Fascismo e piccola borghesia. Crisi economica, cultura e dittatura in Italia (1923-1925)

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Table of contents :
Fascismo e piccola borghesia
Prefazione
Indice
Capitolo primo. La politica economica liberistica del fascismo
Capitolo secondo. I problemi dei ceti agricoli
Capitolo terzo. Tendenze protezionistiche e tendenze liberistiche dell’industria italiana
Capitolo quarto. Il settore tessile e la fusione nazionalismo-fascismo
Capitolo quinto. Il "selvaggio rivoluzionario” di Mino Maccari
Capitolo sesto. Il fascismo e il Risorgimento: reazione o rivoluzione? Lo Stato etico dei gentiliani
Capitolo settimo. La crisi della piccola e media borghesia
Capitolo ottavo. I ceti medi e il Partito popolare (don Sturzo)
Capitolo nono. Il Partito comunista e Gramsci di fronte alla crisi della piccola borghesia e del fascismo
Capitolo decimo. Il trasformismo mussoliniano e l’adesione al fascismo delle clientele meridionali
Capitolo undicesimo. Effetti negativi dell'inflazione sul Mezzogiorno
Capitolo dodicesimo. Contrasti tra vecchi e nuovi fascisti nel Meridione
Capitolo tredicesimo. La classe operaia del nord e il ceto medio impiegatizio contro il regime
Capitolo quattordicesimo. Il fatalismo dei socialisti unitari (riformisti)
Capitolo quindicesimo. Incertezze dei socialisti unitari e contrasti con i massimalisti. Il problema dei piccoli proprietari
Capitolo sedicesimo. Il dissidentismo fascista e sue caratteristiche: Forni in Lomellina e Misuri in Umbria
Capitolo diciassettesimo. Il Bottai e il suo dissidentismo ortodosso
Bibliografia *
Opere di fascisti
Opere di antifascisti e storiche
Opere di storia economica e di economia
Opere sulle classi lavoratrici e sul movimento operaio
Giornali e riviste
Indice dei nomi

Citation preview

“Il regime fascista muore,” scriveva Gramsci il 1° settembre ‘24, “perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie…”[…] era una osservazione molto importante che poteva aiutare a capire le vicende di quel periodo, ad es. il delitto Matteotti, generato dalla volontà dei fascisti estremisti di dimostrare al paese che i padroni erano sempre loro Questo libro si propone di approfondire le cause e i motivi di quella crisi della piccola e media borghesia, crisi che fu particolarmente grave per Mussolini e per il suo regime, in quanto perdevano l’appoggio di quel ceto che, subito dopo la guerra, aveva guardato con simpatia alle camicie nere. E si propone anche di vedere fino a che punto le correnti antifasciste (i popolari, i comunisti, i socialisti unitari-riformisti e i massimalisti) compresero tale crisi del ceto medio e di chiarire se scorsero la possibilità di inserirsi nel gioco politico che si apriva quasi inaspettatamente. Infine, cerca di mettere in rilievo la posizione della cultura del tempo di fronte al trono barcollante del nuovo dominatore e di definire l’esatta collocazione delle tendenze fasciste dissidenti (di destra ortodossa come Bottai, e di destra e di sinistra, se così si può di re) Su tutto pesa un giudizio fortemente negativo sul trasformismo che continuò una tradizione a cui il nostro popolo, purtroppo, era ormai da lungo tempo abituato e che continuerà anche dopo la caduta del regime: un trasformismo attuato dal duce ma che trovò alcuni strati sociali pronti e disposti ad approfittarne per reinserirsi nel nuovo - ma fin troppo vecchio - Stato per volgerlo a proprio favore. Franco Catalano è nato a Fidenza nel 1915 ed é professore ordinario di storia sociale contemporanea alla Facoltà di economia dell’Università di Modena. Tra le sue 2

opere ricordiamo La storia del C.l.n.a.i., Bari, 1 956, Milano, 1 975, L’età sforzesca, Milano, 1956; La fine del dominio spagnolo in Lombardia, Milano, 1958; Illuministi e giacobini del Settecento italiano, Milano, 1 959; Vita politica e questioni sociali, 1859-1900, Milano, 1962; Milano tra liberalismo e nazionalismo, 1900-1915, Milano, 1962; Potere economico e fascismo, 1919-1921, Milano, 1964, 1974*. Stato e società nei secoli, 2 voll., Firenze-Messina, 1966-1969; Storia dei partiti politici italiani, Torino, 1969, 1978 2; L’economia italiana di guerra, 1935-1943,, Milano, 1970; Europa e Stati Uniti negli anni della guerra fredda 1944-1956, Milano, 1972; La fine del sistema monetario internazionale, Milano, 1973; Dalla grande crisi a Yalta, Milano, 1974; La generazione degli anni 40, Milano, 1975; Università: quale futuro?, Milano, 1976; Metodologia e insegnamento della storia, Milano, 1976, 197 , La grande crisi del 1929, Milano, 1976; Guerra, resistenza e ricostruzione. Milano, 1978. Copertina: Ufficio Grafico Feltrinelli In copertina: La sala del Gran Consiglio a Palazzo Venezia.

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Universale Economica

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Franco Catalano

Fascismo e piccola borghesia Crisi economica, cultura e dittatura in Italia (19231925) Feltrinelli Economica

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Prima edizione: marzo 1979 Copyright by © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

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Prefazione È solo per quelli che sono senza speranza che ci è stata data la speranza. [BENJAMIN]

Ancora la storiografia forse non è riuscita a chiarire alcuni fra i problemi fondamentali del fascismo delle origini, anzitutto quello riguardante l’inizio della dittatura, se subito dopo il 28 ottobre ‘22 oppure dopo il discorso del 3 gennaio *25 (con cui Mussolini pose termine alla secessione dell’Aventino). Questo libro non pretende certo di dare un giudizio definitivo su tale problema, ma, partendo da un articolo di Gramsci del 1° settembre ‘24, in cui scriveva che il fascismo moriva perché non era riuscito ad arrestare, anzi aveva accelerato, la crisi delle classi medie, cerca di ricostruire in che cosa consistette una simile crisi, che sarebbe stata provocata da un intenso processo inflazionistico che allontanò la piccola e media borghesia dal regime (giunto, nel ‘26, vicino al baratro da cui si salvò con la quota 90). La minaccia di essere abbandonato da quello strato sociale, che lo aveva appoggiato dal ‘19 al ‘22, spinse Mussolini a seguire una politica trasformistica nel tentativo di attrarre a sé la vecchia classe dirigente liberale; ma questo provocò nel suo partito lotte intestine fra gli estremisti alla Farinacci e i moderati alla Bottai, con la formazione di correnti di dissidenti. Il lavoro si è proposto di definire i motivi reali della nascita di tali correnti (dove, come e perché), e di ricercare anche fino a che punto i partiti di opposizione (il comunista, il socialista e il 8

popolare) avvertirono questa crisi dei ceti medi e se intravidero o no la possibilità di inserirsi attivamente nel gioco politico che si apriva. Il libro si sforza, inoltre, di cogliere la partecipazione a queste vicende economiche, politiche e sociali della cultura fascista e no del tempo, nella convinzione, che è dell’autore, che, nella storia, tutti i complessi aspetti della vita siano strettamente collegati l’uno all’altro: l’economico al politico e al morale e al culturale. Per quanto riguarda l’aspetto morale,, all’autore di questo libro preme mettere in rilievo come la sua attenzione sia stata attratta soprattutto dalle arti istrioniche di Mussolini, che con grande abilità seppe usare ora la violenza ora la blandizie, riuscendo a crearsi non un consenso di massa (che presuppone sempre una adesione sincera e senza secondi fini), ma una base di concreti interessi in chi, pur di salvaguardare questi interessi, passò con indifferenza dalla democrazia (o pseudodemocrazia) prefascista alla dittatura. Si trattò, anche in questo caso, della continuazione di attitudini trasformistiche, di questa “nostra malattia più perniciosa,“ come è stata definita da G. Dorso, che ha caratterizzato quasi se non tutti - i governi italiani dal Depretis a oggi, una malattia che rappresenta veramente la costante più intramontabile e più radicata nella nostra anima, Eppure, bisognerà pure che,, una buona volta., questo nostro popolo di antica civiltà, come si suol dire con una manifesta retorica, faccia di tutto per liberarsene, si da riacquistare il senso dell’onestà, della coscienza integra e pulita,, dell’umiltà,, dell’altruismo, della giustizia e dell’amore per gli esseri diseredati, miseri e tormentati, ansiosamente anelanti a un raggio di sole e di luce: che sono, poi, i veri valori di cui la vita di ogni uomo dovrebbe essere intessuta, se vuole veramente viverla.

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Indice

Prefazione Capitolo primo. La politica economica liberistica del fascismo Capitolo secondo. I problemi dei ceti agricoli Capitolo terzo. Tendenze protezionistiche e tendenze liberistiche dell’industria italiana Capitolo quarto. Il settore tessile e la fusione nazionalismo-fascismo Capitolo quinto. Il “selvaggio rivoluzionario” di Mino Maccari Capitolo sesto. Il fascismo e il Risorgimento: reazione o rivoluzione? Lo Stato etico dei gentiliani Capitolo settimo. La crisi della piccola e media borghesia

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Capitolo ottavo. I ceti medi e il Partito popolare (don Sturzo) Capitolo nono. Il Partito comunista e Gramsci di fronte alla crisi della piccola borghesia e del fascismo Capitolo decimo. Il trasformismo mussoliniano e l’adesione al fascismo delle clientele meridionali Capitolo undicesimo. Effetti negativi dell’inflazione sul Mezzogiorno Capitolo dodicesimo. Contrasti tra vecchi e nuovi fascisti nel Meridione Capitolo tredicesimo. La classe operaia del nord e il ceto medio impiegatizio contro il regime Capitolo quattordicesimo. Il fatalismo dei socialisti unitari (riformisti) Capitolo quindicesimo. Incertezze dei socialisti unitari e contrasti con i massimalisti. Il problema dei piccoli proprietari Capitolo sedicesimo. Il dissidentismo fascista e sue caratteristiche: Forni in Lomellina e Misuri in Umbria Capitolo diciassettesimo. Il Bottai e il suo dissidentismo ortodosso

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Bibliografia Indice dei nomi

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Capitolo primo La politica economica liberistica del fascismo Forse si è discusso troppo a lungo se la dittatura fascista sia cominciata quasi subito dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922 oppure con il discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, con cui Mussolini pose praticamente termine alla secessione dell’Aventino in seguito al delitto Matteotti. Si tratta, manifestamente, di una discussione oziosa, dal momento che uno storico ufficiale della rivoluzione fascista, F. Ercole, afferma che gli stessi “liberali filofascisti,” che diedero il loro appoggio al governo dopo l’ottobre del ‘22, erano, “pur senza volerlo confessare a se stessi o ad altri (quando erano sinceri), molto più fascisti che liberali.” Questo perché fare atto di adesione allo Stato fascista non significava accettare lo “Stato-Partito in contrapposizione allo Stato-Popolo, quale sarebbe stato lo Stato democraticoliberale, vale a dire uno Stato in cui gli inscritti a un Partito esercitino la sovranità sugli altri, in contrapposizione a uno Stato, in cui la sovranità appartenga indistintamente e ugualmente a tutti i cittadini individualmente considerati: ma significa uno Stato deciso a seguire uno scopo politico concreto, in contrapposizione a uno Stato che voglia mantenersi al di sopra e al di fuori di ogni indirizzo politico concreto, per rispettare la libertà di tutti i Partiti o di tutte le fazioni, comunque sorgenti e operanti nell’ambito della sua sovranità meramente formale: uno Stato, in altri termini, che 13

pone il suo scopo nell’interesse della Nazione, e a questo scopo subordina tutti i principii, compreso quello della libertà, non ammettendo che possa esistere, nello Stato e sotto la garanzia delle leggi dello Stato, la libertà di agire a danno della Nazione. La superiorità di cui, subito dopo la Marcia su Roma, parlava Mussolini, in nome del Fascismo, era, insomma, non la superiorità giuridica, ma la superiorità politica dello Stato, vale a dire la superiorità della idea (la sovranità integrale della Nazione sugli individui), che esso ha la missione di incarnare di fronte alla contrastante idea della fazione, della setta, del Partito. Interprete degli interessi e realizzatore della volontà della Nazione non può essere che lo Stato, a mezzo del suo unico organo legittimo, che è il Governo.” Fu partendo da questa convinzione che il duce potè, nel discorso pronunciato a Roma all’Assemblea generale del consiglio nazionale delle corporazioni, il 4 novembre 1933, dichiarare, rievocando quei primi momenti del regime, che “quando, nel giorno 13 gennaio 1923, si creò il Gran Consiglio del Fascismo, i superficiali avrebbero potuto pensare: si è creato un istituto. No. Quel giorno fu sepolto il Liberalismo politico […]. Quando, con la Milizia, presidio armato del Partito e della Rivoluzione, quando con la costituzione del Gran Consiglio, organo supremo della Rivoluzione, si die’ di colpo a tutto quello che era la teoria e la pratica del Liberalismo, si imboccò definitivamente la strada della Rivoluzione […].” E l’Ercole rincalza osservando che la “funzione di fatto esercitata, nel Regime dai due Istituti rivoluzionari del Gran Consiglio e della Milizia, consistè, “in sostanza, nel garantire al Partito Nazionale Fascista la possibilità di esercitare la dittatura sullo Stato democratico-liberale.” In verità, questi due organismi, inseriti, surrettiziamente nello Statuto albertino, erano rivoluzionari rispetto al vecchio Stato democratico 14

liberale, in quanto il gran consiglio si sovrapponeva, e lo sostituiva di fatto, al consiglio dei ministri, mentre la milizia prendeva il posto tenuto fino allora dall’esercito. Mussolini chiariva, il 1° febbraio del ‘24 nel gran rapporto alle camicie nere, tale carattere extra-legale (ma considerato del tutto legale e normale, perché proveniente dall’unica rivoluzione che il fascismo poteva vantarsi di aver compiuto) della milizia, allorché disse che essa era, senza dubbio, la difesa armata del regime, anche se non era “soltanto, come si va dicendo da taluni, una Milizia di Partito,” ed era pure “agli ordini del Governo e dello Stato,” come quando le sue legioni combattevano in Libia, o accorrevano in Sicilia per l’eruzione dell’Etna, o si adattavano a servizi di ordine pubblico. Fu per questo motivo, per difendere cioè la rivoluzione operata dalle camicie nere, che, per tutto il 1923 e fino al delitto Matteotti - che contribuì a spostare su altre basi il dibattito politico -, il duce difese strenuamente la milizia contro gli antifascisti, che andavano predicando la necessità di una normalizzazione: questa appariva ai fascisti il sogno di un impossibile ritorno al passato perché sarebbe stata una restaurazione di ciò che il regime si vantava di avere definitivamente sepolto. Da ciò la decisa dichiarazione di Mussolini, il 28 gennaio 1924, all’assemblea del partito: “[…] Quanto alla normalità, bisogna intenderci. Se la cosidetta normalità costituzionale deve risolversi in una gigantesca truffa all’americana ai danni del Fascismo sino a farne qualche cosa di incolore e di insapore, senza più rispondenza nell’animo delle nuove generazioni […], dichiaro che questa normalità non è nei miei gusti […]. Se, per spiegarmi chiaro, per normalità si intende lo scioglimento della Milizia, che non è di partito, ma è nazionale, che deve servire a tenere a bada tutti coloro che abbiamo risparmiato, dichiaro, fin da questo momento, che non cadrò mai vittima di questo trucco della normalità.” 15

Ma, andando a vedere un po’ più a fondo che cosa intendesse il duce con il termine, tanto abusato, di rivoluzione, si scorge che esso significava per lui, solamente la volontà di durare a qualsiasi costo, “malgrado qualche illusorio conato di restaurazione parlamentaristica,” alimentato -come scrive l’Ercole — dagli “ostinati provocatori del disordine e dai tenaci avversari della Nazione” (l‘8 giugno 1923, al Senato, nel discorso sui primi sei mesi di esercizio del potere, il duce esclamò: “[…] quando un Partito ha il Governo nelle mani, lo tiene, se lo vuole tenere, perché ha delle forze formidabili da utilizzare per stabilire sempre più saldamente il suo dominio […]” e, poco dopo, l‘11 luglio, parlando alla Camera sulla riforma elettorale maggioritaria Acerbo, affermò, con maggior forza: “Il potere lo abbiamo e lo teniamo, e lo difenderemo contro chiunque. Qui è la Rivoluzione: in questa ferma volontà di mantenere il potere”); oppure significava un segreto appoggio alla reiterata minaccia della seconda ondata fatta da alcuni gerarchi più estremisti e violenti, specialmente da Farinacci. Tanto che l’Ercole ritiene di essere in grado di sostenere che la volontà mussoliniana di durare a qualsiasi costo e la minaccia della seconda ondata furono, “in sostanza, nella prima fase del Regime, i massimi strumenti di forza posti da questo a servizio dello Stato, e gli unici freni per gli elementi antinazionali, disorientati e dispersi, ma non del tutto estirpati.” Come si scorge, si trattava di una ben misera rivoluzione e, se tale amava definirla Mussolini, si vede che il suo spirito pseudo-rivoluzionario di un tempo si era appassito del tutto, nel prevalere di una concezione che faceva della pura forza e della volontà (del resto, anche il suo periodo cosiddetto socialistico non era stato impregnato di volontarismo e di attivismo, tipici della piccola borghesia reazionaria dei primi decenni del secolo?) il contenuto e l’essenza della 16

rivoluzione. Pertanto, non aveva torto l’economista Maffeo Pantaleoni (in “L’Idea nazionale” del 6 luglio 1923), quando metteva in rilievo che la tesi che piaceva molto ai fascisti “far credere che siavi stata una rivoluzione” - era “del tutto insussistente […]. Ma, oltre ad essere storicamente falso che siavi stata una rivoluzione fascista, questa opinione è dannosa al fascismo perché può riuscire da un lato deviatrice della sua azione, e, dall’altro parare contro questa ostacoli che altrimenti non sorgerebbero, ricorderò ai rigoristi del diritto costituzionale, segnatamente ad amici britannici e americani, i quali, nell’avvento del fascismo, hanno voluto vedere qualche cosa di messicano, o di venezuelano, che la Camera dei deputati non venne sciolta; che a Mussolini l’incarico di formare il gabinetto lo diede il Re; che Camera e Senato, cioè il Parlamento italiano, votarono i pieni poteri, limitati a un anno, nel tempo e a scopo di riforma finanziaria e amministrativa, in quanto a contenuto; che del gabinetto vennero a far parte due Collari dell’Annunziata, il Thaon de Revel e il Diaz; che mai consenso più generale di quello che accolse il fascismo in Italia non si ricorda; che in nessun caso una legione di carabinieri, un plotone di guardie regie o un reggimento di soldati si ribellarono al nuovo governo, e che in nessun luogo una qualsiasi massa di popolo siasi sollevata, o abbia in qualunque modo manifestato il proprio scontento per le squadre fasciste plaudenti a Mussolini. Non vi fu un solo sciopero. Non venne versata una goccia di sangue. L’ordine giudiziario restò autonomo, e esercitò le sue funzioni con assoluta indipendenza. E allora?!” Si può essere d’accordo, come nota giustamente N. Tranfaglia, sul carattere “non rivoluzionario” rivestito dall’ascesa del fascismo al potere, anche se non si può accettare, a dimostrazione di tale affermazione, la troppo palese falsificazione sul “generale consenso” che 17

avrebbe circondato e accompagnato le camicie nere; e questo non solamente per le giustificazioni pseudolegalitarie e costituzionali addotte dal Pantaleoni (e riprese, più tardi, nel secondo dopoguerra, da numerosi giuristi), sebbene si debba mettere in chiaro rilievo che il consenso venne al fascismo dai ceti dominanti e dalle istituzioni più potenti - la monarchia, la burocrazia, l’esercito, la magistratura, la polizia: furono appunto, se non soprattutto, questi strati sociali e questi organismi che, sotto certi aspetti, catturarono chi non desiderava nulla di meglio e che cercarono di far giungere alla conquista dello Stato i seguaci del duce in forme non eccessivamente divergenti rispetto a quelle previste dallo Statuto albertino. Ma un altro storico del regime, G. Volpe, dopo aver notato come da tutto il paese si invocasse un radicale mutamento di rotta, in particolare per risolvere i problemi più importanti, fra cui quello finanziario, continua dicendo che si invocava pure un “uomo,” “libero da legami parlamentari e forte di larga parte” della nazione, si da poter dare all’Italia “un governo che avesse consistenza, forma, stile, carattere, volontà propria: un governo che governasse!” Ed egli si rifiutava di prendere posizione di fronte al dilemma se si fosse trattato di rivoluzione o di reazione: “Lasciamo che altri definisca. Diciamo solo che chi voleva quegli scopi e non aveva mezzi propri da suggerire, doveva accettare i mezzi scelti da quelli che si sono messi risolutamente all’azione. I virtuosi sermoni non bastavano più. Diciamo anche, se non si dà scandalo: ‘necessità non ha legge.’ Anche se questa ‘necessità’ debba portarci ad una qualche forma di dittatura. Ma, dittatura per dittatura, a quella anonima e irresponsabile, impotente ed anarchica, sotto maschera legalitaria, del Parlamento, quale esisteva negli ultimi tempi, con universale sdegno e nausea, noi del paese che viviamo non fuori della politica ma fuori del Parlamento, preferiamo quella di un uomo, di 18

un gruppo di uomini, cioè personale, visibile e individuale, inequivoca, responsabile.” Era, questa, la condizione necessaria affinché l’Italia ricominciasse ad avere una sua politica estera, togliendo agli “estranei la facilità di insinuarsi nei già troppi interstizi della nostra corazza e farla saltare.” Quanto stava succedendo, o era già successo, in Europa, sembrava assecondare tale aspirazione: “La Turchia riappare come una forza; la Russia accenna a rientrare nella vita europea. Quando la Germania? Dobbiamo riconoscere che la nostra fortuna è non poco legata alla fortuna di quei vinti. Il loro annientamento è stato anch’esso uno dei coefficienti del nostro annientamento, dopo il novembre del 1918.” Era delineata, in queste ultime righe, una politica estera che avrebbe dovuto farci riconquistare il ruolo di grande potenza nel vecchio continente - al quale era rivolta, allora, tutta l’attenzione della nostra classe politica - e consentirci di riprendere l’ascesa, “lenta, ma ascesa.” Da quanto era venuto proclamando il Volpe, che pure aveva dichiarato di non essere in grado di decidere se si era trattato di una rivoluzione o di una reazione, si poteva, tuttavia, dedurre che egli propendesse più verso la prima che verso la seconda, dal momento che vedeva la nascita fra i patteggiamenti e i barattamenti e i pettegolezzi e le piccole vigliaccherie di Montecitorio e davanti ad uno “strato politicante, spesso e opaco,” di una “falange di uomini appassionati” e di “una robusta minoranza,” animata da un “pensiero concorde, volontaria e disciplinata.” Di diverso parere era il ministro del Tesoro e delle Finanze (i due dicasteri erano stati riuniti dopo la morte di V. Tangorra, titolare del primo dicastero, sotto Tunica direzione di Alberto De Stefani), per il quale - come disse nell’esposizione finanziaria fatta a Milano, alla Scala, il 13 maggio 1923 - “siamo in cammino verso una stazione che si sposta, che si allontana. Il Governo delle Nazioni è come 19

quello delle famiglie: ogni giorno ha il suo nuovo compito e non si può pensare al riposo. Abbiamo battuto il passo degli arditi, senza tuttavia andare, per troppa fretta, contro gli ostacoli. Le trasformazioni degli ordinamenti finanziari sono legate ad un certo ritmo, alla natura e alla potenza dei congegni che servono a tradurli in atto, alle condizioni e alla resistenza del campo di applicazione. La velocità risulta sempre da un rapporto tra l’impulso e le resistenze.” E, poco dopo, ribadiva che, “guardando all’opera compiuta, abbiamo ragione di compiacimento,” poiché, pur non essendo possibile “mutare radicalmente in breve tempo le sorti di un grande Paese,” tuttavia il popolo italiano, “sobrio e laborioso, ora che si sente guidato con mano ferma e da uomini che conoscono le vie dell’azione, prepara con l’opera quotidiana i suoi migliori destini.” Ma quali erano questi migliori e radiosi destini verso cui il popolo italiano avrebbe dovuto indirizzarsi con soddisfazione e con gioia? Il De Stefani aveva pienamente accolto la dottrina liberistica tipica di un Luigi Einaudi, dottrina che, peraltro, se poteva andar bene prima della guerra, cominciava a non avere più efficacia nel dopoguerra, allorché si erano andati annunciando nuovi fenomeni economici (fra cui, in particolare, quello, di notevole importanza anche per l’avvenire, che negava al consumatore la possibilità di stabilire, con la sua domanda, il prezzo dei prodotti e dei generi che intendeva acquistare e la attribuiva quasi esclusivamente al produttore). Nessun significato, infatti, poteva più avere lo sforzo - tutto einaudiano - di purificare, moralizzare la vita economica del paese, il che lasciava supporre che si considerasse periodo di crisi non quello delle effettive crisi economiche, bensì l’altro dell’espansione produttiva, quando a tutti, o almeno a molti, era consentito 20

improvvisarsi imprenditori, industriali, sfruttando le contingenze favorevoli. Il De Stefani, in effetti, affermava, nell’indirizzo al presidente del consiglio, in occasione della visita di questo al ministero delle Finanze per la revisione dei bilanci, che la “faticosa opera di questa Amministrazione” avrebbe dovuto consistere nella “graduale, ma decisa ricostruzione finanziaria,” secondo l’impegno assunto dal governo fascista verso la Nazione. In primo luogo, richiamandosi alla “concezione aristocratica dello Stato” che avevano avuto un Cavour, un Minghetti, un Sella, un Sonnino e un Luzzatti, poneva un assetto più ordinato delle pubbliche spese, che “sono,” diceva, “soltanto in parte il prodotto di una necessità, ma sono anche spesso il prodotto di male abitudini e di un rilassamento nella concezione e nell’attuazione dei compiti dello Stato.” In secondo luogo, insisteva - con un accento, ripetiamo, degno del più puro liberismo einaudiano -, sulla necessità di liberare il paese “(specialmente per quanto riguarda le sue industrie, i suoi commerci e i suoi organismi di credito) da quello spirito di speculazione che costituisce ancora un residuo dell’economia bellica. Esso deriva dalle passate possibilità di guadagni non adeguati alla fatica dell’opera, dalla sensibilità di prezzi troppo facilmente manovrabili da gente avida e senza scrupoli,” che andavano colpite, se necessario, con severe misure di polizia, “dalla degenerazione delle forze economiche spostate dai proficui campi della produzione e dei commerci verso il giuoco delle combinazioni infeconde e perturbatrici.” Date queste premesse, che riscuotevano la più sincera approvazione da parte di un altro illustre rappresentante del liberismo italiano, F. Guarneri (nella seconda metà degli anni 30 ministro per gli Scambi e Valute, ma già esponente di primo piano della Confindustria), che tracciava del De Stefani un ritratto quasi epico (“alto, quadrato, massiccio, 21

una grande testa dalla chioma leonina, atteggiata talvolta a nume corrucciato, la parlata lenta, a scatti, faticosa e spesso irruenta,” esaltandone il “temperamento a sfondo idealista che sa umanizzare i principi dell’economia classica, senza nulla togliere alla precisione quasi matematica dei grandi maestri inglesi”), ci si sarebbe dovuti aspettare che il nuovo ministro del regime cercasse anzitutto di riordinare il sistema tributario e della pubblica amministrazione, sconquassati dai precedenti governi demo-liberal-massoni, combattendo le evasioni e trovando nuove fonti di entrata anche per realizzare una maggior giustizia distributiva. Al contrario, il De Stefani rilasciava dichiarazioni che miravano a tranquillizzare “le anime trepidanti di quanti avevano ritenuto che l’avvento del fascismo al potere segnasse l’inizio di una specie di palingenesi economica e sociale” rassicurando, cioè, proprio tutti coloro che avrebbero avuto più da temere da un governo che tentasse di stabilire una maggior giustizia fra le varie classi -, sostenendo che “chiunque può riconoscere che, oggi, non si sciopera più, che le interruzioni di lavoro, per le quali ogni pretesto era avidamente sfruttato e forse creato, sono quasi scomparse” (il che doveva suonare particolarmente gradito alle orecchie degli imprenditori e degli agrari, che vedevano un’Italia ridiventata laboriosa, accreditando la favola di un fascismo che era sopraggiunto a salvare l’Italia dalla dissoluzione in cui minacciava di cadere per gli scioperi e le agitazioni delle classi lavoratrici). Ma la sua opera veramente risanatrice non si arrestava qui, ché anzi era proseguita, con infaticabile ardore, sempre in favore dei ceti abbienti: “Noi abbiamo dato prova di rispettare e onorare il lavoro e, nello stesso tempo, di non odiare il risparmio, cosicché ognuno sa di poterne ora tranquillamente godere. La politica di persecuzione del capitale è stata di colpo arrestata per opera nostra. Sono 22

caduti vincoli e monopoli, si sono tolti svariati privilegi, si sono soppressi organi inutili e attività non proprie dello Stato, si è garantita, con adeguate provvidenze, la facilità dei movimenti ai produttori e ai commercianti, si è assicurata la pacifica concorrenza dei Sindacati, si sono stipulati trattati benefici alla nostra espansione commerciale e alleggeriti certi dazi nell’interesse dell’agricoltura e dei consumatori.” Non si capisce bene, dopo aver letto queste parole, da che cosa il ministro traesse motivo di compiacimento, ma forse egli non si accorgeva che, invece di liberare la nazione dallo spirito di speculazione di “gente avida e senza scrupoli,” (la quale aveva potuto approfittare del clima bellico per accentuare “la degenerazione delle forze economiche,” spostandole dalla produzione e dal commercio verso le combinazioni infeconde, con il lasciare la più ampia libertà al capitale), non aveva fatto altro che aggravare quel clima che aveva giudicato così severamente, ritenendolo malsano e contrario agli interessi generali. Il Guarneri seguiva con malcelata ammirazione questa feconda opera, e così ne descrive più minutamente i vari momenti: “Soppressi i tributi della finanza di guerra, quale l’imposta straordinaria sugli amministratori e dirigenti di società, e il contributo straordinario personale di guerra che, come addizionale alle imposte dirette, gravava su tutti i cittadini; proseguita a fondo l’opera, già iniziata dai Governi di Bonomi e di Facta, diretta a dare all’imposta sui sopraprofitti di guerra, nella sua applicazione pratica, un assetto tale da attenuarne, per quanto possibile, i disastrosi effetti su tutta l’economia nazionale; facilitati i concordati per gli accertamenti definitivi e per il riscatto dell’imposta straordinaria sul patrimonio; bloccate le sovrimposte comunali e provinciali sui terreni e sui fabbricati allo scopo di arrestare la corsa degli enti locali verso la confisca della proprietà […]; attuata la perequazione degli oneri gravanti 23

sulla terra mediante la revisione generale degli estimi catastali. La finanza apriva, inoltre, la strada a una più vasta leva dei contribuenti estendendo l’imposta di ricchezza mobile ai redditi agrari di esercizio a carico del proprietario coltivatore [cioè dei piccoli proprietari], che una strana teoria del reddito domenicale aveva fin allora lasciati esenti, e a talune mercedi operaie, agli stipendi e alle paghe assegnate al personale addetto ai pubblici trasporti.” A tutte queste riforme, che, come si vede, tendevano ad alleggerire il carico fiscale gravante sugli strati sociali più benestanti (ma che, secondo il Guarneri, erano ispirate dalla volontà di riordinare “taluni tributi particolarmente vessatori”), se ne aggiunsero altre, il cui compito avrebbe dovuto essere quello di fare assumere alla politica economica e finanziaria fascista una sua propria fisionomia, e che venne definita “politica produttivistica”: “Vanno ricordate,” aggiunge sempre il Guarneri, “soprattutto: la soppressione definitiva dell’obbligo generale della nominatività per i titoli di credito privati, nell’intento di favorire l’afflusso di capitale alle imprese; l’abolizione dell’imposta di successione nell’ambito del nucleo familiare; le facilitazioni al capitale estero destinato a investimenti permanenti in Italia con la esenzione dell’imposta di ricchezza mobile degli interessi dei mutui e delle obbligazioni collocate all’estero; la estensione del beneficio della esenzione venticinquennale dall’imposta fabbricati alle nuove costruzioni destinate a negozi, uffici, alberghi; la riduzione delle aliquote dell’imposta sui fabbricati e la esenzione da detta imposta degli opifici industriali. Era veramente la politica liberistica che si erano aspettati gli industriali dal nuovo regime, che, una volta e ben presto tranquillizzati gli interessi predominanti, aveva fatto di tutto per venire incontro alle loro attese. Peraltro, “La Stampa,” ad opera di A. Cablati, cercava di svolgere un’opera di 24

“condizionamento critico” verso una simile politica fascista. Lo stesso Cablati, dopo aver fatto atto di adesione alla fatica di risanamento del paese condotta da Mussolini, scriveva, il 2 novembre del 1922: “Oggi l’Italia, per opera del fascismo può diventare o il Venezuela d’Europa od un ‘paese risanato e forte, che riprenda quella marcia ascensionale che ha meritato col sacrificio sino alla vittoria” (si vede proprio che non capiva nulla della posizione riservata al nostro paese dai potenti alleati, una posizione subordinata sia sul piano politico sia su quello economico, sul quale ultimo erano riservati all’Italia i settori produttivi più arretrati tecnologicamente). Tale risanamento, per il Cablati, si sarebbe potuto raggiungere con una politica schiettamente liberistica, che eliminasse, nella realtà nazionale, “i due elementi potentemente corrosivi di una burocrazia diffusa ed inframettente e di una oligarchia, che la concentrazione delle ricchezze provocata dall’industria bellica e dalla svalutazione monetaria hanno reso insopportabile. Contro questi due parassitismi,” egli aggiungeva, “ugualmente perniciosi alla finanza pubblica e alla distribuzione delle ricchezze, può puntare il fascismo, appunto perché sorto con una tradizione e per un atto rivoluzionario.” Nulla, pertanto, c’era, in queste parole, che si discostasse dal tradizionale liberismo, al quale aveva reso omaggio semplicemente esteriore - pure il De Stefani nel citato indirizzo al presidente del consiglio; ma, poco più tardi, il 22 novembre, ancora il Cablati metteva in guardia dai pericoli che avrebbero potuto derivare da una applicazione troppo rigida del libero scambio: le “cospicue” riduzioni tariffarie, la rescissione dei legami che univano gli interessi della compagine statale con quelli dell’industria pesante (in particolare, della siderurgia, “giardino del protezionismo”) non dovevano indurre lo Stato a spogliarsi dei suoi attributi in favore dei più grandi gruppi finanziari. Pertanto, 25

il Cablati criticava con fermezza l’accennato passaggio dei servizi pubblici ad imprese private, temendo la manovra dei “grossi finanzieri, i quali, svalutando con le campagne giornalistiche i servizi pubblici, si preparano a far pagare tutto in una volta allo Stato (sotto forma di minor valore capitale di cessione) i disavanzi passati, allo scopo di assicurarsi il terreno per i lauti utili futuri.” Ma i più forti allarmi venivano dalla politica fiscale, e se la parte finanziaria delle comunicazioni del duce alla Camera erano definite, il 19 novembre, “di ordinaria amministrazione,” l’esposizione del De Stefani, invece, destava vive riserve, in quanto il Cablati riteneva che si tendesse a disarmare “la Finanza dei mezzi sicuri di accertamento.” Una certa ambiguità si notava anche nel “Corriere della Sera” di L. Albertini, che pure, con “intransigenza nei principi,” voleva mantenersi fedele alla tradizione liberale, che pur aveva percorso molta strada e superato gravi pericoli. Secondo lui, il “benessere del popolo” scaturiva dall’aumento della produzione, dalla formazione del risparmio, dal conseguimento del pareggio nel bilancio, dall’attivo delle aziende statali, dalla parificazione degli stipendi pubblici e privati, e, infine, dall’esistenza di un partito socialista trasformatosi in partito operaio che avesse ripudiato “quelle concezioni antieconomiche la cui realizzazione è una iattura per il proletariato e per il paese” e che avesse accettato una linea liberista tale da garantire la difesa degli interessi dei consumatori. Ma, ad una simile celebrazione dell’iniziativa privata, rispondeva L. Einaudi, che pure non aveva nascosto fino allora il suo aperto consenso agli ambienti industriali. Ebbene, era proprio lui che doveva constatare “la mancata educazione politica dei dirigenti l’industria.” Non certo che egli giungesse a mutare le sue tradizionali posizioni di 26

appoggio a quei “dirigenti d’industria,” in cui continuava a vedere la spina dorsale del paese, poiché distingueva nettamente fra “la grandissima maggioranza degli industriali, degli agricoltori e dei banchieri italiani, i quali vivono d’un lavoro sano e fecondo” ed i “pochi profittatori e interessati all’oscurità e al silenzio.” La sua polemica era rivolta contro i dirigenti della Confindustria, esponenti di una piccola minoranza, di contro alla gran parte della sana industria nazionale. Convinzione che gli offriva il pretesto per rivolgere un caldo appello a coloro che si accontentavano di vivere di un lavoro “sano e fecondo:” “Voialtri industriali e commercianti siete voi che, dando impulso ai lavori, ai commerci, alle industrie, create i fermenti di novità, mettete l’Italia in rapporto col mondo. Come potete credere alla possibilità di un’Italia progressiva in economia, la quale rimanga a lungo priva degli istituti fondamentali del vivere civile occidentale, che sono la libertà di stampa, la libertà di associazione, il libero cozzo delle parti politiche, l’alternarsi dei partiti al potere a seconda delle oscillazioni dell’opinione pubblica, l’ordine tutelato unicamente dallo Stato imparziale, le pene dispensate dalla sola magistratura?” A sua volta, il quotidiano del duce, “Il Popolo d’Italia,” trovava una quasi perfetta consonanza tra il liberismo e l ‘autoritarismo fascista, in quanto il nuovo Stato aveva aiutato il paese ad uscire “definitivamente dal socialismo per restituire a poco a poco ogni iniziativa all’attività privata e per riprendere le primordiali funzioni giuridiche e politiche.” Tuttavia, si trattava di una libertà sempre limitata all’ambito economico e subordinata ad una idea di potenza, di cui i primi tentativi di Mussolini in politica estera - ad esempio, l’impresa di Corfu del 1923 dovevano dimostrare tutta la debolezza e la fragilità. Ma il quotidiano proclamava che “la libertà torna a riconcepirsi 27

come un dovere e non come un diritto, come un mezzo per servire una sola e grande divinità: la Nazione.” Secondo “Il Popolo d’Italia,” la politica economico-finanziaria del De Stefani rientrava perfettamente in tali direttive, con la definitiva soppressione della nominatività dei titoli e l’abolizione della tassa di successione, a proposito della quale scriveva: “Tale provvedimento è giustificato da 1) ragioni di ordine giuridico, poiché il provvedimento favorirà sempre più il rafforzamento su solide basi dell’istituto della famiglia, alle cui sorti è indissolubilmente legata l’unità morale della Nazione; 2) ragioni di ordine sociale a) perché la tassa ingente, non potendo colpire che una parte della proprietà, quella immobiliare sola praticamente accertabile, sfuggendo quasi completamente quella mobiliare, si risolveva in effetti in una sperequazione tributaria; b) perché il provvedimento avrà sicuramente vaste ripercussioni dirette ed indirette sull’economia pubblica e sul movimento e l’accumulazione del risparmio, dando incremento particolarmente alla costituzione ed alla stabilizzazione della piccola proprietà; 3) ragioni di giustizia nazionale nei riguardi delle regioni del Mezzogiorno in quanto le sorti di esso dipendono in modo principale dal sistema tributario che il provvedimento odierno concorrerà a risolvere. Eppure, quella Nazione di cui tanto blateravano i fascisti, sull’esempio del loro capo, non era altro che una colonia delle grandi potenze che erano uscite vincitrici dal conflitto: Francia, Inghilterra e USA. Lo aveva rivelato, senza alcuna ombra di dubbio, una lettera di O. Rizzini al direttore del “Corriere della Sera,” L. Albertini, del novembre 1922: in essa si diceva che A. Giannini, inviato del governo americano, avrebbe ben presto presentato a Mussolini “un programma di politica finanziaria ed economica estera completo. Giannini proporrà, in sostanza, di 28

essere autorizzato, come plenipotenziario, a formulare e a svolgere tutta un’azione di iniziativa italiana verso l’Inghilterra, la Francia e l’America. Dovrebbe essere una azione rapida e intensa, giacché Giannini pensa che solo in questo momento eccezionale in cui Mussolini può fare quel che vuole, si possa conchiudere qualche cosa. A parte i suoi progetti […], Giannini si propone di ottenere per l’Italia: un trattato di commercio colla Francia; un terzo delle concessioni ferroviarie in Anatolia; la concessione al capitale italiano (12 milioni di lire di spesa) della ferrovia bulgara al mare; altre imprese di lavori per le quali la mano d’opera sarebbe fornita dall’Italia e il capitale (già assicurato) dall’America. Oltre all’investimento di capitale americano in grandi opere di bonifica e idroelettriche in Italia, Giannini vuole ottenere poi altre concessioni minori dall’Inghilterra e dalla Francia: scalo aereo in Italia per le comunicazioni con l’Oriente; la valigia delle Indie e la valigia australiana in Italia, ecc. […]. Parola d’ordine: economie formidabili e pareggio del bilancio. In tutti i dicasteri uomini con l’ascia, un’ascia spietata. Compilazione di un testo unico finanziario che ridurrà la farraginosa legislazione attuale a una forma semplice e maneggevole, permettendo la riduzione della burocrazia finanziaria. Le poste-telegrafi dovrebbero bastare a sé; le ferrovie idem in due anni al massimo; i telefoni dovrebbero esser dati a compagnie private […].” Come si vede, si trattava di alcuni riconoscimenti formali ad un pseudoespansionismo a cui l’Italia aveva sempre mostrato di tenere molto (ad esempio, l’accenno ad un nostro interessamento ad un ipotetico mantenimento dell’equilibrio nel Mediterraneo, ammesso dagli alleati con l’art. 9 del patto di Londra dell’aprile 1915, mediante la cessione da parte della Turchia di una porzione della zona di Adalia, che, poi, con il successivo trattato di S. Giovanni di Moriana, del 19 aprile 29

1917, era stata allargata fino a Smirne, comprendendovi una parte della Cilicia per giungere alla metà meridionale dell’Anatolia: trattato, peraltro, che aveva dimostrato una caducità sostanziale, ma che il Giannini sembrava voler riprendere in benevolo esame), che andavano, però, uniti ad una specie di duro ultimatum sul piano economicofinanziario, che oltre a relegarci ad una funzione del tutto subalterna (l’Italia, avrebbe dovuto fornire la manodopera e dedicarsi alle “grandi opere di bonifica e idroelettriche,” mentre i capitali sarebbero stati di origine americana: cioè ci si confinava a settori privi di grandi possibilità di futuri sviluppi tecnologici), ci imponeva anche, abbastanza minuziosamente, il modo come raggiungere il pareggio: “economie formidabili” e “ascia spietata,” con tutto quello che segue, che non era, poi, altro che ciò che i ceti capitalistici del nostro paese da tempo sostenevano. Né si poteva dire che il duce fosse alieno dall’adottare alcuni dei provvedimenti suggeriti dal Giannini, pur senza scorgerne interamente il significato di una colonizzazione da parte degli USA da essi adombrato: tanto che, poco dopo, ancora il Rizzini, in seguito a un nuovo colloquio con rinviato americano, potè scrivere all’Albertini che il Giannini era, nel complesso, soddisfatto di come stavano andando le cose nella penisola, pensando che il duce fosse un uomo abbastanza forte da poter lottare vittoriosamente contro la burocrazia, anche se era “circondato piuttosto male” ed anche se pensava che le sue “grimaces [smorfie] sceniche possono giovare con certa gente che teme gli occhi roteanti e i pugni calati sul tavolo.” Ma aveva soprattutto trovato il Giannini preoccupato di riuscire a far concludere al nuovo governo accordi commerciali e contratti con l’America: “Giannini,” scriveva, infatti, “vede essenzialmente in Mussolini l’uomo forte che può aiutarlo a conchiudere gli accordi commerciali e i 30

contratti (come quello per il cavo Italia-Stati Uniti pel quale la Western spenderà dieci milioni di dollari!) che egli ha in mente, l’uomo che rompe gli indugi e scavalca gli ostacoli.” Il problema fondamentale diventava, pertanto, per il Giannini, quello di fare presto a rimettere il paese in buon assetto, “giacché in questo momento il capitale americano specialmente trova una grande attrazione in Italia, attrazione che potrebbe svanire se vi fosse disordine, confusione, incapacità di ‘agguantare’ praticamente le cose, di riformarsi, ecc.” Era evidente che il “capitale americano” era interessato ad investire, in particolare, in Italia, perché si trattava di un paese relativamente sottosviluppato nel contesto dei paesi sviluppati dell’occidente europeo, che, perciò, aveva bisogno di acquistare i prodotti ad alto contenuto tecnologico che potevano venire dagli Stati Uniti; ed era pure chiaro il suo interesse a trattare con una nazione che avesse risolto i suoi problemi del risanamento interno economico-finanziario, in quanto solo in tal modo essa avrebbe potuto onorare, con adeguati pagamenti, le firme apposte agli accordi commerciali ed ai contratti.

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Capitolo secondo I problemi dei ceti agricoli Ma una simile rigida politica - anche se forse soltanto in apparenza, dal momento che erano molto frequenti le deroghe in favore dei ceti borghesi più abbienti doveva finire con il favorire proprio quelle classi plutocratiche che Mussolini, troppo spesso e troppo volentieri, proclamava di voler combattere. G. Volpe, nel commento al discorso della corona, in “Gerarchia” del giugno 1924, parlava di graduale “revisione del ‘liberalismo’” e sembrava riprovare la “baldanzosa letteratura giornalistica e oratoria di parte fascista” che era stata basata sul “disconoscimento polemico del passato.” Commentando, inoltre, l’operato in campo economico del primo fascismo, cercava di mettere in luce che non si era voluto fare un atto “di adesione ad una concezione liberistica”: “Che cosa ha fatto [il regime] in questo anno e mezzo? Di che cosa ora noi lo lodiamo? Ha affrettato lo scioglimento, un pezzo dopo l’altro, della ‘bardatura’ di guerra, riconducendo lo Stato alle sue fondamentali e tradizionali funzioni che non sono quelle di gestire industrie, esercitar commerci, arare la terra, ecc. Ha lasciato libera la materia dei contratti agrari […]. Anche in fatto di istruzione, lo Stato limita quantitativamente la sua attività e incoraggia privati ed enti locali ad operare, nel campo della scuola media, in quello universitario, in quello elementare 32

[…].” Ma tutto ciò, secondo il Volpe, non voleva significare l’adozione o l’adesione “ad una concezione liberistica,” bensì un riconoscimento della nuova realtà in cui ormai viveva il paese, che richiedeva un accentramento ideale a cui corrispondesse un pratico decentramento. Anche se, subito dopo, si dimenticava del decentramento, ed affermava: si trattava “anche di questo: crescente importanza, per un paese come l’Italia, di funzioni che solo lo Stato può esercitare (come la politica estera e ciò che con essa si connette; come le grandi opere pubbliche, capaci di agevolare la produttività economica dei cittadini e la valorizzazione economica del paese, ecc), e che lo Stato tanto meglio esercita quanto più esso restringe il campo della sua attività.” Il Volpe, poi, commentava ampiamente e favorevolmente il passo del discorso della corona in cui si diceva che il governo avrebbe dovuto preoccuparsi di tutelare “equamente,” oltre che gli interessi delle industrie, trovando nuovi sbocchi per esse, pure quelli dell’agricoltura, alla quale si sarebbero dovute dare “cure sempre più vigorose, specialmente per consolidare la piccola e media proprietà e favorire il possesso familiare della terra ai lavoratori da un lato, per risolvere, dall’altro, i problemi tecnici e finanziari connessi con un più vigoroso sviluppo della nostra economia agraria.” Ottimamente, affermava il Volpe: “l’ora che volge è, fra l’altro, ora di ricostituzione di ricchezza perduta, di aumento della nostra ricchezza. Lo sbilancio fra i bisogni e la ricchezza reale del paese, fra i consumi e quella ricchezza, è cresciuto con e dopo la guerra. Tutti vogliono vivere, e in gran parte vivono, meglio di prima della guerra. Ed è difficile, salvo un cataclisma, tornare indietro. Le prediche sono perfettamente inutili. Lo sbilancio si sanerà solo aumentando la ricchezza, aumentando il lavoro in patria […]. Quindi, ciò che sarà fatto per lo sviluppo industriale 33

del nostro paese; sarà ben fatto: riorganizzazione bancaria, poiché in questo momento si ha l’impressione di un mezzo caos; incoraggiamento a capitali forestieri, sia pure con quelle cautele e limitazioni che servano ad evitare pericoli all’organizzazione bellica, o monopoli e presa di possesso del nostro paese da parte di speculatori internazionali od obbedienti ai cenni di altri governi (perciò non troppo mi piace la convenzione Sinclair per i petroli!); più diffusa ed efficace istruzione tecnica e professionale d’ogni grado, ma specialmente operaia. Il rendimento del nostro operaio, si dice da un pezzo, è piccolo. Ne avrà colpa la deficienza degli impianti e del macchinario, cioè del capitale investito; ma anche la affrettata e grossolana istruzione tecnica del lavoratore. Qui bisogna battere.” Tuttavia, si sarebbe dovuto ancor più aiutare “questa vecchia e un po’ stanca o pigra terra italiana,” che era il più saldo vivaio della nostra economia, la riserva che aveva più bisogno che lo Stato venisse in suo soccorso. “Poiché l’Italia agricola ha minore coerenza e più debole organizzazione di forze da metter su la bilancia della vita politica italiana; ha scarsa concentrazione e quindi efficienza di capitali, anche perché non offre prospettive di grandi e rapidi guadagni; non dispone di grandi giornali e di mezzi per agire sull’opinione pubblica, salvo alcuni tradizionali, da organetto (l’Italia, “paese eminentemente agricolo” e simili!); ha scarse capacità di vaste iniziative, anche perché molte di esse spesso trascendono l’interesse immediato dei singoli e dei ristretti gruppi ed anche di ogni singola generazione, e sono tali che solo lo Stato le può assumere. Ad esempio, fare strade, rimboschire le montagne, ricostituire il terreno di intere regioni, mediante la bonifica integrale. Il governo di Mussolini,” proseguiva il Volpe, “dà qualche buona garanzia per questi problemi dell’Italia agricola. La maggiore tranquillità raggiunta è, essa stessa, per intanto, 34

coefficiente di primo ordine. Quella fiducia nel nostro avvenire, che è poi fiducia di poter lavorare con continuità e di raccogliere i frutti del nostro lavoro, benefica innanzi tutto l’agricoltura. Se c’è attività che non guarda l’oggi ma il domani, e prospera solo se sa attendere il domani, è proprio quella agricola, lenta a maturare i suoi frutti e più legata alla natura, la quale, come si sa, non facit saltus.” Ed opponeva alla mentalità del presente quella “di 10 o 20 anni addietro” che identificava l’agricoltura con il “piede di casa e trovava un contrasto fra le colonie e la bonifica,” poiché il nuovo regime voleva anzi conseguire una “maggiore saldezza della nazione italiana” nonché una sua “maggior capacità di vita internazionale.” Infatti, in vista di queste più ambiziose mete, il fascismo “sta provvedendo per il credito agrario,” ed aveva messo “in gestazione progetti per il latifondo e per i demani del Mezzogiorno: questioni che, negli ultimi anni, hanno fatto più di un passo avanti, e per quel che ha operato l’Opera nazionale dei Combattenti,’ e per il più approfondito studio di che esse sono state oggetto, anche dietro iniziativa di associazioni come la ‘Federazione italiana dei consorzi agrari’ e la sua ‘Commissione di studi tecnici ed economici.’ Ho qui una relazione di Romualdo Trifone, su La questione demaniale nel Mezzogiorno d’Italia, che, discussa e approvata da quella Commissione il 6 marzo 1924 in Roma, presenta le direttive generali e le modalità per una definitiva liquidazione dell’annosa questione1. Anche l’istruzione agraria si sta mettendo sopra una buona strada. Ecco i RR. DD. 30 dicembre 1923 e 3 aprile 1924: il primo, con la riforma di un certo numero delle attuali scuole pratiche e speciali di agricoltura, che sono messe in grado di rispondere agli scopi di una istruzione media professionale; il secondo, con la istituzione di corsi organici per l’istruzione tecnica dei giovani contadini, impartita in ogni 35

comune da maestri agrari, e di corsi temporanei per contadini adulti (vedi i RR. DD. 3214 e 534; vedi anche la Nota di variazione allo stato di previsione della spesa del Ministero dell’Economia Nazionale, che porta da mezzo milione ad un milione la spesa per (’istruzione dei contadini adulti e imposta 2 milioni per le scuole professionali). Infine, qualche recente provvedimento tende a promuovere, agevolandone l’importazione, l’uso di certe macchine agrarie. Bisognerà forse fare di piu su questa strada.” Insomma, il Volpe approvava pienamente quanto aveva affermato Vittorio Emanuele III nel discorso della corona dopo le elezioni del 6 aprile ‘24, secondo il quale il suo governo avrebbe dato “cure sempre più vigorose” per tutelare gli interessi dell’agricoltura, “specialmente per consolidare la piccola e media proprietà e favorire il possesso familiare della terra ai lavoratori da un lato, per risolvere dall’altro i problemi tecnici e finanziari connessi con un più vigoroso sviluppo della nostra economia agraria, che tanta parte ha nella vita economica e sociale del paese.” Certo, il Volpe non si nascondeva che tali tendenze liberali e tali orientamenti liberali del mondo agricolo si sarebbero scontrati con la resistenza di esigenze, “mai paghe, di alcune industrie”; ma egli aveva fiducia che il paese avrebbe avuto la volontà e la capacità di resistere vittoriosamente: “Si intravede la ripresa di una battaglia che, questa volta, potrebbe essere meno accademica di altre volte e più sostenuta da forze del mondo agrario che stanno muovendosi. Ma anche chi non ha terre da tutelare può chiedere,” egli scriveva, “che la politica doganale italiana si pieghi a certe esigenze dell’agricoltura. Non è solo un problema economico; non è solo problema di una classe o di una determinata attività; ma un problema politico e morale, un problema della nazione tutta. Si tratta di equilibrare le forze produttive del paese, di rendere lo Stato capace 36

di una maggiore autonomia, di dare ai vari elementi costitutivi del popolo italiano una influenza politica che sia proporzionata alla rispettiva importanza economica. È sempre bene, poi, tener presente che dire ‘Italia agricola’ è dire l’Italia dei fanti e degli alpini; è dire l’Italia insulare e meridionale che, per quanto spiritualmente saldata alla comune patria, attende sempre che questa sani certi suoi mali profondi e dia più pratica consistenza a quello spirituale legame. Rendendo possibile al coltivatore del Mezzogiorno di aver macchine agrarie o concimi più a buon mercato, noi avremo fatto più che render possibile un maggiore rendimento di ogni ettaro di terra a grano.” Un altro economista agrario “liberista fisiocratico” di scuola ortodossa, allievo di U. Gobbi e di G. Valenti, era Arrigo Serpieri, che aveva già ampiamente e largamente esposto le sue idee nella Relazione generale per la sottocommissione economico-sociale del Comitato di studio sui provvedimenti a favore della piccola proprietà coltivatrice montana e rurale - istituito dal ministro popolare dell’Agricoltura, G. Micheli, nel 1920 -, ed ancora, poco più tardi, allorché fu chiamato, dopo avere espresso un giudizio positivo sul movimento dei fasci, a far parte dei “Gruppi di competenza” quale esperto di problemi agrari (il principale animatore dei “Gruppi” era stato dal 1921 Massimo Rocca, di cui riparleremo più avanti); ed infine quando fu inserito nel Consiglio superiore economico, creato dalla “Corporazione fascista dell’Agricoltura.” Fra il ’20 e il ‘22, nella Relazione citata, il Serpieri aveva scritto che lo Stato non doveva né difendere né diffondere “artificialmente” la piccola proprietà coltivatrice, poiché i contadini capaci dovevano essere in grado di acquistare la terra con i loro risparmi e di affrontare i rischi di mercato relativi alla conduzione dell’azienda agraria. Allo Stato spettava l’attuazione di una 37

politica generale tale da creare l’ambiente economico e sociale, mediante le bonifiche, l’istruzione professionale, la difesa dell’ordine pubblico, ecc., sì che meglio potesse esplicarsi la libera iniziativa privata. Il Serpieri. peraltro, ammetteva anche che lo Stato, in un periodo eccezionale, come l’immediato dopoguerra, in cui era molto forte la richiesta di terra, dovesse esercitare una funzione calmieratrice sui prezzi, cercando di evitare che la sproporzione fra domanda e offerta di un bene limitato determinasse pericolose speculazioni. Tale azione moderatrice sui prezzi fondiari, a suo parere, nelle zone a proprietà appoderata dell’Italia settentrionale e centrale, avrebbe dovuto svolgersi per mezzo di organismi locali ai quali affidare l’accertamento, sul mercato fondiario, di sovraprezzi e di speculazioni intermediarie, con il compito di esercitare, soprattutto, una pressione ed una persuasione presso i proprietari al fine di ottenere una più abbondante offerta, di fare ricorso all’alienazione del demanio pubblico formato dalle terre dei corpi morali, obbligati alla conversazione dei loro patrimoni fondiari, e delle terre provenienti allo Stato dal pagamento, “in solutum,” della tassa di successione; solo in via eccezionale, infine, avrebbe potuto promuovere l’espropriazione delle proprietà private per determinare, sul mercato, un equilibrio fra la domanda e l’offerta e prezzi “normali.” “Un’azione oculatamente svolta,” egli proseguiva, “in base a queste direttive […] porterebbe […] un minimo di alterazione a quel meccanismo di scelta che si attua nella libertà contrattuale. Non si tratta di vaste espropriazioni di terre per dividerle meccanicamente fra i contadini: l’espropriazione, anzi, avrebbe un ufficio affatto subordinato ed eccezionale. Non si tratta di regalare la terra o cederla a condizioni di eccezionale favore: chi la desidera, dovrebbe pagarla a prezzo normale, il quale, se non è definibile in una forma 38

precisa, non è neppure impossibile riconoscere, nei singoli casi concreti […], corrispondente alla capitalizzazione della rendita, che è oggetto delle stime ordinarie.” Il problema della estensione della piccola proprietà coltivatrice si presentava con caratteri del tutto diversi nell’altra Italia, quella meridionale: se, infatti, il regime fondiario del nord rendeva più facile l’accesso del contadino alla proprietà della terra, nel sud 1’esistenza, in alcune zone, di vasti latifondi sollevava gravi ostacoli. In realtà, nel Mezzogiorno, gli strati più poveri delle campagne si erano gettati, come tante altre volte per il passato, ad occupare le terre comuni, che consideravano strappate con la violenza al loro uso dai feudatari o dai grossi proprietari (basti pensare che, nel 1861-’62, il deputato palermitano Corleo propose, nel Parlamento di Torino, di non “dar terreni per basso canone ai nullatenenti,” ma, ritenendolo un “concetto più scientifico, di favorire l’acquisto e il cumulo delle quote da parte dei ceti più agiati, perché solo così, secondo lui, la proprietà terriera sarebbe caduta “nelle mani che possono meglio coltivarla”), o avevano cercato di frazionare il latifondo, coltivato estensivamente e, perciò, scarsamente redditizio individuando, in simili propositi di colonizzazione, iniziati nell’immediato dopoguerra, il fattore principale di trasformazione dell’agricoltura meridionale. Il Serpieri, pertanto, poteva criticare nella relazione, con relativa facilità, l’ingenuità che sembrava essere al fondo di questi progetti ed opporre al frazionamento del latifondo e alla formazione di una piccola proprietà coltivatrice, la bonifica di quelle terre e la sostituzione, dove fosse tecnicamente possibile ed economicamente conveniente, dell’orientamento cerealicolo-pastorale con un altro agrario intensivo. Ed era proprio nell’agricoltura del sud che lo Stato avrebbe potuto trovare, secondo il Serpieri, il terreno più propizio per una ampia politica di spesa pubblica volta 39

alla realizzazione della bonifica integrale; ed era appunto là che l’intervento statale poteva assumere forme dirette (come, in generale, nelle regioni montane della penisola) e ricorrere anche, in via normale, all’esproprio. “Un intervento anche in forme coattive dello Stato [sul latifondo] meno repugna alla più evoluta coscienza borghese, quando possa giustificarsi con la incapacità dei proprietari attuali a quelle che sono le funzioni caratteristiche, e quasi la ragione di essere della borghesia, cioè alla applicazione delle più progredite forme tecniche di produzione.” Così, il Serpieri coglieva, pur senza averne una precisa consapevolezza, le caratteristiche essenziali dell’agricoltura settentrionale e di quella meridionale: la prima, quasi esclusivamente dedita alla produzione dei generi alimentari - grano, granoturco, riso, ecc. - indispensabili per il consumo quotidiano della popolazione e che, di conseguenza, potevano essere considerati generi incomprimibili, mentre la seconda produceva generi che erano più facilmente commerciabili perché generi pregiati agrumi, olio, vino, grano duro, frutta secca, fichi, ecc. Ma ciò generava una situazione profondamente divergente delle due aree di fronte alle crisi e alle guerre, perché i contadini e gli agricoltori del nord potevano vendere i loro prodotti anche sul mercato nero, ritraendone benefici che poi li avrebbero messi in grado di acquistare le piccole proprietà, a differenza dei contadini del sud che si vedevano chiuse tutte le vie per l’esportazione, peggiorando, in tal modo, notevolmente le loro condizioni di vita che dovevano spingerli, alla fine del periodo critico, ad occupare le terre. Basti pensare che erano stati sufficienti circa sei anni perché la chiusura del mercato francese ai nostri prodotti agricoli meridionali in seguito alla rottura dei rapporti commerciali con la vicina repubblica, nel 1887 40

(rottura dovuta alla pressione degli interessi degli industriali tessili), per provocare, nel 1893-’94, quella nuova ribellione contro lo Stato regio ed unitario da parte dei Fasci siciliani. La guerra, dunque, che pure aveva mandato al fronte, in numero maggiore, i contadini del Mezzogiorno (anche perché buona parte di essi era andata nel Settentrione, a lavorare, nelle fabbriche belliche), li aveva lasciati molto più miseri ed affamati di terra dopo di quanto non fossero prima. Ma, ritornando al Serpieri, la sua adesione al fascismo lo portò al governo come sottosegretario per l’Agricoltura nel ministero dell’Economia nazionale retto dal Corbino (1° agosto 1923-30 giugno 1924), e quasi a commento e a giustificazione dell’opera da lui svolta in tale incarico, pubblicò, nel 1925, a cura della Federazione dei Consorzi agrari, il libro La politica agraria in Italia e i recenti provvedimenti legislativi. La giustificazione era più articolata in questo volume, in cui egli presentava la sua approvazione del “governo nazionale” di Mussolini non solo perché era convinto che avrebbe saputo attuare una netta svolta conservatrice - il “governo forte” - nella politica italiana e, in particolare, la “restaurazione contrattuale nelle campagne” sopprimendo la legislazione sulle proroghe dei contratti agrari e sull’occupazione delle terre, rivedendo i criteri adottati per favorire le cooperative agricole, e ritirando il disegno di legge Falcioni-Micheli sulla colonizzazione del latifondo -, ma avrebbe pure imposto al paese il governo dei tecnici, in quel momento di crisi economica e politica della società italiana e di cattivo funzionamento dell’apparato burocratico statale, mediante la cosidetta “gerarchia delle competenze.” Ed appunto, esaminando i compiti essenziali del “governo nazionale,” il Serpieri, rifacendosi al rapporto tra forza e consenso e alle teorie di Mosca e di Pareto, metteva in rilievo il fatto che “la classe politica giunta al 41

potere con la ‘marcia su Roma’ deve dare ogni opera ed allargare quanto più è possibile la sua base di consenso, come a determinare (ove non ritenga buone le antiche) i limiti delle libertà politiche concesse ai cittadini […]. Il fascismo fu un energico sforzo di […] rinnovare i logori gruppi dirigenti italiani, che avevano preparato mediocremente la guerra e pessimamente preparato la pace, di infondere più energica vita, più consapevolezza allo Stato. Al posto dello Stato burocratico e senza contenuto morale, socialistoide [si deve sostituire] lo Stato di poche funzioni essenziali fortemente armato e vigilante sul fronte interno e sul fronte esterno.” Si trattava, come si vede, di una concezione dello Stato che, quasi senza averne una precisa coscienza, mescolava il consenso alla forza, stabilendo rigidamente “i limiti delle libertà concesse ai cittadini,” in modo che non ne potessero uscire: era, certo, qualcosa di diverso dal socialismo, ma non da quel “socialismo di Stato” che, secondo il Pareto, doveva aprire la strada al “socialismo rivoluzionario” e che rappresentava il pericolo più grave per i buoni borghesi, “molli, ingenuamente sentimentali, deboli, che non sanno difendersi” dalla completa spoliazione di ogni loro avere che li minacciava da parte del nemico che si infiltrava nelle vene della vecchia società. Il Serpieri si era posto come fine quello di salvare l’agricoltura italiana, ed assumeva volentieri le sembianze di un messia giunto sulla terra a liberarla dai suoi mali: nella prima fase del nuovo regime andava d’accordo con l’ideologia tecnocratica che caratterizzava il fascismo allora, tanto che poteva sostenere, lui, economista liberista, l’esigenza del decentramento amministrativo, al fine di un ridimensionamento della burocrazia e di una semplificazione dei suoi attributi: il che era qualcosa di ben diverso dalla richiesta di un ulteriore sviluppo delle 42

autonomie locali, perché aveva, anzi, quale obiettivo, il rafforzamento dei poteri dello Stato: “Decentramento!,” egli diceva con una certa enfasi ispirata, “chi non lo ha invocato, soprattutto fra gli agricoltori, di fronte agli incommensurabili danni di una politica agraria attuata con criteri uniformi per tutte le numerosissime e differentissime agricolture italiane; di fronte al senso di fastidio e di sdegno destato dalle lentezze, dai vacui formalismi, dal ’culto dell’incompetenza e orrore della responsabilità’ delle burocrazie statali, tali da uccidere o tradire, nell’applicazione, anche le migliori leggi, anche la meglio ispirata azione di Stato, nel campo dell’agricoltura?” A tale esigenza, il “governo nazionale” rispose istituendo i “Consigli agrari provinciali” (Rdl. 30 dicembre 1923, n° 3.229), quali organi corporativi facoltativi, a cui erano affidati i compiti prima delegati ai Comizi agrari, alle Commissioni provinciali d’agricoltura, ai Comitati forestali, ecc.: a tutto ciò erano aggiunte nuove funzioni miranti all’attuazione di una politica agraria basata sulla erogazione di fondi pubblici, sulla elaborazione dei regolamenti di applicazione locale delle leggi agrarie, ecc. Ed il Serpieri manifestava la sua profonda fede liberistica e quasi la sua grande soddisfazione nell’aver trovato finalmente! - un governo attento ad adottare e a seguire i suoi suggerimenti. Sosteneva pertanto che il “governo nazionale” di Mussolini avrebbe dovuto promuovere una “restaurazione liberistica,” e, in particolare, lo sviluppo dell’agricoltura, mettendolo in armonia con i principi del “liberismo fondiario” contro la pressione del movimento contadino, e del “liberismo contrattuale” contro l’organizzazione sindacale dei lavoratori dei campi e la sua politica di rivendicazioni (a cui, però, ormai, proprio il “governo nazionale” sembrava aver posto definitivamente termine). “L’indirizzo generale più utile di 43

una politica agraria italiana,” egli scriveva nel libro cit., “deve ispirarsi, a mio avviso, a criteri antivincolistici, a un minimo d’intervento statale così nella produzione come nella distribuzione della ricchezza; deve, in massima, tener fede alla vecchia dottrina liberale, che vede la sicura garanzia di prosperità nell’iniziativa privata, libera di muoversi sulla via del proprio tornaconto, stimolata e insieme frenata dalla eguale libertà dei concorrenti.” Tuttavia, questa assoluta fiducia nel liberismo si attutiva, in lui, quando richiedeva l’intervento bonificatore dello Stato “nell’interesse superiore della produzione nazionale,” ma soltanto perché, in tal caso, i provvedimenti statali non sarebbero ricaduti in vantaggio dei contadini, bensì degli agrari e dei proprietari terrieri. Infatti, per quanto approvasse senza riserve l’orientamento libero-scambista di colui che dirigeva la politica economica fascista, A. De Stefani, sperando in una ripresa dell’emigrazione di massa e in una riattivazione del mercato mondiale, si dichiarava, però, contrario ad una diminuzione dei dazi sui prodotti agricoli, a cui non avesse corrisposto una adeguata riduzione delle tariffe protettive per i prodotti industriali, perché, altrimenti, le ragioni di scambio fra i due settori sarebbero peggiorate determinando una diminuzione del “grado di ruralità” della società italiana. Pertanto, sempre mosso dal desiderio di difendere gli interessi agrari, egli finiva con il dichiarare: “Se poi la diminuzione del prezzo [del grano] avesse carattere permanente, tale da determinare un nuovo equilibrio dell’economia italiana, a carattere scarsamente rurale (così è avvenuto in Inghilterra nella seconda metà del secolo XIX), noi crediamo che, allora, almeno a un certo limite, sorgerebbe la convenienza della protezione della cerealicoltura, per ragioni di sicurezza nazionale e d’equilibrio sociale.” La verità era che il Serpieri si preoccupava di non 44

deprimere troppo il settore primario, dato che ciò avrebbe compromesso l’“equilibrio sociale” e la “sicurezza nazionale,” venendo a mancare una agricoltura forte e che potesse esercitare una funzione trainante nei confronti degli altri settori. Ma non si capisce come sperasse di conseguire tali scopi con una agricoltura, quale era la nostra, che ben presto avrebbe rivelato tutta la sua debolezza e la sua arretratezza. Ed allora eccolo proporre a Mussolini la legge sulle trasformazioni fondiarie, da cui, poi, scaturì la legislazione sulla bonifica integrale. Essa incominciava a prevedere un intervento finanziario per la tradizionale bonifica idraulica a carico dello Stato, e, inoltre, l’attuazione di opere di bonifica agraria, cioè di messa a coltura delle terre, a cui avrebbero dovuto provvedere i privati. Infine, esortava alla creazione di Consorzi obbligatori per i proprietari dissenzienti, nei comprensori di bonifica. Il Serpieri pensava di attuare tale bonifica soprattutto nell’Italia meridionale, dove era più urgente contrapporre alla occupazione delle terre da parte dei contadini una intensificazione colturale del latifondo, che non intaccasse l’assetto della proprietà fondiaria e che, anzi, aumentando il valore e il rendimento della terra mediante le opere di bonifica, offrisse una occupazione continuativa ai contadini, distogliendoli dall’obiettivo perseguito con maggior fervore, lo spezzettamento del latifondo in tante piccole proprietà. La trasformazione fondiaria delle zone latifondistiche - egli metteva in rilievo - “sarà eseguita nei modi consentiti dall’ambiente fisico e dal criterio della convenienza economica, sostituendo all’ordinamento produttivo esistente un altro più redditizio […]. Occorre una buona volta convincersi che gli elementi dell’ordinamento rurale [ampiezza della proprietà e dell’impresa, tipo di contratti agrari, ecc.] sono un riflesso dell’ordinamento produttivo; che, scelto questo, quale le condizioni fisiche e il 45

criterio delle convenienze economiche impongono, gli altri elementi ne sono una necessaria conseguenza; che allo stesso benessere del contadino prima di tutto importa che la produzione sia alta, quindi adatta all’ambiente, perché solo allora sarà consentito un alto compenso al suo lavoro.” Ecco come poteva chiudersi su tali note chiaramente conservatrici, per non dire reazionarie (“innamorato della stabilità sociale,” lo diceva V. Porri, nella recensione alla Politica agraria, in “La Riforma sociale,” settembre-ottobre 1925), l’iniziale fase legislativa del Serpieri, durante la quale egli - come ha osservato E. Sereni - ha lasciato la “sua impronta decisiva” in molti settori della politica rurale e agricola, ed in cui, “mantenendosi in un contatto particolarmente stretto e diretto con i gruppi agrari dominanti dalla Toscana e dell’Emilia,” seppe “esprimere, nella forma più chiara e conseguente, i più generali interessi di classe, la coscienza di classe stessa dell’Agraria italiana, di contro ad ogni deformazione particolaristica di quella linea politica, ch’egli era venuto elaborando in suo nome, e che il regime aveva sostanzialmente fatta propria.” Forse in quest’ultima frase si può scorgere il ruolo esercitato dal Serpieri nel momento in cui il fascismo era salito al potere ed aveva un grande bisogno di attrarre a sé vasti strati sociali per crearsi una base di consenso sicura: a tal fine, risultò molto utile per Mussolini anche l’opera di un economista agrario liberista come era il Serpieri, il quale era legato strettamente agli agrari del nord ed ai proprietari terrieri del sud, ma non per questo sembrava voler rinunciare del tutto a rivolgere la sua attenzione al mondo dei contadini, al quale proponeva soluzioni che ne smorzavano l’impeto insurrezionale, anche se potevano apparire rivolte a soddisfarne le sue più sentite esigenze. E, come si è visto, il Serpieri pensava soprattutto alla situazione meridionale, che, fra il ‘23 e il ‘24, in 46

attesa delle nuove elezioni (le quali avrebbero dovuto dare, come abbiamo detto, al regime una Camera fascista al 75%), stava senza dubbio molto a cuore al duce, a cui stava di fronte il problema non lieve - o almeno dai contorni indecisi e incerti - di conquistare il Mezzogiorno. E quando, proprio poco dopo le elezioni, la sua azione si rivelò non più necessaria (il sud, per il solito fenomeno del clientelismo elettorale, era passato quasi tutto sotto i gagliardetti delle camicie nere), egli fu costretto ad abbandonare il posto di responsabilità governativa che aveva ricoperto per breve tempo. Era intervenuto pure il delitto Matteotti a modificare radicalmente i termini della lotta politica e ad accentuare, come vedremo meglio in seguito, la necessità di riscuotere l’assenso della media e della piccola borghesia non più blandendola ma con la forza. Piuttosto, viene spontanea un’altra domanda: che cosa poteva esserci, nel programma agrario del Serpieri, in grado di sembrare favorevole ai ceti agricoli meridionali? Questi ultimi non dovevano essere molto interessati né alla bonifica idraulica né a quella agraria sostenuta dal sottosegretario, perché la zona del latifondo - al centro della Sicilia - non ne aveva bisogno e tanto meno ne avvertiva la necessità la fascia costiera del meridione, tutta occupata da piccoli proprietari (ed infatti, la “bonifica integrale,” quando fu realizzata, riguardò altre aree del nostro paese, le paludi pontine e il Polesine e l’estuario del Po). Eppure, qualcosa doveva pure esservi, e forse questo qualcosa va ricercato nella sua avversione alla riduzione dei dazi sui prodotti agricoli e nella sua propensione a ripristinare - se non ad aggravare - il dazio sul grano per proteggere la cerealicoltura, dazio che, da quando era stato introdotto, nel 1887, si era risolto in vantaggio dei grandi latifondisti siciliani.2 Ma di nuovo viene la domanda: che cosa importava un simile dazio ai modesti e frantumatissimi 47

proprietari delle zone costiere, che si dedicavano alla produzione di merci pregiate? Può darsi che la promessa di una bonifica idraulica a carico dello Stato in terre dilavate dalle frane e dalle slavine - come aveva detto il Fortunato -, facesse loro sperare una coltura più redditizia. Ad ogni modo, il fatto è che, verso la metà del ‘24, la politica agraria liberistica del Serpieri aveva dato tutti i frutti che ne aveva atteso Mussolini, e il suo allontanamento fu il segno di una svolta nella condotta del regime verso i ceti agricoli e verso i piccoli proprietari terrieri, dei cui interessi si era fatto portavoce, più o meno consapevolmente, l’uomo politico tosco-emiliano,3 così come, circa un anno più tardi, nel luglio del ‘25, il duce potrà liquidare colui che era ritenuto il principale esponente del liberismo puro di stampo ottocentesco, cioè il De Stefani, perché ormai aveva stabilito, o stava stabilendo, rapporti molto stretti con le classi industriali, delle quali il De Stefani stesso era apparso il rappresentante più diretto. Perciò, l’abbandono del Serpieri segnò la fine di un periodo in cui era stata condotta una determinata politica agraria, della quale il duce avvertiva, in quella fase iniziale del suo dominio, l’esigenza, ed è proprio per tale motivo che intenderemmo con una certa cautela ciò che sia il Sereni sia il Foa scrivono sulla “ideologia ruralistica e sostanzialmente reazionaria” del Serpieri che avrebbe svelato alcune delle più sostanziali contraddizioni del fascismo. Il Foa, infatti, dice: “Nelle posizioni di Serpieri, nel suo illuminismo, nella sua fiducia nel potere dello Stato di riparare ai guasti del monopolio, in questo caso del monopolio fondiario, nella sua clamorosa capitolazione di fronte agli agrari, nella sua ideologia ruralistica e sostanzialmente reazionaria, si annidano alcune fra le più significative contraddizioni interne al fascismo.” Λ sua volta, il Sereni, aveva affermato: “[…] proprio in Emilia ed in Toscana, il piano riformistico della bonifica integrale 48

era destinato a fallire, come lo documentavano le ripetute lamentele del Serpieri stesso per la mancata attuazione, da parte degli agrari, delle opere di trasformazione di loro spettanza […], senza che, d’altro canto, alcuna sanzione sia mai stata presa nei confronti dei proprietari inadempienti.” Ancora una volta, pertanto, tale incapacità riformistica delle classi dominanti toscane ed emiliane (ed italiane in genere) sarebbe incomprensibile se non si tenesse presente il “fatto che il regolatore dell’economia, in queste regioni, non era in questo periodo, e non è, a tutt’oggi, semplicemente la legge del profitto medico, o quella della rendita fondiaria capitalistica ad essa subordinata, bensì la legge del massimo profitto, caratteristica per la fase del capitale finanziario monopolistico e del capitalismo monopolistico di Stato, la cui efficacia variamente si combina e si innesta con quella di posizioni di rendita, di origine feudale o semifeudale od altra, quali son quelle tipiche per la grande proprietà di poderi a mezzadria: sicché a questa proprietà non potevano bastare i pur abbondanti profitti e le rendite assicuratile, a spese dello Stato, dall’iniziativa riformistica del Scrpieri, ma erano indispensabili quei sovraprofitti e quei complementi di rendita che la legge del massimo profitto comporta, e che solo l’inadempienza agli obblighi stessi, derivanti da quell’iniziativa, poteva assicurarle, e foss’anche a prezzo del fallimento di quella iniziativa riformistica stessa.” Fallimento, dunque, della politica dell’Agraria toscana e del fascismo, che avrebbe coinvolto pure il fallimento personale del Serpieri, “non solo per quanto riguarda la battaglia del grano e la bonifica integrale, bensì anche, e particolarmente per quanto riguarda gli obiettivi più larghi e ambiziosi di quella politica, quali son quelli della mezzadria, dell’appoderamento, della ruralizzazione: che erano, poi, gli obiettivi della piena e ‘pacifica’ 49

subordinazione del lavoro (e delle possibilità stesse di un moderno sviluppo agricolo e industriale del paese) agli interessi della proprietà terriera e del capitale.” Non vorremmo discutere molto a lungo ciò che sostiene, in queste frasi, il Sereni, ma a noi sembra di aver dimostrato come, nella fase iniziale della sua partecipazione al governo Mussolini, il Serpieri avesse soltanto abbozzato un piano di “bonifica integrale” (che fu, più tardi, dopo la crisi del ‘29, condotta avanti dal fascismo nelle zone da noi indicate), e, per di più, in quella fase si trattava di una bonifica rivolta soprattutto a porre un rimedio alla preoccupante situazione del Mezzogiorno. Intento che fra il ‘23 e il ‘24 corrispondeva in pieno a quello del regime, che si preoccupava di conquistare il sud (secondo una - si potrebbe quasi dire - legge che ha sempre guidato chi è riuscito a giungere a reggere, da Roma, la cosa pubblica: Giolitti, nel passaggio dall’Ottocento al Novecento, allorché diventa il “ministro della malavita” e il coordinatore, nel Mezzogiorno, dei mazzieri che, in ogni elezione, gli dovevano fornire un certo numero di deputati fedeli; il fascismo, appunto, dalla consultazione elettorale del ‘21 a quella successiva del ‘24, e, infine, in questo secondo dopoguerra, la Democrazia Cristiana, che era stata, come Partito popolare, un partito che affondava le sue radici soprattutto nel settentrione e che si trasformò in formazione politica del sud già con le elezioni del 2 giugno ‘46 e, più ancora, con le altre del 18 aprile ’48). Insomma, la nostra conclusione sarebbe che il Serpieri rispose molto bene alle esigenze del fascismo nel suo primo periodo, ma fu allontanato dal ministero dell’Agricoltura non appena il duce, avendo capito di aver conseguito i suoi propositi, abbandonò il programma della “ruralizzazione” (cioè della “realizzazione di un’operazione malthusiana” che negava la possibilità di uno sviluppo industriale), 50

sostituendo alla difesa della piccola proprietà e della mezzadria l’appoggio ai ceti capitalistici in agricoltura, cercando di saldarli con quelli industriali. Molto interessante è, a questo proposito, l’articolo, pubblicato il 16 giugno ‘25 sulla rivista “Civitas,” fondata e diretta da Meda, che don Sturzo dedicò al libro del Serpieri. L’ex-segretario del Partito popolare scriveva che l’uomo politico toscoemiliano era stato “occasionalmente” sottosegretario all’Agricoltura e riconosceva che i provvedimenti emessi dal paternalista governo fascista erano stati sostenuti dal Serpieri, “con uno sforzo pari alla competenza,” attraverso “il Corbino, che gli avea fiducia.” Ma criticava il “lirismo serpieriano della nuova classe agraria dirigente, la sua facilità di far decreti e leggi (ai quali si crede come al Vangelo), la sua concezione dello Stato forte e dell’inserimento sindacale nazionale a scopo produttivo.” Su tutto questo ottimismo, peraltro, planava un’ombra sottile ma tenace, che sorgeva dal dubbio che il fascismo potesse subire “l’infiltrazione di interessi economico-politici che ricaccino indietro la oggi avanzatasi classe agraria […]. Il dubbio, che il prof. Serpieri avanza timido, io lo esprimo,” proseguiva don Sturzo, “assai più forte, in quanto io nego nelle presenti condizioni italiane ad ogni governo, e a fortiori a questo governo, di potere e sapere fare ‘una saggia politica agraria che contemperi liberismo e interventismo ai fini della produzione,’ cioè sulla linea teorica e tecnica della sintesi del problema posto dal Serpieri.” Il fatto era che i contrasti fra il capitale e il lavoro agricolo erano stati sopiti sì, e il Serpieri ne era contento, ma non ricordava, o dimenticava, “che i contrasti tra l’industria e il lavoro non solo in Italia, ma dappertutto, hanno irrobustito l’industria, quella che poteva sopravvivere, ed hanno dato una più salda coscienza di classe a intraprenditori e operai; da questa lotta si è sviluppata una 51

più larga solidarietà di interessi fra gli uni e gli altri, il che, oggi, in ultima analisi, è la forza politica dell’industria stessa nel suo complesso.” Come si vede, don Sturzo accoglieva (molto probabilmente, però, con scarsa consapevolezza critica) quanto era andato continuamente ripetendo il Salvemini sull’inserimento della classe operaia del nord nel sistema capitalistico, rendendo impossibile una sua alleanza con i contadini del Meridione. Tanto che, rivelando tutto il suo animus di fervido meridionalista, aggiungeva subito dopo: “Per la mancanza di questa lotta, di questa coscienza, di questa solidarietà di classe, l’agricoltura rimane prevalentemente a tipo domestico, non si industrializza, non si evolve che lentissimamente; e non può prender il posto adeguato fra i ceti agricoli e fra le regioni agricole d’Italia; è la causa fondamentale della mancanza di saldatura politica […],” evidentemente fra nord e sud. Ma, nelle sue parole, si potevano notare alcune posizioni, a dir poco, ingenue, allorché, ad esempio, sembrava intendere la “solidarietà di classe,” generata dalla precedente lotta, come una solidarietà di interessi fra gli agrari e i contadini; oppure allorché insisteva - come pure nei passi seguenti - sulla industrializzazione dell’agricoltura, che non poteva essere che di tipo capitalistico, quale unica soluzione della questione agraria e di quella meridionale: “[…] manca la industrializzazione, meno in pochi centri e per determinate culture. È possibile svilupparla in largo nel campo agricolo. Ci vogliono capitali, tecnica, tariffa doganale adatta e trattati di commercio favorevoli.4 Il Governo dovrebbe attuare almeno tariffe doganali e buoni trattati di commercio; ma su questo punto la politica è in mano agl’industriali, anche la politica fascista, e non c’è da farsi illusione, assolutamente. Gli agrari già sono da gran tempo rassegnati ad avere le briciole nel pranzo di Epulone.” Si osservi come, qui, il pensiero di don Sturzo sia rivolto agli 52

agrari per i quali sarebbero stati necessari capitali, tecnica, tariffe doganali e trattati di commercio: i braccianti, i contadini rimanevano sullo sfondo, plebe senza voce. Ed egli ribadiva che “l’agricoltura per riprendere il suo posto a fianco dell’industria, e per poter prevalere su di essa (e non solamente in particolari interessi, ma nell’indirizzo generale), dovrebbe attuare tre condizioni; dovrebbe cioè: organizzarsi socialmente, industrializzarsi economicamente e tentare le grandi lotte con l’industria per misurarsi potenzialmente di fronte alla pubblica opinione del paese. Tutto ciò non avviene; non siamo neppure all’inizio, nonostante che, secondo Scrpieri, sia venuto il Messia dello Stato forte. E per giunta proprio sotto lo Stato forte alla fascista non potrebbe avvenire.” Non si capisce da dove il vecchio democratico-cristiano della fine dell’800 e il popolare, poi, avesse tratto questa esigenza di una industrializzazione dell’agricoltura, con il che accettava una prospettiva molto lontana dalla difesa della piccola proprietà, che aveva caratterizzato la sua azione politica, difesa che egli aveva fermamente ribadito in una intervista concessa al “Secolo” di Milano, nell’agosto del ‘22, dopo la crisi del primo ministero Facta: i popolari, aveva dichiarato, “hanno un compito importantissimo: centralizzare i problemi e polarizzare le forze di equilibrio […]. In confronto al liberalismo […] sostengono la formazione della piccola proprietà e la stabilizzazione delle piccole economie liberamente associate. In confronto al socialismo sostengono i valori morali e spirituali del paese, l’abolizione dei monopoli di carattere proletario e parassitario dello Stato.” L’industrializzazione di natura capitalistica negava, alle radici, e tendeva a sopprimere, la piccola proprietà contadina, la quale ultima, al contrario, andava forse abbastanza d’accordo con la lotta condotta dal Serpieri contro la deruralizzazione quale 53

si era verificata in diverse nazioni europee e americane “a grande sviluppo capitalistico,” e con l’esaltazione della società rurale, che, a suo parere - come scrive S. Lanaro, in “Belfagor” -, andava protetta per i “suoi valori tradizionali, i suoi rapporti consuetudinari e i suoi stessi pregiudizi etico-religiosi” di contro all’economia agraria che sollevava problemi di razionalizzazione produttiva, di meccanizzazione del lavoro e di riduzione dell’area coltivabile a fini di intensificazione. Pertanto, secondo il Serpieri, i cardini di quella società rurale sarebbero stati due: la famiglia colonica e la piccola produzione indipendente. Tuttavia, il Serpieri stesso, per il Lanaro, era convinto di battersi per una causa perduta e dava come scontata “la sconfitta storica dei programmi agriculturisti”; pertanto, “nel momento in cui l’ipotesi vincente gli sembra quella di un’agricoltura di approvvigionamento tecnicamente attrezzata, fisicamente minoritaria e subordinata alla fabbrica e alla città sul piano della normazione etico-sociale, egli preferisce attestarsi su posizioni di difesa dell’autonomia del ‘modo di vita’ contadino, e approfittare delle contraddizioni interne di un regime come quello fascista, che non può rischiare di alienarsi totalmente i ceti rurali sulla cui emergenza politica e sul cui malcontento ha costruito una parte non piccola delle sue fortune” (in tal modo, il Lanaro evita di cadere nel drastico giudizio sulla “ideologia ruralistica e sostanzialmente reazionaria,” in cui si annidavano non poche fra le contraddizioni più significative del fascismo, che, come abbiamo visto, ha dato il Foa sulle posizioni del Serpieri). Ma può essere interessante ritornare a don Sturzo e cercare di capire a fondo il motivo sostanziale del suo mutamento: a nostro parere, esso sembra dovuto ad una analisi critica, abbastanza acuta, delle forze sociali 54

che avevano portato alla vittoria le camicie nere. Abbastanza acuta, abbiamo detto, perché tale vittoria ci pare sia stata favorita soprattutto dall’appoggio degli agrari e del sottoproletariato delle campagne emiliane e, solo in via subordinata, degli imprenditori industriali e degli operai, che apparivano al sacerdote siciliano la nuova classe dirigente del paese, come egli di nuovo sostiene in quest’altro passo: “[…] ci vuole la battaglia in grande [per dare un forte sviluppo all’agricoltura], su un determinato terreno, le cui sorti influiscono sull’indirizzo politico generale; e manca proprio l’esercito e l’attrezzatura. La battaglia agraria fatta dal fascismo non era che piccola scaramuccia di vallata, tra due ceti di agricoltori: i proprietari e i fittavoli della Val Padana contro i contadini; proprio la lotta che favorisce la disorganizzazione, pur nell’apparente ordine delle campagne conquistate col manganello, nel momento quando le agitazioni del dopo guerra andavano ad estinguersi. L’altra battaglia, chiamiamola così, della marcia su Roma e della presa di possesso del Governo non è un rivolgimento agrario; e Serpieri purtroppo vede in ciò lucciole per lanterne; al più gli agrari avranno dato dei denari per una propria assicurazione campestre contro i rischi delle agitazioni contadine; lo Stato non c’entrava che per questo piccolo compenso. Come si vede, la classe dirigente e prevalente in Italia oggi è la industriale e l’operaia dell’industria; e non altra. Il resto è massa, più o meno informe, su cui si esercita l’attività, ieri, di un parlamento paternalista, senza entusiasmo né convinzione; oggi, di un Governo paternalista anch’esso con lo stesso stato d’animo di dare sempre un colpo alla botte ed uno al cerchio.” Può darsi pure che questo continuo insistere sui ceti dell’industria imprenditori e operai -, sempre accomunati, possa servire a don Sturzo a scagionare del tutto le classi agricole del 55

Mezzogiorno - agrari e contadini -, che, peraltro, nel 1924 avevano sanzionato con il loro voto massiccio il successo del fascismo. Abbiamo anche parlato di analisi critica condotta proprio sulle cause di questo successo, eppure bisogna notare come il giudizio sulla stabilitasi solidarietà di classe fra intraprenditori e operai rimetteva don Sturzo nella grande corrente del pensiero meridionalistico, quella dominata da un Salvemini. (Si tratta, però, di una tesi che a noi pare errata, perché, anche se l’Italia uscì dalla guerra con un sistema industriale molto rafforzato, era pur sempre un paese dal decollo industriale recente - dal 1896 -, in cui aveva ancora una grande prevalenza il settore tessile composto di operai che oltre a lavorare in fabbrica, lavoravano anche il piccolo campicello che attorniava la loro casa: come dimostrò il fatto che il regime perseguì, fin verso il 1933, una politica estera di derivazione nazionalistica, cioè volta all’espansione nella vicina penisola balcanica.) Occorre, inoltre, osservare -per rendersi conto di quanto alcuni motivi fossero diffusi negli ambienti meridionalistici come anche don Sturzo, alla fine dell’ultimo passo da noi riportato, condanni -si direbbe quasi con lo stesso sdegno di un Dorso - la tradizione paternalistica, trasformistica e tutta dedita al compromesso che risaliva all’Ottocento, alla democrazia prefascista e che era stata ripresa in pieno dal fascismo, il quale, perciò, non era stato affatto una rivoluzione, bensì una continuazione del vecchio ordinamento politico. Partendo da simili premesse, don Sturzo doveva demolire tutte le convinzioni e tutti gli orientamenti del Serpieri, il quale, a suo dire, si era professato “a gran voce e nei momenti più discussi liberista […] ma non tanto; interventista […], ma fino a un certo punto. Però quando è stato all’opera, il suo interventismo gli ha preso la mano sul liberismo; il quale è stato da lui confinato in un piccolo 56

angolo riposto: quello dei patti agrarii, ma anche qui […] fino a un certo punto.” In realtà, secondo l’ex-segretario popolare, l’economista tosco-emiliano aveva seguito “il sistema di quella classe accomodante e flessibile, senza teorie e senza preconcetti, alla quale egli stesso fa cenno quando, parlando della presente situazione, vuole identificarla con la classe italiana tipo, e la vuole esibire come correttivo e come integrazione del fascismo; cosa che (sia detto tra parentesi) è la fissazione di questi padri nobili della commedia che sono i fiancheggiatori. Quindi l’interventismo di Serpieri va bene quando attua le sue vedute; e il suo liberismo va molto a proposito quando serve a difendere certe posizioni o certi interessi prevalenti.” Ma don Sturzo, scendendo più a fondo nell’analisi delle sue posizioni trovava che egli riteneva che la demagogia dello Stato democratico avesse condotto alla rovina l’Italia agraria, rovina da cui l’aveva salvata il nuovo regime delle camicie nere: “L’agrarismo non aveva un’anima politica, il fascismo glie l’ha data; il fascismo è fenomeno agrario, è l’affermazione di un ceto nuovo che sale a salvare l’Italia agraria, già rovinata e distrutta.” D’altronde, che cosa aveva fatto il Serpieri stesso per strappare i ceti fondiari dall’atteggiamento pseudo-sindacale e dal carattere tecnicoeconomico che avevano sempre mantenuto e farli diventare una classe politica “nel senso vero e completo della parola,” e per impedire che se ne stessero ai margini della politica, là dove avrebbero potuto curare meglio “una serie di interessi generali, rappresentati più significativamente da determinati interessi privati”? Ben poco, se non addirittura quasi nulla, poiché “la vera politica agraria, l’unica politica agraria fatta in Italia, è stata quella delle bonifiche romagnolo-emiliane, e quella della produzione zuccheriera, cioè nel momento dell’industrializzazione dell’agricoltura; tutto il resto è stato 57

paternalismo agrario, non politica agraria; paternalismo di incompetenti o di competenti; paternalismo verso classi amiche e ricche o verso plebi tumultuanti per fame; ma sempre paternalismo e non politica.” Eppure, le plebi tumultuanti - come le definiva don Sturzo con accento ottocentesco -, e, in particolare, i contadini, stavano cominciando a crearsi, tramite l’organizzazione economica, autonoma, locale, una coscienza di classe, “sul terreno degli interessi contrastanti fortemente sentiti”: “ma le Camere Regionali di Agricoltura furono respinte sotto il semplice pretesto della regionalità contrapposta alla nazione, dell’elettoralismo contrapposto a libertà. Serpieri ripete le medesime stolte accuse per elogiare i suoi striminziti Consigli Agrari fatti proprio per la retorica locale.” Ma in queste critiche spuntava chiaramente il vecchio popolare, che del suo partito prendeva la difesa, sostenendo che “se un partito, in Italia, dal Risorgimento ad oggi, ha affermato una politica nel campo agrario, ed ha rimesso in primo piano i problemi agrari del paese, è stato il Partito popolare. Le sue vedute hanno avuto ed hanno una vera struttura economica; discutibile, ma organica: e la mira di portare la classe agricola ad una maturità di coscienza collettiva, è stata ed è principale sforzo di un nucleo di uomini dedicati allo studio dei problemi agrari.” Si faccia attenzione ai termini che don Sturzo adopera parlando del suo partito: accenna si alla “classe agricola,” ma subito dopo soggiunge di essersi sforzato, con i suoi amici, di darle “una maturità di coscienza collettiva”: sembra quasi che abbia del tutto dimenticato la “salda coscienza di classe” che era stata, secondo lui, il frutto migliore scaturito dai “contrasti tra l’industria e il lavoro.” Ma si tratta di una fugace impressione, perché, concludendo l’articolo, allorché consigliava al Serpieri di togliere dal suo lavoro “quel che vi è aspettazione lirica del fascismo” e di svolgere più 58

ampiamente “la parte tecnica che è il suo forte,” affermava pure che, solo in tal modo, egli avrebbe potuto contribuire “assai meglio a creare una coscienza di classe agraria; nella speranza, lontana per ora, che questa possa arrivare a divenire classe dirigente, almeno al pari di quella industriale e al pari delle forze organizzate del lavoro,” il che avrebbe significato, forse, secondo don Sturzo, contribuire a fare sì che anche le correnti cattolico-popolari, che di quella classe si consideravano le rappresentanti, acquistassero una effettiva e reale influenza nello Stato e nella società del paese, accanto alle forze liberali (esponenti della classe industriale) ed ai partiti di sinistra, che affondavano le loro radici nelle forze organizzate del lavoro. 1 Il duce, presiedendo, a palazzo Chigi, il 21 febbraio del *24, una riunione tra i

rappresentanti della Corporazione nazionale dell’agricoltura e i rappresentanti della Federazione italiana dei sindacati agricoltori, diceva: “Credo che bisogna rialzare i valori dell’agricoltura italiana. Dobbiamo dirci che è stata un po’ negletta l’agricoltura. C’è stato, in questi ultimi tempi, uno sviluppo industriale in Italia fortissimo, prodigioso, ma la ricchezza dell’Italia, la stabilità della nazione e l’avvenire di esse sono, a mio avviso, intimamente legate alle sorti ed all’avvenire dell’agricoltura italiana. Ragione per cui vorrei che gli italiani e tutti coloro che si occupano di questioni sociali ed anche i legislatori passati e futuri tenessero al primo piano della loro considerazione le cose dell’agricoltura. Io ho la coscienza tranquilla a questo riguardo […], e devo rallegrarmi del nuovo indirizzo che si dà all’agricoltura italiana, indirizzo tecnico, diretto a industrializzare l’agricoltura, ad esercitarla razionalmente. Io credo che l’Italia sia in grado, sia pure attraverso la compensazione delle diverse culture, di produrre tutto ciò che le è necessario e di avere anche la possibilità di esportare. Le nazioni Bolide, le nazioni ferme sono quelle die stanno poggiate sulla terra, sono quelle che hanno il maggior numero di piccoli proprietari. Le masse agricole italiane si sono portate bene durante la guerra.” Si trattava, evidentemente, di un discorso elettoralistico rivolto ad attirare al fascismo le simpatie della ancora molto folta e preponderante massa dei piccoli proprietari, in vista delle elezioni che si sarebbero tenute il 6 aprile ‘24, elezioni da cui Mussolini aveva dichiarato che avrebbe dovuto uscire una Camera fascista al 75%. Né le sue speranze andarono deluse. 2 Era, questo del protezionismo granano, il punto che V. Porri maggiormente

criticava nel Serpieri: “Del dazio sul grano il Serpieri si dichiara difensore, non

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soltanto in tempi di temporaneo ribasso nel mercato internazionale (come ammettono tutti i liberisti, sull’esempio del Pantaleoni e dell’Einaudi), ma anche per ragioni di ‘sicurezza nazionale e di equilibrio sociale’” (senza dubbio, il Serpieri accettando queste ragioni, faceva sue pure le posizioni di potenza nazionale tipiche del fascismo). Avrebbe potuto, proseguiva il Porri, giustificarlo con “il compenso per i ceti rurali, taglieggiati dal protezionismo industriale: ma. allora,” egli obiettava, “il prezzo contiene in sé molti perìcoli che lo rendono un nuovo cavallo di Troia. Il rincaro procurato dal pane a più alto costo agisce in senso favorevole al rialzo dei salari, e perciò dei costi di produzione; di rimbalzo persuaderà i ceti industriali protetti a difendere con maggior tenacia i dazi già concessi a loro difesa. Conseguenza: ecco reso più difficile l’ottenere dai Paesi stranieri certe riduzioni dei dazi agrari, posti ad ostacolo delle nostre esportazioni più abbondanti e pregiate. Ed i Paesi esportatori di cereali, vedendo più ardua la concorrenza sul nostro mercato, tanto più ostacoleranno le nostre vendite di agrumi ed oli ed ortaggi e frutta,” con un sensibile peggioramento, aggiungiamo noi, delle condizioni dell’agricoltura meridionale, la sola che veramente producesse per l’esportazione. E, proprio pensando al Mezzogiorno, il Porri incalzava: ‘…come mai i punti dove si progredì (nella zona meridionale ad agricoltura estensiva) non fecero alcun passo grazie al grano, ma con la vigna a Cerìgnola e San Severo, con la facetta e la sulla nel cotronese od in qualche angolo dell’interno della Sicilia, con la radice di liquerizia ed il riso in quel di Sibari e S. Eufemia, col pomodoro in Val di Sete, con l’orto nell’agro romano? Troppo aleatoria resta la cerealicoltura in molte province meridionali per causa del clima: le 40 lire di rincaro per il dazio possono diminuire le perdite, non assicurare un reddito medio.” Ancora una volta, come già era avvenuto con la tariffa protezionistica a difesa del nostro settore tessile e con il congiunto dazio sul grano, sarebbe stata maggiormente favorita la cerealicoltura del nord, che produceva il grano più intensivamente e con il sussidio di macchine, di concimi, ecc., più moderni, a scapito — come dimostrava il Porri — dell’agricoltura meridionale. 3

Era ormai vicino, sul piano politico, il momento che avrebbe visto l’affermazione del Farinacci, implacabile nemico del Serpieri, che aveva seguito una linea ritenuta funesta dal ras di Cremona: in un telegramma del 19 settembre ’23, quando più forte era, nel fascismo, la polemica sulla normalizzazione o meno, il Farinacci ricordava al duce che non doveva dimenticare “che Serpieri fu nostro feroce avversario e fu a fianco di Miglioli quando noi, per combatterne demagogismo, dovemmo condurre alla morte delle nostre camicie nere.” 4 Ci sembra importante mettere in rilievo come queste tendenze liberistiche,

che abbiamo già trovato spesse volte manifestate da vari autori, siano presenti, senza alcun mutamento di fondo, anche in alcuni politici-storici più apertamente antifascisti: ad esempio, un Guido Dorso, che, nel suo La rivoluzione meridionale (pubblicata per le ediz. Gobetti nel 1925), cercava ansiosamente esempi di intransigenza morale tale da indicare l’agonia del trasformismo - la nostra malattia

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più perniciosa -, ma, nel ‘25, non scorgendo tale risveglio, che era “ancora di là da venire,” riteneva che la questione meridionale fosse “prima di ogni altra cosa, questione di libertà economica”; di conseguenza, egli chiedeva al fascismo una politica che contrastasse vivamente con “tutte le sue esigenze di interventismo finanziario e di accentramento burocratico.” Solo molto più tardi, ristampando da Einaudi, nel 1945, il volume, riponeva tutte le sue speranze nei fatti, di fronte ai quali ogni abilità di manovra - dei ceti, delle classi o dei partiti, “pullulanti di arrivisti e trasformisti” - era destinata a soccombere. Ogni sua speranza, pertanto, nel secondo dopoguerra, era riposta nel liberismo che gli alleati occidentali, vittoriosi, avrebbero imposto all’Italia come agli altri paesi, infrangendo le trame che la “reazione monarchica,” supporto “della conservazione, anzi della reazione nazionale,” stava accuratamente intessendo per ritornare al paternalismo e al trasformismo tradizionali. E, scrivendo la prefazione alla nuova ediz. del suo volume nel settembre del ‘44, quando, a Roma, si era costituito un governo di “unità nazionale” sotto la guida del Bonomi, un governo al quale partecipavano pure i “partiti antitrasformisti,” affermava con una segreta sofferenza: “Io mi rendo conto che si deve evitare di rompere la concordia nazionale, ma guai se il rilievo fosse conseguenza di deliberazione cosciente. Preferisco, invece, ritenere che, nella fretta della costituzione del governo, non sia emerso questo fondamentale profilo della situazione. Perché, in caso opposto, dovrei concludere che i partiti antitrasformisti si espongono al disastro per una sadica voluttà di suicidio, e che essi, perciò, non sono all’altezza del compito storico loro assegnato.” E concludeva, ribadendo la sua fiducia in un intervento “dall’esterno.”

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Capitolo terzo Tendenze protezionistiche e tendenze liberistiche dell’industria italiana Abbiamo molto brevemente accennato poco sopra che, dall’incidente di Corfu per i successivi dieci anni, il fascismo, molto probabilmente anche perché condizionato dall’arretratezza del nostro sistema industriale, continuò la politica estera nazionalistica preoccupata di tenere aperte le vie dell’espansione nei Balcani, che si erano dimostrati, da diversi decenni, un mercato molto favorevole ai prodotti tessili. Infatti, come afferma il Guarneri, il governo italiano condusse “lunghe e laboriose trattative” con quello jugoslavo, che si conclusero con un esito positivo e condussero alla “stipulazione di un trattato di amicizia e di pace fra l’Italia e la Jugoslavia, col quale veniva chiusa onorevolmente una lunga e tormentosa pagina della storia italiana del dopoguerra, con l’annessione di Fiume all’Italia; veniva, in pari tempo, data la pace al nostro confine orientale e tolta di mezzo una delle maggiori ragioni di inquietudine della nostra vita nazionale e della situazione internazionale. Il trattato veniva firmato a Roma da Mussolini e da Pašić, il venerando capo del Governo jugoslavo, il 27 gennaio 1924, in un’atmosfera di grande cordialità.” In verità, lo stesso Mussolini celebrò, con fervido entusiasmo, l’accordo, una prima volta quello stesso 27 gennaio, quando disse che si chiudeva un periodo della 62

tormentosa storia del dopoguerra e che se ne apriva un altro (“Una saggia valutazione,” aggiunse, “degli interessi reciproci ci ha condotti a realizzare un’intesa che abbraccia tutte le relazioni fra i due paesi e le rende feconde ai fini dello sviluppo crescente dei nostri popoli, la cui collaborazione economica, politica, spirituale costituisce un elemento essenziale per la pace europea”; gli fece eco Pašić quasi con identiche parole), e una seconda volta alla 83“ riunione del consiglio dei ministri, in un discorso dedicato prevalentemente al risolto problema di Fiume (né si dimenticò di rendere il dovuto omaggio alla “ardimentosa marcia da Ronchi,” intrapresa, nel 1919, da G. D’Annunzio), in cui accennò al fatto che l’accordo politico sarebbe stato completato “da un accordo commerciale di rapida conclusione e che si sta elaborando in questi giorni a Belgrado. Anche l’accordo commerciale avrà la sua importanza nello sviluppo dell’economia nazionale e della stabilità dei rapporti fra i due paesi.” Il “Corriere della Sera” dell’Albertini, sempre all’opposizione del regime finché questi non fu estromesso dalla direzione del giornale (novembre 1925), esaltava e, pur avendo dissentito fino allora dalla politica interna ed estera svolta dal regime, manifestava il suo “plauso più pieno ed aperto” per “l’intesa realizzata” da Mussolini con lo Stato jugoslavo: “Della sua forza,” proseguiva, “egli s’è valso nel modo più congruo agli interessi e al destino dell’Italia, dando, oltre tutto, una prova palmare agli stranieri della nostra continuità statale e dirimendo all’interno un contrasto di passioni annoso e profondo.” Secondo il quotidiano milanese, era compito del governo procedere per quella strada senza “titubanze e ritorni,” mostrando di “volere fermamente la nostra dignità e l’altrui libertà, di intendere che le nostre fortune non sempre si identificano con la rovina degli altri, di interpretare con saggezza gli obblighi 63

che i trattati impongono ai vinti, di collaborare dovunque, sul Reno come sul Volga, a quella che (con frase derisa, ma suggerita da un bisogno su cui ridere sarebbe stolto) fu ed è chiamata la ricostruzione d’Europa.” Potevamo diventare una grande potenza solo raccogliendo “via via attorno a noi, con fiducia e rispetto, le minori nazioni d’Europa”: “L’espansionismo di domani,” concludeva, “è soprattutto di ‘influenze’; e sarà primo chi l’avrà capito prima.” La politica estera del duce, fra il 1923 e il 1926 (e, poi, per diversi anni, fino al 1933), fu indirizzata, grosso modo, verso i paesi dell’oriente europeo e del levante, ai quali ci legavano - osserva il Guarneri - antiche tradizioni commerciali (convenzione commerciale con la Turchia, 24 luglio 1923; con l’Albania, 20 gennaio 1924; con l’Ungheria, 20 luglio ‘25; con la Bulgaria, 27 ottobre ’25; con la Grecia, 24 novembre ’26) oppure verso l’America latina, in particolare l’Argentina, e verso l’Egitto, tutte zone industrialmente arretrate, che non avevano filature meccaniche o che avevano ancora telai a mano. Così, ad esempio, nell’anno finanziario 1924-‘25, “su 134 mila quintali d’esportazione di filati non mercerizzati,” metteva in rilievo il Mortara nelle sue annuali Prospettive economiche, “56 mila erano diretti alla Bulgaria, alla Romania e alla Jugoslavia; 21 mila alla Turchia e all’Egitto; 12 mila all’Argentina; quantità minori a mercati industrialmente progrediti (Germania 11 mila, Svizzera 3 mila). L’esportazione dei tessuti è anch’essa diretta per la massima parte al Levante, ai Balcani, all’America meridionale.” I fattori sfavorevoli erano dati dagli alti prezzi delle macchine sul mercato italiano in conseguenza della protezione con cui era difesa la siderurgia, mentre un altro fattore sfavorevole, dato dall’alto costo del carbone, era stato quasi del tutto eliminato con l’impiego, quasi 64

generalizzato, dell’energia idroelettrica. Infine, uno dei fattori più favorevoli alle esportazioni era dato, secondo il Mortara, dai salari italiani che apparivano, nei confronti internazionali, fra i più bassi: “Alla vigilia della guerra, il salario medio giornaliero dei nostri operai cotonieri era di circa 2 lire. Il corrispondente salario medio era di lire 4,10 nella Gran Bretagna, di 6,70 negli Stati Uniti. Nel 1925, il salario medio era salito a lire 14,40 in Italia, a 37 nella Gran Bretagna, a 66 negli Stati Uniti.”1 E, poi, anche trattati commerciali con gli Stati dell’Europa centrale (Svizzera, Cecoslovacchia, Germania, ecc.), intesi ad “assecondare una tendenza che non può essere soppressa, la quale spinge i prodotti ortofrutticoli dei paesi del sud verso i paesi del nord.” Ma tutti questi settori produttivi (a cui bisognava aggiungere, oltre alle materie prime grezze e semilavorate di manufatti tradizionali, anche le “nuove attività industriali che si erano venute affermando durante la guerra” e che nei nuovi accordi “trovavano riconosciuto il diritto di cittadinanza”) avevano interessi spesso divergenti: in effetti, se i generi agricoli e i tessili, l’energia elettrica avvertivano l’esigenza di una politica doganale che fosse ispirata il più possibile al liberismo, non altrettanto avveniva per la produzione di quelle industrie che avevano cominciato a svilupparsi negli anni immediatamente precedenti la guerra e che avevano ricevuto da quest’ultima un forte impulso: ad esempio, l’industria chimica, che, dalla Relazione generale della “Commissione per lo studio del regime economico-doganale” (istituita il 23 gennaio del 1913 e che aveva condotto alla nuova tariffa doganale del 1o luglio 19212 - cioè in piena crisi -, attorno alla quale si erano accese vivaci discussioni, poiché, da un lato, i liberisti sostenevano che questa tariffa aveva subito aumenti altissimi di dazi, che, in taluni casi, erano 65

addirittura proibitivi, mentre coloro che la difendevano affermavano che essa avrebbe permesso la creazione, in Italia, di nuove industrie necessarie alla vita nazionale), risultava aver segnato notevoli progressi (“Le industrie chimiche appartengono a quei rami di attività economica che hanno avuto più forte impulso dalla guerra”: era stato anche il ramo in cui gli investimenti di capitali erano stati più cospicui); la siderurgia e la meccanica, che, già avversarie un tempo, avevano stipulato, nel dopoguerra, una intesa che venne sanzionata, nel settembre del 1926, con la formazione del sindacato siderurgico internazionale, che riunì “in pacifica collaborazione i nemici di ieri” (cosi scrive il Mortara). Un sindacato, molto probabilmente imposto dagli interessi della siderurgia francese predominante in Europa, che, già nel ‘24-‘25, cominciava a sentire gli effetti negativi dello smembramento del bacino carbonifero della Vestfalia. Tale smembramento era stato voluto dal governo della vicina repubblica nei trattati di pace, con cui si era annessa la Lorena, ricca di minerali di ferro, lasciando alla Germania le miniere di carbone, sicché una nota della “Rivista di politica economica” faceva rilevare che se era “interesse dell’industria tedesca acquistare in Francia circa 7 milioni di tonnellate di minerale, la Francia ha tutto l’interesse di rifornirsi in Germania di carbon fossile.” Si trattava, pertanto, di un sindacato che faceva pesare sul vecchio continente l’importanza preponderante della siderurgia francese e della meccanica tedesca: e nelle aspirazioni dei produttori d’oltralpe era la conquista di tutti i mercati europei (da quelli altamente sviluppati come l’inglese o il tedesco a quelli quasi sottosviluppati come Vitaliano o il romeno), dell’America del sud, del Giappone e della Cina. Ma un simile quadro era oscurato dalla difficile situazione in cui si trovava la metallurgia europea in seguito alla concorrenza americana, il che 66

avrebbe potuto richiedere una limitazione generale della produzione. “Gli impianti di Europa dovranno per lungo tempo limitarsi ad operare a circa il 50% della loro capacità; per alcuni sarà necessario ridurre ancora di più la produzione e forse dovranno sparire. Si va verso un periodo di accordi restrittivi, in un primo tempo fra connazionali, e in un secondo tempo fra produttori europei. Tutti ne sentono la necessità, ma ciascuno difende le proprie posizioni, e le necessità economiche si trovano complicate da considerazioni di ordine politico.” In simili contingenze dovette sembrare agli imprenditori metallurgici e meccanici italiani quasi una fortuna la possibilità di essere protetti e difesi dall’accordo delle industrie dell’Europa centrale, accordo che avrebbe fatto aumentare, ma non oltre una certa misura, i prezzi, anche se il Mortara notava, “tra parentesi, che il rialzo dei prezzi della ghisa e dell’acciaio sarà accolto senza eccessivo rammarico dai nostri produttori, i quali negli anni scorsi si lamentavano della sfrenata concorrenza estera.” Né si prospettava come probabile “il successo di una intensa azione a base di dumping diretta ad abbattere le nostre industrie siderurgiche e meccaniche. Il Governo vigila e può sempre intervenire con provvedimenti efficaci.” Tuttavia proseguiva il Mortara -, c’era un rischio derivante dalla costituzione del sindacato, ed era quello “di vedere consolidata ed estesa l’egemonia della Germania fra i paesi importatori di prodotti siderurgici e meccanici in Italia: egemonia della quale passate esperienze ci hanno insegnato i pericoli.” Ancora il Mortara cercava di dimostrare, citando le parole di un “industriale spregiudicato e intelligente, e non uno dei soliti economisti ignoranti e pieni di pregiudizi,” come le condizioni di inferiorità in cui si trovava ritalia, per la lontananza dei mercati di approvvigionamento del carbon fossile, rendessero poco 67

conveniente il “perseguimento di una autonomia o pseudoautonomia” nella fabbricazione della ghisa. “La cronaca statistica degli ultimi anni,” e lui poteva affermarlo con piena conoscenza poiché dal 1920 studiava minutamente l’andamento dell’economia nazionale, “dimostra che, in molti casi, l’alto dazio di importazione non basta a rendere economicamente conveniente la fabbricazione della ghisa, specialmente di quella da fusione. E qui aggiungiamo, tra parentesi, ancora una volta, che, nell’interesse dell’economia nazionale, vorremmo vedere sostituito al dazio di importazione un premio di produzione, il quale avrebbe uguale efficacia protettiva, ma consentirebbe il livellamento del prezzo della ghisa e dell’acciaio in Italia con quello del mercato mondiale, con vantaggio dell’industria meccanica e di tutte quelle forme di attività economica che impiegano macchine.” Del resto che esistesse, nel 1923-‘24, un “partito protezionista,” che rimase in vita anche negli anni successivi, e che in quel periodo faceva capo al “trust giornalistico,” che comprendeva il “Corriere italiano” di F. Filippelli, “Il Nuovo paese” e “L’Impero,” con alle spalle la Banca commerciale italiana, gli armatori Parodi, la Fiat e altre grandi industrie,3 era cosa abbastanza nota. Ma il regime doveva difendere l’industria siderurgica e quella meccanica - tutte in forte deficit (ad esempio, le importazioni di macchine ed apparecchi salivano dal 131,4 milioni nel 1913 a 462,7 nel 1923, a 590,6 nel 1924 ed a 1.059,4 nel 1925, mentre le esportazioni passavano da 25,5 milioni nel 1913 rispettivamente a 155,4, a 178,9 ed a 222,2: il Mortara l’attribuiva alla “scarsa capacità di resistenza dell’industria nazionale,” all’accorta e tenace penetrazione tedesca sul nostro mercato) -, tranne il settore dei veicoli - la Fiat -, non troppo considerato nelle statistiche, ma che aveva fatto grandi progressi nelle esportazioni: nel 1913 46,8 68

milioni di importazioni contro 43,4 esportazioni, nel 1923 68,9 contro 325,2, nel 1924 101,3 contro 510,2 e nel 1925 137,7 contro 760,1.4 Eppure, nel tempo stesso, Mussolini era costretto a preoccuparsi soprattutto dell’industria tessile e dei prodotti ortofrutticoli del Mezzogiorno, che, come abbiamo dimostrato, rappresentavano la voce più attiva nel nostro commercio internazionale, in direzione di alcuni paesi. Si è visto, infatti, quanta importanza rivestisse, per noi, la penisola balcanica (dove, a poco a poco, si andarono delineando due opposti schieramenti, l’uno comprendente la Bulgaria, l’Austria e l’Ungheria, cioè le nazioni sconfitte - che faceva capo all’Italia, e l’altro comprendente la Romania, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, le nazioni vittoriose nel conflitto - che faceva capo alla Francia). Esortavano, in quel periodo, il duce ad una politica commerciale liberistica anche le esigenze dell’industria idroelettrica, “divenuta,” afferma il Mortara, “in pochi anni una delle basi dell’assetto economico del paese”: con un terzo degli impianti in esercizio che era di costruzione posteriore alla guerra (“e presto,” osservava ancora il Mortara, nel 1927, “la proporzione salirà alla metà”), e differenziando i prezzi secondo gli usi (62,5 centesimi per ogni kwh. se destinato alla illuminazione e 13,4 se venduto per forza motrice, per una media di 19,4 centesimi, che era il prezzo di vendita fra i più bassi del mondo), tale settore aveva contribuito allo sviluppo di alcune industrie come le elettrosiderurgiche, le elettrochimiche, in definitiva quelle che trasformavano materie prime in tutto o in parte importate (cotone, lana, ferro, ecc.) - che altrimenti avrebbero dovuto morire. I vantaggi offerti all’economia nazionale da un decollo così rapido, che aveva fatto passare la produzione effettiva di kilowatt-ora da circa due miliardi nel 1913 e da appena 4 nel 1919 a 7,2-7,4 nel 1925 ed a più 69

di 8 nel 1926 (un decollo, tuttavia, che aveva aggravato la disparità fra l’Italia del nord e quella del sud: i 3/4 della produzione erano dati dall’Italia continentale e solo 1/4 da quella peninsulare e insulare, mentre il consumo era massimo nelle regioni settentrionali - 270 kwh. per abitante , alto nelle centrali - 212 -, minimo nelle meridionali - 46 - e ancora più basso nelle insulari - 28), così erano descritti dal Mortara: “L’energia idroelettrica prodotta nel 1926 corrisponde a quella che si sarebbe potuta ottenere da 9-10 milioni di tonnellate di carbone; l’aumento di produzione dal 1913 al 1926 corrisponde al risparmio di una maggior importazione di 7 milioni di tonnellate. Quando si consideri che l’importazione totale di carbone fossile si aggira sui 12 milioni di tonnellate all’anno, senza sensibile aumento sul 1913, appare la grande rilevanza di questo sviluppo, che tende a diminuire la nostra dipendenza dall’estero” ed a garantire la “sicurezza nazionale,” perché “costituisce un rafforzamento della capacità di azione e di resistenza del paese.” Inoltre, lo sviluppo degli impianti idroelettrici aveva reso possibile il sorgere e il fiorire di parecchie industrie, “concorrendo a compensare altri fattori d’inferiorità che gravano su di esse nella concorrenza internazionale; consentendo l’elettrificazione, ha aumentato la capacità di alcune lince ferroviarie di grande traffico, ed ha determinato miglioramenti nella celerità dei trasporti ed economie nel costo; promovendo la diffusione delle applicazioni agricole aiuterà direttamente l’elettrificazione delle colture, già indirettamente favorite dall’uso dell’elettricità nella industria dei concimi chimici.” Una politica di natura liberistica era considerata indispensabile da tali industrie - ed esse erano pure in grado di imporla al governo, qualora avesse assunto un diverso orientamento, insistendo sul “tornaconto nazionale” che imponeva “il massimo acceleramento possibile delle opere 70

per lo sfruttamento delle energie idrauliche” - perché il risparmio italiano era scarso e riluttante agli investimenti industriali; perciò era necessario ricorrere al risparmio estero che, come vedremo, affluiva con una certa abbondanza anche se ad un saggio d’interesse, per la rimunerazione degli investimenti, piuttosto alto, proprio “mentre i prezzi di vendita dell’energia sono tenuti bassi cosi dalle limitazioni statali come dalle condizioni stesse delle industrie consumatrici, che non consentirebbero forti rialzi.” Per quanto riguarda i capitali esteri, basta leggere ciò che scrive E. Conti, presidente allora della società elettrica “Conti” e poi della “Edison,” nel suo taccuino: sotto la data del 13 novembre 1922, cioè poco dopo l’ascesa al potere del fascismo, annotava che, “analizzando i diagrammi di incremento di questa mia azienda,” ci si accorgeva che gli aumenti seguivano “un parametro crescente,” e che i miglioramenti erano diventati, in un certo senso, automatici, dato che “i bisogni di un paese ancora giovane come il nostro si sviluppano costantemente.” Il che negava futilità di quella “disciplina nazionale” e di quell’“ordine sociale” con cui le camicie nere avevano occupato lo Stato italiano il 28 ottobre, almeno dal punto di vista economico, poiché l’incremento di cui parlava il Conti nel novembre doveva essere, senza dubbio, cominciato prima della fine d’ottobre, nel clima del regime liberaldemocratico che il duce si vantava di aver definitivamente seppellito. Il Conti continuava, sempre sotto la stessa data: “Per il continuo sviluppo del mio programma di sfruttamento delle forze idrauliche (sto iniziando o studiando altri serbatoi nell’Ossola, al Busin, al Toggia, al Kastel, all’Obersee, allo Schwarz e conseguente aumento di tutte le linee di trasporto e distribuzione), capitali me ne occorrono moltissimi ed il problema finanziario è costantemente l’oggetto dei miei studi e delle 71

mie trattative. In questi ultimi tempi i capitali americani, e in misura minore, anche gli inglesi, si orientano verso la possibilità di impieghi in Italia. Si tratta di una questione importante. ‘Aes aliena, mala servitus,’ ci hanno insegnato a scuola; ma in un periodo di transizione come fattuale, è necessario, per la nostra ricostruzione economica, ricorrere anche al capitale estero, purché ne sia facile l’ammortamento e non troppo grave l’interesse. Anche agli effetti valutari, le Società elettriche si trovano in condizioni favorevolissime perché le nostre derivazioni idrauliche, almeno quelle tecnicamente ben studiate, possono produrre energia a buon mercato, cioè a prezzi di concorrenza sul carbone; le spese per l’interesse e l’ammortamento di eventuali prestiti esteri rappresenteranno una somma di gran lunga minore di quella che si dovrebbe esportare per l’acquisto del combustibile. Estinto il debito, gli impianti rappresenteranno sempre un valore che al paese non costa più niente, mentre continuerà a produrre ricchezza. In questo senso ho scritto una serie di articoli per il “Popolo d’Italia,” anche per divulgare la conoscenza del problema e tentare di ottenere dal Governo per questi prestiti l’esonero dall’imposta di ricchezza mobile, in modo da renderne il costo complessivo sopportabile. Con varie case estere mi sono già messo in rapporto, principalmente con la Aldred e con la Blair di New York, entrambe dispostissime ad accordare larghi finanziamenti.” Forse si ricorderà quanto aveva detto il Giannini al Rizzini (e che questi aveva riferito a L. Albertini da Londra fra il 1° e il 20 novembre ‘23) sulla buona disposizione del governo americano a fare investimenti di capitali “in grandi opere di bonifica e di idraulica” in Italia, e sulla sua speranza di riuscire ad ottenere concessioni anche dall’Inghilterra e dalla Francia. Evidentemente, come 72

risulta dal Conti, i privati e le banche statunitensi avevano già pensato ad avviare capitali sul nostro mercato per collocarli, in particolare, nell’industria idroelettrica, che, ad un calcolo puramente economico, sembrava essere quella più redditizia. C’era, però, una notevole differenza fra i capitali che provenivano dai privati e quelli che potevano venire sollecitati dal governo degli USA, perché i secondi, a differenza dei primi, mal nascondevano l’intento di confinare l’Italia in settori che né agli stessi Stati Uniti né alla stessa Inghilterra importavano molto, disponendo in abbondanza di carbone. Ma, in tal modo, il nostro paese sarebbe stato impegnato, per lungo tempo, in una fase di pre-industrializzazione (che potrebbe paragonarsi ad una fase di creazione delle infrastrutture indispensabili per il posteriore, futuro decollo), come sarebbe, senz’altro, avvenuto se esso si fosse dedicato alle bonifiche o all’energia elettrica; la conseguenza, però, sarebbe stata che l’Italia avrebbe assunto il ruolo di un paese sottosviluppato, che non era assolutamente in grado di partecipare al grande commercio mondiale. Intanto, il Conti proseguiva nello sviluppo della sua azienda, sicuro di poter contare sul benevolo appoggio dei vari ministri, e se questo fosse venuto meno, di quello dello stesso Mussolini: il 27 febbraio ‘24 annunciava, trionfante, di aver distribuito ai suoi azionisti il 9% e di essere sicuro di arrivare ben presto al 10%. Ed aggiungeva: “[…] dovrò aumentare il capitale sociale ad almeno centocinquanta milioni. Converrà pure inglobare i residui debiti con una unica operazione, in modo da non dovere correre dietro a frazionate decurtazioni, rinnovazioni e simili. Oltre che dagli americani, ho delle proposte da una ‘Investment Registry’ di Londra; ma penso che finirò, per ragioni di minor costo, a intendermi con qualche istituto nazionale, come la Cassa di Assicurazioni Sociali o una Unione di Casse di Risparmio, o 73

l’Istituto per Sovvenzioni su Titoli. Siamo ben quotati e non avremo che l’imbarazzo della scelta.” Più tardi, il 23 novembre ‘25, enumerava accuratamente le industrie del suo gruppo che avrebbero avuto bisogno di ulteriori ampliamenti, o quelle di cui pensava di acquistare il pacchetto di maggioranza (e metteva pure in rilievo, con soddisfazione come l’aumento del capitale a 200 milioni andasse di pari passo con l’aumento del dividendo, portato al 12%), e lasciava anche scivolare tra le righe un accenno a non meglio specificati “sussidi governativi.”5 Il notevole sviluppo del settore idroelettrico - il cui incremento di capitale è detto dalla “Rivista di politica economica”, particolarmente forte6 - è documentato anche dalle parecchie decine di migliaia di dollari che arrivarono in abbondanza, pure negli anni seguenti, d’oltreoceano. “A chi andarono i dollari in arrivo?” si chiede G. Mori, e così enumera le industrie che ne beneficiarono: “La Fiat, nel luglio ‘26 emise un prestito di 10 milioni di dollarioro, l’Isotta Fraschini ne emise uno di 1.750.000 dollari nel maggio 1927, la Edison uno di 10 milioni di dollari nel dicembre ‘25 ed un secondo di 5 milioni nel dicembre ‘26, la SME uno di 12 milioni di dollari nel febbraio 1927, la SADF uno di 5 milioni di dollari nel marzo 1927, la Generale Elettrica Cisalpina uno di 6 milioni nel gennaio 1927, la SIP uno di 11.170.000 nel febbraio 1926, la Lombarda per la Distribuzione di Energia elettrica uno di 15 milioni nel gennaio 1927 ed uno di 6 milioni nel 1928, la Unione Esercizi Elettrici per 6 milioni di dollari nell’Ottobre 1926.” “Quasi 90 milioni di dollari in totale,” commenta il Mori, “un po’ meno di 2 miliardi di lire del tempo e circa il 4-5% del capitale di tutte le anonime italiane del tempo (quel dato corrisponde, nel 1969, a circa 10.000 miliardi di lire). Ma, come si vede, su quei 90 milioni di dollari, ben 48 erano stati assegnati ad 74

industrie elettriche, cioè un buon 50%, senza alcuna proporzione con i milioni che inondavano l’Italia e che venivano distribuiti con così gravi disuguaglianze fra le nostre aziende. Né si può pensare che tale diseguale distribuzione non fosse, sostanzialmente, favorita dal governo fascista.” Tuttavia, a questo punto, dobbiamo ricordare ciò che scrisse M. Mitzakis, in un suo libro pubblicato nel 1931, in cui sostiene che era un preciso interesse della grande industria americana “que le marche européen retrouvât son pouvoir d’achat antérieur,” quasi preannunciando la funzione che sarebbe stata, nel secondo dopoguerra, del piano Marshall. Sebbene, anche in quest’ultimo non si possa del tutto vedere soltanto una generosa politica idealistica tutta volta ad alleviare le sofferenze e le carenze di cui soffrivano i paesi europei, bensì si debba scorgere l’interesse americano mirante a creare un vasto mercato di assorbimento dei propri prodotti. Altrettanto, forse, era avvenuto prima del 1930, e, in particolare, negli anni cruciali fra il ‘23-‘24 e il ‘26, cruciali non solo per il fascismo bensì anche per tutto il sistema economico mondiale, in cui si andava sempre più affermando, attraverso una dura lotta commerciale, la potenza degli Stati Uniti, i quali, rendendo omaggio alla tuttora ampiamente dominante dottrina classica e ottocentesca, miravano a ristabilire, attraverso il puro gioco liberistico del mercato, le condizioni per un traffico internazionale ordinato e regolato da pochi paesi, ancorati ad una moneta stabile quale unità di scambio. Nessuno, pertanto, cercava di rendersi ragione dei grandi mutamenti intervenuti, in conseguenza della guerra, nell’economia mondiale; e nessuno rifletteva sul fatto che, se, nel secolo scorso, il succedersi continuo di fasi recessive a fasi espansionistiche era stato possibile perché non esistevano paesi o classi che osavano ribellarsi alla situazione di miseria 75

in cui tale politica economica li faceva ricadere (e quando cominciarono a rendersene conto, allora fu il momento del conflitto), ciò non poteva più continuare nel dopoguerra. Questo avevano ampiamente dimostrato da un lato la rivoluzione russa e, dall’altro, nelle nazioni occidentali, la reazione totalitaria, intervenuta in quel periodo (ma si trattò di un fenomeno comune, fra le due guerre, a molti paesi) in Italia nel ‘22 e nel Portogallo, nel ‘26, dopo i travagli di una deflazione che apri la strada al lungo governo autoritario di Salazar. Sicché la nostra ipotesi che gli sforzi dell’America fossero rivolti a tenerci fuori dai mercati mondiali, esce avvalorata, anche perché, allora, le esportazioni statunitensi non consistevano più, come nell’anteguerra, di materie prime e di prodotti agricoli, cosa del resto naturale in un paese che era uscito dal conflitto con un potenziale industriale notevolmente rafforzato. In una analisi del commercio estero durante il 1924, svolta dalla “Rivista di politica economica,” risulta che “i prodotti finiti e pronti per il consumo, che da dopo la guerra in poi hanno rappresentato la categoria più importante delle sportazioni americane, aumentarono di 110 milioni di dollari, ossia dell‘8% in confronto all’anno 1923. Detto aumento fu dovuto alle maggiori esportazioni di macchine, autoveicoli, olii minerali, ferro ed acciaio”; “Durante il periodo prebellico un terzo delle esportazioni degli Stati Uniti era rappresentato da materie prime, che superavano considerevolmente le spedizioni di articoli manifatturati. Nel 1924, invece, detta percentuale era diminuita al 29,5%, mentre le esportazioni di prodotti manifatturati erano aumentate al 35,3% del valore totale di esportazione.” “Durante l’anno 1924 le esportazioni di macchine aumentarono, in valore, rispetto al periodo pre-bellico, dell’87%; le esportazioni di manufatti di cotone e di 76

macchine agricole aumentarono anche in valore di circa il 300%.” Dopo tale esame, il consigliere commerciale presso la R. Ambasciata italiana di Washington, lanciava il suo grido d’allarme, che cominciava ormai a rispecchiare la consapevolezza di una grave minaccia per la vecchia Europa da un così manifesto predominio di una sola grande potenza, timore appena velate dal richiamo al liberismo ottocentesco, di cui l’Inghilterra si era accontentata, pur avendo fatto, esso, l’interesse nazionale, di assicurare un fluire rapido e pacifico degli scambi commerciali. Ma, anche in questo caso, non si scorgeva, o non si voleva scorgere, quanto fosse stata dannosa quella tutela britannica, che aveva finito con il contrastare o il frenare lo sviluppo economico di altri paesi. La “Rivista” cit., pertanto, scriveva: “Nel periodo pre-bellico gli Stati Uniti rappresentavano un paese esportatore di materie prime e viveri; essi offrivano buone opportunità, quale ricco mercato, alla industria europea. La situazione è oggi completamente mutata, e invece di rappresentare una economia coordinata a quella europea in generale, questo paese ha oggi funzione di concorrente temibile e molto agguerito. - La crescente percentuale di prodotti industriali esportati rispecchia altresì il fatto che l’attuale potenzialità industriale degli Stati Uniti è alquanto in eccesso alla domanda ed al consumo domestico. Il commercio di esportazione comincia a rappresentare una necessità economica nazionale. Ciò è chiaramente dimostrato dal forte aumento dei prestiti all’estero. Considerando in linee generalissime i due movimenti dei capitali e delle merci, si nota che, durante il 1924, gli Stati Uniti riuscirono ad aumentare la favorevole bilancia commerciale a circa un miliardo di dollari principalmente perché concessero un volume di nuovi prestiti all’estero per circa un miliardo e duecento milioni di dollari. - Ciò mostra come il recente sviluppo del commercio 77

di esportazione degli Stati Uniti poggia su basi alquanto dubbie e su cui non potrebbe attendersi una salubre espansione. Il movimento del 1924 rappresenta una ulteriore proroga, una posticipazione alla reale ed effettiva soluzione del problema economico internazionale, accentuatosi dopo la guerra nelle relazioni tra gli Stati Uniti e gli altri paesi, specie quelli europei. La concessione del prestito all’estero rappresenta la prima fase di un nuovo movimento economico: essa dovrà essere seguita dalla restituzione. Detti prestiti vengono concessi dagli Stati Uniti sotto forma di esportazioni di merci: la restituzione potrà solo avvenire con il ricevimento di prodotti e di servizi. Appare quindi evidente la manifesta contraddizione esistente nella presente politica economica degli Stati Uniti tra la facilitazione degli investimenti di capitali all’estero da un lato, e l’eccessivo protezionismo, che ora si vorrebbe estendere anche all’agricoltura, dall’altro. - Siamo senza dubbio in un periodo di transizione: la nuova posizione economica internazionale di paese creditore è destinata a provocare l’abbandono del protezionismo da parte degli Stati Uniti. - Ed è opportuno a questo punto accennare all’esempio dell’Inghilterra durante le prime decadi del secolo scorso: dopo le guerre napoleoniche, il periodo in cui detta nazione assumeva celermente la posizione di paese creditore. La mutata posizione economica internazionale provocò un mutamento radicale nella politica commerciale; i residui del mercantilismo vennero completamente eliminati, la politica delle restrizioni fu sostituita con il liberismo commerciale. E detto mutamento fu adottato principalmente, se non esclusivamente, nell’interesse nazionale britannico” (il corsivo è nostro). E concludendo la sua minuta analisi delle correnti di traffico statunitensi, il consigliere commerciale osservava che “l’industrializzazione di questa Confederazione va aumentando in dipendenza 78

verso le regioni nuove [ dell’Asia e dell’America latina] di prodotti grezzi e materie prime, che offrono altresì ottime opportunità per l’adsorbimento dei manufatti. Quale finale risultato, va diminuendo l’importanza occupata in precedenza dall’Europa nell’economia americana.” In definitiva, pertanto, questa politica nei riguardi del vecchio continente ricordava molto da vicino l’imperialismo francese e inglese degli ultimi decenni dell’Ottocento, quale era stato descritto dall’Hobson nel 1901 e da Lenin nel 1916, un imperialismo basato essenzialmente sulla esportazione di capitali e che esigeva l’abbattimento delle barriere doganali perché era troppo sicuro della sua superiorità, che gli avrebbe consentito di invadere i mercati europei con prodotti a basso costo, in quanto poteva avvantaggiarsi di un notevole progresso tecnologico. Certo, gli USA potevano essere liberisti - proprio come la Gran Bretagna nel secolo scorso - per ciò che concerneva la produzione industriale, ma erano protezionisti nei confronti dei generi alimentari e delle materie prime (basti vedere la preoccupazione destata nei paesi europei dall’intenzione, che si delineò fra il ‘24 e il ‘25, del Federal Oil Conservation Board di limitare fortemente l’esportazione del petrolio - di cui allora gli Stati Uniti erano i maggiori produttori -, in previsione dell’eventualità che l’America non ne avesse più disponibile per l’esportazione: il che diffuse la paura che, oltre un aumento del prezzo, l’industria petrolifera russa potesse presto dominare il mercato europeo). Così, Mussolini e il regime fascista cercarono di condurre una politica economica che si mantenesse in bilico fra il protezionismo e il liberismo, anche se, pure a storici recenti - come il Gualerni - l’aver stipulato nuovi trattati commerciali sembri confermare un quasi totale abbandono della “politica protezionistica che era sfociata nelle leggi 79

doganali del 1921.” Ma lo stesso Gualerni, subito dopo, mette in rilievo come il regime finisse con il favorire “le industrie tradizionali, con la conseguenza che, nel campo siderurgico e della meccanica pesante, si passa di salvataggio in salvataggio, e in quello tessile si dà luogo ad una capacità produttiva condannata a rimanere in gran parte inutilizzata.” Una politica di salvataggio che non può essere definita come politica liberistica, e che si rendeva tanto più urgente per il nuovo regime perché, nel settore metallurgico e meccanico (settori, per il nostro paese, relativamente recenti, o almeno più recenti che in altri paesi dell’Europa occidentale e centrale), si incominciava già ad avvertire la minaccia delle esportazioni americane: secondo i dati forniti dall’“Iron Trade Review,” la produzione statunitense della ghisa passò da 30.654 migliaia di gross tons nel 1913 a 40.026 nel ‘23, mentre quella dell’acciaio subiva anch’essa un sensibile aumento salendo da 31.301 migliaia di gross tons a 44.944. Ma l’altro grande paese europeo che si era imposto, in Europa, come produttore di ghisa, era la Francia, con un quantitativo superiore a quello dell’Inghilterra; e la stessa Francia era in grado di fare larghe esportazioni di acciaio in Germania (7.500 migliaia di gross tons di ghisa nel 1924 e 6.850 di acciaio nello stesso anno), e tanto più di invadere il mercato italiano, che era confinato in una posizione molto più debole: 250 migliaia di gross tons di ghisa nel 1924 e 1.100 di acciaio. Una simile situazione doveva contribuire, se si ricorda quanto abbiamo detto sopra sulla differente politica economica desiderata dai vari settori produttivi, a spingere il duce ad adottare misure protezionistiche per quanto riguardava i prodotti siderurgici e veniva a creare un nuovo solco fra le due nazioni latine (insieme con quello che già le divideva nei Balcani), spingendo il fascismo ad appoggiarsi all’altro Stato che era stato danneggiato dai notevoli mutamenti 80

intervenuti dopo la guerra, cioè la Gran Bretagna. Questa, malgrado qualche tentativo di sussulto, iniziò allora una progressiva deteriorazione nel commercio mondiale, che, poi, si fece manifesta dopo la seconda guerra mondiale. Infatti, se quale mercato di esportazione negli USA conservava il 2° posto, con una percentuale, però, di gran lunga inferiore a quella dell’anteguerra, nel commercio di importazione dagli Stati Uniti scendeva dal primo al decimo posto, mentre la Germania passava dal 2° al nono, ma guadagnavano molte posizioni il Canada (al 2° posto), il Giappone (dall’8° al quarto) e le Indie Olandesi (dal 7° al quinto). Ma ci interessava di più porre in risalto l’opera di mediazione a cui fu costretto il duce fra gli opposti interessi delle potenze mondiali e fra le divergenti esigenze dei ceti produttivi italiani. Non si può assolutamente sostenere, a nostro parere, né che Mussolini abbandonò la politica protezionistica per una schiettamente liberistica né che adottò senza riserve quest’ultima: la sua condotta rivelò la preoccupazione di non inimicarsi Tuna categoria o l’altra, ma di aggiogarle sempre più al suo carro, solleticandone le aspirazioni e le più o meno aperte tendenze. Fu proprio per tale motivo che il regime non potè non dare ascolto ai tessili, che chiedevano a gran voce ai nazionalisti -che confluirono, superando alcune diffidenze e remore,7 nel fascismo, il 25 febbraio del ‘23, e che erano gli esponenti della vasta area tessile - una grande restaurazione liberistica, tale da smantellare le bardature protezionistiche - disse M. Pantaleoni, definito da F. Gaeta: “intellettuale forcaiolo” -, da abolire ogni legislazione sui sovraprofitti di guerra, qualsiasi imposta sul patrimonio, la funesta nominatività dei titoli, il monopolio delle assicurazioni e i monopoli delle cooperative (rosse), il sovvenzionamento alle industrie, il credito per via legislativa 81

all’agricoltura, la mediazione dello Stato nei conflitti del lavoro. Perciò, il nazionalismo, che pure proclamava, come abbiamo già visto, per bocca del Pantaleoni su “Politica,” che il fascismo non era stato una rivoluzione (invenzione, questa, anche se per opposti motivi, degli antifascisti e dei fascisti), con le sue recise richieste liberistiche voleva distruggere proprio quello Stato uscito dal travaglio liberale e democratico dell’Ottocento per ridare il potere integro e intatto all’alta borghesia, che continuava senza riserve l’antico disprezzo dei ceti nobiliari per la plebe o la populace, considerata una classe inferiore corvéable à merci, taglieggiabile a piacimento. In verità, il Pantaleoni esprimeva con perfetta adesione il pensiero degli industriali, i quali si aspettavano dal regime - come scriveva l’organo dell’associazione imprenditoriale lombarda - la “rapida soluzione degli urgenti problemi della finanza, della burocrazia e dei pubblici servizi.” Il che voleva dire richiedere una politica diversa da quella seguita fino allora dai precedenti governi, e che così era sintetizzata dal presidente della Federazione degli industriali di Milano, F. Targetti: “La politica di intervento statale, di confisca di capitali, di finanza demagogica, l’alto costo della mano d’opera insieme con il suo pessimo rendimento” che avevano paralizzato, dopo l’armistizio, la produzione italiana. Tuttavia, lo stesso Targetti era costretto ad ammettere che la mano d’opera non era mai stata “tanto volonterosa dall’armistizio in poi, come nei tempi di torbidi politici.” Ma gli imprenditori dovevano necessariamente insistere sul quasi tacito accordo che avevano ora stabilito fra loro e uno Stato che, prima, era intervenuto nel processo produttivo e che aveva colpito soprattutto il ceto industriale mediante alte e ingiuste imposte; pertanto, erano sicuri di poter far ricadere sul ministero dell’on. Mussolini tutto il 82

loro peso, in modo da determinare una svolta netta (altro che non rivoluzione! essi, al contrario, intendevano l’ascesa al potere delle camicie nere come un reciso mutamento ad opera di un potere più attento ad accondiscendere alle loro esigenze). Infatti, in una riunione dell’Alleanza parlamentare economica, presieduta dall’on. Olivetti, ed alla quale fu presente anche il ministro delle Finanze, De Stefani, nel novembre del ‘22, venivano riassunte nel modo seguente le rivendicazioni degli ambienti economici: “ 1) Conguagliare la pressione fiscale alla potenzialità di sviluppo delle energie produttive; 2) ridurre le spese al minimo necessario; 3) risanare i pubblici servizi e abbandonare tutte quelle attività che possono essere più proficuamente esercitate dall’iniziativa privata; 4) dare alle energie individuali la tranquillità indispensabile per la loro funzione,” con una politica doganale che facilitasse il miglioramento dei cambi e la rivalutazione della moneta, e, infine, con una politica estera che, “riponendo la Nazione nel posto che di diritto le spetta, [permettesse] alle forze economiche nazionali di valorizzarsi nella civile competizione internazionale.” In particolare, per quanto riguardava i servizi pubblici, l’Αlleanza formulava un voto, che cioè tutti i servizi pubblici di carattere industriale passassero all’iniziativa privata, passaggio che si riteneva possibile in un termine relativamente breve per i servizi minori e che avrebbe dovuto essere fatto solo in un secondo momento per l’azienda ferroviaria. Simili richieste erano avanzate con fermezza, perché radunanza aveva avuto la netta sensazione che, questa volta, finita la vuota inconcludenza dei governi liberal-democratici, le sue parole non sarebbero state buttate al vento, ma sarebbero state ascoltate con attenzione; del resto, la stessa presenza del De Stefani al convegno stava a significare che, nelle alte sfere, era apertamente riconosciuto e apprezzato il “valore del 83

contributo che i produttori [davano] alla politica economica del paese.” La risposta del ministro delle Finanze non si fece aspettare troppo e la posizione ufficiale del gabinetto Mussolini fu da lui stesso esposta il 25 novembre del ‘22, allorché comunicò alla Camera il programma finanziario del “Governo Nazionale Fascista”: “Il problema tributario è un problema assai più modesto di quel che molti possano immaginare,” esclamò, “è un problema di accertamento, di semplicità, di economicità, di generalità.” Tutto giusto, ma quel problema dell’ accertamento rimaneva lì, quasi una minacciosa frana che incombesse su di lui, se fu costretto anche a constatare che “mezzo milione di contribuenti sfugge all’imposta di ricchezza mobile. Provvederò ad imporre il rispetto alle leggi finanziarie ed alla persecuzione giudiziaria dei trasgressori.” Verso i quali, peraltro, non seppe che rivolgere un’umile preghiera: “chiederemo a coloro che frodano, il sacrificio di non frodare,” affermazione che doveva essere sembrata vuota di qualsiasi significato anche ad un liberista incallito, che doveva pur sapere come salde leggi e interessi concreti e reali governassero l’agire economico degli uomini: non umili e sommesse preghiere, pertanto, occorrevano, ma un nuovo ordinamento, se quello vecchio era superato, tale da imporre a tutti i cittadini “l’imperativo della legge.” Grandi parole, a cui seguiva subito dopo un revirement, una specie di voltafaccia, in verità un po’ troppo spudorato: infatti, il De Stefani annunciava di aver presentato per la discussione alla Camera la proposta di estendere “ai salariati l’imposta di ricchezza mobile. Io vi dico,” proseguiva accalorandosi, avendo trovato finalmente la sua vera strada, “che se i salariati, e particolarmente talune categorie speciali di essi (speciali a riguardo dell’opera prestata e delle condizioni particolarmente favorevoli del loro contratto di lavoro) 84

saranno chiamate, come propongono questi disegni di legge, a iscriversi nei ruoli dei contribuenti, noi non lo faremo per puro scopo finanziario, ma piuttosto per un alto scopo morale, politico ed equitativo.” Alto scopo morale che egli giustificava con la volontà di non cadere di nuovo nell’errore dei passati governi, che consideravano il problema fiscale avulso dalla sua base naturale, che era l’economia della nazione. E sempre più infervorato continuava, dimenticando completamente le “forme ingiustificate di protezionismo finanziario” che poco prima aveva condannato, dichiarando: “I nostri sforzi devono concorrere a realizzare nel Paese quelle condizioni di produttività e di benessere, quella ripresa di traffici che costituiscono anche la condizione delle abbondanti entrate. Una politica economica che liberi da ogni impaccio i congegni della produzione e degli scambi ha maggior effetto, nel quadro delle entrate di quello che non possano avere aumenti di aliquote o nuove imposte su un organismo inceppato nelle sue iniziative e nei suoi movimenti.” Un simile criterio finanziario indiretto, secondo lui, conciliava “l’interesse della privata economia con l’interesse dello Stato e della pubblica finanza.” Di conseguenza, bisognava parlare chiaro: “una finanza fondata su criteri di persecuzione del capitale è una finanza folle,” il che lo portava ad affermare che conveniva più “che impedire l’ammortamento del capitale, premendo sul risparmio che si reinveste e che è stato conteso dallo Stato all’attività economica privata, premere sui consumi,” soprattutto se si intendeva agire efficacemente “nell’interesse vero e definitivo delle popolazioni più disagiate. La lotta contro la formazione del capitale privato ricade sulle spalle dei lavoratori. Noi agevoleremo, per quanto lo consentono le attuali condizioni, la formazione del risparmio,” anche se, premendo sui consumi, si peggiorava il tenore di vita dei 85

lavoratori e se ne deteriorava la situazione. Dopo queste premesse, poteva concludere, quasi trionfalmente e lasciando intravedere tutta una politica organica adeguata ad esse, di voler “procedere con criteri sperimentali, e per punti, alla revisione delle tariffe, e specialmente di quelle di cui si può sospettare che la loro eccessiva altezza possa aver contratto la materia imponibile e indotto i contribuenti alla frode.” La politica fatta intravedere era stata metodicamente applicata nel ’23-’24, quando, nel discorso preelettorale alla Scala (30 marzo ‘24), il ministro delle finanze dava “al pubblico italiano e straniero” - come scriveva L. Einaudi sul “Corriere della Sera,” elogiandone l’operato - il “glorioso annuncio del pareggio conquistato” e cianciava di diminuzione della circolazione e di stabilità finanziaria. Ma ciò che, senza dubbio, doveva essere giunto più gradito ai ceti economici dominanti, era stato quello che il De Stefani aveva detto sulla attività del governo nel campo delle imposte dirette e delle tasse sugli affari: “dal novembre 1922 ad oggi sono stati emanati provvedimenti numerosi di diminuzione di aliquote e di abolizione di imposte. Si è ridotta l’imposta di successione nel nucleo familiare e ridotte a più miti aliquote le successioni non esentate8·; si è abolita l’imposta sugli amministratori e dirigenti delle società anonime; si è abolito il contributo personale di guerra; si sono trasformate in proporzionali le aliquote progressive sulle imposte dirette reali; si è perfezionato, allargandone la portata, il regime delle esenzioni per le nuove costruzioni […].” Con un sensibile crescendo, annunciava, inoltre, che si era “predisposta la riduzione delle aliquote della imposta fondiaria e della imposta edilizia,” pur se si era “generalizzato il tributo mobiliare secondo disegni di legge predisposti dai Governi precedenti [benevola concessione, con cui abilmente si attirava la 86

sincera approvazione dell’Einaudi, il quale diceva che il ministro era “troppo grande scienziato per non rendere omaggio, pur affermando il netto contrasto verbale tra i due regimi, al principio della continuità della storia], applicandoli però con tariffe più miti.” Si vantava, infine, “di avere abolito, per favorire ia ripresa economica italiana, la obbligatoria nominatività dei titoli, che si sarebbe risolta in ulteriori aggravi”; di avere esentato, “per lo stesso fine, dall’imposta di ricchezza mobile i redditi dei debiti contratti all’estero per investimenti capitalistici nelle industrie italiane e, per favorire ad un tempo la nostra espansione industriale e commerciale, si sono esentati dalla stessa imposta i redditi provenienti dalle succursali estere delle aziende italiane.” Aveva, pertanto, ragione M. Rocca, che, dopo essere stato fervente fascista, se ne era allontanato, fra il ‘23 e il ‘24, per raggiungere il gruppo dei dissidenti (di cui parleremo più avanti), quando esclamava, con l’indignazione del neofita, che voler essere “liberista” in una società come la moderna, con uno Stato che era il bersaglio di assalto dei potenti ceti economici, significava “favorire i più forti contro i più deboli, concedendo libertà e protezione ai primi e nulla ai secondi.” E in tal modo riassumeva i provvedimenti adottati dal regime in favore della borghesia industriale e agraria: “rinuncia al monopolio sulle assicurazioni vita a beneficio essenziale di due grandi compagnie private [accontentando un voto espresso dalla Federazione imprese assicuratrici fin dal luglio ‘22]; riforma tributaria che limita la progressività dell’imposta complementare a cifre relativamente basse di imponibile, invece di superarle o di essere proporzionate per tutti; il sistema di concedere grandi lavori a trattativa privata, spesso a poche ditte; l’immutato indirizzo della politica doganale a favore precipuo dell’industria pesante; i 300 milioni di sovraprofitti condonati alle grandi industrie, mentre le 87

medie fortune colpite dalla medesima tassa penano a pagarla; il contributo alle autostrade; il salvataggio oneroso non solo d’industrie, di banche e dei loro depositari, ma persino dei loro azionisti [a proposito delle banche, quasi sicuramente il Rocca si riferisce soprattutto al salvataggio del Banco di Roma, controllato dai cattolici ed al quale, scrive il Salvemini, “il Vaticano e la Santa Sede avevano affidato i loro capitali,” e per cui lo stesso card. Gasparri, segretario di Stato del pontefice, aveva richiesto il benevolo intervento del governo fascista; Mussolini non si fece pregare molto ed evitò il fallimento del Banco “al prezzo, si disse, di un miliardo e mezzo di lire,” somma che, è superfluo dirlo, uscì dalle tasche dei contribuenti italiani]; l’inflazione monetaria a servizio della borsa e della banca; il consenso a prestiti italiani a Stati esteri, dopo aver abolito la tassa di successione per attirare capitali esteri in Italia.” “Persino la riforma Gentile,” aggiungeva il Rocca, “ottima nei suoi capisaldi fondamentali, [era stata] applicata in modo cosi catastrofico da favorire esclusivamente gli alti ceti della grande ricchezza a detrimento, a schiacciamento dei ceti medi” (eppure, tale riforma, in questa nostra Italia che ha la grande virtù di passare indenne nelle sue strutture civili e sociali attraverso i grandi avvenimenti che hanno assunto talora la parvenza di rivoluzioni, è quella che ancor oggi regge la nostra scuola, perché abbiamo sempre avuto classi dirigenti fedeli al principio che nulla si deve muovere per mutar de’ tempi - cioè per quanto mutino i tempi). Riassumendo, in tutta l’azione del governo, tra la fine del ‘22 e il ‘24, due soli provvedimenti - a suo parere - erano stati emanati a vantaggio “di ristretti gruppi di classi umili e medie, mentre le misure a benificio dell’alta borghesia [erano state] vaste e generali.” Questo passo del Rocca è molto interessante perché ci lascia chiaramente scorgere come il fascismo fosse, in 88

definitiva, al servizio dell’alta borghesia industriale ed agraria; come il tanto sbandierato liberismo del De Stefani si risolvesse in un inganno per quelle categorie che veramente l’avrebbero desiderato e come, pertanto, il duce fosse costretto ad una faticosa opera di mediazione fra opposti e divergenti interessi (il che avveniva, forse, anche nella situazione internazionale, in cui si intrecciava un liberismo altisonante con un più sostanziale protezionismo, raggiungendo il risultato di aggravare le diseguaglianze economiche fra le varie nazioni e fra le varie zone di uno stesso paese, rigettando sempre più nell’arretratezza, nel sottosviluppo e nel sottoconsumo le nazioni o le zone meno favorite). Ed interessante è il passo che abbiamo riportato del dissidente perché richiama un lucido articolo di Gramsci, del 1° settembre ‘24, sulla crisi italiana, che può spiegare molte cose di quell’anno cruciale che fu il 1924: in esso, Gramsci, dopo aver cercato di spiegare come la crisi delle classi medie avesse portato al potere il fascismo (perché, in Italia, “lo scarso sviluppo dell’industria e il carattere regionale dell’industria” stessa, avevano consentito alla piccola borghesia, “molto numerosa,” di apparire la sola classe “territorialmente” nazionale, sicché la crisi capitalistica del dopoguerra, sotto forma di un pressoché totale sfacelo dello Stato unitario, aveva “favorito il rinascere di una ideologia confusamente patriottica e non c’era altra soluzione che quella fascista”), così proseguiva, mettendo in rilievo l’inarrestabile, anzi accentuatasi, crisi dei ceti medi, pur dopo l’auspicata vittoria delle camicie nere: “Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L’aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda: il numero dei fallimenti si è rapidamente 89

moltiplicato in questi due anni. Il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia, senza sviluppo dell’apparato di produzione; il piccolo produttore non è neanche divenuto proletario, è solo un affamato in permanenza, un disperato senza previsioni per l’avvenire […]. Le classi medie,” concludeva, “che avevano riposto nel regime fascista tutte le loro speranze, sono state travolte dalla crisi generale, anzi sono diventate proprio esse l’espressione della crisi capitalistica in questo periodo.” A parte l’accentuazione fatalistica che si poteva notare in queste osservazioni di Gramsci (per il quale il fascismo era ormai entrato in agonia, solo ritardando la rivoluzione proletaria, senza, però, renderla impossibile perché aveva contribuito a far sì che la rivoluzione proletaria stessa, “dopo l’esperimento fascista, sarà veramente popolare”), era evidente che esse smentivano in pieno le roboanti e magniloquenti affermazioni del De Stefani sulla cosiddetta “stabilità finanziaria,” che non era altro che una sua pia speranza e niente affatto una effettiva realtà (tanto che il Mortara la diceva apparente): infatti, verso la fine del ‘24 si parlava ormai apertamente, sulle riviste economiche, di deprezzamento della nostra moneta e di progressiva diminuzione del suo potere d’acquisto ed il Mortara attribuiva la causa - o le cause - del peggioramento del cambio italiano a diversi fattori: all’indebolimento delle rimesse dei nostri emigrati; agli abbondanti acquisti di divisa estera da parte del Tesoro per evitare i danni che aveva sofferto la Francia in seguito alla violenta campagna contro il franco (campagna di cui si potevano comprendere abbastanza facilmente i motivi, consistenti nella volontà della grande potenza d’oltreoceano che, pur rinchiusa nel 90

suo isolazionismo, controllava abilmente la vita economica dei paesi europei ed anche dell’Inghilterra di impedire che la Francia diventasse una nazione esportatrice di prodotti chimici, metalmeccanici, siderurgici e tessili: “La Francia,” esclamava con un certo orgoglio P. Lyautey, “è un paese dalle notevoli trasformazioni che è entrato nel grande commercio internazionale”); e, infine, i prestiti concessi a Stati esteri (Austria, Ungheria, Polonia e Germania), prestiti favoriti dal fatto che, sul mercato italiano, il saggio dell’interesse dei titoli di Stato e dei titoli privati era eccezionalmente basso. A tutto ciò si aggiungeva, ad accrescere il malessere della popolazione, il movimento in ascesa dei prezzi all’ingrosso, fino a giungere, alla fine del ‘24, sia negli indici del Bachi sia in quelli della Camera di Commercio di Milano, ad un livello “non più raggiunto da alcuni anni”: il primo indice registrava un rialzo da 98,3 nel 1923 (1920 = 100) a 127 nel ‘24, mentre il secondo ne segnava uno da 497,95 a 573,67 (1913 = 100). Molto sensibile era stato l’aumento, proprio nel ‘24, del prezzo del grano (il frumento tenero nostrano da L. 104,60 al quintale nel ‘23 a L. 162,50 nel dicembre ‘24) in conseguenza della scarsità del raccolto nazionale e della situazione del mercato internazionale. 9 Era evidente, pertanto, che la situazione e il tenore di vita delle classi lavoratrici e dei ceti medi, a cui era proibito turbare la “pace sociale,” andavano continuamente peggiorando, facendo nascere in essi un cupo malcontento, foriero di tempesta per il regime. Sicché, quando Gramsci, partendo dalla “disgregazione sociale e politica del regime fascista” (che segnava, secondo lui, “la crisi storica della società capitalistica italiana, il cui sistema economico si dimostra insufficiente ai bisogni della popolazione”) e dalla constatazione che l’essenza del fascismo e il sistema di rapporti di forza che esso aveva 91

creato nella società italiana erano “svaporati alquanto” (un sistema consistente “nell’essere riuscito a costituire una organizzazione di massa della piccola borghesia”), traeva l’esaltante auspicio che non fosse molto lontano il momento della lotta della classe operaia per una fase preparatoria, di transizione alla successiva fase della lotta per il potere. “Noi possiamo prevedere solo un miglioramento nella posizione politica della classe operaia, non una sua lotta vittoriosa per il potere”: lo “Stato operaio e contadino” sarebbe venuto più tardi, non appena ci fosse stato un “grande partito” capace di “attirare nelle nostre organizzazioni il più gran numero possibile di operai e contadini rivoluzionari.” Così, anche se la sua posizione appariva un po’ minata da una forse cieca fiducia fatalistica, non si poteva, tuttavia, sostenere che non avesse un serio aggancio con la realtà. Che cosa era stato, in effetti, il delitto Matteotti, se non il tentativo disperato e tragico dei gerarchi in camicia nera di riconquistare una certa credibilità nei confronti dei ceti medi, che la gravità della crisi stava disperdendo per altre strade, allargando e rendendo manifeste le crepe che, a distanza di neppure due anni, stavano decomponendo quel corpo che era parso così massiccio e cosi robusto? E se le opposizioni, raccolte nell’Aventino, non avessero avuto il timore “di essere travolte da una possibile insurrezione operaia” e non si fossero risolutamente rifiutate di “uscire dal terreno puramente parlamentare,” limitandosi ad agitare la “questione morale,” senza assecondare “l’ondata di democrazia” che era la caratteristica essenziale “della fase attuale della crisi politica italiana,” molto probabilmente il regime sarebbe stato travolto. Ma proprio da questo fallimento delle opposizioni costituzionali Gramsci prendeva lo spunto per proclamare la sua grande speranza nelle classi lavoratrici, con le quali il suo partito era stato 92

l’unico a mantenere il contatto, e nell’“azione del proletariato rivoluzionario.” Ma, forse, egli scorgeva, o credeva di scorgere, un proletariato rivoluzionario che, in verità, non esisteva, perché riteneva che il ruolo delle masse operaie nella società italiana avrebbe potuto essere decisivo in quel momento di crisi, in cui c’erano “di fatto due governi nel paese, che lottano l’un, contro l’altro per contendersi le forze reali della organizzazione statale borghese.” Questi sono i motivi che impedirono che il fascismo venisse rovesciato: un blocco delle opposizioni troppo fedele ad una tattica legalitaria, pur nella lotta contro un regime che non aveva mai dimostrato eccessivo rispetto per il puro gioco parlamentare e democratico; ed un partito, quello comunista, appoggiato dai giovani della nuova generazione, che non si era ancora profondamente radicato nelle classi lavoratrici. Ma - ancora un ma - esistevano veramente queste classi lavoratrici omogenee e animate tutte dalla stessa coscienza di classe, che non avrebbe dovuto essere altro che una precisa consapevolezza della propria dignità di uomini? E sarebbero, esse, state in grado di dirigere “una lunga guerra civile alla quale non [avrebbero potuto] non prendere parte il proletariato e i contadini”, che lo stesso Gramsci finiva con il considerare inevitabile se si fosse voluto veramente distruggere il fascismo? Questo, sebbene in altri momenti osservasse che la crisi politica - il delitto Matteotti - e la crisi economica e sociale avevano dimostrato apertamente che il fascismo non poteva “conseguire nessuna delle sue premesse ideologiche/ Infatti, esso diceva “di voler conquistare lo Stato”, e, nel tempo stesso, “di voler diventare un fenomeno prevalentemente rurale. Come le due affermazioni possano stare insieme, è difficile comprendere. Per conquistare lo Stato occorre essere in grado di sostituire la classe dominante nelle funzioni che hanno una importanza 93

essenziale per il governo della società. In Italia, come in tutti i paesi capitalistici/ egli proseguiva, “conquistare lo Stato significa anzitutto conquistare la fabbrica, significa avere la capacità di superare i capitalisti nel governo delle forze produttive del paese. Ciò può essere fatto dalla classe operaia, non può essere fatto dalla piccola borghesia che non ha nessuna funzione essenziale nel campo produttivo, che, nella fabbrica, come categoria industriale, esercita una funzione prevalentemente poliziesca non produttiva. La piccola borghesia può conquistare lo Stato solo alleandosi con la classe operaia, solo accettando il programma della classe operaia: sistema soviettista invece che Parlamento nell’organizzazione statale, comunismo e non capitalismo nell’organizzazione dell’economia nazionale e internazionale”. Come si vede, in questa visione di Gramsci erano scomparsi del tutto i contadini ed egli giungeva anzi ad ipotizzare, per il successo della rivoluzione soviettista, una alleanza fra classe operaia e piccola borghesia, trasformatasi naturalmente da ceto improduttivo a ceto produttivo. Era una posizione che non ci si sarebbe aspettata proprio da lui che aveva parlato, anche in questo articolo del settembre ‘24, in attesa di riprendere il tema con maggiori approfondimenti nel ‘26, di alleanza operai del nord contadini del sud (che non poteva rispondere alla situazione della società italiana di allora, ma che poteva servire - come vedremo meglio - quale parola d’ordine intesa a risvegliare energie nuove o sopite e quale critica dell’antico Stato ottocentesco, prefascista e, infine, fascista). Si trattava, dunque, di una formula che era stata da lui ripresa dal marxismo del secolo scorso anche se risentiva (in misura limitata e debole) della grande lezione leniniana della rivoluzione russa del *17, che aveva visto entrare nella storia le vaste masse contadine delle sterminate campagne. Il che 94

rivelava, tutto sommato, una sua scarsa aderenza alla concretezza della realtà sociale dell’Italia di allora, nella quale avevano una certa importanza le classi che lavoravano nella fabbrica (con una notevole differenza, però, fra il settore tessile - che manteneva saldamente un posto preminente: basti pensare che, ad es., nella provincia di Bergamo, si ebbe un “enorme sviluppo dei cotonifici e dei lanifici,” con un crollo della piccola industria e con un ampliamento delle fabbriche esistenti e l’apertura di nuovi stabilimenti con nuovi posti di lavoro - e i settori metalmeccanico e metallurgico, dove gli operai erano esclusivamente occupati nella fabbrica mentre nel tessile dividevano la loro giornata, part time, fra il lavoro in fabbrica e la coltivazione del modesto appezzamento di terra), ma senza dubbio una importanza di gran lunga superiore avevano i contadini, in particolare i piccoli coltivatori, che sono sempre stati, nella storia di Francia e d’Italia, moderati e conservatori e, in Italia, influenzati dalla predicazione del clero e, perciò, sollecitati a votare per il Partito popolare nel *19 e nel ‘21, e per la Democrazia Cristiana in questo dopoguerra. Eppure, nel ‘24, Gramsci sembrava non si ponesse nemmeno il problema della conquista al suo partito dei ceti rurali, perché rivolgeva costantemente il suo pensiero ai lavoratore rinchiuso nella fabbrica, da cui avrebbe dovuto uscire fuori, spinto dalle cellule e dalle Commissioni interne, a “suscitare un largo movimento nelle fabbriche che possa svilupparsi fino a dar luogo a un’organizzazione di Comitati proletari di città eletti dalle masse direttamente, i quali, nella crisi sociale che si profila, diventino il presidio degli interessi generali di tutto il popolo lavoratore.” Non si capisce, tuttavia, con quale programma, oltre a quello rivoluzionario, questi Comitati rivoluzionari (che sono, peraltro, un accenno di estremo interesse perché il Partito comunista 95

sosterrà qualcosa del genere durante la Resistenza), avrebbero dovuto svilupparsi, agire, perché non si può considerare un programma quello di porsi “a capo delle masse nelle piccole lotte quotidiane per il salario, per la giornata lavorativa, per la disciplina industriale, per gli alloggi, per il pane.” 1 Ma questa penetrazione, che era sembrata, in un primo momento, favorita dai

fatto che era venuta meno la concorrenza dei paesi più forti commercialmente in quella zona, aveva a poco a poco incontrato sempre crescenti difficoltà da parte scriveva la stampa fascista - di “una specie di epidemia ricorrente” che serpeggiava nei circoli politici danubiani, lasciando, però, intravedere abbastanza chiaramente come, dietro ad essa, stessero gli interessi della Francia, che non voleva farsi sfuggire una influenza determinante in quel settore. “Epidemia,” continuava la stampa citata, “che taluno ritiene di poco conto, altri micidiale: di fatto è persistente, noiosa e cronica come il raffreddore. Ed è l’aspirazione alla Confederazione Danubiana: politica, o, nel peggior dei casi, economica.” Infatti, tale aspirazione - che aveva iniziato a manifestarsi nel dicembre 1924 - trovava il suo centro, sia sotto l’aspetto politico sia sotto quello economico, a Vienna, “dove non ci si può rassegnare a non essere più la capitale dell’impero.” La corrente nettamente politica avrebbe voluto, affermando di difendere l’equilibrio europeo, una confederazione di tipo asburgico ma con prevalenza slava, mentre l’altra, l’economica, si sarebbe accontentata di “un Zollverein danubiano, lasciando ai vari stati la piu ampia autonomia nazionale.” Ma aveva subito protestato Parigi, ritenendo che essa avrebbe rafforzato la Germania e le avrebbe dato una influenza pericolosa sui paesi della penisola balcanica. Secondo i governanti parigini sarebbe stato meglio se Vienna avesse mirato ad una intesa doganale con la Boemia e la Jugoslavia: il che, però, metteva in vivo allarme i fascisti, per i quali ciò avrebbe voluto dire “la marcia al mare per la Boemia, con l’isolamento assoluto per l’Italia e l’Ungheria, la cui nascente amicizia [che sarà confermata da un trattato di amicizia italo-ungherese, il 5 aprile ’27] turba assai gli interessi altrui.” Né ai nostri quotidiani o periodici era sfuggita “l’opera di espansione veramente meravigliosa” sviluppata da Praga nei paesi danubiani e balcanici: “Acquisto di immobili in Jugoslavia, compartecipazione in società industriali in Polonia, in Ungheria, in Romania, nuovi impianti e rinnovo di quelli esistenti, vendita sotto prezzo di manufatti: bisogna riconoscere, a parte ogni considerazione politica, un piano veramente organico […].” I fascisti non potevano nascondere un certo nervosismo per una simile espansione in Jugoslavia, soprattutto perché “il progetto di unità doganale dovrebbe rivolgersi contro Tunica entità economica che potrebbe affacciarsi come concorrente in quel paese.

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E cioè contro l’Italia, la quale dalla Jugoslavia attinge enormi quantità di materie prime senza poterle pareggiare con prodotti lavorati” (infatti, dal 1° gennaio al 31 marzo del ’24, le esportazioni italiane erano ammontate a 94.484.507 di contro a 103.726.548 di importazioni, mentre nel corrispondente periodo del ‘25 il disavanzo era andato aumentando notevolmente: 109.026.048 di esportazioni contro 180.194.734 di importazioni). La stampa fascista era propensa ad attribuire tale peggioramento dei terms of trade, alla mancanza di una “metodica organizzazione economica e politica” e di una “qualunque conoscenza diretta,” anche nelle zone dove pure si chiedeva l’intervento della nostra industria: “Così in Ungheria, così in Jugoslavia, dove ci si stupisce che i limoni, indiscutibilmente di produzione italiana, si debbano comperare a Salonicco o a Vienna, e che i tessuti italiani, ricercatissimi, debbano essere offerti in vendita da polacchi o da levantini, o che le banche italiane si rifiutino di lavorare se non attraverso certe alleanze comiche con le proprie concorrenti.” “Come credere,” si domandava, nel ‘27, di fronte a tanti contrasti, “I problemi del lavori,” “che la pace possa durare se l’intrigo ritorna a tessersi nella turbolenta e irrequieta situazione dei Balcani?” In verità, la situazione era turbolenta e irrequieta, ma quasi certamente soltanto perché quei paesi temevano che la condizione che era stata loro riservata nel consesso delle nazioni europee - di fornitori di materie prime e di prodotti agricoli agli Stati occidentali più avanzati sulla via dello sviluppo economico -, riservasse ad essi un avvenire di sempre più grave sottosviluppo, e fosse loro impedito di giungere alle soglie del decollo economico. Fu, senza dubbio, questa, una delle più profonde ingiustizie dei trattati di pace, che, fra l’altro, contribuì a mantenere una vasta area in una situazione di miseria e costringendo i popoli che vi abitavano a vivere non come consumatori dei prodotti industriali bensì a tirare avanti elemosinando prestiti che in nessun modo avrebbero potuto rimborsare. 2 Si tratta della tariffa doganale fatta approvare dal Giolitti per mezzo di un

decreto, il 21 giugno, proprio mentre stava per abbandonare la presidenza del consiglio, senza avvertirne il Parlamento [scrive alquanto sdegnata “La Ligue du libre-échange,” del giugno 1923] e in una riunione di alti funzionari e di esperti interessati che avevano lavorato nel più grande segreto. In realtà, fu, da parte del vecchio uomo politico, un vero e proprio colpo di mano, che, abbinato, come era successo con i provvedimenti protezionistici del 1887, al dazio sul grano, aveva contribuito in maniera decisiva, a rimettere la società nazionale su due trampoli nettamente antidemocratici, perché mirante a soddisfare gli interessi di due categorie per le quali il benessere comune non aveva alcun senso. 3 Come denunciò R. Farinacci sul suo giornale, “Cremona nuova,” il 30

settembre ‘23 e come aveva, in precedenza, scritto il Pantaleoni al De Stefani verso la metà di quell’anno: “Il partito protezionista, che si rifa con dazi e premi è il principale sostenitore del nuovo giornale [il “Corriere italiano”]. Perciò la Banca, interessata all’industria predetta è pure della combutta. I caporioni sanno benissimo che la cuccagna non durerà assai alla lunga. Ma è per questo, per poter far durare, che han bisogno di fare presto ed energicamente danari.” 4 E. Giretti, che già aveva implacabilmente denunciato, sull’“Unità” di G.

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Salvemini, le gravi pretese dei “trivellatori,” cioè di coloro che sfruttavano posizioni di privilegio derivanti da un regime doganale rispondente alle loro esigenze, continuava instancabile la sua critica su “La Riforma sociale,” diretta da L. Einaudi, oltre che sul “Corriere della Sera.” Il Giretti era membro del gruppo libero-scambista italiano e si opponeva alle argomentazioni con cui l’ingegnere E. Redaclli, legato al suo collega e cointeressato ìng. G. E. Falck, presidente dell’Associazione degli industriali metallurgici e meccanici italiani ed uno dei maggiori esponenti “del privilegiato ed ultra-protetto ‘Consorzio delle ferriere nazionali” cercava di giustificare il protezionismo siderurgico. Il Consorzio monopolizzava il mercato dei ferri e degli acciai di prima lavorazione, imponendo “i suoi prezzi e le sue condizioni a tutte le industrie che hanno per oggetto di elaborare e trasformare nelle maniere più diverse i laminati e profilati di ferro e di acciaio** (scriveva nella seconda metà del ‘25). La battaglia del Giretti era condotta anche in nome dei piccoli industriali, alcuni dei quali, che desideravano mantenere l’anonimato per non incorrere nelle eventuali rappresaglie da parte dei grandi produttori, gli avevano inviato delle lettere in cui era espresso con vigore il malcontento dei “piccoli fabbricanti”: e questi piccoli imprenditori chiedevano al governo risoluti provvedimenti liberistici, una riduzione del dazio di entrata sul ferro, “per moralizzare l’ambiente e rendere così anche impossibili queste vere e proprie sopraffazioni, che i siderurgici esercitano su tante piccole, ma coraggiose ed utili industrie.” Il Giretti cercava pure di spiegarsi come nascessero e vivessero i cartelli industriali mediante “accordi innaturali” fra gli industriali e il gruppo di industriali siderurgici. Il fatto era che, dopo la guerra, si era accentuato il processo di formazione dei trust, che non era rimasto sconosciuto nell’anteguerra, sebbene, allora, i vari ‘paesi, consapevoli della grave limitazione di autonomia che ne sarebbe loro derivata, avessero tentato di porre dei limiti a una eccessiva espansione, tentativi, in buona parte, abbandonati dopo il conflitto. Cosi, si poteva capire ciò che al Giretti sembrava inspiegabile. In verità, un simile “accordo innaturale e molto strano” avveniva soltanto perché sia gli uni sia gli altri produttori trovavano un ben preciso tornaconto in questa unione, soltanto in apparenza innaturale, dal momento che scopo comune era di ritagliarsi la fetta maggiore del mercato interno. “Codesta situazione,” proseguiva il Giretti, quasi ad illustrazione di ciò che siamo venuti dicendo, “è tipicamente rappresentata dal fatto che il grande stabilimento italiano, di meritata fama mondiale per la fabbricazione delle automobili FIAT, fa parte, nello stesso tempo, del ‘Consorzio delle Ferriere Nazionali’ e dell’ ‘Associazione fra i Fabbricanti fili ferro, acciaio e derivati,’ presieduta dall’ing. Redaelli. - Evidentemente, come fabbrica di automobili, la FIAT non ha mai avuto alcun tornaconto a legarsi col gruppo delle industrie siderurgiche italiane interessate a vendere cari i loro prodotti. Può darsi che taluni dei suoi dirigenti abbiano pel passato guadagnato fior di quattrini dalle loro speculazioni borsistico-siderurgiche; è però indubitabile che molte disgrazie sono avvenute agli azionisti della FIAT per non aver resistito alla tendenza perversa di associare le sorti della loro sana e vitale industria a quelle di organismi parassitari e tenuti su artificialmente con le dande ed il poppatoio del protezionismo governativo.” E il Giretti metteva in rilievo come tale stato di cose,

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“questa illogica ed innaturale confusione di interessi tra le aziende tipo FIAT ed i grandi stabilimenti siderurgici,” avesse trovato “un incentivo potente nelle necessità e congiunture della guerra, e nel fatto che, a guerra finita, il Governo non seppe, o non volle, attuare immediatamente la ‘smobilitazione industriale,’ sia pure facendone sopportare i sacrifici all’erario nazionale. Un gran torto,” egli proseguiva, “dei governanti di quel periodo è stato quello di non avere energicamente negato i mezzi finanziari alla megalomania, che aveva invasato le menti dei capitali delle industrie belliche e dei banchieri loro soci. Non mancarono coloro che videro per tempo il pericolo, e cercarono di prevenirlo e scongiurarlo, ma rimasero delle Cassandre inascoltate e schernite, sino a quando non vennero a dare loro ragione i disastri della ‘Ansaldo,’ della ‘Uva,’ del ‘Lloyd Mediterraneo,’ coi salvataggi della ‘Banca italiana di sconto,’ del ‘Banco di Roma’ e coi miliardi di relative passività accollati ai contribuenti italiani, col mezzo del famoso ‘Consorzio Valori Industriali.’” Come si vede, per il Giretti, in questo ambito della politica economica, non era possibile notare alcuna differenza fra il comportamento dei governanti prefascisti e quello dei governanti fascisti, tanto che lo stesso Consorzio per sovvenzioni su valori industriali servi a Mussolini per fare un grande favore al Vaticano con lo smobilizzo del Banco di Roma (entrato in grandi difficoltà nel 1923) e per facilitare il concordato con i creditori della Banca italiana di sconto (fallita sul finire del 1921). 5 Ma, il 5 dicembre ‘24, riferendo alcune accuse che erano state mosse alla

classe industriale ‘nelle assise aventiniane,” cercava di scagionarne se stesso e i suoi amici industriali, affermando: “[…] noi siamo abbastanza intelligenti per sapere che nessuna prosperità di singoli può essere duratura se non si inserisce nella tranquilla prosperità del Paese: e questa non può ottenersi dove le classi si oppongono tra loro come sfruttati a sfruttatori. Chi può pensare a risolvere le lotte economiche con la violenza, seminatrice di rancori, che sono tanto duraturi quanto più repressi?” Ma ciò che aggiungeva subito dopo non faceva che confermare la sua benevola simpatia per il fascismo, almeno nei primi momenti: ‘Naturalmente, io non ho dimenticato quale era la situazione del Paese nel periodo compreso fra l’armistizio e la marcia su Roma […]. I Governi dell’epoca, incapaci a frenare le inconsulte agitazioni: una politica fiscale ed economica tra tumultuaria e spogliatrice, per cui poco era lasciato al risparmio, e questo poco ancora assorbito dallo Stato sotto forma di prestiti per cui quasi nulla restava alle necessità delle ricostruzioni.” Conseguenza, triste, di quella situazione erano stati, per lui: ‘scioperi, sabotaggi, servizi pubblici disorganizzati, raccolti abbandonati nei campi, mandrie lasciate senza custodia nelle stalle, fenomeni culminati nell’occupazione delle fabbriche.” Non era forse naturale,” egli si chiedeva sicuro di ottenere una risposta affermativa, ‘che la borghesia del pensiero e del lavoro, la borghesia che amava la patria e la famiglia, la borghesia risparmiatrice, si orientasse verso un movimento che ristabiliva “l’autorità dello Stato, che voleva la tutela del lavoro, la disciplina, le gerarchie e, al di sopra di tutto e di tutti, una patria rispettata e potente?” E rendeva omaggio al fascismo, che, sia pure adottando una compressione giustificata nei primi tempi, aveva

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assicurato ‘l’ordine al quale aspiravamo. Non vi sono più scioperi generali, né interruzioni dei servizi pubblici: la disciplina è entrata nelle aziende: così pure l’opera di restaurazione finanziaria è cominciata, anzi in gran parte avviata.” Constatando il ‘gran passo” compiuto “nella storia del nostro risorgimento economico,” non riusciva a rendersi conto come mai serpeggiasse, nel paese, al quale amava richiamarsi così spesso, un senso di disagio profondo: “Io mi domando allora come mai, e lo stesso Capo del Governo lo ha riconosciuto, il consenso del Paese non è più lo stesso dei primi tempi? E perché il disagio spirituale che sentiamo anche noi produttori, che non abbiamo desiderio di crisi ministeriali, che non abbiamo rancori da servire, né vendette da compiere, né aspirazioni politiche da accontentare, e che siamo egualmente lontani dagli zelatori più appassionati, come dalle denegazioni degli aventiniani? Noi abbiamo,” continuava, ‘l’impressione, o almeno io ho l’impressione, che alla restaurazione economica non abbia corrisposto la restaurazione del costume: e tutti sappiamo che la prima non può essere duratura senza la seconda. Le violenze: troppo si è creduto di indulgere all’imperio delle violenze […]. Le gerarchie: io avevo proprio sperato, e non solo per il desiderio egoistico di essere lasciato da parte, che, con l’avvento del fascismo, partito di giovani, le antiche classi, ormai superate, dovessero cedere il posto alle nuove formate dalla guerra, che avrebbero apportato il fervore della loro fede nei pubblici uffici […]. È triste, ma riconosco che mi ero completamente sbagliato! […]. Ê certo che i tempi ultimi non hanno portato avanti né i più preparati né i più degni […]. Altro punto: la legislazione. Il Paese non sente il bisogno di costanti innovazioni,’ che non fanno altro che spingere i cittadini “a non obbedire alle leggi, perché ne suppongono la precarietà. Finalmente la giustizia: in questi ultimi anni non posso dire che lo Stato abbia sempre assunto la figura dell’Ente superiore a tutti i partiti e giusto verso tutti […]. Troppo deleterio è il senso della denegata giustizia.” Era certo un severo processo alla nuova classe politica fascista, che ne colpiva alcuni aspetti, ma che si lasciava sfuggire i più importanti, che consistevano nel forte processo inflazionistico, di cui lui non poteva avvertire i funesti effetti, perché la svalutazione della moneta portava con sé maggiori bisogni statali, a cui egli rispondeva attuando nuovi impianti idraulici, mentre gli aumenti delle spese erano facilmente coperti dal “graduale aumento delle tariffe,” senza minimamente pensare che la “pace sociale,” che lui pure esaltava, aveva contratto le possibilità di consumo della popolazione, che, pertanto, non era in grado di sopportare tale “graduale aumento delle tariffe.” 6 “Sospinta a grande e fortunata espansione,” scrive R. Morandi, nella sua

Storia della grande industria, in un rapido ma significativo scorcio delle vicende del settore elettrico, “la industria idroelettrica arriva ad un balzo a strutture monopolistiche fortissime, tanto da diventare una delle rocche più temibili e meglio guardate del capitale finanziario. Un solidissimo cartello e l’interconnessione bancaria dei capitali, verrà ad avvincere strettamente i sei grandi trust che si spartiscono tra loro le zone di sfruttamento e di distribuzione. Domina nettamente su tutto il gigantesco complesso della Edison […]. Esso si

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erge come l’unità finanziaria più cospicua nel campo dell’industria italiana. La disciplina di ferro che lega questi potentati, imprigionerà nelle sue maglie senza difficoltà le aziende municipalizzate, che sul sorgere erano state dispensatrici di tante promesse al consumatore. L’aggressività finanziaria dei monopoli elettrici si farà sentire su tutto il sistema industriale, ma in modo particolare nel campo della metalmeccanica. A misurarne la potenza, basterà dire che, a 10 anni dalla guerra, il capitale versato a disposizione dell’industria elettrica, risultava parti a 1/5 del capitale complessivamente attribuito a tutte le società industriali e commerciali italiane assieme prese. Il rapporto si stabiliva nella misura di 2,4 con l’industria metalmeccanica, di 5,7 con l’industria del rayon, di 5,4 con l’industria cotoniera.” Tale ascesa fu favorita oltre che dai motivi che esponiamo nel testo, anche dai rapporti che gli industriali di questo ramo mantennero con alcuni gerarchi, ad esempio, Volpi, Ciano, Belluzzo. 7 Il 10 luglio del ‘23 G. Emanuel scriveva al direttore del “Corriere della Sera,”

riferendogli alcune voci che correvano a Roma sul malcontento dei nazionalisti: “Nonostante l’atteggiamento servilmente ufficioso dell’Idea Nazionale, il dissenso fra fascisti e nazionalisti cresce: un amico mi riferisce che, trovandosi l’altra sera ad un pranzo al quale era convitato Paolucci [l’affondatore della Viribus Unitis, durante la guerra], per lealtà avverti d’essere avversario del fascismo. E con sorpresa udì l’altro, dopo un po’, dire che delle 63.000 camicie azzurre solo 14.000 erano passate al fascismo in seguito alla fusione: il resto rimaneva pronto e libero, e, quanto alle armi, ciò non li preoccupava, perché per muovere contro i nemici (in caso di necessità) c’erano i comandi dei corpi d’armata che avrebbero provveduto…” Come si vede, lo spirito di origine dannunziana - lo spirito del poeta della immaginifica spedizione su Fiume, del settembre ‘19, allorché non esitava a gettare la sedizione nell’esercito per seguire la sua stella - non era stato dimenticato da questi nazionalisti, anche se monarchici e liberali. 8 “Il Popolo d’Italia” esaltava, nel luglio del ‘23, il significato morale e sociale,

al tempo stesso, dell’abolizione della tassa di successione: “Tale provvedimento è giustificato da: 1) ragioni di ordine giuridico, poiché il provvedimento favorirà sempre più il rafforzamento su solide basi dell’istituto della famiglia, alle cui sorti è indissolubilmente legata l’unità morale della Nazione; 2) ragioni di ordine sociale a) perché la tassa ingente, non potendo colpire che una parte della proprietà, quella immobiliare sola praticamente accertabile, sfuggendo quasi completamente quella mobiliare, si risolveva in effetti in una sperequazione tributaria; b) perché il provvedimento avrà sicuramente vaste ripercussioni dirette ed indirette sull’economia pubblica e sul movimento e l’accumulazione del risparmio, dando incremento particolarmente alla costituzione ed alla stabilizzazione della piccola proprietà; 3) ragioni di giustizia nazionale nei riguardi delle provincie del Mezzogiorno in quanto le sorti di esso dipendono in modo principale dal problema tributario che il provvedimento attuale concorrerà a risolvere.” Intanto, però, il Mortara osservava che se “ancora nel 1923-24 l’aumento del getto dell’imposta patrimoniale compensa la diminuzione del getto delle altre imposte straordinarie,” nel 1924-25, invece, “le diminuzioni

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soverchiano gli aumenti e nel 1925-26 sembrano prevalere ancora maggiormente. L’imposta sui profitti di guerra, che aveva reso 1.444 milioni di lire nel 1920-21, ne ha reso soltanto 384 nel 1924-25, e l’imposta sugli aumenti di patrimonio derivati dalla guerra è discesa da 547 milioni nel 1920-21 a 110 nel 1924-25.” Nello stesso tempo aumentavano in misura notevole le imposte indirette, che avevano reso, nel 1924-25 quasi sette volte più che nel 1923-24: sicché, sempre al Mortara, non sembrava “facile inasprirle ulteriormente senza eccessivo aggravio dei consumatori e contrazione dei consumi.” Inoltre, i dazi segnavano un sensibile aumento nel 1924-25, “per circa metà dovuto ad aumento delle sopratasse di confine. Nell’esercizio in corso [1925-’26] cresce fortemente il getto dei dazi, nonostante la conclusione di importanti trattati di commercio, sia per lo sviluppo delle importazioni, sia per il maggiore svilimento della lira, sia per il ristabilimento del dazio sul grano che, in piena applicazione, dovrebbe rendere in media 500 milioni di lire all’anno.” 9 Nelle sue Prospettive economiche per il 1926, il Mortara notava che “la tendenza all’assestamento delle relazioni internazionali in Europa, tendenza visibile attraverso i persistenti contrasti e attestata dall’adozione del progetto Dawes per un preliminare assetto del problema dei risarcimenti bellici [il piano Dawes dava alle annualità la stessa durata dei nostri pagamenti per i debiti e, tenendo conto della prima di esse, che era iniziata il 1° settembre *24, il valore in lire-oro accertato in base allo stesso interesse del 5%, risultava nei fatti press’a poco equivalente all’onere risultante dai nostri impegni: lire-oro 4.515.903.460]; l’afflusso in Europa di capitali nord-americani [che, uniti a quelli inglesi, si calcolava che avessero reso al Tesoro, convertiti in lire-carta, al cambio del tempo, circa 27 miliardi di lire]; l’eliminazione dello squilibrio tra i prezzi dei prodotti industriali e quelli dei prodotti agricoli negli Stati Uniti; il risultato dell’elezione presidenziale [il repubblicano Coolidge eletto nel 1923] hanno contribuito a determinare, al di qua e al di là dell’Atlantico, condizioni propizie allo sviluppo dell’attività economica. Per quanto le anormali condizioni degli ultimi anni abbiano alterato il consueto andamento dei cicli economici, sembra potersi affermare, dall’osservazione dei principali paesi industriali, già iniziata una nuova fase d’espansione. Ê carattere normale di tal fase il rialzo dei prezzi, determinato dall’impossibilità di un immediato adeguamento dell’offerta al rapido sviluppo della domanda di merci […].” La tendenza dei prezzi al rialzo non dipese, però, soltanto dall’“improvvisa espansione della domanda,” perché una forte contrazione di alcuni prodotti di essenziale importanza per il consumo (grano, la cui scarsità si ripercuoté sui prezzi di altri alimenti; le fibre tessili), contribuì a mantenere eccezionalmente alti tutti i prezzi. “L’azione di queste cause generali di rialzo dei prezzi si manifesta in particolare nel nostro paese. La relativa scarsezza del raccolto del frumento nel 1924, la grande importanza delle industrie tessili nell’economia nazionale, rendono specialmente sensibile il mercato italiano a tale azione. Il ritmo dell’attività industriale, d’altronde, si accelera anche da noi; la brusca cessazione dell’indebitamento dello Stato [in seguito al piano Dawes, che aveva almeno dilazionato il pagamento delle

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riparazioni, contro cui era insorta tutta la stampa fascista, dichiarando ogni pretesa di pagamento degli ex-alleati odiosa, iniqua e vana] ha fatto riversare negli investimenti produttivi masse di risparmio, che prima affluivano ad impieghi improduttivi, ed ha favorito l’espansione delle industrie.” Né questo era sufficiente a spiegare il fatto che i prezzi fossero stati, nel 1924, in netta e rapida ascesa, poiché erano intervenute pure cause di natura psicologica, come l’acuirsi e il diffondersi di manifestazioni di sfiducia verso il governo, “che tuttavia si attacca tenacemente al potere. Questo contrasto, suscitando la previsione di violente repressioni del malcontento, influisce in modo sfavorevole sui cambi: negli ultimi giorni dell’anno, il dollaro rasenta le 24 lire [nel 1914 era al corso di L. 5,18], la sterlina supera le 113 lire [nel ‘14 era a 25,22].”

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Capitolo quarto Il settore tessile e la fusione nazionalismo-fascismo Abbiamo visto la riluttanza con cui molti nazionalisti accettarono (o si misero su posizioni di contrasto) la fusione con il fascismo, riluttanza probabilmente generata dal timore che Mussolini - del quale non potevano dimenticare le dichiarazioni sull’Italia espansionista e imperialista, dichiarazioni che erano state avvalorate, nel ‘23, dalla impresa di Corfu - intendesse abbandonare quella che essi ritenevano la naturale nostra zona di influenza, cioè i Balcani, sui mercati dei quali si era avuto, nel dopoguerra, un notevole incremento delle vendite dei filati e dei tessuti di cotone ed anche dei manufatti (da 6,8 milioni nel 1909-13 a 24,0 nel 1925) e di tessuti di lana (da 13,4 a 95,3). Questi ultimi promettevano ulteriori sviluppi, e, ad ogni modo, le esportazioni delle materie tessili e dei loro prodotti segnavano Fattivo più consistente della bilancia commerciale italiana, così come l’avevano rappresentato nell’anteguerra: nel ‘22 si erano avute esportazioni per 4.361,6 milioni che erano saliti, nel ‘25, a 8.350,4, contro, rispettivamente, 678,9 e 1.405,4 di prodotti dell’industria metalmeccanica. Pertanto, il settore tessile era ancora quello veramente portante della nostra economia (sebbene fosse, nel tempo stesso, un settore che dimostrava quanto recente fosse stato il decollo industriale italiano e quanto sostanzialmente arretrato fosse il nostro sistema produttivo, 104

tanto che il Mortara metteva in rilievo come uno dei principali fattori d’inferiorità dell’industria italiana, in tale settore, consistesse “nel maggior costo degli impianti, specialmente delle macchine, e del loro mantenimento”). Forse - ma avanziamo questa tesi unicamente quale ipotesi perché sentiamo il bisogno di dare una spiegazione il più possibile logica (anche se essa sembra esserlo solo per chi scrive) di ciò che è avvenuto e di ciò che avviene -si potrebbe far risalire il dissidentismo (al quale abbiamo accennato a proposito di M. Rocca) che tormentò il fascismo fra il 1923 e il ‘24, alla pressione di questi predominanti interessi degli imprenditori tessili. Lo tormentò, ma consenti a Mussolini di mediare abilmente fra le due tendenze che, come si è visto, si erano manifestate nell’industria italiana. Sarebbe possibile giungere ad una simile conclusione tenendo presente la fase di crisi che attraversarono sia la produzione di filati e di tessuti di cotone sia i manufatti di lana (che erano i due settori tessili più importanti, perché lo “sviluppo della nostra industria serica ha trovato ostacolo nella’ povertà del mercato interno” e nella concorrenza della seta artificiale), proprio in quell’anno 1923. Infatti, è pressoché unanime la constatazione che vi fu, allora, una depressione del consumo, che l’attività procedette alquanto stentatamente e che diede segni di incertezza. Ad esempio, in una pubblicazione della Camera di Commercio e Industria di Bergamo sulle caratteristiche economiche della provincia (pubblicata nel 1924), si mette in rilievo che “molti cotonifici hanno ridotto le giornate lavorative per evitare il più possibile la formazione di stocks, dannosi agli industriali […]. Questa diminuita attività, messa in rapporto con le fortissime spese generali e le tassazioni che pesano sull’industria, giustifica quello stato di pesantezza e di disorientamento che si nota nel campo cotoniero. Il numero 105

degli operai occupati nelle industrie durante Vanno 1923 è piuttosto diminuito [corsivo nel testo]. Un miglioramento notasi nel loro rendimento pel regime di maggiore disciplina che è venuto instaurandosi. L’orario di lavoro rimane normale e così pure le mercedi, le giornate lavorative settimanali subirono invece qualche riduzione.” Certo, questa crisi era motivata sì da diversi fattori (fra cui gli industriali amavano addurre i seguenti: l’inquietudine politica del mercato balcanico; la scarsa penetrazione nel mercato latino-americano; la politica protezionistica di gran parte degli Stati; l’aumento dei prezzi della materia prima; il limitato potere d’acquisto della lira nei confronti del dollaro e della sterlina; la forte incidenza del dazio sulle materie coloranti ed il ritardato rimborso di quello sulle merci esportate - draw-back), ma era anche una crisi generata dalla speculazione che, nel periodo bellico e nell’immediato dopoguerra, aveva favorito l’apertura di piccole e medie fabbriche e l’ingrandimento di quelle esistenti. Ad ogni modo, la crisi del ‘23 parve talmente grave ai datori di lavoro bergamaschi da far loro intravedere “la possibilità di ulteriori riduzioni nelle giornate lavorative” per gli alti costi e le difficoltà nel collocamento dei manufatti (sebbene la riduzione del numero degli occupati dovesse considerarsi un fenomeno che ormai durava da alcuni anni se, nei diversi settori di produzione presente in provincia di Bergamo -cotone, lino, canapa, cappelli di feltro, tessili vari -, Vindice degli addetti per unità locale con più di 10 lavoratori andasse, nel 1911, da 431,7 a 447,6, per segnare poi un vero crollo nel 1923 con 343,9). A sua volta, il Mortara faceva notare come la produzione di tessuti e altri manufatti fosse rimasta quasi stazionaria dal 1911-13 (che pure era stato un periodo in cui l’industria in tale ramo aveva languito “nell’inoperosità”) e nel biennio 1922-‘24: di fronte a 1.500 migliaia di quintali nel primo, stava una 106

produzione di 1.570: sicché, tenuto conto delle importazioni e delle esportazioni, rimanevano disponibili per il consumo interno 1.170 migliaia di quintali di manufatti di cotone ogni anno mentre, nell’anteguerra, se ne erano avuti 1.200. “La popolazione è aumentata di oltre un decimo,” proseguiva il Mortara, “e perciò il consumo medio per abitante è diminuito. Secondo calcoli dell’Associazione Cotoniera Italiana, il consumo medio annuo per abitante era stato di 3,5 chilogrammi nel 1909-13. Nell’ultimo biennio cotoniero, secondo il nostro calcolo, sarebbe disceso a 3 chilogrammi. Né sembra prevedibile a breve scadenza una forte espansione del consumo interno” (era, questa, una delle prime conseguenze della “pace sociale” che il fascismo si vantava di avere imposto ai rissosi italiani e che gli industriali avevano accolto con piacere, senza pensare che essa avrebbe richiesto una contrazione dei salari e degli stipendi e, di conseguenza, una riduzione del consumo). Si è visto che gli industriali bergamaschi mettevano in primo piano, come causa principale della crisi che avevano subito nel 1923, l’inquietudine politica dei mercati balcanici, il che stava ad indicare quanto la penetrazione in essi stesse loro a cuore. Perciò, dalla crisi alla condanna della politica estera grandiosa che potevano aver creduto, con la occupazione di Corfù, essere quella preferita dal duce, il passo era breve, soprattutto perché tale occupazione andava in una direzione del tutto contraria ai loro interessi. Infatti, ritornando brevemente su questa misera e apparente prova di forza contro gli ex-alleati, O. Rizzini scriveva da Londra all’Albertini che, dopo le violente dichiarazioni del duce e dei fascisti secondo cui “l’Italia deve mangiarsi quanto più Mediterraneo è possibile” (errore enorme, egli aggiungeva, perché “ogni nostro gesto è interpretato come un colpo di mano mediterraneo”), il Salvemini gli aveva giurato “di essere certo che, entro 107

cinque anni, se le diamo il pretesto, la Francia ci attaccherà. Messi i pedi sul collo della Germania e finché la Germania è debole, essa cercherà di dare una gran legnata all’Italia che teme (Mediterraneo, interruzione delle comunicazioni coi serbatoi africani, preoccupazioni demografiche, ecc.). Salvemini è catastrofico e vede l’Italia del nord occupata dalla Francia, quella del sud e la Sicilia, per amore di equilibrio, dall’Inghilterra. Egli opterà per l’Inghilterra.” Il Rizzini, pur dicendo queste previsioni un po’ troppo pessimistiche, era, tuttavia, portato ad ammettere di avere paura anch’egli “della Francia perché può essere tentata ad assicurarsi cinquanta/ cent’anni di predominio, nel quale una sola nazione sia armata fino ai denti.” E palesava pure la sua paura del “nazionalismo italiano irresponsabile. Continuiamo a sbraitare che siamo la più grande, la più intelligente, la più perfetta nazione del mondo, che gli anglosassoni son dei cretini, i francesi dei porci invidiosi di noi […]. E continuiamo: gliela faremo vedere noi. Il Mediterraneo deve diventare un lago italiano, ecc. Io mi augurerei,” concludeva, “che così fosse un giorno, ma mi pare che il miglior modo di arrivare, se è possibile, all’impero romano ricostruito, sia quello di non gridarlo sui tetti e di prepararsi silenziosamente […]. Bisogna che spuntino dei bei denti per servire l’appetito del nostro stomaco romano. Non li abbiamo per ora. E non è dunque malaccorto gridare che vogliamo il Mediterraneo, ecc., ecc., mentre non ci teniamo neppure ritti sulle gambe?” Ecco il motivo per cui la fusione nazionalisti-fascisti fu considerata da non pochi nazionalisti (sebbene lo stesso Corradini scrivesse, su “L’idea nazionale,” che il fascismo era “pretto nazionalismo, perché subordinava la classe alla nazione,” e anzi, “più precisamente, una grande realizzazione di nazionalismo […]. Tra l’una e l’altra manifestazione c’è una continuità mirabile”) con sospetto, 108

come confessa uno dei capi storici del nazionalismo, il Federzoni che, in un suo libro di memorie pubblicato in questo secondo dopoguerra (in cui, peraltro, risalta chiaramente quanto la sua posizione fosse ambigua), comincia, parlando della fusione con il respingere l’opinione di coloro che cercavano di “far risalire al Nazionalismo una quota parte notevole delle responsabilità del Fascismo,” ma non si rammenta, o finge di non rammentare, che questo fu, per certi rispetti, la deformazione, se non la parodia, del nazionalismo corradiniano; e per certi altri, in qualche momento, ne fu addirittura la negazione. “Del resto,” prosegue, “che oggi sia condannata o rinnegata da molti Italiani un’anacronistica dottrina politica che proponeva a una nazione di quaranta e più milioni di anime un fine di potenza e di espansione, è cosa naturalissima e direi quasi inevitabile. Nella fase di ripiegamento che succede alla catastrofe, causata dalla pessima attuazione di una terribile aleatoria avventura, quella dottrina non può provocare nei più se non un senso di sazietà. Ciò non significa che essa abbia perduto il suo grande ed essenziale contenuto di verità, il quale sopravvive e si manifesta pur ora, attraverso esperienze ideologiche differenti o putacaso antitetiche, nell’azione e nelle aspirazioni, di altri popoli più fortunati. Meno che mai dovrebbe essere lecito dimenticare l’utile missione che il Nazionalismo italiano adempì fra il 1903, data della fondazione del ’Regno,’ e il 1923, data della fusione dei due movimenti politici.” Siamo, qui, di fronte ad un passo che andrebbe commentato quasi periodo per periodo, ma vogliamo soltanto far notare che il Federzoni, dopo aver sostenuto che il fascismo fu “addirittura la negazione” del nazionalismo, celebrava “l’utile missione” adempiuta dal suo movimento nei confronti del primo. Né poteva concludere in altro modo, soprattutto di fronte alle accuse che, dopo il 25 luglio del 109

1943, gli rivolsero “molti amici dell’antivigilia” di essere stato, proprio lui, “uno dei fautori della fusione,” a cui, prima della marcia su Roma, era stato “recisamente contrario, resistendo alle smaniose impazienze di eminenti colleghi nella direzione dell’Associazione nazionalista.” A fargli mutare parere e a convincerlo ad uscire dal suo “atteggiamento di riserbo” era stato, alla fine dell’ottobre ‘22, il “concentramento dei ‘Sempre pronti per la Patria e per il Re’ [la milizia azzurra comandata da R. Paolucci] nella Capitale,” che era stata in grado (ma si era trattato di una illusione non si sa se di allora o posteriore, naturale in chi non desiderava nulla di meglio che farsi illudere) di “indirizzare Mussolini su una via che appariva la migliore possibile.” Sicché, una volta “formato il nuovo governo con un programma ricostruttivo inquadrato in una dichiarata ortodossia monarchica e costituzionale, risultò impossibile ricusarsi all’invito perentorio di Mussolini per la fusione, sebbene molti nazionalisti si mostrassero generalmente riluttanti a mutare da azzurro in nero il colore della camicia.” Anche qui, però, il Federzoni si sentiva quasi in dovere di attenuare la cattiva impressione che poteva nascere nel lettore per quella debolezza nei riguardi dell’“invito perentorio” del duce, e, pertanto, si sforzava di sostenere che la fusione, più che per obbedienza verso il presidente del consiglio, era avvenuta per “motivi di coscienza,” dovuti al fatto che, “massimamente nelle province del Mezzogiorno,” si erano andate determinando “situazioni locali intollerabili per grottesca insincerità e pericoloso settarismo. Erano cominciati gli attriti e i tafferugli. Camicie nere e camicie azzurre, novissime le une e le altre, avevano preso, per esempio nelle Puglie, fuso di dare l’assalto alla sede del partito concorrente, e c’erano già stati morti e feriti. Si era in diritto di sperare che, con la fusione, anche per gli iniziali riconoscimenti impegnativi di 110

Mussolini circa una tal quale superiorità di valori intellettuali che il Nazionalismo presentava in paragone del Fascismo, si sarebbe potuto esplicare nell’ambito di questo un’influenza moderatrice e educatrice. A dire il vero,” continuava il Federzoni, “tali beneficii furono minori di quanto si era previsto; ma non può dirsi che mancassero. Il contrasto fra i due movimenti continuò, accanito benché incruento, entro il PNF. In molti fascisti della ‘vecchia guardia’ c’era più che altro un rigurgito di sentimenti massonici e repubblicani: ora tutti si professavano antimassoni e avevano accettato la Monarchia, ma non perdonavano al Nazionalismo d’averli forzati a cambiare strada. La distensione finì per coincidere ‘grosso modo’ col divergere delle due tendenze già contrastanti nel Partito: la rivoluzionaria e la legalitaria.” Ancora una volta, l’esponente nazionalista, che poi diede la sua alacre opera per la fascistizzazione dello Stato come ministro dell’Interno dopo il delitto Matteotti (“il mio compito,” egli scrisse, “si riassumeva nel fermo ristabilimento della legge su tutto e su tutti e, se possibile, nella pacificazione degli animi […]; potevo contare su la benevolenza degli elementi che nel Fascismo avevano visto, a ragione o a torto, soltanto una forza restauratrice dell’ordine e del sentimento di Patria e che, conoscendo la mia fedeltà a taluni principii fondamentali, mi consideravano ancora un uomo rappresentativo della corrente nazionalista”), palesava tutta la sua ingenuità - non si sa se sincera o apparente - nel ritenere che il nazionalismo - o, meglio, la sua sola persona - avesse una così forte influenza su Mussolini, e sui fascisti in genere, da permettere di tentare l’“arduo cimento” di restaurare l’impero della legge su tutto e su tutti, l’ordine e il sentimento di patria, che pure i gerarchi e le camicie nere avevano sempre proclamato ad alta voce e retoricamente di volere infondere 111

nel popolo italiano; quel sentimento traviato dal regime parlamentare e dall’azione dei rossi, che avevano mistificato “le masse lavoratrici mettendole contro la patria o fuori della patria”: “Portiamo,” gridò il duce a Perugia, il 30 ottobre del ‘23 celebrando l’anniversario della marcia su Roma, “nello spirito il sogno che fermenta ancora nel nostro animo: noi vogliamo forgiare la grande, la superba, la maestosa Italia del nostro sogno, dei nostri poeti, dei nostri guerrieri, dei nostri martiri.” Eppure era, forse, proprio questa smisurata tenacia di marciare “con passo sicuro e romano verso la mèta infallibile,” e questo additare al popolo italiano, finalmente redento dalla benefica violenza squadristica e diventato “laborioso e gagliardo,” la “strada della sua espansione nel mondo,” che non poteva essere completamente accetto dai nazionalisti. I quali sembrava che preferissero rimanere fedeli alla vecchia politica dei governi liberali, che avevano consentito al settore tessile di svilupparsi in misura notevole ed a loro di raggiungere una funzione di primo piano nella vita politica del paese. Ecco perché potevano apparire legalitari, di destra e moderati nei confronti dei sansepolcristi e dei diciannovisti, che li consideravano “una specie di aristocrazia conservatrice.” E tale essi erano, in effetti, molto probabilmente - anche qui avanziamo una ipotesi - perché quei sansepolcristi e diciannovisti erano l’espressione del nuovo capitalismo più aggressivo, nato con e dalla guerra su basi fondamentalmente speculative, e, perciò, deciso a difendere in ogni modo la nuova posizione conquistata, esigendo dal governo una politica economica protezionistica più adeguata ai loro interessi. Visti sotto questo aspetto, gli squadristi della prima o della seconda ora trassero in inganno persino il Gobetti, che, nella sua “Rivoluzione liberale” (febbraio 1924), intessé un aperto elogio del più violento e del più incolto di quegli 112

squadristi, cioè del Farinacci, che, diceva, era “il tipo più completo e rispettabile che abbia espresso sinora il movimento fascista. Non solo come uomini politici, ma come coscienze, per disinteresse e austerità personale, i ras Farinacci, Barbiellini, Baroncini, Forni sono superiori a tutta la schiera dei ciarlatani del revisionismo […]. Farinacci non teme di parlare di Bissolati come del suo vecchio maestro, e un democratico autentico non può esitare a sentirsi oggi cento volte più vicino a Farinacci che a Massimo Rocca […]. I patti di lavoro ispirati da lui nel Cremonese, come quelli di Forni, Baroncini e degli altri ras, non sono un tradimento per il movimento proletario, sono i migliori patti di lavoro vigenti oggi in Italia […]. Farinacci è nemico del prefetto, non può soffrire gli ordini di Roma, di quelli che non vedono e credono di vedere, e risolvono tutto con schemi teorici e leggi generiche. Di fronte al prefetto, Farinacci rappresenta la rivoluzione, il principio dell’autogoverno, la sovranità popolare. Rendiamogli onore: lo spirito di Bissolati è in lui, almeno nei limiti in cui può esserlo un fascista. È un discepolo onesto: non ha venduto Cristo per i trenta denari di un ministero dei lavori pubblici.” Ma si trattava, evidentemente, di un abbaglio o di un equivoco (a parte gli alquanto confusi discorsi, che sono stati fatti anche di recente, sulle “istanze popolari locali” che sarebbero state rappresentate dal Farinacci, il quale avrebbe pure raccolto “i sotterranei fermenti strapaesani e provinciali” che divennero, più tardi, “una componente della formazione di giovani che sarebbero passati nelle file della Resistenza”!!), abbaglio ed equivoco di cui non avrebbe potuto non accorgersi quando, nel febbraio del ‘25, dopo il discorso mussoliniano del 3 gennaio che praticamente poneva termine alla secessione dell’Aventino, il ras cremonese venne chiamato alla carica di 113

segretario del partito. Mussolini potè, allora, manifestare tutta la sua abilità di mediatore tra la “faticosa opera di difesa dell’ordine” - così scrive il Federzoni - svolta dal ministro dell’Interno e il “dinamismo irresponsabile di Farinacci” (mediazione di cui il duce si compiaceva, come risulta dallo stesso racconto del Federzoni: “il nostro antagonismo era esploso più aspro del solito in un rumoroso alterco al cospetto del Duce. Era un giorno d’estate del 1925, e dalle finestre aperte del salone di palazzo Chigi, a quanto mi fu poi assicurato, i nostri urli si udivano in piazza Colonna: Mussolini assisteva come un giudice indifferente, ma sotto quella sua maschera d’impassibilità lasciava trasparire di tratto in tratto l’intimo compiacimento”). In un grosso equivoco era, indubbiamente, caduto il Gobetti, allorché parlava dello “spirito di Bissolati” che continuava ad aleggiare nel suo discepolo ma, forse era soltanto lo spirito che aveva accomunato, nella battaglia interventistica, i due uomini; così quando ricordava i patti di lavoro stipulati, auspice Farinacci, nel Cremonese, definendoli i migliori vigenti in Italia, ma dimenticava la violenta opera di repressione dei contadini in cui si era distinto l’aspirante ras della città della bassa pianura padana prima che il fascismo salisse al potere (per cui Vindice dei loro salari aveva dato inizio alla precipitosa discesa dalla punta massima del 1921 di 766.66 - 1913-14 = 100 - a 733,33 nel ‘22, a 695,55 nel ‘23, a 626.66 nel ‘24, ecc.); e infine, il Gobetti, tutto preso dalla pseudo-rivolta farinacciana contro il prefetto e contro gli ordini di Roma in nome della “rivoluzione, del principio dell’autogoverno, della sovranità popolare,” dimenticava che il ras cremonese aveva sempre mirato a risolvere lo Stato nel partito, sovrapponendo, nelle province, ai prefetti i gerarchi scelti da lui, si da fare del direttorio fascista un altro governo che subordinasse, mantenendo sempre la struttura centralistica del vecchio Stato, le autorità 114

locali alla Roma perfettamente fascistizzata, e dando inizio a quella miserevole e deprimente distinzione tra “fascisti” ligi al partito e “antifascisti” contrari, elogiando i primi e vitupeperando i secondi1. Certo, l’influenza dei nazionalisti ebbe un chiaro accento conservatore, e P. Togliatti, nelle sue lezioni sul fascismo del ‘34, interpretava la fusione tra il fascismo e il nazionalismo come il tentativo della borghesia di riorganizzarsi e di ricreare gli strumenti tradizionali mediante i quali controllava ed esercitava il suo potere sullo Stato (poiché, manifestamente, dubitava, o almeno, era sospettosa verso il regime delle camicie nere): “Non per niente,” scriveva il Togliatti, “il legislatore di questa dittatura è stato Rocco, un nazionalista; non per niente, una delle più grandi personalità è stato Bottai, un nazionalista anche lui. In tutte le tappe è stata condotta una lotta fra fascisti e nazionalisti per la soluzione dei problemi fondamentali dello Stato e del partito. La soluzione di questi problemi ha sempre una sostanza che viene dal partito nazionalista, la sostanza della loro soluzione è sempre nettamente reazionaria e borghese.” È stato detto che nella valutazione, tutto sommato, positiva, del Farinacci da parte del Gobetti, come nelle considerazioni di Togliatti sulla influenza decisiva del nazionalismo nella lenta costruzione dello Stato fascista (per quanto si debba tener ben presente, a tale proposito, la volontà mediatrice a cui voleva rimanere fedele il duce nella prima fase del suo dominio), non si avvertiva soltanto la preoccupazione che operazioni politiche del tipo di quelle di Bottai, volte ad una riunificazione bonapartistica della borghesia, comportassero la spaccatura del fronte antifascista, sorretto non da un preciso carattere di classe, ma da una generica, sia pure fondamentale, esigenza morale. Il che deve condurre ad una constatazione molto grave sulle vecchie opposizioni 115

democratiche, raccolte sull’Aventino, constatazione riguardante la loro confusione politica e sociale, dal momento che, se quegli uomini di alta levatura morale - un Turati, un Amendola, ecc., - avessero compreso che contro il fascismo - il quale non esitava ad usare la forza e la violenza tutte le volte che ve ne fosse bisogno - non si poteva lottare agitando unicamente la famosa “questione morale,” ina era indispensabile unirsi alle masse popolari per condurre un’azione più efficace, avrebbero sentito pure il bisogno di mutare tattica e strategia (se, però, ne fossero state capaci, cosa su cui si possono nutrire molti dubbi). D’altronde, se anche fosse avvenuta la paventata spaccatura del fronte antifascista, essa avrebbe dovuto essere accettata come un vantaggio, perché avrebbe potuto impedire che ci si continuasse a trastullare - nel campo antifascista - con fantasmi che non avevano alcun senso, e si sarebbero separati coloro che intendevano opporre alla violenza fascista un’altra violenza, piu nobile in quanto mossa da ideali più alti, da coloro che, invece, si adagiavano in una stanca ed opaca rassegnazione. 1 Il “Non mollare,” bollettino d’informazioni antifascista fiorentino, rispondeva

con grande dignità alle ingiunzioni del piccolo ras: “Farinacci ha detto alle opposizioni, nel discorso del 22 marzo [1925]: O arrendetevi o rivoltatevi. Ben detto! Noi abbiamo scelto. Non ci arrendiamo. Ci rivoltiamo. Ma i modi e i tempi della rivolta intendiamo sceglierli noi. È chiaro?”

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Capitolo quinto Il “selvaggio rivoluzionario” di Mino Maccari Separazione che sarebbe stata più urgente dopo che il duce aveva chiamato, all’inizio del *25, il Farinacci alla segreteria del partito, suscitando un vivo risentimento nei gruppi squadristici, i quali videro nel ras cremonese, come abbiamo già notato, l’incarnazione del potere centrale contro i poteri locali, del partito burocratizzato contro l’autonomia delle province. Era, pertanto, inutile e fuori stagione ormai che Curzio Suckert [Malaparte], dalle colonne del suo “La Conquista dello Stato,” gridasse: “È giunto il momento di dimostrare che la direzione del Partito non è una dipendenza del Viminale, ma un vero e proprio comitato rivoluzionario che vuol finalmente realizzare contro chiunque la volontà del Fascismo.” E il Suckert si sforzava di dare una parvenza culturale alla politica farinacciana, insistendo sul tema “fascismo come Controriforma,” e, pertanto, italianità contrapposta al mondo barbaro moderno: sicché, se Gobetti faceva scaturire il fascismo dalla mancanza di una riforma seria e profonda nella storia dell’Italia, egli, al contrario, celebrava la Controriforma quale momento essenziale di quella storia. E si rifaceva alla “chiarezza cattolica della nostra tradizione,” che era stata minacciata dal “clima e dai fatti storici nostrani,” poiché, secondo lui, era “pacifico che se il liberalismo a fondo democratico, contro il quale Gioberti e i 117

neoguelfi nulla poterono, ha deviato, negli ultimi cento anni, per opera di Cavour e dei teorici conseguenti il corso naturale, indagato in una ininterrotta tradizione di tre secoli, della nostra vita storica, questo si deve più che allo stato delle cose d’Italia, alla natura dell’ideologia liberale, natura contraria e impropria a quella della nostra tradizione.” Come si vede, il Suckert esaltava una “ininterrotta tradizione di tre secoli della nostra vita storica,” una tradizione che raccoglieva tutti gli aspetti, più o meno deteriori, della “chiarezza cattolica,” del Gioberti e del neoguelfismo, dimostrando quanto, in definitiva, la sua Controriforma fosse, veramente e soltanto, una pura Controriforma, una negazione risoluta dell’altra tradizione italiana dell’Ottocento, liberale e democratica. Né si riesce a capire come potesse opporre il fascismo provinciale, storico e riformistico (o controriformistico) al supposto fascismo liberaleggiante che, insediatosi a Roma, impediva la “conquista dello Stato.” Forse che quello spirito controriformistico avrebbe favorito una simile conquista dello Stato da parte dei parvenus fascisti, o non avrebbe promosso piuttosto una riconquista di Roma e dell’Italia da parte del Vaticano? Sullo stesso Garibaldi, il Suckert dava un tagliente giudizio negativo, essendo stato incapace di condurre sino in fondo l’“ira spietata e tirannica” per aver ceduto ad un falso e democratico umanitarismo: “Poiché non bisogna dimenticare,” scriveva, “che Garibaldi, eroe decadente, una specie di tiranno romantico e democratico, riguardoso e di cuor debole, col quale la bontà e la pietà, interrompendo la bella tradizione tirannica degli eroi aristocratici, spietati e senza riguardi, italiani fino all’odio per gli stessi italiani, entrano da maestre nella storia delle nostre contese.” Insomma, Garibaldi aveva tradito la rivoluzione da lui stesso suscitata, e il Suckert non pensava che, molto probabilmente, il grande compromesso di Teano 118

con la monarchia fu dovuto al fatto che egli aveva compreso di aver destato le forze primitive dei contadini meridionali, che minacciavano di volgere in altra direzione la sua rivolta contro il governo imbelle e corrotto dei Borboni, in una direzione che mirava a risuscitare le antiche usanze medioevali che neppure la piccola borghesia risorgimentale - in questo perfettamente d’accordo con la grande borghesia -era disposta ad accettare. Un’altra rivista, “Il Selvaggio” di A. Bencini e M. Maccari, aveva cominciato ad uscire tre giorni dopo (il 13 luglio ’24) la “Conquista dello Stato” del Suckert: il Maccari aveva fatto suo un cattolicesimo più strapaesano - è stato detto -, meno controriformistico, quale era stato elaborato da Bargellini, Lisi e Betocchi nel Calendario dei pensieri e delle pratiche solari, e si distingueva dal Suckert oltre che su questo motivo, anche nella interpretazione di Garibaldi. Egli respingeva con sdegno il falso e imbalsamato eroe dei due mondi dei libri di testo, pur sostenendo che c’era un Garibaldi che poteva servire al fascismo, il Garibaldi “che agiva secondo gli dettava l’impulso della sua anima generosa, senza aspettare il consenso di tutti gli italiani, un italiano che rispondeva davanti alla sua coscienza di ogni atto compiuto nel nome d’Italia.” E giungeva a tracciare una linea che andava dal garibaldinismo ottocentesco agli altri episodi di ribellione contro il vecchio Stato italiano, che era meglio rappresentato dal Cavour, l’anticipatore e il fondatore di ogni tendenza parlamentaristica: “Nessuno oserà negare che, tranne la parentesi garibaldina, la gente italiana era ormai schiava di una lunga tradizione panciafichista, borghese e pantofolaia. Il pioniere del rinunciatarismo si chiama Cairoli (quello della politica delle mani nette); Sforza, Nitti, Orlando sono discepoli di quella deplorevole scuola. - Noi faremo la storia del rammollimento italiano, insegnato persino nelle scuole a 119

mezzo di quel famigerato Cuore di De Amicis e nelle caserme a mezzo dei cosiddetti Bozzetti militari dello stesso autore. - Contro tanto rammollimento e tanta mediocrità, la prima reazione è la settimana rossa di Ancona; poi vengono i fasci rivoluzionari, poi la guerra italo-austriaca, infine il fascismo sotto l’aspetto dello squadrismo. Il compito del quale, come si vede, è quindi ben più vasto e più importante che non sia stata l’azione antibolscevica.” Un netto contrasto, pertanto, esisteva, a suo parere, fra Garibaldi e il Cavour: quest’ultimo, detto anche “il grande straniero,” aveva posto termine al Risorgimento come rivoluzione ed aperto la strada all’antirisorgimento, al liberalismo, al parlamentarismo, tutte degenerazioni rispetto alla spinta innovatrice del moto di liberazione dallo straniero. Ma comune al Suckert ed al Maccari era la critica dura ed aspra di Roma, la capitale conquistata dagli squadristi, e dell’accordo di bottega con il quale il duce, dimenticando le sue origini provinciali, aveva attirato al suo movimento la borghesia, che, tuttavia, dopo il delitto Matteotti, aveva rapidamente nascosto i distintivi di cui si fregiava prima per passare all’antifascismo, considerato il futuro vincitore, e per ritornare, dopo la delusione dell’Aventino, al fascismo. In verità, “Il Selvaggio” cercava di conciliare cose inconciliabili, e Bencini chiedeva al regime che consolidasse economicamente il ruolo della borghesia, ma, nel tempo stesso, elevasse le condizioni di vita dei lavoratori mediante le organizzazioni sindacali. Era una contraddizione tipica del periodico ispirato dal Maccari, il quale rappresentava una zona della sua Toscana - attorno a Colle Val d’Elsa -, in cui accanto alla mezzadria e alla piccola proprietà quasi sempre minacciate di collasso sebbene fossero due categorie dagli interessi divergenti, c’era una piccola industria che aveva accolto gli echi della predicazione socialista. Romano Bilenchi - la cui simpatica 120

figura abbiamo conosciuto in questo dopoguerra e che ci rimarrà costantemente nel ricordo - dirà che, emarginati da lungo tempo, i piccoli borghesi di Colle Val d’Elsa erano stati, nel secolo scorso, garibaldini, i loro figli vagamente anarchici e socialisti, i loro nipoti squadristi e rivoluzionari: insomma, avevano sempre mostrato una vivace reazione contro lo Stato e contro il governo centrale o di Roma in nome di una tenace fedeltà alla equazione fascismo = strapaese. Secondo il Maccari, il fascismo aveva espresso l’essenziale origine da cui era scaturito, cioè “cattolicismo, ruralesimo, classicismo, realismo, gerarchia, autorità,” principi che erano stati sempre la caratteristica del movimento strapaesano, ma che, sommati l’uno all’altro senza alcun criterio, dimostravano abbastanza chiaramente quanta e quale fosse la confusione che regnava nella testa del Maccari. Eppure, da tali affermazióni c’era chi - come G. Contri - traeva lo spunto per scrivere che “la capitale della rivoluzione fascista è strapaese.” La realtà era che lo stesso “Selvaggio” si aggirava in una atmosfera ambigua e che non era capace - o non voleva esserlo - di chiarire tutte le contraddizioni che stavano avvolgendo il fascismo e che, fra il ‘24 e il ‘25, stavano per dimostrare l’effettiva irrealtà delle prospettive rivoluzionarie di chi contemplava l’esperienza delle squadre fasciste dal suo minuscolo angolo appartato. Cosi, lo stesso Maccari osservava - nel gennaio del ‘25, poco dopo il discorso del 3 gennaio del duce - con una certa amarezza, quasi lamentando le sue belle illusioni tradite o svanite: “Abbiamo portato un rispetto di cui dobbiamo arrossire alla borghesia e ai cosiddetti ceti elevati che hanno covato il più feroce antifascismo. Abbiamo bastonato il facchino che poteva aver bofonchiato: accidenti a Mussolini e a quei vigliacchi venduti dei fascisti (frase assolutamente innocua e in fondo leale). Ma quante volte non abbiamo tollerato la denigrazione perfida, abile, 121

continuata del professor B., del marchese C.? - Perché non li abbiamo picchiati e così di rado? - Perché gli operai, i contadini, i lavoratori inscritti ai fasci hanno preferito stangare i propri simili piuttosto che stangare il proprietario, il fattore, il segretario comunale antifascista?” Fu questa delusione che finì con il convincere il Maccari dell’utilità di una attività più intensa sul piano culturale, abbandonando, almeno in parte, quello politico: infatti, in un articolo del dicembre ‘24, ripubblicato, poi, nel novembre dell’anno successivo, “Il Selvaggio” sosteneva che “se il fascismo vuol essere espressione viva e dinamica di italianità, non deve prescindere da uno […] stato di fatto. Vi è un fascismo italiano, ma in seno ad esso vi è un fascismo toscano, emiliano, ecc. - Questa divisione logica, inevitabile è una realtà concreta e va pesata. Tentare di distruggerla sarebbe sciocco e antistorico. E allora bisogna favorirla. Prima di tutto, questo problema, se si può chiamar problema, va fatto emergere, va riconosciuto e accettato […]. L’esperienza ci insegna che bisogna fare da sé; e noi ne abbiamo dato un esempio. - Ora sentiamo il bisogno di dire la nostra parola, di alzare la nostra proposta. - Dovrebbe esistere, anzitutto, un istituto o un circolo di cultura fascista toscano con sede in Firenze o in Siena, regolarmente sussidiato dal partito e dalle federazioni provinciali della regione, il quale avrebbe la funzione di raccogliere le attività intellettuali degli artisti e dei letterati fascisti, promovendo mostre permanenti, pubblicazioni, cicli di conferenze.” Del resto, quasi a contraddire tale tendenza, c’era un articolo più tardo dello stesso Maccari che ribadiva un tema su cui egli cercava di insistere, cioè la mancanza di uno stile fascista, il propagarsi di un costume retorico e l’incapacità dei gerarchi ad avanzare critiche al regime quando ciò fosse stato necessario. Ma a dimostrare l’aspirazione degli intellettuali a rinchiudersi nella “tanto deprecata ‘torre 122

d’avorio,’” si possono ricordare altre affermazioni di U. D’Andrea, il quale si chiedeva, senza, però, nemmeno sforzarsi di dare una risposta adeguata al problema: “come mai i giovani d’ingegno di oggi passano dalla politica all’arte pura, o agli studi storici, mentre i giovani alla fine del secolo e all’inizio del nuovo, passavano dalla speculazione filosofica e dall’arte pura alla politica? Il fatto,” concludeva, “per chi l’intenda, non è senza significato e noi lo sottoponiamo, con la dovuta subordinazione, alle superiori gerarchie.” Si può capire questa condanna della “tanto deprecata ‘torre d’avorio,’” da parte degli scrittori del “Selvaggio,” i quali avevano creduto seriamente nella intrinseca volontà rivoluzionaria del fascismo (non si parlò, forse, a lungo della rivoluzione fascista?), e che avevano pensato che il regime intendesse lottare non solo contro il bolscevismo, il soviettismo, ma anche contro i ceti privilegiati che erano annidati nella vecchia società e che avevano comandato a loro piacimento: erano tutti quelli che, con il Maccari, si dicevano, ora, gli “ex-nulla,” che si erano tramutati da repubblicani in monarchici, e da rivoluzionari in difensori dell’ordine stabilito, sempre senza protestare, soltanto con “qualche sarcasmo” che era uscito dalle loro labbra: “Un bel giorno,” annotava con una aperta amarezza il Maccari, “gli ex-nulla hanno visto Mussolini col collare dell’Annunziata. ‘Visto. Si approva’ […]. Finché son venute le elezioni politiche del 6 aprile [1924], con relativa indigestione di rospi, sopportati al suono di ‘Giovinezza’: gli exnulla hanno fatto i galoppini, gli elettori, i comizianti, hanno sudato 4 camicie […] per mandare al parlamento il Giovanni Ponzio, il tolstoiano Viola, la ciabatta dannunziana Sem Benelli.” Dichiarano, allora, sul finire del ‘24, che si mettono sull’attenti, salutano romanamente il duce, “e, con voce chiara e ferma, gli dicono: ‘Duce, Duce, se il fascismo è ridotto a patteggiare con Vettori, se i nostri 123

3.000 morti sono caduti soltanto perché qualche giovanotto portasse la tuba,,noi ex-nulla domandiamo il permesso di tornare nel nulla.’” Erano tutti atteggiamenti, questi del fiorentino Maccari, che non potevano essere accolti con piacere da Mussolini, tutto intento a condurre una politica mediatrice fra le varie correnti presenti, allora, nel suo partito e tra il fascismo e l’antifascismo. In effetti, la celebrazione dello strapaese (che implicava la negazione di una visione unitaria e l’emergere di correnti locali e disgregatrici della grande costruzione nazionale che il duce vagheggiava); il rinchiudersi nella “torre d’avorio” e il passaggio all’arte pura (che contrastava con la concezione che il fascismo aveva mutuato dal Gentile, di una stretta fusione tra la teoria e la pratica: “La teoria vera è sempre una pratica,” disse appunto il Gentile nel ‘24, “una forma di vita: è l’uomo stesso impegnato, non certo per una cieca fatalità d’istinto, ma per consapevoli convinzioni e maturati propositi sorretti da un intuito sicuro del fine a cui bisogna tendere”: il che fu, poi, tradotto dal fascismo in termini più volgari nel motto proclamato da Augusto Turati, nel periodo della sua più fervida adesione al regime: “Libro, moschetto e fede. La fede che illumina il libro e santifica il moschetto, facendone l’arma giusta e bella”); e, infine, la lotta contro le classi più abbienti e il non voler credere che la rivoluzione - come l’intendevano i gerarchi perfettamente inseriti nel sistema - non si fosse più fermata, dopo il 28 ottobre, non segnasse il passo, ma avanzasse e continuasse a realizzare sempre nuove realtà e nuove certezze; erano tutti, senza dubbio, motivi che il duce non poteva approvare, anche se, dopo la segreteria Farinacci, chiamava, nel ‘26, all’alta carica A. Turati, più adatto e più propenso al compromesso, alla mediazione, indispensabili nella fase di costruzione dello Stato fascista. Era, infatti, il 124

nuovo segretario che elencava, nell’ottobre del ‘26, le ragioni “per le quali noi possiamo trovarci uguali anche se siamo dissimili. Ognuno di voi ha dentro di sé,” proseguiva, “qualche cosa in cui vorrà riconoscersi: forse un segno di dolore e di tormento, certamente un grande spasimo di speranza”: frasi in cui si scorgeva forse un’apertura verso gli “ex-nulla.”

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Capitolo sesto Il fascismo e il Risorgimento: reazione o rivoluzione? Lo Stato etico dei gentiliani Pertanto, Mussolini, in quei primi anni del suo novello “regno,” si trovava a dover conciliare, mediare fra le tendenze centrifughe dei ras locali e le aspirazioni ad una autonomia delle province, da un lato, e, dall’altro, le esigenze di uno Stato accentrato, quale egli voleva costruire: fra le richieste dei ceti industriali protezionistici più aggressivi e i bisogni di quelli libcristici, soprattutto dell’esteso settore tessile, che aveva mutato atteggiamento rispetto al 1887, quando era stato l’ispiratore e il più deciso sostenitore della rottura dei rapporti commerciali con la Francia; fra le posizioni protezionistiche degli agrari cerealicoli e quelle degli agricoltori e dei piccoli proprietari che intendevano vendere sui mercati esteri i loro prodotti pregiati; fra la volontà della piccola e media borghesia, che mal sopportava, come vedremo meglio più avanti, la continua erosione del potere d’acquisto dei suoi stipendi o salari per il processo inflazionistico e quella contrastante della grande, che invece vedeva volentieri l’inflazione perché essa le creava condizioni vantaggiose nelle esportazioni dei suoi prodotti. Lo fece con una abilità alquanto rozza e anche un po’ grossolana, come quando, dopo il delitto Matteotti, negli ultimi giorni del 1924, obbedì alle recise ingiunzioni degli squadristi fiorentini e 126

toscani che gli imposero di porre termine allo stato di incertezza in cui il fascismo era precipitato, altrimenti l’avrebbero fatto loro, rispolverando i manganelli e tutti gli altri strumenti della violenza degli anni 1920-’22: ne derivò il discorso del 3 gennaio ‘25, che fu pronunciato dal duce con il solito tono ultimativo e truculento, sebbene ne avvertisse l’inopportunità in quanto avrebbe potuto irritare maggiormente la piccola borghesia. Secondo Gramsci, il quale preparò una relazione per la riunione del Comitato direttivo del PCI del 2-3 agosto ‘26, la corrente farinacciana rappresentava “obbiettivamente due contraddizioni del fascismo. 1) La contraddizione fra agrari e capitalisti nelle divergenze d’interesse specialmente doganale [su questo punto abbiamo già insistito, dandone, però, una interpretazione diversa]. È certo che l’attuale fascismo rappresenta tipicamente il netto predominio del capitale finanziario nello Stato, capitale che vuole asservire a sé tutte le forze produttive del paese. 2) La seconda contraddizione è di gran lunga la più importante ed è quella tra la piccola borghesia ed il capitalismo. La piccola borghesia fascista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo Parlamento, la sua democrazia. Attraverso il partito vuole fare pressioni sul governo per impedire di essere schiacciata dal capitalismo. Un elemento,” aggiungeva, “che occorre tener presente è il fatto dell’asservimento completo in cui l’Italia è stata messa dal governo fascista verso l’America. Nella liquidazione del debito di guerra sia verso l’America che verso l’Inghilterra il governo fascista non si è preoccupato di avere nessuna garanzia sulla commerciabilità delle obbligazioni italiane. La borsa e la finanza italiane sono esposte in ogni momento al ricatto politico dei governi americani ed inglese, che possono, in ogni momento, gettare sul mercato enormi quantità di valori italiani. Il debito Morgan, d’altra parte, è stato contratto in condizioni 127

ancora peggiori. Sui cento milioni di dollari del prestito il governo italiano ha a sua disposizione solo trentatré milioni. Degli altri 67 milioni, il governo italiano può disporre solo coll’alto consenso personale di Morgan, ciò che significa che il vero capo del governo italiano è Morgan.” Da questo passo di Gramsci si possono trarre alcune osservazioni abbastanza interessanti: a parte l’affermazione che il fascismo rappresentasse il predominio sullo Stato del capitale finanziario (un po’ generica e su cui si potrebbero sollevare dei dubbi, se si considerano i numerosi fallimenti di banche, che decisero il governo - come scrive il Guarneri - a sottoporre a preventiva autorizzazione l’apertura di nuovi istituti; a imporre limiti ai fidi bancari per favorire una razionale distribuzione del risparmio fra i diversi settori della produzione ed evitarne l’investimento solo in alcuni, o peggio, solo in poche aziende; a dettare disposizioni rivolte a rafforzare la consistenza patrimoniale delle aziende e la formazione di riserve; infine, a sottoporre alla vigilanza dell’Istituto di emissione tutti gli enti bancari su cui non si esercitava la vigilanza del ministero dell’Economia nazionale), sono da mettere in rilievo altre due affermazioni, come quella che riteneva che la piccola borghesia potesse fare pressioni sul governo per impedire di venire schiacciata dal capitalismo (che potrebbe sembrare in contrasto con la precedente, perché se il fascismo rappresentava il predominio del capitale finanziario in che modo avrebbe, poi, potuto difendere la piccola borghesia dalla forte pressione del capitalismo? probabilmente evitando, o almeno ponendo termine, al processo inflazionistico che, favorendo le esportazioni, avvantaggiava i ceti capitalistici e danneggiava fortemente i piccoli e modesti risparmiatori), e. l’altra sulla dipendenza dell’Italia non solo e non tanto dai ricatti dei governi americano e inglese quanto dall’alto consenso personale di Morgan (la casa J. P. Morgan & C. di 128

New York aveva concesso, il 1° giugno ‘25, un prestito di 50 milioni di dollari a un consorzio costituito, fra le banche di emissione italiane, sotto la presidenza di B. Stringher, direttore generale della Banca d’Italia, e per agevolare tale azione, il consiglio dei ministri aveva istituito, il 25 agosto ‘25, una sorveglianza sul mercato dei cambi allo scopo di eliminare le operazioni a carattere speculativo e instaurato “in materia di costituzione di società e di aumenti di capitali una disciplina intesa ad evitare operazioni malsane, unicamente inspirate al desiderio di trar profitto dalla situazione critica della moneta e dei cambi per fare opera inflazionistica, in netto contrasto colla politica del Governo”). Ancora Gramsci, ansioso, come sempre, di trovare un varco nelle chiuse - e che si andavano ogni giorno più chiudendo - maglie del fascismo per inserirvi l’iniziativa delle classi lavoratrici, che avrebbero potuto, a suo parere, “irrompere violentemente nella scena politica al momento della rottura dei rapporti esistenti,” sosteneva che la difesa degli interessi della piccola borghesia, mediante il fascismo, avrebbe potuto assumere una intonazione nazionalista nuova e in contrasto “contro il vecchio nazionalismo e l’attuale direzione del partito che ha fatto sacrificio della sovranità nazionale e dell’indipendenza politica del paese agli interessi di un gruppo ristretto di plutocrati” (cioè quelli del gruppo Morgan, anche se rimaneva forse un problema da approfondire, che riguardava l’intreccio di interessi che si era stabilito tra il fascismo e il “ristretto gruppo di plutocrati” americano, intreccio che, nel ‘26, era ormai molto chiaro ed evidente). Ma in che cosa consisteva la differenza tra il vecchio e il nuovo nazionalismo? Dalla lettura della relazione di Gramsci sembra che il nuovo nazionalismo fosse sostenuto dalla piccola borghesia, colpita e falcidiata dall’aggravarsi 129

del processo inflazionistico, mentre il vecchio era più teorico, più staccato da interessi concreti, il che gli consentiva di perseguire fini politici più consoni alla sua collocazione nella vita italiana. Infatti, Gramsci scriveva che la tendenza che faceva capo a Federzoni, Rocco, Volpi voleva “tirare le conclusioni di tutto questo periodo dopo la marcia su Roma. Essa vuole liquidare il partito fascista come organismo politico e incorporare nell’apparato statale la situazione di forza borghese creata dal fascismo nelle sue lotte contro tutti gli altri partiti. Questa tendenza lavora d’accordo con la Corona e con lo stato maggiore. Essa vuole incorporare nelle forze centrali dello Stato da una parte l’Azione cattolica, cioè il Vaticano, ponendo termine di fatto e possibilmente anche di diritto al dissidio fra la casa Savoia ed il Vaticano.” Egli era, inoltre, convinto che se i partiti di opposizione miravano a creare ed a mantenere, “sia pure in forme inadeguate e vischiose,” un distacco tra le masse popolari e il fascismo (cosa che era storicamente vera perché nemmeno i massimalisti, i riformisti e i repubblicani avevano mai avvertito il bisogno di stabilire un rapporto serio e fattivo con le masse popolari, trovandosi, così, nel momento del pericolo, come campati in aria), l’Azione cattolica, al contrario, rappresentava “una parte integrante del fascismo, [che] tende attraverso l’ideologia religiosa a dare al fascismo il consenso di larghe masse popolari, ed è destinata, in un certo senso, nell’intenzione di una tendenza fortissima del Partito fascista (Federzoni, Rocco, ecc.), a sostituire lo stesso Partito fascista nella funzione di massa e di organismo di controllo politico sulla popolazione.” Affermazioni che erano sbagliate e non del tutto esatte, perché i nazionalisti si erano sempre dimostrati anticlericali, anche se il Rocco, nell’indirizzo di risposta al discorso della Corona del 22 giugno ‘21, aveva dichiarato di 130

avere ormai superato l’antico anticlericalismo risorgimentale, che era stato, allora, un anticlericalismo “a base patriottica” perché la Chiesa “combatteva l’unità della Patria” ed era naturale, perciò, “che, in nome della Patria, si facesse dell’anticlericalismo.” Ma, dal momento che il Vaticano aveva permesso, con l’abolizione del non expedit, l’ingresso delle forze cattoliche nell’orbita della vita nazionale, sarebbe stato “stolido e ripugnante” mantenere vivo un atteggiamento che non aveva più alcun significato. Così - proseguiva il Rocco - aveva abbandonato la posizione di un tempo, “anche a costo di essere gratificato del titolo di clerico-nazionalista,” sostenendo che “la religione é troppo fondamentale elemento e la Chiesa Cattolica è, per l’Italia, istituzione troppo essenziale e troppo legata alla sua tradizione e alla sua missione, perché lo Stato italiano possa ignorare e la religione e la Chiesa,” proprio nel momento in cui da organi ufficiosi del Vaticano venivano delineati i termini di un possibile accordo. Ma in che cosa avrebbe dovuto consistere tale accordo per il Rocco? Soltanto nel riconoscimento della sovranità territoriale della Santa Sede sui palazzi pontifici e in quello del pontefice come sovrano, cioè come soggetto di diritto internazionale. Inoltre, un altro punto fondamentale dell’accordo avrebbe dovuto consistere nel sottomettere il clero italiano allo Stato: “Altra cosa è infatti l’indipendenza della Santa Sede che, per la sua missione universale, deve essere piena ed intera; altra cosa è l’indipendenza del Clero nazionale dallo Stato nazionale, che non può ammettersi se non si vuol creare un altro Stato nello Stato.” Come si vede, il Rocco riduceva le pretese del Vaticano a ben poca cosa, ed era sua convinzione che lo Stato italiano avrebbe potuto anche accettarle senza rinunciare per nulla alla sua preminente autorità. Più tardi, nel novembre ‘25, in un discorso al Senato sulla massoneria, diceva di non pretendere “di convertire il 131

mio maestro senatore Ruffini alla mia concezione dello Stato Nazionale, Stato sovrano che domina tutte le forze esistenti nel Paese,” e sosteneva che con la dottrina professata dal Ruffini stesso, secondo cui non esistevano limiti alla libertà, si cadeva “insensibilmente, ma sicuramente, nell’anarchia anche a costo della salvezza della Patria, anche a costo della disgregazione dello Stato, anche a costo dell’anarchia!” Per tale motivo, per non cadere nell’anarchia, cercava un appoggio nel Vaticano, nella Chiesa cattolica, la quale, affermava, “qualunque siano le questioni contingenti che può avere con essa lo Stato italiano, è una grande istituzione, ed è una istituzione che ha sede in Italia, che è una gloria italiana, e che noi, come italiani e come cattolici, rispettiamo ed amiamo [Applausi vivissimi e prolungati]” Da questa restaurazione dello Stato e da questa rinascita della Nazione che egli riteneva attuata dal fascismo, derivava un giudizio molto aspro e duro sul Risorgimento, su quel periodo tanto celebrato fino allora, ma che, dopo l’ascesa al potere delle camicie nere, veniva messo in discussione sia dagli antifascisti più giovani e più assetati di azione, come un Gobetti, un Gramsci, un Rosselli (che vi scorgevano le premesse del nuovo regime, risalendo più volentieri a tutti coloro che erano stati gli sconfitti del moto di unità nazionale, i Pisacane, i Cattaneo, i De Sanctis, ecc.), sia dai fascisti, che lo condannavano per non avere avuto il concetto dello Stato forte e pronto a subordinare agl’interessi generali tutti gli interessi particolari e ad opporre all’arbitrio dei singoli l’impero inviolabile della legge, favorendo così il graduale sgretolamento dello Stato stesso. Il Rocco, dunque, dopo avere, una prima volta, nel citato discorso del 22 giugno ‘21, detto che, come conseguenza di sedici secoli di imbellicosità e di disgregazione e di quattro secoli di oppressione 132

straniera, le masse italiane erano state colte spiritualmente impreparate dalla ricostituzione dell’unità nazionale, sicché il moto del Risorgimento, che era stato opera di una piccola minoranza di intellettuali, non era stato compreso dalle masse stesse che gli si erano rivelate estranee o ostili, nel ‘23 (v. il discorso pronunciato al teatro dell’Unione a Viterbo, il 25 febbraio su Nazionalismo e fascismo), muoveva una serrata critica sia al Risorgimento sia al postRisorgimento: infatti, sosteneva che, raggiunta l’unità, i due grandi partiti che, pur attraverso errori e deviazioni partigiane, talora funeste, avevano condotto la lotta per l’indipendenza, erano sembrati vuotarsi di ogni contenuto nazionale. “Quasi che l’indipendenza e l’unità fossero state fine a se stesse, tanto la destra storica quanto la sinistra, che fra di loro avevano dissentito sul metodo per la lotta della indipendenza, si trovarono come smarrite. Non pensando che, unita l’Italia, bisognava renderla grande e possente, gli antichi partiti storici non seppero ritrovare la loro via e, dopo alcuni anni, man mano che venivano meno gli uomini che avevano personalmente partecipato alle lotte del Risorgimento, andarono perdendo ogni ideale politico per dissolversi in una quantità di gruppi e di clientele a base personale. Il trasformismo non fu soltanto l’amalgama dei due partiti storici; fu anche, e soprattutto, la conseguenza di un processo di dissolvimento, per cui gli antichi partiti del Risorgimento avevano perduto quasi interamente ogni carattere nazionale.” La realtà era, secondo lui, che “per il modo stesso con cui fu condotta, la lotta del Risorgimento conteneva in sé i germi di una fatale debolezza per lo Stato che da essa doveva nascere. La lotta per la libertà esterna, ossia per l’indipendenza dallo straniero, apparve, durante quasi tutto il Risorgimento, certamente nella prima fase di esso, come un aspetto della lotta per la libertà interna, ossia per la partecipazione del 133

popolo al Governo e per gli ordinamenti costituzionali. Questa parte cospicua, e talora preponderante, che il liberalismo e la democrazia individualistici ed antistatali, ebbero sopra il nazionalismo, spiega come dal Risorgimento nascesse uno Stato inizialmente debole. Lo minavano già dalle sue origini l’ideologia liberale e quella democratica che si erano mescolate ed infiltrate profondamente nel moto nazionale del Risorgimento. È naturale che per parecchi anni ancora dopo l’unità, codesto originario difetto del nuovo Stato nazionale continuasse a manifestarsi. - Meno si comprende invece come, man mano che si allontanava da quel periodo di formazione statale della nuova Italia, l’elemento nazionale, invece di rafforzarsi, andasse scadendo, e le ideologie liberali e democratiche, che, dati i tempi, avevano avuto una loro funzione utile anche dal punto di vista nazionale durante il Risorgimento, ma che, dopo tutto, costituivano evidentemente un peso morto da cui era urgente liberarsi, si andassero invece sempre più rafforzando e dilagando in modo da condurre in brevi anni lo Stato alla impotenza ed alla paralisi.” Era chiaro che questa interpretazione del moto risorgimentale era troppo inquinata nel Rocco, già nazionalista e poi fascista, dal mito della patria e della Nazione (con la N maiuscola) “grande e possente,” al di fuori e al di là di qualsiasi considerazione di natura economica: perché come avrebbe potuto l’Italia - che aveva conseguito l’unità e l’indipendenza dallo straniero presente sulla nostra terra, ma che, anche dopo il 1860, aveva continuato a rimanere una specie di colonia della Francia e dell’Inghilterra, che ci avevano aiutato nei due anni miracolosi del ’59 e del ’60, tanto che il Cavour, quasi per riconoscenza, aprì, mediante una politica rigidamente liberistica, le porte alla penetrazione nella penisola dei prodotti di sistemi industriali molto più avanzati - elevarsi 134

“alla posizione di grande potenza”? E, poi, tralasciando altre considerazioni, il trasformismo non era stato soltanto la caratteristica del Depretis, perché era adottato, dal ‘23 al ‘24 e, in parte, al ‘25, anche da Mussolini, il capo delle camicie nere, che pure si era proclamato espansionista ed imperialista. Infine, come si poteva pretendere che le generazioni della seconda metà dell’Ottocento, il periodo delle ideologie liberal-democratiche, del positivismo, dell’evoluzionismo, della grande fiducia nella scienza (ma anche dell’imperialismo francese e inglese), potessero comprendere e preannunciare la degenerazione dello spirito di nazionalità in nazionalismo angusto e sopraffattore e violento dei primi decenni del Novecento? Un altro filosofo, il Gentile, che, a differenza del Croce (il quale, dopo il discorso del duce del 3 gennaio ’25, scelse l’antifascismo), tranne qualche dissenso, rimase tuttavia sempre fedele al regime, esaltava nel Risorgimento tutto quanto si era, a suo parere, opposto al dissolvimento dello Stato e delle forze morali del paese e si era mantenuto fedele alla concezione dello Stato come forza e, quindi, della libertà, allo Stato “il quale non è una soprastruttura che s’imponga dall’esterno all’attività e iniziativa individuale per assoggettarla a una coazione restrittiva; anzi è la sua essenza stessa, quale si manifesta a capo di un conveniente processo di formazione e sviluppo […]: Stato e individuo, sotto questo aspetto, sono tutt’uno.” Pertanto, egli vedeva il Risorgimento con una simile lente deformante e metteva in luce tutte le correnti che, richiamandosi alla tradizione italiana del Vico, non si erano rifiutate di ricorrere alla dittatura, nei momenti decisivi: “Il liberalismo italiano del Risorgimento,” il Gentile proclamò con ferma convinzione in una conferenza tenuta all’Università fascista di Bologna, nel ‘25, su Libertà e liberalismo, “pur con qualche venatura d’individualismo segnatamente 135

economico, come in Cavour, è pervaso di spirito mazziniano. Tutti, prima o poi, direttamente o no, si abbeverarono a quella fonte; e, nell’ardore dell’impresa che avevano nelle mani, tutti, Cavour compreso, non pensarono mai ai diritti naturali degli italiani: pensarono all’Italia libera, all’Italia indipendente, una, e forte bensì di ordinamenti costituzionali moderni, ma in quanto questi potessero garantirne la forza, assicurarne il futuro progresso, ammetterla nel consesso delle grandi nazioni d’Europa. E quando si trattò di agire e di farla, questa Italia, senza ulteriori attese e preparazioni, tutti, Cavour compreso, e non occorre ricordare Mazzini, Garibaldi, Ricasoli, Farini, videro nella dittatura la salute e sdegnarono il chiacchierio fazioso delle assemblee, che nel ‘48 e nel ‘49 fecero così cattiva prova.” In particolare, il Gentile credeva di poter risalire al Mazzini, il quale, secondo lui, “diceva che la vera libertà non è quella del liberalismo individualistico,” così proclamava in un altro discorso, a Firenze, nel Salone dei Cinquecento, nel marzo del ‘25, “che non conosce nazione al disopra degli individui”: contro tale liberalismo, che, per lui, era tipico della “vecchia Italia, dell’Italia del Rinascimento,” il Mazzini stesso “lanciava l’accusa dell’esecrato, cieco ed assurdo materialismo.” Questo era “l’alto concetto mazziniano della nazione, che potè riscuotere il sentimento nazionale degli italiani, e porre il nostro problema nazionale come problema di educazione e di rivoluzione: di quella rivoluzione, senza la quale neanche Cavour, sarebbe stato in grado di fare l’Italia. Questa la nazione, per cui gl’italiani non potranno non sentirsi sempre affiliati della Giovine Italia mazziniana e oggi si dicono fascisti.” Si può vedere quale strano miscuglio di concetti e di idee vi fosse in questa posizione del Gentile, da quel Cavour, che, sebbene avesse “qualche venatura 136

d’individualismo segnatamente economico,” tuttavia avrebbe aderito alla condanna mazziniana del cieco ed assurdo materialismo; da quella Italia libera e indipendente e anche forte di moderni ordinamenti costituzionali, ma creata da una schiera di uomini (messi insieme alla rinfusa) che videro la salvezza nella dittatura e sdegnarono il chiacchierio fazioso e inconcludente delle assemblee; da quel concetto mazziniano della nazione che si pose come problema di educazione (o di evoluzione) e di rivoluzione, nel tempo stesso, senza la quale ultima nemmeno il Cavour sarebbe stato capace di fare l’Italia; e, infine, da quella diretta derivazione del fascismo da un Risorgimento visto quale un esempio di reazione, anche se, per ammettere l’Italia “nel consesso delle grandi nazioni d’Europa,” fosse stato necessario ricorrere ai moderni ordinamenti costituzionali. Né si riesce a comprendere come un paese, economicamente debole ed arretrato in quanto a sviluppo economico e industriale, potesse assidersi, o venire accolto, fra le “grandi nazioni d’Europa”: il che, in effetti, non avvenne, e lo stesso Mussolini dovette accorgersi ben presto, dopo la sua ascesa al potere, di come l’Italia, rigenerata dalla rivoluzione delle camicie nere, fosse considerata dalle grandi nazioni un paese di secondaria importanza, al quale non era troppo difficile imporre la propria volontà. Eppure, da tutta questa confusione, si potevano estrarre alcune idee che rappresentavano la linea conduttrice del pensiero del Gentile: anzitutto, la celebrazione dello Stato “forte, in quanto etico, direttore della civiltà,” che il filosofo sosteneva essere stato “il testamento politico della Destra” risorgimentale, di uno Spaventa, di un Fiorentino, dello Stato superiore ai singoli individui che lo compongono, idea che, più tardi, venne accolta ufficialmente e teorizzata nella dottrina del fascismo pubblicata sulla Enciclopedia Treccani (ma, in realtà, scritta dal Gentile stesso). E, proprio perché 137

Stato etico, e Stato che aveva non solo una sua dottrina ma anche una sua filosofia ed era “prima di tutto una concezione totale della vita,” esso si poneva al disopra del cattolicesimo e della religione romana tradizionale: “Il fascismo,” scriveva in un art. sui Caratteri religiosi della presente lotta politica, in “Educazione politica” del marzo ‘25, “non ricade nelle incertezze pratiche del mazzinianismo di fronte al cattolicismo, volendo influire sopra un popolo, che, quando s’è provato a riformare il suo cattolicismo, non ha mai saputo fermarsi, come altre nazioni, ai mezzi termini di una dottrina evangelica sottratta al suo svolgimento storico e fissata alla meglio in una forma di accomodante teologia tra il mistico e il razionalista, ma è trascorso direttamente e risolutamente alla negazione d’ogni soprannaturale e sovrintelligibile per spaziare liberamente nel campo della pura filosofia. Il fascismo, che intende la necessità della vita religiosa dello spirito, fuori della quale non c’è se non il materialismo dell’individualismo liberistico o della socialdemocrazia, intende perciò innestarsi nel tronco antico, ma pur sempre vivo e poderoso, della religiosità storica, italiana, che, per effetto dell’innesto, si ravviverà e getterà nuovi germogli e rinverdirà in novelle fronde.” Ma c’era qualcuno - osservava lo stesso Gentile - che traeva il pretesto da una simile concezione politica del fascismo per dire che essa non andava “oltre il liberalismo di antico stampo classico” e, prendendo in esame la politica ecclesiastica del regime, con “miopi misconoscimenti e scipiti sghignazzamenti da inintelligenti superficialissimi,” giungeva a condannare “cotesta politica in base all’attribuzione generica di una pretesa tendenza conservatrice o reazionaria alla politica fascista.” Accusa che il Gentile respingeva sdegnosamente, dichiarandola “destituita d’ogni fondamento,” anche perché, a denunciarne l’inconsistenza, sarebbero, a suo 138

parere, bastate “le preoccupazioni dei conservatori contro altri caratteri evidentemente e audacemente rivoluzionari, o, se si vuole, innovatori della politica sociale del fascismo. E,” proseguiva infervorandosi, “basterebbe pure il fatto delle audacie, che a taluno sono sembrate addirittura temerarie, del fascismo in alcune delle sue più appassionate riforme, promosse con grande energia da uno spirito assolutamente antitetico, per ogni verso, a ogni criterio di ordinario conservatorismo.” Insomma, si sarebbe potuto giustamente chiedere da chi avesse fatto un po’ di attenzione a tutte le contraddizioni di questo seguito di affermazioni gentiliane, cos’era il fascismo? Conservatore perché continuatore di quello che veniva celebrato come il più puro ed unico Risorgimento, cioè quello della Destra (in cui erano fatti rientrare tutti gli artefici dell’unità, da un Mazzini a un Cavour, da un Garibaldi a un Ricasoli, da un Gioberti a un Farini), del Risorgimento, perciò, che aveva visto, nei momenti decisivi, la salvezza nella dittatura, era rifuggito dal “chiacchierio fazioso delle assemblee,” oppure quello “evidentemente e audacemente rivoluzionario,” perché cercava di innestarsi nel tronco antico della religiosità storica? Avrebbe dovuto apparire impossibile, per chi avesse letto con spirito critico tutte queste contrastanti affermazioni del filosofo siciliano, riuscire a districarsi con la speranza di giungere a qualcosa di serio e di saldo. Eppure, il Gentile contribuì, in quegli anni, a creare una scuola che accolse alcune sue posizioni, spesso senza ben comprenderne le palesi contraddizioni. Ad esempio, la rivista “Vita Nova,” mensile dell’Università fascista di Bologna, che era stata fondata da L. Arpinati, “il creatore puro, silenzioso e mirabile del fascismo eroico di Bologna, dove più che altrove si sentono le vibrazioni intense di tutto il fascismo, che si traducono in opere stupende di italianità” 139

(cosi era celebrato, con una enfasi sotto cui non si sente niente, nel terzo anniversario della marcia su Roma, l’esponente del fascismo bolognese, di cui la rivista seguì le sorti, cessando le pubblicazioni nel 1933, travolta dalla crisi che colpì l’Arpinati e i suoi fedeli), mise al centro del suo interesse la riforma (gentiliana) della scuola, lo Stato etico, il corporativismo, la critica al cattolicesimo. Giuseppe Saitta, che ne era il direttore, era pure l’interprete più coerente del pensiero del maestro: in un articolo, infatti, uscito sul periodico nel numero del dicembre ‘25gennaio ‘26, e intitolato, in modo molto significativo ed eloquente, Reazione o rivoluzione?, egli scriveva che lo stato fascista vagheggiato da lui stesso e dal suo gruppo “è quello che Mussolini, interprete magnifico dell’anima nazionale, vuole, cioè lo Stato che trovi in se stessso le ragioni immanenti del suo sviluppo, che sia, in altri termini, sufficiente a se stesso: insomma, lo Stato religioso, o lo Stato come religione. Lo Stato così concepito, non può temere tramonti; perché solo così esso è l’organismo vivo, unitario, che comprende in sé la totalità della vita del popolo […]. Che è lo Stato divinato dal Mazzini e dal Gioberti, veri e immediati precursori della concezione fascista.” Ma, per quanto il Gioberti fosse ricordato come l’assertore del primato italiano e il Mazzini come il critico implacabile del “liberalismo individualistico,” che finiva con il cadere nell’“assurdo materialismo,” si sente abbastanza chiaramente che, in questo passo del Saitta, il richiamo ai due padri di continuo ricordati dai gentiliani, era una aggiunta, una postilla che disturbava il precedente discorso e che vi era stata inserito di forza. Questo anche se altri collaboratori, come A. Lodolini, riprendevano il motivo del collegamento tra il Mazzini e il fascismo e insistevano su esso con alquanta pesantezza: “Se è vera la premessa di Bovio che il mazzinianesimo è fondatore di civiltà, vera è la 140

conseguenza che il fascismo è regime.” E, per avvalorare tale affermazione, il Lodolini metteva in rilievo come la Società nazionale Giuseppe Mazzini funzionasse ormai “come sezione del grande Istituto nazionale fascista di cultura,” che avrebbe dovuto “irradiare dal Palazzo littorio di Roma non una fede novella, ma la fede fascista pura [… la quale] deve contare […] soprattutto sul consenso degli italiani. Dei giovani, degli studenti, degli operai, di coloro cioè che non hanno ancora imparato a dare per avere. Di coloro che debbono unirsi per non impararlo mai.” Di conseguenza, il Lodolini sembrava volersi rivolgere agli elementi disinteressati e del tutto privi di qualsiasi ambizione di fare carriera sotto la copertura del regime, sicché, è stato detto, la contrapposizione che seguiva le frasi appena riportate, appariva particolarmente dura: “[…] i cattolici han deciso di restare fuori del fascismo, mentre i mazziniani (almeno quelli aderenti all’Unione mazziniana) han deciso di fondersi col partito totalitario. È qui, forse, l’indice delle due coscienze […]”: particolarmente dura voleva essere per il Lodolini (il quale, anche più tardi, nel maggio del ‘26, approfondiva il rapporto tra mazzinianesimo e fascismo, negando che il Mazzini potesse appartenere al partito repubblicano - l’art. veniva dopo il fallimento del Gruppo repubblicano autonomo romagnolo - e scorgendo in questo il nucleo centrale di tutta la visione della vita tipica del fascismo) la contrapposizione, in quanto egli criticava non i mazziniani, che erano confluiti nel nuovo partito delle camicie nere, bensì i cattolici, che non avevano, a suo parere, imparato ad unirsi per non cadere nel pericolo di imparare “a dare per avere.” Ma i due temi essenziali che a questi giovani erano venuti dagli insegnamenti del filosofo siciliano, erano, forse - a parte quello a cui abbiamo accennato, e che era pure esso 141

importante -, quelli che riguardavano - come si è già visto nel passo del Saitta - la concezione dello Stato “religioso,” e lo “Stato come religione,” e, pertanto, come inglobante in se stesso la vecchia religione della Chiesa cattolica ufficiale, da un lato, e, dall’altro, l’acritica (e incapace di penetrarne la vera essenza) celebrazione del carattere rivoluzionario, autonomo, originale e nazionale del fascismo. Sul primo tema, basta leggere ciò che scriveva Rusticus, nella rubrica Noi e gli altri del mensile bolognese, allorché poneva tra il fascismo e il cattolicesimo temporale una netta antitesi; oppure insisteva, in polemica con l’“ Osservatore romano,” sulla violenza storica della Chiesa “non solo contro i corpi, ma sopra tutto contro gli spiriti”; oppure ancora affermava che il fascismo, dopo avere giustamente piegato il “massonismo,” doveva ora abbattere “l’altro cancro roditore della vita italiana, il clericalismo”; oppure, infine, stabiliva una netta antitesi fra lo Stato cattolico e lo Stato fascista, il quale ultimo “non vorrà mai aspirare,” diceva, “a diventare Stato cattolico, pur continuando a rispettare la religione.” Nell’aprile dell’anno successivo, ancora Rusticus denunciava la vanità delle iniziative culturali dell’“infaticabile Padre Gemelli,” il quale aveva lanciato “l’idea di contrapporre all’Enciclopedia Treccani, diretta dal Gentile, un’enciclopedia cattolica. L’idea è buona, anzi ottima, e noi l’approviamo,” aggiungeva con un malcelato velo di ironia, “perché cosi l’illustre frate, che ha il merito di aver fondato un Istituto universitario del Sacro Cuore, di cui ancora ignoriamo i risultati, dimostrerà per l’ennesima volta che il pensiero cattolico nulla ha da dire di veramente nuovo nel dominio scientifico. Si fa presto a trovare i milioni, ma ciò che è difficile, difficile assai, è trovare le teste, e di teste colte, sapienti, con tutta la buona volontà, non ne scorgiamo molte nel campo cattolico. Noi non osiamo dare dei consigli a padre Gemelli, ma non possiamo fare a meno 142

di dirgli che è bene egli si persuada di questa semplicissima verità, che per fare opera egregia ed efficace e sopra tutto scientifica nel campo della cultura, bisogna prepararsi formidabilmente. Ora appunto è la preparazione solida, moderna che difetta ai cattolici, che sono spesso brava gente ma credono ingenuamente di sconfiggere il pensiero nazionale e moderno a furia di quintali di carta stampata.” A parte la vis polemica di questo passo, se ne potrebbero dedurre alcune radicate convinzioni - anche se sentite da Rusticus alquanto rozzamente senza un adeguato filtro culturale -, si direbbe quasi respirate e assorbite dal clima e dall’ambiente che lo circondavano: fra esse una sopra le altre si imponeva, cioè che, di fronte al pensiero cattolico, arretrato e che non aveva nulla di nuovo da dire, stesse il pensiero nazionale e moderno, che non era poi altro che il pensiero del fascismo, il quale, pertanto, veniva inserito in una lunga tradizione e che, proprio per tale motivo, era sicuro di poter riportare la vittoria nella contesa con l’avversario. In realtà, questa era effettivamente l’atmosfera in cui vivevano i gentiliani di “Vita Nova,” come chiariva, nello stesso numero dell’aprile ‘26, il Lodolini, con un maggiore e più approfondito spessore culturale: “il regime ha superato il punto più critico di qualsiasi governo nazionale, affermando la santità del principio religioso e risolvendo il dissidio tra laicismo e fede.” Si trattava, peraltro, di un “superamento in senso esclusivamente italiano, particolaristico, unilaterale, nazionale [una serie di aggettivi di cui, a dire la verità, non si riesce bene a scorgere il nesso]. Il Risorgimento italiano, da Gioberti a Mazzini (cioè da coloro che, da opposte parti, lo concepirono come punto di partenza e non punto d’arrivo) è innalzato allo splendore di un fenomeno religioso. Nessuna meraviglia, dunque, che la ripresa della marcia d’Italia sia stata fatta e proceda in nome di Dio […]. Ma il 143

fattore religioso è elemento naturale di ogni grandezza politica e sarebbe assurdo prescinderne. Né è pensabile ad un fattore religioso che non sia il cattolico. L’Italia s’è mostrata aliena dal movimento della Riforma, non tanto per la pressione del papato sulle coscienze (efficace soltanto se l’Italia fosse stata unitaria), quanto per l’areligiosità della sua indole.” Anche questo passo andava letto senza badare troppo alle contraddizioni di cui era infarcito, perché il fattore religioso veniva detto dal Lodolini l’elemento naturate di ogni grandezza politica, da cui, perciò, sarebbe stato assurdo prescindere (e non lo avrebbe potuto certamente il fascismo che a quella “grandezza politica,” alla potenza, aspirava), un fattore religioso che non poteva essere che il cattolico, che aveva trovato la sua culla, e il modo come ascendere allo splendore e alla influenza che aveva raggiunto, in Roma (che, ora, il regime voleva restituire all’antica grandezza fra le genti), ma, subito dopo, metteva in rilievo come l’Italia si fosse mostrata aliena dalla Riforma per l’“areligiosità della sua indole”: allora quel fattore religioso-cattolico era accettato unicamente quale pretesto per salire alla grandezza lungamente desiderata, senza minimamente credervi e interpretandolo in senso del tutto strumentale. E che tale fosse realmente il riposto pensiero del Lodolini, lo si poteva comprendere da ciò che scriveva nel seguito dell’articolo, allorché dichiarava eccessive e superflue le preoccupazioni sulle concessioni che il fascismo avrebbe potuto (o voluto?) fare al Vaticano (nel ‘26 appunto cominciarono le trattative fra Pio XI e Mussolini, che condurranno, nel febbraio del ‘29, alla firma dei patti lateranensi): nutrire simili preoccupazioni significava, secondo il Lodolini, che si era pensato “davvero alla classica conciliazione e che si ammette il pericolo della sia pur minima violazione del sacro territorio della patria.” Invece, “il fenomeno della 144

restituzione di un sentimento religioso e di una Chiesa all’Italia [fenomeno che poteva avvenire solo perché esisteva uno Stato forte; si osservi, inoltre, come la restituzione di un sentimento religioso e di una Chiesa all’Italia avvenisse per una benigna concessione che il regime faceva ad un popolo che altrimenti non avrebbe voluto saperne, ma che era costretto ad accettare ubbidendo passivamente alla imposizione che gli cadeva addosso dall’alto], è meramente unilaterale: riguarda noi e non il Vaticano […]. Lo Stato non abdica nulla a favore del Vaticano […]. Chi abdica, per forza, chi perde un vero monopolio, una posizione di privilegio blindata è proprio il Vaticano […]. Lo Stato onnipotente,” proseguiva il Lodolini, sempre più acceso in questa visione di uno Stato superiore, etico, “della concezione mussoliniana, vigila qualsiasi attività si svolga nel territorio nazionale, e, come inquadra nella legge le immense forze del lavoro e della produzione, così impone il riconoscimento giuridico delle associazioni religiose. E non dimentichiamo che massima associazione religiosa è la Santa Sede!” Ecco, dunque, spiegata, forse più con un atto di fede che con una dimostrazione logica, la possibilità, per il fascismo, di imporre la sua volontà alle immense forze del lavoro e della produzione e alle associazioni religiose, anzi alla sola associazione religiosa che contasse, la Santa Sede. Interessanti erano, tuttavia, le osservazioni con cui il Lodolini concludeva il suo articolo, interessanti perché sembravano introdurre, in quella assoluta fiducia (solo apparente, perché, come abbiamo detto, ispirata da un atto di fede), un dubbio, di cui terrà conto Mussolini nella elaborazione del concordato: “Il Partito popolare è sfumato e il cardinale Gasparri è al suo posto. Il metodo cambia, il fine resta. Bisogna trovare fazione che irretisca lo Stato. O ci sbagliamo, ma la formidabile Società dell’Azione cattolica 145

è destinata a succedere al Partito popolare. Non più il mostruoso cambio con le furie rosse; non più il partito estraneo apparentemente alla Chiesa; non più il turbine che avvolge e solleva le masse. L’Azione cattolica è lenta, togata, conservatrice, ortodossa. Ma essa è destinata a controllare la stampa, i fenomeni sociali, fattività politica e morale dei cattolici. Dispone di mezzi infiniti; dirige istituti grandiosi. Quand’essa sarà in pieno sviluppo, sarà impossibile per i cattolici restare fascisti. Il fascismo è milizia che non ammette (nel campo politico e sociale) due padroni; non permette la distinzione tra le qualità d’italiano e di cattolico con prevalenza di quest’ultima. È chiaro […]. Ma forse l’Azione arriva tardi […]. Inoltre, la formula di Mussolini si traduce ogni giorno in nuove leggi: e qualsiasi istituto (o sociale, o scolastico, o politico) deve essere inquadrato nella legge. Quelli che appresta l’Azione cattolica rischiano dunque di restare molto platonici, specie se diretti a impadronirsi della base dello Stato fascista, ossia delle masse operaie e produttrici. L’avvenire della politica ecclesiastica italiana è dunque quanto mai pacifico, per quanto arduo. Non dimentichiamo (pel nostro orgoglio e per la nostra disciplina di fascisti) che esso è soprattutto un aspetto della politica estera. Per quella interna ricordiamo, semplicemente, che siamo riusciti a disperdere il Partito popolare, che è stato più pericoloso di dieci imperi austro-ungarici messi insieme: e lo abbiamo fatto con la fede in Dio e con l’amore nell’Italia. A contenere le velleità offensive dell’Azione cattolica basterà molto meno, e cioè la pratica della legislazione fascista.” Ma il capo delle camicie nere, il quale veniva così messo in guardia su ciò che stava avvenendo nelle file del cattolicesimo, preferirà un cauto aggiramento delle forti posizioni tenute dall’azione cattolica piuttosto che uno scontro frontale, che forse, più realisticamente di questi 146

esaltatori del suo regime, giudicava pericoloso. Infatti, con il concordato, frutto di una sottile opera di compromessi, di do ut des e di concessioni reciproche, otteneva una recisa limitazione degli interventi dell’azione cattolica nel campo sociale mediante la sua totale sottomissione alla gerarchia ecclesiastica e il divieto esplicito di occuparsi di altro che di una propaganda spirituale (Mussolini aveva perfettamente capito, come gli aveva suggerito fin dal ‘26 il Lodolini, che nell’AC si erano rifugiati tutti quegli iscritti al Partito popolare che non intendevano rinunciare ad una azione sociale: stava a dimostrarlo il fatto che essa, dal ’25-’26 all’inizio del ‘29, era passata da poche migliaia di associati a circa 26.000). Nel tempo stesso, peraltro, il duce concedeva alla Chiesa il controllo sull’istruzione e sull’educazione, sulla famiglia, sui preti spretati, ecc. Ecco perché il concordato assunse l’aspetto di un grande compromesso, di una spartizione in due zone d’influenza della vita del cittadino, il quale veniva consegnato, sotto l’aspetto religioso e spirituale, alla Chiesa, e, sotto l’aspetto materiale, allo Stato. Perciò, si può dire, a giusta ragione, che questo accordo fra lo Stato e il Vaticano contribuì, in misura decisiva, a sopprimere la libertà del privato cittadino, che non trovava più alcun spiraglio per far valere la sua autonoma iniziativa. Abbastanza legato al tema dello Stato etico era, come abbiamo detto, nei gentiliani di “Vita Nova,” l’altro tema del fascismo quale rivoluzione: il Saitta, in un articolo dell’agosto ‘25, Controriforma, giudicava negativamente “alcuni scrittori fascisti,” che, “per una reazione naturalissima alle forme liberali e socialistiche, si rivolgono con senso nostalgico al periodo della Controriforma, la quale rappresenterebbe ai loro occhi la vera tradizione italiana che è tradizione essenzialmente cattolica, ed esprimerebbe il senso più profondo dell’autorità, che il fascismo si è proposto di restaurare.” Ma 147

a tale giudizio negativo sulla Controriforma, faceva seguire subito una vivace polemica contro la Riforma, in cui sentiva “presente il concetto della spontaneità, della libertà, ma la spontaneità e la libertà sono dell’individuo, e però rappresentano il regno dell’arbitrario.” Di conseguenza, se alla Controriforma si rivolgevano alcuni autori fascisti, che contemplavano “il concetto dell’autorità come necessità ferrea, a cui non è lecito sottrarsi,” alla Riforma, intesa come libertà che sconfinava nell’arbitrio, “si rivolgono, con animo accorato, gli antifascisti di tutte le gradazioni” (era evidente, dapprima, l’allusione al Suckert, mentre, dopo, era chiaro il richiamo al Gobetti). Ma, ci si potrebbe chiedere, quale era la posizione che il Saitta voleva tenere in una discussione che coinvolgeva il fascismo e i fascisti da un lato, e, dall’altro, l’antifascismo e gli antifascisti, mentre il suo pensiero di gentiliano “di sinistra” (se ci è dato usare simili collocazioni) si chiariva come anticlericale e anticattolico? Era forse una posizione di centro, di mediazione fra i due poli opposti? Non sembra, anche perché una tale posizione sarebbe stata rifiutata sia da lui sia dai suoi camerati, i quali presentavano sempre il fascismo come Tunica valida rivoluzione del loro tempo: il Lodolini, nell’art. cit. dell’aprile del *25, sosteneva che il superamento del dissidio tra laicismo e fede era il “capolavoro del fascismo, e, certamente, il segno più caratteristico per cui si fa conoscere come ‘rivoluzione.’” E, poco dopo, parlando dei rapporti fra lo “Stato onnipotente della concezione mussoliniana” e la Santa Sede, aggiungeva che occorreva “liberarsi, con coscienza rivoluzionaria e prontamente rinnovatrice, delle vecchie posizioni mentali, e considerare il problema con le seguenti riassuntive premesse: 1) Il regime fascista elimina automaticamente ogni residuo di ‘questione romana,’ perché esso è l’esaltazione della nazione ed assegna a Roma una missione tutta italiana, egoisticamente, 148

imperialmente italiana. 2) La formula di Mussolini assorbe e completa quella di Cavour e di qualsiasi periodo storico; non ammette dubbi e non tollera interpretazioni che non siano totalitarie. 3) Dopo l’esperimento della Destra (Risorgimento), dopo l’abbozzo rivoluzionario della Sinistra (primo cinquantesimo del regno), la rivoluzione fascista si avvia a ridare una religione all’Italia e a dominare il Vaticano.” Parrebbe che tutto lo spirito rivoluzionario del fascismo dovesse confinarsi in una lotta a fondo contro le “vecchie posizioni mentali,” abituate, nell’Italia dominata da secoli dalla lunga ombra del Vaticano, a tenere un atteggiamento di rassegnata soggezione alla Santa Sede: per cui si celebrava il fascismo che aveva posto termine a tale situazione e che aveva dichiarato automaticamente risolta la “questione romana,” dominando il Vaticano (una pia illusione!). Non si riesce assolutamente a vedere in che cos’altro consistesse il vantato e supposto rivoluzionarismo di questi gentiliani. Né contribuiva molto a dipanare la matassa uno scritto del Saitta, Il problema spirituale del fascismo (in “Vita Nova,” maggio-giugno-settembre ‘26), scritto che era molto polemico contro tutti coloro che, “futuristi o pseudonazionalisti,” non erano che “retori bolsi che cercano di farsi largo e che non si vergognano di adoperare metodi e mezzi della vecchia demagogia, che lo stile fascista avrebbe dovuto seppellire per sempre […]. Si chiamano tutti i giorni rivoluzionari, ma se chiedete loro quali sono i termini dentro cui condensano il loro spirito rivoluzionario, essi non sanno che mormorare la solita parola: azione. Ma che cosa è codesta azione che non sia illumi* nata da una idea precisa? Il vuoto concentrat”. Il Saitta condannava vivacemente anche quei “quacqueri del fascismo” che “vogliono e non vogliono la cultura: la vogliono in quanto espressione del loro misoneismo nazionalistico o reazionario, che si riduce a zero via zero; 149

non la vogliono se per caso in essa scorgano l’ombra odiata […] di non so qual filosofo straniero, cioè dcll’idealismo di cui saranno sempre incapaci di intendere un solo concetto. Ora c’è bisogno di dire a certi imbecilli […] che l’idealismo nostro è squisitamente italiano e che non c’è nulla in esso di tedesco?” Tutto si riduceva, in questo passo, alla condanna aspra e dura del misoneismo nazionalistico reazionario (il che poteva anche essere giusto); ma chi era oggetto di tali scomuniche perché condensava il suo spirito rivoluzionario nella sola parola “azione,” del tutto priva di una “idea precisa,” gli avrebbe potuto chiedere su quale idea precisa si appoggiava il suo rivoluzionarismo che, come quello dei suoi camerati, non riusciva a concretarsi in un preciso e definito programma. Ciò avveniva perché questi filosofi e questi autori avevano imparato tutta l’indeterminata astrattezza di cui era maestro il Gentile, che aveva fatto consistere il vero spirito rivoluzionario soltanto nella celebrazione dello Stato etico o dell’Uomo-Dio e nella lotta contro il Vaticano, il cattolicesimo che era penetrato, nei secoli, fin nelle midolla del popolo italiano. Anche D. Cantimori, il quale aveva aderito al partito fascista nel 1926, parlava, in “Vita Nova” di questo periodo, con accenti gentiliani, della “riforma intellettuale e morale” idealistica quale era stata impostata dal filosofo siciliano: “lasciamo ai chiacchieroni, ai dannunziani ed ai futuristi l’amare la patria, ma lavoriamo per essa: che è il vero amare! Questo concetto, se gli altri popoli non l’hanno, all’Italia il Fascismo lo vuol dare; e questo concetto, se Dio vuole, è la traduzione in parole semplici della morale idealistica. Non onoriamo Dio, non meditiamo su Dio: ma lavoriamo per realizzare lo spirito, pel quale siamo differenti dalle bestie e creatori del mondo, e che possiamo anche chiamare Dio, ma non è certo l’Unser Gott, né il buon Dio, ma l’Uomo, il vero Uomo che 150

è dentro tutti gli individui che si agitano nel mondo.” La tematica dello Stato - è stato detto -appare decisiva nel Cantimori fin dai suoi primi scritti, ed era una tematica che si opponeva alle “fumose ideologie delle ‘razze’ e delle missioni degli ‘spiriti dei popoli/ lontanissime dalla chiara tradizione italiana” (affermazione, questa, che non poteva essere considerata del tutto esatta, poiché quelle “fumose ideologie” stavano ad indicare un ritorno al positivismo della seconda metà del secolo scorso - che era stato vivo in Italia come in molti altri paesi -, pur se nettamente degradato e peggiorato). Tuttavia, ci sembra che il Cantimori, nella cascata di frasi che abbiamo appena citato, vada al di là dello Stato etico di gentiliana memoria, con la morale idealistica che richiede di lavorare per la patria (che è il vero amare!) e con l’incitamento a lavorare per realizzare lo spirito, cosa che rende l’Uomo diverso dalle bestie e creatore del mondo, un Uomo-Dio. Insomma, egli sostituisce allo Stato etico, allo Stato-Dio, padrone dell’anima e del corpo dei sudditi, l’Uomo-Dio, altrettanto padrone, nei confronti degli altri esseri, una volta che abbia raggiunto la perfetta fusione con la divinità: in un articolo su “Vita Nova” del ‘27 (Religione e religiosità. Chiarimenti nella concezione attualistica della religione) il Cantimori sostenne l’identità di posizioni del Croce e del Gentile nel concetto dello “Spirito immanente nell’uomo, come Pensiero, come Dio che è nel nostro animo e si manifesta nella nostra storia; e ci spinge a lavorare, poiché questo è il solo modo di riconoscerlo e servirlo e di renderlo veramente il Dio vivente”: sicché colui che sarà riuscito a riconoscerlo, a servirlo e a renderlo veramente il Dio vivente, avrà conseguito un notevole potere sugli altri individui. Si era, come abbiamo detto, piuttosto lontani dalla formula gentiliana che, secondo il Saitta, era stata compendiata da Mussolini nella sua lapidaria formula: 151

“Tutto per lo Stato e nello Stato,” e che, ancora il Saitta, diceva, dopo un accenno polemico ai nazionalisti, derivata dai padri del Risorgimento, Mazzini e Gioberti. Si era, invece, vicini a quanto scriveva, nel luglio ‘26, C. Pellizzi, in un articolo che anticipava, nel titolo stesso, Aristocrazia imperiale, ciò che sarebbe seguito dopo: “Ho osato eccepire che il fascismo presenta già anche troppi caratteri d’una frateria, e che semmai gli occorrono istituti e caratteri civili, non frateschi. Caratteri umani. Caratteri politici individuali; da educare appunto in coloro che voglian dirsi fascisti. E per far questo giova prendere altra retta, e seguire quella che io chiamerei ‘la dialettica delle aristocrazie.’ Uso la parola dialettica a bella posta, benché la sappia sgradita a tutti i miei critici,” la cui concezione dello spirito non permette loro di vederne “l’intima vita e la perpetua originalità creativa, né, quindi, la dialettica. Per vero non è più tempo di nascondarelli o mezze parole. L’ideale confuso ma attivo di molti fra questi nostri scrittori è una specie di granducalismo secentista, mimetico, livellatore, burocratico, accentratore, buzzurro.” Mentre il Pellizzi, si batteva per creare le aristocrazie, il Cantimori ricercava un tipo di Uomo che, lavorando, fosse stato capace di rendere palese il Dio vivente, cioè lo spirito che è immanente nell’essere umano, come Pensiero, come Dio che è nel nostro animo e si manifesta nella nostra storia; per quanto si dovesse fare in modo che la sua presenza nascosta diventasse una presenza manifesta, il che, per il Cantimori, era concesso non a tutti, ma a pochi. Ecco, da ciò, i punti di contatto fra i due, dal momento che pure quest’ultimo, più tardi, nel ‘31, affermò che l’uomo moderno “è insofferente di educazione astratta e di imposizioni in nome di ideali o di autorità statiche e immobili, che vogliano predeterminare la sua vita in un ordine fisso ed immutabile, comodo alle animule 152

tremebonde di chi teme la lotta, ma inaccettabile agli spiriti virili.” Certo, rimane, sotto alcuni aspetti, inesplicabile come potessero conciliarsi lo “spirito gregario” che intendeva educare il fascismo nei sudditi e la denuncia del Pellizzi di un regime ridotto a frateria e della propensione di molti scrittori ad una specie di livellamento burocratico, accentratore, buzzurro, con la denuncia del Cantimori di una educazione astratta (che, però, si sarebbe dovuto specificare meglio in che cosa consistesse) e di imposizioni in nome di autorità statiche e immobili. D’altronde, questa ambiguità di fondo che si può notare in quasi tutta la storia di “Vita Nova” e dei suoi collaboratori, risalta chiaramente anche laddove il Cantimori cerca di definire il fascismo come la nuova rivoluzione del nuovo tempo: il fascismo, pertanto, a suo parere, non è affatto un movimento nazionalista e sciovinista, soltanto preoccupato di contemplare una “italianità rinchiusa in se stessa, sull’esempio dello sciovinismo francese”; e non è nemmeno uno Stato del tipo medioevale o assolutistico o capitalistico, nel quale viene sancita la libertà dell’iniziativa privata: esso è, al contrario una “nuova sintesi” economica e politica. Fin qui, a dire la verità, sapremmo ben poco della effettiva realtà politica e sociale soprattutto, del fascismo. Infatti, lo stesso Cantimori si sente in dovere di proseguire sforzandosi di chiarire più a fondo il suo pensiero e polemizzando contro chi interpretava il fascismo come reazione o come puro ritorno al passato. Autorità, Ordine e Giustizia, che il regime si vantava di aver ripristinato, non significavano Reazione, Restaurazione, perché il fascismo non era affatto un dono piovuto dal cielo per attenuare o liberare i conservatori e i reazionari dalla paura che loro infondevano gli uomini che si richiamavano al mondo moderno, “da quei fastidiosissimi uomini moderni che hanno ancora la perversa idea di essere uomini e non 153

servi, di pensare e non di ripetere i loro dogmi, di avere una dignità come lavoratori e come cittadini, e non di accontentarsi delle elargizioni e dei permessi paternamente accordati da loro, sublimi privilegiati per diritto di nascita o di auto-suggestione, di denaro o di posizioni acquisite.” Inoltre, il fascismo non poteva essere identificato con il culto reazionario della nazione, che andava intesa - come affermava pure la “Critica fascista” del Bottai - il punto di partenza per una conquista di natura spirituale e politica, e non territoriale, “non chiusa in se stessa, ma europea e che si pone come europea,” non anticipazione di una nuova, e pur sempre molto vecchia, Restaurazione, bensì di una nuova Rivoluzione, che mettesse fine al “plutocratismo materialistico moderno.” Pertanto - concludeva il Cantimori -, il fascismo era la vera Rivoluzione di popolo, in una forma concreta e decisa, radicata nell’intimo dell’Italia moderna, continuazione del Risorgimento e dei suoi valori, punto d’arrivo di tutta la storia italiana. Ebbene, anche qui, la stessa difesa d’ufficio dello spirito rivoluzionario del regime, conduceva il Cantimori a invischiarsi in alcune contraddizioni, che ne dimostravano, in definitiva, l’inconsistenza: in realtà, quell’insistere sull’inserimento totale e senza residui del fascismo nel mondo moderno e quel rifiuto di accettare il mondo vecchio (ma quale era?), giudicato espressione della Reazione e della Restaurazione, mal si accordava con la condanna del “plutocratismo materialistico moderno” (ma, allora, quale era moderno, il nuovo movimento rivoluzionario o questo “plutocratismo materialistico,” in cui si sentiva, fin troppo manifesta, l’influenza delle grandi frasi fatte lanciate enfaticamente dal duce al popolo italiano?), e soprattutto mal si accordava con la finale affermazione, della Rivoluzione di popolo quale continuazione del Risorgimento e punto di arrivo di tutta la storia italiana, il 154

che voleva dire interpretare il fascismo come conclusione di un lungo, precedente sviluppo storico. Già B. Spampanato, in un articolo del novembre ‘26, Socialismo e ripresa rivoluzionaria, aveva posto l’accento su questa Rivoluzione di popolo rappresentata dalla rivolta delle camicie nere contro lo Stato liberal-democratico-socialista: “Il comunismo fu stroncato,” egli scrisse, con minore dignità filosofica del Cantimori, ma forse con una maggior concretezza, “e il riformismo, da quello governativo di Bonomi a quello frondista e pudico di Turati, crepò quasi di inedia. Il potere fu preso dai rivoluzionari. E il meglio, quella realtà innegabile che è l’unità nazionale dei cittadini, la libertà del lavoro, l’elevazione dei proletari: il meglio del socialismo, ricomposto e misurato in una suprema formula nazionale, fu dal fascista Mussolini attuato. Quei massoni, scacciati ad Ancona, furono rimessi alla porta. I legalitari di Reggio Emilia, sbattuti al muro. Il metodo rivoluzionario mussoliniano preparò le fondamenta del regime, che i socialisti, come già i liberali, non seppero porre.” Indubbiamente, era necessaria una bella spudoratezza per fare del fascismo del camerata Mussolini l’erede delle posizioni difese dai socialisti e dai comunisti, tant’è vero che lo Spampanato era costretto a notare come la libertà del lavoro e l’elevazione dei proletari fossero stati inquadrati, dal nuovo regime, in una suprema formula nazionale e nell’unità nazionale dei cittadini, cioè erano stati sottoposti alla preminente affermazione della grandezza della Nazione in una indistinta unità, in cui avrebbero dovuto scomparire le divisioni di classe, che potevano disturbare quella potenza dell’Italia redenta. Di conseguenza, come si vede, neppure in questo passo era scomparso l’atteggiamento generico, vuoto e infarcito di fumosa retorica di questi scrittori storici e filosofi o pubblicisti di più basso livello - nei riguardi del giudizio sul fascismo come la nuova rivoluzione 155

del secolo XX“: abbiamo visto che tutte le definizioni presentavano punti deboli o palesi contraddizioni, finché lo stesso gruppo raccolto attorno a “Vita Nova” - che aveva esaurito il rivoluzionarismo del fascismo nella lotta contro le infiltrazioni e l’influenza del Vaticano sul nostro paese dovette cedere di fronte all’accordo fra Stato e Chiesa sancito dal duce (che era già stato presentato, a suo tempo, come l’artefice del metodo rivoluzionario) con i patti lateranensi del febbraio ‘29: fra i collaboratori della rivista, ci fu chi - ad esempio, il Saitta - rimase fedele alla prima impostazione anticlericale, mentre qualche altro - ad esempio, il Carlini - veniva accentuando la sua esigenza di antipaganesimo e di religiosità cristiana. Il fatto era che, nel tempo stesso, entrava in crisi pure il gentilianesimo, che molti avevano creduto fosse la cultura ufficialmente adottata dal regime, e, con esso, si esauriva del tutto, dopo il ‘30, lo spirito pseudo-rivoluzionario, di cui avevano fatto mostra, negli anni precedenti, i collaboratori di “Vita Nova”. Ed era venuto anche il momento di attenuare la vivace polemica contro l’ideologia e il mito del “buon selvaggio,” tipici dello strapaese della rivista “Il Selvaggio” del Maccari e del Suckert, un mito che faceva di quel selvaggio il presunto erede di una rustica e incorrotta saggezza, di una antica virtù rurale, e che era nato, in verità, in ambienti culturali piccolo-borghesi. Ma piccolo-borghese era anche “Vita Nova” del Saitta, il quale pure aveva reagito, fin verso il ‘29,1 contro quello sfondo clericale e cattolico che avvertiva nei “selvaggi.” Questi dicevano, con una certa magniloquente retorica, di essere “giovani di buoni studi,” contenti di servire un utopistico fascismo per bene, sano ed intrepido, senza macchia e senza paura: era sempre la solita trasfigurazione mitologica che al misurato e raziocinante Saitta doveva dare qualche fastidio. Tuttavia, dopo l’accordo fra lo Stato e la Chiesa - che fu avversato, 156

nei modesti limiti possibili, dal Gentile - ogni dissidio cessava e sempre più frequenti si facevano gli interventi di autori del “Selvaggio” in “Vita Nova,” la quale, da allora, cominciò la parabola discendente, tanto che l’ultimo numero del 1932 si aprì - scrive M. Ciliberto - “con una serie di propositi che costituiscono, in effetti, una severissima autocritica dell’azione svolta negli anni precedenti. La rivista muore quando già si appresta a rientrare nei ranghi: nello stesso periodo (nel 31) la ‘Nuova Italia,’ già diretta da Luigi Russo passa a un comitato di direzione di cui fa parte Francesco Ercole. L’idealismo [gentiliano] declina mentre il fascismo di sinistra rivela progressivamente, con chiarezza, il suo carattere sostanzialmente velleitario e ‘propagandistico/ la sua costituzionale fragilità, la sua funzione di strumento di aggregazione intorno al fascismo” degli intellettuali disposti a lasciarsi incantare dai suoi appelli, ormai fattisi vigorosi e imperativi, e non sufficientemente pronti a resistere o a scoperchiare il vaso di Pandora, che sembrava affascinarli. 1 Ad esempio, nel numero del febbraio ‘28, R. Pavese, che si rivelerà uno dei

più duri e aspri avversari del gentilianesimo, in un articolo su Fascismo e cristianesimo, scriveva apertamente: “io non credo conveniente né giustificato un atteggiamento di assoluta intransigenza circa i rapporti tra fascismo e cattolicesimo: perché, anche a prescindere da ogni contingente valutazione di opportunità politica, sarebbe un rinunciare ad uno strumento, forse prezioso, di penetrazione nelle coscienze e al più naturale (tradizionale) elemento coesivo della latinità” (ma era mai possibile che questi scrittori, anche in quattro righe, dovessero fare entrare tutto, dalla valutazione contingente di opportunità politica allo strumento, “forse prezioso,” di penetrazione nelle coscienze e all’elemento coesivo della latinità?). Affermazioni che non potevano essere lasciate senza risposta dal Saitta, il quale, infatti, aggiungeva una nota (redazionale) in calce, in cui cercava di precisare la sua posizione: “a noi pare che il problema della relazione fra il fascismo e il cattolicismo debba essere impostato diversamente. Giacché non si tratta di vedere se il cattolicismo come cristianesimo o religione sia in antitesi col fascismo, bensì se le esigenze politiche del primo

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possano fondersi, o, almeno, coesistere, con quelle del secondo. Così, noi pensiamo, il problema da risolvere diventa di natura squisitamente politica e non più di natura religiosa.”

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Capitolo settimo La crisi della piccola e media borghesia Accennando al dissidentismo che, negli anni più difficili per il fascismo e per Mussolini (cioè fra il 1923 e il 1925), tormentò il regime, abbiamo detto che, probabilmente esso poteva farsi risalire alle stesse origini economico-sociali che avevano giustificato il nazionalismo (il settore tessile in crisi); ma, riflettendo meglio sul problema, ci parrebbe di dover modificare tale giudizio: infatti, il nazionalismo partiva da lontane premesse anche di politica estera (i Balcani, l’Adriatico e il predominio italiano in quel settore come garanzia di sicurezza per le nostre esportazioni tessili), premesse che il dissidentismo non ebbe affatto, perché fu, al contrario, un fenomeno abbastanza limitato nel tempo e scaturito da molteplici cause. Fra le quali metteremmo, ora, in primo luogo, il crescente malessere della piccola e media borghesia per l’inasprirsi del processo inflazionistico. Anche prima della marcia su Roma, nel periodo di più intenso sviluppo - 1919 prima metà del 1920 -, quegli strati sociali erano stati duramente colpiti dalla inflazione, i cui effetti non riuscivano ad eliminare, come facevano i lavoratori che, con le agitazioni e gli scioperi, potevano mantenere un abbastanza stabile rapporto fra il costo della vita e il loro salario. Questo perché il ceto medio - impiegatizio, o agricolo (piccoli coltivatori), o industriale (piccoli imprenditori) - non era 159

ancora giunto ad ammettere lo sciopero come arma di difesa contro un andamento, per esso, sfavorevole, dell’economia nazionale. Ma dopo il 28 ottobre e dopo che Mussolini si vantò, con enfasi (anche per ingraziarsi sempre più gli strati conservatori delle grandi borghesie occidentali), di aver riportato la pace sociale nel paese, furono travolti nello stesso malcontento sia gli operai e le classi lavoratrici sia la piccola e media borghesia1. Ma sarebbe forse opportuno guardare meglio da che cosa era originato quel malessere della piccola borghesia: ad esempio, è interessante leggere ciò che scriveva ” La Giustizia,” organo dei socialisti riformisti e che veniva ripreso, nel maggio del ‘23, da “La Plebe,” organo della Federazione provinciale socialista (riformista) pavese, sulla nuova tassa di ricchezza mobile da cui erano gravati i piccoli proprietari e i mezzadri: le tabelle per questa tassa erano state fatte “apposta per far pagare dì più ai piccoli che lavorano. I piccoli proprietari che lavorano da sé e che hanno i calli sulle mani, pagheranno di più di quelli che possono far lavorare gli altri. Ed infatti, per la nostra provincia di Pavia, pei terreni coltivati a vite che sieno in seconda categoria di catasto, al proprietario che non lavora lui ma ha i mezzi per far lavorare gli altri, sarà attribuito e dovrà pagare per un reddito di L. 17 alla pertica se in montagna, L. 40 se in collina e L. 32 se in pianura; al piccolo proprietario che invece deve lavorare lui e fare la vita del nullatenente, verrà attribuito e dovrà pagare per un reddito di L. 24 alla pertica in montagna, L. 56 se in collina e L. 45 in pianura. Dunque, il piccolo proprietario povero e che lavora figurerà per 7 lire di più in montagna, per 24 di più in collina e per 13 di più in pianura, più che il piccolo proprietario agiato che può far lavorare gli altri: ci sarà proprio la tassa sul lavoro. E come per le viti, lo stesso dicasi per i campi. Per i seminati di 160

seconda categoria di catasto, il proprietario che fa lavorare sarà tassato per un reddito di L. 5,40 alla pertica in montagna, L. 12 in collina e L. 16 in pianura; a quello invece che lavora lui si attribuirà un reddito quasi doppio. Per i prati asciutti, al piccolo proprietario che non lavora verrà attribuito per ogni pertica il reddito di 11 lire a quello che lavora di L. 14. Perfino i perdapé [dial, pavese: chi si sente superiore agli altri] della Lomellina, che lavorano 12 ore al giorno, vedranno attribuito alle loro risaie i redditi di L. 100 alla pertica se di seconda categoria di catasto e L. 70 se di terza categoria e dovranno pagare per questi redditi, mentre gli altri piccoli proprietari che non lavorano pagheranno solo in proporzione di L. 70 alla pertica per le risaie di seconda categoria e L. 53 se di terza! - Ma v’è ancora di più. Il mezzadro che ha per sé solo una terza parte dell’uva, si vedrà attribuito e dovrà pagare per un reddito superiore a quello del suo padrone che ha i due terzi’- Per i vigneti di seconda categoria di catasto, al padrone sarà infatti attribuito un reddito di L. 13 per pertica in montagna, L. 30 in collina e L. 24 in pianura, e al suo mezzadro invece L. 21,50 in montagna, L. 50 in collina e L. 40 in pianura: cioè al mezzadro quasi il doppio del padrone. Proprio la tassa sul lavoro! Il bello si è che se un proprietario fa lavorare a giornata una pertica di vigna in collina, gli attribuiscono un reddito di L. 40 a lui solo; se la dà a mezzadria, gli attribuiscono il reddito di L. 30 a lui e L. 50 al mezzadro! E al mezzadro, che ha solamente un terzo del raccolto, si attribuisce un reddito quasi uguale a quello attribuito al piccolo proprietario che lavora! Dove si vede che la nuova tassa è organizzata in modo da toccare anche i piccoli proprietari che non lavorano, toccare un po’ di più quelli che lavorano e toccare più di tutti i nullatenenti mezzadri. Così è per i vigneti di seconda categoria di catasto e così è anche per quelli di prima e di terza categoria […].” 161

Virgilio, che firmava questo articolo su “La Plebe,” diceva di voler far conoscere questi numeri e queste considerazioni a tanti piccoli proprietari “che prima hanno dato i loro figli alla guerra e, poi, credendo di far bene, li hanno dati al fascismo.” E soprattutto avrebbe voluto che “la gente piccola si persuadesse che la politica grossa e delle grosse parole porta a questi risultati.” Infine, Virgilio, confortato dalle critiche che quasi tutti avevano mosso alle nuove tabelle, si mostrava fiducioso che se ne parlasse anche alla Camera e al Senato e che, in quella sede, “si potesse cambiarle in meglio e con un po’ più di giustizia.” Fiducia, peraltro, che una nota redazionale dichiarava esagerata e fuori luogo, perché “la Camera è stata ridotta dal Governo fascista ad un fantoccio impotente. Avuti i pieni poteri dai deputati dei partiti borghesi, il Governo dittatoriale si infischia del Parlamento e dei suoi diritti. Fa e disfà, senza curarsi se i suoi provvedimenti colpiscano la popolazione lavoratrice già tanto tartassata, mentre una minoranza parassitarla profitta scandalosamente della ricchezza nazionale.” Contro la pseudo-riforma tributaria, di cui pure il ministro delle Finanze, De Stefani, andava tanto orgoglioso,2 muoveva serrate critiche anche “Politica nuda,” periodico di polemica nazionale, aperto fiancheggiatore e difensore del regime, ma, nel tempo stesso, molto legato alle classi medie, definite “l’ossatura dello Stato e la laboriosità ordinata.” In una nota in neretto a pié di pagina, il 1° febbraio del ‘25, aggiungeva che a queste ultime era stato “‘rubato’ il pieno voto plurimo, contro il quale ebbe il sopravvento la menzogna democratica. Ad esse non sarà ‘regalata’ l’imposta complementare, malgrado la decretata andata in vigore per il 1925. Subito deve essere ‘sospesa’ questa imposta mostricciattolo, che sembra inventata, nella forma attuale e nella sua immaturità sostanziale, a spremere 162

delle lirette, attraverso uno sterminato ed improduttivo lavoro burocratico,” specialmente a tutti i “travettisti pubblici e privati.” Per quanto riguardava quella che veniva definita “imposta ermafrodita sui redditi agrari,” G. Cartella scriveva che tutto il complicato ammasso di decreti e di circolari, era tramontato, lasciando il posto, con grande sfogo del buon umore della burocrazia, “a nuove tavole mosaiche, che hanno allagato il bel regno, classificandone e valutandone flora e fauna… umoristicamente. E il reddito agrario netto (senz’altro!) ci è stato servito: per seminativi asciutti o irrigui, per risaie, per orti stabili o a grande coltura, per vigneti, per seminativi vitati, per prati asciutti o irrigui senza rotazione, per frutteti, in triplici classi per ettaro, per montagna, collina e pianura, sia di pertinenza del proprietario diretto conduttore con bracciantato o manuale coltivatore dei terreni suoi, sia del proprietario e del colono per le coltivazioni a colonia delle varie specie, sia del bestiame! Dalla metafisica alla tavola pitagorica! E i pazienti agricoltori, che stavano per addestrarsi ad astrusi calcoli non mai perseguiti, si son visti taglieggiare ineccepibilmente. Ma via! Ma via!” In una nota redazionale, che seguiva questo articolo, era detto che tale imposta era “idiota, nefanda e immorale,” e si spiegava che si doveva definire immorale, perché non rispettava il principio che a parità di reddito dovesse corrispondere parità di aliquota. Insomma, si trattava di una imposta che avrebbe dovuto essere radicalmente modificata per porre termine alla rivolta tributaria di alcune plaghe, rivolta che era dai pubblici poteri “forzatamente tollerata.” E lo stesso Cartella aveva concluso il suo articolo parlando di questa ribellione: “Che intere regioni abbiano opposto il loro veto ad un tributo che altre pagano, non era mai accaduto prima d’ora. E non sappiamo dar ragione a quelle regioni che pagano, altro che per lor civica 163

ortodossia, che ci sembrano le altre più intelligenti. Chi raddrizzerà,” concludeva fra indignato e sconsolato, “le gambe a questo tributo cane?” Ed anche l’imposta complementare non era risparmiata dall’esame che ne faceva lo stesso Cartella nel numero successivo del periodico (15 febbraio ‘25), in cui elogiava l’“elaborato progetto Meda,” scaturito da annose discussioni (era quello stesso progetto a cui si richiamava spesso e volentieri il De Stefani), che avevano condotto a mettere in luce “la diversità essenziale del reddito in afferenza all’imposta normale (oggettivo) ed in relazione all’imposta complementare (soggettivo),” affacciando “molteplici possibilità, attuabili in modo da salvare il più possibile i principi di morale tributaria, che l’odierno decretato tributo trascura o lede!” Sicché, prendendo, ancora una volta, le difese dell’umile travet, sosteneva che l’elaborazione teorica, sul piano burocratico, sarebbe stata sufficiente “per evitare errori, sperequazioni, empirismi e per intendere la tassazione alle maggiori fortune, invece di mietere miseria nei campi smunti del travettismo!” I provvedimenti adottati, infatti, avevano l’aspetto di un aggiornamento empirico di dati, ed erano quanto di più affrettato e mostruoso si potesse architettare, “punto solleciti di alcun sentimento perequativo, punto abili di alcun tecnico pregio; e tutto si vorrà basare su dichiarazioni che, dopo l’esperimento dell’imposta patrimoniale, non verranno (e giova gridarlo, se non si vuol far torto all’intelligenza degl’italiani!), per rimettere allo spiedo ed arrosolare, ancora una volta, i fringuelli che sono in panie da tempo!” Come si vede, la piccola e media borghesia rurale e urbana - del terziario, i cosiddetti travet - aveva diversi e gravi motivi per essere scontenta della politica del nuovo regime nei suoi confronti, tanto che, in quegli anni, quasi tutti i partiti si preoccuparono di averla alleata: alcuni 164

fra essi, come vedremo, per poter combattere con maggiori probabilità di successo il fascismo, e quest’ultimo per difendere il potere di recente conquistato. In particolare, i riformisti, che facevano capo al Partito socialista unitario, e nel quale erano rimasti, dopo la scissione di Roma dai massimalisti dell’inizio dell’ottobre ‘22, Turati, Trampolini, Treves, Morgan, Agnini, Modigliani, ecc., cercavano di reagire contro la propaganda e la “denigrazione elettorale” (erano vicine le elezioni del ’24) dei “cugini massimalisti,” i quali diffondevano tra gli operai e nelle campagne un opuscolo che era una denuncia della collaborazione di classe tentata dai riformisti. Infatti, vi si leggeva: “Da un lato, avete i cosidetti socialisti unitari, che vi presentano un simbolo attraente, su cui c’è scritta anche la parola Socialismo. Ma se nelle loro file ci sono ancora molte anime socialiste, quel Partito ha abbandonato in realtà il Socialismo per seguire le vie della collaborazione di classe (la solita collaborazione del lupo con l’agnello) e tenta oggi di appoggiarsi sui ceti medi, rinnegando il passato glorioso del Partito socialista.” A tali accuse rispondevano sia “La Giustizia” sia “La Plebe,” la seconda sostenendo che “nell’attuale situazione, collaborazione di classe è la fatale, momentanea alleanza del proletariato con tutti quei ceti e gruppi che vogliono, come noi, abbattere la dittatura fascista e restaurare le libertà democratiche.” Secondo “La Plebe” una simile alleanza era una necessità inderogabile, perché “la classe operaia, terrorizzata, disorganizzata ed affamata, non può da sola riconquistare quelle condizioni che sono una premessa indispensabile della sua vita, vale a dire del socialismo. La dittatura fascista non potrà essere abbattuta se non dalla più vasta e profonda unità di forze; perciò, noi riteniamo semplicemente deleteria la propaganda massimalista, che tende a mantenere il proletariato nell’isolamento mortale in cui fu cacciato dal 165

fascismo.” All’altra accusa, di appoggiarsi ai ceti medi, “La Plebe” si chiedeva: chi sono i ceti medi? “Sono,” rispondeva, “all’ingrosso, i piccoli proprietari ed i ceti intellettuali.” Ed aggiungeva, con una certa foga: “Orbene, in molta parte della nostra provincia, nell’Oltrepò, nel Corteolonese, nel Bobbiese, il Partito socialista trovò sempre cospicue forze precisamente nei piccoli proprietari, i quali, in definitiva, sono degli sfruttati come, e talvolta più dei proletari veri e propri. Per questi piccoli proprietari, il socialismo sarà liberazione non meno che per i braccianti e gli operai. E noi dovremmo abbandonarli a se stessi, agli inganni del partito popolare e del fascismo, renderli nemici del proletariato per una male intesa purità di classe? Noi dovremmo respingere dalle nostre file i ceti intellettuali come se il socialismo interessasse soltanto i fabbri ed i contadini?” A sua volta, “La Giustizia” affermava che la collaborazione di classe dei riformisti mirava a sottrarre ai reazionari ed ai plutocrati larghe masse ed a chiarire l’identità di interessi che univa i produttori ed i consumatori. Ma quest’ultima nota andava forse più in là di quanto aveva detto “La Plebe,” allorché collegava gli interessi dei produttori (gli industriali e imprenditori) con quelli dei consumatori; ed una certa stonatura si avvertiva pure nella conclusione: “I nostri massimalisti non danno prova di molta acutezza di spirito quando qualificano un tradimento la difesa che noi facciamo degli impiegati, professionisti, ecc., ecc., sfruttati economicamente e moralmente”: potrebbe apparire alquanto difficile mettere tra gli sfruttati i professionisti, la maggior parte dei quali aveva aderito al fascismo. Il fatto era che “La Plebe” era, probabilmente, più vicina della “Giustizia” alla realtà sociale delle campagne pavesi e della Lomellina, come dimostrava una predica ai piccoli proprietari (10 luglio ‘23), soprattutto ai piccoli coltivatori della vite, ai quali la fillossera stava 166

distruggendo il raccolto e che, per ripiantare i vigneti, erano andati incontro a gravi spese, perché avevano dovuto acquistare nuove barbatelle, che si erano rivelate non buone, mentre chi le aveva vendute si era “arricchito sulla vostra miseria” ottenendo, per di più, dal governo nazionale premi ed onori. Inoltre, era stato lasciato credere loro che sarebbero state soppresse le tasse che avevano pagato fino allora, con i governi liberal-democratici, e che avevano ritenuto eccessive (e di ciò venivano incolpati i socialisti, “che spendevano tanti denari”); ma, al contrario, le imposte si erano fatte sempre più pesanti: “La tassa sul vino è rimasta e vi si sono aggiunte più di prima le contravvenzioni. È venuta la nuova tassa sul reddito agrario e più siete piccoli e più vi si tormenta. Tutti i comuni hanno messo anche la tassa sul bestiame che prima molti di voi non conoscevate. Ed hanno aumentato il focatico. E non diminuisce la sovrimposta né sui terreni né sui fabbricati.” Si trattava, come si sarà potuto vedere, di una analisi abbastanza acuta della condizione fortemente peggiorata della piccola e media borghesia, che però era costretta ad uno scoperto equilibrismo per non cadere dalla collaborazione di classe fra proletariato e ceti medi alla collaborazione di classe fra proletariato e datori di lavoro: il che avveniva sia in R. Rigola, il quale aveva fondato, alla fine del ‘24, a Biella “Il Lavoro,” settimanale del Partito socialista unitario, ma che scriveva, nel giugno del ‘25, un articolo su “La Giustizia” cercando di chiarire la funzione del suo partito: “Il Partito unitario è l’erede e il continuatore di quel revisionismo che trasse origine principalmente dalla constatazione del permanere dei ceti medi, e portò all’adozione della formula che dichiarava non essere la lotta di classe incompatibile con la collaborazione di classe”; sia pure in B. Buozzi, che, parlando al VI 167

congresso nazionale della FIOM (Milano, 24-26 aprile ‘24) su cinque anni di lotte intense e di opere feconde, dopo aver ricordato quanto aveva detto recentemente sulla necessità che continuasse ad esistere la lotta di classe (ma “intesa nel modo più civile”), aggiungeva di non volere, con tale richiamo, “vietare la collaborazione fra imprenditori e lavoratori nel campo tecnico della produzione. Per noi, quel qualunque concordato che segna la fine di un conflitto fra capitale e lavoro, segna sostanzialmente una tregua. Se la tregua è leale, nell’interno dell’officina la stessa discussione sull’applicazione dei concordati, si risolve in una collaborazione.” Era chiaro che la posizione degli unitari era più favorevole alla collaborazione che alla lotta (basterebbe, per comprenderlo, rifarsi alla lunga tradizione turatiana di collaborazione con la borghesia iniziata con il Giolitti e che fu dovuta interrompere allorché questi lanciò l’Italia alla conquista della Libia, ma che il Turati avrebbe voluto riprendere dopo la guerra, se non ne fosse stato impedito dai massimalisti). Si trattava di una collaborazione esperimentata con la media e piccola borghesia urbana (tipico è, a tale proposito, il caso di Milano, città dove esisteva una larga massa lavoratrice ma sopraffatta da estese e vaste categorie di commercianti del settore terziario che rappresentavano la forza dei riformisti), mentre nelle campagne i socialisti appoggiavano le richieste dei salariati e dei braccianti, perché i piccoli coltivatori erano stati controllati dai cattolici prima, poi dal Partito popolare. Tuttavia, “La Plebe” difendeva gli interessi di questi piccoli proprietari, accomunandoli, come si è visto, ai “proletari veri e propri”: il fatto era che - lo abbiamo già detto - il periodico della federazione unitaria pavese doveva rispondere ad una realtà specifica, che era la realtà contadina in mezzo a cui agiva. Ma una interpretazione di tale linea politica più aderente a quella della “Giustizia” 168

proveniva da alcuni articoli de “La Stampa,” la quale, in occasione di un convegno degli unitari tenuto nell’aprile del ‘25, osservava come le critiche dei massimalisti che miravano a scorgere nelle posizioni del PSU il tentativo di “sommergere” il proletariato “nelle classi medie,” accennassero ad un processo di rivalutazione politica, anche da parte di un partito operaio, di quei ceti in cui non pochi avevano scorto una docile massa di manovra per il movimento fascista. Per il quotidiano torinese, il fatto che una parte almeno dei lavoratori e dei loro rappresentanti mostrasse di volgersi verso una più stretta collaborazione con forze che fino allora erano state intransigentemente respinte e combattute, apriva “prospettive di grande rilievo e i partiti medi debbono riflettervi adeguatamente” (art. Possibilità): essi erano sollecitati a porsi il problema di un nuovo programma che tenesse nel dovuto conto i fattori economico sociali, cioè di un programma che, in un certo modo, andasse incontro alle esigenze delle classi che ora si aprivano appunto ad una collaborazione. Le correnti più avanzate della democrazia liberale, l’Unione nazionale e la Democrazia sociale in particolare, se veramente aspiravano a rappresentare i ceti medi, avrebbero dovuto cercare di stimolare in essi “una coscienza di classe, che non potrà essere identica a quella del proletariato (se no, tanto varrebbe lasciarsi assorbire dal socialismo), ma dovrà essere nettamente distinta da quella delle classi capitalistiche e risolutamente contrapposta (ecco, oggi, un punto capitale) alla plutocrazia reazionaria” (art. Partiti medi). L. Salvatorelli veniva di rincalzo a queste esortazioni, il 1° maggio (Il peso della bilancia), non rifiutandosi di porre in rilievo anche quelli che, a suo parere, erano stati gli errori della piccola e media borghesia: “Ragione precipua di debolezza della media e piccola borghesia,” egli, infatti, scriveva, “è il suo spirito di estraneità, e possiamo dire di 169

ostilità, verso il proletariato”: il che l’ha fatalmente spinta nelle braccia del nazionalismo, “mettendola a servizio di oligarchie politiche ed economiche, sue nemiche naturali.” 1 “L’Italia commerciale,’ organo della piccola e media borghesia economica,

così elencava gli elementi che determinavano il carovita: “L’aviazione assorbe oggi Lire 500 milioni, secondo il bilancio statale; - La Milizia Nazionale costa nel 1924 Lire 30 milioni; - Gravano sulle entrate in forte aumento, miliardi di spese non previste; - Le Banche accordano troppe facilitazioni alle esportazioni di derrate alimentari che mancano al fabbisogno del nostro Paese; - Speculazioni sulle esportazioni ed importazioni; - Pazzesca pressione tributaria; - Elevato costo dei trasporti; - Spaventosa deficienza del patrimonio zootecnico; - Elevatissimi fitti per i locali adibiti a uso industria e commercio; - Inesistenza di un organo centrale regolatore e quindi mancanza di collegamento con esso delle Camere di Commercio per la razionale affluenza delle derrate alimentari, sia vegetali che animali sui principali mercati; - Mancanza assoluta di una politica annonaria di tutela e di equilibrio” (cfr. Determinanti del carovita, in “L’Italia commerciale,” 2 novembre 1924). 2 La parte dedicata a tale problema nel suo discorso alla Scala del 30 marzo ‘24,

in cui si vantava di avere arrestato “la marcia verso il fallimento, così l’onorevole Giolitti definiva militarmente la nostra situazione di allora,” senza aver fatto ricorso ad un contributo indiretto a larghissima base, ma, poco dopo, il 27 giugno ‘24, al Senato, era costretto a difendere i criteri che aveva seguito per la Ricostruzione economica e finanziaria dell’Italia, e, per quanto riguardava la pressione tributaria, cercava di “circoscrivere il reale contenuto della leggenda politica di nuovi sacrifici che il Governo e particolarmente io stesso, avremmo imposto ai cittadini,” facendo presente il pericolo che sarebbe derivato se si fosse dato “libero corso a quella leggenda senza approfondirne, ogni qualvolta se ne presenti l’occasione, la reale consistenza.” Metteva, poi, in rilievo come la sua infaticabile - tutti servitori disinteressati dello Stato e del bene comune, erano questi fascisti! - opera fosse stata dominata dalla “viva e costante preoccupazione di agevolare una reale e non effimera o illusoria politica tributaria democratica” ed esortava a valutare i provvedimenti non “secondo il giudizio immediato e superficiale delle folle,” bensì nei loro effetti concreti e definitivi,” senza volere escludere “che lo Stato debba talvolta addossare ai cittadini il prezzo delle loro illusioni, quando questo prezzo sia compensato dall’ordine sociale.”

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Capitolo ottavo I ceti medi e il Partito popolare (don Sturzo) Sembra molto strano che di questa crisi dei ceti medi urbani e agricoli non si siano quasi accorti - così almeno sembra - i popolari, che avevano la loro base elettorale soprattutto nelle zone di piccola e media proprietà rurale del nord. Uno storico del movimento cattolico e popolare, il De Rosa, ha scritto che la posizione di don Sturzo era di netta antitesi al capitalismo industriale, allo statalismo etico o burocratico e all’alternativa rivoluzionaria proletaria (naturalmente, tale posizione non rappresentava quasi nulla di nuovo rispetto alla tradizione politica ed economica dei cattolici, che si erano costantemente battuti contro lo statalismo e il capitalismo - simboli della borghesia -, che avevano lottato contro la borghesia liberale accusata di avere soppresso, nel 1870, il potere temporale, e contro il rivoluzionarismo, più immaginario e supposto che reale, del proletariato e del suo partito e del suo sindacato: fra il ‘19 e il ‘22 si ritenne più urgente sconfiggere quest’ultimo pericolo e i popolari scelsero, pur senza derivarne alcun vantaggio, la via delle alleanze con le varie frazioni liberali, prima, e, molti di essi, i clerico-fascisti, con il partito di Mussolini). “Dunque,” aggiunge il De Rosa, “lo schema della lotta politica sturziana era sempre il medesimo: combattere industrialismo e statalismo dando spazio ai ceti medi, raccordare la lotta della borghesia alle prospettive di 171

una politica antiparassitaria e antimonopolistica, sia nel settore pubblico che privato, potenziare l’agricoltura e bandire i protezionismi, contenere il sindacalismo sul terreno delle rivendicazioni professionali.” Dando spazio ai ceti medi, ed il Partito popolare rispettò fedelmente un simile programma, anche perché lo spirito moderato e conservatore della piccola borghesia rispondeva perfettamente alle tendenze dei cattolico-popolari, altrettanto moderate e conservatrici. Era strano, pertanto, ripetiamo, il vedere come i popolari non cercassero subito di approfittare della crisi delle classi medie per riconquistare l’influenza su esse che si erano volte al fascismo, come chiariva il Salvatorelli nel suo libro Nazionalfascismo, in cui tratteggiava l’aspetto piccolo-borghese del fenomeno fascista: interpretazione che era accolta con soddisfazione dal “Popolo d’Italia,” il quale, peraltro, aveva ospitato, sul finire del ’22, un articolo dell’esponente del sindacalismo fascista, E. Rossoni, che non risparmiava promesse e lusinghe: “Le classi medie sono quelle che hanno sempre fatto le spese del basso e dell’alto, che sono rimaste sempre sbandate perché non ‘arrivarono mai fino all’incoscienza di rovinare la Nazione per i loro interessi […] Il sindacalismo nazionale, che vuole essere un sindacalismo di ‘selezione,’ doveva soprattutto puntare a queste classi medie che, se la guerra è stata combattuta dai contadini e dagli operai come massa, hanno fornito alla guerra i quadri dei nostri meravigliosi ufficiali.” Ebbene, proprio quando la piccola e media borghesia entrava in una grave crisi in conseguenza della politica economica del fascismo, i dirigenti popolari non facevano sentire la loro voce e non tentavano nemmeno di inserirsi in tale crisi per sfruttarla ai loro fini. Solo don Sturzo muoveva alcune riserve su un aspetto particolare della politica fascista, quella riguardante la riforma finanziaria del De Stefani, esaminando i risultati 172

del primo anno di governo del nuovo regime: uno dei punti di maggiore turbamento e disquilibrio è stata - sosteneva giustamente - “la imposta straordinaria sul patrimonio, che, per una serie di errori, è divenuta una vera imposta sul reddito, punto morto della riforma. De Stefani non affrontò questo problema, e cercò invece altre entrate con la imposta di R.M. sui redditi agricoli e sui salari (non bene inquadrati in provvedimenti organici), ed ha continuato nel sistema empirico dei predecessori. Per giunta, demagogia a rovescio, invece di rettificare le aliquote della tassa di successione, l’ha abolita per i primi gradi, facendo getto di circa 250 milioni. Questa tendenza antidemocratica del ministro De Stefani è segnata in tutto il suo faticoso processo di sistemazione tributaria: l’abolizione delle imposte sugli amministratori, l’abolizione delle imposte a carico di ditte nazionali aventi filiali all’estero, l’esonero della complementare alle società e ditte azionarie, sono elementi sicuri dell’orientamento industriale capitalistico del nuovo regime tributario. Si comprende bene che l’aggravio debba pendere verso i consumi e verso l’agricoltura. Politica sperequatrice e antiproduttiva quanto altra mai.” Una politica, peraltro, aggiungeva lo Sturzo, volutamente sperequatrice e antiproduttiva, perché il suo pensiero andava all’Italia meridionale, delle cui sorti continuava a preoccuparsi vivamente, e alla piccola borghesia, che era costretta a sopportare, in gran parte, il peso maggiore di quelle sperequazioni in uno Stato che rimaneva sempre lo stesso, con le stesse ingiustizie e gli stessi problemi insoluti. Infatti, affermava ancora don Sturzo, l’Italia era governata dall’“agrarismo della Val Padana e, con maggiore efficacia, dall’industrialismo lombardo-ligure; i loro metodi sono più in grande [rispetto a quelli del Depretis e del Giolitti, quest’ultimo duramente combattuto dal sacerdote siciliano]; si spendono milioni per mantenere giornali e per sfruttare lo 173

Stato. Ieri gli industriali e finanzieri lombardo-liguri facevano lo stesso aiutando i socialisti, per far da contrappeso alle correnti della piccola borghesia, che finiva per pagarne i costi e concorrere a determinare i profitti della grande industria parassita. Oggi, capovolte le situazioni, è il fascismo che giova, e concorre a creare uno spirito pubblico in sostanza analogo al precedente, che, superando le aberrazioni violente dei rossi (la solita biscia che morde il ciarlatano), è servito e serve alla medesima industria parassita e alla stessa speculazione bancaria. Cosi, nel fondo, si ritrovano i medesimi attori e i medesimi interessi, che né Giolitti ieri dominò né oggi Mussolini domina.” In verità, lo Sturzo era convinto che il governo fascista non fosse altro che una continuazione della condotta dei precedenti governi, ad esempio in politica estera, in cui mancava “un serio e ben studiato orientamento italiano”: un appunto, però, aggiungeva subito, che “non si può fare solamente al governo fascista, deve farsi anche ai governi precedenti e alla stessa tradizione della Consulta.” La simpatia e la fiducia con cui molti guardavano a Mussolini, distinguendolo dal suo partito, richiamavano “la medesima fiducia di molti e la stessa asperità di pochi”: fiducia e asperità educate dall’“abitudine italianissima di voler vedere più gli uomini che le idee,” che aveva fatto guardare per anni e per decenni a Depretis ed a Giolitti, i quali avevano potuto “dominare al disopra dei propri partiti e al di fuori delle proprie idee politiche, da dittatori senza dirlo, domando parlamenti e disintegrando partiti, accarezzando e minacciando la Chiesa: arte di politica, non teoria né fede.” Infine, la speranza di non pochi che il duce fosse capace di vincere e di superare le violenze verbali e il rassismo locale, aveva fatto sì che le prime fossero “ridotte a stile parlamentare, ma sostanzialmente le stesse, e che le seconde [fossero] riportate al livello dei mazzieri di De Bellis e dei 174

camorristi di Peppuccio Romano o dei maffiosi di Vittorio Emanuele Orlando. Come si vede,” concludeva amaramente, “una concezione paesana e passatista, di marca giolittiana e di stile meridionale.” Era, secondo lui, la vecchia e antica Italia che risorgeva con il fascismo ed egli non credeva affatto che Mussolini fosse l’uomo in grado “di stare al disopra del suo partito in evoluzione” per cogliere “i momenti che passano e realizzare la novità dello spirito”: questo perché se egli avesse saputo condurre a termine tale esperimento, avrebbe dovuto “superare tanto l’illegalismo della massa, quanto l’affarismo degli industriali e degli agrari, che premono sul suo partito.” Né Mussolini riusciva a penetrare ed a sentire gli svantaggi della dittatura, ché anzi era portato a “ipervalutarne” i vantaggi. Pertanto, tutto sembrava rinchiudersi per don Sturzo, ogni spiraglio per il futuro si oscurava; ed allora cercava di sottrarsi a questa stretta, che minacciava di soffocarlo, ricorrendo ad un fatalismo, che era, solo in parte, attenuato da un tentativo di intervento volontaristico nella vita politica e sociale. Infatti, esprìmeva la speranza quasi incrollabile - nella nuova situazione internazionale, quale era uscita dalla guerra, una situazione che non poteva più essere quella delle egemonie nazionali, che aveva generato il conflitto, “né quella dei sogni imperialisti di predominio, né quella del feroce protezionismo e dell’accumulo di ricchezze e dell’accentramento di poteri in poche mani.” Era nata, al contrario, l’esigenza di “una politica di convergenza fra i popoli, di cooperazione economica, di elevazione morale, allargando così la cerchia dei confini umani.” Parole che erano, senza dubbio, nobili e che tracciavano le linee di una convivenza fra i popoli ed i paesi tale da impedire il ripetersi di quelle tensioni che avevano condotto alla guerra, ma erano pure parole che, scritte fra il 1923 e il 1924, non avevano 175

alcun senso e rivelavano una sorda incapacità di capire le vie che la società internazionale intendeva percorrere e che trovavano la loro logica nei protezionismi (in cui si erano rinserrate tutte le nazioni, non appena cessato il rumore delle armi); nei nazionalismi spinti ancora più all’eccesso di quanto non lo fossero stati nell’anteguerra e che apparivano sempre più sopraffattori e violenti e ignari di un benessere comune e soprattutto di una solidarietà -di una convergenza - fra i popoli: nazionalismi che, inevitabilmente, degeneravano negli imperialismi e nell’accumulo di ricchezze e nell’accentramento del potere in poche mani. Così, don Sturzo poteva ripetere che l’Italia, Mussolini e il fascismo erano inseriti in una “fortissima realtà democratica,” che era ormai indistruggibile e che viveva e lottava nel mondo moderno, nel cui ritmo anche noi non avremmo potuto non vivere, “oggi più di ieri, per lo spostamento di ricchezze e di economie avvenute in Europa per causa della guerra, e per la ripresa di interessi morali e politici che debbono avere per base la solidarietà internazionale.” Ma anche qui, il sacerdote siciliano mostrava di non capire che tutti gli Stati europei quelli più forti e quelli che credevano di potersi ascrivere nel loro novero - volevano ritornare alla situazione preguerra, che aveva visto, all’interno di ogni paese e sotto la copertura di una dottrina economica liberistica, le classi dirigenti compiere ogni sforzo per mantenere alcune regioni in una condizione di grave sottosviluppo - che era funzionale allo sviluppo delle altre regioni, più favorite -, e, nella politica del vecchio continente, conservare intatta la suddivisione di ruoli fra una Europa occidentale, industrializzata, ed una Europa orientale, fornitrice alla prima di materie prime o di generi agricoli, mentre doveva importare tutti i prodotti industriali. Ma era estremamente difficile che lo Sturzo riuscisse a penetrare, in tutta la loro 176

realtà, simili diseguaglianze che stavano ripetendosi tali e quali nel dopoguerra, perché egli aveva bisogno di considerarle finite e frantumate dal conflitto: solo da ciò poteva sorgere la sua speranza: “Il movimento nazionalista chiuso in sé,” scriveva, “la corrente agrario-reazionaria, il culto della violenza postbellica, sono anacronismi di popoli vinti e poveri: non possono essere la base della politica italiana senza retrocedere di un secolo. Per queste considerazioni, dal punto di vista della politica italiana, l’esperimento Mussolini non può avere uno sbocco imperialista, egemonico, dittatoriale, ma deve avere uno sbocco liberale-democratico, cioè deve percorrere le fasi involutive del fenomeno fascista, e, dopo avere operato una specie di massaggio sul corpo della nazione, ritornare al punto di partenza.” “Non può,” “deve,” sono tutti, come si vede, atti di fede in una evoluzione fatalistica, impressione rafforzata da altre sue frasi: “il fascismo del 1923 non può, per l’Italia, che essere una parentesi; quello del 1924 già sente i mutamenti attorno a sé e dentro di sé,” affermava scambiando quelli che erano labili segni per certezze. “Ha la forza di vincersi e di modificarsi? Ancora è possibile sul fascismo Topera di alcuni uomini, quali Mussolini, dato che le idee non hanno salda base di convinzioni e gli interessi che vi si son formati attorno sono ancora in piano instabile? Il facile passaggio di masse socialiste, di democratici e liberali sotto il fascio littorio non contribuiscono certo al rassodamento di direttive e alla formazione di idee; e quindi lo spostamento dei dirigenti e specialmente del capo, porta con sé troppo facilmente i gregari e determina nuove correnti. Per gli ottimisti, e non son pochi, c’è ancora speranza che il buon senso italiano si riprenderà di tutte le esagerazioni, e che la realtà vivente farà sentire le sue leggi e il suo influsso.” Si trattava pur sempre di un “atto di fede” e quasi 177

patetico era il richiamo alla speranza di “non pochi ottimisti” ed al “buon senso italiano” che avrebbe avuto la forza di riprendersi di tutte le esagerazioni e di poter ricominciare una nuova esistenza come se il fascismo fosse stato una rapida parentesi e un breve incubo, tutto sommato, vantaggioso perché avrebbe dato all’Italia la possibilità di “superare, con ogni sforzo, forme esagerate di vita esteriore, e di poter comprendere che ogni indisciplina collettiva si sconta. Una classe dirigente verrà fuori che non sarà strettamente fascista, ma che avrà fatto giustizia di vecchi-infrollimenti e di declamazioni demagogiche e retoriche, di esagerati nazionalismi e di turbolenze squadriste; e se le mancherà sufficiente preparazione, avrà avuto una esperienza notevole che ha inizio col 1915.” Certo, da tutte le premesse che abbiamo ricordato, non si poteva scorgere come e quando sarebbe nata la nuova classe dirigente: tutto rimaneva affidato all’oscuro, e ignoto agli uomini, fato. Anche se qualche lieve sintomo di una eventuale azione si faceva stentatamente luce nel suo pensiero, come nella fiducia nel popolarismo che, escludendo dalla sua azione l’illegalismo, voleva “agire moralmente per modificare la corrente fascista e determinare le forze più coscienti e in evoluzione verso più sani concetti di Stato costituzionale e verso più umana concezione del rispetto altrui.” Ma era, anche questa, una fiducia forse più mormorata nell’intimo che espressa, perché lo Sturzo non ne poteva fare assolutamente a meno, e che, probabilmente, sembrava avvalorata dal risultato delle elezioni del 6 aprile ‘24, che avevano visto cinquecentoquarantatremila votanti per il suo partito nel Settentrione e novantaquattromila nel Mezzogiorno (una netta divisione, che rivelava come il PP, quale partito d’opposizione, fosse molto più forte al nord, dove aveva raccolto i maggiori consensi fra le masse contadine e fra le 178

classi medie urbane, conseguendo in alcune regioni, ad esempio il Veneto, e in alcune zone, da Bergamo-Brescia verso le province del nord della Lombardia, una maggioranza incontrastata), con un “esito,” notava la rivista “Civitas,” “di gran lunga superiore a quello che i più ottimisti potessero attendere”; sicché, era lecito dire “che il Partito popolare è uscito quasi intatto dalla lotta, nel senso che ha conservato in efficienza la sua formazione essenziale, ed ha dato prova di essere ancora, nel Paese, vivo di una vitalità che trascende le momentanee fallanze e disgregazioni imputabili alla eccezionalità della situazione politica italiana.” Ma il periodico era portato ad imputare il più basso numero di voti riportato nel Mezzogiorno ai metodi clientelari notoriamente applicati su vasta scala “nelle regioni da Roma in giù,” e non al fatto che, nemmeno fra il 1919 e il 1922, i popolari erano riusciti a fare breccia nella società meridionale, come, d’altronde, non vi erano riusciti né i fascisti né, pur se in minor misura, i socialisti, che potevano vantare una ben più lunga tradizione storica. Erano tutti partiti localizzati nel settentrione, ed infatti, il 6 aprile, le correnti politiche che non erano entrate nel listone fascista ottennero, nel nord, più voti di quest’ultimo; ma ciascuna di esse si era presentata separatamente, non potendo, pertanto, usufruire dei vantaggi riconosciuti alla lista che avesse raggiunto la maggioranza relativa dalla legge Acerbo, una legge che lo Sturzo definì un “mezzuccio politico per tirare avanti con meno illegalità possibili, cercando una legalità formale, che rinsaldi l’attuale dominio. Il domani è sulle ginocchia di Giove!” Inoltre, c’era un altro motivo che rendeva il sacerdote siciliano alquanto cauto, motivo che andava ricercato nella riforma Gentile, che, oltre a concedere ai cattolici l’insegnamento religioso, sanciva anche, mediante l’esame 179

di Stato [che il PP aveva lungamente, ma sempre invano, richiesto ai precedenti governi democratico-liberali], “la parificazione morale della scuola privata con la scuola pubblica.” Don Sturzo si chiedeva perché mai si fosse dovuto battagliare per tanti anni attorno a tali problemi, e, ancora una volta, faceva ricorso a spiegazioni che stavano fra lo psicologico e l’astratto moralismo: “Mistero de $1l’anima collettiva! furono certo ragioni politiche, insieme a pregiudizi anticattolici, che, sviluppati durante il nostro risorgimento, sboccarono nei tentativi anticlericali di politica interna della sinistra laica massoneggiante, e che portarono la lotta sul terreno dell’insegnamento religioso.” Eppure, una simile politica propensa ad accogliere le istanze avanzate dalla Chiesa non era soltanto della “sinistra laica massoneggiante” risorgimentale, perché anche il nazionalismo si mostrava “favorevole alla religione,” attirandosi la simpatia di “certi centri culturali e politici dei cattolici troppo condiscendenti,” non vedendo “tutta la immoralità dei suoi principi.” Don Sturzo, così, si trovava preso, da un lato, dalla soddisfazione per il conseguimento delle conquiste morali attese dalla coscienza cattolica, e, dall’altro, dal bisogno di non cedere al “clerico-fascismo di Mussolini e dei vecchi clericali, risorti nemici dei popolari [a proposito di questi, che si erano buttati subito nelle accoglienti braccia del regime, è da osservare come il sacerdote non avesse messo tra le masse socialiste, i democratici e i liberali che erano passati sotto il fascio littorio, anche i suoi ex-amici, i vecchi clericali che avevano visto in un movimento reazionario la loro sede naturale],” il che poteva preoccupare “il vero ambiente cattolico,” pur non riuscendo a “gettare catene alla Chiesa, la quale vigila perché nulla venga compromesso da calorosi abbracci. L’Italia del 1923 ha solo guadagnato in proposito una esperienza, che non valeva la pena lottare per tanti anni 180

contro quel catechismo, nel quale credono [sic] la maggioranza dei suoi figli.” Senza pensare, poi, che “il vecchio mondo democratico, pur con estrema diffidenza, ci sarebbe arrivato anch’esso.” Ma, ancora una volta, una simile difesa ad oltranza della Chiesa, che, secondo lo Sturzo, mai aveva approvato le violenze, né consentito all’oppressione dei deboli, né era stata “connivente con i violatori delle leggi umane e divine,” appariva fuori luogo di fronte al comportamento del Vaticano, che, fra il ‘23 e il ‘24, dava - come scriveva A. Finocchiaro Aprile in un articolo sul “Giornale d’Italia” del 1° febbraio ‘24, articolo subito ripreso da “Civitas” nel suo numero del 16 febbraio - il suo benestare alla nomina, da parte del guardasigilli, A. Rocco, di una commissione per lo studio delle modifiche da introdursi nella legislazione ecclesiastica, nomina che assumeva un ben preciso significato politico, dal momento che erano chiamati a far parte della commissione “ben quattro prelati, noti per la loro intelligenza e perizia, che saranno (e non potrebbe essere diversamente) eco fedelissima di desideri ed aspirazioni delle alte gerarchie ecclesiastiche.” Concludendo, il sacerdote siciliano ribadiva il suo fatalismo allorché affermava che il primo anno di governo fascista aveva dimostrato che “le critiche e le opposizioni, contenute nel loro ruolo dalla forza degli avvenimenti, possono illuminare, stimolare, correggere, ma, date le presenti condizioni generali, non arrivano a impedire un esperimento che ormai molti ritengono debba fare il suo corso nella vita politica italiana.” Ed ancora più ricadeva in esso quando, esaminando l’influenza del nazionalismo sul fascismo (che riteneva preponderante), sosteneva che il primo “sviluppa l’industria parassita, aumenta le spese militari, crea un’economia di speculazione particolarista in nome della nazione. La questione economica, specialmente nei paesi a 181

scarsa produzione e senza materie prime, come l’Italia […], determina in un secondo tempo una controreazione per depauperamento delle classi medie, dei piccoli redditieri, degli impiegati e dei lavoratori, cioè delle cospicue masse popolari. Nella controreazione democratica, le masse proletarie socialistoidi saranno forse l’elemento di giuoco dei plutocrati, pur nella persuasione che esse servono alla propria ideologia; il socialismo più acceso cadrà nelle convulsioni comuniste, a vantaggio della reazione conservatrice; finché le forze delle classi medie della nazione non diventeranno la nuova classe politica dirigente.” Era, forse, la nuova classe dirigente che avrebbe dovuto portare la patria “ad un periodo di pace interna e di sviluppo estero, quale le condizioni morali dei popoli europei ci danno diritto,” e lo Sturzo scorgeva sintomi incoraggianti nel fenomeno “nuovo e notevole” rappresentato dall’“orientamento dello spirito pubblico verso i valori intellettuali morali religiosi” e nel superamento dell’“incantesimo di pregiudizi e di avversioni” che era stata la caratteristica della “vecchia mentalità anticlericale della borghesia.” Insomma, pensava che si potesse assistere, dopo il fascismo, al sorgere di una società in cui si fossero sviluppati “i germi interiori” di un “avvicinamento spirituale dell’anima italiana verso la Chiesa,” che non avrebbe dovuto suscitare, nelle masse lavoratrici e nelle correnti democratiche, il timore che essa volesse appoggiare, “con la sua influenza, correnti reazionarie o tentativi dittatoriali.” Ma, intanto, si sarebbe potuto (e dovuto) chiedere, che cosa era pronto e disposto a fare egli per peparare, o affrettare, l’avvento di una tale società, rigenerata dai “valori intellettuali morali religiosi”? Nulla, poiché, oltre al suo atteggiamento fatalistico, questa visione si poneva in una sfera extra o meta-politica, priva di un serio e concreto aggancio con la rugosa ed effettiva realtà. 182

Probabilmente, erano più ancorate a questa realtà le osservazioni di un certo G. Sergi (su “Civitas” del 16 marzo ’24), il quale si chiedeva: “E il futuro?” cercando di formulare la seguente risposta: “Qui è più che mai difficile avere concetti che meritino di essere esposti. Non vogliamo omettere tuttavia dall’esprimere il pensiero che mentre riteniamo definitivamente morto e sepolto il liberalismo, e sorpassati quindi tutti i rapporti positivi o negativi che a lui ci legarono nello svolgimento della nostra azione pubblica, non riteniamo che possa escludersi una futura riviviscenza dell’idea liberale il giorno in cui l’Italia sentirà il bisogno, e si troverà in grado, di darsi un regime degno di uomini liberi. Non saranno certo più né i Salandra, né i Giolitti, né gli Orlando, né i De Nicola, né i Giovannini [che era entrato nel listone fascista], gli uomini a cui l’Italia si sentirà indotta a guardare: ma certi postulati di giustizia, di libertà, di uguaglianza dei cittadini, di impero della legge, di ordinamenti riposanti sul consenso popolare, di inalienabili garanzie costituzionali, di controllo sulla pubblica amministrazione, dovranno risorgere. Allora, il Partito popolare, che avrà saputo sopravvivere, potrà trovare nei nuovi liberali degli alleati ai quali unirsi per scrivere la prima pagina di un nuovo periodo della vita nazionale.” Si trattava, senza dubbio, di riflessioni che anticipavano i tempi, perché, nell’immediato secondo dopoguerra, la democrazia cristiana (continuatrice, ma solo in parte, del partito popolare, anche se perdureranno alcuni dati di fondo essenziali), molto spesso sarà alleata dei liberalcrociani - dalla vocazione conservatrice per la loro nostalgia della democrazia prefascista - e accetterà dalla tradizionale politica economica liberistica di stampo ottocentesco le linee della sua condotta in tale campo (non avendone una propria). Ma i popolari, in tal modo, più che scrivere, con i “nuovi liberali,” la “prima pagina di un nuovo periodo della nostra vita 183

nazionale,” diventeranno i continuatori della vecchia Italia, che era riuscita sempre a catturare il partito o le correnti politiche che, di volta in volta, salivano al potere, facendo sì che diventassero l’espressione del clientelismo parassitario del mezzogiorno e, nel tempo stesso, dei potenti ceti economici del settentrione, anch’essi sostanzialmente parassitari: entrambi, infatti, hanno costantemente ricercato il sostegno dello Stato e di chi deteneva - o detiene - il potere per sfruttare le scarse risorse che un paese, povero, poteva offrire. Invece, lo Sturzo condannava “il principio teorico del nazionalismo,” in quanto aveva un fondamento pagano ed era immorale perché faceva “la nazione primo-etico e ragione assoluta della società umana,” e sottoponeva “l’individuo alla legge ferrea di un dominio collettivo” e celebrava “lo sforzo moralizzatore del cristianesimo,” che, “sorto in nome di una divina fraternità,” si sforzava di vincere “tutti gli egoismi (compreso quello nazionalista) che, nel tempo e nello spazio, predominano sugli uomini, e di trasformare a bene le costruzioni inique del mondo; perché totus mundus in maligno positus est ” Il cristianesimo, secondo lui, era destinato “a salvare di nuovo l’Europa dall’imbarbarimento e dalla rovina,” e il cattolicismo, “non rimpicciolito come una religione nazionale, né favorito come uno strumento di potere, né legato alle sorti di alcune nazioni contro delle altre,” avrebbe dovuto continuare “la sua missione nel mondo, mentre la lotta fra i popoli segnerà le sue tregue e l’internazionalismo svilupperà i suoi progressi.” Come si vede, l’Italia, per don Sturzo, sarebbe uscita quasi rigenerata dalla triste esperienza del nazionalfascismo, perché finalmente ricongiunta ad un rinnovato e purificato cristianesimo, che non approvava le violenze, né consentiva l’oppressione dei deboli né era connivente con i violatori delle leggi umane e divine. Era un cristianesimo 184

ri chiamato alle origini e fautore di progresso e di intese sopranazionali fra i popoli, ed è forse per tale motivo che le sue previsioni del futuro - pur se utopistiche, perché si basavano su una rigenerazione della Chiesa cattolica, non poco difficile da condurre a termine - potevano apparire più attraenti che non la avvilente alleanza dei popolari con i fascisti delineata, con convinzione, dal Sergi. Alleanza che. fra l’altro, nel momento in cui veniva avanzata, era in buona parte superata nei riguardi di un dibattito che si svolgeva intenso sulla stessa rivista “Civitas” e ad opera dello Sturzo, rifugiatosi a Parigi e a Londra, dove era arrivato il 25 ottobre ‘24, sulla possibilità di un accordo fra i popolari e i socialisti, quale il sacerdote siciliano vedeva realizzato “da parecchio tempo,” in Germania, fra socialdemocratici e centro cattolico. E, in Italia, egli affermava in una intervista a “La Stampa” (pubblicata il 14 aprile ‘25), socialisti e popolari stavano a fianco sull’Aventino. E proseguiva: “Un gran giorno per la democrazia europea sarà quello in cui i socialisti del continente abbandoneranno i postulati anticlericali o almeno antireligiosi. Forse che un abbandono analogo non venne consentito, in altri tempi, dal liberalismo?” E anche si chiedeva: “Popolari e democratici hanno fatto un nuovo passo avanti: hanno preso posizione sul terreno della difesa costituzionale. Vorranno collocarsi lealmente sul terreno costituzionale anche i socialisti, rinunziando a un metodo rivoluzionario e a un’azione diretta incompatibili col concetto moderno dello stato? Ecco il grande quesito. È come un Capo delle Tempeste da superare.” Era un problema arduo e difficile, ma la cosa importante era che si cominciasse a discuterne, pur se un simile accordo incontrava l’opposizione di uomini influenti nel PP, come un De Gasperi 1; ed era un problema che soltanto le opportunità offerte dal dopoguerra, sempre perdute dai 185

partiti democratici, potevano dare la forza di affrontare. L’Italia, in cui si era realizzata una rivoluzione totalitaria (difesa da parecchi in Inghilterra come l’unico modo per vincere il pericolo bolscevico, al che don Sturzo ribatteva, quasi con sdegno, che “l’Italia non è né può diventare comunista: un paese che vive di agricoltura intensiva, che ha inoltre diffusa la piccola proprietà fondiaria, che ha un artigianato sviluppatissimo e una media borghesia laboriosa, non è affatto un paese bolscevizzabile”), era pure la nazione per la quale sarebbe stato più urgente giungere ad una tale collaborazione, perché in essa si manifestavano apertamente le gravi conseguenze del conflitto mondiale, conseguenze che consistevano nel dilemma: “se lo stato moderno, che si va sviluppando sotto la pressione economica del dopoguerra, possa ancora mantenersi nel complesso uno stato economicamente liberale, ovvero debba accentuare la caratteristica di uno stato economicamente interventista,” con tutte le soluzioni richieste da “questa specie di socialismo di stato” (e che non erano altro che le soluzioni imposte dal fascismo). Anche il sacerdote siciliano, dunque, prospettava, come ideale, uno “stato economicamente liberale” e ripeteva, in un’altra intervista per l’“Echo de Paris,” non pubblicata ma uscita poi su “Il Popolo” nel luglio ‘25, che “il Partito popolare ha sempre sostenuto la necessità di ‘governi di coalizione’ contro l’idea di ‘governi di partito,’ e ciò anche perché il mio partito sostiene, anche oggi, il sistema della rappresentanza proporzionale. Con questo piano, quando avverrà che le opposizioni dovranno succedere all’attuale governo,” aggiungeva, “il Partito popolare piglierà il suo posto nella coalizione dei partiti, se ciò corrisponderà al suo piano e al suo programma. Il Partito popolare sente di potersi assumere l’onere del potere, nell’interesse della vita del paese e per la difesa delle libertà costituzionali e dei 186

principi di democrazia cristiana.” Queste dichiarazioni, così esplicite, in favore di “governi di coalizione” o di governi retti dai popolari, suonano alquanto strane, perché rivelano che don Sturzo, nell’esilio, ha rotto ogni legame che lo teneva avvinto ad una politica e ad una posizione fatalistiche: ha deciso con risolutezza, forse perché l’esperienza di altri paesi gli ha indicato la strada per contribuire a fare uscire l’Italia dalla tormentante soggezione alla dittatura. Ma ancora più strana appare la dichiarazione secondo cui il suo partito sarebbe stato disposto ad “assumere l’onere del potere.” dichiarazione che negava radicalmente l’atteggiamento tenuto dai popolari nel recente passato, allorché, nel ‘22, durante la crisi del governo Bonomi provocata dal PP, era stato designato quale nuovo presidente del consiglio, secondo le regole parlamentari, un uomo di questo partito, il Meda, il quale, però, si era rifiutato di accettare, quasi sicuramente perché, perdurando il dissidio fra lo Stato e la Chiesa, un cattolico primo ministro si sarebbe trovato nella condizione di rispettare le esigenze laiche proprie dello Stato oppure di obbedire alle direttive che gli sarebbero giunte dal Vaticano. Il dissidio fu, poi, risolto, come è noto, per mezzo dei patti lateranensi, che consentirono ad uomini politici che si richiamavano “ai principi cristiani nel campo etico e sociale” di salire alle più alte cariche del paese. Ma don Sturzo non avvertiva molto un simile ostacolo ed ancora nel luglio ‘25 ribadiva che il partito popolare era un “partito democratico, e nessuno dubita del suo lealismo alla monarchia costituzionale,” e che si sapeva bene “che il partito popolare non dipende dal Vaticano né dai vescovi, ma assume da sé le proprie responsabilità politiche, poiché la chiesa è al disopra della politica.” Contemporaneamente a questa eventuale soluzione del problema italiano - che egli ora intravedeva abbastanza 187

chiaramente -, si faceva, in lui, più netta una interpretazione che si potrebbe dire classista della crisi che aveva attraversato la penisola: “Il fenomeno fascista,” dichiarava al “Daily News,” sempre nel luglio ‘25, “non può spiegarsi che come un attacco reazionario delle classi possidenti (che usarono il fascismo come loro strumento) contro le istituzioni democratiche e le classi lavoratrici. In tale attacco hanno fallito. Oggi il fascismo cerca di sopravvivere. Tenta diversioni antiliberali e anticostituzionali. Abbonda in manifestazioni estremiste poiché cerca invano mezzi per ottenere il consenso del paese (che non ha intero) e per dare consistenza al suo dominio.” In questa nuova prospettiva anche il giudizio sugli ex-amici di partito, diventava aspro e duro, come forse non lo era stato per il passato, quando accomunava i cattolici di destra, che erano subito emigrati verso i lidi fascisti, con le altre forze che sostenevano il regime: “Il fascismo al governo non è un contenuto di programmi e di idee: è un ‘adattamento’ di uomini, che si muovono entro un triangolo ben disegnato: fascismo estremista; interessi capitalistici; filo-clericalismo.” Tuttavia, anche in questo momento, non riusciva ad evitare un velo di fatalismo, come gli accadeva allorché prendeva le difese dell’opposizione italiana, che aveva fatto l’ultimo tentativo di scalzare il fascismo con l’Aventino, un tentativo fallito, alimentando l’accusa di molti di essere “forte in parole e debole in azione.” Il che non era affatto vero - egli esclamava con appassionata energia -, perché anzi quella che era considerata una accusa diventava un merito dell’opposizione stessa, che, senza “offrire alcun pretesto per rappresaglie,” voleva impedire che la reazione si scatenasse “ancor più furiosamente” e favorire una dissoluzione del fascismo ad opera di “forze morali e ideali” e non della violenza e della rivoluzione. “In ciò,” concludeva, “risiede la forza dei partiti di opposizione. È 188

per questo che l’opposizione si astiene da gesti inutili; è per questo che subisce la persecuzione con serenità, avendo fede nell’avvenire.” Era la posizione tenuta dagli aventiniani in esilio, che non vollero mai ammettere di essere stati sconfitti nella lotta impari, che li aveva visti opporre all’azione degli avversari le parole e la statica fede in un avvenire migliore, che avrebbe dovuto scaturire dalle loro “forze morali e ideali”; era, inoltre, la posizione tipica della generazione educata nel clima del positivismo ottocentesco, che, però, veniva vigorosamente contestata dalla nuova generazione. 1 Il De Gasperi riprese il problema in un articolo su “Civitas” del 1° maggio

‘25, articolo, peraltro, che non poteva nascondere l’imbarazzo dei dirigenti popolari nel doversi differenziare, da un lato, dal corporativismo di marca fascista e, dall’altro, dal pericolo di ricadere sul Partito socialista, con il quale il PP era stato costretto ad allearsi per adeguare la sua protesta contro il delitto Matteotti a quella delle altre correnti politiche. “Quando si trova che il corporativismo fascista,” egli scriveva, “ha ereditato le formule di uomini nostri come il Vogelsang e il De Mun, e si ricordi che la rappresentanza dei sindacati nel Parlamento ebbe dei ferventi sostenitori proprio nelle assemblee cattoliche internazionali dell’Unione di Friburgo, si sarebbe tentati di credere che le linee della nostra ricostruzione sociale non dovrebbero passare lontane da quelle del sindacalismo fascista. Ma l’apparente identità riguarda solo le formule. Lo spirito che le anima e l’idea cui devono servire sono diverse: là il popolo in un rinnovato assetto di eguaglianza giuridica e di fraternità sociale, qui lo stato hegeliano nell’assolutezza del suo carattere e delle sue finalità.” Poi, passando a parlare dei rapporti con i socialisti, affermava che soltanto “la preminenza del problema costituzionale” poteva spiegare “il fatto che i partiti a sfondo religioso” si trovassero “sullo stesso fronte politico coi cosiddetti partiti di sinistra.” Ma, aggiungeva subito, mostrando la sua palese preoccupazione di differenziare il suo partito: “non si tratta di blocco nel senso che gli individui si distacchino dal partito d’origine per assumere un colore più incerto e una rappresentanza più comprensiva, né si vuol creare forme di transizione così care ai trasformisti di tutte le ore. L’Aventino non produce il socialistoide o il clericaloide, non tende né a gentilonizzare né a massoneggiare. Mentre il fascismo crea il libero-fascista, il demo-fascista, il clerico-fascista, sgretolando e tentando di dissolvere il Partito liberale, il Partito popolare e il Partito democratico, l’Aventino rispetta i limiti organizzativi e spirituali di ciascun gruppo e al blocco degli individui sostituisce l’intesa dei partiti. Codesta non è una compromissione bloccarda

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vecchio stile, ma un patto federale che corrisponde ad un alto grado dell’evoluzione politica del nostro Paese.” E respingeva le critiche di tutti coloro che avevano assistito “impassibili all’imbarco della turba multicolore nella barca governativa,” ma che, ora, menavano “tanto farisaico scalpore perché i popolari, nel combattimento politico imposto dal fascismo, si trovano sulla stessa linea tattica dei socialisti. Qui nessuno ha abbassato bandiera,” precisava ancora con puntiglio, “nessuno ha mai lasciato supporre che il mutuo patto di tolleranza civile comporti la transigenza nella dottrina e un minor impegno nell’applicarla. Quando i popolari hanno ospitato le opposizioni, non hanno avuto bisogno di tirare un velo sul Crocifisso appeso nelle loro sedi; e la figura del Cristo ha dominato sulle assemblee che invocavano la libertà. La libertà di vivere e di battersi per un ideale politico, la libertà di riunirsi e di associarsi per il progresso sociale, la libertà di servire la Patria secondo la propria fede, la libertà che prima delle leggi al cittadino fu garantita all’uomo dal Cristianesimo, il quale, di fronte all’antico cesarismo, rivendicò i diritti imprescrittibili della personalità umana. Se questa libertà non verrà riconquistata, la Democrazia Cristiana fu un sogno della nostra giovinezza che non ha ritorni, la riforma sociale una costruzione tolemaica e l’enciclica che ci parlò delle Cose Nuove [la De rerum novarum di Leone XIII, del 1891] un epitaffio sulla tomba di un’epica ormai sepolta.” Abbiamo ritenuto opportuno riportare tutto questo lungo passo per due motivi: il primo perché esso sta ad indicare come il De Gasperi abbia voluto dedicare molto più spazio a purgare i popolari dall’accusa di avere stretto un accordo con i socialisti che non a liberarli dalla supposizione, che poteva essere nata in taluno, di un rapporto fra le linee cristiane della ricostruzione sociale e il sindacalismo fascista. Il secondo perché palesa lo sforzo del dirigente popolare (allora segretario del suo partito) di rivestire di un manto cattolico-cristiano l’Aventino, sottraendolo ad altre eventuali influenze di diverse correnti politiche, e, naturalmente, soprattutto di quella socialista.

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Capitolo nono Il Partito comunista e Gramsci di fronte alla crisi della piccola borghesia e del fascismo Un netto contrasto con lo Sturzo si poteva avvertire in uno dei più ricchi ingegni di questa nuova generazione, in Antonio Gramsci, tutto proteso, invece, all’agire più che al contemplare. In un articolo, non firmato, su “L’Ordine nuovo” del 15 marzo ‘24 (Contro il pessimismo), Gramsci scriveva che occorreva reagire “energicamente contro il pessimismo di alcuni gruppi del nostro partito, anche dei più responsabili e qualificati,” perché il pessimismo voleva dire inerzia, mancanza di prontezza nelle decisioni, stanco adattamento alla situazione in cui il fascismo di Mussolini, con il suo “roteare degli occhi nelle orbite” e con il suo “pugno sempre chiuso nella minaccia,” aveva rinchiuso l’Italia, oppure voleva anche dire, nell’incapacità di scorgere le vie aperte per una iniziativa individuale e collettiva, una indifferente o titubante nostalgia del passato: “Il pessimismo prende prevalentemente questo tono: ritorniamo a una situazione pre-Livorno, dovremo rifare lo stesso lavoro che abbiamo fatto prima di Livorno e che credevamo finito. Bisogna dimostrare,” egli proseguiva, “a ogni compagno come sia errata politicamente e teoricamente questa posizione […]. Non ci troveremo più in una situazione preLivorno, perché la situazione mondiale e italiana non è, nel 1924, quella del 1920, perché noi stessi non siamo più quelli 191

del 1920 e non lo vorremmo mai più ridiventare. Perché la classe operaia italiana è molto mutata, e non sarà più la cosa più semplice di questo mondo farle rioccupare le fabbriche con, per cannoni, dei tubi da stufa.” E la sua critica e la sua polemica contro l’occupazione delle fabbriche era continua, tanto da rivelare quanto si fosse ormai allontanato dalle posizioni che aveva sostenuto nel 1919-20, allorché, su “L’Ordine nuovo,” aveva cercato di “tradurre in linguaggio storico italiano i principali postulati della dottrina e della tattica dell’Internazionale comunista”: il che significava aver sostenuto “la parola d’ordine dei consigli di fabbrica e del controllo sulla produzione, cioè l’organizzazione della massa di tutti i produttori per l’espropriazione degli espropriatori, per la sostituzione del proletariato nel governo dell’industria e quindi, necessariamente, dello Stato.” Il fatto era che Gramsci, quasi rifiutandosi di trarre i dovuti insegnamenti da quel ripiegamento della rivoluzione russa su se stessa quale era stato indicato dalla “Nuova politica economica” (NEP) e che era stato reso più evidente dalla morte di Lenin, pensava che si fosse entrati, soprattutto “oggi [nel 1924], nel periodo della rivoluzione mondiale” e considerava una sconfitta del fascismo e della reazione (anzi, “se vogliamo essere sinceri, l’unica sconfitta fisica e ideologica del fascismo e della reazione in questi tre anni di storia italiana”) l’essere riuscito a strappare dalla “ganga del Partito socialista dei blocchi” e dall’“amorfa gelatina socialista,” alcuni nuclei, “i quali affermavano di aver fede, nonostante tutto, nella rivoluzione mondiale, i quali, coi fatti e non con le parole, che pare brucino più dei fatti, riconoscevano di aver errato nel 1920-21-22.” E, inoltre, il fatto era, in particolare, che egli voleva si riprendere il programma e la posizione assunta negli anni 1919-20, ma adattarli alla “situazione oggi esistente in Italia.” Una situazione che gli diceva come “il problema 192

urgente, la parola d’ordine necessaria [fosse] quella del governo operaio e contadino: si tratta di popolarizzarla, di adeguarla alle condizioni concrete italiane, di dimostrare come essa scaturisca da ogni episodio della nostra vita nazionale, come essa riassuma e contenga in sé tutte le rivendicazioni della molteplicità di partiti e di tendenze in cui il fascismo ha disgregato la volontà politica della classe operaia, ma specialmente delle masse contadine.” Si trattava, forse, di una specie di riscoperta, dopo la fase, per così dire, operaistica del 1920 (che aveva portato alla scissione di Livorno dal Partito socialista, e anche alla sconfitta se, nella autocritica del ’24, Gramsci diceva che “noi ci limitammo [allora] a battere sulle questioni formali, di pura logica, di pura coerenza, e fummo sconfitti, perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto, non venne con noi”), della più importante lezione leniniana, consistente, come aveva già scritto nel ’17 in un articolo di commento alla rivoluzione russa, Rivolta contro il capitale, e come ripeteva ancora nel ‘24, in una costante lotta “per comprendere e interpretare i bisogni e le aspirazioni di una classe contadina innumerevole, dispersa su un immenso territorio.” Ora, in Italia, non esistevano le stesse condizioni economico-sociali oggettive della Russia degli anni ‘10, e c’era, anzi, una classe operaia che, pur non avendo la prevalenza, manteneva tuttavia una sua importanza nella vita economica del paese. Ecco, dunque, la nuova formula escogitata da Gramsci - una formula adeguata alla situazione italiana -del governo operaio e contadino. Ma, in un primo momento (ad esempio, nell’articolo su “L’Unità” del 22 febbraio ‘24), egli era convinto che le masse contadine fossero influenzate soltanto dalla destra (che era rimasta nel PP dopo che i clericali reazionari avevano raggiunto le file delle camicie nere) e dal “cosiddetto ’centro,’” ma, in particolare, dalla prima, la 193

quale era composta “di professionisti, di borghesi medi e piccoli,” che, nel dopoguerra, avevano “esercitato verso le masse popolari una funzione analoga a quella che i reazionari cattolici esercitavano verso le masse aderenti ad essi attraverso l’organizzazione della Chiesa.” Era stata essa a fare accettare a quelle masse un programma riformista nei riguardi dello Stato italiano, facendo loro credere “che il soddisfacimento dei loro bisogni di liberazione economica e politica si potesse ottenere senza spezzare la macchina dello Stato, senza sostituire a uno Stato borghese, sedicente liberale, uno Stato degli operai e dei contadini, senza porre agli operai e ai contadini il problema della conquista del potere politico. Questo gruppo è certamente responsabile della sconfitta di cui i contadini [popolari] subiscono oggi le conseguenze tanto quanto i contadini socialisti; e il suo disagio politico diventa di giorno in giorno più grande, perché di giorno in giorno i contadini stessi si stanno convincendo che oggi un programma ’riformista’ non ha più nessun significato.” Un programma “riformista” che era sfociato nel fascismo, il quale mirava a dare alla dittatura di classe della borghesia una struttura e una stabilità permanenti: pertanto, tutti coloro che avevano un interesse economico di classe da far valere e da difendere, trovavano dinanzi a sé “sbarrata la via inesorabilmente. Ogni contadino popolare per ciò deve oggi concludere quello che noi concludiamo: che nessuna conquista è possibile, se non come conseguenza di una lotta che si proponga di togliere di mezzo l’ostacolo unico della dittatura del fascismo. Il gruppo borghese che ha inquadrato e politicamente diretto la massa popolare nel dopoguerra, viene in questo modo ad aver esaurito la propria funzione.” La conclusione che Gramsci traeva da una simile analisi era che l’effettiva crisi del PP risiedeva nel fatto che il suo gruppo dirigente non era più capace di 194

comprendere e di risolvere i problemi che assillavano le masse che lo seguivano; ma non per questo il Partito popolare si sarebbe potuto facilmente rassegnare a perdere l’influenza che esercitava sulle masse stesse, “a prescindere dalla vita che queste masse contadine conducono e dalla mentalità che in esse si crea.” Così, diventava inevitabile che il blando atteggiamento di opposizione al fascismo dovesse apparire, e venire erroneamente interpretato, come “l’indizio di intenzione di lotta che nei capi non esiste.” Secondo Gramsci, tutto ciò rendeva “inevitabile che il dissidio debba finire per portare a crisi ben più profonde delle attuali,” crisi, peraltro, che avrebbero potuto essere evitate, con una “soluzione chiarificatrice,” soltanto quando, nel seno del partito, fosse sorto un gruppo che avesse avuto “il coraggio di riconoscere che il programma ‘riformista’ degli anni passati non ha più nessun valore oggi, e che, se è vero che le masse hanno oggi bisogno di legalità e di libertà per riprendere e sviluppare le loro conquiste economiche, è pur vero che libertà e legalità oggi si acquistano solo abbattendo la dittatura del fascismo. Anche per i popolari,” concludeva, “o almeno per quelli che operano nell’interesse delle masse che li sostengono, il programma ‘riformista’ deve risolversi in un programma di lotta, e di lotta non per conquiste e rivendicazioni personali.” Gramsci, con questi giudizi - di cui vedremo ben presto i limiti -, definiva, con grande chiarezza, quali erano tutte le esitazioni, le incertezze e le ambiguità della linea politica seguita da un partito che voleva - come il Partito popolare nel primo dopoguerra e altri partiti che si richiamavano, o si richiamano, al magistero e alla dottrina della Chiesa rappresentare interessi divergenti - della borghesia o del proletariato e soprattutto dei contadini -, che voleva, cioè, essere un partito interclassista, una specie di ircocervo che 195

non dovrebbe assolutamente esistere nella vita politica, perché questa possa svolgersi con una sua lineare limpidezza e non con tortuosi e inammissibili compromessi. Infatti, quello che Gramsci diceva il “riformismo” dei popolari non era altro che l’abitudine al compromesso, al trasformismo appunto, per conciliare interessi contrastanti e spesso opposti. Ma anche il pensiero di Gramsci non era, in questa fase, esente da debolezze, in quanto negava o respingeva per sé e per il suo partito ogni possibilità di intervenire per favorire l’auspicata evoluzione delle masse contadine, e stava ad aspettare che il loro disagio divenisse “di giorno in giorno più grande” fino a convincersi, in piena autonomia e da sole, che un programma “riformista” non aveva più alcun senso per loro. Inoltre, la linea che egli indicava era tutta basata sulla fiducia che la “soluzione chiarificatrice” scaturisse dal seno dello stesso Partito popolare, mediante l’azione coraggiosa di un gruppo che riconoscesse spontaneamente gli errori compiuti, di un gruppo che, poi, avrebbe dovuto agire sulle masse, conducendole alla lotta contro il fascismo in nome di una libertà e di una legalità che lasciassero intravvedere lo sviluppo delle conquiste economiche. Si sarebbe trattato, insomma, di una sovrapposizione della volontà di pochi su quella di molti, di una escrescenza che poteva sorgere come poteva rimanere nascosta nel profondo terreno, e che, ad ogni modo, rifiutava un rapporto organico e storico fra il partito e le classi lavoratrici, e che anzi si accontentava di un rapporto puramente gerarchico, dall’alto, poiché considerava queste prive di iniziativa e di autonoma volontà. Ma l’aspetto più grave di tale analisi gramsciana era che essa finiva col rendere impossibile qualsiasi partecipazione attiva del suo partito al processo di progressiva liberazione dei contadini, delegando un compito cosi importante ad altre forze politiche. 196

Ma questo periodo doveva durare poco, e già il 2 luglio del ‘24, in un articolo su “L’Unità” (La crisi della piccola borghesia), si poteva dire che Gramsci avesse trovato la strada per uscire da quell‘imapasse, di cui, molto probabilmente, non si era neppure reso conto. E l’aveva trovata nelle conseguenze degassassimo di Matteotti, che aveva generato una crisi economico-politica “tuttora in sviluppo” e di cui non si potevano prevedere ancora “quali saranno i suoi sbocchi conclusivi.” Questo perché era una crisi che presentava aspetti diversi e molteplici: “Rileviamo innanzi tutto,” proseguiva, “la lotta che si è riaccesa intorno al governo fra forze avverse del mondo plutocratico e finanziario per la conquista da parte degli uni e la conservazione da parte degli altri di un’influenza preponderante nel governo dello Stato. Alla oligarchia finanziaria facente capo alla Banca commerciale si contrappongono quelle forze che un tempo si raccoglievano intorno alla fallita Banca di sconto ed oggi tendono a ricostituire un proprio organismo finanziario che dovrebbe scalzare la predominante influenza della prima. La loro parola d’ordine è ‘costituzione di un governo di ricostruzione nazionale,’ con la eliminazione della zavorra (si intendono i patrocinatori della attuale politica finanziaria). Si tratta, in sostanza, di un gruppo di pescicani non meno nefasti degli altri, che, sotto la maschera dell’indignazione per l’assassinio di Matteotti ed in nome della ‘giustizia,’ muovono all’arrembaggio delle casse dello Stato. Il momento è buono e naturalmente cercano di non lasciarselo sfuggire.” Tuttavia, questo non era certo quello che attirava maggiormente l’attenzione di Gramsci, poiché a lui premeva mettere in rilievo, dal punto di vista della classe lavoratrice e come una cosa che interessava direttamente questa, “la ripercussione fortissima degli avvenimenti di questi giorni” sui “ceti medi e piccolo-borghesi: la crisi della piccola 197

borghesia precipita.” Chi avesse riflettuto sulle origini e sulla natura sociale del fascismo, avrebbe capito subito la notevole importanza di tale nuovo fattore, che veniva a sgretolare “le basi della dominazione fascista.” L’“ improvviso e radicale spostamento dell’opinione pubblica” (ed anche inaspettato e impensato, aggiungeremmo noi), avrebbe dovuto porre i “partiti della cosiddetta ‘opposizione costituzionale’” in prima fila nella lotta politica: cosa di cui Gramsci, come meglio vedremo fra breve, dubitava fortemente, sicché tutta la responsabilità dell’azione contro il regime ricadeva sul “campo operaio,” al quale non era mancata - sempre secondo Gramsci - “la immediata ripercussione di questo spostamento di forze” avvenuto nelle file avversarie. “Il proletariato,” scriveva con la soddisfazione che gli proveniva dall’aver finalmente individuato la soluzione al problema che l’aveva tormentato, “ha oggi la sensazione di non essere più isolato nella lotta contro il fascismo e ciò, oltre all’immutato spirito antifascista che lo anima, determina nell’animo suo la convinzione che la dittatura fascista potrà essere abbattuta ed entro un periodo di tempo assai più breve di quanto non si sia pensato per il passato. Il fatto che la rivolta morale della popolazione tutta contro il fascismo [dopo il delitto Matteotti], nella classe operaia si è manifestata con sia pure parziali scioperi, come forma energica della lotta; l’aver sentito il bisogno e l’aver ritenuto possibile, sotto certe condizioni, lo sciopero generale nazionale contro il fascismo, dimostra che la situazione va mutando con una rapidità del tutto imprevista. Chi ha dei dubbi in proposito vada fra gli operai e sentirà come sono accolti i malinconici comunicati della Confederazione generale del lavoro imploranti la calma, nei quali si definiscono ‘elementi irresponsabili’ ed ‘agenti provocatori’ quanti fanno propaganda per fazione: questo linguaggio eravamo abituati 198

un tempo a leggerlo nei comunicati polizieschi…” La realtà era che Gramsci accomunava i dirigenti riformisti della Confederazione del lavoro con le altre correnti politiche che facevano parte, come diceva con un certo disprezzo, dell’“impotenza dell’opposizione costituzionale,” impotenza che si era rivelata particolarmente grave e insanabile proprio in seguito all’uccisione di Matteotti. Erano, quelli di tale opposizione, partiti che, con una larvata parvenza di resistenza al regime delle camicie nere, cercavano “evidentemente di attirare a sé la piccola borghesia ed in parte quegli strati della borghesia, che, vivendo ai margini della plutocrazia dominante, risentono in parte le conseguenze del suo predominio assoluto e schiacciante nella vita economica e finanziaria del paese. Essi tendono verso sistemi meno dittatoriali di governo.” Avevano conseguito, con l’Aventino, una prima base che avrebbe potuto rappresentare la premessa per condurre una lotta più a fondo contro il fascismo, ma era stato appunto in quel momento che si era rivelato quanto la loro azione fosse incerta, equivoca ed insufficiente, poiché rifletteva, “in sostanza, l’impotenza della piccola borghesia ad affrontare da sola la lotta contro il fascismo, impotenza determinata da un complesso di ragioni, dalle quali deriva l’atteggiamento caratteristico di questi ceti eternamente oscillanti fra il capitalismo ed il proletariato.” Perciò, secondo Gramsci (a stare almeno a ciò che dice in questo articolo), la piccola borghesia sarebbe stata, “nel passato,” attirata ed egemonizzata dai partiti dell’opposizione costituzionale, i quali avrebbero fatto leva sul suo desiderio-volontà di sottrarsi al “predominio assoluto e schiacciante” della plutocrazia dominante. Ma rimaneva, a questo punto, scoperto il modo come quella piccola borghesia era pervenuta alla lotta contro il fascismo, a meno che non si voglia ammettere uno stretto rapporto, 199

quasi una fusione - così parrebbe - fra essa e i partiti di opposizione, la cui deprecata impotenza proveniva dalla impotenza congenita della stessa piccola borghesia. Questa era sempre oscillante fra il capitalismo e il proletariato e sperduta nella illusione di poter “risolvere la lotta contro il fascismo sul terreno parlamentare,” dimenticando che la natura fondamentale del regime dominante era la dittatura armata e che la sua vera essenza era costituita “dalle forze armate operanti direttamente per conto della plutocrazia capitalistica e degli agrari.” Ecco perché Gramsci affermava con forza - qualsiasi azione che si fosse mantenuta soltanto sul piano parlamentare sarebbe stata impotente: “Qualunque sia il carattere del governo che potesse derivare, si tratti del rimpasto del governo di Mussolini o dell’avvento di un governo cosiddetto democratico (ciò che d’altronde è assai difficile), nessuna garanzia potrà avere la classe operaia che i suoi interessi ed i suoi diritti più elementari saranno tutelati, anche nei limiti consentiti da uno Stato borghese e capitalista, fino a quando quelle forze [della plutocrazia e degli agrari] non saranno eliminate.” Nella convinzione, dunque, che, per vincere sul serio, sarebbe stato necessario scendere sul terreno dell’azione diretta contro tali forze, e che sarebbe stata una grave ingenuità l’affidarsi allo Stato borghese, fosse esso pure liberale e democratico (poiché anche questo non avrebbe esitato “a ricorrere al loro aiuto, nel caso non si sentisse abbastanza forte per difendere il privilegio della borghesia e mantener soggetto il proletariato”), Gramsci giungeva alla conclusione che soltanto la classe operaia avrebbe potuto condurre una reale ed effettiva opposizione al fascismo: “[…] la classe operaia è la sola classe che possa e debba essere la guida direttiva in questa lotta”; per le elezioni politiche del ‘24, il partito comunista aveva cercato di costituire, di fronte all’opposizione 200

costituzionale e di fronte agli “impotenti piagnistei socialdemocratici,” l’“opposizione operaia,” ma era rimasto solo e isolato. E veramente isolato poteva apparire Gramsci quando si rinchiudeva in queste posizioni di netta impronta operaistica (allo stesso modo che isolati erano rimasti i lavoratori metalmeccanici delle industrie del nord durante l’occupazione delle fabbriche, quando non avevano ricercato nessuna alleanza), ma egli usciva da un simile isolamento allorché si richiamava alla realtà della sua terra, la Sardegna, ed ai suggerimenti che gli venivano dai compagni, come G. Marcias (I sardi e il blocco proletario, in “L’Unità,” 26 febbraio ’24). Questi sosteneva che i sardi, “popolo demograficamente e politicamente depresso,” non potevano liberarsi dagli oppressori, che non erano tutti nell’isola, perché i più potenti e grossi erano nel continente, se non alleandosi con il partito “più rivoluzionario” italiano. Ed aggiungeva che “la parola d’ordine del blocco operaio e contadino deve trovare i più entusiastici aderenti tra i sardi di buona fede, che vogliano veramente liberare la loro isola dalle miserie e dalle piaghe che la fanno letteralmente deperire.” Pertanto, “alleanza delle masse lavoratrici sarde con il proletariato rivoluzionario del continente, per la instaurazione di un governo di operai e contadini. Questa è la parola intorno a cui devono stringersi i sardi che, nel 1919, hanno creduto che fosse giunto finalmente il tempo della liberazione popolare dalla schiavitù del militarismo e del protezionismo del Governo di Roma.” E ancora G. Frongia (Comunisti della Sardegna, all’opera!, in “L’Unità” del 21 settembre ‘24) faceva notare che aveva fatto bene il PC a prendere l’iniziativa della costituzione di una Sezione italiana dell’Internazionale dei contadini (Krestintern, creata nel ‘23 come un organismo dell’Internazionale comunista), perché tale iniziativa avrebbe avvantaggiato non solo i 201

contadini, che si sarebbero trovati riuniti in “una organizzazione politica spiccatamente rivoluzionaria,” la cui finalità era “il radicale sovvertimento dell’attuale ordinamento sociale che li rende schiavi di una minoranza di sfruttatori,” ma avrebbe avvantaggiato pure gli operai industriali, che, finalmente, “nella loro diuturna ed aspra lotta per la propria emancipazione” si sarebbero sentiti fraternamente aiutati dai contadini. Poco dopo, il 1° dicembre, G. Carta, in “Il Seme” (Sardegna. I lavoratori della campagna) allargava il suo discorso, prendendo in esame i vari strati di contadini esistenti in Sardegna e soffermandosi particolarmente sui piccoli proprietari, che, in gran numero, lavoravano per una parte dell’anno alle dipendenze dei grossi proprietari; e ne descriveva le miserrime condizioni: “Gialli, magri, scheletrici, stanchi, laceri, coll’espressione delle privazioni sul viso; vedevansi, assieme ai braccianti sulle piazze dei paesi e delle città, domandar lavoro agli usurai delle nostre contrade. Percepivano un salario infame e di ciò i padroni profittavano per poter meglio comandare su di essi. Mangiavano solo pane ed anche in piccola quantità, poiché il salario non bastava neanche per ciò.” Le loro condizioni, però, erano migliorate fino al 1922 anche per l’influenza indiretta esercitata dalle lotte ingaggiate e vinte da altre organizzazioni isolane e continentali, ma, poi, era venuta “la reazione dei negrieri e le istituzioni della classe lavoratrice furono distrutte col ferro e col fuoco e, con esse, cessarono le agitazioni per il miglioramento dei salari.” In tal modo, “i piccoli proprietari di Sardegna si accorsero che, col cessare dei movimenti operai e dei miglioramenti di salari e coll’abbattersi della reazione fascista sui lavoratori delle fabbriche, venne nelle loro case la miseria, determinata dalla crisi vinicola, granaria e casearia, che non sono altro che un’offensiva, una reazione larvata dei capitalisti riuniti in 202

‘trust’ contro i piccoli proprietari ed i piccoli pastori.” Ecco perché i miseri lavoratori di campagna, che sostenevano la costituzione dell’Associazione di difesa dei contadini del Mezzogiorno, alimentavano profondi sentimenti ostili sia ai governanti in camicia nera sia ai capitalisti, ed avevano finalmente capito che i loro interessi coincidevano “perfettamente con quelli di tutti gli sfruttati e che la loro lotta deve avere come base la guerra ai detentori delle ricchezze mercé l’unione sacra degli operai e dei contadini per l’abbattimento della borghesia e l’instaurazione del governo dei Consigli degli operai e dei contadini.” Certo, Gramsci non aveva bisogno di questi suggerimenti o di queste esortazioni, dal momento che, come abbiamo detto, l’alleanza degli operai e dei contadini rientrava perfettamente nella sua visione della lotta economico-sociale e politica, avendo derivato dalla grande esperienza della rivoluzione russa e dell’intervento decisivo di Lenin, la consapevolezza della importanza dei contadini; e se abbiamo parlato di qualche suo periodo che può essere definito operaistico, è stato soltanto perché, ad esempio per l’ultimo, subito dopo il delitto Matteotti, egli si era preoccupato di trarre, dal sovvertimento determinato nella vita nazionale da quell’assassinio, tutti i motivi possibili per una eventuale azione contro il regime. Gli era sembrato, pertanto, che l’unica classe omogenea e decisa alla lotta contro il fascismo fosse quella operaia. Ma, una volta trascorso il momento opportuno per la formazione di una “opposizione operaia” e per lo sciopero generale, la situazione non presentava più soluzioni rapide, come aveva creduto all’inizio, ma prospettava anzi soluzioni a tempi lunghi; era naturale, quindi, che si richiamasse all’altro motivo di fondo del suo pensiero, all’alleanza operaicontadini, che era favorita dalla crisi, in apparenza irrimediabile, delle classi medie, una crisi che, secondo lui, 203

era la manifestazione palese di una più vasta crisi del regime capitalistico, iniziata, in Italia come in tutto il mondo, con la guerra, e che non era stata affatto sanata dal fascismo: questo, con i suoi metodi repressivi, non aveva segnato affatto una ripresa e uno sviluppo dell’economia nazionale. Forse, non era del tutto esatta questa interpretazione della “crisi radicale del regime capitalistico,” perché, dopo la guerra, l’economia italiana, così come quella degli altri paesi, aveva attraversato diversi stadi: un primo, fra il ‘19 e la prima metà del ‘20, di boom, di elevata espansione produttiva; il secondo, dalla seconda metà del ’20 al marzo-aprile del ‘22, di violenta e profonda depressione (pure questa generalizzata); infine, a partire dal superamento della recessione, era cominciata una nuova ondata ascendente e inflazionistica, i cui effetti negativi per il ceto industriale ed agrario (inevitabili scioperi e agitazioni) erano stati bloccati dal fascismo. Senza dubbio, la società internazionale era uscita dal conflitto con notevoli scompensi e con gravi mutamenti strutturali, e lo stesso ricorso, nel nostro paese, ad una aperta dittatura ne era stato il sintomo più evidente: ci si era trovati di fronte ad un inasprimento delle tensioni nazionalistiche che avevano generato la tendenza di ogni paese a rinchiudersi in se stesso, o, meglio, a crearsi una zona da esso controllata e sottratta alla penetrazione di altri paesi; mentre la creazione del primo Stato comunista, oltre ad eliminare un vasto mercato che era stato sfruttato fino allora colonialisticamente per redditizi investimenti e per vendervi i prodotti industriali ricavandone materie prime e generi alimentari, aveva gettato un’ombra paurosa su tutte le borghesie e le classi dirigenti conservatrici e reazionarie del vecchio continente, facendole vivere nel continuo assillo di un dilagare del morbo. Pertanto, si era entrati in una nuova società che aveva perso del tutto l’antica sicurezza e che era 204

costretta, per poter sperare di sopravvivere, a rendere sempre più opprimente e pesante il controllo sulle classi inferiori e subalterne o sulle zone e sui paesi sottoposti al predominio delle zone e dei paesi più evoluti e più ricchi: in ultima analisi, cioè, a creare diseguaglianze insopportabili che difficilmente avrebbero potuto essere tenute nascoste o segrete, ma che sarebbero, o prima o dopo, scoppiate clamorosamente. Ecco da che cosa proveniva la crisi della piccola borghesia, dal fatto di essere costretta a “rientrare nei ranghi,” avrebbero detto i fascisti, a riprendere una posizione secondaria e anch’essa subalterna, dopo essersi illusa di avere, mediante il fascismo, fatto un passo decisivo verso la conquista del potere e verso l’assunzione di una piena responsabilità nella conduzione politica e sociale del paese. Gramsci, in una relazione al Comitato centrale del PC del 13-14 agosto ’24 (La crisi italiana), descriveva lucidamente tale stato di cose, anche se non lo inquadrava in una prospettiva più vasta: “Si dice generalmente, e anche noi comunisti siamo soliti affermare”, egli sosteneva, “che fattuale situazione italiana è caratterizzata dalla rovina delle classi medie: ciò è vero, ma deve essere compreso in tutto il suo significato. La rovina delle classi medie è deleteria perché il sistema capitalistico non si sviluppa, ma invece subisce una restrizione: essa non è un fenomeno a sé, che possa essere esaminato e alle cui conseguenze si possa provvedere indipendentemente dalle condizioni generali dell’economia capitalistica; essa è la stessa crisi del regime capitalistico che non riesce più e non potrà più riuscire a soddisfare le esigenze vitali del popolo italiano, che non riesce ad assicurare alla grande massa degli italiani il pane e il tetto. Che la crisi delle classi medie sia oggi al primo piano è solo un fatto politico contingente, è solo la forma del periodo che appunto perciò chiamiamo 205

’fascista.’ Perché? Perché il fascismo è sorto e si è sviluppato sul terreno di questa crisi nella sua fase incipiente, perché il fascismo ha lottato contro il proletariato ed è giunto al potere sfruttando e organizzando l’incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia che riusciva, con la forza della sua organizzazione, ad attenuare i contraccolpi della crisi capitalistica nei suoi confronti. Perché il fascismo si esaurisce e muore appunto perché non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, non ha appagato nessuna speranza, non ha lenito nessuna miseria. Ha fiaccato lo slancio rivoluzionario del proletariato, ha disperso i sindacati di classe, ha diminuito i salari e aumentato gli orari; ma ciò non bastava per assicurare una vitalità anche ristretta al sistema capitalistico; era necessario perciò anche un abbassamento di livello delle classi medie, la spoliazione e il saccheggio della economia piccolo-borghese e quindi la soffocazione di ogni libertà […]. Perché,” si chiedeva Gramsci, risalendo alle origini del fascismo e sollevando un problema molto interessante, a cui dava una soluzione, a nostro parere, alquanto superficiale, ma che allora, e pure in seguito, era comune a molti, “in Italia, la crisi delle classi medie ha avuto conseguenze più radicali che negli altri paesi ed ha fatto nascere e portato al potere dello Stato il fascismo? Perché da noi,” era la sua risposta, che abbiamo già ricordato altrove, “dato lo scarso sviluppo dell’industria e dato il carattere regionale dell’industria stessa, non solo la piccola borghesia è molto numerosa, ma essa è anche la sola classe ‘territorialmente’ nazionale: la crisi capitalistica aveva assunto, negli anni dopo la guerra, anche la forma acuta di uno sfacelo dello Stato unitario e […] non c’era altra soluzione che quella fascista, dopo che nel 1920 la classe operaia aveva fallito al suo compito di creare coi suoi mezzi uno Stato capace di soddisfare anche 206

le esigenze nazionali unitarie della società italiana.” Si sarebbe potuto osservare, a proposito di quest’ultima analisi retrospettiva della nascita del fascismo, che essa era troppo semplicistica e riduttiva e che raddossare ogni responsabilità alla piccola borghesia - in base ad un giudizio che fu, verso il ‘34, accolto anche da Togliatti nelle sue Lezioni sul fascismo - era tale da togliere la complessità che è sempre inerente ad ogni evento storico. Inoltre, Gramsci avrebbe dovuto dimostrare in che cosa erano consistiti, nel ‘20, lo slancio rivoluzionario del proletariato e il fallimento della classe operaia nel suo compito di creare un nuovo Stato, che avrebbe dovuto, fra l’altro, “soddisfare le esigenze nazionali unitarie della società italiana,” cioè rispondere alle richieste “di una ideologia confusamente patriottica” e venire incontro agli avversari sul loro terreno per evitare la soluzione fascista. Ma se avesse esaminato con attenzione le vicende del ‘20, si sarebbe accorto che nemmeno l’occupazione delle fabbriche era stato un momento rivoluzionario del proletariato urbano, soprattutto perché troppo limitata ad una sola categoria - gli operai metalmeccanici e metallurgici -, isolata da altre categorie di lavoratori, che allora avevano un notevole peso nell’economia del paese, come quella tessile, e del tutto dimentica delle condizioni dei contadini: in alcune città, come Torino, gli operai metalmeccanici avevano una importante consistenza, mentre in molte altre città, province e regioni della stessa Italia settentrionale erano pressoché inconsistenti (ad es., a Bergamo e provincia di fronte a circa 26.000 operai tessili stavano solo circa 800 metalmeccanici). Tuttavia, abbandoniamo una simile analisi retrospettiva e veniamo alle speranze che Gramsci vedeva spalancarsi a causa della nuova crisi della piccola borghesia: una prima volta, nell’immediato dopoguerra, questa si era volta verso la 207

destra conservatrice e reazionaria per “odio contro la classe operaia” (un altro giudizio piuttosto sommario e affrettato), ora egli sperava che la nuova crisi, dovuta ai primi anni di governo delle camicie nere, avesse contribuito a spostarla a sinistra, verso un’alleanza con le classi lavoratrici. Dal punto di vista economico, infatti, il regime fascista aveva accelerato la rovina della piccola e media azienda, stritolando, con il regime fiscale, con il monopolio del credito, ecc., la piccola impresa commerciale e industriale. Ed anche nelle campagne il processo della crisi si era rivelato “più strettamente legato con la politica fiscale dello Stato fascista. Dal 1920 ad oggi, il bilancio medio di una famiglia di mezzadri o di piccoli proprietari è stato gravato di un passivo di circa 700 lire per aumenti di imposte, peggioramento delle condizioni contrattuali, ecc. In modo tipico si manifesta la crisi della piccola azienda nell’Italia settentrionale e centrale. Nel Mezzogiorno intervengono nuovi fattori, di cui il principale è l’assenza dell’emigrazione e il conseguente aumento della pressione demografica; a ciò si accompagna una diminuzione della superficie coltivata e quindi del raccolto. Il raccolto del grano è stato, l’anno scorso, di 68 milioni di quintali in tutta Italia, cioè è stato, su scala nazionale, superiore alla media, ma è stato inferiore alla media di tutta Italia; è completamente fallito nel Mezzogiorno. Le conseguenze di una tale situazione non si sono ancora manifestate in modo violento, perché esistono nel Mezzogiorno condizioni di economia arretrata, le quali impediscono alla crisi di rivelarsi subito in modo profondo, come avviene nei paesi di avanzato capitalismo: tuttavia, già si sono verificati in Sardegna episodi gravi del malcontento popolare determinato dal disagio economico.” È, questo, un passo molto interessante che si presta a diverse considerazioni: forse è una delle prime volte che Gramsci parla dei mezzadri e dei piccoli proprietari, 208

inserendoli molto probabilmente nelle “classi medie,” e che mette in rilievo il loro profondo malessere e l’aggravamento delle loro condizioni di vita. Ma, stranamente, limita l’area della “piccola azienda” al nord e al centro della penisola, quasi essa non fosse stata - allora come oggi -largamente diffusa pure nel Mezzogiorno, per il quale anzi preferisce dire che “intervengono nuovi fattori”: assenza dell’emigrazione, diminuzione e fallimento del raccolto del grano. Eppure avrebbe dovuto conoscere bene la situazione della sua Sardegna, che, in quanto a diffusione della piccola proprietà contadina, era sullo stesso piano delle altre regioni meridionali; dimostrava però di essere perfettamente al corrente del fatto che esistevano “nel Mezzogiorno condizioni di economia arretrata,” di tipo ancora arcaico e feudale, il che avrebbe dovuto obbligarlo a ricercare un superamento della frantumatissima e sparsa piccola proprietà terriera, che non consentiva un reddito sufficiente al contadino - sempre oberato di debiti e ai limiti della pura sussistenza - e nemmeno una sia pur modesta accumulazione di capitale. Un partito che avesse voluto veramente e seriamente convogliare le forze delle campagne insieme con quelle del proletariato urbano verso lo sbocco della “rivoluzione proletaria”, avrebbe dovuto sforzarsi, in tutti i modi, di modificare tale arretratezza che non permetteva nessuna coscienza di classe - e favorire la creazione di forme di conduzione cooperativa o associata. Invece, per il momento, Gramsci preferiva ritornare al compito che avrebbe dovuto svolgere la borghesia legata alla fabbrica e alla classe operaia, quando, nella relazione già citata più sopra, dichiarava vana la “premessa ideologica” del fascismo di volere conquistare lo Stato, perché “in Italia, come in tutti i paesi capitalistici, conquistare lo Stato significa anzitutto conquistare la fabbrica, significa avere la capacità di superare i capitalisti nel governo delle forze 209

produttive del paese. Ciò può essere fatto dalla classe operaia, non può essere fatto dalla piccola borghesia che non ha nessuna funzione essenziale nel campo produttivo, che, nella fabbrica, come categoria industriale, esercita una funzione prevalentemente poliziesca, non produttiva. La piccola borghesia può conquistare lo Stato solo alleandosi con la classe operaia, solo accettando il programma della classe operaia: sistema soviettista invece che parlamento nell’organizzazione statale, comunismo e non capitalismo nell’organizzazione dell’economia nazionale e internazionale.” Ad ogni modo - egli ribadiva - il dato fondamentale di quella fase era “la crisi della piccola borghesia e il passaggio della stragrande maggioranza di questa classe sotto la bandiera delle opposizioni.” Delle opposizioni, si noti bene, e questo doveva portarlo a valutare più benevolmente, pur mantenendo integro il fondo negativo del suo pensiero, “il sistema delle forze democratiche antifasciste,” la cui forza maggiore consisteva nel Comitato delle opposizioni che era riuscito a imporre una certa disciplina “a tutta una gamma di partiti che va dal massimalista a quello popolare.” E il fatto che massimalisti e popolari potessero lavorare su uno stesso piano programmatico era il tratto più caratteristico della situazione, anche se esso rendeva inevitabilmente “lento e faticoso il processo di sviluppo degli avvenimenti e determina la tattica del complesso delle opposizioni, tattica di aspettativa, di lente manovre avvolgenti, di paziente sgretolamento di tutte le posizioni del governo fascista. I massimalisti, con la loro appartenenza al comitato e con l’accettazione della disciplina comune, garantiscono la passività del proletariato, assicurano la borghesia ancora esitante fra fascismo e democrazia che una azione autonoma della classe operaia non sarà più possibile se non molto più tardi, quando il nuovo governo sia già costituito e rafforzato, 210

quando un nuovo governo sia già in grado di schiacciare un’insurrezione delle masse disilluse e dal fascismo e dall’antifascismo democratico. La presenza dei popolari garantisce una soluzione intermedia fascista-popolare come quella dell’ottobre 1922, che diventerebbe molto probabile, perché imposta dal Vaticano, nel caso di un distacco dei massimalisti dal blocco e di una alleanza con noi.” Egli doveva riconoscere che le forze più grandi erano state portate “alle opposizioni dai popolari e dai riformisti, che hanno largo seguito nelle città e nelle campagne. L’influenza di questi due partiti viene integrata dai costituzionali amendoliani, che portano al blocco l’adesione di larghi strati dell’esercito, del combattentismo, della corte.” Ma non rinunciava alla veemente polemica contro i massimalisti che, accettando di valere nel comitato quanto il partito dei contadini e i gruppi di “Rivoluzione liberale,” avevano, alla fine, assecondato lo sforzo dei partiti intermedi (riformisti e costituzionali) e dei popolari di sinistra, che era stato quello di “mantenere nella stessa compagine i due estremi.” Di nuovo, non si rifiutava di ammettere che “l’atteggiamento compatto e unitario delle opposizioni” aveva registrato successi notevoli, fra cui, il più importante gli appariva l’aver provocato la crisi dei “fiancheggiatori,” l’avere cioè obbligato i liberali a differenziarsi nettamente dal fascismo ed a porgli precise condizioni. Eppure, anche in questo successo egli scorgeva un motivo di debolezza delle forze democratiche, perché proprio esso aveva spostato a destra il blocco e accentuato il carattere conservatore dell’antifascismo, sicché poteva concludere con un accento fra il sorpreso e l’amaro: “i massimalisti non si sono accorti, i massimalisti sono disposti a fare le truppe di colore non solo di Amendola e di Albertini, ma anche di Salandra e di Cadorna.” Tuttavia, sebbene la “situazione obbiettiva” non fosse 211

sostanzialmente mutata dal delitto Matteotti in poi (poiché esistevano sempre due governi nel paese che si contendevano la conquista dell’organizzazione statale borghese: l’esito di tale lotta sarebbe dipeso oltre che dalla crisi generale e dall’atteggiamento dei partiti costituzionali, anche, e soprattutto, dall‘“azione del proletariato rivoluzionario guidato dal nostro partito”), Gramsci si sforzava di cogliere tutti gli elementi che gli consentissero una “politica di movimento” e non di stasi o di rassegnazione: la crisi della piccola borghesia (delle classi medie); il superamento, da parte del partito comunista, della fase più acuta della crisi senza perdere il contatto con le grandi masse lavoratrici, il che gli aveva consentito di evitare di rimanere isolato e di venire “travolto dall’ondata democratica”; la convinzione, che andava diffondendosi nella classe lavoratrice, che il blocco aventiniano rappresentasse “un semi-fascismo che vuole riformare, addolcendola, la dittatura fascista, senza far perdere al sistema capitalistico nessuno dei benefizi che il terrore e l’illegalismo gli hanno assicurato negli ultimi anni con l’abbassamento del livello di vita del popolo italiano”; infine, la speranza che i massimalisti modificassero la loro politica e raggiungessero i comunisti, convincendosi che il fascismo aveva solo ritardato la rivoluzione proletaria, non l’aveva resa impossibile, ma aveva anzi contribuito ad allargare ed approfondire il terreno di tale rivoluzione. Quale deve essere - si chiedeva Gramsci animato da una decisa volontà di dare alla crisi una soluzione radicalmente diversa dal compromesso che era vagheggiato dalle opposizioni democratiche ed antifasciste, unite nel respingere una eventuale “ondata rivoluzionaria,” proprio nel momento in cui parecchi episodi politici stavano a denotare “il disgregamento del sistema fascista, il distacco lento ma inesorabile dal sistema fascista di tutte le forze 212

periferiche” - “l’atteggiamento politico e la tattica del nostro partito nella situazione attuale?” Dopo una valutazione più critica e più spassionata, doveva ammettere che non si era decisamente entrati in una situazione rivoluzionaria, bensì “democratica,” poiché “le grandi masse lavoratrici sono disorganizzate, disperse, polverizzate nel popolo indistinto. Qualunque possa essere perciò,” proseguiva, “lo svolgimento immediato della crisi, noi possiamo prevedere solo un miglioramento nella posizione politica della classe operaia, non una sua lotta vittoriosa per il potere. Il compito essenziale del nostro partito consiste nella conquista della maggioranza della classe lavoratrice, la fase che attraversiamo non è quella della lotta diretta per il potere, ma una fase preparatoria, di transizione alla lotta per il potere, una fase insomma di agitazione, di propaganda, di organizzazione.” La realtà era che egli aveva tratto “molti insegnamenti” dalla crisi Matteotti, la quale aveva fatto capire “che le masse, dopo tre anni di terrore e di oppressione, sono diventate molto prudenti e non vogliono fare il passo più lungo della gamba. Questa prudenza si chiama riformismo, si chiama massimalismo, si chiama ‘blocco delle opposizioni. Essa è destinata a scomparire, certamente, e anche in un periodo di tempo non lungo; ma intanto esiste e può essere superata solo se noi, volta per volta, in ogni occasione, in ogni momento, pur andando avanti, non perderemo il contatto con l’insieme della classe lavoratrice.” Confessava, insomma, che le ultime drammatiche vicende non avevano fatto altro che rafforzare quelle correnti politiche contro cui si batteva, e la tattica che proponeva come Tunica valida al suo partito era difficile e complessa, dato che consisteva in una lotta, a sinistra, contro i gruppi e le tendenze “che vogliono, per fanatismo, forzare la situazione” e far saltare al proletariato la “fase di transizione,” e, a destra, contro 213

chi proponeva un compromesso con le opposizioni e tentava di intralciare “gli sviluppi rivoluzionari della nostra tattica e il lavoro di preparazione per la fase successiva.” Tutto proteso ad attrezzare il “nostro partito in modo da diventare idoneo alla sua missione storica,” esortava, con accesa passione, a lavorare affinché, in ogni fabbrica, in ogni villaggio esistesse “una cellula comunista, che rappresenti il partito e l’Internazionale, che sappia lavorare politicamente, che abbia dell’iniziativa.”1 A tal fine, però, occorreva combattere contro “una certa passività che esiste ancora nelle nostre file,” e che si manifestava con la tendenza a “tenere angusti i ranghi del partito.” “Dobbiamo, invece,” proclamava sempre più entusiasmandosi in questa visione di un futuro carico di soddisfazioni e di risultati, “diventare un grande partito, dobbiamo cercare di attirare nelle nostre organizzazioni il più gran numero possibile di operai e contadini rivoluzionari per educarli alla lotta, per formarne degli organizzatori e dei dirigenti di massa, per elevarli politicamente.” Solo in tal modo avrebbe potuto essere costruito lo “Stato operaio e contadino,” e solo in tal modo la lotta per la rivoluzione avrebbe potuto essere condotta vittoriosamente: “Altrimenti si torna davvero, come gridano i reazionari, agli anni 1919-20, agli anni cioè dell’impotenza proletaria, agli anni della demagogia massimalista, agli anni della sconfitta delle classi lavoratrici. Neanche noi comunisti,” esclamava con energia, “vogliamo tornare agli anni 1919-20.” Eppure, il compito che gli era sembrato, in un primo momento, facile, tornava ad essere difficile quando pensava che il Partito comunista, in quel periodo della sua storia, non poteva proporsi di creare un organismo che supplisse la Confederazione del lavoro, influenzata dai riformisti, i quali potevano accontentarsi di “corporazioni di operai qualificati,” mentre i comunisti volevano tutto il contrario e intendevano “lottare per riorganizzare le grandi 214

masse.” Che era, naturalmente, un lavoro duro e lungo, a cui, però, non era assolutamente possibile rinunciare, e, perciò, sosteneva che il partito doveva proporsi “il problema di sviluppare, attraverso le cellule di fabbrica e di villaggio, una reale attività. Il Partito comunista rappresenta la totalità degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice: noi non siamo un puro partito parlamentare. Il nostro partito svolge quindi una vera e propria azione sindacale, si pone a capo delle masse anche nelle piccole lotte quotidiane per il salario, per la giornata lavorativa, per la disciplina industriale, per gli alloggi, per il pane […]. Occorre pertanto suscitare un largo movimento delle fabbriche che possa svilupparsi fino a dar luogo a un’organizzazione di comitati proletari di città eletti dalle masse direttamente, i quali, nella crisi sociale che si presenta, diventino il presidio degli interessi generali di tutto il popolo lavoratore.” Una simile azione nelle fabbriche e nei villaggi avrebbe rivalorizzato il sindacato, ridandogli contenuto ed efficienza, ed avrebbe anche aiutato a condurre una lotta efficace contro i riformisti e i massimalisti, e, solamente nella misura in cui il partito fosse riuscito a conquistare effettivamente la maggioranza dei lavoratori ed a trasformare molecolarmente le basi dello Stato democratico, avrebbe dato tutta la misura dei suoi progressi sul cammino della rivoluzione, consentendo pure il passaggio ad una fase successiva di sviluppo. Ulteriore fase che sarebbe stata la reale dimostrazione della “nostra volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati.” Peraltro, per ottenere ciò, era necessario “riorganizzare le grandi masse e diventare un grande partito, il solo partito nel quale la popolazione lavoratrice veda l’espressione della sua volontà politica, il presidio dei suoi interessi immediati e permanenti nella storia.” 215

Erano, senza dubbio, queste di Gramsci, posizioni puntuali e molto interessanti, che tuttavia potrebbero sollevare qualche perplessità: così, ad esempio, quando, celebrando giustamente in Giacomo Matteotti il primo degli homines novi in contrasto con quelli della vecchia generazione (in “Lo Stato operaio,” 28 agosto ’24), affermava che, da circa quarant’anni, la società italiana cercava invano di uscire dal dilemma fra uno Stato - una classe dirigente -, alcune ristrette categorie privilegiate che non riuscivano più a soddisfare i bisogni elementari della enorme maggioranza della popolazione, e l’opera di “animosi pionieri” che avevano risvegliato “alla vita civile, alle rivendicazioni economiche e alla lotta politica le decine e centinaia di migliaia di contadini e di operai” (senza, peraltro, dare ad essi una esatta indicazione dei mezzi e delle vie per giungere “a una concreta e completa affermazione di sé”). E concludeva, sostenendo che la crisi italiana, giunta all’esasperazione, si sarebbe potuta superare unicamente “con l’avvento al potere dei contadini e degli operai, con la fine del potere delle caste privilegiate e con la costruzione di una nuova economia, con la fondazione di un nuovo Stato.” Ma, per ottenere questo, era necessaria “una organizzazione di combattimento, alla quale gli elementi migliori della classe lavoratrice aderiscano con entusiasmo e convinzione, e attorno alla quale le grandi masse si stringano fiduciose e sicure. È necessaria una organizzazione nella quale prenda carne e figura una volontà chiara di lotta, di applicazione di tutti i mezzi che dalla lotta sono richiesti, senza i quali nessuna vittoria totale ci sarà data.” A dire la verità, sia la precedente “organizzazione di comitati proletari” nelle città e nei villaggi, sia questa “organizzazione di combattimento” appaiono, ad una valutazione più seria, quasi del tutto prive di significato, soprattutto perché non è possibile trarre 216

da esse un programma di azione, dal momento che “la conquista del potere, la distruzione dello Stato dei borghesi e dei parassiti, la sostituzione ad esso di uno Stato di contadini e di operai,” non avrebbero potuto avvenire soltanto per un atto di volontà, risoluta e determinata, si, ma astratta e senza un preciso contenuto. Sembrava che Gramsci esaurisse tutta la volontà di riscossa e di liberazione delle masse in una ipotetica organizzazione rivoluzionaria non solo nelle parole ma anche nella sua struttura e nel suo modo di lavorare,” senza minimamente preoccuparsi delle basi programmatiche su cui avrebbe dovuto fondarsi tale organizzazione, a meno che non credesse che bastasse un cenno o un appello generico per raccogliere le classi lavoratrici - operai e contadini, la cui partecipazione alla lotta comune, adesso, è vista in maniera estremamente nebulosa, incerta e disorganica - attorno al vessillo del “partito di classe degli operai, del partito della rivoluzione proletaria.” E quanto più parlava di “rivoluzione proletaria” tanto più cadeva nell’indistinto, e nel vago. Peraltro, quasi avvertendo il vuoto in cui si aggirava con simili prospettive, cercava di reagire fornendo al sindacato indicazioni che soltanto molti anni più tardi saranno accolte quali prassi normale nella lotta sindacale: “Perché la lotta sindacale diventi un fattore rivoluzionario,” scriveva nell’ Introduzione al primo corso della scuola interna di partito, dell’aprile-maggio ‘25, “occorre che il proletariato l’accompagni con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista di una lotta generale che investe tutte le questioni più vitali dell’organizzazione sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. L’elemento ‘spontaneità’ non è sufficiente per la lotta rivoluzionaria: esso non porta mai la classe operaia oltre i limiti della democrazia borghese esistente. Ê necessario l’elemento coscienza, l’elemento 217

‘ideologico,’ cioè la comprensione delle condizioni in cui si lotta, dei rapporti sociali in cui l’operaio vive, delle tendenze fondamentali che operano nel sistema di questi rapporti, del processo di sviluppo che la società subisce per l’esistenza nel suo seno di antagonismi irreducibili, ecc.” Queste linee per una efficace azione sindacale, che incidesse profondamente nel tessuto e nei rapporti sociali, erano, indubbiamente, qualcosa di molto più della “vera e propria azione sindacale” consigliata nella relazione ricordata sopra, e per cui il Partito comunista avrebbe dovuto porsi “a capo delle masse anche nelle piccole lotte quotidiane per il salario, per la giornata lavorativa, per la disciplina industriale, per gli alloggi, per il pane.” Qui si trattava di piccole e modeste rivendicazioni corporative, che avrebbero interessato il ceto operaio e non l’intera classe lavoratrice, mentre la lotta del proletariato contro il capitalismo condotta su tre fronti economico, politico e ideologico -, che si riducevano ad uno solo che “riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale,” acquistava un significato complessivo che mirava a “porre concretamente il problema fondamentale della nostra rivoluzione: quello dell’alleanza tra operai e contadini.” La parola d’ordine che egli poneva al partito, nella relazione al Comitato centrale del maggio ‘25 (in “L’Unità” del 3 luglio ‘25) - studiare “quali sono i problemi essenziali della vita italiana e quale loro soluzione favorisce e determina l’alleanza rivoluzionaria del proletariato coi contadini e realizza l’egemonia del proletariato,” - doveva dargli effettivamente la sicurezza di aver fatto diventare, o di poter far diventare, il suo partito “un fattore essenziale della situazione italiana,” un partito ormai dominante e pronto a sacrificare “gli interessi immediati per gli interessi generali e permanenti della classe.” Eppure, a questo quadro mancava un fattore di estrema 218

importanza, che era dato dalla piccola borghesia. A tale proposito, come abbiamo messo in rilievo, Gramsci aveva ben presto compreso il processo di lenta disgregazione del blocco classi medie-fascismo, che si era costituito nell’immediato dopoguerra: il che gli aveva dato una forte speranza di riuscire a riprendere l’iniziativa politica. Ma con l’espressione “classi medie,” lo stesso Gramsci intendeva parecchie cose, e, ad ogni modo, non sembra affatto che volesse riferirsi ai piccoli proprietari rurali, che, insieme con i contadini, erano, in realtà, mantenuti in una posizione subalterna rispetto alla borghesia, alla borghesia intellettuale e agli operai. In Un esame della situazione italiana - un testo che Gramsci discusse, come relazione, nella riunione del Comitato direttivo del PC del 2-3 agosto ‘26 - si trova analizzato il distacco della piccola borghesia dalla dittatura con acutezza, ma, nei passi che riporteremo, si vede come per piccola borghesia egli intendesse soprattutto la classe media urbana. Dunque, secondo lui, accanto alla tendenza Rocco, Federzoni, Volpi - che lavorava d’accordo con la corona, lo stato maggiore, il Vaticano e gli elementi più moderati dell’Aventino -, c’era l’altra tendenza, “ufficialmente impersonata da Farinacci,” che rappresentava, “obbiettivamente,” le due contraddizioni del fascismo: “1) La contraddizione tra agrari e capitalisti nelle divergenze d’interesse specialmente doganali. È certo che l’attuale fascismo rappresenta tipicamente il netto predominio del capitale finanziario nello Stato, capitale che vuole asservire a sé tutte le forze produttive del paese; 2) la seconda contraddizione è di gran lunga la più importante [per Gramsci, dal punto di vista politico] ed è quella tra la piccola borghesia ed il capitalismo. La piccola borghesia fascista vede nel partito lo strumento della sua difesa, il suo Parlamento, la sua democrazia. Attraverso il partito vuole 219

fare pressioni sul governo per impedire di essere schiacciata dal capitalismo.” Ma, nel momento stesso in cui la piccola borghesia credeva di scorgere nel regime uno scudo protettivo, reagiva vivacemente contro l’asservimento completo in cui l’Italia era stata messa dal governo fascista verso gli Stati Uniti: infatti, con la liquidazione del debito di guerra all’America e all’Inghilterra aveva lasciato, a queste due nazioni, la possibilità di gettare, ogni volta che l’avessero voluto, sul mercato mondiale enormi quantità di valori italiani, e, poi, il debito Morgan era stato contratto, come si è visto, a condizioni disastrose. Erano tutti elementi che, tendenzialmente, avrebbero potuto servire alla piccola borghesia per assumere, nella difesa dei suoi interessi, pur attraverso il partito fascista (ma era una illusione che, secondo Gramsci, sarebbe rapidamente venuta meno ed egli si preparava appunto per il post-fascismo), “un’intonazione nazionalista contro il vecchio nazionalismo e l’attuale direzione del partito che ha fatto sacrificio della sovranità nazionale e dell’indipendenza politica del paese agli interessi di un gruppo ristretto di plutocratici.” Che fare, allora? si chiedeva Gramsci; quale posizione avrebbe dovuto tenere il Partito comunista? La risposta era pronta: “[…] compito del nostro partito dev’essere quello di insistere in modo particolare sulla parola d’ordine degli Stati uniti soviettisti d’Europa, come mezzo di iniziativa politica fra le file fasciste,” cioè contrapporre al predominio delle potenze anglosassoni, o dei soli Stati Uniti che non nascondevano la loro volontà di sostituirsi alla Gran Bretagna nella guida dei popoli europei, un altro blocco dei paesi del vecchio continente, uniti attorno all’Unione Sovietica. Sarebbe stato per l’espansionismo imperialistico americano un colpo gravissimo, ma era una proposta che adombrava una divisione del mondo civile (o almeno dell’Europa) in due zone e che sicuramente avrebbe incontrato difficoltà 220

talmente enormi da farla naufragare rapidamente: perché si sarebbero dovuti unire paesi per tradizioni, strutture sociali ed economiche e politiche lontanissime. Senza pensare, poi, che una parte dell’Europa aveva un quasi assoluto bisogno degli aiuti degli Stati Uniti che, pur chiudendosi nell’isolazionismo, erano costretti a ricercare ed a trovare i mercati per gli investimenti dei loro capitali (secondo i vecchi metodi dell’imperialismo della fine dell’Ottocento) nelle nazioni europee. Un blocco soviettista non avrebbe avuto alcuna possibilità di sopravvivere a lungo, anche se quegli investimenti massicci di capitali americani furono come la corda che sostiene colui che sta per lanciarsi nel vuoto per impiccarsi: e lo si comprese chiaramente, nel ’29, con lo scoppio della più grande crisi economica che avesse mai colpito il sistema capitalistico. Altri elementi di rottura fra la piccola borghesia e il capitalismo - che Gramsci era pronto a cogliere come un sintomo di instabilità del fascismo - erano dati dalla “nuova organizzazione delle società per azioni coi voti privilegiati” e dal “dislivello verificatosi in quest’ultimo tempo fra la massa del capitale delle società anonime che si va concentrando in poche mani e la massa del risparmio nazionale,” un dislivello che dimostrava come le fonti del risparmio stessero essiccandosi, “perché i redditi attuali non sono più sufficienti ai bisogni.” Infine, l’ultimo - il terzo - elemento di una non lontana crisi del regime, Gramsci lo scorgeva nel lavorio che avveniva nel campo delle correnti democratiche per giungere a costituire “un certo raggruppamento con carattere più radicale che nel passato. L’ideologia repubblicana si rafforza, inteso ciò nello stesso senso che per il fronte unico, cioè negli strati medi dei partiti democratici e, in questo caso, anche in buona parte degli strati superiori.” Sembrava che i vecchi capi ex-aventiniani, lo stesso Amendola, perfino i popolari, 221

si dichiarassero repubblicani, al fine di determinare su tale terreno “un raggruppamento neodemocratico che dovrebbe prendere il potere al momento della catastrofe fascista e instaurare un regime di dittatura contro la destra reazionaria e contro la sinistra comunista.” Di fronte a tutti questi elementi, ben più decisivi, il problema Farinacci si rimpiccioliva, anche perché era evidente che la tendenza del ras cremonese mancava, nel partito fascista, “di unità, di organizzazione, di principi generali, ” per ridursi soltanto ad un vago e diffuso “stato d’animo.” Quello che veramente importava a Gramsci, “dal nostro punto di vista,” era che “questa crisi, in quanto rappresenta il distacco della piccola borghesia dalla coalizione borghese agraria fascista, non può non essere un elemento di debolezza militare del fascismo.” Debolezza militare sì, ma Gramsci faceva osservare che quella che si sarebbe potuta dire l’armatura esterna del regime (le forze armate, gli ufficiali dell’esercito, una parte della stessa milizia e i funzionari dello stato in genere, cioè della burocrazia di cui bisognava tenere molto conto in situazioni quali l’italiana) non avrebbe consentito un passaggio immediato dal fascismo alla dittatura del proletariato: sarebbe stato, invece, possibile che si passasse ad un governo di coalizione, nel quale uomini come Giolitti, Orlando, Di Cesarò, De Gasperi dessero una maggiore garanzia capace di frenare e allontanare la crisi rivoluzionaria del capitalismo, “spostare gli avversari, logorarli, disgregarli.” Nel 1926, quando scriveva questa relazione, c’era appena stato il grande sciopero generale inglese,2 che aveva dominato la scena internazionale, e che aveva sollevato alcuni “problemi fondamentali per il nostro movimento,” in particolare quello delle capacità di resistenza del regime borghese-capitalistico. Si trattava di un problema 222

molto interessante non solo da un punto di vista “teorico e scientifico, ma anche dal punto di vista pratico ed immediato”: era, perciò, una questione che aveva non tanto un valore di astratta analisi storica quanto piuttosto una ben precisa importanza per impostare una corretta direttiva di lotta politica. Tuttavia, per chiarire con esattezza tale problema, bisognava, nel campo internazionale, distinguere fra “quel gruppo di Stati capitalistici che sono la chiave di volta del sistema borghese e l’altro gruppo degli Stati che rappresentano come la periferia del mondo capitalistico” (noi, oggi, indicheremmo, con tale suddivisione, i paesi sviluppati e i paesi sottosviluppati, o, almeno, per usare un termine gramsciano, arretrati). Era chiaro che l’Italia, con la Polonia, il Portogallo, la Spagna, le nazioni dei Balcani e, in parte, anche la Francia, rientrava nel secondo gruppo, dei paesi periferici. A questo punto, Gramsci tracciava una breve storia degli ondeggiamenti, delle perplessità e delle varie vicende delle classi medie: “Ciò che mi pare caratteristico della fase attuale della crisi capitalistica consiste nel fatto che, a differenza del ‘20-‘21-’22, oggi le formazioni politiche e militari delle classi medie hanno un carattere radicale di sinistra, o almeno si presentano dinanzi alle masse come radicali di sinistra. Lo sviluppo della situazione italiana, dati i suoi caratteri peculiari, mi pare possa, in un certo senso, dare il modello per le diverse fasi attraversate dagli altri paesi. Nel ‘19 e ‘20 le formazioni militari e politiche delle classi medie erano, da noi, rappresentate dal fascismo primitivo e da D’Annunzio. È noto che, in quegli anni, tanto il movimento fascista come il movimento dannunziano erano disposti anche ad allearsi con le forze proletarie rivoluzionarie per rovesciare il governo di Nitti, che appariva come il mezzano del capitale americano per asservire l’Italia (Nitti è stato, in Europa, il precursore di Dawes). La seconda fase del 223

fascismo (‘21 e ‘22) è nettamente reazionaria. Dal ‘23 si inizia un processo molecolare per cui gli elementi più attivi delle classi medie si spostano dal campo reazionario fascista nel campo delle opposizioni aventiniane. Questo processo precipita in una cristallizzazione che poteva essere fatale al fascismo nel periodo della crisi Matteotti. Per la debolezza del nostro movimento, debolezza che, d’altronde, aveva essa stessa un significato, il fenomeno è interrotto dal fascismo, e le classi medie sono respinte in una nuova polverizzazione politica. Oggi, il fenomeno molecolare ha ripreso su una scala di molto superiore di quello iniziatosi nel ‘23 ed è accompagnato da un fenomeno parallelo di raggruppamento delle forze rivoluzionarie intorno al nostro partito, ciò che assicura che una nuova crisi tipo Matteotti difficilmente potrà avere un nuovo 3 gennaio. Queste fasi attraversate dall’Italia, in una forma che chiamerei classica ed esemplare, le ritroviamo in quasi tutti i paesi che abbiamo chiamati periferici del capitalismo. La fase attuale italiana, cioè un raggruppamento a sinistra delle classi medie, la troviamo in Ispagna, in Portogallo, in Polonia, nei Balcani.” La conclusione che Gramsci immediatamente traeva da queste osservazioni - ai fini operativi -, pur se dovevano essere perfezionate ed esposte in forma più sistematica, gli sembrava che potesse essere la seguente: “realmente noi entriamo in una fase nuova dello sviluppo della crisi capitalistica. Questa fase si presenta in forme distinte nei paesi della periferia capitalistica e nei paesi di avanzato capitalismo.” La tipica forma distinta dei paesi sottosviluppati, o della periferia, era data dal fatto che in essi “tra il proletariato e il capitalismo si distende un largo strato di classi intermedie, le quali vogliono e, in un certo senso, riescono a condurre una propria politica con ideologie che spesso influenzano larghi strati del proletariato, ma che hanno una particolare 224

suggestione sulle masse contadine.” Era, questo, un fenomeno che Gramsci conosceva molto bene e su cui aveva riflettuto a lungo e che formerà anche uno dei motivi conduttori dei suoi scritti sulla questione meridionale. Il Mezzogiorno si presentava come la zona più arretrata di un paese già arretrato - “una grande disgregazione sociale” -, la cui struttura era formata da tre strati: “la grande massa contadina amorfa e disgregata; gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale; i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali” (ad esempio, un B. Croce o un G. Fortunato). Nelle società, dove le forze economiche si erano sviluppate in senso capitalistico, prevaleva un nuovo tipo di intellettuale, allevato dagli industriali: l’organizzatore tecnico, lo specialista della scienza applicata; mentre, nelle società a prevalente base contadina e artigiana, esercitava ancora un ruolo notevole, o addirittura preponderante, il vecchio e tradizionale tipo di intellettuale, democratico nella sua faccia contadina ma reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo, politicante e corrotto (così dice in Alcuni temi della questione meridionale del ‘26). Nell’Italia meridionale, appunto, era di gran lunga prevalente “questo tipo con tutte le sue caratteristiche,” poiché si trattava di un intellettuale uscito “prevalentemente da un ceto che nel Mezzogiorno è ancora notevole: il borghese rurale, cioè il piccolo e medio proprietario di terre che non è contadino, che non lavora la terra, che si vergognerebbe di fare l’agricoltore, ma che dalla poca terra che ha, data in affitto o in mezzadria semplice, vuol ricavare: di che vivere convenientemente, di che mandare all’università o in seminario i figli, di che fare la dote alle figlie che devono sposare un ufficiale o un funzionario civile dello Stato. Da questo ceto gli intellettuali ricevono un’aspra avversione per il contadino lavoratore, considerato come una macchina da lavoro che deve essere smunta fino 225

all’osso e che può essere sostituita, data la superpopolazione lavoratrice; ricavano anche il sentimento atavico e istintivo della folle paura del contadino e delle sue violenze distruggitrici e quindi un abito di ipocrisia raffinata e una raffinatissima arte di ingannare e addomesticare le masse contadine.” Ed ancora: “Il contadino meridionale è legato al grande proprietario per il tramite dell’intellettuale.” La fondamentale esattezza di questo giudizio sull’intellettuale del Mezzogiorno,3 gli era stata pienamente confermata dalle elezioni del 6 aprile, allorché il fascismo era stato messo “nettamente in minoranza” nell’Italia settentrionale, “cioè là dove risiede la forza economica e politica che domina la nazione e lo Stato,” ma dove era anche molto più difficile mettere in pratica i sistemi mafiosi, camorristici e clientelari che avevano buon gioco con le plebi del sud e di cui si erano serviti quasi tutti i primi ministri - soprattutto dal Giolitti in poi -, per avere un parlamento docile e prono ai loro voleri. La realtà era che, nel nord, esistevano abbastanza consistenti isole di proletariato urbano, di contadini salariati e braccianti (nella bassa pianura padana, la cui agricoltura era basata sulla grande proprietà che dava in conduzione la terra ai fittabili, un ceto che aveva rappresentato, dal Settecento, la borghesia rurale), e di piccola borghesia attiva e intraprendente, che, nel “periodo Matteotti,” aveva tentato di “guidare essa la lotta per l’abbattimento del regime fascista, traendo dietro a sé le altre classi mobilitabili per questa lotta”: ma il fallimento dell’Aventino aveva fornito “la riprova,” scriveva Gramsci in un articolo, Elementi della situazione, in “L’Unità,” 24 novembre ‘25, “della impossibilità che nel periodo dell’imperialismo la piccola borghesia guidi una lotta contro la reazione, forma e strumento del dominio del capitale e degli agrari.” 226

Era stato questo il motivo - unito alla convinzione che il proletariato industriale fosse, “da noi, solo una minoranza della popolazione lavoratrice” - che aveva spinto Gramsci ad occuparsi della quistione agraria (cfr. il resoconto dei lavori del III Congresso del PC di Lione, Cinque anni di vita del Partito), approfondendo la ricerca di una linea per l’attività fra i contadini. In che cosa consisteva tale attività? “Il partito,” egli sosteneva, “deve tendere a creare in ogni regione delle unioni regionali dell’Associazione di difesa dei contadini,” pur tenendo presente che occorreva “distinguere quattro raggruppamenti fondamentali delle masse contadine, per ognuno dei quali è necessario trovare atteggiamenti e soluzioni politiche ben precise e complete.” Il primo raggruppamento era costituito dai contadini slavi dell’Istria e del Friuli, che risentivano molto della questione nazionale; il secondo era dato dal “Partito dei contadini,” che aveva la sua base soprattutto nel Piemonte e al quale era possibile applicare i “termini generali della tattica agraria del leninismo,” anche perché si trovava nella regione che aveva “uno dei centri proletari più efficienti in Italia.” Gli altri due raggruppamenti erano di gran lunga i più importanti e richiedevano al partito la maggiore attenzione: “1) la massa dei contadini cattolici, raggruppati nell’Italia centrale e settentrionale, i quali sono direttamente organizzati dall’Azione cattolica e dall’apparato ecclesiastico in generale, cioè dal Vaticano; 2) la massa dei contadini dell’Italia meridionale e delle isole.” A proposito dei primi, Gramsci si era già lamentato con Togliatti, il 18 maggio ‘23 (nell’anno che è stato detto da P. Gobetti di generale “inerzia” e che servi invece a Gramsci stesso per un ripensamento autocritico dell’esperienza e dell’elaborazione consiliare), per non aver saputo sfruttare i! congresso di Torino del Partito popolare (aprile 1923) come una occasione propizia ad “affermazioni essenziali nel problema 227

dei rapporti fra proletariato e classi di campagna.” Ma neppure questo interessamento, che lasciava prevedere la successiva formulazione dell’alleanza operaicontadini, dimostrava che egli fosse riuscito a comprendere quale era effettivamente la base di massa dei popolari e dei cattolici nelle campagne, da quali categorie di contadini o di lavoratori della terra era composta: il PPI non poteva certo contare sui salariati e sui braccianti, che erano organizzati dal Partito socialista, perché si faceva forte dell’adesione dei piccoli proprietari e dei coltivatori diretti che, da una ormai lunga tradizione e dal preciso interesse di difendere (e, se possibile, ampliare anche di poco) il proprio minuscolo e frantumato fazzoletto di terra, erano spinti verso le correnti politiche o i partiti che si presentavano con un volto moderato e conservatore. Gramsci sembrava quasi meravigliarsi del fatto che i popolari non fossero penetrati nel Mezzogiorno, ma qui incontravano, allora, un forte ostacolo nel predominio clientelare e mafioso esercitato dalla piccola borghesia intellettuale (secondo un fenomeno molto ben descritto dallo stesso Gramsci), che, governativa per vocazione, ed anche per necessità, era stata prima giolittiana, poi diventerà fascista e, infine, in questo secondo dopoguerra, democristiana, pur di non perdere mai il contatto con chi deteneva - o detiene - il potere e poteva - e può - dispensare, con maggiore o minore larghezza, ai sudditi. Da questo derivava la fiducia che Gramsci riponeva, in base ad una coerente linea approvata a grande maggioranza a Lione, in una azione che favorisse le formazioni di sinistra che si manifestavano fra i contadini cattolici e che gli apparivano “strettamente legate alla crisi generale agraria iniziatasi già prima della guerra nel centro e nel nord d’Italia [ma quella crisi aveva colpito molto seriamente anche l’Italia del sud, che, da ogni tensione sul piano internazionale, 228

vedeva chiudersi gli sbocchi commerciali per i suoi prodotti pregiati]. Il Congresso ha affermato che l’atteggiamento assunto dal partito verso i contadini cattolici, sebbene contenga in sé alcuni degli elementi essenziali per la soluzione del problema politicoreligioso italiano, non deve, in nessun modo, condurre a favorire i tentativi, che possono nascere, di movimenti ideologici di natura strettamente religiosa. Il compito del partito consiste nello spiegare i conflitti che nascono sul terreno della religione come derivanti dai conflitti di classe e nel tendere a mettere sempre in maggior rilievo i caratteri di classe di questi conflitti […].” Un simile programma doveva sembrare a Gramsci non troppo difficile da realizzare, dal momento che poteva avere l’appoggio di G. Miglioli, un fenomeno che aveva “una grande importanza” nell’indicare “che le masse contadine, anche cattoliche, si indirizzano verso la lotta rivoluzionaria.” Queste parole erano pronunciate alla Camera il 16 maggio ‘25 e, poco dopo, il 1° agosto, R. Grieco, inviando un rapporto del Consiglio italiano contadino al Consiglio internazionale contadino (Krestintern), parlava dell’opera svolta dal Miglioli in seno a quest’ultimo organismo di Mosca e si proponeva pure di distribuire fra i contadini bianchi un opuscolo in cui si spiegasse “il perché il Miglioli ha assunto la nota posizione verso l’Internazionale dei contadini. Fra i contadini cristiani,” proseguiva, “l’azione del Miglioli è certamente seguita con interesse. Abbiamo avuto occasione di parlare con alcuni amici intellettuali del Miglioli, i quali ci hanno fatto l’impressione di avere una visione più radicale del Miglioli stesso nei rapporti tra contadini e classe operaia. Noi cercheremo,” concludeva, “che costoro agiscano sul Miglioli e, in certo [sic, forse: senso], ne controllino e ne sollecitino l’attività.” Anche in questo caso del Miglioli, né Gramsci né Grieco mostravano di avere capito a fondo il 229

significato della sua propaganda basata sui “consigli di cascina,” intesi quali strumenti di collaborazione fra il proprietario terriero e il fittabile da un lato e i contadini, dall’altro; né avevano capito che tale propaganda si era diffusa soprattutto nella zona nord della provincia di Cremona, verso Crema, e nella Bergamasca, dove, cioè, la piccola proprietà coltivatrice si era inserita, più o meno largamente, fra la grande proprietà. Il Miglioli, pertanto, rimaneva fondamentalmente fedele alla impostazione data dal Partito popolare alla questione contadina, e ciò forse può spiegare l’incertezza, notata dal Grieco, sul problema dei rapporti fra classe operaia e contadini. Al solito, quasi inspiegabilmente, sia il rapporto sia le tesi di Lione (cfr. La situazione italiana e i compiti del PCdI), non dicono proprio nulla sulla “funzione della massa contadina meridionale nello svolgimento della lotta anticapitalistica italiana,” pur sostenendo - ma soltanto a parole - che “i contadini meridionali sono, dopo il proletariato industriale e agricolo dell’Italia dei nord, l’elemento sociale più rivoluzionario della società italiana.” La verità era che, ancora una volta, nessuno riusciva - o era riuscito - a penetrare nella loro effettiva realtà le caratteristiche peculiari delle classi sociali delle campagne nel Meridione. Gramsci stesso aveva tanto parlato, come si è visto, rallegrandosene, di crisi della piccola borghesia e delle classi medie, ma non era stato capace di affrontare il problema del piccolo coltivatore diretto o del piccolo proprietario, che rappresentavano - e rappresentano tuttora - l’ossatura più salda e più diffusa di quelle classi medie. Cosi, nel suo rapporto, Gramsci partiva da un discorso generale - ed anche un po’ generico - sui rapporti che intercorrevano fra il capitalismo italiano e i contadini meridionali, che non potevano essere confinati nei normali 230

rapporti storici fra città e campagna, quali erano stati creati dallo sviluppo del capitalismo, ma erano “aggravati e radicalizzati” dal fatto che tutto il sud e le isole, economicamente e politicamente, funzionavano “come una immensa campagna di fronte all’Italia del nord, che funziona come un’immensa città.” Il che aveva determinato e tendeva a determinare “una vivacissima lotta a carattere regionalistico e profonde correnti verso il decentramento e le autonomie locali.” Affermazione in se stessa giusta, per quanto Gramsci avrebbe dovuto sapere come l’aspirazione delle popolazioni verso il regionalismo o il decentramento fosse causata da uno sfruttamento di tipo coloniale ai quale esse erano state sottoposte nello Stato accentrato italiano e da una grave e radicale incomprensione delle esigenze elementari di vita dei ceti rurali, alla cui situazione di estrema miseria non veniva additato nessun concreto rimedio. Ne derivava quello che lamentava lo stesso Gramsci, cioè che i contadini meridionali, “a differenza dei tre raggruppamenti precedentemente descritti,” non avevano “nel loro complesso, nessuna esperienza organizzativa autonoma. Essi sono inquadrati negli schemi tradizionali della società borghese, per cui gli agrari, parte integrante del blocco agrario-capitalistico, controllano le masse contadine e le dirigono secondo i loro scopi.” La guerra e le agitazioni operaie del dopoguerra, che avevano indebolito l’apparato statale, avevano, almeno in parte, risvegliato le masse contadine del Mezzogiorno, ed avevano favorito la nascita di movimenti degli ex-combattenti e di “vari partiti di ‘rinnovamento,’ che cercavano di sfruttare questo risveglio della massa contadina, qualche volta secondandolo, come nel periodo dell’occupazione delle terre, più spesso cercando di deviarlo e quindi di consolidarlo in una posizione di lotta per la cosiddetta democrazia, come è ultimamente avvenuto con la 231

costituzione della ‘Unione nazionale.’” Ma, viene spontanea l’osservazione che sarebbe stato sufficiente avere una anche minima conoscenza della storia dell’Italia meridionale, per scorgere come sempre, dal Settecento in poi (o, meglio, dalla rivolta di Masaniello del 1647), tutte le volte che il tessuto statale del Mezzogiorno ha risentito le conseguenze di un indebolimento del potere centrale, le masse contadine si sono mosse compatte all’occupazione delle terre; dalla fine del secolo XVIII, allorché nel sud si fecero sentire le ripercussioni della rivoluzione francese, opera della borghesia che aspirava a passare in proprietà privata i beni demaniali o le terre comuni, tali occupazioni si intensificarono: nel 1799 con l’abbattimento della repubblica partenopea attaccata dai contadini guidati dal cardinale Ruffo; nel 1848; nel 1858 con la spedizione del Pisacane; nel 1860 con una delle più grandi insurrezioni popolari che abbia avuto il nostro paese, il brigantaggio, che vide la ribellione dei contadini contro l’estensione al Meridione della legislazione borghese piemontese e il passaggio alle persone più abbienti del pascolo comune; nel 1893-‘94 con i fasci siciliani, esplosione di un profondo malcontento degli strati più umili per i provvedimenti protezionisti del 1887, che avevano favorito il settore tessile ma chiuso il mercato francese ai prodotti ortofrutticoli del Mezzogiorno; nel 1919-‘20 quando le masse contadine ebbero la sensazione che lo Stato fosse entrato in gravi difficoltà; infine nel secondo dopoguerra. Si trattava, pertanto, di un fenomeno endemico nella società meridionale, di cui rappresentava quasi una valvola di sfogo, e non si poteva assolutamente guardare a quei moti delle plebi del Mezzogiorno con un certo disdegno o con sufficienza - come sembrava fare Gramsci nel passo citato -, perché altrimenti il Partito comunista avrebbe ripreso 232

anch’esso Patteggiamento di superiorità e di voluto distacco che avevano tenuto i socialisti settentrionali di fronte ai fasci siciliani, considerati quasi delle jacqueries di tipo medioevale; da essi bisognava separare le proprie responsabilità, come se loro avessero raggiunto una piena maturità di classe e non ci fossero, invece, anche al nord, ampie zone di sottosviluppo, in tutto simili a quelle del sud. Ma, forse, Gramsci risaliva alla sua esperienza sarda che non conosceva tali estese occupazioni di terre, ed aveva elaborato le sue posizioni partendo dalla situazione dell’Italia settentrionale (dove, peraltro, ed egli ne era perfettamente consapevole, “il proletariato industriale [era] solo una minoranza della popolazione lavoratrice”) e dagli avvenimenti generali della vita del paese, che, soprattutto con le elezioni del 6 aprile, avevano determinato “un passaggio in massa della piccola borghesia meridionale al fascismo,” rendendo “più acuta la necessità di dare ai contadini meridionali una direzione propria per sottrarsi definitivamente all’influenza borghese agraria.” Il solo capace di organizzare la “massa contadina meridionale” era, a suo parere, “l’operaio industriale, rappresentato dal nostro partito. Ma perché questo lavoro di organizzazione,” aggiungeva, “sia possibile ed efficace, occorre che il nostro partito si avvicini strettamente al contadino meridionale, che il nostro partito distrugga nell’operaio industriale il pregiudizio inculcatogli dalla propaganda borghese che il Mezzogiorno sia una palla di piombo che si oppone ai più grandi sviluppi dell’economia nazionale e distrugga nel contadino meridionale il pregiudizio, ancora più pericoloso, per cui egli vede nel nord d’Italia un solo blocco di nemici di classe.” Qualora questi risultati non fossero stati conseguiti, la borghesia, “sconfitta nella sua zona [cioè il Settentrione],” avrebbe potuto concentrarsi nel sud per fare di tale parte della penisola “la piazza d’armi della 233

controrivoluzione.” Ci saremmo trovati, in definitiva, nella stessa situazione in cui si erano trovati, nel 1799, i repubblicani giacobini partenopei, assaliti dalle orde dei contadini che, con la benedizione della Chiesa di Roma, distruggevano le conquiste civili realizzate da un ceto politico illuminato ma borghese, che si era battuto per imporre una nuova società borghese, contro cui si scagliava il risentimento delle masse popolari delle campagne che volevano, invece, ripristinare le antiche usanze feudali, dalle quali si sentivano più protetti e difesi. Ancora una volta, dunque, Gramsci lasciava intravedere la possibilità che una controrivoluzione reazionaria, adesso, della borghesia poggiante sulle forze conservatrici dei contadini, i cui problemi non erano stati risolti “in modo chiaroveggente e rivoluzionariamente saggio” dal partito comunista, facesse perdere al proletariato tutte le conquiste di classe faticosamente conseguite. Ma che cosa proponeva Gramsci per risolvere gli opprimenti problemi che assillavano i piccoli coltivatori che costituivano - lo ripetiamo di nuovo la struttura portante dell’agricoltura meridionale? Nulla, assolutamente nulla; e l’invito e l’esortazione a risolvere la quistione “in modo chiaroveggente e rivoluzionariamente saggio,” aveva un accento da filosofo dell’illuminismo settecentesco, che, confidando nella ragione e nelle idee chiare, era sicuro di poter vedere spuntare una nuova società a breve scadenza. Ma, ripetiamo, quale era il programma che Gramsci sosteneva per i contadini del Mezzogiorno, che occupavano le terre, ricordando che di esse godevano per un diritto che si perdeva nella notte dei tempi e che erano state loro strappate dalla borghesia con la violenza e con i soldati dell’esercito napoleonico o piemontese, o si sforzavano di allargare, anche se di poco, i confini del loro minuscolo e frantumato possesso? Il liberare 234

dagli opposti pregiudizi sia “il contadino meridionale” sia “l’operaio industriale,” poteva essere un lodevole intento, che non agiva, però, in maniera concreta ed effettiva, sugli interessi dell’uno e dell’altro e, soprattutto, che non contribuiva affatto a migliorare la loro condizione economica, umana e sociale. Questa posizione falsa e priva di prospettive per i piccoli proprietari meridionali era possibile solo perché mancava, alla base, una esatta comprensione di una realtà che non rientrava in alcuni schemi generici e generali, che impedivano di calarsi veramente nella condizione di quei poveri contadini. Tant’è vero che, anche nelle tesi del III congresso di Lione, si trovano affermazioni che provengono da un simile apriorismo: “come risulta dalla nostra analisi,” era detto in esse, “le forze motrici della rivoluzione italiana sono, in ordine di importanza, le seguenti: 1) la classe operaia e il proletariato agricolo [del nord, come se fosse stato tutto omogeneo, schierato sulle stesse posizioni di lotta di classe, e come se non ci fossero state, anche in quel nord mitizzato, zone agricole di greve ed opprimente arretratezza, egemonizzate dal clero e dai cattolici]; 2) i contadini del Mezzogiorno e delle Isole e i contadini delle altre parti d’Italia.” E proseguivano affermando che “lo sviluppo e la rapidità del processo rivoluzionario non sono prevedibili al di fuori di una valutazione di elementi soggettivi: cioè nella misura in cui la classe operaia riuscirà ad acquistare una propria figura politica, una coscienza di classe decisa e una indipendenza da tutte le altre classi, dalla misura in cui essa riuscirà a organizzare le sue forze, cioè a esercitare di fatto un’azione di guida degli altri fattori e in prima linea e concretare politicamente la sua alleanza con i contadini. Si può affermare, in linea generale, e basandosi del resto sulla esperienza italiana, che dal periodo della preparazione rivoluzionaria si entrerà in un periodo rivoluzionario 235

‘immediato,’ quando il proletariato industriale e agricolo del settentrione sarà riuscito a riacquistare, per lo svolgimento della situazione oggettiva e attraverso una serie di lotte particolari e immediate, un alto grado di organizzazione e di combattività.” Perciò, “la forza motrice della rivoluzione italiana” avrebbe dovuto essere “il proletariato industriale e agricolo del settentrione,” che, tuttavia, non aveva ancora acquistato quella coscienza di classe decisa e quel grado di organizzazione e di combattività tali da consentirgli di far passare il paese dal periodo della preparazione rivoluzionaria a1 periodo rivoluzionario “immediato,” e da concretare politicamente l’alleanza con i contadini, i quali, ancora una volta (come sempre, del resto), erano oggetto di azione politica e sociale e non soggetto cosciente e partecipe. Infatti, questi contadini continuavano a rimanere una classe subalterna, se le tesi, parlando di quelli del Mezzogiorno e delle isole, dicevano che essi dovevano “essere posti in prima linea tra le forze su cui deve contare la insurrezione contro la dittatura industriale-agraria, per quanto non si debba attribuir loro, all’infuori di una alleanza col proletariato, una importanza decisiva. L’alleanza tra essi e gli operai è il risultato di un processo storico naturale e profondo, favorito da tutte le vicende dello Stato italiano”: il che equivaleva a sostenere che nemmeno il Partito comunista avrebbe potuto agire per preparare e sollecitare una simile alleanza, dal momento che tutto avrebbe dovuto essere, fatalisticamente, “il risultato di un processo storico naturale e profondo, favorito dalle vicende dello Stato italiano.” Come si poteva sperare di fare una rivoluzione, nell’Italia di allora - e di sempre, del secolo scorso oppure di oggi -, in cui pure si ammetteva che esisteva una grande maggioranza di popolazione delle campagne, senza coinvolgere queste e, in particolare, senza adoperarsi attivamente per educare in esse una matura e 236

consapevole coscienza di classe? “Per i contadini delle altre parti d’Italia,” continuavano le tesi, senza meglio specificare a quali contadini si accennasse, se soltanto alle “masse dei contadini slavi dell’Istria e del Friuli” e al “partito dei contadini” che aveva la sua base in Piemonte, di cui aveva parlato Gramsci nel suo rapporto, o anche a contadini di altre zone, “il processo di orientamento verso l’alleanza col proletariato è più lento e dovrà essere favorito da una attenta azione politica del partito del proletariato. I successi già ottenuti in Italia in questo campo indicano, del resto, che il problema di rompere l’alleanza dei contadini con le forze reazionarie deve essere posto, per gran parte, anche in altri paesi dell’Europa occidentale, come problema di distruggere la influenza della organizzazione cattolica sulle masse rurali.” Era un problema giusto, ma ci si sarebbe dovuti rendere conto che le “masse rurali” controllate dagli organismi cattolici erano, in particolare, costituite di piccoli proprietari e non di salariati e braccianti, e che, perciò, si sarebbe dovuto operare in quella direzione, promuovendo, come abbiamo già detto, cooperative o forme di conduzione associata della terra, dalle quali i miseri e tormentati possessori di piccoli campi potessero trarre nuove ragioni di vita e non condurre una esistenza fra l’emigrazione interna o esterna, la soggezione al clientelismo e alla mafia ed una sudditanza schiavistica al potere politico o a quello economico, che approfittavano dei loro sudori per creare fortune non insidiate. Sia Gramsci sia le tesi si preoccupavano degli ostacoli allo sviluppo della rivoluzione che derivavano non solo dalla pressione fascista ma anche dai vari gruppi in cui si divideva la borghesia. Il primo, nell’art. cit. su “L’Unità” del 24 novembre ‘25, criticava duramente “i capi del partito massimalista,” che mascheravano “l’inerzia e la passività col 237

vuoto verbalismo rivoluzionario e con le pose estremiste,” e che facevano propaganda “per la costituzione di un nuovo raggruppamento politico che racco[gliesse] alcuni dei rottami dell’Aventino,” mentre un’azione analoga svolgevano “sopra altri strati della classe lavoratrice e della piccola borghesia antifascista gli unitari e i repubblicani; fra le popolazioni rurali i popolari; fra le masse agricole della Sardegna i sardisti, e fra quelle del Mezzogiorno e della Sicilia l’Unione nazionale e la democrazia sociale.” Di fronte a questa penetrazione il Partito comunista, a suo parere, avrebbe dovuto “riportare il proletariato ad avere una posizione autonoma di classe rivoluzionaria, libera da ogni influenza di classi, gruppi e partiti controrivoluzionari, capace di raccogliere intorno a sé e di guidare tutte le forze che possono essere mobilitate per la lotta contro il capitalismo.” E ancora aggiungeva, chiarendo meglio il suo pensiero, che il PC avrebbe dovuto “adoperarsi per strappare alla influenza [dei gruppi e dei partiti controrivoluzionari] gli strati anche più arretrati della classe operaia e far sorgere dal basso un fronte unico di forze classiste. Questo fronte unico deve avere una forma organizzata e la forma di esso è data dai comitati operai e contadini. Tutti i tentativi di costituzione di organismi rappresentativi di massa devono essere favoriti e sviluppati con tenacia e costanza, come avviamento alla realizzazione pratica del fronte unico dei comitati operai e contadini.” Riprendeva, con una certa monotonia, quella che si poteva considerare la sua posizione-chiave di questo periodo ed in cui riponeva tutte le sue speranze per una azione rivoluzionaria, cioè la formula della alleanza operaicontadini, senza riflettere che fra gli operai e i contadini esistevano ceti diversi e spesso anche contrastanti, i cui interessi, divergenti, mal si sarebbero potuti accomunare. Uno studio esatto, scientifico, delle 238

stratificazioni sociali non può non essere la premessa indispensabile, in qualsiasi periodo storico, per una efficace azione politica. A loro volta, le tesi, riprendendo le impostazioni di Gramsci, osservavano che i gruppi in cui si divideva la borghesia tentavano di esercitare la loro influenza “sopra una sezione della popolazione” o sul proletariato “per fargli perdere la sua figura e autonomia di classe rivoluzionaria. Si costituisce, in questo modo, una catena di forze reazionarie, la quale, partendo dal fascismo, comprende i gruppi antifascisti che non hanno grandi basi di massa (liberali), quelli che hanno una base nei contadini e nella piccola borghesia (democratici, combattenti, popolari, repubblicani), e anche negli operai (partito riformista), e quelli che, avendo una base proletaria, tendono a mantenere le masse operaie in una condizione di passività e far loro seguire la politica di altre classi (partito massimalista). Anche il gruppo che dirige la Confederazione del lavoro deve essere considerato a questa stregua, cioè come il veicolo di una influenza disgregatrice di altre classi sopra i lavoratori.” Era uno stato di cose che avrebbe potuto essere modificato soltanto mediante “una sistematica e ininterrotta azione politica della avanguardia proletaria organizzata nel Partito comunista.” Una speciale attenzione doveva essere dedicata ai gruppi o partiti che avevano o cercavano di formarsi una base di massa, “come partiti democratici o come partiti regionali, nella popolazione agricola del Mezzogiorno e delle Isole (Unione nazionale, partiti d’azione sardo, molisano, irpino, ecc.).” Si trattava di movimenti che rappresentavano un ostacolo “alla realizzazione della alleanza tra operai e contadini. Orientando le classi agricole del Mezzogiorno verso una democrazia rurale e verso soluzioni democratiche regionali, essi spezzano la unità del processo di liberazione della 239

popolazione lavoratrice italiana, impediscono ai contadini di condurre a un esito la loro lotta contro lo sfruttamento economico e politico della borghesia e degli agrari, e preparano la trasformazione di essi in guardia bianca della reazione. Il successo politico,” concludevano le tesi, “della classe operaia è, anche in questo campo, in relazione con l’azione politica del partito del proletariato.” Come si vede, l’interesse del Partito comunista e dei suoi dirigenti era attratto, più che dalla “pressione fascista,” dalla influenza che i partiti democratici borghesi - che andavano dal liberale al massimalista e alla Confederazione del lavoro - potevano esercitare non solo sulle classi agricole (che, poi, venivano compendiate in una sola categoria, cioè i contadini), ma perfino sul proletariato, impedendogli di portare a buon fine il “processo di liberazione della popolazione lavoratrice italiana.” Ed ancora affiorava, vivo e insistente, il timore che i contadini, pur sfruttati dalla borghesia e dagli agrari, si prestassero a diventare la “guardia bianca della reazione.” Era un timore che effettivamente doveva preoccupare, ma, per individuarlo meglio, si sarebbe dovuta fare quella analisi della stratificazione sociale della popolazione delle campagne, la cui mancanza, già diverse volte, abbiamo detto essere il difetto più grave della posizione dello stesso Gramsci e dei suoi compagni. In effetti - come abbiamo ripetutamente fatto notare -, fra coloro che troppo rapidamente e troppo genericamente erano classificati come contadini, c’era anche il piccolo proprietario, che non era adeguatamente preso in considerazione, con le sue tendenze moderate e conservatrici, dal PC, come si può scorgere anche dall’articolo di R. Grieco su Il V Congresso del Partito Sardo d’Azione (in “L’Unità,” 2 e 11 ottobre ’25). Il Grieco conduceva una dura polemica contro il Partito sardo 240

d’azione, definito “il comitato sardo dell’Aventino,” in cui “gli interessi dei contadini, dei pastori e dei pescatori della Sardegna” erano sopraffatti dalla “ideologia conservatrice dei capi opportunisti e democratici.” Erano questi ultimi che impedivano ai contadini sardi di “redimersi dalla schiavitù economico-politica del grande capitale,” cercando e trovando un alleato nel solo regime che potesse garantire “la vitalità e lo sviluppo delle conquiste contadine,” cioè nel governo operaio-contadino. Sul tema della ricerca e della scelta, da parte del partito contadino, di un alleato, che fosse “la classe capace di tenere il potere,” il Grieco si diffondeva a lungo, ma accennava non poche volte ai contadini poveri come ai naturali alleati degli operai rivoluzionari, e solo di sfuggita parlava della “maggioranza dei contadini medi” (espressione molto vaga che non si capisce bene che cosa volesse indicare): “[…] a che cosa può tendere un partito rivoluzionario contadino? Poiché si pone irresistibilmente un suo problema del regime, esso è destinato a diventare un elemento della reazione. Solo se la classe contadina accetta il problema del regime economico-politico contenuto nello formula governo operaio-contadino, essa può garantirsi la vittoria e (ciò che più conta) il rafforzamento della vittoria. Solo creando delle unioni contadine regionali (e in questo concetto di unioni regionali è tanta parte del problema contadino italiano) che raggruppino la totalità dei contadini poveri, e la maggioranza dei contadini medi, magari federate nazionalmente, e le quali si propongano di affiancare la lotta della classe operaia, solo così la classe contadina può diventare una forza rivoluzionaria effettiva.” Certo, non si riesce a capire che cosa volesse dire il Grieco con quella “maggioranza dei contadini medi,” quasi contrapposta alla “totalità dei contadini poveri”: forse che sarebbe stato sufficiente raccogliere nelle proprie file soltanto una parte dei contadini medi e abbandonare a se stessa l’altra parte? 241

Ma, allora, quest’ultima dove sarebbe andata a finire? Con le forze reazionarie o con quelle rivoluzionarie? Ma che la direttiva che puntava sui “contadini poveri” fosse suggerita o consigliata dal partito, sta a dimostrarlo un altro breve articolo di Gienne, in “L’Unità” del 30 settembre ‘25 (Movimento giovanile in Sardegna), che, infatti, affermava: “[…] siccome l’economia sarda si basa sull’agricoltura, bisogna cominciare ad organizzare un serio lavoro tra i giovani lavoratori dei campi, nelle campagne e nei villaggi. Organizzare delle conferenze, delle riunioni, far aderire i contadini poveri alla Associazione di difesa fra i contadini poveri; unire tutti gli operai ai contadini, far penetrare il comunismo profondamente in tutti i giovani lavoratori dell’isola.” Né rivestiva grande importanza il fatto che, ancora Gienne, il giorno seguente, 1° ottobre, chiarisse come era composta la popolazione della Sardegna, di contadinilavoratori, di piccoli mezzadri, di contadini salariati e di pastori; né che nel modo seguente descrivesse la vita di questi diversi ceti: “i piccoli proprietari terrieri possiedono un po’ di terra, il cui prodotto non basta a soddisfare i più elementari bisogni di chi lavora; [sono] costrett[i] perciò a supplire lavorando la terra di qualche proprietario, mediante il compenso di 8 o 10 lire al giorno. Si badi bene, al giorno, e cioè non per 8 ore ma dal sorgere al tramontar del sole, con qualche breve intervallo per la magra colazione e desinare […]. Il piccolo proprietario contadino, quasi sempre analfabeta, spesse volte improvvisamente, senza ch’egli possa credere alle proprie orecchie ed ai propri occhi, vien cacciato fuori dal suo campicello che è stato venduto all’asta per un paio di centinaia di lire”; “Altrettanto potrebbesi dire dei piccoli mezzadri, affittuari, ecc., i quali, oltre a pagare un esorbitante canone annuo al proprietario della terra o 242

cedere a questi la metà del prodotto della terra, sono costretti a pagare tasse e poi tasse allo Stato che non fa niente per migliorare le sorti e le condizioni dell’agricoltura. Le tasse poi sono un vero malanno: vengono giù improvvise che il contadino non si aspetta nemmeno e che bisogna pagare: altrimenti c’è il sequestro e il campicello va messo all’asta. Quello dell’asta è un fatto che costituisce una piaga nella Sardegna,” una piaga per i piccoli mezzadri, ecc., ma non per quelle persone che si arricchivano “per mezzo delle compere fatte per mezzo dell’asta,” quasi sicuramente d’accordo con l’esattore erariale. I contadini salariati (che erano i contadini poveri di cui i comunisti parlavano) non stavano meglio: “sfruttati in modo inumano dai proprietari di terre e dai nobilucci locali, si contentano di poche lire al giorno. Si può dire che della vita non godano nessuna comodità: vivono per lavorare, lavorano per mangiare. L’orario delle 8 ore è sconosciuto; l’organizzazione non esiste, esisteva in qualche centro, ma ormai il fascismo ha civilizzato anche la Sardegna, riducendo il tenore di vita dei contadini nelle condizioni di 51 anni fa.” Infine, i pastori venivano ingaggiati ad annate e percepivano da 500 a 1000 a 1200 lire di paga all’anno, “secondo la loro età e capacità di lavoro: hanno un vitto e un po’ di biancheria, a seconda delle modalità fissate nel contratto o del bisogno che il padrone ha d’ingaggiare il servo e a seconda l’arrendevolezza di quest’ultimo. Come si vede, condizioni più che pessime: le cattive annate poi fanno il resto.” Una simile analisi, così puntuale e minuta, che riusciva a squarciare il velo della realtà sociale sarda, avrebbe dovuto condurre a indicazioni precise per l’azione, ma Gienne, se era capace di fotografare una situazione, non lo era altrettanto quando era messo di fronte al compito di proporre soluzioni: era solo capace di dire che i 243

giovani contadini sardi e gli adulti, “troppe volte turlupinati dai politicanti democratici autonomisti e fascisti,” avrebbero presto compreso “che solo il comunismo è la fine del loro sfruttamento, è l’inizio di un’era migliore.” Né, ripetiamo, c’era troppo da meravigliarsi di questa sordità di fronte ai problemi concreti da parte dei dirigenti comunisti, dal momento che abbiamo visto gli stessi Gramsci e Grieco parlare di alleanza operai-contadini senza minimamente sforzarsi di penetrare negli anfratti dei diversi strati che compongono una classe, che non può mai essere presa come un blocco granitico e compatto (cosi facendo, c’è il pericolo di cadere in un marxismo deteriore e, sotto certi aspetti, idealistico). Tipica è, a tale proposito, la meraviglia che traspare dal rapporto del Grieco del 1° agosto ’25, già citato sopra, in cui egli parla di un giro fatto in Piemonte “per renderci meglio edotti della situazione. Da dichiarazioni fatteci da uno dei capi attuali del partito dei contadini (deputato Prunotto di Alba) abbiamo appreso che il partito contadino non ha un numero di aderenti superiore a 25 mila (ma noi siamo certi che anche questa cifra è un bluff), mentre i capi contadineschi hanno fatto sempre credere di avere oltre 100 mila famiglie di contadini nelle loro file; abbiamo appreso altresì che il 10% degli iscritti è composto di braccianti e salariati, cosa che noi ignoravamo, il 35% di piccoli mezzadri e piccoli fittavoli, il resto di piccoli proprietari, dei quali molti contadini poveri [cioè circa il 55%!]. Si verifica un notevole esodo di contadini dal partito dei contadini, perché questo partito non dà nessuna garanzia di difesa alle masse che vi aderiscono.” Anche queste erano constatazioni preziose, che avrebbero potuto essere alla base di un lavoro proficuo, solo però se il partito comunista non avesse prestato la sua attenzione esclusivamente ai contadini poveri ma avesse anche intravisto l’esistenza dei piccoli mezzadri, dei piccoli 244

fittavoli e dei piccoli proprietari e si fosse proposto di venire incontro alle loro esigenze. Infatti, quel “notevole esodo di contadini dal partito dei contadini” non avveniva, quasi certamente, perché i contadini, stanchi del loro partito, si volgevano a creare o a rafforzare un’ala sinistra che stringesse rapporti con il PC, quanto piuttosto perché, trascinati dal loro spirito intimamente conservatore (si può dire che non ci sia nessuno più ferocemente conservatore di chi ha una piccola cosa sua da difendere), venivano attirati dal fascismo: il Grieco notava che dei “capi contadineschi” alcuni erano “in opposizione al fascismo,” mentre altri erano “filo-fascisti e dirigenti di un presunto neo-partito chiamato partito contadino nazionale.” Evidentemente, quei dirigenti dovevano avere un seguito, e sarebbe molto interessante sapere con esattezza da chi era composto: si vedrebbe quasi sicuramente che erano soprattutto i piccoli coltivatori a lasciarsi riassorbire dal regime. Ad ogni modo, non è forse possibile sostenere che nessuna traccia sia rimasta nel Grieco e nei suoi compagni dalla esperienza fatta durante il giro in Piemonte, o almeno sarebbe una affermazione eccessiva e ingenerosa, poiché si può scorgere il ricordo di quella esperienza in un appello diretto dalla Internazionale contadina al V Congresso del Partito sardo d’azione, tenuto a Macomer: dopo una premessa che prendeva in esame la situazione economicosociale della Sardegna “una delle regioni relativamente più ricche, ma con una popolazione che è fra le più povere”), risalendo anche al periodo post-unitario, dal 1861 al 1887 (“i commerci con la Francia in vino, carne, lana, ecc. procedevano regolarmente; i porti occidentali, che sono i migliori, lavoravano alacremente. Le leggi doganali del 1887 fanno cessare improvvisamente il commercio, le banche falliscono inghiottendo i risparmi dei contadini, dei pastori e dei pescatori: questi si indebitano fino ai capelli, e, per 245

pagare i fitti, si danno al disboscamento, alla produzione del carbone. Così, la ricchezza pubblica ha un colpo formidabile: il disboscamento rovina le condizioni agricole dell’isola ed il contadino sardo diviene più povero”), e dopo una serrata critica del partito sardo d’azione (che aveva abbandonato la sua piattaforma originaria, accogliendo “antichi schiavisti sardi ed avvocati di vecchie cricche e politicastri d’ogni politica,” tanto da diventare “il legame necessario fra la politica schiavista del capitale continentale e i contadini sardi”), il Grieco - che, più tardi, disse di avere scritto lui l’appello per conto dell’Internazionale contadina esponeva il “programma degli operai rivoluzionari d’Italia,” un programma che mirava “alla costituzione di una Repubblica italiana dei soviet operai e contadini,” che desse “nelle mani degli operai e dei contadini il potere politico ed economico ed il possesso dei mezzi di produzione. Che cosa significa,” egli si chiedeva, “questo programma per gli operai e per i contadini sardi? Esso significa: 1) che le miniere saranno nazionalizzate, cioè che il prodotto minerario invece di essere esportato grezzo, sarà lavorato in Sardegna; 2) le grandi proprietà terriere, e quelle di coloro che posseggono la terra e non la lavorano, saranno espropriate senza indennizzo e date ai contadini sardi che non hanno terra; 3) le forze idriche della Sardegna, già industrializzate, diverranno proprietà della classe lavoratrice sarda e non dei capitalisti; 4) che, essendo soppresso il protezionismo degli industriali, i contadini sardi non dovranno pagare anche il premio ai loro affamatori; 5) che la emigrazione sarà soppressa, potendo la industrializzazione della Sardegna assorbire la mano d’opera contadina esuberante; 6) le saline saranno tolte al lavoro dei galeotti e date al lavoro degli operai; 7) saranno tolti alla speculazione dei privati i caseifici, e gli industriali non potranno più affittare i pascoli ed imporre i prezzi che 246

vogliono monopolizzando la produzione, ma il regime pastorizio sarà regolato dalle associazioni cooperative dei contadini e dei pastori; 8) la industria del sughero sarà affidata ai contadini; 9) le ferrovie sarde saranno amministrate dai lavoratori della Sardegna; 10) i piccoli fittavoli non pagheranno più il fitto ai padroni; 11) i debiti e le ipoteche dei piccoli contadini verranno annullati; 12) i contadini che hanno poca terra ne avranno quanta è sufficiente ai loro bisogni familiari; 13) gli impieghi pubblici saranno dati ai figli dei contadini della Sardegna, i quali saranno messi nelle condizioni di coprirli; 14) un Consiglio, composto di operai, di contadini, di pastori e di pescatori, cioè composto dai rappresentanti di tutti gli elementi produttori, diventerà l’amministratore della ricchezza e regolerà la produzione non per la borghesia sarda o italiana o estera, ma nell’interesse degli operai e dei contadini della Sardegna e dell’Italia; 15) una lotta senza quartiere sarà condotta dallo Stato soviettista contro la guerra imperialistica e contro la minaccia di un ritorno della borghesia capitalistica spodestata.” Indubbiamente, si tratta di un programma interessante, ma che solleva diversi problemi: il Cricco, in una nota inserita in una raccolta di Scrìtti scelti (pubblicati nel 1966), ha affermato di aver prospettato “ai lavoratori sardi un tipo di Stato socialista federativo in Italia, nel quale la Sardegna entrerebbe come Repubblica federata.” Peraltro, dalla lettura del documento non parrebbe, perché anzi ne scaturiva una visione dell’isola quasi interamente separata dalla penisola, poiché tutti quei provvedimenti (nazionalizzazioni, espropriazioni, soppressione dell’emigrazione e abolizione del protezionismo industriale, esclusiva assunzione negli impieghi pubblici dei figli di contadini sardi, consigli di operai, di contadini, di pastori e di pescatori, e, infine, lotta contro la borghesia 247

spodestata), se potevano essere concepiti come un esperimento in vitro in una ristretta zona, non avrebbero potuto essere estesi a tutto il paese, a meno di non volersi impegnare in una azione a molto più ampio respiro e tale da coinvolgere l’Italia intera: altrimenti, come avrebbe potuto vivere la Sardegna isolata e senza alcuna relazione con uno o più paesi capitalistici? Perciò, il programma, sotto questo aspetto, rigettava risolutamente ogni federazione di repubbliche e delincava una ristrutturazione della Sardegna su basi strettamente autonomistiche, verrebbe fatto di dire autarchiche. Inoltre, il documento ondeggiava ancora, senza riuscire a prendere una posizione decisa, fra la tendenza a favorire e a mettere in primo piano la spartizione delle terre (una specie di occupazione legalizzata), oppure le associazioni cooperative (limitate, peraltro, a settori ben definiti), o un aiuto ai piccoli fittavoli e piccoli contadini; si continuava, inoltre, a parlare di contadini (poveri) a cui sarebbe stata affidata, ad esempio, l’industria del sughero; ecc. Si trattava di una incertezza (contadini poveri, piccoli coltivatori, cooperative?) e di una ambiguità che durerà a lungo nel Partito comunista e che si farà sentire anche in questo secondo dopoguerra, ma che, allora, poteva essere giustificata perché scaturiva da una elaborazione teorica troppo scarsa e rapida. Come si è visto, con Gramsci e con il Grieco abbiamo cercato, nei limiti delle nostre possibilità, di discutere approvando e confutando certe posizioni quando ci è sembrato opportuno di doverlo fare, ma, almeno, abbiamo trovato - ed è quello che maggiormente conta frequenti e seri motivi di discussione e di dibattito. Ma se andiamo a vedere, invece, gli scritti di P. Togliatti relativi a questo periodo, rimaniamo quasi stupiti per la povertà dei problemi sollevati o affrontati. La questione della piccola borghesia, che tanto rilievo aveva avuto in Gramsci, non 248

rientra affatto nell’ambito delle sue osservazioni: ne parla, non come questione, bensì come una nota di sfuggita, quando, in occasione del congresso del Partito popolare di Torino del ‘23, ne dice l’anima “di carattere quasi esclusivamente borghese,” ed afferma che essa è composta di “una piccola e media borghesia di professionisti, la quale è mossa in parte da interesse politico, ma in parte anche da convinzione e da motivi ideologici”; e, poi, dopo la crisi Matteotti quando afferma che la situazione italiana si è chiarita mostrando il grave isolamento del fascismo “dalla grande maggioranza delle forze reali e della opinione pubblica del paese. Il crollo è soprattutto notevole,” prosegue, “per quello che riguarda il sostegno dato al fascismo dalla piccola borghesia: gli strati decisivi della piccola borghesia si mobilitano con rapidità contro il fascismo, schierandosi dietro i gruppi della opposizione antifascista liberale, democratica o riformista. Questo spostamento apre naturalmente la via a un ritorno in campo di forze antifasciste più profondo e più vasto di quello effettuatosi il 6 aprile. Il fascismo, di fronte al crollo, rimane sbalordito e perde il controllo completo di sé.” Questo articolo, su “Lo Stato operaio,” è dell’ottobre ‘24; già prima, nell’agosto, Togliatti aveva scritto che il regime era venuto meno allo scopo che si era prefisso, di creare intorno a sé una unità di tutte le forze della borghesia, sicché restava aperta una via che era quella della “progressiva mobilitazione, sul terreno della lotta antifascista, di tutte le energie utilizzabili in essa, che due anni di dittatura e di terrore hanno fatto maturare: energie di classi medie e piccolo-borghesi, ma in prima linea le energie di operai e contadini.” Ma era stato costretto a riconoscere che la classe operaia non era ancora (o, almeno per il momento, piti) in grado di prendere l’iniziativa, perché “la disorganizzazione in cui l’hanno gettata tre anni di reazione le impedisce di 249

essere il fattore determinante della situazione.” Che cosa rimaneva da fare, allora, quale “via maestra” si apriva per “abbattere il fascismo come regime di compressione per la maggioranza della popolazione italiana? Una sola via,” egli sosteneva, “quella della manovra diretta a chiamare in campo e organizzare gli strati più profondi della popolazione, a spostare il centro dell’attenzione politica dal parlamento alle forze reali del paese, a diminuire la capacità di resistenza del fascismo opponendogli una mobilitazione degli operai e dei contadini per la lotta diretta, armata, contro le bande che sono l’unico sostegno del suo potere.” In tal modo, Togliatti si proponeva - anche se aveva dovuto ammettere che alle votazioni del congresso nazionale della FIOM dell’aprile ‘24, cioè di quello che era considerato l’organismo sindacale più combattivo, il Partito comunista e, in genere, le correnti rivoluzionarie, avendo riscosso solo il 10%, avevano subito una sconfitta e avevano rivelato “alcune deficienze gravi” - di fare sì che la classe operaia, che pure non gli sembrava in grado di assumere l’iniziativa, si battesse contro l’opposizione costituzionale borghese, il cui intento era sullo stesso piano fascista, volendo impedire ogni ripresa del movimento operaio e non sovvertire ma conservare il “regime capitalistico borghese.” La sola soluzione per le opposizioni non poteva essere ormai - aggiungeva - che una “alleanza proclamata, o di fatto, coi gruppi di destra, cioè l’aperta adesione al programma di mantenere intatta tutta la sostanza reazionaria del regime fascista, cambiando però l’insegna di esso e chiamandolo, anziché fascismo, Stato liberale normalizzato.’ Anche i capi del partito socialista propendono per essa e parlano di un ritorno in parlamento per facilitarla! È il tradimento aperto, confessato, spudorato, di ogni proposito di lotta antifascista intesa come lotta per la liberazione delle grandi masse dal giogo della 250

reazione. Di fronte ad esso, la crisi della opposizione, cioè del blocco indistinto di forze proletarie, semiproletarie, e piccolo-borghesi e borghesi che si è raccolta dietro la guida di Amendola, Sturzo, Turati e l’Avanti! non potrà non spezzarsi. La parola che il Partito comunista ha lanciato dall’inizio della crisi sta per ricevere attuazione: da una parte i borghesi, dall’altra i proletari e i proletari organizzati sopra un fronte di classe per la lotta contro il fascismo quanto contro la borghesia liberale, per la sola soluzione possibile del problema italiano, per l’instaurazione, attraverso la lotta antifascista aperta e violenta, di un governo di operai e di contadini.” E senza posa Togliatti celebrava “la funzione della classe degli operai e dei contadini come unico possibile centro di raccoglimento delle energie che all’Italia possono dare un effettivo rinnovamento di tutta la campagna [sic! forse: compagine] dello Stato.” Ma si trattava di formulette, che erano, fra l’altro, espresse in maniera approssimativa, e che ritornavano continuamente, senza la viva problematica, l’intensa forza dialettica e la spesso tormentata e scavata riflessione interiore che avevano in Gramsci, il quale, pur con i limiti che abbiamo cercato di mettere in luce, andava tuttavia alla ricerca del modo migliore per inserire, nelle complesse e intricate vicende di quel momento, la sua risoluta volontà di agire, sempre rinnovata e adeguata alle cangianti situazioni. Togliatti, al contrario, sembrava non aver la forza per scoprire - verrebbe fatto di dire, per inventare - nuove soluzioni e creare nuovi miti, tali da scaldare il cuore e da trascinare ad una concreta attività. Anche la sua analisi del successo del fascismo, delle forze sociali e politiche che lo avevano sorretto e dei precedenti storici era alquanto opaca: “Il partito ha raccolto attorno a sé,” scriveva nel settembre del ‘23, “una classe la quale ‘voleva’ esser portata alla conquista dello Stato, anzi, alla 251

creazione di uno Stato nuovo.” Questa classe (?) era stata la piccola borghesia, che aveva sostenuto i fascisti “per la certezza che da essi sarebbe sorto un nuovo ordine di cose.” Ma era rimasta delusa, perché, in economia, “la grande industria ha avuto mano libera e lo Stato ha dato, col suo intervento, valore di legalità alle truppe con le quali essa ha saccheggiato e disperso il piccolo risparmio italiano. Il patto del 1887, col quale si vendeva il pane dei contadini del Mezzogiorno per ingrassare la borsa dell’industriale e del banchiere del Nord è stato rinnovato,” mentre, in politica, la parola d’ordine era di “tornare all’antico. Si parla della vecchia Destra e della sua tradizione ripresa. In realtà un’altra tradizione è stata ripresa: quella della Sinistra peggiore, quella di Depretis e di Giolitti” (che, però, a dire la verità, non poteva essere considerata, tutto sommato, peggiore di quella del Crispi, del Di Rudinì, del Pelloux, del Saracco, del Sonnino). Accanto a quella tradizione, forse più potente ancora, c’era “la burocrazia, la grande forza che da cinquant’anni assorbe ed annulla tutte le energie che, con la loro vivacità, minacciano troppo gravi pericoli. Il duce ha ereditato da Dronero [cioè da Giolitti, che aveva il suo feudo elettorale a Dronero, in provincia di Cuneo] l’arte di allettare, l’arte di corrompere, l’arte di distribuire impieghi, l’arte di preparare un voto, l’arte di servirsi delle elezioni […]. Ha il piglio del dominatore, in realtà è già un dominato. Chi lo domina è la vecchia anima dello Stato italiano, di cui esso credeva di servirsi e che, invece, si è servita di lui, della sua forza brutale e cieca, per troncare un processo di svolgimento nel quale troppi germi di cose nuove effettivamente erano contenuti. È Roma, la tradizione, la forza livellatrice e assimilatrice, la continuità dello Stato burocratico, conservatore e sbirro, che ha vinto, e in modo trionfale.” Eppure lo squadrista che si aggirava per i palazzi della capitale e vedeva a guardia di essi i 252

moschetti delle camicie nere e queste scambiarsi per le vie saluti romani, credeva di essere, “egli, povero figlio di piccoli borghesi lombardi o di proletari meridionali, il trionfatore. Quelle camicie nere, quei moschetti, quel saluto romano, hanno qualche cosa di funereo, qui. Sono le pompe funebri rese al cadavere della rivoluzione, della piccola borghesia italiana, che lentamente si sta putrefacendo, sotto questo cielo immutabile di Roma […].” Chi abbia una anche modesta dimestichezza con la prosa e con il periodare di Gramsci, potrà subito rendersi conto di quanto questa forma di Togliatti sia stentata, scarna e sciatta. In particolare, a chi ha presente l’ansioso additare ulteriori prospettive capaci di risvegliare gli spiriti, si accorgerà quanto siano povere queste analisi di Togliatti: con la lenta ed assolata putrefazione del cadavere della piccola borghesia sembra che debba concludersi definitivamente un discorso che, per Gramsci, cominciava proprio allora. Per quanto riguarda, infine, la “parola d’ordine” dell’alleanza operai-contadini, essa era veramente, nel futuro capo del PCI, una formula, che veniva ripetuta meccanicamente senza averla fatta scaturire, come era accaduto per Gramsci, da un travaglio spirituale, che poteva essere stato anche penoso in quanto aveva almeno, in parte, imposto una revisione della politica precedentemente seguita, basata sui consigli operai di fabbrica. E tutti dovrebbero sapere che con le formule, vuote e non vissute nell’intimo, non si può costruire nulla che abbia la forza di innovare effettivamente, e ancor meno di rivoluzionare la vita solita e comune. 1 È, questa, una esortazione che ci sembra molto importante perché richiama

molto da vicino un altro invito, rivolto dal Partito comunista agli altri partiti del CLN durante la Resistenza, tra la fine del 1943 e i primi mesi del ‘44: anche in

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quella nuova situazione i comunisti, nell’Italia occupata dai nazi-fascisti, lanciarono la parola d’ordine della ramificazione il più estesa possibile dei Comitati, che avrebbero dovuto sorgere nelle fabbriche, nelle cascine e nei caseggiati, nei villaggi, ecc., nelle più piccole località in cui si raccoglievano, anche in piccole o piccolissime comunità, gli uomini. Ed era una proposta di notevole rilievo politico perché mirava a far trovare agli alleati, quando fossero arrivati, già perfettamente organizzata una vita locale su basi di un netto e sicuro antifascismo. Avversata all’inizio dagli altri partiti, tale proposta venne accettata dal CLNAI all’unanimità fra il giugno e l’agosto del ‘44, allorché sembrava che gli alleati stessero per sfondare la linea gotica e sfociare nella pianura padana. 2 Si tratta dello sciopero generale che giunse dopo che, nei due anni precedenti,

il numero degli scioperi e degli scioperanti era salito notevolmente e dopo che era caduto il governo MacDonald, il vecchio capo dell’ILP (International Labour Party), e si era formata, nel partito laburista una corrente di sinistra, che aveva proclamato dalle colonne del “Lansbury Labour Weekly· lo slogan “il socialismo della nostra epoca.* Esso veniva come naturale reazione alla politica di stabilizzazione (o di rivalutazione) della sterlina che, nel 1925, era stata condotta a termine con inflessibilità da Churchill, ristabilendo la convertibilità della moneta britannica per ridare al suo paese il ruolo preponderante negli scambi commerciali che aveva tenuto per tutto l’Ottocento. Ma un simile ritorno della sterlina alla parità-oro precedente la guerra, generò una profonda crisi da cui la Gran Bretagna parve non risollevarsi più e peggiorò notevolmente le condizioni delle classi lavoratrici. Ecco perché Videa di tino sciopero generale - per resistere all’offensiva degli imprenditori che sollecitavano riduzioni di salari per diminuire i costi della manodopera -incontrò subito la spontanea adesione non solo dei lavoratori del settore metallurgico ma anche dei ferrovieri, dei lavoratori dei trasporti, degli edili e dei tipografi, determinando una unanimità che sorprese non soltanto il governo ma anche i capi sindacali. Questi ultimi volevano soltanto una vittoria “difensiva” e non la distruzione, che avrebbe potuto risultare disastrosa, del movimento laburista, che, invece, era auspicata da Churchill la cui risolutezza fece passare in secondo piano l’ala conservatrice moderata, guidata dallo stesso primo ministro Baldwin: Churchill, esponente dell’estrema destra, voleva lo scontro frontale e l’annientamento dell’avversario politico e sociale. “Il 4 maggio 1926,” ha scritto E. Hobsbawm, “gli operai inglesi scesero in sciopero, dando la più grande dimostrazione di solidarietà organizzata cui avesse mai assistito l’Inghilterra, e forse ogni altro paese. Nove giorni dopo, altrettanto compatti, tornarono al lavoro [non del tutto, perché gli operai, il 12, di fronte alla minaccia di rappresaglie, ripresero lo sciopero fino al 14], traditi dai loro dirigenti. Fu questa la gloria e, nello stesso tempo, la tragedia, dello sciopero generale. Fu una battaglia combattuta stupendamente da soldati guidati da generali i quali non volevano combattere, né sapevano farlo.” Pertanto, lo sciopero si chiuse con un fallimento che lasciò via libera ai provvedimenti restrittivi da parte del governo: aumento delle ore di lavoro, riduzione dei salari, arresto dei lavoratori che avevano fatto il picchettaggio (3.149 persone processate), proibizione di

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raccogliere il denaro per gli scioperanti, legge del 1927 che dichiarò illegali gli scioperi generali e di solidarietà, e rifiuto di applicare sanzioni contro i proprietari di miniere che non avessero proceduto ad un ammodernamento dell’estrazione del carbone (cfr. G. D. H. Cole, Storia del movimento operaio inglese, vol. II, 1900-1947, Milano, 1965; E. Hobsbawm, 1926: sciopero generale in Inghilterra. Nove giorni a maggio, in “Rinascita,” 23 maggio 1964; M. Beer, Storia del socialismo britannico, vol. II, Dal cartismo al socialismo moderno, Firenze, 1964). 3

L’intellettuale meridionale non era altro che un piccolo borghese che realizzava ‘un mostruoso blocco agrario,” funzionando “da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche” e, aggiungiamo noi, della classe politica dirigente locale e nazionale. Ad essa portava i voti di tutti gli abitanti dei vari paesi che ciascuno controllava, mediante una vasta rete di clientele, favori leciti e il più spesso illeciti, senza offrire alcun programma agli elettori, ma “una larga messe di croci, di appalti, di promozioni ai propri fiduciari disseminati nell’interno.” Così costituiva “una specie di ‘onorata società’ che prospera, che spadroneggia in buona parte delle Amministrazioni comunali, che si insinua nelle provincie e in tutti i pubblici uffici, che si impone oggi con la prepotenza sfacciata e domani con loschi raggiri.”

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Capitolo decimo Il trasformismo mussoliniano e l’adesione al fascismo delle clientele meridionali La crisi della piccola e media borghesia poneva seri problemi anche - e, forse, soprattutto - al fascismo, che era arrivato al potere con l’appoggio che gli era venuto da tale ceto, specialmente nel Settentrione: e parrebbe che Mussolini comprendesse quasi subito la grande importanza che rivestiva per il suo regime rapporto dei clerico-fascisti, i quali, indubbiamente, controllavano i piccoli e medi coltivatori e proprietari più di quanto non lo facessero le altre correnti (la sinistra del Miglioli e il centro di don Sturzo) del PPI. Così, adducendo un pretesto non meglio motivato, cacciò, dopo il congresso di Torino del ’23, gli esponenti popolari che erano entrati nel suo ministero. Inoltre, per quanto riguardava la piccola e media borghesia urbana, egli non era nelle condizioni di poter rinunciare alla sua adesione, perché essa inseriva il movimento delle camicie nere nella storia d’Italia, in particolare di quella risorgimentale e rappresentava l’indispensabile trait d’union, legame, con la società italiana: la piccola borghesia era stata, spesso, nell’Ottocento, radical-democratica e giacobina, ma, con il nuovo secolo si era spostata a destra, diventando nazionalista, interventista e, ad ogni modo, contraria alle classi lavoratrici. Sotto questo aspetto, un piccolo capolavoro va definita 256

l’operazione che condusse alla fusione del fascismo con il nazionalismo, molto desiderata non solo dal duce (il quale voleva combattere quella che è stata definita dal De Felice la “massiccia penetrazione nazionalista” nel Mezzogiorno, una penetrazione che aveva assunto non poche volte “il carattere di aperta concorrenza, non solo organizzativa, ma anche politica al fascismo”), ma pure da molti di coloro che, ben presto, alimenteranno la corrente più o meno apertamente dissidente dei revisionisti (Rossi, Rocca, Bottai, ecc., sostenuti da “Il Giornale d’Italia”), che erano decisamente per “una vera e propria fusione,” essendo convinti di poter portare al fascismo quel contributo di competenza e di cultura di cui aveva bisogno e di essere in grado di equilibrare l’influenza degli “intransigenti”; mentre altri nazionalisti erano più favorevoli ad una federazione, che garantisse loro di mantenere una certa autonomia e di non disperdere del tutto la propria fisionomia. Sia gli uni sia gli altri, tuttavia, avevano la netta consapevolezza di rappresentare una forza politica che, a differenza dei rozzi fascisti, aveva elaborato una chiara e matura dottrina politica, sul piano internazionale e anche su quello interno Di fronte, però, al risoluto rifiuto dei fascisti, designati dal gran consiglio, il 12-13 gennaio del ‘23, a far parte della commissione incaricata di discutere i rapporti del PNF con l’ANI, chiesero almeno che il loro movimento sopravvivesse come “organo di elaborazione della dottrina nazionale e di propaganda nazionale” e che venisse loro concesso un terzo dei posti nella direzione del PNF, e nel gran consiglio. Ma anche questi tre progetti, presentati dal Rocco e dal Gugliemotti, furono respinti da Mussolini, sicché ai nazionalisti non rimase che accettare la fusione a condizioni tutt’altro che favorevoli (ratificata il 26 febbraio da parte della commissione mista, il 4 marzo dal comitato centrale dell’ANI e il 12 marzo dal gran consiglio). 257

La decisione venne accolta con spirito diverso nel nord e nel sud, tranne in poche province di quest’ultima zona principalmente ad opera di alcuni uomini, come vedremo fra poco: infatti, a Milano l’opposizione alla fusione fu capeggiata da D. Alfieri e buona parte dei nazionalisti milanesi si rifiutò di accettare il concordato, fondando, nel marzo ‘23, una Associazione imperialista italiana, che, in seguito, si chiamò Associazione imperialista monarchica, e, infine, Associazione nazionalista monarchica. La dissidenza trasse, invece, origine dal vecchio clientelismo nel Mezzogiorno, dove “i fascisti,” nota il Gaeta, “assistevano al concentramento dei più disparati interessi attorno al nazionalismo, ad un nuovo dislocarsi delle vecchie cricche liberal-democratiche in cerca di punti di confluenza per continuare a servirsi in qualche modo dello Stato. In prevalenza, si trattava del vecchio sottobosco politico meridionale che cercava di adeguarsi, con una spregiudicata prontezza, alla nuova situazione politica generale, fiutata con intuito consumato.” In effetti, le cose si erano svolte cosi: “La tattica impiegata dai gruppi locali giolittiani, liberal-nazionali, democratici fu quella di costituire rapidamente delle piccole sezioni fasciste che inquadrassero i propri sostenitori ed escludessero gli aderenti ai gruppi avversari; gli esclusi si riversarono nelle sezioni nazionaliste o le fondarono dove non c’erano e dove poterono.” Un simile clientelismo è, d’altronde, documentato da un dispaccio del prefetto di Catania (oltre che da un dettagliato memorandum della segreteria regionale di Basilicata dell’Ass. nazionalista italiana, a firma di U. d’Andrea, in cui, peraltro, si metteva in rilievo esclusivamente il clientelismo di marca fascista, a differenza di quanto faceva l’ispettore generale PS Di Tarsia, il quale, in una sua inchiesta, nella stessa Basilicata, affermava che, poiché il fascismo nella zona era nato “per iniziativa dei 258

proprietari,” i nazionalisti non avevano rifuggito dal creare la propria organizzazione “sulla piattaforma dell’antica lotta di classe,” facendo leva sui contadini) del febbraio ‘23 al ministero dell’Interno (riportato dal De Felice), dispaccio che faceva presente le difficoltà che avrebbe incontrato la fusione nella sua provincia: “la fusione […] sarà impossibile e, in molti luoghi, potrebbe essere la rovina del fascismo più puro e più vero, che è poi quello sorto nelle minoranze e che non può essere sopraffatto da maggioranze camuffatesi nazionaliste, ma che rappresentano soltanto vecchie camarille abbarbicate al potere, perché da questo traggono compensi e guadagni.” Ma quando quel prefetto parlava di “fascismo più puro e più vero, sorto nelle minoranze,” alludeva senz’altro al fascismo del Settentrione, e non poteva immaginare che anche il partito che aveva occupato da poco lo Stato, si sarebbe lasciato corrompere dalle “vecchie camarille abbarbicate al potere,” che, nel Meridione, erano più forti di qualsiasi potere centrale. Il contrasto, peraltro, tra camicie nere e camicie azzurre derivava anche da altri motivi, perché, nel partito fascista, erano la destra ed i moderati a guardare con simpatia ai “cugini” nazionalisti, mentre gli “intransigenti” ed i vecchi squadristi rimproveravano loro la rigida fedeltà alla monarchia, il conservatorismo “ancien régime,” o “vecchia maniera,” ed alcuni rapporti con determinati gruppi economici che avrebbero potuto imprigionare e snaturare il fascismo “rivoluzionario.” Certo, nessuno che avesse osservato con attenzione la politica italiana dall’anteguerra in poi, poteva negare che il nazionalismo era collegato, come abbiamo detto altre volte, con gli interessi dell’industria tessile, che continuava a guardare, con occhi cupidi, ai Balcani e all’opposta sponda adriatica come alla propria naturale area di espansione, tant’è vero che, fra il ‘22 e il ‘23, non pochi nazionalisti 259

pensavano ad un colpo di mano in Dalmazia e lo andavano predicando, se non addirittura preparando. A prova di ciò sta il fatto che Mussolini fu costretto ad impartire, il 28 novembre ‘22, disposizioni per impedire qualsiasi azione contro la costa dalmata. Malgrado queste disposizioni, e sebbene il duce rilasciasse al giornale jugoslavo “Trgovinski Glashik” una dichiarazione da cui risultava che il suo governo non aveva “alcuna aspirazione sulla Dalmazia,” il timore di un improvviso colpo di mano continuava a rendere inquieti i rapporti fra i due paesi, tanto che Mussolini dovette ammonire, il 30 agosto, i prefetti delle province adriatiche che “il governo fascista non intende essere imbarazzato da azioni private.” Ma le aspirazioni espansionistiche ed imperialistiche erano parte integrante della dottrina fascista (come aveva dichiarato lo stesso duce alla riunione di piazza San Sepolcro del ‘19), e, perciò, il primo ministrò italiano faceva, verso la metà del ‘23, l’ingloriosa spedizione di Corfù, quasi a dimostrare ai nazionalisti che il vero espansionista era lui, Mussolini: per lui i nazionalisti, come aveva detto con convinzione prima del ‘22, “da buoni partitanti legati a un sistema mentale rigidamente immutabile,” continuavano a biascicare le “giaculatorie strategiche del 1914,” come se nulla fosse cambiato nel mondo. Inoltre, il nazionalismo era imperialista, mentre il fascismo era espansionista; era monarchico mentre il fascismo, al di sopra della monarchia, metteva la nazione. Espansionista era perché non si arrestava ipnotizzato dall’Adriatico, un “modesto golfo” rispetto al Mediterraneo, “nel quale le possibilità della espansione italiana sono fortissime.” Nemmeno questa spedizione, tanto celebrata, come abbiamo già detto, dalla stampa del regime, era riuscita a modificare la fisionomia “moderata” assunta dalla pseudorivoluzione dell’ottobre e poi accentuata dalla fusione con i 260

nazionalisti: era significativo, a tale proposito, il commento del Cantalupo sull’organo nazionalista, l’“Idea nazionale” del febbraio ‘23, alla confluenza del suo partito in quello fascista: “Noi siamo fascisti,” egli scriveva, “da quando, scacciato il Borbone ed ammessa contemporaneamente la necessità cavouriana, sabauda e garibaldina di condurre a Roma la capitale, risolvemmo sinteticamente e definitivamente entro di noi la discussione tra la coscienza religiosa e la coscienza patriottica […]. Per non aver mai concepito altra forma di regime che la monarchia, per non aver mai neppur supposto che occorresse distruggere il papato per conquistare la totale unità della patria, per avere respinto il veleno socialista fin dalle prime manifestazioni epidemiche, noi siamo fascisti dal 1800.” Si trattava di una chiarificazione, “in linguaggio giornalistico,” conclude il Gaeta, “d’una parziale mezza verità: la filiazione nazionalfascista dallo stato moderato uscito dal processo risorgimentale italiano.” Ad una simile interpretazione, in chiave moderata e conservatrice, del fascismo su cui si erano innestate le forze nazionalistiche, tentò di ribellarsi, a Napoli, A. Padovani, una specie di ras sui generis, fino alla metà del ‘23, della capitale partenopea e della Campania, dove era chiamato, per antonomasia, “il capitano.” Molto stimato da Mussolini per il suo passato di valoroso combattente sia sul fronte libico sia su quello della prima guerra mondiale, e per l’ardore con cui aveva guidato di persona le azioni degli squadristi contro le organizzazioni rosse. Per la fierezza del carattere e il suo disinteresse, rimase, anche dopo che Mussolini aveva reso, con il discorso di Napoli del 24 ottobre ‘22, un aperto omaggio alla monarchia e al sovrano (c’è chi dice dietro consiglio dell’altro gerarca napoletano, Nicola Sansanelli, ma, evidentemente, il duce aveva già deciso di fare un simile atto che gli avrebbe spianato la via 261

verso il potere: intanto cadde il teatro, come scrisse un cronista del tempo per dare l’idea dell’entusiasmo suscitato dall’abile attore nel popolo, fra cui era anche il Croce, accorso ad ascoltarlo), un repubblicano convinto e, secondo il suo temperamento, non nascose affatto tali suoi sentimenti. Secondo le sue precise accuse, P. Greco, capo dei nazionalisti della Campania, manteneva una stretta alleanza con la camorra dominante nel nolano, terra d’origine del Greco stesso, e in Terra di Lavoro, dove egli aveva il suo feudo elettorale; inoltre, i nazionalisti erano aggiogati al carro del clientelismo e del trasformismo. Tutto ciò, il Padovani non poteva sopportare, poiché egli mirava a moralizzare la vita politica del capoluogo campano, senza risparmiare nemmeno il suo stesso partito. G. Dorso, in La rivoluzione meridionale, riconosce che il “capitano” tentò di creare un “nuovo mondo brancolando superbamente nel caos. Formò sezioni, ne sciolse, destituì fiduciari, rifece direttori, impastò, spastò, sempre cercando di raggiungere una perfezione politica, che era una categoria puramente formale. Siffatto sforzo, assurdo dal punto di vista politico, ma bello dal punto di vista morale, fu deriso universalmente, tanto sembrò impossibile che un uomo solo potesse, col semplice irrigidirsi, riformare il costume politico di una regione.” Lo stesso Dorso lo definisce il viceré di Napoli,” per il suo aumentato potere fra il ‘22 e il ‘23: ma presto sopraggiunsero giorni amari per lui, poiché il suo duce lo obbligò dapprima a dimettersi dalla massoneria, e poi gli ordinò di procedere alla fusione con i nazionalisti. Il Padovani pensò di opporre un netto rifiuto; poi, però, per non andare incontro a sanzioni disciplinari, cercò di chiedere garanzie e propose che, per la Campania, si modificassero le disposizioni impartite, nel senso di non ammettere automaticamente nelle file fasciste i provenienti dal nazionalismo, ma l’ingresso avvenisse solo 262

dietro domanda personale di chi volesse operare il passaggio, una domanda da sottoporre all’esame degli organismi dirigenti del PNF, incaricato di indagare soprattutto sui requisiti morali del firmatario. Tuttavia, una tale richiesta destò la reazione del Greco e dei suoi seguaci, costringendo Mussolini ad una faticosa opera di mediazione: in un lungo colloquio offrì’ al Padovani il comando della mvsn in Emilia-Romagna - la regione che aveva deciso il successo delle camicie nere , mentre il Greco sarebbe stato ammesso al gruppo parlamentare fascista con l’ingiunzione di rinunciare a qualsiasi attività politica in Campania. Il “viceré di Napoli” rifiutò sdegnosamente il compromesso e si dimise dal partito e dalla milizia: “Il Mezzogiorno,” diretto dal Preziosi, creatura del Farinacci, commentò: “Aurelio Padovani, con fiera e rigida coscienza, è giunto alle conclusioni che il suo modo di concepire il fascismo gli impone. Le ragioni della sua condotta risalgono alla limpida sorgente della fede abbracciata nell’ora dei dubbi, dei rischi, dei pericoli, e serbata pura dai contatti e dalle transazioni.” Tuttavia, non era ancora venuto il momento del ras di Cremona, perché si era al maggio del ‘23, e il duce, allora, cercava di non irritare troppo gli elementi moderati, di destra si potrebbe dire, del suo partito, perché era da essi che poteva sperare un collegamento con l’opinione pubblica conservatrice del paese e, pertanto affrontò risolutamente gli incidenti dei “fedelissimi” del capitano, fra cui si manifestavano ribellioni agli ordini romani. “I poliziotti,” ha scritto D. Farina, “hanno ricevuto istruzioni categoriche di sorvegliare i più turbolenti che vanno in giro armati di bastone. Costoro sono tradotti in questura e diffidati: non possono portare al braccio neppure un sottile fusto di bambù. Allora escogitano una beffa, arrotolando pagine di giornali a foggia di bastone con manico pure di carta appeso 263

al braccio. Gli agenti nicchiano ed ecco qualche testa calda riprendere a portare un nodoso bastone mimetizzato in fogli di giornale.” Avendo provato l’inutilità dei metodi forti per sedare il malcontento e il fermento dei camerati napoletani, Mussolini tentò una conciliazione, inviando nel capoluogo campano il Balbo con l’incarico di persuadere il viceré a ritirare le dimissioni. Ma non ci fu nulla da fare, ed allora il direttorio del PNF respinse le dimissioni del Padovani, “e, considerandolo colpevole di grave e ostinata indisciplina lo espelle dal partito e con lui tutti gli eventuali consenzienti, singoli e fasci.” Una decisione, peraltro, continuava il comunicato, che non doveva “essere interpretata nel senso che l’on. Greco possa diventare il nuovo leader del fascismo campano. Egli deve limitarsi ad essere un gregario disciplinato.” Una deliberazione che, oltre ad essere ispirata al solito machiavellismo, rivelava che il duce aveva urtato contro una resistenza tenace e imprevista, che gli aveva reso impossibile il gioco di altalena fra la destra e gli squadristi estremisti, che sognavano una rivoluzione (non si sa, però, di quale tipo e con quale programma): gli erano utili e necessarie entrambe le ali, in quel periodo, e non poteva rinunciare a nessuna delle due. Infatti, avendo soppresso, o mirando a sopprimere, la dialettica dei partiti politici, dei sindacati e delle forze sociali, doveva cercare di non distruggerla anche all’interno del suo movimento. D’altra parte non poteva cedere, dare, non appena salito al potere, l’impressione di debolezza a tutte le camicie nere e a tutti i simpatizzanti di fronte alla ribellione di colui che era stato il suo luogotenente nella città che aveva “dato il viatico alla rivoluzione fascista.” Perciò, non diede ascolto alle vibrate, e spesso espresse con la solita retorica stile liberty, proteste che giungevano da Napoli o da altre città, come, ad esempio quella degli squadristi della “Serenissima” - detta la più 264

spericolata e intrepida nelle spedizioni punitive -, con cui si comunicavano le irrevocabili dimissioni e si rivolgeva al duce la seguente domanda, molto enfatica: “Se i nostri morti potessero risorgere e potessero vedere lo scempio che del fascismo si vuole fare nella Campania, finora esempio a tutte le regioni per disciplina sentimento compattezza, sarebbero pronti nuovamente a morire?” Oppure come l’altro telegramma, non meno eroico, con cui “i cento soci della cooperativa noleggiatori automobili sorta e creata da Aurelio Padovani,” dichiaravano che, “apprendendo le di lui dimissioni da nostro comandante e dal partito, non possono che seguirne l’esempio. Essi, con le lagrime agli occhi, tolgono i segni del littorio dal loro garage e li conservano gelosamente ricordando al loro capo Padovani che i cuori di tutti i soci e i cento motori delle loro macchine sono pronti a pulsare all’unisono come già seppero fare nelle recenti, gloriose giornate della rivoluzione.” Tuttavia, ispirata ad un opposto animus pugnandi contro il decaduto proconsole della capitale del Mezzogiorno, era pure la lettera del duce al direttorio nazionale del PNF, mirante a bloccare ogni tentativo, fatto da qualche gerarca, di far rientrare il Padovani nel partito: “Mi pare che sia proprio l’ora di finirla col continuare a prosternarsi continuamente e inutilmente davanti alla deità irata del signor capitano Aurelio Padovani. Io stesso, che pure sono un temperamento un po’ difficile, ho fatto con lui e per lui quello che non avrei fatto con mio padre e con mio figlio. Ora basta! Quindi dev’essere mantenuta la sua espulsione dal partito. Egli è il fascista più indisciplinato d’Italia.” Eppure, ancora una volta, Mussolini fu costretto a rinunciare a questa posizione così rigida quando il delitto Matteotti provocò, a Napoli, violenti scontri tra i fascisti e gli oppositori, con alcuni morti e diverse decine di feriti. 265

Allora il duce senti il bisogno del viceré per riportare la calma nella città e lo invitò a palazzo Venezia per un colloquio. Il Padovani avvertì di trovarsi in una posizione di forza, il che gli diede la possibilità di parlare chiaramente, e forse anche duramente, a Mussolini: gli disse che era necessario, perché il fascismo potesse ottenere un vero consenso popolare e acquistare credito presso l’opinione pubblica e i governi stranieri, ripristinare tutte le libertà, in primo luogo quella di stampa. Inoltre - e qui insisteva sul suo vecchio e preferito motivo moralizzatore - avrebbe dovuto essere effettuata una radicale e profonda epurazione nelle stesse file del fascismo. Solo a queste condizioni concluse - si sarebbe messo di nuovo agli ordini del duce. Il quale, però, respinse recisamente questa specie di ultimatum e telegrafò al prefetto di Napoli ordinandogli di tener d’occhio il Padovani in modo da impedirgli un eventuale colpo di testa. Così si spegneva, a poco a poco, nel silenzio e nell’oblio, l’avventura di A. Padovani, che aveva creduto - scrisse ancora G. Dorso - “di possedere una grande idea. Egli si trovava in uno stato di esaltazione, che gli faceva apparire miracolosa la sua formula di intransigenza. Egli vedeva nel nazionalismo campano l’anticristo, il principio del male contrapposto al principio del bene e considerava reprobi tutti quelli che si opponevano o soltanto dubitavano dei suoi sforzi. Ma in questa lotta Padovani era destinato a sicura sconfitta.” Si avverte, in queste parole dell’antifascista conseguente e rigoroso Dorso, una vena di simpatia e di partecipazione al triste destino di colui che era apparso e rapidamente scomparso nel cielo della Campania animato dalla decisa volontà di redimerla dai suoi mali secolari. Ma l’errore del Padovani fu di ritenere che tali mali consistessero soltanto nella camorra, nel clientelismo e nel trasformismo che, senza dubbio, rendevano più 266

opprimente la situazione degli strati più umili e più bassi, ma che erano solo una componente di quella situazione in cui entravano ben altri elementi. Insomma, egli riprendiamo le già citate parole del Dorso - tentò di costruire “il nuovo mondo brancolando superbamente nel caos,” cioè senza una precisa idea di come dovesse essere il nuovo mondo vagheggiato e intravisto e che avrebbe dovuto nascere sulla base del fascismo, di un fascismo epurato con intransigenza ma che pure rimaneva “una categoria puramente formale,” che mai sarebbe giunta a spogliarsi dei caratteri originari, che erano la violenza, la sopraffazione e il disprezzo dell’individuo: lo stesso culto del popolo napoletano per la figura carismatica del capitano, stava a dimostrare come egli non si preoccupasse troppo di far passare quei suoi fedeli dall’umiliante rango di sudditi al ruolo ben più dignitoso, anche se fastidioso, di cittadini. Questo nostro giudizio potrà, forse, sembrare un po’ troppo duro, soprattutto se si pensa alla soddisfazione apertamente dimostrata dal Croce e dall’Amendola per la eliminazione del Padovani, la vittoria del nazionalfascismo e il venir meno del pericolo di una lotta decisa contro il clientelismo camorristico e trasformistico della classe politica meridionale. A tale proposito - osserva il Colapietra -, “per toccar con mano, durante una crisi acutissima, il fondo conservatore, patriarcale, borghese, che animava” sia il Croce sia l’Amendola di fronte ad un eventuale e paventato mutamento rinnovatore, non sarebbe male porre a confronto un discorso del primo, Il paradiso abitato da diavoli, con l’articolo con cui il secondo commentava, sul “Mondo” del 24 maggio ‘23, “il caso Padovani.” Entrambi si rivolgevano alla borghesia, alla “classe colta ed intellettuale delle nostre provincie a cui spetta il prossimo dovere di amare e di far amare la patria,” come diceva il 267

Croce, alla borghesia turbata e sviata dalla sua funzione direttrice da una “artificiosa agitazione,” che non era stata altro che la conseguenza di “sfoghi di rancori lungamente repressi” ed esacerbati ad arte da “tirannie di proconsoli locali,” come affermava l’Amendola con una allusione fin troppo trasparente al viceré. Peraltro, il filosofo, nella sua conferenza napoletana, dopo aver genericamente riprovato la moda, recentemente diffusasi “con esempi nauseabondi,” di ingiuriare i popoli sulla base di pregiudizi radicati ma ingiustificati, si diffondeva sulla necessità di “una robusta vita etico-politica” nella società quale esigenza sentita da chiunque guardasse “con interessamento e sollecitudine politica all’unità ed al ritmo generale della vita.” Una simile esigenza lamentava di non ritrovare a Napoli (a differenza dell’Amendola, il quale riteneva che il Mezzogiorno fosse stato impermeabile al bolscevismo per una sua virtù politica innata e autentica), il cui popolo guardava le cose “senza riscaldarsi,” con spregiudicata ironia, senza riuscire a concepire il dovere della lotta, che il Croce, astrattamente e teoricamente, pensava connaturata alla vita sociale e alla stessa vita umana. Ma solo astrattamente e teoricamente, perché - nota giustamente il Colapietra - “dove e contro chi e perché esercitare tale lotta? Qui il Croce tace, e non potrebbe altrimenti, perché il suo protagonista, nell’epoca murattiana come oggi, è esclusivamente la borghesia intellettuale ed agraria, proprio cioè quel che, da Padovani a Dorso ed ai comunisti, stava per diventare la materia del contendere, e già come tale era stata identificata dal Salvemini. Onde il discorso del Croce non può che chiudersi a mezzo, e rivolgersi ad evocare le lotte, più che mai eticamente intese, del passato anziché a precisare quelle, inevitabilmente sociali, dell’avvenire: è in nuce la conclusione pontificale della Storia del Regno di Napoli, una sfilata di ombre magnanime, il 268

Pantheon meridionale, in cui il circolo etico-politico del Mezzogiorno s’è chiuso una volta per sempre.” È proprio così: la storiografia del Croce, tutta e soltanto affisata nella contemplazione degli eroi, dei personaggi-protagonisti, delle élites borghesi, non era in grado di comprendere il formicolare di basso e minuto popolo (la plebe) che, confusamente, si agitava al di sotto. Ma, verrebbe fatto di chiedersi: questo popolo lo vedeva o lo comprendeva il Padovani? Si ha l’impressione che ciò, in lui, non avvenisse, perché la politica continuava a rimanere una prerogativa dei grandi uomini, i quali facevano e disfacevano a loro piacimento, destituivano, impastavano e spastavano come loro piaceva. Ci siamo dilungati, forse troppo, su questo episodio del Padovani perché esso aveva rapporti, da un lato, con il nazionalismo e, dall’altro, con il combattentismo: la sua azione, infatti, chiarisce come, effettivamente, il nazionalismo sentimentale, in molti, e antisocialista, nei più, abbia veramente costituito “l’anello di saldatura fra la classe dominante, gli agrari e gli interessi finanziari e della confindustria, e la piccola borghesia cittadina,” facendo di quest’ultima la massa di manovra dei primi, “senza che fosse ben chiaro ai fascisti ‘cittadini’ il risultato puramente reazionario” delle tendenze in apparenza violentemente eversive, di palingenesi sociale, che ne costituivano il contenuto e il metodo; “e senza che ci si rendesse ben conto, nell’assoluta mancanza di cultura tecnica e politica, caratteristica del gruppo, della vacuità dei miti ‘sociali’ agitati per giustificare il proprio operato.” Molto probabilmente, anche il rivoluzionarismo del Padovani fu più di facciata che sostanziale e trovò il terreno fertile nell’ambiente napoletano che, dall’Ottocento in poi, dal Bakunin, aveva accolto con calore e seguito ogni dottrina e movimento che si presentasse con un aspetto 269

anche vagamente anarchicheggiante. E bisognerebbe studiare meglio se lo stesso Padovani non sia stato appoggiato dall’elettorato abituato al clientelismo del ceto politico liberale, il quale, in una fase di transizione, quale fu quella fra il ‘23 e il ‘24, era portato a lottare contro i nuovi padroni che si erano insediati, con arroganza, a Roma. Qualcosa di simile a quanto era avvenuto a Napoli e in Campania avvenne pure in Sardegna, dove, in un primo momento, il fascismo, per mezzo del gen. A. Gandolfo, mandato nell’isola da Mussolini alla fine del ’22 a sostituire il prefetto di Cagliari come rappresentante del fascismo e del governo con pieni poteri, non solo parve riprendere - sostiene l’Aquarone - le “tendenze decentratoci che avevano caratterizzato gli studi ed i progetti degli ultimi governi anteriori alla marcia su Roma,” ma anche dare maggiore importanza alla nuova generazione “politicamente estranea al trasformismo e al ministerialismo,” scrive il Sechi, “seriamente decisa a tradurre in azione concreta le aspirazioni, indeterminate ma sincere, ad un ordine sociale e a una prassi politica più onesta e responsabile. Le sue radici”, prosegue il Sechi, “affondano nella piccola borghesia urbana e rurale, cioè in uno strato della popolazione ancora debole, privo di organicità sociale e compattezza ideologica, che riflette le caratteristiche storiche della penetrazione del capitalismo nell’isola. Questo spiega perché la piccola borghesia sia stata una clientela politica passiva (il boss elettorale dei parlamentari sardi è costituito, in prevalenza, da proprietari fondiari, ceto commerciale e industriale) e abbia appoggiato tutti i tentativi di ribellione del proletariato sardo, dopo l’Unità, finendo, più tardi, riserva di caccia dei partiti radicale e socialista.” Siamo di fronte, però, ad affermazioni che si contraddicono l’una con l’altra: come si può conciliare, infatti, quella “generazione politicamente estranea al 270

trasformismo, ecc.” che viene spinta alla ribalta dal fascismo, con quella piccola borghesia che, pur essendo stata, dopo l’unità, una clientela politica passiva soprattutto dei proprietari fondiari (gli unici attivi in Sardegna, dove non esistevano ancora industrie), appoggiò tuttavia i tentativi di ribellione del proletariato sardo (che non potevano essere rivolti che contro gli agrari) e che. più tardi, diventò una riserva di caccia per i partiti radicale e socialista? Si dovrebbe dire che una tale piccola borghesia è stata veramente maestra nell’arte del trasformismo, da essa esercitato con sottile raffinatezza. Ma, tralasciando queste, a nostro parere, evidenti contraddizioni, ci sembra di poterne constatare un’altra, forse più grave, consistente nella riluttanza della base ad abbandonare gli “uomini che, seppure con errori e deviazioni pericolose, seppero farsi interpreti dei suoi bisogni e dei suoi ideali.” La stessa documentazione su questo problema sta ad indicare la lentezza e la difficoltà che incontrano le “forze giovani” ad imporsi, sebbene avessero - o credessero di avere - l’appoggio dei rappresentanti del governo centrale. Il 16 febbraio ‘23, il prefetto di Sassari, M. Sani, scriveva in un suo rapporto: “queste lotte tra fascisti e sardisti che occupano in primo piano la vita politica dell’isola, sono solamente l’aspetto esteriore ed appariscente; perché fra le quinte agiscono sempre gli esponenti degli antichi partiti i quali non possono assolutamente vedere senza preoccupazioni l’eventuale coalizione delle forze giovani, che stanno per raccogliersi sotto un’unica bandiera, con che essi dovrebbero rassegnarsi a scomparire. Qundi non preoccupa tanto il sardismo di Nuoro con le sue ramificazioni, né il nucleo socialcomunista di Tempio, quanto la neutralizzazione di coloro che sembrano meno temibili, ma sono i veri agenti disgregatori”. L’apporto delle “forze giovani,” peraltro, non 271

sembrava affatto scontato, perché nell’isola esistevano due movimenti - il Partito sardo d’azione e l’Associazione nazionale combattenti - che raccoglievano già nelle loro file gran parte di quelle forze; eppure, precisava il Gandolfo, senza esse il fascismo avrebbe corso il pericolo di “morire nei corridoi di Montecitorio,” vittima dei tradizionali partiti politici. Ed egli giungeva a sostenere che la valorizzazione del regime in senso rivoluzionario e tale da consentire al paese di raccogliere i frutti dell’acuta crisi post-bellica, poteva essere determinata soltanto da un movimento popolare di massa, pur se a carattere antifascista. Queste preoccupazioni erano condivise da alcuni uomini del PSd’A, come un Lussu, il quale temeva, sopra ogni altra cosa, che il paese potesse ricadere nelle mani delle vecchie consorterie politiche dell’anteguerra. Perciò, l’alternativa che si poneva era chiara ed esplicita e non avrebbe potuto condurre che a una soluzione: “o contro il fascismo,” scrive il Sechi, “in un movimento nuovo, di sinistra, antidemagogico (cioè antisocialista), non comunista (perché l’ideologia del PCd’I non sarebbe adattabile alle condizioni precapitalistiche della Sardegna), e, quindi, tanto meno democratico, o dentro il fascismo allo scopo di rinnovarlo e conquistarlo dall’interno.” Cosi, un gruppo di dirigenti sardisti fece atto di adesione al fascismo, ottenendo una certa influenza negli organi dirigenti del partito; ma soltanto una certa influenza, poiché segretario politico per la provincia di Sassari fu nominato l’avv. Antonio Leoni (era passato al fascismo da pochi giorni e riscuoteva le simpatie sia dei vecchi fascisti sia dei sardisti), coadiuvato da tre membri provenienti dal PSd’A; la funzioni di segretario politico per la provincia di Cagliari furono provvisoriamente demandate a un triumvirato composto da un fascista della prima ora, da un nazionalista e da un sardista. Il direttorio fu integrato con altri cinque membri, tutti sardisti, mentre segretario politico 272

della sezione di Cagliari fu nominato il leader nazionalista sardo e così pure nazionalista fu colui al quale il gran consiglio affidò, nel marzo del ‘23, l’incarico di commissario politico per la Sardegna. Come in altre occasioni e in altri luoghi, questo compromesso, che parve avvantaggiare i nazionalisti, destò, nella cosiddetta ala di sinistra del fascismo, una vivace reazione, provocando le dimissioni del delegato regionale dei fasci e del delegato provinciale di Sassari. Ma gli organi di stampa nazionali e le agenzie parlarono del “passaggio in massa” dei reduci sardi al fascismo, e la giunta esecutiva del gran consiglio prese atto, con piacere, dell’avvenuta fascistizzazione della “grande maggioranza” del PSd’A. Tuttavia, se, da un lato, l’ambiguo compromesso (che rivelava, ancora una volta, l’esigenza in cui si trovava il duce di accontentare ora gli elementi di sinistra ora quelli di destra) generò del malumore in coloro che ritenevano, forse sinceramente, che (come aveva detto lo stesso Mussolini visitando la mostra degli artisti del “Novecento”) “il ‘900 [fosse] un anno importante perché segna l’ingresso di gran parte del popolo italiano nella vita politica. Non bisogna essere malcontenti che ciò sia arrivato”; dall’altro, generò “acredine e delusione” nella classe dirigente, che controllava i due giornali dell’isola, “La Nuova Sardegna” e “L’Unione sarda,” e che subito cercò di minimizzare i tentativi del PSd’A di giungere a un accordo, denunciandoli come “un vago tentativo di pochi, un segno di disorientamento di un partito che più non esiste e che non sarebbe mai dovuto esistere per il male che ha fatto alla nostra gente in Sardegna e più ancora fuori di essa” (“La Nuova Sardegna,” 10-11 marzo ’23). Inoltre metteva in luce (quel compromesso) il carattere antipatriottico e separatista dei sardisti, proprio nei momento in cui il duce proclamava, parlando 273

dell’emigrazione, che “il mio governo abolisce i campanili perché gli italiani non vedano che l’immagine augusta delia Patria. Questa è l’opera alla quale il mio Governo intende con tutta la sua passione e con un senso religioso di fede.” Né tralasciava dal mettere in guardia i dirigenti fascisti dall’affidare compiti direttivi “alle nuove reclute,” fra cui sarebbero state in primo piano “alcune personalità sulle quali pesa particolare responsabilità delle deviazioni antinazionali cui si lasciò andare il partito nell’ultimo anno; dal divieto dei festeggiamenti per il principe ereditario alla minaccia della insurrezione armata contro i fascisti del congresso di Nuoro.” E poco più tardi, nel maggio, concludeva con una specie di ultimatum, affermando che “la penetrazione nel fascismo di siffatti elementi non può che nuocere alla compattezza delle sue forze; e forse pure offuscare, dinanzi alle masse, le sue idealità; e il conferimento ad essi di funzioni direttive e di controllo non può non apparire come una improvvida abdicazione dell’autorità e della dignità fascista.” Era alquanto strano sentire questi individui parlare di idealità, di autorità e di dignità del fascismo, mentre non miravano ad altro che ad impedire una eventuale intesa degli stessi fascisti con i sardisti in funzione scardinatrice del loro antico predominio clientelare sulla vita politica dell’isola; avrebbero, insomma, voluto indurre i nuovi padroni a ricercare i propri alleati nella vecchia classe dirigente ed erano mossi, come metteva in rilievo il “Giornale di Roma,” dallo “scopo evidente di disgregare forze che potrebbero essere domani unite.” Ma il Gandolfo e i due più noti esponenti del sardismo confluiti nel fascismo, Pili e Putzolu, non si arresero, respingendo - scrive il Sechi - “ogni proposta di collaborazione e i suggerimenti che vengono da più parti per una tattica più flessibile e possibilista nei confronti del mondo politico 274

dell’anteguerra.” I due massimi rappresentanti del fascismo sardo poterono, con la tipica coerenza degli exazionisti, proseguire “l’opera di rinnovamento dell’ambiente politico regionale, colpendo con lo stesso vigore e senza pietà gli uomini da sempre responsabili, personalmente e politicamente, dello sfacelo generale delle condizioni dell’isola,” ma appoggiando “l’impegno di Gandolfo a fare del fascismo lo strumento di punta della modernizzazione dell’isola. Il prefetto giustifica, cioè, sul terreno concreto delle realizzazioni, la linea dell’unificazione col PSd’A e dà una dimostrazione inconfutabile della carica moralizzatrice e antitrasformista del fascismo. La lotta senza quartiere contro le vecchie camarille democratico-liberali e contro l’opposizione sovversiva di sinistra [guidata dall‘“azione subdola e pertinace” degli “ultimi autonomisti tipo on. Lussu e on. Cao”], è un momento caratterizzante del suo impegno. L’intensità della pressione esercitata dalle vecchie forze esige da parte del fascismo una risposta che non dia adito a dubbi. La condotta degli avversari e degli esclusi dalla ‘fusione’ è ispirata a una tattica a doppio binario, ma è anche il prodotto di un reale disorientamento.” In effetti, alla base delle “velleità di rilanciare” una confusa, improbabile e spontaneistica operazione antifascista, “o, più semplicemente di polemica antigovernativa, c’è un coacervo di rancori e di interessi da soddisfare.” Gli avversari dell’operazione condotta in porto dal Gandolfo si fecero sentire anche a Roma, accusando sia il Gandolfo stesso sia l’alto commissario Caprino di essersi accordati solamente con alcuni esponenti sardisti, rappresentanti di una piccola frazione del partito; di non aver tenuto nel debito conto, per far convergere sul fascismo un consenso di massa, della borghesia “sana ed operosa,” impadronendosi, come aveva fatto il prefetto di 275

Sassari, dell’Unione industriali e commercianti e della Cassa agricoltori, comprendente circa 700 piccoli proprietari. Offrì un aiuto a questa campagna “calunniosa e diffamatoria” dei capi liberali conservatori, il segretario della milizia volontaria fascista, M. Rovello, che si dichiarò ripetutamente contrario alla fusione, accettando la posizione del vecchio marchese, “ridotto ormai a fare il lattaio,” Giacomo di Villahermosa, fondatore di una associazione “Mussolini-Italia,” forte, all’inizio del ‘24, di circa 1.000-1.500 iscritti, ma di cui le autorità fasciste di Cagliari chiesero insistentemente lo scioglimento, per porre termine alla sua attività scissionistica. Secondo il Rovello, la fusione avrebbe portato all’egemonia, in seno al partito fascista, di Pili e degli “elementi più bacati e compromessi” con le tendenze bolscevizzanti e separatistiche del PSdA, evitando lo scioglimento di quest’ultimo e facendo confinare i benemeriti uomini liberali “nei campi d’internamento sindacali.” Sempre secondo il Rovello, l’azione del Pili sarebbe stata un seguito ininterrotto di arbitri e di illegalità, con metodi che sarebbero ricaduti sugli stessi membri dei fasci, i fedeli “diciannovisti,” che erano stati espulsi e sostituiti con altri individui noti per il loro settarismo antifascista, per il loro sistematico sabotaggio all’opera della milizia, la loro inettitudine e il loro opportunismo. “Che tra la fine di aprile e il dicembre [del ’23],” nota il Sechi, “gli esponenti della vecchia classe dirigente non si ritraggano dinanzi a nessun espediente per screditare il fascismo sardo, nella forma che ha assunto con l’ingresso dei sardisti, e provocare, con l’allarmismo, un intervento delle autorità centrali, del partito e del governo, in misura tale da portare ad un rimescolamento delle carte (ad essi favorevole) nella situazione politica, non esistono dubbi.” In realtà, proprio in questo periodo, il Gandolfo denunciò diverse volte “l’offensiva romana” delle forze 276

democratico-liberali sarde e il loro tentativo di ottenere nella capitale ciò che non riuscivano ad ottenere a Cagliari, per la sua opposizione. “Io al mio arrivo in Sardegna,” scriveva al quadrumviro M. Bianchi, esponendo le difficoltà contro cui aveva dovuto, e doveva lottare, “dovevo scegliere tra. due soluzioni: una comoda ma disonesta: affidare il fascismo nelle mani delle vecchie consorterie che, cambiando etichetta, avrebbero perpetuato i loro sistemi e rafforzato le loro posizioni; una difficile, ma onesta, quella cioè di epurare finalmente l’ambiente dal marasma che l’aveva per anni avvelenato, stroncando coraggiosamente le persone più rappresentative dei vecchi e odiosi sistemi camorristici e attingendo alla purissima fonte delle forze giovani dell’Isola. Ho preferito la seconda […].” Eppure, dopo alcuni mesi era costretto a riconoscere, con una certa stanchezza, che tutta la sua forza di volontà non era riuscita a vincere la tenace resistenza degli avversari, tanto che chiedeva a Roma “di essere soprattutto sorretto dagli organi centrali presso i quali, a salvaguardia del mio prestigio e della mia autorità, dovrebbe essere inibito assolutamente l’accesso di quei tali signori,” riferendosi ai vari Dessì-Delipieri, Carboni-Boy, Sanna Randaccio, tutti rappresentanti della antica e combattuta classe politica. E di nuovo, in rapporti e lettere a Mussolini, al Bianchi e al Finzi, si lamentava, chiamando direttamente in causa i romani presso i quali tutti coloro che si opponevano alla sua politica erano sicuri di ottenere ascolto e soddisfazione: “Ogni volta che io colpisco, o sto per colpire qualcuno, o tutti i componenti di uno di quegli aggregati di uomini, che si formano allo scopo di prevalere per ambizione o per materiali interessi nella vita pubblica di questo disgraziato paese, il colpito, o i colpiti, trovano modo di correre a Roma, parlare, o far parlare in loro vece una persona onesta, influente e magari anche all’apparenza patriottica, la quale deve rappresentare la situazione 277

dell’Isola e la mia opera alla luce delle loro miserevoli passioni, passioni che non voglio neppur definire politiche, perché non meritano un tal nome.” Ma, a poco a poco, cresceva nel Gandolfo1 la sensazionon riuscire più a contrastare efficacemente “i notabili sardi” e “l’irriducibile ostinazione dei grandi elettori,” mentre veniva meno la possibilità, per il fascismo isolano, di resistere agli antichi centri di poteri. Il fatto era che si affievoliva sempre più l’appoggio che, almeno inizialmente, il Gandolfo aveva ricevuto dal centro, un appoggio volto a scardinare ed a disintegrare più che la ragnatela clientelare degli antichi padroni della Sardegna, la resistenza dei sardisti, attestati, in maggioranza, su posizioni che avrebbero potuto contrastare la penetrazione della nuova dottrina delle camicie nere: tanto che, nell’ottobre del ’23, egli rivolgeva al Bianchi un appello pressante che era anche una precisa denuncia di una incapacità, o non volontà, di agire seriamente: “Un intervento rapido e chirurgico occorre se si vuole evitare che il male assuma proporzioni più allarmanti e che il fascismo in provincia di Sassari serva da comodo paravento a clientele personali.” Ma ormai la lotta contro gli ambienti democratico-liberali si poteva dire conclusa, e contribuì, in maniera decisiva, a porre termine ad essa il viaggio che il duce fece nell’isola, da Sassari a Cagliari, da Macomer ad Iglesias e ad Arbatax fra l‘11 e il 13 giugno, dopo che si era già tenuto il congresso straordinario di Macomer (4 marzo), su una base che avrebbe rappresentato un notevole successo per i sardisti, poiché prevedeva: 1) scioglimento dei fasci dove la fusione non era ancora avvenuta; ricostituzione di essi affidata ad una commissione mista; decadenza di tutte le cariche del fascismo sardo meno quella del segretario regionale; congresso regionale da indirsi al più presto; 2) laddove non esisteva una sezione fascista, la sezione sardista diventava senz’altro sezione fascista; 3) impegno del 278

rappresentante del governo a sollecitare la realizzazione, nel più breve termine possibile, del progetto di autonomia regionale amministrativa; il riordinamento amministrativo della Sardegna avrebbe dovuto essere attuato assumendo come punto di riferimento la regione e non le province. Gli autonomisti sardi che si preparavano ad entrare nel partito fascista consideravano queste concessioni come il primo passo verso il conseguimento delle loro aspirazioni, che consistevano nell’impegno a prendere in esame la questione doganale nei riguardi dell’isola e a risolverla non appena fossero stati compiuti gli studi tecnici necessari; e nel riconoscimento dell’identità del programma del PSd’A con il programma fascista. Ma Mussolini, ricevuto il patto concordato fra il Gandolfo ed un esponente sardista, il Pili, lo respinse con un dure dispaccio: “Proposte capi sardisti sono assolutamente inaccettabili. Non intendo fare nessuna benché minima concessione su terreno autonomia.” Eppure, quello che il Sechi definisce “processo di erosione” destinato a condurre alla liquidazione “la principale forza di opposizione esistente nella regione,” era già cominciato con il passaggio ai fasci di alcuni rappresentanti del partito sardo (14 febbraio), ed a nulla era valso il congresso di Macomer, che, secondo “Il Popolo sardo,” deplorò “la secessione di alcuni degli organizzati” approvando il seguente ordine del giorno: “Il congresso, riaffermando la fede intatta e immutabile negli ideali del· PSd’A dichiarati dai Congressi, e la ragion d’essere della sua organizzazione e della sua azione pratica; riconoscendo che le dichiarazioni di conformità programmatiche e i propositi manifestati dal governo fascista forniscono giustificazione all’opera del Direttorio; nell’attesa che il governo fascista inizi opere di effettiva e vigorosa realizzazione; deplora la secessione di alcuni degli organizzati che non vollero attendere alle decisioni, sole 279

legittime, del Congresso, e passa all’ordine del giorno.” A dire la verità, non si riesce a capire quali fossero i propositi manifestati dal governo fascista e nemmeno si capisce come si potesse sperare che il regime iniziasse “opere di effettiva e vigorosa realizzazione,” soprattutto dopo il dispaccio intransigente del duce, che aveva svuotato di qualsiasi significato il congresso sardista. E che da Roma fossero venute direttive restrittive lo si era già capito da una lettera di E. Lussu pubblicata il 18 febbraio su “Il Popolo sardo,” al direttorio del Psd’A e della federazione dei combattenti, in cui rendeva minutamente conto dei rapporti che aveva tenuto con il Gandolfo, in seguito alle pressioni di “numerosi amici.” Il Lussu aveva chiesto al generale che “volesse precisare il suo pensiero che, peraltro, aveva già comunicato ai nostri amici. Precisò chiaramente le sue proposte: 1) scioglimento di tutti i Fasci esistenti nell’Isola e del Partito sardo d’azione; 2) ricostruzione in un primo tempo, attraverso le sezioni combattenti, del nuovo Partito fascista con a capo me. Risposi che il Partito aveva gli organi direttivi e che era necessario consultarli: ma che mi sembrava che questa fusione sarebbe stata eventualmente possibile solo a queste condizioni: 1) Immediato impegno del Governo per la realizzazione delle aspirazioni autonomistiche della Sardegna; 2) Concessione temporanea dell’Isola franca, esenzione cioè dell’Isola dai dazi doganali; 3) Il Partito sardo d’azione, aderendo al Fascismo, non rinuncia a nessun suo punto programmatico, conserva il suo indirizzo e le sue caratteristiche; 4) Accettare senza discutere le mie dimissioni da deputato e il conseguente ritiro dalla vita pubblica.” In un secondo colloquio il Lussu espose “lealmente le ragioni per cui io mi sarei mostrato favorevole alla unificazione dei due partiti, superando ogni teorica riluttanza: perché il Partito sardo d’azione, aderendo al 280

Fascismo ma conservando le sue caratteristiche idealità programmatiche, avrebbe realizzato in dieci anni ciò che nessuno di noi avrebbe mai sognato di ottenere in 50 anni; perché avrebbe attuato il suo sogno di rinnovamento isolano e di moralizzazione della vita pubblica […]; perché, essendo la Sardegna paese essenzialmente di produttori proletari (contadini. piccoli produttori e pastori), si sarebbero nettamente messi in rilievo i suoi interessi e si sarebbe potuto ottenere finalmente anche quel riscatto (che ci sembrava utopistico) del proletariato minerario, le cui condizioni sono avvilenti per qualsiasi nazione civile; perché con forti organizzazioni sindacali avrebbe potuto sostenere in seno al Partito Nazionale magnifiche battaglie e dare nuovi orientamenti; perché avrebbe potuto accelerare quel processo di chiarificazione che, presto o tardi, dovrà irreparabilmente dividere i pionieri del fascismo rivoluzionario dai monarchici conservatori; perché, in altre parole (non l’ho detto, ma era implicito), il fascismo sarebbe diventato sardismo.” Si era, evidentemente, in una fase in cui i sardisti credevano di poter trattare da una posizione di forza, illusione destinata a durare poco, perché anche i successivi abboccamenti con il generale, “perfettamente identici” al primo, non diedero alcun risultato, sicché il Lussu concludeva: “Io ho atteso fino ad oggi: le condizioni poste non si sono avverate. Deve quindi considerarsi definitivamente fallito ogni tentativo di accordo.” Rimaneva, secondo lui, un fatto importante, e cioè che “il Fascismo, trattando con il Partito sardo d’azione, ha dimostrato solennemente che noi non siamo un partito antinazionale: esso, infatti, non avrebbe certamente cercato accordi con noi se fossirrio davvero stati quei pericolosi separatisti della leggenda forcaiola democratica isolana.” Ma a questa “leggenda forcaiola democratica isolana” era molto vicino Mussolini, che non solo manifestò nettamente 281

la sua volontà di non fare la “benché minima concessione su terreno autonomia” nel dispaccio ricordato del 2 marzo (che, probabilmente, diede origine “allo stato di sfacelo materiale delle organizzazioni sardiste esistenti” e alla loro confusione ideologica e politica, divise fra la tendenza alla fusione immediata, quella che chiedeva garanzie almeno di una incipiente realizzazione degli impegni presi, e una terza che esortava a diffidare dalle “promesse chiare e precise” avanzate tramite il Gandolfo, perché quelle promesse erano “in stridente contrasto con l’essenza del movimento fascista, e con la pratica politica adottata fino ad oggi da quel partito e dal suo governo”), ma che ribadì tale precisa volontà nei discorsi che fece, durante la sua visita, alle popolazioni dell’isola, “vasta riserva di fede, di patriottismo e di passione italiana.” Ciò su cui insisté, con la sua veemente retorica, fu, in particolare, la devozione dei sardi - “fortissimi e sdegnosi” combattenti che si erano “macerati nel sangue e nel fango delle trincee” con “lo sforzo magnifico e sanguinoso della nostra razza” - al fascismo e al governo nazionale che di esso era l’espressione (che “conta su di voi e voi potete contare su di lui,” essendo un governo “scaturito da una duplice vittoria di popolo”). A tale proposito gridò “al popolo di Sassari” che i sardi erano “stati trascurati, dimenticati per troppo tempo! A Roma si sapeva e non si sapeva che esisteva la Sardegna. Ma da quando la guerra vi ha rivelati all’Italia, bisogna che tutti gli italiani ricordino la Sardegna non soltanto a parole, ma a fatti [Applausi fragorosi] ” Era una polemica contro i vecchi governi liberal-parlamentari, ma il merito di aver rivelato la Sardegna all’Italia intera non era da attribuirsi al fascismo, bensì all’eroismo dimostrato in guerra, perché anche per Mussolini rincontro con quella gente rappresentò, sotto diversi aspetti, una sorpresa: “ho visto i vostri lineamenti, ho messo i miei occhi nei vostri. Ebbene, oggi ho riconosciuto 282

che voi siete dei virgulti superbi di questa razza italiana che era grande quando gli altri popoli non erano ancora nati, di questa razza italiana che ha dato tre volte la sua civiltà al mondo attonito o rimbarbarito, di questa razza italiana che noi vogliamo prendere, sagomare, foggiare per tutte le battaglie necessarie nella disciplina, nel lavoro, nella fede.” A parte quel pesante insistere sulla razza italiana e sulla grandezza di un’altra età, di cui Mussolini amava molto vantarsi come se da quella grandezza potesse derivare un diritto alla potenza nel presente, si comprende come non sia stato senza un chiaro significato il fatto che egli abbia voluto cominciare la sua visita da Sassari, che era la città in cui si avvertiva più vivace una palese o segreta opposizione al fascismo e in cui erano più forti le correnti autonomistiche. Qui tenne un discorso che fece un vivo appello alla mozione degli affetti, tutto incentrato sulla gloria di cui si erano ricoperti i fanti sardi nel conflitto (“Sono sicuro che come la Sardegna è stata grande nella guerra, sarà altrettanto grande nella pace. Vi saluto, o magnifici figli di quest’isola solida, ferrigna e dimenticata. Vi abbraccio spiritualmente tutti quanti. Non è il capo del Governo che vi parla: è il fratello, il commilitone, il trincerista”) e sull’abbandono in cui “qualche burocrate, che si attarda a poltrire,” lasciava la città: “Oggi ho sofferto quando mi hanno detto che questa città non ha acqua. È tristissimo che una città di eroi debba subire la sete.” A Cagliari, invece, città più sicura e che aveva saldamente radicato il fascismo “nelle coscienze,” potè parlare dei problemi che l’avevano spinto a recarsi nell’isola: ribadire, cioè, pur se in forme un po’ attenuate e velate da grandi manifestazioni di ammirazione e di fervida partecipazione, l’ostilità a qualsiasi forma di autonomia: “Passando per le vostre terre ho ritrovato qui, vivo, pulsante, un lembo della Patria. Veramente questa vostra isola è il baluardo della nazione all’occidente; è un 283

cuore saldo di Roma piantato in mezzo al mare nostro [Acclamazioni}. Talune catene delle vostre montagne mi ricordano le prealpi comasche; talune vostre pianure la Valle del Po; ma soprattutto ho visto, nelle folle che si sono raccolte attorno ai gagliardetti, i bellissimi germogli della razza italiana, immortali nel tempo e nello spazio [Acclamazioni}. Mi sono domandato: come dunque è avvenuto che, ad un dato momento, si è potuto pensare nel continente che questa isola di eroi e di salde coscienze si fosse intiepidita nel suo fortissimo amore verso la madre Patria? Non ho mai creduto a ciò. Era un enorme equivoco: non era in gioco la Patria; erano piuttosto in gioco i pavidi ed inetti governanti di Roma che troppo tempo vi avevano dimenticati [Applausi]. Credo, e lo affermo qui al vostro cospetto, credo che poche regioni d’Italia possano rivaleggiare con voi in fatto d’amor di Patria [Applausi].” E un altro “equivoco” definì quanto gli avevano riferito, che la Sardegna, “per ragioni speciali di ambiente, era refrattaria al fascismo. Da oggi le coorti e le legioni, le migliaia di camicie nere solidissime, i sindacati, i Fasci, la gioventù tutta di quest’isola, è là a dimostrare che, essendo il Fascismo un movimento irresistibile di rinnovazione della razza, doveva fatalmente toccare e conquistare quest’isola dove la razza italiana ha le sue manifestazioni più superbe [Applausi].” Proclamò, inoltre, che le migliaia e migliaia di giovanetti che avevano avuto il martirio delle trincee, che avevano ripreso, poi, la lotta civile, che avevano vinto, avevano anche “tracciato un solco tra l’Italia di ieri, di oggi e di domani”; ed aggiunse, rafforzando il tono oratorio: “Certamente dovrete ancora essere partecipi di questo grande dramma. Certamente, voi volete vivere la vita della nostra grande collettività nazionale, di questa nostra adorabile Italia, di questa bellissima madre che è il nostro sogno, la nostra speranza, la nostra fede, la nostra certezza, 284

perché passano gli uomini, forse anche i Governi, ma la nazione, l’Italia, vive e non morirà mai.” C’era, in queste parole e nella posizione che esse rivelavano, l’umiliante ed offensiva celebrazione, come al solito, magniloquente dei veri italiani, che avevano sentito “l’amor di Patria nelle fangose trincee, dallo Stelvio al mare” (che, pertanto, erano i vincitori e che avevano un ancor maggiore diritto di rappresentare la Nazione, perché, dopo la vittoria al fronte, si erano battuti per un’altra vittoria, “che abbiamo pagato con tanto generosissimo sangue di giovanetti che si sono immolati per schiacciare il bolscevismo italiano”), di contro a tutti gli altri che non avevano partecipato a quella, per lui esaltante, vicenda. Il duce si rivolgeva soltanto alla eletta schiera, che portava “nel cuore la fede che, a un dato momento, [aveva fatto] partire da tutte le città e da tutti i villaggi d’Italia migliaia e migliaia di fascisti per scendere a Roma,” a conquistare la capitale. Al popolo di Iglesias, in una delle sue brevi ma ardenti allocuzioni, disse: “È opportuno si sappia che la Sardegna è una delle prime regioni d’Italia, anche perché ha dato il maggiore contributo di sangue alla guerra vittoriosa. Come capo del fascismo, sono lieto di essermi trovato con le eroiche camicie nere e avere visto la splendida fioritura del fascismo che porterà una totale rinnovazione nella vostra terra.” Così riassumeva il significato della sua visita, unendo strettamente la generazione del Carso e dello Stelvio con quella della marcia su Roma, chiedendo, e quasi esigendo, un impegno totale di fusione dell’isola con la Patria, e prendendo, a sua volta, l’impegno di “tornare a visitare le vostre città, i vostri villaggi,” nell’intento di rendere omaggio a “popolazioni laboriose, tranquille e veramente pazienti,” ma “troppo a lungo dimenticate e considerate quasi come una colonia lontana.” Era, quest’ultimo, l’altro motivo ricorrente nei suoi discorsi 285

alla folla, per cui assicurò “il popolo di Macomer” che “d’ora innanzi la Sardegna può contare sul Governo,” ed al “popolo di Arbatax” promise la “pronta soluzione dei suoi problemi,” però “secondo l’urgenza e l’utilità.” Eppure, aveva esclamato a Cagliari che i problemi della Sardegna “li hanno conosciuti tutti i governanti da mezzo secolo a questa parte: sono problemi presenti alla coscienza nazionale, e se fino ad oggi non sono stati risolti, gli è che a Roma mancava quella ferrea volontà di rinnovamento che è perno, essenza e fede del Governo fascista.” Sembrava che volesse attribuire le tendenze autonomistiche alla solitudine, alla dimenticanza e all’abbandono in cui era andata a poco a poco degradandosi la popolazione sarda: ma ora - il duce continuò a ripetere - la situazione è radicalmente mutata e voi avete a Roma un governo che comprende i vostri bisogni; pertanto le vostre attese non saranno più così lunghe come per il passato e, soprattutto, non rimarranno senza una adeguata risposta. Era, in certo qual modo, il compromesso a cui Mussolini era stato costretto per ottenere, in cambio, il consenso dei sardisti, sebbene la forza di questi ultimi fosse notevolmente diminuita dopo la seconda scissione (26 aprile ‘23) del PSd’A che vide uscire dal partito, per orientarsi verso il fascismo, diversi esponenti di primo piano, come il Pili e il Putzolu, mentre altri avrebbero esortato i riluttanti: ad esempio, lo stesso Lussu, secondo il racconto del Pili, avrebbe detto: “vi prometto che fra qualche mese sarò con voi, oppure mi ritirerò completamente dalla vita politica.” Perciò, il viaggio del duce venne proprio nel momento giusto, quando i suoi avversari stavano ormai disgregandosi, incapaci di resistere alla offensiva della vecchia classe dirigente, appoggiata manifestamente dal fascismo, dietro il quale si intravedevano chiaramente gli interessi del mondo industriale del nord, come aveva denunciato L. B. Puggioni, 286

che abbiamo già visto diffidare delle promesse del Gandolfo. In una analisi acuta sulle origini del fascismo e sulla sua pratica di governo, egli, infatti, aveva detto: “Il fascismo, nessuno può ignorarlo, è sorto e si è sviluppato soprattutto per il valido appoggio morale e finanziario dell’alta banca, dei grossi proprietari terrieri e dei grandi signori dell’industrialismo parassitario dell’alta Italia. Ancora oggi, come ieri, è la coalizione della grande industria italiana che impone al governo il mantenimento della inesorabile barriera doganale che paralizza tutta la produzione agricola e dissangua il mezzogiorno ad esclusivo vantaggio di ristrette categorie di privilegiati che identificano l’interesse proprio con quello della patria.” La denuncia riprendeva tutto quello che diversi meridionalisti da tempo andavano affermando (e che rimarrà, come è noto, anche nel Dorso nell’immediato secondo dopoguerra), mentre, forse, dopo il primo conflitto non sarebbe bastata una abolizione del protezionismo, perché non si poteva essere sicuri che il liberismo favorisse la penetrazione nel nostro mercato di prodotti a più buon prezzo, data la ormai palese tendenza alla costituzione di grandi monopoli. Il Puggioni, peraltro, aveva proseguito il suo discorso mettendo in rilievo gli effetti che la libertà doganale avrebbe avuto su tutto il Mezzogiorno: “Concedere alla Sardegna la sua libertà doganale, significa sottrarre notevoli guadagni ai più validi sostenitori del fascismo, aprire una porta alla concorrenza delle industrie estere; significa dare un esempio invidiato a tutto il Mezzogiorno d’Italia, il quale, trovandosi nelle nostre medesime condizioni economiche, e costituendo, come noi, agevole campo di sfruttamento dell’industrialismo italiano, riparato contro la concorrenza estera sotto le materne ali delle tariffe doganali, aspira anch’esso a una piena libertà commerciale che consenta vita e rigoglio alla sua produzione prevalentemente agricola e 287

armentizia.” Osservazioni in se stesse giuste, ma che non definivano, anzitutto, di quale tipo e con quali strutture avrebbe dovuto essere incentivata la produzione agricola, e che, poi, confinando il sud nel solo settore agricolo, senza prevedere un contemporaneo e adeguato sviluppo industriale, lo avrebbe sempre mantenuto nella condizione di colonia del Settentrione. Ma l’intreccio di interessi tra il fascismo, l’alta banca, i proprietari terrieri e l’industrialismo parassitario erano tali da indurre il duce a troncare ogni velleità di autonomismo in Sardegna, perché appunto quell’intreccio lo avrebbe costretto a subire l’alleanza con “la gramigna delle false democrazie e delle cricche faccendiere.” Così, dopo la visita di Mussolini, fu nominato un Comitato regionale, del quale facevano parte i due fiduciari provinciali del PNF sotto la presidenza del Gandolfo. Il quale, però, adducendo a pretesto i molteplici e pesanti incarichi, si dimise dal Comitato: probabilmente perché si rifiutò di avere al suo fianco i due funzionari fascisti. “Le dimissioni di Gandolfo,” scrive il Sechi, “sono una vittoria degli ambienti democratico-liberali di Sassari. Decisi a fare leva sul fascismo, non esitano persino ad incepparne le azioni e s’avvalgono, per i propri disegni di conservazione del potere, dei suoi dirigenti. Il maggior punto di forza di essi è la prefettura.” Il cui piano (ben delineato in due promemoria, del gennaio 1924, di G. Solinas, direttore della Cassa provinciale di credito agrario, e G. Alivia) è di “far entrare nel fascismo tutto lo stato maggiore democratico, che era […] al potere prima della rivoluzione fascista e costringere quindi i fascisti autentici ad uscire.” D’altronde, i principali enti ed istituti della provincia erano rimasti, come se nulla fosse successo, nelle mani della vecchia classe dirigente, la quale controllava la Commissione di ricchezza mobile, le Commissioni di sconto presso la 288

Banca d’Italia e il Banco di Napoli, la Camera di Commercio, il Comitato agrario, la Congregazione di carità dell’Ospedale, la Prefettura e la Federazione provinciale con le sezioni del PNF. Disponeva, dunque, di un potere economico che sarebbe stato molto difficile scalzare, ed il Gandolfo era riuscito solo ad imporre le dimissioni od a nominare commissari prefettizi in circa 60 comuni su 256 in provincia di Cagliari. Il 24 novembre comunicava al duce che cadevano “ogni giorno le roccaforti, grandi e piccole, che finora avevano costituito il comodo rifugio dei compari degli onorevoli Cocco-Ortu, Sanna Randaccio, Carboni Boy, ecc., ed ogni caduta rivela aggruppamento di inconfessabili interessi, malversazioni del pubblico danaro, miserabili cricche di truffaldini, che vengono regolarmente deferite all’autorità giudiziaria per le definitive sanzioni penali. È una santa opera di educazione morale e politica di cui la Sardegna aveva assoluto bisogno, per redimersi dall’abiezione in cui uomini senza scrupoli l’avevano immiserita, per dare la piena sanzione dell’assoluto e ripristinato impero della legge al di fuori e al di sopra di qualunque inframmettenza o favoritismo”. Anche il Sechi, a questo punto, si chiede quanto di vero ci fosse “in questa sorta di crociata contro la corruzione,” ma, tuttavia, riconosce che nel Gandolfo agì, “psicologicamente, la convinzione dell’intima moralità del fascismo, e quindi della sua superiorità su tutte le forze,” non “sospettando minimamente le ambiguità e la doppiezza della politica del partito e del governo. ” E che la politica del partito e del governo fosse macchiata di ambiguità e di doppiezza è indubbio, perché Mussolini, che aveva fatto approvare la legge maggioritaria Acerbo e che si preparava a nuove elezioni, voleva a tutti i costi ottenere il sostegno della antica classe liberal-democratica, che avrebbe potuto portargli moltissimi voti, con i deteriori metodi clientelari cui era da 289

lunga pezza abituata. Quei metodi clientelari che l’Amendola, per un quasi innato spirito conservatore, celebrava come una delle maggiori virtù della gente del Meridione: “Si ode,” aveva detto nel discorso di Sala Consilina, il 1° ottobre del ‘22, “ancora e sempre, ripetere il tema della riscossa del popolo meridionale dal giogo delle camarille e delle clientele, che ne avviliscono il costume politico. Così si disse quando si volle il suffragio universale; così si è ripetuto quando si batteva in breccia il collegio uninominale. Senonché le riforme si aggiungono alle riforme, e l’argomento resta sempre in piedi, a disposizione della retorica politica, che abitualmente si accompagna alla questione meridionale. Orbene: io ho rivendicato altra volta, nella sede parlamentare, e rivendico anche oggi, il valore sociale, politico e morale, delle così dette ‘posizioni personali,’ attraverso le quali si organizza la vita pubblica del Mezzogiorno. Esse rappresentano, bene spesso, patrimoni preziosi di prestigio e centri naturali ed insopprimibili di un’organizzazione di rapporti politici, assai più sana di quella che è rappresentata dalle tessere dei partiti così detti di massa. Esse hanno dietro di sé tradizioni vecchie e vigorose, ed hanno contribuito efficacemente in tutto il dopoguerra (e contribuiranno anche domani) a preservare una larga parte di Italia da pericolosi sconvolgimenti politici. Che cosa si pretenderebbe oggi di tentare contro questa naturale organizzazione della grande maggioranza delle popolazioni meridionali? Non vi sono che due vie da prendere: o assicurarsene l’adesione e il dominio morale, con la persuasione e con le buone opere civili, o coalizzare contro di essa tutte le minoranze dei malcontenti, degli squalificati, degli irregolari. Non auguro questa seconda via, che conduce allo sfruttamento fazioso degli elementi torbidi e dei rancori locali, a nessun partito il quale si proponga di lavorare onestamente per l’avvenire 290

d’Italia. ” In verità, questo passo dimostra una quasi viscerale condanna di “tutte le minoranze dei malcontenti, degli squalificati, degli irregolari,” come se gli individui rientranti in simili categorie (per volontà divina o per colpa loro?) non potessero avere anche una precisa e coerente dignità di uomini e come se il loro destino fosse soltanto quello di vivere in una umile soggezione nei riguardi del ceto supcriore, che, godendo di “posizioni personali” e rappresentando “patrimoni preziosi di prestigio,” aveva contribuito efficacemente a preservare una larga parte - cioè il Mezzogiorno -della penisola “da pericolosi sconvolgimenti politici.” Ecco dove si manifesta in pieno lo spirito conservatore, per non dire reazionario, dell’Amendola, in una simile idilliaca difesa d’ufficio di una società in cui imperano pochi individui su una massa senza nome e senza vita autonoma e propria: è un tentativo di consolidare la struttura economico-sociale tradizionale della vecchia borghesia del Mezzogiorno, di una borghesia che aveva, di volta in volta, votato e fatto votare le masse che controllava come abbiamo già detto - per la corrente politica o per il partito che deteneva il potere: per la Destra, per la Sinistra, per Crispi, per Giolitti e, infine, nel ’24, per Mussolini e il fascismo. Aveva rappresentato - così li aveva sdegnosamente e irosamente definiti il Salvemini - gli ascari di cui ogni governo era sicuro di potersi servire per consolidare il suo potere. Era la situazione che anche il Di Vittorio, in un articolo in “Pagine rosse, ” del 16-24 aprile ‘24, denunciava con il tormento di vederne consolidato il regime, dopo le elezioni del 6 aprile: “Bisogna considerare,” egli scriveva, “che nel Sud non sono stati mai i cittadini elettori a fare le elezioni politiche. I deputati li ha sempre fatti il governo. Così si spiega come in sessant’anni di unità, nonostante l’umiliante inferiorità con cui è stato trattato da 291

tutti i governi, il Mezzogiorno ha dato sempre dei plebisciti ad essi […]. I grandi terrieri del Mezzogiorno, persuasi di poter sostenere, con speranza di successo, una lotta contro la plutocrazia del Nord pel possesso dello Stato, si sono rassegnati alla loro inferiorità politica, cercando di trarre la maggiore utilità possibile dal sistema su cui si fonda l’equilibrio nazionale ch’essi non possono rompere, e si sono resi complici e strumenti dei padroni dello Stato. Con tale complicità essi fanno una splendida carriera politica: divengono deputati e senatori e infeudano i poteri locali per rifarsi sui contadini e sui fittavoli e piccoli proprietari dei tributi ch’essi pagano allo Stato.” Altro che la “retorica politica” o le “tradizioni vecchie e vigorose” di cui si riempiva la bocca l’Amendola; si trattava di una vita politica affogata nel clientelismo, nella camorra e nella mafia che è durata indenne durante il fascismo e il post-fascismo e che dovrebbe essere estirpata invece di essere celebrata come la “naturale organizzazione della grande maggioranza delle popolazioni meridionali.” Questo perché essa ha sempre contribuito - e tuttora contribuisce, come abbiamo detto - a chiudere il cerchio che soffoca il popolo italiano, sottoposto da un lato, all’arroganza di una burocrazia e di una classe politica che si avvalgono di tutti gli strumenti che mette a sua disposizione lo Stato, e, dall’altro, di un ceto economico del settentrione, che è quello che impone il suo volere ai governanti, che sembrano stare a Roma quali suoi delegati e proni ai suoi cenni di comando. È solo “la confluenza di interessi fra plutocrazia del Nord,” notava con profonda tristezza il Di Vittorio sulle orme di tanti meridionalisti che l’avevano preceduto, “e grandi terrieri del Sud, che rende solido l’equilibrio nazionale basato sulla inferiorità e sfruttabilità del Mezzogiorno, è la necessità comunemente sentita di tenere soggette quelle regioni, come riserva di forze vandeane 292

destinate a difendere il regime dagli assalti proletari. L’unica possibilità di rivalsa,” proseguiva, “largamente accordata dallo Stato ai grandi terrieri, dei danni, che pur essi risentono dal predominio economico e statale del Nord, è quella di sfruttare intensamente contadini salariati, fittavoli e piccola proprietà rurale. È evidente, pertanto, che questi ultimi sono i soli a sopportare, con una vita di fatica debilitante, compensata da una miseria acuta che rende pietosa, umiliante ed indegna d’esser vissuta la loro miseranda esistenza, il peso gravoso del predominio dello sfruttamento del Nord e l’ingordigia illimitata dei grandi terrieri del Sud Il nemico è uno solo, con branche e denominazione diverse: la borghesia plurocratica del Nord, di cui si sono resi facili strumenti i grandi terrieri del Sud.” Si sente, in queste parole, la viva esperienza di chi era vissuto al fianco di quei poveri contadini, fittavoli e piccoli proprietari, condividendone la miseria “che rende pietosa, umiliante ed indegna di essere vissuta una miseranda esistenza,” ed è appunto questa umana partecipazione che ci rende così simpatica la figura di Di Vittorio. Anche il Partito sardo d’azione aveva tentato di ribellarsi alla condizione di colonia a cui era stata ridotta l’isola, ma con idee troppo vaghe e con programmi troppo confusi, sicché era stato facile per Mussolini porre termine ad un movimento che si batteva per una autonomia di cui non si riusciva ad intravedere gli sbocchi. Il duce era intervenuto come abbiamo osservato - nel momento per lui più opportuno, quando, in previsione di nuove elezioni, aveva bisogno dell’apporto dell’antica classe dirigente meridionale con le sue organizzate e fedeli clientele. Altrettanto era avvenuto in Sicilia, dove - scrive G. C. Marino - il duce disponeva di quella macchina dello Stato, affinata e potente, con la quale “Giolitti si era assicurato a lungo il controllo della situazione siciliana.” Ed anche qui, Mussolini agì 293

abilmente, pur se più allo scoperto mancando una effettiva resistenza: incominciò con il mandare nell’isola, verso la metà del ‘22, P. Bolzon, “per inquadrar [la] nel movimento nazionale” servendosi del “vecchio e deplorevole costume del favoritismo e della corruzione”; ma, poi, eliminò il segretario politico del fascio palermitano nel quadro di un “rinnovamento” che sembrò, al contrario, a molti fascisti della prima ora, un esempio dell’inquinamento che aveva corrotto le loro file. Tuttavia, nel ‘23 inviò in Sicilia M. Rocca, che dichiarò, in una intervista concessa a “Il Mezzogiorno d’Italia,” nel settembre, di avere trovato nell’isola “una perfetta coscienza mussoliniana,” anche se “il fascismo, come partito e non come stato d’animo, non [aveva] ragione di esistere,” non essendovi bolscevismo. In verità, era una dichiarazione molto abile perché faceva scaturire la “perfetta coscienza mussoliniana” non tanto dalla necessità di una dura lotta contro il soviettismo, il comunismo, bensì da una spontanea adesione ad un movimento che si era presentato come rinnovamento e come reazione al “malgoverno” di cui la Sicilia aveva sofferto soprattutto sotto i precedenti governi liberal-democratici. La fusione con i nazionalisti avvenne senza grandi opposizioni, ed anzi, in un memorandum di L. Tasca (autore di un libello Elogio del latifondo) - che il Marino assegna al marzo 1923 ma che, probabilmente, è del marzo ‘24 - si passava in rassegna la “situazione nei riguardi degli agricoltori siciliani e più specificatamente delle provincie occidentali.” Per la provincia di Palermo, il Tasca scriveva: “Gli agricoltori della provincia furono i soli prima del novembre 1922 a sostenere la lotta contro la demagogia di tutti i partiti politici e ad essi si unì lo scarso nucleo, allora esistente, di nazionalisti, che oggi costituiscono i più autorevoli rappresentanti del fascismo nella provincia di Palermo.” Perciò, la stretta alleanza 294

fascisti-nazionalisti era stata ben vista dai “signori della terra,” che avevano sciolto il Partito agrario, un partito che, diretto dallo stesso Tasca, si era ripromesso, nel periodo dell’eversione e dell’occupazione delle terre, di costituire una “rappresentanza specifica,” una specie di Partitoantipartito, degli agricoltori siciliani. Volevano, essi combattere, anche con il “boicottaggio dell’erario,” le “tendenze espropriatrici” accolte persino dai rappresentanti della liberal-democrazia romana, i quali “avevano adottato, al fine di riuscire alla conquista dei collegi elettorali, la tattica dei partiti estremi, quella cioè di promettere alle masse i beni degli altri,” e che avevano fondato una Società degli agricoltori siciliani: fu ben vista, naturalmente, da questo ceto di latifondisti e di grossi proprietari in funzione conservatrice e restauratrice di un potere che avevano, per un certo periodo, temuto di dover perdere. Ad ogni modo, il gioco politico che dovette condurre il duce in Sicilia fu complesso e forse più difficile che in Sardegna, dove esistevano forze politiche organizzate e attestate su ben precise posizioni. Doveva anzitutto tener conto di queste attese reazionarie dei “terrieri,” i quali controllavano, in particolare, la popolazione delle campagne, tramite la vecchia mafia nei centri rurali, che, a differenza della nuova o giovane, composta “di pochi ladruncoli di campagna che vivevano di furtarelli,” aveva “carattere di conservazione, di ossequio alle autorità.” Questa, gravitando intorno al Circolo dei borghesi “presieduto dal ricco proprietario,” sosteneva “gli elementi d’ordine.” Mussolini era costretto, pertanto, a rinnegare ciò che aveva detto a uno dei pochi deputati fascisti eletti, nel ‘21, nel Mezzogiorno, Giuseppe Caradonna che, il 1° novembre ‘22, aveva recato il “saluto di tutti i fascisti meridionali e il dispiacere di essi per non aver visto nessun deputato meridionale assunto al Governo.” Allora, l’importanza del sud doveva essere apparsa al duce 295

del tutto secondaria rispetto a quella del nord, che aveva dato al suo partito la grande maggioranza dei deputati2; pertanto, gli aveva risposto, brevemente e seccamente: “Questa, che pare un’esclusione arbitraria e dolorosa, è invece un’esclusione calcolata. Io ho il potere anche per risolvere nazionalmente il problema del Mezzogiorno d’Italia. Tale risoluzione è al sommo delle mie aspirazioni ed è perciò che ho voluto renderla più radicale e più generale, evitando che i piccoli problemi agricoli agitati e professati dai deputati e governanti meridionali potessero intralciarla e paralizzarla.” Ma, fra il ‘23 e il ‘24, quelli che aveva definito “piccoli problemi agricoli” gli si imposero con tutta la loro urgenza, come potè scorgere da alcuni sintomi significativi: ad esempio, la Confederazione nazionale delle corporazioni fasciste era riuscita a penetrare nella fascia dei ceti impiegatizi ed anche, sebbene “in numero non ancora imponente,” in quella di “alcune categorie di operai (metallurgici, gasisti, tranvieri, cementisti),” ma non aveva trovato molta rispondenza nei contadini, “forse anche per difetto di organizzazione degli organi della Federazione” di Palermo, come cercava di giustificare e di giustificarsi il prefetto in una sua relazione, ma, “piu verosimilmente,” aggiunge il Marino, “per la resistenza opposta dal PPI [che, peraltro, aveva una scarsa influenza], dai residui della forza socialista e, soprattutto, dalla stessa vischiosità della fase di conversione al fascismo dei maggiorenti e delle ‘maffie’ locali.” Vischiosità, però, che fu vinta, ancora una volta, dalla corsa di molti notabili locali verso quel partito che sembrava dovesse risultare il vincitore e, pertanto, il futuro dispensatore di favori e di prebende: fenomeno di sottomissione al potere che discendeva da Roma e di schietto clientelismo verso i sudditi che ciascuno poteva vantare. Il questore di Palermo così descriveva la situazione 296

in una relazione del gennaio ‘24: “L’interesse a prendere parte alla vita pubblica è sentito prevalentemente dalle persone che in ciascun centro hanno una posizione elevata. Mirando a procacciarsi una condizione privilegiata, esse riescono a formarsi dei gruppi aderenti. I vari gruppi poi vengono in lotta fra di loro per la conquista dei posti al Municipio o al Consiglio provinciale e possono trovarsi, pure in campi opposti, nelle elezioni politiche. Tutti però ambiscono di mettersi dalla parte del Governo, sperandone appoggi e favori, e se non sono da quella parte, non disperano di potervisi trovare in seguito, quando saranno riusciti a scalzare gli avversari. Non vi è pertanto contrasto di idee, di programmi, di aspirazioni di bene generale, ma l’unica meta da raggiungere è potere acquistare il predominio nella vita pubblica del Comune o della Provincia, secondo la entità delle proprie forze personali.” Giustamente il Marino osserva che si trattava di una analisi che, per quanto, purtroppo, corrispondente in gran parte alla verità, rivelava l‘“ottica del settentrionale sbarcato in Sicilia,” che era portato a mettere in rilievo “una realtà integraliter depressa, culturalmente inferiore, nella quale i ‘veri’ partiti politici mancano, non essendovi ancora molto sviluppata la educazione politica.” Senz’altro era una analisi di natura illuministica, ma di cui Mussolini dovette tener conto e cercare, sempre su esortazione del questore di Palermo, di giungere ad una “lista nazionale,” in cui fossero inclusi “non soltanto gli esponenti fascisti, ma anche quelli dei combattenti e Deputati uscenti, on. Orlando, di Scalea, di Scordia e Cirincione,” cioè una lista “mista di fascisti e di elementi nazionali.” Le pressioni più forti furono fatte su Orlando, del quale si temeva, in un primo momento, l’intenzione di abbandonare la vita politica, e che, in un secondo momento, accettò precisando, in una lettera pubblicata da “L’Ora” di Palermo, le 297

condizioni che voleva rispettate: “dichiaro fin da ora che la mia eventuale partecipazione alla lista nazionale abbia ad avere questo significato preciso, che sia in ricognizione non soltanto delle qualità dell’uomo […], ma altresì delle idee liberali e democratiche che ho sempre professate ed alle quali intendo rimanere fedele, e significhi inoltre […] che la costituzione attraverso la quale si è formata l’unità d’Italia sia da considerarsi sacra e inalterabile nel suo spirito essenziale e che non vi sia altra sovranità che quella del Parlamento di cui Sua Maestà il Re è parte e capo.” Condizioni che vennero sostanzialmente accettate, soprattutto perché era pure interesse del duce non promuovere una lista troppo scopertamente reazionaria, per i motivi che diremo fra poco: e dalle trattative uscì un accordo di carattere conservatore tale da accreditare “la mistificazione legalitario-costituzionale del fascismo” e occultare “il ruolo delle forze reazionarie.” Senza dubbio, osserva il Marino, l’ingresso nel listone di Orlando e degli altri eminenti fiancheggiatori meridionali, come un Salandra, un De Nicola, un Nava, “fruttò a Mussolini molto di più di quanto apparentemente concesse: assorbì l’influente prestigio personale delle ‘posizioni storiche’; ottenne che gli agrari, convinti ad accontentarsi di una rappresentanza affievolita, svolgessero la funzione di grandi elettori degli uomini nuovi del nazionalismo fascistizzato […], che, da soli, avrebbero potuto contare soltanto su poche migliaia di voti ‘autonomi.’” Del resto, i terrieri collegati con la mafia potevano essere soddisfatti di essere riusciti a fare approvare una lista con a capo il “Presidente della Vittoria,” come enfaticamente, nell’orgia di retorica seguita alla guerra, era stato detto l’Orlando, che, insieme con altri uomini politici meridionali, veniva fatto oggetto, parecchi anni più tardi, nel 1951, di una recisa denuncia da parte del Salvemini: 298

infatti, dopo avere osservato che i deputati meridionali erano stati eletti dalla stessa mafia meridionale, lo storico pugliese si chiedeva: “Meridionali furono alcuni presidenti del Consiglio: Rudinì, Crispi, Orlando. Che cosa mai fecero costoro, non per tagliare, ma almeno per accorciare le unghie a quella mafia? Aiutarono spesso ad aguzzarle.” E lo stesso Salvemini ribadiva quanto abbiamo osservato sopra, diceva cioè di non capire come mai il Mezzogiorno stesse apparentemente all’opposizione, ma mandasse “alla Camera deputati ascari, che si curavano solamente di votare per tutti i ministeri.” Ben diverso dal tagliente giudizio del Salvemini era - e non poteva non esserlo, data la sua posizione sul clientelismo meridionale che abbiamo già visto - quello dell’Amendola, il quale, nel ricordato discorso di Sala Consilina, esprimeva la sua fiducia che il Mezzogiorno avrebbe respinto qualsiasi nuova “calata di conquistatori” e la sua speranza in un contrasto civile su programmi concreti: “il fascismo, vigoroso per il numero degli aderenti, per i successi riportati e per le esuberanti speranze, afferma di voler circolare per tutta l’estensione del territorio nazionale e di mirare al Mezzogiorno. Questo fatto richiama tutti noi, cittadini e uomini politici del Mezzogiorno, a chiarire il nostro atteggiamento al riguardo. Il Mezzogiorno è aperto ad ogni corrente di pensiero e di sentimento, e non solo non si chiude in una incomprensione ostile d’ogni nuovo valore politico, ma anzi reclama per sé il vantaggio che deriva alla pubblica opinione dalla libera concorrenza delle idee, e dal contrasto delle diverse dottrine, onde gli sia possibile di scegliere per sé il meglio fra i valori ideali e personali che si disputano il campo. E gli uomini politici, che nel Mezzogiorno siano degni di tale nome, debbono aspirare a mantenersi vivi e diritti di fronte all’urto di altre idee e di altri uomini; mentre non potrebbero rassegnarsi a vegetare in un recinto 299

chiuso, lasciato fuori mano dalle correnti vive del Paese. Venga adunque, il fascismo nel campo delle nostre lotte civili, ma venga armato di idee costruttive, se ne possiede, e di metodi civili. Il Mezzogiorno non è terra di conquista, e mentre accoglierà ospitale ogni libera discussione, ogni civile contrasto, respingerebbe sdegnoso la calata dei conquistatori. Nel ‘19, quando l’alta e la media Italia piegavano sotto l’ondata bolscevica, il Mezzogiorno non piegò né si scosse: baluardo dello Stato e della società italiana. Esso non ha perciò verso il partito fascista alcun debito di gratitudine, né saprebbe tollerare l’importazione di metodi ai quali mancherebbe, tra le sue popolazioni amanti dell’ordinato lavoro e fedeli allo Stato, qualsiasi giustificazione di difesa sociale o di ritorsione politica. È dunque necessario, se il fascismo vuol tentare questa prova, che esso venga col viatico di un programma positivo, e di idee felicemente costruttive. Quale programma? Quali idee? -Qualche primo indizio indurrebbe a credere che esso tenterà di raccattare un programma specifico attraverso la litania ben nota dei problemi più propriamente meridionali, oggetto di così ponderosa e trita letteratura politica. Ebbene, se così sarà, possiamo esser certi che nulla di nuovo potrà essere detto in questo campo.” Qui c’era quasi tutto: la celebrazione della cultura meridionale, viva nel contrasto con le diverse dottrine e nel rapporto con tutte le correnti del paese (era la celebrazione di quella cultura che poteva vantare, in particolare, Il pensiero conservatore di un Cuoco), mentre agli uomini del Mezzogiorno, degni di tal nome, era lasciato soltanto il compito di “scegliere per sé il meglio fra i valori ideali e personali che si disputano il campo,” ma che venivano elaborati in altre regioni (e non si sarebbe trattato, allora, di una “calata di conquistatori,” anche se sul piano cullurale e morale?); l’esaltazione del Meridione che non aveva piegato 300

sotto l’ondata bolscevica e che, solo, aveva rappresentato il “baluardo dello Stato e della società italiana,” il che stava ad indicare che l’Amendola non aveva affatto capito il significato della lotta politico-sociale svoltasi nel nostro paese fra il ‘19 e il ’22 e che aveva, ancora una volta, accentuato le differenze fra il nord e il sud, il primo evoluto economicamente e politicamente e il secondo arretrato e sottosviluppato: la marcia su Roma era partita da Milano e dall’Emilia, dove più acuta e intensa era la lotta di classe, lotta che non esisteva affatto nel Mezzogiorno, che viveva ancora in condizioni feudali, come ebbe a dire diverse volte T. Fiore, nelle lettere sulla Puglia. E l’Amendola ripeteva il suo apprezzamento per le genti del Meridione - anche qui, un apprezzamento senza un filo di seria comprensione -, “amanti dell’ordinato lavoro e fedeli allo Stato,” del quale, secondo i meridionalisti di cui, però, egli non riusciva a condividere gli aspri e duri giudizi, non avevano proprio nulla di che rallegrarsi. Infine, egli chiedeva al fascismo un “programma positivo” e “idee felicemente costruttive,” come se il poter esporre ordinatamente tutto questo potesse far dimenticare la violenza con cui le squadre delle camicie nere avevano indiscriminatamente attaccato e calpestato ogni avversario. Sembrava, insomma, che ci fosse, nell’Amendola, una quasi deliberata volontà di dimenticare il clima di sopraffazione, di lotta civile che il fascismo aveva introdotto nella vita nazionale e che fosse disposto a considerarlo alla stessa stregua degli altri partiti democratici purché avesse presentato al paese un bello e semplice programma, ma positivo e costruttivo. Si avvertiva sempre, al di sotto delle sue parole, la nostalgia per la vecchia società prefascista e postbellica, in cui il Meridione aveva avuto il grande merito di alzare un baluardo invalicabile contro l’espansione del bolscevismo ed in cui le sue popolazioni si erano distinte per il fatto di 301

essere amanti di un ordinato lavoro e fedeli allo Stato. In una simile visione chi minacciava di corrompere la società italiana era molto più il nord che il sud. Ed anche quando chiedeva a Mussolini di formulare un programma per la ricostruzione del Mezzogiorno quale lui stesso aveva esposto “agli amici della provincia convenuti a Salerno,” nei seguenti semplici termini: “accompagnare ancora, con devozione e con spirito di sacrificio, lo sforzo della finanza nazionale verso il raggiungimento dell’equilibrio, e collocare un’ipoteca nazionale sui primi margini attivi che si verificheranno in avvenire onde attuare un grande piano generale di creazione, nel Mezzogiorno, degli impianti fondamentali necessari alla vita di un popolo civile, col metodo organico ed intensivo che fu impiegato per la ricostruzione delle terre liberate”, mostrava chiaramente di proporre un programma con un ingenuo spirito illuministico. Credeva nel “raggiungimento dell’equilibrio” in uno Stato dominato dal capitalismo selvaggio e sempre più desideroso di affermarsi quale era nato dalla guerra e che era ora favorito dal fascismo come se fosse stata una cosa semplice e priva di difficoltà il “collocare un’ipoteca nazionale sui primi [o sui secondi o sui terzi, dopo la guerra e la crisi del ’21?] margini attivi che si verificheranno in avvenire” in un paese che aveva sempre assistito ad un forte aumento delle imposte indirette e allo spadroneggiare dei possessori di grandi capitali; e, infine, come se fosse stato sufficiente indicare, in un modo così impreciso, la necessità di creare “gli impianti fondamentali” nel Mezzogiorno per farne decollare l’economia (ma impianti in quale settore? Questo punto era lasciato dall’Amendola in una astrattezza tale da togliergli qualsiasi possibilità di realizzazione). Senza dubbio, il duce non prevedeva nemmeno questo misero programma, ed infatti, nel breve viaggio in Sicilia che si poteva già definire pre-elettorale (20-22 giugno ’23), disse 302

al popolo di Catania, angosciato per una eruzione dell’Etna che minacciava Linguaglossa, di essere andato nell’isola “per compiere un dovere: il più alto dei doveri di fascista e di italiano. Sono venuto per dimostrare colla mia presenza che la Sicilia è regione particolarmente cara al mio Governo, che è Governo fascista e Governo nazionale.” E nelle sue brevissime parole non seppe fare altro che ammonire tutti gli italiani ed esortarli “a tener fede a quel semplice trinomio: concordia, lavoro, disciplina,” che era, di per sé, tutto un programma, ma un programma di repressione e di innaturale fusione delle classi per il bene supremo e per la salvezza della Nazione. Il giorno seguente, il 21, al popolo di Messina, di fronte alle baracche, in cui ancora la popolazione viveva dal terremoto del 1908, affermò che “il Governo che ho l’onore di presiedere si è trovato sulle braccia una infinità di problemi arretrati. Non faccio accuse al passato: è una constatazione di fatto”; e promise: “Questi problemi dovranno essere risolti, saranno risolti, perché è utile, perché è necessario, perché è doveroso.” Manifestava, in tal modo, la sua sempre abbondante retorica, sostenuta da una formalmente incrollabile fiducia nella volontà dell’uomo, come se nulla potesse resistere a ciò che questi avesse deciso. Subito dopo, sempre al popolo di Messina, rivolgeva parole che dovevano blandirne l’amor proprio e inorgorglirlo, facendogli dimenticare la triste condizione in cui viveva: “Il tempo in cui le isole, che tanto sacrificio di sangue hanno dato alla nostra gloriosa e vittoriosa guerra, erano dimenticate o trattate come colonie, questo tempo è ormai lontano, sepolto, sotterrato per sempre [Applausi]. La fraternità e la solidarietà nazionale non devono essere più, d’ora innanzi, soltanto delle parole per le cerimonie, ma devono essere opere concrete di solidarietà nazionale ed umana. L’Italia deve molto alle sue isole: la Sardegna e la Sicilia furono dimenticate purtroppo, ma queste isole 303

dimenticate, nell’ora del cimento, si sono ricordate superbamente della Patria comune [Applausi] ” Si potrebbe quasi dire che dava un colpo al cerchio e uno alla botte, poiché da un lato esaltava i sacrifici che la popolazione delle due isole aveva offerto alla Patria, ma, dall’altro, dopo aver proclamato la sua marmorea volontà di risolvere i problemi di Messina e della Sicilia, li rimandava ad una non meglio specificata “fraternità e solidarietà nazionale.” Il 22, da una intervista da lui concessa all’inviato de “Il Giornale d’Italia,” si poteva intravvedere che tutta la soluzione di quei problemi consisteva, secondo lui, in un limitato programma di opere pubbliche3 soprattutto nel campo dell’edilizia: “A Messina,” dichiarò, “occorre ‘sbaraccare’ per amore o per forza. Non è possibile che si perpetui questa esistenza beduina che è contraria alle più elementari norme della civiltà. Il Governo ha già preso l’impegno di provvedere e provvederà. Queste popolazioni laboriose della Sicilia vanno curate. Il Mezzogiorno è la grande riserva della nazione. Il suo stato demografico lascia tranquilli sulle sorti future della Patria. Non si rileva alcuna decadenza demografica come per qualche altra regione d’Italia. La Sicilia che ha campagne lussureggianti merita tutta l’attenzione del Governo nazionale.” Non poteva assolutamente trattenersi dal mescolare le questioni che interessavano più direttamente la gente a cui si rivolgeva, con altre affermazioni generali dietro cui egli molto facilmente si sperdeva: lo “sbaraccamento” di Messina unito al progresso demografico della Sicilia e, più in generale, del Mezzogiorno che dava affidamento per le “sorti future della Patria.” L’accenno, poi, alle campagne lussureggianti dell’isola lasciava capire come egli vedesse veramente la situazione dell’isola attraverso la lente deformante di una vacua retorica, perché non era capace di scorgere, in quelle “campagne lussureggianti,” la miseria, 304

l’abbrutimento sociale e fisico degli uomini che lavoravano in tanti minuscoli fazzoletti di terra. Ma le dichiarazioni più interessanti furono fatte dal duce in risposta alla commissione della città di Messina: aveva ricevuto, nel pomeriggio del 22, una rappresentanza di mutilati ed invalidi di guerra, una commissione di Reggio Calabria, l’arcivescovo di Messina ed una commissione della città, formata da elementi liberali e democratici, che gli furono presentati dal ministro Giovanni Antonio Colonna Di Cesarò, il quale affermò che i partiti liberale e democratico “sono unanimi nell’appoggiare il Governo fascista nella collaborazione per l’opera di ricostruzione e sono anche decisi a seguirlo nell’indirizzo politico che egli indicherà.” A tali profferte, Mussolini rispose che il suo governo, “pur essendo un Governo fascista, è composto di elementi di diversi partiti. Certi provvedimenti gravi sono presi per gli interessi della nazione, come il chirurgo per salvare il malato deve ricorrere al ferro. Tutti,” egli prosegui, “dobbiamo trovarci d’accordo in un programma di disciplina e di lavoro e i partiti devono essere concordi sopra ciò. Il popolo italiano marcia sopra grandi strade e gli uomini non possono marciare con passo diverso.” E concluse dicendo che “ogni collaborazione gli è bene accetta quando sia leale e sincera come quella offertagli oggi, ma è fieramente respinta quando non sia tale.” Dove andava, allora, a finire il vanto di avere costituito un governo con la collaborazione di diversi partiti, se questi ultimi, entrando nella coalizione, dovevano in pratica spogliarsi delle loro vesti ritenute alquanto sudicie e sporche e rivestirsi di altri panni condecenti, che li avrebbero costretti ad accettare, senza discutere, “un programma di disciplina e di lavoro” e la grandiosa “marcia sopra grandi strade”? Tuttavia, diversi sintomi, fra il ‘23 e il ‘24, gli dimostrarono che la collaborazione incondizionata, 305

sottomessa e ubbidiente non era accettata da tutti, nemmeno in Sicilia, dove esistevano alcune zone d’ombra che si rivelavano non facilmente penetrabili dalla propaganda fascista. Non sembravano disposti a piegarsi di fronte a tale propaganda alcuni esponenti democratici del combattentismo, “figure ormai isolate,” nota il Marino, “dell’interventismo di sinistra che, nel dopoguerra, era stato una componente importante della politica della negazione, sotto la spinta della parola d’ordine vincere la pace”- G. Maggiore Di Chiara, direttore del pugnace foglio umoristico “Il Babbio,” che, un po’ più tardi, dopo il delitto Matteotti, guidò la sollevazione degli strati antifascisti della borghesia e la cui “influenza elettorale” era considerata molto “fastidiosa” dal questore di Palermo. Nel febbraio del ‘24 egli aveva descritto il nuovo prefetto come un “vero tipo di funzionario fascista: rapido, straordinariamente dinamico, audace […], una specie di Mussolini in veste vuoi di Questore, vuoi di Prefetto” e vuoi anche di sindaco; per questo atteggiamento, giudicato dalle autorità irriguardoso, era stato ammonito, verso la metà del ‘23, dal direttorio provinciale fascista, che, prendendo in esame l’attività giornalistica svolta dal Di Chiara, aveva espresso “il parere che ogni pubblico attacco rivolto ad una autorità politica fascista rappresenta critica e menomazione al Governo e alle direttive fasciste”, e, pertanto, lo aveva invitato a desistere da ogni campagna o attacco del genere e a rientrare volenterosamente “nella più stretta disciplina di partito.” Sembravano impermeabili alla propaganda anche alcuni nuclei, nelle campagne, composti da fédeli al combattentismo democratico, nuclei “temibili” per il regime, tanto che il fenomeno dovette essere messo in rilievo dal questore di Palermo, che, in una relazione al presidente del consiglio del gennaio del ‘24, disse che “quasi dappertutto sono sorti aspri dissidi tra i fascisti ed i 306

combattenti, tanto che in alcuni Comuni si è costituito un partito dei combattenti, dove si annidano buona parte dei combattenti ed i rivali dei fascisti.” Tuttavia, come si vede, mancava nell’isola una opposizione cosciente, coerente e, si direbbe oggi, progressista (quale, almeno in parte, esisteva in Sardegna), e chi si schierava contro il fascismo lo faceva per lo più per difendere le proprie antiche posizioni clientelari e i propri centri di potere: ad esempio, Colonna di Cesarò, che era ministro delle Poste nel gabinetto Mussolini, incerto sull’avvenire della cosiddetta “svolta” del duce, riuscì ad organizzare, “nella lista della ‘democrazia sociale,’ una sorta di ‘fascio’ sicilianistico dei notabili che coltivavano una invitta fiducia nei titoli ‘storici’ e nel patrimonio di amicizie dei ‘feudi’ elettorali,” aggregando pure forze dell’agraria. Per quanto riguardava la democrazia sociale, la sua posizione era molto ambigua, poiché credeva quasi di poter trattare da pari a pari con Mussolini, ritenendosi investita del privilegio e del “dovere di accordare la propria cooperazione per la ricostruzione nazionale,” e dichiarava che non avrebbe tollerato che il fascismo “sopprima o neghi i principi sui quali essa si basa e per i quali anche in futuro continuerà a lottare” (che erano i “principi di libertà, progresso sociale e sovranità popolare,” purché rimanessero sotto la sua tutela e non passassero sotto quella di Roma); nel frattempo, prometteva di non voler risparmiare il suo sostegno al governo in tutto ciò che era richiesto dalle forze nazionali per la “rinascita” del paese e per “risollevare le sorti del popolo siciliano dalla sua sofferenza storica.” Una analoga, e forse più grave, ambiguità si poteva osservare nei discorsi di Biagio Di Pietra, il quale riconosceva nel capo delle camicie nere colui che “ha portato alla maestà del Re la fedeltà della giovinezza di Vittorio Veneto,” ma, proprio in virtù dei meriti politici e 307

morali che derivavano da tale riconoscimento, pensava di poter negare al fascismo il “diritto di [usare] metodi rivoluzionari,” volti a travolgere, insieme con il liberalismo e la democrazia, “la legge del progresso” e a sostituire “la legge del partito alla legge dello Stato.” Avrebbe dovuto suscitare il riso, se non si fosse stati in un periodo così drammatico, questo tentativo di mettere interessi che non si aveva il coraggio di palesare alla luce del sole, sotto il nobile e puro usbergo del liberalismo e della democrazia. Infine, un altro oppositore, l’on. Restivo, disposto a vendersi pur di avere la “promessa di qualche lauta soddisfazione anche per l’avvenire” (fu nominato presidente della Camera di Commercio di Palermo), in una riunione del Consiglio camerale del 3 marzo ‘24, sostenne “che le industrie del Nord si trovano in condizioni favorevoli rispetto a quelle del Sud perché non pagano i dazi sul carbone e sull’olio industriale” (che acutezza e che penetrazione politico-economica!), ma si affrettò a concludere “dicendo che il Capo del Governo, che, con mano ferma ed animo risoluto, regge i destini d’Italia, non vorrà che avvenga una lotta fratricida, ma provvederà perché tutte le nostre forze nazionali, strette in magnifico fascio, chiudano le porte di casa nostra alla concorrenza straniera per la gloria e la salvezza della Patria nostra.” Forse il solo che condusse una lotta aperta e intransigente fu l’on. Finocchiaro Aprile, che aveva abbandonato la democrazia sociale, e che, alla vigilia delle elezioni, il 4 aprile, nella piazza del Duomo di Termini Imerese, secondo la relazione del sottoprefetto al prefetto di Palermo, “iniziando pubblico comizio, cui assistevano fra aderenti e oppositori circa 1.000 persone, attaccava partito fascista compressore di libertà di pensiero, di parola, di stampa e spiegando motivi che l’avevano consigliato a rimanere all’opposizione, diceva essere il Partito Fascista 308

l’esponente del capitalismo settentrionale contro il Mezzogiorno di Italia. Interrotto da membri locale Fascio, stavasi determinando urto evitato da nostro pronto intervento. Oratore intanto continuava attaccando violentemente S.E. Mussolini e Partito Fascista e, richiamato inutilmente da me a modificare il suo dire, fui costretto, onde evitare disordini, disporre lo scioglimento del comizio caricando più volte la folla senza alcuna conseguenza.” A questa decisa opposizione capeggiata dal Finocchiaro Aprile e che raccoglieva pure alcune modeste correnti della socialdemocrazia con E. La Loggia, leader riconosciuto, bisogna aggiungere la lista della “Bilancia,” di una destra costituzionale che si erigeva a difesa dello Stato di diritto calpestato dalla legge Acerbo, mentre i popolari, che, peraltro, avevano una scarsa diffusione nell’isola, avevano condotto una sottile ma costante polemica contro il “bolscevismo bianco” e l’indirizzo antifascista che era stato impresso al partito da don Sturzo, il quale, quasi tradendo la sua terra natale, era passato a difendere gli interessi dell’industria settentrionale. Alcuni suoi uomini più rappresentativi, come un don Michele Sclafani di Girgenti, attivissimo e “instancabile organizzatore dei lavoratori dei campi” mediante una fitta rete di organismi cooperativocreditizi, e il deputato nisseno E. Vassallo, detto “popolare centrista,” si fecero i promotori, fin dall’agosto del ‘23, di un partito siciliano di ispirazione cattolica che mal nascondeva un effettivo atto di adesione al fascismo. Il Vassallo, abbandonando il PPI, provocò - scrive il Serpieri - la confluenza del suo notevole numero di cooperative “combattentistiche” nel sindacato provinciale fascista di Caltanissetta. Ma cercò di porre le condizioni per un tale passaggio, che avrebbe dovuto avvenire dopo l’approvazione da parte delle autorità fasciste di un programma “nazional-popolare,” che prevedeva: “a) far 309

produrre la terra più intensamente possibile; b) espropriazione e quotizzazione dei latifondi di proprietari assenteisti; c) collaborazione col governo per imporre il ristabilimento della autorità sulla delinquenza rurale; d) forte impulso all’istruzione agraria.” In particolare, il secondo punto veniva incontro a quelle che erano ormai le aspirazioni secolari dei contadini non solo siciliani, ma dell’intero Mezzogiorno, anche se potevano nascere forti dubbi che il regime intendesse accoglierle. Perciò, erano condizioni che dovevano mascherare una resa completa ni partito che si era impadronito dell’Italia: insomma, un tentativo di “salvare la faccia” di fronte ai suoi combattenti e ai contadini che lo seguivano. Anche lo Sclafani volle fare altrettanto, allargando la sua prospettiva, ma proponendo un partito siciliano che non si riesce a capire per che cosa dovesse battersi: infatti, minacciato di dimissioni dal segretario provinciale del fascio di Girgenti, si piegò subito all’“invito categorico” e fece atto di sottomissione al potente partito che gli faceva sentire la sua voce imperiosa. Ma, nel fare ciò, avanzò la formula del partito siciliano: “Ho sempre sostenuto,” scrisse in una lettera-programma, “che i Popolari, coi quali trovasi il clero, almeno in Sicilia [forse perché, a suo parere, questo stretto accordo non avveniva nel nord], avrebbero dovuto lavorare a fianco dei fascisti, perché si potesse esercitare quell’azione di rigenerazione morale dell’isola che un Governo volenteroso, non legato da interessi elettorali ai capoccia delle clientele siciliane [o era un illuso o voleva illudersi!], può attuare agevolmente […]. Per questo, non ci si può rassegnare al fatto di non associarsi nella stessa azione [in diretta polemica con lo Sturzo], dato che cattolici organizzati e fascisti, con sentimento diverso, hanno lo stesso intento e sentono lo stesso bisogno di liberare la Sicilia da tutta la zavorra di quei partiti locali che soffocano 310

gli interessi della regione […]. Pertanto, io penso che sarà necessario costruire in Sicilia un grande partito che sia unicamente siciliano […]. Uniamoci una buona volta Pro Sicilia nostra, perché si tratta della prosperità della più popolosa e generosa regione della grande Italia.” Ritornano alla mente, leggendo queste ultime parole, le “campagne lussureggianti” celebrate dal duce; ma, in verità, il suo atto di adesione sembrava che avesse il fiato molto corto: perché che cosa voleva dire denunciare la “zavorra dei partiti locali che soffocano gli interessi della regione”? Se ne sarebbe dovuto dedurre che, allora, la colpa o la responsabilità dello stato di abbandono in cui viveva la Sicilia dipendeva principalmente dai “partiti locali” e non dalla politica economica dei governi centrali volta a favorire determinati gruppi del nord. Ma, se così stavano le cose, come poteva sperare lo Sclafani di abbattere tutta quella zavorra che opprimeva l’isola mediante un partito “unicamente siciliano,” anche se grande? Come si vede, egli sì avvolgeva in gravi contraddizioni, probabilmente per non urtare e non irritare troppo i nuovi alleati fascisti, che dovevano apparire anch’essi membri di un partito composto in prevalenza di settentrionali. Ad ogni modo, il partito popolare era entrato in crisi, pur se esercitava ancora una certa influenza su qualche centro contadino, mediante le Casse rurali, su elementi del sottoproletariato cittadino e su alcuni commercianti. Il che non era sufficiente a fargli superare la crisi, che proveniva non solo da alcuni dirigenti, che erano passati, con facilità, nelle file fasciste, ma anche, e forse soprattutto, dai “meno abbienti, che costituivano il nucleo cospicuo della [sua] compagine,” i quali l’accusavano di non aver fatto nulla “per attenuare i danni del fallimento della Banca cattolica,” un fallimento che aveva travolto “tante piccole fortune” di misera gente che aveva affidato a questa banca i suoi stentati 311

risparmi. Infine, la politica del regime, molto abile nel concedere ai cattolici quello che era stato sempre negato dai precedenti governi liberali, provocò una scissione nel clero, che si schierò parte per la lista nazionale e parte per il partito popolare: gli effetti di una tale politica furono messi in rilievo dal sottoprefetto di Corleone: “in questo Circondario [il PPI] ha perduto assai della sua forza in seguito all’avvento del fascismo, il quale, essendo stato capace di ricollocare il Crocefisso nelle scuole e di prescrivere in esse l’istruzione religiosa, ed avendo anche mostrato di voler tenere cordiali rapporti col Vaticano, i quali lasciano intravedere una non lontana conciliazione tra questo e lo Stato italiano, si ha cattivato la simpatia di molti cattolici e di gran parte del clero che voteranno indubbiamente per la lista nazionale e fascista.” Certo, il clero doveva essere attratto dalla prospettiva, che gli veniva aperta dal fascismo, di una conciliazione fra la Chiesa e lo Stato dopo la lunga rottura, ma non giungeva a pensare che questa gli era offerta da un partito e da un governo che non celavano le loro tendenze autoritarie e totalitarie: Mussolini avrebbe, più tardi, potuto decidere da solo in una materia tanto delicata solamente perché aveva soppresso ogni libertà e si aspettava che il popolo italiano rispettasse l’umiliante funzione di osannante dei suoi successi a cui l’aveva ridotto. Il quadro che usciva da questa complessa situazione era, per il duce, nel complesso, soddisfacente, pur rivelando qualche aspetto non del tutto rassicurante per la presenza di una opposizione aperta o strisciante, anche in chi dichiarava di avere aderito pienamente e sinceramente al nuovo verbo calato dalla pianura padana e da Roma: infatti, nella grande adunata di Palermo del 2 marzo ‘24, in cui venne presentato il listone, l’oratore ufficiale, R. Paternostro, disse: “Da noi non esistevano partiti a base di idee, ma a base di uomini, 312

che pur di conservare il potere, si asservivano ai peggiori elementi e fomentavano le discordie locali. Il Fascismo ha rotto i partiti locali, incuneandosi fra essi, selezionando, contentandosi di pochi, ma buoni elementi.” In definitiva, perciò, si mostrava di credere in un fascismo risanatore di antichi mali, un fascismo che si sarebbe accontentato di raccogliere, alle elezioni, pochi, ma buoni consensi. Fu probabilmente per questo motivo che Mussolini, nel dettare, il 1° marzo, le istruzioni per le “adunate provinciali,” insisteva sulla necessità di adottare una tattica moderata: “Relativamente alle adunate provinciali di domani, sarà bene che le Federazioni provinciali e i candidati prendano accordo circa il tono da dare ai discorsi. Pur riaffermando l’intendimento del Governo e del Partito di condurre la lotta con vigore, con chiarezza inequivocabile in confronto di tutti i partiti di opposizione, è bene che gli oratori usino un linguaggio non violento ed assicurino che la lotta sarà condotta in modo da assicurare ogni libertà alle altre liste, i cui candidati però dovranno beninteso essere pronti a sostenere tutti i contradditori con i candidati del Partito Fascista È questo telegramma, un piccolo capolavoro di ipocrisia, perché diceva di voler condurre la lotta con chiarezza e con vigore contro le opposizioni, dopo, però, aver fatto di tutto per svuotarle dal di dentro; prometteva e garantiva la libertà agli oratori delle altre liste, quella libertà che qualsiasi rappresentante di prefettura o di questura era pronto a troncare con la scusa di “evitare disordini” (come nel caso del Finocchiaro Aprile), il che lasciava intendere che il dovere dei candidati di opposizione di concedere il contradditorio poteva essere impunemente violato dai candidati del listone. Così, ancora prima delle elezioni, gli interessi che erano stati attratti nell’orbita del partito dominante, erano molti e 313

vasti e diffusi sia nelle città sia nelle campagne, dovunque un personaggio “di rispetto” avesse avuto la sua clientela di contadini, di artigiani e di piccoli borghesi. La borghesia “democratica” si convertì senza indugio, attraverso una serie di abdicazioni, costrette o spontanee, ma sempre sorrette dalla speranza di potersi assicurare la continuazione della vecchia influenza. “Ci fu, in altri termini,” osserva il Marino, “un estremo, e a volte disperato, esercizio di quella prassi camaleontica del notabilato che era stata l’epifenomeno provinciale del trasformismo parlamentare. La lista del Fascio, soprattutto, fece da catalizzatore delle diffuse reazioni di autodifesa personale generate dall’agonia del blocco giolittiano.” Ecco perché le elezioni si conclusero “in un modo trionfale” per il regime, urlò il duce al popolo di Palermo, il 5 maggio ‘24. Questo discorso nel capoluogo della Sicilia fu il più articolato di quelli da lui pronunciati nel viaggio di ringraziamento alle forti e generose popolazioni del Mezzogiorno, che gli avevano dato una maggioranza indiscussa e indiscutibile di voti. Riprese motivi che erano già stati presentati da altri oratori come una grande lode per quelle popolazioni, ad esempio l’aver serbato un contegno “di equilibrio e di saggezza negli anni incerti del dopoguerra. Qui, ove gli spiriti sono abituati alla luce solare e ai dettami della saggezza antica e moderna, qui non vi furono oscuramenti di civiltà, qui non vi fu imbestialimento collettivo; qui era la riserva, qui era la valanga che sarebbe fatalmente salita se l’Italia avesse veramente raggiunto l’orlo estremo dell’abisso! [Acclamazioni entusiastiche].” Ma, per fortuna, sembrò volesse dire, era venuto il fascismo a salvare il paese dall’imbestialimento che lo minacciava rendendo inutile l’intervento dell’isola. La sua visita alla Sicilia era un “pellegrinaggio di amore” che gli aveva dato il modo di conoscere ancora più a fondo “i vostri antichi e per molto 314

tempo inappagati bisogni.” “So quello che vi occorre,” aggiunse. “Potrei numerare i paesi ed i comuni che non hanno strade, che non hanno acqua; non ignoro la desolazione del latifondo, né mi è sconosciuta la tragedia oscura della zolfara.” Ma una cosa era conoscere tutti questi problemi ed un’altra avere la volontà precisa di affrontarli, ed egli proclamò di avere questa “volontà di risolverli e li risolverò [Il popolo prorompe in una entusiastica, prolungata ovazione].” Per fortuna, affermò con una stupida lusinga, poiché ben sapeva che per lui non aveva alcuna importanza, “si aggiunge oggi l’ausilio delle nuove forze e delle nuove generazioni. Siete voi, e soprattutto voi, che dovete porre con tenacia instancabile, con diligenza inflessibile, i problemi della vostra Isola, in modo che da problemi regionali appaiono in un dato momento nella loro vera essenza di problemi nazionali [Entusiastiche approvazioni].” Voleva forse essere un accenno alle forze autonomistiche, che erano chiamate alla prova ed alle quali pareva che egli volesse affidare la soluzione dei vasti e complessi problemi che angosciavano la Sicilia, pur avendo detto poco prima di avere, lui solo, la volontà di risolverli. Subito dopo, diede inizio, secondo il vecchio costume dei tribuni (ma pure nuovo perché ripreso dal D’Annunzio a Fiume), ad un diretto colloquio con il popolo, in cui le sue efficaci arti istrionesche si esaltavano: “Ebbene, popolo palermitano, se l’Italia ti chiede ed esige da te la disciplina necessaria, il lavoro concorde, la devozione assoluta alla Patria, che cosa rispondi tu, o popolo palermitano? [Tutto il popolo prorompe in un formidabile ‘sì!‘]. - E se domani è necessario che la valanga dei tuoi petti salga ancora, se è necessario ripulire tutto quanto non ha più ragione di esistere, sei tu pronto a marciare? [La folla prorompe in un nuovo, poderoso ‘sì!‘]. - Popolo palermitano! Sei veramente degno della tua storia e della tua gloria. Sei veramente un 315

popolo garibaldino! Poiché non ancora furono impegnate tutte le battaglie, non ancora può dirsi finita l’opera di redenzione e di ricostruzione.” Il duce dava, senza dubbio, come scontato quello che la marea di voti che si era abbattuta sul listone (475.495 voti su 697.005 votanti, con tutti i 38 candidati eletti) gli sembrava dovesse significare: una concorde e assoluta conversione del popolo palermitano e siciliano ai principi della rivoluzione fascista, una disposizione totale alla disciplina (il che voleva dire una confusione ed una fusione degli interessi dell’umile gente con quelli degli agrari, della borghesia e della burocrazia che erano sempre vissute, traendone grossi vantaggi, all’ombra dei possenti ceti capitalistici del nord, dei mafiosi, uniti tutti nella devozione alla Patria: una parola quest’ultima che con l’altra di Nazione, sarebbe servita, durante il ventennio, a contrabbandare le poco pulite speculazioni e lo sfruttamento del popolo italiano da parte di una minoranza di eletti). Per quanto riguarda, poi, la necessità di “ripulire tutto quanto non ha più ragione di esistere” e di proseguire sino alla fine “l’opera di redenzione e di ricostruzione,” si trattava, anche qui, di una esigenza che sarebbe stata giusta se, proprio con le elezioni, Mussolini e il fascismo non avessero dato la più manifesta dimostrazione di non volere ripulire bensì di volersi semplicemente inserire nella vecchia realtà politico-sociale dell’isola, senza riconoscere agli abitanti dell’isola nessun diritto di partecipare o di interloquire negli affari dello Stato. Infatti, Mussolini proclamò pure che “quando la libertà non è tutelata dall’ordine diventa licenza e caos […]; non si possono governare le nazioni senza avere polsi di ferro e volontà d’acciaio.” Era un nuovo machiavellismo, che gli storici del regime - un Ercole, un Volpe - riprendevano e rispolveravano per adattarlo alla concezione che della politica aveva if duce, una concezione che risaliva appunto 316

al “crudo empirismo dei Principi, dei signori, dei condottieri che operavano fuori della morale, senza ideali o preconcetti ideologici, e adeguavano freddamente i mezzi agli scopi,” quale, a loro parere, era stato descritto dal Machiavelli. Ma Mussolini aggiungeva un pizzico di populismo che invece di avvicinarlo al popolo, come forse avrebbe voluto, lo allontanava ancor di più, ponendolo sul piedistallo - che riteneva essere il suo - del grande uomo, dell’uomo supcriore che si estolle sulla comune e misera umanità: culto che egli aveva avuto anche durante il periodo socialista (o, meglio, pseudo-socialista) della sua vita, nel primo anteguerra: “Questo stile di governo, che è il mio stile e del quale rivendico orgogliosamente tutta la responsabilità, non impedisce di andare al popolo, di andare verso il popolo che lavora e che soffre e che non turba l’ordine pubblico, verso il popolo che è la base granitica sulla quale si costruisce la grandezza delle nazioni, di andare verso questo popolo non vendendogli del fumo, ma dicendogli la verità aperta con cuore fraterno.” Si badi: il duce si vantava orgogliosamente di saper governare con polso di ferro e volontà d’acciaio, ma di saper andare anche verso il popolo “che lavora, soffre e non turba l’ordine pubblico,” cioè non crea ai suoi governanti problemi o difficoltà con agitazioni o scioperi, perché, secondo lui, la grande virtù del popolo doveva essere di lavorare e di soffrire in silenzio. E, infine, dopo un avvertimento minaccioso agli oppositori (che in Sicilia, dispersi nelle varie liste, erano stati pochi, circa 170-180 mila): “Noi abbiamo Roma per diritto di rivoluzione! Soltanto da un’altra forza, e solo dopo un combattimento che non potrebbe non essere asperrimo, ci potrebbe essere tolta! [Applausi interminabili, -frenetiche acclamazioni],” ecco la radiosa prospettiva per il popolo siciliano: “Vogliamo fare e faremo ogni sforzo perché il popolo della Sicilia possa rapidamente mettersi 317

all’avanguardia di tutto il popolo italiano.” Un’altra minaccia, simile a quella appena vista, gridò, il 10 maggio, sempre roteando gli occhi e contorcendo le mascelle, al popolo di Catania, che lo aveva avvolto nella sua “travolgente passione di patria.” E dalla Sicilia poteva lanciare tali minacce, perché l’isola, con la sua risposta quasi plebiscitaria, gli doveva aver dato l’impressione e la sensazione viva di essere un grande condottiero, il nuovo condottiero della nuova Italia, destinato a far riprendere al paese “le sue gloriose vie del mondo: le strade del mare,” dopo averla redenta all’interno. La minaccia pronunciata a Catania fu la seguente: “[…] grido ancora una volta, davanti a questa adunata di popolo, che la marcia su Roma è un fatto compiuto e irrevocabile e che la vecchia Italia è veramente sepolta per sempre! E del resto, vorresti tu, o popolo di Catania, ritornare a quei tempi? [Un sol grido formidabile risponde: ‘No!’]. - Vorresti forse ricominciare lo stile della bassa politica di tutti i giorni [No!], senza luce di ideale? [No!]. -Ebbene, vorrei che l’urlo possente di questa moltitudine giungesse a coloro che sono sordi perché non vogliono sentire, che sono ciechi perché non vogliono vedere, e che vivono di gramissime illusioni, delle quali farà giustizia la nostra volontà e la storia italiana [Entusiastiche acclamazioni al Duce e all’Italia].” Le gramissime illusioni che il duce attribuiva ai suoi avversari, dopo un mese, con il delitto Matteotti, si sarebbe potuto dire che fossero le sue, che aveva creduto di aver in mano tutta la nazione e che si vedeva, invece, investito da un’ondata di indignazione che sembrava dovesse travolgerlo e che lo spingeva a dire, alla Camera dei deputati, che il suo governo puntava i piedi di fronte alla speculazione che si tentava di fare prendendo a pretesto l’episodio criminoso e nefando e che si sarebbe difeso a qualsiasi costo. Come cambia rapidamente la fortuna delle 318

genti e degli individui, si sarebbe potuto dire: ieri sugli altari, oggi nella polvere. Ma ritorniamo alle giornate siciliane dell’aprile, così “vibranti di entusiasmo” e che gli avevano fatto sentire “l’impeto e il fremito delle moltitudini siciliane”: erano state giornate tumultuose e cariche di entusiasmo, per cui, sicuro di un consenso unanime del quale erano partecipi pure gli “autentici contadini,” aveva potuto volgersi sprezzante a quei “pallidi politicanti di Roma che non si muovono dai loro salotti, dove fanno le piccole, insulse cospirazioni di dettaglio.” Ed in questa atmosfera tanto eccitante, per lui, aveva potuto riprendere la stupida retorica dei “trenta secoli di civiltà” del nostro popolo, di “questo popolo che ha dato per ben tre volte al mondo attonito il sigillo della sua potente civiltà, questo popolo che oggi vive composto, disciplinato, ordinato, ha una esperienza storica di incalcolabile valore, poiché si tratta di scegliere, o popolo di Catania, si tratta di scegliere fra le teorie brumose, antivitali, antistoriche, e il nostro quadrato, romano spirito, che affronta la vita come un combattimento, e che è disposto a morire quando l’idea chiama e batte la grande campana della storia [Una dimostrazione indicibile di consenso copre le parole del Duce] ” E, terminando la sua visita all’isola a Siracusa, proclamò che “non soltanto la valle Padana, le regioni meridionali, l’isola di Sicilia, ma tutta l’Italia è fascista, e di ciò sono persuasi tutti, meno pochi illusi, fanatici e paralitici politicanti,” e che con un simile popolo “l’Italia non potrà essere che grande e forte quale io l’ho sempre sognata.” Come si è notato, a differenza del precedente viaggio, in cui Mussolini aveva parlato diverse volte dei gravi problemi che affliggevano ancora quelle povere popolazioni (ma allora si era trattato di un viaggio pre-elettorale, che doveva essere necessariamente carico di promesse), questa volta aveva accennato solo rapidamente ad essi 319

parlando a Caltanissetta, quando aveva detto che bisognava cambiare metodo rispetto ai passati governi, che avevano approntato moltissimi programmi (“oserei dire troppi”) e, occorreva, invece, “parlare pochissimo e agire moltissimo.” Ma, in tutti gli altri incontri, sempre avvolti in un “fremito invincibile di passione e di fede,” aveva esaltato, celebrato, magnificato la travolgente, splendida e trionfale vittoria elettorale, con una retorica stantìa, bolsa, irritante, che strappava gli applausi a popolazioni che per lunghissimo tempo erano rimaste abbandonate e dimenticate. Nulla esse potevano ripromettersi dal fragore scoppiettante dei discorsi, dei colloqui, delle incitazioni ad entusiasmarsi per prospettive che si sperdevano nel vuoto dei cieli, con cui il duce le aveva intrattenute per alcuni giorni in uno spettacolo pirotecnico e ricco di colpi di scena, con il primo attore che si sbracciava, che mimava esattamente come nella siciliana “opera dei pupi.” E che nulla fosse disposto a concedere all’isola fedelissima il fascismo, fu dichiarato apertamente ed inequivocabilmente da un esponente, antemarcia e squadrista della prima ora, di Palermo, A. Cucco, in occasione delle elezioni amministrative dell’agosto ‘25: “la condizione che dettano quelli che del Fascismo costituiscono i quadri dinamici, i quadri giovani, le forze di oggi che saranno anche le forze di domani, quelli che sono il fascismo senza precedenti, senza vecchie tradizioni, senza gravosi impacci di autorità formata nelle vecchie organizzazioni o clientele, senza passività politiche: gli squadristi, per esempio, gli idealisti: ecco tutto. La condizione che noi dettiamo è questa: che il Fascismo deve essere servito e non deve servire a nessuno. La direzione, l’assoluta direzione, deve restare nelle mani di quelli che, per avere sempre obbedito, sono i soli che abbiano il diritto di comandare. Se c’è un interesse morale e politico, è quello di formare fascisticamente, con un 320

mutamento di metodo, quella mentalità che pesa sulla vita siciliana da secoli: e ridurre, in forza di un principio rigoroso di autorità, ridurre a niente quelle decrepite e già cadenti camarille. I nostri capisaldi sono questi: che il Fascismo farà le elezioni [amministrative], dovunque, coi suoi uomini, e che quello che comanderà, ovunque, sarà il Fascismo e gli uomini dovranno servirlo e ubbidirlo.” Sono senz’altro parole ben altrimenti chiare di quei farfugliamenti retorici del duce nell’aprile dell’anno precedente, e la condanna delle ” vecchie organizzazioni o clientele,” di cui, peraltro, il fascismo si era largamente servito nelle elezioni politiche del ‘24, era netta, così come pure esplicita e risoluta era la dichiarazione con cui il Cucco rivendicava al solo fascismo “il diritto di comandare,” arrogandosi, nel tempo stesso, il dovere di “ridurre a niente quelle decrepite e già cadenti camarille” che avevano così a lungo detenuto il potere nell’isola. Una simile fiammata di sdegnosa lotta contro le cadenti camarille, una lotta che si sarebbe risolta ben presto e non avrebbe richiesto grandi sforzi perché si trattava di un ceto ormai decrepito (il Cucco, perciò, chiamava a raccolta le sue falangi per una impresa che sarebbe stata rapidamente vittoriosa, dando nuova gloria a chi avesse partecipato ad essa), si poteva capire nel clima del ‘25, caratterizzato, all’inizio, dal discorso del duce del 3 gennaio (con il quale aveva messo a tacere la secessione dell’Aventino) e dalla segreteria del PNF di quel grande rivoluzionario che fu R. Farinacci, del quale abbiamo già parlato. Egli si era acquistato tale nomea solo con il suo violento estremismo, creando a Mussolini, nel periodo della faticosa mediazione cui fu costretto quest’ultimo, non poche difficoltà con il suo atteggiamento di “Gran Segretario” e con la sua velleità di assumere accenti duceschi. Naturalmente, il tentativo di scardinare le vecchie clientele, nascondeva il proposito del 321

Cucco di creare altre camarille fedeli al regime, e fu, molto probabilmente, questo segreto - ma non troppo - intento a decidere il Presidente della Vittoria, V. E. Orlando, a dichiarare che il ‘25 palermitano ebbe un significato di “una grande prova che supera fatalmente i termini di una vicenda municipale, per riassumere il travaglio che agita la vita del Paese,” ed a spingerlo sulla via dell’opposizione con un manifesto da lui lanciato verso la fine di luglio quale capo della “Unione per la libertà,” una unione che raccoglieva oltre agli orlandiani anche i democratici, i popolari e i socialriformisti (una coalizione liberal democratica). Il manifesto conteneva, senza dubbio, espressioni nobili e che sembravano rispecchiare una sincera convinzione: “Se è vero che la storia presenta a volte dei ritorni al passato, anche questo è e deve essere un ritorno: questo che si esprime nella unanime e indomabile consacrazione delle regole di libertà e di giustizia, che sono vanto d’ogni popolo civile, e che i patiboli e le battaglie consacrarono alla vita d’Italia. Da tali regole non può prescindere, senza danno e senza onta, la vita dei popoli: non può la violenza sostituirsi ai civili dibattiti, né un malinteso spirito di autorità opprimere i diritti fondamentali dei cittadini, per una pretesa finalità di comune bene, sotto cui si nasconde l’ambizione del potere.” Si sentiva di essere di fronte ad un vero “principe del foro,” dalla eloquenza forbita e raffinata: ma bisogna cercare di vedere che cosa c’era dietro questa improvvisa conversione dell’Orlando, perché, venendo dieci giorni dopo le arroganti affermazioni del Cucco, possono apparire una difesa interessata delle proprie posizioni, delle proprie clientele (che, come si era visto dalle elezioni del ‘24, erano molto vaste e si estendevano ben al di là della provincia di Palermo), posizioni e clientele che ora venivano attaccate dal fascismo. Questo pericolo, che proveniva dal partito con il quale aveva collaborato 322

l’anno precedente, avrebbe potuto far crollare tutta la impalcatura su cui si reggevano il suo potere e la sua influenza, e se le intenzioni del Cucco si fossero verificate, non gli sarebbe rimasto che ritirarsi a vita privata, dopo avere assistito allo sgretolamento delle sue “amicizie.” Fu per questo motivo che, molto probabilmente, l’Orlando, richiamandosi alla tradizione prettamente siciliana dei Vespri, assunse le difese anche della mafia con senso di orgoglio e di fierezza per la storia, la cultura e la specificità della sua isola. Certo, il suo dicorso, a tale proposito, era alquanto contorto e perdeva la brillante efficacia di quando parlava di libertà e di giustizia, vanto d’ogni popolo civile: ma ciò si può comprendere perché troppo palese era il suo interesse a sostenere una intelaiatura che stava per dissolversi, o così almeno egli temeva: “Ora io vi dico [o palermitani] che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal segno si tratta di contrassegni indivisibili dall’anima siciliana e mafioso mi dichiaro e sono lieto di esserlo! Che se invece per mafia si intende quella delinquenza che abbiamo noi e che hanno tutti i paesi dell’Italia e del mondo, ebbene in tal caso io non posso che dire questo: che se in quanto vi sono persone le quali per le loro necessità debbono subordinare ad un permesso d’armi la loro fede politica ed il loro voto elettorale, è evidente che nessuna di queste persone (se ce ne sono) può seguire noi, che, certamente, non abbiamo nulla da offrir loro.” Ma come era possibile, vien fatto di chiedersi, intendere per mafia sentimenti e atteggiamenti come il senso 323

dell’onore, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, la generosità che fronteggia il forte e indulge al debole, la fedeltà alle amicizie? Non riuscire a scorgere quanto di delittuoso, di sopraffattore, di violento ci fosse in essa, era veramente, per un uomo come l’Orlando, che ben doveva conoscere l’ambiente siciliano e in particolare quello palermitano, un voler chiudere deliberatamente gli occhi di fronte alla realtà. Cosicché non ce la sentiremmo assolutamente di commuoverci, come fa il Marino, per l’elaborato e maestoso fraseggiare sulla libertà e dire che esso dimostra come “la ‘rivolta’ di Vittorio Emanuele Orlando salderà nell’antifascismo gli elementi della protesta sicilianistica con le significazioni, più ampie e profonde, della battaglia liberaldemocratica guidata, nell’orizzonte nazionale, da Giovanni Amendola,” una volta “individuato nella ‘libertà* (nella libertà in generale, senza specificazioni di programmi o particolari referenti pratici) ‘il terreno di combattimento.’” E ancor meno saremmo disposti ad accettare l’altro commento, sempre del Marino, al passo sulla mafia, in cui “molto più che di un inno alla mafia (come superficialmente, anche se non del tutto a torto, si è spesso notato e scritto),” si vorrebbe vedere il “valore di testamento di una generazione politica decisa a preferire un dignitoso ‘suicidio’ ad una morte lenta per declassamento e per asfissia nelle spire del vassallaggio.” Senza dubbio, l’Orlando doveva aver capito, verso la metà del ’25, che le pretese del fascismo miravano, come abbiamo detto, a spodestare la vecchia classe dirigente dai posti e dalle funzioni che aveva tenuto ed esercitato, in favore di una nuova classe dirigente più docile e di uomini più pronti a diventare “rigidamente, quasi ferocemente uomini d’ordine,” sempre, naturalmente, ad maiorem gloriam del regime che avrebbe potuto vantarsi di aver cauterizzato “col ferro e col fuoco,” come ordinò il duce al 324

prefetto Mori, incaricato dell‘operazione in un dispaccio, definito da un apologeta dell’epoca “storico”: d’altronde, che cosa non si proiettava nella storia o non acquistava valore di storico per la fluente retorica fascista?, “la piaga della delinquenza siciliana.” La lotta contro la mafia si risolvette - così ha scritto il Petacco - nel “classico gioco mafioso, di attaccare la mafia per meglio difenderla, di sollevare un gran polverone solo per nascondere il vero obiettivo.” Né tardarono ad accorgersi di questo carattere della tanto vantata campagna antimafia non solo le popolazioni, ma anche alcuni partiti e perfino le autorità di governo locali. Tutto ciò divenne molto chiaro quando il Cucco acquisì alla coalizione organizzata contro Orlando G. Lo Monte, uno dei più noti capi mafiosi dell’isola, facendo appunto comprendere come il fascismo volesse soltanto servirsi del cosidetto “impegno rigeneratore” per poter meglio combattere i vecchi notabili. Già il 28 luglio, un giorno dopo il discorso dell’Orlando, con cui cercava, in verità, di convincere la mafia a non abbandonare i suoi antichi e fedeli alleati, l’“ Avanti!” metteva in rilievo come il carattere della lista fascista, sostenuta dai “pezzi grossi della cosiddetta mafia rurale,” fosse tutt’altro che “moralizzatore” e “innovatore,” secondo quanto andavano sbandierando i suoi promotori. E, poco dopo, il 1° agosto, il prefetto di Palermo, in una relazione al ministro dell’Interno, dimostrava un certo stupore per l’“influenza” indirettamente accordata dal governo alla mafia mediante “la protezione incosciente” accordata da Lanza di Scalea “all’on. Lo Monte, noto capo politico della mafia siciliana, suo grande elettore.” Il fatto era che l’accordo mafia-fascismo avveniva, molto probabilmente, su una specie di grande compromesso, per cui il fascismo riconosceva alla “mafia rurale” il controllo sulle campagne della Sicilia occidentale e centrale, ripristinando, proprio il 325

24 luglio, una volta lanciata la “battaglia del grano,” il dazio sul grano nella misura di L. 27,50 al quintale (dazio che sarà elevato, successivamente e gradualmente, a L. 40,40 nel ‘28; a L. 51,40 nel ‘29; a L. 60,60 nel ‘30 e a L. 75 nel ‘31), con grande soddisfazione dei proprietari terrieri latifondisti dell’isola e dei mafiosi che ne rappresentavano il contorno: tutti riconobbero al regime, ed anzi sancirono, uno stretto rapporto fascismo-capitalismo del nord, che, naturalmente, non era disposto a rinunciare al Mezzogiorno come a propria colonia di assorbimento dei suoi prodotti. La mediazione fra i due gruppi di interessi avveniva attraverso il fascismo, che, in tal modo, riprendendo in pieno la tradiionale politica del ceto dirigente nazionale insediato a Roma (politica che, dal 1887 in poi, aveva sempre avuto come piloni di appoggio il protezionismo industriale da un lato e il dazio sul grano dall’altro), si garantiva un totale ed assoluto predominio sulla vita del paese. Ecco perché la sottile, ed abile schermaglia condotta dall’Orlando, sotto l’apparenza di difendere le vecchie e risplendenti idee di libertà e di giustizia, non riusciva a celare che la posta in gioco era di gran lunga più importante, poiché si trattava, per la classe politica che egli rappresentava, di continuare a mantenere o di cedere del tutto l’influenza che aveva gelosamente custodito fino allora e che si era, molto probabilmente, rafforzata negli anni del dopoguerra, quando il vecchio schema di governo era entrato in crisi soprattutto per la pressione delle masse popolari e per il conseguente smarrimento della classe politica liberal-democratica. Ora il nuovo compromesso liquidava e faceva uscire di scena, per il momento, quelle figure di notabili che avevano lasciato sì la Sicilia e il Mezzogiorno in balia dei più forti gruppi economici del settentrione, mantenendo però sempre un certo distacco, e subentravano altri individui affamati e assetati di guadagni e 326

di ricchezze, di onori e di posti che permettessero di agire, quali “mafiosi redenti,” nel clima ovattato dello “Stato padrone” e, per il suo reazionarismo, perfettamente adeguato ai loro interessi e ai loro intenti. Tuttavia, parrebbe che, almeno in un primo tempo, il fascismo e lo stesso prefetto Mori, che tale politica fini con l’avallare (sebbene si augurasse che l’atavica fame di terra dei contadini siciliani potesse un giorno venire saziata e reclamasse una “giusta mercede per gli onesti lavoratori dei campi che ora [con la sua protezione] possono affrontare, senza paure, le quotidiane fatiche”), cercassero una alleanza con la grande borghesia terriera: infatti, il Prefettissimo (o “prefetto d’assalto,” come pure veniva definito, o anche “prefetto del Piemonte,” perché egli era nativo di quella regione e chi lo chiamava in tal modo voleva caricare l’espressione di tutto il lontano risentimento delle popolazioni meridionali per la conquista regia piemontese del 1860), per impedire che i proprietari fossero costretti a dare i propri fondi in affitto a esponenti della mafia sulla base di contratti imposti con la minaccia di violente rappresaglie, emanò una ordinanza con cui stabiliva che tali contratti potessero essere rescissi dalla parte che si considerava danneggiata. “Ai proprietari terrieri,” scrive il Petacco, “la riforma spalanca prospettive a lungo sognate. In breve tempo, centinaia di contratti sono rescissi. Per ottenere l’annullamento dell’atto basta rivolgersi alla commissione, presieduta dal prefetto, e dimostrare che il contratto in questione è stato sottoscritto sotto l’imposizione mafiosa. Nella sola provincia di Palermo, 320 gabelloti, che controllavano circa 28 mila ettari di terreno, sono sfrattati da un giorno all’altro. Possidenti e latifondisti possono così riconquistare senza fatica la piena disponibilità dei propri feudi. Ovviamente l’operazione comporta un fortissimo incremento della rendita fondiaria. Fondi che rendevano 327

quattro o cinquemila lire all’anno, vengono ora dati a gabella per cinquanta o sessanta mila lire. Soltanto il reddito dei contadini, che da generazioni lavorano su quelle terre, resta immutato.” Ma, pochi anni più tardi, verso il ’28, quando il duce si accorse che l’opera moralizzatrice del “prefetto d’assalto” andava troppo oltre, colpendo personaggi che egli stesso aveva innalzato alle più alte cariche dello Stato, come il gen. Di Giorgio, l’“eroe del Grappa,” e soprattutto quando avvertì che le ripercussioni negative su alcuni prodotti tipici dell’economia agricola siciliana - come il grano per le zone a latifondo, malgrado il forte aumento del dazio, oppure il vino in seguito alla rivalutazione della lira decretata da Mussolini nell’agosto del ‘26 (la quota 90) - tendevano ad alienargli le simpatie dei terrieri,4 allora pensò che fosse opportuno far cessare l’azione del Mori e il 16 giugno del ‘29 lo licenziò con poche e lapidarie parole: “La ringrazio dei lunghi servizi resi al Paese.” Da quell’istante tutto ritornò come prima e i capi dell’alta mafia, ormai al sicuro da ogni sorpresa, aderirono senza più alcuna paura al fascismo, mentre i grandi proprietari non “avevano più bisogno delle coppole storte per tenere a freno i braccianti e i fittavoli più inquieti,” perché c’era chi si era sostituito con maggiore efficacia alle “coppole storte.” Ma chi usciva da queste vicende con le ossa rotte era il vecchio ceto politico abituato a dominare la vita della Sicilia, usciva con le ossa rotte perché prima esso era solito tenere sottomessa la mafia, alla quale era di estrema utilità la sua opera di mediazione con il governo centrale, cosa che, ora, non serviva a nulla avendo, questa, stabilito diretti rapporti con la capitale e con i fascisti che vi detenevano saldamente il potere. In maniera pressoché identica avvenne, anche nelle altre regioni del Mezzogiorno, la fuga dalle formazioni o dalle clientele liberal-democratiche verso il fascismo; basta 328

leggere, per la Puglia, le bellissime Lettere di T. Fiore [a G. Dorso], da noi già ricordate, in cui, con accenti tra gobettiani e salveminiani e con una profonda e sincera ripulsa morale, viene tracciato questo quasi generale piegarsi di fronte al vincitore, che ormai possedeva lo Stato. “È inutile aggiungere,” egli scrive nella prima lettera del 15 gennaio ‘25, “che gli amministratori socialisti sono stati quelli che hanno resistito meglio,” (tutt’altro che bene, però) alle pressioni che i governi esercitavano per salvare interessi particolaristici ed imporre creature loro. “Ora son rimasti in piedi soltanto il voltacasacca di Grumo, fascista per girellismo congenito, ed un altro, il democratico di Triggiano, che ha, credo, abbracciato la croce così, pro bono pacis, per non vedere le cose cambiate nel paese. In fondo, bisogna dirlo, molta gentarella, di libertà non ha bisogno, e quel tanto di lustra che ce ne veniva dal giolittismo e che lo stesso fascismo, se fossero soddisfatti certi suoi interessi, potrebbe venire indotto a lasciare nei nostri paesi, soddisfaceva alle sue esigenze elementari. Con mio dispiacere il Sindaco non c’è ed io non posso intrattenermi del suo socialismo fascista e chiedergli che cosa mai intenda salvare, restando al Comune.” E, poi, la conclusione amara e sofferta: “D’altra parte, la virtù d’andarsene, cioè di mollar l’osso, non è virtù italiana, anzi da noi anche gli avversari darebbero dell’imbecille a chi lo facesse; sapienza politica è curvarsi tanto ed abbicarsi da confondersi con ogni nuova forma e colore.” E nella sesta lettera dell’agosto ’26, tornava con appassionato sdegno sull’ignobile trasformismo dei “grandi elettori,” dei “capeggiatori,” di quelli che la gente chiamava, per “la loro aria sbravazzona,” “gli assessori di piazza.” Erano individui indispensabili agli antichi e ai nuovi deputati, per ché non c’era impresa rischiata che essi non ne uscissero con onore, non c’era operazione di mazzieri che potesse compiersi 329

senza di loro, né missione presso il prefetto, o addirittura a Roma, che, affidata a loro, non fosse coronata dal successo. “Avvocati senza professione,” proseguiva, “o contadini semianalfabeti tolti alla vanga, non importa; sono d’ingegno, di bella lingua, di poca grammatica, di faccia tosta, irresistibili. Quando tutti passavano, quando tutto intorno pareva uno sfacelo, per la febbre di esser primi a fuggire, allora sì che essi rivelarono il loro talento! Si chiusero sdegnosamente da parte per qualche mese, poi, ricordando che tutte le strade conducono a Roma, vi tornarono come per l’antico, si allungarono tronfi in un taxis, risalutarono i vecchi amici dei Ministeri, annodarono amicizie coi nuovi padroni, insegnando loro come farsi rispettare dalla burocrazia e come e dove far bordello nella capitale, ne tornarono quando gli amici già trepidavano per loro, credendoli perduti. E vennero in giro con un sorriso più malizioso del solito, non già fascisti, ma mussoliniani, col ritratto di Mussolini all’occhiello, e volevano dire superfascisti, superiori ai fascisti.” Sono tutte pagine da leggere con grande piacere queste in cui il Fiore si chiedeva: “Ma i giovani [nel fascismo] dove sono?,” e quando continuava ad infierire, senza pietà alcuna (giustamente), contro uomini che non avevano né volevano avere un passato politico, perché erano stati tutto, giolittiani, salandrini, approvarono e applaudirono la guerra e, alla fine, sfociarono nel fascismo; oppure dove racconta di coloro che, “dopo avere affilato le armi contro il trasformismo politico, oggi, costretti all’inazione, sono a casa. Aspettano. Son travagliati da crisi varie, religiose, filosofiche, politiche. Alcuni diedero impensatamente nella ragna del fascismo, per sdegno del passato, per bisogno di fare; ora, uscitine fuori, si dibattono in sé disperatamente, non ben guariti dal contagio.” Ed aggiungeva di aver trovato interessante ciò che gli aveva scritto uno sul senso di delusione e di vuoto 330

provato nel vedere “come si mettevano in pratica i principi fondamentali pei quali avevo fondato il partito […]. Le mie vicende mi portano ad invidiare i perseguitati politici dell’opposizione, gli esuli, i cacciati. Meglio mille volte la persecuzione dei tuoi nemici che il colpo di pugnale del tuo compagno di fede.” Ma il Fiore esortava a non lasciarsi ingannare da simili lamentele: “è una pena,” concludeva con il suo solito senso di umiltà e di fraterno amore per tutti gli umili, “ascoltare i loro propositi truci di vendetta proprio contro i compagni di ieri, assistere alle loro ire folli, vederli affascinati da visioni sanguinarie ancora. Non si sa come maturerà in loro il senso dell’umiltà, come potranno spersonalizzarsi e sentirsi degni di riprendere fazione con puro amore.” D’altronde, quanto fosse vivo, nei seguaci del mussolinismo, questo decadente senso dell’azione per l’azione, questo vuoto e insulso attivismo, che sembrava, ai fascisti, potesse essere redento dalla rivoluzione che ne sarebbe scaturita, è stato colto molto bene anche da uno scrittore toscano, V. Pratolini, in Lo scialo, quando fa dire di un suo personaggio, squadrista della prima ora: “ora s’è messo in disparte. È in disaccordo coi suoi camerati. Sembra perché la rivoluzione secondo lui è abortita”: puro gusto fine a se stesso del menar le mani, dell’imporsi con la forza da parte di una piccola borghesia che voleva vendicarsi delle frustrazioni che aveva dovuto subire nel dopoguerra e che aveva pure un più lungo risentimento contro il vecchio Stato liberale che l’aveva sempre tenuta al margine della vita politica nazionale: ma rivoluzione a quale scopo? con quale intento? era molto difficile capirlo dalle sue posizioni, in cui entravano parecchi motivi, dalla forza e dalla violenza alla rivolta, tutti, però, ugualmente ciechi e privi di effettivo impeto costruttivo. Ma l’interesse che, ancora oggi (in questo dopoguerra) ha reso così attuali queste Lettere, tanto che la loro ristampa è 331

apparsa opportuna, è l’analisi storico-politico-economica che il Fiore traccia per chiarire, forse prima a se stesso che agli altri, il perché della triste condizione in cui viveva - e vive tuttora - la sua gente. Egli è portato, quasi istintivamente, a ricercare quel perché nel giudizio che sulla questione meridionale avevano dato tanti illustri uomini distinguendo fra motivi interni e motivi, per così dire, esterni. Fra i primi il Fiore poneva la mancanza di una vita autonoma dei Comuni, dispersa in uno Stato organizzato centralisticamente, in completa balia del capriccio del potere centrale, sicché esclamava di non riuscire a vedere “la rottura della camicia di Nesso del parassitismo che ci esanimisce, ci soffoca e ci brucia senza un’organizzazione della nostra vita, sia economico-sindacale che politica e di partiti e di enti autarchici tale che spezzi quella esistente e le impedisca di ricomporsi, regionale indi e non nazionale.” Perciò, auspicava vivamente la formazione di “uno Stato regionale,” sebbene aggiungesse, con una onestà e una chiarezza di visione politica che gli fa onore, che l’ostacolo maggiore “alla vita locale autonoma, come ad un nuovo unitarismo politico, è in noi,” nella struttura socio-economica delle province pugliesi come di tutte le altre province meridionali. Bisognava, dunque, ricercare “le prime cause delle nostre deficienze politiche” ed egli si apprestava a mostrare il fenomeno in azione mediante un rapido esame: “Nella conformazione estremamente varia del Leccese, perdura la grande, grandissima proprietà assenteista e cieca, affidata ai ‘servi,’ contadinucci che vi rubacchiano ma vi perdono ogni decoro, accanto alla media e alla piccola, più numerose, più sveglie e fattive, accanto al bracciantato misero e insofferente di dominio. Ma la sostanza di questa vita resta ovunque feudale, anche nelle cittadine di mare aperte ai commerci ma dominate direttamente e indirettamente dai terrieri.” E subito dopo 332

prorompeva in una veemente - ma quanto dolorosa! condanna-denuncia: “Sotto la vernice di gentilezze, di rassegnazione, di mollaccionismo, sotto gli splendori di colore della natura, dovunque privilegio e protezione feudalistica, abbiezione, miseria morale e assenteismo.” Ma guardiamole anche noi, con la guida del Fiore, queste varie classi, incominciando dalle più basse, dai contadini, per i quali la questione più grave era quella della terra: “sotto ogni dibattito politico-amministrativo locale, sotto ogni divisione incolmabile di parti, è difficile che non ci siano i termini di una lotta per la conquista della terra; in ogni nostro paese c’è una quistione demaniale, ragionevole o assurda, allo stato acuto o latente. Pensano ancora i contadini che il Re sia il padrone della terra, come nel diritto pubblico barbarico, e che quei re normanni, svevi ed angioini concessero loro la terra in piena legittimità. È noto che le quistioni demaniali si trascinano, da noi, da secoli, sono la storia passata, tutta.” Ebbene, i contadini sentivano il “fermento malvagio del passato, per quello che loro è stato tolto, per quello che è stato mal dato,” sotto lo sguardo di uno “Stato compiacente.” “Anche oggidì, sotto la vernice di fascismo e di antifascismo, in molti paesi si agitano ardenti quistioni demaniali. Sono oggi i detentori di demani che hanno in mano il fascio, domani sono i loro oppositori. Quando, dopo trent’anni di ricerche e di spesa da parte del Comune, una quistione è in porto, una definizione è, bene o male, abbozzata, una sentenza è emessa, vien fuori un nuovo pseudomovimento, imposto dal governo, ad intorbidar le acque, ad appellare, a rimettere i detentori, con deliberazioni, alle autorità comunali, in condizioni di resistere vantaggiosamente.” A questo punto, il Fiore si poneva il problema, urgente e ardente, di dare “l’apertura di uno sfogo e di una soddisfazione a tante aspirazioni, a tanti bisogni così a lungo compressi, a mezzo della soluzione delle 333

questioni demaniali, o piuttosto, poiché quelle sono per lo più aggrovigliatissime, a mezzo di riforme agrarie, che mirino ad avvicinare sempre più la terra a chi la lavora”: il che avrebbe dovuto essere “preliminare ad un qualsiasi serio orientamento del Mezzogiorno, ad una qualsiasi nostra partecipazione alla vita unitaria, con conseguente eliminazione di pericoli di jacqueries piccole ma continue, ed irrobustimento della compagine nazionale.” Insomma, a suo parere, si trattava di ricercare una soluzione con una “larga concezione politica,” capovolgendo radicalmente “l’indirizzo sin qui seguito.” Si sarebbe ottenuto un simile capovolgimento facendo corrispondere “la nostra azione sociale, con la maggiore serietà storica” a ciò che si attendevano i contadini, i braccianti e i fittavoli, il cui cuore si gonfiava, ancora oggi più che mai, di fronte al “mito indistruttibile della terra.” Doveva, pertanto, venire enunciato, come “fine dichiarato di un buon governo,” il distruggere la grossa proprietà assenteista, senza, però, cadere in “innovazioni affrettate e ridistribuzioni antistoriche,” bensì mantenere “un realismo effettuale” che non facesse, però, perdere di vista “i nostri grandi ideali di redenzione.” Per conseguire un tale scopo esisteva, secondo lui, una sola maniera: “attuare, attuare, attuare in modo consono al momento storico. E noi dobbiamo d’ora innanzi, anziché esasperare l’antitesi fra contadini e proprietari piccoli o grandi, come si è fatto per il passato, senza nessuna preconcetta preferenza per la grande proprietà, favorire lo sviluppo della piccola: è, questo, uno stadio inevitabile della vita di molte regioni, della Francia come del Mezzogiorno d’Italia.” E ricordava, a sostegno della sua affermazione, che ciò era “ohnai pacifico anche per i comunisti” e citava l’on. Grieco, il quale aveva scritto che l’andar predicando per le campagne meridionali la “socializzazione della terra,” voleva dire, in realtà, rinunciare a farsi comprendere ed a 334

consolidare lo statu quo, anche dove il potere locale era detenuto dai socialisti. Si noti, anzitutto, lo spirito con il quale il Fiore affrontava l’arduo, e indubbiamente complesso, problema, uno spirito e un tono che ricordavano quelli della borghesia illuminata che si era formata, a suo parere, nel ‘700 pure nel Regno di Napoli, “ricca di cultura e di coraggio civile,” che aveva aspettato la redenzione dei mali di cui soffriva la società, per sé e non certo per la misera plebe dall’opera di un sovrano anch’egli illuminato; tuttavia, rispuntava nel Fiore quasi la nostalgia per una classe di intellettuali illuminati che avesse avuto “la forza di avviare la soluzione dei problemi della nostra terra, dei nostri contadini,” come, egli era convinto, avrebbe fatto quella borghesia settecentesca se, dopo il ’60, non fosse stata “distratta, sviata, corrotta, depauperata, spezzata, distrutta dall’unitarismo monarchico e conseguente centralismo statale.” Ed ancor più profonda diventava la sua convinzione nella virtù risanatrice di una società agricola composta di piccoli proprietari -che avrebbe realizzato il sogno russoiano di una società di eguali, sogno che, durante la Rivoluzione francese, fu accolto dai giacobini e che, nel secolo scorso, passò alle correnti democratico-radicali - quando vedeva come il contadino diventato, lui, proprietario della terra, prodigasse “a questa tutte le sue cure e sforzi estremi e la proverbiale laboriosità e lo sparagno più tirato” (sembra di rileggere la stupenda novella La roba del Verga), “talché, sopra Minervino e intorno a Santeramo quei disperati hanno fatto lavori di scasso fantastici, per piantarvi qualche sarmento o qualche mandorlo, con risultato economico nullo, o quasi. Ma,” concludeva con rammarico, “questa terza categoria di piccoli o piccolissimi proprietari diretti è molto scarsa ancora nella zona murgiana, e in genere ad ovest di Bitonto.” Eppure, sostenere la diffusione più estesa 335

possibile della piccola proprietà coltivatrice (punto che è entrato, più tardi, sulle macerie del fascismo sconfitto, nei programmi di tutti i partiti democratici, che si riorganizzarono tra la fine del ’42 e i primi mesi del ‘43), si poteva dire che fosse ormai la difesa di una posizione superata anche nel primo dopoguerra, quando, come è noto, si assisté all’acquisto, soprattutto nel nord, di piccole e piccolissime parcelle di terreno da parte di chi era riuscito a mettere insieme un modesto capitale; e ancor più anacronistica e superata diveniva nel sud, né poteva valere a renderla attuale la “grande fame di terra” dei contadini, i quali, se fossero entrati in possesso di un minuscolo e frantumatissimo fazzoletto di terra, sarebbero stati immediatamente travolti, in particolare negli anni dal ‘23 in poi, in regime di inflazione, dai prezzi crescenti, che se da un lato (come ha messo in rilievo G. Carano-Donvito) li avvantaggiarono favorendo “colture più intensive e più delicate” e “migliorie,” li svantaggiarono per il crollo dei prezzi agricoli dovuto a “una crisi di sovrapproduzione,” e molto di più li svantaggiarono con il forte dislivello fra i prezzi dei prodotti industriali (in costante e inarrestabile ascesa) e i prezzi dei generi agricoli e alimentari. Ma di questo fenomeno parleremo fra poco, mentre ora ci preme far notare come né i contadini né i piccoli proprietari fossero in grado di rispondere adeguatamente a tale squilibrio, perché non avevano alcuna forza contrattuale (a meno che non si fosse sentito il dovere di propugnare, per le sempre più misere popolazioni rurali, non tanto la deprecata socializzazione quanto piuttosto la riunione in cooperative, in una coltura associata, tale, insomma, da dare più peso ai dispersi e disorganizzati coltivatori diretti); chi faceva il tentativo di farsi udire dai governanti erano “gli agricoltori e i signori, inclini allo scialare e far chiasso,” dice con grande disprezzo il Fiore, 336

“alle musiche e alle femmine, ovvero raccolti nella tirchieria più rabbiosa,” i quali, però, nutrivano “fiducia nel governo, hanno sempre nutrito fiducia nel governo.” Ricolmi di questa totale fiducia non si stancavano “di presentargli la nota della serva: qualcosa sempre strapperemo con qualche curvatura della schiena, con qualche finta, con qualche lode. Che cosa vogliono si sa, ed è una pena udir sempre le stesse cose. ‘Noi speriamo di poter avere concimi a buon mercato/ dicono nel convegno di San Pancrazio. ‘Noi invochiamo maggiori facilitazioni sul prezzo delle macchine agricole; noi desideriamo riduzione di prezzi nei trasporti ferroviari; noi abbiamo bisogno di credito agrario su vasta scala/ Dopo ciò, i consorzi nominano soci ad honorem, offrono pergamene, spediscono telegrammi, ecc., ecc., ecc. E un commendatore si reca a Napoli, a congresso, a ripresentare la sua brava nota, anche lui, concimi, trasporti.” Naturalmente, il Fiore non mette in discussione la validità di quelle richieste, che avrebbero dovuto essere volte a combattere, con maggiore energia e con più dignità, “il dominio bancario-industriale del Nord,” che sorreggeva ‘l’immobilismo dei padroni di quaggiù” e che si collegava anche, con un filo quasi invisibile, al centralismo, al burocraticismo, alle oligarchie parassitane e alle malefatte del potere esecutivo, tutte escrescenze putrefatte che avevano potuto, e potevano, prosperare per l’arroganza dei padroni settentrionali e per la viltà di quelli meridionali. Erano cose che “la mentalità democratica, con quella sua incomprensione dei postulati economici del proletariato” non poteva né riusciva a comprendere. “Anche qui,” soggiungeva il Fiore, “come poi farà l’on. Amendola al Congresso dell’Unione Nazionale, si parla delle malefatte del potere esecutivo, ma mi paiono ancora lontani dal veder chiaro che la marionetta è mossa dalle oligarchie parassitane, il cui dominio rende effimere e soltanto 337

nominali le democrazie.” Senso del dominio su cui “i nostri signori,” gli agrari, la sapevano lunga, perché “hanno, pare, essi più degli altri, o essi soli, il senso dell’eterno e del transeunte”: sapevano, ad esempio, che dove arrivava il contadino “con la sua laboriosità e parsimonia miracolosa, per poco che possa reggersi, la grande proprietà, presto o tardi, è intaccata, corrosa, sparisce; sanno che elevare il contadino vuol dire metterlo in condizione di non subire più il secolare dominio, mantenuto con tanta fatica, con tanti sacrifizi, e dominare lui, alla sua volta, con Dio sa quali grandi novità!” Proprio per questo motivo i terrieri avevano aderito “entusiasticamente a tutti i governi succedutisi sul nostro suolo, a cominciare da quello repubblicano della rivoluzione del 1799 […]. Da allora, quanti ne son passati di governi, quanti ne son mutati di indirizzi? […]. Ma il proprietario del Mezzogiorno resta; nell’edificio sociale nostro è la colonna basilare, che nulla può scuotere, è il nostro dio Termine, il tabù. Intuiscono anche che tutto quello che oggi si dice e si scrive e si fa, tutto l’anfanare recente, non è molto serio, o ciò che è lo stesso non condurrà a risultati seri? Certo, non è contro di loro tutto questo dinamismo verbale; oggi, più che mai, nulla li minaccia, nulla li turberà nel loro senso feticistico della proprietà, della proprietà a qualunque costo, della maggior proprietà possibile, nel quale si esaurisce ogni loro senso giuridico, pel quale ogni vessazione più sbalorditiva contro il contadino è legale e legittima; nulla, nessuna rivoluzione verrà mai a disturbarli.” Né si salvavano, in questo esame impietoso anche se continuamente venato di turbamenti e di penosa partecipazione, i cosiddetti tecnici, che il Dorso aveva definito “tecnici del fascismo,” perché andavano “dicendo e bandendo che la politica non deve turbare la visione serena ed obbiettiva dei problemi eminentemente tecnici, ultima e 338

strana illusione di poterli risolvere con qualsiasi governo, che segua politicamente un qualsiasi indirizzo. Né diversamente si è rifugiata sotto il manto della apoliticità la Federazione agraria provinciale [di Bari], che non aveva sino al 6 aprile meriti fascisti da vantare, anzi veniva dal sindacalismo fascista locale minacciata di continuo di invasione e distruzione, e poi finì per dare il suo tecnico al listone.” In definitiva, pertanto, anche i tecnici erano colpevoli di concorrere alla “viltà universale,” e, quasi “dimenticando le loro passate compromissioni politiche, di far la faccia di servi sciocchi solo per salvar qualche posizione locale,” o per la “speranza di contrastare alle nullità che si fanno innanzi, o per la illusione che, dati i termini di un problema, la soluzione nasca da sé, al di fuori dell’opera umana e della specifica azione politica, nella stupida illusione che, convenientemente illuminato, un governo, su essi termini, non possa non accettare quell’unica soluzione tecnica.” Insomma, tutti, dai grandi signori ai tecnici (malati fin nelle ossa di trasformismo, il più deleterio per la concreta educazione politica e civile di un popolo), tutti pronti a passare armi e bagagli dal Giolitti al Salandra e, poi, al nazionalismo e, infine, al fascismo, non appena vi “hanno scorto uno scudo più saldo o piuttosto un’arma più rumorosa.” Ed anche lotte intestine fra tali ceti, dal momento che i beati possidentes “odiano a morte la politica, specie quella dei ceti medi,” mentre, poi, l’odio dei due strati superiori si riversa, congiunto e come un torrente in piena, su chi è al gradino più basso della scala sociale, i contadini, le plebi - tanto per riprendere un termine molto usato nel Settecento per indicare il quarto stato -, che si trovano sperduti “in mezzo a tanta libertà borghese,” sicché si può dire che vi siano “città, quali Cerignola, Andria ed altre, dove, ancora pochi anni fa, costituivano una classe completamente segregata dal resto dei cittadini per usi, 339

costumi e lingua, come ancor oggi è dedita all’abigeato, piaga dei nostri paesi, ed una volta al brigantaggio; amorfa, impenetrabile, irremovibile.” Potrebbe sembrare che questa dura ed inclemente requisitoria del Fiore, mossa da un intenso amore per la sua terra sulle cui piaghe egli si china sdegnato ed offeso ma nello stesso tempo dolente, rappresentasse una società chiusa in un immobilismo che risale nella notte dei tempi, sempre costretta a contemplarsi quelle piaghe senza mai riuscire a trovare un rimedio o una tregua al dolore. Eppure non era così, perché, ad esempio, a Lecce, città antifascista nelle elezioni del ‘24, il regime delle camicie nere, conquistate le “cricche dominanti pellegriniane,” potè, con il loro aiuto, fare inurbare “tranquillamente il cafonismo provinciale all’ombra delle mazze, minacciando sterminio alla città infedele, ed anche le elezioni comunali [del ’25] furono fatte, alla chetichella, senza disturbo di candidati e molto meno di elettori: così i nuovi barbari, che non sanno ridere, passarono.” Si era avuto, in tal modo, un avvicendamento nel ceto dirigente locale, poiché i popolani (si noti la differenza marcata rispetto alla plebe: popolani, sempre secondo una lunga tradizione storica e filologica, starebbero ad indicare una categoria che sta fra le classi subalterne e la borghesia, forse più vicino a quest’ultima che alle prime) si affrettarono a “divenir borghesi,” e, intellettuali e individualisti come erano, “appunto pel loro bisogno prepotente di novità, di godimenti e di discussione, non possono liberamente accettare se non il dominio della cultura, della finezza e dello spirito liberamente espresso: e tutta la formazione, tutte le tradizioni sono di democrazia, sia pure di ispirazione massonica, nella quale si ritrovavano il ceto medio di professionisti e commercianti ed anche gli operai, ossia appunto di liberi contrasti e autonomo sviluppo. Perciò, il 340

fascismo le si presentò subito come antitetico alla sua mentalità.” Questa è la descrizione che il Fiore fa del lento trasmutare da un ceto all’altro per la “città togata” di Lecce, nella quinta lettera, ma, nella prima, aveva dato una visione un po’ diversa di un tale fenomeno sociale, facendone intravedere sfaccettature più variegate: “è questa classe di signori [trasformisti e camaleonti], tramontata da noi una trentina d’anni fa, che si vorrebbe oggi rivalorizzare; e ne venne a tessere le lodi a Bari tempo fa nientemeno che S. E. Balbino Giuliano. Dileguò il loro dominio da allora ed essi trasmigrarono via, senza molto chiasso, sotto le ondate dei piccoli commerciunti, dei grandi fittuari e dei professionisti, le ’pagliette,’ che si erano nel frattempo formati e sognarono la repubblica di Bovio e l’irredentismo di Imbriani, per instaurare il popolarismo liberale di Giolitti. Ma anche questi ceti medi erano dovunque spariti, negli ultimi dieci anni, »trillando, sotto la ben più ampia marea dei cafoni più o meno rossi, ed oggi, pur di tornare a galla, vanno abbracciando anche la croce del fascismo. Ma erano rimasti nei nostri paesi: i primi [cioè quelli che erano trasmigrati via], invece, gli esuli di Magonza, non son tornati che due anni fa, quando coraggiosamente occuparono i caffè per vigilare la distribuzione dei rinfreschi alle milizie moventi all’assalto dei Comuni.” Secondo questa analisi, anche in Puglia, come in Sicilia, vi sarebbe stata, almeno nei primi anni, indecisione a Roma su chi favorire, i vecchi notabili oppure la borghesia dei “paglietti”: ma la cosa era in se stessa indifferente perché entrambi garantivano una ubbidienza quasi assoluta ai cenni del potente vincitore, al quale assicuravano pure, con la loro sottomissione, la possibilità di continuare l’antica politica dello Stato italiano basata sullo sfruttamento del Meridione in favore degli interessi dei padroni settentrionali. Tutt’al più, si sarebbe assistito ad una lotta intestina fra due gruppi, 341

entrambi preoccupati di assicurarsi i vantaggi, sia economici sia politici, che il servilismo avrebbe loro procurato. La conclusione che il Fiore poteva trarre da questi mutamenti doveva essere, per un altro verso, incoraggiante, perché la cosa più importante era che si rimettessero in moto gli ingranaggi sociali arrugginiti e da lungo tempo inerti: infatti, se era vero che i contadini continuavano a formare, nei paesi, una macchia scura “in un angolo della piazza, immobili, a gruppi e gruppetti, come segregati silenziosi, vere mandrie fuori della vita,” “consunti dal desiderio sterile della terra,” meditando chissà quali vendette (“qualche taglio clandestino di ulivi o di viti?” oppure “qualche più vasta ribellione, qualche scoppio d’ira cieco?”) e riflettendo, in silenzio e torvamente, sulla “ingiustizia immane” di cui credono di essere vittime, era pur anche vero che, in nessun modo, si sarebbe potuta creare una storia che non fosse soltanto “un tessuto di egoismi di gruppi sparuti, senza risonanze profonde, senza eticità,” senza stimolare o ottenere la loro “viva partecipazione.” I; Fiore, sempre così intensamente partecipe del dramma degli abitanti della sua terra, era turbato da questo spettacolo, vedendo come il contadino restasse tenacemente attaccato “alla terra, al campicello paterno,” con un misto di rassegnazione e di segreta rivolta che ormai non riusciva più a manifestarsi apertamente. “E se quest’anno, per le mercedi più basse, non ha potuto mandare il ragazzo a scuola né fargli le scarpe, se lui crepa sempre di fame e di malaria, che farci, se non aspettare, sperare, pregare?”; eppure quelle che allora erano ancora plebi si erano sollevate in massa dopo il 1860, in quel gran moto sociale e popolare che fu il cosiddetto (dai piemontesi) brigantaggio, per la conquista della terra, in nome del re (Borbone), vantando: “Purtème scritte ‘mbronte: - Evviva Frangische seconde!” “ed avrebbero formato il loro Stato, 342

lo Stato dei contadini, se… Ma non è detto,” aggiungeva il Fiore con un moto di speranza che cercava soltanto, un po’ ansiosamente, di tramutarsi in certezza, “che,, oggi, che hanno, più o meno dovunque, acquistato finalmente coscienza della lotta di classe e che, per i recenti avvenimenti, vi si irrigidiscono sempre più, non possano essere ravviate a dignità di cittadini e ragionevolmente contenute In regime di libertà, cioè di graduale raggiungimento dei loro desiderata, meno tasse e più terra. È, questa, la libertà da loro invocata, la libertà di lavorare e di produrre per sé. E mi pare che vedano bene.” Sì, senza dubbio, vedevano bene, sebbene anche il Fiore, che pure era arrivato (in contrasto con tutta la minuta analisi che abbiamo visto nelle pagine precedenti) a intuire, o a vedere, che i contadini avevano raggiunto, attraverso vie tortuose e spesso tragiche, una “coscienza di classe,” cioè il senso preciso della loro dignità di uomini, molto difficilmente, se le cose stavano realmente così, si sarebbero accontentati di quella “libertà di lavorare e di produrre,” che, con spirito da filosofo illuminato, il Fiore stesso benignamente concedeva. In un altro passo, lo studioso dei mali della sua gente, osservava che i contadini, “dopo i contatti con i fortunati lavoratori del Nord, dopo avere intravisto la possibilità di un paradiso di benessere e d’indipendenza, mai più si rassegneranno definitivamente all’antico stato, a limitare sempre più i propri bisogni. In un modo o nell’altro, prima o dopo, acquisteranno sempre maggiore coscienza di diritti sempre più vasti, sentiranno con sempre maggiore esasperazione l’intollerabilità della loro abbiezione secolare e dell’antieconomicità del loro lavoro presente. Ma quando? Ma come arrivare a questo? Come sollecitare il processo? Mi pare che quella sia la questione.” Qui il Fiore ci appare su una posizione un po’ più avanzata di quella che 343

traspariva dal passo riportato poco sopra; ma forse proprio perché sembrava attendersi una redenzione, o meglio una liberazione, dei contadini più profonda e più radicale, non guidata benignamente dall’alto, bensì autonoma, doveva essere portato, inevitabilmente, a porsi domande alquanto angosciose: “Ma quando? Ma come? Come sollecitare il processo?” Domande che sembravano non tenere conto della nube nera, pesante, incombente e minacciosa del fascismo, che era venuto ad alterare, in gran parte, il normale, ed auspicabile, processo di naturale elevazione dei ceti inferiori e subalterni, rigettandoli in quella miseria da cui disperatamente stavano sforzandosi di uscire: era tale presenza delle camicie nere che rendeva molto problematico il rispondere alla domanda: “Come sollecitare il processo?” ed anche difficile il trovare una qualche plausibile risposta alle altre due domande: “Ma quando? Ma come?” Tutto sembrava slittare in un tempo infinito, in un orizzonte che si confondeva, a perdita d’occhio, con il cielo, a rendere sempre più dolorosi il turbamento e l’angoscia, soprattutto in chi, come il Fiore, aveva riposto tutte le sue speranze nei contadini, rivelando, in ciò, quanto avesse appreso ed assorbito la grande lezione della Rivoluzione russa e di Lenin, che per primi, nella storia del nostro secolo, avevano dato l’esempio di una rivoluzione contadina (e tutte le altre rivoluzioni - la cinese, la cubana, l’algerina, la vietnamita - saranno poi contadine). Un fievole, per quanto non eccessivamente approfondito, barlume di speranza gli veniva dall’insistenza con cui Gramsci e il suo gruppo (e lui poteva averla risentita tramite i contatti con il Grieco) battevano sulla alleanza operai del nord-contadini del sud, come si può vedere in un altro passo della quarta lettera, che, però, ci pare la risultante di tutta una complessa educazione, che, quasi sicuramente, era partita dal Croce e, attraverso 344

l’insegnamento gramsciano, era approdata al Salvemini, in cui, sebbene moderato, si poteva avvertire un certo anarchismo: “per me, come per molti altri, se il socialismo ha adempiuto sin ora in Italia alla maggiore e più effettiva funzione di liberalismo [v., a tale proposito, la posizione del Croce che, nel ’27, sarà chiaramente espressa nella Storia d’Italia], se, come tutto dimostra, il partito liberale italiano, che fu liberale solo per antifrasi e per beffa, è ben lontano dal trovare la sua strada e dal misurare i suoi errori, insomma dal rinnovarsi mostrandosi capace di piantare nel costume politico del paese tutte le singole libertà, se della vecchia democrazia, finita nel giolittismo, non c’è più nulla da fare, ed ogni nuovo tentativo in tal senso riporrebbe pianamente il Mezzogiorno nell’antico quadro di servitù e di sfruttamento, se l’essenza del socialismo consiste nell’abolizione di ogni privilegio, nella libertà per tutti, nella capacità autonoma dei lavoratori di realizzare il trionfo del lavoro all’infuori di ogni paternalismo e di ogni non necessaria statizzazione, di ogni dominio dittatoriale di gruppi e di partiti, se esso non è solo espressione d’interessi materiali ma concezione politica di libertà concreta e di vita individuale intesa come autonomia, se insomma nel socialismo, nel marxismo stesso come lotta di classe si esaurisce il liberalismo, se la redenzione del Mezzogiorno non può essere voluta ed operata che dagli interessati, agricoltori e contadini, con iniziativa propria, con mezzi propri, con politica propria, è ad esso che tocca stringere in salda alleanza i contadini ed i piccoli proprietari nostri con le organizzazioni proletarie dei Nord [v. Gramsci], è ad esso che tocca suscitare ventate di autonomismo nei campi affini del piccolo commercio, della piccola industria, della borghesia intellettuale, per dirigere una veemente azione libertaria contro le consorterie economicopolitiche che soffocano il paese, contro il centralismo statale 345

che ne emana, il quale, in regime di libertà o di oppressione, è sempre tirannico e prima fonte di ogni male [v. Salvemini]. Uomini che intendano questo organicamente, che si preparino a questa azione, e non siano disposti a farsi accalappiare da formule, da vantate necessità, da schematismi di partiti, ce ne sono quaggiù, e tu [si rivolgeva al Dorso] li conosci: non ho bisogno di fartene i nomi.” L’accostamento indiscriminato di diverse soluzioni e di diverse prospettive di azione, se pone il Fiore al punto d’incontro di diversi insegnamenti, lascia un po’ sconcertato il lettore, che non riesce più a trovare il bandolo della matassa, cioè a capire quale vuole essere il punto di partenza e quale il punto di arrivo. Infatti, esaminando il passo più da vicino, si può osservare che è quasi sicuramente giusto il dire che, nell’ultimo decennio del secolo scorso, il socialismo svolse le funzioni che avrebbe dovuto svolgere il liberalismo - ma non seppe perché ormai andava piegando verso la conservazione e la reazione -, almeno un certo liberalismo ottocentesco, non assolutamente quello della Destra storica ma quello dei suoi oppositori democratici e radicali; ma non sembra altrettanto giusto fare una sola cosa del liberalismo, del socialismo e, addirittura, del marxismo come lotta di classe. Si tratta di una indebita confusione di termini ciascuno dei quali ha dietro di sé una storia legata a ben determinate vicende sociali e politiche. Così pure lascia piuttosto perplessi il chiamare, come fa il Fiore, a raccolta gli interessati, agricoltori e contadini e metterli insieme nella eccitante e splendida visione della “redenzione del Mezzogiorno”: sarebbe stato un voler unire il gatto e il topo nello stesso cesto, perché chi avrebbe potuto convincere gli agricoltori a rinunciare spontaneamente ai privilegi di cui essi godevano cd al predominio che esercitavano, senza che a ciò fossero costretti da un’aspra 346

lotta del ceto considerato, allora, da essi privo di qualsiasi possibilità di far sentire la sua voce? Ed ancora, come si sarebbe potuto “stringere in salda alleanza i contadini ed i piccoli proprietari nostri,” dal momento che gli interessi degli uni erano nettamente in contrasto con gli interessi degli altri e chi era riuscito a conquistare un sia pur piccolo e sminuzzato fazzoletto di terra pensava di essere ormai passato nel rango dei proprietari e non si staccava né si allontanava dal suo minuscolo appczzamento perché gli sarebbe sembrato di rinunciare alla faticata indipendenza (anche se molto relativa)? E, infine, alla alleanza che esso (il socialismo e, di conseguenza, i socialisti, perché non si è mai vista un’idea astratta, non rappresentata da uomini concreti, in carne ed ossa, procedere ad aggregare classi sociali, a determinare schieramenti politici) proponeva fra contadinipiccoli proprietari e proletariato del nord, si opponevano quei motivi che abbiamo già esposto quando abbiamo preso in esame la posizione di Gramsci in questo periodo. Il Fiore, però, aggiunge alla formula gramsciana la speranza di poter creare un vasto fronte contro il parassitismo, contro il trasformismo e contro l’innata tendenza alla soggezione nei riguardi del potere centrale, un fronte costituito dalle popolazioni del Mezzogiorno, dal piccolo commercio, dalla piccola industria, dalla borghesia intellettuale in cui avrebbero dovuto essere suscitate “ventate di autonomismo” al fine di averle partecipi nella “veemente azione libertaria contro le consorterie economico-politiche che soffocano il paese e contro il centralismo statale.” Ma anche in quest’ultimo caso, le rivendicazioni che sarebbero state presentate dai piccoli commercianti, ecc. (sommamente desiderosi di essere liberati dalla tutela che li opprimeva e quasi travolti da una “ventata di autonomismo”), erano rivolte contro lo Stato centralizzato della tradizione e il potere che si espandeva per i rami del 347

paese da Roma. Al contrario, i contadini (aggiungiamoci anche i piccoli proprietari) e il proletariato del nord avevano problemi da risolvere che li portavano a scontrarsi con una persona ben concreta, l’agrario o l’imprenditore - sempre, perciò, il padrone - e non avevano, allora, la forza di chiamare in causa il governo o lo Stato, troppo lontani e che apparivano loro non direttamente responsabili del malessere profondo che sentivano scorrere in tutto il corpo, prostrandolo e togliendogli energia fisica e forza morale. Ma fare un simile discorso al Fiore sarebbe stato molto difficile, perché egli era convinto che “l’Italia agricola,” e, in particolare, quella del Mezzogiorno, nutrisse “una formidabile massa di risentimenti” contro le imposte e la concorrenza straniera, contro le pubbliche spese improduttive e le amministrazioni municipali, che vivevano tutte sulle sue spalle, succhiandone avidamente il sangue fino a sottometterla “a nuova servitù, nuovo ingarbugliamento e assoggettamento e spegnimento di energie,” fino alla “morte definitiva” del Meridione, “alla quale dolorosamente temono che siamo già arrivati Giustino Fortunato ed altri.” Ed anch’egli avvertiva, piantato come un aculeo nell’animo, questo dolore veramente immenso, che gli occupava tutto lo spirito: “Qui sono le lagrime di venti secoli che aspettano,” così concludeva la seconda lettera e la sua figura ci è così cara e il suo ricordo è in noi così tenace proprio perché abbiamo sempre ammirato in lui una totale dedizione alla sua gente e alla sua terra. 1 Confessiamo di non capire molto bene ciò che scrive G. Sotgiu sulle “manovre demagogiche e corruttrici con le quali il generale Gandolfo, inviato da Mussolini in Sardegna per conquistare al fascismo i sardisti, riuscì a spezzare l’unità del Partito sardo e ad assorbirne un gruppo di dirigenti”; a suo parere, “il trionfo definitivo del fascismo portò, come conseguenza, anche alla caduta delle prospettive che il PSd’A aveva aperto.” Ma, poco dopo, mette in rilievo gli

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“elementi di debolezza della politica sardista,” in quanto “la battaglia istituzionale per l’autonomia non riuscì a legarsi sufficientemente a quella sociale (anche se non mancò una notevole iniziativa in direzione della cooperazione) e nei confronti del movimento operaio organizzato [ma esisteva, allora, in Sardegna?] si ricercò non un terreno di incontro, ma di concorrenza, che talora degenerava nella rissa. L’autonomia, pertanto, era sentita, anche nel primo dopoguerra, dalle popolazioni delle campagne sarde, contadini e pastori; ma è difficile non cogliere il distacco tra queste posizioni e quelle di una parte del gruppo dirigente.” Ma, allora, come si possono denunciare le “manovre demagogiche e corruttrici del Gandolfo,” se la lotta per l’autonomia - la cui importanza era avvertita anche dai contadini e dai pastori (fino a che punto: forse si rendevano esattamente conto dello sfruttamento cui erano sottoposti da parte degli imprenditori del nord?) - si risolvette soltanto “in accanite, violente, e, talora sanguinose battaglie per spazzare via le vecchie clientele, per conquistare le amministrazioni comunali, così da avere le basi necessarie per una lotta più generale di rinnovamento dell’isola”? Ebbene, la lotta contro le vecchie clientele non era forse condotta pure dal gen. Gandolfo, certo su un piano quasi esclusivamente politico, come, del resto, era, secondo il Sotgiu, quella condotta dai sardisti? Entrambi non capivano a fondo le implicazioni di natura economica e sociale di una simile lotta e credevano che liberare la Sardegna dalle clientele parassitane e camorristiche fosse sufficiente per ridare all’isola la libertà e la dignità da lungo tempo perdute. 2 Infatti, nelle sole circoscrizioni dell’Emilia (Bologna-Ferrara-Ravenna-Forli e

Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia) gli eletti erano stati otto, mentre due erano stati mandati alla Camera da Alessandria, uno da Como-Sondrio, 2 da Mantova-Cremona, uno da Novara, due da Padova-Rovigo, due da Pola-Parenzo, due da Genova-Porto Maurizio, uno da Milano-Pavia, uno da Torino, uno da Verona-Vicenza, e due da Trieste; il centro-sud, invece, ne aveva dati 1 da A ncona-Pescara-Macerata-Ascoli Piceno, due da Aquila-Chieti-Teramo, uno da Bari-Foggia, uno da Catania-Messina-Siracusa, due da Perugia, uno da PisaLivorno-Lucca-Massa Carrara, uno da Roma, uno da Siena-Arezzo-Grosseto, due da Firenze. 3 Una politica di lavori pubblici era già stata iniziata, ad esempio, a Roma, dove

l’urbanistica fascista volle che fossero abbattute le catapecchie più vicine alla città, “che offendono la vista,” e che gli abitanti fossero trasferiti “su terreni di proprietà del Governatorato, siti in aperta campagna e non visibili dalle grandi arterie stradali.” Le catapecchie e le baracche insieme con le “casette,” piccole costruzioni in murature con il solo piano terreno senza servizi igienici e senza acqua, si erano venute costruendo dalla fine del secolo precedente alla prima guerra mondiale e queste poverissime comunità si erano addensate nei terreni abbandonati della campagna romana, molto lontano dal centro e lungo le vie consolari. Per lo più i vari insediamenti raccoglievano abitanti provenienti dalle stesse zone: sulla Casilina, a Centocelle e Torpignattara si erano fermati i ciociari; al Quadraro e sulla via Tuscolana i siciliani e i calabresi; sulla Flaminia e la Cassia i marchigiani, gli umbri e gli abruzzesi. Erano abitanti addetti quasi tutti al

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deposito del tram, o alla nettezza urbana, o allo scalo merci o, come manovali, ai cantieri. Intanto, mentre si ripulivano le baracche, il governo di Mussolini, per favorire l’edilizia, approvava uno sbocco graduale degli affitti già previsto dal R.D. del 7 gennaio ‘23. Poco dopo, un altro R.D.L. (8 marzo ’23) accordava l’esenzione venticinquennale dall’imposta di fabbricazione per tutte le nuove costruzioni, il che, se promosse una più intensa attività da parte dell’Istituto case popolari e dell’Istituto nazionale case impiegati dello Stato (Incis), incentivò anche la stipulazione di “convenzioni” da parte dei privati per la edificazione su decine e decine di ettari: si diede, così, inizio alle costruzioni a piazza Bologna, a viale Romania, ai Parioli, a piazza Quadrata, all’Aventino, e, in misura molto più intensa, tra la via Salaria e la via Nomentana, lungo via Tagliamento e corso Trieste. Già nel ‘24 si ebbe, quasi a significare il passaggio di Roma da città strettamente legata al suo contado a capitale del futuro e fantasticato, per allora, impero dei fascisti, la sparizione di piazza Montanara, che era il mercato della manodopera che affluiva dall’agro. Infine, nel 1923 era stata nominata una commissione “per lo studio della riforma del plano regolatore di Roma” che propose una variante al piano regolatore del 1909 e alla relazione del 1918 con cui si proponeva di non demolire il centro storico, ma di rispettarlo nella sua integrità e di risanarlo. Il 1o gennaio del ‘26 fu creato il Governatorato di Roma, i cui uffici tecnici presentarono, il 28 ottobre 1930, un nuovo piano regolatore al duce, con notevole anticipo sulla data fissata. Fu questo piano che, praticamente, distrusse buona parte del centro storico per lasciare posto alla maestosa via dell’Impero e alla via del Mare, un piano che permise anche l’elevazione del massimo dell’altezza per i fabbricati intensivi a 35 metri. Fu il piano definito “quanto di peggio c’era nella cultura urbanistica romana in quegli anni.” 4 Infatti, come risulta da una pubblicazione, L’economia italiana nel 1928, a

cura dell’Associazione fra le società per azioni e della Confederazione generale fascista dell’industria italiana, la produzione granaria era stata, nel 1928, superiore di quasi 9 milioni di quintali a quella dell’anno precedente, un aumento che non era stato determinato da un correlativo aumento della superficie coltivata, la quale era risultata anzi alquanto inferiore, bensì da un incremento nel rendimento unitario. Ma, proprio per quanto riguarda tale rendimento, si poteva notare che mentre esso era passato da 15,5 a 17,9 per ettaro nell’Italia settentrionale, da 9,7 a 11,6 nell’Italia centrale, da 7,4 a 10,3 nell’Italia meridionale, in quella insulare, invece, si era avuto un rendimento “molto inferiore a quello del 1927, da 9,4 a 8’,8 in conseguenza della produzione siciliana che è risultata di circa un quintale per ettaro inferiore a quella dell’anno precedente.” Queste cifre - proseguiva L’economia ecc. - “ci permettono di rilevare quale enorme differenza esista fra il rendimento unitario delle regioni settentrionali e quello delle regioni meridionali e insulari, prese nel loro complesso. Ancora maggiore appare la differenza se si considerano soltanto alcune regioni: dai 23,3 quintali in media per ettaro della Lombardia si scende agli 8,8 quintali della Sicilia.” Come è noto, la produzione del grano interessava soprattutto la zona del latifondo al centro dell’isola. Anche la produzione olearia faceva registrare un aumento in tutte le regioni, tranne in

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Sicilia, e la produzione vinicola, che aveva superato tutti gli anni del dopoguerra, eccetto quella eccezionalmente elevata del 1923, nel centro e nel meridione, nelle isole rimaneva quasi stazionaria; soltanto la produzione agrumaria, che, però, era tipica delle coste dove prevaleva la piccola proprietà, segnava un aumento.

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Capitolo undicesimo Effetti negativi dell’inflazione sul Mezzogiorno Le conseguenze dell’inflazione ricaddero, come si è detto, soprattutto sui ceti meno abbienti, e, ad ogni modo, portarono, come sempre avviene in tali periodi, ad una ridistribuzione della ricchezza e ad un nuovo assestamento delle classi sociali. La minuziosa analisi del Carano-Donvito ci può permettere di vedere cosa successe, allora, nel Mezzogiorno: ad una fase, che aveva caratterizzato l’Ottocento e i primi anni del Novecento, in cui i proprietari di capitale contante erano stati ritenuti fortunati di fronte alla proprietà fondiaria, “che viveva (o vivacchiava) addirittura da ‘cenerentola’” (anche durante la guerra “con l’enorme assorbimento di mano d’opera” -l’esercito formato dai contadini specialmente del sud -e dopo con le occupazioni delle terre, la terra aveva rappresentato “più che la delizia, la vera croce dei proprietàri”), era sopraggiunta l’inflazione a capovolgere le posizioni, poiché i proprietari di terra andarono su “(specie oggi col ripristinato dazio sul grano”), mentre caddero giù, “proprio a toccar terra con le spalle, gli antichi proprietari di odierni […] chiffons de papier” Inoltre, l’industria rurale, avendo bisogno di più largo capitale-salari che non l’industria manifatturiera, rimase più esposta alle gravi falcidie provocate “dalle successive ondate inflazioniste con conseguenti svalutazioni della moneta.” Tali svantaggi dei 352

proprietari fondiari furono, peraltro, compensati dalla “maggiore ‘vischiosità’ dei salari agricoli, i quali aumentano meno dei salari manifatturieri, in funzione dello svalutamento della moneta; anche perché, generalmente, i salariati agricoli sono meno organizzati di quelli industriali.” Questo esame sembra che possa chiarire il successivo alternarsi di diversi strati sociali - sempre borghesi, ad ogni modo - che ci ha descritto, con tanta efficacia, il Fiore: al vecchio dominio dei terrieri era succeduto il dominio dei “paglietti,” dei possessori dei chiffons de papier, esponenti del ceto medio, che, però, era stato cacciato dal trono dalla “più ampia marea dei cafoni”; con la vittoria del fascismo era nata la sorda lotta fra gli agrari e i rentiers (i possessori di pezzi di carta, precipitati in una dolorosa condizione per la svalutazione dei loro titoli “acquistati, una volta, con moneta a pieno valore aureo”), poiché sia gli uni sia gli altri volevano ritrovare la preminente posizione sociale che una volta avevano tenuto. Posizione minacciata, già prima della guerra, con le trasformazioni “nella nostra proprietà fondiaria” in seguito alle larghe “‘rimesse’ degli emigranti,” che avevano favorito la formazione di nuovi capitali e di nuovi capitalisti. In tal modo, “posizioni debitorie liquidate attraverso spezzettamenti, allottamenti e vendite di grosse, medie e piccole proprietà da lunghi anni indebitate, agli ‘americani,’ specialmente” avevano effettuato dei “benefici passaggi di terreni da proprietari esauriti economicamente e fiaccati moralmente, a nuovi proprietari forniti di nuove energie economiche (di più larghi, adeguati ‘capitali d’esercizio’) e di novello, più vigoroso spirito d’intrapresa”; si era assistito, perciò, all’ascesa sociale dei cafoni, un ceto che si era faticosamente sollevato dal basso, dalla misera vita del contadino, mediante questi capitali che erano giunti, “come l’acqua ristoratrice delle arsure campestri, come l’ossigeno, come il sangue arterioso,” a ridare nuova 353

vita alla “nostra economia.” In quel tempo, c’era chi censurava, chi derideva “perfino l”avidità di terra’ da parte degli emigrati rimpatriati e i lauti prezzi pagati agli antichi proprietari.” Ma non solo sulla terra si erano sparsi quei capitali, che anzi avevano avviato una “lenta, ma promettente, industrializzazione, che è quanto dire la nostra resurrezione.” Perché, notava il Carano-Donvito, “la storia della economia politica c’insegna come tutti i paesi cerchino di superare la ‘fase agricola’ e di passare a quella ‘industriale,’ manifatturiera, col relativo progresso economico-civile.” E nel “problema dell’industrializzazione” consisteva, secondo lui, “il centro di tutta la così detta e ridetta complessa Questione meridionale” Sotto questo aspetto, egli continuava, era “nota, antica, la nostra povertà di capitali insufficienti anche per il più modesto esercizio della tradizionale agricoltura. Ove trovare i capitali prima di tutto per sviluppare, migliorare l’agricoltura, e poscia iniziare il passaggio alla sua industrializzazione?” Ebbene, l‘inflazione era sopraggiunta a stroncare, “quasi sul nascere, questo magnifico movimento, annientando, o quasi, tutto il capitale mobile, liquido, linfa dei nuovi investimenti, pur con tanti sacrifici accumulato.” In queste affermazioni che volevano essere del puro economista, si avvertiva quello che acutamente coglieva anche il Fiore, cioè “il signore di campagna, abituato, per secolari tradizioni di famiglia, a vivere sulla terra e della terra, a preferire questa alla vita cittadina, a non sottrarsi a nessuno dei doveri che il possesso della terra impone.” Questo perché sembrava di scorgere, sempre sotto l’apparente manto scientifico dell’economista, una certa soddisfazione per il fatto che “i ’rivoli d’oro’ dell’emigrazione” erano passati accanto alle sue terre senza intaccarle (avevano intaccato le terre di altri) e, poi, si 354

erano rivolti all’industrializzazione. Ma in quale sacra tavola dell’economia era mai scritto che i capitali necessari a tale industrializzazione dovessero provenire da altri cieli o da altre fonti che non l’agricoltura? Dove era detto che questi capitali dovessero piovere sulle terre del sud e non provenire da una accumulazione effettuata nel settore primario? Ma guardiamo da che cosa fu originata la rivoluzione industriale inglese del Settecento: si ebbe prima un processo di accumulazione nell’agricoltura, dove era stato portato a termine il passaggio dall’agricoltura feudale basata sul possesso indiviso della terra, sul pascolo comune, all’agricoltura capitalistica, basata sulla conduzione per mezzo dei fittavoli; in un secondo tempo, i capitali accumulati in quel settore si indirizzarono verso le industrie, che erano prevalentemente le tessili, le più necessarie ad una crescente popolazione e le più basse nella scala della produzione industriale. E da che cosa nacquero i capitali indispensabili per dare inizio al take-off, al decollo industriale dell’Italia settentrionale a partire dal 1896? Anche in questo caso, a noi sembra, dall’accumulazione primitiva verificatasi nell’agricoltura: infatti, se è giusta (come crediamo che lo sia) la nostra interpretazione di quell’evento, il dazio sul grano, che fu concesso agli agrari italiani, nel 1887, non appena approvato il protezionismo industriale, favorì maggiormente gli agricoltori del nord, i quali producevano a costi di gran lunga inferiori a quelli degli agricoltori del sud, che non erano ancora riusciti a superare lo stadio di una coltivazione arretrata e dal basso rendimento. Così, quando si presentò l’occasione propizia, nel Settentrione fu possibile trovare i capitali disposti ad investirsi nell’industria, e, pure in questo caso, nell’industria tessile. Ma il fatto è che il Carano-Donvito, in questo suo saggio scritto probabilmente verso la fine del ’25, poiché parla dei 355

“tragici corsi della lira della metà del 1925” -, si sforza di dimostrare che i più danneggiati dalla inflazione furono i “proprietari locatari,” “di tanto rovinati di quanto, per converso, si sono, per mera congiuntura, avvantaggiati i loro locatori.” In conclusione, nell’arduo duello, chi ebbe la meglio furono i fittuari, per i quali “il ripristino del dazio sul grano è stato il buon resto […] del carlino. Esso, certo, ha creato nuove condizioni o posizioni di rendita fondiaria (o ricardiana), determinando un repentino “capovolgimento sociale.” Ed egli si diffondeva nell’illustrare la differente situazione creata al sud dalla svalutazione, rispetto al nord, perché il primo si trovava a più stretto contatto con i paesi balcanici a valuta più deprezzata della nostra; così questi paesi erano in grado di far concorrenza ai prodotti agricoli italiani, mentre il secondo era più vicino a paesi addirittura con moneta aurea (Svizzera e, con l’inizio del ’24, anche la Germania), o soltanto in via eccezionale più svalutata della nostra (la Francia), il che rappresentava un grosso vantaggio per le esportazioni industriali. Inoltre, nei riguardi dello stesso Mezzogiorno, nel commercio interno, il Settentrione godeva di una posizione favorevole, perché vendeva manufatti “in condizioni privilegiate di fronte alla concorrenza industriale estera, in quanto la nostra valuta deprezzata ci ostacola negli acquisti presso i Paesi esteri industriali, che sono per lo più a valuta migliore della nostra.” D’altra parte, il nord, proprio da questa situazione, era messo in grado di comperare “da noi meridionali prodotti agrari a condizioni privilegiate,” senza pensare, poi, che esso poteva avere maggior convenienza, attraverso i comodi porti di Fiume e soprattutto di Venezia e di Ancona, a ritirare “derrate dai paesi agricoli del vicino Oriente, appunto per le condizioni della nostra valuta superiore in confronto di quella dei paesi balcanici.” Affermazioni che sembrano contraddette dai dati che 356

abbiamo sul commercio estero e che, perciò, possono apparire dettate da una posizione preconcetta: infatti, si può notare come il commercio d’esportazione vada aumentando verso quelle nazioni del centro-Europa, che erano si avvantaggiate per avere una moneta forte, ma che non erano certo invogliate ad acquistare da noi i prodotti industriali, essendo molto più avanzate sulla via dello sviluppo tecnologico, anche se compravano, indubbiamente (però, non ci è possibile dire con precisione in che misura, mancandoci dati suddivisi per settori merceologici), i prodotti della nostra agricoltura meridionale, da esse sempre molto desiderati: gli scambi con l’Austria salirono da 335 milioni di lire nel ‘23 a 686 nel ’24 ed a 666 nel ’25; con la Francia da 1.581 nel ’23 a 1.823 nel ’24 ed a 2.204 nel ‘25; con la Germania da 697 nel ’23, a 1.565 nel ’24 ed a 2.025 nel ‘25, con l’Inghilterra da 1.211 nel ‘23 a 1. 493 nel ‘24 ed a 1.852 nel ‘25; con la Svezia da 33 nel ‘23 a 48 nel ‘24 ed a 71 nel ‘25. Il disavanzo commerciale era stato, per l’Italia nel complesso e per questo gruppo di paesi, di 93 milioni nel ‘24 e di 1.038 nel ‘25. Una breve informazione sulla “Rivista di politica economica,” dell’aprile ‘25, sul nostro commercio estero nel ‘24, metteva in rilievo come, in quest’anno, le importazioni fossero state, quasi esclusivamente, di materie greggie e di materie semilavorate, mentre scarsissime erano state le importazioni di prodotti industriali, e quelle di generi alimentari avevano registrato “addirittura una diminuzione”; invece, l’aumento delle esportazioni era stato dovuto al gruppo dei generi alimentari che aveva superato di circa un miliardo e mezzo quelle del ‘23. Inoltre, nel ‘25, si notava un “aumento molto notevole” nelle importazioni di cotone greggio e di lana, e da ciò si poteva capire che il governo fascista non aveva affatto rinunciato alla politica di stampo nazionalistico, sempre di penetrazione nella penisola balcanica. In effetti, se andiamo a guardare i trattati 357

commerciali stipulati nel ‘25 con alcuni paesi di tale zona1 oltre che con la Germania, si può notare che i negoziatori italiani si preoccupavano sì di ottenere condizioni favorevoli per i prodotti agricoli del sud, che più facilmente trovavano un mercato internazionale disposto a comprarli (come i limoni, l’olio di oliva, gli aranci, i mandarini, le mandorle secche, i cedri, le nocciole, le carrube, i fichi secchi, l’uva e il vino, in particolare il vermut e il marsala), ma cercavano pure di favorire, nei vari trattati, i prodotti industriali tipici del Settentrione (ad es., i filati di cotone e i tessuti di lana, alcuni lavori di vetro, le gomme per ruote da veicoli, le macchine agricole con i loro accessori, le automobili, le motociclette, ecc.). Non bisogna, peraltro, dimenticare che la forte inflazione incentivava le nostre esportazioni. Ad ogni modo, come si è visto, i negoziatori italiani insistevano maggiormente su quei prodotti agricoli tipici del Mezzogiorno, e, diremmo, non certo della grande proprietà terriera, bensì della piccola proprietà disseminata lungo le coste. Lo stesso Carano-Donvito era costretto a riconoscerlo: “noi siamo compratori di prodotti agricoli di prima necessità e venditori di prodotti agricoli di lusso: primizie, vini, mandorle, olii.” E tale osservazione, caduta nel suo discorso quasi per caso, lo portava a parlare dei “lavoratori ‘manuali,” che “qui, nel Mezzogiorno, sono la grande maggioranza dei ‘contadini’” (non si riesce a comprendere il perché di tutte quelle virgolette nell’accennare ai lavoratori manuali e ai contadini, come se volesse mantenere le distanze da tale classe inferiore), ma solo per ripetere quanto aveva già detto, che “i salari agricoli sono ancora più vischiosi dei salari industriali” e che i contadini erano, “in generale, meno ‘organizzati’ degli operai manifatturieri” e, infine, che si era avuta una “grande prevalenza dei ‘lavoratori della terra,’ la cui ‘offerta’ è 358

aumentata dalle misure limitatrici estere della nostra emigrazione.” Concludeva il saggio mettendo in rilievo che se lo Stato avesse premuto sulla inflazione “come metodo di tassazione,” la condizione dei meridionali sarebbe diventata più grave di quella dei settentrionali, data “la più primitiva struttura economica del Sud, col minor sviluppo del credito e col minor uso di titoli di credito, che sostituiscono largamente la moneta nei paesi più evoluti”; se, al contrario, lo Stato fosse ricorso alla “imposizione del capitale,” anche in tal caso la situazione del Mezzogiorno sarebbe stata più disagiata, perché vi prevaleva “la ricchezza immobiliare, che è meno occultabile agli effetti dell’accertamento della imposta sul patrimonio della ricchezza mobiliare, che prevale nella struttura economica del Nord.” Pertanto, in ogni caso, i meridionali avrebbero pagato, pur essendo più poveri, in imposte, “relativamente sempre più in confronto dei Settentrionali.” E, proprio alla fine, il Carano-Donvito si lanciava, ancora una volta, in una celebrazione dei “piccoli risparmiatori,” di quei piccoli risparmiatori che avevano osato sfidare l’Atlantico e che, per primi, avevano dato “forse la maggiore speranza, la maggiore promessa di un rinnovamento, di una rinascita del nostro Mezzogiorno,” perché avevano cominciato, con i loro sudati e faticosi risparmi, a sanare una delle più gravi deficienze dell’economia meridionale, cioè “la scarsezza e l’insufficienza del capitale d’esercizio.” Per esso e con esso, “negli ultimi anni dell’anteguerra, spuntavano sull’orizzonte ancor nebuloso di questo povero Mezzogiorno, i primi raggi forieri del sole dell’avvenire, quando la guerra e la inflazione richiusero gli orizzonti e distrussero ogni speranza vicina.” Tanto più il Carano-Donvito poteva lanciarsi in questa esaltazione degli umili risparmiatori, perché essi rappresentavano, come abbiamo detto, un ceto sociale che non mirava affatto a scardinare le vecchie 359

strutture politiche ed economiche del sud, ma si inseriva in esse e cercava soltanto di acquistare un piccolo appczzamento di terra, anche se incolto, da fecondare con il suo lavoro tenace e costante. Perciò, la piccola proprietà viveva accanto alla grande, senza dare alcun fastidio a quest’ultima, che anzi traeva, dall’esistenza di quella, la sicurezza di avere incatenato il piccolo coltivatore alla difesa della società. Tuttavia, una notazione ci ha particolarmente interessato nel saggio del Carano-Donvito, una notazione tendente pure essa a porre in rilievo la sostanziale differenza fra il nord e il sud, su un piano, però, non più strettamente economico: “Tutte le lauree e i diplomi di guerra hanno più largamente inondato il Sud che il Nord, ove gli smobilitati hanno avuto maggiori possibilità di occupazioni industriali e commerciali. In questa parte d’Italia, invece, il più gran numero ha cercato uno scudo, un viatico in una laurea o in un diploma, ciò che ha ancora più inasprita la concorrenza nelle così dette professioni libere, diminuendo la possibilità di aumentare i compensi in correlazione dello svalutamento della carta-moneta”; e, poco dopo, aggiungeva che dalle condizioni generali economiche determinate dalla guerra e dall’inflazione, era derivato soprattutto “il numero rilevante degli ‘impiegati’ (ossia di persone a ‘redditi fissi’ forniti dalle provincie meridionali).” In realtà, i dati statistici ci dicono che, in tutta Italia, gli iscritti erano stati stazionari o in diminuzione nelle facoltà scientifiche (da 7.386 nel ‘23 a 7.339 nel ‘24 e nel ‘25), di ingegneria (da 8.007 a 8.418 ed a 7.962 nel ‘25) e di medicina (da 9.429 a 9.105 ed a 9.126), mentre si era avuto un sensibile aumento nelle facoltà di giurisprudenza (da 7.991 nel ‘22 a 8.288, a 8.864 ed a 9.391), la facoltà dei “paglietti” meridionali, di economia più contenuto dopo un breve arresto (da 5.559 a 4.976, a 4.693 ed a 5.806), ed una lieve flessione nella facoltà di 360

lettere (da 3.894 a 3.566, a 3.720 ed a 3.740). Non abbiamo i dati relativi alle singole Università, ma si può essere sicuri di non sbagliare se si afferma che il maggior numero di iscritti ad economia o a lettere si trovano nel Mezzogiorno (da ciò il numero sempre più rilevante degli “impiegati” che godono di un reddito fisso e che sono pressoché inamovibili, a differenza degli operai o dei contadini su cui pende la spada di Damocle del licenziamento: infatti, l’inflazione, che. erode il salario, porta con sé, per queste due ultime categorie, anche la minaccia costante del licenziamento e della disoccupazione). Però, potrebbe anche darsi che dati più minuti, e più puntuali, riuscissero a dimostrare come la contrazione degli iscritti nelle facoltà scientifiche si sia accompagnata, pure nel Settentrione, con un affollamento delle facoltà umanistiche, alla ricerca del cosidetto “pezzo di carta” che consenta, poi, di aspirare ad un impiego pubblico. Così come può anche darsi che l’espansione delle facoltà umanistiche sia stata dovuta, nel ‘24 e anni seguenti, alla riforma Gentile, la cui impostazione idealistica fu nettamente favorevole appunto alle discipline umanistiche, a grave scapito delle scientifiche, di cui il Gentile era poco propenso a rispettare l’autonomia e che avrebbe voluto far rientrare nel grande mondo della cultura classicistica, permettendo loro, tutt’al più, di rimanere ai margini, quali umili ancelle. È molto significativo, a questo proposito, ciò che scriveva, il 1° gennaio ‘24, l’organo della Confederazione generale del lavoro, “Battaglie sindacali,” quasi a dimostrare la verità (in cui, però, noi non crediamo) di quell’antico detto latino, nihil sub sole novi, che si adatta ad una società che non riesce a scorgere i mutamenti che pure avvengono di continuo negli eventi umani e che crede in un incessante ripetersi di sempre uguali problemi. Secondo l’organo della CGdL, dunque, l’Italia si trovava, allora, “in questa curiosissima condizione: non riesce a 361

mandare all’estero masse di emigranti semi-analfabeti, e non sa che farsi del pletorico, e sempre crescente, numero di avvocati, ingegneri, professori di lettere. Ma le Università seguitano a vomitare laureati: e la coltura è salva.” E qui il periodico sindacale svolgeva un’analisi più approfondita di questa pletorica situazione delle nostre Università: “Nel 1914, in un periodo di crescente prosperità economica, si pensava che il bisogno di lavoro intellettuale aumentasse vieppiù. Poi, la guerra arrestò il benefico progredire civile ed economico, e il dopoguerra vide pullulare un’infinità di sedicenti lavoratori intellettuali: vide crescere il numero di iscritti e il numero di laureati. - Adesso la condizione degli intellettuali (e sono sempre compresi in questa parola anche quei cosidetti lavoratori della mente che fanno un lavoro quasi meccanico, di tavolino) è veramente preoccupante. L’aumento dell’offerta e la diminuzione della domanda conducono a salarii bassissimi: non esiste, o quasi, ordinamento sindacale della categoria. - E le università continuano a riempirsi di studenti. E ai concorsi governativi per posti da scrivano si presentano tremila domande per mille impieghi vacanti; si presentano dei laureati per coprire uffici in cui cristallizzeranno nella copiatura di documenti. - Così si creano gli ‘spostati.’ E se ne creeranno continuamente, ove non si provveda a rilevare la capacità di assorbimento delle varie carriere. - Gli studenti delle facoltà di diritto, scienze, lettere e medicina erano, in Italia, nel 1913-14, poco più di 24 mila. Oggi sono oltre 40 mila. Il doppio” (cfr. R. Tremelloni, Interrogare le cifre. Il mercato del lavoro intellettuale, nel numero cit. di “Battaglie sindacali”). Abbiamo detto che nihil sub sole novi, perché questo preoccupato “grido di allarme” lo abbiamo sentito anche in tempi molto vicini al nostro, ed è, sempre e in ogni caso, un grido che risuona allorché una politica economica di 362

stampo liberistico provoca, nelle fasi di crisi, una contrazione dell’attività produttiva ed un più rallentato sviluppo sociale del paese. Allora l’eccessivo numero dei laureati spaventa e atterrisce perché non si scorge come e dove possano essere assorbiti; ma ciò è dovuto a governi inetti o incapaci e, pertanto, sempre sottomessi alla più o meno lecita volontà di potenti gruppi di interessi; a governi incapaci di perseguire la ricchezza dove si trova per colpirla con la manovra fiscale, che sola darebbe loro la possibilità di effettuare investimenti tali da favorire veramente il progresso del paese, anche per non ridursi, qualora venga a mancare questa energia, a fare investimenti su base clientelare, addirittura mafiosa, oppure ispirati da precisi intenti elettoralistici. Ma, ritornando al ‘23-‘24, la presenza del regime fascista, che aveva proclamato di voler far riprendere allo Stato la funzione di assoluta neutralità nella vita economica interna quale era auspicata dalla dottrina liberal-liberisti-ca dell’Ottocento (di quale neutralità, in effetti, si trattasse si potè vedere dalla repressione costantemente esercitata verso le agitazioni delle classi lavoratrici) aveva portato ad una maggiore disoccupazione e, di conseguenza, ad una chiusura verso i giovani che, usciti dalla scuola, cercavano un lavoro. Infatti, come aveva scritto ancora il Tremelloni, mettendo a confronto i due periodi, nel ‘14, in un periodo di prosperità economica (anche su questo, però, ci sarebbero da fare parecchie osservazioni), “si pensava che il bisogno di lavoro intellettuale” dovesse “aumentare vieppiù.” Ma alle vicende successive caratterizzate da una forte e violenta deflazione tra la metà del ‘20 e i primi mesi del ‘22, era subentrata una inflazione che aveva ridotto il consumo interno e pertanto anche la produzione. Ebbene proprio all’inizio di quella nuova fase, invece di avere un governo che stimolasse il sempre più debole consumo, si era avuto, per la miopia 363

delle classi dirigenti politiche ed economiche, il fascismo, che aveva contribuito ad aggravare quel fenomeno. Così, era stato possibile capire quanto fosse utopistica, in regime capitalistico, la prospettiva di un incessante aumento di richiesta di lavoro intellettuale. E il Tremelloni ricordava appunto il caso, sintomo allora di uno squilibrio profondo, di tremila domande per mille posti di scrivano. 1

L’Albania, e soprattutto l’Ungheria, che era minacciata da una intesa, appoggiata dalla Francia, tra la Cecoslovacchia, l’Austria e la Jugoslavia, il che vorrebbe dire — scriveva M. Griffini sempre sulla “Rivista di politica economica” del marzo ‘25 — la marcia al mare per la Boemia, con l’isolamento più assoluto per l’Italia e l’Ungheria, la cui nascente amicizia turbava assai gli interessi altrui, tanto che c’era chi — come il Nitti — vaticinava una unione austro-italoungherese.

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Capitolo dodicesimo Contrasti tra vecchi e nuovi fascisti nel Meridione Ora, se si pensa che il numero di chi, pur essendo magari laureato, si adattava a fare il concorso per scrivano o per qualsiasi altro impiego pubblico, era, percentualmente, molto più alto al sud che al nord, si può facilmente comprendere come l’inflazione, con il notevole rialzo dei prezzi, dovesse colpire soprattutto questo ceto di “paglietti,” di impiegati piccolo borghesi. Fu, molto probabilmente, per tale motivo che, nel Mezzogiorno, il dissidentismo fu opera di questo ceto, come, ad esempio, avvenne in Sicilia: a Palermo la dissidenza fu alimentata dal contrasto fra il Cucco e Giuseppe Maggiore Di Chiara, che era detto dal primo “intelligente, astuto, rotto politicamente da tanti anni,” mentre il Maggiore denunciava sprezzantemente il suo avversario, definito “servo dei servi di tutti i Cani dei tartari della provincia.” Il Maggiore controllava il settimanale umoristico “Il Babbio,” ma fu espulso dal Partito fascista nel luglio del ‘23, e subito dichiarò di volersi servire della libertà concessagli dall’espulsione per continuare la vivace lotta contro il fascismo palermitano, accusato di essersi ridotto ad una “associazione di pavidi, disposti a tutte le complicità e a tutte le omertà.” Egli, inoltre, sosteneva che i “nuovi” capi fascisti ignoravano “le meravigliose classi siciliane, piccole e medie […], e i contadini,” perché erano “d’istinto agrari e pretini, coscaioli e mafiosi, polizieschi e prepotenti”; 365

pertanto, auspicava che morisse il fascismo “apocrifo” per consentire la rinascita, ad opera dei combattenti e dei mutilati, del fascismo vero. In provincia di Caltanissetta fu attivo sostenitore della dissidenza il dott. Francesco Savà, ex combattente e legionario fiumano, che, a partire dall’ottobre del ’23, dalle colonne del settimanale da lui fondato, “La Rinascita,” condusse - scrive il Micciché - una violenta campagna denigratoria contro il segretario provinciale del PNF, mentre nel trapanese il dissidentismo rivelava l’acuta insofferenza nei confronti di molti fascisti “della sesta ora” e della adesione, che si faceva sempre più fitta, di notabili liberali, radicali, ecc., ma che erano elettoralmente forti. Si criticava soprattutto, duramente, l’apertura operata dai fasci in favore di “tutte le cariatidi tarlate della politicaglia locale, tutti gli Arlecchini, in perpetua corsa dietro l’albero della cuccagna, tutti i delusi, tutti i vili rifiuti da parte di tutti i partiti,” uomini che avevano aderito “con tranquilla indifferenza” al fascismo, “come indifferentemente [si sarebbero iscritti] nel partito clericale o comunista,” tentando, ogni volta e soltanto, di conquistare posizioni di predominio. Anche qui la polemica dei dissidenti fu molto vivace e continua, dall’agosto del ‘23, quando essi fecero uscire un settimanale, “La Vanga,” contro il segretario provinciale del PNF, che ribatteva tramite l’organo ufficiale dei fasci, “La Vedetta fascista.” Anche in provincia di Messina, i dissidenti (che si esprimevano per mezzo del periodico “La Libera parola” e che erano, in gran parte, fascisti della prima ora e combattenti indipendenti, “alcuni dei quali già appartenenti al fascio futurista del capoluogo”), fra il ‘23 e il ‘24, insorsero contro la recente iscrizione al PNF dell’on. Crisafulli Mondio; il loro ideale era “un fascismo mussoliniano,” che fosse realmente intransigente nei riguardi degli uomini che avevano aderito da poco al 366

partito, e specialmente del Crisafulli, la cui iscrizione era stata sostenuta dal segretario provinciale unicamente per scopi elettoralistici, che dovevano essere stati approvati a Roma, e, di conseguenza, dallo stesso Mussolini, al quale questi dissidenti tentavano di riallacciarsi in una difesa strenua di un “puro” fascismo delle origini. Sotto tale manto cercavano di nascondere il loro malumore per le posizioni di potere che i crisafulliani erano riusciti, in breve tempo, a conquistare, forti di una loro preesistente rete di interessi clientelari, mettendo in rilievo la sconfitta dei dissidenti nella lotta per la supremazia sul piano provinciale e comunale. Concludendo, si può forse accettare, con qualche precisazione, il giudizio che il Micciché dà su questi gruppi dissidenti, i quali, “sorti in ambienti diversi, e variamente alimentati nel corso della polemica, agitavano la vita del fascismo siciliano, impegnando nella polemica i nuovi dirigenti provinciali e comunali. Essi, tuttavia, solo raramente elevarono il tono della loro polemica, fino a darle precisi contenuti politico-ideologici. Sempre emergenti, negli scritti via via pubblicati sulla “Vanga”, “Il Babbio,” ecc., erano il personalismo e il municipalismo. Di conseguenza, molto scarsa risultò, nel complesso, l’incidenza dei fasci autonomi e dei gruppi dissidenti sulla struttura organizzativa e sull’indirizzo politico generale del partito fascista nell’isola. Il fascismo ufficiale presto avrebbe avuto buon gioco su gran parte di essi.” Un giudizio sostanzialmente esatto, abbiamo detto, ma la precisazione che avremmo desiderato avrebbe dovuto consistere nel porre in chiaro che tale lotta avvenne in tutto il Mezzogiorno e che essa fu la manifestazione più evidente e palese del malessere da cui furono colti i “paglietti” meridionali, la media e la piccola borghesia, nell’assistere ad una lenta, ma inarrestabile, erosione delle posizioni che 367

credevano di aver conquistato al seguito dei nuovi padroni dell’Italia, e nella, inizialmente alquanto confusa ma via via sempre più chiara, percezione che i beneficiari della “rivoluzione” fascista finivano con l’essere, ancora una volta come sempre per l’addietro, i vecchi notabili, le “cariatidi tarlate” e la “politicaglia locale,” pronti a travestirsi da Arlecchini pur di rimanere a galla. Certo, non che essi, i dissidenti, avessero in mente una linea di condotta o un programma preciso con cui affrontare il difficile periodo, sia sul piano politico sia su quello economico, in cui il paese era immerso; tanto più che, come si è visto, continuavano ad appellarsi al mussolinismo, ritenuto esente da ogni macchia, contro il fascismo degenerato quale era praticato dalle nuove autorità locali. In questa lotta, personalistica e municipalistica, tendevano ad esaurire tutta la loro azione, che veniva, in tal modo, a mancare di una giustificazione più ampia, che veramente potesse opporla a quella dei loro avversari. Eppure, una simile lotta generò, al duce, alcune difficoltà, poiché egli non poteva abbandonare a se stessi i gruppi di dissidenti, che lo avevano aiutato, nei primi momenti della sua azione, a penetrare, almeno in parte, in una realtà così tenacemente chiusa; ma neppure e forse tanto meno - era in grado di rinunciare all’apporto dei voti clientelari che gli erano garantiti dal passaggio nelle file del suo partito delle vecchie e antiche cariatidi. Insomma, ancora una volta, Mussolini era costretto ad una opera di mediazione fra le due opposte tendenze, che nel sud apparivano alquanto degradate, come vedremo, rispetto all’Italia del nord: mediazione che tentò anche nella 42a riunione del gran consiglio del fascismo, del 22 luglio ‘24, quando disse che l’estremismo fascista non esisteva “se non come stato d’animo. Si tratta di uno stato vicino alla gelosia. C’è sempre qualcuno che teme, che sospetta, che trepida, che sta continuamente sul chi vive. In 368

fondo, anche questo stato d’animo insonne è necessario come elemento compensativo delle altre tendenze al quieto vivere e al compromesso.” In termini alquanto sbrigativi e semplicistici era, tuttavia, quasi teorizzato, in queste parole, il suo continuo sforzo di usare l’una tendenza come “elemento compensativo” dell’altra avversa. Infatti, pure in questo discorso, affermò che il governo avrebbe dovuto agire sul partito “inflessibilmente per migliorarlo, e renderlo idoneo alle nuove necessità. Non solo bisogna liberarci dai fannulloni, dai profittatori, dai violenti senza scopo; ma bisogna che tutto il Partito si raccolga in una disciplina più severa, meno formale, più alacre, più attiva, meno prodiga di quelle esteriorità, che, ripetendosi, stancano e diventano convenzionali. Anche la necessaria intransigenza deve essere intelligente. La fascistizzazione dell’Italia deve avvenire, ma non può essere forzata. Sarebbe illusoria. Vorrei che si creasse, pur conservando la corte di disciplina per i dissidi personali, anche un organo superiore, insospettabile, di controllo sull’attività politica e privata dei dirigenti del Partito. Non mi dispiacerebbe che il capo di quest’organo fosse un estraneo al Partito.” Con il che veniva incontro alle esigenze dei cosidetti estremisti, che proclamavano di battersi, come si è visto, per il ritorno ad un fascismo puro e senza rapporti con gli uomini del tramontato regime democratico-liberale, ed ancor più doveva accontentarli allorché gridava, suscitando i calorosi applausi dei suoi gerarchi, che “Indietro non si torna!” e che quel periodo era concluso. Ma, nel tempo stesso, denunciava la “manovra tentata e abortita pietosamente” di mettere il nazionalismo contro il fascismo, la cui fusione, abbiamo visto, aveva destato non poche perplessità e contrasti nelle file delle camicie nere: “Dalla fusione in poi, gli ex-nazionalisti sono stati dei fascisti puramente e semplicemente. I posti da essi occupati 369

sono inferiori a quelli cui potevano aspirare data la loro preparazione dottrinale. Il fascismo, preso sempre dalle necessità dell’azione, non ha mai avuto il tempo di piegarsi su se stesso, per meditare sui problemi essenziali. In un periodo di alta tensione politica, il riserbo su questo argomento si impone, specie nel mio caso. Si tratta di stabilire degli orientamenti necessariamente generali e di approntare gli strumenti per tutte le congiunture, anche per quelle che appaiono impossibili.” Era, sotto certi aspetti, preziosa questa confessione di una subordinazione del fascismo e dei fascisti nei confronti del nazionalismo e dei nazionalisti sul piano culturale e dottrinale; una subordinazione, peraltro, che era avvertita da lui, che aveva vissuto e che viveva più acutamente i problemi del nord che non quelli del sud, dove i nazionalisti si erano, per lo più, perfettamente inseriti nel tessuto clientelare sfruttandolo ai loro fini. Nel Settentrione, invece, i nazionalisti erano nati sulla spinta di interessi economici ben definiti - gli interessi degli industriali tessili, abbiamo detto , da cui avevano tratto i motivi essenziali per un loro programma politico ed economico. Pertanto, il duce poteva si esclamare che la linfa del nazionalismo gli era stata indispensabile per presentarsi sulla scena nazionale e internazionale con una certa dignità dottrinale, ma non poteva convincere i suoi seguaci che, soprattutto nel Mezzogiorno, si vedevano incalzati dalla muta dei nazionalisti, ansiosi di non lasciarsi sfuggire o di riconquistare i posti che avevano occupato con un lavoro assiduo e che era perdurato tenace nelle più svariate situazioni politiche: con il Giolitti, nel dopoguerra e, infine, pure dopo la vittoria del fascismo. Nel luglio del ‘24 ancora più profondamente doveva essere sentita dal duce la necessità di tener unite tutte le tendenze del partito, soprattutto dopo il violento 370

scossone che aveva dato al fascismo Tassassimo di Matteotti (ecco, da ciò, la sua confessione, sempre nella riunione del gran consiglio ricordata, rivolta esplicitamente alle popolazioni del Meridione: “Ho detto al neo-ministro dei Lavori pubblici che egli deve trascurare l’Italia da Roma in su e che deve avere occhi, orecchi e fondi soltanto per l’Italia meridionale e le isole, dove talune condizioni di vita sociale sono forse in arretrato di mezzo secolo”). Del resto, la stessa campagna elettorale era forse servita ad attenuare un po’ i dissidi che gli estremisti avevano scavato fra sé e le cariatidi, gli Arlecchini, mentre l’abile - per quanto piuttosto rozza - opera di mediazione di Mussolini aveva contribuito a far convivere la media e piccola borghesia con gli “assaltatori sistematici delle carriere governative, gli scampati di naufragi senza onore e senza gloria, avanzi di piraterie esauste e disperse, gente maestra di scaltrezza e di menzogna.” Così notava, con un velo di amarezza, il “padre nobile” del fascismo in Basilicata, Nicola Sansanelli, sotto la copertura della benedizione del clero, per cui, a Potenza, monsignor Razzoli manifestava apertamente la sua ammirazione per il governo fascista, nel quale intravedeva “un alto programma civile, religioso, economico” (chissà perché osava addentrarsi sul terreno, per lui, minato dell’economia!), in quanto aveva “ricollocato il crocifisso nelle scuole” ed era “in via di provvedere alle necessità economiche del clero” (cfr. N. Calice sulle lotte politiche e sociali in Basilicata). Perciò, mons. Razzoli ammirava Mussolini perché era in procinto’, stava, era sulla via “di provvedere alle necessità economiche del clero): si vede qui quanto il punto di vista provinciale, settoriale e corporativo togliesse al buon sacerdote la possibilità di guardare le cose un po’ più dall’alto, in una prospettiva nazionale. D’altra parte, erano queste le arti che il duce sapeva usare, e, una volta che il suo regime si fosse stabilizzato, si 371

poteva essere sicuri che anche l’estremismo fascista sarebbe stato riassorbito. Nel Mezzogiorno poteva esserci, nel nuovo ordine delle camicie nere, un po’ di piccola o grande gloria per tutti: per il clero, conquistato dalle promesse di beni tangibili e di concrete concessioni; per la piccola e media borghesia, attratta dal compito che le veniva assegnato, che era quello di gonfiarsi il petto e di proclamare ad alta voce che essa assolveva ad una missione, che aveva una funzione alta e insostituibile nello Stato; alla grande borghesia e ai notabili locali, lusingati dal fatto che il potere sembrava essere stato restituito loro. Eppure, a guardare più a fondo, ci si poteva accorgere che si trattava di un misero gioco degli specchi, e che nessuno aveva più una sua realtà da custodire o da difendere e che tutto non era altro che parvenza, flatus vocis: il clero occupava una sua posizione nella nazione fascistizzata purché si riducesse a incensare chi aveva fatto la rivoluzione e ora intendeva - come il duce disse all’Augusteo il 22 giugno del ‘25, Intransigenza assoluta -creare gli italiani del fascismo con un modo di vita inconfondibile (“E quale è questo modo di vita?” si chiedeva “Il coraggio, prima di tutto; l’intrepidezza, l’amore del rischio, la ripugnanza per il panciafichismo e per il pacifondaismo; l’essere sempre pronti ad osare nella vita individuale come nella vita collettiva ed aborrire ciò che è sedentario”: una definizione del nuovo “modo di vivere” del tutto degno di un animale scatenato alla ricerca del cibo nella foresta e pronto a disputare agli altri animali la preda catturata); la piccola e media borghesia non si accorgeva che, calpestandola ed umiliandola, il regime giungeva a negarle, in definitiva, qualsiasi possibilità di autonoma iniziativa; la grande borghesia e i notabili non si rendevano conto di conservare un certo prestigio senza potere effettivo, perché quest’ultimo era passato, in maniera molto più pesante che per il passato, al capitalismo del nord, 372

che filtrava le sue esigenze attraverso la classe politica che si era impadronita di Roma. In questo quadro di marché des dupes, quelli che più soffrivano erano gli strati inferiori, i contadini, i piccoli proprietari, l’evanescente ceto operaio, gli ultimi della scala su cui si riversava intero il peso di quelli che stavano al di sopra, con aggiunta l’oppressione di uno Stato che aveva abbandonato anche l’ultima, il più spesso puramente formale, difesa delle classi meno abbienti, avendo fatto calare su di esse l’opprimente cappa di piombo di una tutela che non lasciava alcuno scampo.

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Capitolo tredicesimo La classe operaia del nord e il ceto medio impiegatizio contro il regime Le categorie che più soffrirono di tale situazione furono, anche nell’Italia del nord, in particolare quelle operaie, i contadini salariati e braccianti ed i piccoli coltivatori. Essi, tuttavia, in quella fase che poteva essere definita di transizione (sebbene, giustamente, a nostro parere, lo stesso Mussolini, in un breve scritto su “Gerarchia” del giugno ‘25 - Il primo tempo della rivoluzione - abbia recisamente affermato che “il volto della nostra rivoluzione già si delineava nel novembre del 1922, e anche il suo carattere antiparlamentare, antidemocratico, antiliberale,” e che solo “taluni politicanti, affetti da miopia mentale” potevano esercitarsi a “definire come semplice crisi ministeriale, sia pure extraparlamentare,” quella del 28 ottobre, mentre essa aveva assunto subito “il carattere di rivoluzione” totalitaria), riuscivano, sebbene in parte e con fatica, a difendersi ed a difendere da una troppo grave degradazione il loro tenore di vita con l’arma dello sciopero, che non era stato ancora del tutto soppresso. Ancora, sopravvivevano i sindacati democratici, che furono soppressi con il patto di palazzo Vidoni, del 2 ottobre 1925, con cui la Confederazione generale dell’industria riconosceva “nella Confederazione delle corporazioni fasciste e nelle organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze 374

lavoratrici”; il che significava, come chiari con una “relazione lucida e dettagliata” il ministro Rocco, nella 68“ riunione del gran consiglio, dell‘8 ottobre, che tutti i sindacati, “sia di datori di lavoro sia di lavoratori, debbono essere legalmente riconosciuti e soggetti al controllo dello Stato,” fornendo il pretesto al duce di scrivere che la legislazione sociale fascista aveva fatto sì che “le umili classi laboriose si sentano, attraverso le sagge leggi tutelatrici del lavoro e della loro vita, sempre più intimamente legate ai destini della patria comune.” Eppure proprio nei sindacati democratici le masse lavoratrici - come hanno testimoniato B. Buozzi e F. S. Nitti - dimostravano di riporre ogni loro fiducia. Indubbiamente, gli scioperi erano diminuiti nel 1923, passando, secondo i dati raccolti dal Bureau International du Travail (B.I.T.) e ripresi da R. Tremelloni sulla “Critica sociale,” da 22.234.476 nel ‘19 a 31.569.218 nel ‘20, a 8.180.263 nel ‘21 (l’anno della crisi), a 6.716.914 nel ‘22 ed a 296.469 nel ‘23 (cfr. anche “L’Economia d’Italia,” 15 dicembre 1924): si era avuta, dunque, una contrazione a picco, segno che la nuova “Trinità,” come era detta da “La Plebe. Organo della Federazione socialista unitaria pavese,” proclamata dal duce, e con la quale si chiedeva che i lavoratori si inchinassero di fronte al “trinomio: ordine, gerarchia, disciplina,” aveva avuto un almeno parziale successo. Tuttavia, i partiti che si richiamavano alle classi popolari non si rassegnavano e cercavano di vivere e di continuare a lottare pur nelle avverse condizioni e pur manifestando, come era naturale, profonde differenze nel giudicare e nell’aggredire una realtà che si era fatta così aspra e così dura, spesso senza che qualche partito lasciasse intravedere di aver condotto una seria analisi del perché il fascismo aveva potuto assidersi padrone a Roma e da li impartire ordini a tutta l’Italia. Fra questi era il Partito socialista unitario (gli ex-riformisti, che 375

erano stati espulsi dal Partito socialista dai massimalisti nel congresso di Roma dell’ottobre ‘22, nell’ormai vano ed estremo tentativo di scongiurare la vittoria delle camicie nere favorendo la collaborazione dei compagni riformisti con la classe dirigente liberale), di cui “La Plebe,” riprendendo le pubblicazioni il 27 aprile ‘23, riportava, in prima pagina, un manifesto della Direzione, che cercava di rendersi conto e di rendere ragione ai propri iscritti del perché il regime fascista avesse soppresso la festa proletaria e popolare del 1° maggio: “Nel raccoglimento pensoso chiedetevi, lavoratori, perché vi si contende ancora di avere un giorno per voi? Che cosa è questa potenza che, dopo tante promesse in tempo di pace e in tempo di guerra, vi condanna alla riduzione dei salari, mentre crescono i profitti, vi strappa ad una ad una tutte le guarentigie politiche e parlamentari, vi impone forme non vostre di sindacati, ed entrando violentemente perfino nei vostri concordati, vi proibisce, come un delitto, il Primo Maggio?” La domanda restava senza risposta e, subito dopo, il manifesto cadeva nel solito fatalismo di origine positivistica e ottocentesca di cui questa corrente del socialismo non era stata capace di liberarsi nemmeno di fronte alla violenza squadristica che aveva di colpo cancellato le conquiste realizzate in tanti anni di lavoro fiducioso ed alacre: “La Direzione del Partito socialista unitario, mandandovi il più fervido saluto di Primo Maggio, vi dice di avere fede. Il declinare delle fortune del Partito politico del Socialismo in Italia è fatto contingente del nostro Paese e nulla tocca alle ragioni essenziali ed internazionali del socialismo, portato fatale e necessario dello sviluppo del capitalismo stesso e delle sue divisioni di classi e di Stati. L’imperialismo, che non riesce a dare la pace al mondo, nemmeno con le conquiste e lascia il mondo trascinarsi nei conflitti della Ruhr e dell’Oriente per la insaziabile avidità 376

dei monopoli sulle materie prime, dà prova dell’insuccesso finale di quella politica che è soltanto forza e sprezza le ragioni ed il diritto. Perciò, l’Internazionale dei lavoratori vive e vivrà preparando la pace e la giustizia nei rapporti esterni come nei rapporti interni degli Stati, garantendo rapida la ripresa ascensionale verso le supreme idealità umane.” Infine, esortava a tornare ad “altri Primi Maggi - i primi -, in eguale atmosfera di compressione; chiusi in circoli, vigilati come i cristiani antichi nelle catacombe. Torniamo collo stesso cuore, col sentimento rinnovato e puro ai Primi Maggi delle origini. Nel sacrificio getteremo molte scorie che fatalmente erano venute a noi coll’ingrossare troppo rapido del movimento, portando germi di debolezza e di dissolvimento.” Era, senz’altro, un seguito di belle e nobili frasi, questo manifesto, che poteva far ricordare lo stile letterariamente colto dello stesso Turati; ed anche quell’addossare la responsabilità della perdita della libertà alle scorie ed al troppo rapido ingrossamento del movimento operaio, che avevano portato con loro “germi di debolezza e di dissolvimento” - quasi per vedere scaturire il crollo da tali cause e non dalla violenza, dall’esercizio spregiudicato della forza, dall’incapacità ad affrontare, da parte dei dirigenti politici e sindacali, in maniera adeguata la crisi economica che, fra la metà del ‘20 e i primi mesi del ‘22, abbatté lo slancio del proletariato contribuendo a consegnare l’Italia alla volgare e rozza prepotenza delle camicie nere - poteva rivestire una certa grandezza d’animo, ma che rimaneva fine a se stessa, senza una conclusione che conducesse all’azione; così come tutto il manifesto rivelava quanto quel ceto dirigente fosse lontano ora dalle concrete e quotidiane sofferenze delle masse, e, come era stato nel passato, dal loro travaglio. Predicava la pazienza e la speranza in un lontano futuro, che sarebbe inevitabilmente 377

spuntato quando, elevati la coscienza e i cuori, i socialisti avessero assolto l’impegno “di migliorarci, di educarci, di renderci più forti, più buoni, più degni di celebrare degnamente i Primi Maggi futuri, della liberazione e della giustizia.” Ed intanto i contadini, come scriveva diverse volte “La Plebe,” erano costretti ad accettare contratti-capestro, che li riportavano “a un’epoca molto più arretrata di quella stessa in cui essi vivevano prima che l’organizzazione nostra sorgesse”; le delizie del nuovo regime, sempre secondo “La Plebe,” erano consistite - denunciava il periodico nel luglio del ‘23 - nel far sparire tutto ciò che di buono “v’era nei vecchi concordati. Il resto è stato peggiorato e vi si sono aggiunte clausole che ribattono ai polsi del proletariato l’antica catena della schiavitù. Chi legge il concordato fascista deve arrossire di onta e di vergogna e chiedersi se è possibile che tutto questo avvenga in Italia e in Lomellina.” E intanto tornava “il carovivere. I prezzi aumentano, i salari e gli stipendi diminuiscono o vogliono diminuire,” tanto che, nel marzo del ’24, ancora “La Plebe,” tornava sconsolata sull’argomento del caroviveri: “come dovremmo fare a non tornarvi? Non calmieri, non spacci comunali, non importazioni di grosse partite di roba; i prezzi dei generi sono sempre alti, anzi aumentano sempre; e gli affitti sono diventati impossibili; e le paghe invece diminuiscono, e governo, provincia, comune, ecc., ecc., tutti tolgono, o a poco a poco o in una sola volta, il carovivere, come se le cose andassero bene! Come si deve vivere?” Forse sarà bene, giunti a questo punto, dare qualche notizia più precisa su questa situazione: in effetti, gli indici del costo della vita salgono, dal ‘23 al ‘25, più rapidamente di quelli dei salari: i primi, infatti, passano da 495 nel primo semestre del ‘23 a 493 nel secondo, poi con un primo balzo a 517 nel primo semestre del ‘24 ed a 536 nel secondo, e con 378

un secondo notevole balzo rispettivamente a 594 e 623 finendo per toccare, al 31 dicembre, la punta (non ancora massima) di 649 (prendendo come base il 1913-14 = 100). I salari, invece, seguono ma con maggiore fatica, poiché salgono da 480 nel primo semestre del ‘23 a 476 nel secondo, a 475 ed a 487 nel ‘24, a 513 ed a 555 nel ‘25 per terminare, nel dicembre di quest’anno, a 580. In un articolo sulla “Riforma sociale,” Ernesto Rossi, prendendo lo spunto da una pubblicazione dell’Ufficio del lavoro e della statistica del Comune di Milano e integrandola con altri dati forniti dal ministero dell’economia nazionale e dalla Cassa nazionale infortuni, faceva una prima osservazione esaminando le variazioni percentuali dei prezzi del pane e della carne (base il 1921 = 100): il pane da 101,79 nel ‘22 era passato a 102,40 nel ‘23, a 104,19 nel ‘24, e, poi, con la solita repentina impennata, a 149,10 nel ‘25, mentre la carne aveva un andamento molto più contenuto, perché aumentava soltanto di pochi punti, dà 86,70 nel ‘22 a 84,29 nel ‘23, a 93,41 nel ‘24 e a 100,72 nel ‘25. “Se si prendono in considerazione,” notava il Rossi, “i prezzi di questi due generi, si vede subito che, rimanendo identiche le altre condizioni, gli operai con salari bassi devono aver risentito più degli altri l’aumento del carovita, perché la spesa per il pane rispetto a quella per la carne costituiva una percentuale superiore del loro bilancio ed il prezzo del pane è aumentato molto di più di quanto non sia aumentato il prezzo della carne.” Ma, forse, altre considerazioni si possono fare su questi dati partendo da ciò che dice sul commercio estero italiano del ‘23 e del ‘24 G. Curato, sempre su “La Riforma sociale”: nel ‘23 il passivo della nostra bilancia commerciale per quanto riguardava i cereali era stato di 3.079 milioni, mentre quello riguardante la carne di 210 milioni; nel ‘24 il deficit per i cereali era stato di 1.875 milioni e per la carne di 181. Questo diverso passivo 379

può forse giustificare il diverso andamento dei prezzi dei due generi, senza, peraltro, voler dimenticare le osservazioni che faceva M. Camis, professore di fisiologia all’Università di Parma, il quale, dopo un minuto raffronto del regime alimentare del popolo italiano con quello della popolazione di altri paesi, scriveva: “La razione alimentare del popolo italiano, popolo che conduce nella sua grande maggioranza la strenua vita del lavoratore agricolo od industriale, ha un contenuto energetico di 910.000 calorie annue, vale a dire è del 9°/o inferiore alla razione minima fisiologicamente necessaria per un uomo che compia un lavoro mediocre. La razione alimentare media del popolo italiano è deficientissima in quella parte che è costituita di sostanze azotate e specialmente sostanze azotate di origine animale. Le proteine animali contenute nella sua dieta rappresentano al massimo la metà della quantità minima fisiologicamente necessaria.” Un’ultima osservazione viene spontanea considerando le correnti del nostro commercio estero: all’esportazione la cifra maggiore spettava alla Francia, subito dopo venivano gli Stati Uniti, poi l’Inghilterra e la Svizzera, più indietro rimaneva la Germania e trascurabili gli altri paesi; all’importazione, invece, l’Italia risultava largamente dipendente dagli Stati Uniti, che coprivano più di un quarto della nostra importazione totale, mentre a grande distanza venivano l’Inghilterra (meno della metà degli USA) e, ancora più lontani, Francia e Germania, con le altre cifre poco notevoli in rapporto al totale. Era chiaro che la dipendenza dagli Stati Uniti era da mettersi in relazione alle forti importazioni di generi alimentari e di cotone, che erano i gruppi maggiormente deficitari. D’altra parte, G. Mortara, ricercando, nelle sue annuali Prospettive economiche per il 1925, le cause di una simile tendenza al rialzo dei prezzi, sosteneva che avevano agito “varie circostanze,” come, ad esempio, l’assestamento delle 380

relazioni internazionali quale si poteva scorgere dall’adozione del piano Dawes “per un preliminare assetto del problema dei risarcimenti bellici; l’afflusso in Europa di capitali nord-americani; l’eliminazione dello squilibrio tra i prezzi dei prodotti agricoli e quelli dei prodotti industriali negli Stati Uniti; il risultato dell’elezione presidenziale”: tutti motivi che, a suo parere, avevano contribuito “a determinare, al di qua e al di là dell’Atlantico, condizioni propizie allo sviluppo dell’attività economica.” Ed aggiungeva che, “per quanto le anormali condizioni degli ultimi anni abbiano alterato il consueto andamento dei cicli economici, sembra di poter affermare, dall’osservazione dei principali paesi industriali, già iniziata una nuova fase d’espansione. È carattere normale di tal fase,” concludeva, “il rialzo dei prezzi, determinato dalla impossibilità di immediato adeguamento dell’offerta al rapido sviluppo della domanda di merci. Infatti, nella seconda metà del 1924 si vede salire il livello medio dei prezzi negli Stati Uniti, nella Gran Bretagna, in Germania, in Francia, cioè nei quattro maggiori paesi industriali.” In tale contesto, l’Italia gli sembrava particolarmente sensibile nel subire l’azione di queste cause generali, data la “relativa scarsezza del raccolto del frumento nel 1924 e data anche la grande importanza delle industrie tessili nell’economia nazionale,” che erano proprio i due settori in cui si era fatto maggiormente sentire, fra il ‘23 e il ‘25, un eccezionale rialzo dei prezzi. Eppure, è una legge - diciamo legge molto impropriamente, perché si tratta piuttosto di una affermazione che scaturisce da un esame delle ripercussioni sulla vita politica provocate dai mutamenti che, periodicamente, sono sempre avvenuti, in misura più o meno grave, nel ciclo economico, e dal passaggio da una fase di depressione ad una fase di espansione - quasi costante che, nei periodi in cui il ritmo della produzione si 381

accelera generando tensioni inflazionistiche, salgano al potere partiti o correnti o uomini politici disposti - come ci pare di aver già messo in rilievo - a concedere maggiore libertà alle classi lavoratrici, anzitutto - se si tratta di partiti o di uomini politici borghesi - per non compromettere la stabilità del loro potere. Questo, infatti, potrebbe essere sottoposto alle violente reazioni di chi vede sempre più peggiorare il suo tenore di vita e si sente ridotto quasi alla disperazione, e, poi, anche per lasciare che le normali contrattazioni sul costo del lavoro fra le classi antagonistiche attenuino il disagio per gli uni (i proletari) e ristabiliscano una certa maggior giustizia distributiva per gli altri (i capitalisti e la grande borghesia: ma sempre con l’intento, per quei parliti e quegli uomini, di non vedere intaccata la loro posizione). Al contrario, in fase di depressione e di contrazione della produzione diventano naturali regimi che mirino a comprimere le esigenze e le richieste del proletariato e della piccola e media borghesia, assumendo un atteggiamento neutrale od ostile (sotto la parvenza di un liberismo male inteso e peggio applicato) nei confronti del sempre più forte disagio delle categorie subalterne, alle quali si nega ogni possibilità di uscire dalla soggezione in cui sono sempre più ricacciate. Invece, alla fine del ‘22, quando già era iniziato il nuovo ciclo espansionistico ed inflazionistico, in Italia giungeva al potere il fascismo, che si proponeva, in nome della maestà suprema e intangibile della Nazione (di fronte alla quale tutti dovevano inchinarsi e abolire le distinzioni di classe e di ceto e sacrificare i propri interessi) di reprimere le naturali aspirazioni degli strati inferiori. Voleva permettere, in tal modo, una più facile e più rapida perché protetta e difesa dai pubblici poteri accumulazione di capitali (leciti o illeciti, poco importava, come vedremo fra breve), e far sì che l’iniziativa privata fosse posta in condizione “di poter estrinsecarsi libera da 382

ogni impaccio,” scrive il Grifone, il quale aggiunge: “Sgravi fiscali, denaro abbondante e a buon mercato, abolizione delle bardature di guerra (vincolismo degli affitti, monopoli di Stato nel commercio), diminuzione dei salari: sono queste le più immediate aspirazioni dei padroni: esse trovano pronta eco nei provvedimenti governativi.” Pertanto, il regime fascista sovvertiva in pieno la legge di cui abbiamo appena parlato, ma lo faceva perché era palesemente e, verrebbe fatto di dire, spudoratamente un regime di classe. Su questi aspetti della situazione italiana di allora ritorneremo fra poco, perché prima vorremmo citare altre considerazioni tratte dal Rossi dall’attento esame dei dati da lui raccolti, i quali gli consentono di dire, per quanto riguardava gli operai dell’industria, “che la riduzione generale dei prezzi avvenuta nel 1922 ha corrisposto a un miglioramento dei salari reali per gli operai delle industrie milanesi; nel 1923 Vindice del caro-vita è rimasto presso a poco lo stesso, ma i salari nominali sono stati ridotti e quelli reali hanno subito assai spesso un peggioramento maggiore del miglioramento che avevano avuto nell’anno precedente; negli anni successivi gli aumenti dell’indice del caro-vita hanno corrisposto ad un notevole peggioramento dei salari reali, peggioramento che si è attenuato nel primo semestre del 1926. Gli scarti maggiori si riscontrano per i salari degli apprendisti, dei garzoni e dei manovali.” E per i lavoratori dei campi afferma che dal ‘22 le condizioni dei contadini “obbligati” continuarono a peggiorare, un peggioramento che egli riscontrava “anche in altre provincie d’Italia. Nel fascicolo del luglio di quell’anno degli Indici del movimento economico italiano della Regia Università di Padova e di Roma era, infatti, riportato un grafico relativo ai salari dei braccianti nella provincia di Ferrara, da cui risultava un 383

‘andamento stazionario in forte contrasto con l’andamento dei prezzi e del costo della vita.’ Mentre in tale pubblicazione l’importanza di questo rilievo è attenuata dalla considerazione che ‘il contratto di lavoro a giornata in provincia di Ferrara era andato riducendosi in seguito alla maggiore diffusione ripresa dal contratto di lavoro a compartecipazione/ per il Milanese va osservato che le condizioni dei lavori agricoli in genere sono peggiorate più di quanto possa apparire dai patti, perché molti proprietari preferiscono non impegnarsi più per un anno intero con contadini ‘obbligati/ prendendo i lavoranti a settimana come ‘avventizi* Inoltre, i contadini ‘avventizi’ non hanno diritto né alla casa né al perticato, né agli altri benefici, che fanno risentire meno agli ‘obbligati’ l’aumento del caro-vita, e non riscuotono alcuna paga quando, per il maltempo o per altri motivi, non possono lavorare.” Così, Mussolini, inizialmente, subendo l’influenza di economisti che si proponevano sopra ogni cosa di reagire contro il socialismo, che, nei quattro anni dalla fine della guerra al ‘22, aveva predicato “un programma d’azione contro il verso della storia” (scriveva M. Grieco), aveva adottato una politica liberistica (con parecchie smagliature, però), lasciando una quasi assoluta libertà al ceto industriale, il quale aveva, con il consenso del governo, agito sui salari per superare all’interno e all’estero la concorrenza degli altri paesi più avanzati tecnologicamente. Gli era sembrata, questa, l’unica via per la riduzione dei costi di produzione, ed il regime l’aveva di buon gradò assecondato. La svalutazione della lira aveva, poi, senza dubbio, contribuito a rendere i nostri prodotti competitivi sui mercati internazionali, tanto che il settore merceologico che segnava il più forte attivo, malgrado il gravoso deficit delle importazioni di lana e cotone, era quello tessile, con circa 1.100 milioni di lire nel ‘23 e circa 1.200 nel ’24. Ma 384

ciò che maggiormente doveva aver impressionato gli ambienti economici dell’alta Italia era il fatto che, a differenza di quanto era avvenuto per l’addietro, era possibile diminuire i salari: “Ancora nei primi mesi del 1923,” scriveva il Mortara, “sembra siano prevalse le diminuzioni di salari sugli aumenti; negli ultimi mesi [in cui il costo della vita aveva ripreso a salire più rapidamente], in seguito all’intensificarsi delle agitazioni operaie (il numero degli scioperi è salito, nel 1924, a 335, dei quali 243 nel secondo semestre; il numero degli scioperanti a 162 mila), e della pressione politica delle masse lavoratrici, sono stati concessi sensibili aumenti. Ma nel complesso dell’anno 1924 il salario medio nominale degli operai delle industrie è stato press’a poco uguale, e il salario reale inferiore, a quello del 1923. Noi riteniamo che il livello medio dei salari reali nel 1924 sia stato inferiore anche a quello del 1913.” Questa affermazione dello studioso attento e serio sollevò una lunga serie di contestazioni e di critiche, che ricordano molto altre accese discussioni sul costo del lavoro a cui abbiamo assistito di recente nel nostro paese ed in cui si avvertiva chiaramente l’intenzione da parte dei contestatori di aver ragione ad ogni costo. Per tale motivo riteniamo opportuno riportare integralmente, anche se lungo, il passo che il Mortara ha dedicato a tale problema: “Dicendo che il salario reale del 1924 era più basso di quello del 1913 intendiamo dire che il salario giornaliero percepito dall’operaio nel 1924 gli consentiva di acquistare una quantità di merci e di servigi inferiore a quella consentita dal salario del 1913; ossia che il tenore di vita dell’operaio era peggiorato. Il giudizio non si riferisce a una singola città, o regione, né ad una singola industria, ma al complesso della popolazione operaia italiana. - Un nostro cortese contradditore (R. Targetti, Rivista di politica economica, anno XVI, fasc. I) asserisce che il salario reale del 1924 era 385

superiore del 32% a quello d’anteguerra, poiché valuta a 625 il numero indice finale del salario nominale, a 475 il numero indice del costo della vita. Questa valutazione si riferisce all’Italia intera. - Osserviamo semplicemente che quando in un paese le condizioni di abitazione delle classi operaie peggiorano gravemente (come sono peggiorate in Italia dal 1914 al 1924), il consumo medio individuale dei cercali si restringe, quello delle carni decade qualitativamente se pur non decresce quantitativamente, quello dei tessuti di cotone diminuisce d’un quarto, quello dei tessuti di lana di un settimo, il nuovo risparmio delle classi popolari si riduce di molto, è prudente riflettere alquanto prima di accusare di scarsa ponderatezza chi afferma essere diminuito il salario reale, cioè essere peggiorato il tenor di vita. Non è certo l’aumento di pochi consumi voluttuari (zucchero, caffè, tabacco, seta artificiale) sufficiente a compensare tante e tanto gravi restrizioni di consumi primari. - Altri (C. Gini, The present economic status of Italy, ecc.) accenna ad un aumento del 17% nel salario reale degli operai milanesi, dall’anteguerra al 1924. A Milano nel decennio 1913-23 il numero dei vani abitabili è aumentato di 30 mila, il numero degli abitanti di 90 mila; il consumo delle carni d’ogni sorta è disceso da 66 chilogrammi per abitante nel 1913 a 60 nel 1924, quello del vino da 152 litri per abitante, media 1904-13, a 138 nel 1924, quello della birra da 9 a 8 litri. Ecco documentato l’aumento dei salari reali […]. - Il presidente della Confederazione generale dell’Industria, in un suo discorso del 28 aprile 1925, affermava: ‘Si sono bensì prodotte statistiche con cui si vorrebbe dimostrare che i salari reali attuali sono minori dell’anteguerra: tutti sanno come sia difficile la esatta rilevazione dei guadagni operai; abbiamo avuto prove noi stessi di tali difficoltà; ma da ripetuti rilievi fatti abbiamo potuto concludere che anche in 386

lire-oro i salari attuali sono maggiori di quelli pagati nel 1913-1914. Del resto il crescere dei consumi e l’aumentato tenore di vita delle classi operaie ne sono la conferma più palese e irrefutabile.’ Quanto al migliorato tenor di vita [ribatteva il Mortara, alquanto sdegnato per la superficialità di questo contraddittore], ci riferiamo alle osservazioni precedenti. Quanto al salario ridotto in oro, osserviamo che se anche esso supera il livello d’anteguerra, com’è perfettamente vero, ciò non dimostra che sia aumentato il salario reale, essendo il potere d’acquisto dell’oro, rispetto alle merci ed ai servigi, fortemente diminuito. -Riconosciamo esatta anche l’affermazione che è aumentato il salario reale orario, per conseguenza della diminuzione delle ore giornaliere di lavoro. Ma il benessere delle classi operaie non dipende dal salario orario, bensì da quello giornaliero. - Non crediamo [concludeva, sicuro di aver fatto valere le sue ragioni nella breve schermaglia] con queste poche osservazioni di aver esaurito la trattazione di un problema che meriterebbe di essere approfondito sulla base di rilevazioni obbiettive quali solo lo Stato può compiere, poiché gli interessati sono i meno adatti a giudicare serenamente; teniamo soltanto ad affermare che il nostro giudizio non è dedotto dal semplice risultato aritmetico del confronto tra un numero indice dei salari e un numero indice del costo della vita, ma è desunto da una ampia e ponderata considerazione di tutti i segni del tenor di vita dei lavoratori manuali.” La serenità e l’indipendenza di queste osservazioni e di questo giudizio, che, nel ’26, indubbiamente, facevano onore al Mortara, ci ricorda un altro esempio di indipendenza dimostrata, proprio in quell’anno (quando cioè il fascismo stava procedendo alacremente alla emanazione delle “leggi costruttive,” che dovevano fondare “lo Stato sindacalecorporativo,” ponendo termine del tutto agli scioperi) dai 387

pretori di Thiene e di Caltanissetta, che, con due loro sentenze, sottoponevano il divieto penale dello sciopero alla condizione che fosse dato ai lavoratori il mezzo di far valere altrimenti quello che veniva da essi considerato un diritto elementare. Sentenze che erano, secondo la rivista del Bottai, “Il Diritto del lavoro,” una “astrazione filosofica bandita dalla concezione fascista nel campo dei rapporti tra individuo e Stato. Non esistono diritti di fronte alla concezione unitaria e superiore dello Stato oltre quelli che vengono riconosciuti. Onde moltissime di tutte quelle prerogative assegnate all’individuo come sue facoltà naturali innate, di libertà, e simili, di fronte al nuovo ordinamento sono prive di significato. Lo Stato può sacrificare ai suoi interessi quelli del singolo; di guisa che quando lo Stato vieta lo sciopero, non bisogna ricercare se in compenso sia riconosciuto altro diritto.” Non si poteva, forse, condensare ed esprimere con maggiore asprezza la nuova e totalitaria dottrina mussoliniana del cittadino, o meglio del singolo, che doveva completamente annullarsi nello Stato sovrano e nella Nazione. Di fronte ad essi i diritti naturali dell’individuo della tradizione illuministica settecentesca poi sfociata nella Rivoluzione francese, in quell‘89 che segnò una svolta decisiva nella storia dell’umanità -, diritti che riconoscevano all’individuo stesso come innato il diritto alla libertà (più tardi diventati anche diritti dei lavoratori) erano cancellati dalla novella concezione dello Stato come potenza ed eretto in Ente supremo che annullava inesorabilmente ogni anteriore diritto; ed era anche un attacco alla residua indipendenza della magistratura, una lezione di cui quest’ultima non avrebbe potuto non tenere conto per il futuro. Riprendiamo il discorso al punto in cui l’abbiamo interrotto per aprire questa lunga parentesi, che, peraltro, ci è sembrata doverosa anche per chiarire alcuni aspetti della 388

nostra vita odierna e per far comprendere gli argomenti di cui si servono, senza alcuna variazione lungo i decenni, le classi padronali, soprattutto quando si sentono appoggiate dal potere politico o rafforzate da crisi economiche che finiscono sempre con il prostrare il proletariato. Ed appunto fra il ‘23 e il ’25 la politica del duce, rivolta a scaricare esclusivamente sulle masse popolari il greve peso di una ristrutturazione del nostro sistema produttivo (che, tuttavia, fin dopo il ’30 rimase basato sui settori che si erano affermati da tempo dopo il primo inizio del decollo industriale, in particolare su quello tessile, mentre si affacciavano prepotentemente alla ribalta altri settori, come quello dell’energia elettrica), valse ad attirare al fascismo la simpatia degli industriali, i quali risposero con una leale comprensione verso il regime, anche nei momenti più difficili: infatti, dopo il delitto Matteotti, “L’Industria lombarda,” derogando alle sue abitudini di non occuparsi di politica, scrisse, volgendosi apertamente agli stranieri che sembravano voler approfittare di quel triste episodio per affermare che l’Italia stava ritornando ad essere “una quantità trascurabile,” che, al contrario, essa era “viva e sana, pronta a tenere e a difendere il suo posto nel mondo.” Dove si vede come il linguaggio di sfida piva la grandezza di un popolo solo se questo popolo possedeva la forza di picchiare i pugni sul tavolo, avesse contagiato anche gli imprenditori. Ma se l’industria rivelava un “considerevole progresso,” come afferma il Mortara (fra società nuove costituite e aumenti di capitale di società esistenti, nel 1925, erano stati chiesti al risparmio privato e allo Stato - che, tramite la Sezione autonoma del Consorzio sovvenzioni su valori industriali, tramutato, nel 1926, in Istituto di liquidazioni, non aveva certo lesinato il suo concorso che si era elevato a circa 7 miliardi, contribuendo, in tal modo, ad espandere notevolmente la circolazione bancaria e, quindi, 389

l’inflazione - 9 miliardi di lire, in confronto ai 6 del 1924, ai 4 del 1923 ed ai 3,4 nel 1922), non altrettanto avveniva della situazione economica del paese, che, invece, segnava un deciso peggioramento. Giuseppe Prato, uno dei vecchi economisti che consideravano i rentiers (i redditieri) il solo sostegno di uno Stato e che condannavano gli spéculateurs come rovina della società, riprendeva la sua polemica contro quest’ultima categoria dalle colonne della “Riforma sociale” del 1925, dicendo “non gratuita” l’accusa che “insigni economisti” rivolgevano “da tempo alla famigerata sezione autonoma del consorzio per anticipazioni su valori industriali” di favorire la “perdurante inflazione.” Egli adduceva, a giustificazione di queste affermazioni, il fatto che mentre la circolazione a debito dello Stato si riduceva, fra il 1924 e il ‘25, di circa un miliardo, e quella del commercio di circa due miliardi e mezzo, le operazioni di risconto su valori, invece, “a comodo di speculazioni ignote, se non equivoche, più che triplicavano [passando da 1.320 milioni di due anni prima a 4.582], compromettendo da sole il risanamento progressivo della situazione.” Secondo lui, “codeste famigerate ‘bande nere’” rappresentavano una minaccia ben più seria per ogni società, che avesse nel suo seno “una classe molto numerosa e potente di persone, che dalla rovina monetaria attendono e sperano lucri eccezionalissimi, e, cioè, in pratica, l’appropriazione facile e quasi integrale del risparmio della collettività senza difesa.” E proseguiva, in questo articolo I disfattisti della lira, nel suo veemente atto d’accusa contro i fautori “d’una bancarotta liquidatrice,” sostenendo che “l’andazzo a dilatare ipertroficamente le dimensioni di imprese e di impianti, trasformando in immobilizzazioni grandiose i continui appelli al mercato per aumenti ed annacquamenti di capitali (fatti di cui recenti sentenze han documentati altri moventi scorretti), delle società azionarie […]; l’illimitato 390

ricorso al credito, sotto ogni forma, per finanziare l’attesa dei sopravalutati profitti futuri; tutto il complesso di operazioni eccitanti ed in parte illusorie a cui è connesso il movimento di ascesa di parecchi notissimi titoli, fonte, negli ultimi mesi, di così facili lucri ai frequentatori delle nostre borse, convergono indubbiamente, anche se non sono l’esecuzione di un piano consapevole, a creare ed accentuare nei gruppi plutocratici, guidatori del movimento, un crescente interesse all’annullamento automatico della valuta in cui sono espressi i debiti contratti, le obbligazioni pattuite, le promesse prodigate munificamente.” Il Prato concludeva, non riuscendo più a moderare il suo sdegno e contrapponendo efficacemente i due ceti dei rentiers e degli spéculateurs: “Abbandonare all’audacia di masnade di pirati le sorti dei superstiti tenaci delle masse silenziose, riproduce lo spettacolo triste della spensieratezza delittuosa, che, in tanta parte della penisola, condannò allo sterminio non riparabile di una rapina sterilizzante avanzi ancor magnifici del fitto manto di selve, presidio e tutela secolare alla fecondità indefettibile del vecchio suolo della patria”. Si poteva dire che si fosse giunti a quello stadio che M. Grieco definiva del “sovversivismo del capitale,” definizione che, venendo da chi aveva difeso il liberalismo come quello che aveva saputo, e sapeva, offrire una soluzione alla crisi “di questa civiltà” (mentre nessun partito e corrente ideologica era stata in grado di fare altrettanto) non poteva destare molti sospetti. Ma, in verità, un simile chiamare sul banco degli accusati gli speculatori, dimenticando del tutto il particolare clima e il regime che consentiva che essi agissero indisturbati, ci sembra che fosse una esercitazione pressoché inutile, e potesse anzi servire a sviare l’attenzione da ciò che veramente era importante. Pertanto, è forse più opportuno tornare alle minuziose e concrete osservazioni del Mortara, che ci danno un quadro 391

abbastanza esatto della situazione di quegli anni: le cause del forte rialzo dei prezzi (l’inflazione, secondo i calcoli di alcuni economisti, al 30 giugno 1925, aveva decurtato gli averi dei risparmiatori italiani del 72°/o) andavano ricercate soprattutto nei seguenti motivi, che erano tutti da imputarsi ad una azione del governo che si era svolta in una determinata direzione piuttosto che in un’altra: “È aumentata la pressione tributaria, è aumentato il peso della protezione doganale, sono stati allentati i pochi vincoli, che ancora rimanevano, al movimento dei prezzi (l’effetto più importante in quest’ultimo campo è stato quello del rialzo delle pigioni).” G. Matteotti pubblicò, sulla rivista inglese “The Statist,” il 7 giugno 1924 - “tre giorni prima che venisse assassinato,” nota E. Rossi -, una lettera che, con il suo solito stile asciutto, essenziale, privo di qualsiasi retorica (esattamente l’opposto dell’amore per le grandi frasi risonanti, ma prive di un effettivo contenuto, tipiche del fascismo), “è un modello di chiarezza e di sintesi sulla politica finanziaria del primo periodo della dittatura mussoliniana): suo intento era stato di dimostrare che quel poco di buono che aveva fatto il nuovo regime non aveva assolutamente nulla a che vedere con il fascismo, perché era “il risultato di uno sviluppo che ha preso inizio diversi anni prima del regime fascista.” Perciò, il suo sforzo era stato quello di rivalutare i governi liberal-democratici, senza voler porre, in nessun modo, il problema di quanto e di come quei governi avessero, anche se non volutamente, favorito l’ascesa al potere delle camicie nere. Ad ogni modo, egli metteva in forte rilievo fino a che punto si esercitasse il predominio di un partito sulla vita del paese: “Il numero degli impiegati militari e civili è stato ridotto,” egli osservava alquanto sarcasticamente, “da 115.000 a 110.000 (esclusi gli impiegati ferroviarii): vale a dire in una proporzione quasi eguale a quella dell’ultimo anno del 392

‘vecchio regime’. Le spese, peraltro, sono aumentate di altri 100 milioni di lire; e nei dicasteri del signor Mussolini (esteri e interni) il numero degli impiegati è cresciuto di un migliaio. Soltanto nella amministrazione delle ferrovie si è avuta una grande riduzione di impiegati, assunti in servizio durante e dopo la guerra, ma l’obiettivo principale di questa riduzione fu di liberarsi di impiegati non fascisti. Anzi, nel primo anno dell’amministrazione fascista, oltre 16.000 impiegati ferrovieri furono assunti in servizio permanente al posto di avventizi mandati via col pretesto della ‘economia.’” Ancora con un accento ironico affermava che “la sola grande ‘riforma’ finanziaria del governo fascista” era stata la soppressione della imposta di successione: “e noi consideriamo essa sia stata un grave errore.” Per quanto riguardava il maggior numero di cittadini che pagavano l’imposta sul reddito, anche qui il merito non andava al governo fascista, perché il suo “merito” consisteva “soltanto nell’avere incluso nella lista dei tassati anche i meno pagati tra i salariati delle pubbliche amministrazioni, ai quali si ridussero i salari del 5 e del 10 per cento.” Concludendo, Matteotti diceva che il peso di tutte le imposte, nuove o vecchie aggravate o distorte, era “veramente grave, considerando le condizioni economiche del paese”; questo perché “le imposte sui consumi popolari formano quasi il 60 per cento delle entrate dello Stato, e le imposte indirette ammontano al 68 per cento delle entrate complessive. Il costo della vita cresce, mentre i salari sono diminuiti di circa il 15 e il 20 per cento. Tre quarti dell’Italia sono ancora poveri; hanno bisogno di lavoro e di capitale per dare impiego alla crescente popolazione.” E, insistendo sulla sua convinzione relativa alla bontà del precedente regime, sosteneva che “opprimendo il popolo, il fascismo può far credere agli osservatori stranieri che vi sia uno stato di quiete e di 393

pace, ma esso non ha risolto nessuno dei problemi vitali della nostra vita economica e sociale. Il presente ritorno ad uno stato di violenze e di inquietudine, eredità delle passate dominazioni straniere, impedirà certamente il sano sviluppo che le energie della nazione avrebbero altrimenti potuto conseguire.” Si può capire da questo articolo di Matteotti che il governo mussoliniano, invece di arrestare, come si vantava di aver fatto, la circolazione bancaria, ne aveva promosso una “vasta espansione” - secondo il ponderato giudizio del Mortara -, che aveva offerto alla speculazione sulla lira “un’ottima base per le sue operazioni.” Queste avevano provocato, naturalmente (insieme con altre circostanze particolari, come “la fuga dei capitali dagli investimenti azionari nel 1925, e l’ingente domanda di divisa estera in previsione di uno scarso raccolto granario nel 1926”), “una fase di ampie oscillazioni e di decisa svalutazione della lira”; sicché, scossa la fiducia nella stabilità d’acquisto della nostra moneta, “si verificavano emigrazioni di capitali all’estero, acquisti di materie prime e di prodotti esteri in quantità esuberante al bisogno immediato, aumento della velocità di circolazione della moneta stessa.” I cambi salivano ad altezze notevoli, “fino a destare un vero allarme,” scrive il Guarneri: il corso del cambio, inaspritosi nell’ottobre del ’22, per l’influenza degli avvenimenti politici di quel mese, non rimase affatto “relativamente stabile,” come sembrerebbe leggendo il Guarneri, ma continuò a salire, passando, la lira, da 13 dollari alla fine del ‘22 a 19 negli ultimi mesi del ’23, e raggiungendo, nel ‘24, le 24 lire, mentre la sterlina superava le 113 lire. Il fenomeno “si acuiva fino a destare un vero allarme nei mesi di giugno e di luglio del ’25,” quando il corso massimo della nostra valuta su Londra, da 117,50 del mese di gennaio, saliva in giugno a 138,47 e in luglio a 394

144,92. Il che voleva dire che, negli ambienti finanziari internazionali, si nutriva scarsa confidenza nella cosiddetta pacificazione seguita al discorso del duce del 3 gennaio, se è vero che, sul finire del ‘24, si erano acuite e diffuse “le manifestazioni di sfiducia verso il Governo,” così scriveva il Mortara, “che, tuttavia, si attacca tenacemente al potere. Questo contrasto, suscitando la previsione di violente repressioni del malcontento,” aveva influito negativamente sui cambi. Ma questa sfiducia - come si è visto - non era venuta meno nel ‘25, allorché altre cause erano intervenute, quale, ad esempio, quella additata dal Mortara e consistente nell’enorme eccedenza del valore delle importazioni sulle esportazioni (quasi sei miliardi di lire nel primo semestre del 1925), che, tuttavia, era stata in parte causa ma anche in parte conseguenza dell’andamento dei cambi. Tale peggioramento nelle quotazioni della lira determinava una inversione di tendenza nel mercato finanziario italiano: una “crescente scarsità di denaro, a prezzo carissimo, e una crescente pesantezza delle borse.” I titoli crollavano, e ciò era dovuto anche al fatto che le loro quotazioni avevano raggiunto altezze eccezionali, “fuori di ogni rapporto col loro rendimento effettivo,” e così non trovavano più collocamento presso il risparmio. La Borsa rese responsabile di tale situazione il ministro De Stefani, il quale, come si è visto, il 10 luglio ‘25, dovette abbandonare la carica, sostituito dal Volpi. Questa grave crisi, “scoppiata,” dice ancora il Guameri, “in un momento di vigorosa ripresa delle attività produttrici [ma si trattava di una ripresa, come si definirebbe oggi, drogata, perché basata sulla progressiva svalutazione della lira, e cioè sul sempre più alto livello di inflazione], rendeva più dura la opera di ricostruzione dell’economia nazionale.” Ma era tutta la vita del paese ad essere colpita, e più le masse popolari e i ceti medi che non l’alta borghesia, la 395

quale anzi continuava a godere della situazione politica ed economica creata dal fascismo. Il quale concesse agevolazioni e facilitazioni ai prestiti contratti all’estero (con un decreto degli ultimi mesi del ‘22 e con successivi provvedimenti del luglio ‘23 e del settembre e dicembre ‘25, del febbraio ’26), partendo da una quanto meno strana posizione su tale problema, perché ora Mussolini affermava che l’Italia aveva un assoluto bisogno di capitali da giustificare le più ampie esenzioni fiscali sugli investimenti stranieri, ora, invece, proclamava che l’Italia stessa aveva una così grande abbondanza di capitali da renderle possibile altrettante esenzioni fiscali sugli investimenti all’estero “per favorire la espansione delle attività economiche italiane nel mondo.” Pertanto, si vede che, secondo il suo mutabile umore, il duce un giorno avvertiva, o fingeva di avvertire, la posizione, in definitiva, subordinata dell’Italia nei confronti delle grandi potenze, ed un altro giorno amava dichiarare a voce spiegata la volontà espansionistica del suo partito: e sempre, nell’uno e nell’altro caso, si preoccupava di avvantaggiare le aziende private, di favorire i “padroni del vapore.” Faceva in modo che questi ultimi riuscissero ad evadere alle imposte, che avrebbero dovuto colpire i loro redditi, riacquistando le obbligazioni esentate perché emesse all’estero, nel primo caso, e consentendo, nel secondo caso, che i prestiti agli importatori stranieri (la Germania, l’Austria, la Polonia, l’Ungheria, la Grecia, l’Argentina, cioè i paesi dell’area centro-europea e balcanica e del Sud America che - come riconosce anche il Guarneri “erano paesi a cambi controllati e già in stato di latente insolvenza o prossimi a dichiararla”) fossero fatti al fine di procurare le lire con cui acquistare dalle industrie italiane i prodotti senza mandare in Italia le loro merci che avrebbero potuto fare concorrenza ai nostri prodotti. “Ma di ciò,” osserva il Rossi con amaro sdegno, “poco si curavano i 396

grandi industriali, che, guardando esclusivamente al loro ’particulare,’ vedevano crescere tanto più i guadagni quanto più agevolmente trovavano uno sbocco ai loro prodotti, anche se, in definitiva, i loro prodotti erano pagati con i quattrini dei connazionali. Il decreto 30 dicembre 1923, n. 3026, esentò dall’imposta di ricchezza mobile anche i redditi delle succursali e delle filiali all’estero delle società italiane, e perfino gli stipendi e gli assegni pagati da tali società agli impiegati e agli operai ad esse addetti.” Ai tanti privilegi benignamente concessi al “popolo grasso” - come lo chiama il Rossi -, con la scusa, avallata dall’autorità scientifica e oggettiva quale poteva essere quella di un Guarneri, di liberare le forze produttive nazionali da tutti gli impacci e da tutti gli ostacoli che, soprattutto nel primo dopoguerra, ne avevano impedito il libero sviluppo, doveva necessariamente corrispondere un aggravio del carico tributario sul “popolo minuto.” Tanto che, verso la fine del ’25, alcuni commentatori dei fatti economici del regime, come un Gino Arias (su “Gerarchia”), nelle sue pur così caute rassegne, era costretto a riconoscere che buona parte - non poteva arrivare a dire tutta - della politica economica del governo fascista era sbagliata ed aveva condotto il paese in una strada senza uscita: perciò, se fosse stato “possibile,” egli scriveva, “avvantaggiare un poco, per un certo periodo, quelli che hanno avuto maggiori danni dall’alto costo della vita, senza esporre le attività produttrici a crisi violente, sarebbe [stato] un atto di buona politica e di giustizia distributiva”: si notino tutti quegli incisi “un poco,” “per un certo periodo,” e poi quella lunga espressione per indicare le classi lavoratrici e la piccola e media borghesia, che essendo, secondo la terminologia paretiana, un ceto di rentiers aveva molto sofferto dal processo inflazionistico. Per quanto riguardava le classi lavoratrici, qualche possibilità 397

di difendersi la conservavano ancora - come abbiamo detto mediante lo sciopero, e nel marzo del ’25 gli operai del settore più combattivo, il metallurgico, erano entrati in agitazione per rispondere alle ripetute diminuzioni di salario che avevano notevolmente peggiorato le loro condizioni di vita. Nemmeno i sindacati fascisti erano stati in grado di resistere al malcontento salito impetuosamente dalla base ed erano stati costretti ad assecondare lo sciopero, destando, naturalmente, grande meraviglia negli industriali, i quali erano convinti che essi non sarebbero mai ricorsi a una simile arma di lotta. Immediatamente era scesa in campo anche la FIOM, che, come è noto, conservava sempre un notevole ascendente sui lavoratori, e questo aveva deciso i fascisti a ricercare un accordo per isolare i loro avversari e potersi presentare agli operai con un successo. Così, infatti, avvenne, ché gli industriali protestarono si, ma si adattarono a “nuove concessioni,” scriveva “L’Industria lombarda,” “nel vivissimo desiderio di non aggravare la situazione già difficile e di non peggiorare la valutazione che all’estero si fa del nostro Paese. Il benessere degli italiani,” concludeva, quasi rinfacciando ai fascisti di averlo dimenticato, proprio loro che lo avevano sempre proclamato, “non può essere disgiunto da quello dell’Italia.” “Battaglie sindacali,” l’organo della CGdL, il 12 marzo titolava la prima pagina su tutte le colonne: 200 mila metallurgici lombardi in sciopero Il movimento metallurgico si estende - La FIOM ha chiesto un riesame completo della situazione - Gli operai stiano disciplinati agli ordini della loro libera oganizzazione. Lo sciopero era partito da Brescia ed il Comitato regionale lombardo della FIOM faceva distribuire un manifesto agli operai ricordando che gli industriali si erano valsi della speciale situazione creata dal fascismo per annullare “ogni vostra conquista, frutto di tanti stenti e di 398

tanti sacrifici. Le ingiustizie e le sperequazioni createsi in seguito alla violazione e all’annullamento delle precedenti norme di lavoro, non potranno essere colmate che con la stipulazione di un organico e regolare concordato.” A Brescia erano state sciolte le organizzazioni confederali e forse questo vi aveva favorito l’agitazione e lo sciopero, ma i dirigenti della FIOM si accorsero ben presto di trovarsi in una posizione alquanto difficile, perché sulla destra erano, almeno in apparenza, scavalcati dal sindacato fascista, il quale, approfittato del fatto che la FIOM stessa aveva respinto l’accordo del settembre ‘24 quale era stato preparato dagli imprenditori, sostenendo, in polemica, di volere “un concordato generale,” l’abolizione delle “gravi sperequazioni nelle condizioni di lavoro di diverse località e di numerosi stabilimenti,” e di battersi, infine, perché i salari fossero “periodicamente riveduti in relazione alla fluttuazione del costo della vita”: era stato in questo periodo che, secondo “Battaglie sindacali,” l’on. Turati era arrivato “a proclamare che gli operai hanno il diritto di ficcare il naso nei registri degli industriali per controllare se i salari sono proporzionati ai profitti”: sia la FIOM, perciò, sia l’on. Turati riconoscevano implicitamente ed anche esplicitamente la posizione del tutto subalterna, di un certo controllo si ma di un controllo ai fini di un adeguamento salariale in base al costo della vita o in base ai profitti, della classe lavoratrice. Potè così assumere la direzione dello sciopero l’esponente del sindacato fascista, Rossoni, il quale dichiarò che i suoi camerati erano pronti a ricorrere a quest’arma di lotta quando gli industriali non dimostravano sufficienti disposizioni al collaborazionismo, mentre alti esponenti del regime, come Augusto Turati e Farinacci, avevano dato il loro consenso e promesso l’aiuto degli squadristi, come era avvenuto nel precedente sciopero di 399

Carrara. Ma, per il momento, “Battaglie sindacali” mostrava di non temere troppo questa concorrenza, e si augurava che “sul terreno economico si risolva vantaggiosamente per gli operai che sono con noi, e, anche se oggi si trovano capeggiati dai fascisti, non c’è che da constatare, ancora una volta, che le corporazioni (sia quando stanno ferme sia quando si muovono) sono condannate a dimostrare la bontà dei nostri vecchi metodi sindacali.” Forse, più allarme destava nella FIOM la costituzione dei “Comitati d’agitazione,” “fioriti nelle fabbriche torinesi per iniziativa di […] ignoti operanti nella sfera delle formazioni cellulari comuniste. I comunisti una ne fanno e un’altra ne pensano per creare imbarazzi alle organizzazioni sindacali.” Infatti, secondo “Battaglie sindacali,” “questa dei ‘Comitati d’agitazione’ non è che la ripresa, sotto mutata denominazione, di quei famosi ‘Consigli di fabbrica’ promossi nell’immediato dopoguerra dal gruppo comunista torinese facente capo all‘Ordine Nuovo” E l’articolo di fondo del 12 marzo, dopo avere esaminato che cosa significava quella parola agitazione (i Comitati erano utili soltanto se potevano diventare strumenti della politica del partito), esortava il sindacalismo vero - quello socialista unitario - a “difendersi da questo pericolo che risorge. Se i ‘Comitati d’agitazione’ si propagassero, non tarderebbero a prendere la mano alle organizzazioni responsabili, o, quanto meno, le farebbero trovare di fronte a molte situazioni forzate e compromesse.” Approvava, pertanto, il Consiglio direttivo della Fiom, sezione di Torino, che aveva sconfessato i “Comitati” e diffidato i propri soci dal farne parte in termini molto duri: “Ravvisando nel fatto denunciato l’inizio di eventuali scissioni nel campo sindacale, non tollera né riconosce Comitati di agitazione costituiti ed operanti senza la preventiva autorizzazione della Organizzazione e si riserva fin d’ora di prendere gli 400

opportuni, necessari provvedimenti a carico di coloro che non si atterranno rigidamente alla disciplina sindacale.”1 Ma il secondo giorno, sempre sotto l’alta guida del Farinacci che, per l’occasione, aveva esautorato il Rossoni, le corporazioni si accordarono con gli industriali ottenendo un assegno speciale giornaliero di L. 2,20 invece di L. 1,20, quota che avrebbe dovuto essere modificata, a partire dal maggio, “in relazione alle variazioni del costo della vita.” Per tutte le altre richieste - si osservi la voluta genericità di questa espressione - dovevano essere demandate al presidente del consiglio. Così, anche la FIOM fu costretta a ordinare la cessazione dello sciopero in Lombardia e in Piemonte, suscitando - scriveva, il 20 marzo, “Battaglie sindacali” - le reazioni degli “opposti estremismi”: “Bell’affare, dicono i fascisti, ritornare al lavoro senza aver mutato le condizioni del nostro concordato. - Tempo perduto, dicono i comunisti, se non si è riusciti ad abbattere il fascismo.” Ma era una massima-vangelo per i dirigenti socialisti unitari della CGdL, non “esaurire mai le energie proletarie, soprattutto non bisogna esaurirle quando ci sono altre battaglie da combattere per la rivendicazione della libertà e dell’autonomia sindacale”: il che voleva dire rimandare ad un molto ipotetico futuro ciò che non si era stati capaci di fare subito. E il manifesto della FIOM e delle organizzazioni ad essa associate UIdL, SNOM, e USI) ribadiva tale posizione: “Riprendete il lavoro col fermo proposito di dare nuove energie alle vostre organizzazioni per recuperarle a nuove battaglie. L’agitazione continua e continuerà.” Questa repentina fine dello sciopero suscitò una vivace polemica tra la FIOM e i fascisti: da parte della prima si affermava che quello delle corporazioni era stato puramente uno sciopero economico, mentre quello suo voleva essere uno sciopero politico, politico perché “i lavoratori aderenti alla FIOM, aderenti alla 401

Confederazione del lavoro, non intendono assolutamente di essere considerati come minorenni o interdetti.” Per il periodico, se un significato avevano dimostrato di avere le due giornate, era stato quello di “rivendicare ai lavoratori confederali il diritto di trattare da sé i propri interessi.” Ma non tardarono molto le polemiche sul successo o sull’insuccesso dello sciopero, premendo a ciascuna delle due parti in contrasto - i confederali e i fascisti - far vedere che erano usciti vincitori. La FIOM, nel manifesto ricordato poco sopra, mise in rilievo “il peso decisivo delle nostre forze” da essa portato, rigettando la responsabilità di un risultato, in ultima analisi, modesto, su chi, “pur godendo della più ampia libertà, ha piegato a pressioni e convenienze d’ordine politico in ispregio degli interessi d’ordine economico e sindacale.” Ad ogni modo, concludeva con un tono trionfalistico che mal nascondeva la realtà di una sconfitta che avrebbe potuto essere risolutiva per la continuazione delle lotte del lavoro in Italia, “di quel poco che vi è stato concesso, il merito è esclusivamente nostro.” A distanza di tempo, solo nel maggio, rispondeva Mussolini con un articolo su “Gerarchia,” in cui, parlando di Fascismo e sindacalismo, citava “i grandi scioperi metallurgici di Lombardia del marzo scorso” per dimostrare come si fosse trattato di “scioperi che documentano l’esistenza di un ‘fatto’ e di una realtà imponente,” quale era dato dalla ormai constatata esistenza di un “sindacalismo fascista,” dal quale “non si può prescindere.” Quegli scioperi avevano definito esattamente le posizioni di tale sindacalismo: “movimento collaborazionista [con gli imprenditori], ma senza esclusione pregiudiziale assoluta di lotta.” Certo, per la dottrina fascista, lo sciopero doveva essere “una eccezione” che avesse in sé i suoi obiettivi definiti, mentre i socialisti lo avevano concepito “come un atto di ginnastica rivoluzionaria a fini remoti 402

ed irraggiungibili.” Per quanto riguardava, in particolare, gli scioperi del marzo, il duce dichiarava la sua “vivissima soddisfazione” per l’“imponente sviluppo organizzativo delle corporazioni,” le quali avevano dimostrato luminosamente, “a confusione di tutti gli avversari, che il sindacalismo fascista può contare su forze imponenti anche fra le masse operaie urbane.” Una simile manifestazione gli doveva giungere ancor più gradita (ma si sarebbe dovuto vedere quanto di spontaneo c’era stato nella adesione delle masse lavoratrici e quanto, invece, di imposto) perché l’anno precedente, in un discorso al Consiglio nazionale delle corporazioni, egli stesso era stato costretto ad osservare che la “situazione del sindacalismo fascista [era] soddisfacente nelle campagne,” ma non altrettanto lo era “la situazione di quella che si potrebbe chiamare la popolazione operaia urbana” (si noti, anche qui, la sottigliezza della perifrasi: “quella che si potrebbe chiamare,” quasi a celare, ad occhi indiscreti, quanto soggiungeva subito dopo). Era in atto la ripresa industriale ed alcune industrie realizzavano “già degli utili abbastanza notevoli”: “E perché?” si chiedeva o fingeva di chiedersi “Perché la massa lavora di più […]. È certo che i datori di lavoro utilizzano lo stato di pace sociale instaurato dal Governo fascista.”2 Pertanto, il duce poteva affermare, “con piena cognizione di causa e con coscienza tranquilla, che gran parte delle industrie italiane non solo non [erano] forzate a peggiorare le sorti di coloro che [contribuivano] alla elevazione dell’industria, ma [erano] in condizioni di migliorarle.” “Solo così,” concludeva, “la collaborazione di classe diventa una cosa seria.” Ma come potevano guardare con simpatia al regime i lavoratori urbani, che erano soggetti ad un molto più intenso sfruttamento, favorito dallo stesso regime? Nei giorni in cui si teneva il convegno di palazzo Chigi, la “Gazzetta Ufficiale” pubblicava un decreto 403

che consentiva una deroga alla legge sulle otto ore in tutte quelle occupazioni che richiedevano un lavoro discontinuo o di semplice attesa a custodia (deroga molto desiderata dagli industriali), e veniva reso noto che nello stabilimento della Società metallurgica di Livorno, fra gli esercizi 1921-’22 e 1922-’23, gli operai erano scesi da 923 a 759 ma la produzione annua era salita da 5.602 a 6.292 tonnellate, con un aumento di circa il 30% sul prodotto medio per operaio; inoltre, sempre in questo stabilimento, la paga media, nei giorni di effettivo lavoro, era stata, nel 1921-’22, di L. 31,20 di cui L. 6 per caroviveri e, nel 1922-‘23, era scesa a L. 26,48 di cui L. 2 per caroviveri. D’altronde, era stato lo stesso presidente del consiglio a chiarire senza mezzi termini, di fronte alla Confederazione dell’industria, quali erano gli intenti del suo governo: “la politica governativa continuerà nel suo indirizzo, diretto a considerare l’avvenire dell’industria intimamente collegato con l’avvenire del Paese ed a vedere negli industriali coloro che danno il maggiore impulso allo sviluppo della produzione e della vita economica nazionale […]. Essi possono essere certi che il Governo nazionale terrà sempre nella massima considerazione i loro postulati.” E, proprio per tenere nella massima considerazione i postulati degli industriali, obbligava gli operai a dare il loro consenso alle prestazioni straordinarie con un compenso ridotto; ad accettare che nei nuovi contratti venissero introdotte “norme vantaggiose all’industria, e modificate o abrogate molte di quelle che rappresentavano un ingiusto ostacolo,” cosi scriveva “L’Industria lombarda” agli inizi del ‘24, sul contratto di lavoro per l’industria del vetro, cristalli e specchi, “alla libera attività della direzione delle ditte e alla disciplina negli stabilimenti.” Tutto questo mentre, come aveva messo in rilievo lo stesso Mussolini, la produzione aveva ormai raggiunto e stava anche superando i limiti 404

prebellici (oltre che nell’energia elettrica, nella lana e nelle sete artificiali, nell’acciaio); una espansione, notava il Mortara, favorita dall’aumentato rendimento dei lavoratori e dalla riduzione delle mercedi che avevano diminuito i costi “con sensibile vantaggio nella concorrenza internazionale.” Il fatto era che era in corso un enorme trasferimento di ricchezza - dovuto, in buona parte, pure all’intenso processo inflazionistico - dalle classi meno abbienti a quelle più agiate, dalle masse popolari alla grande borghesia. Un analogo trasferimento di ricchezze e di risorse avveniva nelle campagne: per dimostrare come la nuova situazione, creatasi con la vittoria delle camicie nere, si risolvesse esclusivamente in vantaggio degli agrari e dei fittabili, vogliamo riportare, dopo quanto abbiamo già messo in rilievo, alcuni passi di un articolo (L’ingordigia agraria e la riscossa dei contadini) pubblicato da “L’Indipendente” (supplemento a “La Plebe”) nel luglio ‘24: “I signori agricoltori devono essere molto grati al fascismo ed ai professionisti della delinquenza in esso annidatisi per servire con fedeltà ed onore i forzieri agrari! Mercé l’opera assidua e persuasiva dei cavalieri del pugnale e del manganello, i nostri agricoltori hanno potuto liberamente affondare le mani rapaci nelle tasche smunte dei poveri contadini e spremerne fino all’inverosimile il misero contenuto. Il modo con cui si sono trattati i contadini quest’anno è un vero atto di brigantaggio, una canagliata da saccomanni, degna solo dell’ora fulgida che attraversiamo nel bel paese d’Italia, ora più che mai rinnovellata […]. La sfacciata improntitudine della classe agraria s’è manifestata quest’anno in tutta la sua vorace esosità, colla promulgazione del concordato (??!!) fatto in due minuti attraverso l’assemblea di pochi, ma buoni agricoltori, adunati nella sede della loro corporazione, senza l’ombra di 405

una discussione purchessia colla rappresentanza dei lavoratori […]. Altro che negare la lotta di classe! Qui è la bestialità più smaccata.” Perché? “Vediamo: nel cosiddetto concordato di quest’anno mancano tutti i principali capisaldi che formavano fin qui la spina dorsale di ogni contratto di lavoro: commissioni paritetiche comunali, ufficio arbitrale circondariale, imponibile di mano d’opera, penalità ai trasgressori, ecc. Inoltre, tutte le tariffe sono state ridotte: i limiti di età in rapporto alle tariffe orarie peggiorate vergognosamente; le paghe delle donne pei lavori straordinari, dalle medesime eseguibili colla stessa capacità e produttività degli uomini (raccolta grani, risi, cereali, ecc.), ridotte a una vilissima quota che indica tutta la rapacità degli agrari, mentre fin da alcuni anni era ormai consacrato e riconosciuto che la mano d’opera femminile non poteva essere compensata, per questi lavori, in misura inferiore alla mano d’opera maschile. Le stesse tariffe dei lavori ordinari per le donne, già modestissime fin da prima, sono state ridotte ancora.” Ma non c’era una “ragione dimostrata e dimostrabile” che potesse giustificare tali furti ai danni della povera gente, proseguiva sempre più indignato “L’Indipendente”: non c’era, perché, “come tutti sanno, il costo della vita sale continuamente, e il tenore di vita dei lavoratori dei campi va ogni giorno diminuendo fino all’abiezione […]. Per contro, invece, dobbiamo anche constatare che il prezzo dei prodotti agrari è sempre in aumento, e in modo impressionante quello dei risoni, che hanno raggiunto ultimamente le L. 130 per quintale contro L. 100 dell’anno scorso.” Ma non era solo il proletariato a venir colpito da questa politica rabbiosa e selvaggia (che si può tentare di comprendere inquadrandola in una prospettiva più lunga e scorgendo in essa una reazione dei capitalisti - vecchi e nuovi, cioè di prima della guerra e di dopo - contro 406

la paura in cui avevano dovuto vivere per quattro anni, dal ‘19 al ‘22, di una supposta, nelle loro menti malate e ossessionate, ascesa al potere della plebaglia, di quegli esseri considerati inferiori e indegni di assidersi al loro desco: cioè come una vendetta del capitalismo), perché la furia distruttrice del fascismo si abbatteva anche sulla piccola e media borghesia, sui piccoli coltivatori come sugli impiegati, sugli artigiani come sui piccoli produttori dell’industria, tutte categorie profondamente moderate e conservatrici, che ora, però, tendevano a distaccarsi dal fascismo al quale pure avevano dato il loro appoggio. Infatti, per quanto riguardava gli impiegati privati, il governo emanava un decreto-legge il 13 novembre ‘24 relativo appunto al contratto d’impiego privato, con il quale abrogava il decreto luogotenenziale del 9 febbraio ‘19: il commento che, su “L’Economia d’Italia,” faceva a tale decreto-legge Ça-ira (si nascondeva sotto questo pseudonimo, evidentemente per non essere riconosciuto), era cautamente critico, sebbene tra le righe si potesse intravedere il suo malcontento. Cominciava con il lamentare l’apatia e l’assoluta inerzia degli impiegati che non si interessavano di ciò che li toccava così da vicino e non avevano la forza di reagire alle “manchevolezze ed anche peggioramenti” che si notavano “in qualche parte del Decreto.” Eppure, avrebbero dovuto svegliarsi e far sentire la loro voce prima della discussione e della approvazione della Camera, che avrebbe tradotto in legge “quest’ultimo Decreto.” Infine, esortava l’impiegato ad essere “geloso delle locali disposizioni che lo favoriscono, poiché esse sono il frutto delle proprie agitazioni di un decennio, mentre non deve ritener cosa vana perseverare nella lotta e tendere a sempre più migliorare le proprie condizioni: per il proprio benessere e della famiglia, nella diuturna lotta per la vita.” A proposito degli impiegati statali, e particolarmente della 407

burocrazia, di cui il fascismo si vantava di aver attuato una sostanziale riforma, “Politica nuda,” periodico di polemica nazionale, per la penna di Ille ego (un altro pseudonimo), dimostrava, verso la fine del ‘25, come tale riforma, “genialmente concepita, fu attuata non solo in modo errato, ma financo contrario ai postulati del Governo fascista.” Questo perché non aveva affatto rispettato i due principi che avrebbero dovuto prevalere: quello del decentramento e l’altro della sburocratizzazione e, di conseguenza, la riduzione degli uffici e la valorizzazione dei singoli uffici e la responsabilità diretta. Così, bastava “dare una scorsa ai vari provvedimenti susseguitisi in questi due anni di governo fascista per convincersi come la burocrazia centrale abbia fatto di tutto per avvilire gli uffici periferici, per molestare il personale con punture continue al punto che, più volte, chi scrive, convinto fascista e non dell’ultima ora, ha dovuto ammettere, con una stretta al cuore, che certi provvedimenti non potevano spiegarsi se non con un animo deliberato di nuocere al governo ed al programma fascista.” Si era assistito in quella che era passata come “riforma De Bellis (escludiamo di proposito S. E. De Stefani),” - il De Bellis non poteva ritenersi uno degli ultimi collaboratori, ché, anzi era stato, in tal caso, il rappresentante politico delle direttive governative e tnussoliniane (tutte tendenti a realizzare un sempre più rigido centralismo), - ad una tenace opera della burocrazia centrale preoccupata soltanto di svalutare il personale esecutivo per impedire - scriveva, lui, Ille ego, pur fedele fascista ma che non poteva più nascondere il suo risentimento, che doveva essere comune a tutti gli impiegati più bassi nella gerarchia - l’infiltrazione di questo personale nei suoi ranghi. “E se è così,” si chiedeva il succitato Ille ego, “non è questa la prova certa della esistenza, nella burocrazia, di caste chiuse, le quali necessariamente diventano potenti e talvolta superiori a qualsiasi Governo? 408

Più volte è stato detto che la vera riforma burocratica doveva consentire l’ascensione delle categorie inferiori a quelle superiori mediante, beninteso, una rigorosa selezione e l’avvicendamento del personale delle funzioni esecutive alle direttive rompendo, così, tradizioni ed interessi di casta e armonizzando inoltre la dottrina con la pratica; e allora perché la riforma De Stefani e De Bellis ha sanzionato il principio delle carriere chiuse ed ha reso impossibile anche allo stesso Ministro di valersi dell’opera dei veramente migliori, indipendentemente dalla categoria di loro pertinenza? È onestamente giustificabile il fatto che un Ricevitore o un Ispettore del Demanio o un Agente delle Imposte, per quanto d’ingegno e coltura eccezionali, non possono assurgere ai posti direttivi? Evidentemente, nell’interesse dell’amministrazione: no.” Questa era la borghesia “degli uffizi,” piccola e media, che, come quella meridionale, doveva confessare la sua insoddisfazione e il suo malcontento verso il regime che non le aveva, in ultima analisi, dato tutti quei favori che essa si aspettava in cambio del suo leale e costante sostegno. Il do ut des non aveva funzionato sino in fondo, anzi, proprio nel momento in cui sperava di raccogliere i frutti della sua fedeltà, si vedeva dimenticata dal suo duce, che andava alla ricerca di altre alleanze. Così, diventava pronta, da fascista della prima ora quale era, per lo più, stata, a passare nelle file del dissidentismo estremista e pseudo-rivoluzionario, pseudo-rivoluzionario perché non aveva, neppure esso, un programma concreto di trasformazione della società e si limitava a rimpiangere il “diciannovismo,” un ritorno alle origini che rimarranno sempre un mito travolto dal fascismo giunto al governo. Ma si trattava veramente di un mito assurdo ed impossibile da realizzarsi, perché ormai il fascismo si era intrecciato con tanti e così corposi interessi e ne aveva 409

respinto ai margini tanti altri, da far supporre che se si fosse verificato qualche mutamento, non sarebbe stato certo per far passare il potere dalle mani di una tendenza fascista ad un’altra, bensì per un rivolgimento più completo. Il nuovo regime aveva, pertanto, almeno questo merito, di aver posto fin d’allora il problema della sua successione in termini radicali, problema, però, che veniva avvertito da alcuni (ma erano molto pochi, i giovani e risoluti oppositori), per niente compreso da altri, e, infine, negato del tutto, come era naturale, dai fascisti, sia quelli di stretta osservanza sia quelli dissidenti. 1 D’altronde, l’atteggiamento dei dirigenti sindacali, in particolare di alcuni

(D’Aragona, Rigola) non era stato né era molto edificante, anzi era stato incerto e, in fin dei conti, anche disposto ad una collaborazione con il fascismo, tecnica, si diceva, ma che sarebbe stata pur sempre una collaborazione: il segretario della stessa Confederazione, che era appunto il D’Aragona, aveva avuto diversi colloqui con il duce per concretare i termini di tale collaborazione. Tuttavia, la necessità di mantenere In vita la CGdL doveva spingere quei dirigenti a resistere e ad opporsi al tentativo del fascismo di instaurare, nel mondo del lavoro, un monopolio a favore delle corporazioni; se ciò si fosse verificato, le libere organizzazioni del proletariato non avrebbero avuto più alcuna possibilità di continuare ad esistere. Ecco perché la presenza della Confederazione, sebbene i suoi dirigenti fossero propensi a cedere, rappresentava una garanzia, per quanto contrastata, di libertà. 2 “Battaglie sindacali” parlava, a proposito di questo discorso, di “esequie del

sindacalismo fascista,” ed osservava che, “per fare la collaborazione di classe, bisogna essere in due, ma ci sono datori di lavoro che non ne vogliono sapere; potrebbero migliorare le sorti dei loro operai e invece fanno perdere loro la pazienza. Ma i datori di lavoro non devono profittare dello stato attuale, instaurato dal fascismo, per soddisfare i loro egoismi. - Bella predica, ma niente altro che predica. I padroni non ne vogliono sapere. - Prima, assai prima che l’on. Mussolini scongiurasse i padroni in nome della patria, lo stesso invito era stato loro rivolto e ripetuto per secoli in nome di un ideale assai più alto e vasto che quello della Patria, in nome di Dio, in nome della carità cristiana, comminando le pene dell’inferno ai padroni egoisti e avari. - Tutto inutile. I padroni, anche nei secoli di fede, non hanno mai obbedito al Vangelo, per quanto riguarda i loro operai. - E l’on. Mussolini spera di riuscire in un’impresa che Gesù Cristo non ha potuto compiere in venti secoli? - Per indurre i padroni a concedere il concedibile

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c’è voluto la libera organizzazione operaia. Ogni qualvolta la forza di questa è stata compressa, i padroni ne hanno profittato, sempre. - Che è quanto avviene ora. ‘I datori di lavoro non debbono profittare dello stato attuale instaurato dal fascismo,* dice Mussolini. Benissimo; non debbono. Ma ne profittano. Cosa vuol farci?” (29 maggio ’24).

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Capitolo quattordicesimo Il fatalismo dei socialisti unitari (riformisti) “La Difesa,” giornale della Federazione provinciale milanese dei lavoratori della terra, nel maggio ’23, in un articolo (Baruffe in famiglia), parlava della “poca concordia” che regnava nel campo fascista: “Il campo fascista è a rumore. Volano cazzotti e… calano manganelli. Inchieste, relazioni, sfide, duelli. Insomma un’ira di Dio! Ma questo è niente, in confronto di quello… che bolle in pentola. Da indiscreti, si sa, infatti, che regna poca concordia nel campo fascista. I fascisti della prima ora (quelli, per intenderci, che hanno fatto la guerra ai nostri Sindacati e alle nostre Cooperative) non vedono di buon occhio l’affluire al partito di molta gente che, durante la vigilia, stava alla finestra, sia pure incoraggiando gli squadristi a picchiare sodo, sulle teste socialiste, assolutamente refrattarie… alla nuovissima propaganda della grandezza nazionale. I fascisti, diciamo ‘puri’, sono dunque parecchio arrabbiati della piega che va prendendo il partito e, quando possono, strepitano liberamente contro gli intrusi che… vanno nel partito ad occupare i posti più onorifici e… remunerativi. - Questa dei posti è una questione grossa che, dall’indomani della marcia su Roma, tiene agitato il campo fascista. Infatti, leggendo i giornali fascisti, si ha la sensazione di vedere schiere di individui correre, affannarsi, passare gli uni sul corpo degli altri, pure 412

di arrivare ai primi posti. Accidenti che spettacolo! E pensare che soltanto pochi mesi or sono si rimproverava al nostro partito lo stesso difetto. Si vede che l’ambizione e la bramosia degli uomini non cambia, militino essi sotto l’una piuttosto che sotto l’altra bandiera. - La stessa, anzi, maggiore, frenesia di arrivismo s’ò scatenata fra l’esercito di coloro che credono di avere requisiti sufficienti per diventare deputati. Per mesi e mesi hanno gridato abbasso il Parlamento, ma ognuno, per proprio conto… affila le armi e si prepara al cimento elettorale. E si ha un bel gridare, ma la medaglietta esercita sempre grande forza di attrazione anche… fra gli iconoclasti del littorie. - Intanto, siccome gli aspiranti sono molti, troppi, e ognuno lavora per proprio conto, fregandosene delle gerarchie e della disciplina, i più autorizzati giornali fascisti e gli stessi organi centrali del partito, denunciano lo sconcio e minacciano il finimondo contro i fatsi fascisti, che piantano grane e congiurano per i posti […]. ‘Facciamo tutto per la patria e per la sua grandezza, dicevano [i fascisti]; ora gli stessi giornali scoprono che ci sono fra loro ‘molti ambiziosi che, quando parlano, si riempiono la bocca col nome d’Italia, sventolano la bandiera tricolore, ma dietro quella bandiera si nasconde il loro egoismo da soddisfare. E allora che valore avevano le critiche di questi fascisti contro di noi? Avevano questo valore: ‘Levati di lì che ci voglio venir io! - E che sia così lo conferma la deliberazione della Giunta del partito fascista, che ha deciso di espellere i due deputati Misuri e Pighetti. Ma questo esempio non basterà a ricondurre la calma nei ranghi… della ufficialità fascista. Occorreranno altri tagli. E poi?… Basterà la disciplina imposta a tenere assieme gente venuta da opposte parti. Certo. L’interesse può molto, e oggi, col partito che governa, molta gente spera… - Le delusioni verranno in seguito e le discordie si accentueranno. - Le rampogne, le sfide e le espulsioni 413

possono essere segni precursori… se è vero che il tuono annuncia il temporale. - Vedremo. - Infatti, anche nelle istituzioni cooperative, ecc., passate a loro e nei Sindacati fascisti, dove prima bastavano due impiegati con 700 e 1.000 lire al mese e chiamavano i socialisti succhioni, ora vi è magari il triplo di personale con lauti compensi, anche se la tecnica e la competenza consistono solo nel dichiararsi fascista.” È un articoletto tutto impegnato nel mettere in rilievo l’onestà e la serietà della precedente classe politica, l’arrivismo e il carrierismo della nuova fascista, che stava, però, cercando di eliminare i “puri,” i “fascisti della prima ora”; si vede molto bene e si capisce tutta la fretta che queste nuove schiere del regime ponevano in una lotta che avrebbe dovuto concludersi o con un loro ritrovato e consolidato potere oppure con una loro sconfitta, che avrebbe lasciato aperta la strada all’affermazione degli antichi fascisti che miravano ad occupare, loro, i posti migliori. E si scorgono anche le incertezze che condizionavano il duce, il quale da un lato minacciava “il finimondo contro i falsi fascisti”. dando, in apparenza, ragione ai paleo-fascisti, ma, d’altro lato, espelleva i dissidenti Misuri e righetti, dando, in tal modo, ragione ai nuovi fascisti bramosi e ambiziosi. Ma, soprattutto, si intravede molto bene la posizione di questi socialisti unitari, che guardavano sempre la realtà con un atteggiamento di fatalistica rassegnazione, come se quella realtà stessa - una diversa oppure una che si richiamasse al passato prefascista dovesse cadere dal cielo regalata da una divinità oscura e impenetrabile nei suoi voleri, e non dovesse essere, invece, una creazione della loro volontà attiva e duramente e senza posa rivolta a combattere ciò che si riteneva contrario alle più elementari leggi del vivere civile: richiamo a quello che oggi è detto, con una espressione che quasi fa 414

rabbrividire, l’ interventismo della cultura, e che noi preferiremmo dire obbligo morale ed umano di ogni uomo politico e dell’intellettuale, in qualsiasi campo quest’ultimo operi, scientifico-letterario-storico, ecc. Alcuni mesi dopo, il 13 ottobre, “La Difesa” ritornava sulle baruffe nel campo fascista con un altro breve articolo: “La baruffa che tiene in discordia il campo fascista, non è limitata ad alcuni capi, come vogliono dare ad intendere i giornali del partito che oggi tiene il potere. No. Se la crisi che ogni tanto travaglia il partito di Mussolini dipendesse dall’ambizione di qualche ‘ras’ che smania per diventare deputato o ministro, la malattia sarebbe curabile (basterebbe allontanarli dal partito). Gli è invece che gran parte dei dirigenti (e lo confessano i pochi che non nutrono ambizioni) lavora […] per crearsi la sua brava posizione personale contro le direttive del partito. - A questo proposito abbiamo letto nei giorni scorsi degli scritti di fascisti (come Massimo Rocca [l’autore di Fascismo e finanza], ed altri) che sono veri atti di accusa. Dicono, questi fascisti, in sostanza, che ci sono dei loro compagni che sono dei veri e propri tiranni, che ne hanno fatto e ne fanno di tutti i colori per mantenere il loro dominio e non andiamo a guardare il significato penale di parecchi perché ci verrebbe la pelle d’oca. - Noi non avevamo bisogno che proprio dei fascisti venissero a dirci che molti dei loro capi agiscono in modo odioso. - Tutti i giorni veniamo a conoscenza di fatti così terribili da far gridare vendetta. Però non possiamo che rallegrarci che anche nel campo avversario sorgano voci di protesta e di rampogna contro i delitti che ogni giorno vengono consumati da api e sottocapi fascisti, contro l’umanità, contro la civiltà. Ma, come dicevamo in principio, la crisi che tiene in discordia il campo fascista, non deriva soltanto dall’ambizione e dalle avidità dei capi fascisti locali. C’è 415

dell’altro. C’è che manca assolutamente il consenso delle masse lavoratrici, sulla compattezza e sul consenso delle quali dovrebbe poggiare il fascismo. - I lavoratori non poterono fare a meno di aderire ai Sindacati fascisti. Per molti, il dilemma era questo: o la tessera fascista o la disoccupazione, cioè la fame. Così i Sindacati si ingrossarono. Ma tutti sanno (e i capi fascisti per primi) che lo spirito, l’animo di quei lavoratori è ancora e sempre con noi. Una prova di quanto diciamo l’abbiamo nella gioia (soffocata) che i lavoratori provano sentendo che i fascisti attaccano briga fra loro […]. La vera crisi fascista è la mancanza di consenso, ed il consenso non si ottiene né col manganello né col peggioramento dei salari ed orari.” E rispuntava, qui, fra le righe, il solito e tradizionale fatalismo, un fatalismo a cui si ispirava tutta l’azione di questa corrente socialista, un fatalismo che si poteva notare, più evidente, in un altro articoletto, in cui era detto: “Noi, ingiuriati, calunniati e bastonati, siamo sempre al nostro posto con la coscienza tranquilla ed a fronte alta, sicuri che la nostra modesta opera a difesa dei lavoratori rappresenta la civiltà, il progresso ed il bene della Nazione”; oppure nella ferma convinzione espressa da “La Plebe”: “Nessuno dei frutti raggiunti andrà perduto. Il cammino ascensionale riprenderà.” Nemmeno il delitto Matteotti valse a svegliare gli unitari dall’atteggiamento passivo che era loro connaturato e furono soltanto capaci di raccogliere “la deprecazione ed il compianto per l’orribile delitto” del proletariato e di notare con piacere il desiderio, diffuso anche fra i contadini, di avere notizie più precise sull’assassinio: “Ho avuto modo di constatare,” si scriveva dal Corteleonese a “La Plebe,” “in diversi paesi che parecchi fra i migliori e coscienti contadini inviarono appositamente a Pavia dei messaggeri per attingere notizie e per acquistare i giornali proletari che venivano poi letti avidamente e fatti circolare fra la 416

massa.” Fatalismo e passività che sono molto evidenti anche nel maggiore rappresentante di questa tendenza, il Turati, il quale, nell’autunno del ’24 scriveva, sconfortato, alla sua Kuliscioff di sentire che “con il passare del tempo il nemico ripiglia fiato, e che l’episodio del povero Matteotti ha ormai dato tutto ciò che poteva dare.” Ma era la stessa Kuliscioff, con la sua profonda percezione della realtà, che confessava ed analizzava acutamente, sebbene con falsi fascisti” dando, in apparenza, ragione ai paleo-fascisti, ma, d’altro lato, espelleva i dissidenti Misuri e Pighetti, dando, in tal modo, ragione ai nuovi fascisti bramosi e ambiziosi. Ma, soprattutto, si intravede molto bene la posizione di questi socialisti unitari, che guardavano sempre la realtà con un atteggiamento di fatalistica rassegnazione, come se quella realtà stessa - una diversa oppure una che si richiamasse al passato prefascista - dovesse cadere dal cielo regalata da una divinità oscura e impenetrabile nei suoi voleri, e non dovesse essere, invece, una creazione della loro volontà attiva e duramente e senza posa rivolta a combattere ciò che si riteneva contrario alle più elementari leggi del vivere civile: richiamo a quello che oggi è detto, con una espressione che quasi fa rabbrividire, l’ interventismo della cultura, e che noi preferiremmo dire obbligo morale ed umano di ogni uomo politico e dell’intellettuale, in qualsiasi campo quest’ultimo operi, scientifico-letterario-storico, ecc. Alcuni mesi dopo, il 13 ottobre, “La Difesa” ritornava sulle baruffe nel campo fascista con un altro breve articolo: “La baruffa che tiene in discordia il campo fascista, non è limitata ad alcuni capi, come vogliono dare ad intendere i giornali del partito che oggi tiene il potere. No. Se la crisi che ogni tanto travaglia il partito di Mussolini dipendesse dall’ambizione di qualche ‘ras’ che smania per diventare deputato o ministro, la malattia sarebbe curabile (basterebbe allontanarli dal partito). Gli è invece che gran 417

parte dei dirigenti (e lo confessano i pochi che non nutrono ambizioni) lavora […] per crearsi la sua brava posizione personale contro le direttive del partito. - A questo proposito abbiamo letto nei giorni scorsi degli scritti di fascisti (come Massimo Rocca [l’autore di Fascismo e finanza], ed altri) che sono veri atti di accusa. Dicono, questi fascisti, in sostanza, che ci sono dei loro compagni che sono dei veri e propri tiranni, che ne hanno fatto e ne fanno di tutti i colori per mantenere il loro dominio e non andiamo a guardare il significato penale di parecchi perché ci verrebbe la pelle d’oca. - Noi non avevamo bisogno che proprio dei fascisti venissero a dirci che molti dei loro capi agiscono in modo odioso. - Tutti i giorni veniamo a conoscenza di fatti così terribili da far gridare vendetta. Però non possiamo che rallegrarci che anche nel campo avversario sorgano voci di protesta e di rampogna contro i delitti che ogni giorno vengono consumati da api e sottocapi fascisti, contro l’umanità, contro la civiltà. Ma, come dicevamo in principio, la crisi che tiene in discordia il campo fascista, non deriva soltanto dall’ambizione e dalle avidità dei capi fascisti locali. C’è dell’altro. C’è che manca assolutamente il consenso delle masse lavoratrici, sulla compattezza e sul consenso delle quali dovrebbe poggiare il fascismo. - I lavoratori non poterono fare a meno di aderire ai Sindacati fascisti. Per molti, il dilemma era questo: o la tessera fascista o la disoccupazione, cioè la fame. Così i Sindacati si ingrossarono. Ma tutti sanno (e i capi fascisti per primi) che lo spirito, l’animo di quei lavoratori è ancora e sempre con noi. Una prova di quanto diciamo l’abbiamo nella gioia (soffocata) che i lavoratori provano sentendo che i fascisti attaccano briga fra loro […]. La vera crisi fascista è la mancanza di consenso, ed il consenso non si ottiene né col manganello né col peggioramento dei salari ed orari.” E rispuntava, qui, fra 418

le righe, il solito e tradizionale fatalismo, un fatalismo a cui si ispirava tutta l’azione di questa corrente socialista, un fatalismo che si poteva notare, più evidente, in un altro articoletto, in cui era detto: “Noi, ingiuriati, calunniati e bastonati, siamo sempre al nostro posto con la coscienza tranquilla ed a fronte alta, sicuri che la nostra modesta opera a difesa dei lavoratori rappresenta la civiltà, il progresso ed il bene della Nazione”; oppure nella ferma convinzione espressa da “La Plebe”: “Nessuno dei frutti raggiunti andrà perduto. Il cammino ascensionale riprenderà.” Nemmeno il delitto Matteotti valse a svegliare gli unitari dall’atteggiamento passivo che era loro connaturato e furono soltanto capaci di raccogliere “la deprecazione ed il compianto per l’orribile delitto” del proletariato e di notare con piacere il desiderio, diffuso anche fra i contadini, di avere notizie più precise sull’assassinio: “Ho avuto modo di constatare,” si scriveva dal Corteleonese a “La Plebe,” “in diversi paesi che parecchi fra i migliori e coscienti contadini inviarono appositamente a Pavia dei messaggeri per attingere notizie e per acquistare i giornali proletari che venivano poi letti avidamente e fatti circolare fra la massa.” Fatalismo e passività che sono molto evidenti anche nel maggiore rappresentante di questa tendenza, il Turati, il quale, nell’autunno del ‘24 scriveva, sconfortato, alla sua Kuliscioff di sentire che “con il passare del tempo il nemico ripiglia fiato, e che l’episodio del povero Matteotti ha ormai dato tutto ciò che poteva dare.” Ma era la stessa Kuliscioff, con la sua profonda percezione della realtà, che confessava ed analizzava acutamente, sebbene con una certa parzialità, le cause di una tale inerzia: “Si accusa il re, si accusano le opposizioni, si accusano i partiti e l’autorità giudiziaria perché non salvano il Paese dal disastro. Purtroppo, non c’è che un coefficiente che manca, e l’essenziale: ed è la mancanza del popolo, che non sente e non si commuove per 419

ragioni idealistiche.” E pochi giorni dopo, esprimeva una timida c segreta speranza: “Se il Paese, se la gioventù, i ceti non organizzati e non organizzabili, facessero sentire la loro voce, forse le speranze potrebbero diventare più rosee e fiduciose.” Ebbene, era proprio questo collegamento che mancava quasi del tutto agli unitari (come pure ai massimalisti, figli di una stessa età storica), ed il pessimismo della Kuliscioff sul popolo “che non si commuove per ragioni idealistiche” non aveva alcun significato perché ella avrebbe dovuto confessare che un intervento attivo del popolo nella vita politica del paese non era mai stato preso in considerazione dai suoi compagni, tutti e soltanto impegnati nello sforzo di dare al proletariato organismi di difesa e di tutela, politici e quasi prettamente parlamentari, ma non di partecipazione. Tanto che la stessa Kuliscioff accennava all’augurio che facessero sentire la loro voce “il Paese [non meglio specificato], la gioventù e i ceti non organizzati e non organizzabili,” cioè tutti quegli strati nei quali non era penetrata la propaganda dei socialisti, anche perché essi si erano rivolti in particolare ai ceti organizzati e organizzabili, cioè il proletariato industriale, che era, secondo la dottrina classica di Marx, la vera ed unica classe rivoluzionaria, o almeno quella su cui un partito socialista avrebbe dovuto soprattutto contare; la conseguenza, molto grave, era che i contadini, la gioventù e i ceti non organizzati e non organizzabili - ad esempio, i disoccupati -, non rientravano nella prospettiva marxiana, la quale, pertanto, non era in grado di affrontare, con una adeguata base teorica e con una visione chiara e organica delle alleanze necessarie agli operai, le fasi di crisi, fosse questa provocata da processi deflazionistici o da processi inflazionistici.

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Capitolo quindicesimo Incertezze dei socialisti unitari e contrasti con i massimalisti Il problema dei piccoli proprietari Ben poche speranze però, potevano nutrire le correnti antifasciste in un loro trionfo pacifico e spontaneo per un cedimento improvviso del regime, se vedevano, nelle zone agricole, come la Lomellina, i fascisti chinare il capo, ubbidienti, di fronte alla tracotanza degli agrari e dei fittabili, che apertamente si ribellavano al patto fatto loro firmare dagli esponenti di quello che il Rossoni aveva cominciato a definire “sindacalismo integrale,” che non era, poi, che quello fascista, che sarebbe sfociato, di li a poco, nelle corporazioni. Ogni tanto, qualche settimanale fascista sembrava risvegliarsi ed allora denunciava, facendosi forte di ciò che aveva detto il duce sul presunto obbligo che avrebbero avuto i datori di lavoro di non approfittare troppo della pace sociale instaurata dal regime, agrari e fittabili additandoli per nome al pubblico disprezzo: ad esempio, nell’ottobre del ‘23, “Il Risveglio,” foglio fascista di Mortara, segnalava ai suoi lettori i signori agrari di Confienza, De Giorgi di Nicorvo ed il fittabile della Cascina Torre (Robbio), definendoli i peggiori, fra gli agricoltori lomellinesi, perché “ostili alle organizzazioni sindacali e noncuranti dei concordati. 421

Violatori,” aggiungeva, “da tempo e ripetutamente in vario modo, ma sempre gravemente, dei patti di lavoro, non oggi intendono munirsi di regolare contratto. Questi signori, per ignoranza crassa e per un protervo idiotissimo senso di individualismo, ostentano dispregio per ogni disciplina sindacale. Essi credono di poter impunemente far i loro comodacci, sollevando ondate di esasperazioni da parte dei lavoratori, i quali, rigidi nel compiere, verso i datori di lavoro, i propri doveri, esigono con santa ragione che, a lor volta, i datori di lavoro adempiano scrupolosamente, verso i lavoratori, agli obblighi fissati nei patti di lavoro adottati in tutta la Lomellina e prescritti da chiare deliberazioni prefettizie. Abbiamo denunciato all’autorità i tre agricoltori indicati; pubblicheremo il nome e dcnunceremo del pari alle autorità gli agricoltori che vorranno imitare i tre. Occorre tener ben presente che il ritorno alla legalità non significa garanzia di ‘immunità’ per i prepotenti, e che in tutti i tempi, nonostante la ‘legalità,* fra gli ingiustamente lesi nei propri diritti, c’è stato sempre qualcuno che ha saputo farsi sentire.” “La Plebe” rispondeva quasi subito facendo altri nomi di agrari e di fittabili che, di quello stampo, erano legione e che, pur con i nuovi concordati che il fascismo aveva concluso in fretta concedendo loro “libertà di collocamento e di pagamento quasi identiche a quelle di venti anni fa,” si dimostravano “ugualmente incontentabili” rivelando “una ‘forma mentis’ che è tra i fattori che rendono inevitabile […] la lotta di classe.” Il fatto era, concludeva l’organo della Federazione unitaria di Pavia, che essi sentivano “che il fascismo è ancora troppo agrario per fare sul serio; sanno benissimo che il sindacalismo fascista, che nega la lotta di classe, vale a dire l’evidenza, non può essere pericoloso per loro; e non si sgomentano delle sparate a polvere di qualche irriducibile mentalità bolscevica passata al fascismo per istinto 422

di conservazione.” Anche “La Difesa,” in merito al concordato agricolo per l’Alto Milanese, osservava, nell’aprile del ‘23, che la Federazione dei lavoratori della terra aveva firmato sì il patto, ma dichiarando “che si trattava di un passo indietro in quanto si è dovuto cedere molto ai proprietari.” Eppure, malgrado ciò, l’Associazione dei proprietari non aveva sanzionato l’accordo ed aveva sconfessato i loro rappresentanti che avevano discusso e firmato il concordato. Si era distinto, fra essi, “il ben noto reazionario prof, r commendatore Colombo, proprietario di Sedriano,” che aveva preso posizione contro il “più elementare spirito di conciliazione e di pace a cui si ispirava il concordato,” che, peraltro, era stato firmato dai rappresentanti degli agrari, “dal duce della provincia per i fascisti, ora comm. avv. C. M. Maggi” e dai rappresentanti delle organizzazioni dei contadini bianchi e rossi. Già in precedenza, l’on. Bellotti, segretario delle Federazioni della terra, aveva inviato al ministro dell’Agricoltura una interrogazione, sebbene sapesse che non avrebbe sortito nessun effetto concreto, perché, se i proprietari tiravano straordinariamente il can per l’aia, questo era dovuto al fatto che si sentivano protetti dallo stesso ministro, “che, essendo anch’egli un proprietario, non si preoccupa minimamente del sordo malcontento dei poveri lavoratori.” Verso la metà del ’24, la situazione non era affatto mutata, e lo stesso Bellotti, intervenendo ad una imponente assemblea dei contadini, denunciava, come riferivano “Battaglie sindacali,” “le inadempienze da parte dei proprietari,” che si ripetevano “con una frequenza impressionante. E i Sindacati fascisti non fanno nulla per esigere il rispetto dei concordati da loro stipulati e sottoscritti. Fece rilevare come i fittavoli, oggi, si trovino a mal partito a cagione dell’esodo della mano d’opera agricola, che viene ad impiegarsi nei lavori edilizi 423

della città. Ciò è conseguenza dei licenziamenti avvenuti, nell’ultimo S. Martino [11 novembre del ’23], di molte famiglie obbligate col pretesto di assumere personale più idoneo, mentre, in effetti, non miravano che ad eludere le condizioni contrattuali ed a creare il mezzo per aumentare il canone di affitto per locali di abitazione. Credevano, infatti, i proprietari, col licenziamento degli obbligati, di creare una riserva di avventizi, ma questi, che hanno capito il giuoco, vengono in città a lavorare mentre la terra esige braccia che la fecondi.” Senza dubbio, la Federazione della terra doveva dibattersi tra difficoltà di ogni genere, e la zona che più destava preoccupazioni nei suoi dirigenti era quella dell’Alto Milanese, i cui contadini erano rimproverati da “La Difesa,” ripetutamente, di “avere ripudiato, con grande gioia dei proprietari, il concordato del 1920, che fissava il contratto novennale ed il diritto dei contadini al rimborso delle spese fatte pel miglioramento dei fondi, oltre alle altre garanzie del contratto.” Ma quei contadini trovavano relativamente facile recarsi nella non lontana grande città - ad ogni modo, molto più dei contadini della Lomellina -, oppure supplire al mancato lavoro nei campi con il lavoro nelle numerose fabbriche tessili, alle quali gli accordi del governo con alcuni paesi balcanici avevano consentito di incrementare in misura notevole le esportazioni1. La Federterra, inoltre, era nella alquanto strana situazione di sostenere e di difendere il patto firmato dai fascisti, perché gli agrari cercavano insistentemente di sottrarsi ad esso, di negargli validità e di ripudiarlo. Oppure i proprietari ricorrevano ad un’arma più sottile, che consisteva nell’avanzare la richiesta di riesumare l’arbitrato obbligatorio, che aveva sempre rappresentato, per loro, “la tirannia codificata contro cui si scagliarono le pietre delle loro argomentazioni… in nome della dea libertà.” “La Difesa” così commentava questa, in apparenza, 424

assurda richiesta: “Ma sapete che i dirigenti della Confederazione generale dell’agricoltura sono, come si dice, dei bei tipi? Quando il fascismo era appena nato e si esercitava col manganello, gli agrari gli furono larghi di aiuti e di incoraggiamenti. Fra fascisti ed agrari per molti mesi si è filato il più perfetto amore… in odio al socialismo. Ora le cose incominciano a cambiare. I due amanti si fanno dei dispettucci. Il fascista giura… che finirà per rompere la testa all’Agraria se questa non si decide a passare completamente sotto le sue tende. L’Agraria s’impunta, strilla, vuole la sua libertà e per farla al fascista propone… l’arbitrato obbligatorio. Ecco. Noi stimiamo gli agrari… capaci di tutto, ma non avremmo mai pensato che arrivassero, loro!, a proporre l’arbitrato obbligatorio […]. Ma le cose, vedrete, si accomoderanno,” era la giusta convinzione del giornale. “Non è possibile che i due dimentichino i servigi che graziosamente si sono scambiati. Torneranno a… collaborare per il (si dice così) superiore interesse nazionale.” I proprietari tentavano pure di liberarsi dall’abbraccio fascista che minacciava di soffocarli, strillando maledettamente e rivendicando la libertà di fare da sé di fronte allo sforzo dei dirigenti fascisti di “unire in un solo calderone sindacale padroni e lavoratori per… esercitare con profitto la loro funzione di arbitri.” In questo atteggiamento contrario alle imposizioni delle camicie nere, gli agrari avevano l’intero e convinto appoggio dei fittabili, che, dopo avere ottenuto la libertà di assunzione della mano d’opera, che era stata coartata e impedita dalle organizzazioni rosse, mediante l’abolizione delle Commissioni di avviamento al lavoro e degli Uffici di collocamento, pochi mesi più tardi erano stati costretti ad assistere alla ricostituzione di quegli organismi così invisi da parte degli stessi fascisti, i quali si preoccupavano di non essere del tutto abbandonati dai braccianti. Pertanto, 425

il grido “Viva il fascio” era rimasto loro in gola. Ecco perché l’alleanza agrari-fittabili si ricreava di continuo nella solidarietà degli interessi, tanto più che, in definitiva, il leone fascista si dimostrava un leone di carta. Nel discorso del Bellotti, di cui abbiamo riportato il breve riassunto di “Battaglie sindacali,” sembrerebbe, invece, che i fittabili potessero assumere una posizione diversa da quella dei proprietari, perché colpiti dal forte esodo della manodopera, ma si trattava di un dissidio che rapidamente si ricomponeva. Dubitiamo, perciò, che la prospettiva indicata al movimento contadino da G. Di Vittorio, in un articolo su “L’Unità” del settembre ‘24, in cui accennava alla istituzione di una Associazione dei contadini in difesa dei mezzadri e dei piccoli fittavoli meridionali, potesse realizzarsi anche nel settentrione: scriveva, infatti, il Di Vittorio: “La nostra obiettiva esposizione dimostra chiaramente come, mentre i contadini si vedono annullato il cinquanta per cento delle loro sudate fatiche, i proprietari realizzano utili altissimi. Questa grave, insopportabile ingiustizia, che fa ripercuotere unicamente sui lavoratori gli effetti disastrosi della crisi, riducendoli alla fame, comprova il carattere brigantesco dei patti di mezzadria e di piccola fittanza che sono stati imposti ai contadini, approfittando largamente della disoccupazione cronica che li colpiva e della mancanza di una grande, forte organizzazione di contadini, che avesse la forza di porre fine alla sconfinata ingordigia dei grandi terrieri! - In tali condizioni la istituenda Associazione di difesa fra i contadini del Mezzogiorno ingaggia senza esitazioni la lotta in difesa dei più vitali interessi dei mezzadri, dei fittavoli e dei piccoli proprietari (pur essi danneggiati, se pure in misura minore), e dei contadini in genere.” I termini della lotta politica e sociale, pertanto, nel passaggio dal sud al nord, si modificavano nella 426

pratica impossibilità di opporre al fascismo una larga alleanza di classi e di categorie che avevano interessi divergenti, come quella che auspicava il Di Vittorio (e che, seppure in misura minore, era forse impossibile anche nel Mezzogiorno, dove, probabilmente, i fittabili non erano esponenti di una borghesia agiata che aveva investito i suoi capitali nella terra, ma rimanevano pur sempre separati dai contadini da tutta una impalcatura ideologica che non avrebbe mai consentito loro di abbassarsi al livello di una classe considerata inferiore), e tutt’al più si sarebbe potuto giungere ad una più ristretta intesa fra i contadini e i piccoli proprietari (se questi ultimi, però, avessero rinunciato, almeno in parte, a un atteggiamento sempre e duramente anti-contadino) in contrasto con il blocco avverso, formato da fascisti-agrari-fittabili. Poteva sembrare, questa alleanza fra contadini e piccoli proprietari, una speranza non del tutto immotivata, perché “le tabelle per la nuova tassa di ricchezza mobile” - scriveva nel maggio del ‘23 “La Plebe” -ricadevano soprattutto sui piccoli proprietari e sui mezzadri (abbiamo già riportato tutto il passo). Da tutti i particolari riferiti dal periodico, si poteva vedere che il fascismo al potere era riuscito nell’intento, che era già stato di tutti i governi precedenti dall’unità in poi, di far pagare le tasse - “la ricchezza mobile, o l’esercizio, o il focatico, o il bestiame, o l’anticristo!” - non solo ai contadini, ai salariati, ai braccianti, agli avventizi, agli obbligati, alle mondine che aderivano tutti alla socialista unitaria Federazione della terra, ma anche ai piccoli proprietari che lavoravano e ai mezzadri, senza nemmeno porsi il problema di farle pagare ai “grossi.” Dovevano, pertanto, pensare, questi socialisti unitari, che non fosse molto lontano il giorno in cui sarebbe diventato inevitabile un accordo dei contadini con i piccoli proprietari, che, una volta - ricordava “La Plebe” 427

avevano mandato i loro figli a distruggere le cooperative, con il miraggio di una “Italia nuova, piena di libertà e senza tasse,” e si ritrovavano, invece, addosso la tassa sul vino che rimaneva, a cui si era aggiunta “quella sui redditi agrari e le minacce di proibire quasi la vendita dei nostri prodotti,” rovinando “quasi completamente la nostra agricoltura!” A questa breve corrispondenza da Broni, il giornale aggiungeva un commento, in cui ribadiva “quel che abbiamo detto le cento volte. I piccoli proprietari sono lavoratori, e possono star bene solo quando sta bene il lavoro. «Essi hanno creduto, perché ebbero alcune annate favorevoli, di seguire la causa dei grossi capitalisti; pagano ora per questi e vanno a male col lavoro che è oppresso.” La stessa cosa avveniva con i piccoli esercenti, che cominciavano a non essere contenti del nuovo radioso ordine di cose. Erano tutti piccola gente che aveva ritenuto, facendo distruggere qualche cooperativa, di diventare grandi; ma avevano sbagliato i loro calcoli, perché “chi dava loro da vivere era, e dovrebbe ancora essere, la piccola gente: schiacciata questa, col loro aiuto, rimasero bene in piedi solo i magnati, ed il piccolo commercio langue, ed è gravato di tasse.” “È inutile,” concludeva “La Plebe,” “i piccoli devono sempre unirsi coi piccoli ed aiutarsi a vicenda.” Sul problema dei piccoli e dei ceti medii si aprì ben presto una polemica fra gli unitari ed i socialisti massimalisti, che avevano espulso i primi dal vecchio partito in cui avevano vissuto uniti, all’inizio del ‘22, nella speranza che, collaborando con la classe dirigente liberale, potessero evitare la vittoria del fascismo; essi avevano come loro organo l’antico “Avanti!” Fra il settembre e l’ottobre del ‘23, C. Treves, in un articolo sulla “Critica sociale,” credeva di poter vedere, nelle ormai annunciate nuove elezioni, dipanarsi “un processo inesorabile di selezione e di 428

trasformazione” nel fascismo: questo perché lo Stato mostrava la tendenza a ricuperare “la sua signoria, riscattandosi dalla limitazione particolaristica del partito. E del partito l’elemento-massa si porrà alla deriva della massa della concentrazione, e l’elemento-individualità si troverà davanti alle ipotesi più estreme, non escludendo, per quelli che al fascismo hanno portato generose illusioni di emancipazione dalle vecchie signorie parlamentariplutocratiche, il loro passaggio all’opposizione sovversiva.” Ma era a questo punto che l’analisi del Treves diventava forse un po’ troppo semplicistica ed anche alquanto superficiale, poiché, partendo dalla crisi che trapelava apertamente dalle file delle camicie nere, giungeva ad affermare, con il solito fatalismo della sua corrente, che l’esito della lotta era “segnato dalla necessità delle cose, superiore alla volontà degli uomini”. A noi questa “necessità delle cose? che avrebbe dovuto travalicare la “volontà degli uomini? può far sorridere, come, allora, destava una critica aspra e serrata da parte della nuova generazione; ma, evidentemente, si trattava, per gli unitari (e in buona parte anche per i massimalisti) di una radicata visione della vita e degli eventi umani a cui non avrebbero potuto rinunciare senza vedersi crollare addosso il castello che vi avevano costruito sopra. Infatti, per il Treves, il passaggio dei fascisti alla opposizione era facile: “Molti dei ceti medii, quasi tutti i combattenti, molti fascisti si sentiranno soffocare nelle angustie di una concentrazione clericofinanziaria, intrepida a spogliare lo Stato dei suoi servizi, a chiudere le scuole pubbliche, a scaricare di tasse i ricchi per caricarne i poveri… Allora molti diranno tra sé e sé: ‘Ah! non per questo!…’” Tuttavia, lo stesso Treves non si faceva molte illusioni sul post-fascismo e diceva che, se era lecito rallegrarsi del corso che stavano prendendo le cose, non era possibile “illudersi che la normalità costituzionale, che 429

seguirà immediatamente, sia per essere un eliso di gioie per le classi lavoratrici? “La Plebe” prendeva lo spunto da questo articolo per indicare quale, a suo parere, avrebbe dovuto essere il dovere degli unitari qualora si fosse voluto evitare che, un atteggiamento inerte da parte loro, agevolasse l’instaurazione di una “concentrazione plutocratica? da cui sarebbe scaturita sì la legalità invocata ma anche l’asservimento economico e politico del proletariato. L’organo pavese parlava già di ricostruzione di tutto ciò che era stato distrutto prima dalla guerra e poi dalla reazione, una ricostruzione in cui le classi lavoratrici avrebbero dovuto incontrare l’aiuto della borghesia democratica: “Ma come a questa opera ricostruttrice non soltanto il proletariato è interessato, bensì ancora quella parte della borghesia che nella ripresa economica, nello sviluppo e nel perfezionamento della produzione, e quindi nella pace e nella libertà, trova la sua ragione di vita; così la ‘ricostruzione’ non potrà essere compiuta se non dalla forza del proletariato e della borghesia democratica coalizzate. Quest’ultima, oggi, in Italia, è titubante, disorganizzata, disorientata. Qua e là qualche tentativo timido di riscossa si affaccia e sembra affermarsi. Di fronte a tali tentativi il nostro Partito non deve rimanere inerte. Ecco il suo compito: contro la concentrazione plutocratica che si avanza, esso deve suscitare la concentrazione socialista democratica.” Proprio su questo compito e su queste linee direttive si svolse la polemica con i massimalisti (che erano l’obiettivo da colpire più immediato per gli unitari) e, indirettamente, con i comunisti. I “cugini massimalisti” - così li definiva “La Plebe,” ai primi dell’aprile ‘24, quando si era in piena campagna elettorale - avevano diffuso tra gli operai e nelle campagne un “opuscoletto polemico di propaganda elettorale,” nel quale si poteva leggere, come 430

abbiamo già visto, uno spunto contro “i cosidetti socialisti unitari,” i quali presentavano “un simbolo attraente, su cui c’è scritto ancora la parola Socialismo. Che cosa sono i ceti medi?” si domandava “La Plebe,” scavando sempre più il dissidio con i cugini (anche questo passo lo abbiamo riportato, ma ci sembra opportuno riprenderlo adesso). “Sono, all’ingrosso, i piccoli proprietari ed i ceti intellettuali. Orbene, la molta parte della nostra provincia, nell’Oltrepò, nel Corteolonese, nel Bobbiese, il Partito socialista trovò sempre cospicue forze precisamente nei piccoli proprietari, i quali, in definitiva, sono degli sfruttati come, e talvolta più dei proletari veri e proprii. Per questi piccoli proprietari il socialismo sarà liberazione non meno che per i braccianti e per gli operai. E noi dovremmo abbandonarli a se stessi, agli inganni del partito popolare e del fascismo, renderli nemici del proletariato per una male intesa purità di classe? Noi dovremmo respingere dalle nostre file i ceti intellettuali come se il socialismo interessasse soltanto i fabbri ed i contadini?” Era proprio questo, senza dubbio, il punto di maggior dissenso fra gli unitari e i massimalisti, i quali perseguivano un programa di assoluta intransigenza nei riguardi di tutte le frazioni della borghesia, ritenendo che essa operasse sempre, sotto qualsiasi tinta, a danno del proletariato, pur non negando che, quando si muoveva su un terreno liberaldemocratico, facesse al proletariato meno male; ma, aggiungevano, ritardava il processo di evoluzione e di maturazione politica e sociale delle masse popolari e le allontanava dalla mèta finale. Si trattava di una posizione che voleva essere rigidamente classista e che portava a basarsi unicamente sul proletariato, in particolare su quello urbano, in cui Marx aveva scorto la sola classe rivoluzionaria. Né si poteva dire che un simile programma non avesse qualche effettivo riscontro nella realtà del nostro 431

paese: come si poteva, infatti, ricercare una alleanza con gli intellettuali, che si erano dimostrati, nella loro grande maggioranza, ostili al proletariato e che erano confluiti, in maggioranza, nelle file del nazionalismo favorevole alla guerra e del fascismo, sostenitore del grande valore ideale dell’intervento? Oppure, come si faceva a tentare una alleanza con i piccoli proprietari, dal momento che la base più solida, per i socialisti, erano sempre stati, nelle campagne, i salariati, i braccianti, ecc.? Tuttavia, la separazione fra le due correnti del socialismo, anche se artificiosa sul piano ideologico e culturale, era giusta e, verrebbe fatto di dire, quasi inevitabile sul piano politico e sociale, perché se i massimalisti rimanevano fedeli e attaccati al proletariato, inteso esclusivamente come lavoratori delle fabbriche e dei campi, gli ex-riformisti, poi unitari, erano sempre rimasti più legati ad un ceto medio generico di piccoli esercenti, in minima parte di piccoli coltivatori (i quali avevano trovato un rifugio più adatto ai loro interessi nel partito popolare), e di ceto medio cittadino: tant’è vero che anche i 24 deputati che ottennero nelle elezioni del 6 aprile ‘24 (“Il nostro partito,” esclamava “La Plebe,” “fra i partiti proletari, è quello che ha ottenuto il maggior numero di rappresentanti in Parlamento”), erano quasi tutti dell’Italia settentrionale ed erano stati mandati alla Camera dalle città (in Lombardia tre su quattro, ed il quarto era stato Bellotti, esponente della Federterra). Ma prima dei “ludi cartacei,” come li aveva chiamati il duce, c’era stato chi, nel PSU, aveva manifestato il suo dissenso sulla linea tenuta dai dirigenti, una linea che era consistita in una strenua difesa del “programma del ‘socialismo democratico’, sempre seguito dai socialisti italiani nel periodo che va dal 1892 al 1912,” quando era avvenuta l’irruzione di Mussolini (per socialismo democratico 432

intendevano l’aspirazione alla “restaurazione delle libertà politiche e civili, fuor delle quali è utopistico sperare che le organizzazioni proletarie possano vivere e svilupparsi”), e, pertanto, in una dura lotta contro i massimalisti, di cui venivano denunciate continuamente le collusioni con i comunisti, dei quali, secondo “La Plebe,” non avevano “ancora ufficialmente abbandonato il programma (mozione di Bologna)”; e verso i comunisti gli unitari erano violenti e li dicevano “quattro gatti affamati in cerca di allodole da azzannare. I comunisti si sono meritatamente acquistato il discredito universale ed è bene che insteriliscano nel loro isolamento.” Il dissenso di un certo E. Frigoli era stato provocato dalla deliberazione di un “recente convegno nazionale socialista unitario” (forse quello del 24 giugno della Federaz. soc. unit., a Milano) con cui si era espressa una “irriducibile opposizione (presente e futura) al governo fascista” e al fronte unico proletario. Dopo aver respinto sdegnosamente l’accusa dei massimalisti di essere caduti nella collaborazione di classe2 e dopo aver accettato quella che agli avversari politici poteva sembrare una denuncia ma che per loro non lo era affatto, di avere cioè ricercato l’alleanza dei ceti medi, gli unitari vedevano nascere nel loro stesso seno una proposta che mirava, in ultima analisi, a far perdere i caratteri che il PSU cercava di difendere accanitamente: perché, l’accogliere l’esortazione a deporre la “recisa avversione al cosiddetto fronte unico” avrebbe voluto dire rinnegare la propria tradizione e accettare “la peggiore delle collaborazioni” perché con i massimalisti ed i comunisti, una collaborazione sarebbe stata peggiore perfino dell’altra con i fascisti. Il Frigoli, applicando alla situazione italiana del ‘23 una nota tesi marxiana, affermava che si era di fronte ad un “capitalismo giunto al sommo del suo sviluppo,” che, pertanto, “per mantenersi in sella deve cessare di essere 433

liberale per diventare reazionario,” anche se ciò avesse aperto la strada all’“ inevitabile sbocco rivoluzionario.” Ed apertamente scendeva sul terreno dei massimalisti, sostenendo che “le teoriche socialiste non conoscono contatto alcuno con gli elementi borghesi.” Da tali premesse scaturiva la conclusione: “Cerchino tutti coloro che vogliono la liberazione del proletariato i contatti a sinistra. Il fronte unico rianimerà i lavoratori, richiamerà i dispersi, mentre i patteggiane col nemico, delusi del fallimento, andranno alla deriva. Allora i lavoratori, ricordandosi di esser tali, vedranno la loro liberazione attraverso l’unità in nome del socialismo!” Erano parole che sembravano ai dirigenti unitari tante imprecazioni, ed essi replicavano offesi, insistendo sulla solita posizione, cioè che il loro scopo immediato era la “riconquista delle libertà democratiche, perché, all’infuori di esse, il proletariato non potrà mai realizzare alcuna conquista duratura.” Ma da diverse parti dovevano giungere analoghe proposte, se Sino era costretto a respingerle, nel dicembre ‘23, rispondendo ad “alcuni vecchi compagni” che avevano scritto: “Noi stiamo in disparte perché vediamo il Partito diviso; mentre la reazione si riunisce e tende ai blocchi [resi necessari dalla legge Acerbo che aveva modificato la proporzionale in senso maggioritario], non dovremmo anche noi unirci per la comune difesa? Uniti torneremmo ancora forti, mentre così divisi come ora… siam canaglia!” E Sirio a spiegare che, prima di rifondersi, i due tronconi del socialismo dovevano mettersi d’accordo sul modo come usare la nuova forza che sarebbe derivata loro; e, soprattutto, a chiarire ciò che differenziava gli unitari dai massimalisti: “Ci sono ancora dei compagni […] che pensano che il mondo possa o debba rifarsi con la violenza; credono inutile la conquista dei poteri anche centrali, quale si apprestano ora a fare i lavoratori d’Inghilterra; aspirano ad essere forti per l’istinto di 434

rappresaglia; non si persuadono che la civiltà del lavoro dovrà essere civiltà di educazione, di altruismo, di fratellanza e di solidarietà umana.” Avvicinandosi le elezioni, il PSU avanzava la proposta di astenersi, incontrando, però, prima il rifiuto dei comunisti e, poi, dei massimalisti e dei repubblicani. Si era avuta, allora, una “nuova lega elettorale dei comunisti e dei terzinternazionalisti [guidati da Serrati, Riboldi, Maffi],” che aveva voluto “presentarsi alle masse sotto il nome di ‘alleanza social-comunista’, sventolando la bandiera dell”unità proletaria.’” Una volta fallito l’accordo per l’astensione, nessun altro accordo - proclamavano gli unitari -era possibile fra socialisti e comunisti: e di nuovo ribadivano la loro ormai ben nota posizione: “Fra chi vuole abbattere la dittatura fascista per instaurare la propria, usando gli stessissimi sistemi della prima contro tutti gli avversari, socialisti compresi; e chi vuole invece (come noi vogliamo) abbattere la dittatura per sostituirla con un ordinamento democratico, nel quale ogni partito abbia la possibilità di farsi valere unicamente in ragione della propria forza e coscienza politica: fra costoro non esiste nessuna possibilità di intesa.” Per “La Plebe,” l’alleanza terzinternazionalista-comunista non era “altro che uno dei trucchi volgari, nei quali i bolscevichi nostrani si sono da tempo dimostrati maestri, per disgrazia del proletariato italiano!” Molto probabilmente, questa intransigenza e questa decisa e continuamente gridata ostilità degli unitari contro una anche lontana ipotesi di alleanza, derivava dal fatto che essi dovevano avvertire che la base su cui poggiavano era molto fragile e si lasciava facilmente attirare dalla sirena fascista: i piccoli proprietari non erano affatto quel piedistallo così sicuro quale avevano amato raffigurare (dimostrando, peraltro, una ingenuità molto grave in uomini politici e in sindacalisti, come se non 435

avessero mai avuto il modo di provare fino a che punto giungesse la loro fedeltà all’idea socialista), ed anzi, al di qua e al di là del Po, si mettevano insieme con “i grossi latifondisti o fittabili delle terre grasse.” A loro volta, i lavoratori e le lavoratrici delle filande e dei filatoi nell’Alto Milanese e in Brianza, come disse il comm. A. Ferrano, rappresentante dei filandieri in una assemblea tenuta a Milano, il 2 maggio ‘24, erano rientrati ordinatamente nei ranghi, tanto che il Ferrano poteva constatare “con piacere la quasi assoluta mancanza di contrasti con le maestranze, per il ristabilirsi dei migliori rapporti con esse, in virtù del migliorato spirito e per un giusto sentimento della necessità di produrre senza scosse e interruzioni”: cosa di cui si preoccupavano molto gli industriali della seta, i quali - osservavano “Battaglie sindacali” - avevano tratto notevoli profitti “dalla sciagura che colpì il Giappone (il più temibile concorrente) per aumentare i prezzi a più non posso. Il terremoto nell’estremo oriente, scuotendo le case del Giappone, rafforzò le casse dei serici italiani. Dalla fortuna sulla disgrazia, naturalmente gli operai non approfittarono per un solo centesimo.” Ma si può capire questa “quasi assoluta mancanza di contrasti,” in un settore produttivo, quello tessile, i cui lavoratori si adattavano a salari inferiori avendo, vicino, il piccolo orto o campicello da cui trarre il proprio sostentamento: il che si traduceva in minor coscienza di classe, che è poi sempre anche minor consapevolezza della propria dignità umana, e, di conseguenza, sul piano politicosindacale, in una adesione al socialismo riformista e unitario, che era quello dai contorni più vaghi e imprecisi. Da quanto siamo venuti dicendo, si può capire come, se qualche partito dell’opposizione era isolato, questo era proprio il PSU: infatti, esso aveva respinto volutamente e sprezzantemente la concentrazione proletaria, ossia il fronte 436

unico per il governo operaio, cullandosi nella irrealizzabile prospettiva della concentrazione democratica (quali erano i partiti democratici che avrebbero potuto far parte di una simile concentrazione?), e, nel tempo stesso, avvertiva che gli strati su cui si era esercitata la sua influenza, o che almeno sperava di poter convogliare nella sua iniziativa, a poco a poco si allontanavano. Così, rimaneva solo su posizioni che ormai erano di una fedeltà ad un astratto marxismo, perché non aveva - e nemmeno si era sforzato, per una precedente educazione che gli era penetrata fin nel profondo - voluto capire l’insegnamento volontaristico di un Lenin: come quando Leo scriveva, su “La Plebe” dell’ottobre ‘23, di essere convinto che l’unica rivoluzione possibile per il proletariato era quella indicata dal socialismo, e chiedeva ai compagni di restare “fermi nel nostro marxismo” (un marxismo dei testi sacri e non della vita che continua a svolgersi), di ostinarsi “a credere che solo dall’antitesi delle classi si avvererà il superamento delle classi con l’abolizione del salariato,” e di credere fermamente sempre “che tale superamento e la trasformazione del salariato in libero produttore, siano le condizioni indispensabili per una nuova civiltà.” Forse (ci scusiamo di tutte queste forme dubitative: probabilmente, forse, ma esse ci sembrano naturali in problemi che non hanno un supporto adeguato di documenti o di testimonianze) fu questo sostanziale isolamento che parve convincere, verso la metà del ’23, alcuni “uomini socialisti, dirigenti,” scriveva “La Difesa,” “del movimento operaio che fanno capo alla Confederazione generale del lavoro,” ad accettare le profferte di Mussolini, che non era riuscito a persuadere tutti i lavoratori ad unirsi al suo carro: “Questo ha riaperta la discussione sull’opportunità di accettare o no di collaborare con la borghesia prima e col fascismo ora. Alcuni dirigenti della Confederazione del lavoro e vari 437

socialisti […] erano favorevoli a collaborare con gli avversari per poter difendere in qualche modo il proletariato e, pur non rifiutando di trattare con Mussolini, non sono però dello stesso parere e non accettano di collaborare.” Ma si vede che questo atteggiamento non era penetrato nella massa degli iscritti, se, il 23 e 24 agosto ’23, si tenne a Milano una riunione dei rappresentanti di tutte le organizzazioni dei lavoratori d’Italia aderenti alla CGdL con l’intento di esaminare in tale riunione (che, come riferisce “La Difesa,” “riuscì numerosa”) se era il caso di accettare, se chiamati dal duce, “a collaborare con lui nel Governo fascista.” La discussione mise in rilievo una certa divergenza di vedute perché vi furono i favorevoli e i contrari ad una simile collaborazione: alla fine fu votato il seguente ordine del giorno: “Il Convegno, udita la relazione D’Aragona, rilevando che l’azione svolta dal Comitato esecutivo è stata rigorosamente intonata all’indirizzo confederale, l’approva e conferma al Comitato la sua fiducia, ribadisce il principio dell’indipendenza dell’Organizzazione sindacale dalla politica dei Partiti e dei Governi, afferma che tuttavia l’indipendenza dai Partiti impone alla Confederazione una sua politica di lavoro che ha per base essenziale la libertà intesa non con un ristretto e miope egoismo corporativistico, ma compresa in una più ampia concezione che involge tutti i problemi della vita moderna, riunione, stampa, parola, nei quali sta la garanzia dei cittadini che è il presupposto della garanzia degli operai. Dichiara che la politica confederale non può avere pregiudiziali e deve valutare nei suoi sviluppi il concreto indirizzo della politica del Governo; conferma il suo proposito di agire, pur fra le difficoltà del momento, per la difesa di quegli interessi operai nei quali, in trenta anni di lotta, si identificano veramente [con] il processo di elevazione dell’ambiente agricolo industriale italiano e la 438

effettiva prova che i lavoratori non si sono straniati dalla Nazione, ma furono e sono gli artefici più generosi e disinteressati della sua grandezza.” Era un ordine del giorno estremamente ambiguo ed esclusivamente preoccupato di dare un colpo al cerchio (piano ed attutito) e un colpo alla botte (piu forte e vigoroso) infatti, si faccia attenzione al crescendo che chiude l’ordine del giorno, con una piaggeria nei confronti del fascismo, che non era affatto degna di un organismo che aveva alle spalle trenta anni di lotte in favore della classe lavoratrice: parlare di interessi operai che dovevano identificarsi con il processo di elevazione dell’ambiente agricolo-industriale; di lavoratori che non si erano straniati dalla Nazione (con la N maiuscola) e che erano sempre stati “gli artefici più generosi e disinteressati della sua grandezza.” Il crescendo terminava assumendo quasi un tono fascista, abbastanza trasparente negli accenni alla Nazione e alla sua grandezza. Evidentemente, i partecipanti alla riunione milanese, (che avrebbero dovuto essere tutti elementi qualificati) non erano al corrente delle condizioni che P. B., sempre su “La Difesa,” aveva posto ad una eventuale collaborazione: “se Mussolini potesse dare garanzie, che i suoi gregari non permetteranno di dare, e cioè libertà ai lavoratori di far funzionare le organizzazioni loro, poter svolgere la loro azione in difesa e per le conquiste economiche, libertà di propaganda, sia pure nei limiti delle leggi, libertà di vita e riparazione ai danni recati alle cooperative e Case del popolo, e leggi sociali,” se tutto ciò il duce avesse potuto dare, allora sarebbe stata possibile una fattiva collaborazione “per avviare la nazione verso quella sistemazione e ricostruzione tanto necessaria.” E neppure dovevano avere avvertito, quei dirigenti sindacali che avevano discettato sulla collaborazione o no, le perplessità avanzate da “La Plebe,” la quale criticava gli sfacciati incitamenti dell’“Avanti!” ai confederalisti e agli 439

unitari a dare inizio “alla pretesa collaborazione col governo fascista,” attendendosene dei benefici, per, “in ogni caso, poter poi, con la consueta doppiezza, gridare al ‘tradimento’ dei riformisti. Il bello si è che anche nel campo massimalista, e perfino comunista, vi è parecchia gente che desidera apertamente e sinceramente che la Confederazione mandi al governo qualche suo rappresentante!…” Ma verrà giorno - concludeva il periodico pavese - in cui anche codesta opera nefanda dei massimal-comunisti (compita contro il proletariato ad esclusivo interesse delle loro screditate congreghe) sarà compensata come si merita. 1 Infatti, la produzione dei filati era ascesa a circa 1.740 migliaia di quintali nella

campagna cotoniera 1923-‘24 ed a circa 1.850 in quella 1924-25, cifre superiori di circa 100 mila quintali alla media delle campagne cotoniere 1911-12 e 1912-13. Per i tessuti ed altri manufatti di cotone, accanto ad una produzione che era passata da 181.956 migliaia di quintali nel 1910 a 164.410 nel ‘23, a 173.270 nel ‘24 ed a 198.530 nel ‘25, si aveva un consumo interno di circa 1.110 migliaia di quintali, consumo che corrispondeva a 2,80 chilogrammi per abitante, in confronto a chilogrammi 3,50, che era stata la media del quinquennio 1909-1913. Era evidente, dunque, che l’esportazione aveva supplito, in buona parte, al diminuito consumo interno, dovuto soprattutto al peggioramento del tenore di vita, tanto che nel biennio ‘23-‘24 si erano avute esportazioni per circa 6 miliardi di lire (passando, per i tessuti, a 517 migliaia di quintali nel ‘24 ed a 642 nel *25 da 341 nel 1910 e 428 nel 1911). Il Mortara afferma che “l’esportazione dei filati è diretta per la massima parte a paesi della penisola balcanica e del Levante e solo in modesta proporzione a paesi industrialmente progrediti.” Altrettanto avveniva per i tessuti che trovavano i principali sbocchi nei Balcani e nel Levante, che assorbivano i tre quinti delle nostre esportazioni in tale settore (in Romania andavano, nel ‘24-‘25, filati per 15,9 migliaia di quintali contro i 9,2 nel 1913; in Bulgaria 24,1 contro 4,9; in Jugoslavia 15,3; manca il dato per il 1913, mentre i tessuti avevano subito il seguente andamento: verso la Grecia da 12,3 nel 1913 a 23,5 nel ‘23-‘24 ed a 38,5 nel ‘24-‘25; verso la Romania da 9,1 a 35,1 e a 35,4; verso la Bulgaria da 4,2 a 17,9 e a 10,8; verso la Jugoslavia - anche qui manca il dato per il 1913 - da 53,1 a 43,3 rispettivamente nel ‘23-’24 e nel *24-*25). Cosi, il Mortara poteva scrivere che “la Jugoslavia, la Grecia, la Bulgaria, la Romania assorbono grandi quantità di tessuti italiani” e se la Turchia non aveva registrato un simile aumento, ciò era dovuto al fatto che aveva subito diminuzioni territoriali con il trattato di Sèvres. Era diminuita l’esportazione

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verso l’Eritrea, dove eravamo battuti dalla concorrenza dell’industria asiatica, ma ci eravamo rafforzati sui mercati delle Indie olandesi, dell’Egitto e dell’Argentina: il che destava allarmi sulla stampa inglese, perché la Gran Bretagna era abituata ad un quasi secolare predominio sui mercati mondiali per quanto riguardava i tessili. Ma il Mortara tendeva a sminuire la minaccia italiana, affermando che era stata “esageratamente apprezzata la capacità di concorrenza dell’industria italiana.” Come si vede, anche in questo campo, nihil sub sole novi, dato che sembra essere quasi una legge naturale che il paese che ha conquistato un mercato, non si adatti tanto facilmente a perderlo e lo difenda con le unghie e con i denti, sforzandosi di allontanarne ogni pericoloso concorrente. 2 In un articolo di fondo, Collaborazione e Dittatura, in “La Plebe,” 27 agosto

1923, si respingeva una simile accusa nei seguenti termini: “[…] nei confronti del governo fascista, la cosidetta collaborazione non è affatto per noi una questione di tattica. Qualsiasi considerazione, se un compromesso col governo fascista possa apportare o meno benefici contingenti al proletariato, deve essere preceduta necessariamente da un’altra considerazione: se, cioè, quel compromesso sia conciliabile col METODO e quindi coi principii del Partito socialista. Con ciò la questione tattica scompare completamente. Il METODO del Partito socialista unitario è la DEMOCRAZIA, ossia l’antitesi in diametrale ed inconciliabile contrasto col metodo fascista, la DITTATURA. Ne viene che una collaborazione comechessia con l’attuale governo non solo non potrebbe comunque apportar vantaggi duraturi al proletariato, ma. equivalendo ad una transazione con la dittatura, sarebbe la rinnegazione più aperta dei nostri principii e la liquidazione del Partito. La collaborazione, perché non sia sterile dedizione, suppone che i due contraenti agiscano su un terreno di perfetta eguaglianza politica, ed in piena libertà. Ciò in linea pregiudiziale, suppone poi che gli interessi di coloro che stringono il patto confluiscano in un punto, sia pure transitorio, comune. Esistono oggi queste condizioni? La domanda non abbisogna di risposta. Concludendo, per il Partito socialista unitario, oggi, la questione della collaborazione semplicemente non esiste. Esiste invece la sola necessità inderogabile della lotta per la libertà integrale del proletariato italiano.”

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Capitolo sedicesimo Il dissidentismo fascista e sue caratteristiche: Forni in Lomellina e Misuri in Umbria Inoltre, a rendere ancor più debole ed incerto il procedere degli unitari, era intervenuta, in quel periodo, la crisi interna che travagliava il fascismo e che generava aperte tendenze al dissidentismo: si trattava di un fenomeno che doveva incidere sul PSU, perché minacciava di togliergli buona parte dei suoi seguaci, dal momento che questo dissidentismo si collocava sulla destra e mostrava di volersi rivolgere a quei ceti moderati (piccoli coltivatori, piccoli esercenti, ecc.), che, quasi sempre, avevano aderito alle correnti o ai partiti conservatori oppure al Partito popolare. Le prime avvisaglie si ebbero, alla metà del ’23, con alcune espulsioni dal PNF di elementi che avevano già un passato di lotta (contro i sovversivi), come, a Vigevano, l’avv. Ramella, per indegnità e perché, diceva il giornale dei fasci, “Il Corriere di Vigevano” (che era stato prima “organo dei pacifici liberali”), ambiziosissimo, o “nientemeno che i signori Antonio Ferrari, ex socialista ed ora grosso industriale in materiale elettrico, e il dott. Cantoni,” espulsioni che, secondo “La Plebe,” confermavano il giudizio che gli unitari avevano sempre dato “di questa specie di camaleonti della politica: arrivismo, insensibilità, irresponsabilità, e simili bazzeccole.” Poco dopo “La Giustizia” dava la notizia di un grave dissidio scoppiato in 442

seno al fascismo pavese tra “il sottoduce della provincia ed i membri del Direttorio della Federazione.” Il sottoduce era C. Forni, il cui contrasto con gli esponenti locali e nazionali del regime andò facendosi sempre più violento. Esponente locale del revisionismo o dissidentismo fu, oltre a Cesare Forni in Lomellina, Alfredo Misuri in Umbria, mentre su un piano più vasto, nazionale, ma, come vedremo, con posizioni più o meno divergenti, si ponevano M. Rocca e G. Bottai, i quali potevano disporre di organi di stampa che andavano da “Critica fascista,” la rivista del Bottai, al “Corriere italiano,” e, poi, con legami più allentati, “Il nuovo paese” di Bazzi e “L’Epoca.” Il Rocca teneva, nel PNF, una posizione sua che lo distingueva, in parte, dagli altri dissidenti orientati a destra: infatti, dall’anarchismo originario era passato ad una specie di fascismo liberalconservatore (come disse egli stesso in un articolo sul “Popolo d’Italia,” nel gennaio *24), che dava maggior rilievo più che alle riforme politiche, finanziarie e amministrative, alla non meglio definita “rivoluzione morale,” e sosteneva la necessità di rinnovare la vita pubblica e costituzionale, senza sopprimere “gli organi politici esistenti, ma integrandoli con altri tecnici ed economici,” facendo ricorso ad un vago e generico “despotismo illuminato,” quale avrebbe potuto essere attuato da Mussolini, ed a cui “si potrà chiedere di non durare oltre il necessario,” e che fosse “rivolto unicamente al bene del Paese, di sopra e in contrasto a molti interessi individuali e di parte, talvolta dello stesso Partito fascista.” Doveva essere certamente una posizione scomoda, perché rivelava una certa insofferenza verso il fascismo quale si era venuto costituendo dopo essere arrivato al potere; inoltre, quell’accenno alla “rivoluzione morale” ed al carattere temporaneo del regime, pronto a sacrificare gli interessi personali e individuali di fronte “al bene del Paese,” e 443

l’appello al “despotismo illuminato” del duce, al quale era riconosciuto il compito di guidare il partito e di dirimere eventuali contrasti, dovevano suscitare non poche resistenze. Forni, in Lomellina, non tardò a schierarsi contro le autorità locali ed anzi, nelle elezioni amministrative dell’autunno ’23, fece presentare, in alcuni paesi della provincia, ad esempio a San Giorgio, una “lista di semi fascisti dissidenti per combattere il dispotismo ambizioso dei dirigenti del Fascio locale.” Contro ogni previsione, questa lista inflisse alla lista ufficiale del PNF “una durissima lezione”: lo stesso segretario del fascio fu persino escluso dalla minoranza, avendo raccolto “un numero risibile di voti.” “Naturalmente, il Direttorio si recò subito dal Duce Forni, affermando che la lista vittoriosa era composta di bolscevichi; ma la patacca non attaccò ed il Forni ritenne bene di lasciar correre l’acqua per la sua china, tanto più che i neo-eletti si affrettarono a correre ai suoi piedi a fare atto di sottomissione. A sindaco venne eletto il neoingegnere Lorenzo Camera, ex-combattente ed ufficiale dell’esercito e ad assessore anziano l’agricoltore Gobbi Celeste, pure ex-combattente e sottufficiale dell’esercito.” In tal modo, il potere locale venne ridato a chi lo aveva sempre detenuto, ai rappresentanti degli agricoltori e di una borghesia benestante, perché quel neo-ingegnere non poteva certo essere un figlio del popolo. Ma ben presto giunse la scomunica anche per il ras lomellino, il quale fu costretto a dimettersi dal Partito fascista in seguito ad un lodo della Corte di disciplina: “La Plebe” commentava affermando che “la ingloriosa fine del mastodontico condottiero delle squadre lomelline, che conquistò la piazzaforte di Milano” nell’ottobre del ‘22, non era un motivo di particolare giubilo pensando alla situazione generale che andava sempre più aggravandosi. Tuttavia, il provvedimento non recava molta meraviglia, perché, 444

conoscendo la rivalità del Forni con fon. Giunta, si poteva prevedere la sconfitta del primo, da quando il Giunta era stato nominato segretario del gran consiglio e, poi, immesso nella segreteria generale del partito, mentre “la liquidazione… coloniale dell’on. De Vecchi (a cui il Forni era legato a filo doppio),” lasciava intravedere quale sarebbe stata la sua sorte. Il Forni, pertanto, era venuto a trovarsi “in manifeste condizioni di inferiorità di fronte all’avversario principale, il quale non trascurava di creargli numerosi dissidenti in Pavia ed in Vigevano, dove numerosi erano gli insofferenti alla dittatura forniana.” Perciò, il tentativo del Forni di resistere fu agevolmente infranto, mettendo in pericolo anche tutti gli amici, “o meglio le creature, i fiduciari da lui posti alle segreterie dei fasci più importanti e alla direzione del giornale [“Il Risveglio”], uomini che si appoggiavano alla sua robusta persona sia per lo stipendio sia per la soddisfazione delle proprie ambizioni.” Seguiva, sul giornale unitario pavese, una breve ed ironica descrizione delle ambasce e dei tormenti di alcuni “anticommendatori” che nutrivano un desiderio morboso della medaglietta: “Immaginiamo la loro sovraeccitazione in questi giorni. Si trovano davanti ad un dilemma cornuto e terribile: o sostenere il Forni (come impone il più elementare dovere di riconoscenza) e rassegnarsi alla radiazione dalla lista dei futuri candidati politici, o dargli il calcio dell’asino per avere probabilità di entrare in lista, ed allora l’ingratitudine sarebbe così nera ed evidente che la massa elettorale saprebbe farla scontare.” Con il Forni, infatti, cadevano parecchi altri più piccoli ras locali, come l’avv. Vami di Voghera, che era stato uno dei più violenti contro l’amministrazione socialista, e di cui, ora, veniva soppresso il giornale “Il Vessillo” (“l’organo del sottopartito Varni”), ma che, nel momento della disgrazia, trovava un appoggio nella popolazione, che 445

denunciava l’atto “violento e camorristico, frutto di un sistema che disonora l’Italia,” e che sentiva di dover reagire perche, sia ieri sia oggi, era stata violata la legge ed erano state colpite, per rappresaglia, “le autonomie locali nostre.” Intanto il Forni andava, in previsione delle elezioni politiche del 6 aprile, a fare propaganda per se stesso e per la propria lista, in quei paesi dove era sicuro di essere accolto bene: andava, infatti, a Varzi, un paese di montagna i cui abitanti dovevano nutrire sentimenti moderati e conservatori, e il corrispondente de “La Plebe” comunicava che “fu qui il cap. Forni, e davvero si è visto che la gente del fascio non è tanto benvoluta: Forni fu ascoltato con piacere e anche applaudito.” Avvicinandosi le elezioni, l’atmosfera si faceva incandescente, e a Pavia i dissidenti scambiavano “fior di legnate cogli ‘ufficiali,’” e nella zona di Voghera la lotta tra fascisti andava acuendosi giorno per giorno: “Abbiamo già avuto tre comizi,” si comunicava, “uno di Maso Bisi in piazza, al quale hanno assistito pochissime persone, ed a cui ha seguito un corteo composto quasi esclusivamente di forestieri; l’altro dello zazzeruto Lanfranconi annunciato per il mercato in piazza Vittorio e tenuto invece in piazza Foro Boario mentre più intenso era il mercato. Questo comizio non ha servito ad altro che a far allontanare la gente e far sorgere qualche battibecco. Successivamente si ebbe una conferenza dell’ing. Cesco Avanza alla sede del Fascio, alla quale dovevano partecipare anche tutti gli inscritti al sindacato […]. Per finire, ogni tanto scoppia qualche diverbio con bastonate fra dissidenti. Sere sono, bastonatura generale fra un folto gruppo di ufficiali e dissidenti, qualche schiena e qualche faccia ammaccata. Si prevedono, però, dato l’orgasmo che regna, nuovi incidenti. Per adesso, sfoggio enorme di forza pubblica. Sono state perquisite le abitazioni dei dissidenti più in vista: il dottor Bottini, il 446

rag. De Scalzi, capo dei dissidenti, l’ex sindaco Tirelli, Segolini ed altri.” E di una bastonatura “selvaggia” fu vittima lo stesso Forni, una bastonatura che seguì, di poco, alla fine di marzo del ‘23, un comunicato fascista che dichiarava il Forni “nemico del Governo.” La rottura era completa ed era stata resa più irreparabile dal fatto che il capitano si era presentato, con una sua lista, per le elezioni del 6 aprile in concorrenza con la lista dei fascisti: questi ultimi dovevano aver valutato subito il pericolo che rappresentava il Forni per un pieno successo del loro partito, e, pertanto, avevano deciso di dargli una lezione more solito, secondo il costume ad essi consueto. C’era chi esortava gli unitari ad approfittare delle crepe che si erano aperte in quel blocco massiccio che sembrava dovesse essere il fascismo, ma per tentare di inserirsi in un simile dissidio, che diventava sempre più una grave frattura, sarebbe stato necessario che anche il PSU adottasse la condotta ed i sistemi spregiudicati del capitano, il quale non aveva esitato a farsi il portavoce del malcontento dei piccoli proprietari come dei fittabili: insomma traduceva, senza troppi scrupoli, nella pratica, il programma sociale che anche gli unitari avevano sbandierato, senza rendersi ben conto della necessità che ne sarebbe scaturita di scendere sul terreno della collaborazione di classe. Infatti, “i fittabili forniani, dove l’hanno potuto, hanno fatto scioperare in segno di protesta per le randellate prese dal loro capo”: il che stava ad indicare come il Forni fosse diventato il portavoce delle richieste dei fittabili. Le elezioni diedero un risultato che era tutt’altro che la “ travolgente” vittoria di cui parlarono i fogli fascisti (forse perché avvantaggiati dalla falsificazione provocata dalla legge Acerbo), ma i deputati del listone, “eletti più che dal Paese dal duce che precede e non segue, non rappresentano che se stessi e la sconfitta del fascismo, e, per 447

quanto riguarda i liberali, i democratici e i cattolici imbarcati nel listone, la propria liquidazione.” In effetti, a Pavia, contro i 2.942 voti riportati dai fascisti, stavano i 1.535 voti dei socialisti unitari, i 1.174 dei massimalisti, i 397 dei comunisti (un totale di 3.106 voti ai partiti proletari, circa duecento in più della lista fascista), i 1.174 dei popolari, i 415 dei fascisti dissidenti, i 233 dei repubblicani e i 121 dei democratici. Il Forni riscosse il maggior numero di preferenze, seguito dal socialista unitario Montemartini, che, però, non venne eletto. In alcune constatazioni postelettorali, Pallante Rugginenti, su “La Plebe,” osservava che, nel nord, la somma dei voti riportati dall’opposizione proletaria era un successissimo (più di un milione, così ripartiti: 420 mila agli unitari, 362 mila ai massimalisti e 266 mila ai comunisti), mentre il maggior successo il fascismo lo aveva ottenuto nel Mezzogiorno, dove aveva imbarcato, palesando “una tal quale preoccupazione,” “nel listone, a scapito della conclamata intransigenza, gli uomini del liberalismo e della democrazia svertebrata.” Un altro punto debole per le opposizioni era stato dato dalle zone agricole, perché, secondo il Rugginenti, “dove esiste l’isolamento campestre delle abitazioni, distrutta la Lega, il Circolo, la Cooperativa, non rimane alcun centro per la classe lavoratrice.” Ma questa è, forse, una analisi un po’ troppo sommaria, perché sarebbe stato opportuno distinguere fra zona e zona agricola e vedere più da vicino che tipo di conduzione vi era nelle singole zone, se grande proprietà con salariati e braccianti, o piccola proprietà, o mezzadria, ecc. Questo perché pure diversa, a seconda della struttura agricola, doveva essere stata la risposta degli abitanti sul piano elettorale: non è senza significato, infatti, che, come ne davano notizia “Battaglie sindacali,” dalle autorità fasciste venissero sciolti, nel Mantovano, alcuni sindacati aderenti alle corporazioni, ma 448

che pure erano colpevoli di “avere nel loro seno dei soci che hanno votato, nelle elezioni politiche, per le liste di opposizione.” Era stato un vero scandalo: “Dei corporazionisti che votano contro la lista fascista?! Si sciolgano senz’altro i Sindacati fedifraghi e traditori!” Cosi, dopo tale ingiunzione, il segretario economico provinciale del Mantovano, Giuseppe Moschini, non aveva esitato un istante ed aveva subito emanato l’ukase: “Sciolgo d’autorità i Sindacati lavoratori di tutte le categorie dei seguenti Comuni: Asola, Bigarcllo, Carbonara, Castelgoffredo, Ostiglia (eccetto Correggioli), S. Benedetto Po, Sustinente. In seguito ne dovranno seguire altri pei quali ho chiesto informazioni. I Segretari economici comunali e mandamentali invieranno dettagliate istruzioni.” Inoltre, lo stesso Moschini deplorava la “irriconoscenza” dei lavoratori agricoli mantovani che avevano votato per i socialisti. A tale proposito, bisogna osservare che i paesi oggetto dello sdegno fascista erano tutti, tranne Asola, nella bassa sul Po o al di là del fiume, praticamente in Emilia, in una zona cioè in cui la propaganda socialista era penetrata molto nel profondo e che si era sempre distinta, dagli ultimi decenni dell’Ottocento in poi, per combattività e per la precisa volontà di difendersi mediante l’arma dello sciopero. Ma era anche una zona dove prevaleva la grande proprietà con i braccianti e i salariati, che si erano costantemente schierati con i socialisti, oppure si erano diffuse le cooperative, anch’esse di origine socialista. Non vi era spazio, pertanto, per il dissidentismo di destra fascista, che, espandendosi con la spregiudicatezza comune in uomini che avevano preso attiva parte alla precedente offensiva contro tutti gli organismi proletari, minacciava di togliere il terreno sotto i piedi agli unitari: abbastanza vicine erano, infatti, e coincidenti le due aree di influenza, con la differenza che i dissidenti, come abbiamo detto, non 449

avevano molti scrupoli a convogliare anche i fittabili, gli agrari, esercitando, in ultima analisi, la stessa repressione sui contadini di quando erano fascisti ufficiali. “La Plebe,” nell’articolo di Rugginenti, non potè non lasciar trasparire una certa delusione per non essere riusciti, gli unitari, a fare breccia nel muro dei piccoli proprietari, che avevano votato per il listone fascista, esprimendo il loro spirito tradizionalmente moderato e conservatore, ed allora ripiegò su una confortante constatazione, sulla resistenza degli operai delle fabbriche che avevano “clamorosamente sconfitto” il listone: “è nei grandi centri industriali che l’operaio, bandito dalla Lega, dal Circolo, dalla Cooperativa, si ritrova nella fabbrica: e qui discute, e qui si comunica le impressioni, le angosce e le speranze; e qui riafferma la sua fede; e qui ricostruisce la Lega. Signori, ecco l’enorme ostacolo che si frappone alla realizzazione del vostro folle sogno medievale: la fabbrica, questa ciclopica opera della civiltà borghese, entro cui germoglia la civiltà socialista. Fatalmente!” Un altro “ardito di tutte le spedizioni fasciste” era stato, in Umbria, Alfredo Misuri, che un lodo De Vecchi-Teruzzi del 1922 diceva un “temperamento leale, vivace, angoloso, esageratamente fascista, non molto tagliato per gli opportunismi ed i mezzi termini della politica vecchio stile.” Tuttavia, il contrasto con i dirigenti ufficiali del fascismo era maturato da tempo, da quando il Misuri aveva scritto, il 31 marzo ‘22, una lettera a Mussolini, diffondendola poi anche per la stampa, in cui, fra l’altro, affermava che tra le varie forme di deviazione dei burocratici e degli immaturi c’era il fatto che “mentre in Parlamento costituimmo alla Destra un legame nuovo di leale intesa e patriottica collaborazione, mentre tu spesso indichi ai tuoi la rotta decisamente a destra, i sullodati signori fi burocratici e gli immaturi] nel paese, sempre a perseguire e completare il loro indirizzo 450

demagogico, sterzano verso sinistra e non disdegnano contatti e intese con quella democrazia, filiata malauguratamente dai blocchi, che volle isolarci in Parlamento, e con quella massoneria che, per essere occulta e internazionale, è antifascista per definizione.” La sua posizione di destra era già nettamente chiarita, ma il dissidio sia con Mussolini e i gerarchi romani sia con il Comitato regionale umbro andò sempre più aggravandosi, anche per motivi personali, in cui si inserivano ambiziose denunce del Misuri, come quella lanciata agli ex-camerati della sua regione di “non perseguire la purificazione del fascismo, ma un vero e proprio interesse elettorale.” Gli rimaneva, a consolazione per i risentimenti che si era attirato con questa lettera aperta rivolta “Ai miei lettori! Ai fascisti Umbri della prima ora!” “la pioggia di lettere, di telegrammi” che gli giunsero da ogni parte: “un plebiscito di strette di mano, di abbracci, di parole vibrate e sincere da parte di galantuomini con o senza camicia nera; un diluvio di inviti a recarmi presso nuclei fascisti.” Il 9 maggio ‘23 il Misuri veniva espulso dal partito dalla Giunta esecutiva del PNF e, poco dopo, bastonato dai suoi camerati, i quali misero in atto ciò che un comunicato ufficioso dell’Agenzia Volta aveva minacciato da parte di “colóro cui è demandata la cura e la responsabilità di assicurare la vita e le fortune del movimento fascista,” cioè la decisione di ricorrere a “qualunque mezzo pur di impedire il radicarsi e il diffondersi di un sistema di insubordinazione assurdo e pernicioso.” Malgrado questa punizione esemplare, il Misuri rassicurava la Giunta che non avrebbe trasferito “nel campo nazionale quella pretesa indisciplina che si è creduto portasse nel campo fascista.” E dichiarava ufficialmente che sarebbe rimasto “a far parte, anche senza iscrizione regolare, della destra nazionale” e che non si sarebbe “piu affatto” occupato degli affari interni del 451

fascismo ufficiale. La polemica da parte sua contro il giornale fascista di Perugia, “L’Assalto,” che lo accusava di voler mettere “a soqquadro la Regione intera,” aveva assunto ben presto toni vivacissimi, né il Misuri si dimostrava disposto a cedere, sentendosi forte per l’espulsione di gruppi di studenti a lui fedeli e per le dimissioni di parecchi fascisti della prima ora, che se ne andarono protestando contro “l’infiltrazione nei fasci di gente di ogni risma” e contro “la schifosa, spudorata ingratitudine di questi nuovi pseudofascisti.” Il che gli dava il modo di proclamare che avrebbe continuato a servire “gli uomini liberi della mia regione, che non piegano la schiena sotto un dominio che è un vero e proprio bolscevismo tricolore: che approvano la dittatura del Grande [cioè di Mussolini], ma detestano le sotto-Dittature degli omuncoli.” Tutto, pertanto, lasciava intendere che egli era uscito dal fascio da destra, posizione che manifestò molto apertamente nel discorso che tenne alla Camera, il 29 maggio ‘23, in sede di discussione sull’esercizio provvisorio: sostenne, in tale occasione, che la stragrande maggioranza del paese e gli oscuri artefici delle multiformi opere umane volevano soltanto poter lavorare in pace, sicché non conveniva “all’onorevole Presidente del Consiglio disfarsi di questa Camera,” che gli avrebbe dato il modo di dedicarsi alla soluzione di problemi ben più importanti che non fossero quelli “grettamente elettorali,” e non avrebbe nemmeno subito “l’assalto delle ambizioni belluine di tutti gli antiparlamentari di maniera” che si stavano già azzuffando per “venire a sedere qua dentro.” Pertanto, criticava l’elaborazione della nuova legge elettorale maggioritaria Acerbo, dicendo che era una “mirabolante riforma elettorale” minacciata “come una specie di anno mille per i reprobi, e promessa come una specie di nirvana per gli eletti.” Il paese, egli soggiungeva, non voleva affatto 452

“avventure derivanti da improvvisazioni” e quand’anche si fosse mostrata l’impellente necessità di rinnovare la rappresentanza nazionale, egli affermava, sicuro di interpretare il pensiero di quella “grande maggioranza” in nome della quale aveva subito cominciato a parlare, che il paese avrebbe voluto tornare “al collegio uninominale (pietra angolare dell’edificio distrutto).” Secondo lui, sarebbe stato meglio, più che perdersi fra gli appetiti di tutti coloro che si erano proposti di sfruttare il fascismo “come agenzia elettorale,” che il governo cominciasse a considerare “il nucleo sano dell’opposizione, come correttivo benefico all’azione del Governo.” E sulla esigenza di “decomprimere gradualmente e smobilitare gli spiriti e le organizzazioni,” rimettendo il fascismo, che avesse riconosciuto sinceramente la funzione storica “della nostra monarchia millenaria,” in armonia con le “sane correnti nazionali,” insisté diverse volte, senza accorgersi che, in tal modo, manteneva viva la distinzione mussoliniana fra gli italiani sani e nazionali e gli altri, sovversivi e antinazionali. Ma il nucleo essenziale del suo discorso fu dato dalla sua esortazione, dopo aver condannato “gli apocalittici annunzi dei soliti che sciorinano il repertorio dei tempi ulteriori della rivoluzione,” a non identificare il Partito e lo Stato: “La generalità dei buoni cittadini [in nome della quale il Misuri intendeva far sentire alta la sua voce] non crede, come anche non credono gli amici sinceri del Governo, che giovi alla ricostruzione nazionale il continuo insinuarsi e sovrapporsi vicendevolmente di poteri e di gerarchie; non credono che il Governo nazionale si avvantaggi intitolandosi secondo alcuni ‘Governo fascista’. Più in alto deve spaziare l’autorità del Governo!” Certo, il suo discorso ondeggiava continuamente dalle critiche e dai rilievi che potevano farlo avvicinare all’antifascismo agli elogi sperticati all’azione del duce, alla sua mente poderosa, quasi cercando, così, di 453

proteggersi le spalle. Ecco perché credeva di poter dichiarare di non aver voluto tenere un “colloquio col Governo” antifascista, un colloquio che voleva essere, “ed è fermamente inspirato dal desiderio di cooperare ad inserire più profondamente il fascismo risanato nella vita nazionale.” Eppure, il suo giudizio negativo sul partito che, per mezzo del gran consiglio, tracciava le direttive al governo, oppure l’altro sulla indebita confusione tra la milizia e l’esercito, la prima pur sempre una milizia di partito che sembrava voler assorbire il “regio Esercito,” sembravano avvicinarlo pericolosamente alle opposizioni, che chiedevano insistentemente la “normalizzazione,” cioè la soppressione di quei due organismi eccezionali - gran consiglio e milizia volontaria sicurezza nazionale -, che uno storico della rivoluzione fascista, l’Ercole, ha detto i “due Istituti rivoluzionari” del regime, e che lo stesso Mussolini aveva difeso, sostenendo che con il gran consiglio era stato sepolto il liberalismo politico e con la milizia le camicie nere avevano imboccato definitivamente la strada della Rivoluzione. In definitiva, ogni suo sforzo pareva rivolto a legalizzare il fascismo, ad inserirlo nella vita della nazione, un fascismo, però, che si riducesse al “nucleo sano,” ai “pochi ribelli della vigilia,” epurandosi di tutti i simoniaci, i profittatori, i burocrati che stavano invadendo il campo e si sovrapponevano a tutto ed a tutti, e che, nella loro “cieca intolleranza,” chiamavano “fangosi” quelli che non consentivano con loro. Il discorso del Misuri fece - è lui stesso che lo scrive una grande impressione e “Mussolini prese un cappello addirittura napoleonico”: i deputati che erano andati a congratularsi con l’oratore, fra cui anche il Corgini, sottosegretario all’Agricoltura, vennero espulsi, mentre di nuovo il Misuri veniva aggredito e ferito alla testa da colpi di bastone. “Il dissidentismo dilagava,” nota con soddisfazione 454

il deputato umbro: “da molte parti venivano rivolte a me ed a Corgini sollecitazioni per coordinare questo movimento sotto direttive precise”; ed ancora: “intanto i fasci indipendenti si costituiscono e si moltiplicano per ogni dove, e molti altri sono in germe.” Ma forse, questo dilagare del dissidentismo e dei fasci indipendenti era più nella sua accesa fantasia che nella realtà: abbiamo visto la posa, per così dire, gladiatoria da lui assunta nel discorso del maggio ‘23, una posa che gli doveva venire naturale perché era persuaso di essere l’esponente della grande maggioranza del popolo italiano, che conveniva con lui nella richiesta di un processo meno rapido e di un rinnovamento graduale che non rinnegasse completamente il passato: “Non bisogna troppo inebriarsi col ripetere a se stessi la scottante parola ‘Rivoluzione’!” proclamava assumendo la posa eroica di chi vedeva chiaro, solo lui!, nelle tenebre. “Il contenuto di questa particolare rivoluzione, man mano che ci si allontana dall’avvenimento, appare sempre più contesto dalla volontà di dare un tono e di accelerare il ritmo della vita statale. Il tono è stato dato: forse anche troppo. Il ritmo si è accelerato: anche troppo; tantoché in alcuni rami della cosa pubblica ha prodotto scosse persino eccessive e demolitrici. Ma nell’intenzione del nuovo regime era la finalità di adattarsi sull’antico fin dove fosse possibile, perfezionando gradualmente i vecchi istituti sopravvissuti insieme con i nuovi. In tal guisa si è cercato istintivamente di completare la rivoluzione con la naturale evoluzione. Bene aveva ammonito il saggio: ‘Natura non facit saltus.’” Queste affermazioni erano in un discorso che il Misuri avrebbe dovuto pronunciare nella discussione sulla proroga dei pieni poteri al governo (dicembre ‘23) se la Camera non fosse stata sciolta in previsione delle nuove elezioni. A suo parere, il governo era fatto oggetto, per la sua politica “slegata, inorganica, arbitraria, sospinta e risospinta dagli 455

onnipotenti del Ministero,” di un “invisibile malcontento” che si diffondeva nella popolazione, la quale era portata a rendere lo stesso governo e il regime responsabili delle incertezze e degli arbitri. Tuttavia, riconosceva che era prematuro dare un giudizio definitivo su una azione di governo ancora in formazione ed in elaborazione ed alle prese con “immanenti problemi di intima costituzione statale e concernenti complessi argomenti politicogiuridici e tecnico-economici.” Ma egli proclamava di avere la formula per risolvere tutte queste difficoltà, una formula di natura politica che avrebbe potuto dare una “certa sicurezza statica alla maggioranza parlamentare: acquisire, cioè, le forze del centro, cosa che si sarebbe potuta ottenere se si fosse rinunciato a pretendere quello che, con “frase molto descrittiva, fu definita la collaborazione in ginocchio,” quale troppo spesso volevano “i settari di conversione recente ed i giovanissimi, tutti presi da una pericolosa infatuazione.” Il 31 gennaio ‘24, facendosi sempre il portavoce della “grande massa dei cittadini” che avrebbe potuto essere “la guardia più sicura del Governo restauratore,” e per infrangere l’atmosfera di pesante repressione che colpiva lui e i nuclei dissidenti che aderivano alle sue direttive politico-sindacali, fondava, a Roma, l’Associazione costituzionale Patria e Libertà, dichiarando ad alta voce che “la rivolta morale è in cammino irresistibilmente e non vi sarà forza umana capace di arrestarla.” Il manifesto di questa associazione iniziava (nella Premessa) celebrando il fascismo delle origini, “che era romanticismo, cavalleria, difesa della società e della civiltà,” e proseguiva dicendo di sentire che, per la “forza inestinguibile della fede delle origini, l’anima della grande maggioranza degli italiani è con noi, militi volontari, oggi come ieri, della causa della libertà.” Subito dopo, però, questa sicurezza di rappresentare una notevole massa, la circoscriveva e la limitava: “Vogliamo orientare attorno a 456

noi, definitivamente, quella equilibrata coscienza media che si forma in seno ad ogni classe sociale desiderosa di tornare ad una duratura normalità di vita.” In effetti, il Misuri, che aveva raccolto il malessere di questa “equilibrata coscienza media,” poteva giustamente dire di esserne l’esponente, dando una voce alle sue richieste di una “duratura normalità di vita,” di un ritorno al passato, cioè allo “Statuto fondamentale del Regno,” di una fine, voluta da “moltissimi buoni cittadini,” degli eccessi di ogni genere e delle “messianiche promesse di improvvisati tribuni.” Il Misuri, e la grande maggioranza degli italiani che lo seguivano, erano convinti che si stesse attraversando un periodo di transizione e che dipendesse dalla loro battaglia la possibilità di giungere ad un assetto politico-sociale piuttosto che ad un altro. Nella parte seconda (il Programma), si ribadiva la necessità di salvaguardare “la intangibilità dei ‘pilastri fondamentali’ dello Stato, primo dei quali la Monarchia”; si sosteneva che la libertà individuale, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di stampa, l’inviolabilità della proprietà, il diritto di associazione dovevano tornare ad avere “pieno ed intero il loro valore,” insieme con “la necessità del ritorno ad una pacifica convivenza civile.” Inoltre, si insisteva sul fatto che il rispetto dovuto alla religione esigeva che essa non venisse piegata a strumento di governo e tanto meno di partito; che la scuola, “resa accessibile anche ai meno abbienti, ricostituita con organicità di vedute, senza strettoie formali, deve rispondere sempre meglio alle necessità dell’educazione del popolo”; che i tributi fossero commisurati alla “potenzialità contributiva della Nazione”; che lo Stato non doveva invadere “il campo riservato alla iniziativa privata, ma preparare l’ambiente perché la attività umana, singola e collettiva possa liberamente e facilmente svolgersi nell’interesse della produzione e della Nazione. 457

Ogni monopolio sindacale è dannoso alla produzione”; che la politica doganale fosse ispirata “alla difesa degli interessi nazionali,” mentre “l’industria madre del Paese è l’agricoltura,” alla quale dovevano essere rivolte speciali cure; che un popolo numeroso e prolifico come il nostro non poteva non essere espansionista, ma un simile elementare diritto alla vita doveva essere realizzato con dignità e fermezza mediante una politica pacifica e non con “esagerazioni imperialistiche.” L’aspirazione del Misuri rimaneva quella di ritornare “alla coscienza dello Stato liberale,” di cui lamentava il tramonto e la sparizione “dal novero delle entità politiche operanti,” ma che rimaneva pur sempre eterna ed indistruttibile: si era ridotta in polvere e si era disseminata costituendo il lievito invisibile e vitale di tutti gli altri aggruppamenti politici, meno gli estremi, poiché “l’assolutismo fascista si tocca e si confonde con l’assolutismo comunista.” E con una vena scoperta di trionfalismo parlava del vero dissidentismo dal contenuto “etico e politico,” che continuava a dilagare: quasi per chiarire meglio in che cosa consistesse questo dilagare, passava in rassegna le regioni dove il dissidentismo aveva maggiormente attecchito e parlava delle sue caratteristiche in ogni zona: “In Lombardia ed in Romagna il vago desiderio nostalgico della preistoria, dà luogo al movimento dei diciannovisti: criterio essenzialmente cronologico di differenziazione, che vuol tornare ai primi informi enunciati politici, ormai classificati come fenomeni transitori della psicosi postbellica. In Toscana ed in Lomellina un desiderio di salvare, in mezzo al naufragio comune, almeno il prestigio del Capo, oltre ai postulati delle origini adattati alla realtà storica, fa nascere i Fasci Nazionali. Infine, un po’ dappertutto, con programma e finalità precise, prende piede il nostro movimento della ‘Patria e Libertà/ che, se le parole non avessero subito tanta 458

sfortuna, potrebbe definirsi una neo-liberal-democrazia con spirito fascista.” Come si vede, se il dissidentismo in Lombardia, in Romagna, in Toscana ed in Lomellina era caratterizzato, secondo il Misuri, dal tentativo di ritornare alle origini, quello umbro, invece, del movimento “Patria e Libertà,” era caratterizzato da un ritorno alla liberaldemocrazia rinnovata dallo spirito fascista. Per questo, forse, il Misuri stesso doveva essere intimamente consapevole di rappresentare, nel quadro del dissidentismo italiano, qualche cosa di originale e di più maturo culturalmente e politicamente: infatti, egli assegnava al suo movimento non solo il compito di ribellarsi - una ribellione, peraltro, “circoscritta nello spazio e nel tempo” - al prepotere del socialismo, ma anche l’altro prevalente di restaurare “l’autorità dello Stato, moderatore supremo delle civiche attività nell’ambito delle leggi, garante del pacifico evolversi dell’assetto politico-sociale, risultante dal vitale contrasto delle tendenze e delle idee, non dal monopolio e dal predominio d’alcuna tendenza su tutte le altre.” Erano note, queste, che definivano sempre meglio gli aspetti moderati e conservatori del dissidentismo del Misuri, la cui portata, peraltro, era detta, dal “Corriere Italiano,” “lievissima nei risultati nocivi,” ma nefanda e stolida, anche perché “pubblicamente spudoratamente appoggiata dalla stampa antigovernativa, dalla riformista Giustizia alla repubblicana Voce”: prova convincente, per i fascisti, pur se indiretta, del suo spiccato carattere antifascista. Anche Mussolini, nel discorso alla 42a riunione del gran consiglio del 22 luglio *23, minimizzava l’influenza dei suoi amici dissidenti, senza, tuttavia, rompere del tutto i rapporti: “Dichiaro che io non ho ben capito ancora dove i cosiddetti revisionisti vogliono andare a parare. Bisognerebbe che questi nostri amici specificassero. Si tratta di una ricaduta nello stato democratico-liberale, con tutti gli 459

annessi e connessi? Si vuole invece rivedere i quadri e i gregari? O si vuole, come sembrerebbe logico, rivedere le posizioni mentali e politiche del fascismo per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del potere politico? In quest’ultimo caso, il revisionismo avrebbe una reale utilità. È evidente che, assunto il potere, bisogna diventare dei legalitari e non continuare ad essere dei ‘ribellisti.’ L’insurrezione non è un fine, è un mezzo. Oppure il revisionismo vuole condurci ad un riesame delle nostre posizioni programmatiche? Il revisionismo, insomma, è una porta sul futuro, o è un ritorno al passato? Ho allineato degli interrogativi che pongono il problema.” Come si vede, il tono del duce era tutt’altro che ultimativo, ché anzi traspariva dalle sue parole l’intenzione di evitare una polemica troppo aspra, anche se si poteva comprendere che rifiutava abbastanza risolutamente quella “ricaduta nello stato democratico-liberale,” dal quale si vantava senza posa di aver liberato il popolo italiano. Ed in questo doveva avvertire di essere d’accordo con l’opinione pubblica moderata e conservatrice, che i dissidenti o revisionisti dicevano di rappresentare, perché quell’opinione pubblica attribuiva alle debolezze del precedente regime liberaldemocratico il lento scivolare della vita nazionale verso il socialismo e il soviettismo del dopoguerra. Invece, Mussolini si dichiarava d’accordo sulla necessità di adeguare le posizioni mentali e politiche del fascismo alla nuova realtà, cioè al possesso del potere politico, e, subito dopo, ribadiva, con sincera apparente convinzione, che occorreva cessare di essere dei “ribellisti” per diventare dei legalitari. Era ciò che, in definitiva, il Misuri aveva richiesto, ed era pure ciò che la “grande maggioranza” del paese, tutti coloro che volevano “vivere e lavorare in pace” volevano, quando manifestavano il desiderio che non si parlasse più di seconda ondata e che il nuovo potere cercasse 460

di inserirsi nelle vecchie strutture più che rivoluzionarle. E tutto questo il duce lo sapeva molto bene e sapeva anche che senza l’appoggio di tale maggioranza sostanzialmente conservatrice non avrebbe potuto governare: così, nel ‘24, prometteva “cinque anni di pace e di fecondo lavoro al popolo italiano,” e poneva fra i primi compiti del suo governo quello di “governare il Partito […]; io credo che il nuovo Governo dovrà agire sul Partito inflessibilmente per migliorarlo e renderlo idoneo alle nuove necessità.” Ed egli tributava un plauso ed un omaggio “al laborioso e ordinato popolo italiano,” ed a chi gli rinfacciava di non avere una dottrina, rispondeva con orgoglio “che non vi è alcun movimento spirituale e politico che abbia una dottrina più salda e determinata della dottrina fascista. Abbiamo delle verità e delle realtà precise e sono: lo Stato, che deve essere forte; il Governo, che deve difendersi e difendere la nazione da tutti gli attacchi disintegratori; la collaborazione delle classi; il rispetto della religione; la esaltazione di tutte le energie nazionali. Questa dottrina,” concludeva, “è una dottrina di vita, non una dottrina di morte.” Su diversi punti, pertanto, concordava con il Misuri e con i dissidenti di destra, ma, nel tempo stesso, non poteva sopportare che una più o meno larvata ribellione cercasse di sottrarre alla disciplina a cui egli costringeva i suoi seguaci la popolazione nelle province, facendone tanti focolai che nutrivano l’ambizione di svolgere una loro politica, anche in contrasto con quella del centro quando questa non fosse stata gradita. Ecco da ciò l’espulsione dei revisionisti e la dura lezione impartita agli esponenti più in vista della dissidenza. Ma c’era, forse, anche un altro motivo che lo spingeva ad agire in tal modo, ed era che, proprio nelle province, aveva bisogno di appoggiarsi su elementi che gli si dichiarassero fedeli per interesse o per 461

qualsiasi altro movente, che fosse nobile o no poco importava; gli premeva, insomma, poter contare su uomini legati a lui o perché aveva consentito che facessero una rapida carriera o perché aveva loro restituito il prestigio e le cariche di cui godevano nel precedente regime. Non solo al fine di avere singole persone che cantassero le sue lodi, ma soprattutto al fine di catturare tutti quelli che si aggiravano nell’orbita di quei personaggi: ed è indubbio che le arti del clientelismo erano molto più conosciute da quegli individui che dai suoi squadristi. Infine, l’ultimo motivo che poteva averlo spinto ad agire inflessibilmente nei riguardi dei piccoli ribelli era che, così facendo, dava un esempio alle popolazioni di sapere imporre l’autorità del governo centrale anche sui ras locali, che spesso, come pure nel caso del Misuri, avevano preso attiva parte alla guerra civile che aveva insanguinato città e regioni intere e che si dichiaravano disposti a rispondere all’appello, mettendo a tacere il loro dissenso, se la lotta avesse ripreso a infuriare con violenza e fossero stati necessari animi risoluti.

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Capitolo diciassettesimo Il Bottai e il suo dissidentismo ortodosso Ma se colpiva in basso, il duce non toccava chi era collocato in alto, ed un Bottai, ad esempio, poteva continuare a sostenere press’a poco le stesse cose che aveva sostenuto il Misuri, ed anzi fondare, a partire dal giugno ‘23, una rivista, “Critica fascista,” senza correre il pericolo di dover affrontare la minacciosa vendetta di Mussolini. La realtà era che questi, ancora una volta, doveva, in quella prima fase del suo potere, svolgere una, per lui, faticosa opera di mediazione, fra gli estremisti che si definivano la sinistra e la destra, fra coloro che avrebbero voluto portare avanti la rivoluzione e coloro che, invece, erano più propensi ad arrestarla e ad inalvearla in un governo conservatore. Né poteva dimenticare che il popolo italiano era, in maggioranza, moderato e alieno “dall’esercizio spregiudicato della violenza manuale o verbale.” In particolare, sul Bottai doveva avere agito la constatazione, divenuta evidente con il dissidentismo della Lomellina e dell’Umbria, che non tutti erano strenui difensori di quella alquanto mitica provincia, da cui, come abbiamo visto, un Maccari si aspettava la “seconda ondata,” che, utilizzando gli intransigenti, i selvaggi, gli ex-nulla, avrebbe dovuto spazzare via l’ancien regime, la vecchia e tarlata classe dirigente: c’erano, al contrario, anche quelli che volevano che il governo vincesse sul partito, che si smettesse di 463

gridare ai quattro venti la rottura con il passato, di voltolarsi nella fascinosa e fascinante, ma pur sempre vuota, rivoluzione. Erano tutti coloro che avrebbero preferito una ripresa della tradizione. In questo quadro moderato si sarebbe potuta mettere anche la fusione dei nazionalisti con i fascisti, nei confronti della quale abbiamo visto le reazioni negative degli squadristi più violenti e pronti a combattere - scriveva C. Suckert - contro gli intellettuali, prendendo questi come tipici esponenti di una “gente malfida, maligna, soprattutlo vile, nemicissima d’ogni rivolgimento” e che, prendendo a pretesto il malcontento del popolo, aveva “sempre reso impossibile da noi una vera rivoluzione nazionale.” E quanto quella fusione fosse, in effetti, reazionaria fu messo in rilievo anche da P. Togliatti, nelle sue Lezioni sul fascismo, del 1935, quando scorgeva in essa il tentativo della borghesia di riconquistare il consueto predominio e controllo sullo Stato: “Non per niente il legislatore di questa dittatura è stato Rocco, un nazionalista, non per niente una delle più grandi personalità è stato Bottai, un nazionalista anche lui. In tutte le tappe è stata condotta una lotta fra fascisti e nazionalisti per la soluzione di problemi fondamentali dello Stato e del partito. La soluzione di questi problemi ha sempre una sostanza che viene dal partito nazionalista, la sostanza della loro soluzione è sempre nettamente reazionaria e borghese.” Non certo che se la “soluzione dei problemi fondamentali dello Stato e del partito” avesse avuto una matrice puramente ed esclusivamente fascista, si sarebbe potuto dire che era meno reazionaria e conservatrice, perché la tendenza all’espansionismo imperialistico era più di Mussolini e dei fascisti che del Federzoni o del Bottai e dei nazionalisti; e così pure la collaborazione delle classi antagonistiche borghesia imprenditoriale o agraria da un lato e classi 464

lavoratrici, dall’altro - si poteva sì trovare nel nazionalismo, ma, ad esempio, nel Corradini tale collaborazione era un appello “alla solidarietà nazionale di contro alla lotta di classe,” con una accentuazione moralistica, perché chiedeva che gli individui, le classi, le generazioni donassero “parte di loro medesimi” alla nazione, “con spirito di sacrificio,” si sarebbe dovuto dire secondo lui “con un’espressione cristianeggiante,” ed “epicamente, virtù eroica di un popolo. Ma nell’una e nell’altra espressione è evidente il carattere “morale”: non aveva, insomma, quella durezza con cui il duce imponeva la “pace sociale” ed una “perfetta disciplina,” richieste non dalla volontà degli uomini, ma “dalle obiettive circostanze.” Ed effettivamente, il clima sociale del paese era profondamente mutato nel dopoguerra rispetto ai primi anni del secolo, quando il nazionalismo aveva conosciuto, con la penetrazione nei Balcani e con l’impresa di Libia, il suo momento più fulgido, mentre, nella nuova età - una età di ferro -, la lotta di classe aveva assunto un’asprezza inconsueta e ignota per l’addietro, asprezza dovuta al fatto che il proletariato sembrava - adesso veramente - ergersi come la classe a cui spettasse sotterrare la borghesia. Ecco perché, sotto certi aspetti, doveva apparire naturale la vivace reazione dei selvaggi del Maccari, che esortavano Mussolini ad abbandonare Roma, “città dei mercanti” ed a tornare indietro al tempo delle lotte delle squadre nelle province; oppure affermavano che il partito esisteva soltanto nell’azione individuale dei gregari. Ed era proprio il Maccari ad esprimere questa intima ribellione contro una sotterranea, ma manifesta, normalizzazione che faceva correre il pericolo ai selvaggi e agli squadristi di perdere tutti i vantaggi che credevano di avere ottenuto: “Ma l’anima rivoluzionaria del fascismo, se non trova le sue espressioni nel governo, nel parlamento, nelle commissioni, nelle 465

gerarchie, trova altra via per rivelarsi, per urlare la propria passione e il proprio tormento. Questa passione e questo tormento (nobilissimi e necessari) noi non li troviamo nelle fredde circolari, nelle campagne giornalistiche addomesticate a bacchetta, noi li troviamo negli occhi dei nostri camerati, noi li sentiamo nella voce aspra dell’umile gregario, dello squadrista senza cariche e senza galloni e senza medagliette, quando chiede: ma che si fa?” Si noti la polemica contro chi, invece, giunto ultimo si era precipitato a coprirsi il petto di galloni e di medagliette: ed a lui erano state offerte cariche negate, secondo il Maccari, a chi le aveva meritate molto di più. C’era ancora chi poteva rivendicare, nel ‘25, sotto la segreteria Farinacci (che era stato un modo come svuotare di ogni impeto la ribollente rivolta), il diritto alla violenza e Sugo di Bosco poteva scrivere: “[…] gli squadristi e specie quelli più inviperiti (e cioè i veri e più simpatici fascisti) non attraversano un periodo troppo soddisfacente per loro. E poiché sono giovani, impolitici, insofferenti, volitivi e irriflessivi, si trovano talvolta ‘fuori del seminato.’ Così il fascista scansafatiche, il fascista per opportunità, colui che sta alla finestra […], passa per il fascista modello, esempio di disciplina e di obbedienza, mentre lo squadrista che al fascismo offre quotidianamente la propria giovinezza e la propria vita, tutto ardente della passione rivoluzionaria, si vede considerato come un ribelle impiccioso, come un peso, un ostacolo, un danno. Porco mondo! Come rimediare? Possibile che proprio il fiore della gioventù fascista si debba far mettere nel sacco? Non c’è, o amici, che un segreto: l’intelligenza.” Sì, l’intelligenza, cioè creare una cultura autonoma, una specie di contro-cultura, da opporre oltre che a quella tradizionale pure a quella fascista? Ma sembrava molto difficile che i selvaggi fossero capaci di tanto, e, 466

indubbiamente, tale compito doveva apparire loro molto arduo, perché erano più abituati a far valere la forza dei muscoli che il cervello. Tant’è vero che lo stesso Mino Maccari, che sotto lo pseudonimo di Matto Anonimo, iniziò sulla sua rivista la pubblicazione di un romanzo a puntate dal titolo ambizioso Le cronache del sogno ovvero i selvaggi alla conquista d’Italia, cioè un racconto di come avrebbe potuto (e dovuto) essere la rivoluzione, non riuscì ad andare al di là di due puntate, dopo aver scritto, nella prima puntata, parole che rivelavano quanto lui stesso fosse privo di idee costruttive e di vere iniziative nel campo culturale: “[…] come può darsi che una rivoluzione [quella del 28 ottobre ‘22] non abbia portato con sé il lungo incendio dei tragici avvenimenti che naturalmente e fatalmente la esprimono nel tumulto drammatico delle vicende, delle sorprese, dei colpi di stato, delle rapide fortune, delle precipitose catastrofi, sulla ridda degli uomini che appaiono e scompaiono, che trionfano e cadono, dalla polvere all’altare, dall’altare alla polvere, mentre le folle delirano nell’entusiasmo e urlano nell’odio, e innalzano al cielo, e calpestano nel fango idoli e idee? […] E a noi vorrebbero dare a bere che la rivoluzione fascista s’è esaurita in tre giorni, con una passeggiata incruenta, coronata dal saluto romano di centomila camicie nere tranquille e soddisfatte in un paesaggio domenicale? Ah canaglie! Ve la facciamo noi la storia.” Passo che può dividersi, alquanto nettamente, in due parti: la prima, un seguito quasi inebriante di “parole libere,” in un crescendo in cui si celebra la sua arte, o meglio il suo artificio, di scrittore dannunzieggiante, e la seconda in cui depone i coturni e “s’ingaglioffa,” come avrebbe detto il Machiavelli, scende ad un linguaggio e a espressioni più terra terra e in accordo con quello che avrebbe dovuto essere il linguaggio dei selvaggi. In questo tentativo si esauriva ogni sforzo del 467

Maccari di tradurre in una linea di pensiero organica e coerente le vicende che aveva vissuto negli ultimi anni: si sentiva che a lui e ai suoi camerati mancavano un pensiero e un programma con cui resistere all’offensiva dei moderati, di coloro che volevano far rientrare la rivoluzione nella tradizione e rinchiuderla entro argini alti che non potesse superare. Buon gioco aveva, pertanto, il Bottai nell’imporre lentamente la sua concezione e la sua interpretazione del fascismo non come rivoluzione bensì come continuazione di una lunga storia: in una conferenza all’Augusteum di Roma, nel marzo ‘24, così chiariva il suo pensiero a tale proposito: dopo aver criticato la concezione tipica del liberalismo, concezione nata con la democrazia, che faceva dello Stato la risultante “meccanica del giuoco delle varie forze politiche in lotta tra loro, cosicché non resta ad esso che un compito di amministrazione c di polizia,” perché caratteristica di epoche di transizione, sosteneva che il fascismo si inseriva nel liberalismo risorgimentale, non quello dichiarato insufficiente, bensì quello che per il fatto stesso di essere, di governare, “per le forme della sua organizzazione e per lo spirito che ispira la sua azione, spirito di libertà, quale afferma la storia […], che non è arbitrio individuale ma volontà superiore, sintesi di libertà e di autorità che, per realizzarsi, si oppone anche al libito degli individui”: insomma, si trattava di un liberalismo che, invece di limitarsi a contemplare lo svolgersi della vita sociale, si imponeva, come volontà superiore, ad essa e si opponeva al “libito dei singoli,” realizzando, in tal modo, una libertà che sembrava disperdersi nell’alto dei cieli, una libertà superiore e universale. E, tutto preso da questo tentativo, che gli doveva apparire coronato dal successo di dimostrare, in sintesi, come il fascismo si riconnettesse “allo sviluppo della storia contemporanea, per abbattere il banale luogo comune 468

dell’opposizione che nega ogni significazione spiritale e dottrinaria al nostro movimento,” innestava “la nostra rivoluzione intellettuale” nel gran solco della critica ottocentesca alla Rivoluzione francese, ma non a quella negativa di un Bonald, di un De Maistre, di un Burke, di un Taine, perché fra quella critica e il fascismo stava la filosofia idealistica di un Kant e di uno Hegel, che investiva “d’una nuova e più viva corrente critica i principi dell”89”; stava la critica profonda e rivoluzionaria di G. Sorel, che, preoccupato di rialzare i valori morali e spirituali, condannava il “culto delle utopie ugualitarie” e la “pretesa positivistica di trasformare il socialismo in scienza”; stava “la grand’opera di Alfredo Oriani che ristabilisce il culto degli eroi e degli ideali contro la democrazia livellatrice e contro il socialismo materialistico e predica la religione della Patria immortale”; stava “l’opera recente e viva di Enrico Corradini” al quale era riservata la gioia e la gloria di presiedere alla fusione nazionalfascista, che aveva aperto al fascismo la strada verso “la sua rivoluzione intellettuale” e lo aveva inserito “in una tradizione politica, che potrà essere discussa, ma non negata.” Forte di questa tradizione il movimento delle camicie nere poteva alzare la diga “contro il criticismo anarchico dell’opposizione e contro l’anarchica ignoranza che s’infiltra nelle nostre organizzazioni per snaturarne lo spirito”: il fascismo, perciò, con quella tradizione alle spalle che risaliva addietro nel tempo poteva guardare con serena indifferenza l’agitarsi incomposto sia delle opposizioni esterne sia delle sotterranee e continuamente affioranti opposizioni interne. Su tali basi, il Bottai doveva essere sicuro di avere l’assenso non tanto del Gentile quanto del Croce, la cui filosofia era derivata, pur piegando verso destra e non verso sinistra, dall’idealismo hegeliano e che, in quel periodo, era particolarmente impegnato nel combattere i residui del 469

positivismo e del materialismo che serpeggiavano nella nostra cultura. Ed infatti al Croce il Bottai si richiamava, fra tanti altri, allorché definiva l’essenza del nuovo, e pur vecchio, Stato fascista, “che, non essendo una semplice associazione basata sul libero arbitrio dei singoli o fondata su un contratto sociale, si oppone come stato etico, risolvente la democratica antitesi Stato-individuo in un rapporto produttivo, allo Stato liberale e democratico.” E qui faceva seguire tutta una serie di illustri precedenti: Machiavelli, Vico, Spaventa, De Meis, il nazionalismo, la filosofia di Gentile e di Croce, a palese dimostrazione di come il fascismo avesse proceduto alla “sua vittoriosa affermazione, non solo in virtù della sua forza materiale, ma più ancora perché anziché essere un ritorno innaturale, coincide con la rinascita dello stesso pensiero italiano!” Si può quasi avere l’impressione, leggendo questa conferenza, di un diligente compito, in cui il buon alunno si sforza di mettere in fila tutte le nozioni che ha appreso qua e là, accompagnandole con una serie di citazioni che dovrebbero dimostrare la sua erudizione. Come fanno, infatti, a stare insieme Kant ed Hegel con Sorel, con Oriani, e soprattutto con il nazionalismo e con il Corradini? Per quanto riguarda, poi, l’altra serie di nomi (Vico, Spaventa, De Meis, ecc.), essi rientrano maggiormente nella corrente cultura dell’epoca, influenzata dall’idealismo gentiliano e crociano. Più originale si poteva dire il Bottai, ad es., quando cercava di teorizzare la differenza tra un fascismo agrario, squadristico, e un fascismo cittadino, più tendente alla normalizzazione, rifacendosi alla sua esperienza della guerra, in cui aveva individuato negli arditi un fenomeno “più cittadino che rurale, più operaio che contadino,” distinzione, peraltro, che non aveva alcun senso, come se tutti i ceti contadini fossero squadristi, violenti, e amanti delle grandi gesta punitive, a differenza di quelli cittadini, 470

portati alla moderazione e alla temperanza. La realtà rivelò quanto fosse errata una tale separazione tra due fascismi. Molto probabilmente, quando il Bottai tracciava questa linea di demarcazione, pensava a ciò che era successo nel 1921, allorché il fascismo si era ingrossato trovando seguaci soprattutto nelle campagne emiliane e della bassa pianura padana e diventando, in tal modo da cittadino quale era stato fino allora, contadino, o meglio agricolo-agrario; ma si era trattato di un periodo caratterizzato da una grave crisi che aveva espulso dalle fabbriche la manodopera che vi si era recata nei momenti precedenti di boom produttivo e che era ritornata alla campagna con l’esasperata ansia di trovare un posto di lavoro a qualsiasi costo anche infrangendo le norme ed i patti che le leghe avevano stipulato con gli agrari dopo lunghi anni di lotte e di sacrifici. Il fascismo, facendosi il portavoce di quelle esigenze che vedevano unite classi diverse - il sottoproletariato contadino e gli agrari - era riuscito a diventare un partito di massa, distruggendo tutte le vecchie organizzazioni socialiste. Forse, ripetiamo, continuava ad agire sul Bottai il ricordo di quel tempo, che era sopraggiunto in una fase, come vedremo, che era stata per lui di transizione e che, perciò, doveva averlo ancora più vivamente impressionato. Oppure, avvertiva che la sua interpretazione del fascismo, così carica di spunti culturali, non poteva essere adatta alla popolazione dei campi, ma occorrevano ascoltatori più colti e più pronti a cogliere le inflessioni di un discorso più elevato, quali potevano essere, appunto, i cittadini. Si veniva, pertanto, a stabilire una alquanto netta differenza tra il revisionismo dei Forni e dei Misuri, che si potrebbe definire un revisionismo campagnolo o rurale, e il suo che, invece, proclamava di essere un revisionismo colto e cittadino. La strada che aveva percorso il Bottai era stata piuttosto lunga, dal nazionalismo venato di futurismo dell’anteguerra 471

(“Eravamo partiti per la guerra con nel capo rombanti parole, come queste: ‘un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’abisso esplosivo […], un automobile ruggente che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della vittoria di Samotracia’”), un futurismo, peraltro, accolto non per la sua visione della vita in apparenza nuova e che rompeva con il passato quanto per i suoi motivi estetizzanti e rombanti, che era crollato insieme con “tutto quel meraviglioso castello che chiamavamo progresso. Abbiamo capita la menzogna della civiltà industriale.” In effetti, la sua appartenenza al fascismo confessava egli stesso - era stata un atto di fede più che di raziocinio cosciente, ed il crollo della fiducia nel progresso e la scoperta della menzogna della civiltà industriale, stavano a dimostrare come lo stesso futurismo fosse stato una falsa reazione al passato, che anzi ne aveva continuato molti aspetti, perfino dell’inviso positivismo (la fede nel progresso), nella assillante preoccupazione di rendere il nuovo, che era il suono, il rumore della civiltà industriale (ma questo vano rincorrere il percepito suono della realtà non era stato forse anche nel Pascoli o nel D’Annunzio?). Di conseguenza, gli era stato relativamente facile passare dalla parvenza di una rivolta contro la tradizione, nel grande e sicuro alveo di quest’ultima: “Noi sentiamo ch’oggi la necessaria e salutare rivoluzione antitradizionale futurista sta per cessare, non già per ritornare, come vorrebbero alcuni, nella tradizione, ma per seguitare la tradizione: il che è ben differente.” Nel dopoguerra aveva assistito alla fine della “borghesiastato,” della antica classe dirigente che si era sperduta nell’astuzia, nella furberia meschina, nell’inganno, nell’invenzione, nell’illusionismo pur di poter conservare il potere di fronte alle due correnti montanti: il fascismo e il massimalismo. Ma contro la “rivoluzione miracolista, 472

antiitaliana” del secondo stava la “rivoluzione tradizionale, italiana, spontanea, perché generatasi istintivamente nella nostra coscienza, del primo.” Era una lotta, per lui, impari fra un’idea viva e un’idea morta, quella che aveva vivo il “senso di continuità storica, che ci persuade, anzitutto, a non attendere da nessun miracolo esoterico la novità, ma a ricercarla in noi, col più intenso lavoro di affinamento e di educazione. Lo spirito, quindi, rivoluzionario, di che la guerra e l’agitato periodo postbellico, che à avuto testé il suo epilogo, ci ànno caricato, è uno spirito profondamente tradizionale, il che non vuol dire né reazionario né xenofobo: tradizionale, non conservativo, che sarebbe in irriducibile antitesi con l’aggettivo ’rivoluzionario.’” A poco a poco veniva meglio definendo che cosa intendesse con un simile inserimento attivo, non conservatore, nella tradizione: quando, ad esempio, criticava, con una certa asprezza, in un articolo del luglio del ’22 su “La Patria (Italia “cellulare”),” la “vita intellettuale che chiamerà cellulare, impastoiata di vecchie categorie mentali, formata di residui, di derivazioni,” una vita a cui mancava “una fresca e diretta visione delle cose immediata, lineare, acerba.” Riteneva che fosse venuta l’ora che scendessero “dagli altari codesti babuassi oracoleggianti,” il cui più grave difetto era di non aver mai tenuto conto di quel piccolo fatto storico, che si chiamava la guerra, perché “la Patria ha bisogno di gente alla buona, di gagliardo cervello e di fegato sano.” Si potrebbe dire che il Bottai stava attraversando il momento radicale della sua vita, che gli faceva dire, nell’ottobre del ‘22, poco prima della marcia, che il fascismo, all’insaputa della gran maggioranza dei suoi stessi proseliti, era “sul punto di ricrearsi, di abbandonare alcuni aspetti e forme della sua origine per assumere quella che, per lungo ciclo d’anni, sarà l’idea informatrice della vita nazionale. In questo distaccarsi 473

progressivo dal suo passato,” continuava, “per una creazione nuova ed attuale di disciplina politica, occorrono inimicizie leali, aperte, senza sottintesi.” Ma occorrevano pure amicizie altrettanto leali, aperte, senza sottintesi ed egli le trovava più che nei fascisti della prima ora, i quali ad un certo momento si sarebbero sentiti a disagio, negli altri, nei fascisti dell’ultima ora, che sarebbero stati più disposti “alle nuove e più positive funzioni del Fascismo.” Tuttavia, sembrava che ancora non sapesse indicare bene quali dovessero essere queste “nuove e più positive funzioni,” che, nell’agosto, cominciavano lentamente ad uscire dalla nebulosa in cui erano rimaste avvolte: “La fase negativa del fascismo è conchiusa, o quasi. Alla sua funzione storica di negazione e di distruzione […] subentra, naturalmente, una funzione di tramite tra il proletariato e la Nazione. Il fascismo è portato a compiere l’inserzione immediata dei lavoratori italiani nella compagine formidabile di passioni e di interessi, di tradizione e di avvenire, di sofferenza e di gioia che è la Nazione. E diciamo: ‘è portato,’ con intenzione. Perché ciò è inevitabile; perché ciò si deve fare. Non comprendere questo, sarebbe sciupare, negare la vittoria. Ogni vittoria è assunzione di responsabilità. La responsabilità dell’elevazione morale e materiale del proletariato italiano è stata, per trapasso spontaneo, assunta dal fascismo.” Nell’intento di assegnare al fascismo una funzione storica positiva e costruttiva dopo quella precedente, oramai sorpassata, negativa e di distruzione, il Bottai non ne riusciva a trovare altra che quella di inserire immediatamente i lavoratori nella Nazione, oppure quella dell’elevazione morale e materiale del proletariato: si capiva che non si era ancora del tutto liberato dagli schemi che la lotta contro il socialismo gli aveva inoculato. Tutto sommato, si sarebbe trattato di riprendere con maggior lena l’opera già iniziata dagli 474

avversari di ieri, ora sconfitti, e di portarla a compimento, anche se con un accento un po’ diverso, perché si inseriva, nel suo discorso, la “compagine formidabile di passioni e di interessi […],” che era la Nazione, un ente superiore a tutti gli individui. Ma il fascismo veniva pur sempre concepito come tramite fra il proletariato e la nazione stessa, in maniera non diversa da come i socialisti concepivano il loro partito: quale compito avrebbe dovuto essere specifico di un partito, se non di essere un trait-d’-union fra una - o fra le classi sociali e il potere? C’era anche una certa ingenuità in questa proclamata nuova funzione positiva del fascismo. Ripensando molti anni più tardi, nel 1949, alle vicende del “colpo di stato,” il Bottai attribuiva a quei rapidi istanti la genesi delle sue posizioni posteriori: dopo la revoca dello stato d’assedio da parte del re, scriveva, si era capito che “l’insurrezione era definitivamente terminata, anche di fatto. Bruscamente, il tratto di strada che ci restava da percorrere, dai bivacchi a Roma, mutava rotta: dall’illegalità alla legalità.” Ma un simile mutamento di rotta, che nel ’49 gli sembrava chiaro, non era altrettanto evidente nel ’22, ed anzi “ai più seguitò a sfuggire per mesi e mesi dal primo avvento al potere,” perché “vi sono nell’azione politica giunture e connessioni di tempi, che il grosso non percepisce nel momento giusto o addirittura mai.” Infatti, non si era perso “tra noi il vezzo di mettere a contrasto i diritti, si diceva, della rivoluzione con il diritto che dal moto innovatore stesso si trasfondeva nella struttura dello Stato.” A distanza di vent’anni poteva affermare che “cotesto illegalismo postumo” rimase sempre “uno dei tarli corroditori del sistema creato” dal fascismo e che fini con il portarlo “a consunzione: una sorta di antifascismo interno al sistema, ben altrimenti valido, a determinarne la progressiva inefficienza, dell’antifascismo esterno.” Era, pertanto, molto improbabile che soltanto lui avesse compreso quella 475

necessità di un mutamento di rotta, sebbene, sempre a vent’anni di distanza, notasse con grande chiarezza che nella notte del 29 ottobre “il Fascismo mutò di accento. Non solo cessò d’essere una rivolta, ma iniziò un nuovo assetto e disegno della rivoluzione: una rivoluzione al potere con in mano gli strumenti e gli organi necessari all’esercizio del potere, padrona non solo delle leggi in atto, ma, quel che più conta, della legislazione attiva. Averlo afferrato subito, mentre intorno a noi urgono e premono altre forze e passioni e interessi, e con tanto veloce intuito da non abbisognare neppure d’approfondimento, è come discoprire in sé quella forza critica che è la forza stessa di una rivoluzione, quale noi oggi intendiamo: con un suo intrinseco potere, coi suoi fatali inesorabili sviluppi che non si possono contrastare, ma neppure si debbono passivamente seguire, con una ‘continuità’ che esige, da parte di chi ne sia a capo, interpretazione assidua e scaltrita.” Ma ciò che noi mettiamo in dubbio è che il Bottai avesse afferrato subito e con veloce intuito il vero significato di quello che si era svolto e si stava svolgendo sotto i suoi occhi: non era stato affatto in grado, nell’ottobre del ‘22 né nei mesi successivi, di cogliere l’inizio di “un nuovo concetto e disegno della rivoluzione” e di manifestare subito quella forza critica che avrebbe dovuto scaturire da un adeguato approfondimento dei fatti. Tant’è vero che, ancora nel dicembre del ‘22, sosteneva che una omogeneità politica del fascismo, “partito sorto da un reclutamento avvenuto in un’atmosfera passionale,” non era ancora stata possibile e dichiarava necessario che gli uomini, i quali si proponevano di potenziarlo, riuscissero nel loro compito: “Il Governo fascista,” proseguiva, “à bisogno, a parer nostro, non già di una base irrequieta e imprecisa, dalle fondamenta cedevoli e sussultanti, che impedisca la necessaria integrazione delle forze sane e pure, ma, anzi, di 476

assicurarsi nel Paese un attivo centro d’attrazione di tali forze. Noi abbiamo fede che ciò possa farsi pianamente. Non bisogna mai dimenticare che noi siamo nati con una tale promessa di ricostruzione nazionale che non possiamo e non dobbiamo accontentarci di essere un nuovo partito pur che sia. Abbiamo non tanto una parte da difendere entro i confini gelosi dei suoi programmi, quanto una funzione da compiere, vasta, al di sopra delle piccole cose e delle piccole persone che sono in questo grande partito.” Una posizione cautamente moderata risaltava abbastanza nettamente da questo passo in quell’appello alle “forze sane e pure,” la cui integrazione nelle file del fascismo era impedita dalla “base irrequieta e sussultante” e in quella ampia e vasta funzione da compiere, che travalicava il vecchio programma sinistrorso di piazza San Sepolcro e che dimenticava le piccole cose e le piccole persone per mirare ad altri confini più lontani, in cui gli italiani potessero scorgere una vera ed effettiva promessa di ricostruzione nazionale. Non c’era ancora alcun accenno ai motivi su cui insisterà fra non molto e che nasceranno, in lui, da altre esperienze e come risposta ad una diversa situazione. In un successivo articolo della fine di dicembre ‘22 (Dopo due mesi), lamentava che non fosse ancora nata una “bella, maschia, argomentata opposizione” quale quella che aveva reso piena di movimento e talvolta drammatica la vita politica e parlamentare della passata Italia: c’era soltanto una “opposizione da servi spauriti, che va dal tono squinternato e untuoso dei giornali democratici a quello volgare e velenoso della sopravvissuta stampa sovversiva.” In tal modo, il “nuovo ordine di cose” correva il pericolo che “dal gregge degli avversari si levi improvvisamente qualcuno, col gozzo gonfio di ira, a dar voce di protesta al pettegolezzo diffuso e minuto”; sicché, secondo lui, spettava “ai fascisti, a loro, in prima linea, un compito di autocritica, di analisi 477

spregiudicata e serena. Creiamo a noi stessi,” esortava i suoi camerati, “da noi la nostra opposizione.” Taluno ha visto, in questo incitamento a creare “a noi stessi la nostra autocritica,” la matrice di “Critica fascista,” il cui primo numero uscì il 15 giugno del ‘23, con un articolopremessa del Bottai che chiariva non essere sua intenzione di dare inizio “alla nostra opera, scrivendo la formula sacramentale che se ne sentiva il bisogno e che viene a riempire una lacuna”: egli avvertiva che il “novanta, e forse più, per cento dei nostri compagni di lotta vivono in uno stato di perfetta beatitudine né provano bisogno alcuno di riempitivi.” E sapeva pure che gli “specialisti dell’organizzazione,” che non conoscevano “che il consolidamento del numero, della folla, della moltitudine,” avrebbero ritenuto dannoso “tentar di rimuovere tale percentuale di incuriosi dal suo appagamento e che molto più convenga lasciarla alla sua ferma contentezza.” Eppure, si era deciso ugualmente a fare uscire la sua rivista, nella speranza che la sua fatica non riuscisse del tutto ingrata né inutile “a quel dieci, e forse meno, per cento di fascisti per i quali anche le più materiali e soldatesche gesta della nostra triennale rivoluzione furono strumento di più alte e durature conquiste.” Lo sosteneva soprattutto la malcelata fiducia di concorrere a “creare quella classe nuova di dirigenti di cui il Fascismo à urgente bisogno per sostituire l’antica,” e gli piaceva credere “che la seconda ondata abbia a essere finalmente l’avvento, sopra gli uomini che anno esaurita la loro funzione, degli uomini atti a fare del Fascismo il centro sensibile della vita nazionale.” Il periodo che stava attraversando il movimento delle camicie nere era di trasformazione, di “raccoglimento meditativo, attraverso cui la forza materiale è in via di potenziarsi in forza morale.” Come si vede, questo motivo del lento prevalere della forza morale su quella materiale era 478

il suo preferito e risentiva, forse, alquanto di una vecchia retorica di stampo umanistico. Si trattava di una fase, in definitiva, di crisi, ed egli proclamava di non avere avuto e di non avere “nessun timore ad ammettere che una crisi esista nel Fascismo e complessa. La parola crisi ” soggiungeva, “non à, che noi sappiamo, nessun significato tenebroso. Crisi non significa morte o catastrofe, in buona lingua italiana. Non comprendiamo quindi il timore di usarla, per indicare il fervore di innovazione che pervade tutto il Fascismo.” Non si capisce bene dove potesse vedere un simile “fervore di innovazione,” nel giugno del *23: forse nella creazione del gran consiglio e della milizia, oppure nella legge Gentile, o ancora nella legge elettorale maggioritaria in gestazione? Erano tutti provvedimenti che miravano a consolidare ed a perpetuare la conquista del potere da parte del fascismo e non si potevano certo dire di innovazione. Infatti, il Bottai ammetteva, con una segreta soddisfazione, che il fascismo stava operando, mediante un formidabile travaglio, “il suo trapasso da stromento di rivoluzione e di conquista in stromento di conservazione, nel senso non demagogico della parola, e di stabilizzazione di alcuni determinati valori politici e spirituali.” Insomma, il fascismo, se mai era stato rivoluzione o scardinamento di un vecchio assetto politico, ora procedeva alla restaurazione di quei valori che sembravano essere stati da esso combattuti, ed alla loro stabilizzazione. Il travaglio da cui era colto il regime era comune a tutti gli italiani, e, pertanto, egli esclamava, “guardare nella crisi del Fascismo come negli sviluppi d’un fenomeno a sé, che non interessi la vita della Nazione, è fare opera vana e, spesso, cattiva, che gli avversari compiono con cotidiana inopportunità, a cui è d’uopo rispondere con tale chiarezza e con tale evidenza, che dimostrino come noi scorgiamo, nell’angoscioso problema della nostra definitiva 479

formazione, un problema italiano, e fascista in quanto italiano. Era naturale che, una volta conquistato il potere, il moto interiore che à sempre agitato nel profondo il Fascismo, affiorasse in più palesi manifestazioni. In un certo senso può dirsi che non il Fascismo è in crisi, ma che il Fascismo sintetizzi la crisi di tutta la vita italiana: crisi di formazione, crisi di crescenza, crisi di definizione di valori.” Piuttosto che imporre al partito “una specie di ripiegamento tattico,” egli preferiva “studiare, vagliare ed agitare i termini di questa crisi meravigliosa, dalla quale sta per nascere una nuova classe dirigente,” e che preannunciava “una nuova coscienza fascista.” Ciò che con maggiore evidenza risaltava da questa lunga celebrazione della crisi come strumento di progresso e di più precisa definizione dei valori che avevano concorso a formare il fascismo (ma quali erano?), era la ribadita consapevolezza che ormai il regime si identificava con il popolo italiano, e che perciò tutto quello che interessava il primo doveva interessare pure il secondo: ecco perché il Bottai criticava qualsiasi “ripiegamento tattico” oppure qualsiasi tentativo di nascondere la realtà sotto un “ottimistico entusiasmo”: egli voleva, invece, procedere senza esitazione alcuna nella “serena, decisa, appassionata volontà di chiarificazione,” sicuro che essa avrebbe portato ad una accentuazione dei valori tradizionali - che non potevano non essere valori di conservazione e di stabilizzazione -, verso i quali egli con tutte le sue forze cercava di sospingere l’incerta e ancora traballante navicella del fascismo. Ma, ancora una volta, bisogna osservare come in un simile sforzo di mettere in luce, nel partito, valori che gli sembravano più adeguati alla sua effettiva realtà e di portare alla luce la nuova e vera coscienza fascista, non si possa scorgere nulla delle sue posizioni posteriori, che consisteranno nell’imporre la preminenza dello Stato e 480

del governo sul fascismo, o almeno nel far coincidere l’uno e l’altro. In un articolo del 1° novembre ‘23 (La Marcia su Roma), si poteva sentire questa sordità e questa angustia di interpretazione critica: “Crediamo di non arrecare offesa a nessuno, bensì giovamento alla nostra causa, rammemorando le molte passioni che trascinarono verso Roma la moltitudine nostra: passioni d’ogni sorta, ad arte eccitate e scaldate per creare la spinta ad agire, passioni di uomini, ognuno dei quali compieva un proprio atto particolare, passioni di provincie, ognuna delle quali partecipava al moto con una sua propria mentalità, passioni di categorie e di classi, ognuna delle quali tendeva ad una sua speciale rivendicazione. La storia dell’atto che si compie, non è la storia, ma le cronache di ognun che ne sia attore. Ufficio delle commemorazioni avrebbe a esser quello di soprapporre alle cronache la storia e trame gli insegnamenti. E noi diciamo precisamente questo: che molti fascisti sono ancor rimasti alle cronache.” Il Bottai rimaneva qui sul piano della esortazione ad uscire dalla cronaca per entrare alla storia, la sola che fosse in grado di far superare le “passioni d’ogni sorta” e di aiutare a trarre dall’evento il dovuto insegnamento. Ma, gli si sarebbe potuto chiedere, quale era l’insegnamento che egli stesso traeva dalla marcia? La necessità di una svolta moderata, verso destra, mediante una immissione senza traumi del fascismo nello Stato? Si badi, inserimento di un partito che continuava a rimanere quello che era stato e che, perciò, avrebbe messo in pericolo la svolta moderata auspicata, perché era molto difficile che il fascismo, il quale viveva tuttora nell’entusiasmo e nell’ottimismo generati dalla recente vittoria, riuscisse a temperarsi, a frenarsi sollevandosi nella più alta sfera della storia (in questa distinzione fra cronaca e storia sembra di sentire l’eco affievolita, e ripetuta pedantemente, della lezione crociana). 481

Il suo grido: O italiani, vi esorto alle storie, doveva restare inascoltato, soprattutto perché lanciato con un tono troppo professorale, tipico di colui che si rivolge con una saccente superiorità alle turbe e alle masse cercando di volgerle docili ai suoi voleri. Questa confusione di motivi e di idee non era stata dissipata nemmeno da un suo precedente articolo del 1o ottobre (Esame di coscienza), in cui venivano ripresi diversi spunti di un altro articolo di M. Rocca, del 15 settembre, Fascismo e paese, che avevano valso a quest’ultimo l’espulsione dal partito, poi revocata dallo stesso Mussolini, che, in quei momenti, dava esempio di moderazione: infatti, poco prima, il consiglio dei ministri aveva approvato una sua dichiarazione che rendeva omaggio al paese, che, “nella sua enorme massa laboriosa, desidera una cosa sola: di essere lasciato tranquillo. E devo dichiarare che, mentre minoranze politiche danno ancora segno di irrequietudine, le vaste masse lavorano silenziose e contribuiscono più di tutti efficacemente colla loro disciplina alla ricostruzione della nazione”; e cui riconosceva apertamente che “tutti i partiti, compreso il Fascista, sono in un movimentato periodo di revisione, di chiarimento, forse di trasformazione” (30 agosto). Quasi sicuramente erano state queste dichiarazioni del duce ad aprire la strada alla polemica dei revisionisti, della quale era un’autorevole espressione lo scritto del Rocca, cioè di un membro del gran consiglio: “La rivoluzione fascista,” egli sosteneva, “nell’ampia e fulminea intuizione del Duce nostro, doveva essere […] la rivoluzione compiuta dai fascisti ma per l’Italia intera e non per i fascisti medesimi; la rivoluzione capace di violentare prima, ma di convertire poi l’Italia intera […], in modo che il fascismo, lungi dal marcire in una supposta torre d’avorio tramutantesi in una scatola di conserva, si espandesse spiritualmente fino a fondersi, ad 482

annegarsi, a disperdersi nella nuova e diffusa e salda coscienza nazionale […]. La disciplina formale imposta non si sa bene a servizio di quali satrapie provinciali e di quali ambizioncelle personali […], non basterà mai ad evitare l’errore in cui i socialisti trovarono la disfatta: l’opposizione alla cultura, alla capacità tecnica e all’intelligenza. Basterà ancor meno ad evitare la separazione (sterile e funesta per il partito) fra esso e il Paese, e, a lungo andare, forzatamente fra il partito e il Governo, il cui capo non rinuncerà mai a rappresentare l’anima e la grandezza di tutto il Paese […]. Noi domandiamo al partito, umilmente, accoratamente, di riconciliarsi con l’Italia di Mussolini: e, per riconciliarsi, di troncare la parodia della rivoluzione e della disciplina verbali, eternate nel troppo vantato ricordo d’una violenza vittoriosa, oggi che la sua necessità è scomparsa; abbandonate l’una e l’altra all’arbitrio degli pseudomussoliniani in sessantaquattresimo che parlano in suo nome, a sua insaputa, come suoi amici o come dittatorucoli provinciali della propria elettoralistica agenzia.” La condanna di chi pensava di poter perpetuare e di rinnovare di continuo il “ricordo d’una violenza vittoriosa” era molto netta, così come netta era pure la condanna dei “dittatorucoli provinciali” che parlavano e sparlavano in nome del duce, il quale, a sua volta, doveva rappresentare “l’anima e la grandezza di tutto il suo Paese” (corsivo nostro), volendo rallier (far aderire) al regime gli uomini colti, i tecnici, gli intellettuali, dato per scontato che avesse già ottenuto il consenso delle masse popolari (!). L’errore dei socialisti, affermava il Rocca, era stato quello di non aver cercato l’appoggio di questo ceto colto, ma che cosa avrebbero dovuto fare le correnti politiche di sinistra per raggiungere questo scopo, dal momento che l’intellighentzia era, allora, quasi concordemente schierata con i partiti reazionari, della destra? Avrebbero dovuto 483

rinunciare alle loro caratteristiche essenziali per rivestirsi di altri panni, più condecenti e più puliti, tali da convincere la piccola e media borghesia intellettuale a spostarsi verso di essi? Vincere profondi e radicati interessi, o supposti interessi, non sarebbe certo stato possibile con alcuni più o meno piccoli accorgimenti. Ma, senza dubbio, il fascismo al potere doveva affrontare il problema di questa categoria, per sua natura avversa agli estremismi e favorevole sì ad un regime conservatore, che non fosse, però, reazionario, o almeno che giungesse alla reazione per gradi, insensibilmente. Alla metà del ‘23 poteva sembrare che la tendenza revisionista riscuotesse l’approvazione aperta dello stesso duce, se l’ufficiale “Corriere italiano,” il 16 settembre, pubblicava un articolo (Governo e fascismo nella realtà politica), in cui ribadiva le affermazioni del Rocca, ed anzi dava loro un accento più netto e risoluto: “Occorre, secondo noi, rinnovare l’organismo, rifare sopra basi nuove la struttura disciplinare e regolamentare del partito, crearlo insomma ex novo. Esso non risponde più ai tempi, è superato dall’imponenza stessa della civiltà politica di cui fu l’artefice e il padre. È insufficiente, insomma, a comprendere in sé, per moltiplicarne gli echi e gli effetti, questa grande realtà nazionale che oggi viviamo e alla quale aderiscono ormai, volenti o nolenti, uomini, ceti, classi, dalle origini più diverse. La stessa vita di provincia non può più a lungo restar soffocata sotto l’arbitrio capriccioso e tirannico di qualche capo che continua contro gli istituti statali la lotta del ‘19, del ‘20 e del ‘21, come se dal novembre essi non fossero passati sotto la gestione e il controllo diretto del governo fascista. Se a questo radicale rinnovamento del partito fascista non si potesse arrivare, sarebbe meglio annullarlo, lasciando che le forze sane e fresche che in esso operano e vivono, si inserissero 484

gagliardamente nella più libera e vasta corrente nazionale. Migliori forse ne sarebbero i risultati C’erano già, in nuce, in questo passo (per quanto espressi spontaneamente, senza una precisa coscienza critica) i motivi su cui più tardi insisterà molto il Bottai, e, in particolare, l’esigenza di regolare e disciplinare il partito facendolo rientrare, ordinato e senza velleità di autonomia, nella grande realtà nazionale a cui aderivano uomini e ceti dalle più diverse provenienze. Tuttavia, ancora il Bottai, nel ricordato articolo Esame di coscienza analizzava e definiva in otto punti in che cosa consisteva la crisi del partito, preferendo insistere, in gran parte, sulla progressiva invasione e sulla penetrazione del partito nella vita del paese, con abusi, confusioni di poteri che lo sottraevano ad ogni disciplina e ad ogni controllo:” 1) Mancanza, dal giorno che Benito Mussolini assorbito nelle più gravi cure del governo cessò di essere il Capo del Partito, in senso pratico, pur rimanendone il Capo ideale, d’un uomo che alle cose del Partito si dedichi esclusivamente, continuamente e autorevolmente; 2) Esistenza d’una Giunta Esecutiva, creata con investitura dall’alto, che volle essere il più possibile felice, ma non riuscì nella creazione d’un organismo direttivo omogeneo, animata da una volontà unica, lineare, precisa; 3) Abuso, anche nei gradi inferiori, di investiture dall’alto, che raramente corrispondono alle reali esigenze del l’organizzazione, e che spesso montano la testa degli investiti; 4) Persistenza di un sistema disciplinare rigido, militaresco, ricco di formule primitive, ottimo in tempi di azione politica, esecrando per l’uso tirannico ed abusivo che ne fanno la maggior parte dei capi locali; 5) Persistenza di quadri, creati in un’atmosfera di lotta e di violenza, incapaci di informarsi (sic) alle necessità nuove di maggiore studio, meditazione e responsabilità; 6) Confusione di poteri, di attribuzioni e di autorità tra i vari rami 485

dell’organizzazione fascista (partito, milizia, sindacati, cooperative, gruppi di competenza) e mancata definizione dei loro rapporti; 7) Persistente confusione tra i poteri dello Stato e i poteri del partito, per cui questi, in ispecie nelle provincie, tendono a sovrapporsi a quelli; 8) Indefinitezza programmatica delle attuali funzioni del partito.” Così, anche lui, Bottai, aveva divulgato il suo ottalogo, che puntava, pur con una certa indeterminatezza e debolezza, sulla esigenza di eliminare le investiture dall’alto per sostituirle con le elezioni dal basso; ma quando si fosse raggiunto tale obiettivo e si fossero meglio definite le funzioni del partito si sarebbe forse posto termine al clima di illegalità e di violenza materiale e morale con cui il fascismo governava? Ecco, allora, spuntare la richiesta che, secondo il Bottai, sicuramente avrebbe contribuito a sanare la situazione: cioè la distinzione fra i poteri dello Stato e i poteri del partito. Ma una simile richiesta, nell’ottalogo, rimaneva quasi confusa, un punto fra gli altri, e non diventava il leitmotiv fondamentale. Tuttavia, il suo pensiero si andava meglio precisando, nella prima metà del ’24 prima nella polemica contro i selvaggi e gli estremisti antistatali del suo stesso partito, e, dopo, in seguito alle ripercussioni del delitto Matteotti. Ed appunto in un articolo del luglio, egli ricordava come da parecchio tempo e senza aspettare che arrivasse il trauma del delitto, avesse domandato al partito di fare un esame di coscienza, solo che quell’esame di coscienza, la cui esigenza era stata avanzata, come si è visto, il 1° ottobre del ‘23, era piuttosto vago e generico, mentre ora sembrava acquistare maggiore concretezza. Rispondeva al Suckert di non aver voluto conciliare, o addirittura fondere, il revisionismo con il liberalismo, inteso quest’ultimo come ideologia politica, perché la sua proposta era di collegare strettamente il fascismo con la dottrina filosofica del liberalismo, 486

intendendola come affermazione e analisi del processo unitario della storia. Sempre in risposta al Suckert, sosteneva che, fra un simile liberalismo e il “fascismo storico” della “Conquista dello Stato,” non c’era grande differenza se non nell’indicazione di chi avrebbe dovuto attuarlo: per il Suckert era, naturalmente, il Farinacci, per Bottai, invece, Mussolini e con lui quei fascisti che credevano nello Stato. Inoltre, respingeva quelle che riteneva nostalgie vane, cioè alleanze con correnti e gruppi di sinistra, perché una tale “mescolanza di uomini” non avrebbe fatto altro che riacutizzare la crisi che aveva già colpito il partito dopo la marcia su Roma e per buona parte del ‘23. A suo parere, si sarebbe dovuto passare alla formulazione di una piattaforma programmatica, ideologica e concreta che sola avrebbe consentito di misurare la gravità o meno dei contrasti. E concludeva: “Non si è compreso che la conquista del potere da parte del fascismo, come non è un episodio qualsiasi della vita nazionale, così non deve essere un episodio qualsiasi della vita del Partito. Nel ‘fatto compiuto’ della conquista del potere si racchiude, in sintesi, la nostra potenza rivoluzionaria, la quale deve esplicarsi con il tradurre le idee in istituzioni. Noi non abbiamo il potere perché abbiamo fatto la rivoluzione, ma abbiamo il potere perché dobbiamo fare la rivoluzione. E la rivoluzione si fa quando si ha il potere in mano, in modo profondamente diverso da quello in cui l’intendono certi robespierrini di nostra conoscenza: si fa cercando un nuovo equilibrio delle attività e delle funzioni dello Stato, rielaborandone i principi e consolidandone negli istituti e, se occorre, nella costituzione medesima, le grandi idee direttive.” In apparenza, il Bottai faceva una concessione a chi continuava a riempirsi la bocca della magica parola rivoluzione, senza, però, una valida prospettiva e senza un 487

significato logico affettivo, affermando che questa doveva venire dopo la conquista del potere, e non prima, quando si era tutti tesi a superare il momento della lotta; ma poteva sembrare che la piattaforma programmatica, di cui aveva invocato la necessità, si riducesse ad una più accurata definizione delle funzioni dello Stato, ad una rielaborazione dei suoi principi e ad un consolidamento dei suoi istituti, se necessario, anche mediante modifiche dello Statuto. Di conseguenza, il problema non era così semplice, come credevano i robespierrini, ma diventava quello di avere una nuova classe dirigente capace di vivificare lo Stato con l’ideologia fascista; altrimenti se tra lo Stato-Nazione e il fascismo si fosse scavato un largo fossato, si sarebbe aperto il varco al ritorno dell’antica classe dirigente. Il Bottai, nello scrivere queste parole, aveva presente una “recente intervista concessa al ‘Giornale d’Italia’ da Benedetto Croce, che prevede un ritorno al regime liberale, ove il fascismo non sia in grado di creare un nuovo assetto costituzionale e giuridico.” Pericolo che, secondo lui, esisteva, perché, proseguiva, “o noi, diciamo noi fascisti, avremo l’ardire […] di gettarci a fondo nella politica, non per ripetere le sapienti alchimie giolittiane, ma per esprimere e stampare negli istituti, nelle leggi, nei codici, nei metodi l’idea di rinnovamento che è alla base del fascismo, o noi falliremo, preparando il ritorno al regime e agli uomini, cui il senatore Croce anela.” Ma, ci si potrebbe chiedere, dov’era e quale era Videa di rinnovamento che al Bottai piaceva immaginare alla base del fascismo, in che cosa consisteva se non nella ripetutamente espressa volontà di modellare lo Stato sul Partito fascista, cioè su un partito che mirava ad esercitare un potere assoluto, totalitario e che non ammetteva più né opposizioni né critica e che ancor meno era disposto a lasciar la dura presa sullo Stato? Ecco perché, in quel periodo, il fascismo 488

doveva sembrare non essere capace di creare quel “nuovo assetto costituzionale” che quasi tutti si aspettavano, il che permetteva agli pseudo-rivoluzionari una maggior libertà di manovra, che era anche voluta dalla necessità di rispondere in maniera adeguata - cioè con la forza, perché in altro modo non avrebbero saputo farlo - alla offensiva delle opposizioni che si era fatta particolarmente acuta dopo il delitto Matteotti (sebbene fosse una offensiva quasi del tutto innocua - in quanto basata su una denuncia morale a cui Mussolini e i suoi seguaci potevano prestare non troppa attenzione, pur se dovevano temerne gli effetti psicologici sulla popolazione). In maniera ancora più esplicita, ed anche più chiara, il Bottai riprendeva il problema dei rapporti fra lo Statogoverno e il partito in due articoli, del 15 novembre (Il nuovo corso) e del 15 dicembre (Perfezionare il partito), che venivano quasi a commento del discorso del duce dell’ll novembre per la riapertura della Camera e al messaggio dello stesso Mussolini alle federazioni fasciste del 30 novembre. Nel primo il capo delle camicie nere aveva dichiarato che “il cosiddetto ‘rassismo,’ che costituirebbe il fenomeno culminante della ‘pressione’ fascista, è in evidente declino. Già da parecchi mesi, il Partito si è dato una diversa costituzione. L’autorità non discende più per investiture dall’alto, ma si esprime dal basso, attraverso organi elettivi di diversi gradi. C’è in tutta la compagine del Partito un travaglio di selezione, di coordinazione, di adattamento ai nuovi compiti. Gli inadatti scompaiono. Sono eliminati, o se ne vanno […]. L’illegalismo, cioè le azioni sporadiche di violenza, sono in diminuzione […]; l’illegalismo, anche se fascista, non solo non è tollerato, ma è severamente punito […]. Bisogna sentire ed accogliere il desiderio di tranquillità delle popolazioni. Vi è un bisogno diffuso di distendere i nervi, 489

dopo che per dieci lunghi anni furono tesi fino allo spasimo. Bisogna cercare di realizzare non l’abbracciamento universale, che è mera utopia, ma un minimo, e, se possibile, un massimo di convivenza civile e di concordia nazionale. Non v’è dubbio che la nazione, a poco a poco, ma fatalmente, ripudierà coloro che restano sordi a questo grido prorompente dalle vaste profondità dell’animo collettivo.” Il Maccari commentava sdegnosamente che il duce, con il suo discorso “ultranormalizzatore, legalitario, quietista, pacifista,” mandava “in congedo tutti noi, che lo servimmo in qualità di squadristi, secondo le nostre forze inesperte e giovanili, ma generalmente sane e sincere.” Ed effettivamente l’impressione che doveva essere nata da quelle parole di Mussolini era una specie di benservito allo squadrismo e alle sue connaturate violenze, come di un ferrovecchio che ormai non serviva più. Pertanto, il Bottai non poteva fare altro che approvare questo “nuovo corso” annunciato con tanta solennità e con tanta segreta retorica, sostenendo che tale nuovo corso avrebbe dovuto consistere nel risolvere finalmente l’ancora irrisolto problema del rapporto governo-partito. Egli era giunto a concepire lo Stato-governo, secondo una concezione puramente tecnocratica, come uno “strumento in se stesso non qualificato né qualificante,” scrive la Mangoni, “e che quindi doveva essere solamente efficiente, e,che era compito delle diverse ideologie caratterizzare di volta in volta.” Tutto ciò che si agitava nel profondo del partito - revisionismo o intransigentismo -non doveva trasferirsi nella concreta azione di governo, ma ridursi a un fecondo dibattito di idee, che poteva incontrarsi o scontrarsi, pur rivelando sempre la validità dell’idea. Nel messaggio, il duce oltre a polemizzare contro lo “squadrismo in ritardo” sostenne che era necessario “rivedere le nostre posizioni morali e mentali e quindi 490

politiche. Un partito che non sa o non vuol fare questo è condannato.” Il 5 dicembre, poi, parlando al Senato sulla politica interna, disse che fin dall’“indomani della rivoluzione” dell’ottobre al quesito se creare una nuova legalità o rientrare nella vecchia legalità (“Fuori della costituzione o dentro la costituzione?”), aveva scelto senza indugio la prima via; e si meravigliava che non si volesse riconoscere che “da allora ad oggi” c’era stato un processo di riassorbimento della rivoluzione nella costituzione e nella legalità: faticoso, lento, difficile, ma, secondo lui, c’era stato. E si chiedeva e chiedeva a gran voce: “C’è stato un disciplinamento del Partito? C’è stato!” Ma il Bottai ribatteva che se Mussolini avesse proclamato le stesse cose un anno prima, quando il partito era unito, avrebbe fatto un’opera di “liberazione del fascismo,” mentre proclamarle quando il partito era lacerato e frantumato in tendenze divergenti, non poteva far sì che il partito stesso pervenisse ad una duratura pacificazione. Questo perché “la svolta delle vicende ha condotto il Partito a un dilemma tragico. Rimanere ancora Partito significa per il fascismo, irrimediabilmente, la rinuncia al proprio programma, cioè a se medesimo. Ricuperare se medesimo, cioè ritornare al programma, significa per il fascismo abolire il Partito. Fascismo e Partito divengono ogni giorno più termini antitetici. Bisogna superare l’antitesi a vantaggio del fascismo, per lo spirito contro il corpo.” Sembrava che il Bottai, rassicurato da quanto aveva affermato il duce e quasi convinto di aver raggiunto la vittoria sugli avversari intransigenti, incalzasse sempre più da vicino il duce per deciderlo a prese di posizioni ancora più nette e recise. In effetti, il 15 novembre aveva lanciato una specie di ultimatum, forte anche per aver constatato come “il ristretto cerchio di amici” che si riconoscevano nel revisionismo (sebbene lui rifiutasse tale 491

parola come non espressiva del suo stato d’animo), si fosse “straordinariamente allargato, fino ad essere una parte considerevole del Partito, certo la più responsabile.” “È ora,” così dichiarava nell’ultimatum, “che i dirigenti si rendano conto che il disagio da noi segnalato esiste; e ingrandisce ogni giorno. Questo disagio può voler dire la salvezza oggi, sarà domani inevitabilmente la divisione, lo scisma, il frazionamento.” Il Bottai, in questo che voleva essere il suo manifesto con il quale si poneva a capo di una ormai forte corrente nel partito, criticava piuttosto duramente un po’ tutti, citando, talvolta, persino il Farinacci, che pure era stato uno dei suoi più tenaci e duri avversari, colui in cui si era incarnata l’altra anima del fascismo: nessuno era stato capace di “disegnare un ampio piano di adeguamento del Partito alle necessità nuove dei tempi, come unanime, da Farinacci al sottoscritto,” si era richiesto e “coloro che reggono hanno ripresa la slegata, discontinua, inconseguente politica del ‘giorno per giorno,’ che, osservino gli estremisti, è, fra tutte, la meno rivoluzionaria, se è vero, com’è vero, che una rivoluzione si fa per creare nuovi ordini. Quale ordine nuovo si è creato nel Partito Fascista? Nessuno, se non un peggioramento demagogico del vecchio.” Era, questa, una frecciata che colpiva direttamente lo stesso capo delle camicie nere, il Mussolini che cercava di navigare al disopra delle correnti. E, poi, proseguiva attaccando i metodi con cui era stato guidato - o, meglio, non guidato - il partito: si era lasciata inalterata la composizione interna del partito senza procedere all’epurazione organica delle file fasciste; l’epurare “capo per capo” in alcune province quando scoppiava uno scandalo era un sistema pessimo perché non consentiva un riassestamento e un riordinamento secondo un disegno ricostruttivo (perché - egli si chiedeva - “ liquidare oggi il razzismo [rassismo] e non risolverlo ieri, come noi 492

chiedevamo, in una libera iniziativa di revisione interna?”); la propaganda era fatta in modo bestiale, retorico, demagogico, ineducativo, indegno di un partito che voleva essere nuovo; la stampa locale era tale da fare arrossire un negro; non si era combattuto adeguatamente il prevalere, nelle province, dei “professionisti della politica”; la politica verso l’esterno del partito era puerile, affidata al capriccio degli avvenimenti e impostata su un criterio di soggezione, per cui erano ottimi “quegli uomini politici che si sottomettono, se pure, sottomettendosi, importino nel nostro Partito idee di contrabbando, che ne contraffacciano il volto e guastino lo spirito”; l’avere costantemente confuso le azioni del partito e quelle del governo, aveva portato “il Partito a corrompersi, idealmente e praticamente, nella necessaria diplomazia dell’arte di governo, cui è sempre lecito, e talora inevitabile, subire adattamenti, mentre al Governo è venuto a mancare il controllo continuo, assiduo del Partito, depositario dell’idea e garante dello spirito della Rivoluzione.” Insomma, avendo lasciato prevalere sullo spirito la parola e sull’essenza la forma, si era finito con il navigare “a gonfie vele nel mare magno del più pacchiano dei conformismi.” A questo punto, gridava la sua rivolta contro un tale stato di cose e, più che pregare, quasi ingiungeva al duce di muoversi per attuare le “idee di verità e di vita” che l’opposizione interna - sia di destra come la sua sia di sinistra come quella degli intransigenti - sosteneva da tempo: “Noi diciamo Rivoluzione e pensiamo che quello che è stato lo spirito santo della nostra quadriennale insurrezione, la forza, ispiri l’azione ricostruttiva non secondo ingiunzioni di prepotenza ma secondo principi di autorità realizzata nelle leggi e desideriamo che tale forza si volga nello stesso Partito, come nello Stato, a comprimervi la demagogia, il lenocinlo, il tradimento che oramai tutto lo conquidono e pervadono. Il problema del Partito esiste, 493

formidabile. Noi chiudiamo gli occhi alla realtà. Non li chiuda, soprattutto, il Duce, il quale à il diritto di pretendere che nessuno dei sopravvenuti gli rovini lo stromento della sua conquista e della sua potenza. ‘Le cerimonie di queste chiese non comprendono più il tuo mistero, o Signore!/ noi gli gridiamo, al modo di un mistico tedesco, guardando dentro lo sconclusionato lavorio delle conventicole che ànno il compito di governarci. Ch’Egli ci intenda e ridia al Partito il fervore della sua anima e la febbre del suo spirito!” Si possono notare in questo articolo, di cui abbiamo riportato così lunghi passi, diversi motivi: anzitutto, il lento e graduale accostarsi del Bottai alla vociante e urlante pseudo-sinistra, dovuto forse al fatto che avvertiva montare nel paese tale corrente. Infatti, tra novembre e dicembre, essa trovava una espressione anche alla Camera, con la proposta di diversi deputati di affidarsi, per superare le crescenti difficoltà provocate dagli aventiniani, ad un governo militare, e, poco più tardi, lo stesso Farinacci, alla riunione dei direttori lombardi, disse che l‘“attuale inquietudine che regna tra i fascisti” esigeva un “governo forte.” Verso la metà di dicembre, queste forze dissidentiste (come le disse l’ex segretario del PNF, M. Bianchi) si coagularono raccogliendo alcuni consoli della milizia fedeli al Balbo, i seguaci del Farinacci e i gruppi che facevano capo a due giornali, l‘“Impero” e la “Conquista dello Stato”, mentre il Suckert con un articolo intitolato: Il fascismo contro Mussolini?, ammoniva il duce a fare la politica che gli veniva suggerita dalle “province fasciste”: “Il punto di vista della gran massa dei fascisti delle Province è questo, da qualche tempo: non è Fon. Mussolini che ha portato i fascisti alla Presidenza del Consiglio, ma sono i fascisti che hanno portato lui al potere. L’on. Mussolini più che ricevere Fincarico dalla Corona, ha avuto 494

il mandato dalle Province fasciste […]. I fascisti delle Province non ammettono deviazioni a questo assoluto dovere: o Fon. Mussolini attua la loro volontà rivoluzionaria, o rassegna, pure momentaneamente, il mandato rivoluzionario affidatogli.” Era un altro ultimatum, più duro, senza dubbio, di quello del Bottai, un ultimatum che sembrava non lasciare alcuna via di uscita al duce e neppure ai revisionisti di destra, il cui esponente, appunto il Bottai, comprese subito la situazione e si allineò per non venire espulso dal fitto gioco politico, che altrimenti si sarebbe svolto sulla sua testa. D’altronde, bisogna anche osservare che poca differenza correva tra il revisionismo moderato del Bottai e l’intransigentismo rivoluzionario, perché entrambi erano scaturiti dal malessere e dall’insoddisfazione della piccola e media borghesia, che assistevano con timore al risorgere, favorito dallo stesso Mussolini per motivi elettorali o di potere, dei vecchi ceti di quella società che credevano di avere sconfitto per sempre. I revisionisti, naturalmente, temevano che ritornassero le antiche istituzioni, che erano state lo strumento con cui si era esercitato il predominio dei liberaldemocratici; gli intransigenti temevano che il fascismo abbandonasse “alle pretese degli oppositori,” scriveva ancora il Suckert in un articolo, Tutti debbono obbedire, anche Mussolini, al monito del fascismo, in cui enunciava i nove punti del fascismo quale lo intendeva il suo gruppo, “il suo patrimonio ideale e le norme fondamentali del suo programma politico e sociale, [mentre invece] deve opporsi con qualunque mezzo a prostituire il suo patrimonio ideale e il suo programma alle mutevoli e contingenti necessità parlamentari tanto del Governo quanto delle vecchie classi parlamentari, le quali uniche si avvantaggerebbero di una tale prostituzione dei principi fondamentali del Fascismo.” Di questa prostituzione così come della mancata 495

traduzione in istituzioni delle idee e della potenza rivoluzionaria del fascismo (Bottai), avrebbe fatto le spese proprio la piccola e media borghesia, di fronte alla quale, finalmente, si erano spalancate le porte di un duraturo e saldo controllo sulle leve del potere. Si trattava di un ceto che era rimasto, durante il processo di unificazione della penisola nel secolo scorso e nei decenni successivi fino alla guerra, in posizione subalterna rispetto alla classe dirigente, che aveva sempre fatto gli interessi dell’alta borghesia, prima agraria e poi industriale. Esso aveva visto nel fascismo il movimento che avrebbe potuto farlo giungere al potere e che, con l’ottobre del ’22, aveva sconfitto gli altri due partiti - il socialista e il popolare -che avrebbero potuto contenderglielo. Infatti, lo stesso Mussolini, nel discorso alla Camera del 21 luglio 1921 (una dichiarazione di voto in cui aveva messo in rilievo le insufficienze del governo Bonomi), aveva dichiarato che “le grandi forze espresse dal Paese in quest’ora sono tre: un socialismo che dovrà correggersi e già comincia: notevole il voto confederale contro i comunisti, soprattutto notevole il nuovo punto di vista della Confederazione generale del lavoro per ciò che riguarda lo sciopero dei servizi pubblici; la forza dei popolari che esiste, che è potente, anche perché si appoggia, non so con quanto profitto per la religione, alla forza immensa del cattolicismo; e, infine, non si può negare l’esistenza di un terzo movimento complesso, formidabile, eminentemente idealistico, che raccoglie la parte migliore della gioventù italiana. Credo che a queste tre forze coalizzate sopra un programma comune, che deve costituire il minimo comune denominatore, spetterà domani il compito di condurre la patria a più prospere fortune.” Mussolini, pertanto, aveva accomunato i tre movimenti politici che rappresentavano quegli strati sociali - il proletariato, i cattolici e la piccola e media borghesia - che si erano più o 496

meno tenacemente opposti all’unità, il proletariato perché, pur partendo da posizioni pre-capitalistiche e feudali, vi scorgeva la vittoria della classe antagonistica, la borghesia; i cattolici perché avversavano la borghesia liberale che aveva abbattuto il potere temporale dei papi; e la piccola e media borghesia perché avrebbe desiderato uno Stato diverso da quello che si veniva costruendo e per il quale la grande borghesia richiedeva anche i suoi sacrifici con l’intento di allontanarla dal potere una volta conseguito l’intento. Pertanto, come abbiamo detto, una volta eliminati dalla scena politica i due temibili e pericolosi concorrenti, il fascismo, con i ceti sociali di cui era espressione, era risultato vittorioso su tutta la linea ed i contrasti che erano nati nel suo seno, erano soltanto diversi modi di esprimersi e di intendere la vittoria da parte di un unico ceto. Ecco perché il Bottai poteva proseguire nel ‘25 lo sforzo, che aveva già iniziato il 15 novembre ‘24, di fondere le due anime che convivevano nel partito: problema che era particolarmente urgente soprattutto dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio che, rivendicando a sé la “responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto” (svuotando, così, di qualsiasi valore la protesta dell’Aventino basata tutta sulla “questione morale,” cioè sulla enormità della partecipazione al delitto Matteotti di gerarchi fascisti), aveva ridato nuova forza agli intransigenti (“[…] la sedizione dell’Aventino ha avuto profonde ripercussioni in tutto il paese,” ma “viene il momento in cui si dice basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili la soluzione è la forza. Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai”). Un altro passo nella loro direzione il duce aveva compiuto con la nomina di Farinacci a segretario del partito, per cui si poteva ritenere che veramente questa corrente avesse avuto 497

il sopravvento. Quasi subito, il Bottai cercava di rilanciare, in una situazione che per i fascisti si era rimessa in movimento, la sua corrente, proponendo, il 15 gennaio, di fondare “centri di cultura” di “Critica fascista,” nell’intento di creare, nelle varie province, alleanze fra le due tendenze per battere, uniti, la “controrivoluzione liberale” che, secondo lui, era in pieno sviluppo. Era la posizione su cui egli era convinto di poter convogliare gli intransigenti, i quali, essendo, come abbiamo detto, i rappresentanti dello stesso ceto, gli apparivano ora il naturale alleato nella nuova lotta, che aveva messo in ombra le altre precedenti, contro il tentativo del “conservatorismo di tono liberale” di rialzare la testa. In tale alleanza, peraltro, il Bottai era sicuro di poter assumere, sul piano culturalepolitico, una funzione preminente soprattutto perché, come abbiamo ripetutamente sostenuto, gli intransigenti erano del tutto privi di una posizione originale sui problemi essenziali dello Stato-governo e del partito. Tema, però, quest’ultimo che si allontanava un po’ dalla sua attenzione, se esclamava, il 15 maggio (Per arginare una controrivoluzione), che “forse senza avvedercene, e certo senza una deliberata volontà di farlo, noi stiamo rafforzando tutti gli istituti pubblici che dovevamo distruggere, riconsegnandoli, dopo la cura ricostituente a cui li abbiamo sottoposti a spese del nostro lungo sacrificio di sangue e di pensiero, agli stessi uomini di quella vecchia classe dirigente contro cui la nostra giovinezza insorse, nauseata e sdegnata.” Giustamente è stato osservato che la concezione del fascismo del Bottai era diversa da quella del Rocco, che lo concepiva come una restaurazione della vita politica ottocentesca, e non come una rivoluzione-reazione contro l’“oligarchia di politici piemontesi-partenopei” che aveva retto l’Italia dell’Ottocento, quale adesso l’intendeva il 498

Bottai. E, senza dubbio, lo Stato a cui mirava il Rocco era più facile da realizzare, perché si trattava soltanto di inserire in ciò che già esisteva la realtà fascista, mentre lo Stato del Bottai, quale “Stato etico,” era qualcosa di nebuloso, di vago e di generico che non riusciva a riempirsi di un concreto contenuto. Per ben capire la polemica di questo ultimo contro tutto il secolo scorso, dominato da una borghesia conservatrice che, come abbiamo detto, aveva costantemente escluso dall’area del potere la piccola e media borghesia, basterà rileggere in particolare un suo articolo del 1° novembre ‘25 (ci scusiamo ancora una volta della lunga citazione che ci pare indispensabile): “Coloro che ànno governato in nome della democrazia non àn fatto altro che adattare le forme vuote della politica transalpina, scaturite dalla grande Rivoluzione dell‘89, ad una meschinissima pratica di governo. - Il popolo era assente, e mentre cadeva la Destra nel marzo del ‘76 tumultuava la Romagna, mentre imperava Giolitti si adunava in file serrate nel Socialismo, mentre le assemblee costituite mercanteggiavano l’intervento, sottilizzando del pro e del contro, imponeva la guerra. La storia d’Italia dal 70 al Fascismo è impostata su due piani diversi: una classe di borghesi conservatori che amministra lo Stato, il popolo che lotta per il pane e concreta, talora, attraverso questa elementare espressione, la propria volontà di politica. Ma la politica democratica di tutti i governi è un tradimento perpetuo al popolo, le elezioni sono una forma di paternalismo giacobino, il parlamento la barricata dietro a cui si asside il vecchio Stato piemontese. Era fatale che, per compiere l’opera del Risorgimento, per fare del popolo una nazione, occorresse sovvertire lo Stato, e se il Socialismo non intese questo, per compenso lo capì il Fascismo, nato sulle piazze per chiamare alla riscossa il popolo contro i falsi pastori.” In un altro articolo di poco 499

successivo, del 1° dicembre, tesseva un elogio de L’ antidemocrazia del fascismo, “sorto ad abbattere un regime in sostanza oligarchico e tirannico ma sedicente democratico in virtù delle istituzioni sulle quali si basava. È ormai patrimonio acquisito di una più illuminata critica storica che in Italia non vi è mai stata democrazia, se per democrazia s’intende una partecipazione diretta del popolo allo Stato.” Non si può sapere con precisione a che cosa il Bottai intendesse riferirsi con quel fugace accenno ad una “piu illuminata critica storica,” perché, allora, a quanto ci risulta, a criticare così negativamente il moto risorgimentale e unitario c’erano soltanto gli esponenti dell’opposizione antifascista (i giovani come un Gobetti, un Rosselli, un Gramsci) che avevano subito nelle carni e nel sangue la vittoria delle camicie nere. Un Gobetti, ad esempio, nella sua Rivoluzione liberale, affermava che gli ultimi fatti della vita italiana - scriveva nel 1924 - riproponevano “il problema di una esegesi del Risorgimento, svelandosi le illusioni e l’equivoco fondamentale della nostra storia: un disperato tentativo di diventare moderni restando letterati con vanità non machiavellica di astuzia, o garibaldini con enfasi tribunizia.” Agli italiani, secondo lui, era sempre mancato un vigoroso senso di autonomia e l’assenza di una vita libera era stata sempre l’ostacolo principale alla “creazione di una classe dirigente, al formarsi di un’attività economica moderna e di una classe progredita (lavoro qualificato, intraprenditori, risparmiatori).” Il che aveva impedito che nascesse “una lotta politica coraggiosa, strumento infallibile per la scelta e il rinnovamento della classe governante.” Con il suo ben noto rigorismo morale (che lo sosteneva dandogli un notevole vigore e una grande nettezza di giudizio), egli denunciava la mancanza di saldi legami fra il ristretto ceto dirigente, che aveva fatto l’unità, e le masse popolari: “Le classi medie avevano acquistato il 500

governo senza istituire rapporti di comunicazione con le altre classi.” Anche dopo il ‘70 si era voluto mantenere il diritto elettorale ristretto ad una piccola oligarchia, quasi per premiare la minoranza che aveva preparato e voluto l’unità e per non complicare il problema dello Stato con l’intervento delle masse popolari, sino allora “neglette e ignorate”: “Lo Stato viene corroso dal dissidio tra governo e popolo: un governo senza autorità e senza autonomia, perché astratto dalle condizioni economiche effettive e fondato sul compromesso; un popolo educato al materialismo, in perenne atteggiamento anarchico di fronte all’organizzazione statale.” L’esperienza della disfatta del ‘22 servì anche a Gramsci per giudicare la storia italiana del secolo scorso, nei lunghi anni di carcere, quando si pose l’urgente problema di spiegare come mai la libertà fosse crollata quasi senza opporre resistenza: anche per lui la causa fondamentale andava ricercata nella “immaturità e debolezza intima della classe dirigente che non aveva saputo assolvere a quella che avrebbe dovuto essere la sua funzione storica,” cioè “dirigere le masse popolari e svilupparne gli elementi progressivi.” In tutto il Risorgimento, a suo parere, era mancato il partito giacobino, il partito che consapevolmente sapesse legare gli interessi dei ceti urbani con gli interessi dei ceti rurali. Così non c’era stato uno sviluppo organico, coordinato di tutta la società nazionale, nella quale erano perdurati alcuni squilibri estremamente dannosi, come lo squilibrio fra città e campagna, o come l’altro fra il Settentrione e il Mezzogiorno. E Gramsci giudicava, con grande coerenza, le correnti e gli uomini del Risorgimento in base all’atteggiamento che avevano assunto nei riguardi del problema contadino e della questione agraria. “I moderati,” egli scriveva nelle note raccolte nel volume Il Risorgimento - continuarono a dirigere il partito d’azione [che si poneva alla loro sinistra] anche dopo il 1870 501

e il 1876; e il così detto ‘trasformismo’ non è stato che l’espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale, morale e politica.” D’altra parte, la sinistra, continuando a ritenere, proprio come i moderati, “nazionali l’aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini” si era negata la possibilità di svolgere una efficace opposizione all’egemonia moderata e conservatrice; persino i garibaldini, in Sicilia, spietatamente repressero i movimenti insurrezionali dei contadini. Può sembrare alquanto strana questa coincidenza di giudizio sul secolo scorso tra un fascista come il Bottai e antifascisti tanto coerenti da lasciarci la vita come quei rappresentanti della nuova generazione. Ed è, in realtà, strana, ma si riesce a comprendere se si pensa che tutti, il fascista e gli antifascisti, si battevano per portare al potere una classe politica che era stata confinata, durante il Risorgimento e dopo, in una posizione secondaria e marginale: il Bottai, come abbiamo detto, in favore della piccola e media borghesia; il Gobetti in favore delle élites, delle “avanguardie industriali (operai e intraprenditori) del Nord,” le sole capaci di offrire “una soluzione unitaria del problema meridionale e di liberarci dal politicantismo parassitario che fu durante sessant’anni il solo effetto dell’unità”; Gramsci in favore di quel vagheggiato partito giacobino che sapesse istituire un nuovo rapporto città-campagna e fondere il proletariato operaio con i contadini. Ma il fascista e gli antifascisti divergevano subito nel giudizio sulla situazione presente, perché il Bottai era sicuro di avere la possibilità, mediante gli strumenti che gli offriva il regime, di costruire uno Stato al quale partecipassero le masse che lo avevano combattuto “col Socialismo o quanto meno ignorato coll’agnosticismo,” mentre i Gobetti, i Gramsci, ecc., vedevano nel fascismo, come diceva il Gobetti, “l’ultima rivincita dell’oligarchia 502

patriottica, cortigiana e piccolo-borghese” che da ormai lungo tempo governava l’Italia, “soffocando ogni iniziativa popolare.” Nell’articolo del novembre, il Bottai riconosceva al partito, che avrebbe dovuto stimolare il governo, il compito di appellarsi al popolo, una volta annientati i vecchi ceti dominanti, per farlo partecipare direttamente alla gestione della cosa pubblica: “Tolta la possibilità di allevare queste masse attraverso l’esperienza politica di altri partiti che non esistono più e che non potranno risorgere, è nel fascismo che esse debbono trovare la scuola della loro educazione politica. - Bisogna quindi che il partito si organizzi altrimenti. Se al vertice il Capo è indiscusso e indiscutibile, è necessario che gli altri non ascendano al potere in virtù di investiture troppo spesso incontrollabili e necessariamente incensurabili […]. Riorganizzando il partito sopra una base democratica che permetta il controllo e la diretta sorveglianza dei gregari sui capi, potremo fare del fascismo il più grande dei partiti di masse e, nello stesso tempo, liberarci di quella gelatinosa zavorra di consensi senza scopo che ci circonda, sostituendola coll’operosità viva di uomini che pensino e ragionino.” Il Bottai, sempre pronto a cogliere il pensiero di Mussolini, aveva capito il significato di quella sua esclamazione di vittoria: “Può darsi che, fra non molto, gran parte di Europa sia più o meno fascistizzata,” e del suo orgoglio per avere ormai debellato le opposizioni (“Le opposizioni non possono seriamente preoccuparci”: Elementi di storia, in “Gerarchia,” ottobre 1925), o anche del suo “atto di superbia” per avere fatto entrare le masse nello Stato: il 4 novembre, celebrando la vittoria al teatro Costanzi di Roma, aveva esclamato: “Le masse, riconciliate con la nazione, entrano, per la grande porta spalancata dalla rivoluzione fascista, nello Stato. E lo Stato, con la monarchia, ha allargato smisuratamente le basi. Non vi sono 503

più soltanto sudditi, ma cittadini; non vi è più soltanto una nazione, ma un popolo cosciente dei suoi destini.” Aveva inizio, perciò, con il gruppo delle leggi di difesa e con l’altro delle leggi costruttive, la creazione dello Stato fascista ed il Bottai doveva avvertire che si stava per entrare in una fase più distensiva e di elaborazione del nuovo Stato, fase alla quale egli sentiva di poter dare un contributo certamente più grande di quello che avrebbero potuto dare gli intransigenti, la cui influenza si andava perdendo nella lontananza. Ed ecco, così, la sua frecciata contro questi avversari di un tempo nell’accenno agli altri che ascendevano “al potere in virtù di investiture troppo spesso incontrollabili e necessariamente incensurabili.” Ed ecco pure la richiesta che il partito si organizzasse diversamente, richiesta che sapeva condivisa dal Capo, il quale, nel suo discorso del 4 novembre, aveva praticamente liquidato lo squadrismo.1 Ma Mussolini aveva pure chiuso quel suo discorso proclamando che il pericolo per il partito non poteva venire “che da noi, che dall’interno del fascismo. Qui deve esercitarsi,” aveva concluso, “tutta la strenua vigilanza delle gerarchie; i segretari dei Fasci sino all’ultimo iscritto; i sindacati sino all’ultimo contadino od operaio. Partito di masse, tale vogliamo e dobbiamo restare; ma si deve evitare che con il loro semplice peso le masse finiscano per dirigere invece di essere dirette, finiscano per capovolgere la piramide, che, pure allargando continuamente la sua base, deve sempre terminare nella cima perfetta.” Forse su questo punto la posizione del Bottai divergeva da quella del duce, quando faceva sentire l’esigenza di una riorganizzazione del partito “sopra una base democratica che permetta il controllo e la diretta sorveglianza dei gregari sui capi,” ma probabilmente lo faceva soltanto per rendere perfettamente consapevole Mussolini di quanto lui avrebbe potuto essergli utile in quel 504

momento, che non poteva non essere di allentamento della tensione degli anni precedenti (anche se andava avvicinandosi minaccioso un altro pericolo per la lira, pericolo che il duce nell’ottobre del ‘25 diceva inesistente, perché, secondo lui, “tra il severo regime fascista e la posizione finanziaria dell’Italia non v’è contrasto”; tuttavia, sarà costretto, nell’agosto del ‘26, a intervenire drasticamente per evitare che l’Italia cadesse nel baratro, ha scritto il Guarneri, cioè mediante la quota 90). Ma, in definitiva, non c’era una differenza sostanziale fra la posizione del Bottai e quella del duce, in quanto anche il primo trattava le masse come qualcosa di amorfo che si poteva allevare, quasi fossero tanti cani o gatti domestici: il che sembrava facile una volta che erano stati definitivamente sconfitti i partiti politici di opposizione. Ed ancora meno si poteva avvertire una differenza, dato il suo innalzare il Capo a nume tutelare, che se ne stava “al vertice indiscusso e indiscutibile”: da lui dovevano scendere sui miseri mortali prosternati ai suoi piedi i comandi per impedire investiture incontrollabili e per riorganizzare il partito su nuove basi. Era un atteggiamento di sottomissione individuale - ma che doveva estendersi a tutto il popolo dei fascisti e dei non fascisti, dei volenti e dei nolenti - che annullava completamente quella base democratica che doveva consentire la diretta sorveglianza dei gregari sui capi. Il Bottai ricreava, senza accorgersene (il che era peggio), la struttura e la logica ferrea di un sistema dittatoriale e autoritario: è forse questo il fondamentale motivo che lo fece rimanere sempre, pur tra momenti di più o meno palese distacco, sempre fedele al duce e al fascismo. Il quale, ormai, vinta la dura battaglia contro i nemici esterni e contro le tendenze interne, e venuta meno per Mussolini la fatica di mediare continuamente fra l’una posizione e l’altra, poteva avviarsi verso il trionfo su un popolo di 505

sudditi, di vinti, di piegati nell’anima e nel corpo, un popolo, però, che, non appena gliene sarà data l’occasione, si leverà decisamente per eliminare dalla vita del paese il ricordo di un ventennio di morte civile. 1 Forse un tentativo di risuscitare lo spirito squadristico, anche se con toni

sfumati e velati, fu quello di Michele Bianchi in un suo discorso al congresso nazionale del partito (22 giugno ‘25): “Il Fascismo oggi finalmente non è tanto un Partito quanto una rivoluzione che si sta attuando Si spiega ora perfettamente il successivo graduale allontanamento degli elementi fiancheggiatori dal Fascismo: vi poteva essere accordo sino al momento in cui si accennava a fare soltanto dei mutamenti di ordinaria amministrazione, ma il dissenso doveva scoppiare necessariamente quando il Fascismo si apprestava a compiere le sue più radicali trasformazioni. Così facendo, il Fascismo tiene fede alle sue origini: io ho qui lo Statuto del Partito del 1921 e se leggiamo l’articolo primo, è facile riconoscere che noi siamo oggi su quella linea […]. Personalmente sono convinto che le vicende politiche più recenti hanno finito col giovare al Fascismo, in quanto hanno contribuito alla sua definizione, sottraendolo all’obbligo di quella politica di indecisione e di compromesso che il moltiplicarsi dei consensi avrebbe inevitabilmente comportato. Questa definizione è insita nello spirito unitario nazionale, caratteristico del Fascismo, e che fa del Fascismo il discendente più diretto e legittimo del mazzinianesimo. - Grossolano errore, tanto bestiale e grossolano da non dover essere illustrato con molte parole, è quello commesso dalle opposizioni nella illusoria credenza che il Fascismo potesse essere cancellato dal novero delle forze politiche italiane con una stolida campagna di accuse. Non tanto a causa di questa campagna, ma per certe ragioni di ordine psicologico determinatesi nell’interno del Partito, nei mesi scorsi le nostre forze hanno subito una depressione. Vogliamo riconoscerlo perché oggi ci sentiamo più forti, più compatti e più decisi che mai. Siamo in piena ripresa, ripresa che potrebbe chiamarsi salvezza, e il merito di ciò va attribuito quasi interamente a quel Fascismo provinciale che in tutte le ore è rimasto disinteressato, intransigente, fedelissimo.” Questo riconoscimento al “Fascismo provinciale intransigente e fedelissimo,” in un momento in cui la sua influenza andava diminuendo, malgrado la segreteria Farinacci; la concezione di un partito non troppo allargato dal “moltiplicarsi dei consensi,” che gli avrebbe tolto la purezza e l’intransigenza delle origini facendolo cadere nella politica di indecisioni e di compromessi, e, di conseguenza, la sua preferenza per un partito piccolo, ma centro motore della vita nazionale; il richiamo, che parrebbe patetico, alle sacre tavole del 1921, per ribadire la coerenza e la continuità di una politica: sono tutti elementi che possono far collocare il Bianchi fra gli intransigenti, che, duri a morire, cercavano allora una rinascita sfruttando le parole autorevoli del

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quadrumviro.

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“L’economia d’Italia,” già “Bollettino dei disoccupati,” dal 16 ottobre 1924. “The Economist.” “Gerarchia.” “Giornale dei bancari.” “La Giustizia.” “L’Indipendente,” supplemento de “La Plebe,” 9 luglio 1924. “L’industria,” rivista tecnica ed economica della “Bocconi” di Milano. “Il Lavoro” di Genova. “Il Lavoro,” settimanale del Partito socialista unitario italiano di Biella. La Plebe,” organo della Federazione provinciale socialista unitaria pavese, dal 17 aprile 1923. Politica nuda,” periodico di polemica nazionale, dal 18 gennaio 1925. Revue Internationale du Travail,” a cura del Bureau International du Travail. La Riforma sociale,” rivista di critica, di economia e di finanza. Rivista bancaria,” economia, finanza, legislazione. Rivista di politica economica,” già “Rivista delle società commerciali.” La Rivista politica e parlamentare.” Risveglio,” settimanale fascista di Mortara, 1923. * Con questi brevi cenni bibliografici si è voluto soltanto offrire al lettore un elenco in particolare dei libri, dei giornali, delle riviste che sono stati più frequentemente consultati per questo lavoro.

526

Indice dei nomi Acerbo, Giacomo 9, 135, 219 235, 328, 337, 341 Agnini, Gregorio 124 Albertini, Luigi 17, 19-20, 46, 79, 159 Alfieri, Dino 194 Alivia, Gavino 218 Amendola, Giovanni 86, 159, 163, 167, 190, 201-202, 219-221, 226-229, 246, 257 Aquarone, Alberto 203 Arias, Gino 300 Arpinati, Leandro 104 Avanza, Cesco 336 Bachi, Riccardo 72 Bakunin, Michail Aleksandrovič 203 Balbo, Italo 199, 372 Baldwin, Stanley 168 n Barbiellini-Amidei, Bernardo 83 Bargellini, Piero 88 Baroncini, Gino 83-84 Beer, Max 169 n Bellotti, Pietro 318-319, 321, 326 Belluzzo, Giuseppe 58 n Bencini, Angelo 88-89 527

Benelli, Sem 92 Betocchi, Carlo 88 Bianchi, Michele 208-210, 372, 380 n, 381 n Bilenchi, Romano 89-9 Bisi, Maso 336 Bissolati, Leonida 83-84 Bolzon, Pietro 222 Bonald, Louis-Gabriel-Ambroise visconte de 353 Bonomi, Ivanoc 15, 39 n, 116, 142, 374 Bottai, Giuseppe 5, 85-86, 115, 193, 293, 333-334, 349350, 352, 354-355, 357-363, 365-373, 375-382 Bottini, dottor 336 Bovio, Giovanni 105, 259 Buozzi, Bruno 126, 284 Burke, Edmund 353 Cablati, Attilio 16-17 Cadorna, Luigi 159 Cairoli, Benedetto 89 Calice, Nino 281 Camera, Lorenzo 334 Camis, M. 287 Cantalupo, Roberto 196 Cantimori, Delio 112-116 Cantoni, dottore 333 Cao, Umberto 207 Caprino, Antonello 207 Caradonna, Giuseppe 223 Carano-Donvito, Giovanni 256, 266-267, 269, 271 Carboni Boy, Enrico 209, 218 528

Carlini, Armando 116 Carta, Giovanni 152 Cartella, G. 122-123 Cattaneo, Carlo 99 Cavour, Camillo Benso conte di, 13, 87, 89, 100-102, 104, 111 Churchill, Winston 168 n Ciano, Costanzo 58 n Ciliberto, Michele 117 Cirincione, Giuseppe 225 Cocco-Or tu, Francesco 218 Colapietra, Raffaele 201-202 Cole, George Douglas Howard 169 n Colombo, commendatore 318 Colonna di Cesarò, Giovanni Antonio 168, 231, 233 Conti, Ettore 54-56 Contri, Gioacchino 90 Coolidge, Calvin 72 n Corbino, Orso Mario 29, 37 Corgini, Ottavio 342 Corleo, Simone 28 Corradini, Enrico 80, 350, 353-354 Crisafulli Mondio, Michele 277 Crispi, Francesco 191, 220, 226 Croce, Benedetto 101, 113, 170, 197, 201-202, 262, 354. 368 Cucco, Alfredo 243-245, 247, 276 Cuoco, Vincenzo 227 Curato, G. 287 D’Andrea, Ugo 91, 195 529

D’Annunzio, Gabriele 46, 170, 239, 356 D’Aragona, Ludovico 303 n, 330 Dawes, Charles Gates 72 n, 73 n, 170 De Amicis, Edmondo 89 De Bellis, Vito 132, 309-310 De Felice, Renzo 193, 195 De Gasperi, Alcide 140 e n, 141 n, 168 De Giorgi, agrario 317 De Maistre, vedi Maistre, Joseph de De Meis, Angelo Camillo 354 De Mun, vedi Mun, Adrien Albert-Marie conte di De Nicola, Enrico 138, 226 Depretis, Agostino 6, 100, 131, 191 De Rosa, Gabriele 129 De Sanctis, Francesco 99 De Scalzi, dissidente fascista 336 Dessi-Delipieri, Gavino 209 De Stefani, Alberto 12-14, 16-18, 31, 35, 51 n, 65-66, 68, 70-71, 122-123, 130. 299, 309-310 De Vecchi, Cesare Maria 335, 339 Diaz, Armando 10 Di Cesarò, vedi Colonna di Cesarò, Giovanni Antonio Di Giorgio, Antonio 249 Di Pietra, Biagio 233 Di Rudinì, vedi Rudinì, Antonio Starabba marchese di Di Tarsia, ispettore PS 195 Di Vittorio, Giuseppe 220-222, 321 Dorso, Guido 6, 39 n, 42, 197-198, 201-202, 217, 250, 258, 263 Einaudi, Luigi 12, 17, 34 n, 51 n, 68 530

Emanuel, Guglielmo 64 n Ercole, Francesco 7-9, 118 240 Facta, Luigi 15, 40 Falcioni, Alfredo 29 Falck, Giorgio Enrico 52 n Farina, D. 198 Farinacci, Roberto 5, 35 n, 51 n, 83-84, 85 e n, 87, 92, 163, 166-167, 198, 244, 302-303, 351, 367, 371-372, 375 Farmi, Luigi Carlo 101, 104 Federzoni, Luigi 80-82, 84, 97, 165, 350 Ferrari, Antonio 333 Ferraro, A. 329 Filippelli, Filippo 51 Finocchiaro Aprile, Andrea 136, 234, 238 Finzi, Aldo 209 Fiore, Tommaso 228, 250-266, 268 Fiorentino, Francesco 102 Foa, Vittorio 35, 41 Forni, Cesare 83, 333-337, 355 Fortunato, Giustino 35, 171, 265 Francesco II di Borbone re delle Due Sicilie 261 Frigoli, E. 326-327 Frongia, Giuseppe 152 Gaeta, Francesco 64, 194, 197 Gandolfo, Asclepia 203, 205, 207-208, 209 e n, 210 e n, 211-213, 217-219 Garibaldi, Giuseppe 88-89, 101, 104 Gasparri, Pietro 70, 109 Gemelli, Agostino 106 Gentile, Giovanni 70, 92, 101-104, 106, 112-113, 117, 531

135, 273, 354, 361 Giannini, Amedeo 19-20, 56 Gini, Corrado 292 Gioberti, Vincenzo 87-88, 104-105, 107, 113 Giolitti, Giovanni 37, 49 n, 122 n, 126, 131, 138, 168, 172, 191, 220, 222, 258-259, 280, 376 Giovannini, Alberto 138 Giretti, Edoardo 51 n, 52 n, 53 n Giuliano, Balbino 259 Giunta, Francesco 335 Gobetti. Piero 39 n, 83-85, 87, 99, 110, 173, 377-379 Gobbi, Celeste 334-335 Gobbi, Ulisse 26 Gramsci, Antonio 5, 70-71, 73-76, 94-97, 99, 144-151, 153-158, 160, 163-170, 172-178, 180182, 185, 189, 191-192, 262-264, 377-379 Greco, Paolo 197-199 Grieco, M. 291, 296 Grieco, Ruggero 174, 183, 185-189, 254, 262 Griffini, M. 270 n Grifone, Pietro 289 Grumo, fascista pugliese 250 Gualerni, Gualberto 62-63 Guarneri, Felice 13, 15, 45, 95, 298-300, 381 Gugliemotti, Umberto 194 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 353-354 Hobsbawm, Eric 168 n, 169 n Hobson, John Atkinson 62 Imbriani, Matteo Renato 259 Kant, Immanuel 353-354 532

Kuliscioff, Anna Michajlovna 315-316 La Loggia, Enrico 235 Lanaro, Silvio 40-41 Lanfranconi, fascista 336 Lanza, Giuseppe (principe di Scordia) 225 Lanza, Pietro (principe di Scalea) 225, 247 Lenin, Vladimir Il’ič 62, 145, 153, 262, 330 Leone XIII 141 n Leoni, Antonio 205 Lisi, Nicola 88 Lodolini, Armando 105, 107-108, 110-111 Lo Monte, Giovanni 247 Lussu, Emilio 205, 207, 211-213, 216 Luzzatti, Luigi 13 Lyautey, P. 72 Maccari, Mino 87-92, 117, 349, 351-352, 369 MacDonald, James Ramsay 168 n Machiavelli, Niccolò 240, 352, 354 Maffi, Fabrizio 328 Maggiore Di Chiara, Giuseppe 232-233. 276 Maggi, Carlo Maria 318 Maistre, Joseph de 353 Malaparte, Curzio (pseud, di Curzio Suckert) 87-89, 110, 117, 349, 367, 373 Mangoni, Luisa 369 Marcias, Giuseppe 151 Marino, Giuseppe Carlo 222, 224-226, 232, 238, 246 Marshall, George Catlett 59 Marx, Karl 316, 325 533

Masaniello (Tomaso Aniello) 176 Matteotti, Giacomo 7-8, 34, 74- 75. 82, 89, 94, 140 n, 148-150, 153, 159, 161, 163. 170, 172, 189, 200, 232, 242, 280, 294, 296-298, 315, 366, 368, 375 Mazzini, Giuseppe 101-102, 104-105, 107, 113 Meda, Filippo 37, 123, 142 Micciché, Giuseppe 276-277 Micheli, Giuseppe 26, 29 Miglioli, Guido 35 n, 174-175, 193 Minghetti, Marco 13 Misuri, Alfredo 313-314, 333, 339-349, 355 Mitzakis, M. 59 Modigliani, Giuseppe Emanuele 124 Montemartini, socialista unitario 337 Morandi, Rodolfo 58 n Morgan jr, John Pierpont 95-96, 166 Morgan, Oddino 124 Mori, Cesare 246, 248, 250 Mori, Giorgio 58-59 Mortara, Giorgio 46-47, 49-50, 53-54, 68 n, 71, 72 e n, 77, 79, 288. 291-294, 296, 298-299, 307, 320 n Mosca, Gaetano 30 Moschini, Giuseppe 338 Mun, Adrien-Albert-Marie conte di 140 n Mussolini, Benito 5-10, 16, 18-20, 22, 24, 25 n, 29, 31-33, 35, 37, 45-46, 51, 53 n, 56, 62, 64-66, 70, 77-78, 81-82, 84, 90, 92, 94, 100, 102, 104, 108-111, 113, 116, 119, 129, 131134, 136, 144, 151, 163, 193-194. 196-200, 206, 209 e n, 211, 213-214, 216, 218-220, 222-223, 225-226, 228, 230 n, 232-234, 237-238, 240-241, 243-244, 249, 251, 277-278, 280-281, 283, 290, 297, 299, 304, 305 n, 306 n, 307, 314, 534

326, 330, 332, 339-340, 342, 346-347, 349, 351, 363-365, 367-371, 373-375, 380, 382 Nava, Cesare 226 Nitti, Francesco Saverio 89, 170, 270 n, 284 Olivetti, Gino 65 Oriani, Alfredo 353-354 Orlando, Vittorio Emanuele 89, 132, 138, 168, 225-226, 244-248 Padovani, Aurelio 197-198, 200-203 Pantaleoni, Maffeo 10, 34 n, 51 n, 64-65 Paolucci di Vaimaggiore, Raffaele 64 n, 81 Pareto, Vilfredo 30 Parodi-Delfino, Leopoldo 51 Pascoli, Giovanni 356 Pašic, Nikola 45 Paternostro, Roberto 237 Pavese, Roberto 117 n Pellizzi, Camillo 113-114 Pelloux, Luigi 191 Petacco, Arrigo 247-248 Pighetti, Guido 313-314 Pili, Paolo 207-208, 211, 216 Pio IX 108 Pisacane, Carlo 99, 176 Ponzio, Giovanni 92 Porri, Vincenzo 33, 34 n Prampolini, Camillo 124 Prato, Giuseppe 295-296 Pratolini, Vasco 252 Preziosi, Giovanni 198 535

Prunotto di Alba, deputato 185 Puggioni, Luigi B. 217 Putzolu, Antonio 207, 216 Ramella, avvocato 333 Razzoli, monsignor 281 Redaelli, E. 52 n Restivo, F. Empedocle 234 Riboldi, Ezio 328 Ricasoli, Bettino 101, 104 Rigola, Rinaldo 126, 303 n Rizzini, Oreste 19-20, 56, 79-80 Rocca, Massimo 26, 69-70, 78, 83, 193, 222, 314, 333-334, 363-365 Rocco, Alfredo 85, 97-100, 136, 165, 194, 283, 350, 376 Romano, Peppuccio 132 Rosselli, Carlo 99, 377 Rossi, Cesare 193 Rossi, Ernesto 286-287, 290, 296, 300 Rossoni, Edmondo 130, 302-303, 317 Rovello, Mario 208 Rudinì, Antonio Starabba marchese di 191, 226 Ruffini, Francesco 98 Ruffo di Bagnara, Fabrizio 176 Rugginenti, Pallante 337-339 Russo, Luigi 118 Saitta, Giuseppe 104-106, 110-113, 116, 117 e n Salandra, Antonio 138, 159, 226, 258 Salazar, Antonio de Oliveira 60 Salvatorelli, Luigi 127, 130 536

Salvemini, Gaetano 38, 42, 51 n, 80, 202, 220, 226, 262263 Sani, M. 204 Sanna Randaccio, Giuseppe 209, 218 Sansanelli, Nicola 197, 280-281 Saracco, Giuseppe 191 Savà, Francesco 276 Scalea, vedi Lanza, Pietro (principe di Scalea) Sclafani, Michele 235-236 Scordia, vedi Lanza, Giuseppe (principe di Scordia) Sechi, Salvatore 203-205, 207-208, 211, 218-219 Segolini, dissidente fascista 336 Sella, Quintino 13 Sereni, Emilio 33, 35-37 Sergi, Giuseppe 138-139 Serpieri, Arrigo 26, 28-33, 34 e n, 35 e n, 36-38, 4044, 235 Serrati, Giacinto Menotti 328 Sforza, Carlo 89 Solinas, G. 218 Sonnino, Sidney 13, 191 Sorel, Georges 353 Sotgiu, Giuseppe 209 n, 210 n Spampanato, Bruno 116 Spaventa, Bertrando 102, 354 Stringher, Bonaldo 96 Sturzo, Luigi 37-39, 41-44, 129-137, 139, 141-142, 144, 163, 190, 193, 235-236 Suckert, Curzio, vedi Malaparte, Curzio Sugo di Bosco 351 537

Taine, Hippolyte-Adolphe 353 Tangorra, Vincenzo 12 Targetti, Ferdinando 65 Targetti, Raimondo 292 Tasca, Lucio 222-223 Teruzzi, Attilio 339 Thaon di Revel, Paolo 10 Tirelli, dissidente fascista 336 Togliatti, Paimiro 85, 156, 173, 189-192, 350 Tranfaglia, Nicola 10 Tremelloni, Roberto 274-275, 284 Treves Claudio 124, 323-324 Trifone, Romualdo 24 Turati, Augusto 92, 302 Turati, Filippo 86, 116, 124, 126, 163, 190, 285, 302, 315 Valenti, Ghino 26 Varni, avvocato 335-336 Vassallo, Ernesto 235 Verga, Giovanni 255 Vettori, V. 92 Vico, Giambattista 101, 354 Villahermosa, Giacomo di 208 Viola, Ettore 92 Vittorio Emanuele III 25 Vogelsang, Karl 140 n Volpe, Gioacchino 11-12, 22-25, 240 Volpi, Giuseppe 58 n, 97, 165, 299

538

INDICE Fascismo e piccola borghesia

6

Prefazione 8 Indice 10 Capitolo primo. La politica economica liberistica del 13 fascismo Capitolo secondo. I problemi dei ceti agricoli 32 Capitolo terzo. Tendenze protezionistiche e 62 tendenze liberistiche dell’industria italiana Capitolo quarto. Il settore tessile e la fusione 104 nazionalismo-fascismo Capitolo quinto. Il "selvaggio rivoluzionario” di 117 Mino Maccari Capitolo sesto. Il fascismo e il Risorgimento: reazione 126 o rivoluzione? Lo Stato etico dei gentiliani Capitolo settimo. La crisi della piccola e media 159 borghesia Capitolo ottavo. I ceti medi e il Partito popolare 171 (don Sturzo) Capitolo nono. Il Partito comunista e Gramsci di 191 fronte alla crisi della piccola borghesia e del fascismo Capitolo decimo. Il trasformismo mussoliniano e 256 l’adesione al fascismo delle clientele meridionali Capitolo undicesimo. Effetti negativi dell'inflazione 352 sul Mezzogiorno Capitolo dodicesimo. Contrasti tra vecchi e nuovi 365 539

fascisti nel Meridione

365

Capitolo tredicesimo. La classe operaia del nord e il ceto medio impiegatizio contro il regime Capitolo quattordicesimo. Il fatalismo dei socialisti unitari (riformisti) Capitolo quindicesimo. Incertezze dei socialisti unitari e contrasti con i massimalisti. Il problema dei piccoli proprietari Capitolo sedicesimo. Il dissidentismo fascista e sue caratteristiche: Forni in Lomellina e Misuri in Umbria Capitolo diciassettesimo. Il Bottai e il suo dissidentismo ortodosso Bibliografia * Opere di fascisti Opere di antifascisti e storiche Opere di storia economica e di economia Opere sulle classi lavoratrici e sul movimento operaio Giornali e riviste Indice dei nomi

540

374 412 421

442 463 508 508 510 517 523 525 527