Figure della Vaticana e altri scritti: uomini, libri e biblioteche
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a cura di Paolo Vian

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STUDI

100. Tavole e indici generali dei primi cento volumi di "Studi e testi", 1942 (rist. 1973), pp. XXII, 182. 200. Tavole e indici generali dei volumi 101-200 di "Studi e testi", 1959 (rist. 1987), pp. 151. 293-294. Dykmans, M. L'œuvre de Patrizi Piccolomini ou le Cérémonial papal de la première Renaissance, Tome I «Livre Premier». Tome II «Livres II et III». Index. 1980-1982. 295. Schenker, A. Psalmen in den Hexapla. Erste kritische u. vollstandige Ausgabe der hexaplarischen Fragmente auf dem Rande der Hs. Ottob Gr. 398 zu den Psalmen 24-32. 1982, pp. vi, 498. 296. Mercati, G. Opere Minori Vol. VI. 1984, pp. XXII, 533, 6 tav. 297-299 bis. Carboni, F. Incipitario della lirica italiana dei secoli XV-XX. Biblioteca Apostolica Vaticana. Fondo Vaticano latino. 1982-1988, pp. 1151 +80. 300-302. Oechslin, L. Die Famesianische Uhr. I, Text. II, Katalog. III/1-2, Bebilderung. 1982, pp 228 + 224, tav. 131 + sciolte, fig. 151. 303. Gilmour Bryson, A. The Trial of the Templare in the Papal State and the Abruzzi. 1982, pp. 313, tav. 3. 304. d'Abbadle, A. Douze ans de séjour dans la Haute-Ethiopie (Abyssinie) III. 1983, pp. XVI, 288. 305-306. Santi, G. La vita e le gesta di Federico di Montefeltro Duca d'Urbino. Poema in terza rima (Cod. Vat. Ottob. lat. 1305) a cura di L. MicheUni Tocci. Voli. I H. 1985, pp. XCVIIl, 771, 19 tav. 307. Moroni, O. Carlo Gualteruzzl (1500-1577) e i corrispondenti. 1984, pp. XII, 308. 308. Corrispondenza Giovanni Della Casa - Carlo Gualteruzzl (1525-1549), edizione a cura di O. Moroni. 1986, pp. L, 607. 309. Hurtubise, P. Une famille-témoin: les Salviati. 1985, pp. 527. 310. McNamara, M. Glossa in Psalmos. The Hiberno-latin Gloss on the Psalms of Codex Palatinus latinus 68. 1986, pp. 387. 311. Dykmans, M. le Pontifical romain. Révisé au XV« siècle. 1985, pp. 205, 2 tav. 312-313. van Heck, A. Pii II Commentarii Rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt. Vol. I-II. 1984, pp. 859, 28 tav. 314. Argyriou, A. Macaire Makrès et la polémique contre l'Islam. Édition princeps de l'Eloge de M. Makrès et de ses deux œuvres anti-islamiques, précédée d'une étude critique. 1986, pp. x, 348. 315. Mogenet, J. Le «Grand Commentaire» de Théon d'Alexandrie aux tables faciles de Ptolémée. Livre I. Histoire du texte, édition critique, traduction. Revues et complétées par A. Tihon. Commentaire par A. Tihon. 1985, pp. 359. 316. Oechslin, L. Die Uhr als Model des Kosmos und der astronomische Apparat Bernardo Facinis. 1985, pp. 156.

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317. Bedlnl, S. A. Clockwork cosmos. Bernardo Pacini and the Farnese Planisferologio. 1985, pp. 223. 318-319. Buonocore, M. Bibliografia dei fondi manoscritti della Biblioteca Vaticana (1968-1980). Voi. MI. 1986, pp. XL vii, 1414. 320. Sauget, J.-M. Deux «panegyrika» melkites pour la seconde partie de l'année liturgique: «Jérusalem S. Anne 38» et «Harisâ 37». 1986, pp. 88. 321. Carboni, F. Incipitario della lirica italiana dei secoli XV-XX. IV. Biblioteca Angelica di Roma. 1986, pp. 624. 322. A Catalogue of Canon and Roman Law Manuscripts in the Vatican Library. Compiled at the Institute of Medieval Canon law under the direction of S. Kuttner, with the aid of the Deutsches Historisches Institut Rom, under the direction of R. Elze. Vol. I: Codices Vaticani latini 541-2299, 1986, pp. XXLV, 334. 323. Tavole e indici generali dei volumi 201-300 di «Studi e testi», a cura di P. Vian. 1986, pp. V, 160. 324. Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Lombardia et Pedemontium, a cura di M. Rosada. Con carta topografica delle diocesi. 1990, pp. xxxil, 605, 2 c. geogr. 325. BandeUer, A. F. A History of the Southwest. A Study of the Civilization and Conversion of the Indians in Southwestern United States and Northwestern Mexico from the Earliest Time to 1700. Vol. II: the original Text and Notes in French (1887) edited, with English Summaries and Additional Notes from MS. Vat. lat. 14111, by E. J. Burrus in Collaboration with M. T. Rodack, Parts one and two. 1987, pp. 516. 326. Sauget, J.-M. Un Gazza chaldéen disparu et retrouvé: le ms. «Borgia syriaque 60». 1987, pp. 94. 327. Dykmans M. L'Humanisme de Pierre Mareo. 1988, pp. 143. 328. A Catalogue of Canon and Roman Law Manuscripts in the Vatican Library. Compiled at the Institute of Medieval Canon law under the direction of S. Kuttner, with the aid of the Deutsches Historisches Institut Rom, under the direction of R. Elze. Vol. II: Codices Vaticani latini 2300-2746. 1987, pp. xxx, 366. 329. Miscellanea Blbliothecae Apostolicae Vaticanae. I. 1987, pp. 258. 330. Carboni, F. Incipitario della lirica italiana dei secoli XV-XX. V. Biblioteca Apostolica Vaticana. Fondi Boncompagni, Borghese, Borgiano latino, Capponi, Carte Belli. 1988, pp. 256. 331. Miscellanea Blbliothecae Apostolicae Vaticanae. II. 1988, pp. 329. 332. Plazzoni, A. M. - Vian, P. Manoscritti Vaticani latini 14666-15203. Catalogo sommario (Cataloghi sommari e inventari dei fondi manoscritti. 1). 1989, pp. xxviii, 305. 333. Miscellanea Blbliothecae Apostolicae Vaticanae. III. 1989, pp. 370.

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a cura di Paolo Vian

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Biblioteca Apostolica Vaticana - CIP Vian, Nello, 1907-2000 Figure della Vaticana e altri scritti : uomini, libri e biblioteche / Nello Vian ; a cura di Paolo Vian, - Città del Vaticano : Biblioteca apostolica vaticana, 2005. xiv, 412 p. : ili. (p.te ritr., facs.) ; 26 cm. - (Studi e testi ; 424) "Sedi originali di pubblicazione": p. [xiii]-xiv. "Indici": p. [367]-412. ISBN 88-210-0778-2 1. Biblioteca apostolica vaticana - Storia I. Vian, Paolo, 1957-

Proprietà letteraria riservata © Biblioteca Apostolica Vaticana, 2005 ISBN 88-210-0778-2

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NOTA INTRODUTTIVA

Giunto a Roma nel 1931 per apprendere in Biblioteca Vaticana le nuove tecniche biblioteconomiche da trapiantare, per volere di Agostino Gemelli, nella biblioteca dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Nello Vian incominciò presto a narrare agli altri figure e momenti del mondo nuovo che aveva incominciato a frequentare e scoprire,1 quasi che la distanza dell'ambiente da cui proveniva e la novità di quello incontrato fossero divenute un potente stimolo a comprendere e raccontare. Del 1932 è il primo articolo sull'operosità bibliografica della Biblioteca Vaticana;2 del 1934 quello dedicato, in morte, a Franz Ehrle,3 il grande artefice della prima fase del moderno rinnovamento della Vaticana voluto da Leone XIII; e di quattro anni successivo è il necrologio di Gino Borghezio, morto appunto nell'estate 1938.4 Da allora l'esperienza degli uomini e delle situazioni, la conoscenza più approfondita della storia, il pronunciato radicamento nell'orizzonte vaticano e romano permisero a Vian di penetrare sempre meglio le vicende della Biblioteca Vaticana. La collaborazione alla Strenna dei Romanisti (dal 1949) e poi aWAlmanacco dei bibliotecari italiani (dal 1952) gli fornì l'occasione privilegiata per raccontare, in modo personale e con cadenza potenzialmente annuale, momenti e figure della storia della Vaticana. Questo volume non raccoglie la totalità degli scritti di Vian sulla Vaticana e sui suoi fondi; ne rimangono esclusi, ad esempio, contributi come quelli sulla biblioteca del cardinale di York recuperata a Frascati,5 sugli esemplari vaticani áeWAssertio septem sacramentornm di Enrico 1

Su Nello Vian (Vicenza 1907 - Roma 2000), cfr. ora Atti della commemorazione nel primo anniversario della morte di Nello Vian (Città del Vaticano, 19 gennaio 2001). Testimonianze e corrispondenza con Giovanni Battista Montini-Paolo VI (1932-1975), BresciaRoma 2004 (Quaderni dell'Istituto Paolo VI, 22), con contributi di Vittorio Peri, Jorge María Mejía, Francesco Paolo Casavola, Giuseppe Camadini, Massimo Marcocchi, Vittore Branca, Pasquale Macchi, Vincenzo Cappelletti, Paul Poupard, Paolo Vian. 2 L'operosità bibliografica della Biblioteca Vaticana, in Aevum 6 (1932), pp. 485-493. 3 II cardinale Franz Ehrle, in II ragguaglio dell'attività culturale letteraria e artistica dei cattolici in Italia 6 (1935), pp. 503-507. 4 Gino Borghezio, in Aevum 12 (1938), pp. 661-664. 5 La biblioteca del cardinale di York ricuperata fra le rovine di Frascati a opera della Biblioteca Vaticana, in Ecclesia 3 (1944), nr. 7, lug., pp. 24-26.

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NOTA INTRODUTTIVA

Vili,6 su quattro manifesti librari della Repubblica Romana del 17981799,7 sull'incunabolo ora barberiniano delle Vitas Pal rum che fu tra le mani di s. Filippo Neri.8 Ma con i suoi trentadue articoli, usciti fra il 1955 e il 2000, questa raccolta ripresenta di Vian la produzione certo più significativa (e, per la costanza delle sedi di pubblicazione, più uniforme e compatta) sul mondo dei libri, delle biblioteche, dei bibliotecari. All'interno di essa naturalmente occupa un posto particolare la biblioteca che Vian più frequentò e conobbe, ob ftdem et chlientelam, secondo il tenore dell'iscrizione sulla casa di Borgo scelta a esergo dell'articolo Figure della Vaticana (1986), che dà il titolo al presente volume.9 Proprio questa prolungata chlientela durata quasi settantanni ha permesso a Vian di attraversare un secolo di profondi mutamenti nella biblioteca dei papi, tutti innescati dalla scelta leonina di aprirla al pubblico dotto di tutto il mondo con una determinazione e una coerenza senza ripiegamenti. Vian arriva dunque in Vaticana in un momento di profonde trasformazioni, quando fra gli anni Venti e Trenta del XX secolo si compiva la seconda fase del moderno rinnovamento della Vaticana, auspice il prefetto divenuto papa col nome di Pio XI, attraverso la determinante e fattiva esecuzione di Eugène Tisserant, che di Vian fu il primo e deciso sostenitore. Non è un caso che in quel 1931, anno del suo arrivo, si verifichi, il 22 dicembre, il clamoroso e tragico crollo di parte dell'edificio sistino durante i lavori di ristrutturazione che ne andavano modificando l'assetto; e non è un caso che l'anno seguente, nell'estate 1932, Vian parta per gli Slati Uniti, ultimo dei bibliotecari vaticani inviati nelle scuole e nelle biblioteche americane per apprendervi le tecniche biblioteconomiche e catalografiche da adottare nella secolare biblioteca dei papi che, prima in Europa, si apriva a quello che allora rappresentava il metodo e la consapevolezza più avanzata della professione bibliotecaria. Schede uniformi, compilate e dattiloscritte secondo tutti i crismi della normativa catalografica più avvertita e addirittura stampate per essere distri6 La presentazione e gli esemplari vaticani della « Assertio septem sacramentorum » di Enrico Vili, in Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. Card. Albareda a Bibliotheca Apostolica edita, II, in Civitate Vaticana 1962 (Studi e testi, 220), pp. 355-375. 7 Quattro manifesti librari durante la Repubblica Romana del 1798-1799, in Contributi alla storia del libro italiano. Miscellanea in onore di Lamberto Donati, Firenze 1969 (Biblioteca di bibliografìa italiana, 57), pp. 305-323. 8 Un bel incunabolo tra le mani di san Filippo Neri, in Almanacco dei bibliotecari italiani, [XX], Roma 1971, pp. 83-90; ripubblicato in N. Vian, San Filippo Neri pellegrino sopra la terra, a cura di P. Vian, introduzione di M. Marcocchi, Brescia 2004, pp. 125-128. 9 Cfr. infra, p, 331. Le paginazioni indicate si riferiscono sempre a quella fra parentesi quadre, continua all'interno del volume, apposta al centro del margine inferiore delle pagine e non a quelle originali e parziali dei singoli articoli.

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VII

buite e condivise con altre biblioteche, prendevano il posto, in un grande catalogo unico, di registri manoscritti, più o meno parziali, relativi a singoli fondi. Qualche « scrittore », ricordava ancora Vian, si domandava a cosa servissero le schede a soggetto, visto che c'erano loro, gli « scrittori » appunto, a essere depositari orali della sapienza necessaria all'orientamento nella biblioteca. Nell'incessante cambiamento di cui una biblioteca viva è sempre teatro e testimone, un mondo moriva, certo non senza sofferenza, e ne nasceva un altro. Se non si pone mente a questo retroscena probabilmente non si possono comprendere gli scritti qui raccolti. Perché la trasformazione vissuta acuì nel tempo una sensibilità e negli anni provocò in Vian un duplice movimento: da una parte l'esigenza di testimoniare le figure e i momenti di questa trasformazione, i protagonisti e gli artefici dell'operoso cantiere affacciato sul theatrum Vaticanum, dall'altra la spinta a tornare a quel mondo che la trasformazione aveva superato, alla Vaticana dell'Ottocento, di quel secolo da lui prediletto10 che sentiva di dover ripresentare attraverso non la testimonianza, ovviamente, ma la rievocazione storica, con scritti brevi, incisivi, in genere senza note ma frutto di un rigoroso e consapevole approfondimento critico. Questi sono dunque i due poli della Vaticana presentata da Vian negli scritti qui riprodotti: la Biblioteca che ha conosciuto durante il suo servizio fra gli anni Trenta e Settanta del Novecento e la Biblioteca del secolo precedente, che quella del Novecento aveva trasformato e superato. Ma quale Vaticana? Vian non pare attratto da quella di Angelo Mai, forse lontana nella celebrità del protagonista, probabilmente semplice scenario di una gloria quasi ingombrante, né da quella del poliglotta Mezzofanti, ma da quella più vera, sommessa e quotidiana, di Francesco Antonio Baldi, Gabriele Laureani, Andrea Molza, Alessandro Asinari di Sammarzano, sino a Pio Martinucci, a Stefano Ciccolini, a Isidoro Carini (con lui si incomincia « a far fuoco nuovo »)," l'immediato predecessore di quel padre Ehrle che Vian fece ancora in tempo a conoscere, quasi cieco, nei suoi ultimi anni, « questo ideale bibliotecario » con cui « incomincia realmente la nuova storia della Vaticana ».12 Fra rievocazione e testimonianza, ricostruzione e ricordo, gli anelli della catena così si congiungono, con una preferenza costante per il particolare inedito, per il tratto seminascosto nelle pieghe della grande storia, ma al tempo stesso singo10 Vian confesserà una predilezione per l'Ottocento, « in ragione della vicinanza esistenziale e letteraria, e di qualche affinità elettiva»; N. Vian, Tela di ragno romana, in Strenna dei Romanisti, ITI, Roma 1991, pp. 545-566: 549. " Infra, p. 47. 12 Ibidem.

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larmente rivelatori delle personalità dei protagonisti e della realtà di un'istituzione complessa come sempre è stata la Vaticana. Insomma, una Vaticana più domestica, prosaica e quotidiana di quella celebrata nei fasti ufficiali, con le sue maldicenze sussurrate, le sue lentezze, i suoi ritardi, i suoi cronici e atavici vizi, che pure nulla tolgono alla sua grandezza, anzi forse la confermano come splendido e quasi miracoloso risultato fra le pochezze e le contraddizioni degli uomini, come frutto di una fedele e tenace volontà istituzionale mai smentita nell'arco di secoli e di un altrettanto secolare servizio di innumerevoli « figure della Vaticana », grandi e piccole, maggiori e minori, importanti e umili, celebri e ignote. Sì, perché accanto alla disinvoltura calcolatrice e in definitiva ripugnante di un Winckelmann vi è la dedizione seria e silenziosa di molti altri. E queste «figure» sono spesso considerate con un sottile senso di benevola ironia e umorismo, sempre con umana simpatia e cristiana pietà, come accade per il profilo del catalogatore degli stampati Palatini, il veneziano Giovanni Mazzini,13 o per quello, ben più tragico, del Molza, primo custode succeduto al Mai, suicida in un accesso di « furente pazzia », ma pur « quotidiano celebratore dei sacri misteri nella chiesa filippina di San Girolamo della Carità » e infine confessato da un nipote gesuita.14 Queste, sui bibliotecari vaticani dell'Ottocento, sono senz'altro fra le pagine più belle della raccolta, non sfuggite a Jeanne Bignami Odier che ha scritto di questa « alerte description » in cui Vian ha saputo evocare « les ombres des bibliothécaires d'il y a cent ans, bibliothécaires de la vieille école ».15 E in altra occasione la stessa Bignami designò felicemente Vian come « vigile amico della Biblioteca Vaticana, divulgatore elegante della sua storia ».16 Forse è questo il motivo profondo che ha indotto la collana « Studi e testi », che nella sua ormai ultrasecolare storia ha ospitato contributi eruditissimi e severi, ad accogliere ora questi articoli apparentemente lievi, letterariamente elaborati, limpidamente sereni, il più delle volte senza apparati di note. La risposta, con probabilità, non è solo nel soggetto con larghezza predominante, un lungo viaggio di quasi due secoli dalla Vaticana del cardinale Alessandro Albani (il protettore di Winckelmann) a quella del cardinale Eugène Tisserant, ma nello spirito che anima la trat13

Cfr. infra, p. 344. Cfr. infra, pp, 43-44. 15 J. Bignami Odier, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l'histoire des collections de manuscrits, avec la collaboration de J. Ruysschaert, Città del Vaticano 1973 (Studi e testi, 272), p. 234. 16 J. Bignami Odier, [Premessa], in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Atti del 2° Seminario, 6-8 maggio 1982, a cura di M. Miglio, con la collaborazione di P. Farenga e A. Modigliani, Città del Vaticano 1983 (Littera antiqua, 3), pp. 17-21: 20. 14

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NOTA INTRODUTTIVA

IX

tazione. Vian ha consegnato alla storia con finezza ed eleganza un'epoca che ha vissuto, e al tempo stesso ha rievocato con acume e intelligenza un mondo che ha immaginato, di cui ha intravisto ancora le ultime tracce prima che scomparissero nell'ineluttabile scorrere del tempo. Così facendo Vian ha vissuto e interpretato uno spirito della Vaticana che rimane prezioso per comprenderne le vicende e sarà senz'altro di aiuto a quanti in futuro si occuperanno criticamente della sua storia fra Ottocento e Novecento. Achille Ratti, Giovanni Mercati, Eugène Tisserant, Anselm Albareda sono le figure di spicco di una schiera più vasta di « figure della Vaticana », che dai cardinali arriva ai custodi, come Paolo Federici, passando attraverso «scrittori», come Pio Franchi de' Cavalieri, Marco Vattasso, Enrico Carusi, Ciro Giannelli, Valentino Capocci, assistenti (con il più celebre di loro, certo Alcide De Gasperi),17 collaboratori scientifici, come André Wilmart. La galleria delle « figure » è però ben più vasta e mossa, da Auguste Pelzer a Stanislas Le Creile, da Arnold van Lantschoot ad Adolphe Hebbelynck, da Tommaso Accurti a Giovanni Battista Borino; e l'enumerazione potrebbe continuare.18 Ma non si cerchino qui dati biografici o bibliografici; a interessare Vian, con rapide pennellate e brevi annotazioni, sono le ca17 Non è stato ripreso in questa raccolta l'articolo Ritratto morale di Alcide De Gasperi, in Studium 52 (1956), pp. 225-243, perché solo marginalmente dedicato alla figura del bibliotecario, pur ricordata con significativi tratti; cfr. invece, esclusivamente dedicato al profilo del bibliotecario, De Gasperi, bibliotecario di passo, in N. Vian, Il leone nello scrittoio, con notizia di A. Cibotto, Reggio Emilia 1980 (Graffiti, 15), pp. 211-212. Nel volume del 1980 sono ripresi e sintetizzati alcuni articoli della presente raccolta, cfr. Libri rivoluzionari in Vaticano (pp. 99-100), Leopardi bibliofilo alla sua misura (pp. 115-116), Bibliotecari romani prima del 70 (pp. 151-152), Figlio di camicia rossa alla Vaticana (pp. 173-174), Achille Ratti bibliotecario (pp. 199-200), Sua Eminenza l'Umiltà Giovanni Mercati (pp. 203-205), « Tisserant l'Americano » (pp. 207208), Dediche a Pietro Paolo Trompeo (pp. 221-222), Bibliofilia di papa Giovanni (pp. 231-232), Il Petrarca sul prato (pp. 233-234). Alla relazione epistolare di Achille Ratti col tortonese ufficiale dei bersaglieri Aristide Arzano (conservata nel ms. Vat. lat. 14816) è invece dedicato II bibliotecario e il bersagliere (pp. 201-202), per mostrare, ancora una volta, « l'umanità e la gentilezza del futuro Pio XI ». 18 Vian ha sentito il bisogno, il dovere (all'inizio, probabilmente, anche ex officio, per cronache interne o esterne della Biblioteca) di ricordare uomini e fatti della Vaticana; era certo convinto che un'istituzione secolare è fatta anche di questa memoria comune, che la sua autocoscienza si sostanzia anche del ricordo dei suoi, piccoli e grandi, ministri. Per completezza, possono quindi essere citati anche questi altri, brevi ricordi: Ciro Giannelli della Biblioteca Vaticana, in L'osservatore romano, 5-6 dicembre 1960, p. 5; Paolo Federici antico Capo Custode della Biblioteca Vaticana, ibidem, 20 settembre 1969, p. 4; Due cardinali diaconi di San Giorgio in Velabro, ibidem, 29 giugno 1980, p. 4 (a proposito dei due cardinali reggiani Giovanni Mercati e Sergio Pignedoli); Due gentiluomini fra i manoscritti, ibidem, 13 marzo 1981, p. 4 (a proposito di Giovanni Vanzetto e Riccardo Matta); Due della Vaticana, ibidem, 31 dicembre 1982, p. 3 (a proposito di Lamberto Donati e Luigi Berra).

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ratterizzazioni morali dei personaggi, la loro umanità,19 davvero il loro « carattere »,20 quel ritratto intimo che difficilmente gli scritti pubblicati e i documenti ci rendono ma solo i mémoires possono salvare e preservare, con la soggettività della prospettiva personale ma anche con l'autenticità della testimonianza di chi cum eis fuit. Un mondo scomparso torna alla luce. E di questo mondo viene offerta un'immagine morale, eminentemente spirituale e religiosa, nello spirito di chi vi ha vissuto e lo descrive, ma senz'altro anche in quello di molti che qui sono rievocati. Pur riservando alla Vaticana un ruolo centrale, gli scritti raccolti nel volume, usciti nell'arco di quasi mezzo secolo, non sono però solo dedicati alla biblioteca dei papi, perché essa non è mai stata un mondo chiuso e isolato ma sempre il crocevia in cui si sono incontrate storie, vicende, esperienze di altre biblioteche e di altri bibliotecari. Ecco perché nelle pagine che seguono trovano spazio figure di bibliotecari ambrosiani e romani, da Giovanni Galbiati a Fortunato Pintor, da Manara Valgimigli a Francesco Barberi, accanto a quelle di bibliofili, bibliografi, epigrafisti, da Giacomo Leopardi a Giuseppe Gioacchino Belli, da Gaetano Moroni a Gaetano Ferrajoli, da Angelo De Gubernatis a Vincenzo Forcella, da Francesco Cerroti a Emilio Calvi. Esemplari avidamente ricercati, postillati, posseduti ricompaiono come d'incanto tra gli sterminati fondi vaticani: tutto sembra in un modo o nell'altro, per vie misteriose o percorsi evidenti, riconducibile alla biblioteca dei papi, attratto da una forza misteriosa che irresistibilmente chiama al grande oceano. E di questa centralità vaticana, in qualche modo ricapitolativa di una molteplicità di esperienze e mondi diversi tutti gravitanti intorno al libro e alla sua civiltà, Vian ebbe un'esperienza diretta e concreta negli anni più bui del conflitto mondiale, quando la Vaticana divenne di fatto non solo rifugio per studiosi ostracizzati per motivi politici e razziali ma 19

«Comprensione di caratteri e di uomini attraverso l'attenta ricostruzione di ambienti e la presentazione di documenti e di testi, "studio del cuore umano": tale sembra essere in primo luogo l'obiettivo di molte, successive ricerche di Vian, che non si direbbe particolarmente interessato a giudizi e valutazioni, in apparenza estraneo a travagli (e mode) storiografiche. Quasi che più degli schemi, degli schieramenti e delle formule contasse per lui la sostanza dell'umanità», P. Vian, Per una biografia di Nello Vian, in Rivista di storia della Chiesa in Italia 55 (2001), pp. 175-199: 176; ripubblicato in Atti della commemorazione cit., pp. 235-259: 236, Il tema dell'umanità, e dell'umanità dei libri, è ricorrente nelle pagine delle raccolta, sino a divenirne quasi centrale, ripetutamente evocato a proposito di Achille Ratti, ma anche di Pietro Paolo Trompeo, Giuseppe Staderini, Giovanni FredianiDionigi, Fortunato Pintor, Giovanni XXIII, Manara Valgimigli, Francesco Barberi, sino ad assurgere in due casi alla dignità di componente del titolo di articoli, cfr. infra, pp. 125, 128, 130, 132, 134, 223, 227, 233, 243, 261, 353, 354, 365. 20 Infra, p. 128.

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XI

anche asilo di biblioteche e archivi sottratti alla furia devastatrice degli uomini. Questa solidarietà di bibliotecari per salvare i monumenti di una civiltà, espressa nel catalogo di una mostra vaticana,21 fu senz'altro un'esperienza decisiva nella maturazione umana e professionale di Vian bibliotecario e spiega molte pagine di questa raccolta. Che in qualche modo, fra attenzione ai minori e testimonianza ai grandi, è anche una professione di fede nel molo e nel mestiere di bibliotecario, mediatore indispensabile fra interno ed esterno, passato e presente, consultazione e conservazione, umanisticamente custode e depositario dell'immortalità del sapere espressa e raccolta nei libri, « con ufficio tra tutti nobilissimo »,22 anche perché in primo luogo «di servizio».23 Vian non ha direttamente vissuto la straordinaria metamorfosi delle biblioteche recata negli ultimi due decenni dall'avvento dell'informatica e ancora in corso verso scenari forse imprevedibili; il suo mondo non conosce ticchettii di tastiere, fluorescenze di schermi, collegamenti internet e banche dati on line; la sua è ancora la scena dei registri manoscritti, delle schede, dei cataloghi stampati poco per volta, a sedicesimi, l'epoca di una competenza e di una precisione che sapevano di non avere l'appello della facile correzione in una labilità che sembra ignorare non solo il definitivo ma, più semplicemente, l'accuratezza. Anche come testimonianza di una stagione ormai scomparsa delle biblioteche questa raccolta di scritti, tutti sotto il segno dell'amore del libro e di quella civiltà che a esso è sottesa, può dunque rivestire interesse.

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Biblioteche ospiti della Vaticana nella seconda guerra mondiale. Col catalogo dei cimeli esposti nel Salone Sistina, Città del Vaticano 1945. Nel catalogo sono trasparentemente di Vian, oltre le Notizie storiche (pp. 13-29), anche le parole introduttive, firmate dal Prefetto Albareda e datate al 12 marzo 1945, pp. 5-10. Il testo si chiude, appunto, con ringraziamenti a quanti hanno collaborato all'allestimento della mostra; fra gli esterni, Luigi De Gregori, Ispettore Generale delle Biblioteche Italiane, Mauro Inguanez, Archivista di Montecassino, Lorenzo Tardo, Archivista di Grottaferrata, Francesco Barberi, Direttore della Biblioteca Angelica, Giovanni Frediani Dionigi, Vicedirettore della Biblioteca dell'Accademia Nazionale dei Lincei (Corsiniana). Cfr. infra, pp. 229, 272, 350. 22 Infra, p. 317. 23 Due gentiluomini fra i manoscritti cit., p. 4.

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SEDI ORIGINALI DI PUBBLICAZIONE

Gli articoli sono ordinati cronologicamente con riferimento al soggetto (in linea di massima, per i personaggi il termine di riferimento è l'anno di morte, per i volumi l'anno di pubblicazione); per articoli sullo stesso soggetto l'ordinamento avviene sulla base dell'anno di pubblicazione. ABI = Almanacco dei bibliotecari italiani, Roma. SR = Strenna dei Romanisti, Roma. Winckelmann alla Biblioteca Vaticana, in SR, XXXVII, 1976, pp. 432-442. Un piccolo fondo sulla Rivoluzione francese, in Studium 61 (1965), pp. 500-505. Fra il Marini e il Mai... Francesco Antonio Baldi, in ABI, [XVII], 1968, pp. 159-166. Il Leopardi bibliofilo alla sua misura, in ABI, [X], 1961, pp. 148-152. Tre libri della biblioteca del Belli, in ABI, [XIII], 1964, pp. 85-90. Bibliotecari della Vaticana, un secolo fa, in ABI, [III], 1954, pp. 165-171. Un giuramento mancato alla Repubblica Romana del 1849, in SR, LX, 1999, pp. 587-596. Biblioteche romane prima del '70, in ABI, [XXI], 1972, pp. 135-143. La bibliofilia di Gaetano Moroni, in ABI, [XXII], 1973, pp. 69-78. Il ponto rotto delle bibliografie di Roma, in ABI, [XV], 1966, pp. 71-78. L'avo cosmopolita del «Chi è» italiano, in ABI, [XIX], 1970, pp. 31-38. Figlio di camicia rossa alla Vaticana, in ABI, [V], 1956, pp. 66-74. Almanacchi, lunari, biblioteche..., in ABI, [XIV], 1965, pp. 197-204. Vincenzo Forcella, delle tribolazioni di un epigrafista (Per il centenario delle Iscrizioni di Roma), in ABI, [XVIII], 1969, pp. 161-169. Rituale in biblioteca, in ABI, [IV], 1955, pp. 165-168. Achille Ratti bibliotecario (nel centenario della nascita), in ABI, [VI], 1957, pp. 141-148. Una illustre successione alla Biblioteca Vaticana: Achille Ratti, in Mélanges Eugène Tisserant, VII: Bibliothèque Vaticane. Deuxième partie, Città del Vaticano 1964 (Studi e testi, 237), pp. 373-439. L'epistolario di Achille Ratti: ima fonte ancora inesplorata, in Achille Ratti Pape Pie XL Actes du colloque organisé par l'Ecole française de Rome en collaboration avec l'Université de Lille ///-Greco n° 2 du CNRS, l'Università degli studi di Milano, l'Università degli studi di Roma - «La

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XIV

SEDI ORIGINALI DI PUBBLICAZIONE

Sapienza», la Biblioteca Ambrosiana (Rome, 15-18 mars 1989), Roma 1996 (Collection de l'École française de Rome, 223), pp. 89-94. Abbozzo di ritratto del cardinale Mercati, in ABI, [VII], 1958, pp. 117-126. Umanità del bibliofilo Trompeo, in SR, XX, 1959, pp. 16-20. Tre singolari figure di bibliotecari a Roma, in SR, LUI, 1992, pp. 641-648. Ricordo di Pio Franchi de' Cavalieri, in Aevum 35 (1961), pp. 123-130. Bibliofilia di Giovanni XXIII, in ABI, [Vili], 1959, pp. 45-50. Il Petrarca sul Prato, in SR, XXXV, 1974, pp. 464-472. Manara Valgimigli scrittore o dell'umanità, in La parola e il libro 59 (1976), pp. 3-10 [dell'estratto]. Un quarto di secolo alla Vaticana, in ABI, [XII], 1963, pp. 13-20. Giovanni Galbiati umanista bibliotecario, in ABI, [XVI], 1967, pp. 13-19. D'Annunzio e Galbiati. Come il manoscritto dell'Alcione" non entrò nell'Ambrosiana, in Studi di biblioteconomia e storia del libro in onore di Francesco Barberi, Roma 1976, pp. 601-618. Il cardinale bibliotecario all'Accademia di Francia, in ABI, [XI], 1962, pp. 65-73. Barbadirame, bibliotecario vaticano. Un ricordo del card. Eugène Tisserant, in SR, LXI, 2000, pp. 607-618. Figure della Vaticana, in L'urbe 49 (1986), pp. 104-124. Francesco Barberi, bibliotecario romano, in SR, L, 1989, pp. 609-617.

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FIGURE

DELLA VATICANA

E ALTRI

SCRITTI

UOMINI, LIBRI E BIBLIOTECHE

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Winckelmann alla Biblioteca Vaticana

Negli intermezzi di grosse dormite, durante l'ultima scarrozzata di undici giorni da Bologna a Roma, Johann Joachim Winckelmann era stato abbastanza seccato dalla conversazione con un bolognese dal parlare inintelligibile, che faceva con lui il viaggio. Si sentiva ingrassato, per la lunga sedentarietà, poiché era partito dalla Sassonia quasi due mesi avanti alla volta dell'Urbe, la mèta enormemente vagheggiata. L'avvicinarsi a essa gli ridiede la carica, ma all'arrivo a porta del Popolo l'umore era decisamente nero, poiché maltrattò il doganiere, che non stette certo a prenderle, e gli sequestrò le opere di Voltaire (restituite solo qualche settimana dopo). Era il 18 novembre 1755, un giorno importante non solo nella vita del viaggiatore tedesco, di mezza età, che veniva a riscoprire i santi vestigi dell'arte classica in Italia. Duri i primi tempi. A fine dicembre, aveva già cambiato tre volte alloggio, e stava in una « chambre miserable », che gli faceva sicuramente rimpiangere il bel castello di Notbnitz, dai tetti appuntiti di ardesia tra il bosco, dove aveva abitato sei anni il bibliotecario del conte Heinrich von Biinau. Ai primi di giugno del '56, passò in una casa d'angolo tra piazza Barberini e via San Basilio. Il trovare alloggio non era la più grave delle sue necessità, poiché la pensione che riceveva dalla corte di Dresda era più che misurata e giungeva con ritardi, e gli scudi romani non affioravano dal suolo con l'abbondanza delle anticaglie. Monsignore il nunzio Alberico Archinto, incontrato un giorno nel salotto del suo antico padrone lo statista settecentesco illuminato, lo aveva avviato al suo destino; ma ora, diventato governatore di Roma, aveva altre cose per il capo che provvedere con larghezza bastante agli studi e alle ricerche il nuovo inquilino dei 432

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sette colli. Piuttosto a scarico, si ha l'impressione, avrebbe voluto appoggiarlo subito, come si era proposto all'origine, presso l'ambizioso e appassionato bibliofilo che s'intitolava da sé « capo libraro d'Europa », il cardinale Domenico Passionei. Gli avanzò l'offerta di accettare almeno l'alloggio nel palazzo del cardinale, che stava alla Consulta, a Montecavallo, come segretario dei Brevi, e in cambio egli non avrebbe dovuto rendergli che qualche piccolo servizio. La biblioteca del cardinale, che monsignor governatore gli asseriva « una delle più vaste del mondo », lo avrebbe largamente risarcito dell'impegno. Per giunta alla derrata, e a toccarlo sul vivo di un annoso desiderio, gl'insinuò: « sans l'addresse de Passionei on ne vous admet jamais aux trésors de la Vaticane ». Dal 22 febbraio 1755, il famoso porporato di Fossombrone era, di fatto, cardinale Bibliotecario della Santa Chiesa Romana, uno dei tipi più originali che abbiano occupato nei secoli quell'ufficio. Ma Winckelmann era renitente, e Archinto, un pratico milanese che gli aveva profferito anch'egli casa, si stizzì dell'idealista. Il 24 gennaio '56, scrisse al medico di corte a Dresda Gian Ludovico Bianconi, comune amico: « se ne sta da sé studiando come un cane », tanto che si sarebbe ridotto alla miseria. Il figlio del calzolaio di Stendal, il paese prussiano che darà il nome a uno scrittore di Francia similmente innamorato di Roma, andò in udienza dal papa un giorno di quel gennaio. Benedetto XIV, Lambertini, che nel monumento di Pietro Bracci in San Pietro impugna la pacifica tabacchiera, era stato avvisato da una lettera scritta dal conterraneo Bianconi della presenza in Roma del neofito, ma si limitò, pare, a rivolgergli bonarie parole. Più importante incontro ebbe, alcuni giorni dopo, con il Passionei (non vi era andato con troppa voglia), che gli mostrò in persona la sua biblioteca, « la plus belle, comme il pretend, de celles d'un Particulier au monde ». Riempiva quattro stanze, e gli armadi, diversamente dalle altre, non erano chiusi; ma non poteva contenere i trecentomila volumi asseriti dal possessore. Il bibliotecario del castello di Nòthnitz non la trovò parago433 14]

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nabile con la sua di un giorno. In lettere dei primi mesi a Dresda scrisse, anzi, che ci si sbagliava a credere di trovare a Roma grandi biblioteche. Quella « famosa » della Minerva e quella della Sapienza non sommavano assieme i libri del castello ViU'ir.i/hr /\>yf Di'"""'' A'.t'.i'trn

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sassone, e « la Barbatine ne vaut pas grande-chose ». Alla Vaticana non riuscì, per un certo tempo, a mettere piede, ma giudicava, con stima veramente azzardata, che non perdeva molto, poiché « tous ce qu'il a d'important et tout ce qui est digne de la postérité est deja publié ». Per fortuna, a salvare la fama bibliotecaria di Roma, rimanevano quella del Passionei, apertagli con 434 [5]

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tutta larghezza dal geloso proprietario, e la « jolie » Corsiniana, la novità del giorno (era stata aperta il Io maggio 1754), « estimable par une Collection des Estampes ». Frequentava Tuna o l'altra, tutte le mattine, con il Campidoglio; sebbene dalla sua camera alla Trinità dei Monti alla Fungara occorressero tre quarti d'ora di strada (mezz'ora, in lettera successiva, per scorciatoie che avrà imparato). Il malumore persisteva a tingere questi suoi primi ragguagli, come affiora più comprensibilmente l'insofïerenza dell'esteta, nel punto dove protesta come più gli importava apprendere se una scultura fosse di mano greca o romana che attribuire un manoscritto greco al X piuttosto che all'XI secolo. Il giudizio dei « savans » romani, che a parte l'erudizione sono quelli che forse meno conoscono i « trésors » dell'Urbe, è ancora al nerofumo. Ma la primavera matura riconduce l'almo sole, e la lettera del 2 giugno 1756 proclama, finalmente: « Rome m'a enchanté ». Il cambio di registro si pensa prodotto, più che dalla stagione da una certa consuetudine stabilita con il cardinale Passionei. Poiché se ne legge l'elogio in questi termini, poco più sotto: « C'est personne la plus polie et la plus obligeante pour qui n'a à faire de ses services, et qui est libre comme moi je le suis, grace à Dieu ». Un anno dopo, raccontò che ne godeva tutta la grazia, ci andava a pranzo e poteva perfino avere in casa tutto quello che voleva della sua biblioteca. Nell'estate '57 ne ebbe anche la villeggiatura, « in una scelta di Fetterati savj et allegri e con una Fibertà senz'esempio ». Il geniale ritrovo, come si sa, era ai Camaldoli di Frascati, nella residenza che il cardinale aveva fatto bizzarramente fabbricare in forma di eremi per i singoli ospiti, e dove si divertiva a essere « Priore del suo Romitorio », sontuosamente riempito in contrasto con sculture antiche, iscrizioni, animali rari. Winckelmann ammirò « quest'uomo fiero e austero d'apparenza », che gli permetteva senza formalità di andare a tavola con la berretta in testa e di stare « spogliato » nella sua biblioteca. Quella biblioteca che era in cima dei pensieri del porporato e lo aveva reso, anche per mezzo di una leggendaria 435 [61

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aneddotica, uno degli uomini più famosi dell'Europa dotta settecentesca (ma papa Lambertini, che sapeva tagliare i panni addosso, annotava in un confidenziale carteggio: « C'est un homme... qui a beaucoup lu, mais jamais étudié, car si on ne peut étudier sans lire on peut lire sans étudier »). Una piccola partita con a posta Winckelmann si accese, a un certo punto, tra cardinali. Il governatore Archinto, che rivestì la porpora nell'aprile '56 e divenne nel settembre segretario di Stato, s'ingelosì di ciò che proprio egli aveva avviato, e a vedere Winckelmann andare in carrozza con Passionei. Gli diede un appartamento, al palazzo della Cancelleria, nel gennaio '57, l'incarico di redigere l'inventario della sua biblioteca, e 50 scudi che vennero al solito molto a proposito. Sulla fine dell'anno il giuoco a due seguitava, poiché egli andava a pranzo due volte la settimana da Passionei e una o due da Archinto. « Io sono invaghito delle delicie di Roma... », scrisse a Dresda, premendo più fortemente il pedale, chi pure intendeva e protestava di ricusare qualunque servitù « poco fruttuosa ». Nell'ottobre, aveva indossato l'abito « da Abbate », con la spesa di 50 scudi (calzoni di velluto, collarino nero con orlo bianco più lungo della giubba). L'anno 1758 che seguì cambiò in parte i personaggi del proscenio. Il 3 maggio morì il savio e arguto papa Benedetto XIV, e il 6 luglio gli successe il veneziano cardinale Carlo Rezzonico, con il nome di Clemente XIII; che riconfermò segretario di Stato Archinto. Ma anche questi morì, il 30 settembre, spegnendo alcune riaccese speranze di Winckelmann, di avere mano libera entro la contesagli Biblioteca Vaticana (si troverà più sotto tutta la vicenda). Il nuovo abate e ricercatore inesausto era stato, del resto, per gran parte di quell'anno e nei primi mesi del '59 fuori di Roma: a Napoli, alla scoperta finalmente dell'arte greca originale, e a Firenze, per la descrizione dell'ineguagliabile raccolta di gemme antiche del « barone, anzi baronissimo » Philipp von Stosch, morto l'anno avanti. Attendeva appunto a questo lavoro, quando salì all'orizzonte la costellazione che dominò sugli anni rimanenti della sua vita. Declinata fatalmente quella Archinto, 436 [7]

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il cardinale Alessandro Albani gli fece pervenire nell'ottobre l'oiferta di « stanza » nel suo palazzo e di 8 scudi al mese. Non era splendida, ma accettò, perchè il grande prelato, qualificato da lui « il Capo e il Corifeo degli Antiquari », gli era piaciuto, dal giorno in cui, introdotto di propria iniziativa presso di lui, aveva potuto esporre con libertà, « senza cedere alla sua intonatura », certe vedute sull'antichità. Rivestito da poco meno che mezzo secolo della porpora, il nipote di Clemente XI, spiccava realmente per passione e splendidezza di collezionista, contaminate stranamente dal genio mercantile: comprava e vendeva con pari alacrità, anche per tirare avanti la fabbrica della magnifica villa che espresse tutta la sua personalità. "Winckelmann, tornato a Roma nel maggio '59, s'insediò un mese dopo nell'appartamento assegnatogli nel palazzo alle Quattro Fontane (poi Del Drago): erano quattro stanze, in cima alla torre d'angolo, con vista che spaziava sulle ondulazioni dei Castelli, fino a Frascati. Passò più che un anno, prima che si qualificasse ufficialmente « Bibliotecario dell'Em.0 Alessandro Albani »; ma le mansioni presso questo dovettero rimanere sempre di non troppo impegno, poiché altre potette assumerne, pubbliche, e altri tre viaggi, di due o tre mesi ciascuno, ebbe libertà di fare nel paradiso terrestre antiquario di Napoli. Un piccolo spaccato della sua vita del tempo, anzi del costume di un secolo a Roma, è rappresentato da un aneddoto che narrò in una lettera, il 9 agosto 1765. Papa Rezzonico non passava per un amateur di letteratura e di belle arti, ma una domenica di quella estate capitò, all'improvviso, a vedere la villa, una delle nuove mirabilia Urbis. Il cardinale padrone stava « in basso », forse da un declivio, a riguardarsela; e Winckelmann, sotto il portico, vestito alla buona, « di colore », a cercare un passo nel poema greco delle « Dionisiache » di Nonno. Il papa salutò, venezievolmente: « Addio, signor Abate... col libro alla mano? ». S'intromise monsignor maggiordomo, con grossa piacevolezza, d'ufficio, per notare che non si doveva trattare proprio d'un libro « di divozione » (era festa), ma profano o eretico. Monsignor maestro di camera (un amico) glielo prese di 437 18]

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mano, e lo trovò « più che profano ». Il primo, riattaccando, informò il papa che l'abate aveva ricusato un canonicato alla Bocca della Verità, per non voler dire l'uffizio. E "Winckelmann, con impertinenza che prova la bonarietà della conversazione, ne chiese a Clemente XIII uno alla Rotonda, dove non c'era coro. La scenetta si chiuse, conforme alla prammatica, con il bacio della sacra pianella. Più

appassionatamente che

all'acquisto di un canonicato

Winckelmann aveva agognato a mettere piede, o piuttosto protendere le mani entro la Biblioteca Vaticana. Due mesi dopo l'arrivo, al 23 gennaio 1756, non era ancora riuscito a vederla, e sperava che un biglietto del protomedico del papa, il bolognese monsignor Marcantonio Lauren ti, gliene aprisse la porta. Ma, nel giugno, lamentava: « il n'y a moyen d'obtenir la moindre bagatelle qui n'est pas encore publiée: on n'en permet meme la vue. Syrus obsidet ». Il fiero guardiano così nominato era monsignor Giuseppe Simonie Assemani, primo custode della Vaticana, dal 1739, e personaggio importante nella Roma erudita e curiale. Tra il maronita libanese e il prussiano non corse certo buon sangue, per ragioni primordiali di latitudine. Il regime d'uso della biblioteca, s'improntava ancora, del resto, di severità. Intervenne un ordine del cardinale bibliotecario Passionei, nel giugno '57, ma non rimosse troppo gli ostacoli, se nel settembre Winckelmann scrisse ancora, in lettera: « Dalla Vaticana non v'è da buscare cose particolare se non colla permissione di scorrere con agio le scanzie de' MSS, la quale il Card. Bibliotecario stesso non ha il cuore di dare ». Alla fine dell'anno, anche per confessata paura del « viso da bravo del Syro », si proponeva di disertare la biblioteca, « dove del resto si sta si poco comodo che convien caricarsi sino all'inchiostro » (l'annotazione sapeva un poco di uva acerba). Aveva un amico « sotto-Scrittore », ma agli altri « Semidottoracci » non risparmiava ingiurie; e uno, di Scio, uscì bollato per « tondo e buggiardo sfacciato come i Greci Moderni, razza amfibia ». A sentirlo, l'unico a Roma al quale 438

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« non crocchia il ferro nel greco » stava in altro ufficio, fuori della Vaticana, un prelato Michelangelo Giacomelli, pistoiese. Morto papa Benedetto XIV, Winckelmann aspettò di ottenere dal nuovo, per mezzo di Archinto, un « ordine » di raccogliere nella Vaticana i frammenti dei santi Padri greci, così largo da non sottostare più alla vigilanza di quegli « Archimandriti degli Ignoranti Vaticani », e piuttosto pretesto per arrivare a « qualch'altra cosa ». Ma Archinto morì, e Clemente XIII per suo conto ringagliardì i divieti, nel 1761: « niuna Persona... possa sotto qualunque pretesto trattenersi nella Biblioteca per ivi leggere, e molto meno copiare i Codici, o Manoscritti ». Il Passionei era morto, anch'egli, il 5 luglio 1761, senza avere dato, pare, al suo « fra Giovanni », tra i camaldolesi da commedia, molto più che pranzi e qualche villeggiatura. Il cardinale bibliotecario che gli successe, il 12 agosto 1761, avventuratamente l'Albani, seppe fare assai meglio, aprendogli un vero cursus honorum. Con breve papale dell'I 1 aprile 1763, Winckelmann fu nominato prefetto delle antichità, antiquario apostolico, commissario delle antichità della Camera Apostolica: i titoli, che si trovano dati in maniera alternativa, denotavano l'ufficio non faticoso (aveva due assessori alle sue dipendenze) di vigilare sugli scavi e di esaminare i permessi d'esportazione delle opere d'arte. Lo trovò « sufficiente per ora al mio mantenimento », unitamente a un altro « posto » che gli era stato ripromesso (proprio alla Vaticana). Tirando le somme, contava oramai di avere maniera di «piantare il mio tugurio in quest'Alma lontano da tutti i guai ». Con puntualità, entro quell'aprile stesso, il cardinale Albani fece redigere in suo favore la supplica circostanziata che segue; Beat.m0 Padre Il Cardinale Alessandro Albani umilissimo suddito della Santità Vostra, e per somma sua beneficenza Bibliotecario della Biblioteca Vaticana Le rappresenta che, essendo morto il Cinese che era addetto alla Biblioteca Vaticana, a cui si davano più per elemosina che per utilità della medesima scudi Trentasei annui, ed essendo nella suddetta 439

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Biblioteca incorporata la Biblioteca Palatina, nella quale sono moltissimi manoscritti in Lingua Teutonica, di cui appena v'è un semplice Indice senza verun ordine, e senza avere la necessaria e distinta notizia delle materie che contengono, e ne quali può esservi delle cose importanti, supplica la Santità Vostra, avendone anche inteso Monsig/ Assemanni Custode della sud.a Biblioteca, che n'approva il pensiere, di assegnare i suddetti scudi trentasei vacati, come si è detto, che si pagavano dei danari della Biblioteca coll'aggiunta d'altri scudi quatordici, che fanno in tutto la somma di scudi cinquanta, all'Ab." Winchelman peritissimo in tutte le lingue e uomo di somma probità e fedeltà, con l'obbligo non solo di fare un Indice de sud.1 manoscritti Teutonici e di tutte le materie che in essi si contengono, ma anche di fare le traduzioni o in Lingua Lattina o in volgare di tutte quelle cose che si possono credere importanti ed anche utili per servizio della S. Sede, che in detti volumi e manoscritti possono naturalmente esservi, con ingiungervi al medesimo Ab.e Winchelman il segreto, ed incarico di andare a fare il sud." lavoro in tutte quelle ore e giornate, nelle quali gli altri scrittori sono obbligati di andare. E pieno di rispetto s'umilia al bacio de SS.mi Piedi. La supplica conseguì l'effetto. L'annotazione a retro, nello stile di prammatica, reca; « Ex audientia SS.mi Die 2 Maii 1763. SS.mus, attentis expositis, benigne annuit pro gratia iuxta petita. Et ad eumdem D. Cardinalem Bibliothecarium pro executione. C. Card. Rezzonico ». In altro metro, Winckelmann, introdotto in persona alla presenza di Clemente XIII, riferì in lettera, il 30 aprile: « Ieri ebbi l'onore di baciare la zampa santa di S.S. presentato da S.E. il quale ottenne per me 50. Scudi alla Vaticana col pretesto di far un Indice de' MSS Tedeschi della Palatina, ma coll'intenzione di farmi pigliar posto in questa carriera, dove posso andare innanzi. Il primo posto mio alla Vaticana sarà quello di Custode del Museo dell'Antichità profane, che ora si stabilisce, e poi uno Scrittorato ». Gli scudi del « Cinese », un Giuseppe Lucio Vu, incaricato anni prima da Passionei di tradurre alcuni manoscritti da quella lingua, passarono allo storico dell'estetica delle arti figurative classiche. Non importa aggiungere che non rimane traccia di quell'indice di manoscritti tede440

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schi, a cui avrebbe dovuto attendere. Ma sottostò, per quanto di malavoglia, all'obbligo della presenza, andando tutte le mattine, tranne il giovedì e la domenica. « Io sono affaticatissimo, fra la Vaticana, fra il cardinale, e fra l'opera che mi occupa », narrò in lettera del 3 gennaio 1764. E quando, nel novembre '65, ebbe a fare da guida a un'altezza ducale in visita dell'Urbe, nientemeno che il cardinale bibliotecario mandò un biglietto all'Assemani (evidentemente sempre all'erta) per giustificarlo. Conobbe quindi, di veduta e per consuetudine, il teatro di lavoro della Vaticana, e lo descrisse: quella « stanza in cui si trovano i " Custodes ", Scrittori in diverse lingue, che sono in numero di 12, e gli " Scopatori ", che hanno in custodia le chiavi per gli armadi ». Tirava, scopertamente, a qualche altro avanzamento. Informò, il 3 febbraio '64, che si lavorava appunto a fargli avere « la sopravivenza dello scrittorato della lingua ebraica » (della quale avrà inteso occuparsi nella maniera di quella teutonica). Il 5 settembre dell'anno stesso fu redatto invece il breve papale, che gli conferì la nomina a « scriptor supranumerarius graecus » della Vaticana, conforme all'originale consérvalo ora alla Bibliothèque Nationale di Parigi, tra carte Albani. Stranamente, non ne è rimasta copia nell'archivio della Biblioteca Apostolica. Come, altrettanto problematicamente, il nome di Winckelmann non figura nei Ruoli Vaticani di questi anni, tra gli « Officiali di Libraria ». Il giuoco delle promozioni dovette essere soprattutto sulla carta, e il prodotto delle diverse mosse rimaneva alquanto scarso. Nel fare il bilancio, il 6 novembre '65, l'abate notò, con pessimismo: « Tutta la filosofia non regge nel nostro secolo contro l'indigenza, dalla quale non potrei ripararmi, mancandomi il cardinale, e rimanendo con 200. scudi soli a Roma » (se ne spendevano 25 per un abito di seta). La fama crescente, portò a Winckelmann, nel '64 e '65, offerte di assumere uffici in Germania. Due gli pervennero dalle corti di Dresda e di Berlino. Federico II, il « Rè Prusso », gli propose la carica di regio bibliotecario e antiquario, ma i 2000 talleri fatti prima risplendere si ridussero per via alla metà, e la trattativa 441

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già da lui portata avanti si arrestò. Ma se la prese, per una delle sue stranezze, con il « frate incognito », un francese, che accettò di surrogarlo, andando sulla Sprea. I salti di umore non sono rari, specialmente in lettere degli ultimi anni. In una del '67, al nipote dello Stosch, che raccolse sfoghi tra i più confidenziali, in linguaggio talvolta da caserma, proclamò: « ...fortunato me, perché sono libero in paese libero » (e sembra raggirarsi, compiaciuto, nella sontuosa veste da camera, come nel ritratto di Anton von Maron). Ma in altra, del 26 febbraio '68, prediceva, furente: « La machina, Amico, va in rovina; io parlo di quella de' Preti; in cinquanta anni non vi sarà forse ne Papa ne prete. La fermentazione è arrivata all'orlo della pilla che bolle a scroscio (per parlare Toscano) e Roma diventerà un deserto ». Un abate settecentesco al tornasole, senza pretendere che i torti siano stati tutti dalla sua parte. Risalì sulla carrozza postale, come si conosce, il 10 aprile 1768, per tornare a rivedere il cielo nordico. Ma l'8 maggio, già ripresa la via del ritorno verso la terra delle colonne e degli archi, da Vienna, protestò ancora, all'estremo: « per me non è da sperare nessun vero diletto al di fuori di Roma ». Le sette coltellate dell'ex-cuoco pistoiese Francesco Arcangeli, all'Osteria Grande di Trieste, ne spezzarono invece, l'S giugno, lo stame della vita e spensero i non saziati fantasmi ideali di bellezza terrestre. L'antico pietista morì da buon cristiano, istituendo per testamento suo erede il cardinale Alessandro Albani, che si domandò cosa sarebbe rimasto dopo pagati i 500 zecchini di legati. Nello Vian

La documentazione più ampia è contenuta nella raccolta, in quattro volumi: J. J. Winckelmann, Brief e. In Verbindung mit Hans Diepolder hrsg. von Walther Rehm, Berlin, W. De Gruyter & Co., 1952-57. Ne ha tratto la parte relativa al soggiorno in Italia, introducendo e annotando con eleganza e precisione i testi, Giorgio Zampa, nel bel volume; J J. Winckelmann, Lettere italiane, Milano, Feltrinelli ed. [1961], I documenti conservati nella Biblioteca Vaticana si trovano nel voi. 2 del suo Archivio, fi. 226-227 e 236. 442

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Un sulla

piccolo

fondo

Rivoluzione

francese

]N ell'ottobre del 1789, anno gravido d'eventi per la storia d'Europa, il papa Pio VI aveva chiamato all'ufficio di suo Segretario di Stato, rimasto vacante per le dimissioni del cardinale Ignazio Boncompagni, il vecchio cardinale Francesco Saverio Zelada. Romano di nascita, ma di parenti originari spagnoli, (il padre fu di Murcia e la madre di Oviedo) il prelato settantaduenne era stato creatura di Clemente XIV, che gli aveva imposto la porpora nel 1773. Un sonetto satirico, che s'inizia con i versi; Pettinarsi la chioma ogni momento ontarla di manteca o pur di strutto... lo aveva rappresentato, abate settecentescamente frivolo e spiritualmente indevoto, « portar la croce sol per ornamento »; nel resto, curiale pigro e trascinatore di pratiche (1). Altri versi del genere, composti per il conclave seguito alla morte di Clemente XIV, mettono in bocca ai « quattro d'Ezzecchiel varii animali — che tiravano il carro portentoso » un'invettiva contro quattro cardinali, aspramente qualificati « un sciocco, un fiero, un furbo, un orgoglioso »(2). E il terzo della compagnia, flagellata da questo anonimo, è lo Zelada. Il quale si segnalò specialmente per il suo zelo antigesuitico, diventando quasi il liquidatore della Compagnia soppressa; alcune spoglie di essa, oggetti artistici e libri, passa-

il) Il sonetto si legge nel codice Ferrajoli 540 della Biblioteca Vaticana, f. 235; cfr. Codices Ferrajoli, tomus II, codices 426-736, recensuit Franciscus Aloisius Berra ...In Bibliotheca Vaticana, 1948 («Códices manu scripti recensiti») p. 229. Il sonetto fa parte di una raccolta di satire composte in Roma dopo la morte di Benedetto XIV. (2) Il sonetto sta nel cod. Ferrajoli 534, f. 170; cfr. Codices Ferrajoli, t. II, cit., p. 200. 3

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roño a indoviziare le sue collezioni (3). Poiché era bibliofilo appassionato e di gusto e formatore di una cospicua biblioteca, di manoscritti e stampati; e inoltre amico e protettore di eruditi e di scienziati, e scrittore egli stesso di numismatica antica. Prima della carica di Segretario, Pio VI gli aveva conferito nel 1780, a riconoscimento di questa sua cultura e mecenatismo, quella di Bibliotecario della Chiesa. Posto a capo degli affari di Stato, in quell'età tempestosa, seppe reggerli con saggezza, se non con energia (4), restando nell'alto ufficio per quasi sette anni, fino all'agosto del '96, quando i fatti seguiti all'armistizio di Bologna, che precedette al trattato di Tolentino, e in particolare l'esito incontrato dalla missione del Pieracchi presso il Direttorio, segnante il fallimento delle trattative di pace tra Roma e Parigi, lo indussero a deporre un carico troppo grave alle sue spalle di ottuagenario. Al legato di Bologna, nelle terre del quale i soldati della rivoluzione scorrevano violenti e insaziabili, aveva scritto alcuni mesi avanti ; « L'uomo non deve trascurare quanto gli permettono in simili circostanze le sue forze, e i mezzi della prudenza ed avvedutezza: ma convien poi che nel tempo stesso conti principalmente nell'aiuto e nella provvidenza di Dio» (5). E queste parole, nel bel mezzo del dispaccio diplomatico, fanno onore così alla sua religiosa pietà come alla sua umana saggezza. Le relazioni della Santa Sede con la Francia rivoluzionaria avevano formato, fino dall'inizio, la principale questione politica e religiosa del governo di questo ministro di Pio VI. Leggi eversive gravissime, quali la soppressione delle decime, benefici e annate (agosto'89), l'incameramento di tutti i beni del clero, l'abolizione degli ordini religiosi, l'invasione di Avignone e del contado Venessino, secolare dominio pontifico, infine, il 12 luglio 1790, la costi(3) Cfr, José M. March S.I., Documentos insignes que pertenecieron al cardenal Telada tocantes a la Compañía de Jesús, in Archivum historicum Societatis lesu, XVII, 1948, pp. 118-25. Per la sua azione antigesuitica si veda l'opera dello stesso p. March, El restaurador de la Compañía de Jesús beato José Pignatelli y su tiempo. Barcelona, 1935-44, t. I, pp. 342, 343, 345, 347-49, 351, 352, 356, 392; t. II, pp. 115, 119. (4) Il codice Vaticano latino 10330, ff. 75-78, contiene un'adulatoria anacreontica « In lode dell'Eminentissimo Cardinal Zelada Segretario di Stato >; cfr. Codices Vaticani latini. Codices 10301-10700, recensuerunt Marcus Vattasso et Henri cu s Carusi ... Romae, typis polyglottis Vaticanis, 1920 (« Codices manu scripti recensiti •), p. 22. Il carme s'inizia: « Quante volte alla gran Roma / Sovrastò qualche periglio / Tante volte fu salvata / Dal valor d'un proprio figlio •, e proclama, tra altro, con enfatico pronostico mal riuscito: « Sarà incolume e sicura / La Romulea Contrada / Per la cura e vigilanza / Del gran figlio suo Zelada ». (5) Lettera di Zelada al card. Vincenti, 18 maggio 1796, nel codice Borgiano latino 288, Biblioteca Vaticana, f. 36. 4 [16]

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tuzione civile del clero erano state un seguito di usurpazioni e di violenze ai diritti e alle prerogative della Chiesa e della Sede Apostolica. Per la longanimità del papa, il nunzio apostolico mons. Antonio Dugnani, che a ogni provvedimento formulava animose ma vane proteste, rimase tuttavia a Parigi fino al 31 maggio del '91; e altri due mesi dopo la partenza di lui si trattenne colà il suo uditore Quarantotti. Qualche avviso crudamente significativo sì ebbe per suo conto il nunzio, che un giorno vide gettare nella sua carrozza il capo mozzo di ima guardia (6). Durante quel periodo che si annunziava, come di fatto diventerà tra breve, di violenta persecuzione, occorreva tuttavia una persona sicura che prendesse sopra di sé il rischioso incarico d'informare la Santa Sede e di riceverne a sua volta le istruzioni da diffondere segretamente nel paese. Chi accettò animosamente questa delicata e pericolosa missione di agente pontificio clandestino in Francia fu, com'è noto, un ecclesiastico nato a Carpen tras suddito pontificio e « conseiller-clerc » al parlamento di Parigi, Louis de Salamon. Delle avventure e pericoli da lui incontrati nell'adempimento di quell'ufficio (che durò parecchi anni, compresa l'epoca del Terrore) egli stesso dettò alcune memorie, ritrovate verso la fine del secolo passato a Roma e pubblicate, in Francia, nel 1890 (7). Una parte del carteggio da lui tenuto con il cardinale segretario di Stato Zelada, negli anni '91 e '92, è stata inoltre rintracciata nell'Archivio Vaticano e divulgata nel 1898 (8); così che restano attestate abbastanza da documenti il coraggio, la sagacia e la fedeltà alla Chiesa di questo singolare incaricato d'affari, che Pio VI, per i travestimenti a cui era costretto, chiamava piacevolmente il suo « petit jacohin ». Il quale fu due volte arrestato e condannato a morte in contumacia, ma riuscì a portare felicemente al termine la sua missione, ragguagliando per tutti quegli anni la Santa Sede degli avvenimenti e trasmettendo le istruzioni e i brevi pontifici, riprodotti talvolta a migliaia di esemplari, in stampe fatte alla macchia, tra la gerarchia, il clero e i fedeli di Francia (Le sue Memorie illuminano, d'altra parte, alcuni aspetti settecenteschi della vita e del carattere di questo abbé, che non rifuggiva dalle conversazioni dei salotti e dai tempestosi dibattiti dei clubs). (6) Pastor, Storia dei Papi, vol. XVI, pt. Ili, Roma, 1934, pp. 516-17. (7) Mgr. de Salamon, Mémoires inédits de l'internonce à Paris pendant la Bévo' lution, 1790-1801. Avant-propos, introduction, notes et pièces justificatives par l'abbé Bridieh. Paris, Pion, Nourrit et C.ie, 1890. 6 [17]

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Una considerevole collezione di stampati impressi e divulgati in Francia durante gli anni della Rivoluzione, che si conserva tra il fondo Miscellanee della Biblioteca Vaticana, si ricollega sicuramente per la sua origine a quella storica rischiosa missione. Era stata già consuetudine del nunzio d'unire ai suoi dispacci diretti al segretario di Stato alcune delle molte stampe, opuscoli, fogli volanti, che in Francia si andavano divulgando sugli avvenimenti del giorno. Il Salamon venne pregato, dal principio del carteggio, di continuare l'invio dei fogli periodici parigini, come di « toutes les brochures du jour les plus piquantes, les plus intéressantes », secondo l'espressione del cardinale. Di ciascuna di queste si desideravano due esemplari, uno destinato al papa (anch'egli appassionato bibliofilo) e l'altro al segretario di Stato; e si apriva all'agente un conto speciale per rimborsarlo della spesa relativa. In molte lettere della vivace e informatissima corrispondenza settimanale che passava tra Parigi e Roma si trovano accenni alle stampe, compiegate in esecuzione all'invito. Quasi ogni dispaccio era così accompagnato da un importante corredo di giornali, di stampe volanti o fatte alla macchia, talvolta di disegni e di caricature (9). Colui che lo Zelada non finiva d'elogiare come un « admirable correspondant» e che si vede, attraverso i dispacci, partecipare assiduo all'Assemblea, girare per le vie, mescolarsi alle folle parigine, per cogliere e riferire sagacemente opinioni e giudizi, si dimostrava altrettanto alacre ricercatore e raccoglitore di tali fogli, rispecchianti con non minore fedeltà le idee, gli umori, le passioni del momento. Egli, che pei qualche tempo dovette mascherarsi nella corrispondenza dietro la figura fittizia di un comune « commissionaire en livres et figures » (10), dovette realmente possedere un fiuto libraio e un'esperienza di bibliofilo. Opere importanti e di pregio, qualche volta a intere casse, egli spedì infatti in più riprese a Pio VI e al cardinale, entrambi appassionati collettori di libri, oltre alle stampe del giorno, accompagnanti, come si è veduto, i suoi dispacci. E notizie delle ricerche e degli acquisti, talvolta con i conti del denaro sborsato, sono date in più luoghi dal carteggio (11).

(8) Correspondance secrète de l'abbé de Salamon chargé des affaires du SaintSiège pendant la Révolution avec le cardinal de Zelada (1791-1792), publiée par le V.te de Richemont. Paris, Pion, Nourrit et C.ie, 1898. (9) Correspondance secrète de l'abbé de Salamon, pp. XVII, XIX, XXVI. (10) Op. cit., p. XL. (11) Op. cit., pp. 11, 13, 25, 26, 27, 37, 41 ecc. (12) Nel 1796 o 1797. Sono in massima parte provenienti dal Zelada i 580 manoscritti vari descritti nel catalogo, rimasto incompiuto e parziale (i codici allora esi6 118]

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Il card. Francesco Saverio Zelada morì a Roma il 29 dicembre 1801. Della sua bella libreria, i manoscritti (tra i quali parecchi italiani) passarono per suo dono alla Capitolare di Toledo (12); gli stampati andarono in parte dispersi e in parte finirono alla Biblioteca Vaticana (13), dove si ritrovano in varie raccolte generali. Il fondo perdette quindi la sua unità originaria, ma le opere provenienti da esso possono generalmente riconoscersi daWex-libris o dello stemma impresso sui piatti o dorsi della legatura (un albero fronzuto sormontato d'una celata chiusa in profilo). Porzione considerevole dei libri entrati nella Vaticana rappresentano le miscellanee letterarie, scientifiche e di varia erudizione ; e tra esse spicca il gruppo di stampe originate dalla Rivoluzione francese che si vuole porre in luce con questa nota. Si tratta di circa un centinaio di volumi rilegati miscellanei (14), ciascuno dei quali comprende d'ordinario numerose unità bibliografiche (fino a venti e più) ; opuscoli, fogli volanti, avvisi, manifesti, numeri unici, almanacchi. Abbondano, tra essi, le stampe anonime, pseudonime e fatte alla macchia. Gli anni di pubblicazione risultano in prevalenza quelli tra l'89 e il 91, con minore frequenza i posteriori fino al '95. Le materie più trattate sono lo stato della Chiesa e del clero in relazione ai provvedimenti legislativi rivoluzionari, la politica estera della Francia, le vicende della monarchia e dei reali, e altre connesse in qualche maniera con gli affari politico-religiosi. (Questa raccolta, appartenuta al cardinale segretario di Pio VI, deriva sicuramente la sua principale origine dagli invii fatti al Vaticano dai rappresentanti e agenti della Santa Sede in Francia durante il periodo rivoluzionario, e in particolare dal Salamon, il fedele « petit jacobin », poiché solo una persona residente nel paese e un ricercatore intraprendente e accorto, quale egli apparistenti erano 2501) di José M. Octavio de Toledo, Catálogo de la Libreria del Cabildo Toledano. 1" parte. Manuscritos. Madrid, 1903 (♦ Biblioteca de la Revista de archivos, bibliotecas y museos », III). Alcuni dei codici greci Zelada furono portati nel 1869, con altri, nella Biblioteca Nacional di Madrid. (13) Giovanni card. Mercati, Note per la storia di alcune biblioteche romane nei secoli XVI-XIX. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1952, pp. 64-84. Secondo le sue conclusioni, la raccolta degli stampati Zelada, della quale il cardinale non doveva avere disposto in morte, fu messa in vendita dall'esecutore testamentario. Non essendo stata comprata da nessuno, dopo qualche anno fu venduta per 12.000 scudi al papa Pio VII, che la fece portare in Quirinale. Deportato il Pontefice dai francesi, essa sofferse la sottrazione di 3000 volumi e altri danni e perdite; la rimanenza fini nella Biblioteca Vaticana. (14) Si conserva nella « Raccolta Generale Miscellanee » della Biblioteca Vaticana, in diversi gruppi non continuativi. Il gruppo < F 1-F 26 » porta sul dorso della legatura antica, forse originale (ma senza lo stemma Zelada): « Rivoluzione di Francia... » e l'anno. 7 [19J

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see, poteva formarla. Per quanto altre collezioni di stampati sulla grande Rivoluzione siano di gran lunga più ricche, come la copiosissima della Biblioteca Nazionale di Parigi (che si attende ora a descrivere in un catalogo speciale, (15), la genesi e l'intento di quella Vaticana valgono a costituirne la singolarità e l'importanza, non soltanto bibliografica. Questi stampati, segnati con l'arme e le iniziali dello Zelada, formano in sostanza una delle fonti d'informazione servite alla Santa Sede durante la tempestosa età della Rivoluzione francese per dirigere la sua politica religiosa e giungere attraverso il sangue dei martiri al concordato del 1801.

(15) Bibliothèque Nationale, Département des imprimés. Catalogue de l'histoire de la Révolution française, par André Martin et Gérard Walter, t. I-V. Paris, 1936-43. Dal 1930 è in corso di stampa anche la magnifica opera, ricca delle riproduzioni di stampe originali; André Monglond, La France révolutionnaire et impériale (17891815). Bibliographie méthodique et description des livres illustrés. Paris-Grenoble, B. Arthaud.

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Tra

il

Marini

Francesco

e

il

Antonio

Mai... Baldi

Il primo tempo felice si svolge tra le campagne d'Arcadia e il giardino di Boboli. Il bel titolo bodoniano del foglio iniziale è qui davanti, squadernando il nome del poeta in tutte lettere: Francesco Antonio Baldi. La Stamperia Granducale fece le cose a garbo, e i sei fogli di salda e risonante carta dell'opuscolo in-quarto portano impresso 1'« idillio » prima in nitidi caratteri greci, poi in uno spaziato tondo romano. Era l'anno 1794, a Firenze, come segna la linea al fondo; tra metà dicembre e San Silvestro, si può aggiungere. Perché il secondogenito di Ferdinando III di Austria-Lorena e di Maria Luisa Amelia Borbone delle Due Sicilie nacque il 15 dicembre, nella genealogia delYAlmanac de Gotha. Era il maschio, erede designato, questo Francesco Leopoldo, poiché la granducale coppia aveva prodotto prima, l'anno avanti. Carolina Ferdinanda Teresa. Il neonato non scalò tuttavia il trono, ma il terzogenito, venuto al mondo nel 1797, Leopoldo Giovanni Giuseppe, che s'intitolò Leopoldo II, alla casalinga Canapone, e chiuse onestamente il lignaggio dei Lorenesi di Toscana.

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Neìlo Vian

Tutto questo il poeta aulico non poteva sapere. L'idillio pastorale «Il Parto ossia La Riconciliazione» è della più bella maniera arcadica. Delfi e Aminta, due giovani pastori vicini, contendono per amore della « bionda Amarilli », mentre s'avviano alla città. Arrivano al ponte, « che

PEL FELICE PARTO o t LUISA

MARIA

AMALIA

DI BORBONE ARCIDUCHESSA D'AUSTRIA G HAN DUC 11 ESSA DI TOSCAN A &c. Sic. &c. IDILLIO GRECO, E TOSCANO DÎ FRANCESCO ANTONIO BALDI,

nell'estivo ardor d'ambe le sponde / è testimone di notturni amori », quando giunge loro la fama del « sacro parto ». Si riconciliano, per la gioia dell'evento, nel proposito di recar doni all'» Augusta Donna»: Aminta, due secchie « di dolce latte piene », e Delfi, sei « tondi cestini » ricolmi di uova delle galline più giovani. Dopo un'ultima tenzone di parata, vanno al tempio a pregare per la « nata Prole », se ne tornano in villa, accolti dagli alti muggiti delle giovenche. Altri sinistri rumori correvano l'Europa, in quello scorcio di Settecento. La deforme, feconda granduchessa, figlia del re di Napoli, partorì ancora una Maria Luisa Giovanna Giuseppa Carolina Rosa, nel '98. Ma il 27 marzo 1799, tutta la carovana fu fatta partire precipitosamente, in sei

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Fra il Marini e il Mai... Francesco Antonio Baldi

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carrozze e con dieci carriaggi, che ussari francesi scortarono fino agli avamposti austriaci sulle linee dell'Adige e del Mincio. Protesse la lunga scarrozzata, che aveva per mèta Vienna, una Madonna di Raffaello, nominata da allora « del Viaggio » o « del Granduca ». I due primi principini e la madre non rividero più gli aprichi colli, ma rimasero tra il gelo della terra germanica, immoti per sempre. L'idillio si fece tragedia, e non se ne ispirò più il poeta del '94. Ma chi era l'accademico vate, non negato alle Grazie e alle Muse, pur nelle angustie delle rime obbligate? A stare al nome, non dimorava per professione sulle pendici del Parnaso. In quel 1799, a Venezia che il trattato di Campoformio aveva rinserrato nella bianca tunica austriaca, usciva dai torchi di Giustin Pasquali un grosso tomo di quasi mezzo migliaio di pagine, in latino: Francisci Antonii Baldi De apologia catholicae religionis, a nova et maxime propria vaticiniorum Psalmi quarti aliorumque declaratione, ad hebraeos, novatores et incrédulos dissertatio critica. Il poeta già suddito del Granduca, fiorentino o almeno toscano di nascita, era dunque un cultore di scienze sacre. Risulta anzi, per altra via, che apparteneva al Collegio dei Teologi dell'Università di Firenze, e che studiava da qualche decina di anni la lingua ebraica (si vedrà poi con che frutto). L'opera, intenzionalmente un nuovo sistema di apologia fondato sulla decifrazione asserita critica delle profezie bibliche, non scosse il mondo. Passarono quattro anni prima che venisse alle mani di un teologo professore all'Università di Padova, il padre Giorgio Maria Albertini, domenicano. Era costui un istriano, di Parenzo, e non le mandò a dire. Nel breve spazio di un opuscolo, che si presentò come Analisi, mise in pezzi il sistema, quale prodotto di una « focosa immaginazione ». Punto contro punto, due anni dopo, insorse alle difese del Baldi un « fra Damaso canonico Albertini », servendosi delle stampe del tipografo romano Vincenzo Poggioli. Con una polemica prefazione « a chi leggerà », in stile vivace e abbastanza sollazzevole, quest'altro opuscolo Degli errori del padre Albertini etc. etc., datato 1805, è un accanito rintuzzamento degli equivoci e abbagli nei quali sarebbe naufragato il domenicano. Tutto è ridotto a una mala pra-

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Nello Vian

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tica di questo, per via di tenere come « indivisibile compagna una donna di mal affare, diffamata bensì nella Letteraria Repubblica, ma però seduttrice di molti Cittadini, l'Invidia ». Mille e cento, contati e sommati alla maniera computistica, erano gli errori rilevati dal travestito « fra Damaso canonico ». Nel quale non era diffìcile scoprire il Baldi in persona (come già fece il Melzi, con qualche inesattezza bibliografica). Dalla piccola diatriba importa ricavare specialmente, per la quasi ignota biografia del personaggio, che egli si doveva essere già trasmutato dalle rive dell'Arno a quelle del Tevere. A Roma, 1'« abate » Baldi entrò in un certo momento nella corte papale. Servì Pio VII, in quel ristretto di corte che è detto tradizionalmente « famiglia ». Dopo la scalata del 5 luglio 1808 al Quirinale e la deportazione del papa, dovette rimanere o rientrare in Palazzo (pagò anch'egli di persona, perché non volle prestare il giuramento ai francesi e assaggiò la prigionia in Castello). Per i quattro anni durante i quali l'Urbe fu un Dipartimento imperiale, conosco di lui solo questa letterina, inedita, indirizzata a Carlo Fea, Commissario delle Antichità: Dal Quirinale 18 Ottobre 1810 Le chiavi della nota Biblioteca sono nelle mani di Mr. Perard, persona a cui abbiamo molte grandi obbligazioni, e che è impegnatissima per la conservazione di tutto quello, che appartiene a Sua Santità. Mi affretto di dargliene la notizia, e starò attendendo quanto Ella mi comunicherà sul proposito. Pieno di vera stima, ed amicizia sono sempre Suo Obbl.mo Serv.e ed Am.0 Aff.mo Francesco Baldi Il breve documento (conservato nel cod. Ferrajoli 440, f. 152) si riferisce con tutta probabilità alla splendida biblioteca privata di Pio VII, e fornisce forse un filo della tela tessuta per sottrarla alle rapacità depredatrici dell'Aquila imperiale. Fatto è che Pio VII, restituito a Roma e al sacro principato, nominò questo curatore dei suoi preziosi libri primo Custode o Prefetto della Biblioteca Vaticana, sul principio del maggio 1814 (successore del grande Gaetano Marini, che morì un anno dopo, il 17

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Fra il Marini e il Mai... Francesco Antonio Baldi

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maggio 1815, a Parigi, dove l'aveva trascinato l'imperiosa volontà napoleonica). Tempo dei Baldi alla Vaticana, anche se il nuovo non risulta imparentato con Elia, eccellente ordinatore del Medagliere alla fine del Settecento e padre del canonico Giuseppe, Scrittore latino e Sotto Custode con Francesco Antonio. Con in vita ancora l'autore de I Papiri diplomatici, il fiorentino, sicuramente con un bagaglio di scienza tanto meno grosso e solido, arrischiò in partenza. Ma le poche cose risultanti finora appariscono ragionevoli. Incominciò a tirare le somme del gran soqquadro degli anni avanti, verificando e prendendo in consegna con distinte, datate dal giugno e luglio 1814, i manoscritti rimasti (alle manomissioni francesi si era aggiunto il malgoverno di un principe don Carlo Altieri, posto nel 1809 per i due Custodi legittimi, assenti). Conteggiatore alla toscana, ottenne che Pio VII aumentasse gli stipendi degl'impiegati di 552 scudi all'anno e che ne fissasse 1200 per il bilancio della Biblioteca. Rimangono anche sue elaborate descrizioni delle sale storiche e del contenuto dei famosi « armari » lignei> e lunghe serie onomastiche di scrittori e uomini illustri da effigiare nelle nuove decorazioni ordinate da papa Chiaramonti (Arch, della Biblioteca, volumi 60 e 41). Consule il Baldi, la Vaticana ebbe, nel 1818, i primi papiri egiziani, portati a Roma dal missionario francescano Angelo da Pofi, reduce da Luxor. Per gli anni ancora difficili che correvano, tra i restauri della Restaurazione, ci si poteva contentare. Ma le congiunzioni avverse di stelle si producevano specialmente sopra i suoi parti letterari. Nel 1817, estrasse un altro mezzo migliaio di pagine latine in-quarto, con un titolo ripromettente nuove scoperte ebraico-scritturali: Incognitorum hactenus vaticiniorum de Cruce, ad Pium VII. pont, max., interpretatio ex hebraeo, et declaratio. Il nome in tutte lettere si rinforzava degli altrettanto risonanti titoli, ai quali s'intendeva sicuramente, poveruomo, di recare lustro: « Honorari a cubiculo Summi Pontificis et Vaticanae Bibliothecae praefecti. » A volgarizzarne la sostanza sovvenne, ratione amicitiae, il conterraneo Collegio dei Teologi dell'Università di Firenze, con una Relazione, supposta a un Costantino Battini servita, ma alla quale si può pen-

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Nello Vian

sare, senza giudizio temerario, abbia prestato mano lo stesso autore della complicata e azzardata opera. Il puntello, drizzato subito nello stesso '17, poco valse; e costernò di più l'annunzio, controproducente, che sarebbe seguita una « Cronologia Profetica », impresa di troppa mole anche a « una intera Società di Letterati Biblici ». Cattivi servizi resi a volte dagli amici. Gl'inchiostri delle stampe erano ancora freschi, quando un altro frate dalle bianche lane, professore proprio nella romana Sapienza, Maurizio Benedetto Olivieri, mise fuori una « lucubratiuncula » critica, radicalmente negativa del libro. A caso o per concerto, entrò quindi in lizza, sempre entro il 1817, la Biblioteca italiana di Milano, austriacante in politica, ma letterariamente autorevole. In pregusto, nel fascicolo di ottobre, annunziò quella del Baldi tra altre « bizzarrissime opere o teologiche o di ermeneutica »; e, a dicembre, per recensione dell'opuscolo dell'Olivieri, stampò sette pagine spietate, che tagliavano letteralmente i panni addosso al bibliotecario papale. Nel periodico non usava firmare, e non si saprà forse mai chi sia stato il crudo sarto, esercitato negli ateliers insubri. In giunta alla derrata, un prientalista, viaggiatore e diplomatico svedese, Johan David Akerblad, da Roma dove si era stabilito (e dorme per sempre, presso la Piramide Cestia) prese la penna e mandò, il 17 gennaio 1818, il corriere all'encausto che si leggerà. Destinatario ne era il bibliotecario ginevrino Guillaume Favre, corrispondente di mezza Europa erudita del tempo, che non avrà certo tenuta la lettera nel suo cassetto. « Ici la littérature repose. Le bibliothécaire du Vatican, Mgr Baldi, a publié, il y a quelque temps, un volume in-40, pour prouver qu'une parole hébraique (...) n'est plus, ce qu'on a cru jusqu'à présent, une simple particule, mais un substantif qui signifie croix, moyennant quoi il découvre des prophéties merveilleuses qui ont échappé jusqu'à présent à la sagacité de tous les interprètes de la Bible. J'avais prédit à ce pauvre homme, qui est peu versé de l'hébreu, que son ouvrage serait maltraité par les critiques, ce qui est arrivé. Malheureusement, Mgr Baldi est très sensible à la critique, et celle qu'on vient de faire de son livre lui a causé un coup d'apoplexie

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Fra il Marini e il Mai... Francesco Antonio Baldi

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dont il est cependant revenu. » L'iperboreo aveva, scientificamente, le sue carte in regola. E non erano questi i primi urti di monsignor Francesco Antonio con i dotti oltramontani. Un altro che a Roma faceva pioggia e bel tempo, il prussiano Niebuhr, si era a principio scontrato con lui, per diventargli poi cortese, in grazia a cortesie ricevute. Ma da questo punto la fortuna ritorse decisamente la ruota, e il fiorentino potrebbe entrare in qualche capitolo aggiuntivo del De litteratorum infelicitate di Pierio Valeriano. Sarà stato l'insulto circolatorio o altro, a Roma s'incominciò a mettere sul tappeto la sua sostituzione. Il 3 marzo 1818, il console generale pontificio a Milano conte Luigi Alborghetti mise avanti al cardinale segretario di Stato Consalvi la nomina di Angelo Mai alla Vaticana. L'astro già sorto puntava il suo corso al cielo dell'Urbe. Il 4 novembre, egli ringraziò il ministro di Pio VII per « il biglietto di collazione della carica di primo custode della Vaticana », ma la promozione dovette restare da prima in pectore, poiché il breve regolare di nomina seguì a distanza di un anno, il 20 ottobre 1819. Non risulta con che animo il Baldi sostenesse la disavventura, che presto divenne notoria. Le Notizie per l'anno M.DCCC.XIX, pubblicate dalla Stamperia Cracas, probabilmente sui primi dell'anno, lo davano già come « primo Custode giubilato ». Ma fuori di Roma la notizia si propagò lentamente, per cerchi, forse anche in ragione della rimanenza a Milano dello « scopritor famoso », che in quei mesi si accaniva ancora a tirar fuori dai palinsesti Ambrosiani gli obliterati tesori. Pietro Giordani, che si era impegnato invano per la candidatura di Giacomo Leopardi, gli preparò la strada, cofrispondendo con gli amici. A due dei quali, il 20 e 24 luglio 1819, scrisse: « Credo che Mai sia disposto di andare alla Vaticana... », « Il suo Omero (cosa magnifica) va innanzi; e tra due mesi dovrebbe uscire. Egli partirà, e andrà a Roma Custode della Vaticana, successore di Marini; poiché non voglio dirlo successore del balordo vecchio che ci è stato di mezzo ». Si sa che il focoso piacentino non misurava i termini, in specie quando il discorso verteva sui suoi protetti; e a lui rimane tutta la responsabilità dello spietato giudizio. Il Mai partì da Milano il 31 ottobre

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Nello Vian

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1819 e arrivò a Roma il 7 novembre. Fulmineamente, un mese e mezzo dopo, mandò a Pio VII, il 23 dicembre, la relazione della scoperta del De re publica. Un povero vecchio, in quel Natale, piegò un poco di più il capo stanco. Sopravvisse alcuni anni, tutti in ombra. Il suo nome appare, l'ultima volta, nelle Notizie per l'anno M.D.CCC.XXVI, così da ricavare che egli sia morto un giorno di quest'anno. Nessuno fece la spesa di un'iscrizione nella chiesa che ne accolse la spoglia. Per suprema ingiustizia, nei fasti latini che un prelato Giuseppe Dell'Aquila Visconti compose nel 1898, Francesco Antonio Baldi è stato addirittura eraso dalla serie dei Prefetti della Vaticana, perseguitato impietosamente dalla disgrazia di essere mal capitato tra Gaetano Marini e Angelo Mai. Nello Vian

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Il Leopardi bibliofilo

alla sua

misura

Che il Leopardi amasse i libri, bibliofilo nel senso sostanziale del termine, tutti sanno. Lo « studio matto e disperatissimo » s'alimentò dei libri, in quella biblioteca che Monaldo aveva eretto « filiis, amicis, civibus ». Il figlio grandissimo ne era fiero quanto il padre, così da vantare che non aveva « eguale nella provincia ». Al di fuori, in quella odiata-amata Recanati e nella regione (« La Marca e 1 mezzogiorno dello Stato Romano »), tutto gli appariva « morte ». Il consiglio di comprare un libro tirava addosso una « risata », e qualcuno predicava che quel « genio » gli sarebbe passato, al momento del « giudizio ». La sua infuriata replica, che suona anche alta professione di fede, la ebbe a raccogliere Pietro Giordani, anzi che i « cittadini » mal capitati : « razza d'asini, se vi pensate ch'io mi abbia a venire simile a voi altri, v'ingannate a partito; che io non lascerò d'amare i libri se non quando mi lascerà il giudizio, il quale voi non avete avuto mai, non ch'egli vi sia venuto quando avete lasciato di amare i libri ». Ma non aveva vent'anni, e lo svolgere carte lo lasciava triste, con un tedio che si nutriva di se stesso, insaziatamente : « l'ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo, studio s'alimenta e senza studio s'accresce » (pur l'incantato giuoco delle « ricordanze » si allungherà, un giorno, ai tre stanzoni-prigione che gli avevano logorato l'adolescen-

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Il Leopardi bibliofilo alla sua misura

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za, e lontano, da Firenze, invidierà quel soggiorno nella libreria, « nella quale mi ricordo bene dì non aver mai conosciuta l'estate, né sentito molto l'inverno »). Ma anche la libreria, con i suoi dodicimila volumi, ammucchiati alquanto alla rinfusa dal conte Monaldo, arrivava al fondo, quando ne attinse il precocissimo letterato e filologo, con la sua « voglia troppo ardente di leggere ». Di suo, non aveva « un baiocco da spendere », e doveva battere, per quanto la sua natura lo facesse ripugnante, dal padre (« niente altro che libri io gli ho domandato mai, fuor solamente un paio e mezzo di cavalli di posta, ch'egli non mi dà »). Il padre, pur amatore di stampe e amoroso del figlio, provvedeva, ma anche lui negli scudi non affogava, e i libri mancanti, specialmente nuovi, erano troppi. Lamentava il vorace : « i moderni qua non arrivano, e io presentemente leggendo sempre, sto in una totale ignoranza delle cose del mondo letterario ». A parte la lentezza del trasporto, da trenta giorni a cinquanta tra Milano e Recanati, era un tirare su l'acqua del mare con la secchia (« si spende continuamente in libri, ma la spesa è infinita, l'impresa di procacciarsi tutto è disperata »). Non restava che immergersi nei classici, « fino alla gola ». Greci la mattina, latini dopo pranzo, italiani la sera, non più di sei ore al giorno, era il regime deliberato sui diciotto anni, dopo che si era rimesso « alla peggio » dalle immense fatiche durate per tutta l'adolescenza. Il moderarle « assaissimo », in quella maniera, tuttavia valeva oramai poco, con la sua « complessione », che confessava non debole ma « debolissima ». Anche gli occhi servivano male, e il contino doveva confrontare la sua esigua statura con i tomi di grande formato. Cercò a lungo un Senofonte, e ne scrisse a più di un corrispondente, rappresentandosi al vivo, in quest'altra sua necessità, così : « Soprattutto non vorrei che fosse in foglio, per cagione della mia vista, la quale mercé di Dio è forte e buona, ma corta, e non arriva a leggere più che tanto discosto, sì che mi bisogna incombere sulla carta quando la è troppo lunga; e appunto questo non posso fare. Se poi fosse tale che si potesse portare in mano agevolmente e leggere passeggiando.

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omne ferret punctum, purché il greco non fosse asciutto senza niente né di versione né di chiosa. Non mi curo che la stampa sia freschissima: già s'intende che manco vorrebbe essere del cinquecento o lì presso » (come si vede prosteso sopra gl'in-folio, a decifrare avidamente le righe più alte, con quella sua vista, anch'essa in realtà così misera). Ebbe il Senofonte, non risulta in quale edizione, da Angelo Mai, al quale anche si era rivolto per la ricerca. E gli piacque tanto, per la comodità, che arrivò a dichiarare, rivoluzionando almeno per metà l'ideale della bibliofilia puramente di apparenza : « ...della carta e stampa non fo caso, e m'è parso sempre meglio con un zecchino comprare due o tre libretti stampati male, che uno stampato bene». Una eresia, a tutti i raffinati emunctae naris: ma si deve guardare bene alla firma che porta, di uno che il sostanziale (effettuale, avrebbe scritto Nicolò Machiavelli) amor di libro pagò con la persona, vale a dire poco meno che con la vita. Pur, quando il bibliofilo-antibibliofìlo imprendeva egli a stampare cose proprie, o sudate e squisite traduzioni dai suoi classici, diventava attento delle particolarità tipografiche e di quella veste esterna, che prima mostrava di poco curare. L'altra industria dominante era la spesa, perché il giovane autore Giacomo Leopardi faceva imprimere suis impensis, o piuttosto con danari di casa (che uscivano a fatica, come si sa). Il problema appunto era di conciliare il buon gusto con l'economia. Al Giordani, per la stampa delle canzoni sull'Italia e sul monumento a Dante, dicembre '18: «... la spesa dovendosi fare del mio privato erario, il sesto, il numero delle copie e la carta vorrebbero esser tali ch'ella non passasse le 35 o 40 lire, massime che il numero delle facce, non potendo essere altro che uno, tanto quanto s'ingrandisce il sesto, si crescerebbe la spesa. Alcune poche copie mi piacerebbe che fossero in carta velina o cerulea o simile, le altre di quella miglior qualità che potrà comportare la stampa di costì o di dove vi piace ». Le stampò il Bourlié, romano, ma quando egli vide la prima copia si costernò, e fece il proposito che dimostra una sua bibliofilia anche formale: « arrivate che saranno io le consegnerò immediatamente

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Il Leopardi bibliofilo alla sua misura

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in anima e in corpo al pizzicagnolo, non volendo che nessuno veda quest'obbrobrio di stampa nella quale io medesimo leggendo i miei poveri versi, me ne vergogno, che mi paiono così vestiti di stracci, anche peggio che non sono », « io voglio assai prima non esser letto ch'esser letto in questa sucida forma ». Con questo, la spesa era venuta così grossa che l'aveva « spiantato affatto ». Tanto più che le due o trecento copie gli restavano quasi tutte sulle braccia, per mancare di relazioni con librai, e anche certo, per un suo signorile ritegno : « non volendone un mezzo soldo, non so che diavolo me ne fare ». Tribolazioni del genere ebbe in altre sue stampe. Di tre nuove canzoni, tra cui quella ad Angelo Mai, incaricò il servizievole, anche troppo, Pietro Brighenti, con istruzioni simili : « formato di 12 o 16 in maniera che non eccedesse i due fogli di stampa, in carta mediocre, eccetto una dozzina che bramerei stampata in carta di buona qualità », legatura « in carta colorata, ovvero in carta bianca stampata » (gli amatori delle edizioni ottocentesche sanno in questa maniera che il disegno è stato ideato da lui, nei particolari). Ma anche più a cuore gli stava la revisione delle stampe, da commettere a persona « che vi adoperasse tutta la diligenza ch'è necessaria in queste piccole edizioni dove ogni minimo errore riesce vergognoso, e spesso fa anche gran danno al componimento e all'onor dell'autore ». Il poeta ineccepibile ingiungeva che non si trascurasse « neanche la punteggiatura ch'io ho cercato di regolare nel ms. con ogni esattezza, parendomi che anch'essa faccia non piccola parte della buona o cattiva qualità dello stile ». Egli torna per questa via all'esigenza di una stampa sostanzialmente buona, anche se non disdegnò, quando si fece editore di se stesso, una certa esteriore eleganza. Il conte Monaldo insuperbiva, per suo conto, delle belle edizioni, e dava la caccia, per quanto gli bastava il valsente, alle aldine, giuntine, giolitine. Per i suoi calcoli che s'immaginano sudati di bilancio, voleva avere repertori dei prezzi, e ne scrisse al figlio, a Pisa. Questi gli rispose, nel marzo '28, informatamente, che esistevano « cataloghi bibliografici » di quei più famosi tipo-

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grafi : « ma cataloghi manuali, e che particolarmente indichino il prezzo di tali edizioni, nessuno me ne ha saputo nominare, e credo che in verità non si trovino ». Con esperienza consumata, da libraio antiquario, e cogliendo, al solito lucidamente, l'elemento più determinante di questo mercato, la relatività, aggiunse la propria opinione « che il prezzo di quelle stampe sia totalmente incerto e vario, secondo le città, i possessori e i compratori ». Personalmente, egli avrebbe speso meglio che in belle stampe (si è sentito sopra) gli zecchini. Anche in ragione di un « discorso non troppo lieto, e piuttosto malinconico che altrimenti », che si legge nel suo Zibaldone, con la data di Recanati, 2 aprile 1827. Si tratta di una sua teoria, addirittura, che sostiene il rapporto inversamente proporzionale tra il contenuto e la forma dei libri. « Quando 10 stile peggiora e divien più vile, più incolto, di meno spesa; tanto cresce l'eleganza, la nitidezza, lo splendore, la magnificenza, il costo e vero pregio e valore delle edizioni. Guardate le stampe francesi d'oggidì, anche quelle delle semplici brochures e fogli volanti ed effimeri. Direste che non si può dar cosa più perfetta in tal genere, se le stampe d'Inghilterra, quelle eziandio de' passeggeri pamphlets, non vi mostrassero una perfezione molto maggiore. Guardate poi lo stile di tali opere, così stampate; 11 quale a prima giunta vi parrebbe che dovesse esser cosa di gran valore, di grande squisitezza, condotta con grand'arte e studio. Disgraziatamente l'arte e lo studio son cose oramai ignote e sbandite dalla professione di scriver libri... ». Dati (e propriamente non dimostrati) questi principi, l'implacabile pessimista conclude che i classici, pur umilmente impressi, non morranno, là dove i moderni, splendidamente rivestiti, vivranno lo spazio di giorni. Per quanto egli sia andato troppo in là, anche in questa asserzione nuda e cruda, si pensa che la bibliofilia proprio alla sua misura di Giacomo Leopardi doveva arrivare alla sostanza, così (e immaginabile è quali più spietate note avrebbe consegnato al libro dei suoi pensieri, a osservare i prodotti sfarzosi e rutilanti dell'arte, o piuttosto industria editoriale contemporanea). Nello Vian

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Tre

libri della biblioteca del Belli

Lo « Zibaldone » manoscritto, lo sterminato giornale delle ricerche, delle letture e delle curiosità dell'insaziato curioso che fu Giuseppe Gioachino Belli, registra numerose volte libri di « mia proprietà », come egli annota con precisione. « Nella mia biblioteca » è indicato, certo nel significato di raccolta d'una certa consistenza, l'esemplare dei Canti del Leopardi. Delle due stanze che tenne per uso personale, dopo il 1837, in via Monte della Farina, e poi, nel 1849, in via dei Cesarini, dove morì, una di fatto dovette essere destinata a contenere i libri. Ma questa sua biblioteca, diversamente dalle carte e dai carteggi, non è stata conservata. Dovette andare dispersa, per strettezze nelle quali ebbe a trovarsi il figlio Ciro alla morte del padre. Da una nota di acquisto, che sì riprodurrà più sotto, risulta che alla distanza di meno di due mesi uno dei libri era già stato venduto. Fu probabilmente la sorte di tutti, o quasi tutti, questi amati compagni della vita del poeta. Dei superstiti, primo da ricordare, per l'importanza che ebbe nella poetica del cantore della plebe romana, è l'opera del Porta. Si conoscono i particolari dei viaggi del

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Nello Vian

Belli a Milano e la sua prima conoscenza della poesia del milanese. Quella indicazione del Journal de voyage belliano, alla data del 17 settembre 1827 (« Poesie di Porta t. 2. baj. 96 »), è certamente preziosa per lo studio dell'origine e delle forme dell'arte del poeta romano, qualunque sia la misura determinante che la critica voglia dare a quell'incontro nell'eruzione del grande poema in sonetti. I due piccoli tomi, in sedicesimo, sono ora nel fondo degli stampati Ferrajoli, sotto le segnature V. 6598 e V. 6518, alla Biblioteca Vaticana. Contengono rispettivamente le Poesie / edite in dialetto milanese / di / Carlo Porta / ricorette [sic] sul testo / colVaggiunta di due componimenti / di / Tommaso Grossi // Italia / 1826; e la Raccolta / di poesie inedite / in dialetto milanese / di Carlo Porta / colV aggiunta della Prineide / e di alcune altre anonime // Italia / 1826. Le edizioni con la falsa nota di luogo furono entrambe stampate a Lugano, nella tipografia Vanelli, e introdotte clandestinamente nel Lombardo-Veneto. I temuti rigori del governo austriaco riguardavano principalmente la Raccolta di poesie inedite, poiché quella delle Poesie edite riproduce sostanzialmente la materia delle due prime edizioni portiane, fatte nel 1817 e 1821 a Milano, con l'approvazione o tolleranza della censura. L'edizione principe delle poesie fino allora inedite, fatta a Lugano, e della quale la polizia austriaca ebbe notizia da una lettera intercettata, suscitò invece addirittura un episodio diplomatico tra il governo lombardo-veneto e il Canton Ticino. Al carteggio tra Vienna e Milano e alle rimostranze rivolte in conseguenza dal governatore di Milano al landmano del Cantone svizzero, tra il dicembre 1826 e il giugno '27, tennero dietro certamente la repressione dello smercio e la ricerca degli esemplari introdotti nel Lombardo-Veneto e diffusi largamente (all'edizione originale fecero seguito di fatto parecchie riproduzioni, recanti ugualmente le note Italia 1826, anche se stampate più tardi). Il Belli, nel settembre 1827, non poté quindi acquistare scopertamente in libreria i due tometti, ma dovette entrarne in possesso per qualche via clandestina, indicatagli dai suoi amici milanesi. Ciò spiega anche il prezzo relativamente alto di 96 baiocchi, circa

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Tre libri della biblioteca del Belli

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uno scudo del tempo, sei svanziche austriache, che egli sborsò. Li dovette fare rilegare lui in mezzo marrocchino, e sul foglio bianco incollato di contro alla faccia intema della coperta appose la nota « Di G.G.B. », che ne certifica la proprietà. Nello stesso luogo, al disopra di questo exlibris, il bibliofilo marchese Gaetano Ferrajoli che li acquistò ha segnato, come era solito fare, il proprio nome e la data, in cui ne venne in possesso: « Roma - 15 febbraio 1864 ». Il Belli era morto il 21 dicembre dell'anno avanti, e lì aveva conservati quasi sicuramente presso di sé, fino all'ultimo. Domenico Gnoli, che nel suo saggio sul Belli del 1878 diede per primo notizia dell'edizione del Porta da lui posseduta e della sua entrata nella libreria Ferrajoli, osservò già : « il secondo volumetto, delle poesie inedite, è tutto segnato col lapis, dove incontrasse parole che avesse bisogno di farsi spiegare dal Moraglia o da altri amici ». La Raccolta di poesie inedite presenta di fatto, in molte delle sue pagine, alcuni segni: sottolineature, tratti laterali di richiamo, qualche rarissima correzione di errori tipografici. Alla Prineide è aggiunta l'indicazione della reale paternità: «Di Tommaso Grossi», che può essere di mano del Belli, ma non sicuramente (è nota la mutabilità della sua scrittura). Tutti i segni sono fatti con molta leggerezza di mano. Quanto al significato degli stessi, la massima parte deve in realtà indicare parole dialettali milanesi da farsi interpretare dagli amici. Solo qualcuno potrebbe richiamare un richiamo di genere diverso dal linguistico. Del resto né il tomo della Raccolta, né quello delle Poesie edite, che non reca alcun segno, rivelano tracce di un frequente uso e di lungo studio. Così che gli esemplari, a parte il carattere di cimeli, non molto valgono a sciogliere l'ancora variamente disputata questione dell'ispirazione portiana del Belli. Più sagacemente di molti suoi contemporanei, incluso il Leopardi, il poeta romano di costume, come a tutto diritto egli può chiamarsi, ammirò l'immortale romanzo di costume di Alessandro Manzoni, fino dal suo primo apparire. Testimonianze erano già note, specialmente dello

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Nello Vian

« Zibaldone ». Ma lieta sorpresa fu l'inatteso riemergere, nel 1941, dell'esemplare dei Promessi Sposi appartenuto al Belli, l'edizione stampata a Torino dal Tomba nel 1827. Nella prima pagina di ciascuno dei tre esigui tomi, rilegati in uno, il possessore ha scritto, notando proprio quella qualità di spietato moralista del grande lombardo : « E quel conoscitor... (Dante) » (e significante è che abbia fatto ricorso alla citazione dantesca, e proprio deWInferno). Con parole sue, congegnate in forma scherzosamente logica, egli ha poi voluto attestare il suo schietto entusiasmo, neir« occhio » dell'opera : « Cavata da tutte le sue parti una sostanza, e da questa, una idea, io dico in proporzione ; Questo è il primo libro del mondo. - G. G. Belli ». Ma l'ammirazione e lo studio non si fermavano qui. Tutta l'opera è (o era) minutamente postillata, a penna e a matita, con annotazioni sul contenuto e la forma, predominando quelle di carattere filologico. L'esemplare, che attesta le ripetute letture, fu caro al Belli, il quale Io ricercò con interesse (e Io riebbe) una volta che lo prestò a un amico, e da questo era passato a un altro. Dovette uscire di casa, anch'esso, dopo la morte del poeta, e ricomparve, chi sa per quali vie, in tempi recenti, sopra una bancarella. 11 compratore, per pochi soldi, lo portò alla Mostra di autografi e di cimeli Belliani, che si tenne nel 150° anniversario della nascita del poeta. L'acquisto era stato avviato dalla « Vittorio Emanuele », ma non arrivò a termine perché si fece avanti (pare) il Centro Manzoniano di Milano. Tra i due litiganti andò di mezzo il prezioso «postillato », che sparì, tra gli anni di guerra, e ancora non è ricomparso. Il suo ritrovamento sarebbe uno dei più felici frutti di questa celebrazione centenaria della morte del Belli (e molto più che dalle poche fotografie di pagine rimaste ne trarrebbe sicuramente Eurialo De Michelis, squisito e sagace indagatore recentissimo delle relazioni tra il grande romano e il grande milanese). Conservata nella libreria Ferrajoli, ora alla Vaticana, è invece un'altra opera appartenuta al Belli, e che ha, come il Porta, qualche riferimento alla sua poesia, questa volta l'italiana. Si tratta di una Versione degl'inni e delle sequenze negli Uffici divini e de' cantici della Scrittura,

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Tre libri della biblioteca del Belli

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eseguita dal modenese Paolo Baraldi, e pubblicato appunto a Modena, « per G. Vincenzi e comp. », nel 1815, in due volumi di pìccolo formato, e con una dedica a Ippolito Pindemonte. Dì contro al frontespizio dell'esemplare, rilegato in un solo volume, si legge questa precisa nota di acquisto, tutta di mano del Belli : « Martedì 28 marzo 1854. Opera acquistata per mio conto dal mio amico s.r Pio Barbèri al pubblico incanto volontario fatto dalla eredità del Maestro di Cappella fu Girolamo Ricci, de' libri già appartenuti al defunto, presso il libraio s.r Filippo Bonifazi in piazza di Venezia, palazzo Pamphily. Sino a questo giorno niuna delle esistenti versioni degl'Inni ecclesiastici aveva io mai conosciuta, fuorché, s'intende, la mia. G. G. Belli ». Non altro è da rilevare nel libro, segnato ora « Ferraioli V. 6589 », e che non porta alcuna nota del successivo acquisto da parte del bibliofilo marchese collezionista. Il riferimento del Belli è alla sua propria opera, non ancora (si noti) pubblicata. Ma della quale gli parlava monsignor Tizzani, in un biglietto del 24 gennaio 1854, chiedendogli un inno tradotto « per far strada », evidentemente al fine della stampa. Con romano temporeggiamento, le trattative durarono due anni, e portarono a un rescritto di Pio IX, che concesse di stampare l'opera a spese del pubblico erario. E gli Inni ecclesiastici secondo l'ordine del Breviario Romano, volgarizzati da Giuseppe Gioachino Belli vennero infatti a luce, entro quell'anno 1856, nella Tipografia della Rev. Camera Apostolica, con la dedica « Pio IX Pontifici Maximo ». Fu un grosso in-ottavo, di più che mezzo migliaio di pagine, coperto da una di quelle copertine in carta colorata proprie del tempo, e che portò naturalmente 1'« imprimatur », anzi il doppio « imprimatur » del Maestro del Sacro Palazzo e del Vicegerente. Non è il luogo questo per accertare, se mai riesca accertabile, che l'opera fu una specie di pensum, suggerito da altri o imposto a se stesso, per le libertà talvolta crudamente sacrileghe dei sonetti romaneschi. Si disse fino che fu Pio IX, il papa per il quale l'aspra satira della sua poesia pur si temperò (« è giovene, è a la mano, è bono, è bello... »), a proporgli questo genere di ammenda. E se

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non lo fu, ebbe accettevole, come si è veduto, l'omaggio dello stanco poeta. Al quale l'opera fu cara, così da offrirla con dediche di sua mano. Un esemplare Ferrajoli, ancora, reca; «Al distinto cultore di belle lettere ed arti, sig. Marchese D. Domenico Capranica, l'amico suo ed ammiratore G. G. Belli ». Dalla circostanziata nota trascritta più sopra, si raccoglie la protesta di originalità che egli volle inserire in confronto della precedente versione, conosciuta da lui solo dopo che ebbe compiuto la propria. Le parole «fuorché, s'intende, la mia» appariscono nella scrittura aggiunte posteriormente: quasi un esangue sorriso di chi era stato, incontrastabilmente, il possente creatore della grande commedia umana dei Sonetti. Nello Vian

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BIBLIOTECARI DELLA VATICANA, UN SECOLO FA

Monsignor Gabriele Laureani, primo Custode, come allora suonava il nome, dopo il Marini, il Mai, il Mezzofanti, era soprattutto un consumato latinista, assai ammirato dai contemporanei per l'arte di dettare un'epigrafe, di tornire gli esametri, di panneggiare un'orazione nella lingua del Lazio o più propriamente in quella asiaticamente magnifica di Marco Tullio Cicerone. Di padre calabrese e di madre romana, in giovinezza debole di salute e di persona « soverchiamente alta e macra », era riuscito con la tenacia, quasi contro l'attesa dei suoi maestri nel Collegio romano, ad acquistare quell'abilità nello scrivere latino per cui venne predicato in Arcadia, dopo la morte, con tono certo tenuto un pò alto dall'occasione, « uno del felice tempo di papa Leone decimo, anzi dell'aureo secolo di Augusto imperadore ». Professore di letterature classiche, anzi di « eloquenza, poesia e lingua », secondo il più immaginoso stile scolastico del tempo, salì a quarantanni all'ufficio di Custode generale d'Arcadia, dove pastorelleggiò con il nome di Filandro Geronteo. Il 7 giugno 1829, in Campidoglio, a un'accademia per l'elezione di Pio Vili, che portava anch'egli il pastorale nome di Eupemene Naupatteo, recitò in quella veste un discorso che bene rivela gli uomini e i tempi, per salutare 1'« adorabile genio » del nuovo papa « non tra selve, o in umile abituro da pastori, ma fra la vaga luce e brillante del più illustre colle romano ». La perorazione, modulata conforme ai dettami della classica eloquenza, impennava le ali in alto; « Rallegrate ora, o

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— 166 — Arcadi, questo beato colle delle voci vostre d'acclamazioni e di giubilo; e i venti dattorno coll'ale ossequiose il devoto suono ne riportino alle benigne orecchie del Massimo Eupemene ». Per suo conto Filandro Geronteo gli rivolgeva versi latini che hanno il solo torto di ricalcare troppo da vicino Tantico Parnaso: Gaude o bona Romae soboles... (si veda, ahimè, ... dei suoi primi sonetti romaneschi, il Belli). Gregorio XVI elesse dunque monsignor Gabriele Laureani, il 12 febbraio 1838, primo Custode della Biblioteca Vaticana, a succedere, come si esprime quel suo elogiatore con richiamo che non gioca interamente a favore del pur degnissimo arcade, « in quell'ufficio nobilissimo di lettere e di corte al Marini, al Mai, al Mezzofanti ». Lo sostenne, a stare ancora all'accademico lodatore, che fu Giuseppe Spezi, con « prudenza, dottrina e gentilezza » ; e si può accettare il suo testimonio, anche se un meno candido contemporaneo abbia insinuato in una gazzetta di Allemagna che il bibliotecario « poteva essere compiacente, quando non aveva giornate d'angustia ». Risulta che egli rivolse particolari cure al Museo Sacro, cospicua raccolta artistica della Vaticana, dove si aggiunse la stanza delle pitture antiche romane; e che qui Gregorio XVI usava venire ogni giorno « per suo sollievo e per amore delle buone arti e degli studi » e passeggiare a braccio del « prelato custode » (la scenetta è sfuggita, credo, al maledico genio belliano, satireggiatore implacabile di papa Cappellari). Ma il Laureani, uomo di corte, seppe anche respingere con fermezza le ingerenze repubblicane del '49, quando a Pietro Sterbini, nominato « conservatore generale delle belle arti e monumenti nazionali », replicò di non credere sè e i bibliotecari Vaticani tenuti a fare adesione al governo rivoluzionario, « come persone addette al servizio particolare del Pontefice ». Morì alcuni mesi dopo la caduta della repubblica, con quella fama « di religione e di modestia, di cortesia e di ottima e grande letteratura », ma anche di non avere mai stampato in vita sua un libro. Dall'esilio di Portici, Pio IX rientrò in Roma il 12 aprile 1850, e il 26 del mese stesso nominò a successore monsignor Andrea Molza, che si ornava di un nome risonante di umanistica fama e nella diarchia di governo della Va-

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— 167 — ticana copriva il secondo posto. Era costui « una specie di gigante che parlava poco e spesso non diceva che stravaganze », e s'insinuava che fosse un rampollo disceso per vie non registrate daWAlmanach de Gotha da una famiglia regnante d'Italia. « Padre Zappata », al secolo Girolamo Amati junior, il quale raccoglie la voce, aggiunge l'altro temerario giudizio che « generalmente si ammiravano, senza però averne alcuna prova, le sue cognizioni semitiche ». A svolgere le vecchie carte, il Molza fu colui che nel 1821 prese il posto a Giacomo Leopardi, aspirante « scrittore latino » della Biblioteca Vaticana. Nel dare conto a Pietro Giordani dell'affare, il Mai allegò allora « l'estremo esaurimento delle casse e la soprabbondanza degli impiegati e dei pensionati », che in luogo di due « scrittori », per l'ebraico e il latino, portarono ad assumerne uno solo per le due lingue nella persona del Molza. Ma è certo che a far trionfare la causa di questo si era mosso anche il fratello, personaggio politicamente importante, ministro del ducato di Modena all'estero. Monsignore era un antico scolopio, uscito dall'ordine per i rivolgimenti napoleonici; in realtà assai dotto nelle lingue orientali e possessore di una magnifica libreria privata di sei o sette mila volumi, andati dispersi alla sua morte. Si accompagnava spesso con questo gigantesco erudito « un omicciuolo piuttosto grasso con occhi vivaci e labbra sempre atteggiate al sorriso acre », il famoso a quel tempo Emiliano Sarti, ellenista epigrafista archeologo, scrittore di greco alla Vaticana. Ma il Molza, che decisamente non godette la stima dì tutti i contemporanei, sarebbe stato, a sentire il biografo del Sarti Gaetano Pelliccioni, « una di quelle tempere poco buone per sè e dannose a cui in esse si incontri » e sinistro influsso avrebbe esercitato sull'insigne filologo, per calcolata gelosia di una fama alla quale egli, « ingegno puerile, cavilloso e confuso » disperata di arrivare. A lui, nell'ufficio di primo Custode, mancò in ogni maniera il tempo di dare prova di sè. In un accesso di febbre che l'Amati asserì prodotto dalla scoperta di un furto nella Vaticana, il 6 luglio 1851 si era alzato dal letto, circa un'ora dopo mezzogiorno, e chiuso in un camerino della sua 'abitazione in via Monserrato si era segato miseramente la gola con un rasoio. Confessato

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— 168 — a fatica da un nipote gesuita, morì la mattina del 7 : sotto il segno della furente pazzia giace la fine di questo ecclesiastico settantenne, quotidiano celebratore dei sacri misteri nella chiesa filippina di San Girolamo della Carità, e dei bibliotecari apostolici il solo forse con il quattrocentesco Giovanni Lorenzi a perire per tragica violenza. Mecenateschi propositi di protezione delle arti e delle scienze animano la seconda, lunghissima era del principato di Pio IX. A distanza di tre mesi da quella tragedia, il 20 ottobre 1851, uscì un motuproprio per la Biblioteca Vaticana, che sotto l'usata magnificenza dell'inizio richiama la drammatica storia appena conchiusa: « Tra le gravi e molteplici cure che occuparono l'animo Nostro fin dal principio del Pontificato... ». Nel giorno stesso era nominato il nuovo primo Custode nell'eccellentissima persona dell'arcivescovo titolare di Efeso monsignor Alessandro Asinari di Sammarzano. La scelta di questo alto prelato, uscito da aristocratica casata piemontese, può apparire singolare, poiché non risulta qualche suo particolare merito nella repubblica letteraria. Era stato prima nella diplomazia pontificia e nunzio alla corte del Belgio dal maggio 1846 all'agosto 1850. Ma anche in tale ufficio, nel quale era succeduto al nunzio Gioacchino Pecci partito pur egli in disgrazia, aveva sostenuto, a usare la discreta espressione di uno storico del paese, un rôle assez effacé: tra grosse questioni di libertà d'insegnamento, litigi dottrinali per l'università di Lovanio e un'altalena di ministeri cattolici e liberali aveva finito per scontentare i vescovi, la segreteria di Stato, Pio IX. Già nel settembre '48, il papa si lagnava della sua inerzia e giudicava che i lavori della nunziatura erano diventati « troppo faticosi » per le sue spalle; ma la rivoluzione scoppiata in casa e la fuga a Gaeta portarono a lasciarlo ancora per quasi due anni a Bruxelles. Richiamato a Roma nell'agosto '50, l'Asinari non toccò secondo la tradizione il cappello rosso al ritomo, nè più avanti mai. Giacque anzi per molti mesi nell'oscurità, fino a che la fine del Molza e una qualche più benigna stella salita nel suo cielo lo trassero a quell'« ufficio nobilissimo di lettere e di corte », che era allora considerato con appropriata locuzione il governo della Biblioteca Vaticana. Le « lettere »

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— 169 — non dovevano, neirantico nunzio, essere molte, nè al disopra di quella buona cultura umanistica che i rampolli di nobili schiatte destinati alle prelature ricevevano a quel tempo. A lui che tenne per un quarto di secolo, durante quasi tutto il restante pontificato di Pio IX, F ufficio uno scrittore latino dei fasti della Vaticana dedica sole cinque righe, e non a causa della laconica lapidarietà dello stile imposta dal genere. Nè può essere accusato di ira e studium Johann Janssen, l'ecclesiastico cattolico che diventerà celebre storico del « popolo tedesco » e maestro del Pastor, per la sentenza biblicamente pregnante che in lettere scritte da Roma tra il '63 e il 64 fa discendere sul capo del primo Custode monsignor di Sammarzano: « lasciava scorrer l'acqua di Dio sulla terra di Dio ». Al di sopra e al di sotto poco rimaneva all'asciutto. Al di sopra stava il cardinale bibliotecario Tosti, che aveva quasi novant'annì, e non fermava certo il diluvio; al quale succederà, dal '69, il pur erudito francese Pitra, che « come bibliotecario », annota un altro contemporaneo, « non produrrà mai un'epoca d'oro o d'argento » per la Vaticana. Uomo bizzarro e di collerico temperamento, era il secondo Custode monsignor Pio Martinucci, dotto maestro delle cerimonie pontificie: secondo il vivace ritratto a punta secca che ne ha lasciato il cronista latino, humoribus atrae bilis ita obnoxius, ut ne loqui quidém pacifice posse videbatur. Parecchi tra gli scrittori, pagati pochi scudi al mese, disertavano volentieri l'aula affrescata gaiamente dal Brill, ma poco spaziosa e luminosa (pur tra gli ultimi entrati erano il classicissimo Francesco Massi e il grande archeologo che riscoprirà la Roma sotterranea cristiana, Giovanni Battista De Rossi). La « classica Biblioteca », come appare qualificata nell'annuario degli Stati pontifici per il 1852, si apriva ancora per meno di cento giorni all'anno, esattamente 93 mezze mattine, a gran dispetto dei dotti stranieri, in specie tedeschi, che pretendevano più larga mensa di quella imbandita. Ma a più reali mense il sontuoso salone Sistino della Vaticana, dipinto dal Nebbia, dal Guèrra e dai cento scolari con gran sfoggio di colori, si offerse più volte, quando Pio IX vi convitò vescovi, seminaristi, artisti e fino i mendicanti ro[45]

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— 170 — mani. A questi pranzi eli centinaia di coperti, ai quali il pontefice presiedeva in persona, assistevano muti entro gli armadi lignei che corrono intorno alle pareti e ai pilastri i nobilissimi signori e geni del luogo, i codici Vaticani. L'Asinari di Sammarzano passò allegramente gli ottantanni, così da lasciar invecchiare il secondo Custode, il liturgista Pio Martinucci. Morto l'antico nunzio a Frascati il 2 luglio 1876, salutato da un vale di sei righe nell'Osservatore romano, il 13 luglio egli venne nominato a succedergli. Ma era già sui sessantacinque anni e gli acri umori del suo temperamento erano diventati ancor più torbidi con l'età, specialmente quando al principio del '78 morì Pio IX, sotto il principato del quale il prefetto delle cerimonie pontificie, nato in Quirinale dall'architetto del sacro palazzo, si era abituato a fare la pioggia e il bel tempo. O utinam in meli ori corporis temperatione acquievisset, esclama a questo punto il cronista latino della Vaticana, il quale per dirla con il Manzoni evidentemente gli era amico, e che immagina una cospirazione ordita a suo danno dalla ficta caUiditas presso il nuovo pontefice. Ma è più semplice pensare che quel « carattere tutto suo, piuttosto cupo e calcolante », come lo rappresenta un altro ufficiale della Vaticana che gli stava vicino, peggiorasse fino a diventare insopportabile. Leone XIII, che pur gli era stato cliente in rebus liturgicis, lo giubilò il 23 marzo 1880, per ragioni di salute. Ma si ritirò di malanimo, e morì quattro anni più tardi, moerore et paralyxi tactus. La serie dei primi Custodi o prefètti (come saranno detti tra breve) Leoniani si aprì con il romano, nato da genitori norcini, Stefano Ciccolini, anch'egli custode generale d'Arcadia e cameriere segreto di numero di Leone XIII. Ma questo erudito all'antica, che era stato anche giornalista della Gazzetta nel '48 e poi al Giornale di Roma pubblicato sotto Pio IX, è imparentato ancora con il vecchio tipo dei primi Custodi del predecessore di Leone XIII. Nel 1889 venne a sua volta dispensato dall'ufficio, non solo per l'età, ma anche per grossi debiti che con arcadica spensieratezza gli si erano cumulati sulle spalle, e che pur lo lasciarono campare fino a settantasei anni. Con Isidoro Carini, nominato nel 1889 a quarantasei anni, si incomincia

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— 171 — a far fuoco nuovo; ma questo siciliano, figlio di generale garibaldino conosciuto dalPantico vescovo di Perugia dopo Fanno 1860 quando gli italiani occuparono quella città dello stato p'ontificio, morirà il 25 gennaio 1895, nell'atrio del palazzo apostolico, subitamente, dopo una tempestosa udienza con Leone XIII per la scoperta di furti e guasti perpetrati in codici Vaticani. Colui che ne raccolse l'eredità, il 22 giugno, era un gesuita tedesco, cinquantenne, dal profilo energico e fermo, il quale farà della Vaticana, ancora aulica e palatina, la moderna biblioteca di alti studi: Francesco Ehrle. Con questo ideale bibliotecario incomincia realmente la nuova storia della Vaticana. Nello Vian

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Un giuramento mancato alla Repubblica Romana del 1849

Un giorno del carnevale del 1849, un prelato alto e magro uscì dal Vaticano, per fare la sua passeggiata. Superata la Porta Angelica, s'incamminò verso Monte Mario, per luoghi allora campestri e solitari. Il clima appare sereno, ma il tempo nella realtà storica era fortemente a nuvolo, poiché dal 9 febbraio aveva preso possesso del Campidoglio la mazziniana e garibaldina Repubblica Romana (seconda della serie). Il prelato era monsignor Gabriele Laurean! e non mancava di grattacapi in ragione del suo ufficio di Primo Custode, o Prefetto come poi detto, della Biblioteca Vaticana: istituzione che attirava, con altre, interessi anche eccessivi dei nuovi ministri Capitolini. Un tratto più avanti, per la strada, vide e raggiunse un giovane di sua conoscenza (era Giuseppe Spezi), che aveva in mano un tometto greco, i Memorabili di Senofonte, e andava leggendo nel secondo libro di Ercole al bivio. Il soggetto aveva qualche attinenza con i discorsi che andarono passando tra i due, quel giorno, come si conoscerà più avanti. L'ecclesiastico, sessantenne, era nato a Roma il 14 settembre 1788, da Francesco Laureani, medico, originario di Nicotera in Calabria, e da Rosa Antonini, romana. Il calcolo dell'età porta a sapere che ebbe l'adolescenza e la giovinezza movimentate tra la Repubblica giacobina romana e le intermittenti tempeste napoleoniche entro le mura dell'Urbe. Studiò al Collegio Romano, che porta ancora sul frontone la grande iscrizione dedicatoria Religioni ac Bonis Artibus, e fioriva nel tempo anche per eccellenti maestri nelle discipline letterarie umanistiche. Scoperto da Ignazio De Rossi (come lo furono Emiliano Sarti, Paolo Barola, Raffaele Pomari), lesse e rilesse i classici con passione, acquistando fama di

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scrittore latino, con molte epistole, elogia, epigrafi, nella lingua del Lazio (modello preferito era quello ciceroniano, di asiatica magnificenza), raccolte dopo la sua morte in volume pubblicato nel 1855 dalla Tipografia delle Belle Arti. Diventò professore di letterature classiche, anzi di «eloquenza, poesia e lingua», per usare i termini contemporanei. Entrò naturalmente in Arcadia, dove si chiamò Filandro Geronteo, e le campagne assegnategli per titolo nell'alpestre regione di Grecia si andarono presto estendendo, con la nomina a sotto-Custode, pro-Custode e, nel 1828, Custode Generale dell'accademia. Tenne il governo durante cinque Olimpiadi, nel computo d'uso, che equivalgono a più di un ventennio. Filandro Geronteo nei manieristici panni pastorali stette interamente al gioco, che improntava per incominciare lo stile degli atti ufficiali accademici. Si senta come si apre - posto che sia stato impastato di farina sua, piuttosto che esemplato su modelli che si tramandavano da un secolo e mezzo - un diploma di nuova nomina, da lui sottoscritto nell'anno I della XXXVII Olimpiade, la quale corre dal 1836 al 1840: «Essendo per mezzo de' gentilissimi e valorosissimi compastori nostri Dalindo Efesio ed Eviro Nedeo pervenuta in Serbatoio la notizia del desiderio che voi avete di essere tra i pastori Arcadici annoverato, la piena Adunanza della pastoral nostra letteraria Repubblica, a riguardo delle singolari virtù e degli ottimi costumi che in voi risplendono, e dell'ornamento delle più nobili scienze e della più scelta erudizione che possedete, ha di buon voglia condisceso alla istanza che i suddetti compastori hanno fatta per voi, dichiarandovi Pastore Arcade soprannumero col nome di Orete e colf onore di poter recitare nel Bosco Parrasio, onde meritar poi le Campagne, le quali solamente dopo un anno dalla infrascritta data, in occasione di vacanze, potrete chiedere al Saggio Collegio d'Arcadia, per divenire allora di numero, e godere anche gli altri onori che godono gli Arcadi delle Campagne investiti». Ineccepibilmente, il diploma era era datato nella «Capanna del Serbatoio dentro il Bosco Parrasio». Per ammirare meglio il Laureani sulla scena occorre rievocare 588 150]

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uno dei suoi grandi giorni, sul principio della Custodia. Durante una tornata arcadica, che si tenne in Campidoglio, il 7 giugno 1829, a celebrare 1'«adorabile genio» del nuovo papa Pio Vili Castiglioni, in accademia Eupemene Naupatteo, recitò un discorso, con impennata perorazione, conforme ai canoni oratorii: «Rallegrate ora, o Arcadi, questo beato colle delle voci vostre di giubilo; e i venti dattorno coli'ale ossequiose il devoto suono ne riportino alle benigne orecchie del Massimo Eupemene». In proprio, Filandro Geronteo gli dedicò sonanti versi latini che si aprono con l'invito al popolo dell'Urbe: «Gaude o bona Romae sobóles...». Ripristinò i «giuochi olimpici», s'intende poetici, caduti in disuso, e restaurò il Bosco Parrasio, da mezzo secolo in abbandono e divenuto asilo di ladri. Titolo autentico di merito quest'ultimo, poiché si tratta dell'unica campagna reale, ancora produttiva, della secolare accademia. Nel principato di Gregorio XVI, il 12 febbraio 1838, ebbe l'elezione anche a Custode della Vaticana, che si qualificava «ufficio nobilissimo di lettere e di corte». Risulta che rivolse particolari cure al Museo Sacro, cospicua raccolta artistica della Biblioteca, dove si aggiunse la stanza delle pitture antiche romane; e che qui il papa usava venire ogni giorno per passeggiare a braccio del «prelato custode». Ma passarono queste pacate immagini. Altri furono i discorsi, quel giorno del 1849, tra il vecchio, quale appariva, con la misura degli anni d'età che si faceva a quel tempo, e il giovane lettore di Senofonte. Tutti gli impiegati del governo erano richiesti di adesione alla nuova Repubblica, pena la perdita dell'ufficio e dello stipendio relativo. Il bivio di Ercole, ancora. Il giovane, che si trovava anch'egli in quella condizione, mostrava propensione a ragionare, per distinguere, e si sa quale è per solito il risultato, in casi del genere. D'altro canto, Spezi aveva allora poco più di trent'anni (era nato nel 1818, sarebbe morto nel 1871); era entrato in Biblioteca Vaticana il 2 aprile 1844, come coadiutore di Antonio Nebbia, e la sua posizione non era ancora consolidata (lo sarebbe stata solo il 13 ottobre 1855, con la definitiva nomina a «scrittore

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latino», ma in realtà già tale risulta nel frontespizio della stampa deWElogio arcadico del Laureani pubblicato a Roma nel 1852). Dal novembre 1851 professore alla Sapienza, filologo, editore delle lettere di Pietro Bembo, padre del noto romanista Pio, Spezi viveva allora la duplice incertezza, personale e collettiva, di un ruolo non definito e di un sommovimento politico e istituzionale che ancora una volta (la terza in cinquant'anni) rimescolava, bruscamente e radicalmente, le carte. Al Laureani si sentiva legato da vincoli profondi se nel ricordato Elogio arcadico lo definì «padre in amore, sostegno nelle lettere e principale cagione di poter io condurre la mia vita in così piena dolcezza e amenità di studi nello esercizio di due uffici letterari, per avermi egli, sua grazia, messo bene nell'animo di chi potea quelli commettermi». Se il dialogo fra i due si apre dunque con considerazioni sull'amore dei classici e sulla necessità dell'esercizio fisico, il tono olimpicamente atemporale lascia presto spazio alle passioni del momento, a «questa nuova legge dell'ubbidienza, e come altri la chiama adesione alla repubblica romana, pena la perdita dell'officio a tutti gli officiali del governo». Laureani definisce la disposizione «durissima (...) ad osservare» ritenendo che si opponga «alla libertà dell'uomo e delle sue politiche opinioni» e che tolga «di pace ogni onesto cittadino»; e descrive quei giorni con toni cupi e amari: «fuggito di Roma e riparatosi in Gaeta il papa; fuggiti dietro a lui i cardinali e molti prelati e ricchi e nobili signori romani e forestieri pressoché tutti: grandi paure e pericoli da ogni banda: buttato in terra il trono pontificale: niuna pace, niuna civile sicurezza; caduta ogni felicità pubblica e privata; spento ogni amore di buoni studi». L'interlocutore, il giovane Spezi, non discute le valutazioni generali espresse ma appare subito più interessato ai risvolti personali della questione e in essi mostrandosi meno intransigente, domandando cosa debbano fare «i padri delle famiglie aggravati di figli, le private persone e qual è uomo di mediocre o povera fortuna, e qual vive solo di suo officio e di sue fatiche, e i giovani, come io, che incominciano ora il corso di una fortuna civile o di una professione lette-

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rana»? Possono accostarsi per necessità al nuovo regime, senza temere di cadere in disgrazia ristabilito il legittimo governo? La formulazione della domanda sembrerebbe rivelare nello Spezi, più che angosciosi scrupoli morali di fedeltà al sovrano in fuga, la consapevolezza della probabile breve durata del nuovo regime e dunque del pericolo derivante dal ritorno dell'antico principe. Nella risposta, Laureani sembra meno inflessibile che all'inizio, mostrando la saggia discrezione di chi sa distinguere i principi dalla loro applicazione nelle situazioni concrete; sa bene che il problema è dibattuto, talvolta con fanatismo («condizione veramente propria del nostro tempo è dare sempre nel fanatico in tutte le sue opinioni; sì che tutti o parlando o scrivendo o giudicando paghiamo alla nostra età questo misero tributo»), e avverte tutta la difficoltà di interpretare e adattare le leggi ai diversi casi della vita umana. Ecco, se voi mi recate innanzi un povero e onesto padre di famiglia carico di figli, e che viva solo della provvisione del suo officio, sempre che nel resto ei tenga un vivere cristiano e diritto, e mi diceste; Ei si aderì a faziosi e nemici del passato governo: ei trovasi nel suo antico officio, e dura ancora in istato. Oh! per tutto questo io non farei già grande romore io, né vorrei di ciò molto ripigliarlo. Povero padre! ei guarda intomo a sé i cari ed innocenti figli, che gli dimandano del pane; gli sta innanzi l'onesta e amata sua compagna, che solamente in lui appoggia la sua vita: ah! no, io mai non riprendreilo già di questo, né sarei ardito a rimuoverlo mai di officio quando che sia. Ma se voi per contrario mi poneste avanti un altro piccolo officiale, fate conto ch'ei sia uomo scapolo e senza moglie, il qual possa vivere d'altronde che della provvisione del suo officio solamente, e mi diceste: Laureani, ei mette bene o no che costui aderendo tenga colla repubblica? Io non vorrei mai consigliarlo io di questo; né mai essere alla difesa di lui. Dunque diversità di condizioni può comportare diversità di scelte e quindi di giudizi. Ma da buon curiale Laureani, espressa «la mia privata opinione», rimette tutto all'«arbitrio» e alla «sapienza» del «pastor della Chiesa che ci guida». Spezi, però, non si accontenta. Perché il problema non lo occupa teoricamente ma lo coinvolge in prima persona; e a tormentarlo è sempre il «dopo», anche se ora in una prospettiva inversa. Se qualcuno non aderisce

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alla Repubblica e perde il posto, lo riavrà, tornato l'antico governo? Certo, risponde Laureani, «e questa dicesi ed è giustizia»; «ma posto caso che richiamatosene egli alla giustizia degli uomini, non se gli facesse ragione, sempre gli starebbe innanzi la sua bella e virtuosa opera e il pensiero di avere adoperato secondo la coscienza e secondo Iddio. E se non dagli uomini, certo da Dio ne porterebbe grazia: e in Dio se ne rimetta; e per lui sostenga tribolazione: perché Iddio, vero è il proverbio, non si lascia riguardar indietro: tenetelo bene a mente. Il che io vi dico, perché la giustizia non è poi sempre quaggiù seguita da noi uomini, né osservata». Spezi appare sconcertato da questa possibilità (quella di non riacquistare dal papa un ufficio perduto proprio per fedeltà al pontefice), talmente sgomento da «non voler più vivere onestamente io, né virtuosamente operare» in considerazione di simile eventualità. Ma Laureani, richiamandolo alla realtà dalla quale «questi vostri bellissimi libri greci» sembrano astrarlo, lo ammonisce solennemente «fermando il passo e con soave sdegno alzata la voce»: Ah! non dite mai questo, non dite mai questo (...): ei si vuol vivere, ei si vuol operare sempre dirittamente e cristianamente coli'animo, e sempre adempiere a tutti i doveri nostri, esercitare l'onestà, seguire la virtù e la giustizia per piacere a Dio più che non agli uomini, e da lui solo aspettarne premio, mal venga, mal segua al nostro ben fare e alle pure e sante intenzioni nostre e al nostro molto affaticarci e sudare per la virtù, poniamo ch'ella sia tanto malagevole a esercitare. Dunque, «la virtù e la giustizia», innanzitutto, attendendo da Dio il premio e non dagli uomini. Altrimenti a cosa servono i libri, se non poniamo in pratica il vero e il bene che in essi apprendiamo? Ercole non si ritrasse dall'«aspro e faticoso monte della virtù, che già non era la dolce e facil erta di questo monte Mario, che prendiamo noi a salire». E non diversamente fece Socrate, proprio nella descrizione dei Memorabili di Senofonte, pur di fronte alla morte. Non dovremmo fare ben di più «noi che non la grazia e la giustizia umana, ma l'eterna e celeste ci tira e chiama a più bella e più alta virtù e sapienza ed a più nobile e certo guiderdone lassù nel cielo?

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Ah! lascereste voi dunque la virtù e l'onestà e i beni loro grandissimi ed immortali, se v'incontrasse mai di perdere per l'ingiustizia degli uomini così picciolo e magro e temporaneo vostro officietto?». La conversazione è giunta al suo apice; Spezi appare turbato e pentito. Si dichiara convinto che «si dee vivere sempre onestamente», «si dee sempre fare le cose dirittamente, cada il mondo sul nostro capo». Ma ci tiene a rintuzzare all'affermazione del prelato che quei «bellissimi libri greci» lo portino fuori del mondo. Invece proprio in essi, professa Spezi, «imparo (...) le indegne e le tristissime fortune, che a' buoni e sapienti uomini vengono immeritatamente sul capo»; proprio su quei testi si prepara «a sostenere le ingiurie della fortuna». Dunque gli autori greci e latini non come fuga dal mondo ma come viaggio «nel cuore del mondo», per avere «esperienza grandissima dell'umana vita». Il classicista Laureani si dice vinto dalla replica (presumibilmente con suo gusto) ma ribadisce l'affermazione alla quale tiene di più: Adunque ricordovi, come a figliuolo, perché vi stia sempre a mente, la mia sentenza, contro a cui non vale nessun vostro colpo, cioè che si vuol vivere sempre dirittamente e sempre si vogliono da noi fare tutte le cose onestamente e nettamente, mal ce ne segua, mal ci colga nella vita: prima per servire e piacere a Dio e per adempiere a' doveri nostri, e poi anche per quella dolce consolazione, Spezi mio, che ci rimane sempre nell'animo di avere noi fatta una bella e cristiana azione. E Iddio vedendoci volti al bene, consolaci de' nostri affanni e ci rimerita sempre e largamente del nostro ben fatto: e con questo pensiero non dubitiamo, né stiamo in forse mai di vivere e di operare secondo la giustizia e l'onestà e la legge umana e divina. Perché, con tutto «la nostra buona volontà e le buone opere», di Dio saremo, secondo il detto di Cosimo de' Medici ricordato dal Machiavelli nel settimo libro delle Storie fiorentine, sempre debitori. E qui la soluzione offerta ai dubbi di Spezi coniugando sapienza classica e virtù cristiana richiama nel Laureani il ricordo della sua famiglia alle prese, quasi quarant'anni prima, con problemi non dissimili, col «giuramento, che si dovea già dare al governo di Napoleone, pena la perdita dell'officio a ciascun pubblico 593

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officiale: il quai giuramento fu già posto e ordinato in Roma il nove o il dieci, se la memoria qui non mi manca: e ponete mente, proprio come di questi nostri tempi è la presente adesione alla repubblica romana». Di quella vicenda, «pietosa istoria, ma piena di belli e grandi ammaestramenti», narrata al giovane collega fra una presa e l'altra di tabacco durante la salita di Monte Mario, nulla sappiamo perché la seconda parte delle Ricordanze dello Spezi, nella quale sarebbe seguita «la storia di una famiglia italiana del principio del secolo XIX», non venne mai pubblicata. Ma certo fu l'esempio che incoraggiò Laureani a resistere quando anche per lui, poco dopo la passeggiata di quel giorno di carnevale (avvenuta prima del 18 febbraio, nell'anno il mercoledì delle Ceneri), venne insieme con la Quaresima il momento della prova. Il 27 febbraio l'Archivio Vaticano fu sigillato e le chiavi furono tolte a Marino Marini, nipote di quel Gaetano che era stato prima testimone delle spoliazioni napoleoniche, poi protagonista del recupero a Parigi di tanta parte dei documenti sottratti. Due giorni dopo, il Io marzo, fu la volta della Biblioteca: Pietro Sterbini, Ministro del Commercio Belle Arti e Industria, invitò Laureani e tutti gli impiegati della Biblioteca a fare atto di adesione alla Repubblica entro cinque giorni. Il giorno dopo la perentoria scadenza indicata, il 7 marzo, Laureani in lettera allo Sterbini espose «rispettosamente al Cittadino Ministro del Commercio ecc. tanto in nome proprio, quanto de' suddetti Ufficiali ed Impiegati, di non credersi tenuti a tale atto, essendo le loro provisioni pagate non dall'Erario Nazionale, ma bensì dall'appannaggio particolare del Papa, a cui appartiene incontestabilmente la Biblioteca Vaticana, non come a Sovrano di Roma, ma come a Pontefice, e Vescovo di essa. Quindi è che gli Ufficiali ed Impiegati tutti di detta Biblioteca sono stati sempre pagati dal Maggiordomo di Sua Santità, e non mai dal Tesoriere, siccome per l'appunto si conveniva a persone addette al servigio particolare del Pontefice, subordinate ad un cardinale decorato della dignità e del titolo di Bibliotecario di Santa Chiesa. In conformità di che li stessi ufficj 594

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di primo, e secondo Custode, non che degli Scrittori interpreti di essa sono stati sempre conferiti a vita con la spedizione di particolare breve apostolico, e con la formale istallazione di possesso, e di consegna delle chiavi». La Biblioteca Vaticana non è del papa come sovrano ma del papa come vescovo di Roma; non fa dunque parte dello Stato della Chiesa ma appartiene dalle origini - come avevano spiegato gli Assemani meno di un secolo prima nella praefatio al loro catalogo di manoscritti vaticani - alla Chiesa di Roma (il problema tornerà a essere dibattuto dopo l'entrata dei Piemontesi nella città e ancora all'inizio del nostro secolo, dopo un incendio scoppiato il 3 novembre 1903). Per quanto l'ultimo capoverso della lettera mostrasse, forse solo tatticamente, una certa disponibilità alla trattativa, la risposta di Laureani, nella sua prima parte, colpì nel segno. L'intransigenza della sostanza, la fondatezza delle motivazioni dovettero convincere i triumviri a non molestare più Laureani, al quale anzi nel mese successivo si rivolsero ripetutamente per questioni correnti (il permesso per uno studioso francese di copiare iscrizioni trasferite dalle catacombe alla Biblioteca, la consegna da parte del Commissario delle Antichità di un disco di stucco con raffigurazioni di amazzoni), con ciò riconoscendone la legittimità nell'ufficio conservato nonostante il mancato giuramento. L'esperienza repubblicana, secondo le previsoni dei dialoganti, non durò a lungo. Ai primi di luglio le truppe francesi del generale Oudinot entrarono in città inaugurando un'occupazione che sarebbe proseguita in forme diverse sino al 1870. Laureani fece appena in tempo a vedere i primi atti della «Commissione governativa di Stato» volta alla restaurazione della sovranità temporale del papa. Morì il 14 ottobre 1849, a sessantuno anni di età, con molti meriti, non ultimo dei quali quello di non aver mai pubblicato in vita sua un libro. Nello Vian Il dialogo fra Laureani e Spezi fu ricostruito nelle Ricordanze scritte dal pro-

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fessore Giuseppe Spezi. Seconda edizione, Asti, pei fratelli Paglieri, 1859; lo stesso Spezi aveva commemorato Laureani in Arcadia due anni dopo la morte (Elogio di monsignor Gabriele Laureani detto nella solenne adunanza di Arcadia il 4 dicembre 1851, Roma, Tipografia delle Belle Arti, 1852). La figura del primo custode della Biblioteca Vaticana sullo sfondo della serie dei suoi immediati predecessori e successori è presentata in N. Vian, Bibliotecari della Vaticana, un secolo fa, in Almanacco dei bibliotecari italiani 1954, Roma, Fratelli Palombi editori, 1953, pp. 165-171; il testo della lettera di Laureani allo Sterbini è invece pubblicato da 1. Carini, La Biblioteca Vaticana proprietà della Sede Apostolica. Memoria storica, Roma, Tipografia Vaticana, 18932, pp. 150-151.

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Biblioteca Vallicelliana; Salone Borromini.

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Per secoli, Roma si era andata stivando di libri, ingordamente. Gli autori di Itinera literaria ne riportavane taccuini zeppi di notizie erudite su codici insigni. I viaggiatori del « grand tour », per quanto più attirati dalle maestose rovine dei monumenti antichi e dalle feste ricche di colore del popolo romano, non mancavano di magnificare le biblioteche, nelle lettere che figuravano di scrivere dall'Urbe agli abitanti di mezzo mondo. Tra tanti, il magistrato e letterato francese Charles de Brosses, nel 1739 e '40, visitò non solo la Vaticana, che era di prammatica, ma anche alcune altre. Delle pubbliche, qualificò come la più bella quella della Minerva, notando: « Le vaisseau est grand, clair, commode, distribué à deux étages par une tribune, comme celle du roi à Paris ». La

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trovò « presque toujours remplie de gens qui travaillent », e aggiunse il riconoscimento, non disprezzabile, che « on y est bien servi et de bonne grâce ». Delle private lo colpì, ancora, il « vaso », come allora si chiamava, della Barberini: « son vaste vaisseau en donne une grande idée, qui, se trouve fort bien remplie lorsqu'on vient à l'examiner en détail ». La più comoda gli riusciva quella di Propaganda, dove andava spesso anche per vedere un suo connazionale, bel tipo (le biblioteche ne contano, in ogni tempo), « l'homme du monde qui, tout à la fois, m'amuse et m'impatiente le plus ». La ricchezza delle biblioteche romane si aderse addirittura a mito. Un abbé Coyer, che nel cosmopolitismo del tempo s'intitolava accademico di Nancy, di Roma e di Londra, nei suoi Voyages d'Italie et de Hollande, qualche decennio più tardi, proclamava: « Si tous les Livres, tous les manuscrits étaient détruits, excepté en Italie, Rome seule pourrait réparer la perte générale ». Correva l'anno 1775, e meno di un quarto di secolo dopo se ne ebbero a rammentare i compatriotti dell'abbé, calati predacemente sull'Urbe. Il mito racchiudeva, sicuramente, un fondo di verità, assai consistente. Per tradizione secolare, ogni palazzo a Roma aveva l'ornamento di una biblioteca. Fino i predicatori insorgevano contro questo lusso dei prelati, quali erano spesso i collezionisti, che arredavano con splendidezza appartamenti sale gabinetti, relegando la cappella « nell'angolo più disadatto e più inutile della gran fabbrica ». I proprietari non erano certo tutti letterati. Come mostra l'aneddoto di un innominato prelato che si fece costruire una sontuosa libreria, comprando a peso di carta il fondo invenduto di un'edizione in-folio, per riempirla; e, poiché gli esemplari non entravano negli scaffali, ordinò sommariamente di tagliarli in testa, alla misura (si pensa non sia pura invenzione, in regime di scaffalatura fìssa, quando si scoprono vandaliche mutilazioni, non solo di margini). Ma altri erano conoscitori sagaci, o avevano in palazzo, a volte come una piccola corte, bibliotecari in titolo e segretari esperti anche di libri. Agenti erano incaricati di acquistarne in mercati italiani e transalpini, o ne incettavano senza spesa in certe riserve di caccia, quali le an-

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tiche badie rustiche e decadute, alle mani dei prelati commendatari (ironia dei nomi). Altri depositi librari bene costituiti e alimentati erano quelli degli ordini religiosi, che rivaleggiavano in questa passione con principi, cardinali e privati. Qualunque sia la parte da fare all'amore reale della scienza, all'ambizione o alla vanità, tutte quelle biblioteche erano riuscite almeno serbatoi di cultura. Quante siano state, si fatica a calcolare. Alla vigilia del Settecento, l'abate Carlo Bartolomeo Piazza, erudito ma frettoloso, ne registrava e illustrava una sessantina, tra pubbliche e private. Ma quel suo trattato, aggiunto aWEuosevologio romano del 1698, si limitava alle « librerie celebri », e in più si valeva con mano piuttosto disinvolta di quella Nota delli Musei, Librerie, Gallerie e Ornamenti di statue e pitture ne' palazzi, nelle case e ne' giardini di Roma, pubblicata già alcuni decenni avanti, nel 1663, 1664 e 1667 (senza nome di autore, ma di Giovanni Pietro Bellori). La massa in ogni maniera impressionava, tanto che l'abate compilatore iscriveva in testa certe parole di sant'Angostino, Confessioni, 8, 8, ritoccandole con senso di più acuto pessimismo; « Et nos cum nostris libris mergimur in profundum... » Il primo cataclisma giunse, come presagito sopra, sulla fine del secolo dei lumi, con la discesa dei francesi giacobini e la spogliazione dei tesori artistici e culturali dell'Urbe. Tutti sanno il pesante tributo bellico imposto alle biblioteche, con in testa la Vaticana, che ebbe confiscati cinquecento codici il 13 luglio 1797 per il trattato di Tolentino, e altri libri e cimeli prelevati più tardi. La vittima interamente consumata fu la biblioteca privata del papa Pio VI, preziosa per gl'incunaboli. Altre furono taglieggiate, come quella Albani, nel palazzo delle Quattro Fontane. Ma la Vaticana non chiuse le porte. Il grecista Paul Louis Courier, che portava la divisa militare degli invasori, andato un giorno di gennaio del '99 a vedere « ce qui reste du Musée et de la Bibliothèque du Vatican », ebbe cordiale accoglienza da Gaetano Marini, che lo portò tra i suoi tesori superstiti. Fu proprio l'illustre custode che si portò a Parigi, finita la bufera rivoluzionario-imperiale, per il ricupero, e morì in riva alla Senna. Tutto

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non ne ritornò, ma la vita bibliotecaria romana si ricompose, rimarginando le ferite. Più bonaria, ora usa dire « all'italiana », la ventata della seconda repubblica, quella garibaldina. A informarne, basta il resoconto, vera stampa dell'epoca, della visita fatta il 15 e 16 marzo '49 da Pietro Sterbini alla Biblioteca del Collegio Romano, per prenderne possesso. Da cinque giorni, era stato ridotto da ministro a conservatore generale delle Belle Arti e monumenti nazionali, ufficio intrapreso con un minore fuoco. Ma il placido ecclesiastico custode della Biblioteca, per la cronaca un Francesco Luzzi, tenne testa bravamente al « repubblicano direttore », con una schermaglia di proteste, riserve e verbali; e riuscì a far consegnare le chiavi a un notaio, che garantì l'integrità della « preziosa libreria ». Alcune settimane dopo, i francesi erano sotto Roma, e la repubblica fu costretta a fronteggiare altro che le biblioteche. Il ventennio della seconda restaurazione, che si distende tutto sotto il lungo governo di Pio IX seconda epoca, è contrasseganto dalla politica della coltivazione in serra. La cultura è protetta, ma difesa con cure gelose dal vento di tramontana che tira fuori. Per la città di duecentomila anime, il numero delle biblioteche aperte a uso pubblico era discretamente alto. Un ministeriale, il cavaliere Luigi Grifi, nel suo Breve ragguaglio delle opere pie di carità e beneficenza, ospizi e luoghi d'istruzione della città di Roma (questa tradizionale mescolanza d'istituzioni, risalenti al Piazza, è significante) ne numera, nel 1862, undici. Esattamente quante ne aveva elencato il Moroni, alla voce relativa del suo Dizionario, nel '40: solo che una, la bella Biblioteca Albani, era sparita nell'intermezzo, dispersa in parte all'asta nel '57 e '58, e una nuova si era sostituita, quella Piana, allogata sopra la chiesa di Sant'Apollinare e qualificata « illustre », si può pensare in grazia del pontefice fondatore. I dati del ragguagliante Grifi sono ripresi da un abbé Victor Postel, che era stato precettore dei giovani Borghese e accolto in Arcadia, nell'operetta stampata in Francia nel '65 con il titolo Rome dans sa vie intellectuelle, dans sa vie charitable, dans ses institutions populaires: réponse aux appétits piémontais.

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Tutta la materia, come s'intende dal frontespizio, era maneggiata in forma polemica, nel senso puntualmente opposto a quello della pubblicistica non soltanto « piemontese ». Roma era già stretta da assedio, dalla stampa di quasi tutta l'Europa, parecchi anni prima che le colonne italiane puntassero i cannoni contro le sue mura. All'inizio dell'anno fatale, VAnnuario pontificio 1870 fornisce l'ultimo elenco delle « Biblioteche pubbliche » che l'amministrazione all'insegna delle chiavi decussate offriva ai cittadini e agl'inquilini dell'Urbe. Alla testa, tradizionalmente, era l'Apostolica Vaticana. Alla quale tenevano dietro, con questo ordine, Casanatense, Angelica, Alessandrina, Lancisiana, Aracoelitana, Corsiniana, Barberina, Piana. Per numero, si erano ridotte a nove, poiché mancavano, in confronto agli elenchi precedenti, Chigiana e Vallicelliana (non so darne le ragioni, salvo che i rispettivi possessori temessero gl'imminenti rischi della qualifica di pubblica). La natura giuridica degl'istituti era diversa, notoriamente. Mancava una Nazionale, nel senso moderno del termine. La Vaticana, almeno nella concezione del tempo, s'imparentava piuttosto con le palatine o di corte. Alessandrina e Piana servivano rispettivamente l'Università e i due seminari Romano e Pio. Tre, Casanatense Angelica Aracoelitana, appartenevano a ordini religiosi (domenicani, agostiniani, francescani) e due Corsiniana e Barberina, a case principesche. La Lancisiana era dell'ospedale di Santo Spirito. Gli orari risultano in genere ristretti, e quasi solo antimeridiani. Ma la Casanatense si apriva dalle 7 e mezzo alle 10 e tre quarti e dalle 20 alle 22 e un quarto, e la Corsiniana solo dalle 20 alle 23. Resta la curiosità di sapere come, in quell'anno 1870, si provvedesse all'illuminazione serale dei « vasi ». Il gas serviva ai lampioni pubblici, ma non doveva ancora essere stato introdotto nell'interno dei palazzi. E le torce, che al tempo di Gregorio XVI gettarono bagliori rossastri sulle statue dei musei Vaticani, non saranno state accostate ai palchetti stagionati e stipati di libri. In ogni maniera, quell'apertura serale rappresenta un progresso, anche a distanza di un secolo. I nomi, puntualmente riferiti dall'annuario, dei bibliotecari o prefetti, come allora si dice-

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vano, non suonavano alti, anzi a dirla com'è risultano del tutto dimenticati. La Vaticana, che non aveva un'età d'oro né di argento, era governata da un antico nunzio, piemontese. Preti e frati reggevano tutte le altre, tranne la Corsiniana che aveva un laico, ricordato con onore tra i bibliografi di Roma, Francesco Cerroti. Un grosso numero di altre biblioteche non compariva nell'Annuario pontifìcio. Sulla fine del Seicento, l'abate Piazza ne aveva registrato una sessantina, con sufficienti notizie, e a distanza di duecento anni dovevano essere più che meno (non ostante le sparizioni e gl'incorporamenti). Non le conta nemmeno chi con notarile onestà ne ha redatto il bilancio di liquidazione, Virginia Carini Dainotti. Ma dalle sue ricerche e documenti, in parte ancora attesi, emerge che Roma poteva essere chiamata sempre la città delle biblioteche, meglio che delle fontane. Quante erano vive, intendo alimentate con libri nuovi, è altro aspetto della poco nota storia, come l'altra faccia della luna. Si può credere che molte fossero dei musei bene conservati e ordinati. La grande circolazione libraria europea, in attivo movimento durante i secoli precedenti, si era ristretta progressivamente. Allo storico del popolo tedesco, Johann Janssen, venuto a Roma sulla fine del 1863, il libraio Spithoever (cattolico) riferì che da lunghi anni le biblioteche non acquistavano opere nuove, nemmeno la Vaticana. Ma ai depositi romani specialmente di carte e codici gli studiosi soprattutto stranieri continuavano ad appuntare insaziabili voglie, e l'avidità era eccitata da una certa resistenza opposta dall'altra parte, sospetto o gelosia che fosse. Poteva entrare, e in parte si garantisce, la millenaria lentezza delle abitudini. Venuto in missione scientifica nell'ottobre '49, Ernest Renan scriveva in una delle sue lettere da Roma, con irritazione: « Vous ne sauriez croire combien il est difficile de faire en ce pays un travail suivi et qui demande à toute heure une vérification dans les bibliothèques. Je n'ai jamais compris comme depuis quelque jours combien est impossible ici le grand travail scientifique. Ces gens, qui ne voient en cela qu'un loisir d'amateur ou de curieux, ne sont jamais pressés, et ne comprennent pas que vous le soyez.

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II « vaso » della Biblioteca Casanatense (Da L'Album, aprile 1842). Vous renvoyer à deux ou trois jours leur paraît la chose du monde la plus simple ». (Ma più equamente seppe riconoscere, in altra lettera; « Rome est comme les grandes oeuvres de l'esprit humain, l'impression qu'elle produit est très complexe; il y a place pour l'admiration, pour le mépris, pour le rire, pour les pleurs »). Lavorò in quasi tutte le biblioteche, Casanatense Angelica Propaganda Vallicelliana Corsiniana Chigiana Barberini Albani. Alla

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Vaticana, trovò il cardinale Angelo Mai « fort aimable », ma impegnò una lunga scaramuccia con il custode monsignor Angelo Molza, semitista e abbastanza strano personaggio (comparso altra volta in queste pagine). Le note si alternano, a giorni: « M. Molza est devenu insupportable... M. Molza est redevenu humain ». Giunse a sequestrare una parte delle trascrizioni fatte da un copista di siriaco per Renan, così che questi, infuriato, ricorse alla sua ambasciata, ottenendo che il Cardinale Segretario di Stato Lambruschini promettesse di fare giustizia. « Nous verrons, mais je ne partirai pas sans avoir pleinement triomphé », giurò il futuro autore della Vie de Jésus, il 19 aprile 1850. Ma, il 26, il Molza invece fu nominato primo custode da Pio IX, tornato appena dall'esilio di Portici. Di casa proprio nelle biblioteche romane fu in questi anni, fino al '70, Ferdinand Gregorovius. Entrò da porta del Popolo il 2 ottobre '52, e nordicamente si estasiò. Una delle prime notazioni del diario segnò: « Roma è così profondamente silenziosa che si può qui in pace divina sentire, pensare e lavorare » (malinconia a trascriverlo, in questi nostri giorni). Alla Casanatense, all'Angelica, alla Chigiana, alla Barberiniana raccolse assiduamente i materiali della sua Storia di Roma nel medioevo. Ne visitò altre, come la Sessoriana, presso la remota Santa Croce in Gerusalemme, dove arrivava a traverso l'agreste solitudine. La penna del prussiano non incide mugugni all'acquaforte sui bibliotecari, come si sarebbe atteso. Un giorno, stupì che alla Minerva gli fosse permesso di sfogliare VIstoria civile del regno di Napoli del Giannone, all'Indice, solo con il frate bibliotecario vicino. Il 24 maggio '59 incominciò a lavorare nella Vaticana, introdotto da una lettera al Cardinale Segretario di Stato Antonelli del ministro del suo paese e storico Reumont, e i sette anni di anticamera accusano qualche trepidanza. Trovò invece buona accoglienza da parte di quel nunzio in ritiro, Asinari di Sammarzano. Era 1'« anno dei portenti », entro un mese si succederanno Palestre Solferino San Martino, e il filoitaliano Gregorovius credeva di notare la strana influenza di certi eventi sugli umori al di là del Tevere. Nel novembre '65, quando il corpo di spedizione francese

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stava per rimbarcarsi a Civitavecchia, consegnò al diario: « Domani voglio andare alla Vaticana, vedrò che ciera mi faranno ». In scorcio quasi, aprile '69, arrivò a Roma, per una segreta ispezione in biblioteche ritenute ricettatrici di codici dell'abbazia di Farfa già italiana, il candido toscano Cesare Guasti, che lasciò un suo appuntamemorie, fissando impressioni e ritrattini. Per quanto portasse a Pio IX il dono del suo mirabile volgarizzamento deWImitazìone di Cristo, ebbe a trovare anch'egli i suoi intoppi (alla Vaticana, per giunta, la pena di uno « sporchissimo stanzino », tocco realistico del tempo). Ma l'inchiostro più nero del Gregorovius è proprio in limine, al 28 marzo '70. Quel giorno, in Vaticano, gli negarono certi codici, per ragione che non si conosce. Un gesuita Bollig gli sorrise con malizia, il secondo custode monsignor Pio Martinucci 10 trattò grossolanamente (era un autentico caratteraccio). Lo storico e poeta del medioevo romano intese che quella porta si stava per chiudere, e voltò il dorso. La sua opera era quasi compiuta. Partì, e notò nel diario l'evento del 20 settembre, con distacco, dal suo paese nordico. Ma discese a Roma un'altra volta, nella primavera del '74, e avvertì una strana nostalgia del mondo che si stava affossando, e che egli aveva mal sopportato. Riluttava a tornare nelle biblioteche dove per tanti anni era stato di casa (l'espressione è sua). All'Angelica, alla Casanatense i bibliotecari religiosi erano rimasti soltanto come custodi. Temeva di rivedere i volti di quei « buoni vecchi », che gli erano stati ospitali, segnati di attonita sorpresa, perché la sua opera era stata condannata dall'Indice. Salì a Sant'Onofrio, una sera, e vide seduti intorno al pozzo alcuni frati, taciturni e aggrondati: dovevano sgombrare, il giorno appresso. Sul Gianicolo si stendeva una nuvola nera, che ombreggiava 11 convento. Lampeggiava e tuonava. Nello Vian

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La bibliofilia di Gaetano Moroni

Gaetano Moroni morì il 7 novembre 1883, alle 7 di mattina, improvvisamente, nell'età di ottantuno anni suonati. Non passarono cinque mesi che la biblioteca raccolta dal compilatore del Dizionario di erudizione storicoecclesiastica andò all'asta, e si disperse così la testimonianza più cospicua della bibliofilia che aveva nutrito quella singolare passione culturale, durata quanto la vita. Rimane, per fortuna, il catalogo stampato per l'occasione. Ma, prima di percorrerlo, importa vedere come il mal della carta e dell'inchiostro s'apprese al figlio del rubesto padrón Rocco, conoscitore di altri succhi che quelli dell'erudizione (a stare alla voce maledica annotata dal Belli, sotto l'esaltazione bacchica, picchiava alle colonne di San Pietro, come all'uscio di casa). Ghetanino conobbe nei verdi anni Francesco Girolamo Cancellieri, e fu lui, il grande e disordinatissimo ammassatore di notizie, a incitarlo insistentemente all'acquisto della chiave universale del sapere, la bibliografia. Usava dirgli, in rima (e Iddio gli perdoni questa): «è bene ogni cosa notare potendo sempre giovare ». Il giovane ne fece tesoro, e intraprese

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a redigere uno zibaldone-repertorio a suo uso, nel tipico modo dell'autodidatta, quale era e rimase. Ma nel '16, e la data appare proprio storica per lui, ebbe un più decisivo incontro. Conobbe un monaco veneto, spedito a Roma liberata dal regime imperiale napoleonico con la missione di ricuperare all'ordine camaldolese il monastero di San Gregorio al Celio e l'ospizio di San Romualdo, presso piazza Venezia. Don Mauro Cappellari, come si chiamava, era cinquantenne e il Moroni non più che quattordicenne, un ragazzo: ma così pronto, intuitivo e di garbo, che il monaco prese a valersene, e più tardi lo assunse per cameriere, in un sodalizio durato vent'anni, e quasi storico. Si sa come l'energico e ossuto alpigiano bellunese ottenne la porpora nel '25 e il camauro nel '31, sotto il nome di Gregorio XVI. Il Moroni ebbe allora la nomina di Aiutante di camera, che designa in linguaggio Vaticano il familiare addetto al servizio personale del papa (sottostava un servitore di camera). Ma le mansioni si estesero di molto, poiché inclusero quelle di segretario, archivista, bibliotecario, e qualche altra ancora. Era destro e rapidissimo di mano, pulito calligrafo. Tenne anche il « delicato carico » della corrispondenza con i parenti e gli antichi amici dell'augusto padrone. Si può senz'altro accettare il calcolo che egli fece al termine, di avere scritto per lui il bel numero di centomila lettere e biglietti (per aiutarlo, il rettore del Collegio Inglese, il famoso Wiseman, gli donò nel '37 una « piccola scrivania », inventata nel suo paese, e con la quale si potevano fare in un momento « due originali perfettamente simili »). L'antico camaldolese, uscito dal monastero veneziano di San Michele in Isola secolarmente illustre nella cultura, amava respirare l'aria dei libri. La cronaca racconta che usava passeggiare nel salone Sistino della Biblioteca Vaticana, a braccio del « prelato custode »; e la fantasia immagina al sèguito il Moroni, in falda quasi altrettanto prelatizia, come comportava il suo costume di corte. Non bastò il clima. Prima al papa che al familiare, come pare, venne a un certo punto l'idea di redigere e stampare il mare magnum romano-cattolico, che fu il Di-

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La bibliofilia di Gaetano Moroni

Anonimo: Gaetano Moroni in abito di aiutante di camera.

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Nello Vian zionario. Disegnato dapprima di 30 volumi, programmato poi in 60, a cose fatte ne numerò 103, con una giunta di 6 per l'Indice. Si cominciò a mettere sotto ai torchi nel '40, a Venezia, e andò avanti fino al '61, con interruzioni di origine bellica nel '48 e nel '59. L'opera è troppo nota, nelle sue risorse e limitatezze, per caratterizzarla. Né accade qui di ritrattare la questione se il Moroni, che compariva in tutte lettere nei frontespizi, ne sia stato unico autore, come sempre sostenne. La farina passò, in ogni maniera, dal suo buratto, poiché ne lasciò tracce per ogni parte. Certo è anche che il papa la vide nascere e crescere, con molta compiacenza. Per aiutare egli l'Aiutante nel lavoro, giunse a sostituirlo nel tenere il registro dei libri; è il manoscritto Vat. lat. 13518, che porta la nota del Moroni: «proseguito dal medesimo Pontefice di venerato suo pugno per non togliermi dall'occupazione del mio Dizionario, Giugno 1846 ». La data segnata è quella fatale, della morte di papa Gregorio. Il « cavaliere » Gaetano Moroni, diventato, come usava, secondo Aiutante di camera del successore, poco se la fece con Pio IX. Mantenne anzi solo di nome l'ufficio, dopo fiere burrasche, e fu restituito a libertà. Si trasformò in un agiato signore, rinchiuso per gran parte del tempo nello studio della sua nuova abitazione, al palazzo Carpegna, presso la Sapienza. « Il compile, il compile... ». Lavorava fino a quattordici, sedici ore al giorno, piegato sul grande scrittoio, appartenuto un tempo al cardinale Cappellari. Qui terminò di vergare il rimanente dell'opera, dal volume L0. Nell'indice solo spese una quindicina d'anni, e lo divulgò nel '78 (tra altro con una specie di curiosissima autobiografia, di 66 colonne, al suo nome). Mise in carta una sterminata quantità di scritture, adunate in centosettantatré volumi, ora codici Vat. lat. 13757-13929, senza logorare la vista, che gli si mantenne buona fino alla vecchiezza. Il memorialista non manca di ragguagliare che dal '41 portava occhiali. Delle sue conoscenze librarie, trasse profìtto specialmente per farcire la sua opera enciclopedica.

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In certi estesi prolegomeni posti in testa all'Indice, dichiarò, ore rotundo: «forse poche opere potranno contenere il complesso bibliografico adunato nel mio Dizionario, pressoché sopra ogni argomento dello scibile umano ». Anche se la nota è tenuta alta, come ogni volta che parlava della sua grande impresa, si può riconoscere che della bibliografìa si valse in continuità, citando ogni volta i libri che travasava negli articoli. Due fitte colonne rappresentano, nell'Indice, i debiti riconosciuti con il « romano filologo sommo », il Cancellieri, e fanno immaginare la quantità di tutte le altre obbligazioni. Di più consumata perizia diede saggio in articoli in cui il libro diventa oggetto diretto di trattazione, come « Stampa » e « Stamperia ». Nessuno pretenderà che lungo le 134 colonne per cui si svolgono, Gaetano Moroni si armi della scienza ineccepibile di Konrad Haebler, Lamberto Donati o Francesco Barberi. Ma il bibliografo per così dire volontario si destreggia alla meno peggio nella storia delle origini del libro, e ricorda edizioni pregevoli e rare, parecchie delle quali in suo possesso. Aveva, tra altre, il Fasciculus temporum, del Rolewinck, stampato dal Ratdolt a Venezia nel 1481, « in caratteri gotici e vignette incise in legno ». S'inorgogliva di un Cesare, Venezia, Augustinus de Zannis, 1511, « in bellissimi caratteri con graziose vignette intagliate in legno »; della Roma trionfante, di Flavio Biondo, e del Compendio di Roma antica, di Lucio Fauno, stampe sempre veneziane di Michele Tramezzino, 1544 e 1552. Il bibliofilo si era posto in caccia specialmente di edizione romane, e poteva mostrare, dei Silber, VOpusculum de mirabilibus novae et ceteris Urbis Romae, di Francesco Albertini (1508) e De antiquitatibus Urbis, di Andrea Fulvio (1527); del Mazzocchi, il Concilium Lateranense V (1521); un bel gruppo di Biado. Esibiva, inoltre, una « superba edizione » dei Commentari di Pio II, Francoforte, 1614. Del Seicento e Settecento, per tornare a Roma, allineava consistenti serie degli stampatori Camerali e della Tipografìa di « Propaganda », prestigiosa perla varietà delle lingue e degli alfabetici esotici. Siamo introdotti, così, tra gli scaffali, sicuramente di buona noce, della sua biblioteca, quale videro i contem-

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Nello Vian

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per un'edizione vagheggiata a spese del Comune) comprendeva sette volumi « di foglio reale grande, con pagine a doppia colonna, l'ima pel testo, l'altra per le note e le aggiunte ». Le opere registrate erano circa 27.000, un. bel gruzzolo anche nell'era delle macchine elettroniche. E 9.292 ne contiene quel primo volume, pubblicato nel '93, per le

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cure industriose e con aggiunte del bibliotecario Enrico Celani. Cooperò alla stampa l'illustre Giuseppe Tomassetti, che firmò con lui la prefazione. Non fu il pubblico erario a sostenere le spese dell'edizione, per quanto il frontespizio si orni della Lupa Capitolina, ma il Forzani e il figlio del Cerreti, Ottavio, capitano dei bersaglieri. Ma questi morì presto, e anche se ciò non fosse avvenuto, le magre risorse di un ufficiale umbertino non sarebbero forse bastate all'intera bisogna. Fatto è che altri non ebbe animo di affrontare il rimanente e maggiore onere, così che la porzione più estesa del manoscritto restò inedita (non so se rimanga e dove). Nel progetto tracciato dagli editori, con qualche ritocco all'ordine della materia descritto dal Cugnoni, l'opera doveva comprendere quattro parti: la prima (pubblicata) contenente la storia ecclesiastica di Roma; la seconda e la terza, abbraccianti la topografia, la storia artistica e i monumenti; la quarta, la storia civile e municipale, e la storia fisica del suolo, del Tevere e della campagna romana. Il titolo dichiarava che la trattazione riguardava Roma « medievale e moderna », ma la prefazione ampliava i limiti, almeno in confronto all'eccezione più comune dei termini, portandoli « dai primordi del cristianesimo fino all'età nostra ». In ogni maniera restavano escluse nettamente la letteratura e l'archeologia classiche. Le quasi diecimila schede dell'unica parte stampata, alcune ragionate e parecchie relative a manoscritti, si distribuiscono nelle sezioni : storia ecclesiastica; conventi, monasteri, seminari, confraternite; biografie generali dei papi; biografie singolari dei papi; conclavi; corte e curia. Come usava nella vecchia bibliografia, molte indicazioni sono di spoglio. Tutto il lavoro ha carattere spiccatamente analitico, e non risulta praticato il criterio della selezione. L'opera ha tuttavia nel suo genere carattere monumentale, anche se il grandioso ponte restò malamente con quella sola arcata. Chi riprese a tirare su il muro, pietra su pietra, coraggiosamente fu un altro bibliotecario, Emilio Calvi. La sua biografia ha tacitiana brevità. Nato a Roma quattro anni dopo il '70, non so se di sangue indigeno o « buzzurro », vi morì giovane, prima dei cinquanta, il 14 aprile 1921. Non fu più che « coadiutore » nelle pubbliche biblioteche, e

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dovette in pratica consumare oscuramente la vita tra i libri, più tra le strettezze che gli sciali. Incominciò, nel 1906, con la Bibliografia di Roma nel medio evo (476-1499), alla quale diede, due anni dopo, un Supplemento I, con aggiunte al corpo della precedente e una nutrita integrazione sulle catacombe e le chiese. Nel '10 mise fuori la Bibliografia di Roma nel Cinquecento, un « tomo I », al quale non tenne mai dietro il secondo; né il Seicento e Settecento (fino al 1789), ugualmente annunziati. Il cinquantenario del regno venne a interrompere il corso della pubblicazione, poiché nel 1911, per la circostanza commemorativa, trasse dai torchi la Bibliografia di Roma nel Risorgimento, Tomo I (1789-1846), che restò anch'esso senza il secondo. In tutto, tre arcate, due delle quali rimaste a metà: questa la parte di muratura lasciata dal paziente e diligente Calvi, che nei dieci anni rimastigli rivolse (come pare) la penna a collaborazioni giornalistiche e periodiche meno infruttuose. In tutta quella sua opera, stampata dal Loescher, aveva accumulato anch'egli una diecina di migliaia di schede, che giacciono, se non come mattoni dispersi, quali avanzi di una muraglia che non è ancora riuscita, per una singolare fatalità. Come l'antico impero, nella visione dello storico, la bibliografìa di Roma laborat magnitùdine sua. La necessità rimane, anzi si accresce, incontrovertibilmente. I cultori eruditi dei gesta Romanorum non stanno con le mani in mano, come si può immaginare e si vede. Il mucchio dei libri cresce, di anno in anno. Ma il passare del tempo, se ingrossa il materiale, ha ridotto il problema della compilazione a criteri di maggiore ragionevolezza. Nessuno tenterebbe più di comprimere dentro un'opera del genere tutto quello che hanno ideato o sperato di mettervi l'erudito bibliotecario Corsiniano o il solerte « coadiutore » dell'Alessandrina. Darebbe più ingombro che aiuto. La scelta esperimentata del più importante e del meglio è sottentrata oggi all'utopia o alla mania della completezza, per un'opera del genere, in campi così vasti e da antica data produttivi come quello di Roma. Anche perché, legittimamente, i termini sono stati ampliati. Il concetto di Roma abbraccia, oggi, i due versanti della sterminata

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storia che da essa si diparte. Mutilarlo non si potrebbe più, in uno strumento unitario come quello vagheggiato. Da ciò deriva anche la conseguenza che, a fabbricare un tale strumento, non bastano più l'assiduo « deschetto » né il banco logorato di un singolo artefice. Né arriverebbe più a sopperire alle spese, anche della sola stampa, il bilancio pur rimpannucciato di un capitano dei bersaglieri. Un giorno di questa estate (in montagna, sui duemila metri) mi sono divertito a ideare l'impresa, come la vedrei io. Il passatempo o la stravaganza si garantisce come platonica, perché non ho né l'età né la voglia di mettermi in guai nuovi. « Ecco come farei », diceva il matricolato compagno di Renzo all'osteria della « Luna Piena ». Cercherei di accaparrare all'impresa il favore dell'Istituto di Studi Romani, che darebbe gli auspici e il moto propulsore. La pecunia potrebbe essere procurata, sperabilmente, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, o dall'Unione internazionale degli Istituti di archeologia, storia e storia dell'arte in Roma, o da qualche editore (che sarebbe quasi certo di rifarsi della spesa). Portata avanti in economia, come saprebbero fare ragionevolmente quelli della piazzetta piranesiana sull'Aventino, non riuscirebbe del resto rovinosa. Poi sceglierei (l'uso della persona è sempre per seguitare la maniera del sedicente spadaio Ambrogio Fusella) due tre galantuomini, romanisti ferrati all'ennesima potenza, perché la conducessero con i criteri più opportuni. Sarebbero costoro in sostanza ad architettare e congegnare, in tutti i particolari tecnici, questa introduzione o guida o avviamento agli studi romani, determinando specialmente le categorie delle opere da includere. Dovrebbero essere le capitali e che fanno epoca, tutte quelle di riferimento o consultazione, come repertori, dizionari, bibliografie; fonti, raccolte documentarie, regesti, cataloghi di archivi e biblioteche, sillogi d'iscrizioni; periodici romanistici più importanti, e tutto il rimanente che l'esperienza consideri proficuo per una metodica iniziazione. L'ambito, come si è prospettato conforme a una concezione legittima, sarebbe il più ampio: la città, nel senso concreto del termine, dalle origini a oggi; e quindi tutte le manifestazioni della civiltà romana antica e moderna, nei suoi immensi sviluppi ideali e nelle

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sue sterminate estensioni di spazio e di tempo. Naturalmente, province come la religione, il diritto, la letteratura, l'arte, che hanno già propri e vastissimi apparati eruditi, non potrebbero figurare nella guida che rappresentativamente, con repertori fondamentalissimi, e quasi solo per assicurare i collegamenti. Senza mancare di discrezione nei riguardi di quei principali artefici, si pensa che essi si consocierebbero naturalmente un gruppo più numeroso, mettiamo di qualche decina, di studiosi delle specialità nelle quali si spartisce il vasto scibile della « romanità » : una specie di senatus senza toga, che darebbe i suoi consulti in varie maniere. In primo luogo potrebbe essere con le segnalazioni rapide, quasi estemporanee, di tutte le opere di maggiore e più corrente uso nei diversi campi di lavoro. Ne risulterebbe un censimento preliminare, per il successivo lavoro redazionale, il quale potrebbe essere svolto esecutivamente da un segretario o segretaria. I dati raccolti andrebbero vagliati e integrati, per procedere poi al reperimento e alla corretta descrizione bibliografica delle opere. Queste dovrebbero essere qualificate poi con brevi note ragionate, dirette specialmente a rilevarne il valore e l'autorità scientifica : e sarebbe da includere, augurabilmente, l'indicazione di recensioni critiche pubblicate all'apparire dell'opera, non senza qualche elemento biografico relativo all'autore. I giudizi e le notizie, per loro natura, risalirebbero a senatoconsulti degli studiosi specialisti di sopra. Questo, all'ingrosso, il nascere e il maturare della guida. La quale, per dimensionarla, potrebbe arrivare a contenere un massimo di cinquemila indicazioni: così da dare luogo, dieci per pagina, a un volume di giusta mole, sulle cinque-seicento pagine, inclusi gli indici. A volere tenere presente qualche modello recente, per la struttura generale, si citerebbe per esempio la Guide to historical literature, pubblicato negli Stati Uniti (1937). Per ultimo tocco, a precorrere l'apparizione del volume, impresso con la dignità di tante stampe romane antiche e contemporanee, si vagheggerebbe, contemporanea all'italiana, un'edizione francese o inglese, che ne ampliasse l'utile entro le maggiori aree linguistiche.

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Sorgerà mai il nuovo ponte, con arco ardito di moderna linea, accanto alle arcate incompiute o dirute del « ponte rotto » delle vecchie bibliografie di Roma, varcando e congiungendo nel nome sacro tanti secoli e così vasto mondo di studi? Tra le virtù tradizionali dell'Urbe sono la pazienza e la tenacia, e non si enumera tra i suoi eroi minori quello che portò nei secoli l'epiteto di cunctator. Nello Vian

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L'avo

cosmopolita

del

"Chi è?,,

italiano

Al conle professore Angelo De Gubernatis il '79 riusci fausto e nefasto. Buon evento fu l'intrapresa stampa di un Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, grossa fatica di portata più che nazionale. Disavventura risultò un bilancio rischioso che accettò di redigere per la milanese Illustrazione italiana dei Treves, dove comparve il 13 gennaio sotto il titolo « La letteratura italiana nel 1878 ». Al solito, la materia scottava. Si rappresentavano, nell'articolo, le fiere battaglie allora divampanti tra « realisti » e « idealisti », e che schieravano in campo tra i primi mattatori come il Carducci e tra i secondi oneste fanterie della taglia di Giovanni Rizzi e Luigi Alberti. Le simpatie del poligrafo letterato piemontese andavano espressamente a questi ultimi, sebbene fosse amico del poeta della terza Italia, con il quale correva addirittura il tu, non ostante la ben diversa statura. Le acque tra i due si erano però ultimamente agitate, per via di una certa lettera e di un'arbitraria interpretazione. In vista proprio di quel Dizionario e a richiesta del De Gubernatis, il Carducci aveva scritto le bellissime confessioni, sostanziate di poesia, sopra la sua giovinezza maremmana, che sono la lettera 2085 dell'epistolario; senza poi seguitarle, non per altra ragione che la smemorataggine e la pigrizia, conforme a un'altra sua confessione. II non maturare del frutto aveva allegato i denti all'altro. Ma

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il peggio era venuto fuori dopo. Nel giugno '78, si divulgò il capitolo settimo de L'Intermezzo, il poemetto giambicolirico carducciano, raffigurante tra altro, con aspra satira, un « Fanfulla » che si era « rifatto frate ». Il nome reale del mal capitato, scritto in tutte lettere nel testo del capitolo inviato alla confidente letterario-amorosa Lidia, era quello di Giuseppe Guerzoni, con cui c'era vecchia ruggine. Ma il De Gubernatis, mostrando un po' la coda di paglia, credette di riconoscersi nel tipo, sotto la maschera del famoso giostratore di Lodi: « razionalista » e « rivoluzionario » un tempo, « or ne lo scudo porta scritto — Dio, / il re, la donna mia — / non senza qualche medievale e pio / error d'ortografia ». Se l'era legata al dito, e alla prima occasione aveva tirato giù il bilancio citato sopra. Il Carducci, accorato, gl'indirizzo la lettera 2418, epicedio di un'amicizia: « Io conto triste le croci che crescono nel cimitero del mio cuore ». E due giorni dopo un'altra, per respingere, con la fermezza del galantuomo, il sospetto temerario che la caricatura mirasse al suscettibile conte; « Non ho mai tradito, non ho mai rinnegato, non ho mai apostatato né un affetto né un'amicizia né un dovere ». Gran bontà dei cavalieri antichi. Ma l'affare non finì qui. Il fedelissimo Severino Ferrari, che stava a Firenze per i suoi studi, digeriva in proprio un'uggia nei riguardi del professore dell'Istituto di studi superiori. Non si era certo messo alla sua scuola per imparare il sanscrito, ma ne aveva sentito « cortigianesche conferenze » alla Società di Orticultura (che non si capisce cosa c'entrasse) e si era sdegnato a trovarle troppo diverse di tono e di musica da altri scritti e discorsi di tinta socialistico-internazionale. Non si esclude che abbia voluto prendere allegra vendetta dei maltrattamenti usati all'amato, anzi unico per lui maestro di Bologna, che si può giurare tuttavia non entrasse punto nella congiura. L'intenzione di vendicarlo si può forse trarre dal fatto, che mandò a lui, nell'ottobre '79, una prima stesura del suo poemetto Il Mago, nella quale l'eroe con il « mirabile schioppetto » ammazzava addirittura l'allobrogo. Si congettura che il Carducci intervenisse presso Severino per salvargli almeno la vita. Ma la caricatura del De Gubernatis, abbastanza

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cruda, rimase nell'edizione in otto canti, fatta dal Sommaruga nell'Sd. Dove metà del quarto è dedicata alla scena, di colore fortemente indiano, dell'entrata di un incantatore di serpenti ornato di una gran barba, sopra un canuto pigro elefante; e costui, sceso dalla bestia, si mette a grattare un suo mandolino e a cantare « versi blandi », che volano attraverso la landa malinconica. La sigla era più che parlante, ma la rinforzava e decifrava con tutta chiarezza il più che irrispettoso giudizio sulla dottrina non solo indianistica del professore: « ... egli il sanscrito / sa, come il greco, nelle traduzioni; / sa l'italiano pur come il sanscrito / e lo legge tradotto nel Manzoni. » Non risultano le rimostranze, che questa volta sarebbero state più legittime, dell'assalito, uso ad avventurarsi tra le foreste dell'India. Non giova qui mettere a fuoco il personaggio Angelo De Gubernatis. Della versatilità delle sue attitudini hanno dato onesto giudizio il Carducci, che come si è veduto ebbe pure a scontrarsi con lui, e Benedetto Croce, che gli assegnò cinque o sei pagine nella Letteratura della nuova Italia. Al bibliotecario accade in particolare d'imbattersi nel conte piemontese, prendendo in mano qualcuno dei suoi dizionari biografici, che dal '79 imprese a produrre, solertemente. A lui si deve anche un altro ferro del mestiere, meno noto, anzi dimenticato: il primo volume, rimasto unico, di un Annuario della letteratura italiana, che il Barbera gli commise e pubblicò nel 1881 (tipo di repertorio che in Italia, a distanza quasi di un secolo, non ha ancora preso cittadinanza). Ma fu il genere biografico che diventò una sua specialità, se non addirittura passione. Incominciò con il Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, un massiccio in-ottavo, che i successori Le Monnier pubblicarono, prima in forma di fascicoli, di 96 pagine ciascuno, con un totale di circa 1300 pagine. La distribuzione si dovette avviare al principio del '79 e durò venti mesi. Il repertorio, a due colonne, inchiude 4525 scrittori viventi, dei quali 1842 italiani, un terzo abbondante, e 2683 stranieri (le somme sono tirate alla fine, in una « licenza »). La parte più grossa dei non italiani è costituita dai tedeschi, con 523 unità; seguita dai francesi, con 487, e da più che

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una ventina di altre nazionalità, alla fine della scala rappresentate fino da uno scrittore unico. Collaboratori, nominati, sovvennero a mettere insieme questa repubblica letteraria, una U.N.E.S.C.O. avant-lettre, che il conte cosmopolita indisse, sostenendo fatiche personali certo grosse (scrisse, tra altro, più di duemila lettere). Tra le particolarità esterne curiose è la galleria di ritratti incisi, più che trecento, a corredo delle biografie: una delle più folte sfilate di barbe, baffi e basettoni ottocenteschi che possano deliziare gli amatori dell'epoca. Il regista della mostra ragguaglia, sempre puntualmente, che ricevette per la scelta più di un migliaio di fotografie. Non vi riprodusse la propria, che aveva tutti i requisiti per non sfigurare, né inserì nel tomo al suo luogo alfabetico una notizia di sé. In cambio e vantaggiosamente, collocò in testa (cifre romane) una specie di biglietto da visita, come ebbe il coraggio di chiamare una propria autobiografia di venticinque pagine. Bisogna leggerla, per conoscere tutta l'ingenuità dell'uomo allo specchio, che mette in mostra se stesso, incluso ciò che può servire a denigrarlo o addirittura a metterlo in caricatura. Speriamo che le confessioni non siano mal capitate alle mani di qualcuno della spregiudicata masnada carducciana, come vennero, queste o altre, in quelle dello scrittore de II diavolo a Pontelungo (che se ne divertì, per bocca del suo gigantesco, anche se alquanto casalingo Bakùnin). Passarono meno di dieci anni che riprese il lavoro, per un altro grosso repertorio biografico. Ne impiegò tre, ancora con una équipe di collaboratori, nella compilazione, pubblicata anche questa volta a dispense (una ventina), tra il '90 e il '91, in Firenze. A caratterizzarne il cosmopolitismo, l'intitolò Dictionnaire international des écrivains du jour, e lo redasse per intero in francese, dietro l'esempio nientemeno che di Brunetto Latini. Editore comparve Luigi Niccolai, che si associò grandi librerie di Parigi, Londra e Lipsia, indicate sulle copertine dei volumi, per le vendite all'estero. La mole crebbe eundo, naturalmente, poiché a cose fatte l'opera risultò in tre volumi, di più che duemila pagine, su due colonne. Il numero dei biografati salì a 9152. I francesi registrarono Vescalation più vistosa,

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con un totale di 2434; ma anche gl'italiani ingrossarono fino a 1930 e i germano-austriaci a 1885. Questa letteraria Triplice fece scrivere al De Gubernatis, nella prefazione: « ... j'ai l'ambition de croire au rôle civilisateur de l'Italie et de la France unies, assistées par la bienveillance de la docte et sage Allemagne; je crois que leur lumière est bonne, et je voudrais réunir les trois lumières pour les faire monter ensemble vers un ciel plus pur, d'où rayonnerait dans tout le monde qui pense et qui écrit, cet amour de paix, qui est l'aspiration de toutes les âmes et le cri de tous les peuples régénérés. » L'effetto del vaticinio, per il quale il conte internazionalista impennò la sua migliore eloquenza, si vide meno di un venticinquennio dopo, quando quella respublica andò tragicamente in pezzi. Ma, prima, tra il 1905 e il '07, l'infaticabile bio-lessicografo produsse un altro colossale tomo, puntando sull'idea della latinità, che non si dimostrò alla prova molto più consistente della precedente. Il Dictionnaire international des écrivains du monde latin, di millesettecento pagine tra il corpo dell'opera e il supplemento, allineò un dodici-tredicimila nomi, con una larghezza di misura che cresceva evidentemente con l'età dell'autore. Ma gli anni non restrinsero la torrentizia vena retorica dello stile, come dà saggio la prefazione, addirittura rutilante di richiami tropi analogie, che vanno dal calator della tomba di Romolo nel Foro alla benedizione degli animali per la festa di sant'Antonio abate. Una girandola. Non risulta come il gentiluomo stesse a denaro, ma da confidenze di anni verdi si sa che ne aveva rimesso parecchio nella rovinosa impresa di una tipografia internazionalista-repubblicana, mettendo nei guai anche la moglie (russa). Questa volta, in ogni maniera, agì in proprio, e mise in vendita il volume « chez l'auteur», che abitava in via San Martino al Macao, 11, uno dei quartieri della Roma umbertina. L'opera costava 25 franchi, 32 col supplemento, che a quel tempo rappresentava una discreta somma, qualunque fosse la valuta latina esatta. Per aggiornamento del Dictionnaire, la mente ferace del De Gubernatis concepì un Annuaire du monde latin, che non so se sia comparso di fatto e quanto lunga vita abbia avuto. Sarebbe stato distribuito da una « So-

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cietà elleno-latina », certo altra sua creatura, nella quale si entrava con lo sborso di 10 franchi, 12 per l'estero, all'anno. Anche di questa impresa non si conoscono le tracce, probabilmente labili. Il discendente dei cavalieri antiqui non vide il crollo della utopistica repubblica internazionale letteraria che era andato tirando su industriosamente con i suoi mattoni, poiché mori nel 1913, per buona ventura. Non è per la serie dei grossi tomi recensiti sopra che il nome del pertinace compilatore si raccomanda meglio alla memoria, ma per un tipo di repertorio più moderno del quale egli sembra essere stato in Italia l'avo. Il suo in-ventiquattresimo Piccolo dizionario dei contemporanei italiani, che pubblicarono i Forzani e C., tipografi del Senato, nel 1895, s'imparenta chiaramente con l'antica, vivace e sempre vitale famiglia degli Who's who (nata in Inghilterra nel 1849 e propagatasi per tutti i continenti). Le sei mila notizie biografiche, contenute nel volumetto che poteva entrare questa volta anche in una borsetta da signora, presentavano infatti non più i soli scrittori, ma tutti gli italiani notevoli, in politica professioni arti affari burocrazia e fino bel mondo. La prefazioncina, firmata « Gli Editori », potrebbe essere di altra penna che quella del conte, per l'insolita concisione. Non si sa se le future edizioni, che vi si promettevano, siano venute in luce sotto quell'insegna editoriale. Ma nel 1908, disinvoltamente, il Biagi lanciava l'italiano Chi è?, primo di questo titolo, presso la casa editrice Romagna e C., a Roma. Nell'elegante prologo, che introduceva al genere e utilità della pubblicazione, l'impresa era data per nuovissima in Italia. Pare difficile credere che il geniale e dotto bibliotecario fiorentino non abbia mai preso in mano il Piccolo dizionario di Angelo De Gubernatis, stranamente rassomigliante a quello che egli teneva a battesimo con il travestito nome anglosassone. Si sospetta che « l'ottimo borghese / pseudogoliardo Guido Biagi, in guanti / e in barba corta inglese », come l'ha schizzato il Marradi, non avesse buon sangue con l'onesto conte, per via della comune covata carducciana da cui egli era uscito con il poeta del Mago. La letteratura combina qualche cattivo scherzo fino all'erudizione. NELLO vian

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FIGLIO

DI

C A MICIA ROSSA ALLA VATICANA

Giacinto Carini era sbarcato a Marsala, alla testa di una delle otto compagnie dell'epica spedizione (proprio quella dell'Abba, che in molte delle Noterelle schizza alla brava il ritratto del suo prode colonnello). Il figlio diciassettenne Isidoro compare accanto al ferito del '60, a Palermo, nella stanza dell'albergo « Trinacria ». Aveva studiato nelle scuole dei gesuiti, con eccellenti maestri, tra i quali lo storico e bibliografo della Sicilia, Alessio Narbone. Diventò, p>er necessità, impiegato del ministero dittatoriale, e poi copista nel Grande Archivio di Palermo. Era già uomo di ferma volontà, che tirava avanti p>er la sua strada, e con idee proprie in testa. Questo figlio di garibaldino avrebbe voluto essere gesuita, entrando nella società fatta a quel temp>o segno nell'isola della quasi unanime avversione. Si fece, in cambio, prete, a venticinque anni, e il suo temperamento animoso gli fece impugnare la penna per la Chiesa. Come non pochi altri italiani di ogni regione all'indomani del Risorgimento, diventò giornalista e fondò nella sua città il

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— 67 — primo foglio cattolico dopo la rivoluzione, che s'intitolò L'Amico della religione. Rimasto all'Archivio, Isidoro Carini si diede con impegno similmente appassionato alla storia della sua terra e ne incrementò lo studio (segno caratteristico dei tempi, anche questo) col fare sorgere la Società di storia patria e VArchivio storico siciliano, che ebbero a opera sua e di altri feconda prosperità, sopra quasi tutti i sodalizi e periodici del genere nati nelle altre regioni italiane. Neir82, per il sesto centenario del Vespro, da celebrare nel clima di riconquistata libertà, effettuò, con limitati sussidi del governo, una missione scientifica in Spagna. Con un lavoro accanito che durò dieci mesi, trascrisse per intero a Barcellona due preziosi registri aragonesi de rebus regni Siciliae e molto altro materiale rintracciò negli archivi della capitale catalana, di Madrid, Saragozza, Valladolid, Toledo; in totale, 743 documenti, e in più un migliaio di altri in regesto e innumerevoli indicazioni che apersero nuove prospettive agli storici, uscendone in primo luogo sostanzialmente mutata la ricostruzione di quel famoso evento dal quale era stata percossa l'alta fantasia di Dante. Dalla Spagna, egli ragguagliava delle sue scoperte gli archivisti palermitani con un nutrito carteggio, che è stato pubblicato. Uomo vivo appare l'erudito prete, fino in tale corrispondenza dedicata alle pergamene e carte antiche. Intercalava, curiosamente,, descrizioni del paese e dei costumi degli abitanti, dimostrando la larghezza dei suoi interessi. Osservò per esempio fogge di vestire catalane che si collegavano con le siciliane antiche, come la harritta. E andò a vedere la corrida, che gli piacque quale spettacolo virile, adusante a coraggio, pur concludendo a proposito di esso: « L'Italia è nazione più civile ». In quella terra straniera sentì cantare l'inno di Garibaldi, come annotò in una lettera, e lo raggiunse la notizia della morte del condottiero delle camicie rosse Pregò per la sua anima, cristianamente, e rammentò la commozione provata nella sua adolescenza al leggere le ammirative pagine di Antonio Bresciani sulla vita dell'eroe in America. La figura d'Isidoro Carini s'inserisce a questo punto in una tela più grande, i capi della quale risalgono al gene-

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— 68 — rale garibaldino. Entrato nell'esercifo regolare, questo si era trovato nel '71 a comandare la divisione di Perugia, dov'era vescovo il cardinale Gioacchino Pecci. A un anno appena dalla « breccia », le relazioni tra i due poteri avrebbero potuto essere come quelle che correvano, o meglio non correvano, tra il Vaticano e il Quirinale. Il giorno, per esempio, che il primo era entrato inattesamente nell'ospedale militare senza ricevere i regolamentari squilli, il secondo gli aveva presentato in forma le scuse, e ne aveva avuto un fiorito biglietto di grazie. Il comandante territoriale saliva talvolta la sera, anche con amici, nel quartierino del seminario dove alloggiava l'intellettuale vescovo, e la compagnia faceva un gran discorrere di leggi, di filosofia, di uomini politici contemporanei, del Gioberti, del Rosmini. Nel '77, per ragioni rimaste oscure ma alle quali con probabilità non furono estranei questi spiriti in anticipo di conciliazione, l'ufficiale andò a riposo con molta sua amarezza. Entro alcuni mesi, il cardinale vescovo di Perugia salì per opposta ventura al sommo pontificato con il nome pugnace di Leone XIII. In realtà la visione di lui fu altamente irenica, e tenacemente ricostruttore il programma del suo spirituale governo. La scoperta della storia nei documenti originali lievitava la cultura del secolo, che si rivolse con nuovo ardore agli archivi e alle biblioteche. Con la prontezza del suo intuito e una fermissima fede nella verità, Leone XIII compì il gesto solenne di aprire a tutti i ricercatori il millenario archivio della Chiesa Romana. Fu appunto nell'adunare intorno a sè gli uomini meglio preparati a diventare i ministri di questa sua illuminata liberalità che egli pensò all'archivista di Palermo, figlio dell'antico ufficiale garibaldino conosciuto a Perugia. Lo chiamò a Roma nell'84 per l'Archivio Vaticano e gli affidò anche la Scuola di paleografìa fondata in quell'anno, come parte di quel suo disegno organico, mirante a « promuovere ed afforzare i sodi studi di storia che riguardano il Pontificato e la Chiesa ». Nell'SQ il sotto-archivista Carini passò all'ufficio di « primo prefetto » della Biblioteca Vaticana, raccogliendo la successione del buon arcade Stefano Ciccolini, Comparve, il 7 ottobre, al « congresso », adunanza oligarchica che

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— 69 — teneva il governo dell'istituto, e in queH'occasione si rese conto, se prima lo ignorava, che mon mancavano mani a reggere lo scettro. Al disopra stavano infatti il cardinale Bibliotecario di santa romana Chiesa, un sotto-bibliotecario per l'economia e la disciplina e un altro per gli studi; i quali due ultimi personaggi in particolare, che erano per di più attivi e certo ingombranti, fanno già chiedere quale parte restav a al primo prefetto, anche non tenuto conto che questo ne aveva a lato un secondo e parecchi altri membri per diritto dell'adunanza gli sedevano intorno e avevano voce in capitolo (il 7 agosto "90, si aggiunse un'eminenza grigia, che finì col contare più di tutti per le eccezionali qualità bibliotecarie e scientifiche, il gesuita virtenberghese Franz Ehrle, segnato già in fronte del crisma della successione). Con questo regime tra aristocratico, diarchico e parlamentare, mal riesce fare la parte rigorosa di ciascuno, ma è consentito affermare che consule Isidoro Carini molto venne fatto ner mutare il volto della biblioteca papale rimasta fino allora soprattutto aulica e palatina. La casa era diventata stretta, e nel 1882 Pierre de Nolhac, venuto a Roma alunno della Scuola francese, aveva trovato ancora adibito a unica sala di studio il vestibolo della grande aula Sistina, avaramente rischiarato da una sola finestra. Si principiò con il mettere su una stanza più vasta, capace d'una quarantina di lettori e meglio illuminata, che si ricavò nell'SS da vani retrostanti al vestibolo. Ma l'idea più ardita fu quella di riscattare altre parti dell'edificio innalzato da Sisto V per la Vaticana, le quali con l'andare del tempo (forse a breve distanza dalle origini) erano state sottratte all'uso librario. Dove le antiche piante segnavano le stanze degli scrittori, proprio al disotto della splendida aula frescata dai cento pittori, si era insediata l'armeria, contenente non solo archibugi e spingarde rinascimentali, ma anche parecchie migliaia di antiquati fucili dell'esercito pontificio. Il 20 aprile '89, Leone XIII con irenico simbolo aveva decretato che le armi cedessero alle toghe; più pedestremente, che sgombrassero per dare luogo ai libri stampati, i quali lungo i secoli avevano occupato qualche miglio di armadi, lungo tre lati di perimetro dell'immenso cortile di Belvedere, invadendo per ultimo fino

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— Tole nobilissime stanze Borgia e attediando gli affreschi stupendi del Pinturicchio. A parte ogni altra considerazione, occorreva percorrere circa un chilometro per portarne uno alla sala di studio. I lavori nell'antica armeria erano compiuti sulla fine del '92, e si era anche dovuto costruire un corpo di fabbrica angolare per gabbia della scala che congiunse ex novo i due piani. Ne uscì un'aula, di lunghezza uguale a quella Sistina soprastante, nella quale si montarono enormi scaffalature in ferro e legno. Il trasporto dei circa 185.000 volumi, tecnicamente studiato dall'Ehrle, si effettuò con una trentina di braccia, in due settimane. Nella navata meridionale, prospiciente il bramantesco cortile di Belvedere, si collocarono i volumi scelti per la consultazione, circa trentamila; e nella settentrionale i principiali fondi storici stampati, ricostituiti nell'ordine originario. La nuova sala, che s'intitolò legittimamente biblioteca Leonia na dal geniale papa mecenate, s'inaugurò il 23 novembre 1892. Essa diede alla moderna Vaticana la caratteristica struttura, rimasta in sostanza intatta, pur con i posteriori incrementi e rinnovamenti; e fu salutata dagli studiosi di tutti i paesi un ornamento senza pari della Roma dotta. Della pyersona del prefetto Carini, in particolare della sua inesausta gentilezza e pronta generosità, tutto Virritabile genus degli eruditi e letterati che lo frequentarono, da Cesare Paoli a Léon Dorez, da Vittorio Gian a Salvatore Minocchi, non ha lasciato scritto altro che bene. Sap>eva sacrificarsi per gli altri restando nell'ombra, che è l'elogio più alto di un bibliotecario. E tanto più appare degna di essere notata, questa liberalità scientifica, in un uomo, che pjer suo conto lavorò e produsse con anche troppa intensità e varietà d'interessi. La « mobilità meridionale », che egli stesso riconosceva in sè, lo pxjrtò a trattare argomenti troppo diversi pxr lasciare opere definitive e di mole; pur in quanto diede a luce e illustrò impresse il segno della versatile genialità e di una calda spontaneità. Fanno gruppo a sè prolusioni, sommari e manuali a uso della Scuola di paleografia, alla quale tuttavia mancò di dare l'opora più vasta che riprometteva la sua molta esperienza. Due raccolte di saggi, che avrebbero potuto riuscire auliche esercitazioni e furono in realtà studi positivi, si allestirono durante la

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— 71 — prefettura del Carini: Di alcuni lavori ed acquisti della Biblioteca Vaticana nel pontificato di Leone XIII (1892) e Nel giubileo episcopale di Leone XIII omaggio della Biblioteca Vaticana (1893). Nella seconda è del Carini stesso una bibliografia degli studi pubblicati col sussidio di manoscritti Vaticani durante i tre lustri di quel pontificato, nei vari paesi: un'iniziativa che non ha avuto ancora un sèguito, e già da quel tempo laborabat magnitudine sua. Anche una rivista propria della Biblioteca, lo Spicilegio Vaticano, egli, principalmente, portò avanti per due anni : e se venne a cessare, per dare il luogo un decennio più tardi a un'illustre collezione, non si può negare la modernità di forma del tentativo, che dava una viva voce alla millenaria istituzione. Della quale il Carini, con il titolo La Biblioteca Vaticana proprietà della Sede Apostolica (1894), tracciò anche una storia, polemica nell'origine, immatura e imperfetta nei particolari, ma con ardimento di concezione (una tipica discussione ebbe a sostenere per essa con il certo più ferrato erudito Pierre Batiffol, meravigliando candidamente della qualità degli appunti che gli rivolgeva). Del molto ancora che scrisse, possono essere ricordate una storia, rimasta al primo volume, dell'Arcadia e una bella enumerazione delle versioni della Bibbia in volgare italiano. La sua formazione classica non lo fece diventare un pedante; gustava la poesia fino a essere innamorato del Leopardi (che non sarebbe certo stato egli a distogliere dal desiderio di diventare scrittore della Vaticana) e a ragionare d'un idillio di Teocrito. All'attività bibliotecaria e a tutta quest'opera fervida di editore e illustratore di testi vanno finalmente aggiunti i frequenti discorsi all'Arcadia, alla Tiberina, alle accademie romane di Religione cattolica e d'Archeologia, a una Società per gli studi orientali e biblici, che presiedette, e i numerosissimi articoli pubblicati specialmente neìVOsservature romano in recensione di opere storiche paleografiche diplomatiche. Fino dei moti rivoluzionari scoppiati nella sua Sicilia, questo erudito, sempre aperto alle voci del suo tempo, indagò acutamente le cause e antivide con senso sociale moderno la soluzione. Il generoso temperamento e una larghezza di vedute che la storia posteriore dimostrò chiaroveggenza gli fecero [100]

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— 72 — anticipare i tempi anche nella più grossa questione politica italiana. Questo figlio di garibaldino, fatto prelato della corte pontificia e costituito in qualche maniera per le molte relazioni quasi il rappresentante dell'Italia colta presso il Vaticano, professava francamente ideali di conciliazione. Li compendiò in una lettera scritta, nel '92, al deputato Guido Fusinato (e pubblicata subito dopo la morte, con vasta risonanza): « Nè noi cattolici tentiamo alcun viaggio di ritomo a traverso il gran mare del tempo. Bensì crediamo che l'Italia, nel suo risorgimento, debba conservare quel carattere di universalità che ha sempre avuto e che è inseparabile dai suoi provvidenziali destini. La sua grandezza è nell'unione col Pontificato... Assicuri l'Italia al Papa la sua sovrana indipendenza, senza la quale sarebbe esautorato agli occhi del mondo cattolico, e saluterà lieta e gloriosa il ritorno « della molti anni lagrimata pace ». Oh, la pace! Possa io contribuirvi pro modulo meo! Possa veder presto comparire il sospirato « messagger che porta olivo ». Olivo portò egli stesso, in quell'ora. L'ora, presidente del Consiglio Crispi (per la seconda volta, nel dicembre '93) e cardinale segretario di Stato Rampolla, era quella dei siciliani. E il palermitano Isidoro Carini, non spinto da personali ambizioni, si trovò a sostenere, impensatamente, qualche parte nel gioco. I due conterranei erano legati per antiche relazioni di famiglia, e urgevano affari importanti da trattare direttamente tra la Santa Sede e l'Italia. Gli incontri si dicevano quasi quotidiani, nella casa dello statista in via Gregoriana, e certo passarono di là e si disincagliarono questioni grosse, come Vexequatur ai vescovi, incluso il patriarca di Venezia Giuseppe Sarto, e l'istituzione di una prefettura apostolica in Eritrea. Speranze maggiori spuntarono forse in questi colloqui, ma i tempi dovevano ancora a lungo maturare, e la sparizione di uno degli interlocutori troncò inattesamente quello che rappresentava il filo più delicato della trama. « L'età antica è passata, e l'età nuova nasce nei dolori del parto, cum doloribus parturientis », aveva scritto il Carini, forse presago di gustare anch'egli un giorno le amarezze di quelli che vanno innanzi. Triboli e punte non gli mancarono di fatto per la strada che egli tra i primi tentava. noi]

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— 73 — Come avveniva allora, e sempre avviene in età di radicali contrasti, si giudicò ch'egli inclinasse all'altra parte, e fu gettata contro lui l'accusa di liberalismo. Con alte parole, dichiarò di non respingerla, a patto di « intendere per liberalismo la mitezza di animo, il desiderio della pace con la giustizia, la vita non legata a sètte di nessun colore, il cuore aperto ai veraci progressi di questa povera umanità ma colla detestazione di tutte le colpe consumate ». A spezzare la sua resistenza fisica, sopravvenne tuttavia all'ultimo un doloroso colpo, di origine del tutto diversa. Negli estremi giorni del '94, la notizia di un furto d'ima quarantina di miniature da due preziosi codici Vaticani si propagò per tutti i giornali. Con una sua brevissima lettera ne\VOsservatore romano, il prefetto della Biblioteca la confermò e diede annunzio che i cimeli erano stati ricuperati dalla questura italiana. Il colpevole, siciliano per mala ventura, era stato arrestato. Incominciò per il Carini la passione, che gli fu inacerbita, com'è dato pensare, da malanimi prodotti dai suoi atteggiamenti e tendenze. Il 25 gennaio 1895, egli andò nel pomeriggio al coro dei canonici a San Pietro. Là, sulla fine, fu assalito da una stretta di cuore. Trasportato con una carrozza al cortile di San Dámaso, rantolante, morì entro pochi minuti nella farmacia che si trovava sotto il portico, per aneurisma. Isidoro Carini aveva solo cinquantadue anni. Questa morte improvvisa del prelato Vaticano amico di Crispi suscitò naturalmente molto rumore nella stampa. I giornali liberali narrarono con molti particolari di coloritura drammatica le circostanze che l'avrebbero provocata. Monsignor Carini sarebbe stato chiamato dinanzi a una commissione presieduta da un cardinale, o addirittura alla presenza di Leone XIII, per essere espressamente rimproverato di negligenza nella custodia dei tesori affidati alle sue cure. Il commissario di Borgo, Giuseppe Manfroni, nelle postume memorie, riferisce anzi d'avere condotto al riguardo una segreta inchiesta, che avrebbe confermati questi fatti. Altri fogli, più accesi e immaginosi, arrivarono a parlare di « ombre borgiane » e di veleno, con il quale il partito intransigente avrebbe spento l'uomo temuto per il suo spirito di conciliazione. Anche questo era un tristo prodotto dei

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— 74 — tempi. I giornali dell'opposto colore negarono tutto, forse troppo recisamente. Pur sopra quest'estrema polemica accesasi intorno la sua fine, si levano alcune parole di fede scritte dal Carini, negli ultimi mesi: « L'ora è trista, ma io ho gran fiducia nell'opera del tempo, nei destini d'Italia e della religione, nel progresso cristiano ». Tirando qualche linea sommaria del ritratto, Isidoro Carini fu uomo d'ingegno meridionalmente pronto e vivace, e di cultura all'antica, per segnare con questo termine piuttosto la larghezza degl'interessi eruditi che qualche eccepibile imperfezione di metodo. La sua produzione di storico e di scrittore risente di questa multanime e non sempre vigilata facilità, anche se ebbe sicuramente nei contemporanei forza d'incitamento e aprì solchi poi dissodati a fondo da altri. Nella biblioteca illustre che fu chiamato a reggere, in un momento d'evoluzione della struttura secolare, portò similmente germi di nuova vita, per quanto gli riuscì con il sistema di pesi e contrappesi che ne caratterizzava il governo. Si fatica a immaginare più netto contrasto tra il fervido siciliano e il freddo, quasi ieratico germanico che gli successe; ma è dato pensare che l'opera più salda di questo si valse anche dell'impeto portato da quello. Candido e integro animo ebbe il Carini, e la sua vita sacerdotale improntò di viva carità, fino a spogliarsi di vesti per soccorrerne i poveri e a morire indebitato. Tipico è per ultimo in lui il senso sofferto di pena nell'urto tra le due parti. Pur fu « eleganza della Provvidenza » il portare un figlio di « camicia rossa » in Vaticano a stendere uno dei primi orditi della grande tela della Conciliazione tra la Chiesa e l'Italia, che un altro futuro suo Successore, arcanamente salito al sommo pontificato, avrebbe un giorno compiutamente tessuto. Nello Vian

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A Imanacchi,

lunari,

biblioteche...

Roma, città di « sempre solenne ricordanza » (per usare parole di un lettore appassionato, anch'egli di gazzette, Giuseppe Gioacchino Belli) rispecchia la sua storia anche nella stampa periodica. Notizie, effemeridi, giornali, rassegne, o con qualunque altro nome si chiamassero, anche senza approvazione dei puristi, le stampe destinate a informare il pubblico con maggiore rapidità del libro, già in vigoroso progresso nel Settecento, andarono acquistando posto sempre più largo nella vita e nel costume, durante il secolo che si apre al rombo delle cannonate napoleoniche e termina quando non è spento ancora quello delle artiglierie che hanno diroccato Porta Pia. L'occupazione delle truppe napoletane, quella prolungata dei francesi lasciarono sostanzialmente immutato, nei primi anni, il regime pontificio fondato sulla censura preventiva. Né lo mutò naturalmente la Restaurazione, anche se un'aria più mossa, prodotto dei tempi, agita lievemente il giornalismo romano, mentre l'importazione, clandestina o meno, di quello esterno preme alle porte, e i caffè moltiplicano le istanze al Ministero dell'Interno per offrire ai clienti la lettura dei fogli più ricercati che si stampano negli

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Nello Vian

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altri paesi. L'elezione di Pio IX, nell'estate del '46, suscitò speranze di libertà, che lo Statuto del marzo '48, con l'abolizione della censura governativa, introdusse per la prima volta nella stampa. Per un anno, fino alla caduta della Repubblica del '49, si ebbe una specie di scoppio degli umori e delle fantasie compresse, non solo con giornali politici, ma con innumerevoli fògli satirico-umoristici, dai pittoreschi nomi e dalle tendenze più diverse. Tra gli altri, per colorire quel momento, si possono nominare II Cassandrino, Il Cicerone, La Befana, Lo Scontento, Il Tedesco, Er Rugantino, Il Somaro, Il Lanternino del diavolo, Il Casotto dei burattini, La Torre di Babele... La vivace rappresentazione s'interruppe bruscamente, come si sa, e per una ventina d'anni l'estrema « seconda Roma » (descritta nel bel libro di Silvio Negro) tornò a vivere in quella specie di anacronistica, precaria segregazione. La « quiete da convento di monache » (espressione da Giulio Salvadori, prima maniera) terminò con il violento affacciarsi della « terza Roma », quel Venti Settembre. Un altro scoppio si produsse, con una gemmazione impetuosa, quale mai forse si ebbe in altro luogo, con così eterogeneo rigoglio. Al 31 ottobre '70, i giornali nuovi erano ventiquattro, e altri ventidue se ne aggiunsero entro l'anno, dei quali una dozzina satirico-umoristici (con titoli come Cassandrino, Il Diavolo zoppo, La Frusta...). Settantanove testate spuntarono nel '71, per la trasmigrazione anche dei grandi giornali politici alla nuova capitale, a seguito del trasferimento, avvenuto il primo luglio, del Parlamento e dell'amministrazione centrale dello Stato da Firenze a Roma. Tirava le somme, spregiudicatamente, nel novembre di quell'anno, il Buco nelVacqua, un umoristico di coloritura anticlericale : « La stampa romana rompe le scatole ai pazienti lettori con 18 giornali quotidiani, fra i quali: La Stella... di giorno, una Palestra... della menzogna, una Frusta... rimasta col mozzicone; 4 si pubblicano tre volte la settimana, 3 si pubblicano due volte e 13 una volta. Totale 38; aggiungi il Buco e avrai la cifra non rotonda di 38 e due metà ». Per effettuare il presagio del suo nome, il sarcastico foglio censore non passò i due numeri dei quali uno solo è stato ritrovato. Poiché l'impressione che si ha di queste stagioni della stampa romana è proprio dello scoppio delle girandole, per la rapidità delle accensioni e

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Almanacchi, lunari, biblioteche,

degli spegnimenti. L'immagine vale anche per la varietà dei colori, che rivestono idealmente i fogli: dopo il '70, predominano il nero, il rosso e il verde, con quanti altri se ne possono formare e rimescolare. Gli schieramenti principali erano due, accampati fortemente al di qua e al di là del Tevere. Ma tanti atlri erano i minori, con bandiere e ban-

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Nello Vian

dierine levate da ogni parte, e che qualcuno impugnava, senza stare gran che a guardare se altri gli andavano dietro. Innalzare una testata è stata quasi sempre un'avventura, ma in certi momenti pare addirittura un giuoco, una beffa, uno scherno. Il Menimpippo, giornale che se la ride anche degli associati, uscito il 26 luglio 1848, portava a ragione l'avviso « esce quando vuole senza rendere conto a nessuno », perché smise al secondo numero. E II Nemico del Diavolo zoppo, giornale bianco e nero, sbucato fuori il 27 settembre di quell'anno, solo per scaramanzia recava l'indicazione « anno ultimo numero cento », perché tutto porta a credere che intoppò al primo. Una donna bizzarra mise il capo fuori il 18 settembre, sempre del tumultuario '48, dichiarando garbatamente « Le donne vanno col comodo, e però con il comodo sarà pubblicato anche il giornale », ma se la prendeva con il clericale Cassandrino, sosteneva la necessità di proseguire la guerra e incitava le donne a mandare gli uomini al campo (a lei le cartucce dovettero mancare con il quarto numero). Un bel caso, ai giorni della « terza Italia », fu quello del Moschettiere, che un giornalista lanciaspezzata, Ernesto Mezzabotta, finse armare di tutto punto, con certi denari ministeriali: non se ne stamparono che due copie, una per la Regia Procura e una per il politico mecenate. Campò invece due anni e più, con sussidi che un rapporto di polizia garantiva uscire dal Vaticano, Mastro Peppe flagel de1 matti, trisettimanale e poi quotidiano, che si qualificava, universalmente, « giornale polemico, politico, morale, amministrativo, intransigente, umoristico ». Correva il secondo decennio dopo la Breccia. E tutto nello stile parsimonioso del tempo è II Resto, che uscì il 28 gennaio 1885, quotidiano «vendibile esclusivamente presso i tabaccai » La testata rappresentava appunto un grosso sigaro acceso e una moneta di 2 centesimi, prezzo del giornale : il resto appunto dei 5, che il romano metteva ogni mattina sul banco per comperare il sigaro. Ma nonostante l'ingegnosa trovata non ebbe a tirare molto avanti, perché solo quel primo numero è conservato (nelle doviziose raccolte dell'amico Ceccarius). Non finirebbero così presto le cose pittoresche, geniali, curiose, sollecitanti, irritanti. Proprio, un Oceano, come suona un titolo. Per incominciare dalle cose allegre, Roma ha avuto

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Almanacchi, lunari, biblioteche.

più periodici teatrali e musicali: due Apollo, un Carro di Tespi, il Cigno, il Liuto, un Figaro, la Gran Cassa, e inoltre, un Gran Mondo, per gli avvenimenti mondani. Due gazzette, in francese, Arrivée des étrangers e Liste des étrangers, recarono i nomi

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Nello Vian

di coloro che approdavano da estranei paesi alle rive del Tevere (chi riuscirebbe a tenere dietro, ora, allo zingaresco bailamme!). Parecchi, si può immaginare, almeno tre o quattro, i Cicerone, ma altrettanti i Ciceruacchio. La tenace difesa cattolica, clericale o nera, come portavano le etichette dopo il Settanta, metteva in campo non solo un Caccialepre, un Intransigente, un Imparziale, il Buonsenso, ma impugnava la Frusta, dava di mano alla Forbice e alla Lima, non senza che apparisse una multicolorata Iride. Altri trascinavano uomini di ogni risma sotto le Forche Caudine. Tutti interloquivano, anche superstiti parlanti del sermon prisco, che alimentarono la Vox Urbis e tennero in piedi VAlma Roma, mandando nel suo cielo fino certe Alaudae, tutte latine. Dal mondo animale si alzano petulanti Chicchirichì, emettono voci il Papagallo, la Cicala, la Cazza romana, Y Oca. Una vera Arca di Noè. Per tirare fuori tutto ciò (e molto altro che si sarebbe potuto qui sciorinare, con poca fatica) bisognava intraprendere la dura, ingrata ricerca, testata per testata, di tutto questo perituro mondo di carta. Lo ha fatto Olga Majolo Molinari, con una grande opera panoramica, che segna un evento nella vita bibliotecaria e bibliografica italiana : La stampa periodica romana deWOttocento, due volumi. Istituto di Studi romani editore. Per metterla assieme, la via affrontata e percorsa è stata quella delle biblioteche, naturalmente, Un centinaio ne sono state usufruite, con un iter prolungato e sudato, che per qualcuna ha comportato una sosta di mesi: le principali di Roma, incluse le ecclesiastiche e la Vaticana, parecchie altre italiane maggiori e minori, e fino qualche straniera. Un numero di anni che supera probabilmente quello oraziano è stato consumato, in totale, nel redigere il difficile censimento, che ha dato nome e volto ai personaggi di questa specie di animatissima commedia, rianimata quando il sipario era già stato calato. Le sorprese sono state parecchie e di genere vario. La prima, quella paradossale, che le stampe periodiche, prodotte in numero di copie anche ingentissimo e quasi sempre maggiore di quello dei libri, diventano spesso rare, a volte addirittura irreperibili, senza stretta relazione con le date più o meno antiche di edizione. Non si contano sulle dita delle mani, squadernando il repertorio, i casi di

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Almanacchi, lunari, biblioteche.

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totale sparizione, almeno a notizia della ostinatamente paziente ricercatrice. Perduto è L'Alfabeto, foglio politico liberale del 1847. Sciamata L'Ape letteraria, settimanale pubblicato dal 1871 al '73. Imboscata La Lupa, politico-letterario del'77. Disseccata L'Acqua, periodico idraulico del 1882. Scomparso senza tracce è anche II Figaro, che teneva dietro a teatri, concerti, serate nel 1883. Ma peggio è la mentita data a II Buon augurio, un foglio cabalistico dell'anno stesso, infaustamente dissipato. Smarriti pour cause risultano i Precetti sul modo di bene insegnare degli anni '70-'72, e II Coraggio del vero, durato anch'esso non più di tre anni, dal 1888 al '90. Carta da accendere il fuoco nei caminetti o da involgere salacche diventarono intere collezioni di quotidiani, vissuti anche più di mesi o addirittura anni, come L'Universo, del '76 o '77, il Risorgimento e L'Omnibus, dell'Sl. Ma ritrovamenti potranno sempre prodursi nel cataclisma. Mi è capitato di scoprirmi possessore impensatamente felice di una fuggita Fiammetta, settimanale letterario, che s'iniziò il 25 dicembre 1881, e non dovette andare al di là di tre fascicoli, dalla copertina figurata con tipico gusto e stile romantico. L'altra scoperta che colpisce, lungo questa narrazione di mille pagine sopra l'avventuroso viaggio di Olga Majolo Molinari, è il disdegno delle biblioteche per la stampa periodica (punto contro punto, anche questa pare abbia usato a esse poche galanterie, se a Roma in un secolo non si ebbe sopra 1703, che una sola Rivista delle biblioteche, quella di Guido Biagi, venuta da Firenze e ripartita frettolosamente due anni dopo). Entri o no il dispetto tra le due alte parti, il fatto sta che le case dei libri si sono dimostrate poco ospitali agli almanacchi, lunari, gazzette e stampe del genere. Sicuramente in ritardo si sono accorte della loro importanza e sono mal premunite anche ora alla conservazione di esse, che si presentano tumultuariamente a tutte le ore, nei formati più strani e malagevoli, con la mole più diversa, per non parlare della stoffa degli abiti, che è sempre quella di Pinocchio. Personaggi irrequieti sempre, pirandellianamente, al gusto della gente tranquilla che sono i bibliotecari. Ala ecco qui come costoro si rifanno. Solo per qualche esempio. Proprio de L'Aquila romana, impennatasi il primo ottobre 1870, è rimasto solo il volo iniziale, dei sette che compì in tutto questo quotidiano,

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Nello Vian

fatto a gran sfoggio di retorica. Un numero su due pubblicati si salvò del Marforio, domenicale umoristico-satirico, uscito nel novembre di quell'anno fatidico. Uno su undici sopravvive àt\VAbondio Rizio, quotidiano di altri umori, che abbracciò il famoso barile nel maggio '75. Due servizi si conoscono sui sedici prestati da un bisettimanale, servizievole Figaro, umoristico-satirico, che si rivolgeva al mondo elegante, specialmente al gentil sesso, come si costumava dire ancora in quell'autunno '71. E solo una, su sei volte che uscì dall'arnia, si può seguire UApe delle belle arti, che prese l'aria (fuori stagione) nel gennaio '74. Ma lo sgarbo più grosso è quello fatto a un Indicatore, artistico-letterario, che sostenne bene o male il suo ufficio per vent'anni, dal '62 air82, senza che ne rimanesse più un numero, per darnç a conoscere almeno la testata. Gazzette, effemeridi, giornali, rassegne, riviste, o con qualunque altro nome si siano chiamate più o meno cruschevolmente, le stampe periodiche andarono acquistando posto sempre più largo nella vita e nel costume dell'Ottocento, come la bella opera di Majolo, tecnicamente ineccepibile e aneddoticamente sontuosa, ha mostrato. Ma la matita da compasso con al centro una mosca (immagine del suo lavoro, ricavabile da un foglio umoristico di questo titolo) è rimasta rigorosamente entro il cerchio segnato all'estremo dall'età umbertina. Non potrà allargarsi fino a chiudere la prima metà del nostro secolo, che richiede non meno fermezza di tracciato per costringere l'irrequieto, ronzante insetto della stampa periodica romana? Nello Vian

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Vincenzo

Forcella, d'un

delle

tribolazioni

epigrafista

(Per il centenario delle Iscrizioni di Roma)

Nacque nel 1837, a Corneto (non ancora Tarquinia), suddito di Gregorio XVI. La famiglia, forse non antica del luogo, non risulta registrata tra quelle proprietarie di terre, in certe Relazioni ordinate nel 1848 dal governo pontificio, « per investigare i bisogni di quelle popolazioni e per suggerire i mezzi più opportuni per provvedervi ». Della sua giovinezza s'ignora tutto. Tra i suoi ricordi dovevano essere quelli del '49, che portò alla costituzione del regime repubblicano anche in Corneto; ma la cittadina, caduta la seconda Repubblica Romana, ebbe un forte presidio francese che la tenne come posizione strategica dominante la strada di Civitavecchia e la garantì per vent'anni da altri moti antipapali. Ma liberali e clericali presero da quel tempo a contrastare e a rissare, entro le mura. Pio IX visitò con la sua corte Corneto il 15 ottobre 1857, accolto dalle festose manifestazioni di prammatica. Un altro spettacolo che

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Ne//o Vian

l'adolescente probabilmente si godette fu il trasporto dei cadaveri di Madama Letizia, « la còrsa Niobe », e del cardinale Fesch, zio dell'imperatore Napoleone, depositati da più di una diecina d'anni nella chiesa delle Passioniste e rilevati con solenne pompa e apparato militare, il Io luglio 1851, per imbarcarli a Civitavecchia sopra una nave da guerra. Non doveva invece più vivere nel luogo di nascita il 13 settembre del fatale '70, quando una grossa divisione di truppa italiana comandata da Nino Bixio l'occupò all'improvviso, e una squadra navale gettò le àncore nella « Fossa », la rada di Corneto (era il prodromo della Breccia). La sua gente doveva essere di penna o di toga, come usava dire un tempo, poiché si ricordano un notaio e un canonico Sebastiano Forcella; e quest'ultimo gli poté dare i fondamenti dell'istruzione umanistica allora predominante. Quando sia arrivato a Roma è un altro punto che rimane in bianco nella biografia del futuro epigrafista. Si appassionò dell'erudizione storico-archeologica, che il Leopardi aveva trovato quasi solo rappresentata nell'Urbe. Farsi qui « deciferatore di lapidi » è un antico gusto, che si apprese fino a Cola di Rienzo; e anch'egli, incitato da grandi esempi recenti, si mise per quella strada, tenendosi alla seconda Roma. Presto, entrò nella clientela del maggiore mecenate contemporaneo che l'ornava, il principe Baldassarre Boncompagni, il quale impiegava schiere di giovani in ricerche e trascrizioni di biblioteca (solo nella Vaticana ne ebbe, un certo tempo, dieci). Tra le altre splendidezze del dotto e parsimonioso patrizio, che non comperò mai una carrozza e non possedette mai un cavallo, fu di fondare e mantenere per quarantanni nel suo palazzo una tipografia, che s'intitolò « delle scienze matematiche e fisiche », per il periodico principale stampatovi, frutto delle personali fatiche dell'erudito gran signore, ma che produsse anche altre pubblicazioni. Dai suoi torchi appunto uscì, con il gennaio del 1867, la prima dispensa delle Iscrizioni delle chiese e d'altri edificii di Roma dal secolo XI fino ai giorni nostri, che furono la maggiore opera del Forcella. Il raccoglitore aveva trentanni, e non si può dire che li abbia sprecati né che sia stato con le mani in mano, per tutto il tempo che durò la

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Vincenzo Forcella, delle tribolazioni d'un epigrafista

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pubblicazione. La forma e l'ordine di questa mostrano un criterio pratico, che è una condizione di queste vaste imprese. I fascicoli erano mensili, ciascuno di tre fogli di stampa, e si vendevano al prezzo di lire 1.50. Il programma, stampato dietro la copertina del primo, in italiano e francese, prevedeva la distribuzione in più volumi, tra gli otto e i dieci (la stima risultò bassa), un volume per anno. La materia fu disposta per chiese, e queste presentate con successione non storica né topografica, ma piuttosto di prestigio e interesse, incominciando con l'Aracoeli, il Pantheon, il Popolo e la Minerva; gli edifici, a principiare dal Campidoglio, ab love principium, s'intercalarono nei volumi primo, sesto e decimoterzo. La stampa a dispense portò a formare un primo volume di circa 600 pagine, quasi infolio, entro poco meno di tre anni, poiché la lettera dedicatoria premessa reca la data del 1 ottobre 1869. In questa vera fede di nascita dell'opera, il cliente si rivolge al suo mecenate con parole che sanno forte dell'aulico buon tempo antico. Si apprende, tra altro, che il principe imprimeva per proprio conto e a fondo perduto, lasciando (come aggiunge una delle prime recensioni) ogni guadagno all'epigrafista. La condizione risulta splendida, e sicuramente insolita agli usi editoriali di ogni tempo. Don Baldassarre, che non portava invano il nome di uno dei Re Magi, s'impegnò anche nel lancio dell'opera, mediante la penna del suo segretario e amico Enrico Narducci (il futuro bibliotecario dell'Alessandrina e dell'Angelica, sfortunato la sua parte). Incominciò questi nel Buonarroti del gennaio '67, con un breve annunzio dei due primi fascicoli. Nel giugno diede in luce un lungo articolo nelle autorevoli Études religieuses, historiques et littéraires di Parigi, alle quali gli era stato introduttore il grande Giovanni Battista De Rossi. Si produsse per la terza volta un anno e mezzo dopo, con una lettera aperta al Giornale delle biblioteche, dove si pubblicò il 27 maggio '68: l'opera era giunta al fascicolo diciottesimo, ma la sua lenta distribuzione faceva allungare qualche graffio al presentatore, che lamentava non solo l'assenza dalla lista degli associati dei frati e canonici delle chiese interessate, ma anche la mancanza di qualunque contributo da parte del governo pontificio (il giornale

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cantachiaro usciva a Genova). Un altro successo di stampa, come si direbbe oggi, fu l'ampia, elogiativa rassegna bibliografica pubblicata da Alfredo Reumont entro il solenne Archivio storico italiano, nel '69. Tuonò il cannone da Porta Pia, e la vita romana andò sottosopra. La stampa dell'opera subì un arresto, e si dovette interrompere il sistema di distribuzione a dispense. La difficoltà certo più grave fu rappresentata dal tirarsi indietro del principe tipografo. Non si sa che cosa sia intervenuto a rompere le sue relazioni con l'epigrafista. Don Baldassarre era di nobiltà « nera », ma illuminato e intellettualmente libero, tanto da mantenere più che cordiale amicizia con il Narducci, italianeggiante e liberaleggiante. Anche se il Forcella era diventato tale (e ne mancano le prove) si pensa che la ragione sia stata più personale che politica. In ogni maniera, il volume secondo delle Iscrizioni porta la data del 1873, quattro anni dopo, e l'indicazione della tipografia dei Fratelli Bencini, che stava a piazza San Venanzio 35. L'intermezzo fu messo a frutto, perché entro lo stesso anno il Forcella, da quella stamperia che non risulta delle maggiori del tempo in Roma, tirò fuori anche il terzo volume; nel '74, il quarto e il quinto; nel '75, il sesto; nel '76, il settimo e l'ottavo. Quest'ultimo ebbe la torchiatura coi tipi di Ludovico Cecchini, via Teatro Valle 63; che nel '77, sebbene dovesse trattarsi ancora di una modesta officina, arrivò a imprimere addirittura tre volumi, dal nono all'undicesimo; nel '78, il dodicesimo, e nel '79 il tredicesimo con le ultime serie delle iscrizioni. Il volume finale, quattordicesimo, contenente gl'indici, fu divulgato cinque anni dopo, nell'Sd, dalla Tipografia Tiberina, sita in piazza Borghese 89. Per quanto stiamo sopra il suolo classico, non necessita ricorrere a Ercole per definire questa impresa, ma dare a luce nel termine d'una dozzina di anni 16.687 iscrizioni, quante numerano nel totale, rimane una ragguardevole impresa nel campo epigrafico. Tanto più che il corpus risulta raccolto da una sola persona, che per di più ebbe a dibattersi con difficoltà editoriali (quattro diverse tipografie). Per chiusa, all'insegna de « il miglior fior ne coglie », Domenico Gnoli, condusse una sua piacevole scorreria sopra l'opera, nella Nuova antologia del 15 dicembre

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Vincenzo Forcella, delle tribolazioni d'un epigrafista

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1880: non sprecò lodi per l'oscuro manovale, né mancò di notare che ne correggeva gli « errori frequenti ». Il Forcella non è, s'intende, Gaetano Marini o Giovanni Battista De Rossi. Alle prese con la talvolta ispida e scabrosa problematica dell'epigrafia medievale e rinascimentale romana se l'è cavata come ha potuto, con tutto l'onesto impegno che la sua preparazione di erudito all'antica gli permetteva (e si deve anche mettere sul conto la rapidità con cui ebbe a procedere, rappresentata fino da tre grossi volumi in un anno). Gli si è apposto inoltre di avere attinto solo parzialmente alle sillogi manoscritte di epigrafi conservate nelle biblioteche, e di averne addirittura ignorate alcune. Né è tutto oro di coppella ciò che ha detto nelle notizie storiche poste in testa alle singole chiese e monumenti; ma anche qui si sa quanti e quanto antichi, a strati sovrapposti come le scritture di palinsesti, siano i luoghi di culto cristiani e le basiliche maggiori e minori dell'Urbe. Di un'opera del genere e della mole delle Iscrizioni di Roma, intrapresa un secolo fa, con i limitati sussidi scientifici del tempo e le forze di un solo operaio, i trascorsi, le incongruenze e gli errori sono scontati in partenza. Ma essa rimane monumentale nell'assieme, anche con qualche zona opaca e invasa dai rovi, come nelle incisioni piranesiane. Equa è da ritenere la sentenza dell'epigrafista della terza Roma, Luigi Huetter (che una volta si è preso il gusto di raccontare le pietre messe di traverso e le mascherature nelle quali si poteva abbattere il suo predecessore): « con tutte le sue evitabili e inevitabili mende, la collezione forcelliana, costituisce nel suo complesso una straricca miniera d'informazione erudita. » E chi non vi ha scavato una volta, sasso contro sasso, tiri la prima pietra. Architettava in grande, sicuramente. Nell'anno stesso che levò la mano dalla trascrizione delle lapidi avviò un Catalogo dei manoscritti riguardanti la storia di Roma che si conservano nelle biblioteche romane pubbliche e private, una più che rispettabile iniziativa, non riassunta da altri durante i quasi cent'anni intercorsi. Lavorò con le sue forze, anche questa volta; e fecero le spese dell'edizione i fratelli Bocca, trasmigrati a Roma con la capitale dalla regione subalpina originaria. Cominciò addirittura con la biblio-

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teca più grossa, la Vaticana (alla quale poi in pratica si ridusse l'opera). Anche ciò dimostra il suo coraggio, non solo per il numero dei codici da cernere, ma anche per la tradizionale vigilanza con cui si guardavano. Quel 1879, data di stampa del primo volume, era il secondo anno dell'illuminato Leone XIII, ma il Forcella aveva principiato a dedurre le sue liste due anni avanti, nel principato di Pio IX. Viene ancora fatto di domandarsi per quali vie sia riuscito a entrare in quella difesa dimora delle muse e delle arti, mentre era « primo custode » il poco trattabile, anzi lunatico monsignor Pio Martinucci. Si aggiunge che al proseguimento della catalogazione dei manoscritti (per uso, lavoro interno, fatto dal personale) attendevano già bibliotecari Vaticani, diretti da Giovanni Battista De Rossi. Di queste aperture e facilitazioni ottenute egli fece ampio, cortese elogio nella sua prefazione, e se ne valse con frutto, poiché diede in luce altri tre volumi, negli anni '80, '81 e '85. Registrò in totale 1664 manoscritti, appartenenti a tutti i fondi principali esistenti allora nella biblioteca, con esclusione dell'Urbinate. Anche se egli si valse certamente degli antichi inventari a mano, alcuni eccellenti, investì pur del suo; e corredò gli elenchi di due copiosi indici, di autori e titoli anonimi e di materie. In anni nei quali non era ancora iniziata la moderna serie dei cataloghi a stampa dei fondi Vaticani (il primo volume si pubblicò appunto nell'SS) concorse utilmente a divulgare il contenuto storico delle doviziose raccolte. Una nuova epoca della vita di Vincenzo Forcella si aperse ora, senza che sappiamo, al solito, le ragioni determinanti la svolta. Possiamo solo tirare a indovinarle. Era stato fino a questo punto, come pare, un libero lavoratore, che aveva ricavato dall'erudizione il necessario per vivere, aleatoriamente. Dovette pensare che il pane governativo, anche scarso, era più sicuro ai bisogni suoi e della famiglia, che intanto si era formato (moglie e due figli). Entrò nelle biblioteche statali, con l'aiuto forse di Enrico Narducci, che apparteneva a esse dai primi anni dopo il '70. Il ministero della Pubblica Istruzione, in data 29 febbraio 1885, lo destinò alla Biblioteca Universitaria di Padova, « a prestare servizio per lavori di cataloghi »: il trasloco dalle rive

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Vincenzo Forcella, delle tribolazioni d'un epigrafista

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del Tevere a quelle del Bacchiglione fu in apparenza il prezzo sborsato per salire sul carrozzone dello Stato. Dove occupò il posto assai modesto di sottobibliotecario in soprannumero; e solo vent'anni dopo, quasi al termine della vita, passò nel ruolo con la stessa qualifica. Nella città del secolare Studio riprese a cercare i manoscritti sulla storia di Roma, e in capo a quell'Sò ne pubblicò puntualmente una lista di 174, appartenenti a cinque biblioteche locali. Nella prima sede, per ragioni al solito da congetturare, rimase solo quattordici mesi. Il 14 marzo 1886, con suo gradimento, il ministero lo trasferi alla Biblioteca di Brera, e a Milano visse fino al congedo assoluto in termini terrestri. Anche qui, con la mano fatta dalla prima grossa impresa epigrafica, ideò e mise presto in cantiere una raccolta simile. Il 9 aprile 1887 la Società storica Lombarda fece con lui e la tipografia convenzioni per la compilazione e la stampa di essa. Il primo volume delle Iscrizioni delle chiese e degli altri edifìci di Milano dal secolo Vili ai giorni nostri uscì nel 1889. More insubro si andò spediti, perché entro il '92 furono impressi undici volumi, con una cadenza di due-tre per anno; ai quali nel '93 seguirono gl'indici. In totale 5.384 iscrizioni, distribuite ancora per chiese istituti e monumenti (singolari nell'undecimo volume, quelle campanarie), si allinearono sotto gli occhi dei signori milanesi, a opera dell'erudito laziale. Il quale, nel '97, fece una giunta alla derrata, presentando, in collaborazione con Emilio Seletti, le Iscrizioni cristiane in Milano anteriori al IX secolo: esigua silloge, notevole per alta fedeltà di riproduzione di questi vetusti titilli, singolarmente rari neWaltera Roma di Ambrogio. Si acquistò anche una certa fama come studioso di storia dell'arte, pubblicando una guida della Galleria d'arte moderna del Castello Sforzesco e due saggi sopra un'arte minore: Notizie storiche sugli intarsiatori e scultori di legno che lavorarono nelle chiese di Milano dal 1141 al 1765 (1895) e La tarsia e la scultura in legno nelle sedie corali e negli armadi di alcune chiese di Milano e della Lombardia (1896). Quest'ultimo, che portò una prefazione di Luca Beltrami, nume indigete, ebbe una bella, seconda edizione, ornata di tavole, di Ulrico Hoepli, altro dispensatore di gloria nella città dei Navigli. Nel 1899, in

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una lettera aperta, lo storico dei gesuiti Pietro Tacchi Venturi invitava « il cavaliere Forcella » a dare alla luce un'illustrazione delle cariatidi in legno che ornavano l'antica libreria gesuitica milanese di San Fedele, « con quella accuratezza e buon gusto che sa mostrare nei suoi lavori ». Con il cavalierato, nella tradizione regia paragonato a un sigaro, le parole trascritte furono forse la lode più alta che gli toccò, in vita. Del « sottobibliotecario » perpetuo la storia non parla, naturalmente. Ma anche nei latebrosi ambulacri degli istituti dove spese parte della grama esistenza ebbe a raccogliere triboli. Nella Biblioteca di Brera, quando arrivò, era « prefetto » (come usava ancora chiamarlo) il galantuomo e paterno Isaia Ghiron. AI quale successe nel 1896 o '97 Giuseppe Fumagalli, che vi era stato anche prima, dall'SS al '93. Questi, di famiglia milanese, ma nato e cresciuto in riva all'Arno dove tira da secoli aria anche di beffe famose, prese a sollazzarsi, forse per il vecchio antagonismo tra nord e sud, alle spalle del malcapitato etrusco-romano. In uno dei suoi per altri versi gustosissimi Aneddoti bibliografiici (1933) racconta che le burle fattegli, da lui e da altri colleghi braidensi, furono infinite. Tra altre, un giorno, gli fecero giungere, su carta intestata al Comune di Roma, la comunicazione che era stato nominato conservatore dell'Archivio Urbano, con uno stipendio fantastico, molto superiore alle magre prebende dei bibliotecari statali. Poiché aveva preso parte molti anni prima al concorso per quel posto, riuscendo nella terna, il poveruomo abboccò, con le conseguenze che l'umoristico, ma impietoso bozzetto descrive. Un'altra volta sarebbe stato convinto a scrivere al bibliotecario del re a Torino usando il titolo di Arcibibliotecario, al modo che si dà al medico del papa quello di archiatro. Ma anche all'epigrafista toccò la sua parte, per un errore di lettura che avrebbe commesso nella raccolta romana (non risulta tuttavia dagl'indici). L'amaro si aggiungeva a quello della vita, per una triste e forse trista condizione domestica, che doveva costringerlo anche a guadagnare quanto poteva al di fuori del misurato e taglieggiato stipendio. Tra altri minori prodotti d'industria editoriale, mise assieme fino una Piccola antologia italiana

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di prose e poesie, a uso delle scuole elementari. La mala sorte fece che non vide nemmeno l'articolo bio-bibliografico che gli dedicò, tra migliaia di altri. Angelo De Gubernatis, nel suo ennesimo Dictionnaire international des écrivains du monde latin, datato editorialmente 1905, ma che uscì dopo l'estate dell'anno successivo. Il misero bibliotecario-irauet, malandato in salute da mesi e ridotto all'aspettativa, terminò le sue tribolazioni, quasi all'improvviso, il 25 gennaio 1906, nell'alloggio inospite di corso Garibaldi 11. Il quasi settuagenario viveva con probabilità solo, né fu composto da pie mani di familiari. Chi scrisse di lui in Ars et labor, rivista di casa Ricordi, attesta che fu uomo alla buona e di compagnia, senza pretese e ambizioni. Giuseppe Fumagalli lo commemorò nel suo Almanacco italiano, con qualche riga. Due vie, a Roma e a Milano, portano il nome dell'epigrafista, senza risarcirne con il poco marmo l'avara fortuna. Nello Vian

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RITUALE

IN

BIBLIOTECA

Lombardamente lento perchè ehhe fretta (si può tentare di rendere anche così il suo famoso motto araldico raptim transit) il papa Pio XI attese due anni e mezzo prima di dare un rituale proprio per le biblioteche e gli archivi, che fu il suo primo gesto di pontificale protezione su queste istituzioni dalle quali era uscito. Ma l'atto, che porta la data del 23 luglio 1924 (un trentennio, perciò, si è ora compiuto) va collocato ancora tra quelli iniziali dell'abbastanza lungo principato, che traducono pensieri maturati e vagheggiati durante la vita trascorsa, come usava dire, in minoribus. Prima d'intraprendere i rinnovamenti nella Vaticana al termine e a corona dei quali egli immaginerà di erigere nel grande cortile del Bramante latinamente salutato theatrum Vaticanum, quasi foro degli studi, la panneggiata statua della Sapienza che era già nell'Ambrosiana e di trasformarla in Maria, Mater sapientiae. Pio XI pensò, religiosamente, â invocare su tutte le biblioteche e gli archivi le augurali benedizioni celesti. Certo molto tempo avanti che le formule venissero inserite così, per suo ordine, nel rituale romano, il libro deprecatorio e augurale della Chiesa per tutte le nuove creature e opere umane, esisteva una spiritualità cristiana del libro. Da quando nelle primitive chiese si collocarono casse e teche per la preservazione dei Libri sacri, affidati a scr,narii e bibliothecarii eletti tra il clero, la biblioteca ebbe onore nella civiltà cristiana. Il mistico Tommaso da Kempis alimentava anche la sua bibliofilia con l'esempio di Gesù, Jettore e scrittore : Delect at audire quia lesus legete noverai et scripsit : ut ars scribendi ac ardor legendi sacros codices magis placeat. Forse i costruttori delle austere e pure aule

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— 166 — delle biblioteche monastiche ebbero anche riti speciali di benedizione, rimasti tra le usanze che non entrarono nella liturgia comune. Ma certo è che prima del Papa bibliotecario mancavano, in quella romana, le propiziazioni sopra le nobili dimore dei libri e delle carte. Le formule auspicali vennero probabilmente redatte da qualche latinista della curia per espressa commissione del Papa, a meno che egli stesso, uso a maneggiare la lingua del Lazio con eleganza, come mostrano numerose sue iscrizioni dell'Ambrosiana, non prendesse il gusto di comporle, in un momento di umanistico otium (questa seconda congettura potrebbe anche mettersi avanti perchè non sono state scoperte tracce, in qualche ricerca tentata, d'incarico dato a un estensore). In ogni maniera, si può credere che l'antico bibliotecario dell'Ambrosiana e della Vaticana, per l'interesse portato personalmente alla materia, abbia fornito le idee da rivestire di latina maestà e abbia dato un qualche esperto ritocco, non senza forse un sospiro di nostalgia, al testo che gli era presentato. La benedictio così si esprime: Deus, scientiarurn Dominus, bene>hdictionem tuam super banc hihliothecam beni gnus infunde; ut ipsa ab incenàiis aliisque periculis tuta consistât, et in dies congruenter augeatur, et omnes qui vel officii vel studiorum ratione, hunc conveniunt, in divinarum humanarumque rerum scientia inique pari ter dilectione profciant. Chiusa dall'impetrazione e àaWamen, la benedizione formula ineccepibilmente nel suo contenuto le fondamentali necessità di tutte le biblioteche e le unanimi aspirazioni dei bibliotecari. Biblicamente invocato Deus scientiarum, custodisca Egli, l'Onnipotente, le terrestri dimore del sapere dalle minacce non mai dissipate del più nobile, ma anche del più terribile degli elementi, il fuoco; e le difenda da tutti gli altri pericoli, innumerevoli, che solo la trepidante immaginazione sa contare e misurare. Tuta consistât, pare il respiro di un bibliotecario alla fine dell'operosa giornata, quando al buon tempo antico faceva il giro di ogni aula con in pugno le pesanti chiavi; e anche l'augurio estremo in quel congedo dai libri, che è la sua ora più triste, solo medicata dalla speranza che almeno essi sopravvivano nel tempo.

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— 167 — Ma l'incolumità materiale non basta, perchè la biblioteca, quasi un corpo vivo, deve armoniosamente crescere nelle sue membra: in un semplice avverbio, congruenter, la benedizione assomma la legge fondamentale della scienza bibliotecaria, e quella che in verità richiede l'aiuto delle « gran braccia » della Provvidenza. Non altro fosse che in quell'avverbio, il breve testo mostra ancora l'esperienza dell'uomo vissuto tra gli scaffali. Il cuore di questo bibliotecario, rimasto trent'anni nelle silenti aule antiche, si era consenato vivo e aperto a umanità. Dal suo predecessore, l'austero e dottissimo Antonio Ceriani, amato come padre, aveva appreso « come si serve con tutto il proprio tempo, con tutte le proprie forze, con tutta la propria vita ad una nobile istituzione destinata al pubblico bene ». E questo severo ammonimento aveva praticato con interezza, sorretto da una concezione del « pubblico bene », che la formula deprecatoria del Pontefice massimo rivela, spiritualmente. Possano, coloro che per l'ufficio o gli studi frequentano la biblioteca avanzare « nella scienza delle cose divine e umane-», e non è bibliotecario che non abbia formato in sè, con tali parole o con altre per ideale sostanza equivalenti, il voto. Poiché, a usare ancora bellissime idee di Achille Ratti in minoribus, che commentano in anticipo la preghiera pontificale, non vi è bibliotecario il quale non senta di appartenere a quella « patria delle anime », la scienza, « patria immensa e nobilissima, dove gli amori si sublimano in un solo amore, dove i linguaggi si fondono in un solo linguaggio, l'amore e il linguaggio della verità ». Questo anche il punto terminale e sommo degli auspici cristianamente espressi dalla benedizione: che gli uomini salgano dall'amore, alto ma terrestre, dei libri all'amore di Dio, tuique pariter dilectione proficiant. Con un simile ordito e in un parallelismo di termini che la natura simile dell'istituzione e l'analogia delle aspirazioni portano spontaneamente, si svolge la formula di benedizione dell'archivio : Deus, veritatis et justitiae amator, super hoc archivum, rerum gestarum documentis juriwmque instrumentis a tempo rum hominumque injuria servandis constructum, be-

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— 168 — ne^dictiònem tuam beni gnus infunde; ut ab incéndiis alilsque periculis tutum consistât, et omnes qui hue studiorum ratione, conveniunt, ventati et justitiae hauriendae fìdeliter incumbant, in inique dilectione proficiant. Anche qui le invocazioni sono alte e nobili, di un così largo e universale contenuto che può essere fatto proprio da ogni sincero custode e ricercatore delle carte, dove si depositano e serbano le testimonianze dei fatti umani. Più fortemente, come si attende per la più gelosa natura della materia, l'accento è posto sulle virtù fondamentali della verità e della giustizia, delle quali devono in particolare rivestirsi gli studiosi di documenti, come quelli che non solo portano in luce ma in qualche maniera sono chiamati a interpretare le memorie più dirette delle azioni degli uomini, e a garantirne l'autenticità e l'integrità. Viene fatto di ripensare alla famosa lettera con la quale Leone XIII aperse, facendo appello alla verità, i fino allora gelosamente chiusi archivi della Santa Sede. Quella lettera, sicuramente, Achille Ratti giovane meditò, e se ne impronta il testo di questa sua preghiera a Dio, veritatis et iustitiae amator. Per ordine di Pio XI, le due formule vennero inserite nel libro rituale della Chiesa, e fatte con ciò universali. Tre lustri erano appena passati da quel giorno quando sulle biblioteche e gli archivi del mondo si scatenò la più paurosa minaccia di guerra, e il fuoco irruppe devastatore su preziose raccolte di libri e di carte; ma altre, innumerevoli, quasi per prodigio ne restarono incolumi. La preghiera dell'antico bibliotecario, divenuto Pontefice universale, si era levata in tempo, deprecatrice. Rimangano ora, in pio augurio, altre sue parole, dettate per il quadrante dell'orologio della milanese Bicocca, che aveva veduto una sanguinosa battaglia del cinquecento, tra francesi e imperiali: Dixit olim tristes cruenti certaminis horas Candidae iam re gat operas et tempora pacis. Nello Vian

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ACHILLE

RATTI

BIBLIOTECARIO (NEL CENTENARIO DELLA NASCITA)

Se la triplice corona non ne avesse un giorno cinto la fronte, questo titolo sarebbe rimasto sicuramente il più caro ad Achille Ratti. La scelta fatta sui trent'anni, età di risoluzioni maturamente pesate, egli chiamerà ancora in vecchiezza « veramente di buon gusto »; e per gli altri trent'anni che durò in quell'ufficio non diede mai segno di esserne pentito. Era uomo che stava bene di anima e di corpo, per dirla alla manzoniana, quando, il 5 novembre 1888, presentò al prefetto dell'Ambrosiana Antonio Ceriani domanda d'entrare nel collegio dei « dottori » della storica biblioteca. Aveva fatto a Roma buoni studi, e n'era ritornato con tre lauree, teologia filosofìa diritto canonico, per virtù delle quali era stato abbastanza stranamente immesso, egli così misurato e lento parlatore, nella cattedra di « sacra eloquenza » in seminario. Ma ancora non era stata data in luce da lui alcuna pubblicazione erudita, e l'inclinazione della quale aveva dato qualche indizio era piuttosto alle scienze esatte e naturali. Incertamente, il Ceriani poteva ricordare di avere avuto il seminarista, in anni già lontani, a una sua scuola di rudimenti dell'ebraico. Ma in qualunque maniera gli sia stato fatto credito, nell'introdurlo in quel sacrario delle lettere e delle arti, si deve riconoscere che Achille Ratti lo fece fruttificare bene e largamente. Usciva dal ceppo di quei solidi preti lombardi che mettono mano alle opere del proprio ministero con il vigore fermo e tenace che i loro conterranei rivolgono alle

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— 142 — industrie umane. S'impegnò subito, a fondo, in ardue e vaste imprese, preparando l'edizione di un codice Ambrosiano del secolo IX, il Liber diurnus romanorum pontifìcum, e stampando entro due anni un primo volume degli Acta ecclesiae mediolanensis (in quegli anni, per cimentare l'animo e i muscoli, si diede anche a praticare nell'estate l'alpinismo, e salì sul Cervino, scalando primo italiano una punta e aprendo una via). I giorni e le opere del bibliotecario Ambrosiano e Vaticano, che l'arcano consiglio di Dio trasse sopra una cattedra di tanto più alta e sacra, sono già stati fatti ampiamente materia di commentari, e basta qui appena ricavarne qualche linea che renda il carattere dell'uomo e lo rappresenti in quella sua silente azione di custode e ministro del sapere. Colpisce in lui, che dalle biblioteche uscirà soltanto alle soglie della vecchiaia, il senso di umanità serbato tra i libri, in quelli che pur diventano sepolcreti per molti destinati a trascinarvi l'esistenza. Compiute di umanità appariscono, così, le sue relazioni con il grande, ma anche, austero e severo Ceriani. Il bel ritratto che ne delineò alla maniera si direbbe dell'Hayez (« ritto in piedi dietro a quel tavolo ormai famoso come lui, la persona leggermente incurvata non tanto dagli anni quanto dall'abito di un lavoro assiduo, faticoso e paziente, un libro in mano, proprio quella sua mano ossuta e robusta di vero lavoratore... ») rivela la lunga e intelligente osservazione, maturata nella famiiarità di vent'anni. Anche se i giorni di questi poterono essere non tutti idillici, perdurò immutata la devozione, anzi la pietà filiale del più giovane, che doveva raccogliere, già pervenuto al suo mezzo secolo, la successione. Antonio Muñoz lo vide prendere amorosamente sotto il braccio il suo vecchio prefetto, un giorno che piegava sotto il peso dell'età, e sentì queste parole nel patrio linguaggio, il più caro ai due poliglotti : « Ch'el vaga a riposass e ch'el me daga a mi i ciav, che pensi mi a tutt coss ». Forse non mai trasmissione di poteri venne fatta con maggiore semplicità e benevolenza, degne veramente del costume e della gentilezza antica. L'umanità del bibliotecario Ratti apparve più largamente nella quotidiana consuetudine con gli studiosi ita-

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liani e stranieri che in quell'epoca, improntata dal fervore erudito, popolarono le secentesche aule dell'Ambrosiana, deposito di preziosi manoscritti. In lui essi ebbero l'esemplare introduttore alla conoscenza e all'uso di questi tesori, ammassati dalla munifica splenditezza di Federico Borromeo. Per risalire alla volontà del fondatore stesso, questo liberalismo era sicuramente nella tradizione dell'istituto, ma il Ratti lo rinnovò modernamente, con un'abnegazione e una longanimità inesauste. Fu il tipo del bibliotecario secondo il cuore degli studiosi; il bibliotecario ideale che questo non facile, talvolta irritabile genus desidera incontrare nelle sue peregrinazioni, dotto così da riuscire soccorrevole nelle ricerche più varie, largo fino a comunicare proprie scoperte, capace insomma di dare

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_ 144 — generosamente mano a lavorare un campo dove altri raccoglierà. Quando venne biblicamente alla pienezza dei suoi giorni, nel marzo 1907, il grande vecchio Ceriani (salutato da lui « onore dell'Ambrosiana, di Milano, d'Italia e della Chiesa universale ») Achille Ratti fu eletto prefetto. Con la sua umanità e attesa paziente, aveva saputo già prima indurre il predecessore, naturalmente ripugnante a novità per l'età e il temperamento, a una serie di riforme e di ripristini nell'istituzione secolare. Per due anni, acquistando perizia tecnica e coltura anche nel campo dell'arte, aveva atteso a riordinare la bella pinacoteca risalente per origine al fondatore, e ricostituito una curiosa collezione scientifica secentesca, il museo Settala (come altre antiche biblioteche, l'Ambrosiana, simile a un ateneo, esige una specie di enciclopedismo umanistico da parte dei suoi conservatori). Compiute quelle opere, aveva pubblicato, nel gennaio 1907, una nitida Guida sommaria per il visitatore della Biblioteca Ambrosiana e delle collezioni annesse, un piccolo capolavoro di gusto e di dottrina, che con esemplare modestia non reca il nome dell'autore. Le linee di quella che può essere detta la sua politica bibliotecaria risultano più chiaramente negli anni che tenne il governo. Tra le primissime cure, anche per l'incubo di gravi sinistri avvenuti a quel tempo, fu il premunire contro gl'incendi la sede, che riuscì in breve la meglio protetta d'Italia. Al restauro dei codici e dei libri, altra quo tidiana necessità in una biblioteca antica, rivolse personale interesse, facendo egli stesso pratica di quella tecnica nel laboratorio Vaticano; e nel nuovo istituito all'Ambrosiana accolse e risarcì anche i preziosi registri della Fabbrica del Duomo, semidistrutti dal fuoco durante un'esposizione. Console Ratti, l'incremento delle preziose raccolte manoscritte fu veramente memorabile, in particolare con l'acquisto dei 1610 codici arabi Capretti. Un particolare titolo di quest'uomo, che aveva testa capace di far quadrare sempre i conti, fu la ricerca delle ingenti somme richieste per queste opere e ampliamenti. Seppe promuovere il mecenatismo pubblico e privato, con relazioni che vanno qualificate eleganti e proficue, perchè domandò

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— 145 — sempre con dignità e ottenne con larghezza tutto quello che volta a volta gli necessitò. E di ogni evento e donazione fece latinamente memoria in belle iscrizioni, che egli stesso dettò. L'Ambrosiana, per la politica industre di questo suo proietto, fu sentita come non mai gloriosa istituzione cittadina. In questo suo «nido», quale amò qualificarlo, egli stava per tutte le ore d'apertura della biblioteca, eretto sul seggiolone secentesco, con gli occhi vivaci e vigili che perforavano le lenti, in atteggiamento simile a quello con cui lo rappresenterà Enrico Quattrini, nella grande statua bronzea posta nel luogo che fu suo. Accoglieva, così, nella vecchia axila « iemale », lettori e ricercatori, con umore pacato, una cortesia senza manierismi, una benevolenza servizievole e pronta. Le virtù sostanziali del vecchio Ceriani si erano rivestite di una nuova gentilezza. La biblioteca dotta si apriva con larghezza più intonata ai tempi. Contro il motteggio che egli stesso ricavava dal suo cognome, non restò d'altra parte nel chiuso di essa, come l'emblematico animale al quale si usava una volta assomigliare il bibliotecario. Sapeva frequentare, a tempo, le accademie e il salotto, e strinse e coltivò con bonomia prettamente lombarda amicizie, che ridondavano pur esse in vantaggio della biblioteca. Egli ebbe e praticò, insomma, del suo ufficio, pur nel limite connesso con la natura propria dell'Ambrosiana, la concezione più largamente sociale con la quale si denota il tipo del bibliotecario nuovo in confronto dell'antico, anche se di questo Achille Ratti serbò tutta la dignità e la dottrina. A Roma, almeno nel primo tempo, compariva raramente. La prima che vi tornò dopo l'università fu a distanza di diciassette anni, nel novembre e dicembre '99, per un accanito lavoro di collezione e di spogli nei depositi Vaticani. Ma a Roma, dove due altri lombardi lo avevano preceduto nella Biblioteca Apostolica, si pensava a lui, e il suo nome era tenuto, secondo il vecchio costume, in pectore. Qualche tensione si era prodotta tra Pio X e il prefetto della Vaticana Francesco Ehrle, due temperamenti forti e schietti che in evangelica libertà potevano pur qualche volta urtare. Serenamente, il gesuita wirttenberghese preparò la sua successione portando avan-

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— 146 — ti il Ratti, che nel novembre 1911 venne nominato viceprefetto e nel settembre 1914, per lo scoppio della guerra europea e l'imminente partenza dell'Ehrle da Roma, prefetto. Tra il minore e il maggiore ufficio, passò alla Vaticana meno di otto anni, e quattro scarsi con la effettiva residenza e la piena autorità. Furono gli anni della guerra, con il conseguente progressivo declinare e intristire delle buone arti e degli studi umanistici. I frequentatori discesero, nel 1917-18, a ottantaquattro; i bibliotecari giovani partirono, richiamati alle armi nei paesi di origine, li fuoco non si spense nel sacrario, ma troppo alto sì alzava al di fuori lo strepito delle armi. Poco più che a mantenere la vita dell'istituzione e a preparare le opere del futuro riuscì monsignor Ratti, il prefetto della guerra. Ma la sua umanità espresse anche più cordialmente, e di essa s'imprimono in particolare le memorie rimaste. Egli continuava, ogni mattina, a sedere sulla piccola cattedra al centro della sala dei codici, come avevano usato i predecessori; e non meno tradizionalmente compiva il suo giro quotidiano ai banchi degli « scrittori », con i quali conversava un poco, per insaporire la dotta fatica con una parola buona, un sorriso e un motto. Ai partiti per indossare le divise militari scriveva cartoline postali come questa, che si ebbe lo « scrittore » per le lingue orientali Tisserant, volontario al fronte francese : « Si cette carte arrive jusqu'à vous, qu'elle vous dise combien de fois j'ai pensé à vous pendant tout ce temps; et le désir ardent, angoissé, qui me tourment [sic], d'avoir de vos nouvelles; et les prières que j'offre au bon Dieu pour vous, pour vos chers, pour votre noble pays... ». Ai custodi permise di coltivare a ortaggi il piccolo giardino interno della Biblioteca, per dare più consistenza alle magre mense di guerra. La missione diplomatica in Polonia, il fatto che segnò la voltata di timone, giunse inattesa nell'aprile 1918. Un precedente illustre, nel settecento, era stato quello dell'eruditissimo Garampi, passato dalle pergamene agli affari della politica, ma senza proporzione più grossa risultò qui la posta. Benedetto XV aveva puntato quasi soltanto sopra un prelato che parlasse tedesco, e si trovò provvidenzialmente ad avere fatto la prima mossa nel

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— 147 — gran gioco della sua successione. L'uomo Achille Ratti sentì di entrare in un'avventura, della quale poteva conoscere storicamente i termini, ma non prevedere nella pratica tutte le rischiose incognite. A sessanta anni suonati, lasciava lo scrittoio per il campo aperto dove la nuova storia di Europa si svolgeva. Nel partire meno di un mese dopo, il 19 maggio, scrisse al fiorentino don Giuseppe Faraoni: «Sono sulle mosse per il mio... salto nel buio. Preghi il Signore ». A questo punto, il bibliotecario è uscito di scena, e il personaggio che ne ha preso il posto si riveste di panni troppo maggiori. Il suo motto Raptim transit si effettuerà in maniera sempre più veloce : in meno di quattro anni egli scalerà la sua più alta vetta, e si nominerà Pio XI. Cosa singolare apparve che quest'uomo, passato con tale rapidità alla suprema grandezza terrestre, assumesse subito statura e maestà pontificale. Papa fu veduto e sentito dal primo momento, e papa rimase in ogni momento, fino per gli intimi, come fosse nato nel bisso. Ma bibliotecario ricordò sempre di essere stato, e gli piacque il saluto rivoltogli, come a « unus ex nobis », dagli antichi colleghi nordamericani. Coloro che lo avevano frequentato mentre conduceva la vita tra codici e pergamene lo trovarono sempre cordiale e attento, e poterono deliziarsi di geniali conversazioni che si nutrivano di ricordi. Predilezioni toccarono, naturalmente, ai bibliotecari. L'Ehrle rivestì la porpora, al primo concistoro; altri due colleghi di un tempo, Giovanni Mercati e Eugenio Tisserant, nel 1936. Quanti vennero, italiani e stranieri, a Roma, ebbero lunghe e memorabili udienze, delle quali parecchi scrissero note. Tra gli altri salì a lui Pierre de Nolhac, a parlare dei giorni dell'Ambrosiana, del Ceriani, di Francesco Novati; e di cose e uomini di Francia, e di Leopold Delisle che gli aveva aperto i tesori della Bibliothèque Nationale. Il papa chiese se proseguiva sempre i suoi studi sul Petrarca e l'accademico di Francia non ebbe animo di confessargli che tutti i suoi pensieri si rivolgevano ora alla Pompadour. Fu egli a raccogliere, sulla bocca del Pastore dei popoli, il lamento : « Gli uomini sono più diffìcili a governare dei libri ». Un altro, Alfred Péreire, pensò di andare a

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— 148 — visitare l'antico paleografo, come avrebbe fatto nell'età del Rinascimento con Erasmo o il Bude, per sottoporgli addirittura un quesito sull'epoca e l'autorità di un manoscritto, contenente la prima versione francese deWImitazione di Cristo. Achille Ratti, curvo sulle riproduzioni fotografiche recategli, esaminò a lungo le scritture, e prescelse uno dei codici, non senza interrogare prudentemente : « Est-ce l'avis d'Omont? ». Un pensiero sempre presente alla mente dell'antico bibliotecario, fecondamente, fu quello della stretta relazione tra libro e umanità. A giovani bibliotecari sviluppò questa sua concezione, una volta, in maniera pensosa e arguta : « I libri sono anch'essi qualche cosa di eminentemente umano, perchè riflettono il pensiero degli uomini, e proprio di quegli uomini di pensiero che in realtà sono spesso i più diffìcili da governare ». Ma fu un erudito diplomatista francese, della « École des chartes », Roger Grand, a raccogliere una specie di più ampia teoria di Pio XI sull'importanza della vita di biblioteca per maturare l'uomo agli uffici anche di governo. Il trattatello non vale che per la firma che porta, e la teoria della superiorità della professione bibliotecaria come noviziato al governo, spirituale o terrestre, del mondo non ha troppi altri esempi, nè trattatisti. Piuttosto, sì concluderà che della stoffa di un bibliotecario si potrà ritagliare un papa ogni qual volta e soltanto costui si chiamerà Achille Ratti; altrimenti non si garantisce che la misura basti alla statura. Ma quelle considerazioni dell'antico prefetto Ambrosiano e Vaticano giunto al sommo, quasi la sua vita in filigrana, importano in ogni maniera quale riconoscimento di ciò che i libri e le biblioche impressero in lui e nella gestazione del suo alto e arcano destino. Nello Vian

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NELLO VIAN

UNA 1LLÜSTEE SUCCESSIONE ALLA BIBLIOTECA VATICANA ACHILLE RATTI

il ventisettenne sacerdote reggiano Giovanni Mercati divenne Dottore dell'Ambrosiana il 9 ottobre 1893, per elezione unanime del Collegio dei Dottori della storica Biblioteca, costituito dal Prefetto Antonio Ceriani e dai Dottori Antonio Ceruti e Achille Ratti.1 Mentre era ancora nella sua terra emiliana, egli aveva intrattenuto con il Ceriani carteggio erudito.2 Dal più giovane 1

Eugenio card. Tisseeant, Giovanni Mercati, 1866-1957. Commemorazione tenuta nella seduta a classi riunite dell'I! maggio 196S. Eoma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1963 (= Problemi attuali di scienza e di cultura. Quaderno N. 63), pp. 5-6. La comunicazione, di mano del Ceriani, era cosi espressa : « Molto Reverendo Signor Dottore, Milano, 9 Ottobre 1893. Nella radunanza tenuta dal Signori Dottori del Collegio della Biblioteca Ambrosiana questa mattina Ella fu da essi a voti unanimi nominata Dottore del Collegio medesimo in luogo del compianto Dottore D. Giovanni Crivelli. Notificandole per incarico dello stesso Collegio la nomina ora fatta da esso, sono con tutta la stima, Devotissimo suo collega, P.te Antonio Ceriani, prefetto del Collegio del Dottori della Blbl.011 Ambros.a All'IU.111" e M. E. Signor D. Giovanni Mercati, Dottore di S. Ï. (Reggio Emilia) Roteglia (Castellarano) ». Carteggi Giovanni Mercati nella Biblioteca Vaticana, come tutti 1 documenti riprodotti in questo articolo, e che non siano Indicati come conservati altrove. In un biglietto, datato per strano errore «9 aprile, 1893», e con cui accompagnava «l'atto di nomina d'ufficio», aggiungeva familiarmente: «Tutto è compiuto, sei Dottore perfetto della Biblioteca, e puoi venire quando credi. Puoi scrivermi quanto credi possa occorrerti. Se pensi incardinarti nel nostro Clero Diocesano, procurati 11 Documento di uso. Tanti saluti dal due Colleglli Ceruti e Ratti. Questi mi dice, che nei primi giorni del tuo arrivo puoi far conto anche su di lui. Addio e a rivederci ». 2 Nella prima lettera conservata, Milano. 10 agosto 1893, al termine delle comunicazioni erudite, gli aveva subito proposto di concorrere al posto di Dottore, e gli aveva descritto la maniera dell'elezione: «I Dottori siamo tre; uno che

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Nello Vian

dei suoi elettori, pochi giorni avanti la nomina, gli era pervenuto questo grazioso saluto : Milano, 27.9.93 Ottimo confratello e collega, Posso e devo bene ormai chiamarla anche con questo nome, poiché nel voto e nel desiderio di tutti i cointeressati, nonché mio, Ella è già dei nostri, e non ci manca più che l'adempimento delle formalità di uso — ciò che sarà un fatto compiuto al principio, credo, della prossima settimana. Ma io non devo né posso aspettare anche sol questo poco a ringraziarla della Memoria su Simmaco e di quella sul Catalogo dei RR. PP.3 Le ho lette col più vivo interesse, me ne congratulo con Lei, ringrazio un collega così riccamente preparato a far onore all'Ambrosiana ed alla Chiesa come quelle sue primizie sicuramente attestano ; così buono e caro come i sentimenti che viene esprimendo nelle sue lettere e il suo passaggio tra noi bastano largamente a rivelare. Quando si è poveri come me, è un conforto prezioso avere dei fratelli del pari ricchi che buoni. Se però non sarò buono ad altro, sarò certamente buono a volerle molto bene e a tenerle buona compagnia. Col più vivo e schietto desiderio di averla con noi e nostro, mi raccomando di un posticino nelle sue preghiere e me Le professo affez.mo come f.llo Sac. Achille Ratti Dovette arrivare a Milano sui primi di novembre,4 e intraprese le ricerche con ardore in quella collezione di manoscritti, pascolo ideale alla sua avidità del nuovo e dell'inedito.5 Della Biblioteca Federiciana era al governo, dal 1870, l'illustre orientalista, paleoè qui presente, non le sarebbe contrario, l'altro, che vive ritirato già pensionato non credo lo sarà, 11 terzo son io. Un suo vicino di patria, il Muratori, cominciò all'Ambrosiana come Dottore la sua carriera ». 3 L'età di Simmaco l'interprete e s. Epifanio ossia se Simmaco tradusse in greco la Bibbia sotto M. Aurelio il filosofo. Modena, 1892; e Un antico catalogo greco de' romani pontefici inedito, in Studi e documenti di storia e diritto, XII (1891), pp. 325-343. Cf. « Bibliografia degli scritti (1890-1956) », a cura di Augusto Campana, nel volumetto Nel novantesimo anno del Cardinal Mercati, 1866-1956. Biblioteca Apostolica Vaticana, 1956, p. 61, n. 3. 4 II Cerianl gli aveva scritto, I'll ottobre 1893: «Nota che fino al 12 Novembre inclusive la Biblioteca fa vacanza, e puoi rimanere tranquillamente a Reggio ». 5 Tisserant, Giovanni Mercati, cit., p. 6; e Augusto Campana, Commemorazione del Socio Cardinale Giovanni Mercati [18 dicembre 1958], in Rendiconti della P. Accademia Romana di Archeologia, XXXIII (1961), p. 21.

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grafo e liturgista Ceriani, che si era aperto da solo la strada in campi ardui e poco esplorati di studi (l'antica letteratura siriaca, in relazione specialmente con le ricerche bibliche ; altre lingue e letterature orientali, in particolare semitiche, come l'araba e l'ebraica; la persiana e l'armena; la papirologia). Ma più ancora che lo scienziato spiccava, moralmente, l'uomo. Il quale improntò di sè coloro che più gli vissero vicini.6 Già ritirato, poco frequentava il Ceruti, che aveva soprattutto coltivato le « ricchezze latine dell'Ambrosiana », traendone una vasta documentazione storica.7 Ma quegli a cui più si legò il Mercati, pur nella diversità dei temperamenti e delle attitudini, fu il Ratti, entrato cinque anni prima di lui.8 Non era uomo solo di libri, come il suo alto destino dimostrò, e apparteneva piuttosto che al tipo del bibliotecario all'antica, impersonato dal Ceriani e dal Mercati, con la sterminata erudizione personale, a quello del bibliotecario moderno, che congiunge al sapere il criterio e la capacità amministrativa. Di que6 Si veda Antonio Maria Ceriani commemorato nel primo centenario della nascita da Giovanni Galbiati, Carlo Oreste Zuretti e Giuseppe Furlani, premessovi un discorso di msgr. Achille Ratti (Pio XI). Milano, presso la Biblioteca Ambrosiana, 1929. Dall'ampia commemorazione del primo, «L'uomo e lo scienziato», va trascritta la testimonianza ; « Figura cara e severa di antico sapiente, che fu largo dei suol tesori ai vicini ed ai lontani ; che mirò all'essere e non al parere, che fece dello studio la missione altissima della sua vita, nè ambi giammai ascoltazione o applauso; lui, l'indagatore profondo dei linguaggi orientali, il paleografo insigne (scripturarum tenuit super omnia formas, ne scrisse il nostro Sabbadini), l'uomo nel sacerdozio cristiano integer vitae in tutta la estensione 7di significato di questa parola », p. 35. Per l'ottantesimo anno di Antonio Ceruti, nel 19X0, dettò un'iscrizione latina il Ratti, Iscrizioni attinenti alle vicende della Biblioteca Ambrosiana dettate da mons. Achille Ratti {S.S. Pio XI). XX marzo 1927 [Milano, tip. Allegretti], pp. 12-13. Nel pubblicarla, Luca Beltrami, nota del Ceruti : « la di lui erudizione è attestata dai numerosi scritti, e dall'opera prestata nella revisione di antiche scritture : sono altresì da ricordare le sue ricerche intese a chiarire le prime iniziative e deliberazioni riguardanti la fondazione della Cattedrale di Milano». Al 1908 assegna l'iscrizione Galbiati, Pio XI evocato, cit. p. 293; e cfr., sul Ceruti, anche a p. 66. Novantenne, o circa, doveva essere alla morte, per la quale il Mercati espresse il suo compianto in lettera del 25. V, 1918, a mons. Luigi Gramatica, conservata nella Biblioteca Ambrosiana. 8 Fu eletto Dottore dell'Ambrosiana l'8 novembre 1888, come successore di Fortunato Villa, prematuramente scomparso, che aveva coltivato la filologia semitica, Galbiati, Papa Pio XI evocato, pp. 66, 263. A p. 64, in fac-simlle, il biglietto del Ceriani, per comunicargli la nomina, 11 giorno stesso. Angelo Novelli, Pio XI {Achille Ratti) mdccclvii-mcmxxii. Milano, Casa editrice «Pro Familia» [1923]. p. 43, riproduce il fac-simlle della sua domanda di nomina, scritta il 5 novembre 1888.

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ste qualità di lui appunto il Ceriani si valeva, per aiuto nel governo, e con l'intento, che andò sempre più maturando, di farne il suo successore. Era di parola sobria, ma non asciutta, e la insaporiva di arguzia, conversando e scrivendo. Pensoso e riflessivo per sua natura, aveva tuttavia cordialità ambrosiana di tratto, e apertura all'amicizia. Il carattere delle numerose lettere, che si leggeranno, al Mercati, rivela quanto fraterno dovette essere il sodalizio che passò tra i due, in questi anni tra il '93 e il '98. Alla cerchia quasi domestica dell'Ambrosiana appartenevano inoltre due laici ; Con tardo Ferrini, quasi coetaneo del Ratti e che strinse con il Mercati collaborazione scientifica,9 e Bartolomeo Nogara,10 poco più giovane del secondo e che lo seguì, entro breve termine di tempo, a Roma. L'erudito sacerdote reggiano lavorava quasi da cinque anni, fruttuosamente, nell'Ambrosiana, quando, nella primavera 1898, questa ebbe la visita del Prefetto della Vaticana, il gesuita padre Francesco Ehrle. Era dal '95 al governo dell'illustre Biblioteca, e attendeva a trasformarla, con tenacia di propositi, in un istituto modernamente ordinato, centro e officina di alti studi filologici e storici, dovendo fronteggiare la scarsezza di mezzi e l'impreparazione scientifica degli uomini. Per uno dei compiti più ardui, la catalogazione scientifica dei manoscritti, aveva nel '97 composto rigorose Leges, diventate esemplari, che attendevano ancora in gran parte le persone atte a metterle in pratica. Nel Mercati vide una di queste, e dopo quella visita, da lui o da altri, seppe che 9

Basilicorum libri LX. Voi. VII. Editionis Basilicorum Hembachianae svpplementum alterum. Reliquias librorum ineditorum ex libro rescripto Ambrosiano ediderunt E. C. Ferrini antecessor ticinensis J. Mercati Bibliothecae Ambrosianae doctor. Lipsiae, 1897. M. xQiTov Tov llar^fj TmovKEnoç sive librorum LX Basilicorum summarium. Libros I-XII graece et latine ediderunt Contardus Ferrini f Johannes Mercati. Romae, 1914. Quest'ultima opera fu completata da editori diversi, con altri quattro volumi, pubblicati come il primo tra gli « Studi e testi », 1929-57 (num. 25, 51, 107, 179 e 193). 10 Bartolomeo Nogara, nato nel 1868 a Bellano (Como), si laureò in lettere a Milano nel 1891 e in diritto a Genova nel 1895. Nel 1900 passò a Roma, come scrittore della Biblioteca Vaticana e direttore speciale del Museo Gregoriano Etrusco; nel 1903 fu anche nominato conservatore del Museo Profano annesso alla Biblioteca Vaticana. Nel 1920 divenne direttore generale del Musei e gallerie pontificie e tenne questo ufficio fino alla morte, nel 1954, Filippo Magi, Commemorazione di B. N., in Rendiconti della P. Accademia Romana di Archeologia, XXVIII (1954-55), pp. 1-24 (include la bibliografia degli scritti, a cura del Magi e di J. Ruysschaert) ; Aristide Calderini Commemorazione di B. N., in Rivista archeologica dell'antica provincia e diocesi di Como, CXXXVII (1954-55), pp. 85-100. [138]

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Una illustre successione: Achille Ratti

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egli sarebbe stato « disposto » a passare alla Vaticana, per prendere parte a quella vasta impresa di rinnovamento. Non perdette tempo, e, tornato a Roma, ottenne subito la facoltà di trattare la chiamata del Mercati. Il 7 aprile scrisse al Ceriani un'ampia lettera, per chiederne il consenso, in forza di interessi superiori, invocati innegabilmente con vigore e calore.11 Non risulta la parte 11

La lettera, su carta Intestata Biblioteca Apostolica Vaticana e con le Sacre Chiavi, ha la data «Li 7 Aprile 1898». L'ortografia e la forma grammaticale e sintattica italiane dell'Ehrle presentano, come sempre, mende. S'inizia con ringraziamenti per 11 tempo datogli nel suo rapido passaggio, mezza giornata, da Milano: «Dopo questo, debbo per ordine superiore, dare a V. S. Rev.ma una notizia, la quale, se da una Li darà piacere e consolazione, dall'altra forse Li costera qualche sacrificio. Dopo la mia visita alla Sua biblioteca venni a sapere, che 11 Suo chlar.mo collega Don Glov. Mercati sarebbe disposto ad accettare il posto di Scrittore alla biblioteca Vaticana. Trovandosi la S. Sede nella urgentissima necessità di liberarsi dalla indecorosa posizione, nella quale si trova per la mancanza di catalog! ben compilati e stampati dei suoi in circa 20.000 codici latini, era 11 mio stretto dovere di avisare di questa opportunità il S. Padre per mezzo di S. Em. il cardinale Rampolla, ff. del card, bibliotecario. Con una singolarissima prontezza venne dal S. Padre deciso la chiamata e la nomina di Don Giov. Mercati. Però non potendo egli venire prima del 1° Ottobre del corrente anno si differì la pubblicazione. Essendosi però nell'Alta Italia risaputosi qualche cosa della nomina, potendosi facilmente divulgare la notizia fin a Roma, si ha creduto opportuno di pubblicare la nomina già adesso, benché non obligara il nominato al servizio prima del 1° Ottobre. Ma S. Em. il cardinale Segretario di Stato volle, che V. S. Rev.ma ne sia resa consapevole alcuni giorni prima della pubblicazione uficlale e me ne diede l'incarico. Spero che questo annunzio che io do con queste righe per soddisfare all'incarico ricevuto a V. S. Rev.1»» per Ella almeno [sic] la consolazione di poter rendere alla S. Sede un importante servizio cedendo ad essa in considerazione del suo grave bisogno un suo impiegato, i servizi del quale forse anche Ella apprezza. Dall'altra parte che questa stima, dara all'annunzio forse per V. S. Rev.ma un sapore un po amaro. Perciò mi affretto di assicurarla, che farò del tutto, affinchè Don Giov. Mercati possa anche nell'avvenire nel tre mesi d'estate e possibilmente anche nelle vacanze di Natale e di Pasqua il più che sara possibile continuare ì suol lavori di editore all'Ambrosiana, i quali mi pare, sono stati lo scopo ed il risultato principale della sua attività alla loro biblioteca. Inoltre prego V. S. Rev.ma di communicarml 1 Suol desideri e consigli in questa direzione, essendo dispostissimo a diminuire 11 più che potrò gli effetti di questa nomina per la sua biblioteca. Finalmente Lo assicuro, che se non sarebbero stati in questione interessi gravissimi della S. Sede, non Io avrei creduto lecito di cooperare ne anche da lontano ad una decisione del S. Padre, della quale io dovevo sospettare, che almeno sotto qualche rispetto poteva essere considerata da Lei come la domanda di un sacrifizio. Credo che V. S. Rev.ma farebbe cosa gradita a S. Em. il Card. Rampolla [139]

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che il Mercati stesso ebbe in questa sua trasmutazione sulle rive del Tevere, nè l'animo con cui la compì. Nella maggiore Biblioteca egli previde certo che la sua opera di ricercatore si sarebbe ampliata in proporzione, con sussidi scientifici più copiosi e aggiornali dì quelli che poteva avere nell'Ambrosiana. Nel suo pio spirito di sacerdote pesarono anche grandemente gli argomenti addotti dal Prefetto della Vaticana. Ma lasciò Milano, dov'era vissuto in quiete feconda, tra piazza della Rosa e via Moneta, con qualche rammarico, e ne riportò (come si vedrà) la nostalgia. Dal Ceriani 12 e dai colleghi dell'Ambrosiana si congedò con affettuosità,13 e con uno di essi in particolare, il Ratti, intrattenne la corrispondenza che forma la materia principale del presente contributo. ed anche al S. Padre stesso, se loro assicurerebbe o direttamente o indirettamente per alcune righe mandate a me la sua prontezza di fare questo sacrifizio per la S. Sede, supposto, che questa nomina Li facia questa impressione. Ciò che mi fa dubitare di questo è 11 valore di Don Giov. Mercati, ma la facilità almeno relativa di trovare nel clero dell'Italia Settentrionale un buon successore, mentre noi in questa direzione incontriamo grandissime diflicoltà ». Sono unite due minute di risposta, di mano del Ceriani, in data Milano 12 Aprile 1898, al card. Rampolla e all'Ehrle, per comunicare l'assentimento e sommissione cordiale alla nomina. La lettera, con otto altre dell'Ehrle al Ceriani, dal 1897 al 1900. si conserva, in un plico, nella Biblioteca Ambrosiana, Autografi (S. P.). 12 Questi gli scrisse, Milano, 28 ottobre, 1898 : « Ho ricevuto la tua gentilissima e nobilissima lettera del 2 ottobre, colla quale mi mandi per gli atti la tua dimissione da Dottore della Biblioteca Ambrosiana per essere stato chiamato dal S. P. Leone XIII alla Biblioteca Vaticana. In parte ho già fatto le tue parti col Signori Conservatori e cogli altri, il resto lo compirò appena lo potrò. Anche per la stampa del prezioso frutto delle tue fatiche nella Biblioteca Ambr." lio già fatto parola al Conservatore Presidente Mons. Sala, e presto ne parlerò anche agli altri, al radunarsi della Congregazione. Naturalmente Mons.r Sala ne fu contento. Del D.r Ratti non è a dirne, e cosi del D.r Ceruti ; quanto a me ricorderai quello che ti diceva prima della partenza ». L'accenno è certo al Salterio esaplare, pubblicato poi, com'è noto, nella prima parte, soltanto nel 1958 : si veda il card. Tisserant, Giovanni Mercati, cit., p. 6. In altra, con la data stessa, scriveva ancora ; « Scusi 11 ritardo della tua lettera ; e chi poteva aspettare lettere da te durante il tuo viaggio, e nei primi giorni di Roma? Mi congratulo della tua scoperta del Codice Laurenziano e anche dell'aver trovato che 11 Com.rio del Vaticano 264 è altro dall'Ambrosiano delle Esaple : indipendenti si controlleranno più autorevolmente nelle parti communi. I miei rispetti al Rev.mo Ab. Cozza, se è già ritornato, al Padre Ehrle, a Mons.r Ugolini, e all'allegro figlio di S. Filippo Neri ». Era questi l'oratoriano Generoso Calenzlo, scrittore per la lingua latina, come mons. Mariano Ugolini era per le lingue orientali. Il basiliano abate Giuseppe Cozza-Luzl era Sotto-Bibliotecario. 13 Lo attesta la bella lettera dedicatoria, premessa all'opuscolo, risultante da estratti : D'alcuni nuovi sussidi per la critica del testo di 8. Cipriano. Seguono varie note di letteratura specialmente patristica. Roma, 1899. Cf. la bibliografia

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A Roma dovette arrivare circa il 27 settembre 1898,14 per iniziarvi quella vita così piena e operosa che sarebbe durata sessant'anni. Una lettera 15 già « ricca di notizie » che la riguardavano, mandò, passata appena qualche settimana, al collega milanese, che gli rispose IMI novembre, tra altro: «Le communicazioni o proposte del P. E. erano certamente tali da mettere in forte imbarazzo chiunque le avesse ricevute ; se non so davvero cosa dire del modo onde Lei d'imbarazzo s'è cavata od ha creduto cavarsi, non posso che congratularmele delle proposte stesse come quelle che altamente La onorano, e credo anche che presto o tardi avranno effetto. Vedo che non Le manca lavoro, anzi rischia di esser di troppo. Occorre appena raccomandarle che si guardi dal soverchio, mentre una così lunga e luminosa via Le si apre innanzi ». Non è chiaro se il riferimento sia ancora all'andata del Mercati a Roma o a « proposte » successive, possibilmente di opere da intraprendere, fattegli dal Prefetto della Vaticana, ma sicuramente valido e felice appare il vaticinio. Il Dottore Ambrosiano e lo Scrittore Vaticano si ragguagliavano della vita delle rispettive istituzioni, si scambiavano notizie di libri e ricerche, in continuati rapporti di cordiale colleganza. Da Napoli, dove il Ratti andò negli ultimi giorni del '99, dopo essere stato ospite dei Mercati al degli scritti del Mercati, cit., p. 73, n. 79. Per la dedicatoria (che si può ora leggere nelle Opere minori, del Mercati, vol. II, Città del Vaticano, 1937, p. 152) il Ratti gli scrisse, Milano 11 Nov. 98 : « Mgr Cerlanl ha accolto — poteva imaginárselo — con una smorfia la di Lei gentile idea della dedica, ma vidi subito — e mi sono venuto convincendo sempre meglio d'aver veduto giusto — che ne era soddisfattissimo e grato. Due sole parole disse non piacergli : frugato e casetta. A Ceruti la volevo mostrare ieri : venne bensì a Milano, ma non si lasciò vedere. Per non tardare più a lungo gliela rimando qui compiegata. Si può essere sicuri che anche Ceruti ne sarà soddisfatto e riconoscente. Io ho ragioni troppo evidenti per esserlo più degli altri », 14 II Ratti, in questa data, gl'Indirizzo una cartolina postale a Roma, via delle Zoccolette 17; e un'altra, il 4 ottobre, a via della Sapienza, 32 (dove era la casa del Missionari del Sacro Cuore, e risiedeva il p. Giovanni Genocchl). Poco dopo, il Mercati prese ad abitare per suo conto, in via Cola di Rienzo 265, 3, dove il Ratti gli diresse la lettera dell'll novembre, cit. 13 Questa lettera del Mercati al Ratti, come molte altre attestate dalle corrispondenti, non si ritrova nella Biblioteca Ambrosiana. Nella quale rimangono, del Mercati, tre plichi di lettere, entro una cartella, rispettivamente con le soprascritte : « Mercati Giovanni a Ceriani 1893-94 — 1898-99 1900.901.903.904», «Mercati Giovanni a Ratti 1907-1913», «Mercati Giovanni a Gramática 1915-1923». Inoltre, del Mercati, esiste un altro plico di lettere dirette al Dottore Alessandro Bianchi e ai Prefetti successi al Ratti fino al Castiglioni. Tra le lettere al Ratti, anche entro gli anni indicati all'esterno del plico, pare evidente che fu operata una cernita.

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passaggio per Roma, gli mandò « un'eruzione » di auguri 16 (e da Milano, a Natale e a Pasqua, partivano panettoni e « colombe », accolti a Roma festosamente). Anche voci, talvolta, erano comunicate, come questa, trascritta dal Ratti : « La Perseveranza di qualche giorno fa portava una corrispondenza da Roma e precisamente sulle condizioni intestine della Vaticana : vi si parlava di stranieri e di indigeni, di Ehrle e di Cozza... Ma forse l'avete già veduto; niente del resto, di importante o di nuovo ».17 Il giornale liberale-conservatore era bene informato. L'Ehrle attraversava uno dei momenti critici del suo ventennale governo, quando questo era ancora poco più che agli inìzi. Documenti epistolari dati recentemente a conoscere hanno mostrato le aspre difficoltà che ebbe a incontrare, a più riprese, all'interno della Biblioteca Vaticana, e dal di fuori e dal disopra di essa 18 (e l'ammirazione di quanto egli fece, acquistando prestigio difficilmente valutabile alla Santa Sede, se ne è in proporzione accresciuta). Il Mercati, per sua natura attento e vigile, coglieva gli indizi di quella tensione, che si dovette protrarre alquanto a lungo. Con l'Ehrle, il quale ebbe sempre la più grande stima del valore scientifico di lui,19 era in buoni termini, anche se non propriamente 16

Con una cartolina Illustrata rappresentante, appunto, il Vesuvio, datata 30. XII. 99. ir Ratti al Mercati, Milano 10 Apr. 99. I puntini, nel periodo trascritto, sono dall'originale. Le omissioni saranno sempre Indicate con 1 puntini tra parentesi quadre. is miquel Bat-tlobi, S. I., El pare Ehrle, Prefecte de la Vaticana en la seva correspondència aMh el cardenal Rampolla, in Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. card. Alhareda a Bibliotheca Apostolica edita, I. In Clyltate Vaticana, 1962 ( = « Studi e testi », 219) pp. 75-117. Proprio il 10 aprile 1899 egli scrisse al Rampolla Cardinale Segretario di Stato e tenente le funzioni del Cardinale Protettore della Biblioteca Vaticana, Alfonso Capecelatro, assente da Roma: «Vedendo complicarsi di più in più le difficoltà provocate dalla mia presenza alla Biblioteca, sarà, credo, bene che io dichiari a Vostra Eminenza, nel modo più esplicito, che, se facesse comodo al Santo Padre di allontanarmi dal mio posto per evitare ulteriori complicazioni, sono prontissimo, qualunque sia la figura che potrei fare in questo caso. Lavorando quasi tutti gli Impiegati in perfetta pace ed armonia alla sistemazione tanto necessaria della Biblioteca, la mia remozione non potrà essere di grande disturbo per il buon andamento generale», art. cit., p. 1C5. Le 84 lettere conservate dell'Ehrle al Rampolla, dal 1891 al 1914, si trovano nell'Archlvum Romanum Societatls lesu. « Viri Illustres E. 0. Ehrle ». 19 Scrisse al Cerlanl, su carta intestata Biiìi.ioteca Apostolica Vaticana, Il 1/IV 99 : « Don Mercati mi è di grandissimo a luto e Lo ringrazio di nuovo di cuore per questo regalo che ci ha fatto. MI rincresce che la sua posizione materiale non sia ancora tale, quale era a Milano». E al card. Rampolla, Il 25 marzo

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confidenziali. Non dovette essere quindi per incarico di questo, da quanto si può pensare, che egli scrisse sulla fine del maggio 1901, una lettera veramente inattesa. Alla quale il corrispondente milanese rispose il 1° giugno, con la sorpresa più viva : Queste cose Le avrei scritto subito subito, se non mi ci fosse voluto un po' di tempo per racapezzarmi sulla seconda parte della sua cara lettera. Se fosse stato qui presente mi avrebbe letto negli occhi il dubbio sulla serietà delle sue parole o sulla calma delle sue facoltà : se fossimo in altro mese avrei preso il tutto per un pesce, ma proprio di quelli del Tevere. Così che ho da dirle? Ciò che Lei mi scrive mi torna così impossibile, così strano, così assurdo, che mi par proprio, almeno al momento di formularlo, lo abbia dovuto sentire e vedere anche Lei, almeno quanto me. Lei mi conosce, e se può aver veduto in me qualche qualitataccia (e chi non ne ha qualcuna?), deve pure aver veduto tali mancanze di carattere e una tale ignoranza, da persuadersi subito che quel che Lei mi scrive può essere stata una parola di quelle che si dicono così per dire, non già un pensiero serio. L'ho detto a molti, credo anche a Lei, glielo ridico; senza di Lei qui, già mi sgomenta non poco la eventuale successione al nostro buono e grande Vecchio, ed è per me una vera tristezza ogni volta (e le volte si fan sempre più numerose) che mi ripete: questo lo farai poi tu ... Con Lei, lo creda, io guardava tranquillo all'avvenire : l'avremmo diviso da fratelli, e si sarebbe — ne ho fiducia ripetuto il caso del frater qui adiuvatur a fratre etc. Pensi se io posso anche solo imaginarmi alle prese con impegni e con difficoltà tanto maggiori, quanto Lei sa molto, ma molto meglio di me ; impegni e difficoltà che ìio veduto tali da schiacciarmi miseramente e vergognosamente, non ostante ogni più valido e generoso aiuto di Lei e di quelli che costì Le somigliano. Ma basta, per carità ; mi pare di stare a dimostrarle l'impossibilità di un viaggio, non dico alla luna, ma a Nettuno. E poi... (ho da dirlo? sì; perchè ad un fratello si può e deve dir tutto) sono diventato impiegato regio ... grazie al gran nome ed al gran cuore di Ceriani, alla veneranda maestà dell'Ambrosiana, agli uffici mirabilmente buoni del mio Grande Elettore 0. Ferrini, Giovedì scorso mi hanno creato (è proprio il caso di usare la parola) membro effettivo del E. Istituto Lombardo, e ... cosa fatto capo ha. Lei non rida ; anzi, oso dire, se ne dica contento, se è vero che vuol bene ancora all'Ambrosiana, come dice sempre e come sembra davvero. Della lettera alla quale questa rispondeva è da lamentare in particolare la mancanza, poiché essa conteneva la prima idea, 190], proponendolo per un beneficio : « Se aiutato a tempo, il Dott. Mercati può fra pochi anni avlcinarsi nel suo ramo al merito scientifico del Card. Mal, e certamente già adesso nissuno in Italia, eccetto forse Mgr. Cereani [.sic], e stimato fra i dotti come lui ».

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non si sa bene perciò da chi escogitata, della chiamata a Roma del futuro pontefice. L'iniziativa del metterla avanti risalì probabilmente al Mercati. Ma forse, nel concertarla, in qualche conversazione, ebbe parte anche il lombardo Bartolomeo Nogara, entrato nel 1900 alla Biblioteca Vaticana. Niente porta a credere che la proposta venisse avanzata per mossa di altri, investiti di autorità. Molto bella è, in ogni maniera, la replica del Ratti, così sinceramente stupito che si pensi a lui per quel più alto ufficio, così ammirevolmente modesto nel ritenersi impari a esso. E accoratamente sgomento è il sentimento con il quale confessa di vedere avvicinarsi l'altra minore successione, senza l'aiuto sperato del fraterno amico, ora lontano. Per anni, l'argomento non ebbe sèguito nel carteggio, così che sembra il Mercati desistesse subito dal parlarne. L'idea rimase certo, per allora, custodita nel segreto della corrispondenza epistolare e delle conversazioni tra amici.20 I due erano temperamenti sicuramente diversi. Il lombardo, fermo, sereno e dotato di un equilibrio straordinario di qualità e di virtù ; l'emiliano, forte anch'egii, ma nervosamente mobile e irrequieto, per un'intima angoscia che risentiva spesso da uomini e cose. Dell'azione che il Ratti tentava di esercitare sopra di lui è significante l'ampio inizio di una lettera 21 del Io marzo 1902 : « E questo si chiama cominciare bene il nuovo mese ! Pagando i debiti, e trattenendosi cogli amici : tanto più che mi pare che gli amici abbiano i nervi alquanto sottosopra... È l'impressione che m'ha fatto l'ultima sua. Purtroppo Lei ha ragione da vendere, e gli amici con Lei ; ma poi ha torto di lasciarsi tanto disturbare e mettere in pena. Non sono, lo sa, nè fatalista, nè miracolista, nè scettico, nè insensibile; ma poi penso spesso che, per fortuna le responsabilità sono distinte e divise, e che ciascuno può e dev'essere 20

Trovo soltanto questo accenno, nel Galbiati, Papa Pio XI evocato, p. 45 : «Crediamo di sapere che già dal 1902 [...] 11 Ratti era a cognizione del desiderio del P. Elude di essere chiamato, quando che fosse a reggere la Vaticana: desiderio di cui il Ratti conservò 11 segreto sino alla fine del 10 ». Ma quando, in realtà, l'Ehrle incominciò a pensare al Ratti come a suo successore, non so se sia noto per documenti. Del pari rimane alquanto enigmatico l'accenno che si legge in una lettera delTEhrle stesso al Cerlani, per il cinquantesimo di messa celebrato da questo il 5 giugno 1902: «In fine mi permetta d'aggiungere la preghiera per un Memento, affinchè chi sta facendo per Lei penitenza alla Vaticana, non si scosti troppo dagli esempi datogli». Era stato dunque pensato al Cerlani, prima che all'Ehrle, per la prefettura della Vaticana? 21 Datata da Milano, come tutte quelle del Ratti, quando non sia indicato altro luogo.

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contento quando ha fatto del suo meglio, se anche vede che altri non fanno e disfanno e malfanno. Perchè insomma il mondo è sempre andato ed andrà sempre così, che il bene effettivo, liquido e netto sia sempre un residuo più o meno esiguo, ma sempre prezioso — appunto perchè bene — tra quello che gli uni producono e quello che gli altri consumano e guastano, e non c'è altro modo di contribuire al bene comune e definitivo. So bene che altro è ragionare e altro sentire e che coi nervi non si ragiona. Si può però ragionare a proposito di nervi, per dirsi, per esempio, ma davvero e sul serio, di risparmiarli alquanto, di non imporre loro ogni anno il lavoro di due, di non metterli in sacco ma sottosopra... come fa Lei. La prego di raccogliere e di accogliere la raccomandazione vivissima e la vera preghiera che sta in questo mio modo di dire, e insomma di darmi retta in verità e in affetto ». Per fastidi, sicuramente non organici, di cuore, lo rassicurò, con una predizione che si avverò alla lettera : « Io pensavo bene al suo povero cuore, e ci pensai pure durante il viaggio, e ci penso ancora — per dirle e raccomandarle che non se ne preoccupi da una parte, ma dall'altra si abbia le debite precauzioni, specialmente evitando i troppo rapidi movimenti. Che se a 90 e più anni avrà ancora un poco di palpitazione, bisognerà aver pazienza e rassegnarsi ».22 Un'altra volta, dopo graziosi auguri onomastici, per la festa del Battista (« anche se dovesse dirmi che il suo S. Giovanni è l'altro, l'apostolo »), il 23 giugno 1905, lo animò alla pazienza, con un'originale espressione riferita : « Poi grazie di cuore della Sua ultima... Veramente mi ha messo dentro un certo rimorso, pensando la fatica di tanto scrivere; ma d'altra parte mi pareva rileggendola di vederla e udirla effondersi, con qualche sollievo della migrania che l'andare delle cose e degli uomini devono purtroppo metterle addosso. Quando sarà qui, le continueremo ; intanto — e sempre — pazienza ... con rabbia, come mi diceva un buon piemontese ». Per tutta questa corrispondenza epistolare ritorna, quasi ogni volta, il nome del Ceriani. Da una parte e dall'altra sono unanimi ammirazione e devozione per il grande Vecchio. Compiute di umanità, anzi di delicata affettuosità, appariscono le relazioni del Ratti, da ogni notizia fornita. Per una pubblicazione ricevuta dal Mercati : « Mgr. Ceriani dopo una prima brevissima ciera scura 22

Cartolina postale, datata S. XII. 03. Come altre, dall'autunno 1902, è indirizzata a una nuova abitazione del Mercati : Piazza Rusticuccl 34. Da altra cartolina del 13. III. 04, l'indirizzo appare ancora mutato: Salita S. Onofrio 25.

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alla dedica, si mostrò ripetutamente contentissimo e di questa e del resto )).23 Di lavori, gli ultimi, composti a fatica, e non senza tormento informava con libera confidenza, ma sempre benevola ; « Mgr Oeriani s'indraga nella prefaz. all'Omero nostro e sta benone )).2i « Mgr Ceriani sta bene e si accanisce — purtroppo — con Loisy. Dico putroppo, perchè : Io se ne travaglia troppo ; 2° lascia dormire l'Omero ambros. ; 3° non mi pare che abbia infilato la buona strada, o la migliore. Che ne pare a Lei? )).23 « Mgr Ceriani sta proprio bene, lieto anche di avere finito davvero l'introduzione alla riproduzione del nostro Omero. e di potere più liberamente spulciare Loisy )).26 Nell'ago sto 1906 si compirono i cinquant'anni dalla sua entrata nella Bi blioteca Ambrosiana, e furono celebrati con onoranze di carattere domestico,27 alle quali partecipò cordialmente il Mercati.28 Continuava a essere in buona salute, e così si mantenne, fino quasi all'ultimo.29 Un telegramma del Eatti, il 2 marzo 1907, annunziò la sua morte all'antico Dottore dell'Ambrosiana.30 23 Batti al Mercati, 1. III. (2. Il libro era Antiche reliquie Htunjiche Amhrosiane e romane con un excursus sui frammenti dogmatici ariani del Mai. Koma, 1902 (= Studi e testi, 7). La dedica porta : « A 1 Mons. Antonio M. Ceriani j quando | restituiva il Messale | alla Chiesa Ambrosiana | ed essa | ne festeggiava il giubileo sacerdotale | riconoscente ». 24 Ratti al Mercati, 13. I. 1903. Fu la edizione : II omeri Iliadi s pictae fragmenta Ambrosiana phototypice edita cura Doctorum Axt. M. Ceriani et Acìlii.t.is Batti. Praefatws est Ant. M. Ceriani. Medlolani MDCCCOV. 25 Ratti al Mercati, 21. V. 04. Gli scritti del Ceriani, proprio gli estremi, furono : Analisi dell'opera : Alfred Loisy, Le quatrième Évangile. Paris, 1903, nella Scuola cattolica, aprile 1904-glugno 19C0, in molte puntate. 26 Eatti al Mercati, 12. VI. 05. 27 Batti al Mercati, 23. VI. 05: «Noi vogliamo fargli una festa tutta di casa che non lo disturbi e non lo metta in impegni, che poi egli si esagera e si rende gravosi ». 28 Sì era pensato di offrire « un bello, grande ritratto di Pio X con sottovi una opportuna parola di rallegramento e di benedizione di suo pugno ». Con la lettera sopra citata il Mercati fu richiesto di procurarlo : ciò che egli fece. 29 «Mgr Ceriani sta bene e La saluta», il Batti scrisse, ancora, al Mercati. 25/2. 07. 30 « Monsignor Ceriani spirato undici mezzo. Ratti ». Il telegramma fu spedito alle ore 12.45. SU conoscono le manifestazioni di pietà date dal Batti alla memoria di lui, filialmente. Per la sua tomba, a Uboldo, dettò la bella iscrizione: «Antonlus Ceriani I Bibliothecae Ambrosianae praefectus j scientla editisque librorum monumentis | glorlam et Itallae extra fines adeptus | humanltate et vitae sacerdotalis sanctitate 1 omnium amorem et venerationem | sibi devinxlt », Iscrizioni attinenti alle vicende della Biblioteca Ambrosiana, cit., p. 9. Nell'annuale, curò la pubblicazione ; In memoria di monsignore Antonio Maria Ceriani Prefetto della Biblio-

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L'emozione che questi ebbe dall'evento è attestata da una risoluzione che espresse all'indomani, redigendo la minuta di una lettera, inattesa di contenuto : Mio caro Ratti, Non per una finta, non per un bel gesto, non per un colpo di testa, non per qualunque altra ragione che facilmente sarebbe sognata da chi non mi conosce, ma sinceramente, sul serio, dopo aver cercato di prevedere e ponderare tutto davanti Domineddio, e dopo aver anche sentito chi più è in grado di comprendere e giudicare [sopra ; P. Ehrle] il caso, quindi per la coscienza pura e semplice di compiere, se non un preciso dovere, un atto almeno convenientissimo di riconoscenza m'induco a scriverle la presente, che desidero venga quandocchessia confidenzialmente comunicata da Lei ai Colleghi e conservata poi nell'Archivio della Biblioteca Ambrosiana. Ma questa lettera non ha da creare alcuna preoccupazione a Lei nel caso che Ella istimi meno conveniente d'approfittarne. Lei la tenga allora per se e presso di se quanto tempo crederà bene, magari anche fino alla mia morte. Per la cosa in se io non voglio altro se non che si compia il voler di Dio, per il meglio dell'anima mia ; a tutto il resto io voglio per quanto è in me, restare indifferente, non ostanti i legami molteplici e certe umane preferenze che, a seconda, ci terrebbero ora a questa e ora a quella parte. Ecco dunque di che si tratta. E possibile che alla perdita dolorosissima del Ceriani la Biblioteca Ambrosiana riesca a provvedere convenientemente con qualche individuo capace, noto ai dottori. Ma è possibile pure che all'infuori del giovane Galbiati, il quale intanto va preparandosi, non si abbia in vista alcuno e non si sappia donde pescarlo. In questo secondo caso, per la riconoscenza profonda che nutro verso codesta Biblioteca a causa della formazione e dell'allevamento ricevutovi quando io ero sconosciuto a tutti, io sono disposto, se così piaccia al Collegio dei dottori, di fare quanto è in me presso il Santo Padre Pio X, perchè riconosca la convenienza e dia licenza di esibirmi. Questo, ripeto, io sono pronto a tentare con tutte le mie forze e non senza speranza di riuscita, benché naturalmente io voglia tenermi nei limiti più stretti della docilità e della devozione figliale, che debbo all'autorità e alla persona del S. P. Ora a Lei, a Loro di dirmi ciò che credono e stimano meglio. La mia parte iniziale è fatta. teca Ambrosiana nel primo anniversario della sua morte. Milano, Biblioteca Ambrosiana, 2 marzo 1908. Alla fine è il suo discorso per l'inaugurazione del busto marmoreo all'Ambrosiana (dove si legge il noto, bellissimo ritratto).

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Comunque, l'aggradiscano come segno dell'affetto profondo che mantengo per la Biblioteca, e della stima che ho per Loro persone, delle quali sono Devmo G. M.31 3. III. 1907 L'intento della lettera è quanto mai chiaro, e sicuramente sincera la mossa di generosità significata dall'offerta. Meno esplorabile sembra lo stato d'animo che ha portato questa alla rapidissima maturazione. Non apparisca temerario e irriguardoso congetturare che fosse nel Mercati anche una certa insofferenza di circostanze della vita quotidiana nella Vaticana, per difficoltà soprattutto di persone. Nè egli dà mostra di avvertire mìnimamente quanto sarebbe stato complicato, sotto l'aspetto pratico e delle convenienze, il suo ritorno all'ufficio e al grado lasciato nove anni prima, nel partire da Milano. Ammirevole per la bellezza morale, ma anche per il senso realistico delle cose, è la risposta immediata che gli diede il nuovo Prefetto dell'Ambrosiana.32 Milano 10 marzo 1907 Carissimo e mirabile amico, Tenevo qui in disparte dalla valanga vera delle altre la penultima Sua così viva e parlante imagine dell'animo Suo e della Sua filiale devozione per il nostro grande, venerato, caro estinto:33 mi proponevo di risponderle dopo questo doloroso trambusto, che mi travolse come un naufrago, un trasognato che quasi non sa connettere. Lei sa tutto quello che era anche per me il compianto Monsignore nostro ! pensi che in questi ultimi anni la sua affezione paterna, la sua confidenza, il suo abbandono non conoscevano più limite alcuno ... pensi che da anni era divenuto perfino mio penitente ... che mi lascia suo erede, esecutore, arbitro e giudice inappellabile di tutto il suo e di tutte le sue disposizioni ... e poi, ne sono certo, sentirà come nessuno come 10 mi trovo e devo trovare. E sentirà pure l'effetto in me prodotto dall'ultima Sua ... La trovo sul mio tavolo rincasando dall'aver pranzato 31

Dalla minuta, che porta in testa la nota: «ritoccata qua e là e spedita 11 9 marzo 1907. Ora faccia Dio che io stia o vada, secondo che è bene per l'anima mia!». La lettera non si conserva nella Biblioteca Ambrosiana. 32 Era stato eletto 11 giorno 8 dal Collegio dei Dottori, composto da Antonio Ceruti e Alessandro Bianchi, Galbiati, Papa Pio XI evocato, cit., p. 291. 33 Anche questa lettera è mancante nella serie di quelle rimaste all'Ambrosiana.

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con la mia buona vecchia Mamma. Pensi: non è un'ora che anche a Lei, a costo di menomarle il gaudio materno, ripetevo che pur troppo, dopo tutto, alla sciagura del perdere un tale padre vero mi si aggiungeva quella del succedere minimo art un sommo ; che pazienza fosse stato ancora qui il dott. Mercati; che, se non era il dubbio di far cosa poco onesta, avrei tentato qualche cosa, pur non sapendo bene che cosa, per farlo tornare a Milano ! Proprio così, quasi alla lettera ... Adesso capirà che nella Sua proposta io non vedo soltanto un tratto nobilissimo del Suo cuore, un tratto che in ogni caso io non dimenticherò mai, e che Le assicura per sempre con la mia, la gratitudine dell'Ambrosiana e di tutti i suoi ; ma ci vedo anche una disposizione mirabile di Provvidenza che mi recherei a grave colpa di non secondare. Senta, caro Don Giovanni, se proprio non Le pare di sacrificare troppo lasciando Roma per Milano, se Le pare possibile che il S.0 Padre e il P. Ehrle rinuncino a Lei ed all'opera Sua, per me il guadagno mio e dell'Ambrosiana è apparso tanto evidente e prezioso e grande e, in fondo al cuore desiderato se non (ormai) sperato, che mi sono subito messo in ginocchio e dopo averne ringraziato il Signore, l'ho pregato di suggerirmi qualche buona via : ed ecco quello che credo davvero il Signore mi ispiri. Se Lei crede, io raduno i due Colleghi miei e comunico loro la Sua proposta e li persuado a deferire a Lei la carica di Prefetto dietro mia rinuncia, o a domandare alla S.a Sede in tutto silenzio che derogando, o meglio, cumulando le costituzioni nostre abiliti il Collegio a nominare, pel bene dell'Ambrosiana, un Comprefetto nella persona di Lei. Dopotutto qualche cosa di simile è già sancita nelle costituzioni stesse che parlano di un Presidente o Prefetto del Collegio diverso dal Prefetto della Biblioteca o Bibliotecario. Così mi pare che anche le forme sarebbero meglio salvate e soddisfatte. La prego a mani giunte ; scelga ed accetti e venga di nuovo a stare con noi. Si troverà bene : e per l'Ambrosiana si aprirà, io ne sono certo, colla grazia di Dio, un periodo di nuove benedizioni e di nuova prosperità: Dio mio! mi fa l'effetto di una visione splendida: non la sciupiamo per carità. Quanto al morale, Lei conosce abbastanza l'ambiente, e noi ci conosciamo abbastanza per poter garantire l'uno dell'altro. Quanto al materiale non si preoccupi : in buon punto mi è stata conferita la pensione académica 34 del compianto Ascoli : non c'è dubbio o difficoltà di sorte. Lei mi ha messo innanzi tal cosa che anche la mia povera prelatura 35 (di cui per altro nulla so, assente il Card, [inale]) mi par men che niente, pur ringraziandola delle Sue felicitazioni ; faccia come me : mi risponda subito, bene. La saluto come mai. Affmo riconoscentiss. Suo A. Ratti 34

Dell'Istituto Lombardo di scienze e lettere. Graziadio Ascoli, l'illustre glottologo, era morto 11 21 gennaio 1907. 35 II Ratti era stato nominato 11 6 marzo prelato domestico.

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Con pari prontezza, il Mercati replicò subito, ampiamente, e spedì il 13. Ecco la minuta della lettera : 36 Mio caro D. Achille, Inutile esprimerle la commozione prodotta in me dalla lettera fraterna di Lei. Nei momenti decisivi della vita — e per me è tale il presente — la parte sensibile dell'anima diviene tanto più sensibile ... Ma ora dobbiamo sforzarci di ragionare con calma perfetta e predisporre le cose nella maniera migliore, cioè secondo Dio, per « render certa la nostra vocazione m37 colà dov'Egli ci voglia nella sua infinita sapienza e misericordia, perchè là solo potremo salvarci e fare un po' di bene alla S. Chiesa e alla scienza. Dunque Io lieto che Ella trova conveniente a codesta Biblioteca il rimedio proposto da me in mancanza di meglio, e riconoscente a Lei per la generosissima disposizione a spogliarsi ad hoc financo della prefettura meritamente conferitale o almeno a condividerla con me, 2° ricuso assolutamente questa profferta, perchè non sono nato nè adatto a dirigere e comandare, e mi parrebbe una piccineria, una vanità il tenere a un nome, a un'apparenza pura e semplice, come è dovere, in servizio della Biblioteca aiutando Lei da fratello minore. 3° Un favorevole attestato, dovrò se mai, ottenerlo di qui, e non dubito che mi verrà rilasciato tale da far tacere coloro i quali, vittime de' propri errori e della propria pertinacia, sarebbero lieti di presentarmi per un compagno di sventura e di creare cosi diffidenza e disprezzo contro l'Autorità, come se fosse cieca persécutrice di quanti studiano con coscienza e scrivono con sincerità.38 4° Quanto alle condizioni materiali è facile che io abbia bisogno d'aiuto in principio per le spese straordinarie di sgombro, trasporto e imballazione ecc., giacché i pochi miei risparmi ho dati tutti ad un giovane parente abbandonato, veramente meritevole d'aiuto per la sua bontà e attività, ma che ora non sarebbe in grado di restituire, se pure lo sarà un tempo. 5. Potrei forse ritenere, con dispensa, il canonicato di S. Anastasia, perchè non importa obbligo di residenza ed è come beneficio semplice ; ma a) credo che le costituzioni dell'Ambrosiana non lo permettano, b) ed anche se lo permettessero o potessi ottenere dispensa, mi ripugnerebbe di divenire uno di quei poco edificanti commendatarii, in linguag36

La quale manca, ugualmente, nell'Ambrosiana. Sopra la minuta è annotato : « ricorretta e spedita 11 13 marzo 1907 ». 37 «Certam vestram vocationem et electionem faciatls», II Petr., I, 10. 38 L'accenno è alle misure disciplinari che, in quegli anni di crisi modernistica, venivano prese in confronto di studiosi ecclesiastici collocatisi su posizioni avanzate. Il modo con cui è espresso appare significante, perchè il Mercati non condivise gli eccessi di questa reazione.

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gio odierno puri e semplici sfruttatori, che quasi nessun bene e spesso tanto male fecero alle chiese ed alla Chiesa; c) ed in caso, ne lascierei gli obblighi e i frutti a qualcuno dei colleghi della Vaticana, piuttosto che rinnnziarlo ... col rischio che venga dato ad altri più pronti o più protetti. 0° Ora, venendo al nodo, sono disposto a fare, quando Loro vogliono, il tentativo presso il S. Padre ed ho già scritto la supplica che presenterò di persona, indicandovi le ragioni della grazia ; debbo però avvertire che non potrei venire lì sui due piedi, dovendo terminare la fototipia del cod. Vaticano, spero dentro il Maggio venturo. Veggano quindi se ora subito o dopo qualche tempo io debba muovermi. 7° La prego inoltre di considerare se ad avviar bene le pratiche e a facilitarne la riuscita giovasse mai che assieme alla mia domanda il S. Padre avesse anche una domanda — la presenterei io stesso — del Collegio dei Dottori (magari con una commendatizia del Cardinale Arcivescovo) nella quale, ricordata la natura eccl. e l'importanza presente dell'Ambrosiana, e la necessità di tenerla ora provvista meglio che ai tempi dei tempi, si esponesse la difficoltà a provvedere, si accennasse al quasi diritto della mia persona come alunno, e si facesse vedere come il S. P. deve consider non come estranea [sopra ; ma quale veramente è come] l'Ambrosiana se non al pari, almeno dopo la B. Ap. Vat. Ma per questo mi rimetto pienamente a Loro. D. Ach. car.mo, ecco quanto ho da dirle. Intanto faccia pregare le Suore del Cenac.,39 come ho fatto pregar io altra Comunità religiosa, e mettiamo tutto nelle mani di Dio, supplicandolo a fare ciò che è meglio per le anime nostre. E basta. Di sacrifizii non discorriamo. L'unico vero incommodo per uno di IO anni sarà il cambiare sede di studio, ma questa è cosa secondaria nella vita ... Ricevuto il nobile documento, il Ratti fece la cosa più ragionevole e leale che potesse fare, e scrisse al p. Ehrle,40 con il quale anche egli manteneva da anni relazioni della più cordiale colleganza.41 Il contenuto della risposta che ne ebbe, riferito nella lettera seguente, allargò di molto il «contesto» dell'iniziativa: 39 La comunità di Nostra Signora del Cenacolo, della quale il Eatti fu cappellano dal 1882, esercitandovi attivo e fruttuoso apostolato, Novelli, Pio XI, cit., pp. 81-88. 40 Con un biglietto da visita, del 23. 3. 07, avvisò il Mercati : « Carissimo amico, scriverò presto per la nota faccenda a Lei e a p. Ehrle [...] ». La lettera del Ratti a questo non si conserva tra le carte Ehrle, nell'Archivum Romanum Societatls lesu (come nessuna altra del Ratti). Nò all'Ambrosiana si trova la risposta dell'Ehrle al Ratti. D'ora in avanti, se non se ne darà altrimenti avviso, non si noterà ogni volta la mancanza delle corrispondenti, nei depositi rispettivi. 41 L'Ehrle aiutò specialmente a costituire nell'Ambrosiana un laboratorio di restauro dei manoscritti, e andò, nell'agosto 1906, a vedere i «più malati»,

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Nello Vian Milano 30.3.07

D.n Giovanni mio carissimo e desideratissimo, la Santa Pasqua mi fa pagare i debiti. Della Sua proposta io penso ora e penserò sempre quello che ne ho pensato al primo leggerla. Mi sarei chiamato in colpa come amministratore infedele, se non avessi fatto tutto il possibile mio per procurare all'Ambrosiana il vantaggio che la proposta rappresenta. Ma ho dovuto bentosto persuadermi che nulla è possibile e che purtroppo tutto finirà con nuovi ed effusi ringraziamenti a Lei anche a nome e per incarico di questi miei Colleghi e Conservatori e con riporre le sue lettere in Archivio ad perpetuam rei memoriam ed a scorno dei pessimisti e deterministi presenti e futuri. L'impossibilità viene di lì, da Eoma, e proprio dalla Bibl. Vaticana, come purtroppo temetti fin dal primo momento. Il modo non entrava — nè poteva — nelle mie timorose previsioni ; ma il modo non conta nulla. Come Le scrissi, mi rivolsi subito al P. Ehrle ... pro informatione et voto: mi rispose pur subito e coll'usata bontà, non già opponendosi alla cosa o, come si dice, scartandola, ma mostrandomi chiaramente di non concepirla lui possibile, se non in un contesto di cose, di sostituzioni e dì traslochi, che per me vuole appunto dire l'impossibile, senza lasciarmi neanche un brevissimo posto per ragionevoli speranze in un avvenire più o meno lontano. Non so capire davvero come il Emo P. Ehrle non veda in quel contesto che accennavo le impossibilità di cui è pieno. Per me mi fece e mi fa l'effetto di non vedere più affatto il miraggio creatomi dalla di Lei proposta e di ritrovarmi, un po' sgradevolmente — non nego — ma con rassegnata tranquillità davanti alla dura realtà, muta, almen per ora, d'ogni promessa, e ... pazienza! — Mi subentra perfino il timore che P. Ehrle sia stato pili malato assai di quello che a Loro non sembrasse, dacché anche col Prof. Nogara tornava su quelle sue idee e su quel contesto. Ma, come e da Lei e da Nogara mi si scrive che il E. Padre sta meglio ed è in piena convalescenza, non dubito punto che anche a Lui comincia — a dir poco — a sembrare quello che sembra a me. Non mi resta, mio carissimo Don Giovanni, che ringraziarla di nuovo, come faccio con tutto il cuore del suo nobilissimo pensiero e pregarla di conservarmi, non dico la sua amicizia che mi parrebbe di offendere, ma il beneficio della sua assistenza e del suo aiuto. Ella conosce troppo bene l'Ambrosiana e si trova dall'altra in un centro troppo importante e troppo ricco di contatti, relazioni e informazioni d'ogni genere per non potermi dare preziosi consigli ed aiuti d'ogni maniera. Scrivo anche al Emo P. Ehrle, e scrivo su per giù le stesse cose. Mi ricordi al Prof. Nogara, agli amici tutti ; preghi per me e mi creda sempre il riconoscentissimo amico suo A. Eatti come danno notizia varie del Batti al Mercati, il 20. VI, 11 17. Vili e 11 21/8 di quell'anno.

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Il « contesto di cose, di sostituzioni e di trasloclii » prospettato dal p. Ehrle è abbastanza facilmente congetturabile : egli si sarebbe ritirato dalla prefettura della Vaticana per lasciare questa al Ratti (è la prima volta, per quanto sappiamo, che l'idea viene messa avanti, dopo quell'anticipo del 1901). Solo così il Mercati avrebbe potuto tornare a Milano, come prefetto dell'Ambrosiana. Ma, con il suo senso pratico, il Eatti vedeva che questa specie di giuoco di scacchiera era complicato, e anzi, per gli argomenti della sua modestia, voleva dire !'(( impossibile ». Ma il suo corrispondente non disarmò, e rispose subito : 2/IV/1907 Don Achille car.mo, La lettera giuntami iersera contiene — se non erro — un negative et non amplius espresso in buone maniere, e m'affretterei a riceverla come tale se veramente solo pro forma io avessi proposto quanto proposi. Ma siccome io, non ostante tutto, persevero negli stessi sentimenti di prima e credo tuttora unica via legittima ed efficace, e della quale nessuno ragionevolmente può offendersi, è il ricorso al S. Padre nel quale so è il diritto di disporre della mia sorte, e questo ricorso lo posso far io da me, anche senza l'appoggio vostro, naturalmente se in fondo permangono anche in Lei e Colleghi le disposizioni di prima, così io chiedo esplicitamente se la negativa sia data alla mia profferta ovvero alla proposta o alle proposte che di suo moto, a mia insaputa, abbia fatto il P. Ehrle e che mi hanno vivamente disgustato. Nel primo caso rinnovo le proteste della mia pienissima deferenza e indifferenza a quanto Loro sarebbe parso meglio nelle proprie condizioni, giacché io, lasciata ogni considerazione di commodi e d'incommodi inevitabili in ognuna delle alternative, ho mirato e miro soltanto a secondare i disegni della Divina Provvidenza quali a me e ad altri potevano apparire. Nel secondo caso io non esiterei un istante a mantenere la parola per quelle stesse ragioni per cui la diedi e non me ne tengo ancora libero. Tanto più che ne ho ancora ragione nella poco soddisfacente maniera ond'io. dopo avere con tutti i riguardi, candidamente esposto il mio disegno ed i motivi e dopo averne ottenuto lode, sono ridotto a oggetto di mercanteggio [sopra : nell'esclusivo int.] senza prevenirmi punto, e così s'è come avvilito ciò che io facevo per sentimento di gratitudine alla Biblioteca Ambrosiana e a Voi. Dopo la mia assicurazione di avere notificato lealmente la cosa al P. Eh., benché io non ne avessi obbligo, Lei era giustificata a non aprir trattative con lui, che dopo tutto non fece nulla di simile con Loro, anzi inculcò il silenzio e solo in extremis dietro il mio rifiuto di

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far l'odiosa parte scrisse a Ceriani, e che può, se interrogato dal S. P., esprimere il proprio avviso ma nulla più, non essendo egli padrone di me. Ecco, caro D. Achille, quanto ho da dirle in risposta alla Sua. Communichi — se crede — ai colleghi e poi mi risponda con una certa sollecitudine per uscirne fuori una volta da queste incertezze. Credo ora di poter dire con verità : quis ultra tacere debui ... et non feci? Ami, e raccomandi sempre al Signore il Suo affino G. M. P. S. - A Nogara non ho mai discorso della cosa, ma veggo — e me ne duole — che altri glien'ha parla [to]. Anche per questo motivo desidero che le mie lettere vengano conservate perchè all'occ[orrenza] e R. e Eh. veggano quanto lealmente io abbia cercato di portarmi in questa congiuntura.42 Le acque erano mosse, e ne riaffiorava tìno il ricordo della già antica depredazione inferta all'Ambrosiana. Retta era sempre l'intenzione, innegabilmente, ma dalla circostanza veniva bene fuori l'uomo, con il suo temperamento, capace anche d'impennate con chi egli amava e stimava, come questa volta con l'Elude. Per fortuna, chi tenne in mano le carte del giuoco (l'espressione è sua), anche con l'apparenza di lasciare agli altri il giro della partita, fu il Ratti, con la sua esperienza di cose e conoscenza di uomini. Abile e prudente appare la difesa del Prefetto della Vaticana condotta da quello nell'Ambrosiana, nella lettera che scrisse anch'egli subito, per spegnere la vampata : Milano 4.4.07 Don Giovanni mio carissimo e desideratiss. Sono a tutt'altro disposto che a pentirmi di aver messo e fatto mettere le carte in banco ... non dico a Lei, che non ha mai saputo giuocare al coperto, ma al buon P. E. — Al quale però io devo subito rendere, come una giustizia, la testimonianza che Le ha giuocato o inteso giuocare il più amorevole ed onorevole giuoco. Si vede, come già Le accennavo, che il buon P. E. è o si sente davvero o più malato che non sembri o troppo gravato dalle responsabilità e dalle fatiche del posto. Nessuna meraviglia, se ha cercato di coordinare alle sue disposizioni, ai suoi disegni — io aggiungo alle sue modeste illusioni —le disposizioni da Lei manifestatigli. Forse ha pensato che il riserbo con Lei potesse facilitare lo svolgimento delle cose. Io poi, come non 42

Dalla minuta. In fondo alla quale, la nota: «rltocc. e spedita il 2 IV *7».

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ho dubitato neppure un istante della semplicità delle di Lei proposte, così ho subito pensato che non in tutto quello che mi scriveva il P. E. l'aveva consultata nè di tutto il suo pensiero fatto consapevole. Di qui quel tanto di velo e di riserbo nella mia risposta a lei. Io La ringrazio di trovare giustificata appieno la mia condotta nel non aver voluto intavolare neppure un inizio di trattative nella visione per me chiara di questi sottintesi e misteri tra Lei e P. E. Questa visione equivaleva per me alla visione non meno chiara di una vera e propria impossibilità. Non era dunque la mia risposta un: negative et non amplius ; ma propriamente, in casu, un; « non farsi luogo a procedere ». Or che l'ultima sua a procedere mi fa luogo, procedo senz'altro ; e, poiché mi sembra d'aver fatto col P. E. lealmente il dover mio, dico a Lei: venga, tenti tutte le oneste vie per venire, mi dica che posso fare per aiutarla o meglio per aiutarmi all'intento. Se il mio desiderio fu e rimase sempre vivissimo, la mia speranza torna a vivere come nel primo istante. Vero è che, come fin dal principio Le scrissi, mi sembra che mancherebbe qualche cosa ad un certo qua! debito di pubblica onestà se Ella tornasse come semplice dottore ; ed anche il P. E. mi scriveva che Ella in vista de' « grandi ed essenziali servizi resi alla Vaticana ed alla S. Sede » non può tornar quassù in « posizione secondaria » ; ma ora sembrami che anche a questo si troverà rimedio. Vero è anche che, assaggiato prudentemente il terreno sulla riattivazione del Prefetto del Collegio accanto al Prefetto della Biblioteca, non ho trovato molto propensi i miei Colleghi, trovando essi di troppo tre cariche (due Prefetti ed un Viceprefetto) in un Collegio di quattro, de' quali uno giubilato. Ma assaggiato lo stesso terreno sulla eventuale di Lei venuta fra noi, l'ho trovato disposto come ad una festa e ad una fortuna. Penso che, una volta Lei qui, parecchie cose diverrebbero possibili ed in breve tempo fatti compiuti con soddisfazioni di tutti e di tutto, compreso il debito accennato di publica onestà. Se dunque a Lei pare di poter fare quella sua domanda al 8.° Padre senza recare a Lui dispiacere, a se danno o noie, la faccia senza indugio : se crede possa convenire che io, per conto mio e nell'interesse troppo in se evidente e per me troppo evidentemente obligatorio, ag giunga una domanda mia, lo farò subito. Almeno sapremo bene che pensare e sperare ne resti. E anche Lei veda di rispondermi al più presto, anche perchè, dato il mio forzato trasloco, si dovrà tosto decidere sulla destinazione degli appartamenti. Spero che il P. E. non si sarà messo in collera con me : mi par proprio di non meritarlo : ad ogni modo gli dica che la sua lettera, come egli volle, è già distrutta. Preghi tanto per me e mi creda sempre il suo affilio e più che mai riconoscente amico e come fratello A. Eatti. Delle spese di trasloco — se mai, utinam, occorrenti — non si dia il minimo pensiero.

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Preso con così esperta psicologia per il suo verso, e sollecitato a portare il suo tentativo in fondo, il Mercati mise meglio le carte in tavola, scoprendo in sostanza com'egli vedeva quella difficile partita delle successioni, perchè si trattava in realtà non di una, ma di due provviste: (I Aprile 1907 Mio caro D. Achille, oggi stesso o domani chiederò l'udienza al S. Padre per presentarGli la domanda, della quale le spedisco copia. Dovrò attendere non pochi giorni, perchè c'è grande ressa di forestieri i quali sospiravano da tempo qualche ricevimento, e perchè è imminente il concistoro che richiama di giorno in giorno tanta gente la quale deve essere ricevuta dal S. P. Perciò, se lo crede, mi faccia tenere quella domanda che suggerii loro, affinchè il S. P. vegga di avere di fronte anche il desiderio del Collegio dei Dottori e senta le loro ragioni. Quanto all'Emo Ferrari, giudichino Loro se convenga o no farlo intercedere. Ohe avverà, non lo so. È possibile che il S. P. nella sua grande benevolenza mi firmi subito la domanda ; è possibile anche che Egli si prenda tempo per sentire l'Emo Rampolla e P. Ehrle, e che questi facciano qualche difficoltà. Per questo motivo e perchè realmente la mia partenza può parere buona ad agevolare la nomina del futuro Prefetto della Vaticana, chiunque sarà, io ho aggiunto nella domanda l'accenno alla successione nel doppio senso 1. che non potendo io in coscienza per difetto di certe qualità indispensabili accettare il posto e quindi dovendosi nominare altri, a) la cosa sarebbe per fare una disgustosa impressione in tanti, specialmente esteri, amici e benevoli miei, i quali anziché a credere a un mio rifiuto o alla mia incapacità, penserebbero piuttosto a sfavore o ad intrighi; b) e il futuro prefetto, se non è uomo di intelligenza e virtù addirittura superiore, potrebbe sentirsi a disagio meco, senz'ogni mia colpa, quasi gli facessi ombra, ... come da anni veggo essere W.43 riguardo ad Ehr. Ed anche 2. (approfittando qui dei disegni del P. Ehrle) che me presente costì, una chiamata di Lei sarebbe meno disastrosa per l'Ambrosiana, ossia meno impossibile per un riguardo, lasciando ora af43

Mons. Pietro Wenzel, nato a Roma nel 1843, fu Primo Custode e, dal 1905, Sotto-Archivista dell'Archivio Segreto Vaticano ; morì il 24 maggio 1909. L'Ehrle, postillando una propria lettera al card. Rampolla datata 3 marzo 1891, segnò questa memoria : « 10/IV. 14. Papa Leone aveva deciso la mia nomina a Prefetto dell'Archivio dopo la morte del card. Hergenrother [3 ottobre 1890] e prima della nomina di Mgr (Card.) Glasea», Batti.ori, El pare Ehrle, Prefeote de la Vaticana, cit., p. 77. Di una piccola, lunga guerra alla giornata, tra Archivio e Biblioteca Vaticana, narra la cronaca minore del tempo.

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fatto fuori di considerazione se per altri riguardi la cosa resterebbe ugualmente impossibile. Chi può indovinare il futuro? Che cosa dice Lei? Quanto al resto, trovo giustissima l'opposizione dei Colleghi allo sdoppiamento delle cariche, e per il loro motivo e per l'altro, io non sono punto adatto al governo, scrissi subito che non accettavo affatto le generose profferte di Lei. La benevola osservazione del P. Ehrle se ha valore, lo deve avere presso i Sup. di qui, affinchè m'abbiano a lasciar partire in modo che non si possa dire di avere procurata o almeno veduta volentieri la mia partenza. Basta. Eaccomandiamoci a Domine Dio affinchè disponga tutto per il meglio delle anime nostre. Tanti saluti dall' Affmo suo G. M.44

Anche con questa lettera, rimangono incongruenze, almeno in apparenza, nel disegno del Mercati. Egli metteva avanti, è da ritenere in tutta sincerità, le ragioni che gli vietavano di pensare a succedere all'Ehrle (il quale, va aggiunto, non credette mai per suo conto di proporlo), ma si preoccupava dell'effetto che la sua mancata scelta poteva produrre su altri, con inesatte interpretazioni. Aveva l'intenzione di ritornare a Milano, ma comprendeva che difficilmente poteva farlo da semplice Dottore. L'idea non espressa era forse che egli poteva, nel governo della minore biblioteca, succedere al Ratti, chiamato a Roma. In ogni maniera, il più alto arbitro stava per essere sollecitato della decisione. L'8 aprile, il Prefetto dell'Ambrosiana scrìsse al Mercati : « Rispondo subito alla desideratissima sua ringraziandola del gran passo se non fatto iniziato. Staremo a vedere che cosa deciderà il S. Padre... Purtroppo, temo io, deciderà secondo l'antica rubrìca e la più antica azione « uti possidetis» [...] preghi, preghiamo molto perchè la volontà di Dio sia fatta, e bene ; proprio sicut in coelo ».45 44 Dalla minuta. 45 Con altra, del 12 aprile lo informò di avere esposto al Conservatori, in seduta collegiale, la sua «generosa e nobile esibizione di tornare all'Ambrosiana», e gli notificò che essi « saranno ben lieti di secondare l'operato del Collegio dei Dottori in ordine all'eventuale di Lei nuova cooptazione nel Collegio stesso ». Gli rimise, assieme, la supplica destinata al Papa, redatta da lui anche in nome dei colleghi.

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L'attesa dell'udienza si prolungò qualche settimana, e l'esito non fu risolutivo, come il Mercati comunicò subito : Caro D. Achille, Oggi ho presentate le due suppliche e mi sono sforzato di parlare onestamente come un galantuomo e un prete dee parlare. Il S.0 P." m'ha accolto affettuosamente e non ha mostrato disgusto, però s'è riservato di mandarmi la risposta per iscritto dove [per dopo, evidentemente] aver conferito col Card, di Stato. Preghiamo ancora ! Grazie delle notizie che bastano. Saluti. In tutta fretta Suo 3 maggio, ore 18½ G. Mercati Riprese l'attesa, e si mossero altri passi, per ottenere la decisione definitiva. Il 5 maggio, prendendo atto del risultato dell'udienza, il Ratti suggerì : « Poiché il S. P. si riserva dì conferire col Card. Segretario di Stato ed il P. Elude è, parmi ricordare, in confidenza con questi, non mi sembra impossibile un accorciamento di attesa ». La via non era la migliore, come s'intende da quest'altra del Mercati, in data 21 maggio : Don Achille carmo ! Quanto a me, non ho ancora avuto una risposta definitiva e temo assai a sollecitarla io stesso. Dopo la venuta di D. Giuseppe Nogara,46 P. Ehrle, — è la prima volta questa che mi ha parlato della cosa dopo quel tal tentativo ... —- dettomi che oramai aveva sentito discorrere da varie parti della cosa, soggiunse che egli credeva opportuno di dirmi che egli era stato richiesto del suo parere sulla domanda mia, e che egli l'aveva dato contrario all'accettazione e aveva informato il Card. Rampolla, il quale non lasciò capire se già ne sapesse o no, ma si limitò ad approvarlo. Io risposi che aspettavo la decisione del S.0 Padre — qualunque fosse — perchè Egli solo poteva disporre della mia sorte; che tuttavia si riflettesse sul serio alle ragioni di necessità esposte da me e 46 Fratello di Bartolomeo e di altri illustri nel campo ecclesiastico e laico, il sacerdote Giuseppe Nogara nacque a Bellano nel 1872; fu dapprima professore nei seminari milanesi e dal 1906 al 1912 direttore della rivista La Scuola cattolica. Pio XI lo chiamò a Koma, per dirigere 1'« Opera della Propagazione della Fede»; nel 1925, lo fece segretario generale del comitato per l'anno santo. Il 27 gennaio 1928 lo elesse arcivescovo di Udine. Egli tenne questo governo lino alla morte, che avvenne il 9 dicembre 1955.

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Una illustre successione ; Achille Batti

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alle mie deficienze come impiegato qui. Egli disse qualche complimento e che non aveva dubbio su quello che aveva fatto. Don Bogara le dirà come io abbia cercato di far ricordare al S.0 Padre la cosa per mezzo suo e che cosa abbia il S.0 P.e risposto, cioè che la risposta sarebbe data a suo tempo, e — stando all'impressione ricevuta da Bogara — non favorevole. Se fossi ancora sotto Leone, la crederei finita. Sotto Pio no, tanto più che (se Bogara mi ha detto il vero) anche l'Emo Ferrari avrebbe appoggiato la domanda. Io amo non pensarci, perchè o effetto del tempo o effetto della stanchezza e di qualche altro dispiacere, o effetto della lunga compressione dello spirito (con pena ho discorso con chi sapeva : agli altri niente, nemmeno con Angelo e Bogara), sono soggetto a sovreccitazione nervosa con un certo fastidio. Era quasi esausto, ma non disposto ancora a quanto gli dichiarava il suo corrispondente, il 28 maggio : «... vengo allenandomi all'atto di rassegnazione con che, forse ben presto, dovrò accogliere la formale notizia che tutto rimane nello statuquo » (lo incaricava anche di riverirgli p. Ehrle, « e gli dica che, comunque, gli voglio bene quanto prima e più, perchè vedo che è un gran galantuomo »). All'indomani, il Mercati riscrisse : Caro Ratti [...] Quanto a me, francamente non sono ancora sicuro nè del sì nè del no del S." P.e; penso però che non dovrà tardar molto una risposta dall'aneddoto narratomi dal Graffln con molto piacere di me e — credo — di loro. M.r Graffln avendo presentato al S. P.tre volumi della sua Patrologia Orient., il S. P. disse che li avrebbe subito mandati alla Vaticana. Avendo M.r Graffln soggiunto di avere portata una seconda copia per la Vaticana, allora il 8.° P.e con una certa semplicità si lasciò sfuggire: « Allora la manderò all'Ambrosiana ». Graffln ama l'Ambrosiana anch'egli, e quindi non se n'è avuto a male ... come forse avrebbe fatto qualche alti-o donatore. Penso quindi che l'essersi fatto vivo Lei sia stato un bene anche per questo rispetto, di fare cioè ricordare al S. P. codesta biblioteca ecclesiastica quant'altra mai ; e penso anche che il S. P. stia finalmente pensando a una risposta e per Loro e anche per me, benché non si debba alcun riguardo a me. Ma al 9 giugno la risposta non era ancora giunta, tanto che il Mercati pensò di scrivere una sollecitatoria al segretario particolare del Papa, mons. Giovanni Bressan.47 In copia, la mandò a Milano, 47

II testo della copia, conservata nella Biblioteca Ambrosiana, reca: « Monsignore ill.mo e rev.mol II .1 maggio u. so. ebbi l'onore di presentare al

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il giorno stesso che gli perveniva, finalmente, la convocazione presso il prelato.48 Andò, all'indomani, e ne diede subito relazione al Ratti con questa lettera, conclusiva del tentativo : Caro D. Achille, Voltiamo carta ... e non ne discorriamo più. Sarà mia inabilità, sarà la potenza degli altri, sarà anche il mio troppo — se pure è possibile un S0 Padre una supplica del Collegio dei Dottori e del Conservatori della Biblioteca Ambrosiana di Milano ed un'altra mia, perchè S. S.tó si degnasse concedermi di ritornare all'antico ufficio di dottore in d.a Biblioteca, non sapendosi come provvedere al vuoto lasciato dal compianto Mons.r Ceriani e — posso aggiungere — ad altro vuoto che non tarderà molto a farvisi ed è già virtualmente aperto. Nella supplica esponevo le ragioni perchè lo mi tenevo legato a farlo e che è superfluo esporre di nuovo. Finora la S.tà S. non ha manifestato il voler Suo, e benché io cerchi di mantenere l'indifferenza massima abbandonato alla Divina Provvidenza, della quale unicamente intendo seguire i disegni, quali che siano, tuttavia non posso nascondere l'imbarazzo e l'incomodo che alla Biblioteca Ambrosiana ed anche a me porterebbe un ritardo troppo prolungato. Ardisco pertanto di raccomandare la cosa alla Sign.a V.a ill.ma e rev.ma, e di aggiungere che Le sarei obbligatisslmo se Ella si compiacesse di esporre al S.0 Padre queste altre ragioni per la grazia, le quali sebbene molto minori possono, insieme colle altre, avere efficacia. 1°) Per quanto ho inteso dappoi, l'Ambrosiana ha vero bisogno, ed 11 Clero Milanese e altri di là vedrebbero molto volentieri il mio ritorno, mentre qui fuori di ben pochi, dell'andata mia non si dorrebbe alcuno, se pur non godrebbe. 2«) Qui dove si lamenta per guaio non minimo la smania di piantarsi per fas e per nefas in Roma e la caccia sfrenata ai posti, e posti sempre maggiori d'onore e di stipendio, non sarebbe cattivo esempio il ritiro volontario d'un ecclesiastico non senza ogni abilità se avesse voluto, come altri, « fare la carriera ». 3°) Finalmente io stesso sarei sottratto per sempre alla triste necessità d'importunare con domande — o tosto o tardi — i Superiori, alcuni dei quali almeno sembrano indifferenti di fronte a necessità vere, anzi ad ingiustizie, se pur non lasciano trasparire il sospetto di segrete ragioni d'avidità, d'ambizione, di consorteria o che so io. Oramai ho detto candidamente tutto. Il S.0 Padre disponga come giudica meglio : io con eguale animo andrò o resterò venerando negli ordini del S.0 Padre il volere di Dio. La riverisco profondamente ecc. Roma 9 giugno 1907 ». 48 In post-scriptum, datato 12. VI, a lettera dell'll giugno 1907, informò il Ratti : « Oggi stesso sono chiamato da M.r Bressan a presentarmi da lui in una delle prossime mattine. Andrò domani stesso e sentirò e riscriverò. Intanto spedisco questa senza ricopiare la mia lett. al d.0 Mons. non avendone tempo. Addio! Ricopiando, veggo che avrei potuto temprare qualche frase, ma per qualunque caso non sarà del tutto male e non me ne duole».

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Una illustre successione : Achille Eatti

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troppo — rispetto all'Autorità del S.0 Padre, il fatto è che non sono stato felice nei miei tentativi, e stamane mi sono sentito esprimere da Mons. Bressan con grande delicatezza sì ma con chiarezza ed efficacia indubbia il volere del Santo Padre che io resti qui, con profferta anche di ulteriore provvisione che io subito ho rifiutato per dignità, dicendo che se io restava, era per ossequio al volere del S.0 Padre e non per altro, e che non a me ma alla Biblioteca occorrevano provvisioni. Io non muoverò lagnanze per me e per il tempo perduto e per le incertezze, dirò anche le pene provate : ben altre io avrei dovuto sostenere per riconoscenza ed affetto all'Ambrosiana e a Lei e Colleghi. Duolmi invece e molto dell'inutile turbamento datovi, e duolmi che così dopo tre mesi e più l'Ambrosiana si trovi sprovvista e nella stessa necessità di prima. Forse, nei disegni di Dio, ciò sarà avvenuto per il meglio dell'Ambrosiana stessa; ci giovi il pensarlo. Ad ogni modo io mi auguro che il tentativo fatto e ora abbastanza conosciuto sia stato bene inteso dai migliori ed abbiali convinti (se pur n'era mestieri) della somma cura e intelligenza della Prefettura e Amministrazione presente non solo per l'ottimo assetto della suppellettile ma anche per il rifornimento men peggiore del personale. A Lei in particolare e al Collegio dei Dottori e dei Conservatori rendo le grazie più vive per la benevolenza dimostratami in questa non felice occasione. Dio li compensi con trovar loro uomini che facciano meno sentire la somma perdita dell'impareggiabile Mons. Oeriani. Intanto le rinnovo la profferta 49 di venirla ad aiutare durante le mie vacanze, lunghe vacanze e prorogabili. È il massimo che mi è lecito ormai di prestarle e che vorrei non si disprezzasse, per quanto piccola, minima cosa anzi. La stringo affettuosamente al petto e me le professo Sempre Suo G. Mercati Vaticana 13 giugno 1907. 49 In precedente, del 29 maggio, al Ratti aveva appunto proposto «di passar costì quasi tutte le mie vacanze, affinchè Lei possa riposare un poco. Bianchi con me appresso per dove non può giungere egli, basterebbe al disbrigo ordinario : e al suo turno, me presente, B. potrebbe pure andarsene». Il Mercati, in queste estati, soggiornava in luoghi alpini della Lombardia, presso famiglie amiche, comuni conoscenze con il Eatti. Probabilmente nel luglio 1909, in una senza data, questi scrisse all'amico : « Per mutare registro, aggiunga che quand'io La sapessi rinfrescata e ritemprata lassù, troverei più facilmente il coraggio di pregarla di qualche giorno all'Ambros.4, tanto da andarmene pe' miei esercizi spirituali».

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Non si ritrova, questa volta, la risposta, certo altrettanto affettuosa, che il Ratti dovette dargli.50 Ma, poco dopo, questi mandò un ritratto del Ceriaui, per il quale il Mercati riscrisse, il 26 giugno : Don Achille carino ! Grazie mille del bel ritratto che terrò carissimo sempre del nostro amato Mons. Ceriani. Vi ho segnato a tergo il nome del donatore e il giorno — memorabile giorno — 13 giugno — nel quale erami stata tolta ogni speranza di venire a supplire Lui e a far compagnia a Lei. Era stato come un presagio il versetto dell'Imitazione di Cristo, 1. Ili, cap. 49, capitatomi sott'occhio il giorno 3 Maggio, quando io presentai le suppliche al S.0 Padre: « Quod aliis placet, processum habebit: quod tibi placet ultra non proflciet. Quod alii dicunt, audietur : quod tu dicis, pro nihilo computabitur. Petent alii, et accipient ; tu petes, nec impetrabis «. È avvenuto così ... Chiuso così, nel nome del Ceriani, dal quale era incominciato, l'episodio, continuò l'operosa vita e la bella relazione di colleganza dei due bibliotecari. Passarono gli anni, e qualcuno che apparteneva a quel loro mondo si meravigliava di vedere il Eatti, con le alte qualità, sempre al suo posto 51 nella sala « iemale » dell'Ambrosiana.52 Per suo conto, preso dalle sue cure quotidiane di go50

Alla fine di una successiva, del 25/6. 07, il Ratti lo interessò alla ricerca di qualcuno per l'Ambrosiana: «Pro-Memoria. Giacché dell'altro, che Lei sa, non si deve parlare più, non avrebbe Lei sott'occhio un qualche altro che possa e voglia venire qua presto. È superfluo dirle che le circostanze richiedono un soggetto già maturo o quasi e fornito di titoli non soltanto buoni, ma possibilmente anche notoriamente — o conosciutamente — tali. Lei mi parlò altra volta d'un lucchese... ». 51 Testimoniò l'Illustre bibliotecario Giuseppe Fumagalli, Achille Ratti. Roma, A. P. Formlgginl, 1925 («Medaglie»), p. 11: «... io ben rammento che nei primi anni dacché lo conobbi, sentii anche spesso da chi me ne ripeteva gli elogi, rimpiangere che troppo presto egli sarebbe stato tolto agli studi e alle biblioteche poiché entro breve tempo egli sarebbe certamente entrato nella diplomazia vaticana; e forse molti, me compreso, si meravigliavano qualche diecina d'anni dopo, che 11 vaticinio fosse rimasto vano e che don Ratti fosse ancora sepolto fra le tarme della sua biblioteca, proprio mentre la Provvidenza elaborava per lui più che sessantenne il più luminoso destino ». Una immagine diretta di lui, in quegli anni, ha dato Tommaso Gallarati Scotti, Interpretazioni e memorie. [2. ed. Milano, 4961] Mondadori, pp. 137-142. 52 Dove il Ratti sedette, in quella sala della Biblioteca Ambrosiana, come Dottore e poi come Prefetto, fu apposta un'iscrizione latina, Giovanni Galbiati, Fasciculus inscriptionum. Achille Ratti papa Pio XI rievocato in monumenti epigrafici. Milano, Tip, U. Allegretti di Campi, 1957, p. 12, n. V.

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Una illustre successione : Achille Ratti

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verno, si lamentava che non poteva più studiare : « Quanto a me è un vero fallimento : non riesco a far più niente di niente : una miseria lagrimevole... Purché il buon Dio mi continui il suo aiuto, veramente straordinario )).53 11 Mercati gli rispose il 25 marzo 1910, venerdì santo, rallegrandosi anche per i progressi di un sacerdote bresciano, Luigi Gramatica, entrato nella Biblioteca Federiciana con i suoi auspici : Sono contento delle notizie sull'Ambe, (che va a gonfie vele) e su Grammatica. Ah caro Lei, se le cose andassero così liscie qui ! ! ! Fanno bene a far conoscere Gramm.,54 ed Ella farebbe anche opera provvidenziale a impratichire Gramm. Anche per le Agenda di biblioteche. Fon si sa mai che cosa possa capitare da un momento all'altro, ed è prudenziale che ci sia qualcuno meno impreparato a una successione. L'accenno, abbastanza facilmente decifrabile, apre di fatto la storia più diretta della successione Eatti nella Vaticana. Un mese dopo, il Mercati parlava di (( un momento di transizione », anche per innovazioni di carattere materiale che dovevano essere fatte,55 e aggiungeva ; « e P. Ehrle pare non bene in forze come prima (la voce non corra fuori)... Che avverrà? Che Dio ci aiuti». La crisi era in realtà avanzata, e già da qualche mese l'Ehrle aveva avuto dal Papa il « congedo », per il quale egli stava facendo i passi diretti a effettuare il suo ritiro.56 A un certo punto, il Mercati prese a 53

Ratti al Mercati, 23. III. 10. La proposta di nomina a Dottore del Gramatica (scritto sempre, stranamente, Grammatica dal Mercati) era stata fatta dal Ratti il 7 agosto 1909, Galbiati, Papa Pio XI evocato, cit., p. 299. 55 Mercati al Ratti, 15 aprile 1910 : « Di qui, se potessi e volessi discorrere, avrei a dire parecchie cose, perchè siamo in un momento di transizione. La tipografia sta per essere evacuata del tutto e bisogna pensare al nuovo impianto e ai trasporti successivi [...] ». 56 II 5 aprile 1910, l'Ehrle scrisse appunto al card. Rampolla, esponendogli che, « essendo già passato due a tre mesi dopo il congedo datomi da Sua Santità », egli credeva di non potere in coscienza continuare a stare fuori delle case del suo ordine. « Ma come ho dovuto, secondo il desiderio espressomi da Vostra Eminenza più volte negli anni passati, proporre in primo luogo Mgr Ratti per mio successore e come egli, anche nel caso che sia chiamato e possa accettare. 1) debba istruire, probabilmente per diversi mesi, il suo successore all'Ambrosiana e 2) arrivato vorrà forse per qualche tempo [parola saltata] intorno allo stato della Biblioteca Vaticana; quindi, anche facendosi adesso 1 passi necessari, occorrerà ancora sempre parecchio tempo fin al mio ritiro. E questa previsione mi impone l'obbligo di pregare Vostra Eminenza di regolare al più presto col Santo Padre la nomina del mio successore». L'8 giugno dell'anno stesso riscrisse, aggiun54

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occuparsi anch'eglì dell'affare.57 Sopravvenuta l'estate, egli andò alla solita villeggiatura alpina, non dimettendo quei pensieri.58 Il 18 ottobre, il Papa in persona chiese all'arcivescovo di Milano card. Ferrari se fosse disposto a rinunziare al Ratti per la Bibliogendo la preghiera «di regolare col S. Padre la questione del mio ritiro. Essa, come Vostra Eminenza sa, è rimasta sospesa, ed il S. Padre aspetta le proposte opportune ». Della critica posizione dell'Ehrle, determinata da varie circostanze non ancora interamente note, si trova anche questo indizio anteriore, in lettera al card. Rampolla dell'll febbraio 1909 : « Dopo la triste esperienza della seduta di ieri, lo credo un mio dovere di dichiarare formalmente, che se Vostra Eminenza o il S. Padre lo crede opportuno per evitare urti inutili, che io cessi di far parte dei due comitati, sono prontissimo a cessare; non curando qualunque interpretazione che si possa dare a tale ritiro. Ho già la pelle dura per queste cose dal tempo delle lotte dopo 11 1895 ». Questa volta doveva trattarsi delle difficoltà persistenti nelle relazioni con l'Archivio Vaticano. Archivum Rom. Socletatis lesu, cit. ; cf. Battlori, El pare Ehrle, prefecle de la Vaticana, cit., p. 105. 57 Da Feldkirch (Voralberg), l'Ehrle scrisse il 21. Vili al Mercati, a Ponte per S. Giovanni (Valtellina) : « La ringrazio di cuore di tutto ciò che ha voluto fare anche in questa questione importantissima per il bene della Publloteca e per gli interessi della S. Sede» (sopra, di mano del Mercati: «la chiamata di M.r A. Ratti »). E aggiunge : « Faccia buone passeggiate e si rimetta in buone forze. Sara il 1911 un anno faticoso ». 58 Tornò, tenacemente, alla sua idea di essere restituito alla Biblioteca Ambrosiana, e da Ponte Valtellina, 11 26 luglio 1910, scrisse ancora una lettera per mons. Bressan. Questo ne era il testo, secondo la minuta che conservò : « Mons. ill.mo e rev.mo. Dal giugno 1907, dopo la decisione negativa di S. S., non ho più pensato nè, per quanto dipende da me, cercherò in nessuna maniera di lasciar Roma e il mio modesto ufficio, finché permanga la volontà superiore e le forze e le altre necessarie condizioni mi permettano di esercitarlo. Parimenti, credo, nè l'E.mo Card. Are. di Milano nè i soprastanti della Bibl. Ambrosiana saranno mai per rinnovare alla S. Santità la domanda del mio ritorno colà dopo l'insuccesso del tentativo fatto allora. Per questo e per altro riguardo, io, sebbene mano mano informato, sotto segreto, della crisi prefettizia a me dolorosissima e della risoluzione di chiamare a tempo opportuno l'attuale prefetto dell'Ambrosiana Mons. A. Ratti in posto del M. R. P. Ehrle, e sebbene non abbia mancato col P. Prefetto, e per mezzo di lui — se pure l'ha stimato di riferire — coll'Emo Card. Pro-bibliotecario di dichiararmi pronto a tornar a Milano, ove ciò occorra o giovi a facilitare la venuta di Mons. Ratti, non ho fino ad oggi mai pensato di rinnovare anche col S. Padre una slmile dichiarazione, che era esplicita nella mia supplica del 1907, dove esponevasi come, concedendomi allora di tornare all'Amb.na, meno difficile sarebbe stato poi levarne Mons. Ratti per farlo prefetto della Vat., secondo che già da allora qualcuno meditava. Tuttavia siccome è possibile non siasi creduto di sottoporre ora al S. Padre un tale espediente o che M.r Ratti stesso o i Conservatori dell'Ambrosiana nell'estremità abbiano rappresentato alla S.ta S. il grave danno dell'Ambr. stessa.

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teca Vaticana.59 Il 26, ancora all'oscuro del fatto, l'interessato aperse al Mercati l'animo, con le risorgenti riluttanze : [...] Mi ha sorpreso che costì nulla si sapesse e si dicesse del Concistoro che la Perseveranza dava per sicurissimo, fissandone il giorno, e nominando tutti i 13 (se ben ricordo) candidati ... alla porpora, comprendendovi il P. E. — tanto più rimango sorpreso, perchè l'avv. Parillo (ora Difensore del vincolo) stato qui di passaggio, mi disse che la cosa non era nuova e già parecchio se n'era parlato anche costì. Comunque sia che quel che lessi nel giornale dovett'essere più che sufficiente per t'armi pensare ad un eventuale precipitare degli eventi dei quali Ella mi parlava, magari con nuovo, impensato orientamento che mi togliesse di sopra il capo quella spada di Damocle che Lei sa, anzi che Lei stessa sospese. E insomma, se Lei ha qualche buona notizia od anche solo speranza da darmi, La prego di darmela presto e sarà doppia carità. Perchè, sebbene io abbia finito per trovare riflessi e motivi di qualche tranquillità, massime dopo gli Esercizi ;60 Le confesso non la quale rimarrà con un personale non anco formato, e pratico abbastanza, io, per quanto ripugnante ormai a farmi vivo anche nelle necessità e per quanto non entusiasta di uno spostamento mio non senza rilevanti lucommodi sotto varii aspetti, pure, amando che la volontà superiore abbia a compiersi 11 più agevolmente, gradirei rinnovare la mia protesta eziandio col S. Padre, affinchè la Santità sua, in caso, abbia facilità anche maggiore ad impormi o ad esprimermi 11 desiderio, che io torni definitivamente a Milano, se richiesto per alutare 1 colleghi dell'Ambros. a colmare alla meglio il vuoto che lascerà Mons. Ratti ». Postillò, in fine : « Mandata al P. Ehrle alla fine dell'Agosto, lasciandolo arbitro di recapitarla o no, secondo che credesse. Egli al mio ritorno (10 sett.) mi disse che aveva creduto bene di mandarla». 59 La lettera, autografa, reca, nella parte sostanziale : « Il Eev.do Padre Ehrle, Prefetto della Biblioteca Vaticana, da vario tempo insiste per essere sollevato almeno pel Luglio dell'anno venturo da questo incarico. Mentre si pensa alla sostituzione viene suggerito come ottimo Mgr. Achille Ratti, Prefetto dell'Ambrosiana. Ma anche per iniziare le pratiche a questo scopo è necessario conoscere, Io se l'E. V. può privare la sua Archidlocesi di codesto buon e bravo Prelato; 2° se Mgr. Ratti verrebbe volentieri a Roma per assumere questo ufficio. Ed ecco ch'io prego l'E. V. a riferirmi con suo comodo, se possa fare questo beneficio alla S. Sede, e poi interrogare Mgr. Ratti, se sia disposto di venire qualora fosse nominato ». Pubblicata nel volume, comp. da Ferdinando Antoneixi, O. P. M., per la S. Congregazione dei Riti, Disquisitici circa quasdam obieotiones modum agendi Servi Dei [PU PP. X] respicientes in Modernismi debellatione, una cum summario additionali ex officio compilato. Typis Vatlcanis, 1950; e riprodotta in San Pio X, Lettere, raccolte da Nello Vian, 2 ed. riv. Padova, Gregoriana editrice [1958], p, 367. 60 Che aveva fatto nella « Exercitienhaus » dei gesuiti a Feldkirch, da dove aveva mandato una cartolina illustrata al Mercati, con queste righe : « 16. IX. 1910. Al momento di lasciare questa Casa ormai cara al mio cuore, Le mando un

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sono senza pensieri e timori gravi nel dubbio che le cose dovessero mettersi per la via da Lei indicatami. Per me più vi penso (e, come vede, vi penso) e più mi pare che quella via debbasi abbandonare e che, se proprio per ineluttabili necessità cambiamenti dovran farsi, si potranno molto meglio e più naturalmente e più tranquillamente fare senza costì uscir di casa. Pochi giorni dopo, in uno dei primi di novembre,61 venuto a conoscenza della lettera pontificia, scrisse ancora al Mercati, confidando con interezza il suo sentimento : [...] purtroppo la novità ce l'ho io, ed è bene che Ella e il P. Eh. la sappiano subito com'è da parte mia doverosa confidenza con Lei, con Loro, che me ne hanno mostrato ed usato tanta. La novità è che il Santo Padre ha scritto a S. Em. il Card. Arcivescovo mio domandandogli se m'avrebbe lasciato partire per la destinazione che Lei sa e incaricandolo di domandarmi se nominato avrei volentieri accettato. Sua Em.za a quest'ora, anzi non appena avuta la mia risposta l'ha trasmessa con la sua propria di cui mi diede lettura. Per parte sua il Card, non poteva opporre difficoltà serie e si capisce ; per parte mia rispose in sostanza che volentieri no ; troppo gravi difficoltà trovando io e in me e fuori di me, difficoltà che mi pare di non poter tacere senza venir meno al dovere ed alla coscienza ; che però, figlio di obbedienza, nè anche saprei rifiutarmi ad una volontà del Santo Padre per quanto dovesse costarmi. Perchè, per dirglielo in tutta confidenza, in questi termini a un dipresso m'ero messo nei Santi Esercizi e in questi termini avevo ritrovato la tranquillità che, lo confesso, intera più non possedevo : farò tutte le difficoltà che sono in diritto e in dovere di fare e, se ciò nonostante pur si vorrà, mi sottoporrò e la prenderò come viene in penitenza dei miei peccati. E mi creda, carissimo mio, che quando penso fino a quali durezze (sia per il mio fisico ormai non più giovane e senza abitudini e sia e più per il mio morale e per il mio povero amor proprio) quella penitenza potrà arrivare non ne sono senza sgomento, pur confidando nell'aiuto di Dio e... degli uomini — e Lei — lo tenga ben presente per ogni eventualità — Lei è il primo di questi uomini. Basta ; preghi anche Lei e faccia pregare come e meglio che io non faccia e stiamo a vedere quel che Dio vuole. Non posso chiudere senza dirlo: Quando penso che basterebbe che il p. Eh. avesse la santa pamemore saluto; pregandola di ricordarmi al E."1» P. E. — Quanto volentieri l'avrei riverito qui! Spero Lei e Lui benissimo. Orate pro me. Aff. A E ». 61 La lettera, senza data, ringraziava 11 Mercati della sua ultima, del 31 ottobre.

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Una illustre successione: Achille Ratti

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zienza di tirare avanti ancora un poco per veder tutto aggiustarsi senza difficoltà alcuna, non posso tenermi (glielo dica) dal pregarlo di volere aggiungere anche questo ai tanti suoi meriti. Basta, ripeto; se no ricomincio. La riverisco e saluto caramente: mi raccomandi al Signore. Tutto suo A. Ratti Le lettere che seguono, del Ratti al .Mercati, riguardano soprattutto la condizione dell'Ambrosiana, nel caso di una sua partenza. Il futuro dell'amata istituzione, di cui sentiva portare la responsabilità, prevaleva sopra ogni considerazione delle conseguenze di ordine personale : Milano 6/111910 Carissimo Monsignore, Ho la sua del 3 corr. : grazie di tutto cuore per tutto quello che mi dice e per tutto quello che mi fa necessariamente pensare e sentire. Penso e sento le affettuose cure e le diligenze coscienziose che Ella prodiga alle persone ed alle istituzioni e non ho parole per dirle quanto le apprezzo ed ho care. Quello ch'Ella mi scrive mi dice chiaro che ... l'avvenire si fa sempre più oscuro. E all'Ambrosiana (tutto il resto, come Lei sa, per fino l'eventualità di dovermi allontanare dalla Mamma quasi ottantenne, non mi preoccupa tanto, benché immensamente più mi affligga pur pensandovi) all'Ambrosiana, dico, come si provvede? Certamente, se Ella ne diventa il Prefetto ... sinceramente, io dico e canto (per rapporto a questo punto) il mio nunc dimittis per qualunque viaggio, ma sono sempre nell'insolubile infra due : che faccio io laggiù senza di Lei? chi trovo che possa sostituirla nella conoscenza della biblioteca e dell'ambiente, nella fiducia intera ed illimitata di una amicizia che io Le ricambio, lo sa, con tutto il cuore? Non faccio complimenti ; non ne faccia neanche Lei. E anche qui, dico a Milano, vede Lei un altro modo o mezzo per poter io abbandonare l'Ambrosiana senza dar luogo a gravi e, diciamolo, non ingiustificate critiche? Gr. è eccellente : si fa stimare e voler bene; ma è qui da troppo breve tempo : Lei fu qui per un bel po' d'anni ed ancora si parla di Lei e della sua presenza qui come di fresco e gratissimo evento. Ma, ripeto, Lei non può essere in due luoghi ... Le confesso che io non vedo buona via d'uscita ; e tutto questo senza mettere nella bilancia gli umori delle persone: come prenderanno la cosa Bi.62 e Ce.? Comunque, 62 Alessandro Bianchi, con Antonio Ceruti già ricordato, erano i due sacerdoti Dottori dell'Ambrosiana, costituenti con il Ratti 11 Collegio. Il primo, nato nel 1863 a Gallarate, ne era diventato Scrittore nel 1896 e Dottore due anni dopo,

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anzi appunto per tutto questo e per tutte le altre difficoltà che lo stesso S. P. ormai già conosce, almeno in globo per la via di S. Em. il Card. Are., io lascio ormai la cosa nelle mani della Provvidenza ; e credo che Lei pensi bene pensando di stare a vedere più che a fare dopo il molto che ha fatto con tanta abnegazione e con tanto merito. Pel P. Ehrle Lei sa che i sentimenti suoi sono i miei e non da ieri, ma dal novembre 1899, quando primamente l'ho avvicinato. La mia ammirazione per Lui è sempre andata crescendo e — davvero ■— la sua memoria, la memoria della sua laboriosità nobilissima, della sua diligenza coscienziosa, della sua pazienza eroica mi è poi sempre stata altrettanto viva che benefica. No, non è perchè io pensi venuta meno la sua pazienza, che vorrei pregarlo di averne un po' ancora; anzi ... Basta ; La riverisco e saluto carissimamente ; preghiamo il Signore. Et sit Deus nobiscum. Suo affmo A Eatti Milano ll-XI-10 Monsignore mio carissimo, Grazie, grazie di cuore per l'ultima sua del 9 corr. e dell'averci acclusa quella che Le rendo e per tutti insomma gli aiuti e i lumi che Ella si studia di darmi nella difficile e delicata faccenda. Com'Ella sa il Eiìio P. Ehrle mi ha scritto : io ho cercato di raccogliere le mie idee coram Domino e gli ho risposto oggi stesso, pregandolo di comunicare la lettera mia a Lei ; del comunicarla (leggerla, riassumerla, interpretarla o in altro modo) al S. Padre ed a S. Em. il signor Cardinale Eampolla lascio Lui, il Emo Padre, liberissimo arbitro.63 L'ho pregato di comunicare la mia lettera a Lei prima di tutto perchè anche di Lei vi si parla, in secondo luogo perchè Lei deve sapere tutto quello che mi riguarda, in terzo luogo perchè ad un certo punto rimando a Lei per più larga informazione. Gli è dove tocco delle condizioni interne del nostro Collegio Ambrosiano e della impossibilità di variarle, almeno pel momento. E quanto alle condizioni del Collegio nulla ho da aggiungere a quanto Ella sa ; Ella conosce gli umori di Ce. e di Bi. : di averli favorevoli ad una successione Gr. non si può neanche pensarlo e non credo che si possa anche solo per successione al Mercati. Compilò un vasto catalogo manoscritto delle pergamene notarili. Morì a ottantacinque anni, nel 1949, Giovanni Galbiati, La morte di un collega di Pio XI all'Ambrosiana, nell'Osservatore romano, 13 febbraio 1949. 63 L'Ehrle, il 15 novembre, trasmise con una sua lettera al card. Rampolla questa « risposta da Mgr. Ratti alla mia domanda sul tempo e le modalità della sua venuta ». Esprimeva, di seguito, pessimistiche considerazioni riguardo a una nomina, a suo giudizio non favorevole agli studi : « altrimenti si avrebbe dovuto cercare d'estendere il metodo della Biblioteca, congiungendo l'alta direzione dei due istituti ». Archivum romanum Socletatis lesu cit.

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Una illustre successione : Achille Eatti

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pensare di farla loro subire. Quanto poi alla impossibilità di variare quelle condizioni — almeno pel momento, ma un momento che può essere abbastanza lungo — vedo dall'ultima sua di doverle qualche schiarimento. È vero che ho in vista e sotto mano un paio di bravi giovani, uno dei quali anzi è già in casa ;64 ma prima di tutto sono non solamente giovani, ma giovanissimi. E manco male, se non fosse che questo : io ne proporrei e caldeggerei anche subito la nomina (anche per non rischiare di perdere quello che sta fuori di casa e che non potrebbesi nominare se non dopo o contemporaneamente a quel di casa) ; ma il guaio e la difficoltà insormontabile si è che al presente — e (senza straordinario intervento della Previdenza) chi sa fin quando ■— non ci sono i mezzi per mettere in bilancio due nuovi stipendi per quanto modici. Quest'anno abbiamo avuto anche un incendio in campagna. Ella vorrà dare al Emo P. Ehrle questi schiarimenti. Del resto, Don Giovanni mio carissimo, per me ora la cosa è totalmente e unicamente nelle mani di Dio. Per me, credo d'aver detto l'ultima parola nella lettera al Emo P. Ehrle : ho cercato in Domino di essere oggettivo quasi non si tratti di me, stando sul terreno dei fatti, senza esagerazioni e senza reticenze : se neanche accenno a difficoltà d'ordine materiale, non è perchè me le riservi, no ; ma unicamente perchè non voglio che non vengano ad abbassare ed inquinare le altre considerazioni ; perchè insomma non devono pesare in una deliberazione già tanto grave e d'importanza così elevata. Se ho detto che anche il solo desiderio del S. P. mi sarà comando, l'ho detto per due soli motivi; prima di tutto perchè mi par dovere di figlio e diritto di padre; e poi perchè non posso fare animam meam pretiosiorem q.[uam] me.65 Che cosa io sia per scrivere a S. Em. il Card. Eampolla (nel caso ormai ben poco probabile che io debba scrivergli) Ella lo sa, perchè è quello che Lei mi scriveva nell'ultima sua. La ringrazio di nuovo e la saluto anche a nome dei salutati da Lei. Mi raccomandi al Signore. Aflnio obbmo suo Sac. A. Eatti Sperava ancora di riuscire a stornare quella sua chiamata a Eoma, con le conseguenze dannose che si sforzava di mostrare per l'Ambrosiana e anche per la Vaticana (questa sentita modestia rispetto alla sua persona è una delle testimonianze moralmente importanti del carteggio). Con abilità tattica, cercò di guadagnare tempo, come confidava in questa lettera : 64

Giovanni Galblatl e Luigi Zanoni, nominati poco dopo Dottori. Il primo, già Scrittore dal 1905, diventerà Prefetto dell'Ambrosiana il 12 ottobre 1924, dopo il Grama tica. 65 «Nec facio animam meam pretiosiorem quam me», Act., XX, 24.

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Nello Vian Milano 22-XI-1910 Monsignore mio carissimo.

Le rispondo immediatamente per dirle quanto mi piace e quanto La ringrazio per quel che mi scrive e pel modo. Vedrò quello che P. E. sta, com'Ella mi annuncia, per iscrivermi e cercherò poi di seguire del mio meglio le indicazioni ch'Ella mi da. Tanto più facilmente lo farò, in quanto che — almeno nella sostanza — Ella non mi dice se non quello che nella sostanza io tenevo preparato per la non sperata eventualità di dover scrivere. Dico « non sperata » e, prima di legger l'ultima sua (di jeri), avrei potuto aggiungere « poco temuta » eventualità ; perchè mi pareva davvero d'aver parlato abbastanza chiaro esponendo come ho esposto quelle mie e non solo mie difficoltà. Quali siano i miei intimi sentimenti Ella sa, perchè glieli ho detti e scritti: sono quelli. Per me la soluzione più naturale, anzi l'unica buona è che P. E. resti dov'è — a meno che si voglia, dove si può, farlo ascendere superius senza levarlo alla Bibl. — come il suo merito e l'interesse di questa richiederebbero — almeno per qualche [anno], poniamo 2 o 3; dopo questo intervallo non ci sarà nè bisogno, nè convenienza di scoprire il piccolo altare dell'Ambrosiana per coprire il grande della Vaticana : tra l'altro io sarò ormai troppo vecchio e o Lei avrà mutato parere o altro soggetto senza dubbio sarà sottomano od in vista. Ma se P. E. ed Altri insistono ... allora è di Lei che mi deve parlare col cuore in mano ; perchè, se Lei non si sacrifica venendo qua (della buona accoglienza e della pacifica successione, anche visti e considerati gli umori etc., rispondo io), allora io non vedo più se non Io, il sacrificio mio e materiale e morale ; 2°, il danno certo della Vaticana : danno duplice, e per quello che perderebbe e per quello che riceverebbe. Se ho appena accennato al sacrificio mio scrivendo al P. E., gli è che mi ripugna di farlo pesare sia a Lui che ad Altri ; pur mi pare di averlo abbastanza (legentibus et intelligentibus) indicato ; e poi, francamente e senza complimenti, mi sarebbe alleviato dal vantaggio dell'Ambrosiana ; Le ho già scritto e Le torno a scrivere che, se Lei torna qua Prefetto, io canto il mio Nunc di mitt is fosse anche per la vita e non soltanto per la Città eterna ; e per quanto, come cattolico e prete e studioso, io non possa essere indifferente al danno della Vaticana, posso però pensare che il bene dell'Ambrosiana è anche mio dovere d'ufficio e di stato. Ma Lei dice benissimo : preghiamo e mettiamoci nelle mani di Dio : se la pace di cui godo non è illusione ed inganno, sento che le cose andranno apposto con soddisfazione di tutti. Mi raccomandi al Signore e mi creda sempre il suo affilio come f.llo Sac. A. Eatti

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Una illustre successione : Achille Eatti

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Nella persuasione che non datar actio in distans, si risolse di fare una corsa a Roma : Milano 30.11.1910 Carissimo Monsignore, Scrivo anche a Lei, non fosse che per accusarle ricevuta la sua carissima e generosissima, come sempre Lei, del 24 c. in. — P. Ehrle Le parlerà di certo della proposta che gli scrivo e mando per lo stesso corriere di far io una comparsa costì per le prossime feste di S. Ambrogio e dell'Immacolata. Arriverei la mattina di S. Ambrogio, ripartirei la sera dell'Immacolata imprescindibilmente, dovessi lasciare le cose a mezzo, avendo meco un mio giovane nipote,66 al quale manterrei così una vecchia promessa — buon pretesto e velo qui e costi. Non alloggerò da Lei l'unica notte : non se ne dia pensiero alcuno. Quel che mi preme sapere è: Io se la mia venuta sarà opportuna — 2° se potrò parlare con S. Em. — e (occorrendo) col S.0 Padre. Penso che l'Immac." sarà giorno di qualche libertà anche per P. Ehrle e per Lei. — Il pensiero di venire me lo ha suggerito P. Ehrle stesso con la sua del 27 corr, sia col mettere in vista una mia venuta in sul principio del prossimo anno ; sia dandomi con la stessa sua lettera una prova di più che ... non datar actio in distans e non riesciamo ad intenderci. Da quella lettera mi pare di poter concludere che : Io costì non si rinuncerà alla di Lei presenza e mi sarei altamente meravigliato del contrario ; contrario — noti bene e lo faccia notare — che io non ho mai consigliato ma che non ho messo in vista se non come un argomento ah absurdo o ah impossibili. 2° delle difficoltà da me formolate (quelle stesse che implicitamente e per sommi capi accennava al St0 Padre S. Em. il Card. Ferrari) non si tiene conto, alcuno o giù di lì. Or se facendo così le si facessero scomparire quelle difficoltà od almeno diminuire, pazienza ; ma esse rimangono intere e per me insormontabili. Bisognerà almeno dirmi come si fa a sormontarle, perchè rinviarmi, come si fa, alla successione Grammatica non è indicare un mezzo praticamente ed attualmente possibile67 e dico pel momento per dire un tempo che Dio solo sa fino a quando durerà, perchè 66

Franco Eatti, figlio del fratello Fermo. II Gramatica scrisse al Mercati, il 18 dicembre 1910 : « Mons. Ratti mi ha e ci ha partecipato lo scopo della sua visita a Roma e benché insista nell'asslcurarcl che tutto a suo giudizio deve risolversi in nulla , temo assai che 11 tuono sia foriero del temporale. E dico temo perchè la speranza che avea fondato sopra di te sembra anch'essa destinata a svanire e però mi vedo dinnanzi un avvenire bujo pesto. Chi succederà a Mons. Ratti? Chi lo sa? Purtroppo lo non ho una eccessiva fiducia in Bianchi, troppo ombroso e di idee troppo limitate. La mia incapacità, la mia condizione di extradiocesano, la vita quasi selvaggia che conduco, nonché 11 desiderio di essere lasciato tranquillissimo, mi vietano assolutamente di aspirare a un posto che né è, né può essere per me. Chi dunque succederà nella Prefettura della Biblioteca? Deus providehit ». 67

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Egli solo può abbreviarlo. — In queste condizioni — per me di vera e propria impossibilità — mi è sempre sembrato e mi sembra ancora affatto superfluo il mettere sulla bilancia i miei sentimenti personali ■— non che i miei interessi. I miei sentimenti li ho detti a Lei e li ho ripetuti ad litterarn al mio Arcivescovo : se non ostanti le difficoltà che ho il dovere di opporre, il St0 P. vorrà ancora disporre di me, io la prenderò come penitenza de' miei peccati : la stessa precisa disposizione che grazie a Dio ho abbracciato e spero di mantenere nella eventualità (pur troppo da più d'un lato non improbabile) di qualsiasi più dolorosa e dura prova che piaccia al Signore di mandarmi. È stato (come pure Le accennai e dissi al mio Arcivescovo) uno dei capisaldi dei miei ultimi Esercizi quando era ancor fresco il colloquio avuto con Lei qui. Mi pare d'aver detto con ciò e ben chiaramente e solennemente che in qualunque caso, anche scomparse per non so che incanto quelle mie difficoltà, il venire costà (vice o non vice68 è questione di più e di meno, per quanto grave) sarà sempre per me dolorosa e dura prova.1 E basta anche per questa volta. Preghiamo il Signore. Tutto suo come f.llo A. Eatti 1

Se crede che ancora occorra, faccia pur leggere questa mia a P. Ehrle e se questi crede a sua volta occorrere, ne dia pur lettura o cognizione a S. Em. e per essa al S. P. Dopo alcuni giorni dalla corsa a Eoma, dalla quale ritornò contento, anche solo per avere guadagnato tempo, scrisse al Mercati, per informarlo di qualche altro passo avanzato a Milano. Riaffermata anche con tutta chiarezza è la sua posizione morale : Milano 19/12 10 Monsignore mio carissimo, Non so perdonarmi di non averle scritto subito dopo il mio ritorno quassù ; l'ho pensato ogni giorno; ma non ci fu modo nè verso. Quasi a compenso ai ringraziamenti per le buone accoglienze e per tutte le bontà prodigate a me ed al nipote mio dall'udienza presso il S'0 Padre alla visita di S. Paolo, anzi alla carrozzella della partenza, a questi ringraziamenti che Le invio dal cuore e La prego di dividere con P. Ehrle, il Prof. Nogara ed il suo ottimo Signor Peppino,69 posso aggiungere qualche cosa che anche costì può sembrare bene come sembra a 68 La soluzione interlocutoria della vice-Prefettura della Vaticana da affidare al Ratti affiora qui, pare, la prima volta. Fu accolta, come si vedrà, a preparare la piena successione. 69 Silvio Giuseppe Mercati, fratello minore di Giovanni.

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me, sebbene per motivi e da punti di vista non precisamente identici. Senza entrare nei particolari del modo — che sarebbe troppo lungo — Le dirò che, battendo il ferro intanto ch'era caldo presso Sua Em. e presso i miei Conservatori e Colleghi ho potuto ottenere due cose : la prima che Gram, mi aiuti (leggi : mi sostituisca) nella scuola di ebraico in Seminario ; 70 la seconda che — se nulla avviene in contrario — prima della fin d'anno avremo nominato due nuovi dottori nelle persone dei Dottori Galbiati e Zanoni, ambedue, come sa, laureati con molta lode e distinzione in questa accademia. La prima cosa mi è particolarmente gradita, perchè in ogni caso (e può ben darsi il caso di una dipartita improvvisa non per altro luogo ma per l'altro mondo) è una designazione del successore, e intanto fornisce qualche piccola risorsa a Gram, e lo fa entrare più largamente nel nostro ... piccolo mondo ecclesiastico non senza attirarsi l'attenzione anche del mondo laico. L'altra cosa poi nel caso ... che il caso s'avveri gli fa intorno e sotto un po' di piedestallo ; e intanto sono buone, giovani forze acquisite e pacifiche alla Biblioteca ... forse troppo giovani; ma forse una circostanza come questa non mi si presentava più se non tardi e troppo tardi. Questi sono i fatti ormai avvenuti. Non voglio però che costì ci si inganni sulle intenzioni : lo dico sinceramente a Lei, Ella lo dica al Rmo P. Ehrle e questi, se crede all'Emo Card. Rampolla. — La mia intenzione ha cercato sinceramente, davanti a Dio, di conservarsi pura e retta, ma non è stata di facilitare menomamente la mia eventuale venuta costà. Su questo punto prego il Signore e lo faccio pregare di risparmiarmi, ma poi mi tengo — cerco tenermi — in rassegnazione, proprio così : rassegnazione : non senza speranza che la procella si dissipi senza che io sia gettato a mare ; perchè, come dissi a S. E. il Card. Rampolla, il tempo è galantuomo e fa fare molte cose : e per questo me ne tornavo lieto d'aver guadagnato tempo. Ma intanto ho creduto che il bene dell'Ambrosiana volesse da me ch'io approfittassi delle circostanze per ottenere in suo vantaggio quello che difficilmente avrei ottenuto a cose tranquille — anche a costo di far io forse la figura di più che un poco monzese71 (domandi al Prof. Nogara — se noi sa — il recondito senso della parola). Mi vien meno e carta e tempo. Pazienza. Buone feste e buon anno a Lei, Nogara, Beppino suo, Eulalia, Pietro72 — e fuori: al Rmo P. Ehrle — ai Colleghi della Vaticana. Preghi per me, suo affmo come f.llo A. R. 70

II Eatti la teneva dal marzo 1907, dopo la morte del Cerlani, Galbiati, Papa Pio XI evocato, p. 290. 71 Del furbo e del calcolatore, secondo l'evidente significato dell'espressione locale. 72 Gli ultimi due, persone di casa del Mercati.

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P. S. - Le mando alcune copie di quella mia coserella sul Baronio:73 le colloclii come vuole nella Vaticana e nella sua gente. Grazie. Altri particolari della visita fatta a Roma nel dicembre 1910 e il riepilogo delle cose fino a questo punto risultano dalla lettera scritta dal Ratti aU'Ehrle 74 qualche giorno dopo, con alla fine il rinnovato, insistente invito di rimanere (egli non pare sapesse, a stare a questo, che la crisi era prodotta non soltanto dalla volontà o dalla stanchezza dell'Ehrle) : Milano - B. Ambrosiana 21/12 1910 Revino Padre, Gradisca i miei auguri che pel nuovo, anzi per moltissimi anni io Le offro pregandone dal buon Dio il più largo e benefico compimento. Può essere ch'Ella li sospetti non in tutto conformi ai suoi desideri ; ma può essere anche (ed io lo spero con molta fiducia) che i suoi desideri siansi di molto modificati nel senso appunto dei miei augurii. Congedandomi infatti da E. Em. il signor Cardinale Rampolla la vigilia dell'Immacolata, io mi dicevo contento anche solo di aver guadagnato tempo ; perchè il tempo è galantuomo e mette apposto molte cose; ed io spero e confido che anche solo il poco tempo trascorso da quel giorno, grazie anche all'intervento di S. Em., è bastato per farle vedere più di una cosa in luce diversa. Mi conferma nella mia fiducia il sentire che costì si parla ormai largamente della cosa : scrissi già a Mons. Mercati che fui fin dal principio fortemente tentato di ricorrere a tal mezzo (delle chiacchiere) per mandar tutto a monte ; La prego di credere che ho resistito alla tentazione ; e posso assicurare che non di qui è venuta la rivelazione del segreto. Ho anche scritto a Mons. Mercati che intanto (come l'interesse dell'Ambrosiana da me voleva) io ho profittato delle circostanze per devolvere al D.r Gramatica (secondo una vecchia promessa) la scuola di Ebraico, ciò che a lui recherà qualche vantaggio e morale e materiale, ed a me ridona non poche ore di tempo. Ne ho profittato anche per ottenere da tutti gli interessati la nomina di due nuovi dottori, ed è un fatto compiuto dal pomeriggio di ieri. Ma non creda, Rmo Padre, che con questo sia sensibilmente facilitato l'adempimento del di Lei desiderio. A parte la mia incapacità, che Ella non conosce abbastanza e che Le creerebbe (lo creda) un'enorme respon. 73

Estratti dell'articolo del Ratti, Opuscolo inedito e sconosciuto del card. Cesare Baronio, con dodici sue lettere inedite ed altri documenti che lo riguardano, nel volume Per Cesare Baronio. Scritti vari nel terzo centenario della sua morte. Roma, 1911, pp. 179-254. 74 Ma si trova tra le carte del Mercati, al quale l'Ehrle stesso dovette passarla.

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sabilità ; a parte le altre difficoltà che riguardano la mia persona e la mia famiglia ; ce ne sono anche altre molte e gravissime che riguardano la Vaticana stessa, anzi la stessa Santa Sede, come io ho potuto in questo poco tempo vedere e toccare con mano. Qualche cosa ho accennato scrivendo oggi stesso a S. Em. il Cardinale Eampolla : potrò scrivere di più, se si desidera. Per me la conclusione è che Ella non può, non deve lasciare il suo posto, deve anzi non lasciarlo, ma tenerlo per il bene della Vaticana e per l'onore della Santa Sede: non dubito che il Card. E. La persuaderà. E dovendo rimanere, Ella avrà ancora il tempo e l'agio di allevarsi e prepararsi un successore meno incapace di me e di me più giovane ; un successore cresciuto nell'ambiente della Vaticana e del Vaticano sotto i di Lei occhi e con sotto gli occhi i di Lei esempi : allora sì, allora soltanto Ella potrà dire d'aver provveduto. Mi perdoni anche Lei, come S. Em., se troppo oso e troppo scrivo; creda alla sincerità delle mie intenzioni come della mia stima e devozione per Lei. Preghi per me e mi creda il suo devino Sac. A. Eatti Proponeva, discretamente, altri che appartenevano alla stessa Biblioteca Vaticana, ma egli restava sempre il prescelto, anche se riusciva a « guadagnare tempo » (in misura veramente romana, tante furono le dilazioni e le trattazioni per questa successione). Chiamato o spontaneamente, l'abile negoziatore fece un nuovo viaggio a Roma, sulla fine dell'inverno 1911, e vi spese una settimana in colloqui e incontri. Il 6 marzo, appena tornato a Milano, ringraziò il Mercati delle premure, come sempre, usategli : Carissimo Monsignore, questa cartolina frettolosa è per rinnovarle l'espressione di tutta la mia riconoscenza (e non della mia soltanto, Lei sa) per l'aiuto prestatomi nei giorni passati. Dio La rimeriti ; senza di Lei che avrei io potuto fare? Or qui si attende « in silentio et in spe ». — Ho lasciato costì il mio plaid: lo verra forse a prendere Mons. Magistretti75 che mi dice 75 Marco Magistretti, nato nel 1862 a Milano, da famiglia oriunda della Svizzera Ticinese, fu studioso insigne dell'antica liturgia Ambrosiana. A lui il Ratti, lasciando Milano, lasciò 1 materiali e le schede per l'edizione del primo volume degli Acta Ecclesiae Mediolanensis. Si ricordano 11 suo animo « aperto, franco e liberale» e il «carattere forte e originale che a tutta prima sembrava sconcertare per l'indipendenza di giudizi su uomini e cose ». Mori il 20 novembre 1921, canonico del Duomo, Emilio Galli, Commemorazione di mons. cav. dott. Marco Magistretti socio e consigliere della Società storica lombarda, ne\VArchivio storico lombardo, ser. V, anno XL1X, 1922, pp. 206-212.

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di dover venire fra pochi giorni ; gli faccia anche Lei una grande raccomandazione di non parlare che bene. Egli Le porterà il volume del breviario gentilmente prestatomi : grazie anche di questo. La voce del mio naufragio era già sparsa largamente al mio ritorno. S. Em. la portava al S. Sepolcro, dove fra gli altri è mgr. Polvara vero fonografo; pazienza ! Ho sempre qualche speranza nei miei tête-à-tête costì e nei documenti lasciati partendo ; chissà mai? ! Terminava con i saluti agli « amici » della Vaticana, con i quali le relazioni andavano diventando familiari, e aggiungeva : « Si capisce che Le sarò gratissimo dì ogni indicazione... meteorologica ». Il tempo non si metteva decisamente al bello, per lui, poiché in quel « naufragio » che temeva, la sua chiamata a Roma, altri davano mano a sommergerlo, piuttosto che a tirarlo fuori. Riscrisse, alcuni giorni dopo, con qualche notizia che gli toglieva il buonumore : Milano 19 III 1911 Monsignore mio carissimo, Mantengo la promessa di scriverle e ... scrivo. E prima di tutto Le dico ancora una volta tutta la mia riconoscenza per gli aiuti d'ogni maniera e l'assistenza veramente fraterna durante tutta la settimana passata a Roma. E poi ... non vorrei scrivere altro, perchè non vedo che cosa io possa scriverle di buono [...] Si trattava di qualche mossa, una lettera, scritta dal suo arcivescovo cardinale Ferrari, e che comprometteva la riuscita degli ultimi passi che l'interessato aveva compiuto a Roma, per stornare o ritardare la sua andata : Non era soltanto la negazione di ciò che doveva farsi, scriversi, ma a un di presso il contrario ; il Signore mi concesse molta calma ; ma poi dopo un poco di riflessione sentii di dover fare due cose ; la prima presentare a S. Em. le mie dimissioni dal titolo, che ancora tenevo, di professore di lingua ebraica in Seminario — e di mantenerle nonostante qualche insistenza ; la seconda di scrivere a Mons. Bisleti che io non avevo avuto alcuna parte nella preparazione e redazione della lettera; di questa egli si era meco mostrato molto sollecito e forse era presente anche Lei quando mi raccomandava di veder di leggerla prima che fosse spedita ; gli dicevo (a Mons. Bisleti) pure che gli sarei stato riconoscente, se avesse creduto di far conoscere lo stato di fatto al S. P. ed ai Card. Merry d. V. e De Lai, pur rimettendomi interamente al suo giudizio.

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Così, caro Monsignore mio, stanno le cose e così sono andate ; come vede niente di allegro, niente di promettente, anzi il pieno contrario [...] Ma con una certa soddisfazione, e non senza speranza, ripensava al viaggio fatto a Roma : Tirando le somme io non posso davvero lamentarmi e non mi lamento, anzi mi dico e sento (per quel che mi riguarda) abbastanza contento : oltre una buona settimana passata con Lei ed oltre la soddisfazione vera di aver fatto il mio dovere con lealtà e fedeltà intera mi resta la speranza di pescare qualche cosa di buono nel torbido non da me causato e nel quale ho dovuto per debito di disciplina gettare le mie reti, anzi me stesso ... e Dio ce la mandi buona. La riverisco e saluto con tutto il cuore : mi saluti il suo sig. fratello iterando gli auguri, ed il Comm. Nogara ringraziandolo dell'ultima sua e dicendogli che gli risponderò domani o dopodomani : intanto gli può, se crede, comunicare anche le notizie che Le do con questa ; così non ci torno sopra. Mi raccomandi al Signore. Affmo suo S. A. Eatti Un altro passo era stato tentato, si può credere mosso anche questo dal Prefetto del Collegio dei Dottori della Biblioteca Ambrosiana. Ma anche questo fallì, come informa questa nuova lettera del Ratti : B. Ambrosiana 22.3.11 Monsignore mio carissimo, Temo molto che la grazia che con tanta fiducia attendevo da s. Giuseppe sia andata a monte ... La ragione prossima della fiducia mia stava nel ricorso fatto da questi miei Signori Conservatori al S. P. pregandolo che mi lasci qui per non creare maggiori imbarazzi a questa Biblioteca. Il S.'0 P. ha risposto una bella e buona e lunga lettera, ma in sostanza appellandosi e rimettendosi all'impegno di obedienza da me assunto. Così non mi resta che la speranza del proverbio ; « finché c'è la vita c'è ecc. » ; ed anche a questa mi attacco per quel che vale : dopo tutto è sempre vero che « avvengon casi non si sa dir ecc. ». Tuttavia si preparava alla « eventuale soluzione peggiore », della partenza. E un amico l'aveva trovato in una disposizione di spirito che non era la sua, in riguardo forse di qualche disegnata opera o impresa scientifica :

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Il prof. Nogara m'avrà trovato pessimista. Gli dica che pessimista non sono nè voglio essere se non ad tempus. Se nulla vedo, mancano, massime qui da noi, gli uomini per fare o tentare quant'Egli pensa : manca specialmente « l'uomo » ; quando poi avessimo gli uomini, nel momento attuale mancherebbe loro la fiducia. Il negoziato per la venuta del Eatti a Roma includeva la soluzione preliminare anche di qualche minore particolare, come quello della persona che l'avrebbe seguito, per tenergli la casa.76 Il Mercati gli diede qualche conto della piccola trattativa, il 31 marzo : Pensandoci su, trovai arrischiato andare dall'Emo del Val per cosa che poi non è urgente, tanto più che l'Emo Eampolla non ha ancora chiarito ... a se med. come voglia mantenere il P. Ehrle alla Biblioteca. Anzi io andai dall'Emo Eampolla ed esposi il caso ; esposi anche qualche difficoltà al suo modo di concepire la risoluzione, ma siccome non riuscii a farmi comprendere, lasciai ... Con il prolungarsi della faccenda, era inevitabile il correre di voci esterne, e fino giornalistiche (quanto fitte le interne, si può immaginare), come il Ratti informava il Mercati, in una sua del 10 aprile 1011 : [...] Ed avrà forse visto anche il piccolo cancan giornalistico che mi riguarda me Isìc.I. Barzini 77 non fece che ridire in pubblico quello che si era detto tra me, lui ed il Sen. Beltrami,78 quando l'ultimo, anzi nè anche l'ultimo dei miei pensieri, era che si trattasse d'una intervista ; e, a parte le stranezze che mi riguard [dano], non vi fu altra indiscrezione fuor quella di mettere in pubblico.79 Maggiore impressione mi fece 76

Era la fedele Linda o Teodolinda Banfl che rimase in Vaticano anche dopo l'elezione di Pio XI, tre anni, Silvio Negro, Vaticano minore. Altri scritti Vaticani [Vicenza] Neri Pozza, 1963, pp. 131-132, 133. 77 Luigi Barzini (1874-1947), il noto giornalista, collaboratore per un quarto di secolo, fino al 1922, del Corriere della sera. 78 Luca Beltrami, milanese (1854-1933). illustre architetto e studioso dell'arte, dal 1905 senatore. 79 Lo scritto, non firmato, sotto il titolo Dall'Ambrosiana al Vaticano?, comparve nel Corriere della sera. 6 aprile 1911, edizione del pomeriggio, quinta pagina, prima colonna. Il Ratti vi era rappresentato sullo sfondo dell'Ambrosiana, «figura simpatica e cara agli studiosi che frequentano la massima biblioteca milanese », per gli aiuti generosamente prestati. Aveva accolto con una battuta arguta 11 cronista che s'avvicinava, «In punta di piedi», alla sua cattedra, per chiedergli « cosa vi è di vero nella notìzia romana » (v. la nota sotto) : «Ecco la procellaria ha esclamato con un sorriso vedendoci. — Arriva quando v'è una tempesta ». Lo scrittore del giornale riferisce 11 dialogo : « Ho ancora

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quello che lo stesso Corriere aveva pubblicato il giorno prima e che qualcuno mi fece osservare: una breve notizia,80 alla quale dava l'aria di un « comunicato » la contemporanea pubblicazione, e in termini quasi identici, nella Kôlnische Volkzeitung; non so se anche in altri giornali. Ne sa nulla Lei? Era il tempo Pasquale, e da Milano arrivava la tradizionale « colomba », per cui il Mercati protestò il 16 aprile, terzo giorno dopo la festa : « Ieri giunta la Colomba. Grazie ! benché, mio caro, questi troppi doni non vanno più tra noi, e colla sua venuta qui, naturalmente, debbano cessare. Perdono l'impertinenza ! ».

un filo di speranza che la tempesta non scoppi — ci ha detto —. Sono alcuni anni già che mons. Ehrle, bibliotecario vaticano, mi parlava di succedergli; ma credevo che non dicesse sul serio. Ultimamente ha insistito per ritirarsi; dice che si sente stanco ... Forse si è accorto che l'essere bibliotecario non permette facilmente di essere anche autore, ed egli ha da pubblicare il secondo volume della sua Storia delle biblioteche vaticane. Sono venticinque anni che questo volume deve uscire. Non abbiamo tempo di far libri, noi che 11 conserviamo. Anche lo, ho scritto e stampato un volume sulla Liturgia ambrosiana [si tratta del Missale Ambrosiantim duplex (Proprium de tempore) editi. Puteobonellianae et Typicae, edito poi nel 1913; sul quale, Galbiati, Papa Pio XI evocato, cit., pp. 308-309] e non posso ancora pubblicarlo perchè mi manca 11 tempo di scrivere la prefazione. — E sono molti anni che il libro aspetta la sua prefazione? — Venti soli. Che vuole il prefetto dell'Ambrosiana non può limitarsi a essere un direttore di biblioteca. Per volontà del fondatore, il cardinale Federico Borromeo, per lo spirito dell'istituzione e per le sue tradizioni, 11 prefetto è in obbligo di alutare tutti gli studiosi che si rivolgono a lui ». Il Barzlni postilla, dopo sentita qualche tribolazione data dai tipi più strani di visitatori : « Come tutti coloro che adorano la propria missione, monsignor Eatti ne dice un po' male, ma sorridendo, bonariamente. E non parla di quello che ha fatto nell'Ambrosiana, del suo lavoro prezioso, delle ricchezze di nuove raccolte e di nuovi documenti che vi ha attirato e riordinato. Modesto, semplice, affabile, ha per l'opera sua un'ambizione muta». Alla fine condotto per gli ambulacri della biblioteca a visitare i cimeli, conclude, auguralmente : « Quando si è vissuti nell'intimità di questi tesori, dev'essere triste distaccarsene. Ma 11 prefetto dell'Ambrosiana ha ancora un filo di speranza di non lasciarli. Tutti gli appassionati per lo studio e per l'arte della nostra città fanno voti che quel filo resista ». 80 Mandata dal « corrispondente vaticano », che siglava C. (credo Otello Cavara) e pubblicata sotto il titolo II prefetto della Biblioteca Vaticana, nel Corriere della sera, 5 aprile 1911, edizione del pomeriggio, terza pagina. Il testo recava : « Sono informato da buona fonte che 11 padre Ehrle, prefetto della Biblioteca vaticana, ha manifestato l'intenzione di dare le sue dimissioni, e che egli stesso ha raccomandato al Papa, come suo successore, mons. Eatti, prefetto dell'Ambrosiana di Milano. Questa scelta sarebbe stata gradita al Pontefice. Tuttavia padre Ehrle conserverebbe la direzione della Biblioteca vaticana fino all'autunno prossimo ».

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Nello Vian

E il Ratti, a replicare, riprendendo anche il discorso su quelle indiscrezioni giornalistiche e su altre notizie che circolavano : Milano, Ambrosiana 22/4 11 Monsignore mio carissimo, ma che cosa mai mi viene dicendo? Troppi doni ! e che ormai non possono più andare fra noi ! Ma Le pare? Ecco : se invece di un'imbelle colomba i nostri usi pasquali portassero un fiasco di quel buono, avrei dubitato che questo fosse stato fin troppo buono. Guardi e veda che cosa mi fa pensare, fantasticare! Il Gentili81 non è qui: se me lo può procurare con buona occasione, mi farà piacere. La comunicazione fatta alla Kôlnische Volksztg. mi ha messo alla gogna dei giornali e pazienza : è il loro pane quotidiano. Il peggio per me è la gragnuola di lettere e biglietti e visite ... Io non dirò più che spero sempre di rimanere sotto la mia Madonnina, perchè, tra l'altro, non vorrei sembrare scortese a tante bontà che costì mi sono tanto cortesi ; ma le confesso che ... spero sempre. In qualche mese ne possono succedere tante delle cose ! Anche ciò ch'Ella mi scrive del Card. Capecelatro82 e ciò che lì può avvenire, ha la sua importanza. Se efEettivamente il P. Ehrle venisse creato Cardinale Bibliotecario...? E mi pare più probabile che la voce da Bologna secondo la quale P. Ehrle verrebbe creato [ripetuta questa parola, per lapsus] Cardinale, diciam così, Archivista. Con P. Ehrle presente ed a portata di mano non potrebbe tornar più tanto grave la croce a Lei od a Mgr Vattasso da doversi ancor persistere nel proposito di angariare questo povero Cireneo. Era sempre tra la speranza di rimanere a Milano e la rassegnazione di andare a Roma, dove, forse instinctu quodam divino, lo sospingeva quasi fatalmente lo svolgersi della vicenda. L'entrata nella Vaticana di Angelo Mercati, l'erudito fratello sacerdote dell'amico, gliene parve un segno :

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Giovanni Carlo Gentili, De ecclesia Septempedana, libri tres. Maceratae, 1836-38. 82 Nella sua del 19 aprile 1911, il Mercati aveva riferito, in un postscriptum. « Presto verrà a trovarla P. Genocchi, il quale mi ha dato poco buone notizie dell'E.mo Card. blbl. Capecelatro, che da un momento all'altro può andarsene, come ha fatto l'E.mo Cavlcchioni ». L'illustre studioso e religioso Missionario del Sacro Cuore, p. Giovanni Genocchi, è nominato più volte nel carteggio tra il Mercati e 11 Eatti, sempre con cordialità di espressioni.

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Una illustre successione : Achille Ratti

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B. Ambrosiana 24/5 1911 [...] Dunque Don Angelo suo è assicurato alla Vaticana83? Ï5 il P. Ehrle che me lo scrive con manifesta soddisfazione e può bene andarne lieto : io che desiderai e per un momento sperai d'averlo all'Ambrosiana, non devo dire a Lei, che lo sa, quel che io ne sento. Le dirò bensì che son tentato di mettere anche questo tra i segni della divina volontà che proprio mi voglia costì; segno e soccorso; un Cireneo di più ... e che Cireneo ... senza far torto agli altri. Deve essere una gran croce, se i Cirenei sono tanti e tali! Dopo tutto, quel che Dio vuole ... e purché salviamo l'anima ... Con queste parole chiudevo testé una lettera al Rmo P. Ehrle, in risposta ad una sua di pochi giorni fa, nella quale in sostanza mi chiedeva se io fossi pronto a venire pel Io Ottobre e questo per sapersi lui regolare anche in ordine alla nomina ufficiale. Io non Le dico qui tutto il resto della mia risposta, perchè non dubito che P. Ehrle gliela comunicherà. Anzi, affinchè questo in ogni modo avvenga, La prego di entrargli in argomento e di dirgli, anche per quello che Lei sa delle nostre condizioni e morali (umori di Bi. e Cer.) e amministrative (chiusura delle partite alla fine di dicembre etc.), che ciò che gli dicevo nei punti 3° e 4° è assolutamente necessario, anzi il minimum necessario.84 Si era all'estate, e in attesa di rivedere l'amico, che sarebbe andato come il solito alla villeggiatura alpina in Lombardia, il Ratti gli scrisse il 6 luglio 1911, con bella remissione alla Provvidenza: « ancor io sono dell'avviso suo e del prof. Nogara che convenga lasciare la cosa mia nelle mani di Dio senza più nulla dire o fare, per dirle infine che L'aspetto con vivissimo desiderio : diremo allora quello che lo scrivere ora poco gioverebbe ». Il Mercati passò, di 83 Angelo Mercati, fratello di Giovanni, fu nominato Scrittore della Biblioteca Vaticana il 28 giugno 1911. Passò nel 1918 all'Archivio Vaticano, come Primo Custode; ne divenne vice-Prefetto nel 1920 e Prefetto nel 1925. Morì nel 1955. 84 Questa lettera direttagli dal Ratti, l'Ehrle dovette trasmettere al card. Rampolla con una sua dell'll giugno 1911, aggiungendo una circostanza che accresceva 11 disagio della condizione in cui si trovava 11 Prefetto dell'Ambrosiana : « Per riguardo a essa [lettera] mi si dice, che, dietro una risposta data per ordine del S. Padre ai Conservatori si è sparsa a Milano la voce — poco piacevole a Mgr Ratti — che sia Mgr Ratti quello che desidera passare alla Vaticana. Sembra che in quella lettera sia stata una frase per dire, che il S. Padre non voleva costringere o comandare Mgr Ratti a venire ». Per suo conto, nell'occasione, l'Ehrle ripeteva al cardinale la preghiera di comunicare al suo Padre Generale « ciò che Sua S.tà e Vostra Eminenza comandano in riguardo alla mia ulteriore permanenza nel servizio della Biblioteca Vaticana». Rinnovò ancora la richiesta, in altra lettera del 12 novembre 1911, Archlvum Romanum Socletatis lesu, cit.

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fatto, per Milano, e nei giorni 2 e 3 agosto ebbe con il Ratti colloqui « tra i più liberi e confidenziali », il contenuto dei quali raccolse in un'ampia lettera 85 diretta all'Ehrle, e mandata dopo averla sot85

Di questo scritto si trova, tra le carte del Mercati, una tormentata minuta, che porta l'annotazione : « sped, il 16 — rimandata la minuta colle corr, a Mgr Batti perchè la tenga — un fr. del primo sbozzo è nel f. ind. ». Si riproduce questo frammento, con qualche incertezza di decifrazione, perchè contiene cose importanti, anche se si possa rimanere in qualche punto incerti che esprimano solo vedute del Eatti. La minuta s'inizia come diretta al card. Eampolla, per rivolgersi poco dopo, variando, all'Ehrle ; « ad Bm. Eampolla su Eatti [cancellato]. Avendo il M. R. P. Ehrle terminato la sua ult. lettera a Mons. Eatti con dire che lo al mio passaggio per Milano gli avrei potuto dare le altre informazioni e spiegazioni che egli desiderava, tanto per questa promessa quanto perchè Mons. Eatti mi usa molta confidenza come con antico ed affezionato collega, 1 nostri colloqui del 2 e 3 ag. sono stati tra i più Uberi e confidenziali, e nessuno del punti scabrosi è stato trascurato o dissimulato. Di tutto non avrei nessuna difficoltà a fare relazione diretta allo stesso P. Ehrle, ben conoscendone le singolari virtù di religioso e le disposizioni dell'animo circa le varie difficoltà ; tuttavia per un certo riguardo a Lui e perchè non Egli ma l'Eminenza V.a darà le disposizioni necessarie perchè Mons. Batti passi alla Vatic, e P. Ehrle sia sollevato e più libero di attendere al compimento de' suoi lavori, ho pensato meglio di riferire all'Eminenza V.a quello che di più notevole udii da Mons. Eatti e da qualche altro, sui punti meno interessanti Roma e la Vaticana, perchè riguardanti l'Ambrosiana, ma che tuttavia sono da tenere in certo conto anch'essi per riuscire suaviter nell'intento, col minor danno dell'Ambros. e col minore disgusto della cittadinanza Milanese vivamente impegnatasi alla faccenda. 1) [cancellato] le varie cose dette da Ratti 2) ciò che risposi lo. Ciò che veramente è da tener in conto. Trovai M.r Ratti persuaso (e la voce abbastanza diffusa) che egli stesso non sarebbe più venuto, rimanendo P. Ehrle, come l'Em. V.a è riuscita ad ottenere [cancellato; poi, continuando, ma come rivolgendosi all'Ehrle:] egli era felice di ciò e per la Vat. e per l'Ambr. e anche per se stesso, sebbene Mgr Ratti, noi e tutti 1 bene pensanti siamo obbllgatissimi all'Emo E. per avere colla sua energia [sopra : abilità] ottenuto che la E. V. continui ad appartenere veram. alla B. Vat. dalla quale sarebbe stoltezza e scandalo [sopra : poco savio ed edificante] lasciarla ritornare senz'altro alla cella della Cecehina; e V. E. deve in questo rassegnarsi e obbedire per l'onore della S. S. e per il bene della Vat. — E anche fortuna per la scienza e per la S. S. che Ella, compiuto l'enorme lavoro attuale di trasloco e di riordinamento dei mss. e degli stampati, rimanga sollevata dagli infiniti fastidii quotidiani dell'amministrazione e governo ordinario, affinchè possa compiere la storia del Palazzo Vat. e della Bibl. Vat. e molti altri lavori interrotti dalle cure assorbenti della prefettura, coll'obbligo però di prestare sempre al futuro prefetto e al congresso quell'assistenza e quell'aiuto di informazioni e di consigli, che non si potrà mai apprezzare abbastanza. Mons. Eatti tanto tiene a quest'assistenza, che se prevedesse che la R.a V.a per eccessiva delicatezza o per altro motivo gliene fosse avara non vorrebbe [sopra : oserebbe] accettare il grave peso della successione, e la solleciterà da lei con una confl-

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toposta al principale interessato, ch'era rimasto a Milano. Di dove questi gli scrisse, rispedendo : (lenza e con una insistenza da figliuolo nella speranza [cancellato : sicurezza] di ottenerla sempre e con tutta la larghezza possibile, come del resto l'ho assicurato. Però Monsignore, quantunque dispostissimo ad ogni sacrifizio personale e ad ogni diminuzione di se in obbedienza ai superiori in sollevamento [cancellato : aiuto] di Lei, non s'indurrebbe mai, se non per un precetto assoluto del S. P., e senza replica, ad accettare un titolo e un posto inferiore al titolo e posto suo presente, e ciò non solo a tenore delle proposte fattegli e accettate sull'invito e desiderio del S. P., e in riguardo degli annunci corsi dappertutto, ma anche perchè assai male lo tollererebbero quelli dell'Ambrosiana e 1 Milanesi, e si darebbe adito al sospetto che Mons., pur di venire a Roma, accetterebbe anche un posto minore, mentre Egli in realtà non ha mai ambito il mutamento [cancellato : avuto l'ambizione di venire] e puramente lo subisce, Mons. sarebbe contentissimo che a V.a Elv. si desse 11 titolo di sottoblbliotecarlo, come propose l'8 die. al S. P. e all'Emo R. o almeno quello di prefetto onorario, come gli è sovvenuto ricordando gli scrittori onorarli; ma subirebbe solo per forza il titolo di viceprefetto o altro simile che Involga subordinazione nel governo di fronte ad altri che [cancellato, e sostituito in maniera rimasta imperfetta con altra espressione] al S. P. e Card. Bibl. A me e a Nogara questa difficoltà è sempre parsa così evidente, ed anche sempre cosi discretamente ma pur chiaramente espressa da Mons. Ratti che io non ho mal capito come si tentasse senza preoccupazione alcuna di andarci contro e si volesse vederci solo una questione di forma. Rimane la diff. della successione a Mgr. Ratti nell'Ambr. ; difficoltà che la Riv. V.a non credeva pertinente a se di considerare, ma di cui la S.lanta] S.lede] non può onestamente disinteressarsi, trattandosi d'una fondazione ecclesiastica onoratlssima, particolarmente raccomandata e assoggettata alla S. S. dal fondatore, e che ha la propria prosperità in gran parte legata alla stima e all'affetto della cittadinanza [«opra : come si è veduto nei legati e nelle donazioni negli ultimi anni] per i dottori e sopratutto per il Prefetto di essa. Prescindere in cosa simile dall'opinione e dalle impressioni — giuste o no non discuto — della cittadinanza e imporre uno ignoto ancora per quanto vi sia speranza che riuscirà bravo, sarebbe imprudenza e danno non lieve nell'estimazione e nel resto. Mgr R. non solo ritiene impreparato e impreparabile per almeno un anno [spazio] Mgr. Gr. assorbito totalm. [«parfo] e nemmeno per allora lo stima per abbastanza cognito ed accetto alla città, ma vede l'impossibilità costituzionale del ripiego con cui aveva pensato di pervenire alla nomina di Mgr Grammatica, dimettendosi cioè da prefetto e rimanendo dottore all'effetto di concorrere coi due nuovi dottori (3 voti contro due) nella nomina di Gramm., perchè cessando egli di essere prefetto, sottentra di diritto il vicepref. Cerr. e a lui spetterà d'indire il congresso per la nomina quando e come crederà bene e il Cerr., che considera come intrusi Gr. e i due nuovi dottori e non vede l'ora di rivalersi da varii atti che egli ha l'ubbia di veder soprusi, governerà egli intanto, rimanderà il Congra quando crederà bene e solleverà chi sa quali questioni di legalità alterando la pace non senza stento mantenuta [...] [cosi nell'originale] e il buon andamento della blbl. Per questo e perchè molteplici espressioni dei migliori amici e benefattori dell'Ambrosiana e del clero e città non gliene lasciano dubbio, egli mi ha dichiarato chiaro e tondo, [sopra, rimasto forse imperfetto, per essere correzione di altro, cancellato : sapendo bene che io non pensassi mai abbia voluto allontanar

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Nello Vian Milano 14 VIH 1911 Mio carissimo Monsignore,

Eccole la sua lettera : l'ho letta attentamente e con tutta la calma permessami dal doloroso e pauroso trambusto di questi giorni:86 ho trovato poco o nulla da mutare, neanche nell'indirizzo al P. Ehrle; anzi mi stava a cuore ch'Ella prendesse questa direzione e ne l'avrei pregato, sembrandomi per parecchie ragioni preferibile. La ringrazio di tutto cuore; sol mi vergogno di darle tanta briga e tanto lavoro.87 Andò anch'egli in montagna, sulla metà di agosto,88 a riprendere forze per l'autunno, che prevedeva sicuramente risolutivo. Comunime, suo quasi fratello] che se egli deve venire col prossimo anno, egli non vede altra uscita che questa; che 11 Papa nell'atto stesso di chiamar Mgr Ratti ritorni me all'Ambros., considerandomi 1 milanesi come uno di loro ed avendo favorevoli non solo 1 conserv. e 1 dottori ma anche il Dott. Cerruti, il quale mi ha sempre voluto bene nelle sue ubbie crederebbe un guadagno per se il cambio, e cosi senza violenza, senza gravi turbamenti della pace interna e senza troppa Insoddisfazione della cittadinanza si ["■•.] [co«ì nell'originale]. Oso riferire questo benché mi ripugni e benché io sia invece persuaslssimo del cattivo aff. dell'Ambros. e che dopo poco tempo i colleghl e i Milanesi dovranno disilludersi e cosi l'Ambr. col lucro cessato avrà anche un danno emergente, [parola corretta sopra, non letta] abbia io dichiarato a Mgr Ratti e lo dichiarerò agli altri interessati a scanso d'ogni mia responsabilità, [parola abbreviata e in parte corretta, non letta], perchè essendomi io ripetutamente profferto e a lei e anche al S. P, di ritornare a Milano, ove ciò fosse necessario per l'acquisto di Mgr Ratti, non vorrei si pensasse che io al momento opportuno fossi per ritirarmi. Nò : nemmeno 11 nuovo mio legame a Roma e alla Vat. costituito da mio fratello Angelo mi tratterrà dal fare ciò che promisi se il S. P. me lo domanderà, lasciando totalmente alla D. Provv. e agli autori del mutamento la mia sorte ed ogni responsabilità del deter. [?] dell'Ambrosiana, e questa mia disposizione protesto ancora con tutta sincerità, non senza aggiungere che sotto un rispetto almeno vedrei volentieri la cosa, quello cioè di sollevare la Vatic, da uno poco utile che anormalmente tanto del suo tempo ha speso e dovrà forse spendere anco in futuro per cause e cose estranee alla bibl. e agli [parola incerta], E non dico altro in proposito. Finalmente Mgr Ratti mi disse, che se proprio coll'anno futuro deve venire dovrebbe essere sicuro, e concertate tutte le cose non più [in] là del settembre, affinchè possa disporre le cose di bibl. e di casa, rinunziare a certe spese da farsi altrimenti, terminare alcuni scritti e communlcazloni ecc. ». 86 L'automobile del fratello Fermo, tornando dalla Spezia a Viareggio, ebbe un grave incidente, descritto nella lettera. 87 II Ratti chiudeva la lettera con questo post-scriptum-. «Le condizioni dì salute del S.t0 Padre e la assenza del Card. Rampolla non sono al certo per agevolare e sollecitare il corso della nostra faccenda; purché il S.t0 Padre guarisca presto e bene...». 88 Al Mercati inviò dalla Savoia, 11 21. Vili, 1911, una cartolina con un pio ricordo di s. Francesco di Sales.

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cò di fatto al Mercati, annunziando una sua imminente visita a Roma, quanto era stato stabilito ma non fu ancora definitivo : Milano 28 X 1911 Monsignore mio carissimo, P. Elude mi ha scritto in data 21 corr. ; solo oggi gli ho risposto sia per la straordinaria ressa delle brighe in questi giorni, sia per il bisogno di pensarci su prima di ingaggiare la battaglia, come tutto mi fa presagire, decisiva. Aderendo all'invito che P. Ehrle mi fa di una corsa a Roma per discorrere cou S. Em. il Card. R., con Lui e con gli Amici e cointeressati, farò costì Martedì mattina con facilità di rimanere, se occorre, anche il giorno dei Santi, giorno di chiusura assoluta anche per l'Ambrosiana. Non si dia la minima cura e non disturbi alcuno — proprio di cuore ; ho dei vecchi inviti ; ne potrò secondare qualcuno una volta tanto ; può però far conto che per le 11 al piò tardi sarò a Salita S. Onofrio 37.11 Mi saluti i suoi cari e riveriti coinquilini ; mi raccomandi più che mai al Signore e mi creda sempre Il suo affilio Sac. A. Ratti P. S. - Porse già saprà; ma, per sua norma, P. Ehrle mi scrive che il Card. E. dopo conferito col S.t0 Padre gli ha detto: 1) Rimanere inteso che io venga in qualità di Prefetto pel nuovo anno ; 2) Dover lui rimanere al governo della B. con titolo da fissarsi e rispondendone al S.'0 P. ed al Card. 3) Poter lui e dover sistemare il rimanente secondo il migliore interesse della S.a Sede. Egli poi P. Eh. dice a me : 1) che egli ha dovuto subire questa soluzione ; 2) che essa non deve « spaventarmi », perchè egli mi cederà al più presto tutto il governo. Evidentemente il buon Padre equivoca : quando al governo deve rimanere Lui e Lui risponderne, esula appunto davvero la responsabilità di peso troppo superiore alle mie forze. Con la soluzione accennata mi pare di aver già ottenuto molto e ne sono gratissimo anche a Lei (la sua lettera venne letta al Card. R.) : qualche cosa di meglio spero ancora di ottenere. Dica pure queste cose al Rmo P. Eh. al quale non ho risposto prima se non che vengo secondo l'invito suo. La soluzione rimaneva al di qua delle linee tracciate dal Mercati, nell'agosto, all'Ehrle. Ma il Ratti, con le nobili parole ora lette, dichiarò non soltanto di non essere colpito da quella diminuzione di autorità, ma di sentirsi anzi sollevato dalla responsabilità del

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grave governo. E non si trasse indietro nemmeno quando gli fu comunicato che anche il titolo di Prefetto sarebbe rimasto all'Ehrle. Maturata la determinazione dopo la sua visita a Roma, la partecipò con uguale serenità al Mercati : Milano, Ambrosiana, 15 XI 1911 Monsignore mio carissimo, Con sua del 13 corr. alla quale oggi stesso rispondo, il Rmo P. Ehrle mi informava che « S. Eni. nella udienza di Giovedì passato ottenne dal S. P. la approvazione della mia proposta ».S9 Aggiungeva che la lettera di nomina mi sarebbe spedita dalla Segreteria di Stato. Gli ho risposto che starò dunque aspettando la lettera e, avuta questa, starò aspettando gli ordini suoi come già quelli del nostro venerato e caro Oeriani. Dalla sua lettera il Emo Padre mi pare piuttosto rassegnato che soddisfatto ... e Lei? Per me, più ci penso e più mi persuado che era l'unica via per evitare guai maggiori e per disturbare il meno possibile (come mi scrive il prof. Nogara) ; massime —- aggiungo io — dopo l'esclusione del nome del P. Ehrle dalla lista dei nuovi Cardinali90 Le confesso che questo mi ha dato, come si dice, il tracollo. Mi parve proprio che io dovevo fare così, se non altro per dar tempo al tempo ; mi parve anche che la sua proposta non solo sarebbe stata accolta, ma sarebbe stata la benvenuta come quella che apriva una onorevole uscita in una situazione un po' imbarazzata. La maniera onde mi accolse e trattò S. Em. mi conferma in queste idee e supposizioni e se queste sono anche solo in minima parte vere, sono tanto più lieto di pagare di persona, lasciando a tutti quanti la più ampia libertà di dire e pensare quel diavolo che vogliono. Dico così perchè non può imaginare le strampalate interpretazioni che taluni vengono dando alle cose : a voce Le dirò poi e rideremo insieme. Una cosa mi tiene in vera e grande pena : la sospensione in cui rimane Lei. Ma che vuol farci? Abbia pazienza ... Do e sento una profonda fiducia che tutto finirà bene, molto bene. Di sospensione in sospensione anche il Prof. Nogara ha la sua ed io sono confusissimo di essere in qualche modo la Elena di tanti guai. Scrivo anche a Lui, ma lo rimetto anche a quello che scrivo a Lei ... et vicissim, si intende. 89

II giovedì passato, giorno di udienza del Pro-Bibliotecario card. Rampolla, fu 11 9 novembre. II Ratti fu nominato vice-Prefetto della Vaticana con diritto di successione; tino all'estate futura avrebbe ritenuto il suo posto all'Ambrosiana, venendo ogni mese a Roma per una settimana, Galbiati. Papa Pio XI evocato, cit., p. 305 (nella bio-bibliografia, sotto la data 8 novembre 1911). La nomina fu comunicata il 20 febbraio 1912, con biglietto della Segreteria di Stato : si veda più avanti, nel testo. 90 Nel concistoro del 27 novembre 1911, s. Pio X creò diciotto nuovi cardinali, dei quali uno gesuita, il Billot.

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E la sua salute? Me ne dica qualche cosa ... Mi saluti tanto D.n Angelo e supplisca anche, prego, ai saluti sfuggitimi (voglio dire non fatti) nell'inconsapevole incontro col D.r Cerati. E Mons. Vattasso? e Pio Franchi? 91 come stanno? — Mi saluti tutti. Preghi p. me. Suo afflino come f.llo Sac. A. Ratti Tante cose di cuore a D." Angelo. Il compromesso lasciava a Roma quei sospesi,92 e a Milano in disagio il presuntivo successore del Ratti.93 Ma il nuovo vice-Prefetto della Vaticana, ancora in attesa del biglietto di nomina dalla Segreteria di Stato, restava tranquillo, con il suo solido temperamento. 11 5 gennaio 1912 mandò augurali voti al Mercati : « Grazie a Dio ed io e tutti i miei di casa e di biblioteca stiamo bene e speriamo bene di questo nuovo anno, anche per gli auguri e le preghiere sue ; grazie anche a Lei ». Con gli altri, teneva il silenzio, per prolungare fino al possibile quella condizione ancora di quiete. Aggiungeva, appunto : « Dica tante cose a P. Elude : non gli ho scritto nè pelle Feste nè per il nuovo anno, non gli ho neanche mandato un biglietto, perchè non ne ho mandato — di proposito — a nessuno, appunto per non farmi vivo : quieta non movere! Va così bene che per parte mia, finché Dio vuole, non voglio disturbare. E mi pare che anche P. Elude (glielo dica) potrebbe fare così : saremo più sicuri della volontà di Dio. Ecco : io credo di sapere donde viene 91 Marco Vattasso (1869-1925) e l'io Franchi de' Cavalieri (1869-1960), Scrittori delia Biblioteca Vaticana; Michele Cerrati (1884-1925), più tardi anch'egll Scrittore. 92 « P. Ehrle mi disse l'altro giorno che 1 suoi nervi non reggono, perchè non ha più quel riposo tranquillo ristoratore d'una volta », Mercati al Ratti, 21 die. 1911. 93 Luigi Gramatica scrisse al Mercati, Milano, 21 Dicembre 1911 : « Qui nulla di nuovo: si continua a chiedere se, come e quando Mons. Eatti andrà, nè si vuol credere al tenore della decisione che si sarebbe presa. Dal canto mio continuo a crederla vera non solo ma anche stabile, benché mi secchi un po' far la figura di vittima in questa faccenda, e riconosco che sarebbe stato assai meglio che fossi venuto a Milano senzachè si fosse mal parlato di una successione in incubazione. Ma ci vuol pazienza e giacché vogliono parlare lasciarli dire. Certo è mille volte meglio cosi che non altrimenti se questo altrimenti sopratutto dovesse importare l'assunzione di una direzione per la quale né sono atto nè sento di aver molta voglia di procurarmi le necessarie attitudini. Fino a che non avrò portato al termine quella benedetta Bibbia resterò paralizzato nè potrò dedicarmi almeno intensamente ad altro ».

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l'incaglio ; 94 ma per la ragione già detta mi guarderò bene dal farne cenno: lo scrivo a tergo dell'ultima Sua ... per contentare (o per far disperare !) la curiosità dei posteri.95 Mi stia bene e ottimamente, ora e sempre [...] ». Arrivò la nomina, con la data del 20 febbraio 1912. Il 25, il Ratti avvisò l'amico dell'accettazione, sollecitamente ; « Monsignore mio carissimo, Non Le scrivo, Le mando una cartolina, una parola. Ho detto il mio fiat; l'ho detto di cuore, di buono e lieto cuore ; l'ho detto con gratitudine sincera verso tutte le bontà che mi hanno preceduto costà ; che a me si sono rivolte con tanta indulgenza, e che hanno tanta parte nella fiducia che mi regge e conforta, dopo la ormai certezza di fare la volontà di Dio. Dica questo e tutto quello ch'Ella mi legge in cuore e sa ai riv. e cari Colleghi... Ma, ripeto, ora non Le scrivo : lo farò prestissimo, quando potrò soddisfarla di quella piccola ricerca. Il libro ci è di sicuro; ma finora non ho proprio potuto riprenderlo in mano. Ci sono dei giorni e delle settimane addirittura strane nel non lasciare un respiro ed un momento per gii amici. Abbia pazienza. Scrivo al R. P. E. e non solo a Lui, come Le dirà di certo. Mi saluti i Fratelli e tutti quanti i Colleghi. Preghi ; preghino per me ». Scrisse all'indomani, con effusione commossa, risalendo, come altra volta, alla sempre viva memoria del Ceriani : Milano. Ambr. 26/2 1912 Monsignore mio carissimo, Desideravo tanto di poterle scrivere e adesso che o bene o male lo posso, non so più che dirle ! Gli è che sono così certo che Ella mi legge nel pensiero e nel sentimento e vede e sente tutto quello che mi passa nella mente e nel cuore. Ma pensa anche Lei, come penso io stesso, che ... faccie farà il nostro venerato e sempre compianto e rimpianto Mgr Ceriani? Se non altro Egli ha veduto che per me non stette e che non ho fatto poco per rimanere alla sua cara Ambrosiana e per non abbandonarla in ogni caso se non in modo di recarle il minimo disagio possibile e da recarle anzi vantaggio. Ma ripeto : quel che Dio vuole ! fiat! e non parliamone più. Lei mi intende nevvero? C'è qualche cosa di cui mi pare proprio che non parlerò mai abbastanza ed è la bontà, anzi le bontà delle quali in tutte queste lunghe e varie trattative son stato fatto segno da tutti Loro costì, ma principalmente da Lei, Monsi94

Probabilmente si riferisce al ritardo del biglietto di nomina. Per la mancanza, già ricordata, di questa, come di molte altre corrispondenti, la « curiosità dei posteri », antiveduta con lieve malizia di storico dal Ratti, rimane. 95

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gnore mio carissimo : bontà così grandi e così indulgenti che io rinuncio a spiegarmele se non per mezzo ... della Loro e della Sua grandissima bontà appunto. Pur troppo la cosa resta quello che è ed io quel meschino che sono ... Purché non abbian poi Loro tutti insieme a ... non dico pentirsi (perchè di un atto e di una condotta tutta di bontà non è mai motivo di pentirsi), ma ad accorgersi che è proprio vero il proverbio; affezione accieca ragione. Vuoi dire che avranno o almeno avrà qualcuno di Loro (Lei sopratutti dovrà avere) la amica lealtà di dirmelo : badi, ci conto, veramente.96 Contava di essere a Roma « al più tardi sulla fine di Marzo », attendendo tuttavia anche su questo l'avviso dell'Ehrle. E sollecitava l'amico : « Anche Lei mi dica il suo : conviene anticipare? E mi dica tutto quello che Le pare che io debba fare ; perchè io so niente e mi fido di Lei, di Loro ». Ma dovette tardare, perchè il 22 aprile informò il Mercati : « Sarò costì il giorno 29 di mattina e rimarrò fino al 10 maggio di sera e così saranno due settimane ». Dei comportamenti presi a Milano, rispetto alla sua nomina, aveva dato notizia rapidamente, in un post-scriptum alla lettera del 26 febbraio : « Qui, grazie a Dio, e Mamma mia e Cardinale e monache del Cen[acolo], e Colleghi ed amici non sono malcontenti della combinazione ». Ma era ottimista, almeno per quanto riguardava l'Ambrosiana, dove la designazione di un Dottore « delegato », durante le assenze di lui, aveva suscitato il risentimento di altri.97 Fino al96

La lettera continua con determinazioni pratiche, che scoprono anch'esse la riflessività e il criterio di prudenza del Ratti : « Il R. P. Ehrle Le avrà forse già detto che conto anche sulla sua mensa, di essere cioè della sua ormai già numerosa famiglia per il pranzo o insomma per il pasto del mezzodì, del tocco o quando che sia. Per l'alloggio nessuno si deve scomodare al 2° piano ; se mai accetterò con gratitudine e piacere grande il letto che mi offre il Comm. Nogara al suo 1° p.0 — Dico se mai, perchè nel frattempo ho avuto una offerta da Mons. Caccia, fatta con tanta cordialità e tanto da quel buon figliolo che è, che, dati i miei rapporti con lui e co' suoi, data la vicinanza della Biblioteca e (penso) la possibilità della S. Messa in casa, ho chiesto a P. Ehrle — al nostro signor Prefetto — se egli vede qualche ragione, anche di lieve convenienza o riguardo, perchè io non accetti. Può pensare con che trasporto vero passerò anche la serata con Lei, con Loro di S. Onofrio — giacché, penso, nessuno ne avrà per strana avventura qualche gelosia! tanto più trattandosi di dimore affatto temporanee e passagere. Basta! vedrò che mi risponde il signor Prefetto ». 97 Scrisse il Gramatica al Mercati, il 20 aprile 1912 : « Qui si è ancora in perfette tenebre. Benché io sia forse il solo che speri sul serio che dei grandi mutamenti non si faranno e che Mons. Ratti finirà col restar a Milano, e lascierà che le cose vadano come devono andare, partecipo però anch'io se non altro per

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l'ultimo, lineile condizioni interne e le difficoltà della successione lo preoccuparono. Intanto, egli seguitò a viaggiare tra Milano e Roma,98 rimanendo nella disposizione personale compendiata in questa espressione : « Per quello, che mi riguarda io sono disposto a tutto quello che la Provvidenza sia per disporre pel meglio della Vaticana, che è — per un bel poco almeno — è dire della Sua Santa Chiesa ))." Ambrosiana,100 Vaticana,101 Ehrle 102 sono gli argomenti che più stanno a cuore ai due amici e ritornano con maggiore frequenza nel riflesso all'orgasmo generale e ho il dispiacere di turbare 11 sonno ad alcuno. Purtroppo la delegazione avuta dal Prefetto al tempo della sua prima venuta costà ha avuto la sua vittima o il suo epilogo semitraglco nel ricorso fatto da Dn B. alla Congregazione (?). Confesso che non avrei mai pensato che per una cosa così da poco si potesse pensare a incomodare le Congregazioni romane. Certo però che 11 sintomo non è molto consolante e molto incoraggiante per me. Dal più anziano de' miei colleghi sono ritenuto un spurio, dal secondo vengo considerato un usurpatore. Se si va avanti di questo passo Dio sa che cosa sono per diventare. E dire che avrei cosi caro continuar a vegetare sul mio seggiolone senza avere fastidi, nè per il presente nè per l'avvenire ». 98 Al Mercati, cosi, annunziò, il 12 giugno 1912 : « Vedo che P. Ehrle Le ha detto della mia anticipata venuta : sarò costi 11 17 mattina ». E, allo stesso, il 4 settembre 1912, dopo un incidente ferroviario : « A quest'ora Ella conosce al par di me la triste canzone del ritardo sulla Bologna Firenze Roma... Vero è che il treno disgraziato veniva da Roma; ma oltre al ritardo, Ella avrebbe pur dovuto attraversare il campo del disastro... Conclusione: estote parati, davvero...». 99 Ratti al Mercati, B. Ambrosiana 6. 9. 12. 100 li Ratti ragguagliò, a esempio, il 4 febbraio 1913: «Un'ora fa, dopo due giorni di buon lavoro abbiamo finito di trasportare e collocare provvisoriamente la bibl. Villapernice : non restan che gli opuscoli e qualche materiale d'archivio — un centinaio di cartelle in tutto che trasporteremo domattina. Dobbiamo moltissimo alla presenza operosa — anzi laboriosa — del prof. Nogara, che è venuto qua a fare un vero carnevale librario, anzi un'orgia di libri e proprio una orgia danzante — sfido io, con tanti libri in ballo vero ». Il Mercati replicò il 9 febbraio, graziosamente : « Godo del nuovo accrescimento della cara Ambrosiana: ne riceva essa degli altri, e maggiori ancora...! Non aggiungo «te duce», perchè direi cosa che non posso augurare alla Vat. e a me, per quanto ami l'Ambrosiana ». Aggiungeva la notizia che mons. Stanislao Legrelle stava per comprare l'archivio Sciarra Colonna destinato alla Vaticana : « È proprio un bon figliuolo, non ostantibus la curiosità e volubilità fenomenale». Per lo Scrittore onorarlo belga Le Grelle, (1874-1957), si può vedere un vivace ricordo nel volume di Silvio Negro, Roma, non basta una vita. Venezia, Neri Pozza, 1962, pp. 375-377. 101 Dal soggiorno alpino, il Mercati, S, Bernardo 15 agosto 1913, narrò un incidente avvenuto in Vaticana, un principio d'incendio, del quale non si era creduto bene informare il p. Ehrle, fuori di Roma, a riposare: « [...] fu l'inizio di un incendio in bibl., presso l'ingresso dei turisti, fortunatamente senza conseguenze e rimasto segreto. Ma vennero fuori in tale occasione più inconvenienti

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carteggio, in questi anni più ristretto per i cresciuti incontri. Giunse un fausto anniversario, a fare esternare meglio gli affetti di questi uomini insigni. Sulla fine del 1913, il Mercati, congratulante, scrisse al Ratti : [Stemma con leggenda: Biiìuioteca Apostolica Vaticana] 29 nov. 1913 Venerato e caro Monsignore ! Grazie al buon pensiero d'un amico comune ho ieri sera avuto sentore della festa che Le si prepara per il 25° anniversario della entrata di Lei nell'Ambrosiana. Mi sarebbe sommamente dispiaciuto di rimanere affatto estraneo ad una festa, alla quale per me, già collega affezionatissimo, ora anche devoto dipendente è doveroso partecipare in modo non comune; festa che io meglio degli altri posso conoscere meritatissima, essendo stato per anni parecchi testimonio oculare del bene che Ella compieva in biblioteca e anche dopo, informatissimo sempre di quanto Ella con un zelo e con un successo meraviglioso l'ha fatta progredire in ricchezza, in buon ordine e nella stima ed affezione universale. Felice Ambrosiana alla quale Dio donava uomini quali il veneratissimo nostro Ceriani e Lei! (e ora felice anche la Vaticana, la quale dalla lunga esperienza e piena maturità di Lei a ragione si ripromette un'azione non meno profittevole e benedetta, ove le circostanze non siano meno favorevoli ... quod Deus avertat !). Io certo, se i precedenti di famiglia non ingannano, tanto non sopravviverò da partecipare alle feste che nell'anno cinquantesimo, ora da tutti auguratole, Le si faranno anco più solenni e con partecipazione che non avrei nemmeno immaginato e a cui in parte si rimediò e in parte bisognerà rimediare... Bisognò perdere tempo e per lavori e per 1 Superiori (Prefettura e Card. Rampolla) ecc. Io non volli che si scrivesse a P. Ehrle, ma dopo una lettera di lui, che chiedeva notizie sulla bibl. gli ho fatto cenno dell'incidente come d'una cosa da nulla, senza ricordare le vive parti della Prefett. ecc., come se nulla fosse trapelato. Al ritorno saprà tutto». 102 Ratti al Mercati, 13. 4. 13 : « Mi riverisca P. Ehrle che mi scriveva di risentire qualche disagio del nuovo regime al quale deve assoggettarsi. Meno male che vi si assoggetti...». Mercati al Ratti, Roma, 3 luglio 1913 ; « Quanto a P. Ehrle, non so che dire. Egli non parla, e lo che lo veggo mattina e sera, non sono il più adatto a conoscerne 11 deperimento. Altri lo trova brutto a intervalli. Ciò che temo si è, che egli voglia sforzarsi a restare e a lavorare. Continua ad ammettere studiosi...». Ratti al Mercati, 13. 8. 13: «P. Ehrle mi ha scritto da Valkenburg che sta bene e che il Generale gli ha proibito di essere a Roma avanti il settembre : cosi andava fatto».

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tanto più larga, quanto maggiore e più frequentato è l'Istituto che d'ora in avanti domanderà tutta l'energia di Lei. Mi giova tuttavia presagirle, raffigurarmele tali feste, e meglio giovami raffigurare la nostra cara Biblioteca Vaticana anche allora, e più di ora, mercè le assidue e sapienti cure di lei precipuamente, fiorentissima, utilissima, celebratissima dovunque non solo per la copia e rarità de' suoi inestimabili tesori, ma anche per la liberalità somma nel concederne lo studio a comune vantaggio delle scienze, lettere e arti e per il concorso grande di essa stessa, secondo le forze, a tale vantaggio mediante le opere dei propri addetti. Così voglia Dio per l'onore della S. Chiesa e della Sede Apostolica. Le grazie che ne ebbe si velavano di tristezza per la morte, sopravvenuta, del cardinale Bibliotecario Kampolla, da tutti loro sinceramente amato : Volevo, dovevo scriverle una lunga, affettuosa lettera per rispondere alla sua così affettuosa, indulgente, buona ; ho aspettato sempre per trovarne il tempo più opportuno, e mi sopraggiunge come fulmine la notizia della improvvisa scomparsa del nostro Cardinale ! Ed ogni parola mi si volge in parola di rimpianto e di condoglianza — alla Vaticana, a tutti i suoi, a Lei in particolare, che tanto particolarmente amava e stimava il nostro Compianto e ne era non meno particolarmente stimato ed amato — alla S. Sede, alla Chiesa. Chi l'avrebbe detto? Oh ! le vie e le vedute di Dio ! Sia fatta la Sua Sta Volontà ! Ma a Lei grazie di cuore, di tutto cuore ; non senza confusione, è vero, ma insomma di tutto cuore. Ed anche Lei ringrazi tutti i Colleghi, come già ne pregavo P. Ehrle ... Poveretto! Penso il colpo che ha dovuto essere per lui sopra tutti ! Sarò costì venerdì mattina. A rivederla presto. Preghi per me.103 La condizione delle cose maturava, naturalmente, con il tempo. Al sorgere del 1914, s'iniziava, il terzo anno dalla nomina del Ratti alla Vaticana, con quel titolo che non poteva, per le circostanze, prolungarsi ancora molto. L'Ehrle continuava a insistere per essere liberato,104 e la scomparsa del cardinale Eampolla, con il quale 103

Le parole sono scritte in un biglietto, datato 17. XII. 13, sotto quelle a stampa : Il Sao. Achille Ratti \ Prefetto della Biblioteca Ambrosiana \ ringrazia. A continuazione dell'ultima, egli inizia: «e questa parola Le dica tutto quello che ho nel cuore!». Prosegue poi come sopra. Il cardinale Mariano Kampolla del Tlndaro, successo come Bibliotecario al card. Alfonso Capecelatro, morto 11 14 novembre 1912, era scomparso il 16 dicembre 1913. 104 II 21 novembre 1913 aveva scritto, ancora, al card. Kampolla : « Mi permetta, d'aggiungere la preghiera, che Vostra Em.za regoli col nostro P. Generale

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aveva mantenuto per tanti anni una relazione ideale, pareva intervenire a segnare il suo termine di governo. Il Ratti, a Milano, seguitava a svolgere un'azione propriamente politica 105 per preparare la sua successione. Il 14 gennaio avvisò il Mercati : « ho dovuto scrivere a P. Ehrle (forse gliel'ha già detto) che vedesse di non forzare proprio in questo momento gli eventi, perchè mai a mio credere il momento fu meno opportuno...».106 E I'll febbraio: « Grazie, di tutto cuore per lo scrivermi e tenermi informato come fa. Mi rincresce pel tempo e per la fatica che Le costa : mi abbia pazienza. Un'ora fa mi arrivava lettera del nostro caro Padre e Prefetto : mi scrive quello che costì è venuto dicendo, che si sente un gran bisogno, se non di riposo, di lavoro meno obbligato e libero di responsabilità ; che ha scritto al Card. ; 107 che intanto ha pregato Lei di surrogarlo. Così Lei ne va di mezzo e non è certamente quello la mia partenza dalla Biblioteca e dal Vaticano. Vi sono complicate in questo affare tante mie questioni personali, nelle quali io non posso ne debbo essere giudice, che lo credo dover rimettere completamente nelle mani di Vostra Em.za e del P. Generale. Accetterò la Loro decisione come la volontà di Dio». Per liberare dall'ufflcio l'Ehrle, un carteggio era di fatto già passato tra il Generale della Compagnia di Gesù, p. Francesco Saverlo Wernz, e il card. Rampolla, nel giugno 1913. Il Wernz rinnovò poi caldamente l'istanza, con il nuovo Bibliotecario card. Cassetta, nel gennaio 1914. Tre lettere scambiate nelle trattative e una dell'Ehrle al Cassetta, in data 25 gennaio 1914, fortemente insistente, sono edite da Francesco Vistaixi, Il card. Francesco di Paola Cassetta nella sua età e nella sua opera. Bergamo, Società ed. S. Alessandro, 1933, pp. 361-364. 105 Ratti al Mercati, 14. 1. 14 : « Ho una buona notizia e mi affretto a dargliela, perchè sono ben certo che anch'Elia ne goderà di tutto cuore come ne godo lo. Quando sarò costi Le dirò gli antecedenti ed i particolari : ora sarebbe troppo lungo. Ma la sostanza è che il D.r Ceruti mi ha dato convegno a Cernobbio, e ci fui ieri ed abbiamo gettato le basi di una, non credo solo entente cordiale ma anche vera e durevole alleanza. Deo gratlas! Intanto però anche perchè bolliva questo, e non questo soltanto, nella nostra piccola pentola [...] », segue il tratto trascritto nel testo, subito sotto. 106 Enumerava, in una successiva, dell'll febbraio 1914, le cose che Io impegnavano : « [...] Ceruti non sì fa vivo ; e intanto ho messo mano al fase. 3 del to. I del Monumenta ed all'assetto definitivo del to. VIH; e sono in un momento critico di già lunga preparazione per una Miscellanea Giorgio Giulinl 11 nostro grande storico; e proprio oggi, il momento sembrando opportuno a chi mi aiuta, ho avviato pratiche per una elargizione della Cassa di Risparmio; ed ho la Sala della Rosa sossopra per la collocaz. del legato Osnago; e sono sul punto di una buona combinazione per la portineria... Come vede, fin troppa carne al fuoco; ma non posso farne a meno e mi ci vuole pazienza». 107 II cardinale Francesco di Paola Cassetta, romano (1841-1919), fu nominato Bibliotecario 11 3 gennaio 1914. Il 3, 11 Ratti scrisse al Mercati : « Mi assicurano che sia un gran galantuomo, ricco e generoso ; sono buone qualità ».

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che vorrei ma come impedirlo? Vedremo che cosa dice il Cardinale ; non ostante il bene che Le voglio, spero che troverà e dirà che va bene così ». Chiedeva ancora all'amico, sempre fraternamente servizievole, pazienza. « Però veda Lei pure di averne come già altre volte ed oso dire anche un pò" di più... anche, se occorre, pensando che sia l'ultima volta: Dio Gliene terrà conto». Ma, da Roma, gii si faceva urgenza, di venire. Il 14 febbraio, appena qualche giorno dopo, informò il Mercati : « Stavo per scrivei'e com'Ella mi suggeriva quando mi giunse lettera del C[ard.] C [assetta] 108 così insistente anche a nome d'Altri, che non vedo di poter altro fare che partire domani sera per essere costì Lunedì mattina ». Venne a Roma, e ne tornò con l'indicazione, di carattere pare alquanto ingiuntivo, che con la Pasqua di quell'anno sì voleva terminare la lunga vicenda, dando effetto alla successione alla quale egli era stato designato. La decisione, in apparenza inderogabile, gii fece ancora una volta considerare le sue responsabilità, e risultato dell'intenso rimeditare fu una lettera al Mercati, tra le più ampie di tutto il carteggio. Essa si apre, occasionalmente, con la pacata replica a dicerie fino di ordine materiale, che il coscienzioso corrispondente gli aveva riferito. Ma si appunta tutta al problema morale di ciò che egli deve fare di fronte alla crisi inevitabile che si produrrebbe all'Ambrosiana con la sua definitiva partenza, specialmente se precipitata. Metteva avanti ancora qualche form nia, con riluttanza e poca persuasione, come quella della doppia prefettura (che rischiava tra altro di farlo apparire ambizioso). Ma la sua volontà era ferma, in ogni caso : tra il compromettere la sorte della sua amata Ambrosiana e il sacrificare sè, la sua alta, ineccepibile coscienza morale non aveva un momento d'incertezza. Nel complesso ragionamento tutto si riduce, nettamente, a questa lìnea : Milano 21 II 14 Monsignore mio carissimo, Grazie, di grandissimo cuore grazie per ciò che mi scrive. Godo assai delle buone nuove di P. Etnie e della Mamma di Mgr Vattasso; lo dica, prego, all'uno e ad all'altro coi miei rispetti e saluti. 108

II 12 febbraio 1914 aveva comimicato al Mercati: «Scrivo al Card. C. e farò quello che egli credesse di ordinare : e Dio ci aiuti. Insista, prego, ancora che r. E. si intenda bene col medico ». Da lettera del Ratti al card. Cassetta, in data 14 febbraio 1914, si legge nel Vistalo, Il card. Francesco di Paola Cassetta, cit., pp. 364-365.

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Quanto alle dicerie che mi riferisce per cenni, esse, data la tendenza tanto generalmente assecondata di occuparsi delle cose altrui, magari poco benevolmente, e date le apparenze, (dico le prime e grosse apparenze), esse, dico, sono altrettanto perdonabili che spiegabili e non mi preoccupano affatto se non in quanto toccano P. Ehrle ; ma neanche per questa parte credo che convenga occuparcene e darci per avvertiti, tanto più che sono evidentemente assurde per chiunque conosce anche solo per poco e da lontano il nostro Eevmo Padre. Quelle poi che mi riguardano cadranno da se quando si saprà (e si saprà quando Dio vorrà, nè occorre dirlo, anzi occorre non dirlo) che venendo costà perdo non una, ma due pensioni (Bibl. Ambr. ed Istituto Lomb. e sono le rispettive costituzioni che così inesorabilmente dispongono) e che, a cose finite, ho fatto a Mous. Caccia 109 (come appunto mi propongo — doverosamente — di fare) un utile dono che eguagli o quasi (non la sua bontà e la mia riconoscenza, che non sarebbe possibile) ma almeno il suo danno ed il mio debito materiale ; ma, mi permetta di ripetere che occorre non dir verbo di tutto questo, perchè certissimamente parlando ne avverrebbe peggio. La leggenda poi della mia furberia cadrà pure da se quando, alla prima prova, si vedrà che sono, un galantuomo sì, ma poco più che un babbeo. Dunque tutto questo conta un bel niente. Piuttosto mi preoccupa, da qualche tempo anche me, l'insieme della situazione, sopratutto in considerazione del P. Ehrle e della Vaticana. Si vuole uscirne con la prossima Pasqua e sta bene ed anch'io ho già mostrato e detto di non aver cosa in contrario; ma purtroppo questo è vex-o soltanto per quello che mi riguarda personalmente. Per quello che riguarda l'Ambrosiana ecco esattamente come stanno le cose : Io Non si può procedere alla elezione del nuovo Prefetto senza che io abbia dato le mie dimissioni o sia ipso facto (in forza delle Oostituz.) scaduto da Prefetto qui, assumendo la prefettura costi. — 2° Non posso io scadere comunque da prefetto senza che Ceruti si trovi avere in mano la somma delle cose come Vice Prefetto; lo stesso accadrebbe se io dessi le mie dimissioni da Prefetto di qui, rimanendo semplice dottore, ciò che sarebbe necessario affine di avere anch'io diritto di voto nella elezione del nuovo Prefetto. Ma intanto, ripeto, la somma delle cose scadrebbe a Ceruti ed egli potrebbe differire a sei (C) mesi l'elezione e intanto far lui (non di più in forza delle Costituzioni) come Lei sa ; e non mi sembra affatto prudente e possibile correre una tale alea. — 3° Allo stato nostro attuale, anche ritenendo io (con la misura accennata) il diritto di voto nella elezione del nuovo Prefetto (Gramatica), non è detto che l'elezione possa dirsi sicura ; si deve anzi dire il contrario (a meno che Gramatica desse il voto a se stesso, quod est inconveniens) ; giacché saremo Galbiati ed io 109

Del quale, come sopra risulta, 11 Ratti era ospite, durante 1 suol soggiorni a Roma in questo tempo. Il milanese Camillo Caccia Dominion! (1877-1946) fu dal 1905 Cameriere segreto partecipante, e poi Maestro di Camera, dal 1935, cardinale.

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contro O. e JB. ed anche, a non voler pensare a tutte le sorprese elettorali possibili, se questi si astenessero o dessero scheda bianca, l'elezione non sarebbe che segno e seme di discordia. — 4° Per disgrazia le trattative con Ceruti sono sospese chissà fino a quando un po' per suoi malanni di salute, ma un poco anche per sue idee fisse. Per disgrazia anche maggiore l'esame ormai definitivo dei bilanci attivo e passivo, preventivo e consuntivo, mostra l'impossibilità assoluta di nominare lì per lì un nuovo dottore. — Dunque che si fa? — Come vede, la cosa è assai complicata e difficile, anche se ci riportiamo ad un'epoca da noi scelta, poniamo a Pasqua. Ma e se ne frattempo P. Ehrle a un dato momento dicesse assolutamente: basta! o lo dicessero le sue forze ricusandosi? Probabilmente, come s'è fatto poc'anzi, mi si chiamerebbe d'urgenza ... E allora? Potrei io in coscienza lasciare l'Ambrosiana così, sui due piedi? Ella mi risponde certamente che no ; ed anche la mia coscienza mi dice che no. Il partito di far intervenire il S*0 Padre, ed eleggere di motu proprio il Prefetto qui, non è nè prudente nè pratico, non essendo assistito da alcuna disposizione delle nostre Costituzioni ed essendo tutt'altro che impossibile che Ceruti si appelli all'interpretazione legale appunto delle Costituzioni, come già per altra sua stramberia ha interpellato qualcuno della Prefettura. Mi si affaccia un altro partito ed è o sarebbe che il S'0 Padre od anche il Card. Bibliotecario in suo nome scrivesse (indirizzando al Presidente dei Conservatori) ai Conservatori ed ai Dottori dell'Ambrosiana essere desiderio del St0 Padre stesso che io assuma il governo della Vaticana col cessare delle vacanze della vicina Pasqua e che, per ragioni a Lui note e provate (od anche : affinchè le cose dell'Ambrosiana possano più facilmente accomodarsi e prepararsi a nuovo governo), io continui tuttavia per qualche tempo ad essere Prefetto dell'Ambrosiana giovandomi sotto la mia malleveria dell'opera di un Dottore-Delegato ; non senza intervento e prestazione personale come nelle vacanze della Vaticana od in qualche altro tempo da stabilirsi ; cessando per l'Ambrosiana ogni assegno mio, fuorché del consueto alloggio. Se i due Collegi (come non è dubbio, almeno per rassegnazione d'alcuno fra i dottori) se ne contentano, la cittadinanza (voglio dire quei pochi che s'interessano della cosa) ne sarà pure (oso dire) contenta, già accennandosi e presagiendosi da alcuno un secondo stadio in cui io sia più di Roma che di Milano senz'essere tutt'affatto romano. Questo partito, oltre alle difficoltà comuni ed evidenti in tutte le cose fatte a mezzo o per tre quarti o ... sia pure per 99 centesimi, difficoltà già non lievi anche perchè qualche cosa continuerebbero a soffrirne tanto la Vaticana che l'Ambrosiana ; ne ha per me di ben più gravi, perchè oltre all'impegnare ed aggravare in modo veramente formidabile, pauroso, la mia responsabilità mi può far sembrare ambizioso fino all'audacia. Per questo io non ne fo parola che con Lei, gravando la coscienza sua, di proporlo, se crede, come suo e pensato da Lei, aggiungendo tutt'al più che conta sulla mia amicizia per la accettazione : se no sia per non

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detto, non scritto e amen. Così e non altrimenti, perchè di Lei mi fido e fino a questo punto — senza far torto a nessuno — mi fido di Lei solo, e so che mi crede sincero, come sono, mentre Le dico in coscienza che non faccio una tal proposta od abbozzo di proposta se non per mostrarle come divido le sue pene per P. Ehrle e per la Vaticana e come non ricuso il sacrificio intero (e si capisce che all'integrità non mancherebbe quasi nulla) pur di rispondere alle fiducie troppo (or si vedrà certo già, quanto troppo !) buonamente in me poste e mantenute. Dunque a nessuno Lei dirà che un tal partito m'è passato per la mente, neanche al P. Ehrle. Mi pare anzi che le cose sarebbero più apposto, se P. Ehrle 10 proponesse come suo dopo che Lei gliel'avesse suggerito. — Io non vedo, per quanto ci pensi, altro modo per provvedere almeno in qualche modo alla nostra cara Ambrosiana, non dico già (sarebbe ridicola) per 11 così detto bene che le posso fare e continuare, ma per evitarle discordie e pasticci e imbarazzi che certamente le farebbero male. — A questo punto suona il segno della S. Benedizione qui a S. Sepolcro, e torno a pregare, come ho già fatto, scrivendo questa mia, più d'una volta, il Signore che mi conceda di cogitare qtiae recta sunt; ed ecco che mi lorna alla mente un altro partito, chissà? forse il migliore ed il più pratico, com'ebbi già ad accennare a P. Ehrle : il partito che noi tutti ci guardiamo attorno e Loro sopratutto (io l'ho già fatto senza risultato e poi Loro sono in parecchi e sono in posizione più favorevole pei' vedere e sapere) per vedere se ci sia un altro soggetto (non dico più idoneo, che subito sarebbe trovato) ma più spedito e più pronto di me. Senza ogni risultato, non direi; P. Tacchi Venturi110 non andrebbe? Calmo, santo, noto e provato a' dotti e studiosi ... Se hic et nunc gli nuoce esser gesuita,111 P. Quentin 112 è benedettino, bravo, buono, giovane, eppure sperimentato studioso e organizzatore : potrebb'essere la fortuna della Vaticana. Provi a buttar là l'idea. Peline, trovato l'uomo che vada a Loro e che quadri al posto, scriverò subito al St0 Padre dando le mie dimissioni, pregando di accettarle ed indicando la via d'uscita. Ci pensi davvero, ne parli con P. Ehrle; mi dica — con comodo e calma — qualche cosa. Il giorno due conto essere costì, ma sarà bene parlare prima e scrivermi. Sopratutto veda di persuadere e far capire a P. Ehrle che, per evitare certissimo danno all'Ambrosiana, è necessario che ciò che io propongo sia fatto prima del suo ritiro definitivo. Colto io all'improvviso (e non fatto quanto sopra) da un categorico richiamo definitivo alla Vaticana, io dovrei pensare

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Pietro Tacchi Venturi (1861-195C), 11 noto storico della prima età della Compagnia di Gesù e della vita religiosa nel secolo xvi. 111 Dell'ordine stesso, vale a dire, al quale apparteneva l'Ehrle: continuità che viene evitata, per uso, negli uffici della Curia romana. 112 Henri Quentin, francese (1872-1935), Illustre erudito, primo abate della P. Abbazia di S. Girolamo «de Urbe».

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seriamente se posso secondarlo senza gettare l'Ambrosiana in quasi certa babilonia e potrei trovarmi costretto a dare le mie dimissioni da codesta successione senza poter dare a Loro il tempo di prevedere e provedere, se possibile. Lei sa, ripeto, che in forza delle nostre Costituzioni, quando io avessi assunto ufficio che richiede opera e residenza (così senza quel temperamento che sopra propongo) ipso facto cesserei di appartenere all'Ambrosiana : io potrei essere al sicuro ; ma devo (finché ho questa responsabilità qui) provedere possibilmente che anch'essa sia incolume. La riverisco e saluto in Domino. Suo afE. A. Eatti. N. B. - Legga con pazienza e con calma e mi perdoni, il disordine, il cambiamento di carattere, dipendente da relativi cambiamenti di posto e di penne, pur di giungere al termine. Tutto lo scritto, con la quantità d'incisi e parentesi e anche con qualche cancellatura, conferma la forte riflessione. La quale non restringe la bella apertura e sincerità del lungo colloquio, talvolta quasi soliloquio, con l'amico di cui egli unicamente si fidava. Il documento è espressivo, quanto pochi altri, della mente e del temperamento straordinariamente equilibrati di Achille Ratti, così oggettivo e lucido anche quando trattava della propria persona e del suo futuro, che è sempre un andare sul filo del coltello. Ma era troppo tardi, oramai, anche per l'ultima indicazione, così disinteressata, di altri che avrebbero potuto essere chiamati alla prefettura della Vaticana, a seguito delle sue dimissioni. Qualche giorno dopo, scrisse, ancora, al Mercati, riprendendo pazientemente i fili intricati dell'ordito : Milano 25 II 1914 Monsignore mio carissimo, Grazie dell'ultima sua : siamo pienamente d'accordo nei riflessi che riguardano le persone da me accennate più per avviare, se mai, l'attenzione e la ricerca da quella parte che non per le persone stesse ; sebbene difficoltà se ne troverebbero da tutte le parti e con tutte le persone. Ho scritto due righe a P. Ehrle per dirgli come sono arenate le pratiche col D.r Ceruti e per accennargli le conseguenze immediate dell'arenamento ; ma gli ho subito soggiunto che per non rubare il tempo a lui ne avevo scritto più lungamente a Lei, che già anche d'altronde conosce le nostre condizioni ; che da Lei può avere più larghe spiegazioni, che anzi La ho io stesso pregata di dargliele. Al Card.6 Cassetta cercherò di spiegare le cose a viva voce non appena tornato costà : per lettex*a è troppo facile esprimersi meno chiaramente, essere mal compresi e dar luogo a confusioni ed allarmi.

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Una illustre successione : Achille Eatti

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La Pasqua fu, quell'anno, il 12 aprile. L'evidentemente abile temporeggiatore riuscì a passarla a Milano, ancora, scrivendo l'8 al Mercati, che doveva avere intenzione di assentarsi, anch'egli, dalla Vaticana, in quei giorni : « Sono ormai le ferie pasquali e spero tanto più facilmente e fiduciosamente che P. Ehrle non avrà bisogno di ritirarsi all'I[stituto] B[iblico] fino alla domenica in alhis, ed Ella potrebbe ben andare — anche per togliersi un momento alle occupazioni. Le ho mandato una piccola colomba pasquale, che non scapperà certo e La aspetterà — ancora godibile — al ritorno ». Ma il 4 giugno era ancora a Milano, sulle mosse di partire per Oxford, dove avrebbe rappresentato la Biblioteca Vaticana alle feste celebrative del VII centenario della nascita di Ruggero Bacone.113 E da Milano, in quella data, corrispose con il Mercati, che lo ragguagliava puntualmente e faceva in qualche misura le sue parti : « Finalmente posso scriverle anzi risponderle ; finora son proprio sempre stato coll'acqua alla gola con imminente, anzi presente pericolo di affogare. Ella può facilmente immaginare con quanto desiderio io attendessi sempre ed attenda notizie di P. Ehrle, di Lei, di tutti e di tutto costì ; epperò Ella può anche immaginare e sentire con quanta gratitudine Le sono stato e sono riconoscente. Non vorrei però che Ella ne cavasse per conseguenza l'aggiunta di una gravosa corrispondenza agli altri suoi carichi e sovraccarichi. Per quanto sia per me sempre grande il piacere di leggerla, e tanto più grande quanto più lungo, La prego di imitarmi e di fare largo uso di cartoline e di stile telegrafico. Vero è che la mia dimora qui è molto presso a finire : domenica alle 16 partirò per Londra [...] ». A sèguito, dava avvisi sull'orario e per il personale della Vaticana, mostrando di assumerne così virtualmente il governo. Il 3 di quel giugno 1914 l'Ehrle presentò al Cardinale Bibliotecario Cassetta formale domanda di deporre l'ufficio, per « motivi di salute ». E il 17 ne ebbe comunicazione che il Papa, accettando, gli lasciava « piena libertà » di prendere intese con il Ratti sul momento di lasciare la Biblioteca. Dopo una udienza di congedo da Pio X, il 20 luglio, egli partì da Roma il 22,114 senza che le sue dimissioni fossero state pubblicate (e pare nemmeno partecipate al

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Su quella missione si può vedere Galbiati, Papa Pio XI evocato, pp. 312313. Da Oxford, mandò una cartolina illustrata (con 11 timbro 11 Jun 14) al Mercati ; « [...] Grazie a Dio, tutto bene. Ho anche potuto far qualche cosa alla Bodl. Mirabile città; non meno mirabile gara di ospitalità!». Annunziava che sarebbe arrivato a Roma, dopo qualche giorno. 114 Battlori, El pare Ehrle, Prefecte de la Vaticana, cit., p. 106.

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Eatti, ancora). Questi, tre settimane dopo, diede al Mercati, andato nella sua terra reggiana,115 queste ultime notizie : Milano 12 VILI 1914 Carissimo Monsignore, come La rigrazio d'avermi date sue notizie. Sono stato tentato più volte di scriverle ; ma oltrecchè non sapevo dove sicuramente raggiungerla, temevo di, più che altro, disturbarla. Pochi giorni or sono feci una volata a Roma per un falso allarme datomi da P. Ehrle ; parlai con Paolo116 e Colleghi, col Card. Oass., col Card. M. d. V. ; trovai tutto tranquillo e normale e ne diedi notizia a P. Ehrle a Feldkirch. Per quel che mi fece sapere con una corrispond.a molto irregolare egli sarà a Roma a' primi di Sett. Io (poiché il mio viaggio al nord è, naturalmente, sfumato) sulla 2a metà di questo mese tornerò per pochi giorni a Roma ; poi tornerò quassù a sistemare definitivamente le cose qui. Gram, ha chiesto la sua es-ed in-cardinazione. Sarà qui la sera del 14. Saluti a D. Angelo. Stia bene. Affano suo A. E. 11 20 agosto, sopravvenne la morte di Pio X. L'Elude, colpito fortemente, partì il 22 dall'Austria per la Svizzera, diretto a Eoma, dove credette suo dovere di tornare, ritenendosi ancora (certo per l'imperfezione formale dell'atto pontificio) « titolare della Biblioteca », e non sapendo se il Ratti era a Roma. Lo trovò, di fatto, a Milano, pronto a partire con il suo cardinale arcivescovo,117 per il conclave. Durante il quale, il Ratti dimorò in Vaticano, nell'abitazione del Prefetto della Biblioteca Vaticana.118 Il nuovo pontefice Benedetto XV uscì eletto il 3 settembre, e incoronato tre giorni dopo. Tra i primi suoi atti fu la conferma della nomina, già virtualmente compiuta, del Ratti, che avrebbe assunto, come fu annunziato, 1'« alto ufficio », il primo ottobre, alla riapertura della Biblioteca.119 Egli tornò a Milano, I'll settembre, per « sistemare » le 115

La cartolina illustrata è indirizzata a Marola (Reggio Emilia). Paolo Federici, capo-custode, dal 1912; ancora felicemente vivente, in verde vecchiezza. 117 Battlori, El pare Ehrle, Prefeote de la Vaticana, cit., p. 106. 118 Scrisse da questa, il 10/9 1914, al Mercati, ancora fuori di Eoma: «E stato molto bene esser rimasto qui durante 11 trambusto non soltanto per quello che ho visto ed esperimentato, ma proprio anche per la custodia della Biblioteca; dovetti dividere l'appartamento col Comandante dei Gendarmi C.te Ceccopieri [...] ». 119 II comunicato apparve nell'Osservatore romano il 29 settembre 1914, sotto 11 titolo Nella Biblioteca Vaticana. Ma già 11 14 settembre, probabilmente dopo notificata la designazione del Ratti a Prefetto, Benedetto XV gli conferì un canonicato di S. Pietro in Vaticano, Galeiati, Papa Pio XI evocato, p. 313. 116

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ÏAV. I

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S ou.

Acliille Eatti, Prefetto della Biblioteca Vaticana (La fotografia con la singolare firma retrospettiva è in possesso del Card. Gioacchino Anselmo Albareda)

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Achille Ratti a Giovanni Mercati, 27.VI.1910 (La cartolina, conservata nella Biblioteca Vaticana, mostra per la prima volta in questo carteggio la scrittura diritta che il Ratti usò poi abitualmente)

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Una illustre successione : Achille Ratti

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cose,12" che significava soprattutto presiedere all'elezione, si è veduto quanto complicata, del suo successore nel governo della Biblioteca Ambrosiana. Il nodo si sciolse, felicemente, certo in grazia alla lunga opera preparatoria svolta da lui, con politica abilità.121 Così, tra i due pontificati, all'inizio della prima guerra mondiale,122 Achille Ratti divenne, dopo l'annosa vicenda, Prefetto della Biblioteca Vaticana, già avviato all'alto destino che si compirà sotto il suo motto « Raptim transit ». Biblioteca Vaticana. 12° gerisse al Mercati, nella citata del 10 settembre: «[...] io domani sera devo ripartire per Milano, dove spero di poter tutto sistemare In pochi giorni, per essere di nuovo qui prima della riapertura ». 121 Da Milano, 11 17/9 14, dopo avere ringraziato il Mercati rientrato a Roma, degli uffici fatti per luì (« Grazie, Monsignore mìo carissimo, di quanto ha fatto e detto e scritto per me ed in nome mio [...] ») informò, ancora : « .Ter! fui a conferire col D.r Ceruti : domenica Gram, andrà a Rho p. gli esercizi dai quali piacendo a Dio uscirà Oblato; sabbato otto [26 settembre] faremo l'elez. del nuovo Pref. qui : spero che tutto col divin favore andrà bene. Con molta bontà qui si vuole conservarmi 11 tit. di Prefetto (onorario) dell'A. ». La nomina del nuovo Prefetto dell'Ambrosiana mons. Luigi Gramatlca avvenne, di fatto, nel giorno indicato, dopo la rinunzia fatta dal Ratti con lettera ai Dottori e Conservatori, Galbiati, Papa Pio XI evocato, cit., p. 313. 122 Nella Vaticana, dalla quale già alcuni erano partiti, per le circostanze di guerra, trovò pochi, come scrisse al Mercati, ancora, nella lettera del 10 settembre : « Degli altri nessuno e nessuna notizia ; se non una cartolina di Tlsserant in cui laconicamente dice che ha chiesto e ottenuto p. gran favore di andare al fuoco... penso pel servizio sanitario per spiegarmi la cosa. Povero, bravo, figliolo! Che Dio lo protegga e ce lo conservi! Pensi che perdita sarebbe per noi tutti! ».

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L'EPISTOLARIO DI ACHILLE RATTI : UNA FONTE ANCORA INESPLORATA *

Cinquantanni dalla morte di Pio XI, quanti sono ricorsi in queste settimane, dànno già una prospettiva storica ragguardevole, anche se non definitiva, per situare un personaggio entro il tempo e tra gli eventi in cui visse e operò. Per tale ragione appare promettente il colloquio su «Achille Ratti e il Papa Pio XI», svolto dal 15 al 18 marzo, per iniziativa della Scuola Francese di Roma e di altri istituti culturali. L'occasione di ricerca è la più importante di quante siano state finora promosse intomo alla figura del quarto Papa di questo secolo, e il prestigio e la tradizione dell'illustre istituto francese, da più di un secolo ospite di Roma, assicurano della qualità dei risultati storici che saranno acquisiti con la pubblicazione degli atti. La settantina di relazioni e di comunicazioni hanno già offerto un disegno compiuto e particolareggiato della materia, così da fame in qualche maniera il punto, anche se non di ogni parte naturalmente il lavoro di ricerca sia da ritenere concluso. Tra le pubblicazioni antecedenti di carattere documentario, purtroppo finora scarse, mancavano strumenti importanti. Per richiamarne uno, non si ha ancora un epistolario, nemmeno scelto, di Achille Ratti. Il temperamento e il costume lo fecero, tuttavia, un ideale scrittore di lettere. Per natura era vigilante e misurato, ma non solitario e arido. Aveva capacità di osservare con acutezza e di rappresentare in maniera scolpita uomini e cose, che sono le note capitali dell'arte di carteggiare per lettera. E la via che corse, gli uffici che tenne lo portarono a praticare molti e a trattare con molti, anche epistolarmente. Chi lo evocò con conoscenza delle sue carte, in quello sfondo milanese e Ambrosiano, che fu più a lungo suo, il secondo successore appunto nel governo di quella illustre Biblioteca, Giovanni Galbiati, ha parlato di «una somma enorme di corrispondenza vergata completamente di suo pugno», e di essa ha bene rilevato i caratteri di sostanza e di forma. Il suo passaggio permanente nel teatro più vasto di Roma, che doveva diventare per lui teatro universale, fu abbastanza tardo, qua* Da L'Osservatore Romano, 16-rV-1989

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si sulla sessantina. Ma negli anni di Milano, era già nota la statura del personaggio, al di là del recinto della sua biblioteca. In lettere della primavera del '98, durante i gravi fatti politici accaduti a Milano, si tratteggiò egli stesso, a un suo corrispondente e amico, il gesuita belga François Van Ortroy : « Le mie relazioni ch'Ella conosce un poco, la posizione neutrale dell'Ambrosiana ed un complesso di circostanze momentanee mi hanno addossato delle gravi responsabilità che d'altra parte non avrei potuto ricusare senza fare la triste figura di uomo senza testa, senza cuore e senza coscienza. Vede che non è una bella figura». Descrisse in quella corrispondenza la sua azione, realmente importante, e che può dare indizio dei tratti propriamente storici offerti da un futuro epistolario che si raccogliesse. Il primo interesse di questo è tuttavia il personaggio stesso, nei vari aspetti della sua formazione morale e culturale. Non più che accenni, come s'intende, se ne danno qui, con ricorso a qualche breve saggio. Il sodalizio del Dottore dell'Ambrosiana Ratti con il suo Prefetto Antonio Ceriani durò un ventennio e s'impronta della più autentica umanità. Quando principiò, nel 1888, il primo era trentenne, l'altro sessantenne. L'ammirazione per il dotto traspare dal bel ritratto che ne delineò, alla maniera si direbbe dell'Hayez : « Ritto in piedi dietro a quel tavolo ormai famoso come lui, la persona leggermente incurvata non tanto dagli anni quanto dall'abito di un lavoro assiduo, faticoso e paziente, un libro in mano, proprio quella sua mano ossuta e robusta di vero lavoratore». Dagli itinera quasi sempre dotti che fece in paesi stranieri e in diverse città italiane usò ragguagliare il suo prefetto con lettere di vivace erudizione, per la descrizione di codici famosi. Nel giugno '91 fu a Vienna e a Budapest, e a Vienna vide i codici di Bobbio, il Dioscoride, il Tito Livio, il Sant'Ilario. A Parigi, due anni più tardi, restò incantato delle accoglienze dei bibliotecari, che gli apersero liberamente i tesori della Nazionale, della Mazarina, dell'Arsenale. Nel novembre e dicembre '99, studiò e ricercò alla Vaticana e in altre biblioteche romane con ardore, appuntando decine di manoscritti. E nel gennaio successivo andò a Bologna, a Lucca. Nella lunga familiarità, perdurò immutata la devozione, anzi la pietà filiale. Doveva raccogliere la successione, e la trasmissione dei poteri maturò con tutta gentilezza. Antonio Munoz lo vide, un giorno, prendere amorosamente sotto braccio il vecchio Prefetto, che piegava sotto il peso dell'età, e sentì queste parole nel patrio linguaggio, il più caro ai due poliglotti : «Ch'el vaga a riposass e ch'el me daga a mi i ciav, che pensi mi a tutt coss». Quando preparò al «nostro glorioso vecchio» un omaggio, quasi estremo, si preoccupò con delicatezza di non turbarlo. Al Mercati scrisse : «Noi vogliamo fargli una festa tutta di casa che non lo disturbi e non lo metta in impegni che poi egli si esagera e si rende gravosi». Per la morte, confessò, al Mer-

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cati ancora, il 10 marzo 1907 : «Lei sa quello che era anche per me il compianto Monsignore nostro! pensi che in questi ultimi anni la sua affezione patema, la sua confidenza, il suo abbandono non conosceva più limite alcuno... pensi che da anni era divenuto perfino mio penitente... che mi lascia suo erede, esecutore, arbitro e giudice inappellabile di tutto il suo e di tutte le sue disposizioni... e poi, ne sono certo, sentirà come nessuno come io mi trovo e mi devo trovare». Eletto, l'S marzo 1907 dai colleghi Dottori dell'Ambrosiana, successore del Ceriani, entrò con una reale commozione nell'appartamento occupato tradizionalmente dai Prefetti e attiguo alla biblioteca, come narrò al Mercati, in lettera del 5 maggio : «Io ho ormai compiuto il mio Sammichele e già ho trasportato i miei lari e penati nel recinto dell'Ambrosiana. L'appartamento del prefetto è diventato con pochi ritocchi incredibilmente bello ed allegro; ma ogni volta che vi entro mi stringe il cuore un'indicibile malinconia. Ho scelto pel mio trasloco il giorno 2 coir. : era il 2° mese della morte ed il compleanno del compianto Prefetto... Mia Mamma è venuta a benedire con la sua presenza la prima mensa». Una lunga amicizia di colleganza fu quella con Giovanni Mercati, intraweduta dai tratti recati, e rappresentata da un carteggio protratto dal 1893 al 1921, il più ampio di quelli finora noti. Cooptò e accolse il nuovo Dottore dell'Ambrosiana, più giovane nove anni di lui e per fama già forse più noto, con schietta cordialità e graziosa modestia, scrivendogli il 27 settembre 1893 : «...me ne congratulo con Lei, ringrazio un collega così riccamente preparato a far onore all'Ambrosiana ed alla Chiesa come quelle sue primizie sicuramente attestano; così buono e caro come i sentimenti che viene esprimendo nelle sue lettere e il suo passaggio tra noi bastano largamente a rivelare. Quando si è poveri come me, è un conforto prezioso avere dei fratelli del pari ricchi che buoni». I due uomini, insigni entrambi per qualità e virtù, ma diversi di temperamento in qualche punto addirittura all'opposto, si configurano in queste molte lettere, più di duecento quelle del Ratti. Il confronto, nelle occasioni innumerevoli in cui appare, basterebbe da solo a rendere auspicabile la pubblicazione, anche scelta, di questi documenti. Per rimanere a quello dei due personaggi che entrò nella grande storia, il carattere ne spicca in una maniera bene rilevata, nei tratti. Diede avviso con questa arguzia, al Mercati, il Io giugno 1901, della sua elezione all'Istituto Lombardo di scienze e lettere, il maggiore corpo accademico, allora naturalmente reale, della sua ragione : «E poi... (ho da dirlo? sì : perché a un fratello si può e deve dir tutto) sono diventato impiegato regio... grazie al gran nome ed al gran cuore di Ceriani, alla veneranda maestà dell'Ambrosiana, agli uffici mirabilmente buoni del mio Grande Elettore C. Ferrini, giovedì scorso mi hanno creato (è proprio il caso di usare la parola) membro effettivo del R. Istituto

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Lombardo e... cosa fatta capo ha. Lei non rida : anzi, oso dire, se ne dica contento, se è vero che vuol bene all'Ambrosiana, come dice sempre e come sembra davvero». Dove non occorre sottolineare il sapore di queir«impiegato regio» in persona di un ecclesiastico, né di quel «creare» che in termini propri è ex nihilo. Partito da Milano, a un altro bibliotecario egli ebbe a dirigere parecchie lettere, di sostegno e di amicizia, il suo successore nel governo dell'Ambrosiana Luigi Gramatica. Per cogliere, ancora, appena qualche tratto di umanità, gli augurò il 24 febbraio 1917 (anno di guerra e di restrizioni) : « ...spero che il freddo diminuisca costì, com'è scomparso qui e renda l'Ambrosiana meno inospitale. Badi bene a non buscarsi qualche malanno; non c'è di peggio che il freddo che s'accumula nell'organismo stando con poco movimento in ambiente rigido. Carina davvero quella interpretazione e spiegazione retrospettiva della presente mancanza di carbone! Tante vero che l'uomo cerca una spiegazione purchessia di tutto che avviene, e vuole trovare un colpevole purché sia un altro, non lui». Lo stile di postillare i fatti, riflessivo e abitualmente arguto, rammenta la consuetudine di lettura e di spirito, durata sempre, con il Manzoni. Ma lo premeva già l'alto destino, che egli racchiuse nel suo motto, di estrazione onomastica, Raplim transit. In un biglietto senza data, con il timbro del 22 aprile 1918, a un amico di Firenze, il colto ecclesiastico Giuseppe Faraoni, vergò solo le righe : «Grazie di cuore delle buone, amiche parole : preghi molto e faccia pregare per me ora... poi». Tre giorni dopo era pubblicata la sua nomina a Visitatore Apostolico per la Polonia e la Lituania. Partì il 19 maggio, festa di Pentecoste, e il giorno stesso scrisse al corrispondente ora nominato, con espressione che colpisce chi pensi dove lo portò quel passo : «Sono sulle mosse per il mio... salto nel buio». Dalla Polonia continuò a carteggiare con il Mercati, anche per ragione d'ufficio, poiché nella missione diplomatica ricevuta conservò per un anno anche il governo della Vaticana, che lasciò dopo la nomina a Nunzio Apostolico. Delibare è assaggiare, fornendo appena qualcuno dei motivi di attrazione. Poiché una '■accolta, che si auspica, di lettere autografe d'Achille Ratti è destinata sicuramente a dare una conoscenza più intera del personaggio, prima che mutasse nome e veste (da Papa, come si sa, non ne scrisse quasi più). L'impresa non si presenta facile, per il tempo già lungo trascorso, e le conseguenti dispersioni e possibili distruzioni. Relativamente poche sono quelle pubblicate, talvolta anche non integre, in confronto al numero di quelle vergate. Così che la ricerca delle molte altre rimanenti è praticamente da riprendere dagli inizi, partendo dalle indicazioni finora date e dagli indizi, reperibili nelle biografie, di amicizie e relazioni intrattenute. Depositi di raccolta successivamente da scavare sono le biblioteche Ambrosiana e Vaticana.

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Nell'ambito della permanenza nell'Ambrosiana, mantenne corrispondenze esteme, per lavori intrapresi e cooperazioni e provvidenze sollecitate. Importante riuscirebbe quella con l'amico architetto Luca Beltrami (l'archivio di questi restò probabilmente a Roma). Per riordino delle collezioni d'arte, ebbe rapporti con Luigi Cavenaghi e Antonio Grandi, e il collezionista veneziano Michelangelo Guggenheim. Scrisse qualche volta, come risulta, agli editori e librai Ulrico Hoepli e L.S. Olschki. In più circostanze, si rivolse signorilmente, per averne contributi, a istituti di credito, la Cassa di risparmio delle Province lombarde e il Banco Ambrosiano. Disperse ancora in gran parte, lettere dirette a studiosi illustri del tempo che convenivano all'Ambrosiana, gioverebbero alla conoscenza non solo degli studi del Ratti. Appartenne, fino dal 1888, alla sezione milanese del Club Alpino Italiano, e scrisse per esso le note descrizioni di ascensioni memorabili, e qualche lettera forse a un compagno di esse, il geografo Luigi Grasselli. Una, sull'andare in montagna, risulta che diresse ai propri familiari Ratti, con saggi consigli di prudenza e una forte vena di poesia, il 3 ottobre 1911, vigilia di san Francesco. Lo scavo milanese si dovrà protrarre, con industre e paziente tenacia. Nel campo ecclesiastico, le sue relazioni, anche se meno numerose, non mancarono. Più archivi dell'arcidiocesi, inclusi i minori e i parrocchiali, potranno offrire qualche gruppo o lettere isolate. Tra quelli importanti, ne conserveranno la Curia, il Capitolo del Duomo e quello di Sant'Ambrogio. Come si sa, dal 1882 al 1914, egli esercitò il pio ufficio di cappellano presso le Dame di Nostra Signora del Cenacolo, alle quali dovette avere occasioni di scrivere. Il «prete Achille Ratti», quale ha rievocato felicemente lo scrittore e memorialista Tommaso Gallatati Scotti, che lo frequentò dalla sua giovinezza, era accolto in case patrizie e dell'alta borghesia milanese. Non certo nella figura dell'abate settecentesco, ma come ministro della Chiesa, con la dignità riconosciuta della sua cultura e nella libertà rispettata del suo carattere. Il campo ripromette una buona messe. Di un gruppo noto, sono quasi un centinaio gli scritti epistolari al principe Giancarlo Gallarati Scotti, alla principessa Luisa nata Melzi d'Eril e al figlio Tommaso. Ricerche rimangono da tentare in archivi presso i casati o eredi Comaggia Medici, Castelbarco, Caccia Dominioni, Trivulzio, Greppi, Jacini. Amici, e ospitanti in qualche periodo di villeggiatura, risultano inoltre i Cedema, imparentati con Bassano Gabba, sindaco di Milano. Mondo particolare, ma non esclusivo, dai rapporti con il quale potrà apparire in maniera più definita il personaggio in alcuni suoi aspetti. Il passaggio a Roma, che segnò tra l'altro approssimativamente il caratteristico mutamento della sua scrittura, la quale si fece diritta e più spiccata, indirizza ad altre ricerche. Sono state già segnalate

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lettere al suo predecessore nella prefettura della Vaticana, quel «gran galantuomo», come ebbe a chiamarlo, del gesuita tedesco Franz Ehrle, che egli rivestirà della porpora. Altre indirizzò al Cardinale Bibliotecario Francesco Cassetta, e, come si può presumere, in qualche occasione, a prelati di curia, come Bonaventura Cerretti, che lo designò per la futura missione diplomatica. E a «scriptores» e conservatori della Vaticana, quali Bartolomeo Nogara, Camillo Serafini, Pio Franchi de' Cavalieri. A uno, il francese Eugène Tisserant, che aveva rinunciato a una cattedra offertagli a Parigi, scrisse graziosamente che senza di lui sarebbero rimasti «come un uomo al quale venga tagliato un braccio»; e quando partì per la guerra, espresse più volte affettuosi ricordi. Il terminus ad quem dello scrittore di lettere, dopo gli otto mesi dell'arcivescovado milanese, è segnato sostanzialmente dall'elezione al pontificato. Il «Sac. Achilles Ratti postmodum Pius PP. XI», come firmò in unico forse caso un suo ritratto retrospettivo, non vergò quasi più lettere di sua mano. Sono stati ricordati appena alcuni biglietti al cardinale belga Désiré Mercier. E si conosce un tratto, già fortemente improntato di stile papale, della prima autografa, del 28 febbraio 1922, a Eugenio Tosi, predestinato suo successore alla cattedra di san Carlo : «Io non ho di meglio da opporre alle tue proteste (che apprezzo molto) se non quello che il compianto Benedetto XV opponeva alle mie : "non ci siamo entrati che Dio ed io"». La deliberazione, presa con evidenza quasi subito, è tipica e significante di quel mutamento sopravvenuto, morale e psicologico, e delle vedute di comportamento che s'impose. Come questa, d'interrompere in pratica ogni corrispondenza personale autografa (diversamente, per esempio, il precedessore Pio X vergò forse qualche migliaio di lettere). Anche più, si rammaricò forse che Achille Ratti ne avesse in precedenza scritte tante, e qualche volta diede segno di non gradire che gli fossero poste sotto gli occhi. Con la sua pratica di carte, sapeva che il documento può essere letto in più modi. Lo storico tuttavia non temette, sicuramente, che il suo epistolario, a distanza di tempo, potesse essere raccolto, per la sua fede nella verità, e per la coscienza di non avere mai scritto una volta senza averci «pensato su». Nello Vian

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ABBOZZO B1 RITRATTO BEL CARB1NALE

MERCATI

A novant'anni, il cardinale Giovanni Mercati era sempre un bel vecchio forte, senza la macrezza e il pallore esangue della grande età. Appena piegava la persona e trascinava i grossi scarponi, ma il collo muscoloso reggeva ancora ferma la testa, dalla barba imbiancata ma non candida; e la mano solcata dalle vene indurite aveva le stretta salda. In certi atteggiamenti somigliava al san Filippo Neri estatico del Reni, ma nella realtà quotidiana le mosse erano talvolta leonine e le guardature fiere. A praticarlo, non mancava qualche peritanza, perché mal si riusciva a indovinare se si tirasse su acqua chiara o tinta di sedimenti in moto: non perché fosse d'umore bizzarramente lunatico, ma per la profondità della vena. A scrivere di lui, anche morto, si è presi ancora dal ritegno con il quale si entrava nella sala incupita dalla massiccia scaffalatura secentesca della Barberiniana e rischiarata avaramente per l'unico fìnestrone, dal fondo della quale s'alzava il grande Vecchio, imponente nella tonaca nera e logora non meno di quanto sarebbe stato sotto l'acceso fulgore della sua porpora romana. Anche l'abbozzo appena delineato di un ritratto di lui, quale si tenta qui, esìge l'impegno di rappresentarne i chiaroscuri, nel senso più pittorico che morale del termine, per rispetto della nuda verità ch'egli ricercò sempre. L'originalità della figura sta appunto in questo singolare giuoco di contrasti, come si ritroverà forse la sua grandezza nell'averli composti tutti in una possente unità. Si aggiunga che tale ritratto appare grandemente diverso, quanto di pochi altri avviene, per il variare delle luci e

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— 118 — posizioni dalle quali si riguarda, e che a tratti autentici possono essere opposti altri tratti genuini, discordanti all'esterno anche se non contraddicenti in sostanza. Per conseguenza l'opera è di quelle che più richiederanno tempo, ritocchi di linee e sapienza d'impasto nei colori. Giovanni Mercati, come lo ha conosciuto la più recente delle generazioni che gli si rinnovarono intorno, era un uomo accorto e chiuso, non senza le furberie dei contadini vecchi, che sanno pesare le parole e vigilare i sentimenti. Anche se il padre fu veterinario, si può presumere senza ricerche genealogiche che buon sangue campagnuolo corresse nelle forti arterie di lui, che fino nel cognome faceva pensare alle piazze di città della sua terra emiliana, affollate una volta per settimana di capocci dai mantelli scuri orlati di pelo e dai bastoni arcuati. Circospetto, a volte propriamente diffidente lo rendeva l'esperienza accumulata in tanti anni e serbata dalla memoria tenacissima. Portava sempre con sé, all'uso antico, un ragguardevole numero di chiavi, e non dimenticava di girarle quante volte permetteva la serratura. Parlatore era scarso e misurato, specialmente nei discorsi che potevano avere importanza a qualche effetto, e nei quali stava prima a sentire, con intenta fissità. Ma anche sapeva lasciarsi andare a conversazioni fatte con cuore aperto, liberamente; a quella lieta abbondanza soccorrevano soprattutto i vivaci ricordi di uomini e tempi, perché egli aveva il gusto dell'aneddoto e del ritratto; e il comico, più che l'umoristico, scatenava in lui grandi e rumorose risate, che passavano le porte. Pareva in quel momento tutto discoperto, incapace di quelle sospettosità notate sopra. Anche questo aspetto era sincero, perché un fresco, quasi fanciullesco candore si mescolava nella sua natura alla troppo esperta prudenza. Un altro di quelli che si vorrebbero chiamare i paradossi del cardinale Mercati lo rendeva intollerante della discussione. Era l'uomo più antisocratico che sì possa immaginare, negato a persuadere gli altri proprio perché troppo fortemente convinto di ciò che portava avanti egli stesso, come unica e irrepugnabile verità. La stranezza colpiva anche più, perché nello scrivere egli teneva invece conto con ogni riguardo

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Il cardinale Giovanni Mercati. delle ragioni degli altri, per un'abitudine al dubbio metodico che rimase sempre per il ricercatore feconda di risultati. Si può pensare lo stupore di un mite archeologo quando lo vide abbandonare impetuosamente la tavola, a un pranzo, dopo una tempestosa disputa sull'interpretazione d'un'iscrizione. Il fiero e risentito temperamento dell'uomo, che nel mettere in carta il pensiero si dominava con la forza meditativa dell'intelligenza, poteva nel parlare essere trascinato dalla passione, senza venire meno a quella fondamentale dirittura con la quale servì sempre alla verità. L'umile intollerante forma in realtà uno dei volti più sconcertanti della sua figura umana e cristiana, in forza a quel guazzabuglio della natura terrestre di cui ha discorso un poeta.

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— 120 — Lavoratore fu tra i più forti e pertinaci che siano stati mai negli studi eruditi. Principiava la sua giornata in ore per gran parte dell'anno antelucane, al canto del gallo (nel senso letterale dell'espressione, perché l'animale emblematico dimorava nella terrazza del suo appartamento, e mandava di lassù il suo acuto grido fino entro la mole della basilica di San Pietro). Da quell'abitacolo, annidato in alto alla torre Borgia, discendeva, passando per un'aerea loggia sospesa sopra l'immenso cortile del Belvedere, e rimaneva in biblioteca praticamente tutta la giornata, con una breve interruzione che includeva un riposo sopra una branda alla militare, senza materasso. Durò così per tutta la vita, fino all'ultimo, senza riuscire a cavarsi la voglia di lavorare che aveva nel sangue. Il suo calendario era rigoroso quanto l'orario, e non contemplava domeniche, feste e ferie per ciò che riguardava la sua fatica. Da cardinale, non andò più fuori di Roma, e solo faceva delle grandi camminate per la città, ristrette col passare degli anni ai cortili e ai corridoi del Palazzo. Del tempo che a questa maniera ebbe in quantità quasi incalcolabile tenne conto, tuttavia, con una parsimonia senza compromessi; e sta ad attestare il profitto che ne trasse l'opera enorme di erudito. Ma questo risparmiatore accanito era pronto a fare getto di giornate e settimane per utile di altri in ricerche effettuate con la curiosità insaziata che metteva nelle proprie, e in un carteggio dotto tra i più estesi che siano ricordati nella pur tradizionalmente liberale repubblica delle lettere. Teneva le porte sempre aperte, senza protocollo alcuno, a qualunque anche semplice studioso di provincia. Ma fu intrattabile nel respingere i dilettanti senza costrutto, ai quali faceva i'inescusabile carico di perdere il tempo e di farlo perdere agli altri. Mise così fuori un giornalista di fama, introdottogli quasi di soppiatto, il povero Raffaele Calzini, e congedò con maniere altrettanto rudi un cercatore di canti carnascialeschi. Rifuggiva del resto da qualsiasi altro spreco di roba, di denaro e fino di carta (nella scrittura, riempiva con i suoi caratteri fino alla vecchiaia minutissimi fogli eterogenei e frustoli già usati per un verso, e sulle stampe riduceva inesorabilmente qualsiasi spazio bianco, in fugam vacui). Ma l'ammassato re di vesti negli

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— 121 — armadi, l'economo rigido del centesimo fu nel segreto un caritatevole e un mecenate addirittura splendido in misura dei suoi mezzi. Alla morte, non viveva più che del « piatto » cardinalizio, perché tutto il resto era andato distribuito. La sinistra ignorava alla lettera ciò che operava la destra, con una volontà prettamente evangelica. In una riunione per l'acquisto di certe coperte, in tempo di guerra, i due o tre presenti, tra i quali Natalia di Giovanni Battista De Rossi, non riuscirono a capire fino all'ultimo chi mettesse fuori il denaro, che fu proprio lui. Portò con semplicità al padre Giovanni Genocchi ottocento buone lire del principio del secolo per una nuova versione italiana dei Vangeli. Allo storico più illustre di Roma antica, privato dall'illiberale regime di cattedra e stipendio, fu egli, grande prelato della Chiesa, a passare per parecchi anni una cospicua somma perché seguitasse i suoi studi. Provvedere al bisogno di perseguitati in odio al sangue, divenne, nei tempi critici, l'opera più sentita da questo dotto non ricco, che seppe vivere da povero per spendere da principe in un mecenatismo illuminato cristiano, rimasto senza lapidi, com'egli ha voluto. L'austera vita condotta poteva fare di lui un uomo chiuso e ristretto. Poco realmente può essere detto di quanto abbia saputo gustare la bellezza, ma si trattò più di rinunzia che d'incapacità. Precluse alla sua critica qualsiasi giudizio di carattere estetico, ma posto davanti a codici ornati, a prodotti di eccellenti stampatori, a legature artistiche, ne godeva con estatiche esclamazioni, che gli uscivano dal cuore. Ascoltare musica, visitare opere d'arte dovette restare al di fuori del suo severo regolamento di vita, che non contemplò altro riposo che quello fisico; e se mai lesse per diletto poesia, fu certo senza sottrarre tempo alle sue ricerche. Quasi niente si sa anche del suo sentimento della natura, ma amò andare qualche estate ai Camaldoli sopra Frascati; e una volta, in una rarissima gita fatta in compagnia di altri a Terracina, volle camminare a lungo sulla spiaggia, contemplando il mare in solitudine. Per poche che siano state queste aperture sul mondo estemo, valgono a denotare l'animo vivo. Uomo antico, nel costume e per fedeltà alle abitudini (non si attenne mai, per esempio, alla così detta ora

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— 122 — legale, in tempo di guerra), seppe tuttavia apprezzare i ritrovati moderni; conservò anzi fino all'ultimo una vera curiosità del nuovo, una capacità di rendersi conto delle applicazioni che la tecnica può avere particolarmente nei mondo librario e delle biblioteche, una freschezza realmente straordinaria di mente in persona di età avanzata come la sua. Portentosa si potrebbe qualificare anche la facoltà di riprendersi dalle decadenze e dagli abbattimenti intermittenti nella vecchiaia, né era soltanto resistenza fisica del corpo saldo come quercia delle native montagne, ma effetto di energia dello spirito che si rialzava ogni volta, contro ogni attesa. Giovanilmente lucido e alacre restò, così, fino alla morte. Colpiva inoltre, nello studioso delle letterature antiche e nell'erudito che si arrestò sempre ai termini della sua già vasta provincia, l'interesse delle cose contemporanee, fino della politica. Ne era assai informato, per via di conversazioni in cui interrogava con avida curiosità e di letture di periodici d'attualità e di qualche giornale, solitamente durante il pranzo. Esperienza sofferta, perché sentì nel fondo, cristianamente, la passione dell'umanità contemporanea; e 10 significò tra altro con le animose parole dette al momento di ricevere il cappello rosso, e che gli costarono, com'è stalo narrato, il seggio all'Accademia d'Italia. A suo onore, egli non si tenne all'orto conchiuso, né si rinserrò nella torre d'avorio che inducono con facile tentazione gli studiosi a disertare il tempo nel quale sono stati pur essi chiamati a vivere. Del dotto va appena notato qui ciò che importa per 11 ritratto dell'uomo. Si era fatto quasi da sé, senza maestri universitari, ma secondo la tradizione umanistica praticando per consuetudine grandi figure di studiosi della generazione che precedette la sua e apprendendo il metodo, che possedette in maniera ineccepibile, dai libri. Paleografo eccellente e acutissimo diventò con la lettura, estesa a scritture palinseste tra le più diffìcili, di centinaia e centinaia di codici, a perdita d'occhi, nelle biblioteche straordinariamente doviziose nelle quali consumò la giovinezza e la vita intera. Il theatrum, per usare un vecchio termine librario, che abbracciò fu veramente sterminato, e con ciò egli si colloca tra gli ultimi umanisti

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— 123 — eruditi di tipo universale, degno di essere accomunato ai Muratori e ai Tiraboschi. Scelse per sé l'oscuro lavoro della cava e della squadratura delle pietre, lasciando ad altri di metterle in opera. Sebbene egli certo giungesse a vedute e idee generali, con il forte ingegno e la capacità di connettere nella meravigliosa memoria, rifuggì ostinatamente dai lavori d'insieme. Aveva fatto proprio il grazioso detto di un greco antico : aieì 1:0¾ pixxoîî ju.xxà SiSoìicn Q-eoi, « sempre ai piccoli cose piccole danno gli dei ». Quasi tutte le pubblicazioni che diede in luce sono composte di ricerche condotte e spinte in ogni direzione, come le radici di una pianta. In qualche sua prefazione, di sapore manzoniano, le qualificò egli stesso « umili ricerche », « congerie di note », « massa di sgombro », « secco giornale di una lunga esplorazione »; e se eccedette nei termini, con la grazia della modestia, si può sostanzialmente accettare il carattere aneddotico di gran parte della sua realmente erculea fatica. Per rappresentare la forma che prendevano i suoi libri, crescendogli sotto le mani progressivamente, anche durante anni, ricorse una volta all'esatta immagine delle case di montagne, adattate e ampliate « in alto, in basso o di fianco secondo il bisogno e il comodo e il capriccio del proprietario ». Ma se non era d'architetto, il lavoro, si deve aggiungere, era di mano eccellente. Ciascuna delle migliaia di pagine ch'egli stese e fino la minima nota contengono il risultato di originali e coscienziose ricerche, perché questo ricercatore appassionato e infaticabile si attenne alla norma di pubblicare soltanto cose nuove, scoperte o meglio osservate da lui. Le scoperte furono, s'intende, maggiori e minori; e se legò durevolmente il suo nome a quelle, non disdegnò queste. Poiché egli ebbe, dell'opera erudita, un'idea quasi di tessitore, e seppe che l'immensa tela della scienza si fa anche dei minimi punti e fili che in sé valgono poco ma contesti formano l'ordito. Scriveva italianamente bene e con pregnante vigore, sebbene un po' all'antica e non senza sua fatica. Rimasto nelle biblioteche sessantaquattro anni, i primi cinque all'Ambrosiana e gli altri alla Vaticana, appartenne al tipo classico del vecchio bibliotecario, nel senso mi-

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— 124 — gliore dell'espressione. Concepì le biblioteche sullo stampo di quelle dove visse, come istituite principalmente per il progresso della scienza e l'utile dei dotti, e a questi pensò fossero da riservare tutti i privilegi, dei quali egli primo godette con tutta larghezza. Ma se questa idea appare in sostanza troppo aristocratica nell'età presente, non va contestato che essa contempla l'uso più alto e profìcuo dei tesori librari ammassati dalle generazioni e ha per ultimo il fine dell'interesse generale. Ciò poteva valergli in remissione di quel peccato di specie tutta singolare che è l'egoismo erudito, per il quale sequestrava anche durante anni nella sua stanza di lavoro un numero da non calcolarsi di codici, di libri, di fascicoli. Ma era prontissimo a renderli, e riscattava con larghezza ogni suo debito di questa natura con la straordinaria generosità nell'aiutare gli studiosi, a danno anche delle opere proprie. Tenne il governo della Vaticana tra quelli di Achille Ratti e di Eugenio Tisserant, per circa dieci anni effettivi. Amministrò con diligenza industre e severo rigore, che rivolse del resto prima a sé. Pensò sempre di avere uno sviluppato senso pratico delle cose, e in realtà dimostrava conoscenze tecniche, specie murarie, che potevano sorprendere; ma ragionava con una sua logica complicata e che non teneva conto delle circostanze reali. Il suo antico collega salito al pontificato, Pio XI, conosceva quella candida pretesa del dotto, e ingiungeva, nelle vaste opere di rinnovamento edilizio intraprese per la Vaticana : « Non parlate con don Giovanni ». Ma gli diede la porpora e il titolo di Cardinale Bibliotecario, tenuto in serbo per lui tre anni dalla morte dell'Ehrle, forse senza riuscire mai a farsi perdonare quell'averlo tenuto in disparte dal murare e innalzare castelli d'acciaio per la selva delle nuove scaffalature. Aveva invece stima altissima dell'erudito, e la esprimeva con la sua arguzia dicendo che il Mercati sapeva, portentosamente, « tutto quello che c'è in Vaticana, e tutto quello che non c'è » Bibliotecario della Santa Chiesa Romana egli restò più di vent'anni, e tale ufficio che per secolare tradizione significa solo il maggiore dignitario e protettore della biblioteca appartenente alla Sede Apostolica estese e accrebbe con il prestigio personale della sua dottrina, sostenendo e incrementando an-

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— 125 — che al di fuori istituzioni librarie e archivistiche, e promuovendo in senso ampio ogni opera di cultura. Gii giovarono anche in ciò la vastità dei suoi interessi, il numero delle sue conoscenze tra i dotti di ogni paese e soprattutto quella sua nobilissima fede nel valore delle buone arti e nella vita dello spirito, che diede sempre a lui un incomunicabile ardore. Era entrato da lungo tempo in familiare consuetudine con il pensiero della morte, che aveva anzi colorito la sua spiritualità di tinte alquanto cupe, per quanto almeno se ne conosce (viene alla mente uno dei cardinali suoi predecessori, Cesare Baronie, che la temperata umanità di san Filippo doveva ritrarre dalla meditazione continuata dei novissimi). Di religiosità semplice, improntata ancora di catechismo, quest'uomo che era passato senza scosse in mezzo al tempo della crisi e aveva incontrato parecchi che vi si erano perduti, aveva praticato il suo sacerdozio senza ministero con pietà non ostentata, evangelicamente. Il temperamento battagliero lo avrebbe inclinato, se mai, a certa partigianeria cattolica del tipo che si ebbe dopo il 70, ma con aperture e libertà che lo portarono fuori dalle strettezze. La sua virtù aveva eretto sopra l'umiltà, con una tenacia quasi aspra e violenta, che solo al termine si mitigò alquanto. Tutta la vita del suo spirito s'intuiva, del resto, tormentata per uno sforzo, che ne fece sempre un travagliatore di se stesso, un eautontimoroumenos : quasi uno di quei santi che si rappresentano, tra un paesaggio desertico, percuotersi il petto con una pietra. Agli altri non fu dato sapere se approdasse alla pace in questa vita, ma forse ciò avvenne in questa sua estrema estate del 1957, quando restava immoto, per lunghe ore, dinanzi al suo tavolo di lavoro. Libri e carte giacevano sopra inerti, nel silenzio già da ipogeo delle grandi aule chiuse. Il 17 agosto scrisse, con lettere grosse e intralciate, ai nipoti ; « Per l'età mia mi sostengo ancora alla meglio in piedi, ma mi sento sfinito. Perciò se Iddio ci chiamasse in buon momento, ci farebbe certo somma grazia. Addio, Addio! Che Dio ci benedica tutti e difenda da ogni male ». Uno dei mali che temeva era certo quello di non lavorare. Stette in casa

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— 126 — tre giorni, ma in piedi. Il 22, andò a letto all'ora solita, nella semplice camera da parroco di campagna. Il cardinale Bibliotecario della santa Chiesa Romana Giovanni Mercati morì, dopo mezz'ora d'agonia, da forte. Nella nuda antica sua basilica diaconale di San Giorgio in Velabro, il corpo attende la risurrezione, nella fede inconcussa di Cristo. Nello Vian

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Umanità del bibliofilo Trompeo

All' usanza del Seicento e Settecento, il ritratto inciso che si mettesse in fronte alla raccolta dei deliziosi « capricci » e « divertimenti » non potrebbe rappresentarlo che tra lignei scaffali e file compatte di tomi bene rilegati, quale appariva nella realtà in quel massiccio e un poco tetro palazzo dell'Argentina, dove abitò per più che mezzo secolo. Nel vasto scrittoio, la carta fiorata di Francia è ricoperta fino quasi al sommo da quella cortina di dorsi e di titoli, interrotta dalla finestra che si apre su tetti di vecchie case e una terrazza fiorita. Ma libri stanno anche nelle altre stanze, fino a quella con il letto stile Impero, sopra il quale l'insaziato bibliofilo approdò all'eternità. A contemplarli, penso gli risalisse dalla memoria quel saluto d'una lettera del Carducci, in cui la prosa sotto la piena dell'amore si fa verso : « quegli antichi compagni de' miei sogni e de' pensieri, voglio dire i libri... ». Chi vorrà descrivere la vita e gli studi di questo singolare scrittore dovrà risalire per necessità alla sua bella biblioteca, prima anche di aprire i volumi da lui composti. In maniera tutta particolare, lo scrittore Trompeo esce dal lettore Trompeo, perché lo squisito miele concentrato nel suo alveare egli è andato a suggéré per gran parte dai libri : libri antichi e nuovi, maggiori e minori, famosi e dimenticati, aristocratici e plebei. (L'altra parte è distillata dalle ricordanze e dall'esperienza della vita, perché pochi altri scrittori sono stati più autobiografici di lui, che non ha mai narrato espressamente di sé, ma è sempre presente, in filigrana e a margine delle sue pagine). Porto già invidia a chi avrà la buona ventura di prendere tra mano e di svolgere, uno per uno, tutti i diecimila volumi e le più altre migliaia di opuscoli raccolti, perché costui, praticando in quel lungo commercio l'ammirabile « lettore vagabondo », riuscirà a conoscere meglio d'ogni altro l'uomo e l'umanista ch'egli fu, per sostanziale unità. 16

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I 2 95 ' Pietro Paolo Trompeo in vacanza sulle Prealpi Biellesi.

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Un ghiotto piacere sarà ritrovarlo in mezzo alla schiera innumerevole dei suoi amici, che per l'antico e onorevole costume della repubblica delle lettere gli mandarono libri propri con dediche. Qui la bella tela si contesserà quasi da sola, con i nomi e le parole che si trascriveranno. Un saggio appena ne posso dare qui, per scelta di colei che gli fu «sorella per sangue» e «bibliotecaria per vocazione»; e ne rimarrà ornata quella vagheggiata raccolta dei suoi scritti de amicitia, che sarebbe per verità la cosa più cara di lui. Al quale le lettere e gli studi apparirono sempre umanità, come suona il significante vocabolo antico; che sta, tra i molti altri sensi, a richiamare la più umile e a un tempo la più dimenticata realtà, che ogni libro ha per artefice un uomo. Egli amò scoprirne il volto, dietro a ogni frontespizio, e sentire la vita per entro la pagina (che rimane la suggestione maggiore anche di quanto scrisse). Si riaprono ora queste prime carte segnate da nomi di maestri compagni scolari, e si risente il godimento ch'egli ne ebbe, quasi per trasalimento di cuore. In capite, dove le avrebbe idealmente collocate, alcune spirituali dediche di Giulio Salvadori, maestro di vita prima che di letteratura alla generazione romana la quale si formò prima della grande guerra, la sua. Il libro su Guido Cavalcanti, del 1895, ma certo offerto in anni posteriori, porta, auguralmente: «per ricordo di "quei che sogna e fa spirti dolenti", Laetare! )); e uno su santa Margherita da Cortona, pubblicato con il nome di altri, ma in larga parte suo, « ricordo d'una Donna umile e grande ». Ancora, con quella parola, densa per lui di sensi, gli donò un'Imitazione di Cristo francese con le «réflexions» del Lamennais, nel nome della dolce sorella e proprio, come « il ricordo della Sapienza qui derivata da s. Francesco, sorella della Semplicità, ricordo di Giuseppina Salvadori e del suo fratello Giulio. Roma, 25 novembre 1925 ». Dei compagni usciti dalla vecchia università romana e saliti non pochi a vasta fama, basti questo saluto del genialissimo Giorgio Pasquali sopra un suo Proclo teubneriano del 1908 : « Al mio più contubernale, che mi fu nunzio di vittoria ». Legga, chi voglia sapere la circostanza e ricomporre quella giovane pleiade, lo stupendo e dolorante « Addio a Giorgio » (ora nella pur essa i? [223]

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segnata di morte, postuma Via Cupa), dove accestiscono queste attese e promesse già in boccio. Mancato per poco di diventare anch'egli un filologo classico, sotto il segno di Virgilio geórgico, studiò, come si sa, la letteratura di Francia, degna della squisitezza naturale del suo ingegno. Divenne un maestro, sulla cattedra dell'altro suo amato maestro, Cesare de Lollis. Ma l'accademico restò uomo vivo, per il gusto di praticare gli uomini. Lo dicono, a esempio, offerte di libri della compagnia stendhaliana, nella quale entrò con tutti gli onori. Il napoleonide conte Giuseppe Primoli (altro suo ritrattato, e proprio sullo sfondo della libreria) gli mandò « da Stendhaliano a Stendhaliano », la sua Promenade dans Rome sur les traces de Stendhal, 1922; e Gabriel Paure, Au pays de Stendhal, 1920, « petit volume qui ne lui apprendra rien, puisqu'il sait tout de Stendhal...». Gli piaceva portare a riscoprire quelle orme per Roma, e ne godette Paul Hazard, che gl'intitolò una sua Vie nel 1927, «en souvenir d'une promenade stendhalienne et romaine». Tutto non finiva qui, come volle protestargli nel 1935 Charles Simon, sopra un altro foglio di guardia, « en témoignage d'une fidèle amitié, non seulement stendhalienne ». Su questo impero pare che il sole non tramonti, perché s'incontrano i Souvenirs d'égotisme fino tradotti in giapponese, « en bon souvenir d'affectueuse reconnaissance » di un Tadashi Kobayashi. Un aneddoto dedicatorio laziale e schiettamente fuori dell'accademia è l'incontro con Giuseppe Martelletti, che sotto la maschera di Guido Vieni faceva fluire dalla barba di fauno la erompente vena dei suoi versi in vernacolo viterbese. Non so in qual tempo, donò a Trompeo i Foji staccati dar vocabolario pe' commido de la gioventù studiosa, un calepino di duecento sonetti dall'A alla Z, stampato magnificamente nel 1905, con vignette di Filiberto Scarpelli. Un altro vocabolaristico sonetto, scritto a mano per l'occasione, sta naturalmente sul primo foglio ; « Dedica. Sostantivo femminile, / che esprime l'atto quanno un omo umano / scrive su un libbro co' le proprie mano, / p'offrillo a un antro nobbile e gentile... ». Se il dedicatario abbia risposto per le rime non risulta. Si trova invece un'ammirata replica a un invio, pare, di altri versi: «...un gioiello! una perla! Che 18

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eleganza di rime! Oh, avessi come Lei a disposizione la lingua degli Dei! Ma, prima ch'io ghermisca una rima e l'adunghii, devo sudare sette camicie. Come funghi nascono invece i versi dalla Sua penna, e quali funghi! I miei, tutt'al più, son funghi artificiali». Ma il carteggio si fa tutto verseggiato, il giorno di una ottobrata del '38, quando il poeta gli narra come « ... a Segni abbia bevuto il vin di Piglio»; e allora entra anch'egli in tenzone, bravamente: «Quale rigoglio, / anzi subbuglio, / no, dirò meglio, / quale barbaglio, / qual terribiglio / di rime in piglio! / Risponder voglio; / ma fo un intruglio. / Ah! per D'Azeglio! / Confondo, sbaglio... / Tale è il groviglio / che mi c'impiglio. / Empire il foglio / con un ciafruglio? / L'arguto veglio / dirà che raglio. / O vin di Piglio / dammi consiglio! ». Tale qualche divertimento davanti all'arca chiusa della filologia, che questo « pedante », come per sprezzatura s'intitolava, prese senza ritegni. Scrittore fu, di gusto naturale e di studiata esperienza, e si compiacque dell'amicizia di scrittori propriamente di mestiere e di altri che sanno tenere la penna quasi per otium, altrettanto degnamente. Dei tanti, per scegliere, si leggono belle dediche di Diego Valeri, di Manara Valgimigli, di Marino Moretti, di Aldo Palazzeschi... Il primo incomincia, nel dicembre '29, « per ricordo e saluto », inviando il suo poetico Ariele, 1924; sèguita, nel 1932, con I colli Euganei, ma « per ricordo del suo troppo breve soggiorno veneziano»; e così, di anno in anno, con libri e candidi libelli novi di poesia. Lo stile dedicatorio si accorcia, a misura del tempo che passa e dell'affetto che cresce: «all'amico Trompeo, il suo Valeri», sul Teatro comico veneziano, 1949, per giungere al fraterno « a Pietro Paolo, il suo Diego », sulle Metamorfosi dell'angelo, 1957. Tale affettuosa maniera fa spicco in una dedica sopra una raccolta di scritti sul Pascoli del 1956 : « al mio Paolo, perché stia bene e perché voglia bene al suo Manara » (e non più che per ricambio di amorosi sensi occorre postillare con quanto è detto nell'Azzurro di Chartres : « Manara, come ogni buon lettore sa, è Manara Valgimigli. Bello il cognome, che odora vagamente di gigli, e più bello il nome, che ci richiama al più eroico Risorgimento »). Scrittori di grande pubblico 19

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rivaleggiano con gli scrittori usciti dall'accademia, in questa compendiaria brevità che dice la vicinanza del cuore. Aprendo una sua felice annata, l'autobiografo in chiave intitola / grilli di Pazzo Pazzi al dolce sodalizio fraterno : « A Paolo a Vittoria a Maria con devota amicizia Pazzo Pazzi e Marino Moretti, Cesenatico, 26-1^54 ». Su L'Andreana, similmente: «A Pietro Paolo Trompeo e non a lui solo con devoto affetto, M. M. Dicembre '54». Più intimo, a lui unicamente, l'indirizzo su Uomini soli: «...con affetto antico e novissimo il suo Marino, 3-6^54 ». Della stretta cerchia sente anche l'inchiostro di quest'altro scrittore a tutti caro. « A Pietro Paolo Trompeo con l'affetto del suo vecchio amico Aldo Palazzeschi, Roma, 1952», dicono Bestie del 900. E vennero Tutte le novelle, « ... affettuosissimo ricordo del suo vecchio Aldo Palazzeschi, Roma, 10 marzo 1958 ». Il bel tomo di esatta stampa fu tra gli ultimi che egli ebbe tra le mani. E, ancora, dediche di noti e d'ignoti, di lontani nel tempo e di recentissimi, di estrosi e di dotti. Ma le carte sono già piene, e il saggio può bastare a dare idea di quanto rimane. Mancherebbe tuttavia uno dei nomi più altamente fissi nel suo cuore, se non fosse trascritta una semplicissima dedica, sopra una versione àt\VAntigone di Sofocle, del 1927: «A Pietro Paolo Trompeo affettuosamente, Lauro de Bosis ». Non passarono quattro anni, e un rogo, degno dell'antichissimo sacrificio, fiammeggiava sopra il Tirreno. Fino all'estremo, Trompeo sentì questa religione dell'immolazione, verginalmente pura, dei giovani. Confitto già al suo letto, volle da me, sopra un libro di passione fraterna, parole che s'intinsero del nostro sangue. L'umanità del bibliofilo si consumò in carità, così. Nello Vian

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Tre singolari figure di bibliotecari a Roma

I tratti che qui se ne danno sono più di umanità che della professione esercitata, e s'improntano principalmente di affettuosa memoria. La stadera, per aprire il trittico, è in giusto onore nella città del diritto, e agli Staderari s'intitola una strada del vecchio centro. D'importanza in certo modo connessa gode la famiglia romana che s'imparenta con lo strumento dell'equità. Non so a quale ceppo e ramo degli Staderini appartenesse il bibliotecario Giuseppe, ma era certo della notabile gens con cui la «Strenna» ha rapporti dalle origini. Dei tre, appare il più estatico per l'animo, che si vorrebbe nel duplice senso dire peregrino, a denotarne la rarità, e anche un'estraneità, come di forestiero, al mondo comune. Nacque l'anno di Porta Pia, e hi studente di lettere alla Sapienza, sulla traccia di un fratello maggiore (Giovanni, insegnante ricordato per geniale cultura umanistica e la passione dell'archeologia, a cui iniziò gli scolari con un bel libro di «passeggiate» lungo la via Appia). Fece la tesi in francescanistica, sulle fonti del testo latino dei Fioretti, con la guida di Giulio Salvadori. E questi, che ebbe la mano anche di ritrattista, lo presentò per lettera a Paul Sabatier in linee che sarebbero rimaste definitive, per la vita: «Egli è un giovane d'una semplicità colombina, ma vive in un mondo suo, del quale spesso parla il linguaggio senza troppo curarsi di renderlo accessibile agli altri». Lo studente trascendeva la filologia che sa più di terrestre che la poesia, e per il lavoro comune nel campo francescano a cui si sperava avviarlo produsse solo un saggio della tesi, edito da un bollettino regionale. Coltivò solitariamente le letterature straniere, in particolare la inglese, componendo anche versi in questa lingua, naturalmente non nubblicati. Per la pratica della vita, entrò nelle 641

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biblioteche statali, con il titolo che usava di sottobibliotecario, e non dovette molto avanzare nella carriera. Era un mite e innocuo, e la schiva personalità se ne tenne paga. Aveva il fisico esiguo, e di passo lieve, come di chi tocca appena la terra. Il parlare era rotto e punteggiato da silenzi, che erano, per capovolgere la semantica, le sue interiezioni. Il maestro che ho nominato sopra cominciò con la più appropriata graziosità una lettera a lui dal racconto o piuttosto parabola, che si legge nei Fioretti, della visita del re di Francia san Luigi a frate Egidio, uno dei primi francescani, nel suo romitorio umbro. 1 due si erano guardati e abbracciati in silenzio, per separarsi ugualmente, senza parole. Tali quasi gl'incontri con Staderini, che gli amici sapevano comprendere, perché l'intesa degli spiriti può anche rimanere tacita. Più di ogni altro Salvadori seppe decifrare l'enigmatico comportamento, come si è sentito, e ne ebbe in cambio la più ammirata devozione. Il discepolo ne trascrisse in quaderni le poesie e fino esemplò per inconscio istinto la scrittura. Il bibliotecario silenzioso sparì nel '44, l'anno sicuramente più adatto perché nessuno se ne accorgesse. Giovanni Frediani-Dionigi sortì anch'egli grande distinzione e finezza d'animo. L'ascendenza familiare l'aveva preparato, come per lunga distillazione. Fu sua trisavola quella Marianna Dionigi, ritenuta una specie di prodigio della cultura femminile romana tra Sette e Ottocento, classicista, archeologa, musicista, pittrice, che aveva per aggiunta una figlia poetessa decenne salutata «ape d'Arcadia» (era di malumore il Leopardi, quando incontrò la vecchia dama a Roma, e ne diede per lettera un irritato giudizio). Memorie se ne conservavano in casa, e intatta era pervenuta la bella villa di Lanuvio, con le molte antichità raccolte. L'adolescente crebbe nel clima. Nato a Roma, undici anni dopo la Breccia, fece in tempo a conoscere il costume anteriore e un vivere ancora di compiuto stile. Nella sua abitazione di quei primi anni, palazzo Taverna, il Monte Giordano baronale idillico nei silenziosi cortili dalle mura tappez642

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zate di vegetazione (come lo descrisse Trompeo), era una rifornita biblioteca, eredità predestinante. L'eclettismo enciclopedico trasmesso con il sangue della Dionigi lo fece rivolgere a studi diversi, comprendenti anche armonia e contrappunto, disegno e medicina. Si laureò in legge, e s'iscrisse all'albo degli avvocati, ma la professione battagliera forense mal si adattava alla sua indole. Preferì dedicarsi a ricerche bibliografiche, e la specialità scelta fu raffinata, per affinità elettiva. Divenne uno dei più esperti conoscitori, rari in Italia, della nobile arte della legatura dei libri. Nel 1930 ricevette l'incarico di ordinare questa sezione nella grande Mostra che fu fatta per la Roma del Seicento, e sugli esemplari esposti pubblicò un'eccellente illustrazione nella rivista «Dedalo». Dovette essere la prova data con il saggio a ottenergli l'assunzione a bibliotecario presso la costituita Accademia d'Italia, nel 1932. Dal '42 al '44 ne fu bibliotecario capo, e nel '49 dopo travagliate vicende dell'istituzione e sue, ebbe la nomina a direttore della biblioteca della risorta Accademia dei Lincei e dell'unita Corsiniana, rimanendone fino al '58. Pur entrato nella professione in età già matura, si dimostrò bibliotecario di temperamento e di esperienza, per la larga cultura umanistica posseduta, e per le proprie virtù di pazienza, cortesia e signorilità, per le quali seppe essere inesauribilmente servizievole. Qualità essenziali dell'ufficio. Lo ricordo negli ultimi mesi di guerra, nel '45, durante il lavoro d'allestimento d'una mostra delle biblioteche ospitate in Vaticano per presen/ame i tesori dai rischi bellici. Si aggirava nel grande salone Sistino, con l'esigua persona che quasi non prendeva spazio. La parola misurata era precisa, esperti i gesti con i quali trattava legature di ogni tempo, dalle bizantine e medievali alle rinascimentali, alle francesi settecentesche. La parte del catalogo che ne redasse fu, ancora, un modello, nella precisa brevità. L'uomo esigerebbe un ritratto intero, perché era egli stesso un prodotto di altri tempi, per le virtù morali e i tratti. Gli occhi, illuminanti il nobile volto di avorio antico ornato dalla breve barba, erano fondi e vivaci, ma segnati di costante benevolenza. 643

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E appartenne al tipo del bibliotecario silenzioso, che non mette in mostra il sapere. Si era costmito un suo mondo circoscritto, che stava tutto tra via Santa Maria dell'Anima, dove era andato ad abitare nel secentesco palazzo pamphiliano, e la Lungara, su cui sormonta la grande mole corsiniana sede dell'Accademia e della Biblioteca. Questo breve spazio della vecchia Roma gli bastava, perché rinchiudeva ampiamente i suoi affetti: la poco famiglia (la moglie, la figlia) coltivata con tenera delicatezza, la cultura umanistica adunata nei bei volumi della raccolta lincèa. Lontana, alta sulla pianura pontina che si stende fino al mare, era la villa di Lanuvio, rifugio dello spirito. Ma anche sopra di essa si abbatté la furia bellica, devastandola. Fu un suo grande, intimo dolore, perché non sconvolgeva e disperdeva solo cose materiali. Per anni gli mancò l'animo di ritornarvi. Non perdette tuttavia la pacata serenità, né il lieve sorriso. Questo timido e remissivo era spiritualmente un forte. La scuola di grandi anime religiose, Giulio Salvadori e Giovanni Genocchi, aveva cresciuto anche lui. Sapeva ritrovare per sé e gli altri, nella fede cristiana accettata e vissuta, l'interiore consolazione. Morì a ottantatre anni, il 6 luglio 1964. Appartiene alla storia della cultura nazionale Fortunato Pintòr, non quirite di nascita. Ma a Roma visse sessantanni, e si apparenta agli altri due per tratti morali. Era sardo, di Cagliari, d'una famiglia intellettuale e di grands commis dello stato. Dal padre, ostetrico docente universitario, apprese la sagacia della ricerca e la delicatezza di mano proprie della maièutica. Andò a Pisa, legata con la sua isola dall'antico dominio, a studiare lettere all'università, e fu alunno della Scuola Normale superiore, diretta da Alessandro D'Ancona. Nella pleiade dei condiscepoli, trovò Giovanni Gentile e altri, che spiccarono presto nel campo degli studi umanistici. Di qui trasse anch'egli le radici, operanti fino all'ultimo in lui. Era il tempo dell'erudizione e dell'esplorazione appassionata d'archivi e biblioteche, sotto la rigorosa disciplina del metodo storico. Una scuola, quella pisana, «tut644 [230]

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ta dirittura critica e serietà morale», come egli la caratterizzò tipicamente molti anni più tardi, delineando le due direttive che tenne sempre. Presentò, come era uso, una tesi letteraria e una storica, la prima sulle liriche di Bernardo Tasso, l'errante padre di Torquato; la seconda, sul dominio pisano dell'isola d'Elba nel secolo XIV. Furono pubblicate entrambe nel 1898 e '99. Nella storia letteraria prese a coltivare in proprio il teatro comico fiorentino del Cinquecento, e si noterà sotto in quale forma ne andò comunicando poi alcuni saggi. Aveva fatto una scelta che può apparire singolare, ma lo rappresenta genuinamente, per mettere a frutto il più che intendeva dare, il lavoro per così dire dell'abnegazione scientifica. Un servizio essenzialmente diretto a utile di altri, comportante solo avari riconoscimenti di quanto vi si spende d'intelligenza e di tenacia. Non nobis, non nobis... L'avvìo, per altra sua virtù, fu di devota clientela ai suoi maestri. Nella «Rassegna bibliografica», fondata dal D'Ancona, prese a scrivere recensioni già da studente, e seguitò regolarmente dal 1897 al 1902. E collaborò con il Crivellucci a un'impresa ancora strumentale, fino al '10,1'«Annuario bibliografico della storia d'Italia», una iniziativa in cui sottentrò alcuni decenni più tardi un'istituzione addirittura nazionale. Entrò nelle biblioteche governative, come sottobibliotecario alla Nazionale di Firenze. E qui, era il principio del secolo, ebbe altri incontri, che gli diedero l'occasione, prontamente accolta, se non ricercata, d'addossarsi altri pesi. Giuseppe Mazzatinti, l'esploratore della selva dei manoscritti nelle biblioteche, era giunto a descrivere il grosso del fondo della Nazionale fiorentina, logorando le sue ultime energie, con dieci volumi. A pubblicarne altri tre, per concludere, sopravvennero il Pintòr e un collega. Il finale uscì dopo la morte del Mazzatinti, cinquantenne, nel 1905. Fervevano gli studi critici Danteschi. Michele Barbi, che ne sarebbe diventato facile princeps era bibliotecario nella stessa Nazionale, entrato prima, e trovò nel Pintòr un collaboratore operoso, per condirigere il vivace organo del «Bullettino della Società 645

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Dantesca Italiana». Fu autore di contributi e redattore di un eccellente indice della nuova serie 1893-1903, tremila fitte pagine, impiegando nel lavoro orazianamente nove anni. Il gusto di tirarne nella prefazione le somme storiche se lo tenne il Barbi, pur riconoscendo l'oscura fatica del repertorio fatto «con raro amore e con più rara dottrina». Era l'epoca anche degli opuscoli eruditi «Per nozze», e il Pintòr scelse con altro pensiero tipico questa forma di pubblicazione, graziosa ma limitata, per comunicare capitoli delle sue ricerche di letteratura umanistica fiorentina, specie sul teatro. A una decina sommano, tra il principio di secolo e la guerra, questi scritti, con lettere dedicatorie a un parterre di nomi illustri. Un gesto da gran signore che disperde i frutti del proprio lavoro e di alta gentilezza da parte di chi prendeva parte alla festa d'amore degli amici, egli senza nozze, come sempre rimase. A Roma giunse nel 1903, alla Biblioteca del Senato, e ne ebbe la direzione due anni appresso. Ve ne spese ventisei di un operoso servizio, tranne quelli della prima grande guerra, che fece da volontario bravamente, nella tradizione della gente della sua terra e del suo sangue. La signorile dimora, che contiene la cospicua e ordinata raccolta libraria parlamentare, vide il bibliotecario Pintòr preparato e solerte anche nel preminente compito d'informare. La cultura dei senatori di nomina regia era largamente umanistica, e \aureo Pintòr, come lo diceva Guido Mazzoni, poteva rispondere a qualunque consultazione richiestagli. Ne attingeva l'erudita bibliofilia di Benedetto Croce, come la varia dottrina dell'architetto Luca Beltrami. Altri ebbero concreto aiuto di ricerca, quale attestò l'istriano Francesco Salata, per il volume ampiamente documentato su Guglielmo Oberdan. Ma il tempo andò incupendo anche sopra palazzo Madama, ed egli ricusante la tessera imposta si dimise dall'ufficio, nel '29. Il trentennio di ritiro appare dominato da un'alta idea, che si ricongiunge all'esigenza di libertà, quale forza essenziale dello spirito. Il compagno di studi pisani Giovanni Gentile aveva chiamato Pintòr a entrare dall'origine nell'Enciclopedia Italiana, incarican646

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dolo in particolare dell'impresa di un grande Dizionario biografico degli Italiani, mancante alla nazione. Se ne sentì investire come da un impegno di giustizia storica da rendere alla carduccianamente contemplata «Itala gente dalle molte vite», quasi tempio di memorie da ricomporre di tutti coloro che operarono per la patria, veduta idealmente unita nella vicenda più che millenaria. Si mise al lavoro appassionatamente, con pochi aiuti, spingendo le ricerche in ogni parte. Uno dei collaboratori calcolò che in un decennio lo spoglio cumulò circa 270.000 schede. La seconda, dolente guerra colpì l'uomo, dall'inizio. Nel 1940, il fratello generale designato d'armata e presidente della commissione d'armistizio con la Francia perì in un incidente aereo. Dopo il crollo dell'S settembre '43, il nipote Giaime, germanista squisito traduttore di Rilke e acuto saggista, nel tentare di passare le linee dal sud per raggiungere le prime bande partigiane, cadde il Io dicembre, presso Castelnuovo al Volturno, ucciso da mina tedesca a ventiquattro anni. Ne ebbe la lettera-testamento, uno dei documenti più alti della Resistenza, l'altro nipote Luigi, immesso nella stessa lotta di riscatto. Lo zio, che l'aveva amato come padre, pianse il primo, in lettera, «giovane privilegiato da Dio», e ne raccolse con pie mani gli scritti, nella religione del sacrificio sentita sempre nel profondo. Il titolo del volume, Il sangue d'Europa, espresse tutta la tragedia ideale e morale di quelle giovinezze. Un altro evento, in opposizione come di parabola, venne a lacerarlo. Il 15 aprile '44, a Firenze, morì per violenza avversaria Giovanni Gentile. L'inconcussa coscienza di Pintòr rese testimonianza all'antico compagno, non tradendo, come protestò, «la sacra memoria dei caduti per la libertà», in uno scritto pubblicato quattro anni dopo. Fu in questo tempo che ebbi consuetudine d'incontri con lui, per l'unanime sacrifìcio sofferto di altra eroica giovinezza fraterna. Ne seguì un'intermittente corrispondenza, ugualmente rivelante. Pensieri, intenti ideali sottostavano a ogni sua parola e gesto. Una umanità compiuta, prodotto di natura e di costante disciplina morale, lo rendeva equanime e disposto a benevolenza e gentilezza. Di 647

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tratti fini, era schivo di comparire, e pronto a rendere servizi, anche di qualità inferiore alle sue qualità d'ingegno e cultura. Una auspicabile raccolta di lettere scelte potrebbe forse sola dare idea dell'alta e rara personalità, a quanti non la conobbero. Negli ultimi dieci anni, fu provato fisicamente, e a periodi ritirato in casa, a via Enrico Tazzoli 2, nome emblematico, d'un martire di Belfiore. Ma seguitò il lavoro fedelmente, e ne sofferse per una vicenda editoriale. Scrisse, sulla metà del '59, a un più giovane amico: «Non Le saranno sfuggite le notizie sulla crisi per cui è passato il Dizionario biografico italiano. Sono stati mesi di pena e di fatica per me: studi e progetti di altre soluzioni, memoriali, discussioni per cercare di salvare il lavoro di tanti anni. Tutto è stato inutile; e la crisi si è risolta con le rinunzie all'antico disegno, per il Io volume, in bozze di stampa; e quindi col ritiro mio (che del resto già si maturava nella mia mente) e con quello di due colleghi che avevano diviso con me i criteri del lavoro e della responsabilità». Il volume uscì senza portare per sua volontà nel frontespizio il nome dell'artefice dell'impresa. Nella custodita pace cristiana e stoica del forte, egli morì il 5 aprile 1960, a ottantatré anni. La sorella Francesca, sua pia vestale, lo seguì il 9 aprile. II ricordo comune, con l'ultima Pietà scolpita da Michelangelo, reca l'iscrizione: «Si prodigarono per gli altri, con sacrificio di sé, durante l'intera vita». Nello Vian La sovracucitura alla Tela dell'anno avanti è dovuta alla cortese richiesta di amici. Si ricollega, per il genere di memorie, a Figure della Vaticana, in «L'Urbe», a. XLIX, n.s. (1986), pp. 104-124. La puntuale rassegna delle pubblicazioni di Fortunato Pintòr "è inclusa nel bel ritratto che ne ha fatto Carlo Dionisotti, nel «Giornale storico della letteratura italiana», v. CXXXVII (1960), pp. 488-493. Giovanni Spadolini ha ora curato II carteggio di Benedetto Croce con la Biblioteca del Senato (Senato della Repubblica, 1991). Da esso risulta il ricorso che l'eruditissimo senatore napoletano fece, con impressionante intensità, agli infaticabili servizi di Pintòr e degli altri bibliotecari di Palazzo Madama.

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NELLO VIAN

RICORDO DI PIO FRANCHI DE' CAVALIERI

Della vita di Pio Franchi de' Cavalieri, che si è protratta fino alla grande età dei novant'anni, toccando la sua terrestre mèta il 6 agosto 1960, in Roma, nel silenzio che aveva sempre amato la sua tenace umiltà, bastano anche le linee esterne a mostrare la sostanziale pienezza. Nacque il 31 agosto 1869, da antica famiglia di Veroli, innestata nel patriziato romano; e i nomi di Pio Pietro che ebbe valgono a testimoniare i sentimenti dei suoi maggiori e gli auspici tratti sopra di lui, in quella vigilia del Settanta. Il padre, Giovanni Andrea, ricco proprietario terriero, è ricordato per il dono di una cospicua raccolta di monete antiche, trovate probabilmente nei fondi della originaria regione ciociara, al Medagliere della Biblioteca Vaticana. Quanto il figlio volle dire pubblicamente dei suoi si assomma tutto nelle pochissime righe di una dedica fatta a un libro, nel 1901 1: « Caris meis / quiescentibus in Christo / s. ». Studiò alla scuola fondata nella nuova Roma a restaurare una tradizione secolare umanistica, quella gesuitica, e a chi l'aveva eretta offerse un'altra sua pubblicazione, nel 1912 2; « ...cuius in aedibus ad Thermas Diocletiani / christianam legem et btterarum studia / puer adamavi ». Quasi nulla più che queste linee lapidarie rimane a descrivere la formazione che ebbe alla pietà e alle buone arti (e ciò che di più tenero sentì velò in quel luogo stesso, con parole greche tratte dall'Epitafio di s. Gregorio Nazianzeno) 3. Nella università romana, dove si laureò in lettere, ebbe maestro il grecista Enea Piccolomini, pur egli singolare, che rinverdiva il nome del Pontefice umanista della sua storica famiglia con una eccellente perizia in quella lingua e letteratura; e viene ritratto quale uomo solitario e sdegnoso. Si ricordano non pochi scolari cresciuti alla sua scuola, e che acquistarono più va1

I Martirii di s. Teodoto e di s. Ariadne, con un'appendice sul testo originale del Martirio di s. Eleuterio.2 Roma, Tipografia Vaticana, 1901 (« Studi e testi », 6). Note agiografiche, fascicolo 4°. Roma, Tipografia poliglotta Vaticana, 1912 («Studi e testi», 24). La dedica fu alla memoria del gesuita p. Massimiliano Massimo, che sull'area della villa appartenuta alla sua principesca famìglia eresse l'istituto a essa intitolato. 3 HdXkeT è[iol xpaSirj... aeto ypàçouaa/ ouvofxa, Greg. Naz., Epitaph., 127.

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N. VIAN

sta fama di lui. Franchi de' Cavalieri trasse, si può pensare, da questo suo maestro non solo la scienza filologica, ma anche un'impronta di costume. Incominciò, seguitando sue ricerche, con alcune osservazioni su vocaboli aristofanei denotanti armi 4, pubblicate nel 1893 dagli « Studi italiani di filologia classica » (fondati allora a Firenze, da Gerolamo Vitelli, con grande dignità e severità scientifica) e altre, sopra la forma di un vaso specialmente spartano per bere, il kothon 5, stampò nella rivista stessa, l'anno dopo. Ma non continuò in questo genere antiquario-filologico classico, sebbene tale erudizione molto giovasse alle posteriori ricerche che divennero più propriamente sue. Preliminare saggio ne cbede, nel 1895, sopra Due libelli originali di libellatici, accolto nel « Nuovo bullettino di archeologia cristiana » 6, che sorse allora a ricevere e fecondare il germoglio della fresca, enorme eredità di Giovanni Battista de Rossi. Il promettente erudito era sui ventisei anni, quando fu indirizzato, non si sa ora bene da chi, alla Biblioteca Vaticana, per diventare parte del suo corpo dotto. Si deduce, da un documento ufficiale 7, che vi iniziò il suo noviziato nel '95, e la data reale va notata non soltanto perchè fa salire all'eccezionalmente longum aevi spatium di tredici lustri pieni il suo servizio, ma anche e specialmente perchè in quell'anno la istituzione secolare passò nelle mani del gesuita tedesco padre Franz Ehrle. L'opera di Franchi de' Cavalieri vi si svolse tutta, nella direzione e secondo le forme di attività segnate da quel grande suo prefetto. Il giovane filologo, già avviato a studi personali, non si ritrasse dall'ufficio capitale che ricadde da allora, più nettamente sugli « scriptores » della Vaticana: quello di redigere il nuovo catalogo scientifico dei manoscritti. Preparato dalla collaborazione a un indice dei codici greci della Biblioteca Angelica 8 e al catalogo speciale dei codici agiografici greci della Vaticana stessa 9, egli si mise con altri all'aspra, ingrata fatica. II primo tomo della serie, redatta secondo le perfette « leges » dell'Ehrle, recensì nel 1902, a opera sua e di un collega, la porzione iniziale dei Vaticani latini, di conte4 5 6 7

La panoplia di Peitetero e di Euelpide, in « Studi italiani di filologia classica », I, 1893, pp. 485-511. La forma del Kothon, nella rivista sopra cit., II, 1894, pp. 139-153. Anno I, num. 1-2, maggio 1895, pp. 68-73. Lettera del Segretario di Stato card. R. Merry del Val, 23 ottobre 1907, n. 26335, indirizzatagli per il conferimento della Commenda dell'Ordine Piano, Archivio della Prefettura della Biblioteca Vaticana. Si apre con l'attestazione: « Gli alti meriti che la S.V. 111.ma ha conseguiti presso la Santa Sede mercè gli insigni servigi da lei resi alla Biblioteca Apostolica Vaticana presso la quale Ella ha di già lavorato con encomiabile ed assoluto disinteresse da ben dodici anni...». 8 Index codicum graecorum Bibliothecae Angelicae, digesserunt Georgius Muccio et Plus Franchi de' Cavalieri, in « Studi italiani di filologia classica », IV, 1896, pp. 7-184. 9 Catalogas codicum hagiographicorum graecorum Bibliothecae Vaticanae, ediderunt bagiographi Bollandiani et Plus Franchi de' Cavalieri, eiusdem bibliothecae scriptor ad honores. Bruxellis, apud editores, 1899.

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RICORDO DI FIO FRANCHI DE CAVALIERI

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mito biblico e patristico 10. Inaugurò anche, nel 1923, la descrizione dei Vaticani greci, con i classici e bizantini di contenuto profano 1J, e del lavoro, nel quale ebbe associato altro illustre collega, compì circa i quattro quinti. In più, diede nel 1927 il catalogo dei due fondi aggiunti greci Chigiano e Borgiano, esigui ma con diversi codici antichi e preziosi12. Un giudice alto e severo, il futuro cardinale Giovanni Mercati, ebbe a dire una volta (e ne testimonia l'illustre biblista padre Alberto Yaccari) che due soli « scriptores » di quella prima generazione avevano corrisposto pienamente alla mente dell'Ehrle, per l'opera della catalogazione dei codici; Franchi de' Cavalieri e l'orientalista Eugenio Tisserant (ora, felicemente, cardinale Bibliotecario). All'altra vasta impresa che l'Ehrle iniziò e portò avanti animosamente, la riproduzione fototipica dei maggiori e più famosi cimeli manoscritti, diede opera, dettando ampie e dotte introduzioni, in lingua latina o italiana, maneggiate da lui con pari eleganza, al Rotulo di Giosuè 13, al Menologio di Basilio II14, al frammentario antichissimo Cassio Dione Cocceiano 15 e al Tolomeo del codice Urbinate greco 2 1:, oltre che alle Miniature bibliche di due codici di vetusta derivazione1'. Si ricongiunge con queste illustrazioni paleografiche la scelta di Specimina codicum graecorum Vaticanorum, edita con il Lietzmann due volte, nel 1910 e 1929 18. Tredici volumi, diede a luce, finalmente, dal 1900 al 1953, tra gli « Studi e testi », la collezione iniziata dall'Ehrle, ancora, per raccogliere edizioni e ricerche originali tratte dagli inesausti fondi della Biblioteca Apostolica 1 '. 10 Codices Vaticani latini. Recensuerunt Marcus Vattasso et Pius Franchi de' Cavalieri, Bibliothecae Apostolicae Vaticanae scriptores. Tomus I. Codices 1-678. Romae, Typis Vaticanis, 1902. 11 Codices Vaticani graeci. Recensuerunt Iohannes Mercati Bybliothecae Vaticanae praefectus et Plus Franchi de' Cavalieri scriptor. Tomus I. Codices 1-229. Romae, Typis polyglottis Vaticanis, 1923.12 Codices graeci Chisiani et Borgiani. Recensuit Plus Franchi de' Cavalieri Bybliothecae Vaticanae13 scriptor. Romae, Typis polyglottis Vaticanis, 1927. II Rotulo di Giosuè, codice Vaticano Palatino greco 431, riprodotto in fototipia e fotocromografia a cura della Biblioteca Vaticana. Milano, Ulrico Hoepli, 1905. 14 II Menologio di Basilio II (cod. Vaticano greco 1613). Torino, Fratelli Bocca editori, 1907: I. Testo. 15II. Tavole. Cassii Dionis Cocceiani, Historiarum romanarum lib. LXXIX-LXXX quae supersunt. Codex Vaticanus graecus 1288. Praefatus est P. Franchi de' Cavalieri. Lipsiae, apud Odonem Harrassowitz, 1908.16 Claudii Ptolemaei Geographiae codex Urbinas graecus 82, phototypice depictus Consilio et opera curatorum Bibliothecae Vaticanae. Lugduni Batavorum, apud E. J. Brill; Lipsiae, apud Ottonem Harrassowitz, 1932. Delle quattro parti costituenti la monumentale edizione, il Franchi collaborò alla terza, con una minuta « adnotatio critica » al testo. 17 Miniature della Bibbia, cod. Vat. Regin. greco 1, e del Salterio, cod. Vat. Palat. greco 381. Milano, U. Hoepli, 1905. 18 Specimina codicum graecorum Vaticanorum. Collegerunt Pius Franchi de' Cavalieri et Johannes Lietzmann. Bonnae, A. Marcus et E. Weber; Oxoniae, apud Parker et filium, 1910. — Ed. iterata 19et aucta. Berolini et Lipsiae, W. De Gruyter et soc., 1929. « Studi e testi», nn. 3, 6, 8, 9, 19, 22, 24, 27, 33, 49, 65, 171 e 175: costituirono (esclusi i num.

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Egli fu insomma uno dei più solerti e dotti dell'antico manipolo che quel suo ideale Prefetto suscitò sostenne diresse, con un impegno e una passione che rimangono ancora il lievito promotore più vigoroso della vita scientifica dell'istituto. Pochi altri lasciarono una mole di opere paragonabile alle sue, e un esempio di altrettanta assidua fedeltà all'ufficio (e si deve pur aggiungere che, per quello spazio di sessantacinque anni, egli rinunziò a qualunque specie di compenso, che non fosse quello di servire con liberalità filiale la Santa Sede). L'uomo fu sempre vigilante sopra l'effusione dei propri sentimenti. Alla venerata memoria deU'Ehrle iscrisse, gratamente, uno degli ultimi libri, « perexiguum summae admirationis officium »20: ma tale attestato, tanto più alto quanto più sobrio, attese di darglielo in morte. Ciò che l'Ehrle stesso, Achille Ratti, Giovanni Mercati, tutti di parole estremamente misurate e contate, sentirono a loro volta dell'uomo e del dotto che egli fu può risultare dalle espressioni scritte dal secondo, il futuro Pio XI, in una lettera 21. Dove sottolineava quella « produttiva operosità e il plauso unanime degli ellenisti ed agiografi, nè soltanto d'Italia » e « la veramente rara ed insurrogabile competenza con che egli occupa tal posto ed ufficio », per dichiararlo, nella circostanza, « così veramente necessario da non poterne esser privato senza reale e grave danno della Vaticana ». Giunto a quella grande età, e come si professò, in una sua lettera del Natale '59, « unico malvivo superstite degli "scriptores" che nell'ultimo decennio del secolo XIX e nel primo del XX ebbero l'ambito onore di essere ammessi a servire la Santa Sede nella Biblioteca Apostohca Vaticana », egli continuò a venire in essa, quotidianamente, vivente espressione del « mos maiorum », anche quando non potè decifrare che faticosamente, curvo sulla pagina, con una grossa lente accostata all'occhio; e l'avventurarsi della sua esile e fragile persona, tra il vertiginoso traffico della città, incuteva sgomento. Nel 1956 donò all'amata istituzione un tesoretto di monete antiche romane, compiendo con pietà il gesto liberale del padre. Ma aveva ritegno di ricevere, pur dopo avere sempre dato. Quando, nell'aprile '59, ebbe la medaglia annuale distribuita per antico uso a coloro che servono i Pontefici Romani, scrisse: « di qui in poi non oserei ricevere dalla Biblioteca Apostolica medaglie od altro, posto che Iddio volesse ri3, 6, 19 e 171) la serie Note agiografiche, fascicoli 1-9. Per i rispettivi contenuti si possono vedere le Tavole e indice generali, degli « Studi e testi », 1942 e 1959. 20 Note agiografiche, fascicolo 8° (« Studi e testi », 65). 21 Scritta dal prefetto Achille Ratti, nel 1916 o '17, per ottenere la dispensa del Franchi de' Cavalieri dal servizio prestato in ospedali militari dell'Ordine di Malta. Conservata in minuta autografa nell'Archivio della Prefettura della Biblioteca Vaticana.

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RICORDO DI PIO FRANCHI DF/ CAVALIERI

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tardare ancora di qualche mese l'ultimo crollo della mia povera abitazione terrestre ». Nell'estremo di umiltà al quale era giunto, sentiva il bisogno di annientarsi. Facendo gli auguri per l'ultima Pasqua, con la mano che tracciava ormai i segni senza vedere, protestò ancora, egb, la sua « perenne riconoscenza » delle cortesie prodigate alla sua « nullità ». Una notizia ancora quasi solo esteriore si può dare qui della sua opera scientifica personale. Il campo prescelto quasi subito fu e rimase sempre l'agiografia antica, in particolare la greca. Era il momento evolutivo proprio di essa e preparante la sua epoca d'oro. In Germania, Karl Krumbacher aveva fondato la filologia bizantina, e altri grandi studiosi, in diversi paesi, come il russo Y. G. Vasil'evskii, facevano risorgere con esplorazioni sistematiche il volto di una civiltà andata sommersa da secoli. A Strasburgo, Albert Ehrhard, e a Bruxelles i gesuiti Bollandisti mettevano mano, applicando i nuovi metodi, al diboscamento di quella specie di selva che era ancora l'agiografia bizantina. L'opera, per la quale si richiedeva più di una generazione di lavoratori, contemplava sostanzialmente due parti: la ricerca e recensione dei testi editi e inediti, l'edizione o riedizione critica e l'illustrazione dei documenti stessi. La Bibliotheca hagiographica graeca, uscita per la prima volta nel dicembre 1894, in edizione provvisoria, fornì uno strumento unitario e inestimabile di ricerca. Franchi de' Cavalieri s'inserì in questo moto di studi, ancora quasi al suo inizio, e stabilì relazioni in particolare con i Bollandisti; ai quali si associò per la pubblicazione del ricordato catalogo dei codici agiografici greci Vaticani, e collaborando agli Analecta Bollandiana, con più contributi, fraternamente (ai padri Van Ortroy, Delehaye, Peeters, Van de Vorst, rimane dedicato, in segno di quell'affettuoso legame, un suo volume, « hos meos qualescumque labores », del 1915) 22. Coltivò, naturalmente, con la greca, l'agiografia antica latina, per i rapporti strettissimi delle due lingue nella primitiva età cristiana, e per i non numerabili imparentamenti, contaminazioni, versioni. E iniziò appunto il suo lavoro con l'edizione di uno dei più famosi testi latini, la Passio ss. Perpetuae et Felicitatis 23. La bibliografia dei suoi scritti 24 non appare, numericamente, tra le più copiose, ma è pur malagevole enumerare la quantità 22 23

Note agiografiche, fascicolo 6°. (« Studi e testi », 33). La Passio ss. Perpetuae et Felicitatis. Roma, 1896 (« Rômische Quartalschrift fiir Christliche Alterthumskunde und fiir Kirchengeschichte. Supplementheft, » 5). 24 Redatta da Harriet L. Cecilia Self, nel 1942, per la Scuola Vaticana di Biblioteconomia; e pubblicata, con alcune aggiunte, da M.-H. Laurent, O.P., nella « Rivista di storia della Chiesa in Italia », III, 1949, pp. 263-272.

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dei testi dati o restituiti in luce, e riferire l'indice dei molti nomi di santi, famosi o meno noti, illustrati. Per tutti questi contributi va rilevata l'originalità scientifica, con esclusione di qualunque intento divulgativo (unica eccezione, due articoli, in una enciclopedia nazionale 25, estortigli solo per ragione d'amicizia). Tale fermo proposito di non pubblicare che il nuovo o il nuovamente accertato, di prima mano, e solitamente da fonti manoscritte, si valse sempre di un metodo critico ineccepibile. Anche lo stile con il quale si espresse è ammirevole per la netta sobrietà, che lo rattenne dall'usare anche un solo epiteto in più e con fine puramente esornativo; e l'ordine rispecchia la chiarezza di mente con la quale egli conduce l'indagine. Lo sorressero in questa, come mezzi suoi propri, l'eccellente conoscenza che ebbe delle letterature classiche, della storia antica politica, istituzionale, giuridica; la familiarità con gli scritti patristici, non solo storiografici, ma anche di quelli teologici; la piena informazione della critica recente. Il punto moralmente più delicato, per il genere delle sue ricerche, era rappresentato dalla posizione dovuta assumere in confronto di tradizioni, talvolta antiche e venerande. Egli tenne la verità storica come unico e assoluto criterio, con la persuasione che la realtà eroica della testimonianza cristiana non ha che da guadagnare dall'autenticità. Questo uomo, animato dalla più sincera « pietas », potè apparire in qualche caso un demolitore. Ciò che rimosse non fu invece che l'ingombrante e il vano, e seppe guardarsi dagli eccessi iconoclastici che tentarono altri. E difese la tradizione, sempre che la trasmissione di essa gli apparisse pura e genuina. Un episodio dell'ultima parte della sua vita scientifica appare al riguardo illuminante. Nel Natale del 1951, uscendo, come poche altre volte aveva fatto, dalla cerchia dei suoi studi propriamente agiografici, licenziò un volume, con il titolo Constantiniana, che si pubblicò nel '53, tra gli « Studi e testi ». Circa la sua genesi, in una avvertenza esemplarmente modesta, dichiarò che l'aveva scritto quattordici anni avanti, e l'aveva poi riposto con il pensiero di lasciarlo giacere per sempre, come lo consigliavano i sopraggiunti anni fragiles et inertior aetas. Ma, costretto quasi d'autorità, lo pubblicava, senza affrontarne il rifacimento, con un lavoro di cui non si sentiva più capace « un vecchio più che ottuagenario , quem et acumen ingenii et vires corporis penitus deseruerunt ». In realtà, il libro trattò questioni tra le più discusse della biografia dell'imperatore 26

1934.

«Agnese (santa)», in Enciclopedia italiana, t. I, 1929; «Nereo ed Achilleo (santi)», t. XXIV,

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RICORDO DI PIO FRANCHI DE' CAVALIERI

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Costantino, con un straordinario dominio delle fonti: e per ciò stesso entrò nel punto centrale di uno dei rivolgimenti capitali della storia. Nel primo dei due saggi, che Io formano, è sostenuta la realtà della visione nella Gallia (Eusebio di Cesarea) e del sogno alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio (Lattanzio); nel secondo, è affermata l'autenticità della Visio Constantini, come opera di Eusebio di Cesarea. L'ingente apparato di note documentarie tiene conto di tutta l'abbondante letteratura constantiniana, inclusa la più recente. La posizione risulta essenzialmente tradizionalistica, ma presa dopo un vaglio coscienzioso delle tesi avversarie. Uno degli storici più direttamente colpiti, noto per la genialità delle concezioni quanto per la vivacità dello stile, lesse subito il libro, mandatogli personamente dallo scrittore. La risposta che questi ebbe va riprodotta nella parte sostanziale, come degna testimonianza allo scienziato e all'uomo: « Je vous en suis profondément reconnaissant. Il marquera une grande date dans les études constantiniennes. Chaque page de ce volume, chaque ligne même, est le fruit de longues recherches menées avec la bonne foi, l'érudition et surtout l'intelligence qui sont les marques de votre génie. Tout philologue s'inclinera devant le prince des philologues-historiens, tout homme de goût et de coeur devant l'élégance de votre faire et cette courtoisie de gentilhomme de lettres qui vous distingue entre tous les humanistes. J'ai été touché de la délicatesse et de l'amitié avec lesquelles vous combattez mes thèses. Et c'est pour moi un grand-bonheur de vous annoncer que, sur des points capitaux, je vous rends les armes: vous m'avez convaincu, et je crois vous avez convaincu tout le monde, par une démonstration qui restera classique... ». Non altri segni più di questo possono riuscire grati a uno studioso, verso il termine della sua giornata; come pochi riescono a dare meglio l'idea di ciò che fu, e rimarrà, l'opera di Pio Franchi de' Cavalieri, nel campo erudito e nello spirito degli uomini di scienza. E pure egli si spogliò subito del bellissimo documento e lo passò all'archivio della Biblioteca Vaticana. Ciò tocca già il ritratto spirituale, con il quale si vorrebbe chiudere la presente beve memoria. Ma le linee più intime mancano, per il riserbo geloso con il quale sottrasse agli altri la parte profonda e segreta della sua vita. La quale fu tutta austeramente improntata, e segnata di forte pietà, con caratteri che si possono pensare derivati dalla lunga consuetudine con le più antiche età cristiane. Fino a che potè uscire di casa, partecipò quotidianamente ai sacri Misteri e all'Agape nelle ore antelucane, in una piccola chiesa vicina alla sua abitazione, spoglia di memorie storiche e di bellezze d'arte. L'uomo amò il silenzio, il ritiro, la solitudine, forse anche per una

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N. VIAN

specie di ritrosa timidità di confidarsi con altri, in particolare nell'ultimo tempo, quando per l'età avanzatissima era rimasto quasi unico della sua generazione. Ma era amabilmente cortese con tutti, signorilmente ripugnante a essere servito. Sapeva conversare, con il sale di un suo arguto umorismo, che si spingeva qualche volta fino alla lieve e candida mordacità, usante tra gli eruditi. Il suo più stretto sodalizio che si ricorda era stato con un collega di biblioteca, dotto ecclesiastico, di liberi sensi e parola: per quella comunanza, avevano avuto il grazioso soprannome di « santi Cosma e Damiano », anche se il fisico contrastante facesse rassomigliare l'uno a un composto abate settecentesco e l'altro a un personaggio del Greco. All'ultimo, l'esperienza del cristiano si consumò, come in trepidante attesa di parusia. La morte sopravvenne dopo aspri dolori che per più settimane lo configurarono ai suoi santi Martiri, nel tormento della carne tutta spezzata e piagata, nella gioia dello spirito proteso alla visione.

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Bibliofilìa

di

Giovanni

XXIII

Un degno ritratto di Giovanni XXIII non potrebbe essere composto che alla maniera e con lo stile del candido e pur acuto Vespasiano da Bisticci. Si pensa a quello, squisito, di Nicolò V, con l'elogio a lungo svolto della « mirabile natura », che incantò i suoi contemporanei e delizia ancora i lettori del bel commentario. Si sa quanto l'antico maestro Tommaso da Sarzana amasse i libri, e quanto sontuosamente spendesse, egli povero, in opera di copisti e miniatori, per averne numerosi e « bellissimi in tutte le condizioni ». Legga più avanti chi vuole proporre una vita parallela, come usava un tempo. Certo è che la bibliofilia del nuovo papa discende da una radice con quella del suo predecessore quattrocentesco, poiché l'uno e l'altro l'appresero in chiesa, dove il Libro sta sopra l'altare. Uomo di piena e completa umanità è apparso felicemente a tutti, nel salire al vertice, Giovanni XXIII. Uomo compiuto, si può aggiungere, in quanto anche umanista; posto che tale rimane il prodotto maturo di questa nostra antica civiltà. Dell'« amor librorum » raccoglieranno segni e memorie gli scrittori della sua vita. Ma già si sanno aneddoti e tratti, che valgono a denotarlo bibliofilo, nel senso autentico del termine. Come il bel motto « Oboedientia et pax » del suo stemma prelatizio e cardinalizio

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Nello Vian

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gli sia stato ispirato dalla lettura di un libro acquistato all'indomani dell'ordinazione sacerdotale, qui in Roma, ha raccontato egli stesso, in uno dei cordiali discorsi di questo primo mese del suo principato. Quella Vita del cardinale Cesare Baronio, scritta dall'oratoriano Calenzio, è stata buona prima pietra di una biblioteca privata che numera qualche migliaio di volumi. Li andò comprando, sicuramente, giorno per giorno, quando gli se ne dava occasione e suppliva la pecunia, nei molti paesi e città che percorse, Roma Bulgaria Turchia Grecia Parigi (non andò mai in legazioni « ch'egli non portasse qualche opera nuova che non era in Italia », si legge ancora, di Nicolò V, in Vespasiano). Il nunzio Roncalli, si può immaginare, praticò i bouquinistes, che celano i loro tesori in botteghe buie o li squadernano al sole, un tempo sui muretti lungo la Senna. Dei librai antiquari fu cliente assiduo : delibava curiosamente i cataloghi, e non si peritava dal dichiarare con tutta onestà di avere scoperto per questa via cose ignote e pregevoli. Da un libraio parigino comprò, a prezzo d'affezione, la ricercata Storia di Venezia nella vita privata del Molmenti. Poiché teneva d'occhio, naturalmente, alcune materie e argomenti determinati : la teologia e patrologia, la storia religiosa e civile bergamasca e veneziana, la onomastica e fino la letteratura dialettale di queste città. Tra la sua ricca raccolta di libri d'agiografia spiccano quelli su san Lorenzo Giustiniani e san Carlo Borromeo. Del primo, dominavano sopra un leggio, in una nobile rilegatura voluta da lui, le Opera omnia nell'edizione veneziana del 1751 : pur lamentando i minuti caratteri tipografici, ne leggeva spesso e partecipava ai visitatori tratti, ammirati per il contenuto ascetico e la forma. Il grande arcivescovo milanese figurava soprattutto con gli atti della Visita apostolica a Bergamo, curati da lui per la stampa con il gusto anche da bibliofilo, del quale si dirà avanti. Ma l'umanista non si delizia solo del passato. Chi entrava nello studio del cardinale patriarca osservava i severi tomi alternarsi con le lievi edizioni in-sedicesimo di Plon e Gallimard; e un visitatore notò fino il Journal d'un curé de campagne, del Bernanos.

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Bibliofilia di Giovanni XXIII

La domestica familiarità coi libri, antichi e nuovi, servì innanzi tutto a nutrire lo spirito e a illuminare l'azione del grande prelato Roncalli. Ma anche lo riposò, e concorse certo a mantenere in lui quella placidezza o eutrapelia dell'animo, che risplende nel suo bel volto da galantuomo. Con ciò s'intende la consuetudine ch'egli aveva (il passato significa sempre il riferimento alla persona prima della sua sublime esaltazione) con poeti e letterati; il Petrarca, Bossuet, Fénelon, gli autori della collezione « La Pleiade ». Più significante ancora appariva la

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Nello Vian

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sua predilezione per i favolisti; tra gl'italiani, il Casti e il Clasio, e tra i francesi, il La Fontaine. L'ultimo deve essergli stato proprio « livre de chevet », e in Francia, a una conversazione, osservò che dentro alle sue favole, travestiti, possiamo ritrovarci tutti, in tipi destinati a rimanere per sempre. Si aggiunge che alla domanda rivoltagli con una certa impertinenza su quale personaggio lo rappresentasse, il nunzio abbia risposto che un buon diplomatico non offre mai la chiave della cassaforte dove stanno i suoi documenti segreti. Un'altra battuta di spirito, ricordata in Francia per la pungente lezione contenuta, gli fu suggerita argutamente da un libro. Il giorno che il « maire » Pierre de Gaulle, al ricevimento per il bimillenario di Parigi, chiamò il nunzio in causa sul comportamento politico dei cattolici, il rappresentante della diplomazia che aveva affrontato Talleyrand rispose che aveva goduto di vedere poco prima il più antico libro stampato in Francia, le Epistolae del bergamasco Gasparino da Barzizza, maestro di retorica e di buone maniere. Più semplice, anche se improntato di una saggezza riposta nell'umiltà, il consiglio che diede ai seminaristi veneziani di leggere il saggio sul gatto del Rajberti. Ma i libri non gli soccorrevano solo per schermo o ammaestramento. Chi godette della sua ospitalità narra come essi diventavano anche piacevoli discorsi da tavola, sia ch'egli parlasse dell'interpretazione di Laura nel Canzoniere petrarchesco, áe\VHistoire de Constantinople sous les empereurs français del Du Gange o degli annali tipografici dei Pezzana, dei Remondini, degli Antonelli. Tale non comune, anzi rara, esperienza e conoscenza di libri, ebbe occasione di tradursi in realtà nella stampa de Gli Atti della visita apostolica di s. Carlo Borromeo a Bergamo {1575), l'opera maggiore dello storico ecclesiastico Angelo Giuseppe Roncalli. Non è da parlare qui della materia e importanza di quest'impresa, ch'egli in persona qualificò, a tutto diritto, « non indegna della patria di Mario Lupi e Angelo Mai »; né dell'annosa preparazione che gli fece sorpassare quasi tre volte il nonum prematur in annum oraziano. Basta solo richiamare, in questa sede, la dignità tipografica che egli volle imprimere

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Bibliofilia di Giovanni XXIII

all'edizione. Scelse e fece fondere caratteri appositi elzeviriani; provvide carta filigranata recante VUmilitas coronata del Borromeo su una facciata, le parole Sancta Bergomensis Ecclesia MDLXXV-MCMX (anni della Visita e centenario della canonizzazione) su l'altra. La stampa iniziatasi appunto nel 1910, nelle officine della bergamasca società editrice « S. Alessandro », riuscì eccellente e correttissima, per una vigilanza che si sente continuata e alacre. Si è protratta a lungo, con la pubblicazione dei tre primi volumi. I due che rimangono porteranno, e il caso sarà rarissimo, il nome di un pontefice quale editore: onore più alto non poteva toccare a questo monumento di erudizione, né riconoscimento più degno alla azione apostolica del santo nipote dì Pio IV. Un'altra circostanza felicemente auspicale, giova notare qui. Il futuro Giovanni XXIII praticò « in minoribus » biblioteche e archivi, e sempre, quando gli avvenne, visitò e promosse tali istituzioni. Incontrò anche in una di queste, l'Ambrosiana, un uomo che gli aveva appreso in maniera insigne come un « conservatore di libri» possa « essere un propulsore sapiente e potente di buoni studi » : Achille Ratti (quella conoscenza pesò pur sul destino della sua vita, provvidenzialmente, quando Pio XI mandò visitatore apostolico in Bulgaria colui che aveva veduto chino sulle carte di san Carlo). Incitamenti, sorretti dall'esempio di un diuturno e quanto mai fruttuoso amore del libro, potranno essere rinnovati alle biblioteche in particolare ecclesiastiche, che in Italia attendono ancora in gran numero d'essere riscattate da una lunga decadenza. In primo luogo si amerebbe che la bibliofilia risorgesse nel clero. Librerie, più o meno fornite, si trovavano sempre nelle vecchie canoniche, anche di campagna; e non erano soltanto il lusso di pievani dotti o più largamente provvisti, perché tenere in onore il libro si stimava quasi una prerogativa degli uomini della Chiesa. Il vescovo di Durham e cancelliere di Edoardo terzo Richard de Bury, autore del Philobiblon, diceva che con ciò gli rendevano quanto ne avevano ricevuto. Ma già quel contemporaneo di Dante lamentava che barattassero quell'amore con altre cure, e metteva in bocca ai

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Nello Vian

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libri il lamento : « Imprimis de domiciliis clericorum nobis iure haereditario debitis vi et armis expellimur... ». Ora nemici di altra specie tengono fuori i libri dalle case di molti chierici; e intristiscono in polverosa vecchiezza anche numerose biblioteche ecclesiastiche. La bibliofilia di Giovanni XXIII, che dalla sua eccelsa cattedra ha già pronunziato il più alto richiamo al Libro, ripromette giorni migliori alle nobili carte impresse, alle loro dimore e alle buone arti. Con questo augurio i bibliotecari d'Italia presentano il loro primo, reverente saluto al nuovo Pontefice. Nello Vian

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Il Petrarca sul prato

Quanti svolgono per usato diletto il terrestre-divino libretto dei « Rerum vulgarium fragmenta » sanno lo spreco che messer Francesco fa di tutte le naturalistiche vaghezze, « frutti, fiori, erbe e frondi... » (son. 137). L'uomo assaporò certo la natura, con originalità di gusto, e il poeta l'introdusse, per quanto gli venne fatto di rappresentarla, con immagini nuove di conio o squisiti restauri dell'antico. Chi ha tirato le somme nella partita, mettendo sul carico anche i « Trionfi », ha contato 58 luoghi dove verzica 1'« erba », 55 in cui aulisce il « fiore » e 35 che sentono stormire « fronde ». Il « bosco » incupisce per 28 volte, e non meraviglia che su tutti gli alberi imperi il « lauro », verdeggiante e odorante per 32, incantatamente. Con il quale mal rivaleggiano anche i più celebrati fiori, come la superba « rosa » che dischiude il seno in 16 apparizioni e la pudica « viola » che si rinselva in 7, con la timidezza di prammatica. Nel totale, un discreto giardino e orto botanico (ma un solo organo, tratto da diverso regno, scavalca tutti, poiché 300 volte almeno il « core » palpita, per unica sua ventura, nelle rime del Petrarca). A fondale del paesaggio sta il « prato », che abbiamo a trattare, nel caso, più da vicino. La dolce donna è vagheggiata regalmente al centro della natura. I gemini sonetti 41 e 42 proclamano che quando ella si parte il tempo intorbida e come ritorna si rasserena, solo spirando un lieve vento che « desta i fior tra l'erba in ciascun prato ». Elemento così vitale che il mondo non può esser pensato privo di lei, come « senza fior prato, o senza gemma anello » (son. 338). Ma quando Laura è sparita per sempre, invano ritorna la primavera e « ridono i prati e 'l ciel si rasserena » (son. 310). Le cose più liete scolorano, come « tra chiare fontane e verdi prati / dolce cantare oneste donne e belle » (son, 312). Non altro rimane che il rievocare quella dolce 464 [249]

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stagione dell'incontro, primavera dell'anno e della vita, quando egli era corso « a coglier fiori, in quei prati dintorno » (canz. 325). Tuttavia, il severo meditare d'ispirazione agostiniana gli scopriva, a tratti, l'ascoso serpente che si protendeva, con le belle forme, tra le ridenti prode: « questa vita terrena e quasi un prato, / che 7 serpente tra 'fiori e l'erba giace » (son. 99). E fatto è che il Petrarca andò a finire malamente sul prato, un piovoso giorno del 1965, non in persona ma nel lieve volume entro il quale egli ha chiuso più che se stesso. Quella mattina del 26 novembre, un venerdì, tre custodi salirono al salone Sistino della Biblioteca Vaticana. Per la storia, si nominavano Gino Tiburzi, Sergio Patricelli e Remo Parlani, uomini provetti d'età (tra i cinquanta e i sessanta) e pratici del lavoro. Erano passate le 7 di pochi minuti, e l'enorme « vaso », al sommo dell'edificio innalzato con imperiosa furia quattro secoli avanti sulle scalee del primitivo anfiteatro di Belvedere, ricevette l'avara luce della stagione, all'apertura delle finestre. I chiusi armadi lignei che corrono lungo le pareti e i pilastri sono ora spogli delle serie dei codici manoscritti, ma una scelta di questi è offerta alla vista entro quattordici ariose vetrine di acciaio e cristallo ricurvo, recentemente costruite. Poiché la sontuosa aula Cinquecentesca, diventata museo della Biblioteca, s'inserisce nell'itinerario di visita dei tesori d'arte Vaticani. II secondo della squadra, fatti pochi metri nella navata meridionale prospettante il cortile di Belvedere, vide subito il cristallo della vetrina numero 9 infranto, e le tendine di schermo a terra. L'occhio addestrato corse al posto vuoto della gemma più preziosa dello scrigno: il codice del Canzoniere del Petrarca. Con questo era stata rapinata una raccolta di rime in parte di mano del Tasso, mentre altri otto autografi dell'eclettica vetrina (un parterre de rois, con Tommaso d'Aquino, Savonarola, Michelangelo, Raffaello, Enrico Vili...) riposavano intatti sul loro fondo di velluto. Nell'immediata, febbrile successione delle ricerche, si riscontrarono spariti, in sale minori della galleria di fondo, due altri oggetti, stranamente insaccati con i primi: la Corona del re santo Stefano d'Ungheria e uno scritto insanguinato del presi465 [250]

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dente ecuadoriano assassinato García Moreno. La scoperta si divulgò in un attimo, e la secolare istituzione fu tutta scossa, come per il crollo delle sue muraglie, trent'anni avanti. Assente il prefetto, che tornò nel pomeriggio da una missione a Istanbul, prese in mano l'affare energicamente il prelato belga José Ruysschaert, appassionato studioso dell'umanesimo italiano, viceprefetto. Conforme al protocollo, avvisò il cardinale Segretario di Stato, il Sostituto, il cardinale Bibliotecario e Accademico di Francia Eugène Tisserant. La comune insegna di umanesimo cristiano e la secolare dimora delle carte hanno istituito tra la Vaticana e il Petrarca un'ideale consuetudine, anzi un'amicizia che la qualità della materia induce a chiamare amorosa. Ciò spiega la commozione e pena di cuore che si apprese a tutti, custodi non soltanto per ufficio dei tesori. Quel codice Vaticano latino 3195, come è tecnicamente segnato, introduce proprio nell'officina libraria del poeta. In parte di sua mano, in parte trascritto da un giovane e irrequieto ravennate, Giovanni Malpaghini, che gli stette in casa da circa il 1364, esso presenta, come tutti sanno, l'ultima redazione (per quanto l'insaziabilmente squisito artista non ponesse mai il ne varietur) dei « Rerum vulgarium fragmenta », e riveste capitale importanza per il testo, l'ordinamento e la cronologia del Canzoniere. Si congettura che sia rimasto a Padova fino ai primi decenni del Cinquecento, e lungamente agognato da Pietro Bembo fu acquistato nel 1544 dal porporato petrarchista, che lo legò al figlio Torquato. Dato da questo al grande collezionista Fulvio Orsini, entrò con la sua eredità nella Biblioteca Vaticana, tra il 20 e il 22 gennaio 1602, L'inventario contemporaneo lo descrive: « Petrarca, le canzone et sonetti, scritti di mano sua, in carta pergamena, in foglio, et ligato di velluto paonazo ». In epoca recente, l'autografia era in chiaroscuro, quando nel 1886 Pierre de NoIhac la riscoprì e ne determinò l'estensione, collocando sul trono indeclinabilmente il 3195. Non si panneggia di tale regalità l'Ottoboniano latino 2229, il secondo manoscritto asportato. Ma anche questo sta al vertice del Parnaso italiano, poiché i suoi 87 fogli 466

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attestano il lavorìo di Torquato Tasso tra lo scrittoio e la stamperia: servirono infatti per l'edizione della « Parte Seconda » delle sue Rime, fatta a Brescia nel 1593, e mostrano con le correzioni e mutazioni autografe il travaglio d'arte del maggiore lirico della Controriforma. Gli altri due oggetti saccheggiati appartengono alla storia politica: la Corona (ma è solo una riproduzione, donata al papa Pio X) del re convertitore dei magiari santo Stefano, a quella dell'Europa danubiana sulla soglia del 1000; il messaggio del dittatore cattolico dell'Ecuador Gabriel García Moreno, trucidato all'uscita dalla cattedrale il 6 agosto 1875, a quella irriducibilmente tragica dell'America Latina. Gl'investigatori arrivarono sul posto, con tutta solerzia: prima, i capi della gendarmeria Vaticana (ancora non soppressa), e poi, avvisati e richiesti gli uomini della « Mobile » italiana. Un'impresa del genere, ci si figura, è un andare a nozze, per gente del mestiere. Le tracce ritrovate e circostanze accertate portarono a ricostruire il fatto in queste linee. Il ladro, si ritiene solitario, penetrò nella città munita attraverso una breccia aperta temporaneamente nelle mura che sovrastano il viale Vaticano, per il transito di autocarri trasportanti materiali da sterro e da costruzione (si fabbricava il nuovo edificio destinato ai Musei già Lateranensi). Scavalcato l'assito, percorse qualche centinaio di metri nei giardini e arrivò al viale un tempo della Zecca, sotto le finestre da scalare. Si tratta da questo lato di un primo piano, ma delle proporzioni degli antichi palazzi, a un'altezza di una decina di metri dal suolo. A braccia, acrobaticamente, si issò lungo una grondaia fino a un cornicione, sul quale si sostenne e camminò per un tratto, giungendo alla finestra che aveva scelto. Ne staccò dall'esterno il vetro, fermato con stucco, e s'infilò dentro agevolmente, poiché la solida imposta interna di legno era stata sostituita da una tenda « veneziana », di plastica rigida, qualche tempo avanti. Dal fondo del salone Sistino, in cui si trovò, puntò decisamente alla vetrina del Petrarca, che infranse con un colpo vibrato da professionista dello scasso. Preso anche il Tasso, per giunta si direbbe alla derrata, si aggirò ancora negli enormi vani, 467

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alla luce della sua torcia elettrica. L'avidità dovette crescere con l'occasione, perché tentò di forzare un grosso cancello interno di ferro che immette agli ori del « Museo Sacro », e si appropriò alla fine dei due oggetti sopra indicati. Per il ritorno, ebbe a rifare la stessa strada all'inverso, con l'imperterrita audacia dimostrata in tutta la spedizione, e sorretta dall'altrettanto sorprendente conoscenza dei luoghi e percorsi, guardati invano dalle ronde. Il prezzo che pagò fu appena di qualche goccia di sangue, scoperta sul cristallo demolito. Il vagheggiatore di Laura e del lauro aveva esaltato, con mezzo universo, i suoi fogli: « e benedette sian tutte le carte / ov'io fama le acquisto... » (son. 61). Qualora la ragione fosse rigorosamente questa, avrebbe dovuto grazie non minori a un'altra specie di fogli, perché tutta la pubblica stampa risonò quei giorni di Laura, del suo poeta, del Canzoniere. La prima notizia uscì, poco dopo il mezzogiorno del 26, nel bollettino del Servizio stampa Vaticano. La riprese, rapacemente, il mezzo più alato, che la diffuse nei radiogiornali pomeridiani. A Roma, il « Paese Sera » e « Il Giornale d'Italia », nelle « ultimissime della notte », con titoli rossosangue e a lettere di scatola, l'ampliarono di particolari, con fotografie. I telegiornali delle 20,30 e successivi la propagarono per tutta la penisola, moltiplicando le immagini del luogo e degli oggetti. « ... Come fama pubblica divolga » (son. 98) non si starà a dire qui troppo estesamente, perché tutti sanno. Il principio dei cerchi concentrici nell'acqua agì nel caso con utilità, come fa ritenere il resto della storia. Ma i giornalisti non si limitarono alle notizie dei fatti, si può bene pensare. Lavorarono di deduzione e induzione, e quando queste facoltà non bastarono a riempire i margini, che restavano per buona parte in bianco, supplirono con la fantasia, e fino la poesia. La fiorentina « Nazione » (27 novembre) pescò, a esempio, la strana voce che un collezionista matto avignonese pretendeva ricondurre sulle rive del Rodano quanto era appartenuto alla cittadina famosa per i suoi ponti e il Palazzo trecentesco dei papi: una specie di rivendicazione dei legittimi eredi di madonna Laura. « Il Tempo », di Mi468 [253 J

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