Filologia italiana. Rivista annuale 6/2009

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Filologia italiana. Rivista annuale 6/2009

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Direttori · Editors Simone Albonico (Lausanne) · Stefano Carrai (Siena) Vittorio Formentin (Udine) · Paolo Trovato (Ferrara) * Comitato di lettura · Referees Gino Belloni (Venezia) · Saverio Bellomo (Venezia) Lucia Bertolini (Chieti-Pescara) · Guido Capovilla (Padova) Paolo Cherchi (Chicago) · Claudio Ciociola (Pisa, «Normale») Luciano Formisano (Bologna) · Giorgio Inglese (Roma, «La Sapienza») Guido Lucchini (Pavia) · Livio Petrucci (Pisa) Marco Praloran (Lausanne) · Brian Richardson (Leeds) Francisco Rico (Barcelona) · Claudio Vela (Cremona-Pavia) Massimo Zaggia (Bergamo) · Tiziano Zanato (Venezia) * Redazione · Editorial Assistant Fabio Romanini (Novedrate, e-Campus) * «Filologia italiana» is a Peer-Reviewed Journal * Per la migliore riuscita delle pubblicazioni si invitano gli autori ad attenersi, nel predisporre i materiali da consegnare alla Redazione ed alla Casa editrice, alle norme specificate nel volume Fabrizio Serra, Regole editoriali, tipografiche & redazionali, Pisa-Roma, Serra, 20092 (ordini a: [email protected]). Il capitolo Norme redazionali, estratto dalle Regole, cit., è consultabile Online alla pagina «Pubblicare con noi» di www.libraweb.net.

Rivista annuale

6 · 2009

PISA · ROMA FA B R IZ IO S E R R A E DITORE MMX

Fabrizio Serra editore ® Casella postale n. 1, Succursale n. 8, i 56123 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected], www.libraweb.net I prezzi ufficiali di abbonamento cartaceo e/o Online sono consultabili presso il sito Internet della casa editrice www.libraweb.net. Print and/or Online official subscription rates are available at Publisher’s website www.libraweb.net. I pagamenti possono essere effettuati tramite versamento sul c.c.p. n. 17154550 o tramite carta di credito (American Express, Eurocard, Mastercard, Visa). Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, i 56127 Pisa, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, i 00185 Roma, [email protected] * Autorizzazione del Tribunale di Pisa n. 18 del 26 novembre 2003 Direttore responsabile: Fabrizio Serra Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi messo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc. senza la preventiva autorizzazione della Fabrizio Serra editore ®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2010 by Fabrizio Serra editore ®, Pisa · Roma. Stampato in Italia · Printed in Italy issn 1724-6113 issn elettronico 1825-1021

SOMM ARIO Stefano Carrai, La filologia di Dante Isella

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Antonio Ciaralli, Alle origini del documento mercantile. Postille intorno al «Rendiconto navale» pisano

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Vittorio Formentin, Noterelle sulla tenzone tridialettale del codice Colombino di Nicolò de’ Rossi

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Giorgio Inglese, Crocco in «Purgatorio» xxiv 30?

75

Anna Bettarini Bruni, Paolo Trovato, Dittico per Antonio Pucci i. Paolo Trovato, Di alcune edizioni recenti di Antonio Pucci, del codice Kirkup e della cladistica applicata alla critica testuale ii. Anna Bettarini Bruni, Esercizio sul testo della «Reina d’Oriente»: è possibile un’edizione neolachmanniana?

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Denis Fachard, «A maggiore vostra cognizione, mi farò un poco da lato, e voi arete pazienza a leggerla». Appunti su inediti machiavelliani riguardanti l’attuazione dell’Ordinanza 129 Patrizia Arquint, Di un repertorio di briglie cinquecentesco falsamente attribuito a Cesare Fiaschi 147 Annalisa Cipollone, Una ghirlanda fiorentina. 1938. Autografi novecenteschi nella National Library of Scotland (con lettere inedite di Saba e Ungaretti) 171 Davide Checchi, L’architettura dei «Versi livornesi» di Giorgio Caproni

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Indici, a cura di Fabio Romanini i. Indice dei nomi ii. Indice dei manoscritti e dei postillati iii. Indice dei nomi delle lettere machiavelliane

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Sigle impiegate in questa rivista

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LA FI LOLOGI A DI DANTE ISELLA Stefano Carrai* Università di Siena

1. ali sono state l’operosità e la quantità di testi editi o commentati da parte di Isella che una rassegna esaustiva della sua attività ecdotica – lo dico subito, per onestà – si rivela compito arduo ed eccedente i limiti di questo intervento. Certo le sue numerose imprese sono accomunate dal dato geografico, quella linea lombarda da Isella opportunamente valorizzata, cui si sottraggono pochi autori: Vittorini e Montale, ma fattisi anch’essi milanesi; Fenoglio, al quale è presumibile che Isella si sia avvicinato anche a motivo dell’allora recente edizione critica diretta da Maria Corti, già sua collega all’Università di Pavia e che con lui aveva fondato e condirigeva la rivista «Strumenti critici»; oltre ai dialettali Giacomini, friulano, Guerra e Baldini, romagnoli. Ma la costante fornita dal rapporto col territorio lombardo non riduce l’ampiezza dell’arco cronologico sul quale si distende il suo cimento filologico, dal Quattrocento di Lancino Curti e di Bramante, al Cinquecento di Tasso e di Lomazzo, al Seicento di Lemene, di Fabio Varese e di Maggi, al Settecento di Parini, e poi Porta, Manzoni e Dossi, fino a Gadda, Tessa e Sereni. Nei filologi della generazione di Isella non saprei trovare un paragone se non in un altro studioso attivo anche lui al limite dell’inverosimile come Domenico De Robertis. E faccio questo accostamento non solo per ragioni generazionali, ma anche perché il comune riferimento all’esempio versatile di Contini avrà contato anche per l’estensione lunga dei rispettivi interessi: ovvero perché De Robertis evadesse dall’orto concluso della filologia dantesca, e medievale in genere, verso le edizioni dei Canti di Leopardi o di testi inediti di Ungaretti e prima ancora del Più lungo giorno di Dino Campana, e Isella del pari non si fossilizzasse sui suoi Parini, Porta, Dossi e Gadda, ma retrocedesse lungo l’asse della letteratura lombarda fino all’epoca di Maggi e poi di Lomazzo e ancora fino alla poesia della corte di Ludovico il Moro. A riprova, piace citare il fatto che dalla stessa matrice, con l’aggiunta della frequentazione di Giuseppe Billanovich, discende anche l’eclettismo di padre Giovanni Pozzi editore di Brunetto Latini e di Ermolao Barbaro, dell’Hypnerotomachia Poliphili e dell’Adone. Se non un vero bilancio dell’attività di Isella filologo testuale, dunque, il mio discorso vuole essere piuttosto un tentativo per affondi e per singoli casi di illustrare non solo l’alta qualità, ma l’esemplarità o, in termini diversi, la valenza paradigmatica del suo lavoro. Da questo punto di vista, bisogna registrare anzitutto ciò che è nella percezione comune di chi operi nell’ambito della filologia italiana: e cioè che Isella è stato – dopo precursori come Francesco Moroncini editore di Leopardi e Santorre Debenedetti editore dei frammenti autografi del Furioso – non un maestro, ma il maestro per eccellenza della filologia d’autore. Di recente Pietro Gibellini ha scritto: «Isella fu il maggior realizzatore, in concrete edizioni, di quella filologia d’autore che Contini aveva additato come moderna cifra del work in progress e della tendenza al valore e presupposto nei suoi sondaggi di critica variantistica».1 In effetti, lo scarto più evidente rispetto al lavo-

T

* [email protected] 1 Gibellini 2008a, p. 10.

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ro del suo maestro Contini sta proprio nell’aver premuto Isella, più spesso e volentieri che sul pedale del saggio, sull’acceleratore dell’edizione. Alieno per natura dalle generalizzazioni, egli non si è mai impacciato di trattazioni precettistiche, sebbene nell’intervento sulle testimonianze autografe plurime pronunciato al Convegno di Lecce del 1984 sulla critica del testo affermasse che i metodi della filologia d’autore richiedevano ormai «di essere codificati in un’ars edendi autonoma, con norme sue proprie» e lamentava «l’inesistenza» di un manuale specifico.1 Consapevole del fatto che in filologia non esiste un protocollo e men che mai quando si mettano le mani nelle carte lasciate dagli scrittori, Isella ha impostato e dato soluzione a ogni problema testuale che si è trovato ad affrontare calibrando le scelte e la rappresentazione del divenire dei testi in virtù non di criteri astratti, ma della ragionevolezza e dell’economia, trattando ogni testo iuxta propria principia. In altre parole, in assenza di una trattazione sistematica, è accaduto dell’opera di Isella quello che ha scritto una volta, ad altro proposito, Franco Fortini: «il buon lavoro, il lavoro fatto coscienziosamente, finisce col portar frutto, assumere autorità, essere riconosciuto».2 In tal modo egli non solo ha contribuito decisivamente a rinnovare la maniera di rappresentare il divenire dei testi, ma anche ha dotato la filologia d’autore di sicuri punti di riferimento grazie al modello empirico fornito con le sue edizioni, oltre che con gli studi nei quali ha riversato la propria esperienza di editore: primi fra tutti quelli metodologicamente più impostati riuniti nel volume Le carte mescolate, apparso originariamente nel 1987, nella collana allora diretta dall’amico Pier Vincenzo Mengaldo con Sergio Romagnoli per la Liviana di Padova (e postumamente riedito in versione accresciuta per Einaudi). 2. Credo non sia un caso se la raccolta Le carte mescolate desume il suo titolo da uno degli appunti vergati da Parini in vista di un completamento del Vespro e della Notte, che, come sappiamo, non venne mai: «Carte rapidamente mescolate». Parini annotava qui evidentemente il proposito di descrivere, a un certo punto, il gesto del giocatore che mischia nervosamente e ansiosamente le carte da gioco prima di distribuirle, ma Isella piegò felicemente quell’immagine a denotare la confusione di appunti, minute e correzioni che il filologo si trova spesso di fronte quando entra – sia detto con altra metafora a lui cara – nell’officina di uno scrittore.3 E dicevo che non è casuale che il titolo Le carte mescolate abbia un’aura pariniana, perché dopo il fondamentale apprendistato dossiano è stato il lavoro all’edizione critica del Giorno, insieme con quello sulle poesie di Porta, a indirizzare e segnare indelebilmente la filologia testuale di Isella. Le poesie di Porta e di Parini uscirono difatti dalle sue mani con una fisionomia radicalmente diversa rispetto a quella con la quale circolavano fino a quel momento. Si pensi al testo di Porta, che ancora si leggeva sostanzialmente nella versione stabilita dopo la morte del poeta dall’amico Tommaso Grossi, con molti arbitri rimasti in essere nel volumetto hoepliano curato da Angelo Ottolini nel 1927 e più volte ristampato, che costituiva allora l’edizione di riferimento. Facendo ricorso diretto agli autografi portiani, Isella seppe restituire un testo genuino e rappresentare sulla pagina le aggregazioni testuali risalenti all’autore consegnando l’uno e le altre all’edizione critica apparsa a Firenze presso La Nuova Italia sotto gli auspici di Contini, da poco trasferitosi da Friburgo ad insegnare nell’Ateneo fiorentino: tant’è che dopo una prima stampa provvisoria, nel 1954, del 1 Isella 2009a, p. 29.

2 Fortini 2003, p. 23.

3 Alludo al titolo di Isella 1968.

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solo testo critico privo di apparati, due anni più tardi l’edizione completa occupò tre volumetti della sezione di «Filologia italiana e romanza» – di cui Contini aveva allora assunto la direzione – della «Biblioteca di Studi Superiori» pubblicata dalla Nuova Italia. Presa visione dei tre quaderni siglati A, B e C in cui Porta stesso aveva sistemato la sua produzione poetica, Isella non tardò a comprendere che qualsiasi diverso ordinamento era arbitrario e fallace, sicché su quel fondamento non solo restaurò la lezione, ancorandola all’ultima volontà accertabile dell’autore, ma anche riorganizzò la successione del nucleo principale delle poesie portiane. Licenziata questa edizione, il suo lavoro continuò allo scopo di approntare un puntuale e ricco commento al testo definitivo (esclusi i frammenti, gli abbozzi, le poesie italiane, le dubbie e le apocrife) uscito nel 1959 nella collana dei cosiddetti «Classici italiani» di Ricciardi (propriamente «La letteratura italiana, Storia e Testi») e approdato da ultimo, con aggiunte e correzioni, ai «Meridiani» Mondadori (1975, ancora rivisto e accresciuto nel 2000). Consegnato il volume ricciardiano, Isella si concentrò sull’almanacco adespoto El lava piatt del Meneghin ch’è mort, di cui aveva intuito la paternità portiana, dimostrata con argomenti ineccepibili introducendo l’edizione di quel testo, ancora per Ricciardi, nel 1960. E il cantiere relativo a Porta sarebbe rimasto aperto fino all’edizione del carteggio, sempre da Ricciardi, nel 1967 e poi al Ritratto dal vero di Carlo Porta, biografia critica del 1973.1 L’analisi delle parti poetiche dell’almanacco e la loro sicura attribuzione a Porta non costituiscono delle prove minori. In quell’esercizio si saldavano infatti due aspetti fondamentali dell’insegnamento di Contini: quello filologico in senso tecnico e quello stilistico di derivazione spitzeriana. Essi del resto informavano alla pari la partecipazione di Isella al grande Convegno di critica testuale, organizzato a Bologna da Raffaele Spongano proprio nel 1960, anno dell’edizione del Lava piatt, con un intervento sull’ode giovanile di Manzoni Qual su le cinzie cime in cui stabiliva la successione cronologica delle varie stesure di quel componimento sulla base della fine ricostruzione del movimento variantistico.2 Tale esperimento diede frutti più cospicui una volta trasferito sul terreno dell’opera di Parini e in particolare degli abbozzi della Notte, con studi riuniti nel volume ricciardiano del 1968 intitolato appunto L’officina della «Notte» e altri studi pariniani, che prelude alla esemplare edizione critica dell’intero Giorno. Questa apparve l’anno successivo, 1969, per i tipi del medesimo editore, nella collana «Documenti di filologia» diretta da Schiaffini e Contini, ove già erano uscite la tesi di Isella su La lingua e lo stile di Carlo Dossi (1958) e la sua edizione delle postille manzoniane all’edizione veronese del Vocabolario della Crusca (1964, ripubblicata nel 2005). In verità, il problema della contaminazione fra stadi diversi della elaborazione testuale perpetrata nella tradizione editoriale del Giorno, a partire dall’edizione postuma curata da Francesco Reina, era stato lucidamente dichiarato da Lanfranco Caretti, nella nota al testo della raccolta di Poesie e prose di Parini uscita nel 1951 nell’altra collana ricciardiana: quella, già menzionata, dei «Classici».3 Ma ciononostante Caretti non aveva voluto mutare il testo, attenendosi a quello vulgato. Isella quindi mise in pratica per primo una sistemazione impeccabile, con la netta distinzione fra la prima redazione del Giorno, rimasta ferma al Mattino stampato nel 1763 e al Mezzogiorno stampato nel 1765, e la seconda redazione testimoniata dagli 1 La raccolta dei principali contributi portiani è in Isella 2003; su questo versante dell’attività di Isella vedi Gibellini 2008b. 2 Isella 1961. 3 Caretti 1951, pp. 941-46. Il riconoscimento da parte di Isella di tale priorità di Caretti è sottolineato da Gibellini 2009, p. 221.

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autografi dell’Ambrosiana nei quali Parini aveva trasformato il progetto ristrutturando il poemetto in quattro parti anziché in tre, procedendo ad una revisione delle prime due ed alla stesura di ampi squarci del Vespro e della Notte, ma poi rimasta parimenti incompleta. Spiegando i criteri seguiti nell’edizione, Isella esponeva anche, con concisione pari a chiarezza, la problematica relativa alla disposizione dei materiali ovvero alla rappresentazione della diacronia: Dato il carattere di opus in fieri del Giorno, si dovrà rinunciare a qualsiasi tentazione di fornire un testo unitario e statico. L’idea che si presenterebbe spontanea alla mente, di dare le due redazioni a fronte, l’una a sinistra e a destra l’altra, nell’intento di consentirne una lettura continuatamente parallela, urta contro un ostacolo serio: per i versi che la seconda redazione sopprime o introduce ex novo rispetto alla prima, sarebbe sufficiente, ancorché soluzione inelegante sotto l’aspetto grafico, intervallare i due testi con spazi lasciati in bianco; ma la comodità del confronto viene a cessare quando interi gruppi di versi sono trasposti (ed è caso frequente) da un punto all’altro dell’opera. Sicché è parso più ragionevole stampare ciascuna redazione in un volume a sé stante, anche per dare adeguato rilievo al fatto che si tratta di testi dotati di una loro specifica autonomia.1

I criteri rigorosamente conservativi della trascrizione e l’efficace concezione degli apparati – evolutivo per la prima redazione, genetico per la seconda – configuravano i due volumi dell’edizione come soluzione esemplare di un problema di filologia d’autore, tant’è che a quasi trent’anni di distanza Isella poteva riproporre quella sistemazione testuale, con la correzione di poche sviste ed errori materiali segnalati da Edoardo Esposito, in un volume della collana della Fondazione Bembo da lui stesso diretta prima con Giorgio Manganelli, poi con padre Pozzi, infine con Mengaldo.2 L’edizione della plaquette giovanile pariniana delle Rime di Ripano Eupilino, tenuta sagacemente distinta dalla forma ristretta affidata dal poeta alle Rime degli Arcadi nel 1780 e dall’altra predisposta per figurare entro le Rime varie, sarebbe venuta più tardi, col 2006, per la medesima collana della Fondazione Bembo. Non appena ebbe finito di dare sistemazione al Giorno, invece, egli si applicò immediatamente alle Odi, approntando l’edizione uscita da Ricciardi nel 1975, di nuovo tra i «Documenti di filologia». Nella fattispecie, va dato senz’altro merito a Isella di aver riconosciuto il valore dell’editio princeps curata da Agostino Gambarelli nel 1791 e di aver preferito quella forma delle Odi all’altra, che aveva generalmente imperversato, risalente all’edizione postuma. Ma, ponendo a testo la princeps, Isella si trovò di fronte al problema dell’assenza delle tre ultime odi, composte tra il 1792 e il 1795, il cui testo fu costretto quindi a prelevare da altri testimoni: A Silvia e Alla Musa dalle stampe in opuscoli a sé stanti riprodotte poi nella seconda edizione, curata da Giuseppe Bernardoni per il tipografo Bolzani a cavallo tra il 1795 e il ’96; Per l’inclita Nice non da lì, bensì dall’autografo Ambrosiano II 4, nel quale Isella riconobbe un ulteriore sviluppo del testo di tale ode. Con le sue stesse parole: Le conclusioni a cui si è giunti nell’esame dell’intera tradizione, riconoscendo piena validità all’edizione del Gambarelli che si configura come una vera e propria edizione d’autore, impongono, quanto al testo, che per le Odi i-xxii non ci si scosti da essa se non per emendare i pochi errori materiali; che per le Odi xxiv-xxv ci si rifaccia alle stampe originali, le stesse di cui si servirono, introducendo mere varianti grafiche e interpuntorie, sia il Bernardoni per la Bolzani, sia il Reina; ed infine, per l’Ode xxiii, la sola a cui il Parini apportò varianti successive al ’95, che si stia con la lezione ultima dell’autografo Ambr. II 4.3

1 Isella 1969, i, p. lxxxvi.

2 Isella, Tizi 1996.

3 Isella 1975, p. lvii.

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In ragione di questa differente estrazione dei testi, l’apparato – distinto in due fasce di varianti instaurative ed evolutive, in modo da tenere ben distinto il lavoro che conduce ad un primo assestamento da quello della vera e propria limatura – acquistava una diversa consistenza e una diversa funzione per i primi ventidue testi rispetto al ventitreesimo e ancora diverse rispetto alla coppia finale costituita dalle odi ventiquattresima e venticinquesima. Poiché il mio scopo è quello di fare opera di storico e non di apologeta, dico francamente che la sistemazione data alle Odi risulta meno sicura e nitida di quella data al Giorno. Certo ogni edizione postuma va guardata con igienica cautela, se non con diffidenza, ma anche per Reina una cosa sarà stata il non finito del Giorno e altra cosa la compagine delle Odi. Inoltre non sembrano da sottovalutare le obiezioni avanzate da Furio Felcini, perché resta da spiegare come mai un adepto di Parini come Giuseppe Bernardoni, curando nel 1814 una seconda edizione delle Odi, si discostasse dal canone e dall’ordinamento di Gambarelli, già accolto da lui nella edizione del 1795-1796, per avallare, nella sostanza, quelli dell’edizione Reina.1 Il testo fornito da Isella appare peraltro disomogeneo: più coerente sarebbe stato affidarsi sempre e soltanto alla seconda edizione, che contiene tutte le venticinque odi, tanto più che Parini nella lettera a Bernardoni dell’11 novembre 1795 gli accordò il proprio beneplacito avallando così le pur lievi varianti di quella stampa. Resto insoddisfatto, inoltre, dell’ingresso delle varianti serbateci dall’autografo Ambrosiano II 4 nel testo critico dell’ode Per l’inclita Nice.2 A quest’ultimo proposito, il modus operandi di Isella si comprende specie alla luce di quanto egli avrebbe scritto, impostando per la prima volta il problema dell’edizione delle Rime varie del medesimo Parini, nell’intervento leccese sulle testimonianze autografe plurime. Una volta individuata la fisionomia della raccolta d’autore, risultante dall’altro autografo Ambrosiano III 4 per sottrazione rispetto al canone più ampio ivi approntato da Gambarelli in veste di copista, Isella infatti proponeva che il futuro editore dovesse «isolare il canone ristretto dell’Ambr. III 4 dai componimenti del suo canone più largo, i quali potranno esser fatti seguire ai primi in una sezione a sé»; poi «stabilire di volta in volta se l’ultima volontà del Parini sia realmente consegnata all’Ambr. III 4 […] oppure vada reperita in altra testimonianza» parimenti autografa.3 Mi permetto di osservare a questo proposito che non sembra lecito tenere distinta la perimetrazione delle sillogi dall’esame e dalla scelta delle singole lezioni, perché si verrebbero così a mischiare varianti appartenenti a due diverse fasi correttorie o revisioni testuali, tra loro separate dai rispettivi supporti materiali e verosimilmente nel tempo, ovvero – per impiegare un’altra felice metafora iselliana – si metterebbero indebitamente in comunicazione vasi non comunicanti.4 Per comprendere una tale assolutizzazione ed estremizzazione del criterio dell’ultima volontà dell’autore, del resto, bisognerà tener conto anche del fatto che all’epoca dell’edizione delle Odi gli studi sulla forma canzoniere e di filologia delle strutture in genere non erano progrediti come sono oggi. Ogni silloge fa storia a sé, con le varianti sue proprie, che riflettono uno stadio redazionale peculiare. Lo stesso vale, con le opportune differenze, per le varianti dell’ode Per l’inclita Nice nell’Ambrosiano II 4, che rappresentano sì uno stadio successivo del testo rispetto a quello delle stampe, ma limitato a un solo pezzo della raccolta, e dunque sono state fatte entrare forzatamente in un libro in cui mai entrarono – foss’anche perché 1 Felcini 1978. 3 Isella 2009a, p. 38.

2 Si veda Carrai 1999, p. xvii. 4 Isella 1988, pp. xvii-xviii.

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l’autore non fece in tempo – mentre meglio starebbero in una appendice che non turbasse l’unitarietà dello strato testuale consegnato alla stampa. 3. Si trattava di imprese tanto poderose quanto numerose, compiute da solo e nel volgere breve di poco più di un ventennio che aveva visto Isella dar fuori anche importanti inediti, come le Note azzurre di Dossi, nel 1956, e le già menzionate postille di Manzoni al Vocabolario della Crusca nel ’64. Frattanto, con l’edizioncina degli Amori, si riapriva nel 1977 il cantiere dossiano, che avrebbe visto via via l’edizione critica da parte di Isella degli scritti letterari di Dossi, riuniti per Adelphi nel 1995.1 E parallelamente cominciavano le collazioni d’équipe. Vinto il concorso di professore e compiuto lo straordinariato a Catania, Isella era approdato verso la fine degli anni sessanta sulla cattedra di Letteratura italiana a Pavia, dove, forte anche della sua esperienza nell’impresa familiare di trasporti, aveva subito profuso energie nel dirigere e coordinare il lavoro scientifico degli allievi. Nacque perciò in lui l’idea di affrontare impegni ecdotici di grande respiro capitanando un gruppo di studenti e giovani studiosi, come l’edizione dell’autografo del Fermo e Lucia che, avviata durante gli anni dell’insegnamento pavese, fu ripresa nei seminari tenuti successivamente presso la Biblioteca di Brera con un gruppetto di ex allievi e infine è stata mirabilmente condotta a termine sotto il controllo di Isella nel 2006, per l’Edizione Nazionale ed Europea delle opere di Manzoni promossa dal Centro Nazionale di Studi Manzoniani, da Barbara Colli, Paola Italia e Giulia Raboni.2 Così tra il 1988 e il 1993, quando Isella aveva da tempo lasciato l’Università italiana per insegnare al Politecnico di Zurigo, egli poté dirigere l’edizione di tutto Gadda per i «Libri della Spiga» di Garzanti, distribuendo le curatele tra se stesso (La meccanica, Giornale di guerra e di prigionia, Racconto italiano di ignoto del Novecento e vari altri scritti minori), l’amico Franco Gavazzeni, propri allievi diretti quali Gianmarco Gaspari, Clelia Martignoni, Liliana Orlando, Raffaella Rodondi e Maria Antonietta Terzoli, e allievi di amici e colleghi pavesi di varie generazioni (Paola Italia, Guido Lucchini, Emilio Manzotti, Giorgio Pinotti, Andrea Silvestri e Claudio Vela), ma sorvegliando e revisionando tutto in prima persona. L’esperienza fatta sulle carte del Giorno pariniano ha dato certamente in queste due imprese i frutti maggiori. L’apparato del Fermo scioglie un autentico groviglio di correzioni, per giunta implicato con la seconda minuta, ovvero col lavoro che porta alla ventisettana dei Promessi sposi, ma fin dove si può: per certe lezioni, infatti, non si riesce a determinare se vadano attribuite alla prima o alla seconda minuta e perciò Isella ha istituito una categoria apposita di varianti, precedute nell’apparato da una freccia bicuspide che le identifica come varianti dubbie (non per l’autore, beninteso, ma per il critico che non sa a quale fase assegnarle). Rispetto all’apparato compilato a suo tempo da Fausto Ghisalberti, semplice elenco selettivo di varianti che non ne valorizza l’interrelazione né favorisce l’evidenza dell’evoluzione testuale, il primo merito della nuova edizione è quello di individuare e distinguere le varie fasi correttorie, aiutando così il lettore a districarsi nella loro stratificazione. Disponendo le lezioni non frammentate una ad una, ma raggruppandole per unità logico-sintattiche, l’apparato mira infatti a far penetrare l’utente nel sistema dinamico delle varianti. Grazie alla combinazione di marca1 Sul rilancio di Dossi ad opera di Isella vedi Riccardi 2009 e Reverdini 2009.

2 Isella 2006.

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tori numerici e alfabetici che contraddistinguono i vari stadi del processo correttorio, l’intero pecorso creativo di Manzoni si può seguire con una chiarezza – senza dire della completezza data anche dall’aver potuto far rimuovere i cartigli incollati – incomparabile rispetto a quella della vecchia edizione Ghisalberti. Quanto a Gadda, il corpo a corpo di Isella con i suoi manoscritti era iniziato con l’edizione del Racconto italiano di ignoto del Novecento (ovvero Cahier d’études) uscita da Einaudi nel 1983. Di fronte al garbuglio di abbozzi, pentimenti e semplici appunti di quell’autografo, Isella si era visto costretto ad affinare la tecnica di rappresentazione del movimento del testo e del sistema delle varianti, predisponendo una griglia rappresentativa di radicale novità. Tenute rigorosamente distinte le postille d’altro genere dalle varianti alternative e dalle correzioni vere e proprie, egli elaborò un apparato genetico che rappresentasse di fronte agli occhi del lettore la stratificazione delle varie fasi correttorie, posto dopo il testo così come la serie delle postille («da vedere scritte, idealmente – avvertiva –, in margine al testo, anche se per ragioni tecniche è stato necessario raccoglierle tutte insieme in un regesto»),1 mentre a piè di pagina trovavano posto le varianti alternative rispetto alla lezione di base non cassata dall’autore. Una concezione altrettanto dinamica dell’apparato fu approntata per tutti quegli scritti gaddiani che la richiedessero, tenendo rigorosamente distinte tra loro le varie aggregazioni e successive disaggregazioni in differenti architetture testuali. Analogo lavoro Isella avviò pubblicando l’inedito Un fulmine sul 220, fatto conoscere nel 1995 e riedito a distanza di cinque anni, dopo aver potuto consultare nuovi materiali autografi conservati da Piero Gelli.2 Nella prospettiva di Isella, insomma, il corredo filologico da strumento ancillare diveniva funzionale alla lettura, sì da rendere al meglio il dinamismo della fase instaurativa tendenzialmente permanente del testo gaddiano. È da credere che sia stato soprattutto l’impegno intorno ai complessi scartafacci di Gadda e ai suoi non meno complessi organismi testuali che ha consentito a Isella di maturare, nei medesimi anni del tutto Gadda, la convinzione che i materiali dell’edizione critica di Fenoglio ordinati da Maria Corti, Maria Antonietta Grignani e altri collaboratori si potessero razionalizzare in maniera diversa. A parte lo spostamento in avanti di un decennio – cioè alla metà degli anni Cinquanta – della cronologia del Partigiano Johnny, un acquisto dell’edizione Isella, uscita nel 1992, è quello di aver riconosciuto il carattere di grande laboratorio rivestito dal romanzo incompiuto, al quale l’autore attingeva per progetti diversi e per staccarne materiali narrativi, come nel caso di Primavera di bellezza. Un altro punto d’arrivo di Isella editore va considerata, a mio avviso, l’edizione critica delle Poesie di Sereni uscita nei «Meridiani» Mondadori nel 1995. Isella stesso sembrava decretarlo scrivendo nell’avvertenza all’apparato critico: «l’esperienza compiuta può dirsi unica, anche per chi ha una certa consuetudine con i problemi di filologia d’autore».3 In effetti la messe di documentazione relativa alla nascita e all’evoluzione dei testi era, nella fattispecie, più ingente che mai. Ancora con le parole di Isella: «La sovrabbondanza di materiali documentari, dai manoscritti conservati da familiari e amici alle stampe periodiche, e la varietà delle situazioni che ne emergono, molto diverse da testo a testo, hanno comportato fin dalle fasi preliminari problemi di ogni tipo».4 Tali difficoltà erano ancora una volta soprattutto di ordine rappresentativo. Per dare conto di

1 Isella 1983, p. xxxv. 3 Isella 1995a, p. 270.

2 Rispettivamente in Isella 1995b, pp. 51-103 e 291-349, e Isella 2000. 4 Isella 1995a, p. 270.

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tutte le fasi dell’elaborazione Isella concepì un apparato suddiviso in quattro fasce: una prima relativa alle varianti desumibili dalle varie edizioni controllate dall’autore; una seconda relativa alle varianti di manoscritti o dattiloscritti originali o assimilabili a degli originali; una terza relativa alle varianti desumibili da riviste o giornali; infine una quarta fascia che accoglie tutte quante le varianti riorganizzandole secondo la ricostruita successione cronologica. Per la stessa natura della documentazione, fanno ingresso in apparato brani di lettere e di interviste che introducono, con informazioni su stesure e varianti, anche elementi di autocommento, sul modello inaugurato da Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini per l’edizione dell’Opera in versi di Montale (1980).1 E se non erro il precedente dell’edizione sereniana di Isella ha a sua volta influenzato le scelte dell’ottimo apparato predisposto di lì a poco da Luca Zuliani per il «Meridiano» delle Poesie di Caproni (1998). 4. Se è vero quindi che Isella è stato soprattutto un maestro nella filologia dell’originale, ciò non significa che egli non abbia dato prove importanti nel campo della filologia della copia. Retrocedendo ai secoli più alti, difatti, si trovò a fare i conti più di rado con originali, fatta eccezione per le rime di Tasso, studiando le quali ammonì opportunamente a tenere separate le tre redazioni consegnate all’antologia padovana di Rime degli Eterei, all’autografo Chigiano L viii 302 e alla stampa Osanna,2 come gli editori tassiani sono andati poi facendo. Tra Quattrocento e Cinquecento egli finì spesso per misurarsi con testi a tradizione unica. È il caso dei sonetti delle calze di Donato Bramante, serbati nel codice Parigino ital. 1543, per i quali le sue profonde conoscenze linguistiche gli offrirono la chiave giusta di lettura e quindi gli strumenti di un impeccabile restauro;3 è il caso anche del poemetto sulle Antiquarie prospetiche romane composte per prospectivo melanese depictore, edite nel 2005 per la Fondazione Bembo con il contributo di Giovanni Agosti, sulla base dell’unica stampa, priva di note tipografiche, ma risalente agli ultimissimi anni del secolo xv. Pur affrontando testi difficili, e non solo per questioni di lingua, la minore dimestichezza di Isella con la poesia antica non ha fatto velo alla sua arte di editarli. In un solo caso proporrei un emendamento, quale minimo contributo al restauro delle Antiquarie prospetiche. Mi riferisco all’inizio del secondo dei due sonetti che precedono il lungo capitolo in terza rima. Questo esordio era stato interpretato così da Anna Anguissola e Francesco P. Villani:4 Victoria vince et vinci tu victore, vinci colle parole un proprio Cato.

Evidentemente essi non hanno ritenuto di evidenziare la palese allusione – mediante l’interpretatio nominis della figura etimologica – a Leonardo da Vinci, dedicatario del poemetto, parallela a quella di un sonetto rivolto al pittore da Niccolò da Correggio: «Leonardo mio, se il tuo cognome / vòi conseguir, che ogni altro Vinci e excedi…» (189, 9-10). Il testo curato da Isella, nonostante palesi in nota la presenza del «bisticcio concettoso sul nome del Vinci»,5 non si discosta dalla resa dei predecessori se non per l’aggiunta di una virgola: 1 Vedi Martignoni 2009, p. 321. 2 Isella 2009a, pp. 51-114. 3 Isella 2005, pp. 27-37. E si vedano le considerazioni di Bongrani 2009, pp. 212-13. 4 Anguissola, Villani 2002. 5 Isella, Agosti 2005, p. 38.

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Victoria vince et vinci tu victore, vinci colle parole, un proprio Cato.

Antonio Maria Adorisio, in un saggio uscito nel 2004, ha optato invece per una diversa lettura:1 Victoria vince e Vinci tu victore, Vinci colle parole, un proprio Cato.

Come si vede, Adorisio ha introdotto la maiuscola in entrambe le occorrenze della parola «vinci», mantenendo intatta l’interpunzione dei precedenti editori. A mio giudizio una tale soluzione da un lato viene a sovrinterpretare l’allusione a Leonardo, dall’altro continua a non rispettare la rigorosa struttura chiastica dell’incipit. Proporrei perciò una interpretazione ancora diversa: Victoria vince e vinci tu, victore Vinci, colle parole un proprio Cato.

Il gusto artificioso del chiasmo iniziale ritrova così un andamento perfettamente simmetrico. Al tempo stesso si isola il vocativo etimologizzante in enjambement, unico luogo in cui è strettamente pertinente il nome del destinatario, e il complemento di mezzo «colle parole» viene funzionalizzato meglio rispetto al paragone con Catone (ovvero con i Disticha a lui comunemente attribuiti) che elogiando Leonardo scrittore prelude alla rivendicazione, nel prosieguo del sonetto, del primato suo su ogni altro artista; sicché il distico viene a dire: ‘La Vittoria vince e anche tu vinci, o vincitore Vinci, che con le parole sei un vero Catone’. Se non esulasse dal compito qui assunto, molto ci sarebbe da dire anche su come Isella ha praticato quel particolare esercizio filologico che è il commento ai testi, a partire da Porta e dalle brevi scelte di rime di Domenico Balestrieri e di Carlantonio Tanzi nei Lirici del Settecento curati da Bruno Maier per Ricciardi nel 1959 (che avrebbero avuto, parecchi anni dopo, un compimento da parte di due allievi: rispettivamente Felice Milani e Renato Martinoni)2 e soprattutto per le chiose ai difficili Rabisch di Francesco Lomazzo e alla Sposa francesca di Francesco De Lemene, per quelle al Teatro e alle Rime milanesi di Maggi, per le note a una scelta di poesie di Sereni (commentata a quattro mani con Clelia Martignoni) e per quelle ai Mottetti montaliani, poi estese a tutte le Occasioni e a Finisterre. Ma su questo, per brevità, occorre sorvolare, anche perché preferisco non esimermi dal toccare in conclusione un punto più delicato dell’attività filologica di Isella: vale a dire quello delle questioni attributive, che, lo si è detto, egli affrontò brillantemente a proposito dell’almanacco portiano El lava piatt del Meneghin ch’è mort. In anni più recenti tornò su questo accidentato terreno per prendersi la briga di vivisezionare il Diario postumo pubblicato come opera di Eugenio Montale e affermare – con il coraggio e l’onestà intellettuale che chiunque abbia avuto modo di frequentarlo facilmente gli riconosce – la natura di falso di quella raccolta poetica. L’articolo di Isella apparso sul «Corriere della Sera» il 20 luglio 1997 scatenò immediatamente un putiferio – o, si dovrebbe dire, un ‘parapiglia’ – che molti ricorderanno. Reagì violentemente Annalisa Cima ispiratrice e detentrice di quel Diario, reagì non meno polemicamente Rosanna Bettarini editrice di detto Diario, e a rincalzare gli argomenti in favore dell’attri1 Adorisio 2004.

2 Martinoni 1990 e Milani 2001.

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buzione a Montale intervenne anche Maria Corti, dopo di che, nell’ottobre di quell’anno, la Cima stessa organizzò a Lugano un seminario specifico cui dettero il loro apporto molti, tra cui Vanni Scheiwiller, Alessandro Parronchi, Oreste Macrì e Andrea Zanzotto. Isella, naturalmente, tenne duro, forte della eccessiva divergenza della grafia rispetto agli autografi montaliani di comprovata autenticità, di certi riscontri che avvicinavano alcuni passi del Diario postumo ad altri delle poesie di Annalisa Cima, e del carattere centonario dei testi rispetto al Montale ufficiale, analogo a quello che si scorge nell’intervista Incontro con Montale della stessa Cima a fronte di alcune pagine del montaliano Auto da fé; così alla fine di quell’anno Isella raccolse per i tipi di Archinto i suoi tre articoli usciti sul «Corriere» insieme con un quarto inedito, in un prezioso volumetto per il quale rubò il titolo Dovuto a Montale all’amico Vittorio Sereni. Né con questo cessarono le polemiche, tanto che su «La regione Ticino» del 24 gennaio 1998 Isella replicò ad un nuovo articolo della Bettarini uscito sul «Sole-24 ore». E infine, a sostegno della tesi dell’amico, si levò la voce di Mengaldo, dal «Corriere della Sera» del 12 marzo 1998, a rilevare un altro fatto grafico sospetto nei manoscritti del Diario, ovvero una inclinazione della riga un po’ eccessiva che sembra voler ipercaratterizzare quella che era effettivamente una naturale tendenza di Montale. Certo è che chi sa come in tutta l’opera montaliana la governante sia sempre chiamata «la Gina» (dove l’uso fiorentino è solidale col milanese) stenta a credere, ad esempio, che un passo come «Ha tutto – dice Gina – / ed è infelice» sia uscito proprio così dalla mente e dalla penna del poeta per il puro rispetto della misura del settenario. Tale disattribuzione riportava ancora una volta Isella, in qualche misura, all’attribuzionismo di Longhi e di Contini, all’insegnamento di quell’anno mirabile 1944 trascorso a Friburgo, da lui sempre ricordato come qualcosa di ben più che una semplice iniziazione alla filologia anche per il formarsi di quell’«etica del lavoro» giustamente sottolineata nel ricordo di Mengaldo.1 E si rileggano in proposito almeno il finale della bella prolusione alla cattedra zurighese, del 1978, raccolta in apertura delle Carte mescolate, o meglio ancora la presentazione di Italiano e italiani a Friburgo di Regula Feitknecht e Giovanni Pozzi, dove è evocato il ricordo di un Contini giovane, ma già maestro nel suo e in altri campi del sapere, che coniuga competenza disciplinare con passione civile, in grado di segnare l’esistenza di certi allievi o – con metafora di Emilio Cecchi cara a Contini stesso – di salar loro il sangue.2 1 Mengaldo 2008. Vedi anche Mengaldo 2009. 2 Ora in Isella 2009b, pp. 31-51. Su quella fondamentale esperienza vedi Besomi 2008 e Besomi 2009.

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Abbreviazioni bibliografiche Adorisio 2004 = Antonio Maria Adorisio, Un enigma romano. Sulle «Antiquarie Prospettiche Romane» e il loro autore, in Roma nella svolta tra Quattro e Cinquecento, a cura di Stefano Colonna, Roma, De Luca, pp. 465-80. Anguissola, Villani 2002 = Anna Anguissola, Francesco Paolo Villani, «Antiquarie Prospetiche Romane composte per prospectivo Melanese depictore». Edizione critica e proposte di studio, in Senso delle rovine e riuso dell’antico, a cura di Walter Cupperi, pp. 77-95 («Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», s. iv, [«Quaderni», 14]). Besomi 2008 = Ottavio Besomi, Dante Isella e il Ticino, «Archivio storico ticinese», s. ii, 143, pp. 6794. Besomi 2009 = Ottavio Besomi, Isella allievo a Friburgo, maestro a Zurigo, in Gavazzeni, Martignoni 2009, pp. 185-202. Bongrani 2009 = Paolo Bongrani, Testi e studi lombardi dal Quattrocento al primo Seicento, in Gavazzeni, Martignoni 2009, pp. 209-18. Caretti 1951 = Giuseppe Parini, Poesie e prose, con appendice di poeti satirici e didascalici del Settecento, a cura di Lanfranco Caretti, Milano-Napoli, Ricciardi. Carrai 1999 = Giuseppe Parini, Odi. Edizioni 1791 e 1802, a cura di Stefano Carrai, Trento, Università degli Studi di Trento. Felcini 1978 = Furio Felcini, Dell’ordinamento e del canone delle «Odi» pariniane, spct, 16, pp. 99-127. Fortini 2003 = Franco Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini e uno scritto di Rossana Rossanda, Milano, Mondadori. Gavazzeni, Martignoni 2009 = Dante Isella e la filologia d’autore, a cura di Franco Gavazzeni e Clelia Martignoni, Bologna, il Mulino (= «Strumenti critici», 24, 2). Gibellini 2008a = Pietro Gibellini, Dante Isella, filologia come etica, «Ermeneutica letteraria», 4, pp. 9-10. Gibellini 2008b = Pietro Gibellini, Cinquant’anni di studi su Porta, «Letteratura e dialetti», 1, pp. 31-39. Gibellini 2009 = Pietro Gibellini, L’officina pariniana di Dante Isella, in Gavazzeni, Martignoni 2009, pp. 219-31. Isella 1961 = Dante Isella, Critica stilistica e critica testuale a proposito dell’ode manzoniana «Qual su le cinzie cime», in Studi e problemi di critica testuale, Bologna, Commissione per i testi di lingua, pp. 401-7. Isella 1968 = Dante Isella, L’officina della «Notte» e altri studi pariniani, con un disegno di Ennio Morlotti, Milano-Napoli, Ricciardi. Isella 1969 = Giuseppe Parini, Il Giorno, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano-Napoli, Ricciardi. Isella 1975 = Giuseppe Parini, Le Odi, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano-Napoli, Ricciardi. Isella 1983 = Carlo Emilio Gadda, Racconto italiano di ignoto del Novecento (Cahier d’études), a cura di Dante Isella,Torino, Einaudi. Isella 1988 = Dante Isella, Presentazione, in Carlo Emilio Gadda, Romanzi e racconti, i, a cura di Raffaella Rodondi, Guido Lucchini, Emilio Manzotti, Milano, Garzanti. Isella 1995a = Vittorio Sereni, Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori. Isella 1995b = Carlo Emilio Gadda, Disegni milanesi, a cura di Dante Isella, Paola Italia, Giorgio Pinotti, Pistoia, Edizioni Can Bianco. Isella 2000 = Carlo Emilio Gadda, Un fulmine sul 220, a cura di Dante Isella, Milano, Garzanti. Isella 2003 = Dante Isella, Carlo Porta. Cinquant’anni di lavori in corso, Torino, Einaudi. Isella 2005 = Dante Isella, Lombardia stravagante. Testi e studi dal Quattrocento al Seicento tra lettere e arti, Torino, Einaudi. Isella 2006 = Alessandro Manzoni, Fermo e Lucia, edizione diretta da Dante Isella, a cura di Barbara Colli, Paola Italia e Giulia Raboni, Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani.

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Isella 2009a = Dante Isella, Le carte mescolate vecchie e nuove, a cura di Silvia Isella Brusamolino, Torino, Einaudi. Isella 2009b = Dante Isella, Un anno degno di essere vissuto, Milano, Adelphi. Isella, Agosti 2005 = Antiquarie prospetiche romane, a cura di Dante Isella e Giovanni Agosti, Milano-Parma, Guanda. Isella, Tizi 1996 = Giuseppe Parini, Il Giorno, edizione critica a cura di Dante Isella, commento di Marco Tizi, Milano-Parma, Guanda. Martignoni 2009 = Clelia Martignoni, Rileggere Sereni (e altre considerazioni novecentesche), in Gavazzeni, Martignoni 2009, pp. 315-24. Martinoni 1990 = Carl’Antonio Tanzi, Le poesie milanesi, a cura di Renato Martinoni, Pistoia, Edizioni Can Bianco. Mengaldo 2008 = Pier Vincenzo Mengaldo, Con Isella, protestante nell’Italia senz’anima. Segreti, affetti e passioni di un grande maestro, «La Repubblica», giovedì 17 aprile, p. 51. Mengaldo 2009 = Pier Vincenzo Mengaldo, L’opera e l’eredità di Dante Isella, in Gavazzeni, Martignoni 2009, pp. 173-84. Milani 2001 = Domenico Balestrieri, Rime milanesi per l’Accademia dei Trasformati, a cura di Felice Milani, Milano-Parma, Guanda. Reverdini 2009 = Niccolò Reverdini, Dante Isella e gli Archivi Pisani-Dossi, in Gavazzeni, Martignoni 2009, pp. 281-90. Riccardi 2009 = Carla Riccardi, Una nuova “ora topica” per Carlo Dossi, in Gavazzeni, Martignoni 2009, pp. 265-80.

ALLE ORIGINI DEL DOCUMENTO MERCANTILE. POSTILLE INTORNO AL «RE NDICONTO NAVALE» PISANO* Antonio Ciaralli* Università di Perugia

Secolo xii, intorno o dopo la metà

R

endiconto di spese sostenute fra cui numerose registrazioni relative al pagamento per la fornitura di materie prime, manufatti e prestazioni d’opera per la costruzione (o la manutenzione) di una o più navi, ovvero parti di nave, ‹da guerra›. O r i g i n a l e (?). Philadelphia, Free Library, Cod. Lewis European 136, c. I’ [A]. Edd. Baldelli 1973, pp. 5-6 (Ba); Castellani 1973, pp. 128-130 = Castellani 1982, pp. 3-6 (edizione che, rispetto alla precedente, sopprime i doppi punti connotativi della cifra e introduce il punto alto nella locuzione «A·restaiolo» di r. 1) (Ca); PetrucciL 2000, p. 19, per le prime 15 righe del testo (Pe). Cfr. Mosino 1975 e 1976; Antoni 1977; Paglia 1979, pp. 1-6; Poggi Salani 1992, p. 405; Manni 1994, pp. 297-98; Bartoli Langeli 2000a, p. 15.

La pergamena, che misura mm 273/274 × 197/195, è di mediocre qualità, con un palese difetto di concia nel margine destro in corrispondenza del quale lo scrittore ha accorciato le righe di scrittura. La cattiva lavorazione della pelle ha comportato anche un’ampia trasparenza del derma all’altezza della metà superiore estesa alle prime nove righe. Altri danni, fra cui ampie rifilature dei margini superiore, sinistro ed inferiore e diffuse rasure sono dovute alle modalità di riutilizzazione e conservazione. L’entità della rifilatura a sinistra, qui valutata per lo spazio occupato all’incirca da tre lettere – fatta esclusione delle due sicuramente integrabili –, lascerebbe la possibilità, in prima riga, di più ampie ricostruzioni. Si potrebbe così affiancare all’invocatio verbis una invocazione per signum crucis, se la documentazione pisana della seconda metà del secolo xii non risultasse spesso priva di invocazioni simboliche. Nell’edizione che segue sono in corsivo le lettere inespresse nel compendio abbreviativo, mentre la punteggiatura originale, costituita da punto semplice, viene resa con un punto alto sul rigo. A questo proposito si deve osservare che, nonostante la grande congruenza e solidità degli usi interpuntivi dello scrivente (punto a conclusione di unità sintagmatiche e per delimitare le cifre), l’esistenza di alcune eccezioni (si vedano, per es., le rr. 5, 6 e 7) impedisce di restituire il punto laddove poteva esistere, ma un guasto della pergamena, o la rasura di questa, non lo rende oggi verificabile (dunque da r. 16 in poi vengono indicati solo i punti chiaramente visibili e non sono * Le pagine che seguono costituiscono in primo luogo la fusione di interventi tenuti in due seminari svoltisi nei mesi di maggio degli anni 2001 e 2004 presso il Centro per lo studio della cultura medievale della Scuola Normale Superiore di Pisa per l’interessamento e la sollecitudine di Armando Petrucci: ringraziarlo non mi solleverà dai debiti con lui contratti, ma lo faccio con affetto profondo. Ragioni di spazio e di opportunità non mi consentono di trattare ora gli aspetti codicologici del documento che, già scritti, conto di pubblicare prossimamente. Nel corso degli anni il testo ha ricevuto miglioramenti da molte persone; fra tutti devo un particolare ringraziamento agli amici Attilio Bartoli Langeli, Massimiliano Bassetti, Nello Bertoletti, Vittorio Formentin, Vincenzo Matera e Giuseppe Scalia. È mio desiderio, infine, pubblicare queste postille in ricordo di Ignazio Baldelli. ** [email protected]

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restituiti quelli indicati come presenti da Baldelli nella medesima area). L’assimilazione di l davanti a sonante è resa con trattino congiuntivo (a-restaiolo r. 1, a-maestro r. 12), una scelta convenzionale motivata dalla necessità di dissimilare la registrazione del fenomeno fonosintattico e il segno grafico adottato per la punteggiatura (e ciò anche in contrasto con altri usi del trattino in edizioni di testi in lingua e primo fra tutti quelli messi in atto da Gianfranco Contini nei Poeti del Duecento ove con lineetta è reso il raddoppiamento di n nelle proclitiche davanti a vocale, la giunzione del verbo al soggetto posposto, ecc.). Si rimane incerti su come sciogliere i compendi monetari, dallo scrivente resi o per troncamento (sol), o per contrazione e troncamento (dr) o, ancora, per contrazione (lis). Proprio quest’ultima abbreviatura (con segno abbr. generico a forma di tilde), risolvibile unicamente nella sola forma latina li(bra)s (di cui più sotto), induce a usare anche per le altre il latino. L’impossibilità di proporre a r. 20 uno scioglimento del compendio viene indicata con asterisco sol*. [I]n(ª) nomine D[omi]ni, ammen(b). ∙ A-restaiolo ∙ libras ∙vi∙, al marmuto [solidos(b) ……………………………|2 di t]imone(c) ∙ solidos ∙xxv∙, in remora ∙ col(d) filio Orselli ∙ solidos [∙]xxx∙, alo ispornaio ∙ solidos ∙xxxx∙, in [……..|3 .. d]enarios(e) ∙iiii∙, in sorti ∙ denarios ∙iii∙, conciatura ∙ denarium ∙i∙, in canapi ∙ii∙ denarios ∙xvii∙, in sinopita ∙ denarium ∙i∙, serratura di timo|4[n]e(f) ∙ solidos ∙iiii∙ e denarios ∙vii∙, al restaiolo ∙ solidos ∙xx∙, in timone ∙ libras ∙v∙, alo ispornaio ∙ solidos ∙xx∙, a Gherardo Cigul[o(g)|5 in(h)] taule ∙ solidos xl∙, alo ispornaio ∙ solidos ∙xx∙, ad Amico ∙ solidos ∙xx∙, iscaricatura(i) ∙ denarios ∙xii∙, intra guardatura|6 [e] discaricatura ∙ denarios ∙xvii∙, a Bonacio ∙ solidos ∙xx∙, serratura ∙ di matieia ∙ denarios ∙xxviiii∙, a Ramondino ∙ filio Orsi(j)|7 [so]lidos xv e denarios ∙viii∙ di subielli, ∙ in corbella ∙ denarios ∙ii∙, intra marcho e(k) sorti e serra denarios ∙xv∙, serratura di cora|8[.]e(l) ∙ denarium ∙i∙, in legname da colonne ∙ denarios ∙xiii∙, ad Amico ∙ solidos ∙xxv∙, in coppi ∙ denarios ∙ii∙, adesatura di serra|9 denarios ∙iii(m), ad Amico ∙ solidos ∙v∙, nelo lecio ∙ solidos ∙x∙, taliatur[a], d[olatur]a(n) e aducitura(o) ∙ denarios ∙xxi∙, inn aguti|10 denarios ∙iii∙, Anrigo fece dare alo(p) restaiolo ∙ solidos ∙xx∙, intra Oghicione e Pisanello ∙ libras ∙iii∙, inn amschcre(q) ∙|11 [d]enarios ∙xx∙, serratura di timone ∙ a Pilotto ∙ denarios ∙xxxiiii∙, in vino denarios ∙iiii∙, pisone di boteghe ∙ denarios ∙xxxxi,|12 [i]n sorti ∙ denarios ∙v∙, inn aguti ∙ ispannali ∙ denarios ∙xii∙, in vino ∙ denarios ∙v∙, aductura di remora ∙ denarios ∙iiii∙, a-maestro|13 [d]i(r) mannaia ∙ denarios ∙vi∙, a Gualandello ∙ denarios ∙vi∙, a Oghicione ∙ solidos ∙xx∙, a Pilotto ∙ solidos ∙iii∙ e denarios ∙v∙ serra|14[t]ura ∙ e dela pianeta ∙ denarios ∙xviiii∙, dispennatura di timone ∙ denarios ∙iiii∙, in pece ∙ solidos ∙xxvii∙,|15 [e] denarios ∙v∙, alo ispornaio ∙ solidos ∙xx∙, a Guala[ndello denarios](s) ∙viii∙, disscaricatura di quatrati ∙|16 [………](t) denarios [.]ii(u), in trivelle ∙ denarios x[……….] denarios ii[..], [a](v) Martino testore ∙ denarios ∙v∙|17 [.. t]aul[e …….]xx[…](w), a polamari serratu[r]a [di matieia](x) ∙ denarios [.]xx, [in] sorti ∙ denarios ∙iiii∙|18 […]no[..] denarios ∙vii(y), in p[a]li(z) denarios vi, [serrat]ura(ªª) di [quat]rati ∙ denarios ∙xii∙, in pechi denarios ∙xii,|19 [……] denarios xiii(bb), a Mo[…] denarios(cc) […. a]ductura d[i] re[m]ora denarios v, a ma[noa]le(dd) denarios ii(ee)|20 [………………………………………] solidos v, salvamento(ff) di taule sol*(gg)|21 [……………………………………………………..] in ol[.]no[….](hh)|[…](ii). (a) Si scorge il secondo elemento della n. (b) Si scorgono i tratti sul rigo di sol. (c) della i si scorge solo un modesto tratto di penna lungo il margine. (d) o scritta nell’interlinea. (e) Ba integra sorti in fine della riga 2, ma si tratta di congettura non facilmente giustificabile sulla base dei pochi segni di penna che ancora si conservano all’altezza del rigo di scrittura. (f ) Si scorge il secondo tratto di n. (g) Ba Ciguli, ma l’integrazione di una i appare dubbia anche a Pe: offre particolare difficoltà l’andamento ricurvo del tratto ancora visibile, una caratteristica che si oppone alla secca verticalità della lettera i. (h) L’integrazione è proposta in nota in Ba, ma altrettanto legittima sarebbe l’integrazione di suggerita in nota in Ca. (i) s corr. da r o da n principiata. (j) r corr. da s con parziale rasura del tratto superiore. (k) Della e non è visibile l’occhiello. (l) Ba propone in nota la lettura corale, Paglia corabe. (m) La terza unità della cifra sembra aggiunta in un secondo momento, come pare per la forma ricurva (e dunque anomala) che essa assume e per il fatto, meno significativo, che manca, dopo la cifra, il punto distintivo. (n) La lettura è realizzata in Ba con l’ausilio della lampada di Wood. (o) Nell’interlinea tra a e d è un breve tratto di penna a forma di virgola interpretabile come l’inizio dell’asta della d incongruamente anticipata e quindi abbandonata. (p) l corr. su lettera principiata, forse d. (q) Così A; per Ba la parola è

postille intorno al «rendiconto navale» pisano

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«di non facile soluzione», ammesso il significato di ‘cibo distribuito’ «sarà forse da spiegarsi con incroci e compresenze di derivati da (ad-)miscere, miscitare, misculare». (r) Si scorge l’asta della d. (s) Integrazione in Ba. (t) Ba […] in vino; Ca dr. xii. In vino. (u) Ba V.; Ca … e la nota «Si vedono due asticciole, a una certa distanza da dr.; forse la prima di esse terminava un u». (v) Integrazione proposta in Ba. (w) Ba […] xxx ; Ca in nota: «Non chiaro il terzo x». (x) Integrazione proposta in Ba che in nota osserva: «la lettura di matieia non è certa». (y) Ba vi. (z) Integrazione proposta in Ba; Ca in nota: «Non sicure le due vocali». (aa) Ca Iscaricatura di quatrati con in nota: «Non sicuro “Is-”»; Ba […]. (bb) Ca xii. (cc) Si scioglie al plurale il compendio visto lo spazio della successiva lacuna. (dd) Ba manoale, che in nota è dichiarata lettura «non certa»; Ca manoale e in nota: «Non sono sicure le lettere noa e l’e finale». (ee) Ca vi. (ff) Ca in nota: «La t di salvamento è aggiunta sopra il rigo, fra n e o». (gg) La lacuna rende impossibile lo scioglimento dell’abbreviazione. (hh) Lacuna non esattamente determinabile. (ii) Lacuna non esattamente determinabile.

1. Lo studio del Conto navale pisano (denominato da qui in avanti, per le ragioni che verranno meglio precisate, Rendiconto) è rimasto, da quando venne scoperto nel 1973 riciclato come carta di guardia posteriore del codice European 136 della Free Library di Philadelphia (Fig. 1),1 appannaggio quasi esclusivo degli studiosi di storia della lingua italiana.2 Se bene si può comprendere l’interesse suscitato dal documento nei linguisti per l’antichità della testimonianza in volgare, risulta meno facile capire le ragioni del silenzio di specialisti di altre discipline, i quali pure dovevano trovarvi spunti di notevole interesse.3 In verità, dopo il saggio di Ignazio Baldelli e le coeve precisazioni di Arrigo Castellani, non pare che vi sia molto da aggiungere. Si ricorderà che il primo, dopo avere datato lo scritto, su base paleografica e codicologica, tra la fine del secolo xi e i primi decenni del secolo seguente, individuò nel pisano l’ambito linguistico di appartenenza; circostanza che gli consentì di identificare uno dei personaggi menzionati (Gherardo Ciguli)4 1 Il ritrovamento, favorito dalla descrizione del manoscritto in de Ricci 1937 – «On the verso of the last f. […] some accounts in Italian (sec. xii? including such items as in legnamine da colonne)», nº 125, p. 2047 – e nel contemporaneo Wolf 1937 (p. 150), si deve a Ignazio Baldelli che ne pubblicò il testo accompagnandolo con un’accuratissima esegesi (Baldelli 1973). Arrigo Castellani poté inserire prontamente una sua edizione nel volume dedicato a I più antichi testi italiani (Castellani 1973 e 19762) ripubblicandone l’edizione in Castellani 1982, rispettivamente pp. 3-6 e tav. 1. Fugace il cenno in Bartoli Langeli 2000a, p. 15 (vengono fornite due righe del testo), che si segnala qui per l’originale trascrizione di «i’scaricatura» e «in traguardatura». 2 Alcuni aspetti lessicali sono stati approfonditi da Mosino 1975, continuato da Mosino 1976 e da Paglia 1979; ma nessuna storia della lingua italiana, o delle lingue più in generale romanze, tralascia di farne menzione. Si vedano quindi Franceschini 1977 e 1985, Poggi Salani 1992, Manni 1994, PetrucciL 1994, Meneghetti 1997, PetrucciL 2000. Parte del lessico attestato dal Rendiconto è riportata in Tolaini 1999. Unici a occuparsi del Conto pisano al di fuori dell’ambito linguistico – a parte una veloce segnalazione divulgativa in Antoni 1977 con una riproduzione del documento – sono stati, a quanto mi è noto, gli storici della scrittura, e un’analisi paleografica dettagliata è in Miglio 1986, pp. 86-90; si veda ancora Mastruzzo 2003. Veloce e tradizionale la citazione del documento in Nicolaj 2003, par. 4. 3 Analogo il rimprovero di Adolf Schaube a proposito dei frammenti del libro dei conti di mercanti fiorentini: «Un residuo della tenuta di libri mercantili si è conservato nei frammenti del libro di commercio di una ditta fiorentina di cambiatori dell’anno 1211: le edizioni di questo antico monumento, che appartiene ai più antichi della lingua volgare italiana, hanno di mira l’interesse linguistico di esso e poco si è rivolta l’attenzione al suo contenuto»: Schaube 1915, p. 135. Per la valutazione di alcuni aspetti della produzione mercantile proprio con riferimento al Rendiconto e ai conti dei banchieri bolognesi si veda Bartoli Langeli 1989, p. 14. 4 «La datazione che si è proposta per la nostra carta – primi decenni del secolo xii – invoglia a identificare il nostro Gherardo Ciguli con un Gherardo Ciguli indicato, in due documenti, uno del 1129 e uno del 1142, come proprietario di terra in una zona fra la via comunale e l’Arno, a sud di Calci […]

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Fig. 1. Philadelphia, Free Library, Lewis European 136, c. I’.

e di fornire una spiegazione del contenuto: una serie di registrazioni relative alle spese sostenute da una consorteria di mercanti per la costruzione di una galea, una nave – concludeva Baldelli – forse destinata a una delle imprese guerresche pisane dei primi decenni del xii secolo.1 Il fatto poi che le spese fossero state effettuate da più persone riunite in consorzio è la necessaria conseguenza, osservava, della presenza di Anrigo che fece dare una certa somma al restaiolo: «nominare un pagatore una sola volta vuol forse dire che di solito i pagamenti venivano effettuati da qualcun altro di ciò espressamente incaricato e che eccezionalmente e direttamente una volta è intervenuto un altro socio».2 Nel ripubblicare il testo Castellani puntualizzò alcuni aspetti osservando, tra l’altro, che proprio di navi da guerra (galee) doveva trattarsi, visti i numerosi pagamenti effettuati allo ispornaio, cioè all’artigiano che forniva lo sperone, che è, spiegava, quel «pezzo aggiunto, utile a combattere e non a navigare». Tuttavia, «non concordando in tutto e per tutto con l’amico Baldelli», propose anche un’interpretazione parzialmente diversa del Rendiconto. Nel rilevare, infatti, l’assenza «di pagamenti per parti di navi essenziali e centrali» e, soprattutto, sulla scorta delle quattro menzioni proprio dello speL’antroponimo Gherardo è uno dei più frequenti a Pisa nel secolo xii […] mentre Cigulo è bene attestato, ma, come si è visto, di non grande frequenza: l’ipotesi più economica a questo punto è che il Gherardo Ciguli della nostra carta e il Gherardo Ciguli delle due carte suddette siano la stessa persona» (Baldelli 1973, pp. 16-17). 1 Baldelli 1973, p. 31. 2 Baldelli 1973, p. 12 (e prima, p. 11). «E si ricordi che la nostra carta allude chiaramente a una organizzazione consortile di mercanti che tenevano la direzione economica della costruzione» ha poi ribadito lo stesso in Baldelli 1978, p. 189.

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ronaio (quando «Di speroni, per galea, ce n’è uno solo»), suppose che la lista di spese potesse riguardare «piuttosto che la costruzione a cominciar dalla chiglia d’una sola galea, il raddobbo e l’allestimento, per fini militari, d’un certo numero di galee (e forse d’altri legni) già esistenti». Ne conseguiva la possibilità che il documento fosse il «riepilogo delle spese sostenute per l’armamento d’una squadra navale del Comune. Vien da pensare – concludeva – alla spedizione delle Baleari celebrata dal Liber Maiolichinus».1 Le interpretazioni proposte dai due studiosi, attente alla corretta comprensione del testo, si fermano all’aspetto descrittivo/narrativo e nulla dicono sul perché sia stato scritto: dei suoi scopi, dunque, e delle sue funzioni. Chi ha realizzato (cioè chi ha ordinato di scrivere e chi ha materialmente scritto) quella pergamena, quali gli obiettivi che si riprometteva di raggiungere e quali, infine, le funzioni assolte da quella scrittura, sono domande che attendono ancora una compiuta risposta. 2. Spesso il Rendiconto pisano è stato ritenuto un atto privo di concreto valore giuridico, in quanto si direbbe sprovvisto di quei formalismi necessari per ricondurre un generico prodotto documentario entro le tradizionali categorie della prassi negoziale. Il contenuto e le modalità redazionali della preziosa testimonianza sembrano lasciare ampio spazio a interpretazioni meramente contabili, oppure, più genericamente, ad memoriam retinendam.2 Si tratta, infatti, di una scrittura che, pur giunta mutila della sua porzione inferiore, non pare attribuibile (per ragioni grafiche e per modalità redazionali) alla penna di un notaio. Essa, peraltro, non sembra essere stata destinata a lunga conservazione, visto che ben presto, si presume ancora entro quel medesimo secolo xii in cui venne alla luce, fu impiegata come materiale di riuso. Tuttavia, al di là delle apparenze e contro una visione troppo statica e assoluta del principio di giuridicità, quello testimoniato dal Rendiconto deve essere considerato come un documento giuridicamente rilevante, anche se iuxta propria principia. 3. La negazione del profilo giuridico del documento ebbe una prima formulazione, sebbene in forma incidentale e sussidiaria, nella discussione sorta in merito alla scrittura con la quale il testo è vergato. Fu Baldelli, nel corso di un intervento al seminario perugino su Alfabetismo e cultura scritta, a osservare che «L’assetto grafico del testo ci porta in ambienti diversi da quelli notarili e vescovili, in cui la scrittura di carattere librario non veniva adibita a scopi documentari e legali», precisando che «La grafia […] si oppone alla dominante notarile dei documenti del tempo».3 All’obiezione mossa allora da Armando Petrucci, per il quale si tratta, al contrario, proprio di una grafia simile alle scritture dei coevi notai pisani,4 Baldelli replicò sostenendo l’appartenenza di quel testo 1 Castellani 1977, pp. 126-27 (l’impresa, com’è noto, avvenne tra il 1113 e il 1115). 2 Alla categoria degli scritti ‘memorativi’ dedica lucide osservazioni PetrucciA 2002, pp. 119-21, senza peraltro menzionare il documento in questione. 3 Baldelli 1978, p. 189. 4 «È una scrittura certamente vicina alla carolina libraria, ma lo è in quanto nella zona pisana in quel periodo anche coloro che rogavano atti notarili usavano una scrittura di quello stesso tipo» e dunque «chi ha scritto la carta pisana ‹è› un laico, e un laico che ha imparato a scrivere a scuola di un notaio, o comunque fuori di un ambiente tradizionale di scuola» (così PetrucciA 1978, p. 192). In seguito lo studioso preciserà la sua posizione riferendo a un «ambiente artigiano-mercantile, e dunque laico» lo scrivente della carta: PetrucciA 1988, p. 1204.

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a un ambiente certamente laico, ma riconducibile a un ambito di cultura letteraria piuttosto che notarile.1 L’argomento fu ripreso da Luisa Miglio, per la quale il Rendiconto rappresenta «il primo testimone di una ‘coscienza del volgare’, di un uso della nuova lingua non episodico e funzionale ad esigenze giuridiche, ma autonomo».2 La studiosa precisò, inoltre, che niente «richiama usi notarili proprii della documentazione latina», a parte la scrittura e l’invocazione al nome di dio in latino e che, anzi, anche «quell’adusata invocazione iniziale si potrebbe interpretare non solo – o non tanto – come la consapevole utilizzazione di una formula notarile, ma anche come un modo, molto medievale, di mettere se stesso e il proprio operare nelle mani del Signore usando quelle poche parole latine che lo scrivente aveva tante volte detto o sentito pronunciare […]. Parole che gli erano note e familiari nel suono più che nella resa grafica se quando le traduce in segni non lo fa, come probabilmente avrebbe fatto chiunque avesse consuetudine con la pratica notarile, usando le appropriate abbreviazioni, ma per intero».3 Anche Livio Petrucci, nella sua rassegna dei più antichi testi in volgare pisano, ha inserito il Rendiconto nel novero dei «testi pratici» da lui definiti come quei «testi redatti da laici o religiosi per le esigenze della vita economica di un singolo, di un gruppo o di un ente religioso».4 Il costante richiamo alla produzione documentaria di tipo notarile spiega perché il Rendiconto non apparterrebbe a quella categoria: redatto da una persona di presumibile istruzione laica, dalla mano educata a un modello grafico librario (Baldelli), ovvero provvista di atteggiamenti simili alle coeve scritture notarili (Armando Petrucci, Miglio); con contenuti di carattere contabile non facilmente riconducibili al contesto di più consueti rapporti contrattuali; privo di aspetti apertamente formulari atti a garantirne l’autenticità, esso sarebbe perciò stesso un ‘non documento’ e, di conseguenza, risulterebbe destituito di ogni forza legale, costitutiva o probatoria che fosse. Il tutto in perfetta aderenza col tradizionale insegnamento ottocentesco incline a classificare tipi documentari analoghi nella categoria delle scritte: documenti non notarili, diversi da questi ultimi per natura e forme.5 1 «Che il conto navale pisano sia di ambiente laico, è il senso di tutto il mio discorso; ma la grafia del conto mi fa pensare più a un letterato che a un notaio: non quindi scuola notarile, ma libraria, e dunque magari religiosa» (Baldelli 1978, p. 193). 2 E così continua: «È verosimile perciò che chi scrisse l’elenco delle spese navali non appartenesse agli ambienti cui, per tradizione, era riservato l’uso della scrittura e del latino; non un notaio […] né tantomeno un ecclesiastico, ma un laico attivo in una città che tra xi e xii secolo fu una delle più fiorenti potenze marittime del Mediterraneo» (Miglio 1986, pp. 86-87). 3 «In nomine Domini, amen comincia il documento, ma non è assurdo credere che in questa stereotipata formula si condensasse tutto il bagaglio latino dello scrivente; niente altro, nella Carta, richiama usi notarili proprii della documentazione latina, a parte la scrittura – una carolina ancora eseguita con penna a punta sottile – che riecheggia modi che furono proprii dei contemporanei notai pisani» (Miglio 1986, pp. 87 e 88). Tuttavia, come si può verificare dall’edizione qui proposta, il nome della divinità è espresso proprio nel consueto compendio abbreviativo. 4 Condividono la medesima categoria il testo di Pietro Corner, le Decime di Arlotto, l’inventario di beni e decime della chiesa di Santa Maria di Fondi, la Memoria di Coltibuono, i cosiddetti Ricordi veronesi e i Conti di banchieri fiorentini (PetrucciL 1994, pp. 60-64: in particolare le pp. 60-61 per il Rendiconto, mentre la citazione è tratta da p. 50). 5 La scritta è «un atto di buona fede tra privati in forma privata; è un ricordo di un’azione di carattere legale, ma non ancora legalmente autenticata, ovvero di un accordo fatto a voce, che comunemente dicesi ‘mercato’: è, in generale un atto preparatorio del documento notarile […]. Anche nelle caratteristiche estrinseche la scritta differisce dal documento notarile: ché non v’è intervento né sottoscrizione di rogatario; è in carta e non in pergamena; ed è scritta, fino dagli ultimi decenni del secolo decimose-

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Tuttavia, uno sguardo alla più antica documentazione mercantile (intendendo con ciò quella prodotta, realizzata, eseguita da mercanti) dovrebbe suggerire maggiore elasticità (e prudenza) nella valutazione della funzione – e di conseguenza delle forme – da questa assunta, e ciò soprattutto per il secolo xii, l’epoca del suo primo apparire.1 Si vedano, per esempio, i più antichi rendiconti mercantili noti: tre foglietti scritti probabilmente a Genova da mercanti genovesi e databili agli anni 1156/1158, illustrati con perizia da Guido Astuti.2 A essi converrà dedicare qualche attenzione. 4. Scritti in latino (prima e grande differenza col documento conservato a Philadelphia),3 i tre rendiconti mercantili genovesi aderiscono, nella loro parte non strettamente contabile, al modello notarile, dal quale però si discostano per l’assenza di qualsiasi forma di corroborazione, per la mancanza della datatio e per il fatto, piuttosto insolito per l’epoca, di essere redatti su carta (dunque, su supporto per eccellenza effimero).4 I tre fogli (denominati A, B e C), testimonianza di un fitto intreccio di relazioni economiche, sono in parte stesi dalla mano di Ansaldo Baialardo, portator di due contratti ivi documentati e poi impresario egli stesso, mentre la minuta di un altro contratto con il medesimo Ansaldo, insieme a una fitta serie di conti relativi ai precedenti rapporti economici, è scritta da Ingo de Volta, probabilmente il socio stans.5 Nel contratto più antico (recto del foglio C), redatto secondo le modalità della carta partita, oltre al ricordo di una precorsa accomandita di cui si fornisce una «specie di relazione consuntiva», si leggono le clausole per un’altra commenda, ovvero la «minuta con le condizioni del nuovo contratto».6 Di questo si trova l’imbreviatura nel cartulare del notaio Giovanni Scriba e, soprattutto, sopravvive la contabilità resa al termine del contratto e stesa nel recto condo, e poi sempre, in lingua volgare» (Paoli 1942, pp. 45-46). E ancora: «Le scritte infatti, che sono atti di carattere assolutamente privato, senza valore legale, e conseguentemente senz’obbligo dello stile e della formula degli atti legali, cominciarono prestissimo a essere dettate in dialetti volgari» (Paoli 1890, p. 278). Rinvia a Paoli da ultimo PetrucciL 1994, p. 55. 1 Una prudenza e una sensibilità che non sono mancate ad Armando Petrucci, per il quale l’uso del testamento olografo «va inquadrato nell’ambito del vasto processo di documentazione privata in lingua volgare prodotta dalle classi dirigenti mercantili e borghesi che vide allora la nascita della ricevuta, della cambiale, della ‘scritta’ privata e di molte altre forme documentarie private valide all’interno del mondo mercantile anche se prive di vera e propria fides publica», PetrucciA 1985, p. 13. L’esistenza di «forme documentarie private valide all’interno del mondo mercantile», sia detto per inciso, va esattamente nella direzione qui intrapresa. 2 Astuti 1933, non per caso intitolato Rendiconti mercantili. Rinvenuti sfusi all’interno del cartolare di Giovanni Scriba, i tre foglietti furono classificati dapprima con le tre lettere alfabetiche maiuscole, classificazione adottata nel lavoro di Astuti e qui seguita, quindi nuovamente numerati come carte a parte 164-166. L’edizione anche in Chiaudano, Moresco 1934. 3 Ma con qualche contaminazione volgare: per es., molo, staçon, aductura nel testo citato alla nota successiva. 4 Ne riporto uno, a modo di esempio, tratto da A: « In nomine Domini, amen. Recordacionem ad memoriam retinendam facio ego Ansaldus Baialardus de racione quam feci con domino Ingo quando veni in nave de Ospitale. Habui de indico lib. .xc. ½ s. .iiii.; habui de cexeri lib. .iiii. et s. .vi.; habui de Petro Ustachio lib. .lxxxvii. ½; habui de nave lib. .xc. de quibus despendidi in nave lib. .xi. ½; habui de Fredençone lib. .xviiii. et s. .viii.; habui de lucro de saie s. xx.; habui de grano lib. .ccxlv. et s. .vi. de quibus dedi in molo et in staçon et aductura lib. .iiii.». 5 Membro di una delle più importanti famiglie mercantili di Genova, fu più volte console di quella città; se ne veda il breve profilo in Astuti 1933, p. 14, nota 2; si veda anche Krueger 1962, ad indicem. 6 Astuti 1933, pp. 19 e 20. Sulla carta partita si veda Zagni 1980.

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del foglio A e nel recto e nel verso del medesimo foglio C. I lucri scaturiti dalle diverse operazioni consentirono ad Ansaldo di stipulare una societas maris con Ingo da cui ricevette in commenda, inoltre, il capitale e l’eccedenza dei propri lucri (recto del foglio A). Nel verso del medesimo foglio sono annotati dallo stans i termini pattuiti: l’itinerario circa et ultra mare, la clausola della cessione della quarta superflui in proficuum societatis, l’indicazione dell’avvenuta stipula del relativo contratto innanzi a notaio (probabilmente lo stesso Scriba), nonché altre annotazioni contabili relative al patrimonio sociale. Di particolare interesse risulta la facoltà concessa al capitalista di esigere un rendiconto delle spese sostenute: «Si ei Ingo voluerit demandare de expensis quas ante istud iter fecerit, ipse Ansaldus ei debet inde respondere racionabiliter et componere quid racio erit».1 Parziali rendiconti complessi (liquidazione dell’attivo e riparto del lucro) sono stesi ancora in A e in B. Le testimonianze genovesi sono i più antichi rendiconti mercantili noti; a insidiare il loro primato c’è solo il Rendiconto pisano. Sebbene questo mostri una semplicità ben maggiore rispetto ai coevi documenti genovesi, sia sotto il profilo formale, sia sotto quello sostanziale, non si deducano, per ciò, argomenti in favore di una sua precocità cronologica. Negli inventari e nei conti di riparto genovesi, infatti, non figurano mai debiti. Scrive al proposito Astuti: «sembrami per questo doversi ritenere che le annotazioni contabili relative al denaro contante […] si riferiscano alle somme residue esistenti in cassa […] dopo il pagamento o la deduzione dei debiti».2 Il Rendiconto pisano è, al contrario, precisamente relativo alla deduzione di questi ultimi e proprio in ciò dovrà essere individuata la sua maggiore originalità. Le rendicontazioni, infatti, riguardano di norma il profitto al netto delle spese (deducto aere alieno) ed è perciò raro rinvenirne nella documentazione mercantile che non sia quella tarda e ormai strutturata nelle forme del libro del dare e dell’avere.3 È bene non dimenticare, infine, che operazioni onerose come la costruzione o anche il riassetto di naviglio, per le quali l’impegno economico era tanto considerevole da richiedere la partecipazione di più investitori, vennero per tempo formalizzate, come attestato già nel giustinianeo Corpus iuris civilis, nell’impresa di armamento destinata a costituire uno speciale rapporto di società.4 Essa crea, come s’è visto, molteplici vincoli giuridici che hanno nel mandato e nella locazione i contratti più frequenti:5 per rapporti di questo tipo, la rendicontazione (in attivo e passivo) costituisce l’atto conclusivo della società. 5. Il Rendiconto, s’è detto, tramanda l’elenco di spese sostenute nel raddobbo di più navi, quasi certamente galee, navigli veloci, a propulsione mista (umana e velica), destinati in prevalenza a compiere azioni di carattere militare. In esso è testimonianza della partecipazione di più artigiani e manovali, tutti pagati per prestazioni d’opera o per la fornitura di materiali; l’esborso di somme per l’acquisto di vino e, probabilmente, di alimenti (l’amschcre di r. 10); il pagamento, infine, di canoni per locazioni di botteghe.

1 Astuti 1933, pp. 28 e 47. 2 Astuti 1933, p. 45. 3 Si veda anche Calleri, Puncuh 2002, pp. 326-27. 4 Goldschmidt 1913, pp. 264-65. 5 Zeno 1936, p. lxiii. Si prenda il caso di Anrigo. Il costrutto causativo sottointende la collaborazione dei due soggetti: quello della principale (Anrigo ha fatto che) e quello della subordinata (qualcuno desse). Nell’ordine impartito si può riconoscere la fattispecie del mandato (eventualmente orale) e, di conseguenza, sull’esecutore ricade l’onere della rappresentanza.

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Per l’aspetto testuale, l’osservazione di Baldelli, per cui il «conto è stato messo insieme avendo davanti una serie di cedole» su ognuna delle quali era segnata la nota dei singoli pagamenti, è suggerita dal ricorrere di alcune partite di spesa come, per esempio, le quattro menzioni dello ispornaio, le tre del restaiolo e di Amico, le due, rispettivamente, di Oghiccione, di Pilotto e Gualandello, i tre pagamenti in sorti. La ripetitività delle registrazioni dimostra che le spese sono avvenute in tempi diversi, sebbene da ciò non derivi necessariamente che si dovessero anche presentare nella veste autonoma di una singola cedola. Come si può essere certi, infatti, che esse non fossero scritte su un foglio e poi che questo, invece che sciolto, non si trovasse rilegato in un quaternus? Fu forse solo l’inerzia del copista (così dovrà essere inteso) ad averne serbata involontaria memoria. Infatti, poiché il Rendiconto è scritto in un unico tempo e senza interruzione, come dimostra l’uniformità della scrittura e l’omogeneo colore dell’inchiostro, egli avrebbe avuto tutto l’agio di accorpare le voci identiche. Nel non averlo fatto deve scorgersi, o il semplice segnale di un atteggiamento passivo nei riguardi dell’opera che veniva compiendo, oppure la necessità di tenere distinte le singole registrazioni (magari perché così computate nei registri dei riceventi?). Ma è proprio la natura di copia ad attirare la nostra attenzione. Se, infatti, il conto è stato messo insieme sulla scorta di precedenti redazioni scritte delle singole partite di spesa, la questione si sposta sul perché qualcuno abbia deciso di ricomporre il tutto entro una cornice organica di modello documentario. Nella risposta a tale quesito è la cifra migliore per intendere il profilo francamente giuridico dell’atto. 6. Ogni voce del Rendiconto si configura come l’attestazione scritta del pagamento di un’obbligazione pecuniaria; obbligazione in precedenza contratta sia come corrispettivo per la fornitura di materiali o derrate (in remora, in canapi, in legname da colonne, in vino ecc., tutte configurabili come emptiones), sia per la prestazione di opere (a restaiolo, al marmuto, ai vari nomi propri o di mestiere, tutti i deverbali in -ura, da ricomprendersi nella categoria della locatio operarum), sia, infine, per contratti di altro genere (come la locazione per le botteghe). La soluzione di tali debiti è, tranne in un caso, espressa con formula generica, senza cioè specificazione di chi abbia sborsato i denari. L’eccezione riguarda l’unica posta nella quale viene invece menzionato il nome di chi ha materialmente impartito un ordine di pagamento (non tuttavia di chi lo ha eseguito): «Anrigo fece dare alo restaiolo solidos xx». Ma se le obbligazioni risultano essere state estinte, tanto che «Anrigo fece dare», per quale scopo si è avvertito il bisogno di ricomporle in uno spazio fisico unitario? Risulta evidente che al Rendiconto navale, proprio nella forma in cui ci è pervenuto, sia stata attribuita una specifica funzione, tanto rilevante da non dissuadere i committenti dall’onere aggiuntivo, anche economico, di allestire una pergamena e farvi copiare sopra testi di cui essi già possedevano sufficiente (se fossero stati appunti destinati solo a serbare memoria) registrazione scritta. Il Rendiconto sarà quindi da intendere come la copia a buono di dichiarazioni per spese liquidate, il che, vòlto in termini diplomatistici (e azzardando una conclusione destinata a rimanere pur sempre congetturale visto il pessimo stato di conservazione), significa ricomprenderlo nella categoria diplomatistico-giuridica del mundum. Si rileggano ora quegli atteggiamenti di chiara ispirazione giuridico-documentaria fin qui, forse con eccessiva semplicità, trascurati. Di schietta matrice documentaria risultano infatti essere:

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1. il modello scelto per veicolare il testo: un foglio di pergamena scritto a piena pagina su un solo lato, quello carne, e nella forma tradizionale della charta transversa; 2. il contenuto: non semplice narrazione di eventi, ma testimonianza di atti dotati di una efficacia giuridica (anche passata: non si può disconoscere alle precedenti singole registrazioni il valore di dichiarazione di spesa e a monte di questa si può immaginare la fitta trama di contratti, anche orali, che ne sostanzia la struttura); 3. la motivazione che ha guidato la mano del suo anonimo estensore. Inforcate queste lenti, anche l’invocazione iniziale conclusa da un’altrettanto usuale apprecazione, nella quale è conservato almeno il nomen sacrum nella forma compendiata del tutto tradizionale dni, rispettosa com’è del canonico precetto paolino di principiare tutte le cose nel nome di dio, perde la propria genericità e inconsistenza, per acquistare invece la fisionomia di un preciso, anche se limitato, intervento formulare.1 Si dirà che questa, se anche la si voglia considerare così, è l’unica formula presente e che del documento, inteso in senso tradizionale, mancano elementi essenziali e, primo fra tutti, che non è manifesto l’autore dell’azione giuridica. Quand’anche tutto ciò corrispondesse al vero, non si potrà tuttavia revocare in dubbio che, nello scegliere la forma scritta per il Rendiconto, siano state ritenute non sufficienti le scritture già possedute (le minute) e sia stato invece ritenuto utile di ricavare un testo unitario e continuo, inserito in una cornice di tipo documentario: impossibile pensare a una registrazione effimera e personale, a puro scopo memorativo. 7. A guardare meglio si potranno leggere, tra le righe dell’ellittico testo, molte più informazioni di quante non appaiano. Per quel che concerne le persone, per esempio, sembra lecito supporre che autore e destinatario possano coincidere. È chi ha pagato, infatti, a nutrire interesse perché rimanga memoria precisa dell’esborso. Per inquadrare meglio la sua figura bisogna guardare alla res oggetto di tali obbligazioni: la nave. Poiché la natura militare del cantiere navale appare indubitabile,2 verrebbe da pensare, con Castellani, che la guerra sia questione di Stato, cioè del Comune, e non occupazione di mercante. In effetti, la costruzione delle galee rientrava tra i compiti degli amministratori della res publica pisana. Espliciti al proposito risultano i Brevia giurati dai consoli di Pisa, nelle due redazioni che ci rimangono del 1162 e del 1164.3 Alle necessità legate a fatti bellici o contingenti,4 i consoli, e con essi il Comune, cumulavano ancora, 1 Per conclusioni opposte, ma scaturite da una lettura a piene lettere di Domini, si veda sopra il testo corrispondente alla nota 3 di p. 26. 2 Oltre alle opere di storia della marineria citate da Baldelli, si veda Di Tucci 1933a, p. 17. L’autore, che più volte richiama la funzione prettamente militare della galea, ha basato il suo studio sul cartulario del notaio genovese Lanfranco (ultimo quarto del secolo xii). Al termine di un attento esame della forma delle navi così come attestate dalla sua fonte, concluse che, «fatta eccezione per la galea, nave, sicuramente, di carattere e di impostazione guerresca, la galiota, la ganciera, la coca, la saettia […] in via normale erano mezzi di commercio marittimo», sebbene in determinate circostanze anch’esse potevano svolgere altre funzioni (ivi, p. 20). Si vedano ora Unger 1980, e Krueger 1985, pp. 26-27. 3 Edizione in Banti 1997, pp. 45-69 e 73-101, e, prima, Bonaini 1854, pp. 3-15 e 24-40. Sulla datazione del primo, da collocare tra il 25 marzo 1162 e il 24 marzo 1163, si vedano le osservazioni di Banti alle pp. 14-16. 4 Nel cap. 10 del Breve del 1162 si legge: «Ut gale¸ facte de armamentis omnibus sibi necessariis preparentur, et que¸ incepte¸ sunt et non facte¸ compleantur, studium et opera dabo» con la contingente, ma interessante aggiunta: «Ante festum sancti Petri de mense iunio galeas viginti fieri faciam, nisi quantum maioris partis senatorum parabola remanserit». Osserva al proposito Ottavio Banti che «Questa disposizione […] si direbbe aggiunta […] sotto la spinta di necessità urgenti del momento», necessità che forse

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nei mesi aperti alla navigazione e sicuramente dalla metà del xii secolo,1 la custodia maris e la scorta dei convogli mercantili. Ma è la presenza di quell’Anrigo a ricondurre il discorso nei limiti dell’ipotesi formulata da Baldelli secondo la quale l’onere economico dell’operazione doveva essere a carico di una ‘consorteria’ mercantile.2 Pensare, infatti, che a redigere il documento sia stato un rappresentante del Comune e dunque immaginare in Anrigo un messo o un incaricato del Comune, sembra difficile, vista l’epoca così alta alla quale il Rendiconto viene attribuito e l’organizzazione ancora embrionale della burocrazia comunale del tempo.3 I mercanti, si diceva, di norma non fanno la guerra, ma con la guerra, è ben noto, spesso essi trafficano. Sulle modalità di questa partecipazione non siamo sempre bene informati; una, tuttavia, abbastanza tipica, è il ricorso al prestito obbligazionario attraverso il quale il comune impegnava diritti e rendite di sua esclusiva competenza.4 È quanto sembra avvenire a Pisa, proprio nel 1162, un anno formidabile per l’industria cantieristica pisana.5 Nel maggio, infatti, racconta il Maragone, «Pisani consules pro hosono da collegare «con l’episodio raccontato da Bernardo Maragone […] quando, appunto nel mese di giugno di quello stesso anno 1162, i Genovesi, rompendo la pace, assalirono all’improvviso i Pisani che per rispondere all’attacco – racconta il cronista – dovettero provvedere con sollecitudine ad armare una flotta». E poi ancora nel capitolo 11: «Guardiam maris cum duabus galeis a kalendis ap(ri)lis usque ad kalendas octubris fieri faciam, nisi quantum parabola maioris partis senatorum qui in consilio per sonum campane¸ fuerint congregati remanserit». In questo secondo documento la datatio è più completa: «anno incarnati[onis … mille]simo centesimo sexagesimo quinto, indictione tertiadecima» e quindi la stesura del testo sarà da collocarsi tra il 24 settembre e il 31 dicembre del 1164. I due Brevia dovrebbero essere quelli che verranno giurati dai consoli degli anni 1163 e 1165 (Banti 1997, p. 48). 1 Pryor 1988, pp. 3-4. Analoghe disposizioni si leggono nel cap. 19 del Breve del 1164 (ed. Banti 1997, pp. 83-84). 2 «L’armatore era di solito tutt’uno col mercante: i mercanti, uniti in consorterie familiari, tenevano la direzione economica della costruzione, fornendo direttamente agli artigiani le materie prime, e pagando direttamente i singoli artigiani»: Baldelli 1973, p. 11, con rinvio a Lane 1965, pp. 111-13 (ma si vedano le considerazioni per Genova di Krueger 1985, pp. 30-34). È però impossibile pensare ad un solo mercante a capo dell’operazione, giacché questa rappresentava un onere economico certamente notevole: «L’iniziativa di gestire un cantiere – notiamo che nessun documento del tempo ci è giunto per dimostrarci che i proprietari dei cantieri lavorassero in proprio, mentre pare, invece, che i maestri d’ascia, come si chiamavano i costruttori del tempo, crea[ssero] le navi su commissione – o di impostare un naviglio non poteva essere assunta da una persona singola, perché nessuna persona privata possedeva tanti mezzi finanziari da realizzarla» (Di Tucci 1933a, p. 28). 3 Sarà, per usare le parole di Banti, «intorno alla metà del secolo xii (poco prima o poco dopo)» che Pisa avrà «una prima sembianza di organizzazione […] addetta alla registrazione, alla documentazione, e alla conservazione dei propri atti di governo»; «Registrazione e documentazione affidata a notai, qualificantisi d’ora in poi come scribae publici» (Banti 1989, p. 133). Con l’instaurarsi del regime podestarile, nella prima metà del secolo xiii, «La documentazione, negli atti anche di semplice amministrazione, divenne norma e fu poi resa obbligatoria per legge in ogni caso in cui ci fosse gestione di denaro pubblico» (ivi, p. 136); con la fine di quel secolo aumentò di molto il numero degli ufficiali del comune incaricati di gestire le risorse pubbliche, ma tutti quelli che «per un motivo o per l’altro maneggiavano pubblico denaro, dovevano avere a fianco […] un notaio-scriba publicus, nominato appositamente per tenere l’amministrazione» (ivi, p. 147). 4 Si veda sull’argomento Violante 1980, pp. 67-100, nonché, sebbene per un’epoca più tarda, Ginatempo 2000. 5 Veramente non mancarono a Pisa, fra xi e xii secolo, occasioni per allestire una flotta militare. Dapprima la tenace lotta contro gli arabi, scandita da continui successi militari, che culminerà con la partecipazione alla prima crociata e con la conquista di Maiorca, quindi, nel contesto di una costante disputa sui diritti metropolitani in Corsica, la guerra, oggi si direbbe ‘a bassa intensità’ sebbene non priva di momenti di acuto scontro, con Genova.

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nore Frederici et imperii et Pisane urbis, galeas xl facere inceperunt et per totum mensem martium complete fuere». Nel luglio i Genovesi, rompendo la pace stipulata tredici anni prima a Portovenere, «cum periuro nefandissimo, crudelissimam guerram» portarono ai pisani che, «in pace commorantibus et nullum apparatum triremium habentibus», approntarono rapidamente «x galeas et xi sagittias ad modum galearum» e poi «pro navali bello faciendo» sembra che costruissero altre 34 galee e 30 saettie armate sempre ad modum galearum. Fu per sovvenzionare uno sforzo tanto ingente e per sopperire ad altre spese cittadine che, ci informa ancora il cronista, «consules duanam salis et ripam et ferri venam pro libris quinquemilibus quingentis in xl annis […] vendiderunt».1 Il Rendiconto pisano, dunque, che per mole e qualità dell’impresa presuppone a monte una committenza pubblica e istituzionale, deve indirizzarsi verso altri destinatari. Se l’unico referente fosse stato il Comune, infatti, sarebbe stata probabilmente richiesta (o anche necessaria) una documentazione di carattere più ufficiale, notarile e in latino e forse realizzata in forme cancelleresche.2 È più probabile invece, visti gli esiti finali, che esso sia stato diretto alle private persone (i capitalisti) che investirono nell’impresa il proprio peculio, lasciando così un più ampio margine di libertà esecutiva al suo redattore. Potrebbe insomma essersi verificato a Pisa quanto avvenne a Genova ove prendevano piede, nello stesso periodo, modi originali di partecipazione mista (pubblica e privata) all’attività cantieristica.3 Il Rendiconto, insomma, potrebbe essere quanto avanza di un’attività che dovette essere certo frequente anche nella Pisa del xii secolo: il raddobbo di navi, adatte al combattimento, eseguito su commissione del Comune, ma con finanziamenti e per opera di armatori privati.4 Esso si presenta, in definitiva e in una prospettiva meramente diplomatistica, come una delle più antiche e rare testimonianze negoziali dell’attività cantieristica navale che ci siano pervenute, nonché come uno tra i primi frutti dell’attività documentaria del ceto mercantile italiano. 8. Nel documento, giunto mutilo, sembra mancare una precisa azione giuridica, in quanto si ha piuttosto l’attestazione di eventi già trascorsi (dunque non si tratta di quietanza, né altre forme di securitates) dotati, questi sì, di riconoscibile valenza giuridica. Tuttavia, se la fattispecie entro cui lo si dovrà inquadrare è quella del rendiconto economico, allora la sua efficacia sarà da ricercare nella funzione di testimonianza da esso esercitata, ovvero nella sua capacità probatoria. A questo proposito è bene sottolineare come 1 Maragone 1930-1936, p. 27. 2 Si prenda, per fare un esempio, la sentenza di interdizione comminata il 28 ottobre 1154 dai consoli del Comune contro Alberto Visconti e i suoi figli (la si veda riprodotta in Federici 1964, tav. xxxii). 3 «La repubblica di Genova solo raramente aveva avuta una propria marineria da guerra: di regola i costruttori e gli armatori di galee […] erano cittadini genovesi privati, che si mettevano con patti determinati e per un certo tempo al servizio dello Stato» (Di Tucci 1933b, p. 332). Fu qui che, oltre alla vendita del sale, la partecipazione mercantile prese anche strade diverse, sviluppando quei «Contratti collettivi in partecipazione per armamento e navigazione in rapporto ad una concessione statale» che assunsero il nome di maone e che sono, certo, cosa del tutto peculiare e tarda, ma che dimostrano pienamente l’intraprendenza e l’inventiva, anche giuridica, di questo tipo di transazioni. Sulle maone si veda Cessi 1919 (la citazione è tratta da p. 8). Ad altri tipi di contratto, ma sempre relativi a Genova, fa riferimento Di Tucci 1933b. 4 Che a Pisa si sia sviluppata ben presto una classe di armatori navali, intesa anche in senso moderno del termine, è opinione espressa da Luzzatto 1963, p. 139.

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non serva fare ricorso alla rapida deperibilità dimostrata dal Rendiconto per avallare un rifiuto della sua giuridicità. La natura effimera di siffatte scritture è, al contrario, circostanza usuale e lo sottolineava Astuti ricordando la prassi costante «di distruggere i titoli relativi ad obbligazioni commerciali all’atto della loro estinzione».1 Quanto alle forme, ovvero alla struttura formulare, del Rendiconto, ha rilevanza la sua natura di scrittura contabile. Per quanto la mutilazione della pergamena nulla consenta di concludere intorno a una sua possibile destinazione consuntiva, non può negarsi l’appartenenza del documento a quella categoria di scritture commerciali che Federigo Melis definì «conti personali», quelli cioè riservati ai crediti e ai debiti dell’azienda, a proposito dei quali rinviava ai conti svolti nel 1211 da banchieri fiorentini probabilmente a Bologna, rilevanti perché anch’essi scritti in volgare.2 Il documento pisano riguarda la sola componente relativa alla liquidazione dei debiti. Tutte le voci che esso contiene, infatti, hanno sottointesa una specifica azione, il dare, e solo una volta il verbo è manifestato. Scrive ancora Melis, descrivendo il più tardo ‘Libro delle entrate e delle uscite’ del mercante, che esso risulta «diviso in due settori, nel primo si riportano le ‘entrate’ e nel secondo, le ‘uscite’, identificandole con le preposizioni che precisano il senso del movimento, cui si faceva seguire il nome della persona dalla quale l’azienda aveva riscosso o alla quale aveva pagato, la causale e la somma», e cita: «‘da Manno d’Albizo, per un panno pisano…’, oppure, ‘a Francesco di Giovanni, per suo salario…’», e si può proseguire: «a Ramondino filio Orsi [so]lidos xv e denarios viii di subielli», oppure «serratura di timone a Pilotto denarios xxxiiii», per citare solo alcune delle voci più esplicite del conto navale. Queste sono le formule del conto pisano e la sua forma giuridica è precisamente quella del rendiconto. L’ostacolo maggiore che si oppone alla precisa identificazione del formulario proprio di tali documenti è in parte costituito dalla rarità delle testimonianze pervenute (e dunque è lacuna delle nostre conoscenze), in parte deriva dalla naturale esigenza di estrapolare dai casi meglio noti di Genova e Venezia un paradigma di evoluzione. Schematica e semplificatrice (a meno che non si voglia riferire anche alle transazioni mercantili alto medievali), perché generalizzante e basata su proiezioni posteriori, risulta essere quindi la posizione di Ugo Tucci, per il quale «trattando del documento del mercante dobbiamo … considerare un iniziale periodo di monopolio notarile nella rappresentazione dei rapporti tra i vari operatori, accanto a scritture liberamente articolate che al mercante servivano soltanto per memoria propria», mentre solo in un secondo tempo «la canonizzazione dei singoli atti prepara la nuova fase, nella quale alcuni di essi assumono valore probatorio proprio, diventando insomma documenti nel senso diplomatico del termine, senza le garanzie di credibilità richieste dal sistema di rapporti posto in essere».3 Già Enrico Besta aveva posto in termini più appropriati la questione, osservando che il conflitto tra formalismo negoziale e libertà di negoziare fu risolto, dappri-

1 Sarà utile riportare l’intero monito: «l’uso di distruggere i titoli relativi ad obbligazioni commerciali all’atto della loro estinzione, privandoci di tutta una massa di documenti di primaria importanza, ci pone nella necessità di ricercare testimonianze e notizie relative alla nascita e allo svolgimento di rapporti contrattuali mercantili nelle fonti più varie e disparate» (Astuti 1934, p. xviii). Alla stessa conclusione è giunto Baldelli: «i documenti navali (conti, patti di navigazione, carature sulle navi, impegni di commercio, di pirateria, di guerra) cadevano con la fine della nave cui si riferivano. È ragionevole insomma l’ipotesi che il nostro conto navale sia il relitto del naufragio – è proprio il caso di dirlo – che ha inghiottito la documentazione di questo tipo» (Baldelli 1973, p. 31). 2 Melis 1972, p. 50. 3 Tucci 1989, pp. 545-46.

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ma, in favore della seconda con l’aequitas mercatoria e solo poi fu orientato a vantaggio del primo con l’adozione di un più rigoroso formalismo.1 Parole che Vito Piergiovanni integra ricordando come «il passo successivo di questo processo sarà l’autoreferenzialità con l’accresciuta importanza delle registrazioni mercantili come mezzo di prova. È il punto di arrivo di un processo che esalta la creatività e la capacità del ceto mercantile che crea nuovi schemi contrattuali, risistemando anche il diritto processuale».2 Ma ciò che avverrà in seguito è tutto insito nelle premesse e la rarità della documentazione non può valere come prova del contrario. A conclusione di un capitolo dedicato alle Informal commercial papers, Roberto Lopez e Irving Raymond scrivevano che «the history of informal commercial papers is a battlefield of historians, economists, and lawyers» e, si può tranquillamente aggiungere, di diplomatisti.3 Il fatto è che, almeno nei primi tempi della prassi giuridica commerciale, il notariato si trovò largamente impreparato ad assolvere la propria funzione a fronte di un interesse delle parti rivolto più che alla forma dei contratti, all’elemento psicologico, prima che materiale, ad essi sotteso: quel fine di lucro che costituisce la spina dorsale dei nuovi rapporti.4 Di qui il ricorso, abbondante soprattutto in Toscana, alle scritture olografe, ovviamente redatte in volgare;5 di qui anche la necessità, e il privilegio, di una curia separata e di una giurisdizione volontaria.6 Persino là dove sembra dominare incontrastata anche nel campo del commercio la prassi notarile, e cioè tra i mercanti delle città sorelle e rivali di Pisa, Venezia e Genova, emergono, incerte e rapidamente soffocate, prassi documentarie alternative che hanno nell’autografia e in una controllata libertà di forme il loro punto di forza. Co1 Scrive Besta che «contro il formalismo reagì la aequitas mercatoria. Dalla vita rampollano sempre nuovi rapporti che non possono svolgersi nelle strette forme tradizionali», tuttavia «quasi per una intima contraddizione il commercio ha bisogno che l’applicazione dei contratti non sia abbandonata all’arbitrio di troppo sottili investigazioni sulla volontà» e perciò «il commercio diventa proclive ad un rigoroso formalismo. Mentre aveva combattuto gli antichi negozi formali, quando si trattò della scrittura, fu proprio essa a fare di taluna fra esse dei negozi astratti. La causa dell’obbligazione fu messa nella stessa scrittura» (Besta 1936, pp. 160-61). 2 Piergiovanni 2001, p. 66. 3 Lopez, Raymond 1955, a proposito del quale si veda Baldinger 1961; densa di significato la liquidazione del volume in Calleri, Puncuh 2002 (p. 273, nota 1), uno studio che del resto è programmaticamente indirizzato all’indagine dei «principali contratti commerciali medievali di area mediterranea» e cioè il mutuo, il prestito marittimo, la commenda, il cambio e l’assicurazione e, per programma, solo «finché sono riconducibili all’ambito della documentazione notarile prodotta per il mercante» (ivi, p. 277). 4 Lattes 1935, pp. 607-8. 5 «In the later Middle Ages, Tuscan merchants relied upon holograph records to a larger extent than did merchants of the other Mediterranean regions; but this tradition can hardly be connected with any greater diffusion of literacy in Tuscany […]. Genoese, Venetian, or Marseillais merchants also were literate and sometimes quite learned; but they usually preferred notarial instruments, probably because they wanted the legal form of the record to be impeccable and irrefutable. Yet even in Genoa and Venice certain records which were not notarized, such as bank ledgers and chartularies of ship, had the same legal authority as notarial records» (Lopez, Raymond 1955, p. 228). Per queste ragioni non può essere sottoscritta l’equivalenza tra “scritta in volgare” e “documento privo di valore legale”, neppure alla luce dell’osservazione, sviluppata per il caso veneziano cui più congruamente si attaglia, che «quei contratti, nei quali erano in gioco capitali ingenti, col frequente coinvolgimento di mercanti di diversa nazionalità, dovevano essere di univoca e non discutibile interpretazione, sottratti alla babele linguistica del mondo mercantile»: Stussi 1989 (1993), p. 115. Per Tucci, al contrario, l’uso del volgare era conseguenza dell’evoluzione degli istituti, «la quale ricercava locuzioni non ambigue che non sempre l’eredità romana era in grado di fornire, e il volgare eludeva le insidie di una terminologia aperta ad interpretazioni che erano più familiari agli uomini di legge che non a quelli d’affari» (Tucci 1989, p. 549). 6 Conclusioni simili si leggono in Nicolaj 2006, pp. 23-24.

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sì, per fare un esempio, dalla Venezia di fine xii secolo, l’epoca – come scrive Alfredo Stussi – «in cui comincia la documentazione scritta (contratti, quietanze, obbligazioni, procure) del commercio veneziano»,1 giunge l’eco della voce di Piero Corner, affidata, non certo per caso, ad un breve recordacionis scritto di proprio pugno in una lingua ibrida di latino e volgare.2 9. Quanto fin qui esposto intende ricordare la complessità di rapporti e di strutture (economiche in primo luogo, ma anche giuridiche e sociali) celati tra le righe di ciò che sopravvive del Rendiconto e introduce alla questione di più ardua soluzione: quella della sua funzione, parola che in termini più generici potrebbe tradursi con scopo. Risulta difficile stabilire le precise funzioni svolte da documenti del tenore del Rendiconto pisano, soprattutto perché non si è in grado di definire con esattezza le garanzie che essi potevano offrire in un giudizio (il ruolo svolto nel processo) senza gettare uno sguardo ai modi della procedura e alla parte, storicamente determinata, che in essa la documentazione può assolvere.3 Occorre comprendere, insomma, quale tutela poteva essere offerta dall’ordinamento a una pergamena, come quella del Rendiconto, estranea con tutta verisimiglianza alla prassi notarile, e individuare quale ordinamento poteva dare riconoscimento e quindi garantire un documento redatto secondo quei modi. La classe mercantile – italiana, per lo più, ma non solo – fu l’artefice, dal xii secolo in poi, contestualmente alla rivoluzione commerciale di cui fu l’indiscussa protagonista e in dipendenza da quella, di una rivoluzione politica che la portò ben presto ad assumere posizioni dominanti nella vita cittadina e, fatto forse di maggiore rilievo, di una vera rivoluzione giuridica.4 Essa fu l’indiscussa creatrice dello ius mercatorum, un diritto che si strutturò al di fuori della mediazione della società politica, come espressione degli interessi di una parte imposti all’intero corpo sociale, e che manterrà per secoli la propria spiccata autonomia.5 È un diritto che nasce rebus ipsis, che attinge alle fonti della consuetudine mercantile e della giurisprudenza della curia dei mercanti e che trova, di norma, la sua prima codificazione negli statuti corporativi. Solo all’interno di una costru1 Stussi 1995, p. 785; e si veda anche Stussi 1977, pp. 545-48. 2 Edizione in Stussi 1980, p. 88; Tucci 1989, p. 553. 3 Ancora più ampio il dominio del documento mercantile in Nicolaj 2003, par. 5: «Per inciso, la documentazione dei mercanti presenta caratteri molto interessanti anche dal punto di vista diplomatistico: si tratta di scritti a funzione rappresentativa e ricognitiva e in forma di brevi – elenchi, inventari, conti o rationes private o pubbliche –, o di scritti a funzione sia negoziale (obbligatoria, dispositiva) sia probatoria ed esecutiva e in forma di chirografo o di epistola». Più in generale sulle funzioni dei documenti si veda Nicolaj 2007, pp. 51-88. 4 La bibliografia sull’argomento è naturalmente enorme, soprattutto per quel che riguarda la nascita dei singoli istituti e non mette conto qui di riferirla. Tuttavia per un inquadramento storico generale rimane insuperato Goldschmidt 1913. Un tentativo di sintesi più recente, dal quale si può risalire a ulteriori studi, è quello di Galgano 1993, con gli aggiornamenti che si reperiscono in Legnani 2005, pp. 42-45. Insiste sulla valenza rivoluzionaria Piergiovanni 2001, p. 60, con rinvio ai lavori di Roberto S. Lopez e Marco Tangheroni. 5 «Il problema – come scrive Piergiovanni a proposito degli specifici organi giudiziari mercantili genovesi e veneziani – risiede nella diversità del diritto mercantile, il quale ha origine e sviluppo in un orizzonte economico e geografico che non può essere risolto in quello politico individuale dei singoli mercanti. Alla sua base ci sono comportamenti consuetudinari sovranazionali, a cui il diritto comune deve adattarsi e non viceversa. L’approccio al diritto mercantile con gli stessi strumenti ermeneutici delle successioni o dei contratti agrari può essere fuorviante» (Piergiovanni 2001, p. 71).

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zione del genere il Rendiconto poteva ottenere riconoscimento e di conseguenza tutela in quanto documento destinato alla messa in atto di precisi effetti giuridici (fossero stati questi relegati anche alla mera funzione testimoniale).1 A Pisa, com’è noto, la situazione si presenta, da questo punto di vista, assai complessa. La struttura e le caratteristiche dell’ordinamento giudiziario dello stato pisano si distinguono, infatti, sin dal loro primo nascere, per la straordinaria ricchezza di fonti e per la grande oscurità della loro tradizione; oscurità che solo oggi comincia in parte a essere chiarita.2 Senza voler entrare in argomenti che da soli richiederebbero lunghe digressioni, è bene ricordare due cose. La prima è che, come già messo in evidenza da Francesco Bonaini, la materia commerciale sembra essere di specifica pertinenza del Costitutum usus che, difatti, nel capo v della redazione del 1233, nel disciplinare «que questiones ad usum et que ad leges mittantur», annovera per il primo, tra l’altro, «omnes compagnias ad negotiationes vel ad operas pertinentes».3 La seconda riguarda l’epoca nella quale tali fonti assunsero una prima sistemazione scritta e cioè intorno alla metà del secolo xii, epoca alla quale rimonta anche la più antica documentazione nota di giurisdizione mercantile (1162) e le prime menzioni esplicite di consules mercatorum.4 È a quell’epoca e a quel contesto che si deve guardare una volta riconosciuta la funzione giuridica del Rendiconto. 10. Rimane da vedere chi lo ha scritto. L’unica traccia sicura in nostro possesso per ricostruirne un profilo è proprio la scrittura. Ma questo è anche uno degli aspetti più controversi di tutta la vicenda. Secondo Baldelli «il testo volgare è in un’accurata minuscola carolina di carattere librario senza alcun legamento della gotica; l’andamento di alcune lettere (la i iniziale, la r, la a) e l’aspetto generale ne fanno giudicare la mano dei primi decenni del secolo xii; anche la mancanza della d onciale, in una scrittura di carattere librario, assolutamente non notarile, può portarci piuttosto ai primi decenni del secolo xii. La mano del nostro testo non è infatti avvicinabile a nessuna delle molte di notai pisani operanti tra la fine del secolo xi e il secolo xii, mentre invece appare assai vicina al tipo di scrittura di alcune sottoscrizioni di carte pisane redatte tra la fine dell’xi e i primi decenni del xii».5 Un giudizio che veniva ribadito in occasione del Convegno su Alfabetismo e cultura scritta del 1977. A questa ultima occasione risale anche il primo intervento di Armando Petrucci sull’argomento. «Secondo me – egli osservava – non si tratta di una scrittura minuscola carolina di tipo librario opposto a quello notarile. È una scrittura certamente vicina alla carolina libraria, ma lo è in quanto nella zona pisana in quel periodo anche coloro che rogavano atti notarili usavano una scrittura di quello stesso tipo» e aggiungeva: «la natura stessa di questo testo, privo di latinismi, 1 Individuare e qualificare il ruolo svolto all’interno di un ordinamento giuridico, anche separato, da una scrittura non significa, questo sia chiaro, confinarla al mero aspetto probatorio, pur essendo meritevole quest’ultimo di attenta considerazione. Livio Petrucci non manca di cogliere la sollecitazione avanzata da Ugo Tucci a proposito dei conti di banchieri fiorentini: la formularità che quei conti mostrano si spiega anche «con l’incipiente riconoscimento di un valore probatorio alle scritture extra-notarili dei mercanti» (PetrucciL 1994, p. 64), il che è ovviamente esatto, ma merita di essere storicizzato e quindi calato nelle cronologie dei singoli ordinamenti. 2 Storti Storchi 1998 per quanto riguarda i Costituti, e Ticciati 1998 per la corporazione dei mercanti. 3 Bonaini 1870, p. 834. 4 Ticciati 1998, pp. 69-100. 5 Baldelli 1973, pp. 8-9.

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che ha un sistema abbreviativo, per quello che se ne può capire, completamente diverso da quello normale, fa pensare a un ambiente di formazione scolastica diverso da quelli religiosi tradizionali. Non può che essere evidentemente – concludeva – un ambiente laico».1 A un ambito non librario sembra aver pensato anche Emanuele Casamassima, la cui opinione è riferita da Castellani: «Circa la data del nostro testo, che è in una minuscola carolina (littera antiqua) molto accurata, i limiti estremi sono costituiti dalla metà del secolo xi ‹prima di tale secolo non si potrebbe trovare la littera antiqua adoperata in un documento senza residui delle legature proprie della corsiva precedente› e dalla metà del secolo xii ‹in quanto manca ogni elemento del nuovo sistema (littera moderna) in particolare il d onciale›».2 Modello librario, dunque, o modello notarile? Dall’opposizione non si esce, se non osservando, come ha fatto la Miglio, che la minuscola di modello carolino è tra l’xi secolo e ancora per buona parte del secolo seguente «scrittura ‘normale’ usata sia per la documentazione che per la copia di libri e probabilmente insegnata ai primi gradini dell’educazione».3 Anzi, per meglio porre i termini della questione, si dovrebbe dire che le ‘scritture elementari delle scuole primarie’4 sono tra xi e xii secolo costituite proprio da tipi di minuscole che dal modello carolino traggono ispirazione e sostanza. La scrittura con cui è vergato il Rendiconto è la restituzione, a un livello di non mediocre capacità grafica, di quel modello elementare5 e dunque non è definibile né libraria né documentaria, in quanto precede, nella fisionomia dei segni, sia l’una sia l’altra resa grafica. 11. La situazione è resa possibile, come si diceva, dal trovarsi l’Italia settentrionale di xii secolo in una condizione di «monografismo assoluto»,6 nella quale la minuscola, pure avviata a subire serie trasformazioni e articolata in differenti tipizzazioni, era ormai da tempo padrona incontrastata del campo grafico, il che implica la sua elevazione a modello grafico di riferimento in ogni contesto scolastico: ecclesiastico, notarile e (perché no?) anche mercantile. Se pure la scrittura del Rendiconto fosse un riflesso di quella appresa nei gradi dell’istruzione primaria, sarebbe tuttavia un errore attribuirle la definizione di «elementare di base». Non solo, infatti, essa appare priva di alcuni requisiti tipici di tale categoria,7 ma aggiunge anche, di suo, elementi ornamentali capaci di conferirle quell’originale carattere ibrido che volentieri le riconosciamo. La si guardi da vicino. È una minuscola dritta e rigida, di modulo piuttosto grande, anche se soggetto a variazioni. Si parte, infatti, dalle prime righe scritte con lettere di media grandezza (in prima linea la media non ponderata del corpo delle lettere è di 2,5 mm; quella delle aste 1 PetrucciA 1978, p. 192. 2 Castellani 1973, p. 124; la citazione è un collage tra corpo dell’articolo e note (inserite tra parentesi aguzze). 3 Miglio 1986, p. 87. 4 Sono scritture destinate all’insegnamento: si veda PetrucciA 1972, pp. 316-20. 5 Signorini 1999, p. 266. 6 Si tratta di situazioni nelle quali si è «alla presenza di un unico sistema grafico (per es. della scrittura latina) e, all’interno di esso, della varia, ma limitata articolazione di un unico genere di scrittura» (PetrucciA 1979, p. 21). 7 Le scritture elementari sono caratterizzate «dalla identificazione autonoma dei singoli elementi, dalla conseguente assenza di legamenti corsivi o di nessi fra loro, dal parco o nullo uso di abbreviazioni, dalla mancanza di elementi di inquadramento, separazione ed esplicitazione del discorso (uso di maiuscole, punteggiatura, segni diversi, ecc.)» (PetrucciA 1979, p. 25 e si veda anche p. 26)

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alte di 6,8), per poi dilatarsi e ingrandirsi a mano a mano che procede l’operazione di scrittura (già in seconda riga si passa, rispettivamente, a 2,8 e 7,3 e quindi alla settima ci si attesta tra i 3,1 e i 7,7) e mantenersi più o meno costante fino alle ultime righe, nelle quali però il corpo delle lettere è leggermente più grande (3,3 mm).1 Una simile espansione sembra alludere a un processo di messa in pagina che accerta ben presto una disponibilità di spazio maggiore di quanto preventivato. È come se lo scrivente, accortosi di avere superficie sovrabbondante per il testo ancora da inserire, abbia, da un certo momento in poi, dilatato la propria scrittura quasi a tentare l’occupazione dell’intera pagina. È stato notato che la penna impiegata era a punta sottile,2 ma si tratta di un’impressione determinata dall’imponenza della scrittura e dal suo slancio (r. 14 dela pianeta, con l alta 9,5 mm e le lettere sul rigo 3,5/4; r. 7 in corbella, con b alta 8,5 le due l 7,5, mentre le lettere sul rigo 2,6/3,1), perché se si guarda al peso emerge sicuro il contrasto tra i tratti di massimo spessore (di norma diagonali discendenti da sinistra verso destra) e quelli più sottili (ascendenti da sinistra verso destra: il segno abbr. di sol e le parti di n e r con identico andamento).3 Fra le lettere degne di rilievo vanno certamente segnalate la r, dal disegno caratteristico con il secondo tratto fortemente spezzato in tre segmenti dei quali il primo e il terzo obliqui ascendenti e il secondo discendente con andamento verticale; la g in quattro tratti, con l’occhiello superiore chiuso da tratto orizzontale ondulato.4 Ancora interessanti sono la a leggermente inclinata, con tratto sporgente in alto e occhiello acuto; la d con occhiello chiuso da un tratto arcuato ovvero ondulato analogo a quello della g (notevole, come più volte sottolineato, l’assenza della d di modello tondo); la e eseguita in tre tempi (r. 11 timone); la u eseguita col primo tratto arcuato e tendente a chiudersi 1 I sostenitori della misurazione calibrata vorranno scusare la mia approssimazione: mi sembra sufficiente fornire un’idea, ancorché generica, dell’espansione della scrittura e mi è impossibile aspirare a esattezza scientifica. Ciò nonostante le misurazioni sono prese su immagine digitale (sorgente 8 Mp, con formato di compressione jpeg) 1:1 in elaborazione con programma Adobe®-Photoshop® e considerano: per i corpi tutte le lettere, per le aste le lettere b, h ed l, essendo le altre (cioè quelle della d e soprattutto della s) ferme, di norma, a un’altezza inferiore. La media è semplicemente compiuta tra misura massima e minima, non considerando gli estremi e avendo tolti due decimi di millimetro per la diffusione del contorno in pixel (si tratta, in buona sostanza, di stime al ribasso). 2 Così Miglio 1986, p. 87: «una carolina ancora eseguita con penna a punta sottile» e più avanti «si tratta di una carolina assolutamente priva di corsività e di legamenti (è presente solo il falso legamento st) vergata separando con cura le singole lettere ma non altrettanto le parole che sono scritte, spesso, di seguito, uniforme nel chiaroscuro e arricchita al termine delle aste alte di un triangolino ornamentale». 3 I tratti di massimo spessore (schiena della a e assimilabili) con larghezza 0,6/0,8 mm; quelli di medio spessore (verticali) con larghezza 0,4/0,5 mm; quelli minimi non superano i 0,3 mm, con un rapporto che è superiore al doppio. La larghezza della punta della penna è dunque di circa 0,7 mm, uno spessore non attribuibile a una punta acuminata. 4 Si tratta di un modello che ha precedenti e continuatori. Tra i primi si può annoverare il breve degli uomini di Casciavola databile a dopo il 24 luglio 1098 e prima del 19 marzo 1106: si veda PetrucciA e a., pp. 151-57, r. 7 Langubardi; tra i secondi la canzone Quando eu stava in le tu cathene, attribuita agli ultimi decenni del xii secolo e ai primi del successivo, r. 21 tego teve prego: Stussi 1999, pp. 1-68; ultima edizione, anch’essa con riproduzione, in Formentin 2007, pp. 139-77. Un simile tratteggio, più frequente di quanto non si possa pensare anche se non sempre con gli esiti formali presenti nel Rendiconto, è possibile rinvenire anche nelle ben più strutturate scritture notarili pisane: si veda la sottoscrizione di «Bartholomeus magistri Bifulci filius imperialis aule notarius» (Arch. di Stato di Pisa, Primaziale, 1205 giugno 19), o la scrittura di «Pastanellus quondam Guidonis Marronis de Pungna aule imperialis notarius» responsabile di un’aggiunta in data 1228 maggio 26 in calce al doc. Arch. di Stato di Pisa, Sant’Anna, 1221 gennaio 10. Ma una ricerca sistematica potrebbe con facilità moltiplicare le ricorrenze.

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Fig. 2a. Il trattamento delle aste alte. Prima colonna (prive di ritocco): d r. 15 di quadrati, l r. 2 alo; seconda colonna (con ritocco ben eseguito, ma non inchiostrato): d r. 14 dr, l r. 11 pilotto; terza colonna (con esecuzione incompleta o imperfetta): d: r 11 dr, l r. 1 lis.

in alto, con netta distinzione rispetto alla cifra per cinque che è invece aperta. Da rimarcare ancora il pesante e talvolta maldestro ritocco aggiunto di frequente alle aste alte (Fig. 2a): si tratta di un atteggiamento ricercato e insistito che dà luogo a molteplicità di esiti e che rimanda decisamente a modelli grafici di ambientazione libraria. Sebbene manchino lettere maiuscole, mette conto di segnalare la i che, in posizione iniziale, discende sempre sotto il rigo con leggera curvatura a sinistra, differenziandosi nettamente rispetto alla lettera all’interno di parola1 e, quel che più conta, secondo un modello che contrasta con i prevalenti usi notarili. I notai, per quanto mi è noto, erano soliti riservare al segno i prolungato sotto il rigo il compito di indicare l’unità in ultima posizione, proprio per marcare la fine della cifra (del tipo xviij). La presenza di legature, i cui esiti non incidono sulla morfologia delle lettere, è un fatto accertato (Fig. 2b): la t lega a destra con a (r. 9 taliatura); i (r. 3 sorti); u (r. 9 taliatura), ma anche con r (rr. 2 e 5 intra, 12 maestro, 15 quatrati). La particolare struttura di quest’ultima lettera favorisce il legamento con i (r. 6 discaricatura e r. 10 Anrigo), oppure con n (r. 15 ispornaio). Con la r la a non lega, anche se talvolta certe sovrapposizioni sono interessanti, come a r. 12 aductura o all’inizio di r. 14 la fine della parola serra|tura. La e lega con la r (r. 11 serratura). La f, nelle due occasioni della sequenza fi, lega con la i (r. 2 e r. 6 filio), come anche sembra talvolta incline a legare il tratto orizzontale di chiusura dell’occhiello della g, ad es. con u (lettera peraltro molto disponibile) nel Guala[ndello] di r. 15. Si noti come in tutte le occorrenze esaminate la legatura si costituisce con l’assimilazione di un tratto proveniente da destra con andamento orizzontale (t, e, f) o con inclinazione verso l’alto (r) e trattino di attacco a sinistra della successiva lettera (a, i, r, u). Ben attestato è il legamento st, che però l’attuale critica paleografica tende a considerare come grafema stereotipo e autonomo.2 Insomma, nelle situazioni esposte, lo scrivente mostra di essere in grado di costruire una limitata, ma concreta, catena grafica, mentre in altri punti si riscontra una conti1 Compare 24 volte su 28, le quattro eccezioni essendo costituite dalla sequenza aloispornaio (rr. 2, 4, 5, 15) che lo scrivente intendeva, evidentemente, come un’unità grafica (e infatti la racchiude tra due punti). 2 È un «falso legamento» per Miglio 1986, p. 87, mentre di «grafema autonomo dell’alfabeto minuscolo» scrive Bartoli Langeli 2000b, p. 22.

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Fig. 2b. Prospetto di alcune legature (le lettere che legano sono scritte in corsivo). Prima riga: fi (r. 2, filio); gu (r. 15, Guala[…]); ri (r. 6, discaricatura); rn (r. 15, ispornaio); seconda riga: erra (r. 7, serra); resta (r. 4, restaiolo); rar (r. 4, Gherardo); terza riga: uatrati (r. 15, quatrati); tali (r. 9, taliatura); tura (r. 5, guardatura).

nuità di tratti tanto significativa che, se pure non vi è stata vera e propria legatura e si è trattato piuttosto di una semplice sovrapposizione, questa è talmente spontanea e naturale che si dovrà riconoscere allo scrivente almeno una intentio ligandi di non minore significato, da un punto di vista della struttura e del modello, di una legatura effettivamente condotta a termine. Altro aspetto caratteristico della scrittura del Rendiconto è l’assenza di tratti di stacco sul rigo per alcune delle lettere che pure li ammetterebbero, com’è il caso di m e n (ultimo elemento), h (secondo tratto) ed i, mentre per la u si ha una certa oscillazione. Una mancanza, questa, che, unita all’andamento acuto di m ed n, contribuisce a dare l’impressione di una certa rigidità della scrittura. Il sistema abbreviativo è ridotto all’osso,1 ma non ci si può stupire. È condizione normale, in un testo in volgare, la forte riduzione e la deformazione del sistema abbreviativo. Più opportuno segnalare l’incongruenza dell’abbreviazione lis che, «alla lettera libras, sarà da considerare una formula adottata in questa forma data la frequenza del 1 «Nessuna abbreviazione (se si escludono le indicazioni monetarie), ed anche questo è segno di arcaicità» (Baldelli 1973, p. 14).

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plurale accusativo in cui veniva a trovarsi il termine nei documenti latini»1 (nei quali però è preferita la forma tradizionale lb) e dunque fa bene la Miglio a sottolineare che si tratta dell’unico caso di questo tipo di abbreviazione tra i primi testi pratici. Consuete, ma notarili, le abbreviazioni sol per i soldi e dr per i denari, mentre non si può lamentare l’assenza della nota tironiana per et in un testo che scrive la congiunzione costantemente e.2 Due i segni abbreviativi: a tilde per dr e lis, a linea retta diagonale per sol (da osservare la forte identità che caratterizza questo compendio: in tutte le occorrenze il segno abbreviativo parte dalla o e si prolunga con angolo di inclinazione analogo). La punteggiatura è rigorosa e funzionale «chiudendo ogni unità fonosintattica» e individuando con precisione le singole cifre.3 L’allineamento delle lettere sul rigo risulta incostante, anche se nel complesso la tenuta appare buona, aiutata, ma solo per le prime dieci righe, da una rigatura eseguita sul verso con l’impiego di una punta a secco che ha inciso profondamente la pergamena. Tale operazione potrebbe far pensare ad una cura particolare nella preparazione del supporto, circostanza vera solo in parte. La pergamena utilizzata, infatti, appare di mediocre qualità, con difetti nella concia e con vistosi ispessimenti lungo il margine destro. Le righe tracciate, inoltre, non sono rettilinee, ma a circa 3/4 della pagina hanno un brusco scarto verso l’alto (valutabile tra i 4 e i 5 gradi), fatto che contribuisce non poco a dare l’impressione di una forte inclinazione della scrittura. Questa, per suo conto, sembra reagire alla deviazione cercando di mantenere un assetto più ortogonale, come può vedersi dalla parte finale delle righe 6, 7, 8 nelle quali la scrittura si dispone a cavallo della rigatura. Dalla preparazione del supporto provengono, dunque, informazioni apparentemente contraddittorie: sembra di dovervi riconoscere un tentativo di predisposizione secondo modelli accurati e librari, ma con risultati piuttosto scadenti. Merita infine di essere sottolineato il fatto che lo scrivente commette un discreto numero di errori prontamente corretti: dalla o di col a r. 2 interpretato come ‘integrazione’ da Baldelli, alla r di Orsi a r. 6 e alla t del quasi illeggibile salvamento r. 20 segnalati dal Castellani fino alla s di iscaricatura a r. 5 menzionato da Livio Petrucci, ai quali possono aggiungersi la l di alo di r. 10, l’apparente integrazione di una terza unità alla cifra iii di r. 9, l’erroneo anticipo, corretto per tempo, della d, della quale rimane l’inizio dell’asta nell’interlineo, in aducitura alla medesima r. 9. L’analisi delle caratteristiche grafiche del Rendiconto sembra indirizzare alle medesime conclusioni ambigue suggerite dalla preparazione della pergamena e conferma pienamente la fisionomia ibrida di tale scrittura. Non si può infatti negare allo scrivente una certa familiarità con lo scrivere qual è testimoniata dalle legature, dalle frequenti sovrapposizioni fra lettere e dalla capacità di non seguire il percorso stabilito dalla rigatura, né possono passare inosservati lenocinii esornativi come il pesante ritocco delle aste alte. Ma non si può parimenti negare la sostanziale rigidità, l’invariabilità dei segni alfabetici, l’assenza di armonia del risultato d’insieme. Non ci troviamo, insomma, in1 Baldelli 1973, p. 14. 2 Miglio 1986, p. 88 e nota 15. A uno spoglio certamente occasionale e non esaustivo non ho rinvenuto altre occorrenze di lis neppure in fonti più tarde. 3 Baldelli 1973, p. 20. Delle 52 cifre presenti nelle quindici righe che precedono la rasura manca il punto a sinistra solo per xl di r. 5, in xv di r. 7 e i di r. 8, mentre è irregolare per le cifre in fine di rigo. L’assenza di punto dopo iii di r. 9 è probabilmente dovuta alla correzione (si veda la nota m all’edizione); al contrario dell’edizione di Baldelli, il punto non viene reintegrato.

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nanzi alla produzione di un tecnico della scrittura, di uno scriba professionista (un notaio oppure un calligrafo), bensì, a me pare plausibile, al cospetto dell’attività di un esponente di quella classe mercantile e artigiana direttamente coinvolta nell’impresa cantieristica.1 12. È opportuno allora volgersi a considerare come scriveva nel xii secolo questa classe, e qui il discorso si fa nuovamente spinoso e complesso, sia per l’esiguo numero delle testimonianze antiche, sia, spesso, per l’impossibilità di ricostruire con certezza la matrice economica e sociale di personaggi che per funzione politica e amministrativa hanno lasciato testimonianza scritta del loro alfabetismo. Anche col poco che si ha, tuttavia, pare possibile istituire interessanti paragoni.2 Possono trovarsi in sei pergamene (quattro sentenze, un mutuo stipulato dal Comune, un breve memoriale) conservati presso l’Archivio di Stato di Pisa e distribuite lungo un arco cronologico che va dal 1142 al 11733 e sottoscritte da almeno quarantuno consoli e due arbitri. Alcune sottoscrizioni mostrano un grado di educazione grafica alto o altissimo (Fig. 3): è il caso di Ildebrando Ildebrandi (1152) o quello di Ildebrando Gualfredi e Pietro Albizonis (1155), tutti capaci di scrivere una composta, minuta, educata minuscola aderente al modello carolino. Pietro Vicecomes (1142) manifesta invece, sin dalla scrittura, una rozza elementare di base lontana dagli atteggiamenti che qui si cerca di descrivere, la propria appartenenza a un mondo destinato a sparire. Altri si distinguono per soluzioni personali, come Sismondo Enrigi (1142) o Lamberto de Santo Casiano (1155). Ma la più gran parte dei sottoscrittori mostrano di condividere un modello grafico comune, 1 Veramente sorprendenti sono le analogie che si possono istituire tra la scrittura del Rendiconto e quella descritta da Bartoli Langeli per Francesco d’Assisi. Anche in questa si riscontrano frequenti legature «ma in molti casi si deve parlare di legatura apparente, ossia di un tracciato continuo, senza stacco di penna, ma di puro contatto»; tra le lettere caratteristiche si possono annoverare «la e eseguita in tre tempi […] la r, con il secondo tratto spezzato in tre segmenti […], la g […] il legamento st…» e ancora «grossezza e separazione delle lettere, allineamento incerto». «La norma grafica sottesa a queste scritture è quello che si può dire il ‘canone alfabetico’: ossia l’invarianza e separatezza degli elementi alfabetici, la ripetizione costante delle stesse forme di lettera a prescindere dal contesto grafico. Le lettere hanno sempre, quale che sia la loro posizione, la stessa forma – il che è indice di un rapporto rigido con la scrittura appresa». Non crei scandalo il paragone: «Quella minuscola semplificata», infatti, «la trovi in altri luoghi e in altri tempi» e non soltanto nell’Umbria e nelle Marche di xiii secolo. E anzi «la documentazione umbro-marchigiana si rivela come la specificazione di un fenomeno più largo e diffuso, sia cronologicamente sia geograficamente sia infine sociologicamente». Cosicché «Francesco, come gli altri scriventi che gli fanno compagnia in questo capitolo minore e oscuro della storia della scrittura, sono individui semicolti, appena alfabetizzati. Essi ‘scrivono male’: ma non, si badi, per una presunta incompiutezza del curriculum scolastico […] quanto perché strutturalmente elementare era la loro formazione grafico-culturale: una alfabetizzazione condannata all’immobilità, incapace di progressione autonoma» (Bartoli Langeli 2000b, pp. 23-28). E, infatti, Francesco era per nascita e formazione un mercante. 2 Meno congruenti paiono i confronti suggeriti da Baldelli 1977, p. 9. 3 Si tratta delle pergamene dell’Arch. di Stato di Pisa (le date sono riportate al computo moderno): Primaziale, 1142 ottobre 27; S. Michele, 1152 novembre 18; Roncioni, 1155 maggio 26; Atti pubblici 1166 marzo 7; Coletti, 1173 luglio 13. Lo spoglio dell’Archivio di Stato, facilitato dalla presenza di microfilm, è stato completo. Con Armando Petrucci abbiamo compiuto dei sondaggi presso l’Archivio arcivescovile dove abbiamo visto del fondo San Matteo i ni 9, 10, 12-25, mentre nel fondo Arcivescovile presentano sottoscrizioni autografe (che non siano di giudici, notai o causidici) le pergamene ni 247, 275, 284, 291, 299, 304, 305, 309, 326, 332, 333, 343, 353, 354, 376, 400, 404, 407, 412, 424, 427, 430, 431, 445. Di queste non appartengono a mani di ecclesiastici le sole sottoscrizioni alle pergamene: 332, 400, 404 e 427 corrispondenti a Scalfati 2006/2, nº 124 e 2006/3, ni 26, 30 e 50.

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Fig. 3. Sottoscrizioni di consoli e arbitri pisani: Ildebrandus Ildebrandi (1152), Ildebrandus Gualfredi (1155), Petrus Albizonis (1155), Petro Vicecomes (1142), Sismundus Enrigi (1142), Lambertus de Santo Casiano (1155), Maimone (1152), Glandulfus Rodulfi (1152).

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Fig. 3. Sottoscrizioni di consoli e arbitri pisani: Rustico (1152), Buiti (1155), Vetrularius (1166), Rodulfus (1173).

anche se eseguito con capacità più o meno abili: si passa da scritture elementari e incerte, come quelle di Rigano e di Maimone (1152) o di Eriso (1155), ad altre più ordinate e di migliore esecuzione, sul tipo di quelle di Glandulfo Rodulfi e di Rustico (1152), di Buiti e Sigismondo (1155), o ancora di Vetrulario e di Erro (1166). Si tratta di un modello caratterizzato da un modulo spesso grande ed esecuzione dritta e rigida, di norma privo di tratti di stacco sul rigo per quelle lettere che li consentirebbero, con a dall’occhiello acuto, aste slanciate, d nelle due forme tonda e dritta ([…]volus Rodulfi del 1142, Sigismundo del 1155, Sinibaldo del 1165); un modello nel quale assumono particolare rilievo la g in tre o quattro tempi, ma con occhiello superiore sempre chiuso da un unico tratto di frequente ondulato; la r larga e dal tratteggio caratteristico, spesso appoggiata alla lettera che segue (come con a ed e) altre volte in legamento; la u col primo tratto ondulato e quando possibile in legamento anteriore, ed il secondo dritto; dal segno abbreviativo generico, infine, a forma di tilde. Sono tutte caratteristiche, queste ora elencate, che tornano nella mano che ha scritto il Rendiconto pisano. Una mano, come si diceva, capace di tradurre in una sequenza omogenea e razionale la serie di segni isolati e convenzionali dell’apprendimento primario. Un operatore capace di utilizzare con criterio e coerenza un elementare, ma razionale sistema interpuntivo. Proprio come fanno Glandulfo Rodulfi, Gerardo, Gerardo Episcopi, Enrigo, tutti enumerabili, da un punto di vista grafico, tra i migliori rappresentanti della classe di governo e di potere della Pisa di xii secolo. 13. La migliore comprensione del Rendiconto pisano è un problema che il solo studio delle forme grafiche e della veste linguistica potrebbe non bastare a risolvere. L’ambiente di

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insegnamento, il luogo e le modalità di apprendimento costituiscono fattori determinanti nel conferire alla scrittura nella quale è vergato caratteristiche peculiari che rendono problematico applicare ad essa i tradizionali criteri di interpretazione e datazione. Né meglio può valere l’esperienza: di scritture così, per epoche tanto remote, se ne vedono poche. Ci troviamo, infatti, solo all’inizio di una tradizione di scrittura economica di matrice esclusivamente mercantile; il bello si vedrà col secolo seguente.1 Ne consegue l’utilità di precisare, meglio di quanto non sia stato fatto, tutti quegli aspetti che sono di cornice al mero fatto linguistico e a quello grafico. Lo studio delle forme e delle funzioni del documento, perché proprio di documento formalizzato e giuridicamente connotato si tratta, è uno tra questi: che un non tecnico della documentazione abbia preso la penna e scritto e che al risultato di tale iniziativa potesse essere conferito un significato rilevante per l’ordinamento, questo è un fatto, dal punto di vista della diplomatica (e della storia del diritto), sorprendente. Tanto più sorprendente per il secolo xii, quanto più si percorra a ritroso quel secolo. Del resto le fonti note, pisane e non, lasciano intravvedere un netto intensificarsi dell’attività documentaria della classe mercantile italiana solo dalla metà del Cento in poi. Certo, il Rendiconto potrebbe rappresentare il primissimo, miracoloso germoglio di un futuro che sarà, ma se il paradigma proposto (abile resa di un modello elementare) corrisponde al vero, allora ne risulta che ad esso non sono automaticamente applicabili i parametri di databilità cui normalmente si è soliti fare ricorso. La dinamica interna di tipi grafici del genere, infatti, è tendenzialmente volta alla staticità (riflesso del modello) e alla lenta permeabilità rispetto alle innovazioni nella morfologia e nel disegno quali sono invece ammesse, con maggiore libertà, nelle coeve produzioni anche di impronta calligrafica e formale (e fra queste si devono includere anche le scritture notarili, almeno quelle pisane, che dal quarto/quinto decennio del Cento assumono una marcata impronta cancelleresca). Una natura come quella descritta potrebbe così non contraddire un possibile slittamento cronologico in avanti del Rendiconto fin oltre la metà del secolo, potendosi alla sua scrittura attribuire i connotati di un comprensibile arcaismo.2

1 È una rinuncia che pesa quella di Marta Calleri e Dino Puncuh, i quali nell’ammirevole loro studio dedicato al documento commerciale si sono arrestati, come si diceva, agli atti «riconducibili all’ambito della documentazione notarile prodotta per il mercante», escludendo così il documento in volgare: «laddove, infatti, già a partire dal primo Trecento in area Toscana, alcune forme contrattuali si configureranno come private, prodotte dal mercante, espresse per lo più in forma volgare – l’epistola, l’apodisia, il suo cartulare o quello del banchiere – al diplomatista non resterà che seguire le linee di sviluppo di un processo che verrà estendendo la publica fides alle private scritture mercantili e conseguentemente darà inizio a giurisdizioni proprie […] e mollare la presa» (Calleri, Puncuh 2002, pp. 277-78). Qualora avessero raccolto la sfida, avrebbero certamente incontrato sulla loro strada anche il Rendiconto pisano insieme alle rare, ma eloquenti testimonianze in volgare che accompagnano e scandiscono, ben prima del xiv secolo, l’affermazione di quella autonomia. 2 A ciò non è ostacolo l’identificazione, proposta da Baldelli e a mio parere plausibile, di Gherardo Cigulo giacché, se anche di questi non si hanno più notizie dopo il 1140, la circostanza non implica che egli sia scomparso proprio intorno a quella data. Del resto, se agisce già nel 1127, avendo a quell’epoca maturato la maggiore età (18 o 25 anni), può bene avere condotto una vita tranquilla fino, diciamo per rimanere nell’ipotetico più plausibile, al sessantesimo anno d’età e avere con ciò valicato la fatidica metà del secolo. Si tenga tuttavia presente che la prudenza di Baldelli e di Castellani intorno all’identificazione del Cigulo del Rendiconto con l’omonimo della documentazione preveniente da Calci riceve nuovo alimento dall’esistenza di un Gerardus Cigulini attestato, come confinante di un bene in Orticaia, in un atto rogato a Pisa il 18 marzo 1197: Scalfati 2006/3, nº 141, pp. 293-94.

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antonio ciaralli Abbreviazioni bibliografiche

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NOTEREL LE SULLA TENZONE TRIDIALETTALE DEL CODICE COLOMBINO DI NICOLÒ DE’ ROSSI Vittorio Formentin* Università di Udine

1. Introduzione

L

a famosa tenzone poetica tridialettale in veneziano, padovano e trevisano conservata nel Canzoniere Colombino di Nicolò de’ Rossi (Siviglia, Biblioteca Capitular y Colombina, ms. 7.1.32, c. 39v) conta ormai una decina d’edizioni, accompagnate per lo più da puntuali note esplicative e, nei saggi più recenti, da generosi tentativi di traduzione o parafrasi continua. Un tal corredo esegetico è, più che opportuno, necessario, e va considerato con preconcetta simpatia anche quando le proposte interpretative sembrino incerte o audaci, perché si tratta di testi, per un’opzione espressiva e stilistica esercitata a priori dagli autori, intenzionalmente difficili, che richiedono editori a loro volta coraggiosi, se non temerari. All’effetto di straniamento linguistico prodotto dall’inaudita elocuzione vernacolare, ricca di elementi lessicali e grammaticali rari o in attestazione unica o altrimenti documentati solo in fasi moderne del dialetto, si aggiunge infatti l’oscurità di molti riferimenti storici, personali e materiali, il cui addensamento è caratteristico del registro comico-realistico e giocoso; in tale genere poetico è poi normale, negli interlocutori, una larga presupposizione di dati extratestuali che, in assenza di un Porfirione del Trecento, per noi non sono più recuperabili. Ne risulta un messaggio poetico disturbato da un elevato grado d’entropia: per il lettore di oggi, ma certo anche per quello di ieri, come dimostrano le condizioni critiche in cui versano i nostri sonetti sotto il rispetto testuale; una criticità, del resto, che è la regola nella tradizione dei componimenti che, dal Medioevo al Rinascimento, hanno adottato il ‘dialetto’ (concetto, se altro mai, polare e differenziale) per attingere particolari fini espressivi, non raggiungibili dalla ‘lingua’. Ricapitoliamo prima di tutto i fatti, che pure non è sempre facile, in questo caso, tener separati dalle ipotesi. I tre sonetti della tenzone (Venetus, Paduanus e Tarvisinus: indicati d’ora in poi con le sigle V, P e T), sulla base del loro dettato se non della comune didascalia introduttiva (ydem) – che li assegnerebbe allo stesso de’ Rossi fra le rime del quale si trovano inseriti –, si possono attribuire rispettivamente a Giovanni Quirini (il fecondo poeta veneziano ammiratore di Dante), a Guercio da Montesanto (autore almeno dei due sonetti politico-moraleggianti, composti nella solita koinè padana, raccolti nell’altro importante codice derossiano, il Vaticano Barberiniano lat. 3953) e all’altrimenti ignoto Liberale da San Pelagio (il toponimo dovrebbe indicare un sobborgo a nord di Treviso): l’autore di V si rivolge infatti a un Verço, che in P risponde al proponente chiamandolo sier Çuanino; in T il terzo interlocutore, che si frammette quasi arbitro e paciere tra i litiganti («Sier Guerç e sier Çanin, […]|No tençonà plu, cha Dio ge vad’a lay!»), si nomina al v. 7: «Ye son Liberal, che sta a Samt [rectius Saint] Palay». Il te* [email protected]

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ma, o l’occasione, dello scambio poetico, come ha dimostrato Maria Corti con argomenti incontrovertibili, è la guerra di Ferrara del 1308-1309 seguita alla morte di Azzo VIII (31 gennaio 1308), che vide schierarsi a fianco dei due pretendenti alla successione – Fresco, figlio illegittimo del marchese, e Francesco d’Este, fratello di Azzo – Venezia da una parte e papa Clemente V dall’altra.1 Alla Corti spetta anche il merito di aver avanzato la proposta d’identificazione a tutt’oggi più probabile per l’Enrigo bisaro|male-osse (che la studiosa intende ‘male-uose’, ‘mal calzato’) di P 12-13, cioè Enrico Scrovegni, il ricchissimo maggiorente padovano che assieme a Giacomo da Carrara (il futuro signore di Padova) fu tra gli avversari più decisi della politica espansionistica veneziana. Molto si è scritto sulla questione della paternità dei tre sonetti, peraltro legata a filo doppio alla datazione dell’oste de Ferera cui essi si riferiscono nonché alla presunta autografia derossiana della sezione del Colombino che li contiene, spettante alla cosiddetta mano ‚ (Brugnolo 1974, pp. xlii-xliii e l-lii): se infatti (com’è plausibile) la composizione della tenzone è contemporanea o di pochissimo posteriore agli avvenimenti del 1308, l’assegnazione a Nicolò dei tre sonetti diventa problematica o francamente insostenibile, perché a quell’epoca egli era poco più che un ragazzo; l’erronea indicazione attributiva della mano ‚ varrebbe allora, a sua volta, come un forte argomento contro la tesi dell’autografia. Le attribuzioni surriferite sono quelle proposte dalla Corti, che continuano a sembrarmi le più probabili, anche dopo i vari interventi del Brugnolo (1977, pp. 17-21; 1983; 1986; 1996), il quale nel corso del tempo è venuto sviluppando la sua opinione iniziale (tutti e tre i sonetti sono probabilmente di Nicolò de’ Rossi)2 in un’ipotesi più articolata e complessa: V e P costituirebbero, per così dire, il nucleo autentico della tenzone, non distaccabile dalla guerra di Ferrara del 1308-1309, e si potrebbero pertanto ascrivere ai due rimatori positivamente documentati; T invece, in forza di alcune sue caratteristiche formali e di certe sue espressioni che sembrano fraintendere il dettato degli altri due sonetti, è considerato «un’aggiunta posticcia e pretestuosa […] una sorta di libera e disinvolta improvvisazione su un ‘tema’ preesistente» (Brugnolo 1986, p. 75), composta «in un’epoca in cui la guerra di Ferrara, con i suoi episodi e i suoi protagonisti, era solo un lontano ricordo» (ivi, p. 77): tornerebbe in gioco, quindi, il de’ Rossi, che si sarebbe nascosto, per la ripresa in chiave burlesca di quei lontani antecedenti, sotto la maschera villanesca dello sconosciuto Liberale.3 Il principale argomento allegato dal Brugnolo a sostegno della sua ipotesi poggia sulla costituzione e l’interpretazione dell’ultima terzina di T, e in particolare del v. 12, le quali verranno discusse nel § 7 del presente contributo. 2. L’edizione Brugnolo Come punto di riferimento del nostro successivo discorso riproduciamo il testo e l’apparato della tenzone secondo Brugnolo 1996, pp. 17-19, con la traduzione-parafrasi di Brugnolo 1986, pp. 60-62.4 Le parentesi aguzze indicano le integrazioni congetturali dell’editore. 1 Corti 1966. Sull’episodio della guerra di Ferrara vedi Soranzo 1905 e Hyde 1985, pp. 219-25. 2 Si ricordi, peraltro, che Brugnolo 1974 ha prudentemente pubblicato i tre sonetti in appendice al Canzoniere. 3 La possibilità di un’attribuzione al de’ Rossi del solo T è adombrata in Contini 1969, p. 53, in un passo rimaneggiato poi in occasione della ristampa del saggio linceo in volume (Contini 1988, p. 18). 4 Rispetto a Brugnolo 1996 introduco minimi ritocchi nei diacritici e nella punteggiatura nonché -i, in luogo di -y, conforme al manoscritto, in Padeguai T 6; per la parafrasi di P 6 si riporta l’interpretazione di Brugnolo 1996, p. 19, che accoglie un suggerimento di Lazzerini 1991, p. 471.

tenzone tridialettale del cod. colombino di nicolò de ’ rossi

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VENETUS Verço, co’ tu sis struolego che montis urir aqua cum verigola ad olto! Pesse tristo, mo’ co no’ ‹tu› t’afrontis, (e certo cusì fas tu en Riolto), mo’ stas tu coy signori, e sì contis che ’l dose col conseio è stado molto, e che tanto vadagnis, se t’apontis, che pos mançar folege e mesolto. Bestia bestia, co’ ‹tu› sis enganado! Vèstite ad oro e sis conparisente, e và cum gl’oltri a l’oste de Ferera: averàs ficio e seràs meritado. Or oldi: no ti sgumentar nïente, cha, par Dïo!, nu averemo la tera.

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3 mo’ co no’ ‹tu› t’afrontis] como no tafrontis. Veneziano. Guercio, che razza di astrologo sei, che ‘sali’ a far scaturire (attingere) acqua con un piccolo succhiello! Sinistro animale, ora ti metti a confronto con noi – e certo è così che fai a Rialto – ora stai coi notabili e racconti che il doge è stato a lungo in riunione col Consiglio e che, se ti ci metti di puntiglio, sei capace di guadagnare (procacciarti) tanto da mangiare folaghe e carne salata e seccata. Bestia, bestia, come ti inganni! Mettiti dei vestiti intessuti d’oro e fa’ bella mostra di te, e va’ con (o: come) gli altri alla guerra (letteralmente: al campo) di Ferrara: riceverai una carica importante e una ricompensa. Adesso senti: non aver la minima paura, ché, perdio!, noi conquisteremo la città.

PADUANUS Ser Çuanino, eo sì me è ben pensòo (viý vu ben ch’e’ no sonto enfentiço) sovençe volte, qual eo sonto usòo. E’ traço aqua e ceno del paniço, et en Rialto, o là o’-t’è ’l marchòo, e’ vo coi graendi qual fose noviço: e· i guagnieli!, e’ serave vitupròo s’ig’aoglase la vergunçia del me’ graiço! Eo no sonto nean sì rico merçaro che me possa vestir sengiente mese. Ben ‹i› çirave, se Paa fes’ oste. Me’ manderè per Enrigo bisaro male-osse e Jachemo Cararese. Oý ça, eo digo: dî star a le poste!

5 (+ 2) 10

2 ben] bene; 6 qual fose] qual efose; 7 vitupròo] uituperoo; 10 vestir] uestire. Padovano. Ser Zuanino, ho riflettuto a lungo [prima di rispondervi], com’è mia abitudine: vedete bene che non sono un simulatore (uno che fa finta di niente). Io spillo (bevo) acqua e ceno con farinata di miglio, e a Rialto, o là dov’è il mercato (in piazza), vado coi potenti (pavoneggiandomi) come uno sposo il giorno delle nozze: per i vangeli!, sarei oggetto di vituperio se essi vedessero l’infamante miseria del tugurio in cui vivo! E non sono neanche un merciaio così ricco da potermi cambiare il guardaroba ogni mese. Ci andrei, alla guerra, se Padova la facesse! Ma per questo chiederò piuttosto l’intervento (o: il parere) di Enrico bisciaio malcalzato e di Giacomo da Carrara. Sentite qua, io dico: dovete stare sul chi va là.

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Sier Guerç e sier Çanin, ye pur ge diray quel che me ’n par e no las per nesun. No tençonà plu, cha Dio ge vad’ a lay! Voi sed gnes citadin de boi comun. An calo mì noela: che senpremay quist Padeguai e Venèdes caus’ à en un! Ye son Liberal, che sta a Samt Palay: un fant masclo, anch’ie ve para brun. Çón a l’ost, maïdè!, s’el par a voy. Ye ge farai de ponta e de calcagn, que dïançol!, en son de cerpeduye. Noi serón tre, diepo ig serà pur doy: ’n i guagnieli!, ’l me no serà tamagn che ye no ’l sburlo a le brancaduye!

1 Çanin] canin; 4 gnes] neges; 5 noela] nouela; 12 diepo ig] diepo sig. Trevisano. Signor Guercio e signor Zanino, anch’io vi dirò la mia opinione, che non delego ad altri (o: che nessuno può togliermi dalla testa). Non tenzonate più, che Dio vi assista! E sì che siete cittadini di illustri e importanti comuni. Ora tocca a me dire una cosa (fare una dichiarazione): e cioè che questi Padovani e Veneziani non fanno altro che litigare fra di loro! Io sono Liberale, che sta a San Pelagio: un giovanotto vigoroso, anche se ho un aspetto un po’ sbattuto. E andiamoci alla guerra, vivaddio!, se è questo che volete! Io vi terrò dietro in tutto e per tutto, che diavolo!, a suon di potature. Noi saremo tre, mentre loro saranno sempre soltanto due: per i vangeli!, non saranno per me tanto grandi che io non possa stenderli non appena li avrò tra le mani!

3. L’edizione Lazzerini Il testo e l’interpretazione del Brugnolo sono stati riproposti in opere di carattere generale – Bologna 1987, pp. 576-77; Lippi 1991 (2003), pp. 76-77 – e nella recente edizione delle rime di Giovanni Quirini (Duso 2002, pp. 213-17, con commento del solo V). Un nuovo testo della tenzone è invece fornito in Lazzerini 2006, pp. 83-84, in appendice a un saggio di grande interesse, ricco di spunti esegetici originali. Interessa qui richiamarne le soluzioni editoriali divergenti dal testo Brugnolo e alcune nuove interpretazioni della lettera. Venetus: 1-2 testo come Brugnolo, ma con diversa interpretazione: ‘Guercio, che sapientone che sei, che meni vanto di spillar l’acqua col succhiello!’;1 3 «Pesse tristo, como ‹nu› no t’afrontis» ‘Pesce marcio, tu non vai a combattere come noi [Veneziani]’ (viene meno quindi la correlazione, frutto di emendamento congetturale, «mo’ … mo’» ‘ora … ora’, e il mo del v. 5 diventa così «la congiunzione avversativa ben nota al veneziano antico»).2 1 Già Lazzerini 1991, p. 471: «[…] l’apostrofe del Venetus “co’ tu sis struolego” […] non allude forse a pronostici, ma varrà antifrasticamente e sarcasticamente ‘che mago!’, ‘che genio!’: difatti il paduanus mena vanto di saper spillare (urir) con la verigola (in Boerio “verigola panochia, T. de’ Bottai, Doccia, Strumento di ferro di cui si servono i Bottai per forare il davanti delle botti, e formarvi il buco della Fecciaia in cui si mette la spina”) nientemeno che … l’acqua!». 2 Sui vv. 3-4 di V si segnala l’intervento di Sanfilippo 1998, che propone di leggere: «Pesse tristo, como [tu] no t’afrontis,|e certo cusì fas tu en Riolto», intendendo afrontarse nel senso di ‘disporsi a fronte’,

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Fig. 1. Sevilla, Biblioteca Capitular y Colombina, ms. 7.1.32, c. 39v.

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Paduanus: 5 «et en Rialto, o là o‹n›t’è ’l marchòo», in cui è accolta l’integrazione di Milani 1997, p. 17, con o‹n›t’ = on, ond’ ‘dove’; 7 «e, ’i guagnieli» ‘e, per i vangeli’; 8 «s’ig’ aoglase †la vergunçia† del me’ graiço» ‘se vedessero lo schifo del mio pagliericcio’ (o ‘tugurio’), con localizzazione del guasto responsabile dell’ipermetria nella sequenza posta tra cruces, che si sarebbe originata attraverso la trafila: l’onto ‘lo sporco’, ‘la sozzura’ (lezione autentica) → l’onta (lezione erronea) → la vergunçia (sostituzione sinonimica); 9 «merçaro» ‘mercante’; 12 «m’e’ manderè per» ‘intanto manderò a dire a’ (per la divisione m’e’ ‘ma io’ v. già Brugnolo 1983, p. 375 e Milani 1997, pp. 17 e 19). Tarvisinus: 6 «causa en un» ‘stanno sempre a litigare’; 13 «n’, ’i guagnieli!, ’l me’ no serà tamagn» ‘e, per i vangeli!, il mio (avversario) non sarà così grosso’, dove «la n iniziale del v. 12 [recte 13] rappresenta la congiunzione negativa (normale la doppia negazione né - o ni - no)» (Lazzerini 2006, p. 81, nota 103). 4. Accertamento della lezione manoscritta: referto dell ’ esame diretto del Colombino Riferisco i risultati dell’ispezione diretta del manoscritto sivigliano, che ho potuto esaminare nei giorni 21 e 22 settembre 2009 grazie alla cortese disponibilità dimostrata dalla direttrice della Institución Colombina, Nuria Casquete de Prado. Indico prima di tutto i casi, fin qui non segnalati dagli editori, in cui la lezione del manoscritto è il risultato di una correzione su rasura: P 8 aoglase] le lettere a, o, g (occhiello superiore) e s (asta verticale) sono state riscritte su rasura con inchiostro più scuro; all’atto di tale intervento, con lo stesso inchiostro, è stata aggiunta alla l l’ampia ansa richiusa ‘a bandiera’, di cui precedentemente era priva (la l consisteva cioè della sola asta verticale, come quella di maleosse P 13, ale [= a le] P 14, calo T 5). P 12 Enrigo] con le lettere nrig riscritte su rasura. T 14 che ye] su rasura.

Nei tre luoghi nulla della scriptura prior è visibile ai raggi ultravioletti. Al v. 7 del Tarvisinus bisogna leggere, con Elsheikh 1973, p. 149, Saint, non Samt: chiarissimo – e ben visibile anche nella riproduzione fotografica dell’ed. Brugnolo 1974, tav. vi – è l’apice sovrapposto alla prima delle tre aste, che individua la i. Il tracciato della sequenza in, in cui la i non lega dal basso sicché si può avere appunto l’impressione di una m, è tutt’altro che inconsueto per la mano ‚ e si ritrova, per es., nelle prime due lettere della parola infinito scritta nella pagina seguente (c. 40r), al v. 12 del son. O Çovanni apostolico benegno (e poi che l’erro sïa in infinito), dove lo stesso modo di accostare i a n (una n che, in fine di parola, ha l’ultima asta prolungata ‘a proboscide’ sotto il rigo) mostra anche la preposizione in; in entrambi i casi alla i è sovrapposto un apice diacritico, proprio come in Saint. La questione delle rasure riscontrate nel testo della tenzone merita un momento di riflessione. Esse vanno certo considerate nel quadro generale del frequente ricorso alla correzione per rasura da parte dei copisti del manoscritto sivigliano. Trascrivo dai miei appunti i casi seguenti, da aggiungere a quelli segnalati dagli editori nei rispettivi

‘schierarsi’ (in senso figurato) e l’intero v. 4 «come la principale di un periodo paraipotattico ad andamento correlativo: como … e cusì» (p. 343).

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apparati.1 Son. Se per mia colpa (c. 30v, mano ·), v. 11 quig ochy: per correzione di un precedente quigli ochye, con -li ed -e erasi (ma ancora visibili a occhio nudo); son. A gy Tartari (c. 31r, mano ·): a fianco del v. 9 aveva cominciato a scrivere il v. 10 (damor ten canta), poi ha eraso e incolonnato correttamente il verso al margine sinistro;2 son. Dentro lo lato (c. 31r, mano ·), v. 1 seço: su rasura; son. In manus tuas (c. 40r, mano ‚), v. 11 en le tue braççe: la l è su rasura; son. Donzella blancha (c. 40v, mano ‚), v. 12 ch’erano d’altro amor envolti, con la -o di erano espunta da ‚ e le lettere rano daltro su rasura; son. Çentil desiro (c. 40v, mano ‚), v. 3 qual . l martiro: in corrispondenza del punto una rasura ha cancellato una lettera (si supplirà e, cioè è, sulla base della ‘trascrizione grafica’ del sonetto, che ne evidenzia l’artificiosa struttura, a c. 49r: Brugnolo 1974, tav. iii). Orbene, queste rasure sono eseguite sempre con grande attenzione a mimetizzare il più possibile la correzione, a non rovinare cioè l’aspetto della pagina, e non mettono certo in dubbio – almeno per i componimenti derossiani – l’eccellente qualità della lezione. Anzi, la sicura prossimità del manoscritto sivigliano a Nicolò de’ Rossi invita a tener presente – con la dovuta cautela e senza mai dimenticare che si ha l’onere della prova – l’ipotesi che, in qualche caso particolare, esse possano spiegarsi come interventi dell’autore sul proprio testo (sostituzione alle vecchie di nuove lezioni autentiche), insomma come un indizio di varianti d’autore.3 Questo premesso, non ci può però essere dubbio sul fatto che rasure come quelle indicate andranno ricondotte fino a prova contraria al normale meccanismo della copia (trascrizione del testo da un esemplare, riscontro della copia con l’antigrafo, correzione della copia in caso di errore): tutti compiti che potevano essere affidati a un amanuense di fiducia che lavorasse sotto il vigile controllo dell’autore. 5. Venetus 1-2 L’attacco di V è uno dei punti che hanno dato più filo da torcere agli interpreti, et pour cause. Perché Guercio è uno struolego? È forse, genericamente, un ‘impostore’, un ‘ciarlatano’, un ‘bugiardo’ come – per noi moderni – tutti gli astrologi e gli indovini (Corti, che richiama la risposta di Guercio: no sonto enfentiço)? Forse predice sciagure per Venezia, sul punto d’impegnarsi in una guerra dall’esito incerto (Brugnolo)? Oppure l’appellativo andrà inteso in senso esteso e ironico (‘saggio’, ‘sapiente’), come smascheramento di chi millanta una sagacia che non ha (Lazzerini)? «Non c’è dubbio però, anche perché si tratta dell’inizio assoluto della tenzone (che presuppone evidentemente precisi dati extratestuali), che qualcosa ci sfugge» (Brugnolo 1996, p. 20). Comunque sia, il Brugnolo e la Lazzerini sono d’accordo nell’assegnare al verbo montis ‘sali’ (eventualmente ribadito dal sintagma preposizionale ad olto alla fine del verso successivo) il valore figurato di ‘darsi arie’, ‘menar vanto’.4 1 Non occorre sottolineare il fatto che le mie sono note cursorie e certo non esaurienti, dato il breve tempo che ho avuto a disposizione per esaminare il manoscritto. 2 Programmaticamente l’ed. Brugnolo 1974 (p. xliv, nota 2) non registra questo tipo di rasure, che rimediano all’errore d’inerzia per cui il secondo verso della sirma di un sonetto è trascritto a fianco del primo (sul modello delle quartine). 3 Si veda il caso, discusso in Brugnolo 1974, p. lxxviii, della correzione su rasura che s’incontra nell’altro codice di Nicolò, il Barberiniano 3953, al v. 3 del son. Gli spiriti e ’g deletti. Per l’uso della «tecnica, propria degli scribi librari, della rasura e della paziente ricopertura del già scritto» in codici in tutto o in parte autografi vedi PetrucciA 1985, pp. 290 (Francesco da Barberino) e 292-93 (Petrarca). 4 Devo dire, peraltro, che la proposta di riferire la locuzione preposizionale esclusivamente a montis (Lazzerini 2006, p. 66) non mi convince, per una ragione di stile. Infatti, a giudicare dal resto del sonet-

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Quanto all’espressione urir aqua, propriamente ‘attingere acqua’, il Brugnolo la intende come una metonimia: denominazione della causa (scavare un pozzo e farne scaturire l’acqua) per mezzo dell’effetto (attingere l’acqua); la Lazzerini invece opta per una sineddoche a maiore ad minus, propone cioè una restrizione di significato (‘attingere acqua’ = ‘spillare acqua [invece di vino] da una botte’).1 Quanto alla verigola, la parola in veneziano significa ‘succhiello’ (Boerio 1856), ‘trivella’, verosimilmente da ve˘ rres, «vista la somiglianza tra la funzione degli oggetti indicati e l’atto sessuale del verro» – vei, p. 1039, citato da Pellegrini 1971 (1975), pp. 389-90, che confronta l’analogo it. succhio, succhiello da suculus ‘porco’ –: documentazione antica e moderna del termine e bibliografia complessiva in Sallach 1993, pp. 228-29, a cui aggiungi Grignani 1980, p. 136 (con altri rinvii). L’interrogazione del corpus ovi tramite Gattoweb (settembre 2009) non ha scovato nuovi esempi d’età medievale: le due occorrenze presenti sono appunto quelle di V e del volgarizzamento veneto della Navigatio Sancti Brendani, testo, quest’ultimo, in cui si parla di verigole grande assieme ad altri strumenti di lavoro di una fusina de favri.2 E sul significato di ‘succhiello’, ‘piccola trivella’ sono fondate le interpretazioni del Brugnolo (scavare un pozzo col succhiello = inanis opera)3 e della Lazzerini (verigola = verigola panochia del Boerio = ‘succhiello del bottaio’, ‘cocchiumatoio’). La glossa di Corti 1966, p. 140 («‘argano’»), poiché i rinvii al Boerio e al Beitrag del Mussafia non hanno riscontro (vedi infra), dev’essere considerata, allo stato attuale della documentazione, un autoschediasma. Eppure bisogna riconoscere che, se verigola valesse qui ‘argano’ o simili (‘carrucola’), l’immagine diventerebbe subito limpida.4 Proviamo ora a riconsiderare parole e iuncturae dei due versi. Potrà anche essere che montis vada qui inteso in senso figurato, ma certo il primo valore che sovviene per un tal predicato, in riferimento a uno struolego, è quello proprio. L’astrologo infatti, per osservare i pianeti e le stelle, è solito salire in un luogo elevato («ne’ monti di Luni», se possibile, ma può andar bene anche un tetto o una terrazza). Si rileggano le parole con cui to, la sintassi poetica del Venetus è lineare, e al suo autore non convengono iperbati di gusto oraziano: insomma urir aqua cum verigola ad olto presenta a mio giudizio un ordine delle parole tanto naturale quanto il pedestre che ’l dose col conseio è stado molto. 1 Si capisce dunque che riferire ad olto a montis, staccandolo dal vicino urir aqua, è necessario alla Lazzerini per poter intendere ‘spillare acqua da una botte’; a questo proposito si veda già la correctio di Brugnolo 1996, p. 20, dove, a commento di Lazzerini 1991, p. 471, si parla dell’«operazione dell’urir (ma in realtà urir … ad olto)». I due interpreti sono poi d’accordo nell’intendere come ‘spillo’ il traço di P 4: «Spillo (bevo) acqua» (Brugnolo), «(È vero che) spillo acqua» (Lazzerini). 2 Affine il contesto in cui compare la parola nella carta di Curzola del 1419 (Migliorini, Folena 1953, pp. 23-24); in un inventario del 1455 (Bianchi, Howard 2003, p. 299); in un sonetto caudato di Andrea Michieli relativo ad un fatto di cronaca del 1498 (Rossi 1895, p. 65). 3 Secondo Brugnolo 1986, pp. 47-48, l’immagine servirebbe ad esprimere l’inconsistenza delle fosche previsioni dello struolego Guercio: «così mi pare debba essere intesa la metafora dell’attingere (urir) acqua cum verigola, cioè dello scavare un pozzo d’acqua con un piccolo trapano, un succhiello, anziché, com’è naturale, con vanga e badile […]. Si tratta di un adynaton, del tipo “inanis opera”, che traduce in un’inedita immagine grottescamente icastica […] l’inanità delle elucubrazioni di Guercio». Un punto debole di questa interpretazione sta a mio giudizio nel fatto che P 4 («E’ traço aqua e ceno del paniço») induce a intendere che l’«aqua» di V 2 facesse parte della (possibile) dieta di Guercio tanto quanto le «folege» e il «mesolto» del v. 8, con cui forma una coppia polare (bere/mangiare) parallela appunto all’aqua e al paniço del Paduanus. 4 Sembra essere questa anche l’opinione di Duso 2002, p. 214, che a sorpresa ripropone tali e quali la spiegazione e il rinvio della Corti: «verigola: ‘argano’ (Boerio)»; a sorpresa, perché subito prima aveva ripreso e fatto propria la parafrasi appena riferita del Brugnolo («scavare un pozzo d’acqua con un piccolo trapano, un succhiello, ecc.»).

tenzone tridialettale del cod. colombino di nicolò de ’ rossi 59 il Sacchetti, personaggio e autore, conclude la novella cli, in cui «Fazio da Pisa, volendo astrologare e indovinare inanzi a molti valentri uomeni, da Franco Sacchetti è confuso per molte ragioni a lui assegnate per forma che non seppe rispondere»:1 E io gli rispondo: «Tu di’ ben vero che io l’ho vinta con ragione, e che tu e molti altri astronomachi con vostre fantasie volete astrologare e indovinare, e tutti sète più poveri che la cota, e io ho sempre udito dire: “Chi fosse indovino serebbe ricco”. Or guarda bello indovino che tu sè, e come la ricchezza è con teco!» E per certo così è, che tutti quelli che vanno tralunando, stando la notte su’ tetti come le gatte, hanno tanto gli occhi al cielo che perdono la terra, essendo sempre poveri in canna.

Ed ecco un paio di queste «gatte», trovate senza neppure cercar tanto. Il padre di Loise de Rosa, che sulla terrazza di casa fissa la posizione degli astri nel momento esatto della nascita del figlio, per farne l’oroscopo: «Quando nassive [‘nacqui’], mio patre stava all’astraco e (con)prese le curse delle stelle et dissiese. Disse a matrema: “Fiore, aie re(com)mandato chisto figlio. Chisto serà aventurato omo et se(r)rà covernatore de puopole”» (Loise de Rosa, Ricordi, 21r 26-29 = Formentin 1998, ii, p. 568). L’indimenticabile Cugino della Macaronea di Tifi Odasi, che si prepara all’esecuzione di un rito magico passando un’intera notte sul tetto per assicurarsi di poter contare sul favore delle stelle: «Sed prius in cupis noctem consumpserat omnem:|guardabat celum, stellas straniumque Boetem|et Parvam Ursam et Magnam Carumque sequentem|et curvas Falces, Polum Chiocamque coantem.|E cupis veniens clamabat: “Venit Oryon!”:|est bonum signum magicis venerabile sacris!|O bonum astrologum! […]» (Zaggia 1989, pp. 410-11). Ritornando a Dante, Guido Bonatti non era forse, secondo la tradizione raccolta dal Villani, un «ricopritore di tetti»?2 C’è poi un’altra occasione in cui l’astrologo monta in luogo eminente e, come il canterino della celebre epistola metrica di Lovato, incanta la folla celsa in sede theatri: quando si tratta di vendere la propria mercanzia. È l’astrologo delle piazze,3 che, salito sopra un banco o montato in sella a un cavallo, «con il suo linguaggio dottorale e diluviante, […] da professore plusquamperfetto», conquista «l’attenzione degli “stupidi” frequentatori della piazza ansiosi di conoscere il futuro, intrattenendo la “turba affollata colle labbra socchiuse”» (Casali 2003, p. 208).4 Un «montambanco» che vende care le proprie bugie ai creduloni, un dottor Dulcamara sempre a caccia del suo Nemorino, come lo Scarnecchia e il Rosaccio del Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi, ritratti nel commento al poema di Puccio Lamoni, alias Paolo Minucci:5 Questo fu un montambanco, o ciarlatano, il quale vendeva unguento per medicare scottature, e montava in palco sempre in abito da Coviello col nome di Capitano Scarnecchia. Dopo li suddetti vien Rosaccio, il quale conduce seco una gran mano di persone tirate dalle sue chiacchiere. Costui fu uno dei più superbi ciarloni che sia mai stato nella ciarlataneria, e spacciavasi per astrologo. Non montava in banco, ma stava a cavallo allato a una tavola elevata, 1 Ed. Puccini 2004, p. 412. 2 Nuova cronica, viii, 81, 21 (ed. Porta 1990-1991, i, p. 536). E si rammentino le lezioni notturne di astrologia impartite da Ponocrates al suo allievo Gargantua «au lieu de leur logis le plus descouvert» (François Rabelais, Le vie très horrificque du grand Gargantua, cap. xxiii). 3 Ivi esercita lo struoligo che pronuncia il bel pruolego in occasione del fidanzamento e delle nozze di Ca’ Malipiero, nella frottola in veneziano di Francesco di Vannozzo Se Dio m’aide: «E non sè cuor de piera|che non fosse adolzido|aver oldido el pruolego|che fese ’l nostro struoligo,|che fo fio del Besazza,|en megio de la plazza» (Medin 1928, p. 108). 4 Le citazioni della Casali sono tratte da una pagina dei Ritratti critici di Francesco Fulvio Frugoni. 5 Lippi, Minucci 1688, pp. 169-70 (citato in Casali 2003, p. 216).

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sopr’alla quale posava una faragine di cartapecore di privilegi havuti (diceva egli) per il suo valore dai maggiori potentati della Cristianità, qualche scheretro di gatto o cane, una sfera d’ottone, tre corni neri lunghi, all’uno de’ quali era appeso un pezzo di calamita, all’altro una palla di limpidissimo cristallo di monte, ed al terzo un corno, che egli diceva essere d’Unicorno. […] Diceva havere imparata l’astrologia da un gran mattematico ed astrologo suo zio, nominato Gioseppe Rosaccio, che predisse (vantava egli) la rovina della palla della cupola del Duomo di Firenze molto tempo avanti ch’ella seguisse. In somma con le sue ciarle e fandonie ragunava, sempre che montava a cavallo, infinite persone, e pigliava buone somme di danari.

Ma dove sale Guercio, il nostro astrologo? Col v. 2 l’aspettativa del lettore, che, dopo il montis in punta di verso, è preparato all’immagine di un’aerea specola, o per lo meno di uno scanno, viene delusa, perché Guercio sale per attingere acqua. Che questa (per noi) inattesa giuntura potesse viceversa descrivere un’esperienza quotidiana dell’uomo medievale, vedremo più innanzi. L’espressione urir aqua doveva essere senz’altro popolare a Venezia nel Medioevo, se essa è registrata ancora dal Boerio per Chioggia («orire, verbo usato a Chioggia, ch’è propr. l’Haurire de’ Latini, Trarre o Attigner acqua. Va a orire, Va ad attignere»).1 E si noti che urir aqua è l’unica espressione di V di cui venga fornita, forse con intenzione contrastiva, la ‘traduzione’ nel Paduanus: E’ traço aqua P 4, cioè l’equivalente locale appunto per ‘attingere acqua (da un pozzo)’, come ci dimostrano alcuni passi della Bibbia istoriata. Agar e Ismaele nel deserto di Bersabea (Gn 21, 19): «Como Agar vette in lo deserto meraveiosamente un poço; e sì tra’ de l’aqua e empie el so vasselo e sì dà da bevere a Ysmahel so fiolo»; l’incontro di Mosè con le sette figlie del sacerdote di Madian, quae venerunt ad hauriendas aquas (Ex 2, 16): «E sette fiole del sacerdoto de Madian […] sì era vegnude al poço per trare de l’aqua» (Folena, Mellini 1962, pp. 9 e 26).2 Insomma, il significato proprio delle espressioni urir ovvero trare (aqua) è ‘attingere’, non ‘spillare’ o ‘versarsi’ o ‘bere’, che sono tutti significati ottenuti per trasposizione. Che in V 2 (e conseguentemente in P 4) ci si riferisca appunto all’azione di trarre acqua da un pozzo (e non da una sorgente, da un fiume, da una botte) a me pare indicato dalla locuzione ad olto, cioè urir aqua … ad olto, che intenderei ‘attingere acqua da un luogo profondo’ («Venit mulier de Samaria haurire aquam […] dicit ei mulier: “Domine, neque in quo haurias habes et puteus altus est”»: Io 4, 7-11).3 Se Çuanino rinfaccia dunque a Verço di attingere acqua da un pozzo, potrebbe giocare un ruolo, nel tratteggiare la caricatura del ‘padovano’, il sottinteso della qualità notoriamente scadente dell’aqua putealis, una delle peggiori che si possano bere per giudizio unanime di scienziati, medici, cronisti: De puteo. Puteus est lacus defossus, a potu dictus, ut dicit Isidorus, de sudoribus enim terrae & catharactis aquae oritur, quia ruptis terrae venulis inferioribus aqua quasi fumando evaporat. Ex cuius evaporatione aqua putealis generatur, ut dicit idem. Aqua vero putealis […] inter aquas est grossior & indigestibilior, tum propter terrae salsuginem, tum etiam propter ipsius quietem & 1 Brugnolo 1986, p. 60 (con altri riscontri). Corti 1966, p. 140, adduce anche il friul. (a)urî aghe (Nuovo Pirona): la congruenza lessicale veneto-friulana conferma il carattere autenticamente popolare della locuzione. Segnalo che il sintagma (h)aurire l’aqua ricorre più volte nei Quatro Evangelii concordati in uno del veneziano Jacopo Gradenigo (ovi Gattoweb). 2 E così Ruzzante, La Piovana, a. ii, sc. 8 (Zorzi 1967, p. 929): [Daldura] «A’ he trato st’acqua pì ontiera, che se aesse trato vin: el pozo no me ha paresto sì fondivo, la soga me ha paresto molesina, el segielo leziero». 3 Il passo evangelico della mulier Samaritana è citato da Brugnolo 1986, p. 48, nota 25bis. Per il costrutto, già nella lingua antica è documentato ‘attingere a’ accanto a ‘attingere da’ (per es. andare ad attingere ad una fonte, nel volgarizzamento fiorentino della prima Deca di Tito Livio: ovi Gattoweb).

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propter nimiam elongationem ab aëre […]. Item aqua putealis frequenter corruptionem contrahit, quando non movetur, & ideo ut depuretur & subtilietur, necesse habet ut saepius moveatur & hauriatur. Acqua de puço spreçase, saçello certamente, cha paragiar no potese a fontana corrente. E nota che gli antichi per santade usavano di bere acque di fontane menate per condotti, perché erano più sottili e più sane che quelle de’ pozzi, però che pochi, o quasi pochissimi, beveano vino, ma i più acqua di condotto, ma non di pozzo.1

Ne risulterebbe ancor più caratterizzata la «squallida dieta» di Guercio (Lazzerini 2006, p. 74): l’aqua putealis sarebbe una bevanda ben assortita al paniço di chi, nella sua miseria, pensa che il non plus ultra della raffinatezza sia un pranzo a base di folege e mesolto. E torniamo ora alla verigola, per segnalare prima di tutto che in veneziano questo termine non designa soltanto il maneggevole arnese del falegname e del fabbro, ma anche la trivella di grandi dimensioni con cui si perfora la terra. Ce ne avverte Marin Sanudo in un passo dei suoi Diari (agosto 1513):2 In questi zorni è stà mandato a Padoa, tra le altre cosse di l’Arsenal, do verigole fate far novamente per ordine dil capitanio zeneral nostro, acciò, venendo i nimici con cave subterranee, come dicono voler far, se li possi a l’incontro far busi e disfar li soi disegni.

Ne consegue che non c’è la n e c e s s i t à d’intendere l’espressione urir aqua cum verigola come un assurdo o un adynaton: la verigola può essere la trivella con cui si scavano pozzi di piccola sezione fino a raggiungere la falda freatica. Devo confessare, però, che l’interpretazione della Corti continua a parermi degna di considerazione: vediamo allora se c’è un modo per lasciar da parte succhielli, trivelle e cocchiumatoi. Una volta sgombrato il campo dagli erronei rinvii a Boerio 1856 e a Mussafia 1873, p. 119, che per verigola registrano soltanto il significato di ‘succhiello’, ‘trivella’,3 il filologo dovrebbe star contento al quia, dato che verigola ‘argano’ Ôé ÎÂÖÙ·È. Ma trasgredisco l’aurea regola e tento di accreditare la glossa della Corti con argomenti linguistici, di natura comparatistica e ricostruttiva, postulando un lemma *verigola2 ‘argano’, ‘carrucola’ accanto all’altrimenti attestato verigola1 ‘succhiello’, ‘trivella’, sul fondamento degli omoradicali it. verrocchio, verricello e tosc. ant. verrucola ‘carrucola’ («It. per la verrucola del pozzo s. X»: a. 1289, in Casalini 1998, p. 263; verrucolato ‘sollevato da terra con la carrucola’ è nel sonetto di Cecco Angiolieri Qualunqu’om vuol purgar le sue peccata, v. 14).4 1 Le citazioni provengono rispettivamente dal De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, xiii, 1 (secondo la stampa di Francoforte, apud Wolfgangum Richterum, 1601); dal Regimen sanitatis napoletano, vv. 493-494 (Mussafia 1884, p. 577); dalla Nuova cronica di Giovanni Villani, ii, 1, 38-43 (ed. Porta 19901991, i, pp. 60-61); un’interessante panoramica delle opinioni antiche e ‘moderne’ sulla varia qualità delle acque potabili si trova nell’Architettura di Leon Battista Alberti, x, 6 (ho sotto mano la traduzione di Bartoli 1565, pp. 370-75). Per altre simili testimonianze vedi Verdon 2005, p. 23. 2 Sanudo 1887, col. 584 (citato, con qualche refuso, nel gdli, s.v. verigola). Il passo del Sanudo conferma che l’Arsenale veneziano tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento era diventato un «complesso tanto navale quanto armamentarium» (Concina 1984, p. 84), dove una variegata schiera di artigiani e operai produceva tutto il necessario all’attività bellica sia navale che terrestre. 3 Le glosse tedesche – negber e nabigar – dei vocabolari studiati dal Mussafia e poi da Rossebastiano Bart 1983, valgono appunto ‘Bohrer’, ‘Holzbohrer’: vedi Giustiniani 1987, p. 134 (nota al lemma 976a del Vochabuolista di Adam von Rottweil). 4 Dall’equivalenza semantica, e dalla prossimità fonico-ritmica, di verrucola a carrucola discende l’equivoco tra Ligurio e Nicia nella Mandragola, a. i, sc. 2: Stoppelli 2005, pp. 123-26.

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Questa (ri)proposta esegetica ci riporta al verbo montis, che ha un significato tanto proprio in riferimento alle attività dello struolego. Ma può esso riferirsi proprie anche all’operazione di chi attinge acqua da un pozzo? Sì, perché il puteale poggia spesso su un basamento rialzato da terra e vi si accede salendo uno o più gradini: «les puits italiens présentent communément, dans les images comme dans la réalité, une série de trois à quatre degrés qui le surélèvent notablement dans le paysage urbain» (Alexandre-Bidon 1992, p. 540). Ognuno ha in mente, «dans la réalité», le bellissime vere da pozzo, poste su basamenti più o meno alti, che s’incontrano nei campi, campielli e cortili di Venezia o il monumentale pozzo di piazza della Cisterna a San Gimignano (allegato dalla Alexandre-Bidon 1992, tav. xvia);1 ma forse ancor più interessanti sono per noi «les images» dell’iconografia medievale: come il pozzo a tre gradini da cui si affaccia uno stralunato Andreuccio in un Decameron fiorentino del 1427 (Alexandre-Bidon 1992, tav. xv), i puteali rialzati che illustrano alcuni episodi veterotestamentari nella Bibbia istoriata padovana (tavv. 25, 26, 29, 31, 36, 70 di Folena, Mellini 1962), l’alto gradino per mezzo del quale si accede a un pozzo completo di carrucola, gancio e secchio disegnato nel ms. xiii C 37 della Biblioteca Nazionale di Napoli, c. 64v;2 l’elemento figurativo del pozzo su basamento a gradini si può poi rintracciare agevolmente nella storia della pittura italiana dal Medioevo al Rinascimento (e oltre), in particolare in opere a soggetto biblico, come l’incontro di Cristo con la Samaritana: si vedano per es. l’affresco della basilica di Sant’Angelo in Formis (puteale a due gradini, sul primo dei quali la donna, in atto di salire, sta per poggiare il piede destro), la predella della Maestà di Duccio di Buoninsegna (ora a Madrid), o il celebre dipinto di Annibale Carracci (a Brera), dove invece la Samaritana è ritratta mentre sta scendendo dai gradini del pozzo. Se la nostra ipotesi interpretativa cogliesse nel segno, ser Giannino giocherebbe dunque, approfittando del momento di sospensione del senso imposto dalla fine del verso, sull’ambiguità di quel montis, verbo ancipite correlato regressivamente a struolego e progressivamente a urir aqua: ‘Guercio, che (razza di) astrologo sei, che sali [non per osservare le stelle o vendere i tuoi pronostici, ma] per attingere acqua con la carrucola da un pozzo!’. 6. Altre noterelle V 3 Pesse tristo. Nello Bertoletti mi segnala che l’ingiuria del Venetus (‘pesce andato a male’, pesse straco in veneto moderno) è documentata a Verona in funzione antroponimica – «nomenagia» di un singolo estesa al gruppo familiare – nella seconda metà del xii secolo: Zeno Piscis Putridus (a. 1158), in presencia […] Bonifacii Pissis Putridi (a. 1166).3 P 5 o’-t è. La lezione del manoscritto può essere difesa pensando a un’estensione, forse solo grafica, della t di et + vocale, che occorre nello stesso verso, intesa come un indicatore di iato: un tale uso si potrebbe allora confrontare con i ben noti sed, set ‘se’ (congiunzione ipotetica) + vocale dell’italiano antico, analogici appunto su ed, et ovvero ched + vocale; a questo proposito si noti che in tutta la tenzone si ha e davanti a consonante, secondo l’uso generale di ‚, che alterna regolarmente e + consonante a et + vocale. 1 Per Venezia, si vedano le fotografie e le schede dei pozzi censiti in Rizzi 1981; per esempi italiani di puteali rialzati d’epoca medievale v. il corredo fotografico ad illustrazione della voce ‘pozzo’ dell’ei. 2 La vignetta, che illustra la strofa sull’acqua de puço, rappresenta una figura umana seduta, con la mano destra sul ventre e la sinistra che regge il capo dolente, accanto a un pozzo con puteale di mattoni, carrucola, gancio e secchio, a cui si accede tramite un alto scalino a forma di parallelepipedo. 3 Il primo esempio è in una pergamena dell’Archivio Segreto Vaticano, Fondo Veneto, i, nº 7020 (trascrizione di Antonio Ciaralli), il secondo in Lanza 2006, p. 71 (doc. 39).

tenzone tridialettale del cod. colombino di nicolò de ’ rossi 63 P 7 e· i guagnieli! (= en i g., letter. ‘nei vangeli’). Questa lezione (e vedi già Elsheikh 1973, che stampa êi g.) mi pare poco verosimile, sia sotto il rispetto della fraseologia (di norma questa ed altre espressioni esclamative si costruiscono con la preposizione a), sia per l’aspetto morfologico (in padovano antico ci attenderemmo en gi o en li, da cui semmai e· gi, e· li, mentre en i è rarissimo),1 sia per l’improbabile risoluzione fonosintattica postulata (la -n può assimilarsi a una consonante seguente, ma non dileguare innanzi a vocale). Mi sembra dunque preferibile la soluzione di Lazzerini 2006 (e già Lazzerini 1991, p. 471, dove si rilevano nel «paduanus Guercio […] numerosi tratti caratteristici del villico pavano (compresi i tic verbali come l’esclamazione [a]i guagnieli)»), da riproporre anche in T 13. Corti 1966, p. 140, stampa «i guagnieli», da intendersi come una sorta di nominativo o accusativo esclamativo, soluzione che non mi sembra del tutto da rigettare. P 9 merçaro. Il merçarius (merçerius, merçator), com’è noto, non s’identifica tout court con il mercator: l’arte minore merçariorum costituisce una sorta di sottoinsieme, dai confini non sempre ben precisabili sulla base della spesso reticente documentazione medievale, dell’arte maggiore mercatorum. Statuti, atti notarili, inventari sono però concordi nel rappresentare la figura del merçarius come quella di un commerciante al dettaglio, ambulante o con stabile bottega, specializzato nella vendita di accessori d’abbigliamento come guanti, calze, cappelli, berretti, cuffie, cinture, scarselle, borse, nastri, bottoni ecc.;2 altre merci caratteristiche trattate dal merçarius, quasi sempre enumerate per prime nei capitoli statutari che elencano i manufatti commerciati dall’arte, sono i drappi e i filati di seta, o di seta mista ad oro e argento. Una studiosa dell’abbigliamento medievale ha potuto quindi affermare che «esistevano […] anche in una stessa città e nello stesso periodo diversi tipi di botteghe genericamente definibili di merceria, tutte frequentemente visitate da quanti amavano vestire lussuosamente o alla moda» (Muzzarelli 1999, p. 245). Il cap. 36 dello Statuto della fratalea merzariorum de Padua, volgarizzato nel 1395 e conservato (certo con molte aggiunte posteriori) in un ms. del xviii secolo (Padova, Biblioteca Civica, BP 1475), elenca «le merze apartenente alla fraternita dei merzari» e così comincia (c. 8r): Prima panno de ogni sorte e drapo de seda de ogni sorte e de filexeli e struxa3 de ogni sorte de drapo, como co oro e arzento e senza oro e senza arzento.

Il Capitolare veneziano dei merciai riformato dalla Giustizia Vecchia il 2 dicembre 1271, al capo secondo, recita: Item, quod quilibet merçator possit et debeat vendere omnem setam et omne opus sete et omne opus contrafactum, aurum, grisolimam [‘filo d’oro’], planettas, panos de altari, cruces, conphalones, bendas, bireta et infullas ac omnia alia ad artem merçarie spectantia, tam in voltis quam in stationibus, recte et legaliter sicut erunt et unde erunt, ad nomen cuiuscumque ipsarum rerum, novum pro novo et vetus pro vetere, nec audeat vel presummat in rebus ipsis aliquam fraudem conmittere nec una res [sic] pro altera vendere.4 1 Formentin 2002a, pp. 9-12: due soli esempi di en i davanti a parola iniziante per consonante, contro centinaia di esempi di en/in gi e en/in li (da stralciare le 4 occorrenze di en i davanti a vocale del Fiore di virtù padovano, che hanno ragioni particolari). 2 Tra le trattazioni più recenti vedi Muzzarelli 1999, pp. 238-45, e Lori Sanfilippo 2001, pp. 310-19. 3 Il termine indica gli scarti della trattura coi quali si facevano appunto i filexeli ‘filaticci di seta’, cioè una seta di qualità scadente utilizzata soprattutto per la produzione di passamanerie, arazzi e tappezzerie (Demo 2001, p. 212); per gli strosi o strusi nei Capitolari veneziani v. Monticolo 1905, p. 33, nota 3, e Sella 1944, p. 559. 4 Monticolo 1905, pp. 308-9.

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È quindi possibile che il termine merçaro impiegato da Guercio sia stato scelto proprio in controcanto al consiglio di Giannino di vestirsi «ad oro» e ad essere «conparisente» (secondo l’adagio: chi vuol guadagnare deve prima spendere). P 10 sengiente mese. Nessun problema per il continuatore di si˘ ngulus (+ -ente) alla luce della documentazione antica e moderna allegata da Brugnolo 1986, p. 62, a cui ora si aggiunge la scheda di Bertoletti 2005, pp. 504-5 (e da ultimo Gambino 2007, p. 435, s.v. senglent). Finora non sono stati però indicati esempi padovani. Segnalo allora che l’aggettivo è documentato anche a Padova, nello Statuto della fraglia dei marangoni, trascritto in una gotica di fine Trecento (ms. BP 899 della Biblioteca Civica di Padova): cum segnente cyrei in mano ‘con in mano un cero per uno’ (c. 12v 5). Si osservi nei due esempi la diversa risoluzione del nesso -ng(u)l-, dato che le due grafie ngi e gn verosimilmente indicano suoni differenti (le moderne attestazioni settentrionali oscillano infatti tra [ ɲ] e [ndȝ]). L’ormai invalsa parafrasi ‘ogni mese’ (Corti, Elsheikh, Brugnolo, Lazzerini)1 non deve nascondere al lettore meno provveduto che si tratta con ogni probabilità di plurali (per la desinenza -e e l’assenza di metafonesi nei maschili plurali della iii declinazione in padovano antico – del tipo el pesse/li pesse – vedi Formentin 2002b, p. 112). P 12 Me’ manderè per (Brugnolo, letter. ‘meglio manderò per’), M’e’ manderè per (Lazzerini, ‘ma io ecc.’). Le parafrasi proposte dai due studiosi – ‘Ma per questo chiederò piuttosto l’intervento [o: il parere] di’, ‘Intanto manderò a dire a’ – deflettono entrambe dal valore consueto che la locuzione mandare per qualcuno ha in italiano antico (‘far venire’, lat. arcessere): segno, forse, che si è avvertita una certa sconvenienza dell’espressione rispetto al contesto. Infatti tale locuzione, sebbene sia certo passibile di un uso neutro, per lo più presuppone (proprio come l’equivalente espressione moderna) che sia il più autorevole (il più potente, il più ricco ecc.) che manda per il meno autorevole (il meno potente, il meno ricco ecc.): «Lo rex de söa terra manda per quest segnor» (Bonvesin da la Riva); «Or è quegli libero, a cui la femmina signoreggia e legge pone, ordina, comanda e vieta come le pare? colui che niuna cosa al suo comandamento negare può, niuna cosa comandata ardisce di rifiutare? ella dimanda, dar si conviene; manda per lui, venir si conviene» (Bartolomeo da San Concordio); «lo re Costo […] manda per li baron» (Santa Caterina veronese); «De andare a miser lo doxe quando ello manderà per mi» (Capitolari veneziani); «guardando [la donna] se alcun fanciullo quivi con le bestie s’accostasse cui essa potesse mandare per la sua fante» (Decam., viii, 7, 75, ed. Branca 1992). Alla luce di esempi come questi, in cui la locuzione ha il suo valore «prototipico» (come direbbero i linguisti), risalta la relativa inadeguatezza dell’espressione di Guercio secondo il testo vulgato: un oscuro e miserabile poetucolo che manda per i due potentissimi padovani Enrico Scrovegni e Giacomo da Carrara, di cui sono piene le storie, è poco verosimile (né il rovesciamento, per così dire, dei ruoli appare giustificato da qualche fine o gioco espressivo). Per questo preferirei leggere, con distinctio diversa, M’e’ m’anderè per ‘ma io andrò a cercare’ (tlio, s.v. andare, 3.1: andare per qualcuno ‘andare a cercare qualcuno nel luogo in cui se ne conosce la presenza’), con l’uso del riflessivo, come nell’«Ella si va» dantesco, con cui condividerebbe la «portata ‘media’ o ‘deponente’», cioè l’espressione, che pare adeguata al contesto del Paduanus, di un’«azione riflessa sul soggetto»: Contini 1947 (1970), p. 162. In tal modo, si noti, P esibirebbe una sorta di poliptoto verbale complicato dalla mutazione della radice: e’ vo 6 (< vadere), çirave 11 (< *jire), e’ m’anderè 12. 1 Propriamente che me possa vestir sengiente mese ‘che io possa cambiare un vestito al mese’.

tenzone tridialettale del cod. colombino di nicolò de ’ rossi 65 P 14 Oý ‘udite’ (Elsheikh, Brugnolo),1 inteso come «ripresa dell’or oldi del sonetto veneziano, v. 13» (Brugnolo 1983, p. 371). Per la 2ª pers. plur. dell’imperativo di ‘udire’ ci attenderemmo in padovano antico aldì, oldì con la ben nota, e caratteristica, risoluzione del dittongo au innanzi a dentale (come in galdere, laldare); in questo lessema il dileguo della dentale, successivo al monottongamento di au in o, sembra piuttosto un tratto veronese (Bertoletti 2005, p. 60). Vedo poi una difficoltà d’ordine prosodico ad intendere Oý ‘udite!’, e cioè il valore monosillabico della forma, che vale appunto per una sola sillaba nelle edizioni Elsheikh e Brugnolo, in cui la dieresi in caso di iato è sempre regolarmente indicata; un Oý imperativo infatti (< audite) dovrebbe contare, mi pare, per due sillabe. Preferisco dunque pensare (ancora con la Corti) a un’interiezione.2 T 5 An calo mi noela: che senpremay, ecc. Il manoscritto legge novela, corretto in noela già dalla Corti per ovviare all’ipermetria. Di fronte alla durezza prosodica di un noela bisillabo, analoga a quella appena discussa per il presunto Oý imperativo di P 14 (e il rilievo è proprio di Brugnolo 1983, p. 377, nota 26, che parla a ragione di «una inconsueta sineresi in noela»),3 mi chiedo se non si possa tentare un’altra strada, cioè l’espunzione del che dichiarativo, pensando a una facile interpolazione adibita a sciogliere l’asindeto, ad esplicitare la relazione sintattica. Quindi: An calo mi novela: senpremay, ecc. Quanto poi alla possibilità d’intendere mi come aggettivo possessivo femminile (Corti, che allega il commento del Salvioni alle Rime del Cavassico) e non come pronome soggetto (Brugnolo 1986, p. 45), segnalo che mi ‘mia’, anteposto al sostantivo, è attestato nella tradizione della cosiddetta egloga maggiore di Paolo da Castello, documento fondamentale del trevisano cinquecentesco: della mi mort, p(er) mi pegrisia ha infatti il ms. 91 della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova, in corrispondenza dei versi 92 e 258 dell’ed. Salvioni 1902-1905 (2008). Lucia Bertolini mi fa poi notare che la novela, il ‘(solenne) annuncio’, di Liberale ha corrispondenza nelle altre due ‘novelle’ riferite rispettivamente da Çuanino (V 13-14) e da Verço (P 14), ammonimenti o avvertimenti indirizzati a un interlocutore, sicché si potrebbe pensare di mettere in rilievo una tale intenzione allocutiva con una diversa interpunzione dei tre passi: Or oldi: «No ti sgumentar nïente, cha, par Dïo!, nu averemo la tera» «Oy ça, – eo digo – dî star a le poste!» An calo mi novela: «Senpremay quist Padeguai e Venèdes caus’ à en un!»

7. Tarvisinus 12 Il manoscritto legge (trascrizione di tipo diplomatico): noi seron tre diepo sig sera pur doy (ipermetro). Da rilevare, prima di tutto, che il manoscritto distingue appunto diepo sig, come indica Corti 1966, p. 142, in una nota in cui la studiosa propone anche un’ipotesi circa la genesi dell’errore e una soluzione editoriale che sono state poi sostanzialmente accolte, salvo individuali puntualizzazioni interpretative, dai successivi editori: «Ms.: diepo sig. La s, da espungersi per ragioni metriche, pare generata da un diepos [si tratterebbe cioè della -s di un de pos(t)]. Su diepo ‘dopo che, mentre che’ con cong[iunzio1 Lazzerini 2006, p. 84, stampa «Oy ça, eo digo» e parafrasa ‘Ehi, ascoltatemi, dico’. 2 Qualche dubbio su Oý ‘udite!’ esprime anche Milani 1997, p. 19 («ma potrebbe anche essere una forma esclamativa»). 3 Minor difficoltà farebbe l’accento di 5ª, alla luce di T 3 e 7.

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ne] sottintesa cfr. Cavass[ico], p. 349». A proposito di quest’ultima annotazione, è opportuno precisare che: 1. non esiste alcuna forma diepo nelle Rime del Cavassico (Cian, Salvioni 1893-1894): nel luogo citato del commento il Salvioni nota semplicemente che «tace di spesso la congiunzione che», registrando tra gli esempi di ellissi (o di assenza) del che il verso daspò tu te partì ‘dopo che tu te ne andasti’; 2. diepo ovvero depo, dipo, dopo, dapò, despò, daspò (che) nel senso di ‘mentre (che)’, temporale o avversativo, è un desideratum.1 Bisognerà infine sottolineare la singolarità, sotto il rispetto formale, del supposto diepo < de po˘st, una singolarità che sta non tanto nel suo isolamento entro il corpus ovi, quanto nella presenza di un dittongo anomalo, in corrispondenza di una e, non sappiamo neppure se originariamente accentata. Il difficoltoso passo del Tarvisinus mi è tornato alla memoria rileggendo qualche tempo fa un componimento del notaio bellunese Bartolomeo Cavassico, in cui un villano del contado, a nome dell’intera sua comunità («tuquent noi da Cirvoi»), si presenta insieme a due compagni innanzi a una «brigada» di Bellunesi («voi da Cividà»), accompagnando ai doni («v’èi portà na zongiada|da magnar») i lamenti per le misere condizioni di vita dei villani, aggravate dalle pesanti angherie imposte al contado dalla città. Si tratta dei vv. 17-20 del nº xxxvi delle Rime (Cian, Salvioni 1893-1894, ii, p. 102):2 Seon mo tre parent che tuti ve voi dir ch’a la polenta e gir seon por doi.

Il Cian interpreta così i vv. 18-20: «siamo tutti tali che ciascuno di noi, a mangiar polenta e ghiri, vale per due» (p. 288); ma è contraddetto, come spesso succede in questa edizione condotta a quattro mani e in tempi diversi, dal Salvioni: «20. l[eggi] pordoi e interpreta: ‘prodi, valenti’ (a mangiar polenta e ghiro)» (p. 411). Il Cian quindi distingue por doi, intendendo il secondo elemento come il numerale ‘due’ (regolarmente non metafonetico al maschile nelle varietà venete settentrionali), in evidente correlazione col precedente tre. Il Salvioni invece pensa ad un’unica parola, pordói plurale di pordón ‘produomo’ (per le due forme, singolare e plurale, vedi Salvioni 1894, pp. 318 e 328, e il glossario, s.v. pordon; una tale desinenza di plurale esibisce il caratteristico fenomeno trevisano-bellunese -oi < -óni, come in boi < bóni < bo˘ni di T 4).3 Orbene, ha ragione il Cian o il Salvioni? Credo entrambi, con l’avvertenza che la traduzione-parafrasi del Cian ha bisogno di un ritocco. Intenderei dunque:4 1. ‘Siamo tre compagni, ma vi voglio dire che fra tutti a mangiar polenta e ghiro siamo soltanto due’ (Cian riveduto);5 2. ‘Siamo tre compagni e vi voglio dire che tutti siamo valentuomini a mangiar polenta e ghiro’ (Salvioni). 1 Ciò vale anche, s’intende, per le analoghe glosse di Brugnolo 1986, p. 45, che propone di dare a diepo «un valore avversativo simile a quello del veneziano e pavano ampò ‘tuttavia, nondimeno, eppure’ (ess. [di ampò] in Paolino Minorita, nella Cronica deli imperadori, e poi più volte in Ruzzante), quindi ‘mentre, e invece, però’». 2 Note esplicative: seon ‘siamo’; parent ‘amici’, ‘compagni’; voi ‘voglio’; gir ‘ghiro’ (o ‘ghiri’). 3 La forma pordon è largamente documentata nei testi pavani e in Ruzzante. Il lemma, che è probabilmente un francesismo, è attestato in italiano fin dal Duecento (Guittone). 4 Quanto al mo, qui è l’avverbio che vale ‘ora’, ‘dunque’ e che «è spesso adoperato con senso vago o come pleonasmo» (Salvioni 1894, p. 380). 5 Intendendo por come equivalente al fonicamente affine pur, non a per, come sembra abbia inteso il Cian (l’affinità fonica tra por e pur sta nel fatto che entrambi presentano vocali caratterizzate dal tratto [+ arrotondato]; né occorre ricordare quanto frequenti siano nei testi antichi, non solo veneti, le oscillazioni e gli scambi tra o e u in protonia, certo facilitati proprio da una tale affinità fonica).

tenzone tridialettale del cod. colombino di nicolò de ’ rossi 67 Hanno ragione entrambi, dicevamo, ma entrambi hanno anche torto. Hanno torto perché le loro rispettive interpretazioni, prese singolarmente, sono parziali e dunque, in una certa misura, false; ma diventano vere se si sovrappongono l’una all’altra, come avviene per le due diverse immagini impresse in certe cartoline, che sono alternatamente visibili al variare del nostro punto di vista. È evidente, infatti, che il Cavassico ha cercato un effetto umoristico per mezzo di un calembour, complicato dal frangimento dell’unità lessicale: la tecnica verbale è affine a quella dell’«equivocus compositus», per usare la formula di Antonio da Tempo, tanto cara a Guittone e ai guittoniani, esemplificabile con molte coppie rimiche del Detto d’Amore (servire : serv’ire, man tenga : mantenga ecc.).1 Sennonché nel nostro caso l’equivoco, invece di rivelarsi lungo l’asse sintagmatico (cioè in praesentia dei termini equivoci, che per es. possono rimare tra loro), agisce a livello paradigmatico (in absentia), dal momento che, se si ‘sceglie’ uno dei due termini (pordoi ‘produomini’), si ‘esclude’ automaticamente l’altro (por doi ‘pur due’): fatta salva naturalmente la reversibilità della scelta, che anzi è parte integrante del gioco verbale.2 Ne consegue un vero e proprio sdoppiamento testuale, nel senso che il testo è differente a seconda della ‘scelta’ compiuta dal lettore. Quanto alla tecnica propriamente retorica, l’aequivocum ottiene il ridiculum azionando uno scambio che devia il discorso in una direzione imprevista, che si rivela ben presto sbagliata: il conseguente straniamento assicura l’effetto comico.3 Nella fattispecie, mentre la direzione naturale del discorso esige che si legga e s’intenda pordoi ‘produomini’ (nel senso traslato di ‘buone forchette’, ‘grandi mangiatori’), quel tre che nella lingua spesso ricorre associato al due – dagli evangelici «duo vel tres», «tres in duo et duo in tres» fino alle odierne locutions figées del tipo ‘non c’è due senza tre’, ‘tre per due’, ecc. –4 aziona lo scambio, predisponendo di fatto il lettore ad intendere por doi ‘pur due’, lezione che produce il «controsenso» necessario a far sprizzare la scintilla comica. Lo stesso materiale, diciamo così, numerico e una tecnica verbale analoga a quella usata dal Cavassico sono impiegati nel calembour che incontriamo all’inizio della Prima oratione di Ruzzante, dove il gioco si fa scoperto:5 Né gnian guardè che aóm vogiù mandare un preve, né uno de quigi da le çenture insofranè, che favela per gramego o in avogaro fiorentinesco, de quigi, saìu, che se ciama dotore, perché, se gi è igi do-tore, a’ ghe son mi tre de le tore.

1 Un tale artificio continua più o meno stancamente nella poesia trecentesca: per Nicolò de’ Rossi, che rima chiama con chi ama, vedi Brugnolo 1977, pp. 294-95. 2 Potremmo anzi dire che un aequivocum come il nostro agisce doppiamente sul piano paradigmatico, perché al processo di selezione appena illustrato si somma la messa in rilievo dei rapporti associativi inerente a tutti i giochi di parole («carta canta», «last but not least», ecc.). 3 Straniamento che si realizza per lo più sotto forma di «controsenso», cioè di una interpretazione ‘falsa’ che si contrappone alla corrente logica del discorso, alla sua direzione naturale. Molière, Les femmes savantes, a. ii, sc. 6: martine «Mon Dieu! je n’avons pas étugué comme vous,|Et je parlons tout droit comme on parle cheux nous»|[…] belise «Ton esprit, je l’avoue, est bien matériel.|‘Je’ n’est qu’un singulier, ‘avons’ est pluriel.|Veux-tu toute ta vie offenser la grammaire?»|Martine «Qui parle d’offenser grand’mère ni grand-père?»|[…] Bélise «‘Grammaire’ est prise à contre-sens par toi […]». 4 Per l’associazione tre-due vedi anche il verso 11 del son. Agl’altri mali del de’ Rossi (Brugnolo 1974, p. 111): «che sono tre pedone e dui arfili» ‘tre fanti e due alfieri’ (= sono pochissimi). 5 Zorzi 1967, p. 1185 (e si veda la nota 7 alle pp. 1555-56). Per un altro gioco verbale con materiale numerico (quattro, tre, due, tre, dieci) si veda il finale della Vaccària, a. v, sc. 8, dove tra l’altro si legge: Vezzo «N’hetu fato mè ti solo tanto con se a’ foesse stò du?» Truffo «Sì, an per tri, quando ’l magna» (Zorzi 1967, pp. 1175-77).

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Quindi, scontata l’intraducibilità – se nella traduzione si vuole rimanere aderenti alla lettera – di tali giochi di parole: ‘di quelli, sapete, che si chiamano dottori, perché, se essi sono due-torri, io sono tre delle torri’. È tempo di concludere. Io ritengo che nel Tarvisinus si debba leggere: Noi serón tre […], s’ig serà por-doy (o pur-doy)

dove il trattino è un espediente per indicare l’ambiguità intenzionale del testo, l’immanenza della duplice lezione pordoy ‘prodi’, ‘valenti’ e por doy ‘pur due’, ‘solo due’: 1. ‘Noi saremo tre, se loro (i nemici) saranno prodi’; 2. ‘Noi saremo tre, se loro (i nemici) saranno soltanto due’.1 E s’intende che ciascuna delle due lezioni, presa per sé, ha una verità solo parziale, che diventa completa e autentica (cioè corrispondente alla volontà dell’autore) se sovrapponiamo l’una all’altra. Un primo, evidente vantaggio della soluzione proposta si misura sul piano sintattico, considerata la naturalezza assoluta del s(e) condizionale, di contro alla problematica macchinosità del costrutto introdotto dalla presunta congiunzione subordinante diepo (che): un semplice periodo ipotetico, proprio come nel passo della Prima oratione (e si noti, per il rispetto grafico, che il manoscritto al nostro verso ha sig esattamente come al v. 8 del Paduanus: sig aoglase). Ancora, al testo 1 (pordoy/purdoy ‘prodi’) non si può rivolgere l’accusa d’incongruenza mossa dal Brugnolo, il quale si riferisce naturalmente a un testo di tipo 2: Qui [scil., nella terzina finale di T] il rimatore parla di due personaggi ‘grandi’ [= tamagn T 13] come degli avversari che i tre poeti dovranno affrontare e abbattere, una volta in campo aperto (l’ost di cui finora si è parlato). Di chi si tratta? Evidentemente di Enrico Scrovegni e Giacomo da Carrara [così già Corti 1966, p. 135], chiamati sì in causa – e a ragion veduta – da Guercio, ma solo come i principali responsabili della politica padovana, non certo come due belligeranti e meno che meno come i responsabili o i protagonisti della guerra. E invece la ‘risposta’ di Liberale suona: «Andiamo al campo di battaglia! Anche se dovremo affrontare Enrico Scrovegni e Giacomo da Carrara, saremo tre contro due, ecc.». Una ‘risposta’ senza senso, se riferita al contesto dei due sonetti precedenti, in cui si parla essenzialmente delle speranze di vittoria dei veneziani e dell’incertezza dei padovani…2

Conseguentemente, ne risulta assai indebolita l’ipotesi di un’‘aggiunta’ seriore di T a V e P (e del recupero in extremis di Nicolò de’ Rossi come autore del Tarvisinus), dedotta da una tale incongruenza: Ora, io non credo possibile – anche tenendo conto della convenzionale riduzione in chiave burlesca di un evento grave – che nel 1308-9 un rimatore veneto potesse ignorare a tal punto i fatti politico-militari di attualità da uscire in un’affermazione così incongrua, che non solo travisa i termini della tenzone tra Zanino e Guercio (e i versi di quest’ultimo in particolare), ma addirittura trasforma la guerra di Ferrara in un grottesco conflitto privato fra i tre rimatori e i due magnati padovani. L’impressione è che il nostro Liberal tiri semplicemente a indovinare, nello 1 Quanto all’aspetto formale, notiamo che anche pur-doy è lezione ammissibile, assumendo come originale la vocale propria dell’avverbio e non del sostantivo, come accade invece nel verso del Cavassico: ma pur per por potrebbe essere anche responsabilità di un copista, che avesse ‘scelto’ d’intendere ‘pur due’, adottando di conseguenza la forma normale dell’avverbio. Noto poi che un’alternanza tra o e u nel lessema ‘produomo’ è documentata nella tradizione dell’egloga maggiore di Paolo da Castello, al v. 590 ed. Salvioni 1902-1905 (2008): pro d’hom B (così diviso nel ms. Buzzati, ed è scrittura notevole, perché rivela un’analisi che avrà incentivato il gioco verbale), prudhom P (= ms. 91 della Biblioteca del Seminario di Padova). 2 Brugnolo 1986, p. 76.

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sforzo di estrarre dai due sonetti precedenti – da essi soli, e non dalla circostanza che li ispira – qualche spunto utile a imbastire la sua scherzosa replica […]. Tutto ciò, a mio parere, trova adeguata spiegazione e giustificazione solo se si ammette che il sonetto sia stato composto più tardi, sia stato cioè ‘aggiunto’ alla preesistente tenzone in un’epoca in cui la guerra di Ferrara, con i suoi episodi e i suoi protagonisti, era solo un lontano ricordo, non più di attualità.1

Mettiamo in rilievo, infine, un’altra ricaduta esegetica positiva della lezione 1: pordoy/ purdoy viene infatti a correlarsi al successivo tamagn e lo giustifica in termini di variatio lessicale (per la seconda parte del v. 13 ’l me no serà tamagn, mi attengo all’interpretazione di Corti 1966, p. 142: «’l: pronome impersonale el [espletivo], come in che ’l non fosse tajadi … daspò che ’l fosse destruti [esempi tratti dalla veneziana Cronica deli imperadori] - me [= mè]: ‘mai’ - serà tamagn: ‘saranno tanto grandi’»).2 Quanto alla lezione 2, ora l’incongruenza logico-contestuale dei ‘tre contro due’ – siano quest’ultimi o piuttosto non siano da identificare con l’Enrico e il Giacomo del Paduanus – appare espressivamente motivata e inserita addirittura in una tradizione: è chiaro infatti che (come nel componimento del Cavassico) i doy qui ci stanno a pigione, al fine di realizzare un equivoco spiritoso, che, se vuole riuscire tale, deve dar luogo a un controsenso, come accade appunto nel caso dei tre compagni che si riducono a due quando si tratta di mangiar polenta e ghiro, ovvero nel caso delle assurde ‘due torri’ spuntate fuori dai dotore della Prima oratione, alle quali Ruzzante contrappone le sue ‘tre torri’, non meno assurde, ma numericamente vincenti, espresse per di più forzando la sintassi (‘io sono tre’: ‘je’ n’est qu’un singulier, et ‘trois’ est pluriel, verrebbe da dire parafrasando la femme savante di Molière).3 Bisogna ancora però (non me ne dimentico) ridurre l’ipermetria. A questo punto, a dire il vero, non è che rimanga molta scelta: nel primo emistichio Noi serón tre non si può togliere nulla (l’espressione del soggetto pronominale è resa necessaria dalla contrapposizione Noi - ig); nel secondo, una volta riconosciuta l’autenticità del s(e) condizionale, copula e predicato (por-doy/pur-doy) diventano intoccabili. È presumibile, dunque, che il guasto vada localizzato all’altezza dell’effettivamente inaudito diepo. Senza pretendere di offrire un emendamento del tutto soddisfacente, propongo di espungere la seconda sillaba, ottenendo dunque Noi serón tre, diè!, s’ig serà por-doy, con diè interiezione. Il dittongo non porrebbe, in questo caso, problemi etimologici ed avrebbe riscontro interno nel sier di T 1 ed esterno nel frequentissimo diè/Diè pavano;4 l’interiezione riuscirebbe inoltre bene assortita allo stile del sonetto, in cui abbondano le 1 Brugnolo 1986, pp. 76-77. Accoglie la tesi del «grottesco qui pro quo» Lazzerini 2006, pp. 79-80, spiegandolo però non come un indizio di sfasatura temporale nella composizione di T rispetto a V e P, bensì come un «finto equivoco», che farebbe parte del gioco: «Tuttavia, se riconosciamo nella dominante ludica la cifra stilistica della tenzone, il clamoroso abbaglio del Tarvisinus può esser voluto, degna conclusione di un gioco che già mette in scena […] ‘tipi’ – o, appunto, protomaschere – da commedia pluridialettale in nuce» (p. 79). 2 Non avrebbe più ragion d’essere, quindi, la critica espressa da Brugnolo 1986, p. 64: «tamagn […] riprende signori e graendi dei due precedenti sonetti [osservazione condivisibile, da estendere, secondo la nostra proposta testuale, anche a pordoy/purdoy ‘prodi’], ma, a quanto pare, a sproposito». 3 E dunque l’azzardato emendamento della lezione tre de le tore, offerta da tutti i testimoni della Prima oratione, in tre-di-tore ‘traditore’ escogitato da Padoan 1978, pp. 54 e 194-95, è da rifiutare, proprio perché si sforza di dare un senso a ciò che di senso non ha bisogno; per una diversamente motivata critica all’intervento del Padoan vedi Paccagnella 1988, p. 132, nota 90. 4 Un esempio trecentesco di diè interiezione nella ballata S’e’ ho rasom, trascritta dal notaio padovano Lanzarotto Trepello dei Baialardi (Formentin 2004); Diè e -diè rafforzativo dell’avverbio ha Paolo da Castello: vv. 231 e 723 ed. Salvioni 1902-1905 (2008).

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esclamazioni da ‘braóso’ di Liberale (cha Dio…! 3, maïdè! 9, que dïançol! 11, ’i guagnieli! 13); quanto a -po, potrebbe essersi agglutinato nella tradizione, per analogia ai vari depò, dapò ecc., nel tentativo di dare un senso all’incompreso diè. Del resto, se l’emendamento apparisse troppo ardito, ci si potrebbe prudentemente limitare, in attesa di una congettura migliore, alla semplice localizzazione del guasto («Noi serón tre †diepo†, s’ig serà por-doy [pur-doy]»): una tal soluzione indicherebbe comunque l’essenziale di questa nota, cioè la distinzione, entro la lezione tràdita, degli elementi più probabilmente originali da quelli che si collocano ad un livello inferiore di certezza testuale. 8. Conclusione Una breve considerazione, infine, sulla questione della paternità della tenzone, messa a fuoco a partire dall’ipotesi della presunta autografia o idiografia del trittico ovvero del solo Tarvisinus.1 L’esistenza di manoscritti autografi o idiografi è naturalmente fatto della massima importanza per il filologo, non solo perché semplifica drasticamente, per quei testi fortunati, il lavoro di edizione, ma anche perché permette di verificare e calibrare su casi concreti la nozione teorica di errore, fondamentale quando si tratti invece di fissare un testo tramandato da copie indipendenti dall’autore. Ora, si sa che ci sono autografi assai scorretti. Lasciamo pur da parte casi idiosincratici, come per es. quello dei Ricordi di Loise de Rosa, che si spiegheranno alla luce della fisionomia culturale complessiva dell’autore-copista; ma anche un notaio di discreta cultura letteraria e grafica come il Cavassico incorre, trascrivendo i propri componimenti, in errori tali che, giudicando astrattamente, si direbbero senz’altro di natura monogenetica (sequenze prive di senso, versi ipometri e ipermetri, rime che non tornano, ecc.).2 Di contro, i componimenti derossiani copiati nel codice Colombino dalla mano ‚ mostrano una correttezza esemplare: «i sonetti trascritti da ‚ sono immuni da errori, emendamenti, aggiunte ecc.» (Brugnolo 1974, p. xliii, nota 1). Naturalmente si riconducono al generale scrupolo di correttezza caratteristico di ‚ anche le frequenti espunzioni contestuali (come rivela l’inchiostro del punto sottoscritto, identico a quello del testo), con cui l’amanuense indica, senza ‘deformare’ l’aspetto paradigmatico della parola, alcuni ‘accidenti’ fonosintattici come l’apocope (quatro doctori che dessen la doctrina) e l’elisione (et a la dura quando ebbe veduta), fenomeni che riguardano la misura o l’esecuzione del verso.3 Orbene, il discorso cambia se passiamo a considerare la tenzone: gli errori certi che s’incontrano in V, P e T – e in T non meno che in V e P – non solo sono spesso di natura monogenetica, ma ricorrono anche in numero così elevato, in senso assoluto e (direi soprattutto) in rapporto alla correttezza indefettibile dei sonetti sicuramente derossiani trascritti dalla mano ‚, da indurci a scartare l’ipotesi che Nicolò de’ Rossi ne sia, in tutto o in parte, l’autore. 1 Su tale questione è tornata da ultimo, con osservazioni equilibrate, Lazzerini 2006, p. 78. 2 Una volta il notaio ha addirittura posto in rima carnier con spontoi ‘spuntoni’ e truoi ‘sentiero’, per evidente scambio ‘associativo’ (sinonimico) con sacoi ‘sacconi’. 3 PetrucciL 2003, pp. 82-83.

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Paccagnella 1988 = Ivano Paccagnella, «Insir fuora de la so buona lengua». Il bergamasco di Ruzzante, in Ruzzante, Padova, Editoriale Programma [= «Filologia veneta», 1], pp. 107-212. Padoan 1978 = Angelo Beolco il Ruzante, La Pastoral. La prima oratione. Una lettera giocosa, testo critico, tradotto ed annotato, a cura di Giorgio Padoan, Padova, Antenore. Pellegrini 1971 (1975) = Giovan Battista Pellegrini, Tradizione e innovazione nella terminologia degli strumenti di lavoro, in Artigianato e tecnica nella società dell’alto Medioevo occidentale, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’alto Medioevo, 1971, pp. 329-408, poi in Saggi di linguistica italiana. Storia, struttura, società, Torino, Boringhieri, 1975, pp. 343-402. PetrucciA 1985 = Armando Petrucci, La scrittura del testo, in Letteratura italiana, iv. L’interpretazione, Torino, Einaudi, pp. 285-308. PetrucciL 2003 = Livio Petrucci, La lettera dell’originale dei «Rerum vulgarium fragmenta», «Per leggere», 3, 5, pp. 67-134. Porta 1990-1991 = Giovanni Villani, Nuova cronica, edizione critica a cura di Giuseppe Porta, 3 voll., [Milano]-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda. Puccini 2004 = Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, a cura di Davide Puccini, Torino, utet. Rizzi 1981 = Alberto Rizzi, Vere da pozzo di Venezia. I puteali pubblici di Venezia e della sua laguna, Venezia, La Stamperia di Venezia. Rossebastiano Bart 1983 = Vocabolari veneto-tedeschi del secolo xv , a cura di Alda Rossebastiano Bart, 3 voll., Savigliano, L’Artistica. Rossi 1895 = Vittorio Rossi, Il canzoniere inedito di Andrea Michieli detto Squarzòla o Strazzòla, gsli, 26, pp. 1-91. Sallach 1993 = Elke Sallach, Studien zum venezianischen Wortschatz des 15. und 16. Jahrhunderts, Tübingen, Niemeyer. Salvioni 1894 = Carlo Salvioni, Illustrazioni linguistiche e lessico, in Cian, Salvioni 1893-1894, ii, pp. 307-437. Salvioni 1902-1905 (2008) = Carlo Salvioni, Egloga pastorale e sonetti in dialetto bellunese rustico del sec. xvi , «Archivio glottologico italiano», 16, pp. 69-104, poi in C. S., Scritti linguistici, a cura di Michele Loporcaro et alii, iii. Testi antichi e dialettali, Bellinzona, Edizioni dello Stato del Cantone Ticino, 2008, pp. 597-632. Sanfilippo 1998 = Carla Maria Sanfilippo, Per il testo della tenzone tridialettale veneta: un caso di paraipotassi, in Dialetti, cultura e società. Quarta raccolta di saggi dialettologici, a cura di Alberto M. Mioni et alii, Padova, Centro di studio per la dialettologia italiana «O. Parlangèli» - cnr, pp. 341-45. Sanudo 1887 = I Diarii di Marino Sanuto, Venezia, Visentini, vol. xvi. Sella 1944 = Pietro Sella, Glossario latino italiano. Stato della Chiesa - Veneto - Abruzzi, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Soranzo 1905 = Giovanni Soranzo, La guerra fra Venezia e la S. Sede per il dominio di Ferrara (13081313), Città di Castello, Lapi. Stoppelli 2005 = Pasquale Stoppelli, La «Mandragola»: storia e filologia. Con l’edizione critica del testo secondo il Laurenziano Redi 129, Roma, Bulzoni. Verdon 2005 = Jean Verdon, Bere nel Medioevo. Bisogno, piacere o cura, Bari, Dedalo. Zaggia 1989 = Massimo Zaggia, Prove per un commento alla «Macaronea» di Tifi Odasi, rili, 7, pp. 405-30. Zorzi 1967 = Ruzante, Teatro, a cura di Ludovico Zorzi, Torino, Einaudi.

CROCCO IN «PURGATORIO» XXIV 30? Giorgio Inglese* Università di Roma «La Sapienza»

A

ll ’ampia scheda su crocco redatta da Riccardo Drusi1 si può aggiungere un lemma, ricostruibile per congettura. I versi 29-30 di Purgatorio xxiv sono presentati dai codici in questa forma: «Vidi … Ubaldin dala Pila e Bonifazio / che pasturò col rocco molte genti». L’apparato di Petrocchi registra minime varianti formali: corroccho La, con rocco Mo, com roccho Parm. Il gdli, s.v. rocco, dà come primo significato ‘torre nel gioco degli scacchi’; come secondo, in riferimento al verso dantesco appena citato, ‘pastorale, proprio degli arcivescovi ravennati, che aveva in cima una torre sormontata da una croce’.2 All’origine di questa lettura c’è in effetti la chiosa di Iacomo della Lana:

questo Bonifacio fo figlo del ditto Ubaldino, lo quale simelemente fo goloso; fo arcivescovo de Ravenna, li qua’ no portano cussì li pasturali ricurvi chome gl’altri arcivescovi, ma è fato de sovra a modo del rocho delli scaschi, zò è che ’l suo pastorale fo lo rocho, e per consequens fo arcivescovo de Ravenna…3

Le notizie sono tre: Bonifacio era figlio di Ubaldino della Pila; gli arcivescovi di Ravenna usano un bastone diverso da quello degli altri vescovi, non ricurvo in cima, ma diritto, in forma di ‘torre’ (rocco) degli scacchi; il goloso Bonifacio fu arcivescovo di Ravenna. La prima notizia è errata («Nessun Bonifazio ricorre nell’albero degli Ubaldini»),4 e può essere il mero portato della contiguità fra i due nomi nel verso 29, o frutto di confusione con altri consanguinei di Ubaldino: il figlio Ruggieri, arcivescovo di Pisa (If xxxiii 14); il fratello Ottaviano, vescovo di Bologna e poi cardinale (If x 120).5 La seconda notizia, circa la forma eccezionale del pastorale impiegato dagli arcivescovi di Ravenna, non ha trovato fin qui alcun riscontro, documentale o iconografico. Poté sembrare che la questione fosse risolta da un antico scettro vescovile, conservato nel Museo Nazionale di Ravenna, che termina con «una specie di tempietto»,6 un prisma esagonale. Ma Ezio Levi fece notare che al cimelio mancava appunto la cima, la quale per il suo pregio era di solito proprietà personale dell’arcivescovo e restava agli eredi.7 Lasciamo la conclusione a Corrado Ricci, certo il maggiore esperto delle relazioni fra Dante e Ravenna, sotto ogni riguardo: Nel Museo di Ravenna si mostra un pastorale smaltato che ha la cima che termina a guisa di torre e si è sempre ricordato e riprodotto in relazione appunto al rocco dantesco; ma che quella torre * [email protected] 1 Drusi 2008. 2 Fra i vocabolari più recenti: «pastorale degli arcivescovi di Ravenna, che aveva in cima una torre sormontata da una croce» (De Mauro 2000, come primo significato); «pastorale degli arcivescovi di Ravenna, la cui voluta [!] era sormontata da una torre con in cima la croce» (disc, s.v. rocco). 3 Ms. Riccardiano 1005, c. 161r. 4 Chiarini 1970. 5 In effetti, anche l’identificazione di quel Cardinale con Ottaviano degli Ubaldini si deve, in sostanza, al Lana. 6 Savini 1894; una fotografia dell’oggetto in Ricci 19653, f.t. fra le pp. 100 e 101. 7 Levi 1921, pp. 82-86. Suggeriva poi lo studioso che il rocco dantesco significasse ‘ricca prebenda feudale’, dato che il rocco degli scacchi è una figura forte e autorevole.

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non sia che la base della vetta ricurva del pastorale consueto, come ha pensato il Torraca,1 ci sembra sicuro. Infatti nel mezzo del coperchio di quella “base” si trova il foro regolare che si ripete nei vari diaframmi interni.2

Quanto al terzo dato, o il Lana sa che gli arcivescovi di Ravenna usano uno scettro a forma di rocco, e – come lui dice – per consequens attribuisce a Bonifacio quel titolo; oppure sa che il Bonifacio dantesco fu arcivescovo di Ravenna e cerca di spiegare, come può, il significato della lezione rocco. Ritengo che la seconda ipotesi sia più verosimile. Può darsi che il Lana attingesse, fra le altre sue fonti, a un apparato, presumibilmente scheletrico, di identificazioni biografiche non ricavabili dal testo (ho già ricordato il Cardinale di If x 120); nel caso di specie, bisogna tuttavia considerare che Bonifacio Fieschi,3 sulla cattedra ravennate dal 1275 alla morte (24 dicembre 1294), era l’unico vescovo di questo nome di cui il Lana (e il Poeta, prima di lui) potessero avere contezza, o per cui potessero aver nutrito qualche interesse.4 L’identificazione era del resto confortata dall’allusione alla vastità dell’arcidiocesi, da cui dipendevano sedici diocesi, da Rimini a Piacenza (molte genti). La chiosa del Lana fu ripresa da Pietro Alighieri, dalle Chiose Vernon, da Benvenuto, dal Buti, dall’Anonimo Fanfani, dal Serravalle;5 fra le variazioni più tarde si può citare quella del Vellutello («col rocco, o vogliamo dire a l’ombra del campanile»), meglio spiegata dal Venturi («all’ombra del campanile della sua chiesa, fatto a modo di torre e del rocco degli scacchi; insomma, a spese della sua Chiesa trattò lautamente molte persone»). L’Ottimo ignora il riferimento ravennate, ma concorda sul significato ludico di rocco: «messer Bonifazio … mise in pastura di ghiottornie molte genti; e questo è quello che dice che pasturò col rocco, ciò è per sapere giucare per tempi». Un’altra via fu suggerita dal Lombardi: «per ‘rocco’ si dee intendere quel medesimo che il latino de’ bassi tempi appellò roccus e che … si appella oggi comunemente ‘rocchetto’, cioè la cotta propria de’ vescovi e prelati … come se avesse detto: ‘colle rendite del vescovado fece vivere allegramente molte persone». Soluzioni, come si vede, tanto poco persuasive che Cesari, Tommaseo e Andreoli tornarono a preferire la glossa lanea.6 Nel 1905, Francesco Torraca formulò la congettura (crocco) da cui trae spunto il mio intervento: rocco essendo il nome della torre nel gioco degli scacchi, s’è supposto che il pastorale dell’arcivescovo ravennate fosse, nel Duecento, diverso da tutti gli altri, e portasse in cima una torre da scacchi o qualcosa di simile. E poiché a Ravenna si conserva un antico pastorale, che ha in cima un “prisma esagonale” lunghetto, si è detto: ecco il rocco! Senza badare che quel prisma, come chiaro mostrano miniature, affreschi e quadri antichi, non è già una torre; ma la base o il sostegno della parte curva, ora mancante, la quale doveva essere di materia più nobile di quella della parte diritta. Infatti, nell’inventario, che ci rimane, degli oggetti preziosi dell’arcivescovo Bonifa1 Vedi oltre. 2 Ricci 19653, p. 198. 3 Per cui si veda Boespflug 1997. 4 Giungo a questa conclusione avendo consultato gli indici dell’Italia sacra di Ferdinando Ughelli; mi pare difficile che vogliano competere col Fieschi un Bonifacio vescovo di Genova (1188-1203), un pastore bellunese (ca. 1140), un patriarca di Venezia (1120-1133). 5 Si veda Biagi, Passerini, Rostagno 1931, pp. 494-95. 6 Biagi, Passerini, Rostagno 1931, pp. 495-96. In tempi più vicini a noi, mi è nota solo l’ipotesi del deli, che accosta il presunto rocco ‘bastone o pastorale degli arcivescovi’ di Dante alla figura di san Rocco, di solito raffigurato con il bastone e altre dotazioni da pellegrino: ma «sembra ragionevole collocare la vita di R[occo] nella seconda metà del sec. xiv», e sta di fatto che il suo culto non è noto prima del xv secolo avanzato (Vauchez 1968; devo la segnalazione a Fabio Romanini).

crocco in «purgatorio» xxiv 30?

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zio [Fieschi],1 il “capo della verga pastorale” è registrato da solo, segno che poteva essere tolto e rimesso; e il “rocco” dell’antico pastorale ravennate è forato nella base superiore… A parer mio, Dante scrisse crocco, parola che, oltre il significato generico di uncino, conserva ancora, in alcuni luoghi d’Italia, questo specialissimo di bastone da pastore. E perché deriva dal tedesco o dal celtico, non fa maraviglia trovarla viva in Inghilterra (crook), appunto col significato di “bastone terminato a uncino, come quello di un pastore o di un vescovo”.2

Ma la proposta cadde subito sotto la ‘cassazione’ di Michele Barbi: Il T. pensa che a rocco sia da sostituir qui crocco… Veramente è un po’ difficile spiegare come da un crocco originale sia derivato in tutti i codici rocco… Il caput virge pastoralis dell’inventario di Bonifazio, invece che la parte curva, potrebbe essere appunto il rocco con la croce…3 La testimonianza, favorevole al pastorale diritto, dei commentatori antichi, e specialmente di Iacopo della Lana e di Benvenuto da Imola, più vicini a Ravenna, ha molto valore. Occorrerebbe una ricerca larga e una trattazione rigorosa dell’argomento, e bisognerebbe anche, d’altra parte, documentar bene l’uso di crocco nel senso «specialissimo di bastone da pastore» per vedere qual probabilità possa esserci che a Dante fosse familiare o almeno noto…4

e, se non erro, fu dimenticata. A dire il vero, l’argomentazione del Barbi, in questo caso, è debole, e si riduce all’autorità dei chiosatori emiliani (sullo sfondo, si avverte però una diffidenza di principio per ogni ipotesi congetturale relativa al testo del poema «sacro»). Non sembra infatti troppo «difficile» spiegare in che modo, non già poligeneticamente «in tutti i codici», ma una tantum in archetipo, colcrocco o (per assimilazione) cocrocco sia stato letto corrocco. Quanto al fatto storico, nell’impossibilità di attendere a «una ricerca larga» come auspicato dal Barbi, mi limito a segnalare i riscontri più facilmente accessibili. L’Italia sacra dell’Ughelli riproduce tre stemmi di arcivescovi ravennati (Bonifacio Fieschi, il suo predecessore e il suo successore): in tutti e tre è presente il pastorale a cima ricurva. Più sicuro e interessante il dato di estrazione numismatica. Il Corpus Nummorum Italicorum registra un certo numero di «Monete anonime degli arcivescovi ravennati, secoli xiii-xiv»; un ‘grosso agontano’ vi è così descritto: «d[ritto] arciepiscop’ Figura mitrata, in piedi di fronte, con piviale chiuso da fibbia circolare e ornato di croce sul petto, benedice con la destra e tiene il pastorale nella sinistra. r[ovescio] de ravena Croce patente accantonata da stella a sei raggi nel 2º e 3º raggio» (cni, x, 2, pp. 682-83). Ebbene, il pastorale appare inequivocabilmente ricurvo nelle relative immagini 26 e 27 di tav. xliii (non si distingue nell’immagine 25).5 1 Si veda Fantuzzi 1801-1804, iv, p. 410: gli esecutori testamentari di Bonifacio Fieschi cedono a Opizzo di Lavagna, nipote del defunto, oggetti vari, fra cui «unum capud virge pastoralis et unum firmatorium deaureatum ornata cum lapidibus, ponderis sex marcharum» e rotti (quasi quanto una coppa d’oro fino con coperchio, valutata sette marchi e rotti). 2 Torraca 19266, p. 531. Nella parte omessa, Torraca cita Tommaso, S. Th., Suppl. xl, per il significato mistico attribuibile alla curvatura della verga vescovile. Il teologo attribuisce alla curvatio baculi ben due significati: «Per baculum [significatur] cura pastoralis, qua debet [episcopus] colligere vagos, quod significat curvitas in capite baculi»; e soprattutto: «coartatam potestatem … curvatio baculi significat» (motivo per il quale il Sommo Pontefice non lo usa). 3 Qui Barbi si rifà alla tesi di Regoli 1903, che reca notizie (indirette) di due sigilli dugenteschi nei quali si disegna l’arcivescovo ravennate con in mano una croce o una verga crucifera; ma perché mai il Poeta avrebbe assimilato uno scettro crucifero a un rocco degli scacchi? 4 Barbi 1934, p. 230. 5 Una bella riproduzione della moneta è visibile sul sito www.lamoneta.it./index.php?act=attach &type=post&id=61038.

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Assodato, dopo il lavoro di Drusi, che crocco, ‘uncino’ o ‘gancio’, era nella disponibilità lessicale di Dante, nulla osta a che egli lo impiegasse come traducente di uncus pastoralis (sintagma registrato dal Du Cange), ‘scettro vescovile’.1 Ciò permetteva al Poeta di coniare una perifrasi articolata e variata («pasturò col crocco», per dire ‘fu vescovo’), su cui innestare una aequivocatio ironica: ‘Bonifazio menò al pascolo, col suo bastone ricurvo, un gregge numeroso’ viene a dire ‘fu preposto a una vasta arcidiocesi’ e insieme ‘nutrì una cospicua clientela’ (con implicazione del peccato di gola).

1 La scelta può essere stata favorita dall’assonanza con croccia ‘uncino, pastorale’, germanismo, per cui si veda Cella 2003, pp. 47-48.

crocco in «purgatorio» xxiv 30?

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DITTICO P ER ANTONIO PUCCI Anna Bettarini Bruni · Paolo Trovato i.

D I ALCUNE EDI ZIONI RECENTI DI ANTONI O P UCCI , DEL CODICE KIRKUP E D ELLA CLADI STICA APPLICATA ALLA CRI TICA TESTUALE Paolo Trovato* Università di Ferrara La filologia redazionale […] non è, per intenderci, la filologia del codex optimus; e naturalmente non prescinde dall’esperienza e dagli strumenti della più affinata tecnica ricostruttiva. Solo che quell’esperienza va trasferita entro una nuova realtà […], questi strumenti hanno bisogno di essere riadattati ai nuovi oggetti e alle nuove esigenze. De Robertis 1961

1. er cominciare, due notizie: una buona e l’altra cattiva. La buona è che – grazie alla ripresa di interesse per i cantari e il Pucci suscitata dal Convegno di Montreal del 1981 (Picone, Bendinelli Predelli 1984) e confermata dal Convegni gemelli di Montreal 2004 (Bendinelli Predelli 2006) e Zurigo 2005 (Picone, Rubini 2007) – l’intero cantiere editoriale pucciano, bloccato da decenni, si è rimesso in movimento. Renzo Rabboni ha procurato un’edizione critica dei Cantari di Apollonio di Tiro. Elisabetta Benucci ha edito il cantare di Madonna Leonessa e il Bruto di Bertagna. Franco Zabagli ha riesumato il Gismirante. Alessandro Bencistà ha riproposto, pur se in edizione divulgativa, recuperandoli da edizioni sette-, otto- e primo novecentesche, il sirventese sull’Alluvione dell’Arno nel 1333 e altre «storie di un poeta campanaio» (le Proprietà di Mercato Vecchio, il serventese Per ricordo delle belle donne, il Contrasto delle donne, la canzone della vecchiezza, le Noie ecc.). Ute Limacher-Riebold ha pubblicato il serventese Onnipotente re di somma gloria. Attilio Motta e William Robins hanno fornito non una, ma due edizioni della Reina d’oriente.1 La cattiva notizia è che, a quanto pare, nessuno degli editori si è preso la briga di sottoporre a uno dei nostri bravi paleografi né a uno degli ormai numerosissimi storici della lingua italiana in attività, per un esame approfondito delle parti di loro compe-

P

* [email protected] 1 Si rinvia rispettivamente a: Rabboni 1996, da integrare con l’articolo-recensione di Motta 1998; Benucci 2002a; Benucci 2002b; Zabagli 2002; Bencistà 2006; Limacher-Riebold 2007; Motta, Robins 2007.

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paolo trovato

tenza, il ms. già appartenuto a Seymour Kirkup, ora N.A. 333 della Biblioteca Nazionale di Firenze (= K), che è latore della maggior parte delle opere in versi del Pucci e per questo è stato giudicato, non senza buone ragioni, da uno studioso di rango come Morpurgo, «fondamentale per l’edizione delle rime pucciane».1 Nessuno, con l’eccezione di Motta, è riuscito a risalire – oltre che alle descrizioni del ms. fornite da Jackson 1910, Morpurgo 1912, McKenzie 1931 – alla notevole scheda contenuta nel catalogo della Mostra di codici romanzi fiorentina del 1957 (anonima, ma da attribuire alla cara memoria di Ignazio Baldelli, allora trentatreenne e però già molto scafato).2 2. Ben inteso, come rivela la numerazione antica, il ms. Kirkup (cart., di cc. ii, 61, ii, scritto su 2 colonne da 2 copisti) è mutilo per almeno un terzo rispetto all’originaria consistenza. Mancano infatti le cc. 1-16 (dove, oltre alle 58 ottave mancanti della Reina d’oriente, rimane spazio nelle cc. iniziali per un poema delle dimensioni del Gismirante). Di lì in avanti si rileva la seguente distribuzione del contenuto e delle mani:3 Cc.

Contenuto

Note (rubriche, ecc.)

1r (17r)-2r (18r)

Reina d’oriente; mano · copia da ii 9 5 a ii 39 4.

Rubrica Chomincia I chantarj della Reina doriente di mano Á; sopra al limite del margine chomicia el chantare della reina duriente di una mano rozza e incerta (‰).

2v (18v)-8v (24v)

Reina d’oriente; mano ‚ da ii 39 5 fino alla fine.

Dopo ogni cantare (ii 3ra, iii 6ra, iv 8vb) Ame(n), di mano ‚.

9r (25r)-11r (27r)

Bruto di Bretagna; mani ‚, · e di nuovo ‚.

Rubrica Brutto di brettangnia di mano Á all’interno di cornice, sopra un’altra della stessa mano, poi cassata, che ha l’unica differenza grafica in bretangnia; a fianco bruto di bretagnia di mano ‰. All’interno del testo la mano ‚ scrive Bruto di Berttagna, ma la forma del nome con la doppia t è anche di questa mano e nettamente prevalente (nove casi + un prutto contro a un bruto). La mano ‚ copia le ottave 1-8; subentra poi a 9v la mano · che scrive fino a rigo 30 di 11ra (ottave 9-40); sèguita ‚ che completa la carta (ottave 41-44).

1 Morpurgo 1912, p. vi. Sullo scrupolosissimo Morpurgo, Stussi 1970 (1982), specialmente pp. 106-7 e nota 47; Stussi 1973 (1999). 2 Le descrizioni più accurate sono quelle di Morpurgo 1912 (con un facsimile); Baldelli 1957 (pure con un facsimile); Rabboni 1996, pp. xii-xiii; e Motta (in Motta, Robins 2007, pp. xlii-xlvi, da integrare con lo spoglio linguistico di pp. cxv-cxlviii). 3 Per ragioni di tempo non ho avuto modo di esaminare direttamente K. Poco male perché in questo modo ho potuto avvalermi dell’aiuto di colleghe di me molto più competenti, Gabriella Pomaro e Anna Bettarini Bruni, che ringrazio di cuore. In particolare, la distinta a testo, che integra e corregge le descrizioni di Jackson, Morpurgo e Motta, riproduce una scheda molto analitica fornitami con grande cortesia dalla Bettarini Bruni.

dittico per antonio pucci - i Cc. 11v (27v), 12r (32r)-13v (33v)

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Contenuto

Note (rubriche, ecc.)

Apollonio di Tiro, cant. i ott. 8, cant. ii ott. 25-50, cant. iii ott. 1-4; mano ‚.

Rubrica Chomincia p(r)imo chantare dapollonio mano Á, rubrica precedente di mano non identificata Apolonio dj tiro preceduta da segno di richiamo (croce), mano ‰ chantare dapollonio, c. 13va explicit di mano Á: finito Il sechondo chantare dappollonio / di Tiro.

Mancano quindi le cc. 34-48 (che avranno contenuto precisamente i 3 cantari finali dell’Apollonio e le prime 45 ottave di Madonna Lionessa). Segue: Cc. 14ra (49r)

Contenuto Madonna Lionessa (ott. 46-49); mano ‚.

Note (rubriche, ecc.) Alla fine Ame(n) ame(n) ame(n), di mano ‚.

14rb (49r)-15vb (50v) Proprietà di Mercato Vecchio; mano ‚.

Rubrica di mano ‚ Mercatto vechio; explicit: di q(u)esto anttonio pucj fu poetta | (cristo) vi guardi senp(r)e i(n) vita chetta, segue Amen tre volte.

16 ra (51r)-18rb (53r)

Rubrica di mano ‚ Noye. Explicit: Antonio pucj ne fu dicitore | ghuardiuj senpre (cristo) saluatore

Noie; mano ‚.

18vb (53v)-20ra (55r) Ballata della guerra di Pisa; mano ‚.

Didascalia di mano Á che ingloba quella di ‰ (questa tra parentesi uncinate): Chanzone de [ripassata da Á su ‰] ‹lla guerra di pisa› | chonfortando luccha, Ho luchesi pregiatti. Segue Ame(n) due volte; segue di mano Á: finita una chanzone della guerra di pisanj e di lucha Amen. Quindi Amene ripetuto 6 volte di mano Á, metà colonna bianca.

20rb (55r)-25va (60v) Contrasto delle donne; mano ‚.

La carta 24r è scritta nella mezza colonna a, segue l’avvertenza di mano Á: volgi allaltra faccia di sotto; la colonna b è bianca, 20ra bianca, una mano del secolo xv vi scrive in alto due terzine dantesche (Inf. xxiv 46-51); sulla colonna b continua il testo, segue ame(n) tre volte, mano ‚.

25va (60v)-42vb (77v) Cantari dela guerra di Pisa; mano ‚.

Didascalia di mano ‚ distanziata dal testo che precede e seguita da spazio bianco Antonio puci p(er)la ghuera che | sichomincio tra pisani e fiore(ntini) | p(er) piettra buona la q(u)ale p(er) | lipisani fumolto rea nel mo|do che udrette a paso a paso | cio che aduene che notabile | fose dise chosi chome udre|tte nela partte di q(u)a.

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paolo trovato Cc.

Contenuto

Note (rubriche, ecc.) Rubriche di mano Á: 25vb p(r)imo chantare dj pisa, alla fine 28ra segue Ame(n) tre volte, mano ‚; 28rb sechondo chantare dj pisa, alla fine a 30va due volte Ame(n) mano ‚; 30 vb terzo chantare dj pisa, finisce a 32vb segue Ame(n) tre volte, mano ‚; 33ra q(u)arto chantare dj pisa, alla fine 34vb segue Ame(n) tre volte, mano ‚; 35ra q(u)into chantare dj pisa, segue a 37vb Amen tre volte, mano ‚; 38ra Sesto chantare di pisa, segue 40va Ame(n) tre volte, mano ‚; 40vb Settemo chantare dj pisa, segue 42vb Ame(n) due volte, mano ‚.

43r (78r)-46ra (82r)

Serventese sulla piena dell’Arno; mano ‚.

Rubrica di mano ‚ diluvio che fu i(n) firenze adj iiij dj nouenbre MCCCXXj fatto p(er)antonio puci: Nouelo s(er)mintese lagrimando (strappo nella carta che impegna 2/3 della colonna b sul retto di 43 e della colonna a sul verso, alla fine del testo Ame(n) due volte, mano ‚.

46ra (82r)-47ra (83r)

Serventese delle belle donne di Firenze; mano ‚.

Didascalia di mano ‚ a 46r (82ra), seguita da uno spazio bianco: Anttonio puccj p(er) Ricordo dele | bele done cherano i(n) firenze | nel mcccxxv nefe ilsegue|ntte s(er)minttese che scritto di q(u)a: Legiadro s(er)mintese pien damore. Alla fine Ame(n) due volte, mano ‚.

47rb (83r)-48vb (84v) Serventese sulla carestia; mano ‚.

Didascalia di mano ‚: Charastia che fu i(n) firenç[e] mcccxlvi , I p(r)iegho giesu (cristo) onipotentte. Segue il testo la firma antonio puci.

48vb (84v)-51va (87v) Serventese sulla peste; mano ‚.

Didascalia di mano ‚ a 48vb: sieghue dela morttalitta che fu | i(n) firenze nel mcccxlviii | e p(er)o anttonio puci nefelseghue|ntte s(er)minttese e dise chosi. Metà colonna è lasciata in bianco, il testo inizia sul retto della carta successiva Ho giesu (cristo) che sopra la chrocie, alla fine del testo antonio puccj.

51va (87v)-52vb (88v) Ballata per la cacciata del Duca d’Atene; mano ‚.

Didascalia di mano ‚: Anttonio pucci p(er)la detta chagione | q(uand)o fu chaci[a]tto ilducha ne fe la se|guentte chanzone e dise cosi. Il testo inizia a 51vb: Viua laliberttade. Alla fine il ritornello è scritto dopo amen di mano ‚.

52vb (88v)-53vb (89v) Serventese per la perdita di Lucca; mano ‚.

Didascalia di mano ‚ in fondo alla colonna 52vb: Come lucha si p(er)de ramaricha|ndosi firenze anttonio pucj di|se chosi. Il testo inizia a 53ra: Nuouo lamento dj pietta rimatto, segue Anttonio puccj.

dittico per antonio pucci - i Cc.

Contenuto

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Note (rubriche, ecc.)

53vb (89v)-56rb (92r) Serventese sull’acquisto di Lucca; mano ‚.

Didascalia di mano ‚ a 53vb: Anttonio q(uand)o ifiorenttinj conp(er)a|ro lucha da mes(er) mastino ne | fe ilseguente s(er)minttese | dise chosj. Segue il testo: honipottentte re di soma ghloria; explicit: al uostro onore | Antonio puci ne fu dicitore.

56rb (92r)-57va (93v) Serventese al Comune; didascalia e il testo di mano ‚.

Didascalia di mano ‚ a 56rb: Volendo antonio puci chonsiglare | ilchomune suo p(er) ciertte chose | che apariano p(er) prestanze e seghe e p(er) aparechiamentto doste ne | fe il p(re)sentte s(er)minttese che siguira | di q(u)a e dise chosi mcccxli adj p(rim)odj nouenbre il testo inizia sul verso: De uero saluattor figliuol didio segue Anttonio pucj ilfe.

57vb (93v)-58vb (94v) Serventese sulla presa di Lucca, mano ‚.

Didascalia di mano ‚: mcccxlii adj ‹p(rimo) dj nouenbre› xxviij dj magio (interlineare) a|nttonio pucj chonsiderando che | mes(er) malattesta chapittano di ghue|ra alucha pefiorenttinj erasta|tto q(ua)rantta dj aostte enonaue| uafatto nula eragionandosi | di far pascie copisa eachuj pia|cea e achuj no(n) espicialmentte | parendone male aluj ne fe | il p(r)esentte s(er)minttese edisechosi: Degloriosa vergine maria Segue Anttonio puci ilfe.

58vb (94v)-59vb (95v) Serventese sulla vittoria di Piero Rosso a Padova; mano ‚.

Didascalia di mano ‚: Anttonio pucj auendo senttitto si|chome mes(er) piero roso ebe vi|ttoria a padoua ne fe ilsegue|ntte s(er)minttese e dise chosi Al nome sia deluer figluol didio segue Anttonio pucj ilfe. 59vb (95v)-61ra Canzone per Firenze; mano ‚. Didascalia di mano ‚: Volendo anttonio pucj brieue | mentte rachonttare tutti glista|tti che firenze auea muttattj a | suo dj ne fe laseguentte cha|nzone e dise chosi aggiunta una didascalia di mano Á chanzone morale Firenze q(uand)o tueri fioritta. Carte fortemente deteriorate e in gran parte mancanti; la canzone finisce probabilmente a c. 61r perché sul verso ci sono tracce di scritture diverse di mani non identificate rispettivamente vicino al margine superiore e verso i tre quarti della carta (parole solo parzialmente ricostruibili).

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Ritorniamo sui dati fin qui agli atti, cercando di ‘lavorarli’ tenendo conto anche delle indicazioni di Bettarini Bruni e Pomaro. Il codice è opera di due copisti, · e ‚ (mano principale, pur se «inelegante e rozza», della sezione pucciana di K). L’omogeneità della filigrana, rilevata da Jackson 1910 e confermata da Morpurgo e Motta, suggerirebbe che i copisti disponessero di un vecchio stock di carta liocorno, simile a Briquet nº 9926, riscontrata a Firenze, Ravenna e Perugia tra il 1373 e il 1380 (vedi però il § 4), ovvero che da subito avessero stabilito di copiare per intero il perduto antigrafo di K. «La rilegatura moderna nasconde la fascicolazione originaria», che – a giudizio di Motta – «può aver alternato fascicoli di 12 e 4 oppure di 10 e 6 carte»; tuttavia, in un quadro del genere, ci si aspetterebbe una fascicolazione almeno tendenzialmente regolare, ossia (prevalentemente) in quaderni. Se davvero, come pare a Motta, la mano · avesse scritto sul margine superiore di c. 17r «Chomincia i chantari della reina d’Oriente», ciò implicherebbe (come avvertito da Morpurgo) che la prima ‘mutilazione’, cioè la caduta delle prime 16 carte, fosse avvenuta poco dopo il lavoro di copia. Tuttavia, mentre Motta assegna anche le «annotazioni sul margine superiore di c. 1r (17r)» alla mano ·, Morpurgo attribuisce la nota «in capo alla carta 17a, che oggi è la prima», a «due diverse mani del principio del secolo xv». Su una linea vicinissima a quella di Morpurgo, Anna Bettarini Bruni riferisce a ‚ solo una minima parte delle didascalie e assegna quelle in questione a due mani diverse e evidentemente più tarde, ma ancora quattrocentesche, Á e ‰.1 In conclusione, come si ricava dalla tavola appena presentata, · sarà anche più esperto nella scrittura, ma ha una parte del tutto subordinata perché: a) le rubriche non sono sue, nemmeno quella iniziale che ha fatto pensare ad altri a una sua gestione del manoscritto acefalo. A parte gli interventi posteriori di Á o le sporadiche intitolazioni dell’altra mano incertissima e acerba, è ‚ che gestisce il codice in ogni sua parte; b) la stessa mise en page di · è meno organizzata: mentre la mano ‚ fa coincidere la fine della colonna col completamento dell’ottava in numero sempre uguale (4ª colonna), · procede senza progetto. 3. Come si è detto, la datazione di K (la parte pucciana di un ms. contenente anche il Filostrato di Boccaccio, donata a Firenze nel 1912 dal Wellesley College, che ha conservato invece la sezione boccacciana, di mano degli stessi copisti, ma su carta diversa) risale alle valutazioni dei primi studiosi e la localizzazione è stata tentata fin qui opera per opera, con esiti tutt’altro che illuminanti. Così, Rabboni 1996, p. xlix in nota, rilancia l’ipotesi, già di Morpurgo, di una provenienza «più meridionale» di Firenze, «forse al confine con un’area tosco-orientale e umbro settentrionale» e anche Benucci 2002b osserva, nella Nota al testo del Bruto, che «linguisticamente il testo è toscano ma si individuano alcune forme, per lo più riguardanti il trattamento della i protonica […] che potrebbero ricondurre a un’area diversa […]: si potrebbe trattare di infiltrazioni della fascia sud orientale della Toscana fino all’Umbria» (p. 888). Limacher-Riebold 2007, pp. 90-92, dedica, chissà perché, l’unico paragrafo linguistico del suo lavoro al frequentissi1 Ricavo le citazioni rispettivamente da Motta, Robins 2007, p. xlii, e da Morpurgo 1912, p. iii. Come osserva, in una lettera datata 11 febbraio 2009, Bettarini Bruni: «La qual cosa, se viene a togliere responsabilità e interesse ad ·, ci dice che la perdita dei fascicoli iniziali è comunque antica anche se fuori bottega».

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mo, idiosincratico raddoppiamento della t, «che avviene in tutti i contesti» e, di conseguenza, non permette di «poter azzardare una qualsiasi ipotesi sulla provenienza del copista». E il solo Motta 2007, pp. cxv-cxlviii, conclude il suo spoglio della lingua di K rilevando che «la maggior parte dei tratti induce a «ipotizzare una provenienza settentrionale, e forse padana del copista cui appartiene la mano ‚ [scil. la mano principale di K], se non anche di un antigrafo del manoscritto». Premesso che lo spoglio andrebbe condotto in modo sistematico su tutto il ms., cioè tenendo conto anche del Filostrato, allo stato mi sembra preferibile la localizzazione meno prudente e insomma magnanima del giovane Baldelli: «S. Morpurgo […] indica nella parte trascritta dalla prima mano [scil. ‚] forme meridionali (che saranno invece probabilmente emiliane: sienza, scipolto, conzeduta, gaiardo, gaioffo, ioti [scil. ‘ghiotti’?] … E anche il testo della seconda mano offre le stesse forme)». Fino a prova contraria, la localizzazione sembra confermata anche dai dati che seguono (prescindo dai fenomeni più generici come i frequentissimi scempiamenti o i pronomi atoni me, te, se). All’isolato scipolto, registrato da Baldelli, si possono aggiungere, nella Reina, almeno iii 1 5 poscia ‘possa’; iii 2 6 comparisce ‘comparisse’ e, per contro, ii 43 5 aparisenza e ii 44 3 ambasador. Nelle 4 ottave finali della mutila Lionessa, trovo il doppiamente notevole 49 8 fieci ‘fece’ (con riscontri nella Reina d’oriente e in altri cantari). Nell’Apollonio, il già citato Rabboni 1996, p. xlix in nota, segnala (pur interpretandola sulla scia di Morpurgo) una serie di tratti ridotta, ma eloquente (esiti come simel, stabelito; un caso di metafonesi da -i come barun(i); altre semplificazioni fonetiche di -sc- come usia, cognosi).1 Spigolando negli apparati della purtroppo ricostruitissima edizione Limacher-Riebold di Onnipotente re, trovo, oltre ai banali chonciedi, vegiendosi, cieruglio e anche 125 uciedendo ecc., forme iperdittongate tipiche, anche se non esclusive, dell’emiliano illustre come 97 alieghra, 106 alieghri, 164 fiecior (da confrontare col già ricordato fieci); la seconda plur. in -eti (174 aveti); 204 usire ‘uscire’ e 319 piaza ‘piaccia’ (piaza è anche nella Reina, ii 42 8); 234 en simel modo; 262, un altro esempio di gaiardi (anche nella Reina e nel Bruto: Motta). E si notino, riguardo agli esiti di O e U protonica, 264 disinore e i più notevoli 318 rimanzi ‘romanzi’, 92 bigia ‘bugia’ e 267 figiano ‘fuggivano’. A conferma della correttezza dell’osservazione di Baldelli per cui «anche il testo della seconda mano offre le stesse forme», segnalo infine qualche tratto notevole della mano · nel Bruto: oltre a 43 3 rinvigorisse (che anche l’editore ritiene più «probabilmente pres. ind.»), 7 7 gieristi ‘giresti’; 19 6 gionge(v)a; e ancora 44 6 gaiardo.2 1 Il tipo aggio (un meridionalismo letterario diffusissimo nella lirica toscana due-trecentesca) è invece pluriattestato anche nella tradizione tosco-fiorentina trecentesca non aulica, inclusa la prosa della Tavola Ritonda, la poesia ‘borghese’ del Sacchetti e di Pieraccio Tedaldi e la produzione in ottave d’autore e non, dall’Amorosa visione al Ninfale fiesolano al Teseida al Fiorio e Biancifiore (attestazioni più recenti in Serianni 2009, pp. 194, 297): si tratterà insomma di un cultismo del Pucci piuttosto che di un peruginismo del copista. 2 Altre forme notevoli, che confermano o non ostano all’ipotesi, mi sono segnalate in data 5 maggio 2009 da Anna Bettarini Bruni. Nell’ordine. A) Canzone della guerra di Pisa (O lucchesi pregiati): ricordive; mecidio|micidi; recevette, seguisce ‘seguisse’, mimoria, 3 3 fiecci (3ª pers.); 12 4, 13 4, 15 5, 18 8, 41 2-6 fieci, 15 5 rascigurata, 18 7 sienza, 31 8 si stesa, 35 7 mezidio ‘omicidio’. B) Cantari della guerra di Pisa (oltre all’anche qui comune fieci: iv 19 2, iv 25 8, ecc.), gaiardo, i 10 Pezole (Pecciole), i 25 3 remetter, i 36 4 asesa (‘ascesa’), i 36 8 zinse (‘cinse’); ii 27 1 usirano; iv 10 6 pregione; iv 19 4 soglier (‘scioglier’); iv 32 8 signur; iv 44 8 chresesor; v 48 2 niscita (‘necessità’); v 22 4, v 23 3 siguitar; vii 24 7 rason, vii 31 8 perosini. Ancora ghaiardo, lizenza. C) Noie: 17 umel, 53 gintil, 73 simelemente, 208 chionque. D) Dè gloriosa: 5 signur, 103 momoria. E) Mercato vecchio: 90 ghaioffi. F) Onnipotente re: 262 gaiardi, 311 vira (‘verrà’). G) Reina: ii 41 3 scrimire, ii 42 8 piaza (: -acia), ii 43 6 aparisenza, iii 2 6 comparisce (‘comparisse’), iv 31 4 barun’, iv 40 8 puciolente, iv 41 5 divocione.

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Vengo alla datazione di K, pure ancorata alle proposte degli studiosi ottocenteschi e primo novecenteschi (cioè D’Ancona e i suoi scolari – per es. Paoli –, Jackson e Morpurgo) e giudicata prossima alla morte del Pucci (1388).1 Tra gli studiosi posteriori basterà ricordare De Robertis («Tra il 1370 e il 1390») e Rabboni («Sec. xiv, ultimo quarto»).2 La forbice 1370-1390, autorevolmente ribadita da De Robertis nella premessa alla sua edizione dei cantari antichi e nel successivo intervento La tradizione dei cantari,3 si ritrova con le stesse parole – «Il codice Kirkup (K) del secolo xiv (1370-1390)» – sia nella Nota al testo della Leonessa di Benucci, sia in quella del Bruto di Zabagli. Motta data sia K1 (cioè il codice Wellesley del Filostrato) sia K, ossia la sezione pucciana, «sec. xiv ex.». Di parere diverso Branca 1958, p. 44, che data il solo Filostrato Wellesley al xv secolo. L’amica Gabriella Pomaro, che ha esaminato a mia richiesta scritture e filigrane di K, propone anche per la raccolta pucciana, esemplata, come si è già detto, dagli stessi copisti del Filostrato Kirkup, una datazione decisamente bassa. Innanzi tutto, nonostante la perentoria identificazione della Jackson (Briquet nº 9926, anni 1373-1380), le filigrane recano lo stesso disegno, ma sono diverse («Almeno due tipi di liocorno, nessuno nettamente identificabile nel Briquet né come disegno né come posizione tra i filoni»). Il primo tipo, «rilevato alle cc. 18 e 82, è caratterizzato da disegno rozzo e impreciso; la posizione fortemente verticale (con asse quasi parallelo ai filoni) e la caratteristica del corno orizzontale lo avvicinano a Briquet 9939-9947 (pienamente quattrocenteschi)», ma è «più grande di questi, con il muso molto allungato». Il secondo tipo, «ben rilevabile a c. 91», è ancora «più grande e dal disegno più netto» e può essere «avvicinabile (solo per rendere l’idea) a Briquet 9940 (1436)». Per quanto riguarda la data, Pomaro mi scrive in data 30 dicembre 2008: «la mercantesca [di ‚] è fortemente connotata, molto tarda (sicuramente fine Quattrocento»; e ribadisce il 22 gennaio 2009: «La mano iniziale [·] è leggermente meno corsiva, usa la (et) tachigrafica e forse è di formazione leggermente più vecchia; il tutto è – a star proprio ben corazzati, calcolando che le due mani cooperano – assegnabile alla seconda metà del Quattrocento, ma non ulteriormente retrodatabile» per l’insieme grafico (sotto il rispetto grafico, invece, riscontri pertinenti «attorno al 1480, nei Manoscritti datati d’Italia, iii, Biblioteca Riccardiana»). Ma al di là della cronologia bassa e della confezione periferica, resta il fatto che il codice Kirkup conserva, a volte con diffuse didascalie in prosa, la parte più copiosa della produzione in versi del Pucci. Con ogni probabilità esso riproduce, anche se con gli scadimenti del caso, un perduto ‘libro’ del Pucci (o d’ambiente a lui vicinissimo), come è stato sottolineato già da vari studiosi, che hanno parlato giustamente di una silloge «non lontana dall’autore», «written by someone having unusual opportunities to obtain 1 In particolare, Jackson 1910, p. 316 riporta le valutazioni di Paoli 1872 («Il detto codice [scil. Kirkup] è bambagino, apografo, del più sicuro e chiaro trecento, miscellaneo») e di D’Ancona 1878, p. 46, nota («Tutte queste rime [scil. del Pucci] furono da me copiate di sur un codice sincrono appartenente già al Sig. Cav. Seymour Kirkup, adesso passato in Inghilterra»). Morpurgo 1912, p. v ribadisce, a proposito della mano ‚, di cui riporta un facsimile: «È scrittura che senza esitazione si assegna alla seconda metà del trecento […]. Concorrono assai bene tutti gli indizi esteriori a circoscrivere la età del codice fra il terz’ultimo e il penultimo decennio del secolo xiv » (corsivi miei). 2 De Robertis 1961, p. 123 (= De Robertis 1978, p. 95). 3 De Robertis 1970, p. 69 (= De Robertis 1978, p. 112); De Robertis 1990, p. 429.

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Pucci’s writings», «forse non indipendente dalla volontà dell’autore».1 Il rango del manoscritto, anche testualmente privilegiato, come cercheremo di provare, non sembra sufficientemente valorizzato nelle edizioni recenti. 5. Poche osservazioni sull’edizione dei 5 cantari di Apollonio di Tiro, del resto piuttosto complessa (Rabboni classifica 17 mss. con forti caratteri rielaborativi e una copiosa tradizione a stampa; altri 2 mss., entrambi di tradizione settentrionale e conservati rispettivamente a Venezia e a Verona, sono stati segnalati dallo stesso curatore nell’Errata corrige del volume e da lui studiati nel 2008). Come risulta dallo schema del § 2, in K mancano le ottave 9-50 del i cantare; le prime 24 del secondo; e i 3 cantari finali ad eccezione di iii 1-4. Si capisce quindi che, nonostante la consapevolezza che K rechi «una versione ‘antica’, ormai difforme da quella corrente a distanza di poche decine d’anni» (p. xlix), Rabboni non abbia dedicato a un testimone così gravemente mutilato tutta l’attenzione del caso. Proverò quindi a saccheggiare il suo apparato, ricco anche se non esaustivo (il rilievo è di Motta 1998, p. 560, nota), limitatamente alle zone del testo presenti in K (da lui siglato FK). Sulla scia di un saggio meritamente celebre di De Robertis, Problemi di metodo nell’edizione dei cantari, Rabboni insiste a ragione sull’«attiva collaborazione dei copisti», propria del genere, e sull’apparente assenza di «direttrici sicure» per la classificazione genealogica (pp. vii e viii). Sempre con le sue parole, «un’attività sistematica di variazione e reinvenzione» finì per «alterare in modo irreparabile la matrice pucciana: a cominciare certo dall’elemento più vistoso, la ‘firma’ apposta al termine di ogni cantare» (p. viii). È il caso di ricordare che K è tra i pochissimi codici a conservare la ‘firma’ di Pucci a ii 50 7-8: Che per via le colse (che nel mare gli colse FM FR3, che per mare gli colse FR1, che stravaia li tolse VC)|Antonio in rima l volse FK (Antonio alvosto onore rimar volse FM, Antonio rimare volse FR1, domenego rimar el volse FR3, antonio far la volse VC) K + FM FR1 FR3 VC vs Che l colse intra via (che corse tra via FR2, chelebbe travia FLa, chegli colse per via FRm, cheglj colse tra via FLs Vbo)|Al vostro onor detta è la canzon mia BU + Alii

E va precisato subito che: 1. la serie appena indicata dei mss. che, in aggiunta a K, conservano in tutto o in parte la firma, FM FR1 FR3 VC coincide in sostanza con una sottofamiglia di cui Rabboni ha provato impeccabilmente la consistenza, cioè ·1; 2. il periferico K presenta errori separativi sicuri (per es. a ii 50 2, dove si ha diffrazione in presenza e la lezione buona, di FR2 FLa FLs Vbo, è andava c(h)aendo: -endo, ma il grosso della tradizione, incluso K, banalizza poligeneticamente l’arcaismo nel sinonimo cerc(h)ando, mentre BU escogita, per salvare la rima, l’errore critico cherendo); 3. il solo Kirkupiano sembra conservare d’altra parte – a conferma del criterio pasqualiano delle aree laterali – alcune lezioni originarie dove tutti gli altri testimoni (in seguito: ‰) innovano banalizzando. Citerò solo i casi che seguono: ii 40 5-6 E non credo chasimel chonvenennte|Avese onor giamai alcun cristiano K vs Mai non ebbe onor similmente|Per tal condizion alcun cristiano Alii L’arcaica e polisemica convenente è parola chiave del lessico cavalleresco pucciano. 1 Le citazioni rispettivamente da Morpurgo 1912, p. v; McKenzie 1931, p. cliii; Bettarini Bruni 1984, p. 143.

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ii 41 1 sosprasberghe K vs sopraveste Alii Il tecnicismo soprasberga (7 esempi in tutto nel tlio, distribuiti tra Siena e Firenze e tutti ante 1348; 5 esempi, tutti del Villani, per gli stessi secoli, nella liz) è difficilior rispetto a soprav(v)este (35 esempi nel tlio, 41 nella liz). ii 44 4 quinentro K vs quellegno FR2 FLa FRm FLs Vbo, in quello BU + Alii Due ess. pisani di quinentro e due boccacciani di quincentro nel tlio, tre dei quali si ritrovano nella liz (e si noti, a riprova dell’impegno di Rabboni, che anche la serie FR2 FLa FRm FLs Vbo corrisponde in sostanza a una sottofamiglia individuata dall’editore, ‚1).

Si aggiunga almeno un altro caso nel quale sembra di poter far leva su «direttrici sicure», di natura logica. È noto che la tradizione canterina, proprio come le situation comedies e altri tormentoni a puntate, ha istituzionalizzato a inizio di cantare l’impiego di veri e propri riassunti delle puntate precedenti. Tale, a iii 2, la lezione di K, di FR2 La Rm Ls (ovvero ‚1, eccettuati FN1 e Vbo) e di una larga zona di ·1 (FR1 FR3 FN2 FN3): I’ vi contai ne la sichonda parte come Apollonio […]. con la sua donna insieme si diparte… […]. Or seguirò la legenda e le carte sì come el…

La mossa, cara al Pucci, si ritrova per es. nell’Apollonio, iv 2 («Di Tarsia vi contai nel terzo canto|come…») e nella Reina d’oriente, ii 2 («Io vi contai come lo ’mperatore…»). BU ed altri (l’apparato di Rabboni è negativo) offrono invece una versione rabberciata del riassunto, promettendo di raccontare in futuro vicende già accadute appunto «ne la sichonda parte»: Io dirò al tutto in la seguente parte come Apollonio […]. Or seguirò […].

Come Rabboni (e già De Robertis, da qualcuno invocato, a sproposito, come autoritàalibi per riproduzioni meccaniche o quasi),1 sono convinto che – pur con tutte le difficoltà del caso – un tentativo di stemma sia utile e anzi raccomandabile anche quando si lavora sui cantari; e tuttavia credo, con Avalle, che un importante fattore di scelta tra più stemmi concorrenti sia quello di limitare, nei limiti del consentito, le ipotesi di contaminazione, che frustrano spesso il lavoro dei filologi alle prese con tradizioni complesse cone quella in discussione, ben descritta da Motta 1998, p. 559: «Ogni volta che si procede all’individuazione di un rapporto tra mss., per un certo numero di lezioni (spesso adiafore) che lo corroborano, ve ne sono almeno altrettante che non si lasciano razionalizzare, obbligando a ipotizzare plurimi processi di contaminazione o imbarazzanti poligenesi». Come è ovvio, nel caso dell’Apollonio le modifiche che possono discendere dalle osservazioni che precedono riguardano solo i piani più alti del comples1 Oltre alla citazione di De Robertis in esergo, si considerino almeno l’osservazione seguente: «La stessa individuazione dell’oggetto, di una particolare tradizione o redazione, non potrà uscire che dallo studio dell’intera tradizione»; e la distinzione, avanzata sempre in De Robertis 1961, tra la tradizione, «piuttosto raccolta», del Cantare di Piramo e Tisbe A (stemma bipartito con individuazione di un archetipo ecc.) e casi assai diversi, in cui una classificazione «è un modo di abbracciare il panorama della tradizione, ma non è traducibile in recensio».

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sivamente accettabile stemma di Rabboni (p. xciv) e in particolare la posizione di K (che, in quanto mutilo, avrebbe comunque solo una funzione di controllo). E possono tradursi in un grafo come il seguente, in cui il tipo testuale di K risulta indipendente dalla vulgata, entro la quale si svolge l’ampia attività contaminatoria di cui lo stesso Rabboni ha cercato di precisare i vettori. Se la mia proposta fosse fondata, il riassetto della genealogia – da verificare ora anche alla luce della recente edizione dei volgarizzamenti in prosa dell’Apollonio –1 dovrebbe consentire di monitorare più efficacemente il comportamento del testimone base di Rabboni, BU, le cui uscite isolate sarebbero smentite già in caso di accordo ·1 + ‚1 (per non dire degli accordi K + ‰, K + ·1 o K + ‚1), semplicemente grazie a un disegno stemmatico che promette una buona operatività già nei piani bassi: Archetipo (per ora non dimostrato)





·1 (= FM FR1 FR3 VC ecc.)

K BU ‚1 (= FR1 FLa FRm FLs Vbo ecc.)

Mentre è piuttosto facile provare l’esistenza di ‰, la circostanza che K sia molto vicino al libro pucciano rende difficile, almeno all’interno delle lezioni registrate in apparato, individuare errori significativi comuni ai 2 rami, ovvero l’archetipo. Non mi spingo a chiedermi se sia possibile individuare, dentro lo spesso banalizzante ‰, tracce di una diversa redazione d’autore, che sarebbe peraltro difficile distinguere dagli ammodernamenti e dalle idiosincrasie del copista di ‰ (altro discorso varrà per la presenza di un’ottava copiata due volte in K con varianti sostanziali che passano in ‰: verosimilmente un assetto complesso nel perduto manoscritto originario, che poteva contenere almeno in quel luogo la doppia lezione). 6. Ma la portata più ghiotta o almeno più curiosa del revival pucciano è certo il volume ‘dialogico’ del 2007, che contiene, affrontate, un’edizione diciamo bédieriana della Reina d’oriente, condotta, fin dove possibile, su K, a cura di Motta, e un’edizione computerassisted secondo i dettami della cladistica, a cura di Robins: salvo errore, il primo espe1 Sacchi 2009. Come dimostra impeccabilmente lo stesso S. (ivi, pp. 29-33), il Pucci versificò un affine di B, edito alle pp. 179-248.

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rimento del genere nell’ambito della filologia italiana. Dando bella prova di civiltà e senso pratico, i due studiosi che avevano iniziato a lavorare l’uno indipendentemente dall’altro, hanno infatti «deciso di unire le loro forze», dividendosi i compiti come indicato a pp. vii-viii. L’edizione Motta, di regola intelligentemente conservativa, è, nel suo genere, pregevole. L’essenziale caratterizzazione della tradizione della Reina, definita (in termini ispirati al più volte citato saggio metodologico di De Robertis) «solo parzialmente rielaborativa» (p. xiii), sembra del tutto convincente. È tra l’altro notevole (e conferma la natura tutt’altro che disastrata di K) che «la stragrande maggioranza di versi apparentemente ipermetri» sia riconducibile «alla misura esatta tramite l’espunzione di vocali o sillabe finali di parola dopo liquida o nasale, com’è noto talora scritte ma non pronunciate» e «evidenziate in corsivo» dall’editore (p. cxcii). Molto ragionevole anche il trattamento che si propone, ivi stesso, per le figure prosodiche («Abbiamo adottato la soluzione di considerare ‘normali’, e dunque implicite, sinalefe e sineresi» ecc.). Condivisibile, infine, la scelta di ricorrere a M (cioè il ms. meno difforme da K) per le parti che mancano nel Kirkupiano. Quanto all’ed. Robins, ha carattere programmatico – e presuppone una ben diversa valutazione delle varianti ovvero, con Cerquiglini, della variance del cantare pucciano – la dichiarazione di voler «ricercare una soluzione editoriale innovativa che sfugga all’alternativa fra manoscritto più antico e testo ricostruito su base stemmatica, nella convinzione che nessuna delle due scelte sia in grado da sola, di render conto, sul piano editoriale, dell’ambivalenza del testo e della stessa figura di Pucci» (pp. xiv-xv). La nuova soluzione consiste in una classificazione genealogica condotta «non solo attraverso i metodi della filologia tradizionale, ma anche sperimentando, in sostituzione della nozione di errore, quelli quantitativi “orientati” della cladistica», cioè uno dei frutti più recenti delle tassonomie sviluppate, grazie alla diffusione dei pc e alle applicazioni della biologia evoluzionistica, lungo la linea Dom Quentin-Dearing-Froger: dei quali metodi e applicazioni lo stesso Robins riassume a beneficio dei lettori italiani i presupposti e le caratteristiche fondamentali (pp. lxxvii sgg.).1 Un assioma dei seguaci del nuovo metodo e (già) di Quentin, concordi anche nel negare legittimità alla nozione di errore, è che – a differenza che per i lachmanniani (antiscientifici) che cercherebbero subito di individuare, soggettivamente, gli errori significativi – tutte le varianti devono entrare, allo stesso titolo, nella classificazione e che solo in un secondo momento, una volta costruita la catena che lega tra loro i mss., si deve orientare il grafo ricorrendo agli errori. La costruzione delllo stemma presuppone infatti, da Dom Quentin in giù, almeno due tappe: a) enchaînement; b) orientation (per es., Froger 1968, pp. 78 sgg.; Bourgain, Vielliard 2002, pp. 52-53; Motta, Robins 2007, pp. lxxvii-lxxx ecc.). È appena il caso di notare che, al di là dei miti di fondazione (sempre molto drastici) che Robins sembra condividere, in pratica le posizioni sono meno lontane di quanto non sembri, poiché: 1. anche i famigerati lachmanniani in una prima fase collazionano e basta, e poi – di fronte a serie larghe di varianti che caratterizzano insiemi di mss. (famiglie potenziali) – decidono che cosa può o non può essere un errore; 1 Ma si vedano almeno – oltre alla notevole rassegna dello stesso Robins 2007 – le raccolte di van Reenen, van Mulken 1996; Macé e a. 2006, entrambe con ampia bibliografia pregressa.

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2. gli stemmatologi più avvertiti sembrano aver capito che per costruire stemmi non illusori alcune decine di errori significativi servono più di migliaia di varianti geolinguistiche o flessionali, massimamente poligenetiche (per es. Salemans 1999 sottolinea che «only very few variants can be building tools», propone condivisibili regole di selezione degli errori significativi e parla esplicitamente, già nel titolo dei suoi lavori, di un aggiornamento del metodo di Lachmann). Ma torniamo all’ed. Robins. 7. Lo studioso propone un tipo di analisi cladistica dura e pura, lontana dalle ‘concessioni’ di Salemans al neolachmannismo e fondata esclusivamente sulle varianti (anche se con giustificazioni non petitae a volte un po’ ingenue, come quelle degli ultimi due capoversi di pp. lxxix-lxxx). Assistito nella gestione di 1450 varianti (o luoghi di variazione? non sono sicuro di aver capito bene) degli 8 testimoni ‘completi’ della Reina dal software cladistico MacClade 4.06., capace di individuare il Most Parsimonious Tree (= mpt), cioè l’albero che «richiede il minor numero di […] tratti innovativi introdotti indipendentemente» (p. lxxxvii), Robins approda alla catena che segue: S U V ·

Z

K

Á



M

B

F

Nel tentativo di orientare lo stemma, Robins individua 16 luoghi a suo dire significativi, che permettono di individuare «se non “errori”, almeno “lezioni scorrette”» (la piroetta concettuale si trova a p. cii). È degno di nota che Robins senta l’esigenza di escludere le varianti sostanziali che si trovano «nel verso finale di un cantare» (p. ciii) e consideri i congedi, fatalmente investiti dal rimaneggiamento attualizzante dei canterini (si pensi, per es., alla soppressione o alla sostituzione della ‘firma’ del Pucci), in qualche misura meno affidabili degli altri luoghi testuali (pp. cvii-cix). Riporto lo stemma da lui proposto a p. cxii, certo, come lo studioso sottolinea, ‘provvisorio’, ma non diversamente da qualsiasi altra analoga induzione dei filologi:

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paolo trovato Pucci ˆ

·

V

S



Á

a

U

B

F

K

M

stampe

L’edizione di Robins usa come testo-base V, «scelto perché quasi completo (il che garantisce una coerente tessitura linguistica) e perché il fiorentino del copista presenta poche forme e quasi nessuna grafia che sarebbero state insolite per Pucci» (pp. clxxxiiiclxxxiv). Sulla base dei ricchi apparati di varianti procurati dallo stesso Robins e lavorando ovviamente solo sui mss. non frammentari e sulle peraltro ampie sezioni di testo presenti in K (dove il testo inizia a ii 9 5 e mancano le ottave iii 9-10), un neolachmanniano come chi scrive inclinerebbe invece a uno stemma come quello tracciato qui sotto: Archetipo ( da me non dimostrato )1

Ì Ë ‰ · (= SUV)

‚ M

z (= incunaboli a, b ecc.)

B

K

F

1 Ma si vedano, al riguardo, i numerosi indizi raccolti, in questo stesso volume, da Bettarini Bruni, che, pur confermando le linee essenziali del mio stemma, precisa significativamente anche l’articolazione interna di ·.

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Anche in questo caso, come in quello dell’Apollonio, lo stemma a cui sono approdato non è in termini astrattamente morfologici lontanissimo da quello proposto dall’editore critico, ma opera in modo radicalmente diverso, in virtù del diverso ‘peso’ di K e M quando (quasi sempre) è necessario applicare la legge della maggioranza (e si noti – una volta avvertito che U corrisponde in Rabboni a BU, M = FM, B = FRm, V = Vbo – che lo stemma della Reina non smentisce, ma ricalca, gli snodi essenziali di quello, più folto, dell’Apollonio; e non si differenzia troppo, a giudicare dal pur datato avvio di classificazione e dall’apparato offerti da McKenzie, nemmeno dalla genealogia, ancora più ricca, dei mss. superstiti delle Noie).1 Non occorre aggiungere che la vulgata Ë è l’unica zona dello stemma dove si percepisce una forte attività contaminatoria (una dimostrazione analitica nell’articolo di Bettarini Bruni che segue). La differenza tra i due stemmi della Reina si spiega sostanzialmente con i metodi seguiti; e le indicazioni più istruttive che mi sembra di aver ricavato dall’esperimento riguardano appunto un possibile punto debole della procedura seguita da Robins. A quanto pare, quando i cladisti più rigorosi (o meno eclettici) passano alla fase 2 (orientare lo stemma), non sono portati a mettere in discussione le coppie tassonomiche suggerite dall’incatenamento computer assisted e tanto meno l’assunto per cui «tutte le ramificazioni di un albero sono bifide» (così Robins a p. lxxxviii). Nella fattispecie K e M continuano a rimanere ‘legati’ a uno snodo comune anche dopo che la catena è stata orientata e tradotta in uno stemma. Ma mentre le asserite consanguineità di BF e di SUVz (con z, ovvero a e b, Robins indica i primi incunaboli) sono facilmente confermabili anche in termini neolachmanniani (grazie a serie ampie di errori congiuntivi), le frequenti coincidenze tra K e M – la presunta famiglia Á segnalata dal software MacClade nella fase di incatenamento (pp. xciv sgg.) – sono, a mio giudizio, tutti accordi in lezioni buone o almeno indifferenti (inclusi, naturalmente, i tre casi, ii 36 7, iii 19 3, iv 16 3, che Robins considera invece orientativi e che discute alle pp. cv-cvi). Se non rinunciamo a priori a ragionare sulla presenza e sull’assenza nel testo della ‘firma’ di Antonio Pucci (una ‘regola’ supplementare di Robins, di cui è francamente difficile comprendere la ratio),2 salta all’occhio che, alla fine dei cantari ii, iii e iv (nel

1 McKenzie 1931, pp. cxlix-clxii. Basandosi prevalentemente sulla quantità e sull’ordine delle terzine presenti nei vari mss., McKenzie, pur senza tracciare uno stemma, individua due classi, la prima formata dal nostro K (siglato dall’editore A, per la sua importanza) e altri 4 mss., più conservativi (sottofamiglia x), la seconda dal nostro U (per McKenzie, K) e da altri 16 mss. La consistenza della ii classe sembra sicura. Ma si avverta (apparato McKenzie alla mano) che: 1. il Kirkupiano è l’unico ms. a recare il distico finale con la firma di Pucci («Antonio puci ne fu dicittore|ghuardivi senpre Christo salvatore»); 2. i 4 mss. di x presentano innovazioni smentite dall’accordo tra il Kirkup e la ii classe (è significativo che lo stesso McKenzie 1931, p. 1, nota, avverta, all’inizio del suo apparato: «x means all the manuscripts of group i except A […]; y means all the mss. of group ii that contain the verses in question»); 3. il più conservativo dei mss. della ii classe concorda spesso in lezione buona con la i. Infine: 4. la ii classe (nel complesso contaminata) sembra derivare da un affine di D (banalizzazioni almeno in qualche caso congiuntive con questo o quel ms. x ai vv. 25, 70, 76, 82, 90, 92, 105, 128, 170, 174, 184, ecc.; omissioni di terzine condivise con mss. x ai vv. 187-195, 232-237, ecc.). Di nuovo, insomma, sembra che la traduzione grafica più appropriata sia uno stemma bipartito nel quale l’isolato K (ben inteso, anche per le Noie non infallibile) rappresenta un ramo ancora molto vicino all’archetipo e tutti gli altri mss. documentano vari stati della vulgata quattrocentesca, variamente aggiornata dai copisti. 2 Peraltro, sembra che i matematici che assistono i critici testuali nell’applicazione delle procedure cladistiche suggeriscano con disinvoltura eccessiva la rimozione di varianti in qualche misura ‘scomode’ rispetto alle attese. Con le parole di Salemans 2002: «Most of the times the development of chains by

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primo, K manca), la firma di Antonio è presente solo nel Kirkupiano, affiancato una volta dal solo U e due dal solo M. Sappiamo che il Pucci tende a firmare la sua produzione e dunque, anche in questo caso, K conserverà meglio degli altri l’assetto tardotrecentesco del testo. Anche in altri casi di ampia diffrazione, il Kirkupiano reca, da solo o con testimoni che cambiano di volta in volta, la lezione con ogni probabilità genuina: *iii 17 6 ben per non diviso K + SB] ben per non divisi M, per mio aviso U, quel bel fiordaliso z, ben per noviso F *iv 35 7 barbani (: Romani) K] balbani U, cani U, baroni sovrani S, burbani B, baroni M

La lezione per non diviso di K + SB è un tecnicismo giuridico caro a Pucci (Glossario Motta, s.v. diviso). Barbani, del solo K, è già nel secondo ’300 toscano un termine démodé (nel tlio, ess. solo in Bono Giamboni e Guido da Pisa; nessun esempio toscano nella liz). Se continuassimo a lavorare su errori o innovazioni significativi (cioè non poligenetici), come fa più sotto Bettarini Bruni, potremmo vedere che – a differenza di K – M condivide numerose deviazioni con la tradizione più recente. Come ho anticipato, le conseguenze di questa diversa classificazione non sono irrilevanti. Mentre nello stemma di Robins ci troviamo di fronte a una recensione aperta con soluzioni equiprobabili (· + ‚ = Á), nello stemma che chiameremo per comodità Bettarini Bruni-Trovato l’accordo K + M o K + Ë basta a ricostruire con sicurezza la lezione dell’archetipo, ossia della redazione più antica del cantare cui siamo in grado di risalire, consentendoci di valutare con maggior precisione anche gli apporti dei successivi rifacitori, ragionando volta a volta dell’editio U, S, ecc. (e magari anche di procurare edizioni elettroniche di tutti i testimoni manoscritti e delle prime stampe). Ben inteso, non presumo che le mie deduzioni abbiano validità generale, e mi auguro anzi che, a titolo sperimentale, operatori diversi tentino di editare un certo numero di testi tanto con criteri lachmanniani quanto secondo i dettami della stemmatologia (ricordo ai filologi romanzi che un banco di prova privilegiato della cosiddetta new philology è la tradizione di Chrétien de Troyes). Sono tuttavia tentato di osservare che il trasferimento indifferenziato dalla biologia alla critica testuale di procedure e programmi informatici cladistici pone forse più problemi di quelli che vorrebbe risolvere. Pur convinto che il ricorso al pc sia fondamentale per assistere il critico testuale, soprattutto quando si analizzino tradizioni complesse, non mi pare che rinunciare sistematicamente a servirsi di indicazioni non opinabili in nome di una più serrata convergenza di metodi con i cugini biologi sia vantaggioso per i nostri studi. A differenza dei biologi, che una volta tanto hanno di fronte a sé dati più ambigui, più difficili da interpretare dei nostri, mi pare che un uso prudente dei pochi errori logici presenti nella tradizione (di solito non più del 5% dell’estensione del testo) ovvero di indicazioni areali e di cronologia relativa incontrovertibili come quelle che ci vengono dalla storia linguistica, dalla codicologia ecc., ci permetta di arrivare (con una strumentazione, se si vuole artigianale, ma più raffinata) a esiti stemmatici meglio fondati di quelli ottenibili ricavando, a partire da una banca dati ricchissima di varianti inutili (perché poligenetiche), il mitico (ma casuale) mpt. Altro discorso farei, ben inteso, per le procedure messe a punto da Salemans, che, pren-

these mathematicians is undocumented. That is a serious problem. For instance, mathematicians throw away rather easily variants that cause ‘bias’ in a chain. I have never seen a (theoretical) justification about this (de)selection of variants. If there is no justification of the removal of ‘difficult’ variants, this has to be considered as uncontrollably subjective, and therefore unscientific activity!» (corsivi miei).

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dendo le distanze dai suoi compagni di strada,1 fonda la classificazione su una ridottissima scelta di varianti che è ragionevole ritenere monogenetiche e propone di fatto, come ho già accennato, un neolachmannismo computer assisted di indubbio interesse. 8. Concludo questa occasionale scorribanda tra i testi del Pucci con alcune note, si dica pure linguistiche, su singole soluzioni testuali o esegetiche delle edizioni recenti. Serventese Onnipotente re, 25-28: «Noi siamo a gran periglio!|Se Lucca viene a signoria del Giglio,|di Pisa muoia innanzi ’l padre e ’l figlio,|che ciò sia». L’interpunzione non va. Si corregga: «Noi siamo a gran periglio|se Lucca viene a signoria del Giglio!|Di Pisa muoia innanzi ’l padre e ’l figlio|che ciò sia». Ai vv. 34 sgg.: occorre un punto alla fine del v. 34 e va eliminato il punto del v. 36. Al v. 185 l’ed. legge «col magio’ onor che si potes[s]e avere». Ora, magio (cioè maggio) non sarà una riduzione da maggior, ma forma nominativale come nella fiorentina via Maggio: l’apostrofo è quindi fuori luogo. Al v. 249, «Ma li cava[lier] de Fiorentin cedeano», l’integrazione cava[lier], impossibile per ragioni prosodiche, è comunque superflua, documentatissimo essendo in it. ant. l’uso di cavalli (in poesia anche cavai o, come nel caso in discussione, cava’) per ‘cavalieri’ (basti il riscontro del v. 243 «onde molti caval[l]i fino a l’os[s]a | fur fediti»). Al v. 265, «Sì come dice chi ne salì il tenore», la nota spiega: salire ‘diffondersi’ (dunque: intransitivo). Ma subito dopo: «come dice chi ne (o vi) trasmise il racconto» (dunque: transitivo). Entrambi i valori di salire non sembrano documentati. Inoltre, anche questo verso è ipermetro, mentre (come risulta anche dalle indicazioni prosodiche di Motta) il Pucci è un artigiano decoroso. Ipotizzo quindi una sorta di dittografia prodottasi in K o a monte di K «…chi ne sal il tenore», da ridurre a «…chi ne sa ’l tenore». Reina d’oriente. Il glossario, s.v. barbano (iv 35 7: «I’ son un de’ barbani | di Macometto, Idio degli Romani»), spiega ‘seguace’, ma, data l’indeterminatezza temporale e geografica in cui la vicenda si svolge, non si capisce perché non si possa intendere, come di norma, ‘zio’ (un luogo parallelo dello stesso Pucci nel serventese Onnipotente re 288). Sempre nel glossario, s.v. quale, la formula sanza quale di ii 21 4 («Perché tal novitade?|Tu mostri sanza quale tale apitito») è spiegata in modo poco persuasivo (‘Senza la quale [novità] non dimostri un tale desiderio’). Senza quale vale in realtà ‘senza ragioni, sine quare’ (riscontri nel teatro dell’Aretino: Filosofo ii 7 1, «non è senza quale lo sciorinamento che ha fatto d’ogni sua cosa»; altri ess. nella prima Cortigiana iv 6 1 e nella Talanta v 10 1).

Ma si tratta, come è ovvio, di poche minuzie all’interno di edizioni benemerite e utili, anche se in diverso modo, per una miglior conoscenza di una zona cruciale del nostro Trecento. 1 «From about the eighties of the 20th century, according to me, something went wrong… Modern textual scientists, modern textual criticism, did not want to be accused of unscientific behavior anymore. They wanted to act like and to be respected as true scientists, like mathematicians. They met very friendly colleagues of mathematical departments of their universities (true scientists!) who were willing to build, inductively, chains out of almost every package of textual variants (‘facts’) delivered. Many modern textual scientists were thrilled: in their view, chains produced by mathematicians had to be, almost by definition, objective. At last all subjective flaws of earlier text critical methods had been mastered! The ultimate goal had been achieved: textual criticism (and the building of text-genealogical trees) had become a part of true science! Most of the times the development of chains by these mathematicians is undocumented. That is a serious problem. For instance, mathematicians throw away rather easily variants that cause ‘bias’ in a chain. I have never seen a (theoretical) justification about this (de)selection of variants. If there is no justification of the removal of ‘difficult’ variants, this has to be considered as uncontrollably subjective, and therefore unscientific activity» (Salemans 2002). Diversamente sfumate e comunque molto interessanti anche le posizioni di Canettieri e a. 2008.

ii.

ESERCIZ IO SUL TESTO DELLA «REINA D’ORIENTE»: È POSSI BI LE UN’EDIZIONE NEOLACHMANNIANA? Anna Bettarini Bruni* Firenze

1. Che la coincidenza di studio su uno specifico argomento si traduca in lavori tra loro connessi non è fatto consueto e nel caso potrebbe apparire quale effetto della generosa operazione a quattro mani che ha riportato sugli scaffali il cantare del Pucci.1 La sollecitazione di Paolo Trovato, già formalizzata nelle sue linee generali, mi ha colto con quel libro tra le mani e ha contribuito a orientare diversamente il mio lavoro, da una finalità recensoria a un’applicazione dimostrativa da affiancare all’intervento di carattere più teorico. A fare da cerniera la questione di metodo posta in primo piano dalla soluzione sperimentale adottata dai due editori. Trovato pone il focus della sua analisi nel Nuovi Acquisti 333, codice capitale per l’opera di Pucci, rimarcando l’assenza anche nei lavori recenti di una descrizione del manoscritto con supporto specialistico: tale rilievo, che punge anche chi come me veleggia da troppo tempo intorno all’autore, riflette nello specifico la considerazione di Dionisotti, in contesto relativo proprio alla letteratura canterina, la quale merita di essere allogata qui a giusto memento: La bibliografia dei nostri antichi testi è piena zeppa di valutazioni e datazioni di mss. fatte a lume di naso, senza manco prendersi la briga di tentare una elementare analisi paleografica, da studiosi competentissimi in altre discipline, non in quella richiesta da tali valutazioni e datazioni. Pertanto, se accada, che purtroppo non è caso frequente, di avere su un ms. il verdetto paleografico di un competente, bisogna farne tesoro, né è lecito sbarazzarsene senza fortissimi argomenti che dimostrino quel verdetto paleograficamente errato.2

A compensare tale mancanza, nelle pagine che precedono si riferisce di un consulto – consulto piuttosto che expertise, perché il giudizio è dato sullo stesso n.a. 333 con elementi non organici e in assenza dell’altro codice Plimpton 101, allegato al precedente o con esso composito (anche questo è aspetto da studiare), scritto comunque dalle stesse due mani. Il risultato priverebbe il manoscritto della palma di vetustà che lo ha sempre accompagnato e che gli ha meritato un aprioristico rispetto di appartenenza allo scar* [email protected] 1 Motta, Robins 2007. Per le altre opere del Pucci mi servo delle seguenti abbreviazioni: Apollonio = Antonio Pucci, Cantari di Apollonio di Tiro (si cita dall’ed. Rabboni 1996); Bruto di Bertagna = Antonio Pucci, Bruto di Bertagna (si cita da Benucci 2002b); Cantari della guerra di Pisa = Antonio Pucci, Guerra tra’ Fiorentini, e’ Pisani dal mccclxii al mccclxv (si cita da Ildefonso 1772-1775, iv, pp. 189-266; Centiloquio = Antonio Pucci, Centiloquio (si cita da Ildefonso 1772-1775, iii-iv); Contrasto delle donne (Il) = Antonio Pucci, Il contrasto delle donne (si cita da Pace 1944); Gismirante = Antonio Pucci, Gismirante (si cita da Zabagli 2002); Libro = Antonio Pucci, Libro di varie storie (si cita da Vàrvaro 1957); Madonna Leonessa = Antonio Pucci, Madonna Leonessa (si cita da Benucci 2002a). 2 Dionisotti 2003, p. 121.

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so manipolo di codici latori di opere canterine nei termini del secolo xiv, questo al di là dei meriti verso l’autore in corpore. Se un’analisi completa confermerà il verdetto, ad altra pregiudiziale varrà la pena d’appellarsi: a quella pasqualiana dei recentiores non deteriores. Infatti, anche se aggregato alla più ampia congerie dei manoscritti del ’400 che trasmettono cantari,1 il cosiddetto Kirkupiano non perde nulla del suo valore per l’opera di Pucci, i requisiti verso la quale si comprendono bene se s’immagina di sottrarre quanto quel codice singolarmente vi apporta: meno un cantare, drasticamente ridotta la produzione dei serventesi e quindi quasi cancellata la testimonianza scandita degli eventi cittadini che costituisce l’ossatura dell’impegno civile. Allontanato nel concreto dall’area culturale dell’autore, o addirittura dal suo controllo diretto (piaceva in altri tempi anche a me evocare in proposito l’occhio del Pucci), il codice acquista punti d’intenzionalità conservativa del suo modello per le caratteristiche della confezione, anche trascurando qui, perché pertengono al più preciso ritratto, alcuni tratti arcaizzanti di corredo. Si constata infatti che la trama delle lunghe rubriche, e in alternanza delle didascalie rimate, nonché della sola firma, va ben al di là, quantitativamente e qualitativamente, della tensione di qualsiasi copista e corrisponde in pieno all’impegno qualificante di un libro di prima mano. Che tale volontà sistematica possa risalire a quel Pucci, dichiarato, ma anche forzoso e infastidito, poeta d’occasione, il quale non ha posto rimedio a che la massa delle rime si disperdesse in mille rivoli, non apre alcuna contraddizione e corrisponde alle altre circostanze in cui lo stesso pone la marca dei diritti d’autore.2 Insomma, l’aura del manufatto non dovrebbe venire intaccata, anche se, in tempi desacralizzati, resta affidato allo scrigno della memoria il bozzetto oleografico che si ricava dalla lettera di D’Ancona a Veselovskij, introduttiva a un pioneristico articolo: Io vi vengo innanzi con un componimento poetico del trecento che certo non vi giungerà nuovo: poiché non credo vi debba esser uscito affatto di mente come, nell’autunno del 67, mentre al di fuori tutto era tumulto d’armi, noi ci eravamo rinchiusi in una solitaria stanzetta a decifrare pazientemente quel codice antico delle rime di Antonio Pucci, che il buon vecchio cav. Seymour Kirkup ci aveva concesso con generosa fiducia e con permissione di trascriverne ciò che più ci piacesse.3

I caratteri esterni del manoscritto qui sopra riferiti corrispondono alla qualifica di apografo diretto assegnata nel vademecum col quale Morpurgo accompagnava il passaggio del codice alla Biblioteca Nazionale di Firenze,4 qualifica che dal punto di vista testuale non può essere acriticamente accolta ma pretende conferme dall’analisi, senza pregiudicare l’inserimento nei ranghi del testimone blasonato. Non si può dire che fin qui gli editori non abbiano corrisposto all’imparzialità richiesta, anzi si è, al contrario, sfiorato il rischio di deprimere il valore della testimo1 Per il numero ridotto di codici del sec. xiv contenenti cantari e sull’incremento delle testimonianze nel secolo xv si vedano De Robertis 1961, p. 121; De Robertis 1990. 2 Per uscire dalla casistica del codice si ricordi l’acrostico costruito con l’iniziale dei canti xxiv-xliii del Centiloquio (Ildefonso 1772-1774, iii-iv): Antonio Pucci Fiorentin. Nell’antologia poetica di sua mano – il Riccardiano 1050 – nella tavola autografa che comprende anche la parte mancante del codice vengono segnati solo pochi nomi: in rubrica solo Dante e Petrarca, mentre una volta per ciascuno, a fianco a un loro testo si scrive il nome di Guido a indicare Cavalcanti, Fazio (degli Uberti) e Antonio, per lo stesso Pucci. 3 D’Ancona 1869-1870, p. 397. 4 Morpurgo 1912. M. espone le «ragioni più intrinseche» per le quali «il nostro esemplare non è lontano dall’autore», quali le didascalie e le sottoscrizioni, rilevando che «questo codice sarà, dunque, fondamentale per l’edizione delle rime di Antonio Pucci».

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nianza, che è la constatazione di Paolo Trovato, ad ampio giro sulle recenti edizioni pucciane. Il critico apre all’ieri e recupera i risultati di Renzo Rabboni nell’edizione dei Cantari di Apollonio di Tiro, per i quali K è testimone frammentario ma assai importante, sia per la presenza di varianti rispetto a tutti gli altri manoscritti, sia per la registrazione di una fase di non pieno assestamento del testo. Il movimento entropico, nelle poche decine di ottave trasmesse, disorienta l’editore, che rovescia il segno del variantismo e lo giustifica come risultato di precocissima contaminazione, accantonando nei fatti il testimone inquinato. Dal troncone improduttivo del disegno stemmatico di Rabboni lo recupera Trovato, discutendo le lezioni relativamente ai lacerti in cui è presente anche K, per proporre un nuovo assetto dell’albero e riaprire su nuove basi la fase della restitutio per l’intero testo. Ci si augura che sia lo stesso Rabboni a raccogliere gli stimoli, e non c’è forse da disperare s’egli è ritornato anche di recente su un aspetto minore della tradizione dell’Apollonio, dimostrando di non avere mai archiviato l’antico argomento.1 2. Col cantare della Reina comincio ad operare nella tavoletta del dittico che mi spetta col tramite appunto della nuova edizione. La quale, nei capitoli introduttivi, impatta subito le analisi di metodo con una progressione dalle problematiche relative al genere, che fanno capo, lungo il filo di lavori dello stesso autore, all’intervento di De Robertis, eponimo di tutta la questione, per affrontare quelle specifiche, non coincidenti, ma che trovano nelle prime la sponda giustificativa. Per il cantare del Pucci, presentato nella sua ‘anomalia’ di testo autoriale, con una trasmissione scritta in apparenza controllabile, ma nello stesso tempo ad alto rischio di mutazioni rielaborative, si prospetta una soluzione originale che non scarti le alternative «fra manoscritto più antico e testo ricostruito su base stemmatica nella convinzione che nessuna delle due scelte sia in grado, da sola, di render conto, sul piano editoriale, dell’ambivalenza del testo e della stessa figura di Pucci». Mentre mi permetto di segnare con virtuale interrogativo l’associazione finale,2 noto che le direzioni metodologiche così sinteticamente presentate trovano le loro ragioni fuori campo, piuttosto nel pregresso dei due studiosi, in particolare per Motta, che qui si fa carico di curare il singolo manoscritto K, nell’articolata recensione ai Cantari di Apollonio, dove vaglia la periclitante costruzione dello stemma codicum e agita «il rischio di scivolare in una sorta di (vano) accanimento terapeutico (?) sulla tradizione»;3 per Robins in un lungo articolo in cui dà un quadro storico delle modalità teoriche con cui vengono gestite le modificazioni in biologia e delle varianti in ecdotica, considerando possibile un ponte tra i metodi applicati.4 Lo spazio dedicato nel libro alle motivazioni dei procedimenti è impari: Motta dà per legittimata, quasi implicitamente sulle autorevoli tesi derobertisiane, la proposta dell’unico testimone in ragione della sua antichità, indugiando sulla descrizione linguistica per creare un retroterra ai criteri del1 Per l’edizione Rabboni 1996. Sul problema editoriale dei cantari è tornato lo stesso nella lunga recensione-articolo Rabboni 2003 e, con particolare riferimento alla tradizione veneta dell’Apollonio, in Rabboni 2008. 2 È possibile qui solo richiamare come e quanto Pucci abbia perseguito coerentemente il suo progetto di cultura vulgata, lavorando in scrittura, prosastica e in prevalenza poetica, mentre niente sappiamo di eventuali pratiche di recitazione diretta. Inutile ricordare che l’appellativo dicitore ampiamente usato nelle clausole è sinonimo riconosciuto di ‘poeta’. 3 Motta 1998, p. 560. 4 Robins 2007.

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la resa;1 Robins invece illustra con puntiglio didascalico le diverse fasi applicative, in continuità con quel precedente lavoro. Il punto d’incontro che motiva l’abbandono della strada maestra del metodo e che dà corso all’esperimento è indicato nel fatto che «la tradizione della Reina d’Oriente resiste fortemente al concetto filologico di ‘errore’, poiché non presenta casi chiari di errori separativi e congiuntivi»; si volge così in diagnosi irreversibile in base alla non evidenza (che però non sempre corrisponde con la non esistenza) di lezioni erronee, una sintomatologia di per sé almeno controllabile, se è pur vero che la ‘resistenza’ all’errore è la reazione normale di ogni copista. L’inapplicabilità affermata, non dimostrata, dei principi della logica lachmanniana induce dunque da un lato a editare il manoscritto più antico e di maggior autorevolezza sulla traccia di chi in territorio sfavorevole si era già avventurato,2 dall’altro costituisce la condizione per la pratica dell’analisi cladistica – integrata con la statistica e da una parziale «recensio qualitativa» – al fine di costituire il testo col fondamento di tutte le testimonianze. A tutti e due i risultati singolarmente dovrebbe essere riconosciuta validità di rappresentazione autosufficiente, pur coi limiti dell’ipotesi di lavoro, in forza fiduciaria del relativo metodo adottato. Questo vale tanto più per l’operazione condotta sulla pluralità delle testimonianze, di un lavoro cioè orientato in positivo a un’alternativa praticabile a tutto campo (l’edizione su un solo manoscritto assume fin nel principio ad excludendum la sua parzialità), ma lo stesso operatore avverte che a ovviare alle caratteristiche della tradizione non è bastevole lo stesso procedimento che proprio ad esse pareva poter meglio corrispondere. Da qui il ‘dialogo’ dei due testi a fronte, che dovrebbero dare un’immagine compiuta non tanto nello sviluppo piano della sinossi, ma nella visione binoculare, con l’intento di restituire ‘in rilievo’ le modifiche. Fermi alla metafora ottica ci si domanda se, per raggiungere l’effetto stereoscopico, non si richieda almeno il supporto di un commento puntuale che aiuti nella sovrapposizione, dal momento che senza la dovuta guida l’occhio è stimolato solo al confronto contrappositivo.3 Tuttavia, il lettore non viene certo lasciato senza stimoli, se si considerano gli apparati in fascia a piè di pagina, l’uno a minima registrazione degli scarti per l’edizione a

1 Sulla rappresentazione del testo a manoscritto unico si avverte che «si è proceduto con criteri particolarmente conservativi», sui quali si potrebbero avanzare riserve di funzionalità se come dichiarato «si tratta di un’edizione critica e non diplomatica o diplomatico-interpretativa». Tormentato risulta il testo a base M per il primo cantare, con tolleranza di evidenti erronee ripetizioni in clausola, per non dire di altre precarie situazioni testuali che risulteranno qui dalle tavole. Per quanto riguarda K nella mano principale ‚, viene riprodotto sempre il raddoppiamento della dentale sorda, un fenomeno che si riconosce essere in molti casi solo grafico, e la selezione sarebbe necessaria per acquisire al fenomeno un significato linguistico che è quello che interessa ai fini editoriali. Segnalo due casi significativi che riguardano la mano · a proposito della grafia ngi/gi per la nasale palatale, casi nei quali l’editore non è intervenuto come ha fatto invece giustamente altrove (vi si fa riferimento nella descrizione linguistica a p. cxxiv): ii 28 8 regiare varrà regnare, il lemma è registrato nel glossario «come possibile incrocio tra reggere e regnare»; di «incrocio» si parla anche a proposito del lemma insagiata, ma in realtà il ms. ha insegiata evidentemente per insegnata nella coppia di aggettivi che ricorre anche in Gismirante ii 13 1:«savia ed insegnata». Altre due voci di glossario non hanno ragione di essere: iii 38 4 inguenti ma nel ms. unguenti, così alungare relativamente a iv 19 1 alungatti mentre il ms. scrive dilungatti come anche gli altri mss. 2 De Robertis 1961, p. 118 parla di «esperienze di un lachmanniano in un territorio non lachmanniano». 3 Insistono con esemplificazioni sulla dinamica testuale i titoli richiamati in Motta, Robins 2007, p. xvi, come modelli teorici: Segre 1971, Bettarini 1978 e, particolarmente puntuale nel commento, Fontana 1992.

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manoscritto unico, l’altro giustificativo del testo a base plurima, e in sezione separata quello «completo della tradizione testuale della Reina d’Oriente», encomiabile per la completezza anche delle singulares, le quali, si sa, per quanto spostino la lettera in orbite sempre più distanti, possono illustrare le cause di iniziale allontanamento. Su quei regesti ho acquisito una campionatura di lezioni che sono venute ad arricchire l’elenco di quelle selezionate a testo, legittimate dai rispettivi editori. In più casi non è stato difficoltoso constatare la flagranza dell’errore, e questo è stato di stimolo per estendere, non senza esito, l’osservazione ad altri luoghi critici, dove la tela grossa della testura aveva quasi assimilato il rammendo all’ordito, a provare la funzionalità dei ferri convenzionali, già accantonati. A questo punto la ricerca s’innestava su quella di Paolo Trovato e confermava coi dati aggiuntivi delle tavole lo stemma da lui proposto. Per quanto esteso a tutto il testo, il mio lavoro si presenta con le peculiarità d’indagine esplorativa che profitta dei materiali già sgrossati, in subordine all’opera altrui e di conseguenza non pretende di surrogare la completezza della discussione critica. L’esercizio qui svolto sconta quindi i suoi limiti di fondo. 3. La prima risultanza generale conferma quanto detto dagli editori, che la trasmissione della Reina non è segnata da interventi rielaborativi estesi e che anche le alternative puntuali sono piuttosto controllate: il pulviscolo delle varianti è più denso nei piani bassi, anche se qualche circoscritta impennata rifacitoria non manca nemmeno nei testimoni più piazzati. Del morbo endemico della contaminazione, riconosciuto come particolarmente aggressivo nella tradizione dei cantari, si hanno alcuni segnali circostanziati, dei quali si dà parzialmente conto (e si legga questo come dichiarato difetto) dal momento che non impediscono né alterano il disegno dell’albero. Non si insisterà nemmeno su alcune corrispondenze trasversali, passate ex silentio come non probatorie, in quanto mi sono astenuta, con l’eccezione di alcuni casi implicanti, dal discutere il fenomeno della poligenesi. Mi pare però di potere scagionare la princeps e la tradizione a stampa da essa derivata (z), almeno dalla colpa originaria che Robins le contesta, cioè di essere frutto di sistematico confronto e fusione. Pur con qualche intrigo negli snodi più remoti che sono meno marcati, lo svolgimento delle operazioni di verifica dei rapporti tra i testimoni è risultato praticabile senza particolari difficoltà, in base alle categorie tradizionali di errore e variante, essendo richiesto semmai, ma non pare sottolineatura d’eccezione, un certo puntiglio indiziario. È stato così possibile verificare sul campo l’adattabilità del metodo, pur con tutte le accortezze che derivano dalle sedimentate revisioni teoriche e dalle concrete correzioni applicative. Nella progressione scalare i raggruppamenti si rilevano in modo sempre più definito, con l’isolamento di K contrapposto a tutti gli altri manoscritti nel disegno dello stemma bipartito.1 In sostanza, il procedimento ecdotico confer1 Del supporto teorico a questo mio percorso faccio emergere soltanto l’esortazione (che è anche un monito) di Contini 1953, p. 313: «L’eterno circolo e paradosso della critica testuale è che errori predicati certi servono a decidere l’erroneità di varianti per sé indifferenti: un giudizio non soggettivo si fonda sopra un’evidenza iniziale, che, fuor di casi particolarmente grossi, è o rischia di essere soggettiva. Per sfuggire al corto circuito occorre non stancarsi di discernere l’errore sicuro e la variante adiafora, almeno nei raggruppamenti alti dell’albero, poiché nei suoi piani bassi poco importa che la variante sia palesemente cattiva o indifferente; tanto è già in minoranza, sprovvista di autorità. Quella tal cernita s’impone tanto più energicamente se la tradizione abbia […] due rami».

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ma quanto si poteva dedurre dalle caratteristiche esterne, cioè la posizione decisamente alta del Kirkupiano e la sua vicinanza al modello, come dimostrato dalla tipologia degli errori che corrispondono a infortunî nell’operazione di copia, sanabili anche con l’ausilio degli altri testimoni: sulla base di questo risultato il manoscritto sarà fondamentale per la costituzione del testo e la valutazione peserà anche per la scelta delle varianti adiafore. Fra le lezioni equipollenti si devono richiamare quelle che pertengono a elementi tra la lingua e lo stile, insieme ad alcuni aspetti di sintassi che insistono sulla struttura dell’ottava: queste lezioni si presentano con modalità unidirezionale – K vs gli altri manoscritti – e con conferme di andamento rovesciato. Si potrebbe pensare che il bacino di tali varianti sia il punto più alto della convergenza dei manoscritti diversi dal Kirkupiano nella tradizione di questo cantare, ma un sondaggio esteso alle altre opere di Pucci, comprese nel codice e che hanno tradizione plurima, ha mostrato analoghe alternanze, con K opposto alle altre testimonianze. La tipologia delle alternative (si veda in particolare la Tavola 5b) rimanda non tanto alla procedura correttoria della trasmissione, ma piuttosto ad adattamenti dell’usus scribendi dell’autore, il quale, se in altra occasione si è premurato di dichiarare di non lavorare di lima,1 ha offerto più di un motivo per indurre al sospetto di sue operazioni di ritorno proprio nei testi contenuti nel Kirkupiano.2 Ciò non può essere ignorato nel tracciare i piani più alti dello stemma. La dimostrazione della convergenza di tutta la tradizione è affidata a prove che paiono deboli per postulare un’entità intermedia, mentre resta la possibilità che il disegno si chiuda in un codice d’autore da cui dipenderebbe da un lato il solo K, dall’altra i restanti manoscritti, con gli snodi dimostrati qui di seguito, in subordine tutti a un antigrafo, depositario di quel lavoro di revisione che rende sistematica, nei diversi testi del Kirkupiano, la contrapposizione tra quel manoscritto e gli altri testimoni. L’assenza di K per tutto il primo canto più un boccone del secondo rende più complicata l’opera dell’editore del cantare. La soluzione di Motta è stata quella di supplire col manoscritto M, una volta provata la sua vicinanza al Kirkupiano nello schema di Robins. L’assetto stemmatico che qui sosteniamo non consente operazioni semplificate: in assenza di K il testo dovrà essere ricostruito sulla restante tradizione che converge in un unico punto Ì. Per l’articolazione ancora a schema bifido dei manoscritti sotto quello snodo, il criterio di maggioranza premierà M, che rappresenta uno dei rami, se in concordia con singoli testimoni o con uno degli altri raggruppamenti, e farà orientare in quello stesso senso la scelta nei casi di sicura equivalenza delle varianti, ma sarà al contempo possibile valutare le pecche di quel manoscritto e isolarne le individuali lezioni innovative. In questa parte verrebbe posto a testo il ‘sistema’ in certo modo alternativo a K,3 altrimenti a distanza nell’apparato, sistema in cui, a quanto sopra si è detto, si confonde la mouvance della fortuna col processo di revisione autoriale. 4. Le tavole che seguono si riferiscono allo stemma di Paolo Trovato (sopra, § 7). Si riprendono le sigle adottate da Motta, Robins 2007: Bologna, Biblioteca Universitaria, 158 (U); Firenze, Biblioteca Marucelliana, c 265 (M); Firenze, Biblioteca Moreniana, Bigazzi 213 (B); Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano viii 1272 (N); Firen1 Nella prosa introduttiva al Centiloquio. 2 Parla esplicitamente di diverse redazioni d’autore per il Contrasto Pace 1944, e ne dà conferma Debenedetti 1944, p. 95. 3 Nel senso della definizione teorica di Segre 1978.

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ze, Biblioteca Nazionale Centrale, n.a. 333 (K); Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Panciatichiano 20 (P); Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2725 (F); Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2971 (R); Paris, Institut de France, Manuscrits de Léonard de Vinci, Manuscrit i (I); Roma, Università degli Studi «La Sapienza», Biblioteca Angelo Monteverdi, Fondo Monaci, ms. non catalogato (S); Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Borgiano latino 384 (V). Quando possibile, registro anche il comportamento dei manoscritti frammentari I, N, P e R, che, com’è naturale, ricorrono sporadicamente nelle tavole. Adotto una rappresentazione interpretativa. Per cominciare, verifichiamo la tenuta del gruppo · di Robins (SUV + z): Tav. 1. Errori di · (= SUV + z). SUV + z

Alii

ii 25 4 di figliuol maschio (+ z)

di figliuol maschio avere

L’ipometria conseguente non è compensata dai diversi esiti del secondo emistichio. Robins segnala il luogo senza dichiarare l’errore («la lezione di BFKM è leggermente preferibile»). iii 31 1 selva scura

selva dura

L’associazione con l’aggettivo è prodotta dall’eco dantesca, come rileva Robins, ne deriva identità di rima col v. 5 della medesima ottava, valle scura. iii 31 8 scuro buratto VU, oscuro S

chiuso buratto

È un caso di errore riflesso: vedi v. 1. iv 42 7 ma chi

ma chi qui

Errore per aplografia.

Fin qui l’elenco coincide con quello di Robins. Si possono aggiungere: ii 13 3 perché (+ F)

che (ché nell’edizione) perché

Viene avvertita la difficoltà della doppia congiunzione e si risolve, gordianamente, la carenza sintattica compensata di seguito dal solo S; l’errore – poligenetico per F – varrà come conferma. ii 28 5 armegiando (+ z)

armegiâr

Verrebbe a mancare il verbo reggente; l’alternanza si spiega con la presenza di un gerundio nel verso successivo, il che potrebbe giustificare anche per poligenesi la presenza dell’errore in z. iv 39 3 e tanto rio (+ z)

ch’è tanto rio

La relativa risulta necessaria nell’organizzazione sintattica. Non si può invece dichiarare errata l’alternativa i 45 8 e disse i’ VU + z, poi disse i’ S, che pretende per la misura dialefe prima del pronome i’ rispetto a ma pur disse io BF (K manca e M legge «ma pure io verò, per vostro amore», cioè omette il verbo; e anche qui si deve fare distinzione sillabica tra pure e io). Robins indica come «preferibile» la lezione di BF e in parte di M «per la congiunzione contrastiva».

Dagli apparati si possono estrarre un numero limitato di varianti a conferma del gruppo. Si anticipa, al solito, la lezione dei manoscritti in oggetto:

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Tav. 1a. Varianti di ·. SUV

Alii

i 34 3 alzò i panni ii 10 7 dispogliate V spogliate US (-1) iii 4 5 santo padre SV, padre santo U iii 6 4 il figliuolo mio iii 5 2 santo pastore UV divino p. S

alzossi i panni le spogliate santo papa figliuol mio sommo pastore

Anche se santo si ritrova al verso successivo in Padre santo (di qui forse la scelta di S) non si può dichiarare erronea la ripetizione in presenza del differente appellativo.

U e V presentano coincidenze che Robins specifica secondo alcuni parametri quali «varianti significative» (Motta, Robins 2007, pp. lxxxiii-lxxxiv): Tav. 1b. Errori di UV. UV

Alii (incluso S)

i 30 inversione delle coppie di versi 5-6, 3-4 iii 14 6 fattura fu di donna Berta ria

piangendo fortemente tutavia

S ha la lezione individuale dal capo al piè (che ricorre al v. 5 dell’ottava successiva) a quella donna pia. iv 28 8 signor della Spina (: reina) U, reina della Spina (: con dottrina) V

reina Galatea (: havea)

La lezione obbliga all’adattamento della rima di v. 7, operazione con esiti diversi nei due mss. Da notare che V interviene in maniera identica a sostituire il nome in clausola, nell’unico altro caso in cui questo si presenta, a iii 11 2, con effetto sull’uscita -ina dei vv. 4 e 6, opportunamente riparati ad indicare l’intenzionalità dell’alternativa.

La casistica è troppo esigua per dimostrare un rapporto privilegiato tra i due manoscritti; sottolinea piuttosto lo smarcamento di S, che verrà confermato nel corso dell’analisi. Di «promiscuità» di S parla Robins (Motta, Robins 2008, p. xcvii). Pochi errori significativi, ricavati al solito dallo spoglio degli apparati, uniscono S e U: Tav. 1c. Errori di SU. SU

Alii (incluso V)

i 22 7 onde partiva ciascuno lagrimando S, onde ciaschuno parti l. U (+ ciascheduno partiva l. z) ii 25 2 segreta stata (s. fu stata S) ii 25 8 che ài lo senno (+1) ii 26 4 om. l’avverbio

sicché si partirono l.

iii 7 7 i’ son contenta (-1)

segretiera stata ch’à’ ’l senno tutto cilato K, cielata F, cielatamente VB, segretamente z i’ son più che contenta

Con soluzioni indipendenti per risolvere l’ipometria.

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SU

Alii (incluso V)

iv 30 6 ora m’aita (+ z)

non m’aita

La frase positiva non dà senso. i 50 3-4 e die’ U, diede S / om. die(de)

om. die(de) / die’

Anticipazione del verbo, che gli altri mss. hanno al verso successivo.

Si aggiungono altri casi che riguardano la misura dei versi: i 42 6 certamente (-1)

veracemente

iii 16 8 poi (-1)

sì che

Con soluzioni diverse all’interno del verso le quali compensano la misura. iv 23 8 che giunse dove in prigione era il marito (+1) iv 29 3 mandisi + z (-1) iv 37 4 non (io non U) mi impacerò (-1)

che giunse ov’era in prigione il marito Mandivisi non mi impacerò più.

U evita la dialefe col pronome io.

Raccolgo a conferma varianti caratteristiche di SU: Tav. 1d. Varianti di SU. SU

Alii

i 13 7 son

son già

i 15 7 donne (+ B + z)

figlie

Ripetizione: la voce donne è presente al v. 5. i 29 5 e veramente ii 11 4 venir (+ z)

veracemente premer

Ripetizione: il verbo è anche al v. 2. ii 11 7 e iniz. ii 13 3 a (da) Dio sè stata ii 23 4 molta gente (+ z) iii 4 3 costui

om. istata sè di Dio gran gente questi

iii 13 6 è comandato (+ F)

comandato

iii 17 4 ella rispuose iii 37 3 che ’l re (+ B)

ed ella disse ched e’

Il re anche a v. 1. iv 24 8 teneva iv 25 6 temean U, temevano S iv 26 5 messaggio

à tenuti temeron messager

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Per le quattro ottave in cui è presente, P affianca V; in alcuni casi le lezioni sono individualmente partecipate dagli altri mss. del gruppo, da S soprattutto, e da U. Nella tavola precedono le lezioni di PV: Tav. 1e. Accordi PV. PV

Alii

i 1 1 O somma Maestà i 1 5 similemente i 2 5 ond’io (+ z + S onde) i 2 7 chio vi prometto (+ U) i 3 3 e da levante infino a ponente (+ S) i 3 4 non fu ma’ donna (+ S) di tanto i 3 7 giovane e bella era (+ S)

Superna maestà umilemente po che però ch’io credo non fu mai da levante a ponente donna che fusse di sì gran era giovane e bella

Il manoscritto P ha vari errori singolari: ricordo solo l’inversione tra i vv. 7-8 della prima ottava. Non ci è dato rilevare dall’apparato errori o lezioni singolari di V non riprodotte da P, sì da escludere la dipendenza diretta di quest’ultimo, dipendenza che resta quindi possibile. Il gruppo ‚ (Robins) è composto dalla coppia BF. Se ne ripropone la dimostrazione: Tav. 2. Errori di ‚ (= BF). BF

Alii

ii 49 3 e se ’l nostro si spoglia co la sposa

se ’l nostro re si spoglia co lla sposa

Robins si limita a definire «preferibile» la lezione dei mss. diversi da BF, ma il salto del sostantivo monosillabico si può legittimamente considerare erroneo. iii 15 7 e po’ le disse quella be ll’adochia e poi le disse quando ben l’adocchia F, e po le disse quella dama bella B Il forte rimaneggiamento di B mantiene l’erroneo dimostrativo, derivato forse dall’incomprensione della grafia compendiata qu(ando). iii 17 7-8 e chosi dice il re che sono assai| contenti più ched e’ fussem giamai B, più contento ch’i’ fussi mai F

s’e’ chosì dicie i rre ch’a senno assai| i’ son contento più che fossi mai

L’errore al v. 7 consiste nel fraintendimento sono per senno. iii 44 3 donna Bella Spina

donna della Spina

La lezione di BF viene segnalata da Robins come lezione alternativa. In realtà lo scambio preposizione-aggettivo nasce da una accidentale sostituzione della lettera iniziale, come si ricava dal corrispondente toponimo rocca della Spina. iii 44 7 alla sua rocca andò dove dovea gire

alla sua rocca donde dovea gire

Robins non parla di errore, ma la manipolazione, che crea tra l’altro ipermetria, risponde all’esigenza di appianare, non senza colpa, una sintassi contratta, si veda un caso simile a iv 16 3.

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I due manoscritti coincidono in lezioni che Robins appella «varianti significative»: BF

Alii

i 23 4 gagliardi tutti quanti e pien di posse iii 14.7 disse sorella (sirochia F) omo (huomo F) io non sono

che dieci tanti non temien percosse e disse (dicendo) come tu femina sono

Si dà anche un caso di condivisa deficienza nella misura, che potrebbe essere poligenetica: i 42 6 veramente BF + z (-1)

veracemente Alii

I due mss. condividono poi altre lezioni, tra le quali due considerate da Robins alla pari dei casi qui giudicati erronei, ma che vanno degradate a varianti (le indico con una R): Tav. 2a. Varianti di ‚. i 20 7 ora i 29 6 fa bisogno (+ V)

oma’ fa soggiorno

È formula sintagmatica. i 40 2 ciento sessanta chom mille dugento B, cento sessanta due [il resto del v. bianco] F i 40 6 (R) di sua venuta n’avrie pentimento

sessanta sei con se’ milia davanti (davanti per ripet.) M, settanta (s. due V) con tremilia secento UV + z di sua venuta avrebbe pentimento

La particella pronominale è nella maggioranza dei mss., incluso B, al verso precedente. i 45 6 che mossa prima (+ V che mossa in prima) ii 33 1 (R) Se voi farete (fate F) tanto che lui ii 39 5 drappo a oro ii 42 7 se ne sapete ch’a lei si confaccia

se prima mossa E se voi fate sì ched egli drappo d’oro se ne sapette alcun ch’a lei si facia (afacia SM)

BF omettono l’indefinito per il quale gli altri testimoni trovano soluzioni differenti; insieme a z propongono anche un verbo alternativo a si faccia di K e V (afacia SM). E si deve sottolineare come l’uso di fare nel significato di ‘convenire’, ‘essere adatto’ sia attestato in it. ant. (per tutti i casi l’incipit di Chiaro Davanzati Lo nome a voi si face, ser Pacino). La lezione alternativa di BF è dunque sospetta di rifacimento banalizzante. ii 46 8 son presto a far iii 43 4 che io mi parta

io son per far ch’io mi diparta

Le conseguenze per la misura potrebbero essere ovviate con la lettura che ˇ io. iii 44 5 pensava (+z) iii 50 3 sappiate

e pensò pensate

I rumori di fondo già segnalati nel gruppo ‚ si avvertono anche in ·, dove è U ad avere lezioni comuni con BF, alcune semplicemente formulari.

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Tav. 2b. Accordi in errore o in innovazione ‚ + U. BF + U

Alii

i 23 7 batoli

mantella M, mantello S, mantè z, panni V

Di particolare interesse la proposta di BF + U, batoli. Il vocabolo indica un mantello proprio dei medici, descritto da Giovanni Villani, lib. 13, cap. 4 (Porta 1990-1991, iii, p. 302) e attestato in Decameron viii 9, nella forma assimilata batalo (Branca 1996, p. 559) e nel Trecentonovelle, novv. 42 e 155 (Piccini 2004, pp. 161 e 427). Il lemma col suo carattere tecnico-localistico potrebbe avere tutti i crismi della lectio difficilior; propongo tuttavia di valutare questa alternativa di minoranza insieme ad altri casi per i quali si rinvia a quanto osservato alla Tavola 6a a proposito di iv 14 8. i 36 1 santa corona (+ z) i 37 4 visitare (+ z) i 40 1 om. è (+ z)

Santo padre MS padre santo V invitare è

La frase può al limite reggere la sintassi nominale, ma il verso presenta un accento di 5ª. i 40 5 sei cotanti (+ z) i 50 4 morta cadde BF (+ z), cadde morta U iii 2 7 tremasse

tre cotanti in terra cadde VS v’entrasse

La lezione di BFU non dà senso; si può trovare una spiegazione in qualche effetto di riverbero della voce di chiusa del verso successivo, effetto non razionalizzabile anche perché con esito differente nei diversi testimoni (’ntronasse, versasse, rovinasse…).

Vanno aggiunti casi che vedono insieme i soli BU: B+U

Alii

i 7 7 dicendo i 9 5 gravandola (+ z)

pensando gravando

Con adattamenti diversi per la misura. i 15 6 lor mani i 45 6 facessi con meco

le mani fussi con meco

5. Dopo la conferma su dati in parte coincidenti delle famiglie · e ‚ individuate da Robins, le scelte di metodo comportano un differente percorso nella dimostrazione della convergenza dei due gruppi · e ‚ in alternativa a KM ed alla tradizione delle stampe z. In realtà i soggetti implicati vengono a coincidere in una serie di lezioni, delle quali solo alcune possono qualificarsi, per di più dubitosamente, come errori. Si dà valore alla natura delle varianti e alla loro consistenza quantitativa, restando comunque nell’ambito del ‘revisionismo’ neolachmanniano. A conferma di quanto sopra notato, S manifesta ancora qualche stravaganza.

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anna bettarini bruni Tav. 3. Errori comuni di ‰ (= · + ‚).

SUV + BF

KMz

ii 19 8 e benedillo e poi (e poscia SV + F)

e benediselo (benedisse M) e poi

L’alternanza di per sé non erronea ha riflesso sulla misura, di seguito sanata da VS + F con poscia invece di poi: solo B e U porterebbero ancora lo stigma dell’originale carenza di gruppo. iii 42 1 Poi ch’ebbe

poi ch’ell’ebbe

In assenza della testimonianza di U, non è possibile escludere che la coincidenza possa derivare da poligenesi. iv 33 6 uno in mano V (+ I), uno in braccio S, um n’avea in mani B

un’anca di lor KM, un’anca avea in bocca z, uno avea nancha N

La posizione di U è smarcata rispetto al gruppo, forse per effetto di contaminazione: ad arte lor l’anche.

Ci sono casi in cui non è facile stabilire il confine tra banalizzazione e errore (essendo lezioni del quarto cantare manca la testimonianza di F): SUV + BF

KMz

iv 11 4 una malvagia e rea B, una malvagia reina V

piesima (pessima Mz) giudea (+ pessima e giudea S) K

V adatta la rima per esigenza di lectio singularis. iv 21 4 ciaschuno sgumbrasse SB, ogniuno si ritornase V

subito sghonbraser (isgombrassin) KMz

Il pronome potrebbe essere stato anticipato da v. 6; da quello stesso verso V recupera il verbo. iv 26 2 mal far VUB

campar KM +S, scampar z

Il verbo rende la disposizione negativa ampiamente dichiarata nell’ottava precedente e non la nuova sfumatura intenzionale. iv 26 8 che tu (che nne U) meni presa (+ R)

che menate presa

Si noti in KMz il plurale maiestatis in bocca al re, come a iv 18 2, dove si ha analoga alternanza delle attestazioni. iv 41 4 ch’eran fugiti (fugite) prima sospirando (+ R)

ch’eran fugiti (fugite) prima paventando K, …spaventando Mz + S

Come a iv 26 2, S non è allineato col gruppo di appartenenza. Proprio perché muoversi sospirando è topico (ricordo qui due esempi pucciani, col gerundio in clausola, Novello sermintese, 2 e Cent. 6 286) la variante può essere guardata come scelta facilior.

Segue l’elenco delle lezioni caratteristiche di ‰:

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Tav. 3a (varianti di ‰). SUV + BF

KMz

ii 29 7 parea veramente

parea veracemente

L’impiego in ‰ di un avverbio con una sillaba in meno è compensabile con la lettura trisillabica del verbo. i 40 5 sei cotanti (+ z) ii 30 7 appresso fe’ tornar ii 34 3 quando la madre ii 36 7 sicché tornasse bene accompagnato iii 2 5 e non fu mai iii 16 7 la qual era (è F) ita tutta notte attorno VBF; li quali (che S) erano iti tutta notte intorno SU iii 32 3 tormi la vita iii 33 1 Il cerbio giunse e inanzi a lui sogiorna iii 37 3 ched e’ tornava V, che tornava (-1) F, chel re tornava SUB iii 37 7 quando fu giunto SVBF, come fu giunto U iv 16 6 chi di prigione l’avea fatta (facta uscire l’aveva S) iv 20 7 ond’io iv 33 1 nero come un calabrone (+ NI) iv 34 8 per paura

tre cotanti ed ella fe’ tornar se lla reina sicché paresse bene accompagnato ch’el (ch’e’ Mz) non fu mai la qual danzando era gitta (ita M) dintorno KM, danzando andando dintorno z tormi l’anima (+ F) Giugnendo il cerbio innanzi li sogiorna chom’el tornava K, chome tornava Mz e come giunse chi l’avea fatta di pregione uscire sì ch’io tutto nero come carbone (+ U) per temenza

Altre varianti che saranno imputabili a ‰ si possono rilevare anche in assenza di K (cioè nei cantari i e ii 1-10): Tav. 3b. Varianti ‰ in assenza di K. ‰

Mz

i 7 4 papa santo i 13 3 al papa andava i 14 6 farò

padre (pare M) santo (+ U) andava al papa (+ U) farà (+ R)

La variante di Mz implica l’uso del discorso indiretto. i 19 1 d’Oriente ii 3 8 infino

de l’Orîente che ’nfino (che ’nsino z)

Circola in ‰ la lezione alternativa battuto avea la sugna UF, avien batutto la sugna V, modo di dire altrimenti non attestato che Robins spiega come ‘se l’erano sbrigata’, ma al quale darei il senso opposto: ‘avevano tergiversato’; gli altri manoscritti hanno la rima equivoca pugna ‘pugni’, e poi ‘battaglia’ in avìen vinto la pugna M, avevano vinto la pugna S, aveam facto la pugna B, facto havien la pugna z.

112

anna bettarini bruni

Si può segnare un punto di convergenza più alto (Ë) in presenza di errori comuni di ‰ + z vs KM: Tav. 4. Errori comuni di Ë. SUV + BF + z

KM

ii 27 6 ghuardando B, dicendo VSz, ridendo U

gridando

La diffrazione è indicativa e nasce forse da un fraintendimento tipo quello di B sulla lezione registrata da KM. Il verbo gridare, che pure parrebbe eccedere il lieto annuncio (si veda in proposito U che evidentemente reinterpreta), rende l’idea dell’ampiezza della pubblicizzazione come risulta dall’ottava seguente; del resto quello stesso verbo al gerundio e spesso in posizione iniziale nel verso ricorre in molti casi nella narrazione del Centiloquio. iii 19 3 al re (il re B) parlando

brieve parlando

La pletorica esplicitazione del destinatario viene a sostituire per guasto o incomprensione la formula di KM, formula usata da Pucci due volte nel Libro, alle pp. 99 e 257. iv 16 3 andò il messaggio e ritornò

onde il messaggio (onde il re M erroneo) ritornò

lezione rimaneggiata su un fraintendimento (come a iii 44 7, dove BF presentano lo stesso scambio donde / andò) o per semplificazione della sintassi narrativa. iv 26 1 marina SUBz

riva (: veni(v)a: apari(v)a) + V

V corregge per contaminazione o per (facile) congettura.

Aggiungo il caso seguente, significativo nonostante la mancata compattezza del gruppo: ii 26 4 celatamente (segretamente z) un fanciul fe venire VBz; un fanciul maschio chella fe (a se fece S) venire US con l’omissione dell’avverbio

celato (cielata + F) un fanciul maschio fe venire

Analogo uso avverbiale dell’aggettivo in Noie 224 (e glossario dell’edizione McKenzie 1931). La considerazione d’usus porta la variante alternativa a celato al limite dell’errore.

I manoscritti di ‰ omettono inoltre il nome dell’autore nel verso di chiusura: iii 50 8 al (a V) vostro onor finito è (à F) à il cantar (canto terso B) terzo iv 44 8 questo cantare è detto VU, compiuto è questo cantare (+) S, qui è chompiuto i·libro B, questa istoria è finita z iv 18 2 i’ verò con teco

Antonio al vostro onor finito (compiuto M) il terzo Antonio Pucci (Pocci M) il fece

Veremo con teco

Si noti ancora l’uso del plurale maiestatis come a iv 26 8, nella Tavola 3.

Confermano le seguenti varianti:

dittico per antonio pucci - ii

113

Tav. 4a. Varianti di Ë. VUSBFz

KM

ii 17 3 ricchezze che à

richezze sue

ii 39 1 per tutto il contado V, per lo contado UBF, per lor contado z

per suo contado

iii 5 5 furon mossi

fursi mosi (fursi vedi Centiloquio 16 37, 25 146) furonsi mossi M + S

iii 28 2 gioia e festa VU, festa SBFz

festa e gioia, così sempre in numerose ricorrenze nelle opere di Pucci

Si potrebbe anche pensare che l’ordine di VU derivi da un recupero in presenza dell’omissione rappresentata dagli altri mss. del gruppo. iii 40 4 per trar d’errore

per trarne d’er[r]o

iii 41 2 trovarsi VF, trovarselo SB, ritrovarsegli z

trovarlosi

Si noti in trovarlosi l’ordine arcaico dei pronomi personali. iii 43 7 ed è

onde

Ed è è anche a v. 5: può tratttarsi di errore di ripetizione, ma l’alternanza si propone nel caso qui di seguito registrato: iii 48 2 ed e’

ond’el

iii 49 6 truova V (-1), trovava BF, trovando Sz

trova mai

iv 5 8 si vincesse VSB, si perdesse z iv 13 8 schavalcando V, ischavalcando SBz iv 15 6 questa paterina

s’arendesse eschavalando quela patterina

Questa è anche al v. 4. iv 19 5 fu preso il re con tutta sua famiglia iv 19 6 e tutte l’arme tolte lor da lato iv 29 5 la terra tutta VB, e quella terra U, tutta la terra z

il re co la reina e lor famiglia (+ S lor figlia) fur (furono M + S) presi e tolto lor l’arme da lato tutta sua terra (+ S)

Il raggruppamento VUSBFz si conferma anche in presenza del solo M: Tav. 4b. Errori di VUSBFz vs M. VUSBFz

M

i 36 8 castello della milizia (: letizia)

castello delle melizie (: letizie) M, delle milizie V (: letizia)

L’oscillazione di V in rima imperfetta (milizie: letizia) è significativa e pare frutto di un recupero individuale; infatti l’alternanza di singolare e plurale non è indifferente se si tratta di un

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anna bettarini bruni

nome proprio, come nel caso si ricava da Giovanni Villani, lib. 9, cap. 6: «Comperò il castello delle Milizie di Roma, che fu il palazzo d’Attaviano imperadore e quello crescere e reedificare con grande spendio» (Porta 1990-1991, ii, pp. 20-21).

Segue l’elenco delle varianti di Ë vs M; nella serie non selettiva la sottolineatura di casi interessanti è affidata al breve commento: Tav. 4c. Varianti di VUSBFz vs M. VUSBFz (+ PR)

M

i 1 6 ti chieggio i 2 6 priegovi che vi piaccia d’ascoltare

chiegioti per dio signori (pero signori S) vi piaccia d’ascoltare sì bella e ’l suo marito (+ B) vecchio del mondo gli volea (+ P) questa gentile regina per riverentia quel ch’ïo vorò però cetar la fate che

i 2 8 più bella i 3 5 e ’l marito era vecchio i 4 7 nel mondo i 4 8 gli avea i 6 1 l’altissima reina i 7 6 per ubidenza VSFz (per ubidir U) i 7 8 quel ch’io vorò pur i 8 7 richieder la fate (fatela richiedere F, z cambia)

Motta integra ce[r]tar ‘accertare’, ma si tratta in realtà del verbo citare (la forma viene registrata, anche se con una sola occorrenza, in tlio: Banchi 1866, p. 23). Di per sé le due lezioni sono equipollenti: si veda però all’ottava seguente il v. 2, ch’ella fosse richiesta. i 9 8 sugel papal

segnale papale

Vero è che segnali si trova al v. 5, ma la ripresa, tanto più con l’aggettivo individuante, pare ammissibile. i 10 2 quell’ambasciata i 11 3 più ch’altr’uom i 12 4 rispuose il savio messagiere (messaggio savio S) i 13 3 al papa andava i 14 3-4 che comparisse (comparisca) fra cinquanta giorni / so’ (sotto VSF, a BRz) pena della vita fosse a corte

questa inbasciata sopra a ogni omo onde rispuose el mesagero andava al papa (+ Uz) che in persona, fra cinquanta giorni / a pena della vita fusse a corte

Al v. 3 il verbo potrebbe essere stato introdotto per un chiarimento al limite della banalizzazione. i 16 1 E (Poi R) ragunato chebbe (l’ebbe U) i 16 3 dopo il bel proponimento i 16 4 avie mandata i 16 7 dicendo

Raunato a suo modo dopo il suo proponimento gli avia data e disse (+ S)

A iii 14 7 si ha analoga alternanza nella stessa sede dell’ottava, ma vedi anche i 34 5, i 35 4.

dittico per antonio pucci - ii VUSBFz (+ PR)

M

i 16 8 E dopo lei un conte

Dopo lei uno gran conte

i 18 3 Io (e io BFRz) vi vo dar BFU vo dar R, vi darò S (V manca)

E ciò dare’

i 21 6 ad elmo (ederom F, almeno z) diecimilia cavalieri

armati diecimila cavalieri

115

Lo stilema ad elmo si ritrova nella testo cronachistico pubblicato come Gesta florentinorum (Santini 1903, p. 144). Pucci ha l’analoga forma coll’elmo ad indicare il corredo di truppe armate in Cent. 33 113; la lezione di M è meno tecnica, ma si veda quanto detto a iv 14 8 nella Tavola 6a. i 23 6 menò con seco

e’ menò seco

i 25 3 eran guidati (era gliadati F)

eran guardati

i 25 6 perch’ella

perché

i 25 7 a ogni carro (sopr’ogni c. U) i 26 3 quanto VUz come BF l’ermellino

in su ’n ogni carro (+ z) più che l’ermellino (+ S)

i 26 5 sopra ciascuno aveva i 26 7 perle e gemme BF, pietre e gemme Uz, pietre pretiose V

e sopra ognuno era gemme e perle (gioie e perle S)

i 27 3 valevan più

valeva più

In M si avrà terza persona singolare con soggetto plurale o forma assimilata. i 27 4 magno fornimento i 27 7 com’ella i 32 2 che d’esto (che nostro F) mondo i 32 6 di cosa (cose S) ch’i’ mai non (nol U) pensai (non pensai mai Sz, non feci mai F) i 34 1 E poscia (e poi gli z) i 34 5 e disse (poi disse S) i 35 2 donna santa i 35 4 disse: Per quello Idio

maggior fornimento e come di questo mondo (+ US) di quello ch’io non comissi mai Apresso (+ U) dicendo santa donna dicendo: Aquello Idio

Da confrontare, sopra, con i 34 5. Nell’ottava in esame il verbo al gerundio è ripetuto dal v. 2 e preceduto da altro gerundio, per cui il periodo pare reggersi tutto sul verbo a tempo finito di v. 1. La costruzione trova un riscontro esemplare in Gismirante ii 27 e, in modo semplificato, a ii 57. i 35 4 per quello i 35 7 voglia (grazia z) i 36 3 che i 36 7 se n’andò con gran letizia i 38 7 e Roma vuol

a quello chesta (chiesta S, inquesta F) ch’io n’andò piena di letizie e ciò vuol fare

e Roma vuol riprende apertamente il v. 4 dell’ottava.

116

anna bettarini bruni

VUSBFz (+ PR)

M

i 39 5 quando suona

quando e’ suona

i 40 2 diffrazione [i dati alla Tavola 2a]

sessantasei con semila

I numeri col sei sono topici anche per Pucci: si veda per semila in questo cantare a iv 33 7 e Cent. 39 77, 40 8, 43 74, 46 51, 46 150. i 40 7 ma priego

e priego

i 41 8 tal briga

questa guerra

Questa guerra è in verso ipermetro (← esta?). i 43 5 volete (voleste B, voresti F)

vorete

i 44 5 se le potete (poteste UB)

s’i’ le potessi

i 44 6 sarò

sare’ (saria U)

i 46 4 a seguitarmi

di seghitarmi

La differenza è nella preposizione; la forma del verbo seghitare risulta nel tlio un’altra volta nelle Chiose del falso Boccaccio (Vernon 1846, p. 218). i 48 5 allora

tutti

i 49 7 offesa

inpresa

i 50 4 in sulla testa | die’ tal che morta (in terra VS) in su la testa | le die’ un colpo La lezione di M va confrontata con Gismirante i 42 2 «e diegli un colpo, che cade stordito». ii 1 8 quella alta reina

questa alta reina (+ F)

ii 3 5 e quando

quando (+ S)

La misura si mantiene per una lettura dieretica süa. ii 4 4 e d’ogni (d’ogni U, e ogni F) arnesi

con tutti arnesi

ii 4 4 a caminare

a [ca]valcare (cavalcare F)

ii 4 6 partianci

partiàno

ii 4 8 siàn tutti

tuti siàno (+ S)

ii 5 8 fia

sia

ii 6 8 po’ ti potrai tornare

e po’ ti puo’ tornare

ii 8 8 pietosi sì che ci perdoneranno

piatosi sì ch’esi perdoneranno

ii 9 3 a lor volere (per loro v. U)

al suo volere

In assenza di K si riscontrano lezioni insoddisfacienti sia in M che in Ë.

dittico per antonio pucci - ii

117

Tav. 5. Errori comuni a Ì (= Ë + M). i 27 1-2 le some|de’ muli con campanelle d’ariento SUVBFz, le some|e ’ muli con campanelle d’ariento M Le lezioni d’impatto non paiono erronee, ma il rinvio a un passo di Giovanni Villani, lib. 11, cap. 1: «MD some a muli a campanelle» (Porta 1990-1991, ii, p. 522), nel quale l’associazione «some a muli» = ‘muli da soma’ si mostra quale tecnicismo, mette in crisi sia la coordinazione di M che la resa facilitante degli altri mss. La validità dell’accostamento è confermata dal particolare aggiunto degli accessori (le campanelle) delle cavalcature. i 28 1 per lo suo tereno V, per lo lungho tenea F, per lo suo reame S, per lunghessa Bz, e coreva pel suo M, e per lo suo coreva U I numerosi interventi singoli possono essere la reazione a una lezione insoddisfacente: e coreva pel suo M, e per lo suo coreva U, detto di un fiumicello per cui altri cercano di chiarire: per lo suo tereno V, per lo lungho tenea F, per lo suo reame S, per lunghessa Bz). L’ipotesi più economica rasenta la banalità: e coreva pel suo[l].

Si aggiungono alcuni casi in cui si presentano questioni di misura dei versi: i 28 2 che usciva del paradiso luziano omnes La presenza dell’aggettivo lutiano/luziano che ricorre a iii 39 7 e in Madonna Lionessa 47 7 e 48 7, sempre quadrisillabo, fa pensare che tutti i manoscritti eccedano nella forma usciva, da correggere uscìa. i 42 7 ond’egli disse: «I’ son più che ’nprima preso» (+1) UVBz ond’egli disse: «I’ son più prima preso M Il taglio di M più prima sacrifica la sintassi e il senso, mentre la soluzione di SF ond’e’, accettabile e quanto mai accessibile, è probabilmente poligenetica. ii 8 2 de’ dua partiti l’uno ci convien pigliare (fare U) (+2) VUMF, de’ dua partiti l’un convien Bz, de’ dua partito l’uno è da pigliare S La diffrazione reagisce variamente all’ipermetria. ii 9 2 egli è meglio fare una morte che cento VUSMF, me’ fare Bz iii 10 2 spregia (ispregia) lusuria e loda verginitade omnes Levi 1914 proponeva la forma sincretica vergintade accolta da Robins, sul tipo dell’esistente cristentade, ma potrebbe forse leggersi in episinalefe con e iniziale del verso successivo.

Interessa vedere confermata la convergenza di Ë e M in presenza di K. Nella casistica si anticipano gli errori o le rielaborazioni che hanno a monte un fraintendimento: Tav. 5a. Errori di Ì (= Ë + M) vs K. VUSBFz + M

K

ii 43 5 però ch’egli à si bella appariscenza V, però che s’ella (ched ella S) à bella a. BS,

però che sola del’aparisenza

118

anna bettarini bruni

VUSBFz + M

K

però che s’ella è bella d’adornanza U, però ch’è si bella lappariscenza z, però s’el’ à bella appariscenza M La lezione di K è qui data con divisione delle parole differente rispetto a quanto reso da Motta (però ch’e’ sol’à del’aparisenza). Il verso si riferisce al re d’Oriente nella rappresentazione entusiastica del Papa; sola va letto in funzione avverbiale ed ha un riscontro in Madonna Leonessa, 25 4 «Due once – dice – sia tagliata sola», la voce appariscenza come ‘aspetto esteriore con qualità positive’ risulta attestata dalle schedature del tlio quasi unicamente in testi di Pucci (sono sue sei delle otto occorrenze). La difficoltà degli altri mss. pare derivare proprio da questi due elementi, per cui si ricostruisce in vari modi; in comune l’introduzione dell’aggettivo, che dimostra come non venga compreso il significato, per di più con l’eccezione di V e forse z; si scambia anche il destinatario dell’apprezzamento, che è il promesso sposo e non la figlia dell’imperatore. iv 30 2 a quella donna che l’oste era bandita VB, che quello re l’oste gli a bandita U, e quella donna l’oste ebbe bandita M

a quela dove l’ost’era bandita (+ S)

Ripartiamo dall’ultimo verso dell’ottava precedente: e di presente féli (K) bandir l’oste, recepito nella ripartenza E quando fu cotal novela nota cui segue il verso in analisi, nel quale i manoscritti, con l’eccezione di KS, omettono dove, in maggioranza, VBM sostituendolo col nome, per induzione forse della sillaba iniziale. Si può presupporre una difficoltà di lettura, ma radicata nell’incomprensione sostanziale della pratica del bando del conflitto, per lo più accompagnato da relativa informazione logistica (il dove quindi integra di necessità l’informazione): per citare solo Pucci Cent. 11 22: e poi bandiron l’oste a Montalcino; 28 209: bandir l’oste ad Arezzo, e dièr le insegne, e ancora 41 245, 44 66. Dunque inutili le congetture integrative di Levi e Robins. iv 38 6 col popol tuo posente V, col popol tuo servente MUB, col popol tuo fervente z

col popol tuo presente

Un’allusione intertestuale non compresa, perché estremamente sintetica, scatena la diffrazione posente / servente / fervente («Iddio, come veracemente | liberasti di man di Faraone | quel Moisé col popol tuo presente…»). Il riferimento del Pucci è alla Bibbia volgare, Esodo, 18 1: «Ma l’altro dì sedé Moisé, acciò che giudicasse al popolo, il quale istava presente a Moisè dalla mattina insino al vespro».

Aggiungerei: ii 10 8 e tutte quante sieno incatenate V, imprigionate U, incharcierate F, e in prig[i]one a Roma le menate M, S cambia: in uno fuoco siano tute getate

e incontenente a Roma le menate (+ z)

Forse il vario montaggio della lezione in Ì deriva dall’incomprensione dell’avverbio, datato, ma ampiamente documentato nella poesia di Pucci.

Solo in apparenza adiafore le lezioni a:

dittico per antonio pucci - ii VUSBFz + M

K

iv 40 3 si fece il segno della santa croce V, e si fece il segno della croce U, si fece il santo segno della croce S, fecesi il segno della santa croce z, si fece il segno della croce (-) M

si fieci in fronte il segno della croce (+ BR)

119

L’indicazione generica del segno, di K (+ BR), può certo considerarsi la resa più banale.

Si possono forse aggiungere anche: ii 47 4 ambasciata MFU

mandata (+ Sz), voce più rara

Ambasciata occorre nella stessa ottava al v. 2. La lezione di MFU occorre in prima istanza anche in V, che poi cassa e corregge con la lezione di KSz. iv 35 7 cani V, balbani U, baroni sovrani S, burbani B, baroni M

barbani (+ z)

iv 37 6 molta gente fa star paurose VUM, ci fa star p. B

molta gente ci stanno (stanno z) paurose

La lezione dei mss. diversi da Kz altera il senso, il soggetto non è più chiaro (forse partita di v. 5?); evidentemente non si è capito il verbo e predicativo al plurale riferito al collettivo. iv 39 4 promesso VSMBRz, promessa U

permesso

Lo scambio ben documentato tra promesso e permesso attenua il peso dell’alternanza, pur significativa per il raggruppamento.

Si aggiungono alcuni casi che, pur riguardando la misura del verso, implicano questioni di scelte lessicali o di sintassi: ii 48 2 benedizione

benezione

iii 43 6 benedizion

benizion

L’alternanza ha conseguenze per la misura nella lettura di maggioranza. La forma di K (gallicismo?) ha nel tlio poche attestazioni, tutte fiorentine trecentesche: altra ricorrenza pucciana nel testo K dei Cantari della guerra di Pisa vi 1 3. ii 24 5 e non dubitate ché signor novello

e non dubiate ché signor novello

ii 50 7 pognam che poco valesse (valessi S) il lusingare (: -are) SUVF, e come al fine per gratia di dio (: chonvertio) M

pognam che poco valse i·lusingare (: -are) (+ Bz)

M modifica radicalmente il distico finale. ii 33 4 Ch’i’ (che B, om. M) ve ne darò quantunque vo’ vorete

ch’io ve ne darò quanto vorete (+ S, quanti U)

120

anna bettarini bruni

VUSBFz + M

K

iii 28 2 gran festa e gioia (gioia e festa U) mostrandosi guarito UM, gran festa mostrandosi g. (mostrando essere guarito z) SBFz

gran festa e gioia (gioia e festa V) mostrando guarito (+ V)

In UM il verso risulta ipermetro in quanto in Pucci non si dà mai gioia monosillabo; si spiega così in SBFz la riduzione della dittologia al solo festa. z agisce anche sul verbo con un intervento ponte tra le due varianti (mostrando esser g.). Per contro, in K il verbo mostrare è in diatesi intransitiva col valore di ‘parere, sembrare’ (come esplicita z); così anche in Libro, p. 4: «ma [la luna] mostra grande perché è presso di noi». iii 41 1 E la moglie soferia gran pena VF (-1), sua isposa BM, donna sua S, sua moglie z.

E la mogliere soferia gran pena

La banalizzazione di VF (e verosimilmente di Ì) provoca ipometria e viene variamente integrata da MB, S, z. iv 44 6 in vita etterna andarono con pacienza VS, in vita etterna andar con pazïenza andono con pacienza U, andaron con pacienza (piacenza z) MBz Pazienza è in poesia, almeno fino a tutto il Trecento, trattato come quadrisillabo.

Nei due luoghi seguenti si conferma l’isolamento di K in presenza di lezioni almeno più banali: iii 25 5 e allo imperador si fu inviata VBF, si fu aviata U, fu arrivata SMz

ed a lo ’nperador fu apresentata

Apresentata ha il senso di ‘presentare (presentarsi) ufficialmente’. iii 28 8 non le crede VM, nolla crede U, nollo crede F, non gli crede SBz.

nula ’l crede

I testimoni diversi da K attenuano la funzione negativa espressa dall’avverbio.

Si segnalano anche due casi di rima imperfetta nei quali i testimoni che fanno capo a Ì sono concordi, con l’eccezione di recupero (del resto facile) di z e, in un caso, di U: ii 14 7 avea (aveia S) (: -ia)

avia (+ Uz)

iii 39 2 dicea (: -ia)

dicia corretto su diciea (+ z)

Agli errori si aggiungono varianti adiafore, delle quali alcune si presentano collo stesso segno per altri testi nel confronto tra K e altri manoscritti: in questa direzione solo un’indagine estesa alla tradizione di tutte le opere trasmesse dal Kirkupiano consentirà di valutare quelle corrispondenze e forse anche di sapere se certi caratteri linguistici, svolti in modo univoco, possano indicare una stratificazione d’uso d’autore fissata nella testimonianza di K.

dittico per antonio pucci - ii

121

Tav. 5b (varianti di Ì vs K). VUSBFzM

K

iii 17 2 sì allegra

così lieta

Un riscontro analogo a ii 20 4 molta allegra VF (alegreza M) di contro a molta lieta di K, questa volta col sostegno di U e z. L’alternanza anche nel testo di K dei Cantari della guerra di Pisa rispetto all’edizione: iii 5 3 letto e gaio vs allegro e gaio. iii 36 8 quand’ella

com’ella

iv 41 1 Quando

Come

Uguale alternanza tra K e l’altra tradizione si riscontra in Madonna Lionessa, 47 1; Cantari di Apollonio, i 7 1, ii 31 1, Cantari della guerra di Pisa, iii 24 1. iv 3 6 pro’ e saputo VSB, prode e saputo M, docto e saputo z

molto saputo

Da notare come nella lezione di K in altri casi si contrapponga alla doppia aggettivazione il superlativo analitico; si veda anche l’esempio qui di seguito: iv 22 5. Nella lezione di K dei Cantari della guerra di Pisa, iii 2 8 molto fiero vs ardito e fiero; iv 9 6 molto dotti vs arditi e dotti; e ancora a conferma della resistenza alla dittologia: Cantari della guerra di Pisa, iii 25 3 e presi furon tutti lor più forti vs e presi furo i più gagliardi e forti; iv 5 6 molta travaglia vs briga e travaglia; Cantari di Apollonio, ii 3 5 a gran marchese vs a conte e marchese. iv 22 5 savio e accorto SVBz (M manca)

savio, molt’acortto

Varianti adiafore ricorrenti per le voci del verbo fare, per lo più con sì di ripresa: ii 20 8 fece VM, feceno S, facean U, fecion z iii 8 7 ne fece SUVzM, ne fe BF iv 7 6 feciono SVB, fecela z, fe M iv 20 2 fece SVBzM iv 29 8 vi fe’ UVzM, fece S

fenne (+ F, tenne B) sì ne fe’ sì fero sì fe’ feli

Altre varianti: i 34 5 rispondea (ella rispondea U) ii 42 7 niuno Sz, veruno V, ciaschuno M, om. BF iii 8 8 ancor si noma, se ne noma z iii 14 7 dicendo SUVzM iii 15 1 disse ciò che iii 27 6 montarono SUV, montaron z, e montarono (+1) BFM iii 32 6 morte sostener, sostener morte z iii 34 5 onde iii 39 2 cacciò la gente

ella dicea alcun ancor si sona (+ U la novella sona) e dise (+ BF disse, in lezione fortemente modificata) dise come (+ z) e montaro morte sofferir (+ U) di che la gente chacia

122

anna bettarini bruni

VUSBFz + M

K

iii 40 7 parole nol conforta SBF, né parole non conforta M iii 45 7 dodici VFzM, sedeci S iii 46 8 fe ’l metter iii 46 8 serrar VSzM iv 10 4 adimanda Vz, domandar dovria B, domandar dovia M, S cambia iv 10 8 tornò la guardia e ffe’ po (e fece BS) la risposta SVBz, e lla ghuardia alla donna fe’ la risposta M iv 12 7 riebbono (riebeno S) iv 12 8 gli altri iv 12 8 furon morti, fur morti B iv 17 2 torna VSM iv 14 8 per aschio a morte

né parole il confortan (il conforta Vz) ben dieci (+ B) sì ’l mise (+ B misselo) serrò (+ BF) dimandar si de’ la guardia torna e dise la risposta (+ z)

ebon gli altri suoi (+ B) moriro vane (+ B + z) per lei a morte

Rispetto ad astio (42 ess., in prevalenza toscani, nel tlio), la forma popolare aschio ha solo tre occorrenze nella stessa banca dati, il che non esclude che potesse essere più comune nella lingua d’uso. Comunque, a stare ai dati, tale lezione si presenta come difficilior e tale carattere dovrebbe condizionare la scelta (al contrario per lei è facilmente ricavabile dai vv. 2 e 7). Ma il criterio non può essere assunto in maniera assoluta, non necessariamente cioè lemmi o sintagmi fortemente connotati garantiscono la lezione originale, soprattutto se, come nel caso col sostegno di altri luoghi, precisamente i 21 6 (Tav. 4c), i 23 7 (Tav. 2b) e forse anche ii 3 8 (Tav. 3b), la discussione ecdotica nel suo complesso comporti la valorizzazione del testimone che porta l’altra lezione. iv 24 5 dieronli B, dierono z, dierole M, V cambia debono iv 26 1 furon giunti iv 28 3 debba gire V, andasse USM, andar debba z iv 28 3 per udire SB, ad ubidire z, a udire M, V om. iv 32 7 di grandeza iv 33 3 un teribil roncione VUSM, abiante roncione N, gran roncione I, nobile roncione z iv 33 5 gioganti VSNIz, uomini BM iv 36 7 a suo cittade

diede lor (+ S)

iv 36 8 in tuo contrade

a la tua cittade (+ S)

iv 40 7 con suo chompagni VBz, con sua compagnia MS (R), con suo giente U

con sua compàgna

iv 41 1 fu dilungato, fu partito z

fu dileghuato (+ B)

giunti furono (+ S) gise (+ B) a vedere (: -ire) sua grandeza or[i]bile roncione (+ B) leoni (+ U) in sue contrade (+ S)

Lo stesso K ha errori individuali i quali si possono classificare secondo tipologie differenti di difetti di copia:

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Tav. 6. Errori di K vs Ì K

VUSBFzM

a) Interpretazione da cattiva lettura: ii 29 5 e poi che sendo a modo mascolina mascolina ii 37 7 figliore (sciolto da Motta figlio re)

e poi crescendo a foggia (in forma S) signore

Anche figliore può spiegarsi per refuso, da signore.

b) errato scioglimento di compendio: ii 39 5 chopir (← choprì?) ii 45 5 per metter

coperse (fe’ coprir U) promette

Per l’alternanza si veda lo scambio, a parti invertite, tra promesso e permesso a iv 39 4, nella Tavola 6.

c) omissione di una parola: iii 18 8 non ci fia vergogna

che non ci sarà vergogna V, che non ci sia vergogna Fz, che non ci fia vergogna UBSM

Motta sopperisce alla mancanza della congiunzione leggendo fia bisillabo; si potrebbe pensare una lettura fi’ a vergogna, ma siamo fuori dell’uso pucciano. Più semplice pensare a un salto da parte di K.

d) errore d’anticipo o di ripetizione: iii 45 6 andò ver lui ben con più di diece (-1)

andò ’nver lui con anche più di diece

Per la misura l’editore di K propone la lettura bisillabica del pronome, ma risulta evidente il vizio di costruzione nell’anticipo dal verso successivo n’avia seco ben dieci. La formula degli altri mss., numero a parte, si ritrova nel Centiloquio («e fu pregion con anche più di sedici»). iv 6 4 battaglia forte e dura

battaglia aspra e dura

Lo stilema dei mss. diversi da K spesso ricorre nel Centiloquio; l’aggettivo forte di K può derivare dal verso precedente (forte resedio), tenendo conto in aggiunta che la sostituzione fa aggio sulla memoria della serie dura aspra forte di If. i).

e) sovrapposizione mentale: iv 40 1 l’angiol di Piero (: croce: boce)

l’angiol veloce

La lezione di K è variazione rispetto alla clausola del primo verso dell’ottava precedente: l’angelo richiamato può essere quello che libera san Pietro dalla prigione di Erode in Actus Apostolorum, 12, 6-16, episodio citato di frequente nei testi volgari.

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K

VUSBFzM

f ) sostituzione di parola per attrazione: ii 33 3 non v’è pensiere pensare d’avere danari

nonn’è mestiere pensare d’aver danari VBM, nonne pensate avere danari S, nonn è mestier che per danari assai F, nonn è mestier d’aver tanti danari U, non habbiate pensiere di danari z

Mentre la perifrasi degli altri manoscritti, più o meno semplificata, pare corretta, la lettura di K, in realtà di significato meno pertinente, propone una figura etimologica non rara e per questo al limite sospetta di banale sovrapposizione di parole vicine per grafia.

A questa casistica si aggiungono i refusi segnalati in apparato da Motta (tra parentesi la lezione corretta): ii 12 6 da lloro (la lloro), ii 13 4 mandata (mandato), ii 25 3 cierto (in rima: -erta), iv 20 1 natta per [incate]natta. Tra le carenze di K l’omissione delle due ottave iii 9-10, la cui presenza risulta indispensabile per un preciso richiamo al loro contenuto più avanti, all’ott. 15. Il salto coincide nel manoscritto col passaggio da una colonna all’altra, che può aver facilitato la distrazione dal testo di copia, tanto più che l’ott. 9 ha lettere iniziali uguali a quelle dell’ott. 8 (El padre / El papa). Proprio nell’avvio dell’ott. 8 troviamo il segno della distrazione dell’occhio già scorso in avanti: dopo la E viene scritto La, poi corretto cassando la a, per l’attrazione di ott. 11 che inizia La sera. È invece più difficile classificare come erronea la lezione di K a ii 41 4: e ma’ (non ina come legge Motta) ciascun fu ˇ ardito e saputo, di misura solo se si legge dialefe. Se si prende per buona la lezione VMB: e ˇ in ciascuno fu ardito e saputo, con ciascuno riferito agli infiniti del verso precedente (aparò (imparò) di scrimire (schermire) edi giostrare), la genesi dell’errore di K sarebbe ancora una volta una cattiva lettura, m per in da cui l’adattamento a ma, scontando l’altra differenza nell’apocope del pronome. Del resto nel gruppo alternativo a K la diffrazione focalizza una difficoltà che si cerca di aggirare puntando sulle diverse preposizioni con esiti insoddisfacenti: e da ciascuno era pro e saputo U, e di ciascuno fu ardito e saputo F, e con ciascuno era ardito saputo z, mentre S adatta per dare un senso: più che niun altro fu a. e s. Alla luce di questi dati resta il sospetto che il difetto possa trascendere le testimonianze, ad esempio con l’omissione di più, che in altro contesto è anche in S, davanti alla coppia degli aggettivi, costituendo così una prova d’archetipo. Mi fermo qui a segnalare la possibilità e a confermare l’insoddisfazione per tutte le lezioni attestate. Robins considera dimostrata la presenza di un archetipo in base a una serie di ipometrie e ipermetrie, sul presupposto che tali scarti alla misura non potessero essere imputati all’autore in virtù della «cura che Pucci ebbe nel copiare versi nelle due antologie di sua mano», un rincalzo non solo estraneo ma anche aleatorio, perché intanto confonde la passione con i risultati. Della lista dei loci proposti (Motta, Robins 2008, p. cx) i seguenti hanno trovato collocazione nelle tavole che precedono: Tav. 2a: ii 42 7; Tav. 3b: ii 3 8; Tav. 5a: i 42 7, ii 8 2, ii 9 2, iii 10 2; Tav. 6: ii 24 5, ii 33 4, iii 28 2, iii 41 1. Ne resta escluso solo uno, ii 39 2, che viene considerato qui di seguito. Si possono segnalare un paio di luoghi di verosimile convergenza di tutta la tradizione:

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Tav. 7. Prove di archetipo. ii 39 2 tutta la strada dove (ove z, onde U, donde V) dove’ passar[e] (carta rifilata in K) K + Ì Lo scarto di una sillaba in più coinvolge tutti i testimoni in un errore di per sé di poca evidenza e di eziologia elementare, ma per questo insidioso anche per un autore. Si tratta di una aplografia che ha portato a rendere identica la prima sillaba tra avverbio e verbo, dove dove’, e proprio per la sua banalità non stupisce che la menda si sia potuta mantenere e trasmettere in tutta la tradizione con qualche tentativo d’intervento (donde V, onde U, fino a quello risolutivo, ove, recuperato nella stampa). iii 34 7 te deo lodamus e poi si fu aviato K, te deum laudalmus e fu aviato V, te deum laudamus e aviato S, te deus laldamus semper sia lodato M, te deum laudiamo che cci a dato U, te deum laudamus a dir chomincioe B, te deum laudamus e cie mi chanto F, te deum laudamus ha ringraziato z

In presenza della formula latina si apre un ventaglio di soluzioni che intervengono sulla misura e che dimostrano la difficoltà forse originaria a bilanciare i due emistichi: il taglio secco di V te deum laudalmus e fu aviato e quello ancora più deciso di S te deum laudamus e aviato, mentre altri modificano te deum laudiamo che cci a dato U, te deus laldamus semper sia lodato M, te deum laudamus a dir chomincioe B, te deum laudamus te cie mi canto F, te deum laudamus ha ringraziato z. Per la precisione, l’eccedenza si appunta nella consonante finale del verbo latino e sulla possibilità del suo assorbimento in elisione con la congiunzione che segue. Non ci stupirebbe in realtà che questa irregolarità prosodica risalisse addirittura al Pucci, talmente insicuro nella gestione della gramatica che nei suoi autografi ad ogni citazione in latino appone in margine un circoletto di richiamo. Ambedue i casi, ma in particolare il secondo, mostrano incertezze originarie, che più che postulare un’entità intermedia, paiono da attribuire addirittura a un modello autoriale (O), dal quale K dipenderebbe direttamente; sull’altro ramo i restanti manoscritti, secondo l’articolazione qui dimostrata. Non si renderebbe del tutto conto dei dati se non si considerasse quanto esposto alla Tavola 5b, cioè che alcune varianti nell’uso linguistico si ripropongono tra K e gli altri testimoni in modo uguale e sistematico anche in altri testi del Kirkupiano. Per questo si può pensare che la conseguente giustificazione non riguardi solo la tradizione in studio e che sia invece praticabile l’ipotesi di un livello più alto nello stemma, qui al di sopra dello snodo Ì, per un antigrafo, riproducente almeno il contenuto di O, al quale riferire quelle lezioni alternative. Non si tratta di un’antieconomica moltiplicazione degli enti, ma di un passaggio indispensabile a spiegare un assetto differente, con effetti limitati nella tradizione della Reina, per altre opere – penso ai Cantari della Guerra di Pisa – estesi e sostanziali, assetto al quale non sarebbe estraneo lo stesso autore.

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«A MAGGI ORE VOSTRA COGNIZIONE, M I FARÒ UN P OCO DA LATO, E VO I ARETE PAZIENZA A LEGGERLA».* APPUN TI SU I NEDI TI MACHIAVELLIANI RIGUARDA NTI L’ATTUAZIONE DELL’ORDINANZA Denis Fachard** Université Nancy 2

T

ra le primissime missive vergate dal Segretario poco meno di un mese dopo essere stato assunto nella seconda Cancelleria fiorentina, quella del 21 luglio 1498 al Vicario e Commissario di Lari Simone Guiducci accenna, in filigrana dell’assai complessa questione dei rapporti di forza tra gli uomini, all’atteggiamento da adottare con i soldati: «Noi crediamo certamente ch’e’ fanti di Criaco si portino come tu ci avvisi; pur nondimanco e’ si vuole considerare che sono soldati, e che tutti e’ soldati son piú tosto volti al far male che ad altra buona operazione; sí che e’ bisogna, a chi ha con loro a conversare o a chi è di loro guida, usare prudenzia grandissima e molte cose dissimulare, molte acremente gastigare, secondo che el tempo, el modo e el luogo richiede. Discorriamoti cosí non perché noi ci diffidiamo punto nella sufficienzia tua, ma per ricordarti che tutti e’ soldati son fatti ad uno modo».1 Ricorrenti in numerosi dispacci autografi, tali precetti inerenti alla simbiosi tra vita politica e vita militare2 mettono a fuoco un triplice scopo: raffermare l’inscindibile congiunzione delle «buone legge e le buone arme»,3 circoscrivere con cura la prevalente autorità tra le varie magistrature, infine punire i disubbidienti distinguendo i reati privati da quelli militari. Ambientate in tempi non proprio idonei tanto al livello istituzionale («Voi della iustizia ne avete non molta, e dell’armi non punto»)4 quanto a quello sociopolitico («li umori di Toscana sono tali che, come uno conoscessi potere vivere sopra di sé, non vorrebbe piú padrone, trovandosi massime lui armato e il padrone disarmato»),5 tali obiettivi gravitano intorno al noto postulato virgiliano «Res dura et regni novitas

* «Voi mi avete richiesto che io vi scriva el fondamento di questa Ordinanza e dove la si truovi: farollo; e a maggiore vostra cognizione, mi farò un poco da lato, e voi arete pazienza a leggerla» (La cagione dell’Ordinanza, dove la si trovi e quel che bisogni fare, in Machiavelli 2001, § 1, p. 470). Ringrazio Emanuele Cutinelli-Rèndina per i suoi preziosi suggerimenti. ** [email protected] 1 Machiavelli 2002, lett. 6, §§ 5-6, pp. 19-20. 2 Vedi La cagione dell’Ordinanza e La provisione dell’Ordinanza (da qui in avanti, rispettivamente: CdO e PdO), in Machiavelli 2001, pp. 466-92. Per tutto quanto riguarda questi due testi si rinvia a Marchand 1975 e all’ampia bibliografia relativa. Si vedano anche Gilbert 1943 e Sasso 1993, pp. 189-248. 3 Vedi CdO, in Machiavelli 2001, § 2, p. 470: «perché ognuno sa che chi dice imperio, regno, principato, repubblica, chi dice uomini che comandono, cominciandosi dal primo grado e descendendo infino al padrone d’uno brigantino, dice iustizia e armi». Si veda anche Il principe, cap. xvii, § 3, in Machiavelli 2006, pp. 182-83. 4 CdO, in Machiavelli 2001, § 3, p. 470. Si veda anche la Provisione dell’Ordinanza, in Machiavelli 2001, § 1, p. 477: «e essendo la republica di Firenze ben corroborata per quelli ordini che riguardano alla iustizia, e veggendo delle armi al tutto mancarla…». 5 PdO, in Machiavelli 2001, § 11, p. 471.

«filologia italiana» · 6 · 2009

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me talia cogunt|Moliri et late fines custode tueri»,1 ripristinato nel capitolo xvii del Principe.2 Ora, il discernimento richiesto al principe nel «procedere in modo temperato con prudenzia e umanità, che la troppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile»3 ubbidisce, in ambito bellico, a regole diverse ma altrettanto perentorie: «allora al tutto è necessario non si curare del nome di crudele, perché sanza questo nome non si tenne mai essercito unito né disposto a alcuna fazione».4 Rielaborate nell’Arte della guerra5 tramite esempi tratti tanto da Livio e Frontino quanto dalla propria esperienza a contatto di varie milizie – tra cui quella di Cesare Borgia –6 queste regole mirano ad accertare che «la natura genera pochi uomini gagliardi; la industria e lo esercizio ne fa assai».7 L’innegabile perizia suasoria dell’ex condottiero Fabrizio Colonna, portavoce dell’autore, poggia sillogisticamente su un’asserzione desunta dalla sfera popolare («Non avete voi uno proverbio il quale fortifica le mie ragioni, che dice: “La guerra fa i ladri, e la pace gl’impicca”?»),8 sull’imprescindibile realtà politica («Fare guerra sempre non è possibile, pagarli sempre non si può; ecco che di necessità si corre ne’ pericoli di perdere lo stato»),9 infine sulla diffidenza e la reticenza di quei cittadini «conservatori, miopi adoratori dello status quo politico e sociale»10 che, «per aver già il capo bianco e avere i sangui ghiacciati adosso, parte sogliono essere nimici della guerra, parte incorreggibili, come quegli che credono che i tempi e non i cattivi modi constringano gli uomini a vivere cosí».11 L’ideazione di una milizia composta di «soldati per elezione e non per corruzione, come avete al presente»12 – «la più bella cosa che si ordinassi mai per la città di Firenze» definì Landucci la prima rassegna di fanti a Firenze nel febbraio del 1506 –13 si presentava quindi come una risposta logica, naturale, al quesito di Cosimo Rucellai: «donde nasca tanta viltà e tanto disordine e tanta negligenza, in questi tempi, di questo esercizio»?14 Due previe condizioni richiedeva tuttavia tale impresa: distinguere tra città e contado (dove, pur avvertendo le dis-

1 Virgilio, Eneide, i 563-564. 2 Machiavelli 2006, cap. xvii, p. 226: De crudelitate et pietate et an sit melius amari quam timeri vel e contra. 3 Machiavelli 2006, cap. xvii, § 7, p. 228. 4 Machiavelli 2006, cap. xvii, § 15, pp. 231-32. 5 Fachard 1996. Si veda anche Sasso 1993, p. 190, nota 3: «è onesto riconoscere che, nel 1506, il pensiero di Machiavelli sulla milizia presenta già presso che intero il quadro dei suoi motivi; e che, da questo punto di vista, l’Arte della guerra nulla vi aggiunge di veramente essenziale». 6 Larner 1966. 7 Arte della guerra (da qui in avanti: AdG), in Machiavelli 2001, l. vii, § 160, p. 278. 8 AdG, in Machiavelli 2001, l. i, § 61, p. 43. Segue: «Perché quegli che non sanno vivere d’altro esercizio, e in quello non trovando chi gli sovvenga e non avendo tanta virtú che sappiano ridursi insieme a fare una cattività onorevole, sono forzati dalla necessità rompere la strada, e la giustizia è forzata spegnergli» (AdG, l. i, § 62, pp. 43-44). Si veda anche l. i, § 53, p. 41: «dal volersi potere nutrire d’ogni tempo nascono le ruberie, le violenze, gli assassinamenti che tali soldati fanno cosí agli amici come a’ nimici, e dal non volere la pace nascono gli inganni che i capitani fanno a quegli che gli conducono, perché la guerra duri; e se pure la pace viene, spesso occorre che i capi, sendo privi degli stipendii e del vivere licenziosamente, rizzano una bandiera di ventura e sanza alcuna piatà saccheggiano una provincia». 9 AdG, in Machiavelli 2001, l. i, § 84, p. 48. 10 Sasso 1993, p. 203. 11 AdG, in Machiavelli 2001, l. i, § 48, p. 40. 12 CdO, in Machiavelli 2001, § 40, p. 476. Segue: «perché, se alcuno non ha voluto ubbidire al padre, allevatosi su per li bordelli, diverrà soldato; ma, uscendo dalle scuole oneste e dalle buone educazioni, potranno onorare sé e la patria loro. E il tutto sta nel cominciare a dare reputazione a questo esercizio, il che conviene si faccia di necessità, fermando bene questi ordini nel contado che sono cominciati» (§§ 40-41). 13 Landucci 1883, p. 273. 14 AdG, in Machiavelli 2001, l. ii, § 283, p. 119.

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uguaglianze tra «nidi grossi»1 ed altre podesterie,2 «è piú facile imparare ad ubbidire che a comandare»),3 e insufflare ai contadini armati il senso della responsabilità civica che prevalse nelle milizie antiche: «stimare i modi e gli ordini della disciplina militare, constringere i cittadini ad amare l’uno l’altro, a vivere sanza sètte, a stimare meno il privato che il publico, e altre simili cose che facilmente si potrebbono con questi tempi accompagnare».4 L’assenza di una vera e propria procedura penale, prima della creazione dei Nove di Ordinanza e Milizia, ostacolava tuttavia il non agevole compito di domare la gagliardia dei soldati per impedire loro di nuocere. Per cui il tentennare fra raccomandazioni cortesi e ordini tassativi,5 da un lato, l’approssimazione nel giudicare la gravità del reato quanto l’arbitrarietà nel valutare la pena corrispondente, dall’altro («ci è parso che Bartholomeo sia piutosto in colpa per paura che per fraude»,6 «ci pare che ’l caso sia più presto leggerezza che dolo»),7 confermavano la necessità di fissare un organo legale che permettesse ai fanti di «riconoscere chi li tenga a casa ordinati, chi li comandi nella guerra, e chi li remuneri».8 Che l’instaurazione di un’autorità giuridica rigorosa rappresentasse un requisito primordiale viene peraltro illustrato da una lettera autografa in data 29 dicembre 1506 al Vicario di Firenzuola Lorenzo Guidetti: «puoi fare una delle due cose: o aspectare che ’l Magistrato sia creato et rimettere questo caso in loro, o riconoscerlo tu. Ricordiamoti bene che, volendolo tu riconoscere, facci quanto ricercha la iustitia et non altro».9 Come ben si sa, oltre ad atteggiarsi a demiurgo in seno alla Magistratura dei Nove, Machiavelli vergò un numero cospicuo di missive. Scopo dei presenti appunti sarà di illustrare, tramite quattro tipi diversi di dispacci inediti e autografi10 che non hanno trovato posto negli studi di Canestrini11 né nell’Edizione Nazionale delle Opere di Machiavelli,12 quanto puntigliosamente il Segretario si accingesse ad applicare la nuova legge rispettando la gerarchia governativa, affidando la buona marcia della milizia a Capitani, Vicari, Podestà, Commissari o altri Provveditori di fortezze o borghi del territorio fiorentino; i quali, a loro turno, delegavano a conestabili e cancellieri vari incarichi così come previsto dalla Provisione:

1 Cioè città o borghi maggiori come Arezzo, Borgo San Sepolcro, Cortona, Volterra, Pistoia, Colle Val d’Elsa, San Gimignano (CdO, in Machiavelli 2001, § 11, p. 471). 2 CdO, in Machiavelli 2001, §§ 17-21, pp. 472-73. 3 CdO, in Machiavelli 2001, § 9, p. 471; vedi anche § 13, p. 472. 4 AdG, in Machiavelli 2001, l. i, § 33, p. 38. 5 «Et perché questo è contro alla volontà nostra, ti facciamo intendere che amorevolmente ordini ad ciascuno dove egli ha alloggiare; et quando amorevolmente non basti piglerai quelli expedienti che ad te occorreranno perché l’intendino che li hanno ad ubbidire ad ogni modo» (A Stoldo Rinieri Vicario d’Anghiari, 23 settembre 1506. Archivio di Stato di Firenze, Archivi della Repubblica, Dieci di Balia, Carteggi Missive 82, c. 45v; è pubblicata nel vol. v). 6 A Giuliano del Caccia, 23 luglio 1506 (Dieci di Balia, Carteggi Missive 85, c. 24r; è pubblicata nel vol. v). 7 A Luca Vespucci Podestà di Fucecchio, 21 novembre 1506 (Dieci di Balia, Carteggi Missive 82, c. 86v; è pubblicata nel vol. v). 8 CdO, in Machiavelli 2001, § 34, p. 475. 9 A Lorenzo Guidetti Vicario di Firenzuola, 29 dicembre 1506 (Dieci di Balia, Carteggi Missive 85, c. 103v; è pubblicata nel vol. v). 10 Per la trascrizione dei testi mi sono attenuto a criteri di rigorosa fedeltà, limitandomi a sciogliere le abbreviazioni e a ammodernare la punteggiatura secondo l’uso attuale. 11 Canestrini 1851 e Canestrini 1857. 12 Machiavelli 2008 e Machiavelli c.d.s. Come per i tomi precedenti, il corpus degli Scritti di governo segue in linea di massima la scelta operata da Fredi Chiappelli per la collana «Scrittori d’Italia», interrottasi nel 1985 con il volume iv (1505).

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18. Al Commissario di Cascina Giovambaptista Bartolini.1 29 maii 1507.2 Perché nel comandare che tu fai cotesti nostri huomini dell’Ordinanza e’ non seguissi alcuna cosa contro alle leggi nuovamente facte, ti significhiamo come, passato e nove dì di giugno proxime futuro, tu non puoi levare da le case3 alcuna nostra bandiera né conestabole né huomo sotto di quella se non se ne fa prima deliberatione nel Consiglo delli 80. Vale. 30. Al Capitano di Cortona Filippo Manetti. Die 7 octobris.4 Noi desideriamo che alla haùta di questa tu facci di havere ad te uno chiamato Ciecho di Lodovico da Cortona, suto soldato già et connestabole nostro, et intenderai da lui se li è per acceptare di essere connestabole di una di queste nostre Ordinanze. Et li farai intendere che lo stipendio loro è 10 ducati d’oro5 per pagha ad x paghe l’anno. Et quando e’ sia per acceptare decta conditione, li dirai che si transferischa subito infino al Magistrato nostro, et ci darai notitia subito di quello harai facto. 32. Ad Baldassarre Maliscotti connestabole. Dicta die.6 Havendo noi haùto relatione delle virtù et buone qualità di Mariano di Verdiano d’Antonio da San Giorgio ad Grignano, habbiamo deliberato che lui porti la bandiera di cotesta podesteria di Radda. Et però all’aùta di questa li consegnerai decta bandiera, et lo admunirai che facci tali portamenti per lo advenire che meriti di essere commendato et per lo advenire tirato ad maggiore grado. 10. Ad Agnolo da Castiglone. 5 maggio 1507.7 E’ sono stati ad noi ambasciadori di cotesta bandiera del Ponte ad Sieve, et mostrono come e’ torna sinistro grande et disagio et ad cotesta bandiera et ad quella di Cascia che ’l cancelliere non stia costì in nel Ponte ad Sieve propinquo allo alloggiamento tuo. Et ricercandoci di aiuto et parendoci la loro domanda giusta, t’imponiamo facci intendere al tuo cancelliere che se non vuole venire ad habitare costì teco, che noi ne provedreno d’uno altro. Et quando e’ non voglia venire ad habitare costì8 farai electione d’uno costì in Ponte ad Sieve apto, et ce lo manderai et noi ne fareno el partito. Vale. 17. Ad Agnolone da Castiglone. Dicta die.9 Noi habbiamo questa mattina ricevuto le listre de’ disubbidienti della tua ultima mostra. Et perché e’ fu stamani allo Ofitio nostro ser Giovambatista da la ’Ncisa che noi ti eleggiemo per cancelliere, et havendoci mostro havere qualche fatica infino ad qui et per lo advenire essere per durarne,10 ed oltr’ad questo operare in modo con el servirti che tu ti chiamerai contento, pertanto ad noi non è parso da rimutarlo maxime veduto la electione di quello che tu ci mandavi dal Ponte ad Sieve, et però seguirai di servirti di detto ser Giovambatista.

1 Giovambaptista Bartolini] di altra mano. 2 29 maggio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 78v). 3 case] ms. casa. PdO, in Machiavelli 2001, § 68, p. 489: «Non si possino, o tutti o parte di questi descritti come sopra, o con le loro bandiere o senza, da alcuno magistrato levare con le armi da le case loro per mandarli a fare alcuna fazione di guerra, o ad alcuna impresa, senza il partito delli eccelsi Signori, venerabili Collegi e Consilio delli 80». 4 Die 7 octobris] di altra mano. 7 ottobre 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 151r). 5 d’oro] segue el mese cass. 6 Dicta die] 5 novembre 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 161v). 7 5 maggio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 60r-v). 8 costì] segue ci manderai chi el nome cass. 9 Dicta die] 28 maggio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, cc. 77v-78r). 10 durarne] segue per lo advenire cass.

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Un primo gruppo di lettere riguarda essenzialmente il varo e il buon funzionamento dell’Ordinanza: si tratta di documenti di natura spiccatamente logistica, attinenti al reclutamento, l’addestramento, l’armamento e il finanziamento della milizia «a piè», il censimento dei drappelli e la registrazione di tutti gli uomini in età di quindici anni o più. Gli esempi abbondano: 6. Al Vicario di Pescia Federigo de’ Ricci, Vicario et Commissario di Pescia.1 No’ ti mandiamo alligata ad questa tre quaderni dove sono notati tucti li huomini fra vechi et scripti di nuovo che noi habbiamo fermi sotto coteste tre bandiere, et hai ad intendere che tucti quelli che sono scripti in su detti tre quadernucci, et non sono cancellati, sono quelli che sono rimasti scripti et fermi sotto dette tre bandiere; pertanto harai ad te el connestabole et li presenterai detti quaderni, et dirai che li facci transcrivere et riordinare tucti insieme al suo cancelliere, et facto questo ci rimandi detti 3 quaderni. Voliamo oltra di questo che tu notifichi ad ciascuno delli scripti di nuovo come egli è scripto et che li è obligato obbedire alle mostre quando le si bandiranno; et in questo userai diligenza tu et il connestabole. Dirai oltra di questo al connestabole che examini quanti2 pecti et quante lance bisogna mandare costà per conto di questi scripti di nuovo, et che ad questo effecto facci di rihavere tucte quelle armi che sono nelle mani delli scripti vechi che rimangono hora cassi; et così ricerchi se altre armi si fussino smarrite in paese, et facci di haverle nelle mani. Et in spetie ci advisi quanti pecti et quante lance si trovino ad Montecarlo, et di più examini quanti scoppietti è bene se li mandino per fornire le bandiere, non passando x scoppiettieri per cento. Ma ricorderalli che usi diligentia in vedere chi delli scripti nuovi ha l’armi da sé, perché sappiamo ve ne è adsai et ad chi le ha non bisogna darle; et però farai che li usi diligentia in ritrovarlo, et tu non li mancherai delli aiuti necessarii in questa cosa. Sarà anchora in questa una listra di quelli disubbidienti delli scripti vechi che non comparsono alla monstra quando Antonio Giacomini venne costà; voliamo li citi ad uno ad uno, et ad chi tu non troverrai giusta cagione di non essere rassegnato li farai paghare 20 soldi, e quali danari metterai in mano d’un depositario che li rimetta al nostro Ofitio. Et farai loro paghare anchora ad quelli che non havessino scusa e diricti ordinarii della corte; et se alcuno non volessi o non potessi pagare detti 20 soldi, lo terrai in prigione dua dì et di poi sanz’altro pagamento lo licentierai. Vale. 4. Alfonso Pandolfini ad Castiglone del Terziere. Die 6 februarii3 1506.4 Noi ti commetteno più giorni fa ci mandassi scripti et notati in uno quaderno tucti li huomini di età da 15 anni in su5 che habitano in cotesto tuo capitaneato; et perché noi stimiamo l’habbia haùta non la replichereno altrimenti, ma solo ti sollecitiamo ad fare quanto ti si commisse. Per la presente ti facciamo intendere come noi voliamo, in quello dì ti pare, ordini ad Iannisino connestabole facci la mostra delli huomini scripti sotto cotesta bandiera, et di nuovo li riscriva et noti in su ’n un quaderno. Et di più voliamo che tu ordini, pure con lo aiuto del connestabole, di vedere quelli che non fussino scripti et fussino apti, et di nuovo li scrivessi et mettessi nel numero di quelli che sono suti scripti infino ad qui. Et sapiendo che cotesto paese abbonda di huomini, et buoni, vorremo che cotesta bandiera di cotesto capitaneato ascendessi alla somma di 300 huomini, il che ci servirebbe ad qualche nostro proposito; et però vedi di usare dilegentia perché così segua. Et facta che tu harai questa descriptione de’ nuovi et de’ vechi, ce li manderai in uno quaderno notati et distinti popolo per popolo o comune per comune. Vedrai anchora quanti pec-

1 La lettera, senza data, è collocata tra due dispacci dei 20 e 22 febbraio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, cc. 21r-22r). 2 quanti] ms. quante. 3 februarii] spscr. a ianuarii cass. 4 6 febbraio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 15r). 5 PdO, in Machiavelli 2001, § 51, p. 486.

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ti bisognano per armarli et ce ne darai adviso; et farai soprattucto di haverci mandato questo quadernuccio1 delli ordinati sotto la bandiera per tucto el presente mese, perché le leggi ci sforzano ad saldarlo fra detto tempo. Sarà alligata ad questa certi ricordi e quali voliamo dia in scripti ad el connestabole, et appresso uno bando el quale farai bandire in su la mostra ed in ogn’altro luogo publico. Et ad te ricordiamo che havendo ad gravare alcuno delli scripti per conto privato o publico2 tu non lo gravi nell’armi, perché voliamo trovarli armati a’ bisogni nostri. Et perché noi habbiamo commesso al Commissario di Fivizano3 facci el medesimo nella sua bandiera, voliamo t’intenda seco acciò che el connestabole possa essere costì quando e’ non è occupato con lui. Vale. 22. Al Podestà di Colle Michele Bruni. Dicta die.4 Cotesta comunità per suoi ambasciadori ci fa intendere come e’ sarebbe inconveniente5 quando li scripti fussino securi o da debiti privati o da debiti di comune. Et perché questa loro querela sarebbe ragionevole quando così fussi, ti significhiamo come questi descripti non hanno securtà senonché sono securi per le condannagioni pecuniari le quali havessino per delicti commessi, et come d’ogni altra cosa così civile come criminale tu li hai ad tractare come prima; et tucto si è facto intendere al loro connestabole lungamente. Et perché decti ambasciadori ci hanno exposto come e’ sarebbe bene che drento nella terra di Colle nessuno scripto potessi portare arme la nocte, ci è parso di compiacerlo loro; et però farai publicare per tua et nostra parte che nessuno ardischa portare arme la nocte da l’una6 hora in là.7 Et ad questo et al soprascripto effecto harai ad te el connestabole, et li leggerai questa nostra lectera acciò che oltre ad quello li habbiamo scripto intenda etiam da te come le cose habbino ad governarsi. Vale.

Un secondo gruppo affronta il problema di assoggettare i fanti alla disciplina e all’ordine, ossia come placare liti valutando l’evoluzione della situazione socio-politica del luogo, verificare le giustificazioni di assenteismo alle mostre,8 garantire l’incolumità degli «iscritti» cancellando condanne pecuniarie anteriori alla leva, provvedere alla sicurezza, al riparo e al rifornimento delle truppe, badare ad alleviare, per quanto possibile, scomodità o necessità troppo impellenti, spaziando la ricorrenza delle esercitazioni militari, o ancora lottare contro la corruzione, il favoritismo e la vendita di promozioni: 27. Al Cerchio. Die ii octobris.9 Rispondendo ad questa tua de’ 28 del passato ti diciamo, in quanto alle differentie di Monterchi, come essendo innanzi alli 8 bisogna vedere quello che partoriscie la cosa, et dipoi bisognando fare cosa veruna non se ne mancherà. Quanto ad10 li alloggiamenti ad che tu di’ vorresti concorressino quelli di Monterchi, ti facciamo intendere che ogni volta che decti di Monterchi, come e’ dicono volere fare, ti terranno una casa di che tu ne habbi le chiavi, dove tu possa scavalcare qualunque volta ti occorre o ti pare andare là, et ti habbino provisto in quella di legne et di strame, noi non li possiamo constringere ad altro; et però ti farai provedere di decto alloggiamento fornito in decto modo, et non volendo farlo come e’ ci hanno promesso noi allora vi provedreno. Quanto al cancelliere, noi facemo intendere ad decti di Monterchi come e’ dovevono concorrere al salario suo, che era uno fiorino el mese. Loro risposono che erano contenti ma non era già ragionevole concorressino per metà, non essendo pari a la potesteria d’Anchiari. Ad questo si dixe che fussin con el Vicario, et lui vedrebbe quello che fussi ragionevole et li metterebbe d’ac1 quadernuccio] ms. quadernucci. 2 publico] segue che cass. 3 Fivizano] ms. Fizano. 4 5 giugno 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, cc. 87v-88r). 5 e’… inconveniente] spscr. a e’ dispiacerebbe loro cass. 6 una] ms. uno. 7 là] segue o scripto cass. 8 PdO, in Machiavelli 2001, § 40, p. 484. 9 2 ottobre 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, cc. 146v-147r). 10 ad] segue Monterchi cass.

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cordo. Pertanto comunicherai al Vicario questa lettera adciò che lui intenda quello che è lo animo nostro, et possa dipoi procedere secondo li pare ragionevole pure che li assetti la cosa. Quanto ad Montedoglo et Monteaguto, sarai col Vicario secretamente et vedrai che lui examini per buon mezi quello et quanto sarebbe ragionevole che pagassi ciascuno di loro per conto del salario del cancelliere et delle tue taxe. Et farai che ’l Vicario1 ce ne dia adviso, et noi comandereno all’uno et l’altro comune paghino in quel modo che dal decto Vicario ci sarà scripto; et decti comuni, venendo la commissione da noi de directo, non se ne discosterranno. Habbiamo ricevuta la listra de’ disubbidienti et de’ capi di squadra; ordinereno al Vicario che ’ disubbidienti risquota, et de’ capi di squadra per altra ti si scriverrà lo animo nostro. 31. Al Vicario di San Giovanni Giovanni Peruzi.2 Dicta die.3 Havendoci el Biancho da Pergine facto intendere come nell’ultima mostra che fece el connestabole nostro era absente et che4 haveva ordinato se li facessi la scusa, et parendoli per questo non dovere pagare la pena, voliamo vegha d’intendere se è la verità quanto ci ha referito, et trovando sia vero non li farai pagare detta pena. Vale. 14. Al Capitano del Borgo ad San Sepolcro Giovanni di Salvestro Picti.5 Die xviii maii.6 Havendo noi inteso come tu hai preso per una condannagione Sancti di Piero da Castro,7 potesteria di Caprese, el quale è de’ nostri nuovamente descripti nella nostra Ordinanza, et perché tali descripti sono securi di qualunque condannagione pecuniaria havessino avanti fussino scripti, voliamo, quando tu habbi nelle mani decto Sancti per detta condannagione, che alla haùta di questo lo relaxi et pongha al tucto in sua libertà. Vale. 26. Al Podestà di Colle etc. Niccolò Dini.8 Die xvi septembris.9 E’ torna costà Arcangiolo connestabole nostro, al quale si è commesso facci le mostre ordinarie delle sua bandiere; voliamo pertanto li presti quelli favori di che da lui fussi ricercho. Et perché lui si querela non havere da cotesti huomini di Colle né strame né legne, come si è commesso più voltae et come si usa per li soldati nostri, pertanto farai che ne sia provisto. Vale. 23. Al Vicario di Pescia Berto da Filicaia.10 Die 13 iunii 1507.11 Noi voliamo che tu ordini al Papa da Uzano12 che come egli è in termine con le ferite ha di potere venire qui, che subito personalmente si presenti al nostro Magistrato; et tu in questo mezo, se ritraessi altro del caso seguìto infra lui et messer Giliberto fuora di quello ci hai scripto, ce ne darai notitia. Et di nuovo t’imponiamo ricerchi con dextreza et secretamente se li è vero che messer Giliberto habbi preso danari da coloro che lui ha facti capi, o dato loro preminenze nella compagnia, perché ci è suto referito come lui ha decto al terzo et al quarto: «se tu mi dai uno ducato o tanti danari io ti farò capo di squadra»; ricercherai la verità della cosa et adviserai. Farai ancora questo, che quando tu intendi che ’l Papa vengha qui ordinerai che ci vengha anche messer Giliberto; ma harai advertenza di non lo fare venire se prima non intendi che ’l Papa sia mosso per venire qui.

1 Vicario] segue che cass. 2 Giovanni Peruzi] di altra mano. 3 3 novembre 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 161r). 4 che] segue ne cass. 5 Giovanni di Salvestro Picti] di altra mano, spscr. a Santi di Piero da Castro cass. 6 18 maggio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 71v). 7 Castro] segue di cass. 8 Niccolò Dini] di altra mano. 9 16 settembre 1509 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 143v). 10 Berto da Filicaia] di altra mano. 11 13 giugno 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, cc. 91v-92r). 12 Uzano] spscr. a Buggiano cass.

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33. Al Proveditore della rocha et cittadella di Arezo. Die 6 novembris 1507.1 E’ sarà inclusa in questa una listra delli huomini scripti nella podesteria di Civitella et sotto2 quella bandiera; et perché noi li affatichiamo ogni dì in mostre et in altre cose extraordinarie, ci pare ragionevole che sieno exenti da li altri carichi. Et però non comanderai ad alcuno3 de’ descripti in decta nota per opere o per alcuna altra factione ti occorressi di fare per conto di decta rocha et cittadella, et questo4 observerai sanza mancho alcuno. 15. Ad Bastiano di Piero da Castiglone ad Fucechio. 27 maii.5 Noi habbiamo ricevute più tue lettere significhative dello assalto facto a’ Pisani con cotesti nostri huomini; commendiamoti dello adviso et della opera, et c’ingegnereno ad ogni modo ristorarne loro et te. Piaceci che tu habbi differito le mostre, perché desideriamo la commodità delli huomini. Vale.

Ora, sebbene tali consegne abbiano il vantaggio della chiarezza, più sfuggente rimane invece la distinzione tra fatti spiccatamente privati e reati pertinenti alla milizia, come suggerito nella Cagione: «Quanto ad ordinare che non possino nuocere, si ha a considerare che possono nuocere in dua modi: o fra loro, o contro alla città».6 Riguardo al primo, nuocere «fra loro», il Segretario è indotto a registrare e gestire con veste quotidiana conflitti riguardanti risse da osteria, liti e vendette familiari, drammi coniugali, ecc.: 5. Antonio Tebalduccio. 6 februarii.7 El cancelliere di Bastiano connestabole ci scrive come alcuni de’ nostri scripti, tornando da rincontrare el Vicario nuovo, hanno facto certo danno nell’osteria di Sancta Gonda, et partiti di quivi feciono certo insulto alla casa d’Andrea di Matteo di Grado; né ti scriviamo altrimenti el caso particulare perché lo potrai intendere dal sopraddecto cancelliere. Et inteso che lo harai, quando el Vicario non sia prevenuto ci pare che tu ordini ad ogni modo che quell’oste sia satisfacto de’ danni, et circha el resto della punitione la rimettiamo in te. Vale. 21. Al Vicario di Pescia Berto da Filicaia. Die iiª iunii.8 Don Giliberto Spagnolo nostro connestabole ci scripse per una sua lectera come el Papa da Fordigla da Uzano havendo abbassato dopo certe parole uno spiede per darli et lui defendendosi colla spada, et correndo ad quel romore uno suo garzone ferì decto9 Papa; donde noi ti commettemo facessi d’averlo nelle mani. Venne dipoi hieri al Magistrato nostro un fratello del Papa et ci ha referito questo caso al contrario, et dice in sustanza che ’l Papa fu assaltato dal connestabole et dal suo garzone. Et faccendoci intendere come decto garzone era in Firenzae, parendoci a·pproposito infino che noi intendessino bene la cosa di haverlo nelle mani, lo facemo piglare. Et desiderando hora intendere la verità del caso ti scriviamo la presente et voliamo che tu intenda quello che dice l’una parte et l’altra, et che tu examini dipoi e testimoni che n’allegano, et veggha con ogni debita diligentia d’intendere la verità di questo caso; et intesola ci manderai per scriptura tucto quello ne harai ritracto, et quanto più presto potrai.

1 6 novembre 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 179v). 2 sotto] segue questa cass. 3 alcuno] segue perché per conto cass. 4 questo] -a corr. in -o. 5 27 maggio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 76v). 6 CdO, in Machiavelli 2001, § 27, p. 474. Si veda in riguardo l’impianto stemmatico della nozione di nuocere in Marchand 1975, p. 142. 7 6 febbraio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 15v). 8 2 giugno 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, cc. 82v-83r). 9 decto] segue pagli- cass.

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Mandera’ci le listre de’ disubbidienti nell’ultima mostra et serbera’tene copia. Et da decti disubbidienti trarrai la pena de’ 20 soldi per ciascuno, et così finirai di risquotere da quelli disubbidienti che ti lasciò l’antecessore tuo, et ci farai rimettere e danari riscossi infino ad qui. 1. Die 22 ianuarii hora 24.1 Fu notificato alli Spectabili Nove per lectera di Giovanni del Mare connestabole di Castelfranco di sopra, la quale è in filza, come Becho di Christofano di Bartolozo da Pulicciano trovando uno con bestie nel suo, cioè Maso di Matteo Porcellana, li dette d’uno marretto o vero col manico in sul capo et li ha ropto el capo,2 et che detto Becho è delli scripti etc. Riscripse Gulielmo delli Alexandri, Vicario di Saminiato, havere haùta la preventione di detta notificatione, et così si adnulla la soprascripta notificatione. 7. Die 22 februarii.3 Sarra da Citerna per lettera de’ 21 notificò come detto dì Giorgio di Bernardino da Camaggiano, podesteria di Barberino, uno suo fante per fare vendetta d’un suo fratello che fu morto ha dato dua ferite in una coscia et una saxata nel capo ad Lorenzo Pela da Montebuiano, che non è soldato et è fratello di quello che admazò.4 9. Die 5 martii 1506.5 Veduta li Spectabili Nove etc. una notificatione facta di Giorgio di Bernardino da Camaggiano per havere ferito Lorenzo Pela da Montebuiano, come adpariscie più largamente in decta notificatione al libro delle querele segnato A ad c. 3, et inteso come decto insulto fu facto da decto Giorgio per vendecta d’uno suo fratello sutoli morto più tempo fa, et conosciuto come decto Giorgio haveva haùta la pace da decto Lorenzo, et examinate tucte quelle cose che in questo caso si dovevono examinare, et viste quelle6 si dovevono vedere sedendo pro tribunali Dei nomine repetito et messo el partito loro ad fave nere et bianche ut moris est, deliberorno et deliberando sententiorno che decto Giorgio di Bernardo Bernardini, detenuto da loro apresso al Capitano della piaza per le decte cagioni, fussi libero et al tucto posto in sua libertà; et7 lo absolverno di tucto quello che per alcuno tempo per conto di decto delicto li potessi8 essere imputato. Mandantes etc. 3. Die 27 ianuarii hora 22.9 Mariano di Michele Tantini da San Lorino, descripto sotto la bandiera di Pratovechio, humilemente si querela dinanzi ad voi Spectabili Nove come10 Donato di Giovanni Venna di decto popolo li ha adposto come lui ha sposata la Maria sua figlola, et vuollo sforzare ad torla per donna et minaccialo tucto el giorno; pertanto decto Mariano ricorre suplice dinanzi alle Signorie vostre ad pregarle non li lascino fare iniuria, acciò che lui per difendersi non habbia ad usare la forza. Feciono intendere li Otto havere la preventione.

1 22 gennaio 1507 (Archivio di Stato di Firenze, Archivi della Repubblica, Nove di Ordinanza e Milizia, Notificazioni e querele 1, c. 1v). 2 Si veda anche lettera nº 2. 3 22 febbraio 1507 (Archivio di Stato di Firenze, Archivi della Repubblica, Nove di Ordinanza e Milizia, Notificazioni e querele 1, c. 3v). 4 Segue Comparse a dì 27 di febraio et fu mandato al Capitano. Die 5 martii fu liberato, come apparisce al libro delle Deliberationi a c. 13 di altra mano. 5 5 marzo 1507 (Archivio di Stato di Firenze, Archivi della Repubblica, Nove di Ordinanza e Milizia, Deliberazioni condotte e stanziamenti 2, c. 13r-v). 6 quelle] segue quel- cass. 7 et] segue di cass. 8 potessi] ms. postessi. 9 27 gennaio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Notificazioni e querele 1, c. 1v). 10 come] segue Giovanni cass.

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Proscritto l’uso di «gastigare con la penna» («non può essere più pernitioso perché si perdono li huomini, fannosi inimici al paese, insegnono disubbidire ad li altri et sono la pietra dello scandolo di tucti e mali che naschono nel nostro contado»),1 i Nove previdero diverse azioni punitive, riluttando tuttavia a sequestrare beni o armi, nonché infliggere ai reclutati pene pecuniarie per non «impoverirli né perderli»: 34. Damiano Bartolini Vicario di Pescia. Die 2.2 Per la tua intendiamo quello hai riscosso delli inobbedienti della ultima mostra, di che ti commendiamo assai. Et poi che tu advisi havere3 riscosse4 dette pene in moneta forestiaera, voliamo che riscosso harai tucto quello credi potere riscuotere, tu dia decti danari al connestabole nostro, et li dirai come se li danno per conto della sua futura proxima paga. Et ad noi adviserai quello harai riscosso et da chi particularmente, mandandocene listra5 contrassegnata di chi ha pagato et di chi è stato in prigione. Ulterius, perché noi intendiamo che el Capitano di bandiera di Pescia prese pochi dì sono uno Antonio di Biagio dal Borgo, rebelle che andava in Pisa, et perché noi sappiamo decto Antonio essere stato adoperato assai in Pisa, ti ricordiamo ne exequischa quanto vuole ragione.6 Ma prima lo examinerai tritamente delle cose di Pisa perché è huomo da trarre da lui qualche cosa. Anchora voliamo che restituischa nelle mani del Capitano di bandiera che lo prese el cavallo di detto Antonio ed ogni sua roba, acciò che ’ nostri huomini habbino animo di7 stare vigilanti in benifitio del publico. Vale. 25. Al Podestà di Bargha. Dicta die.8 E’ ti sarà consegnato per ordine nostro da huomini di Fivizano et mandati da loro commissario uno Matteo, alias Paglaio, da Capriglola. Voliamo lo riceva, et subito licentiato che harai quelli da Fivizano lo invierai alla volta di Pescia adcompagnato da huomini costì di Bargha, a’ quali imporrai che securamente lo conduchino ad Pescia et lo consegnino ad quello Vicario, al quale si è scripto quello voliamo ne facci. Et quando si spendessi qualche cosa in condurlo te ne rimborsereno. Userai diligentia in questo caso, et fara’lo venire securo perché è prigione che noi stimiamo. 2. Al Vicario di San Giovanni Gulielmo delli Alexandri. xxii ianuarii 1506.9 In questo punto che siamo ad 24 horae ci è stato notificato come Becho di Christofano di Bartolozo da Pulicciano ha dato ad Maso di Matteo Porcellana da Castelfrancho d’uno marretto, o vero maza, in sul capo. Pertanto noi ti mandiamo dua bullettini del medesimo tinore et voliamo che per tuo messo o cavallaro li facci presentare ad decto Becho, ed ad noi darai notitia di haverlo presentato. Et questo farai in caso che tu non habbi haùto di questo excesso10 la preventione; et havendola haùta la giudicherai tu11 et non presenterai e bullettini. Ricordiamoti bene in benifitio della città et di questa opera che12 tu proceda più presto contro ad costui et simili13 nella persona che ne’ danari o beni, perché procedendo14 contro a·lloro in danari o li homini si perdono

1 A Pazino Lucalberti Vicario di Scarperia, 14 maggio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 66v). 2 2] lettura incerta; la missiva è collocata tra due dispacci del 25 novembre e 3 dicembre 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 177v). 3 havere] -e corr. sopra -li. 4 riscosse] -o corr. in -e. 5 listra] segue di ch- cass. 6 ragione] segue et di più cass. 7 di] segue fare cass. 8 10 settembre 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 141r). 9 22 gennaio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 5r-v). 10 excesso] segue la prete- cass. 11 tu … bullettini] nell’interlinea. 12 che] segue tu ve- cass. 13 simili] -e corr. in -i. 14 procedendo] segue nella cass.

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o e’ s’impoverischono, et una di queste1 dua cose che segui2 non ci pare a·pproposito; et però te lo haviamo ricordato per benifitio della città. Vale. 28. Al Vicario della Pieve ad San Stefano Antonio Castellani.3 Spectabilis vir. Per la tua intendiamo quello che tu scrivi dello excesso commesso ad Sintiglano et voliamo, confidando nella prudentia tua, che tu proceda in questo4 caso come ad te parrà ragionevole. Ricordiamoti solo che noi desideriamo che li huomini nostri sieno gastigati in ogni altra pena che in danari, per non li impoverire et nolli fare disubbidienti. Con questa sarà una listra di huomini che sono stati disubbidienti nelle due mostre che ha facto el connestabole poi che fu costà; voliamo facci ad ciascuno di loro pagare soldi 20, piglando el tuo diritto come è ragionevole. Et chi non potessi o non volessi di loro pagare terrai dua dì in prigione,5 licenziandoli poi sanz’altra pena, et li danari che tu riscoterai6 rimetterai al Magistrato nostro. Et in tucto userai diligentia dandoci notitia, quando ci rimetterai el danaio, di quelli haranno pagato et di quelli fussino stati in prigione dua dì. Vale.

Non frequenti, in questo corpus, risultano le occasioni di lodare ponderazione, buon senso o discernimento; occupano al contrario un posto cospicuo denunce di comportamenti inaccettabili, insolenze di ogni tipo, insulti all’autorità, ripetuta disubbidienza degna di punizione esemplare,7 permissività o imperizia: «ti ricordiamo che ’l caso importa, et se non si gastiga con evidenti demostrationi et con altro che inchiostro, ogni giorno ne seguirà costà de’ simili disordini et tu ti harai dipoi ad dolere di te se ’l paese fia tumultuoso, et li altri tuoi successori della opera tua»;8 «noi restiamo admirati di questo tuo modo di procedere, né sappiamo se si viene da smenticare le cose, o se la tua è altra intentione non conveniente né ad uno cittadino che sia preposto ad una cura come è cotesta et che travagli con uno Magistrato quale è el nostro».9 Gli esempi non mancano: 19. Al10 Vicario di San Giovanni Guglielmo degli Alexandri.11 Prima iunii.12 Noi habbiamo inteso per la tua di hieri, et con grandissimo piacere, come tu hai nelle mani quelli cinque de’ quali ti demo commissione per altra nostra; commendiamone assai la diligentia tua, della quale restiamo tanto satisfacti quanto di cosa ci sia anchora occorsa in questo Magistrato. Et perché13 questa impresa habbi el suo fine voliamo che decti prigioni si conduchino qui; et però con el tuo cavallaro14 Rinieri di Francesco etc. mandiamo costì 12 fanti del Capitano della piaza nostra perché e’ faccino compagnia ad decti prigioni et aiutigli condurre qui salvi. Pertanto voliamo che subito ordini di mandare decti prigioni, adgiugnendo ad questi fanti della tua famigla chi ti parrà pure tu pigli modo che si conduchino qui ad salvamento; di che non dubitiamo punto veggiendo la diligentia hai usata nel piglarli. Vale.

1 queste] -i corr. in -e. 2 segui] ms. seguino, -no cass. 3 Antonio Castellani] di altra mano. La lettera, senza data, è collocata tra due dispacci del 2 ottobre 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 146r). 4 questo] -a corr. in -o. 5 prigione] segue et li danari cass. 6 riscoterai] segue ci cass. 7 «uno esemplo basta uno pezzo nella memoria delli uomini» (CdO, in Machiavelli 2001, § 30, pp. 474-75). 8 A Pazino Lucalberti Vicario di Scarperia. 10 giugno 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 91r; la lettera, cancellata, non fu mandata; è pubblicata nel vol. vi). 9 Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 92v. 10 Al] segue podestà cass. 11 Guglielmo degli Alexandri] di altra mano. 12 1º giugno 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 81v). 13 perché] segue la co- cass. 14 cavallaro] segue ti man- cass.

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20. Al Podestà di Castelfranco di sopra. Dicta die.1 Per la tua habbiamo inteso come el Capitano di bandiera di costì ha usato certi termini insopportabili verso la tua corte; pertanto ti facciamo intendere come havendolo in nelle mani si riconosceranno tucti e suoi errori et ne sarà gastigato. Vale. 16. Ad Pazino Lucalberti Vicario Scarperie. 28 maii.2 Noi habbiamo inteso quello che tu ci scrivi della differenza che è tra Pagolo di Giovanni et Simone di Iacopo, et come decto Simone è suto disubbidiente più volte et che li è huomo scandoloso, il che ci dispiace. Et però voliamo vegha di porli ad ogni modo le mani addosso acciò si possa con lui dare exemplo ad li altri; et del seguito ci darai adviso. Saraci in questa una nota di inobbedienti ad la mostra di Sarra; fara’gli gravare in 20 soldi per ciascuno, et il danaio ci rimetterai nel modo che altra volta ti si è scripto. Vale.

Un terzo gruppo illustra con quanta determinazione i Nove ricorsero, oltre alla minaccia di incarceramento, tortura, impiccagione o decapitazione per chi, disertore o traditore, agisse «contro la città»,3 alla delazione e al terrore. Chi, ad esempio, ambisse di servire la Repubblica di Venezia, «andrà ad perdere et non ad guadagnare, […] et interverrà loro che li stenteranno un tempo, et dipoi o non torneranno o torneranno in camicia».4 Cassette a forma di tamburo ed ornate ad effigie del patrono di Firenze, appiccate «in ogni pieve o altra chiesa simile principale di quelli luoghi dove saranno uomini descritti, o dove di nuovo ne volessino scrivere»,5 incitavano a raccogliere denunce: 24. Ad Bastiano di Matteo da Castiglone. Die x iulii.6 Noi intendiamo come Dionisio di Naldo et Ramazotto et un altro connestabole ad Imola fanno numero di fanti per la Signoria di Vinegia. Et perché noi non vogliamo che ’ nostri subditi vadino ad servirli, et in spetie e nostri scripti, ti scriviamo la presente acciò che tu stia advertito se alcuno della Montagna di San Godenzo o altrove7 fussi richiesto, et intendendolo ce ne darai adviso. Et in quel tanto tu li farai ogni prohibitione perché non vada, faccendoli intendere che chi andrà sarà gastigato, se non allo andare al tornare, et sarà tractato da nimico nostro. Usa diligenza in questo caso. 29. Al Vicario di Val di Cecina Antonio di Duti Masi. 5 octobris.8 Sarà in questa una listra di disubbidienti in questa ultima mostra di Giannone; voliamo facci pagare ad ciascuno di epsi per pena soldi 20, e quali danari rischossi terrai ad nostra instanza et ce li rimetterai subito. Et quando alcuno non potessi o non volessi pagare lo terrai in quello scambio dua dì in prigione et dipoi lo licentierai sanz’altra spesa. Voliamo bene pigli el diricto secon1 Dicta die] di altra mano; si legge nel marg. sin. di altra mano: portò il figliuolo, 1º giugno 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, cc. 81v-82r). 2 28 maggio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 77v). 3 «Debbasi punire di pena capitale e di morte qualunque di detti descritti fosse capo o principio nelle fazioni di guerra d’abbandonare la bandiera, e qualunque capitano di bandiera che traesse fuori tale bandiera per alcuna fazione privata, o per conto di alcuno privato, e qualunque, etiam senza bandiera, facesse ragunata alcuna di detti descritti per conto di inimicizie, o per conto di tenute di beni, o altrimenti in alcuno modo per alcuna fazione privata» (PdO, in Machiavelli 2001, § 71, pp. 489-90). 4 Ad Antonio da Castiglione connestabole a Firenzuola, 8 luglio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 103r-v); è pubblicata nel vol. vi. 5 PdO, in Machiavelli 2001, § 52, p. 486; si veda anche § 76, p. 490. 6 10 luglio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, cc. 105v-106r). 7 o altrove] nell’interlinea. 8 5 ottobre 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 149r-v).

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do la consuetudine de’ danari riscoterai, et manderai quelli di Silano al loro notaio et dara’li la medesima commissione. Voliamo anchora che tu ordini fare costì una cassetta ad uso di tamburo, dipintovi drento uno San Giovanni et descripto da piè tamburo d’Ordinanza, et quello dipoi farai appichare nella principale chiesa di cotesto vicariato. Dipoi farai bandire in su e mercati per parte nostra che se alcuno notificherà alcuna persona per via di decto tamburo che havessi facto o facessi1 armate o ragunate di huomini per fare alcuno insulto o piglare tenute, o che havessi vendute o comperate l’armi del comune, o che havessi facto alcuna altra cosa in disubbidienza et contro alla Ordinanza, li sarà dato el 1/4 della condannatione pecuniaria et tenuto secreto. Et questa medesima commissione2 del tamburo darai al Vicario o Ufitiale di Montecastelli per nostra parte, et li farai ordinare el medesimo bando. Usa diligenza in ordinare questi tamburi, et ci adviserai di haverlo facto acciò ti possiamo commendare.

Quanta perplessità e sfiducia, infine, suscitasse a Firenze l’assunzione di Miguel de Corella, affinché «con l’esempio delle sue crudeltà, e con la sua esperienza, tenesse a freno l’indisciplina e la più che tendenziale anarchia delle recenti milizie fiorentine»,3 è quasi superfluo ricordare: «Noi disegnamo, per dare terrore ad chi volessi disubbidire et rendere reputatione ad questa cosa, di mandare costà don Michele».4 Risulta inoltre oltremodo ovvia dalla lettura di documenti paralleli che, nonostante la lettera di istruzione sembrasse presupporre un certo controllo sulle sue azioni punitive, tale scelta dovesse suscitare l’attenzione, se non addirittura preoccupare il Segretario. E se egli, da un lato, mostrava di voler garantire al famigerato condottiero i diritti che spettavano a qualsiasi suo pari («imponiamo pertanto ad tucti voi subditi nostri diate ad decto signore don Michele et a sua compagnia strame, legne et alloggiamento gratis, et tucte l’altre cose per li sua danari, secondo l’uso delli altri condoctieri della nostra Republicha: il che farete per quanto stimate la gratia et temete la nostra indegnatione»),5 dall’altro, non immemore dell’efferatezza del «ministro del sanghue» del Valentino,6 forse temeva altri eccessi nonché il cattivo comportamento delle sue truppe.7 Sforzandosi, ad esempio, di non urtare le diverse suscettibilità in posta, Machiavelli gli si rivolse con tono determinato, ingiungendo esplicitamente al tempo stesso al Capitano d’Arezzo Agnolo Carducci di tenerlo il più lontano possibile dalla città: 8. Prima martii.8 Decti Domini elexono per uno de’ connestaboli delle loro bandiere et al loro beneplacito Dietaiuti da Prato con salario per pagha di9 ducati 8 et per uno tamburino dua ducati d’oro in oro. Item decti Domini deliberorno che al signore don Michele loro Capitano di guardia si dessi el resto della septima pagha, et di più un’altra paga, cioè quello che monta l’octava pagha secondo la condocta vechia, con questo che di tucta questa somma se li ritenessi centoventicinque ducati d’oro; et lui dall’altro canto finissi et quietassi la Republica di Firenze di tucto quello che potessi addomandare per conto della sua condocta vechia cominciata ad dì 19 d’aprile del presente 1 o facessi] nell’interlinea. 2 commissione] ms. com-(e corr. in i)-ssione. 3 Sasso 1993, p. 195. Sul temuto condottiero si vedano Dionisotti 1967, Sasso 1969 e 1987-1997. 4 Al Vicario di Firenzuola Giovanni Compagni, 10 luglio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 105v). 5 Patente vergata dal Machiavelli il 4 luglio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 99r). 6 Cerretani 1994, p. 345. 7 Gennaro Sasso parla di «rigido sistema di controlli (entro il quale, del resto, don Michele era, lui pure, piuttosto un oggetto che un soggetto»): Sasso 1993, p. 209. 8 1º marzo 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Deliberazioni condotte e stanziamenti 2, c. 10r). 9 di] segue soldi cass.

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hanno 1506, et per dovere finire ad dì 20 d’aprile proxime futuro 1507, et infino ad quel dì debbe servire et stare contento a’ sopradecti danari. Sono bene contenti decti Spectabili Nove che dove per virtù della condocta vechia e’ debbe tenere cento fanti et 50 cavalli, si rassegni al presente con trenta cavalli et cinquecento1 fanti secondo la forma che della condocta nuovamente di lui facta. 11. Die xii maii 1507. Al Vicario di Mugello Pazino Lucalberti.2 Poi che don Michele3 prese ultimamente4 coloro di chi5 tu hai notitia ci sono state date più listre di cose che alcuni dicono esserli sute tolte da e fanti di decto don Michele; et perché queste cose ci sono dispiaciute noi habbiamo voluto intendere da lui come è proceduta la cosa et donde nascono queste querele. El quale ci ha referito essere vero che ’ sua6 fanti tolsono alcune cose, ma che lui ne fece parte riportare in casa di Giovanni di Piero Sanctoni, et7 parte ne fece rendere costì in Scarperia per mezo della tua corte. Et perché noi vorremo ritrovarne8 il vero ti mandiamo alligate ad questa quelle listre che ci sono sute date da più particulari, et desideriamo che veggha d’intendere che cose decto don Michele fece restituire costì et quali cose9 fece mettere in casa di Giovanni di Piero Sanctoni10 sopraddecto. Et11 […] quelle che tu risconterrai che sieno restituite et scripte in su dette listre lancerai o farai loro qualche altro controadsegno,12 et facti questi riscontri con diligentia13 ci rimanderai decte listre; et ci adviserai quello hai ritrovato et di più se ti occorressi cosa in questa materia che ti paressi da darcene14 adviso. Vale. Circha ad quello che tu ci scrivi di Nanni del Fontana et altri etc. pensereno ad ogni modo di rimediarci, siché15 ne puoi stare di buona vogla. Sarà16 in una di decte liste, come vedrai, nota di alcuni delle podesterie del Borgo ad San Lorenzo et Vichio, delli quali sono parte che non hanno voluto pigliare le armi da Bastiano nostro connestabole. Et ad questi voliamo facci comandamento che fra due dì dal dì del comandamento facto si rappresentino al conspecto nostro sotto pena del nostro arbitrio, et delli comandamenti facti ci darai adviso. Un’altra parte ne sono di quelli che non comparirono alle ultime mostre facte per il decto Bastiano; et ad questi voliamo facci pagare soldi 20 per ciascuno, o veramente17 tengha 2 dì in prigione chi di decti disobedienti non havessi modo o non volessi pagare decti soldi 20, come ti si commisse delli altri ti si mandorono delle podesterie di Barberino et Scarperia; alli quali attendiamo habbi dato expeditione, et che per il primo facci rimettere al nostro proveditore li danari riscossi con darne adviso particulare di chi harà pagato et di chi sarà stato in prigione. Farai ancora comandare a Raffaello del Tozo di costì che fra 2 dì dal dì del comandamento comparisca al Magistrato nostro. Sarà in questa parechi comandamenti, quali a l’havuta farai presentare ad chi e’ vanno, et ce ne darai subito adviso perché sono per cause importanti et che non expectano tempo. Vale. 13. Ad don Michele. xvi 18 maii.19 Perché noi intendiamo che voi sete costì in Empoli et che da l’altra la compagnia vostra alla Scarperia fa mille inconvenienti, v’imponiamo che subito ne andiate alla Scarperia, et dipoi subito con la compagnia ne andiate alla via d’Arezo dove vi si ordinò; et di questo non mancherete. 1 cinquecento] ms. 5o. 2 Al … Lucalberti] di altra mano. 12 maggio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, cc. 64v-65r). 3 Michele] segue scrips- cass. 4 ultimamente] nell’interlinea. 5 chi] ms. chei (che in sigla). 6 sua] segue facti cass. 7 Giovanni … Sanctoni, et] di altra mano. 8 ritrovarne] ms. rit-(r nell’interl.)-ovarne. 9 cose] segue mes- cass. 10 Giovanni di Piero Sanctoni] di altra mano. 11 Et] segue parola illegg., coperta da una macchia. 12 controadsegno] segue et quelle cass. 13 diligentia] segue ce cass. 14 darcene] -cene spscr. a -tene cass. 15 siché] segue sta- cass. 16 Sarà … Vale] di altra mano. 17 veramente] segue di cass. 18 xvi ] corr. sopra xvii . 19 16 maggio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 69r).

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12. Al Capitano d’Arezo Agnolo Carducci.1 xiiii maii.2 Exhibitore della presente sarà o don Michele o suo mandato, el quale noi mandiamo ad posare 15 o 20 dì in cotesto capitaneato tanto che dia l’herba a’ suoi cavalli; pertanto noi voliamo lo halloggi da Arezo in qua et più discosto alla città potrai. Et farai intendere ad decto don Michele et ad sua gente che da’ herba, legne et coperta in fuora, e’3 li ànno ad paghare l’altre cose; et quando tu ne havessi queraela vedrai con ogni oportunità di ricorreggerlo4 et di fare che li stieno a’ termini loro. Vale.

Tirando le somme da quanto precede, da un lato tali missive sembrano confermare il disagio e l’ambiguità legati alla funzione affidata da Machiavelli al «luogotenente e boia del Valentino»,5 dall’altro echeggiano indirettamente i sospetti di chi vi intuiva la prova tangibile dei maneggi politici di Piero Soderini: «Ebbonne e’ cittadini di qualità grande alterazione, dubitando che questa voglia di avere don Michele non fussi fondata in su qualche cattivo disegno e che questo instrumento non avessi a servire o per desiderio di occupare la tirannide o, quando fussi in qualche angustia, per levarsi dinanzi e’ cittadini inimici sua».6 Per cui non mi parrebbe eccessivo ammettere che gli inediti relativi al varo della fanteria d’Ordinanza che vedono la luce nelle presenti pagine7 – come quelli di prossima pubblicazione – si iscrivano in un discorso diverso rispetto alle missive vergate a nome dei Signori o dei Dieci;8 e che pur non essendo del tutto sprovvisti di spunti d’interesse, molto si accomunino allo stile degli stradiotti di Cancelleria. Ovviamente non si tratta solo di verificarvi – se fosse ancora necessario – la stretta correlazione tra la struttura del pensiero machiavelliano e la sua tavolozza di strategie retoriche, né di concludere, altrettanto ingenuamente, che in assenza di vero e proprio ragionamento il suo stile non si elevasse al di sopra delle strutture rigide della mera comunicazione ufficiale. Nulla invece vieta di congetturare che, conscio della fragilità e dell’incertezza dell’attuazione del progetto, il Segretario volesse minimizzarne le scorrerie, insidie o altri disordini per non destare maggiore diffidenza presso gli esponenti della classe filomedicea ostili all’Ordinanza.9 Anzi va ritenuto probabile che, come il testo della Cagione intendeva rivolgersi a responsabili politici adoperando la loro propria lingua,10 così la natura dei presenti dispacci, lungi dal favorire uno stile personale11 o dal suscitare riflessioni im1 Agnolo Carducci] di altra mano. 2 14 maggio 1507 (Nove di Ordinanza e Milizia, Carteggi Missive 1, c. 66v). 3 e’] ms. et. 4 ricorreggerlo] nell’interlinea, r cass. 5 Inglese 2006, p. 18. 6 Guicciardini 1983 (1970), Storie fiorentine, p. 226. 7 Non si rileva nessuna traccia invece, in questi dispacci del 1507, della componente religiosa che doveva inquadrare le mostre: «mescolarci qualche cosa di religione per farli piú ubbidienti» (PdO, in Machiavelli 2001, § 26, p. 474). Per la presenza della religione nel pensiero machiavelliano si veda CutinelliRèndina 1998. 8 Fachard 2001. 9 Sasso 1993, pp. 193 sgg. 10 Mentre quello della Provisione si voleva rassicurante rispetto agli abbozzi che la precedettero; si veda, al riguardo, Marchand 1975, pp. 135 e 150. 11 Solo di rado trapela dal rigido stile cancelleresco qualche traccia di penna più incisiva, mordente o addirittura divertita, come nel verbale di questa genuina scenetta di vita quotidiana: «Die 21 februarii. Fu notificato per lettere di ser Tommaso, cancelliere di Bastiano di Piero da Castiglone, de’ dì 18 etc., come ad dì 15 del presente, sendo Giovanni di Giovan Pagolo da Chastelfrancho in nella via publica ad sedere in su ’n una trave, presso alla porta di Paterno, capitò quivi un fanciullo con altri sua compagni, quali adcattavono del cacio et dell’huova; donde che detto Giovanni di Giovan Pagolo tolse un poco di chacio ad detto fanciullo, et lo arrostiva con la punta della spada ad un fuoco in detta via; donde che detto fanciullo, udendo questo, incominciò ad piangere. Allora venne Menico di Giovanni di Nanni, zio di detto fanciullo, et domandò detto fanciullo di che piangeva, et detto fanciullo dixe: “Giovanni mi ha tolto el

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denis fachard

pegnative, non si innalzasse molto al di sopra della materia che aveva da veicolare. Ed è anche vero che il sorriso, l’ammiccamento, l’ironia o l’acutezza argomentativa incontrati nelle lettere delle legazioni coeve non potevano trovare un terreno altrettanto fertile in testi miranti prevalentemente a fare rispettare disciplina e giustizia in materia d’importanza tanto militare quanto politica e il cui orizzonte doveva abbracciare poi, utopisticamente, confini ben più ampi di quelli del contado fiorentino. Indice cronologico delle lettere 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34.

22 gennaio 1507. Notificazioni e querele. 22 gennaio 1507. Al Vicario di San Giovanni Gulielmo delli Alexandri. 27 gennaio 1507. Notificazioni e querele. 6 febbraio 1507. Alfonso Pandolfini ad Castiglone del Terziere. 6 febbraio 1507. Antonio Tebalduccio. 20-22 febbraio 1507. Al Vicario di Pescia Federigo de’ Ricci, Vicario et Commissario di Pescia. 22 febbraio 1507. Notificazioni e querele. 1º marzo 1507. Deliberazioni condotte e stanziamenti. 5 marzo 1507. Deliberazioni condotte e stanziamenti. 5 maggio 1507. Ad Agnolo da Castiglone. 12 maggio 1507. Al Vicario di Mugello Pazino Lucalberti. 14 maggio 1507. Al Capitano d’Arezo Agnolo Carducci. 16 maggio 1507. Ad don Michele. 18 maggio 1507. Al Capitano del Borgo ad San Sepolcro Giovanni di Salvestro Picti. 27 maggio 1507. Ad Bastiano di Piero da Castiglone ad Fucechio. 28 maggio 1507. Ad Pazino Lucalberti Vicario Scarperie. 28 maggio 1507. Ad Agnolone da Castiglone. 29 maggio 1507. Al Commissario di Cascina Giovambaptista Bartolini. 1º giugno 1507. Al Vicario di San Giovanni Guglielmo degli Alexandri. 1º giugno 1507. Al Podestà di Castelfranco di sopra. 2 giugno 1507. Al Vicario di Pescia Berto da Filicaia. 5 giugno 1507. Al Podestà di Colle Michele Bruni. 13 giugno 1507. Al Vicario di Pescia Berto da Filicaia. 10 luglio 1507. A Bastiano di Matteo da Castiglone. 10 settembre 1507. Al Podestà di Barga. 16 settembre 1507. Al Podestà di Colle Niccolò Dini. 2 ottobre 1507. Al Cerchio. 2 ottobre 1507. Al Vicario della Pieve ad San Stefano Antonio Castellani. 5 ottobre 1507. Al Vicario di Val di Cecina Antonio di Duti Masi. 7 ottobre 1507. Al Capitano di Cortona Filippo Manetti. 3 novembre 1507. Al Vicario di San Giovanni Giovanni Peruzi. 5 novembre 1507. Ad Baldassarre Maliscotti connestabole. 6 novembre 1507. Al Proveditore della rocha et cittadella di Arezo. 25 novembre-3 dicembre 1507. Damiano Bartolini Vicario di Pescia.

p. 137 p. 138 p. 137 p. 133 p. 136 p. 133 p. 137 p. 141 p. 137 p. 132 p. 142 p. 143 p. 142 p. 135 p. 136 p. 140 p. 132 p. 132 p. 139 p. 140 p. 136 p. 134 p. 135 p. 140 p. 138 p. 135 p. 134 p. 139 p. 140 p. 132 p. 135 p. 132 p. 136 p. 138

cacio”. Allora Menico trovò detto Giovanni et dixe: “Tu hai facto una bella valentia: tu ti se’ posto con detto fanciullo, ma tu non ti porresti meco”. Rispose Giovanni: “Io mi porrei con teco et con altri, ma non ho facto questo per farti iniuria”. Allora Menico dixe: “Non mi rompere la fantasia, che ho altri pensieri”. Et partiti, andando verso piaza decto Giovanni sanza armi, li si fece incontro Menico con l’arme in mano et dixe ad decto Giovanni: “Se’ tu quel bravo di dianzi?” Allora decto Giovanni misse mano in su ’n una spada d’un suo compagno, et comincioronsi ad menare, in modo che decto Menico ferì detto Giovanni con detta spada in mezo la testa, con incisione di carne et di sangue effusione, etc.» Segue di altra mano: «Commissesi al Vicario di Saminiato perché era prevenuto» (Nove di Ordinanza e Milizia, Notificazioni e querele 1, c. 3r; la lettera è pubblicata nel vol. v).

appunti su inediti machiavelliani

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Abbreviazioni bibliografiche Canestrini 1851 = Giuseppe Canestrini, Documenti per servire alla storia della milizia italiana dal xiii secolo al xvi , «Archivio Storico Italiano», xv. Canestrini 1857 = Giuseppe Canestrini, Scritti inediti di Niccolò Machiavelli risguardanti la storia e la milizia (1499-1512), Firenze, Barbèra, Bianchi e Comp. Cerretani 1994 = Bartolomeo Cerretani, Storia fiorentina, a cura di Giuliana Berti, Firenze, Olschki. Cutinelli-Rèndina 1998 = Emanuele Cutinelli-Rèndina, Chiesa e religione in Machiavelli, PisaRoma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali. Dionisotti 1967 = Carlo Dionisotti, Machiavelli, Cesare Borgia e don Micheletto, in «Rivista storica italiana» 79, pp. 960-75. Fachard 1996 = Denis Fachard, Implicazioni politiche nell’Arte della guerra, in Niccolò Machiavelli. Politico Storico Letterato, Atti del Convegno di Losanna (27-30 settembre 1995), a cura di JeanJacques Marchand, Roma, Salerno Editrice, pp. 149-73. Fachard 2001 = Denis Fachard, Gli scritti cancellereschi inediti di Machiavelli durante il primo quinquennio a Palazzo Vecchio, in La Lingua e le lingue di Machiavelli. Atti del Convegno di Torino (2-4 dicembre 1999), a cura di Alessandro Pontremoli, Firenze, Olschki, pp. 87-121. Gilbert 1943 = Felix Gilbert, Machiavelli: the Renaissance of the Art of War, in Makers of modern Strategy, ed. by Edward Mead Earle, Princeton, Princeton University Press. Guicciardini 1983 (1970) = Francesco Guicciardini, Opere, i. Storie fiorentine. Dialogo del reggimento di Firenze. Ricordi e altri scritti, a cura di Emanuella Lugnani Scarano, Torino, utet. Inglese 2006 = Giorgio Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma, Carocci. Landucci 1883 = Luca Landucci, Diario fiorentino dal 1450 al 1516, a cura di Iodoco Del Badia, Firenze, Sansoni. Larner 1966 = John Larner, Cesare Borgia, Machiavelli and the Romagnol militia, «Studi romagnoli», xvii, pp. 253-68. Machiavelli 2001 = Niccolò Machiavelli, L’Arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di JeanJacques Marchand, Denis Fachard e Giorgio Masi, Roma, Salerno Editrice. Machiavelli 2002 = Niccolò Machiavelli, Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, i, a cura di JeanJacques Marchand, Roma, Salerno Editrice. Machiavelli 2006 = Niccolò Machiavelli, Il principe, a cura di Mario Martelli, Roma, Salerno Editrice. Machiavelli 2008 = Niccolò Machiavelli, Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, v, a cura di Jean-Jacques Marchand, Andrea Guidi e Matteo Melera, Roma, Salerno Editrice. Machiavelli c.d.s. = Niccolò Machiavelli, Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, vi, introduzione e testi a cura di Denis Fachard, commento a cura di Emanuele Cutinelli-Rèndina, Roma, Salerno Editrice, c.d.s. Marchand 1975 = Jean-Jacques Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova, Antenore. Sasso 1969 = Gennaro Sasso, Ancora su Machiavelli e Cesare Borgia, «La Cultura», 7, pp. 1-36. Sasso 1987-1997 = Gennaro Sasso, Machiavelli e gli antichi, 4 voll., Milano-Napoli, Ricciardi: ii, pp. 57-117. Sasso 1993 = Gennaro Sasso, Niccolò Machiavelli, i. Il pensiero politico, Bologna, il Mulino. Virgilio 1967 = Virgilio, Eneide, introduzione e trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi.

DI UN REP ERTORIO DI BRIGLIE CINQUECENTESCO FALSAMENTE ATTRIBUITO A CESARE FIASCHI Patrizia Arquint* Università di Siena

1. Introduzione

N

ella Biblioteca Estense di Modena si conserva un codice cinquecentesco contenente illustrazioni di briglie ed altre attrezzature per cavalli,1 con brevi testi esplicativi. Il frontespizio presenta l’opera come autografa di «M. Cesare Fiaschi gentilhomo ferrarese», cioè dell’autore del Trattato dell’imbrigliare, maneggiare et ferrare cavalli pubblicato nel 1556 presso Anselmo Giaccarelli di Bologna. Il codice estense verrebbe così ad essere una preziosa reliquia di uno di quegli autori italiani che, nella seconda metà del secolo xvi, scrissero trattati di equitazione, risuscitando così un genere negletto più o meno dai tempi del ¶ÂÚd îÈÎɘ di Senofonte.2 Sta di fatto che l’attribuzione al Fiaschi, benché fortunata presso gli studiosi moderni,3 è insostenibile. L’identificazione del codice estense con l’autografo, completo o parziale, del Trattato del Fiaschi – o con una sua completa o parziale copia manoscritta – si può invalidare subito, osservando che nulla del testo o delle illustrazioni del codice si ritrova nel testo o nelle illustrazioni del Trattato; e neppure si può altrimenti collegare il codice a Cesare Fiaschi o, più generalmente, ad un ambito ferrarese. Ma andiamo con ordine. 2. Il codice Estense

Il codice estense · H 8 1 (= ital. 953; d’ora in avanti E), membranaceo ed illustrato ad eccezione di poche pagine, misura mm 285 ca. × 201-204 ca. (le guardie mm 285-277 × 195 ca.) e conta II, 79, II’ carte numerate modernamente da 1 a 83 (la numerazione include anche i fogli di guardia). Il codice è composto di undici quaderni con qualche mutilazione anteriore alla cartulazione, un bifolio di guardia anteriore e un bifolio di guardia posteriore. Più in dettaglio (si indicano i fascicoli usando le lettere maiuscole dell’alfabeto): * [email protected] Ringraziamenti: Annalisa Battini, Nathalie Bauer, Enio Bruschi, Silvia Chessa, Paola Di Pietro, Giuseppe Giari, Jean-Claude Maire Vigueur, Eleonora Pinzuti, Maria Prunai Falciani, Micaela Sambucco, Giancarlo Savino. I disegni sono di Domenico Balducci. 1 Si usa il termine briglia nel significato che ha presso gli autori del xvi secolo, cioè ‘attrezzo, per lo più metallico, che si mette in bocca al cavallo per guidarlo’; modernamente morso o altrimenti (Arquint 2004, § i.2 e nota 120). 2 Gli ordini di cavalcare di Federigo Grisone, opera che inaugurò il genere, furono pubblicati a Napoli nel 1550 e furono accolti con entusiasmo (Arquint 2002). Non molto minore successo ebbero gli immediati epigoni, dei quali il primo in ordine di tempo fu Cesare Fiaschi. 3 Chiappini 1984, p. 239, s.v. fiascho, ha identificato il codice estense con l’autografo del Trattato dell’imbrigliare del Fiaschi, ed ha ripetuto l’attribuzione in Ghinato 2001, p. v. Ghinato, ivi, p. x sostiene l’autografia, ma circoscrive l’identificazione al solo primo libro del Trattato del Fiaschi, che in effetti è quello dedicato alle briglie. Il ms. è stato esaminato anche in BauerN 1992, pp. 52 sgg., che non mette in discussione l’attribuzione a Cesare Fiaschi.

«filologia italiana» · 6 · 2009

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[1] (c. 3r)

[2] (c. 3v)

[8] (c. 6v)

[10] (c. 7v)

[12] (c. 8v)

[75] (c. 40r)

[82] (c. 43v)

[86] (c. 45v)

[87] (c. 46r)

Fig. 1. Alcune briglie da E.

un repertorio di briglie cinquecentesco attribuito a fiaschi

a) fascicolo G (com’era)

b) fascicolo G (com’è)

c) fascicolo H

d) fascicolo I

e) fascicolo L

f ) fascicolo M

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Fig. 2. Composizione dei fascicoli mutili di E.

Guardie anteriori: un bifolio (cc. 1-2). A-F sei quaderni (cc. 3-10; 11-18; 19-26; 27-34; 35-42; 43-50). G un quaderno (cc. 51-57) in cui la prima metà del bifolio più interno è stata asportata tagliandola a circa un centimetro dalla legatura: manca dunque una carta fra la 53 e la 54, il cui tallone, a causa di rilegatura irregolare, si trova ora fra la 54 e la 55 (vedi Figura 2, a-b). H un quaderno (cc. 58-64) in cui la seconda metà del secondo bifolio è stata asportata tagliandola a circa un centimetro dalla legatura: manca dunque una carta fra la 63 e la 64, il cui tallone, a causa di rilegatura irregolare, si trova ora fra la 59 e la 60 (vedi Figura 2, c). I un quaderno (cc. 65-70) mancante del bifolio più esterno: mancano dunque una carta fra la 64 e la 65 ed una carta fra la 70 e la 71 (vedi Figura 2, d). La lacuna è segnalata dall’infrazione della regola di Gregory: si fa l’ipotesi che manchi un solo bifolio perché gli altri fascicoli di composizione accertabile sono quaderni. L un quaderno (cc. 71-76) mancante del secondo bifolio: mancano dunque una carta fra la 71 e la 72 ed una carta fra la 75 e la 76 (vedi Figura 2, e). La lacuna è segnalata dall’infrazione alla regola di Gregory (vedi il fascicolo precedente). M un quaderno (cc. 77-81) in cui le ultime tre ultime carte sono state asportate tagliandole a circa un centimetro dalla legatura: mancano dunque tre carte dopo la c. 81 (vedi Figura 2, f ). Guardie posteriori: un bifolio (cc. 82-83). La legatura è moderna, in mezza tela. All’interno del piatto anteriore si trova l’ex libris Obizzi del Catajo recante uno stemma che compare anche sul frontespizio.

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Il codice è interamente dedicato a briglie, parti di briglie ed altre attrezzature pertinenti al cavallo. In dettaglio: c. 1 (= I) bianca. c. 2r: frontespizio (cavalli dell ’ imbrigliare|opera avtografa|di m. cesare fiaschi| gentilhomo ferrarese), stemma Obizzi del Catajo e figurina di cavallo.1 c. 2v bianca. cc. 3r-46r: 87 briglie, ciascuna raffigurata a piena pagina con una breve didascalia. In questa sezione del codice non manca nessuna carta (c. 3r incipit «Il cannone con le guardie dritte serve per fermare un polledro et serve per cavallo ch’habbia bisogno de la camarra [vedi Figura 1, briglia 1]»; c. 46r explicit «Il pede di gatto sano, da bascio et di sopra pieno di paternostri, con una paletta in suso con un paternostro, serve per cavallo che tira troppo la mano [vedi Figura 1, briglia 87]»). cc. 46v-55r: disegni di altre briglie (cc. 46v-50v) e parti di briglie (cc. 51r-55r). Solo il primo disegno (c. 46v) ha una didascalia (“canna”). A c. 47r, nella parte inferiore del cartiglio destinato al testo (e rimasto vuoto) si legge «c. t.» Manca una carta dopo la 53. La c. 54v è bianca, la c. 55r contiene disegni di parti di briglie e altre attrezzature. cc. 55v-63r: disegni di parti di briglie (cc. 56r, 57r, 60r, 61r, 62r) e altre attrezzature (cc. 58r, 59r, 63r), accompagnati da testi esplicativi. I testi si trovano al verso della carta immediatamente precedente i disegni cui si riferiscono. In questa sezione del codice non manca nessuna carta (c. 55v incipit «palette. Paletta numero 1, con un paternostro in suso, serve per cavallo che al passiare overo al parare cacciasse la testa innante. Paletta numero 2, con dui ligature da le bande, con un paternostro in suso, è più forte del [sic] prima per rispetto de le ligature et serve al medesmo effetto»; c. 62v explicit «Trovasi ancora cavalli c’hanno piccola bocca et sono duri di testa: non se gli potrà ponere troppo grosso ferro im bocca, perché la briglia non lavoraria iusta, che se la pigliaria con li scaglionj et beccheggiaria, overo saleria troppo in suso et li romperia le labre. Però il tutto consiste al bon iuditio et adoprare l’imboccature temperatamente»; a c. 63r il relativo disegno). cc. 63v-81v: disegni di briglie, parti di briglie, attrezzature ed altro, senza testi. Si noti, alle cc. 77v-78r, il disegno di un pezzo d’artiglieria smontabile, con stemma nobiliare. A c. 66r si legge il nome «Cesar T.», a c. 74v «Teotinus», e a c. 78v «Cesar Teotinus». Mancano otto carte: una dopo la 63, una dopo la 64, una dopo la 70, una dopo la 71, una dopo la 75 e tre dopo l’81. c. 82r [= I’r] bianca. c. 82v: nota di possesso visibile solo ai raggi ultravioletti: «Questo libro è di Francesco Antonio Martino [?] aff.mo servo di Ant. Lodigino [?]». c. 83 bianca.

3. Qualche osservazione sul ms. Estense Nel contenuto di E si distinguono dunque quattro sezioni: i. cc. 3r-46r; ii. cc. 46v-55r; iii. cc. 55v-63r; iv. cc. 63v-81v. I disegni che si succedono senza testi nelle sezioni ii e iv sono tracciati con inchiostro seppia. Nelle sezioni i e iii è stato usato il medesimo inchiostro seppia e la medesima penna sottile per i testi, e inchiostro più scuro e penna più spessa per i disegni. Il frontespizio è in inchiostro blu. La grafia, unica in tutto il codice (salvo sempre il frontespizio), è una corsiva cinquecentesca di ductus analogo alla cancelleresca di Ludovico Curione.2 Alle cc. 37v, 41r, 44r, 1 Riproduzione della carta in Ghinato 2001, p. 135. 2 Curione 1593, esemplato in Casamassima 1966, tav. lxxi.

un repertorio di briglie cinquecentesco attribuito a fiaschi

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55v e 56v ci sono titoli scritti in lettere capitali (rispettivamente briglie conposte| chivse; chiapponi senza|annodatvre; pedi de gatti senza|annodatvre; palette […] castagniole ecc.; chatenelle e stanghette […] barbazzali ecc.). Anche il frontespizio è scritto a lettere capitali. Sospettiamo che i disegni tracciati con l’inchiostro più scuro nelle sezioni i e iii, affetti da varie goffaggini e qualche fraintendimento, siano stati ripassati. Nella maggior parte del codice gli sfondi dei disegni sono interamente dipinti di un blu carico, e in varie carte ci sono particolari dipinti in inchiostro rosso. Questa colorazione – talvolta incongrua rispetto ai disegni – non è originale. I due talloni di carte tagliate i quali, nell’attuale rilegatura, sono il primo dopo la c. 54 (vedi Figura 2, a-b) e l’altro dopo la c. 59 (vedi Figura 2, c), portano tracce di vernice blu, ma non sono completamente e uniformemente dipinti. Non sono cioè come sarebbero se gli sfondi delle carte rimosse fossero stati dipinti prima della mutilazione, ma sembrano piuttosto sbaffati durante una successiva (e non tanto accurata) stesura del colore sulle carte adiacenti. Si ricorderà poi che in origine le carte mancanti non erano nella posizione in cui attualmente sono i loro talloni. La carta che si trovava, quando il fascicolo G era completo e rilegato regolarmente (vedi Figura 2, a-b), fra le cc. 53v e 54r (ora entrambe con lo sfondo dipinto), attualmente si trova, allo stato di tallone e sbaffata di colore, fra le cc. 54v e 55r (entrambe con lo sfondo non dipinto): dunque gli sfondi sono stati dipinti quando il codice era già mutilo ma ancora rilegato regolarmente.1 Il codice è stato rifilato, come si vede dai molti casi in cui le parti estreme dei disegni sono mutilate. Nella c. 79v lo sfondo non è stato dipinto in blu interamente, ma è stata lasciata sui margini una cornice al naturale. La larghezza di questa cornice (circa due centimetri) è, con sufficiente approssimazione, costante su tutti e quattro i lati della pagina, il che fa pensare che gli sfondi siano stati dipinti quando il codice era già stato rifilato. 4. Riepilogando: il codice è stato mutilato di alcune carte, poi è stato rifilato, poi gli sfondi sono stati dipinti di blu e certi particolari sono stati dipinti di rosso. Forse sono anche stati ripassati i disegni delle sezioni i e iii. Infine, il codice ha ricevuto la legatura attuale, moderna, nella quale i talloni delle carte asportate risultano spostati dalla loro posizione originale. I fascicoli di guardia (nel primo dei quali si trova il frontespizio) sono, come già visto, più piccoli dei fascicoli originali: verosimilmente sono stati aggiunti dopo la rifilatura, altrimenti la sproporzione sarebbe stata troppo forte. Osserviamo, senza volerne fare un vero indizio, che il frontespizio è stato tracciato con inchiostro blu come gli sfondi. L’attribuzione a Cesare Fiaschi, nominato nel frontespizio come «M. Cesare Fiaschi gentilhomo ferrarese», ovvero con la stessa formula che compare sul frontespizio del Trattato dell’imbrigliare del Fiaschi, sarà stata propiziata dal «Cesar Teotinus» che appare, per esteso o in sigla, alle cc. 47r, 66r, 74v e 78v.

1 Il tallone della carta che, nel fascicolo H (vedi Figura 2, c), era originariamente fra le cc. 63v e 64r (entrambe con sfondo blu) e che è poi stato trasferito fra le cc. 59v e 60r (sfondo al naturale la prima, sfondo blu la seconda) non dà una dimostrazione altrettanto forte: non si potrebbe escludere infatti che la verniciatura anche della sola c. 60r abbia macchiato il tallone da ambo i lati.

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Il codice è stato acquisito dalla Biblioteca Estense il 18 aprile 1817, proveniente dalla raccolta di Tommaso Obizzi del Catajo.1 Salvo la riproduzione fotografica di alcune carte,2 il codice è inedito. 5. La lingua di E Il copista di E, benché usi una lingua complessivamente normalizzata secondo i canoni della lingua letteraria, è ben riconoscibile come napoletano.3 Lo dimostrano non fiorentino né toscano una certa resistenza ai dittonghi toscani (pede maggioritario su piede, bon, loco, novo), le forme senza anafonesi (congionto, longo, lengua oltre a lingua), la conservazione di -a- intertonica seguita da -r- (giocarelli, musarola), l’affricata dentale in forme come fazza (< faciat), piumazzoli, mostazzo. Lo dimostrano meridionale, e in particolare napoletano: la preferenza per le occlusive sorde intervocaliche e tra vocale e -r- (loco, secato, polletro, quatro < quadrum), i femminili plur. tutti e quelli, la forma soggettiva enclitica del pronome alla seconda persona plur. del verbo (agiustassivo), la tendenza alla fusione delle tre coniugazioni diverse da quella in -a4 (havertete / havertite, apresse, saleria ‘salirebbe’, torcirà), ed infine forme caratteristiche come bascio e nisciuno, particolarmente resistenti,5 e l’avverbio e pronome nci ‘ci, vi’. Accanto all’esito toscano di j- (giocarelli) si ha i- in un gruppo di lemmi in cui latinismo ed esito napoletano convergono: iudicio -tio, iudico, iusto; e si noti infine la neutralizzazione della vocale atona finale in due occorrenze del maschile singolare ferme (contro altrettante occorrenze di fermi). Mancano però gli esiti più municipali del napoletano. L’occlusiva si mantiene in b- e -rb- (barba, barbazzale -ozzale, bascio, bocca), pl- dà pi- (piacere, piano, piumazzoli ‘cuscinetti’),6 la l preconsonantica si conserva (alto, altro, cavalca, dolce), il nesso -nd- non si assimila (andare, banda, grande). Trascurabile o assente anche la metafonia. Se ne potrebbero ravvisare tracce in forme in cui l’uso napoletano è suffragato da quello latino: dulcissimo, simplici, piro (di poco prevalente su pero), iusto, ecc. L’epurazione dei dittonghi metafonetici si accompagna all’assenza di molti dittonghi toscani, anche di quelli in cui i due fenomeni darebbero lo stesso esito (bon, pedi ‘piedi’). 6. Lo Ps. Fiaschi Delle quattro sezioni in cui è divisibile il contenuto di E, la sezione i (briglie) e la sezione iii (parti di briglia ed altre attrezzature) pertengono a una medesima opera di cui il copista di E (o il suo antigrafo) ha voluto ampliare la prima parte (sez. i) con altri disegni di briglie (sez. ii), ed ha poi aggiunto in coda alla seconda parte (sez. iii) l’ulteriore gruppo di disegni della sezione iv.

1 Fava 1925, pp. 206 sgg. 2 Le cc. 25r e 56r sono state riprodotte in Chiappini 1984, dopo la p. 64; le cc. 2r, 4v, 33r, 37v, 80v e 81r sono state riprodotte in Ghinato 2001, pp. 134-39, dove la c. 81r è stata usata anche per la sovraccoperta del volume. 3 Con j e w si indicano le semiconsonanti e con ë la vocale indistinta. Per i lemmi napoletani citati in queste note, se non altrimenti indicato: D’Ambra 1873, Andreoli 1887, Altamura 1968, D’Ascoli 1993. 4 Rohlfs 1966-1969, §§ 563 e 615; Formentin 1998, i, p. 345 (con ulteriore bibliografia). 5 Corti 1956, p. lxxxiii. 6 Si veda, per piumazzoli, la forma napoletana chiomazzuoli in Grisone 1550, cc. 67r, 68v, 70r, ecc.

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Le sezioni i e iii, infatti, sono perfettamente congrue, sia per l’approccio sistematico alla materia (le 87 briglie sono ordinate in ordine crescente di severità, sono raggruppate per tipologia ecc.), sia per lo stile dei disegni, sobrio e tecnicamente preciso. Si vedano invece la mancanza di sistematicità della sezione ii (ed ancor più della sezione iv) e il disegno più preoccupato della decorazione che della struttura delle briglie raffigurate (con risultati peraltro esteticamente non spregevoli). Infine si può aggiungere che nella sezione i e nella sezione iii la terminologia tecnica corrisponde completamente (le sezioni ii e iv, si ricorda, non hanno testo). Se uno studio d’insieme è ancora da fare, l’esperienza suggerisce che, in opere di questo genere, il lessico di autori diversi, anche provenienti dalla stessa area geografica, non è mai esattamente sovrapponibile.1 Da qui in avanti ci riferiremo all’opera attestata nelle sezioni i e iii di E come Ps. Fiaschi (parte prima e seconda), e le assegneremo il titolo di Briglie, sotto il quale l’opera corre in testimoni diversi da E. Si citano le briglie contenute nello Ps. Fiaschi, oltre che col numero di carta di E, con un numero secondo l’ordine in cui si presentano in E.2 7. Tradizione dello Ps. Fiaschi prima parte: testimoni diversi da E. La prima parte dello Ps. Fiaschi, limitatamente al testo, ci risulta attestata, per intero o frammentariamente e in qualche caso parafrasata, in altri 8 manoscritti e 3 stampe, di cui qui diamo rapidamente notizia. Riportano il testo completo: I Paris, Bibliothèque Nationale de France, ital. 1290, secoli xvi ex.-xvii in.,3 cc. 101r-106v. Il codice è interamente dedicato ad opere di equitazione e mascalcia, alcune delle quali in francese, tutte della stessa mano, con qualche glossa, delle quali alcune sembrano della stessa mano ed altre di una mano posteriore. Il copista principale non è né toscano né meridionale e probabilmente neanche italiano. Oscilla nelle consonanti doppie (canone, picolo, piaccere, apperta, liggatura, faletto ‘falletto’, pirro ‘pero’), è poco competente nel trattare le preposizioni articolate (all chiappone, dell liscio, nell mezzo, dell sopradetto, dell piro) e i dittonghi (tre volte buona buoca ‘buona bocca’). Il copista è comunque corretto e, forse per il fatto di non copiare nella sua lingua madre, molto passivo. Il codice manca di molte carte e probabilmente di interi fascicoli, ed altre carte e fascicoli sembrano essere fuori posto per effetto di un’errata rilegatura. Sg Paris, Bibliothèque Sainte Genéviève, ms. 3352, secoli xvi ex.-xvii in.;4 cc. 86r-88r. Il codice è interamente dedicato ad opere di equitazione e mascalcia, alcune delle quali in francese. È scritto in corsivo, di tre mani, delle quali quella che copia, tra l’altro, lo Ps. Fiaschi, copia solo in italiano (un italiano settentrionale: canone, chiapone, picolo, quatro ‘quattro’, sbaretta, tropa, palletta ‘paletta’), ma con indizî di bilinguismo: vedere grafie come qui ‘che’, gailliardo, guagliardezza, boutato ‘buttato’, mostachio ‘mostaccio’, e glosse come «gangheggiare: tordre la bouche» e «scavezzi: hoc est qui branlent la teste de haut en bas». Il copista dello Ps. Fiaschi è un copista preciso, che tiene a rendersi conto del senso di quello che scrive. Sl London, British Library, Sloane 2757, secolo xvii (ante 1624);5 cc. 21r-29v. Il codice, interamente dedicato ad opere di equitazione e mascalcia, è scritto in corsivo, di due mani, delle quali quella che copia, tra l’altro, lo Ps. Fiaschi è italiana, sicuramente non settentrionale data la competenza nel trattare le consonanti doppie (cannone, cavallo, fallo, bastonetto, 1 Sulla struttura geografica del lessico equestre cinquecentesco, anche § 13. 2 Tale numerazione, a giudicare da un rinvio interno, doveva essere originariamente presente in E, ora obliterata dalla dipintura degli sfondi in blu. 3 Marsand 1835-1838, ii, p. 127, nº 804; Mazzatinti 1886-1888, i, p. 217, nº 1290. 4 Kohler 1893-1896, ii, p. 658; Marsand 1835-1838, ii, p. 391, nº 1007; Mazzatinti 1886-1888, iii, p. 158, nº 12. 5 Fanchiotti 1899, nº lxxxii.

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paletta, chiappone); non toscana (novo, bona, vol ‘vuole’); e lascia sopravvivere numerosi tratti napoletani (abasciare ‘abbassare’ e derivati, bascio ‘basso’, capo femminile). Il copista dello Ps. Fiaschi è poco preciso e salta spesso du même au même. V Verona, Biblioteca Civica, ms. 1778, secolo xvi ex. (ante 12 febbraio 1598 se la data è da intendersi more veneto, altrimenti 1597);1 cc. 223v-230v. Il codice è interamente dedicato a opere di equitazione e mascalcia. Il copista è napoletano (bascio ‘basso’, gliottere ‘inghiottire’), competente negli usi della lingua letteraria nonostante forme di dubbio pedigree (congionto, bona, vol, schena, longhetto). Le sorti dei nessi -cj- e -(p)tj- sono toscane senza eccezioni: mostaccio, faccie, piombaccioli (‘piumaccioli’), cacciare e relative voci, scavezza (dal verbo scavezzare), scavezzatore, piacevolezza.2 Il copista è preciso e produce un testo molto corretto.

Contiene una parafrasi completa del testo, senza illustrazioni: C567 la gloria|del cavallo.|opera dell ’ illvstre|s. pasqval caracciolo|divisa in dieci libri:|ne ’ quali oltra gli ordini pertinenti alla|Caualleria, si descriuono tutti i particolari, che son necessari nell’allevare, cu-|stodire, maneggiare, & curar caualli; accommodandoui essempi|tratti da tutte l’historie antiche & moderne, con indu-|stria & giudicio degnissimo d’essere auertito|da ogni caualliero.|con dve tavole copiosissime, l ’ vna delle cose notabili, l ’ altra delle cose medicinali.||con privilegi.||in vinegia appresso gabriel|giolito de ’ ferrari|mdlxvii, 3 pp. 350h-358b. Pasquale Caracciolo, gentiluomo napoletano ricordato da Giovan Battista Ferraro come capace di farsi i suoi cavalli da sé «ordinatamente, senza maestro»4 (il che presuppone una capacità superiore alla media degli amateurs), pubblica nel 1566 questa vasta summa (oltre 1000 pagine) di tutto lo scibile equestre.5 È autore non originale, ma erudito e competente, spesso utile per l’interpretazione delle opere che compila. La sua parafrasi dello Ps. Fiaschi è farcita con brani di Grisone 1550.

Riportano estratti del testo, diversi e indipendenti l’uno dall’altro: estr. I2 Paris, Bibliothèque Nationale de France, ital. 1528, secoli xvi ex.-xvii in.;6 cc. 38v-39v. Il codice è interamente dedicato ad opere di equitazione e mascalcia. Il copista, competente negli usi della lingua letteraria, conserva però alcuni tratti probabilmente napoletani, come abbascio e donare ‘dare’. Il frammento dello Ps. Fiaschi – una ventina di didascalie sparse – è in vari luoghi compendiato e parafrasato. estr. V2 Verona, Biblioteca Capitolare, ms. dccxxviii, secolo xvii; 7 cc. 160v-161r. Il codice, interamente dedicato ad opere di equitazione e mascalcia, è di un’unica mano che, benché scriva in tutto il codice in italiano, rivela abitudini fonetiche tedesche: vedere tra l’altro la frequente confusione fra consonanti sorde e sonore (imprigliare ‘imbrigliare’, quardia ‘guardia’, derzo drattato ‘terzo trattato’, ecc.); la fricativa labiodentale sorda resa alternativamente coi gra-

1 Biadego 1892, p. 312, nº 615 (con varie inesattezze); Arquint, Gennero 2001, pp. liii-lv. 2 Anche Arquint, Gennero 2001, pp. lxii-lxvii. 3 BauerJJ 1770-1772, i, p. 186; Haym 1803, iii, p. 205, nº 8; Brunet 1860-1865, i, col. 1569; Graesse 18591869, ii, p. 44; stci, i, p. 351. Ci si serve di un esemplare dell’emissione 1567 (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, fondo Palatino, 6. 6. 2. 15), ovviamente identica salvo il colofone alla princeps del 1566 (anche Deblaise 2002, p. 24). Data la mole del libro, i Giolito furono costretti a emissioni successive anche nel caso dell’edizione del 1586, venduta con frontespizi e colofoni rinfrescati anche nel 1587 e nel 1589. 4 FerraroGB 1602, p. 70. Il brano è citato più estesamente alla nota 1 di p. 164. 5 «Mi proposi di gire in disparte cogliendo tutto quello che tra’ scrittori antichi e moderni si trovava appartenere così al cavaliere come al cavallo» (Caracciolo 1567, p. a4r). 6 Mazzatinti 1886-1888, i, p. 244, nº 1528. 7 Spagnolo 1996, nº dccxxviii.

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femi {f} e {v, u} (ferma / uermo ‘fermo’), e la presenza, in coda al Trattato secondo sopra il medicare, di una ricetta attestata, di tutti i testimoni, solo in questo, con ingredienti enunciati in tedesco «Piglia pilatro alias petram wurzl onze 2, sbafusario alias bresmunt onze 1» ecc. Il frammento dello Ps. Fiaschi consiste nelle prime 14 didascalie. Pe621 aforismi|di alfonso|di rvggiero,|Giouan Battista, e Pirr’Antonio Ferraro,|per fare Caualli, con gl’ordini veri.||Raccolti|da stefano percolla,|Con molti auuertimenti di Salustio Parisi in|questa professione di grande esperienza, con un|trattato come si debba correre ogni sorte di|Lancia, cosi disarmato, come al saraceno, &|alla giostra.||in palermo,|Appresso Giouan Battista Maringo. 1621;1 pp. 30-33. Di Stefano Percolla sappiamo solo ciò che si deduce dalla sua piccola e oggi rarissima raccolta di aforismi: ebbe per maestro il Sallustio Parisi citato anche nel titolo, a sua volta allievo di Giovan Battista Ferraro;2 fu nella scuola di Pirro Antonio Ferraro3 e, a Palermo, fu dipendente, verosimilmente come cavallerizzo, del nobiluomo palermitano Nicolò Placido Branciforti conte di Raccuia.4 La presenza, nella raccolta di aforismi, di materiale tratto dal Cavallo frenato di Pirro Antonio Ferraro fissa al 1602 la data post quem dell’opera. La stampa mantiene la struttura di un esiguo taccuino di appunti, organizzato senza molta sistematicità (si veda un breve avvertimento veterinario inserito a p. 34 tra brani di diverso argomento). Il contenuto, come dichiarato nella dedica al conte di Raccuia,5 è interamente mutuato da altri autori, da opere scritte (soprattutto FerraroGB 1602 e FerraroPA 1602) o insegnamento pratico. Il frammento dello Ps. Fiaschi – circa 40 didascalie sparse – è in vari luoghi parafrasato.

8. Un estratto dello Ps. Fiaschi, senza figure, ancora diverso dai precedenti e da loro indipendente, si trova incorporato negli Avvertimenti al Principe del cavallerizzo napoletano Alfonso Ruggieri. Su Alfonso Ruggieri ci intratterremo più diffusamente in altra occasione. Qui basti dire che si hanno sue notizie dal 15666 al 15897 e forse anche fino al 1608.8 Gli Avvertimenti al Principe (titolo assegnato da noi) sono un manuale di equitazione seguito da altre informazioni attinenti ai cavalli (allevamento, arte dell’imbrigliare, ricette veterinarie, ecc.) Sotto il titolo Effetti che fanno le briglie contiene undici descrizioni di briglie corrispondenti alle prime dodici didascalie di Ps. Fiaschi, Briglie, i parte, meno la quarta didascalia e con la dodicesima (ovvero undicesima e ultima negli Avvertimenti al Principe) mutila in fine e in qualche testimone racconciata (§ 12). L’opera è inedita, salvo una parte andata a stampa sotto il nome di altro autore, e ci perviene in quattro testimoni (tra parentesi le carte o pagine dove si trova il frammento dello Ps. Fiaschi):

1 Stampa sconosciuta alle principali bibliografie. La copia della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (fondo Palatino D 4 7 76), della quale ci serviamo, è l’unica a noi nota. 2 Pe621, p. 20. 3 Pe621, pp. 17-18. 4 Mango di Casalgerardo 1912-1915, s.v. Branciforte o Branciforti. 5 «Ho preso travaglio di raccôrre le fatiche di così gran valent’huomini per V. S. Illustrissima haverlo comandato» (Percolla 1621, p. 3). 6 Caracciolo 1567, p. 142h. 7 FerraroPA 1602, p. 295. Il 1589 è la data in cui il Cavallo frenato di Pirro Antonio Ferraro, andato a stampa postumo (FerraroPA 1602, dedicatoria) nel 1602, appare, da elementi interni all’opera (la cui dettagliata esposizione si rinvia ad altra occasione), terminato. 8 Se lo si identifica nell’Alfonso Ruggieri Sanseverini che compare come ideatore della coreografia equestre tenuta a Firenze in piazza Santa Croce in quell’anno (Rinuccini 1608, p. 85).

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AAp Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, A 1571, secoli xvi ex.-xvii in.;1 cc. 1r-30r: 22v-24r. Il codice, interamente dedicato ad opere di equitazione e mascalcia, è di mano toscana: vedere i dittonghi (buono, luogo, piede, fieno), la competenza nel trattare le consonanti doppie (cavallo, bacchetta, cannone, affettatione) ecc.; probabilmente fiorentina visti i futuri della prima coniugazione sempre con -er- (lasserà, mostrerà, resterà ecc.), la desinenza in -ano per la terza persona plurale dell’indicativo presente nelle coniugazioni diverse dalla prima (dicano, escano, fuggano ecc.), le forme anafonetiche (giunga, pugno, punta). RAp Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2518, secoli xvi ex.-xvii in.; cc. 17r-55v: 45v-46r. Il codice, interamente dedicato ad opere di equitazione e mascalcia, è di mano toscana: vedere i dittonghi (buono, huomo, fieno, piede), le consonanti doppie secondo l’etimologia (cavallo, bocca, cannone, sella) ecc.; forse fiorentina: vedere i futuri della prima coniugazione in -er- (butterai, colerai) e le forme metafonetiche (giuntato, punta) ecc. (ma si noti la -o- protonica che non passa a -u- in poledro). Si notino anche la forma toscano-popolare stiena ‘schiena’ e, riguardo al lessico, spera ‘luce’, ‘fascio di luce’. R2Ap Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2519, secolo xvii in. (ante 31 agosto 1633); cc. 1r-13r. Il codice, interamente dedicato ad opere di equitazione e mascalcia, è di mano di Matteo Carincioni di Lucca (c. 33v). Le caratteristiche linguistiche del testo sono coerenti con l’origine del copista. L’opera di Alfonso Ruggieri vi è riportata solo in parte e manca del frammento dello Ps. Fiaschi. LpAp perfette|regole,|et modi|di cavalcare|di lorenzino palmieri Fiorentino|Caualerizzo del Serenissimo Gran Duca|di Toscana:||Doue con somma chiarezza si mostra, e con facilità|s’insegna, come si possi ridurre ogni Cauallo|alla intiera perfettione:||Et insieme si tratta della natura de’ Caualli; si propongono|le loro Infermità; e s’additano gli Rimedi|per curarle.||con licenza de’ svperiori, et privilegio.||in venetia, mdcxxv.|Appresso Barezzo Barezzi.|Ad istanza di Paolo Frambotto Libraro in Padoua [Sull’antiporta, datato 1626];2 pp. 7789: 82-83; 107-112. Sotto l’unico nome di Lorenzino Palmieri, la stampa raccoglie testi eterogenei, tra i quali, in due luoghi diversi, parte degli Avvertimenti al Principe di Alfonso Ruggieri senza indicazione d’autore. La stampa è assai scorretta nei termini tecnici: vedere le molte cattive letture tipo muiscottato per biscottato (‘compiutamente addestrato’, di cavallo), accinto per avvinto (della guardia della briglia, in riferimento a una particolare conformazione), svernata per svenata (dell’imboccatura della briglia, in riferimento a una particolare conformazione), moastillato per incastellato (del piede del cavallo affetto da una particolare deformazione), scalciato per scalfato (del cavallo affetto da una particolare patologia), ecc., nessuna nelle quali sarebbe dovuta scampare al controllo di un competente. Il 1625 della stampa Lp dà l’estremo ante quem alla data di composizione degli Avvertimenti al Principe; il 1557 – data della campagna di Ferrante Gonzaga nelle Fiandre cui si fa riferimento nell’opera3 – l’estremo post quem. Ma si potrebbe anche avanzare l’ipotesi di un post quem molto più basso, il 1589, sull’argomento che Pirro Antonio Ferraro, tra le benemerenze di Alfonso Ruggieri, non menziona l’aver scritto qualcosa.4

1 Sorbelli 1926, xxxvi, p. 93. 2 Haym 1803, t. iii, p. 206, nº 11; Olschki 1907, i, p. 105, nº 373; Michel, Michel 1967-1975, v, p. 67; British Library 1986, ii, p. 650. Ci si serve delle copie della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, fondo Palatino x 9 3 16, e della Biblioteca Riccardiana di Firenze, oo iii 15060. 3 AAp, c. 18v. 4 Per la data del 1589, nota 7 di p. 155.

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9. Lo Ps. Fiaschi seconda parte Lo Ps. Fiaschi seconda parte ci risulta attestato solo in E. C’è però un tenue indizio che C567, pur non copiandolo o parafrasandolo compiutamente, abbia fruito di un antigrafo contenente lo Ps. Fiaschi completo della seconda parte: si confronti in E il baston di legno longo e tondo per ponerlo sotto fra la degogliatura e la garza del cavallo nel loco de la sottocanna […] per cavallo che fusse naturalmente basso di testa e che non si potesse rilevare con guardie,1 con, in C567, il collaro di legno in forma rotonda e lunga che gli antichi soleano mettere a cavallo che tenesse il capo troppo basso […] per fargli alzar la testa,2 dove l’indizio non è tanto nella coincidenza dell’oggetto descritto (una specie di spoletta di legno da infilare nel sottogola per impedire al cavallo di serrare la ganascia contro il collo), quanto nella menzione, in C567, degli antichi, sotto la cui anonima autorità anche altrove C567 riporta brani dello Ps. Fiaschi (§ 15). 10. Classificazione dei testimoni dello Ps. Fiaschi prima parte E torniamo allo Ps. Fiaschi, prima parte. Il testo, data la sua natura e la sua brevità (ricordiamo che si tratta d’una novantina di brevi didascalie), più il fatto che C567 è una parafrasi, produce scarsa messe di errori significativi, specialmente per quanto riguarda i piani alti dell’albero genealogico. Ciononostante, un errore nella didascalia 75 individua una famiglia · = E C567 e un errore nella didascalia 10 individua una famiglia ‚ = Sg Sl I V + estr. V2 (si veda lo stemma in apertura del § 11). Non è dimostrabile l’esistenza di un archetipo. Tav. 1. · = E C567. Sg Sl I V 753

Un fallo grande per banda tagliato serve per cavallo a farlo riducere (Sl condurre) e farlo assetare de la testa et per cavallo piccolo ch’al caminare s’appogiasse alla mano.

E C 567 E a farlo ruggere C567 per non farlo ruggire come talhora alcuni fanno

La didascalia 75 manca negli estratti I2 V2 Pe621 e AAp RAp LpAp. Ruggere o ruggire, per il verso dei cavalli, è sconosciuto. Pur ammettendo che possa significare ‘nitrire’,4 non è credibile (né era creduto ai tempi dello Ps. Fiaschi) che un’imboccatura possa avere un effetto, stimolante o inibitore che sia, sul nitrito.

1 E, c. 62v. 2 C567, c. 363a. 3 Briglia 75, vedi Figura 1. Localizzazione della didascalia nei testimoni: E, c. 40r; C567, p. 357b-c; I, c. 105v; Sg, c. 87v; Sl, c. 27v; V, c. 229r-v. Testo base secondo E, emendato. 4 Come in inglese, dove si trova usato anche roar (il cui primo significato riguarda il verso del leone) per indicare il nitrito profondo e sonoro con cui il cavallo maschio si annuncia in quanto tale: «the roar of a stallion is slightly more common in sexual situations than in other situations» (Kiley-Worthington 1987, p. 64). E si noti nell’oed la definizione di bellow (= muggire, del toro, ed emettere analoghi versi, di altri animali fra cui il cavallo): «to r o a r as a bull or as a cow when excited […] Applied to the r o a r i n g of others animals» (spazieggiature mie).

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Nella letteratura tecnica dell’epoca il nitrito è considerato sempre indesiderabile, foriero, in cavalli non castrati quali si usavano comunemente, di insubordinazioni, oltre che importuno in sé, per il rumore. Giovan Battista Ferraro mette fra le caratteristiche del cavallo perfetto «che per veder giumente non s’infurii o annitrisca, sendo difetti per la milizia insopportabili e pericolosi».1 Pasquale Caracciolo, compilando il brano di Giovan Battista Ferraro, aggiunge anche qualcosa sul disagio puramente uditivo: «quei spessi ed importuni annitriri che stordiscono tutto il mondo».2 Claudio Corte sconsiglia di usare le cavalle nelle cacce «perché i cavalli, vedendole e sentendole, annitririano, e forse farebbeno degl’altri inconvenienti maggiori, per li quali si disturbariano le fiere», ed altrettanto «nelle insidie e nelle imboscate, dove si ha gran sospetto e si deve andare e stare chetamente».3 Prevedibilmente, il cavallo adatto al falconiere, nell’Ars venandi cum avibus, «non […] hiniat libenter, nam aves ad auditum hinitus aufugerent».4 Infine (e definitivo): «quando il cavallo non fremita e non face neuno sono con la bocca, quello sì è muto, ma imperciò non è di minore prezzo» (Libro delle continenze dei cavalli).5 Di conseguenza si trova menzione di sistemi per impedire il nitrito.6 Claudio Corte: «Vegetio afferma che in Sardegna communemente tagliano il filo della lingua a’ cavalli giovani acciò che non annitriscano. I soldati pratichi che sanno, quando vogliono far imboscate e andar quieti, legano la lingua del cavallo, e così non pò nitrire».7 Nell’Aspramonte di Andrea da Barberino, durante un agguato, i cavalieri «sempre destramente dibattevano le briglie ne’ denti a’ cavalli, perché non facessino sentore».8 Di imboccature con tale virtù, però, non si parla mai. Anche l’espediente di legare la lingua (cioè immobilizzarla con un laccio girato intorno alla mascella) non è tale da potervi ricorrere con una briglia ad hoc, se non altro perché una briglia deve avere il requisito di poter essere tenuta in bocca dal cavallo per giornate intere. Ciò rende altamente improbabile anche la lezione di C567, non farlo ruggire (peraltro già isolata perché il non non compare in altri testimoni), che dunque sarà un tentativo di migliorare un insoddisfacente farlo ruggire. Trovare menzione di casi in cui il nitrito sarebbe opportuno non è facile. Nella letteratura tecnica non ne conosciamo. Sembrerebbe che ce ne fossero a sentire il Petrarca: «si currendum est, [equus] stimulos non audit; si subsistendum, frena mordicus rapit; si fremendum, torpet, si latendum, fremit».9 Brunetto Latini, a proposito del fatto che l’oratore deve intonare il suo atteggiamento al contenuto del discorso, dice che chi volesse suscitare nell’uditorio sentimenti bellicosi deve essere baldanzoso e aggressivo e, se sta in sella, «dee elli avere cavallo di grande rigoglio, sì che quando il signore parla, il suo cavallo gridi et anatrisca e razzi la terra col piede e levi la polvere e soffi per le nari e faccia tutta romire la piazza».10 Il Caracciolo (che è un tecnico, ma mette quanto segue in un capitolo dedicato ai miti ed alle storie antiche) riprende da Erodoto che Da1 FerraroGB 1560, c. 46r. 2 Caracciolo 1567, p. 174f. 3 Corte 1562, c. 42v. 4 Trombetti Budriesi 2000, p. 728. 5 Delprato, Barbieri 1865, p. 251; dal ms. 2300 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, secolo xv. Per l’identificazione dei mss. pubblicati da Delprato e Barbieri: Spongano 1986, e Trolli 1990, pp. 45-46. 6 Anche alla pratica del fronsare (cioè allargare con un taglio le narici del cavallo), lemma sconosciuto ai vocabolari ma pratica nota agli storici dell’arte (Bauer-Eberhardt 1996, e Marini 1996, pp. 301, 308-9, 315-17, 368-71, 373-74), è stata attribuita la capacità di impedire il nitrito (per es. Solleysel 1691, ii, p. 9): «je n’ai pas été à portée de vérifier ce fait, mais il me semble qu’ils doivent seulement hennir plus faiblement» (Buffon 1853, ii, p. 400). Nella letteratura tecnica del xvi secolo l’operazione è consigliata solo per risolvere angustie di respiro: «si fa a quelli cavalli pulcifi che hanno il fiato grosso e che fanno gran caminare […] si fa alli cavalli bolsi» (Arquint, Gennero 2001, p. 74). 7 Corte 1562, c. 21v. 8 Boni 1951, p. 105. 9 Petrarca 1554, libro i, dial. 31. 10 Maggini 1968, p. 78.

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rio diventa re provocando ad arte il nitrito che lo avrebbe indicato come il candidato da eleggere.1 Però, il caso del retore di Brunetto è molto particolare e quello di Dario ancora di più. L’affermazione del Petrarca sembra fatta per esigenza retorica, tanto più che la simmetria interna del membro relativo al nitrito è imperfetta: un motivo preciso per cui il cavallo dovrebbe tacere è dichiarato («latendum»), mentre il motivo per cui dovrebbe farsi sentire è tautologico («fremendum»). La lezione riducere di Sg I V, invece, è perfettamente sensata. Un cavallo principiante si muove, sotto il cavaliere, tenendo l’incollatura (cioè il collo e la testa) distesa. Con il progredire dell’addestramento, impara a prendere un atteggiamento atleticamente più efficace: impegna i lombi e mette sotto i posteriori. La nuca si rialza, la testa sta verticale e il cavallo accetta un contatto costante sull’imboccatura: questo s’intende con riducere (sottinteso la testa al suo posto).2 Così, sempre nello Ps. Fiaschi, di un’altra briglia si dice che serve «per cavallo che va con la testa innanci, per ridurlo con piacevolezza».3 La lezione di Sl, condurre, sarà una delle molte sviste di Sl e starà per ridurre o ricondurre. La lezione riducere è infine coerente col resto della didascalia e con l’illustrazione. Farlo riducere e farlo assettare de la testa (o assestare come legge Sl o assentar come leggono I V), sono locuzioni pertinenti al portamento della testa (più esattamente riducere si riferisce alla posizione dell’incollatura e assettare de la testa al tener la testa ferma). La briglia ha due falli che s’appoggiano sulle barre del cavallo. Il fatto che siano grandi lascia spazio alla lingua, dunque i falli, che sono per di più zigrinati, premeranno sulle barre (ovvero sui tratti di gengiva nuda dove agisce l’imboccatura) senza ammortizzatori. È un’imboccatura su cui il cavallo non s’appoggia volentieri, dunque è adatta non per addestrare un puledro, ma per rimediare ai difetti di un cavallo fatto. Infatti è indicata per cavallo piccolo (cioè cavallo utilitario, ronzino) ch’al caminare s’appogiasse alla mano, cioè pesasse molto sulle redini. E e C567, infine, sono reciprocamente indipendenti dal momento che C567, cronologicamente anteriore, è una parafrasi. E

Tav. 2. ‚ = Sg Sl I V + estr. V2. Sg Sl I V estr. V2

104 Il melone a felle con dui falli un grande et l’altro piccolo, lo grande tagliato et lo piccolo liscio, tutti dui vicino all’innodatura, serve per cavallo che voglia la lingua un poco libera et per abasciarlo un poco di testa. AAp RAp LpAp (con emendamenti) con 2 falli il grande tagliato e l’altro più piccolo lisgio tutti due vicino C567 Ma quando così i grandi come i piccioli fusser lisci si potrian mettere a cavallo che volesse alquanto più libera la lingua

Sg con duoi falli tagliati (V om. tagliati), uno grande e laltro piu (I om. piu) picolo liscio (I canc. liscio, Sl lisci) tutti doi (estr. V2 tutto da) vicino

1 Caracciolo 1567, p. 10. 2 «Il cavallo [con la guardia ardita] verrà necessitato a ridurre la testa al suo loco» (D’Aquino 1636, pp. 200-1). 3 E, c. 22v. 4 Briglia 10, vedi Figura 1. Localizzazione della didascalia nei testimoni: E, c. 7v; C567, p. 352e; I, c. 101v; Sg, c. 86r; Sl, c. 22r; V, c. 101v; estr. V2, c. 161r; AAp, cc. 22v-23r; RAp, c. 46r; LpAp, pp. 82-83.

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La didascalia 10 manca negli estratti Pe621 I2. Sg Sl I V estr. V2 sbagliano, sia nella lezione di Sg I V estr. V2 in cui liscio è riferito al fallo più piccolo, sia nella lezione di Sl in cui lisci sta con tutti doi, in entrambi i casi contraddicendo la liminare dichiarazione che i duoi falli sono tagliati ambedue. I (probabilmente la mano seriore) prova a rimediare cancellando liscio. V omette tagliati, presentando dunque una lezione non cattiva (ma, su altri errori che qui non si discuteranno, V risulta congiunto con Sl I estr. V2). Com’è nato l’errore? Ipotizzando un originale come E, un saut du même au même da piccolo a piccolo non spiegherebbe interamente la lezione di Sg Sl I V estr. V2 perché resterebbe inesplicato il tagliati. Però, un originale così: melone a felle con due falli, tagliato il grande e l’altro più piccolo liscio, tutti dui vicino ecc., permetterebbe di spiegare la corruttela con uno slittamento di concordanza di tagliato da il grande a falli (è tipo di errore frequente in questo tipo di letteratura: Sl ne fa uno in questa stessa didascalia). In questo caso l’originale sarebbe stato più vicino ad AAp RAp LpAp, ed E l’avrebbe ampliato. C567, che presenta della didascalia una versione drasticamente potata, non è classificabile: la sua lezione (due falli così i grandi come i piccioli tutti quanti lisci) non è evidentemente cattiva, ma è diversa nella sostanza da tutte le altre, dal momento che in C567 i falli, invece che entrambi vicino all’annodatura come nel resto della tradizione, starebbero, vista la descrizione di briglia che immediatamente precede (e ’l melone picciolo a felle, con due falli grandi tagliati posti presso a la guardia nelle bande, e due altri minori, pur tagliati, posti presso a l’annodatura ecc.),1 uno vicino all’annodatura e uno dalla parte della guardia, cioè all’esterno nel melone. 11. Altre osservazioni sulla famiglia ‚. L’analisi completa – che qui non si riporta – degli errori significativi del testo, permette di dimostrare l’indipendenza reciproca dei componenti della famiglia ‚ e di formulare delle ipotesi sui loro reciproci rapporti, con i risultati riassumibili graficamente nel seguente stemma: ˆ ·

E



C567

Á

Sg



Sl

Â

I

V 1 C567, pp. 351d-352e.

estr. V2

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Gli estratti I2 e Pe621, che mancano di riportare sia la didascalia 10 che la 75, sfuggono a questa classificazione, ma appaiono, su altre più generali considerazioni, gravitare anch’essi nell’orbita della famiglia ‚. Infatti, in Sg Sl I V, grandi collettori di opere attinenti al cavallo, e nei meno voluminosi I2 V2, accanto allo Ps. Fiaschi sono ripetutamente attestate le stesse opere: un’anonima raccolta di aforismi intitolata Avvertimenti intorno ai puledri, il trattatello Dell’infrenatura del cavallo (anonimo nei codici ma di Ottaviano Siliceo),1 gli anonimi Avvertimenti utili, il Trattato dell’imbrigliare di Coletta Respino, una grande compilazione di mascalcia (l’Arte veterale) ed una più breve raccolta di ricette entrambe attribuite a Giovan Battista Pignatelli. Tutte queste opere, ad eccezione delle due compilazioni che vanno sotto il nome di Giovan Battista Pignatelli,2 sono inedite e ancora da studiare. Le presenteremo con agio in altra occasione, ma anticipiamo che, nell’insieme, i manoscritti di quella che abbiamo definito famiglia ‚ (Sg Sl I V V2), più I2, sembrano far parte di una costellazione alquanto compatta, dalla quale è lecito aspettarsi (e qualche esperimento di collazione sembra confermare) stemmi costanti dall’una opera all’altra.3 Meno fortemente connotata, almeno riguardo al contenuto, appare la situazione di Pe621, che contiene, in forma compendiosa, materiale dello Ps. Fiaschi, di Alfonso Ruggieri e degli Avvertimenti utili, più molto materiale dei due Ferraro, però niente di Ottaviano Siliceo né degli Avvertimenti intorno ai puledri né di Coletta Respino o Giovan Battista Pignatelli; nondimeno segnaliamo che la scelta dello Ps. Fiaschi contenuta in Pe621 ha in coda, parafrasata secondo le abitudini di Pe621, una didascalia sicuramente spuria che è attestata, in coda allo Ps. Fiaschi, anche da I Sg Sl V.4 12. La famiglia  = AAp RAp LpAp. AAp RAp LpAp condividono un errore significativo nell’ultima didascalia, nel punto in cui il frammento dello Ps. Fiaschi s’interrompe bruscamente: E 125 Il piro tagliato a felle con un fallo liscio alla banda de la guardia et con una castagniola tagliata nel mezzo de l’annodatura serve per cacciare li piumazzoli [et è]6 piú forte del piro liscio, et la castagniola tagliata serve come di sopra si è detto

AAp RAp LpAp

AAp per cacciare i più macioli (RAp ipiu maceuoli, LpAp i mucicuoli) e piu forte (RAp e ipiu forti) del pero lisgio sopradetto e la castagnola di sopra tagliata (RAp e la c. di s. tagliatela, LpAp è la castagnuola tagliata di sopra)

1 È il quarto libro di Siliceo 1598. 2 Arquint, Gennero 2001. 3 Alla stessa costellazione pertengono anche altri codici che qui, non essendo essi indispensabili per lo studio dello Ps. Fiaschi, ci si limita a menzionare: lo Sloane 1074 della British Library di Londra, testimone degli Avvertimenti intorno ai puledri, ed altri due codici della Bibliothèque Nationale di Parigi: l’ital. 1136 testimone del Trattato di Coletta Respino e l’ital. 458 testimone dell’Arte veterale di Pignatelli. 4 Ci sono ancora cannoni e scacchia a collo d’oca per cavalli dolce di bocca che vogliono la lingua libera (Pe621, p. 33); e Canone a collo d’occa per cavallo piacevole di bocca et che voglia la lingua assai libera (I, c. 106v; Sg, c. 88r; Sl, c. 29v; V, c. 230v; si è citato il testo secondo Sg). 5 Briglia 12, vedi Figura 1. Localizzazione della didascalia nei testimoni: E, c. 8v; C567, p. 352e; I, c. 101v; Sg, c. 86r; Sl, c. 22v; V, c. 224r-v; estr. I2, c. 39r; estr. V2, c. 161r; AAp, c. 23r; RAp, c. 46r; LpAp, p. 83. 6 Integrazione suggerita dal resto della tradizione, oltre che dal senso.

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Si può anche dimostrare (ma qui ci si limita a enunciarlo) che RAp LpAp sono congiunti e indipendenti da AAp.1 Nell’insieme AAp RAp LpAp appaiono costituire una famiglia – che chiameremo  – alquanto compatta, compresa la stampa Lp che, nonostante dal frontespizio possa sembrare un’opera d’autore, è, di fatto, ancora un codice miscellaneo di opere sul cavallo andato a stampa sotto il nome del presumibile autore della prima opera contenuta nella raccolta. La famiglia  manca, alla didascalia 10, dell’errore che identifica ‚ (§ 10, Tav. 2), dunque si può escludere che sia sottofamiglia di ‚; ma non riporta la didascalia 75 dove c’è l’errore che identifica · (§ 10, Tav. 1), dunque non è compiutamente classificabile rispetto a ˆ. 13. Localizzazione dello Ps. Fiaschi Ai nostri – ancora parziali – sondaggi, il lessico tecnico equestre del xvi secolo appare così strutturato: 1. un nucleo di termini usati nello stesso significato in tutta Italia, 2. più sistemi terminologici ciascuno proprio di un’area geografica (nella fattispecie i poli rilevanti sono due: Italia settentrionale e Regno di Napoli), e infine 3. i sistemi individuali dei singoli autori, che, pur essendo ciascuno ampiamente corrispondente a quello dell’area geografica di appartenenza, non sono mai del tutto sovrapponibili l’uno all’altro.2 Si nota poi che il copista di testi di questo genere, pur comportandosi con molta libertà riguardo a tutto quello che non è strettamente referenziale, tramanda intatto il lessico tecnico (sovente anche negli aspetti puramente formali) ed affida semmai alla glossa dubbi d’interpretazione e rinvii al lessico che gli è più familiare; e anche nelle stampe l’interventismo del revisore editoriale si trattiene davanti ai tecnicismi. Ciò premesso, il lessico tecnico dello Ps. Fiaschi risulta ampiamente corrispondente a quello di autori sicuramente napoletani (Federigo Grisone, Coletta Respino, Pirro Antonio Ferraro ecc.), mentre invece autori sicuramente settentrionali (Donato da Milano,3 Cesare Fiaschi, Silvestro Vanzi)4 usano sistematicamente, per gli stessi oggetti, ter1 R2Ap, che è incompleto e non comprende il frammento dello Ps. Fiaschi (§ 8), appare vicino a RAp. 2 Come i significanti, anche i significati si strutturano geograficamente (modelli di briglie di uso generale, modelli caratteristici dell’una o l’altra area geografica, preferenze e proposte dei singoli autori), con corrispondenze tra Wörter e Sachen non necessariamente costanti nel tempo. Non di rado sono gli autori stessi che informano il lettore su geosinonimi e diacronie, come per es. quando Pirro Antonio Ferraro presenta la nomenclatura della guardia (parte della briglia) in duplice versione: «in Regno» e «in Lombardia» (FerraroPA 1602, p. 17); o il Fiaschi avverte che le posate (esercizio in cui il cavallo mette tutto il peso sui posteriori e solleva gli anteriori da terra: gdli, s.v. poggiata2 § 5) sono «così hoggidì nominate ma, vecchiamente, d’alcuni, orsate, per levarsi il cavallo con le braccia a guisa d’orso» (Fiaschi 1556, p. 92). 3 Donato da Milano, maestro di stalla (cioè direttore della scuderia) del duca di Ferrara Borso d’Este e di altri estensi, fu autore, verosimilmente dopo la morte del duca Borso (1471), di un Trattato dele fateze e cognitione de cavalli, cioè dele boche e d’imbrigliature (Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, A 1596; per l’attribuzione in part. le cc. 1r e 24r-v). Il Trattato di Donato da Milano è stato pubblicato come opera anonima in Trolli 1983, pp. 15-45 e 160-73, su un altro testimone, il Vari B 147 della Biblioteca Municipale di Reggio Emilia, in cui dall’opera sono stati espunti i brani in cui si menziona l’autore. Per la datazione dell’opera, vedi anche Trolli 1983, pp. 10-12. 4 Autore, a cavallo tra xvi e xvii secolo, di tre repertori manoscritti di briglie: Paris, Bibliothèque Nationale de France, ital. 1137, secolo xvi (1584); Paris, Bibliothèque Nationale de France, ital. 57, secolo xvi (1586); Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica, Urb. Lat. 271, secolo xvii (1620). Tutti e tre i codici sono datati e firmati («Silvestro Vanzy ferrarese») nell’ultima pagina dell’opera. Il ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica, Urb. Lat. 272, secolo xvii in., contiene, non datato e non firmato, lo stesso repertorio dell’Urb. Lat. 271 e forse ne è una copia diretta.

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mini diversi: per esempio rotelle (‘anelletti’) per falli, stroppa (un tipo di imboccatura) per bastonetto, ardita (un certo tipo di conformazione della guardia) per gagliarda ecc. Anche si verifica che una terminologia caratteristicamente napoletana (sano ‘intero, senza articolazioni’, detto di briglia o sue parti; a felle/affelle, ‘a fette’ nel suo primo significato, ma ‘scanalato’ detto di parti dell’imboccatura ecc.) viene trasmessa immutata da tutti i testimoni, anche da quelli settentrionali come Sg o I, tanto che l’eccezione di Pe621 (autore e stampatore siciliani), che sostituisce sistematicamente a paternostri ‘sferette forate’ il sinonimo pallottini, richiede d’interrogarsi sul motivo specifico (adattamento a usi locali o piuttosto cautela post-tridentina?). 14. Autore Se dunque la tradizionale identificazione di E con l’autografo del Trattato dell’imbrigliare del Cesare Fiaschi si è potuta accantonare in limine di questo articolo, e se nel prosieguo si è precisata la fisionomia di un’opera di area napoletana, sta di fatto che lo Ps. Fiaschi, perduta la sua prestigiosa paternità, non ne ha immediatamente trovata un’altra. Il testo infatti, una volta condannato come spurio il frontespizio di E, si presenta adespoto in tutti i testimoni, con due parziali eccezioni: una collettiva citazione di fonti all’inizio della sezione di C567 dedicata alle briglie, e il nome di Alfonso Ruggieri come autore degli Avvertimenti al Principe che contengono un frammento dello Ps. Fiaschi. Cominciamo da quest’ultimo. Bisogna chiedersi se lo Ps. Fiaschi fosse originariamente una sezione degli Avvertimenti al principe, che ci è pervenuta frammentaria e senza figure nei testimoni degli Avvertimenti al principe, e invece completa ed anonima in altri testimoni che l’hanno trasmessa avulsa dal resto. Ovviamente è possibile anche il contrario, cioè che Alfonso Ruggieri abbia compilato da un’opera altrui. La cronologia relativa dello Ps. Fiaschi e degli Avvertimenti al Principe di Alfonso Ruggieri depone a favore della seconda ipotesi. Gli Avvertimenti al Principe, infatti, sono stati composti sicuramente dopo il 1557 e forse dopo il 1589 (§ 8); mentre lo Ps. Fiaschi, come si vedrà fra poco (§ 15), va arretrato di qualche decennio rispetto al 1566, data del suo più antico testimone C567, ovvero La gloria del cavallo di Pasquale Caracciolo. Il Caracciolo, nell’introdurre nella sua opera la parafrasi dello Ps. Fiaschi, non le assegna un autore specifico, ma, in limine alla trattazione delle briglie, fa una collettiva citazione di fonti: Seguendo dunque e ristrettamente con quel più chiaro modo e distinto ordine che si possa, imitando coloro che di queste cose han con giudicio grande trattato diffusamente o che di presenza l’hanno in sul fatto insegnate, tra’ quali sono il Castella, il Grisone, il Fiaschi, il Cadamusto, e ’l Sanseverino, per ingegnarmi di confermare i moderni precetti con le antiche autorità; dirò che, dovendosi le briglie secondo le qualità della bocca eleggere ecc.1

Si può dedurre un’attribuzione da questa lista di nomi? Nel seguito del Caracciolo, le parafrasi degli Ordini di cavalcare del Grisone e del Trattato dell’imbrigliare del Fiaschi sono ben individuabili. Ci si imbatte anche in varie menzioni di Lorenzo Rusio (inizio xiv 1 Caracciolo 1567, pp. 334h-335a.

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secolo) e Senofonte, nei quali andranno identificate «le antiche autorità». In quanto agli altri, il Castella, il Cadamusto e il Sanseverino, non sono necessariamente autori dello Ps. Fiaschi, né d’altro, dato che il Caracciolo dice di aver voluto riconoscere il suo debito anche verso chi gli ha insegnato «di presenza […] in sul fatto». Questo è sicuramente il caso del primo citato, il Castella ovvero Giovan Berardino delle Castelle, che, tramite Giovan Battista Ferraro, sappiamo essere stato maestro di Pasquale e degli altri Caraccioli,1 e che Pasquale ha messo in particolare evidenza, a fianco di Federigo Grisone, nel suo catalogo dei cavallerizzi: «fioriscono hoggidì Federigo Grisone e Giovan Berardino delle Castella, della qual coppia in questo nobilissimo essercitio veramente può dirsi quel che di Tullio e di Marone disse il Petrarca: questi son gli occhi della lingua nostra»;2 dove la menzione del Grisone sarà stata resa pressoché obbligatoria dal successo degli Ordini di cavalcare e la scelta di Giovan Berardino, in un contesto in cui i cavallerizzi eccellenti erano verosimilmente più di due, sarà dovuta anche al suo speciale legame con Pasquale Caracciolo. Restano il Cadamusto e il Sanseverino. In costoro sono da riconoscersi Giovan Antonio Cadamusto e Giovan Francesco Sanseverino, ambedue cavallerizzi di area napoletana e il secondo allievo del primo, menzionati dal Caracciolo, dai due Ferraro e da Coletta Respino,3 nessuno dei quali però dice che un Cadamusto o un Sanseverino abbiano scritto qualcosa. Anzi, per quanto riguarda il primo dei due, in un trattato sull’allevamento del cavallo a lui intitolato, Il Cadamusto, overo Trattato del fare razze de cavalli ottimi per servitio degli huomini, scritto da Ludovico Felicini verso la fine del xvi secolo (un’opera in forma dialogica in cui la materia viene presentata come esposta appunto da Giovan Antonio Cadamusto nel corso di una conversazione col Felicini e altri gentiluomini) al Cadamusto si fa dire esplicitamente di non aver scritto nulla sull’addestramento.4 1 «Giovanberardino delle Castelle […], oltre dell’altre honorate parti, ha fatto questo essercitio sceltissimamente, send’usciti dalla sua crianza non solamente cavalli buoni assai, ma cavallieri anchora che si fanno i lor cavalli ordinatamente senza maestro, come si potrà dir che siano stati i Signori Marcello Caracciolo e Troiano fratelli, Virgilio, il Priore, Pasquali, Fabbio e Giulio fratelli, Giannaro Caracciolo e fratelli, Giovan Caracciolo e Fabritio suo fratello, e Giovan Vincenzo Caracciolo» (FerraroGB 1560, c. 53v). Si può esser sicuri che il Pasquale Caracciolo citato da Giovan Battista Ferraro sia il nostro (il dubbio è doveroso data la diffusione del nome di battesimo e l’ampiezza della famiglia Caracciolo) perché il Pasquale nostro elenca, fra gli illustri cavallerizzi di famiglia patrizia, Virgilio, Fabio e Giulio Caracciolo, specificando che sono suoi fratelli (Caracciolo 1567, p. 142g); più, fra i titolati, un altro fratello Petraconio duca di Martina (Caracciolo 1567, p. 143c). 2 Caracciolo 1567, p. 142h (corsivo mio). 3 Su Giovan Francesco Sanseverino: Caracciolo 1567, p. 142g; FerraroGB 1560, c. 49v; FerraroPA 1602, pp. 78 e 295; Respino, I2, c. 33v. Su Giovann’Antonio Cadamusto (o Catamusto o Cadamusta): Caracciolo 1567, p. 141d (dove il nome del Cadamusto è, dimostrabilmente per errore, Giovann’Angelo); FerraroGB 1560, c. 49v; Respino, I2, c. 33v; FerraroPA 1602, pp. 15 e 295. 4 «Se il tempo e il luogo lo concedesse, quali siano le regole onde indubitatamente questi docili animali si disciplinano anchora vi scoprirei, quantunque a’ miei dì io più tosto con l’opre che con le parole e con le scritture, come alcuni si sono ingegnati di fare, discorrere ne habbia voluto» (Ludovico Felicini, Il Cadamusto, overo Trattato del fare razze de cavalli ottimi per servitio degli huomini, ms. Napoli, Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III», xii E 10, secolo xvi ex., c. 31r). Di quest’opera, inedita, si conosce solo il testimone citato (Kristeller 1992, p. 106). Da una testimonianza più tarda, Peschiolanciano 1723, p. 371, sembra che un Giovann’Antonio Cadamusto abbia scritto – anzi addirittura stampato – qualcosa, perché il Peschiolanciano lo cita come sua fonte a fianco del Caracciolo, di Giovan Battista Ferraro, ecc., sotto la definizione «antichi che n’hanno [scil. di equitazione] anche scritto». Di tale opera del Cadamusto non si trova altra traccia. Ai nostri fini, impedirebbe comunque di identificare il Cadamusto citato dal Peschiolanciano con l’autore dello Ps. Fiaschi il fatto che non si trovi niente dello Ps. Fiaschi nell’opera del Peschiolanciano, mentre le altre fonti – citate o no puntualmente per nome – si ritrovano. (O meglio:

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Ciò detto, pare che anche Giovan Antonio Cadamusto e Giovan Francesco Sanseverino, come Giovan Berardino delle Castelle, debbano essere censiti tra coloro che hanno insegnato al Caracciolo «di presenza […] in sul fatto», e che l’autore dello Ps. Fiaschi, anche se non così remoto nel tempo come Lorenzo Rusio o Senofonte, sia da catalogare tra «le antiche autorità». 15. Data dello Ps. Fiaschi Ci sono infatti indizi che il Caracciolo, conosca o meno l’identità dell’autore dello Ps. Fiaschi, non lo percepisca come un contemporaneo. Si veda per esempio la didascalia 82 (vedi la relativa briglia nella Figura 1), ovvero, in tutti i testimoni, i tre paternostri lisci per banda, con lo chiappone sano e con un bastone schietto sopra, serve per cavallo c’ha le scarie1 ecc., parafrasata in C567 come: Tre paternostri lisci ecc., i quali dicean gli an tichi esser idonei per cavallo che ecc.2 Altri fatti ancora fanno pensare che lo Ps. Fiaschi vada alquanto arretrato rispetto all’ante quem del 1566. Nello Ps. Fiaschi, sia nella parte ad attestazione plurima (la prima parte) che nella parte ad attestazione unica (la seconda), alcune delle guardie voltate rappresentate in E sono senza armatura, cioè senza quella stanghetta debitamente curvata che chiude la voluta inferiore di una guardia voltata.3 Pirro Antonio Ferraro descrive le guardie senza armatura come desuete: Se bene nell’apparenza [l’armatura] mostra quasi non servire […] ed anchor che dagli antichi professori non s’usasse, egli non è però che non sia di gran maraviglia, conoscendosi chiaro che con maggior loro pericolo si servivano delle briglie senza questa parte, usando in quel tempo ne’ loro cavalli i pettorali tondi detti all’imperiale, i quali, se pur davano proportione a’ loro cavalli per esser quelli di taglia maggiore, non toglievano per questo il pericolo di porsi le stanghette della briglia dentro i detti pettorali, come allo spesso si vedeva; al che con quest’armatura si è rimediato in tutto, con molto ornamento della briglia.4

Le guardie senza armatura devono essere andate in disuso ben prima di quando Pirro Antonio scrive (intorno al 1589). Alla metà del secolo sono assenti sia dai manuali di equitazione che dalle opere d’arte. Le si vede a Mantova nei ritratti dei cavalli di Palazzo Tè realizzati intorno al 1527. Lo Ps. Fiaschi appare antiquato anche rispetto ad alcune affermazioni del Grisone. Il Grisone dice che a nessun tipo d’imboccatura «vuol essere la castagna nel mezzo c om e a n t i ca m e n t e si usava, e come alcuni moderni in alcune parti del mondo una traccia del frammento dello Ps. Fiaschi si trova nel Peschiolanciano, ma indirettamente, nel riassunto che Peschiolanciano fa di LpAp: Peschiolanciano 1723, p. 72). Neppure è possibile spiegare il Cadamusto del Peschiolanciano come una citazione – inesatta – del sopra menzionato Cadamusto overo Trattato del fare razze de cavalli di Ludovico Felicini, perché niente dell’opera del Felicini (che oltretutto, come già detto, non risulta essere mai andata a stampa) si ritrova nell’opera del Peschiolanciano. 1 Testo di E. 2 C567, p. 357b (spazieggiatura mia). 3 Si confrontino nella Figura 1 la briglia 8 (guardie voltate senza armatura) e per es. le briglie 2 e 10 (guardie voltate con armatura). 4 FerraroPA 1602, pp. 39-40. A una costrizione quale quella provocata da una guardia che resta agganciata nel pettorale (cioè nella parte di finimento che gira intorno al petto del cavallo e che, collegata alla sella, contribuisce a tenerla ferma), la reazione probabile di un cavallo è di impennarsi e rovesciarsi sul cavaliere. Con l’armatura, l’estremità della guardia non è più abbastanza sottile da potersi infilare fra pettorale e petto del cavallo. Non siamo in grado di dire come fosse di preciso il pettorale tondo detto all’imperiale rispetto ad altri modelli.

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anchora usano, che è cosa pessima. Alla quale castagna gli era più proprio chiamarse rota o veramente rotella».1 La precisazione terminologica conforta l’identificazione della castagna del Grisone con la castagniola dello Ps. Fiaschi, ovvero quella rotella che si vede incastrata al centro dell’imboccatura in varie briglie dello Ps. Fiaschi, per es. la nº 8 (vedi Figura 1): il melone tagliato nel mezzo minuto, con dui falli liscj da le bande e con una castagniola nell’annodatura […] advertendo che la castagniola vol esser liscia per darli un poco d’appoggio alla lingua.2 E sempre il Grisone dice, a proposito dell’altezza del monte della briglia (cioè di quella parte arcuata che, al centro di certe imboccature, serve a lasciare spazio alla lingua): «sappiate che la piú grande altezza che si debbe dar al monte sarà solo quanto basta a liberar la lingua, e che non offenda il palato a niun modo, altrimente sarebbe errore gravissimo, i l ch e m o lti a n n i so n o e r a in us o».3 Lo Ps. Fiaschi, pur non menzionando mai l’azione di una briglia sul palato, illustra varie briglie il cui monte è abbastanza alto da toccarlo (per esempio le briglie 82 e 86, vedi Figura 1) ed anche briglie che, a prescindere dal maggiore o minore spazio lasciato alla lingua, hanno al centro una paletta fatta apposta per agire sul palato (per esempio la briglia 87, vedi Figura 1: la rotellina o il paternostro posto alla sommità del monte o della paletta nelle briglie 86 e 87 serve appunto affinché il contatto tra monte e palato sia innocuo). In realtà la condanna del Grisone non segna la caduta in disuso né delle castagnole né delle imboccature con azione sul palato, che risultano entrambe vigenti in Pirro Antonio Ferraro,4 tanto che sospettiamo che le osservazioni del Grisone su tali attrezzature costituiscano non tanto un documento della generale evoluzione dell’arte dell’imbrigliare, quanto una specifica critica al repertorio dello Ps. Fiaschi, che quindi già esisteva e che il Grisone conosceva. Ciò, se più convincentemente dimostrato, alzerebbe l’ante quem dello Ps. Fiaschi al 1550. Ma, a parte questo, la generale antiquatezza di molte delle briglie raffigurate nello Ps. Fiaschi richiede di arretrare l’opera alla prima metà del xvi secolo. I chiapponi sani (al quale gruppo appartiene la briglia 82, vedi Figura 1) e i piè di gatto senza annodatura (al quale gruppo appartengono le briglie 86 e 87, vedi Figura 1) sono rigidi e ingombranti come briglie quattrocentesche, mentre l’orientamento del secolo dopo – non solo nel Grisone – è di usare imboccature meno voluminose e più articolate.5 Proponiamo dunque per lo Ps. Fiaschi un’attribuzione ad autore napoletano della prima metà del xvi secolo, terzo o quarto decennio. Addendum Quando questo articolo era già in bozze, abbiamo trovato nel cod. 782 (secolo xvii) della Universitäts- und Landesbibliothek für Tirol di Innsbruck, sotto il titolo di «Ordine di cavalcare et amaistrare cavalli […] composto dal signor Alfonso di Rogiero Sanseverini, cavaliero et cavalarizzo napolitano» (c. 1r), una diversa redazione degli Avvertimenti al Principe, dove si riproduce per intero (senza figure) lo Ps. Fiaschi, dichiarando infine: «Le sopradette briglie sono quelle che io hebbi dall sig. Gio. Francesco Sanseverini mio zio, et il signor le hebbe dal sig. Gio. Antonio Ca-

1 Grisone 1550, c. 69r (spazieggiatura mia). 2 E, c. 6v. 3 Grisone 1550, c. 71v (spazieggiatura mia). 4 Vedere per es. la terza e ultima olivetta raffigurata in FerraroPA 1602, pp. 92-93, con «la nocella che al palato si riduce al raccoglier della mano»; e il terzo bastonetto di quelli rappresentati a FerraroPA 1602, pp. 100-1, con «la castagna overo rotella che castiga e riduce dentro la lingua quando di fuori il cavallo la porta». 5 Arquint 2004, ii 7-8.

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damusto suo maestro, et il detto sig. Gio. Antonio le hebbe dal misser Gio. Angelo de Bari, cavallarizzo della felice memoria della sig.ra Duchessa di Milano» (cc. 97v-98r), il che conferma l’identità dell’Alfonso Ruggieri Sanseverini di cui alla nota 8 di p. 155, chiarisce la menzione del «Cadamusto e ’l Sanseverino» nel Caracciolo (citazione a p. 163) e rivela in Giovan Angelo da Bari un precedente trasmettitore (se non l’autore) del repertorio. Ma di tutto questo si riparlerà.

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UNA GHIR LANDA FIORENTINA. 1938. AUTOGRAFI NOVECENTESCHI NELLA NATIONAL LI BRARY OF SCOTLAND (C O N LETT ERE I NEDI TE DI SABA E UNGARETTI) Annalisa Cipollone* Pescara

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ella National Library of Scotland, a Edimburgo, è conservato un libretto manoscritto di 74 carte complessive, che misura 130 × 182 mm con rilegatura tipica delle manifatture fiorentine, in marocchino di colore marrone bruciato e stampigliatura di piccoli gigli fiorentini dorati in doppia cornice, sempre dorata;1 a carta 1r il titolo legge: «una ghirlanda fiorentina/1938».2 Ghirlanda è l’equivalente – comune nella tradizione letteraria britannica – di ‘florilegio’; e in questo senso bene rappresenta il contenuto del taccuino che è di fatto un’antologia, per quanto d’allestimento atipico.3 Gli autori che vi trovano luogo possono ben dirsi il fior fiore della cultura letteraria italiana dell’epoca, con contributi di Palazzeschi, Montale, Papini, Gadda e molti altri. Il libretto ha inoltre una singolare caratteristica: tutti i brani ivi trascritti sono di mano degli autori stessi. Vi sono inclusi alcuni degli artisti allora più in voga o appena emergenti, come Mario Luzi: per alcuni sono riportate liriche o brani in prosa (Montale o Gadda), per altri una semplice firma autografa accompagnata dalla data (Benedetto Croce, Luigi Russo), oppure una citazione con dedica. L’elenco dei partecipanti, qui di seguito in ordine alfabetico, mostra una compagine assai ricca, nonché eterogenea per inclinazioni ideologiche ed artistiche: Ettore Allodoli, Antonio Berti, Piero Bigongiari, Ronald Bottrall, Bruno Cicognani, Guelfo Civinini, Primo Conti, Benedetto Croce, Luigi Fallacara, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Gian Napoleone Giordano Orsini, Tommaso Landolfi, Ludovico Limentani, Nicola Lisi, Arturo Loria, Mario Luzi, Oreste Macrì, Yoi Maraini, Guido Mazzoni, Eugenio Montale, Aldo Palazzeschi, Rodolfo Paoli, Roberto Papi, Giovanni Papini, Marco Rivalta, Ottone Rosai, Luigi Russo, Vittorio Santoli, Ardengo Soffici, Giovanna Tecchi, Gianni Vagnetti. * [email protected] Ringrazio i «Trustees of the National Library of Scotland» che hanno accordato l’autorizzazione a pubblicare il materiale; e ringrazio di cuore l’amico Chris Taylor, responsabile delle «Italian and French Collections» della National Library of Scotland, per il suo competente e sempre sollecito aiuto. 1 Sul retro, in basso, impressione a fuoco: «A. Torchio/Firenze». 2 National Library of Scotland, Acc. 7175 - Box 1/4 (i). 3 L’inglese garland col significato di «an anthology, a miscellany» è attestato sin dal 1612 (Shorter Oxford English Dictionary); per l’it. ghirlanda le prime attestazioni sembrano essere assai più tarde (né il Manuzzi, né il Tommaseo-Bellini registrano tale accezione) e di probabile ascendenza anglosassone. L’antologia curata da Fernando Palazzi ed Enrico Piceni nel 1927, intitolata La ghirlanda; scrittori italiani e stranieri del secolo xix e contemporanei; antologia per le scuole medie inferiori e dedicata a scrittori italiani e stranieri (cortesemente segnalatami da un anonimo lettore, che ringrazio), deriverà il proprio titolo dall’uso inglese. Si veda in proposito anche la nota 3 di p. 192.

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L’album si presenta così come una raccolta di brani autografi, un reliquiario moderno, contemporaneo, del gusto letterario e degli autori alla moda; una foto di gruppo negli anni tormentati che subivano il fascismo e che, proprio nell’anno della Ghirlanda, avrebbero sofferto il tragico oltraggio delle leggi razziali. Per il particolare periodo storico in cui questo libretto venne in essere, per la natura e la ricchezza dei materiali (che, in alcuni casi, illuminano la genesi di opere famose), nonché per il prestigio degli autori presenti nella singolare silloge, ci si limita in questa sede a fornire, oltre ad una tavola completa del taccuino,1 una prima descrizione delle modalità di allestimento del libretto e del contesto storico-culturale che contribuì a dargli forma. E si vuole qui anche gettare qualche luce sulla figura del suo possessore, John Purves, che per diversi decenni fu in stretti e amichevoli rapporti con la élite culturale novecentesca, italiana ed europea. 2. Il libretto fa parte di un fondo della Nazionale di Edimburgo appartenuto a John Purves;2 e fu egli stesso a confezionare il taccuino, nei modi che si illustreranno più oltre. Scozzese di nascita, Purves (1877-1961) fu dal 1921 al 1938 Lecturer in Italian e dal 1938 al 1947 Reader in Italian all’Università di Edimburgo, dove era rientrato dopo alcuni anni di insegnamento a Pretoria, nella locale università3 (qui aveva dato alle stampe una antologia di poeti inglesi in Sudafrica4 e un’edizione delle lettere di Lady Duff Gordon).5 Al suo rientro in Scozia risalgono i suoi primi lavori sull’influenza della letteratura italiana nelle terre anglosassoni, con la pubblicazione di alcune lettere inedite del Foscolo e di Dante Gabriel Rossetti.6 È del 1930 una scelta antologica di lirica italiana, A First Book of Italian Verse,7 che ri1 Vedi Appendice i - Tavola. 2 Il materiale che costituisce il fondo Purves (nls, Acc. 7175 e 7203) è giunto alla National Library of Scotland dopo la morte di John Purves (1961) per donativo di suo figlio, Rev. Hugh J. N. Purves. Contiene, oltre al taccuino di cui si discorre, un analogo taccuino iniziato nel 1942 (con interventi datati fino al 1960, vedi oltre); lettere indirizzate a Purves (alcune qui pubblicate); materiale autografo di lezioni e articoli di Purves; materiale autografo antico (tra gli altri Baruch Spinoza, Cristina e Dante Gabriel Rossetti, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Robert Browning, Walter Scott) e contemporaneo (Giuseppe Ungaretti, Walter De La Mare, Anatole France tra gli altri); stampe antiche. I numerosi volumi a lui appartenuti, in diversi casi con dediche autografe degli autori, sono dispersi nella National Library e non fanno parte del fondo; alcuni di quei volumi vengono identificati in questo lavoro. 3 Professor of English al Transvaal University College (1908-1916). Purves aveva iniziato la carriera all’Università di Lione, come assistente di Émile Legouis (1902-1903); aveva poi vinto una borsa Carnegie («Carnegie Research Scholarship in Modern Languages») che lo aveva portato in Italia, a Siena e Roma (1903-1904); era poi divenuto assistente di H. J. C. Grierson all’Università di Aberdeen (1904-1906). In Sudafrica aveva anche ricoperto la posizione di Professor of English al Transvaal Technical Institute di Johannesburg (1906-1908). 4 Purves 1915. 5 Purves 1921. 6 Purves 1928, 1933, 1933-1934 e 1934 (pubblicato in forma di lettera alla rivista). È da notare che negli anni trenta il nome di Purves si reperisce in molti studi anglosassoni di materia italiana e non, dove egli è spesso ringraziato dagli autori per aver messo a loro disposizione materiale autografo in suo possesso o cui egli aveva facile accesso. Luigi Meneghello ne La materia di Reading e altri reperti lo ricorda come professore di italiano di Donald J. Gordon. 7 Purves 1930. Assai interessante, ad intendere l’approccio di Purves, risulta essere la ripartizione del materiale: i. Tuscan Folk Songs: Stornelli, Rispetti, Strambotti, Cradle Sogns, ecc.; ii. Poems by Modern Writers in Popular or Traditional Verse Measures; iii. Poems by Lorenzo de’ Medici and his Circle; iv. Sonnets [Dante, Petrarca, Guidiccioni, Foscolo, Carducci]; v. Extracts from Dante, Ariosto and Tasso; vi. Short Poems of the Eighteenth Century and the Risorgimento; vii. Recent and Contemporary Verse. L’antologia include note al testo (in gran parte di natura lessicale e sintattica) ed un corposo Vocabulary che occupa un terzo dell’intero volumetto.

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cevette il plauso della locale comunità scientifica principalmente per l’apertura che il Purves mostrava alle nuove esperienze letterarie di quegli anni fecondi;1 esperienze, quando non esperimenti, che Purves guardò però con occhio rigoroso per quanto aperto ad intuirne le potenzialità.2 La sezione che contiene il materiale contemporaneo, e che rappresenta la parte più innovativa della raccolta, fu anche la più apprezzata dalla critica;3 la ricchezza d’autori contemporanei faceva dell’opera un nuovo punto di riferimento nel panorama delle antologie, anche a dispetto di ciò che l’autore stesso affermava nell’Introduzione al volume ove, con tono assai attenuato e tipico understatement anglosassone, l’ideale destinatario veniva individuato nel principiante appassionato di itale lettere.4 Le fonti per le liriche da lui selezionate in quell’occasione furono libri e riviste (attraverso la mediazione dell’antologia Papini-Pancrazi; di cui più avanti). Purves non si servì d’autografi; né, d’altronde, la sede lo richiedeva. È certo, tuttavia, che egli provvedesse a stabilire contatti epistolari con alcuni degli autori che intendeva inserire in antologia. Si conserva infatti una breve missiva di Purves ad Aldo Palazzeschi, in cui egli chiede il permesso di includere nel florilegio «il grazioso Rio Bo»;5 richiesta che Palazzeschi deve aver accolto, giacché la sua poesia compare effettivamente nella raccolta.6 La cura filologica che Purves riservava al suo lavoro non appare però mai scissa dal proverbiale pragmatismo inglese. Purves aveva chiara percezione del potere comunicativo che poteva risiedere in un’opera tradotta dall’idioma originale, e le sue collaborazioni con gli autori italiani furono numerose e degne di nota: basterà menzionare, in merito a ciò, i contatti per la traduzione di alcune poesie di Giuseppe Ungaretti;7 o quel1 Bergin 1932. 2 «Even though Italy is not passing through one of her great literary periods just now, these men speak the idiom of the time and in that respect are intelligible to us. Their work besides is the loam out of which the literature of the future will spring» (Purves 1930, Introduction, p. xii). 3 Bergin 1932, p. 63: «It is also I think commendable that the modern poets are well represented […]. One feels that such poems as “Santi del mio paese” of Vincenzo Cardarelli and “Come lucertole o viole” (Giacomo Prampolini) are very fertile loam indeed, and one is grateful to an anthologist who, with the greatest respect for the past, finds it not impossible to keep a vigilant and not disapproving eye in the present». 4 «The purpose of this little book is sufficiently indicated by its title. It does not claim to compete with any of the longer or more representative Anthologies of Italian poetry, of which there are now several good examples published for the use of English readers. Its aim is rather to provide the necessary apparatus and assistance required for the beginner in passing from the reading of prose to that of verse, and at the same time to furnish a graduated selection of poems in various styles and measures which may be read with pleasure for their own sake»; Purves 1930, Introduction, p. ix. E si veda anche quanto Purves dirà nella lettera del 1930 a Palazzeschi, riprodotta più sotto: «Sto preparando per i miei studenti una piccola antologia della poesia italiana…» (corsivo mio). 5 Archivio Palazzeschi, u.d. 5135, John Purves ad Aldo Palazzeschi, 24 luglio 1930: «Egregio Signore, sto preparando per i miei studenti una piccola Antologia della poesia italiana, nella quale vorrei includere, col Suo permesso, il grazioso Rio Bo. Sarò lieto se Ella vorrà concedermi questo favore. Mi creda con vivo ossequio, Suo dev.mo John Purves». 6 Purves 1930, p. 120; la poesia viene tratta da Palazzeschi 1925, p. 180, come informa la nota in calce al testo. 7 Così scriveva Ungaretti all’amico Corrado Pavolini nel 1934 (il 12.xi.xiii, come recita la lettera; si veda Cardarelli, Ungaretti 1987, p. 195: «Caro Pavolini, John Purves mi scrive d’avermi mandato a Roma un vaglia postale in compenso delle traduzioni pubblicate dal Modern Scot. Ho ricevuto questa lettera da Vallecchi al quale era stata spedita per me. Non so a quale indirizzo di Roma sia stato spedito il vaglia, e forse è arrivato sabato, o arriverà oggi all’Italia Letteraria. In questo caso vorrebbe chiedere di farmelo rispedire non a Marino, ma a Roma - Via Panaro, 11 dove sto ora. Grazie e affettuosi saluti dal Suo Ungaretti». Ungaretti aveva scritto a Purves una lettera, qui pubblicata in Appendice ii (nls, Acc. 7175, No 1; Letters to John Purves), accompagnata dall’autografo de Le stagioni, il 9 ottobre del 1935 (9.x.xiii).

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li con l’autore teatrale forse allora più autorevole, Luigi Pirandello.1 Dell’esito felice di queste collaborazioni rendono testimonianza le missive conservate nel suo fondo.2 Purves si diede a reperire materiale contemporaneo in autografia già dai primi anni del Novecento, come testimoniano i numerosi autografi di autori contemporanei conservati nel suo fondo; ma con la Ghirlanda fiorentina egli inizia un vero e proprio progetto organico, come si vedrà. A Firenze, nella primavera di un anno che si sarebbe rivelato, per l’Italia e per il mondo, foriero di eventi infausti e dolorosi, Purves deve aver cominciato una frequentazione sistematica dei ritrovi dei letterati, probabilmente le «Giubbe Rosse» e il Gabinetto Vieusseux, che egli probabilmente già conosceva;3 non senza però rinnovare i contatti con gli autori che aveva interpellato quasi un decennio prima, in occasione della preparazione della sua antologia. La sua fama di italianista lo aveva di fatto preceduto, anche in grazia d’una recensione alla sua antologia a firma del giovane Vittorini, pubblicata su «Il lavoro fascista» del 1931;4 e proprio nel ’38 Purves verrà invitato a collaborare al primo numero della rivista del nascente Centro Nazionale di Studi sul Rinascimento, «La Rinascita», sotto la direzione di Giovanni Papini ed Ettore Allodoli, presenti nelle prime carte del taccuino d’autografi. Il numero inaugurale, del gennaio-aprile 1938, ospita uno dei lavori più noti del Purves, The First Knowledge of Machiavelli in Scotland: i mesi sono i medesimi in cui venne allestita la Ghirlanda.5 3. Il libretto della National Library of Scotland testimonia d’un soggiorno fiorentino dell’edimburghese che si estese dal febbraio all’aprile del 1938;6 durante quel periodo egli abitò in via degli Orti Oricellari 19 (nei pressi della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella), donde il 12 febbraio del ’38 fece partire una missiva per Aldo Palazzeschi che illustrava il suo progetto: egli intendeva raccogliere in un album che accompagnava la lettera, acquistato probabilmente in loco e per l’occasione, una ‘ghirlanda’ autografa fatta con componimenti di autori fiorentini: ritrovandomi a Firenze dopo qualche anno e forse per l’ultima volta, ho avuto l’idea di fare una ghirlanda fiorentina, indirizzandomi agli scrittori ed agli artisti che più onorano questa bella città.7

A Palazzeschi, anzi al Palazzeschi poeta, Purves chiese di trascrivere un brano che gli paresse maggiormente rappresentativo della ‘fiorentinità’: Sarebbe per me e per altri che s’interessano alla letteratura italiana d’un sommo interesse sapere quali fra le opere in verso e in prosa qui composte in tempi recenti, meglio rappresentano, al 1 Vedi Carrer 2003, dove si discute la traduzione da parte di Purves della novella pirandelliana Il vecchio dio sulla rivista «Modern Scot» con il titolo The Old God, e si pubblica una lettera di Pirandello conservata nel fondo Purves, qui riprodotta in Appendice. 2 Si vedano le lettere di Pirandello, già citata, e quella di Ungaretti in Appendice a questo lavoro. 3 Ad eccezione di Ardengo Soffici, che Purves incontra a Poggio a Caiano, in tutti gli altri interventi, quando è espressa, l’indicazione di luogo è «Firenze». 4 Vittorini 1931; ripubblicata in Vittorini 1997, pp. 267-71. Ma già la rivista papiniana «Leonardo», nella Rassegna bibliografica del 1930 (p. 277), lo definiva «il distinto italianista dell’Università di Edinburgo». 5 Purves 1938b. Quello stesso anno lo citava già Luigi Russo nei suoi Classici italiani; vedi Russo 1938, p. vi. 6 Più precisamente gli interventi sul libretto si datano tra il 12 febbraio e l’11 aprile 1938. 7 Archivio Palazzeschi, u.d. 5136, lettera di J. Purves a A. Palazzeschi, datata Firenze, 12 febbraio 1938 (pubblicata per intero in Appendice).

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giudizio degli autori stessi, lo spirito fiorentino. Mi farebbe, dunque, un gran piacere trascrivendo in questo albo quella sua poesia che corrisponde meglio a questo criterio, oppure quella che Le paia la migliore.

Il carattere della richiesta non può non aver risentito d’un clima culturale ove s’intrecciavano, spesso nei medesimi autori, le tendenze dell’avanguardia e della learned poetry con la tradizione nostalgica, localistica (o ‘popolare’) dello Strapaese (o, almeno, così quel clima percepiva il mondo anglosassone). Purves teneva in grande considerazione il rapporto, che gli sembrava essere in Italia ad un tempo strettissimo e fortunato (e proprio del genio italiano), tra poesia popolare e poesia culta; tanto da fornirne quasi una teorizzazione nella Introduzione di A First Book, proprio a giustificazione delle scelte operate nella antologia: There is the more reason for giving this prominence [in the Anthology] to folk-poetry, since the last great poet of Italy (if we exclude the living D’Annunzio), Giovanni Pascoli, flowered from that stock […]; and in the contemporary activities of the strapaesisti, there are other signs of a similar return to earth, by which, like Antaeus, literatures are sometimes renewed.1

D’altronde, nell’antologia, Purves riservava una speciale sezione proprio alle Tuscan Folk-Songs: Stornelli, Rispetti, Strambotti, Cradle Songs, Etc., con puntuale indicazione geografica della provenienza dei componimenti;2 e riservava una ulteriore sezione alle forme popolari riflesse, Poems by Modern Writers in Popular or Traditional Verse Measures,3 ove raccoglieva liriche di Severino Ferrari, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Francesco Dall’Ongaro.4 Palazzeschi, benché in quel periodo sembrasse affidare la propria fama piuttosto alla sua produzione in prosa che non a quella (pregressa) in versi,5 di buona voglia acconsentì alla preghiera, aprendo la Ghirlanda con ben tre poesie, raccolte sotto il titolo generale “Paesaggi”: Sole, Rio Bo e Mezzogiorno (cc. 2r-v, 3r).6 Purves era del resto, come s’è già accennato, una sua vecchia conoscenza, e forse aveva già frequentato la sua casa. Nei giorni successivi, Purves stesso si fece all’abitazione di Palazzeschi per ritirare il quaderno: «Non c’è bisogno rimandare l’albo per posta: basterà lasciarlo al domestico, finchè mi presenti, per riaverlo fra qualche giorno», avvertiva nella lettera. 1 Purves 1930, Introduzione, pp. x e xi; sulla percezione della poesia di Pascoli da parte del Purves si veda Peterson 2007, p. 451. 2 Purves 1930, pp. 1-15. Purves attingeva a due testi che avevano, significativamente, medesimo titolo (Canti popolari toscani) e medesimo editore (Barbèra), per quanto distanti settant’anni l’un dall’altro: Tigri 1856 e Giannini 1921. Nel suo First Book Purves ricorda inoltre la Fiorita di canti tradizionali italiani scelti nei vari dialetti e annotati, curata da Eugenia Levi (Levi 1926). 3 Gioverà rammentare che il 1930 era stato anche l’anno di pubblicazione del basilare lavoro crociano sulla poesia popolare (Croce 1930). 4 Purves 1930, pp. 17-26; a proposito del componimento di Dall’Ongaro, I tre colori (1847), p. 22, Purves annota: «One of a series of political strambotti written by Dall’Ongaro during the national risings of 1847-48 and 1859-60. Garibaldi is said to have chanted this piece when setting out from Montevideo to return to Italy in the year of revolutions». 5 Palazzeschi era allora all’apice della carriera, come poeta, ma forse ancor più come narratore: agli anni Trenta risalgono infatti le sue prove più acclamate come romanziere (Stampe dell’Ottocento, 1932, sulla scia della memorialistica fiorentina e che riprende i temi del romanzo d’esordio Il codice di Perelà dell’11; e soprattutto Le sorelle Materassi, uscito nel 1934); vedi Manacorda 1980, pp. 73-75. Apparivano invece retaggio del passato le esperienze di poesia futurista, da cui Palazzeschi prese le distanze già nel 1914 sulle pagine di «Lacerba». 6 Palazzeschi 1949, rispettivamente alle pp. 312 e 186; Rio Bo nell’edizione Vallecchi del 1925, p. 180, già menzionata.

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Il 18 febbraio il quaderno passò nelle mani di Montale, che vi trascrisse Corrispondenze, pubblicato appena un anno prima su «Letteratura»;1 e benché Montale fosse fresco d’una disavventura editoriale legata proprio ad un autografo donato,2 non si sottrasse alla richiesta di Purves. La scarsezza di documenti non permette di stabilire se la conoscenza tra i due precedesse l’incontro fiorentino del ’38, ma è certo, perché fa fede un secondo autografo montaliano su un differente libretto di Purves (si veda più avanti), che i due si rividero un decennio dopo, nel 1948, durante il famoso viaggio di Montale nel Regno Unito, che contemplò anche una sosta a Edimburgo.3 È probabile che, a Firenze, il libretto venisse offerto a Montale brevi manu, perché l’incontro tra i due deve essersi svolto presumibilmente al Gabinetto Vieusseux,4 di cui Montale era allora direttore, sia pure ancora solo per pochi mesi.5 Benché non sia possibile reperire il nome di Purves tra i lettori del Gabinetto e dunque certificarvene la presenza (i Libri dei Soci si arrestano al 1926), è però Ettore Allodoli, con la dedica vergata a c. 6r appena dopo Montale (e di seguito alla poesia senza data e senza titolo di Giovanni Papini, c. 5r),6 a fornirne indicazione precisa, per quanto indiretta: Nella sala dei Capitani di Parte Guelfa, fra una madonna di Ghiberti e un portale di Donatello, il “Domatore di Pulci” saluta cordialmente il prof. Purves, ottimo conoscitore della nostra lingua e letteratura. Ettore Allodoli

Il riferimento è appunto al Palagio di Parte Guelfa che fu dal 1923 al 1940 sede del Gabinetto Vieusseux; ambienti straordinariamente evocativi e colmi di storia, che furono teatro privilegiato della cultura recente; in quelle medesime stanze s’era declinata anche la capitale esperienza di «Solaria», chiusa appena due anni prima.7 Ma al secondo piano di quel medesimo palazzo, nelle sale soprastanti il Vieusseux, aveva sede anche l’Istituto di Cultura Fascista, che da tempo premeva per assorbire l’istituzione di cui Montale era direttore:8 qui Allodoli deve aver incontrato Purves. La dedica fa riferimento anzitutto ad un’opera recente dell’Allodoli, di cui Purves possedeva una copia, firmata dall’Allodoli il 22 marzo del ’38;9 ma anche accennava alla capillare conoscenza 1 «Letteratura», 1, 1, gennaio 1937, p. 31. Lo recensirà nell’ottobre del ’38, sempre su «Letteratura», Gianfranco Contini. È forse degno di nota, ad illuminare le ragioni della scelta, che la lirica venisse pubblicata in quell’occasione insieme a quella di materia inglese Eastbourne. 2 Ne narrava in una lettera dell’11 gennaio 1937 a Solmi: «Avrai visto lo scherzo che mi ha fatto Meridiano di Roma, ricopiando quel pezzetto che avevo dato come curioso autografo, e non senza un errore [Dora Markus]» (Montale 1984, p. lxix). 3 Il viaggio, compiuto con Alberto Moravia ed Elsa Morante, fu organizzato dal British Counicil, di cui era allora direttore Ronald Bottrall, presente nella Ghirlanda; vedi oltre. 4 Meno probabile, per quanto non impossibile, che i due s’incontrassero alle «Giubbe Rosse», di cui pure Montale era assiduo frequentatore; il poeta, infatti, già nel ’37 era stato ‘invitato’ dalle autorità a diradare le sue visite ai tavolini delle salette; vedi Vannucci 1973, p. 10. 5 Ma di certo vedeva nubi addensarsi all’orizzonte, se a Roberto Bazlen, qualche mese dopo (4 agosto), scriverà: «Come saprai (ma conserva il segreto) ho il 90% di probabilità di andar via di qui [il Gabinetto Vieusseux] entro il mese di settembre» (Montale 1984, p. lxix). Sulle ragioni che agirono a determinare l’estromissione di Montale dal Vieusseux, sulle quali lo stesso Montale ha fornito versioni disomogenee nel corso degli anni, non v’è accordo tra gli studiosi; il resoconto più dettagliato si trova in De Vecchis 2005. 6 La poesia di Papini è Felicità irrimediabile. Sulla presenza di Papini si veda più avanti. 7 Su «Solaria» rivista europea si vedano le pagine di Manacorda 1980, pp. 187-210; Ludovico 2005. 8 Marchi 1993. 9 Allodoli 1921; la dedica legge: «Al prof. Purves,|il mio primo libro narrativo.|Firenze 22 marzo 1938. Ettore Allodoli» (nls, ne.844.c.5(2)).

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che il Purves poteva vantare della lingua e della letteratura italiane; e ciò in virtù, per la prima, d’una conoscenza lessicografica che s’esplicava già nel ricco glossario compilato per il suo A First Book e che avrebbe dato vita un trentennio dopo ad un vocabolario di successo;1 per la seconda delle annose fatiche di italianistica testé rammentate. Ma, per converso, ottimo conoscitore della lingua e della letteratura inglesi, oltre che letterato, poteva definirsi l’Allodoli, a partire già dai primi anni del Novecento, quando diede alle stampe l’esame minuzioso dei rapporti di Milton con l’Italia,2 che certo Purves conosceva e che, ancora un decennio dopo, avrebbe ricordato Mario Praz.3 Rammentarlo è importante per cominciare ad intendere a quale tipo di intellettuali si rivolgesse di preferenza Purves: coloro in sostanza che, per quanto legati alla città toscana, avevano per così dire un respiro europeo. È possibile che nelle medesime sale del Vieusseux il 22 febbraio Purves offrisse una pagina bianca (c. 63v) a Guido Mazzoni; la pagina venne scelta nella parte finale del libretto, forse perché Purves intendeva mantenere separati i semplici autografi, con o senza dediche, dalle poesie e dai brani in prosa di carattere letterario (e ciò nonostante Allodoli avesse già incrinato l’ordine; o forse proprio per questo). Mazzoni, anziano e già senatore del Regno, vi scrisse una dedica affettuosa, dove però si coglie il disagio che quegli anni di alleanze e inimicizie prebelliche ispiravano:4 all’illustre collega John Purves, “di quella nobil patria natio” con la quale io credo che l’Italia abbia tutte le ragioni per desiderare d’andare pienamente e sempre d’accordo, auguri dal suo Guido Mazzoni

Qualche pagina dopo (cc. 67r-68r; le pagine sono le ultime vergate del libretto, i giorni sono forse all’intorno del 22 febbraio, ma gli interventi non sono datati), appaiono i nomi di Oreste Macrì (c. 67r), Gian Napoleone Giordano Orsini, Ludovico Limentani e Vittorio Santoli (c. 68r), incontrati forse ai tavolini delle «Giubbe rosse». Il Macrì, che fu collaboratore della rivista «Il Frontespizio» di cui si dirà fra breve, era allora insegnante alle Pie Scuole Superiori di Firenze; dalla nativa Puglia era giunto a Firenze otto anni prima ed ivi aveva conseguito la laurea con una tesi sull’estetica di Vico, di cui relatore era stato proprio Ludovico Limentani. Sul taccuino di Purves Macrì trascrisse due citazioni, l’una dal Vangelo di Matteo («“regnum coeli [sic] vim patitur”. Matteo»);5 l’altra dai Principi di scienza nuova del Vico («“Natura di cose è nascimento delle medesime”. Vico»).6 E se la seconda dipenderà dai suoi interessi vichiani (nonché forse dalla esperienza didattica e critica che veniva in quegli anni maturando), la prima pare risentire, come già quel1 Purves 1953. Se ne veda anche la recensione (un po’ pedante, in verità) di Di Blasi 1957. 2 Allodoli 1907. È significativo che tra le stampe antiche possedute da Purves figuri anche la Joannis Miltoni Angli Pro Populo Anglicano Defensio (Londini [ma Utrecht] 1652; ora nls, Nha.V114). 3 Praz 1948, p. 194. 4 Il 2 gennaio 1937 era stato firmato il gentlemen’s agreement tra Italia e Gran Bretagna, teso a regolare i transiti nel Mediterraneo e a conservare lo status quo delle sovranità nazionali degli Stati che si affacciavano sul bacino; l’accordo verrà poi confermato proprio il 16 aprile 1938 e sarà noto come Patto di Pasqua. 5 «A diebus autem Ioannis Baptistae usque nunc regnum caelorum vim patitur et violenti rapiunt illud». [Vulgata, Mattheus 11.12: «Dal tempo di Giovani il Battista il regno dei cieli è oggetto di violenza, perché i violenti vorrebbero distruggerlo»]. 6 G. B. Vico, Principi di scienza nuova, I xiv: «Natura di cose altro non è, che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise; le quali sempre, che sono tali, indi tali, e non altre nascon le cose». (Vico 1846, p. 48). Nel 1939 apparve sul numero 4 di «Convivium» la tesi di laurea su Vico del Macrì (Macrì 1939), mentre è del 1936, due anni dopo la laurea, un suo primo intervento in materia (Macrì 1936).

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la del Mazzoni, del clima agitato che si profilava alla vigilia della guerra, mentre si accavallavano notizie, per quanto scarse e il più delle volte distorte, della guerra civile in Spagna; nazione per le cui sorti Macrì, futuro studioso di ispanistica, mostrava già forte interesse e partecipazione.1 Sentimenti e motivazioni analoghi a quelli ipotizzati per Macrì possono forse attribuirsi al suo maestro Ludovico Limentani, «prof. stabile di filosofia morale nella R. Università di Firenze», come scrive di suo pugno sul registro delle presenze del Gabinetto Vieusseux il 17 febbraio 1926; alla scelta d’una citazione bruniana tratta da Lo spaccio de la bestia trionfante avranno contribuito i suoi interessi di studioso e l’inquietudine del mondo a lui contemporaneo: «Non lasciate il presente per futuro» [sic];2 e forse al Limentani non era sfuggita la circostanza, che nel caso suo (vista la nazionalità di Purves) si tramutava in felice coincidenza, che quella particolare opera Bruno avesse dedicato al petrarchista inglese Philip Sidney. Gli interessi bruniani avevano portato Limentani ad indagare, tra l’altro, proprio i rapporti del Bruno con l’Inghilterra,3 argomento assai vicino a quelli che Purves aveva fatto oggetto di studio appassionato. Non stupisce dunque che, subito dopo Limentani, si situi l’intervento di Gian Napoleone Giordano Orsini, fine ed autorevole anglista, che s’era ugualmente distinto per i suoi studi sul Bruno in Inghilterra.4 Nel suo intervento in Ghirlanda non sembra arbitrario scorgere il medesimo disagio già rilevato in Mazzoni e Macrì, qui reso ancora più drammatico dalla natura stessa della citazione: «Never never never never never», che egli trae dal King Lear di Shakespeare. È la scena nella quale il vecchio re, distrutto e prossimo alla morte, constata e afferma l’impossibilità di un ritorno alla vita della prediletta e devota figlia Cordelia, giustiziata per ordine dell’usurpatore Edmond.5 La figura di Giordano Orsini era, appunto, legata a doppio filo all’Inghilterra; anzi era legata proprio agli interessi di Purves sui rapporti tra Italia e Inghilterra nell’età del Rinascimento: solo l’anno prima, nel 1937, Giordano Orsini aveva pubblicato un ricco volume in cui raccoglieva i suoi Studi sul Rinascimento italiano in Inghilterra, cui Purves tornerà proficuamente e a più riprese per le sue indagini negli anni successivi.6 Quanto al Santoli, si può invece credere che rispondesse alla richiesta primigenia di Purves, cioè alla dichiarata preferenza per la ‘fiorentinità’, e che pertanto scegliesse i due versi iniziali d’una delle filastrocche più note e più toscane: «c’era un grillo in un campo di lino…». Né pare di poter scorgere, nella scelta ‘leggera’ della citazione, un atteggiamento poco rispettoso nei confronti di Purves, giacché il Santoli si trovava nel ’38 nel mezzo di quegli studi sulla letteratura popolare, sollecitatigli dal Barbi (di cui era allievo),7 che si concretizzarono nell’arco di un decennio in versati contributi: 1 Gli interessi ispanici di Macrì critico si concretizzarono soprattutto nel secondo dopoguerra, con numerosi contributi su Lorca, Machado, Guillén. 2 Bruno 1985, p. 225; ottava doppia del dialogo terzo: «Lasciate l’ombre ed abbracciate il vero. Non cangiate il presente col futuro, Voi siete il veltro che nel rio trabocca, Mentre l’ombra disia di quel ch’ha in bocca…». Limentani deve aver citato a memoria. 3 Limentani 1933; Limentani 1937. 4 Giordano Orsini 1937c. 5 Shakespeare, King Lear, atto v, scena iii. 6 Giordano Orsini 1937a. John Purves si servirà dei lavori di Giordano Orsini sulle traduzioni del Machiavelli in età elisabettiana (specialmente Orsini 1937b, pubblicato per il «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes»), per il suo The Works of William Fowler (Purves 1940; vedi Praz 1962, p. 107). Nel 1946 Giordano Orsini collaborò al numero del «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», tutto di studiosi italiani non compromessi col fascismo – Momigliano, Bianchi Bandinelli ecc. –, voluto dalla direzione (Fritz Saxl) per riavviare i contatti culturali con la nuova Italia. 7 Michele Barbi s’era occupato, già a partire dalla fine dell’Ottocento, di questioni riguardanti la poesia popolare: Barbi 1895; Barbi 1911.

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Nuove questioni di poesia popolare (1930), la voce Canto popolare per l’Enciclopedia Treccani (1929-1939) ed infine I canti popolari italiani, stampato nel 1940 per i tipi della Sansoni. Purves era del resto molto sensibile alle forme popolari della letteratura, specialmente toscana, come già ricordato; letteratura che godeva di particolare favore in area inglese.1 Il 16 marzo il libretto e il suo proprietario si trovavano a Poggio a Caiano, in casa di Ardengo Soffici. Soffici userà la carta 7r per copiarvi parte della lirica Finestre aperte, che apparirà, negli ultimi mesi del ’38, nella raccolta pubblicata per i tipi della Vallecchi, Marsia e Apollo. Poesie;2 lirica che Soffici aveva però già inserito (nella medesima forma offerta a Purves) nel Taccuino di Arno Borghi del 1933,3 da cui pare verisimile la traesse in quell’occasione. La lirica Finestre aperte, d’impronta dichiaratamente classica (anzi, leopardiana) nella prosodia e nel lessico, non deve essere stata una scelta casuale: di Soffici erano noti, dalle cronache del Ravegnani (di cui Purves si era avvalso a suo tempo),4 la tendenza neoclassica e l’amore per Leopardi.5 Erano, d’altronde, gli anni in cui l’arte poetica novecentesca e Soffici in particolare, accanto alle esperienze del metro desultorio, ambivano a rifarsi ad un ideale di poesia che in un certo senso riformulava l’esperienza romantica nella forgia d’un metro classicamente disciplinato, come testimonia la sintassi versale regolata sull’endecasillabo di diversi autori (si pensi a Cardarelli, o all’Ungaretti di Sentimento del Tempo) cui il modello leopardiano non era certo estraneo.6 Soffici aggiunse poi all’autografo della poesia una dedica cordiale: «Per ricordare al Sig. Purves un bel pomeriggio in casa mia, parlando di cose belle e grandi». Il nome di Soffici in quei giorni s’appaiava naturaliter con quello del già menzionato Giovanni Papini (1881-1956), dei quali era nota l’antica consuetudine di amicizia e di collaborazione.7 Papini aveva lasciato la sua testimonianza sul libretto di Purves due pagine prima di Soffici (c. 5r); anzi di fatto apriva il trittico, che senza esitazioni può definirsi organico, di cui faceva parte anche l’Allodoli. L’omaggio che Papini dedicò a Purves fu la parte iniziale di Felicità irrimediabile, dalla raccolta Pane e vino del ’26;8 Purves possedeva una copia di questa raccolta, che porta una dedica che il Papini deve aver vergato proprio nei giorni della Ghirlanda: «Al Professor|John Purves|per ricordo di|Giovanni Papini||Firenze|marzo 1938».9 Felicità irrimediabile si distingueva per essere una poesia particolarmente significativa nella carriera poetica e nel percorso umano di Pa1 Al punto che l’eclettica Grace Warrack (nota soprattutto per aver curato le Rivelazioni della Beata Giuliana di Norwich: Warrack 1914b) aveva potuto trovare aperte le porte di case editrici come la londinese De La More Press e la Blackwell di Oxford per le sue antologie di poesia popolare italiana (e con titolo in italiano) Florilegio di Canti Toscani (1914) e Dal Cor Gentil d’Italia (1925); Warrack 1914a (con illustrazioni e notazioni musicali); Warrack 1925. 2 Soffici 1938. Ne ebbe una copia Purves, arrivata a lui, ovviamente, dopo l’incontro fiorentino: nls, NE.844.c.3(10). 3 Soffici 1933, p. 49. 4 Ravegnani 1930, citato nella bibliografia di Purves 1930. Le liriche dell’esperienza futurista non erano state però da Soffici totalmente rigettate, se le ristamperà, con qualche normalizzazione grafica, ancora in Marsia e Apollo; si veda Mengaldo 1978, p. 337. 5 Ravegnani raccontò poi d’aver appreso da Papini di quell’amore; Papini gliene narrò con queste parole: «Ogni giorno, Soffici legge i Canti di Leopardi; e nessuno li legge come lui, con una voce e con un sentimento che non si dimenticano» (Ravegnani 1939; la citazione a p. 165). 6 Non si fa qui riferimento alle posizioni di ispirazione ‘classicista’ (o purista) sulla prosa; il riferimento è unicamente all’àmbito poetico. 7 Sul pluridecennale sodalizio si vedano il carteggio Papini, Soffici 1991-2002, iv; Richter 2005. 8 Papini 1926, p. 201, poi in Papini 1932, p. 167. 9 nls, NE.844.c.5(1).

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pini, che aveva voluto con essa segnare la sua conversione al cattolicesimo; o, per meglio dire, la sua conversione a una visione interamente cattolica della vita e dell’arte.1 L’incontro a Firenze con Papini deve essere stato desiderato ed inevitabile ad un tempo:2 vero e proprio demiurgo delle riviste del Novecento,3 Papini fu presente nelle redazioni delle maggiori testate dell’epoca, sempre incidendo in maniera significativa; e in qualche caso, com’è quello de «Il Frontespizio», di cui si dirà, plasmando a propria immagine indirizzi e percorsi. Papini fu scrittore e poeta fecondissimo e polemista acre, nonché capace antologista, com’è noto; ma Purves lo stimava anzitutto come rimatore: nel suo First Book aveva incluso Viola (dalla medesima raccolta, Pane e vino, da cui anche Felicità irrimediabile), definendola «one of several delightful poems addressed to the writer’s daughter»;4 ed è assai probabile che Papini venisse contattato per via epistolare al fine di autorizzare, come gli altri autori in raccolta, una produzione ancora coperta dai diritti d’autore.5 Purves s’era anzi servito del Papini antologista proprio nel modellare il suo florilegio, ponendo come prima voce bibliografica relativa alla sezione contemporanea la fatica di Papini e Pancrazi, Poeti d’oggi.6 Il Papini, allora già Accademico d’Italia, fondava nei giorni della Ghirlanda una nuova rivista, getto fertile del neonato Centro di Studi Rinascimentali, «La Rinascita». Al numero inaugurale Purves verrà invitato a partecipare, come più su ricordato. Siamo già in aprile, al primo giorno del mese. Purves offre il libretto ad un personaggio del mondo anglosassone che godette di un certo rilievo nella Firenze di quegli anni: il poeta Ronald Bottrall, allora già famoso per alcune raccolte di liriche.7 Questi trascrisse a carta 8r la poesia Antitheses.8 (Francis James) Ronald Bottrall (1906-1989) era arrivato in Italia nel ’37, dopo aver girovagato per i tre continenti (era stato all’Università di Helsingfors, oggi Helsinki, in Finlandia, come lettore di inglese, tra il ’29 e il ’31; a Princeton, negli Stati Uniti, tra il ’31 e il ’33; a Singapore, allora protettorato inglese, come professore di lingua e letteratura inglese al Raffles College, tra il ’33 e il ’37); a Firenze ricoprì negli anni tra il 1937 e il 1938 il ruolo di Assistant Director presso l’Istituto Britannico, allora con sede in Palazzo Antinori; in Italia Bottrall tornò poi nel 1945 come rappresentante del British Council,9 e fu sotto la sua gestione degli uffici che venne organizzato il viaggio in Inghilterra di Montale, che permetterà l’incontro con Purves a Edimburgo, come più su accennato. L’Istituto Britannico, che funse probabilmente da luogo d’incontro tra Purves e Bottrall, continuava ad essere, nonostante i tagli inflitti ai fondi dal governo inglese nel 1 La conversione aveva però preso le mosse diversi anni prima, all’epoca della pubblicazione della Storia di Cristo (Firenze, Vallecchi, 1921), concepita ed iniziata già nel 1919. 2 Si pensi alla testimonianza di Carlo Bo, ribadita in più sedi, di aver lasciato la Liguria per Firenze unicamente per la presenza di Papini in quella città; vedi Bo, Tabanelli 1986. 3 Giovanissimo fondatore con Allodoli di «Sapientia», «Giglio»; con Prezzolini del «Leonardo»; con Soffici di «Lacerba». 4 Purves 1930, p. 118. 5 Come si evince dalla lettera a Palazzeschi per Rio Bo nonché da una nota della Introduzione: «Acknowledgment is due to the authors and publishers of the poems printed in Section vii […] for the use of copyright material» (Purves 1930, p. xxvii). 6 Papini, Pancrazi 1925. 7 Bottrall 1931, pubblicato nella città dove aveva conseguito la laurea; Bottrall 1934. 8 Bottrall 1961, p. 3. 9 Il controverso istituto di ‘propaganda culturale’ del governo inglese, fondato nel 1934. Luigi Meneghello (Meneghello 1993, p. 11) ricorda brevemente Bottrall proprio nella veste di membro della commissione che gli assegnò la borsa di studio del British Council che lo avrebbe portato in Inghilterra. Bottrall sarà poi insignito nel 1973, dal Governo italiano, del titolo di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

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1921,1 un vero e proprio simbolo dell’amicizia tra Inghilterra e Italia; per quanto, in quegli anni, quell’amicizia preoccupasse non poco il governo inglese, per causa delle simpatie fasciste palesate dall’allora direttore, l’italianista Harold Goad,2 che impensierirono anche i suoi colleghi, tra i quali lo stesso Bottrall.3 Ma furono quelle medesime simpatie ad assicurare all’Istituto vita tranquilla in un periodo particolarmente travagliato, e a far sì che il British Institute potesse essere centro vivace, e in un certo senso indisturbato, di vita culturale a Firenze. All’Istituto Britannico e a Bottrall Purves era legato da rapporti che furono anche di fattiva collaborazione, e che si attuarono concretamente proprio nel luglio del ’38, quando si stampò sulla rivista dell’Istituto, il «Bollettino degli studi inglesi in Italia», un suo articolo sui rapporti tra il mondo culturale italiano e quello scozzese, argomento che fu sua passione per decenni, per quanto declinata in modi diversi.4 Gioverà inoltre ricordare, sempre in relazione a Purves, che tra le fondatrici dell’Istituto Britannico nel 1917 figura anche Lina Waterfield, meglio riconoscibile forse ai nostri fini col nome suo da ragazza, Lina Duff-Gordon, nipote di quella Lady Duff-Gordon di cui Purves aveva curato nel ’21 Letters from the Cape.5 Al medesimo circuito inglese, se non proprio all’Istituto Britannico, dovrà riportarsi Yoi Maraini (1877-1944; c. 10v),6 autrice di racconti e libri di viaggio sotto il nom de plume di Yoi Pawlowska. La Maraini tratteggia nel taccuino di Purves un paesaggio primaverile, in quello stile incantato che l’aveva resa celebre:7 Wherever she looked, amidst all this, was the white flower of the pear, the silver grey of olives. All was new & fresh and strong with the force of growing life; even the air was alive and singing.

Alla Maraini poteva avvicinare il Purves non soltanto la comune nascita anglosassone, ma forse anche l’influenza d’una certa affinità che potrebbe definirsi ‘odeporica’, giacché anche il Purves si provò, come lei, nel genere della letteratura di viaggio all’inizio della carriera pubblicando le lettere di Lady Duff-Gordon, come già ricordato. È forse grazie al marito di lei, Antonio Maraini, scultore di gran fama e influenza (non presente nel libretto, se non è di sua mano la c. 27r, parzialmente illeggibile),8 che si coagula la schiera degli artisti, tutti di primo piano, nelle carte 25r-28r risalenti al periodo tra il 7 e l’11 di aprile: Antonio Berti, Primo Conti, Gianni Vagnetti (e un Marco Rivalta, se la 1 L’Istituto poté sopravvivere grazie alla generosità di tre benefattori: Sir Daniel Stevenson, armatore di Glasgow, Sir Walter Becker e Renée Courtauld, sorella del collezionista Samuel; si veda Price 2006, pp. 2-3. 2 Harold Elsdale Goad (1878-1956); la sua vicinanza al pensiero fascista si concretizzò in tre opuscoli che si stamparono tra il 1931 e il ’33: Goad 1931, Goad 1932, Goad 1933. Goad si interessò molto al francescanesimo, pubblicando lavori in materia già negli anni venti (Goad 1926), per finire con A Franciscan Garland del 1951, che nel titolo richiama il libretto di Purves. Gli anni erano quelli d’un rinnovato entusiasmo per l’Assisiate, come attestano i ritiri alla Verna di personaggi come Papini (che alla Verna, nel ’21, si convertì al cattolicesimo) e Bargellini (vedi Bargellini 1937). 3 Price 2006, p. 3. 4 Purves 1938a. 5 Lina Waterfield fu corrispondente dell’«Observer» fino al 1939, e lasciò definitivamente l’Italia nel 1940. 6 La Maraini era anche frequentatrice del Gabinetto Vieusseux, come risulta dai «Libri dei Soci»: la sua presenza è registrata con generalità autografe il 25 giugno e il 25 ottobre del 1925. 7 Come ad esempio nel racconto In The Campagna (Maraini 1913). I tentativi di localizzare il brano della Ghirlanda in opere edite della Maraini è stato senza esito. 8 Commissario Nazionale del Sindacato Nazionale Fascista di Belle Arti e rappresentante degli artisti alla Camera dei Deputati oltre che Membro delle Corporazioni, diede grande impulso all’arte italiana e contemporanea all’estero; fu anche segretario generale della Biennale di Venezia dal 1927 al 1938 (si veda De Sabbata 2006).

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lettura del nome è corretta, che non risulta nei documenti).1 Ottone Rosai, che pure fa parte della bella squadra, funge invece da elemento di raccordo tra i ‘letterati’ e gli ‘artisti’, e varrà discuterlo tra breve coi primi. A differenza del Rosai, che omaggerà Purves d’un disegno (vedi oltre), il gruppo degli ‘artisti’ si produce, nella somma dei loro interventi, in una sorta di manifesto estetico, che pare richiamarsi appassionatamente alla tradizione; anzi, pare richiamarsi a certe posizioni del Soffici recente, nelle definizioni d’un’arte fascista non solo possibile, ma quasi imperativa e doverosa se vòlta a quei valori della tradizione che erano propri del genio italico. In questo senso paiono da intendersi le frasi di Conti,2 «la tradizione è l’unico modo legittimo di affermare noi stessi nell’avvenire», e di Gianni Vagnetti, «non ritorni: ma andare verso il futuro tenendo di vista il passato»; e nel medesimo senso pare da intendersi anche la citazione di Berti,3 parte del sonetto foscoliano Solcata ho fronte. D’altronde, le esperienze del futurismo, ed anche certe concezioni dell’arte figurativa in aperta rottura con ogni forma di tradizionalismo,4 venivano in quegli anni a perdere di vigore; o meglio, divenivano esse stesse forme della tradizione – quella che può definirsi tradizione del moderno – e superate in un ritorno a tecniche di rappresentazione meno mosse e frenetiche. Lo stesso Soffici, del resto, aveva ormai da anni ripiegato, nell’arte figurativa, sugli stilemi nostrali e ‘tradizionali’ del naturalismo, in più aperta sintonia con le tendenze classicistiche che aveva fatto proprie nella sua produzione letteraria.5 L’8 e il 9 aprile Purves incontrava Luigi Russo e Benedetto Croce. A costoro presentò le pagine centrali del libretto (cc. 47v e 48v rispettivamente; il libretto viene dunque porto alla rovescia); ma entrambi non lasceranno che una firma, secca, con la data. Croce era solo di passaggio a Firenze,6 ma Purves non gli era sconosciuto, perché i due erano già stati in contatto epistolare. Lo scambio di missive risaliva al 1936 quando Purves, in vista dell’allestimento di una miscellanea di studi sul Seicento in onore di H. J. C. Grierson (Seventeenth Century Studies presented to Sir Herbert Grierson, 1938), di cui era stato assistente nei primi anni di carriera universitaria, si rivolse a personalità di primo piano (tra cui, appunto, Croce) per un contributo scientifico. La scelta di Croce come contributore esperto di materia secentesca tra Inghilterra e Italia deve essere parsa al curatore quasi ineludibile, oltre che sommamente prestigiosa.7 Il fondo della National Library conserva due cartoline autografe (e inedite) di Croce, datate 9 giugno 1936 e 21 1 Non è da escludersi, tuttavia, che Purves incontrasse costoro all’«Antico Fattore» o alle «Giubbe Rosse», luoghi di cui erano assidui frequentatori, come attestano numerosi documenti fotografici. 2 Al 1913 e alla mostra futurista de «Lacerba» risalgono i primi contatti di Conti con Soffici e Papini; con altri colleghi, tra cui il Rosai, aveva fondato nel 1917 il «Gruppo futurista fiorentino»; dal 1935 al 1938 collabora al Maggio Fiorentino, come pure Guelfo Civinini, vedi oltre. 3 Nato da modesta famiglia, lavorava al settore decorazioni della Richard-Ginori quando lo scrittore Ugo Ojetti consigliò al padre di iscriverlo all’Istituto d’Arte di Firenze. Divenne poi ritrattista affermato, scolpendo anche busti per Mussolini e la Famiglia reale. 4 Scheiwiller 1930; alla domanda «cosa sia l’arte moderna»: «personalmente risponderei che stimo moderna un’opera d’arte in cui l’artista è riuscito a trasfondere la propria personalità, la quale non è stata alterata da un programma tradizionalista». 5 Sul primo Soffici si vedano Pietropaoli 2001, Papini 2006. Sul classicismo di Soffici in letteratura si veda Ravegnani 1939. 6 A testimonianza ulteriore della presenza di Croce in Firenze nell’aprile del ’38 si veda la sua lettera del 24 febbraio di quell’anno indirizzata a Pietro Pancrazi: Croce, Pancrazi 1989, p. 81. 7 Nella Nazionale di Edimburgo si conserva il libro di Croce Ariosto, Shakespeare e Corneille (Croce 1920), con ritagli dal «Manchester Guardian» sulla letteratura italiana contemporanea, Croce incluso, che con ogni probabilità appartenne a Purves: nls NE.844.b.2(6).

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settembre 1936, in risposta alla richiesta di Purves: nella prima, Croce afferma la sua mente essere lontana dalla materia secentesca perché immerso nello studio di «altre epoche storiche», ma nondimeno richiede all’interlocutore l’indice provvisorio del volume e informazioni sui tempi di consegna per gli autori; nella seconda, ove è indicato, accanto alla data, anche il luogo («Meana, Torino»), declina cortesemente l’invito appellandosi alla inadeguata sede sua in quel momento («tanto più che sto qui, sulle montagne, lontano dai miei libri») e ribadendo i mutati interessi («ho ora la mente distratta da altri studi e pensieri»), senza però precludere la possibilità di un eventuale ripensamento «al mio ritorno a Napoli».1 Il ripensamento non ci fu perché Croce non fece parte della miscellanea;2 ma è da credere che i rapporti tra i due fossero (e rimanessero) improntati a cordialità e stima. Ancora ai primi d’aprile risaliranno le trascrizioni della lirica Il Battiloro di Giovanna Tecchi (c. 9r-v), la cui identità ha resistito finora alle ricerche,3 e della scena finale dell’opera teatrale Bellinda e il Mostro, da parte di Bruno Cicognani (c. 10r-v).4 La scelta del Cicognani rispettava in pieno la richiesta di fiorentinità fatta da Purves: il sottotitolo della pièce, infatti, insisteva bensì sul carattere esemplare, geograficamente o storicamente non circoscrivibile, dell’opera (Fiaba di ogni luogo e di ogni tempo),5 ma essa era pur sempre rielaborazione d’una fiaba percepita come schiettamente toscana; a conferma di ciò, vale ricordare che proprio per questa marcata connotazione geografica la medesima fiaba entrerà anni dopo nella raccolta curata da Italo Calvino.6 Purves, d’altronde, veniva ad includere nel taccuino un autore che già nelle prime raccolte di novelle aveva mostrato interesse proprio per quegli elementi, anche formali, atti ad esprimere il carattere locale (e forse localistico) della materia.7 Alla cultura d’Oltremanica (e d’Oltreoceano) Cicognani era noto anche per questa spiccata caratteristica; dalle pagine di «Italica» del 1942, Thomas Bergin, dopo averlo commendato per i suoi «sharp and remorseless power of observation … and a deep and serene Christianity»,8 concluderà sentenziosamente: «Cicognani is first, last and always a Florentine».9 Purves possedeva del Cicognani, significativamente, L’omino che à spento i fochi (Milano, Treves, 1937),10 che egli fece firmare all’autore il 4 aprile del ’38.11 S’apre, con la carta 11r, una sezione corposa di intellettuali che fecero capo alla rivista «Il Frontespizio», cui sfuggono forse solo i non organici Carlo Emilio Gadda (c. 13r, sul quale si dovrà tornare), Tommaso Landolfi (c. 11r) e Guelfo Civinini (c. 16r). Tommaso Landolfi, che nel ’37 aveva pubblicato la sua prima raccolta di racconti, Dialogo sui massimi sistemi, copiò sul taccuino di Purves una specie di scongiuro in francese, irre1 nls, Acc. 7175/1a. 2 Non miglior fortuna Purves aveva avuto con Virginia Woolf che, contattata per il medesimo progetto, il 9 giugno 1936 gli indirizzava un biglietto di profonda stima per Grierson, in cui però affermava di non conoscere il periodo per il quale le si richiedeva il contributo (biglietto inedito conservato nel medesimo fascicolo 1a). 3 Non pare trattarsi d’una parente di Bonaventura Tecchi. 4 Cicognani 1927. 5 Era infatti una delle versioni della notissima Bella e la Bestia. L’opera venne rappresentata per la prima volta a Roma il 23 marzo 1927 dalla compagnia diretta da Luigi Pirandello. 6 Calvino 1971. 7 Scriverà Piero Rebora anni dopo: «Le 6 storielle di nuovo conio e la Gente di conoscenza (1918), [erano] racconti vigorosamente realistici, calati nella crudezza, anche linguistica, dell’ambiente fiorentino, per lo più popolaresco, da [Cicognani] studiato e raffigurato con estrema incisività e finezza». Rebora 1969, i, pp. 278-92: a p. 280. 8 Bergin 1942, p. 22. 9 Bergin 1942, p. 23. 10 nls, 844.b.3(8). 11 Circostanza che permette di datare anche l’intervento di Cicognani nella Ghirlanda.

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peribile tra le opere dell’autore; che documenta, però, il provarsi del Landolfi nella scrittura in lingua francese in una fase incipiente della sua carriera di letterato. Civinini, librettista per Puccini (La fanciulla del West) e fresco del Premio Viareggio guadagnato nel 1937 con Trattoria di paese, onorò il Purves d’una poesiola sulla Befana, ornata in cima e al piede da una fila di puntini, cui dà il titolo Filastrocca. È l’Introduzione al Calendario: Filastrocca per quest’anno e per quelli che verranno, che Civinini pubblicava in quei giorni sull’«Almanacco dei Visacci»,1 e che nel gusto fu anticipo, forse, d’un’opera per ragazzi che vedrà la luce solo a metà degli anni Cinquanta.2 Alla rivista «Il Frontespizio» attenevano principalmente, ancorché non esclusivamente, Roberto Papi (c. 12r), Arturo Loria (c. 14r-v), Alfonso Gatto (c. 15r), Piero Bargellini (c. 17r), Nicola Lisi (c. 18r), Mario Luzi (c. 19r), Rodolfo Paoli (c. 20r), Piero Bigongiari (c. 21r), Luigi Fallacara (c. 22r), Ottone Rosai (c. 23r) (ai quali devono aggiungersi anche Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Ettore Allodoli e Oreste Macrì, più su ricordati). Sconcerta, in tanta copia, l’assenza di Carlo Bo, col Bargellini motore fondamentale della rivista; ma Bo mancava in quei giorni pasquali da Firenze, confinato nella sua Liguria da un malanno. Proprio il 5 aprile Bargellini gli aveva scritto in un biglietto affettuoso: «Carissimo Bo, mi è dispiaciuto non ritrovarti a Firenze, anche perché ho saputo che sei andato via malato».3 «Il Frontespizio» fu rivista di schietta ispirazione cattolica che si stampò in Firenze dal 1929 al 1940; nacque sotto l’egida intellettuale di Papini, che ne rimase collaboratore fin quasi agli ultimi mesi di vita della rivista. Ma l’aprile del ’38 segnava per «Il Frontespizio» l’inizio della fine e a spingere Piero Bargellini, che ne era direttore, a preconizzare per la rivista una «bella morte» ancorché inevitabile (il ’40 fu l’anno ultimo), c’era l’oltranzismo ermetico (almeno così lo percepivano alcuni collaboratori della rivista)4 proprio, tra gli altri, di Luzi, Gatto e Bo, riuniti in seguito nella breve ma significativa esperienza di «Campo di Marte».5 Sicché, quando l’11 aprile il quaderno di Purves arri1 Civinini 1938. L’«Almanacco dei Visacci» uscì a Firenze tra il 1937 e il 1940 per Vallecchi. La rivista tendeva a caratterizzarsi per un tono meno ufficiale rispetto alle riviste letterarie, nei confronti delle quali tuttavia non sfigurava grazie ai nomi di spicco che scrissero sulle sue pagine e alla qualità degli interventi, anche figurativi. Caratteristica era poi la serie di pagine che l’«Almanacco» riservava alle feste e alle tradizioni popolari. 2 Civinini 1954. 3 Bedeschi 1989, p. 237. 4 «Tornato dalla Libia», scriveva Augusto Hermet proprio nel 1938 sulle pagine de «Il Frontespizio», «dove con altri scrittori italiani aveva seguito Mussolini nel suo viaggio imperiale, Bargellini trovò diviso il campo frontespiziano nel partito dei giovani oscuri e in quello degli anziani chiari. Accanto a Bo, a Fallacara poeta d’amore, a Betocchi e quasi a Lisi, erano sorti da arcane ombre Alfonso Gatto, Mario Luzi, Oreste Macrì e Parronchi e Bigongiari, amori in Letteratura» (Hermet 1938, p. 785). 5 In una lettera datata Pasqua 1938 (17 aprile) a Carlo Bo Bargellini scriveva: «A Firenze seguitano le discussioni sull’oscurità. Ebbi uno scontro vittorioso con Soffici. Altro scontro, iersera, con Papini-Occhini. […] Io ho insistito ieri sera che non c’era un problema della chiarezza (che cosa vuol dire, che cosa significa?) ma semmai un problema d’intelligenza…» (Bedeschi 1989, p. 239); e ancora nel settembre dello stesso anno, sempre a Bo: «A dirti la verità io mi sento sempre più sfiduciato. Non vedo intorno a me e attorno al “Frontespizio” quell’amore all’opera comune che una volta meglio ci univa. Troppa, troppa ambizione letteraria, e amore al successo d’arte. Ma chi è senza peccato? Perciò io sono sempre del parere che una bella morte riscatta anche una grama vita. Ieri sera Vallecchi e Papini mi resistettero duramente; anche a loro dimostrai la ragionevolezza della bella fine. Tocca ora a te, caro Bo. Per impegnarti e impegnare sempre meno Vallecchi ho annunziato la nuova rivista [“Campo di Marte”]. Stamane ho trovato Macrì malinconico e l’ho rinfrancato. Vieni presto a Firenze a rianimare gli spiriti di questi ragazzi» (Bedeschi 1989, p. 245). Bargellini aveva intravisto i primi ostacoli già nel 1932, e li aveva ascritti per larga parte a divergenze di vedute imputabili alla differenza d’età, per quanto si trattasse d’un solo decennio, tra i vecchi e i nuovi collaboratori. A Carlo Bo scriveva appunto nel 1932 (26 giugno): «avrei piacere che i giovani prendessero il disopra nel “Frontespizio” e i vecchi cedessero a loro. Io sono vec-

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vò nelle mani di Bargellini, la dedica semplice fra prose e poesie non va letta senza tener conto di un possibile significato secondo, che riporta ai disagi di quella redazione: «Ricordo di una primavera sfiorita al vento invernale».1 Di quegli autori che in seguito accoglierà nel suo taccuino, Purves poteva leggere ne «Il Frontespizio» le fatiche letterarie e le posizioni critico-ideologiche.2 E, in ispecie intorno al ’38, poteva trovarne vivaci ritratti (anche di coloro che mai vi collaborarono, ma che si trovano nella Ghirlanda, come Montale e Palazzeschi) in un delizioso Lunario delle previsioni sbagliate in quarta di copertina,3 rielaborazione in carattere satirico del «Calendario dei pensieri e delle pratiche solari», ideato nel 1923 da Nicola Lisi, Piero Bargellini e Carlo Betocchi.4 La Ghirlanda inizia la sua rassegna di ‘frontespiziani’ con Roberto Papi, figura letterariamente poco spiccata, ma collaboratore indefesso della rivista; sul taccuino Papi trascrisse per Purves la lirica Alla madre, che pochi mesi prima era stata pubblicata proprio su «Il Frontespizio», insieme a Sera, La sua morte e Invito. Intorno al 10 aprile Purves incontrò Arturo Loria, la cui presenza nel taccuino risulta essere di grande interesse: di Loria, infatti, il quadernetto di Purves serba il brano d’esordio delle Memorie inutili, opera che avrebbe dovuto confermare le belle speranze che il mondo letterario riponeva nello scrittore, ma che non vide mai la luce. Sono note le vicissitudini dell’opera: dopo aver pubblicato alcune parti del romanzo nel 1941 su «Argomenti» sotto lo pseudonimo di Alfredo Tittamanzi,5 Loria affermò di averne perso il manoscritto in seguito ad un bombardamento, sicché le belle speranze che lo scrittore aveva suscitato si trasformarono in aspettative che il Loria provò in più modi a soddisfare, senza mai riuscirvi appieno. Il mondo anglosassone, a quanto risulta, aveva già in precedenza espresso riserve sul suo talento: Hilda Norman, dalle pagine di «Italica» del dicembre 1935, in riferimento alle sue prime prove (soprattutto Il Cieco e la Bellona, Fannias Ventosca) lo aveva chio; m’accorgo che le mie preoccupazioni sono quelle dell’immediato dopo guerra; non arrivo a capir bene certi problemi importantissimi per voialtri che avete vent’anni, perché ho passato il “corno” della trentina. Ma ho abbastanza fiuto per capire che è mutata l’aria (mi accorgo come sia invecchiato un Soffici per esempio), e capisco che “Il Frontespizio” ha bisogno di voialtri per campare anche un altr’anno solo. Dunque sotto, guardate di rivoltare un po’ di terra. Io vi cedo anche la direzione se la volete, purché lavoriate d’impegno» (Bedeschi 1989, pp. 156-57). 1 Il freddo di quella primavera fu anche meteorologico, come Bargellini scrisse anche all’eterno Bo in una lettera del 5 aprile: «Qui [a Firenze] fa ancora freddo e tira una tramontana quasi invernale» (Bedeschi 1989, p. 274). 2 I pezzi giornalistici erano spesso scritti sotto pseudonimo, benché negli ambienti culturali fosse nota la vera identità degli autori. 3 Gustosi ritratti di poche righe che sottolineavano per antifrasi i difetti dei bersagliati. Dei presenti nella Ghirlanda ricorderò i ritratti di Primo Conti, Antonio Berti, Bruno Cicognani, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Alfonso Gatto, Ettore Allodoli, Oreste Macrì, Eugenio Montale, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini. 4 Nevola 1987. Sul «Calendario» si veda anche la testimonianza di Carlo Bo: «una rivista che è uscita, se non sbaglio, per un anno, che era illustrata dalle xilografie di Pietro Parigi e che era stata la prima rivista strapaesana molto prima della rivista di Maccari “Il Selvaggio” (Bo, Tabanelli 1986, p. 17). Il «Calendario» (illustrato da Pietro Parigi) s’era in origine caratterizzato per essere «una rivista tutta impregnata del senso dei valori tradizionali, del richiamo alla campagna e alla religiosità contadina, una specie di almanacco in cui l’antica sapienza popolare si univa ad una garbata presentazione letteraria»; si veda Penco 1988, p. 314. Trasmigrando ne «Il Frontespizio», il «Calendario» s’era mutato in una pungente e divertita galleria del mondo culturale fiorentino. 5 «Argomenti», 3-8, 1941. Tutti i collaboratori della rivista scrivevano sotto pseudonimo, ma Loria vi era costretto anche dalle leggi razziali; si veda Manacorda 1980, p. 198.

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sì salutato come «one of the most promising of the young writers», ma non aveva esitato ad indicarne i limiti d’ispirazione e di mestiere insieme («uneven style … questionable characters»).1 Dello sventurato e mai attuato progetto delle Memorie inutili il brano della Ghirlanda resta preziosa testimonianza;2 e costituisce documento privilegiato d’una fase redazionale precedente la stampa su «Argomenti». La schiera di ‘frontespiziani’ prosegue con un personaggio che era giunto a Firenze solo da pochi mesi, Alfonso Gatto; e la sua esperienza fiorentina sarà determinante bensì per la sua carriera di poeta, ma inciderà in maniera decisiva proprio sul destino de «Il Frontespizio». Gatto fonderà infatti, insieme a Vasco Pratolini, il già ricordato quindicinale edito da Vallecchi, «Campo di Marte», il cui primo numero uscirà il 1º agosto 1938, a pochi mesi dall’allestimento della Ghirlanda. All’altezza della Ghirlanda (e dell’arrivo a Firenze), Gatto aveva all’attivo un paio di raccolte di liriche: Isola, del 1932, con poesie composte tra il 1929 e il 1932, e Morto ai paesi (1937), con liriche composte fra il 1933 e il 1937. Sul libretto di Purves, il 10 di aprile, Gatto trascrisse una lirica tratta dalla raccolta La memoria felice, che accoglie poesie scritte tra il 1937 e il 1938: Dopo, datata proprio 1938.3 La lirica, per quanto composta e pubblicata durante i tempestosi dibattiti sull’ermetismo, è però ispirata ad un ermetismo che si direbbe attenuato, tipico delle liriche della raccolta cui appartiene. Di seguito, ancora l’11 aprile, si trova colui che di Bargellini era, insieme a Bo, il braccio destro, Nicola Lisi. Lisi offre un brano allora inedito cui dà il titolo di Primavera. Il frammento verrà pubblicato quasi un decennio dopo, in una nuova e ampliata versione, in Amore e desolazione,4 che nelle intenzioni dell’autore, e nella ricezione della critica,5 doveva rappresentare il diario vergato a Firenze dall’autore tra il 10 gennaio e il 31 luglio 1944: nella nuova collocazione, il brano in origine scritto sul taccuino di Purves quell’11 aprile del ’38 apparirà in corrispondenza del 3 febbraio 1944.6 Nel 1938 Mario Luzi (c. 19r), allora ventiquattrenne, poteva vantare una prima raccolta di liriche (La barca, del 1935) che aveva ricevuto buona accoglienza nel circolo culturale fiorentino di orientamento ermetico e lo aveva di fatto reso membro di quello stesso circolo a tutti gli effetti. Al Purves offre la lirica Bacca, appunto datata 1938, e pienamente fiorentina nel richiamo all’Arno al verso 12 (che però non viene copiato); la lirica confluirà nel 1940 nella raccolta Avvento notturno. Alla c. 13r, di seguito a Roberto Papi, s’incontra, come più su ricordato, Carlo Emilio Gadda. Del soggiorno fiorentino dell’aprile del ’38, per quanto non della particolare occasione, Gadda riferirà a Contini in questi termini, in una lettera del 18 giugno 1938: «la brusca interruzione della troppo bella vita fiorentina mi ha procurato, fra l’altro, uno choc nervoso non ancora vinto. D’altronde, per uno strano miracolo, ho lavorato molto più qui in condizioni di disagio busto arsizio [sic], che a Firenze in cortesia».7 Alla richiesta del Purves di partecipare al1 Norman 1935. 2 Davide Cancellieri (Cancellieri 2002) ha tentato una ricostruzione delle vicende compositive delle Memorie attraverso un esame delle carte Loria conservate nell’Archivio Bonsanti del Gabinetto Vieusseux; non pare, tuttavia, che tra i documenti esaminati dallo studioso figuri la versione del brano incipitario trascritta nel libretto. 3 La raccolta, accanto alle due precedenti, andrà a confluire nel volume Poesie che Vallecchi pubblicherà l’anno dopo, nel 1939. 4 Lisi 1946. 5 Si veda ad esempio Falqui 1950, p. 390: «Quanti scrittori, se avessero tenuto un diario fiorentino nei primi sei mesi del ’44 e lo avessero dato alle stampe, ci avrebbero fornito un’opera lontanamente simile a quella di Nicola Lisi (Vallecchi, Firenze, 1947 [sic]), recante per emblema, non perfettamente bilanciato, Amore e desolazione?». Sull’autobiografismo come genere letterario schietto si veda Tassi 2005. 6 Lisi 1946, p. 42. 7 Gadda 1988, lettera 16, p. 26.

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la Ghirlanda, Gadda rispose trascrivendo – un po’ sorprendentemente, almeno a prima vista – un brano di una delle sue opere forse più belle ma meno conosciute, Il Castello di Udine: Camminavo e camminavo, la notte stellata era la immagine d’una convergenza strana, come una cascata di esseri momentanei, fiori effimeri, verso mondi di momenti futuri, pallidi esseri, trovata provvisoria dell’eternità. Ognuno era un punto luminoso nella oscurità della notte e soltanto sarà stato una luce se avrà serbato per sé onore e dovere: se questo non avrà serbato, vana era la sua opera e la millenaria malizia, il suo mangiare, prima ancora che lo riavesse la tenebra, era come il mangiare dei vermi dentro la morte.1

Quando però si rammenti che i primi anticipi della Cognizione del dolore, cui Gadda lavorava in quel periodo alacremente, non sarebbero usciti su «Letteratura» se non nel luglio-ottobre del 1938, e che l’unica opera cui Gadda avrebbe potuto attingere era forse, oltre al Castello, La madonna dei filosofi, la scelta forse non sorprende più di tanto. Tanto più che del Castello Purves possedeva una copia, firmata da Gadda con dedica il 7 aprile del ’38.2 Tuttavia, sulla scelta di quel brano in particolare sarà necessario aggiungere qualche parola in più. Il Castello venne annotato dallo stesso Gadda, nelle spoglie letterarie del suo alter ego Feo Averroìs;3 e il brano poi trascelto per la Ghirlanda è nell’originale accompagnato dalla seguente glossa: Questo capoverso dimanderebbe troppo lungo comento. Gli umani, nella brevità storica della loro vita, sono il sostegno effimero del divenire: (verso mondi di momenti futuri). E si allude in particolare ai soldati morti e morenti; il NS. pensa angosciato che “stanno morendo”, che qualcuno certo è in atto di cadere, sulla Piave o sul Grappa, o dovunque nei campi di battaglia. Ritorna poi il motivo del sacrificio cosciente, della furberia (vedi “Elogio”) e della tradizione millenaria.

Le parole di Averroìs sembrano indirizzare la lettura in maniera notevole; e se Gadda si risolse a far cadere la scelta su questo brano del suo atipico diario bellico, irredimibile per invenzione e stile al genere cui dovrebbe appartenere,4 ciò potrebbe forse risultare di qualche aiuto a chi in questi anni ha cercato di ricostruire della personalità di Gadda proprio quegli aspetti più controversi che riguardarono i suoi rapporti con il fascismo, in ispecie con quel fascismo che, a partire dalle campagne d’Africa e di Spagna, aveva preso a segnare il destino della nazione col sangue.5 Ma al di là d’una congettura che chiama in causa posizioni che allo storico non è dato provare (se non in presenza di precise testimonianze dell’autore), varrà indicare una ipotesi alternativa che attiene a questioni strettamente letterarie: anzi, a quelle alchimie letterarie che vedevano protagonisti, accanto agli autori e spesso sul medesimo piano, i critici di grido, i quali pote1 Gadda 1934 (ora in Isella 1989; il brano trascritto nella Ghirlanda a p. 173). 2 Gadda 1934; la rilegatura voluta dalla biblioteca nel momento dell’accesso ha tagliato parte della dedica: «All’Illustre|John Purves|in deferente omagg[io]|Carlo E. Gadda|Firenze, 7 aprile 193[8]» (nls, NE.845.f.5). 3 «Gli editori di Solaria mi hanno commesso d’annotare gli scritti del Gadda (C.E.) raccolti nel presente volume al titolo Il castello di Udine […] Mi fa prossimo al Gadda (C.E.) un’antica dimestichezza: così la mia traduzione sarà da poter essere considerata autorevole e valida, quanto consente, almeno, l’ambiguo de’ di lui modi e processi» (Isella 1989, p. 115). 4 Sulle prose di guerra e di prigionia di Gadda si veda il bel saggio di Gorni 1995. 5 Sul fascismo di Gadda si vedano Hainsworth 1997 e Dombroski 2002; una più equilibrata analisi del ‘fascismo’ di Gadda, inserito nel contesto storico-culturale che gli è proprio, si trova in Stellardi 2003. Si veda anche Gadda 2005.

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vano decretare in maniera tangibile, in grazia di candidature ai premi in cui erano magna pars o inserimenti in antologie di cui erano compilatori (o attraverso l’esclusione da essi), il successo o l’insuccesso degli scrittori.1 Negli anni ’30, Gadda era stato oggetto a più riprese delle attenzioni d’uno dei più influenti critici del tempo, Alfredo Gargiulo. Gargiulo aveva recensito severamente gli scritti di Gadda, in ispecie la Madonna dei filosofi, condannandone la scrittura caotica e l’impianto «slegato»;2 ma aveva espresso per converso giudizio positivo sul Castello di Udine.3 Nella sua recensione, apparsa su «Nuova Antologia», egli cita, a gloria dell’«artista che nel Gadda si [era] venuto maturando attraverso, singolarmente, [quegli] articoli di guerra», proprio il brano che lo scrittore trascrisse sulla Ghirlanda, da Gargiulo trascelto, con pochi altri, come esempio d’una prosa che aveva sviluppato «potente facoltà di resa della realtà esteriore».4 Gadda potrebbe aver allora semplicemente ceduto alla vanità, copiando per Purves, da quel libro fortunato, il brano, tra lirismo e realismo, che aveva ricevuto tanto aperto e benevolo favore. Alla c. 23r del taccuino Ottone Rosai, interpellato per un contributo, vi disegnò quattro figure (tre di spalle e uno di fronte) giustificandosi con la didascalia: «Non so scrivere, so dipingere». Il soggetto del disegno sembra essere molto vicino ad un quadro dell’artista posseduto da Nicola Lisi e che campeggiava nell’agosto del 1937 nello studio dello scrittore: «Lo studio [di Nicola Lisi] …era sobriamente adorno di libri e di quadri. Tra questi, un Ottone Rosai con tre figure intabarrate».5 Il Rosai era allora un’artista affermato; come rivista culturale a tutto tondo, «Il Frontespizio» veniva illustrato dagli artisti più in auge del momento, con litografie e disegni originali ed un inserto centrale che riproduceva le loro opere più importanti. La serie degli omaggi agli artisti venne aperta da Ardengo Soffici (si tende anzi a considerare Soffici il vero promotore d’una prassi che venne poi consolidandosi nelle riviste fiorentine del periodo);6 a Rosai venne riservato il numero di aprile del 1937, con la riproduzione di 8 quadri e 17 disegni. Ma contrariamente a quanto scrisse nella dedica a Purves, Rosai era letterato a tutti gli effetti: collaboratore, oltre che de «Il Frontespizio» (nel numero appena ricordato era stata pubblicata una sua autobiografia), de «Lacerba» e del «Selvaggio», Rosai aveva al suo attivo, al momento della Ghirlanda, due libri di ricordi di guerra (Il libro di un teppista, 1930; e Dentro la guerra, 1934)7 e una raccolta di prose brevi e ‘fiorentine’, Via Toscanella.8 1 Si vedano ad esempio le lettere che Montale indirizzò all’inizio degli anni ’30 a Gianfranco Contini e Sandro Penna per avere notizie della composizione di antologie in fieri: Montale, Penna 1995, p. vi; Montale, Contini 1997, p. 9. 2 «Consideriamo nel libro il caso estremo: quale interesse sintetico animò il Gadda, nello scrivere La Madonna dei Filosofi? Nessuno; e il racconto risulta infatti svagato e slegato in una misura appena verosimile»: Gargiulo 1931. 3 Gargiulo 1935: «Il “premio Bagutta” conferito al Castello di Udine sancisce un giudizio già abbastanza diffuso: uscito or è un anno, il libro venne subito considerato, dai critici più sottili, come la rivelazione di uno scrittore autentico. Dell’altro volume pubblicato dal Gadda, La Madonna dei Filosofi, si può dir solo che disorientava: alcuni punti erano decisamente belli per la profondità del motivo e una singolare icasticità; ma quasi tutto il resto si presentava sotto la specie di una ironia oziosa o scherzo a vuoto, così da parere, nel complesso, un cincischiato e molto letterario esercizio di penna. Fra l’una cosa e l’altra, nessuna visibile connessione». 4 Gargiulo 1935, p. 151. 5 Petronilli 1971, p. 15. 6 Si veda sull’argomento Guevara Mellado 2005, pp. 239-46, che però non si occupa del caso de «Il Frontespizio». 7 Rosai 1930b; Rosai 1934; ristampati, in unico accorpamento, in Nicoletti 1993. 8 Rosai 1930a.

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Ancora al gruppo della rivista bargelliniana appartiene l’esperto di germanistica de «Il Frontespizio», Rodolfo Paoli, attivissimo collaboratore ed autore negli anni precedenti di brillanti articoli su Hermann Hesse, Franz Kaf ka, Frank Wedekind. Il Paoli copiò per Purves (c. 20r) parte d’una sua lirica pubblicata qualche mese prima in rivista, con qualche variante, e vi aggiunse una citazione da Schiller (Hoffnung, v. 16). La lirica tutta era celeberrima perché musicata da Schubert; ma al Paoli doveva risultare ancora più familiare per via della conoscenza che egli poteva vantare delle grammatiche di lingua tedesca, che a Schiller e a quel particolare verso tradizionalmente attingevano.1 La firma di Piero Bigongiari (c. 21r) raccorda il Paoli con l’ultimo dei ‘frontespiziani’, Luigi Fallacara, il più ‘francescano’ dei sodali del Bargellini.2 Colomba, la poesia di cui Fallacara copiò la prima parte nel taccuino di Purves (c. 23r), verrà pubblicata nel settembre di quell’anno su «Il Frontespizio»: si trattava dunque, in linea con una generosità che tutti gli riconoscevano, d’una ‘primizia’ offerta al nuovo amico. Fallacara fu forse il più affezionato (se non il più appassionato) sostenitore di quella rivista, al punto da approntarne, nel 1961, un’antologia che non si esita a definire commossa,3 nella quale raccolse anche quella lirica che aveva donato autografa al Purves.4 4. A Firenze Purves deve aver imbastito o rinnovato rapporti più o meno profondi, più o meno cordiali,5 con l’élite letteraria di quell’epoca, in specie con quegli studiosi che s’erano mostrati aperti ad una cultura europea, o che s’erano occupati in modi vari delle Isole britanniche. L’anglistica, d’altronde, era in Italia disciplina assai giovane,6 per quanto preesistente la formale istituzione della prima cattedra accademica nel 1918: si pensi ai lavori dell’Allodoli, già ricordati, che risalgono ai primi anni del secolo. I personaggi che si trovano nella Ghirlanda sono in modi diversi legati, negli interessi loro di studiosi, al mondo anglosassone: oltre a coloro di cui già s’è detto nelle pagine precedenti (Allodoli, Giordano Orsini, Limentani, Croce), varrà ricordare gli studi del Mazzoni sulla poetessa F. D. Hemans (1793-1835) e sui suoi rapporti con l’Italia (era nipote del console veneziano);7 e insieme gli interessi di letteratura inglese del Cicognani, cresciuti verosimilmente all’ombra di quelli dello zio materno Enrico Nencioni.8 «Il Frontespizio», inoltre, si caratterizzava in maniera decisa per essersi aperta ad una dimensione internazionale della cultura e dell’arte: i suoi collaboratori si di-

1 Il verso citato dal Paoli, Zu etwas Besserem sind wir geboren (la versione corretta chiede was al posto di etwas), ricorre infatti in numerosi testi tedeschi di grammatica e stilistica a cavallo tra Otto e Novecento, ad esempio lo Sprachgebrauch und Sprachrichtigkeit im Deutschen di Karl Gustaf Andresen (1880) o il Deutscher Sprachhort: Ein Stil-wörterbuch di Albert Heintze (1900); ma lo si poteva trovare ancora nei manuali degli anni ’60 (Handbuch der Deutschen Sprache di Jan van Dam, 1961). 2 Manacorda 1980, p. 281. 3 Fallacara 1961, p. 502. 4 Colomba venne antologizzata anche da Giacinto Spagnoletti (Spagnoletti 1946, p. 667). 5 In generale, l’impressione che si ricava anche dalle lettere a lui indirizzate è che Purves fosse assai stimato presso la comunità culturale internazionale. 6 Si veda, per la storia delle cattedre di anglistica, una ricostruzione in Cattaneo 2005, che tende però a situare l’affermarsi della disciplina solo dopo l’ufficiale istituzione delle cattedre universitarie. 7 Mazzoni 1932. 8 «Ha studiato i classici, ha cercato aria ai polmoni nella grande letteratura italiana e nella letteratura poetica rivelatagli in gioventù dalla nascente curiosità delle letterature straniere, specie per l’inglese, conosciute attraverso le recensioni e i commenti dello zio Nencioni» (Rebora 1969, p. 280). Dello zio Cicognani avrebbe edito le pagine critiche nel 1943 (Nencioni 1943).

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stinguevano proprio per questi interessi non strettamente nazionali, e rivolti in gran parte alla Francia, ma non solo.1 Per quanto il comune denominatore degli interessi anglosassoni possa in qualche modo unire con sottile filo la compagine della Ghirlanda, colpisce tuttavia un certo ‘ecumenismo’ del taccuino, che accoglie, uno accanto all’altro, personaggi che per ideologia politica (e spesso letteraria) si trovavano su posizioni divergenti quando non inconciliabili. La data è tuttavia dirimente: per quanto lontani e in qualche caso l’uno all’altro ostili fossero alcuni degli autori, la primavera del ’38 non aveva ancora visto l’inasprimento, sociale e culturale insieme, che si sarebbe avuto a partire dagli ultimi mesi di quell’anno per causa delle leggi razziali e, in seguito, per lo scoppio della guerra. È ben vero che in alcuni casi l’ostilità s’era fatta già in precedenza patente: gioverà forse ricordare, e fermarsi a quest’unico esempio perché l’elenco sarebbe lungo, che Guido Mazzoni era stato oggetto, anni prima, d’una feroce (e, nel miglior spirito papiniano, becera)2 ‘stroncatura’ da parte di Giovanni Papini.3 Ma anche laddove la civile convivenza di divergenti posizioni pareva essere elemento portante, come è il caso appunto della rivista cattolica «Il Frontespizio», tale armonia stentava a manifestarsi con la medesima limpidezza negli scritti privati. Bargellini stesso, in veste di direttore, riservava ai suoi collaboratori giudizi taglienti: «mettiti subito alla lettera su AlainFournier», scriveva a Bo nel ’32, «ma ricordati che Lisi [che avrebbe dovuto approvare l’articolo] è un ignorante; […] circostanzia quanto più puoi l’articolo; non sottintendere troppo».4 E anche tra collaboratori e collaboratori le perplessità non mancavano. Sempre Bargellini, in una lettera di fine ottobre ’38, avvertiva Bo: «Ho ricevuto le tue pagine su Luzi [mai pubblicate su “Il Frontespizio”]. Sono un bel rebus! Stai attento, caro Bo, che diventi la caricatura di te stesso! O hai fatto per non comprometterti con un poeta che stimi poco?».5 Questi contrasti, d’altronde, ammesso anche che Purves ne fosse a conoscenza, non potevano che interessarlo marginalmente; il suo atteggiamento è da assimilarsi a quello di un corrispondente estero che riferisce sulla realtà del paese in cui si trova descrivendola quale essa gli si presenta dinanzi, senza prendere posizione. E, d’altra parte, il taccuino pare proprio potersi definire una sorta di galleria fotografica ove si trovano, all’interno dell’inquadratura corale, le singole inquadrature parziali dei sodali più stretti: si pensi al trittico, già ricordato, Papini-Allodoli-Soffici (cc 5r-7r); ai binomi Macrì-Limentani, Limentani-Giordano Orsini, RussoCroce (cc. 47v-48v); ai polittici dei ‘frontespiziani’ (cc. 11r-21r) e degli ‘artisti’ (cc. 23r-28r). Non va però ignorato che nella biografia di Purves v’è un tratto che potreb1 Circostanza ricordata a più riprese con orgoglio da tutti i collaboratori; si veda una rassegna di testimonianze in tal senso in Bo, Tabanelli 1986. Ridimensiona questo aspetto Manacorda 1980, p. 266. 2 Il becerismo era, come è noto, da Papini ricercato come propria cifra stilistica; si veda Manacorda 1980, p. 47. 3 Papini 1932 (la ‘stroncatura’ di Mazzoni, che risaliva al 1913, alle pp. 145-84). Papini s’era invece espresso assai favorevolmente, ad esempio, su Bruno Cicognani (1920) e Aldo Palazzeschi (1914), per restare ai protagonisti della Ghirlanda); si veda Papini 1941, pp. 313-24 e 385-95 rispettivamente (lo studio su Palazzeschi è in francese). È da notare, tuttavia, che numerose testimonianze convergono a sottolineare come la veemenza che Papini mostrava in ambito culturale non s’esercitava con le medesime modalità nei rapporti umani, spesso anzi improntati a sincero e commosso affetto. Basterà qui rammentare il toccante ricordo di Eugenio Montale alla sua morte sul «Corriere d’infomazione» del 9-10 luglio 1956 (Papini. Un italiano antico nel mondo moderno), recentemente riportato alla luce da Attucci, Corsetti 2006. E sarà anche da rammentare che lo stesso ‘stroncato’ Mazzoni sarà chiamato anni dopo, e verosimilmente proprio da Papini, a far parte del comitato scientifico della rivista papiniana «La Rinascita». 4 Bedeschi 1989, p.156. 5 Bedeschi 1989, p. 276.

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be aprire scenari aggiuntivi: durante la prima guerra mondiale, di stanza in Sudafrica, Purves risultava essere alle dipendenze del Ministry of Information del Regno Unito, e in carica nel South African Propaganda Department.1 Non è qui possibile asserire con certezza se durante il soggiorno fiorentino del ’38 Purves fosse ancora in forza a qualche dipartimento di intelligence; né può affermarsi che per coloro che ne avevano fatto parte vigesse la regola semel in propaganda, semper in propaganda. Ma è certo che la presenza di Bottrall, che in seguito farà parte proprio d’un istituto di propaganda (il British Council) ed era allora di dichiarate antipatie fasciste, non sembra a questo punto accidentale; anche perché dalla generale corrispondenza di Purves s’evince un atteggiamento suo senz’altro preoccupato della situazione politica italiana e internazionale.2 È questo, dunque, un aspetto che, accanto all’indiscutibile passione letteraria che di certo spinse Purves nella sua avventura fiorentina, aiuta forse meglio a comprendere l’eterogeneità dei personaggi da lui incontrati: incontri che avvennero a ridosso – non sarà superfluo rammentarlo – della visita di Hitler a Firenze (8 maggio), di quella che sarà la ‘primavera hitleriana’ di Montale. Dei luoghi in cui Purves poteva incontrare i protagonisti della sua Ghirlanda s’è già in parte detto: le stanze del Gabinetto Vieusseux, la casa di Soffici; e forse anche l’Istituto Britannico, la redazione de «Il Frontespizio», le salette delle «Giubbe Rosse»; forse, ancora, l’«Antico Fattore». La guerra deve aver reso i viaggi di Purves meno agevoli, se non impossibili («ritrovandomi ancora a Firenze, e forse per l’ultima volta», aveva scritto a Palazzeschi), e le ultime pagine del suo libretto rimarranno bianche. Ma, proprio durante la guerra, Purves riprese il suo progetto, e con ambizioni maggiori: è degli anni Quaranta un secondo taccuino che vede di nuovo la presenza di alcuni degli autori presenti nella prima raccolta, più altri (Quasimodo, Moravia) che nel primo non erano presenti. Con la novità che la raccolta si apre ormai all’intera Europa,3 e l’elenco dei presenti è davvero degno di nota. Tra essi spicca il poeta irlandese Dylan Thomas, non solo per la qualità dei suoi interventi, ma anche perché si rese colpevole dello smarrimento del libretto avuto in prestito da Purves, al fine di trascrivervi le sue cose con più agio. Da un concitato carteggio con la segretaria della fondazione londinese Apollo (di cui Thomas era membro) e con lo stesso Thomas, tuttora inedito nel fondo Purves, si evince il carattere angoscioso che aveva assunto, per il ‘colpevole’ e per la ‘vittima’, lo smarrimento della raccolta, poi miracolosamente rinvenuta.4 Il nuovo taccuino si configura, almeno per gli interventi italiani che nelle indicazioni di luogo accanto alla data sono tutti riconducibili a Edimburgo, come una sorta di guest

1 Informazioni fornite dal figlio Rev. Hugh Purves in occasione d’una mostra in onore di John Purves organizzata dalla National Library of Scotland nel 1977. 2 Purves scambiò angosciati pensieri con Norman D. MacDonald anche sui massacri di Maiorca durante la guerra civile di Spagna, come risulta da alcune lettere riemerse da un libro del Bertoni (Bertoni 1925) appartenuto a Purves ed ora conservato alla National Library of Scotland: nls, NE.844.c.5(6). 3 I personaggi che partecipano al libretto appartengono pressoché a tutte le nazionalità europee: dai Greci ai Polacchi ai Francesi. Si sarà trattato di rifugiati, che Purves aveva agio di incontrare. 4 nls, Acc. 7175/1, lettera inedita di Dylan Thomas a John Purves (23 settembre 1948): «Dear Mr. Purves, Enclosed, at last, your book. You have every reason to cherish it; it’s a most remarkable collection; and I can imagine how you must have felt when you thought that a nasty man, me, had lost it. I can’t tell you how upset I was to realise how much I had upset you by my irresponsible carelessness; and I can only hope that the recovery of the book, all safe & sound, will perhaps help you, if only a little way, towards – one day – forgiving me. […] I was very glad to be asked to write a poem in your book, among such distinguished company. I offer more apology. Yours sincerely, Dylan Thomas».

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book (‘libro degli ospiti’), da connettersi grosso modo alla sentita tradizione anglosassone che, oggi come allora, impone a chi è in visita di lasciare nome, data e un pensiero di ricordo: il cui giogo nessun visitatore del Regno Unito ha mai potuto eludere. La Ghirlanda, invece, non può considerarsi schietto ‘libro degli ospiti’, né mero affine agli album di autografi propiziati dai mezzi di comunicazione di massa. Il suo antecedente culturale può forse rinvenirsi nei Libri amicorum (Stammbücher), taccuini che già dal Cinquecento gli studenti provenienti soprattutto dalla Germania portavano con sé al fine di raccogliere motti, dediche, citazioni scritti da maestri e compagni di studio;1 durante il Seicento, la pratica del codice di brani autografi si estese a tutto il Nord Europa, come attesta la sopravvivenza di numerosi esemplari in biblioteche pubbliche e private.2 Vero è che, fra Otto e Novecento, e proprio nelle Isole britanniche, i Libri amicorum avevano assunto il carattere un po’ lezioso di un’abitudine per signorine di buona famiglia; ma non è da escludersi che Purves si rifacesse alla vera sostanza di quei libri, come si venne conservando appunto nei Paesi del Nord Europa, in specie Germania e Olanda; Paese, quest’ultimo, con cui egli venne verosimilmente in contatto fecondo, per quanto indiretto, quando iniziò la sua carriera accademica all’Università di Pretoria, in un Sudafrica già sotto il dominio dell’Impero britannico ma olandese per secolare storia e per cultura.3 Di quella che per Purves era divenuta quasi una fissazione, reca bella testimonianza una lettera eccezionalmente autografa4 che gli indirizzò Umberto Saba5 il 10 agosto 1947, inedita e riprodotta per intero in Appendice ii. Dopo aver parlato brevemente e con una punta di amarezza di Scorciatoie, evocato da Purves nel primo invio non conservato («sono contento che le siano piaciute Scorciatoie»), un Saba insolitamente allegro chiede notizie sulle abitudini in fatto di biancheria intima d’una certa guarnigione scozzese (in tradizionale kilt) di stanza a Trieste durante la guerra. Poi, respingendo cortesemente la richiesta di una poesia autografa o di una sua trascrizione autografa, afferma:

1 Brizzi 1998; i libri amicorum raccoglievano molto materiale (disegni o miniature che illustravano episodi di vita studentesca; stemmi familiari, ecc.) di molto valore ai fini della ricostruzione dell’ambiente cultuale degli studenti, nonché dei loro stili di vita. 2 Si veda la ricchissima collezione del fondo Waller della Biblioteca Universitaria di Uppsala (Carolina Rediviva). Un esempio assai interessante è l’album appartenuto a Daniel Stolz von Stolzenberg, poeta ed alchimista boemo vissuto a Kronstadt nella prima metà del xvii secolo, con oltre 100 incisioni in rame tratte dall’opera di Stolz intitolata Chymisches Lustgärtlein (Francoforte, 1624) e ca. 200 autografi di studiosi raccolti da Stolz durante i suoi viaggi per l’Europa tra il 1622 e il 1627 (tra gli altri l’alchimista inglese Robert Fludd, il cartografo olandese Willem Blaeu, il naturalista svizzero Caspar Bahuin, l’inventore del termometro Santorio Santorio e il filosofo francese Etienne de Calve). In altri album del fondo Waller si trovano autografi di Newton, Wallis, Bentley, Scheuchzer, Kircher, Linneo, Celsius, ecc. La Koninklijke Bibliotheek, che dispone della maggiore collezione pubblica in Olanda di alba amicorum, ne conserva ca. 470, alcuni incompleti, che datano dal 1556. 3 Dovrà aggiungersi che oggi il termine liber amicorum è, nei Paesi fiamminghi, sinonimo di Festschrift, ovvero ‘miscellanea di studi in onore di’. Ed è da rammentarsi, a riprova di come in questa accezione Liber amicorum e Ghirlanda siamo termini affini, che la miscellanea allestita per l’anglista Mario Praz s’intitola A Friendship’s Garland (Praz 1966). 4 Le lettere di Saba sono dattiloscritte, anche qualora inviasse sue poesie: si vedano ad esempio le missive a Montale pubblicate da Maria Antonietta Grignani (Saba, Montale 1984). 5 Verisimilmente contattato già all’altezza di A First Book, che accoglie di Saba Fuga a due voci: da Saba 1928, che Purves possedeva e che forse intendeva tradurre, visto che nel libro si trova una prova di traduzione di sua mano; nls, NE.844.b.1(6).

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Non ho nessun autografo di nessuna mia poesia. Le poesie le batto sempre a macchina. Copiarne una a freddo sarebbe come falsificare una banconota. Così (benché non sappia più quasi scrivere) le ho scritta la presente a penna, colla mia calligrafia di vecchio. Molto però affettuosamente Auguri e cari saluti. Umberto Saba

Appendice i TAVOLA 1r: [a inchiostro sopra prima scrittura a lapis, su rigatura a lapis]: UNA GHIRLANDA FIORENTINA|1938 1v: bianca 2r: Paesaggi|Sole 2v-3r: Rio Bo|Mezzogiorno|Aldo Palazzeschi|Firenze, Febbraio 1938 3v: bianca 4r: Corrispondenze [Le occasioni]|Eugenio Montale / - / Firenze 18 febbraio 1938 4v: bianca 5r: [Felicità irrimediabile, vv. 1-8]|Giovanni Papini 5v: bianca 6r: Nella sala dei Capitani di parte guelfa, fra una madonna di Ghiberti e un portale di Donatello, il “Domatore di Pulci” saluta cordialmente il prof. Purves, ottimo conoscitore della nostra lingua e letteratura.|Ettore Allodoli 6v: bianca 7r: Finestre aperte [A. Soffici, Taccuino di Arno Borghi, Firenze, Vallecchi, 1933, p. 49; poi in A.S., Marsia e Apollo. Poesie, Firenze, Vallecchi, 1938, p. 124]|Ardengo Soffici|Per ricordare al Sig. Purves un bel pomeriggio primaverile in casa mia, parlando di cose belle e grandi.|Poggio a Caiano, 16 marzo ’38 7v: bianca 8r: Antitheses [The Collected Poems of Ronald Bottrall, London, Sidgwick and Jackson, 1961, p. 3; completa]|Ronald Bottrall|Florence, /I/iv/38 8v: bianca 9r-v: Il battiloro -|Giovanna Tecchi [autrice non identificata] 10r-v: Da|= Bellinda e il mostro =|sesto episodio - scena ultima|Bruno Cicognani||Wherever she looked, amidst all this, was the white flower of the pear, the Silver grey of olives. All was new & fresh and strong with the force of growing life; even the air was alive and singing.|Yoi Maraini 11r: [brano non identificato]|O Seigneur invisible qui tosses|…|…|Pour notre hàlage nocturne|Tommaso Landolfi 11v: bianca 12r: Alla madre|Roberto Papi 12v: bianca 13r: [Il castello di Udine, Edizioni di Solaria, 1934; ora in Romanzi e Racconti I, a c. di Dante Isella, Milano, Garzanti, 1989, p. 173]|Camminavo e camminavo, la notte stellata era la immagine d’una convergenza strana, come una cascata di esseri momentanei, fiori effimeri, verso mondi di momenti futuri, pallidi esseri, trovata provvisoria dell’eternità. Ognuno era un punto luminoso nella oscurità della notte e soltanto sarà stato una luce se avrà serbato per sé onore e dovere: se questo non avrà serbato, vana era la sua opera e la millenaria malizia, il suo mangiare, prima ancora che lo riavesse la tenebra, era come il mangiare dei vermi dentro la morte.|Carlo Emilio Gadda|Firenze 1938

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13v: bianca 14r-v: [brano incipitario de Le memorie inutili, «Argomenti», 1941 (fascc. 3-8)]|Arturo Loria|Dalle “Memorie Inutili‹”› 15r: Dopo [1938; sezione La memoria felice (1937-1939), in Alfonso Gatto, Poesie, Firenze, Vallecchi, 1939; ora in A.G., Tutte le poesie, a c. di Silvio Ramat, Milano, Mondadori, 2005, p. 82]|Alfonso Gatto|Firenze 10 aprile ’38 15v: bianca 16r: Filastrocca [Calendario per quest’anno e per gli altri che verranno, in «Almanacco dei visacci», ii, 2 (1938), vv. 1-15]|Guelfo Civinini 16v: bianca 17r: Ricordo di una primavera sfiorita al vento invernale.|Piero Bargellini|11 aprile 1938 xvi 17v: bianca 18r: Primavera|Nicola Lisi|Firenze, 11 aprile 1938. / xvi 18v: bianca 19r: Bacca [Mario Luzi, Tutte le poesie, 1 (Il gusto della vita), Milano, Garzanti, 1960, pp. 54-55, vv. 21-31]|Mario Luzi,|Firenze, 11 Aprile ’38 19v: bianca 20r: [Alla notte, in «Il Frontespizio», marzo 1936, p. 17, vv. 10-14]|Molta fatica e amore; ma poche|Opere ancora: una sola speranza:|“Zu etwas Besserem sind wir geboren.”|Rodolfo Paoli 20v: bianca 21r: [solo firma]|Piero Bigongiari 21v: bianca 22r: Colomba [«Il Frontespizio», settembre 1938]|Luigi Fallacara 22v: bianca 23r: Non so scrivere, so dipingere:|[disegno a penna di quattro figure maschili, tre di spalle e uno di fronte. Quello di fronte e il terzo a destra con cappello]|Ottone Rosai|xvi 23v: bianca 24r: L’arte e tormento -|il tormento è la|nostra vita –|Marco Rivalta|Firenze il 11 Aprile 1938| xvi 24v: bianca 25r: Primo Conti|La tradizione è l’unico modo legittimo di affermare noi stessi nell’avvenire.|Firenze, 7 Aprile|1938 xvi. 25v: bianca 26r: Antonio Berti|con amicizia|“Di vizi vivo e di virtù, do lode|Alla ragione, ma corso come al cor piace:|Morte sol mi darà fama e riposo”|(Foscolo) [Solcata ho fronte, vv. 12-14]|8 Aprile 1938 xvi 26v: bianca 27r: [dedica firmata; illeggibile] 27v: bianca 28r: Non “ritorni”: ma andare verso il futuro tenendo di vista il passato.|Gianni Vagnetti 28v-47r: bianche 47v: [rovesciata, solo firma e data]|Luigi Russo|Firenze 8 aprile 1938 48r: bianca 48v: [rovesciata, solo firma e data]|Benedetto Croce|Firenze 9 aprile 1938 49r-63r: bianche 63v: all’illustre collega|John Purves,|“di quella nobil patria natio” con la quale io credo l’Italia abbia tutte le ragioni per andare pienamente e sempre d’accordo, auguri dal suo|Guido Mazzoni|Firenze|22|febbr. 1938. 64r-66v: bianche 67r: regnum caeli [sic] vim patitur.|Matteo [11.12]||Natura di cose è nascimento delle medesime|Vico [Principi di scienza nuova, I xiv]|Oreste Macrì 67v: bianca

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68r: Never never never never never|King Lear V iii 309|G. N. Giordano Orsini||Non lasciate il presente per [sic] futuro|G. Bruno [dalla doppia ottava del dialogo terzo de Lo spaccio de la bestia trionfante]|Ludovico Limentani||C’era un grillo in un campo di lino;|la formicuccia gliene chiese un filino|Vittorio Santoli 68v: bianca

Appendice ii 1. Lettera di J. Purves ad Aldo Palazzeschi (Archivio Palazzeschi, U.D. 5136) Firenze, 18 via degli Orti Oricellari, 12 febbraio 1938 Chiar.mo Signore, I migliori ricordi sono quelli che hanno insieme qualcosa di personale e qualcosa della vita imperitura dell’arte. È per questa ragione che, ritrovandomi a Firenze dopo qualche anno e forse per l’ultima volta, ho avuto l’idea di fare una ghirlanda fiorentina, indirizzandomi agli scrittori ed agli artisti che più onorano questa bella città. Sarebbe per me e per altri che s’interessano alla letteratura italiana d’un sommo interesse sapere quali fra le opere in verso e in prosa qui composte in tempi recenti, meglio rappresentano, al giudizio degli autori stessi, lo spirito fiorentino. Mi farebbe, dunque, un gran piacere trascrivendo in questo albo quella sua poesia che corrisponde meglio a questo criterio, oppure quella che Le paia la migliore. Spero che non La disturbi questa mia richiesta e Lo (sic) assicuro che Le sarò gratissimo del suo consenso. Non c’è bisogno rimandare l’albo per posta: basterà lasciarlo al domestico, finchè mi presenti per riaverlo fra qualche giorno. Intanto mi creda, con la più alta stima, Suo dev.mo John Purves Chiar.mo Signore Aldo Palazzeschi 2. Lettera di Luigi Pirandello a J. Purves (nls, Acc. 7175/1)1 Su carta intestata della «Reale Accademia d’Italia». Battuta a macchina, tranne ‘suo’ e firma. Castiglioncello (Livorno), 5 aprile 1933 XI Chiar.mo Signore,|sono stato continuamente in viaggi[o]|e non ho potuto risponderLe prima. Anche oggi riparto per Via=|reggio e poi per Montecatini, ma sarò di ritorno il ‹XX› [corretto anche a penna] 9 sera.|Sarei lieto di vederla qui a Castiglioncello prima di imb‹o›arcarmi [errore corretto a penna]|a Genova il 17 per B. Aires. Ho ricevuto “The Modern Scot” con la novella tradotta da Lei. È ben vero che io rimpiango amara=|mente, oltre l’amico scomparso, la perdita che ho fatto con la morte di Scott Moncrieff, traduttore prezioso e anzi vero colla=|boratore. Lei mi scrive che si sentirebbe in grado di continuar=|ne l’opera: ben venga.|| La attendo; e intanto Le mando il mio cordiale saluto. Suo Luigi Pirandello 1 Carrer 2003.

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3. Lettera di Giuseppe Ungaretti a J. Purves (nls, Acc. 7175/1) Roma Via Panaro, 11 il 9.X.XIII [1934] Gentile Signore, ricevo ora la sua lettera e le sono molto grato della traduzione inglese ch’ella ha voluto fare di tre mie poesie per il “Modern Scot”. Ma il numero che le conteneva non mi è giunto, probabilmente perché è stato mandato ad un indirizzo di casa dove non sto più da anni: in via Piave o in via Malta: vorrà farmene mandare un’altra copia, al mio indirizzo attuale? Ella ha interpretato con esattezza il passo delle “Stagioni”, e sono tanto più impaziente di ricevere quel numero del “Modern Scot” vedendo quanta gentilezza affettuosa Ella ha posto fermandosi sulle mie povere parole. Nella lettera che mi trasmette il signor Vallecchi c’era un “Certificate of Issue of a Money Order”. Questo certificato serve forse per la riscossione del denaro, oppure devo aspettare un altro documento? Ringrazio l’editore per suo tramite, e l’avrei fatto io stesso se ne avessi avuto l’indirizzo. Le mando “Le Stagioni”.1 Le scriverò ancora, appena avrò il numero del “Modern Scot”. Con gratitudine le invio i miei saluti devoti. Il suo Giuseppe Ungaretti 4. Lettera di Umberto Saba a John Purves (nls, Acc. 7175/1) Trieste, 20 Agosto 1947 Caro Signor Purves, certamente che mi ricordo di lei. E sono contento che le sieno piaciute Scorciatoie; è un libro che assai pochi, fino ad oggi, hanno capito. Forse, se lo avessi scritto in una lingua anglosassone, sarebbe stato più letto e più capito … ma non sono sicuro nemmeno di questo. Il fatto che lei sia scozzese mi ricorda una strana preoccupazione che la presenza dei militari del suo paese di guarnigione a Trieste ha suscitato negli ambienti popolari della città. Essi vestono il costume nazionale, che comporta l’uso della gonnella. La gente era preoccupata di sapere se sotto la gonnella quei militari portavano o no le mutande… Furono fatte perfino delle scommesse. Non ho nessun autografo di nessuna mia poesia. Le poesie le batto sempre a macchina. Copiarne una a freddo sarebbe come falsificare una banconota. Così (benchè non sappia più quasi scrivere) le ho scritta la presente a penna, colla mia calligrafia di vecchio. Molto però affettuosamente auguri e cari saluti. Umberto Saba

1 Manoscritto autografo de Le stagioni (nls, Acc. 7175/3) con dedica: «A John Purves|in segno di gratitudine|per l’amore|dato a questa poesia».

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L’ARCHI TETTURA DEI «VERSI LIVORNESI» DI GIORGI O CAPRONI Davide Checchi* Università di Pavia-Cremona

È

ormai risaputo che, nel corso del Novecento, si è sviluppata una forte tendenza da parte dei poeti a pubblicare le loro poesie all’interno di un contenitore macrotestuale, di un Libro, caratterizzato da precise relazioni intratestuali, o isotopie, di varia natura (lessicali, metatestuali, narrative e strutturali), le quali permettono alla serie dei singoli testi di saldarsi coerentemente insieme, creando un unico testo di dimensione maggiore.1 Ne è un esempio una piccola e ben nota raccolta di poesie di Giorgio Caproni, inserita nel libro Il seme del piangere (stampato per la prima volta presso Garzanti nel 1959 e successivamente edito, con aggiunte che osserveremo più avanti, nell’edizione delle Poesie pubblicata, sempre presso Garzanti, nel 1976), intitolata Versi livornesi, dalla quale emerge una (im)portante struttura architettonica basata sulla particolare posizione che occupano certe reiterazioni lessicali e semantiche. Per illustrare meglio gli equilibri di questo insieme di versi ho ritenuto opportuno utilizzare delle metafore architettoniche. Con questo non voglio affermare che Caproni abbia strutturato l’intera raccolta avendo come riferimento il medesimo edificio di cui parlerò più avanti; lo scopo della mia metafora è solo quello di rendere più esplicite, con un riferimento a un’immagine comune, una serie di relazioni che, diversamente, potrebbero risultare di difficile comprensione.2 Evidenziare una possibile struttura reggente l’intera raccolta non è, come si potrebbe pensare, un puro esercizio di speculazione strutturalista, ma un importante servizio all’esegesi e alla comprensione del macrotesto poetico e, di riflesso, di ogni elemento che lo compone: dalla singola poesia alla rima. Si vedano, in riferimento a questo argomento, le esemplari parole di Enrico Testa: «Per la vastità e l’indefinitezza dei propri indici e dei propri riferimenti (la sua polisemia) e per la forza riorganizzativa delle particolari presupposizioni, il macrotesto poetico indica il suo centro in una specie di funzione del duplice ascolto: del lettore che ascolta, leggendo, il testo nella propria voce, e del testo che ascolta le domande del lettore e lo guida con le mappe della sua coerenza e con lo scrigno dei suoi artifici e dei suoi congegni […]. Ma è solo facendo riferimento alla sua coerenza e al suo modello macrostrutturale che il libro rivela questa dinamicità e questa ricchezza, solo attraverso una descrizione che è anche un rinvenimento, uno squadernamento di piani che è * Ringrazio il prof. Claudio Vela per i preziosi consigli. [email protected] 1 Si vedano per questo argomento almeno: Bazzocchi, Curi 2003 (in particolare il saggio ivi contenuto di Enrico Testa: Testa 2003); Giovannetti 2005; Scaffai 2005 e, anche per quanto riguarda la definizione di isotopia, Testa 1983. 2 Si noti, comunque, cosa afferma Caproni: «La funzione della rima deve essere non certo esornativa tanto per carezzare l’orecchio, ma una funzione portante pari a quella delle consonanze o dissonanze in polifonia o in architettura quella delle colonne che reggono l’arco, idea che chiama idea, magari per generare una terza idea taciuta». La citazione è tratta dalla trascrizione dell’intervento di Laura Barile, che non cita la fonte, alla tavola rotonda su Caproni svoltasi a Livorno il 2 dicembre 2003, ora in Greco 2003, p. 15.

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anche il ritorno ad un centro interno si può acquistare del macrotesto un’“immagine” e una “struttura dell’immagine” che, per quanto modesti dati immanenti, sono il primo passo verso la sua comprensione».1 È indispensabile, per meglio capire l’organizzazione della raccolta Versi livornesi, analizzarne le fasi di costruzione; a questo fine utilizzerò l’ottima edizione critica delle opere di Caproni edita nella collana «Meridiani» Mondadori a cura di Luca Zuliani.2 Lo studioso e curatore dell’edizione ci spiega, nell’apparato critico, che dei Versi livornesi sono documentate tre stesure: StA, StB e StC. Di queste tre la prima in cui è testimoniata una sistemazione razionale è StB: in essa i Versi livornesi […] contano dodici testi, contro gli attuali ventidue, ed hanno il seguente indice (è indicata anche l’eventuale presenza in StA, e la relativa data): I Versi livornesi in StB: Preghiera L’uscita mattutina Per lei Né ombra né sospetto Quando passava Altra preghiera Scandalo La gente se l’additava La ricamatrice Ultima preghiera Il carro di vetro Il seme del piangere

(in StA datata «1953») (in StA datata «1956») (ossia Iscrizione StA datata «8/57») (in StA datata «1957») (una stesura forse estratta da StA, datata «?», a titolo Un complimento) (ossia Battendo a macchina, in StA come Preghiera iii , datata ’57-’58) (in StA datata «?») (assente in StA) (in StA datata «2/55» e già inclusa nel P[assaggio] d[i] E[nea]) (in StA è conservato solo il primo foglio, sotto il titolo Preghiera ii ) (in StA come Spina, datata «?») (in StA datata «1953», e già inclusa nel PdE)3

Soffermiamoci su questa sistemazione. Come già emerge dai titoli delle poesie, la raccolta in questa stesura si regge fondamentalmente su tre testi: Preghiera, Altra preghiera e Ultima preghiera, che nella StA recavano il medesimo titolo con l’unica variazione dell’ordinale, vale a dire: Preghiera, Preghiera iii (poi Altra preghiera) e Preghiera ii (poi Ultima preghiera).4 I richiami lessicali e semantici non si fermano solo al titolo, ma 1 Testa 1983, pp. 149-50. 2 Zuliani 1998. Per comodità nelle pagine seguenti riporterò solo i versi strettamente pertinenti alla trattazione, traendoli sempre dall’edizione appena citata. 3 Zuliani 1998, pp. 1313-14. 4 La questione dei titoli di queste tre poesie non risulta molto chiara nell’edizione critica. Se, infatti, a p. 1314 viene detto che Altra preghiera nella StA era intitolata Preghiera iii , a p. 1421 questo titolo viene associato a Ultima preghiera. Come emerge dall’apparato di Ultima preghiera a p. 1446 tale poesia ha avuto entrambi i titoli: prima quello di Preghiera ii (nei dattiloscritti 37-38) e in seguito quello di Preghiera iii (nei dattiloscritti 39-40; nel dattiloscritto 41 l’ordinale verrà cassato e sarà aggiunto l’aggettivo Ultima). Le varianti del titolo sono molto probabilmente legate all’inserimento tra Preghiera e Ultima preghiera (ex Preghiera ii e iii ) di Altra preghiera (che comporta lo slittamento di Ultima preghiera da ii a iii ); in tal caso bisogna ipotizzare che il titolo di Altra preghiera nella StA (cioè Preghiera iii nei dattiloscritti 3-5, cambiato poi in Altra preghiera nel dattiloscritto 6) sia stato estremamente provvisorio poiché legato al titolo Preghiera ii di Ultima preghiera che risulta aver avuto vita breve. L’analisi della variantistica permette in questo caso di poter stabilire una stretta successione cronologica delle fasi di elaborazione di Altra preghiera e Ultima preghiera, vale a dire: dattiloscritti 37-38 di Ultima preghiera (con titolo Preghiera ii ) → dattiloscritti 3-5 di Altra preghiera (con titolo Preghiera iii ) → dattiloscritto 6 di Altra preghiera (con il titolo definitivo) → dattiloscritti 39-40 di Ultima preghiera (con titolo Preghiera iii ) → dattiloscritto 41 di Ultima preghiera (con dislocazione della poesia tra Preghiera e Ultima preghiera e titolo definitivo). Le strette relazioni strutturali e lessicali intercorrenti tra Altra preghiera e Ultima preghiera sono quindi rafforzate anche dalle loro vicende compositive, le quali si intersecano di continuo dimostrando, inoltre, l’indecisione dell’autore (giustificata in quanto si tratta dei testi ‘portanti’ della struttura) sulla posizione delle singole poesie al-

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proseguono anche all’interno delle liriche. Osserviamo innanzitutto le corrispondenze tra i primi due versi delle tre poesie (riporto i testi secondo StB, che non differisce sostanzialmente dalla definitiva StC se non, come già detto, per il titolo di Altra preghiera): Preghiera

Altra preghiera

Ultima preghiera

Anima mia, leggera va’ a Livorno, ti prego

Mia mano, fatti piuma: fatti vela; e leggera

Anima mia, fa’ in fretta. Ti presto la bicicletta

Le connessioni tra i testi sono evidenti: tutti sono caratterizzati da un’invocazione seguita da un imperativo e hanno una funzione conativa (tipica delle preghiere); la prima e la terza sono collegate dalla iterazione identica del sintagma Anima mia e dall’uso degli imperativi monosillabici va’ e fa’, mentre Altra preghiera presenta, in rapporto con le altre due preghiere, una costruzione chiastica del sintagma vocativo, con inversione tra possessivo e sostantivo, in ragione della sua posizione centrale. Inoltre la prima si lega alla seconda tramite il termine leggera (che è in rima con il titolo), mentre la seconda e la terza sono collegate dalla ripetizione dell’imperativo di fare (anche se con sfumature differenti). Altra preghiera si isola poi rispetto alle rimanenti anche per il fatto che non contiene nel primo verso la parola anima ma il sostantivo mano.1 Una particolare disposizione grafica può forse meglio chiarire le relazioni: Preghiera

Anima mia, leggera | va’ a Livorno, ti prego

Altra preghiera

Mia mano,

Ultima preghiera

Anima mia,

fatti

fa’

piuma: |

fatti

vela; e leggera

in fretta. | Ti presto la bicicletta

Se si prendono in considerazione anche le varianti compositive dei singoli testi ‘portanti’, risulta che era nelle intenzioni dell’autore costruire una fitta trama di relazioni tra queste poesie; i primi versi raggiungono, infatti, quasi immediatamente la lezione definitiva in tutti e tre i componimenti. Particolarmente significativo è lo sviluppo di Ultima preghiera: nonostante il complicato percorso elaborativo, che si snoda per ben 42 passaggi dattiloscritti e 7 manoscritti, i primi versi rimangono immutati fin dall’inizio. Ciò conferma che il componimento, scritto nel ’58, è stato subito concepito dall’autore in stretta relazione con Altra preghiera (poi Battendo a macchina), la cui composizione si colloca tra il ’57 e il ’58, e che entrambe le poesie sono state create sull’impronta della precedente Preghiera, risalente al 1953.2 A ciò si aggiunga che le liriche possono inoltre l’interno della raccolta. La decisione definitiva di Caproni, per quanto riguarda la sequenza delle liriche, è suggellata da una nota presente nel dattiloscritto 41 di Ultima preghiera: «mettere questa a|chiusura. Così|cominci con Preghiera e|termini pari» (Zuliani 1998, p. 1421). 1 Forse non è casuale il fatto che il sintagma Mia mano sia un anagramma quasi perfetto di anima. 2 Un’ulteriore prova del legame intercorrente tra Altra preghiera e Ultima preghiera è che la versione precedente del distico che chiude quest’ultima: «Solo questo ti chiedo.|Poi va’ pure in congedo» apparteneva originariamente ad Altra preghiera.

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essere divise in due gruppi diseguali per numero: il primo centrato sulla madre in vita (da Preghiera a Ultima preghiera), il secondo sulla morte di Anna (costituito da Il carro di vetro e Il seme del piangere).1 Ne risulta una struttura ben definita. I testi che cantano la vita sono racchiusi all’interno della prima e dell’ultima preghiera, quasi posti sotto un ampio arco a tutto sesto di una piccola chiesetta, con Altra preghiera a fungere da simbolica chiave di volta; all’esterno di questa costruzione troviamo le liriche dedicate alla morte della madre (Il carro di vetro e Il seme del piangere), tematica comunque non completamente estromessa dal primo gruppo, ma preannunciata da Né ombra né sospetto. Con questa struttura risulta composta la raccolta che, secondo Luca Zuliani, Caproni avrebbe presentato a un concorso anonimo bandito dalla Mondadori, forse a Cervia. Il poeta fu escluso dal concorso perché, come dice lui stesso in un’intervista comparsa su «Avvenire» nel 1984, «in giuria c’era il mio grande amico Alfonso Gatto, il quale, lette le poesie, si mise a gridare: ma questo è Caproni, non si può premiare!».2 La Mondadori, come Caproni stesso dichiara nell’intervista appena citata, nonostante l’esclusione gli «inviò un telegramma dicendo che voleva stampare lo stesso il libro, solo che era un po’ esile, aveva bisogno di altre poesie».3 Passiamo, infatti, dalle 12 liriche della StB alle 20 della StC, corrispondenti alla sezione Versi livornesi inserita nel volume stampato nel 1959 con il titolo Il seme del piangere,4 alle quali si aggiungeranno, nell’edizione delle Poesie5 pubblicata nel 1976, Sulla strada di Lucca e Urlo (precedentemente incluse nel Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee del 1965, sempre edito da Garzanti). Osserviamo ora come si presenta la disposizione delle liriche nel 1976, evidenziando in neretto le poesie aggiunte rispetto a StB e in neretto sottolineato quelle non presenti nell’edizione del 1959: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18.

Preghiera L’uscita mattutina Né ombra né sospetto Battendo a macchina Quando passava Sulla strada di Lucca La gente se l’additava La ricamatrice La stanza Barbaglio Per lei Scandalo Urlo Ad portam inferi Eppure Coda Epilogo Il carro di vetro

(con il titolo Altra preghiera in StB) (inserita nell’edizione del 1976)

(inserita nell’edizione del 1976)

1 Se tale suddivisione, che sarà poi mantenuta anche in StC, fosse una ‘citazione strutturale’ di Petrarca (Rerum Vulgarium Fragmenta) o Dante (Vita Nova) si aggiungerebbe alle numerose citazioni testuali dei poeti due-trecenteschi rilevate in questa raccolta di Caproni da molti studiosi (si vedano per esempio Marcozzi 1997; Somelli 2003; Colangelo 2004). 2 Zuliani 1998, p. 1312. 3 Zuliani 1998, p. 1312. 4 Caproni 1959. 5 Caproni 1976.

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Piuma Il seme del piangere Ultima preghiera Iscrizione

L’aggiunta di dieci nuove poesie (8 + 2) comporta anche una modifica alla struttura della raccolta; la precedente chiesetta con un singolo arco a tutto sesto, a navata unica, risulta troppo piccola per raccogliere tutte le liriche e viene quindi ristrutturata e ampliata in una ‘basilica romanica’ a tre archi e tre navate. I muri portanti e le colonne che reggono le volte sono: Preghiera, Battendo a macchina, Piuma e Ultima preghiera. Analizziamo ora le connessioni incipitarie tra questi quattro testi (dei quali solo Piuma non era già nella StB): Preghiera

Battendo a macchina

Anima mia, leggera va’ a Livorno, ti prego

Mia mano, fatti piuma: fatti vela; e leggera

Piuma

Ultima preghiera

Mia pagina leggera: piuma di primavera

Anima mia, fa’ in fretta. Ti presto la bicicletta

Le connessioni tra Preghiera e Ultima preghiera sono, come ovvio, le stesse già esposte in precedenza. L’inserimento di Piuma muta, invece, il valore delle relazioni tra Battendo a macchina (ex Altra preghiera) e le due preghiere eponime. Nella StB il ruolo di ‘chiave di volta’ affidato a Battendo a macchina risultava evidente dal fatto che questa assumeva una particolare funzione e un ruolo diverso in virtù dell’assenza della parola anima e della differente costruzione sintattica rispetto agli altri due testi, i quali, nel primo verso, presentano un’identica successione nel sintagma vocativo: il sostantivo seguito dal possessivo. L’inserimento della poesia Piuma nella StC muta il ruolo di Battendo a macchina all’interno di questo edificio. Se, infatti, osserviamo il primo verso di Piuma, notiamo non solo che è costituito da un sintagma vocativo come gli altri tre testi, ma che presenta l’identico schema del possessivo seguito dal sostantivo di Battendo a macchina, con la quale, oltre all’identica successione degli elementi del sintagma, ha in comune anche: il sostantivo piuma, l’aggettivo leggera e l’assenza della parola anima nel primo verso. Viene quindi eliminato l’isolamento di Battendo a macchina, conferitole dalle caratteristiche appena ricordate, inserendo un testo (cioè Piuma) che le è solidale: ciò comporta una contrapposizione speculare di Preghiera e Battendo a macchina contro Piuma e Ultima preghiera. La prima e la quarta poesia, riprendendo la similitudine architettonica, non mutano di conseguenza la loro funzione di muro portante; mentre Battendo a macchina da chiave di volta diventa la colonna tra la navata laterale sinistra e quella centrale; Piuma, invece, quella tra la navata centrale e la navata laterale destra. Riassumendo, si può dire che la funzione di ‘elemento portante’ della struttura (sia esso muro o colonna) è identificata dalla presenza nel primo verso delle quattro poesie di un sintagma vocativo (presente in posizione incipitaria solo in questi quattro componimenti), mentre il ruolo specifico della lirica all’interno dell’edificio è dato dalla successione degli elementi interni del sintagma. Per cui a un’identica successione di sostantivo seguito da possessivo

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(Preghiera e Ultima preghiera) corrisponderà un’identica funzione, cioè di ‘muro portante’; mentre i due testi con costruzione possessivo seguito da sostantivo (Battendo a macchina e Piuma) saranno entrambi delle ‘colonne’. Una diversa disposizione potrà, come sopra, chiarire meglio queste connessioni: Preghiera

Anima mia, leggera | va’ a Livorno, ti prego.

Battendo a macchina

Mia mano,

Piuma

Mia pagina leggera : | piuma di primavera

Ultima preghiera

Anima mia,

fatti

fa’

piuma: |

fatti

vela; e leggera

in fretta. | Ti presto la bicicletta,

Anche in questo caso l’analisi delle varianti compositive di Piuma conferma che l’autore intendeva inserire il testo in rapporto con gli altri tre. Nell’apparato si legge che «questa poesia non era in origine destinata al Seme del piangere: i primi abbozzi non nominano mai Annina»,1 ma è stata in seguito recuperata e modificata per essere inserita nella raccolta. È interessante osservare che nella trasformazione dell’incipit appare evidente la volontà dell’autore di inserire il componimento in questa fitta trama di corrispondenze. Da una prima versione, come già detto non destinata a questa raccolta, dove non sono contenuti riferimenti alle altre tre poesie: «Chiare ragazze d’amore2|ragazze quasi campagne» si passa ad una seconda, destinata, invece, ad entrare nei Versi livornesi, recante il sintagma vocativo e le reiterazioni lessicali comuni agli altri tre testi: «Mia pagina leggera,|pagina di primavera» ed infine a: «Mia pagina leggera:|piuma di primavera», in cui si osserva una significativa riduzione nel secondo verso da ottonario a settenario (come la maggior parte degli altri versi incipitari presi in considerazione, eccezion fatta per il v. 2 di Ultima preghiera) e l’inserimento della variante piuma, inserita, con ogni probabilità, per rafforzare i legami con Battendo a macchina.3 Si aggiunga che nel dattiloscritto recante l’ultima lezione, che sarà poi quella pubblicata, è presente il titolo definitivo Piuma e la nota «in Versi Livornesi, prima di:|Annina è nella tom1 Zuliani 1998, p. 1398. 2 Variante alternativa a margine: (da amore). 3 Tale necessità può essere stata dettata anche dal fatto che Battendo a macchina conserva ancora dei legami con Preghiera e Ultima preghiera dati dalla presenza dell’aggettivo leggera e del verbo fare (sia pure con diversi significati) all’imperativo; tracce che testimoniano la precedente struttura della raccolta. Se Caproni non avesse rafforzato i legami tra Battendo a macchina e Piuma, inserendo in quest’ultima il sostantivo piuma, presente anche al v. 1 di Battendo a macchina, avremmo avuto una struttura sbilanciata in cui un testo che nell’economia generale funge da ‘colonna’ avrebbe contenuto, rispetto alla poesia che ricopre la medesima funzione, maggiori legami con gli altri due testi rappresentanti i ‘muri portanti’ (Preghiera e Ultima preghiera). In tale direzione si muove quasi sicuramente anche il mutamento del titolo da Altra preghiera in Battendo a macchina.

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ba…», con la quale Caproni esplicita la volontà di inserire questo testo all’interno della raccolta.1 Se prendiamo in considerazione anche il numero delle poesie racchiuse in queste tre sezioni, l’ipotesi esposta viene confermata. La prima e terza parte (quelle comprese tra Preghiera e Battendo a macchina e tra Piuma e Ultima preghiera) comprendono l’una due poesie (L’uscita mattutina e Né ombra né sospetto) e l’altra una (ma di maggiore rilevanza: Il seme del piangere); sono, quindi, di ampiezza tra loro quasi equivalente, ma minore rispetto alla sezione centrale (come avviene nelle più classiche chiese romaniche). La seconda parte (quella compresa tra Battendo a macchina e Piuma) è, come già detto, assai più grande e racchiude ben quattordici poesie (dodici nell’edizione del 1959). Questa, data la sua ampiezza, necessita anche di un ulteriore sostegno (riprendendo la metafora architettonica, una ‘chiave di volta’), cioè la meta-poesia Per lei, inserita solo in StC, che si trova a metà della sezione centrale e dell’intera raccolta, non solo dal punto di vista numerico (è la decima su venti nell’edizione del ’59 e l’undicesima su ventidue nel ’76), ma anche dal punto di vista del significato. È, infatti, il testo programmatico nel quale Caproni espone le motivazioni delle sue scelte metriche, prosodiche, fonetiche e semantiche in relazione all’oggetto della sua poesia, ovvero la figura di sua madre da giovane.2 Un’ulteriore conferma che il poeta volesse conferire alla raccolta una ben de1 Zuliani 1998, p. 1400. Però, come afferma Zuliani, Piuma non occuperà mai il posto designato dalla nota (cioè prima di Epilogo) all’interno della raccolta; forse proprio per non sbilanciare troppo la struttura complessiva (per la quale si veda in seguito). 2 Il soggetto dell’intera raccolta, alla luce di questa poesia, potrebbe non essere solo la madre, ma anche la stessa poesia (anzi, Poesia) di Caproni. Se così fosse Anna Picchi, oltre che la madre, potrebbe rappresentare una prosopopea della Poesia, e questi due piani si intersecherebbero di continuo nel corso della raccolta. Un approfondimento in questa direzione ci porterebbe però lontano dalla mia intenzione di far emergere la struttura della raccolta. Mi si permetta comunque di aprire solo un piccolo inciso sulla questione. Finora i vv. 80-81 di Ultima preghiera («Dille chi ti ha mandato:|suo figlio, il suo fidanzato», ai quali sono più volte stati affiancati i vv. 27-30 de L’ascensore (1948), in Il passaggio d’Enea: «Staremo alla ringhiera|di ferro – Saremo soli|e fidanzati, come|mai in tanti anni siam stati», che richiedono, forse, una diversa interpretazione) sono stati spesso intesi secondo un’esegesi edipica. Se da una parte alcuni studiosi hanno saputo mantenere questa interpretazione entro i confini del razionale e del dimostrabile (si veda, per esempio, cosa afferma Mengaldo 1978, p. 702), altri si sono invece lanciati in avventurose speculazioni psicologiche. Secondo l’ipotesi da me fatta poco sopra (cioè che la madre del poeta sia anche una prosopopea della Poesia) all’interpretazione edipica si potrebbe affiancare la seguente: il lessema figlio sarebbe legato al rapporto Giorgio Caproni-Anna Picchi, mentre fidanzato sarebbe connesso al rapporto Poeta-Poesia; il distico, posto quasi in chiusura della raccolta, è pertanto il luogo in cui giungono a stretto contatto i due livelli di interpretazione e potrebbe quindi essere una ‘chiave’ esegetica, a ritroso, per tutti i testi dei Versi livornesi. Caproni, inoltre, dichiara spesso, oltre che nei versi di Per lei, che le sue poesie devono essere come fu sua madre, per meglio descriverla: si vedano i vv. 14-19 di Battendo a macchina (riferendosi alla mano che ‘batte’ la poesia): «E se non vuoi tradita|la sua semplice gloria,|sii fine e popolare|come fu lei – sii ardita|e trepida», e i vv. 16-19 di La gente se l’additava: «[Anna Picchi] andava|per la maggiore a Livorno|come vorrei che intorno|andassi tu, canzonetta». Un’altra ipotesi esegetica – che non inficerebbe, comunque, sia quella edipica che quella appena esposta – potrebbe emergere da uno ‘scartafaccio’ pubblicato nell’apparato dell’edizione critica: «una prosa rivolta al padre, di carattere privato, ch’è posta in coda alla stesura StB (foglio 1º 239)» nella quale si legge: «A te, babbo, non dedico poesie, anche se per te ho tanto scritto, venendomi da te tanto dolore come dal tuo umile mandolino (dov’è? chi lo suona?) m’è venuta l’allegria della musica, e dai tuoi «Versi per Annina» (li ho persi: sapessi come la mia mente comincia a confondersi) l’idea di queste paginette, quasi per rimediare il danno di quella perdita […]. Possano essere degni, quelli che ho scritto io per la tua Anna, del tuo amore per lei […]» (Zuliani 1998, p. 1319, mio il corsivo). In questo caso bisogna però soppesare l’intenzionalità dell’autore nel farci pervenire questo (forse fuorviante) indizio.

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finita struttura è data dal fatto che l’introduzione di due nuove poesie nel 1976 viene attuata nel pieno rispetto dell’organismo architettonico; Sulla strada di Lucca e Urlo sono inserite rispettivamente prima e dopo la poesia centrale Per lei, senza turbare l’ordine precostituito. Pure nell’ultima forma della raccolta è possibile individuare una suddivisione tra una ‘parte in vita’ e una ‘parte in morte’ di Anna Picchi; anche se, come è già risultato evidente, gli schematismi in Caproni non sono rispettati a priori, ma diventano passibili di modifiche e variazioni che conferiscono all’insieme un aspetto non statico e monotono ma vario e ordinato. La ‘parte in vita’, che è compresa tra Preghiera e Scandalo, non termina quindi con la metà esatta delle poesie ma eccede di una posizione; mentre la ‘parte in morte’ (che risulta assai ampliata rispetto alla StB) rientra di conseguenza tra Urlo e Ultima preghiera. In entrambe le parti è però presente un testo che richiama la sezione opposta: nella prima il tema della morte è preannunciato da Né ombra né sospetto, nella seconda il tema della vita è ricordato da Eppure…1 Infine, all’esterno di questo edificio, usciti dalla volta laterale dopo aver recitato l’Ultima preghiera, troviamo un’Iscrizione a richiamare, nella concisione e nell’efficacia di quattro settenari a rima baciata, il motivo di fondo (e il fine) dell’intera raccolta, per ricordarci che qui, in questa chiesa-raccolta, riposa il corpo di Anna Picchi e vive il suo ricordo:2 Freschi come i bicchieri furono i suoi pensieri. Per lei torni in onore la rima in cuore e amore. 1 Una simile, ma più complicata, trama di richiami è presente anche nella raccolta di Caproni Muro della terra (1975), per la quale si veda Testa 1983, p. 93. 2 Si è già detto, e lo si ribadisce, che la metafora architettonica adoperata ha una funzione puramente esplicativa. Risulta comunque interessante notare che Iscrizione è la rielaborazione di un testo che nelle sue fasi compositive ha avuto una prima versione intitolata Per lei (titolo poi passato a indicare la metapoesia centrale) con i seguenti versi: «Tornava per lei in onore / la rima in cuore e amore» ed una intermedia, perduta, di cui si conosce solo il titolo Lapide. Fuorviante, a mio avviso, è l’interpretazione data a Iscrizione da Marcozzi 1997, p. 336: «Iscrizione potrebbe creare qualche difficoltà in questo quadro, se la si intendesse come semplice epigrafe conclusiva per Annina: ma è più probabile che riguardi l’opera nel suo complesso, compiuta col pretesto della morte di lei. Il testo, nella sua ristrettezza, lascia spiragli per un’interpretazione di tal segno: […] l’ipotesi che la quartina in epigrafe celebri non tanto Annina quanto la ricerca stilistica praticata ed i risultati programmati e raggiunti, offrendone a un tempo un bilancio ed una proiezione di intenti, rispetto al considerarla un semplice poslogo dedicatorio ha una consistenza da lectio difficilior, il che la rende privilegiata». Personalmente ritengo, invece, che la funzione principale di questa poesia, come emerge anche dalle varianti d’autore, sia proprio quella dedicatoria (funzione, tra l’altro, da secoli propria delle Lapidi e Iscrizioni per la dedica di monumenti, altari, chiese, templi e simili). Di per sé una «consistenza da lectio difficilior» non può avvalorare un’ipotesi esegetica, in quanto tale criterio è valido e funzionale nel campo della filologia della copia, quando si deve scegliere tra più varianti adiafore. Quando si affronta un testo da un punto di vista esegetico, dovrebbe essere valida l’ipotesi che richiede il minor numero di passaggi logici e, soprattutto, che trova riscontro nella realtà oggettiva e documentaria del testo preso in esame (operazione che Marcozzi non ha potuto compiere, in quanto l’edizione critica è stata pubblicata nel 1998).

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Abbreviazioni bibliografiche Bazzocchi, Curi 2003 = La poesia italiana del Novecento. Modi e tecniche, a cura di Marco Antonio Bazzocchi e Fausto Curi, Bologna, Pendragon. Caproni 1959 = Giorgio Caproni, Il seme del piangere, Milano, Garzanti. Caproni 1976 = Giorgio Caproni, Poesie, Milano, Garzanti. Colangelo 2004 = Stefano Colangelo, «Tra la mano e la spiga». Caute ipotesi su Caproni, in Un’altra storia. Petrarca nel novecento italiano, a cura di Andrea Cortellessa, «Studi italo-tedeschi», 14, pp. 171-83. Giovannetti 2005 = Paolo Giovannetti, Modi della poesia italiana contemporanea. Forme e tecniche dal 1950 a oggi, Roma, Carocci. Greco 2003 = Omaggio a Caproni. Parole di sale, a cura di Lorenzo Greco, Livorno, Provincia di Livorno. Marcozzi 1997 = Luca Marcozzi, Il seme e il frutto del piangere. I «Versi livornesi» di Giorgio Caproni, «Anticomoderno», 3, pp. 327-37. Mengaldo 1978 = Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori. Scaffai 2005 = Niccolò Scaffai, Il poeta e il suo libro. Retorica e storia del libro di poesia nel Novecento, Firenze, Le Monnier. Somelli 2003 = Lorenzo Somelli, Un «esperimento cavalcantiano» (e dantesco): i «Versi livornesi» di Giorgio Caproni, fec, 28, pp. 443-57. Testa 1983 = Enrico Testa, Il libro di poesia. Tipologie e analisi macrotestuali, Genova, Il Melangolo. Testa 2003 = Enrico Testa, L’esigenza del Libro, in Bazzocchi, Curi 2003, pp. 97-119. Zuliani 1998 = Giorgio Caproni, L’opera in versi, edizione critica a cura di Luca Zuliani, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori.

I NDI CI A cura di Fabio Romanini

I N D I CE D E I NOM I

Adorisio, Antonio Maria, 17 e n, 19.

Agosti, Giovanni, 16 e n, 20. Agostiniani, Luciano, 47. Alain-Fournier (Henri Alban Fournier), 190. Alberti, Leon Battista, 61n, 71. Alexandre-Bidon, Danièle, 62, 71. Alighieri, Pietro, 76. Allodoli, Ettore, 171, 174, 176 e n, 177 e n, 179180, 184, 185n, 189-190, 193, 197. Altamura, Antonio, 152n, 168. Ammannati, Giulia, 48. Anatole France (François-Anatole Thibault), 172n. Anceschi, Giuseppe, 127. Andrea da Barberino, 158, 168. Andreoli, Raffaele, 76, 152n, 168. Andresen, Karl Gustav, 189n. Angiolieri, Cecco, 61. Anguissola, Anna, 16 e n, 19. Anonimo fiorentino (Anonimo Fanfani), commentatore di Dante, 76. Ansaldo Baialardo, mercante e armatore genovese, xii secolo, 27e n, 28. Antiquarie prospetiche romane, 16. Antoni, Tito, 21, 23n, 46. Antonio da Castiglione, conestabile a Firenzuola, 140n. Antonio da Tempo, 67. Aragona Sforza, Isabella d’, duchessa di Milano, 166. Aretino, Pietro, 97. Ariosto, Ludovico, 172n. Arlotto Mainardi, detto il Piovano Arlotto, vedi Motti e facezie del Piovano Arlotto. Arquint, Patrizia, 147n, 154n, 158n, 161n, 166n, 168. Astuti, Guido, 27 e n, 28 e n, 33 e n, 46. Attucci, Marco, 190n, 197. Avalle, d’Arco Silvio, 90. Avarucci, Giuseppe, 49. Avvertimenti intorno ai puledri, 161 e n. ‘Avvertimenti utili’, 161.

B

ahuin, Caspar, 192n. Baialardi, Lanzarotto Trepello dei, notaio, 69n. Baldelli, Ignazio, 21 e n, 22, 23 e n, 24 e n, 25 e n, 26 e n, 29, 30n, 31 e n, 33n, 36 e n, 40n, 41 e n, 42n, 45n, 46, 48, 82 e n, 87, 126.

Baldinger, Kurt, 34n, 46. Baldini, Raffaello, 9. Balducci, Domenico, 147n. Balestrieri, Domenico, 17, 20. Banchi, Luciano, 114, 126. Banti, Ottavio, 30n, 31n, 46. Barbi, Michele, 77 e n, 79, 178 e n, 197. Barbieri, Luigi, 158n, 168. Baret, Philippe, 127. Bargellini, Piero, 181n, 184 e n, 185 e n, 186, 190, 194, 197, 199. Barile, Laura, 201n. Bartoli, Cosimo, 61n, 71. Bartoli Langeli, Attilio, 21 e n, 23n, 39n, 42n, 46. Bartolomeo Anglico, 61n. Bartolomeo da San Concordio, 64. Bartolomeo fil. Bifulci, notaio pisano, xii secolo, 38n. Bascapè, Giacomo Carlo, 48. Bassetti, Massimiliano, 21n. Battini, Annalisa, 147n. Battistini, Andrea, 199. Bauer, Johann Jacob, 154n, 168. Bauer, Nathalie, 147n, 168. Bauer-Eberhardt, Ulrike, 158n, 168. Bazlen, Roberto, 176n. Bazzocchi, Marco Antonio, 201n, 209. Beck, Hans-Georg, 49. Becker, Walter, 181n. Bedeschi, Lorenzo, 184n, 185n, 190n, 197. Bellini, Bernardo, 171n. Bellucci Maffei, Patrizia, 47. Bencistà, Alessandro, 81 e n, 126. Bendinelli Predelli, Maria, 81, 126-127. Bentley, Richard, 192n. Benucci, Elisabetta, 81 e n, 86, 88, 98n, 126. Benvenuto da Imola, 76-77. Bergin, Thomas Goddard, 173n, 183 e n, 197. Bernardoni, Giuseppe, 12-13. Berti, Antonio, 171, 181-182, 185n, 194. Berti, Giuliana, 145. Bertoldi, Giovanni, 76. Bertoletti, Nello, 21n, 62, 64-65, 71. Bertone, Manuela, 198. Bertoni, Giulio, 191n, 197. Besomi, Ottavio, 18n, 19. Besta, Enrico, 33, 34n, 46. Betocchi, Carlo, 184n, 185, 199.

214

indice dei nomi

Bettarini, Rosanna, 16-18, 101n, 126. Bettarini Bruni, Anna, 82n, 86 e n, 87n, 89n, 94n, 95-96, 126. Biadego, Giuseppe, 154n, 168. Biagi, Guido, 76n, 79. Bianchi, Francesco, 58n, 71. Bianchi Bandinelli, Ranuccio, 178n. Bibbia istoriata padovana, 60. Bigongiari, Piero, 171, 184 e n, 189, 194. Billanovich, Giuseppe, 9. Birraccini Verducci, Rosa Maria, 49. Blaeu, Willem, 192n. Bo, Carlo, 180n, 184 e n, 185n, 186, 190 e n, 197. Boccaccio, Giovanni, 126. Amorosa visione, 87n. Decameron, 62, 64, 71, 109. Filostrato, 86-88. Ninfale fiesolano, 87n. Teseida, 87n. Boerio, Giuseppe, 54n, 58 e n, 60-61, 71. Boespflug, Thérèse, 76n, 79. Boitani, Piero, 72. Bologna, Corrado, 54, 71. Bonaini, Francesco, 30n, 36 e n, 46. Bonatti, Guido, 59. Bongrani, Paolo, 16n, 19. Boni, Marco, 158n, 168. Bonifacio, pastore bellunese, 76n. Bonifacio, patriarca di Venezia, 76n. Bonifacio, vescovo di Genova, 76n. Bonvesin da la Riva, 64. Borgia, Cesare, detto il Valentino, 130, 141, 143. Borri, Giammario, 49. Bottrall, Ronald, 171, 176n, 180 e n, 181, 191, 193, 197. Bourgain, Pascale, 92, 126. Bozzi, Andrea, 127. Bramante, Donato, 9, 16. Branca, Vittore, 64, 71, 88, 109, 126. Breve degli uomini di Casciavola, 38n. Brevi dei consoli del comune di Pisa (1162 e 1164), 30 e n, 31n. Briquet, Charles Moïse, 86, 88. Brizzi, Gian Paolo, 192n, 197. Browning, Robert, 172n. Brugnolo, Furio, 52 e n, 54, 56, 57 e n, 58 e n, 60n, 64, 66 e n, 67n, 68 e n, 69n, 70-72. Brunet, Jacques Charles, 154n, 168. Brunetta, Ernesto, 72. Brunetto Latini, 9, 158-159, 169. Bruni, Francesco, 48. Bruno, Giordano, 178 e n, 195, 197. Bruschi, Enio, 147n.

Buffon, Georges-Louis Leclerc de, 158n, 168. Buiti, console pisano, xii secolo, 44. Buti, Francesco, 76.

C

accia, Giuliano del, 131n. Cadamusto (Catamusto/Cadamusta), Giovan Antonio, 163, 164 e n, 165 e n, 166. Calleri, Marta, 28n, 34n, 45n, 46. Calve, Étienne de, 192n. Calvino, Italo, 183 e n, 197. Calzecchi Onesti, Rosa, 145. Campana, Dino, 9. Cancellieri, Davide, 186n, 197. Canestrini, Giuseppe, 131 e n, 145. Canettieri, Paolo, 97n, 126. Caproni, Giorgio, 16, 201-209. Caracciolo, detto il Priore, 164n. Caracciolo, Fabio, 164n. Caracciolo, Fabrizio, 164n. Caracciolo, Giannaro, 164n. Caracciolo, Giovanni, 164n. Caracciolo, Giovan Vincenzo, 164n. Caracciolo, Giulio, 164n. Caracciolo, Marcello, 164n. Caracciolo, Pasquale, 154 e n, 155n, 158 e n, 159n, 163 e n, 164 e n, 165-166, 168. Caracciolo, Petraconio, duca di Martina, 164n. Caracciolo, Troiano, 164n. Caracciolo, Virgilio, 164n. Cardarelli, Vincenzo, 173n, 179, 197. Carducci, Agnolo, capitano di Arezzo, 141. Carducci, Giosuè, 172n, 175. Caretti, Lanfranco, 11 e n, 19. Carincioni, Matteo, 156. Carletti, Ercole, 72. Carracci, Annibale, 62. Carrai, Stefano, 13n, 19. Carrara, Giacomo ( Jacopo) I da, signore di Padova, 52, 64, 68. Carrer, Luisa, 174n, 195n, 197. Casali, Elide, 59 e n, 71. Casalini, Eugenio M., 61, 71. Casamassima, Emanuele, 37, 150n, 168. Casquete de Prado, Nuria, 56. Castella, vedi Castelle, Giovan Berardino delle. Castellani, Arrigo, 21-22, 23 e n, 24, 25n, 30, 37 e n, 41, 45n, 46. Castelle, Giovan Berardino delle, 163, 164 e n, 165. Catamusto, Giovan Antonio, vedi Cadamusto, Giovan Antonio. Catone, Marco Porcio, 17. Cattaneo, Arturo, 189n, 197.

indice dei nomi Cavalcanti, Guido, 99n. Cavassico, Bartolomeo, 66-67, 68n, 69-70. Cecchi, Elena, 47. Cecchi, Emilio, 18. Cella, Roberta, 78n, 79. Celsius, Anders, 192n. Cerquiglini, Bernard, 92. Cerretani, Bartolomeo, 141n, 145. Cesar Teotinus, 150-151. Cesari, Antonio, 76. Cessi, Roberto, 32n, 46. Chessa, Silvia, 147n. Chiappelli, Fredi, 131n. Chiappini, Luciano, 147n, 152n, 168-169. Chiarini, Eugenio, 75n, 79. Chiaro Davanzati, 108. Chiaudano, Mario, 27n, 46. Chiose Vernon, 76. Chrétien de Troyes, 96. Cian, Vittorio, 66 e n, 71, 73. Ciaralli, Antonio, 62n. Cicerone, Marco Tullio, 164. Cicognani, Bruno, 171, 183 e n, 185n, 189 e n, 190n, 193, 197, 199. Cignoni, Laura, 127. Ciliberto, Michele, 197. Cima, Annalisa, 17-18. Civinini, Guelfo, 171, 182n, 183, 184 e n, 194, 197. Clemente V, papa (Bertrand de Gouth), 52. Colangelo, Stefano, 204n, 209. Colli, Barbara, 14, 19. Colonna, Fabrizio, 130. Colonna, Stefano, 19. Compagni, Giovanni, vicario di Firenzuola, 141n. Concina, Ennio, 61n, 71. Conti di banchieri fiorentini, 27n. Conti, Primo, 171, 181, 182 e n, 185n, 194. Contini, Gianfranco, 9-11, 16, 18, 22, 52n, 64, 71, 102n, 126, 176n, 186, 188n, 199. Corella, Miguel de (don Michele / don Micheletto), 141 e n. Corgnali, Giovan Battista, 72. Corner, Pietro, 26n, 35. Correggio, Niccolò da, 16. Corsetti, Luigi, 190n, 197. Corte, Claudio, 158 e n, 168. Cortelazzo, Manlio, 49. Cortellessa, Andrea, 209. Corti, Maria, 9, 15, 18, 52 e n, 57, 58 e n, 60n, 61, 63-65, 68-69, 71, 152, 168. Costitutum usus (di Pisa), 36.

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Courtauld, Renée, 181n. Courtauld, Samuel, 181n. Cracco, Giorgio, 49. Criaco, vedi Palamidesi dal Borgo San Sepolcro, Ciriaco. Croce, Benedetto, 171, 175n, 182 e n, 183, 189190, 194, 197. Cronica deli imperadori, 66n, 69. Cupperi, Walter, 19. Curi, Fausto, 201n, 209. Curione, Ludovico, 150 e n, 168. Curti, Lancino, 9. Cutinelli-Rèndina, Emanuele, 129n, 143n, 145.

D’Ambra, Raffaele, 152n, 168.

D’Ancona, Alessandro, 88 e n, 99 e n, 126. D’Annunzio, Gabriele, 175. D’Aquino, Giovanni Paolo, 159n, 168. D’Ascoli, Francesco, 152n, 168. Dall’Ongaro, Francesco, 175 e n. Daniele, Antonio, 72. Dante Alighieri, 51, 59, 75-79, 99n, 172n, 204n. Detto d’Amore, 67. Purgatorio, 75-79. Vita nuova, 204n. Dario I degli Achemenidi (Dario il Grande), re di Persia, 158-159. De Jennaro, Pietro Jacopo, 168. De La Mare, Walter, 172n. De Lemene, Francesco, 9, 17. De Mauro, Tullio, 75n, 79. De Robertis, Domenico, 9, 81, 88 e n, 89, 90 e n, 92, 99n, 100, 101n, 126. de’ Rossi, Nicolò, 51-52. De Sabbata, Massimo, 181n, 197. De Vecchis, Chiara, 176n, 197. Dearing, Vinton Adams, 92. Debenedetti, Santorre, 9, 103n, 126. Deblaise, Philippe, 154n, 168. Deidier, Roberto, 199. Del Badia, Iodoco, 145. Delprato, Pietro, 158n, 168. Demo, Edoardo, 63n, 71. Di Blasi, Sebastiano, 177n, 197. Di Pietro, Paola, 147n. Di Ruggiero, Alfonso, vedi Ruggieri, Alfonso. Di Tucci, Raffaele, 30n, 31n, 32n, 46. Dionisotti, Carlo, 98 e n, 126, 127, 141n, 145. Dombroski, Robert S., 187n, 197-198. Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi), 176, 193. Donato da Milano, 162 e n. Dossi, Carlo, 9, 14 e n.

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indice dei nomi

Drago, Corinna, 46. Drusi, Riccardo, 75 e n, 78-79. Du Cange, Charles du Fresne, 78. Duccio di Buoninsegna, 62. Duff-Gordon, Lina, 181 e n. Duff-Gordon (Lady), Lucie, 172, 181, 199. Duso, Elena Maria, 54, 58n, 71.

Earle, Edward Mead, 145.

Elsheikh, Mahmoud Salem, 56, 63-65, 71. Enrigo, console pisano, xii secolo, 44. Eriso, console pisano, xii secolo, 44. Ermolao Barbaro, 9. Erode Agrippa I, detto il Grande, re di Giudea, 123 Erodoto, 158. Erro, console pisano, xii secolo, 44. Esposito, Edoardo, 12. Este, Azzo VIII d’, marchese di Ferrara, 52. Este, Borso d’, duca di Ferrara, 162n. Este, Francesco d’, 52. Este, Fresco d’, 52.

Fachard, Denis, 130n, 143n, 145.

Fallacara, Luigi, 171, 184 e n, 189 e n, 194, 197. Falqui, Enrico, 186n, 197. Fanchiotti, Giuseppe, 153n, 168. Fantuzzi, Marco, 77n, 79. Fava, Domenico, 152, 169. Federici, Vincenzo, 32n, 47. Federico II Hohenstaufen, imperatore e re di Sicilia, 170. Feitknecht, Regula, 18. Felcini, Furio, 13 e n, 19. Felicini, Ludovico, 164 e n, 165n. Fenoglio, Beppe, 9, 15. Ferrari, Severino, 175. Ferraro, Giovan Battista, 154 e n, 155 e n, 158 e n, 161, 164 e n, 169. Ferraro, Pirro Antonio, 155 e n, 156, 161, 162 e n, 164 e n, 165 e n, 166 e n, 169. Fiaschi, Cesare, 147 e n, 151, 162 e n, 163, 169. Ps.-Fiaschi, 152-157, 159-160, 161 e n, 162 e n, 163, 164 e n, 165 e n, 166. Fieschi, Bonifacio, arcivescovo di Ravenna, 7579. Fiore di virtù, 63n. Fioretti, Paolo, 46. Florio e Biancifiore, 87n. Flourens, Pierre, 168. Fludd, Robert, 192n. Folena, Gianfranco, 58n, 60, 62, 72. Fontana, Giovanni, 101n, 127.

Formentin, Vittorio, 21n, 38n, 47, 59, 63n, 64, 69n, 72, 152n, 169. Fortini, Franco, 10 e n, 19. Foscolo, Ugo, 172 e n, 194. Franceschini, Fabrizio, 23n, 47. Francesco d’Assisi, santo, 42n. Francesco da Barberino, 57n. Francesco di Vannozzo, 59n, 72. Frau, Giovanni, 72. Froger, dom Jacques, 92, 127. Frontino, Sesto Giulio, 130. Frugoni, Francesco Fulvio, 59n.

Gadda, Carlo Emilio, 9, 14-15, 19, 171, 183, 186

e n, 187 e n, 188 e n, 193, 198. Galgano, Francesco, 35n, 47. Gambarelli, Agostino, 12-13. Gambino, Francesca, 64, 72. Gargiulo, Alfredo, 188 e n, 198. Garibaldi, Giuseppe, 172n, 175n. Gaspari, Gianmarco, 14. Gatto, Alfonso, 171, 184 e n, 185n, 186, 194, 204. Gavazzeni, Franco, 14, 19-20. Gelli, Piero, 15. Gennero, Mario, 154n, 158n, 161n, 168. Gerardo Episcopi, console pisano, xii secolo, 44. Gerardus Cigulini, 45n. Gherardo Ciguli, 23 e n, 24n, 45n. Ghiberti, Lorenzo, 176, 193. Ghinato, Angela, 147n, 150n, 152n, 169. Ghisalberti, Fausto, 14-15. Giaccarelli, Anselmo, 147. Giacomini, Amedeo, 9. Giamboni, Bono, 96. Giancarli, Giglio Artemio, 72. Giannini, Giovanni, 175n, 198. Giari, Giuseppe, 147n. Gibellini, Pietro, 9 e n, 11n, 19. Gilbert, Felix, 129n, 145. Ginatempo, Maria, 31n, 47. Giolito de’ Ferrari, Gabriele, 154n. Giordano Orsini, Gian Napoleone, 171, 177, 178 e n, 189-190, 195, 198. Giovan Angelo da Bari, 166. Giovannetti, Paolo, 201n, 209. Giovanni, detto il Battista, 177n. Giovanni Scriba, 27n, 28. Giuliana, beata, vedi Julian, Anchoress at Norwich. Giustiniani, Vito Rocco, 61n, 72. Glandolfo Rodulfi, console pisano, xii secolo, 43-44.

indice dei nomi Goad, Harold Elsdale, 181 e n, 198. Goldschmidt, Levin, 28n, 35n, 47. Gonzaga, Ferrante, 156. Gordon, Donald J., 172n. Gori, Gianfranco Miro, 199. Gori Savellini, Paolo, 198. Gorni, Guglielmo, 187n, 198. Gradenigo, Jacopo, 60n. Graesse, Jean George Théodore, 154n, 169. Greco, Lorenzo, 201n, 209. Gregory, Caspar René, 149. Grierson, Herbert John Clifford, 172n, 182, 183n. Grignani, Maria Antonietta, 15, 58, 72, 192n, 200. Grisone, Federigo, 147n, 152n, 154, 162-165, 166 e n, 169. Grossi, Tommaso, 10. Guercio da Montesanto, 51, 57, 58n, 60-61, 6364, 68. Guerra, Tonino, 9. Guevara Mellado, Pedro Luis Ladrón de, 188n, 198. Guicciardini, Francesco, 143n, 145. Storie fiorentine, 143n. Guidetti, Lorenzo, vicario di Firenzuola, 131 e n. Guidi, Andrea, 145. Guidiccioni, Giovanni, 172. Guido da Pisa, 96. Guiducci, Simone, vicario e commissario di Lari, 129. Guillén, Jorge, 178n. Guittone d’Arezzo, 67 e n. Guyotjeannin, Olivier, 47.

H

ainsworth, Peter, 187n, 198. Haym, Nicola Francesco, 154n, 156n, 169. Heintze, Albert, 189. Hemans, Felicia Dorothea, 189. Hermet, Augusto, 184n, 198. Hesse, Herman, 189. Hitler, Adolf, 191. Howard, Deborah, 58n, 71. Hyde, John Kenneth, 52n, 72. Hypnerotomachia Poliphili, 9.

Ildebrando Gualfredi, console pisano, xii se-

colo, 42-43. Ildebrando Idebrandi, console pisano, xii secolo, 42-43. Ildefonso di San Luigi Gonzaga (Giulio Gaspare Maria Frediani), 98n, 99n, 127.

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Inglese, Giorgio, 143n, 145. Ingo de Volta, mercante e console genovese, xii secolo, 27e n, 28. Inventario di beni e decime di S. Maria di Fondi, 27n. Isella, Dante, 9-20, 187n, 193, 199. Isella Brusamolino, Silvia, 20. Italia, Paola, 14, 19.

Jackson, Margaret Hastings, 82 e n, 86, 88 e

n, 127. Julian, Anchoress at Norwich, 179n, 200.

K

af ka, Franz, 189. Kiley-Worthington, Marthe, 157n, 169. Kircher, Atanasius, 192n. Kirkup, Seymour, 82, 88n, 99. Kohler, Charles, 153n, 169. Kristeller, Paul Oskar, 164n, 169. Krueger, Hilmar Carl, 27n, 30n, 31n, 47.

Lachmann, Karl, 93.

Lamberto de Santo Casiano, console pisano, xii secolo, 42-43. Lana, Iacomo (Iacopo) della, commentatore di Dante, 75 e n, 76-77. Landolfi, Tommaso, 171, 183-184, 193. Landucci, Luca, 130 e n, 145. Lane, Frederic Chapin, 31n, 47. Lanfranco, notaio genovese, xii sec., 30n. Lanza, Emanuela, 62n, 72. Larner, John, 130n, 145. Lattes, Alessandro, 34n, 47. Lazzerini, Lucia, 52n, 54 e n, 56, 57 e n, 58 e n, 61, 63-64, 65n, 69n, 70n, 72. Leggenda di Santa Caterina d’Alessandria [redaz. veronese], 64 Legnani, Alessia, 35n, 47. Lenzini, Luca, 19. Leopardi, Giacomo, 9, 179 e n. Levi, Eugenia, 175n, 198. Levi, Ezio, 75 e n, 79, 117-118, 127. Liber Maiolichinus, 25. Liberale da San Pelagio, 51-52, 68, 70. Libro delle continenze dei cavalli, 158. Limacher-Riebold, Ute, 81 e n, 86-87, 127. Limentani, Ludovico, 171, 177, 178 e n, 189-190, 195, 198. Linneo (Carl Nilsson Linnaeus), 192n. Lippi, Emilio, 54, 72. Lippi, Lorenzo, 59 e n, 72. Lisi, Nicola, 171, 184 e n, 185, 186 e n, 188, 190, 194, 198-199.

218

indice dei nomi

Livio, Tito, 130. Lodigino (?), Antonio, 150. Loise de Rosa, 59, 70, 72, 169. Lomazzo, Francesco, 9, 17. Lombardi, Baldassarre, 76. Longhi, Roberto, 18. Lopez, Roberto Sabatino, 34 e n, 35n, 46-47. Loporcaro, Michele, 73. Lorca, Federico García, 178n. Loreto, Vittorio, 126. Lori Sanfilippo, Isa, 63n, 72. Loria, Arturo, 171, 184, 185 e n, 186n, 194. Lovato de’ Lovati, 59. Lucalberti, Pazino, vicario di Scarperia e del Mugello, 138n, 139n. Lucchini, Guido, 14, 19. Ludovico, Roberto, 176n, 198. Lugnani Scarano, Emanuella, 145. Lupo Gentile, Michele, 47. Luzi, Mario, 171, 184 e n, 186, 190, 194. Luzzatto, Gino, 32n, 47.

Maccari, Mino, 185n.

MacDonald, Norman D., 191n. Macé, Caroline, 92n, 127. Machado, Antonio, 178n. Machiavelli, Niccolò, 129-145, 178n. Arte della guerra, 130 e n, 131n, 145. Cagione dell’Ordinanza, dove la si trovi e quel che bisogni fare, 129n, 131n, 136 e n, 139n, 140n, 143. La Mandragola, 61n. Principe, 129n, 130. Provisione dell’Ordinanza, 129n, 132n, 133n, 134n, 140n, 143n. Macrì, Oreste, 18, 171, 177 e n, 178 e n, 184 e n, 185n, 190, 194, 198. Maggi, Carlo Maria, 9, 17. Maggini, Francesco, 158n, 169. Magistrale, Francesco, 46. Maier, Bruno, 17. Maimone, console pisano, xii secolo, 43-44. Maire Vigueur, Jean-Claude, 147n. Manacorda, Giuliano, 175n, 176n, 185n, 189n, 190n, 198. Mancini, Marco, 72. Manetti, Roberta, 126. Manganelli, Giorgio, 12. Mango di Casalgerardo, Antonino, 155n, 169. Manni, Paola, 21, 23n, 47. Manoussacas, Manoussos, 49. Manuzzi, Giuseppe, 171n. Manzoni, Alessandro, 9, 11, 14-15, 19.

Manzotti, Emilio, 14, 19. Maragone, Bernardo, 31 e n, 32n, 47. Maraini, Antonio, 181. Maraini, Yoi, 171, 181 e n, 193, 198. Marchand, Jean-Jacques, 129n, 136n, 143n, 145. Marchi, Marco, 176n, 198. Marchi, Silvia, 170. Marcozzi, Luca, 204n, 208n, 209. Marini, Paola, 158n, 168-169. Marino, Giovanni Battista. Adone, 9. Marsand, Antonio, 153n, 169. Martelli, Mario, 145. Martignoni, Clelia, 14, 16n, 17, 19-20. Martino (?), Francesco Antonio, 150. Martinoni, Renato, 17 e n, 20. Masi, Giorgio, 145. Mastruzzo, Antonino, 23n, 47-48. Matera, Vincenzo, 21n. Matteo, evangelista, 177 e n, 194. Mazzatinti, Giuseppe, 153n, 154n, 169. Mazzini, Giuseppe, 172n. Mazzoni, Guido, 171, 177-178, 189 e n, 190 e n, 194, 199. Mazzotta, Clemente, 199. McKenzie, Kenneth, 82, 89n, 95 e n, 112, 127. Medici, Lorenzo de’, detto il Magnifico, signore di Firenze, 172n. Medin, Antonio, 59n, 72. Melera, Matteo, 145. Melis, Federigo, 33 e n, 47. Mellini, Gian Lorenzo, 60, 62, 72. Memoria di Coltibuono, 27n. Meneghello, Luigi, 172n, 180n, 198. Meneghetti, Maria Luisa, 23n, 47. Mengaldo, Pier Vincenzo, 10, 12, 18 e n, 20, 179n, 198, 207n, 209. Michel, Paul-Henry, 156n, 169. Michel, Suzanne Paul, 156n, 169. Michele, don, vedi Corella, Miguel de. Micheletto, don, vedi Corella, Miguel de. Michieli, Andrea, detto Squarzola o Strazzola, 58n, 73. Miglio, Luisa, 23n, 26 e n, 37 e n, 38n, 39n, 41 e n, 47. Migliorini, Bruno, 58n, 72. Milani, Felice, 17 e n, 20. Milani, Marisa, 56, 65n, 72. Milton, John, 177. Mioni, Alberto M., 73 Moisè da Palermo, 168. Molière ( Jean-Baptiste Poquelin), 67n, 69. Momigliano, Arnaldo, 178n.

indice dei nomi Montale, Eugenio, 9, 16-18, 171, 176 e n, 180, 185 e n, 188n, 190n, 191, 192n, 193, 199-200. Monticolo, Giovanni, 63n, 72. Morante, Elsa, 176n. Moravia, Alberto, 176n, 191. Moresco, Mattia, 27n, 46. Morlotti, Ennio, 19. Moroncini, Francesco, 9. Morpurgo, Salomone, 82 e n, 86 e n, 87, 88 e n, 89n, 99 e n, 127. Mosino, Franco, 21, 23n, 47. Motta, Attilio, 81 e n, 82 e n, 86 e n, 87-92, 9697, 98n, 100 e n, 101n, 103, 105, 114, 118, 123124, 127. Motti e facezie del Piovano Arlotto, 26n. Mussafia, Adolfo, 58, 61 e n, 72. Mussolini, Benito, 182n, 184. Muzzarelli, Maria Giuseppina, 63 e n, 72.

Navigatio Sancti Brendani, [volg. veneto,] 58. Nencioni, Enrico, 189 e n, 199. Nevola, Maria Luisa, 185n, 199. Newton, Isaac, 192n. Nicolaj, Giovanna, 23n, 34n, 35n, 47-48. Nicoletti, Giuseppe, 188n, 199. Norman, Hilda, 185, 186n.

Obizzi del Catajo, Tommaso, 149-150, 152.

Occhini, Barna (Carlo Luigi), 184n. Odasi, Michele di Bartolomeo degli, detto Tifi, 59, 73. Ojetti, Ugo, 182n. Olschki, Leo Samuele, 156n, 169. Opizzo di Lavagna, 77n. Orlando, Liliana, 14. Ortalli, Gherardo, 48-49. Ottimo commento alla Commedia, 76. Ottolini, Angelo, 10.

P

accagnella, Ivano, 69n, 73. Pace, Antonio, 98n, 103n, 126-127. Padoan, Giorgio, 69n, 71, 73. Paglia, Luisa, 21-22, 23n, 48. Palamidesi dal Borgo San Sepolcro, Ciriaco, 129. Palazzeschi, Aldo, 171, 173 e n, 174 e n, 175, 180n, 185 e n, 190n, 191, 193, 195, 199. Palazzi, Fernando, 171n. Palmieri, Lorenzino, 156, 169. Pancrazi, Pietro, 173, 180 e n, 182n, 197, 199. Pandolfini, Alfonso, 133. Paoli, Cesare, 27n, 48, 88 e n, 127. Paoli, Matilde, 47.

219

Paoli, Rodolfo, 171, 184, 189 e n, 194. Paolino Minorita, 66n. Paolo da Castello, 65, 68n, 69n. Papi, Roberto, 171, 184-186, 193. Papini, Maria Carla, 182n, 199. Papini, Giovanni, 171, 173-174, 176 e n, 179 e n, 180 e n, 181n, 182n, 184 e n, 185n, 190 e n, 193, 199. Parigi, Pietro, 185n. Parini, Giuseppe, 9-13, 19-20. Parisi, Sallustio, 155. Parronchi, Alessandro, 18, 184n, 200. Pascoli, Giovanni, 175 e n. Passerini, Giuseppe Lando, 76n, 79. Pastanello qd. Guidonis Marronis de Pugna, notaio pisano, xii secolo, 38n. Pavolini, Corrado, 173n. Pawlowska, Yoi, vedi Maraini, Yoi. Pellegrini, Giovan Battista, 58, 71, 73. Penco, Gregorio, 185n, 199. Penna, Sandro, 188n, 199. Percolla, Stefano, 155 e n, 169. Pertusi, Agostino, 49. Peschiolanciano, Giuseppe d’Alessandro, duca di, 164n, 165n, 169. Peterson, Tom, 175n, 199. Petrarca, Francesco, 57n, 99n, 158 e n, 159, 164, 169, 172n, 204n. Rerum vulgarium fragmenta, 204n. Petrocchi, Giorgio, 75. Petronilli, Giovanni, 188n, 199. Petrucci, Armando, 21n, 25 e n, 26, 27n, 36, 37n, 38n, 42n, 48, 57n, 73. Petrucci, Livio, 21-22, 23n, 26 e n, 27n, 36n, 41, 48, 70n, 73. Picchi, Anna (Annina), 204, 206, 207n, 208 e n. Piccini, Davide, 109, 127. Piceni, Enrico, 171n. Picone, Michelangelo, 81, 126-127. Piergiovanni, Vito, 34 e n, 35n, 48. Pietro, santo, apostolo e papa, 123. Pietro Albizonis, console pisano, xii secolo, 42-43. Pietro Vicecomes, console pisano, xii secolo, 42-43. Pietropaoli, Antonio, 182n, 199. Pignatelli, Giovan Battista, 161 e n, 168. Pinotti, Giorgio, 14, 19. Pinzuti, Eleonora, 147n. Pirandello, Luigi, 174 e n, 183n, 195. Pirona, Giulio Andrea, 60n, 72. Poggi Salani, Teresa, 21, 23n, 48. Pomaro, Gabriella, 82n, 86, 88.

220

indice dei nomi

Pontremoli, Alessandro, 145. Porfirione, Pomponio, 51. Porta, Carlo, 9-11, 19. Porta, Giuseppe, 59n, 61n, 73, 109, 114, 117, 127. Pozzi, Giovanni, 9, 12, 18. Prampolini, Giacomo, 173n. Pratolini, Vasco, 186. Praz, Mario, 177 e n, 178n, 192n, 199. Prezzolini, Giuseppe, 180n. Price, Alyson, 181n, 199. Prima Deca di Tito Livio, volgarizzamento, 60n. Prunai Falciani, Maria, 147n. Pryor, John H., 31n, 48. Pucci, Antonio, 81-128. Puccini, Davide, 59n, 73. Puccini, Giacomo, 184. Puccio Lamoni (Paolo Minucci), 59 e n, 72. Puncuh, Dino (Leopoldo), 28n, 34n, 45n, 46, 48. Purves, Hugh J. N., 172, 191n. Purves, John, 172-200.

Q

uando eu stava in le tu cathene, 38n. Quasimodo, Salvatore, 191. Quentin, dom Henri, 92. Quirini, Giovanni, 51, 54, 68, 71.

Rabboni, Renzo, 81 e n, 82n, 86-87, 89-91, 95,

98n, 100 e n, 127. Rabelais, François, 59n. Raboni, Giulia, 14, 19. Raccuia, Nicolò Placido Branciforti, conte di, 155. Ramat, Silvio, 194. Rambaldi, Benvenuto dei, vedi Benvenuto da Imola. Rando, Daniela, 72. Ravegnani, Giuseppe, 179 e n, 182n, 200. Raymond, Irving Woodworth, 34n, 46-47. Rebora, Piero, 183n, 189n, 200. Regimen sanitatis, 61n. Reina, Francesco, 11-13. Regoli, Antonio, 77n, 79. Respino Coletta, 161 e n, 162, 164 e n, 168. Reverdini, Niccolò, 14n. Riccardi, Carla, 14n. Ricci, Corrado, 75 e n, 76n, 79. Ricci, Seymour Montefiore Robert Rosso de, 23n, 46. Richter, Mario, 179n, 200. Ricordi veronesi, 27n. Rigano, console pisano, xii secolo, 44.

Rinieri, Stoldo, vicario di Anghiari, 131n. Rinuccini, Camillo, 155n, 169. Rivalta, Marco, 171, 181, 194. Rizzi, Alberto, 62n, 73. Robins, William, 81 e n, 82n, 91, 92 e n, 93-96, 98n, 100 e n, 101 e n, 102-105, 107-109, 111, 117118, 124, 127. Rocco (Roch de la Croix), santo, 76n. Rodondi, Raffaella, 14, 19, 200. Rohlfs, Gerhard, 152n, 169. Romagnoli, Sergio, 10. Rosai, Ottone, 171, 182 e n, 184, 185n, 188 e n, 194, 199-200. Rossanda, Rossana, 19. Rossebastiano Bart, Alda, 61n, 73. Rossetti, Christina Georgina, 172n. Rossetti, Dante Gabriel, 172 e n. Rossi, Vittorio, 58n, 73. Rostagno, Enrico, 76n, 79. Rottweil, Adam von, 61n, 72. Rovetta, Marta, 126. Rubini, Luisa, 81, 127. Rucellai, Cosimo, 130. Ruggieri (di Ruggiero / Ruggieri Sanseverini / di Rogiero Sanseverini), Alfonso, 155 e n, 156, 161, 163, 166. Ruggieri Sanseverini, Alfonso, vedi Ruggieri, Alfonso. Rusio, Lorenzo, 163, 165. Russo, Luigi, 171, 174n, 182, 190, 194, 200. Rustico, console pisano, xii secolo, 44. Ruzzante, Angelo Beolco detto, 60n, 66n, 67, 69, 73.

S

aba, Umberto, 192 e n, 193, 196, 200. Sacchetti, Franco, 59, 73, 87n, 127. Sacchi, Luca, 91n, 128. Salemans, Ben, 93, 95n, 96, 97n, 128. Sallach, Elke, 58, 73. Salvioni, Carlo, 66 e n, 68n, 69n, 71, 73. Sambucco, Micaela, 147n. Sanfilippo, Carla Maria, 54n, 73. Sanseverino, Giovan Francesco, 163, 164 e n, 165-166. Santini, Giovanna, 126. Santini, Pietro, 115, 128. Santoli, Vittorio, 171, 177-178, 195. Santorio, Santorio, 192n. Sanudo, Marin, 61 e n, 73. Sasso, Gennaro, 129n, 130n, 141n, 143n, 145. Savini, Ferdinando, 75n, 79. Savino, Giancarlo, 147n.

indice dei nomi Saxl, Fritz, 178n. Scaffai, Niccolò, 201n, 209. Scalfati, Silio Pietro Paolo, 42n, 45n, 46, 48. Scalia, Giuseppe, 21n. Schaube, Adolf, 23n, 48. Scheiwiller, Giovanni, 182n, 200. Scheiwiller, Vanni, 18. Scheuchzer, Johann Jakob, 192n. Schiaffini, Alfredo, 11. Schiller, Friedrich, 189. Schubert, Franz, 189. Schwarze, Sabine, 48. Scott, Walter, 172n. Scrovegni, Enrico, 52, 64, 68. Segre, Cesare, 101n, 103n, 128, 169. Sella, Pietro, 63n, 73. Senofonte, 147, 164-165. Sereni, Vittorio, 9, 15, 17-19. Serianni, Luca, 47-49, 87n, 128. Serravalle, Giovanni da, vedi Bertoldi, Giovanni. Sforza, Ludovico Maria, detto il Moro, duca di Milano, 9. Shakespeare, William, 178 e n. Sidney, Philip, 178. Sigismondo, console pisano, xii secolo, 44. Signorini, Maddalena, 37n, 49. Siliceo, Ottaviano, 161 e n, 170. Silvestri, Andrea, 14. Sinibaldo, console pisano, xii secolo, 44. Sismondo Enrigi, console pisano, xii secolo, 42-43. Soderini, Piero, gonfaloniere di Firenze, 143. Soffici, Ardengo, 171, 174n, 179 e n, 180n, 182 e n, 184 e n, 185n, 188, 190-191, 193, 199-200. Solleysel, Jacques de, 158n, 170. Solmi, Sergio, 176n. Somelli, Lorenzo, 204n, 209. Soranzo, Giovanni, 52n, 73. Sorbelli, Albano, 156n, 170. Spagnoletti, Giacinto, 189n, 200. Spagnolo, Antonio, 154n, 170. Spinoza, Baruch, 172n. Spongano, Raffaele, 11, 158n, 170. Stagni, Ernesto, 48. Statuto della fraglia dei marangoni (Padova, xiv secolo ex.), 64. Statuto della fratalea merzariorum de Padua, volgarizzamento, 63. Stellardi, Giuseppe, 187n, 200. Stevenson, Daniel, 181n. Stolz von Stolzenberg, Daniel, 192n.

221

Stoppelli, Pasquale, 61n, 73. Storti Storchi, Claudia, 36n, 49. Stussi, Alfredo, 34n, 35 e n, 38n, 49, 82n, 128.

Tabanelli, Giorgio, 180n, 185n, 190n, 197.

Tangheroni, Marco, 35n. Tanzi, Carlantonio, 17, 20. Tassi, Ivan, 186n, 200. Tasso, Torquato, 9, 16, 172n. Tavola ritonda, 87n. Taylor, Chris, 171n. Tebalduccio, Antonio, vedi Giacomini Tebalducci, Antonio. Tecchi, Bonaventura, 183n. Tecchi, Giovanna, 171, 183, 193. Tedaldi, Pieraccio, 87n. Teotinus, Cesar, vedi Cesar Teotinus. Terzoli, Maria Antonietta, 14, 198. Tessa, Delio, 9. Testa, Enrico, 201 e n, 202n, 208n, 209. Thomas, Dylan, 191 e n. Ticciati, Laura, 36n, 49. Tigri, Giuseppe, 175n, 200. Tissoni Benvenuti, Antonia, 127. Tittamanzi, Alfredo, vedi Loria, Arturo. Tizi, Marco, 12, 20. Tolaini, Emilio, 23n, 49. Tommaseo, Niccolò, 76, 171n. Tommaso d’Aquino, santo, 77n. Torraca, Francesco, 76, 77 e n, 79. Trifone, Pietro, 47-49. Trolli, Domizia, 158n, 162n, 170. Trombetti Budriesi, Anna Laura, 158n, 170. Trovato, Paolo, 96, 98, 100, 102-103. Tucci, Ugo, 33 e n, 34n, 35n, 36n, 49.

Ubaldini, Ottaviano degli, vescovo di Bolo-

gna e cardinale, 75 e n. Ubaldini, Ruggieri degli, arcivescovo di Pisa, 75. Uberti, Fazio degli, 99n. Ughelli, Ferdinando, 76n, 77. Ungaretti, Giuseppe, 9, 172n, 173 e n, 174n, 179, 196-197. Unger, Richard W., 30n, 49.

V

agnetti, Gianni, 171, 181-182, 194. Valentino, vedi Borgia, Cesare. Vallecchi, Attilio, 173n, 184n. van Dam, Jan, 189n. van Mulken, Margot, 92n, 128. van Reenen, Pieter, 92n, 128.

222

indice dei nomi

Vannucci, Marcello, 176n, 200. Vanzi, Silvestro, 162 e n. Varanini, Gian Maria, 72. Varese, Fabio, 9. Varvaro, Alberto, 72, 98n, 128. Vauchez, André, 76n, 79. Vegezio Renato, Publio Flavio, 158. Vela, Claudio, 14, 201n. Vellutello, Alessandro, 76. Venturi, Pompeo, 76. Verdon, Jean, 61n, 73. Verlato, Zeno Lorenzo, 72. Vernon, William Varren, 116, 128. Veselovskij, Aleksandr Nikolaevi©, 99. Vespucci, Luca, podestà di Fucecchio, 131n. Vetrulario, console pisano, xii secolo, 44. Vico, Giovan Battista, 177 e n, 194, 200. Vielliard, Françoise, 92, 126. Villani, Francesco Paolo, 16 e n, 19. Villani, Giovanni, 59, 61n, 73, 90, 109, 114, 117, 127. Vinci, Leonardo da, 16-17. Violante, Cinzio, 31n, 49. Virgilio Marone, Publio, 129, 130n, 145, 164.

Visconti, Alberto, 32n. Vittorini, Elio, 9, 174 e n, 200.

Wallis, John, 192n.

Warrack, Grace Harriet, 179n, 200. Waterfield, Lina, vedi Duff-Gordon, Lina. Wedekind, Frank, 189. Werner, Edeltraud, 48. Wesselofski, Alessandro, vedi Veselovskij, Aleksandr. Wilson, William J., 46. Wolf, Edwin, 23n, 49. Woolf, Virginia, 183n.

Zabagli, Franco, 81 e n, 88, 98n, 126, 128.

Zaggia, Massimo, 59, 73. Zagni, Luisa, 27n, 49. Zampa, Giorgio, 199. Zanino, vedi Quirini, Giovanni. Zanzotto, Andrea, 18. Zeno, Riniero, 28n, 49. Zorzi, Ludovico, 60n, 67n, 73. Zuliani, Luca, 16, 202 e n, 203n, 204 e n, 206n, 207n, 209.

I NDI C E D E I M A N O S CR I T TI E D E I POS T ILLAT I Bologna Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio A 1571: 156 e n, 157, 159-162. A 1596: 162n. Biblioteca Universitaria 158 (già Aula II A. Manoscritti Italiani Antichi; Pucci, U/BU): 89-91, 95 e n, 96, 103125. Città del Vaticano Archivio Segreto Vaticano Fondo Veneto I, nº 7020: 62n. Biblioteca Apostolica Vaticana Barberiniani latini 3953: 51-52, 57n. Borgiani latini 384 (già M vii 23; Nr. ant. 177; Pucci, V/ Vbo): 89-90, 94-95, 104-125. Chigiani L viii 302: 16. Urbinati latini 271: 162n. 272: 162n. Edinburgh National Library of Scotland John Purves - Autograph Collection Acc. 7175: 171-200. Acc. 7203: 172n. ne 844.b.1: 192n. ne 844.b.2: 182n. ne 844.c.5: 191n. Firenze Archivio di Stato Dieci di Balia Carteggi Missive 82: 131n. 85: 131n. Nove Conservatori dell’Ordinanza e Milizia Carteggi Missive 1: 132n, 133n, 134n, 135n, 136n, 138n, 139n, 140n, 142n, 143n. Notificazioni e querele 1: 137n, 144n.

Deliberazioni condotte e stanziamenti 2: 137n, 141n. Biblioteca Medicea Laurenziana Ashburnhamiani 542 (Pucci, FLa): 89-90. Segni XVII (Pucci, FLs): 89-90. Biblioteca Nazionale Centrale Fondo Nazionale II iv 344 (Pucci, FN1): 90. II vii 2 (Pucci, FN2): 90. II viii 46 (Pucci, FN3): 90. Magliabechiani viii 1272 (prov. Gaddi; Pucci, N): 103. Nuovi Acquisti 333 (già Kirkup; Pucci, K/A): 82-92, 94-125. Panciatichiani 20 (già 49 iii 21; Pucci, P): 104, 107, 114-117. Biblioteca Marucelliana C 265 (Pucci, M/FM): 89, 92, 95-96, 101n, 103-104, 108-125. Biblioteca Moreniana Bigazzi 213 (Pucci, B/FRm): 90, 91n, 95-96, 103, 107125. Biblioteca Riccardiana 1005 (Dante, Commedia, Rb): 75n. 1050 (già O iv 40): 99n. 2300: 158n. 2518: 156, 157, 159-162. 2519: 156, 162n. 2725 (già O iv 22; Pucci, F): 95, 104, 107-125. 2733 (Pucci, FR1): 89-90. 2854 (Pucci, D): 95n. 2869/1 (Pucci, FR3): 89-90. 2873 (Pucci, FR2): 89-90. 2971 (Pucci, R): 104, 114-117. Centro di Studi “Aldo Palazzeschi” Fondo Palazzeschi u.d. 5135: 173n, 195. u.d. 5136: 174n, 195. Innsbruck Universitäts- und Landesbibliothek für Tirol 782: 166.

224

indice dei manoscritti e dei postillati

London British Library Sloane 1074: 161n. 2757: 153, 157 e n, 159-161. Milano Biblioteca Ambrosiana ii 4: 12-13. iii 4: 13. Modena Biblioteca Estense Universitaria · H 8 1 (ital. 953): 147-153, 157 e n, 159-161, 163, 165 e n, 166. Napoli Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» xii E 10: 164n. xiii C 37: 62. Padova Biblioteca Civica BP 899: 64. BP 1475: 63. Biblioteca del Seminario Vescovile 91: 65, 68n. Paris Bibliothèque Nationale de France Fonds italien 57: 162n. 458: 161n. 1136: 161n. 1137: 162n. 1290: 153, 157 e n, 159-161, 163. 1528: 154, 157, 160-161. 1543: 16. Bibliothèque Sainte Genéviève 3352: 153, 157 e n, 159-161, 163. Institut de France Manuscrits de Léonard de Vinci I (Pucci, I): 104. Philadelphia Free Library Lewis European 136 (Rendiconto navale pisano): 21-49. Pisa Archivio di Stato Atti pubblici 7 marzo 1166: 42n.

Coletti 13 luglio 1173: 42n. Opera della Primaziale 27 ottobre 1142: 42n. 19 giugno 1205: 38n. Roncioni 26 maggio 1155: 42n. San Michele 18 novembre 1152: 42n. Conservatorio di Sant’Anna 10 gennaio 1221: 38n. Archivio arcivescovile Fondo Arcivescovile 247: 42n. 275: 42n. 284: 42n. 291: 42n. 299: 42n. 304: 42n. 305: 42n. 309: 42n. 326: 42n. 332: 42n. 333: 42n. 343: 42n. 353: 42n. 354: 42n. 376: 42n. 400: 42n. 404: 42n. 407: 42n. 412: 42n. 424: 42n. 427: 42n. 430: 42n. 431: 42n. 445: 42n San Matteo 9: 42n. 10: 42n. 12: 42n. 13: 42n. 14: 42n. 15: 42n. 16: 42n. 17: 42n. 18: 42n. 19: 42n.

indice dei manoscritti e dei postillati 20: 42n. 21: 42n. 22: 42n. 23: 42n. 24: 42n. 25: 42n.

225

Siviglia Biblioteca Capitular y Colombina 7 1 32 (Nicolò de’ Rossi, ‘canzoniere colombino’): 51-72.

Reggio Emilia Biblioteca Municipale Vari B 147: 162n. Roma Biblioteca «Angelo Monteverdi» - Università degli Studi «La Sapienza» Fondo Monaci ms. non catalogato (Pucci, S): 95-96, 104-125.

Venezia Biblioteca del Museo Correr 2546 (Pucci, VC): 89. Verona Biblioteca Capitolare DCCXXVIII: 154, 157, 159-161. Biblioteca Civica 1778: 154, 157 e n, 159-161. Wellesley (Massachusetts, usa) Wellesley College Library Plimpton 101: 86-88, 98.

Manoscritti perduti o non localizzati ms. Buzzati di Paolo da Castello: 68n.

I N D I CE D E I NOM I DEL L E L E T T E R E M ACHIAVE LLIAN E

Agnolo (Agnolone) da Castiglione, 132, 144.

Alessandri, Guglielmo degli, 138-139, 144. Andrea di Matteo di Grado, 136. Antonio di Biagio dal Borgo, 138. Arcangiolo da Castiglione, 135.

Bartolini, Damiano, vicario di Pescia, 138, 144.

Bartolini, Giovan Battista, commissario di Cascina, 132, 144. Bartolomeo, 131. Bastiano di Matteo da Castiglione, 140. Bastiano di Piero da Castiglione, 136, 142, 143n, 144. Beco di Cristofano di Bartolozo da Pulicciano, 137-138. Bernardini, Giorgio di Bernardo, 137. Berto da Filicaia, vicario di Pescia, 135-136, 144. Bianco da Pergine, 135. Borgia, Cesare, detto il Valentino, 145. Bruni, Michele, podestà di Colle Val d’Elsa, 134, 144.

Giovanni Crisostomo, santo, 144n. Giovanni di Giovan Pagolo da Castelfranco, 143n, 144n. Lucalberti, Pazino, vicario di Scarperia e del Mugello, 140, 142, 144.

Maliscotti, Baldassarre, conestabile, 132, 144.

Manetti, Filippo, capitano di Cortona, 132, 144. Mariano di Michele, 137. Mariano di Verdiano d’Antonio da San Giorgio, 132. Masi, Antonio di Duti, vicario di Val di Cecina, 140, 144. Maso di Matteo Porcellana da Castelfranco, 137-138. Matteo (alias Pagliaio) da Caprigliola, 138. don Michele/don Micheletto, 141-145.

Nanni, Menico di Giovanni di, 143n, 144n. Pagliaio, vedi Matteo da Caprigliola.

n, 144. Castellani, Antonio, vicario di Pieve Santo Stefano, 139, 144. Cerchio, 134. Cieco di Lodovico da Cortona, 132.

Pandolfini, Alfonso, 144. Paolo di Giovanni, 140. Papa da Fordiglia da Uzzano, 135-136. Pela da Montebuiano, Lorenzo, 137. Peruzzi, Giovanni, vicario di San Giovanni, 135, 144. Pitti, Giovanni di Salvestro, capitano di Borgo San Sepolcro, 135, 144.

Del Fontana, Nanni, 142.

Ramazzotto, Paolo, 140.

Carducci, Agnolo, capitano di Arezzo, 143 e

Del Mare, Giovanni, 137. Del Tozzo, Raffaello, 142. Dietaiuti da Prato, 141. Dini, Niccolò, podestà di Colle Val d’Elsa, 135, 144. Dionigi di Naldi (di Naldo), 140.

Giacomini Tebalducci, Antonio, 136, 144.

Giannisino da Serrezana, 133. Giannone, 140. Giliberto, spagnolo, 135-136. Giorgio di Bernardino da Camaggiano, 137. Giovan Battista dall’Incisa, 132.

Ricci, Federico de’, vicario di Pescia, 133, 144. Rinieri di Francesco, 139.

S

anti di Piero da Castro, 135 e n. Santoni, Giovanni di Piero, 142 e n. Sarra da Citerna, 137, 140. Simone di Iacopo, 140.

T

antini, Mariano di Michele, 137. Tommaso, ser, 143n.

V

enna, Donato di Giovanni, 137. Venna, Maria di Donato di Giovanni, 137.

SI GL E I M P I E G AT E I N QUE S TA RIVIS TA afw

= Altfranzösisches Wörterbuch. Adolf Toblers nachgelassene Materialen, bearbeitet und herausgegeben von Erhard Lommatzsch, weitergeführt von Hans Helmut Christmann, Berlin, WeidmannscheBuchhandlung; poi Wiesbaden, Steiner; poi Stuttgart, Steiner, 1915-1989. ais = Karl Jaberg, Jakob Jud, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, 8 voll., Zofingen, Ringer, 1928-1940. bhl = Bibliotheca Hagiographica Latina Antiquae et Mediae Aetatis, 2 voll., Bruxelles, Société des Bollandistes, 1898-1899 (rist. 1992; si cita per commi). bmc = Short-title catalogue of books printed in Italy and of Italian books printed in other countries from 1465 to 1600 now in the British Museum, London, The British Museum, 1958; Supplement, London, The British Library, 1986. bsdi = «Bullettino della Società Dantesca Italiana». clpio = Concordanze della lingua poetica italiana delle origini (clpio ), i, a cura di d’Arco Silvio Avalle e con il concorso dell’Accademia della Crusca, Milano-Napoli, Ricciardi, 1992. cn = «Cultura neolatina». cod = Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di Giuseppe Alberigo [et alii], consulenza di Hubert Jedin, Bologna, Edizioni Dehoniane, 20022. ct = «Critica del testo». dbi = Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-. dei = Carlo Battisti, Giovanni Alessio, Dizionario etimologico italiano, Firenze, Barbèra, 19501957. disc = il Sabatini Coletti. Dizionario della Lingua Italiana, Milano, Rizzoli Larousse. ed = Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970-1978. edit16 = Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (iccu), Censimento nazionale delle edizioni italiane del xvi secolo (edit 16) (http://edit16.iccu.sbn.it/). ei = Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana. fec = «Filologia e critica». few = Walter von Wartburg, Französisches Etymologisches Wörterbuch: eine Darstellung des galloromanischen Sprachschatzes, Bonn, Schröder (poi Leipzig, Schröder; poi Basel, Zbinden), 1928-. gavi = Giorgio Colussi, Glossario degli antichi volgari italiani, Helsinki, University Press, 1983-. gdli = Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, utet, 1961-2002. gsli = «Giornale storico della letteratura italiana». gw = Gesamtkatalog der Wiegendrücke, Leipzig, 1925-1938 (i-vii), Stuttgart 1968-. igi = Indice Generale degli Incunaboli delle biblioteche d’Italia, a cura del Centro Nazionale d’Informazioni Bibliografiche, 6 voll., Roma, Libreria dello Stato, 1943-1981. imbi = Inventario dei Manoscritti delle Biblioteche d’Italia, fondati da Giuseppe Mazzatinti, Forlì, Bordandini, poi Firenze, Olschki, i (1890)-. imu = «Italia medioevale e umanistica». istc = Incunabula Short-Title Catalogue, database a cura della British Library, consultabile all’indirizzo http://www.bl.uk/catalogues/istc/. iupi = Incipitario Unificato della Poesia italiana, a cura di Marco Santagata, 4 voll., Modena, Panini, 1988-1996. lei = Max Pfister, Lessico etimologico italiano, Wiesbaden, Reichert, 1979-. li = «Lettere italiane». lia = «Letteratura italiana antica». liz = Letteratura Italiana Zanichelli. Cd-Rom dei testi della letteratura italiana, a cura di Pasquale Stoppelli e Eugenio Picchi, Bologna, Zanichelli, 2001. ls = «Lingua e Stile».

230 ln lp mlr mr nrili oed

sigle impiegate in questa rivista

= «Lingua nostra». = «Lectura Petrarce». = «Modern Language Review» = «Medioevo romanzo». = «Nuova rivista di letteratura italiana». = The Oxford English Dictionary, 2nd edition, 20 vols., Oxford, Oxford University Press, 1989. pd = Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, 2 voll., Milano-Napoli, Ricciardi, 1960. pl = Patrologiae cursus completus, seu Bibliotheca universalis […] omnium SS. Patrum, doctorum scriptorumque ecclesiasticorum […]. Series Latina in qua prodeunt Patres, doctores scriptoresque Ecclesiae Latinae a Tertulliano ad Innocentium III, accurante Jacques-Paul Migne, voll. 1-221, Parisiis, Migne, 1844-1865. psw = Emil Levy, Provenzalisches Supplement-Wörterbuch. Berichtungen und Ergänzungen zu Raynouards Lexique roman, Leipzig, Reisland, 1894-1924. r = «Romania». repim = Repertorio della poesia italiana in musica, 1500-1700, a cura di Angelo Pompilio, consultabile in rete all’indirizzo http://repim.muspe.unibo.it. rew = Wilhelm Meyer-Lübke, Romanisches Etymologisches Wörterbuch, 3e vollständing neubearbeitete Auflage, Heidelberg, Winter, 19353. rili = «Rivista di letteratura italiana». ris1 = Ludovico Antonio Muratori, Rerum Italicarum Scriptores ab anno aerae Christianae quingentesimo ad millesimum quingentesimum, quorum potissima pars nunc primum in lucem prodit ex Ambrosianae Estensis aliarumque insignium bibliothecarum codicibus, 25 tt., Mediolani, ex typographia Societatis Palatinae in Regia Curia, 1732-1751. ris2 = Rerum Italicarum Scriptores. Raccolta degli storici italiani dal cinquecento al millecinquecento ordinata da Ludovico Antonio Muratori, nuova ed., 125 voll., Città di Castello, Lapi/Bologna, Zanichelli, 1900-1975. rism = Répertoire international des sources musicales, consultabile in rete all’indirizzo http:// rism.stub.uni-frankfurt.de. rli = «Rassegna della letteratura italiana». sb = «Studi sul Boccaccio». sd = «Studi danteschi». sfi = «Studi di filologia italiana». slei = «Studi di lessicografia italiana». sgi = «Studi di grammatica italiana». sli = «Studi linguistici italiani». sm = «Studi medievali». smi = «Stilistica e metrica italiana». smv = «Studi mediolatini e volgari». sp = «Studi petrarcheschi». spct = «Studi e problemi di critica testuale». st = «Studi tassiani». stci = Short-Title Catalogue of Books Printed in Italy and of Italian Books Printed in Other Countries from 1465 to 1600 now in the British Museum, London, The British Museum, 1958. tb = Niccolò Tommaseo, Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, 8 voll., Torino, utet, 1861-1879. tlio = Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, allestito dall’Opera del Vocabolario Italiano (Centro di studi del Consiglio Nazionale delle Ricerche presso l’Accademia della Crusca, Firenze), consultabile in rete all’indirizzo www.vocabolario.org. vei = Angelico Prati, Vocabolario Etimologico Italiano, Milano, Garzanti, 1951 (rist. 1970). zrph = «Zeitschrift für romanische Philologie».

co m p o sto i n c a r att e re da n te m onotype da lla fa b ri z i o se rr a e d i to re, pisa · ro m a . sta m pato e ri l e gato nella t i p o gr a f i a d i agna n o, ag nano pisa no (pisa ).

* Maggio 2010 (cz 2 · fg 21)

ER MEN EU TI CA LE TTE RARIA Rivista diretta da Paolo Leoncini

ESP ER I EN ZE LE TTE RARIE Rivista trimestrale di critica e di cultura fondata da Mario Santoro, diretta da Marco Santoro

FI LO LO GI A ITALIANA Rivista diretta da Simone Enrico Albonico, Stefano Carrai, Vittorio Formentin e Paolo Trovato

HV MANIS TICA An International Journal of Early Renaissance Studies Rivista diretta da Marcello Ciccuto e Francesco Furlan

I N CO N TR I LING UIS TICI Rivista fondata da Roberto Gusmani

I TAL I ANIS TICA Rivista di letteratura italiana Periodico quadrimestrale diretto da Davide De Camilli e Bruno Porcelli

L A L I N GUA ITALIANA Storia, strutture, testi Rivista internazionale diretta da Maria Luisa Altieri Biagi, Maurizio Dardano, Gianluca Frenguelli e Pietro Trifone

L A MO DER N I TÀ LE TTE RARIA Rivista annuale diretta da Angelo R. Pupino

L A N U OVA RICE RCA Pubblicazione annuale del Dipartimento di Linguistica, Filologia e Letteratura moderna dell’Università degli Studi di Bari diretta da Ruggiero Stefanelli

L ETTER ATU R A & ARTE Rivista diretta da Marcello Ciccuto, Francesco Divenuto, Francesco Furlan e Pasquale Sabbatino

L ETTER ATU R A E DIALE TTI Rivista diretta da Pietro Gibellini

L ETTER ATU R A E L ETTE RATURE Rivista diretta da Edoardo Esposito e Dante Della Terza

L ETTER ATU R A I TAL IANA ANTICA Rivista annuale di testi e studi Fondata da Antonio Lanza e Mirella Moxedano Lanza, diretta da Antonio Lanza. Moxedano editrice, Roma

L I NGU I STI CA E L ETTE RATURA Rivista semestrale diretta da Roberto Mercuri

M ED I O EVO L ETTER ARIO D’ITALIA Rivista internazionale di filologia, linguistica e letteratura An International Journal of Philology, Linguistics and Literature diretta da Sandro Orlando

MO DER NA Semestrale di teoria e critica della letteratura Rivista diretta da Romano Luperini

PAR ATESTO Rivista diretta da Marco Santoro e Maria Gioia Tavoni

P I R AN DEL L IANA Rivista internazionale di studi e documenti diretta da L. Rino Caputo

QUADER N I D EL ’ 9 0 0 Rivista diretta da Carlo Chiarenza e Stefano Giovanardi

R ASSEGNA E UROPE A DI L ETTER ATURA ITALIANA Rivista diretta da Johannes Bartuschat

R I V I STA D I L ETTERATURA ITALIANA Rivista quadrimestrale diretta da Giorgio Baroni

R I V I STA DI L ETTERATURA TE ATRALE Rivista annuale diretta da Pasquale Sabbatino e Piermario Vescovo

R I V I STA D I P SI CO L I N GUIS TICA APPLICATA Rivista quadrimestrale diretta da Maria Antonietta Pinto

R I V I STA I TAL I ANA DI LING UIS TICA E DI DI AL ETTOLOG IA Rivista annuale diretta da Diego Poli

SCHI FANOIA Rivista semestrale a cura dell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara diretta da Gianantonio Venturi

SCR IPTA An International Journal of Palaeography and Codicology Rivista diretta da Mario Capasso e Francesco Magistrale

SEI CENTO & SE TTE CE NTO Rivista di letteratura italiana diretta da Arnaldo Bruni

STU DI BU ZZATIANI Rivista annuale del Centro Studi Buzzati fondata da Nella Giannetto

S TU D I E P RO BL EMI DI CRITICA TE S TUALE Rivista diretta da Alfredo Cottignoli, Clemente Mazzotta†, Emilio Pasquini e Vittorio Roda

Sandra Covino

Giacomo e Monaldo Leopardi falsari trecenteschi Contraffazione dell’antico, cultura e storia linguistica nell’Ottocento italiano Presentazione di Luca Serianni L’opera inquadra i falsi medievali di Giacomo e Monaldo Leopardi nella più ampia cornice delle contraff azioni testuali ottocentesche, indagandone aspetti linguistici, precedenti storici e moventi ideologici. Attraverso il tema dell’arcaismo e delle falsificazioni testuali, l’autrice mette a fuoco la dialettica fra tradizione e innovazione in una fase cruciale della nostra storia linguistica ed i legami fra cultura italiana e cultura europea in un’epoca pervasa dal «mito delle origini». In quel contesto, manipolazioni e mistificazioni costituirono un nuovo modo di rapportarsi al passato, ispirato da istanze e problematiche decisamente attuali. In Italia, in particolare, la produzione di falsi letterari fu stimolata dall’acceso dibattito sulla questione della lingua e dal contrasto tra l’attaccamento alle tradizioni locali e la tensione risorgimentale verso un’identità comune.

Il secondo tomo offre una ricca rassegna di testi ed è suddiviso in tre sezioni. L’ultima è costituita da un’antologia di falsi confezionati o editi nel XIX secolo; la prima sezione contiene l’edizione critica del Martirio de’ Santi Padri, che presenta una rilevante novità, per quanto riguarda l’apparato critico, rispetto ai precedenti delle edizioni di Moroncini (1931) e di Benucci (2006); la seconda sezione è occupata dal Memoriale di frate Giovanni da Camerino, la miscellanea in finto marchigiano trecentesco con cui Monaldo ingaggiò con il figlio una competizione dai risvolti complessi e intriganti. L’approfondita analisi linguistica e testuale dedicata alle prove mimetiche di Giacomo e Monaldo Leopardi, e di altri scrittori ottocenteschi, mette in luce i tratti arcaizzanti più ricorrenti nella ‘grammatica dei falsi’ e i motivi di interesse che le contraff azioni offrono allo storico della lingua italiana.

Giacomo and Monaldo Leopardi’s medieval forgeries are placed within the wider context of 19th century counterfeiting by exploring linguistic aspects, previous historical instances and ideological motives.Through the theme of archaism and textual falsifications, the author sheds light on the dialectic between tradition and innovation during a crucial phase of our linguistic history, as well as the links between Italian and European culture during an era pervaded by the «myth of origins». Sandra Covino è professore associato di Linguistica italiana presso l’Università per Stranieri di Perugia, dove attualmente presiede i Corsi di laurea magistrale dell’Area Lettere. Ha pubblicato saggi ed edizioni sulla storia della linguistica e della filologia nell’Ottocento italiano; sulle componenti auliche e arcaizzanti della prosa letteraria italiana tra Otto e Novecento e sull’oratoria risorgimentale; sull’espansione storica dell’italiano nel bacino del Mediterraneo; sull’italiano scritto professionale e sulla didattica dell’italiano letterario per stranieri.

Biblioteca dell’«Archivum Romanicum». Serie I, vol. 342 2009, cm 17 ¥ 24, tomo I: xvi-326; tomo II: vi-394 con 2 tavv. f.t. √ 73,00 [isbn 978 88 222 5734 5]

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Casella postale 66 • 50123 Firenze email: [email protected][email protected] Tel. (+39) 055.65.30.684

LEO S. OLSCHKI

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GIARDINI

E D I TO R I E S TA M PATO R I I N

PISA www.libraweb.net

Ada Negri

«Parole e ritmo sgorgan per incanto» Biblioteca della «Rivista di letteratura italiana», 4 Collana diretta da Giorgio Baroni

I

l Congresso internazionale di studi (a sessant’anni dalla morte della scrittrice), di cui questo volume raccoglie gli atti, ha rappresentato un’ottima occasione per ripensare complessivamente l’opera letteraria di Ada Negri, esaminandone le poesie e le prose e riuscendo a mettere in luce i tratti distintivi della sua opera e della sua personalità. Emerge il ritratto di un personaggio singolare: una donna della fine dell’Ottocento che riesce a superare difficoltà e diffidenze e, partendo da una condizione sociale ed economica non certo fortunata, si afferma come autrice, senza dimenticare mai i problemi della propria gente; scomoda sempre, prima per il suo impegno sociale, poi per la religiosità, che acquisisce nei suoi scritti uno spazio man mano sempre più rilevante. Ricondotta l’attività di valutazione e di critica della produzione negriana alla sua specificità letteraria, anche l’immagine umana della scrittrice è emersa più nitida, all’interno di un itinerario spirituale che, partendo da problemi e aspetti necessariamente legati alla formazione e al tempo, si addentra gradualmente alla ricerca di verità più profonde, di risposte più globali, di un’espressione artistica più completa. La rivalutazione delle prose, già avvenuta in questi anni, si può così considerare l’anticipazione di una rilettura di tutta l’opera della Negri, pure delle lettere, ma in primis della produzione lirica. A distanza di più di mezzo secolo, alla luce dell’esperienza postmoderna e di nuove modalità di riuso letterario, non suscita più scandalo la lingua poetica della Negri (caratterizzata da una sua, personale, ‘classicità’), come appare maturo e consapevole il suo atteggia-

mento verso i problemi della vita. Quanto alla dolorosa ricerca «del Dio nascosto», che è l’oggetto principale della sua poesia degli ultimi anni, essa appare, a Novecento ormai concluso, una delle chiavi di lettura di questo secolo, per altri versi affascinato da filosofie materialiste, da sogni luciferini e pratiche di vita edoniste e violente. Nella poesia della Negri gli esiti religiosi appaiono poi le risposte a domande che accompagnano tutta la sua vita: dalle istanze di giustizia sociale a quelle di ordine, dalla ricerca e offerta di amore alla continua richiesta di senso che si evolve alla fine in preghiera.

2007, cm 7,5 × 25, 28 pp. € 28,00

F ABRIZIO S ERRA · E DITORE Pisa · Roma www.libraweb.net

Augustus Pallotta

Alessandro Manzoni

A critical bibliography, 950-2000 Letteratura e dintorni, 2 Collana diretta da Luigi Banfi, Giorgio Baroni, Umberto Carpi, Davide De Camilli

Il volume, a cura di Augusto

Pallotta e interamente in lingua inglese, presenta un’ampia bibliografia critica su Alessandro Manzoni relativa alla seconda metà del secolo scorso, con lo scopo di mettere ordine nel vastissimo corpus di scritti dedicati allo scrittore milanese e di offrire una concisa valutazione di ogni contributo. Negli ultimi cinquant’anni del ventesimo secolo si evidenzia infatti una vasta molteplicità di prospettive e di metodologie utilizzate dai critici nell’affrontare l’opera manzoniana, in base alle varie discipline di appartenenza: fra le altre, quelle storiche, sociologiche, religiose, psicologiche e economiche. In aggiunta alle opere critiche italiane, questa bibliografia include l’elenco, il più possibile completo, degli studi su Manzoni pubblicati nel mondo anglosassone (Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada), insieme ad una sezione riguardante la sua recezione all’estero. Soprattutto negli ul-

timi trent’anni è stato infatti notevole l’interesse suscitato da Manzoni in questi paesi, ma, con poche eccezioni, gli studi pubblicati fuori d’Italia non sono presenti nelle bibliografie italiane e il volume, in questo senso, colma una profonda lacuna nella storia della critica italiana. 2007, cm 7 × 24,5, xvi-472 pp., € 98,00

G IARDINI E DITORI

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S TAMPATORI

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Bruno Porcelli

In principio o in fine il nome Studi onomastici su Verga, Pirandello e altro Novecento Bibliotechina di studi, ricerche e testi, 34 Collana diretta da Davide De Camilli, Michele Dell’Aquila, Bruno Porcelli, Gianvito Resta

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gni studioso o lettore di buon senso è assolutamente convinto dell’importanza dell’indagine onomastica, trovandosi forse in più d’una occasione alle prese con il significato e la funzione dei nomi. La critica italiana, in poco più di un decennio, ha compiuto un notevole lavoro in questo senso, anche se prevalentemente concentrato su particolari sezioni della letteratura, come i primi secoli di Dante, Petrarca, Boccaccio e degli altri novellieri sino al Sercambi, il periodo che va da Leopardi al Manzoni, e poi attraverso gli scapigliati, Verga e Pirandello, sino agli scrittori del pieno Novecento. Ma per l’Otto e il Novecento la ricerca presenta ancora zone d’ombra; per questo è ancora opportuno procedere a tentativi di sistemazione parziali, come quello rappresentato dal presente volume, in cui agli studi su Verga e Pirandello se ne aggiungono altri su Gozzano, Montale e Primo Levi. I singoli lavori hanno autonoma leggibilità e vogliono quindi rappresentare un ulteriore contributo in questo campo di studi per il periodo del primo Novecento. Indice: Premessa; i. Livelli di funzionalità onomastica in Eros di Verga; ii. La nominazione in Rosso Malpelo e Ciàula scopre la luna; iii. La prima narrativa pirandelliana: Amori senza amore, L’esclusa, Il turno; iv. Il fu Mattia Pascal; v. Simboli e nomi nella novella pirandelliana La veste lunga; vi. Psicologia, abito, nome di due adolescenti pirandelliane; vii. Misura e numero nell’onomastica di alcune novelle pirandelliane; viii. Coppie di personaggi nelle novelle pirandelliane; ix. Sino a che punto nomi parlanti? Esame di quattro

novelle di Pirandello; x. Per una lettura simbolica della novella La levata del sole; xi. Nell’albergo è morto un tale; xii. Nomi nella lirica di Gozzano; xiii. Maschere e nomi dell’‘io’ nella lirica di Gozzano; xiv. Arsenio, Arletta, Crisalide, Esterina e le metamorfosi dell’Alcyone; xv. L’ultimo e il primo. Perdita e riacquisto del nome in Se questo è un uomo di Levi; xvi. Modelli narrativi e onomastica nella Tregua di Levi; xvii. Cerniere onomastiche nei racconti del Lager di Levi. Indice degli autori. Indice onomastico.

2005, cm 4,5 × 2, 224 pp., € 45,00

GIARDINI

E D I TO R I E S TA M PATO R I I N

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Fabrizio Fiaschini

L’«incessabil agitazione» Giovan Battista Andreini tra professione teatrale, cultura letteraria e religione Biblioteca di drammaturgia,  Collana diretta da Annamaria Cascetta

Nell’omaggio ai Benigni lettori mi-

lanesi premesso al poema agiografico su Tecla vergine e martire, del 623, Giovan Battista Andreini definisce come «incessabil agitazione» gli spostamenti che di continuo lo costringono da una piazza teatrale all’altra. L’espressione, non nuova nel mondo dei comici, definisce una condizione artistica e professionale che ha sempre esercitato sugli attori e sugli spettatori il fascino di un’autonomia e di un affrancamento laico e libero, resistente ad ogni tentativo di omologazione sociale e culturale. Una condizione anche pesante però: i riferimenti al «fastidio» e al «travaglio» del «moto perpetuo» ricorrono infatti anch’essi numerosi nelle testimonianze degli attori; assieme ad essi, la consapevolezza di un’assimilazione al mondo del vagabondaggio e dei ciarlatani da cui il teatro si voleva ormai nettamente distinguere attraverso una azione drammaturgica colta, fondata sulle istanze poetico-letterarie dell’epoca. Figura emblematica del periodo fu Giovan Battista Andreini, di cui questo volume ripercorre la carriera, da Firenze a Milano a Brescia, cercando di rilevare le connessioni fra i testi poetici e drammatici ed il contesto storico e culturale. Ripercorrendo alcuni momenti della

vicenda artistica e biografica dell’Andreini, si fanno emergere in particolare gli stretti rapporti tra i testi e le città che l’autore frequentava nel corso delle sue tournée, rapporti che sono segno della volontà di radicare l’«incessabil agitazione» in una rete di relazioni stabili e prestigiose e di dare prova di come l’itineranza fornisse al comico letterato uno sapienza cosmopolita ed un sguardo penetrante sul mondo. 2007, cm 7,5 × 25, 220 pp., € 44,00

GIARDINI

E D I TO R I E S TA M PATO R I I N

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Daniela Corzuol

Scuole normali e studio della retorica nella Lombardia austriaca del Settecento Francesco Soave figura di mediatore tra area italiana e area tedesca Letteratura e dintorni, 3 Collana diretta da Luigi Banfi, Giorgio Baroni, Umberto Carpi, Davide De Camilli

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aniela Corzuol presenta con rigore di documentazione e con un’autentica passione di ricerca quella che si può chiamare l’avventura dell’istruzione, sotto il profilo istituzionale, organizzativo e dei contenuti, nella Lombardia prima asburgica e poi napoleonica, dalla seconda metà del Settecento all’inizio della Restaurazione (ca. 750 - ca. 85). Punti di forza della presente trattazione, che si muove entro orizzonti pedagogici e culturali assai ampi, ed è corredata da un numero consistente di citazioni delle fonti, sono: la storia dell’Ordine dei Somaschi, che nel Settecento raggiunge il culmine della sua capacità e dinamica pedagogica, ma su cui sino ad ora esistono solo spunti di ricerca; la storia e l’esame del trattato della Methodus studiorum, divenuto il testo di riferimento dell’impianto educativo dei Somaschi, e che qui viene per la prima volta dato alle stampe nell’originale latino e in traduzione italiana; l’attenzione alla complessa e infaticabile opera di educatore, organizzatore, traduttore, scrittore e poeta di quel formidabile mediatore culturale tra mondo italiano e mondo tedesco che fu il padre somasco Francesco Soave; l’influenza del pietismo, in particolare della linea educativa ed organizzativa dell’orfanotrofio pietista, per il rilievo dato alla funzione docente e per la strutturazione ed i contenuti dei corsi, sull’ordinamento scolastico teresiano in Austria e in Lombardia; l’analisi della scuola di prima alfabetizzazione attraverso l’evoluzione dell’abbecedario, cui è dedicata la seconda appendice; l’avvio dello studio delle lingue straniere, e in particolare del tedesco, nelle scuole ‘di prima istruzione’, come noi oggi chiamiamo le elementari, in Lombardia.

Gli studi di Daniela Corzuol costituiscono un contributo di rilievo per mettere meglio a fuoco il variegato mondo dell’istruzione del xviii secolo, il secolo pedagogico per eccellenza, avendo riguardo ai fattori sociali, economici, politici e religiosi che indissolubilmente si legano, in ogni epoca, al discorso sulle istituzioni scolastiche e sulle loro riforme. L’intreccio culturale è molto interessante e compone un quadro dove dinamismo e apertura al nuovo procedono in accordo con la disciplina e la tradizione.

2007, cm 7 × 24,5, 36 pp., € 28,00

esperienze letterarie presenta

italinemo Riviste di italianistica nel mondo Direttore: Marco Santoro

http://www.italinemo.it che cosa è ‘ italinemo ’ ? Analisi, schedatura, indicizzazione delle riviste di italianistica pubblicate nel mondo a partire dal 2000. Abstract per ogni articolo. Ricerca incrociata per autori e titoli, per parole chiave, per nomi delle testate, per collaboratori. Profili biografici dei periodici e descrizione analitica di ciascun fascicolo. Nelle pagine ‘Notizie’, informazioni su novità editoriali ed iniziative varie (borse di studio, convegni e congressi, dottorati, master, premi letterari, presentazioni di volumi, seminari e conferenze).

la consultazione del sito è gratuita Direzione Marco Santoro Università di Roma «La Sapienza» Viale Regina Margherita 295 · 00185 Roma Tel. e Fax +39 06 35498698 [email protected] Segreteria [email protected] Dibattiti e discussioni [email protected] Iniziative e progetti in corso [email protected]

La «Rivista di Letteratura Italiana» presenta il sito Internet

iride 900 Indice delle Riviste italiane del Novecento Direttori: Giorgio Baroni e Paola Ponti

http://www.unicatt.it/iride900 * Contiene l’indice cumulativo delle riviste del Novecento (per ora prevalentemente della prima metà). Di ogni pezzo (articolo, poesia, ecc.) sono riportati i dati identificativi (testata, data e numero), l’autore, il titolo, gli autori trattati, la nazionalità, un’indicazione di genere e una breve sintesi. La ricerca può essere condotta con ognuno dei suddetti parametri, anche combinati. l ’ accesso è gratuito sono graditi i suggerimenti, le segnalazioni di errori e il conferimento di dati propri * Direzione Giorgio Baroni · Paola Ponti Università Cattolica del Sacro Cuore Largo Gemelli 1 · 20123 Milano Tel. +39 02.7234.2574 · Fax +39 02.7234.2740 [email protected] · [email protected]

Coordinamento Andrea Rondini · Federica Millefiorini [email protected] · [email protected]