonica. Se seguissimo l’analisi di Rus­ sell l’enunciato che abbiamo prodotto è falso, poiché la proposi­ zione generale espressa dall’enunciato ‘Esiste uno e un solo x che beve un Martini e x è un ingegnere’ è falsa, in quanto contiene una descrizione impropria. Se per caso a nostra insaputa vi fosse alla festa un uomo che beve un Martini e che è un ingegnere l’enun­ ciato risulterebbe vero, ma non è lui che avevamo in mente. E del resto abbiamo usato un’espressione particolare, ossia ‘quel così e così’, che non è equivalente a ‘il così e così’. Dobbiamo dire che le descrizioni definite sono pragmaticamente ambigue, nel senso che possono svolgere due funzioni che solo il contesto permette di dirimere, o dobbiamo dire che anche la descrizione dimostra­ tiva funziona come Russell sostiene, e dunque che la proposizio­ ne generale espressa è falsa, mentre la proposizione suggerita o in­ timata è vera? Una terza soluzione, discussa nella letteratura re­ cente sull’argomento (cfr. Neale 2001, Carston 2002 e Recanati 2004), è che un enunciato non esprime un’unica proposizione, bensì una serie di istruzioni, oppure che vi è proposizione mini­ ma la quale, a seconda del contesto, può essere completata e dar luogo ora a una proposizione generale ora a una proposizione sin­ golare. Applichiamo queste considerazione a Vera e alla Stella della sera. In certi contesti, quando Vera indicando Venere al tramon­ to dice ‘Quel pianeta è particolarmente luminoso’ non sarebbe sbagliato riportare il contenuto della sua credenza dicendo che Vera crede che il pianeta Venere sia particolarmente luminoso, an­ che se Vera non conosce il nome del pianeta. Infatti è il pianeta in quanto tale che è all’origine della credenza di Vera. Vera sta in­ trattenendo un pensiero singolare di carattere dimostrativo che non potrebbe esistere se l’oggetto non esistesse. Almeno questo saremmo propensi a dire combinando idee di Russell (1905) rela­ tive alla distinzione fra conoscenza diretta {acquaintancè} e cono­

II. Afferrare pensieri: semantica

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scenza per descrizione e la teoria del pensiero di Gareth Evans (1982; cfr, Coliva e Sacchi 2001 e Coliva 2004) In filosofia della mente una distinzione che viene spesso usata in questi contesti è fra concezioni interniste ed esterniste del con­ tenuto mentale: la differenza sta nel ruolo accordato a oggetti, eventi e proprietà presenti nell’ambiente al fine di identificare il contenuto dei nostri pensieri. Lo slogan un po’ provocatorio del­ l’impostazione esternista è stato coniato da Hilary Putnam (1975) e dice che i significati non sono nella testa. Nella testa dei parlan­ ti ci sono al massimo stereotipi (lo stereotipo della tigre, dei limo­ ni e dell’alluminio, qualcosa che svolge un ruolo concettuale nel­ l’economia del ragionamento), che sono un ingrediente minimo di ciò che si presuppone condiviso fra due utenti della stessa lin­ gua (e cultura). Il riferimento di certe parole è anch’esso in qual­ che modo inevitabilmente ‘condiviso’, anche se nessuno, eccetto gli esperti, quando ci sono, sa specificare la struttura nascosta del­ le sostanze chimiche o delle specie biologiche. L’idea su cui si ba­ sa l’esternismo è che per capire qual è il contenuto del pensiero di Vera quando dice ‘L’acqua è una risorsa che scarseggia’ dobbia­ mo tener conto non solo del modo in cui qualitativamente Vera identifica l’acqua o del suo stereotipo dell’acqua (limpida, inco­ lore, inodore, dissetante ecc.) ma della struttura nascosta dell’ac­ qua, che qualche secolo addietro i chimici hanno scoperto. Il no­ stro uso delle parole di genere naturale (che designano, cioè, ani­ mali, vegetali o minerali, ma non artefatti come sedie e automobi­ li) contiene un indice tacito che àncora le nostre parole all’am­ biente circostante, a ciò che è acqua nel mondo attuale. Anche Aristotele impiegava tacitamente questo indice ed è per questo che possiamo dire che noi e Aristotele parliamo della stessa cosa, anche se egli usando la parola greca corrispondente ad ‘acqua’ pensava di riferirsi a un elemento anziché a un composto. Questa componente indicale che accompagna l’uso di termini di genere naturale, unitamente all’ipotesi della divisione del lavoro lingui­ stico, l’idea cioè che qualunque lingua contiene parole che si rife­ riscono a sostanze la cui natura specifica è nota solo agli esperti, spiega in che senso il significato non è nella testa: in parte perché è determinato dalla natura (da come le cose sono in se stesse) con cui interagiamo causalmente per il semplice fatto di condividere un ecosistema, e in parte perché nell’usare la parola deferiamo agli

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Filosofia della comunicazione

esperti, i quali, ove se ne presenti il bisogno, sanno distinguere l’o­ ro vero dall’oro matto. Il tutto è riassunto nello slogan che il rife­ rimento dei termini di genere naturale non sopravviene al conte­ nuto mentale, a ciò che passa per la testa di coloro che usano le parole, e quindi introduce un elemento relazionale che non sa­ rebbe desumibile dagli stati psicologici del soggetto. Spesso que­ sta tesi è presentata in una versione modale, in cui si suppone che vi sia una Terra Gemella in cui tutto è identico alla nostra Terra, nostre controfigure comprese, e in cui tuttavia la formula chimi­ ca dell’acqua non è H2O. Come dobbiamo descrivere la situazio­ ne: dobbiamo dire che su Terra Gemella non c’è acqua oppure che su Terra Gemella l’acqua è XYZ? Secondo Putnam la prima risposta è quella che più si accorda con le nostre intuizioni mo­ dali: un mondo in cui l’acqua non è H2O non è un mondo meta­ fisicamente accessibile. Tuttavia per ciò che concerne quel che av­ viene ‘nella testa’ e che incide sul comportamento non c’è nessu­ na differenza fra noi e le nostre controfigure gemelliane, poiché, per ipotesi, solo l’analisi chimica è in grado di appurare la diffe­ renza di sostanza. Su Terra Gemella il ruolo concettuale che la pa­ rola ‘acqua’ ha nell’economia psicologica della nostra controfigu­ ra è indistinguibile da quello che essa ha per noi. I sostenitori del­ la posizione ‘internista’ affermano che tutto ciò che non ha rile­ vanza cognitiva e motivazionale non ha diritto di cittadinanza nel­ la specificazione del contenuto mentale. Burge (1979) ha applica­ to considerazioni simili a quelle di Putnam a parole come ‘artri­ te’: anche chi, come la stragrande maggioranza dei parlanti, ha una comprensione imperfetta o parziale di questo termine intrat­ tiene credenze il cui contenuto è identificabile su base sociale, cioè sulla base del significato socialmente stabilito della parola ‘artri­ te’ nella comunità d’appartenenza del parlante. La visione della conoscenza del significato, e, indirettamente, dei contenuti della nostra mente che le concezioni esterniste sug­ geriscono, ha risvolti inquietanti. E come se nel parlare imperso­ nassimo il più delle volte la parte di coloro che leggono i notizia­ ri senza avere la più pallida idea di ciò di cui parlano. Qualcuno, all’origine (che è sempre inventata), ha pensato il contenuto espresso degli enunciati del notiziario, altri avranno fatto indagini per accertarne la verità, altri ancora avranno fatto un raffronto fra i risultati ottenuti e quelli già in loro possesso, ecc. E possibile che

II. Afferrare pensieri: semantica

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soltanto un gruppo di esperti conosca il contenuto di ciò che pen­ sa e tutti gli altri pensino per procura, deferenti verso la superio­ re autorità degli esperti nel determinare il riferimento (e dunque il significato) delle parole? E possibile pensare per procura? Na­ turalmente. Il modello tristemente attuale dell’indottrinamento e del lavaggio del cervello funziona proprio così. Eric Blair (alias George Orwell) aveva visto giusto. La differenza è che mentre nel mondo immaginato da Orwell vengono inculcate credenze false e tendenziose e soppresse quelle vere, nel mondo immaginato dai teorici delTesternismo semantico le credenze rilevanti sono vere e ottenute in modo affidabile da un gruppo di esperti. Ma noi come facciamo a sapere in quale dei due mondi vivia­ mo? Non lo sappiamo. A quanto pare, per non perdere il mondo abbiamo perso la testa.

III.

Capire e farsi capire: pragmatica di Claudia Bianchi

1. Azzardi della comunicazione

Al bar, sorseggiamo un caffè. Ascoltiamo distrattamente la con­ versazione di due amici al tavolo vicino: Lei: «Beh?» Lui: «È finita». Ora siamo a casa; sorseggiamo un caffè e distrattamente guar­ diamo in tv la nostra soap opera preferita. Due amici conversano al tavolo di un bar: Lei: «Come è andato l’incontro di ieri di Ridge con Brooke, sua promessa sposa ma incinta di suo fratello Nick?» Lui: «Brooke ha deciso che non sposa più Ridge, e sta pen­ sando seriamente di sposare Nick. La loro relazione è finita». Certo, nel secondo caso ci è più facile capire che cosa si stiano dicendo i due interlocutori: ma perché il dialogo ci sembra così artificioso? La ragione è che la comunicazione (quella reale) è ge­ neralmente un’impresa assai rischiosa, che conduciamo in stretta collaborazione con i nostri interlocutori e che, malgrado l’appa­ renza di estrema facilità, richiede una complicità e un’attività di coordinazione straordinarie. Le soap non corrono grandi rischi. Il telespettatore più infedele è sempre messo nelle condizioni di ri­ trovare il filo della vicenda, al prezzo di dialoghi estenuanti: ripe­ titivi, ridondanti, innaturalmente espliciti (oltre che, certo, deli­ ziosamente kitsch). Quando parliamo ci guardiamo bene dallo specificare tutto. Quello che diciamo è spesso incompleto, ellittico, a volte oscuro o ambiguo, ricco di deittici (espressioni come ‘questo’ o ‘quello’,

III. Capire e farsi capire: pragmatica

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o ‘lui’ e ‘lei’, con cui facciamo riferimento a un’estrema varietà di oggetti), quasi sempre accompagnato da gesti, sguardi, pause e in­ tonazioni che chiariscono le nostre parole; quello che comuni­ chiamo è in larga misura implicito. Eppure anche le conversazio­ ni di tutti i giorni sono rette da meccanismi, regolarità, strategie comunicative, sistemi di aspettative che soccorrono il povero spettatore privo del riassunto delle puntate precedenti che noi tutti siamo in molte delle nostre interazioni linguistiche quotidia­ ne. La pragmatica è quella parte dello studio generale del lin­ guaggio che si occupa di svelare i meccanismi comunicativi, di portare alla luce regolarità e strategie, di analizzare i complessi si­ stemi di aspettative che rendono possibile la comunicazione. Per cominciare cercheremo di mettere in discussione la con­ cezione tradizionale della comunicazione come processo di codi­ fica e decodifica di messaggi, e suggeriremo che essa è invece es­ senzialmente espressione e riconoscimento di intenzioni. A quello tradizionale opporremo un modello alternativo di comunicazione che, spostando l’attenzione sull’uso del linguaggio in concrete si­ tuazioni comunicative, piuttosto che sulle sue proprietà astratte e formali, ne sottolinea la pluralità di dimensioni. Innanzitutto la di­ mensione sociale. Verrà evidenziata la varietà degli usi discorsivi delle frasi dei linguaggi naturali: affermazioni, ordini, domande, richieste, promesse, divieti, e così via. In tale prospettiva parlare significa agire: ogni frase serve a compiere un atto regolato da con­ suetudini sociali più o meno complesse, e a volte perfino da nor­ me di carattere istituzionale. Accanto alla dimensione sociale del linguaggio, ne verrà messa in luce la dimensione inferenziale. La produzione e la comprensione linguistica fanno appello a cono­ scenze che non sono meramente linguistiche: chi parla, al fine di farsi comprendere, e chi ascolta, al fine di comprendere, sfrutta informazioni derivate dall’ambiente fisico, dalla conversazione sin lì svolta, ma anche da quell’insieme di conoscenze, ipotesi, cre­ denze, pregiudizi, aspettative che ciascuno condivide con i propri interlocutori. Tali informazioni costituiscono le premesse di pro­ cessi inferenziali, in cui i soggetti utilizzano capacità razionali ge­ nerali, non specifiche al linguaggio, e presuppongono la raziona­ lità dei loro interlocutori. Infine la dimensione cognitiva. La que­ stione dell’interpretazione del comportamento linguistico dei no­ stri interlocutori si lega indissolubilmente a quella deU’interpre­

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Filosofia della comunicazione

tazione del loro comportamento in generale, dei modi in cui ef­ fettivamente otteniamo, processiamo, organizziamo e trasmettia­ mo l’informazione, e in ultima analisi dei modi in cui costruiamo e modifichiamo la nostra rappresentazione del mondo. Verranno indicate le direzioni di ricerca più stimolanti e originali verso le quali si muove una disciplina che intreccia sempre più il proprio cammino con la psicologia, le scienze cognitive e i modelli di rap­ presentazione e di elaborazione dell’informazione. In chiusura, ci soffermeremo brevemente sulla sottodeterminazione del contenu­ to esplicito della comunicazione: i fenomeni di dipendenza conte­ stuale sembrano presenti anche al livello di ciò che è espresso let­ teralmente da un enunciato. Verranno presentate due concezioni alternative: la prospettiva ‘letteralista’ e la prospettiva ‘contestualista’. Dall’esame critico delle posizioni in gioco emergerà un pun­ to di vista inedito sulla comunicazione - concepita ora come un processo di collaborazione. Il parlante sfrutta uno sfondo di infor­ mazioni condivise con il destinatario, di cui la conoscenza delle re­ gole del linguaggio (la conoscenza del codice) costituisce solo una parte, solo un insieme di indizi che si pone sullo stesso piano de­ gli elementi contestuali: l’elemento chiave per la comunicazione verrà individuato nella coordinazione fra interlocutori.

2. Codice, intenzioni, inferenze: parole e parlanti

La comunicazione viene tradizionalmente concepita come un processo che mette in gioco due dispositivi di trattamento del­ l’informazione: il meccanismo di emissione modifica l’ambiente fisico del meccanismo di ricezione per far sì che quest’ultimo co­ struisca rappresentazioni simili a quelle immagazzinate dal primo meccanismo. In particolare, nella comunicazione verbale, il par­ lante P apporta delle modifiche all’ambiente acustico del destina­ tario D - in modo che D formi pensieri o rappresentazioni men­ tali simili a quelli di P. Ma in che modo uno stimolo fisico, che non ha alcuna somiglianza con la rappresentazione mentale di P, può provocare la somiglianza delle rappresentazioni di P e D? La ri­ sposta tradizionale - da Aristotele (che la concepiva per la comu­ nicazione orale) ai semiotici contemporanei (che l’hanno estesa a ogni forma di comunicazione) - è il cosiddetto modello del codi­

III. Capire è farsi capire: pragmatica

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ce: la comunicazione consiste nella codifica e decodifica di mes­ saggi. È perché due soggetti condividono un medesimo codice che essi possono comunicare, stabilendo una corrispondenza fra messaggi interni al soggetto (pensieri o rappresentazioni mentali) e segnali esterni (ad esempio le frasi di una lingua). Gli enunciati di una lingua corrispondono ai segnali esterni: le parole permet­ tono a P di rendere il proprio pensiero accessibile agli altri. In queste pagine vedremo che gli studiosi di pragmatica si op­ pongono al modello del codice. Sosterremo che la rappresenta­ zione semantica di una frase (la sua codifica) spesso non coincide affatto con i pensieri che possono essere espressi proferendo quel­ la frase: il significato convenzionale delle frasi utilizzate da un par­ lante determina in modo solo incompleto ciò che il parlante può dire con quelle frasi in concrete situazioni comunicative. Vediamo meglio in che senso. La semantica viene tradizionalmente concepita come lo studio del significato convenzionale delle espressioni e delle frasi di una lingua - del loro significato a prescindere dalle circostanze in cui esse sono utilizzate da parlanti specifici. In quest’ottica le teorie semantiche sono fondate su tre tesi:

a. il significato delle frasi di una lingua è determinato comple­ tamente dalle regole sintattiche e dalle convenzioni semantiche della lingua; b. le frasi hanno la funzione di rappresentare stati di cose del mondo; c. il significato convenzionale di una frase è dato dall’insieme di condizioni di verità della frase - le condizioni che il mondo de­ ve soddisfare perché la frase ne costituisca una descrizione ap­ propriata, e sia vera. Conoscere il significato di una frase significa allora sapere co­ me deve essere fatto il mondo perché la frase sia vera, sapere in quali casi essa descrive correttamente il mondo, e in quali casi no. E tuttavia, contrariamente a quanto sostiene la tesi a, la sola co­ noscenza delle convenzioni semantiche di una lingua non è suffi­ ciente a determinare qual è lo stato di cose rappresentato da una frase: il contenuto proposizionale di una frase (il pensiero espres­

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so da una frase ben formata dell’italiano, le sue condizioni di ve­ rità) non sempre è fissato completamente e univocamente dalle convenzioni semantiche. Anche la tesi secondo cui le frasi di una lingua hanno la sola funzione di descrivere stati di cose (la tesi b) non è plausibile: una volta completato e disambiguato il contenu­ to proposizionale di una frase, le convenzioni semantiche non fis­ sano il tipo di atto linguistico che il parlante può compiere profe­ rendo quella frase. Mostreremo che le obiezioni alle tesi fondanti a e b fanno emergere la necessità di un’integrazione della compe­ tenza semantica con quella pragmatica, delle conoscenze lingui­ stiche con quelle enciclopediche, o contestuali. Esaminiamo qualche esempio che sembra avvalorare le criti­ che alla tesi a. Abbiamo affermato che, per determinare ciò che viene detto da un parlante P, per stabilire cioè a quale stato del mondo P faccia riferimento, è necessario completare in vario mo­ do il contenuto delle espressioni utilizzate da P. Bisogna innanzi­ tutto fissare il riferimento di espressioni indicali e dimostrative, come in (1) Questo è mio (a quale oggetto si riferisce P con l’espressione ‘questo’?). È ne­ cessario poi risolvere l’ambiguità di espressioni omonime, come in (2) Troppo calcio fa male alla salute (P sta parlando di sport o di dieta?); e ancora si deve assegnare l’interpretazione appropriata a espressioni polisemiche come in (3) Adoro Umberto Eco (P si riferisce all’individuo o alle sue opere?); infine è spesso op­ portuno restringere il dominio dei quantificatori: in (4) È un locale alla moda: ci vanno tutti, P, con il quantificatore ‘tutti’, sta evidentemente facendo riferi­ mento alla totalità non degli esseri umani ma degli individui ap­ partenenti a un gruppo determinato contestualmente. Ci sono poi casi più complessi, come i fenomeni di bridging-. in (5) Ho comprato una macchina usata. I sedili sono sfondati, ciò che è detto deve essere arricchito con l’informazione che i se­ dili della macchina che ho comprato sono sfondati - informazione che non viene letteralmente espressa da (5); o i casi di transfert, come (6) L’ulcera è stata dimessa ? in cui bisogna determinare contestualmente il riferimento dell’e­

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spressione ‘l’ulcera’ (il paziente o la malattia?). E infine quanto detto letteralmente con l’enunciato (7) Vorrei del caffè proferito in un bar deve essere integrato con l’informazione che P ha espresso il desiderio di una sostanza liquida e non in grani (na­ turalmente le cose andrebbero altrimenti se P avesse proferito (7) in ùna torrefazione), non gelida (ma d’estate l’interpretazione po­ trebbe essere differente) bensì calda (ma non con una temperatu­ ra prossima al punto di fusione), posta in un contenitore e non versata sul bancone, in quantità ragionevole (non una goccia ma nemmeno tre litri) e dopo un tempo altrettanto ragionevole (pre­ feribilmente non dopo tre giorni). Sintassi e semantica, da sole, non permettono di determinare le condizioni di verità di (l)-(7): la conoscenza del significato (o dei significati) delle parole conte­ nute nelle frasi esaminate e dei modi in cui esse sono combinate non è sufficiente per individuare quale stato di cose il parlante stia descrivendo. E necessario possedere conoscenze che riguardano il mondo, e non il linguaggio - conoscenze enciclopediche (o pragmatiche) e non semantiche o sintattiche. Passiamo ora ad esempi che costituiscono un’obiezione alla te­ si b. Supponiamo di aver determinato e opportunamente com­ pletato o arricchito il contenuto espresso da un certo enunciato: sarà ancora necessario stabilire quale atto linguistico ha compiu­ to il parlante che si è servito di quell’enunciato. Non tutti gli enun­ ciati, infatti, vengono usati per descrivere stati del mondo: per fa­ re solo un esempio, (8) La porta è aperta può sì essere una semplice asserzione, ma in circostanze particola­ ri verrà utilizzato come richiesta (di chiudere la porta), come invi­ to (a entrare o a uscire), come sfida (ad andarsene oppure a resta­ re), come avvertimento (qualcuno potrebbe sentire), come pro­ messa (di accogliere l’interlocutore in ogni momento), e così via. E anche una volta fissato il contenuto esplicito dell’enunciato, e l’atto linguistico compiuto dal parlante, è spesso necessario de­ terminare ciò che il parlante intende comunicare implicitamente usando quell’enunciato. Dobbiamo ad esempio stabilire se P, pro­ ferendo (9) Giovanni è solo un bambino, stia facendo un’affermazione letterale (Giovanni ha sette anni) o

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metaforica (Giovanni si comporta in modo infantile); o determi­ nare che cosa P ci voglia dire proferendo, di fronte al nostro nuo­ vo gatto, (10) E un siamese! Il significato convenzionale di una frase spesso non coincide con i pensieri che un parlante può esprimere esplicitamente pro­ ferendo quella frase, né tantomeno comunicare implicitamente: in contesti opportuni, usando (10) un parlante può comunicare tan­ to il pensiero ‘Adoro il tuo gatto’ quanto il pensiero ‘Detesto il tuo gatto’ (per un approfondimento delle obiezioni alle tesi aeb, cfr. Bianchi 2003). Sono allora i parlanti a comunicare, e non le parole. Contro le tesi a e b, non sono le frasi a rappresentare stati di cose, ma i par­ lanti a servirsi di enunciati (frasi proferite in contesti determinati) per compiere uno dei tanti atti linguistici a nostra disposizione: as­ serire, ordinare, domandare, avvertire, invitare, promettere, e co­ sì via. È questo che rende la comunicazione un’impresa rischiosa: non si tratta, o non si tratta solo, di decifrare messaggi codificati completamente in un sistema di segni condiviso come una lingua naturale (l’italiano, nel nòstro caso). Nelle pagine che seguono, la comunicazione verrà caratterizzata piuttosto come espressione e riconoscimento di intenzioni: per usare una metafora paradossa­ le entrata recentemente in voga, comunicare coinvolge un’attività di lettura del pensiero. Naturalmente non possiamo individuare direttamente le intenzioni comunicative dei nostri interlocutori non possiamo letteralmente ‘leggere nel pensiero’ di chi parla; e tuttavia possiamo riconoscere tali intenzioni grazie a fattori ester­ ni, come le parole e i gesti, e il contesto in cui si svolge la conver­ sazione. Anticipiamo la tesi generale qui difesa analizzando esempi contenenti espressioni dimostrative (‘questo’, ‘quello’, ‘quel gat­ to’). Come accennato, si tratta di espressioni che hanno un riferi­ mento solo in un dato contesto, e con le quali un parlante può ri­ ferirsi a oggetti diversi in contesti diversi. Scegliamo questo tipo di esempi perché la connessione fra espressione e referente è par­ ticolarmente evidente nel caso dei dimostrativi, pubblica, accessi­ bile alle nostre intuizioni. Per assicurarsi che il destinatario rico­ nosca l’intenzione (referenziale) associata all’espressione dimo­ strativa, il parlante si fonda su tre tipi di informazione condivisa.

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1. In primo luogo, il contesto extralinguistico più immediato, l’ambiente fìsico accessibile a parlante e destinatario. Il parlante può utilizzare con successo l’espressione ‘quel gatto’ (che può fa­ re riferimento a uno qualsiasi dei gatti presenti nel contesto di proferimento) se compie un gesto di indicazione in direzione del gatto ‘inteso’, oppure se c’è un solo gatto nel contesto, o se c’è un solo gatto in mezzo a decine di cani, o anche se ci sono più gatti, ma un solo gatto che si renda in vario modo saliente nel contesto dato (miagolando, arrampicandosi sulle tende, affondando i den­ ti nel pollo allo spiedo che abbiamo appena comprato). 2. Il secondo tipo di informazione condivisa è costituito dal contesto linguistico, sia esso il resto dell’enunciato o la conversa­ zione precedente. Se ad esempio nella conversazione immediata­ mente precedente è stato menzionato un certo gatto, un uso di­ mostrativo successivo di ‘quel gatto’ senza ulteriori precisazioni (e cioè non accompagnato da gesti o occhiate), e anche in presenza di più gatti (di cui nessuno per altri versi saliente), farebbe riferi­ mento in modo naturale al gatto precedentemente menzionato. Naturalmente è possibile proporre casi più sofisticati, con riferi­ mento non solo a oggetti esplicitamente menzionati, ma anche a oggetti presupposti, come nell’enunciato (1.1) Il pollo che ho appena comprato è scomparso. Quel gat­ to me la pagherà. 3. Il terzo tipo di informazione che può fondare il riferimento dimostrativo, infine, è dato dalle conoscenze che si assumono condivise fra interlocutori sulla base dell’appartenenza a una cer­ ta comunità, o sotto-comunità. Particolare interesse ha la sotto­ comunità costituita dai soli parlante e destinatario: si pensi al­ l’immensa quantità di informazioni che due amici possono consi­ derare condivise, e che possono fornire la base al riconoscimento dell’intenzione referenziale da parte del destinatario (D sa che P adora i gatti siamesi, oppure che li detesta, ecc.). Una certa intenzione comunicativa è riconoscibile da parte del destinatario solo se è ‘ragionevole e non arbitraria’, cioè quando il parlante la accompagna con azioni appropriate che la rendano manifesta (cfr. Roberts 1993 e 1997). La tesi è uno sviluppo di al­ cune idee di Keith Donnellan (cfr. Donnellan 1968): le intenzioni di un soggetto sono limitate dalle sue aspettative, a loro volta li­

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mitate da pratiche in vigore, da particolari convenzioni e dalle no­ stre conoscenze sul mondo e su noi stessi (un soggetto razionale non può, per fare un esempio, sbattere le braccia con l’intenzione di volare, dal momento che egli non può aspettarsi ragionevol­ mente che il fatto di sbattere le braccia lo porti a volare). L’inten­ zione di P di riferirsi a un certo oggetto con l’espressione ‘quel gatto’ è limitata da quanto P può ragionevolmente aspettarsi da D - e dunque dal comportamento, verbale e non, adottato da P in un particolare contesto. Se ci capiamo è perché condividiamo tanto. Un linguaggio, certo. Ma anche l’ambiente fisico in cui hanno luogo i nostri scam­ bi comunicativi, gli scambi precedenti e l’appartenenza a una stes­ sa comunità, o a uno stesso gruppo. In altre parole, le nostre in­ tenzioni comunicative hanno limiti forniti dalle aspettative che possiamo ragionevolmente intrattenere sulla capacità dei nostri interlocutori di riconoscerle in base alle nostre parole, i nostri ge­ sti e il contesto. Il ruolo del contesto è allora proprio quello di re­ stringere le possibilità comunicative di un messaggio, cioè in so­ stanza quello di ridurre i rischi della comunicazione. 3. Dimensione sociale della comunicazione Torniamo alle critiche alla tesi b. È John L. Austin a sottolineare il fatto che non sempre usiamo i nostri enunciati per descrivere stati del mondo: dire è sempre anche fare, gli enunciati ci servono per compiere atti linguistici di vario tipo, governati da consuetu­ dini o regole sociali, e a volte anche da norme di carattere giuri­ dico. La funzione delle nostre frasi non è semplicemente cogniti­ va, ma anche sociale e istituzionale: con le parole possiamo asse­ rire qualcosa di vero o di falso, ma anche promettere, minacciare o supplicare, e persino sposarci, battezzare, dichiarare guerra (cfr. Austin 1962). Ogni volta che proferisce un enunciato, un parlante compie un atto linguistico che può essere descritto almeno sotto tre aspetti: atto locutorio, illocutorio e perlocutorio. L’atto locutorio corri­ sponde agli aspetti per cui parlare è dire qualcosa, al proferimen­ to di un’espressione ben formata sintatticamente e dotata di si­ gnificato, oggetto di studio da parte di sintassi e semantica. E tut­ tavia, anche una volta determinato l’atto locutorio compiuto dal

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parlante, e pertanto individuati senso e riferimento dei termini coinvolti in (8) (il termine ‘porta’, la proprietà ‘essere aperto’), re­ sta da stabilire in che modo viene usato l’enunciato, come deve es­ sere interpretato. Capita che i parlanti usino (8) per formulare una semplice asserzione, una pura e disinteressata descrizione di uno stato di cose; ma il più delle volte se ne servono per compiere una variegata quantità di altri atti linguistici. L’atto illocutorio corri­ sponde al compimento di una fra le azioni che è convenzional­ mente possibile compiere nel dire qualcosa, a ciò che P fa profe­ rendo (8): sta affermando che la porta è aperta o ci sta avverten­ do del fatto che la porta è aperta, sta impartendo un ordine (di chiuderla, di lasciarla aperta), o formulando un invito (a entrare o a uscire), oppure facendo una promessa (ad esempio di disponi­ bilità futura)? L’atto perlocutorio corrisponde infine alla produ­ zione, intenzionale o meno, di effetti, alle conseguenze non con­ venzionali e non sempre prevedibili dell’atto illocutorio. P può usare (8) come un ordine di chiudere la porta, è ottenerne come conseguenza l’effetto di farla chiudere; ma in altre circostanze, con destinatari meno malleabili, l’effetto non sarà ottenuto. È im­ portante sottolineare il punto centrale della concezione austiniana, e cioè che anche le asserzioni sono atti linguistici dotati di tut­ ti e tre i livelli esaminati: la funzione assertoria e il concetto di ve­ rità cessano di avere un ruolo centrale nel linguaggio. Austin afferma che l’atto illocutorio corrisponde agli aspetti convenzionali di un atto linguistico: la sua idea è chele regole del linguaggio associano in modo convenzionale a una certa formula­ zione una certa forza illocutoria. Questo sembra plausibile quan­ do si tratta di atti sociali governati da procedure convenzionali, come presentare qualcuno (‘Le presento il professor Austin’), o aprire una seduta (‘Dichiaro aperta la seduta’); oppure quando l’atto illocutorio è parte di un’attività retta, e a volte costituita, da un insieme fissato di regole, come contrare a bridge (dire ‘Contre’); o ancora quando pensiamo ad atti compiuti nell’ambito di istituzioni sociali con valore giuridico, come celebrare un matri­ monio (‘Vi dichiaro marito e moglie’), battezzare bambini o navi (l’enunciato ‘Battezzo questa nave Queen Elisabeth’), condanna­ re (‘Condanno l’imputato a due anni con la condizionale’), e così via. Tuttavia la tesi della convenzionalità dell’atto illocutorio non sembra avere validità generale: nulla di convenzionale fa di (8) un

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invito o un ordine - sono le circostanze in cui (8) è stato proferi­ to a dare all’enunciato la valenza illocutoria che ha, Austin am­ mette che la forza illocutoria è quel livello convenzionale per cui un atto diventa valido, o entra in vigore, se ratificato dall’interlo­ cutore: perché sia eseguito con successo, un ordine deve essere ri­ conosciuto come tale dal destinatario. In quel che segue vedremo che Paul Grice svilupperà questa intuizione, e ne farà la base di un progetto semantico alternativo a quello tradizionale: compie­ re un atto linguistico significa manifestare pubblicamente un’in­ tenzione; l’atto ha successo quando tale intenzione viene ricono­ sciuta (cfr. Recanati 1981).

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È dunque Grice il primo a proporre esplicitamente un program­ ma di riduzione della nozione di significato a quella di intenzio­ ne: quando proferisce un enunciato un parlante compie un atto comunicativo in quanto manifesta pubblicamente un’intenzione, e l’atto ha successo se tale intenzione comunicativa viene ricono­ sciuta dal destinatario del proferimento (cfr. Grice 1957). Cen­ trale in tale progetto è la distinzione fra significato dell’espressio­ ne (il significato che un’espressione ha convenzionalmente, o let­ teralmente) e significato del parlante (il significato con cui il par­ lante usa l’espressione). Il significato del parlante corrisponde a quello che il parlante vuole dire, a ciò che intende comunicare al proprio interlocutore, e deve essere spiegato nei termini degli sta­ ti mentali del parlante. Il punto innovativo della teoria griceana è di aver suggerito che la comunicazione può essere caratterizzata essenzialmente come riconoscimento di intenzioni: la comunicazione è possibile ogni­ qualvolta esiste un mezzo di far riconoscere le proprie intenzioni comunicative all’interlocutore (cfr. Sperber e Wilson 1986). Il vo­ ler dire - o significato - del parlante diventa allora il punto di par­ tenza di una vera e propria teoria del significato: ‘Il parlante P vuole dire o significa qualcosa mediante l’enunciato E’ equivale a ‘P ha l’intenzione che il proferimento di E produca un certo ef­ fetto nel destinatario grazie al riconoscimento di questa stessa in­ tenzione’. Sono pertanto in gioco due intenzioni: l’intenzione

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informativa di produrre in D la credenza che p, usando E; e l’in­ tenzione comunicativa che D riconosca che E è stato prodotto con l’intenzione precedente. È parte della comunicazione che D rico­ nosca l’intenzione informativa di P. L’intenzione informativa (di primo livello) può infatti essere soddisfatta anche senza soddisfa­ re l’intenzione di secondo livello. Facciamo un esempio di com­ portamento non verbale. Con il nostro comportamento possiamo informare gli altri, a volte anche senza averne l’intenzione. Se dia­ mo da mangiare al gatto - e D, nascosto in cucina, ci vede - D giungerà a credere la proposizione p: ‘Oggi il gatto ha mangiato’ anche senza che noi si abbia l’intenzione di informarlo di alcun­ ché. Se però diamo da mangiare al gatto e siamo consapevoli del fatto che D, pur nascosto in cucina, ci vede (anche se D non sa che noi lo sappiamo), allora stiamo informando intenzionalmente D di p. In questo secondo caso, per Grice, non stiamo ancora comuni­ cando p: è solo quando manifestiamo apertamente l’intenzione informativa (quando informiamo D del fatto che lo vogliamo informare) che si può parlare di comunicazione. Se, dando da mangiare al gatto, ci assicuriamo non solo del fatto che D ci veda, ma anche del fatto che D veda che noi lo vediamo (magari solo scambiando con lui uno sguardo) allora entriamo nel vero e pro­ prio comportamento comunicativo (l’esempio è adattato da Sperber 2000). E quello che succede tipicamente (ma, abbiamo visto, non esclusivamente) nella comunicazione verbale. Proferendo ad esempio (12) Oggi il gatto ha mangiato, non vogliamo solo produrre in D la credenza p; vogliamo anche produrla perché D ha riconosciuto la nostra intenzione di pro­ durla. Analoga analisi può essere proposta per gli atti linguistici, e in particolare per l’atto illocutorio. In gioco non c’è solo l’intenzio­ ne di produrre un certo effetto o risposta nel destinatario del pro­ ferimento (non c’è solo l’intenzione di impartire un ordine, ad esempio), ma anche l’intenzione di secondo livello di produrre ta­ le effetto per mezzo del riconoscimento da parte del destinatario dell’intenzione di produrla. Anche in questo caso il parlante deve rendere manifeste le proprie intenzioni: può, fra l’altro, usare mezzi convenzionali linguistici - così come suggeriva Austin - co­ me l’uso di commenti esplicativi della forza illocutoria (può ag­

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Filosofìa della comunicazione

giungere ‘È un avvertimento’ oppure ‘Questa è una promessa’) o di formule esplicitamente performative (come ‘Ti avverto che’ o ‘Ti prometto di’ o ancora ‘Ti ordino di’). Tali verbi, però, servono «non tanto ad ascrivere un’intenzione al parlante, quanto piutto­ sto a rendere esplicito il tipo di intenzione comunicativa che il par­ lante ha quando parla, il tipo di forza con cui viene proferito l’e­ nunciato» (Strawson 1964, p. 93). Questo modo di concepire il significato consente di chiarire la tesi più celebre di Grice: nelle nostre interazioni comunicative quotidiane spesso comunichiamo (significato del parlante) molto più di quanto non dicano letteralmente o esplicitamente le espres­ sioni che usiamo (significato convenzionale). Grice chiama implicature conversazionaliXe. proposizioni che, in determinati contesti, possono essere comunicate usando un enunciato, senza essere esplicitamente dette - senza essere parte del significato letterale dell’enunciato. Tali proposizioni possono essere comunicate usando un enunciato solo in contesti particolari. Se qualcuno chiede: ‘Vieni al mare oggi?’ e P risponde (13) Devo finire l’articolo, sta dicendo letteralmente di essersi impegnato a terminare un cer­ to lavoro, ma nel dialogo che abbiamo riportato è plausibile sup­ porre che stia comunicando di non poter andare al mare. Diversa sarebbe l’implicatura generata da (13) se la domanda fosse stata: ‘Vieni in università oggi?’. La tesi sottostante all’idea di implicatura è che le nostre interazioni comunicative - anche le più bana­ li, quelle al bar o al supermercato - lungi dall’essere casuali o ar­ bitrarie, sono rette da regole che si impongono ad ogni essere ra­ zionale. Quando agiamo con qualcuno - quando con qualcuno facciamo una passeggiata, trasportiamo oggetti ingombranti, gio­ chiamo a palla, ma anche quando ci sforziamo di capire o di farci capire - dobbiamo coordinarci, cercare di agire in conformità con ciò che il nostro partner di interazione si aspetta ragionevolmente da noi. La comunicazione, in questa prospettiva, viene intesa co­ me uri’impresa razionale di cooperazione-, i nostri scambi verbali so­ no sforzi di collaborazione - con uno scopo e una direzione co­ muni, stabiliti all’inizio della conversazione o negoziati durante lo scambio. Un’impresa retta dal principio di cooperazione-, «il tuo contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio

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in cui avviene, dallo scopo o orientamento accettato dallo scam­ bio linguistico in cui sei impegnato» (Grice 1989, p. 71). Il principio di cooperazione si declina in massime conversazio­ nali, raccolte in quattro gruppi.

• Massime di quantità-, dà un contributo tanto informativo quanto richiesto (per gli scopi accettati dallo scambio linguistico in corso); non dare un contributo più informativo di quanto ri­ chiesto. • Massime di qualità - sintetizzate nella formula ‘Tenta di da­ re un contributo che sia vero’: non affermare ciò che credi essere falso; non affermare ciò per cui non hai prove adeguate. • Massima di relazione-, sii pertinente. • Massime di modo - sintetizzate nella formula ‘Sii perspicuo’: evita di esprimerti con oscurità; evita di essere ambiguo; sii breve; sii ordinato nell’esposizione (cfr. Grice 1989). Non si tratta di norme che ogni partecipante alla conversazio­ ne è tenuto a rispettare, ma di regole che rispecchiano le aspetta­ tive che un soggetto può ragionevolmente intrattenere sulle mos­ se comunicative del suo interlocutore, sempre che ne presuppon­ ga la razionalità. Nessuna conversazione potrebbe svolgersi se i partecipanti non si aspettassero un sostanziale rispetto di massi­ me come queste. Se qualcuno fosse sistematicamente prolisso, o viceversa reticente, si esprimesse costantemente con ambiguità e oscurità, o, peggio, mentisse in modo cronico o ancora parlasse sempre a sproposito, sarebbe difficilmente ritenuto razionale: una violazione sistematica delle massime conversazionali porterebbe a conseguenze disastrose per la comunicazione e più in generale per le nostra vita sociale. Ci aspettiamo quindi che gli altri si confor­ mino in larga misura a principio di cooperazione e massime - op­ pure che, quando li violano, lo facciano in modo aperto e mani­ festo, ‘sfruttando’ le massime allo scopo di ottenere effetti comu­ nicativi particolari. In caso di violazione palese, infatti, il destina­ tario avanza ipotesi che riconducano a comportamento collabo­ rativo mosse conversazionali apparentemente non in consonanza con le massime: l’ipotesi di una vera e propria trasgressione viene generalmente scartata e il comportamento del parlante viene ri­

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costruito in modo da riconciliarlo con il principio di cooperazio­ ne. Consideriamo un paio di esempi particolarmente convincenti di violazione apparente delle massime. L’enunciato (14) Un gatto siamese è un gatto siamese ha potere informativo nullo se restiamo al livello di ciò che viene letteralmente detto. Il proferimento di (14) costituisce pertanto una violazione della prima massima di quantità, che richiede al parlante di dare un contributo informativo alla conversazione cui sta partecipando. Dal momento che la violazione è palese, D, per poter continuare a presupporre un comportamento collaborativo da parte di P, deve supporre che P, usando (14), voglia in realtà comunicare più di quanto non abbia letteralmente detto - e cioè che i gatti siamesi sono esattamente come ci si aspetta che siano: a seconda della conoscenza che si assume condivisa, perfidi e in­ gordi, oppure affettuosi e dolcissimi. Esempio classico di viola­ zione deha massima di qualità è il proferimento di enunciati pale­ semente falsi come (15) Ottima idea! detto di qualcuno che ha appena commesso una sciocchezza: in questo caso D può ipotizzare un’intenzione ironica da parte di P per ricondurne l’apparente insincerità a comportamento collabo­ rativo. Le implicature griceane, più che inferenze logiche vere e pro­ prie, possono essere viste come meccanismi di formazione e con­ ferma di ipotesi. Un proferimento è un’azione che presupponia­ mo dotata di senso: a partire dal dato di un proferimento, D può ricostruire, in contesto, l’intenzione comunicativa di P - avan­ zando ipotesi che gli permettono di passare, attraverso inferenze, da ciò che P ha detto a ciò che P vuole dire, a ciò che P ha l’inten­ zione di comunicare. Le premesse che D deve prendere in consi­ derazione sono di tre tipi: i) innanzitutto l’enunciato stesso, il suo contenuto esplicito e convenzionale; ii) le informazioni derivate dal contesto in qui l’enunciato è stato proferito; iii) e infine l’ipo­ tesi che P rispetti il principio di cooperazione e le massime. I pro­ cessi inferenziali usati da D sono analoghi a quelli all’opera in al­ tri compiti cognitivi, come la percezione o la pianificazione di azioni: molto informali e spesso ellittici, si producono in modo spontaneo, automatico e in larga parte inconscio. Ma il merito di aver analizzato esplicitamente gli effettivi processi mentali coin­

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volti nella comunicazione inferenziale spetta a quella che è la teo­ ria pragmatica della comunicazione più interessante e influente degli ultimi vent’anni: la teoria della pertinenza. 5. Dimensione cognitiva della comunicazione

La teoria della pertinenza (Relevance Theory, il testo di riferi­ mento è Sperber e Wilson 1986; per uno sviluppo recente cfr. Carston 2002) mira all’integrazione di pragmatica e scienze cognitive, con l’obiettivo di dare un’interpretazione unitaria del comporta­ mento umano, linguistico e non. In quest’ottica, essa fa proprio il modello inferenziale griceano, pur sollevando un’obiezione deci­ siva: la teoria di Grice sembra essere in grado di fornire solo de­ scrizioni dei fatti linguistici, e non vere e proprie spiegazioni. Gri­ ce, infatti, non esplicita mai veramente i processi inferenziali al­ l’opera nella generazione delle implicature conversazionali, né suggerisce un modo per isolare, all’interno dell’insieme poten­ zialmente infinito di premesse di un’inferenza, quelle effettiva­ mente usate; e infine non indica come il destinatario selezioni l’implicatura corretta fra le tante che è possibile ogni volta gene­ rare. I teorici della pertinenza si propongono allora di fornire un quadro realmente esplicativo, in cui i processi mentali postulati ri­ spondano a criteri di plausibilità psicologica. Si è detto che il modello del codice concepisce la comunica­ zione come una sorta di ‘duplicazione’ di pensieri dal parlante P al destinatario D - e, di conseguenza, presuppone la possibilità di giungere a una perfetta simmetria fra meccanismo di emissione e meccanismo di ricezione del messaggio. All’interno di questa pro­ spettiva, un processo inferenziale è ammissibile solo se P e D con­ dividono le premesse dell’inferenza, se cioè condividono il conte­ sto'. l’informazione sull’ambiente fisico percepibile da P e D; l’informazione derivata dagli scambi linguistici precedenti; la co­ noscenza enciclopedica che P e D hanno in memoria (ipotesi scientifiche, credenze religiose, previsioni, ricordi, pregiudizi cul­ turali, ipotesi di P sulle credenze di D, e viceversa, eccetera). E però estremamente improbabile che P e D condividano integral­ mente questi tre insiemi di informazioni, in particolare la cono­ scenza enciclopedica. Lo mostrano esempi come (10) o (14), in

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Filosofia della comunicazione

cui la proposizione veicolata da P dipende crucialmente dalle informazioni che P suppone condivise da D. D sa che P adora i siamesi? E P sa che D sa che P adora i siamesi? E D sa che P sa che D sa che P adora i siamesi? (sulla nozione di conoscenza mu­ tua e sui rischi di regresso all’infinito, cfr. Lewis 1969 e Schiffer 1972). La nozione di contesto condiviso, così intesa, cessa rapi­ damente di essere plausibile dal punto di vista psicologico, e spin­ ge ad abbandonare il modello del codice. Sulla scia di Grice, i teorici della pertinenza si propongono pertanto di spiegare la comunicazione in modo indipendente dai processi di codifica (che pure continuano a svolgere un ruolo au­ siliario), secondo un modello pienamente inferenziale. Grice sot­ tolinea come il successo della comunicazione consista non nell’i­ dentificazione, da parte di D, del significato convenzionale delle espressioni utilizzate da P (e quindi non nella ‘decodifica’ del mes­ saggio inviato da P), ma nel riconoscimento del voler dire di P, del­ le sue intenzioni comunicative - anche in assenza di un codice. In un modello inferenziale la comunicazione è produzione e inter­ pretazione non di messaggi codificati, ma di indizi'. P produce un indizio del senso che intende comunicare, un indizio che può es­ sere non verbale (come un gesto, una smorfia, un silenzio, un sor­ riso, e così via) oppure verbale. Un enunciato linguistico è sem­ plicemente un indizio complesso del senso inteso da P (e non una sua codifica). Quando siamo in presenza di un indizio verbale di un enunciato - l’interpretazione avviene in due fasi, grazie a due tipi di processi: da un lato abbiamo i processi linguistici o se­ mantici di decodifica, che trattano la rappresentazione semantica degli enunciati; dall’altro abbiamo i processi pragmatici d’infe­ renza, che forniscono l’interpretazione vera e propria1. L’interesse e la novità della teoria della pertinenza, rispetto al­ la teoria di Grice, risiedono però altrove, nell’esplicitazione dei processi cognitivi che rendono possibile la comunicazione infe­ renziale. Dan Sperber e Deirdre Wilson affermano che la com­

1 L’articolazione di processi semantici e processi pragmatici si attua attra­ verso una teoria della mente di tipo modularista (cfr. Fodor 1983). L’elabora­ zione più recente della teoria della pertinenza fa leva su una tesi modulare ge­ neralizzata, in cui non esiste un sistema centrale, ma solo moduli, percettivi e concettuali.

III. Capire e farsi capire: pragmatica

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prensione inferenziale è resa possibile da una capacità cognitiva propria agli esseri umani, la capacità di metarappresentazione-, gli esseri umani, a differenza degli animali, sono in grado di rappre­ sentarsi mentalmente le rappresentazioni mentali dei loro simili, di attribuir loro credenze, desideri, speranze, paure, ipotesi, con­ vinzioni - stati mentali che ne motivano le azioni. La comunica­ zione umana costituirebbe solo un effetto secondario di tale ca­ pacità, che costituisce il vero tratto distintivo degli umani e con­ sente loro un’interazione raffinata e complessa. In questa pro­ spettiva, quando comunichiamo non codifichiamo pensieri, né duplichiamo i nostri pensieri nel nostro interlocutore, e nemme­ no modifichiamo i suoi pensieri: quello che facciamo è modifica­ re in modo intenzionale il contesto dei nostri interlocutori, il loro ambiente cognitivo e, in particolare, l’insieme di ipotesi che sono manifeste a noi e a loro - allo scopo di permetter loro di leggerci nel pensiero (cfr., ad esempio, Sperber e Wilson 2002). D inferi­ sce il significato inteso da P a partire dall’evidenza prodotta da P a questo scopo. L’enunciato eventualmente proferito da P sarà so­ lo un elemento dell’evidenza prodotta da P - così come possono esserlo (se intenzionali) gesti, sguardi, silenzi, smorfie. Se sto cer­ cando il pollo allo spiedo che avevo lasciato sul tavolo della cuci­ na, voi potete aiutarmi dicendo (16) Il gatto ha mangiato il pollo; oppure potete dire (17) Il gatto ha l’aria satolla e implicare che il gatto ha mangiato il pollo; oppure potete sem­ plicemente indicare il gatto che dorme con aria soddisfatta. La te­ si è che il processo interpretativo all’opera nei tfe casi è il mede­ simo: un processo metapsicologico che implica la costruzione e la valutazione di ipotesi sul voler dire del parlante sulla base dell’e­ videnza che il parlante ha fornito a questo scopo. Naturalmente, per costruire ipotesi e trarre inferenze, D deve selezionare solo parte dell’immensa quantità di informazioni che in ogni momento è accessibile a ognuno di noi: l’ambiente fìsico contiene un numero potenzialmente infinito di fatti, la conversa­ zione precedente è a volte costituita da molti enunciati, la cono­ scenza enciclopedica - anche se limitata a quella condivisa - è una rete sterminata di saperi, ricordi, pregiudizi, supposizioni. Come può D districarsi e scegliere le premesse del processo inferenzia-

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le che conduce a individuare il voler dire di P? Nella prospettiva che stiamo esaminando, l’essere umano è un sofisticato dispositi­ vo di trattamento dell’informazione governato da un principio co­ gnitivo che ne massimizza l’efficacia: 'A principio di pertinenza de­ termina quale informazione particolare attirerà l’attenzione di un individuo. Come si ricorderà, già per Grice l’atto di comunicare qualcosa suscita attese che l’atto stesso sfrutta: se D riconosce un comportamento comunicativo, allora si aspetta che P rispetti cer­ te regole. Per la teoria della pertinenza, un comportamento co­ municativo è in generale una garanzia tacita di pertinenza: D si aspetta che il proferimento di P sia pertinente. Anche il principio di pertinenza - come le massime conversazionali - non costituisce una norma cui i soggetti debbano sottostare, ma un principio ge­ nerale d’interpretazione all’opera per il linguaggio e per il com­ portamento in generale. Siamo sistemi cognitivi impegnati a costruire e modificare la nostra rappresentazione del mondo, per migliorare le nostre pos­ sibilità di azione nel mondo e moltiplicare le inferenze che tale rappresentazione rende accessibili. E evidente che ogni processo inferenziale ha un costo cognitivo, ci richiede cioè tempo e fatica per selezionare il contesto pertinente e per computare l’inferenza. Lo sforzo deve essere giustificato dagli effetti cognitivi che pos­ siamo ottenere grazie al processo inferenziale: si tratta in genere di modifiche della nostra rappresentazione del mondo. Possiamo cioè aggiungere nuova informazione alla nostra rappresentazione del mondo (possiamo aggiungere nuove credenze); oppure rinforzare o indebolire l’informazione presente nella rappresen­ tazione del mondo (possiamo mutare la forza con cui crediamo qualcosa); o ancora sopprimere informazione (se una credenza è in contrasto con la nuova informazione che abbiamo aggiunto). In un’ottica di efficienza cognitiva, ogni sforzo deve essere equili­ brato dagli effetti ottenuti: un’interpretazione viene considerata soddisfacente non appena gli effetti ottenuti equilibrano gli sfor­ zi fatti. Come accennato, l’analisi in termini di costi ed effetti per­ mette di fornire non solo una descrizione della comunicazione in­ ferenziale, ma anche una sua spiegazione. Grice non chiarisce mai cosa spinga un parlante a preferire una risposta indiretta come (10) o (13) a una risposta diretta come ‘Sì’ o ‘No’ - che intuitiva­ mente sembra essere più collaborativa, in quanto non costringe il

III. Capire e farsi capire: pragmatica

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destinatario a complesse operazioni inferenziali. I teorici della pertinenza forniscono una spiegazione: il proferimento di rispo­ ste indirette e di enunciati complessi viene considerato accettabi­ le (‘pertinente’) quando consente al destinatario di ottenere mag­ giori effetti cognitivi, quando cioè gli permette di arricchire, a un costo ragionevole, la propria rappresentazione del mondo: (10), in particolare, consente a D non solo di computare la risposta al­ la domanda ‘Ti piace il mio gatto?’, ma anche il motivo della ri­ sposta.

6. Due prospettive su codice e inferenze

La contrapposizione fra i due modelli comunicativi qui illustrati ha condotto a riflettere sull’apporto dei processi di decodifica e dei processi inferenziali nella comunicazione: che ruolo svolgono, nell’interpretazione dei nostri scambi linguistici, rispettivamente la nostra conoscenza del linguaggio (la semantica), e la nostra co­ noscenza del mondo (la pragmatica)? Ci resta lo spazio solo per un cenno a un dibattito che coinvolge filosofi del linguaggio, lin­ guisti e psicologi cognitivi2. Secondo la prospettiva detta letteralista, i soli processi di decodifica consentono di assegnare a un enunciato un contenuto semantico determinato (condizioni di ve­ rità letterali): possiamo attribuire contenuti a enunciati in modo del tutto indipendente dalle intenzioni del parlante che li proferi­ sce. A quella letteralista si contrappone la prospettiva contestualista\ la semantica fornisce interpretazioni incomplete, di cui i par­ lanti sono perlopiù inconsapevoli; per ottenere condizioni di ve­ rità determinate, è necessario ricorrere a processi pragmatici di ti­ po inferenziale. Secondo la concezione letteralista, le frasi di una lingua hanno condizioni di verità fisse, determinate dalla sintassi e dalla se­ mantica della lingua: l’apporto del contesto è limitato ai casi di indicalità (in senso lato). Questo significa che tutti gli effetti del con­ testo extralinguistico sulle condizioni di verità di una frase devo­ no essere riconducibili a elementi della forma logica della frase, e 2 Per una presentazione dettagliata cfr. Bach 2001, Bianchi 2001, Recanati 2001 e 2004, e le raccolte di saggi di Turner 1999, Bianchi 2004 e Szabò 2005.

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sono a loro volta governati e regimentati da convenzioni linguisti­ che. Ogni dipendenza dal contesto deve essere, in altri termini, ri­ conducibile alla presenza di un indicale (come ‘io’, ‘qui’, ‘ora’), di un dimostrativo (come ‘questo’ o ‘quello’), di un pronome (‘lui’, ‘lei’), o a un ruolo d’argomento presente nella forma logica e oc­ cupato da una variabile nascosta. È il caso, per fare un esempio, dell’enunciato (18) Piove, in cui, anche se non compare esplicitamente, il luogo a cui P si ri­ ferisce viene considerato parte delle condizioni di verità dell’e­ nunciato: (18) sarà vero se e solo se piove nel luogo a cui P si ri­ ferisce. Viene allora postulata l’esistenza, al livello della struttura profonda di (18) di un indicale nascosto (‘qui’ o ‘lì’). Ed è il caso del già citato (4) È un locale alla moda: ci vanno tutti, in cui il dominio di quantificazione di ‘tutti’ non è presente al li­ vello della struttura superficiale dell’enunciato, ma è una variabi­ le nascosta presente nella forma logica di (4) (cfr. Gauker 1997 e Stanley e Szabò 2000; per un’analisi alternativa Bianchi 2005). Ogni altra forma di arricchimento del contenuto di un enun­ ciato è opera di processi inferenziali, che però vanno a costituire - rispetto alle condizioni di verità letterali dell’enunciato, rispet­ to a ‘ciò che è detto’ dall’enunciato - un ulteriore livello di senso, non più semantico ma pragmatico: il senso implicito o veicolato o comunicato. E così i processi inferenziali all’opera nell’interpre­ tazione degli enunciati (5)-(7) del paragrafo 2 identificano propo­ sizioni addizionali, comunicate da P e non letteralmente dette - e messe sullo stesso piano teorico di implicature conversazionali. Le condizioni di verità letterali di (5)-(7), in questa prospettiva, sono assai più povere: con (6), ad esempio, P starebbe letteralmente di­ cendo che una certa malattia è stata dimessa, e con (7) che desi­ dera una certa sostanza (il caffè) - in qualunque forma, quantità o tempo. Secondo la prospettiva contestualista, invece, ogni enunciato esprime una proposizione completa solo una volta che gli siano aggiunti, grazie al contesto extralinguistico (alla conoscenza del mondo che condividiamo con i nostri interlocutori), elementi che non necessariamente corrispondono a costituenti sintattici dell’e­ nunciato (siano essi costituenti espliciti, pronunciati, oppure in­

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dicali nascosti, taciti, presenti solo al livello della forma logica del­ l’enunciato) e che pure devono entrare a far parte dell’interpreta­ zione semantica dell’enunciato. Gli esempi più discussi nella let­ teratura sull’argomento sono enunciati come: (19) Ho fatto colazione [oggi] (20) Tutti [in quel gruppo] sono andati a Parigi (21) Nessuno [famoso] va più in quel locale, perché c’è trop­ pa gente (22) Paolo e Francesca sono sposati [l’uno all’altro] (23) Non morirai [a causa di questo taglio] (24) Imelda non ha scarpe [appropriate all’occasione] da met­ tersi. Secondo gli autori contestualisti, l’interpretazione semantica degli enunciati ( 19)-(24) - in altri termini la proposizione che cia­ scuno di essi esprime, l’insieme di condizioni di verità letterali viene ottenuta solo in seguito a espansioni e arricchimenti conte­ stuali (rappresentati per ciascun esempio da quanto posto fra pa­ rentesi quadre). Gli autori pragmatici fanno infatti notare che il ricorso a tali processi di arricchimento è un fenomeno assai comu­ ne, che non pone particolari problemi di interpretazione, e che passa generalmente inosservato. Se invitiamo P a prendere un cap­ puccino, e P ci risponde con (19), non lo interpretiamo come se stesse dicendo di aver fatto colazione una volta nel corso della sua esistenza; e non interpretiamo una madre che usasse (23) come se stesse dicendo al proprio figlio che è immortale: integriamo in mo­ do del tutto naturale le condizioni di verità di (19) e (23) con infor­ mazioni derivate dalla nostra conoscenza del mondo: conoscenze sulle colazioni e i cappuccini di metà mattina, sui graffi che ci si fanno giocando in cortile, la morte e le madri. Secondo la prospettiva contestualista, quanto letteralmente detto da un enunciato non corrisponde strettamente alla forma logica dell’enunciato: condizioni di verità così concepite sono so­ lo un oggetto teorico astratto e non rispecchiano le intuizioni se­ mantiche dei parlanti. Sono i partecipanti allo scambio conversazionale a poter individuare ciò che è detto da un enunciato, le sue condizioni di verità intuitive. Chi comprende un enunciato (di­ chiarativo) sa quali stati di cose renderebbero vero quell’enuncia­ to, sa in quali circostanze concrete esso sarebbe vero: il fatto che P abbia fatto colazione almeno una volta nella sua vita non ci sem­

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Filosofia della comunicazione

bra rendere vero (19), non ci sembra corrispondere a quanto let­ teralmente detto da P nelle circostanze descritte. Come si vede, alla base c’è ancora l’idea di matrice griceana secondo la quale ciò che è detto da un enunciato deve essere accessibile all’interlocuto­ re: il significato è una questione di riconoscimento di intenzioni.

7. Comunicazione come attività di collaborazione La maggior parte delle teorie della produzione e della compren­ sione del linguaggio assume che produzione e comprensione fun­ zionino in larga misura allo stesso modo, qualunque sia lo status di chi ascolta. Le concezioni pragmatiche della comunicazione più recenti e interessanti si oppongono al modello del codice proprio in quanto esso non tiene in considerazione lo status del ricevente e misconosce il ruolo dell’informazione condivisa, pre­ supponendo in sostanza un tipo di comunicazione neutro fra chi parla e chi ascolta. Abbiamo mostrato come la comunicazione venga ormai con­ cepita non come un processo di codifica e decodifica di messag­ gi, ma come un processo di collaborazione: la coordinazione fra in­ terlocutori è l’elemento centrale per la comprensione (sulla coor­ dinazione fra soggetti testo classico è Lewis 1969). Il parlante sfrutta un ricco sfondo di informazioni condivise con il destinatario: la conoscenza delle regole del linguaggio costituisce solo una parte di tale sfondo, solo un insieme di indizi che si pone sullo stesso piano degli elementi contestuali, e si limita a contribuire al­ la determinazione del contenuto di un enunciato. L’idea di fondo sottende in forme diverse la prospettiva pragmatica: Austin con­ cepisce il linguaggio naturale come uno strumento di grande fles­ sibilità, in grado di adattarsi ai contesti più insoliti, e il cui livello di precisione dipende dagli obiettivi della situazione particolare d’uso; Grice esprime ripetutamente la tesi che i nostri scambi ver­ bali sono sforzi di cooperazione, con una «direzione mutuamen­ te accettata», regolati da un principio generale di cooperazione; Sperber e Wilson sottolineano il fatto che la comunicazione deve sottostare a due principi complementari, l’uno che richiede di mi­ nimizzare lo sforzo di collaborazione, l’altro di massimizzare l’ef­ fetto cognitivo delle nostre interazioni comunicative.

III. Capire e farsi capire: pragmatica

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In un modello cooperativo è centrale l’idea che il parlante co­ struisce e modella il proprio proferimento in modo da avere buo­ ne ragioni di credere che il destinatario potrà computare o inferi­ re facilmente e unicamente ciò che il parlante vuole dire, grazie al proferimento stesso e alla conoscenza condivisa. In questo senso il parlante si prepara in modo selettivo a un certo interlocutore (e, reciprocamente, il destinatario si prepara a un certo parlante). E quello che succede quando due sconosciuti si incontrano a una fe­ sta, in cui ciascun interlocutore attiva un modello dell’altro a par­ tire da informazioni in primo luogo percettive (il sesso, l’età, il modo di vestire, la classe sociale, e poi, prima ancora che comin­ ci l’interpretazione vera e propria, il modo di parlare, il tono di voce, l’accento) e solo in un secondo tempo fondate sul contenu­ to dei proferimenti dell’altro, sulle informazioni veicolate esplici­ tamente. Sulla base di questa concezione, si individuano principi di responsabilità (come il principle of mutuai responsability di Herbert Clark; cfr. Clark 1996) da vedere in parallelo con gli ana­ loghi principi griceani (il principio di cooperazione) o neogriceani (il principio di pertinenza). In sostanza parlante e destinatario si impegnano reciprocamente a rendere possibile la comprensio­ ne, l’uno, e a rendere manifesta la comprensione (o la mancata comprensione), l’altro, dello scambio comunicativo fin lì avvenu­ to. Ciascuno è dunque responsabile del fatto di consentire agli al­ tri di seguire la conversazione, e del fatto di seguire la conversa­ zione: la manifestazione della comprensione, o della mancanza di comprensione, da parte del destinatario consente al parlante di correggere e ‘riaggiustare’ i propri proferimenti. L’elemento originale di certi lavori contemporanei in campo pragmatico (cfr. ad esempio Clark 1992 e 1996), rispetto alle ana­ lisi griceane e neogriceane, è la distinzione fra tipi di ascoltatori che segue dalla concezione collaborativa’ qui delineata. In parti­ colare, oltre al destinatario vero e proprio di un proferimento, vengono individuati altri tipi di ascoltatori: coloro che, pur non essendo i destinatari diretti del proferimento, sono considerati partecipanti a pieno titolo alla conversazione, e possono legitti­ mamente diventare parlanti o destinatari diretti di proferimenti {side participantsf, gli ascoltatori casuali della cui presenza i par­ tecipanti alla conversazione sono consapevoli {bystandersf, e infi­ ne gli ascoltatori casuali della cui presenza i partecipanti alla con­

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versazione non sono consapevoli (eavesdroppers). Il parlante ha responsabilità generali verso tutti gli eventuali ascoltatori, di cui sia o meno consapevole: si pensi ai generici obblighi di cortesia, che proscrivono ad esempio l’utilizzo di linguaggio volgare. C’è tuttavia una distinzione fondamentale, quella fra destinatari (di­ retti o indiretti) e ascoltatori casuali, verso cui il parlante ha re­ sponsabilità ben distinte. Tali responsabilità hanno conseguenze dirette sulla comprensione: il destinatario può identificare il si­ gnificato del parlante perché questa è l’intenzione del parlante secondo il senso della nozione griceana di significato del parlante. Un ascoltatore casuale, dal canto suo, non può che cercare di in­ dovinare, avanzare congetture. La tesi generale è che, mentre il destinatario vero e proprio di un proferimento parte dall’infor­ mazione condivisa per interpretare l’enunciato, l’ascoltatore ca­ suale parte dall’interpretazione dell’enunciato per fare congettu­ re sull’informazione condivisa. La differenza fra destinatari e ascoltatori è accentuata dal di­ verso atteggiamento che il parlante può assumere nei loro con­ fronti. Il solo tipo di atteggiamento legittimo nei confronti del de­ stinatario è infatti quello di essere apertamente informativo - per Clark, come per Grice: usi non seri del linguaggio (come l’ironia, il sarcasmo, l’ènfasi) sono legittimi solo se il destinatario viene messo nelle condizioni di riconoscere il loro carattere non aperta­ mente informativo. Verso gli ascoltatori casuali, invece, sono le­ gittimi altri tipi d’atteggiamento. Il parlante può scegliere un at­ teggiamento di indifferenza verso l’ascoltatore casuale A (P può cioè non modificare il proprio proferimento per consentire ad A di seguire o, viceversa, di non seguire la conversazione); oppure può scegliere un atteggiamento di apertura (P può cioè modifica­ re eventualmente il proprio proferimento per consentire ad A di seguire la conversazione); ancora il parlante può scegliere di na­ scondere, nei limiti del possibile, il contenuto del proprio profe­ rimento (si pensi all’uso di espressioni quali ‘Chi tu sai’ e più in generale a tutti gli accorgimenti per celare il contenuto di una con­ versazione, ad esempio in tram); e infine il parlante può addirit­ tura mascherare il contenuto dei propri proferimenti, al fine di trarre in inganno A. Quando parliamo, dunque, modelliamo i nostri proferimenti in modo da avere buone ragioni di credere che il destinatario po­

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trà riconoscere le nostre intenzioni comunicative - sulla base del­ le nostre parole, dei nostri gesti e della conoscenza condivisa da noi e da lui. In apertura abbiamo anticipato che il ruolo del con­ testo è quello di restringere le possibilità comunicative di un pro­ ferimento - di ridurre i rischi della comunicazione. Se condivide, con noi ambiente fisico, contesto linguistico e conoscenza enci­ clopedica, il destinatario di un nostro proferimento potrà agevol­ mente avere accesso alle nostre intenzioni comunicative - se le manifestiamo in modo ragionevole e non arbitrario. Potrà senza difficoltà leggerci nel pensiero. E allora molte teorie tradizionali su linguaggio e comunicazio­ ne - in cui l’apporto dell’informazione contestuale e della comu­ nicazione inferenziale viene misconosciuto - sembrano essere in realtà più teorie dell’ascolto casuale che dell’interazione verbale. Nei nostri scambi verbali quotidiani ci fondiamo sulle conoscen­ ze che condividiamo con il nostro interlocutore del momento per interpretarne gli enunciati: sappiamo in larga misura con chi stia­ mo parlando, a quale scopo e in quali circostanze; abbiamo ac­ cesso percettivo sostanzialmente a quanto è accessibile ai nostri interlocutori, e teniamo memoria di quanto ci siamo detti fino a quel momento. L’enunciato vero e proprio è a questo punto solo un tenue indizio delle intenzioni comunicative dei parlanti. Le co­ se vanno in maniera ben diversa per le conversazioni che coglia­ mo casualmente al bar o in tram: costretti nel ruolo di ascoltatori casuali, l’informazione condivisa con chi parla è drasticamente ri­ dotta (anche se, naturalmente, ben lungi dall’essere annullata) e talvolta ci è assai difficile interpretare gli scambi più banali. Ci mancano, per tornare all’inizio, le puntate precedenti. Le soap non ci procurano quasi mai lo stesso disagio: l’informazione con­ divisa (le puntate precedenti) viene costantemente esplicitata ad uso del telespettatore occasionale. In violazione sistematica di quasi tutte le massime griceane e dei principi neogriceani (e, cer­ to, del più elementare buon senso), i personaggi si ostinano a da­ re contributi troppo informativi, richiamano in continuazione informazioni note, sono prolissi e ripetitivi, si esprimono con un uso innaturale di nomi propri, evitano il più possibile le implicature, aborrono i deittici - causando la disperazione e il tormento del teorico di pragmatica teledipendente.

IV.

Analizzare testi: semiotica di Ugo Volli

1. Semiotica della comunicazione Due persone parlano. Un’altra guarda la televisione. Un’azienda decide di pubblicizzare i suoi prodotti. Un quadro raffigura una scena campestre. Una nuova automobile si fa riconoscere per la sua carrozzeria avveniristica. La musica ci fa sognare, un film ci commuove, i giornali ci parlano del mondo, un romanzo ci rac­ conta i pensieri di un personaggio immaginario. Tutto questo è co­ municazione. Ma anche: l’espressione assorta di qualcuno che incontriamo sull’autobus, la divisa di un vigile, il miagolio di un gatto, le dita intrecciate di due fidanzati, il fumo che ci indica una casa isolata in montagna. Che cosa hanno in comune questi diversissimi tipi di comunicazione? Che cosa intendiamo esattamente quando par­ liamo di comunicazione? Come ricaviamo il senso di queste cir­ costanze così varie? La comunicazione è una relazione sociale, una delle più basi­ lari. Non vi è società senza qualche aspetto comunicativo, non vi è comunicazione se non sullo sfondo di un contesto sociale. Vi so­ no molti modi per indagare la comunicazione: ci si può porre ad esempio il problema delle condizioni economiche e produttive che ne determinano l’organizzazione, dei suoi riflessi psicologici nella mente dei destinatari, delle regole pratiche che la rendono efficace o di quelle che permettono di realizzare una sua ‘buona comprensione’. La semiotica, che ha una lunga tradizione come disciplina dei segni, la studia come un caso particolarmente im­ portante di significazione, cioè di produzione di senso e indaga in

IV. Analizzare testi: semiotica

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particolare gli oggetti che la costituiscono concretamente: i segni (o testi, quando essi sono complessi, come accade quasi sempre). Qui di seguito ci occuperemo di come si possano considerare dal punto di vista semiotico comunicazione e significazione e di quale sia l’organizzazione interna e il caratteristico modo di associarsi e interagire dei segni. Considereremo poi due aspetti particolar­ mente importanti della struttura della comunicazione: l’enuncia­ zione, cioè la capacità che i testi hanno di realizzare al loro inter­ no in vari modi il rapporto sociale della comunicazione, e la nar­ razione, che dal punto di vista semiotico si presenta come il più importante modello di organizzazione complessiva dei testi. Con­ cluderemo con alcune considerazioni sul senso della ricerca se­ miotica.

2. Senso e significazione

Abbiamo detto che la comunicazione è un processo sociale. Ma non tutti i rapporti sociali hanno natura comunicativa, ovviamen­ te. Possiamo dire che c’è comunicazione quando fra attori sociali si realizza una relazione non diretta (ad esempio non il puro eser­ cizio della forza fisica dell’uno sull’altro) ma mediata da una rap­ presentazione, che chiameremo senso. Allora un’azione (o il suo risultato) viene interpretata come fornita di senso, capace cioè di veicolare un contenuto. Nel caso specifico di una comunicazione volontaria, l’azione viene compiuta proprio per suscitare l’im­ pressione di un certo senso; se essa ha successo, il senso prodotto corrisponde almeno approssimativamente a quello inteso. Perché sia percepito un senso, cioè avvenga una significazione, è dunque necessaria la presenza di un evento o fatto materiale che lo realizzi. Chiameremo segno ogni evento o fatto interpretato da qualcuno come dotato di senso. Importa rilevare che la struttura del segno, come l’abbiamo definita, comporta sempre due ele­ menti interni più uno esterno. L’elemento esterno è colui che in­ terpreta la circostanza come sensata, l’interprete. I due elementi interni sono: a) quella certa circostanza materiale, oggetto o even­ to (non ci interessa qui né distinguere fra oggetto e sua percezio­ ne, né porci il problema delle procedure con cui l’oggetto sia de­ finito e interpretato), che chiameremo significante-, e b) il modo in

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Filosofìa della comunicazione

cui essa viene interpretata, che chiameremo significato, senza oc­ cuparci qui di che cosa possa essere esattamente. Vale la pena di precisare però che non basterà pensarlo come ‘l’oggetto cui il segno si riferisce’, come talvolta si usa dire, perché questa è un’ipotesi che presuppone l’esistenza di una capacità di riferimento, che è ancora al di là della nostra definizione. Per ora stiamo parlando del senso in maniera molto più generale. Se noto in casa mia un piccolo oggetto nero, mobile, lungo qualche milli­ metro con sei zampe, il corpo diviso in tre segmenti e fornito di certe altre caratteristiche fisiche, questo animale diventa per me un significante, il cui significato potrà essere ‘insetto’ o ‘formica’ o ‘Linepithema humilis’, magari ‘qui ci vuole un insetticida’ o il ge­ sto di usarlo; se vedo una depressione nella sabbia bagnata, lunga una ventina di centimetri, articolata in due fossette preceduta da altre cinque più piccole, il significato che potrò trarne sarà ‘impro­ nta di un piede’ o magari di qui la presenza di un essere umano. Si vede da questi esempi come la significazione non sia per sua natura univocamente definita, ma possa estendersi variamente, di­ pendendo dalle inferenze (informali e spesso puramente conget­ turali o abduttive) che l’interprete è in grado di trarre dal signifi­ cante, le quali a loro volta si basano principalmente sull’enciclo­ pedia delle sue conoscenze e sulle circostanze contestuali. Proprio per questa ragione il terzo elemento necessario al funzionamen­ to di un segno è il soggetto che lo interpreta. Costui, in circostan­ ze sociali in cui la produzione dei segni sia socialmente ben defi­ nita (ad esempio in presenza di una scritturò), può essere solo vir­ tuale; ma dev’essere chiaro che la relazione segnica non si realiz­ za senza di lui, come non vi è significante senza significato o vi­ ceversa.

2.1. L’indeterminatezza del significato dipende anche da un al­ tro fenomeno: dai nostri esempi si vede che quando un oggetto o un evento è interpretato come segno, accade che qualcuno gli dia un nome o gli attribuisca un significato più complesso, o ne ritra­ duca il senso in altro modo (ad esempio con un comportamento). Si produce dunque un altro evento o processo sensato, cioè un al­ tro segno che agli occhi dell’interprete ha lo stesso senso - anche se il suo significante è ad esempio solo un processo mentale o un’azione. Chiamiamo interpretante questo secondo segno che

IV. Analizzare testi: semiotica

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traduce il primo. Chiaramente un interpretante per agire come se­ gno andrà a sua volta interpretato, e dunque quella degli inter­ pretanti è una serie aperta. La significazione implica così in linea di principio una semiosi illimitata, un progresso indefinito di ri­ mandi. Un altro dei modi più caratteristici di estensione della signifi­ cazione è quello per cui un intero segno, già interpretato nel suo significato primo o ‘naturale’, venga usato come significante per un secondo significato. È il processo chiamato connotazione-, ad esempio una macchia bianca di forma approssimativamente ovoi­ dale, contenente due macchie scure allineate in alto e una terza orizzontale in basso, può essere interpretata come un ‘teschio’. Tutto questo segno, già fornito di senso, può essere reinterpretato come veicolo di un secondo significato, la ‘morte’; eventualmen­ te, in una situazione contestuale come un cartello su una porta, può significare ‘pericolo di morte’; ma riprodotto su un pezzo di stoffa che sventola dall’albero di una vecchia nave può assumere il senso di ‘pirati’, e di qui può arrivare a indicare una squadra sportiva, un gruppo rock o un movimento politico. Come si vede, anche la connotazione è un processo iterabile e dunque di di­ mensioni indefinite, se non illimitate: che pure noi siamo perfetta­ mente in grado di controllare e utilizzare. Tanto che una lunga tra­ dizione fìlosofico-linguistica, risalente a Platone e a Vico, ma ben viva oggi nelle scienze cognitive (cfr. Lakoff e Johnson 1980 e 1999), sostiene che tale processo connotativo (o metaforico, come spesso si preferisce dire) sia il principale meccanismo di produ­ zione di senso nelle lingue naturali. Vale la pena di ricordare an­ che il meccanismo inverso, cioè l’esistenza di segni (o piuttosto te­ sti complessi) che prendono come loro significato altri segni com­ pleti. È il caso delle indicazioni metalinguistiche in generale e so­ prattutto di quell’importante categoria di comunicazioni che Ge­ rard Genette (1972) ha chiamato «paratesti»: titoli, sigle radiofo­ niche e televisive, indici vari. È importante capire che semiosi illimitata, connotazione e fun­ zionamento inferenziale e congetturale dell’interpretazione sono processi basilari nella significazione, che la rendono del tutto di­ versa dai sistemi formali della logica e delle scienze assiomatizzate. Questo aspetto indefinito, idiosincratico o almeno impreciso della significazione è stato spesso notato (e quasi sempre condan­

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Filosofia della comunicazione

nato) dalla filosofìa del linguaggio: ma costituisce il fondamento della straordinaria flessibilità dei sistemi di comunicazione della vita comune.

2.2. È chiaro che il campo dei segni (il fenomeno defìa signifi­ cazione) è più vasto di quello della comunicazione e lo include: in realtà è difficile trovare un oggetto o fenomeno che non risulti si­ gnificativo, se non altro- per essere inteso come quell’oggetto-, una nuvola, un libro, una voce, un’ombra. Ogni esperienza sensata è, per la definizione che ne abbiamo dato, percezione di segni; ogni comportamento umano «trasuda senso», come ha scritto Erwin Goffman (1971). Si ha comunicazione invece quando la significa­ zione viene attribuita a un attore sociale che chiameremo emit­ tente. Chiameremo invece destinatario della comunicazione chi, interpretandola, realizza il suo carattere segnico e la attribuisce a un emittente. La comunicazione si realizza dunque solo à partire dall’attri­ buzione a un attore sociale di un segno, cioè in presenza di un fat­ to materiale, di un significante, che viene interpretato come por­ tatore intenzionale di un significato. La semiotica si occupa delle condizioni che innescano il processo di interpretazione, trasfor­ mando oggetti e processi materiali in significanti più o meno ric­ chi, ma soprattutto di come questi stessi oggetti siano usati e spes­ so prodotti appositamente per comunicare, come complessi inviti all’interpretazione, destinati a produrre certi risultati sulla rela­ zione sociale fra gli interlocutori, grazie al senso. La comunicazio­ ne le appare così produzione di effetti di senso (informazione, com­ partecipazione di valori, determinazione di comportamenti ecc.), ottenuti per mezzo di testi o segni. L’esperienza del linguaggio, della comunicazione visiva, audiovisiva e musicale e di quella in­ terpersonale, mostra che questi processi possono assumere straor­ dinaria complessità, tanto sul versante delle caratteristiche mate­ riali del significante (si pensi alla struttura di una poesia o di un quadro) quanto su quello della ricchezza dei significati veicolabili in maniera sufficientemente precisa e condivisibile socialmente (si pensi a un manuale scientifico). D’ora in poi però considere­ remo qui solo i segni che entrano in un processo di comunicazio­ ne, trascurando i fenomeni di pura significazione.

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2.3. Roman Jakobson (1963) ha proposto per primo uno sche­ ma molto utile dei fattori che entrano in gioco nella comunicazio­ ne. Essi sono: {'Emittente e il Destinatario di cui abbiamo già par­ lato; il Messaggio, che è un altro nome per ciò che finora abbiamo definito segno; il Contatto, cioè il canale materiale che permette al significante di arrivare daU’Emittente al Destinatario; il Codice, cioè la regola che lega significante e significato; e il Contesto, cioè la realtà cui il segno eventualmente si riferisce. In connessione con questo elenco se ne può formulare un altro, che richiama analo­ ghe ricerche linguistiche, sulle funzioni cui può assolvere la co­ municazione. Se essa si concentra Sull’Emittente, prevale la fun­ zione espressiva o emotiva (come nei diari e in certa poesia); se es­ sa riguarda soprattutto il Destinatario, ha spazio la funzione co­ nativa (come i comandi militari e in definitiva la pubblicità); se il messaggio si riferisce principalmente al Contesto, la funzione pre­ valente è quella referenziale (come nella comunicazione scientifi­ ca); se invece si tratta di stabilire il Contatto (come quando dicia­ mo ‘pronto!’ al telefono) si enfatizza la funzione fàtica. Infine la funzione metalinguistica corrisponde al Codice (come quando, in una conversazione, dopo una battuta ‘strana’, chiariamo che ‘sta­ vamo scherzando’) e quella poetica riguarda soprattutto l’orga­ nizzazione del Messaggio, come nel caso delle arti. Ogni comuni­ cazione peraltro comprende più funzioni e almeno embrional­ mente deve svolgerle tutte. 2.4. Nella situazione di comunicazione il destinatario presup­ pone che l’emittente produca dei segni allo scopo di richiamare un certo significato. Questo di solito non è però il primo significato che abbiamo esemplificato sopra (quello banale della pura iden­ tificazione dell’oggetto), ma deriva da tale prima identificazione per mezzo di un sistema di inferenze che si suppone condiviso fra emittente e destinatario, ed è chiamato, come abbiamo visto, codi­ ce. Possiamo immaginare una comunicazione che da questo pun­ to di vista funzioni puramente ad hoc. Ad esempio, mi sono mes­ so d’accordo con un amico perché la luce accesa sulla porta di ca­ sa sua significhi che è disposto a fare una partita a carte; vedo quel segno e vado a giocare da lui. Si noti che questi casi richiedono una notevole conoscenza condivisa, anche se non necessariamen­ te stipulata in maniera esplicita.

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Nella grande maggioranza dei casi, però, il sistema di rimando (o di codifica), per cui il segno assume il suo significato interes­ sante, è invece sistematico. Vi è allora un’organizzazione combi­ natoria di un certo gruppo di segni, condivisa dai possibili inter­ locutori, per cui essi possono essere montati fra loro e il risultato è interpretato secondo regole sintattiche. Chiamiamo generica­ mente linguaggi queste strutture comunicative, includendo oltre alla lingua vera e propria moltissimi altri sistemi, dalle immagini all’abbigliamento ai gesti. La codifica sistematica permette di tra­ smettere anche ad attori sociali sconosciuti con cui non vi sono ac­ cordi espliciti una gamma molto ricca di significati (per i linguag­ gi storico-naturali si usa parlare di una capacità universale di si­ gnificazione). In cambio la struttura del messaggio si complica molto (nascono una sintassi e una semantica}, in cui il gioco delle combinazioni fra i segni e della loro influenza reciproca viene al centro dei processi inferenziali di produzione del significato. A complicare le cose, nel gioco della comunicazione entrano anche gli altri segni e combinazioni di segni che secondo il sistema di re­ gole potevano essere prodotti e non lo sono stati. Il senso insom­ ma deriva anche (nelle lingue storico-naturali: soprattutto) dalle scelte che sono state effettuate nel sistema e dunque dal confron­ to fra il messaggio comunicato e quelli esclusi. In questi casi è Vop­ posizione che costituisce il senso.

2.5. Risulta utile caratterizzare i segni a seconda del modo in cui è istituito il rapporto che lega significante e significato. Si pos­ sono riconoscere tre tipi principali di questa relazione. Il primo fra essi ha una natura arbitraria, nel senso che la relazione si isti­ tuisce sulla base di convenzioni, abitudini o contingenze storiche, senza nessun legame intrinseco fra un certo significante e il suo significato (anche se può esistere una certa logica per cui, dati al­ cuni segni, se ne possono derivare degli altri per combinazione o modificazione). Si usa parlare allora di simboli (una scelta termi­ nologica infelice, perché comunemente i simboli sono segni for­ temente connotativi come la croce o la falce e il martello, ma or­ mai ben stabilita negli usi scientifici). L’esempio più tipico di que-. sto tipo di relazione è dato dalle lingue storico-naturali: non vi è nessuna ragione per cui i cani debbano essere chiamati così, piut­ tosto che dog, Hund, chien o in mille altri modi diversi. Ma an­

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che i linguaggi simbolici della scienza sono costituisti da segni ar­ bitrari (ancor più: esplicitamente stipulati): le convenzioni per cui il segno significa in matematica la sottrazione, in certe nota­ zioni logiche la negazione, in chimica un legame molecolare sin­ golo sono chiaramente arbitrarie e potrebbero essere modificate senza danno. Un secondo tipo di relazione fra significanti e significati è mo­ tivato invece dalla loro contiguità fisica. Si tratta dei cosiddetti in­ dici o segni indicali, il cui esempio più semplice è certamente il di­ to teso a indicare un oggetto, o i suoi sostituti corporei (faccia, sguardo ecc.) e non (le frecce e altri segnali stradali). In realtà si trovano relazioni indicali anche all’interno di sistemi simbolici, come il linguaggio: parole come ‘oggi’ e ‘io’, essendo certamente arbitrarie e sostituibili con altri significanti (heute, ich; today, I; aujourd’hui, je, ecc.), traggono il loro senso dalla contiguità tem­ porale e spaziale fra il momento in cui sono proferiti, o la perso­ na che lo fa, e ciò che indicano. Così per tutti i segni che servono a descrivere ciò cui sono fisicamente legate (etichette di conteni­ tori vari, targhe delle vie, didascalie fotografiche). Da un certo punto di vista, anche le fotografie e le firme traggono il loro sen­ so, la loro ‘autenticità’ dal fatto di essere state realizzate per mez­ zo della contiguità fisica con ciò che rappresentano. Le fotografie però ci portano anche a un terzo tipo di relazio­ ne fra significante e significato, quella per cui il primo ‘somiglia’ o ‘condivide alcune proprietà’ del secondo: immagini, schemi, diagrammi ecc. Si parla in questo caso di icone o segni iconici. La caratterizzazione in termini di somiglianza o di proprietà condivi­ se di questi segni è certamente problematica e ha suscitato un am­ pio dibattito; ma non vi è dubbio che l’iconismo sia uno dei più diffusi e dei più efficaci regimi di funzionamento segnico. Come abbiamo dovuto notare già esponendo le definizioni dei diversi tipi di segni, in realtà è assai difficile trovare delle situa­ zioni comunicative in cui si presentino solo segni simbolici o ico­ nici o indicali puri. Il funzionamento reale dei testi mescola que­ ste modalità. Vi sono così degli elementi iconici nel riconosci­ mento (basilare per l’uso dei linguaggi) che un certo suono o una certa forma grafica sono un esempio di un certo tipo, che ad esem­ pio il segno grafico ‘A’, essendo composto da due segmenti obli­ qui uniti per il vertice superiore, tagliati da un segmento orizzon­

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tale, è un’occorrenza della prima lettera del nostro alfabeto. Ma vi sono elementi iconici o simbolici nella maggior parte degli indici (le frecce stradali contengono il nome di una città), un cartello che segnala l’uscita di sicurezza funziona per la combinazione del suo grafismo iconico/simbolico e della sua sistemazione spaziale indi­ cale; i quadri contengono spesso cartigli scritti e dunque simboli­ ci. Per non parlare dei testi mediali (giornali, televisione, pagine web) che mescolano questi diversi meccanismi in forme assai ric­ che e complesse. 3. Struttura dei segni 3.1. Abbiamo visto che i segni sono caratterizzati dalla necessaria compresenza di un significante e di un significato. Ora dobbiamo considerare che sia l’uno sia l’altro sono elementi di un codice, il quale sarà composto da un piano dell’espressione, che raccoglie tutti i possibili significanti, e da un piano del contenuto, cui ap­ parterranno tutti i possibili significati. Ad esempio nel linguaggio verbale il piano dell’espressione sarà dato dai suoni della voce umana e quello del contenuto dalla massa molto vasta delle cose che si possono dire. Sia l’espressione che il contenuto sono rea­ lizzati imponendo a una certa sostanza (ad esempio la voce) una forma che la segmenta e la organizza. Ad esempio, dei numerosis­ simi suoni che si possono ottenere con la voce, ogni lingua stori­ co-naturale trae fra i venti e i trenta tipi di suoni (tecnicamente fo­ nemi) e lo fa sia inibendo il carattere segnico a numerosi altri suo­ ni possibili (ad esempio i colpi di glottide che sono importanti in molte lingue africane, o i toni ascendenti e discendenti delle vo­ cali, che portano significato in cinese e mandarino, mentre nelle lingue indoeuropee non sono significanti), sia raggruppando i suoni in maniera diversa (ad esempio il suono aspirato che in To­ scana appare nell’iniziale di /casa/, non ha senso specifico in ita­ liano, mentre in tedesco e in molte lingue semitiche è un fonema a sé). Una certa forma ‘sceglie’ le caratteristiche differenziali (op­ positive) nella sua sostanza, applicando un principio di pertinenza più o meno arbitrario. Questa organizzazione riguarda sia la for­ ma che il contenuto: ci sono culture in cui il maggiore o minore carattere aspirato dei suoni dentali ha funzione differenziale, e al­

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tre in cui esso non è pertinente; società come i Maori che distin­ guono (non nella percezione, ma nel lessico) un centinaio di ‘ros­ si’ diversi e altre che hanno in tutto solo due nomi per i colori, op­ ponendo solo quelli ‘caldi’ e quelli ‘freddi’.

3.2. Questa considerazione induce ad allargare la nozione di arbitrarietà, esposta al paragrafo precedente: oltre vSl arbitrarietà verticale che riguarda i rapporti fra significante e significato, con­ tingenti o convenzionali nel caso dei linguaggi scientifici e delle lingue naturali, vi è nelle lingue naturali anche un’arbitrarietà oriz­ zontale, che riguarda il modo in cui i piani dell’espressione e del contenuto sono ritagliati dalla pertinenza espressa in un certo lin­ guaggio. Le frequenze luminose che noi percepiamo come diversi colori variano con continuità, ma il linguaggio introduce in esse una certa segmentazione arbitraria-, lo stesso vale per le frequenze acustiche che interpretiamo come suoni della lingua e che costi­ tuiscono il piano dell’espressione tipico del linguaggio. Ma anche se consideriamo il piano del contenuto, il modo in cui il linguag­ gio nomina gli oggetti naturali, per fare un esempio, non è deter­ minato dalla loro tassonomia reale (cioè scientificamente rico­ struita): l’italiano distingue tra ‘erba’, ‘alberi’ e ‘cespugli’, o tra ‘frutta’ e ‘verdura’ in maniera sostanzialmente arbitraria, diffe­ rente da altre lingue. Quest’arbitrarietà diventa sempre più evi­ dente via via che si passa a concetti astratti, relazionali, sociali, tec­ nologici (si pensi a ‘parsimonia’, ‘risparmio’ e ‘avarizia’; ‘amore’, ‘innamoramento’, ‘affetto’, ‘simpatia’, ‘affettuosa amicizia’; a ‘so­ cietà’, ‘associazione’, ‘fondazione’, ‘compagnia’, ^accomandita’, ecc.). Insomma molte delle ‘cose’ che noi troviamo nel mondo so­ no identificate in una certa maniera e associate a certe altre per via di effetti di linguaggio che mutano nel tempo e nello spazio, e dunque hanno almeno parte del loro senso assegnato dalla forma linguistica impiegata dal loro interprete. 3.3. Come prima ci siamo interrogati sui tipi di rapporti fra si­ gnificante e significato di un singolo segno, così lo si può fare an­ cora sui tipi di rapporti fra piani dell’espressione e del contenuto di interi linguaggi. Emerge anche qui una terna di possibilità, ma diversa da quella esaminata prima. Vi sono dei linguaggi confor­

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mi, in cui il piano dell’espressione e quello del contenuto sono (più o meno) isomorfi, cioè organizzati allo stesso modo. Così ad esempio lavorano tutte le forme di trascrizione, come le scritture alfabetiche (con notevoli approssimazioni, come sa chi studia ad esempio la pronuncia inglese sui testi), le notazioni musicali, una larga classe delle crittografie e dei codici che traducono la scrit­ tura in altre sostanze (codici Braille, Morse, delle bandierine na­ vali ecc.), buona parte dei linguaggi formalizzati. Poi vi sono linguaggi non conformi (biplanari o simbolici per analogia ai segni dello stesso nome) in cui non vi è alcun isomor­ fismo fra l’organizzazione dell’espressione e del contenuto. In questa classe rientrano certamente le lingue naturali, la cui espres­ sione è caratterizzata da una doppia articolazione che manca al contenuto. Nel flusso linguistico possiamo ritagliare infatti una serie di unità minime capaci di veicolare senso (spesso chiamati 'monemi’, più o meno della dimensione delle parole, anche se es­ se si possono analizzare ancora in radici semantiche e elementi sintattici come quelli che segnalano genere e numero dei nomi o tempi e persone dei verbi (bambin-i, parl-av-amo). Queste unità, nelle lingue normali, sono qualche decina di migliaia e sono elen­ cate nei dizionari. Esse sono però tutte composte da pochissime unità di secondo livello (una ventina ài fonemi), che non veicola­ no autonomamente il sènso, ma sono in grado di determinarlo dif­ ferenziandosi fra loro, secondo il principio di opposizione che ab­ biamo esposto sopra (2.4): distinguiamo ‘pane’ da ‘cane’ per via di un fonema differenziale. Per quanto riguarda i contenuti non è possibile realizzare ana­ loghi inventari chiusi, e non solo per il fatto che il linguaggio è ric­ co di ambiguità e polisemie. Il problema è più radicale: nessuno è mai riuscito a comporre un ‘dizionario delle idee’, che porti non dalle parole ai significati ma dai significati alle parole - anche se molti filosofi ne hanno coltivato il sogno, ad esempio sotto forma di tavola delle categorie. Inoltre non vi è affatto sul piano dei con­ tenuti linguistici un’organizzazione gerarchica ben definita analo­ ga a quella dell’espressione. Mentre ogni monema è composto da fonemi e solo occasionalmente vi può essere confusione fra i due livelli, quando si cerca di analizzare le unità di contenuto di livel­ lo corrispondente (spesso definite ‘sememi’) si ritrovano come lo­ ro componenti altri sememi: così accade nelle voci dei dizionari.

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La struttura del piano del contenuto dunque non è gerarchica, an­ zi esplorandola ci si imbatte continuamente in anelli e circoli vi­ ziosi ineliminabili. Questi aspetti delle lingue naturali, che possono apparire e spesso sono stati considerati da alcuni filosofi come gravi difetti logici, dal punto di vista comunicativo costituiscono invece una ri­ sorsa essenziale, che permette alle lingue una straordinaria elasti­ cità semantica, cioè la possibilità di parlare di oggetti nuovi, poco definiti, anche fantastici e inesistenti; di estendere per analogia il senso delle parole, di esprimere pensieri e sentimenti inizialmen­ te non previsti dal codice, di ‘giocare con le parole’, di essere vo­ lutamente ambigui, di colorare emotivamente i testi, di produrre non solo la retorica, ma anche la poesia e la letteratura. A rigore, dal punto di vista semiotico, solo i sistemi comunicativi biplanari e dunque strutturalmente aperti sono veri linguaggi. Il terzo tipo di rapporto fra piano dell’espressione e piano del contenuto, detto semi-simbolico, appare quando non vi è corri­ spondenza sistematica fra gli elementi del piano dell’espressione e del piano del contenuto, ma si trova una omologia di funziona­ mento fra certe categorie che organizzano i due piani. Così, nella pittura religiosa europea, vi è una relazione stabile fra la posizio­ ne nel quadro (sull’asse alto/basso) e la condizione dei soggetti rappresentati (in alto ciò che è divino, a metà strada ciò che è ter­ restre, in basso ciò che è ripugnante o infernale); qualcosa di ana­ logo avviene coi colori (sull’asse di opposizione chiaro/scuro) e con molte altre caratteristiche che producono sistematicamente effetti di senso. 3.4. Con la necessità dell’interazione di numerosi segni per l’interpretazione e la rilevanza della dimensione oppositiva - o ‘negativa’, come diceva Saussure (1916) - rispetto alle virtualità consentite dal sistema di codificazione, si passa dalla dimensione relativamente semplice del segno a quella più complessa del testo. Un testo può avere una dimensione più o meno grande, è com­ posto di fasci di segni interconnessi e variamente gerarchizzati o reciprocamente riferiti, che concorrono alla formazione del sen­ so, in opposizione a quelli che sono stati esclusi. Il fatto che il senso di un segno dentro un testo dipenda tanto dagli altri segni che lo precedono e lo seguono, quanto da quelli

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che potrebbero sostituirlo, induce a parlare di due assi che costi­ tuiscono la struttura di ogni testo: l’asse sintagmatico su cui si di­ spone il processo comunicativo, costituito dalla successione dei se­ gni che (in un ordine ben definito e normalmente essenziale per il funzionamento del testo) producono il testo; e l’asse paradigmati­ co che per ogni segno contiene quelli che potrebbero prendere il suo posto nel processo, modificandone anche radicalmente il sen­ so complessivo, ma senza perdere la sua buona formazione e dun­ que la sua possibilità di agire in uno scambio comunicativo. L’as­ se del processo è caratterizzato da una compresenza di segni, che interagiscono fra loro specificandosi, completandosi e disambi­ guandosi a vicenda; quello del sistema è disgiuntivo, e compren­ de le alternative possibili, dunque lo spazio di differenziazione di ogni segno. Queste due relazioni sono essenziali nel determinare la capacità comunicativa dei segni. In realtà nella comunicazione non si trovano praticamente mai segni isolati, e per comprender­ ne il funzionamento bisogna considerare la dimensione testuale. Dopo queste precisazioni, il testo ci appare come una porzione di processo chiusa - perché vi sono dei paratesti di delimitazione (vedi 2.1), o per autonoma decisione dell’interprete. Si può con­ siderare come testo l’opera intera di un autore, un suo libro o una pagina, la collezione di un quotidiano, la serie dei suoi articoli che riguarda un certo argomento, una sua pagina, un articolo, il tito­ lo di questo articolo, la fotografia che lo accompagna, e così via. Dunque la nozione di testo è estremamente elastica e dipende in definitiva da una decisione pragmatica dell’interprete. Oltre che dalla delimitazione di eventuali paratesti, ogni testo è caratteriz­ zato da due altri elementi: il suo topic, ciò intorno a cui verte (che non è il suo significato, ma il criterio della decisione pragmatica che l’ha costituito, la sua rilevanza), e le isotopie che lo attraversa­ no. Per isotopia intendiamo una ridondanza, la ripetizione di un significante o di qualche suo aspetto (come un colore, un orienta­ mento spaziale o un dettaglio in un’immagine, un accordo in una musica, una parola o un suono in una frase verbale), o anche l’i­ terazione di un elemento di significato (ad esempio il tema della gelosia che attraversa tutta la narrazione di Otello). Le isotopie as­ sicurano al testo una corenza di senso e indirizzano la lettura.

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4. Enunciazione Dato che la comunicazione è sempre un dispositivo sociale, es­ sa è realizzata in vista di certi scopi o progetti che si definiscono in riferimento alle concrete relazioni sociali: si comunica per ven­ dere una merce, per ottenere giustizia, per vincere le elezioni, per realizzare il proprio amore, per educare qualcuno, per ‘esprimer­ si’, per stabilire una verità scientifica e per mille altre ragioni. Questi scopi non sono semplicemente esterni all’attività comuni­ cativa, ma ne determinano profondamente i contenuti e la strut­ tura. La pragmatica ha mostrato che con i testi ‘si fanno cose’ (cfr. Austin in Sbisà 1978) e che questo può avvenire tanto direttamente, dicendo quel che si vuole ottenere (parliamo allora di illocuzione') quanto indirettamente, facendo sì che il destinatario del­ la comunicazione arrivi ‘da solo’ a compiere l’azione che remit­ tente desiderava e che però non gli ha chiesto direttamente (perlocuzione). La retorica comprende da sempre un repertorio dei modi di questa efficacia testuale. Da questo punto di vista si può intendere anche la capacità dei linguaggi di dire la verità, cioè di parlare del mondo, come uno degli usi possibili della comunicazione, certamente non il più dif­ fuso. Anzi, come ha sostenuto George Steiner (1975), noi usiamo il linguaggio molto più per parlare di quel che non c’è (ma vor­ remmo che ci fosse, oppure temiamo, immaginiamo, sogniamo, raccontiamo che ci sia, solo per il piacere di farlo, per divertire) che per descrivere la realtà: questa è una della principale caratte­ ristiche distintive della comunicazione umana rispetto a quella de­ gli animali. Non ci occuperemo qui del livello strategico di questi effetti, e neppure della loro semplice elencazione, ma solo di al­ cuni modi in cui essi si radicano nel testo, cioè di alcuni meccani­ smi testuali che sono variamente sfruttati per ottenere questi ri­ sultati. In particolare analizzeremo l’enunciazione e la narrazione, come dispositivi largamente diffusi nei testi per produrre tali ef­ fetti. Il primo è particolarmente significativo per la costruzione degli attori sociali, che è uno dei più diffusi scopi della comuni­ cazione; il secondo processo fornisce forti appoggi, schemi e sce­ neggiature, per i fenomeni di inferenza del significato che è così importante nel funzionamento di tutta la comunicazione e inoltre è decisivo per un altro dei suoi usi principali, cioè la valorizzazio­ ne degli oggetti e degli attori sociali.

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4.1. Enunciazione è l’atto ài enunciare, cioè di produrre un te­ sto. Sotto il nome di enunciazione si discutono però in semiotica due fenomeni comunicativi distinti, per quanto legati fra loro. In primo luogo vi è la distinzione fra un certo enunciato, cioè un te­ sto che ha esistenza autonoma e oggettiva e le circostanze in cui es­ so è diffuso nella vita sociale, in senso proprio la sua enunciazio­ ne. In secondo luogo usiamo questa parola per rendere conto del fatto che per poter funzionare i testi devono in certa misura rap­ presentare al loro interno alcune caratteristiche del rapporto co­ municativo che li motiva, creando simulacri della comunicazione e dei suoi agenti e manipolandoli opportunamente, in modo da ga­ rantire l’efficacia simbolica della comunicazione. I due processi sono legati dal fatto che in entrambi hanno rilevanza le interfacce fra il testo e la vita sociale in cui esso è immerso. Partiamo dal primo aspetto. I testi sono in genere preparati. Dal punto di vista pratico è evidente che lo scrittore o il pittore la­ vorano a lungo prima di comunicare il loro lavoro, e così fanno entità collettive come un giornale o un’agenzia pubblicitaria. Ma anche dal punto di vista della struttura logica della significazione, molti indizi ci portano a pensare che tutti i testi, anche le frasi più elementari, siano prodotti a partire da un complicato processo di generazione, che elabora i propri materiali in una serie di stadi di trasformazione, non percepibili all’esterno, prima di arrivare alla loro manifestazione. Questa distinzione fra un processo generativo di profondità e una superfìcie in cui il testo si manifesta è fondamentale in semio­ tica come in linguistica. Arriva però il momento in cui il testo vie­ ne emesso, uscendo dal controllo di chi lo ha preparato, acquista una sua autonomia e oggettività, e viene percepito e interpretato per ciò che manifesta, indipendentemente dalle intenzioni dell’au­ tore. (Egli è magari libero di precisare ciò che intendeva dire, ma solo producendo un altro testo, esterno al primo e altrettanto con­ trovertibile.) Tale processo di oggettivazione viene chiamato in se­ miotica distacco o più usualmente col termine francese débrayage. La sua grande importanza è chiara: {'interno del testo, il suo senso, il ‘mondo possible’ che esso crea, non è vincolato ad alcu­ na continuità logica con il mondo reale in cui l’emittente l’ha co­ stituito, né con quello in cui il destinatario lo riceve. Esso contie­ ne, in linea di principio, un tempo e uno spazio altri, degli attori

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diversi da quelli che effettivamente partecipano al gioco dell’e­ nunciazione. È nuovo. Certamente per capire l’Odissea ho biso­ gno di conoscere il greco di Omero (o devo far uso di una tradu­ zione, che però è un altro testo, nella migliore delle ipotesi un suo buon interpretante) e una conoscenza della storia e dell’antropo­ logia della Grecia antica mi può aiutare a trarre inferenze miglio­ ri e più ricche dalle parole del testo; ma questa conoscenza mi vie­ ne da altri testi ancora e dunque da quella dimensione interte­ stuale che in generale è indispensabile all’interpretazione, perché ricostruisce almeno in parte l’Enciclopedia che il testo presuppo­ ne, come abbiamo visto al paragrafo 2. Ma l’Odissea è innanzitut­ to il suo testo e l’ignoranza totale che abbiamo del suo autore, del suo ambiente (e delle sue ‘intenzioni’) non ci impedisce di legger­ la e amarla. Infatti il mondo possibile dell’O&yetf è autonomo ri­ spetto a ogni altra conoscenza e vi vigono regole diverse da quel­ le della verità che noi conosciamo. La scoperta archeologica che effettivamente vi è stata una città di Troia distrutta in guerra non aggiunge nulla al senso del poema, come non gli toglie nulla l’i­ potesi che non sia forse esistito un poeta cieco chiamato Omero. Come non avrebbe alcun senso opporre al poema il fatto che la paleontologia esclude l’esistenza di giganti monocoli e sirene. Questa considerazione non vale solo per la finzione e la lette­ ratura. Proprio il distacco che si ritrova in tutte le comunicazioni ci permette di trattare come testi forme di comunicazione appa­ rentemente dirette come il linguaggio verbale o la gestualità (che oggi sono oggettivate anche grazie alle tecniche di registrazione) e di capire che la comunicazione è sempre mediazione, dunque in qualche misura opacità-, tutte le idee di comunicazioni perfetta­ mente immediate e trasparenti, dalla telepatia alle lingue perfette dei filosofi, si scontrano con il carattere costitutivo del distacco per la comunicazione, con la sua necessità di «rotolare fra la gente» (come Platone dice della scrittura) «senza padre». 4.2. Proprio il fenomeno del distacco e la necessità di control­ larlo suggerisce l’opportunità di inserire talvolta nel testo dei se­ gni indicali, più o meno espliciti e chiari, che lo riattacchino alle circostanze dell’enunciazione. Si parla allora di embrayage. In un giornale è importante stabilire ad esempio che una cosa accadrà davvero a una certa data oppure ‘domani (oggi per chi legge)’, o

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ancora che la storia raccontata si svolge a Londra, che ne è auto­ re un giornalista con un certo nome e magari un indirizzo e-mail. Tutti questi dispositivi che dall’interno del testo collocano nello spazio e nel tempo ciò di cui si parla rispetto a chi legge e chi scri­ ve, magari assicurando sulla loro identità (talvolta dicendo il ve­ ro, talaltra no), sono diffusissimi, non solo nel giornalismo, ma in narrativa, in pubblicità, in televisione e in tutta la comunicazione. Dobbiamo quindi raddoppiare un segmento significativo del­ lo schema di Jakobson sui fattori della comunicazione discusso in 2.3. All’Emittente e Destinatario reali, protagonisti dell’atto del­ l’enunciazione (in semiotica si usa definirli ‘empirici’), al Messag­ gio che si scambiano e al Contesto di cui parlano (se si tratta di un pezzo del mondo reale), dobbiamo aggiungere le loro contropar­ ti rappresentate. Vi è un Emittente rappresentato-, ad esempio una testata giornalistica o televisiva {'Repubblica sostiene che...’) ma anche una firma d’autore magari diversa dallo scrittore reale (co­ me nel caso di Pessoa), o un attore che recita il testo, o infine quel dispositivo comunicativo artificiale che è la marca commerciale. Vi è un Destinatario rappresentato-, si pensi alle ‘risate in scatola’ delle sit-com, al pubblico degli studi televisivi, ma anche ai «miei venti lettori» di Manzoni e al ‘tu’ di tanta pubblicità. E vi è maga­ ri un Messaggio rappresentato che queste entità si scambiano, co­ me quando un conduttore tv si rivolge a un pubblico o un vendi­ tore televisivo a una possibile acquirente in video. Anche il mon­ do di cui si parla, naturalmente, in molti casi può essere solo pos­ sibile e diverso da quello reale, come abbiamo visto al paragrafo precedente. Vale la pena di sottolineare il caso in cui il contenuto di una comunicazione è una comunicazione (si parla in questo ca­ so di ‘enunciazione enunciata’): è un fenomeno che può ripetersi, provocando un caratteristico effetto di ‘incassamento’ della co­ municazione (si pensi a certe storie delle Mille e una notte, ma an­ che al funzionamento di certi telegiornali in cui il conduttore pre­ senta un corrispondente che fa partire un servizio in cui magari si mostrano delle immagini trasmesse su un’altra tv). 4.3. Di solito l’enunciazione enunciata e l’uso di emittenti rap­ presentati serve a produrre effetti di realtà, cioè a convincere il let­ tore che la comunicazione è vera, vale à dire che il suo mondo rap­ presentato corrisponde al suo mondo reale. E il caso del giornali­

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smo, ma anche del funzionamento di libri di storia e di altre co­ municazioni del genere, col loro fondamento di citazioni. E però questo modo di ottenere adesione fiduciaria da parte del destina­ tario è spesso riprodotto da falsari in buona o cattiva fede: si pen­ si ai documenti veri o apocrifi riportati in molti romanzi e all’e­ spediente del ‘ritrovamento’ di un vecchio testo, così diffuso in letteratura. O in generale al ‘realismo’ artistico. L’esistenza di simulacri dell’enunciazione nei testi pone deli­ cati problemi di identità e di realtà: è chiaro che non possiamo in­ terpretare l’*io ’ narrativo, come quello di Dante, di Manzoni o di Proust nella Recherche, come una designazione dello scrittore in carne e ossa (ad esempio sarebbe assurdo pretendere che Dante abbia davvero fatto il viaggio oltremondano che descrive); ma è anche difficile ignorare il legame che viene proposto fra rappre­ sentazione e realtà, soprattutto perché esso in certi casi ha effetti comunicativi (ad esempio illocutivi o perlocutivi). Analoghe con­ siderazioni si possono fare per gli altri simulacri dell’enunciazio­ ne. Bisogna comunque pensare che il caso tipico sia quello del di­ stacco, di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente e che la capacità che un testo ha di dire la verità sul mondo sia il frutto di un complicato effetto di realtà, un embrayage, che funziona se so­ stenuto da adeguati dispositivi (meta-)comunicativi. 4.4. Oltre ai simulacri veri e propri dell’enunciazione, nei testi si ritrovano altre tracce del loro destino enunciativo. Ad esempio ogni testo contiene implicitamente le condizioni minime di cono­ scenza linguistica ed enciclopedica, ma anche di interesse e coin­ volgimento che sono necessarie per la sua buona realizzazione (nel linguaggio della pragmatica, la felicità). L’insieme di queste condizioni individua una competenza complessa che si usa deno­ minare con Umberto Eco lettore modello. Ogni testo poi incor­ pora anche una strategia di autoaffermazione, un ideale comuni­ cativo che si sforza di realizzare (ad esempio ha un certo tono di voce, una determinata distanza, richiede una certa delega fiducia­ ria, si propone una certa valorizzazione del discorso). Sempre se­ guendo Eco si usa chiamare questa strategia testuale col nome di autore modello. '

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Filosofia della comunicazione

5. Narrazioni

Abbiamo spesso parlato del senso, senza precisare cosa intendes­ simo con ciò, trattandolo cioè come un termine primitivo. Certa­ mente per noi il senso non è identico al riferimento, come una tra­ dizione logica risalente a Frege intende questa parola; ma piutto­ sto a ciò che nel parlare comune si intende per ‘aver senso’. Sen­ za pretendere di trarne una definizione, la semiotica lega molto fortemente il senso a due altre nozioni comunicative. Della prima abbiamo già parlato: è la pertinenza, intesa non solo come il fatto di c’entrare con il topic della comunicazione, ma soprattutto di/hr differenza: un certo significante ha tanto più senso quanto più la sua presenza influisce sul contenuto della comunicazione e le sue conseguenze cognitive, passionali, pratiche. Una seconda nozione che chiarisce il senso è quella di narrazio­ ne: una cosa ha senso quando possiamo intenderla come elemento di una storia. Ma cos’è una narrazione? L’approccio più convin­ cente è ancora quello che si può ricavare da alcune osservazioni di Aristotele nella Poetica: una storia è un testo strutturato in ma­ niera tale che si possa distinguere in esso un ordine che non può essere modificato a piacere. Si tratta della fabula, cioè della strut­ tura cronologico-causale degli eventi: una cosa è accaduta perché prima ne è successa un’altra che l’ha determinata e così via. Na­ turalmente non tutti gli eventi fanno parte di una storia, c’è anche qui una selezione basata sulla pertinenza. Inoltre è certamente possibile, talvolta necessario, narrare una storia senza seguire l’or­ dine dei fatti. Ma quando questo accade (come sistematicamente nei romanzi polizieschi, ad esempio), noi possiamo dire di aver compreso la storia quando siamo in grado di ricostruire la fabula. 5.1. Uno dei risultati più significativi deha semiotica degli ulti­ mi decenni è la proposta di un unico modello descrittivo per tut­ ti i tipi di narrazioni. Questo modello, dovuto a Greimas e alla sua scuola, consiste di diversi componenti. Potremo qui riassumerne solo gli aspetti principali. In primo luogo vi è uno schema standard dell’asse sintagmatico delle narrazioni, che è composto da quattro fasi: un contratto, eventualmente preparato da un’attività di mani­ polazione cognitiva (è la fase in cui si individua assieme l’oggetto della narrazione, ciò che dev’essere ottenuto, ad esempio un teso­

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ro o un amore, la verità o la cattura di un criminale, e chi deve in­ caricarsi di farlo); una fase di accumulo della competenza necessa­ ria per costui, sia sul piano cognitivo che su quello pratico (e dun­ que egli raccoglie alleati e strumenti, conoscenze ed esperienze); una fase in cui avviene la performance richiesta; e una fase in cui tale azione ottiene la sua sanzione. Naturalmente ognuna di que­ ste fasi può fallire, ripetersi, comporsi di sottostorie (eventual­ mente in maniera ricorsiva: l’acquisizione della competenza avvie­ ne attraverso la contrattazione, il raggiungimento e il riconosci­ mento di certi sotto-obiettivi eccetera, come quando Ulisse, prima di riconquistare il suo posto, deve arrivare fisicamente a Itaca, e per farlo deve prima sopravvivere al naufragio e così via). 5.2. Un secondo aspetto del modello greimasiano è uno sche­ ma sintattico che classifica i fattori che necessariamente agiscono nella narrazione. Sono gli atlanti, da non confondersi con i perso­ naggi del testo. Se in ogni narrazione vi è un contratto, vi è anche qualcuno che lo conclude, da un lato il Destinante che vuole met­ tere in moto l’azione, dall’altro il Soggetto che acquisisce la com­ petenza (procurandosi così degli Aiutanti in forma umana o ma­ teriale o anche astratta, com’è il caso di elementi di conoscenza e di esperienza). La performance richiesta al Soggetto consiste nell’ottenere un Oggetto di valore, magari contro l’opposizione di un Avversario o Antisoggetto. La sanzione infine mette in campo co­ lui per cui tutta l’azione è compiuta, chi deve trarne vantaggio e dunque riceve l’Oggetto di valore: lo si usa chiamare Destinatario. Va ribadito che queste categorie hanno valore sintattico, non si identificano con questo o quel personaggio. Anzi, ogni personag­ gio può coprirne diverse (ad esempio se qualcuno decide di otte­ nere un tesoro o un amore perché lo desidera, costui sarà con­ temporaneamente Destinante, Soggetto é Destinatario. E ogni ruolo attanziale può essere coperto da diversi personaggi, allo stes­ so tempo o in sequenza. Ad esempio, vi possono essere più Aiu­ tanti, o più Avversari e, come capita in certe favole, un Avversario battuto e risparmiato dal Soggetto può diventare suo Aiutante. Bisogna aggiungere che oltre a questi aspetti sintattici nella narrazione vi sono aspetti semantici; in primo luogo questi conte­ nuti definiscono i temi e le figure che costituiscono la narrazione (ad esempio la stessa storia può essere trasferita in contesti molto

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diversi, come il film di Kurosawa I sette samurai, che senza cam­ biare struttura venne riscritto come western in I magnifici sette, o Cuore ài tenebra, che trasferito dalla letteratura al cinema e dal Congo al Vietnam divenne Apocalipse Noto). E vi sono le passioni dei personaggi del testo (l’ira e la gelosia, la nostalgia e il deside­ rio), che li arricchiscono di una sorta di seconda dimensione nar­ rativa, risultando contagiosi per il lettore. Ma, più in profondità, ogni narrazione mette in gioco dei va­ lori (il coraggio e la lealtà dei western, la legalità e la giustizia dei polizieschi, l’amore e la classe sociale nei libri d’amore...), che dal testo sono messi in relazione e congiunti, ma anche contrapposti fra loro. Uno dei modi più fruttuosi di leggere le narrazioni con­ siste nel considerarle come dispositivi di permutazioni di valore, che agiscono in modo da preparare una conclusione giusta. La sanzione non riguarda solo il Soggetto, ma anche i valori di cui egli è portatore. Tenendo conto di questa necessaria dimensione assiologica delle narrazioni, si capisce meglio il loro legame col sen­ so e la larghissima applicabilità di questa categoria. 5.3.1 testi, anche quelli intuitivamente più lontani come quel­ li scientifici, visivi o musicali, si possono studiare come se fossero portatori di un contenuto narrativo. Da questo punto di vista, es­ si appaiono come dispositivi che distribuiscono valori, attribui­ scono ruoli e seguono (salvo varianti) uno schema fisso che è con­ dizione della ‘sensatezza’ della comunicazione che svolgono. Una cosa, una situazione, un evento ci appaiono sensati quando sono oggetto di una storia (o, in altri termini: diventa oggetto di una storia ciò che necessita di una spiegazione, com’è caratteristico della vastissima produzione dei miti in tutte le culture). Ma il sen­ so non è solo cognitivo, implica un giudizio di valore e una posi­ zione passionale. Per questa ragione, per questa capacità di valo­ rizzare in maniera positiva o negativa e di mobilitare le passioni del lettore, e non solo per la maggiore facilità di memorizzazione, buona parte delle grandi regole che definiscono le culture, le so­ cietà, gli stati, le religioni, perfino le marche commerciali, sono in­ trodotte in forma di narrazioni, storiche o mitiche che siano. Sul­ la base di narrazione si fanno scelte, ci si identifica nella società, si stabiliscono relazioni e posizioni

IV. Analizzare testi: semiotica

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Le comunicazioni più efficaci e più popolari, quelle che riesco­ no a diffondere più largamente il loro senso hanno insomma una natura narrativa. Per questa ragione è sempre utile provare a inter­ pretare ogni sorta di testi, inclusi quelli scientifici e pratici, utiliz­ zando categorie narrative: un assunto metodologico che ha vaste implicazioni per l’analisi del funzionamento della mente umana.

6. Semiotica e comunicazione

La semiotica è una disciplina complessa, che si sforza di applica­ re alla comunicazione (e più in generale alla significazione) i mo­ delli che derivano dall’analisi del senso, che qui abbiamo solo po­ tuto riassumere assai sbrigativamente. Essa ha una natura empiri­ ca, nel senso di partire da testi concreti e di cercare di spiegarne il funzionamento e l’efficacia. Ma allo stesso tempo la sua natura­ le collocazione è filosofica, dato che si sforza di elaborare dei mo­ delli astratti su questioni che riguardano la razionalità, il funzio­ namento della mente e del linguaggio, i limiti della conoscenza e dell’espressione. Questa doppia natura è un limite, che impedisce funzionano per l’interpretazione di testi, non perché frutto di una deduzione assiomatica), ma anche di dichiarare la verità empirica delle proprie categorie, le quali sono strumenti di interpretazione e dunque possono e devono essere sempre rivedibili e non si ne­ gano fra loro, anche quando sono diverse. Ma tale condizione è anche una forza, perché le impone di proporre principi di analisi dei linguaggi e della comunicazioni quali sono e-non come do­ vrebbero essere in un mondo scientificamente ideale; e allo stesso tempo chiede che vi sia una vocazione scientifica in queste inter­ pretazioni, non semplicemente l’uso della sensibilità e della finez­ za di sguardo che caratterizza, ad esempio, la critica letteraria.

V.

Interpretare discorsi: ermeneutica di Maurizio Ferraris

1. Ermeneutica, cioè 'interpretazione’

«‘T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti’. La parola era tanto prudente, ch’era diffìcile di crederla detta per amore altrui e un po’ più franca avrebbe do­ vuto suonare così: ‘Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia’». L’inizio di Senilità (1898) di Italo Svevo ci ricorda quanto importante, e soprattutto usuale, sia interpretare i discorsi, e quanto gravi possano risultare i frainten­ dimenti. Ma non si interpretano solo discorsi. Si interpretano se­ gnali stradali, articoli di legge, libri, opere d’arte, momenti della vita quotidiana (una bicicletta mi viene incontro, e mi sforzo di ca­ pire le intenzioni: dove girerà? Non sempre riesce), gesti (alzare un braccio significa chiamare il taxi, ma anche sapere una rispo­ sta, fare una domanda, essere nazisti, fingere di essere nazisti). E persino - ed è comunissimo - espressioni involontarie del corpo (rossori, imbarazzi, colpi di tosse). L’esigenza dell’interpretare dipende dai caratteri specifici del­ la comunicazione umana. Nel parlare, infatti, si usano eufemismi: la fidanzata di Lello Arena (nel film Scusate il ritardo di Massimo Troisi) gli diceva: «Come sei strano visto da vicino», ma intende­ va - conclude con un poco di ermeneutica l’interessato - «Come sei brutto». O dissimulazioni, come nei discorsi di Norpois, l’am­ basciatore, nella Recherche di Proust, bravissimo nell’evitare di di­ re esplicitamente ‘no’, e nel rifiutare con gentilezza. E poi allusio­ ni, esplicite (‘Si è fatto tardi’) o implicite (il mio interlocutore

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guarda di sfuggita l’orologio, e io capisco l’antifona), o ancora mi­ nacce più o meno velate: «Se il signor Hitler non farà la guerra, non ci sarà la guerra. Nessuno qui vuole la guerra», disse una vol­ ta Winston Churchill alla Camera dei Comuni. In taluni casi, ab­ biamo a che fare con strategie sistematiche: ‘Sono stato frainteso’, dice il politico, che però voleva dire esattamente quello che ha detto, e spera che tutti quelli che avevano orecchi per intendere abbiano inteso. L’elenco è lunghissimo, e comprende anche le scuse non richieste, come quando Giuda dice «Son forse io, si­ gnore?». O le pedanterie, perché in certi casi (come quando si spiegano le barzellette) l’interpretazione non è gradita. Certe vol­ te non sono necessarie nemmeno parole, come nelle finte tra il cal­ ciatore che si accinge a tirare il rigore e il portiere che deve pa­ rarlo: uno finge di voler tirare a sinistra, l’altro capisce che allora tirerà a destra, ma capisce anche che questo è quanto vuole dargli a intendere, e quindi si prepara a parare un tiro a sinistra. Di que­ sto passo, si può persino diventare sinceri. E con questa somma­ ria fenomenologia della vita sociale, dove gli atti e le parole ser­ vono sia a dire sia a nascondere, vorremmo suggerire tre punti. Primo, che l’ermeneutica è il contrario (o il riflesso speculare) della retorica. Quest’ultima insegna come costruire discorsi co­ municativamente efficaci, cioè buoni per far capire, ma anche per nascondere, per dire e non dire. L’ermeneutica, invece, serve per decostruire, per smontare, per passare da ciò che viene detto, dal­ le parole e dai gesti, al significato che volevano esprimere, che non sempre, di nuovo, corrisponde con il significato esplicito. È su questa base che si è giustificata, all’inizio dell’ottocento, l’universalizzazione dell’ermeneutica, non più ridotta - come nella tra­ dizione - all’interpretazione di testi (Omero, la Bibbia, i codici giuridici), ma ogni tipo di espressione, dalle parole proferite in­ tenzionalmente ai lapsus ai gesti involontari. La seconda cosa che si sarà capita è che ‘ermeneutica’ è sino­ nimo di 'interpretazione' (è una versione di calco greco, che si im­ pone nel Seicento), solo in vesti più pompose. A lungo si è parla­ to di ‘interpretazione’ (dal latino ‘interpretatio’) e di ‘hermeneia’ (in greco), poi si è incominciato a parlare di una ‘ermeneutica’ co­ me tecnica specifica: una formulazione più dotta, più o meno co­ me i nomi latini delle piante e i nomi greci delle malattie. Ma resta importante ricordare che ‘ermeneutica’, ‘interpretazione’ e - al­

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Filosofia della comunicazione

meno per quanto riguarda i testi scritti - ‘esegesi’ sono altrettanti modi per dire la stessa cosa. Come dire che se l’eroe del Borghese gentiluomo di Molière scopre di aver parlato in prosa senza sa­ perlo, noi tutti possiamo scoprire di aver fatto ermeneutica a no­ stra insaputa. C’è una terza faccenda, un po’ più complicata, su cui vorrem­ mo richiamare l’attenzione di chi legge: con ‘interpretazione' si in­ tendono molte cose, anzi francamente troppe. Questo, probabil­ mente, è l’aspetto più interessante e problematico dell’ermeneu­ tica, ed è su questa molteplicità di sensi che si organizzerà il no­ stro discorso. In concreto, procederemo prima con una presenta­ zione dei diversi sensi dell’ermeneutica, e poi con un esame un po’ più particolareggiato del loro valore.

2. Sette sensi dell'ermeneutica

Eccoci dunque al nostro elenco. 1. Espressione. È il senso più antico, e il meno usuale, perché sembra contraddire il principio secondo cui l’ermeneutica costi­ tuisce l’inverso speculare della retorica. Non rientra fra le acce­ zioni comuni, ma è importante elencarlo per ragioni storiche e, ve­ dremo, teoriche: l’idea, che troviamo in Aristotele, è che, nell’a­ nima, gli uomini e gli animali hanno delle idee, che vengono espresse (e questa espressione sarebbe per l’appunto Vhermeneia) attraverso parole o suoni che le simboleggiano, e che a loro volta (nel caso degli uomini) possono essere rappresentati da lettere dell’alfabeto. 2. Esecuzione. Nel linguaggio ordinario, è comune dire che Laurence Olivier interpreta Shakespeare, che Glenn Gould in­ terpreta Bach ecc. Se ci facciamo caso, questo senso non è poi co­ sì diverso da (1), e ci rivela come il valore originario dell’erme­ neutica come ‘espressione’ si sia mantenuto nel senso comune, sebbene in un’accezione più ristretta, giacché riguarda l’attività professionale di certe persone, e non una dotazione naturale di persone e animali. L’idea è che ci sono, ad esempio, dei segni di inchiostro su un libro o in uno spartito che vanno espressi in pa­ role, suoni e anche gesti e atteggiamenti. E visto che questa atti-

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vita non è neutrale, le interpretazioni possono risultare molto di­ verse senza che muti l’identità di ciò che viene eseguito. 3. Traduzione. Questo è un senso comunissimo: quando uno pensa a ‘interpretazione’, la prima cosa che gli viene in mente è la traduzione; si sa benissimo che un interprete è chi traduce da una lingua all’altra. Se ci facciamo caso, è qui che osserviamo lo spo­ stamento dalla funzione ‘espressiva’ di (1) e (2) a una funzione maggiormente ricettiva (ossia all’idea dell’ermeneutica come in­ verso della retorica). C’è un’espressione in una lingua che va col­ ta nel suo significato (e non semplicemente nel seguito delle pa­ role che la compongono, anche in sintagmi molto brevi) e poi va trasformata in un’espressione corrispondente in un’altra lingua. È in questo senso che, ad esempio, ‘Good morning’, ‘Guten Morgen’, ‘bonjour’, ‘buenas dias’, si traducono con ‘buongiorno’ o al massimo con ‘buondì’, e mai con ‘buon mattino’. 4. Chiarimento. Anche questa è un’accezione molto intuitiva. Immaginiamo di trovarci di fronte a un testo scritto in geroglifici. Chi ci capisce qualcosa? È necessario che un egittologo, che co­ nosce sia gli ideogrammi egizi sia la lingua copta in cui sono scrit­ ti, chiarisca il contenuto. Questa funzione sembra molto vicina a quella dell’interprete. Ma adesso immaginiamo un altro caso, di un testo scritto in italiano. A un certo punto, dopo molte pagine che non pongono alcun problema, si incontra un passo oscuro. Anche in questo caso ci vorrà un interprete, e spesso sarà un in­ terprete professionale, ad esempio un giudice capace di dare un significato preciso, e adatto al contesto, di un testo di legge che spesso contiene espressioni volutamente vaghe (e dunque in par­ te oscure), proprio per adattarsi a più circostanze non necessaria­ mente previste dalla legge. 5. Comprensione. Con l’idea dell’interpretazione come ‘com­ prensione’, entriamo nella sfera dell’uso (e anche un po’ dell’abu­ so) filosofico del termine, a partire dall’inizio dell’ottocento, con Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher. Se nell’interpretazione come ‘chiarimento’ l’assunto di fondo è che l’interpretazione si esercita solo sulle cose oscure, mentre le cose chiare non ne abbi­ sognano, qui invece si sostiene che ogni testo e ogni discorso de­ ve essere interpretato, e che dunque l’ermeneutica costituisce un fenomeno universale. La ragione di fondo va cercata nel fatto che i teorici della universalizzazione dell’ermeneutica erano convinti

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che ogni essere umano è un mistero per gli altri esseri umani, che nessuno potrà mai scavare sino in fondo nell’anima del suo inter­ locutore, e che dunque tutto, in un certo senso, è oscuro e va chia­ rito, con un processo di esplicitazione che può andare all’infinito. E interessante osservare che in questa accezione l’interpretazione si dirige elettivamente all’anima degli altri, e non a quello di cui parlano. Eppure, se l’assunto di fondo è vero, anche ciò di cui gli altri parlano va interpretato: idealmente, se uno mi dice qualcosa di perfettamente chiaro, come ‘L’intercity per Milano parte alle 12.15’, anche in questo caso io avrei ragione di interpretare (‘Per­ ché me lo ha detto? Sarà sincero?’) 6. demistificazione. Anche questo è un senso filosofico, che de­ riva dal precedente, e che si è imposto nella seconda metà dell’Ottocento, con Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud e Karl Marx (cfr. Ricoeur 1965). L’idea è che non solo gli altri sono mi­ steri per noi, ma sono dei misteri per se stessi, e quindi dicono o fanno cose per ragioni profonde che non corrispondono a quelle esplicite. Il Presidente del Consiglio che asserisce di lavorare fino a tardi per il bene della nazione un po’ ci crede, un po’ sa che lo fa anche per il bene della sua azienda. Di fronte a queste mistifi­ cazioni, esistono dei demistificatori di professione (psicoanalisti, analisti di mercato, critici della cultura, critici dell’ideologia), che si applicano a un’opera di smascheramento. 7, Totalizzazione. Quest’ultima accezione si presenta alla fine dell’ottocento con Nietzsche e ha tenuto banco in molti settori della filosofia del Novecento. Sfrutta e porta alle estreme conse­ guenze i due sensi precedenti, concludendo che se gli altri sono dei misteri per noi e per se stessi, e noi per noi stessi, allora ogni discorso, fosse pure 2 + 2 = 4, richiede interpretazione. Insomma, non ci sono fatti, solo interpretazioni. Ovviamente, dire che non ci sono fatti ma solo interpretazioni o è un fatto o è un’interpre­ tazione. Se è un fatto, allora non è vero che non ci siano fatti, ma solo interpretazioni. Se è un’interpretazione, allora potrebbero benissimo esserci dei fatti e non solo delle interpretazioni. La pro­ posizione è contraddittoria, ma è culturalmente interessante, per ragioni che cercheremo di chiarire alla fine di questo saggio.

Che questi sette sensi non si equivalgano, lo si può dimostrare con un semplice esperimento mentale. Poniamo che Schroeder e

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Chirac si incontrino. Gli viene chiesto (in tedesco a uno, in fran­ cese all’altro) se abbisognino di un interprete. I due, secondo il senso 1 (espressione), dovrebbero rispondere che non ne hanno bisogno, perché il solo fatto di parlare dimostra che sanno inter­ pretare. L’equivoco si rimedierebbe attraverso un’interpretazione nel senso 4 (chiarimento), e verrebbe convocato un interprete nel senso 3 (interpretazione come interpretariato), che sa sia il fran­ cese sia il tedesco. Se però questi credesse di essere un interprete anche nel senso 2 (esecuzione), dovrebbe esigere un applauso al­ la fine della sua prestazione, e, forse, per farlo, eserciterebbe - con zelo inopportuno - l’interpretazione nel senso 5 (comprensione), ad esempio dicendo a Chirac: ‘Lo so che lei non ha molta stima di quest’uomo, ma deve capirlo, perché fa il suo lavoro, che non è poi molto diverso da quello che fa lei’, o addirittura nel senso 6 (demistificazione) dicendo, poniamo, a Schroeder: ‘Non creda a una parola di quello che le sta dicendo costui; e, per dirla tutta, son fatti vostri e io me ne infischio’. Se poi vigesse davvero l’in­ terpretazione nel senso 7 (totalizzazione), non si capisce perché i due si sarebbero incontrati, né di che cosa parlino. Cerchiamo al­ lora di dipanare la matassa. 3. Espressione

Il professor Canapia si presenta a un convegno. Non si è preparato e a dire il vero ha compiuto una vera e propria malefatta, nel senso che si è fatto scrivere l’intervento da un suo allievo. Le bugie hanno le gambe corte, e tutti si accorgono della truffa, visto che legge sen­ za espressione, come se pensasse per la prima volta quello che sta dicendo, e non lo capisse nemmeno troppo bene. In stazione, sente l’annuncio degli orari di un treno eseguito da un computer, e capi­ sce che la sua lettura era più o meno come quella della voce sinte­ tizzata al computer, metallica e, per l’appunto, inespressiva. L’e­ spressione, dunque, richiede un minimo di interpretazione, il che nella fattispecie significa che le parole devono ricevere un senso e un’intonazione che dimostrino che sono state capite quantomeno da chi le proferisce. Di questa circostanza abbiamo due versioni, una mitologica, connessa al dio (o semidio) Hermes, l’equivalente greco del Mercurio romano, e una scientifica, dovuta ad Aristotele.

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Incominciamo con il mito. Per i Greci, Hermes era il messag­ gero degli dèi. Una sorta di postino (i suoi simboli, ad esempio il cappello alato, si trovano su molte poste e ferrovie), e un eroe del­ la scienza della comunicazione. Infatti, secondo Platone, tipici rappresentanti di questa categoria sono i poeti, che trasmettono agli uomini i messaggi degli dèi. L’ingeneroso giudizio di Platone è dovuto alla sua antipatia nei confronti della categoria: l’idea, in­ fatti, è che i poeti non capiscono quello che trasmettono, o alme­ no non lo capiscono necessariamente, perché sono degli invasati che - come i medium di una seduta spiritica e i profeti ebraici danno voce a messaggi altrui («Cantami o diva»). Non è affatto si­ curo, anzi, probabilmente non è così, che ‘hermeneia’ derivi da Hermes, dio degli incroci, protettore dei ladri e, per l’appunto, messaggero degli dèi; i più ritengono che derivi dall’equivalente del latino ‘sermo’, ‘discorso’, e probabilmente è Hermes ad aver presoli suo nome da ‘sermo’; in qualche modo, sarebbe, nella mi­ tologia, il primo dei Grandi Comunicatori che hanno deliziato e afflitto la storia occidentale. Dal mito passiamo alla scienza. Nel trattato Dell’espressione, che da questo punto di vista risulta strettamente connesso alla psi­ cologia esposta nel De anima, Aristotele sostiene che nella mente degli uomini e almeno di certi animali superiori ci siano delle idee o dei significati, impressi come lettere sulla mente concepita co­ me una tavoletta di cera, e che si esprimono attraverso dei suoni, che simboleggiano le idee, e (nel caso degli uomini) attraverso del­ le lettere scritte che simboleggiano i suoni. Molti autori moderni hanno messo in discussione questa teoria del significato, che sem­ bra un po’ ingenua, perché vede nelle parole il semplice rivesti­ mento sensibile di idee che ne sarebbero indipendenti. Ad esem­ pio, ci sono significati impossibili senza il linguaggio, come, po­ niamo, ‘Oggi è il 30 settembre 2004’, oppure ‘La seduta è tolta’. Qui il linguaggio non si limita a dare una veste sensibile alle idee, ma piuttosto crea delle cose che non ci sarebbero senza di esso. Tuttavia, chiunque abbia cercato l’espressione giusta senza riu­ scirci sarà stato portato a condividere, almeno in quella circo­ stanza, la teoria del linguaggio e dell’espressione esposta da Ari­ stotele: quando ci manca la parola giusta, abbiamo infatti la pe­ nosa sensazione di non trovare l’abito con cui vestire le nostre idee e farle uscire da noi. In altre occasioni, troviamo una parola, ma

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ci sembra solo parzialmente adatta. Sembrerebbe dunque che nell’esprimere si compiano delle scelte, più o meno felici, proprio co­ me più o meno riuscite sono le interpretazioni che si danno di un testo o di un discorso proferito da altri.

4. Esecuzione

Con questo, si viene al secondo dei sensi enumerati nel paragrafo 2. Infatti, che cosa si esprime, quando si esprime? E, soprattutto, se quello che esprimiamo non è un contenuto mentale che ha bi­ sogno di essere portato all’estèrno, ma dei segni che sono già fuo­ ri, su un foglio di carta, si può ancora parlare di ‘espressione’? In fondo, che cosa aggiungiamo, se non dei semplici suoni, o un sen­ so che ricostruiamo mentalmente? Malgrado le apparenze, si ag­ giunge un bel po’ di cose, come possiamo verificare attraverso questi due esempi tratti da Madame Bovary di Gustave Flaubert. Il primo è nelle primissime pagine. Charles Bovary, un ragaz­ zo di campagna goffo e impacciato, entra in collegio. E la sua ina­ deguatezza, il riso che suscita tra i compagni, si condensano nella descrizione del suo berretto: «Si trattava di uno di quegli ibridi copricapi che assommano in sé i caratteri del berretto di pelliccia, del ciapska, della bombetta, della calotta di lontra e del berretto di cotone, uno di quei poveri oggetti, insomma, la cui muta lai­ dezza possiede l’espressività profonda del volto di un imbecille. Era ovoidale e rinforzato da stecche di balena; il bordo prendeva a girare con tre salsicciotti; poi, separate da un nastro rosso, vi si alternavano losanghe di velluto e di coniglio; ecco poi alla som­ mità una specie di sacchetto terminante in un poligono di cartone ricoperto da un complesso ricamo; e di li, in fondo a un esilissimo cordino, pendeva una ghianda di fili d’oro. Era nuovo; la visiera brillava». Agli antipodi di questo berretto parlante e minuziosa­ mente descritto, troviamo un altro luogo del romanzo, quando Emma Bovary cede alle avances di Rodolfo: «Ella si abbandonò», scrive Flaubert, e non aggiunge altro, proprio come Manzoni sun­ teggia tutta la relazione tra la monaca di Monza ed Egidio nella frase «La sventurata rispose». Dove il marchese di Sade avrebbe iniziato una descrizione di cento pagine, o un libro intero, Flau­ bert e Manzoni se la cavano con tre parole. Qui c’è davvero mol­

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to da aggiungere, anche se, paradossalmente, non sembra così tan­ to di più di quanto viene richiesto dal berretto di Charles, che rac­ chiude e anticipa tutta una vita. Dunque già un testo letterario, nella semplice lettura, richiede un gran numero di integrazioni, anche se spesso non ce ne accor­ giamo (anzi, il testo è tanto più riuscito quanto più riesce ad esse­ re ellittico pur restando comprensibile). Nessuno ci ha mai detto di che colore fossero gli occhi di Lucia Mondella, forse perché li teneva sempre bassi, come suggeriva malevolo Niccolò Tomma­ seo. Il colore lo aggiungiamo noi, e in taluni casi aggiungiamo ben di più: anche una semplice frase come ‘quando chiuse la porta, si accorse che la chiave era rimasta dentro’ racchiude un piccolo dramma pieno di elementi impliciti (l’eroe è rimasto chiuso fuori, ma non sta scritto da nessuna parte). Di qui il più breve romanzo della letteratura mondiale, scritto dal guatemalteco Augusto Monterroso: «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì». Questi problemi crescono esponenzialmente nel passaggio da un medium espressivo all’altro, come nell’esecuzione musicale. Qui i vuoti da riempire sono, se non molto più numerosi, almeno ben più vistosi. Una composizione consiste in una serie di segni scritti, ma si realizza come una successione di suoni. Ora, è vero che ognuno dà gli occhi che vuole a Lucia, ma è anche vero che nessuno esibisce pubblicamente questo contenuto mentale. Men­ tre nell’esecuzione musicale è proprio questo che avviene: il soli­ sta o il direttore devono manifestare un contenuto pubblico, che può essere condiviso o meno. Se poi si tratta di un’opera lirica (e questo è un problema che vale anche per il teatro, ovviamente) so­ no costretti a dare colori, vestiti e arredi alla scena, in parte com­ pletando le indicazioni del librettista, in parte integrando con la loro fantasia. Oltre ai problemi di indeterminazione che abbiamo sottoli­ neato a proposito delle opere letterarie, sorgono in modo più pe­ rentorio dei problemi di identità. Si può dire che un’opera esiste indipendentemente dalla sua esecuzione? In che cosa consiste l’i­ dentità dell’opera quando passa da un’esecuzione all’altra? Se ambiento VAida in un circo equestre, si tratta di un’interpreta­ zione o di un’aberrazione? Se riduco l’Anello dei Nibelunghi a una rappresentazione di un’ora, si tratta ancora dell’opera di Wagner, o è un’altra cosa? Nel rispondere a questi interrogativi ci

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si misura anche con dei problemi di vaghezza: ‘allegro con moto’ in che misura si differenzia da ‘andante con brio’? Non c’è una misura esatta, più o meno come nelle ricette di cucina: che cosa vorrà dire esattamente ‘quanto basta’? quanto è grande una ‘no­ ce di burro’? Il più ovvio rimedio all’indeterminatezza sta nel riconoscere l’intenzione dell’autore. Quando qualcuno mi chiama al telefono, mi scrive un messaggio e-mail o mi spedisce una lettera, immagi­ no che il contenuto rappresenti quello che mi voleva dire. Ma la cosa non è così semplice come pare. Certo, se il messaggio è ‘Ti amo’ o ‘Arrivo alle 19.30’ molto probabilmente l’autore intende dirmi che mi ama o che arriva alle 19.30. Poniamo tuttavia che il messaggio sia più sibillino. Un magistrato chiede a un imputato: ‘Lei ha mai preso tangenti?’ e l’imputato risponde: ‘Ma per ca­ rità!’; a giusto titolo il magistrato incalza: ‘Per carità sì o per ca­ rità no?’, e l’imputato ammette che il senso era ‘per carità sì’, cioè che ha preso tangenti. L’espressione viene disambiguata, e siamo tutti contenti. Immaginiamo tuttavia di trovarci tra le mani il ver­ bale, dopo la morte, e senza che il magistrato abbia chiesto preci­ sazioni. Potremo certo sapere (non dal verbale ma dalla storia) se l’imputato abbia preso tangenti, ma non potremo mai sapere se in quel preciso momento avesse inteso dire che le aveva prese. Que­ sta è indubbiamente una difficoltà che si frappone al riconosci­ mento dell’intenzione dell’autore, e che la rende meno scontata di quanto non sembri a prima vista. Ad esempio: quando Cesare var­ ca il Rubicone e dice «Il dado è tratto», che cosa intende dire, esattamente? Probabilmente, che ha preso una decisione che si ri­ ferisce alla sua condotta politica (questo lo deduciamo dal conte­ sto, ma potrebbe non essere così); ma di che si tratta? Della deci­ sione di marciare su Roma? Di por fine al consolato? Di diventa­ re imperatore? Non lo sappiamo, e certo non sembra una buona idea spiegare VIliade ricorrendo alle intenzioni di Omero, che for­ se non è mai esistito. E in base a queste considerazioni che si è recuperata Vintenzione dell’opera: ossia ciò che l’opera, prescindendo dalla psicolo­ gia dell’autore, significa. Ovviamente, è difficile trovare un’inten­ zione del genere in un sms che recita ‘Ti amo’, visto che l’espres­ sione non avrebbe senso prescindendo dall’intenzione di un au­ tore che si rivolge a noi (immaginiamo di leggere ‘Ti amo’ su un

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muro, senza firma e senza destinatario). In generale, si tratta di un ripiego: nel momento in cui non siamo in grado di stabilire l’inten­ zione dell’autore, allora ricorriamo all’opera. Supponiamo - talu­ ni non lo esclusero - che l’autore delle opere di Shakespeare sia Bacone. Probabilmente molto cambierebbe, ma non lo sappiamo, per cui ci esercitiamo a leggerle prescindendo dalla psicologia del­ l’autore, anche perché, nel frattempo, siamo distratti dalla psico­ logia dei personaggi, e tanto ci basta. Qui sembrerebbe che l’in­ tenzione dell’opera sia semplicemente un surrogato che sposta l’intenzione dell’autore nell’intenzione di personaggi di finzione. Tuttavia, prendiamo un messaggio poco più lungo di ‘Ti amo’. Ad esempio ‘A vista pagare questo assegno bancario’, seguito dall’in­ dicazione di una somma e da una firma. Tutto sommato, l’inten­ zione dell’autore ci interessa ben poco. Certo, sarebbe un pecca­ to se non ci fosse, se gli fosse stata estorta e poi l’assegno ci fosse stato girato in cambio di contanti. Ma sarebbe un peccato ancora maggiore se l’autore avesse avuto tutte le migliori intenzioni del mondo, però l’assegno fosse stato scoperto. E adesso prendiamo una frase come ‘E vietato calpestare le aiuole’. Anche in questo ca­ so, si postula un autore abbastanza fittizio, chiamato ‘il legislato­ re’, ma nel non calpestare le aiuole non ci sembra di penetrare l’in­ tima psicologia del legislatore, riteniamo piuttosto di ottempera­ re a intenzioni che stanno nell’opera, ossia nel cartello. I moderni (o più esattamente i postmoderni) si sono inventati anche l’intenzione del lettore, spesso sulla base di indicazioni di poetica come quella enunciata da Paul Valéry: «I miei testi avran­ no il senso che si vorrà». Intanto, è utile precisare che Valéry si ri­ feriva a certi suoi testi, probabilmente ai versi, meno sicuramente ai saggi, e certamente non agli assegni o al testamento. Enunciata in questi termini, la legge è solo un’estensione di quanto detto a proposito di espressioni volutamente sibilline come ‘Ma per ca­ rità! ’, e in effetti c’è un gran gusto a scovare i molti sensi di un te­ sto poetico. Tuttavia, è facile immaginare che se davvero questi sensi non avessero alcuna corrispondenza con l’autore, o peggio ancora con l’opera, ci si chiede che diavolo facciamo quando leg­ giamo una poesia o un’opera letteraria in genere. Possiamo con­ statarlo facilmente con un esempio. Le opere di Franz Kafka de­ scrivono spesso stati angosciosi e inquietudini teologiche, ed è un vero piacere cercare di scovare tutti questi sensi, se non altro per

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sedare l’ansia che ci procurano. Tuttavia, è frustrante apprende­ re, dalla testimonianza del suo amico Max Brod, che quando Kafka leggeva II processo ai suoi amici, tutti - lui per primo - si fa­ cevano delle matte risate. Ci sentiamo presi in giro e non sappia­ mo più come trattare quello che leggiamo.

5. Traduzione

C’è di peggio. Provate a tradurre un testo dal bulgaro disponen­ do soltanto di un vocabolario, oppure usando un traduttore au­ tomatico di quelli che si trovano in rete. Vi renderete subito con­ to che la traduzione non è mai trasportare una parola in un’altra lingua, ma dire pressappoco la stessa cosa, decifrando intenzioni, oggetti, contesti, e non solo sostituendo parole. Infatti anche il tra­ duttore umano va incontro a delle difficoltà, come dimostra l’ov­ via considerazione che ci sono traduzioni migliori e peggiori, co­ sì come traduzioni sbagliate. Restando agli aspetti macroscopici, si possono riconoscere due difficoltà maggiori. La prima è stata sottolineata da Jacques Derrida (1978): per capire sino in fondo un’espressione, avremmo bisogno di posse­ dere pienamente non solo l’intenzione di chi scrive, ma anche il contesto in cui ha luogo. Ma questo può anche non avvenire mai, giacché non potremo mai determinare, sino in fondo e con una certezza assoluta, quale sia il contesto in cui si inserisce un mes­ saggio scritto o orale. Si tratta di una difficoltà particolarmente acuta nel caso dei messaggi scritti. Mentre in un contesto orale i gesti, l’espressione e le circostanze di chi parla, nonché la possi­ bilità di fare domande, aiutano a precisare il senso, la scrittura può essere letta in assenza dello scrittore: anche la lista della spesa, che apparentemente mi ricorda, me presente, le compere da fare, ma che domani potrà restare sul tavolo di cucina, e magari (poniamo che io sia un autore famoso) venire studiata e classificata da un fi­ lologo. Derrida fa un esempio a proposito di Nietzsche: c’è un frammento postumo in cui si legge «Ho dimenticato l’ombrello». È una pagina di diario? Un promemoria? Una considerazione sul­ la storia della metafisica? Non potremo mai saperlo e, conoscen­ do le bizzarrie di Nietzsche, non possiamo escludere alcuna pos­ sibilità. Nessuno ha il sapere assoluto, e persino la lista della spe­

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sa potrebbe celare delle implicazioni inconsce; in fondo Freud ha fatto una lettura psicoanalitica di un registro contabile di Leonar­ do da Vinci. Un altro problema riguarda quello che Willard Van Orman Quine (1960) ha chiamato «traduzione radicale». Qui non è que­ stione di domandarsi se conosciamo pienamente il contesto del messaggio, bensì di esaminare la condizione in cui ci si trova se non si possiede in alcun modo il contesto, e cioè si ignora com­ pletamente la lingua del nostro interlocutore. Immaginiamo un etnologo in una tribù a lui ignota in tutto e per tutto. Ogni volta che si vede un coniglio, i nativi dicono ‘gavagai’. Ora, come si fa a stabilire che la parola significhi ‘coniglio’ e non un frammento temporale del coniglio, una sua parte spaziale, l’essenza della coniglità, un passaggio di coniglio ecc. Detto per inciso, sembra che qualcosa del genere sia avvenuta per davvero: ‘canguro’ traduce la risposta ‘kangaroo’, che James Cook ebbe dai nativi quando chiese come si chiamava l’animale in questione e questi gli rispo­ sero ‘non lo so’, cioè, nella loro lingua, ‘kangaroo’. Questi due filosofi esagerano? Solo fino a un certo punto, per­ ché effettivamente si possono dare casi-limite come quello del­ l’ombrello di Nietzsche o di gavagai. Normalmente, però - ed è una circostanza che non si deve trascurare, a meno di voler tra­ sformare la vita in un rebus - le cose vanno molto più lisce. È a questa circostanza che si richiama un terzo filosofo, il discepolo di Quine, Donald Davidson (1984), quando sostiene che le nostre interpretazioni linguistiche non possono prescindere da un prin­ cipio di carità interpretativa che massimizzi la coerenza delle cre­ denze del parlante e la loro corrispondenza ai fatti. Cioè, in parole povere, è buona norma assumere che il nostro interlocutore sap­ pia quel che dice e non voglia ingannarci. Il che, obiettivamente, è ciò che accade il più delle volte. I vantaggi di un simile atteggia­ mento fiduciario sono almeno due: non solo sembra aderire alla nostra più normale esperienza, ma soprattutto ci semplifica la vi­ ta. Non è bello e non è utile leggere il giornale pensando che le notizie che riporta siano in realtà messaggi segreti che si scambia­ no gli extraterresti, e, soprattutto, un atteggiamento così sospet­ toso ci rende indecifrabili anche le notizie più normali. Nella tra­ dizione dell’ermeneutica, questo principio veniva chiamato ‘pre­ supposto della perfezione’: l’idea di fondo è che per capire un te­

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sto o un discorso bisogna partire dall’idea che abbia un senso compiuto, e che solo nel momento in cui i nostri tentativi venis­ sero completamente frustrati si dovrà ammettere che questo sen­ so non c’è. L’insegnamento positivo che può venire da queste difficoltà è dato dalla teoria del ‘circolo ermeneutico’ (cfr. Gadamer 1960). Qui l’assunto di base è che (proprio come nell’ipotesi della tra­ duzione radicale) se non abbiamo nulla in comune con il testo che leggiamo o il discorso che ascoltiamo, difficilmente possiamo ca­ pirlo. Prima di comprendere un testo o un discorso sussiste dun­ que una ‘precomprensione’ o un ‘orizzonte di attesa’; ad esempio, in forma minimale, che si tratti di un testo o di un discorso e non di un arabesco che accidentalmente può ricordare una scrittura. Il decodificatore che cerca di decifrare un messaggio in codice de­ ve necessariamente presupporre di avere a che fare con un testo e non con delle interferenze nel sistema radiofonico. Ma anche un testo in italiano di non immediata comprensione (poniamo che qualche parola sia cancellata, o che sia scritto da uno che non pa­ droneggia la lingua) può essere compreso solo a condizione che si presupponga un qualche senso. Generalizzando questa conside­ razione, Martin Heidegger (1927) ha sostenuto che non solo la comprensione di messaggi, ma l’intero rapporto dell’uomo con il mondo è caratterizzato da un circolo ermeneutico: banalmente, se non sapessimo a cosa servono i cacciavite potremmo essere tenta­ ti di usarli per pulirci le orecchie, e un cane probabilmente non ha un’idea chiara di che cosa possa essere un museo. La considera­ zione è sostanzialmente vera, anche se esagerata (rientra in quella iperbole totalizzante dell’ermeneutica di cui parleremo nel para­ grafo 8), perché un cane non sa che cosa sia una sedia, eppure ci si può accucciare sopra. 6. Chiarificazione

Ritorniamo al campo più circoscritto dell’interpretazione di testi e di messaggi. Prendiamo questo brano Agosto, moglie mia non ti conosco (1930) di Achille Campanile: «Ella, indicando dalla finestra il boschetto, disse ai visitatori: ‘Là, dove sono quegli alberi, papà fa il porco’.

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Filosofia della comu.nica7.1one

Tutti si guardarono in faccia sorpresi e imbarazzati. Pavóni scosse il capo, con profonda tristezza. La fanciulla si avvicinò a lui e, abbracciandolo, disse: ‘E vero papà, che fai il porco laggiù? Me l’ha detto anche il giardiniere’. ‘Sì, cara, sì’ disse Pavoni, carezzandole il capo. Si vedeva che soffriva atrocemente. ‘Fa il porco e il villano’ spiegò la ragazza agli ospiti, guardan­ do con tenerezza il genitore. È chiaro che porco va inteso parco e villano villino». La ragazza era stata vittima di un precettore perverso che le aveva insegnato «le principali parole della lingua italiana in forma errata». Noi ci divertiamo, perché è facile sostituire ‘parco’ a ‘por­ co’ e ‘villino’ a ‘villano’. Ma non sempre è così, e in tal caso dav­ vero è necessaria un’interpretazione. E il senso che prevaleva sino alla fine del Settecento, cioè prima dell’universalizzazione dell’er­ meneutica di cui si è detto: le cose del tutto chiare non hanno bi­ sogno di essere interpretate, quelle completamente oscure non meritano di essere interpretate, e dunque l’interpretazione inter­ viene solo quando, in un contesto trasparente, troviamo qualche punto opaco. Come lo si chiarifica? Sin dall’epoca alessandrina, i due modi fondamentali di chia­ rificazione sono stati il metodo allegorico e quello storico-gram­ maticale. L’allegoria suppone che ciò che non ci appare immedia­ tamente evidente sia il simbolo di qualcosa di più comprensibile e sensato. Se uno legge, poniamo, che ‘Dio è fuoco’, potrebbe sor­ prendersi, visto che pensava che fosse spirito e non aveva mai cre­ duto di trovare Dio ih un accendino; a questo punto, il metodo al­ legorico spiegherebbe che l’espressione è una metafora per indi­ care il carattere potente e spirituale di Dio. In altri termini, il me­ todo allegorico consiste nel trovare delle metafore sotto il senso letterale. Questo metodo si può complicare e arricchire attraver­ so una stratificazione di sensi (cfr. Lubac 1959). Ne abbiamo una versione molto famosa nella lettera in cui Dante chiarisce a Can Grande della Scala questa stratificazione di significati. Si prenda, ad esempio, una frase della Bibbia come: «Durante l’esodo di Israele dall’Egitto, la casa di Giacobbe si staccò da un popolo stra­ niero, la Giudea divenne un santuario e Israele il suo dominio». Ora, precisa Dante, «Se osserviamo solamente il significato lette­

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rale, questi versi appaiono riferiti all’esodo del popolo di Israele dall’Egitto, al tempo di Mosè; ma se osserviamo il significato alle­ gorico, il significato si sposta sulla nostra redenzione ad opera di Cristo. Se guardiamo al senso morale, cogliamo la conversione del­ l’anima dal lutto miserabile del peccato alla Grazia; il senso ana­ gogico indica, infine, la liberazione dell’anima santa dalla servitù di questa corruzione terrena, verso la libertà della gloria eterna». Il metodo storico-grammaticale, invece, consiste nel ricondur­ re l’espressione oscura al senso che poteva avere nell’epoca in cui è stato scritto il testo, o a cognizioni storiche d’altro tipo che po­ trebbero essere ignote al lettore. Per restare all’esempio di ‘Dio è fuoco’, l’ermeneutica storico-grammaticale potrebbe ricordare che Dio si è manifestato a Mosè in un roveto ardente. Oppure po­ trebbe sottolineare che l’ebraico ruah indica sia ‘spirito’ sia ‘fiam­ ma’, e che dunque dire ‘spirito’ e dire ‘fuoco’ sono espressioni equivalenti. Non si tratta di una pratica ristretta all’interpretazione di testi antichi, come potrebbero far supporre gli esempi proposti sin qui. Ad esempio, uno psicoanalista adopera in modo combinato en­ trambi i metodi: quello allegorico, quando interpreta un sogno, e quello storico-grammaticale, quando inserisce le affermazioni del paziente in quello che sa della sua vita. Tutte queste regole di chia­ rificazione hanno ovviamente dei limiti. Il limite del metodo sto­ rico-grammaticale sta nel fatto che potremmo non disporre di strumenti sufficienti per conoscere la realtà indicata dal testo. E sulla base di questa considerazione che il cardinale Roberto Bel­ larmino contestò la pretesa dei protestanti di accostarsi alla Bib­ bia senza la mediazione della Chiesa. Il suo discorso suonava in­ fatti così: sono passati così tanti secoli che noi non siamo più in grado, con il solo ausilio delle nostre conoscenze storiche e lin­ guistiche, di interpretare correttamente i libri sacri. Per cui la so­ la via attraverso cui possiamo accostarli consiste nel fidarsi delle interpretazioni più antiche, fornite dai Padri della Chiesa e tra­ smesse dalla tradizione apostolica, cioè da Roma. Poteva sembra­ re un discorso brutale e conservatore, di fatto lo era, ma non ri­ sultava privo di argomenti. Il metodo allegorico, al contrario, ha la caratteristica di non avere mai fine. E la pretesa di interpretare secondo lo spirito in­ vece che secondo la lettera può provocare molti effetti indeside­

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rati. Johann Gottlieb Fichte suggeriva di interpretare Immanuel Kant secondo lo spirito, ma quest’ultimo si riconobbe tanto poco in quelle interpretazioni che pubblicò una pubblica sconfessione di Fichte che si concludeva citando il proverbio: ‘Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io’. E Jorge Luis Borges ha scritto una bellissima novella sullo smodato proliferare di me­ tafore, cioè di sensi sovrapposti al significato letterale, nel poema islandese l’Edda: l’aria è ‘la casa del vento’; le aringhe sono ‘frec­ ce del mare’, la barba è ‘il bosco della mascella’, ma a loro volta la casa e il vento, le frecce e il mare, il bosco e la mascella possono essere denotate con altre metafore, così che da una sola parola uno può ricavare un libro sterminato. 7. Comprensione Se alla domanda ‘Come sta?’ rispondo ‘Bene, grazie’, non c’è bi­ sogno di interpretazione. Se invece rispondo ‘Potrebbe andar me­ glio’, allora c’è già qualcosa da interpretare, e nella fattispecie sembra manifestarsi l’esigenza di comprendere la psicologia di chi dice ‘Potrebbe andar meglio’. Il problema consiste però nel de­ terminare il significato di ‘comprendere’, che può essere:

1. Capire (ed è il senso ovvio). Ma in questo caso sembrerebbe che non ci sia bisogno di ermeneutica. Ludwig Wittgenstein (1953) ha sottolineato, a questo proposito, che, ad esempio, la compren­ sione di un ordine - poniamo, ‘Apri la porta’ - non richiede in­ terpretazione. Ci sarebbe insomma un grado zero della comunica­ zione che risulta immune dall’interpretazione. Viceversa, un teori­ co dell’universalità dell’ermeneutica come Hans Georg Gadamer (1960) ha sostenuto che in ogni applicazione di una regola c’è un elemento di interpretazione. Probabilmente il conflitto tra la ver­ sione di Wittgenstein e quella di Gadamer sta nei diversi esempi che hanno in mente. Il primo, infatti, pensa per l’appunto all’ese­ cuzione di ordini o regole elementari; il secondo invece all’appli­ cazione di leggi, che effettivamente richiedono un intervento in­ terpretativo del giudice. In questo senso, la differenza tra i due li­ velli si può spiegare con quanto si è detto al paragrafo 6 a propo­ sito della chiarificazione: l’applicazione di regole semplici non ne­

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cessita di chiarificazione, e dunque non abbisogna di interpreta­ zione, mentre una legge o una regola complèssa può richiederla. 2. Immedesimarsi, trasporsi, mettersi nei panni altrui. Si tratta di un’accezione molto specifica introdotta da Wilhelm Dilthey ( 1905 -1911 ), nel quadro di una contrapposizione tra le scienze na­ turali e quelle storico-sociali. L’idea di fondo è che, mentre le leg­ gi di natura possono essere spiegate in base a princìpi esclusivamente causali, i processi storici, sociali e psicologici richiedono l’intervento di princìpi finali e, dunque, abbisognano di un'im­ medesimazione. In breve, per spiegare le cause di un tumore, io non devo immedesimarmi nelle cellule; per comprendere Water­ loo, devo almeno in parte mettermi nei panni di Napoleone e dei suoi avversari, capire quali fossero i loro moventi e i loro obietti­ vi. La differenza tra un neuroscienziato e uno psicoanalista può ri­ sultare da questo punto di vista illuminante. Il primo studia il cer­ vello umano così come studierebbe il cervello di un castoro, men­ tre il secondo deve immedesimarsi nel paziente, e dunque appare improbabile sia che uno psicoanalista curi un castoro, sia che un castoro faccia lo psicoanalista.

La sovrapposizione di questi due sensi, la semplice compren­ sione e l’immedesimazione, ha prodotto l’idea che anche le scien­ ze naturali richiedano l’intervento di un atto di comprensione, ad esempio volto a spiegare che le stesse indagini sulla natura sono determinate dagli interessi psicologici e vitali dei ricercatori. Ed è a questo punto che la comprensione trapassa in un altro livello, quello della demistificazione. 8. Demistificazione A Buenos Aires c’è un quartiere abitato da moltissimi psicoanali­ sti, e perciò chiamato ‘Barrio Freud’ (quartiere Freud). Nei nego­ zi o nei bar interpretano come nel loro studio? È lecito dubitar­ ne. Si demistifica o si smaschera solo in certe circostanze, ed è be­ ne ricordarselo: l’interpretazione come smascheramento o demi­ stificazione è un’estremizzazione del comprendere. All’origine c’è un principio che definisce l’esatta interpretazione come «com­ prendere l’autore innanzitutto altrettanto bene, e poi anche me­

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glio di quanto si sia inteso lui stesso» (cfr. AA.W. 1988) Sembra un proposito un po’ paradossale, perché l’idea ingenua è che le persone conoscano se stesse meglio degli altri, ma il solo fatto che i poeti ringrazino i critici per le loro interpretazioni, e soprattutto che molte persone vadano dallo psicoanalista, dimostra che le co­ se non stanno necessariamente così. E questo non vale solo per i critici letterari e per gli psicoanalisti. Lo storico che a distanza di secoli ricostruisce un evento è, da un certo punto di vista, in una situazione privilegiata rispetto a coloro che vivevano quell’even­ to, perché dispone di un contesto più ampio di loro, quello che popolarmente si chiama ‘senno di poi’; quel senno che possono avere anche i filosofi che a distanza di secoli leggono filosofi più antichi, e che si esercitano in una ricostruzione razionale di argo­ mentazioni che nella prima formulazione non erano così chiare. Questa è, per così dire, una situazione normale, valida per tutti i tempi. Ma, per l’appunto, a partire dall’ottocento è stata enfatiz­ zata dall’idea che il pensiero debba esercitare un’attività critica, e smascherare gli inganni che gli uomini o la stessa società possono, fare a se stessi e agli altri (cfr. Habermas 1968). Il paradigma degli autoinganni individuali è fornito dalla psi­ coanalisi: ci tormentiamo per ragioni che non riusciamo a capire, o dandoci dei motivi che non sono veri. Il compito dello psicoa­ nalista consiste per l’appunto nel rimettere il paziente in contatto con le sue motivazioni profonde, vincendo le resistenze, le rimo­ zioni e i mascheramenti che gli impediscono di riconoscerle. Qualche volta ci si riesce, ma purtroppo, spiega Freud, capire per­ ché facciamo qualcosa non equivale alla guarigione dalle proprie ossessioni. Il paradigma degli inganni collettivi, invece, è dato dal­ la critica dell’ideologia, che c’è sempre stata, ma fiorisce in modo molto rigoglioso nell’Ottocentó grazie a Marx. Alla base, c’è una considerazione abbastanza ovvia: ci sono ricchi e poveri. Gli uni e gli altri sono convinti di fare uno scambio: il povero produce un oggetto, poniamo del carbone, e il ricco lo compra e lo rivende ad altri. Ma proprio qui è l’equivoco, perché questa spiegazione na­ sconde il fatto che il povero, in realtà, non vende un oggetto, ben­ sì ore di lavoro, e il ricco dunque guadagna molto di più di quan­ to non creda non solo il povero, ma lui stesso, convinto che il suo benessere dipenda dalla parsimonia, dalla bontà dei suoi princi­ pi, dalla benedizione divina. Visto che il ricco è sinceramente con- •

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vinto che le cose stiano così (probabilmente disprezza i nobili fan­ nulloni), e lo scrive sui suoi giornali, romanzi, prediche, sarà uti­ le una critica dell’ideologia che avvisi ricchi e poveri dell’inganno di cui sono preda, sebbene in modi e con conseguenze diverse. Se si dà il giusto peso all’interpretazione come smascheramen ­ to, ad esempio invitando a considerare che un giornalista difficil­ mente scriverà contro il proprio editore, e forse lo farà in buona fede, allora avremo trovato uno strumento indispensabile per una filosofia della comunicazione. Se viceversa si sostiene che i quark sono il frutto delle ambizioni degli scienziati, allora si entra nella dimensione totalizzante dell’ermeneutica, cioè nella tesi - franca­ mente aberrante e inutile - secondo cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni.

9. Non ci sono fatti, solo interpretazioni? «Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: ‘ci sono soltan­ to fatti’, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpre­ tazioni. Noi non possiamo constatare alcun fatto ‘in sé’; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere» (Nietzsche 1885-1887). La frase di Nietzsche è abbastanza facile da smascherare, a sua volta. Proviamo a sostituire ‘fatti’ con ‘gatti’, e guardate cosa ne viene fuori: «Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: ‘ci sono soltanto gatti’, direi: no, proprio i gatti non ci sono, bensì so­ lo interpretazioni. Noi non possiamo constatare alcun gatto ‘in sé’; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere». Non funzio­ na proprio. Si provi a mettere in tribunale, al posto di ‘La legge è uguale per tutti’, ‘Non ci sono fatti, solo interpretazioni’: ti sale un brivido per la schiena, se sei innocente. Infine, ammesso che ci sia­ no interpretazioni (e non c’è dubbio che ce ne siano), sarà anco­ ra da vedere se queste interpretazioni siano infinite. E chiara­ mente non è così. Nella migliore delle ipotesi, per ciò che attiene al problema della comunicazione, si può immaginare una distinzione fra ‘in­ terpretazione’ e ‘uso’ (cfr. Eco 1990). Posso leggere gli Esercizi spi­ rituali di Ignazio da Loyola come se li avesse scritti Sade. Ma è im­ portante che io lo sappia (e questo dimostra che ci sono fatti, non solo interpretazioni). Posso anche fraintendere completamente

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un discorso o un testo, mà questo non significa che non esistono fatti, solo interpretazioni, bensì che errare è umano (e persevera­ re diabolico).

10. Interpretare e decidere Nel 1819 un sacerdote cattolico, Francesco Zamboni, scrisse un Saggio di una memoria sopra la necessità di prevenir gl’incauti con­ tro gli artifici di alcuni professori d’Ermeneutica. Esagerava? In­ dubbiamente sì. Ma non è meno certo che anche Nietzsche esa­ gerava e che, dovendo scegliere, probabilmente ha più ragione lo Zamboni. Non che un po’ di interpretazione, in un senso mini­ male, non ci sia anche quando qualcuno ci dice ‘Buongiorno’, ma si può esser certi che un ben diverso sforzo ermeneutico si dareb­ be nel caso in cui, a dirci ‘Buongiorno’ fosse un indio del Mato Grosso o il ficus che sta nel nostro ufficio. La morale che si po­ trebbe trarre - non solo per una filosofia della comunicazione - è la seguente. E ovvio che si interpreta sempre, perché la compren­ sione richiede uno sforzo da parte nostra, ma non è affatto ovvio che si interpreta tanto, o così tanto come si è sostenuto negli ulti­ mi due secoli. Soprattutto, non si interpreta all’infinito-, prima o poi, si dovrà prendere una decisione, dettata certo da interpreta­ zioni, ma che non ne ammetterà altre1. 1 Per non appesantire il testo, abbiamo ridotto i riferimenti bibliografici al­ l’essenziale. Per ulteriori approfondimenti, ci permettiamo di rinviare a Ferra­ ris 1988 e 1998.

VI.

Persuadere: retorica * di FransH. van Eemeren e Peter Houtlosser

1. Persuasione e ragionevolezza argomentativa Il protagonista del‘racconto di John Le Carré Una spia perfetta è un bambino, allevato da tutti fuorché dal padre, un simpatico ciarlatano. Ogni tanto il padre lo va a trovare, e ogni volta che sta per andarsene, il figlio si mette a piangere. Per cercare di farlo smettere, il padre gli dice «Vuoi bene al tuo vecchio papà? E allora...». Si tratta di un caso di comunicazione argomentativa indiretta, non diverso dagli esempi di persuasione verbale presenti in quasi tutte le nostre conversazioni quotidiane. Ma come funziona l’ar­ gomentazione orientata alla persuasione? E fino a che punto resta, nei limiti della ragionevolezza? Questo è il tipo di domande a cui questa nostra analisi su comunicazione e argomentazione cer­ cherà di rispondere. La nostra attenzione sarà qui rivolta allo stu­ dio dell’argomentazione in relazione con la filosofia della comu­ nicazione - che è in realtà una filosofia della ragionevolezza. Ci concentreremo innanzitutto sugli approcci retorici che identifica­ no argomentazione e abile persuasione; in chiusura cercheremo tuttavia di mostrare che una riflessione matura sull’argomenta­ zione non può fare a meno di un approccio dialettico e della filo­ sofia critica che lo sottende. Vedremo come il discorso argomentativo possa essere affron­ tato da varie prospettive, che dipendono anzitutto da quale con­ cezione filosofica di ragionevolezza assumiamo: i due approcci * Traduzione dall’originale inglese di Alessandro de Lachenal.

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più rilevanti sono quello dialettico, che assume una concezione critica di ragionevolezza, e quello retorico, che ne segue una an­ tropologica. Per chiarire queste due diverse prospettive, presen­ teremo brevemente le componenti essenziali di un programma di ricerca complessivo sul discorso argomentativo, e ne distinguere­ mo una versione retorica e una dialettica. Faremo poi riferimento agli studiosi che hanno esercitato il maggior impatto sulla teoriz­ zazione moderna della retorica - e che possono essere considera­ ti a ragione ‘neoclassici’: Stephen Toulmin e Chaìm Perelman. De­ scriveremo altri sviluppi della retorica contemporanea, come la ri­ cerca empirica sulla persuasione e le varie tendenze della critica retorica. In conclusione, tenteremo di colmare il divario tra ap­ procci retorici e approcci dialettici al discorso argomentativo, ri­ correndo alla nozione di ‘mossa strategica’ proposta di recente al­ l’interno della prospettiva pragma-dialettica dell’argomentazione. 2. Retorica e dialettica

Lo studio dell’argomentazione è dedicato all’analisi e alla valuta­ zione del discorso argomentativo alla luce di princìpi critici. La ri­ cerca mira cioè a comprendere sia le caratteristiche descrittive della realtà argomentativa, sia i criteri normativi del discorso ar­ gomentativo fondato (sound). Per soddisfare entrambi gli scopi è necessario un programma di ricerca che inquadri lo studio del­ l’argomentazione in una prospettiva coerente e generale. Le prin­ cipali prospettive oggi disponibili sono quella dialettica e quella retorica: nella prospettiva retorica l’argomentazione viene trattata come mezzo per persuadere un pubblico dell’accettabilità di un certo punto di vista, mentre nella prospettiva dialettica essa viene concepita come la parte fondamentale di una discussione critica mirata a sottoporre a controllo la sostenibilità di un punto di vi­ sta. Illustriamo le due prospettive esaminando le componenti es­ senziali di ogni programma di ricerca sul discorso argomentativo. La componente filosofica del programma di ricerca deve chia­ rire che cosa significhi ‘ragionevolezza’. Possiamo distinguere tra una concezione formale ‘geometrica’ della ragionevolezza, una ‘antropologica’ e una ‘critica’ (cfr. Toulmin 1976): l’adozione di una di queste tre concezioni influenza il modo in cui si valuta l’ac­

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cettabilità di un’argomentazione. Di solito gli studiosi di retorica prediligono uno sguardo antropologico, e identificano la ragione­ volezza con i princìpi di valutazione di un’argomentazione che prevalgono all’interno di una certa comunità o cultura. In virtù di questa correlazione fra l’ideale di ragionevolezza e un gruppo par­ ticolare di persone in un dato tempo e luogo, la prospettiva reto­ rica può essere caratterizzata come antropologica. Gli studiosi di dialettica si concentrano invece sulla valutazione sistematica del punto di vista di una delle parti in causa alla luce dei dubbi criti­ ci dell’altra. Nella loro ottica la ragionevolezza non è determinata esclusivamente dall’uso di una norma di ‘validità convenzionale’ [conventional validity), che equivale a richiedere un accordo in­ tersoggettivo, ma anche dall’applicazione di una norma di ‘vali­ dità rispetto al problema’ (problem validity), che esige si raggiun­ ga un accordo sulla soluzione del particolare problema in que­ stione nel modo più rigoroso ed efficace. Il criterio principale è, in questo caso, se l’argomentazione serva o meno a condurre con metodo una procedura critica di soluzione: la prospettiva dialet­ tica può dunque essere qualificata come critica. La componente teorica deve dar forma all’ideale di ragionevo­ lezza prescelto, progettando modelli di ciò che significa agire ra­ gionevolmente nel discorso argomentativo. Questi modelli ideali specificano i modi di discussione accettabili per un giudice che sia ragionevole alla luce della concezione filosofica della ragionevo­ lezza prescelta. In un modello retorico, l’accettabilità dell’argo­ mentazione è correlata allo specifico sfondo culturale delle per­ sone che si intende influenzare con l’argomentazione: tale pro­ spettiva teorica può essere pertanto denominata epistemo-retorica. Un modello dialettico specifica invece quali mosse, ai vari sta­ di di una discussione critica, possono contribuire a raggiungere lo scopo critico, e riassume le regole da rispettare. La componente empirica riflette sulle proprietà della realtà ar­ gomentativa e descrive i processi di produzione, identificazione e valutazione del discorso argomentativo, nonché i fattori che ne in­ fluenzano il risultato. La ricerca può essere quantitativa o quali­ tativa: in una prospettiva retorica si dà rilievo all’efficacia di certi modelli argomentativi rispetto a differenti tipi di pubblico, per poi concentrarsi suiprocessi di persuasione', in una prospettiva dia­ lettica il rilievo è invece sui modi in cui varie mosse argomentati­

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ve contribuiscono a risolvere una divergenza di opinioni - l’inte­ resse primario è qui sulle procedure di controllo critico. Nella componente analitica, analogamente a quanto succede nell’analisi freudiana, l’apparenza esteriore viene correlata siste­ maticamente col modello ideale scelto, allo scopo di ‘vedere at­ traverso’ il discorso, via via che esso si manifesta in pratica. Il li­ vello analitico fonde reale e ideale, in modo da soddisfare sia i re­ quisiti normativi esemplificati nel modello ideale, sia i dati de­ scrittivi della realtà empirica. Che nella ricostruzione si usi un mo­ dello retorico, nel quale l’argomentazione è vista come un mezzo per ottenere approvazione, o uno dialettico, nel quale l’argomen­ tazione è un mezzo per controllare l’accettabilità di un punto di vista, il discorso argomentativo deve subire comunque alcune tra­ sformazioni analitiche al fine di trasporre l’intuizione teorica in si­ tuazioni pratiche. In un’analisi retorica si tenta di fornire una comprensione di tutti quegli aspetti del discorso argomentativo che possono esercitare un’influenza sul pubblico, ricostruendo il discorso come un tentativo di convincere un pubblico a condivi­ dere un punto di vista; una ricostruzione retorica è dunque rivol­ ta al pubblico. In un’analisi dialettica, invece, si tenta di fornire una comprensione degli aspetti del discorso argomentativo rile­ vanti per risolvere una divergenza di opinioni; una ricostruzione dialettica è tipicamente rivolta alla soluzione. Nella componente pratica vengono applicati gli spunti filoso­ fici, teorici, analitici ed empirici. Lo scopo generale è migliorare le procedure argomentative in vari tipi di pratiche, oppure incre­ mentare in maniera metodica abilità e capacità argomentative nel­ la produzione, analisi e valutazione del discorso argomentativo. Le proposte per migliorare le pratiche argomentative devono pro­ durre gli effetti pratici desiderati, siano esse ispirate in senso dia­ lettico da una filosofia di tipo critico-razionalista, oppure in sen­ so retorico da una di tipo antropologico-relativista. In una pro­ spettiva retorica ciò significa che tali proposte devono fornire in­ dicazioni efficaci per l’argomentazione vincente: dal punto di vi­ sta pratico, la prospettiva retorica è interessata al successo persua­ sivo. Allorché si sviluppano modi per migliorare la realtà argo­ mentativa da una prospettiva dialettica, lo scopo generale è rag­ giungere la consapevolezza dei requisiti necessari a risolvere di­

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vergenze di opinioni: dal punto di vista pratico, l’approccio dia­ lettico è indirizzato alla riflessione critica. 3. Concezioni della ragionevolezza

Le due prospettive sul discorso argomentativo, associate a due di­ verse concezioni di ragionevolezza, sono presenti nella riflessione contemporanea sull’argomentazione. Da un lato, ci sono approc­ ci chiaramente dialettici, dall’altro approcci retorici. Nonostante l’interesse comune per l’argomentazione, i due gruppi di studiosi non hanno molto in comune. Non soltanto essi intendono l’inda­ gine sull’argomentazione in maniere diametralmente opposte, ma nessuno dei due presta particolare attenzione ai risultati raggiun­ ti dall’altro: di solito essi appartengono a comunità universitarie distinte, ciascuna con proprie infrastrutture disciplinari - asso­ ciazioni, convegni, riviste e collane editoriali. Gli studiosi dell’ap­ proccio dialettico si rifugiano perlopiù nei dipartimenti di logica e filosofia analitica, mentre quelli dell’approccio retorico trovano ospitalità fra i ricercatori di comunicazione, linguistica e lettera­ tura: nonostante alcune aperture recenti, fra i due gruppi c’è an­ cora un vero e proprio baratro. Per i dialettici contemporanei, l’argomentazione è parte di una procedura per risolvere divergenze di opinioni tramite una di­ scussione critica regolata1. Essi cercano di formulare regole di di­ scussione utili nel processo di soluzione, che quindi possano es­ sere considerate valide rispetto al problema particolare {problem validi. Per sortire un qualche effetto pratico, queste regole devo­ no però risultare accettabili anche intersoggettivamente, ed esse­ re valide anche convenzionalmente (conventionally validi. Si par­ la di dialettica formale1 2 per lo sviluppo di procedure per condur­ re dialoghi critici: tali procedure sono dette formali per il loro ca­ rattere strettamente irreggimentato. Nella dialettica formale un argomento è presentato come un dialogo critico fra chi propone una tesi {proponenti e chi vi si oppone {opponenti-, le due parti ten­ 1 All’origine di questa corrente ci sono le idee propugnate da Crawshay-Wil­ liams, Naess e Lorenzen, con la Scuola di Erlangen. 2 L’espressione viene coniata da Hamblin (1970) e adottata in seguito da Barth e Krabbe (1982).

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tano di stabilire insieme se è possibile difendere con successo la tesi da attacchi critici. Nel difendere la tesi, chi la propone può utilizzare tutte le proposizioni (dette ‘concessioni’) alle quali chi si oppone può essere ritenuto impegnato. Il primo tenta di indur­ re in contraddizione il secondo sfruttandone in maniera accorta le concessioni: se ci riesce, la tesi è stata difesa con successo, date le concessioni (ex concessisi. Accanto alla dialettica formale, un altro approccio dialettico contemporaneo all’argomentazione è la pragma-dialettica (cfr. Eemeren e Grootendorst 1984, 1992, 2004). Il punto di intesa fra i sostenitori di questi due approcci è espresso dalla parola dialetti­ ca, mentre la sostituzione di formale con pragma (che richiama la pragmatica linguistica) indica le differenze. I pragma-dialettici si ispirano infatti non solo alla dialettica, e quindi al razionalismo critico e alla logica dialogica, ma anche alla pragmatica, e pertan­ to alla teoria degli atti linguistici, all’analisi del discorso e alla lo­ gica griceana della conversazione. La pragma-dialettica propone fra l’altro un modello ideale degli atti linguistici eseguiti ai vari sta­ di di una discussione critica (mirata a risolvere una divergenza di opinioni controllando l’accettabilità dei punti di vista in questio­ ne) più una serie di regole per condurre tale discussione. Ogni violazione delle regole, a qualunque stadio della discussione criti­ ca, costituisce un ostacolo alla risoluzione di una divergenza di opinioni, ed è quindi considerata una fallacia. A partire dagli anni Settanta,, si diffonde in America setten­ trionale un terzo approccio all’argomentazioné, nato dall’insod­ disfazione verso il modo in cui essa era trattata nei manuali di lo­ gica: la logica informale. Non si tratta di un tipo nuovo di logica, ma di uno studio normativo dell’argomentazione nel linguaggio ordinario, più vicino alla pratica dell’argomentazione che alla lo­ gica formale (cfr. Blair e Johnson 1987). Recentemente alcuni lo­ gici informali hanno enfatizzato la dimensione dialettica dell’ar­ gomentazione, proponendo di aggiungere un ‘livello (tier) dialet­ tico’ al modello di argomentazione valida della logica informale (cfr. Johnson 2000). Negli ultimi anni c’è stata una notevole rivalutazione della re3 Negli ultimi vent’anni Krabbe ha sviluppato ulteriormente questa logica del dialogo, in parte con la collaborazione di Walton (Walton e Krabbe 1995).

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torica quale studio dei mezzi persuasivi; è sorprendente che il fe­ nomeno sia iniziato quasi contemporaneamente in vari paesi. Ne­ gli Stati Uniti parecchi studiosi di argomentazione difendono le qualità razionali della retorica (fra i sostenitori dell’approccio dia­ lettico cfr. Wenzel 1980; fra i sostenitori dell’approccio retorico cfr. Goodnight 1982, Leff 2002 e Zarefsky 1989). In Francia, fin dai primi anni Settanta Ducrot e Anscombre sviluppano un ap­ proccio linguistico al linguaggio e all’argomentazione legato stret­ tamente a una prospettiva retorica (cfr. Anscombre e Ducrot 1983). Nella loro ottica, detta ‘argomentativismo radicale’, ogni enunciato conduce l’ascoltatore o il lettore a trarre certe conclu­ sioni, e quindi comporta una relazione argomentativa4. In Ger­ mania Kopperschmidt (1989), prendendo un punto di vista stori­ co, sostiene che la retorica è la preoccupazione centrale dei teori­ ci dell’argomentazione. In Olanda, infine, in anni più recenti Eemeren e Houtlosser (1999) mirano a integrare nel metodo pragma-dialettico spunti provenienti dalla retorica aUo scopo di ana­ lizzare e valutare il discorso argomentativo. 4. Studi retorici ‘neoclassici’

L’attuale revival dello studio retorico dell’argomentazione è do­ vuto in larga misura alle inesauribili fonti di ispirazione fornite da alcuni insigni studiosi del XX secolo: a causa della loro influenza sulla filosofia della comunicazione, essi meritano la qualifica di ‘neoclassici’. Fra costoro annoveriamo gli studiosi americani di re­ torica Weaver, Richards e Burke, i teorici dell’argomentazione Perelman e Toulmin, nonché filosofi come Foucault e Habermas, che pure non possono essere definiti propriamente studiosi di re­ torica: si tratta di autori con scopi e ambizioni estremamente dif­ ferenti tra loro, e con idee dall’impatto anche politico e non solo filosofico. Per Weaver (1953), ad esempio, la retorica deve essere parte di una cultura che spinga la gente verso gli ideali e la verità, anche 4 Plantin (1990) è il rappresentante più significativo di un gruppo di studiosi francesi di Lione che perseguono un approccio affine, sebbene più empirico. Sempre in Francia, anche Reboul (1991) conferisce alla retorica grande rilievo nello studio dell’argomentazione.

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se si rende conto che la retorica può avere un uso neutrale, e per­ sino distorto. La concezione di Weaver è vicina a quella aristote­ lica, dal momento che entrambe definiscono la retorica come complementare alla dialettica. Nell’ottica aristotelica, l’uso della retorica ci consente di superare i limiti della dialettica in quanto metodo per pervenire a verità sugli universali e sulle essenze: la re­ torica è «verità più la sua abile presentazione». Questo significa che, oltre alla conoscenza ottenuta tramite la dialettica, si tiene in considerazione anche la natura del pubblico e della situazione: il vero retore ha «una visione di come le cose dovrebbero andare dal punto di vista ideale ed etico, e una considerazione delle condi­ zioni particolari in cui si trovano i suoi ascoltatori». Richards (1936) respinge la concezione della retorica difesa da Aristotele e Whately: anziché uno studio di regole, essa dovrebbe essere un’«indagine filosofica sulla maniera in cui le parole fun­ zionano nel discorso». La sua seconda obiezione ad Aristotele e Whately è rivolta al ruolo centrale svolto dalla nozione di persua­ sione; tale ruolo non si accorda con la definizione estesa di retori­ ca proposta da Richards: «una disciplina filosofica che mira alla padronanza delle leggi fondamentali dell’uso del linguaggio». Ri­ prendendo Campbell, il quale vede la retorica come «l’arte tra­ mite la quale il discorso si adatta al suo fine», Richards cerca sia di distinguere i vari fini per i quali si usa il linguaggio, sia di inse­ gnare come si possano perseguire tali fini e riconciliare esigenze divergenti: la retorica è «uno studio dell’incomprensione e dei ri­ medi ad essa». Secondo Burke, figura di grandissima importanza per la ‘critica retorica’ americana, lo scopo della retorica può es­ sere descritto semplicemente come l’offerta di strategie per risol­ vere problemi o trattare situazioni. La sua concezione include una nozione cruciale che va oltre il sistema concettuale tradizionale della retorica, la nozione di identificazione. Il termine non viene introdotto per sostituire quello dà.fiersuasione, ma come suo com­ plemento necessario: la persuasione è un risultato dell’identifica­ zione, e con essa contribuisce a rafforzare la coesione sociale. La definizione di retorica in Language as Symbolic Action (1966) si avvicina così a quelle tradizionali, incentrate sulla persuasione: «l’impiego di parole da parte di agenti umani per formare atteg­ giamenti o indurre azioni in altri agenti umani». Per alcuni studiosi la retorica è uno strumento per acquisire

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conoscenza (cfr. Scott 1967). Ispiratore della posizione epistemo­ logica è Michel Foucault, che conferisce rilievo cruciale alla ‘epi­ steme’, anche se in seguito sostitusce tale nozione retorica con quella di «formazione discorsiva». Ad ogni modo Foucault è in­ teressato all’insieme di relazioni che, in un certo periodo, unifica le pratiche discorsive, le quali a loro volta determinano le condi­ zioni della conoscenza. Jùrgen Habermas, da parte sua, conside­ ra centrale la razionalità anche per l’impresa retorica: la sua teo­ ria della comunicazione è parte di un progetto più generale, quel­ lo di creare una teoria sociale che conduca all’emancipazione. Il pensiero di Habermas è in consonanza con quello di Grassi, che identifica la retorica con il potere del linguaggio e del discorso di generare una base per il pensiero umano: un’impostazione ispira­ ta agli umanisti italiani, e in modo particolare a Vico. Grassi ritiene che il potere attribuito alla deduzione logica sia diventato talmente grande da mascherare il fatto che la logica non è all’altezza delle esigenze che pretende di soddisfare. Vedremo che su questo punto Grassi è in linea con Toulmin e Perelman, i quali adottano una definizione più limitata di retorica: la logica compie una tale opera di astrazione dai fattori contestuali, situa­ zionali e pragmatici all’opera nel discorso argomentativo, da smet­ tere di avere rilievo e dover essere sostituita da un approccio diver­ so all’argomentazione, di tipo più retorico. Sottolineare in questa misura il rapporto fra retorica e argomentazione significa ripren­ dere una lunga tradizione che, da Aristotele al vescovo Whately, associa la retorica alla capacità di trovare i mezzi appropriati di persuasione. Toulmin e Perelman (quest’ultimo in collaborazione con Olbrechts-Tyteca), ognuno a modo proprio, propongono un nuovo approccio all’argomentazione in opere che hanno infuso nuova vita al campo di studi. Se, com’è fuor di dubbio, lo studio dell’argomentazione in epoca moderna si nutre di spunti prove­ nienti dalla retorica, è altrettanto certo che Toulmin e Perelman ne sono i genitori putativi.

5. Il modello dell’argomentazione dì 'Toulmin

L’obiettivo fondamentale della riflessione di Toulmin è indagare come un’idea o una tesi debbano essere giustificate, e in partico­

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lare quali norme debbano essere applicate quando si valuta un’ar­ gomentazione a supporto di un punto di vista o di una tesi. C’è un sistema universale di norme, utilizzabile per valutare tutti i tipi di argomentazione in tutte le aree? Oppure ogni tipo di argomen­ tazione andrebbe giudicato secondo sue norme proprie? Grazie al suo testo più noto, Gli usi dell’argomentazione5, Toulmin eser­ cita un influsso considerevole sul campo di studi noto come ‘teo­ ria dell’argomentazione’, mentre altre parti della sua vasta impre­ sa filosofica ne estendono la reputazione ben oltre la filosofia del­ la comunicazione. Le sue idee sull’argomentazione sono autore­ voli non soltanto a livello filosofico e teorico, ma anche a livello pratico: in più di un manuale importante il suo modello viene usato come base per insegnare ad analizzare, valutare e costruire argomenti. La tesi centrale dell’opera di Toulmin è che se, in linea di prin­ cipio, si può rivendicare la razionalità per ogni sorta di argomen­ tazione indipendentemente da ciò che essa tratta, le norme per va­ lutarla dipendono dalla particolare natura del problema dibattu­ to. Viene respinta la concezione tradizionale secondo la quale ci sarebbero criteri universali per valutare un’argomentazione, e cioè quelli forniti dalla logica formale. Lo scopo e la funzione del­ la logica formale odierna sono invece fin troppo ristretti per as­ solvere a questo intento; si può imparare di più osservando il pro­ cesso giuridico di argomentazione. In analogia con le procedure del dibattito giudiziario, si può abbozzare un modello dei vari passi argomentativi. In ogni tipo di argomentazione, come in tri­ bunale, le proposizioni devono essere giustificate - e in entrambi i casi la natura delle proposizioni varia in modo considerevole. Nei processi le prove addotte cambiano da un caso all’altro, ma la procedura generale seguita rimane sostanzialmente la stessa; lo stesso vale per i vari tipi di argomentazione. In questa prospettiva, un’argomentazione è il tentativo di giu­ stificare una proposizione (o un insieme di proposizioni) avanza­ ta nella comunicazione come un asserto o ‘tesi’ (claim). Questa funzione di giustificazione implica che la persona che propone un punto di vista, facendo un certo tipo di asserzione, avanzi dei di­ 5 La prima edizione risale al 1958.

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ritti (lays daini), sulle credenze del pubblico. Quest’ultimo talvol­ ta sarà già della medesima opinione, talaltra potrebbe semplicemente decidere di credere a ciò che dice quella persona; ci sono però casi in cui esige un’argomentazione a sostegno di quella as­ serzione: tanto meglio essa sarà soddisfatta, tanto più il pubblico apprezzerà quel punto di vista. In altre parole, il grado di giusti­ ficazione di un’asserzione dipende dalla qualità dell’argomenta­ zione prodotta per sostenerla. Il modello presentato negli Visi dell’argomentazione rappre­ senta la ‘forma procedurale’ dell’argomentazione - i passi funzio­ nali che vanno individuati nella difesa di un punto di vista o di una tesi. La fondatezza (soundness) delPargomentazione - la sua vali­ dità in un senso informale - è determinata in primo luogo dal gra­ do in cui la garanzia, che lega i dati addotti nell’argomentazione alla tesi che viene difesa, è resa accettabile da un fondamento. Il modello ha la seguente forma:

dati----------------- ----------------- tesi

garanzia

fondamento

Sebbene l’aggiunta del fondamento sia, di fatto, già un’esten­ sione del modello toulminiano di base, anche quello qui presen­ tato resta molto semplice. Nella versione di base si assume che la correttezza della garanzia non venga messa in dubbio, in altre pa­ role che la garanzia sia una regola senza eccezioni. Il fondamento diventa necessario se l’autorità della garanzia non viene accettata immediatamente: se ci sono eccezioni alla regola, la forza della ga­ ranzia viene indebolita e occorre aggiungere una confutazione (rebuttaD- La tesi stessa deve essere indebolita per mezzo di un ter­ mine modale, come ‘probabilmente’ o ‘forse’, che funge da quali­ ficatore. Il modello esteso rende conto di queste complicazioni; è il caso, poniamo, di argomentazioni come:

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‘Bjorn è probabilmente {qualificatore) un cattolico {tesi), per­ ché è uno svedese {dato) e gli svedesi generalmente non sono cat­ tolici {garanzia), come mostrano le statistiche ufficiali {fondamen­ to), ma ovviamente Bjorn potrebbe essere un discendente di im­ migrati cattolici {confutazione)’. Per quanto suggestivo, in molti casi il modello appare di ardua applicabilità6. Lo stesso Toulmin ammette che a volte la defini­ zione di ‘dati’ e ‘garanzie’ non consente di distinguerle. Il pro­ blema deriva dal fatto che dati e garanzie vengono introdotti in due modi diversi: nella prima versione i dati forniscono informa­ zioni specifiche di natura fattuale, mentre le garanzie sono asser­ zioni generali, ipotetiche, simili a regole, fungono da ponte fra te­ si e dati, e giustificano il passaggio da questi ultimi a quella (cfr. Toulmin 1958, p. 92). Stando alla seconda versione, invece, «ai da­ ti si fa appello esplicitamente, alle garanzie implicitamente» (Toul­ min 1958, p. 93, corsivo nostro). Questa ambiguità rende diffici­ le determinare in pratica quali enunciati fungono da dati e quali da garanzie. La costruzione del modello si basa su quella che Toulmin ve­ de come la razionalità dei dibattiti giudiziari: la forma procedura­ le dell’argomentazione è «indipendente dal campo» e le discus­ sioni argomentative in altre aree procedono in modo analogo al­ l’argomentazione giuridica. I vari passaggi intrapresi - rappre­ sentati nel modello - sono sempre gli stessi, indipendentemente dal tipo di oggetto a cui si riferisce l’argomentazione. Tuttavia il tipo di fondamento richiesto dipende dal campo a cui appartiene la tesi dibattuta: una giustificazione etica, ad esempio, richiede un tipo diverso di fondamento rispetto a una giustificazione legale. I criteri per determinare la fondatezza {soundness) di un’argomen­ tazione sono pertanto «dipendenti dal campo»: le norme per va­ lutare l’argomentazione sono determinate storicamente e devono essere stabilite empiricamente. Il modello inserisce così l’argomentazione nel contesto retori­ co di ciò che ci si potrebbe aspettare in un campo specifico di ar­ gomentazione. E importante notare che la ‘validità’ {validity) - in­

6 Per una valutazione più dettagliata del contributo di Toulmin allo studio dell’argomentazione cfr. Eemeren et al. 1996, cap. 5.

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tesa in un senso più ampio rispetto alla validità logica - dell’argo­ mentazione è qui una nozione intra-territoriale, anziché inter-territoriale: l’argomentazione deve essere valutata con norme che sono rilevanti e adeguate al campo specifico al quale appartiene l’argomentazione e i criteri di valutazione non possono essere tra­ sferiti automaticamente da un campo all’altro. È caratteristico della concezione di ragionevolezza qui adottata il fatto che essa sia relativistica in un senso sia spaziale sia temporale: ciò che si può ritenere ragionevole in un periodo storico oppure in un ambien­ te intellettuale potrebbe non esserlo in un altro. Ciò rende l’alter­ nativa toulminiana all’approccio logico-formale dell’argomenta­ zione sostanzialmente una prospettiva retorica, che sostituisce la concezione geometrica della ragionevolezza con una concezione che ha elementi critici, ma è in prima istanza antropologica. 6. La «nuova retorica» di Perelman e Olbrechts-Tyteca

Un altro contributo ‘neoclassico’ allo sviluppo di una prospettiva filosofica meditata sullo studio dell’argomentazione è presentato nel Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, scritto a quat­ tro mani da Chaìm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca (1958): una volta tradotto in inglese, nel 1969, il libro diviene importante quanto la teoria toulminiana. Anche in questo testo si ritrova una concezione della ragionevolezza alternativa a quella della logica formale: la concezione more geometrico della ragionevolezza logi­ ca viene dichiarata irrilevante o non sufficiente (o tutt’e due) allo studio dell’argomentazione. Tuttavia con il termine logica forma­ le gli autori sembrano riferirsi non tanto alla logica come è prati­ cata oggi, quanto all’ideale filosofico classico della conoscenza apodittica, stando al quale un enunciato rappresenta vera cono­ scenza solo se la sua verità è evidente o se può essere dedotto in modo formale da altri la cui verità è evidente. La nuova retorica costituisce una reazione all’‘empirismo posi­ tivistico’ e all’‘idealismo razionalistico’, che non prendono in al­ cuna considerazione il pensiero razionale utilizzato in campo le­ gale e nel linguaggio naturale (cfr. Perelman 1970). Con .‘empiri­ smo positivistico’ Perelman molto probabilmente si riferisce al­ l’empirismo logico o (trascurando eventuali differenze) positivi;

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smo logico, o neopositivismo. Stando al razionalismo, sua contro­ parte intellettuale, l’unica fonte affidabile di conoscenza non è l’e­ sperienza (come afferma l’empirismo), ma la ratio, la ragione: la nuova retorica si oppone in modo particolare al razionalismo ba­ sato sull’idealismo, ossia un razionalismo in cui la realtà è ridotta a idee - ai contenuti di coscienza. La nuova retorica intende creare un quadro di riferimento per il ‘pensiero non-analitico’, attraverso la costruzione di una teoria dell’argomentazione che integri la logica formale. In quest’otti­ ca c’è gran bisogno di tale teoria complementare poiché l’argo­ mentazione orientata alla giustificazione, che prevale nella vita sociale e culturale, è complementare alla dimostrazione logfoa. Sebbene sostengano di basarsi sulle fondamenta della dialettica classica, Perelman e Olbrechts-Tyteca preferiscono chiamare «nuova retorica» la loro teoria dell’argomentazione per evitare confusioni - in particolare con l’uso marxista dell’aggettivo ‘dia­ lettico’. Difatti la forma comunicativa del dialogo, essenziale per la dialettica aristotelica, non svolge alcun ruolo nella nuova reto­ rica, così come non svolge alcun ruolo il paradigma dialettico di dialogo critico: viene tranquillamente ignorato il criterio dia­ lettico in base al quale un punto di vista è accettabile finché re­ siste alla critica sistematica di un oppositore critico. L’etichetta nuova retorica risulta appropriata anche perché la teoria studia anzitutto come le persone modificano le menti altrui, il che si av­ vicina all’obiettivo della retorica, così come viene comunemente inteso. L’obiettivo è sviluppare una teoria deh’argomentazione in cui i valori svolgano un ruolo, in modo che né la verifica empirica, né la dimostrazione formale, né una loro combinazione forniscano una via d’uscita. La teoria dell’argomentazione deve mostrare co­ me sia possibile giustificare su basi ragionevoli (e razionali) i mo­ di in cui sono effettuate scelte e prese decisioni nel discorso argo­ mentativo. I due autori esaminano l’argomentazione filosofica, giuridica e di altri tipi per sviluppare una teoria del ragionamen­ to che fa appello ai valori, analogamente a quanto fa Frege quan­ do analizza il pensiero matematico per sviluppare una teoria del ragionamento logico (cfr. Perelman 1970). La nuova retorica è «lo studio delle tecniche discorsive atte a provocare o accrescere l’adesione delle menti alle tesi che vengono

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presentate al loro assenso» (Perelman e Olbrechts-Tyteca 1958, p. 6). Dapprima vengono descritte le premesse utilizzabili come ‘punto di partenza’ di un’argomentazione. Particolare interesse ri­ vestono qui, a parte i valori in sé, le ‘gerarchie di valori’, collega­ te alle preferenze di un pubblico per un valore, o un insieme di valori, rispetto ad altri. In pratica le gerarchie sono spesso più im­ portanti dei valori stessi e di regola variano più fortemente da un pubblico all’altro. Importanti sono anche i loci {tópoi), preferen­ ze di natura generale che possono essere usate come giustificazio­ ni per un certo pubblico senza bisogno di delucidazioni ulteriori. Come punto di partenza di un’argomentazione si utilizzano ‘schemi di argomentazione’, allo scopo di convincere un pubbli­ co, mettendo in relazione in modo persuasivo una premessa alla tesi dibattuta: la relazione poggia sul principio di ‘associazione’. Oltre alla tecnica argomentativa dell’associazione, si può indivi­ duare anche quella della ‘dissociazione’, che consiste nello spez­ zare un’unità concettuale (e terminologica) distinguendo fra due suoi diversi significati, in modo da raggiungere un effetto persua­ sivo. Questo accade, ad esempio, quando qualcuno sostiene che un certo atto era in realtà contro la legge perché, pur non violan­ done la lettera, ne ha sicuramente infranto lo spirito. Viene stila­ to un elenco dei vari tipi di associazione, che ha la forma di una tipologia di tecniche argomentative. Le tre categorie principali so­ no ‘argomenti quasi-logici’, ‘argomenti basati sulla struttura della realtà’ e ‘argomenti che stabiliscono la struttura della realtà’: pur­ troppo le tre categorie non sono né ben definite né distinte in ma­ niera veramente sistematica e mutuamente esclusive7. Negli argomenti quasi-logici si crea l’illusione che esista, fra l’argomentazione e la tesi, una relazione tanto vincolante quanto quella fra le premesse e la conclusione dell’analoga argomenta­ zione logica (o matematica), come in: ‘Tu non puoi non essere d’accordo, dal momento che saresti d’accordo se Pietro venisse e Pietro è venuto davvero’. Poiché la similarità fra argomentazione e argomento formale non è mai sufficiente per giustificare la prima, tale apparenza di

7 Per una valutazione più precisa del contributo di Perelman e OlbrechtsTyteca allo studio dell’argomentazione cfr. Eemeren et al. 1996, cap. 4.

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prova decisiva è fuorviarne (da cui la qualifica dell’argomento co­ me quasi-logico). Con la seconda categoria di tecniche, gli argomenti basati sul­ la struttura della realtà, si fa appello alle credenze sulla realtà che il pubblico già possiede per indurlo a derivarne la tesi che deve es­ sere giustificata, come in: ‘Quel ragazzo dev’essere assai interessato, perché prende ap­ punti ininterrottamente’. Negli argomenti che stabiliscono la struttura della realtà, una nuova concezione su come è. strutturata la realtà viene presentata al pubblico, allo scopo di fargli accettare una tesi che ben si adat­ ta a tale immagine della realtà, come in: ' ‘Ovviamente Micio è sordo: i gatti bianchi sono sempre sordi’. Ci sono somiglianze notevoli fra la nuova retorica e le teorie re­ toriche classiche: la classificazione delle premesse fornita da Pe­ relman e Olbrechts-Tyteca, ad esempio, è identica a quella di Ari­ stotele; gli schemi d’argomentazione, in una forma o nell’altra, so­ no già discussi nella retorica classica. Tuttavia la nuova retorica ha condotto alla rinascita novecentesca dell’approccio retorico al­ l’argomentazione. Si tratta di un chiaro esempio di teoria retorica a orientamento antropologico, ben lontana da qualsiasi concezio­ ne critica, o addirittura geometrica, della ragionevolezza: si mira qui a ottenere una descrizione adeguata di quei tipi di argomen­ tazione che possono risultare vincenti nella pratica. Elemento caratteristico di tale teoria retorica è che la validità o la fondatezza di un’argomentazione sono sempre legate a un pubblico: la qualità di un’argomentazione si misura in ultima ana­ lisi dall’effetto che ha sul gruppo di riferimento. A seconda delle preferenze di chi parla o scrive questo gruppo di riferimento può essere un pubblico particolare - una persona o un gruppo di per­ sone particolari - ma può essere anche un pubblico universale, il pubblico (reale o immaginato) che chi parla o scrive considera l’incarnazione della ragionevolezza. Il ruolo cruciale assegnato al pubblico universale nel valutare la qualità dell’argomentazione deve far riflettere con attenzione sulla sua composizione - altri­ menti non sarebbe possibile pervenire a nessuna analisi o valuta­ zione inequivocabile e condivisa. A nostro avviso ci sono buone probabilità che la riflessione ulteriore ci allontani da un approc­ cio puramente antropologico e informale e ci conduca verso un

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approccio per certi versi più formale, che accolga suggerimenti da una filosofìa critica della ragionevolezza.

7. Sviluppi contemporanei della retorica e «critica retorica»

Oltre agli studi retorici dominati da Toulmin e Perelman, sono state proposte svariate altre riflessioni di un certo interesse, che si ripartiscono in parecchie correnti teoriche. Una corrente a sé è rappresentata dagli studi empirico-quantitativi sulla persuasione nati negli Stati Uniti all’interno delle scienze sociali: essi rivesto­ no grande interesse per quegli studiosi di retorica che vogliono conoscere i reali effetti sul pubblico di certe caratteristiche dei messaggi comunicati. Questo tipo di ricerca riceve notevole im­ pulso dagli studi compiuti da Hovland durante la seconda guerra mondiale, e poi con il Communication and Attitude Change Pro­ gram istituito alla Yale University negli anni Cinquanta e Sessan­ ta (cfr. ad esempio Hovland et al. 1954). Negli anni Ottanta e Novanta vengono introdotti due impor­ tanti modelli dei processi di persuasione. Il primo, noto come Elaboration Likelihood Model (cfr. Petty e Cacioppo 1981), distin­ gue fra due vie che conducono alla persuasione: quella ‘centrale’, nella quale l’esame minuzioso degli argomenti comunicati porta alla persuasione, e quella ‘periferica’, in cui la persuasione risulta da suggestioni di tipo emotivo, svincolate dagli argomenti. L’as­ sunto sottostante è che le persone sono convinte di dover avere opinioni giustificate, ma non sono in grado di vagliare scrupolo­ samente la grande quantità di argomenti che vengono loro pro­ posti. Il secondo modello è quello euristico-sistematico, parzial­ mente critico rispetto a quello appena menzionato (cfr. Eagly e Chaiken 1993). Nel modello euristico-sistematico le strade che conducono alla persuasione sono di due tipi: quelle sistematiche (quando gli argomenti vengono valutati, nuove informazioni ven­ gono integrate a quelle esistenti) e quelle euristiche (si utilizzano regole pratiche già esistenti, tipo ‘Gli esperti sanno il fatto loro’). Invece di contestare il punto di partenza dell’EZaZ’oratow Ltkelihood Model, il modello euristico-sistematico rivendica l’esisten­ za di un altro principio, quello del minimo sforzo, in competizio­ ne col desiderio di avere opinioni pienamente giustificate: se si ri­

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tiene importante una questione, prevale il principio di avere opi­ nioni giustificate, mentre se essa è meno rilevante, prevale il prin­ cipio del minimo sforzo. L’approccio retorico in senso qualitativo si sviluppa negli Sta­ ti Uniti e in misura assai minore in Europa. Marcello Pera (1991), fra gli altri, in uno studio su scienza e retorica, cerca di compren­ dere il ragionamento scientifico - grazie a una rilettura di retori­ ca e dialettica vicina al modello pragma-dialettico. Dal suo punto di vista la ricerca scientifica è una partita a tre interlocutori fra la natura, il ricercatore e una comunità di interlocutori; è quest’ultima a stabilire che cos’è la scienza, attraverso un dibattito critico in cui vengono proposte e criticate tesi. Negli Stati Uniti Nelson e Megill (1986) e la Scuola dello Iowa danno inizio negli anni Ot­ tanta a un movimento intellettuale noto come retorica dell’indagi­ ne. Simpatetico con l’utilizzo della retorica quale metodo inter­ pretativo e critico per scoprire e analizzare strategie argomentati­ ve e procedimenti stilistici (lungo la linea inaugurata da Richards e Burke), esso rifiuta la divisione tradizionale fra indagine e dife­ sa pubblica (advocacy) per studiare la struttura retorica implicita della realtà. In ultima analisi la retorica dell’indagine equivale a una grandiosa impresa filosofica di critica della metafisica occi­ dentale: in tal modo la retorica si propone come un’alternativa al­ l’epistemologia predominante di tipo oggettivista e fondazionalista, almeno per quello che riguarda questioni che non si lasciano ridurre alla dimostrazione formale. Oggi gli studiosi statunitensi che definiscono la retorica come l’abilità umana di comunicare tramite simboli, tendono a riflette­ re su una gamma assai ampia di fenomeni e fini comunicativi, piuttosto che a convincere e persuadere gli altri tramite il discor­ so argomentativo. Essi partono dalla considerazione che i simbo­ li sono costrutti umani che rappresentano qualcosa per via asso­ ciativa o convenzionale - come una colomba rappresenta la pace. Ma, come mostra proprio questo esempio, è possibile trovare sim­ boli anche al di fuori del linguaggio e dell’uso linguistico, ad esem­ pio in quadri, architetture, modi di vestirsi. Come fanno certi sim­ boli a esprimere l’identità di qualcuno, o a facilitare la compren­ sione? Come funzionano, e quando, e perché sono efficaci in cer­ ti tipi di comunicazione? Queste e altre domande sono oggetto di studio di una disciplina relativamente nuova, chiamata critica re-

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torica (Rhetorical Criticism). Secondo Wichelns (1958), che ne è il fondatore non ufficiale, la critica retorica, basata sulla critica neo­ aristotelica, «si deve occupare dell’analisi e della valutazione del metodo adottato dall’oratore per comunicare le sue idee a chi lo ascolta». Invece di concentrarsi sul processo retorico, la critica re­ torica - caratterizzata dall’uso di un metodo qualitativo - si focalizza sugli ‘artefatti’ che risultano da tale processo, discorsi, testi, canzoni, danze. Questo può rendere l’analisi così ad hoc da far parlare di una «teoria del caso particolare» (cfr. Zarefsky 1989). In questo ambito, l’analisi si riduce sempre a una forma di codifi­ ca in accordo a una certa procedura, sia essa concentrata su chi parla o su chi scrive, sul pubblico, sulla situazione, sulla forma del messaggio o su qualche altro aspetto. Sono stati sviluppati parec­ chi approcci alla critica retorica, che prendono le mosse da mo­ delli e concetti chiave assai diversi. Si va dalla critica ideologica (che analizza i modi in cui testi e altri artefatti suggeriscono certi valori e credenze), a quella femminista (che si occupa di gruppi marginalizzati o subalterni), a quella narrativa (per la quale la struttura di ogni testo o artefatto è una storia), a quella pentadica (che spiega gli artefatti in termini di motivi e drama)'. i diversi ap­ procci sono legati solo da ‘somiglianze di famiglia’.

8. La «mossa strategica» nel discorso argomentativo

La teoria pragma-dialettica dell’argomentazione è diventata uno degli approcci principali allo studio dell’argomentazione. Essa fornisce anzitutto una procedura per controllare in maniera criti­ ca l’accettabilità di punti di vista, alla luce degli impegni che le parti in causa hanno assunto nel discorso, in modo esplicito o im­ plicito. Lo strumento teorico che definisce tale procedura è il mo­ dello di discussione critica, che rappresenta la forma di un discorso argomentativo mirato in modo ottimale a risolvere una divergenza di opinioni valutandone i prò e i contro. Esso distingue gli stadi di confronto, apertura, argomentazione e conclusione all’interno del processo di risoluzione, e gli atti linguistici utilizzati a ogni sta­ dio particolare. Perché un discorso risolva una differenza di opi­ nioni, gli atti linguistici eseguiti devono accordarsi con le regole della discussione critica. Queste ultime variano dall’impedire alla

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parte avversa di assumere una certa posizione allo stadio di con­ fronto, al proibire di generalizzare indebitamente il risultato del­ la discussione allo stadio conclusivo. Qualunque atto linguistico che non si conforma alle regole ostacola la risoluzione della di­ vergenza di opinioni e quindi è (in questo senso particolare) ‘fal­ lace’8. Occorre un’analisi accurata per valutare un discorso argo­ mentativo, e identificare tutte le mosse fallaci. A partire dal mo­ dello di discussione critica, il discorso argomentativo è in sé la ri­ costruzione analitica e metodica del tentativo di risolvere una di­ vergenza di opinioni. Questa ricostruzione si risolve in una ‘visio­ ne analitica d’insieme’ del processo di risoluzione, che costituisce una base adeguata per la valutazione critica. Come correttivo del metodo di analisi pragma-dialettico, Eemeren e Houtlosser (2002a, 2002b) sostengono che per rafforza­ re la ricostruzione del discorso argomentativo è utile far ricorso a spunti provenienti dalla retorica, specialmente nella giustificazio­ ne dell’analisi. Si propone un’integrazione sistematica di conside­ razioni retoriche all’interno del quadro di riferimento dell’analisi pragma-dialettica. L’idea di base è che non c’è alcun motivo per assumere a priori che la norma retorica della persuasione abile e l’ideale dialettico della ragionevolezza critica siano incompatibili. Perché dovrebbe essere impossibile conformarsi a princìpi critici quando si tenta di dar forma alla propria posizione nella maniera più vantaggiosa possibile? Qualunque forma assuma il discorso argomentativo, di solito esso non ha il solo scopo di far sì che le cose vadano così come chi argomenta desidera che vadano: si vuole anche svolgere il discor­ so in modo che possa essere considerato ragionevole - o quanto meno percepito come tale. Di conseguenza i tentativi di conclu­ dere la discussione a proprio favore seguendo l’approccio retori­ co possono esser visti, da un punto di vista dialettico, come parte

8 L’approccio pragma-dialettico offre un’alternativa al trattamento standard delle fallacie, criticato severamente da Hamblin (1970). Anziché argomenti che sembrano validi ma non lo sono, le fallacie sono ora definite più latamente co­ me mosse della discussione, le quali violano una regola particolare della discus­ sione critica applicabile a un certo stadio della discussione. Le fallacie tradizio­ nali possono pertanto essere definite in maniera più chiara e coerente, e ‘nuove’ fallacie, che prima sfuggivano, possono essere individuate.

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di uno sforzo per risolvere la divergenza di opinioni in accordo a princìpi critici. Chi si impegna nel discorso argomentativo tipica­ mente intende risolvere una divergenza di opinioni e si impegna a rispettare norme che gli permettano di raggiungere tale obietti­ vo (come conformarsi ai princìpi critici di ragionevolezza e aspet­ tarsi che gli altri facciano altrettanto). In pratica questo vuol dire che a ogni stadio del processo di risoluzione si può presumere che le parti si attengano all’obiettivo dialettico dello stadio pertinen­ te, senza tuttavia rinunciare a cercare il risultato retorico ottimale a quel punto della discussione. Si cerca di riconciliare i due obiet­ tivi, e di abbassarne la tensione potenziale facendo uso di quella che Eemeren e Houtlosser hanno definito «mossa strategica» {strategie manoeuvrmg). Per comprendere il ruolo della mossa strategica nel discorso argomentativo, si può esaminare come, nella pratica, le opportu­ nità disponibili in una certa situazione dialettica vengono utiliz­ zate nel modo più favorevole a una delle parti in causa. Ogni sta­ dio nel processo di risoluzione è caratterizzato dal fatto di avere uno scopo dialettico specifico; dato che le parti in causa vogliono volgerlo a proprio vantaggio, ci si può aspettare che esse provino a fare le mosse utili a servire i loro interessi nella maniera miglio­ re. Ecco perché l’obiettivo dialettico di ogni stadio di discussione ha sempre un analogo retorico specifico a quello stadio. I vantag­ gi ricavabili dalla mossa strategica dipendono dallo stadio dialet­ tico in cui ci si trova: allo stadio del confronto, ad esempio, l’o­ biettivo dialettico è raggiungere la chiarezza sulle tematiche in gioco nel conflitto di opinioni, e sulle posizioni assunte dalle par­ ti. Dal punto di vista retorico, ciascuna delle parti mirerà a diri­ gere il confronto nel modo più vantaggioso per la propria pro­ spettiva: questo significa che ognuna di esse tenterà di raggiun­ gere una definizione della divergenza di opinioni che metta in lu­ ce le questioni care a questa parte e che favorisca la posizione pre­ diletta. La mossa strategica prende diverse forme: dalla selezione del ‘potenziale topico’ disponibile a un certo stadio di discussione, al­ l’adattamento alla prospettiva del pubblico, alla scelta dei mezzi di presentazione. Dopo tutto, è ragionevole attendersi che ciascuna delle parti selezioni il materiale che le è più conveniente, adotti la prospettiva più gradita al proprio pubblico e opti per la presenta­

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Filosofìa della comunicazione

zione più efficace: in questi tre casi le parti hanno un’occasione per volgere a proprio favore l’effetto del discorso, o una sua parte spe­ cifica, senza abbandonare nessuno dei princìpi critici. Sebbene il perseguimento degli obiettivi dialettici e di quelli retorici possa benissimo procedere di pari passo, capita che in­ sorgano delle contraddizioni. Questa difficoltà spiega il verificar­ si di «deragliamenti» (derailments) della mossa strategica, equiva­ lenti alle mosse erronee di un discorso argomentativo - le fallacie. Le fallacie sollevano un problema grave: da un lato, la fallacia di una mossa argomentativa può essere determinata solo a livello si­ stematico, se ci sono criteri evidenti per decidere a ogni stadio in quale punto esatto una certa mossa viola una regola di discussio­ ne; dall’altro, nella maggior parte dei casi, tali criteri mancano. E allora, se siamo interessati a individuare i criteri, diventerà cru­ ciale sviluppare una comprensione chiara dello scopo e della for­ ma dei vari tipi di mossa strategica ai diversi stadi del discorso ar­ gomentativo. Torniamo all’esempio tratto da Le Carré, citato in apertura: il padre che vuole che il figlio smetta di piangere. Nel tentativo di conciliare il proprio obiettivo persuasivo cori almeno un’appa­ renza di ragionevolezza, il padre compie una mossa strategica, at­ tuata tramite la tecnica retorica della conciliatio. Nella conciliatio, il sostenitore di un certo punto di vista usa, per difenderlo, gli ar­ gomenti del punto di vista dell’oppositore: in termini di mossa strategica, questo significa selezionare, all’interno del potenziale argomentativo disponibile, gli argomenti più chiaramente vantag­ giosi e opportuni per il punto di vista avversario. Allo scopo di rendere evidente che la tesi utilizzata dal difensore di un certo punto di vista fa in realtà già parte di quelle accettate dall’opposi­ tore di quel punto di vista, si può far uso di certi artifici di pre­ sentazione, come le domande retoriche. Nel caso che stiamo esa­ minando, la conciliatio funziona come segue. Innanzitutto, facen­ do uso di una domanda retorica, il padre attribuisce al figlio la proposizione che intende utilizzare (‘Voglio bene al mio vecchio papà’). Poi, aggiungendo ‘e allora...’, il padre implica che se, o da­ to che, il figlio accetta la proposizione che egli vuole bene al suo vecchio papà, egli si impegna ad accettare anche la tesi - implici­ ta - che deve smettere di piangere. Il padre non aggiunge altri ar­ gomenti in difesa di questa conclusione e le sue parole suggerì-

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scono che non ci sia altro da dire: se ne può concludere che, da una prospettiva critica, la mossa strategica attuata per mezzo del­ la conciliatici è ‘deragliata’. Come mostra questa breve analisi, i problemi che nascono nel discorso argomentativo reale dalla tensione fra obiettivi persuasi­ vi e standard critici di ragionevolezza possono essere risolti in mo­ do soddisfacente solo da una filosofia della comunicazione che combina sistematicamente approccio retorico e dialettico.

VII.

Conoscere attraverso parole: epistemologia di Nicla Vassallo

1. Conoscenza e comunicazione Tempo fa, negli Stati Uniti, mi è stato detto ‘Devi proprio ascol­ tare quel predicatore televisivo: è un gran comunicatore’. Così ho provato ad ascoltare il predicatore in questione, che mi è parso so­ lo un furbo imbonitore. Sebbene, stando ad alcuni, la classe dei grandi comunicatori coincida con quella degli imbonitori furbi, ci pare più ragionevo­ le pensare che un vero grande comunicatore sia tale quando ri­ spetta, tra l’altro, un principio elementare: comunicare solo quan­ to si ritiene di conoscere. E evidente che, se il principio fosse ri­ spettato, la nostra esistenza sarebbe più semplice, almeno sotto il profilo epistemico (ovvero conoscitivo) perché verremmo ingan­ nati più raramente. Ogni giorno siamo alle prese con parecchi comunicatori-im­ bonitori che intendono indurci a credere a una moltitudine di dif­ ferenti proposizioni per scopi differenti da quelli epistemici: per condurci ad acquistare un certo prodotto (e così ce ne vengono, falsamente o ingiustificatamente, comunicate le qualità), a simpa­ tizzare per un certo partito politico (e così ce ne vengono, falsa­ mente o ingiustificatamente, comunicate le virtù), ad andare a ve­ dere un certo film (e così ce ne vengono, falsamente o ingiustifi­ catamente, comunicate le critiche positive), ad ammirare una cer­ ta persona (e così ce ne vengono, falsamente o ingiustificatamen­ te, comunicati i pregi), eccetera. Di fronte alle comunicazioni dei tanti comunicatori-imbonitori da cui siamo circondati, il miglior atteggiamento epistemico che possiamo adottare consiste nel

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chiederci quali buone ragioni disponiamo per credere a quanto ci viene comunicato. Le buone ragioni per credere una proposizione possono esse­ re prudenziali o epistemiche: le ragioni di tipo epistemico, a dif­ ferenza delle ragioni di tipo prudenziale, mirano alla verità. Ad esempio, si consideri la ‘scommessa’ di Pascal sull’esistenza di Dio: possiamo disporre di ragioni prudenziali per credere che Dio esiste (è prudente, ovvero conveniente, nutrire tale credenza, per­ ché la posta in gioco è la vita eterna). Eppure non abbiamo alcu­ na ragione epistemica per credere che Dio esiste (una ragione per credere che sia vero che Dio esiste). Qui di seguito limiteremo la nostra attenzione alle ragioni epistemiche e ci riferiremo ad esse chiamandole semplicemente ‘ragioni’. Chiederci che ragioni ci sono per credere vera una proposi­ zione che ci viene comunicata è una pratica che dovremmo sem­ pre (o quasi sempre) adottare, non solo quando ci troviamo al co­ spetto di un comunicatore-imbonitore. Questo perché avere ra­ gioni, o non avere ragioni, per credere è un primo passo verso la possibilità (o l’impossibilità) che la comunicazione si trasformi in una nostra conoscenza. Ma che cos’è la conoscenza? Quali sono le fonti conoscitive e perché la comunicazione deve essere consi­ derata una fonte privilegiata? A che condizioni siamo giustificati a credere a quanto ci viene comunicato? E sufficiente, o necessa­ rio, che il comunicatore non dica il falso per far sì che ci venga tra­ smessa conoscenza? Sono queste le principali domande a cui ten­ teremo di offrire una risposta convincente. 2. Conoscenza

Esistono diversi tipi di conoscenza: la conoscenza diretta, la co­ noscenza competenziale e la conoscenza proposizionale. Ci rife­ riamo alla conoscenza diretta, quando diciamo di conoscere qual­ cuno o qualcosa (persone, luoghi oggetti, eccetera): nella maggior parte dei casi essa comporta l’essere stati a contatto o l’essere a contatto diretto con quanto conosciamo. Ad esempio, conoscia­ mo Alice solo se abbiamo incontrato Alice, conosciamo Londra solo se siamo stati a Londra, conosciamo la nostra casa solo se vi siamo entrati almeno una volta. Per avere conoscenza competen-

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ziale dobbiamo, invece, disporre di una certa competenza, capa­ cità o abilità, come nel caso del saper sciare, o del saper guidare un’auto, o del saper parlare una lingua: si tratta di una conoscen­ za che potremmo chiamare ‘del saper fare’ e che può essere sia le­ gata a una predisposizione naturale, ovvero a una qualche sorta di automatismo, sia dovuta all’apprendimento (si contrasti, ad esem­ pio, il saper respirare con il saper timonare una barca a vela). In­ fine, la conoscenza proposizionale è quel tipo di conoscenza che si esplicita nel sapere che una proposizione è vera. Ci interesseremo solo di conoscenza proposizionale. Le ragio­ ni di questa scelta sono sostanzialmente tre. Innanzitutto, ognuno di noi dispone di una conoscenza proposizionale piuttosto vasta, a partire dalle conoscenze più semplici fino a giungere a quelle più complesse. In secondo luogo, la conoscenza proposizionale di­ stingue l’animale umano dall’animale non umano: mentre gli ani­ mali non umani dispongono senz’altro di conoscenza diretta e di conoscenza competenziale, noi umani, insieme forse a qualche primate e a qualche cetaceo, siamo dotati anche di conoscenza proposizionale; lo siamo in un modo a cui nessun animale non umano può (almeno al momento) aspirare. In terzo luogo, la co­ noscenza proposizionale è facilmente trasmissibile attraverso il linguaggio parlato e scritto; si tratta di una trasmissione su cui è incentrata la nostra società, così come ben attesta l’esistenza di si­ stemi scolastici, libri, giornali, enciclopedie, e così via, grazie ai quali incrementiamo quotidianamente la nostra conoscenza. Il linguaggio è un grande strumento che può avere diversi impieghi. Tra questi - come, fra gli altri, Hobbes (1651, p. 31) ha ben chia­ ro - vi è quello di trasmettere conoscenze: il linguaggio serve a «mostrare agli altri la conoscenza che abbiamo conseguito, cioè [...] istruirsi l’un altro». Prima di proseguire e addentrarci nel rap­ porto tra linguaggio e conoscenza nel tentativo di riflettere sulla comunicazione come fonte di conoscenza, occorre comprendere che cosa intendiamo per conoscenza proposizionale, cui d’ora in avanti ci riferiremo chiamandola semplicemente ‘conoscenza’. Già in Platone (Menone, 97e-98a) si possono cogliere i requi­ siti necessari per la conoscenza, e su questi requisiti concorda an­ cor oggi la maggior parte degli epistemologi contemporanei. L’a­ nalisi della conoscenza consta di tre condizioni e dunque viene detta ‘analisi tripartita’. Vediamola. Supposto che S sia un qual­

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siasi soggetto cognitivo e p una qualsiasi proposizione, possiamo affermare che S sa che p solo se:

(1) p è vera, (2) S crede che p sia vera, e (3) la credenza di S in p è giustificata. La necessità dei tre requisiti è piuttosto intuitiva. Partiamo dal requisito (1) e domandiamoci se saremmo disposti ad affermare che S sa che il pianeta Terra è al centro dell’universo. No, perché è falso che il pianeta Terra sia al centro dell’universo: non dicia­ mo infatti che gli antichi sapevano che il pianeta Terra è al centro dell’universo, ma diciamo che gli antichi credevano di sapere che il pianeta Terra fosse al centro dell’universo. Dall’esempio rica­ viamo che, affinché si dia conoscenza, p deve essere vera. Venia­ mo ora al requisito (2). È senz’altro capitato a ognuno di noi di ascoltare S asserire proposizioni come ‘La mia casa è stata svali­ giata dai ladri, ma non ci credo’, o come ‘Il mio partner non mi ama, ma non ci credo’: a tali asserzioni non attribuiamo lo status di conoscenze, perché non soddisfano il requisito della credenza. Anche se possiamo capire S sotto il profilo psicologico (magari non crede alle proposizioni in questione a causa di uno shock emotivo), non riusciamo a capirlo sotto il profilo epistemico, e sotto questo profilo non siamo disposti a fidarci di S. Supponia­ mo, infatti, di trovarci in una città sconosciuta e di chiedere a S dove si trova la cattedrale: se S ci risponde ‘La cattedrale si trova avanti sulla sinistra, ma non ci credo’, non seguiamo le sue indi­ cazioni e preferiamo chiedere a un altro passante. Infine, per quanto riguarda l’ultimo requisito, (3), la sua necessità si deve al fatto che non vogliamo che possano assurgere allo status di cono­ scenze credenze vere a cui giungiamo sulla base di strane conget­ ture, o sulla base della lettura dell’oroscopo, o tirando a indovi­ nare, o autoingannandoci. In poche parole, non vogliamo che le credenze vere ingiustificate siano equiparate a conoscenze: non siamo ad esempio disposti a considerare conoscenze le credenze vere del tipo ‘C’è un pianoforte nell’altra stanza’ a cui si è giunti ingiustificatamente (tirando a indovinare), e non giustificatamente (vedendo un pianoforte nell’altra stanza, o sentendo un pia­ noforte suonare nell’altra stanza). Preferiamo le credenze giustifi­

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cate a queUe ingiustificate, semplicemente perché in un’impresa epistemica aspiriamo alla verità e le credenze giustificate hanno molte più probabilità di risultare vere rispetto alle credenze in­ giustificate - è maggiore la probabilità che la credenza ‘C’è un pia­ noforte nell’altra stanza’ risulti vera se ho visto un pianoforte nel­ l’altra stanza, rispetto a quella che la stessa credenza ha se ho ti­ rato a indovinare. Non è qui il caso di soffermarci oltre sulla no­ zione di giustificazione, considerando le varie teorie che la ri­ guardano1. Per i nostri scopi, è sufficiente tenere presente che è possibile identificare la nozione di giustificazione con quella di buone ragioni per credere che p sia vera. In termini più generali, si può dire che una credenza è giustificata sotto il profilo episte­ mico se è diretta in modo appropriato verso il conseguimento del­ la verità. 3. Verso la testimonianza Di fronte alla domanda ‘Quali (buone) ragioni hai per credere che p sia'vera?’, o di fronte alla domanda ‘Come fai a sapere che p è vera?’, possiamo rispondere in diversi modi, appellandoci ad al­ cune fonti conoscitive: percezione, memoria, ragione, introspe­ zione, testimonianza. Se rispondiamo ‘Percepisco che p\ faccia­ mo conto sulla percezione e questo può accadere nel caso in cui la proposizione in questione sia del tipo ‘C’è un computer sul ta­ volo’. Se rispondiamo ‘Ricordo che p’, ci rivolgiamo alla memo­ ria e ciò avviene nel caso di proposizioni come ‘La mia compagna di banco alle elementari era una bambina alta’. Se rispondiamo ‘Sono giunto a p tramite un ragionamento’, ci riferiamo alla ra­ gione, sia che si tratti di un ragionamento deduttivo (‘Tutti gli es­ seri umani hanno un cuore e Carlotta è un essere umano, quindi Carlotta ha un cuore’), sia che si tratti di un ragionamento indut­ tivo (‘L’essere umanoj ha un cuore, l’essere umano2 ha un cuore, l’essere umano3 ha un cuore, ..., l’essere umano„ ha un cuore, quindi tutti gli esseri umani hanno un cuore’). Se rispondiamo ‘Sono consapevole che p\ ricorriamo all’introspezione, o alla per­ cezione interna, e questo ricorso è sensato di fronte a proposizio ­

1 Per queste teorie, cfr. Vassallo 2003.

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ni del tipo ‘Penso di essere contenta’, ‘Immagino una casa di cam­ pagna’, ‘Nutro risentimento verso la tal persona’. Infine, se ri­ spondiamo ‘Mi è stato comunicato che p’, ci appelliamo alla testi­ monianza. Dato che ci vogliamo interessare delle condizioni a cui la comunicazione si trasforma in conoscenza, non tratteremo del­ le altre fonti conoscitive e limiteremo la nostra attenzione alla te­ stimonianza, anche per ragioni che esponiamo brevemente qui di seguito. E difficilmente contestabile il fatto che la maggior parte delle proposizioni che conosciamo ci derivano dalla testimonianza, o, in altre parole, dalla nostra accettazione di quanto gli altri ci co­ municano. Se confidassimo solo nella percezione, nella memoria, nell’introspezione e nella ragione, il numero delle proposizioni che riteniamo di conoscere diminuirebbe vertiginosamente: non potremmo conoscere la maggior parte degli eventi del passato, o quegli eventi del presente che non percepiamo in prima persona, o quelle teorie scientifiche che esulano dalle nostre competenze. Se non contassi su quanto mi è stato comunicato, non potrei sa­ pere (ad esempio) che Abelardo era un filosofo, o che Giulio Ce­ sare aveva origini patrizie, o che il presidente degli Stati Uniti ha giocato a golf in un giorno preciso, o che il regista Tal dei Tali ha vinto l’Oscar quest’anno, o qual è la struttura dell’occhio umano, o che cos’è la ionosfera, e così via. Ci sarebbe preclusa anche la conoscenza delle proposizioni più banali, che diamo invece per scontata: difatti, per quanto mi riguarda, proposizioni come ‘Ho un cervello’, o ‘Sono nata il 6 novembre del 1963’, o ‘I miei geni­ tori biologici sono Renata Vercesi e Luigi Vassallo’ mi sono state comunicate. Infine, come ben ci mostra Hardwig (1991), i pro­ gressi della stessa conoscenza scientifica sarebbero nettamente in­ feriori: dato che non può verificare tutto direttamente, uno scien­ ziato è costretto ad accettare teorie solo sulla base di quanto altri scienziati sostengono e gli comunicano di prima persona, o in ar­ ticoli su riviste specialistiche, o nel corso di convegni. Inoltre, è inverosimile pensare che uno scienziato possa eseguire tutti gli esperimenti necessari per acquisire i dati che gli servono, così co­ me che possa procedere da solo all’analisi degli stessi: un singolo scienziato impiegherebbe troppo tempo per condurre queste ope­ razioni in solitudine e deve, di conseguenza, affidarsi a quanto gli viene comunicato in proposito da altri.

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Non è solo che la maggior parte delle nostre conoscenze, o per­ lomeno delle nostre credenze giustificate, derivano da quanto gli altri ci comunicano (nella familiare conversazione faccia a faccia, nella conversazione telefonica, nelle trasmissioni radiofoniche e te­ levisive, negli scambi epistolari o via e-mail, attraverso la stampa, sui siti internet, eccetera), è anche che accettare la testimonianza al­ trui rappresenta una nostra fondamentale disposizione psicologi­ ca. Ritroviamo spesso questa disposizione all’opera nella nostra vi­ ta quotidiana. Basti rammentare quante conoscenze pensiamo (consapevolmente, o inconsapevolmente) di procurarci grazie a quanto ci viene comunicato dagli altri nel corso di una sola giorna­ ta. Stamattina, ad esempio, ho ascoltato un giornale-radio, e in virtù di quanto è stato trasmesso, ritengo di conoscere tutta una lunga serie di proposizioni nuove che si riferiscono alla politica, al­ l’economia, alla cronaca, alla cultura, alle previsioni del tempo. Ho ricevuto poi due telefonate, in base a cui ritengo ora di sapere che stasera cenerò con una mia amica e che una coppia di miei cono­ scenti è in attesa di un figlio. Nella buca delle lettere ho trovato un invito alla presentazione di una manifestazione culturale, in virtù del quale ritengo ora di sapere che essa avverrà a una data precisa, alla tal ora e in un luogo specifico. Ho scambiato quattro chiac­ chiere al bar apprendendo che la cameriera detesta gli avventori chiassosi. In biblioteca, la lettura di una rivista scientifica ha arric­ chito la mia conoscenza a proposito delle cellule staminali, mentre da un quotidiano ho tratto i film che saranno proiettati stasera nel­ le sale cinematografiche. L’elenco potrebbe proseguire a lungo, ma è sufficiente per comprendere quante testimonianze accettiamo in modo spontaneo, e come altrettanto spontaneamente siano dispo­ sti a pensare che conosciamo quanto ci viene comunicato.

4. Un po’ di storia ragionata

Le osservazioni fatte poc’anzi non intendono suggerire che la te­ stimonianza sia l’unica fonte conoscitiva, ma solo che la testimo­ nianza è una fonte a cui non possiamo rinunciare senza incorrere in una grave perdita epistemica. Non dobbiamo però nasconder­ ci che ben pochi filosofi del passato sono disposti a conferire un ruolo significativo alla testimonianza. Emblematiche, in proposi­ to, risultano le affermazioni di Locke (1690, p. 127):

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Non che mi manchi il dovuto rispetto alle opinioni degli altri. Ma, dopo tutto, si deve la maggior reverenza alla verità; e spero che non mi si crederà arrogante se dico che forse faremmo maggiori progressi nel­ la scoperta della conoscenza razionale e contemplativa se la cercassi­ mo alla fonte, cioè nella considerazione delle cose stesse e se per cer­ carla facessimo uso del nostro pensiero piuttosto che di quello altrui. Nella misura in cui consideriamo e comprendiamo noi stessi la verità e la ragione, possediamo una conoscenza vera e reale. Le opinioni al­ trui che vengono a galleggiare nel nostro cervello, anche se per caso sono vere, non ci rendono di un briciolo più dotti. Ciò che in loro era scienza in noi non è che ostinatezza.

La riflessione sulla testimonianza è stata ostacolata da una con­ cezione individualistica del soggetto cognitivo. Perché si può pen­ sare che sia preferibile un soggetto cognitivo che non fa conto sul­ le interazioni comunicative con gli altri al fine di acquisire cono­ scenza, rispetto a un soggetto che fa conto su queste interazioni di natura sociale? Se si guarda a certi sistemi politici, o economici, o religiosi che, al fine di garantirsi la sopravvivenza, controllano la comunicazione in modo tale da renderla inservibile ai fini epistemici, è comprensibile la rivendicazione dell’autonomia del sog­ getto cognitivo rispetto alla reciprocità comunicativa. Forse sono state proprio le circostanze storiche a determinare l’ostilità di molti filosofi nei confronti della testimonianza. Certo è che la teo­ ria della conoscenza in senso contemporaneo nasce con Descar­ tes, e, perlomeno nelle Meditazioni metafisiche, nasce all’insegna di una convinzione, poi condivisa da molti (oltre che da Locke): per essere autonomo e rispettabile in campo epistemico, il sog­ getto cognitivo deve fare a meno della conoscenza che gli viene comunicata da altri soggetti. Indiscusso maestro del razionalismo moderno, Descartes, come i suoi successori, conferisce priorità al­ la ragione, o al ragionamento, su qualsiasi altra fonte conoscitiva. Nemici del razionalismo, gli empiristi, a differenza di Descartes, prediligono la percezione, e tuttavia convengono (Locke per pri­ mo) con Descartes sul fatto che la testimonianza non sia degna di considerazione. Le circostanze storiche dovrebbero però non esercitare alcun peso, o, in ogni caso, riuscire a influenzare ben poco le riflessioni filosofiche. La filosofia è un esercizio astratto, tanto più efficace

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quanto più rimane neutrale rispetto agli accadimenti contingenti. E maggiore è la sua neutralità maggiore è la sua capacità di giudi­ care gli eventi storici. Così, anche in un’epoca in cui possiamo ipo­ tizzare che i sistemi politici, o economici, o religiosi si prodighino nel comunicarci proposizioni false, o proposizioni ingiustificate, ovvero a testimoniarci il falso o l’ingiustificato, la reazione filoso­ fica non deve essere di condanna della testimonianza, ma piutto­ sto quella di analizzare il concetto stesso di testimonianza. Una reazione del genere si trova in effetti in almeno due filosofi del passato (Hume e Reid) che ci forniscono due analisi differenti. Stando a Hume (1748, pp. 124-126), «non c’è una specie di ra­ gionamento più comune, più utile ed anche necessario alla vita umana, di quello che si ricava dalla testimonianza di uomini e dai resoconti di testimoni oculari e di spettatori». Il valore della testi­ monianza viene qui ampiamente riconosciuto, e tuttavia Hume fi­ nisce con l’attribuire una maggiore dignità alla percezione: la fi­ ducia che riponiamo nella testimonianza «non è derivata da altro principio che dalla nostra osservazione della veracità della testi­ monianza umana e della usuale conformità dei fatti ai resoconti di testimoni»; «la ragione per cui attribuiamo qualche credito alla te­ stimonianza [...] non deriva da qualche connessione percepita a priori fra la testimonianza e la realtà, ma dal fatto che siamo abi­ tuati a trovare una conformità tra di essi». In sostanza, Hume im­ pone quanto segue: attraverso l’osservazione, dobbiamo riscon­ trare che ogni fatto è conforme a un certo resoconto di un certo testimone; dobbiamo poi prendere in considerazione un numero sufficiente di queste osservazioni, al fine di applicare un ragio­ namento di tipo induttivo (la testimonianzai si è rivelata vera e/o giustificata, la testimonianza2 si è rivelata vera e/o giustifica­ ta, la testimonianza3 si è rivelata vera e/o giustificata, ..., la te­ stimonianza,, si è rivelata vera e/o giustificata), e possibilmente concludere che la testimonianza risulta in genere vera e/o giusti­ ficata. Il tentativo humeano consiste allora nel fornire un modo in cui sia possibile ottenere credenze vere e/o giustificate attraverso la testimonianza. Ricordando le condizioni dell’analisi tripartita, abbiamo ben presente che solo una credenza vera e giustificata può trasformarsi in conoscenza; una credenza può invece risulta­ re vera per un mero caso, mentre una credenza giustificata ha buone probabilità di risultare vera. Proviamo a limitare per il mo­

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mento la nostra attenzione alle credenze giustificate e vediamo al proposito la posizione di Réid (1764, pp. 93-95):

L’Autore della Natura, saggio e generoso, che ci voleva creature so­ ciali e che voleva che ottenessimo la parte più grande e importante del­ la nostra conoscenza dalle informazioni degli altri, ha per questo suo proposito inculcato nella nostra natura due principi che concordano l’un con l’altro. Il primo di essi è una propensione a dire la verità [...]. Un altro principio originario, inculcato in noi dall’Essere Supremo, è una disposizione a confidare nella veracità degli altri e a credere a quanto essi ci dicono. Questo è la controparte del primo; così come possiamo chiamare il primo il principio della veracità, se vogliamo un nome per il secondo, possiamo chiamarlo il principio della credulità [...]. È evidente che, nelle questioni della testimonianza, la bilancia del giudizio umano è per sua natura incline al lato della credenza; e si ri­ volge a questo lato da sola, quando non vi è nulla posto sulla scala op­ posta. Se non fosse così, non sarebbe creduta nessuna proposizione proferita nel discorso fino a che non fosse esaminata e provata dalla ra­ gione; e la maggior parte degli uomini sarebbero incapaci di trovare ragioni per credere a un centesimo di quanto viene loro detto.

È lampante che Reid si oppone alla concezione individualista del soggetto cognitivo: siamo creature sociali predisposte a fare af­ fidamento sulla testimonianza altrui per ottenere gran parte della nostra conoscenza. Facciamo affidamento su di essa non in quan­ to disponiamo di ragioni di tipo humeano per farlo; se dovessimo trovare queste ragioni crederemmo a ben poco di quanto ci viene comunicato. Piuttosto, confidiamo in essa per una nostra predi­ sposizione naturale, perché sono sempre all’opera in noi il princi­ pio della veracità e il principio della credulità, a meno che non so­ pravvengano altri fattori, a meno che non sussista qualcosa sulla scala opposta al credere. Questo qualcosa potrebbe consistere nel fatto che sappiamo, o ci accorgiamo, di trovarci di fronte a un mentitore cronico, o nel fatto che disponiamo di un’evidenza con­ traria rispetto a quanto ci viene comunicato. Una domanda sorge subito spontanea: se facciamo sempre va­ lere la nostra credulità, non finiamo con l’accettare tutto quanto ci viene comunicato e, pertanto, col credere (ingiustificatamente) anche alle apparizioni, agli incantesimi, ai prodigi? Abbiamo vi­ sto in precedenza che accettare la testimonianza altrui rappresen­

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ta una nostra fondamentale disposizione psicologica. Ma se ac­ cettiamo la testimonianza in base alla nostra credulità e se questa credulità ci conduce a formare credenze ingiustificate, forse è pre­ feribile rinunciare tout court alla testimonianza. Questa conclu­ sione è avventata. Le nostre disposizioni psicologiche sono, pro­ prio perché di natura psicologica, oggetto di studio della psicolo­ gia. Quando però ci troviamo su un terreno epistemologico non ci interessa tanto quanto facciamo di fatto - psicologicamente -, ma quanto dovremmo fare al fine di ottenere credenze giustifica­ te. Occorre pertanto chiedersi non perché di fatto accettiamo la testimonianza altrui, bensì a quali condizioni è lecito accettarla.

5. Condizioni e problemi

Nel mondo contemporaneo, incentrato sulla comunicazione e dominato dalle comunicazioni di massa, lo studio filosofico della testimonianza è diventato imprescindibile. A questo studio si de­ dicano oggi parecchi filosofi, che forniscono diverse letture della testimonianza2. Non è qui il caso di presentare nel dettaglio le lo­ ro singole analisi, anche perché esse sostanzialmente si ripartisco­ no in analisi che sviluppano l’approccio humeano e in analisi che sviluppano l’approccio reidiano. Proviamo a riassumerle breve­ mente e nella loro forma più elementare, considerando una situa­ zione semplice in cui vi sono un parlante e un ascoltatore o, in al­ tre parole, un qualsiasi testimone T e un qualsiasi soggetto cogni­ tivo S che riceve la testimonianza di una qualsiasi proposizionep. Stando alle analisi di tipo humeano, per essere giustificato a credere p, S deve disporre di ragioni che non possono basarsi so­ lo sulla testimonianza di T o sull’evidenza contraria ap. Queste ra­ gioni devono essere il risultato di un’induzione. Stando invece al­ le analisi di tipo reidiano, per essere giustificato a credere p, S de­ ve disporre di ragioni che possono basarsi solo sulla testimonian­

2 Cfr., ad esempio, Audi 1997, Coady 1992, Davis 2002, Dummett 1993b, Evans 1982, Faulkner2002, Fricker 1995, Graham 2000, Goldberg 2004, Hardwig 1991, Lackey 2003, Lehrer 1987, McDowell 1980, Pettit 1994, Plantinga 1993, Price 1969, Ross 1986, Ross 1975, Russell 1948, Sosa 1991, Stevenson 1993, Wittgenstein 1969.

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za di T e sull’evidenza contraria ap. Nei termini più generali e più contemporanei, possiamo allora affermare, prendendo spunto da Stevenson (1993), che i requisti di tipo humeano siano i seguenti: (Ih) la comunicazionep di T è appropriata, (2h) S ascolta e comprende la comunicazione p di T, (3h) S non dispone di alcuna evidenza contro p, e (4h) S dispone di ragioni per credere che la credenza di T. re­ lativamente a p è giustificata, allora S è giustificato nel credere che p sia vera.

I requisiti di tipo reidiano possono invece venire sintetizzati come segue: (Ir) la comunicazione p di T è appropriata, (2r) S ascolta e comprende la comunicazione p di T, (3r) S non dispone di alcuna evidenza contro p, (4r) S non dispone di alcuna ragione per credere che la cre­ denza di T relativamente a p non sia giustificata, allora S è giustificato nel credere che p sia vera.

Nelle due analisi, i requisiti (1) e (2) sono identici. Per quanto scontati ci appaiano nella vita di tutti i giorni, abbiamo imparato nei capitoli precedenti che essi non sono affatto banali e che la lo­ ro chiarificazione comporta riflessioni importanti. Anche (3) è co­ mune alle due analisi, ed è, al contrario dei precedenti, un requi­ sito prettamente epistemologico, che cercheremo di spiegare in modo intuitivo attraverso alcuni esempi. Si supponga che io leg­ ga un libro scritto da uno storico T che mi comunica una qualche proposizione p (ad esempio che i campi di concentramento nazi­ sti non sono mai esistiti). E ovvio che non sono giustificata a cre­ dere che p sia vero, nel caso abbia una qualche evidenza a favore di una mia ulteriore credenza del tipo: lo storico T è un incompe­ tente, o lo storico T è un simpatizzante del nazismo e vuole na­ scondere i crimini nazisti. O si ipotizzi che io incontri per la stra­ da un mio conoscente T che mi comunica una proposizione p del tipo ‘In questo momento, stiamo camminando su una strada in­ vasa da topi rosa’. Se non osservo topi rosa che invadono la stra­

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da, dispongo di un’evidenza contraria ape, pertanto, non posso credere giustificatamene a p. Immaginiamo, infine, una situazio­ ne frutto della fantasia: ho a mia disposizione un’evidenza a favo­ re della credenza che l’intera zona della Loira sia stata rasa al suo­ lo da un meteorite. Visito quella zona e tutti i castelli sono stati ri­ costruiti in modo tale da risultare copie perfette degli originali. La guida turistica che ho ingaggiato mi comunica proposizioni del ti­ po: ‘Nel tal castello, durante il XVI secolo ha trascorso alcune not­ ti il re Tal dei Tali, in quell’altro, un secolo dopo, ha vissuto l’a­ mante del re di turno, eccetera’. Data l’evidenza contraria a mia disposizione, non sono giustificata a credere a quanto la guida tu­ ristica mi testimonia: nelle copie, per quanto perfette, dei castelli della Loira non è passato nessun re, o nessuna amante del re. Le condizioni (1), (2) e (3) non sono sufficienti. Per capire per­ ché consideriamo un caso specifico. Supponiamo che la comuni­ cazione p di T sia ‘Se assumi quotidianamente le tali vitamine, sa­ rai energico e di buon umore tutti i giorni’. S può non disporre di alcuna evidenza contraria: ad esempio, a quanto ne sa, è possibi­ le che l’assunzione delle tali vitamine comporti energia e buon umore. Tuttavia, S può dubitare di T: magari S sa che T è un ven­ ditore efficace, la cui credenza relativamente a p può non essere giustificata, in quanto essa non mira alla verità, ma è semplicemente una credenza utile che viene comunicata solo al fine di con­ vincere S ad acquistare le tali vitamine. Questo caso mostra piut­ tosto chiaramente che una condizione con cui integrare (1), (2) e (3) è quella di tipo reidiano: (4r) S non dispone di alcuna ragione per credere che la cre­ denza di T relativamente a p non sia giustificata. Dato che nel caso in questione, la condizione (4r) non viene soddisfatta, dobbiamo concludere che S non è giustificato a cre­ dere che sia vero che ‘Se assumi quotidianamente le tali vitamine, sarai energico e di buon umore tutti i giorni’. Alla stessa conclu­ sione ci conduce (4h): (4h) S dispone di ragioni per credere che la credenza di T re­ lativamente a p è giustificata, perché è ovvio che S non dispone di ragioni per credere che è giustificata la credenza di T relativamente a ‘Se assumi quotidia­ namente le tali vitamine, sarai energico e di buon umore tutti i giorni’.

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Occorre notare che (4h) è una condizione più forte rispetto a (4r). Impone, infatti, di più: ad esempio, nel caso sotto esame, di­ sporre di ragioni per credere che è giustificata la credenza di T re­ lativamente a p può comportare la necessità di appellarsi a un’ul­ teriore testimonianza (a un testimone affidabile - mettiamo a un nutrizionista) capace di assicurare a S che gli apporti nutrizionali contenuti nelle tali vitamine sono effettivamente in grado di ge­ nerare energia e buon umore, in quanto questa loro capacità è sta­ ta empiricamente verificata. Una delle differenze che è opportuno rilevare tra la condizio­ ne più debole (4r) e la condizione più forte (4h) consiste in quan­ to segue: (4r) tratta la comunicazione come ‘innocente’, come de­ gna di essere creduta, a meno che non sia possibile dubitare di es­ sa, mentre (4h) tratta la comunicazione come ‘colpevole’, come indegna di essere creduta, fintanto che non si disponga di ragioni per credere nella sua giustificazione. Per quale approccio do­ vremmo optare? La discussione tra gli epistemologi è accesa: c’è chi preferisce un approccio di tipo reidiano e chi, invece, privile­ gia un approccio di tipo humeano. Da parte nostra, non ritenia­ mo che uno dei due approcci sia sempre più opportuno rispetto all’altro, ma, piuttosto, che vada applicato l’uno o l’altro, a se­ conda dei contesti in cui ci troviamo. Ad esempio, nel contesto della nostra famiglia, o quando ci troviamo di fronte persone che amiamo, siamo propensi ad accettare le testimonianze, applican­ do (consapevolmente, o inconsapevolmente) un approccio di ti­ po reidiano; invece, se il contesto ci è estraneo e ci troviamo di fronte a persone sconosciute, siamo meno propensi ad accettare le testimonianze, e possiamo finire con l’applicare (consapevol­ mente, o inconsapevolmente) un approccio di tipo humeano. Oc­ corre, allora, distinguere fra diversi tipi di testimoni: una cosa so­ no i familiari e gli amici, un’altra gli sconosciuti; una cosa sono i medici, un’altra i maghi; una cosa sono i giornali affidabili e un’al­ tra i giornali inaffidabili; una cosa il conduttore non tendenzioso del Tgx, e un’altra il conduttore tendenzioso del Tgj, e così via. Sta di fatto che crediamo più facilmente ai familiari e agli amici che agli sconosciuti; più facilmente ai medici che ai maghi; più fa­ cilmente ai giornali affidabili che ai giornali inaffidabili; più facil­ mente al conduttore non tendenzioso del Tgx che al conduttore tendenzioso del Tgy, e così via. In generale, quando siamo dispo­

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sti a credere più facilmente, consideriamo la comunicazione ‘in­ nocente’ e applichiamo un approccio di tipo reidiano, mentre quando siamo più reticenti a credere, consideriamo la comunica­ zione ‘colpevole’ e applichiamo un approccio di tipo humeano. Si tratta solo di mere inclinazioni psicologiche? No, perché possia­ mo trasformarle in atteggiamenti capaci di vantare una ragione­ volezza epistemica. Esaminiamo il caso del conduttore del Tg. Crediamo (dovremmo credere) più facilmente a un certo condut­ tore piuttosto che a un altro, non sulla scorta di una qualche ne­ cessità psicologica, ma piuttosto sulla base di alcuni precisi indi­ catori: ad esempio, il conduttore non confonde la conoscenza con la giustificazione (di conseguenza non afferma che p è vero, quan­ do è solo giustificato a credere che p sia vero); la sua comunica­ zione che p viene supportata da ragioni di tipo epistemico; non vengono occultate informazioni (conoscenze o proposizioni giu­ stificate) capaci di costituire un’evidenza contro p; p viene comu­ nicato in modo non ambiguo, o vago; p non è frutto di una gene­ ralizzazione avventata; non vengono impiegati termini dispregia­ tivi; non ci si appella alla nostra compassione, o alle nostre paure; p non costituisce una fallacia del tipo argumentum ad hominen, tu quoque, e così via; in p non si trovano confusi piani diversi, come il piano della legalità con il piano dell’etica, o il piano dell’etica con il piano della religione; eccetera. Occorre tuttavia tenere presente che possono influire altri fat­ tori sull’opportunità di applicare un approccio reidiano o un ap­ proccio humeano. Vediamo perché attraverso tre casi: «. il caso dell’amico; b. il caso dell’amico e della persona sconosciuta; c. il caso della persona sconosciuta: a. Abbiamo lasciato intendere che può essere ragionevole ap­ plicare alla comunicazione di un amico un approccio di tipo rei­ diano. Questa ragionevolezza viene tuttavia a scemare nel caso in cui ci troviamo di fronte a una questione importante. Si ipotizzi, ad esempio, che io annoveri tra i miei amici il Presidente di un cer­ to Stato. Quando il Presidente mi comunica proposizioni che non comportano gravi conseguenze (tipo ‘Il cappuccino del bar al­ l’angolo è favoloso’), posso essere giustificata a credere a quanto mi comunica in base a condizioni di tipo reidiano. Quanto, inve­ ce, il Presidente mi comunica proposizioni che comportano gravi

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conseguenze (tipo ‘La guerra contro quell’altro Stato è inevitabi­ le perché quell’altro Stato possiede armi di distruzioni di massa’), la gravità della questione impone un tipo di giustificazione più forte, e di conseguenza posso essere giustificata a credere quanto mi comunica solo in base a condizioni di tipo humeano. b. Abbiamo lasciato intendere che occorre applicare un ap­ proccio di tipo reidiano rispetto a quanto ci viene comunicato da familiari e amici, e un approccio di tipo humeano rispetto a quan­ to ci viene comunicato da sconosciuti. Questo però può non esse­ re sempre ragionevole. Immaginiamo che io mi rechi con un mio buon amico a fare un viaggio in una città completamente ignota a entrambi. Una volta giunti in questa città, vogliamo raggiungere la piazza x, ma ci perdiamo nelle intricate viuzze del centro stori­ co. Sono giustificata a credere al mio amicò che mi comunica ‘La piazza x è in avanti sulla destra’, o a un passante sconosciuto che mi comunica ‘La piazza x è in avanti sulla destra’? Può darsi che io sia giustificata (o ingiustificata) a credere a entrambi, ma sicu­ ramente non sulla base del medesimo approccio, anche se mi vie­ ne comunicata la stessa proposizione. Sarò, infatti, giustificata (o ingiustificata) a credere al mio amico in base a condizioni di tipo humeano, mentre sarò giustificata a credere al passante in base a condizioni di tipo reidiano. Questo perché presuppongo che il passante sia un’abitante del luogo e che quindi conosca il luogo in questione, mentre ipotizzo che il mio amico non conosca il luogo in questione. Possiamo dire che considero il passante, ma non il mio amico, un esperto. E va da sé che, quando si tratta di propo­ sizioni che lo richiedono, è sempre preferibile credere agli esper­ ti, sebbene sconosciuti, rispetto agli amici non esperti3. c. E tuttavia palese che a volte, al di là del tipo di approccio che è più opportuno applicare, giocano un certo ruolo, nella nostra di­ sposizione ad accettare con giustificazione una certa comunica­ zione proferita da una persona sconosciuta, alcune caratteristiche del testimone. Prendendo spunto da Faulkner (2002), le caratte­ ristiche in questione possono essere le seguenti: il testimone non sembra esitante, il testimone è attento a quanto viene detto (a quanto lui stesso dice, o a quanto viene detto durante la conver­ 3 Circa però il problema di quali esperti fidarsi, cfr. Goldman 2002.

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sazione), il testimone non si contraddice, il testimone non sembra desideroso di essere creduto ad ogni costo, il testimone non pro­ ferisce proposizioni ingiuriose. Queste caratteristiche minime so­ no integrabili con gli indicatori che abbiamo elencato nel caso del conduttore del Tg, nell’ipotesi che il conduttore del Tg sia una persona a noi sconosciuta. Ovvio però che, a seconda dei casi e delle questioni a cui ci troviamo di fronte, caratteristiche e indi­ catori si trovano a giocare un certo ruolo nella nostra disposizio­ ne ad accettare con giustificazione anche le comunicazioni dei no­ stri familiari e dei nostri amici. 6. Non dire falsa testimonianza A partire dalla considerazione del soggetto cognitivo a cui viene comunicata una proposizione, siamo giunti a parlare del testimo­ ne, di colui che comunica, e finora abbiamo trattato la testimo­ nianza in relazione alla giustificazione. È ad ogni modo doveroso aver presente che, relativamente a un testimone T e un soggetto cognitivo S che riceve la testimonianza di una qualsiasi proposi­ zione p, la condizione necessaria in una situazione ottimale, ai fi­ ni della conoscenza, è la seguente:

S giunge a sapere che p è vera accettando la comunicazione di T che p, solo se T sa che p.

Alla luce di questa condizione, dovrebbe essere chiaro perché uno dei dieci comandamenti raccomanda di non dire falsa testi­ monianza. Infatti, se T comunica il falso, la sua comunicazione non può assurgere alla status di conoscenza, e di conseguenza S non può giungere a sapere alcunché. Ciò nonostante è banale con­ statare che non è sufficiente che T dica il vero, al fine di poter at­ tribuire a T una qualche conoscenza. Tra le massime griceane del­ la conversazione, troviamo infatti la seguente: cerca di dare un contributo vero e, quindi, non comunicare ciò che credi essere fal­ so, così come ciò per cui non hai prove adeguate (cfr. Grice 1975). Questa massima è particolarmente significativa per i rapporti tra comunicazione e conoscenza e, in sostanza, prescrive a T di comu­ nicare quanto sa. E importante che T comunichi quanto sa, per­ ché altrimenti danneggia epistemicamente S. Chiediamoci, allora,

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quali sono le condizioni minime che devono essere soddisfatte af­ finché T sappia che p. Esse sono già state elencate in precedenza, quando abbiamo considerato l’analisi tripartita della conoscenza: (1) pévera, (2) T crede chep sia vera, e (3) la credenza di T in p è giustificata. A questo punto, occorre capire quando ci troviamo di fronte a una comunicazione menzognera. Si consideri la condizione (1). Possiamo dire il vero e, al contempo, mentire? Anche se può sor­ prendere, la risposta è affermativa, come attesta il seguente esem­ pio. Torniamo di nuovo al Presidente di un certo Stato che mi co­ munica la seguente proposizione p ‘La guerra contro quell’altro Stato è inevitabile perché quell’altro Stato possiede armi di di­ struzioni di massa’. Supponiamo che, a mia insaputa, il Presiden­ te non credap e non sia giustificato a credere che p. Tuttavia, ipo­ tizziamo che, per un caso fortuito, p si riveli, infine, véra: ad esem­ pio, durante la guerra, vengono scoperte in quell’altro Stato armi di distruzione di massa. Ovvio che, anche se p risulta, infine, ve­ ra, la comunicazione del Presidente è menzognera: p, infatti, ri­ sulta vera per un mero accidente, mentre il nostro Presidente non la credeva vera, né era giustificato a crederla tale. Possiamo del re­ sto, dire il falso, senza mentire. Il Presidente può comunicarmi p, rispettando le condizioni (2) e (3), ovvero credendo chep ed es­ sendo giustificato a credere che p, e poi p può risultare falsa. In questo caso il Presidente commette un errore epistemico, ma si tratta di un errore commesso in buona fede. Quando, invece, non viene rispettata la condizione (3), si commette un errore per ne­ gligenza, anche se non si ha intenzione di mentire: non viene ri­ spettata la massima ‘Non dire ciò per cui non hai prove adegua­ te’, ovvero ciò per cui non sei giustificato. Da quanto finora pre­ cisato emerge che dire il falso è ovviamente diverso dal mentire: si mente quando si sa di dire il falso, quando, in altre parole, non si crede a quel che si dice. Quindi, per comunicare p a fini epistemici, occorre sicuramente rispettare la condizione (2), oltre alle condizioni (1) e (3). Non vogliamo così sostenere che la comunicazione menzo­ gnera, o ingannevole, sia sempre da evitare. La menzogna ha mol­

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te sfaccettature e funzioni (cfr., ad esempio, Castelfranchi e Pog­ gi 2002). Si tratta di una condotta che dilaga da sempre nella so­ cietà umana ed è largamente presente anche negli animali non umani - basti pensare al mimetismo. Si tratta, tra l’altro, di una condotta che per essere efficace o intelligente deve basarsi su una buona conoscenza delle relazioni sociali. Vogliamo, però, soste­ nere che la comunicazione menzognera non giova sotto il profilo epistemico a colui verso cui è indirizzata. Tuttavia, non è affatto scontato che non giovi mai. Vediamo perché attraverso due sem­ plici esempi; a. Si ipotizzi che una sera, in cui vi sono pochi ristoranti aper­ ti, debba andare fuori a cena e che chieda alla mia amica Giovan­ na: ‘Conosci un buon ristorante aperto stasera?’. Supponiamo che Giovanna mi comunichi mentendo e falsamente che il ristorante x è aperto. Credo a Giovanna e mi reco al ristorante x per cenare. Lo trovo chiuso. Ho subito un danno epistemico, e non solo tale - dovrò infatti cercare un altro ristorante. Ho però appreso qual­ cosa: adesso so che Giovanna ha mentito, e di conseguenza farò più attenzione a credere a quanto mi comunicherà in futuro. b. Si ipotizzi che in casa mia, nella sala da pranzo, vi sia un og­ getto a cui tengo molto - diciamo un portafrutta in porcellana che apparteneva a mia nonna - e che la mia amica Lucia ne sia al cor­ rente. Un giorno Lucia spostando il portafrutta lo lascia inavver­ titamente cadere per terra, col risultato che esso si frantuma. Lu­ cia corre nel mio studio e mi dice, mentendo e falsamente: ‘Non ho rotto il portafrutta’. Mi accorgo che è molto nervosa e quasi in lacrime. Ne evinco (ro) che Lucia ha rotto il portafrutta. D’altra parte, è opportuno osservare che pure la falsa testimo­ nianza non menzognera può condurre a conoscenza. Anche in questo caso, vediamo perché attraverso due esempi:

c. Si ipotizzi che con la mia amica Anna mi rechi a un concer­ to, dove sono previste sonate di Bach e sonate di Mozart. Mentre stiamo ascoltando una sonata di Bach, Anna mi dice falsamente, ma sinceramente: ‘È molto intensa questa sonata di Mozart’. Ne

VII. Conoscere attraverso parole: epistemologia

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evinco Go) che Anna non è in grado di distinguere una sonata di Bach da una sonata di Mozart. d. Si ipotizzi che abbia un appuntamento con la mia amica So­ nia alle ore 15. Senza esserne consapevole, giungo all’appunta­ mento con mezz’ora di ritardo e Sonia mi dice falsamente, ma con tono chiaramente ironico: ‘Sei puntuale come un orologio svizze­ ro’. Ne evinco (so) che sono in ritardo all’appuntamento. 7. Cosa rimane da fare Secondo alcuni, non si può non comunicare - anche il silenzio rappresenta un messaggio. Se questo è vero, non è altrettanto ve­ ro che tutto quanto ci viene comunicato si trasforma in nostre cre­ denze giustificate o in nostre conoscenze. Ci troviamo sicuramen­ te di fronte a un limite della comunicazione, ma si tratta di un li­ mite prezioso, che non conduce affatto a un tipo di scetticismo (oggi piuttosto in voga in alcuni circoli intellettuali) contro la co­ municazione. Infatti, abbiamo visto che la comunicazione può trasmettere conoscenza e, cosa importante, abbiamo capito a qua­ li condizioni. Questo primo passo fondamentale ci deve stimola­ re a procedere oltre. Qui, infatti, ci siamo limitati a considerare una situazione abbastanza semplice: la situazione in cui ci viene sostanzialmente comunicata una singola proposizione dal conte­ nuto sufficientemente perspicuo. Rimane allora da comprendere cosa accade dal punto di vista epistemico in situazioni più com­ plesse, ovvero in situazioni in cui il contenuto non è sufficientemente perspicuo e in situazioni in cui ci troviamo di fronte a più proposizioni. Per dare un’idea davvero molto sintetica del lavoro che rimane da fare, limitiamoci a tre esempi piuttosto banali, in ri­ ferimento a un qualsiasi testimone T e un qualsiasi soggetto co­ gnitivo S che riceve una testimonianza:

a. T comunica a S: ‘Le scuole pubbliche sono migliori delle scuole private’. Nell’ipotesi che questa comunicazione possa tra­ sformarsi in conoscenza, quale proposizione S giunge a conosce­ re? Giunge a sapere che, ad esempio, molte scuole pubbliche so­ no migliori delle scuole private o che tutte le scuole pubbliche so­

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no migliori delle scuole private? E di tutte le scuole private o di molte? b. T comunica a S: ‘Tutti i filosofi sono persone bizzarre e inaf­ fidabili’. Se S ribatte ‘Perché lo credi?’, a seconda della risposta che T offre, S potrà giungere a conoscere proposizioni molto di­ verse tra loro. Ad esempio, se T risponde ‘Ricordi Gugliemo, il no­ stro vecchio amico filosofo? È proprio bizzarro e inaffidabile’, S non può giungere a conoscere che tutti i filosofi sono persone biz­ zarre e inaffidabili, semplicemente perché il tipo di ragionamento induttivo di T è assai avventato. S può solo giungere a sapere che il filosofo Gugliemo è una persona bizzarra e inaffidabile. c. T comunica a S: ‘Francesca vive a Malta. Quindi, possiede almeno una T-shirt di cotone’. Nell’ipotesi che questa comunica­ zione possa trasformarsi in conoscenza, chiediamoci quali propo­ sizioni S non giunge a conoscere. Il ragionamento contenuto in ‘Francesca vive a Malta. Quindi, possiede almeno una T-shirt di cotone’ può sembrarci un buon ragionamento: Malta è un luogo dove fa spesso molto caldo e nei luoghi caldi si indossano T-shirt di cotone. Eppure il ragionamento non è un buon ragionamento, dato che è possibile che Francesca non possieda alcuna T-shirt di cotone - magari è allergica al cotone. Per rendere il ragionamen­ to valido occorre aggiungere una premessa. Supponiamo allora che la comunicazione sia la seguente p ‘Francesca vive a Malta. Tutti gli abitanti di Malta possiedono almeno una T-shirt di coto­ ne. Quindi, Francesca possiede una T-shirt di cotone’. Questo ra­ gionamento funziona. E, tuttavia, non diremmo che S giunge a sa­ pere che p, perché la nuova premessa ‘Tutti gli abitanti di Malta possiedono almeno una T-shirt di cotone’ è probabilmente falsa.

Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma questi sono sufficien­ ti a farci intuire che qui abbiamo toccato solo alcuni punti del complesso rapporto tra comunicazione e conoscenza. Riteniamo, però, di aver gettato le basi necessarie per poter affrontare i pro­ blemi ulteriori con un bagaglio di riflessioni capaci di produrre una maggiore consapevolezza epistemica in ognuno di noi.

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Gli autori

Claudia Bianchi si è specializzata in Pragmatica e Filosofìa del lin­ guaggio presso l’Ecole Polytechnique di Parigi e i Dipartimenti di Filosofìa delle Università di Ginevra, Vercelli e Padova. Ha pub­ blicato diversi saggi in italiano, francese e inglese, nonché due vo­ lumi: La dipendenza contestuale. Per una teoria pragmatica del si­ gnificato (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001) e Pragmati­ ca del linguaggio (Laterza, Roma-Bari 2003). E co-curatrice di Fi­ losofia (Vallardi, Milano 1996) e di Significato e ontologia (Ange­ li, Milano 2003) e curatrice di The Semantics/Pragmatics Distinction (CSLI, Stanford 2004). Insegna Epistemologia e Teorie della comunicazione presso la Facoltà di Filosofia dell’università VitaSalute San Raffaele di Milano.

Frans H. van Eemeren insegna Analisi del discorso, Teoria del­ l’argomentazione e Retorica all’Università di Amsterdam; dirige il programma di ricerca ‘Argomentazione nel discorso’ e il research master ‘Retorica, argomentazione e filosofia’. Ha sviluppato la teo­ ria pragma-dialettica dell’argomentazione insieme a Rob Grooten­ dorst, con il quale ha pubblicato: Speech acts in argumentative discussions (De Gruyter-Foris, Cinnaminson 1984), Argumentation, communication, and fallacies (Erlbaum, Hillsdale 1992) e A systematic theory ofargumentation (Cambridge University Press, Cambridge-New York 2004). Con S. Jackson e S. Jacobs ha pubblica­ to Reconstructing argumentative discorse (University of Alabama Press, Tuscaloosa 1993). Insieme , a Peter Houtlosser ha curato Dialectic and rhetoric (Kluwer, Dordrecht-Boston 2002), dove ha sviluppato il concetto di «manovra strategica» per integrare gli

168

Gli autori

spunti provenienti dalla retorica nel metodo di analisi e valutazio­ ne pragma-dialettico. Inoltre è redattore capo della rivista «Argumentation», della collana «Argumentation Library» dell’editore olandese Kluwer ed è uno dei fondatori della Società internazio­ nale per lo studio dell’argomentazione (ISSA).

Maurizio Ferraris insegna Filosofia teoretica nella Facoltà di Let­ tere e Filosofia dell’università di Torino, dove dirige il Centro in­ teruniversitario di Ontologia teorica e applicata. E direttore di programma al Collège International de Philosophie (Parigi); collabora al Supplemento culturale del «Sole-24 ore» e a «il manife­ sto», e dirige la «Rivista di estetica». Ha scritto una trentina di li­ bri, tra i quali i più recenti sono: Experimentelle Asthetik (Turia und Kant, Wien 2001), L’altra estetica (con altri autori, Einaudi, Torino 2001), Una ikea di università (Cortina, Milano 2001), Il mondo esterno (Bompiani, Milano 2001), A taste far thè Secret (con Jacques Derrida, Blackwell, Oxford 2001), Ontologia (Gui­ da, Napoli 2003), Introduzione a Derrida (Laterza, Roma-Bari 2003), Goodbye Kant! Cosa resta oggi della «Critica della ragion pura» (Bompiani, Milano 2004). Peter Houtlosser è Lecturer al Dipartimento di Analisi del discor­ so, Teoria dell’argomentazione e Retorica all’Università di Am­ sterdam. Nel programma di ricerca ‘Argomentazione nel discor­ so’ ha concentrato l’attenzione sull’analisi e valutazione sia retori­ ca sia dialettica del discorso argomentativo. Insieme a Frans H. van Eemeren ha studiato le tradizioni dialettiche e storiche del modo di trattare l’argomentazione e in svariati articoli su riviste e capitoli in libri collettanei (ad esempio Strategie Manoeuvring in Argumentative Discorse: A Delicate Balance, in F.H. van Eemeren e P. Houtlosser, a cura di, Dialectic and Rhetoric, Kluwer, Dor­ drecht 2002, pp. 131-159) ha esplorato come sia possibile inte­ grare gli spunti della retorica nel metodo pragma-dialettico di analisi e valutazione.

Andrea Moro si è laureato in lettere classiche a Pavia, ha svolto un dottorato di ricerca in linguistica presso il consorzio di Pado­ va, ed è stato per due anni Visiting Scientist al MIT di Boston con

Gli autori

169

il programma ‘Fulbright’. Presso l’Università di Ginevra ha poi ottenuto il Diplòme d’études supérieures en théorie de la syntaxe et syntaxe comparative. E attualmente professore ordinario di Linguistica generale aU’Università Vita-Salute San Raffaele di Mi­ lano. Ha tenuto corsi alla Netherland Graduate School of Linguistics (LOT) a Nijmegen, alla GLOW International Summer School in Linguistics a Thermi, all’università dell’Arizona e all’Università di Barcellona. Tra le sue pubblicazioni: The Raising of Predicates (Cambridge University Press, Cambridge-New York 1997); Dynamic Antisymmetry (The MIT Press, Cambridge, MA, 2000); e, in collaborazione, Syntax and thè Brain: Disentangling Grammar by Selective Anomalies, in «Neurolmage», 13, pp. 110118, e Braca’sArea and thè Language Instinct, in «Nature neuroscience», voi. 6, pp. 774-781.

Èva Picardi insegna Filosofia del Linguaggio presso il Diparti­ mento di Filosofia dell’università degli Studi di Bologna. È autri­ ce di studi su Frege, Russell, Peano, Quine, Davidson e Dummett. Tra le sue pubblicazioni: Assertibility and Truth. A Study ofFregean Themes (CLUEB, Bologna 1981), Linguaggio e analisi filo­ sofica. Elementi difilosofia del linguaggio (Patron, Bologna 1992), La chimica dei concetti (Il Mulino, Bologna 1994), Le teorie del si­ gnificato (Laterza, Roma-Bari 1999). Ha curato le edizioni italia­ ne di opere di Frege, Dummett, Davidson, Putnam, e, recente­ mente, insieme ad Annalisa Coliva, il volume Wittgenstein Today (Il Poligrafo, Padova 2004).

Nicla Vassallo insegna Epistemologia presso l’Università di Ge­ nova e presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Ha pubblicato molti saggi in italiano e in inglese, nonché undici vo­ lumi tra cui ricordiamo gli ultimi due: in qualità di autrice, Teoria della conoscenza (Laterza, Roma-Bari 2003), e, in qualità di cura­ trice, Filosofie delle scienze (Einaudi, Torino 2003). E membro della redazione di alcune riviste filosofiche e collabora al Supple­ mento culturale del «Sole-24 Ore».

Ugo Volli insegna Semiotica del Testo all’Università di Torino, do­ ve dirige anche il Centro interdipartimentale di ricerca sulla co­

170

Gli autori

municazione e presiede una laurea specialistica dedicata alla co­ municazione di massa. Si occupa di problemi di comunicazione sia dal punto di vista teorico che da quello pratico. Collabora con vari quotidiani, radio e televisioni e svolge attività di consulenza e ricerche per enti pubblici e aziende private. Fra i suoi libri più re­ centi, Figure del desiderio (Cortina, Milano 2002), Semiotica del­ la pubblicità (Laterza, Roma-Bari 2003), Laboratorio di semioti­ ca (Laterza, Roma-Bari 2005).

Indici

Indice dei nomi

Abelardo, 139. Anscombre, J.-C., 117. Arena, L., 90. Aristotele, 39, 44, 86, 92, 95-96, 118-119,126. Audi, R., 144n. Austin, J.L., 50-53, 64, 81,144n.

Bach, J.S., 92,152-153. Bach, K., 61n. Bacone, F., 100. Barth, E.M., 115n. Beavin, J.H., IX. Bellarmino, R., 105. Bianchi, C., 48, 61n, 62. Bickerton, D., 14. Blair, E., 41. Blair, J. A., 116. Boncinelli, E., 15. Borg, E., 22. Borges, J.L., 106. Brandom, R., 31. Brentano, F., 19. Brod, M„ 101. Burge, T., 40. Burke, K.B., 117-118,128. Cacioppo, J.T, 127. Campanile, A., 103. Campbell, G., 118. Can Grande della Scala, 104. Cappa, S.F., 10.

Carston, R., 38,57. Castelfranchi, C., 152. Cavalli-Sforza, L., 15. Chaiken, S., 127. Chirac, J., 95. Chomsky, N., 3,5. Churchill, W., 91. Clark, H„ 65-66. Coady, C.A.J., 144n. Coliva, A., 39. Cook,J., 102. Crawshay-Williams, R., 115n.

Dante Alighieri, 85,104. Davidson, D., 24,27-28,32,102. Davis, S., 144n. De Lachenal, A., 11 In. Dell’Utri, M., 30. Derrida,)., 101. Descartes, R., 141. Dilthey, W., 107. Donnellan, K., 37,49. Ducrot, O., 117. Dummett, M., 25,30,33,144n. Dupoux, E., 15. Eagly, A.H., 127 Eco, U„ 31,46, 85,109. Eemeren, F.H. van, 116-117, 122n, 125n, 130-131. Evans, G., 37,39,144n.

174 Faulkner, R., 144n, 149. Ferraris, M., HOn. Fichte, J.G., 106. Flaubert, G., 97. Fodor, J.A., 22, 30,58n. Foucault, M., 117, 119. Frege, G., 20-21, 24, 28-30, 34-37, 86,124. Freud, S„ 94,102,108. Fricker, E., 144n. Friston, K.J., 10. Gadamer, H.-G., 103,106. Gauker, C., 62. Genette, G., 71. Giulio Cesare, 99,139. Godei, K., 36-37. Goffman, E., 72. Goldman, A.L, 149n. Goodnight, G.T., 117. Gould, G., 92. Graffi, G., 3-4. Graham, P.J., 144n. Grassi, E., 119. Greimas, A.J., 86. Grice, P., 52-55, 57-58, 60, 64, 66, 150. Grootendorst, R., 116. Habermas, J., 108,117,119. Hamblin, Ch.L., 115n, 13 On. Hardwig.J., 139,144n. Hauser, M.D., 15. Heidegger, M., 103. Hitler, A., 91. Hobbes, T., 136. Horwich, P., 22. Houtlosser, P., 117, 130-131. Hovland, C.I., 127. Hume, D., 142.

Ignazio da Loyola, 109.

Jackson, D.D., ix. Jakobson, R., 73, 84. Johnson, M., 71.

Indice dei nomi Johnson, R.H., 116.

Kafka, F., 100-101. Kant, I., 106. Kaplan, D., 36. Kopperschmidt, J., 117. Krabbe, E.C.W., 115n, 116n. Kripke, S., 36-37. Kurosawa, A., 88.

Lackey,J., 144n. Lakoff, G., 71. Le Carré, J., Ili, 132. Leff, M., 117. Lehrer, K., 144n. Lenneberg, E., 9. Leonardo da Vinci, 102. Lepore, E., 22. Lewis, D., 27,58, 64. Locke, J., 140-141. Lorenzen, P., 115n. Lubac, H. de, 104. Manzoni, A., 84-85, 97. Marconi, D., 31. Marx, K., 94,108. McDowell, J.H., 19,144n. Megill, A., 128. Mehler,J., 15. Molière, 92. Monterroso, A., 98. Moro, A., 9,12,15. Mozart, W.A., 152-153. Musso, M., 12.

Naess, A., 115n. Napoleone Bonaparte, 107. Neale, S., 38. Nelson, J.S., 128. Nietzsche, F., 94,101-102,109-110.

Olbrechts-Tyteca, L., 119,123-124, 125 e n, 126. Olivier, L., 92. Omero, 83, 91, 99. Orwell, G., 41.

Indice dei nomi Pascal, B., 135. Pera, M., 128. Perani, D., 10. Perelman, C, 112, 117, 119, 123124,125 e n, 126-127. Pessoa, F., 84. Pettit, P., 144n. Petty, R.E, 127. Piattelli Paimarini, M., 15. Picardi, E., 19,30,37. Plantin, Chr., 117n. Plantinga, A., 144n. Platone, 71, 96,136. Poggi, I., 152. Price, H.H., 144n. Proust, M., 85, 90. Putnam, H., 36,39-40. Quine, W.V.O., 28-32,102.

Reboul, O., 117n. Recanati, F., 38,52, 61n. Reid, T„ 142-143. Richards, I.A., 117-118,128. Ricoeur, P., 94. Roberts, L., 49. Ross, A., 144n. Ross.J., 144n. Russell, B., 34-38, 144n. Sacchi, E., 39. Sade, D.-A.-F. de, 97, 109. Sainsbury, M., 22, 24, 27. Saussure, F. de, 79. Sbisà, M., 81. Schiffer, S., 58. Schleiermacher, F.D.E., 93. Schroeder, G., 94-95.

175 Scott, R.L., 119. Shakespeare, W., 92,100. Sosa, E., 144n. Sperber, D., 52-53,57,58 e n, 59,64. Stalnaker, R., 34. Stanley, J., 62. Steiner, G., 81. Stevenson, L., 144n, 145. Strawson, P., 54. Svevo, I., 90. Szabò, Z.G., 61n, 62. Tarski, A., 20, 27,30. Tommaseo, N., 98. Toulmin, S, 112, 117,119-120, 122 e n, 126. Travis, C., 24. Troisi, M., 90. Turner, K., 61n.

Valéry, P., 100. Vassallo, N„ 138n. Vico, G., 71,119. Violi, P., 31. Wagner, R., 98. Walton, D.N., 116n. Watzlawick, P., ix. Weaver, R.M., 117-118. Wenzel.J.W., 117. Whately, R., 118-119. Wichelns, H.A., 129. Wilson, D., 52,57,58 e n, 59, 64. Wittgenstein, L., 9,17-18,22,24-28, 106,144n.

Zamboni, F., 110. Zarefsky, D., 117,129.

Indice del volume

Prefazione di Claudia Bianchi e Nicla Vassallo

IX

I.

Combinare espressioni: sintassi di Andrea Moro

3

IL

Afferrare pensieri: semantica di Èva Picardi

III. Capire e farsi capire: pragmatica di Claudia Bianchi

17 42

IV.

Analizzare testi: semiotica di Ugo Volli

68

V.

Interpretare discorsi: ermeneutica di Maurizio Ferraris

90

VI.

Persuadere: retorica diFransH. vanEemeren e Peter Houtlosser

VII. Conoscere attraverso parole: epistemologia di Nicla Vassallo

111

134

Bibliografia

155

Gli autori

167

Indice dei nomi

Prefazione di Claudia Bianchi e Nicla Vassallo

Questo volume intende riflettere su che cos’è la comunicazione, e cercare di capire se la comunicazione esiste. Ma via, si può ribat­ tere, certo che la comunicazione esiste! Passiamo una parte con­ sistente del nostro tempo a conversare con gli altri, a telefonare, mandare messaggi sul telefonino, spedire e-mail. E non solo par­ liamo e scriviamo, ma anche ci esprimiamo a gesti, sorridiamo o guardiamo in cagnesco, ci vestiamo in un certo modo e in un cer­ to modo ci muoviamo, diamo pizzicotti, buffetti e baci, facciamo smorfie o ridacchiamo con aria significativa, solleviamo gli occhi al cielo o li abbassiamo pudicamente, regaliamo mazzi di fiori o pentole a pressione: il tutto evidentemente allo scopo di comuni­ care. Per alcuni, addirittura, «non si può non comunicare» (Watzlawick, Beavin e Jackson 1967). In una situazione di intera­ zione - quando cioè siamo con gli altri - qualunque nostro com­ portamento assume valenza comunicativa: guardare l’altro o evi­ tare di farlo, parlare o tacere, rispondere o starsene muti. Lo sa bene chi ha mai cercato di fare amicizia con uno sconosciuto in un locale affollato: certi silenzi possono essere più significativi di molte parole. Naturalmente ci sono tipi di comunicazione più primitivi e al­ tri più raffinati. Il cosiddetto 'linguaggio del corpo’ accomuna l’a­ nimale umano all’animale non umano: non setnbra esserci una gran differenza tra l’essere umano che, ad esempio, ne guarda un altro con un’espressione del volto minacciosa e tra un cane che ne guarda un altro ringhiando. Viene emesso un segno e questo se­ gno viene interpretato. A che scopo? Si pensi alle api quando ‘co­ municano’ localizzazione e quantità di polline ad altre api: se la

X

Prefazione

comunicazione funziona viene massimizzato il successo dell’al­ veare. Il vantaggio di noi esseri umani sugli animali non umani consiste nel fatto che, oltre al linguaggio del corpo, disponiamo del linguaggio inteso in senso vero e proprio, e ne disponiamo in modo raffinato: facciamo ad esempio uso di un linguaggio verba­ le estremamente ricco e sofisticato. A che scopo? Soprattutto al­ lo scopo di capirci l’un l’altro. Se non ci capiamo, annulliamo le potenziali e molteplici funzioni della comunicazione - parlare di noi, del mondo, definire e modificare le relazioni con i nostri in­ terlocutori, influire sulle loro credenze e azioni, eccetera. Nessuna specie riesce a comunicare con una tale ricchezza e varietà di contenuti. E il nostro vantaggio si è accresciuto nel cor­ so dei millenni, attraverso una serie di sviluppi noti, su cui non è il caso di soffermarsi - basti ricordare che alla comunicazione ba­ sata sulla parola si è aggiunta la comunicazione imperniata sulla scrittura. Alcune tappe decisive hanno avuto luogo e si sono sus­ seguite con straordinaria rapidità nel Novecento: se al principio del secolo il flusso della comunicazione destinato aUa società era dominato dalla carta stampata, oggi, oltre a questa, disponiamo di radio, televisione, e-mail, internet, sms, e così via. Con il XX se­ colo siamo entrati nell’era delle comunicazioni di massa e i muta­ menti sono stati radicali: politica, cronaca, moda, pubblicità, guerra sono diventati eventi mondiali, almeno nel senso che i fat­ ti che concernono tali temi possono esserci comunicati su scala in­ ternazionale con straordinaria rapidità, e a volte anche ‘in diretta’ - cosa impossibile fino a qualche decennio fa. La rivoluzione no­ vecentesca ha mutato non solo il mondo, ma anche il nostro mo­ do quotidiano di pensare e di comunicare. E naturale che sia sorto un estremo interesse per la comunica­ zione; dal punto di vista scientifico si è tradotto in una serie di stu­ di di tipo psicologico, sociale, politico ed economico. E la filoso­ fia? È ancora molto insolito oggi sentire parlare di ‘filosofia della comunicazione’, e quando certi filosofi affrontano il tema, lo fan­ no spesso per esprimersi contro la comunicazione, sostenendo magari che la comunicazione è nemica della nostra esistenza, dis­ solve le differenze, ottunde le menti, e così via. Ovviamente, però, prima di attaccare la comunicazione, è necessario capire che cos’è la comunicazione, così come è necessario capire che cos’è la comunicazione quando ci si vuole esprimere a suo favore. Non

Prefazione

XI

possiamo valutare in modo positivo o negativo una qualsiasi cosa, senza avere una precisa idea di che cosa stiamo valutando. Cosa facciamo, o dobbiamo fare, in filosofia? Ci chiediamo se qualcosa esiste. Ci chiediamo ad esempio se la sostanza, lo spazio, il tempo, l’identità personale, il fato, Dio esistano. Perché, allora, non chiederci anche se esiste la comunicazione? Questa doman­ da raramente viene sollevata. Eppure, se in filosofia ci chiediamo se qualcosa esiste, allora ‘C’è la comunicazione?’ è una domanda propriamente filosofica. Domanda provocatoria? Certo, come la maggior parte delle domande filosofiche. Domanda però neces­ saria e molto sensata. Vediamo meglio. Le riflessioni relative a se qualcosa esiste sono legate a que­ stioni d’analisi, ovvero a questioni della forma ‘Che cosa è x?’, in cui si solleva il problema della natura di x o il problema di quali proprietà si possano attribuire a x. Perché? Supponiamo di chie­ derci ‘C’è un regime in Italia?’. A meno di non rispondere prima alla domanda ‘Che cos’è un regime?’, saremo difficilmente in gra­ do di giudicare se un regime esista o meno in Italia. Può venire re­ plicato che il migliore modo per rispondere alla domanda ‘C’è un regime in Italia?’ consiste nell’individuare e nell’esaminare il tipo di governo attualmente presente in Italia. In tal modo si sostiene la priorità delle questioni relative a se qualcosa esiste (‘C’è un re­ gime?’) sulle questioni d’analisi (‘Che cos’è un regime?’). Ma que­ sta priorità è largamente dubitabile: come si può, infatti, indivi­ duare qualcosa senza sapere cos’è quel qualcosa? Se non sappia­ mo cos’è un regime, è ben difficile che una nostra eventuale af­ fermazione quale ‘Questo è un regime’ possa risultare in qualche modo giustificata. Le questioni d’analisi sono prioritarie rispetto alle questioni relative a se qualcosa esiste. Lo stesso discorso de­ ve essere fatto a proposito della comunicazione. L’idea non è però del tutto priva di problemi. Rispondendo al­ la domanda ‘Che cos’è un regime?’ non presupponiamo forse che esista almeno un regime? Se sì, allora le questioni d’analisi risol­ vono tout court le questioni relative a se qualcosa esiste. Il che pa­ re profondamente errato. Il punto è che rispondendo a ‘Che co­ s’è un regime?’ non presupponiamo affatto che esista almeno un regime. E facile capirlo, chiedendoci, ad esempio, ‘Che cos’è un folletto?’. Rispondendo che un folletto è uno spirito di indole biz­ zarra e sorprendente, ma non malvagia, non presupponiamo af­

XII

Prefazione

fatto che un folletto esista nel mondo fisico o sia un’entità reale. L’analisi, infatti, concerne i concetti. Non ci sono folletti nel mon­ do fisico, ma possediamo il concetto di folletto, ed è il concetto che vogliamo analizzare. Facciamo, quindi, analisi concettuale: tutto ciò che presupponiamo è l’esistenza di concetti o l’esistenza di parole che abbiano un senso o un significato, ma non presup­ poniamo affatto l’esistenza di cose che cadano sotto i concetti ana­ lizzati. Questo volume intende sostanzialmente capire se il termine ‘comunicazione’ ha un senso, o più sensi, e se sì perché. Detto in modo diverso, ci proponiamo di comprendere che cosa deve es­ sere la comunicazione per essere realmente tale, così come di comprendere perché comunichiamo e perché dobbiamo, se dob­ biamo, comunicare. Questo nostro proposito non può che venire largamente disatteso da tutte quelle impostazioni che ricorrono solo a psicologia, sociologia, politica ed economia. Esse, infatti, dimenticano troppo spesso i principi filosofici della comunica­ zione - comunicazione che qui intendiamo nella sua manifesta­ zione prevalentemente linguistica in quanto l’unica propria solo agli esseri umani. Indagare tali principi attraverso le discipline fi­ losofiche in cui l’analisi del problema della comunicazione è - o dovrebbe essere - imprescindibile è proprio lo scopo che si pre­ figge il nostro volume. L’intento non è solo quello di colmare il vuoto di cui si è det­ to, ma anche (e forse soprattutto) quello di evidenziare l’eteroge­ nea complessità del problema della comunicazione, un problema la cui trattazione è sì presente nelle varie discipline, ma in modo spesso periferico. Si pensi, ad esempio, alla sintassi: le relazioni fra strutture sintattiche e fenomeni di uso del linguaggio trovano ra­ ramente spazio adeguato nei volumi dedicati a questa disciplina. O alla semantica: ci sono molte introduzioni alla semantica; è però davvero insolito trovare in qualcuna un riconoscimento del fatto che non usiamo il linguaggio solo per riferirci a oggetti o per rap­ presentare fatti, ma anche per comunicare. O si pensi alla retori­ ca che, comunque intesa - come tecnica della persuasione, o co­ me stilistica, eccetera -, ha molto da dire per comprendere i mec­ canismi della comunicazione. Inutile continuare con gli esempi, e accennare, seppure sinteticamente, alle altre discipline: sarebbe come invitarvi al cinema e raccontarvi prima la trama del film.

Prefazione

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Ad ogni modo, le discipline che crediamo essenziali per com­ prendere che cos’è la comunicazione sono sintassi, semantica, pragmatica, semiotica, ermeneutica, retorica ed epistemologia. Quale disciplina manca? Salta subito all’occhio: manca l’etica e manca volutamente, non perché l’etica della comunicazione non sia necessaria, ma perché è nostra convinzione che sintassi, se­ mantica, pragmatica, semiotica, ermeneutica, retorica ed episte­ mologia siano capaci di mostrarci, anzitutto singolarmente e poi anche nel loro complesso, che cosa deve essere la comunicazione e, quindi, anche che cos’è la buona (o cattiva) comunicazione, nonché la comunicazione buona (o cattiva). Il presente volume è collettaneo perché ogni disciplina neces­ sita di un vero specialista per essere sviluppata in modo adeguato in relazione al tema della comunicazione. Non trovate qui di se­ guito una tipica impostazione da manuale, spesso pedante e qua­ si sempre noiosa. Il volume si avvicina piuttosto a una brillante in­ troduzione, che affronta i principali problemi filosofici della co­ municazione in modo argomentato, rigoroso, affascinante. Un vo­ lume sì a carattere introduttivo, ma capace di intrattenere in mo­ do approfondito. Ciò significa anche che aspira ad essere com­ pleto ed esauriente, pur in un numero di pagine contenuto, al fi­ ne di rappresentare uno strumento che speriamo efficace, inno­ vativo, stimolante per diversi tipi di lettore: lo studente universi­ tario, sia delle varie discipline oggetto del volume sia di scienze della comunicazione; lo psicologo, il sociologo, il politico, l’eco­ nomista; ogni professionista (l’avvocato, il giornalista, il pubblici­ tario, l’addetto alle pubbliche relazioni, eccetera) il cui lavoro è basato sulla comunicazione; ogni studioso e artista interessato al fenomeno e al problema della comunicazione. In effetti, questo volume è necessario a ognuno di noi, non solo in quanto dediti a specifici studi o professioni, ma anche, e forse soprattutto, in quanto esseri umani che comunicano ogni giorno gli uni con gli altri. Grazie a un’accresciuta capacità di valutare i meccanismi co­ municativi, si prospettano strategie inedite per i nostri interessi cognitivi e per le nostre azioni, insieme alla garanzia di una mag­ giore autonomia razionale e pratica nelle interazioni sociali.

Le persone che dovremmo ringraziare solo molte, ma ci limi­ teremo all’essenziale. Un grazie di cuore alle nostre famiglie - più

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Prefazione

o meno allargate - che ci hanno sostenuto con il consueto affetto; a Martine Garrivet, a Roberto Casati e all’Institut Jean Nicod, al personale della Bibliothèque Nationale de France che hanno reso possibile, gradevole e fruttuoso un nostro recente soggiorno a Pa­ rigi, dove parti di questo volume si sono sviluppate in modo con­ creto; a Lino e Maria Antonietta Orecchioni che ci hanno ospita­ to in un incantevole stazzo gallurese, dove la comunicazione na­ sce dal silenzio; ad Anna che ha creduto nel nostro progetto e lo ha guidato con rara sapienza. Infine un ringraziamento particola­ re a tutti i collaboratori del volume che hanno lavorato con gran­ de passione e intelligenza.