Figlie dell'Islam 9788858607886

Shabara è nata in Inghilterra da una famiglia pakistana, si sente "inglese al cento per cento" e il velo islam

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Italian Pages 360 [167] Year 2011

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Figlie dell'Islam
 9788858607886

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Indice Cover Abstract Lilli Gruber Frontespizio Copyright Introduzione - Mille e una donna Capitolo 1 - Il diavolo e il velo Capitolo 2 - Il martirio di Asmaa Capitolo 3 - Sotto la maschera dei faraoni Capitolo 4 - Il papa sunnita Capitolo 5 - Sesso e Islam Capitolo 6 - I misteriosi Fratelli musulmani Capitolo 7 - Kifaya! Capitolo 8 - La bambina che litigò con Dio Capitolo 9 - «Formidable Yemen!» Capitolo 10 - Saud e Wahhab Capitolo 11 - In fuga dai mutawwa Capitolo 12 - In nome del padre Capitolo 13 - Il Corano e il testosterone Capitolo 14 - «Le donne sono i fratelli degli uomini.» Capitolo 15 - Gedda, il soffio della libertà Capitolo 16 - Il profumo del potere Capitolo 17 - Medina haram! Capitolo 18 - Lipstick jihad Capitolo 19 - Una Mercedes piena di rose Capitolo 20 - I petali di Taif Capitolo 21 - Aramco city Capitolo 22 - Le perle del Golfo Capitolo 23 - Tra guerra e ayatollah2 Capitolo 24 - Femminismo e Islam nella vecchia Bisanzio Capitolo 25 - La scandalosa first lady Capitolo 26 - Marocco a luci rosa Capitolo 27 - Un amore a Casablanca Conclusione - Addio all’harem Glossario Ringraziamenti Indice

Shabara è nata in Inghilterra da una famiglia pakistana, si sente “inglese al cento per cento” e il velo islamico lo mette solo quando va in moschea. Sua cugina Tiyaba lo tiene sempre: le hanno detto che nel giorno del giudizio il

diavolo urinerà sulle teste delle donne che non lo portano. Asmaa ha una cicatrice che non guarirà mai: a quattro anni, la mammana del suo villaggio egiziano le ha reciso il clitoride con un rasoio. La madre di Husnia si è sposata a nove anni ma a quattordici sua fi glia, oggi docente universitaria nello Yemen, è riuscita a rifi utare il marito scelto per lei. M., psicoanalista, e altre quarantasette donne dell’alta borghesia saudita si sono messe al volante per protestare contro la legge che vieta loro di guidare; hanno percorso poche centinaia di metri prima di essere arrestate. Khadija, fuggita dall’Algeria della guerra civile, ha scatenato polemiche indossando l’hijab per condurre il tg su Al Jazeera. Proprio perché non voleva uscire senza velo, Hayrunisa, l’attuale fi rst lady turca, da giovane è stata costretta a rinunciare all’università: nel suo Paese il copricapo islamico è proibito nelle istituzioni pubbliche. A Tangeri, Meriam scrive la tesi di dottorato sulla condizione delle prostitute e per le sue ricerche ha vissuto un mese con loro; l’hanno sgridata perché non rispettava il digiuno del Ramadan. Sono solo alcune delle voci che Lilli Gruber ha ascoltato nel corso del suo viaggio nel mondo islamico, alla scoperta di un universo femminile che si batte con straordinario vigore per il riconoscimento dei propri diritti in una realtà maschilista e retrograda. È una lotta che non conta solo per il destino delle donne: dalla loro battaglia rivoluzionaria dipende l’avvento della democrazia e della modernità nei Paesi islamici, unico rimedio contro i mali opposti e intrecciati dell’estremismo e del dispotismo.

Lilli Gruber, giornalista e saggista, prima donna a presentare un telegiornale in prima serata, dal 1988 segue come inviata per la Rai tutti i principali avvenimenti internazionali. Nel giugno 2004 viene eletta al Parlamento europeo. Nel 1990 ha scritto con Paolo Borella per la Rai-Eri Quei giorni a Berlino; con Rizzoli ha pubblicato i bestseller I miei giorni a Baghdad (2003), L’altro Islam (2004), Chador (2005) e America anno zero (2006), tutti disponibili anche in Bur. Lilli Gruber

Le figlie dell’Islam La rivoluzione pacifica delle donne musulmane

Proprietà letteraria riservata © 2007 RCS Libri S.p.A., Milano 978-88-58-60788-6 Prima edizione digitale 2010 da edizione ottobre 2007

In copertina: fotografia di Francesco Cocco progetto grafico di Matteo Bologna per Mucca Design www.rizzoli.it Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

A Greta una nuova voce nel dialogo delle donne: la sfida è appena cominciata.

INTRODUZIONE MILLE E UNA DONNA Q UANDO SHERAZADE apre la porta della stanza in cui l’aspetta il suo sposo, le possibilità di uscirne viva sono praticamente nulle. Re Shariar, disteso sul talamo, ha già ucciso migliaia di giovani vergini, sacrificate alla sua rabbia. Per la ragazza, figlia del visir, molto versata nelle lettere, la poesia, la storia e la religione, è impossibile sottrarsi alla sfida: è una questione di vita o di morte. Non solo per lei, offerta come vittima a un mostro spietato, ma anche per il vasto regno, dissanguato da un despota mosso da follia omicida. Quando la fanciulla entra nell’harem, il sovrano è preda di un’insaziabile sete di vendetta. La prima moglie lo ha tradito nel modo più ingiurioso, concedendosi a uno schiavo nero. E così facendo ha messo in discussione la solidità del simbolo dell’autorità maschile, l’harem: le alte mura non hanno saputo tener fuori la sua dissolutezza. Al contrario, ne hanno ospitato le perversioni. La donna è stata messa a morte, ma l’affronto subìto non può essere cancellato con una sola esecuzione. Tutte le donne sono malvagie e infide, e devono pagare. Shariar ha ordinato dunque al visir di condurgli ogni giorno una nuova vergine, da sposare e violentare, prima di farla giustiziare dal boia. Il massacro ha avuto inizio. Dopo diversi anni nel regno sono rimaste solo due possibili vittime: Sherazade e la sorella, le due figlie del visir che ha fatto di tutto per proteggerle dalla follia sanguinaria del sovrano.

È in quel momento che Sherazade prende in mano il suo destino: si offre volontaria, certa di poter mettere fine all’ecatombe. E dal suo ingresso in quella stanza, invece di sottomettersi ai capricci sessuali del suo signore e rassegnarsi a una morte certa, lo terrà con il fiato sospeso grazie al solo potere delle parole. Nonostante l’angoscia di un’esecuzione sempre incombente, con incredibile sangue freddo inventa ogni notte una nuova storia, in cui mescola immaginazione, saggezza e sensualità. Alla fine riuscirà a fargli cambiare idea: quell’uomo accecato dall’ira ammetterà che colpire le donne per cancellare il ricordo dell’umiliazione è un segno di debolezza. Come spiega la straordinaria scrittrice marocchina Fatima Mernissi, studiosa dell’Islam, «Il despota riconosce che il lungo dialogo iniziato con la moglie ha cambiato la sua concezione del mondo». E aggiunge: «Le Mille e una notte cantano il trionfo della ragione sulla violenza».

Sherazade è nata in Persia, ma è cresciuta per le vie di Baghdad, la capitale dell’Impero abbaside che avrebbe regnato sul mondo islamico fino al XIII secolo. È sbocciata dall’immaginazione dei narratori di strada, che l’hanno fatta combattere per mille e una notte contro la brutalità del marito. Le sue avventure hanno incantato i frequentatori dei mercati, i viaggiatori dei caravanserragli e i clienti degli hammam. Alimentata dalla fantasia dei poeti, ha vissuto per secoli grazie al racconto orale, libera e leggera come le sue parole. Entrerà nelle biblioteche solo nel 1704 grazie a un francese, Antoine Galland, che scriverà la sua storia per il pubblico europeo. E si presenterà ai fratelli e alle sorelle arabi nel 1814, per la prima volta in un testo scritto nella loro lingua. L’eroina ha attraversato i secoli senza nemmeno una ruga, e la lezione che impartisce a chi ancora la ascolta è sempre attuale. Sono andata alla ricerca delle sue figlie spirituali nel complesso universo dell’Islam, di quelle donne che rifiutano di essere sopraffatte e si battono per i propri diritti. Sono tantissime e come la loro lontana antenata hanno deciso di prendere in mano la propria storia. Nei miei viaggi mi hanno raccontato chi sono, cosa fanno, cosa vogliono e in cosa credono. Ho voluto conoscerle per capirle e apprezzarne il coraggio, per misurare le nostre diversità ma anche scoprire le molte affinità che ci uniscono. Rivendicando il loro diritto di esistere nello spazio pubblico, affermano la loro identità in un mondo che le vuole ignorare. Difendendo la propria individualità, rendono omaggio al Dio creatore della differenza originaria, verso il quale si rivolgono per pregare. Sono loro il vero motore del cambiamento nel vasto pianeta musulmano, in tutto quasi 1.300.000.000 di persone. Per opporsi alla tirannia maschile molte oggi stanno affilando, come Sherazade, l’arma delle parole. Leila Ahmed, Shirin Ebadi, Amina Wadud, Margot Badran e tante altre: le «femministe islamiche». Rivendicano un ruolo attivo per le donne nella società, ma all’interno della cornice dell’Islam, che per più di un millennio gli uomini hanno usato per legittimare il proprio dominio. L’interpretazione che nei secoli hanno dato delle parole e delle gesta del Profeta è servita a relegare l’altra metà del cielo nel focolare domestico, senza diritti e senza voce. Dai tempi della Rivelazione nel VII secolo le condizioni sociali, economiche e giuridiche sono però molto cambiate e se i testi sacri devono restare fonte della legge, sostengono le «femministe», occorre rileggerli alla luce dei tempi nuovi. Tra i loro modelli ci sono la prima moglie di Maometto, Khadija, esperta donna d’affari e la più giovane, Aisha, che insegnava agli uomini la nuova religione e combatteva a fianco del Profeta. O altre come Fatima, l’adorata figlia e Umm Waraqa, designata come guida spirituale della Umma, la comunità dei credenti musulmani. Un’altra interpretazione dell’Islam è dunque possibile. E infatti in Stati diversi sono state date letture diverse, anche opposte, dei suoi princìpi fondamentali. In ognuno, la condizione delle donne cambia: in Marocco, Algeria o Tunisia è molto differente rispetto all’Arabia Saudita, allo Yemen e agli Stati del Golfo. Il Pakistan ha avuto persino un primo ministro donna, e in Iran il presidente liberale Khatami aveva nominato una vicepresidente. Per non parlare della legione di donne d’affari musulmane, una realtà moderna che però si affianca a usanze arcaiche come i matrimoni forzati delle bambine, i delitti d’onore, la mutilazione genitale e la segregazione sessuale.

Ma la Sharia, la legge islamica codificata da secoli in favore dei maschi, presto lavorerà in favore delle donne per una società più egualitaria, assicurano le giuriste che si stanno formando nelle università dove si studia il Corano. Il loro raffinato lavoro di esegesi si concentra naturalmente soprattutto su alcune aree del diritto, non a caso sempre utilizzate per additare l’Islam come religione oppressiva e retrograda: le donne devono sempre obbedire; ereditano la metà rispetto a un uomo; la loro testimonianza in tribunale conta la metà; nel divorzio e nell’affidamento dei figli sono discriminate. In questi campi gli abusi avvelenano la vita quotidiana ed è qui che le «femministe» conducono una sofisticata battaglia filologica, versetto per versetto, per contrastare le interpretazioni più maschiliste e volgere i passaggi ambigui a proprio favore. L’impresa non è facile: l’arabo, in cui è scritto il Corano, non è la lingua madre per molte musulmane ed è molto complesso e ricco di sfumature. Per esempio: è vero che secondo il Libro sacro il marito può picchiare la moglie? In realtà, il termine idribuhunna, che nella sura 4, versetto 34, indica l’ultimo stadio del diverbio coniugale, potrebbe significare sia «picchiare» sia «allontanare». Basterebbe adottare quest’ultima lettura per offrire più tutela alle vittime dalle violenze in famiglia. Oggi le «femministe» invitano le «sorelle» a uscire da secoli di ignoranza del Corano e riscoprirlo come mezzo di emancipazione. Il messaggio di uguaglianza del Profeta, che garantisce loro diritti e libertà, è diventato l’arma principale della loro offensiva. Vogliono cambiare con l’Islam, non contro l’Islam. La sura 9, versetto 71, sancisce l’alleanza tra uomini e donne anche nel campo delle decisioni pubbliche: «Ma i credenti e le credenti sono l’uno l’altro amici e fratelli, invitano ad atti lodevoli e gli atti biasimevoli sconsigliano, e compiono la Preghiera e pagano la Decima e obbediscono a Dio e al Suo Messaggero». Anche secondo l’ultimo rapporto dell’Undp, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo, il problema non è la religione musulmana ma l’immobilismo politico, le guerre e la dominazione maschile. «L’ascesa delle donne è il requisito fondamentale per un nuovo Rinascimento arabo» conclude il rapporto. Il futuro, anche economico, è nelle loro mani: non si può pensare di creare progresso e ricchezza escludendo dai processi politici e produttivi metà della società. E oggi, da sole o in gruppo, organizzate o spontanee, povere o ricche, le donne hanno cominciato una nuova battaglia, una «nuova jihad». Parola usata e abusata, sempre più spesso sinonimo solo di violenza e fanatismo branditi in nome della religione. Ma nei testi sacri islamici il suo significato è molto chiaro: lotta contro l’oppressione, guerra di liberazione, riconosciuta dal Corano come un dovere per ogni buon musulmano. E, cosa ancora più importante, eccezionale sforzo di perfezionamento individuale, per la conquista del sapere, per la rettitudine morale e il ritorno alla spiritualità. È questa jihad rosa, declinata al femminile, che voglio raccontare, attraverso le testimonianze delle «figlie dell’Islam» che la combattono. Si tratta di una campagna pacifica, dove le nuove Sherazade avanzano a mani nude, armate di determinazione, valore e intelligenza. La conducono per se stesse, ma dal suo risultato dipenderà la natura del mondo in cui vivremo.

CAPITOLO 1 IL DIAVOLO E IL VELO

«M I CHIAMO JASMINE.» Mi trovo nell’Ufficio islamico di assistenza del quartiere di Balsall Heath, alla periferia di Birmingham. Qui convergono donne in cerca di consigli e aiuto su tutti gli aspetti della vita: la salute, il lavoro, la famiglia. Jasmine, snella ed elegante, indossa jeans attillati e una maglia che le disegna il busto slanciato. Il suo bel viso dalla pelle olivastra e dai grandi occhi scuri è incorniciato da un foulard di un azzurro intenso. È inglese e la sua famiglia è di origine pakistana. Ha appena compiuto trentasei anni. Quando ne aveva diciotto, il padre le presentò un ragazzo, un cugino, annunciandole che sarebbe diventato suo marito. Era la prima volta che lo vedeva. «Non gli avevo mai parlato.» Non seppe rifiutare. Iniziò così il suo calvario. Il marito, molto conservatore, le impose subito di indossare il niqab, il lungo velo nero che copre le donne dalla testa ai piedi, lasciando scoperti solo gli occhi. Ovviamente le proibì di continuare gli studi e di cercarsi un lavoro. La coppia non ha mai avuto figli, come se il corpo di Jasmine si rifiutasse di portare in grembo il frutto di quell’unione tanto detestata. Usciva raramente, e non aveva nessuno con cui condividere il suo inferno, durato quindici anni. Fino a quando lei ha deciso che non poteva più sopportare una vita troppo simile alla morte. Tre anni fa, Jasmine è tornata dalla sua famiglia e ha supplicato il padre di chiedere il divorzio e di riprenderla in casa. «All’inizio lui ha rifiutato» ricorda la giovane donna, e i suoi grandi occhi si velano di lacrime. «Per lui era impensabile.» Ma era troppo disperata. «Mi ha vista piangere tutti i giorni per due anni» dice, e la sua voce non tradisce nessuna traccia di collera. Alla fine il padre capisce e accetta: verrà «divorziata» come è stata «sposata» e potrà anche riprendere gli studi. Oggi Jasmine è consulente per l’orientamento professionale e il suo destino è cambiato: «Sto imparando di nuovo a vivere» sospira. Purtroppo dopo il divorzio il padre si è ammalato. «Solo sul letto di morte mi ha chiesto perdono. Perdono per avermi costretta a sposare un uomo che non amavo.» La storia di Jasmine non è un caso isolato. In Gran Bretagna, ma anche in Francia, in Italia e in altri Paesi del Vecchio Continente, i racconti di soprusi e violenze accompagnano regolarmente il dibattito sulla compatibilità tra Islam e democrazia e sull’integrazione dei musulmani europei. E viene naturale porsi una domanda venata di indignazione: come è possibile che in società moderne, liberali, ricche, le giovani donne siano vittime di pratiche tanto retrograde? Che subiscano in questo modo la legge degli uomini? In nome di quale superiorità o di quale fatalità storica? La religione, le tradizioni: tutto viene invocato per spiegare, e addirittura giustificare, usanze inaccettabili. «Ciascuno si porta dietro la propria cultura, che sia nato qui o in Pakistan» mi dice Jasmine, come a voler scusare il genitore. Ovviamente non è così semplice. In Europa la presenza di forti comunità musulmane costituisce un problema complesso dalle molte variabili economiche e sociali. È anche una sfida politica, esasperata dalle emergenze dei clandestini e dalle controverse trattative sull’ingresso della Turchia nell’Unione. Tendono a prevalere toni emotivi fino all’isteria quando si toccano temi come la lotta al terrorismo o la difesa delle libertà individuali. Basta pensare alle furiose polemiche scatenate ovunque dai molti dibattiti sull’hijab, il velo che copre solo il capo, e sull’abbigliamento delle musulmane. Per il mio viaggio nell’universo delle donne nell’Islam, la Gran Bretagna è un punto di partenza quasi obbligato. Questo Paese tollerante ha rappresentato per molto tempo un porto per tutte le fedi e per tutte le sensibilità bandite da altri orizzonti. Gli oppositori politici del mondo arabo, in particolare di credo islamico, vi hanno trovato un rifugio e una piattaforma da cui continuare la loro azione. E non è certo un caso che un quartiere di Londra, a maggioranza musulmana, sia stato battezzato «Londonstan». Terra di accoglienza e luogo di coabitazione, il Regno Unito sembra essere stato capace di integrare pacificamente le sue diverse etnie. O quantomeno godeva di questa reputazione, fino al 7 luglio 2005. Quel giorno una serie di attentati a Londra ha fatto 52 vittime: per gli inglesi ormai il 7/7 è un giorno nero, come per gli americani il 9/11. Scoprire che dei giovani, seguaci del Profeta ma perfettamente assimilati nella società liberale e cosmopolita della

capitale, potevano trasformarsi in bombe umane è stato uno shock. La nazione ha dovuto affrontare un brusco risveglio. L’elemento scatenante della violenza terroristica, si è subito osservato, sono state le scelte politiche della squadra di Tony Blair: l’avventura americana in Iraq e lo scarso impegno sul fronte israelo-palestinese hanno alimentato la frustrazione e la collera di una comunità islamica che non può non sentirsi solidale con i suoi fratelli di fede.

Mio marito Jacques e io siamo atterrati all’aeroporto di Birmingham sotto un cielo basso e grigio. Pioverà per tutti e tre i giorni della nostra permanenza nel capoluogo delle West Midlands. Abbiamo sorvolato tipiche periferie di casette in mattoni a vista e dai tetti di ardesia, allineate a disegnare figure geometriche sul tappeto verde della campagna. Osservando dall’alto, niente tradisce la presenza di quella che rimarrà ancora per poco una minoranza musulmana e a fatica, durante l’atterraggio, sono riuscita a scorgere all’orizzonte il minareto e la cupola di una moschea. Birmingham è stata, a cavallo tra Ottocento e Novecento, la capitale della rivoluzione industriale. Si trovava nel cuore del «Paese nero», la regione inglese delle industrie pesanti, nate dall’unione dei settori minerari del ferro e del carbone. Da allora ha saputo riconvertirsi al terziario: qui si sono trasferiti in massa banche, compagnie di assicurazione e oltre 300 studi legali. Conta più di un milione di abitanti, di cui quasi un terzo di colore, non-white (non bianchi). Ospita un mosaico di culture: indiani, pakistani, bengalesi, ma anche africani e arabi. È l’immagine fedele di una nazione che ha accolto due milioni e mezzo di persone dopo che Londra si è liberata dell’Impero coloniale. Stando alle previsioni demografiche, Birmingham diventerà la prima città europea con una popolazione a maggioranza non-white. Mentre ci porta in centro, il nostro tassista, Muhammad Zabar, ha voglia di chiacchierare. Originario di Islamabad, vive qui da trentacinque anni, frequenta la moschea solo di tanto in tanto e pensa che si possa vivere nel rispetto di una religione pur senza essere un fervente praticante. Non gli piacciono gli estremisti e secondo lui stanno arrivando anche qui. A fine gennaio 2007 è stato arrestato un gruppo di giovani cittadini britannici di origine pakistana, con l’accusa di cospirazione terroristica. Secondo gli inquirenti, progettavano di rapire, torturare e decapitare un soldato musulmano dell’esercito della Corona, appena tornato dal servizio in Afghanistan. Avrebbero poi pubblicato su Internet un video con la registrazione dell’esecuzione per imitare, secondo la polizia, i jihadisti iracheni. Il 16 settembre 2004 infatti il sessantaduenne inglese Kenneth Bigley era stato rapito a Baghdad e la sua decapitazione, tre settimane dopo, era stata filmata e messa on-line. Muhammad è scettico: «Qui i ragazzi parlano molto, ma parlano e basta. Passare all’azione è un’altra cosa». Gli chiedo cosa pensa del velo: «Assurdo» mi risponde. «Quando una persona si copre, nasconde la propria identità. Se le donne vogliono portarlo, hanno il diritto di farlo, ma solo gli uomini insicuri pretendono che si coprano dalla testa ai piedi. Pensano: “Se mia moglie si vela nessuno la potrà guardare”. Ma chi impedirà alle donne di guardare?»

Nina Gill, la mia spumeggiante amica del Parlamento europeo, è una degli eletti laburisti di Birmingham. È una piccoletta dai capelli scuri, lo spirito vivace e la risata facile. Dopo la separazione dal marito cattolico di origine italiana sta crescendo un ragazzone che le dà parecchi grattacapi. «Ha trovato una fidanzata musulmana che lo vuole a tutti i costi convertire. Come se non bastasse, si lascia coinvolgere troppo dalle prediche infuocate degli imam» si lamenta con me. «Li reclutano nelle università e loro si lasciano affascinare.»

Nina è di origine indiana e di etnia sikh, la sua famiglia proviene da Bangalore. È laica ma si interroga, come me, sulla necessità di avere oggi un approccio più aperto alla crescente dimensione religiosa delle nostre società. E per cercare qualche risposta, decidiamo di andare alla moschea. Un minareto dalla punta verde svetta tra i villini di mattoni rossi a un incrocio del quartiere di Small Heath: un tocco di esotismo in un panorama che trasuda conformismo. L’elegante torre domina la moschea di Ghamkol Sharif e le due cupole di ardesia nera. Un grande striscione verde accoglie i credenti che affluiscono per la funzione del venerdì in uno dei più grandi luoghi di culto islamico europei. Jacques e io siamo in compagnia di Nina e di Mahmud Ahmed, membro del consiglio comunale della città. Cinquant’anni ben portati, elegante nel suo abito grigio, cravatta a righe e cappotto di cashmere blu, è l’immagine del pakistano perfettamente integrato. Arrivato in Gran Bretagna a quattordici anni, oggi è ingegnere, marito e padre di quattro figli, oltre che un membro attivo del Partito laburista di Tony Blair. Farà gentilmente da guida a Jacques, mentre noi seguiremo la predica dalla zona riservata alle donne. Mi fermo sulla spianata antistante a osservare i fedeli, soli o con le famiglie. Prevalgono gli abiti tradizionali: lunghi vestiti per le signore, tutte con il capo coperto da un velo leggero, e per gli uomini pantaloni ampi, casacche che arrivano fino alle ginocchia, zucchetti bianchi in testa. Una stretta scala conduce al primo piano, su un mezzanino dove pregano le donne mentre i maschi occupano il piano terra. Ci togliamo le scarpe e ci sediamo per terra, in un frusciare di stoffe e in un brusio di frasi sussurrate. Siamo isolate da vetri scorrevoli, coperti da tende che scosterò appena per vedere cosa succede di sotto. Le mie compagne indossano tuniche e hijab colorati. Ci rifugiamo in una saletta per chiacchierare tranquillamente, mentre dagli altoparlanti rimbomba la voce dell’imam. La figlia di Mahmud si è seduta accanto a me. Si chiama Shabara e ha ventisei anni. È avvocato e si definisce «inglese al cento per cento». Accanto a lei, c’è la cugina, Tiyaba: ha vent’anni e studia per diventare insegnante. Cominciamo a conversare a bassa voce, con le madri che ogni tanto intervengono in urdu, tradotte per me dalle figlie. «In generale, non porto l’hijab» mi spiega Shabara «eccetto quando vengo qui. Un po’ come le donne cattoliche che si coprivano la testa per entrare in chiesa. Ma oggi» aggiunge «le ragazze sono sempre più convinte che per essere buone musulmane si debba per forza fare determinate cose, come indossare il foulard o rinunciare al profumo perché contiene alcol. Io non ho di questi problemi. So di poter seguire la mia religione anche senza osservare tutti questi precetti.» La giovane Tiyaba, ammantata in un velo nero, mi sembra un po’ più confusa: «Ho iniziato a portare l’hijab a diciotto anni, perché volevo praticare meglio l’Islam». Con un po’ di esitazione, aggiunge: «Gli hadith» ovvero i discorsi attribuiti al Profeta «dicono che se le donne non lo indossano, il diavolo urinerà sulle loro teste il giorno del Giudizio». Sono sbalordita. E anche Shabara, che non riesce a trattenere una risata: «Com’è possibile che una ragazza come te creda a una simile sciocchezza?». Interviene la madre: «Lo hanno detto in televisione, che una donna era posseduta dal demonio perché non si copriva». Per Shabara la soluzione è una sola: «Vede, è tutta una questione di educazione. Le donne devono studiare e interpretare il Corano per capire che il Profeta non voleva sottometterle, ma anzi promuoveva i loro diritti. Sono gli uomini che vogliono tenerci nell’ignoranza, perché pretendono di controllare tutto, noi comprese». Tiyaba ammette che la scelta del velo non è stata spontanea, ma sollecitata da alcuni gruppi di fondamentalisti all’università. «Ci sono molti wahhabiti e noi non conosciamo il Corano abbastanza bene per poterli contrastare» confessa. «Organizzano seminari per spiegare la parola di Dio, ma ci danno la loro versione che è la più retrograda.» I wahhabiti sono il movimento islamico più conservatore: fedele alle tradizioni, dogmatico e a volte violento, è intransigente nella difesa di quella che ritiene la sola e unica lettura del testo sacro dell’Islam. E come in qualunque

fondamentalismo, il controllo del corpo femminile è quasi un’ossessione. Chiedo allora alle due ragazze cosa sanno del femminismo occidentale e cosa pensano della libertà sessuale che ha rivendicato. «Secondo il Corano la verginità è un obbligo non solo per le donne, ma anche per gli uomini» assicura Tiyaba. «Nella coppia prima viene l’impegno dei sentimenti e solo dopo quello sessuale.» Shabara mi dà una risposta più pragmatica: «La religione non deve imporre obblighi né giudizi, solo Dio sa cosa c’è nel tuo cuore». Però tutte e due sono d’accordo nel condannare la poligamia, che in Gran Bretagna ovviamente è vietata. E d’altro canto in tutta Europa non troverei una sola donna disposta a difenderla, anche se viene presentata come una tradizione autorizzata dal Libro sacro: «Ma le ragioni sociali e culturali che la giustificavano nel VII secolo oggi non sussistono più» spiega Shabara. Per un po’ ascoltiamo la celebrazione. Guardo attraverso uno spiraglio della tenda e mi chiedo quanti di questi uomini siano d’accordo con noi. Osservo le movenze dei fedeli che si sistemano sulla moquette rossa, dove all’inizio ognuno prega individualmente e compie le genuflessioni rituali secondo il proprio ritmo. Poi l’imam prende la parola, in un misto di inglese e urdu. «Parla dei compagni del Profeta» traduce per me Shabara «e del loro messaggio, del bisogno di solidarietà e di tolleranza.» Seduti a gambe incrociate, appoggiati alle pareti, sembrano ascoltare distrattamente, ma al culmine di questa giornata dedicata alla fede la scena cambia. Gli uomini, finora sparpagliati, si raccolgono intorno al minbar, il pulpito, allineati spalla contro spalla, in file da 50. Sembra che serrino i ranghi, in un movimento che esprime l’unità della comunità intorno alle parole del capo. La loro ordinata disciplina contrasta in modo stridente con la confusione e l’esuberanza che i nostri luoghi comuni attribuiscono all’Oriente. Tutti i gesti vengono compiuti all’unisono e il pavimento vibra quando si inginocchiano in silenzio. Un rumore simile a un sordo, lontano rullo di tamburo.

Una città come Birmingham rispecchia tutti i temi caldi dell’immigrazione, che influenzano anche il dibattito sulla questione femminile: il terrorismo, inevitabile contesto di qualunque riflessione sull’Islam dopo l’11 settembre 2001; la guerra in Iraq, ferita aperta che nessuno sa rimarginare; l’autodifesa che spinge sia i cristiani sia i musulmani a richiudersi su se stessi; e infine la crescita demografica che aumenta la paura di un’islamizzazione del Vecchio Continente. Ma l’Islam è una dimensione dell’Europa da cui non si può prescindere, sia che ci lasci indifferenti, che ci spaventi o che riusciamo ad accettarlo. Il processo di decolonizzazione, il bisogno di manodopera, la nostra ricchezza, le attrattive di sistemi politici più stabili, liberi e democratici, sono tutti motivi che continuano a portare verso l’Occidente generazioni di immigrati alla ricerca di una vita migliore. Così è nata l’America e così sta cambiando oggi l’Europa. Parallelamente, neppure l’Islam può più prescindere dalla straordinaria esperienza democratica europea, in cui lo Stato di diritto – con tutti i suoi limiti, paradossi e contraddizioni – è un costante stimolo al cambiamento. È in questo che sbagliano i pessimisti e gli allarmisti, che agitano lo spauracchio del pericolo musulmano. Perché vedere nel dinamismo della religione di Maometto soltanto un pericolo, e non anche un’opportunità per riaffermare i concetti che hanno fatto la forza del modello europeo? «I musulmani vogliono integrarsi nella società occidentale, ma sentono di essere considerati estremisti. In queste condizioni i giovani possono subire il fascino del fondamentalismo» esordisce, preoccupata, Salma Yaqoob. È stata indicata come una delle trenta donne più influenti del Regno Unito. È l’unica musulmana a sedere nel consiglio comunale di Birmingham. Eletta nel 2006 come capolista del partito Respect, che la annovera tra i fondatori, è l’esponente di punta della battaglia politica per un Islam europeo. L’ho vista per la prima volta in un dibattito sulla Bbc e mi avevano colpita, oltre al bel viso e all’elegante hijab, la sua dialettica e la sua autorevolezza. La sfida di

Salma è inserire le rivendicazioni dei diritti delle donne e dei musulmani in un discorso più ambizioso di lotta contro le disuguaglianze economiche e sociali. «Vogliamo ispirare un vero cambiamento, che porti più democrazia e più giustizia per tutti» mi dice. Salma è inglese di origine pakistana, nata in una famiglia tradizionalista. In gioventù ha pensato di convertirsi al Cristianesimo, ma poi ha deciso che la Bibbia è meno attenta del Corano ai diritti femminili, e a diciotto anni ha cominciato a portare il velo. Quando la incontro indossa un foulard blu che mette in risalto i lineamenti fini e i suoi occhi neri sostengono senza esitazioni lo sguardo dell’interlocutore. A trentasei anni è madre di tre bambini e lavora come psicoterapeuta dell’adolescenza. Nessuno le ha imposto di coprirsi il capo: «Sono stata io a prendere questa decisione. Ma se fossi vissuta in Arabia Saudita, credo che avrei fatto di tutto per non portarlo!» aggiunge, ridendo. «L’Islam permette di rifiutare, di accettare, di fare le proprie esperienze» continua. «La religione è un’arma che si può persino usare per sfidare l’autorità dei genitori. Al contrario di certe famiglie, infatti, non vieta alle ragazze di andare a scuola, di uscire di casa e di trovarsi un lavoro.» La vita di Salma, come di molti altri della sua stessa fede, è cambiata dopo l’11 settembre. «Mi sono sentita chiamata in causa come musulmana, ma anche come cittadina britannica. Quando poi Blair ha deciso di unirsi alla “crociata” irachena di Bush ho aderito al movimento che si opponeva al conflitto. La stampa non diceva la verità, i politici nemmeno, dovevamo farlo noi.» Il movimento pacifista, molto dinamico in Gran Bretagna, il 15 febbraio 2003 radunò nelle strade di Londra oltre un milione di persone. Purtroppo invano. Paradossalmente, sottolinea Yaqoob, i suoi correligionari a Birmingham sono stati i più restii a mobilitarsi, forse perché temevano di essere considerati traditori o complici dei terroristi. «Sono tentati dalla neutralità, preferiscono non “smuovere le acque”. Abbiamo dovuto batterci su tutti i fronti: contro la politica del governo, contro il modo in cui vengono presentati i musulmani e contro gli estremisti tra noi.» Secondo lei, una parte del problema è proprio la mancanza di competenza politica e anche religiosa nel principale luogo in cui i musulmani esprimono la propria identità: la moschea. «Non dobbiamo ridurre il peso della politica nelle moschee, anzi dobbiamo accrescerlo, ma con imam che sappiano quello che dicono.»

«Mi piace Salma Yaqoob perché ha capito che la questione femminile è inserita in un panorama più ampio: la lotta contro un sistema che genera ingiustizia, non solo verso le donne ma verso la maggioranza dei cittadini.» Sono le parole di uno degli intellettuali più controversi del mondo musulmano: Tariq Ramadan. Lo incontro a Londra alla British Library. La grande hall ultramoderna è immersa in un’atmosfera di studio: chi prende appunti, chi digita sui tasti del computer portatile, chi semplicemente legge. Il silenzio regna sovrano sotto la volta di questa specie di cattedrale dall’architettura avveniristica. Sulla torreggiante struttura in legno scuro e vetro sono allineati libroni rilegati in cuoio, centinaia di opere antiche, manoscritti di cui immagino le pagine ingiallite. È la collezione di re Giorgio III, donata al Paese dal suo successore. Oggi sembra custodire un legame simbolico tra passato e futuro. Volto dai lineamenti fini, carnagione olivastra, occhi intelligenti, una corona di barba appena accennata: ecco dunque l’uomo che gli americani temono e che alcuni in Europa vorrebbero ridurre al silenzio. Tariq Ramadan è nato in Svizzera quarantacinque anni fa e può vantare un antenato illustre: è nipote per parte di madre di Hassan alBanna, che nel 1928 fondò in Egitto i Fratelli musulmani, divenuti in poco tempo la più influente organizzazione islamista mondiale, con milioni di affiliati. Alcuni considerano Ramadan un apologeta del terrorismo, altri l’apostolo di una pacifica convivenza tra Europa e Islam. Gli Stati Uniti gli hanno negato il visto di soggiorno adducendo come pretesto alcune sue donazioni a enti

caritativi legati ad Hamas, il partito estremista palestinese che molti governi occidentali hanno inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ramadan non ha mai negato di aver fatto donazioni – per un totale di 940 dollari – a due associazioni palestinesi, ma ha sempre precisato che i suoi contributi risalivano al periodo 1998-2002, quando i destinatari della sua generosità non erano ancora nella lista nera. Non fa mistero della sua lettura politica del Corano, che secondo lui mette in discussione le basi stesse del sistema capitalistico, capace di svilupparsi solo tollerando l’ingiustizia. «L’Islam sarebbe dunque marxista?» gli chiede Jacques ridendo. «Come dico spesso, Marx è stato seppellito troppo presto» è la risposta. Ma Tariq respinge l’accusa di essere un pericoloso estremista che inciterebbe alla rivolta le comunità musulmane nel Vecchio Continente. Sostiene che sono composte da cittadini a tutti gli effetti e reclama il diritto di «essere un musulmano europeo». «Linguaggio ambiguo» replicano i suoi critici. Secondo loro, è e rimane un islamista, incapace di proporre una reale apertura alla cultura politica democratica. «L’Islam è un’ideologia di contestazione dell’ordine costituito. La strategia usata da chi vuole contrastarlo è farne un pensiero nemico, radicalmente estraneo al mondo occidentale e ai suoi valori. Ma i regimi dittatoriali e retrogradi del mondo arabo strenuamente appoggiati dai governi occidentali non perseguono certo i valori democratici. Hanno tutto l’interesse a mantenere lo status quo.» Secondo Ramadan, occorre tornare ai testi sacri per far avanzare la battaglia delle donne. «La questione femminile è centrale per l’apertura politica» continua. «Le donne sono protagoniste del processo di adattamento delle tradizioni alle esigenze della modernità, dal matrimonio combinato al velo. Le riformano dall’interno» assicura. «Come Salma Yaqoob che non rinuncia a nessuno dei suoi due mondi: la cultura che le appartiene per nascita e quella inglese per adozione. È questa la novità del suo messaggio.»

Insieme a Nina decido di passare la serata con un gruppo di giovani donne in una scuola alla periferia di Birmingham. Sono state riunite da un amico, Wahid, che conosce bene la ex primo ministro del Pakistan Benazir Bhutto, prima donna eletta premier di un Paese musulmano, all’età di trentacinque anni. Tra il dicembre del 1988 e l’agosto del 1990, ricoprì questa carica prima di essere destituita su pressione dei militari. Il suo è l’esempio tipico di un percorso democratico boicottato da un sistema patriarcale e reazionario. Prendiamo posto intorno a un grande tavolo e Nina chiede alle ragazze di presentarsi. Alcune sono venute con i figli. Esamino i volti che mi circondano. Se cercavo la diversità, l’ho trovata: di una vedo solo gli occhi perché è coperta dal niqab; altre portano hijab neri o colorati; una è a capo scoperto. Sono studentesse, impiegate, insegnanti; sposate o nubili. A conferma che l’Islam declinato al femminile è vario, molteplice, pluralista. «In Occidente spesso le immigrate che indossano il velo sono considerate vittime dell’oppressione maschile. Voi cosa ne pensate?» Appena l’ho formulata mi rendo conto che la mia domanda è provocatoria. L’espressione che si disegna sulle loro facce mi dice che non ho utilizzato i termini giusti. Si mettono subito sulla difensiva. «Noi siamo inglesi!» risponde una di loro. «Siamo nate tutte qui e siamo musulmane britanniche.» Giusto: quando non vengono maneggiate con cautela le parole, come le idee, possono essere pericolose. Sono partita con il piede sbagliato e per tutta la serata mi sarà difficile cancellare quel passo falso. Eppure nessuno più di me è convinto che bisogna vincere la paura della differenza e abituarsi a un mondo dove i volti non devono per forza essere tutti bianchi. «L’Islam è contrario all’oppressione. Ci insegna che non devono esserci costrizioni nella religione» mi ripetono le ragazze. Quella che indossa il niqab espone un ragionamento chiarissimo: «Non voglio essere considerata un oggetto sessuale quando incontro uomini sconosciuti. Indossare il velo per me è una liberazione». Le faccio notare

che in Occidente l’emancipazione femminile è passata attraverso la rivoluzione sessuale, l’autodeterminazione, la libera scelta se coprire o meno il proprio corpo. Mi risponde che le donne occidentali non possono capire il senso di libertà e protezione offerto dal velo, perché non lo portano. «Ma se una donna crede nell’Islam, deve portarlo. L’Islam è un atto di sottomissione a Dio e a Lui solo. È un impegno individuale e io ho scelto di adempierlo indossando il niqab.» Alcune annuiscono, incluse quelle che hanno il capo coperto solo da un foulard. Altre puntualizzano che bisogna comunque avere la libertà di scegliere. «Nessuno me lo ha imposto. Mi vesto come voglio» continua la ragazza, e gli occhi le brillano. Nessuna si ribella però all’idea che possa intervenire la legge a regolarne l’uso nei luoghi pubblici: «Dobbiamo accettare le norme del nostro Paese». I bambini ciarlano o piangono intorno a noi; le tazze di tè si riempiono e si svuotano; Jacques prende appunti seduto in un angolo. Le donne sono del tutto disposte a farlo partecipare alla discussione ma lui, forse intimidito dai nostri toni accesi, preferisce rifugiarsi nel ruolo più neutrale di scrivano diligente. Ora però l’atmosfera si è fatta più amichevole. Nella piccola aula di periferia le idee fluiscono inarrestabili. Mi sembra di essere tornata agli anni Settanta, alle discussioni appassionate sui destini del mondo. Era l’epoca delle ideologie radicali e dei grandi idealismi. Oggi molti vorrebbero assistere a una nuova guerra di religione: Islam contro Cristianesimo, Oriente contro Occidente, Maometto contro Gesù. Che grande errore. Ascoltando queste giovani inglesi capisco quanto siano lontane da uno scontro di civiltà. Le loro preoccupazioni sono concrete, ancorate in una realtà quotidiana spesso difficile: «Il vero problema delle donne è la mancanza di istruzione. In Pakistan praticamente non esiste. In Arabia Saudita è una conquista recentissima. Eppure il Corano insegna che deve essere accessibile a tutti. Ma anche da parte vostra c’è una grande ignoranza: i media presentano l’Islam come una forza diabolica, il cui unico obiettivo sarebbe la conquista del mondo». È la ragazza con il niqab a dar voce al giudizio più rivoluzionario: «Mi sento più libera di praticare l’Islam qui, in Inghilterra, che in un Paese musulmano». Questa formidabile professione di fede in una democrazia forte e aperta, capace di accettare la sfida della differenza, è la prima dichiarazione della «nuova jihad».

CAPITOLO 2 IL MARTIRIO DI ASMAA I GIARDINI DELL’HOTEL MARRIOTT, al Cairo, sono un’isola di pace nel cuore di una delle città più caotiche del mondo. Di buon mattino, addetti in uniforme annaffiano i prati e le aiuole fiorite e spazzano i vialetti per togliere la sabbia portata dal vento notturno. Il sole che sale nel cielo a poco a poco arriva a illuminare persino gli angoli più nascosti di quest’oasi di lusso. Gli uccellini cinguettano giocando nella rugiada e i gatti danno la caccia alle farfalle. I primi bagnanti nuotano nelle acque azzurre della piscina sempre aperta. I tavolini sulle terrazze e sotto i porticati cominciano a riempirsi: turisti, uomini d’affari, diplomatici. Con un po’ di immaginazione si potrebbero aggiungere alla lista spie, agenti segreti e trafficanti d’armi. Senza di loro il Medio

Oriente non sarebbe quello che è, né lo sarebbe il Cairo, la mitica capitale del più popoloso dei Paesi arabi, che da sempre raccoglie mendicanti, poeti e principi. Per tutto il giorno e fino a tarda notte i camerieri e le cameriere in gilet giallo nei vari ristoranti dell’albergo si produrranno in giochi di destrezza tra piatti e bicchieri. Intanto le conversazioni dei clienti coprono i rumori che salgono dalla metropoli, in un vero e proprio miscuglio di lingue: arabo, inglese, francese, italiano. I cellulari squillano, i computer portatili vengono aperti sui tavolini. Scende la sera e l’aria diventa più mite sull’isola di Zamalek, il quartiere residenziale, poi la notte si riempie del profumo dolciastro dei narghilè. Questo scrigno di verde sembra molto lontano dal trambusto cittadino. È racchiuso tra due alte torri moderne, che ospitano centinaia di camere, e l’ottocentesco al-Gezira Palace, fino al 1879 residenza reale, che con la sua facciata elaborata funge da ingresso dell’hotel. Oltre i cancelli scorre il Nilo, placido e immutabile. L’immenso fiume, che da migliaia di anni scandisce la vita dell’Egitto e incarna con le sue piene la buona sorte, scintilla sotto i neon dei locali e dei barconi carichi di nottambuli. E nell’afa delle serate estive, i milioni di abitanti ammassati nella capitale egiziana si rivolgono alla Provvidenza per sperare in giorni migliori.

È già notte quando in un angolo del giardino del Marriott incontro Asmaa. Si è seduta a un tavolino appartato, lontano da orecchie indiscrete, con la sua amica Dalia. Asmaa è una ragazza di venticinque anni, alta e snella, con una invidiabile carnagione olivastra e un viso minuto ed elegante, occhi nocciola e naso piccolo. Indossa un tailleur color tabacco, con la giacca lunga e un foulard della stessa tonalità. Dalia, che parla inglese, le traduce le mie domande e Asmaa risponde in arabo. «Ti ricordi quel giorno? Non è stato il più nero della tua vita?» «Vuoi dire il giorno più rosso della mia vita» ribatte Asmaa, senza sorridere. «Non ho mai visto tanto sangue.» Ha gli occhi asciutti e la voce è brusca. Sento la rabbia che monta dentro di lei, mentre mi racconta una delle storie più strazianti che mi sia capitato di ascoltare nella mia lunga carriera di giornalista. «Avevo quattro anni quando una mattina mi presero insieme a una dozzina di bambine del villaggio e ci portarono da una mammana. Nessuno ci aveva avvertito di quello che ci attendeva. Ma siccome ero la decima, capii che mi aspettava qualcosa di terribile: sentivo le grida atroci delle bambine che mi avevano preceduta. Quando venne il mio turno ero terrorizzata. Ci vollero tre donne per tenermi e per farmi stendere a terra. Mi allargarono le gambe a forza, poi arrivò la mammana con una lama di rasoio e cominciò a tagliarmi il clitoride.» Mi assale un’improvvisa nausea. Le parole di Asmaa sono così crude e dirette, il tono di Dalia che traduce così neutro che tutta la violenza del racconto mi esplode letteralmente in faccia. Sapevo delle mutilazioni genitali, ovviamente; avevo letto alcuni rapporti di organizzazioni internazionali che denunciavano la persistenza di questa tradizione e descrivevano le procedure. La meno traumatica è la circoncisione, cioè la rimozione del prepuzio clitorideo, mentre altre sono vere e proprie ferite permanenti: l’escissione, ovvero la recisione del clitoride, e l’infibulazione, cioè la recisione del clitoride e delle labbra e la chiusura quasi totale della vagina. Tuttavia non avevo mai avuto occasione di ascoltare nel racconto di una vittima tutti i dettagli di questa pratica incredibilmente violenta. Chi potrebbe pensare che in Egitto l’hanno subita milioni di donne? Che ogni anno decine di migliaia di bambine vengono ancora sottoposte a questa odiosa tortura? E proprio nella nazione che spesso viene presentata come un faro nella storia contemporanea del mondo arabo. Questo Paese ha dato vita, con Gamal Abd el-Nasser, a una forma di socialismo che sosteneva l’uguaglianza tra uomini e donne. E riceve finanziamenti dagli Stati Uniti e dall’Europa, dopo che ha firmato la pace con Israele durante la presidenza di Anwar al-Sadat. È una destinazione turistica scelta da otto milioni di visitatori l’anno, con le piramidi e la Sfinge di Giza, la valle dei Re a Luxor e i coralli del Mar Rosso. Quanti, tra gli stranieri seduti attorno a noi nei sereni giardini del Marriott, immaginano che il destino di intere generazioni di donne egiziane viene

straziato dalla lama insanguinata di un rasoio? «Devo ritenermi fortunata perché non ha utilizzato un coccio di bottiglia, come fanno tante altre» continua Asmaa. «Ho urlato per il dolore insopportabile, per il sangue che scorreva a fiumi. Ne perdevo tantissimo e le donne, per chiudere la ferita, hanno usato un pugno di erbe. Certe volte utilizzano ceneri calde o i fondi del caffè. Ho sanguinato per due giorni, e per settimane quando andavo in bagno avevo delle fitte tremende.» Mi ritengo un’occidentale priva di pregiudizi. Sono convinta che la giovinezza trascorsa in Alto Adige, provincia multiculturale, e un lavoro che mi ha portato ad attraversare il mondo mi abbiano aperto la mente. Ho imparato a rispettare le differenze, anche quando cozzavano contro il mio senso della morale, della giustizia o dell’estetica. Ma nulla potrà mai farmi accettare un crimine come quello della mutilazione genitale di bambine e adolescenti. Né la tolleranza culturale, né il diritto alla diversità, né il rispetto delle tradizioni. Non sono dogmatica, ma nel campo dei diritti umani non transigo. La mutilazione genitale è un delitto, chi la pratica è un criminale e chi fa finta di non vedere è un complice. «Tre delle donne che mi hanno mutilata sono morte, la quarta è ancora viva. Non sono mai riuscita a guardarle negli occhi, le odiavo troppo» continua Asmaa. «Almeno non ho contratto infezioni» aggiunge. «Ma spesso le bambine muoiono.» Si ferma un attimo per riprendere fiato. Non ne ha mai parlato con un’estranea. La mutilazione genitale è un argomento tabù in Egitto: le vittime si sentono umiliate, si vergognano. E rimangono in silenzio. La giovane donna dagli occhi nocciola seduta di fronte a me ha fatto un grosso sforzo. «Mi piacerebbe sapere cosa ne è stato di quel pezzetto della mia carne» mormora poi, come se parlasse di una parte di sé morta prima ancora che iniziasse la vita. Una ricchezza che le apparteneva e che le è stata strappata, di cui sentirà per sempre la mancanza. «Di solito avvolgono i clitoridi asportati in un fazzoletto di stoffa bianca e li sotterrano sulle rive del Nilo, perché il fiume è un simbolo di fertilità.» Asmaa è originaria di un villaggio di 5000 abitanti nella regione di Assuan, nel Sud dell’Egitto: Naga Wannass. Il padre era un contadino e la madre stava in casa. Tutte le sue quattro sorelle sono state mutilate, come pure tutte le donne della sua famiglia e tutte quelle del villaggio. È una pratica diffusa in 28 Paesi del mondo, principalmente in Africa, ma anche in Medio Oriente e in Asia. Le organizzazioni internazionali riferiscono che tra 100 e 140 milioni di vittime vengono mutilate ogni anno. In Egitto, stando ai dati dell’Unicef, il 97 per cento delle donne tra i quindici e i quarantanove anni ha subìto l’escissione o l’infibulazione. D’altra parte anche in Italia, sebbene sia difficile ottenere dati certi, il numero di bambine infibulate è stimato in circa 6000 l’anno. Anche se da noi, grazie alla «legge Consolo» approvata nel gennaio 2006, oggi questa pratica è riconosciuta come reato a sé, con pene più aspre che in precedenza. Dalia Mootaz, l’amica che ha accompagnato Asmaa, ha trentatré anni, è laureata in diritto e conduce un progetto che tenta di sradicare questa tradizione dai villaggi egiziani come Naga Wannass: il Fgm-Free Village Model (Fgm sta per Female genital mutilation). Le faccio notare che la percentuale registrata mi sembra enorme: se è esatta, ci troviamo di fronte a una vera carneficina. Mi assicura che il dato è confermato, ma la battaglia, iniziata venticinque anni fa, comincia a dare i primi frutti. Le cose stanno cambiando e nelle grandi città, come il Cairo o Alessandria, «solo» il 30 per cento delle bambine viene ancora sottoposto all’escissione. «Mia nonna è stata mutilata, ma mia madre no» mi dice per illustrare il progresso. Secondo lei è una questione di presa di coscienza. «È un problema di educazione, su cui si può lavorare soprattutto con campagne di stampa e in televisione. Il nostro successo è stato infrangere il tabù e aprire un dibattito pubblico sull’argomento.»

Esistono molti pretesti per giustificare una pratica che in Egitto risale a migliaia di anni fa. Al tempo dei faraoni le

bambine venivano escisse e l’orifizio vaginale veniva chiuso; ancora oggi questo sistema radicale di mutilazione si chiama «faraonico». Già all’epoca si trattava di garantire la verginità delle ragazze fino al giorno del loro matrimonio, quando le sventurate venivano letteralmente «aperte», a volte con la punta di un coltello, per consentire al marito di consumare l’unione. Col tempo si è diffusa maggiormente l’ablazione del clitoride, che dovrebbe assolvere la stessa funzione: privando le ragazze di una fonte di piacere, le famiglie garantiscono che il desiderio non le spingerà a concedersi a un uomo diverso dal futuro sposo. Un motivo in più per non cadere in tentazione. L’escissione viene presentata in modi diversi, a seconda dei casi: un rito di passaggio all’età adulta; una norma da rispettare se si vuole essere accettate nel proprio ambiente; un’affermazione di femminilità, poiché il clitoride assomiglia a un pene in miniatura ed è necessario asportarlo se una donna vuole essere veramente tale; un elemento di igiene intima, se si considerano le possibili infezioni sessuali. Alcuni religiosi musulmani, in particolare in Egitto, hanno assicurato che è prevista dalla legge divina. Il fatto che il Corano non vi faccia mai riferimento non sembra turbarli. Uno degli aspetti più sconvolgenti, e più perversi, di questo crimine organizzato è che le madri se ne rendano complici. Ne sono state vittime, ma sono disposte a far mutilare le proprie figlie pur di evitare che vengano considerate ragazze di facili costumi. «E anche le madri dei ragazzi fanno la loro parte» mi spiega Dalia. «Chiedono ai figli di verificare, prima di sposarsi, che le fidanzate siano state escisse secondo le regole.» Dopo aver visto in televisione un programma che denunciava queste pratiche, Asmaa ha chiesto spiegazioni alla madre: «Ha cercato di convincermi dicendo che era necessario per rendere le ragazze docili e riservate». Il padre invece non si pronunciava: «È roba da donne. Ma un giorno avrai una figlia e se non glielo farai fare vedremo se diventerà una ragazza onesta. Allora ne riparleremo» ha sentenziato lui alla fine. In realtà il problema è sempre lo stesso. Gli uomini pretendono spose pure e fedeli a costo di privarle di una parte della loro femminilità. La verginità è una vera e propria ossessione, altro che «L’utero è mio e lo gestisco io». Sono contraria al tipo di promiscuità sessuale senza limiti sbandierato dalla pornografia dei Paesi occidentali, ma lo sono altrettanto a questa campagna di castrazione che priva le donne del loro piacere. Asmaa oggi si batte nella sua regione per convincere le famiglie a rinunciare a quest’usanza. Nel suo stesso villaggio la battaglia all’inizio è stata difficile e soprattutto le donne si sono schierate contro di lei. «Mia madre dopo quattro anni ha ammesso di aver sbagliato.» Poco a poco ha convinto le sue coetanee e persino molti uomini. «Non sanno niente del corpo femminile. Quando insistono per sposare ragazze escisse, ignorano che si uniranno a donne incapaci di provare piacere.» Asmaa lotta anche contro la medicalizzazione della mutilazione genitale. In Egitto alcuni sostengono che dovrebbe essere praticata da un dottore invece che dalle mammane. Sempre più escissioni avvengono quindi in studi o in cliniche, in anestesia locale e in buone condizioni igieniche, così che la «paziente» possa ristabilirsi in fretta. Bisogna anche considerare che per legge l’escissione è proibita, eccetto nei casi in cui vi sia una necessità clinica. Che viene sempre invocata da chi vuole aggirare le norme. Ma una legge migliore potrebbe servire? «Sarebbe già un passo avanti, ma non basterebbe» afferma Asmaa. «È difficile andare contro la tradizione.» In regioni come la sua, ancora oggi le norme dello Stato hanno ben poca forza di fronte al peso delle consuetudini. Porta l’esempio di un giovane del suo villaggio che ha violentato una ragazza di ventidue anni, l’ha uccisa e ha gettato il cadavere nel Nilo. Il padre di lei ha scoperto l’assassino e l’ha ucciso; è stato condannato a solo sei mesi di arresti domiciliari e il paese ha applaudito al delitto d’onore. Chiedo a Dalia se la religione abbia un ruolo in queste tradizioni. Mi assicura che l’Islam non c’entra nulla però, aggiunge, non è difficile incontrare predicatori pronti a ingannare i fedeli più creduloni spacciando l’escissione per un obbligo di fede. Su un canale satellitare, Alness TV, uno sceicco ha dichiarato che è prevista da un hadith. Ha aggiunto che i ragazzi non dovrebbero prendere in moglie giovani non escisse, e tanto meno quelle che combattono

contro questa pratica. Asmaa mi confessa di non avere mai fatto l’amore e di non conoscere il piacere. Si domanda cosa succederà se mai un giorno dovesse sposarsi. «Sento di non essere completa. Mi manca qualcosa: togliere il clitoride non è come tagliarsi un’unghia» dice con un misto di sarcasmo e di disperazione. Azzardo l’argomento della masturbazione e lei lancia uno sguardo imbarazzato all’amica. Le due ragazze si scambiano qualche parola in arabo e alla fine Dalia le afferra la mano con un ampio sorriso e le dice: «Brava!». Per pudore, cambio argomento e chiedo ad Asmaa se ha un fidanzato: «No» mi risponde, e per il momento non ha intenzione di trovarsene uno. «Ma se un giorno dovessi sposarmi, lo farei scrivere nel contratto di matrimonio: mio marito non potrà mai pretendere che le sue figlie vengano circoncise.» Sull’amore dice semplicemente: «È come se provassi il desiderio nella testa e non tra le gambe. Poi ho paura, come tutte le donne mutilate: dato che sono frigida, temo che mio marito alla fine andrà a cercare una donna che non lo è».

CAPITOLO 3 SOTTO LA MASCHERA DEI FARAONI L A TESTIMONIANZA DI ASMAA è sconvolgente: è mai possibile il sacrificio di tante ragazze in un Paese come l’Egitto? La Storia ha le spalle larghe e anche i faraoni, ma il passato non può spiegare e giustificare tutto. Questo dovrebbe essere uno Stato arabo moderno, in cui le donne hanno partecipato attivamente alla rivoluzione nazionalista contro l’occupazione britannica nel 1919, hanno ottenuto il diritto di voto nel 1956 e hanno contribuito a fondare correnti progressiste sia laiche sia islamiche. Per me l’Egitto è un puzzle di immagini, ma nessuna rimanda a questo supplizio collettivo: i discorsi infiammati di Nasser, l’eroe di milioni di arabi; la crisi di Suez e la sfida lanciata alle potenze ex coloniali; Krusciov che inaugura nel 1964 la diga di Assuan; Sadat, primo capo di Stato arabo a tenere un discorso alla Knesset, il Parlamento israeliano, nel 1977; al-Azhar, la più antica università del mondo arabo; ma anche l’impareggiabile voce di Umm Khultum, la grande diva del Medio Oriente; i teneri e ironici melodrammi in bianco e nero girati al Cairo, la Hollywood egiziana; le ammalianti danzatrici del ventre, dalle forme morbide e sinuose. Ho sempre considerato l’Egitto la culla di un primordiale femminismo musulmano che ha cercato di coniugare il bisogno di emancipazione con gli obblighi e i limiti imposti dalla religione e da un rigido sistema patriarcale. Fu un giurista egiziano, Qasim Amin, a parlare per primo in difesa delle donne alla fine del XIX secolo, condannando gli uomini che le tenevano «prigioniere» tra le mura di casa. Già all’epoca considerava la loro istruzione la chiave di uno sviluppo armonioso della società. Secondo lui, il progresso della Umma poteva passare soltanto attraverso una radicale riforma della famiglia. Bisognava quindi abolire la segregazione, i veli troppo invadenti e ogni forma di lesione dell’integrità fisica. Leila Ahmed, nata al Cairo sessantasette anni fa, fu la prima a mettere in discussione la manipolazione maschilista del Corano da parte di generazioni di esegeti uomini. Fu lei a indagare le origini dell’uso strumentale dell’Islam a fini politici, incoraggiato dalle prime dinastie arabe che se ne servirono per imporre il loro dominio, sulle donne

come sui popoli conquistati. Leila denunciò anche la sedicente difesa dei diritti femminili da parte delle potenze coloniali: vi lesse una delegittimazione di tutto ciò che era arabo e musulmano attraverso una critica delle pratiche locali che ha provocato, tra l’altro, una reazione di segno contrario. Di fronte a quella che le società sottomesse vivevano come un’aggressione alla loro cultura, infatti, le donne si sono rifugiate nel rispetto ancora più rigido dei costumi identitari. Oggi Leila Ahmed vive negli Stati Uniti, vicino a Boston, dove la raggiungo per telefono. Insegna Women’s Studies and Religion ad Harvard: è la prima a occupare questa cattedra. Il suo primo saggio, Oltre il velo, il cui sottotitolo recita: La donna nell’Islam da Maometto agli ayatollah, è diventato un classico e oggi Ahmed è la più autorevole studiosa del ruolo della donna nello sviluppo storico del mondo islamico. Non posso non interrogarla sulle mutilazioni genitali. Nonostante il notevole lavoro di informazione e prevenzione in corso, le faccio notare, le cifre ufficiali sono davvero allarmanti. «È vero» concorda. «E sa che ultimamente è diffusa tanto tra i cristiani quanto tra i musulmani?» Forse, aggiunge, anche l’Occidente ha le sue colpe. «Da decenni le donne egiziane, ma anche le marocchine, si battono contro questa pratica. E il fatto che ancora una volta arrivino gli occidentali a dirti cosa devi fare diventa ancora più controproducente.» Leila non è stata mutilata. «Nessuna delle persone che ho conosciuto o con cui sono stata a scuola lo ha fatto. Cosa sta accadendo?» Mi sembra che uno dei fattori sia la crescente influenza della religione nella vita pubblica. «Sono d’accordo, quantomeno in questo momento. C’è stato un periodo in Egitto in cui andavamo verso la completa secolarizzazione e ora apparentemente ci muoviamo nella direzione opposta… Ormai sono convinta che niente duri molto a lungo. Ma vivendo in America, posso constatare che non è solo l’influenza dell’Islam ad aumentare. Qui questioni come l’aborto e il creazionismo stanno cambiando le leggi.» Le chiedo cosa pensa della questione del velo, che lei non indossa. «La mia reazione istintiva è che sia negativo. D’altro canto anche i cristiani e gli ebrei, proprio come i musulmani, lo portavano, era solo un capo d’abbigliamento tradizionale. Negli anni Cinquanta, in Egitto, era molto raro vedere qualcuno con l’hijab in città. Oggi se ne incontrano così tanti che il Cairo non lo riconosco più! Ho parlato con molte musulmane che lo indossano, qui in America, e sono giovani, a volte femministe impegnate, ma hanno combattuto con i genitori per poterlo mettere. Per loro è un modo di affermare che la nostra tradizione non è inferiore, che i vestiti occidentali non sono migliori, superiori o più emancipati. Si tratta quindi di un mutamento radicale, che cambia la storia.» L’hijab da emblema di tradizione a bandiera rivoluzionaria è un concetto davvero interessante. D’altro canto, appropriarsi dei simboli dell’oppressione e modificarne il significato è un buon modo per neutralizzarne il potere. E mi viene un pensiero provocatorio: quando un giorno uno dei nostri stilisti deciderà di lanciare la moda del velo, all’improvviso diminuirà la sua forza di vessillo del dominio maschile sulle donne. Non è uno sviluppo improbabile. Per quanto riguarda il «diritto» a picchiare una moglie disobbediente, Leila mi fa notare che anche nella religione cristiana o in quella ebraica ci sono analoghe affermazioni misogine, che semplicemente riflettono la mentalità dell’epoca. Molte cose che sembravano giuste in un sistema di vita arcaico oggi sono inaccettabili. «Dobbiamo sempre leggere i testi alla luce del progresso dei tempi. Se il Corano continua a essere valido, per definizione deve essere aperto all’interpretazione, come è sempre stato. Lo facevano persino i primi giuristi, noti e rispettati come autori della Sharia. E i musulmani devono continuare su questa strada.» Per questo la Sharia, secondo Leila, non rende l’Islam incompatibile con la democrazia. E rifarsi continuamente a un testo vecchio di millequattrocento anni, cosa che a me sembra sempre anacronistica, per l’insigne studiosa non è necessariamente un segno di arretratezza. Tanto che mi fa due paragoni arditi: «Io vivo in America e constato che le discussioni sull’esatto significato di una parola della Costituzione americana possono cambiare la legge per le

donne. Oggi dibattiamo sul diritto o meno di abortire sulla base della Dichiarazione di Indipendenza, che risale al 1776. E per parlare del suo Paese potrei farle l’esempio della Chiesa cattolica. Sulla base di un testo sacro il papa vieta l’omosessualità, altri cristiani che si rifanno allo stesso testo la difendono. Confrontarsi con la nostra tradizione scritta è naturale, ci permette di restare ancorati a una continuità storica». Ma la religione cattolica non prevede punizioni violente per i trasgressori, e non legifera su tutti i dettagli della vita quotidiana come fa l’Islam. «Non saprei» mi dice Leila con una sfumatura di ironia. «Credo che l’aborto o la pillola facciano parte della vita quotidiana, e anche essere gay. E la Chiesa ha assunto posizioni radicali su queste questioni. Sarà senz’altro d’accordo che per le donne è fondamentale sapere se possono usare contraccettivi oppure no.» Dopo questa frecciatina ammette però che il punto non è tenere o abolire la Sharia, ma affiancarle un corpus di leggi codificate, non aperte all’interpretazione, che garantiscano a tutti i diritti fondamentali. «Fino a quando questo non avverrà, non sarò favorevole ad avere la Sharia come legge dello Stato. Le giovani musulmane che studiano i testi sacri e la giurisdizione islamica stanno facendo un lavoro importantissimo. Restano fedeli al dettato religioso ma lo interpretano a vantaggio delle loro sorelle.» Le chiedo come è possibile che l’Islam abbia prodotto negli ultimi anni sette donne primo ministro o capi di Stato, un risultato molto migliore rispetto all’Europa. «Questo dato capovolge i nostri pregiudizi. E dimostra che non si può liquidare la religione come mero strumento di oppressione femminile.»

La realtà dell’Egitto è più complessa di quanto potrebbe far pensare l’idilliaco quadretto di un albergo di lusso o la stessa drammatica esperienza di Asmaa. È uno scenario mutevole, in cui si incrociano correnti anche contrapposte: il nazionalismo egiziano, il panarabismo laico e l’islamismo. Sotto la guida di Nasser il Paese divenne il capofila di una dinamica regionale ispirata a un’ideologia anticolonialista, modernista e socialista. Tuttavia, dopo le sconfitte militari contro Israele del 1967 e del 1973, l’Egitto, sotto la guida di Sadat, si ripiegò sulla propria identità e sulla propria unicità. Il successore di Nasser firmò una pace separata con lo Stato ebraico nel 1979, soffocando il sogno di solidarietà araba. Per consolidare la propria autorità e contrastare ogni velleità della sinistra laica, Sadat dovette appoggiarsi agli islamisti, ma alla fine furono proprio loro, diventati un pericolo dopo la rivoluzione iraniana di Khomeini, a uccidere «l’uomo della pace» nel 1981. Mubarak, attuale presidente, ha proseguito sulla strada dell’«Egitto prima di tutto», e in un quarto di secolo di potere personale è riuscito a instaurare un regime autoritario ma stabile. Ha impedito l’emergere di una qualunque forma di opposizione, ma ha garantito che il Paese rimanesse ancorato alla cooperazione con l’Occidente. E ha mantenuto lo stato di emergenza dichiarato dopo l’assassinio di Sadat, grazie al quale può far incarcerare i suoi nemici senza processo, attirandosi le critiche puramente formali delle potenze che lo sostengono, in particolare gli Stati Uniti. La paralisi politica del Cairo è tanto più grave se si considera che l’economia, in larga parte statalizzata, è incapace di sostentare i cittadini. Il sistema è improduttivo e minato dalla corruzione, e persino il presidente e la sua famiglia sono sospettati di profitti illeciti. Oggi quasi il 50 per cento della popolazione egiziana vive con meno di due dollari al giorno, e il divario tra i ricchissimi e il resto della nazione non fa che aumentare. Agire diventa sempre più urgente, ma in venticinque anni di governo Mubarak non è stato in grado di affrontare la sfida dell’esplosione demografica, in un Paese in cui la popolazione è quadruplicata dalla rivoluzione del 1952. Eppure, già a quel tempo, il giovane colonnello Nasser aveva fatto del controllo delle nascite il suo cavallo di battaglia: sapeva, come sa oggi il presidente, che per quanto l’Egitto si estenda su oltre un milione di chilometri quadrati, meno del 10 per cento della superficie è abitabile. La vita economica di questo fragile gigante è concentrata

nel delta del Nilo, e su una sottile striscia di terreno fertile che corre lungo il fiume. Questa realtà influenza da cinquemila anni il destino della terra dei faraoni e niente lascia pensare che le cose cambieranno. Anzi. Jacques e io stiamo passando il tempo discutendo di storia egiziana, seduti in un taxi nero e bianco bloccato in uno dei leggendari ingorghi della città più popolosa dell’Africa e del Medio Oriente. Non appena lasciamo l’isolotto di Zamalek, rifugio relativamente protetto al centro del fiume, veniamo letteralmente risucchiati dal traffico. Ogni giorno circa quattro milioni di egiziani si aggiungono agli oltre 14 milioni di abitanti della metropoli in un’infernale transumanza. Le strade a scorrimento veloce che penetrano nel cuore della capitale si trasformano in immensi serpentoni d’acciaio e fumo quasi immobili al sole. Sotto i viadotti che scavalcano piazze, rotatorie e viali, gli antichi edifici dalle facciate ocra e beige fondono influenze ottomane, francesi e inglesi. I quartieri popolari sono un intrico di stradine dominate dai fabbricati di mattoni e fango impastato con la paglia. Non appena ci si allontana dal centro, nei sobborghi spuntati come funghi con le loro caratteristiche strade ad angolo retto, si allineano case moderne e lussuose protette da recinti e barriere. Nelle nostre spedizioni attraverso il Cairo siamo totalmente in balia dei tassisti. Me ne farò presto una ragione e, anche se d’abitudine tempesto di consigli l’autista, rimarrò in silenzio e mi lascerò trasportare, rinunciando all’illusione di arrivare puntuale. Ma qui nessuno ci fa caso: stupirete di più il vostro ospite arrivando in orario.

Sto andando a incontrare uno dei più fedeli collaboratori di Mubarak, Ahmed Fathy Sorour, presidente del Parlamento dal 1991. È uno dei pilastri del regime, ha accompagnato l’ascesa di un uomo che ha compiuto tutta la sua carriera nell’esercito prima di arrivare alla vicepresidenza e poi alla presidenza dell’Egitto. Mubarak è diventato capo di Stato nel 1981, all’indomani dell’assassinio di Sadat, ed è stato poi riconfermato quattro volte per mandati di sei anni. A eleggerlo e rieleggerlo è stato un Parlamento docile, dominato dal suo partito – il Partito nazionale democratico – e la scelta è stata confermata da una serie di referendum popolari. Nel settembre del 2005 l’Egitto ha conosciuto la sua prima elezione presidenziale a suffragio universale, propagandata come democratica, e Mubarak è stato designato per un quinto mandato con quasi l’89 per cento dei voti. In realtà, è stata tutt’altro che una competizione libera e trasparente e coloro che hanno osato contestare l’occupazione del potere da parte di Mubarak ne hanno pagato il prezzo: Ayman Nour, arrivato secondo, si è ritrovato in prigione con l’accusa di frode nella documentazione presentata per registrare il suo partito, al-Ghad, il «Partito di domani». Gli egiziani, che seguono la vita politica con un misto di fatalismo, ironia e disillusione, hanno disertato le urne. Le valutazioni più ottimistiche della stampa, della diplomazia e dei gruppi di opposizione non vanno oltre il 15 per cento della partecipazione. Ci accomodiamo in uno dei saloni di rappresentanza del Parlamento, un palazzo classico a due piani ornato da colonne bianche. Una cupola rossa e un tetto verde gli conferiscono un aspetto molto poco solenne per un edificio pubblico. Siamo accompagnati da Nicola Bellomo, un giovane diplomatico italiano che lavora alla rappresentanza europea al Cairo. La sua professionalità, efficienza e serietà fanno onore all’Italia. Ho notato spesso che in questa regione del mondo, dove la politica è un ambiente in cui si rischia la pelle, a sopravvivere sono quelli con più pelo sullo stomaco. Ahmed Fathy Sorour è tra questi: tarchiato, il volto dai tratti marcati, è impenetrabile sotto la maschera di alto funzionario dello Stato. Fedelissimo di un presidente dal pugno di ferro, sa che non può deluderlo. Il compito del Parlamento egiziano non è contestare il potere esecutivo ma legittimarlo, ratificando le decisioni di Mubarak. Entro subito nel vivo: una legge migliore non riuscirebbe a impedire le mutilazioni genitali? Sembra sorpreso dal mio interesse per un problema che, secondo lui, non dovrebbe essere di competenza del Parlamento europeo. Tuttavia mi risponde di buon grado: «Secondo il codice penale l’escissione è vietata. Se la bambina muore, il

medico viene incriminato». E ancora una volta una bambina è morta, proprio nel giugno 2007, in una clinica privata, durante questa operazione. Il grido di scandalo dell’opinione pubblica ha spinto il ministero della Salute a reiterare il bando sulla mutilazione, che vige dal 1959. Sempre in attesa che il Parlamento emani una norma davvero in grado di contenere il fenomeno, istituendo adeguate strutture di controllo. Ma sarà difficile sentire la voce delle donne fino a quando la loro rappresentanza politica è così esigua: sono solo in nove, sui 454 deputati del Parlamento. Anche grazie all’abolizione del sistema delle quote, opera del governo di Sadat. «Lo so» annuisce Sorour «e da parte nostra vogliamo far approvare una legge che imponga nuovamente una quota minima di donne nelle due Camere. Non so ancora in che misura, ma un 10 o 15 per cento mi sembra ragionevole. Dipende tutto dalle discussioni che si innescheranno» aggiunge, con molto aplomb se si considera che non è certo noto per incoraggiare il dibattito all’interno dell’assemblea. Gli faccio notare un’apparente contraddizione. Il suo Paese vanta un buon rapporto con la modernità occidentale, che mal si concilia con la scelta di mantenere la Sharia alla base del sistema legislativo. «In Egitto l’Islam è la religione dello Stato» mi spiega il presidente del Parlamento. «Ma l’applicazione non è così rigida ed esiste per ogni disegno di legge un controllo della Corte costituzionale sull’autenticità delle fonti islamiche.» È Sadat, mi ripete, che «ha combattuto il comunismo incoraggiando gli islamisti e utilizzando la Sharia». In realtà, per poter portare avanti il progetto di un trattato di pace separato con Israele, l’ex presidente dovette fare concessioni agli islamisti più conservatori, per esempio ripristinando la poligamia che Nasser aveva abolito. «La Sharia non è pericolosa» conclude Sorour. «Ma i Fratelli musulmani sì.» I Fratelli musulmani, l’organizzazione politica e religiosa più potente del Paese, sono un’autentica ossessione per il governo Mubarak. Predicano il ritorno ai princìpi di giustizia e rigore dell’Islam e forniscono a milioni di egiziani il sostegno sociale, sanitario, educativo che lo Stato non riesce a dare. Sono stati anche accusati di incoraggiare il terrorismo e il fanatismo religioso e per questo, fin dalla loro fondazione, sono stati di volta in volta tollerati, strumentalizzati o perseguitati. Tuttora sono fuori legge come partito. Ma alcuni candidati alle elezioni del 2005 sono noti per essere vicini all’organizzazione e 88 di loro sono entrati in Parlamento. Da allora sono un assillo quotidiano per Sorour che, per la prima volta in vita sua, si è trovato a dover gestire una vera opposizione all’interno dell’assemblea. Cosa che ammette con sconcertante candore: «I Fratelli musulmani sono contrari al governo per ragioni politiche. Cosa posso fare?». Secondo me, la cosa più semplice sarebbe ascoltarli e capire il messaggio dei loro elettori: se lo Stato non fa nulla per migliorare la vita di decine di milioni di emarginati, questi si rivolgeranno a chi può aiutarli. Anche se saranno costretti a pregare di più. Per il momento Mubarak non ha scelto, per lo meno non ufficialmente, la strada del dialogo con i Fratelli musulmani: anzi, attraverso emendamenti costituzionali approvati di recente, ha rafforzato il divieto di inserire riferimenti religiosi nei programmi dei partiti politici. Sembra che gli sia sfuggito un particolare: la Costituzione egiziana definisce l’Islam per l’appunto religione di Stato. Ha anche prorogato la legge eccezionale del 1981 in nome della lotta contro il terrorismo, aumentato i poteri della polizia e ridotto quelli dei giudici nel controllo delle procedure elettorali. Non sono sicura che sia il metodo migliore per gestire le enormi difficoltà del Paese, per combattere la disoccupazione giovanile, l’analfabetismo e la strisciante islamizzazione. Ostacolare il confronto delle idee, reprimere gli oppositori e difendere i privilegi di una minoranza significa aprire la strada all’estremismo. I cittadini vanno alla moschea a cercare in Allah la speranza e il rispetto che non trovano negli uomini. E ad ascoltare i discorsi semplicistici ma rassicuranti dei predicatori fondamentalisti. Le prime vittime di questo ripiegamento sono sempre le donne: le loro libertà, duramente conquistate, vengono associate ai sistemi occidentali ritenuti responsabili della decadenza e della crisi delle società arabe. E quindi limitate o abolite. Per capire gli sviluppi futuri in Egitto e nel mondo musulmano, dovrò rivolgermi a chi ha tutte le carte in regola

per esercitare la propria influenza: i saggi dell’Università al-Azhar – la coscienza dell’Islam sunnita.

CAPITOLO 4 IL PAPA SUNNITA J ACQUES E IO, sempre in compagnia di Nicola, siamo attesi dalla più alta autorità dell’Islam sunnita, lo sceicco dell’Università al-Azhar. Mentre aspettiamo l’ora dell’appuntamento, ci perdiamo per le stradine dell’ospedale che sorge proprio accanto a questa istituzione, vecchia di oltre mille anni. Ho l’impressione di essere entrata in una corte dei miracoli, dove però i miracoli avvengono di rado. Drappelli di pazienti assediano i dispensari, ammassandosi davanti a porte chiuse. Donne velate tengono in braccio neonati, seguite da un codazzo di bimbetti aggrappati al vestito. Malati seduti per terra in cortili polverosi aspettano, stringendo una ricetta, che qualcuno decida di occuparsi di loro. I medici che incrocio sembrano stremati, e attraverso le finestre sporche dei padiglioni scorgo ambulatori privi di igiene e di qualunque comfort. Meglio evitare di ammalarsi in Egitto. Ci fermiamo un momento sulla grande spianata della moschea di al-Hussein che costeggia il suq di Khan alKhalil. Davanti alla terrazza del caffè Layaly c’è un assembramento di curiosi. Una troupe cinematografica sta sistemando i faretti; una macchina da presa montata su un braccio meccanico sale e scende; il direttore della fotografia misura la luce; l’operatore, l’occhio incollato all’obiettivo, prepara l’inquadratura; e il regista beve un caffè macchiato aspettando di gridare: «Azione!». Mi avvicino: è un uomo di una quarantina d’anni, capelli neri e crespi, baffetti e occhiali dalla sottile montatura d’acciaio. Indossa un giubbotto di lana scuro e pantaloni grigi. Mi presento e scopro che è Amr Arafa. È uno dei registi più famosi di tutto il Medio Oriente, il suo ultimo film ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro e ha attirato su di lui gli strali della censura egiziana. Un’ambasciata a casa mia racconta una storia apparentemente semplice e divertente. Un uomo originario del Cairo torna nella città natale dopo venticinque anni passati a fare fortuna nei Paesi del Golfo. Ha solo un’idea in testa: riprendere la vita che conduceva prima, tra amici, amanti, canne e bicchieri di whisky. Quando arriva a casa scopre che tutto il resto dell’edificio è disabitato. I vicini sono partiti quando nel palazzo si è trasferita un’ambasciata, quella israeliana. La prima rappresentanza dello Stato ebraico in uno Stato arabo fu effettivamente aperta al Cairo nel febbraio del 1980, undici mesi dopo la firma della pace tra i due vicini. Il protagonista del film si ritrova catapultato in una serie di situazioni sempre più imbarazzanti: gli amici lo evitano per non dover subire i controlli della polizia; non può più ricevere le fidanzate, che vengono fermate dagli agenti di sicurezza; non può più né fumare né bere in santa pace. Una sera i suoi invadenti vicini gli annunciano che deve uscire di casa, perché l’appartamento è stato «requisito» per ospitare un ricevimento. Alla fine il nostro buontempone rinuncerà alla bella vita per entrare in politica. Ovviamente il messaggio non è troppo sottile, ma il film ha riscosso un enorme successo nel mondo arabo. Il pubblico si è facilmente identificato con l’eroe deluso. Da una parte, il trattato con Israele non ha portato agli egiziani i benefici promessi. Dall’altra per quasi dieci anni, fino al 1989, sono stati esclusi dalla Lega araba e trattati come traditori. Oggi Amr sta girando un thriller intitolato Il fantasma. Non mi racconta molto della trama, se non che si tratta di

un mix di mistero, azione e amore. Ricetta classica ma efficace. «Nelle scene romantiche dobbiamo stare attenti a non esagerare» mi spiega quando gli chiedo come riesce a conciliare le esigenze narrative e il puritanesimo che sembra dilagare nella società egiziana. «È vero che di questi tempi la religione ha più influenza e le donne sempre più spesso si coprono. Anche le prostitute: hanno capito che con il velo è più facile lavorare» aggiunge in tono disilluso. Ci addentriamo nelle viuzze del suq, all’ombra della moschea che risale all’epoca dei Fatimidi, la dinastia sciita che prese il potere al Cairo nel X secolo e contrastò la supremazia degli Abbasidi. È ancora presto e le botteghe stanno aprendo i battenti. Si succedono vetrine di souvenir, gioielli, stoffe; i commessi spingono carrelli e lavano il selciato davanti all’ingresso. I garzoni si affrettano portando in equilibrio sulla testa enormi tavole di legno cariche di pagnotte. Qui la vita scorre come il Nilo, con lentezza e perseveranza. Ci sediamo per prendere un caffè in un localino che aveva un habitué illustre, Nagib Mahfuz, il primo scrittore arabo a essere insignito del premio Nobel per la Letteratura. È morto nel 2006, a novantacinque anni, ma il suo ritratto è ancora lì, appeso al muro. È stato perseguitato sia dai sostenitori del regime sia dagli islamici, come se né gli uni né gli altri potessero sopportare la sua libertà di pensiero. Nel 1994 era stato pugnalato e gravemente ferito al collo, davanti casa, da un fondamentalista ispirato nel suo gesto dalle critiche delle alte sfere religiose del Paese.

Sono le 11:30 quando entriamo finalmente nell’ufficio dell’uomo cui spetta l’ultima parola in materia di religione nell’Islam sunnita. Ci riceve in una jallabia, una tunica color blu scuro, un turbante bianco intorno alla fronte, uno zucchetto rosso in cima alla testa: è il Grande Imam della moschea di al-Azhar e sceicco dell’omonima università, Muhammad Sayyid Tantawi. Le sue parole sono un punto di riferimento per oltre un miliardo di musulmani sunniti: non solo nei Paesi arabi ma anche in Indonesia, Malesia, India, Pakistan. I suoi pareri, diffusi nelle moschee, per radio o Internet, sono considerati inappellabili. Lo sceicco mi accoglie nella mia veste di deputato del Parlamento europeo e, per l’occasione, sono accompagnata dal vice capomissione dell’Ue in Egitto. La diplomazia è d’obbligo: lo sceicco Tantawi è un po’ l’equivalente musulmano di un papa, anche se l’autorità suprema nella terza religione rivelata è molto meno centralizzata rispetto a quella del mondo cattolico. Ma c’è un’ombra sulla fonte del suo potere: lo sceicco è stato nominato Grande Imam dal presidente Mubarak nel marzo del 1996, dopo aver ricoperto per dieci anni la carica di Gran Muftì. Quindi deve la sua posizione a capo della più antica e prestigiosa istituzione accademica ai buoni auspici del governo egiziano. Rappresenta l’Islam ufficiale e alcuni sostengono che sia la voce religiosa del regime. Il potere spirituale nel mondo musulmano non è forse da sempre strettamente legato a quello politico? L’Università Al-Azhar ne è un buon esempio: fondata dai Fatimidi nel X secolo, è diventata, dopo la loro estromissione due secoli dopo, il faro dei sunniti. Il Grande Imam ha settantanove anni e, sebbene sia gracile, appare vivace ed energico. A tratti i suoi occhi piccoli mi fissano con una punta di ironia; il volto è ornato da una corona di barba incolta. Il suo ufficio esagonale è maestoso, con il soffitto molto alto e le pareti rivestite da pannelli di legno chiaro. Il tavolo da lavoro con sopra il computer è ingombro di libri e cartelle, e l’angolo riservato ai visitatori è fornito di una decina di morbide poltrone. È in questo salone che si svolge la nostra conversazione, con l’assistenza di un interprete ufficiale. «L’unico che chiederà agli uomini di rendere conto delle loro azioni sarà Dio stesso, il giorno del Giudizio finale» mi assicura lo sceicco quando gli spiego che sono una sostenitrice del dialogo interreligioso. Ripete il credo musulmano che afferma l’unicità di Dio e la radice comune delle tre religioni rivelate: l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam. «Uno dei doni che Allah ha fatto agli uomini sono le loro differenze. Dobbiamo collaborare, l’Oriente con l’Occidente, il Nord con il Sud. È nell’interesse di tutti i popoli.» Le posizioni dello sceicco sono famose per il loro

ecumenismo: ha condannato gli attentati dell’11 settembre 2001; ha denunciato gli attacchi kamikaze in Palestina e in Iraq; e in occasione della controversia sul velo nelle scuole pubbliche francesi, ha perorato il rispetto delle leggi del Paese ospitante. «Qui, ad al-Azhar, rifiutiamo lo scontro di civiltà.» Mi domando se potrà discuterne con papa Benedetto XVI e gli chiedo della sua mancata visita in Vaticano. «La Santa Sede aveva suggerito il 22 marzo, ma abbiamo dovuto rimandare» mi spiega. Perché? «Ero troppo occupato in Egitto, non ero libero per quella data.» Per il momento non ne è stata ancora fissata un’altra ma «se Dio vorrà, l’incontro avrà luogo quest’anno». Inshallah. Non sono venuta a incontrare la maggiore autorità sunnita per sentire dichiarazioni di buoni intenti, troppo spesso superate dalla realtà della violenza politica. Voglio conoscere il suo parere sul destino riservato alle donne nell’Islam. «Ad al-Azhar non facciamo differenze tra uomini e donne, abbiamo corsi per gli uni e per le altre» mi assicura il Grande Imam. Gli ricordo tuttavia che studenti e studentesse non possono frequentare insieme le lezioni poiché l’università applica il principio della segregazione dei sessi. Lui non raccoglie la provocazione e continua: «Le donne per noi sono uguali agli uomini. Hanno le stesse responsabilità morali, religiose, politiche. Devono avere la medesima possibilità di accedere alla conoscenza e hanno diritto allo stesso rispetto». La Sharia tuttavia le discrimina, in particolare per quanto riguarda il divorzio, l’eredità e persino la testimonianza davanti a un tribunale. Gli chiedo cosa hanno diritto di fare. «Possono diventare giudici, avvocati, medici. Possono interpretare il Corano» elenca. Lo interrogo sui matrimoni di ragazzine non ancora uscite dall’adolescenza, come quelli che vengono celebrati nello Yemen. «Ora si trova ad al-Azhar», ribatte «mi faccia delle domande sull’Egitto. Se nello Yemen vengono commessi errori, si deve rivolgere alle autorità di quel Paese.» Insisto. Non mi va che se la cavi eludendo la domanda. Alla fine ammette: «È una pratica sbagliata, nello Yemen come in qualunque altro Paese». Anche sulla questione del velo adotta una posizione molto neutrale: «Se qualcuno si trasferisce in un Paese straniero, è necessario che ne rispetti le leggi. Se non sono d’accordo, possono andare altrove». Sulle mutilazioni genitali femminili ha una posizione netta quanto sorprendente: «Posso dirle che questa pratica non è più diffusa in Egitto» afferma. Gli faccio notare che i numeri delle organizzazioni internazionali e delle Ong locali dicono il contrario. «Se non è scomparsa al 100 per cento, lo è al 99» risponde ridendo. Non condivido il suo senso dell’umorismo e incalzo per conoscere la sua posizione di capo religioso su una questione tanto seria. «È una pratica tradizionale che non ha nulla a che vedere con la fede, nessun legame con l’Islam. La si può ancora incontrare nelle regioni più povere dell’Egitto, ma è in diminuzione da oltre vent’anni e sono sicuro che andrà progressivamente scomparendo.» Ma è bene che i religiosi intervengano? «Sì» annuisce, ma senza troppo trasporto. «È nostro compito dire alle persone che questa pratica è sbagliata e che dovrebbero abbandonarla.» Quando accenno agli sforzi compiuti da alcune Ong per far approvare una legge più efficace contro le escissioni, mi dà una risposta che non mi soddisfa affatto: «È in corso un dibattito sull’opportunità di questa norma, ma è meglio educare le persone e convincerle. Abbiamo leggi per qualunque cosa e ci sono, sempre e comunque, criminali che non le rispettano». Probabilmente è così, ma nel caso specifico bisognerebbe anche punire. In realtà la posizione dei predicatori sunniti sull’argomento non è mai stata molto chiara, soprattutto quando si rivolgono ai milioni di fedeli che li ascoltano. In diverse occasioni, in passato, l’Università al-Azhar aveva approvato la circoncisione delle bambine. Nel 1994 un noto muftì pronunciò addirittura una fatwa dichiarandola obbligatoria: «È richiesta tanto per gli uomini quanto per le donne» fece sapere «e se un villaggio non la pratica, l’imam deve opporsi, come farebbe se i fedeli non prestassero ascolto al richiamo della preghiera». Nel 2005, segnando una svolta significativa, Ahmed Talib, il preside della facoltà di diritto islamico di al-Azhar, ha finalmente assicurato in un parere che «tutte le forme di mutilazione sono un delitto e non hanno alcuna relazione con l’Islam. Che sia la recisione della pelle o di una parte degli organi genitali femminili, non si tratta di un obbligo di fede». Ma

siamo lontani da quella condanna unanime e inappellabile che ci si potrebbe aspettare da autorità religiose. Il Corano non menziona da nessuna parte questa forma di intervento. Al contrario, valorizza il corpo umano e la sua integrità. Solo dopo la morte del Profeta, e quindi dopo la fine della Rivelazione divina, i saggi hanno riportato un hadith secondo il quale Maometto avrebbe affermato, rivolgendosi a una donna che praticava l’escissione: «Non tagliare la carne in profondità, perché ciò è meglio per la donna come per il marito». Gli esegeti ne hanno desunto, come capita spesso, due interpretazioni contrapposte: gli uni vi leggono un’autorizzazione da parte del Profeta, gli altri al contrario, una proibizione per evitare il rischio di gravi ferite. Tra le scuole di pensiero che in seguito hanno codificato l’insegnamento di Maometto, soltanto una menziona la circoncisione, ovvero l’asportazione del cappuccio clitorideo, un’operazione che dovrebbe aumentare il piacere sessuale e non diminuirlo! Chiaramente su questo argomento lo sceicco Tantawi non vuole aggiungere altro. È mezzogiorno e mi fa presente che deve andare a pregare. Non mi muovo dal mio posto e gli rispondo, con un gran sorriso, che ho qualche «ultima domanda». In particolare riguardo ai Fratelli musulmani, il movimento che da quasi ottant’anni è al centro del destino politico egiziano. «Perché si sono chiamati fratelli? Siamo tutti fratelli» mi risponde. «Cercano di creare problemi nella nostra società.» Cosa pensa dell’estremismo? Tantawi pesa bene ogni parola, dato che ci stiamo muovendo su un terreno accidentato: il Medio Oriente è un barile di polvere da sparo con la miccia accesa da tempo. Brucia in continuazione e le parole danno spesso vigore alla fiamma. Lo sceicco sa bene che la grande maggioranza delle sue pecorelle giustifica la lotta contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, così come quella contro l’intervento americano in Iraq. E che in questo campo, ciò che da noi può sembrare estremismo nei Paesi arabi non lo è. «Qualunque azione provoca una reazione» mi dice. «In Occidente trattano i musulmani come terroristi, ma è la violenza che chiama violenza.» Il Grande Imam si alza per congedarsi. Deve dedicarsi alle sue abluzioni prima della preghiera. Mi tende la mano. «E il wahhabismo?» gli chiedo trattenendo la sua mano nella mia. So che è una domanda esplosiva: questa forma di sunnismo, la più estrema, è praticata in Arabia Saudita, culla dell’Islam. Fa concorrenza alla visione più tollerante predicata da al-Azhar. E dato che i sauditi hanno messo a disposizione dei sostenitori del wahhabismo miliardi di petrodollari, la gara mi sembra persa in partenza. Il vecchio sceicco mi guarda con i suoi occhi furbi, mi lascia la mano e si allontana: «Non ho una risposta a questa domanda» sospira. E ovviamente non gli credo.

La sera Simona, un’amica italiana che vive al Cairo, mi propone di assistere a una cerimonia di esorcismo. Accetto di buon grado. In un Paese musulmano, tutto ciò che somiglia a un culto pagano viene represso. Le sette sono proibite e i loro membri imprigionati o eliminati. Persino il sufismo, la corrente mistica, molto sofisticata, del pensiero islamico, è considerato con sospetto ed è stato spesso messo al bando dall’ortodossia religiosa. Abbiamo organizzato un piccolo gruppo di temerari, con Nicola, sua moglie Claudia e Frances, un’amica libanese di Jacques. L’appuntamento è in un quartiere popolare della metropoli. Ci fermiamo davanti a un edificio fatiscente all’angolo di una stradina buia. Spingiamo la porta e ci troviamo in una sala male illuminata. Qualche cuscino per terra, piccoli tamburi, tavolini bassi. In fondo alla sala c’è uno spazio vuoto che sarà utilizzato come palco. «Benvenuti nel mondo dello zar» mi sussurra all’orecchio un uomo in jeans e camicia bianca, coi capelli raccolti in una coda di cavallo. Gli chiedo di anticiparmi cosa vedremo. «Lo zar è una danza rituale di guarigione. Lo chiamano esorcismo, ma si tratta piuttosto di una forma di catarsi. È una pratica riservata alle donne che così si liberano delle loro frustrazioni, delle tensioni e dello stress.» E poi aggiunge: «È un rito che permette di placare gli spiriti». Si fa buio nella sala e comincia il battere sordo dei tamburi. Entrano in scena tre donne in abiti tradizionali,

accennano passi di danza con movimenti delle braccia e del busto che rapidamente si trasformano in una trance mistica. Secondo la mia guida con la coda di cavallo, stanno entrando in comunicazione con gli spiriti invisibili, attirati dal ritmo sempre più rapido delle percussioni. La musica e il ballo sono in crescendo, fino a un parossismo trascinante. Attorno a me la sala si è ormai riempita, la gente si anima e si agita a tempo. All’improvviso cade il silenzio e mi sento sollevata. Non mi sono mai piaciuti questi riti di esaltazione collettiva, dove il pubblico viene riportato indietro di secoli facendo appello a credenze e superstizioni arcaiche. Uscendo dalla sala, dove la cerimonia continua senza di noi, ci rendiamo conto di aver assistito a un fenomeno sempre più raro. Esistono ormai solo 25 sacerdotesse zar in Egitto e dopo la loro morte la sopravvivenza di questo rito millenario sarà a rischio. Ma è evidente che il Paese dei faraoni è ancora lontano dall’essere un gigante monolitico, rassegnato e sottomesso alla volontà di Allah e dei dittatori che si susseguono. Le vestigia di una cultura passata, che ha segnato la nascita della civiltà, esistono ancora e testimoniano la straordinaria vitalità del popolo del Nilo. Sono ancora più ansiosa di assistere a un’altra «specialità» locale: uno spettacolo di danza del ventre. Un’esperienza già fatta, ma vorrei riviverla qui, nella patria del belly dancing. E soprattutto mi piacerebbe parlare con una delle artiste più apprezzate. Sulle prime ho fortuna: Nicola Bellomo è amico di un vecchio playboy (così ce lo descrive), che conosce di persona Dina, la più famosa danzatrice del ventre egiziana. Deve incontrarla sabato sera, ci dice: possiamo andare con lui. Dina è una mora mozzafiato che di solito balla nei grandi alberghi del Cairo, facendo ogni volta il tutto esaurito. È la degna erede della leggendaria Nadia Gamal, di cui si narra che non sapesse leggere, il che non le ha impedito di guadagnare somme astronomiche ondeggiando le sue preziose anche. In realtà i movimenti di queste donne riproducono quelli naturali del sesso e del parto. Ho studiato danza per tanti anni e trovo che rispetto alle posizioni punitive, per quanto splendide, del balletto occidentale, che privilegia fisici androgini, leggeri, quasi disincarnati, questo ballo esotico ed erotico rappresenti il trionfo della sensualità femminile. La rivincita del corpo. L’ho visto in Marocco, in Libano, negli Stati Uniti, dove si cimentano anche manager magre come chiodi. Ma è in Egitto che gli occidentali hanno scoperto questa antica arte, durante le invasioni napoleoniche. Furono proprio i rudi soldati dell’Imperatore a ribattezzare «danza del ventre» questo sinuoso ondeggiare di fianchi per cui non avevano un nome. Anche se probabilmente frequentavano più volentieri le case di piacere, in cui i movimenti del bacino portavano una soddisfazione più immediata. In questa danza, per la verità, vengono sollecitate tutte le parti del corpo: oltre ai fianchi, le gambe, il torso e le braccia. Prima di conoscere il suo momento di gloria all’inizio del XX secolo, sui palcoscenici del Casinò Opera del Cairo che ne fece uno spettacolo di varietà, la danza orientale era riservata all’intimità domestica. Le sue radici affondano nei riti di fertilità delle civiltà antiche, a cui ovviamente l’islamizzazione ha inflitto una battuta d’arresto. Ma le donne hanno trovato il modo di difenderli e tramandarli, di generazione in generazione. Hanno sempre ballato tra di loro prima di esibirsi davanti agli uomini. Oggi il belly dancing caratterizza tutti gli avvenimenti più felici, come le feste nuziali, e conosce un irrefrenabile revival, con un boom di iscrizioni ai corsi. La migliore performance a cui ho assistito è stata a Casablanca, dove eravamo stati invitati a una festa nella villa sul mare di un facoltoso imprenditore e della sua giovane seconda sposa. Tra l’acciottolare dei piatti e il passaggio incessante dei camerieri, a un certo punto la nostra ospite si è tolta le scarpe, è salita su un palco e accompagnata dal complesso, che ha attaccato una musica mediorientale, si è lanciata nel ballo. I capelli corvini tirati indietro, la bocca fiammante di rossetto e un leggero foulard attorno ai fianchi sopra il miniabito nero, ci ha lasciati tutti senza fiato. Qui al Cairo, i tentativi di Nicola si rivelano infruttuosi. Con una telefonata al suo amico playboy, Dina fa sapere

di essere troppo indisposta per vederci. È sconvolta da un «incidente professionale»: durante un’esibizione il top del costume di scena le è scivolato a terra, gettando il pubblico nell’entusiasmo ma lei nello sconforto. Ha pianto tutto il giorno, dice, e non vuole ospiti. Mi dispiace, ma la perdono: non sei una vera diva senza qualche capriccio.

CAPITOLO 5 SESSO E ISLAM G LI AMERICANI HANNO AVUTO la loro «dottoressa Ruth». Era Ruth Westheimer, una tedesca i cui genitori erano stati uccisi nelle camere a gas dei campi di concentramento nazisti. Entrò nei ranghi della Haganah, l’organizzazione paramilitare dei coloni ebrei durante il Mandato britannico, come tiratore scelto. Fu ferita durante la prima guerra arabo-israeliana nel 1948. Otto anni dopo si trasferì negli Stati Uniti dove cambiò specializzazione: da allora ha spiegato a generazioni di americani come fare l’amore e come divertirsi a letto. Ruth Westheimer è la sessuologa più famosa degli Stati Uniti, per decenni idolo radiofonico e televisivo. Con quell’aria rassicurante da tranquilla donna di casa ha saputo mantenere il suo messaggio entro i confini, a volte molto ristretti, della morale americana. Il suo primo programma si chiamava Sexually Speaking, che potremmo tradurre con «A proposito di sesso». Gli italiani invece hanno avuto Donna Letizia, che per un quarto di secolo ha raccolto le confidenze di cuori infranti e casalinghe inquiete. Rispondeva alle lettere dalle pagine del settimanale femminile «Grazia». Il suo vero nome era Colette Rosselli, era la moglie di Indro Montanelli, e il minimo che si possa dire è che quando toccava i problemi dell’alcova si teneva sul vago. E gli egiziani? Hanno Heba Kotb, la «dottoressa Kotb». Anche lei parla di sesso e anche lei conduce un programma televisivo di enorme successo: Big Talk, ovvero «Parole grosse». In una cultura in cui il sesso è tabù, passa per una rivoluzionaria. Ogni settimana trasmette dagli studi del canale satellitare El-Mahwar e tocca tutti gli argomenti: la «prima volta», l’orgasmo, la masturbazione, il sesso orale e così via. Piccola differenza rispetto alla dottoressa Ruth o a Donna Letizia, Heba si presenta davanti alle telecamere con il capo debitamente coperto, e quando cita un libro non è il Kamasutra ma il Corano. Vorrei che questa esperta mi spiegasse come viene trattata la sessualità nella cornice dell’Islam. In questa regione del mondo, in tutti i ceti sociali, il piacere, le relazioni amorose, i sentimenti sono temi che passano sotto silenzio. Non è permesso mettere in discussione il codice di comportamento che dà un valore supremo alla verginità delle ragazze e le relega al ruolo di spose e madri. E anche se trovo scoraggiante l’esibizione pornografica che invade lo spazio pubblico nelle nostre società, l’omertà mi fa altrettanta paura. Non sarà la congiura del silenzio a impedire l’abuso del corpo femminile, la pornografia, la violenza domestica. Tutti mali da cui l’universo islamico non è immune, come non lo è l’Occidente.

Incontro Heba a casa sua, in un quartiere del centro del Cairo. Volto squadrato e volitivo, riceve Jacques e me con la testa coperta da un velo bianco. Non c’è ombra di timidezza o remissività in questa donna che sfida i pregiudizi e guarda gli interlocutori dritto negli occhi. È questo modo di fare diretto e senza sottointesi che ne ha decretato il

successo e che le permette di trattare con grande franchezza anche gli argomenti più intimi. «Sono totalmente contraria alla mutilazione genitale» asserisce quando le chiedo il suo parere di donna, di medico e di credente. «Non se ne parla né nel Corano, né nella Sunna, né da nessun’altra parte. Il Profeta aveva quattro figlie, e nessuna di loro fu circoncisa. È un terribile trauma fisico e psicologico dal quale una ragazza non può mai più riprendersi.» Ma, mi assicura, una donna mutilata in quel modo può comunque conoscere il piacere: «Il clitoride è il punto di convergenza di una moltitudine di terminazioni nervose. Il fatto che le estremità siano state recise non influisce sulla sensibilità del nervo stesso. Adeguate carezze in quella zona permettono di raggiungere l’orgasmo». Mi piacerebbe che Asmaa fosse qui per ascoltarla, ma soprattutto spero che la dottoressa Kotb abbia ragione. Invece la situazione delle bambine infibulate è catastrofica: «Il primo rapporto sessuale si trasforma in una tragedia». «All’inizio della storia dell’Islam, parlare di sesso non era vietato, al contrario» mi racconta quando le esprimo la mia perplessità su questa specie di legge del silenzio. «Il pubblico oggi ha le stesse curiosità di allora.» Al contrario dei testi religiosi cristiani, che non accennano a questo aspetto della vita, numerosi versetti del Corano sono dedicati all’attività sessuale: cosa è permesso e cosa è vietato, il piacere dell’uomo e quello della donna e la necessità dell’uguaglianza in questo ambito. «Due cose sono haram, cioè proibite. La penetrazione anale e il rapporto durante le mestruazioni» elenca. Secondo lei, il Libro sacro fa dell’attività sessuale una dimensione essenziale della creazione divina e riconosce nel desiderio erotico e nella ricerca del piacere dinamiche umane imprescindibili. Non si può attribuire alcuna colpa alle pulsioni sessuali, tanto maschili quanto femminili, poiché senza di esse il mondo, quindi l’opera divina, non esisterebbe. È vero che Adamo ed Eva hanno ceduto alle loro passioni e perciò sono stati cacciati dal giardino dell’Eden. Però nella tradizione islamica la punizione si limita a questo: non vengono segnati dal peccato originale, come vuole quella cristiana. I buoni musulmani saranno ricompensati nell’Aldilà e, secondo alcuni esegeti del Corano, saranno addirittura destinati a godere di infiniti piaceri erotici con sublimi giovani vergini. Questo passaggio contenuto in un hadith è da sempre oggetto di animati dibattiti e recentemente le femministe islamiche l’hanno contestato poiché suggerisce che non esisterebbe uguaglianza in Paradiso: non sono infatti previsti drappelli di bei giovanotti per le buone musulmane. Probabilmente il problema deriva dalla difficoltà di mettersi d’accordo sulla traduzione della parola che nel testo coranico evoca le vergini paradisiache, le famose huri. In Occidente viene imputato a questa visione carnale dell’Aldilà l’entusiasmo con cui gli attentatori kamikaze si fanno esplodere per la causa. In realtà, i musulmani, proprio come i cristiani, non prendono certo alla lettera le descrizioni del giardino dell’Eden, e soprattutto non è affatto certo che chi commette atti violenti sia destinato a godere di ricompense celesti, come affermano alcuni gruppi di fondamentalisti per fare proseliti. Infine, data l’antichità del testo e la ricchezza della lingua araba, il termine huri è per l’appunto oggetto di controversia: secondo alcuni esegeti, non designa affatto vergini dalla pelle chiara. Secondo altri, potrebbe significare «assoluta purezza» o «uva bianca», una delizia ai tempi del Profeta.

Sembra quindi che si sia voluto cancellare troppo in fretta il contenuto erotico dell’insegnamento del Profeta. Dopo la sua morte, i popoli della regione sono tornati alla cultura beduina e la situazione delle donne è peggiorata. Nelle società preislamiche del deserto erano considerate poco più che animali, e le tradizioni si sono rivelate difficili da sradicare. Hanno cominciato a proliferare interpretazioni dei testi originali e delle affermazioni attribuite al Profeta che relegavano la donna al ruolo di preda sessuale, genitrice e serva obbediente di un uomo ritenuto superiore. Ancora oggi, nonostante i progressi sociali e lo sviluppo economico, la cultura patriarcale misogina gioca un ruolo fondamentale nei Paesi arabi. «Anche se con il passare del tempo» assicura Heba «l’interpretazione del Corano si è

arricchita di nuovi approcci, di letture più schierate dalla nostra parte, perché è sempre possibile trovare nuovi significati dei versetti del testo sacro.» Madre di tre figlie, Heba proviene da una famiglia conservatrice ma laica. Ha compiuto una parte degli studi negli Stati Uniti, in Florida. Solo più tardi ha scelto di portare il velo, dopo un periodo di fidanzamento che sia lei sia il futuro marito avevano inteso come un tempo di riflessione, anche religiosa. È stato allora che Heba ha deciso di vestirsi in modo più islamico: «Indossare l’hijab è un comandamento divino» mi assicura, ma è anche un modo per difendersi da attenzioni sessuali indesiderate. Tuttavia ritiene che le donne debbano essere libere di scegliere: «Non c’è costrizione nella religione» dice, ripetendo uno dei grandi princìpi dell’Islam. La dottoressa Kotb, come d’altro canto la dottoressa Ruth, crede nei sentimenti oltre che nel sesso e ha un approccio molto tradizionale ai rapporti tra uomini e donne. Difende il matrimonio e ritiene che la verginità debba essere preservata da entrambi nell’attesa di trovare il partner ideale: «Nessuno può impedire a una persona di avere relazioni sessuali prima di sposarsi, ma questo comportamento è una distorsione» afferma. Sottolinea anche le differenze tra maschi e femmine: «Le pulsioni sessuali delle donne sono meno forti rispetto a quelle degli uomini, che sono schiavi delle loro passioni!». Eppure è attribuito allo stesso Ali, genero del Profeta e fondatore dello sciismo, il detto secondo cui Allah, creando il desiderio, lo divise in dieci parti e ne diede nove alle donne e solo una agli uomini. A dispetto di questa ripartizione, per la dottoressa Kotb avere diversi partner mette a rischio la salute femminile, e cita «studi scientifici» secondo cui spermi diversi possono provocare il cancro all’utero. Tollera la masturbazione, ma la considera una debolezza prettamente maschile: «Quando un ragazzo non riesce più a studiare, né a concentrarsi per pregare, allora ha diritto di trovare sollievo» dice. L’omosessualità, invece, è una tara: «Conosco buoni musulmani che sono gay, ma per loro esiste una possibilità di rieducazione. Possono tornare sulla retta via. Fino al nostro ultimo giorno sulla terra commetteremo errori e per essi chiediamo perdono a Dio». Su questa questione l’Islam rigoroso condivide la stessa severità del Cristianesimo. Ma siccome le vie del Signore sono infinite, mi tornano in mente la fede profonda, l’esemplare generosità e l’energia inesauribile di Father Tim, il prete del Bronx che ho incontrato l’anno scorso nella mia inchiesta americana. Lui riempie la sua chiesa al ritmo di hip hop, è apertamente gay e mi aveva detto con serenità: «È Dio che mi ha fatto come sono».

Assisto insieme a Jacques a una trasmissione in cui la dottoressa Kotb parla della delicatissima questione della prima notte di nozze. Nei Paesi arabo-musulmani questo evento assume un’importanza particolare, per i giovani sposi ma anche per le rispettive famiglie. Ricordo di essere stata testimone dei rituali che lo accompagnano durante i miei tanti soggiorni a Baghdad. Persino nei giorni di più grande tensione tutti i venerdì, giorno di riposo, l’hotel Rashid, ancora l’albergo migliore della capitale irachena, diventava il luogo più gettonato per celebrare un matrimonio. La grande hall di marmo grigio si riempiva di un concerto di tamburi e di yuyu, le alte grida stridule emesse dalle donne. Le famiglie seguivano con passo solenne i novelli sposi e li scortavano fino alla porta della loro camera. Il marito mi sembrava sempre troppo gracile nello smoking nero preso a nolo, e la sposa troppo truccata contro il tulle bianco dell’abito in cui continuava a inciampare. Poi gli invitati si trasferivano in giardino e i diversi gruppi si radunavano, colpendo ritmicamente i tamburi e soffiando nelle trombe fino al cadere della notte. Al mattino incrociavo gli innamorati, l’abito bianco ripiegato, lo smoking ben riposto e il lenzuolo nuziale sotto braccio: dovevano portare la prova, costituita da una macchia di sangue, che l’unione era stata consumata, che la giovane donna era pura e l’onore del clan salvo. Per un’ora e mezza Heba seziona quella prima esperienza con la scrupolosità di uno scienziato e senza frivolezze, concedendosi appena, di tanto in tanto, un sorriso complice. All’inizio ero tentata di guardare con una certa ironia a questi corsi di educazione sessuale per principianti, ma mi sono subito resa conto che è l’unico modo per parlare di

questi temi in una società così reticente. «Per i giovani egiziani, Heba è una miniera di informazioni» mi spiega la ragazza un po’ imbarazzata che mi fa da interprete. Riconosco che per spezzare la legge del silenzio ci vuole coraggio e una grande delicatezza: inutile provocare un pubblico che deve ancora imparare le basi. Spingersi troppo oltre o procedere troppo in fretta sarebbe probabilmente controproducente. «La prima notte di nozze è un’esperienza fondamentale per una coppia, è il primo episodio della sua vita sessuale. E può diventare fonte di problemi a causa dell’incomprensione, di sé e dell’altro» esordisce Heba. È seduta in uno studio ultramoderno e la sua esposizione è accompagnata da un movimento di telecamere molto professionale. Parla con un tono misurato, didattico, gli appunti in mano. La presentazione è tutt’altro che noiosa e capisco perché milioni di telespettatori in Medio Oriente non perdano una puntata di Big Talk. «Le giovani coppie si accostano a questa esperienza senza sapere nulla. Nessuno ha detto loro cosa succederà, né i genitori, né gli amici» continua Heba. «Certe volte i ragazzi vanno su Internet, ma le informazioni che trovano spesso non sono corrette. Soprattutto le ragazze non sanno cosa aspettarsi: alcune temono addirittura di essere violentate. È naturale che i giovani sposi abbiano paura di ciò che non conoscono» dichiara la dottoressa. Regola numero uno: «La prima notte di nozze non deve essere una battaglia, con un vincitore e un vinto. Deve essere un progetto comune: la qualità della prestazione dell’uno influenza la qualità di quella dell’altro». Regola numero due: «Tranquillizzare la ragazza. È normale che sia spaventata». «C’è poi la grande questione della verginità» spiega la dottoressa Kotb. È un argomento estremamente delicato ed Heba lo tratta con profusione di dettagli. «A questo proposito circolano molte credenze errate: la necessità di un copioso sanguinamento per dimostrare l’esistenza dell’imene, il dolore che accompagna la penetrazione e la lacerazione della membrana. Non può essere questo il criterio della verginità, la misura della virtù di una donna» aggiunge. «D’altro canto l’imene non viene menzionato né nel Corano né nella Sunna» conclude. «Un’altra difficoltà della prima notte di nozze è l’impotenza maschile: il marito è sottoposto a una forte pressione, da parte della famiglia, degli amici e addirittura della moglie. E la giovane sposa rischia di non capire ciò che interpreta come indifferenza. Deve quindi incoraggiarlo, senza inibizioni, chiedergli cosa gli fa piacere e fare quello che lui le chiede…» La sessuologa fornisce anche consigli pratici: «Mangiare leggero e non ascoltare le madri che imbottiscono i figli di alimenti ricchi di proteine, troppo difficili da digerire e che non aiutano affatto la prestazione notturna; evitare di assumere droga: provoca allucinazioni sulle prodezze compiute nella notte; non esitare a utilizzare lubrificanti purché di buona qualità: gel o vaselina». La dottoressa egiziana cercherà per tutta la durata del programma di dare un’immagine rasserenante della sessualità a un pubblico dilaniato tra la visione apocalittica proposta da un ambiente repressivo e le tentazioni che arrivano dall’Occidente attraverso il cinema, la televisione o il Web. Stando a quanto dice Heba, la realtà della condizione femminile è dunque molto lontana da ciò che prevedeva l’insegnamento del Profeta. I rigurgiti di maschilismo hanno avuto la meglio sull’egualitarismo che il Corano sembrava perseguire. Ma da quei tempi antichi la situazione non avrebbe potuto migliorare? Diversi elementi concorrono a spiegare quella che molte donne vivono come una regressione: prima di tutto i progressi dell’emancipazione femminile in altri Paesi anche musulmani, come l’Indonesia, che rendono la situazione nelle nazioni arabe ancora più anacronistica. Poi l’accesso sempre più ampio all’istruzione, che permette alle ragazze di prendere coscienza e di contestare la presunta superiorità maschile. Infine le difficoltà di costruire un’identità diversa da quella occidentale senza ricadere in quella islamica più soffocante e retrograda. Il mio soggiorno in Egitto mi ha definitivamente convinta che non sono solo le donne a doversi emancipare. L’uomo arabo, nostalgico di una passata potenza, testimone del fallimento delle ideologie laiche, traumatizzato dall’esperienza coloniale e dalle sconfitte militari, sembra cercare conferme e autorità nella sfera privata, in

particolare nella relazione con l’altra metà del cielo. Tenta di imporsi laddove ritiene di avere ancora potere. E vive ogni possibile dibattito sulla liberazione femminile come un’ennesima testimonianza di decadenza e come un ulteriore attacco dell’Occidente. La sua forma di resistenza è ripiegarsi su valori e comportamenti arcaici. La liberazione delle donne, non solo qui, passa sicuramente attraverso la liberazione degli uomini.

CAPITOLO 6 I MISTERIOSI FRATELLI MUSULMANI S ONO STATI ACCUSATI di terrorismo, incarcerati, torturati, eliminati. Una sorta di Idra nefasta, le cui teste sono state tagliate mille volte, e mille volte sono ricresciute. Li osteggiano i regimi arabi, i governi occidentali e Israele, e per molti l’idea che un giorno potrebbero arrivare a prendere il potere in Egitto, o in un altro Paese della regione, è una prospettiva catastrofica. Ma i Fratelli musulmani al Cairo non si nascondono. Hanno la loro sede in un edificio sulle rive del Nilo, in un quartiere tranquillo. Ho deciso di andarli a trovare per capire se la nostra paura ha qualche fondamento e se soprattutto le donne debbano temerli. La Società dei Fratelli musulmani è nata nel 1928 in Egitto, per poi svilupparsi rapidamente nel resto del mondo arabo, e non solo. Oggi è la più potente forza di contestazione politica delle dittature mediorientali e la sola che proponga un’alternativa in grado di raccogliere un ampio sostegno popolare. Con il motto «L’Islam è la soluzione», si batte per l’instaurazione di governi islamici rispettosi dei princìpi del Corano, quindi della Sharia. Assicurano di volerci arrivare in modo pacifico, ma sono stati accusati di aiutare organizzazioni radicali che ricorrono alla violenza per promuovere le loro cause. Da decine di anni sono considerati la base della militanza islamica nel mondo arabo e alcuni li ritengono gli ispiratori dell’attuale terrorismo mediorientale. In Egitto l’organizzazione – chiamata semplicemente al-Ikhwan, i Fratelli – è vietata ma tollerata, e la polizia politica la tiene d’occhio. Il regime di Mubarak ha fatto di tutto per impedirle di partecipare alle ultime elezioni politiche ma, come ho potuto constatare parlando con il presidente Sorour, l’ingresso degli islamici alla Camera bassa non è certo passato inosservato. «Sono pericolosi perché sono ben organizzati e hanno una rete molto estesa» mi aveva detto al momento di lasciarci, come per mettermi in guardia. Nessuno sa veramente quanti siano i suoi membri o simpatizzanti in Egitto, ma sono senz’altro diversi milioni. Presentati come una nebulosa, discreta e multiforme, sono radicati in ogni settore della società. Per fare proseliti forniscono servizi sociali indispensabili per un’enorme massa di diseredati. Esercitano anche una forte influenza sulle classi medie, istruite e urbanizzate: funzionari, insegnanti, impiegati che vedono in loro l’unico baluardo contro l’arbitrio del regime. Il fondatore della Società dei Fratelli musulmani, l’egiziano Hassan al-Banna, era maestro di scuola a Ismailia, sul Canale di Suez, all’epoca in cui gli inglesi controllavano il Paese. Il suo obiettivo primario era creare una società di mutua assistenza, come ne esistevano già decine all’epoca, allo scopo di fornire ai più poveri un aiuto per la salute e l’istruzione. E riportare i concittadini a un rispetto più rigoroso dei princìpi dell’Islam. Così al-Banna impartiva lezioni serali ai genitori dei suoi alunni, e nel tempo libero andava a predicare nelle moschee, nelle piazze, addirittura nei caffè. Stava costruendo il nucleo ideologico della futura militanza islamica. Nel suo progetto iniziale aveva coinvolto, non a caso, sei dipendenti della compagnia internazionale che gestiva il

Canale di Suez: una delle principali istanze dei Fratelli è stata, fin dall’inizio, la lotta contro l’occupazione straniera dei territori arabi, in particolare dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948. Al-Banna sognava che grazie all’Islam i musulmani ritrovassero la grandezza dell’epoca imperiale, quando il dominio degli Abbasidi si estendeva dall’Iran alla Spagna. Il suo messaggio aveva anche una chiara matrice egualitarista: giustizia sociale e lotta contro la corruzione. Ma nel programma di al-Banna c’erano anche la segregazione femminile e l’adozione di un rigoroso codice di abbigliamento, come reazione all’«intossicazione da Occidente». Tuttavia era a favore di un ruolo attivo delle donne in politica, in particolare attraverso il diritto di voto. Alla fine del 1948 il conflitto tra la monarchia egiziana, completamente dipendente da Londra, e i Fratelli musulmani conobbe il primo episodio di sangue: la polizia, sostenendo di aver scoperto un complotto ordito dall’«esercito segreto» dei Fratelli, ne arrestò 32. Il 28 dicembre il primo ministro Mahmud Fahmi Nokrashi fu assassinato da uno di loro. Sei settimane dopo, lo stesso al-Banna fu ucciso in una strada del Cairo da alcuni agenti del governo. Aveva quarantadue anni. L’influenza che esercitava non sarebbe però svanita con la sua morte. Nella fase della conquista del potere, Nasser si era appoggiato ai Fratelli, ma dopo la rivoluzione del 1952 la luna di miele ebbe breve durata. Il nuovo uomo forte dell’Egitto, laico e di tendenze socialiste, cercò di ridurne l’influenza, ritenendoli troppo religiosi. Li perseguitò e fece più volte imprigionare il gruppo dirigente. Rinchiusi in carcere, i Fratelli compresero che occorreva andare oltre il proselitismo e la mobilitazione popolare. Un loro importante esponente, Sayyid Qutb, incarcerato durante la repressione degli anni Cinquanta e liberato solo nel 1964, aveva maturato la convinzione che il regime, pur dichiarandosi musulmano, avesse in realtà tradito la vera fede. Per ritornare a una società animata dall’Islam non rimanevano altre soluzioni che una nuova jihad: una lotta sulla via di Dio che per molti si sarebbe tradotta in aperta ribellione armata ai dittatori corrotti. Simili idee lo condannarono: nel 1965 fu arrestato di nuovo e impiccato. Sayyid Qutb aveva un fratello, Muhammad, che come molti altri egiziani aveva trovato lavoro in Arabia Saudita, dove faceva l’insegnante. Nel corso delle sue lezioni, riprese gli appelli alla rivoluzione lanciati da Sayyid. Uno dei suoi studenti era destinato a conquistare una scellerata fama: Osama bin Laden, fondatore di al-Qaida, mandante degli attentati dell’11 settembre. E un altro suo studente avrebbe giocato un ruolo chiave nel terrorismo internazionale: Ayman al-Zawahiri, capo della Jihad islamica in Egitto e teorico di al-Qaida. I Fratelli musulmani, espandendosi in altri Paesi arabi, sono spesso entrati in aperto conflitto con i poteri costituiti. In Siria, per esempio, per soffocare una rivolta da loro fomentata, il presidente Hafez al-Assad nel 1982 non esitò a far radere al suolo un’intera città – Hama – massacrando 20.000 persone. In Palestina si rivelarono molto influenti negli anni Cinquanta, quando il Cairo controllava la Striscia di Gaza e il territorio di Amman si estendeva fino alla sponda occidentale del Giordano. All’indomani della Guerra dei Sei giorni, che garantì agli israeliani il controllo di Gaza e della Cisgiordania, i Fratelli incoraggiarono la lotta dei movimenti religiosi contro i combattenti nazionalisti e laici di organizzazioni come al-Fatah di Yasser Arafat. Riuscirono a far evadere uno dei loro capi, lo sceicco Ahmed Yassin, che Nasser aveva fatto arrestare nel 1967. In seguito Yassin sarebbe diventato la bestia nera degli israeliani: vent’anni dopo fondò Hamas, vera e propria macchina da guerra contro lo Stato ebraico, capace di contendere ad Arafat la rappresentanza del popolo palestinese. Hamas ha vinto le elezioni politiche – libere e democratiche – del 2006, diventando così il legittimo rappresentante politico dei palestinesi. Non lo riconoscono né l’Europa né gli Stati Uniti, che lo considerano un’organizzazione terroristica. Quanto a Yassin, accusato di essere l’ispiratore di numerosi attacchi suicidi in Israele, è stato assassinato nel 2004 da un missile che ha colpito e distrutto l’automobile su cui viaggiava. Muhammad Habib ha trascorso molti anni in carcere. Così tanti che sembra perdere il conto: è stato in prigione nel 1981, poi dal 1995 al 2000, e infine per oltre un anno tra il 2001 e il 2002. Jacques e io ci sediamo nel suo ufficio, al quartier generale dei Fratelli musulmani al Cairo, e intanto ci spiega che al momento le patrie galere ospitano circa

210 dei loro dirigenti. Habib ci riceve al posto della Guida Suprema, Muhammad Mahdi Akef, che ha avuto un «impedimento». Il numero due dei Fratelli è un uomo basso, rotondetto, con una barba grigia e occhiali spessi, occhi vivaci e un sorriso gentile. Mi fa pensare più a un sollecito funzionario che a un agitatore pronto a scontrarsi con le autorità. Neppure il luogo in cui ci riceve somiglia molto al covo di una cellula rivoluzionaria. È un appartamento di quattro stanze al primo piano di un anonimo edificio sulle rive del Nilo. Nessuno sbarramento, niente guardie armate, nemmeno un piantone ad aprirci la porta. E nessuno che verifichi l’identità di due visitatori che dicono di avere appuntamento con un personaggio di cui molti servizi segreti della regione vorrebbero sbarazzarsi. In attesa di essere ricevuti, ci siamo accomodati su un divanetto nell’ingresso. Sul pavimento una moquette rossa e alle pareti alcuni manifesti che ripetono all’infinito lo slogan: «L’Islam è la soluzione». Il personale è esclusivamente maschile: nessuna bella segretaria dai sorrisi di circostanza a servirci tè o caffè. Ci sono alcuni televisori accesi, fotocopiatrici che sputano fuori ritmicamente fogli certamente fitti di importanti istruzioni, e monitor che lampeggiano obbedendo alla rapida digitazione di alcuni dattilografi barbuti. Il nostro ospite è seduto in fondo a un lungo tavolo da riunione, ingombro di pratiche. Un membro dell’organizzazione funge da interprete, anche se Habib parla perfettamente inglese: è una tecnica classica in questa parte del mondo. Il tempo necessario per tradurre la domanda del visitatore permette a chi deve rispondere di pensare bene ed evitare di dire sciocchezze. Un altro uomo siede davanti a un computer portatile e prenderà appunti per tutta la durata della conversazione. Habib è stato informato del mio progetto e del mio desiderio di esplorare il mondo delle donne nei Paesi musulmani. E subito si lancia in una lezione sulle bellezze dell’Islam e sul trattamento privilegiato che la religione di Maometto riserva al sesso debole: «L’Islam è uno stile di vita che ingloba tutte le attività umane: la politica, il sociale, l’economia, la cultura. E garantisce la partecipazione delle nostre “sorelle”, in tutti gli ambiti». Metto subito fine al suo monologo per evitare di dover subire una lectio magistralis sui meriti della terza religione rivelata. Gli chiedo piuttosto se la presenza di deputati vicini alla Società dei Fratelli musulmani, in un Parlamento considerato una marionetta nelle mani del regime, non faccia perdere loro credibilità. «Siamo in Parlamento per controllare e sorvegliare il lavoro del governo, per opporci alla sua corruzione. È il nostro elettorato a volerlo.» Mi spiega che i Fratelli hanno partecipato alle elezioni del 2005, ma si sono ben guardati dal presentare candidati in ogni circoscrizione: «Non volevamo provocare Mubarak e volevamo lasciare agli altri partiti la possibilità di partecipare» dice con una certa arroganza. Una loro vittoria totale, bisogna aggiungere, avrebbe molto probabilmente provocato un colpo di Stato: i militari sarebbero potuti intervenire per annullare il risultato delle elezioni e ripristinare il regime. Habib dice di essere perfettamente consapevole che le ultime disposizioni votate in Parlamento per cambiare la Costituzione, approvate in fretta e furia con un referendum, sono rivolte contro di loro. «Ma non siamo noi a costituire un pericolo per l’Egitto» assicura. «Il rischio viene dallo stato di emergenza, ancora in vigore, dalle limitazioni delle libertà civili, dai tribunali speciali e dai brogli elettorali!» Gli osservatori internazionali denunciano sistematicamente le irregolarità nelle consultazioni egiziane. La votazione del giugno 2007, che ha assegnato al partito di governo 69 seggi su 71 al Senato, non ha fatto eccezione. «Sappiamo che il regime non ha nessuna intenzione di attuare riforme» continua. «Sappiamo anche che non lascerà il potere di sua spontanea volontà: è un caso senza speranza.» Gli chiedo perché i Fratelli non abbiano scelto di utilizzare le loro reti e la loro influenza per mobilitare le piazze. «Nel 2005 c’è stato un momento di apertura, ma ben presto la polizia ha iniziato ad arrestare i dimostranti. Oggi non è più possibile protestare. E lanciare parole d’ordine di mobilitazione è da irresponsabili» afferma. «La nostra strategia è di rimanere a strettissimo contatto con le masse. La sola speranza è il popolo egiziano.»

Gli faccio notare che gli egiziani mi sembrano letargici e fatalisti. Mi risponde che le leggi d’emergenza sono estremamente dissuasive: «Sono come una spada di Damocle, giustificano ogni brutalità. L’unica arma che può funzionare è la disobbedienza civile». Cosa faranno i Fratelli se Mubarak trasferirà il potere al figlio? È un argomento che preoccupa l’intera comunità diplomatica del Cairo. Il presidente, che compirà ottant’anni l’anno prossimo, starebbe preparando la successione del suo rampollo Gamal, un giovane senza molto carisma che ha sposato alla fine di aprile una ricca ereditiera. Le prossime presidenziali non sono previste prima del 2011, ma nulla impedisce a Mubarak di abbreviare il proprio mandato. L’idea sarebbe di far nominare Gamal candidato del Partito presidenziale, eliminando poi con leggi restrittive i concorrenti più popolari e infine facendo approvare con un voto di facciata l’elezione del figlio. «Respingiamo assolutamente questa eventualità» esclama Habib. «Rifiutiamo che qualunque governante sia insediato al potere senza un meccanismo democratico. Ma ci opporremo in modo politico e di concerto con le altre formazioni.» Se invece andassero al potere i Fratelli musulmani, però, aumenterebbe il peso nel sistema legislativo della Sharia, l’insieme di norme che guida la vita dei musulmani si occupa sia delle pratiche religiose sia di problemi di diritto civile, penale e militare. Regola il matrimonio, il divorzio, l’educazione dei figli, l’eredità, le questioni finanziarie, la punizione dei crimini, e anche la sessualità e l’igiene. All’epoca in cui fu elaborata, durante l’onnipotente califfato abbaside, due secoli dopo la morte di Maometto, era un innegabile progresso giuridico: fissando una struttura legale teoricamente valida per tutti, cercava di fornire una tutela contro il potere arbitrario del sovrano assoluto. Ancora oggi gli oppositori di qualunque regime vi si appellano per reclamare politiche più giuste. Ma la Sharia è soprattutto un sistema interpretativo destinato a guidare le decisioni di legislatori e giudici. Nei secoli, si sono stratificate pratiche, interpretazioni e usi molto spesso influenzati dai contesti storici in cui erano nati, e oggi non più applicabili. Un simile corpus legale, con così ampi margini di arbitrarietà e così stretti legami con la religione, è del tutto alieno dalla concezione moderna e democratica dei diritti dei cittadini, di entrambi i sessi. «Ovviamente il nostro obiettivo è mettere in pratica la Sharia,» risponde senza alcun imbarazzo il nostro interlocutore «ma dobbiamo prima di tutto essere capaci di creare un clima che spinga le persone ad accettarla: garantire la sicurezza, l’alloggio, la sussistenza minima… Ma non costringeremo nessuno a essere praticante: non esiste costrizione nella religione.» Gli chiedo quali sarebbero le prime cinque misure adottate dai Fratelli musulmani se arrivassero al potere. Senza esitare mi presenta una lista ambiziosa: «Abrogare lo stato di emergenza; instaurare e garantire le libertà civili, come il diritto di fondare un partito politico, la libertà di espressione e la libertà di manifestare; annullare tutte le leggi eccezionali e abolire i tribunali speciali; assicurare l’indipendenza della giustizia; garantire elezioni libere e trasparenti che riflettano la vera volontà del popolo egiziano». Sorrido e gli faccio notare che la sua lista somiglia in modo sconcertante agli obiettivi elaborati dagli uomini di Bush che, in nome della democrazia, si sono lanciati in una serie di sanguinose disavventure in Medio Oriente. Habib mantiene una gelida calma: «Gli Usa sono in Afghanistan e in Iraq, distruggono e uccidono per proteggere Israele e opprimono i palestinesi. Appoggiano i regimi dispotici della regione. Parlano di democrazia e di difesa dei diritti umani, ma sono solo menzogne. Non ci fidiamo dell’amministrazione americana: Bush ha distrutto la fiducia che la gente riponeva negli Stati Uniti. Ignorano le norme internazionali e utilizzano la forza per legittimare la loro politica: hanno ripristinato la legge della giungla». I Fratelli, che non sono ritenuti un’organizzazione terroristica né da Washington né da Bruxelles, hanno condannato gli attacchi dell’11 settembre ma considerano i kamikaze palestinesi che colpiscono obiettivi, anche civili, in Israele come combattenti che lottano con ogni mezzo contro l’occupazione delle loro terre. Giustificano anche il ricorso all’uso delle armi contro gli americani in Iraq: «L’occupazione è la causa di tutto. Non si può

giudicare il terrorismo senza tenere conto del ruolo degli Stati Uniti» asserisce Habib. Ritiene che gli Usa cerchino di aizzare gli uni contro gli altri da una parte i Paesi alleati che considerano moderati – l’Egitto, l’Arabia Saudita o la Giordania – e dall’altra le nazioni accusate di appoggiare il terrorismo come l’Iran o la Siria. L’uso della violenza, anche contro civili, come strumento di lotta politica qui è una questione scottante: il Paese dipende totalmente dai turisti che ogni anno spendono miliardi di dollari in valuta e che il minimo incidente può far scappare. Gli attentati degli ultimi anni sono stati rivendicati da gruppi che dicono di appartenere, in maggioranza, alla Jamaa Islamiya o alla Jihad islamica in Egitto, due organizzazioni inserite nella lista delle formazioni terroristiche di Washington. Habib si è pazientemente sottoposto alle mie domande, ma voglio sollevare anche negli uffici degli Ikhwan la questione della mutilazione genitale. L’Islam probabilmente non avrà nulla a che vedere con quest’usanza, ma un’organizzazione che aspira a prendere il potere, e che per farlo si appella alla Parola divina, deve spiegarmi come è possibile che le creature di Dio vengano sottoposte a una simile tortura nel silenzio complice delle istituzioni politiche e religiose. Habib mi assicura che nessuna delle sue quattro figlie è stata mutilata. «Ho consultato diversi medici, ma mi hanno detto che non era necessario.» Cita l’hadith secondo il quale il Profeta avrebbe affermato che la circoncisione è un bene per gli uomini e «preferibile» per le donne, ma ammette che è un testo piuttosto controverso. Perché i Fratelli non parlano apertamente del problema? «Perché è necessaria una fatwa per legiferare su questa pratica e noi non ne pronunciamo. Serve una sentenza religiosa che sia definitiva. Se decretasse che è necessaria, lasceremmo la decisione ai singoli credenti.» Non sono soddisfatta e glielo dico: non credo che un movimento politico responsabile possa astenersi dall’intervenire. Ma è ovvio che Habib non vuole entrare in questo tipo di discussioni. «I Fratelli non la ritengono una questione importante. Chi vuole far circoncidere le proprie figlie, può farlo.» Anche il presidente Sorour mi aveva detto che la mutilazione genitale non era «una priorità». Un tragico punto di convergenza tra regime e opposizione.

Al-Geish Street è in un quartiere popolare e rumoroso, botteghe e officine allineate lungo strade semibuie. L’edificio in cui siamo entrati ha senz’altro conosciuto giorni migliori, e il custode che sbuca da un sottoscala per darci informazioni sembra il personaggio di un film neorealista. La scala è sporca e mal illuminata, le pareti scrostate. Suono alla porta di un appartamento al primo piano. Sulla targhetta di rame c’è il nome della persona che siamo venuti a incontrare: Gamal al-Banna, un testimone fondamentale degli ultimi tumultuosi decenni. Su questo pianerottolo scalcinato, nel cuore del quartiere operaio del Cairo, ho rintracciato il fratello di Hassan al-Banna, l’uomo che tanto ha inciso sui destini mediorientali. Dopo una brevissima attesa, la porta si apre e nello spiraglio compare un volto sorridente. Lo sguardo acceso, i lineamenti fini, la pelle olivastra segnata attorno alle labbra e agli occhi dal passare del tempo, Gamal al-Banna ha ottantasette anni. Impettito nel suo abito leggero grigio antracite, sembra non voler perdere nemmeno un centimetro della sua non eccezionale statura. Con un gesto ci invita a entrare. Ho la sensazione di essere piombata in un’altra epoca. Mi ritrovo nel regno dei libri, allineati con ordine ai due lati del corridoio. Dal pavimento fino al soffitto i volumi, ciascuno contrassegnato da un’etichetta e da un numero, tappezzano le pareti. Lo stesso ufficio è una biblioteca e i libri occupano una scaffalatura di dodici ripiani, senza spazi vuoti. Alcuni mobili – qualche poltrona dai cuscini sfondati, una scrivania ingombra di carte – sono scampati al dilagare dei tomi, ma sembrano intrusi in un mondo consacrato alla lettura. «Qui abbiamo 3000 libri in inglese e 30.000 in arabo» spiega Gamal che tende a usare il «noi» per parlare di sé. Sostiene di aver ereditato la bibliofilia dal padre, un «erudito islamico», e di averla potuta soddisfare grazie alla

sorella, che è emigrata in Arabia Saudita come insegnante per mantenere il resto della famiglia. In segno di riconoscenza nella stanza troneggia un ritratto della benefattrice, Fawziyya al-Banna. Gamal invece non ha mai avuto un impiego dipendente: ha dedicato tutta la vita a ciò che amava di più, leggere e scrivere. «E scrivo sempre a mano» puntualizza. Ha al suo attivo centinaia di articoli e più di 40 pubblicazioni di religione, politica e storia. Dalla Repubblica di Weimar alla questione del velo, passando per il ruolo della donna nella società islamica. È persuaso che l’Islam, che studia da sempre, non sia un ostacolo allo sviluppo, alla modernità e alla democrazia. Sono i regimi autoritari e le dittature a sfruttarlo, generando l’idea che si tratti di una religione oppressiva. In particolare nei confronti delle donne. «Ci sono due Islam,» mi spiega «quello del Profeta e quello dei nostri antenati che hanno messo per iscritto le tradizioni e il diritto coranico. Ma i giuristi hanno scritto la legge assecondando le esigenze e gli interessi del potere imperiale, non della religione.» Gli racconto del mio incontro con Asmaa nei giardini del Marriott e gli ripeto quello che mi ha detto sul velo islamico l’amica, Dalia: «La donna è una cosa preziosa che deve essere protetta. L’hijab è lo scrigno nel quale si tiene al sicuro un gioiello di valore». Al-Banna sorride: secondo lui, questa è più la dichiarazione di un’indottrinata che quella di una credente. «Non c’è scritto da nessuna parte che le donne devono coprirsi la testa. Né di mutilare le ragazzine per renderle più docili. Si impone solo di nascondere il seno, che nell’epoca preislamica spesso veniva scoperto per allattare i figli.» Il velo esisteva già duemila anni prima dell’Islam e gli è stato imposto, argomenta. «La tradizione è più forte della religione e la sfrutta per camuffarsi. La lettura misogina del Libro sacro è prima di tutto una questione di potere, che gli uomini vogliono mantenere saldamente in pugno» mi assicura Gamal. «Non c’è costrizione nella sfera religiosa, alcuni compagni del Profeta si sono addirittura convertiti al Cristianesimo, ed egli non li ha condannati. Ma in seguito i giuristi hanno decretato che gli apostati dovevano essere puniti con la morte.» Con simili affermazioni, il vecchio pensatore si è attirato gli strali dell’Università al-Azhar ed è stato anche condannato a morte per apostasia da alcuni gruppi di estremisti, ma non se ne cura: ha la forza degli spiriti liberi e né critiche né minacce riusciranno a farlo tacere. Una voce fuori dal coro nella sclerosi generale delle società arabomusulmane, paralizzate nel loro passato. «La nostra storia è immobile. La società occidentale ha conosciuto la rivoluzione industriale, noi no. E mentre l’Occidente si lanciava in questa avventura, noi perdevamo la nostra vitalità.» Contemporaneamente il mondo islamico è stato attraversato da correnti di pensiero fondamentaliste che cercavano la risposta a una domanda che ancora oggi le assilla: come spiegare il fallimento terreno dell’Islam, che invece avrebbe dovuto essere l’espressione più perfetta del messaggio di Dio? Perché la terza religione rivelata non ha saputo offrire ai popoli che hanno abbracciato i suoi insegnamenti i successi politici ed economici conosciuti dalle altre genti del Libro, i cristiani e gli ebrei? Per cercare di rispondere a questa domanda nel XIX secolo, nei corridoi di al-Azhar, si è diffusa una corrente di pensiero integralista: il salafismo. Secondo i suoi teorici, la decadenza dei Paesi arabi deriva dall’emarginazione del vero Islam, dall’abbandono dei suoi insegnamenti fondamentali da parte di regimi e società corrotti. Di qui il bisogno di un ritorno alle origini, a quella purezza del messaggio islamico in grado di restituire forza e potere alla Umma. I salafiti si sono dunque rifatti all’insegnamento degli «antenati» (salaf, in arabo) per ristabilire le vere basi dell’Islam come disciplina di vita. Uno dei primi movimenti ad ispirarsi a questa corrente è stato quello dei Fratelli musulmani, che a pochi anni dalla fondazione, si diffusero in Arabia Saudita, in particolare quando il regno ebbe bisogno di personale docente. Da allora, generazioni di professori egiziani sono partiti alla volta del deserto per formare la gioventù saudita in matematica, lingue straniere o medicina, ma anche per divulgare la loro idea di Islam. Nel regno dei Saud il pensiero

salafita, come una reazione al declino della civiltà araba e all’occidentalizzazione forzata, è stato a sua volta influenzato dal wahhabismo. Oggi alcuni analisti politici considerano il salafismo assai più pericoloso dei Fratelli musulmani. Gamal ostenta diffidenza nei confronti dell’organizzazione fondata dal fratello. Non crede che sia l’alternativa di cui l’Egitto ha bisogno: «Instillano la paura nel cuore delle persone e poi la sfruttano: “Veniteci a trovare prima del Giudizio finale” dicono». Pensa che non basti ricorrere alla religione e alle sue formule a volte semplicistiche, e che anzi sia addirittura pericoloso. Denuncia quella che definisce la «feticizzazione della religione», ovvero la riduzione di un messaggio, ricco e complesso, che ha l’ambizione di rispondere alle domande fondamentali dell’umanità, a una serie di cliché. «E sono questi a formare l’immagine dell’Islam che si diffonde in Occidente» deplora il vecchio teologo. «Abbiamo bisogno di un cambiamento radicale, ed è necessario che avvenga molto rapidamente,» continua «altrimenti qualunque progresso è impossibile.» L’impoverimento della società, il crescente squilibrio tra un’élite che si arricchisce e un popolo che sprofonda nella miseria rende la situazione insostenibile: «La vera jihad è la jihad economica» dice. Ma ammette che l’Egitto non è il Paese delle sommosse e delle grandi mobilitazioni popolari. Anche la rivoluzione del 1952, che portò Nasser al potere, fu più un colpo di Stato militare che un movimento di massa. «Gli egiziani sono scesi in strada più per i funerali di Umm Khultum, la cantante, che per far cadere un regime detestato.» L’unico esempio nella regione non è arabo bensì persiano: «La rivoluzione iraniana fu una rivoluzione popolare. E l’imam Khomeini era un vero uomo di Stato». Dura un’ora il nostro colloquio nel piccolo ufficio dove sembrano essersi rifugiate, tra la polvere, la saggezza e la speranza in fuga da un mondo abbandonato ai truffatori della politica. Il nostro ospite ci accompagna alla porta con passi lenti, accarezzando con gli occhi i libri a lui tanto cari. «Andiamo verso un periodo di cambiamento,» ci avverte, ormai sulla soglia «ma non abbiamo né un capo, né un partito, né tanto meno un’ideologia. Sarà dunque un periodo di caos: ma non può essere peggio di Mubarak.»

CAPITOLO 7 KIFAYA! N ELLA BATTAGLIA per il loro futuro, le egiziane sono in prima linea su tutti i fronti: politica, religione, sviluppo economico. E quelle che ho incontrato sanno che la lotta non riguarda solo loro. «Si parla di partecipazione politica delle donne, quando non partecipano neanche gli uomini!» mi spiega Leila Soueif, una delle animatrici del movimento di opposizione Kifaya, ovvero «Basta!», e sorella della famosa scrittrice Adhaf che mi ha messo in contatto con lei. «La verità è che negli ultimi vent’anni c’è stato un regresso generale.» Prigioniera di un potere fossilizzato e di partiti religiosi anacronistici, l’altra metà del cielo cerca di agire prima che sia troppo tardi. La sfida è enorme perché il primo problema è l’istruzione: il tasso di analfabetismo è ancora vicino al 30 per cento. Ma il regime vuole veramente combattere l’ignoranza? Chi sa leggere e scrivere sa anche informarsi e contestare. E rappresenta un pericolo per qualunque Stato autoritario. Leila insegna matematica all’Università del Cairo. «Mi è sempre piaciuta» mi dice. «Mio padre, che era

professore di sociologia, me l’ha fatta scoprire all’età di undici anni e io mi ci sono immersa. Da allora non l’ho più lasciata.» La madre, anche lei docente universitaria, si occupava invece di letteratura inglese. Capelli grigi, occhiali cerchiati di metallo, Leila sembra sempre di buon umore e pronta a sorridere alla vita, anche nei momenti peggiori. Che per un’attivista politica, militante per i diritti umani e accanita oppositrice della dittatura di Mubarak, non mancano. Secondo lei, nel corso del XX secolo la condizione delle donne in Egitto è cambiata in funzione degli imperativi economici, e il processo è destinato a continuare. «Sono andate a lavorare quando un secondo stipendio è diventato indispensabile e quando il mercato del lavoro ha avuto bisogno di loro. È la necessità a dettare i comportamenti.» Anche Leila sottolinea che ultimamente si vedono in giro molti più veli. «Molte musulmane credenti lo indossano per essere riconosciute come tali, altre come accessorio di moda. Ma ci sono ragioni concrete per questa svolta religiosa: la delusione verso le ideologie, il contatto con Paesi ultraconservatori come l’Arabia Saudita, l’attivismo dei gruppi islamici.» Le correnti di pensiero del secolo scorso hanno contribuito, per un certo periodo, all’emancipazione femminile. Il cambiamento è iniziato con la rivoluzione popolare del 1919 contro l’occupazione britannica: sono state coinvolte fin dall’inizio. «Chi capeggiava la rivolta voleva far progredire le donne» spiega Leila «e questo ha segnato il loro ingresso nella vita politica egiziana.» A ispirare un’intera generazione di nazionalisti erano gli ideali dell’Illuminismo in Europa, della Rivoluzione francese e la condanna del colonialismo. L’Islam tradizionale fu emarginato: «I progressisti incontrarono l’opposizione degli ambienti religiosi, che peraltro al loro interno erano divisi tra favorevoli e contrari alla partecipazione femminile». Con la presidenza di Nasser si diffuse una visione egualitaria della società, che ha resistito fino alla sua morte nel 1970. Nella sfera strategica dell’insegnamento l’uguaglianza c’era: «I voti erano l’unico criterio di giudizio. Se una ragazza era abbastanza brava a scuola, veniva ammessa all’università. Nessuna famiglia in Egitto avrebbe rinunciato alla possibilità di avere una laureata tra i suoi membri». Oggi negli atenei statali le studentesse sono il 56 per cento. Le circostanze hanno continuato a giocare a favore delle donne: tra il 1967 e il 1973, gli anni delle due guerre con Israele, gli uomini furono arruolati nell’esercito, liberando posti di lavoro. Poi subentrò la crisi economica del 1974: mentre i mariti emigravano nei ricchi Stati del Golfo per guadagnarsi da vivere, le mogli avanzavano nelle professioni. Nell’Egitto di oggi, niente le aiuta. Il tasso di disoccupazione è altissimo e la competizione tra i sessi per gli impieghi disponibili è assai dura. All’ombra del totalitarismo politico si sviluppa un islamismo misogino e settario. Il liberismo economico selvaggio erode le sovvenzioni e gli aiuti sociali. Quanto alle ideologie laiche – comunismo, baathismo, nasserismo – saranno necessari diversi decenni prima che si riprendano dalle molteplici sconfitte. «La sinistra da noi non esiste: se si mettono insieme 1000 persone di sinistra si ottengono 50 partiti intenti a sbranarsi a vicenda» osserva amaramente Leila. Il movimento Kifaya, di cui lei è uno dei membri più attivi, ha cercato di creare una terza via tra l’arbitrio del potere e il settarismo dei Fratelli musulmani. È nato come estensione dei comitati di solidarietà con i palestinesi che si erano formati all’epoca della seconda Intifada, nel 2000. Si è consolidato organizzando in Egitto l’opposizione alla guerra americana in Iraq, che è rapidamente diventata una denuncia dell’alleanza tra Mubarak e Bush. Oggi uno dei cavalli di battaglia è la prospettiva che il potere passi direttamente dal padre Hosni al figlio Gamal: «Gli egiziani ne hanno abbastanza, l’idea di questa successione li sconforta. Ma a garantire la sopravvivenza del regime, a parte l’appoggio degli Stati Uniti e anche dell’Europa, c’è il suo apparato di sicurezza che tra l’esercito e i servizi di polizia conta due milioni di agenti». Kifaya è stato preso di mira, ma «oggi nessuno dei nostri militanti è in carcere», assicura Leila. Lei personalmente non è mai stata arrestata, ma il figlio Alaa, venticinque anni, ha trascorso in prigione sei settimane e il marito,

Ahmed Seif, accusato nel 1983 di essere comunista, c’è stato per quattro anni ed è stato torturato. «Gli hanno fatto cose terribili» ricorda cupa la moglie. In questo contesto non stupisce che i Fratelli musulmani siano il movimento più potente in Egitto. Leila non ha dubbi che prima o poi prenderanno il potere: «Non lo potremmo comunque evitare» afferma. «Ma non cercano certo un bagno di sangue.» E secondo lei non rappresentano un pericolo: «Saranno pericolosi per Israele – ma qualunque governo democratico in Egitto lo sarebbe – e per la minoranza che beneficia dell’attuale regime. Per il resto della popolazione, la situazione non può certo peggiorare. Per quanto riguarda noi, cercheranno di imporci un codice di abbigliamento, e bisognerà opporsi. Ma non ci costringeranno a smettere di lavorare, ed è questo che conta. Succederà prima o poi, a dispetto di qualunque repressione».

Lula Zaklama non è dello stesso parere, anche se la sua vita è il frutto proprio di quella mescolanza di circostanze storiche e battaglie ideologiche descritta da Leila. Vivace bisnonna, dirige una delle agenzie di pubbliche relazioni più quotate del Medio Oriente, la Rada Research. Le sue due figlie e le nipoti lavorano con lei: una società a conduzione familiare che conta tra i suoi clienti anche lo Stato egiziano, desideroso di migliorare la sua immagine. Inoltre Lula fa parte del consiglio della potentissima Camera di commercio egiziano-americana, ed è stata presidente dell’Associazione internazionale delle agenzie di pubbliche relazioni. Non ha complessi a gestire i propri affari in un mondo di uomini e comincia ogni sua lunga giornata di lavoro con una partita a tennis. Eppure chi avrebbe mai immaginato, quarantasei anni fa, che un giorno Lula sarebbe stata incaricata di pubblicizzare il suo Paese come porto di progresso e di stabilità, e come destinazione appetibile per i capitali stranieri? Nel settembre del 1961 era ancora studentessa e già madre di due bimbe. I suoi genitori – cristiani copti – avevano dichiarato bancarotta e il marito era appena finito in carcere. Oggi parlando di quel periodo della sua vita riesce a permettersi qualche allegra risata, mentre guida con una mano sul volante e l’altra al cellulare che non smette di squillare. Si apre una strada negli ingorghi del Cairo per portarci nella sua casa di Mirage City, un complesso molto chic di ville costruite intorno a un campo da golf, alla periferia della capitale. Tutto qui costa di più: i terreni, le case, i servizi, addirittura l’acqua per riempire le piscine. I proprietari devono pagarla allo stesso prezzo dell’acqua potabile. «Ma vale veramente la pena: qui si respira.» La polizia politica di Nasser arrestò suo marito Ramzi il giorno del loro anniversario di matrimonio, il 28 settembre 1961. Era sospettato di attività contro il regime oltre ad appartenere, come lei, a famiglie molto in vista e tenute sotto stretto controllo dal potere. «Quando finalmente, dopo tre settimane, mi autorizzarono a vederlo, era un uomo umiliato e spezzato. I prigionieri politici in Egitto erano trattati come bestie.» Lula aveva vent’anni e i suoi erano stati rovinati dalle nazionalizzazioni di Nasser. Si era sposata a sedici anni con Ramzi, funzionario della compagnia aerea Egypt Air, ma aveva proseguito negli studi. Con il marito in prigione, il mondo le crollò addosso. «Mi dissi subito che era necessario lavorare, così rilevai un’azienda pubblicitaria che un amico ebreo egiziano aveva deciso di abbandonare lasciando il Paese.» Il tuffo nel mondo della pubblicità non fu indolore: «Le cose sono iniziate molto male. Non appena rilevai l’agenzia, gli unici tre clienti se ne andarono. Ma poi accadde un miracolo, di nome Procter & Gamble». Il gigante americano dei prodotti per la casa voleva entrare nel mercato egiziano e si rivolse all’unica persona che parlava inglese: Lula con la sua piccola impresa senza giro d’affari. Contemporaneamente la giovane donna si era lanciata nell’avventura più importante: far uscire dal carcere l’uomo che amava.

Smosse mari e monti per far arrivare una lettera a Nasser, e ci riuscì tramite uno zio, medico del presidente. Assicurava che il marito era innocente, un leale cittadino, e citava la Bibbia, che ordina ai fedeli di sottomettersi all’autorità del sovrano, scelto da Dio. «Dopo qualche giorno ricevemmo un messaggio urgente della Presidenza che chiedeva di confermare ciò che diceva la Bibbia indicando il versetto. Ci siamo precipitati come pazzi alla ricerca del brano. Era nella Lettera ai Romani.» Alcuni giorni dopo Ramzi fu liberato. Oggi si occupa di politica: è un dirigente del partito di opposizione Wafd e scrive per il giornale del movimento. Siamo seduti sulla loro terrazza. Si leva un vento leggero nel quale Ramzi vede le avvisaglie di una tempesta di sabbia. Ha ragione: il giorno dopo sul Cairo si leverà una nuvola di polvere immensa, tanto da oscurare il sole e l’orizzonte. «L’Egitto è sempre meno egiziano e sempre più arabo» mi spiega quando gli chiedo perché sono ormai in tante a indossare il velo. Lui è tra coloro che difendono la specificità dell’identità egiziana, all’incrocio di diversi mondi – l’Africa, il Mediterraneo, il mondo arabo – e di storie diverse – i faraoni, i greci, i romani, gli Ottomani. E infine con la mescolanza di fedi: l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam. Chiedo a Lula se come copta sente la pressione della religione di Stato, se esiste una tensione tra le comunità di credo diverso. «La società si sta islamizzando, non c’è dubbio: le donne non velate sono un’eccezione» annuisce. «Ma le relazioni tra copti e musulmani sono buone.» Oggi le nazioni del Golfo, a cominciare dall’Arabia Saudita, acquistano un’influenza sempre maggiore. Per l’Egitto si tratta di un’inversione di tendenza, di un ritorno all’«arabismo» dopo la morte di Nasser nel 1970 e la disillusione verso il panarabismo. Ora è il regno saudita a cercare di imporsi come motore diplomatico di un mondo arabo indebolito, diviso e privo di figure carismatiche. Lula ha pensato diverse volte di lasciare l’Egitto. Ha addirittura lavorato due anni in Libia per la Procter & Gamble. Ma Ramzi non ha mai voluto andarsene: «È il mio Paese» dice semplicemente. Il talento di Lula ha potuto finalmente emergere quando, all’inizio degli anni Ottanta, il suo grande cliente statunitense ha deciso di rilanciarsi sul mercato egiziano. «Gli americani mi hanno chiesto: “Come fate il bucato?”. Ho dovuto spiegare che non conoscevamo i detersivi in polvere: mescolavamo in casa gli ingredienti per fare il sapone e facevamo bollire per ore la biancheria sporca in grandi vasche. Il mio compito era convincere le mie connazionali a cambiare abitudini.» Lula ha introdotto un’altra novità nella loro vita: l’assorbente. «Le mestruazioni sono un argomento tabù, la religione ne fa un momento delicato. Ma la Procter & Gamble voleva vendere i suoi assorbenti. Ed è un prodotto che costa caro. Mi ci sono voluti tre anni di ricerche e studi prima di poterli piazzare.»

Mi sorprendo a pensare quanto sia strano sentire la parola «Allah» pronunciata in una chiesa. Eppure in arabo il Dio dei cristiani, dei musulmani e degli ebrei viene invocato sempre con lo stesso nome. Sono seduta vicino a Lula in fondo alla cattedrale di San Giorgio a Eliopoli. Il rito del Mercoledì delle Ceneri è già cominciato e ascolto i salmi recitati in lingua copta e in arabo. Il ritmo è lento e ipnotico. I fumi d’incenso salgono dai turiboli attorno all’altare dove uomini in nero formano il coro. Le pareti sono coperte da drappi neri, su cui si stagliano grandi croci bianche. Uno accanto all’altro nei banchi, i fedeli sono immersi nel libretto liturgico: gli uomini, a sinistra, alzano le braccia spalancate nella preghiera; le donne, a destra, hanno il capo coperto da foulard o mantelle. Con un’occhiata obliqua cerco Jacques, da cui mi sono separata all’ingresso della chiesa. È appoggiato a un muro ai margini di un gruppo di fedeli e cerca di riprodurre su un foglietto le parole dei canti tradizionali, di cui Lula ci ha cortesemente fornito una trascrizione fonetica. Tento anch’io di cantare per non deludere la nostra amica, anche se con qualche difficoltà. «Sok tati gom nambi o / Nambi osmo nambi amai / Shaaaye Ne amin / Emmanouiiel benoti ben oro», «A te, Dio nostro, il potere e la gloria per sempre, Emanuele è il nostro Dio e il nostro salvatore». Le voci sono gravi e le cantilene si ripetono, coinvolgenti. Riesco a capire molto bene come la cadenza ritmica di un canto abbia il potere di commuovere gli animi e rinsaldare una comunità. E i copti sentono intensamente il

bisogno di ritrovarsi e di serrare i ranghi. Sono stati i primi cristiani d’Egitto, convertiti da san Marco, e hanno visto l’Islam insediarsi ed espandersi sulle rive del Nilo. Oggi qui sono circa il 10 per cento della popolazione e conducono un’esistenza da minoranza, influente, certo, ma minacciata dagli estremisti musulmani. Gli incidenti di Assiout e Alessandria, in cui sono stati presi di mira, hanno ricordato a tutti la fragilità della loro posizione. Ma questa sera, durante la celebrazione, dimenticano le inquietudini in attesa della Santa Pasqua. Leggo sui volti di Lula e di quelli che cantano attorno a me che la fede e la devozione di questi cristiani d’Oriente non sono di facciata.

Abla el-Badri, una quarantina d’anni, volto sorridente sotto il severo foulard islamico, si è lanciata, dieci anni fa, in una missione che molti ritengono impossibile: salvare i bambini di strada. Per occuparsene ha fondato un’organizzazione, la Hope Village Society. Al Cairo sono ovunque: li ho visti chiedere l’elemosina e lavare i parabrezza a ogni incrocio. «È difficile stabilirne il numero» mi spiega Abla «ma dovrebbero essere tra 200.000 e un milione in tutto il Paese.» Le autorità danno loro la caccia ma non hanno soluzioni. Abla mi ha dato appuntamento in una nuova città, un centinaio di chilometri a nord-est della capitale. Sorta nel deserto, si chiama letteralmente: «Il decimo giorno del mese di Ramadan», un giorno in cui si commemora la morte di Khadija, la prima amatissima moglie del Profeta. Qui è stato aperto di recente uno dei centri di accoglienza, riservato alle ragazze madri. Ospita una quindicina di giovani donne con i loro bambini appena nati. «Hanno in media tredici anni e sono un gruppo molto vulnerabile, a rischio di prostituzione.» Nel 2006 la Hope Village Society, finanziata da donazioni di privati e organizzazioni internazionali, ha prestato assistenza a 6400 bambini solo nella capitale. «Si tratta sempre di una combinazione di povertà e di violenze, spesso di carattere sessuale, ma anche del fallimento del sistema educativo. Non c’è più una rete di sicurezza sociale.» I piccoli dormono sotto i ponti, nei giardini, nei terreni abbandonati e nei cantieri. Spesso anche nei cimiteri. Si spostano in bande, vivono di lavoretti o rapine. Giocano a nascondino con la polizia, che organizza retate, li rinchiude per qualche giorno, li ricatta e li sottopone a violenze. La mia ospite mi racconta che hanno un loro codice di condotta, una sorta di solidarietà tribale, ma anche storie d’amore e il gusto per la libertà. «L’anello più debole sono le ragazzine, lasciate alla mercé dei più forti. A volte si formano coppie che fanno figli: generazioni nate, letteralmente, sul marciapiede.» Mi siedo a chiacchierare con una di loro: Sheimah, diciannove anni, madre della piccola Menna, un mese appena di vita. Indossa jeans, una camicia a quadretti e un velo rosa shocking. Dalle maniche arrotolate della camicia sbucano braccia e mani devastate da ferite da taglio. «Me le sono fatte io con il rasoio» mi racconta, notando la direzione del mio sguardo. «Così la polizia non mi arrestava.» Abla mi dirà invece che si tratta dei segni della violenza dei compagni. Sheimah è scappata di casa a sei anni: la mamma era morta e il padre la picchiava. Si è unita a una banda di ragazzini di strada, poi a un altro gruppo ed è stata violentata. E la bambina? «L’ho avuta dal mio fidanzato, ci siamo messi insieme quando avevo undici anni e poi ci siamo persi di vista. Una volta ritrovati, mi ha sposata per proteggermi» racconta mentre si tormenta nervosamente le mani. «La gravidanza è stata durissima, soprattutto gli ultimi due mesi. Ero pesante, con la bambina in grembo. Dormivo per strada» continua Sheimah. I volontari della casa di accoglienza non hanno ancora capito, dato che nei suoi racconti si contraddice in continuazione, come e dove abbia partorito. «La strada è la fine di ogni libertà» dichiara. Nei tredici anni di vita sbandata, i momenti duri devono essere stati tanti. «Il peggiore è stato quando ho smesso di essere ragazzina» scoppia a piangere. Capisco che si riferisce allo stupro subìto, e cerco di passare a un argomento forse più rassicurante. Ora ha trovato aiuto, cosa vorrebbe per il futuro?

«Un documento per mia figlia» risponde senza indugi. Per un momento rimango sorpresa, poi capisco. Nella società patriarcale dei Paesi musulmani è il padre che conta. Nata per strada, senza un uomo che la riconosca come propria, la bambina è figlia di nessuno. Ragazze come Sheimah si trovano all’ultimo gradino della miseria: disconosciute, emarginate, affamate e abusate, non possono neanche sperare in un riscatto per le loro figlie, a cui il sistema costruito dagli uomini nega persino il diritto di esistere. Sheimah sta imparando ad annodare tappeti, come le altre che al centro imparano mestieri quali la parrucchiera, la cuoca o anche la ceramista. Spera di potersi un giorno mantenere. Come vede la sua vita tra dieci anni?, le chiedo. «Tra dieci anni? Sarò vecchia» gli occhi le si riempiono di nuovo di lacrime. «Ma vorrei che mia figlia potesse studiare, diventare medico. Per aiutare i disperati come me.»

CAPITOLO 8 LA BAMBINA CHE LITIGÒ CON DIO N AWAL EL-SAADAWI è una veterana della «jihad femminile». Ha cominciato a protestare nel 1936, all’età di cinque anni, e direttamente con Dio. Scrivendogli una lettera. «Caro Dio, perché preferisci mio fratello? Lui è pigro e stupido, non fa nulla né a scuola, né a casa, mentre io m’impegno. Come fai a preferire lui?» Era l’inizio di una carriera letteraria, e di un rapporto con le autorità a dir poco tormentato. Nawal proviene da una famiglia colta e benestante, ma questo non è bastato a evitarle la mutilazione genitale. A dieci anni è scampata a un matrimonio combinato e ha deciso di continuare a studiare nonostante le perplessità familiari. «Se non fossi stata la migliore, mio padre avrebbe smesso di pagarmi gli studi, ma lo ero.» Nel 1955 si laurea in medicina, specializzazione in psichiatria, e comincia a lavorare a Kafr Tahla, il piccolo villaggio rurale dove è nata. «Ogni giorno combattevo con le difficoltà, i soprusi e le ingiustizie subite dalle donne.» Nawal è richiamata al Cairo e nominata direttrice della Sanità Pubblica. Nel 1972 pubblica Women and Sex, un atto d’accusa contro la disumana pratica dell’infibulazione. Nawal è la prima donna araba a portare allo scoperto un tema così scomodo e scabroso e di lì a poco cominciano i guai. Perde il lavoro e la rivista che ha fondato, «Health», viene chiusa. Ma non si abbatte: per tre anni conduce una ricerca sulle nevrosi femminili presso la facoltà di medicina dell’Ain Shams University, e nel 1979 diventa consigliere presso le Nazioni Unite per il programma a favore delle donne in Africa e Medio Oriente. I suoi studi la portano nei manicomi e nelle carceri, e la sua critica alle religioni, in particolare all’Islam, e al sistema politico egiziano finisce per inasprire i già tesi rapporti con le istituzioni. Nel 1981 viene incarcerata senza processo con altri 1600 intellettuali ed esponenti politici. Sarà liberata lo stesso anno, esattamente un mese dopo l’assassinio del presidente Sadat, che aveva ordinato il suo arresto. Tra i fermati c’è anche suo marito, il dottor Sherif Hetata, che invece sconterà ben quindici anni nel carcere di massima sicurezza del Cairo. «Il pericolo è stato parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna» mi spiega la donna-simbolo del femminismo egiziano. «Non c’è niente di più pericoloso della verità in un mondo che mente.»

Ma proprio quando il governo sperava di averla messa a tacere, scrive in prigione il suo libro più importante, che sarà tradotto in 12 lingue e pubblicato in tutto il mondo: Memorie dal carcere delle donne. «Mi negavano perfino la carta» mi racconta. «La prostituta nella cella accanto mi allungava penna e carta igienica. Non ci crederà, ma le altre donne facevano di tutto affinché io potessi sempre scrivere. La creatività è il mezzo più efficace per porre un freno alle mutilazioni dell’intelletto!» Quando compare nella lista nera di un gruppo fondamentalista, Nawal si trasferisce in North Carolina. Insegna alla Duke e alla Washington University, ma nel 1996 decide di tornare a casa. Cinque anni dopo viene nuovamente accusata di eresia: grazie a un’imponente mobilitazione internazionale riesce a evitare il processo per apostasia, che l’avrebbe costretta al divorzio forzato dal marito. Oggi nel suo Paese Nawal rischia un nuovo procedimento penale in seguito alla pubblicazione, nel gennaio 2007, della commedia teatrale Dio rassegna le dimissioni nel corso del vertice. Ma oggi vede sviluppi positivi all’orizzonte grazie al lavoro delle femministe islamiche, prezioso nella battaglia per i diritti. Anche se il suo approccio alle religioni è più scientifico: «Ho speso vent’anni della mia vita a confrontare i tre libri sacri: l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano. Sono andata in India e ho studiato anche la Bhagavadgita. Non si può conoscere l’Islam senza uno studio comparativo. Prendiamo per esempio la questione del velo. Se i sedicenti esperti avessero fatto i dovuti confronti, si sarebbero accorti che le donne si coprivano il capo anche nell’Ebraismo e nel Cristianesimo. In forme diverse, sono sempre state considerate inferiori in qualsiasi religione. In più il Corano è molto difficile da capire: esistono numerose scuole che lo interpretano in modo diverso, così come sono diverse le interpretazioni che i vari governi danno dell’Islam». L’Egitto, negli ultimi anni, è molto cambiato, sostiene Nawal: «Quando studiavo medicina, negli anni Cinquanta al Cairo, nessuna portava l’hijab; quando mia figlia era studentessa a sua volta, negli anni Settanta, il 45 per cento delle ragazze lo indossava. E la percentuale è aumentata ancora. Sono stati l’imperialismo americano e il neocolonialismo a sfruttare la religione e fomentare ovunque il fondamentalismo. Il velo e l’infibulazione sono le dirette conseguenze. Oggi in Egitto tutti parlano di religione: professoresse universitarie, scrittrici e perfino le femministe indossano il foulard, magari con i jeans e la pancia scoperta! Le donne si trovano tra due fuochi, tra americanizzazione e islamizzazione». Per loro il clima nel Paese si sta facendo più pesante e anche il sistema giudiziario non è certo incline a tutelarle. Come quello legislativo è un sistema misto, secolare e religioso. Esistono Corti separate: islamica, cristiana e laica, e per quanto riguarda la prima il codice di riferimento è ovviamente la Sharia. «Ma viene applicata in modo assolutamente arbitrario: gli uomini continuano a essere poligami e a divorziare dalle mogli quando vogliono. Il figlio deve portare il nome del padre, e se questi è ignoto il bambino è illegittimo. I fondamentalisti sostengono che lo dice il Corano. Il nome della madre è considerato tuttora una vergogna sociale per la legge islamica.» Quando sua figlia ha deciso di portare il suo cognome, hanno dovuto comparire entrambe in tribunale con l’accusa di apostasia. «In Egitto ci sono due milioni di bambini illegittimi. È giusto punire i piccoli che non hanno alcuna colpa?» Mi racconta l’esperienza traumatica della circoncisione, praticata una mattina, nella sua stanza, da quattro donne del villaggio vestite di nero, senza anestesia né disinfettanti. «Mi dissero che era Dio a volerlo. Da allora ho cominciato a ribellarmi contro di Lui. Anche se i miei genitori mi dicevano di pregare, non mi sono mai convinta che Dio fosse giusto, mai. Perché io ho un cervello che ha sempre lavorato a pieno regime. Per me il vero piacere è quello della conoscenza, e della sfida. Ho settantacinque anni e vivo come se ne avessi trenta. Faccio ginnastica, suono, nuoto: certo mi stanco, mi viene mal di testa, ma non importa. Essere attivi tiene viva la mente.» Quando le chiedo se il velo possa essere considerato anche un simbolo di libertà risponde senza esitare: «Da un punto di vista politico, assolutamente no. La schiavitù non è un simbolo di libertà». Quindi, secondo lei il velo equivale sempre a oppressione?

«Sì, certo, ma anche la mercificazione è oppressione. Sono due facce della stessa medaglia. Ci sono donne che lo portano come altre usano il trucco: per questo definisco il make-up un velo postmoderno. Perché secondo te si mettono il rossetto sulle labbra? Perché mostrano il reggiseno e indossano minigonne cortissime? Perché sono considerate un oggetto sessuale. Essere coperte per dettami religiosi oppure spogliate per leggi di mercato è sempre una forma di schiavitù.» Secondo Nawal chi dice che l’Islam è incompatibile con la democrazia ha ragione: «In nessuna religione esiste democrazia, perché Dio è un dittatore. La religione si fonda sull’obbedienza, non si può discutere con il Creatore. E i potenti della Terra non fanno altro che seguire il loro maestro in Cielo. Non esiste separazione tra religione e politica, sono una cosa sola: nella storia Dio era il re». Come molte altre intellettuali che ho incontrato, ritiene siano le donne l’elemento chiave nascosto, il vero motore del cambiamento: «Per questo la politica è contro di noi. Ci hanno rese così stupide da farci credere in un Dio che ci opprime. Ma come si può credere davvero che Dio sia contro di noi?». Mi saluta con un invito a dir poco perentorio: «Ricordati che la mutilazione peggiore non è quella genitale ma quella intellettuale. Il velo sul cervello è molto peggio del velo sui capelli».

In Egitto ci sono migliaia di piccoli villaggi come Bani Khalil. Siamo 150 chilometri a sud del Cairo e abbiamo fatto tre ore di strada per raggiungerlo. Il naso incollato al finestrino dell’auto, durante il percorso ho scoperto un Paese estremamente povero. Tutto sembra cadere a pezzi: le strade sono dissestate, i mezzi di trasporto sgangherati e le case miserabili. Abbiamo seguito il corso del Nilo, il cui limo è da sempre promessa di fertilità per i campi tutt’attorno, una sottile striscia coltivabile che dovrebbe assicurare la sopravvivenza a un intero popolo. Il caldo è opprimente: l’Egitto è uno dei Paesi più aridi del mondo. Se non fosse per il gigantesco corso d’acqua, che con i suoi 6700 chilometri e il suo bacino tocca nove Paesi africani, la civiltà millenaria di cui ho potuto ammirare le bellezze a Giza non avrebbe mai visto la luce. Bani Khalil è un luogo desolato, dimenticato da tutti in cima alla diga: un pugno di case di mattoni e cemento costruite a strapiombo sui campi, vicino all’acqua, stradine in terra battuta e canalizzazioni che corrono per terra tra le pietre. Dietro i muri delle case, intravedo la miseria più nera: le finestre sono spesso senza vetri, l’elettricità non arriva dappertutto e il mobilio è raffazzonato. Scendendo dall’auto veniamo accolti da bambini malvestiti ma sorridenti, che si accapigliano per farsi fotografare da Jacques. Alcuni si spintonano a vicenda, altri ci fanno da scorta, bambine sedute su un muretto ci salutano con la manina. Indossano abiti dai colori vivaci e le più grandi anche il foulard, mentre le altre hanno i capelli tirati all’indietro. Entriamo in un locale dove mi aspettano le responsabili di Fgm-Free Village Model, il progetto contro le mutilazioni genitali a cui collabora anche Dalia, l’amica di Asmaa. Le sue volontarie sono presenti in 120 villaggi del Paese, vera avanguardia di una battaglia che è appena cominciata. Hanno radunato un gruppo di donne accompagnate da piccoli di tutte le età. Le pareti della stanza, decorate con semplici disegni e manifesti delle campagne dell’organizzazione, sono di cemento grigio. L’arredamento è completato da un grande frigorifero bianco, un televisore con videoregistratore, alcune sedie e un tavolo. «Benvenuti» mi dice suor Johanna Salib, responsabile del programma. È fragile e minuta nel suo abito da religiosa. Da sotto il velo sfugge qualche capello grigio, il volto è delicato e gli occhi pieni di bontà dietro gli occhiali dalla montatura leggera. Mi presenta con un breve discorso e poi cala il silenzio. Sento decine di occhi, attenti e curiosi, puntati su di me. Gli occhi dei ragazzini seduti su alcune panche in fondo alla stanza; quelli delle bambine e delle adolescenti ordinatamente allineate nei loro abiti lunghi; e quelli delle giovani madri, con i neonati

attaccati al collo. Decine di sguardi rivolti verso di me, pieni di speranza. Mi piacerebbe poter dire che le cose cambieranno, che il mondo ricco si interesserà ai poveri, che l’Europa non li dimenticherà. Mi piacerebbe poter dire che domani i loro figli avranno un’aula e libri per studiare. Che i loro mariti troveranno un lavoro e che, come per miracolo, la loro vita diventerà più facile. Ma mi sento imbarazzata e impotente, con il mio taccuino in mano e la mia voglia di porre domande. Capisco perfettamente che sono queste donne ad avere bisogno di risposte, non io. Comunque mi butto e spiego che sono venuta a trovarle per capire quali progressi si stiano compiendo per sradicare la pratica dell’escissione. Prende la parola per prima Hannan, una donna bruna, vestita con una tunica verde chiaro decorata a fiori rosa e blu. Indossa un foulard bicolore che racchiude un volto duro, dagli zigomi sporgenti, lo sguardo intenso e una ruga che scava la fronte, incisa tra le sopracciglia. Accarezza i boccoli castani di una bambina dall’aria seria. «Avevo così tanta paura di morire» mi racconta «che non sono riuscita a svenire. Pensavo che se avessi chiuso gli occhi, non li avrei riaperti mai più.» Hannan aveva nove anni quando la levatrice del villaggio l’ha escissa. «Il dolore è stato terribile e le donne hanno dovuto usare la cenere per cicatrizzare la ferita.» Oggi ha venticinque anni e la bambina che le siede in braccio, la sua ultima nata, si chiama Miriam. Hannan si è sposata a sedici anni e ha avuto un primo figlio maschio. Durante il parto ci sono state complicazioni, ed è stato allora che ha imparato per la prima volta, dal medico dell’ospedale, quanto sia nefasta la mutilazione genitale. «Mia madre mi aveva spiegato che era necessaria per la femminilità, per la castità e per il matrimonio» ricorda. «Bisogna tagliare il clitoride perché rischia di crescere fino a diventare un pene, mi diceva. Mi promise che così sarei stata fedele e che mio marito mi avrebbe amata di più. Se non lo avessi fatto, sarei diventata una prostituta…» E questo ci riporta al problema fondamentale dell’educazione, o meglio della sua mancanza: le donne potranno uscire dalla trappola in cui si trovano solo se ne avranno i mezzi culturali. È esattamente l’obiettivo che perseguono i progetti di Fgm-Free Village Model, cercando di offrire loro gli strumenti per opporsi alla fortissima pressione delle comunità. Il programma mobilita le élite tradizionali – capi-villaggio, capi religiosi, medici locali – coinvolge i giovani e promuove una campagna di comunicazione mediatica. Hannan si è convinta e poi ha persuaso il marito: «Mia figlia non verrà mai circoncisa». Non è un caso isolato: le statistiche più recenti mostrano qualche passo avanti. Nella fascia d’età tra gli undici e i dodici anni, la percentuale di vittime tra le bambine è precipitata al 55 per cento; è del 69 tra le adolescenti tra i tredici e i quattordici anni e del 77 nel gruppo di età tra i quindici e i diciassette. Mi rivolgo alle ragazze che hanno ascoltato attentamente. «Io sono stata fortunata» spiega Namaa che ha tredici anni e un corpo senza ferite. «Mi sento sollevata, ma non sono superiore alle mie coetanee mutilate.» Maryam ha diciotto anni e per lei è troppo tardi. I suoi grandi occhi si velano di tristezza quando osserva: «Noi siamo state meno fortunate. Se questi sforzi fossero iniziati prima, oggi saremmo come le nostre amiche». Rania, diciassette anni, mostra un volantino: «Non sottoponete le vostre figlie all’escissione, è una cosa che farà loro del male, mettetele sulla retta via e si comporteranno bene». «I rapporti sessuali fanno paura a tutte noi» confessa con molta franchezza. «Temiamo di soffrire come abbiamo sofferto quel giorno terribile.» Però aggiunge: «Saremo noi a scegliere i nostri mariti e parleremo dei nostri timori e desideri». Alcuni uomini del villaggio ci hanno raggiunto e mi dicono che anche loro sono contrari. «Ma non sanno neanche con precisione di che cosa si tratta» osserva amaramente Maryam. Un giovane del paesino vicino, musulmano impegnato nel programma, la contraddice: «Lo sappiamo, invece». Partecipa, insieme a gruppi misti di cristiani e musulmani, a percorsi di formazione e gira per le scuole dei dintorni a informare le comunità. «La prima volta che mi hanno visto volevano spararmi» racconta con enfasi e un po’ di ironia. Sua moglie Ayman è circoncisa. «Certo che influisce sulla nostra vita familiare» dichiara. «E all’inizio è stato un

problema, perché si tratta di un trauma impossibile da eliminare.» Anche gli uomini devono imparare la pazienza e la comprensione. «Ormai abbiamo capito che il piacere è fondamentale per le donne, e che avere compagne in grado di apprezzare le gioie del sesso è meglio anche per noi. Mai e poi mai faremo mutilare le nostre figlie.» In Egitto ci sono migliaia di piccoli villaggi come Bani Khalil, che però ha una particolarità: è interamente cristiano, il centinaio di famiglie che vive qui appartiene alla minoranza copta. Le peggiori tradizioni non hanno religione e gli sforzi per sradicarle interessano tutte le comunità. Padre Abadir mi racconta che combatte da vent’anni, ma andare contro usanze che si perpetuano nei secoli richiede una lotta lunga e instancabile. Il religioso inizialmente ha cercato di parlare con gli uomini: «Ripetevo che nella Bibbia non si fa cenno a questa pratica, che provoca danni fisici e psicologici. Mi facevo accompagnare da un medico che potesse chiarire tutti gli aspetti del problema. Ma i maschi si rifiutavano di ascoltarci e il giorno dopo portavano le loro bambine dalle mammane». Quando alcune hanno rischiato di morire dissanguate, il sacerdote è passato alle maniere forti: «Ho minacciato di denunciarli alla polizia». Il capo-villaggio ha dato il buon esempio risparmiando a sua figlia quel supplizio, e pian piano l’opera di persuasione ha dato i suoi frutti. «Il mese prossimo faremo una grande festa, per annunciare che da due anni non ci sono più escissioni a Bani Khalil» mi dice suor Johanna accompagnandomi alla macchina. Gli abitanti degli altri paesini della regione, cristiani e musulmani, saranno invitati per celebrare la vittoria. I potenti che, fin dall’inizio del mio soggiorno in Egitto, mi hanno spiegato che la mutilazione genitale femminile non era una priorità non ci saranno. Come non ci sono ogni volta che i diritti fondamentali dei loro concittadini, uomini e donne, vengono calpestati.

CAPITOLO 9 «FORMIDABLE YEMEN!» A VEVA APPENA FESTEGGIATO il suo quattordicesimo compleanno quando i genitori vollero parlarle. Husnia li raggiunse nel salotto della loro casa di San’a, la capitale di quello che all’epoca era lo Yemen del Nord. Un uomo era andato a trovarli, le spiegarono in tono serio. Era un amico di famiglia, un rappresentante della buona borghesia del Paese. «Vuole sposarti» disse il padre. Non era una proposta sconveniente né tanto meno illegale. Nello Yemen, come in altri Paesi musulmani, le ragazze ancora oggi si sposano molto giovani. La Sharia, a seconda delle interpretazioni, consente il matrimonio anche a nove anni. «Non ho avuto esitazioni» mi racconta Husnia, seduta sul divano di velluto blu del suo appartamento in un quartiere popolare di San’a. È una donna di quarantasei anni, robusta, dagli occhi vivaci e un sorriso affascinante. Un elegante velo rosa le copre i capelli e le incornicia il viso dai tratti marcati. «Ho detto di no» continua. E quel «no» ancora risuona nella vita di Husnia al-Qadri.

È il mio primo viaggio in Yemen, una nazione giovanissima e tormentata da conflitti recenti che hanno prodotto piaghe non ancora sanate. Situato all’estremità meridionale della penisola arabica, poco distante dall’Africa, bagnato

dal Mar Rosso e dall’Oceano Indiano, è sinonimo di civiltà antiche, di passati splendori e di racconti fantastici. Occupa l’ultimo posto nella classifica del World Economic Forum che nel 2006 ha valutato la parità tra i sessi in 115 Stati, analizzando quattro ambiti fondamentali: il lavoro e le pari opportunità; l’accesso all’istruzione; la partecipazione politica; la sanità e il tasso di mortalità. Lo Yemen è al 114° posto nelle prime due categorie, al 115° nella terza e al 48° nell’ultima. Giusto per fare un confronto, nella classifica l’Italia è al 77° posto, dietro lo Zimbabwe. No comment. Uno studio della Oxfam, un’organizzazione umanitaria britannica, ha calcolato che il 51 per cento delle adolescenti yemenite che si sposano rientra nella fascia d’età dei quattordici anni. Secondo Husnia questa pratica è certo una conseguenza della povertà e dell’arretratezza culturale, ma allo stesso tempo ne è una delle cause principali. Laureata in biochimica all’Università di San’a, Husnia nel 1990 ha ottenuto un dottorato in endocrinologia a Parigi, poi si è specializzata in problemi riproduttivi e disfunzioni sessuali. Nel 1993 è tornata nello Yemen, dove ora dirige il programma di studi e di ricerca universitario sui problemi della parità tra i sessi. È anche una delle responsabili dell’Unione delle donne yemenite. È nata in una famiglia molto tradizionalista. Il padre ha avuto tre mogli e undici figli, ma ha avuto l’intelligenza di permettere anche alle femmine di studiare e di scegliere da sole i mariti. Paradossalmente, a osteggiare Husnia è stata più che altro la mamma, lei stessa maritata a nove anni: «Non voleva che continuassi a studiare. Pensava che avrei infangato l’onore della famiglia». Alla madre di Husnia è stato concesso un «privilegio» in genere accordato alle spose bambine: poter aspettare le prime mestruazioni per la deflorazione. Nonostante ciò, spesso i corpi acerbi delle fanciulle non sono pronti per la penetrazione, e può capitare che la violenza dei rapporti provochi lo sfondamento della parete che separa l’ano dalla vagina. Un trauma, una lacerazione anche psicologica che, a dispetto della chirurgia ricostruttiva, non guarirà mai. Husnia, grazie al suo «no», si è sposata quando lo ha deciso, nel 1980, con uno studente poco più grande di lei. Però non si è fatta accecare dall’amore e ha preso una precauzione che, per paura o ignoranza, le donne musulmane spesso trascurano: nel contratto di matrimonio ha posto le sue condizioni. Ha fatto scrivere nero su bianco che il suo sposo le avrebbe permesso di continuare a studiare e non le avrebbe mai proibito di lavorare. Per due anni è rimasta a casa per occuparsi del figlio, ma poi ha deciso di riprendere l’università. E le cose si sono complicate: «Mio marito non era d’accordo. Anche gli uomini intelligenti sono diffidenti nei confronti dell’indipendenza femminile». Husnia si è avvalsa delle clausole matrimoniali per divorziare. E per allontanarsi da una società nella quale la sua determinazione veniva considerata ribelle e provocatoria, si è trasferita in Francia. Oggi ha fatto dei matrimoni forzati la sua battaglia, e rappresenta il suo Paese in tutti i convegni internazionali incentrati su questo tema. «Le bambine spesso acconsentono, anche se il promesso sposo è molto più vecchio perché vedono solo la festa, il bel vestito, i regali e non sanno cosa succederà dopo. Nessuno ne parla. L’educazione sessuale da noi non esiste.» E per le piccole mogli, dopo le celebrazioni e le danze, il risveglio è traumatico. Le testimonianze delle ragazze svelano un calvario che assomiglia molto a uno stupro legalizzato. Non solo i rapporti sessuali, ma anche le continue gravidanze mettono in pericolo la salute e l’equilibrio psicologico. Con conseguenze nefaste anche sulla loro partecipazione allo sviluppo culturale ed economico: sposandosi in giovanissima età abbandonano gli studi. Nelle zone rurali dello Yemen quasi l’80 per cento delle donne non sa né leggere né scrivere, mentre su scala nazionale la percentuale è prossima al 70. Prive di formazione, dipendono totalmente dal marito o dalla famiglia. Lo stretto rapporto di questa tradizione con la povertà emerge in modo ancora più evidente dalle inchieste che Husnia ha condotto nelle regioni più isolate del suo Paese. Ha scoperto che ragazze giovanissime, dietro pagamento di una dote ai genitori, vengono date in spose a ricchi sauditi in vacanza, i quali poi le abbandonano o divorziano al

momento di tornare a casa. Questa pratica, che assomiglia molto alla prostituzione o alla schiavitù sessuale, è in forte aumento nelle zone economicamente più svantaggiate. Husnia non condivide il fatalismo di molti suoi compatrioti e crede che la chiave del progresso sia attuare politiche di valorizzazione della donna. La familiarità con la cultura francese le permette di fare propria la famosa massima del poeta Louis Aragon: «La donna è il futuro dell’uomo». Un aforisma che in una società dominata dai maschi sfiora l’eresia. E ciò non fa che aumentare la mia ammirazione per lei e per chi come lei si batte in condizioni apparentemente disperate, con mezzi tanto limitati da poter sembrare ridicoli, nell’indifferenza quasi generale, costretta a fare i conti con l’ostilità appena dissimulata dell’élite al potere. Per la mia ospite, seduta sui tappeti del suo appartamentino di San’a in questa limpida notte, è una questione di sopravvivenza: «Dobbiamo cambiare non solo perché lo vogliamo, ma per non soccombere nel mondo globalizzato». Sulla tovaglia fanno bella mostra le pietanze più varie: montone arrosto, polpette di carne macinata, uova sode, legumi ed enormi schiacciate di pane caldo. La cena è servita, ma Husnia quasi dimentica di mangiare, accalorandosi nel suo discorso. «L’eliminazione dell’analfabetismo deve essere una nostra priorità» asserisce convinta. E mi spiega di aver trovato un alleato inatteso: il Corano. È la fede a sostenerla. Questa campagna per le donne è la sua guerra, la sua jihad. «L’Islam è da sempre favorevole all’istruzione che, nel Corano, è un dovere» mi assicura. «Non è la religione che ci opprime. Sono gli uomini che la interpretano da quattordici secoli, approfittando della nostra ignoranza.» Su molti temi, in realtà, il Libro sacro non dà istruzioni, ma indicazioni che lasciano ampio margine di libertà di scelta. «La religione non è di per sé un ostacolo alla modernità.» Al momento di lasciarci, quando la notte regna sovrana sulla città addormentata, è Husnia che trova la giusta conclusione alla nostra serata e mi dice abbracciandomi: «Le donne devono resistere e imparare a dire di no: chi si batterà per noi se non ci battiamo per noi stesse?».

San’a, abbarbicata su un altopiano di 2200 metri, è quanto di più diverso si possa immaginare dai centri ultramoderni che popolano le non lontane rive del Golfo. In queste lande desertiche, dove nel giro di pochi decenni le città sono emerse come miraggi dalla sabbia, la capitale dello Yemen nel cuore di una delle più antiche zone di insediamento dell’uomo è un’eccezione. Secondo la leggenda fu fondata dal figlio maggiore di Noè, Sem. Oggi marcia rapidamente verso gli 1,8 milioni di abitanti, una crescita pericolosa che minaccia le sue bellezze architettoniche dichiarate dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. Come disse Pasolini, San’a è una Venezia costruita sulla sabbia. In una bella mattina di sole, ci guida per le stradine della città vecchia un amico italiano, Marco Livadiotti, che vive qui da sempre. È il più importante tour operator del Paese, figlio di un medico italiano della corte yemenita. Furono lui e suo padre a guidare Pasolini alla scoperta di San’a. Il sole si insinua tra gli alti muri di mattoni color ocra e ritaglia motivi di luce e ombra tra le case pluricentenarie, incastrate le une nelle altre in apparente disordine. Le porte e le persiane sono di legno intarsiato e sulle facciate, decorate con motivi ornamentali in gesso bianco, si aprono piccole finestre. Alcune di queste case contano fino a otto piani. Tradizionalmente, quelli inferiori erano riservati agli animali e alla servitù. Poi c’erano gli appartamenti delle donne e infine, all’ultimo piano, la cucina e una piccola stanza, adiacente alla terrazza, dove gli uomini potevano dedicarsi in pace al loro passatempo preferito: masticare il qat, un’erba stimolante diventata la merce più preziosa nel Paese. All’angolo di una stradina, dietro muri ciechi, indoviniamo la presenza di giardini, piccoli spazi di vegetazione in una città che sembra fatta di terracotta. I mezzadri vi piantano verdure, alberi da frutto o erbe aromatiche come la

menta e il prezzemolo da mescolare al tè e allo yogurt. Queste oasi di frescura sono irrigate da un sistema idraulico che permette di attingere l’acqua a quasi 100 metri di profondità. La maggior parte delle abitazioni è dotata di pozzi privati e, in una casa che sta restaurando, Marco ci mostra l’impianto che permette di far risalire dal ventre della terra decine di litri d’acqua al giorno. Al pianterreno c’è ancora una rampa in leggera pendenza, con la parte più alta vicino alla vera del pozzo. Un asino veniva condotto avanti e indietro trascinando un secchio legato a una corda: quando l’asino saliva, il secchio scendeva nel pozzo e quando ridiscendeva ne usciva, pieno d’acqua. Attraversando le regioni desertiche dello Yemen ci capiterà di vedere ovunque asini o cammelli che azionano ingranaggi di ruote, pulegge e corde intorno alle fontane pubbliche. In un Paese che non ha nemmeno un corso d’acqua, ci si arrangia con sistemi di pompaggio antidiluviani. Quando la battaglia per l’acqua precede e domina ogni altra cosa è più difficile condurre altre lotte: per le idee, per i diritti, per le libertà. È la legge del deserto. Percorrendo le stradine della città vecchia mi sembra di viaggiare nel tempo. Questo quartiere protetto da un alto muro di cinta ha ancora circa 30.000 residenti ed è qui che si intrecciano le viuzze di uno dei più antichi mercati del mondo arabo: il suq di San’a. Conta più di 1700 negozi, ci informa Marco, e probabilmente l’atmosfera non è cambiata granché dall’epoca in cui il commercio della mirra e dell’incenso regalava a questa terra lontana una favolosa ricchezza. Mi siedo su uno sgabello davanti alla minuscola bottega di un mercante di spezie e profumi. Siamo nella via del qat, è mezzogiorno e le trattative procedono a pieno ritmo. I venditori si accovacciano, estraggono sacchettini di plastica dalle loro ceste, li aprono e fanno controllare le foglie verdi dall’effetto stimolante. Il qat è molto più di una pianta psicotropa: è una tradizione, uno stile di vita. Ha assunto una tale importanza per gli yemeniti che non potrebbero mai rinunciarvi. Il suo consumo non è semplice uso di droga ma un’attività sociale. Masticare qat non è come masticare tabacco, per poi sputarlo. Viene introdotto in bocca quasi a ciclo continuo, formando boli di dimensioni sempre maggiori che si raccolgono nella guancia. Ovunque incontriamo uomini con il viso ormai grottescamente deformato da questi rigonfiamenti. Il dibattito per chiarire se si tratti o meno di una sostanza stupefacente è ancora aperto: c’è chi assicura che non è troppo diverso dal caffè, uno stimolante privo di controindicazioni. Altri sottolineano i possibili effetti allucinogeni e mettono in guardia dalla dipendenza e dagli sbalzi di umore che provoca. Diffuso anche sull’altra sponda del Mar Rosso, in particolare in Somalia, Etiopia e Gibuti, in Europa invece il qat è considerato una droga. Al suq gli acquirenti si accalcano, discutono, vanno a vedere la merce di un altro venditore o estraggono dalle tasche mazzette di banconote. Le discussioni si prolungano, passano di mano in mano bicchieri di tè, il fumo delle sigarette invade l’intrico di viuzze affollate di vita. Questo commercio ha le sue regole e vedo un venditore ambulante abusivo strattonato da quelli che sembrano essere i signori della strada: non tutti possono vendere. Gli tirano fuori dalle tasche i sacchetti di plastica e i soldi e lo allontanano con qualche spintone che non sembra sconvolgerlo. I pugnali ricurvi, le jambiah, che tutti gli uomini portano alla cintura sono rimasti nei foderi. In un’altra zona del mercato le tende cominciano ad abbassarsi, i commercianti e i clienti vanno a pranzo e poi a masticare la loro erba. Bisognerà aspettare che cali la sera perché l’attività riprenda alla luce delle lampade a gas. Lo Yemen non produce più niente, tranne il qat. Praticamente tutti i terreni arabili sono stati riconvertiti. Il suo commercio, che non è illegale, è controllato da clan abbastanza potenti da fermare qualunque velleitario tentativo di proibirlo. L’economia legata a questa pianta rappresenta un quarto del prodotto interno lordo. Il consumo è generalizzato: uomini, donne e persino adolescenti. Seduti sulla soglia di casa, al volante delle automobili o riuniti per animate «sedute di qat», gli yemeniti dimenticano temporaneamente ogni preoccupazione e si stordiscono fino a tarda notte. Scordano la fame, sprofondano in uno stato di irragionevole euforia e poi di rassegnato abbattimento. Questa usanza rovina le famiglie: Muhammad, il nostro autista che ci accompagnerà in tutta la nostra esplorazione, è un grande estimatore della droga locale. Ci spiega che l’hobby nazionale è diventato sempre più

costoso e che assorbe metà del reddito familiare. Muhammad si lamenta anche della qualità, sempre peggiore. I pesticidi utilizzati provocano mal di stomaco e sarebbero anche all’origine di patologie più gravi all’apparato digerente. E la coltura, che ha bisogno di molta acqua, prosciuga le scarse riserve idriche. Gli chiedo se anche sua moglie ha questa abitudine. «No. Se l’avessimo in due, non rimarrebbero più soldi per mantenere la famiglia» replica con preoccupante disinvoltura. Il flagello del qat non è altro che il riflesso dell’immobilismo della società yemenita, ancora fortemente definita dall’appartenenza tribale. Di fronte a difficoltà economiche apparentemente insormontabili, il Paese si rifugia in un «altrove» allucinogeno e nella contemplazione della sua storia e della sua grandezza passata. Incapace di uscire da un’economia agricola, perpetua modi di produzione, e quindi di vita, tradizionali. Nonostante desideri evolversi e svilupparsi, la povertà lo condanna alla stagnazione. Per molti aspetti, la vita qui non cambia da millenni. In particolare per le donne. Lo Yemen è la nazione più povera del mondo arabo; con un reddito pro capite inferiore a 900 dollari all’anno, è lontanissimo dalla media di 20.000 dollari delle monarchie del Golfo. L’economia è ancora in larga parte agricola e impiega il 70 per cento della popolazione attiva. Anche la sua storia recente è tormentata: come Stato unificato è nato il 22 maggio 1990 dalla fusione fra due vicini che si erano fatti la guerra per decenni: lo Yemen del Nord e quello del Sud. Quest’ultimo nel 1970 era diventato il primo regime marxista della regione. Oggi il Paese è flagellato da una ribellione zaidita che miete centinaia di vittime tra le fila dell’esercito e dei ribelli. Dall’inizio del 2006 è ripresa con maggiore intensità, al punto che in alcuni dei miei spostamenti dovrò farmi accompagnare da guardie armate. Motivazione ufficiale della sanguinosa contesa: il capo della rivolta, Hussein al-Huthi, rifugiatosi nel suo feudo montuoso di Saada, sostiene di essere il discendente del Profeta e contesta la legittimità del presidente Saleh, anche lui zaidita ma privo di legami di parentela con Maometto.

Quando l’Islam penetrò nello Yemen, il Profeta era ancora in vita. Ali, suo genero e nipote, ne fu il precursore, arrivando nella regione nel 628 per predicare il nuovo credo alle comunità locali. E fu in questo periodo che venne costruita a San’a una delle prime moschee della penisola arabica, al-Jami’ al-Kabir, ai cui lavori di restauro partecipano oggi anche esperti italiani. Convertita da Ali, quella che era l’Arabia meridionale si schierò al suo fianco nelle lotte che seguirono la morte di Maometto. Riconoscendo lui e i suoi discendenti come legittimi successori, questa regione sviluppò la corrente sciita degli zaiditi, caratterizzata da una visione molto pragmatica della religione e dell’interpretazione del Corano. Il nome venne da uno dei pronipoti di Ali, Zayd. Nell’893 lo Yemen divenne un «imamato», un regno zaidita. Nel Nord questa struttura politica teocratica si mantenne invariata, tra alti e bassi, per oltre mille anni, fino al colpo di Stato dei militari nasseriani nel 1962. L’imamato ebbe anche una regina, che ne resse le sorti per mezzo secolo: Arwa, degna discendente della regina di Saba. Ho letto la sua storia nel bel libro Le sultane dimenticate di Fatima Mernissi. Racconta delle regine e principesse dell’Islam che hanno regnato al pari degli uomini. Le loro tracce sono state deliberatamente cancellate, o quantomeno dimenticate, da ricercatori e studiosi arabi troppo spesso condizionati da un approccio misogino alla storia della loro terra. Ci troviamo proprio nel mitico regno di Saba, dominato dalla regina Bilqis, la donna che nel X secolo avanti Cristo incantò re Salomone, terzo sovrano di Israele, e gli diede un figlio. Siamo venuti a visitare ciò che rimane della diga di Marib, alle porte dell’omonima città, capitale del leggendario reame, 170 chilometri a est di San’a. Proprio qui nel luglio scorso un attentato terroristico attribuito ad al-Qaida ha ucciso sette turisti spagnoli insieme ai

loro due autisti yemeniti. La diga di Marib che siamo venuti a visitare fu costruita in mezzo al deserto, verso l’850 avanti Cristo e viene menzionata sia nella Bibbia sia nel Corano. Ci arriviamo al tramonto, nel momento in cui la luce rosata e le ombre della sera giocano a nascondino tra le rovine di quella che per mille anni è stata l’unica fonte di vita in questa regione. Fino a quando non fu smantellata nel 750 dopo Cristo, fu in grado di trasformare in frutteti migliaia di ettari di terre aride, dispensando gloria e opulenza. Le resine d’incenso e la mirra, prodotte dagli arbusti che crescono in queste terre, valevano allora quanto l’oro. Carovane di elefanti e cammelli trasportavano i preziosi aromi lungo la costa occidentale della penisola arabica. Partivano dal porto di Qana, sull’Oceano Indiano, oggi il villaggio di pescatori di Bir Ali, e arrivavano fino a Gaza in Palestina. Gli unguenti servivano per le cerimonie religiose, per la mummificazione e per le offerte agli dèi, e sia i romani che gli egizi ne erano grandi consumatori. Il prezzo delle resine aumentava di 200 volte tra la produzione e la destinazione finale. In seguito, fu il caffè a fare la fortuna dello Yemen. Il porto di Mokha, sul Mar Rosso, diventò il crocevia di questo commercio. Per due secoli assicurò la ricchezza dell’Arabia Felix, prima che altre aree del mondo iniziassero a farle concorrenza per poi definitivamente soppiantarla. All’alba, ci fermiamo alle porte del deserto che dobbiamo attraversare per proseguire il nostro viaggio verso la città portuale di Mukalla, sull’Oceano Indiano. Muhammad ci annuncia che dobbiamo aspettare la nostra guida, un giovane beduino che ci aiuterà a superare la vuota immensità che si stende davanti a noi. Vorremmo arrivare all’oasi di Chabwa, a est di Marib, prima che cada la notte. Nella luce chiara del mattino vediamo un pick-up Toyota che si avvicina. È un modello molto vecchio e sembra tenuto insieme con il fil di ferro. «È proprio come in Ciad negli anni Ottanta!» esclama Jacques, che di tanto in tanto si diverte a giocare al veterano, rievocando guerre che per fortuna ha combattuto solo con le «armi» del giornalista. Il veicolo che viene verso di noi non ha fatto la guerra, ma sicuramente è della stessa epoca. Ne scende un giovanotto tutto sorrisi che Muhammad ci presenta: «Questo è Ahmed, è lui che ci farà attraversare il deserto». I due uomini si chinano sulle ruote delle auto per sgonfiare un po’ le gomme. «Per migliorare l’aderenza» spiega Ahmed, e con un gesto m’invita a entrare nell’abitacolo del pick-up. «Non può rifiutare» mi sussurra Muhammad. E salgo accanto al ragazzo. Gli altri ci seguiranno. Buttata sul sedile del passeggero c’è una pelle di montone, il cruscotto è coperto da un pezzo di tappeto, un impenetrabile strato di polvere vela le strumentazioni di bordo. E al posto d’onore dietro il parabrezza troneggia un kalashnikov. Il giovane Ahmed si accende una sigaretta, infila nella radio una cassetta di musica locale, ingrana la prima e parte in tromba per un’indimenticabile gimcana tra le sabbie. Lanciato a tutta velocità, affronta spigliato dune che sembrano invalicabili. Il motore emette urla strazianti e arriviamo in cima nel momento esatto in cui il pick-up sembra sul punto di scivolare all’indietro. Proprio sulla sommità, si butta nella discesa fino al prossimo cumulo di sabbia. Un altro grande spasso del mio autista è correre a rotta di collo di traverso sulla cresta di una duna, rischiando di rovinare con tutta la macchina giù dalla discesa. Ma Ahmed tiene la rotta sulla distesa desertica come se leggesse una segnaletica invisibile scritta per terra, o nel cielo. Svolta a destra e a sinistra, fa persino marcia indietro, imbocca una pista per abbandonarla poco più avanti. La sua tribù ha condotto le carovane per generazioni nell’Empty Quarter, l’immensità desolata che unisce lo Yemen all’Arabia Saudita. Per lui si tratta di trovare la strada in un panorama estremamente familiare. Lo vedo impaziente solo quando siamo costretti a fermarci per aspettare Muhammad che, più cauto o preoccupato per l’integrità del suo veicolo, ci segue più lentamente. Dopo un’ora di questa versione yemenita delle montagne russe, col cuore in gola e le ossa rotte, faccio capire ad Ahmed che vorrei cambiare auto. Con le mani cerco di spiegargli che mio marito desidera tantissimo prendere il mio posto. Ci fermiamo e chiama Jacques con un cenno. Gli dico: «Vai a sederti là, ti ricorderà senz’altro il Ciad!». Sei

ore dopo, arrivati a destinazione, sembra ancora tutto intero. Gli domando come ha trovato la gita e risponde con una sola parola: «Formidable!». Oltre il deserto si estende l’Hadramaut, la regione più grande dello Yemen, nella parte orientale del Paese. Produce il miglior miele del mondo e alcuni personaggi poco raccomandabili come la famiglia del nemico pubblico numero uno: Osama bin Laden. Con l’eccezione di una sottile fascia costiera bagnata dall’Oceano Indiano, l’Hadramaut è un vasto altopiano arido tagliato da strette gole, i wadi, scavati dal millenario fluire delle acque piovane. Difficile da raggiungere, ha conservato una struttura tribale e patriarcale, dove l’autorità degli uomini e degli anziani non è in discussione. Gli alti edifici squadrati, con muri di terra e strette finestre che proteggono dal caldo torrido e dagli sguardi indiscreti, custodiscono con cura segreti e tradizioni. Attraversando questa regione in auto avanziamo per ore nel letto di canyon asciutti oppure oltrepassando villaggi dalle grandi case silenziose. Ho la sensazione che sulla strada del cambiamento la natura, la storia, le leggende pongano ostacoli che non si possono ignorare. Alcune delle donne che lottano per liberarsi dal medioevo yemenita si sono date un appuntamento all’apparenza innocuo: un tè casalingo in un quartiere residenziale di San’a. Sono tornata nella capitale apposta per partecipare a questo raduno di coraggiose pioniere: un’istantanea dell’attivismo femminile di questo Paese. Entrando, quasi inciampo in una lunga fila di scarpe, proprio dietro la porta. L’atmosfera è gioiosa, come una festa, anche perché si celebra ’Id-al-Adha, la festa del Sacrificio. Tutte le mie ospiti si sono liberate del velo e sfoggiano abiti eleganti, in alcuni casi anche piuttosto succinti. Nel salotto regna un chiacchiericcio indisciplinato e Horiah, che ha organizzato l’incontro, fatica a ristabilire l’ordine per fare le presentazioni. È vicepresidente del Women National Committee ed esordisce con un’affermazione perentoria: «Noi ci appoggiamo al Corano per ottenere i nostri diritti». Le sue ospiti annuiscono, e l’atmosfera si fa più seria. Mi colpisce subito la vivacità della mia vicina di posto, Tahani Saeed al-Khaib. Ha i capelli tinti con l’henné di un arancione sgargiante, un fisico esuberante e un trucco marcato. E mastica qat. L’apparenza stravagante inganna: Tahani è una donna tenace, impegnata in un progetto contro la povertà femminile sostenuto dall’Ong inglese Oxfam. Nonostante la sua giovane età Intisar al-Adhi, che siede poco lontana, è la segretaria generale della All Girls Society for Development: ha lunghi capelli ricci sotto i quali spiccano occhi sempre in movimento. La sua associazione – mi spiega – lavora soprattutto con gli studenti, per rendere le ragazze consapevoli dei propri diritti e convincere i coetanei maschi che avere a che fare con donne meno sottomesse conviene anche a loro. La palestinese Dena Assaf rappresenta invece l’Undp – l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo – nello Yemen. Mi racconta come al suo arrivo, nemmeno due anni fa, fosse guardata con sospetto perché non portava il niqab, anche se ormai per le strade di San’a capita di vedere qualcuna che indossa un semplice hijab. «Quando sono arrivata qui ero scioccata: non c’erano donne per le strade e ho pensato: c’è decisamente troppo testosterone in giro!» Tra le invitate c’è anche Nadia Abdul Aziz al-Saqqaf, direttrice del primo quotidiano nazionale in lingua inglese, lo «Yemen Times», che si batte per la libertà di espressione. Nadia è una trentenne brillante e intraprendente, ma quando la incontrerò a cena da Marco Livadiotti noterò che non dà la mano agli uomini, come prevedono le più rigorose norme islamiche. Il giornale che dirige è stato fondato nel 1991 da suo padre, il professor Abdul Aziz, economista e attivista per i diritti umani. Nel 1999, è tragicamente scomparso in un incidente stradale che molti, a cominciare dalla figlia, ancora considerano poco chiaro. Jamila al-Raiby, ginecologa, a conferma del saldo dominio maschile, mi racconta che spesso le pazienti non sanno dirle quando è stata la loro ultima mestruazione: «Devo chiedere a mio marito» è la loro sconcertante risposta. «Le donne» mi spiega «sono state educate così: non hanno fiducia in se stesse e non gestiscono autonomamente

nemmeno le loro cose più intime.» Jamila viene da una famiglia di analfabeti: proprio per questo suo padre ha voluto che lei e le sue sorelle andassero all’università. Ciascuna delle mie nuove conoscenze lavora a stretto contatto con le fasce sociali più deboli. Criticano il presidente Saleh che nella campagna elettorale per la rielezione, nel 2006, aveva annunciato quote rosa al 50 per cento ma che, una volta insediato, si è rimangiato tutte le promesse. Tra i 301 deputati del Parlamento, una sola è la voce femminile. La sera, ci raggiunge la tedesca Fibi Kraus, una talentuosa regista, autrice del documentario Haram: Yemen, the hidden half speaks. Il film, che denuncia gli abusi, le violenze e i soprusi subiti dalle yemenite, è usato dal Women National Committee per aprire gli occhi agli uomini e ai politici su una realtà drammatica. Le storie delle protagoniste sono tanto tragiche da sembrare surreali. È esemplare quella di Aisha, la più giovane, medico dell’ospedale di San’a. Il viso racchiuso da un velo beige che spicca sul suo camice bianco è sempre sorridente. Ma per poter indossare quel camice Aisha ha dovuto lottare duramente: contro la sua famiglia, contro le rigide convenzioni sociali e contro le maldicenze dei suoi stessi concittadini. «I miei genitori non volevano che studiassi» esordisce. «Mio padre mi permise di frequentare le elementari solo perché così potevo badare a mio fratello più piccolo. Quando gli dissi che volevo continuare, mi rispose che studiare non era cosa da ragazze.» Fortunatamente gli affari lo portarono in Arabia Saudita, e Aisha, d’accordo con la madre, trasgredì al suo divieto. Andava a scuola solo quando lui era lontano. Intanto cucinava, lavava e sbrigava le altre faccende domestiche. Si era perfino organizzata per vendere in strada dolci che preparava lei stessa: con i guadagni comprava regali per i fratelli, perché non svelassero a nessuno il suo segreto. Con questo rocambolesco stratagemma riuscì a frequentare i primi due anni di scuola media, ma il padre infine scoprì la congiura. «Andò su tutte le furie» ricorda la ragazza. «Minacciò di uccidermi e fui costretta a rifugiarmi a casa di amici.» Disperata, non mangiava neanche più, e arrivò perfino a mandare a suo padre una lettera con alcuni passi del Corano che ribadivano l’uguaglianza tra uomini e donne. Ma l’uomo era irremovibile: diceva che una ragazza non poteva andare in giro da sola, che se l’avessero vista per strada avrebbero subito pensato male. Anche se era solo una bambina di dodici anni. «Arrivai davvero a odiarlo, pensai perfino di ucciderlo, ma l’idea di finire all’inferno mi terrorizzava» confessa Aisha con un’ingenuità mista a pudore, che per un attimo la fa sembrare la ragazzina di un tempo. «Fu mia madre che alla fine riuscì a convincerlo.» Adesso si sente una donna realizzata. «Ma quanta fatica!» esclama con giustificata fierezza. «Aiutare gli altri dà un senso alla mia vita, soprattutto le donne, che continuano a essere discriminate anche nel trattamento sanitario.» La mortalità femminile durante la gravidanza o il parto è altissima. In questo Paese si può ancora morire di emorragia dando alla luce un figlio perché gli ospedali sono troppo lontani, o perché mancano i mezzi di trasporto in caso di emergenza. Oggi Aisha è una donna forte e consapevole, molto diversa dalla bambina spaventata di un tempo: dirige una Ong che promuove il diritto delle donne all’istruzione. E al suo fianco c’è il padre, divenuto il suo più fervido sostenitore, che ora cerca di far cambiare idea a quanti ancora ritengono disonorevole permettere a una figlia di studiare.

Amina Ali Abdulatif aveva undici anni quando suo padre la diede in sposa a un uomo che non aveva mai visto. In realtà la bambina fu «venduta» per procurare al fratello i soldi che gli servivano per maritarsi. Prima di trasferirsi sotto il tetto coniugale, attese le prime mestruazioni, poi fu consegnata allo sposo e rimase subito incinta. Aveva solo dodici anni. Due anni dopo fu accusata di aver ucciso lo sposo. In realtà l’assassino era il cugino del marito, ma

Amina fu accusata di essere sua complice, arrestata, giudicata e condannata a morte. Dal 1998 è detenuta nel carcere di Maheet, dove è stata vittima di ripetute violenze sessuali. Dopo essere rimasta di nuovo incinta è stata anche accusata di adulterio. La sua storia, denunciata da Amnesty International, ha mobilitato l’opinione pubblica internazionale. Io stessa, in qualità di presidente della Delegazione per le relazioni con gli Stati del Golfo del Parlamento europeo, ho scritto al presidente Saleh affinché sospendesse la condanna, che finora non è stata eseguita. Stando alle poche informazioni disponibili, Amina sarebbe stata torturata perché confessasse, una cosa particolarmente grave se si considera che lo Yemen è tra i firmatari della Convenzione Unicef per i diritti dell’infanzia, che esclude il ricorso alla pena di morte per i minorenni riconosciuti colpevoli di reati penali. Shada Nasir, che è il suo avvocato fin dall’inizio della sua terribile vicenda, si è laureata in Cecoslovacchia ai tempi in cui lo Yemen del Sud era marxista. Da anni si batte per il rispetto dei diritti umani portando avanti le idee del padre socialista morto nel 1973 in un attentato – l’aereo su cui viaggiava è esploso. Il caso di Amina non è certo isolato e Shada su questo argomento è una fonte inesauribile. Mi racconta la storia di Fatima Badiah, una giovane donna che ha incontrato per caso durante una visita al carcere di San’a. È accusata di aver aiutato il fratello a uccidere il marito. Ha addirittura confessato e firmato una deposizione nella quale ammette di essere sua complice. In realtà è tutto successo in un litigio tra i due uomini, e lei non c’entra nulla, spiega Shada: «Negli uffici del procuratore, gli inquirenti hanno fatto entrare due tipi robusti. Le hanno detto che l’avrebbero violentata se non avesse firmato la confessione. E ovviamente lei ha ceduto». In primo grado Fatima è stata condannata a morte, ma in appello la pena le è stata ridotta a tre anni di reclusione. Questo nuovo verdetto non è però piaciuto a un membro della famiglia della vittima, che si è recato dal capo della tribù, lo sceicco Armar, e ha ottenuto nuovamente la pena capitale. Anche il caso di Fatima ha generato in tutto il mondo un vasto movimento di solidarietà e Shada mi mostra le decine di lettere che regolarmente riceve e che ne chiedono la scarcerazione. Anche se per il momento l’esecuzione è stata sospesa, da ormai nove anni la sua assistita è in prigione per un crimine che non ha commesso.

Prima di lasciare lo Yemen vado a trovare un uomo di grande saggezza e astuzia politica. Ex primo ministro, varie volte ministro degli Esteri, Abdel Karim al-Iryani a settantatré anni mantiene tutta la sua influenza, e la fiducia del presidente Saleh. Ha partecipato attivamente al processo che ha plasmato il Paese ed è un uomo che unisce alla straordinaria cultura un bel senso dell’umorismo. «Lo sviluppo di una società senza l’intervento delle donne sarebbe totalmente squilibrato» riconosce, quando gli parlo della straordinaria voglia di partecipazione delle donne incontrate durante la mia visita. «Non c’è dubbio che devono giocare un ruolo importante se vogliamo cambiare il Medio Oriente» ribadisce. «Però il femminismo in questa parte del mondo fatica a imporsi, si sviluppa nella clandestinità.» Osserva che la stampa di norma presenta le donne come sottomesse, mentre loro si sono già messe in marcia. «Sono loro gli agenti della modernità.» Al-Iryani ci ha ricevuto nella sua bella casa poco fuori San’a. Mi ha fatto ammirare un immenso mosaico realizzato da un’artista libanese, che rappresenta un panorama della città vecchia, e ci ha preceduti nella grande biblioteca che funge da studio, nel seminterrato. Ho l’impressione di essere capitata nel salone di un club inglese, con robuste poltrone di cuoio, mensole cariche di libri e un dolce sottofondo di Brahms. Al-Iryani, come tutti i leader laici e moderati in Medio Oriente, parla delle conseguenze dell’avventura americana in Iraq con un misto di timore e di rassegnazione. Le menzogne e l’incompetenza che hanno accompagnato l’occupazione di Baghdad possono produrre solo effetti disastrosi: spirale di violenza, estremismo, tensioni tra

Occidente e musulmani. E ovviamente paralisi di qualunque cambiamento, con regimi reazionari che approfittano di ogni pretesto per evitare riforme democratiche, penalizzando soprattutto le donne. Per lo Yemen non è facile trovare un equilibrio, tra l’impegno del governo a seguire gli Usa nella guerra contro il terrorismo e la collera popolare di fronte al disastro iracheno e a quello israelo-palestinese. Tanto più che deve fare i conti con il ricco e potente vicino, l’Arabia Saudita, da secoli ormai geloso e irascibile custode del dogma islamico. Però oggi la casata dei Saud, che ha sempre considerato con antagonismo queste terre del Sud diverse e ribelli, è diventata una fonte di preoccupazione per il resto del mondo: «L’Islam che fa paura è quello saudita» afferma deciso al-Iryani mentre ci salutiamo. Dovrò andare a verificare di persona se ha ragione.

CAPITOLO 10 SAUD E WAHHAB O GNI ANNO SI INCONTRANO per commemorare il giorno della grande sfida alla monarchia più conservatrice del mondo: i Saud. Oggi alcune di quelle donne si sono riunite per raccontarmi la loro storia in una lussuosa villa di Riyad, la capitale del potente e misterioso regno saudita. «Eravamo pronte a tutto» ricorda la dottoressa M., che come quasi tutte le altre mi ha chiesto l’anonimato. «A essere picchiate, imprigionate e addirittura a rischiare la pelle.» La mattina del 6 novembre 1990, quando lei e le sue amiche escono di casa, sono decise a fare di quella giornata la più importante della loro vita. Appartengono alla buona borghesia, in maggioranza educate all’estero, sposate a uomini ricchi e potenti. Hanno tutte intrapreso una carriera intellettuale: la maggior parte sono professoresse e M. è una delle poche psicoanaliste del Paese. Oltretutto ha la stoffa del leader. È stata sua l’idea di quella giornata, destinata a scuotere le fondamenta di una nazione in cui le donne vengono considerate cittadini di serie B. «Eravamo 48 donne» ricorda M. che porta i suoi cinquant’anni con molta eleganza. «Alcune avevano parlato coi mariti delle nostre intenzioni, altre no. Il mio lo sapeva, e mi appoggiava in pieno.» Le temerarie di Riyad avevano deciso di lanciarsi all’attacco proprio mentre il Medio Oriente si preparava a una nuova guerra. Le truppe americane si stavano concentrando in Arabia Saudita per cacciare dal vicino Kuwait l’esercito di Saddam Hussein, che aveva invaso il piccolo emirato petrolifero nell’agosto del 1990. Nonostante le severe critiche degli ambienti più conservatori del regime, re Fahd, sapendo quanto la sua sopravvivenza dipendesse dai favori di Washington, aveva accettato il dispiegamento di centinaia di migliaia di soldati «infedeli» nella terra più sacra dell’Islam. Tra le loro fila c’erano migliaia di donne soldato. I sauditi potevano vederle passeggiare per strada: a capo scoperto, l’M16 a tracolla, vestite con i pantaloni della mimetica e magliette attillate. Le «liberatrici» erano una continua provocazione per gli ambienti più puritani di una società in cui l’altra metà del cielo esce solo coperta dalla testa ai piedi. Per molte saudite, invece, le sorelle in divisa rappresentavano un’eccezionale opportunità. Non invidiavano l’abbigliamento, ma un altro genere di libertà: guidare. Nel regno dei Saud, alle donne è vietato mettersi al volante.

Questo divieto arcaico e incomprensibile limita la loro autonomia, le ostacola nella loro vita professionale e le obbliga ad assumere un autista, purché venga da un altro Paese. Un immigrato, infatti, non deve sottostare alle regole della segregazione sessuale: i lavoratori stranieri sono privi di diritti e assistenza legale, e si conta sul fatto che non siano così imprudenti da prendersi indebite licenze. Quel giorno di diciassette anni fa M. e le sue amiche uscirono di casa. «Avevamo 14 auto» ricorda la psicoanalista, che tra i suoi pazienti ha soprattutto mogli abusate dai mariti. «Ordinammo ai nostri autisti di cederci il posto. Nella mia automobile c’erano quattro passeggere. Avevamo deciso di partire a mezzogiorno, quando c’è un po’ meno traffico.» La fuga fu di breve durata: il loro convoglio fu subito intercettato dalla polizia. Gli agenti, interdetti, chiesero se fossero kuwaitiane, dato che l’emirato è più liberale da questo punto di vista. Quando M. rispose di no, domandarono se erano mosse da cause di forza maggiore. Lei scosse ancora il capo. «Erano imbarazzati, non sapevano cosa fare. Per loro era un gesto di disobbedienza assolutamente inconcepibile!» Alla fine intervenne la famigerata polizia religiosa, il cui solo nome fa tremare le vene ai polsi di qualunque cittadino: i mutawwa. Sono gli adepti della Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, molto temuti per le vie del regno. Barbuti, vestiti con lunghe tuniche bianche, un frustino in pugno, escono di pattuglia a caccia di depravati, in nome di una lettura intransigente dell’Islam: fanno chiudere i negozi all’ora della preghiera, assillano i passanti perché vadano in moschea, ammoniscono le ragazze con un velo non sufficientemente rigoroso, e soprattutto verificano che le coppie che incontrano abbiano una ragione legittima per essere insieme. Di fronte alla deliberata provocazione delle temerarie di Riyad, i mutawwa andarono su tutte le furie: «Tiravano calci contro la macchina e temevo che volessero sfondare i finestrini» ricorda M. «Gridavano per farci scendere, ma noi ce ne guardavamo bene.» Da donne intelligenti ed esperte, avevano preso la precauzione di avvertire la stampa straniera. In previsione della guerra, che sarebbe cominciata due mesi dopo, il regno infatti pullulava di giornalisti. «Per fortuna c’erano la Bbc e l’Associated Press e sono state loro a salvarci la vita, puntando su di noi l’attenzione mondiale: chi può dire che fine avremmo fatto altrimenti?» Furono tutte portate alla stazione di polizia dove i mariti, padri o fratelli dovettero andare a prenderle e firmare una dichiarazione in cui si impegnavano a non lasciarle guidare mai più. Le contestatrici avevano avvisato delle loro intenzioni anche le autorità, con una lettera al governatore di Riyad, il principe Salman. Però, come accade quasi sempre, il potere saudita non aveva reagito. «Il principe non rispose, probabilmente non ci avrà creduto» sottolinea M. La punizione per le ribelli invece non si fece attendere: per un anno fu loro tolto il passaporto, quelle che lavoravano nella pubblica amministrazione furono licenziate, e la loro cerchia di conoscenze le rimproverò aspramente. «“Come avete osato fare una cosa simile?” ci dissero.» Per M., l’istigatrice della rivolta, la pena fu più severa: essendo anche una fotografa di talento, ricevette una visita della polizia politica che bruciò tutti i suoi negativi. Nonostante l’azione delle «sorelle» coraggiose, quasi vent’anni dopo l’Arabia Saudita vieta ancora alle donne di guidare. E ovviamente non hanno il diritto di voto. In questo, peraltro, non sono molto diverse dagli uomini, visto che le prime elezioni semilibere si sono tenute solo nel 2005. Erano consultazioni locali e il suffragio è stato riservato a una piccola percentuale della popolazione. Le saudite non possono nemmeno viaggiare senza il consenso di un mahram, un tutore, che deve essere un membro maschio della famiglia – padre, marito, fratello o addirittura figlio. Hanno diritti limitati in vari campi come il divorzio, l’affidamento dei figli, l’eredità. Le convenzioni impongono una rigida separazione dagli uomini nella maggior parte dei luoghi pubblici e in molte occasioni private. Una segregazione così completa da farne la metà invisibile della comunità, la componente repressa della vita del Paese. La mia esplorazione dell’universo femminile

musulmano mi ha condotta in Arabia Saudita proprio sulle tracce di questo fenomeno: una nazione ricca e aperta agli scambi globali che deliberatamente marginalizza un’intera fetta della società.

Nella bella casa di Z. la festa è cominciata prima che arrivassi. Passano di mano in mano caraffe di succhi di frutta, caffè e tè, e vassoi di datteri polposi. Più tardi ci ritroveremo tutte intorno a un ricco buffet allestito vicino alla piscina che, sempre per l’imperante obbligo di privacy, dev’essere coperta. In queste ville sontuose la vasca finisce così in una delle stanze della casa, circondata da divani, lampade e tappeti come in un salotto. Avevo incontrato Z. nel 2005, in visita ufficiale come presidente della Delegazione del Golfo in occasione delle elezioni comunali. Insieme al marito, Z. aveva organizzato in mio onore una serata piacevole, annaffiata da ottimo vino. Questa volta lui è in viaggio, e dal nostro raduno femminile saranno banditi sia gli alcolici sia Jacques: la presenza di un uomo a casa sua in assenza del coniuge, mi ha fatto capire la mia ospite, potrebbe essere male interpretata. Z. ha studiato in Gran Bretagna, dove torna regolarmente. All’epoca della mia prima visita scriveva per un importante quotidiano in lingua araba e difendeva la causa della liberazione delle donne. Poi la direzione del giornale ha smesso di pubblicarle gli articoli e le ha comunicato che i suoi servizi non erano più richiesti. Da allora non lavora più. Stasera ha riunito per me tante donne di formazione eterogenea: architette e dottoresse, storiche ed economiste, una sintesi delle migliori competenze disponibili nel Paese. In tre ore passeremo in rassegna tutti i problemi più scottanti: il diritto di guidare, la segregazione, la libertà sessuale, la situazione delle divorziate. Mi siedo accanto a H., una donna molto bella, occhi neri e capelli mossi, che con estrema naturalezza allatta la sua ultimogenita. Ha quarantadue anni e la sua neonata di tre mesi non sembra affatto turbata dall’agitazione e dal chiacchiericcio. «Non posso nemmeno immaginare che mia figlia non avrà il diritto di guidare quando sarà grande. È troppo deprimente» sospira. Lei non partecipò alla famosa manifestazione del 1990, ma il coraggio delle donne che quel giorno si misero al volante l’ha resa determinata a cambiare la situazione nel regno. Da quindici anni porta avanti la sua battaglia per i diritti delle saudite e ne paga il prezzo: è specializzata in storia antica e dal 2001 le viene impedito di insegnare. «Un giorno un funzionario ha chiamato mio padre per dirgli che non dovevo più dare lezione né avere contatti con gli studenti.» Non solo si è ritrovata disoccupata ma, senza che nessuno le fornisse spiegazioni, le è stato proibito di viaggiare per otto mesi. Poiché non si dà facilmente per vinta, ha approfittato della forzata inattività per portare a termine il dottorato. H. mi racconta che alla fine degli anni Novanta, quando per motivi di studio si trovava alla Manchester University, fu invitata alla King Fahd Academy di Londra per l’assemblea annuale del comitato dirigente dei club studenteschi sauditi. Al suo arrivo, si rese conto di essere l’unica donna. Per curiosità contò i presenti: 86 uomini. Indossava pantaloni, una tunica a dissimulare le forme e un foulard islamico. Si sedette in seconda fila: «umilmente», precisa. Ma non bastò: l’uomo che presiedeva la riunione si avvicinò e le chiese di lasciare la sala, spiegandole che uno dei partecipanti aveva protestato per la sua presenza. Lei restò immobile al suo posto. Lui, innervosito, salì sul podio e disse: «Mi scuso per il ritardo: qualcuno deve lasciare la sala ma si rifiuta. Chiedo a questa persona di uscire». «Rimasi seduta. Poi presi la parola e dissi che non me ne sarei andata e che quella discriminazione era inaccettabile. Alla fine organizzarono una vera e propria votazione, che si risolse in un plebiscito: tutti contro di me.» In quel momento capì che la sua lotta era appena cominciata: «Un diritto non si riceve, si conquista». N., che ha ascoltato la nostra conversazione, non può che essere d’accordo con l’audacia dell’amica. Architetto e arredatrice, è stata una delle poche donne a candidarsi alle elezioni municipali del 2005. Ha dovuto ritirarsi dalla

corsa quando il ministero degli Interni ha confermato che le donne non solo non potevano votare, ma non potevano nemmeno chiedere i voti dei concittadini. «Non erano pronti all’epoca,» mi dice «e non lo saranno mai.» Anche lei ha studiato in Gran Bretagna e quando è tornata a casa, carica di diplomi, non ha trovato nemmeno un’azienda che le offrisse un impiego. Non si tratta di disprezzo per la sua professionalità, ma del fatto che le convenzioni sociali rendono praticamente impossibile la convivenza di uomini e donne nello stesso luogo di lavoro. Così ha deciso di aprire uno studio proprio, e oggi dirige una squadra di 40 persone. «Veniamo dal deserto, dove gli uomini hanno sempre dominato le donne con la benedizione dell’Islam, che è stato ed è ancora utilizzato come uno strumento di controllo» mi ricorda. «I capi religiosi esercitano una grande influenza sul Paese e non ci vogliono combattive. Oggi la religione è ovunque. Anche quando ti insegnano quanto fa uno più uno, trovano il modo per infilarci un “Non c’è altro dio all’infuori di Dio”!»

Bisogna lasciare le città e addentrarsi nel deserto della penisola arabica per capire perché in questa regione, più che in ogni altro luogo, il pensiero di Allah pervade i cuori degli uomini. La natura qui è straordinariamente crudele: condanna il debole senza appello. Ha concesso agli arabi un regno di sabbia, rocce e vuoto, arroventato dal sole, dove l’acqua appare come un miracolo. Sopravvivere è una sfida straordinaria; il solitario, il ribelle è votato a una morte quasi certa. La speranza nel futuro non basta: solo la fede incrollabile in un Dio onnipotente può servire da rifugio a coloro che il destino ha fatto nascere in questa parte del mondo. Nell’immobilità inanimata ed eterna del deserto del Najd, oltre duecentocinquant’anni fa, lo sceicco Muhammad al-Saud regnava sul suo clan, nell’oasi di Dir’iyya. Insieme a Jacques voglio andare a visitare ciò che rimane del villaggio alla periferia di Riyad in cui è cominciata la storia moderna dell’Arabia Saudita. Il principe Mohammed Faysal Turki si è offerto di farci da guida insieme a quattro guardie del corpo e lo aspettiamo nella hall dell’albergo. Vederli entrare dalle porte girevoli è uno spettacolo: alti, slanciati, sotto le dishdasha bianche che indossano si indovinano fisici muscolosi. Indossano occhiali scuri hollywoodiani sui visi bruni e rasati, attorno a cui cadono morbide le pieghe del copricapo maschile, il ghutra. Sotto l’ascella sinistra spuntano le fondine nere della pistola, indicazione sicura che il mio fascinoso cicerone appartiene al circolo dei potenti. Il mio status agli occhi del personale dell’albergo schizza alle stelle. Il principe è il responsabile del dipartimento degli Affari europei presso il ministero degli Esteri, ma ciò che conta agli occhi dei sauditi è che nelle sue vene scorre il sangue «giusto». Degli oltre 25.000 principi e principesse – nessuno conosce il numero esatto – solo alcuni possono vantare un’effettiva influenza, che dipende da un insieme di circostanze. Tra queste la prossimità genealogica al fondatore della casata, Muhammad al-Saud, e l’importanza di cui gode in quel momento la famiglia nei complessi equilibri di potere della ramificata dinastia. Le rovine di Dir’iyya, il luogo che ha ospitato gli antenati dei re sauditi, si ergono sul bordo del greto ormai asciutto del wadi Hanifa. In un caldo opprimente le nostre enormi jeep percorrono le stradine di fango e pietrisco, a strapiombo su un quartiere moderno costruito negli anni Settanta. Di fronte al mio stupore per lo stato di relativo abbandono del luogo, il principe ammette che gli sforzi di restauro sono recenti e che i suoi concittadini non hanno molto a cuore il proprio passato. Ma una visita qui è necessaria per capire un Paese che per gli occidentali è diventato un cocktail esplosivo di religione, petrolio e terrorismo.

Nel XVIII secolo, quando lo sceicco Muhammad al-Saud vigilava sui confini del suo piccolo regno, le province della penisola arabica, come quella del Najd, erano sotto il controllo dell’Impero ottomano. I dominatori turchi però erano lontani, nella loro capitale Istanbul, e la legge della Sublime Porta si faceva sentire poco tra le tribù arabe. Fu allora che un predicatore, accompagnato da un gruppo di fedeli, chiese di mettersi sotto la protezione di Muhammad

al-Saud. Si chiamava Muhammad ibn Abd al-Wahhab. All’epoca in cui il suo destino incrocia quello dei Saud, garanti delle tradizioni beduine, Wahhab predica il rinnovamento dell’Islam. Rimprovera ai potentati ottomani e ai loro vassalli arabi di essere corrotti, cinici, opulenti e di aver abbandonato i princìpi della fede. Invoca l’instaurazione, in modo autoritario e se necessario violento, di una società che rispetti alla lettera la legge islamica. Chi non è d’accordo è un empio che merita la morte e insieme ai suoi guerrieri egli è ben disposto ad amministrare di persona, a colpi di sciabola, quella che considera la giustizia divina. Senza questo incontro tra un capo tribale e un predicatore, il wahhabismo sarebbe rimasto una semplice setta, ultraortodossa e marginale, all’interno della corrente musulmana sunnita, maggioritaria tra i popoli dell’Impero ottomano. La sua influenza con il tempo si sarebbe affievolita. Ma a Wahhab, chiamato semplicemente «lo Sceicco», toccò in sorte una fantastica opportunità: nella tenda in cui si rifugiò abitava un uomo in cerca di un’ideologia semplice che lo aiutasse a estendere il proprio potere. L’alleanza tra i Saud e i Wahhab fu il crogiuolo in cui si forgiò un Paese destinato a conquistare immense ricchezze, e ad assicurare lunga vita a una delle forme più virulente dell’Islam contemporaneo.

A partire dal 1744 i due uomini intrapresero la conquista delle terre vicine. In breve tempo i loro soldati, lanciati nel deserto al grido di «Non c’è altro dio all’infuori di Dio», sottomisero le tribù del Najd. Nel 1801 le truppe di Abdul Aziz, figlio di Muhammad al-Saud, si spostarono a nord e attaccarono i santuari più sacri dell’altra grande corrente islamica, lo sciismo, in quello che oggi è l’Iraq meridionale: la moschea di Ali, a Najaf, e quella di Hussein, a Karbala. Fu un massacro, con cui i cavalieri arabi accesero la fiamma della vendetta nel cuore degli sciiti. Nel 1802, spostandosi verso occidente, conquistarono la Mecca e Medina, nella regione dell’Hijaz. Saccheggiarono i luoghi di culto, compreso quello che fin dagli albori dell’Islam accoglie i pellegrini, la Ka’ba. Ovunque costrinsero gli uomini a farsi crescere la barba, le donne a indossare il velo e rimanere in casa. I fiori, la musica e il caffè furono proibiti. E tutti coloro che si opponevano furono giustiziati. Dopo la presa dei luoghi santi, il dilagare del fondamentalismo in quella lontana provincia cominciò a preoccupare la Sublime Porta. Nel 1818 un esercito egiziano si mise in marcia per porre fine alla dominazione dei nuovi conquistatori. Infine fu nominato un nuovo sherif, il governatore, e ristabilito l’ordine ottomano. L’oasi di Dir’iyya fu rasa al suolo e il capo della famiglia dei Saud, fu decapitato. Con lui scomparve il primo regno saudita. Ma questa sconfitta non fu la fine dell’avventura. Semplicemente, costrinse le tribù arabe a prendere atto della superiorità militare dei turchi. Occorreva trovare un alleato forte. Dopo decenni di lotte intestine, nel 1902 si gettarono una seconda volta alla conquista del potere, questa volta con l’aiuto della Gran Bretagna. Quando nel 1918 crollò l’Impero ottomano i Saud, armati e consigliati dagli inglesi, eliminarono gli ultimi rivali, in particolare gli Hashemiti, signori dell’Hijaz. Nel 1932, dall’unificazione di tre province della penisola – Hasa, Najd e Hijaz – nasceva il regno dell’Arabia saudita. Nel sottosuolo ristagnava un immenso tesoro: il sangue nero della Terra. Bisognerà aspettare gli anni Cinquanta perché la produzione di petrolio diventi fonte di una nuova fortuna. Il wahhabismo, il volto più radicale e puritano dell’Islam, all’improvviso si trovò a disposizione miliardi di dollari per consolidare il proprio potere nella penisola e sostenere, ovunque, i seguaci della sua rigida disciplina. Diventati guardiani della Casa di Dio, i Saud avrebbero saputo sfruttare prestigio e denaro per estendere la loro influenza sul mondo islamico. A dispetto delle correnti progressiste che li hanno sempre considerati una setta passatista e retrograda. L’improvvisa ricchezza ha però minato l’antica alleanza tra wahhabiti e sauditi. I re del deserto, diventati re del petrolio, si sono lasciati corrompere dal denaro facile. Trascinati dai fiumi dell’oro nero, conducono vite licenziose

fatte di lusso sfrenato e spese folli. Oggi sono accusati della stessa corruzione e della stessa vanità che censuravano nei loro rivali del XVIII secolo. Sono costretti a comprare il favore degli alleati religiosi per poter continuare a peccare in tutta tranquillità. Occorrono montagne di dollari e di ipocrisia per tenere in piedi la finzione di una società retta in teoria dalla legge divina, in pratica da quella del denaro. Il fondamentalismo è scomodo: spesso torna a perseguitare chi l’ha usato per i propri fini. Così è stato per i Saud. L’11 settembre 2001 un ragazzo di buona famiglia, coccolato dai principi della penisola, ha rivendicato gli attentati più spettacolari della storia: Osama bin Laden, colpendo gli Stati Uniti, aveva nel mirino anche il regno saudita. Oggi è lui a brandire il vessillo della purezza dell’Islam per conquistare la terra che ha visto nascere la terza religione rivelata. Proprio come fecero prima di lui Wahhab e i suoi fanatici guerrieri.

Nel centro storico di Riyad, sono andata a scoprire le vestigia dell’ultimo episodio dell’ascesa dei Saud verso il potere: la fortezza Masmak. È un semplice forte in mattoni di fango secco con quattro torri d’angolo, muri ciechi e una pesante posterla di legno. Qui, un secolo fa, colui che sarebbe diventato il primo sovrano del nuovo regno scrisse il prologo di un’eccezionale avventura. Nella notte tra il 15 e il 16 gennaio 1902, Abdul Aziz ibn Saud aspettava, nascosto nell’ombra di una torre. Aveva lasciato il suo esilio in Kuwait e da mesi, alla testa di un pugno di fedeli, compiva fruttuosi raid contro villaggi e carovane. Era giunto il momento di riconquistare quello che considerava il feudo della sua famiglia, cacciata da Riyad nel 1890 dal clan rivale dei Rashid. «Quando verso le sei di sera il governatore della città, Ajlan, uscì per ispezionare i cavalli, Abdul Aziz e i suoi uomini lo attaccarono» mi racconta Khalil al-Khalil, un membro del Consiglio consultivo, una specie di miniparlamento con 150 membri nominati dall’attuale sovrano, il re Abdullah. «Ajlan cercò di rientrare nella fortezza, ma Abdul Aziz lo riacciuffò per i piedi, lo trascinò fuori e lo uccise.» Questo audace colpo di mano riportò i Saud al potere nella cittadina. «All’epoca» continua al-Khalil «Riyad contava appena 8000 abitanti. Quando si diffuse la notizia dell’arrivo di Ibn Saud, tutti salirono sui tetti per salutarlo. Lui gridò al popolo: “Sono tornato, aiutatemi!”. E si gettò alla conquista.» Per completare la sua opera gli serviranno trent’anni. «Usò tre metodi per riunire i clan e le tribù: i soldi, la persuasione e infine la forza» spiega Khalil. Ma re Abdul Aziz era tanto povero quanto generoso e gli aiuti britannici non bastavano a mantenerlo a galla. «Fu allora che avvenne il miracolo: la scoperta del petrolio. È stato un dono di Dio.» Il dono di Dio vale centinaia di miliardi di dollari e ha cambiato la vita dei sauditi e gli equilibri strategici del pianeta. La piccola moschea che sorgeva di fronte alla fortezza all’inizio del XX secolo è stata demolita, e sostituita oggi da un immenso luogo di culto: la moschea di al-Safat, che può ospitare oltre 20.000 fedeli. È anche la sede del Gran Muftì del regno, nominato dal sovrano. Di fronte si erge il palazzo del governatore di Riyad, il principe Salman. Le stradine di terra battuta del vicino suq, il più antico della città, sono state pavimentate. Le botteghe allineate in bell’ordine vendono abiti tradizionali, tappeti pregiati e oggetti d’antiquariato. Sull’immensa spianata davanti alla moschea, giocano i bambini e le famigliole prendono il fresco. Pace e ordine regnano ovunque.

CAPITOLO 11

In fuga dai mutawwa E RA UN POMERIGGIO come tanti altri per N., una cinquantenne attiva e benestante di Riyad. Al termine di una giornata di lavoro a capo di una fondazione per la promozione delle donne stava tornando verso casa, in un quartiere residenziale della capitale. Dopo uno spuntino e un breve riposo indossò i suoi abiti sportivi: scarpe da jogging, una tuta leggera, un’abaya – la lunga veste chiusa dal collo alle caviglie – e un foulard nero. Poi salì nella grande limousine giapponese e l’autista filippino lasciò la cerchia protettiva delle mura della villa lussuosa che ospita N. e suo marito, un influente uomo d’affari. La donna già pregustava la sua ora quotidiana di camminata a passo veloce in uno dei parchi pubblici della città. Ma quella sera di luglio del 2003 le cose sarebbero andate diversamente. Quattro anni dopo N. mi racconta nei dettagli una sventura che le ha lasciato un’indelebile sensazione di oltraggio e di ingiustizia. «Sulla soglia di casa ho incrociato mio marito che tornava dal lavoro. Poi sono salita sull’auto e siamo partiti, diretti al parco dove vado sempre. È diviso in due settori: uno per gli uomini da soli e l’altro per le famiglie e le donne. Una pista in tartan gira tutto attorno, per chi vuole camminare o correre.» N. appartiene all’élite saudita, come pure suo marito, un cugino di dieci anni più vecchio che ha sposato molto giovane, a sedici anni. La sua vita è privilegiata: è stata con lui negli Stati Uniti, dove ha continuato gli studi. Nel 1989 sono rientrati in patria: per lei è stato uno shock. Si è ritrovata a fare i conti, nella vita quotidiana, con una legge cardine della società nata tra le sabbie del Najd: la segregazione sessuale. Nelle aule scolastiche o universitarie, negli uffici, nei luoghi pubblici, nei ristoranti e ovviamente nelle moschee, nelle palestre o sulle spiagge, ogni contatto è rigidamente regolamentato. Leggi, abitudini e tradizioni disegnano la mappa dei divieti, un labirinto confuso di comportamenti permessi o proibiti. Eccezioni, deroghe, trasgressioni o addirittura ribellioni sono per le donne sforzi ulteriori: è già molto difficile muoversi nel modo giusto, nello spazio in cui si incrociano i figli e le figlie di Allah. «Come faccio di solito, ho mandato avanti il mio autista, che però rimane a portata di voce in caso di bisogno» continua N. In Arabia Saudita è obbligatorio indossare hijab e abaya. Ma sono tantissime le saudite che indossano il niqab, a volte coprendo anche gli occhi. Il rispetto delle norme sul vestiario cambia molto da regione a regione, diventando meno rigido quanto più ci si allontana dal centro del Paese. Le immigrate che vivono nel regno non sono tenute a rispettare un codice di abbigliamento così severo: l’abaya è di rigore ma in alcune occasioni possono fare a meno del foulard. Io preferisco portarlo per passare più inosservata possibile, cosa che rende più facile il mio lavoro. Nell’altro gigante della regione in cui il velo è obbligatorio, l’Iran, le ragazze sono più audaci. Da diversi anni hanno cominciato una nuova rivoluzione: veli leggeri dai colori vivaci hanno sostituito il foulard nero, manteaux attillati hanno soppiantato il chador e i pantaloni si accorciano sempre di più, lasciando scoperte le caviglie e i piedi dalle unghie laccate. Nonostante i pasdaran, i giovani guardiani della rivoluzione e sbirri del regime, abbiano ricominciato a intimare alle iraniane di sottomettersi all’austerità del pudore islamico, nemmeno il presidente ultraconservatore Ahmadinejad è ancora riuscito a invertire la tendenza. Ma nel regno dei Saud i mutawwa vigilano ancora sui costumi dei sudditi. N. è una donna indipendente, e fin da quando ha fatto ritorno nel regno si sforza di conciliare la tradizione con l’evoluzione dei costumi ispirata dall’istruzione e dall’influenza del mondo esterno. Anche il marito è un saudita «moderno». Questa coppia, come molti nell’alta e media borghesia, considera la polizia religiosa il retaggio di un sistema sociale arcaico. Non dovrebbe avere più diritto di cittadinanza in un Paese che, dopo l’indipendenza

conquistata settant’anni fa, ha fatto un salto prodigioso nella modernità. «Li ho visti da lontano» N. riprende il suo racconto. «Non è difficile riconoscerli: lunghe barbe e lunghe tuniche bianche. Avevano fermato la loro auto proprio in mezzo alla pista bloccando il passaggio. Parlavano con un gruppo di ragazzi, e ho pensato che li stessero ammonendo perché non si trovavano nella sezione del parco riservata agli uomini non accompagnati. Ho visto il mio autista che prudentemente li aggirava e ho fatto lo stesso. Poi ho sentito una voce dietro di me: “Copriti il viso”. E ho capito che ero nei guai.» N. decide di ignorare l’ordine. E la situazione diventa improvvisamente tesa. «Ho sentito la voce del mutawwa che ripeteva più forte: “Copriti il viso!”. Mi sono girata e ho ribattuto: “Non sono affari tuoi! Mio marito mi lascia uscire così”. Il capo del gruppo è uscito dalla jeep e mi ha minacciata gridando: “Ti farò lapidare dalle donne del parco!”. La lapidazione è la pena prevista per le prostitute. Quell’uomo mi stava insultando pesantemente.» Poiché non possono toccare una donna, gli uomini che stanno tentando di intimidire N. chiamano in aiuto un membro femminile della milizia. Nel frattempo N. contatta al cellulare il marito per avvisarlo. L’autista, che ha seguito da lontano l’incidente, si avvicina. È un errore. «L’hanno subito arrestato. È il loro metodo: per ottenerne la liberazione, il marito firma una confessione nella quale ammette che la moglie ha commesso un’infrazione.» N. allora fa qualcosa di assolutamente inimmaginabile in una società come quella saudita. Si lancia avanti e si aggrappa letteralmente alla manica dello chaffeur gridando: «Lasciatelo, lasciatelo!». Nel tafferuglio che segue riceve una gomitata al petto e si ritrova a terra dolorante. Quando si rialza, vede che i mutawwa spingono l’autista nel fuoristrada in cui è seduto l’agente di scorta. «Senza riflettere, mi sono precipitata e sono salita con lui!» Inizia allora una scena surreale. I miliziani barbuti che hanno redarguito N. non possono tirarla fuori dall’auto e si spazientiscono. Lei si attacca al telefono e chiama un alto responsabile della milizia. «Era uno dei loro dirigenti. Promise di intervenire ma mi avvertì: “Faranno di tutto per infangare la tua reputazione”.» Alla fine il capo dei «barbuti» riceve una chiamata, ascolta rispettosamente l’interlocutore e annuisce in modo incoraggiante. Per N. è chiaro che l’incidente è chiuso: i suoi amici altolocati sono intervenuti. Balza fuori, afferra l’autista per un braccio e a lunghe falcate si dirige verso il parcheggio dove il marito la sta aspettando. Affretta il passo per evitare che lui venga a cercarla e si scontri con i mutawwa. Mentre si allontanano in macchina il responsabile dei miliziani li ferma e si avvicina al finestrino: «Sappiamo che siete buoni musulmani» dice con un tono deferente. «Volevamo semplicemente avvisare sua moglie della presenza nel parco di uomini che avrebbero potuto importunarla». Da allora N. non va più a fare jogging nei parchi di Riyad, nuota nella propria piscina, nascosta dagli alti muri di cinta della villa.

I mutawwa formano una milizia civile di migliaia di fanatici, uomini e donne, teoricamente sotto il controllo del ministero degli Interni e in particolare dalla Haya, la Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio. Hanno il compito di ricordare ai sudditi del regno l’obbedienza incondizionata alle regole. Devono accertarsi che i negozi chiudano agli orari stabiliti e che i barbieri non offrano tagli di capelli «alla occidentale»; stanare i trafficanti di droga e alcolici e i falsari; combattere la stregoneria; stroncare il commercio clandestino di animali domestici, severamente proibiti, che fiorisce in particolare a Gedda. Ma di recente le donne sono diventate il bersaglio principale. E c’è di più: la polizia religiosa rappresenta un continuo richiamo alle basi teologiche sulle quali la famiglia dei Saud ha costruito il potere incontrastato che esercita su 27 milioni di abitanti. Sono il simbolo vivente dell’alleanza tra la spada e il Corano, i due pilastri della più assoluta delle monarchie.

Ho voluto incontrare uno di questi zelanti paladini, così solleciti verso la mia amica N. È lo sceicco Musa, da ventidue anni dirigente della polizia religiosa saudita. Ha un viso grassoccio e la parte che non è coperta dal barbone sembra un po’ sudaticcia. Gli chiedo come vengono addestrati i mutawwa. «Ci sono diversi percorsi. Io per esempio ho frequentato per un anno l’università islamica, poi ci sono vari programmi della Haya e soprattutto è importante l’addestramento sul campo, affiancati da colleghi più esperti.» L’insegnamento più importante che viene impartito alle sue squadre, secondo lui, è trattare le persone con il dovuto rispetto. E la loro vera missione? «Prevenire deviazioni dalla morale islamica.» Mi chiedo se quest’opera meritoria abbia bisogno di simili inquietanti figure folkloristiche, come quelle che ho visto circolare per la piazza in cui mi trovavo l’altra sera a prendere un tè. All’ora della preghiera sono calati sui passanti come avvoltoi e agitando i frustini hanno cercato di sospingerli verso la moschea. «È chiaro che noi dobbiamo intervenire, perché è haram non pregare cinque volte al giorno» ribatte lui. «Ed è haram per le donne girare a volto scoperto.» Gli chiedo quali siano le «deviazioni» più frequenti. «I ragazzi che danno la caccia alle fanciulle, un’attività a cui dobbiamo assolutamente porre un freno. Vogliamo proteggere innanzitutto le giovani da questi adolescenti scatenati. La sera, in particolare al giovedì, invadono le strade con le loro enormi macchine e la musica a tutto volume, è una vergogna.» La musica a tutto volume sarebbe proibita? Devo aver strabuzzato gli occhi perché puntualizza, con fare dignitoso: «La musica è un fattore di corruzione. Noi siamo innanzitutto devoti all’Islam, e vogliamo essere buoni praticanti». Mi sembra lodevole. Gli chiedo quindi di indicarmi il versetto del Corano secondo cui le donne non possono guidare la macchina. Dubito che il Profeta possa essersi pronunciato su questo argomento. «Non è questo il punto. Il problema è che se consentiamo alle donne di guidare potranno incontrarsi e mescolarsi con uomini estranei, e questo è contrario all’Islam. La famiglia non riuscirebbe più a controllare le ragazze. Si aprirebbe la strada al sesso fuori dal matrimonio, ai figli illegittimi. Sarebbe una tragedia sociale.» Respiro a fondo, conto fino a dieci e con pazienza passo alla domanda successiva, ricordandogli che ai tempi di Maometto le donne erano parte attiva della comunità, e che nel terzo millennio ci sono molti Paesi islamici che non praticano nessun tipo di segregazione sessuale. Ottengo una risposta da muro di gomma: «Da noi è proibito».

C’è un luogo a Riyad dove i mutawwa non potranno mai entrare e non a caso in arabo il suo nome, luthan, significa «rifugio». È la prima spa della città, una beauty farm con annesso centro termale inaugurata dalla Luthan Trading Company nel dicembre 2005. A gestirla è uno staff interamente femminile, diretto dalla principessa Madawi bint Mohammad ibn Abdullah al-Saud. In questa oasi di relax per ricche saudite è offerto il meglio dei trattamenti proposti nei resort di tutto il mondo. E visto l’enorme successo, accanto al centro benessere è stato aperto un palazzo per ricevimenti, anch’esso riservato esclusivamente alle donne. Ospita spesso conferenze, meeting e seminari. E feste di matrimonio. In Arabia Saudita l’apartheid sessuale non fa sconti, neanche nel «giorno più bello». Uomini e donne partecipano ai festeggiamenti separatamente, spesso anche in luoghi diversi. Agli sposi è concessa una sola apparizione fianco a fianco, in occasione della cerimonia. Dopodiché, la sposa si occupa delle proprie invitate, lo sposo dei suoi ospiti. Si brinda e si danza con succhi di frutta e canti, visto che ufficialmente alcol e musica sono vietati anche in questa occasione. Purtroppo, nonostante le migliori intenzioni, non sempre le feste sono un successo. Negli ultimi anni due ricevimenti sono saliti agli onori delle cronache: al centro dello scandalo lo stesso «corpo del reato», un cellulare

con la fotocamera. La colpa di alcuni partecipanti è stata di averne fatto uso per immortalare la sposa e le sue amiche. In entrambi i casi le nozze si sono concluse con memorabili risse e hanno riattizzato nel Paese il dibattito sui telefonini che scattano fotografie, ufficialmente banditi. Sono il portentoso veicolo di immagini «proibite» che accendono il desiderio degli uomini, alle prese per tutta la vita con donne velate, eccezion fatta per quelle della propria famiglia. Non è difficile immaginare la reazione alla foto di una ragazza che danza scatenata in abiti succinti, magari con i lunghi capelli sciolti e un velo, ma di trucco. A parte la tentazione di concedermi una pausa dalla massacrante routine delle mie giornate nella capitale, sono venuta alla spa perché mi interessa questa impresa al femminile. Riflette la passione per la bellezza e il lusso che spesso fanno della vita delle ricche saudite un susseguirsi di frivolezza e ozio. Ma dimostra anche quanto talento imprenditoriale possano mettere in campo. Contrariamente a quanto si pensa in Occidente, le donne saudite sono molto attente al proprio aspetto fisico e alla moda. Fedela Ghazali, responsabile del reparto beauty-massaggi mi racconta: «Quelle delle classi sociali più elevate fondamentalmente si annoiano. Qui non ci sono cinema, né discoteche, né locali in cui ritrovarsi. E ovunque vige la segregazione sessuale. Alla beauty farm trovano compagnia e la possibilità di collegarsi col mondo esterno grazie alle postazioni Internet. E qualcuno che si occupi del loro costante desiderio di bellezza. Il fatto che siano velate non significa che non ci tengano. Al contrario!». Le clienti «normali» forse si annoiano. Ma per le principesse di sicuro la quotidianità è più varia? «Neanche loro si divertono tanto. Non possono certo trascorrere all’estero tutto il loro tempo. La loro vita è qui, con la famiglia e i figli. Ma le donne stanno cambiando anche in questo Paese.» Comprendo che non si lascerà andare a confidenze sui segreti delle sue nobili clienti, e infatti torna a parlarmi d’affari. «Abbiamo aperto il primo albergo per sole donne, perché sono sempre di più le businesswomen che non potendo andare da sole in hotel “normali”, quando sono in viaggio vengono da noi.» Da appassionata del genere, noto con un pizzico di stupore che, quanto ad attrezzatura e macchinari, il fitness center non ha niente da invidiare a quelli più all’avanguardia: un’atletica insegnante bionda, forse americana, sta mostrando le tecniche del kickboxing a un gruppo di giovani allieve. Poco più in là, nella sala dedicata alle terme – decorata con preziosi mosaici dalle tonalità marine – le signore più pigre, avvolte in accappatoi bianco latte, si godono gli effluvi benefici di vapori alle erbe balsamiche, piluccando frutta. Scegliere un trattamento è davvero difficile e consultare il dépliant non mi aiuta: ayurveda, aromaterapia, reiki, fasciature alle alghe, massaggi per il viso e per il corpo con oli essenziali, essenze marine o collagene, strategie anticellulite, saune, pilates, aerobica e perfino lezioni di salsa. La grande vasca dove immergersi tra i petali dei fiori mi tenta, ma alla fine opto per il massaggio tradizionale thailandese. Con una divisa all’orientale perfettamente inamidata, una minuta massaggiatrice dagli occhi a mandorla mi fa accomodare su un soffice futon. Nel giro di un’ora mi sento una donna completamente nuova.

Le acque del centro termale – chiare, profumate e soprattutto abbondanti – sono il massimo del lusso in questa terra arida. Nelle abluzioni rituali, che l’Islam prescrive prima della preghiera, è concesso sostituire l’acqua con la sabbia, o persino con il semplice gesto. La storia di questa religione e dei suoi riti ha avuto inizio nel VI secolo in una città a circa mille chilometri a ovest di Riyad, dove, con tutta la buona volontà del mondo, non potrei mai andare: la Mecca. I non musulmani non sono ammessi nella città santa, dove nel 570 nacque il profeta Maometto, l’uomo destinato a portare la parola di Dio agli arabi. Oggi centinaia di milioni di fedeli sparsi ai quattro angoli della terra si rivolgono verso la Mecca, nello stesso momento, cinque volte al giorno. La direzione è sempre indicata sugli aerei e negli alberghi del mondo musulmano e

gli edifici pubblici offrono uno spazio per la preghiera. Sono milioni ogni anno ad affollare la città santa per osservare uno dei cinque precetti dell’Islam, l’hajj, il pellegrinaggio. Gli altri, oltre alla preghiera cinque volte al giorno, sono: la professione di fede in Allah, unico Dio; la zaqat, la carità verso i poveri; il digiuno del mese di Ramadan che segna l’anniversario dell’inizio della Rivelazione divina. Il Profeta ha garantito a coloro che tornano dall’hajj che saranno «come rinati». Il rito ha luogo nell’ultimo mese del calendario lunare musulmano. Gli uomini indossano tuniche bianche senza cuciture e sandali, per cancellare qualunque indicatore di disparità sociale. Le donne devono coprirsi, ma il velo è sufficiente, non è richiesto il niqab. È un momento in cui le regole della segregazione vengono sospese, maschi e femmine camminano e pregano insieme. L’hajj comprende diversi rituali, come il giro attorno alla Ka’ba, la preghiera davanti al monte Arafat o la «lapidazione del demonio», a Mina, circa cinque chilometri dalla Mecca. Questo viaggio è considerato il più importante nella vita di un credente, anche se il Corano stabilisce che deve essere intrapreso soltanto se la salute e le condizioni finanziarie lo consentono. La Mecca un tempo era il cuore degli scambi commerciali della regione: qui si fermavano i cammelli che trasportavano incenso e mirra dal regno di Saba, nello Yemen, verso l’Egitto, l’Iraq, la Siria, la Palestina e la Persia. La geografia non basta a spiegare il passaggio delle carovane in questo punto, visto che il percorso più agevole era più a est. Però, fin dall’epoca preislamica, questa tappa aveva assunto un significato religioso: la città ospitava il santuario della Ka’ba, quell’enorme parallelepipedo nero familiare a chiunque abbia visto in televisione le immagini delle centinaia di migliaia di pellegrini che, come prescritto, compiono sette volte il giro intorno a quel simbolo di fede. All’epoca, lì erano conservate le effigi delle divinità pagane. Il mito dell’origine vuole che la Ka’ba sia stata eretta dal primo uomo, Adamo, distrutta dal Diluvio universale e ricostruita da Noè. Secoli dopo fu riscoperta da Abramo. Non lontano abitava infatti Agar, sua concubina e madre di Ismaele, dopo essere fuggita dalla collera della prima moglie, Sara, madre di Isacco. Quest’ultimo è considerato il capostipite degli ebrei, mentre Ismaele lo è degli arabi. Secondo la tradizione musulmana, fu presso la Ka’ba che Dio chiese ad Abramo di sacrificare Ismaele, ma all’ultimo momento gli fermò la mano, scelse come vittima un montone e promise al figlio un regno prestigioso e una grande discendenza. La Bibbia riporta lo stesso episodio, ma per gli ebrei è Isacco a rischiare di essere sacrificato, e il luogo è un monte che gli esegeti individuano in un’altura vicino all’attuale Nablus. C’è ovviamente una spiegazione più prosaica per l’esistenza di un luogo di culto in questa arida zona: nelle vicinanze sgorga una sorgente, chiamata il pozzo di Zamzam, che ne fa un luogo magico in una regione in cui l’acqua è un dono prezioso di Dio. La Ka’ba probabilmente era adibita a cerimonie di ringraziamento dalle tribù pagane, molto prima della nascita del Profeta e della religione che avrebbe predicato. Il periodo preislamico è considerato dai musulmani il «Tempo dell’ignoranza». Le tribù nomadi arabe sceglievano la divinità da adorare in funzione del ruolo che poteva avere nella loro vita quotidiana. Già all’epoca, tuttavia, alcune popolazioni insediatesi in città come la Mecca credevano in un Dio superiore, un Dio tra gli dèi, Allah. Questa convinzione era lontana dal monoteismo ebraico e cristiano radicatosi nell’Impero romano, o dallo zoroastrismo, praticato in quello persiano. Ma le tribù arabe pagane subivano l’influenza di queste religioni già professate, in maniera rudimentale, da alcuni clan della penisola. E avevano la sensazione che il Dio che proteggeva i vicini fosse più potente delle loro divinità. Era anche un periodo di violenza, un’era di guerre e faide, alimentate di generazione in generazione dal codice d’onore dei beduini, che accentuavano le divisioni. A creare le condizioni per un cambiamento fu l’emergere di una classe mercantile, arricchitasi grazie agli scambi tra le rive del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano e Paesi come l’Egitto o l’Impero bizantino. Popoli sedentari capaci di risparmiare, di investire e quindi di scommettere sul futuro. In questo mondo, pronto al rinnovamento, alla fine del VI secolo apparve l’uomo che avrebbe cambiato il corso

della Storia. Si sarebbe presentato come un riformatore religioso, venuto a riportare l’ordine nelle credenze e nelle pratiche pagane del «Tempo dell’ignoranza» e come un innovatore politico capace di offrire un nuovo modello di sviluppo. Inoltre avrebbe dato agli arabi ciò che non avevano ancora avuto: un Profeta. Una voce capace di guidarli, nella loro lingua, verso un nuovo destino.

CAPITOLO 12 IN NOME DEL PADRE IL SUO CUORE HA SMESSO di battere per un attimo, quando ha capito che la sua amatissima figlia Medj non sarebbe tornata a casa. Suzanne ricorda il momento preciso in cui ha realizzato che era scomparsa. «Il padre era venuto a prenderla, e la sera avrebbe dovuto riportarla,» mi racconta «ma si è dileguato nel nulla, e mia figlia insieme a lui.» È successo poche settimane prima del nostro incontro. In questa donna energica è ancora vivo il pensiero dell’inferno che ha cambiato la sua esistenza. «Sono stati i giorni più tragici della mia vita. L’idea di non sapere dove fosse, di non poterle parlare, di non poterla aiutare è stata la peggiore delle torture» continua Suzanne, trattenendo le lacrime. Ha ricevuto me e Jacques nella casa grande e accogliente che ha affittato in un quartiere non lontano dal centro di Riyad. Con tutto quello che sta passando, la presenza di un uomo estraneo in casa è l’ultimo dei suoi problemi. Seduta su un divano questa giovane madre ci apre le porte di una realtà drammatica: quella delle donne saudite in conflitto con i mariti. La legge, i giudici, la tradizione, la pressione delle famiglie, i pettegolezzi: tutto si coalizza contro di loro in una lotta impari. Suzanne è sciita e proviene dalla città orientale di Qatif. L’Arabia Saudita è dominio sunnita, ma nell’Est del regno, centro della produzione petrolifera, lo sciismo è maggioritario e, sostengono i suoi esponenti, oggetto di discriminazioni. Alcune organizzazioni che si occupano di diritti umani hanno riferito incidenti avvenuti agli inizi della rivoluzione iraniana, capeggiata dal clero sciita, e altri più recenti, nel 2000. Di solito, però, la coabitazione tra sciiti e sunniti in questo Paese è pacifica. «Mio marito è sunnita, ma la differenza di riti non è mai stata un problema. Siamo musulmani» dichiara Suzanne. Ha incontrato il suo futuro sposo a sedici anni, a una festa di famiglia. Si sono piaciuti e i genitori hanno approvato la loro unione. Lei ha posto un’unica condizione: poter andare negli Stati Uniti e completare gli studi. Ed è partita per l’università in California. Quattro anni dopo è tornata e ha sposato l’uomo a cui era promessa. Oggi, quando racconta del coniuge, sembra le manchino le parole: lo indica con un secco «lui» che ben illustra tutto il suo sgomento. «Era intelligente, sensibile, e credo che mi amasse, ma presto ho capito che aveva dei problemi. Disturbi psichici. Mi sembrava di vivere con due uomini: uno tranquillo e affettuoso, l’altro instabile e iracondo. La nascita della piccola Medj, l’intervento dei genitori, gli incontri con un consulente matrimoniale non servirono a nulla: la vita di Suzanne divenne impossibile. Una psicologa consigliò al marito di cercare aiuto rivolgendosi a uno psichiatra, ma «lui» non volle saperne. Dopo alcuni infruttuosi tentativi di riconciliazione, Suzanne decise di

rivolgersi alla giustizia per ottenere il divorzio e l’affidamento della bambina. Sapeva bene che stava iniziando una vera corsa a ostacoli in cui partiva penalizzata da un grave handicap: era una donna. In Arabia Saudita, questioni di diritto civile come il matrimonio o l’eredità sono regolate dalla Sharia, che in caso di divorzio favorisce il marito: basta che ripudi la moglie e la separazione ha effetto immediato. Una donna, invece, per potersi separare deve aver previsto nel contratto di nozze condizioni particolari. È possibile anche fare ricorso al khul’, ovvero a una separazione consensuale, ma in questo caso la donna deve pagare all’ex coniuge un risarcimento. Il khul’ è una forma di annullamento del contratto e ristabilisce la situazione antecedente all’unione per ciascuna delle parti. «Per prima cosa ho avviato il procedimento per ottenere un khul’, ma lui mi ha rifiutato il consenso. Dopo quattro anni mi sono rivolta a un avvocato nella speranza di ottenere una sentenza favorevole.» L’unica cosa che Suzanne desiderava era l’affidamento della figlia, ma il tempo lavora contro di lei. Per la legge islamica, il padre è l’unico tutore della prole. All’età di sette anni, e Medj li ha appena compiuti, la figlia passa automaticamente sotto la sua tutela. «Ma lui non ha mostrato alcun interesse per lei finché non ha avuto cinque anni. Non ci ha dato alcun sostegno finanziario, non si è mai informato sui suoi progressi scolastici», protesta Suzanne, che invece ha sacrificato tutto per la sua bambina. Ha scelto di lavorare come assistente sociale: è meno remunerativo della sua specializzazione di ortofonista, ma le permette di uscire alle cinque del pomeriggio. Nonostante i soldi scarseggino, ha iscritto Medj alla migliore scuola di Riyad e la piccola parla già inglese e sta imparando il francese. Ha rinunciato a una vita sociale per non correre il rischio di vedersi togliere l’affidamento a causa della presenza di un uomo estraneo alla famiglia. «Poi, due anni fa, “lui” ha cominciato a occuparsi di Medj. Veniva a prenderla una volta alla settimana e spesso lei tornava dichiarando che non voleva più vederlo. Sempre più spesso lui spegneva il telefono quando erano insieme. La riportava ogni volta più tardi. Ero sempre più preoccupata.» E Suzanne aveva ragione di allarmarsi. La situazione precipita una fatidica sera di inizio anno. Suzanne aspetta che il marito le riporti Medj. Ma la figlia non torna. «Al cellulare non rispondeva. A casa non c’era. I genitori sostenevano di non sapere dove fosse. La polizia mi ha detto di non poter fare niente.» Quindici giorni di calvario. Poi Suzanne scopre, assoldando investigatori privati, che i due sono nascosti dalla sorella del marito. Dopo un lungo appostamento riesce a seguirli fino a un centro commerciale, dove Medj la vede e le corre incontro gridando: «Mamma, mamma!». Il padre cerca di strappargliela dalle braccia: «Ho cercato di controllarmi, di ragionare con lui. Ma urlava come un pazzo, fuori di sé dalla rabbia». E davvero sembra che il marito abbia perso la testa, anche se Suzanne lo scoprirà solo più tardi: si è licenziato dalla banca, ha smesso di portare la bambina a scuola e addirittura si prepara a condurla in Africa. Dopo questo episodio, Suzanne torna alla polizia, sporge denuncia, chiede di nuovo l’affidamento della figlia. E prende anche altre precauzioni: d’ora in poi si muoveranno solo con una scorta. Ma i tormenti non sono finiti. «Questa mattina» mi rivela «ho ricevuto una telefonata dalla scuola.» «Lui» era lì e chiedeva che gli venisse restituita la figlia. «Mi è caduto il mondo addosso.» È successo poche ore prima che Jacques e io arrivassimo. Ora capisco il suo nervosismo, le occhiate preoccupate, i sussulti per ogni minimo rumore. «Sapevo che se la direttrice della scuola avesse ceduto, non avrei più rivisto la mia bambina. Sono balzata in macchina e ho urlato al mio autista di precipitarsi a scuola.» Non c’era un minuto da perdere. «Mi ha salvata la segregazione» dice lasciandosi sfuggire una risata nervosa. Grazie alla regola che impone la rigida separazione tra maschi e femmine a scuola, infatti, il padre di Medj non poteva entrare nella sezione riservata alle bambine. «Se gli fosse stato permesso, l’avrebbe presa in braccio e portata via per sempre.» Quando finalmente Suzanne, senza fiato, arriva a scuola, si sente chiedere una lettera del giudice che attesti la sua

potestà sulla bambina. Situazione kafkiana: proprio per ottenere quella lettera si era rivolta al tribunale dopo il rapimento, e per evitarne un secondo deve dimostrare di averla. In caso contrario, il diritto è dalla parte del padre, malgrado tutto quello che ha fatto e i suoi problemi psichici. Alla fine la direttrice si lascia convincere e le consegna la bambina. Ma aggiunge che non vuole altri guai: fino a quando la questione non sarà risolta, Medj non potrà rimettere piede in classe. Ora per Suzanne è iniziata una nuova battaglia. Ha deciso di nascondere la figlia in diverse case, da fratelli o da amici. Una guardia del corpo dormirà vicino alla sua stanza. E per l’istruzione, lezioni private. Farà di tutto per convincere il giudice che solo lei ha il diritto di allevare quella bambina tanto amata. «Ma non ho fretta che si arrivi a una decisione, che potrebbe essermi contraria. Non c’è un codice a stabilire che se il padre mostra evidenti segni di follia non può avere in affidamento i figli. Tutto è lasciato alla valutazione del giudice, che può benissimo sbagliare. Può applicare la Sharia che dà precedenza al padre. Può commettere un terribile errore.»

Il profeta Maometto, in nome del quale i giudici musulmani pronunciano le sentenze, nacque nel 570. Lo stesso anno, pare, di un attacco contro la Mecca, quando un re yemenita cristiano avanzò contro la città alla testa di un esercito. Rimasto orfano fin da piccolo, venne allevato da uno zio, il ricco mercante Abu Talib, che gli insegnò a condurre le carovane. Ancora giovane incontrò la donna che sarebbe diventata la sua prima sposa, Khadija. Maggiore di lui per età, facoltosa commerciante, vedova e madre di famiglia, rimase impressionata dalla bravura di quel ragazzo, dalla puntualità con cui le merci che gli affidavano i clienti arrivavano ai quattro angoli del mondo arabo. Probabilmente la colpì anche la sua bellezza, su cui concordano tutti i testi antichi. Dei sei figli che Khadija gli darà ne sopravvivranno solo quattro, tutte femmine. Attorno al 610, durante un ritiro spirituale sul monte Hira, non lontano dalla Mecca, Maometto ebbe la prima Rivelazione. Secondo quanto scrissero i suoi biografi, sentì il petto come stretto in una morsa da cui non riusciva a liberarsi. Poi gli apparve l’arcangelo Gabriele che gli ordinò: «Grida, grida!». Era sul punto di soffocare quando le parole gli uscirono da sole dalla gola: «Grida in nome del tuo Signore che ha creato l’uomo da una goccia di sangue…». E fu così che diventò il Messaggero di Dio. La Rivelazione continuò per vent’anni, fino alla sua morte nel 632, e in tutto questo tempo lui non affermò mai di aver fondato una nuova religione. Sostenne sempre di essere venuto a portare agli arabi della penisola l’unico Dio, già noto agli ebrei e ai cristiani, nel solco dei profeti che lo avevano preceduto. Il Corano ricorda molte volte ai musulmani che il Libro sacro è prima di tutto la «conferma delle scritture antecedenti», come la Torah e i Vangeli, che compongono un’unica narrazione, il racconto del rapporto tra Dio e gli uomini. Per i musulmani, il Corano è il capitolo finale della Rivelazione divina e Maometto è l’ultimo dei profeti. È per questo che il loro testo sacro parla dei popoli del Libro: perché le tre religioni rivelate sgorgano da un’unica fonte. Consapevole degli ostacoli culturali e politici a cui sarebbe andato incontro, Maometto cercò, fin dall’inizio della sua impresa alla Mecca, di tenere conto della società arcaica e patriarcale in cui si muoveva. Nel formulare i versetti ispirati da Dio, ha dovuto considerare che li trasmetteva a una struttura non egualitaria, violenta e misogina. Per esempio, il codice che regolava la vita dei beduini puniva con la morte gli assassini e sosteneva il diritto alla vendetta. Princìpi costruiti su misura per la vita spietata del deserto, che servivano a mitigare la collera di una famiglia o di una tribù, ma davano anche origine a catene inarrestabili di delitti d’onore e a perpetue faide tra clan. Per mettervi fine, e per dare agli arabi la stabilità di cui avevano bisogno, il Corano sostituì il perdono alla legge del giusto castigo, senza tuttavia proibirlo: in una sura si legge che il castigo per un’offesa è un’offesa identica, ma colui che perdona e si riconcilia verrà ricompensato da Dio. Era il primo passo verso l’abolizione del diritto a farsi

giustizia da soli. Dopo il trasferimento a Medina nel 622, il Profeta si occupò anche della condizione delle donne, assolutamente disprezzate dalla società preislamica. Le figure femminili della sua vita ebbero un ruolo fondamentale: ascoltava i loro pareri e le coinvolgeva nei suoi progetti. Sancì l’uguaglianza tra i sessi e cambiò le leggi che regolavano la proprietà e l’eredità per permettere alle donne non solo di possedere beni propri ma anche di ereditare quelli del marito, in caso di decesso. Secondo le femministe islamiche contemporanee, l’emancipazione è stata al cuore della Rivelazione. Ed è per questo che sono decise a rivendicare il diritto di dare una propria interpretazione del Corano un testo che stabilisce la parità. Il Profeta però mantenne, seppure limitandola, la poligamia. Viveva in un’epoca violenta: le guerre, in particolare gli scontri tra i musulmani e i Quraysh, la tribù dominante della Mecca, creavano migliaia di vedove che per poter sopravvivere dovevano risposarsi. Il Corano prevede dunque che un uomo possa avere fino a quattro mogli, ma aggiunge anche che deve trattarle nello stesso modo. Questa puntualizzazione è stata letta in sensi opposti, tanto come giustificazione della monogamia quanto della poligamia. È una delle tante prove che comprendere il Libro sacro significa legarlo al contesto sociale e politico. Nell’antica penisola arabica la poligamia forse era necessaria alla sopravvivenza del gruppo. Nelle società musulmane moderne appare come un’usanza maschilista che non ha più ragione di esistere. Lo stesso Profeta, rimasto monogamo fino alla morte di Khadija, durante il suo soggiorno a Medina sposò altre nove donne. In alcuni casi si trattò di unioni politiche, in particolare quelle con Aisha e Hafsa, le due figlie dei suoi zii, Abu Bakr e Omar, che diventeranno poi i suoi primi successori. Sposò anche un’ebrea, Rayhana, e una cristiana copta, Mariyah, in un tentativo di alleanza con i culti delle popolazioni vicine. I matrimoni del Profeta, più che la sua lunga e decisamente più atipica monogamia, sono spesso stati oggetto di polemiche. Soprattutto la sua unione con Aisha, di soli nove anni – che in realtà, pare, fu solo un fidanzamento fino a che lei non raggiunse l’età dello sviluppo. Eppure secondo la storia e le tradizioni Maometto non era un’eccezione. Almeno se dobbiamo credere ai racconti delle conquiste amorose di profeti come Abramo o Mosè, o di re come Saul, Davide o Salomone. Erano tempi in cui la potenza di un capo si misurava anche dalle dimensioni del suo harem e con la bellezza e l’intelligenza delle spose, se non addirittura delle concubine o delle schiave.

Dall’amatissima Aisha di Maometto ai giorni nostri le donne hanno fatto molta strada, ma per alcune la realtà familiare moderna non si discosta molto dall’antico harem. Mogli, concubine e schiave. In ogni caso, chiuse tra le mura domestiche, titolari di diritto parziale, esposte ai pericoli della violenza. Così nell’aprile 2004 ha fatto scandalo la storia di Rania al-Baz, sfigurata dal marito in un raptus di follia. L’immagine dell’affascinante giornalista televisiva, massacrata di botte e ridotta quasi in fin di vita, ha fatto il giro del mondo, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale. Figlia di un noto imprenditore e proprietario di una grande catena di hotel in Arabia Saudita, Rania ha trascorso la sua infanzia a Washington. Tornata nel suo Paese è stata ripudiata dal primo marito. Poi si è imposta come conduttrice tv di un programma molto seguito, The Kingdom This Morning. Ma il suo crescente successo l’ha resa «colpevole» agli occhi del secondo sposo, il cantante sudanese Yunus al-Fallatta: mentre la popolarità di Rania fioriva, quella del compagno, disoccupato da tre anni, colava inesorabilmente a picco. Il rancore e il risentimento di Yunus crescevano e si moltiplicavano gli episodi di violenza tra le pareti domestiche. Ma Rania non voleva denunciarlo, pensava ai loro due bambini. La sera di quello che Rania chiama «l’incidente», lui rientrando la trovò al telefono. L’accusò di tradimento e gridando «Ti ucciderò!» cominciò a picchiarla. La cameriera assistette impotente mentre lui la prendeva a pugni fino

a farle perdere conoscenza. Poi si fece una doccia, si cambiò i vestiti, l’avvolse in un lenzuolo e la portò al Bughshan Hospital, dove raccontò che era rimasta coinvolta in un incidente stradale. Rania dal suo letto d’ospedale decise di denunciare il marito, spronata dai parenti, dagli amici e dai tanti fan della sua trasmissione. Perfino la famiglia reale in un certo senso si schierò dalla sua parte, accollandosi le spese mediche necessarie a ricomporre le sue 13 fratture al volto. Nel mese successivo alla tragedia, la King Saud University di Riyad portava a compimento la prima ricerca mai realizzata in Arabia Saudita sulla violenza contro le donne. Quanto al marito, un mese e mezzo più tardi le autorità giudiziarie decretarono che non era colpevole di tentato omicidio, ma di aggressione aggravata, condannandolo a sei mesi di carcere e a 300 frustate. Uscì dopo soli tre mesi. Per concedere a Rania il divorzio e la custodia dei bambini, pretese che lei lo perdonasse pubblicamente. Per due volte la giornalista si è vista negare la possibilità di lasciare l’Arabia Saudita e, dopo essersi stabilita a Parigi, ha duramente lottato per potersi ricongiungere ai figli. Si è sottoposta a numerosi interventi di chirurgia plastica e si è impegnata per la difesa dei diritti civili. Ha voluto fissare per sempre nella memoria la sua storia in un libro, Sfigurata, che non ha mancato di scatenare accese polemiche nel suo Paese. «All’inizio ho esitato» ha ammesso. «Ho guardato più volte il mio volto massacrato allo specchio. E poi mi sono detta: se non io, chi? Sono famosa grazie alla tv, Dio mi ha donato un bel viso e un bel corpo. Avevo anche una sorta di dovere professionale. In trasmissione chiedevo alle persone, soprattutto alle donne, di raccontare le loro storie. Perché io mi sarei dovuta esimere?» Nel 2005, prima del viaggio in Arabia Saudita con la mia delegazione, l’avevo cercata per incontrarla, ma solo per scoprire che si era già trasferita a Parigi. Al telefono però era stata molto disponibile e mi aveva ripetuto che la situazione del suo Paese era davvero grave. «La violenza domestica è una tragedia, ma il problema maggiore è l’impunità. Con le leggi che abbiamo, gli uomini sentono di non avere nulla da temere. E se una donna chiede consiglio, persino la polizia e i familiari le dicono che i maschi sono fatti così, e di avere pazienza.» E i dati che leggo in aprile sul sito di «Arab News» sono sconcertanti: il 42 per cento dei mariti sauditi asserisce di non avere problemi sessuali, ma il 93 per cento delle mogli ha detto di aver avuto esperienze negative in questo campo. «D’altra parte, essere una donna divorziata non è facile» sottolinea Rania. «Così le donne subiscono, per mantenere la facciata della perfetta moglie musulmana.» Senza contare che, per ottenere il divorzio da un marito manesco, bisogna dimostrare di aver subìto abusi sessuali sottoponendosi a una visita medica. Se questa dà esito negativo, è impossibile «riprovarci», perché chiedere di nuovo la separazione per la stessa ragione non è consentito. Rania spiega nel suo libro l’aggressione omicida del marito: «Non sono stata picchiata per un principio religioso, ma per gelosia, da un uomo umiliato» scrive. «Chi si trincera dietro l’Islam per giustificare azioni del genere mente; chi pensa sinceramente – e ce ne sono – che il Corano incoraggi tali pratiche sbaglia. È una questione di mentalità maschile, niente di più. Il Profeta ha insegnato l’amore, non certo l’odio.»

Abdul Aziz, che ho incontrato a casa di Khalil al-Khalil, da venticinque anni dirime spinose questioni giuridiche come quelle di Suzanne e di Rania o anche peggiori. È giudice della Sharia al tribunale di Riyad e il saluto d’esordio chiarisce subito la direzione che prenderà il nostro colloquio: «Sono felice che lei sia qui per apprendere la verità sull’Islam. Mi fa piacere che sia vestita in modo appropriato e soprattutto che viaggi in compagnia di suo marito, nel pieno rispetto della cultura islamica». Cominciamo bene. In effetti indosso abaya e velo neri. Lui la dishdasha e il ghutra tradizionali e un paio di occhialini tondi da miope;

ha il viso per metà coperto da una folta barba brizzolata e ovviamente non mi dà la mano. La lettura più tradizionalista della legge sacra proibisce contatti fisici con donne non consanguinee. In Iran farà scandalo l’ex presidente Mohammad Khatami, che durante un viaggio in Italia stringerà le «mani impure» di tre donne a capo scoperto. L’Arabia Saudita, sostiene Abdul Aziz, è uno Stato di diritto, e il sistema della Sharia non è in conflitto con il progresso e con lo sviluppo. Parto subito all’attacco e gli chiedo: perché, allora, non si impegnano a fissare le leggi in un codice? «C’è già tutto nella Sharia» risponde. «Ma è in corso una revisione del sistema giudiziario. E io sono perfettamente d’accordo con quest’opera, purché non entri in conflitto con la legge islamica.» Il problema è proprio questo. Non sarebbe ora di garantire i diritti, anche quelli delle donne, con un codice che possa tutelarle dalla pluralità delle interpretazioni? «Non occorre» decreta lui. «Ci sono i testi a indicare la sentenza giusta, e i giudici si limitano a valutare come debbano essere applicati. L’opinione personale non influenza certo il risultato.» Ma per esempio in un caso di divorzio e affidamento dei figli, come quello di Suzanne, su cosa si basa il giudice nella sua decisione? «Sulle proprie convinzioni» mi risponde. Non sembra rendersi conto che si è appena contraddetto da solo, e non ho tempo di farglielo notare perché prosegue con un esempio. «Ci sono alcuni casi in cui la soluzione è lampante. Qualche anno fa mi si è presentata una causa di divorzio, era in gioco la custodia di sette bambine. Ovviamente è stata concessa al padre, perché la madre non aveva fonti di reddito. E comunque era lui il capofamiglia.» Sobbalzo sulla sedia. Così la segregazione viene anche brandita contro le donne, come fosse un’arma, quando osano uscire dai ranghi. Come può una donna a cui è sempre stato impedito di uscire di casa e lavorare «avere una fonte di reddito»? Non è un problema nuovo, in Occidente lo risolviamo con gli alimenti. Ma la Sharia non li prevede, ed ecco che le possibilità delle donne divorziate di ottenere la custodia dei figli si riducono drasticamente. «Le regole stanno cambiando. Forse adesso quella sentenza sarebbe diversa» ammette Abdul Aziz. Un passo nella direzione giusta, gli faccio notare, sarebbe permettere alle donne di esercitare il mestiere di giudice. In questo modo, seppure all’interno dei margini di arbitrarietà della legge islamica – e d’altra parte neppure i sistemi giuridici occidentali ne sono immuni – le sentenze potrebbero essere più varie e, almeno statisticamente, più eque. Ma le donne sono ritenute umorali, poco affidabili e, questo è il vero problema, il divieto di impiegarsi come giudici è un’altra dimensione della segregazione: è un lavoro che le porterebbe in contatto con uomini sconosciuti. Mi sembra di essere finita in un circolo vizioso da cui non ho nessuna possibilità di uscire sana di mente. Provo a cambiare radicalmente argomento: «Ha delle figlie?» gli chiedo. Otto femmine, mi risponde, e sette maschi. Non tutti, chiaramente, dalla stessa moglie. «Ne ho tre. E sto pensando di prenderne una quarta.» E per le sue figlie vuole lo stesso destino delle sue mogli? A questa domanda non replica, ha la cortesia di mostrare un lieve disagio, e ormai irritata al di là di ogni prudenza incalzo: dato che pratica la poligamia, certo si unirà alla battaglia per estendere questo diritto anche alle donne. «Assolutamente no!» ribatte facendosi un po’ pallido sotto la barba. «Come si potrebbe sapere chi è il padre del bambino?» L’esame del Dna potrebbe aiutare, per esempio. Ma so benissimo che non è questo il punto. L’incontro con quest’uomo dalle convinzioni monolitiche che decide i destini di tante donne mi ha definitivamente convinta che, in queste terre, è la religione a essere ostaggio della politica e non il contrario. Il corpus di precetti che non possono essere messi in discussione, ma possono essere manipolati, è diventato l’arma più affilata di un potere che non ha nessun interesse ad aprire le porte dell’interpretazione.

CAPITOLO 13 IL CORANO E IL TESTOSTERONE Q UANDO ABDUL AZIZ IBN SAUD riconquistò la fortezza Masmak, Riyad contava alcune migliaia di abitanti. Nel 1932, all’unificazione del regno, la popolazione sfiorava appena le 30.000 anime. Al momento del mio arrivo ha raggiunto i cinque milioni. È cresciuta come le metropoli americane dell’Ovest, senza un vero centro, dilagando su tutto lo spazio circostante. Al contrario di quelli che svettano sulle rive del Golfo, qui i grattacieli sono pochi. Solo due torri si stagliano al di sopra delle autostrade che attraversano la capitale: la Kingdom Tower e il Faisaliah Center. Sono ultramoderne, originali e in perfetto allineamento. La prima è alta 300 metri e la seconda è una piramide molto sottile di 270. Poco sotto la punta è inserita una sfera con all’interno un lussuoso ristorante a tre piani che offre ai clienti anche sigari e vino analcolico prodotto in California. Negli altri quartieri, palazzi di cemento, vetro e acciaio si susseguono lungo strade perfettamente dritte. Di notte Riyad, la capitale del deserto, brilla di migliaia di neon, e dei fari delle auto che percorrono le strade in lunghe file di luce. Siamo nel cuore di una città priva di fascino, ma simbolo dello straordinario sviluppo del regno. Il nostro autista ci lascia davanti a un bizzarro edificio, che sembra nato da un inconsueto connubio tra una piramide rovesciata e un disco volante. Potrebbe essere uscito da un vecchio film di fantascienza su una delegazione di marziani che atterrano nel mare di sabbia. Le sue facciate geometriche sembrano potersi aprire da un momento all’altro come immensi alettoni, e il tetto è sormontato da una cupola costellata di oblò, dietro i quali mancano solo le sagome di piccoli omini verdi. Questa singolare costruzione ospita una delle istituzioni più temute del Paese: il ministero degli Interni. È suo compito mantenere unita una nazione nata da una campagna di conquista che ha sparso molto sangue; accertarsi che le minoranze, come gli sciiti, si pieghino alla dura legge wahhabita; preservare la convivenza pacifica in uno Stato che reprime duramente ogni minimo dissenso. E soprattutto fare in modo che le grandi tribù, su cui ancora si regge la struttura sociale, si mantengano fedeli alla dinastia che oltre cento anni fa è uscita dalle distese del Najd per imporre a tutti la propria supremazia. L’ufficio dell’uomo che ci riceve è due volte più grande del mio intero appartamento a Roma. Ed è ovvio che sia così: camminando su un palmo di moquette mi avvicino a uno dei personaggi più potenti dell’Arabia Saudita. Il principe Nayef bin Abdul Aziz ibn Saud è uno dei figli del re, padre fondatore del regno. Da oltre cinquant’anni occupa posti chiave nel governo e dal 1975 è ministro degli Interni. A quasi settantacinque anni, è uno dei tre uomini più importanti e, come noterò nel corso dell’incontro durato oltre due ore, uno dei più conservatori. Poltrone di cuoio chiaro sono allineate intorno alla stanza nella quale troneggia un lampadario ornato da due enormi candelieri d’oro e di cristallo. I mobili sono in legno pregiato e le grandi finestre sono coperte da pesanti tendaggi ricamati. Anche l’attaccapanni accanto all’enorme televisore è dorato. Il principe indossa una sontuosa cappa color crema e si alza per stringermi la mano. Non è molto alto e ha un volto sorridente, ma gli leggo negli occhi uno sguardo severo. Non appartiene alla generazione di sauditi che sono andati a studiare all’estero. Ha ricevuto un’educazione molto tradizionale e guarda con diffidenza alle ingerenze occidentali. Nayef è il custode dell’ortodossia. È la voce dell’ordine, talvolta in contrasto con le velleità di cambiamento dello stesso re Abdullah. È il garante del wahhabismo ufficiale di fronte a due pericoli che lo minacciano: riforme liberali,

che potrebbero minare la monarchia delegittimandola, e l’estremismo. Quest’ultimo accusa i Saud arricchiti, corrotti, complici dell’Occidente di aver tradito i fondamenti dell’Islam e lo spirito dei primi wahhabiti. Nayef ha il compito di preservare la coerenza di un sistema schizofrenico. Il principe ministro non è né cieco né ingenuo: conosce l’entità del debito che il regime ha accumulato verso i Paesi stranieri, suoi alleati fin dalla nascita. E le cornici appoggiate sull’immensa scrivania sono piene di stemmi e targhe che commemorano visite ufficiali di capi delle forze dell’ordine da tutti i Paesi del mondo. È ovvio che hanno ogni interesse a impedire che la più grande stazione di servizio del pianeta smetta di produrre il carburante di cui un mondo inarrestabile ha bisogno per funzionare. Quest’uomo, temuto da chiunque abbia la sventura di contrariarlo, mi riserverà innumerevoli cortesie. Non ultima quella di rimandare una trasferta a Gedda per potermi dedicare più tempo. Circondato dai più stretti collaboratori, compreso un interprete di fiducia, cerca di rispondere con franchezza, anche se per i signori dell’Arabia come lui la trasparenza non è certo una virtù cardinale. Invece di esordire con la situazione politica, decido di attaccare subito con la questione femminile, chiedendogli ragione di una pratica anacronistica come la segregazione. «È un buon sistema per proteggere le donne. Non devono essere vittime della brutalità maschile» mi assicura il principe, e si lancia in un ragionamento a dir poco capzioso. «Sono d’accordo con la maggioranza della società saudita, secondo cui la mescolanza non è una buona cosa: non può che arrecare danno e minare il rispetto. Le donne sarebbero viste come oggetti di piacere. Crediamo che abbiano molto da dare alla società, ma solo se continueranno a essere difese.» Gli chiedo delle rivendicazioni femminili per poter finalmente guidare. «La questione della patente alle donne ha due aspetti. Uno religioso e l’altro sociale. All’epoca del Profeta, potevano cavalcare cammelli e cavalli e da un punto di vista religioso niente può loro impedire di guidare l’automobile. Tuttavia è la società che rifiuta questo diritto, per via dell’atteggiamento degli uomini nei loro confronti. Le considerano ancora inferiori. Quando saranno più considerate, il problema sarà risolto. Questo succederà quando smetteranno di interessarsi esclusivamente al loro aspetto fisico.» Trattengo la mia reazione più naturale. Non posso colpire un anziano ministro circondato da guardie, anche se le pesanti targhe a portata di mano sono una tentazione. Mi limito a chiedergli se ridurre l’autonomia di metà della popolazione non sia semplicemente antieconomico. «Le donne nel deserto guidano, ma gli uomini della società beduina le rispettano molto più di quanto avviene nelle città. Qui abbiamo ogni genere di problemi con i giovani, che le inseguono persino quando hanno l’autista e rivolgono loro proposte indecenti. Cosa potrebbe succedere a una donna se le si guasta l’automobile o fa un incidente? No, il problema sarà risolto solo quando la società sarà pronta.» È vero, e avrò modo di constatarlo di persona, che i ragazzi sauditi sono particolarmente audaci, e a volte sconcertanti, ma evidentemente questa è la conseguenza, non la causa della segregazione. Possono forse sapere come comportarsi, come trattarle, se è proibito conoscerle, frequentarle, osservarle o dialogare con loro? Le donne sono figure nere che si muovono per vie misteriose, e sanno solo, come ha detto il mio interlocutore, che sono creature inferiori. Sarebbe davvero irragionevole aspettarsi che i maschi imparino, per chissà quale ispirazione divina, a «rispettarle». Al volante o no. «L’Islam ha dato alle donne tutti i loro diritti e tutto il riconoscimento che meritano» aggiunge impavido Nayef. «Sono molto più rispettate qui che nelle società occidentali. Là devono vendere i propri corpi per sopravvivere. Ha visto cosa succede nei locali notturni? Servono solo a gratificare gli uomini, che approfittano del loro bisogno di soldi. Qui non succede.» Evito di polemizzare su un’affermazione così priva di fondamento. Non solo l’Arabia Saudita, come tutti, ha il

suo fiorente giro di prostituzione, ma i ricchi cittadini sono famosi per la quantità e qualità dei loro appetiti. Il racconto delle loro tresche li insegue nelle città arabe, come Dubai o Beirut, e nei luoghi di villeggiatura, in Europa, da Londra a Marbella. Preferisco rivolgere al principe una domanda sul diritto di voto. «Votare? Perché?» risponde rivolgendosi verso uno dei consiglieri. «Per il momento questo diritto è concesso solo agli uomini. E non c’è ragione che le donne si mettano a votare. Sono influenzabili, possono essere manipolate. Spetta alla società decidere quando sarà il momento opportuno per farle partecipare. Il governo non deve interferire e imporre qualcosa per cui non siamo pronti.» Ancora lo stesso ragionamento, che sembra valere più o meno per qualunque aspetto della questione femminile. Stavolta non posso astenermi dal fargli notare la contraddizione: qual è il compito di una classe dirigente responsabile, se non promuovere il cambiamento? Imperterrito, mi spiega che il governo segue le mutazioni della società attraverso diversi meccanismi, in particolare la stampa. Però aggiunge che l’opinione di una minoranza attiva, che sui media reclama le riforme, non deve far dimenticare l’esistenza di una maggioranza silenziosa di parere contrario. Gli chiedo cosa pensi dell’azione della polizia religiosa e delle crescenti critiche che suscita nella popolazione. «I mutawwa sono una milizia indipendente sotto l’autorità del re. Mutawwa significa “obbedienza” e in quanto musulmani dobbiamo obbedire a Dio. Il loro compito è garantire che la società venga liberata dal peccato, indicare la retta via al popolo e impedire le deviazioni. Una delle missioni della polizia religiosa è dare consigli, poiché consigliare è uno dei doveri dell’Islam, allo stesso titolo dell’elemosina o della preghiera. A volte dimostrano un eccesso di zelo: in questo caso vengono puniti. Ma in generale fanno solo il proprio dovere e sono rispettosi dei cittadini. Ciò che è stato detto sui loro eccessi sono falsità.» Immagino che sia inutile ricordargli un episodio molto recente che ha fatto scandalo nel Paese. I mutawwa hanno accostato una donna e sua figlia nel parcheggio di un centro commerciale. Le hanno accusate di essere vestite in modo improprio e, trascinato fuori dalla macchina l’autista, si sono messi alla guida per portarle alla stazione di polizia. Purtroppo, nonostante fossero di sesso maschile, non sapevano guidare molto bene: hanno condotto il veicolo a schiantarsi contro un lampione, ferendo i passeggeri. La donna ha fatto causa alla Haya e il procedimento è ancora in corso. Sempre più spesso, sui media e su Internet, si levano voci che richiedono l’obbligo di portare un’uniforme, una definizione più stretta dei compiti della polizia religiosa, o addirittura la sua abolizione. Ma in questo caso aumenterebbe la disoccupazione e in particolare sarebbero molti giovani delle scuole coraniche a ritrovarsi senza un lavoro. Decido di alzare la posta. Cosa dice delle decine di oppositori politici riformisti, arrestati per l’unico crimine di aver firmato una petizione per l’instaurazione di una monarchia costituzionale? Il principe non sembra particolarmente infastidito e mi ripete la versione ufficiale: le persone arrestate sono state accusate di voler cambiare la natura del governo e di raccogliere fondi per organizzazioni legate al terrorismo. «Il nostro sistema è basato sul Corano ed essi lo rifiutano perché rifiutano il primato della legge islamica: vengono perseguiti e verranno giudicati, e la loro sorte sarà decisa da un tribunale.» I Saud sono molto sensibili a tutto ciò che potrebbe mettere in discussione la loro autorità. La minima critica è malvista e basta molto poco per essere considerati dei sovversivi. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, l’atmosfera creata dalla guerra americana contro il terrorismo è il pretesto per mettere in riga chiunque osi alzare la voce. E il discorso ufficiale saudita confonde deliberatamente la legittima opposizione a un regime autoritario con le azioni di gruppi fondamentalisti decisi a rovesciare la monarchia che ha «tradito l’Islam». «L’estremismo è un virus» mi spiega il principe Nayef. «Il Profeta aveva predetto che sarebbe arrivato un tempo in cui voci stridenti avrebbero preteso di parlare in nome dell’Islam. I falsi predicatori sono estranei alla nostra

religione e le loro parole si infrangeranno contro il Corano come pallottole contro un muro.» Il principe sa di cosa parla quando accenna al pericolo estremista. Era già ministro degli Interni quando il regno conobbe, quasi trent’anni fa, la sua crisi più grave. Il 20 novembre 1979 un gruppo di militanti armati prese il controllo della Grande Moschea alla Mecca. Era un affronto senza precedenti. L’incapacità di proteggere i luoghi sacri rimetteva in discussione sia l’autorità sia la credibilità dei Saud. A capo della rivolta era Juhayman ibn Muhammad ibn Sayf al-Otaibi, che affermava di voler ristabilire la purezza del dogma, combattere la corruzione del governo e la sua aberrante alleanza con gli empi occidentali. Giurava di ispirarsi a colui che nel XVIII secolo aveva fornito ai Saud la loro legittimazione religiosa: lo sceicco Wahhab. L’occupazione della Grande Moschea durò due settimane e si risolse solo con l’intervento delle forze speciali francesi. Le vittime furono centinaia, tra morti e feriti. Gli insorti sopravvissuti vennero arrestati e decapitati. Ma ormai il danno era fatto: la fragilità del regime era stata dimostrata e sarebbe stata confermata in diverse altre occasioni. L’attacco contro la Mecca era stato condotto in nome del sunnismo più settario, ma il pericolo ben presto verrà dall’altra grande potenza della regione, l’Iran, che dal XVI secolo aveva fatto dello sciismo la religione di Stato. All’inizio del 1979 una rivoluzione popolare aveva cacciato lo scià e condotto al potere un religioso sciita, l’imam Khomeini. Pieno di disprezzo per i depravati principi sauditi, alleati del grande Satana americano, l’Ayatollah non perse mai occasione per invocare il loro rovesciamento. In risposta Riyad negli anni Ottanta sostenne finanziariamente e politicamente Saddam Hussein nella guerra contro la Repubblica islamica. Più tardi, la presenza di decine di migliaia di soldati statunitensi nella terra santa dell’Islam prima, durante e dopo la liberazione del Kuwait, nel 1991, è servita a giustificare diverse azioni terroristiche. Tutte sottolineano la contraddizione fondamentale: come può una monarchia, che dice di ispirarsi alla legge divina sopravvivere infrangendo di continuo i più basilari diritti umani? Dopo l’invasione americana dell’Iraq, la capitale saudita assistette a una serie di attacchi, tutti attribuiti alla rete di Osama bin Laden, diventato la bestia nera del regime. In seguito infuriò la guerra tra i «terroristi» e le forze di sicurezza. Oggi, sembra che le contromisure abbiano portato i loro frutti e che gli estremisti siano sotto controllo. Chiedo al principe Nayef, probabilmente uno degli uomini meglio informati del mondo, cosa sa del leader di alQaida. Si lancia allora in un monologo che la dice lunga sullo stato d’animo dei governanti arabi. «Osama bin Laden è un agente segreto. Lavora per i servizi stranieri. Non so quali. Il Mossad? La Cia? Non so. È possibile che abbia pianificato da solo gli attentati dell’11 settembre? Sarebbe un prodigio e il tempo dei miracoli è finito con il Profeta. Non ho le prove del fatto che Osama lavori per il Mossad, ma bisogna chiedersi chi ha tratto vantaggi da quel crimine. Forse è un agente dei sionisti, perché quella tragedia ha avvantaggiato Israele. Coloro che più ne hanno sofferto sono stati gli arabi e i musulmani.» Sapevo qual era la sua posizione, ma non pensavo che avrebbe osato ripeterla apertamente. Cosa mi dice allora dei legami tra Bin Laden e il governo saudita all’epoca della guerra in Afghanistan, durante l’occupazione sovietica? La resistenza islamica afghana e araba era finanziata e addestrata dai servizi segreti pakistani, sauditi e ovviamente americani. Ma lui, come un muro di gomma, semplicemente nega che la monarchia abbia mai appoggiato l’enfant terrible di una delle famiglie più rinomate del Paese. «Non è vero che l’Arabia Saudita lo ha sostenuto in Afghanistan» dichiara serafico. «Noi abbiamo appoggiato il movimento nazionale che lottava contro i sovietici, in particolare Shah Massud. Bin Laden è arrivato per altre vie, e sono stati i media occidentali a fare di lui un eroe. Lo conosco di persona: non era molto intelligente, ma aveva molti soldi. È stato usato in Afghanistan, proprio come era stato usato in Sudan dai Fratelli musulmani. Non è più cittadino del regno e lavora contro di noi.» Il principe accenna rapidamente al conflitto in Iraq che mette Riyad in una posizione estremamente delicata. «Abbiamo dato fondo a tutta la nostra dialettica per cercare di convincere Bush a non entrare in guerra» asserisce.

Oggi i Saud vedono realizzarsi il loro incubo peggiore. Sbarazzatisi della minaccia militare di Saddam Hussein, nel 1991, avevano tirato un sospiro di sollievo. Ora l’invasione americana ha cacciato Saddam e il dittatore alla fine è stato impiccato. Ma per Riyad, le cose non potevano mettersi peggio: l’Iraq sta per cadere nelle mani della maggioranza sciita, i cui legami con l’Iran sono troppo stretti per lasciare tranquillo il regno sunnita, tanto da tentarli ad appoggiare gli estremisti sunniti. Ma la guerra non accenna a concludersi e sanno che questa strategia gli si può rivoltare contro. Nayef lo riconosce: «Ciò che avviene a Baghdad avrà anche per noi conseguenze pesanti. C’è chi va laggiù per poi tornare addestrato da terrorista e minacciarci». Inoltre i Saud sono assillati da un terribile sospetto: forse gli Stati Uniti stanno riconsiderando la loro storica alleanza con il regno wahhabita. Quindici dei terroristi dell’11 settembre non erano forse sauditi? I soldi del regno non finanziano forse da decenni movimenti estremisti in Medio Oriente e nel mondo? Solo l’Iraq, con le sue immense riserve di petrolio ancora inesplorate, poteva aspirare al ruolo di sostituto, ma con un regime docile e arrendevole verso lo Zio Sam. Bush e i suoi disastrosi collaboratori si sono scontrati con la resistenza irachena, con l’ostilità iraniana e con la diffidenza saudita, e sono allo sbando. Non basta però a rassicurare il regno: chi li proteggerà se più nessuno teme il gendarme americano? Come mi confessa Nayef, restano soltanto Allah e la sua legge. «Il virus dell’estremismo minaccia la società saudita ed è per questo che facciamo del nostro meglio per combattere il male con la Sharia.» Qui la legge sacra ha l’ultima parola: «Nessuno nel governo, nemmeno il re, può prendere una decisione contraria a quella di un giudice della Corte islamica» mi assicura il ministro degli Interni. Questa intransigenza ovviamente è più questione di opportunismo politico che di convinzione religiosa. La dinastia dei Saud ha bisogno dell’appoggio del clero ufficiale, gli ulema, per mantenere il controllo sulla popolazione. Rivolgo al principe una domanda sulla pena di morte, per la quale l’Arabia Saudita riceve accese critiche dall’Unione Europea e da organizzazioni come Amnesty International. «Non verrà abolita. Dobbiamo pensare alle vittime» afferma. «Ma cerchiamo di eseguire la condanna nel modo più umano possibile. Facendo ricorso alla decapitazione, che è meno atroce dell’impiccagione o dell’iniezione letale. Come i francesi con la ghigliottina» aggiunge rivolto a Jacques, che si trattiene dal fargli notare che in Francia non si ghigliottina più nessuno. Nel 2007 il numero delle esecuzioni nel Paese è aumentato: raggiungerà probabilmente il centinaio, contro le 37 del 2006. Per la maggior parte i giustiziati, tra i quali anche africani e asiatici, hanno commesso i reati di omicidio o traffico di droga, ma alcuni sono stati condannati per stupro o rapina a mano armata. Secondo la Sharia un assassino può ottenere il perdono della famiglia della vittima con una «riconciliazione» o pagando una diya, il prezzo del sangue. Quest’ultimo tradizionalmente è la metà per una donna che per un uomo, anche se il Corano non menziona nessuna differenza. Ascoltando il ministro degli Interni, mi tornano in mente le parole del dottor Khalil, sulla spianata della moschea di al-Safat, nel cuore di Riyad: «È qui che avvengono le esecuzioni pubbliche» mi ha spiegato. A febbraio ha assistito alla decapitazione di quattro cingalesi, accusati di rapina a mano armata. «Sono favorevole alla pena di morte» ha aggiunto Khalil. Crede all’esemplarità della pena capitale, in un Paese brutale in cui la violenza è un fattore culturale e storico che un trentennio di prosperità economica non ha ancora cancellato. «Se il governo non applicasse la pena di morte, la famiglia della vittima si vendicherebbe da sola. Le antiche tradizioni sono dure a morire. Possiamo costruire grattacieli e usare le tecnologie più avanzate, ma le persone non cambiano facilmente.» Gli ho chiesto di descrivermi una decapitazione, guardandomi attorno nella grande spianata per cercare di immaginare quella scena terribile. Il condannato viene portato, in genere all’alba del venerdì di preghiera, al centro della piazza gremita, in uno spiazzo aperto e controllato da un cordone di poliziotti. Il giudice legge la sentenza per

intero, amplificato dagli altoparlanti, e il boia aspetta che finisca. «Fino all’ultimo secondo, la famiglia della vittima può far valere il suo diritto al perdono e fermare tutto» ha aggiunto Khalil. Se non lo fa, la sciabola del boia mozza con un sol colpo la testa del colpevole che rotola a terra. Un’altra pratica prevista dalla Sharia, l’amputazione delle mani ai ladri, è ancora in vigore in Arabia Saudita e il principe Nayef non prevede che le cose cambino: «Tagliare le mani non è solo una punizione, è anche un esempio per il popolo. Se non lo facessimo in pubblico la forza dell’esempio scomparirebbe». Mi assicura, però, che la barbara tradizione della lapidazione delle adultere non esiste più: «Non accade più da tempo». In realtà la legge islamica, nella sua interpretazione più rigida, considera la pena capitale facoltativa per gli assassini, obbligatoria per il tradimento coniugale. In alcune legislazioni può essere commutata in una punizione più mite – di solito colpi di frusta – se l’adultero è scapolo, e quindi impossibilitato a soddisfare con una sposa i propri bisogni fisici, oppure se la moglie è malata o lontana. In Arabia Saudita gli adulteri sposati in teoria potrebbero ancora essere puniti con la lapidazione. Nel periodo trascorso da Maometto a Medina questa era un’usanza della comunità ebraica, anche se alcuni hadith sostengono che lo stesso Profeta l’abbia a un certo punto raccomandata ai musulmani. Ma fu codificata solo sotto il secondo califfo Omar, rigido custode del dogma e noto per la sua misoginia. Per la verità nessuno degli illuminati estensori delle leggi sacre in materia mi colpisce come paladino delle donne, se penso che all’alba del terzo millennio stiamo discutendo se si possa sostituire la lapidazione con «semplici» pene corporali. Anche perché, qui come altrove, le punizioni non sono affatto un deterrente per chi subisce il fascino del marito o della moglie altrui. Come tutti gli strenui difensori della bontà della Sharia, Nayef mi elenca le «garanzie» offerte a tutela delle presunte peccatrici. «Quattro testimoni devono aver assistito all’atto di fornicazione, la donna deve dichiararsi colpevole e insistere per essere giustiziata» sottolinea. Perlomeno, come è naturale in un sistema legislativo dalle origini così antiche, la storia di questi requisiti non manca di poesia. La stessa Aisha, moglie preferita del Profeta dopo la morte di Khadija, fu accusata di adulterio e addirittura rimandata in disgrazia a casa dei genitori. Ma quando Maometto, visitato da una Rivelazione divina, la richiamò, lei ostinata non volle tornare. Nulla l’avrebbe indotta a riabbracciare un uomo che aveva dato ascolto alle calunnie nei suoi confronti. Nel Corano è scritto che Dio stesso chiese: «Perché i credenti e le credenti non dissero: “Questa è bugia manifesta”? Perché gli accusatori non hanno portato quattro testimoni?». Da allora la legge islamica richiede quattro testimoni; chi dopo aver lanciato l’accusa non riesce a produrli viene frustato e interdetto per sempre dal testimoniare. Al termine della lunga conversazione con il principe Nayef, stempero la tensione con una domanda finalmente frivola. Da quando sono entrata la mia attenzione è attratta da un anello che il principe porta al mignolo della mano destra. L’enorme pietra azzurrina scintilla come una stella appena esplosa, e ogni movimento della mano le strappa bagliori ammalianti. Di che pietra si tratta? «È un diamante azzurro» mi risponde facendomelo ammirare. «Il mio esperto di pietre preziose mi ha assicurato che è un esemplare unico.» Non ne dubito e immagino, date le sue dimensioni, che non sia un gingillo alla portata di tutti, nemmeno nel mondo dorato dei sovrani arabi. Il principe mi accompagna alla porta, poi attraverso l’ingresso in marmo del ministero. E ne approfitta per ripetermi il messaggio fondamentale sul quale i custodi del regno fondano il loro potere: «La legge è la legge e non cambierà mai. Non abbiamo il diritto di intervenire sulle norme dettate da Dio. Possiamo al limite avere pratiche diverse nella sfera dell’economia o dei comportamenti sociali. Il Corano ha un valore universale, è stato rivelato per il bene dell’umanità. E noi, i musulmani, dobbiamo seguire il suo insegnamento». Amen.

Le dieci di sera. L’asfalto di Tahlia Street, nel cuore di Riyad, comincia a scaldarsi. Le auto di grossa cilindrata sono parcheggiate fino in terza fila, lungo un tratto di viale sul quale si susseguono i ristoranti e le terrazze dei bar. I Suv fanno ruggire i motori e cercano di infilarsi tra le portiere bollenti e i gas di scarico. Negli ultimi modelli di Mercedes e di Bmw, la gioventù dorata – ma anche quella squattrinata – cerca di passare il tempo in una città senza cinema, teatri, discoteche. Seduti dietro i finestrini di macchine molto più grandi di loro gli adolescenti, il cellulare attaccato all’orecchio, respirano l’aria della notte, carica di polvere e fumo, come se fosse un piccolo assaggio di libertà. «Benvenuti nella strada più “in” di Riyad» esclama la nostra guida, una trentenne divorziata che, con il volto rigorosamente coperto, si è offerta di iniziare Jacques e me ai misteri della notte nella capitale saudita. Vuole restare anonima per evitare che la vergogna di un’incursione in un ambiente così poco islamico ricada sulla sua famiglia. La chiamerò K. Mi assicura che senza di noi non sarebbe mai venuta: non è un posto adatto a giovani donne perbene. Tahlia Street è un ampio viale dritto che attraversa il centro di Riyad. Gli edifici ultramoderni e gli immensi centri commerciali ospitano una sfilata di negozi di lusso. E tutte le società straniere sembrano essersi date appuntamento qui, per cercare di conquistare una fetta dell’enorme torta impastata di oro nero. A dispetto – o a causa – della sua immensa ricchezza, il regno è ancora in bilico tra passato e futuro. Su Tahlia Street, il giovedì e il venerdì, al cadere del buio, questi giovani cercano per qualche ora di assomigliare ai coetanei di tutto il mondo. Fumano e non solo tabacco. Ascoltano musica techno e hip hop sparata dagli amplificatori delle automobili. Si dimenano sul sedile posteriore o lasciano per un attimo il volante per accennare qualche mossa da discoteca sul marciapiede. Niente alcolici in vista, a quanto pare, e nemmeno ragazze: ci sono, ma nascoste in lussuose automobili dai vetri oscurati. Il testosterone è alle stelle e gli approcci, per questa società, sono audaci: i giovani leoni di Riyad sono in giro a caccia di anime gemelle – in mancanza dei corpi – e non hanno intenzione di tornare senza almeno una preda. Che qui, come vedremo, si presenta sotto forma di foglietti con numeri di telefono scarabocchiati. «I ragazzi non hanno luoghi di ritrovo, non possono frequentarsi in pubblico» ci spiega K. Un tête-à-tête seduti in un bar o in un ristorante è impensabile. I mutawwa stanno all’erta e la pressione sociale è forte. Devono ingegnarsi per potersi avvicinare, parlare per un breve istante e forse, se hanno fortuna, organizzare un incontro. La prima tappa è ovviamente lo scambio dei numeri di cellulare. In ciascuna delle auto che avanzano a passo d’uomo brilla la luce di un Bluetooth. «Perfect stranger», «Hot Leila», o «Sherry» cercano di collegarsi. Incollati ai finestrini, i display dei telefonini mostrano il numero dei proprietari come tante lucciole impazzite, così vicine eppure così lontane. Vengono sventolati pezzetti di carta con una sola richiesta: «call» e dieci magiche cifre. Su un giornale locale, «Arab News», ho letto un articolo che riporta uno studio poco edificante: quasi il 70 per cento delle immagini scambiate con questo mezzo dai giovani sauditi sono pornografiche. Sono stati controllati 1470 file contenuti nei cellulari che la polizia religiosa ha sequestrato nella regione di Qasim, a nord di Riyad. «Il 69,7 per cento sono di tipo pornografico e l’8,6 per cento di tipo violento» afferma l’autore, il ricercatore Abdullah bin Muhammad al-Rashid. I telefonini appartengono a ragazzi arrestati per molestie nei confronti di coetanee che nell’88 per cento dei casi si dichiarano «vittime» delle immagini ricevute. In un altro sondaggio condotto da Rashid su un campione di 1200 donne di età compresa tra i diciotto e i venticinque anni, l’82 per cento dichiara di utilizzare costantemente la tecnologia Bluetooth, che permette di collegare due cellulari, senza fili, a corto raggio. Per il 99 per cento questa tecnologia ha infranto le barriere dei tabù sociali. E oltre tre quarti confessano di averla già utilizzata nella Grande Moschea della Mecca. Abbiamo appena cominciato la nostra lenta navigazione lungo Tahlia Street quando un’automobile sulla nostra destra comincia a farsi insistente: è una magnifica Lexus con a bordo due ragazzi che sembrano farci una corte

spietata. Siamo incastrati dietro un grosso Suv blu scuro sul quale spicca la sigla Lapd, Los Angeles Police Department, e il nostro autista non riesce a superarlo. Alla fine, su mia richiesta, K. apre il finestrino e i nostri pretendenti si affrettano a gettarci due bigliettini arrotolati con il nome e numero di telefono. Non sembra che la presenza di Jacques, seduto sul sedile del passeggero, li turbi minimamente. «Cosa dobbiamo fare ora?» La mia domanda è un po’ ingenua e K. scoppia a ridere. «Puoi chiamarli e iniziare a parlare. Se il primo contatto è positivo, vi date un appuntamento, di solito in un centro commerciale, per conoscervi meglio. Sicuramente vorranno che ci andiamo insieme, tu e io. Cammineremo una accanto all’altra, facendo attenzione che non ci siano mutawwa nei paraggi. E se tutto va bene ci ritroveremo nell’appartamento di un amico, probabilmente insieme ad altra gente.» Il seguito è lasciato all’immaginazione di ciascuno. Mi rendo conto che il velo sul volto della mia amica non sembra scoraggiare gli eventuali spasimanti: «Al contrario» scuote il capo «le ragazze si sentono molto più libere di rispondere alle avance se non vengono riconosciute». K. ci porta in un centro commerciale, il Mamlaka. Fa parte del Kingdom Center, un complesso ultra-chic dominato dalla torre dell’albergo Four Seasons. Le serate fuori casa di Riyad in genere finiscono in questi luoghi, relativamente al sicuro da sguardi arcigni. Sono le 23:30 e i negozi stanno chiudendo. Ancora pochi minuti e i ritardatari se ne andranno. A mezzanotte la città sveste l’abito della festa e i party continuano tra quattro mura, nelle residenze di lusso, intorno a piscine private, al riparo da occhi e commenti indiscreti. Nell’immenso atrio di vetro, marmo grigio e acciaio, gruppi di giovani passeggiano avanti e indietro. Sono pochi quelli non impegnati in fitte conversazioni telefoniche. Alcune ragazze si sono addirittura tolte i foulard e i maschi le seguono a distanza. Ci sono anche intere famigliole e guardie in uniforme controllano che tutto fili liscio. Mi sembra la piazza di un villaggio dall’aspetto futuristico, ma percorso dagli stessi pudori, dalle stesse pulsioni e dalle stesse difficoltà di approccio dei paesini italiani degli anni Quaranta. Ci si scambiano sguardi, qualche sorriso e battutine. Passando accanto a un gruppo di adolescenti sedute ai piedi di una colonna, un giovane lancia un disinvolto: «Salve ragazze!». La risposta arriva accompagnata da risate: «Se ti tagliassi i capelli, eviteresti di sembrare una di noi!». I numeri di telefono che i nostri corteggiatori ci hanno lanciato in macchina mi bruciano in tasca come una tentazione: se li chiamassi e dessi loro un appuntamento in albergo? Sarebbe un’occasione unica per farmi raccontare come vivono la segregazione, le loro frustrazioni. Estraggo il cellulare e i pezzetti di carta. Jacques, vigile al mio fianco, inorridisce e mi chiede se sono impazzita. Non penso allo scandalo? Una giornalista e parlamentare europea intenta a rimorchiare giovanotti locali? Ha ragione e lascio perdere, anche perché la mia amica K. rifiuta tassativamente di partecipare all’avventura. Qui, sotto i lampadari del Mamlaka, tra fontane e piante, la polizia religiosa non entra: il posto appartiene a uno degli uomini più potenti e ricchi del regno, il principe al-Waleed bin Talal, nipote di re Ibn Saud. Vale oltre 20 miliardi di dollari e persino i religiosi più ostinati, che dimostrano un grande rispetto nei confronti del denaro, sanno bene che ci sono limiti invalicabili. Anche se poi si vendicano appostandosi all’uscita. Mentre risaliamo sull’auto, siamo testimoni di una strana partita a nascondino attorno al centro commerciale. Due jeep dei mutawwa sono di pattuglia e i ragazzi si sparpagliano nei parcheggi, corrono tra le automobili e si riparano dentro i portoni. Alcune auto della polizia sembrano partecipare alla caccia a sirene spiegate. Alla fine vedremo ripartire i Gmc della milizia della virtù, con a bordo alcuni sfortunati adolescenti. Probabilmente stavano ascoltando musica occidentale o, ancora peggio, avevano attaccato bottone con le ragazze. «Prenderanno i loro dati, faranno la morale, avvertiranno i genitori» mi spiega K. «Forse cercheranno nei cellulari foto audaci o messaggi non troppo innocenti. Contatteranno anche le persone i cui numeri sono registrati in memoria. Niente di grave, ma le persone sopportano sempre meno questa intrusione nella loro sfera privata. Avrebbero voglia di dire: “Lasciateci in pace. Le nostre vite non vi riguardano”.»

CAPITOLO 14 «LE DONNE SONO I FRATELLI DEGLI UOMINI.» F ATIMA NASEEF sembra più giovane della sua età. Mi aspetta sulla soglia della sua grande casa di Gedda. Ho letto che è nata nel 1944, ma nessuno potrebbe immaginarlo vedendola nella sua magnifica abaya leopardata, decorata con ricami di turchesi. Un sottile foulard marrone di seta trasparente le copre i capelli. Mi tende la mano con un gran sorriso, ma noto un accenno di diffidenza nel suo sguardo. Sta cercando di capire se sono un’altra di quelle occidentali che vogliono dare lezioni di libertà e di democrazia alle donne orientali. Se è così, mi avvertono quegli occhi scuri, sono capitata male. Fatima è l’autrice di Diritti e doveri della donna nell’Islam, un classico degli studi che analizzano la condizione femminile nel mondo musulmano. Durante il nostro scambio di e-mail avevo percepito una certa reticenza, tanto che aveva chiesto di poter leggere in anticipo le domande. Avevo capito il messaggio: Fatima non voleva perdere tempo con una straniera in cerca solo di conferme dei propri pregiudizi. Le avevo assicurato che andavo da lei per aprire i miei occhi e le mie orecchie, per cercare di imparare e poi testimoniare. Fatima proviene da un’importante famiglia di commercianti di Gedda, ricchi, potenti, amici della dinastia regnante. Il loro palazzo bianco a tre piani, con i balconi chiusi da persiane di legno, sorge nel centralissimo quartiere di Balad. Per lungo tempo l’albero che vi cresce accanto è stato l’unico della città vecchia. L’edificio è stato, negli anni Venti, una sorta di salotto in cui si incontravano mercanti, diplomatici stranieri e intellettuali. Re Ibn Saud si fermò qui, su invito della famiglia di Fatima, dopo aver conquistato l’Hijaz nel 1926. Oggi il luogo è diventato un’attrazione turistica. La residenza in cui mi ha accolto la mia ospite si trova invece in un quartiere moderno. Mi precede verso un salone luminoso e ho il tempo di ammirare su una parete una foto di tre metri per due della Grande Moschea della Mecca. Al centro la Ka’ba, e intorno al santuario un oceano di fedeli inginocchiati. Fatima mi offre succhi di frutta, tè e dolci. Non ha voluto che Jacques si unisse a noi per evitare di dover adottare un abbigliamento più rigidamente islamico. Sto scoprendo che in Arabia Saudita il mio indispensabile marito è meno prezioso del solito: non per colpa sua, ma sono diversi gli incontri da cui è bandito, in questa inchiesta «in rosa». L’ennesima dimostrazione che la segregazione non penalizza solo le donne. Fatima è considerata una conservatrice, ma è anche all’avanguardia nella battaglia per l’affermazione del ruolo femminile nella società saudita. Un apparente paradosso che sono molto curiosa di chiarire con lei. Divorziata e risposata, madre di sei figli, è docente di studi islamici all’Università di Gedda. È diventata la portavoce di una corrente che invita le «sorelle» a riappropriarsi del messaggio coranico. Ma non vuole essere etichettata come femminista. «Rifiuto l’idea di un femminismo islamico» dichiara. «Dico no al femminismo e dico no al maschilismo. Nell’Islam gli uomini e le donne sono complementari.» Da tempo difende questa convinzione, che ha ispirato tutta la sua vita di militante e di intellettuale musulmana. «Quando ero bambina, ogni mattina vedevo i miei tre fratelli andare a scuola e piangevo. Volevo andarci anch’io.

Mia madre mi faceva lezione a casa, ma questo non mi bastava. Volevo essere come loro!» La madre, Sadigha, di origine indiana, non sapeva proprio consolarla, perché all’epoca nel regno non c’erano scuole per bambine. Invece di rassegnarsi trovò una soluzione semplice quanto rivoluzionaria: scrisse al sovrano, Saud, per chiedergli il permesso di aprirne una. L’appoggiò suo suocero, il saggio e illuminato Mohammed Naseef, personalità di rilievo della comunità. La risposta reale non si fece attendere e la prima alunna della scuola fu proprio Fatima, che aveva dieci anni. Bisognerà però aspettare l’inizio degli anni Sessanta perché in Arabia Saudita diventi obbligatorio istruire le bambine. Non sarà un processo facile: nelle regioni più tradizionaliste i padri di famiglia scenderanno in strada per protestare, e dovrà intervenire anche la polizia. Alla fine Fatima conseguì la laurea in storia e studi islamici presso la King Abdul Aziz University. «Avrei preferito una specializzazione scientifica, come ingegneria o medicina,» mi confessa «ma all’epoca non esistevano queste facoltà.» Durante le sue ricerche ha sviluppato una grande passione per uno storico americano, Will Durant, autore della colossale Storia della civiltà, in undici volumi. Da allora si è dedicata a un problema che ritiene di massima urgenza: la mancanza di istruzione delle sue compatriote. L’Arabia Saudita ha fatto rapidamente passi da gigante in questo campo, è vero, ma c’è ancora molto da fare. L’84 per cento degli uomini e il 70 delle donne sanno leggere e scrivere, ed è un salto qualitativo eccezionale per una nazione che ha meno di un secolo, e che nel 1970 contava solo una decina di istituti di insegnamento superiore femminili. Ma ugualmente, ribadisce Fatima, «il vero problema dei musulmani è l’ignoranza». Secondo lei, e secondo molti intellettuali suoi connazionali, il progresso deve avvenire gradualmente e nel rispetto dell’identità del Paese. È per questo che insiste sulla necessità di iniziare dalle basi: il Corano e la Sunna. È convinta che una conoscenza approfondita della religione consenta di evitare le trappole di un’interpretazione estremista e settaria degli insegnamenti del Profeta. Ma che nel contempo possa garantire la sopravvivenza di una cultura araba specifica rispetto all’attrattiva degli stili di vita occidentali. Che, come ho avuto modo di scoprire con la mia «notte folle» nella «febbre del giovedì sera», esercitano un fascino potente. Secondo Fatima, la religione non è in conflitto con l’emancipazione. Al contrario. E durante le due ore del nostro incontro cercherà di convincermene. «Dio ha liberato le donne dall’oscurantismo» mi assicura. «Prima dell’Islam, la società negava loro i diritti umani e civili, portando come pretesto la loro debolezza fisica. Vivevano isolate, comandate a bacchetta dal padre, dal marito o dal tutore. La vita nella penisola arabica era principalmente nomade e le tribù beduine si spostavano alla ricerca di acqua e pascoli per il bestiame. Ogni giorno era segnato da razzie e incursioni nelle terre dei vicini. La forza fisica del maschio era la risorsa più importante. Al punto che le figlie, considerate un peso, venivano spesso sepolte vive alla nascita, o potevano essere vendute come spose, e godevano di diritti limitati per quanto riguardava la proprietà.» Tuttavia la situazione cambiò con l’arrivo del Profeta e l’inizio della sua predicazione, e a Fatima piace citare le parole di Maometto: «Le donne sono i fratelli degli uomini». La mia ospite sostiene che anche per loro nella legge islamica non esistono doveri senza diritti: «Costituiscono la metà della società e condividono lo stesso carico di lavoro e di responsabilità, imposti da un mondo che progredisce». Adamo ed Eva disobbedirono insieme, entrambi mangiarono i frutti dell’albero proibito: «La disobbedienza è stata perpetrata dalla prima coppia umana, responsabile in modo solidale. Il Corano discolpa però la donna, accusata invece dalla Bibbia di essere la causa della sventura di Adamo». Fatima prende posizione su altri argomenti che animano il dibattito accademico e illustrano le tensioni che prevalgono anche negli ambienti più conservatori della Umma. Una donna musulmana può decidere liberamente se accettare o rifiutare il matrimonio, afferma Fatima, «ma stiamo assistendo a una regressione di questo diritto fondamentale, nonostante i chiarissimi insegnamenti dell’Islam». L’Islam le permette di svolgere qualunque lavoro confacente alla sua natura. Non ci sono proibizioni, ma «viene raccomandato di non trasgredire le regole del decoro

islamico: in particolare, evitare di mischiarsi a estranei». Secondo la professoressa, il velo è «un diritto alla decenza»: anche lei mi dice che è stato prescritto perché l’Islam considera la donna una «perla preziosa» che deve essere protetta. Ma la religione incoraggia ogni musulmano, di entrambi i sessi, a esprimere la propria opinione senza timore alcuno. Fatima affronta la spinosa questione dell’eredità: secondo la Sharia, a una femmina spetta solo la metà rispetto a un erede maschio con lo stesso grado di parentela. Logica differenza, ritiene la mia ospite, perché il Corano prevede per gli uomini l’obbligo di provvedere ai bisogni della famiglia, mentre le donne possono tenere per sé la dote e i soldi ricevuti nel matrimonio. «Sono secoli che parliamo della questione dell’eredità senza conoscere i fatti» mi assicura. «Dei 24 casi menzionati dal Libro, solo in quattro la moglie prende la metà, perché tocca al marito badare a lei.» Nel frattempo ci ha raggiunte sua figlia Alaa: ha trentasette anni e lo stesso fascino della madre unito, mi sembra, alla sua determinazione. È preside della Scuola di amministrazione all’Università di Gedda e porta avanti quello che è ormai il «mestiere di famiglia»: l’emancipazione attraverso l’istruzione. Alaa mi dice di essere tornata sei anni fa dagli Stati Uniti, e anche per lei lo shock fu terribile. Tanto più che appena pochi mesi dopo il rientro un incidente la mandò su tutte le furie. L’11 marzo 2002 scoppiò un incendio in una scuola elementare femminile della Mecca. Quando alle otto del mattino fu dato l’allarme, negli edifici c’erano 835 alunne e 52 professoresse. I pompieri e le squadre della Protezione civile arrivarono rapidamente sul posto e cominciarono a evacuarle. Poi, all’improvviso, comparvero i mutawwa e presero un’iniziativa che sollevò un’ondata di indignazione: impedirono ad alcune bambine senza velo di uscire da quell’inferno di fiamme. A nulla servirono le proteste delle squadre di soccorso e una quindicina di giovanissime allieve rimasero uccise. Il giorno dopo la stampa si fece portavoce delle denunce contro la polizia religiosa. Dopo alcuni mesi il ministro degli Interni, quel principe Nayef secondo cui le accuse ai mutawwa «sono solo falsità», esortò i guardiani della virtù a mostrarsi meno severi. Ma il danno ormai era fatto e per Alaa quell’episodio illustra ancora una volta quanta strada resta da percorrere per impedire simili derive. Secondo lei, era un ulteriore incentivo a seguire la via aperta dalla madre che già era stata pesantemente censurata per aver mandato le sue figlie a studiare all’estero: «Dicevano che ci avrebbero fatto un lavaggio del cervello. La accusavano di averci autorizzato a studiare e a incontrare uomini. Se non fosse stato per lei, ci saremmo trovate rinchiuse in casa. E invece oggi siamo tutte docenti universitarie». Alaa però riconosce che oggi il mondo è troppo veloce per Fatima e che tocca alle donne della sua generazione prendere il testimone: «Il villaggio globale ci porta a mescolare le culture, ed è una buona cosa, ma la mamma non è d’accordo». Fatima interviene: «Il nostro obiettivo è tentare di creare un mondo ideale. Le pressioni esterne ci chiedono di andare troppo in fretta: la nostra cultura è diversa e deve rimanerlo». Per Alaa, però, anche «contaminarsi» è positivo: «I libri occidentali hanno cambiato la mia vita, in particolare la letteratura moderna dove si parla di amore, di sesso, di passione. È stato il mio patrigno, un palestinese, a regalarmeli. Per me lui è stato la persona più importante». La madre interviene in arabo, con un tono un po’ contrariato. Troppi dettagli privati? Ma Alaa decide di parlarmi della sua famiglia. «Da cinque anni ho in corso una causa di divorzio» racconta. La tensione con il marito è nata subito dopo il loro ritorno dagli Stati Uniti: nuovamente immersi nella cultura tradizionale, lui le rimproverava di essere troppo «diversa». «Più il tempo passava, più avevo l’impressione di essere solo un oggetto. Ho chiesto la separazione.» Per due anni ha avuto in affidamento i loro tre figli: un maschio di sedici anni e due femmine di quattordici e dieci. «Era convinto che sarei tornata. Ma quando ha capito che facevo sul serio, ha voluto togliermi i bambini.» La sentenza del giudice è stata salomonica: il figlio è abbastanza grande per decidere quando andare a trovare i genitori, e le

figlie dovranno vedere la madre una volta alla settimana e trascorrere con lei metà delle vacanze. Ma il padre si rifiuta di obbedire: vuole l’affidamento totale dei ragazzi e che Alaa possa vederli solo una volta al mese, in casa dell’ex marito o del padre di lui. «La mamma pensa che dovrei tornare con lui» mi confida. «Ma non se ne parla nemmeno. Ho deciso di combattere la mia battaglia, ed è questo che le donne devono fare. Non dobbiamo sottometterci. La maggior parte invece non prova nemmeno a ribellarsi, per un misto di ignoranza e conformismo.» Alaa ha aperto un club per ragazze dai quattordici ai ventiquattro anni e organizza campagne di sensibilizzazione su argomenti delicati come il diritto di voto. Ha persino ideato un’iniziativa mista in cui riunisce maschi e femmine per discutere di sessualità, rapporti tra uomini e donne, masturbazione, sesso virtuale… «Tutti sono molto interessati e i mutawwa non osano intervenire!» Secondo lei è una buona risposta alla tragedia dell’11 marzo 2002. Fatima sorride: è fiera della figlia.

Più tardi vado a seguire una lezione tenuta dalla professoressa Naseef in una università esclusivamente femminile. È un edificio molto moderno, quasi un campus all’americana, potrei trovarmi in qualunque parte del mondo. Mi siedo in fondo all’aula dove hanno preso posto 25 studentesse. La lezione è in arabo e una delle ragazze gentilmente traduce per me in inglese. Il corso è incentrato sulle donne celebri del Corano e quella mattina si parla nientemeno che della figlia prediletta del Profeta, Fatima. Il racconto è dettagliato e cerca di far rivivere un personaggio che ha segnato gli albori dell’Islam. Si parla del rapporto di Fatima con il padre, il quale diceva della figlia adolescente: «Amo sentirla continuamente, ha il profumo di una rosa, fa parte di me». Per i sunniti Fatima è la prima delle quattro figlie del Profeta mentre gli sciiti, che rappresentano oltre il 15 per cento dei musulmani, sostengono che fosse l’unica. È certo però che fu lei la capostipite della discendenza del padre poiché fu la sola ad avere figli, Hassan e Hussein, nati dall’unione con il primo imam sciita Ali, nipote e cugino di Maometto. «Hassan e Hussein giocavano con il Profeta e gli si arrampicavano sulla schiena quando si inchinava per la preghiera.» Fatima, come pure la prima moglie Khadija, sono presentate come modelli di perfezione. Guardo le adolescenti attorno a me: hanno accantonato le abaya, alcune sono truccate, pettinate elegantemente con occhiali da sole di marca spinti indietro tra i capelli; noto rapide occhiate lanciate ai cellulari i cui display lampeggiano all’arrivo dei messaggi. Ho l’impressione che per la professoressa Naseef non sarà facile convincere quelle ragazze della buona società di Gedda che la figlia di Maometto è il loro ideale di comportamento. La docente abbandona il tono catechizzante in favore di uno più deciso, per risvegliare nel suo pubblico la combattività femminile. «Alcuni si fanno un’idea sbagliata delle donne nell’Islam: pensano che la religione miri a mantenerle nell’ignoranza. È tutto il contrario: nei tempi antichi ricevevano un’istruzione, che in Arabia Saudita è una conquista recente. Ed è un peccato, abbiamo avuto torto. Nei primi anni della storia islamica eravamo noi a istruire loro: Aisha insegnava poesia e scienze e i compagni del Profeta venivano ad ascoltarla: la chiamavano “la professoressa degli uomini”.» La lezione diventa ancora più militante: «Oggi le ragazze non rivendicano i loro diritti, sono più interessate alla moda. Questo però non vi conquisterà il rispetto, l’unica cosa che può garantirlo è il sapere. Dovete studiare e non solo per ottenere il diploma. Conta quello che avete in testa». Mi sembra che queste sacrosante parole non facciano realmente breccia nelle teste ben pettinate delle studentesse: temo siano fin troppo simili a molte loro coetanee occidentali, e sembrano ben più interessate ai loro sms. Prima di salutarci, Fatima mi cede la parola. Racconto alle ragazze del mio lavoro e del libro che voglio scrivere. Spiego che per ottenere i loro diritti le donne in Occidente hanno dovuto combattere e che ancora oggi non possono riposare sugli allori: «Non dobbiamo mai abbassare la guardia!». La reazione è un po’ imbarazzata, come capita

spesso quando divento assertiva. Fatima risponde per prima: «Non bisogna battersi contro gli uomini, ma lottare con il loro appoggio. A volte però è necessario sapersi opporre: non cedono facilmente la loro autorità». Interviene una studentessa: «Abbiamo dei diritti ma non sappiamo rivendicarli. Si trovano tutti nel Corano, in particolare sul matrimonio e sul divorzio. Se li conoscessimo, i giudici sarebbero costretti ad ascoltarci». Un’altra approva: «Il potere degli uomini si fonda sull’ignoranza delle donne». Una terza mi chiede: «Qual è il problema che più la sconcerta?». Rispondo a bruciapelo: «Il divieto di guidare». Lei mi ripete la versione ufficiale: «La maggioranza delle donne non vuole. Cosa succederebbe se l’auto avesse un guasto e nel chiedere aiuto qualcuno ci assalisse?». Una compagna la interrompe: «Può succedere anche con un autista. Non si preoccupi!» aggiunge rivolta a me. «Guideremo, e tra meno di due anni, glielo garantisco.» La seduta è tolta e aspetterò Fatima fuori. Arriva completamente coperta dal velo, si vedono solo gli occhi. Sono stupita: «Perché indossi il niqab?». «Le mogli del Profeta lo facevano. Più ti copri, più sei rispettata.» «Non hai appena detto che è il sapere a conquistare il rispetto?» «Sì, ma le donne non velate sono più soggette alle violenze maschili perché il loro corpo attira gli uomini.» Mi fa l’esempio dell’Occidente dove secondo lei corriamo costantemente il rischio di aggressioni. Le faccio notare che le violenze domestiche sono altrettanto frequenti nei Paesi arabi e aggiungo: «Le donne devono essere rispettate, che indossino la minigonna oppure il niqab». «Ma i maschi ce l’hanno nel sangue» afferma Fatima, e capisco bene a cosa si riferisce. Insisto: «Ma le donne devono avere il diritto di scegliere». Mi guarda: «Se lasci che siano le persone a scegliere, sbaglieranno». Rimango senza parole.

Il netto giudizio di Fatima sulla lussuria connaturata all’animo maschile mi fa venire improvvisamente voglia di fare un’esperienza forte: comprare biancheria in Arabia Saudita. Il che significa trovarsi davanti un omone barbuto che sciorina sul banco mutandine di pizzo e reggiseni di seta. Roba per stomaci robusti. Il commesso è perfettamente serio, le mani brune maneggiano i cassettini che contengono minuscoli pezzi di stoffa pregiata. Accanto a me Jacques, divertito, si lancia in una salva di commenti in francese che per fortuna lui non capisce. Siamo in un centro commerciale di Gedda dove comunque devo acquistare una nuova abaya. La vetrina della nostra boutique di intimo non ha niente da invidiare a quelle di Milano, Parigi o New York: sono presenti in forze tutte le grandi marche, da La Perla a Victoria’s Secret. Ma il vero spettacolo è l’interno. Le donne con i lunghi veli neri discutono della praticità e della sensualità delle culotte trasparenti o dei Wonderbra imbottiti. Il paradosso delle regole della segregazione, con le limitazioni che impone agli impieghi femminili, è che di queste cose si occupano gli uomini. Una commessa infatti incontrerebbe ogni giorno maschi che non appartengono alla sua famiglia, cosa vietata. E in un negozio di biancheria intima la sfumatura paradossale di questa proibizione è particolarmente evidente. Invece di poter discutere di dettagli intimi del loro corpo con altre donne, le clienti saudite devono farlo con gli indiani, pakistani, cingalesi che formano l’esercito di commessi nei grandi centri commerciali. È ovvio che questi si guardano bene da qualunque comportamento fuori luogo, e assicurano un servizio impeccabile, ma le mie amiche saudite affermano unanimi che preferirebbero di gran lunga una donna. Ci sono gesti che davanti a un uomo proprio non vengono naturali. In questo caso, il ragazzo che mi sta servendo ci mette un po’ a capire la mia taglia, inferiore alla media locale. È vero che sotto l’abaya nera che mi copre dalla testa ai piedi le mie misure non sono così evidenti, ma la soluzione

potrebbe essere peggiore del male. «Se gli mostri le tue grazie finiamo in galera» commenta Jacques scoppiando a ridere. Alla fine riesco a farmi capire senza violare le leggi del regno, utilizzando le taglie americane al posto di quelle europee. Di fronte a queste situazioni, che diventano sempre più indifendibili in una società che cambia, i guardiani dell’ordine morale hanno deciso di allentare un po’ la morsa: a Gedda è stato introdotto un nuovo regolamento che permette alle donne di lavorare nei negozi di lingerie. Un’altra piccola vittoria nella battaglia per la parità dei sessi: sarò più fortunata la prossima volta. Nel frattempo è meglio che mi consoli andando a comprare la mia nuova abaya, e magari anche un altro velo.

La questione del velo è ancora più complicata di quanto pensiamo. Di per sé, il fazzoletto che copre i capelli è una tradizione preislamica: era un segno di distinzione nell’aristocrazia delle società antiche, e solo gli schiavi andavano a capo scoperto. Hijab invece è un termine già presente nel Corano che – secondo i teorici dell’Islam – definisce sia la stoffa in cui si avvolgono le donne, sia il fatto di nascondersi agli occhi degli altri. Il testo, in particolare, fa riferimento alla necessità, per le donne, di coprire le parti più intime del corpo e di non lasciar vedere il seno agli estranei. Un versetto del Libro sacro avverte: «O credenti, non entrate nella casa del Profeta a meno che non siate invitati. Quando poi siete invitati non cercate di rimanere. E se vi rivolgete alle mogli del Profeta, fatelo da dietro una cortina. Ciò è più puro per i vostri cuori e per i loro». Come sempre accade con le sure del Corano, recitate da Maometto e poi riportate dai trascrittori, il contesto è particolarmente importante. Bisogna ricordare che la residenza di Maometto a Medina era modesta, e non molto grande, così come le stanze in cui vivevano le sue spose. La moschea, in realtà un recinto, che in un primo tempo non aveva nemmeno il tetto e solo più tardi divenne un edificio vero e proprio, era separata dagli altri locali da una semplice apertura senza porta. Mano a mano che la comunità dei fedeli cresceva, e che aumentava la loro presenza nella moschea, dice la tradizione, sorse la necessità di proteggere meglio l’intimità delle mogli. Questa sarebbe l’origine di quella tenda, quell’hijab, posto tra uomini e donne nella casa del Profeta. La visione occidentale della donna musulmana velata, sottomessa ai desideri di dominazione fisica e morale degli uomini, è pericolosa quanto quella fondamentalista che presenta il velo come unico strumento di liberazione dall’influenza degli stereotipi occidentali. Nel loro dogmatismo, dimenticano che scegliere è un diritto fondamentale. E che le donne di tutto il mondo oggi lo rivendicano con forza e a ragione.

CAPITOLO 15 GEDDA, IL SOFFIO DELLA LIBERTÀ P RINCIPALE PORTO SUL MAR ROSSO, Gedda è la seconda città del regno e il suo ingresso commerciale. Si estende a perdita d’occhio, solcata da viali larghi come autostrade. La panoramica che costeggia il mare, con i suoi 120 chilometri, è una delle più lunghe al mondo. È una città di case unifamiliari, edifici bassi e quartieri di affari:

l’unica fabbrica che protende le ciminiere verso il cielo blu è un impianto di desalinizzazione dell’acqua. Il cuore commerciale è un succedersi di negozi di lusso, e nessuna delle grandi marche europee o americane manca all’appello. Nei ristoranti dei giganteschi shopping mall l’aria condizionata impone temperature da cella frigorifera. Gedda è anche la capitale dell’Hijaz, la lunga striscia costiera di deserti e montagne che forma la parte occidentale del Paese. Una provincia da sempre aperta alle influenze provenienti dall’Africa e dal resto del mondo; una società mercantile che ha costruito la sua fortuna sul commercio e sugli scambi. Fu conquistata nel 1925 da re Ibn Saud, che cacciò i dominatori hashemiti, per poi fonderla nel regno dei Saud nel 1932. Ma era un’unione forzata e innaturale e oltre settant’anni dopo è cambiato poco: le popolazioni di questa regione rivendicano la loro diversità, non potendo reclamare l’indipendenza. I borghesi di Gedda, figli del mare, non vogliono essere confusi con le tribù del Najd impossessatesi del potere a Riyad. Si ritengono sofisticati, cosmopoliti e tolleranti, e guardano con disprezzo e avversione i beduini venuti dal deserto da cui sono stati colonizzati. Gedda è anche la porta religiosa del regno. Qui ogni anno arrivano da tutto il pianeta milioni di pellegrini diretti alla Mecca e a Medina. Immense strutture di cemento li attendono all’aeroporto King Abdul Aziz, per ripararli dal sole cocente, prima che ripartano per le destinazioni finali. Nei primi secoli dell’Islam i califfi furono i «protettori dei luoghi santi». Questo glorioso titolo, che conferisce a chi lo detiene un rispetto unico nel mondo musulmano, oggi è riconosciuto ai Saud. Qui il vento soffia dall’oceano e ha un profumo di libertà e di ribellione. Nella baia di Gedda, la gioventù della seconda città del Paese si fa sentire. Letteralmente. Lanciati a tutta velocità, decine di acquascooter si incrociano in un roboante balletto. Piccoli ma potentissimi fuoribordo, dalle chiglie in vetroresina rossa o gialla, si uniscono alla festa. I solchi di schiuma si fondono e disegnano sulle acque del Mar Rosso nervosi andirivieni. I motociclisti del mare più temerari si lanciano a tutto gas verso i cavalloni e li saltano con improvvise impennate. Le cadute sono numerose, ma più sono spettacolari più la competizione sembra accanita. Gli stuntman in erba con mute da immersione sono tutti ragazzi, ma sui bolidi che filano sfiorando l’acqua ragazze a capo scoperto, o con i foulard al vento, si tengono strette al pilota. In mezzo a questo traffico si aprono la rotta sambuchi più tradizionali o classici yacht, dove intere famigliole si godono la brezza e il sole. È un fine settimana come tanti altri e sul lungomare di Gedda si respira un’aria da Riviera. Jacques e io siamo stati invitati a una merenda organizzata su una barca, che per due ore solcherà le acque del Mar Rosso. Il capitano e l’equipaggio sono filippini e un ristoratore libanese ha disposto sul ponte inferiore le portate di un vero e proprio banchetto: in Arabia Saudita la generosità può diventare eccesso. Ci siamo imbarcati dal lussuosissimo Yacht Club, dove si incontrano donne coperte, ragazzine in jeans e alcune rare veneri in bikini. Qui la legge islamica rimane fuori dalla porta, sorvegliata da un servizio d’ordine in uniforme. I ricchi fanno ciò che vogliono dietro i cancelli dei loro villaggi marini. Lungo i vialetti che portano al mare, sontuose ville ospitano la buona società. Appoggiati ai cofani di costosissimi coupé, gli adolescenti si tengono per mano e si guardano negli occhi. Ne scopro addirittura due che si sbaciucchiano. I barbuti mutawwa masticherebbero amaro. «Qui non entrano» ci spiega Abderahman, un uomo che ha fatto fortuna e poi bancarotta, diverse volte, con il commercio dei diamanti. «La gente a Gedda è sempre stata più libera e non sopporterebbe che qualcuno venisse a dirle come comportarsi.» I raggi arancione del sole che comincia la sua lenta discesa sull’orizzonte aggiungono un ultimo tocco di perfezione al paesaggio da cartolina. Con un bicchiere di succo di frutta in mano, seduta su una poltrona a gustare fresche insalate e pesce alla griglia, potrei facilmente dimenticare che la bella vita ha un prezzo. Ma sull’altra riva della baia lo spettacolo è diverso: la spiaggia è una sottile striscia di sabbia e le famiglie vi si ammassano, approfittando della dolcezza del clima. Grandi boe delimitano le zone di balneazione e gli uomini e i ragazzi si bagnano nelle acque calde del Mar Rosso. Le donne, in abaya e velo, rimangono diligentemente sedute sulla sabbia.

Poche audaci indossano il costume da bagno islamico, una specie di tuta non aderente dalle maniche lunghe che, personalmente, trovo più sexy dei perizomi di Pamela Anderson. Quando escono dall’acqua, infatti, la leggera stoffa bagnata aderisce alle forme in un gioco di vedo e non vedo che sembra fatto apposta per scatenare fantasie erotiche. Alcuni cavalli passano al trotto tra le tovaglie distese a terra per i picnic. Le spiagge pubbliche sono troppo strette e anche gli scogli sono occupati dagli amanti dei bagni di mare. Appollaiati sulle pietre infuocate, troppo scomode per potersi distendere, sono in prima fila a osservare lo spettacolo della ricca e spensierata gioventù di Gedda. Anche qui, nel Paese dell’oro nero e del denaro facile, c’è un baratro tra ricchi e poveri. Una giovane donna che ho conosciuto a Gedda, giornalista e madre di famiglia, partecipa alla gita insieme a cinque dei suoi sette figli. Mouna ha appena quarant’anni e non li dimostra. Rimango così interdetta che scoppia a ridere: «A vent’anni avevo già quattro figli!». Una di loro, Wafa, guarda con una certa invidia i ragazzi che si divertono in acqua. È una diciottenne traboccante di energia. «Sono sportiva e adoro il basket,» mi spiega «ma per le ragazze è difficile praticare qualunque attività.» Ha un fisico da modella con lunghe gambe fasciate in pantaloni attillati, il petto ben disegnato dalla t-shirt aderente e un viso ancora infantile sotto il foulard bianco. Non può fare il bagno in pubblico e deve andare in una piscina privata oppure sulle spiagge riservate alle donne. Quando entra in acqua indossa il costume islamico che copre anche i capelli. Le faccio notare che uscendo dal porto abbiamo incrociato una barca su cui alcune signore prendevano il sole in bikini. «Forse erano straniere e se erano saudite provengono da famiglie che non si preoccupano della loro reputazione. Io non posso permettermelo perché sarebbe un dispiacere per i miei genitori e mi sentirei a disagio.» Tuttavia Wafa, come molte sue coetanee, sogna di trasferirsi all’estero per liberarsi da pressioni familiari e sociali. «Mi piacerebbe andare negli Stati Uniti» mi confida. Ha buone possibilità di riuscirci: è una brillante studentessa di ingegneria ed è entrata nella prima scuola specialistica femminile del regno. «Bisogna finirla con la segregazione» continua. «È vero, alla fine facciamo ciò che vogliamo, ma invece di nasconderci potremmo vivere normalmente.» Mi racconta che lei e i suoi coetanei si parlano nelle chat room di Internet. E finiscono poi per incontrarsi. «Sono entrata in contatto con un mio coetaneo e ci siamo scambiati messaggi e fotografie. Volevamo vederci e ne ho parlato con la mamma. Mi ha detto che era d’accordo ma a condizione di accompagnarmi al nostro primo appuntamento. Ho accettato, anzi la sua presenza mi ha rassicurata.» Mouna interviene nella discussione. Si è sposata a sedici anni e oggi deve tenere d’occhio tre delle sue figlie di ventidue, ventuno e diciotto anni. «Non possiamo vivere come una specie di corpo estraneo della società. È per questo che ci battiamo, perché le cose cambino per le nostre figlie. Il re ha avviato le riforme e dobbiamo sostenerlo: è una grande opportunità per noi.» Secondo lei, l’integrazione delle donne sarà una conseguenza naturale della loro affermazione nel mercato del lavoro: «Quando entreremo davvero nella produzione, sarà impossibile fare a meno di noi. L’economia è il vero cavallo di Troia che ci permetterà di conquistare il nostro posto al sole». Però mette in guardia la figlia: «Dobbiamo muoverci con discrezione, senza provocare reazioni contrarie, altrimenti saremo accusate di “intossicazione da Occidente”». Tuttavia la pazienza non è certo la qualità principale dei giovani. Qui come nel resto del mondo.

In serata incontriamo altri amici in un ristorante alla moda del lungomare, al-Nakil, su un’ampia terrazza rinfrescata dalla brezza. L’arredamento moderno è tutto in legno scuro e tra i tavoli sono sistemati alcuni televisori. Su un palco un’animatrice annuncia i risultati di un concorso, indetto da un canale televisivo che sta lanciando un nuovo programma tipo Operazione trionfo. Giovani talenti di diverse nazioni arabe si contendono il titolo di migliore artista, nella speranza di ottenere un favoloso contratto. Gustiamo un mezzé, una deliziosa selezione di antipasti, immersi nel profumo dei narghilè. Seduti intorno a noi, giovani donne in abaya nere, altre senza foulard, uomini nei

loro abiti tradizionali o vestiti all’occidentale. Quello accanto a Jacques porta addirittura i capelli lunghi, un rischio in un Paese in cui questa eccentricità è proibita. L’unica differenza con un ristorante di Beirut è che non ci sono bottiglie di arak o di vino sui tavoli. Sono seduta tra il direttore dell’emittente che lancia il programma e una nipote della prefessoressa Fatima alNaseef, una diciottenne che si è fatta una reputazione di sfrontatezza con il suo diario molto personale in forma di blog. Mi rivolgo al mio vicino che ha un aspetto fiero nella sua tunica e ghutra bianchi. È alto, slanciato, con un viso dai tratti regolari. Si chiama Ahmad al-Shugairi ed è uno dei responsabili del canale Mbc, la Middle East Broadcasting Corporation, con sede a Dubai. La serata è organizzata proprio dalla Mbc, ma Ahmad non lavora nel campo del varietà: produce e conduce una trasmissione intitolata Khawater shab, ovvero «I giovani che pensano». Otto minuti al giorno per promuovere un Islam moderato. Si discute di un argomento di attualità con interventi di vari partecipanti e interviste fatte per strada. «Io appoggio un Islam che recepisce il vero messaggio del Profeta: un buon musulmano è colui che rende il mondo migliore.» Il suo lavoro si basa, mi dice, su una conoscenza approfondita della vita e delle parole di Maometto, sul parere di esperti e su testi autorevoli. «La cosa più importante» continua «è far capire che la nostra non è una religione bianca o nera: il 99 per cento della Sharia è una zona grigia, quindi aperta all’interpretazione.» Gli chiedo perché ci siano così tante opinioni diverse sul trattamento da riservare alle donne. «È un classico caso di tradizione che prevale sulla religione» mi risponde. «Prenda il fatto che le abaya delle donne sono nere. È un’usanza, non materia di fede; la stessa cosa per la patente, il matrimonio degli adolescenti, la scelta di un marito. Solo la poligamia era ammessa dalla religione, ma nella realtà anche questo diritto è stato limitato dal Profeta.» Cita l’esempio di Medina, che Maometto voleva trasformare nella società ideale: «All’epoca le donne erano sedute nella moschea, in fondo ma insieme agli uomini, non separate come oggi; e anche i non musulmani potevano partecipare al culto». Con la sua trasmissione, Ahmad cerca di rivolgersi ai giovani che vogliono conquistare sia questo mondo che l’altro. «Aspirano a essere i migliori, ma rispettando i valori religiosi. Non vogliamo uno Stato laico ma nemmeno i fondamentalisti.» Ritiene che il mondo musulmano stia attraversando un periodo di oscurantismo. «La religione viene manipolata, i predicatori vengono usati e le donne sono sottomesse, come accadeva in Europa durante l’Inquisizione.» Trova che i governi europei siano meno corrotti, e paradossalmente molto più capaci di mettere in pratica l’Islam: «Pensi alla libertà religiosa, alla difesa dei diritti umani e delle donne». Ahmad fa una pausa, come se quello che sta per dire gli costasse fatica: «E pensi all’hajj, il pellegrinaggio alla Mecca. È una vergogna che non siamo capaci di organizzarlo in maniera decente. Avviene nelle peggiori condizioni igieniche e in una confusione totale, tanto che a volte i pellegrini ci rimettono anche la vita, è un disastro. Un amico tedesco convertito, di ritorno dalla Mecca mi ha detto: “Ringrazio Dio di avere incontrato l’Islam prima di incontrare i musulmani”». La mia giovane vicina ci ha ascoltati con un evidente desiderio di intervenire. È adorabile sotto il suo foulard nero; ha grandi occhi brillanti e intensi in un volto da bambolina. Sotto l’abaya indossa stivaletti a punta con i lacci e i tacchi alti. Molto sexy per gli standard locali. Lujain al-Khatib è una famosa blogger saudita. Sul suo iloveislam (www.iloveislam.spaces.live.com) racconta in un inglese vivace e poetico le paure e le speranze, le collere e gli impeti di una ragazzina non proprio come tutte le altre. Come molte sue amiche, ha vissuto a lungo negli Stati Uniti con la famiglia. Al suo ritorno il trauma è stato troppo forte e ha iniziato a criticare tutto quello che vedeva. «Volevo diventare genetista, ma questa specializzazione qui non esiste ancora e ho ripiegato sulla biochimica.» Quando parla con gli stranieri, mi dice però, si ritrova a difendere nonostante tutto il suo Paese e la sua cultura: «Sono prigioniera tra due fuochi: non so dove sto andando». L’Islam è un elemento forte della sua identità, cosa su cui sua nonna Fatima sarebbe sicuramente d’accordo, ma

vorrebbe viverlo in modo meno claustrofobico. «Un giorno ho deciso di smettere di lamentarmi» mi spiega «e ho creato il mio blog. Le mie compagne ne parlavano soltanto, io l’ho fatto. Adoro scrivere.» E quando scrive Lujain non si trattiene. Le parole volano come frecce e mirano a qualunque bersaglio: le angosce adolescenziali; le assurde regole di una società che non sa darle il posto che merita; la voglia di amare; le domande sul sesso. Non manca niente. Però, in questo vortice di pensieri, emozioni e interrogativi, Lujain sembra voler conservare un chiaro punto di riferimento: Dio. «E ricordati. Hai Dio, l’Onnipotente» scrive in una poesia intitolata Explosion. «Lui è tra coloro che sono stati trattati ingiustamente, che sono stati feriti. È qui. Allora alzati dal fango nel quale sei caduto. Pulisciti il viso e ricordati: Dio per te c’è sempre.»

Coloro che, come Ahmad e Lujain, vedono nel Corano un testo di liberazione, per convincersene compiono un salto indietro di millequattrocento anni. Quando nel VII secolo il Profeta riceve la Rivelazione, la città della Mecca è dominata da un clan, i Quraysh. Protettori delle carovane, gestiscono anche i luoghi di culto. Sono i guardiani della Ka’ba e chi controlla il santuario e i suoi idoli ottiene il rispetto delle tribù da cui sono venerati. La supremazia dei Quraysh ha inizio nel IV secolo, quando il capoclan, Qusayy, ha la geniale idea di raccogliere nella Ka’ba tutte le statue, di pietra o di legno, degli idoli venerati nella regione e di nominare la propria famiglia «custode degli dèi». In seguito, si arricchiscono imponendo una tassa alle carovane che passano per la Mecca. Ne garantiscono la protezione e se ne occupano mentre i fedeli vanno a pregare. Con il passare del tempo, questo concentrato di potere economico e politico nelle mani di una sola tribù è destinato a cambiare radicalmente la società della Mecca: il codice morale beduino ne uscirà indebolito; la solidarietà che era il fondamento della struttura sociale si sfalderà; i più poveri verranno abbandonati a se stessi. La ricchezza partorisce l’egoismo, l’abbondanza genera l’ingiustizia. Di fronte a questi squilibri, l’antico ordine tribale è impotente. È necessaria una nuova ideologia per gestire la nascita di una classe borghese, e i fenomeni della sedentarizzazione e dell’urbanizzazione. Ed è proprio quello che Maometto propone quando comincia a predicare l’Islam alle tribù del deserto. Molto presto, il messaggio del Profeta assume una piega politica. Non solo mira a porre le basi di una nuova religione, ma fissa princìpi di giustizia sociale che sfidano apertamente l’ordine stabilito, denunciando la degenerazione dell’etica egualitaria dei beduini. All’inizio Maometto è isolato e soltanto nel 613 i signori della Mecca cominciano a preoccuparsi della sua crescente influenza. L’affermazione dell’unicità di Dio condanna esplicitamente il politeismo, e i Quraysh vi leggono un attacco frontale alla base stessa della loro struttura di dominio. Dopo ripetute minacce di morte, nel 622 il Profeta e i suoi compagni saranno costretti a fuggire per trovare rifugio presso le tribù dell’oasi di Yathrib. In questa decisione è stata determinante anche la morte dell’amatissima Khadija, avvenuta tre anni prima, dopo una lunga unione che aveva garantito a Maometto un importante sostegno. Il 622 è l’anno dell’Hijra, l’Egira, la migrazione: per il Profeta e i suoi fedeli segna l’inizio di una nuova avventura, la creazione a Yathrib, ribattezzata Medina, di una società ideale. Diventerà anche il primo anno del calendario musulmano. L’inizio della Storia.

Anche la dottoressa Samia al-Amoudi insegue un ideale: quello del pieno accesso alla salute per tutte. Questa ginecologa e docente presso la King Abdul Aziz University svolge un lavoro indispensabile, lottando ogni giorno contro il potere e le convenzioni. L’anno scorso Samia si è scoperta un cancro al seno «e la mia vita e le mie priorità sono cambiate radicalmente».

La incontro una sera a cena, in un ristorante di Gedda. È una donna aperta e cordiale che parla della propria malattia con una franchezza che le sue compatriote non condividono. «Le donne scontano una grande ignoranza sul proprio corpo. Io sono stata fortunata, sono medico e ho potuto diagnosticarmi il tumore da sola.» Per correre ai ripari, la dottoressa al-Amoudi ha avviato una campagna di informazione esortando le saudite a sottoporsi a controlli periodici, ad andare in ospedale se individuano anomalie, a farsi curare. «Per loro è difficilissimo» mi dice accorata. «Quelle che non possono permettersi un autista non hanno libertà di movimento. Dipendono dalla disponibilità del padre o del tutore. E certe terapie, quelle per il cancro in particolare, hanno cicli fissi, rigidi, che devono essere rispettati.» Il campo di battaglia di Samia, la prima in Arabia Saudita a dedicarsi al problema della salute femminile, sono i media: ha una rubrica fissa sul quotidiano «al-Madinah» e un programma pomeridiano dal titolo Messaggio d’amore su Iqraa tv. Ha anche fatto stampare un opuscolo informativo sulla prevenzione e sulle opportunità di intervento per il tumore al seno. «Donne, imparate a prendervi cura di voi stesse» è l’invito che diffonde instancabile. Perlomeno, gli ospedali sono fra i pochi ambienti, insieme ad alcune redazioni giornalistiche, in cui cade il rigido obbligo della segregazione: la promiscuità di uomini e donne nelle sale d’aspetto, nelle sale operatorie e negli studi televisivi è tollerata. Non sarebbe possibile lavorare altrimenti. Le infermiere possono avere volto e capelli scoperti, e indossano i pantaloni. Come Zeinab Abotalib, la prima laureata in medicina del Paese e oggi esperta di tecniche riproduttive che grazie ai margini di libertà concessi dalla legge sacra ha potuto intraprendere ricerche di grande successo. «L’inseminazione artificiale è compatibile con il Corano. Purché l’ovulo e lo sperma siano della moglie e del marito. In tutti gli altri casi è proibito.» Proprio come in Italia, quindi. «Le probabilità di successo raggiungono il 60 per cento» dichiara orgogliosa mostrando i grafici e aggiungendo che affida l’esito di ogni inseminazione ad Allah. In questa calda serata, è seduta a tavola con Samia e con me anche Cecile Rouchdy, un monumento vivente all’istruzione femminile saudita. Questa agile settantenne, che parla perfettamente diverse lingue, scuote la testa mentre Samia racconta quanto lavoro ci sia ancora da fare. Cecile sa cosa vuol dire fare da apripista in mezzo all’ostilità generale. Nel 1960, quando fu finalmente varato il decreto che consentiva di aprire scuole femminili, il ministero dell’Istruzione le assegnò il compito di occuparsi della loro organizzazione. Serviva innanzitutto un censimento della popolazione. «Nel 1962 non c’era nemmeno l’anagrafe» mi racconta. «Ci volle l’aiuto dell’Onu per affrontare questo lavoro enorme. Percorremmo tutto il Paese per censire ogni cittadino maschio e la sua famiglia.» Cecile ricorda quel periodo massacrante e rivoluzionario. L’establishment religioso era meno forte di ora, osserva, ma era convinto che andare a scuola per le femmine fosse haram, e l’idea di far uscire di casa le bambine senza la protezione del loro mahram suscitava una forte opposizione. «Così il re affidò agli ulema la supervisione dei nuovi istituti.» La solita trattativa: i religiosi cedono sulle questioni «di principio», ma in cambio chiedono potere e controllo. «Erano così paranoici che nei primi tempi io e il mio staff femminile non eravamo autorizzate a parlare nemmeno al telefono con l’amministrazione, dove ovviamente erano tutti uomini. Rispetto ad allora oggi siamo in paradiso. Siamo persino riuscite a ottenere la carta d’identità. Fino a poco tempo fa, dicevano che farsi fotografare per i documenti era come commettere adulterio!» Sottovoce mi confida una notizia confortante: nel suo quartiere le ragazze guidano. Percorrono le strade poco frequentate. Si preparano. Quando il divieto finalmente cadrà, saranno già autiste provette, hanno giurato. Giovani «rivoluzionarie» che sfidano il regime sotto gli occhi incoraggianti di una nonna che ha fatto la storia dell’istruzione. È un’immagine che voglio portare con me.

Maha Ahmed Fitaihi è la moglie del sindaco di Gedda e di recente ha ricevuto un messaggio dal principe Nayef, che le ordina di chiudere il suo salotto. Sembra strano che il ministero degli Interni si dia tanta pena per una sola stanza di una casa privata, ma il fatto è che nel salotto di Maha sono passate più di 1600 donne. Istituito ufficialmente come club di lettura nel 1999, in realtà questo incontro mensile si era trasformato in un vero e proprio circolo «sovversivo». Le partecipanti non discutevano solo di letteratura, ma anche di temi d’attualità e dei propri diritti. «Continuano a chiamarmi e nulla ci impedirà di mantenere attiva questa rete, importantissima per garantire i contatti in un Paese che nega il diritto di associazione» mi assicura Maha. «Ho costruito un pezzetto di società civile.» È membro del consiglio direttivo del Khadija bint Khuwailid Center, la prima organizzazione delle donne d’affari nata all’interno della Camera di commercio di Gedda. «Abbiamo cominciato vent’anni fa a chiedere che venisse istituito questo centro» mi racconta. «Ci hanno detto di no, sostenendo che in questo Paese non esistevano problemi specifici delle donne. Oggi però l’economia ha bisogno di noi. Sanno che se vogliono fare il salto verso il mercato globale devono avvalersi anche della risorsa femminile. Affrontando il problema dal punto di vista produttivo possiamo cominciare col rivendicare leggi adeguate per far entrare le donne nel business.» Per il momento siamo lontani. Dei circa 4,7 milioni di saudite in età lavorativa solo il 5,5 per cento è impiegato. Non possono fondare un’azienda né sedere in un consiglio d’amministrazione. Ma non bisogna sottovalutare il loro potere economico: possiedono il 10 per cento del patrimonio immobiliare, il 30 degli investimenti in Borsa, il 40 delle imprese a conduzione familiare, seppure nominalmente intestate a parenti maschi; una liquidità complessiva di 45 miliardi di rial, il cui 65 per cento se ne sta a ristagnare nei conti correnti. Di più: le donne saudite sono proprietarie di 1500 società e i loro investimenti rappresentano il 21 per cento. È innegabile il loro contributo al prodotto interno lordo, non solo nel generare ricchezza ma anche posti di lavoro. Un esempio è Lama Suleiman, che ha sfondato il soffitto di vetro. È una delle due elette il 30 novembre 2005 nel consiglio direttivo della Camera di commercio di Gedda. Per il regno dei Saud, una novità assoluta: era la prima volta che entravano delle donne, per votazione, in una simile struttura. In un Paese in cui votare è un’eccezione e nominare una donna a un posto di responsabilità lo è ancora di più, Lama è una vera mosca bianca. Appena quarantenne, alta, agile, i capelli neri tagliati corti, mi invita a seguirla a casa sua per un pranzo leggero. Suo nonno, Abdullah al-Suleiman, è stato il primo ministro delle Finanze del regno e oggi la sua famiglia controlla un vasto impero immobiliare. Lei stessa è proprietaria di una spa lussuosissima. Lama non porta il velo ed è una donna d’affari di successo, ma la sua visione della sessualità e delle relazioni è del tutto ortodossa: «Appartengo alla vecchia scuola: il Corano impone di restare vergini fino al matrimonio. Per fare l’amore ci sono le unioni legali, e per cambiare compagno si può divorziare. Adotto lo stesso rigore per tutti i miei quattro figli». Scuoto il capo un po’ incredula mentre Lama continua le sue riflessioni: «Li educo a scegliere insegnando l’Islam. Punizioni comprese». Non posso fare a meno di chiedermi come reagirebbe se uno dei suoi ragazzi venisse frustato sulla pubblica piazza per aver commesso quello che la Sharia chiama zina, il peccato della carne. Almeno questa volta l’uguaglianza tra uomini e donne che non hanno saputo resistere al richiamo dei sensi è perfettamente rispettata: il Corano prevede per i colpevoli cento colpi di frusta. «Sono contraria anche all’adulterio: se una persona ne ha abbastanza del marito o della moglie, basta divorziare! Ma condanno nel modo più assoluto le lapidazioni.» Per fortuna: tiro un sospiro di sollievo. «La religione è un elemento fondamentale di questo Paese e non possiamo negarla nella nostra ricerca del progresso.» Lama non vuole definirsi una «femminista» all’occidentale, ma ritiene che la parità tra i sessi sia un elemento essenziale. «Vogliamo aprire una terza via, tra l’Occidente e il fondamentalismo» aggiunge.

Mi sento incline a condividere il tono battagliero e ottimistico della sua amica Maha, che salutandomi mi aveva detto: «Centocinquant’anni fa c’erano 25 studiose alla Mecca. Le donne sono la fonte del cambiamento. E loro lo avevano già capito».

CAPITOLO 16 IL PROFUMO DEL POTERE A LLAH HA RISERVATO ai popoli di questa regione una straordinaria benedizione: il petrolio. L’oro nero ha fatto piovere immense ricchezze sull’Arabia Saudita e sui Paesi del Golfo che in un tempo record, meno di mezzo secolo, sono passati da un’economia di sussistenza a un’abbondanza senza precedenti. Fin dall’inizio degli anni Settanta, gli «arabi» hanno cominciato a comprare, a investire, a consumare con una frenesia che ha fatto la gioia dell’Occidente: hanno esultato i venditori di armi, gli intermediari di Borsa, gli agenti immobiliari, i gioiellieri e le case di alta moda. Tuttavia l’improvvisa opulenza portava con sé una maledizione: senza strutture pubbliche capaci di amministrarla per il bene comune, i governi l’hanno utilizzata per arricchire le élite e consolidare il proprio potere. Quasi ovunque le laute rendite sono state lasciate alla capricciosa gestione di amministratori corrotti, e le disuguaglianze sono diventate stridenti. La crisi della fine degli anni Novanta ha investito in pieno questa regione. Il prezzo del petrolio è crollato. I sauditi, per esempio, tra il 1980 e il 1999 hanno visto il loro reddito pro capite passare da 25.000 a 7000 dollari. All’improvviso le monarchie assolute e le dittature mediorientali, che da anni compravano la stabilità interna al prezzo di prebende ed elemosine sociali, si sono trovate in difficoltà. Avrebbero dovuto affrontare l’esplosione demografica, le frustrazioni politiche e gli effetti culturali della globalizzazione con le casse vuote o addirittura con pesanti debiti. Alcuni eventi sono a quel punto intervenuti a modificare il quadro: l’11 settembre e il successivo attacco all’Afghanistan e l’invasione dell’Iraq nel 2003. Contemporaneamente, più a est, due giganti – Cina e India – uscivano dal torpore economico, con bisogni energetici sempre maggiori per sostenere la propria crescita. Un cocktail micidiale per far schizzare alle stelle il prezzo del petrolio. Per l’Arabia Saudita si apriva una nuova era di vacche grasse e in meno di cinque anni il reddito pro capite avrebbe raggiunto i 15.000 dollari. Tuttavia, dall’attacco alle Torri Gemelle, le dinastie petrolifere hanno imparato alcune lezioni: il fanatismo, generato dall’opposizione a regimi corrotti asserviti all’Occidente, può provocare catastrofi. E l’appoggio della superpotenza americana è inutile di fronte alla determinazione di chi è pronto a farsi esplodere per vincere. I re, gli emiri e i capi di Stato lo sanno bene: la nascita di una nuova forma di cittadinanza è la conditio sine qua non per la loro stessa sopravvivenza.

Sono venuta a incontrare un uomo il cui nome è stato associato per oltre un quarto di secolo all’eccezionale avventura dell’oro nero. Per molto tempo ne è stato il volto e la voce, trattato con deferenza e, a volte, addirittura con timore. È stato anche l’eroe, del tutto involontario, di uno degli episodi più spettacolari del terrorismo mediorientale in un’epoca in cui questo flagello era ancora una questione per specialisti. È lo sceicco Ahmed Zaki

Yamani. Sono riuscita a incontrarlo perché conosco la sua primogenita Mai. È una bella donna minuta e vivace, dall’aria decisa che ho visto recentemente a Londra, nel suo appartamento del ricco quartiere di Eaton Terrace. Ultimamente è finita nei guai a causa di un editoriale apparso sulla stampa britannica. Ha denunciato la corruzione e la repressione nei cosiddetti Paesi «amici» – Arabia Saudita, Egitto e Giordania – che definisce «tra i meno moderati del mondo». L’attacco al vetriolo, facendo riferimento anche alla pena di morte ancora diffusa in queste nazioni, incalzava: «Esiste forse una “decapitazione pubblica moderata”?». L’instancabile ministro degli Interni saudita ha scritto anche a Mai, per ordinarle di tacere, ma lei è ben decisa a continuare la sua campagna di informazione. «I riformisti vengono incarcerati, la guerra contro il terrorismo serve da pretesto, il regime paga per ottenere il silenzio dei cittadini. E il silenzio dell’Occidente» accusa. Questo grido di rabbia risuona ancora più forte perché è pronunciato da una privilegiata, da un membro dell’establishment. La villa di suo padre, in cui mi trovo ora, è nel quartiere più alla moda di Gedda. Lo sceicco Yamani si è ritirato dagli affari, lontano dai sussulti di un mondo che ha contribuito a plasmare e dal frastuono delle guerre per la risorsa più preziosa del regno. Ci accoglie nella dishdasha, con il tradizionale copricapo e gli occhi nascosti da occhiali scuri. Dal 1962 al 1986 è stato ministro del Petrolio e ha regnato sulle ricchezze del maggior produttore ed esportatore mondiale. Grazie a lui i sauditi hanno preso il controllo delle risorse petrolifere, a quel tempo ancora gestite dalle grandi compagnie americane e inglesi. È stato uno degli artefici dell’aumento controllato dei prezzi a partire dal 1973, all’indomani della guerra tra Israele e i vicini arabi. All’epoca i Paesi esportatori, riuniti nell’Opec, avevano deciso anche un embargo progressivo contro le nazioni che sostenevano lo Stato ebraico. Yamani non voleva usare in maniera radicale quella che allora veniva chiamata «l’arma del petrolio», ma riteneva necessario fare pressione sull’Occidente per risolvere la questione palestinese. Aveva capito che era possibile approfittare delle tensioni internazionali per aumentare i profitti del regno, senza tuttavia creare una crisi che avrebbe paralizzato le economie dei Paesi consumatori. Due anni dopo Yamani sarebbe tornato sotto i riflettori come vittima di un fenomeno che oggi fa parte della nostra vita quotidiana: il terrorismo. Il 21 dicembre 1975 partecipava a una riunione con dieci membri dell’Opec nel quartier generale di Vienna quando le porte si spalancarono e irruppe Ilich Ramírez Sánchez, detto Carlos, «lo Sciacallo», il terrorista più temuto dell’epoca. Proclamandosi al servizio della causa palestinese, Carlos prendeva di mira chi, secondo lui, l’aveva tradita. La sua missione era uccidere due uomini: il ministro iraniano del Petrolio, Jamshid Amuzegar, e Yamani. Carlos prese in ostaggio 42 persone e prima di lasciare l’edificio, all’alba del 22 dicembre, spiegò a Yamani che sarebbero andati nello Yemen, e che all’arrivo avrebbe ucciso lui e il collega iraniano. I piani del terrorista incontrarono però vari ostacoli e alla fine Carlos fu costretto ad arrendersi. Probabilmente non era ancora giunta l’ora dello sceicco. La mano di Allah l’aveva già risparmiato una volta, nove mesi prima. Il 25 marzo 1975 era accanto a re Faysal, l’uomo a cui doveva tutto, durante un ricevimento ufficiale quando un parente del sovrano uscì dalla cerchia degli invitati. Era un nipote, Faysal bin Musad. Si avvicinò ai due uomini e aprì il fuoco. Il re venne ferito a morte, ma i proiettili mancarono per un soffio Yamani. Mi mostrerà l’ultima foto insieme a Faysal, scattata poco prima dell’attentato. «Stavo ascoltando vecchie canzoni» mi dice tendendomi la mano. «Sono melodie arabe: resistono al tempo e a tutti coloro che vorrebbero vietarle.» Il tono del nostro incontro è già chiaro. Tanto che mi azzardo a porgli una domanda personale. Da quando sono arrivata in questo Paese un profumo mi perseguita: ignoto e inebriante, ha una dolcezza aromatica, indefinita, come il punto in cui il mare incontra l’orizzonte. Mi ha seguito ovunque in questi giorni e lo sento anche ora, mentre Yamani si muove, accompagnato da un sottofondo di rosa. «Che profumo porta?» chiedo d’impulso.

Ride. «È una formula segreta. Posso solo dire che c’è l’olio delle mie rose coltivate a Taif. E naturalmente il legno aromatico dell’aoud.» Si allontana per qualche minuto e torna con una bottiglietta di questa preziosa fragranza. Da quando è caduto in disgrazia nell’ottobre del 1986, allontanato da re Fahd, a cui non andavano a genio le sue tendenze liberali, Yamani conduce la vita di un esteta miliardario: legge, scrive ed è diventato l’araldo di un Islam tollerante, deciso a contrastare l’oscurantismo dei wahhabiti. «Il petrolio per me è stato solo un interesse passeggero, una distrazione» racconta, accompagnandomi verso una sala da pranzo in cui ci attende un favoloso banchetto. «La mia vera specialità è il diritto islamico.» Mi spiega che il padre era un rispettato maestro di questa disciplina alla Mecca, dove lui è nato nel 1930, e che aveva ricoperto l’incarico di Gran Muftì in Indonesia e in Malesia. La sua seconda moglie, Tammam, si siede a tavola, insieme alla figlia, al genero, al figlio e alla nuora. Non è facile per me seguire la trama di questa parentela, otto rampolli in tutto, ma è chiaro che a Yamani piace il ruolo del patriarca. Gli faccio notare che le donne della sua famiglia non indossano il velo alla presenza di un estraneo come Jacques. «Sono i wahhabiti a volere che si coprano e rimangano in casa. Secondo loro, dovrebbero uscire solo due volte: il giorno del matrimonio per andare dalla casa del padre a quella del marito, e il giorno della morte per andare da quest’ultima al cimitero. Io credo invece che una donna possa diventare capo di Stato.» Si gira verso la figlia più giovane, di diciotto anni, Arwa, che porta il nome di una potente sovrana yemenita dell’XI secolo: «Sarà lei il futuro presidente». Se anche le fosse toccato in sorte restare chiusa nella casa del padre, bisogna dire che ci sono posti peggiori in cui essere segregata di questa villa circondata da un parco verdeggiante, con cascate di gelsomini e buganvillee. Ma le idee dello sceicco sono comunque più liberali, e non da oggi. «Quando ero giovane alla Mecca» ricorda Yamani «le donne organizzavano ogni anno un carnevale. Per un giorno vietavano agli uomini di scendere in strada e sfilavano sui carri con indosso abiti sontuosi, cantando e ballando. Partecipavano alla vita della città.» Mi racconta di come sua nonna ogni giovedì riunisse a casa un gruppo di poeti che declamavano versi in suo onore. «Era molto tempo fa» aggiunge scuotendo la testa. Ora critica senza mezzi termini il regime di Riyad: «Bisogna ripetere ai wahhabiti che il loro non è il vero Islam» mi spiega. «I Saud e i Wahhab sono indissolubilmente legati, come fratelli siamesi: se li separi, uno di loro potrebbe morire.» Queste dichiarazioni suonano come una sfida alle pretese di legittimità del principe Nayef, l’onnipotente ministro degli Interni, e ora capisco meglio perché il mio ospite è caduto in disgrazia. «Purtroppo il re non è abbastanza forte per opporsi al ramo della famiglia strettamente legato ai wahhabiti. Pensi che non è stato nemmeno in grado di formare un nuovo governo. Non gliel’hanno permesso, sobillati da Nayef che ostacola qualsiasi vera riforma.» Quando un uomo del suo rango e della sua esperienza denuncia il legame troppo stretto tra monarchia e fondamentalismo, le sue critiche assestano un duro colpo alla solidità del regime. Ovviamente lui è intoccabile, ma ammette: «Il tempo gioca contro i fanatici e loro lo sanno. Diventeranno violenti, saranno costretti ad attaccare per difendersi». Quanto alle istituzioni che dovrebbero partecipare al processo decisionale, servono solo a ratificare le scelte del re. Yamani si lascia sfuggire un sorriso amaro e mi racconta una barzelletta che circola nel Paese: uno straniero rivolge una domanda a un sudanese, a un egiziano e a un saudita: «Pensate di mangiare della carne?». Il sudanese risponde: «Mangiare? Cosa significa?»; l’egiziano: «Carne? Che cos’è?»; e il saudita: «Pensare? Che vuol dire?». Dietro la sua sferzante ironia, lo sceicco manifesta la massima preoccupazione per la mancanza di trasparenza e l’irresponsabilità degli amministratori del suo Paese. Tuttavia, anche se negli anni Settanta era stato accusato di essere filoamericano per la sua opposizione agli aumenti drastici del prezzo del greggio, non sostiene di certo un cieco allineamento all’Occidente. «Non siamo americani, non siamo europei, non siamo wahhabiti. Siamo sauditi» mi spiega, secco.

La conversazione con Yamani mi riporta alla mente le parole di un altro personaggio chiave della storia recente del regno che ho incontrato alcuni giorni fa a Riyad: il principe Turki bin Faysal al-Saud. Anche lui per un quarto di secolo ha amministrato un potere straordinario: dal 1977 al 2002 è stato a capo dei servizi segreti sauditi, poi per tre anni ambasciatore a Londra prima di essere mandato a Washington. A differenza di Yamani, fa parte del ristretto circolo dei figli del re, essendo l’ultimo rampollo di Faysal. Come lui, però, è stato educato nelle migliori scuole e università americane. Quando l’ho visto nell’ufficio della sua fondazione per la promozione dell’Islam, era tornato da pochi mesi dagli Stati Uniti. Aveva dato le dimissioni senza alcuna spiegazione ufficiale dall’incarico più prestigioso del Paese: ambasciatore presso l’alleato più potente, a sua volta assai interessato ai buoni rapporti con il corrotto governo saudita. In seguito fughe di notizie hanno consentito di ricostruire la verità. Il principe Turki aveva sostituito il principe Bandar, ambasciatore a Washington dal 1983 al 2005, noto per i legami molto stretti e molto discussi con la famiglia Bush. Tanto da essere soprannominato «Bandar Bush», senza contare la sua relazione privilegiata con il secondo uomo più potente d’America, il vicepresidente Dick Cheney. Ex direttore del Pentagono, poi capo di una grande società di servizi nel settore petrolifero e militare, Cheney rappresenta il punto di convergenza di due settori fondamentali nei rapporti tra Usa e i Saud: le armi e l’oro nero. Bandar era quindi l’intermediario perfetto e dopo la nomina di Turki ha continuato a svolgere il ruolo di emissario preferito: un’invasione di campo intollerabile per il suo successore. Al di là dell’animosità personale, la rivalità tra i due principi rappresenta alla perfezione due visioni radicalmente contrapposte che convivono all’interno della famiglia reale. Bandar è stato uno degli artefici della guerra contro l’Iraq; Turki uno dei suoi detrattori: «L’amministrazione di George W. Bush non ha voluto ascoltare chi sosteneva che era una pessima idea e avrebbe avviato la regione verso la catastrofe» mi spiega. Con noi c’è il suo consigliere per i rapporti con i media, Jamal Khashoggi, un giornalista liberal direttore del quotidiano «al-Watan». Dopo il bombardamento nel 2003 di tre edifici occidentali a Riyad, in un editoriale condannò duramente gli attentatori jihadisti per aver versato sangue musulmano, citando Ibn Taymiya, uno dei padri spirituali del wahhabismo. Fu licenziato in tronco e solo di recente ha ripreso la direzione del quotidiano. Condivide con Turki la convinzione che la via del dialogo sia la migliore per risolvere le controversie internazionali, a cominciare dal problema del nucleare iraniano, che preoccupa molto i sauditi. Turki desidera che si arrivi a qualunque costo a una risoluzione pacifica, mentre i falchi americani guidati da Cheney spingono per una nuova guerra. E naturalmente anche Bandar è a favore delle maniere forti. Due approcci che alimentano la battaglia intestina tra i discendenti di re Abdul Aziz per controllare il destino dell’Arabia Saudita. Il principe Turki è l’ultimogenito di re Faysal. Il principe Bandar è figlio del principe Sultan, fratello di Faysal, e oggi principe ereditario, primo in linea di successione se dovesse morire re Abdullah. Sultan e i suoi sei fratelli sono conosciuti come i «Sette Sudairi», dal nome della tribù a cui apparteneva la madre, una delle mogli di Abdul Aziz. Formano una «famiglia nella famiglia», un clan potente, deciso a tenere in mano tutte le redini del potere. Sultan è stato a lungo ministro della Difesa, il fratello Nayef è ministro degli Interni, e un altro fratello, Salman, è governatore di Riyad. Le accuse di corruzione, di eccessi di ogni genere, di compromissione con un Islam retrogrado e intollerante e di alleanze servili con l’Occidente hanno proprio loro come bersaglio. Turki ha sessantadue anni e un portamento fiero nella sua cappa nera. Il volto ha tratti regolari e occhi enigmatici. Sono sempre affascinata dai personaggi capaci di dissimulare alla perfezione ciò che sanno e ciò che vogliono. E lui è uno di questi. Nella sua carriera a capo dell’intelligence, ha avuto legami intricati con il terrorismo islamico. Ha gestito i finanziamenti sauditi alla resistenza afghana durante l’occupazione sovietica e ha seguito l’ascesa di Osama bin Laden. Ha rassegnato le dimissioni all’indomani degli attacchi dell’11 settembre, quando i servizi segreti del mondo intero hanno recitato il mea culpa. Comunque, resta ancora da chiarire come l’appoggio dei sauditi e degli americani ai mujaheddin afghani, e la loro quantomeno tacita approvazione dell’azione di Bin Laden, abbia

contribuito al rafforzamento di al-Qaida. Uomini come il principe Turki sono anche al centro delle polemiche sull’inquietante afflusso di denaro saudita nelle casse di associazioni, programmi o addirittura reti – in Pakistan, in Iraq, nei territori palestinesi e in Europa – che predicano un Islam militante e violento. Ma a volte l’uomo sa stupire. Nel 2002, con una lettera aperta al «Washington Post», ha approvato la reprimenda del ministero degli Interni contro l’operato dei mutawwa nell’incendio della scuola femminile alla Mecca. Si è complimentato anche per il ruolo della stampa nel denunciare il fatto. Una versione in arabo del testo è stata pubblicata dal quotidiano saudita «Asharq al-Awsat», con sede a Londra e finanziato da capitali sauditi. Ma la parte che accusava i mutawwa è stata tagliata. Turki si è indignato pubblicamente per quell’atto di censura, conquistandosi fama di difensore accanito della libertà di espressione. Seduta di fronte a lui penso a una riflessione che Jacques fa spesso: «Coloro che sanno non parlano, coloro che parlano non sanno». E mi chiedevo se il principe Turki non fosse l’incarnazione perfetta di questo aforisma. «Dopo l’11 settembre è andato tutto storto. La stampa ha attaccato i sauditi. Tutti se la sono presa con i wahhabiti» mi spiega, quando gli chiedo cosa è cambiato nel regno dopo quella fatidica data. «Il Paese, sotto shock, all’inizio ha negato l’evidenza e poi ha cominciato un lavoro di introspezione. Abbiamo messo in discussione i nostri valori e le nostre alleanze. L’11 settembre è stata la più grande tragedia che abbia mai colpito i musulmani. Negli Stati Uniti c’è il ricordo delle vittime, e dell’enorme slancio di solidarietà. Per noi, l’unica eredità è il marchio di assassini. Da allora è in corso uno scontro nel mondo musulmano tra una minoranza che incita alla lotta armata e la maggioranza che invoca il dialogo.» Non è vero, gli chiedo, che la migliore risposta all’estremismo è aprire la società e favorire l’emancipazione delle donne? Anche il navigato Turki rifiuta di andare oltre la risposta «ufficiale»: «Abbiamo avuto i precedenti di Atatürk in Turchia e di Reza Pahlavi in Iran, ed è un modo di procedere. Ma non andrebbe bene per noi. Dobbiamo aspettare che la società sia pronta ad accettare i cambiamenti». Sembra l’eco del principe Nayef, e pare aver dimenticato l’ideale del padre, che si era fatto promotore di tante riforme. «Non si cambia a colpi di fatwa e decreti. La nostra è una società in cui le tradizioni contano ancor più della religione. Ma non siamo immobili. Cinquant’anni fa un uomo non avrebbe permesso alla figlia di uscire di casa per andare a scuola. Oggi non solo glielo consente, ma vuole che trovi un lavoro. Per un uomo, la donna più desiderabile è quella con una laurea e una professione.» E la patente? «La questione della guida per le donne non è una priorità, nemmeno per loro. Hanno opinioni diverse, alcune non desiderano questo diritto. È una problematica che rimane aperta e la società troverà da sola una risposta.» Mi sembra di aver già sentito questa frase, ma c’è di peggio. «Khadija e Aisha, due delle mogli del Profeta, sono state grandi esempi di indipendenza femminile» aggiunge Turki. «Sono loro i modelli.» E così per trovare un modello, e per chiedere un diritto che nel terzo millennio non dovrebbe neanche essere in discussione, le donne devono tornare indietro di millequattrocento anni.

Bassem Alim è giovane, alto e massiccio. Ed è preda di due passioni: la giustizia e la buona tavola. Avanza nella hall dell’albergo con una pesantezza un po’ burbera, ma l’ampio sorriso che gli si disegna sul volto smentisce la prima impressione. Prendiamo posto sugli immensi divani di uno dei bar dell’hotel e ordiniamo un tè. Bassem è avvocato e ha scelto una specializzazione pericolosa: difende i prigionieri politici in Arabia Saudita. Tra loro, gli intellettuali incarcerati per aver promosso il referendum sulla monarchia costituzionale. Gli stessi sul cui destino

avevo interrogato il principe Nayef, senza ottenere risposte molto incoraggianti. «La procedura non è stata rispettata» dichiara Bassem. «Non c’è stato alcun mandato, nessun atto di accusa, nessun’indagine, nemmeno una visita degli avvocati.» Questo accanito difensore dei diritti umani ha già cominciato a pagare per il suo coraggio: gli hanno ritirato il passaporto. «Non ho più il diritto di viaggiare.» L’unica cosa che lo turba è il pensiero di dover rinunciare alle vacanze in Francia. Questo musulmano molto praticante ha l’abitudine di portare la famiglia in tour gastronomici in Europa: il Corano vieta il consumo di alcol, ma non la golosità. Gli chiedo se ritenga possibile nel Paese quel cambiamento progressivo e senza scosse invocato con tanta unanimità dai miei interlocutori ufficiali. La risposta è senza appello: «Insultano la nostra intelligenza: di che tipo di lentezza o di prudenza c’è bisogno per eliminare la corruzione, trasformare il sistema giudiziario e offrire pari opportunità?». L’avvocato Alim non sembra avere grande considerazione nemmeno per i giornalisti stranieri che ha avuto occasione di incontrare: «Generalmente vengono qui pieni di preconcetti e cercano semplicemente di confermarli. O peggio, sono vittima delle abili operazioni di manipolazione del regime e tornano a casa convinti che tutto vada per il meglio». Gli spiego che se Jacques e io percorriamo da anni in lungo e in largo questa regione è proprio per dissipare qualche pregiudizio in patria. Bassem è un uomo di fede, rispettoso degli insegnamenti del Corano, ma le autorità saudite lo descriverebbero come un «islamista». Appellativo che oggi indica i fondamentalisti musulmani e che quindi, nel quadro della «guerra contro il terrorismo», è un’etichetta scomoda. «La nostra religione racchiude un eccezionale tesoro di morale, diritti umani e democrazia» mi assicura. E contesta il fatto che costituisca un ostacolo per le donne: «La segregazione è ridicola: non l’abbiamo mai avuta nell’Islam. È assolutamente naturale per uomini e donne vivere gli uni accanto alle altre nell’ambito di un certo codice di condotta». Secondo lui, come per coloro che in Arabia Saudita vengono comunemente chiamati «riformisti», la battaglia politica va molto al di là dei diritti. «Dobbiamo risolvere problemi più gravi della patente o del velo islamico» mi dice. «Queste tematiche non sarebbero nemmeno sollevate se toccasse al popolo decidere, nell’ambito di un Parlamento eletto. La questione fondamentale è la libertà di scelta e noi la vogliamo.» Bassem recita un elenco di conquiste del tutto simili a quelle promosse da qualunque Costituzione europea: libertà di espressione, lotta contro la corruzione, indipendenza della giustizia. «Non credo in una democrazia promossa dall’Occidente. È necessario guadagnarsela!» Quando gli chiedo come possa accettare un sistema arcaico, e spesso arbitrario, come quello della Sharia, se la prende più con i giudici che con il sistema in quanto tale: «Nella Sharia vi sono questioni molto chiare: il furto, l’omicidio, la contraffazione, l’adulterio, la fornicazione, l’omosessualità, il consumo di alcolici. Ciò che non è chiaro viene lasciato alla valutazione dei giudici. Lo stesso crimine può avere punizioni completamente diverse a seconda della regione in cui lo si commette. Sfortunatamente i giudici rifiutano la codificazione del diritto nei casi ambigui, come invece molti di noi chiedono. Il problema è che non mirano ad amministrare la giustizia, ma a difendere la loro agenda politica. Hanno ideologizzato la loro missione». Ci offre una lucida analisi dei rapporti di forza nel regno e siamo lontani dalle rassicuranti affermazioni dei circoli del potere. «La Storia ha dimostrato che quando si fa una rivoluzione, si diventa ostaggi di coloro che ci hanno sostenuto nel compierla. I religiosi che hanno aiutato questo regime a nascere oggi lo controllano. Per rompere questo legame nefasto è necessario far partecipare il popolo, cedergli una parte del potere assoluto.» Tuttavia Bassem ammonisce: «Non abbiamo la cultura politica dell’Occidente. Non abbiamo partiti né sindacati. Non sappiamo nemmeno organizzare una manifestazione. Le istituzioni di una società civile non esistono. Eppure siamo stati in grado di mandare 30.000 sauditi a combattere in Afghanistan contro i sovietici. O restiamo immobili,

oppure esplodiamo. Tra qualche mese si ricorderà di queste parole».

CAPITOLO 17 Medina haram! I DATTERI RACCONTANO LA STORIA di un’Arabia millenaria. Hanno assicurato la sopravvivenza nel deserto prima del petrolio, dei ristoranti di lusso e dell’aria condizionata. Fin dalla notte dei tempi, hanno sfamato il viandante che stremato cercava riparo nella frescura delle oasi. E ancora oggi, con la loro polpa zuccherina, sono onnipresenti nei riti sociali. Vengono offerti all’ospite insieme a una tazza di caffè amaro e a succhi di frutta freschi. Accolgono il cliente nelle stanze d’albergo e vengono regalati in segno di amicizia. Sono il simbolo dell’ospitalità beduina, ma anche un modo per ricordare alle tribù che la loro fortuna è recente e il tempo dell’abbondanza effimero. Ci troviamo in un palmeto a pochi chilometri da Medina, la città santa in cui è sepolto il Profeta. Il proprietario della tenuta, Abdullah Degag, mi fa visitare le sue terre. Il sole cocente è alto nel cielo. Sotto le file ben allineate di alberi dai tronchi scuri, irregolari come fossero coperti di squame, gli uomini lavorano per farli vivere. Si assicurano che la capillare rete di irrigazione sia in buono stato e rilasci alla base di ogni palma una quantità sufficiente di acqua. Alcune capre brucano le erbacce e arricchiscono la terra con il loro sterco. Alto e robusto nella sua dishdasha bianca, Abdullah mi spiega di essere preoccupato: «Le riserve d’acqua si stanno esaurendo e riesco a pomparne sempre meno. Oggi troppi impianti attingono alla falda freatica. I miei alberi hanno bisogno di essere innaffiati ogni giorno dell’anno, altrimenti muoiono». Sulla sua terra bruciata coltiva anche rose e menta. «Lo faccio per piacere personale. Nella nostra società è tradizione regalarle, e usarle per decorare le case, preparare infusi.» I datteri compaiono anche nel Corano: il Profeta conduceva a Medina un’esistenza frugale, tanto che considerava una manciata di datteri, un pezzo di pane e un po’ di aceto il più delizioso dei pasti. Pare abbia affermato che una dieta composta da sette di questi frutti mangiati ogni mattina avrebbe permesso di cacciare gli spiriti cattivi e di curare i disturbi della memoria. Durante il mese di Ramadan, rompeva il digiuno con alcuni datteri e un bicchiere di acqua. Oggi vengono venduti a caro prezzo in varie forme: ripieni alle mandorle, ricoperti di cioccolato o arricchiti con pistacchi. I negozi, che li presentano in lussuose confezioni, ne hanno di tutti i tipi: quelli con la buccia gialla e sottile che sembrano pieni della rugiada del mattino o quelli rugosi che il sole ha lentamente asciugato. «Le varietà migliori sono l’Ajuah che risale a Maometto e la Majgool, la più ricca di vitamine e la più dolce» mi spiega Abdullah, riparandosi all’ombra delle palme. «Un albero può vivere centovent’anni ma il suo periodo di produzione ne dura solo quaranta. Quando è arrivato il momento, tagliamo il tronco alla base e ne piantiamo uno nuovo sulle radici del vecchio.» Il coltivatore di Medina raccoglie 40 tonnellate di frutti all’anno che gli assicurano un cospicuo reddito. «Esportiamo poco» mi dice «con l’eccezione di alcuni clienti privati che ci fanno ordini ogni anno.» Uno di questi è il grande magazzino del lusso Harrod’s, a Londra.

Sono andata a Medina in compagnia di un’amica saudita, Rogaya, che voleva mostrarmi un aspetto fondamentale della sua società: il dinamismo delle fondazioni private e delle organizzazioni caritative. Quasi tutte finanziate da membri della famiglia reale, sono attive in molti settori: istruzione, ricerca, sostegno alle famiglie disagiate. Molte si occupano delle donne e della loro formazione in un mondo che le tratta con diffidenza. Sopperiscono alle carenze dello Stato e sono un’avanguardia di progresso in un Paese che si evolve lentamente. In serata partiamo per visitare uno dei centri, sostenuto dalla fondazione più antica, al-Nahda, di cui Rogaya è direttore generale. Qui le donne imparano a usare il computer, prendono lezioni di inglese e apprendono un mestiere. Provengono da ambienti svantaggiati o si trovano in situazioni precarie dopo un divorzio o la morte del marito. La fondazione fornisce abiti, serve pasti e offre un asilo per i bambini. Propone anche aiuto legale a chi è stata ripudiata. Qui nel 2007 al-Nahda ha già aiutato qui oltre 1500 donne. Un’auto è venuta a prenderci e attraversiamo i larghi viali della periferia. Nella notte si delineano, illuminate da riflettori, le alte arcate di pietra che segnano il confine oltre il quale gli «infedeli» non hanno il diritto di circolare. Proprio come la Mecca, Medina è una città chiusa ai non musulmani e sulle strade di accesso grandi cartelli li avvertono che devono girarle intorno. Il luogo è haram, vietato a chiunque non riconosca l’Islam come sua religione. Negli ambienti diplomatici di Riyad circola la storiella di un rappresentante di un Paese europeo che dovette convertirsi per evitare un incidente internazionale – e forse la galera – dopo essere stato arrestato nelle vicinanze della Grande Moschea della Mecca. Durante il tragitto, Rogaya mi racconta di voler ampliare il giro di affari delle donne della fondazione che hanno messo in piedi un laboratorio di ricamo. Anche lei ritiene che il segreto dell’integrazione delle saudite sia la partecipazione attiva alla vita economica. Inoltre è necessario incoraggiare iniziative commerciali che possano sostituirsi ai progetti filantropici. Mi chiedo se questa strategia che mescola beneficenza e paternalismo sia una formula efficace di crescita, o se permetta semplicemente di tenere a bada le frustrazioni senza mettere in discussione l’ordine costituito. Finalmente la nostra auto si ferma in cima a una collina, davanti alla porta di un edificio moderno. Per essere fuori dalla città proibita mi sembra un’area molto abitata. Rogaya mi fa visitare i diversi piani dove hanno sistemato aule e laboratori. Ci sono ancora alcune donne, ma è tardi e stanno per uscire. Nel bel mezzo della nostra visita, mi squilla il cellulare. È Jacques, rimasto in albergo, perché qui agli uomini è vietato l’accesso. Gli rispondo in francese e nella stessa lingua una ragazza che ci fa da guida mi chiede: «Ma lei parla francese?». Cominciamo a chiacchierare. È algerina e ha sposato un saudita, vive da quindici anni nel regno e si è trasferita con la famiglia a Medina: «Qui i costumi sono molto più rigidi, perché siamo in una città santa». «Lo so, e purtroppo non ho il diritto di entrare» le dico con una punta di delusione. Capisco l’avversione verso le volgarità del turismo, che in Italia conosciamo bene, ma luoghi sacri alle religioni di tutto il mondo sono aperti a visitatori di altre fedi. Si dibatte tanto sulla reciprocità e mi piacerebbe che chi visita liberamente le culle del Cristianesimo mi permettesse di fare altrettanto, nel massimo rispetto e decoro, con quella dell’Islam. Mentre do sfogo a questa mia piccola polemica la mia interlocutrice mi guarda stupita, come se non capisse. Poi, dopo aver lanciato un’occhiata in giro, mi sussurra: «Ma lei è già a Medina, proprio nel cuore della zona haram!». Sussulto. Non mi ero accorta, col buio, che eravamo passate dalla periferia al centro della città, e le mie accompagnatrici si erano ben guardate dal segnalarmelo. Senza rendermene conto ho attraversato i confini della zona proibita. «Ne è sicura?» le chiedo. Lei ride e mi prega di seguirla. Entriamo nel suo ufficio e ci avviciniamo a una grande finestra. Apre le tende: «Guardi». Davanti a me, a poca distanza, leggermente più in basso, si staglia nella notte la moschea del Profeta. I dieci minareti e la cupola verde che ospita la sua tomba sono illuminati da un alone di luce bianca. Proprio qui colui che affermava di parlare in nome di Dio costruì la prima casa di Allah.

Quando arrivò a Medina, nel 622, il Profeta in fuga dall’ira dei Quraysh fu bene accolto dalle tribù locali che offrirono a lui e al suo drappello di compagni la protezione di cui avevano bisogno. Non si sopravvive da soli nel deserto: se sei isolato non hai nessuno che condivida con te le scarse risorse della natura, e nessuno che punisca i tuoi aggressori. Secondo la leggenda, dopo tre giorni di marcia nel deserto il Profeta lasciò che il cammello lo guidasse fino a un piccolo appezzamento di terra. E decise di stabilirsi nel punto in cui l’animale si sarebbe fermato. Con questo insediamento assieme ai suoi compagni a Medina nasce il concetto di Umma, la comunità dei credenti. Una nuova tribù che non si fonda su legami di sangue, ma si costituisce attorno a una professione di fede: «Non c’è altro dio all’infuori di Dio e Maometto è il suo profeta». La solidarietà della Umma sarà spirituale e ideologica, capace di trascendere le barriere familiari, etniche e di clan. Un’idea rivoluzionaria per l’Arabia del VII secolo. Il trasferimento a Medina cambiò il destino di Maometto: da «messaggero di Dio» divenne capo militare. Iniziò così una lunga serie di battaglie che si concluse solo nel 630 quando assieme ai suoi fedeli tornò alla Mecca per prenderne il controllo. Secondo la tradizione, entrò allora nel santuario della Ka’ba e distrusse una a una le statue e le immagini delle divinità, eleggendo quel luogo a casa dell’unico Dio. In quegli anni di conflitti con i potenti signori della Mecca elaborò la sua concezione della guerra. «Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono ma non oltrepassate i limiti, ché Dio non ama gli eccessi» proclama il Libro sacro dei musulmani. «È dato permesso di combattere a coloro che combattono perché son stati oggetto di tirannia […] cioè coloro che son stati cacciati dalla loro patria ingiustamente, soltanto perché dicevano “Il Signore nostro è Dio”.» Nel pieno della lotta all’ultimo sangue ingaggiata con i Quraysh, il Profeta tuttavia inviterà a sterminare «i politeisti, gli ipocriti e tutti coloro che non credono in Dio». Questi appelli sono stati spesso utilizzati per descrivere l’Islam come una religione bellicosa, ma è giusto ricordare che all’epoca la guerra era un modo consueto di risolvere le rivalità e le contese per lo spazio vitale. Il termine jihad è diventato sinonimo, per gli occidentali, di conversione forzata e di massacro degli infedeli. Molti pensatori islamici hanno però cercato di contrastare questa idea della jihad ricordando che secondo il Corano non può esistere coercizione nella sfera religiosa: «Non c’è costrizione nella religione» stabilisce una sura molto citata e aggiunge: «A voi la vostra religione, a me la mia». Purtroppo oggi la parola jihad è utilizzata senza alcuna precauzione anche da esperti e giornalisti, tanto occidentali quanto musulmani. E viene associata alla visione di un Islam aggressivo che vuole estendere il proprio dominio. La diatriba su questo concetto illustra la drammatica situazione in cui si dibatte da sessant’anni il mondo arabomusulmano. Il percorso dei Paesi della mezzaluna islamica che si estende dal Maghreb al subcontinente indiano è stato caotico e violento, tra decolonizzazione, guerre, colpi di Stato e rivoluzioni. Per molti musulmani, arabi in particolare, questi decenni sono stati un susseguirsi di ingiustizie e di aggressioni: la creazione dello Stato di Israele, l’allontanamento a opera della Cia del primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq nel 1953, l’intervento francobritannico a Suez nel 1956, la guerra arabo-israeliana del 1967, le violenze in Libano, il conflitto Iran-Iraq. Ancora oggi alcune azioni dell’Occidente come la guerra americana contro Baghdad, o di Israele con la mai interrotta colonizzazione dei territori palestinesi, vengono vissute da molti come provocazioni. Secondo alcuni, la risposta non può che essere violenta, e la jihad e il terrorismo sarebbero quindi giustificati.

Il Profeta morì a Medina nel 632, tra le braccia della moglie Aisha. Il Corano, l’insieme delle Rivelazioni che aveva avuto durante la vita, avrebbe continuato ancora per anni a circolare solo oralmente. Secondo la tradizione fu poi il terzo ca liffo, ’Uthman a ordinare e dirigere nel 653 la definitiva redazione del testo sacro: i fogli furono riuniti in un

libro che venne copiato in svariati esemplari, inviati poi alle capitali delle diverse province per servire da riferimento. Ma il Corano, unica e fondamentale fonte normativa e religiosa dell’Islam che stava nascendo, non trattava sistematicamente e nei dettagli né delle dottrine né dei precetti. Così, per far fronte alle domande giuridiche e dottrinali di una società che stava diventando sempre più vasta e complessa, si cominciarono a raccogliere le testimonianze del Profeta. I suoi insegnamenti, le sue azioni, i suoi stessi silenzi divennero altrettanti precedenti su cui fondare la legittimità della condotta dei musulmani nelle più varie situazioni. I racconti che riportano tali fatti sono gli hadith. Bisognerà però aspettare la dinastia degli Abbasidi, a partire dall’VIII secolo, perché venga avviato un serio lavoro di trascrizione e di verifica. L’autenticità di un hadith può essere stabilita solo dopo una minuziosa ricerca sulla linea di trasmissione, ovvero sulla serietà e sulla credibilità delle persone che hanno riportato le affermazioni del Profeta. Un elemento di accettabilità è anche la coerenza con la vita conosciuta di Maometto e con il suo insegnamento, come riportato dal Corano. Il problema della scelta di un nuovo capo, dopo la morte del Profeta, determinò una delle grandi crisi della comunità islamica. Se per alcuni i califfi dovevano essere selezionati tra i primi credenti e gli intimi del Profeta, per altri la successione doveva invece legarsi direttamente alla sua famiglia. Questa seconda ipotesi, sostenuta da coloro che si sarebbero chiamati sciiti, portò all’elezione di Ali come quarto califfo, in quanto cugino di Maometto, nonché marito della figlia Fatima. Gli sciiti avrebbero guardato a lui come il primo dei loro imam, delle loro guide che conservavano il messaggio islamico originario, tradito invece dai governanti dell’impero musulmano. Con il suo assassinio, nel 661, lo scontro tra le due fazioni divenne però inevitabile. Gli sciiti si raggrupparono attorno a suo figlio, Hussein, il quale rifiutò di riconoscere la successione califfale; ma nel 680, a Karbala, le cose giunsero a un drammatico epilogo. Era il 10 di Muharram dell’anno 61 (10 ottobre 680) quando Hussein figlio di Ali venne decapitato e i suoi partigiani massacrati, in una delle più cruente battaglie tra sciiti e sunniti. Hussein si era diretto verso Kufa con l’intenzione di appoggiare i locali simpatizzanti sciiti. Giunto nei pressi della città apparve chiara la superiorità dell’esercito avversario, ma lui scelse di combattere le stesso, trovando la morte assieme ai compagni che avevano scelto liberamente di restare al suo fianco. Dall’atto di Hussein derivò un’idea di santificazione attraverso il martirio che avrebbe attraversato i secoli giungendo sino ai nostri giorni. Il ricordo di quella giornata è rimasto nella letteratura e nelle feste popolari sciite che rivalutano il ruolo del dolore, della sofferenza e della sconfitta. Ma quell’antica frattura avrebbe dato vita a una lunga storia di sedizioni, rivolte e scontri che continuano ancora oggi. Il problema dell’eredità politica e spirituale del Profeta è tutt’altro che accademico. Tocca anche il cuore della questione femminile nel mondo musulmano. Fin dai tempi delle prime trascrizioni dei testi sacri, infatti, il potere influenza l’interpretazione, che a sua volta determina la legge. Per fare un esempio, è stata a lungo ritenuta valida come hadith la frase attribuita a Maometto da un mercante di Bassora: «Coloro che affidano i loro affari a una donna non conosceranno mai la prosperità». Ma è stato dimostrato che questo detto non aveva nessuna delle garanzie necessarie per essere attribuito al Profeta. E che poco si conciliava con lo stretto legame tra lui e Khadija, che con i propri successi finanziari sostenne la sua missione. Un altro problema nell’interpretazione del Corano e degli hadith è la straordinaria ricchezza della lingua araba e le sue molteplici traduzioni, tutte ugualmente accettabili. Come fa notare Reza Aslan nel suo libro No God but God, la stessa espressione utilizzata in una sura del Corano a proposito del rapporto tra uomini e donne può voler dire «picchiala» o «amala»! Il secondo califfo, Omar, è famoso per essere stato un uomo frugale, e a volte violento, che non esitò, prima di venire a sua volta convertito dal Profeta, a picchiare la sorella quando venne a sapere che aveva abbracciato la nuova fede. Ebbe anche parole molto dure per la figlia Hafsa, allora moglie di Maometto, in un momento di tensione

all’interno della coppia. A Omar si attribuisce la colpa di aver fatto marcia indietro su molti princìpi di uguaglianza contenuti nel Corano. In particolare avrebbe stabilito la separazione tra i sessi durante la preghiera, e introdotto la pratica della lapidazione per le donne colpevoli di adulterio. E così oggi, quattordici secoli dopo la morte del Profeta, l’accanita battaglia tra gli eredi del suo messaggio continua. Le donne sono di volta in volta vittime, posta in gioco e protagoniste di una lotta dall’esito incerto. In varie parti dell’universo musulmano alcune si sono lanciate nella mischia senza tentennamenti: ne ho incontrate tante nei miei viaggi in Medio Oriente, nel Golfo, in Iran o nei Paesi del Maghreb. Molte altre le abbiamo trovate qui in Arabia Saudita, decise ad affermarsi in una società che ancora le reprime. Sono la confutazione vivente del troppo diffuso cliché occidentale della musulmana sottomessa che subisce senza reagire la legge del maschio. La diversità è la norma anche in questa parte del mondo.

CAPITOLO 18 Lipstick jihad P ER PREGARE DEVONO NASCONDERSI. Durante la messa clandestina Elsa e i suoi amici devono chiudere le imposte della casa in cui si incontrano, per sfuggire alla curiosità della polizia. «Non mi piace, ma è meglio di niente» sospira Elsa, seduta lontano da orecchie e occhi indiscreti nella mia camera d’albergo a Riyad. Ha una cinquantina d’anni, la carnagione scura, è piccola e vivace, con un volto sorridente dietro occhiali da maestrina. Lavora come parrucchiera, manicure e pedicure e la mia amica Rogaya me l’ha consigliata anche per le sue doti di massaggiatrice: un lusso piacevole dopo queste giornate estenuanti. È anche l’unico modo per avere una messa in piega: mi sarei accontentata del coiffeur dell’albergo, ma sono stata gentilmente bloccata sulla porta. È riservato agli uomini, proprio come la palestra che è entrata in allarme quando ho tentato di accedervi. Elsa vive in Arabia Saudita da ventidue anni, ma è filippina e cattolica, non ha alcun diritto e soprattutto non può praticare la sua fede. Non ci sono chiese nella terra dei luoghi santi dell’Islam. E qualunque cerimonia religiosa che non sia musulmana è totalmente bandita in pubblico. Quelle private ora sono più tollerate, ma in realtà i mutawwa possono intervenire come meglio credono. Non solo l’Islam è la religione di Stato e la giustificazione stessa della monarchia saudita, ma è praticato nella sua variante wahhabita, così intollerante che i mistici sufi e addirittura gli sciiti non vengono riconosciuti come veri musulmani. «Da qualche tempo le cose vanno meglio, la polizia religiosa chiude un occhio» continua Elsa. Ma alcune sue amiche sono state arrestate per aver pregato insieme e rimandate nei loro Paesi d’origine. Elsa fa parte di quella popolazione di stranieri senza i quali il regno non potrebbe funzionare. Più di otto milioni, secondo le statistiche ufficiali. Insieme alle loro famiglie, che provengono principalmente dal Bangladesh, dall’India, dal Pakistan, dall’Egitto, dal Sudan e dalle Filippine, svolgono tutti i mestieri che i sauditi rifiutano. Sono loro che costruiscono gli edifici, puliscono le strade, si occupano dei bambini, guidano gli autobus, servono a tavola, lavorano nei campi, tengono la contabilità delle aziende, assistono i malati negli ospedali, estraggono il petrolio… Senza di loro l’Arabia Saudita non sarebbe diventata ricca e se scomparissero non lo rimarrebbe a lungo. I primi lavoratori immigrati arrivarono nel regno nel 1962, quando re Faysal abolì la schiavitù. In seguito il boom

petrolifero li attirò in massa negli anni Settanta, anche in settori cruciali come quello dell’insegnamento e dei servizi sanitari, come avvenne per molti egiziani. Da quasi quarant’anni contribuiscono a creare dalla sabbia una società moderna, ma vengono ancora trattati come paria: i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani registrano una miriade di casi di maltrattamenti, lavoro forzato, violenze fisiche e anche sessuali commesse su collaboratrici domestiche dagli stessi padroni. In generale le loro condizioni di vita sono deplorevoli, e sono vittime di un sistema giudiziario che dà quasi sempre ragione ai sauditi. Elsa ammette di passarsela molto meglio della grande maggioranza di chi è stato obbligato dall’estrema povertà a lasciare i Paesi d’origine, alla ricerca di un vago Eldorado. Vive in un piccolo appartamento in un complesso riservato agli stranieri. Non ha mai avuto problemi con i clienti, che la trattano bene. «Mi occupo di molte principesse» mi confida con un sorrisino d’intesa. «Ho anche massaggiato una bellissima irachena che è stata “moglie per una notte” dell’attuale re.» Si riferisce al matrimonio temporaneo. Il nikah al-mut’a, o sigheh in Iran, è un’unione a tempo determinato, che può essere prolungata. Viene dichiarata alla presenza di un’autorità religiosa ed è ammessa solitamente dagli sciiti. È un matrimonio di piacere, destinato a soddisfare i bisogni sessuali quando, magari per ragioni economiche, un legame permanente non è possibile. Oppure permette a persone di sesso diverso di abitare sotto lo stesso tetto senza essere parenti. Il contratto può specificare che non devono esserci rapporti fisici. C’è chi lo considera una forma legale di prostituzione, altri sostengono che tutela i figli nati da un’unione temporanea e che permette ai giovani non sposati di frequentarsi senza cadere nel peccato. Di peccati delle donne dell’élite saudita, Elsa deve conoscerne molti: ho l’impressione che, quando si mettono nelle sue abili mani, si lascino andare a confidenze non molto islamiche. Lei è stata sposata quattro volte, anche perché qui un coniuge è uno strumento di lavoro indispensabile: non potrebbe impiegarsi come free lance senza la garanzia di un tutore al suo fianco. Ha lasciato il suo primo marito; il secondo è stato ucciso dai ribelli nelle Filippine; il terzo è morto per cause naturali e in quarte nozze ha sposato un capomastro che ora lavora in un cantiere vicino a Gedda. «Non ho figli» mi dice con un sospiro di rammarico. «L’unica ragione per cui sono qui sono i soldi. Non avendo trovato lavoro in patria non ho avuto scelta» mi spiega. «Ma sono stata fortunata, riesco a risparmiare abbastanza per potermi costruire una casa nel mio Paese.» Non è così per la maggioranza dei lavoratori stranieri, che guadagnano meno di 200 dollari al mese. Elsa è una donna forte, come le sue mani che assorbono la fatica dalle spalle delle clienti e come la fede che le permette ancora di sperare. Il suo destino l’ha condotta in un mondo bigotto e ipocrita e non le ha risparmiato dure prove, ma è decisa a non lasciarsi sfuggire la minima occasione di sorridere: «Troviamo sempre il modo per divertirci» mi assicura prima di lasciarmi. «Organizziamo serate con musica e beviamo addirittura vino: lo facciamo noi e non è molto buono. Però ci fa girare la testa.»

Il suo primo libro è rimasto in vendita per un solo giorno e per il semplice fatto di averlo scritto, Zaynab Hifni è stata condannata a cinque anni di divieto di pubblicazione e a sette di divieto di espatrio. Era il 1996. Women at the Equator parlava di sesso, già di per sé un argomento proibito, e ancora di più perché raccontava le avventure della famiglia reale. «Ha avuto l’effetto di una bomba» mi spiega Zaynab nel suo appartamento di Gedda. Pubblicato da una casa editrice del Cairo, è una raccolta di tutto quello che avreste voluto sapere sulle pratiche dei sauditi nell’intimità: le fantasie e le perversioni, l’omosessualità, i rapidi viaggi a Parigi e Londra per incontri proibiti, ma anche la corruzione. «Per la prima volta qualcuno osava spezzare il tabù della sessualità: i miei compatrioti hanno reagito con violenza, perché era come se si fossero guardati allo specchio.» Tra tutti gli argomenti vietati, l’omosessualità è uno dei più invisi all’intero mondo arabo. In particolare pare che

sia però particolarmente diffusa nella società saudita, sempre a causa della segregazione. Non ci sono, ovviamente, dati certi, ma mi stupirebbe il contrario: se nel periodo confuso dell’adolescenza si incontrano solo persone del proprio stesso sesso, è quasi inevitabile che i desideri si rivolgano in parte verso di loro. In effetti per strada mi è capitato di vedere uomini che si tengono per mano o si scambiano tenerezze. Non necessariamente sono innamorati, di queste effusioni nessuno nel mondo musulmano si scandalizza, ma in ogni caso non ci sarebbe outing possibile. La sodomia è un peccato capitale in questa cultura, ed è severamente punita. Secondo l’interpretazione più rigida della Sharia due uomini sposati che abbiano un rapporto sessuale rischiano di essere gettati da una rupe o bruciati vivi. Se invece i partner sono scapoli, per il sodomizzato, se maggiorenne, c’è la pena di morte per impiccagione – ha osato assumere un ruolo femminile – mentre il sodomizzatore «se la cava» con cento frustate. Quest’ultima pena è applicata anche all’amore lesbico tra due donne single, mentre se sposate rischiano la lapidazione. Undici anni dopo la pubblicazione del suo primo libro-scandalo, Zaynab ha la sensazione che in fatto di sesso e sentimenti, e della possibilità di viverli e raccontarli con serenità, le cose non siano molto cambiate. Divorziata, vive da sola in un piccolo edificio borghese e anche lei mi ha chiesto di andare a trovarla senza Jacques. «Non voglio che i vicini facciano commenti o che il proprietario mi crei dei problemi» mi ha spiegato al telefono. Zaynab è una signora di una cinquantina d’anni dal volto ammaliante, attorno a cui ricadono capelli castani lunghi fino alle spalle. Mi racconta la sua storia con passione, mescolando umorismo e amarezza. È laureata in arte e studi islamici, ma nel 1987 ha intrapreso la carriera di giornalista nel grande «Asharq al-Awsat». Si è sposata a diciotto anni e in breve tempo ha avuto tre bambini. Poi il marito l’ha abbandonata per una donna più giovane e, data l’arbitrarietà delle leggi islamiche sul divorzio, ha potuto cavarsela senza pagarle gli alimenti. Mentre lei allevava i figli, da sola, lui è rimasto ucciso in un incidente automobilistico. Non le ha lasciato niente. «Avevo trovato un compagno con il quale pensavo di potermi rifare una vita. Dovevamo sposarci, ma la condizione era che smettessi di scrivere, per evitargli seccature. L’ho lasciato: scrivere è la mia vita.» Dopo la pubblicazione di Women at the Equator, ha perso il lavoro al giornale. E trovare un nuovo impiego si è rivelato impossibile anche se il divieto di scrivere e viaggiare le è stato ridotto, dopo che ha perorato la sua causa davanti al ministro degli Interni. «Fortunatamente sono sempre stata appoggiata dai miei genitori. Non bisogna aspettarsi alcuna solidarietà, invece, dagli intellettuali o dalla società saudita in generale. Quando un autore tocca un argomento tabù, che sia il sesso, la religione o la politica, viene emarginato. E gli altri hanno paura.» Non risparmia nemmeno le «sorelle»: «Se il cambiamento è tanto lento è perché non esiste solidarietà femminile, nessun lavoro di squadra che ci permette di combattere il peso della cultura e delle tradizioni». Il suo ultimo libro è stato pubblicato nel 2006 in Libano. Malameh racconta la storia di una saudita che, spinta dal marito, si prostituisce con ricchi uomini d’affari; quando lei ha guadagnato abbastanza, lui scappa con una ragazza di vent’anni più giovane. Il loro figlio diventa terrorista e rimane ucciso in Iraq e la protagonista non sopravvive al dolore. Zaynab ora sta lavorando a un nuovo romanzo sullo shock culturale che devono affrontare al loro ritorno le sue compatriote vissute all’estero. «È una società che le fa sentire in carcere.» Nonostante il prezzo che ha dovuto pagare, si dichiara orgogliosa della sua storia e se potesse tornare indietro rifarebbe tutto: «Oggi non ho più paura di niente, anche se mi dispiace non avere alcun riconoscimento. In Arabia Saudita mi hanno invitato una volta sola a parlare dei miei libri, a Qatif, nella parte orientale del Paese, e sono venuti in molti. Ma Qatif è una città sciita…». Sono convinta che, se Zaynab potesse intervenire di più in pubblico, farebbe ogni volta il tutto esaurito. I misteri della vita sentimentale e sessuale esercitano un grande fascino fin dai tempi in cui Adamo ed Eva, di cui il Corano racconta la tentazione, ci hanno insegnato il desiderio e l’amore. L’Arabia Saudita semplicemente cancella queste realtà. Confinando l’attività sessuale nell’intimità del talamo ha totalmente eliminato dalla sfera pubblica persino i più prudenti accenni a questa dimensione della vita. Le misure di segregazione, la repressione di tutto ciò che può

essere considerato un contatto illecito, hanno creato una barriera di incomprensione. Invece l’accesso alla pornografia on-line, il ricorso alla prostituzione, le licenziose avventure all’estero di chi può permetterselo aumentano la frattura tra la società e un’élite impunita. Prese tra due fuochi, le donne sono prigioniere di un sistema totalmente schizofrenico. «Oggi» sottolinea Zaynab «c’è una maggiore libertà e le nuove generazioni sono più aperte. Anche se i mutawwa cercassero di ostacolare il cambiamento, non ci riuscirebbero. Nell’era di Internet e della televisione satellitare, non si può più nascondere niente. I ragazzi parlano di questi argomenti più apertamente. Io ho pagato il prezzo per essere stata la prima, ma oggi altre scrittrici più giovani osano percorrere la stessa strada. Sono fiera di averla aperta per loro.»

Incontro un’altra pioniera all’università femminile Prince Sultan di Riyad, l’unica ad avere aperto una facoltà di legge, anche se tuttora le donne avvocato non sono ammesse nei tribunali. «Sono nata in una casa di fango in un piccolo villaggio fuori Riyad. Sono una nadji, una donna del deserto. Mia nonna non sapeva leggere e mia madre ci riusciva a malapena» racconta Mody al-Khalaf, oggi docente di linguistica. Mody è diventata famosa per gli editoriali di denuncia della società maschilista nel regno dei Saud pubblicati sul quotidiano di lingua inglese «Arab News». Emblema di una nuova generazione di saudite, combatte in pubblico la battaglia che donne come Lama Suleiman portano avanti nei loro ambienti professionali. E rivendica come un diritto «islamico» l’uguaglianza tra uomini e donne in tutte le sfere della vita professionale, politica e privata. «Mio padre ha avuto la fortuna di andare a scuola ed è stato lui a spingermi a studiare» continua questa bella trentatreenne mora dagli occhi verdi, madre di famiglia e divorziata. «Ci ha portati a vivere negli Stati Uniti dove si stava specializzando. Per nove anni sono cresciuta in un ambiente libero. Quando sono tornata, avevo quattordici anni e l’impatto è stato terribile.» Per cercare di sfuggire a una vita che considerava una prigione sociale, Mody ha scelto di prendere marito e a sedici anni ha sposato un cugino. Oggi cresce i suoi due figli adolescenti. «Come per molte saudite, il mio divorzio è stato difficile. La Sharia riconosce al marito il diritto di ripudiare la moglie, ma ostacola in ogni modo una donna che vuole separarsi. Se lui si rifiuta e se il giudice gli dà ragione, non puoi fare praticamente niente.» Viene quindi lasciata in una specie di limbo giuridico: è «in attesa» di un nuovo status, senza risorse, senza mahram se non il coniuge da cui vuole separarsi, senza possibilità di risposarsi. Mody mi spiega che ora ha due tutori legali: il padre e l’ex marito. «Non posso viaggiare senza il permesso di uno dei due. Non posso affittare una casa, non posso farmi operare e fino ad alcuni anni fa non potevo nemmeno comprare un cellulare, mentre mio figlio non aveva problemi a farlo. Tutto ciò non ha niente a che vedere con l’Islam, il Corano o la Sharia. Sono le leggi saudite che devono cambiare.» Incontro questa giovane donna impavida nell’università privata in cui insegna. Aspetto nel parcheggio che mi vengano a prendere, tra decine di lussuose automobili con autista in attesa delle alunne. Alcune studentesse, in abaya nere e con tanto di borse Vuitton, Gucci e Dior, si informano se ho bisogno di aiuto. Mentre ognuna cerca con gli occhi il proprio chaffeur, approfitto per chiedere se non ne hanno le tasche piene del divieto di guidare. Rispondono in coro: «Assolutamente sì! Ma ci dia ancora due anni e ci vedrà tutte dietro il volante!». Mody mi spiega che la scuola ha ovviamente dovuto sottostare alle regole della separazione tra i sessi: «In caso di necessità, possiamo comunicare con professori o relatori maschi attraverso un sistema di teleconferenza. Noi possiamo vederli, loro però sentono solo le nostre voci. È evidente» aggiunge «che sono pratiche assolutamente retrograde». Come tanti suoi compatrioti, ha un’ottima opinione del regno di re Faysal. «È stato il più aperto e il più progressista» dice. Poi l’attacco alla Mecca del 1979 ha costretto il governo a schierarsi in modo ancora più netto

con i wahhabiti. Oggi Mody pensa che re Abdullah faccia del suo meglio: «È stato lui a dichiarare, quando era ancora principe ereditario, che le donne sono cittadine a tutti gli effetti, con diritti e responsabilità». Ammette però che esistono ancora numerosi ostacoli: «Persino le famiglie più aperte sono contrarie alla mescolanza dei sessi. Molte donne si oppongono a qualunque cambiamento, perché sono convinte che sia contrario all’Islam». Ma alla fine, dice, la realtà ha sempre l’ultima parola: «Il numero di divorzi è talmente aumentato che le famiglie ora lasciano alle figlie la possibilità di incontrare i futuri mariti. Organizzano appuntamenti a casa, nei ristoranti e le mandano persino in viaggio all’estero». Nei suoi editoriali Mody difende un approccio non ideologico e propone soluzioni pratiche. Così trova assurdo che le donne rappresentino solo il 5,5 per cento dei lavoratori attivi in Arabia Saudita, sebbene costituiscano il 51 per cento della popolazione. Inoltre i lavori a loro riservati rientrano essenzialmente in due ambiti: la salute e l’istruzione. Suggerisce che vengano formate nelle scienze e nelle tecnologie, il che eviterebbe anche situazioni paradossali. Come il fatto che in una scuola femminile sia necessario aspettare la fine delle lezioni perché un elettricista, preferibilmente straniero, possa riparare un impianto. Critica anche quelle che ritiene prove evidenti della volontà maschile di mantenere un controllo totale. Il dibattito sulla patente ne è un esempio lampante, come lo è stata la controversia sulle carte d’identità, che le donne hanno ottenuto solo nel 2006. Prima, per qualunque procedura amministrativa o commerciale, avevano bisogno di essere accompagnate da un maschio della famiglia che certificasse la loro identità. Ed esistevano legalmente perché erano registrate sui documenti dei padri o dei mariti. La carta d’identità riconosceva, per la prima volta, un’esistenza legale indipendente. «Ma sono emersi subito problemi. I volti sulle fototessere non potevano essere coperti. E negli uffici, gli impiegati uomini si rifiutavano di guardarle! Come potevano dimostrare di essere le titolari del documento se non potevano mostrare i loro volti?» Ben presto anche questo progresso si è rivelato insufficiente. Spesso le aziende o le pubbliche amministrazioni richiedevano comunque la presenza di guardiani o di testimoni. «Questo non ha niente a che vedere con la religione: si tratta di un semplice desiderio di dominio.» Mody non esita a denunciare le manipolazioni del Corano: gli ulema, incaricati di assicurare la conformità delle leggi e dei regolamenti, e i giudici, incaricati di applicare la Sharia, invariabilmente offrono interpretazioni in linea con le esigenze del potere. «Ci insegnano ciò che vogliono sulla religione. Ci parlano del velo e della patente, ma non ci dicono niente sull’usura o sulla corruzione. Pronunciano fatwa contro le lenti a contatto o contro i pantaloni, ma si guardano bene dal menzionare gli hadith che rendono giustizia alle donne. Sono arrivati persino a proibire la depilazione delle sopracciglia distribuendo volantini nelle scuole.» Ci sono pagine della Sharia, sostiene, che vengono sistematicamente rimosse, molte altre conoscono solo interpretazioni di parte: «Abbiamo un sistema di regole che risale a millequattrocento anni fa. È evidente che per essere utilizzabile deve essere adattato alle esigenze della società moderna. Ma non solo della sua metà maschile». Questa giovane professoressa è convinta che siano il re e il suo ristretto circolo ad avere la responsabilità finale della direzione che prenderà il Paese. «Non è il potere politico a essere ostaggio dei religiosi, ma i circoli religiosi a dover rispondere alle esigenze del regime» asserisce. E mi porta l’esempio delle compagnie di assicurazione, che fino ad alcuni anni fa erano haram. «Quando è emerso che si trattava di un settore in forte espansione, con un potenziale di profitto enorme, sono diventate improvvisamente halal, lecite. Lo stesso vale per la guida: fino a pochi anni fa il divieto era religioso, oggi ci dicono che potrebbe provocare disordini sociali.» Secondo lei esiste solo una soluzione: una netta separazione tra religione e politica. Però Mody, su questo terreno, procede quasi da sola. È ancora all’avanguardia di una scuola di pensiero assolutamente minoritaria in Arabia Saudita e nel mondo musulmano in generale. Non c’è da stupirsi se queste riflessioni le sono valse l’accusa di essere una «laica occidentalizzata». Una qualifica pericolosa nella terra storica dell’Islam. Nell’attesa di un’improbabile secolarizzazione, Mody difende l’idea di una migliore «contestualizzazione» del Corano. «L’Islam è una religione

duttile: deve essere sempre interpretata a seconda dell’epoca in cui viene praticata. È per questo che rimane vera in ogni tempo e in ogni luogo.» E sostiene che nella società saudita, passata dal Medioevo all’era moderna in meno di un secolo, è giunta l’ora della riscossa: «Le donne sono il motore del cambiamento: quando il petrolio si esaurirà, saremo le risorse inutilizzate più importanti del Paese!».

Tornata in albergo ho occasione di sperimentare, in modo quanto mai sgradevole, cosa intendono certi sauditi per «utilizzare le risorse femminili». Sto aspettando Jacques nella hall, dove oltre a me stazionano gruppi di uomini in dishdasha bianca e ghutra, intenti ai loro lauti affari. I tavolini sono carichi di bicchieri di succhi di frutta, caffè e vassoi di dolci, responsabili di circonferenze addominali che i larghi abiti riescono solo in parte a celare. Il personale, quasi tutto proveniente dal subcontinente indiano, è rapido e discreto e io sorseggio la mia tazza di tè leggendo «Arab News». Ho l’impressione di essere osservata. Alzo lo sguardo e incrocio quello dell’uomo seduto di fronte a me. Anche lui indossa la tunica tradizionale e un paio di sandali che mostrano piedi nudi singolarmente pelosi. Da sotto i baffoni neri pende una sigaretta. Niente di speciale, di per sé. Ma lo è la sua mimica, tanto improvvisa che quasi ho l’impressione di averla immaginata. Con un mezzo occhiolino e rapidi movimenti della lingua tra le labbra socchiuse, mi manda un messaggio che probabilmente ritiene molto suggestivo. Non lo è. Dopo lo sbalordimento iniziale, mi assale piuttosto la voglia di assestargli un calcio negli stinchi pelosi. O altrove. Non si lascia scoraggiare dalla mia reazione poco entusiasta. Ogni volta che alzo lo sguardo ripete i suoi esercizi per la lingua. Sono lieta di veder entrare dalla porta girevole Jacques, che con un solo sguardo furioso interrompe quelle smorfie. Ho la sensazione che qui molti uomini considerino le occidentali come oggetti sessuali, sempre pronte a desiderare di lasciarsi andare con il primo venuto. L’arte della seduzione i discendenti dei beduini la devono ancora imparare. Probabilmente hanno preso queste pessime abitudini con le fanciulle che, nelle città del Golfo, vendono l’amore un tanto all’ora. Finché il portafogli è gonfio, la buona educazione dei clienti non ha molta importanza. Lascio la hall a testa alta al braccio del mio prode marito, senza fare scene. Ma l’ipocrisia della società saudita, che finge di proteggere la virtù e la sicurezza delle giovani donne e intanto favorisce i comportamenti più licenziosi, mi dà veramente sui nervi.

CAPITOLO 19 UNA MERCEDES PIENA DI ROSE N ELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO una principessa saudita è una donna che vive nel lusso più sfrenato, dedita principalmente a soddisfare ogni più piccolo capriccio. Per verificare questo luogo comune sono riuscita, non senza una notevole fatica organizzativa, a ottenere udienza da alcune delle molte figlie della casa reale. Una di loro l’avevo incontrata già due anni fa, in occasione del mio viaggio del 2005. La principessa Reem, allora trentasettenne, nipote di re Faysal, aveva scelto di fare la fotografa, in un Paese in cui le immagini sono ancora un tabù. «Ti chiedi costantemente cosa dia loro più fastidio: la donna perché è una fotografa o il fotografo perché ritrae le

donne» aveva esordito alla mia domanda sulle difficoltà della sua professione. Reem è uno spirito libero, una musulmana devota e al tempo stesso aperta e liberale. Si sente a casa sia nei circoli artistici di Parigi, dove trascorre metà del suo tempo, sia nella città più sacra del mondo, la Mecca, dove ha immortalato l’hajj. Gli scatti di questo antico rituale sono stati raccolti in un libro e i suoi lavori sono stati esposti in Francia, Cina, Corea e Palestina. «Fotografare è un modo per rendere gloria a Dio nell’universo» aveva spiegato. Lavora esclusivamente in bianco e nero e lamenta il fatto che la società saudita sembra aver rimosso le arti: «Non abbiamo abbastanza gallerie, né critici. L’arte non è un lusso, come purtroppo credono qui, è una necessità. Nel mondo musulmano del passato la bellezza era parte integrante della vita quotidiana, ed è il Corano stesso a ricordarcene l’importanza». La casa di famiglia è una villa immersa tra palme rigogliose e splendidi oleandri nel quartiere residenziale che ospita la maggior parte dei membri della casa reale. Simile a molte altre abitazioni di Riyad, si sviluppa su un unico piano, attorno a un cortile interno. L’archittettura è essenziale, così come l’arredamento, arricchito con gusto da qualche prezioso tappeto, bruciatori d’incenso e porte di legno decorate. Il padre, il principe Muhammad, presidente della National Commercial Bank, è stato coinvolto nelle indagini sui finanziamenti sauditi agli uomini di al-Qaida. Dopo l’11 settembre il principe è stato tra i citati in giudizio nella causa di 100 miliardi di dollari, intentata dai familiari delle vittime degli attacchi alle Torri Gemelle. Un danno quasi irreparabile alla sua reputazione, nonostante l’archiviazione del procedimento nel 2004. «Nessuno capisce che l’Arabia Saudita è determinante per la stabilità del Medio Oriente e del mondo musulmano» sosteneva Reem. Le avevo fatto notare che erano invece molti ad averlo compreso, e fin troppo bene dopo aver saputo che la maggior parte degli attentatori proveniva dal suo Paese. «Ma questo non significa che tutti i sauditi siano criminali!» aveva ribattuto indignata. «Certo, è un campanello d’allarme che nasconde qualcosa di malato. Uno dei nostri più grandi problemi è la corruzione, insieme all’iniqua distribuzione della ricchezza.» La principessa ha dei modelli femminili eccezionali. Il più importante è la nonna, la regina Effat, che, grazie all’istruzione ricevuta in Turchia fu una matriarca molto potente e lungimirante. Ebbe una vita travagliata, passando dall’estrema povertà all’assoluta ricchezza e perdendo gran parte dei suoi 12 figli per la mancanza di assistenza medica. Dopo aver vissuto in prima persona le guerre di unificazione del Paese e i tanti conflitti mediorientali, nel 1975 la regina dovette assistere anche all’assassinio del marito, re Faysal. Reem è cresciuta con lei e con le sue tante zie. «Non ho mai visto una donna oppressa nella mia famiglia.»

Ora, due anni più tardi, in una casa altrettanto raffinata dello stesso quartiere, incontro la sorella maggiore di Reem, la quarantacinquenne Maha. Questa principessa, sociologa, è anche un’apprezzata scrittrice di fiabe per bambini, volumi particolarmente preziosi per la bellezza delle illustrazioni. Insieme a Muhannad Shono, il primo disegnatore di fumetti saudita, Maha ha inventato il personaggio di Qifar: un eroe musulmano il cui potere risiede, guarda caso, nella conoscenza. È un affascinante intreccio da Mille e una notte, con un cavallo marino, geni femminili della lampada e un uccello magico che vive in una bottiglia d’inchiostro d’argento, e che viaggia con il protagonista alla ricerca di libri in una grande biblioteca. Una storia senza tempo, in cui il Bene lotta contro il Male e non c’è posto per computer, cellulari e carte di credito. «La battaglia è tra le tenebre dell’ignoranza e la luce della sapienza» mi spiega la principessa. «Sono tipici elementi dell’immaginario arabo.» Maha mi presenta una delle sue tante cugine, la principessa Noof Muhammad al-Saud, una donna affascinante e dal fisico longilineo nonostante quattro figli. A suo parere le numerose donne della famiglia reale hanno una

responsabilità nei confronti del loro popolo: «Abbiamo il dovere di dare il nostro contributo per migliorare la società». Proprio a tale scopo Noof, che ha studiato management, lavora per la King Khaled Foundation, che offre alle ragazze saudite l’opportunità di studiare. Sia lei che sua cugina tengono a precisare che il loro lavoro è apolitico, per evitare di essere etichettate come femministe: «È un termine troppo occidentale» mi spiegano. Per entrambe la prima cosa da fare è un sistema di leggi che tuteli diritti fondamentali come il divorzio, la custodia dei figli e l’eredità. Anche se, puntualizzano, questo non è l’unico problema: «Non abbiamo buone norme, ma soprattutto non abbiamo buoni giudici». «E la famiglia reale?» chiedo a bruciapelo. Mi rispondono serafiche: «Se sono al potere è perché la gente li vuole». Sono perplessa di fronte a questa affermazione. Maha precisa: «Quella saudita è una società tribale: se lo sceicco non fa il suo dovere viene rimosso. L’equilibrio politico in questo Paese è delicatissimo. I sovrani devono convincere non solo gli ulema e i commercianti, ma anche gli altri membri della dinastia». Come molte delle donne che ho incontrato, Maha è divorziata e madre di un’adolescente, e con un pizzico di impudenza le domando come pensa di trovare un nuovo marito, dati tutti i vincoli a cui deve sottostare. Lungi dall’offendersi, scoppia a ridere: «Ci sono almeno 80 cugini potenziali candidati alla mia mano». Tornando seria ammette che nel sistema saudita impera un atteggiamento paranoico: «Come in altri Paesi musulmani, le donne sono stritolate tra due richieste inconciliabili: dover corrispondere a una tradizione fuori dal tempo e vivere nel mondo ipertecnologico. Siamo nel pieno della battaglia per la nostra identità. Non avremmo dovuto ingoiare la pillola dell’occidentalizzazione. Perché non possiamo vivere all’orientale, tenendoci le nostre danzatrici del ventre invece dei vostri spettacoli di strip-tease?».

Adilah bint Abdullah bin Abdul Aziz è figlia di re Abdullah. Questa signora quarantacinquenne è una sorta di ambasciatrice del mondo femminile nella famiglia reale. Il monarca ha ottantatré anni ed è uno dei numerosi figli di Ibn Saud. Per rispettare una tradizione a quanto pare ben radicata nella dinastia, ha avuto una trentina di mogli. E più di 20 figli, tra maschi e femmine, sono ancora in vita. È succeduto a re Fahd nell’agosto del 2005, dopo aver guidato di fatto il regno per dieci anni, date le precarie condizioni di salute del sovrano. Fahd apparteneva al potente clan dei Sudairi, formato dai sette figli maschi di Abdul Aziz e di una delle sue mogli, che con la sua morte ha perso influenza. Abdullah ha il difficile compito di tenere sotto controllo le ambizioni dei fratellastri, prendersi cura dei sudditi e promuovere le riforme. Senza inimicarsi l’establishment religioso, per il quale qualunque mutamento è una minaccia. «Il re è convinto che cambiare sia necessario» mi assicura la principessa, che ci riceve nella sua sontuosa casa di Riyad. È elegante e non indossa il velo, lasciando scoperto un bel viso dolce e sensuale, ereditato dalla madre libanese. È alta e indossa una giacca e una lunga gonna di seta molto lavorata. Dal piano superiore filtrano le note di un pianoforte e Adilah mi spiega che uno dei suoi cinque figli sta facendo lezione. «Il popolo vuole il progresso» riconosce, e con un mezzo sorriso che fa lampeggiare una fila di denti bianchissimi aggiunge: «Ma non bisogna infrangere le regole, bisogna saperle aggirare». Ammette che «molte donne sono rimaste deluse quando non sono state autorizzate a votare» alle elezioni municipali del febbraio 2005. All’epoca anch’io avevo posto apertamente il problema. A capo della mia delegazione ero stata ricevuta a sorpresa da re Abdullah, allora principe ereditario reggente. Dovevano essere solo pochi minuti e invece si trasformò in un incontro di mezz’ora, di cui approfittai per sollevare la questione dei diritti politici, anche quelli femminili. Abdullah si dimostrò affascinante e sollecito, ma risoluto a non prendere provvedimenti affrettati. Qualunque cambiamento

troppo rapido nelle società arabe, sosteneva, avrebbe condotto al caos. La figlia, due anni dopo, esprime lo stesso parere. «Ciò che veramente conta non è solo chi può votare, ma chi può essere eletto: è necessario che vinca il miglior candidato, a prescindere dal sesso» dichiara. «Noi donne dobbiamo fare un lavoro di lobbying, dobbiamo imparare l’arte di influenzare le decisioni.» Un’opera di persuasione che le saudite svolgono già: «Quasi il 60 per cento degli studenti universitari sono di sesso femminile» afferma la principessa. «Molte vanno all’estero e tornano ricche di esperienze che ci aiutano a progredire.» Anche nella formazione dei curricula. «Ci stiamo organizzando per metterci in pari con le altre scuole» garantisce. «È fondamentale essere al passo coi tempi: chi resta immobile è morto.» Trova che le donne debbano impegnarsi il più possibile nel settore privato, più incline a impiegarle. A Gedda, per esempio, controllano già oltre 4000 imprese. Sul diritto a prendere il volante mostra una certa insofferenza, si rende conto che ha un impatto negativo sull’immagine del suo Paese, ben più di molti altri e più gravi problemi. «Questo diritto è un mezzo, non un fine» taglia corto. «E comunque i religiosi non sanno più come giustificarlo» ironizza. Anche l’argomento della sicurezza suona sempre più debole: «Se esiste uno Stato di diritto, non si capisce a cosa serva questa ulteriore “protezione” per le donne.» Tuttavia l’erede dei Saud è preoccupata, come il padre, per le nubi che si addensano all’orizzonte della regione, a cominciare dalle violenze in Palestina e in Iraq. «I tempi non sono propizi al cambiamento, siamo sotto pressione e dobbiamo agire con prudenza. Dobbiamo assicurarci che non ci siano reazioni negative.» Un eufemismo per definire tutta una serie di scenari catastrofici che spaventano la dinastia, e costringerebbero probabilmente la bella Adilah a scegliere l’esilio nella località toscana che preferisce, Forte dei Marmi. La casata al potere teme un’ondata di violenze terroristiche; l’interruzione forzata delle esportazioni di petrolio; una lotta fratricida; una destabilizzazione del regime sostenuta da forze esterne. Le opzioni sono numerose, ma il risultato sarebbe identico: altra confusione in una regione già in preda al disordine. La decisione di riformare il sistema giudiziario, asserisce Adilah, è già stata presa. «Ora bisogna metterla in atto.» Come la maggioranza dei sauditi che non hanno avuto la fortuna di nascere figli di re, Adilah trova le sue risposte nell’insegnamento del Profeta. «Sotto tanti aspetti l’Islam è una religione dei nostri tempi» assicura. «All’epoca d’oro, da Cordoba a Damasco, ha dato prova della sua capacità di accompagnare lo sviluppo delle scienze e delle arti. E ha sempre teso verso ciò che di meglio esisteva. È una forza di progresso.» Non resta altro da fare che praticarla.

La principessa Sarah, figlia di re Faysal e della battagliera regina Effat è la «patrona» delle ricamatrici dell’associazione al-Nahda, che ha fondato quarant’anni fa per dare lavoro alle donne meno privilegiate. Poiché il suo obiettivo è da sempre conciliare la modernità dell’istruzione con il patrimonio della tradizione, l’arte in cui vengono istruite è quella del ricamo. E sanno creare veri e propri capolavori. Dopo un’iniziale reticenza una di loro, Aida, madre di due bambini, ammette di aver dovuto lottare con suo marito per ottenere il permesso di lavorare: «Lui voleva che stessi a casa, ma un solo stipendio non bastava». Pur non essendo istruita, grazie al suo impiego Aida, come molte altre compagne, ha potuto difendere la propria autonomia economica. Certo non tutte sono fortunate come lei, che ha incontrato una principessa disposta non solo ad assumerla, ma anche a offrirle un servizio di accompagnamento. Per chi ha a disposizione macchine di lusso e un esercito di autisti il divieto di guidare non è un problema, ma per le meno abbienti significa spesso non poter lavorare, fare la spesa o andare dal medico. «Se non ci fosse al-Nahda, dovrei chiedere a mio figlio, a mio fratello o a mio marito. Per poter cambiare è fondamentale poter guidare. Io sarei la prima a farlo!»

Ed è altrettanto importante far sì che le donne credano di più in se stesse. Come mi aveva detto la principessa Sarah: «Sono fiera dei passi avanti compiuti nell’istruzione gratuita per tutti. Ma per essere libere non è necessario andare in giro mezze nude. È questo che voi in Occidente non volete capire». Dalle abili dita di queste donne è uscito un regalo che la principessa Sarah mi fece due anni fa, davvero prezioso, per il materiale utilizzato e per la sapienza artigianale della sua fattura. Un kaftano di velluto di seta color porpora tempestato di ricami in filo d’oro, tutto rigorosamente fatto a mano: il frutto di secoli di un’arte sapiente. Purtroppo era troppo grande per me e mi pendeva addosso come un tendaggio. A sfoggiarlo oggi è la mia cara amica e collega Angela Rodicio, che grazie a un sarto intraprendente, lo ha trasformato in un originale tubino da sera, perfetto per le notti madrilene.

È alto e bello nella sua dishdasha bianca. Indossa il tradizionale ghutra a scacchi rossi e occhialini da intellettuale. Ha un viso dai tratti eleganti, baffi sottili e occhi intelligenti. Mi avvolge di nuovo il profumo sfuggente dell’aoud, e lo individuo in un fumo aromatico che si leva da piccoli bruciatori d’incenso. Lui è un principe arabo della famiglia reale più ricca del mondo, i Saud. Lo chiamerò B. per difendere la sua riservatezza. E per raccontare una storia d’amore, romantica e triste, che dà degli uomini orientali un’immagine un po’ più fiabesca di quella che abbiamo abitualmente. Potrebbe iniziare come nelle Mille e una notte: c’era una volta… e continuare in un Paese di sabbie in cui il denaro ha fatto sorgere palazzi in mezzo al deserto, dove i sogni e i capricci più folli possono realizzarsi, dove il vizio convive con l’ascetismo e sembra difficile conservare il senso delle proporzioni. B. sta lottando per ritrovarlo. «La cosa più difficile è stata spiegare ai miei figli che mi ero sbagliato e che avevo deciso di divorziare una seconda volta, dopo appena un mese e mezzo di matrimonio» mi racconta, seduto sul bordo della sua piscina. Jacques e io siamo nel suo giardino di aiuole fiorite e beviamo menta fresca, mentre lui ci apre il cuore con straordinario candore. Ha tre figli nati dal primo matrimonio che studiano all’estero. Ha vissuto in Europa e negli Stati Uniti e parla correntemente non solo l’inglese, ma anche il francese e l’italiano. Tra i suoi autori preferiti cita Camus, García Márquez e Umberto Eco. Conosce i migliori ristoranti d’Europa, ma anche i piccoli bistrot di Parigi o i localini di Milano. Come ogni buon musulmano non beve, almeno così dice, ma è in grado di ordinare per i suoi amici i più grandi vini e le migliori annate. Racconta ridendo la sua caccia ai grand cru di Borgogna, per il solo piacere di offrire ai suoi invitati le delizie di un buon bicchiere. Si è sposato molto giovane, rompendo la tradizione dei matrimoni fra consanguinei: lei non solo non era una principessa, ma veniva da un’altra nazione araba. Si sono separati dopo dieci anni. «Siamo rimasti buoni amici. C’è un detto: si vive con la moglie per un attimo e con l’ex moglie per il resto della vita. Ci occupiamo insieme dei figli e certe volte siamo in disaccordo. Mia figlia ha vinto una borsa di studio per un’università americana, ma la madre non vuole lasciarla partire: pensa che sia troppo lontano. Io sono favorevole: è un’occasione da non perdere.» Oggi B. ha quarantotto anni. Riveste un ruolo di responsabilità all’interno del governo e appartiene a quella generazione di amministratori sauditi pronti ad accettare senza complessi le sfide che il Paese deve affrontare. Sa che è necessario adattare il sistema politico e giudiziario alle esigenze di una popolazione molto giovane, esposta a nuove influenze e alla contaminazione straniera. Occorre anche che l’economia riesca a creare posti di lavoro, visto che la rendita petrolifera spinge all’indolenza e alimenta una tendenza all’assistenzialismo. È favorevole a un inserimento paritario delle donne nel mondo del lavoro. E vorrebbe cambiare l’immagine del suo Paese, presentato

come retrogrado dai media occidentali: c’è bisogno di menti illuminate, capaci di spiegarlo a stranieri di passaggio. Mi racconta che una delle sue ambizioni è aprire un salotto letterario accessibile a tutti, dove chiunque abbia voglia di parlare di un libro che ha letto, amato o detestato, possa prendere la parola. Tuttavia in questo tranquillo giovedì, alla vigilia del fine settimana, il principe è lontano dalle preoccupazioni politiche e totalmente concentrato sulle sue delusioni amorose. Due anni fa, ci racconta, di passaggio a Parigi si imbatté in una cugina che stava cenando con la madre. «Non le ho prestato troppa attenzione, ma quando sono tornato a Riyad ci siamo rivisti e mi sono sentito sempre più attratto da lei. Mi sono innamorato.» Anche la donna che il suo cuore ha scelto, stavolta in armonia con la tradizione, è divorziata e senza figli. Dato che proviene dalla famiglia reale, non ci sono ostacoli alla loro unione. Decidono di sposarsi. B. per lei vuole il meglio e si mette a caccia di una villa, vicino a quella dove abita la madre della futura sposa, in un tranquillo e ricco quartiere della capitale saudita. La ristruttura amorevolmente per rispondere a ogni esigenza della donna con cui vuole vivere per il resto dei suoi giorni. Supervisiona la sistemazione del giardino, lo riempie di una profusione di fiori. Fa costruire una dépendance che ospiti gli appartamenti dei domestici al servizio dell’amata. B. ci mostra anche l’immenso guardaroba che doveva accogliere gli abiti della moglie, ora desolatamente vuoto. Mentre si confida con Jacques, chiacchiero con il suo amico francese, da vent’anni sarto di fiducia dei maschi della famiglia reale. In tanti anni ha assistito ai capricci più sfrenati, come quando, volato a Londra per prendere le misure ai principi, ha dovuto imbarcarsi all’istante sul loro aereo privato, un Boeing superaccessoriato. Destinazione Aspen, la più modaiola delle località sciistiche statunitensi. Agli aristocratici clienti era venuta improvvisamente voglia di una giornata sugli sci. Ma ora l’amico è soprattutto preoccupato per il cuore infranto di B.: in tanti anni non lo ha mai visto così spento, disperato, umiliato. È lui a raccontarmi quello che mi appare come un episodio emblematico, un imperdonabile affronto. Il fidanzato, tra i molti doni, decide di far recapitare alla sua promessa una stupenda Mercedes 600, ultimo modello, piena di rose rosse. Ma il dono torna al mittente: non ci sono schermi televisivi sul retro dei sedili anteriori, come può la passeggera intrattenersi? Quando si dice che mancano gli optional. «Ci siamo sposati, siamo partiti per il viaggio di nozze e allora è iniziata una vera discesa all’inferno» racconta il nostro amico, sconsolato. La coppia vola ai Tropici e appena arrivati su quelle spiagge da sogno la sposa si ammala. E chiede al marito di lasciarla tranquilla. «Sempre la stessa storia, a ogni sosta. Trovava sempre una scusa per allontanarsi da me.» All’inizio B. le inventa tutte per giustificare questo comportamento, del tutto assurdo per una luna di miele. Forse è l’emozione, forse il passaggio difficile dalla vita tranquilla e coccolata che conduceva con la madre alle responsabilità di sposa e padrona di casa. Oppure lo spaesamento, la fatica del viaggio, il cibo… «Ma quando siamo tornati a Riyad le cose non sono affatto migliorate, anzi: mi ha chiesto di lasciarla dalla madre in modo che potesse prendersi un po’ di tempo prima di trasferirsi nella nostra casa. E allora ho capito.» Quella non era la donna per lui. Era chiaro che non provava i suoi stessi sentimenti. Evidentemente i momenti trascorsi insieme prima delle nozze, nella rigida cornice saudita, non avevano permesso di misurare la distanza che esisteva tra loro. «Ho chiesto il divorzio. Mia figlia mi ha chiesto perché non avesse funzionato. Non volevo entrare nei dettagli, ma lei ha insistito. E ho dovuto confessare che tra di noi non era successo niente.» B. cura le pene d’amore nella sua bella casa, salvato dal lavoro e dalla lettura. Si è immerso nel capolavoro di Cervantes, Don Chisciotte della Mancia. «Ho letto la versione inglese, ma quella in arabo in due volumi è decisamente migliore» commenta. E intanto si chiede chi gli darà dei consigli per appendere le decine di quadri raccolti durante i suoi viaggi. Il principe infelice si tormenta notte e giorno con la stessa domanda senza risposta: perché lei non ha ricambiato il suo amore? Personalmente non riesco a comprendere: non solo è un uomo di straordinaria bellezza, ma tutta la sua

storia di passione, generosità e devozione sembra uscita da una favola. Jacques, più pragmatico e sicuramente meno accecato dall’aspetto fisico del nostro ospite, propone invece una spiegazione freddamente psicologica: secondo lui, B. ha semplicemente proiettato su quella donna tutte le qualità che voleva ritrovare nella sua compagna ideale. Per questo si è sbagliato sulla sua vera natura. «Non ti sei innamorato di lei,» dice perentorio al principe «ma di un’immagine della donna perfetta che vorresti avere accanto.» B. ascolta pazientemente e cerca un po’ di conforto nell’ironia: «La mia storia assomiglia a un brutto film di Louis De Funès». Una favola senza lieto fine.

CAPITOLO 20 I PETALI DI TAIF Q UANDO DOPO LA MORTE della moglie Khadija e dello zio Abu Talib il Profeta sentì montare contro di sé l’ira vendicativa dei Quraysh, si rivolse a una città a sud-est della Mecca per cercare asilo e protezione: Taif. Nel 620, dopo un viaggio di un centinaio di chilometri, chiese udienza ai capi locali. Fu ricevuto ed espose le ragioni della sua fuga, e i princìpi della nuova religione. Non ebbe molto successo: le élite dell’altopiano temevano di attirarsi la collera dei loro potenti vicini e lo cacciarono. Nelle strade venne attaccato da una folla inferocita che lo prese a sassate. Quando fu fuori dalla portata degli assalitori, si fermò, coperto di sangue, in una vigna. I proprietari lo accolsero e lo curarono e infine gli regalarono un grappolo d’uva. Fu allora che Maometto pronunciò le parole che avrebbero composto il primo versetto del Corano: «Bismillahi ar-Rahmani, ar-Rahimi», in nome di Allah, il clemente, il misericordioso. Ai giorni nostri queste parole vengono ripetute nelle preghiere, scandiscono le azioni quotidiane dei musulmani e aprono le prediche e i discorsi pubblici. Sono usate persino sugli aerei per salutare i passeggeri e augurare un buon volo. Dieci anni dopo la disastrosa visita di Maometto, nel 630, gli abitanti di Taif si convertirono all’Islam. Oggi la città, a quasi 2000 metri di altitudine, è un’oasi di frescura durante i mesi più caldi dell’anno. Molti membri della famiglia reale si trasferiscono qui in estate per sfuggire alla calura di Riyad o di Gedda. Sulle alture circostanti si intravedono ricchi palazzi, nascosti da decine di ettari di parchi lussureggianti. Oltre all’uva che dissetò Maometto, ogni varietà di frutta cresce nella regione, famosa come paradiso degli agrumi. Tuttavia se Jacques e io, in questa calda mattinata, ci ritroviamo a chiedere indicazioni nei sobborghi di Taif, non è per calcare le orme del Profeta. Siamo alla ricerca di una merce rara e preziosa, un liquido, sinonimo di Arabia molto prima che dalla sabbia del deserto sgorgasse il petrolio. Un prodotto che costa otto volte più dell’oro. Qui lo chiamano attar. Ci basta pronunciare questa parola e ci indicano immediatamente dove trovarlo.

Jahjah compie gli stessi gesti da quando aveva sette anni. È un ometto curvo che non saprebbe più dire la sua età, e quando qualcuno gliela chiede esita tra i sessantacinque e gli ottanta. Una camicia a quadretti copre il busto magro, indossa un paio di calzoncini corti e ai piedi semplici ciabatte. Sotto le alte volte del cortile coperto che funge da laboratorio, regna su un mondo di fuoco e acqua. Come un funambolo salta da un alambicco all’altro, verificando la tenuta di una guarnizione o l’intensità delle fiamme di un bruciatore a gas. Impartisce rapidi ordini che sovrastano il brontolio di grandi torciere e dell’acqua in ebollizione. Una squadra di operai più giovani lo segue e obbedisce senza

discutere. Jahjah non è mai andato a scuola, non sa leggere né scrivere ma ha un talento unico: produce l’attar più puro, più profumato e più prezioso. È l’uomo che fa piangere le rose e sa estrarre dai loro petali le lacrime più limpide. Trasforma migliaia di fiori in acqua odorosa e in quell’olio essenziale, l’attar per l’appunto, di cui pochi grammi valgono una vera fortuna. Nella regione di Taif ci sono circa 2000 piantagioni di rose e la varietà più pregiata è la «Rosa di Taif». La coltura e la distillazione di questo fiore erano già praticate nel IX secolo nel Sud della Persia. Nel Duecento le attività furono trasferite a Damasco e gli Ottomani le introdussero nella penisola arabica nel XVI secolo. Taif, già nota all’epoca del Profeta per i suoi frutteti, ha conquistato la reputazione di città delle rose. Da duecento anni niente è cambiato in questi laboratori, di proprietà della famiglia Ghadi, dove Jahjah e i suoi operai distillano i petali di rose come facevano i loro antenati. Migliaia di fiori vengono messi in vasche di rame da 120 litri, piene per metà di acqua. La miscela bolle per almeno sei ore e il liquido di condensazione viene raccolto in bottigliette di vetro. Il risultato di questo primo decotto – l’acqua di rose – viene rimesso a bollire e sulla superficie del nuovo prodotto di distillazione inizia a formarsi una sottile pellicola grassa: è l’olio di rose, l’attar. La preziosa essenza viene prelevata con una siringa e messa a riposare. Tutto viene fatto a mano, mi confida uno dei fratelli Ghadi, che custodisce nei suoi armadi boccette di grande valore: «Potremmo comprare macchine per automatizzare il lavoro, ma non ci fidiamo. Temiamo che rovinino la purezza degli aromi». Le ultime impurità vengono filtrate e il liquido travasato in flaconcini da cinque millilitri, la tula, poco più di 11 grammi che valgono molto più del loro equivalente in oro. Una tula di attar costa in media tra i 400 e i 600 euro. Ci vogliono 20.000 fiori per produrne una e nelle vasche dei fratelli Ghadi sono passati miliardi di rose. In piena stagione di raccolta, durante i mesi di marzo e aprile, la vita nella regione di Taif è ritmata da quella breve e fragile dei boccioli. Sono speciali: hanno 30 petali, con una sfumatura indefinibile tra il rosa e il bianco, e il loro profumo è molto intenso, ricco di sole e di vento. Vengono raccolti all’alba, prima che la luce forte del giorno li rovini. I contadini scartano quelli seccati dal freddo della notte e consegnano il resto in grandi sacchi di juta alla sede dei fratelli Ghadi. Seduti sui tappeti di una fresca anticamera, tappezzata di piastrelle in ceramica decorata a motivi bianchi e blu, uomini in ghutra contano i fiori uno a uno. Li trasportano poi in grandi cesti verso la sala degli alambicchi, lasciandoli sul tappeto di un’ampia alcova circondata da panchine. Ci sediamo in questa stanza da cui è possibile seguire i lavori. Beviamo un tè bollente e Jahjah mi invita con un cenno a sdraiarmi nella montagna di rose sul pavimento. Esito, ma non riesco a resistere. Jahjah si diverte a far piovere petali di rose sulla mia testa e Jacques scatta una salva di foto tra le risate dei nostri compagni di viaggio. Non capita tutti i giorni, un bagno di rose! È stata la mia amica Laura Tonatto a consigliarmi questa visita a Taif, aiutandomi a organizzarla. Lei era venuta l’estate scorsa, su invito dell’associazione filantropica al-Nahda. Le principesse che la animano avevano sentito parlare di Laura, famosa in tutto il mondo per il suo «naso» straordinario. Crea profumi esclusivi e le reali saudite le avevano chiesto di inventare una fragranza utilizzando le rose di Taif. Per produrla sarebbero state impiegate le donne aiutate dall’organizzazione, con l’obiettivo di offrire un lavoro e un reddito. Quando ho lasciato l’Arabia Saudita il progetto era ben avviato e aveva suscitato anche l’interesse di alcuni investitori. Più tardi un giovane agricoltore, Nasser, ci mostra il suo campo di rose sulle alture di Taif: mi sembra di trovarmi in un frutteto nel cuore delle Alpi, da qualche parte in Europa. Siamo a oltre 2000 metri, in un angolo di verde allietato dal canto degli uccellini. Una pompa azionata da un grande motore diesel estrae l’acqua dal ventre della montagna e irriga la terra ricca e compatta, per far spuntare una distesa di roseti. È un’immagine del tutto inattesa per questo Paese in cui più che i cespugli di rampicanti svettano i pozzi di petrolio. Qui siamo molto lontani dai principi dell’oro nero, dalle loro difficili relazioni con l’Occidente e dalle complicate alleanze con i predicatori wahhabiti. Ci troviamo in un’Arabia che ha il senso della propria eternità e del

legame speciale che la unisce all’uomo che ha segnato per sempre il suo destino. I racconti della vita di Maometto vengono ancora narrati, di generazione in generazione, come storie vive, inscindibili dal presente: «È qui che il Profeta è stato cacciato a colpi di pietra» mi dice Nasser a voce bassa. Per lui il tempo trascorso non conta, e ancora sente di doversi scusare per ciò che successe a Taif nel 620.

Rimasta senza rivali dopo l’eliminazione dei figli di Ali, la dinastia degli Omayyadi era uscita vincitrice dalle lotte per la successione. Dalla capitale Damasco riuscì a creare un vasto e incontrastato dominio: tra il 660 e il 750 estese il proprio potere dalla Spagna meridionale all’odierno Afghanistan. Per la prima volta, con loro, l’Islam divenne un impero. Ma la dinastia durò poco meno di un secolo: nel 750 quasi tutti gli Omayyadi vennero uccisi, in una rivolta che portò al potere un discendente del Profeta, Abu al-Abbas. Pur invocando la purezza e il ritorno alle origini, gli Abbasidi, come i loro predecessori, ripresero a regnare come sovrani assoluti sull’Islam. I califfi abbasidi, sciiti, si convertirono al sunnismo e trasferirono la capitale da Damasco a Kufa, a quel tempo una città di guarnigione. E poi a Baghdad. Ma anche il loro impero era destinato a disgregarsi sotto la spinta di sovrani che premevano per imporsi: dai Fatimidi al califfato autonomo di Spagna, fino a Saladino nel XII secolo. Di fronte alla frantumazione dell’Impero abbaside, gli arabi cercarono nella religione un senso di appartenenza. Non solo quindi formalizzarono la Sharia, ma consolidarono la comunità degli ulema, i dottori della legge, e crearono scuole religiose: le madrasa. Gli emiri passavano, ma gli ulema restavano, unica autorità stabile per un popolo alla ricerca di un’identità. E il rispetto della legge sacra apparve come l’unica risposta alla corruzione del sistema politico. Una simile visione conservatrice assicurava la pace sociale, ma a discapito tanto dell’equità quanto del progresso. Contemporaneamente, un mondo islamico indebolito era una forte tentazione per chi mirava a conquistarne i territori. Le Crociate cristiane, a partire dall’XI secolo, furono un chiaro esempio, come pure l’invasione dei mongoli all’inizio del XIII secolo con il saccheggio di Bukara (1220) e Baghdad (1258) e infine, prima del tramonto della dominazione mongola, la distruzione di Damasco (1401). I mongoli lasciarono un’impronta destinata a restare. Posero definitivamente termine alla dinastia abbaside, divisero l’Impero in quattro regioni, istaurarono ovunque la loro legge militare e proibirono ogni attività di studio, giudicata potenzialmente sovversiva. Distrussero sistematicamente tutta la ricchezza intellettuale: i libri, le biblioteche, le università, in poche parole il sapere. Di fronte alle loro devastazioni, gli ulema organizzarono la resistenza e cercarono di salvare il salvabile. La furia devastatrice degli invasori ispirò un bisogno di preservare almeno pochi princìpi e testi fondamentali. In particolare la Sharia fu considerata inalterabile: così si chiusero definitivamente le porte dell’ijitihad, l’arte dell’interpretazione. Le madrasa si concentrarono sulla memorizzazione dei testi, delle leggi, degli insegnamenti del passato piuttosto che elaborare strategie di adattamento alle nuove condizioni. Il rinnovamento venne dall’Anatolia. Un clan locale cominciò una lenta conquista che a partire dal XV secolo e fino alla fine della Prima guerra mondiale avrebbe costruito un nuovo potere in nome dell’Islam. Erano gli Osmani. Diedero vita all’Impero ottomano che si estese sul mondo arabo, l’Africa del Nord e una parte dell’Europa. Avrebbero regnato sul Cairo, Baghdad, Atene, Gerusalemme e Damasco, come pure su Budapest, Belgrado, Sofia e Bucarest. L’Impero raggiunse il suo apogeo sotto il regno di Solimano il Magnifico nel XVI secolo. L’architettura, le arti, le scienze conobbero una vera fioritura, tale da far invidia alle capitali europee. All’epoca l’Impero ottomano non aveva rivali nel mondo. La Sharia si impose come legge ufficiale per amministrare la giustizia. Gli ulema e i professori delle madrasa divennero funzionari statali, con un ruolo istituzionale. A Oriente gli ulema sciiti, fedeli alla loro tradizione contestataria, conservarono l’indipendenza dallo Stato,

gettando le basi per quella che nel 1979 in Iran diventerà la prima rivoluzione popolare islamica. Invece nell’Impero si aggravarono le tensioni tra una minoranza ricca e potente e una società operosa, ma privata di qualunque prospettiva. È in questo contesto che apparvero uomini come Muhammad Abd al-Wahhab, che si proponevano di combattere la corruzione e ritornare a una lettura fondamentalista del Corano. L’Impero ottomano iniziò il suo declino nel XVIII secolo, proprio quando il predicatore Wahhab e lo sceicco Ibn Saud si incontravano nel deserto del Najd.

Il conflitto tra potere e giustizia è soprattutto oggi il cuore del problema in Arabia Saudita e nel mondo musulmano. L’Islam sembra dilaniato tra le sue due anime di bastione del potere e strumento di contestazione. A Riyad, in circostanze quasi comiche, mi renderò conto della straordinaria attualità di questo dibattito. Durante un pranzo ufficiale mi ritrovo seduta accanto a un signore molto dignitoso nella sua dishdasha bianca. Re Abdullah ripone piena fiducia in lui, nello sceicco Turki al-Sudairi e gli ha personalmente affidato una missione. «Dobbiamo sviluppare nel nostro Paese la cultura dei diritti umani» mi spiega. Lo sceicco Turki ha occhi intelligenti e schietti, e tocca appena il cibo che solleciti camerieri gli mettono nel piatto. È presidente della Commissione saudita per i diritti umani, creata di recente dal sovrano per mettere un po’ d’ordine in un ambito in cui le accuse contro il regno sono molto gravi. «Non è facile instaurare un regime di perfetta giustizia» continua lo sceicco. «Il nostro problema è che né i governanti né i cittadini sanno come fare. Ciononostante l’Islam difende i diritti umani: sono il cuore della nostra religione.» Ho incontrato Turki, insieme a una delegazione di membri della sua Commissione, in un campus universitario ultramoderno all’ingresso di Riyad. Percorriamo insieme viali ombrosi, rinfrescati da fontane, tra enormi edifici di cemento e vetro. Sono stata invitata per una visita straordinaria all’Accademia per la sicurezza, un’istituzione unica nel suo genere in questa parte del mondo. Ospita migliaia di ufficiali provenienti da tutti i Paesi arabi, e i suoi professori sono i migliori specialisti statunitensi ed europei. In alcune vetrine sono allineati studi pubblicati dall’Accademia: Terrorismo: cause, forme e punizioni nell’Islam, Il terrorismo nello Yemen o Come procedere a un’espulsione secondo i dettami dell’Islam. «Ci occupiamo della sicurezza in tutti i suoi aspetti» mi spiega uno dei responsabili dell’istituzione, Saker alMokayad. Inchieste di polizia, mantenimento dell’ordine, interrogatori, lotta contro lo spaccio di droga o banconote false, qui si insegna di tutto: 41 diverse specializzazioni e corsi di laurea che arrivano fino al dottorato. Non mi sfugge l’aspetto paradossale: gli onorevoli membri della Commissione per i diritti umani vengono ricevuti nei luoghi in cui i servizi di sicurezza, puntualmente criticati per i loro metodi violenti fino alla tortura, mettono a punto la propria arte. Chiedo a Saker se i mutawwa vengono a fare lezione qui. Il mio tono è leggermente sarcastico e lui esita a rispondere. Alla fine mi spiega che i miliziani barbuti sono bravi ragazzi zelanti che vanno capiti! Ho l’impressione che lo sceicco Turki abbia ancora molto lavoro da fare. Quando mi informo su quali siano le denunce più frequenti che riceve la Commissione, ammette: «La maggior parte riguarda gli abusi dei rappresentanti della pubblica amministrazione, soprattutto dei mutawwa». E i casi di violenza contro le donne? «Sì, sono molti. Il problema principale è l’ignoranza. Bisogna assolutamente lavorare per una maggiore consapevolezza del rispetto dei diritti umani, così come la nostra religione richiede. Quindi il nostro impegno sarà nelle scuole, nelle moschee, negli uffici pubblici.» Nel frattempo, guidata dai miei ospiti, sono scesa in un seminterrato, uno stanzone rettangolare più lungo che largo. In fondo vedo alcune sagome umane: è un poligono di tiro. In un silenzio vagamente inquietante mi viene

offerta una pistola nera, calibro 9. Avevo già sparato, con il fucile di un amico cacciatore, ma questa è un’arma diversa. Mi spiegano come reggerla e come puntarla, scelgo la mia «vittima». Fuoco! Il primo colpo lo raggiunge alle gambe, il secondo alla testa. L’ho ucciso. Mi tolgo le cuffie antirumore e guardo il drappello di uomini intorno a me – improvvisamente mi sembrano un po’ preoccupati. Sorrido dolcemente restituendo l’arma, ma ho un vago senso di nausea. Le mie esperienze di giornalismo di guerra non mi hanno abituata alla morte, né vaccinata contro l’orrore delle armi. Anche se l’istruttore mi garantisce che ho «passato l’esame» e mi prenderebbe volentieri come allieva, sento che sparare non diventerà mai il mio sport preferito. Preferisco continuare a fare jogging con Jacques. Mentre risaliamo verso la luce del parco, per finire in bellezza l’incontro ho un’altra domanda imbarazzante per il presidente della Commissione per i diritti umani: perché non c’è nemmeno un membro donna? La risposta è più sconfortante del previsto: «Avremo un dipartimento femminile, tra quattro anni. Stiamo cercando la sede adatta, perché quella attuale è organizzata per ospitare solo uomini. Dobbiamo rispettare l’obbligo di segregazione». Lo sceicco Turki mi guarda e ammette: «Non siamo una società moderna. Fino a settantacinque anni fa l’Arabia Saudita non era altro che un pugno di tribù, sparse nel deserto e in lotta tra di loro. Non eravamo nemmeno un Paese».

CAPITOLO 21 ARAMCO CITY L ASCEREMO L’ARABIA SAUDITA passando per Dhahran, al confine con il Bahrein, nella parte orientale del Paese. La città, bagnata dalle acque del Golfo, forma con Dammam e Khobar un vasto agglomerato di oltre un milione di abitanti che si estende su decine di chilometri. Abbiamo avuto la brillante idea di prendere il treno, un po’ per un mal riposto romanticismo ferroviario, un po’ sperando di incontrare altre voci e volti genuini per la mia inchiesta. Gravissimo errore. Ci toccano quattro ore di viaggio attraverso un deserto implacabile. Nostro unico conforto, non da poco, è un «cestino della merenda» che ci ha portato, a sorpresa, un emissario del principe B. Subito prima che salissimo in carrozza un suo collaboratore alto e cerimonioso ci è apparso davanti e ci ha consegnato un frigorifero portatile e un enorme cesto pieno di leccornie. Ripenso sempre più allibita alla fidanzata crudele di quest’uomo straordinario: lei forse glielo avrebbe rimandato indietro perché manca il caviale. In compenso ci sono morbidi panini imbottiti e dolci ai semi di papavero, caffè, tè e spremuta fresca d’arancia: potremmo sfamare l’intero convoglio ferroviario. Peccato che sia vuoto. Jacques e io siamo infatti soli nel vagone, a parte il nostro compagno di scompartimento, un saudita che viaggia per realizzare un documentario sulla falconeria. A quanto pare quest’arte è ancora molto praticata in Arabia Saudita, nei mesi da novembre a marzo. Il deserto è un habitat ideale per i falchi, che volano alti dall’alba allo spuntare della luna, possono individuare la preda da chilometri di distanza e piombano in picchiata ghermendola con i loro artigli affilati come rasoi. E non hanno neanche bisogno di molta acqua, mi spiega infervorandosi il mio compagno: si dissetano con il sangue della preda. È un pensiero tra il raccapricciante e l’eccitante, e le splendide foto che mi mostra sono una testimonianza dell’epoca in cui la simbiosi tra il falconiere e il cacciatore che lo addestrava poteva

decidere della vita o della morte di entrambi. Il profilo crudele del falco e quello fiero del beduino che lo regge sul braccio, coperto da un guanto di cuoio, si confondono davanti ai miei occhi. Sposto lo sguardo fuori dal finestrino. Il treno oltrepassa alcuni cammelli, che sembrano persi nella piatta immensità ma avanzano con passo regolare verso una meta che solo loro possono individuare. Abbiamo lasciato Riyad senza avere avuto la possibilità di condividere con i nostri amici sauditi uno dei loro passatempi preferiti: la corsa dei mehari, i cammelli. Queste gare si svolgono alla periferia della capitale, e in altri luoghi del regno, ogni fine settimana, e attirano migliaia di curiosi. È l’occasione per organizzare grandi feste e per trascorrere lunghe notti sotto un cielo stellato a fumare il tabacco dolce delle pipe ad acqua. E a farsi cullare dalla nostalgia di un’era cancellata dalla ricchezza. Capisco che ci stiamo avvicinando alla nostra meta quando vedo, in mezzo alla sabbia, una specie di fiamma liquida rossa e nera. Il petrolio è così abbondante che sgorga spontaneo dalla terra. Dhahran è la città dell’oro nero, ma anche della guerra. Dopo la scoperta, negli anni Trenta, di enormi riserve di greggio i due concetti sono diventati inseparabili. Da quel momento il libero accesso alle risorse energetiche del Medio Oriente è stato l’elemento cardine della politica dell’Occidente. La crescita sfrenata dei consumi ha rafforzato la dipendenza dal petrolio dei Paesi sviluppati, e Dhahran è il simbolo di questa relazione pericolosa: l’onnipotente Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo, ha sede qui. Ed è qui che si è insediato, nel 1990, il quartier generale dell’operazione Desert Storm, che ha consentito di scatenare la prima guerra del Golfo. Centinaia di aerei militari hanno preso possesso del cielo, pattugliando lo spazio sopra il maggiore giacimento del globo, Ghawar, a sud-ovest di Dhahran. Flotte di navi da guerra hanno difeso le rotte strategiche dello stretto di Hormuz, la principale arteria energetica delle nostre società assetate di greggio. Centinaia di migliaia di militari, in maggioranza americani, si sono dispiegati tra le dune circostanti. Nel gennaio 1991, quando iniziò l’offensiva contro Saddam che aveva invaso il Kuwait, le telecamere del mondo intero erano puntate su questa città: il dittatore iracheno l’aveva scelta come bersaglio per i suoi Scud. Durante le sei settimane del conflitto, l’Iraq lanciò 46 missili contro le forze straniere concentrate in Arabia Saudita e 42 contro Israele. Fecero più rumore che male, fino al 25 febbraio, poco prima della fine della guerra. Quel giorno uno Scud esplose su una base americana uccidendo 28 militari. I missili iracheni non hanno cambiato il corso della storia, dato che l’esercito presentato come il quarto del mondo dalla propaganda americana è stato sconfitto in 100 ore di offensiva terrestre, ma hanno comunque lasciato un segno: gli Scud hanno aumentato un generale senso di vulnerabilità nei regimi, ricchi ma militarmente deboli, della regione. E hanno fatto venire il mal di pancia ai sauditi: la protezione di Washington era più che mai giustificata, ma si sarebbe rivelata terribilmente onerosa. L’establishment religioso ultraconservatore insorse: come poteva il re permettere ai soldati infedeli di calpestare il suolo più sacro dell’Islam? Gli ulema, costretti a cedere, imposero rigide regole: niente alcol, niente servizi religiosi – soprattutto ebraici – e una tenuta decorosa per le donne. Il mio amico di Riyad, il dottor Khalil al-Khalil, mi ha raccontato un aneddoto divertente, su una soldatessa che era andata a fare una passeggiata in un grande centro commerciale della capitale saudita. Era nera, alta e robusta. E il mutawwa che quel giorno le stava alle costole sembrava decisamente magrolino. Forte del suo ruolo, l’ammoniva: «Copriti le braccia e il volto». La massiccia guerriera cercò di ignorare il miliziano del vizio, ma alla fine gli lanciò un sonoro «Lasciami in pace!». Lui non si diede per vinto, finché la soldatessa esasperata si voltò, afferrò il piccoletto, lo sollevò da terra e lo scaraventò nella fontana al centro della galleria. «Ti avevo detto di lasciarmi in pace» borbottò. «Tutto intorno la gente applaudiva e rideva» ricorda Khalil. Nemmeno lui è riuscito a trattenere le risate mentre me lo raccontava. Un altro uomo, in quel periodo, non rideva affatto: si chiamava Osama bin Laden. Da quando, negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, il padre aveva lasciato gli altipiani bruciati dal sole dell’Hadramaut, nello Yemen, aveva fatto fortuna: era diventato uno dei maggiori imprenditori del regno. E Osama era l’erede dei milioni

di dollari dell’impero familiare, insieme a una decina di fratelli e sorelle. Aveva utilizzato il suo denaro per finanziare la resistenza antisovietica in Afghanistan con il consenso dei servizi segreti sauditi e pakistani. E nel 1990 era venuto a offrire i propri servigi a re Fahd: gli aveva proposto di radunare un esercito di volontari e di andare a combattere le truppe di Saddam Hussein, senza chiamare in aiuto gli infedeli. La sua offerta era stata rifiutata. Da allora ha avuto un solo scopo nella vita: cacciare dalla sua terra gli eserciti dei «nuovi crociati», e punire la dinastia che aveva tradito la fede islamica scegliendo di pagare i servizi di mercenari. Gli americani ricevettero un primo avvertimento con l’attentato alle torri di Khobar, il 25 giugno 1996. Diciannove militari statunitensi furono uccisi quando un camion imbottito di esplosivo saltò in aria nelle vicinanze di una caserma dell’aeronautica. L’inchiesta chiamò in causa gli Hezbollah libanesi, senza tuttavia escludere completamente l’implicazione di al-Qaida. Cinque anni dopo Osama, rinnegato dai suoi ma trasformato in un eroe da milioni di musulmani, avrebbe attaccato i simboli della potenza Usa a New York e a Washington. Mettendo a dura prova, come mai era successo prima, il matrimonio di interesse tra Riyad e gli Stati Uniti. Oggi i militari americani sono più discreti: i piloti occupano basi all’esterno della città e nessuno li vede. Tuttavia l’influenza statunitense si percepisce ovunque: nei ristoranti, nei centri commerciali, nelle stazioni di servizio ma soprattutto all’interno dell’immenso perimetro dell’Aramco. Qui non siamo più in Arabia Saudita: le donne guidano e non indossano il velo; le ragazze giocano a calcio; c’è un cinema e se volete bere un bicchiere mangiando un cheeseburger, nessuno avrà niente da ridire. Sul campo da golf, le macchinine elettriche procedono di buca in buca alla luce bianca di enormi fari alogeni, che rimangono accesi fino a quando gli ultimi giocatori non hanno lasciato il green. L’Aramco è nata nel 1933 e da allora lo sviluppo della compagnia petrolifera ha accompagnato quello del regno. Rimasta per quarant’anni di proprietà di gruppi americani, è stata gradualmente nazionalizzata quando lo sceicco Yamani era ministro del Petrolio. Oggi controlla le più ingenti riserve petrolifere conosciute sul pianeta, con una capacità di circa 260 miliardi di barili. Produce ed esporta circa otto milioni di barili al giorno assicurando al regno la quasi totalità delle sue entrate. E dà lavoro a oltre 50.000 tra ingegneri, tecnici e operai. Waheja al-Huwaider lavora all’ufficio formazione dell’Aramco da oltre dieci anni. Ci incontriamo con una sua amica, la regista Haifa al-Mansur. Quest’ultima, la prima documentarista del Paese, ha realizzato un reportage sulle donne saudite, che ovviamente non ha avuto distribuzione in questo deserto privo di luoghi di intrattenimento. Haifa sposerà tra due mesi un diplomatico americano che per amor suo si è convertito all’Islam. Come Waheja lavora all’Aramco ed è lei che ci ha permesso di superare lo sbarramento della security e penetrare in questa fortezza del potere nero. Waheja era una tranquilla madre di famiglia, separata, che allevava da sola i suoi due figli di quindici e diciassette anni quando, il 4 agosto 2006, ha deciso di scendere in strada anzi, in autostrada, e si è messa a percorrere il ponte che collega l’Arabia Saudita al Bahrein. Portava un cartello: «Re Abdullah, concedi alle donne i loro diritti!». Abitava già nel territorio di frontiera dove, secondo lei, le scuole sono migliori e soprattutto c’è un clima decisamente più liberale. Ci è voluto un po’ prima che un uomo si fermasse: «Perché chiedi diritti per le donne? Nemmeno noi li abbiamo!» le ha gridato. Lei gli ha risposto: «E allora perché non ti unisci a me?». E lui è ripartito. Waheja, una bella donna di quarantasei anni, dai capelli castani e gli occhi verdi, è rimasta sola per venti minuti prima che arrivasse la polizia ad arrestarla. Un ufficiale l’ha spinta nell’auto di pattuglia e ha buttato il cartello nel bagagliaio. «Il poliziotto che mi ha arrestata era molto dispiaciuto, ma non sapeva cosa fare. Mi ha chiesto di chiamare il mio tutore, e dato che sono separata ho telefonato a mio fratello. È arrivato tre ore dopo.» Waheja ha scoperto negli Stati Uniti, dove ha studiato e vissuto per dieci anni, il gusto per la libertà. E il desiderio di battersi per ottenerla. Oltre a lavorare all’Aramco, è giornalista e scriveva articoli sulla condizione delle donne nel suo Paese per i quotidiani «al-

Watan» e «Arab News». «Mentre ero trattenuta dalla polizia, sono arrivati i mutawwa» continua. «Aspettando mio fratello, ho cercato di spiegare le mie intenzioni. Ho detto di pensare alle loro figlie, ai loro diritti. Mi rispondevano citando il Corano e ripetendo che le donne dovevano obbedire.» Waheja, che è sciita, proviene da una famiglia molto religiosa. La madre è addirittura una predicatrice nella loro comunità e il padre è molto conservatore. «Mi ha detto che avevo infangato il nostro nome e che, se avessi dovuto affrontare un processo, non mi avrebbe aiutata a pagare un avvocato!» Alla fine la polizia l’ha lasciata andare. «Tutti erano un po’ sorpresi per quello che avevo fatto e nessuno sapeva come reagire.» Waheja in effetti ha creato un precedente: non ci sono esempi in Arabia Saudita di una donna che si lancia, da sola, in una dimostrazione pubblica. Il regno non è esattamente la patria delle suffragette. Non è nemmeno un covo di rivoluzionari e d’altro canto lei non si considera tale. «Re Abdullah è il miglior sovrano che potessimo desiderare» mi assicura. «La stampa e la televisione saudita non hanno parlato della mia avventura» aggiunge. «Alcuni hanno pensato che volessi solo farmi pubblicità, ma non è così. Invece si è avviato un grande dibattito su Internet, nei forum, nei blog e questo è un fenomeno nuovo.» In particolare su un sito di attualità, dove ha pubblicato un articolo dal titolo lungo e inequivocabile: Appello per le donne arabe: mille volte meglio vivere da single che sposarsi, in questo Odioso Oriente. Nel suo intervento sostiene che «i maschi sauditi sono affetti da un “complesso di impotenza” e hanno bisogno di comandare le donne per sentirsi completi e integri nella loro virilità». In realtà «la terra degli arabi è piena di perdenti, di uomini che non sono alla vostra altezza» dice alle sue concittadine. Waheja è stata privata del diritto di viaggiare e ovviamente di pubblicare. Ha deciso allora di intentare una causa per restituire la libertà di espressione a giornalisti e scrittori imbavagliati dal regime. Il suo telefono è sotto controllo ed è stata convocata dalla polizia alcune settimane dopo la sua protesta, per aver discusso con le amiche la possibilità di organizzarne un’altra. «Ho cercato di spingerne alcune a darci un appuntamento settimanale, ma non sono riuscita a convincerle. Hanno paura, paura di tutto, del resto non c’è da stupirsi: la loro educazione ha esattamente questo scopo. Tuttavia non abbiamo bisogno di donne docili, ma di donne coraggiose.» Così la manifestazione di Waheja è rimasta un caso isolato. Ma non ha perso la speranza di far sentire la propria voce e di scuotere un Paese troppo lento per i suoi gusti. «Resteremo la parte morta della società finché continueremo a correr dietro al rossetto più nuovo o al vestito più trendy.» A suo modo, alimenta la fiamma accesa sedici anni fa da un gruppetto di saudite di Riyad che volevano guidare. Da allora la battaglia per i diritti delle donne è cresciuta e si è estesa su tutti i fronti. Da sole o in gruppo, intellettuali o donne d’affari, principesse o cittadine comuni, le combattenti del deserto sono in marcia e non si fermeranno. Nella terra dell’Islam, impugnano le parole di Maometto per liberarsi dal dominio degli uomini. E il loro impegno – che sia un successo o un fallimento – avrà un impatto storico sul destino dell’Arabia, e della religione di cui il regno è custode. Sono le forze del progresso che combattono le vestigia dell’oscurantismo. Ha ragione Waheja: niente verrà regalato, ma le donne che ho incontrato in questo Paese ancora così misterioso e reazionario non hanno nessuna intenzione di deporre le armi.

L’Impero ottomano, ultimo erede dei grandi califfati, si dibatteva nelle contraddizioni di uno Stato religioso, costretto a violare i princìpi della fede per consolidare il proprio potere. Intanto, l’Europa era lanciata, nel XVII e nel XVIII secolo, in un’eccezionale avventura di sviluppo intellettuale, scientifico, commerciale e ben presto anche politico. Nell’Ottocento le nazioni europee, trascinandosi dietro le colonie americane, avrebbero portato a compimento la rivoluzione industriale che liberava l’Occidente dall’immobilismo dell’economia agricola. Si sarebbe aperto, per poi continuare fino ai nostri giorni, un periodo di modernizzazione e di crescita senza eguali nella storia

dell’umanità. Un elemento chiave del progresso fu la secolarizzazione del potere politico: la separazione netta, voluta dalla Rivoluzione francese, tra Stato e Chiesa. L’indebolimento della supremazia ottomana avrebbe stuzzicato gli appetiti delle nazioni europee per le avventure coloniali. Le società industriali avevano bisogno di espandersi per continuare a crescere e la Sublime Porta faceva sempre più fatica a difendere le sue province in quell’Oriente tanto vicino. Nel 1916 i francesi e gli inglesi firmarono l’accordo Sykes-Picot per dividersi le spoglie dell’Impero, alleato della Germania, che sarebbe uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale. Le terre così conquistate nel Maghreb, in Palestina, in Mesopotamia, nel Golfo e sulle rive del Mar Rosso avrebbero fornito materie prime, nuovi sbocchi commerciali e destinazioni esotiche per i più audaci. Sarebbero state anche laboratori per tentare esperienze accelerate di modernizzazione e «civilizzazione»: un processo per cui gli europei avevano impiegato secoli doveva essere appreso rapidamente, come una lezione, dai popoli della regione. In seguito, l’ipocrisia della politica coloniale nei confronti delle rivendicazioni nazionaliste arabe, la creazione di Israele nel 1948 e l’invasione dell’Egitto nel 1956 segnarono l’inizio di un periodo vissuto dagli arabi come un’umiliazione, che continua fino ai nostri giorni. E l’incontro con l’Europa del colonialismo sarebbe stato accompagnato da un’altra esperienza frustrante: lo Stato nazionale. Nonostante le molteplici identità delle varie province dell’Impero ottomano si trattava pur sempre di un mondo il cui obiettivo era di essere una comunità, una Umma, legata dalla stessa fede e dalla stessa legge. La divisione in singoli Stati, chiusi da frontiere, con sistemi politici, legislativi e giudiziari diversi era un concetto alieno. Tanto più che questi confini furono tracciati dove prima esistevano soltanto solidarietà tribali, familiari o di clan. E furono messi in piedi regimi politici in una regione che conosceva solo successioni dinastiche, il peso della religione e l’obbedienza ai saggi. Le potenze dominanti scelsero e appoggiarono dittatori a loro favorevoli: re docili, primi ministri obbedienti, capi locali legati da un debito di riconoscenza ai signori stranieri che li proteggevano e li finanziavano.

Quali devono essere nel mondo islamico i rapporti tra politica e religione? La risposta era più semplice ai tempi di Maometto: i suoi contemporanei non vedevano alcuna differenza tra le due. La giustificazione divina dell’autorità era necessaria per esercitare il potere. Nello stesso Maometto si mescolavano il Profeta e l’uomo di Stato, messaggero di una nuova religione e araldo di un nuovo progetto sociale. In seguito la questione si è complicata. Il califfo dei sunniti sarà sempre considerato una figura secolare, l’erede politico ma non teologico del Profeta. I re, gli emiri, i principi si appellano al Corano per regnare, ma non hanno la pretesa, né l’impudenza, di affermare che il loro potere deriva da Dio. Traggono la loro legittimità dal principio della successione dinastica: il figlio eredita dal padre. L’imam degli sciiti, invece, nominalmente non ha poteri politici ed è l’espressione spirituale del Messaggero di Dio. Solo la rivoluzione iraniana dell’Ayatollah Khomeini introdurrà un principio nuovo, il welayat-e faqih, il «governo del giudice religioso», dando vita a una teocrazia. Molti sapienti sciiti contesteranno questo principio. Al di là di queste dispute, i punti fermi dell’Islam rimangono i suoi cinque precetti, che conferiscono unità alla comunità dei musulmani a prescindere da lingua, etnia, sesso e ovviamente nazionalità dei fedeli. È un insieme di norme che riguardano princìpi e pratiche: una professione di fede (la Shahadah: non c’è altro dio che Dio) e quattro riti (la preghiera quotidiana, la carità, il digiuno del Ramadan e l’hajj). Di questi cinque pilastri solo il primo è un obbligo assoluto: non si può trasgredire all’affermazione dell’unicità di Dio. Il resto può dipendere dalle circostanze e limitarsi all’intenzione. Per esempio, ci possono essere situazioni in cui non si riesce a pregare cinque volte al giorno. A parte questo, la religione islamica è tutt’altro che monolitica. Le scuole di pensiero, i saggi, gli intellettuali

hanno praticato per secoli l’esegesi, o ijitihad, del testo coranico e degli hadith, i detti e le gesta del Profeta. Le interpretazioni più liberali convivono con quelle più restrittive, come avviene anche nella religione cristiana o ebraica. L’ijitihad ha perso vigore fin dal X secolo, all’inizio del declino abbaside, per interrompersi del tutto nel Trecento, dopo la conquista mongola. Gli sciiti, invece, non hanno mai interrotto l’esercizio dell’interpretazione e l’hanno mantenuta viva attraverso l’instancabile lavoro di riflessione dei mujtahid, i saggi. Oggi «le porte dell’ijitihad» si sono simbolicamente riaperte, sotto la spinta dei musulmani alla ricerca di un rapporto più adeguato tra la loro fede e la realtà del mondo contemporaneo. Alcune correnti di pensiero stanno cercando di ritrovare l’essenza del testo coranico, e tra queste forse la sfida più interessante è proprio quella delle «femministe» islamiche. Per mettere a nudo le costrizioni sociali, culturali e politiche che hanno prodotto nelle varie epoche le letture più misogine, vogliono spiegare il Corano con un occhio femminile, tornando alle origini. Le rivendicazioni delle musulmane hanno molte forme, che si tratti di femminismo dottrinario, dichiarato, o di battaglie più pragmatiche per cambiare le leggi o i costumi. Ma tutte hanno lo stesso obiettivo: sottrarsi al giogo dei maschi.

CAPITOLO 22 LE PERLE DEL GOLFO I L BAR: COSì I SAUDITI CHIAMANO il Bahrein, perché qui possono comprare alcolici e non vigono le severe regole della segregazione sessuale. Anche Waheja ha trovato rifugio nella piccola isola di nemmeno 800.000 abitanti, per godere dei costumi decisamente più aperti che a casa sua. I suoi conterranei arrivano a migliaia nel fine settimana, dopo aver percorso i soli 24 chilometri che separano il regno saudita da quello che per gli antichi sumeri era il paradiso riservato ai giusti per la vita eterna. Nel terzo millennio, tuttavia, sembra interessare di più quella terrena. Si respira più libertà in questo Paese, che ospita la V Flotta americana e che non disdegnerebbe un assaggio dei princìpi democratici occidentali. Mentre sorseggio il mio bicchiere di gin & tonic non riesco a decidere: sarà mezzo pieno o mezzo vuoto? Gli attivisti per i diritti umani spiegano che qui il cammino verso la democrazia è ancora lungo, gli islamisti pensano invece che il programma delle riforme sia fin troppo indulgente. In Bahrein, il governo si trova tra due fuochi, ma le priorità restano ordine e stabilità, cruciali per una monarchia costituzionale ricca di petrolio, che aspira a diventare il più importante centro finanziario islamico della regione. E che fatica a trovare un equilibrio tra la minoranza sunnita, da sempre al potere, e la maggioranza sciita – il 70 per cento della popolazione – ancora fortemente discriminata e sempre più inquieta. Come presidente della Delegazione per le relazioni con gli Stati del Golfo avevo deciso da tempo di visitare il Bahrein. Dal 2002 le donne possono candidarsi alle elezioni, tuttavia alle politiche dell’anno scorso ne è stata eletta solo una. L’emiro che regna sul piccolo Stato, Hamad bin Isa al-Khalifa, ha cercato di bilanciare la situazione nominandone dieci – tra cui una cristiana e un’ebrea – alla Shura, il ramo non elettivo del Parlamento. A casa dell’ambasciatore italiano a Manama, Calogero Di Gesù, che ha gentilmente riunito per me e i miei

colleghi un gruppo di rappresentanti della società civile, il dibattito si fa acceso. A infiammarlo è una donna scomoda, dai modi sbrigativi, considerata una provocatrice dagli islamisti radicali. Si chiama Ghada Jamsheer. La rivista statunitense di economia e finanza «Forbes» l’ha definita una delle dieci donne più potenti del mondo arabo e per il settimanale «Time» è una delle eroine del movimento per la democrazia in Medio Oriente. «Le riforme del governo sono finte e irrilevanti» esordisce mentre si aggiusta la folta chioma di capelli neri, che rifiuta di nascondere sotto un velo. Da presidente del Women’s Petition Committee, Ghada si riferisce soprattutto al dibattito sul nuovo diritto di famiglia, che a suo parere viene utilizzato dai governanti per raggiungere compromessi di bassa lega con l’opposizione islamica. «Non è stato fatto nessun passo importante per approvare la nuova legge, né per liberare le donne dall’arbitrio dei giudici della Sharia» mi spiega accalorata, fumando avidamente la sua sigaretta. «Per far passare norme restrittive contro le libertà personali, invece, non ci sono stati problemi. Il Parlamento non conta niente e la famiglia reale per garantirsi il potere si allea con gli estremisti di entrambe le parti, sunniti e sciiti.» Ne ho una prova quando incontriamo i rappresentanti del Parlamento, che rifiutano categoricamente di affrontare la questione delle divisioni religiose. Secondo loro, l’unico problema nel codice civile – di non poco conto – è che sunniti e sciiti reclamano leggi diverse su divorzio ed eredità. A ognuno la propria interpretazione del Corano. Ghada accompagna le «sorelle» nelle aule dei tribunali, attacca i giudici e le loro sentenze e i mariti che ottengono verdetti a loro favorevoli. Li espone facendone nome e cognome. È convinta che garantire più diritti alle donne significhi più equilibrio sociale e più efficienza politica. Quarantun anni, divorziata con una figlia, questa combattente viene da una delle famiglie più abbienti del Bahrein. Contrariamente al pugno di ferro riservato ai dissidenti, le autorità la trattano con i guanti di velluto. Non le risparmiano però le accuse, come quella di diffamazione della Corte islamica, che la portano spesso davanti ai giudici sebbene non in prigione. Almeno finora. A ricordarle di essere sempre a rischio ci sono le telefonate minatorie e il monitoraggio costante dei servizi segreti. «Loro sanno che adesso sono qui con voi, ma non ho paura» ci confida. «Sappiate che qualsiasi cosa mi accada, è responsabile il re!» dice alzando il tono. La sua voce sembra più ascoltata in Occidente che nel suo Paese, dove il controllo delle autorità politiche e religiose determina ancora il grado di sviluppo di una società anche qui fortemente tribale. Che non ama le donne disobbedienti, autonome e poco inclini al compromesso. E che arriva a detestarle nella loro versione più emancipata. Neppure chi è molto più accomodante, come Latifa al-Kud, gode di un largo seguito. L’unica donna al Parlamento si è infatti dovuta accontentare di un pugno di voti in un collegio elettorale senza rivali, su un isolotto semideserto. Quando nel 2002 si era candidata nel collegio della sua zona di provenienza, dove poteva contare sul consenso di amici e parenti, Latifa era stata sconfitta da un rivale fondamentalista. Uno che come rimedio per la prostituzione suggeriva la poligamia. Ghada la definisce un «fiorellino» con una funzione prevalentemente «decorativa». E lei controbatte a distanza: «Un passo alla volta, la democrazia non si costruisce in ventiquattro ore. La mia elezione è già un inizio». La incontro in Parlamento, completamente avvolta nel suo chador nero e circondata dai colleghi barbuti vestiti di bianco. La signora al-Kud, vicepresidente della Commissione economica, non crede nelle rivoluzioni ma nel cambiamento graduale. Non è certo la prima volta che mi sento esporre questa tesi. Le oltre venti candidate bocciate nel 2006 vorrebbero però un sostegno più esplicito del governo per poter almeno combattere ad armi pari. Ne discuto con una decina di loro nella sede dell’Undp, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo, a Manama. Sono insegnanti, medici, avvocati che non esitano a denunciare brogli e scorrettezze.

«Io avrei vinto se le elezioni non fossero state truccate» accusa Munira Fahkro, docente universitaria laica che ha preso 4000 voti e ha sborsato oltre 160.000 dollari per finanziarsi la campagna elettorale. «I soldi non mi sarebbero mai bastati, perché il mio concorrente dei Fratelli musulmani era ricchissimo. Portava persino gratis gli elettori al pellegrinaggio alla Mecca! Non c’era partita.» Jamila Ali Sammak, una giovane sciita che porta un foulard marrone, racconta come a un certo punto della battaglia gli islamisti radicali sciiti del partito al-Wafaq – in realtà maggioritario, anche se il potere nel Paese è ancora saldamente nelle mani dei sunniti – avessero intimidito gli elettori. «Andavano in giro a dire alla gente che se non votava per al-Wafaq sarebbe andata all’inferno. Hanno persino tentato di convincere mio fratello a votare contro di me!» Incalza Shahzalam Khamis con gli occhi vivaci e l’hijab chiaro: «Il porta a porta da solo non basta. Il governo deve sostenere le donne in politica: con aiuti finanziari, pari opportunità nei media e soprattutto con un intervento sistematico nelle scuole, nelle moschee e nell’informazione. La nostra società non è abituata a donne che rompono gli schemi». E solo loro sanno quanto bisogno ci sia di una ventata di femminilità in un mondo musulmano che tende a ricadere in usanze arcaiche e reazionarie. Al-Wafaq, per esempio, non ha candidato nessuna donna, nemmeno per salvare le apparenze. Lo sottolineo rivolgendomi alla giovane velata seduta alla mia destra. Shaula Shakib è medico e ha fatto tutta la campagna elettorale per il marito, che è stato eletto nelle fila del partito sciita, sempre più forte. «La maggioranza della popolazione in Bahrein è religiosa» mi spiega «e così si tende a dare credito ai leader islamici, che soprattutto nelle zone rurali sono molto conservatori.» Pungolata dalle sue colleghe, Shaula non esclude che in futuro sarà lei a candidarsi e ammette che esiste una discriminazione intollerabile. Ma precisa subito che «la linea rossa della Sharia non va oltrepassata. Mai». «Per esempio?» le chiedo curiosa. «La poligamia, per esempio. Va mantenuta» risponde senza esitazioni.

Sfrecciando sulla litoranea di Doha, la capitale del Qatar, osservo due grattacieli che in lontananza si stagliano nell’aria torrida. Li stanno costruendo all’ingresso della penisola su cui sorge l’hotel Ritz Carlton: l’ennesimo progetto immobiliare in una città che è un unico enorme cantiere. I loro contorni tremolano e vacillano come un miraggio in mezzo al deserto. Una tipica illusione ottica, mi dico. Tuttavia, avvicinandomi, mi rendo conto che sono stati proprio disegnati «come» dei miraggi: al posto della solita struttura rettilinea, gli architetti hanno adottato linee sinuose, e le facciate di cemento ondeggiano come una visione nata dalle roventi sabbie dell’Arabia. Sono fatti a immagine e somiglianza del piccolo emirato: il Qatar esita tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere. Tra la realtà di uno Stato microscopico, la cui sopravvivenza dipende dalla benevolenza dei vicini e dei potenti protettori occidentali, e l’ambizione di diventare il laboratorio di un mondo arabo che sposa la modernità. Diventato indipendente nel 1971 questo Stato, costruito su un’enorme bolla di gas, oggi spende i suoi colossali redditi per poter esistere. Dal 1995 sotto la guida dell’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani, per ritagliarsi un posto tra le mini-nazioni del Golfo ha puntato su due settori: l’immobiliare e la materia grigia. Progetti grandiosi si sviluppano a Doha, il cui orizzonte è punteggiato di gru e di edifici in costruzione. Giorno e notte, eserciti di manovali fanno sorgere dalla terra arida nuovi fabbricati. I cantieri sono illuminati da enormi fari e il rumore dei macchinari non smette mai. In un’atmosfera soffocante, carica di polvere, i muratori venuti dal subcontinente indiano innalzano, per pochi dollari al giorno, i palazzi di quella che aspira a diventare la nuova capitale economica del Medio Oriente. Milioni di metri quadrati di uffici verranno ad aggiungersi a quelli che già offrono Dubai o Abu Dhabi. Le

autorità hanno concentrato i loro sforzi sulla creazione del Centro finanziario del Qatar, una sorta di Wall Street araba. E sono convinte che le società straniere si lasceranno conquistare dalla stabilità del regime, dalla sua sbandierata apertura, da un sistema fiscale vantaggioso. E arriveranno in cerca di affari. Al largo di Doha, una nuova penisola è stata strappata al mare per un progetto residenziale di inarrivabile sfarzo: si chiama «The Pearl» e propone appartamenti di lusso, ville con piscina, porticcioli turistici, campi da golf. Le prime consegne sono previste per il 2010. Tuttavia i Thani, e in particolare la seconda e preferita delle tre mogli dell’emiro, la sceicca Mozah, hanno altre ambizioni. Hanno inaugurato la Città della Scienza e delle Tecnologie per fare dell’emirato un centro di eccellenza. Vogliono attirare le società del settore, per assicurare il futuro del Paese quando il gas e il petrolio saranno finiti. E hanno creato anche la Città del Sapere dove vengono accolte le più prestigiose università del mondo. Ho incontrato la sceicca Mozah alla cena di gala della conferenza internazionale su «Democrazia e libero scambio» a Doha. Alta e snella, era elegantissima nell’hijab nero da cui spuntavano pendenti di rubini e brillanti. Non è più giovanissima, ma il bisturi e la sua naturale avvenenza la rendono una donna di grande fascino. È riconosciuta come uno dei principali artefici dell’apertura del Qatar, del crescente peso delle donne nell’emirato e in particolare dei progressi nel settore dell’istruzione e delle nuove tecnologie. La sua fondazione investe generosamente in progetti di crescita culturale. Ovviamente i programmi della famiglia regnante hanno un prezzo: il Qatar è uno degli Stati del mondo che impiega più manodopera straniera in proporzione al numero degli abitanti. Su circa 800.000 residenti, solo un quarto può aspirare alla nazionalità. Il resto è formato in maggioranza da operai e impiegati provenienti da Pakistan, India, Sri Lanka o Bangladesh. Sono loro che, come i fratelli e i cugini nel regno dei Saud, fanno girare la macchina economica. Costruiscono, cucinano, puliscono, curano, insegnano e senza di loro il Paese sarebbe una striscia di sabbia vuota. Ovviamente non hanno alcun diritto e devono ritenersi fortunati di trovare un lavoro nella nuova Terra Promessa, invece che morire di fame a casa loro. L’esperienza di crescita e sviluppo del Qatar viene condotta sotto lo stretto controllo degli Stati Uniti, che dispiegano un contingente permanente, di stanza nel deserto, di oltre 40.000 uomini. Queste installazioni servono da base per le retrovie della guerra in Iraq al posto di quelle in Arabia Saudita, smantellate nel 2003 su richiesta di Riyad che voleva evitare l’accusa di collaborazionismo con «l’invasore». Apparentemente al-Thani non si fa questi scrupoli. O forse non ha avuto scelta? Lo sceicco è salito al potere nel 1995 estromettendo il padre con un colpo di Stato incruento. Ha subito avviato il Paese sulla strada della modernizzazione, dotandolo di una Costituzione e migliorando la condizione delle donne. Con un vero e proprio colpo di genio ha finanziato quella che sarebbe diventata la vetrina del Paese e il simbolo della libertà di espressione nel mondo arabo: la televisione satellitare Al-Jazeera. La Cnn araba ha visto la luce nel 1996 in un edificio che oggi non esiste più. Contava allora 300 giornalisti, quasi tutti transfughi da un progetto della Bbc appena fallito: il lancio a Londra di una televisione in lingua araba con finanziamenti sauditi. Oggi il gruppo Al-Jazeera, con i diversi canali tematici e il sito Internet, dà lavoro a oltre 2500 persone provenienti da tutto il mondo. E gli studi che lo ospitano sono tecnologicamente all’avanguardia. La rete ha conosciuto il suo primo grande successo con la copertura della guerra in Afghanistan: era l’unica ad avere un corrispondente permanente a Kabul durante le operazioni americane del 2001. Trasmise anche la prima intervista di Osama bin Laden dopo gli attentati dell’11 settembre. Però si è imposta soprattutto grazie a uno stile nuovo da queste parti: dibattiti in diretta e corrispondenti sparsi in tutto il mondo. La sua programmazione si differenzia nettamente dai canali ufficiali, che privilegiano i notiziari letti in studio, più facili da sorvegliare. Oggi Al-Jazeera è la televisione più seguita in tutto l’universo arabo, con circa 30 milioni di telespettatori. Ed è oggetto di continue controversie: gli Stati Uniti, che nel 2001 l’avevano elogiata come esempio di libertà di

espressione nel Medio Oriente, l’hanno poi accusata di fare il gioco degli estremisti. Nelle due guerre, ne hanno bombardato gli uffici a Kabul e a Baghdad. E dal 2004 il comando americano in Iraq ha vietato ai giornalisti del network anche l’ingresso nel Paese. La giustizia spagnola ha condannato al carcere uno dei suoi corrispondenti di punta, Tayseer Alouni, accusandolo di aver finanziato il terrorismo. Al-Jazeera assicura che il suo unico crimine è di aver incontrato Bin Laden per intervistarlo. Un’altra polemica è nata nel novembre del 2003 quando una delle sue conduttrici più note, Khadija ben Ganna, una sera ha deciso di andare in onda indossando l’hijab. La incontriamo nella caffetteria della tv. Qui è molto conosciuta e i colleghi, uomini e donne, vengono a salutarla. In questo Paese non esiste segregazione sessuale e per di più, della ventina di mezzibusti della rete, la metà sono femmine. Khadija è diventata diffidente nei confronti della stampa occidentale: mi racconta la storia di una troupe televisiva francese venuta per fare un servizio su di lei e ripartita molto delusa. «Volevano raccontare la storia di una giovane giornalista costretta a indossare il velo. Mi avevano immaginata soggiogata, ma non è così.» L’emittente di Parigi non ha mai trasmesso il reportage. Lei non trova che indossare l’hijab sia un gesto di sottomissione: né la rete per cui lavora, né il pubblico né il marito l’hanno costretta a farlo. «È una scelta personale che esprime una convinzione religiosa ed è una decisione che ho maturato nel tempo» precisa. «Ho esitato per tre anni perché mi chiedevo come avrebbero reagito gli spettatori. Temevo pensassero che ero diventata una fanatica. Ma non sono né un’estremista, né una terrorista» assicura ridendo. Le spiego che la sua esperienza di giornalista col velo non è l’unica cosa che mi interessa, in una donna che ha conquistato il diritto di imporre la sua voce in un coro esclusivamente maschile. Khadija è nata ad Algeri dove ha cominciato gli studi per poi continuarli a Parigi. Per la televisione algerina ha coperto i primi anni di violenze che hanno fatto decine di migliaia di vittime nel Paese. Nel 1992 in Algeria i risultati elettorali furono annullati dopo la vittoria del Fis, il Fronte islamico di salvezza, alle politiche del dicembre 1991. Il Fis fu messo fuori legge e l’esercito prese il potere. Nel Paese si aprirono le porte dell’inferno: alla dura censura dell’informazione e alla repressione politica i fondamentalisti reagirono con un’ondata di attentati terroristici. Nel 1994 Khadija è stata costretta a scappare: i giornalisti, gli intellettuali, gli scrittori e le donne erano il bersaglio di assassini mascherati da estremisti religiosi o da difensori dell’ordine. «Se parli, sei morto. Se non parli, sei morto. Allora parla e muori» le disse un giorno uno dei suoi colleghi, Taher Jaoud. «Il giorno dopo è stato ucciso» ricorda. Anche lei era sotto la minaccia di vari gruppi. Alcuni erano di fede islamica, altri, come spesso accade nella confusione delle guerre fratricide, obbedivano a ordini oscuri, dove il desiderio di guadagno, la strategia del caos, la volontà di destabilizzazione gareggiavano con l’ideologia. Alla fine si è rifugiata in Svizzera, grazie a Reporter senza frontiere, e ha trovato un lavoro presso la radio nazionale. È arrivata a Doha nel giugno del 1997, un anno dopo il lancio del network: «Il cielo mi è letteralmente caduto sulla testa. Faceva un caldo terribile» dice ricordando i primi passi in questo angolo di deserto arroventato dal sole e, all’epoca, praticamente vuoto. «Bisogna immaginare cos’era il Qatar dieci anni fa: non c’era niente.» Però, fortunatamente per lei, il piccolo emirato era all’inizio di una nuova era: sarebbe diventato una fucina di idee, un gigantesco palcoscenico per aprire il dibattito sui destini della regione. E soprattutto un laboratorio per sperimentare la libertà d’espressione, in un’area che ancora oggi conosce praticamente solo televisioni di Stato saldamente in mano ai regimi. Oggi è tutto un succedersi di convention, conferenze, seminari: gli esponenti di punta del momento, i potenti di ieri e di oggi, i futuri dirigenti, gli esperti e chi pretende di esserlo riempiono gli alberghi, dormono, mangiano e si divertono a spese dell’emiro. E discutono i metodi migliori per far progredire il mondo musulmano verso orizzonti più sereni. «Al-Jazeera ha aiutato la democrazia nella regione» afferma Khadija. «Ma i Paesi arabi non sono ancora pronti,

non sanno cosa sia la partecipazione politica.» Secondo lei, l’emittente è stata una sorpresa e persino gli islamici hanno accettato una tv che promuoveva le giornaliste: «Venivano invitati e non osavano criticare lo stile di chi concedeva loro il diritto di parola». È vero che Al-Jazeera si guarda bene dal parlare del Qatar e della sua particolare concezione dei diritti umani ma non esita a dar voce al malcontento e a denunciare le contraddizioni dei vari regimi della regione. I quali non si fanno scrupolo di chiuderne gli uffici, allontanarne i corrispondenti o gettarli in prigione quando diventano troppo critici. Khadija è convinta di aver contribuito a «sdrammatizzare un aspetto della vita sociale araba, l’hijab, che viene vissuto dalle società occidentali laiche come un mistero o un’aggressione. Hanno sviluppato una vera fobia». Mentre parla continua ad aggiustarsi il velo bianco sotto il quale si intuisce una massa di capelli non indifferente. «Non accetto che si imponga alle donne se portarlo o meno: fa parte della Carta dei diritti dell’uomo che riconosce la libertà di culto. Dal mio punto di vista» conclude «l’Islam è pace interiore. Quando prego, sono in armonia con me stessa e con gli altri. Musulmano è colui che non fa del male agli altri. Come dice il Corano: “Chiunque ucciderà una persona, è come se avesse ucciso l’umanità intera; e chiunque avrà vivificato una persona sarà come se avesse dato vita all’umanità intera”.»

Dubai è come una vertigine. Vista dal cielo la città-Stato degli Emirati Arabi Uniti ha qualcosa di surreale. Questo ex villaggio di pescatori, divenuto il più grande cantiere del mondo dopo Shanghai, è inquietante. Appiccicata al finestrino dell’elicottero osservo lo straordinario spettacolo: chilometri quadrati di isole artificiali a forma di palma e di mappamondo, una selva di ville e alberghi di lusso, una foresta scintillante di grattacieli. E poi Dubai Internet City, Dubai Media City, Dubai Knowledge Village. Un’emergente Disneyland del consumo opulento, del business e dei super-profitti, dove tutto deve essere world class, da Guinness dei primati, da «stile di vita supremo». Un terzo delle gru del mondo si trova oggi a Dubai. È qui che si sta costruendo il più grande parco a tema del pianeta, il più grande centro commerciale, l’edificio più alto, il primo albergo subacqueo, l’hotel più lungo. Sono solo alcuni dati record di un Paese che ha meno di un milione e mezzo di abitanti ed è più piccolo del nostro Molise. Sotto il dispotismo illuminato dello sceicco Mohammad bin Rashid al-Maktoum la città è destinata a diventare la capitale della megalomania architettonica e il più importante polo regionale per gli affari e il tempo libero. Dubai, dove non si pagano tasse, è un paradiso fiscale e, secondo alcuni, anche un centro del riciclaggio del denaro sporco. «Entro il 2015 questa sarà una città leader, un faro d’attrazione nel mondo globale» mi ha spiegato con enfasi Said al-Muntafiq, capo della società governativa Tatweer di Dubai, la holding che sovrintende ai progetti dell’emirato. «Il nostro segreto è la credibilità. Un governo efficiente, tollerante, con una visione chiara del futuro ci garantisce una crescita dell’11 per cento annuo. Abbiamo oltre sei milioni di turisti, che tra nemmeno dieci anni raddoppieranno. Solo quest’anno sono 65 milioni i passeggeri transitati per il nostro aeroporto. Ne stiamo costruendo uno nuovo che ne potrà accogliere 120 milioni!» A quanto pare le cifre qui sono tutte da capogiro. Nel bene e nel male. Mentre parliamo, continua a scorrere sotto di me il paradiso finanziario ma anche l’inferno della manodopera asiatica. Migliaia di puntini blu si muovono su centinaia di torri in costruzione. Senza di loro nulla di tutto questo sarebbe possibile. I grattacieli di Dubai sono un monumento allo sfruttamento degli operai, che vivono in condizioni di semischiavitù. Lo conferma l’ultimo rapporto di Human Rights Watch: sono sottopagati, la sicurezza è scarsa, l’indice di infortuni tra i più alti del mondo. Niente salario minimo, niente straordinari retribuiti, niente visti per il ricongiungimento familiare. I datori di lavoro decidono chi resta e chi torna a casa, le agenzie di reclutamento sono in mano alle mafie asiatiche e impongono a

questo esercito di disperati una sorta di tassa di diverse migliaia di dollari. Così una volta arrivati, si ritrovano già indebitati. Gli addetti del settore edilizio anche qui vengono prevalentemente dall’India, dal Pakistan e Bangladesh. Le cameriere per lo più dalle Filippine e dallo Sri Lanka. A Dubai solo il 20 per cento della popolazione è indigena, e gli immigrati costituiscono il 95 per cento dell’effettiva forza lavoro. Un equilibrio pericoloso per l’élite al potere. Concedere il diritto di sciopero e di rappresentanza sindacale ai lavoratori stranieri, la maggioranza invisibile, significherebbe ritrovarsi in minoranza nel proprio Paese. Ma costruire la propria ricchezza sul «lavoro forzato» non giova all’immagine dell’emirato. E il governo comincia lentamente a correre ai ripari, per esempio con una nuova legge che prevede l’istituzione di un tribunale speciale per rapide decisioni sulle cause di lavoro, maggiori controlli per la sicurezza, assistenza sanitaria a carico delle imprese. E sanzioni per i padroni che non rispettano le norme. L’elicottero ha già sorvolato il simbolo di Dubai nel mondo: il celebre Burj al-Arab, l’hotel a sette stelle a forma di vela dove una camera costa fino a 3500 dollari per notte. Abbiamo oltrepassato anche il centro commerciale Emirates Mall dove visiterò la Ski Dubai, la terza «località sciistica» indoor più grande del mondo: mentre fuori si ribolle a 45 gradi, dentro si rabbrividisce a meno quattro, per consentire ai provetti sciatori di godersi la loro Cortina in miniatura nel cuore del deserto. All’orizzonte si comincia a delineare il mare di sabbia che circonda la città. E le baracche-dormitorio, dove gli operai si affollano a sei, otto o anche dodici per stanza. Desolate periferie ben lontane dalla rappresentazione ufficiale di un centro di superlusso, dove tutto è in vendita, belle donne comprese. Le splendide ragazze russe nei bar e nei locali notturni sono solo la fascinosa facciata di un mercato del sesso popolato da migliaia di prostitute, controllate da bande internazionali. E il governo fa finta di non vedere. Anche a Dubai la religione di Stato è l’Islam, ma l’unico vizio negato è il gioco d’azzardo. Per ora. Quando morirà il sovrano, si vedrà. «La religione è nel nostro cuore, la fede è un affare tra me e Dio» mi spiega convinto al-Muntafiq. «Noi vogliamo che i nightclub possano convivere con le moschee.» Tanto è vero che invitata a cena con la mia delegazione dal governo nel famoso ristorante al-Muntaha, all’ultimo piano del Burj al-Arab con favolosa vista sul Golfo Persico, tutto è offerto fuorché la bottiglia di vino bianco che dovremo pagare. Tipico esempio della schizofrenia di un luogo che cerca di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa. «Siamo un Paese islamico» mi spiega gentilmente la giovane Mariam del protocollo. Poco più che ventenne, molto carina e perspicace, Mariam mi racconta cosa significa vivere in una nazione profondamente cambiata nel giro di pochi anni. «È come in un meraviglioso sogno, ancora non riusciamo a crederci!» Le chiedo come si sia trasformata la sua identità di araba musulmana in questo turbine di alta tecnologia, divertimenti e lussi sfrenati all’occidentale. Ci pensa un po’, poi sorride: «Le nostre tradizioni e la nostra cultura sono nelle nostre case. Almeno credo. Qualche volta ho l’impressione che siamo nel bel mezzo di una grande crisi di identità. A cosa vogliamo richiamarci? Ai pescatori di perle o ai beduini del deserto? Lo sa che io parlo meglio l’inglese dell’arabo?». Mariam fa parte di quelle nuove generazioni femminili che hanno studiato e che dovrebbero traghettare una società ancora molto chiusa verso il nuovo mondo. «Io fumo e bevo alcolici, ma solo quando sono in viaggio all’estero» confessa. «Stasera sono fuori per lavoro, ma non potrei mai uscire sola con un uomo a cena. I miei mi ammazzerebbero!» È convinta del ruolo cruciale delle donne per far avanzare un vero processo di modernizzazione, che non sia solo mera «occidentalizzazione». È questa l’accusa lanciata dai fondamentalisti al signore di Dubai, il visionario di questo audace miracolo economico. Ma sheikh Mo – come lo chiamano gli occidentali trasferiti qui – è sicuro di

poter conciliare tutto, puntando sull’istruzione, soprattutto delle donne. Recentemente ha annunciato la creazione di una fondazione cui ha personalmente versato dieci miliardi di dollari. «In Medio Oriente il 40 per cento delle donne non sa né leggere né scrivere e l’intero mondo arabo pubblica meno libri della sola Turchia» ha ricordato lo sceicco. Al-Maktoum, quasi sessantenne, è diventato emiro di Dubai dopo la morte del fratello, nel gennaio del 2005. Da quattro anni è sposato con la principessa Haya bint al-Hussein di Giordania. La figlia trentatrenne di re Hussein è la nuova first lady, ma non è l’unica moglie, secondo la migliore tradizione della poligamia islamica. La incontro nei sontuosi uffici da cui gestisce i suoi tanti impegni umanitari. Haya è stata la prima cavallerizza araba a partecipare alle Olimpiadi. È molto bella, con i suoi capelli lunghi e gli occhi color nocciola, sorriso aperto, poco trucco, pochi gioielli. L’avevo conosciuta tanti anni fa, all’inizio del 1991, a casa del padre ad Amman quando intervistai la sua matrigna americana, la regina Noor. La principessa è figlia della prima moglie del re, Alia, morta in un incidente di elicottero quando lei aveva solo tre anni. Era legatissima al padre, che con i suoi quarantasette anni di regno è stato non solo il più longevo monarca mediorientale, ma anche il più saggio. Come lui, Haya è convinta che senza una giusta soluzione del conflitto israelo-palestinese non ci sarà mai pace in questa parte del mondo. «I leader politici devono smetterla di parlare e passare finalmente all’azione. La situazione continua a peggiorare e la gente continua a morire, ma sembra che nessuno sia in grado di andare oltre le belle dichiarazioni di principio.» Altrettanto netta la sua opinione sull’esportazione della democrazia: «Imporre la propria identità ad altri ha sempre un effetto boomerang». La principessa è molto schietta per essere una first lady: è nata e cresciuta nel mondo arabo, ma ha studiato filosofia e scienze politiche in Occidente, a Oxford. Come altre mogli di monarchi del Golfo anche Haya cerca di essere un modello per il suo popolo. Non è semplice farlo, stretta nella tenaglia del boom economico che attira imprese e stili di vita occidentali da una parte, e dell’Islam che sottomette le donne all’autorità degli uomini dall’altra. «I cambiamenti devono essere graduali, ma qui la scoperta del petrolio ha impresso un’accelerazione incredibile. Confesso che la velocità dei mutamenti mi dà un profondo senso di instabilità. Per la gente però significa una vita migliore, un’istruzione migliore, l’opportunità di aprirsi e capire il mondo.» Haya ci tiene a sottolineare che l’Occidente troppo spesso etichetta gli arabi come retrogradi. «Siamo tolleranti, non ci potete ingabbiare in schemi precostituiti.» Lei legge romanzi d’amore americani, adora le canzoni di James Blunt, ama guidare la sua potente Mercedes. Si considera una donna moderna ed emancipata, anche se questo non vuol dire necessariamente «occidentalizzata», come ribadisce più volte. Ha conosciuto l’emiro, grande appassionato di cavalli, nel 2001 a un torneo di ippica. Dopo un fidanzamento di tre anni, Haya ha chiesto al fratellastro, re Abdullah di Giordania, il permesso di sposarsi. «Mio marito è una forza della natura» dice ridendo. «Dorme tre ore per notte e quando si mette un’idea in testa non lo ferma neanche un esercito.» Essere la sua seconda moglie non è un problema, per tutti è chiaro che è lei quella vera. Anche se, ammette, prima di accettare un matrimonio poligamico ci ha pensato a lungo. Alla fine, però, ha vinto il pragmatismo: è meglio questo che cacciare via qualcuno dalla famiglia con un divorzio. La parola gelosia è bandita dal suo vocabolario e sulle battaglie per le donne Haya ha un’opinione altrettanto chiara: «Dare potere alle donne è davvero la priorità, quando nel nostro mondo c’è ancora gente che muore di fame e a causa della guerra? Qui le donne hanno avuto una vita dura e sono molto forti, rappresentano la struttura portante della società». E oggi affollano le università dove «preparano il loro curriculum», come mi spiega un amico di Dubai. La sua

previsione è che nei prossimi cinque anni si assisterà a una vera e propria esplosione di ragazze pronte per ruoli dirigenziali. «Sono loro il nostro futuro» mi dice entusiasta. Ma avrebbero bisogno, come da altre parti, di un quadro normativo chiaro che le protegga sul fronte privato da soprusi e violenze. Questa almeno è l’opinione di Mohammad Rakam, avvocato e professore, uno dei pochissimi attivisti per i diritti umani nel Paese. A causa dei suoi articoli critici sulla libertà di espressione e sui diritti degli immigrati, non può più scrivere né insegnare. «Le donne sono sostanzialmente considerate proprietà privata degli uomini» esordisce quando lo incontro a colazione. «La nuova legge sulla famiglia ha peggiorato le cose, per esempio sulla custodia dei figli in caso di divorzio e sull’adulterio, che è tuttora punito con la prigione.» Secondo Rakam, lo sfavillante processo di sviluppo va governato, non solo per garantire i diritti di proprietà agli investitori stranieri. Occorrono più giustizia e più libertà per tutti, altrimenti i contrasti e le contraddizioni diventeranno ingovernabili. E finiranno per mettere a repentaglio la stabilità del Paese. Mi congeda con queste parole: «A Dubai hai la sensazione di viaggiare su un treno ad alta velocità. Ma senza freni».

CAPITOLO 23 Tra guerra e ayatollah L E DONNE CHE HO INCONTRATO nei piccoli Stati della penisola arabica si trovano in una condizione quasi irreale, divise tra costumi tradizionali e un futuro ipertecnologico da parco a tema. Quelle dei due giganti che si affacciano sul Golfo, l’Iran e l’Iraq, devono invece fare i conti con una realtà ben più aspra, che le costringe a combattere non solo per i loro diritti, ma anche per la loro stessa sopravvivenza. Shatha al-Obosi è deputata del Parlamento iracheno post-Saddam e membro della Commissione per i diritti umani. Sunnita in un Paese a maggioranza sciita, porta un velo beige che incornicia il viso acqua e sapone e un manteau marrone. La incontro a Bruxelles, dove è in visita ufficiale con una delegazione. Ha quarantatré anni, è biologa e ha tre figlie. Due vanno già all’università: Alaa a Mosul nel Kurdistan iracheno, Noor a Baghdad. Ma quest’ultima ha dovuto interrompere le lezioni perché la situazione è troppo pericolosa. Rapimenti, violenze, attacchi sempre più frequenti contro le ragazze rendono gli studi impossibili. La più piccola, Mariam, va alla scuola superiore accompagnata sempre da un autista. «Per due volte abbiamo dovuto cambiare casa per motivi di sicurezza» mi racconta Shatha. «Mi muovo solo accompagnata da venti guardie del corpo. Uno dei miei uomini di scorta è stato sequestrato, gli hanno spezzato un braccio e una gamba e gli hanno intimato di non lavorare più per me perché ho la “colpa” di occuparmi di donne e diritti umani. A Baghdad non oserei mai portare un velo così chiaro. Indosso solo il nero quando esco. È la cosa peggiore che ci potesse capitare: un passo indietro. La situazione in cui si trova il Paese ci obbliga di fatto a coprirci anche se non c’è nessuna legge.» La nuova Costituzione irachena, approvata con un referendum nel 2005, decreta che l’Islam è la religione ufficiale dello Stato ed è la fonte principale della legislazione: nessuna norma può essere in contrasto con i suoi princìpi. Il

controverso articolo 41 stabilisce che gli iracheni «sono liberi di impegnarsi per i diritti della persona, liberi di aderire alla loro religione, setta, scelta, credenza e questo dovrà essere regolamentato per legge». Ma non è assolutamente chiaro quale sistema legale – religioso o civile – verrà applicato. Si lascia la decisione al Parlamento che stabilirà quali tribunali consultare in materia di «diritti della persona». E donne come Shatha temono che i cittadini alla fine saranno costretti a ricorrere ai tribunali della Sharia. «Permetterà di maritare le bambine a nove anni! Siamo tornate nel Medioevo» commenta amaramente. La nuova Costituzione garantisce alle donne il 25 per cento dei seggi in Parlamento. Tuttavia sono praticamente assenti dal mondo economico e dal sistema giudiziario, così come dall’universo dei nuovi mezzi di comunicazione. Senza contare che l’esercizio di qualunque diritto resta del tutto teorico nell’assoluta mancanza di sicurezza. Sicurezza e stabilità sono le parole chiave per i diritti femminili. Né le forze di occupazione né il governo, che per la prima volta ha portato al potere nel Paese un capo sciita, riescono però a garantirle. «Non abbiamo né l’una né l’altra. E la Costituzione è insufficiente» dice Shatha. «Oggi bisogna dichiarare a quale religione si appartiene e poi, in base alla fede, viene deciso quali norme applicare in caso di matrimonio, eredità, divorzio. Noi ci battiamo perché nella Carta sia ammesso solo uno Stato laico. Conviene anche agli uomini.» Il quadro è drammatico: accademici assassinati, prigionieri torturati, donne bruciate vive dai loro stessi familiari in «delitti d’onore». Secondo l’ultimo rapporto dell’Onu, nei primi tre mesi del 2007 sono morti 5509 civili nella sola provincia di Baghdad. Il governo iracheno si rifiuta ormai di fornire statistiche dopo che la precedente relazione delle Nazioni Unite parlava di 34.452 morti civili per atti di violenza nel 2006. E le stime pubblicate nello stesso anno dalla rivista medica «The Lancet» sono ancor più raccapriccianti: dall’invasione anglo-americana del 2003 nel Paese sarebbero stati uccisi oltre 600.000 civili. In questo clima devastante le donne si arrabattano come possono, mandando avanti la famiglia nonostante il sistema sanitario sia al collasso, l’acqua potabile insufficiente, l’energia elettrica e i sistemi fognari del tutto inadeguati. L’assenza di legge e ordine rende via via più difficile studiare e lavorare, e impossibile difendersi dalle violenze: ai check-point dalle forze di occupazione, nelle carceri, in famiglia. Sempre più spesso le milizie islamiste attaccano le donne nel tentativo di imporre codici di abbigliamento che le rendano invisibili sotto i lunghi veli neri e le escludano dalla vita pubblica. E le gang di tipo mafioso hanno mano libera nei sequestri a scopo di estorsione e nella tratta di ragazze irachene. «Secondo le stime, circa 30 donne al mese vengono giustiziate da bande armate a Baghdad e nei sobborghi» ha denunciato Yanar Mohammed, presidente dell’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq (Owfi), che ha lasciato il suo Paese nel 1993 per tornarvi recentemente, in prima linea. «In soli dieci giorni, nel novembre 2006, più di 150 corpi femminili, non reclamati da alcuno, sono passati dall’obitorio della capitale: la maggioranza era decapitata, o sfigurata, o recava segni di pesanti torture.» Sotto Saddam Hussein le donne in Iraq avevano legalmente più diritti di tutte le altre della regione. Il nuovo codice di famiglia, promulgato nel 1959, ben prima che il dittatore andasse al potere, alzava a diciotto anni l’età minima per il matrimonio, proibiva il divorzio arbitrario, rendeva la poligamia praticamente impossibile e garantiva uguale trattamento in materia di eredità. I leader religiosi non hanno mai amato questi provvedimenti che hanno giocato un ruolo fondamentale nel processo di emancipazione. Sotto il regime baathista, autoritario ma laico, le donne hanno fatto importanti passi avanti soprattutto nell’istruzione e nel lavoro. Nel 1980 ebbero il diritto di voto e nel giro di due decenni rappresentarono il 20 per cento del Parlamento. Si trattava di un’istituzione chiamata soltanto a ratificare le decisioni della dittatura, ma così accadeva nella maggior parte degli Stati di quella regione, dove la media di partecipazione femminile era però del 3,5 per cento. Il velo non è mai stato un problema, neanche nelle regioni del Sud: nei tanti viaggi che ho fatto in Iraq sin dal

1991, lo indossavo solo per entrare nelle moschee delle città sante sciite di Karbala e di Najaf. Ma già nella mia ultima trasferta nel luglio del 2004, persino a Baghdad era preferibile coprirsi il capo con un foulard, per passare il più possibile inosservate. Oggi le irachene si trovano assediate: da una parte la retorica della liberazione delle truppe anglo-americane, e dall’altra quella del ritorno all’Islam della tradizione. Come se per ritrovare un’identità che rompa definitivamente con i decenni di tirannia si dovesse tornare alla religione, nella sua versione più retrograda. Sia per i ribelli islamisti che per le milizie affiliate ai partiti politici del governo, le donne sono diventate un simbolo, un’arma contro l’occupazione straniera e l’imperialismo occidentale. E come ha scritto recentemente la professoressa Nadje al-Ali, dell’Istituto di studi arabi e islamici dell’Università di Exeter, le irachene rischiano non solo di non essere liberate, ma di risultare le uniche grandi sconfitte della guerra in Iraq. Questo è il Paese in cui ho mandato mio marito. Per la precisione non sono stata io a mandarlo ma l’agenzia giornalistica per cui lavora, l’Agence France Presse, che al momento non gode della mia simpatia. Jacques è partito a metà agosto e per un anno intero dovrà dirigere un drappello di ardimentosi reporter, fotografi e cameramen incaricati di garantire l’informazione da questo Paese, che è ormai un buco nero per l’informazione. Baghdad, mi ha raccontato di ritorno dalla prima settimana di sopralluogo, è una città blindata. Non ne riconosce più la geografia, trasformata in un labirinto di muraglie: muri davanti alle finestre, muri davanti alle porte, spuntati come funghi velenosi nel regno del terrore. Attraverso queste spesse pareti non passano la luce né la verità, solo la morte e la menzogna. Nel X secolo Baghdad, la capitale dell’Impero abbaside, il più grande del mondo, era chiamata la «città della pace». Oggi è una città-prigione devastata, frammentata e cosparsa di rovine. Le donne, il simbolo dell’apertura alla vita, si sono trovate a vivere come su un pianeta alieno. E hanno scelto di incarcerarsi, chiudendosi nei veli e nelle case di questo labirinto della disperazione. «Come stormi di corvi» dice Jacques facendosi cupo. «Alle cinque del pomeriggio, nell’ultima ora prima del coprifuoco delle sei, le vedi scappare rapide e nere per le stradine battute dal sole rovente.» Prima che inizi la guerra della notte.

Intervistare un premio Nobel nella sala d’aspetto di un aeroporto non capita tutti i giorni. Ma Shirin Ebadi non ci vede nulla di strano: quale posto migliore per un appuntamento con chi, come noi, è sempre in viaggio? Ci incontriamo a Fiumicino: dopo una breve sosta in Italia – dove ha ricevuto un premio e tenuto una serie di conferenze – Shirin è nuovamente in partenza per Teheran, nell’antica Persia. Le sue «sorelle» l’aspettano con ansia. Insieme alle attiviste iraniane, Shirin ha lanciato la One Million Signatures Campaign, una petizione con l’ambizioso obiettivo di raccogliere un milione di firme per cambiare le leggi nazionali che discriminano le donne. Il governo ha cercato in tutti i modi di bloccare questa iniziativa, arrestando diverse di loro, confiscando i loro computer e i documenti e perquisendo le abitazioni. Nonostante la dura repressione, non si danno per vinte. In Iran il 65 per cento degli studenti universitari sono ragazze. Alle donne sono aperte le porte di tutte le professioni, a tutti i livelli, in teoria persino la carica di Guida Suprema, la più alta istituzione politica e religiosa. L’Iran è l’unica teocrazia sciita al mondo, instaurata nel 1979 quando l’Ayatollah Khomeini a furor di popolo cacciò lo shah Reza Pahlavi, che insieme all’Arabia Saudita era l’alleato più fedele degli americani nella regione. Oggi cerca di imporsi come gendarme del Golfo, ed è diventato la bestia nera di Washington. Mentre l’ambiguità del suo programma nucleare, ufficialmente per scopi pacifici, ha messo in allarme i governi occidentali e gli Stati vicini. Come ho avuto modo di raccontare nel mio libro Chador, paradossalmente la stessa rivoluzione che ha imposto per legge la palandrana nera lunga fino ai piedi ha consentito alle donne di inserirsi pienamente nella vita civile. E

loro hanno approfittato di questa libertà per diventare la vera forza di democratizzazione in un Paese scisso, dove il potere è retrogrado e maschilista ma nella società le donne sono molto presenti. L’8 marzo 1998, Masoumeh Ebtekar, vicepresidente nel governo guidato da Khatami, nel discorso per la Festa della donna attaccò duramente il regime dei talebani e la sua violazione dei diritti femminili. Legittimo, ma la cosa più sconcertante fu che l’appassionata arringa contro, tra l’altro, l’obbligo del burqa venisse pronunciata da una donna avvolta in un chador. L’Iran viaggia sui due binari paralleli di una struttura democratica parlamentare e un’altra rigidamente teocratica. Le donne, al punto di giunzione tra queste due concezioni e prassi politiche, sono allo stesso tempo una sfida e un simbolo. Rispetto ad altri Paesi islamici, nei quasi trent’anni di regime degli ayatollah hanno fatto progressi enormi, anche grazie al deciso impulso dato da Khomeini all’istruzione femminile. Oggi questo esercito di donne velate ma colte, istruite e consapevoli dei loro diritti contesta apertamente il presidente ultraconservatore e ultranazionalista Ahmadinejad, eletto nel giugno del 2005. Con lui i pasdaran, i guardiani della rivoluzione, hanno ripreso vigore e sono tornati in forze a imporre una più rigida osservanza dei costumi islamici. Soprattutto, ovviamente, alle donne, che con i loro chador sempre più corti, aderenti e colorati sono le prime vittime di questo zelo bigotto e repressivo. Nei giorni precedenti l’8 marzo 2007, Teheran è stata teatro di numerose manifestazioni a favore dei diritti delle iraniane. Tutte puntualmente soffocate e archiviate con una quarantina di arresti. Molte di quelle che sono finite in carcere si battono da anni per le «sorelle»: sotto processo per reati di opinione, condannate a morte per aver ucciso il loro violentatore o che rischiano la lapidazione perché accusate di adulterio. Shirin Ebadi si conferma grintosa come la ricordavo. Il look austero stride un po’ con la giornata decisamente primaverile che Roma ci ha riservato: non indossa il velo né il manteau ma un castigato tailleur nero e scarpe basse, non un filo di trucco. I suoi occhi penetranti comunicano tutta la carica vitale di una donna che, giudice ai tempi dello shah, si è vista costretta dalla Repubblica islamica a cedere la sua carica perché gli ayatollah non tolleravano che potesse giudicare un uomo. Per nulla intenzionata ad arrendersi, Shirin ha aperto uno studio legale per occuparsi della difesa dei diritti umani. Il suo coraggio e la sua determinazione le sono valsi il Nobel per la Pace nel 2003, ma anche la violenta ostilità del regime del suo Paese. La sua è una battaglia senza fine: nel 2006 in Iran quattro donne sono state impiccate in pubblico e altre otto attendono l’esecuzione nel braccio della morte. Si stima che siano almeno 300.000 le ragazze fuggite di casa e ogni mese una media di 45 giovani tra i sedici e i venticinque anni vengono portate in Pakistan per essere avviate alla prostituzione. «Dopo l’11 settembre purtroppo l’Islam è diventato sinonimo di terrorismo» esordisce la mia interlocutrice, fervida credente. «Pochi si lanciano in analisi più approfondite. La mia religione, come altre, è soggetta a diverse interpretazioni: molto dipende da chi si fa portavoce del suo messaggio. Nel Corano il Profeta si rivolge allo stesso modo a entrambi i sessi. È la cultura patriarcale che produce le violazioni dei nostri diritti, perché non accetta l’uguaglianza. E se in famiglia colpisce le donne, nella società fa torto a tutti, perché quello che nega è la democrazia.» Mette in guardia dal rischio di approssimazioni semplicistiche: la condizione femminile non è la stessa in tutti gli Stati islamici. In Arabia Saudita vige il divieto di guida, in Pakistan e in Bangladesh ci sono state persino presidentesse del Consiglio. «In una società globale» mi spiega «il tempo corre più veloce, ma non tutti i Paesi sono disposti a tenere il passo.» E in Iran? Shirin mi posa una mano sulla spalla: sa bene dove voglio arrivare. «Da noi le donne sono pronte per il grande salto» dichiara sorridendo «e disposte a pagare qualsiasi prezzo per la loro libertà, anche il carcere. L’ondata di arresti degli ultimi tempi non è un caso. Con l’elezione di Ahmadinejad la situazione è ulteriormente peggiorata. Ma il nuovo governo si trova disorientato di fronte al movimento femminile: non abbiamo un leader, né tanto meno un quartier generale o sedi nel Paese. La nostra battaglia nasce nelle case di

chi crede nell’uguaglianza. Tra poco i guardiani della rivoluzione non sapranno più chi arrestare!» Shirin è convinta che siano le stesse leggi iraniane a essere incompatibili con le necessità delle donne, vittime di un uso politico e arbitrario dell’Islam: «Basta pensare al fatto che una ragazza è responsabile penalmente delle proprie azioni fin dall’età di nove anni, mentre un ragazzo a partire dai quindici» sottolinea l’avvocatessa. «Noi possiamo essere date in spose a tredici anni, ma non possiamo votare prima dei diciotto. Quindi per scegliere l’uomo della loro vita, che peraltro non scelgono quasi mai, le ragazze appena adolescenti sono considerate adulte, ma per eleggere un rappresentante politico, no. Una delle tante contraddizioni del nostro sistema giudiziario.» Eppure, le faccio notare, ci sono esponenti dell’alto clero che stanno dalla loro parte. Quando ho incontrato il Grande Ayatollah Sanei, oggi molto critico con il nuovo presidente, dopo un lungo dibattito si è dichiarato a favore del diritto di scelta sul chador. «E non è il solo» mi interrompe Shirin, che si infervora a sentir parlare di velo. «È il Corano a dire che la donna musulmana deve poter scegliere e che nessun uomo è autorizzato a punirla! Lo stesso vale per la preghiera: un buon musulmano sa che pregare è uno dei suoi doveri, ma certo nessuno lo condannerà se non lo fa. Il velo è diventato un’ossessione: è molto meno importante della preghiera, del rapporto di un credente con Dio, ma sembra che anche ai governi occidentali interessi a dismisura. Gli stessi che a volte ritengono di poter sganciare la democrazia con le bombe sulla testa della gente. Non è questa la soluzione: il sistema migliore è sostenere le battaglie femminili.» Di tanto in tanto Shirin riprende fiato e controlla l’orologio: per nessun motivo al mondo può perdere il volo che la riporterà a casa. Le chiedo come prosegue la raccolta delle firme per la campagna. «Sta andando molto bene. L’obiettivo è un milione in due anni, ma ci arriveremo molto prima.» Una volta consegnata la petizione alle Nazioni Unite, il regime iraniano e i media non potranno davvero più ignorarle. Per raggiungere la meta ricorrono al porta a porta e alla propaganda nei tipici luoghi a frequentazione femminile, come i parrucchieri, le palestre, i parchi o i mezzi pubblici. Alcune di loro sono state arrestate sulla metropolitana, altre hanno perso il lavoro, ad altre ancora è stato impedito di lasciare il Paese. Per ben due volte il sito Internet della campagna – www.we-change.org – è stato bloccato dalle autorità. Ma, come ha scritto Noushin Armadi Khorasani nel febbraio 2007: «Forse con il vostro piano di sicurezza e la moderna tecnologia potete riuscire a isolare e paralizzare questa generazione di attiviste iraniane per i diritti delle donne e fermare il progredire della nostra campagna. Ma cosa farete con l’amore che seminiamo nei cuori dei nostri figli? Forse grazie alla tecnologia riuscirete ad attaccare i cuori dei nostri computer, ma cosa farete con i nostri sogni?». Shirin pensa che nonostante tutte le difficoltà, i suoi sforzi siano proporzionati ai risultati. «Quando è cominciata la rivoluzione islamica, ero sola a protestare. Oggi siamo in molte. Una vera e propria nazione di donne consapevoli e istruite. Non siamo più disposte a stare zitte.» Si è fatto tardi. Shirin si alza e le pongo la domanda che più mi sta a cuore in questa inchiesta: le donne ce la faranno? «Non ho dubbi: con le loro battaglie sono le avanguardie della democrazia e i loro diritti sono centrali in ogni possibile riforma democratica delle società musulmane.» Quanto tempo ci vorrà ancora? «Per cogliere una mela dall’albero bisogna prima lasciarla maturare. La mela iraniana è finalmente pronta!» Shirin mi abbraccia con la promessa di rivederci presto e senza esitare si avvia a passi veloci verso l’uscita. Le chiedo cosa le fa più paura. «Nulla» mi dice in un fiato. «Solo l’ignoranza e l’intolleranza.»

CAPITOLO 24 FEMMINISMO E ISLAM NELLA VECCHIA BISANZIO G UARDO LA METROPOLI stesa ai miei piedi, la manciata di stelle in alto e in basso il fiume di luce del ponte gettato sul Bosforo. L’antica Bisanzio ha fatto molta strada dalla sua fondazione nel 657 avanti Cristo. Rifondata da Costantino nel IV secolo dopo Cristo, ha permesso la sopravvivenza dell’Impero romano. Capitale d’Oriente, mentre l’Urbe eterna naufragava nella decadenza, conobbe altri due secoli di splendore. Da allora ha avuto molti padroni, molti profeti e un nuovo nome: Istanbul. Ma una cosa è rimasta uguale: la Turchia, da sempre cerniera tra Oriente e Occidente, è il luogo in cui si misurano i rispettivi rapporti di forza. E in cui oggi si gioca la partita tra le due anime che l’11 settembre ha reso protagoniste, a torto o a ragione, di uno scontro frontale. Da una parte un Islam che ci appare monolitico e minaccioso nella sua alleanza di potere religioso e secolare. Dall’altra il nostro mondo complesso, che fatica a trovare un equilibrio tra le sue radici giudaico-cristiane e una laicità faticosamente conquistata. Non è un caso che siano i turchi, e non i loro vicini arabi, ad aver creato oggi il laboratorio più avanzato di un difficile esperimento democratico. Tentando di coniugare il solido secolarismo dello Stato con l’ispirazione islamica dell’attuale partito di maggioranza, l’Akp, il Partito dello sviluppo e della giustizia, fondato nel 2002. All’epoca guardato con sospetto come avanguardia di una svolta teocratica, nei cinque anni di governo ha dimostrato un grande pragmatismo. Ha varato le riforme economiche e politiche necessarie ad avviare i negoziati per l’ingresso nell’Unione Europea. Jacques e io siamo atterrati all’aeroporto Atatürk di Istanbul con due ore di ritardo. Appena oltre il controllo passaporti, decine di persone partecipano a quella che sembra una gigantesca raccolta di firme. Si avvicinano ordinatamente a un tavolo presidiato da due o più persone, presentano un documento e firmano. Sono stanca per un viaggio più lungo del previsto ma non posso trattenermi: vado a vedere cosa sta succedendo. «Votiamo!» mi rivela una donna di mezza età, seduta dietro uno di quei banchi. Si tratta già delle elezioni politiche, previste tra una settimana esatta. Chi parte ha la possibilità di votare ora, persino con le valigie in mano. Sono votazioni cruciali, e uno dei motivi del mio viaggio. Si confrontano soprattutto l’Akp e il Chp, il Partito repubblicano del popolo, fondato da Atatürk e che si definisce il custode del laicismo. Nel Parlamento uscente queste due formazioni erano le uniche presenti: per entrarvi, infatti, la soglia è del 10 per cento dei voti. Serve a evitare la frammentazione politica, ma fa anche sì che molti turchi non si sentano rappresentati. Il 23 luglio, all’indomani dello spoglio, in Parlamento entreranno tre partiti – oltre all’Akp e al Chp, anche il Partito del movimento nazionalista, Mhp – e 26 candidati indipendenti, in maggioranza curdi. In Turchia le donne si trovano proprio nell’occhio del ciclone. Come sempre è sulla loro pelle e sui loro diritti che si gioca la sfida della modernità, in questo caso la fusione tra Islam e democrazia. In primo piano in questa battaglia elettorale, non a caso, è il dibattito sul velo, che assume a tratti toni quasi isterici. Prima di partire, avevo incontrato la mia amica Nevin Sungur, giornalista televisiva turca. Incautamente avevo espresso la mia radicata opinione che proibire per legge nei luoghi pubblici il copricapo islamico, che in Turchia si chiama turban, sia tanto controproducente quanto imporlo. «Non capisci» era insorta. «Se aboliamo il divieto, sarà l’inizio della fine.» La Turchia che conosciamo oggi è un fenomeno recente, in confronto alla sua lunga storia. Si è formata

gradualmente, dopo la Prima guerra mondiale in cui l’Impero ottomano era alleato della Germania. Ha conosciuto una guerra d’indipendenza, la spartizione tra le potenze alleate, la formazione del Parlamento nel 1920. E infine l’atto di nascita della Repubblica turca nel 1923. L’abolizione ufficiale del califfato, un anno dopo, fu l’ultimo chiodo nella bara dell’Impero smembrato dalle nazioni vincitrici. L’influenza della Sublime Porta, che si estendeva dal Maghreb alla Mesopotamia ed era già ampiamente indebolita prima del conflitto mondiale, con la sconfitta andò definitivamente in frantumi. Ma la nazione che stava per nascere dalle sue ceneri non poteva essere ignorata: con una superficie grande due volte e mezza l’Italia, si trovava al punto di congiunzione tra Europa e Asia. Una sentinella alle porte del ribollente calderone mediorientale. Il padre della Turchia moderna è stato un militare di nome Mustafa Kemal. Ancora oggi, 72 milioni di cittadini si rivolgono idealmente a lui per avere risposte alle proprie domande. Condusse il Paese sulla strada del laicismo, rompendo anche brutalmente con un passato in cui non c’era distinzione tra Stato e religione. Rappresentava tutto ciò che si può chiedere a un capo: combattente ardito, condottiero vittorioso, ma anche riformista. Aveva fatto parte della società segreta dei Giovani Turchi, che avevano tentato di impedire il collasso dell’Impero e di contrastare l’assolutismo del sultano. Aveva difeso la restaurazione della Costituzione e la reinstallazione del Parlamento nel 1908. Si era opposto all’alleanza con Berlino, ma una volta dichiarata guerra era stato l’unico eroe turco, capace di infliggere alle forze alleate una cocente sconfitta nella battaglia di Gallipoli, nel 1916. E nello Stato appena nato fu il primo presidente, colui al quale il Parlamento conferì il celebre titolo di «Padre dei turchi»: Atatürk. Fu lui a dichiarare: «L’Islam acquisterà credibilità quando smetterà di essere uno strumento del potere politico, come è stato in passato». Forte di questa massima, impose il laicismo nella gestione della cosa pubblica e delle dinamiche economiche e sociali. Abbandonò la legge sacra e i tribunali religiosi in favore di un codice civile e penale ricalcato sui modelli europei. E lottò contro quelle che considerava tradizioni retrograde, imponendo un abbigliamento «occidentale» nell’amministrazione e nel settore dell’istruzione. Le misure da lui decise prevedevano per esempio l’abolizione del copricapo tradizionale, il fez, e il bando dai luoghi pubblici del velo islamico. Nel 1934, assicurò alle donne la completa uguaglianza politica, con il diritto di votare e di essere elette. Il nostro tassista è giovane, parla un inglese approssimativo, ma riesco a porgli qualche domanda mentre ci conduce direttamente a casa della professoressa Yesşim Arat. Ai bordi delle strade sventolano migliaia di bandiere, gli edifici sono tappezzati di manifesti che promuovono l’uno o l’altro partito, e vedo passare piccoli furgoni bianchi con stampata sopra la faccia di Recep Tayyip Erdoğ an, l’attuale premier turco. «Ha fatto un buon lavoro, prima come sindaco di Istanbul e poi come primo ministro» dichiara l’autista, che approva anche il candidato alla presidenza, Abdullah Gül. «Mi piace perché è un brav’uomo. Sua moglie è una donna normale.» Per la verità, la signora Gül qualcosa di speciale ce l’ha. Ha creato scalpore perché si «ostina» a indossare il turban. «Ma quello non è un problema» afferma sicuro il tassista, che mi ha detto di essere un musulmano praticante. «Quelli che lo pensano saranno il 10 per cento dei turchi. Professori, politici, militari. Io lavoro venti ore al giorno, loro non fanno altro che dormire.» Una valutazione del lavoro degli intellettuali abbastanza classica. Non mi stupisce mi dica che voterà per l’Akp. Attraversiamo un bel quartiere residenziale pieno di verde, da cui si domina la città, e ci fermiamo davanti a un grande cancello. Ci accoglie una giovane guardia armata, uscendo dalla sua guardiola. Con una certa fatica, riusciamo a fargli capire chi dobbiamo andare a trovare. Yesşim ci accoglie con un sorriso e un bacio ma strillando: «Non ci potevo credere quando mi avete detto che venivate direttamente qui!». La professoressa Arat, docente di scienze politiche e relazioni internazionali alla Bog˘aziçi Üniversitesi di Istanbul, è una donna minuta, dai capelli corti e scuri e un visetto affilato, vivacissimo

come il timbro della voce, chiaro e acuto. Ci aspettava un’ora e mezza fa e si sta preparando per uscire a cena con amici, insieme al marito e alla figlia. È però una persona cortese e dotata di senso pratico: ci fa accomodare sul divano del suo bel salotto e comincia a parlare a doppia velocità, per far stare nello spazio di una mezz’ora tutto quello che vuole dirmi. Yesşim ha pubblicato di recente il saggio Rethinking Islam and Liberal Democracy, che analizza i metodi di mobilitazione dei partiti islamici. Sono più efficaci di quelli laici, argomenta, perché anche grazie alla religione abbattono i confini tra società e politica, riuscendo a coinvolgere anche le donne delle aree rurali. Esattamente quello che sta facendo oggi l’Akp. La Turchia ha concesso il voto alle sue cittadine prima della Francia e della Svizzera. Ma secondo un rapporto europeo intitolato Sex and Power in Turkey, le riforme del Padre della Patria non hanno davvero scalfito il sistema patriarcale, di cui il diritto civile e penale è ancora profondamente intriso. Anzi, hanno creato l’illusione di una battaglia femminista già vinta, quando in realtà è appena cominciata. Il governo negli ultimi anni ha intrapreso la più vasta campagna a favore delle donne dai tempi di Atatürk: il marito non è più automaticamente capofamiglia e non occorre più il suo consenso per andare a lavorare. Sono state abrogate le leggi secondo cui lo stupratore che sposa la propria vittima non è perseguibile. Ne sono state introdotte di nuove che criminalizzano la violenza sessuale da parte del coniuge e sono state inasprite le pene per i delitti d’onore. Ma molte lotte restano ancora da vincere. Dei due partiti protagonisti di queste elezioni, il Chp ha candidato un 10 per cento di donne e l’Akp non ha fatto molto meglio, con l’11 per cento. Rispetto ai Paesi europei, la Turchia ha una percentuale rosa molto inferiore in Parlamento e nel mondo del lavoro, e il tasso più alto di analfabetismo femminile. In Europa, spiego a Yesşim, ci si interroga sull’affidabilità laica del partito di Erdog˘an. «Che vincano gli uni o gli altri» mi assicura «la nostra è una società dinamica, che può affrontare le sfide ideologiche poste dalla religione.» Nel suo ultimo libro spiega che la partecipazione politica delle donne nei partiti islamici è destinata a far emergere le contraddizioni del rapporto tra democrazia liberale e Islam. La prima dà la precedenza all’individuo e il secondo nasce da un’aspirazione comunitaria, la Umma dei credenti. Una insanabile differenza di fondo che però, argomenta l’autrice, può essere fonte di arricchimento, anziché di contrasto. «La polarizzazione della politica turca in questo momento è in gran parte frutto di preconcetti e di errori di valutazione. Certo, ci sono minacce potenziali, ma quando parli con le persone capisci che il femminismo qui ha un retroterra forte. Siamo abili, capaci, istruite. Quelle che si rivolgono a simboli identitari islamici lo fanno per forgiarsi un’identità, non perché sono oppresse o plagiate.» Colgo la palla al balzo. Dunque la proibizione del velo non ha ragione di esistere? «No. Nel modo più assoluto. Le questioni su cui dobbiamo concentrarci sono quelle sul divorzio, la legge sull’adulterio, l’eredità, non certo chi porta un foulard in testa e chi no.» Lei, per esempio, non lo indossa. «Chi pensa che sia questo il maggiore dei problemi deve risolvere un nodo psicologico, non politico. Perché ci si accanisce tanto su un simbolo innocuo? Perché tanta paranoia nei laicisti, in Turchia ma anche in Europa?» Yesşim sostiene che estremizzare il conflitto con l’Islam è solo un altro modo di spaventare la gente. «I socialdemocratici minacciano che, se vinceranno i conservatori, perderemo il nostro piacevole stile di vita occidentale, che non ha eguali in nessuna nazione musulmana. Ma l’abbiamo conquistato in anni di riforme e di vicinanza all’Occidente, non è così facile togliercelo.» Eppure Massimo Rustico, dinamico console generale italiano a Istanbul, mi aveva informata che qualche cambiamento c’è già stato. Che nella giustizia si vedono più barbuti islamici di una volta, e anche i programmi scolastici sono stati modificati per far spazio a festività religiose. Tutte coincidenze? «In certe scuole ora si festeggia il compleanno del Profeta» ammette la professoressa Arat, imperturbabile. «Scuole pubbliche, certo, ma queste sono battaglie che vanno portate avanti innanzitutto nella società civile, contro

il tradizionalismo. Ci sono giudici che comminano sentenze più lievi a chi si macchia di crimini “arcaici”, come il delitto d’onore, anche perché spesso a commetterli sono minorenni. Ebbene, la legge è già cambiata, ora bisogna cambiare la formazione dei magistrati.» Non ci sono buoni motivi, sostiene, per mettersi il paraocchi e rifiutare ideologicamente un intero sistema politico. «I conservatori sono conservatori e si comportano come tali, ma questo non significa che a partire da domani saremo tutti assoggettati alla Sharia. Anche Bush ha promosso leggi discutibili e ha fatto affermazioni improntate al fondamentalismo religioso: qualcuno lo trova minaccioso?» Un po’ sì, per la verità. Ma è vero che il discorso di Yesşim, per quanto ottimista, sembra ragionevole e soprattutto indica una visione aperta e flessibile dei cambiamenti sociali. È una mentalità, dice, che le viene dall’istruzione e dalla famiglia: la madre era biochimico, il padre professore universitario, istruito in Turchia e poi in Svizzera. È stato lui a spingere le figlie a studiare, iscrivendole alla scuola femminile americana di Istanbul. Yesşim vanta sei anni a Princeton e cinque a Yale: solo dopo questo impegnativo curriculum è tornata nella città d’origine, con il marito e la figlia. I quali, peraltro, mentre parlavamo sono passati rapidamente nel corridoio e sono usciti senza avvertire né salutare, lasciando di stucco sia noi che lei. La nostra ospite li insegue per le scale, lancia un richiamo, riceve una risposta nervosa. Li raggiungerà al ristorante. Ci sentiamo in colpa: abbiamo scatenato una crisi coniugale? Sì, annuisce lei serafica, ma aggiunge ridendo: «È così che va il matrimonio: si litiga, poi ci si riconcilia». A volte il contesto non è così civile, però. «Il più grosso problema per le donne in Turchia è la violenza domestica» ammette, tornando seria. «Non ci sono solo i delitti d’onore, ma anche moltissimi soprusi in famiglia. Fino a poco tempo fa mancavano le statistiche, non avevamo nessun dato. Solo ora abbiamo avviato la prima inchiesta su scala nazionale.» Per ora, i tentativi di soluzione sono mirati: gruppi di studio e formazione in cui le donne turche imparano quali sono i loro diritti, quali le dinamiche che conducono alla violenza, quali le tradizioni che la fomentano, e come opporsi. «Si dice che le zone rurali sono più conservatrici, ma non ne sarei così sicura» scuote la testa, le mani si agitano nell’aria sottolineando i punti chiave della nostra conversazione. «È sorprendente vedere come certi gruppi di curde, per esempio, reagiscono ai nostri incontri. Afferrano molto rapidamente i concetti e sono pronte a spiegarli chiaramente ai loro uomini. In realtà sono abituate a fare lavori maschili, a stare nei campi fin dal mattino, anche a mantenere tutti gli altri. Hanno sempre avuto potere e autorevolezza. E spesso proprio di questo i laicisti, anche le femministe, non si accorgono. Quando sostengono che una vittoria dei conservatori azzererebbe nello spazio di un mattino decenni di diritti delle donne, sviliscono la loro consapevolezza.» Le ricordo però che una mediazione tra religione, politica e società civile come quella che lei propone richiede grande maturità nell’elettorato. E sembra molto ottimista pretenderli da un Paese nelle cui zone più remote sono ancora diffusi il delitto d’onore, o episodi come quello delle «vergini suicide». Soprattutto dal sud-est dell’Anatolia, una regione poverissima e ostaggio dell’Islam più conservatore, giungono notizie di fanciulle che si suicidano o addirittura vengono lapidate. I loro «crimini» vanno dal sesso consensuale all’indossare una minigonna, fino a uno sguardo troppo audace lanciato a un giovanotto. I suicidi sono indotti dalla famiglia, per aggirare le leggi contro i delitti d’onore: le «colpevoli» vengono chiuse nelle loro stanze con un flacone di veleno o una pistola, bersagliate di sms minacciosi dei parenti maschi. I loro cari le perseguitano perché pongano fine alla propria vita, unico modo per lavare il disonore. E le fanciulle, spesso poco più che adolescenti, cedono. Non c’è il rischio che con un governo di matrice islamica queste usanze barbare, col pretesto della religione, rialzino la testa? «Questi crimini esistono, ma non si può dare la colpa all’Islam né solo al tradizionalismo rurale. La responsabilità è anche dei giudici che infliggono pene troppo lievi, e dello Stato che non fornisce risorse né istruzione.»

Ma chi potrà evitare una deriva islamica destinata a penalizzare le donne? Yesşim fa un sorrisetto e per un momento le sue mani sempre in movimento si fermano, sembra quasi valutarmi. «Be’, per esempio l’Europa. A questo serve vivere e lavorare spalla a spalla con l’Occidente, no? Ma anche noi dobbiamo e possiamo vigilare. È ovvio che i conservatori cercheranno di far passare leggi discutibili, come quella che doveva proibire l’adulterio, ma è compito del popolo evitarlo.» Si riferisce a quando nel 2004 Erdog˘an, che ha frequentato la scuola islamica, mise in allarme tutti, a cominciare dai militari. Aveva chiesto che l’adulterio venisse punito con il carcere. Tornò sui suoi passi grazie alla netta opposizione dell’Unione Europea, che avvertì Ankara: un simile passo avrebbe messo a repentaglio la candidatura all’Ue. La mia ospite, suppongo, non voterà per l’Akp. «Voterò per Baskin Oran, un candidato indipendente liberale di sinistra. Che si batte per ciò in cui credo: i diritti della minoranza curda, ma anche il diritto delle donne a portare il velo.» Ci alziamo: non me la sento di trattenerla oltre, il pensiero di suo marito che aspetta sempre più impaziente al ristorante mi inquieta. Almeno mi consente di darle un passaggio in taxi. Le chiedo il nome di quest’uomo a cui sto rischiando di rovinare la serata. «È docente di storia economica, si chiama Ulusş Sivket Pamuk.» «Come lo scrittore!» esclamo. «È suo fratello» annuisce imperturbabile Yesşim. Com’è piccola Istanbul. «E suo cognato non è preoccupato per queste elezioni? In fondo lui ha avuto molti problemi con questo governo. Tanto che se n’è andato.» «Lui va e viene» alza le spalle, mentre il taxi scende a rotta di collo per le strade tutte curve del quartiere. «Orhan si sente più sicuro così.» Individuo i segni di un altro attrito familiare, in effetti il premio Nobel turco non mi è mai sembrato un uomo dal carattere facile. Ma non indago oltre, anche perché il taxi si è fermato in una stradina trafficata e Yesşim salta giù, scomparendo a piccoli passi rapidissimi tra le auto e le bandiere elettorali.

È il Luca di Montezemolo turco. Ma è una donna di quarantadue anni, con marito e due figli, avvenente e gioviale, che gestisce l’impero di famiglia di oltre 15.000 dipendenti: Dog˘an, la holding che fa capo, tra l’altro, al più grande gruppo mediatico e al più grande distributore di petrolio del Paese. Vado a trovare Arzuhan Dog˘an Yalçindag˘ nella sede di Tüsiad, la Confindustria turca. È una donna alta, capelli lisci lunghi fino alle spalle e portamento sicuro. Indossa un sobrio ma femminile tailleur chiaro. Nel corridoio che porta al suo ufficio sono appese le foto incorniciate dei suoi 12 predecessori. Tutti uomini. «Eravamo già tre donne nell’esecutivo dell’associazione, e quando mi hanno proposto di diventare presidente ho pensato che fosse una follia. Poi mi sono detta: perché no? Ed eccomi qua.» Sulla sua scrivania ci sono anche quotidiani italiani, insieme ai giornali della finanza internazionale. Quando le racconto del mio progetto sulle donne e l’Islam, interviene determinata: «Non possiamo essere paragonati a nessun altro Paese mediorientale. Siamo unici. Non siamo arabi, siamo un Paese islamico, ma anche laico e democratico». Lei stessa si presenta così: «Io sono il prototipo della donna turca. Sono musulmana non completamente praticante, invece di fare un mese di Ramadan faccio due settimane, e invece di cinque prego un paio di volte al giorno. Sono profondamente laica e non porto foulard in testa perché penso che velare il capo significhi velare anche il cervello». Ci risiamo, il tema cruciale di queste elezioni: quale ruolo deve avere la religione nella Turchia moderna? «Credo

sia giusto proibire il velo nei luoghi pubblici, perché potrebbe creare una pressione sociale sulle giovani generazioni. Sono tornata due mesi fa nella mia vecchia università e sono rimasta scioccata. Nel cortile esterno molte ragazze indossavano il turban. Ai miei tempi non ce n’era nessuna! Noi veniamo da una grande rivoluzione, quella di Atatürk, e prima ancora dall’Impero ottomano che era molto tollerante.» Le chiedo se si fida del partito di Erdog˘an. «Ha fatto molto bene all’economia e non penso che l’Akp abbia dei secondi fini. Certo, negli ultimi anni le donne che si velano sono molte di più. E vanno persino al mare con il costume da bagno islamico.» In effetti sulla costa meridionale è stato aperto di recente un albergo concepito per accogliere i clienti che vogliono vivere secondo i precetti del Corano. Piscina separata secondo i sessi, alcol proibito, moschea privata, targhette che indicano la direzione della Mecca in ogni stanza e ovviamente piena libertà di abbigliamento, velo compreso. L’hotel a cinque stelle accetta anche altri turisti, purché rispettino queste regole. I clienti più frequenti sono sudanesi, sauditi e iraniani. Sulla spiaggia le donne fanno il bagno e prendono il sole con il costume «regolamentare» che in Turchia si chiama hasema. Per fortuna, poco più lontano lungo la costa l’«equilibrio» è garantito da un hotel per gay e lesbiche. Arzuhan ha trovato anche inopportuna la grande pubblicità che ha accompagnato le nozze del figlio di Erdog˘an. «C’era anche il vostro Berlusconi. Un matrimonio da favola, con la sposa tutta velata. Un cattivo esempio per le giovani.» Anche una brutta figura per l’Italia, dato che l’allora nostro premier, testimone di nozze, mostrandosi del tutto digiuno di galateo islamico baciò la mano della sposa. Rischiando l’incidente diplomatico con un Paese per cui l’Italia rappresenta il terzo partner commerciale, dopo la Germania e la Russia. «In ogni caso credo ci voglia un’equa distribuzione del potere» continua la mia interlocutrice. «Per questo non è opportuno che il capo dello Stato venga dallo stesso partito del primo ministro e del presidente del Parlamento. Erdog˘an è abbastanza intelligente e sono sicura che non riproporrà il suo ministro degli Esteri Gül. Sua moglie, che conosco bene, e di cui so che è molto aperta, sarebbe un problema. Una donna con il velo non rappresenterebbe la Turchia nella sua complessità.» La grande sfida dei prossimi dieci anni, sostiene, è quella economica. Il maggior successo del governo, infatti, è aver saputo risollevare il Paese dalla gravissima crisi del 2001, quando la produzione calò del 25 per cento. Da allora, la crescita annua è stata del 7 per cento, gli investimenti stranieri sono da record – 20 miliardi di dollari contro il miliardo del 2001 – e l’inflazione è stabilizzata intorno al 10 per cento. Quotidiani finanziari influenti come l’«Economist» e il «Wall Street Journal» hanno dichiarato che la Turchia è un Paese troppo importante per diventare teatro di un nuovo conflitto tra l’Islam e il resto del mondo. Arzuhan condivide questa impostazione pragmatica: «Anche l’élite legata ai militari vuole prosperità e una Turchia in grado di competere nel mondo globale». Ricordando le aride e sconfortanti cifre statistiche sulla partecipazione femminile, le chiedo quanto le donne saranno protagoniste di questo boom. Mi risponde con netto ottimismo: «Il soffitto di vetro, che impedisce alle donne di fare carriera oltre certi livelli, in Turchia non esiste. Abbiamo avuto una premier, una presidente della Corte costituzionale, siamo presenti in tutte le posizioni importanti». Gli affari sono affari, insomma: il settore produttivo non metterà i bastoni tra le ruote a un governo che può vantare simili risultati economici. Ma nemmeno permetterà una regressione islamica che rischi di escludere l’altra metà del cielo e il suo indispensabile contributo. «Mi fido del popolo turco, delle sue istituzioni, della sua comunità finanziaria e dei suoi media. Non ci saranno brutte sorprese!»

Per incontrare Nur Serter devo attraversare il Bosforo e andare nella parte orientale di Istanbul. Dopo il breve tratto di autostrada, appena superato il casello campeggia una scritta «Welcome to Asia!». Siamo nel quartiere di Erenköy, il collegio elettorale di Nur che ha deciso di candidarsi per il Chp, l’opposizione più dura all’Akp. Mentre mangiamo un’insalata di frutta nel bar alla moda sulla via principale, nella vicina moschea il muezzin intona l’invito alla preghiera del mezzogiorno. Nur, infastidita, alza gli occhi al cielo. Come la mia amica Nevin Sungur, anche questa docente universitaria di scienze politiche pensa che del partito di Erdog˘an non ci si debba fidare. E come Nevin, è convinta che consentire di portare il velo nei luoghi pubblici sarebbe l’inizio della fine per lo Stato laico. Quando le chiedo se non c’è un po’ di esagerazione in questa fobia anti-foulard, ribatte decisa: «Assolutamente no, non accetteremo mai che la Turchia possa somigliare anche solo lontanamente a uno Stato islamico moderato. E che il velo e le donne in generale siano sbandierati come un vessillo politico. Non c’è da fidarsi di Erdog˘an e dei suoi!». Secondo lei nel lungo periodo l’Akp rappresenta una minaccia. In questi cinque anni di governo la mentalità della gente è già cambiata, con un deciso aumento dell’influenza dell’Islam. Non a caso il turban è sempre più diffuso. Le domando quale pensa sia la ragione di questa deriva, ma risponde evasivamente: «I turchi sono religiosi ma non rigidi, sono molto liberi e contrari alla Sharia. Così ha voluto Atatürk ottant’anni fa. Ora i fondamentalisti vogliono riportarci indietro! Ma noi facciamo parte dell’Occidente». Nel 2003 Serter è stata denunciata per diffamazione da 13 deputati dell’Akp per aver espresso pubblicamente proprio questo concetto: che la Turchia non può essere riportata nel Medioevo da un partito di gente chiusa e arcaica. Dopo anni di processi alla fine ha vinto lei. «Voi in Europa vedete l’Akp come un partito democratico, ma non lo è. Parlare contro di loro è vietato» dice riferendosi alla sua avventura giudiziaria. «E l’Islam non può essere democratico: nel Corano ci sono 660 versetti che regolamentano la vita quotidiana. Atatürk ha bandito tutto questo, dandoci un codice moderno. Se trionfa l’Akp, sarà il ritorno della legge sacra. E fatalmente ci allontaneremo dall’Occidente.» In questa campagna elettorale la battaglia del Chp è condotta principalmente sul fronte economico e tesa a contrastare tre problemi: la disoccupazione, ufficialmente all’11 per cento ma che in realtà supererebbe il 20; l’iniqua distribuzione delle ricchezze e la crescente povertà. I successi economici di Erdog˘an, sostengono i suoi oppositori, sono soprattutto di facciata, e la corruzione ha raggiunto livelli vertiginosi. «In questi cinque anni Erdog˘an si è arricchito, e sono state aperte varie inchieste sull’aumento della sua fortuna personale» afferma. «La prima cosa che faremo se andremo al potere sarà cancellare l’immunità parlamentare.» Un’intenzione lodevole in qualunque Paese, ma sembra che per il momento non ne avranno l’occasione. Il velo, giura Nur, non è il più importante argomento di dibattito, anche se mi ricorda che «quando è stato imposto il divieto, molte ragazze sono state felici perché finalmente potevano toglierselo». E in campagna elettorale circola un’e-mail destinata a convincere gli elettori in vacanza a rientrare per esercitare il diritto di voto. Contiene l’immagine del costume da bagno islamico e la scritta: «Se non tornate per votare, non dimenticate di mettere questo in valigia, per le prossime ferie». La verità è che, anche quando non se ne parla apertamente, la questione del copricapo è sempre presente. Serter è anche vicepresidente della più grande Ong del Paese, la Atatürkçü Düsşünce Derneg˘i, che ha il compito di difendere i valori e i princìpi del fondatore della Turchia laica. Sono stati i suoi membri a organizzare le grandi manifestazioni contro la candidatura di Gül a presidente della Repubblica nella primavera 2007, che accusavano Erdog˘an e il suo partito di preparare una deriva islamista. Per Nur e tanti altri è una missione indiscutibile: difendere lo Stato laico a spada tratta. Ma non pensa che le armi potranno più essere quelle dei militari. «Sono passati i tempi dei golpe dell’esercito. La Costituzione assegna loro la difesa delle frontiere e dello Stato laico e democratico e in questo compito il popolo li appoggia.» E la proibizione del velo, secondo Nur, rientra a buon diritto

in questo programma. Mi ricorda che anche la Corte per i diritti umani dell’Unione Europea in risposta al ricorso di una studentessa, ha sentenziato che questo divieto è lecito. Da un recente sondaggio emerge che l’11 per cento delle donne turche usa il niqab. Tutte fondamentaliste islamiche? La celebre scrittrice Elif Shafak pensa di no. Shafak è autrice del romanzo La bastarda di Istanbul, che tratta la questione armena: un argomento che, a lei come a Pamuk, ha procurato guai e minacce. «Come scrittrice, quando scrivo in turco ho a disposizione più di otto parole per definire il copricapo. Ognuna è differente, come sono diverse le donne e le ragioni per cui lo indossano. Alcune lo fanno per abitudine o per tradizione, altre per religione, altre ancora per ragioni politiche. E non tutte le donne che indossano il velo sono ignoranti o represse» ha dichiarato in un recente articolo sulla «Repubblica». E siccome «gli scontri ideologici sembrano ruotare attorno al corpo e all’abbigliamento delle donne», secondo Elif è forse arrivato il momento di smettere di chiedersi quale debba essere l’aspetto della donna turca ideale e di cominciare a chiedersi se ce ne debba essere una. «In Turchia la domanda se l’Islam possa coesistere con una democrazia di tipo occidentale ce la poniamo da centocinquant’anni. Dopo centocinquant’anni di occidentalizzazione e modernizzazione la risposta alla quale siamo arrivati è un deciso sì».

CAPITOLO 25 LA SCANDALOSA FIRST LADY U NA DONNA CON IL VELO non rappresenterebbe la Turchia nella sua complessità.» Dovrà ricredersi Arzuhan, la presidentessa degli industriali turchi. La donna che sta per aprirmi la porta non solo indossa il turban, ma per poterlo fare si è messa contro suo marito e tutto il suo Paese. E poco più di un mese dopo questa mia visita sarà chiamata proprio a rappresentarlo, in qualità di first lady. Suo marito Abdullah Gül, che al momento del nostro incontro è ancora ministro degli Esteri, il 28 agosto 2007 diventerà il primo presidente islamico della Repubblica turca. La suite in cui ci riceve Hayrunisa Gül è spaziosa ed elegante, mobili scuri in stile moderno e molte lampade allineate lungo le pareti, e portefinestre che si aprono su una grande terrazza bianca inondata di sole. Insieme a lei c’è la sua amica Nursuna Memecan, ingegnere informatico e autrice di libri per bambini, che fino a un paio di mesi fa viveva a New York, ma ha deciso di tornare in patria per candidarsi alle elezioni. Guardando queste due donne è difficile pensare che molti, in Turchia, considerino loro e ciò che rappresentano una minaccia per la democrazia. Nursuna indossa un paio di pantaloni e una camicia nera ed è a capo scoperto. Hayrunisa, sobriamente elegante nel suo completo marrone, camicetta e gonna lunga fino alle caviglie e un paio di sandali con il tacco alto, porta il controverso turban. È griffatissimo, in seta con motivi equestri, ma è pur sempre un foulard in testa. Come quello che porta il 55 per cento delle donne turche. Per causa sua Hayrunisa, come molte altre, non ha potuto frequentare l’università, nonostante avesse passato il test d’ammissione. In quanto istituzione pubblica, infatti, l’accademia vieta l’uso del velo islamico. Per ribaltare questa decisione la signora Gül ha intrapreso una lunga battaglia legale, che l’ha portata fino alla Corte per i diritti umani dell’Unione Europea. «Ma così il mio problema è diventato di competenza del ministero degli Esteri, e il ministro era mio marito» puntualizza con un sorriso rassegnato. «Non potevo combattere contro di lui.»

Quindi ha rinunciato agli studi ma ha continuato a portare il velo, nonostante parte dei suoi compatrioti le chiedessero con insistenza, come moglie di un protagonista della vita politica, di rinunciarvi. Ero molto curiosa di conoscere questa donna così ostinata e «scandalosa», che abitualmente è schiva con i giornalisti. Sono riuscita a ottenere un incontro grazie ai buoni uffici di Selva, la moglie turca dell’ambasciatore italiano ad Ankara, Carlo Marsili. Seduta di fronte ad Hayrunisa sul grande divano, davanti a un tavolino imbandito con tè, caffè e leccornie locali, mi sento disarmata dal suo volto rotondo, pronto al sorriso, con grandi occhi castani che si fissano seri sull’interlocutore. Le mani intrecciate sulle ginocchia, ha un’aria tranquilla, non sembra certo una donna pronta a ribaltare il mondo per un foulard. Vado subito al dunque e le chiedo da quanto tempo indossa il turban. «Da quando avevo tredici o quattordici anni» risponde serena. «Nessuno nella mia famiglia me lo ha imposto. E io non l’ho imposto a mia figlia Kübra, anzi l’ho pregata di aspettare prima di decidere. Allora ha cominciato a indossarlo di nascosto, e quando io e mio marito lo abbiamo scoperto è stata una grossa sorpresa.» A Londra, dove Kübra studia e fa l’apprendistato come ingegnere industriale, il suo copricapo non suscita problemi politici né perplessità. Qui la storia è diversa. «Come suo fratello Ahmed, anche lei ha studiato ingegneria industriale. Uscivano insieme di casa diretti a lezione. Ma mentre lui andava direttamente in aula, lei doveva fare una sosta in bagno e indossare una parrucca, che l’Islam concede in sostituzione del velo. Quest’anno, alla cerimonia per la consegna della laurea non è potuta salire sul palco con gli altri, perché indossava il turban in un luogo pubblico. Sono scesi a darle la pergamena mentre lei è rimasta seduta, accanto a noi. Il giorno dopo era su tutti i giornali. Non ci ha ancora perdonati.» Lo stesso problema della madre. Sebbene con il marito sia stata ricevuta da capi di Stato in tutto il mondo, in Turchia finora le sono stati preclusi le cerimonie ufficiali e i ritrovi mondani. «Cancellano semplicemente il mio nome dalla lista» conferma, fra il rassegnato e l’ironico. «Sono d’accordo che non bisogna costringere le donne, nessuna donna, a indossare alcun tipo di copricapo o abito» aggiunge. «Ma neanche il contrario.» Raccontata così, quella del velo sembra una vera e propria psicosi, e viene da chiedersi se possa essere così infondata. Da quando l’Akp è al potere qualche allarme c’è stato. In aprile oltre un milione di turchi sono scesi in piazza per protestare a favore della laicità del Paese, scandendo gli slogan «No ai colpi di Stato» e «No alla Sharia». Tra loro c’erano molte donne, consapevoli di essere lo strato sociale più vulnerabile: i loro diritti sono più recenti. Una simile partecipazione popolare fa riflettere. In realtà, una tra le principali cause del disagio dei turchi laici e metropolitani è l’«invasione» delle loro città, negli ultimi anni, da parte di masse rurali, provenienti soprattutto dall’Anatolia. Non a caso questa regione è il luogo d’origine delle famiglie Gül ed Erdog˘an. La nuova classe sociale, aggressivamente imprenditoriale e che spesso ostenta una rigorosa devozione, sta erodendo il potere politico dell’élite laica. Il candidato menzionato dalla professoressa Arat, Baskin Oran, ha osservato in un’intervista: «Li fa impazzire vedere donne coperte dal turban che fanno jogging nel quartiere. Ma col tempo forse lo shock culturale si attenuerà». Tra le proposte politiche che i dimostranti rimproveravano all’Akp, oltre a provvedimenti come il tentativo di istituire «aree senz’alcol» a Istanbul, c’è naturalmente il famoso passo falso di Erdog˘an sulle pene detentive per l’adulterio. Una richiesta del tutto indifendibile, e chiedo alle mie interlocutrici cosa ne pensano. È Nursuna a rispondere, consultandosi in turco con Hayrunisa, che sembra avere sull’argomento sentimenti troppo complessi per riuscire a esprimerli in inglese. «Lei vuole che la famiglia sia protetta» traduce Nursuna dopo qualche animato scambio di battute. «Ci sono troppi uomini in Turchia con seconde e terze mogli, e i loro figli vanno protetti. Lei è contro la poligamia, afferma che l’Islam prevede sia la donna a decidere se suo marito può o meno prendere un’altra moglie. La legge deve

appoggiarla nelle sue rivendicazioni.» Obietto che, per offrire questo tipo di appoggio, ci sono i contratti matrimoniali e i diritti civili: la Turchia è un Paese moderno dove la poligamia è vietata. «Molte donne non lo sanno» sostiene Nursuna. C’è un altro animato dibattito fra le due, durante il quale Jacques e io ci guardiamo perplessi: davvero qualcuno pensa che criminalizzare l’adulterio possa proteggere la famiglia? «Dal punto di vista dei diritti umani» conclude Nursuna, sempre riportando le parole dell’amica «anche Hayrunisa pensa che lo Stato non debba interferire con la vita privata dei cittadini. Ma dal punto di vista morale crede che la famiglia debba essere tutelata. Se ci fosse una legge contro l’adulterio, certo gli uomini e le donne non tradirebbero.» Purtroppo non è così, come testimoniano tutti i Paesi in cui sono i tribunali a occuparsi della fedeltà coniugale. «Be’, alla fine comunque abbiamo capito che non era una buona idea» conclude Nursuna. Si affaccenda senza fretta intorno al tavolino rotondo, riempiendo piattini e versando bevande e intanto elenca gli interventi del governo a favore delle donne negli ultimi quattro anni. È stata introdotta una sovvenzione per le madri che accettano di mandare i figli a scuola: viene aperto un conto a loro nome su cui lo Stato versa 39 lire per ogni femmina iscritta e 22 per ogni maschio. Sono stati avviati programmi di microcredito femminile, specialmente nelle aree più povere dell’Est. Sul versante giuridico, fra l’altro, è stato abolito il test di verginità come prova processuale e sono state inasprite le pene per i cosiddetti delitti d’onore. «La gente ci ama per quello che abbiamo fatto, e ama mio marito» interviene Hayrunisa. «Se ci fossero domani elezioni presidenziali dirette, l’80 per cento voterebbe per lui.» Considerazione politica o dichiarazione di affetto coniugale? Il suo matrimonio dura da decenni: ha sposato Abdullah a quindici anni, quando lui ne aveva trenta. «Non era un po’ giovane?» chiedo, dato che ormai si è instaurata una certa confidenza. Non aggiungo che in Europa il matrimonio in così giovane età non è certo ben visto. In Italia l’età minima è diciotto anni, e solo con il consenso del Tribunale dei minori è possibile sposarsi a sedici. E del resto nella stessa Turchia il nuovo codice civile del 2001 ha alzato l’età da diciassette a diciotto anni per gli uomini e da quindici a diciassette per le donne. La sposa del figlio di Erdog˘an era appena diciassettenne. «Mi sentivo matura» taglia corto lei. Ma aggiunge che quando sua figlia ha avuto quindici anni non le è nemmeno passato per la testa che potesse sposarsi. Lascio cadere l’argomento. Mi interessa di più avere da lei una risposta diretta alla domanda che, qui a Istanbul, tutti si pongono. Un partito di ispirazione islamica davvero riuscirà a prescindere dalla religione, nella sua azione politica? «Noi non siamo un partito islamico» quasi insorge la Gül, più colpita che da qualunque mia altra domanda. «Nel nostro programma non c’è alcun riferimento all’Islam. C’è scritto più democrazia, più istruzione, più diritti umani. Gli islamici radicali sono solo il 4-5 per cento e questo governo non ha nulla a che fare con il fondamentalismo. Persone di altre religioni sono contente di stare nel nostro Paese.» Le ricordo gli omicidi di sacerdoti cristiani, come quello di don Santoro a Trebisonda, e stringe le labbra. «Certo, ci sono stati episodi tragici, ma il popolo ha reagito con forza e così pure il governo. E si trattava di nazionalisti, non di fondamentalisti. Alcuni di noi sono musulmani, altri non lo sono, è una faccenda privata.» Sembrano così in buona fede che obiettare mi sembrerebbe un eccesso di cinismo. Senza contare che si avvicina l’ora di pranzo e dobbiamo togliere il disturbo. Ci invitano caldamente a restare, ma noi dobbiamo proseguire verso la nostra prossima tappa: palazzo Topkapi, dove intendo visitare uno degli harem più famosi del mondo. Ritroveremo comunque le due signore tra qualche ora per un bagno di folla davvero unico, in compagnia dei massimi dirigenti del Paese.

Le visite all’harem di palazzo Topkapi partono ogni mezz’ora, e quando arriviamo c’è già una bella fila di turisti che boccheggiano sotto il sole. Lascio che sia Jacques a sorbirsi la coda, e mi ritiro su una panchina all’ombra di un cespuglio fiorito, per leggere qualche informazione su questo luogo così famoso. Il complesso del palazzo è del XIV secolo, ma l’harem fu organizzato da Solimano il Magnifico nel XVI. I sovrani turchi hanno abitato al Topkapi fino all’Ottocento, per poi trasferirsi in altre splendide residenze. Come palazzo Dolmabahçe, sulla riva del Bosforo, dove il 10 novembre 1938 morì Kemal Atatürk e dove ancora oggi gli orologi sono fermi all’ora del suo decesso, le 9:05. La parola «harem» merita qualche spiegazione. È innanzitutto legata all’arabo haram, che designa tutto ciò che è sacro e proibito. Più precisamente, poi, deriva da harim e significa «privato», ma in un senso particolare: harim è infatti quella parte della casa inviolabile riservata alle donne in un’abitazione musulmana, il cuore della vita domestica. Harem, insomma, indica la separazione tra pubblico e privato: una sorta di «velo» architettonico. Nella famiglia imperiale ottomana questo luogo assunse ovviamente dimensioni e importanza diverse, ospitando oltre alle mogli anche numerose concubine. Spesso nient’altro che schiave, comprate o ricevute in dono: potevano arrivare fino a 300. Le ragazze in genere straniere – l’Islam proibisce di ridurre i musulmani in schiavitù – dovevano innanzitutto imparare il turco. Poi ricevevano un’educazione tipicamente femminile: dalla danza al ricamo, dal trucco al portamento. Ma anche, per le più dotate, la lettura e la scrittura. Entriamo nei quartieri degli eunuchi, gli schiavi castrati che sorvegliavano le donne del sultano, si occupavano dell’educazione dei principi e a volte tenevano la contabilità del palazzo. Non può non tornarmi in mente il mio viaggio egiziano, la piaga delle mutilazioni genitali femminili. A questi uomini le cose non andavano meglio. Ma, per loro fortuna, oggi per custodire la virtù di una donna non è più necessario mutilare un uomo. Rabbrividisco appena, ma sarà il fresco delle stanze. Passiamo in un ambiente sfarzoso, la grande sala in cui il sultano riceveva ospiti e dignitari. Su un lato, lunghi divani bassi e cuscini ricamati in rosso e oro. Al di sopra di questo spazio riservato alla corte, una balaustra: lassù stavano le concubine, radunate attorno alla prima fra le mogli. L’harem è da secoli al centro dei sogni dell’Occidente. Chiaramente di quelli maschili, dove risplende come un bordello fiabesco popolato da uno stuolo di fanciulle caucasiche, circasse, abkhase ma anche europee: italiane, ungheresi, austriache, spagnole… Più numerose, belle e sottomesse che in qualunque casa di piacere nostrana. Le ampie sale sono cosparse di morbidi cuscini, i bassi tavoli grondano uva, pistacchi e dolci e le lanterne di vetro colorato gettano ombre misteriose e sensuali sui muri. Avvolte in veli sottili e colorati, le ragazze dai grandi occhi scuri e dalle lunghe ciglia giocano ridendo attorno a piscine di acqua chiara o attendono adagiate sui divani il piacere del loro padrone. Nel mezzo di questa coreografia il sultano, con una o più concubine sulle ginocchia, si diletta di uno spettacolo di danza del ventre e pigramente decide a chi, o a quante, gettare il suo fazzoletto per quella notte d’amore. Percorrendo le sale tappezzate di splendide piastrelle di Iznik dai vividi colori, verdi e azzurri luminosissimi, è facile riportare alla mente questa versione hollywoodiana del gineceo orientale. Ma in realtà la vita dell’harem aveva le sue regole. Compresi, pare, i piaceri del sultano. I «turni» delle sue visite coniugali in teoria dovevano soddisfare il principio coranico che impone di trattare tutte le proprie mogli in modo equo. E questo vale anche per la soddisfazione sessuale. Tra gli obblighi di governo e quelli di famiglia, al pover’uomo probabilmente non rimaneva molta energia per le orge. Anche le famose odalische, più che ancheggiare per lui in danze lascive, gli rifacevano i letti e gli tenevano i conti: «odalisca» significa infatti «cameriera» e il termine indica il personale di servizio dell’harem. Avevano mansioni differenziate, alcune umili come la parrucchiera, altre di responsabilità come l’assaggiatrice o la tesoriera. Queste ultime odalische di alto rango venivano chiamate ustaz, maestro, percepivano un salario giornaliero, potevano dimettersi quando lo desideravano, e spesso quando lasciavano il servizio ricevevano come «buonuscita» una pensione o anche dei terreni.

C’erano feste per le nascite dei figli, per le circoncisioni, per i matrimoni. Concerti tenuti dalle concubine o da artiste venute da fuori. Lunghe serate quando si rompeva il digiuno del Ramadan al tramonto, con succhi di frutta e un pugno di datteri a cui seguiva il pasto. Si organizzavano persino scampagnate sulle rive del Bosforo, ovviamente riservate a piccoli gruppi perché muovere tutte quelle donne insieme sarebbe stato impossibile. Ma si trattava comunque di una vita segregata, in un ambiente ossessivo. L’harem in cui mi trovo è splendidamente ornato, con le sue piastrelle, i suoi soffitti grondanti pitture di tralci e di fiori, i suoi camini intarsiati. Ed è grande, dato che è aperta alle visite solo una piccola parte: i bagni, le stanze della prima moglie, le camere dei principi. Ma non posso fare a meno di provare una lieve claustrofobia, e un certo senso di spreco. Tutto questo talento femminile buttato via tra l’ozio e gli intrighi per assicurare il proprio futuro e quello dei propri figli – in senso letterale, dato che qui dentro si moriva facilmente di congiura e di veleno. In linea di principio, infatti, tutti i figli del sultano potevano succedergli, non c’era primogenitura. Quindi non c’è da stupirsi che tramare fosse l’attività preferita. Probabilmente era anche il principale modo di vincere la noia. E le abitanti di queste sale erano alla completa mercé del loro padrone, di ogni suo capriccio e impulso anche violento. L’uomo di casa non necessariamente era quel signore benevolo e sessualmente soddisfatto nei cui panni ogni maschio occidentale sogna di essere. Aveva il potere assoluto, in politica quanto tra queste mura. Rimase famoso per i suoi eccessi Ibrahim I, vissuto tra il 1616 e il 1648. Tra le moltissime leggende sulle sue follie, si racconta fosse un feticista delle pellicce, che amava usare tanto per i suoi abiti e tendaggi quanto per i suoi incontri sessuali. E un amante delle donne grasse: inviò emissari a ogni angolo del regno in cerca della cicciona del suo cuore e l’armena che gli portarono, Sechir Para, divenne la sua favorita. Fu lei, pare, a sussurrargli all’orecchio che una delle sue concubine era stata «compromessa da un estraneo». Quale? Nessuno lo sapeva. Gli eunuchi torturarono alcune delle ragazze, ma non scoprirono nulla. E Ibrahim, tanto per non rischiare di commettere ingiustizie, fece gettare nel Bosforo tutte le 280 abitanti dell’harem, legate in sacchi ben zavorrati. Se ne salvò soltanto una. Quanto a Sechir Para, divulgatrice e forse autrice di quell’«innocuo pettegolezzo», fu fatta strangolare dalla moglie del sultano, gelosa della sua influenza. Dove il dominio assoluto del maschio poteva essere così devastante, per la solidarietà di genere c’era poco posto. Entro con Jacques nelle camere che appartenevano alla moglie del sultano. Per secoli il talento femminile ha dovuto esercitarsi all’ombra del potere maschile: pensiamo alle nostre regine e favorite, ma anche oggi a molte mogli di diplomatici e presidenti. E l’harem non faceva eccezione. La valide sultan, in genere madre dell’erede al trono, prima fra tutte le donne di quella corte rigorosamente chiusa e regolamentata, poteva dare ordini anche al Gran Visir. Grazie alla sua vicinanza al regnante aveva anche influenza sulle decisioni relative alle altre donne, e persino sulle scelte politiche. Come Hurrem, che in Occidente chiamiamo Rosselana, la bellissima concubina divenuta un simbolo di «potere femminile» per la grande influenza che acquisì alla corte di Solimano il Magnifico. Lui è ricordato come condottiero e legislatore, oltre che come poeta. Fu l’uomo che condusse gli eserciti turchi fino alle porte di Vienna nel 1529 e che espanse la superficie dell’Impero dai Balcani alla penisola arabica, all’Africa settentrionale. Rosselana era la sua favorita, riuscì a diventare sua sposa – impresa fino ad allora mai compiuta da una concubina – e lo convinse a designare come suo successore il loro figlio Selim. Che fu un capo tanto illuminato da passare alla storia come Selim l’Ubriacone: meglio sarebbe stato, forse, se il trono fosse andato alla madre. Mi guardo intorno nelle stanze della regina, ora spoglie dei drappi e dei tappeti che certo le ornavano, e immagino Rosselana che si muove tra queste splendide mura. Oggi c’è chi la definisce astuta, chi malvagia: in fondo riuscì a far fuori un Gran Visir e uno dei figli del sultano. Ma era una mente brillante rinchiusa tra quattro mura a contare datteri sui vassoi, cos’altro avrebbe potuto fare? Le qualità migliori delle donne – la passione, l’intelligenza, la capacità di relazione – trovano sempre il modo di esprimersi. Rinchiuse, si trasformano in frustrazione e ossessione.

Gli uomini non lo hanno ancora capito. Usciamo a respirare nel cortile delle concubine. Non si vede la città ma una breve fuga di tetti del palazzo e il verde di qualche albero. Mi siedo su uno scalino di calda pietra bianca, penso alle donne radunate qui per le loro «ore d’aria». Sicuramente si riversarono qui terrorizzate quando scoppiò il grande incendio, nel 1665. I cartelli che documentano scrupolosamente la quantità e qualità di piastrelle restaurate non si preoccupano di descrivere le circostanze del rogo, né quante fanciulle morirono. Probabilmente, «non è una priorità». Dopo aver percorso alcuni stretti corridoi, usciamo nei giardini. Attraversiamo la Porta della Felicità, da cui si accedeva ai quartieri privati del sultano. Felicità per chi?, mi chiedo in tono un po’ ribelle. Per distrarmi, Jacques mi indica la pietra tagliata davanti alla porta, su cui veniva infissa la bandiera del Profeta per rendergli omaggio prima di andare in battaglia. Gli uomini, mi ricorda, andavano a morire in guerra. È anche vero però che non erano le donne a mandarceli. Il telefono lampeggia: è un messaggio di mia madre. Mi ricorda che oggi è il mio anniversario di matrimonio. Sussulto e guardo Jacques di sottecchi: sa esattamente cosa mi passa per la testa. «Pensa quanti anniversari doveva ricordarsi il sultano» riflette, con una punta di solidarietà maschile. Rido, e l’immagine un po’ asfissiante di tutte quelle donne rinchiuse si allontana. Dovrei provare un po’ di compassione anche per mio marito: come festa di anniversario avrà il comizio dell’Akp, stasera. Pover’uomo.

L’autobus presidenziale corre sballottandoci lungo il Bosforo. Sono in piedi nel corridoio, aggrappata a una maniglia, e cerco di parlare con quante più persone possibile, ma il mezzo è affollato di uomini dell’Akp, donne delle famiglie Erdog˘an e Gül e personale di sicurezza. Ogni movimento è difficile. E tutti gli spazi vuoti, in alto e tra i sedili, straripano di giocattoli: bambole e camion di plastica che suppongo saranno lanciati alla folla. Quasi tutte le donne indossano turban elegantissimi, che incorniciano volti seri e quieti. Chiedo a una ragazza dai luminosi occhi verdi come mai si trovi lì. «Sono della famiglia. Mio padre» e mi indica un uomo dai capelli grigi poco più avanti «è il fratello del primo ministro. Queste sono le mie sorelle.» Solo la più piccola, ancora bambina, ha il capo scoperto. Questa nipote di Erdog˘an si chiama Sumeira, indossa un turban di seta blu e risponde alle mie domande con una compostezza insolita per la sua età. «Frequenti l’università?» chiedo, sapendo già quale sarà la risposta perché anche lei, come Hayrunisa, non può accedere agli atenei indossando il velo. «Sì, ma non qui. Studio a Berkeley, in California.» Forse il migliore tra i risultati della proibizione del copricapo islamico è l’inglese perfetto che parlano queste ragazze. La figlia del premier ha scelto l’Università dell’Indiana: «Lì nessuno si agita per il velo» dice in tono piuttosto aggressivo. Tutta suo padre. Ma anche un po’ sua madre: la first lady Emine, in piedi poco distante da me, è una donna determinata. «Queste elezioni saranno un grande successo per noi» sentenzia sicura. Non teme una mobilitazione dei paladini del secolarismo né un intervento dei militari. Con tono fra il perentorio e il minaccioso puntualizza: «Non avete ancora visto la nostra, di mobilitazione». Però negli ultimi cinquant’anni l’esercito, che si considera il custode del principio di laicità, ha guidato tre colpi di Stato in sua difesa: nel 1960, nel 1971 e nel 1980. Non potrebbe succedere di nuovo? Lo chiedo anche ad Abdullah Gül, che mi saluta e sorride accanto al primo ministro. «Non c’è nessun pericolo» mi risponde. Sembra convintissimo. «Questa primavera i nostri oppositori hanno portato in piazza un milione di persone» ammette Gül, ma aggiunge

con un gran sorriso: «Oggi, vedrà, noi faremo di meglio». Lascio vagare lo sguardo dall’autobus al panorama che stiamo attraversando. È un tardo pomeriggio di domenica e la striscia di prato, verdissima e curata, che separa la strada dal mare è affollata di famigliole in gita, che mangiano e giocano. Su entrambi i lati del viale trafficato la gente si alza, guarda sfilare il corteo presidenziale. Gli altoparlanti dell’autobus trasmettono musica molto ritmata e slogan elettorali. Il popolo applaude, agita le braccia, acclama. L’aria è densa di sole e adrenalina. Man mano che ci avviciniamo al luogo del comizio, la folla si fa più fitta. Ci sono moltissimi uomini ma anche molte donne, con il turban oppure a capo scoperto, che si accalcano intorno al bus ministeriale. Incalzati da una musica pulsante, i leader e i candidati dell’Akp salgono le strette scale e noi con loro. Siamo sul palco. Il popolo dell’Akp ci accoglie ruggendo, un’onda d’urto di entusiasmo in un tripudio di bandiere rosse e arancione che quasi ferisce gli occhi, nell’aria invasa da milioni di striscioline di stagnola colorata. La musica è assordante. Mi faccio largo fino al bordo del palco, stordita dal rumore, dal riverbero. Per un attimo immagino la scena con un occhio esterno: io in piedi sul palco di un comizio turco, insieme all’intero gruppo dirigente del partito di governo. Per fortuna le televisioni italiane non sono ancora sul pezzo: posso immaginare come sarebbe accolta questa inquadratura. A me sembra solo un po’ surreale. Mentre Erdog˘an, Gül e altri, tra cui la nostra amica Nursuna, salutano i loro sostenitori, fisso quel mare di teste e bandiere e all’improvviso l’assicurazione di Gül, «andremo oltre il 40 per cento», mi sembra del tutto plausibile. Le urne gli daranno infatti più che ragione, superando il pronostico di quasi sette punti percentuali. Poi il saluto finisce e si torna sul bus. Il prossimo a salire sul palco sarà Erdog˘an, solo, per quello che è annunciato come un comizio di due ore. Sono famose le arringhe di questo politico magnetico, adorato dai suoi quanto detestato dagli avversari. Il suo curriculum di leader gli è valso il rispetto della comunità internazionale: è stato il primo premier turco ad aprirsi all’Europa ma anche a opporsi agli alleati statunitensi, rifiutando il passaggio delle truppe americane durante l’invasione dell’Iraq nel 2003. A quanto pare quest’uomo alto, con la fronte spaziosa, i baffetti brizzolati e uno sguardo intenso e astuto, piace anche moltissimo alle signore. Sembra sicuro di sé, rilassato, già nella parte. Si appoggia contro il finestrino, di traverso sul sedile, mentre accanto a lui un assistente traduce per me le sue risposte. L’inglese di Erdog˘an non è buono quanto quello di sua figlia. Gli chiedo quante persone ci sono là fuori, secondo lui. «Almeno un milione» risponde, e giustifica la sua certezza con un breve calcolo. «L’area è grande 250.000 metri quadrati, e in questo genere di raduno ci sono circa quattro persone per ogni metro quadro.» «Sono le stesse stime dell’agenzia Reuters» mi conferma il suo portavoce. Neppure lui teme la reazione dei militari in caso di vittoria? In fondo lo hanno messo in guardia. «Anche noi abbiamo messo in guardia loro,» ribatte «ricordando che l’esercito risponde al governo del Paese, e non viceversa.» Gli spiego che, oltre che una giornalista, sono un membro del Parlamento europeo, e i suoi occhi si illuminano di interesse e di una sfumatura di calcolo. «Noi abbiamo fatto molto per favorire l’ingresso della Turchia in Europa» osserva subito. «Abbiamo varato più di 200 leggi, e molte riforme per incontrare le vostre richieste.» E se il suo partito conquisterà una maggioranza sostanziosa in Parlamento, questo impegno continuerà? Non c’è il rischio di cedere alle pressioni dell’elettorato islamico più radicale? Per esempio sulla questione del velo? «Se il partito si confermerà al potere, naturalmente affronteremo il problema» annuisce senza scomporsi. «Ma per dissipare le tensioni che si sono create sull’abbigliamento islamico c’è bisogno di un vasto consenso istituzionale. Si vuol far credere alla gente che se ci darà il suo voto perderà la libertà, il suo stile di vita occidentale. Ovviamente non è così. Siamo vicini all’Occidente, anche all’Italia: Berlusconi è un amico, e anche Prodi. Intendiamo continuare in spirito di collaborazione.» Forse ho un’espressione perplessa perché mentre si alza per andare incontro al suo pubblico dichiara con una

punta di sfida: «Siamo noi i veri laici e continueremo a difendere lo Stato». Non gli strapperò altro che dichiarazioni programmatiche, questo è chiaro. Tanto Gül trasmette calore ed entusiasmo con il suo largo sorriso, tanto Erdog˘an ha l’aria cauta e vigile del politico navigato. Quando sale sul palco, però, si trasforma. Dalla mia posizione ora ai piedi del palco, davanti alle transenne che trattengono l’entusiasmo popolare, seguo i primi quaranta minuti del suo discorso. Non posso capire quello che dice in turco, ma mi è chiarissimo che lo stile oratorio del premier è di quelli che trascinano le masse. Anche se ogni tanto la voce si fa stridula per lo sforzo, mantiene un tono brillante, energico, aggressivo. Si muove sul palco come se ci fosse nato. Raccoglie le vibrazioni del pubblico e le rimbalza indietro trasformate in suggestioni e idee semplici e concrete; la gente acclama, esulta, intona cori da stadio. Tra pochi giorni ripenserò all’euforia e all’innegabile populismo di questa giornata elettorale, ma anche a tutte le aperte professioni di europeismo che ho ascoltato. Sono perplessa ma fiduciosa. E speranzosa che nonostante le voci contrarie l’Europa non lasci sola la Turchia, e le sue donne. È un Paese moderno, con una solida democrazia, e saprà affrontare le sfide che l’attendono, mi dico nel taxi che ci riporta all’albergo. Intanto, silenzioso, il sole al tramonto colora di rosa le vecchie pietre, come ogni sera. Ho la sensazione che l’immortale Costantinopoli sorrida di noi e di questo nostro affannarci sulla via del cambiamento. Ne ha visti troppi, per lasciarsi ancora impressionare.

CAPITOLO 26 MAROCCO A LUCI ROSA L A STRADINA IN DISCESA nel centro di Tangeri ha un nome che sembra uscito da un romanzo gotico: via del Diavolo. Parte dal boulevard Mohammed V e scende fino al porto. Sembra girare verso l’orizzonte, verso i flutti agitati dello Stretto di Gibilterra. Verso la speranza per generazioni di marocchini il cui destino è strettamente legato all’Europa e alla sua ricchezza. Ma nel cuore delle calde notti della grande città portuale, la speranza è una merce rara in rue du Diable. Sono seduta con Jacques a un tavolino del bar Les Ambassadeurs. Il fumo delle sigarette è talmente fitto che per poter respirare ho dovuto aprire una finestrella. Un cantante, in frac e papillon, si sgola al microfono. I neon illuminano di una luce livida le tovaglie di plastica appiccicose su cui sono allineate le bottiglie di birra. I camerieri ogni tanto portano via quelle vuote, lasciando i tappi per facilitare i conti. Siamo entrati con Meriam, una bellissima marocchina che ha lasciato temporaneamente Marsiglia per fare qui il dottorato in sociologia. Con passo sicuro ci ha guidati attraverso la sala al piano terra. Siamo passati davanti al bancone, con il proprietario seduto sopra una piccola pedana che controlla l’accesso a una stretta scala. Arrivati al primo piano ho avuto un attimo di esitazione: la musica era assordante e l’aria irrespirabile. Ci siamo aperti un varco tra le coppie intente a ballare per andarci a rifugiare in un angolo. Davanti a noi si dimenano le ragazze «in vendita»: gonne corte, jeans aderenti, body attillati. Sono truccate e scoppiano spesso in sonore risate strusciandosi contro gli uomini, giovani per lo più, che le accompagnano. Siamo in un bar per prostitute, e non certo d’alto bordo, come ce ne sono dozzine a Tangeri. Meriam, la nostra guida, ha

deciso di dedicare la sua tesi al fenomeno della prostituzione che in Marocco riguarda decine di migliaia di donne. «Ho scelto questo argomento quando ero in Siria per occuparmi di immigrazione. Un giorno a Damasco, in un hammam, ho incontrato un gruppo di donne marocchine e ho scoperto che erano tutte “del mestiere”.» Così, da un anno raccoglie storie di vita di strada. L’unico motivo per avviarsi alla professione più antica del mondo, conferma, è il denaro. Sono divorziate, senza risorse e senza lavoro. Oppure ragazzine di dodici o tredici anni che lavoravano come domestiche e sono state vittime di violenze sessuali. «La situazione si sta aggravando» ci spiega. «È la conseguenza di diversi fenomeni: la precarietà economica, la disoccupazione, anche femminile, e la reputazione del Paese come destinazione del turismo sessuale per gli europei e gli arabi del Golfo.» Assicura che la polizia e le autorità della religiosissima monarchia, sotto la guida del re Mohammed VI «Comandante dei credenti», chiudono gli occhi. «Le ragazze per lo più non hanno protettori, non c’è una vera e propria mafia del sesso, come nei Paesi dell’Europa dell’Est, ma è comunque un fenomeno preoccupante.» Non ci sono cifre ufficiali ma tutte le grandi città hanno i loro quartieri a luci rosse: Agadir, Marrakech, Casablanca, Tangeri. I turisti alla ricerca di divertimento, etero e omosessuale, possono trovare tutto ciò che desiderano. Circolano numerose storie di veri e propri baccanali organizzati dai principi arabi nei loro sfarzosi palazzi nei quartieri alti. E le somme spese dagli sceicchi e dagli emiri possono raggiungere cifre da capogiro, capaci di far sognare giovani avidi di soldi facili. «Ma i clienti sono anche marocchini, come qui» continua Meriam. «In un Paese in cui il matrimonio è reso difficile dalla miseria, il ricorso alla prostituzione è sempre più diffuso.» I prezzi di una prestazione per i poveri si aggirano tra i 50 e i 150 dirham, ovvero tra i 5 e i 15 euro. Una donna di servizio o una cameriera guadagna 300 dirham al mese. Osservo una ragazza in minigonna rossa, che fa di tutto per mostrare il perizoma dello stesso colore. Agita i glutei davanti ai volti di un gruppo di maschi seduti a un tavolo, gli occhi accesi dall’alcol e dal desiderio. Ogni tanto si volta per baciarne uno o invitarne un altro a seguirla sulla pista da ballo. Sembra spassarsela, ma fatico a credere che si diverta davvero. Incredibilmente, domani la incontrerò di nuovo nelle viuzze del suq, riconoscibilissima con i suoi capelli chiari e gli occhialini dalla montatura nera. Di giorno, sarà coperta da capo a piedi dall’abaya. Per chissà quale «secondo lavoro». «Sono molto pratiche» mi spiega Meriam. Ammiro il suo coraggio nel lanciarsi in una simile inchiesta: questo mondo non è tanto tenero con chi è troppo curioso. Lei ha anche vissuto per due settimane in casa di un gruppo di prostitute a Marrakech, dove il «mestiere» è cresciuto insieme al turismo. «Erano sempre fatte di tutto: hashish, potenti tranquillanti, alcol e altri miscugli. Ma il digiuno del mese di Ramadan veniva rigorosamente osservato e mi sgridavano perché io non lo facevo!» Meriam ha già intervistato decine di loro a Tangeri. «Sanno di non avere scelta» afferma. «O muoiono di fame, oppure vendono i propri corpi. E fino a quando non cadono nelle mani di organizzazioni criminali, hanno la sensazione di poterne uscire quando vogliono.» Decidiamo di cambiare destinazione e ci fermiamo davanti ai gradini dell’hotel Lutetia. Un nome prestigioso, ma il posto ha l’aspetto di un albergo a ore. Tre cerberi stanno di guardia alla porta, in cima a una rampa di scale. Jacques passa in testa: dopotutto qui i clienti sono principalmente uomini. Apre la porta e ho la sensazione di venire scaraventata in un film di serie B sul mondo della notte, i suoi vizi e le sue turpitudini. Queste attività da noi si sono rifugiate nei saloni di massaggi, nei retrobottega dei sex-shop, o negli appartamenti delle «libere professioniste». Al Lutetia, le cose sono più semplici. Intorno al bar, che fatico a raggiungere, sono radunate ragazze in tenute conturbanti. Sorridono a Jacques, che ci fa strada con un’aria compiaciuta e un po’ preoccupante. Oltre il bancone, un’ampia veranda accoglie le coppie che aspettano davanti a un bicchiere. Di solito la serata finisce nelle stanze ai piani superiori, le cui chiavi vengono distribuite da un affabile tenutario. Troneggiante su un’alta sedia, riappende ai chiodi piantati in un pannello di legno alle sue spalle i magici

lasciapassare numerati, che gli vengono restituiti dopo l’uso. Ha l’aria bonaria e disincantata di chi ne ha viste di tutti i colori e sembra seguire con uno sguardo indulgente le coppie che gli sfilano davanti. Sulla scala a chiocciola si incrociano, in un viavai continuo, le ragazze e i clienti che salgono al fronte dei piaceri prezzolati e coloro che ne ritornano.

Ho scelto Tangeri perché non ero mai stata in questa mitica città. Conoscevo già Casablanca, Rabat, Marrakech, ma non la porta dell’Africa, da dove si avvistano, molto vicine, le coste della Spagna. Qui, da sempre, si respira un’aria cosmopolita: è stata sotto la dominazione dei portoghesi, degli spagnoli, degli inglesi e dei francesi, prima di passare sotto la piena sovranità marocchina nel 1956. Durante la sua lunga storia di ponte tra le culture, ha accolto un miscuglio di berberi, arabi, musulmani, ebrei e cristiani. Il suo status di zona internazionale ne ha fatto un terreno fertile per gli affaristi degli anni d’oro del dopoguerra, le spie della guerra fredda e gli amanti dei piaceri illeciti. Generazioni di scrittori sono venuti qui alla ricerca di ispirazione: Paul Bowles, l’autore del Tè nel deserto, e poi i Beat alla ricerca di se stessi, Jack Kerouac, William Burroughs, Allen Ginsberg. Ma la città ha ospitato le espressioni artistiche più diverse: le tele dai colori accesi di Henri Matisse o i concerti scatenati dei Rolling Stones. Una breve passeggiata sulle immense spiagge di Cap Spartel, dove i cavalloni dell’Atlantico incontrano le onde del Mediterraneo, spiega perché. Il vento qui soffia senza tregua e geme come l’anima inquieta del mondo. La bellezza e la forza della natura invitano alla riflessione, e accendono le passioni degli uomini che si scatenano nei bassifondi della città. Oggi Tangeri è lontana dal suo antico splendore. La popolazione in venticinque anni è quadruplicata fino a toccare il milione di abitanti. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto livelli record. Nelle strade all’ombra dei platani e sulle piazze alla francese, le terrazze dei bar sono invase da un esercito di sfaccendati. Si siedono la mattina davanti a una tazza di tè e aspettano che passi il tempo, lo sguardo fisso nel vuoto. Non c’è nemmeno una donna in questo panorama di miseria e disperazione. Ci sono solo uomini sconfitti. Non c’è niente nella loro storia recente di cui possano andare fieri: vivono sottomessi da generazioni e non sanno come liberarsi dalla sensazione di fallimento che li pervade. La dittatura di Hassan II, padre dell’attuale re, le dominazioni coloniali, le sconfitte delle ideologie arabe, la decadenza economica, tutto ha contribuito a farli sentire vittime. L’afflusso di turisti che esibiscono, sotto i loro occhi, una vita lussuosa che i marocchini non possono permettersi si aggiunge all’amarezza. E i sospetti di corruzione del regime e di fortune accumulate con il pretesto della liberalizzazione economica non facilitano le cose.

Di fronte alla povertà, Fatima Belhassan ha deciso di agire. Incontro questa donna sulla cinquantina in un ufficio del Pjd, il Partito della giustizia e dello sviluppo, gli islamici marocchini. Indossa un foulard e un manteau grigi, nel pieno rispetto delle norme religiose. Ma ogni giorno, così coperta, va a fare jogging per mantenersi in forma. Fatima è un deputato eletto in una delle circoscrizioni più difficili della città. È l’altro volto del Marocco, il contrario delle ragazze che vendono i propri corpi, degli uomini che si arrendono e del potere indifferente. Ha vinto nel settembre 2002, insieme ad altri 41 candidati del Pjd, che è diventato la vera voce dell’opposizione nel Parlamento marocchino. Il partito islamico ha ottenuto la vittoria nella maggioranza dei collegi elettorali in cui il governo gli ha concesso di presentarsi. C’è chi dice che potrebbe avere una rappresentanza ancora più ampia, se la competizione politica fosse davvero libera. Alle elezioni del settembre 2007, che non vedranno una forte partecipazione popolare, saranno gli avversari dell’Istiqlal (Indipendenza) a risultare il primo partito del Paese. «Sono molto popolare» spiega Fatima, ex professoressa di matematica e madre di quattro bambini. «E sono molto chiara con i miei elettori: niente corruzione e molto lavoro. Dico loro: siamo a vostra disposizione e faremo progressi concreti nei campi in cui più avete bisogno e cioè l’istruzione, la salute, la giustizia.»

Di origini molto modeste, prima di entrare in politica ha militato nelle fila di un’associazione islamica, il Movimento di unificazione e riforma e ha animato incontri di predicazione in tre grandi moschee di Tangeri. «Poi mi sono detta che non si potevano cambiare le cose da una moschea.» Fatima concepisce però il proprio impegno politico come «un dovere religioso. Ho iniziato a indossare il velo nel 1982, quando ho sentito il bisogno di avvicinarmi alla nostra fede». Il Pjd si presenta come un partito nazionale che opera nell’ambito della monarchia costituzionale per costruire «un Marocco moderno, democratico, prospero e solidale». Però, proprio come per i Fratelli musulmani, il Corano è il suo punto di riferimento. Quando le chiedo se è d’accordo con lo slogan del movimento egiziano, Fatima risponde di sì: «L’Islam è la soluzione». «Tuttavia» mi assicura «non abbiamo intenzione di creare una teocrazia.» Il Pjd persegue due obiettivi sui quali è difficile non essere d’accordo: «La rivendicazione di autorevolezza e indipendenza dalle influenze straniere», e una «distribuzione più equa delle ricchezze». Dietro questa pacata retorica si nasconde tuttavia una doppia ambizione meno moderata: la classica battaglia degli islamici contro «l’intossicazione da Occidente», e la lotta contro le élite politiche ed economiche. «Non utilizziamo la religione per fini politici,» aggiunge Fatima «ma per far rispettare i diritti di ciascuno.» Appassionata attivista e musulmana fervente, anche Fatima si muove nel solco del femminismo islamico. Nella vita privata si ingegna a trovare un complicato equilibrio: «Una militante deve sapersi dedicare al partito senza abbandonare la famiglia». Il suo segreto è avere un marito che l’appoggia: contabile in un’azienda, si occupa dei bambini quando lei è in viaggio o torna tardi dall’ufficio. Ma la deputata di Tangeri, come il Pjd, non difende le «quote rosa»: «Secondo noi, l’uguaglianza tra i sessi non è il problema principale. Il partito non è favorevole alla discriminazione positiva. Ciò che conta è la competenza. La nostra è una battaglia sia per le donne che per gli uomini». Qual è la sua posizione in merito al dilagare della prostituzione? «Purtroppo è un problema sempre più grave» sospira. «E i turisti non aiutano, anzi aggravano la situazione. Solo a Marrakech si valuta che ci siano oltre 20.000 prostitute.» Il Pjd è perfettamente consapevole che la questione femminile è importante per consolidare e trasmettere l’immagine di un partito moderno e aperto. E i suoi dirigenti sanno che il progetto di società islamica passa meglio quando viene portato avanti da una donna. «Siamo per definizione più sensibili ai malesseri della popolazione. Nell’immaginario collettivo siamo anche più oneste e meno esposte alla corruzione.» Tuttavia le donne come Fatima non hanno vita facile, all’interno del partito e fuori: «Quando mi sono presentata come capolista locale, mi è toccato convincere i fondamentalisti della legittimità della mia candidatura e allo stesso tempo spiegare il mio progetto agli altri. Con me, sperimentavano due cose allo stesso tempo: votare una donna e un partito islamico».

Il 4 maggio 2005, a Rabat, la capitale, 50 marocchine hanno ricevuto il primo diploma post-laurea di mourchidates, ovvero di guide religiose femminili. È la prima volta in un Paese musulmano. Una tappa storica per le donne, in una nazione impegnata da diversi anni nella promozione delle pari opportunità e dell’immagine di un Islam più tollerante e moderno. La decisione di riconoscere anche all’altro sesso l’autorità religiosa rientra a pieno nella politica di re Mohammed VI, salito al trono nel luglio del 1999. Ha garantito alle cittadine un diritto di famiglia più moderno, nonché la possibilità di partecipare alla vita politica ed economica del Paese. Le «laureate nella fede» superano dure selezioni per accedere al corso di studi dell’Università di Rabat: in dodici mesi studiano la Sharia, gli aspetti sociali e culturali dell’Islam, ma anche psicologia e lingue straniere. La preghiera del venerdì resta appannaggio degli imam. Ma le mourchidates, assunte dallo Stato a tempo

indeterminato, possono operare nelle moschee, nelle carceri, nelle scuole, negli ospedali e nei quartieri degradati, aiutando i credenti a risolvere i loro dubbi in fatto di religione. E contrastando così l’azione degli estremisti. Ad attendermi nella sede del Consiglio degli ulema è una ventinovenne fresca di diploma: Halima. «Lo scopo del corso» mi spiega «è formare donne sulle regole del Corano, e mandarle in giro per aiutare i fedeli. Il governo ci mette anche a disposizione un motorino per spostarci più facilmente.» Al contrario degli imam, che devono conoscere a memoria il Corano, le mourchidates ne imparano solo metà. Senz’altro più semplice, ma non è una limitazione un po’ discriminatoria, come la testimonianza femminile che vale la metà in tribunale? «No, gli uomini hanno più responsabilità, perché sono imam, educati come tali da secoli. È stato deciso che metà Corano era sufficiente, per renderci le cose più facili.» Questo «sconto della pena» un po’ paternalistico non mi convince del tutto, ma lascio correre. Le predicatrici marocchine hanno a che fare soprattutto con donne e giovani, per lo più nelle zone rurali. Chiedo quali siano i quesiti più frequenti. «Anche le analfabete mi chiedono informazioni sui loro diritti, su come essere più felici. Per esempio, è vero che nel Corano è scritto che il marito può picchiarle se non obbediscono, o che non possono discutere le decisioni dei loro uomini? Come devono comportarsi nei rapporti sessuali? Insomma mi pongono le domande di tutte noi.» Halima non si limita a recitare le sure più adatte a ogni circostanza. Insiste anche sul diritto di ciascuna alle proprie idee, spiega che nel matrimonio si condividono anche doveri e decisioni. E le informa sulla Mudawana, il nuovo diritto di famiglia marocchino, e su quello che prevede in caso di divorzio, eredità, custodia dei figli. Infine, si inoltra sul terreno molto delicato della sessualità. «Chiarisco che i rapporti sessuali avvengono tra esseri umani, non tra animali. Che è praticamente tutto lecito, ma il marito non può prendere la moglie da dietro, perché la sodomia è severamente vietata nell’Islam.» Di sicuro la spiegazione non pecca di ambiguità. Secondo la giovane mourchidates, agli uomini fa piacere che le loro mogli siano informate. Speriamo sia così. Intanto intravedo un gruppo di ragazze che si spostano da un’aula all’altra. Halima mi spiega che si tratta delle sue future colleghe, si preparano a una nuova lezione, che durerà quasi tre ore. Tema del giorno: le mestruazioni. Chiedo subito di partecipare e mi accolgono senza esitazioni. «Ma suo marito deve restare fuori,» precisano «la sua presenza sarebbe troppo imbarazzante.» Saluto Jacques e mi avvio seguendo la mia nuova guida, Zakhia. Trentatré anni appena compiuti, ha un diploma di insegnante di inglese e ha studiato la Sharia alla scuola islamica. Da due mesi segue il corso per diventare mourchidates. Disposte nei classici banchi di scuola, una sessantina di ragazze ascoltano con attenzione la loro insegnante, prendendo appunti. Tutte indossano un manteau e un hijab, ma nessuna è vestita di nero. L’età media è di venticinque anni. La professoressa Bouthaina mostra alcune diapositive su cui però compaiono solo parole – né immagini né illustrazioni dell’anatomia femminile – nonostante le domande siano molto specifiche. Tanto che, nella prossima lezione, interverrà una ginecologa per affrontare gli argomenti di natura medica. Apprendo che è importante riuscire a determinare il momento esatto in cui finiscono le mestruazioni: durante il ciclo, infatti, non è permesso avere rapporti sessuali, pregare, digiunare, né toccare il Corano, che si può però recitare a memoria. «Perché se si ha il ciclo non si può fare l’amore con il proprio marito?» chiede a bruciapelo una studentessa. «Perché quello mestruale è sangue “cattivo”» è la risposta «e il ciclo serve proprio a eliminarlo. L’uomo non deve entrarvi in contatto, perché aumenterebbe il rischio di malattie sessuali.»

La professoressa spiega che le donne devono sapere con precisione come comportarsi quando sono indisposte, perché gli uomini non sempre lo sanno. «Le mogli possono fare tutto col marito, che tuttavia deve rinunciare ai rapporti sessuali se hanno il ciclo, e al sesso anale sempre.» Una giovane alunna, dando voce ai dubbi di molte, chiede: «Quando si sa che le mestruazioni sono davvero finite?». Segue un’articolata spiegazione sui diversi riti seguiti dalle varie scuole coraniche e sulla natura delle perdite al termine del ciclo vero e proprio. In ogni caso dopo dieci giorni dall’inizio si può tornare a pregare. Anche se per mestruazioni troppo lunghe o frequenti è consigliabile farsi vedere da un medico. La questione è davvero cruciale per le musulmane osservanti. Recentemente il quotidiano berlinese «Tageszeitung» scriveva che in Egitto è in forte aumento la richiesta della pillola per interrompere il flusso mestruale. Molte donne la assumono per poter trascorrere il mese di Ramadan senza essere escluse dalla preghiera e dal digiuno. Secondo i medici e psicologi egiziani i numerosi divieti religiosi causano però un vero e proprio «trauma mestruale» alle donne, che si ritrovano discriminate per un evento del tutto naturale. Del resto, non pochi si sono rifiutati di prescrivere questo farmaco, che associato al digiuno rischia di creare gravi problemi di salute. Quando chiedo a Samyra come mai ha scelto di diventare una mourchidates mi dice: «Perché voglio fare del bene alla mia religione e alle donne del mio Paese. C’è troppa ignoranza in giro. Io ho studiato la lingua araba e il Corano. Una volta laureata ho lavorato per quattro anni con i bambini di strada e poi ho deciso di intraprendere questo percorso». Pausa per la preghiera. Seguo Zakhia, che con le altre va in bagno per le «piccole abluzioni». Mi spiega che «prima della preghiera ci si lava tre volte le mani, tre volte si sciacqua la bocca, tre volte il viso e una volta la testa. Per ultimi i piedi. Le grandi abluzioni sono invece la doccia dopo aver fatto sesso e alla fine delle mestruazioni». Zakhia mi racconta che il suo grande sogno è diventare una predicatrice: viene da una famiglia di Fez, molto religiosa. Chiacchierando con lei, scopro che è molto conservatrice. Da sei anni indossa il velo e pensa che sarebbe meglio per una donna poter stare a casa. Samyra non è d’accordo, convinta che debbano invece poter conciliare la famiglia e la carriera. Deduco che probabilmente gli insegnamenti e i consigli delle mourchidates alle loro assistite saranno un po’ contraddittori. Ma sentir parlare di parità fra i sessi nelle aree più arretrate del Paese sarà comunque un importante passo avanti.

CAPITOLO 27 UN AMORE A CASABLANCA «I O HO TUTTI I DIFETTI» mi confida ridendo Mouna Fettou: «Sono donna, sono araba e sono un’artista!». La ragazza sorridente e sensuale con cui siamo seduti davanti a un succo di frutta in un caffè alla moda di Casablanca è una delle più popolari attrici del Marocco. Ha fatto un’apparizione passata tutt’altro che inosservata al Festival di Cannes, in difesa della giovane industria cinematografica del regno. Ha occhi scintillanti e labbra morbide e capisco come mai i camerieri intorno a noi riservino mille attenzioni a questa star, che prima di andarsene dovrà firmare un sacco di autografi. «La società però fa ancora fatica ad accettare che una donna lavori in questo campo» aggiunge.

Ho voluto incontrare Mouna per cercare di comprendere con lei il difficile rapporto che esiste tra le società musulmane e la cultura dell’immagine. La proiezione di film in Arabia Saudita è vietata in nome dell’Islam; l’Egitto ha avuto per decenni la reputazione di Hollywood araba, senza che si levasse alcuna protesta da parte dei saggi dell’Università al-Azhar, ma la sua gloria è ormai in declino; in Iran la teocrazia sciita permette ai cineasti di lavorare in una rigida cornice morale e politica; in Libano, dalla fine della guerra nel 1990, i registi hanno ripreso in mano le cineprese e cercano di far rinascere la Settima arte in un Paese dai costumi molto liberali. In questo panorama contrastato, il Marocco occupa un posto a parte, con un vero settore produttivo, appoggiato dal re in persona. «Siamo molto più avanti degli egiziani. Dopo il periodo d’oro degli anni Cinquanta, la loro libertà è diminuita. Qui, al contrario, ne conquistiamo ogni giorno di più. Il Centro del cinema marocchino ci mette a disposizione dei finanziamenti, e inoltre non esiste censura, o quasi. Basta non toccare il re, la religione ed evitare scene di sesso troppo esplicito.» Mouna è nata a Rabat e proviene dalla piccola borghesia marocchina. La sua famiglia è di origini berbere e secondo lei questo è una garanzia di una maggiore apertura mentale. Fin dalla scuola si è interessata al teatro, e ha deciso di seguire corsi di arte drammatica. «È stato difficile convincere i miei, ma alla fine hanno ceduto.» Nel 1989 è stata scelta per un cortometraggio, Un amore a Casablanca, la storia di una ragazza che si lega a un uomo molto più vecchio di lei. Poi si innamora di un ragazzo che scoprirà essere il figlio del suo amante. E lei finirà per suicidarsi. «Il film era un po’ spinto per l’epoca. Non solo per le scene romantiche. C’è stata una grande polemica quando è uscito.» Alla fine tutto quel trambusto è stato utile a Mouna che si è ritrovata proiettata nell’universo del cinema. La sua carriera è proseguita con una commedia girata nel 1993: Alla ricerca del marito di mia moglie, una mordente satira della società marocchina tradizionale. Un abitante di Fes, ricco gioielliere, che ha tre mogli, è terribilmente geloso della più giovane e carina. Decide di ripudiarla, ma si pente quasi subito e vorrebbe riconquistarla. La ragazza non ha niente in contrario, ma entra in campo la religione. Secondo la Sharia, a un uomo per separarsi dalla propria moglie basta dire talaq, «divorzio»; se questa dichiarazione è ripetuta tre volte, la rottura è definitiva. I due possono tornare indietro, con un nuovo matrimonio, solo se prima la donna si risposa con un altro e poi divorzia, o rimane vedova. Nel film, il gioielliere si mette quindi a caccia di un marito per la moglie; ne trova uno pronto a recitare la parte, che però dopo la cerimonia sparisce senza restituire la libertà alla giovane sposa. E lui non potrà fare altro che gettarsi di nuovo alla ricerca dell’uomo a cui ha imprudentemente ceduto la sua amata. Mouna si è impegnata anche in produzioni più serie, come Due donne sulla strada, una sorta di Thelma & Louise maghrebino e Marocco, una dura critica delle perversioni di Casablanca, dove si mescolano droga, prostituzione e soldi facili. «All’inizio ho scelto questo mestiere per divertimento. Poi ho scoperto che potevo avere un ruolo sociale.» Ha offerto il suo appoggio a campagne per la scolarizzazione delle bambine nelle comunità rurali e di mobilitazione al voto per le elezioni del 2007. «Le persone mi amano perché rappresento la donna marocchina di oggi, un misto di modernità e tradizione.» È divorziata e madre di un bambino. «Oggi va molto di moda» confessa scoppiando a ridere. Tra le riforme volute da re Mohammed VI, il nuovo diritto di famiglia del febbraio 2004 ha provocato un’accesa polemica. La Mudawana facilita, tra le altre cose, il divorzio e da allora il numero delle separazioni per iniziativa delle donne è in forte aumento. Il codice prevede che debba essere pronunciato davanti a un tribunale e che le semplici formule di ripudio non bastino più. Le donne hanno gli stessi diritti dei mariti di fronte alla giustizia. La Mudawana pone anche restrizioni precise alla pratica della poligamia. Infine alza l’età minima del matrimonio da quindici a diciotto anni. «Le cose sono cambiate» assicura Mouna. «Quando l’uomo sa che la donna può andarsene, la rispetta di più.» Ma il suo divorzio le ha dimostrato che anche con una nuova normativa la strada è comunque in salita. Ha dovuto battersi

per accelerare la procedura, ottenere la custodia del figlio e alimenti dignitosi. «Certo, c’è sempre un modo per aggirare la legge, ma averla è già un buon inizio.» Le sfide sono tante. «La crescita dell’integralismo mi spaventa» dice quando le chiedo qual è la cosa che teme di più. «C’è molto indottrinamento nell’aria, mentre io credo che ognuno debba essere lasciato libero di scegliere. Per esempio non è bene che il velo diventi la norma e chi non lo indossa sia un’eccezione.» Ma confida nelle proprie risorse e nell’appoggio delle sue «sorelle»: «Nel mondo arabo la donna ha superato l’uomo. Progredisce più rapidamente, va addirittura troppo veloce per lui. I maschi si sentono sminuiti…». Salutandola, sono tentata di mettere in guardia la bella attrice dalla reazione degli uomini feriti. È sempre la stessa, ovunque: brutale e diretta contro il bersaglio più debole. Fin dalla notte dei tempi, si sono serviti della forza fisica per riaffermare la propria autorità in periodi di dubbio o di crisi. Il maschilismo radicato nella tradizione araba, la misoginia delle letture retrograde del Corano, ma anche la carenza di pari opportunità nelle nostre società occidentali sono l’espressione della paura maschile di fronte all’avanzata delle donne. E, in Marocco come altrove, la strada verso un equilibrio è ancora irta di ostacoli.

Nella piccola palestra di Nasr si fa subito sul serio. Dopo il riscaldamento di rito, gli apprendisti karateka si sono messi in riga e hanno cominciato a tirare una fitta serie di calci. Si lanciano, uno alla volta, con tutta la forza possibile verso il maestro che tiene in mano uno scudo. Ci sono allievi di tutte le età e alcuni bimbetti si prodigano con molto ardore. Il rumore dei colpi risuona nella sala, accompagnato dagli incoraggiamenti del maestro e dalle grida degli emuli di Bruce Lee. Qui le femmine non sono certo le più remissive e né il Corano né le tradizioni sembrano riuscire a trattenere i loro fendenti. L’unica differenza è che le più grandi combattono indossando il velo. Sono venuta a incontrare una di loro: Auisha Haufi, ventitré anni, una bella bruna dagli occhi scuri, nubile, sarta, ma soprattutto campionessa di boxe, prima classificata nel campionato nazionale del 2005. Nel Paese del Comandante dei credenti, c’è di che stupirsi nel vedere una ragazza sul ring. Ma per Auisha è assolutamente naturale. «È uno sport in cui mi ritrovo» mi spiega, togliendosi i guantoni rossi. Aveva cominciato, come altre bambine della palestra, con il karate, ma l’allenatore l’ha rapidamente indirizzata verso la boxe. «Mi è piaciuta subito.» Ovviamente ha avuto paura per il suo primo scontro, ma poi è subentrata la combattività. «Mi piace picchiare. Non sono più la stessa quando salgo sul ring» confessa questa bella ragazza, il cui viso dai tratti regolari non porta i segni della sua passione per gli sport virili. Auisha non è mai stata ferita. «Mi batto col cervello, non solo con la forza» aggiunge. Il padre è morto quando lei aveva nove anni e il fratello, che avrebbe potuto trovare da ridire sulla sua scelta, al contrario l’ha incoraggiata. «Mia madre non era contenta, soprattutto quando tornavo con dei lividi. Poi è venuta ad assistere a un allenamento ed è stata fiera di me. Praticare uno sport non è contrario all’Islam» continua la campionessa marocchina, che dice di essere credente ma non praticante. «Però non ci alleniamo con i maschi.» E a proposito di maschi, una ragazza così «pericolosa» non li fa scappare? «Una che fa sport è sempre diversa» ammette. «Magari cercano di non darlo a vedere, ma hanno un po’ paura.» Auisha sa bene che se dovesse rispettare le interpretazioni più rigorose dei precetti dell’Islam non potrebbe andare molto avanti nello sport che ha scelto. Tuttavia è proprio l’approccio sereno all’insegnamento del Profeta a fare la forza della società marocchina, nella quale convivono i volti più vari della realtà femminile. Lo dimostra anche un altro gruppo di giovani sportive che incontrerò ad alcuni chilometri da qui. Safi è una città di quasi un milione di abitanti sulla costa atlantica del Marocco, circa 250 chilometri a sud di Casablanca. Fosfati, sardine e una vocazione turistica ancora tutta da sviluppare. Le strutture per il tempo libero scarseggiano, ma la partecipazione è alta, in particolare nello sport. Safi rappresenta un vivaio per il calcio

femminile, con due squadre assurte agli onori della cronaca qualche anno fa. Le andiamo a trovare sul campo, uno sterrato polveroso al centro di un quartiere affollato. La squadra, che oggi si chiama Wydad Athletic de Safi e aderisce alla Federazione reale marocchina di calcio, conta 44 giocatrici di età compresa tra i quattordici e i ventotto anni, per la maggior parte studentesse. Najma, maglia rossa su pantaloncini verdi al ginocchio (rosso e verde sono i colori della bandiera nazionale), bei lineamenti femminili sotto il foulard scuro, è un’attaccante di ventun anni e gioca da due: «Ho cominciato come tutte, con le partite di quartiere. Da bambini giocavamo tutti insieme, mi piaceva misurare la mia forza con gli altri, e anche adesso mi aiuta a sentirmi più sicura». Dounia, ventenne, veterana della squadra Ouafa ora disciolta, non porta l’hijab ed esibisce un taglio di capelli alla moda, con una frangetta che non nasconde due occhi maliziosi, zainetto d’ordinanza appeso alla spalla sinistra: «Sì, ho un ragazzo, ma è stata mia madre, non lui, a ostacolarmi all’inizio in questa mia passione per il football. Poi si è abituata e adesso mi sostiene. Sognavo di dedicarmi alla danza orientale, ma qui a Safi non era possibile». Si capisce che si lascerebbe volentieri andare ad altre confidenze sul fidanzato, che forse la porterà in Europa, e sul nuovo diritto di famiglia. Ma l’avvicinarsi di uno dei dirigenti consiglia più discrezione. Houda, diciotto anni, segue l’allenamento a bordo campo. Ma non da semplice sostenitrice. Frequenta corsi per arbitro professionista, ha già fatto esperienza in qualche incontro e ammette di aver ricevuto anche un paio di commenti malevoli da parte dei tifosi. Si protegge dal sole ancora caldo del tardo pomeriggio con un berrettino a visiera calcato sul velo, due accessori apparentemente antitetici ma abbinati sempre più spesso dalle donne marocchine. Houda racconta con sincera riprovazione che a Safi c’è solo un altro arbitro donna oltre a lei: troppo poche. E nella prospettiva di un matrimonio non ha dubbi: lui dovrà accettare la sua professione. «Se no vuol dire che non mi ama.» Non c’è che dire, la determinazione delle sportive marocchine sembra di buon auspicio per le battaglie delle donne in questo Paese. Il 16 maggio 2003 Casablanca, capitale economica del Paese con i suoi quattro milioni di abitanti, è stata scossa da un’ondata di attentati senza precedenti nella storia del regno. Quattordici kamikaze hanno preso di mira obiettivi scelti per il loro legame con l’Occidente e con Israele. Dodici di loro sono morti negli attacchi, uccidendo 33 persone e ferendone oltre un centinaio. Un gruppo salafita è finito sotto accusa e migliaia di attivisti sono stati arrestati. Un grave allarme per il giovane re, ma le cose non sono finite lì. Quattro anni dopo, nel marzo e nell’aprile del 2007, una nuova emergenza ha fatto tremare la città: tre distinti episodi, con protagonisti sette kamikaze. Questa volta il numero delle vittime civili è stato limitato, ma il messaggio è comunque molto chiaro: il Marocco è nel mirino dei terroristi. Sono andata nei quartieri poveri della periferia di Casablanca, da dove provenivano i candidati al suicidio. Sidi Moumen e Sidi Bernoussi sono zone di assoluta miseria, dove edifici cadenti si allineano lungo strade di terra battuta. Siamo lontani dagli alberghi di lusso di Marrakech, dalle tranquille strade di Rabat o anche dai bar equivoci di Tangeri. Qui vivono, ammassati in orrende abitazioni prive di qualsiasi comfort, centinaia di migliaia di diseredati. Formano le schiere di disperati tra le quali è facile reclutare i soldati della morte. Dopo molti contatti e un intenso lavoro «diplomatico» siamo riusciti a organizzare un incontro con le cosiddette «vedove bianche», le mogli di islamici arrestati dopo gli attentati. Il nostro taxi si ferma nella strada principale di Sidi Bernoussi, costeggiata da decine di umili negozietti. Per telefono mi viene chiesto di aspettare. Alcuni minuti dopo, due donne velate si avvicinano all’auto, scambiano alcune parole con il tassista e ci fanno cenno di seguirle. Ci addentriamo tra stradine polverose piene di bambini che giocano a pallone, e ho l’impressione di ritrovarmi in un film di spionaggio. Sono sicura che questi quartieri vengono pattugliati dalla polizia segreta, che osserva con occhio vigile tutti coloro che potrebbero turbare la pace del regno. Dopotutto la monarchia marocchina si è costruita, durante il regno di Hassan II, una triste reputazione di brutalità. Il padre dell’attuale re non ha esitato a eliminare,

imprigionare, torturare gli oppositori politici, nel silenzio complice dei suoi protettori, gli Stati Uniti e la Francia. Ci infiliamo in una porticina di ferro arrugginita e ci ritroviamo al centro di una stanzetta buia. Intorno sono sedute una ventina di donne, cinque delle quali indossano il niqab, «come preciso messaggio politico», sostengono. Mi fissano. Come se aspettassero un miracolo. Siamo nella sede dell’Associazione per il sostegno ai prigionieri islamici. Non se ne conosce il numero esatto: le autorità parlano di circa 700 militanti chiusi in carcere, ma l’organizzazione ne ha censiti 426. I loro nomi, le circostanze dell’arresto, le accuse, le pene a cui sono stati condannati, le condizioni di detenzione sono state pazientemente registrate in un computer acceso in un angolo dell’ufficio. Il regime li considera responsabili di «attentati alla sicurezza dello Stato», ma per parenti e amici sono solo attivisti islamici, vittime del proprio zelo nella difesa della fede. «Quelli che ora si trovano in prigione sono stati arrestati dopo gli attentati del 2003» mi spiega Abdulrahim, un responsabile dell’associazione. «Può darsi che alcuni abbiano fatto qualcosa di male, ma la stragrande maggioranza è stata condannata a causa delle proprie opinioni.» Una dozzina sono stati in Afghanistan, ammette, ma assicura che non hanno svolto attività terroristiche. Le donne prendono la parola e ciascuna mi presenta il proprio caso: un fratello arrestato in Afghanistan, condannato a vent’anni; un figlio, sposato e padre di quattro bambini, preso a Casablanca nel 2003, condannato all’ergastolo; un marito, catturato due settimane prima, scomparso nel nulla. Le storie si ripetono e si assomigliano tutte. Le condizioni di detenzione sono molto dure, continuano. I loro uomini sono sottoposti a una continua sorveglianza, le visite sono rare e circolano storie di maltrattamenti. Tirano fuori i cellulari dalle borse e mi mostrano le foto che hanno ricevuto. Ematomi, tracce di percosse, segni di bruciature. Mi stupisco del fatto che i prigionieri riescano ad avere accesso a un cellulare. «È chiaro che è vietato e che facciamo ricorso a metodi non troppo legali» dice Abdulrahim, con un sorriso ironico. «Ma d’altro canto» aggiunge «anche il nostro incontro è seguito in diretta da un gruppo di prigionieri.» Mi mostra un telefono appoggiato su un tavolo. «Può parlare con loro, se vuole!» Certo che vogliamo. Jacques prende il telefono e accenna un paio di parole in arabo, ma non ha nessuna speranza di capire le risposte, e servirsi di Abdulrahim come traduttore sarebbe troppo complicato e rischioso. Una delle vedove bianche coperte dal niqab è seduta proprio accanto a me e precisa: «Anche se sono completamente velata non sono d’accordo con i terroristi, che sono pessimi musulmani». Mi tira per la manica e mi fa avvicinare, in modo che Jacques non possa guardare: «Voglio farti vedere che faccia ho». Solleva il velo e mi fa un gran sorriso, ha un visetto furbo e allegro, oltre che molto grazioso. Si chiama Behja, ha trent’anni. Suo marito Muhammad, meccanico, quattro anni fa è stato condannato all’ergastolo per terrorismo: «Nell’accusa c’è scritto che è stato preso mentre stava per farsi esplodere come kamikaze a Marrakech» dice. «Ma non è vero, sono venuti a catturarlo a casa. Mio marito non aveva nessuna voglia di suicidarsi.» Mi dice che ha due figli, uno di sei anni e una bambina di nemmeno due. A un rapido calcolo, non mi tornano i conti e di fronte al mio stupore lei e tutte le altre scoppiano a ridere. Dopo una dura battaglia, mi spiega Behja, oltre alla visita settimanale hanno ottenuto il diritto di incontrare i mariti in una cella speciale una volta al mese. «Fare l’amore è una necessità, è un comandamento di Dio» dichiara. Le chiedo che speranza ha di rivedere Muhammad fuori di prigione. «Il re di recente ha concesso la grazia a 350 detenuti, e avevo cominciato a sperare. Ma dopo gli ultimi attentati sarà difficile che lo facciano uscire.» La repressione è iniziata all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, ha subìto un’accelerazione dopo gli attacchi del 2003 e continua ancora oggi. Circa 12.000 persone sono state arrestate, 3000 sono state deferite ai tribunali e 1500 condannate a pene detentive più o meno severe. Fino alla creazione nel 2006 dell’associazione in cui mi trovo, la società marocchina è rimasta in larga parte silenziosa. La stampa in generale si è ben guardata dal sollevare la questione dei prigionieri e ancora meno quella delle presunte torture. L’unico partito che ha sposato

questa causa è stato naturalmente il Pjd, i cui deputati hanno rivolto un’interpellanza in Parlamento. È una situazione troppo delicata per poter fare molto di più, ma nel 2005 si è presentata una possibilità: la riforma del codice penale che prevede il ricorso in appello. Per il momento nessuna delle «vedove bianche» pensa di uscire dalla legalità per far sentire la propria voce, ma ho la sensazione che non abbiano grande fiducia nella giustizia. Chiedo se la Mudawana non sia un buon segno, ma la risposta è poco entusiastica: «Il diritto e la legge sono una cosa,» mi risponde una di loro «ma la realtà è un’altra. A noi hanno portato via quanto di più prezioso abbiamo: i nostri cari. Vogliamo solo che ce li restituiscano».

CONCLUSIONE ADDIO ALL’HAREM FATIMA MERNISSI domina da decenni la scena intellettuale internazionale, quando si tratta di discutere del ruolo delle donne nelle società musulmane. I suoi libri, come Le sultane dimenticate, L’harem e l’Occidente o Beyond the Veil, sono testi fondamentali. Mescolano la risolutezza di chi ha un’infinita competenza con l’umorismo di chi le ha viste tutte, in una vita di accese battaglie per la libertà di espressione. Fatima è sociologa, femminista, scrittrice e studiosa islamica ma soprattutto è un formidabile pozzo di scienza. Conosce bene la complessità del mondo arabomusulmano ed è stata lei a introdurmi alla magia e al significato della figura di Sherazade. Non potevo sperare di meglio per la conclusione del mio viaggio attraverso lo straordinario universo femminile islamico. Non è stata forse lei a celebrare «la donna vagabonda», consapevole e vincente, libera e capace di viaggiare con il corpo e con la mente? Fatima è una donna imponente. Quando entra nel salotto del suo appartamento di Rabat, dove riceve me e Jacques, ho l’impressione che abbia fatto la sua comparsa una sultana del passato. È alta, vestita con una tunica sui toni del blu, il volto incorniciato da bei capelli neri e rischiarato da generosi sorrisi. Oggi si appassiona giustamente a Internet e al suo impatto sulla realtà islamica. Mi spiega come la comunità virtuale della Rete stia creando una «Medina digitale», le cui dinamiche cambieranno il corso degli eventi. «Durante tutta la storia musulmana la tradizione orale ha ridotto all’impotenza anche i despoti più tirannici, che non potevano censurare ciò che non era scritto. L’oralità sfugge alla censura!» mi assicura. «Già nel X secolo, il califfo di Baghdad ordinò ai suoi sgherri di proibire ai cantastorie la diffusione per le strade del messaggio rivoluzionario di Sherazade. Furono braccati e imprigionati.» All’epoca la capitale dell’impero era nota come «città della pace», ma gli ordini del principe ne smentivano il nome. Il potere aveva già paura della forza rivoluzionaria delle parole e l’ortodossia morale e politica temeva la veemenza della critica: il dogma tremava di fronte alla spinta della ragione. Per i tiranni di ogni tempo, la libertà di espressione è un pericoloso elisir a cui i popoli non devono nemmeno accostare le labbra. Ma Internet sta cambiando le carte in tavola: «Non so quale dei nostri Stati potrà mai vietare l’accesso alla Rete» si rallegra Fatima. «La televisione via satellite e via Web annulla un privilegio delle élite, quello dell’informazione, e rafforza il potere delle masse. I nostri regimi repressivi cercano di limitarne l’uso, ma la gente è piena di risorse e trova sempre un modo per aggirare i divieti.» Tuttavia la parabola di Sherazade va oltre la libertà di parola. È portatrice di un messaggio di cui ho misurato la

forza durante tutta la mia inchiesta: la questione dei diritti delle donne è al centro del dibattito sulla vera democrazia nel mondo musulmano. Mernissi illustra la situazione con una delle sue allegorie preferite: l’harem. «Nella letteratura occidentale viene descritto come un paradiso sessuale, popolato di creature nude, vulnerabili e assolutamente felici nel loro stato di segregazione» mi spiega. «Però era pur sempre una prigione travestita da palazzo. Perché credi che i nostri antenati abbiano sentito il bisogno di rinchiuderle in appartamenti separati?» mi chiede. «Solo uomini disperatamente fragili possono ricorrere a una soluzione tanto estrema.» Come dimostra la favola di Sherazade, però, le leggi sono fatte dai maschi ma le donne conservano il potere di infrangerle. E la possibilità, per quanto remota, di vedere l’ordine virile turbato dalla disobbedienza femminile è un elemento fondamentale della cultura musulmana. «La donna è il simbolo della differenza e quindi della natura eterogenea della Umma» continua Fatima. «Anche solo la sua presenza nello spazio pubblico obbliga la comunità a riconoscere e accettare le proprie diversità. E ammetterle significa consentire una gestione pluralista della società.» Nella prima città dell’Islam, la Medina del Profeta, il diritto alla critica era la regola. Oggi, quattordici secoli dopo, le musulmane si ritrovano in prima linea contro le discriminazioni e per l’uguaglianza. È la loro jihad. «Chi vuole confiscare il potere ed esercitarlo in modo dispotico deve sempre prima imporre alle donne di nascondersi. Solo così si può sostenere la finzione di omogeneità della Umma, che permette al capo di parlare a nome di tutti» conclude Fatima. «L’estremismo vuole negare il diritto alla differenza e per questo imbavaglia coloro che la incarnano: le donne.» L’analisi di Fatima, e le molte realtà femminili che ho incontrato, confermano che in questa parte del mondo ormai da secoli la politica ha preso in ostaggio la religione. Ancora oggi i governanti se ne servono per rafforzare un potere la cui legittimità è nella migliore delle ipotesi discutibile, e nella peggiore inesistente. Tra i 22 membri della Lega araba, uno solo può vantarsi di essere in un certo senso vicino a un sistema di concorrenza politica trasparente. È lo sfortunato Libano, dove comunque ministri, deputati e giornalisti rischiano la vita. In tutti gli altri il potere è in mano a dinastie feudali, dittatori, regimi militari. Da nessuna parte l’opposizione laica ha il diritto o i mezzi per partecipare in modo equo alla competizione politica. La religione viene utilizzata dai monarchi, dai principi, dai re, «comandanti dei credenti» o «guardiani dei luoghi santi», per giustificare il monopolio del potere, il dominio sulle risorse e il controllo poliziesco sui sudditi. Brandiscono la fede come uno spauracchio, per rifiutare qualunque dialogo con le forze politiche che potrebbero sostituirli in una gara ad armi pari. E per questo la religione, terreno di scontro, è diventata anche la principale fonte di ispirazione della contestazione, violenta o pacifica, ai regimi. Ancora più piena di significato perché reclama un ritorno ai princìpi di base del messaggio del Profeta: giustizia e uguaglianza. Fatima nella sua difesa di Internet, «la moderna Medina» mi spiega che la globalizzazione dei mercati e delle idee rende sempre più anacronistici i regimi feudali e maschilisti. Sono ormai assediati, sempre più da vicino, da nuove dinamiche guidate da quelle donne che oggi rappresentano nel mondo arabo i più promettenti agenti del cambiamento. Come Sherazade, combattono per la sopravvivenza e per i diritti, non solo i propri ma quelli delle loro comunità. È una rivoluzione pacifica, una jihad intellettuale, capace di far nascere in Medio Oriente una nuova forma di cittadinanza e responsabilità condivisa. L’avvento della democrazia è quindi legato a filo doppio alla liberazione femminile, e qualunque riflessione sulla modernità nell’universo islamico non può che diventare un appello per il riconoscimento della forza e del valore dell’altra metà del cielo. Ma questo cielo va ricomposto, con un nuovo dialogo di fiducia e un nuovo patto d’alleanza tra uomini e donne. Le Mille e una notte, con il loro messaggio di resistenza, fantasia e coraggio, non sono mai davvero finite. Le «sorelle» che ho incontrato ne scrivono nuove pagine ogni giorno.

GLOSSARIO

Abaya: Veste femminile nera, lunga dalla testa ai piedi, spesso indossata su jeans e camicie colorate, lascia completamente scoperto il volto. Ayatollah: Letteralmente «segno di Dio». Titolo onorifico del mondo sciita assegnato ai più distinti esperti di dottrina religiosa. Burqa: Abito femminile tipico della regione afghana, solitamente di colore blu, che copre sia la testa sia il corpo. All’altezza degli occhi può anche essere posta una retina che permette di vedere senza scoprire gli occhi della donna. Califfo: Dall’font khalifa, «successore». È il titolo che fu dato al successore del profeta Maometto alla guida della comunità islamica. Da quel momento designò coloro che esercitavano la loro sovranità (in senso politico e non religioso) sul territorio dell’Islam. Chador: Termine persiano sinonimo dell’arabo hijab. In Iran, foulard semicircolare, generalmente di colore scuro, che ricopre il capo e le spalle, ma che lascia scoperto il viso. Dishdasha: Lunga veste maschile, tipica della penisola arabica. Emiro: Letteralmente «comandante». Ha designato in passato i governatori delle province e, in tempi moderni, vari tipi di autorità. Fatwa: Responso giuridico accettato come autorevole dalla comunità o parte di essa. Fratelli musulmani: Importante organizzazione politica basata su una concezione radicale dell’Islam (osservanza rigorosa dei precetti coranici e loro applicazione diretta sul piano politico e giuridico). Fondata in Egitto nel 1928 da Hassan al-Banna. Ghutra: Copricapo affine alla kefiah, particolarmente usato in Arabia Saudita e Bahrein. Hadith: Letteralmente e in senso generale «detto», «narrazione». Come vocabolo tecnico fa riferimento alle narrazioni concernenti Maometto e, in quanto tali, dotate di valore normativo. Le raccolte di hadith costituiscono la seconda fonte normativa dell’Islam. Hajj: Il pellegrinaggio alla Mecca. Si tratta di uno dei cinque pilastri dell’Islam: obbligo per ogni musulmano – adulto, sano, che possegga i mezzi per realizzarlo e a cui cause esterne non lo impediscano – a compierlo almeno una volta nella vita. Halal: Ciò che è lecito, consentito, per la legge religiosa. Hammam: Termine arabo per il cosiddetto «bagno turco»: complesso termale di varie dimensioni estremamente diffuso in tutto il mondo musulmano e di grande rilevanza sociale.

Haram: Ciò che è sacro; proibito dalla legge religiosa. Harem: Dall’arabo harim, luogo «consacrato», «inviolabile». Indica l’appartamento, o la parte di una casa o di un palazzo, riservato alle donne e inaccessibile agli uomini eccetto quelli di famiglia. Hijab: Originariamente qualsiasi velo atto a nascondere. Nel senso attuale si intende per lo più un velo di colore sobrio che ricopre interamente i capelli, il collo, le spalle e il petto. Hijaz: Regione dell’Arabia Saudita bagnata a ovest dal Mar Rosso. Luogo delle città sante della Mecca e Medina. ‘Id-al-Adha: Festa religiosa in commemorazione del tentato sacrificio di Ismaele da parte di Abramo. Ijitihad: Sforzo di interpretazione giuridica. Produzione di norme nel caso il Corano o la Sunna non si esprimano su un dato argomento. Imam: Il termine indica colui che guida la preghiera. Per gli sciiti gli imam sono invece guide infallibili che discendono direttamente dal Profeta. Inshallah: Letteralmente «se Dio vuole». Jallabia: Lunga veste tradizionale che arriva sino ai piedi. Jihad: Etimologicamente significa «sforzo» verso un determinato obiettivo. Nell’Islam la jihad indica l’azione per l’espansione o per la difesa della fede, anche in senso militare. Khul’: Divorzio per mutuo consenso. Madrasa: Scuola annessa alla moschea, per l’insegnamento delle scienze religiose. Mahram: Qualsiasi relazione sessuale proibita dal Corano. Dove vige la segregazione sessuale, indica persone a cui, per relazione familiare anche acquisita, è permesso accompagnarsi anche in assenza di terzi. Minbar: Il pulpito di una moschea da cui viene pronunciato il sermone. Mudawana: Diritto di famiglia marocchino. Rivisto nel 2004 con una serie di aperture relative alla condizione della donna. Muezzin: Adattamento dell’arabo muadhdhin, «colui che chiama alla preghiera». Muftì: Esperto di legge religiosa in grado di fornire un parere giuridico (fatwa). Mujtahid: Letteralmente «coloro che si sforzano». Nel mondo sciita gli esperti di legge sacra. Mutawwa: In Arabia Saudita la polizia religiosa. Najd: Letteralmente «altopiano». Regione centrale dell’Arabia Saudita. Niqab: Abito femminile nero, che copre l’intera figura, lasciando solo una fessura all’altezza degli occhi.

Panarabismo: Ideologia politica sviluppatasi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, che rivendicava l’unità dei popoli di lingua e cultura araba. Tale idea ebbe particolare importanza nei movimenti di decolonizzazione, attorno alla metà del Novecento. Quraysh: Tribù che dominava la Mecca al tempo di Maometto. A essa appartennero tanto il Profeta quanto i primi quattro califfi. Salafiti: Dall’arabo salaf, «antenato». Coloro che si rifanno alla Salafiyya: movimento riformista fondato in Egitto nel secolo XIX per un ritorno alla purezza originaria dell’Islam. Sciiti: Da shi‘a, letteralmente «partito». Sono coloro che ritengono che Ali, cugino e genero del Profeta, fosse stato privato ingiustamente del diritto di successione e che, da quel tempo, hanno sviluppato un pensiero dottrinale e giuridico autonomo dai sunniti. Sharia: Legge religiosa. La legge rivelata da Dio per guidare il credente. Sceicco: Dall’arabo shaykh, letteralmente «anziano». In senso generale, persona dotata di autorità. Spesso con tale termine si intende il capo di un’organizzazione religiosa o un sapiente musulmano di particolare importanza. Shura: Consiglio, assemblea. Organo di consultazione del potere. Sufi: Mistico dell’Islam. Sultano: Il termine significa «colui che detiene l’autorità» in una determinata regione. Con gli Ottomani divenne il titolo per designare colui che reggeva l’impero. Sunna: Le azioni e le parole del profeta Maometto, assunte come norma di condotta. Sunniti: Coloro che seguono la Sunna: musulmani ortodossi, maggioritari nell’Islam. Suq: Mercato. In particolare i suq urbani costituiscono un centro nevralgico delle città musulmane. Sura: Capitolo del Corano. Talaq: Termine con cui si indica il ripudio. Istituzione prevista dal Corano e riservata al solo coniuge maschio. Ulema: Plurale di ‘alim. Dottori della legge. Sapienti delle scienze religiose. Umma: Termine con cui si indica la comunità islamica. Visir: Dall’arabo wazir, «ministro». Wadi: Può indicare tanto la valle, quanto quei fiumi che contengono acqua solo durante i mesi delle piogge. Wahhabita: Appartenente alla corrente religiosa rigorista originata nella penisola arabica del XVIII secolo da Muhammad Abd al-Wahhab, che si alleò con la famiglia saudita. Wahhabismo: Vedi wahhabita.

Welayat-e faqih: Letteralmente «tutela/autorità del giurista». Dottrina elaborata da Khomeini, secondo cui l’autorità politica compete, prima del ritorno del’imam nascosto, a quanti conoscono la giurisprudenza islamica. Zamzam: Pozzo sacro presso la città di Mecca, una delle tappe dell’hajj. Zaqat: Elemosina rituale. Uno dei cinque pilastri dell’Islam. Zina: Fornicazione. Sesso extramatrimoniale e dunque illecito.

RINGRAZIAMENTI

C’è un uomo senza il quale qualunque libro sarebbe soltanto una serie di parole: mio marito Jacques Charmelot, che dalle sabbie del Regno di Saba agli shopping mall sauditi non mi ha mai fatto mancare la sua competenza quasi enciclopedica e il suo irresistibile umorismo. Grazie, Jacques. La fucina di idee, oltre che di pagine, che è la Rizzoli ha dedicato a questo testo ogni cura possibile: grazie a tutta la casa editrice, da cima a fondo, e in particolare a Michela Gallio, inesauribile generalessa della jihad editoriale. Quattro persone cardinali mi hanno seguito nelle fondamentali fasi di preparazione, ricerca, controllo: grazie a Caterina Borelli con la sua magica agenda, ad Alessandro Vanoli con i suoi dotti volumi, ad Alessandra Scotacci e Uwe Staffler, colonne di qualunque impresa. Nei Paesi lontani in cui tutto questo è nato vorrei ringraziare tutte le persone che mi hanno messo a disposizione tempo, esperienze e parole per aiutarmi a capire il loro mondo. Un grazie di cuore a Diego Pavesi, Alessandra Mele, Cristiana Latini, Angelo Valenti, a Michela Cosili e alla sua disponibilissima squadra.

INDICE

Mille e una donna 1. Il diavolo e il velo 2. Il martirio di Asmaa 3. Sotto la maschera dei faraoni 4. Il papa sunnita

5. Sesso e Islam 6. I misteriosi Fratelli musulmani 7. Kifaya! 8. La bambina che litigò con Dio 9. «Formidable Yemen!» 10. Saud e Wahhab 11. In fuga dai mutawwa 12. In nome del padre 13. Il Corano e il testosterone 14. «Le donne sono i fratelli degli uomini.» 15. Gedda, il soffio della libertà 16. Il profumo del potere 17. Medina haram! 18. Lipstick jihad 19. Una Mercedes piena di rose 20. I petali di Taif 21. Aramco city 22. Le perle del Golfo 23. Tra guerra e ayatollah2 24. Femminismo e Islam nella vecchia Bisanzio 25. La scandalosa first lady 26. Marocco a luci rosa 27. Un amore a Casablanca Addio all’harem Glossario Ringraziamenti