Fare un film 8806508644, 9788806508647

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Autobiografia di uno spettatore di Italo Calvino

Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i gior­ ni e magari due volte al giorno, ed erano gli anni tra diciamo il Trentasei e la guerra, V epoca insomma della mia adolescen­ za. Anni in cui il cinema è stato per me il mondo. Un altro mondo da quello che mi circondava, ma per me solo ciò che vedevo sullo schermo possedeva le proprietà d’un mondo, la pienezza, la necessità, la coerenza, mentre fuori dello schermo s'ammucchiavano elementi eterogenei che sembravano messi insieme per caso, i materiali della mia vita che mi parevano privi di qualsiasi forma. Il cinema come evasione, si è detto tante volte, con una formula che vuol essere di condanna, e certo a me il cinema allora serviva a quello, a soddisfare un bisogno di spaesamento, di proiezione della mia attenzione in uno spazio diverso, un bisogno che credo corrisponda a una funzione primaria dell’inserimento nel mondo, una tappa indispensabile d’ogni formazione. Certo per crearsi uno spazio diverso ci sono an­ che altri modi, piu sostanziosi e personali: il cinema era il mo­ do piu facile e a portata di mano, ma anche quello che istanta­ neamente mi portava più lontano. Ogni giorno, facendo il gi­ ro della via principale della mia piccola città, non avevo occhi che per i cinema, tre di prima visione che cambiavano pro­ gramma ogni lunedi e ogni giovedì, e un paio di stambugi che davano film più vecchi o scadenti, con rotazione di tre alla settimana. Già sapevo in precedenza quale film davano in ogni sala, ma il mio occhio cercava i cartelloni piazzati da una parte, dove s’annunciava il film del prossimo programma, per­ ché là era la sorpresa, la promessa, l’aspettativa che m'avrcbbc accompagnato nei giorni seguenti. Andavo al cinema al pomeriggio, scappando di casa di na­ scosto, o con la scusa d'andare a studiare da qualche compa­ gno, perché nei mesi di scuola i miei genitori mi lasciavano po­ ca libertà. La prova della vera passione era la spinta a ficcarmi

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dentro un cinema appena apriva, alle due. Assistere alla prima proiezione aveva vari vantaggi: la sala semivuota, come fosse tutta per me, che mi permetteva di sdraiarmi al centro dei «terzi posti» colle gambe allungate sulla spalliera davanti; la speranza di rincasare senza che si fossero accorti della mia fu­ ga, per poi avere il permesso di uscire di nuovo (e magari ve­ dere un altro film); un leggero stordimento per il resto del po­ meriggio, dannoso per lo studio ma favorevole alle fantasti­ cherie. E oltre a queste ragioni tutte a vario titolo inconfessa­ bili, una ce n’era di più seria: entrare all'ora dell’apertura mi garantiva la rara fortuna di vedere il film dal principio, e non da un momento qualsiasi verso la metà o la fine come mi capi­ tava di solito quando raggiungevo il cinema a metà pomerig­ gio o verso sera. L’entrare a film cominciato corrispondeva del resto all’uso barbaramente generalizzato degli spettatori italiani, e che tut­ tora vige. Possiamo dire che già a quei tempi precorrevamo le tecniche narrative più sofisticate del cinema d’oggi, spezzan­ do il filo temporale della storia e trasformandola in un puzzle da ricomporre pezzo a pezzo o da accettare nella forma di cor­ po frammentario. Per continuare a consolarci, dirò che assi­ stere all’inizio del film dopo che se ne conosceva la fine dava soddisfazioni supplementarie: scoprire non lo scioglimento dei misteri e dei drammi ma la loro genesi; e un confuso senso di preveggenza di fronte ai personaggi. Confuso: come appun­ to dev’essere quello dei divinatori, perché la ricostruzione della trama smozzicata non era sempre agevole, e meno che mai se si trattava d'un film poliziesco, dove l’identificazione dell’assassino prima e del delitto poi lasciava in mezzo una zo­ na di mistero ancor più tenebrosa. Per di più alle volte tra il principio e la fine restava un pezzo perduto, perché improvvi­ samente guardando l'orologio m’accorgevo d’aver fatto cardi e se non volevo incorrere nelle ire familiari dovevo scappar via prima che sullo schermo fosse riapparsa la sequenza du­ rante la quale ero entrato. Cosi molti film mi sono rimasti con un buco nel mezzo, e ancor oggi, dopo più di trent’anni, che dico? - quasi quaranta, quando mi capita di rivedere uno di quei film d'allora - alla televisione, per esempio - , ricono­ sco il momento in cui ero entrato nel cinema, le scene che avevo visto senza capirle, recupero gli spezzoni perduti, ri­ metto insieme il puzzle come l’avessi lasciato incompiuto il giorno prima. (Parlo dei film che ho visto diciamo tra i tredici e i diciotvm

t'anni, quando il cinema m'occupava con una forza che non ha confronto col prima e col poi; dei film visti nell’infanzia i ricordi sono confusi; i film visti da adulto si mescolano con tante altre impressioni ed esperienze. Le mie sono le memorie di uno che scopre il cinema allora: ero stato allevato con le re­ dini tirate, e mìa madre cercò finché potè di preservarmi da rapporti col mondo che non fossero programmati e intesi a un fine; quand'ero bambino al cinema mi accompagnava di rado c solo per i film che reputava «adatti» o «istruttivi». Ho po­ chi ricordi del tempo del muto e dei primi anni del parlato: qualche Chariot, un film Sull’Arca di Noè, Ben Hur con Ra­ mon Novarro, Dirigibile in cui uno Zeppelin naufragava al po­ lo, il documentario Africa parla, un film avvenirista sul Due­ mila, le avventure africane di Trader Hom. Se Douglas Fair­ banks e Buster Keaton figurano ai posti d’onore nella mia mi­ tologia è perché piu tardi li ho introdotti retrospettivamente in una mia infanzia immaginaria alla quale non potevano non appartenere; da bambino li conoscevo solo dalla contempla­ zione dei manifesti a colori. Generalmente mi venivano evita­ ti i film con intrecci amorosi, che del resto non capivo perché per mancanza di consuetudine con la fisiognomica cinemato­ grafica confondevo gli attori del film uno con l’altro, specie se avevano i baffetti, e le attrici, specie se erano bionde. Nel film d’aviazione che si usavano molto ai tempi della mia fan­ ciullezza i personaggi maschili s’assomigliavano come tanti ge­ melli, e siccome la vicenda era sempre basata sulla gelosia di due piloti che per me erano un unico pilota, me ne veniva una gran confusione. Insomma, il mio apprendistato di spettatore era stato lento e contrastato; perciò ne esplose la passione di cui parlo). Quando invece ero entrato nel cinema alle quattro o alle cinque, all’uscirne mi colpiva il senso del passare del tempo, il contrasto tra due dimensioni temporali diverse, dentro e fuori del film. Ero entrato in piena luce e ritrovavo fuori il buio, le vie illuminate che prolungavano il bianco-e-nero dello scher­ mo. Il buio un po’ attutiva la discontinuità tra i due mondi e un po’ l’accentuava, perché marcava il passaggio di quelle due ore che non avevo vissuto, inghiottito in una sospensione del tempo, o nella durata d’una vita immaginaria, o nel salto all’indietro nei secoli. Un'emozione speciale era scoprire in quel momento che le giornate s’erano accorciate o allungate: il sen­ so del passare delle stagioni (sempre blando nella località tem­ perata in cui vivevo) era all’uscita del cinema che mi raggiun­

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geva. Quando nel film pioveva, tendevo l’orecchio per sentire se s'era messo a piovere anche fuori, se m’aveva sorpreso un acquazzone essendo scappato di casa senza ombrello: era l'u­ nico momento in cui, pur restando immerso in quell’altro mondo, mi ricordavo del mondo di fuori; ed era un effetto an­ goscioso. La pioggia nei film ancor oggi risveglia in me quel ri­ flesso, un senso d’angoscia. Se non era ancora ora di cena, m’intruppavo con gli amici su e giu per i marciapiedi della via principale. Ripassavo da­ vanti al cinema da cui ero appena uscito e sentivo dalla cabina di proiezione battute del dialogo risuonare sulla via, c le rice­ vevo adesso con un senso d’irrealtà, non piu d’immcdesimazione, perche ero ormai passato nel mondo di fuori; ma anche con un senso simile alla nostalgia, come chi si volta indietro su un confine. Penso a un cinema in particolare, il piu vecchio della mia città, legato ai primi miei ricordi dei tempi del muto, e che di quei tempi aveva conservato (fino a non molti anni fa) un’in­ segna liberty decorata di medaglie, e la struttura della sala, un lungo camerone in discesa fiancheggiato da un corridoio a co­ lonne. La cabina dell'operatore apriva sulla via principale una finestrella da cui risuonavano le assurde voci del film, metal­ licamente deformate dai mezzi tecnici dell’epoca, e ancor piu assurde per {’eloquio del doppiaggio italiano che non aveva rapporto con nessuna lingua parlata del passato o del futuro. Eppure la falsità di quelle voci doveva pur avere una forza co­ municativa in sé, come il canto delle sirene, e io passando ogni volta sotto quella finestrella sentivo il richiamo di quelT altro mondo che era il mondo. Le porte laterali della sala davano su un vicolo; negli inter­ valli la maschera con gli alamari sulla giubba apriva le tende di velluto rosso e il colore dell’aria di fuori s’affacciava alla soglia con discrezione, i passanti e gli spettatori seduti si guardava­ no con un po' di disagio, come per un'intrusione sconveniente per gli uni o per gli altri. Specie l'intervaUo tra il primo e il se­ condo tempo (altra strana usanza solo italiana, che inspiega­ bilmente si è conservata fino a oggi) veniva a ricordare che ero sempre in quella città, in quel giorno, in quell'ora: e se­ condo Tumore del momento cresceva la soddisfazione a sape­ re che tra un istante sarei tornato a proiettarmi nei mari della Cina o nel terremoto di San Francisco; oppure mi piombava addosso il richiamo a non dimenticare che ero sempre qui, a non perdermi lontano.

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Meno crude erano le interruzioni nel piu importante cine­ ma cittadino d‘allora, in cui il cambiamento d'aria avveniva con l’aprirsi di una cupola metallica, al centro di una volta af­ frescata a centauri e ninfe. La vista del cielo introduceva in mezzo al film una pausa di meditazione, col lento passare di una nuvola che poteva pur giungere da altri continenti, da al­ tri secoli. Nelle sere d’estate la cupola restava aperta anche durante la proiezione: la presenza del firmamento inglobava tutte le lontananze in un solo universo. Nelle vacanze estive frequentavo i cinema con piu calma e liberti. La maggior parte dei miei compagni di scuola lasciava­ no d’estate la nostra cittadina marittima per la montagna o la campagna, e io restavo senza compagnia per settimane e set­ timane. Era una stagione di caccia ai vecchi film che s'apriva per me ogni estate, perché si tornavano a programmare film d’anni precedenti, di prima che questa fame onnivora si impa­ dronisse di me, e in quei mesi potevo riconquistare anni per­ duti, rifarmi un'anzianità di spettatore che non avevo. Film del normale circuito commerciale: è solo di quelli che parlo (la esplorazione dell’universo retrospettivo dei cineclub, della storia consacrata e racchiusa nelle cinematechc segnerà un'al­ tra fase della mia vita, un rapporto con città e mondi diversi, e allora il cinema entrerà a far parte di un discorso piti com­ plesso, d’una storia); ma intanto porto ancora con me l'emo­ zione che ebbi a recuperare un film di Greta Garbo che sarà stato di tre o quattro anni prima ma che per me apparteneva alla preistoria, con un Clark Gable giovanissimo, senza baffi. Cortigiana si chiamava, o era l’altro? perché erano due i film di Greta Garbo che aggiunsi alla mia collezione in quella stes­ sa serie estiva di riprese, la cui perla restò comunque Lo schiaffo con Jean Harlow. Non ho ancora detto, ma mi pareva sottinteso, che il cine­ ma era per me quello americano, la produzione corrente di Hollywood. La «mia» epoca va pressapoco dai Lancieri del Bengala con Gary Cooper e L'ammutinamento del Bounty con Charles Laughton e Clark Gable, fino alla morte di Jean Har­ low (che rivissi tanti anni dopo come morte di Marylin Mon­ roe, in un'epoca piti cosciente della carica nevrotica d'ogni simbolo), con in mezzo molte commedie, i giallo-rosa con Myrna Loy e William Powell e il cane Asta, i musicals di Fred Astaire e Ginger Rogers, i gialli di Charlie Chan detective ci­ nese e i film del terrore di Boris Karloff. I nomi dei registi li avevo meno presenti dei nomi degli attori, tranne qualcuno

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come Frank Capra» Gregory La Cava, e Frank Borzage il qua­ le anziché i miliardari rappresentava la povera gente, di solito con Spencer Tracy: erano i registi dei buoni sentimenti dell’e­ poca di Roosevelt; questo lo imparai piu tardi; allora mandavo giu tutto senza molto distinguere. Il cinema americano in quel momento consisteva in un campionario di facce d’attori senza uguali né prima né poi (cosi almeno a me pare) e le vicende erano semplici meccanismi per far stare insieme queste facce (amorosi, caratteristi, generici) in combinazioni sempre diver­ se, Attorno a queste trame convenzionali quel che aleggiava di sapore d’una società e d’un’epoca era poca cosa, ma appun­ to per questo mi raggiungeva senza che sapessi definire in che consistesse. Era (come avrei appreso in seguito) la mistifica­ zione di quanto quella società portava dentro, ma era una mi­ stificazione particolare, diversa dalla mistificazione nostrana che ci sommergeva durante il resto della giornata. E come per Io psicoanalista ha uguale interesse che il paziente menta o sia sincero perché comunque gli rivela qualcosa di se, cosi io spet­ tatore appartenente a un altro sistema di mistificazioni avevo qualcosa da imparare sia da quel poco di verità sia da quel molto di mistificazione che i prodotti di Hollywood mi dava­ no. Perciò non porto alcun rancore a quell’immagine menzo­ gnera della vita; ora mi sembra di non averla mai presa per ve­ ra, ma solo per una tra le possibili immagini artificiali, anche se allora non avrei saputo spiegarlo. Circolavano anche i film francesi, cerco, che si manifestava­ no come qualcosa di completamente diverso, dando allo spaes amen to un altro spessore, un aggancio speciale tra i luoghi della mia esperienza e i luoghi dcll’altrovc (l’effetto chiamato « realismo » consiste in questo, avrei capito poi), e dopo aver visto la Casbah di Algeri in Pepé le Moko guardavo con altri occhi le vie a scale deÙa nostra città vecchia. La faccia di Jean Gabin era fatta d’un altro materiale, fisiologico e psicologico, da quelle degli attori americani, che mai si sarebbero alzate dal piatto sporche di minestra e d’umiliazione come all'inizio di La Bandera. (Solo quella di Wallace Becry in Vìva Villa poteva starle vicino, e forse anche quella di Edward G. Robinson), Il cinema francese era greve d’odori quanto quello americano sapeva di palmolive, lustro e asettico. Le donne avevano una presenza carnale che le insediava nella memoria come donne vive e insieme come fantasmi erotici (è Viviane Romance la figura che associo a questo pensiero), mentre nelle stelle di Hollywood l’erotismo era sublimato, stilizzato, idealizzato.

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(Anche la piu carnale delle americane d'allora, la biondaplatino Jean Harlow, era resa irreale dal biancore abbagliante della pelle. Nel bianco-e-nero la forza del bianco operava una transfigurazione dei visi femminili, delle gambe, delle spalle e scollature, faceva di Marlene Dietrich non l'oggetto imme­ diato del desiderio ma il desiderio stesso come essenza extra­ terrestre). Avvertivo che il cinema francese parlava di cose più inquietanti e vagamente proibite, sapevo che Jean Gabin in Quai des brumes non era un reduce che voleva andare a col­ tivare una piantagione nelle colonie, come il doppiaggio ita­ liano cercava di far credere, ma un disertore che scappava dal fronte, tema che la censura fascista non avrebbe mai permesso. Insomma, anche del cinema francese degli Anni Trenta po­ trei parlare a lungo come dell'americano, ma il discorso s'al­ largherebbe a tante altre cose che non sono cinema e non so­ no Anni Trenta, mentre il cinema americano degli Anni Trenta sta a sé, quasi direi che è senza un prima e senza un poi: certo è senza un prima e un poi nella storia della mia vita. A differenza del cinema francese il cinema americano d’allora non aveva niente a che fare con la letteratura: forse è questa la ragione per cui si stacca nella mia esperienza con un rilievo isolato dal resto: queste mie memorie di spettatore apparten­ gono alle memorie di prima che la letteratura mi sfiorasse. Quello che si chiamava «il firmamento di Hollywood» for­ mava un sistema a sé, con le sue costanti e le sue variabili, una tipologia umana. Gli attori rappresentavano modelli di carat­ teri e di comportamenti; c'era un eroe possibile per ogni tem­ peramento; per chi si proponeva d'affrontare la vita nell'azio­ ne, Clark Gable rappresentava una certa brutalità rallegrata dalla spacconeria, Gary Cooper un sangue freddo filtrato dal­ l'ironia; per chi contava di superare gli ostacoli mediante lo humour e il savoir faire, c’era f'aplomb di William Powell e la discrezione di Franchot Tone; per l'introverso che vince la sua timidezza c'era James Stewart, mentre Spencer Tracy era il modello dell'uomo aperto e giusto che sa fare le cose con le sue mani; e veniva proposto perfino un raro esempio d'eroe intellettuale, in Leslie Howard. Con le attrici la gamma delle fisionomie e dei caratteri era più ristretta: le truccature, le pettinature, le espressioni tende­ vano a una stilizzazione unitaria divisa nelle due categorie fondamentali delle bionde e delle brune, e all'interno d'ogni categoria s'andava dall'estrosa Carole Lombard alla pratica

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Jean Arthur» dalla bocca ampia e languida di Joan Crawford a quella sottile e pensosa di Barbara Stanwyck, ma in mezzo c’era un ventaglio di figure sempre meno differenziate, con un certo margine d’intercambiabilità. Tra il catalogo delle donne incontrate nei film americani e il catalogo delle donne che s'incontrano fuori dello schermo nella vita di tutti i giorni non si riusciva a stabilire un rapporto; direi che dove finiva l'uno cominciava l’altro. (Con le donne dei film francesi inve­ ce questo rapporto c’era). Dalla spregiudicatezza monellesca di Claudette Colbert all’energia puntuta di Katherine Hep­ burn, il modello piu importante che i caratteri femminili del cinema americano proponevano era quello della donna rivale dell’uomo in risolutezza e ostinazione e spirito e ingegno; in questa lucida padronanza di sé di fronte all’uomo, Myrna Loy era quella che metteva più intelligenza e ironia. Ora ne parlo con una serietà che non avrei saputo collegare alla leggerezza di quelle commediole; ma in fondo per una società come la nostra, per il costume italiano di quegli anni, soprattutto in provincia, questa autonomia e iniziativa delle donne america­ ne poteva essere una lezione, che in qualche modo mi rag­ giungeva. Tanto che m’ero fatto di Myrna Loy il prototipo d’un femminino ideale forse uxorio forse sororale, comunque d’identificazione di gusto, di stile, che coesisteva accanto ai fantasmi dell’aggressività carnale (Jean Harlow, Viviane Ro­ mance) e della passione estenuante c languida (Greta Garbo, Michèle Morgan), verso i quali l’attrazione che provavo era venata da un senso di timore; o accanto a quell'immagine di felicità fisica e allegria vitale che era Ginger Rogers, per cui nutrivo un amore sfortunato in partenza anche nelle reveries: perché non sapevo ballare, Ci si può chiedere se il costruirsi un olimpo di donne ideali e per il momento irraggiungibili fosse un bene o un male per un giovane. Un aspetto positivo certamente l'aveva, perché spingeva a non accontentarsi di quel poco o molto che si in­ contrava e a proiettare i propri desideri piu in là, nel futuro o nell’altrove o nel difficile; l’aspetto più negativo era che non insegnava a guardare le donne vere con occhio pronto a sco­ prire bellezze inedite, non conformi ai canoni, a inventare personaggi nuovi con ciò che il caso o la ricerca ci fa incontra­ re nel nostro orizzonte. Se il cinema era per me fatto soprattutto di attori e attrici, devo pur tener presente che per me, come per tutti gli spetta­ tori italiani, esisteva solo la metà d’ogni attore e d’ogni attri­ XIV

ce, cioè solo la figura e non la voce» sostituita dall'astrazione del doppiaggio» da una dizione convenzionale ed estranea e insapore» non meno anonima della scritta stampata che negli altri paesi (o almeno in quelli dove gli spettatori sono conside­ rati piu agili mentalmente) informa di quel che le bocche co­ municano con tutta la carica sensibile d’una pronuncia perso­ nale, d’una sigla fonetica fatta di labbra, di denti, di saliva, fatta soprattutto delle provenienze geografiche diverse del calderone americano, in una lingua che a chi la capisce rivela sfumature espressive e per chi non la capisce ha un di più di potenzialità musicale (quale quella che oggi sentiamo nei film giapponesi o anche in quelli svedesi). La convenzionalità del cinema americano mi arrivava dunque raddoppiata (mi si scu­ si il bisticcio) dalla convenzionalità del doppiaggio, che ai no­ stri orecchi però entrava a far parte dell’incantesimo del film, inseparabile da quelle immagini. Segno che la forza del cine­ ma è nata muta, e la parola - almeno per gli spettatori italiani - è sempre sentita come una sovrapposizione, una didascalia in stampatello. (De) resto i film italiani d’allora se non erano doppiati, era come se lo fossero. Se non ne parlo, pur avendoli visti quasi tutti e ricordandomeli, è perché contavano cosi po­ co, in male o in bene, e in questo discorso sul cinema come al­ tra dimensione del mondo non potrei proprio farceli entrare). Nella mia assiduità di spettatore di film americani entrava un’ostinazione da collezionista, per cui tutte le interpretazio­ ni d’un attore o d’una attrice erano come i francobolli d’una serie che andavo appiccicando nell’album della mia memoria, colmando a poco a poco le lacune. Ho nominato finora dive c divi famosi ma il mio collezionismo s’estendeva allo stuolo dei generici che a quel tempo erano un necessario ingrediente d’ogni film, specie nei ruoli comici, come Everett Horton o Frank Morgan, o nei ruoli di «cattivo», come John Carradine ©Joseph Calleja. Era un po’ come nella commedia di masche­ re, dove ogni ruolo è prevedibile, e già leggendo i nomi del cast sapevo che Billie Burke sarebbe stata la signora un po’ svanita, Aubrey Smith il colonnello burbero, Mischa Auer lo spiantato scroccone, Eugene Pallette il miliardario, ma m’a­ spettavo anche la piccola sorpresa, di riconoscere una faccia nota in una parte che non ci si aspetta, magari truccata in un altro modo. Conoscevo i nomi quasi di tutti, anche di quello che faceva sempre il portiere d’albergo permaloso (Hugh Pagborne), anche di quello che faceva sempre il barista raffredda­ to (Annetta); e d’altri di cui non ricordo o non riuscii mai a

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sapere i nomi ricordo le facce; per esempio dei vari maggior­ domi, che erano una categoria a sé molto importante nel cine­ ma d'allora, (orse perché giù ci si cominciava ad accorgere che Tepoca dei maggiordomi era finita. Un’erudizione da spettatore, la mia, si badi bene, e non da specialista. Non potrei mai competere con gli eruditi profes­ sionali in materia (c neppure presentarmi a «Lascia o raddop­ pia») perché non ho mai avuto la tentazione di suffragare i miei ricordi con la consultazione di manuali, repertori filmografici, enciclopedie specializzate. Questi ricordi fanno parte d'un mio magazzino mentale dove non contano i documenti scritti ma solo il casuale depositarsi delle immagini lungo le giornate e gli anni, un magazzino di sensazioni private che non ho mai voluto mescolare con i magazzini della memoria collettiva. (Dei critici di quel tempo seguivo Filippo Sacchi, sul «Corriere», molto fine e attento ai miei attori favoriti, e - piu tardi - «Volpone», sul «Bertoldo», che era poi Pie­ tro Bianchi, che per primo gettava un ponte tra cinema c let­ teratura). Va detto che tutta questa storia si concentra in pochi anni: la mia passione ebbe appena tempo di riconoscersi e liberarsi dalla repressione familiare, c fu soffocata d’improvviso dalla repressione statale. Tutto a un tratto (mi pare nel 1938) l’Ita­ lia, per estendere la sua autarchia al campo cinematografico, decretò l'embargo ai film americani. Non era propriamente una questione di censura: la censura come al solito dava o non dava il risto ai singoli film, c quelli che non passavano, nessu­ no li vedeva e basta. Malgrado la goffa campagna antiholly­ woodiana con cui accompagnò il provvedimento la propagan­ da del regime (che proprio a quel tempo s’andava allineando al razzismo hitleriano), la vera ragione dell’embargo doveva essere di protezionismo commerciale, per far posto sul merca­ to alla produzione italiana (e tedesca). Per cui restarono esclu­ se le quattro più grosse case americane di produzione e distri­ buzione - Metro, Fox, Paramount, Warner - (è sempre a memoria che riferisco, fidandomi dell’esattezza di registrazio­ ne del mio trauma), mentre film d'altre case americane come rko, Columbia, Universal, United Artists (che anche prima venivano distribuiti attraverso società italiane) continuarono ad arrivare fino a tutto il 1941, cioè finché l’Italia non si trovò in guerra contro gli Stati Uniti. Mi fu concessa ancora qualche soddisfazione isolata (anzi, una delle maggiori: Ombre rosse) ma la mia voracità colleztonistica era colpita a morte.

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In confronto a tutte le proibizioni e gli obblighi che il fasci­ smo aveva imposto, c a quelli ancor più gravi che andava im­ ponendo in quegli anni di pre-guerra e poi di guerra, il veto ai film americani era certo una privazione minore o minima, e io non ero cosi sciocco da non saperlo: però era la prima che col­ pisse direttamente me, che non avevo conosciuti altri anni che quelli del fascismo né sentito altri bisogni da quelli che l’ambiente in cui vivevo poteva suggerire e soddisfare. Era la prima volta che un diritto di cui godevo mi veniva tolto: più che un diritto, una dimensione, un mondo, uno spazio della mente; e sentii questa perdita come un’oppressione crudele, che racchiudeva in sé tutte le forme d’oppressione che cono­ scevo solo per sentito dire o per averne visto soffrire altre per­ sone. Se ancora oggi posso parlarne come d’un bene perduto è perché qualcosa scomparve cosf dalla mia vita per non ri­ comparire mai più. Finita la guerra tante cose erano cambiate: io ero cambiato, e il cinema era diventato un’altra cosa, un’al­ tra cosa in sé e un’altra cosa in rapporto con me. La mia bio­ grafia di spettatore riprende ma è quella d’un altro spettatore, che non è più soltanto spettatore. Con tante altre cose per la testa, se ritornavo col ricordo al cinema hollywoodiano della mia adolescenza, lo trovavo una povera cosa: non era una delle epoche eroiche del muto o de­ gli inizi del parlato di cui le mie prime esplorazioni nella storia del cinema m’avevano acceso la voglia. Anche i miei ricordi della vita di quegli anni erano cambiati, e tante cose che ave­ vo considerato come l’insignificante quotidiano ora si colora­ vano di significato, di tensione, di premonizione. Insomma, nel riconsiderare il mio passato il mondo dello schermo mi si rivelava molto più pallido, più prevedibile, meno emozionan­ te del mondo ai fuori. Certo, posso pur sempre dire che era stata la vita di provincia grigia e banale a spingermi verso i so­ gni di celluloide, ma so di ricorrere a un luogo comune che semplifica molto la complessità dell’esperienza. È inutile che ora spieghi come e perché la vita provinciale che mi circonda­ va durante l’infanzia e l’adolescenza era tutta fatta d’eccezio­ ni alla norma, e la tristezza e l’accidia se c’erano erano dentro di me ma non nell’aspetto visibile delle cose. E anche il fasci­ smo, in una località dove la dimensione di massa dei fenomeni non si coglieva, era un insieme di facce singole, di comporta­ menti individuali, dunque non una cappa uniforme come una mano di bitume, ma (dico agli occhi disincantati d’un ragazzo che guardava mezzo da fuori mezzo da dentro) un elemento

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di contrasto in piu. un frammento del puzzle che per il suo contorno difforme era piu difficile da far quadrare con gli al­ tri, un film di cui avevo perduto l’inizio e di cui non sapevo immaginare la fine. Cos’era stato dunque allora il cinema, in questo contesto, per me? Direi: la distanza. Rispondeva a un bisogno di distanza, di dilatazione dei confini del reale, di ve­ der aprirsi intorno delle dimensioni incommensurabili, astrat­ te come entità geometriche, ma anche concrete, assolutamente piene di facce e situazioni e ambienti, che col mondo dell’esperienza diretta stabilivano una loro rete (astratta) di rapporti. Dal dopoguerra in poi il cinema è stato visto, discusso, fat­ to, in un modo completamente diverso. Il cinema italiano del dopoguerra non so quanto abbia cambiato il nostro modo di vedere il mondo, ma certo ha cambiato il nostro modo di ve­ dere il cinema (qualsiasi cinema, anche quello americano). Non c’è un mondo dentro lo schermo illuminato nella sala buia, e fuori un altro mondo eterogeneo separato da una di­ scontinuità netta, oceano o abisso. La sala buia scompare, lo schermo è una lente d'ingrandimento posato sul fuori quoti­ diano, c obbliga a fissar e ciò su cui l’occhio nudo tende a scor­ rere senza fermarsi. Questa funzione ha - può avere - la sua utilità, piccola, o media, o in qualche caso grandissima. Ma quella necessità antropologica, sociale, della distanza, non la soddisfa. Poi (per riprendere il filo della biografia individuale) io so­ no entrato presto nel mondo della carta scritta, che lungo Slaiche suo margine confina col mondo della celluloide, acutamente ho subito sentito che, in nome del mio vecchio amore per il cinema, dovevo preservare la mia condizione di puro spettatore, e che ne avrei perso i privilegi se fossi passato dalla parte di quelli che fanno i film: non ebbi, d'altronde, mai la tentazione di provare. Ma la società italiana avendo po­ co spessore, con quelli che fanno il cinema ci si trova insieme in trattoria, tutti li conoscono con tutti, cosa che già toglie buona parte del suo fascino alla condizione dello spettatore (e del lettore). Si aggiunga il fatto che Roma per un po' di tempo era diventata una Hollywood internazionale, e che tra le cine­ matografie dei vari paesi sono presto cadute le barriere: in­ somma il senso della distanza si è perso in ogni sua accezione. Io comunque continuo a andare al cinema. L'incontro ec­ cezionale tra lo spettatore e una visione filmata può prodursi sempre, per merito dell'arte oppure del caso. Nel cinema itaxvm

liano ci si può aspettare molto dal genio personale dei registi, ma pochissimo dal caso. Questa dev’essere una delle ragioni per cui il cinema italiano l’ho talvolta ammirato, spesso ap­ prezzato, ma non l’ho mai amato. Sento che al mio piacere d’andare al cinema ha tolto più di quanto ha dato. Perché que­ sto piacere va valutato non solo sui « film d’autore » con i quali entro in un rapporto critico di tipo «letterario», ma su quanto può venir fuori di nuovo dalla produzione media e minore, con cui cerco di ristabilire un rapporto da puro spettatore. Dovrei allora parlare della commedia satirica di costume che per tutti gli Anni Sessanta ha costituito la produzione me­ dia italiana tipo. Nella più parte dei casi la trovo detestabile, perché quanto più la caricatura dei nostri comportamenti so­ ciali vuol essere spietata tanto più si rivela compiaciuta e in­ dulgente; in altri casi la trovo simpatica e bonaria, con un ot­ timismo che resta miracolosamente genuino, ma allora sento che non mi fa fare passi avanti nella conoscenza di noi stessi. In somma, guardarci direttamente negli occhi è difficile. La vi­ talità italiana è giusto che incanti gli stranieri ma che lasci freddo me. Non è un caso che una produzione artigiana di qualità co­ stante e originalità stilistica sia nata da noi col western all’ita­ liana, cioè come rifiuto della dimensione in cui il cinema ita­ liano s’era affermato e fermato. E come costruzione d’uno spazio astratto, deformazione parodistica d’una convenzione puramente cinematografica. (Ma in questo modo dice pure qualcosa di noi, come psicologia di massa; di cosa rappresenta il film western per noi, di come integriamo e correggiamo il mito per investire in esso quel che portiamo dentro di noi). Cosi anch’io, per ricrearmi il piacere del cinema, devo usci­ re dal contesto italiano e ritrovarmi un puro spettatore. Nelle sale strette strette e puzzolenti degli studios del Quartiere La­ tino posso ripescare i film degli Anni Venti o Trenta che cre­ devo d’aver perduto per sempre, o lasciarmi aggredire dall’ul­ tima novità magari brasiliana o polacca, che arriva da ambien­ ti di cui non so niente. Insomma o vado a cercare i vecchi film che mi illuminino sulla mia preistoria, o quelli tanto nuovi da potermi forse indicare come sarà il mondo dopo di me. E an­ che in questo senso sono sempre i film americani - parlo di quelli più nuovi - che hanno da comunicare qualcosa di più inedito: sempre ancora sulle autostrade, sui drugstores, sulle facce giovani o vecchie, sul modo di muoversi attraverso i luo­ ghi e di spendere la vita. xix

Ma ciò che il cinema dà adesso non è più la distanza: è il senso irreversibile che tutto ci è vicino, ci è stretto, ci è ad­ dosso. E questa osservazione ravvicinata può essere in un sen­ so esplorativo-documentario o in un senso introspettivo, le due direzioni in cui possiamo definire oggi la funzione cono­ scitiva del cinema. Una è quella di darci una forte immagine d’un mondo esterno a noi cne per qualche ragione oggettiva o soggettiva non riusciamo a percepire direttamente; l’altra è quella di forzarci a vedere noi stessi e il nostro esistere quoti­ diano in un modo che cambi qualcosa nei nostri rapporti con noi stessi. Per esempio l’opera di Federico Fellini è quel che più s’avvicina a questa biografia di spettatore che lui stesso m'ha ora convinto a scrivere; solo che in lui la biografia è di­ ventata cinema a sua volta, è il fuori che invade lo schermo, il buio della sala che si rovescia nel cono di luce. Quella autobiografia che Fellini ha proseguito ininterrotta­ mente dai Vitelloni a oggi mi tocca da vicino non solo perché come età ci separano solo pochi anni, e non solo perché venia­ mo entrambi da città di riviera, lui adriatica e io ligure, dove la vita dei giovinetti sfaccendati si somigliava abbastanza (an­ che se la mia Sanremo aveva molte differenze dalla sua Rimi­ ni, essendo una città di frontiera c con un Casinò, e da noi il divario tra l’estate balneare e la «stagione morta» dell’inver­ no fosse sentito come tale forse solo negli anni della guerra), ma perché dietro tutta la miseria delle giornate al caffè, della passeggiata fino al molo, dell’amico che si traveste da donna e poi si sbronza c piange, riconosco una giovinezza insoddi­ sfatta di spettatori cinematografici, d'una provincia che giu­ dica se stessa in rapporto al cinema, nel confronto continuo con quell'altro mondo che è il cinema. La biografia dell'eroe felliniano - che il regista riprende da capo ogni volta - in questo senso è più esemplare della mia perché il giovane lascia la provincia, va a Roma c passa dall’al­ tra parte dello schermo, fa il cinema, diventa cinema lui stes­ so, Il film di Fellini è cinema rovesciato, macchina da proie­ zione che ingoia la platea c macchina da presa che volta le spalle al set, ma sempre i due poli sono interdipendenti, la provincia acquista un senso nell’essere ricordata da Roma, Roma acquista un senso nell’esserci arrivati dalla provincia, tra le mostruosità umane dell’una e dell'altra si stabilisce una mitologia comune, che ruota intorno a gigantesche deità fem­ minili come la Anita Ekberg della Dolce vita. Ed è a portare alla luce e classificare questa convulsa mitologia che punta il

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lavoro di Fellini, con al centro {’autoanalisi di Otto e mezzo come una spirale gremita di archetipi. Per definire più esattamente come sono andate le cose, bi­ sogna tener presente che nella biografia di Fellini il capovol­ gimento dei ruoli da spettatore a regista è preceduto da quello da lettore di settimanali umoristici a disegnatore e collabora­ tore dei medesimi. La continuità tra il Fellini disegnatoreumorista e il Fellini cineasta è data dal personaggio di Giuliet­ ta Masina e da tutta la speciale « zona Masina » della sua opera, cioè d'una poeticità rarefatta che ingloba la schematizzazione figurativa delle vignette umoristiche, e si estende - attraverso le piazze paesane della Strada - al mondo del circo, alla malin­ conia dei clown, uno dei motivi più insistiti della tastiera felli­ niana, c più legati a un gusto stilistico retrodatato, cioè corri­ sponde a una visualizzazione infantile, disincarnata, prccinematografica d’un mondo «altro». (Quel mondo «altro» cui il cinema conferisce un'illusione di carnalità che confonde i suoi fantasmi con la carnalità attraente-repulsiva della vita). E non a caso il film-analisi del mondo della Masina, Giu­ lietta degli spiriti, ha come dichiarato riferimento figurativo e cromatico le vignette a colori del «Corriere dei Piccoli»: è il mondo grafico della carta stampata di grande diffusione che rivendica la sua speciale autorità visuale e la sua stretta paren­ tela col cinema fin dalle origini. In questo mondo grafico, il settimanale umoristico, territo­ rio credo ancora vergine per la sociologia della cultura (lonta­ no com’è dai percorsi tra Francoforte e New York), andrebbe studiato come canale indispensabile quasi quanto il cinema per definire la cultura di massa della provincia italiana tra le due guerre. E andrebbe studiato (se non è stato ancora fatto) il legame tra giornale umoristico e cinema italiano, non foss’aliro che per il posto che occupa nella biografia d’un altro e più anziano dei padri fondatori del nostro cinema: Zavattini. E l'apporto del giornale umoristico (forse più di quelli della letteratura, della cultura figurativa, della fotografia sofistica­ ta, del giornalismo longancsiano) che fornisce al cinema italia­ no un tipo di comunicazione col pubblico già collaudato, co­ me stilizzazione di figure e di racconto. Ma il rapporto del Fellini regista non è solo con la zona deb Tumorismo «poetico», «crepuscolare», «angelico», entro la quale egli s’era situato con le sue vignette e i suoi testi giova­ nili, ma anche con l’aspetto più plebeo c romanesco che carat­ terizzava altri disegnatori del «Marc’Aurelio», per esempio

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Arcalo, il quale rappresentava la società contemporanea con una sgradevolezza e una voluta volgarità, con un tratto d’in­ chiostro cosf sgarbato e quasi sguaiato da escludere ogni illu­ sione consolatoria. La forza dell’immagine nei film di Fellini, cosf difficile da definire perché non si inquadra nei codici di nessuna cultura figurativa, ha le sue radici nell'aggressività ri­ dondante e disarmonica della grafica giornalistica. Quella ag­ gressività capace di imporre in tutto il mondo cartoons e stri­ pes che quanto più appaiono marcati da una stilizzazione in­ dividuale tanto piu risultano comunicativi a livello di massa. Questa matrice di comunicativa popolare Fellini non l’ha mai persa anche quando il suo linguaggio si è fatto più sofisti­ cato. Del resto il suo anti-intellettualismo programmatico non è mai venuto meno: l’intellettuale è per Fellini sempre un di­ sperato, che nel migliore dei casi s'impicca come in Otto e mezzo, e quando gli scappa la mano come nella Dolce vita si spara dopo aver massacrato i figlioletti. (La stessa scelta in Roma viene compiuta in epoca di stoicismo classico). Nelle in­ tenzioni dichiarate di Fellini, all’arida lucidità intellettuale ra­ ziocinante si contrappone una conoscenza spirituale, magica, di religiosa partecipazione al mistero dell'universo: ma sul piano dei risultati, né l’uno né l’altro termine mi pare abbiano un risalto cinematografico abbastanza forte. Resta invece co­ me costante difesa dall'intellettualismo la natura sanguigna del suo istinto spettacolare, la truculenza elementare da car­ nevale e da fine del mondo che la sua Roma dell’antichità o dei nostri giorni immancabilmente evoca. Quello che è stato tante volte definito come il barocchismo di Fellini sta nel suo costante forzare l’immagine fotografica nella direzione che dal caricaturale porta al visionario. Ma sempre avendo in mente una rappresentazione ben precisa co­ me punto di partenza che deve trovare la sua forma più comu­ nicativa ed espressiva. E questo per noi della sua generazione è particolarmente evidente nelle immagini del fascismo, che in Fellini, per quanto grottesca sia la caricatura, hanno semEre un sapore di verità. II fascismo che nel corso di ventanni a avuto tanti climi psicologici diversi, cosf come d'anno in anno cambiavano le divise: e Fellini mette sempre le divise giuste e il clima psicologico giusto degli anni che rappresenta. La fedeltà al vero non dovrebbe essere un criterio di giudi­ zio estetico, eppure a vedere i film dei giovani registi a cui piace ricostruire l’epoca fascista indirettamente, come uno scenario storico-simbolico, non posso fare a meno di soffrire. XXII

Specialmente nel più prestigioso dei giovani cineasti, tutto ciò che riguarda il fascismo è regolarmente stonato, magari con­ cettualmente giustificabile ma falso sul piano delle immagini, come se non riuscisse a colpire nel segno nemmeno per caso. Vorrà dire che l’esperienza di un’epoca non è trasmissibile, che un tessuto sottile di percezioni va inevitabilmente perso? O vorrà dire che le immagini attraverso le quali i giovani si fi­ gurano l’Italia fascista e che sono soprattutto quelle che gli scrittori hanno dato (abbiamo dato), immagini parziali che presupponevano un’esperienza che apparteneva a tutti, per­ duto questo riferimento comune non sono più capaci d’evoca­ re lo spessore storico d’un’epoca? Invece in Fellini basta che nei Clowns il capostazione buffo spernacchiato dai ragazzi del treno chiami un milite ferroviario nerobaffuto e che dal treno spettrale le braccia dei ragazzi si levino in un silenzioso saluto romano, e il clima dell’epoca è restituito in pieno, inconfondi­ bile. O basta che sulla platea del teatrino di varietà di Roma passi il lugubre suono di sirena dell’allarme aereo. Probabilmente lo stesso risultato d’una precisione d’evoca­ zione ottenuta attraverso l’esasperazione della caricatura è ri­ scontrabile nelle immagini dell’educazione religiosa, che per Fellini pare esser stato un trauma fondamentale, a giudicare da come ritorna con l’apparizione di preti terrorizzanti, d’un orrore addirittura fisiologico. (Ma qui non ho competenza per giudicare: ho conosciuto solo la repressione laica, più interio­ rizzata c da cui è meno facile liberarsi). Alla presenza di una scuola-chiesa repressiva, Fellini contrappone quella più vaga d’una chiesa mediatrice dei misteri della natura e dell’uomo, che non ha lineamenti come la monaca nana che rappacifica il folle sull’albero in Amarcord, o che non risponde alle doman­ de dell’uomo in crisi, come il vecchissimo monsignore che parla degli uccelli in Otto e mezzo x certo la più suggestiva, in­ dimenticabile immagine del Fellini religioso. Cosi Fellini può andare molto avanti sulla strada della ripu­ gnanza visiva, ma su quella della ripugnanza morale si ferma, recupera il mostruoso all’umano, all’indulgente complicità carnale. Tanto la provincia vìtellona quanto la Roma cinematografara sono gironi dell’inferno, ma sono anche insieme go­ dibili Paesi di Cuccagna. Per questo Fellini riesce a disturbare fino in fondo: perché ci obbliga ad ammettere che ciò che più vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino. Come nell’analisi della nevrosi, passato e presente mesco­ lano le loro prospettive; come nello scatenarsi dell’attacco

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isterico s’esteriorizzano in spettacolo. Fellini fa del cinema la sintomatologia dell’isterismo italiano, quel particolare isteri­ smo familiare che prima di lui veniva rappresntato come un fenomeno soprattutto meridionale e che lui da quel luogo di mediazione geografica che è la sua Romagna ridefinisce in Amarcord come il vero elemento unificatore del comporta­ mento italiano. Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema del­ la vicinanza assoluta. Nei tempi stretti delle nostre vite rutto resta li, angosciosamente presente; le prime immagini dell’e­ ros e le premonizioni della morte ci raggiungono in ogni so­ gno; la fine del mondo è cominciata con noi e non accenna a unire; il film di cui ci illudevamo d’essere solo spettatori è la storia della nostra vita.

Fare un film

A Giulietta

Desidero ringraziare Renzo Renzi, Tullio Kezich, Camilla Ceder­ li a, Enzo Siciliano, Liliana Betti, Bernardino Zapponi, Gian Luigi

Rondi, e tutti gli amici scrittori e giornalisti che, con allettuosa cw riosità c partecipazione, mi hanno sollecitato in tante occasioni a parlare del mio lavoro. FEDERICO FELLINI

I.

Specialmente quando mi portano nella sala radiologica, mi sento un oggetto, una cosa. La sala, con le sue luci fred­ de, pare Mauthausen, oppure una sala di missaggio. Mi la­ sciano seminudo nella carrozzella; di là dai vetri i medici in camice bianco parlano di me, fumano, m’indicano tra di loro con gesti che vedo e parole che non sento. I parenti degli altri malati mi passano accanto, nel corridoio, mi guardano seminudo: guardano l’oggetto. Oppure, il matti­ no, io sto disteso sul letto con le cannule nel naso, la sirin­ ga della fleboelisi infilzata nel polso e le inservienti che puliscono la camera, una di qua una di là dal letto, parlano sopra di me. Dice una: «Devi d’annà a San Giovanni su­ bito dopo l’arco a sinistra. Risparmi del doppio». Precisa l’altra: «De vacchetta però!» «Ma no, de camoscio. Te ri­ cordi le scarpe de mi sorella al matrimonio de Pilade?» «Embè? Nun erano de vacchetta?» «No, erano de camo­ scio! » La notte, i corridoi sono pieni di fiori, fiori, fiori, che mettono fuori dalle stanze dei malati, come in un campo­ santo. Le luci basse: nell’ombra, quando apri gli occhi vedi una testa galleggiare nell’aria, illuminata da sotto co­ me nei vecchi film gialli. Sono le monache o le infermiere che tengono una torcia elettrica a luce in su per illumina­ re i termometri, poterli guardare. Le facce che galleggiano scivolano via nei corridoi, silen­ ziose. A volte, le monache fanno le iniezioni senza sve­ gliarti, come sicari di Cesare Borgia; poi le vedi di schiena che scappano via nel buio. Spesso mi capita di essere fulminato da immagini che scoppiano in un silenzio assoluto davanti alla mia faccia. Li per li non te ne rendi conto, ti sembra di non aver visto niente, ma dopo un po’ hai come il ricordo che è successo qualcosa, che hai visto qualcosa e rimani stranito e per­

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plesso a cercare: cos’era? E da dove viene? L’altro giorno, per esempio, prima che il medico pallidissimo mi portasse con la sua auto a gran velocità qui in clinica, stavo tran­ quillamente telefonando quando all’improvviso ho visto un uovo piccolo piccolo posato sopra una garza per confetti: un ovetto augurale, per cerimoniali. Quest’ovetto rotolava sopra una superficie nerissima, bitorzoluta, respirante. Poi spariva. Cercavo l’ovetto, ma mi sfilava davanti agli occhi una parete buia, come l’interno delle fauci di un mostro. Non pareva che l’ovetto fosse stato stritolato perché la parete era molle, limacciosa. Sto pensando, sempre, al film che devo fare1. Forse il film ha bisogno di una nuova incubazione; quell’ovetto de­ ve crescere. È cosi? Mah! Un giorno nell’ufficio della pro­ duzione alla Vasca Navale mi ero sdraiato sopra un divanaccio con le molle rotte; volevo riposare un po’, era esta­ te c fuori si sentivano chissà da quanto tempo le cicale. Al­ l’improvviso mi crollano addosso a un millimetro dal naso venticinque milioni di tonnellate di pietra; la facciata del Duomo di Milano, o quella di Colonia, non so. Ho senti­ to il vento della caduta, poi il tonfo terrificante a un mil­ limetro dai miei piedi. Ho fatto un salto da acrobata, mi sono trovato diritto in mezzo alla stanza. Questa parete, grande come l’Himalaya, copriva tutto: tutto il cielo, tut­ to lo spazio, tutta l’aria. Io ero una formica. Allora ho pensato che le difficoltà per portare avanti il film nasce­ vano da un ostacolo di fondo, che forse, drammaticamen­ te, era dentro di me. Sono rimasto un po’ spaventato, pe­ rò la voglia di fare il film si è rafforzata, una voglia donchi­ sciottesca, Se al di là della Chiesona-Himalaya c’era il cie­ lo, l'aria aperta, vuol dire che quello è lo spazio giusto e che devo trovare un modo per raggiungerlo. Fino adesso non l’ho trovato però. In quei giorni mi sono convinto di poter morire di in­ farto anche perché ho temuto che l’impresa fosse spropor­ zionata alle mie forze. « Liberare l’uomo dalla paura della morte». Come l’apprendista stregone che sfida la sfinge, l’abisso marino, e ci muore. «È il mio film, - ho pensato, - che mi ammazza». Quando ho avuto Timpressione di morire, nei giorni scor­ si, gli oggetti non erano piu antropomorfizzati. Il telefono, 1 II ( laute di C. Mastorna.

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che sembra sempre un grosso strano ragnonc o un guantone da boxe, era solo un telefono, Ma no, non è nemmeno cosi, non era niente; è difficile dirlo; non sapevo cos’era perché anche i concetti di volume, colore, prospettiva, sono un modo d’intendersi con la realtà, una serie di simboli per definirla, una mappa, un abbecedario ufficiale da tutti uti­ lizzabile, ed era proprio questo rapporto intellettuale con le cose che veniva di colpo a mancare, Come quella volta che per far contenti dei medici amici che stavano studiando gli effetti dell’Lsd, accettai di fare da cavia e bevvi un mez­ zo bicchiere d’acqua dove dentro era stata lasciata cadere un’infinitesima parte di un milligrammo di acido lisergico. Anche quella volta la realtà degli oggetti, dei colori, della luce, non aveva piu alcun senso conosciuto, Le cose erano se stesse, sprofondate in una grande pace luminosa e terri­ ficante. In momenti come quello le cose non ti pesano; non vai a bagnare tutto con la tua persona, come un’ameba. Le cose diventano innocenti perché togli di mezzo te stesso; una verginale esperienza, come il primo uomo può aver vi­ sto vallate, praterie, il mare. Un mondo immacolato che palpita di luce e di colori viventi col ritmo del tuo respiro; tu diventi tutte le cose, non sei più separato da loro, sei tu quella nube vertiginosamente alta nel mezzo del cielo, e anche l’azzurro del cielo sei tu, e il rosso dei gerani sul da­ vanzale della finestra, e le foglie, e la trama fibrillante del tessuto di una tenda, E quello sgabello davanti a te che cos’è? Non sai più dare un nome a quelle lince, a quella sostanza, a quel disegno, che vibra ondulando nclFaria ma non ti importa, sei felice cosf. Huxley, in The doors of per­ ception, ha mirabilmente descritto questo stato di coscien­ za provocato daU’Lsd: la simbologia dei significati perde senso, gli oggetti sono confortanti per la loro gratuità, per la loro assenza-presenza; è la beatitudine. Ma improvvisa­ mente l’essere tagliato fuori dal ricordo della mediazione concettuale ti fa sprofondare in un abisso d’angoscia inso­ stenibile; di colpo, quella che un attimo prima era l’estasi, ora è Tinfcrno. Forme mostruose senza senso né scopo. Quella nube schifosa, quell’atroce cielo azzurro, quella tra­ ma oscenamente respirante, quello sgabello che non sai che cos’c, ti strangolano in un orrore senza fine.

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Nella clinica sono circondato da suore straniere. Una en­ tra dalla porta e mi dice: «Sempre scrivere, sempre seri ve­ re. Quanta filosofia». Rileggo ciò che ho scritto, e mi ver­ gogno, se il livello deve essere quello della «filosofia». Un’altra, tutte le sere, mi porta un bicchiere d'acqua di Lourdes. Me Io indica: «Lei deve! » Giorni fa mi ha detto: «Adesso che lei ha vuotato sua pleura, deve vuotare suo cuore». Io temevo che alludesse a nuove iniezioni. «Eh, sf, lei ha cuore molto, molto carico». «Ma quando si dovrebbe vuotare?» «Quando vuole lei, ogni momento è buono». L'equivoco è durato per un poco. Poi ho capito che voleva che mi confessassi. Perciò, assieme all’acqua di Lourdes, mi manda ogni giorno un prete americano che pare De Sica. Il prete entra: «Come va? Pleurite? Brutta bcstiaccia». Alle cinque del mattino, è ancora buio, viene suor Bur­ gunda: una suora con veli neri come ali di pipistrello, un cannello di gomma che tiene tra i denti e un gran cesto di provette. Come un vampiro danubiano, dice: «Posso avere un po’ del suo sangue, signor Fellini? » Suor Raffaella, invece, è colombiana. «Come ci cente occi? Megio? » Poi si mette in mezzo alla stanza e annun­ zia: «C’è il ciolc e la luna e la luna dice al ciole: non ti vergogni cosi grande e grocio che non ti fanno ancora usci­ re di node? » Poiché le piace, lo ripete ogni mattina. Alle nove di sera viene a farmi dormire un'infermiera che si chiama Edmca. Mi si avvicina. Ha una peluria bruna sul labbro. È di Faenza. Mi ricorda le baffone romagnole della chiesa dei Paolotti, a Rimini. Io la chiamo un’infinità di volte, la notte. Lei appare affettuosa: «Le faccio un'altra camomilla?» Racconta che suo padre, fino ai sessant'anni, aveva amanti che nascondeva nel pollaio. Poi le andava a prendere. A sessant’anni, si fidanzava con tutte, ma diceva: «I miei genitori son d'accordo, io d’accordissimo, ma mia moglie non vuole». Lo trovava spiritoso. Dopo i primi giorni (quando, in seguito al collasso per l’iniezione di baralgina, mi sentivo come un sasso nella fion­ da, proprio nel pezzetto di cuoio, nel momento di essere proiettato; cioè, la sensazione di partire sibilando verso un'altra dimensione; comunque, fuori dalla clinica) sono cominciati a venire tutti, a trovarmi. Sulla porta ho visto gruppi di generici, come quadri del Doganiere. Ho sentito guaiti, le monache li tiravano indietro. Io benedicevo, acca­

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rezzavo teste, in una sorta di scampanio pasquale. Questa malattia, da allora, è diventata una festa. Sono venuti Tit­ ta e Montanari da Rimini. Titta, sulla porta, mi ha visto, ha cominciato a fare pernacchie. Lo avevano fermato, stava j>er fare a botte con monache e infermiere: «Ma cazzo, non posso vedere Federico? » Sui tavoli ci sono i telegrammi. Mi faccio leggere quelli color rosa fragola che vengono dai ministri. Mi sembra di essere in paradiso. L'altra mattina, sulla porta, sono appar­ si mazzi di rose, come in un quadro del Botticelli: rose che tentavano di entrare; rosette palpitanti, tremolanti, te­ nute in mano da due monachine che zompavano di gioia. Erano le rose di Rizzoli, che mi perdonava, dopo il litigio. Ho subito telefonato a Rizzoli: «Il tuo biglietto mi ha fat­ to meglio degli antibiotici». Una voce prendeva il posto di quella di Rizzoli e mi diceva trionfale: «Fcllini, il commen­ da piange! », come nel finale del Corsaro Nero. Poi, con la voce rotta dal pianto, Rizzoli continuava: «Mi hai fatto venire i lucciconi. Mi hai detto una cosa tanto carina». Infi­ ne è venuto a trovarmi. «Spero che questa malattia ci ab­ bia messo la testa a posto. Adesso non devi piu fare i film di una volta, altrimenti affatichi il cervellone. Adesso devi darmi retta e fare i film che ti dico io». Una mattina, nel corridoio, ho visto una decina di per­ sone che parlavano greco e tenevano in mono tanti pallon­ cini, in forma di draghi e di salsicciotti. Non venivano da me. Andavano a trovare un parente cl>e aveva avuto l’in­ farto. Ho visto il malato, pallido, nel letto, e tutti i pallon­ cini, gialli, rossi, attaccati al soffitto. Perché i palloncini? Non sapevano cosa portare: arance, biscotti? Avevano tro­ vato un venditore di palloncini c avevano portato i pallon­ cini. Ma la visita risolutiva c stata quella di Sega. Debbo fa­ re una premessa. Giorni fa, aperti gli occhi, avevo visto in fondo al letto un cappotto nero, due occhi spiritati, una barbacela: «Fcllini come va? Sono Pighi della Barafonda, mi chiamavate Figa e te mi facevi mangiare i pesci crudi per due nazionali. Mi hanno detto: dove vai Pighi? Vado a Roma, dico. Allora, dicono, vai a salutare quel pataca di Fellini e digli che è un pataca ». Poi era arrivata una infermiera e lo aveva fatto uscire; ma tutte le mattine dopo, nell’elenco di coloro che telefo­ navano per avere notizie c’era sempre un nome che asso­ 7

migliava a Pighi, o Figa. Io credevo fosse lui e che le mo­ nache avessero capito male il suo nome. Invece era Sega che era a Roma da tre giorni c rimandava la partenza per vedermi, Solo il quarto giorno ho capito che era Sega detto Bagarone. Ho supplicato la monaca di darmi il telefono, avevo come un brutto presentimento se non riuscivo a parlargli. Ma il telefono non me lo volevano dare, non do­ vevo affaticarmi, dovevo star zitto» me lo dicevano anche in tedesco e siccome protestando, io ho bestemmiato, la monaca mi ha guardato severissima, poi mi ha detto con du­ rezza: «Lei non è un poeta», come se scoprisse un falso, con stupore. Va bene, ho voluto Sega, che telefonava ormai dalla stazione. Accentuando i toni agonizzanti, gli ho det­ to: «Bagarone, non partire, vieni qua». A scuola, lo chia­ mavano Bagarone, come gli stercorari, perché quando si ar­ rabbiava, farfugliava. Al liceo era il primo della classe. Stu­ dioso nonostante il nome, aveva saltato l’ultimo anno e si era iscritto alla facoltà di medicina. Quando l’avevo saputo, nc ero stato felice, dicendomi che se nella vita fossi stato male, avrei potuto contare su un amico bravissimo medico. Ebbene, Sega è arrivato in clinica. Appena reduce da un collasso, gli ho raccontato quello che avevo passato c le cure in atto. Lui ha detto subito; « Sanarelli-Schwarzmann». Io credevo che scherzasse e mi sono messo a ri­ dere, pensando ai doppi nomi che andavano di moda nei giornali umoristici di anteguerra. Invece Bagarone diceva sul serio. Allora gli ho detto: «Tu adesso ti fermi a Roma ed esponi la tua tesi ai luminari». 11 giorno dopo, davanti ai luminari, Bagarone ha spiegato tutto. I luminari lo sono stati ad ascoltare, assorti. Poi hanno detto: «Teoria affa­ scinante. Interpretazione brillantissima, ecc.». Bagarone è diventato rosso. Quando Bagarone diventa rosso, tende al viola.

Il mio amico Bagarone, il mio compagno di scuola, la mia Rimini. Stanotte ho sognato il porto di Rimini che si apriva sopra un mare gonfio, verde, minaccioso come una prateria mobile sulla quale correvano nuvoloni carichi, ver­ so terra. Io ero gigantesco e nuotavo per guadagnare il mare, par­ tendo dal porto, che era piccolo, angusto. Mi dicevo: «lo sono gigantesco, però il mare è pur sempre il mare. E se 8

non tocco? » Tuttavia non ero angosciato. Nuotavo nel pic­ colo porto con grandi bracciate. Non potevo affogare per­ ché toccavo il fondo. È un sogno inflazionato, che tende, forse, a restituirmi la fiducia di affrontare il mare. Un invito a sopravvalutarsi: oppure a sottovalutare le piccole condizioni protettive di partenza che potrebbero limitarmi. Ingomma, non ho ca­ pito se io debbo abbandonare il complesso del piccolo porto in partenza, oppure se mi sopravvaluto. Un fatto è, comunque, certo. Io, a Rimini, non torno volentieri. Debbo dirlo. É una sorta di blocco. La mia fa­ miglia vi abita ancora, mia madre, mia sorella: ho paura di certi sentimenti? Soprattutto mi pare, il ritorno, un com­ piaciuto, masochistico rimasticamcnto della memoria: un’o­ perazione teatrale, letteraria. Certo, essa può avere il suo fa­ scino. Un fascino sonnolento, torbido. Ma ecco: non riesco a considerare Rimini come un fatto oggettivo. È piuttosto, e soltanto, una dimensione della memoria. Infatti, quando mi trovo a Rimini, vengo sempre aggredito da fantasmi già archiviati, sistemati. Forse questi innocenti fantasmi mi porrebbero, se vi restassi, un’imbarazzante muta domanda, alla quale non potrei rispondere con capriole, bugie; mentre bisognerebbe tirar fuori dal proprio paese l’elemento originario, ma sen­ za inganni. Rimini: cos’è. È una dimensione della memo­ ria (una memoria, tra l’altro, inventata, adulterata, mano­ messa) su cui ho speculato tanto che è nato in me una sor­ ta di imbarazzo. Eppure debbo continuare a parlarne. A volte, anzi, mi chiedo: alla fine, quando sarai piti ammaccato, stanco, fuo­ ri competizione, non ti piacerebbe comprare una casetta sul porto? Il porto della parte vecchia. Da bambino lo vedevo di là dall’acqua: vedevo costruire scheletri di barche. L’al­ tro braccio, stando di qua, lasciava immaginare una vita da baruffe chioggiotte, che non aveva nulla a che fare coi tedeschi che andavano sul mare con la Daimler Benz. Per la verità, l’inizio della stagione era dato dai tedeschi poveri. Si vedevano improvvisamente delle biciclette sdra­ iate sulla spiaggia, dei pacchi, c, in acqua, ciccione, triche­ chi. Noi bambini venivamo portati al mare, con cuffie di lana, dal garzone di mio padre. Allora, di là, nella parte vecchia del porto, vedevo sterpi, sentivo voci. Tempo fa, tramite l’amico Titta Benzi, avevo comprato

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una casa, a un prezzo favoloso. Pensavo di avere trovato un punto fìsso: oppure, di abbandonarmi alla vita semplice. Ma doveva essere letteratura falsa perché questa casa non Pho mai vista; anzi, mi dava fastidio il pensiero di una ca­ setta chiusa, senza inquilini, che stava là ad aspettare inu­ tilmente. Quando decisi di venderla, Titta mi disse: «xMa è la tua terra’ » come per ricordarmi che la tradivo di nuovo. Prima di questa casa mai abitata, Titta mi aveva con­ vinto ad acquistare un pezzo di terra sul Marccchia. Un posto, a vederlo, fatto apposta per un omicidio di prosti­ tute. La sera che andammo a visitare il pezzo di terra, si sen­ tiva una fanfara. Un uomo in mutande stava facendo Tammainabandiera. Era Fiorentini, che sa tutto di Garibaldi. Di Garibaldi e del sangiovese. La sua casa presso il Marccchia è piena di stampe, stendardi, cimeli. Fiorentini, che sta sem­ pre in mutande, quella sera, con la sua faccia da burattino di coccio, brillava nel buio. Disse: «Vedo una faccia sim­ patica, ma non conosco questo signore! » «Ma come? - dis­ se Titta, - ma è Fcllini!» «Porca ma...», commentò Fio­ rentini. Poi, subito: «Ho trovato un sangiovese... debbo farvelo assaggiare». Sacerdote del vino, un po' insistente, mi sgridò perché non scaldavo il bicchiere col palmo della mano. «Viene Fcllini! - prosegui Titta. - Viene ad abitare da queste parti!» «Cosi peschiamo i cefali insieme», pro­ segui sicuro Fiorentini. Bisogna sapere che il Marecchia, da quelle parti, siccome rivela il fondo sassoso, è di uno squal­ lore desolante. Ma Titta mi consigliò di prendere quella ter­ ra. «Aspetta pataca, - mi diceva Titta, - perché di qui ci passa l'autostrada. Il terreno si valorizza». Poi Pautostrad.t è andata da un’altra parte. Oggi Fiorentini mi olire cinque» centomila lire. Quella terra è ancora mia. Sul Marecchia ero andato, la prima volta, da bambino. Avevamo fatto «puffi» a scuola, come si dicci cioè l'ave­ vamo marinata. Io seguivo Carlini. Sul fiume c’era una ba­ lilla nera piena di poliziotti, che scendevano come rospi sul greto. Certe nuvole basse si aggiravano lentamente, in ag­ guato, tra i rami secchi degli alberi. Arrivammo a un bosco di pioppi: c'era un impiccato, con la scopoletta in testa, già piantonato da altri due poliziotti. Io non capivo bene cos’e­ ra. Vedevo una scarpa caduta, il pedalino del piede senza la scarpa, e due pantalonacci pieni di pezze.

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La casa a Rimini. Quelle che ho abitato le ricordo bene, tranne una: la casa natale, in via Fumagalli. Quando avevo già sette anni, una domenica pomeriggio, facevamo la pas­ seggiata in carrozza. D’inverno il landò era chiuso. Ci sta­ vamo dentro in sei: i miei, i fratelli, la donna di servizio, ammonticchiati al buio, perché il finestrino doveva stare chiuso, altrimenti entrava la pioggia. Io non vedevo nien­ te. Soltanto, nell’oscurità, le facce di mio padre e di mia madre. Una gran gioia era, quindi, quella di sedere accanto al vetturino perché là in alto si respirava. Quella domenica pomeriggio la carrozza svoltò in un via­ le mai fatto: una serie di case tutte unite una all’altra. Pa­ pà disse: «Sei nato li», e la carrozza filò via. La prima casa che io ricordo veramente è il palazzo Ripa. C’è ancora: c un palazzo sul Corso. Il nostro padrone di casa andava sempre vestito di blu: l’abito blu, la bombet­ ta blu e una gran barba bianca, come una divinità da blan­ dire, da non irritare. Mia madre si asciugava le mani, men­ tre diceva; «Bambini, state fermi, c’è il signor Ripa». Poi entrava il vecchione. Una mattina ho sentito dei gran mug­ giti, dei lunghi lamenti. Il cortiletto del palazzo era pieno di buoi e di somari. Forse, non so, c’era un mercato, una vendita. Pensare a Rimini. Rimini; una parola fatta di aste, di sol­ datini in fila. Non riesco a oggettivare. Rimini è un pastroc­ chio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare. Lf la nostalgia si fa più lim­ pida, specie il mare d’inverno, le creste bianche, il gran ven­ to, come l’ho visto la prima volta. Un’altra casa nostra, cioè abitata da noi, era vicina alla stazione. La casa dove m’è parso di avere il segno della pre­ destinazione. Era una villetta col giardino davanti. Il gran­ de orto che stava dietro comunicava con un enorme edifi­ co - una caserma, una chiesa? - sul quale stava scritto, in lettere bianche a semicerchio: «Poli...ama riminese». Man­ cavano due lettere, cadute, perdute. Siccome l’orto di casa nostra era infossato, il terreno che reggeva Fedificio, dietro il muretto di cinta, appariva più alto, là in cima. Una mattina, stavo nell’orto a costruire un arco con una canna, quando si senti improvvisamente un frastuono. Era il rotolio enorme della saracinesca del teatro, che non avevo mai notato c che si stava sollevando. Alla fine apparve n

un’immensa apertura nera. Nel mezzo, stavano un uomo con un boschetto e un impermeabile e una donna che face­ va la calza. Seguì un dialogo. L’uomo: «L’assassino deve essere entrato dalla finestra». La donna: «La finestra è chiusa». L’uomo: «Il sergente Johnatan ha trovato tracce di scasso». Poi l’uomo s’era rivolto a me che stavo nell’orto: «Ci sono i fichi in quell’albero? » «Mah, non lo so». Stavano provando il Grand-Guignol: la compagnia di Bella Starace Sainati. Aiutato dalle mani dell’uomo, entrai nell’antro buio: vi­ di i palchi dorati e, addosso a me, la pancia di una locomo­ tiva sospesa alle corde, tremolante, tra celluloidi rosse, bianche, gialle. Era il teatro. Poi l’uomo andava avanti col problema della finestra. Io non capivo se era un gioco o che altro. Dev’essere passato molto tempo. A un tratto la voce di mia madre mi richia­ mava: «La minestra è a tavola». «È qua», disse l’uomo col baschetto, rispondendo a mia madre, e mi aiutò a ripas­ sare il muricciolo. Due sere dopo fui condotto dai miei a vedere lo spetta­ colo. Mia madre racconta che non mi mossi per tutto il tempo della recita. La locomotiva avanzava dal fondo del buio, della notte, stava per travolgere una donna legata sui binari, finché la donna veniva salvata mentre le piombava addosso un enorme, pesante, morbido, sipario rosso. L’emozione durò tutta la notte. Negli intervalli avevo visto le coulisses > le poltroncine, il velluto, gli ottoni, i cor­ ridoi, misteriosi cunicoli, ci ero corso in mezzo come un sorcio. Questa casa vicino alla stazione è la stessa delle prime amicizie. La casa di via Clementini 9, invece, è quella del primo amore. Il padrone di casa, «Agostino Dolci e F. fer­ ramenta», era il padre di Luigino, un mio compagno di scuola del ginnasio, quello che ndl’I/We faceva Ettore (re­ citavamo per conto nostro FI/Arae). Nel palazzo di fronte abitava una famiglia meridionale, i Soriani, con tre ragazze. Elsa, Bianchina e Nella. Bianchina era una moretta: dalla mia camera da letto la potevo vede­ re. La prima volta mi apparve dietro il vetro della finestra, oppure - non ricordo - vestita da piccola italiana, coi bei seni pesanti, già da madre. xa

Lei, che abita a Milano, dice oggi che non siamo mai fug' giti a Bologna, come ho raccontato (l’ho raccontato?): seni’ mai siamo andati in bicicletta - io portandola sulla canna fuori porta d'Augusto. Per me le donne, allora, erano soprattutto le zie. Avevo sentito parlare, è vero, di una casa con certe donne dentro. La Dora in via Clodia, dalle parti del fiume. «La Dora de fiom». Ma, quando dicevano «le donne*, mi venivano in mente solo le zie che facevano i materassi, le donne di Gambettola, dalla nonna, che passavano il grano al setaccio. Quindi non capivo. Poi ho visto che le zie erano diverse perché la Dora affittava due carrozze e, ogni quindicina, fa­ ceva vedere la nuova covata giù per il Corso, a scopo di pro­ paganda. Allora ho visto passare donne dipinte, con velette strane, misteriose, che fumavano sigarette col bocchino d'oro: le donne nuove della Dora.

A Gambettola, nell’cntroterra romagnolo, ci andavo d'e­ state. Mia nonna teneva sempre un giunco nelle mani, col quale faceva fare agli uomini certi salti da cartone animato. 1 nsomma, faceva filare gli uomini presi a giornata per lavo­ rare il campo. La mattina si sentivano risatacce e un gran brusio. Poi, davanti a lei che appariva, quegli uomini vio­ lenti assumevano un atteggiamento di rispetto, come in chiesa. La nonna, allora, distribuiva il caffelatte e si infor­ mava di tutto. Voleva sentire il fiato di Gnichèla, per sco­ prire se aveva bevuto la grappa: e questi rideva, dava go­ mitare al vicino, per il pudore, diventava un bambino. Col fazzolettone nero che le fasciava la testa, il nasone a becco, gli occhi brillanti come catrame liquido, mia nonna Franzscheina (Francesca) sembrava la compagna di Toro Sedu­ to. Anche con gli animali era straordinaria, indovinava le malattie, gli umori, i pensieri, le furberie: quel cavallo che si era innamorato chissà come della gatta. « Fra tre gior­ ni arriva il "garbein”» annunciava con sicurezza infalli­ bile. Ed era vero. Il «garbein» è un vento in più che abbia­ mo in Romagna, Un vento capriccioso, instabile, assolutamente imprevedibile. Per tutti, meno che per lei. Aveva una grande amica, mia nonna, un po' più vecchia di lei e anche più robusta, che, tutte le sere, andava all’o­ steria a prendere il marito ubriaco e lo caricava sopra una carriola per condurlo a casa. Lui si chiamava Ciapalòs, che

non c un nome greco, ma vuol dire: «Prendi Posso». Una sera, l'uomo se ne stava con le gambe penzoloni fuori dal­ la carriola trascinato dalla moglie, in uno stato di beata mortificazione, dopo avere sopportato il dileggio generale. Quella sera, io incontrai gli occhi dell'uomo, sotto il cap­ pellaccio, Le risse erano frequenti, tra i contadini. Tre vecchie so­ relle e un invertito sono andati avanti ventanni a litigare per un’eredità. Si gettavano in faccia lo sterco, si rubavano l'un l’altro i polli, spostavano continuamente i paletti del confine. Finché, una mattina, all’alba, dopo una notte evi­ dentemente trascorsa a decidere, le tre sorelle sono entra­ te nella casa dell’invertito e, coi battipanni, Io hanno mas­ sacrato di botte. Un giorno mi piacerebbe fare un film sui contadini roma­ gnoli: un western senza revolverate, intitolato Osciadlantadona. Una bestemmia: ma, come suono, è più bello di Rasciomon. Un certo Nasi diceva sempre: «Posso comando e vo­ glio». Le gambe rotte perché aveva segato Palbero stando seduto sul ramo dalla parte sbagliata, era un sensale di be­ stiame. Questo Nasi, specie di maschera atellana della Roma­ gna, a causa delle gambe rotte faceva movimenti bran­ chiali, come un ranocchio. Cominciava a camminare in quel­ la maniera orribile e sgangherata, urlando: «Posso» co­ mando e voglio». Una volta, levò di bocca la sigaretta a Teodorani, sempre in divisa da gerarca, con gli stivali scin­ tillanti e i baffoni con la punta insaponata, dritti come uno spillo. Gli disse: «Adesso basta di fumare te. Adesso fuma Nasi». Quando penso a Gambettola, a una monaca alta due cen­ timetri, ai gobbi al lume del fuoco, agli sciancati dietro i tavolacci, mi viene sempre in mente Hieronymus Bosch. Da Gambettola passavano anche gli zingari, e i carbonari che trasmigravano verso le montagne dell’Abruzzo. Di sera, preceduta da urla orribili di animali, arrivava una barac­ cacela fumigante. Si vedevano scintille, una fiamma. Era il castratore di porci. Arrivava, sullo stradone, con un mantellaccio nero e un cappello in disuso. La sua apparizione, i porci la sentivano in anticipo: perciò gmgnivano spaven­ tati. L’uomo portava a letto tutte le ragazze del paese. Una volta mise incinta una povera scema e tutti dissero che il T4

neonato era il figlio del diavolo. L’idea per l’episodio II mi­ racolo, nel film di Rossellini, mi venne di II. Venne di li anche il turbamento profondo che mi indusse a realizzare La strada. In campagna, per via degli zingari, sentivo spesso parla­ re dei filtri d’amore, della fattura. Una donna, la signora Angelina, che veniva per casa a fare i materassi (bisogne­ rebbe dedicare un capitolo a questi mestieri: l’arrotino col suo trabiccolo, quello che veniva a pulire la stufa, tutto ne­ ro, terrore delle domestiche), la signora Angelina, dice­ vo, se ne stava tre giorni in casa della nonna, consuman­ do anche i pasti. Mentre cuciva i fiocchi d’ovatta sul ma­ terasso, intravvidi, un giorno, una teca che le pendeva dal collo: una scatoletta di vetro contenente una ciocca di ca]>elli tagliati da un nodo, «Cos’è? » le chiesi. «Questi sono i miei capelli e questi sono i baffi del mio fidanzato. Glieli ho tagliati di notte mentre dormiva. In questo modo, lui che è andato a lavorare a Trieste, resta legato indissolubil­ mente a me». Un altro, il vecchio del mercatino Marecchia, poteva far guarire o ammalare i polli c le pecore. La moglie di un ferroviere che abitava vicina al dopola­ voro, andava in « trance». Guadagnava un bel po’ di soldi a guarire le malattie. Un giorno, essendomi infilato anch’io tra i vecchi e le vecchie che andavano al consulto, giunsi in­ fine sulla porta di un salottino squallido. Sopra una sedia, una vecchietta col volto spruzzato d’acqua, s’irrigidiva inar­ cando la schiena, quindi diceva a un tale che non vedevo in faccia: «Cla dona l’è tròp pet te (è più potente di tc): la devi lasciare». Dopo aver parlato, la vecchietta pigo­ lava. Alla fine usciva un omaccione stravolto, ma non vo­ leva farlo vedere. Stava per le scale col cappello in testa, non voleva andar via: forse nella speranza di trovare la for­ za per tornare indietro e ottenere un oracolo diverso. Si parlava anche delle solite case abitate dai fantasmi. La «Cadetta» era la villa del mio amico Mario Montanari, Pa­ reva che, cento anni prima, il padrone della villa avesse strangolato la cugina, dopo averla ubriacata. Dicevano, allora, che certe notti, in cantina, si sentiva un gorgo­ glio. Era, secondo la gente, la cugina strangolata che in­ filava una gomma nella botte, poi in bocca al suo assassi­ no, perché non avesse pace e annegasse nel vino perennemente. 15

La Romagna: un miscuglio di avventura marinara e di chiesa cattolica. Un paese con questo monte fosco e tro­ neggiarne di San Marino. Una strana psicologia arrogante e blasfema, dove si mescolano superstizioni e sfida a Dio. Gente senza umorismo c perciò indifesa: ma col senso della beffa e il gusto della bravata. Uno dice: mangio otto metri di salsiccia, tre polli e una candela. Anche la candela. Cose da circo. Poi lo fa: subito dopo lo portano via in motoci­ cletta, viola in faccia, con l’occhio bianco: c tutti a ridere di questa cosa atroce, la morte per gola. Un tale si chiama Salito Dal Monte. Salito, non - che so - Disceso: che è come immaginare una camminata su per Tana. Oppure «e Nin», marinaio sempre in giro sui mari, che manda ogni tanto delle cartoline agli amici del caffè di Raoul: «Di passaggio nell'isola dei Pappagalli vi ricordo a tutti». Eppure, in questa terra ci sono cadenze, dolcezze infinite, che forse vengono dal mare. Ricordo la voce di una bimba, un pomeriggio d’estate, in un vicolo pieno d'ombra: «Che or’ è?» «Saran belle le quattro..,» rispondeva qualcuno e la bambina cantilenando come a dire che era sicuramente più tardi; «Ah senza belle... » Intanto, le donne hanno atteggiamenti e slanci di sensua­ lità orientale. Quand’ero all’asilo, già allora, c’era una con­ versa coi boccoloni neri e il grembiule nero, una faccia ar­ rossata dai foruncoli a causa delle eruzioni turbolente del sangue. Difficile dire l’età. La sua femminilità, questo è certo, stava esplodendo, come si dice. Ebbene, la conver­ sa mi abbracciava, mi strofinava, tra odori di bucce di pa­ tate, puzza di brodo rancido c le sottane delle suore. L’asilo, infatti, l’ho frequentato presso le monache di San Vincenzo, quelle col cappellone. Un giorno, mettendo­ mi in fila per una processione, mi diedero da portare una candelina. Una di queste monache, con gli occhiali, pareva Harold Lloyd, mi disse in maniera perentoria, indicando la candela: «Non la fare spegnere, perché Gesù non vuole». Soffiava un gran vento. Bambino, fui sopraffatto da quella grande responsabilità. C’era il vento e la candela non si do­ veva spegnere. Che cosa mi avrebbe fatto Gesù? La pro­ cessione, intanto, s’era mossa, tarda, pesante, a lenti passi a fisarmonica. Una corsetta, un arresta, ancora avanti, poi di nuovo fermi. Che cosa facevano in testa alla colonna? In processione si doveva anche cantare. «Noi vogliam Dio, 16

eh’è nostro padre...» In mezzo a quello stuolo di sotta­ ne, di frati, di preti, di monache, all’improvviso scoppiava un fragore mesto, di note spente, solenni. Era la banda, che mi spaventava. Alla fine mi misi a piangere. Alle scuole Teatini feci la prima e la seconda elementare, lo stavo in classe con quel Carlini insieme al quale avevo visto l’impiccato sul Marecchia. Il maestro era uno scazzottatore di alunni che diventava improvvisamente buono in occasione delle feste, quando i genitori gli portavano i regali, che ammonticchiava presso la cattedra, una gran pila come fanno i vigili per l’Epifania. Ricevuti quei grandi re­ gali, prima di liberarci per le vacanze ci faceva cantare: «Giovinezza giovinezza, primavera di belleeeezza»: a quelle quattro «e» teneva moltissimo. Gli anni dopo le elementari, fui mandato a farli a Fa­ no, presso il piccolo collegio provinciale dei padri Carissi­ mi. È di quel tempo rincontro favoloso con la Saraghina cosi come l’ho raccontato in 814. Tornai a Rimini, al ginnasio, che era in via del Tempio Malatestiano, dove ora sono la Biblioteca comunale e la Pinacoteca. Quello del ginnasio mi sembrava un palazzone altissimo. La salita e la discesa delle scale era sempre un’av­ ventura. C’erano scale che non finivano mai. Il preside, detto Zeus, una specie di Mangiafuoco, aveva un piede gros­ so come una 600, col quale tentava di ammazzare i bam­ bini. Dava calci da schiantare le schiene. Fingeva l’immo­ bilità; poi, di colpo, arrivava una zampata che ti schiac­ ciava come uno scarafaggio. Quelli del ginnasio sono gli anni di Omero e delia «pu­ gna». A scuola si leggeva 17//We, mandandola a memoria. Ciascuno di noi si era identificato con un personaggio di Omero. Io ero Ulisse, stavo un poco in disparte e guarda­ vo lontano. Titta, già corpulento, era Aiace Oileo, Mario Montanari Enea, Luigino Dolci «il domatore di cavalli Er­ tone» e Stacchiotti, il piu anziano di tutti perché aveva ripetuto ogni classe tre volte, era «il piè veloce Achille». Il pomeriggio si andava in una piazzetta a ripetere tra noi la guerra di Troia, lo scontro fra i troiani e gli achei. Andavamo, appunto, a «fare la pugna». Portavamo i libri legati alla cinghia, come si usava, e, brandendo i libri, ce li scaricavamo addosso, mescolando colpi di libri e cin­ ghiate. L'Iliade veniva rivissuta anche in classe, dove i volti dei

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compagni di scuola si erano ormai sovrapposti agli eroi omerici: in tal modo, le avventure di quegli eroi erano pro[>rio le nostre. Cosi, quando un giorno, andando avanti nela lettura dellT/wde, ci imbattemmo nella definizione di Aiace, chiamato da Omero «stupida massa di carname», Titta che era Aiace cominciò a protestare, preso dall’odio verso Omero, quasi il poeta lo avesse, in tal modo, vilipeso fin dalle origini del mondo. Giunti alla morte di Ettore, Luigino Dolci, che era Etto­ re, visse il suo grande momento. Povero Luigino! Trasci­ nato come un verme intorno alle mura di Troia: c il volto tutto brutta vasi, quel volto in pria si bello, allor da Giove abbandonato al Tira degl'inimici nella patria terra. Luigino era morto.

All'atroce spettacolo si svelse la genitrice i crini; e, via gittendo il regai velo, un ululato mise che alle stelle n'andò.

La classe ammutoliva. Era stato Stacchiotti, con la nuova armatura fabbricata­ gli da Vulcano, colui che sapeva mettere in fuga i troiani con un sol grido. Però Stacchiotti aveva un punto debole: il tallone. Al­ lora lo si prendeva in quattro troiani, gli si toglieva una scarpa e, con le squadre da disegno, lo si puniva, picchian­ dolo ferocemente sul tallone. Stacchiotti aveva una faccia che pareva bollita, rossa e unta, tutta piena di sfoghi, e uno sguardo torpido, slavato, lumacoso come una chiara d’uovo. Sorrideva lento, fisso, senza guardarti, non parlava mai con nessuno e teneva sempre le mani in tasca dei calzoni muovendole svelte svelte mentre gli occhi gli diventavano strabici. Oppure, in classe, con lo stomaco sul banco sussurrava per ore il no­ me della compagna seduta davanti : « Voltati bambina, deb­ bo farti vedere una cosa». E quando infine la ragazza sbuf­ fando si voltava, lui sbatteva sul banco Tuccello che era enorme e viola. Forse era pazzo. Era stato anche in prigione e sospeso da tutte le scuole del regno; almeno cosi raccon­ tavano e c’era da pensare che Rimini non doveva far parte

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del regno dal momento che Stacchiotti continuava a venire a scuola con noi. Mori suicida. Lo trovarono una mattina che era ancora buio, rigido e leggero come un burattino, inginocchiato davanti alla chiesa di Polenta, tutto ricoperto di neve.

Pian piano, la conoscenza dell’inglese, dei nomi esotici, ci aveva indotto a sostituire Omero con Edgar Wallace. Co­ sf Aiace, Enea, Ulisse diventarono Tony Thomas (che era Titta, detto «il Grosso»), il conte Jimmy Poltavo, baro in­ ternazionale (che era Mario Montanari) c il colonnello Black Dan Bondery (che ero io). Avevamo creato un trio di grassatori. Le imprese consi­ stevano nell’organizzare, per esempio, il furto di un pollo al colonnello Beltramelli, il vicino di casa. Poiché avevamo letto che il colonnello Dan Bondery usava molto la fiamma ossidrica, per compiere l’operazione contro quest’altro co­ lonnello, Tandammo a cercare da un meccanico che non vol­ le darcela. Allora ci accontentammo di cesoie, tagliammo la rete del pollaio del colonnello e catturammo il pollo. La sua uccisione fu terrificante. Tirare il collo a un pollo è una cosa barbarica, è come un delitto. La sera si andava al mare, scomparendo in banchi di neb­ bia, nella Rimini invernale: le saracinesche abbassate, le pensioni chiuse, un gran silenzio c il rumore del mare. D’estate, invece, per tormentare le coppie che facevano Tamore dietro le barche, ci si spogliava in fretta, quindi ci si presentava nudi, chiedendo alfuomo dietro la barca: «Scusi, che ora è? » Di giorno, siccome ero magro e avevo il complesso d’esser magro, - mi chiamavano Gandhi o canocchia - non mi mettevo in costume. Vivevo una vita appartata, solitaria; cercavo modelli il­ lustri, Leopardi, per giustificare quel timore del costume, quell’incapacità di godermela come gli altri, che andavano a guazzare nelfacqua (per questo, forse, il mare è cosf affa­ scinante per me, come una cosa mai conquistata: la zona dalla quale provengono i mostri e i fantasmi). In ogni caso, per riempire quel vuoto, mi ero dato all’arte. Avevo aperto con Demos Bonini una bottega artisti­ ca; sulla vetrina c’era scritto «Febo». Si facevano carica­ ture e ritrattini alle signore anche a domicilio. Io firmavo

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Fellas, chissà perche, e facevo il disegno: Bonini che era un vero pittore ci metteva i colori. La bottega della ditta Febo stava proprio davanti al Duomo che d’estate diventava ancora più bianco, un osso di seppia, e la notte faceva luce come la luna, Quella cal­ carea apparizione cosi estranea e solenne che non assomi­ gliava a nessuna altra chiesa, a nessuna altra costruzione, mi aveva sempre affascinato con un sentimento di mistero e di soggezione. D’estate, qualche volta, vi entravo, quando non c’era nessuno; i sedili di marmo erano freschi; le tombe, i vesco­ vi e i cavalieri medievali vegliavano, protettivi e un poco sinistri nell’ombra. C’era un pulpito di pietra antica con una scaletta sulla quale saliva l’arciprete - allora si dice­ va: l’arciprete -, un altro violento distributore di schiaffo­ ni, che la domenica, da quel pulpito, faceva la predica. Una volta, d’agosto, la chiesa era vuota, mi sono infila­ to su quel pulpito. pietra era gelata come una tomba. Ho guardato, dal pulpito, la chiesa vuota. Ho detto piano: «Diletti figlioli... » Poi, un poco più forte: «Diletti figlio­ li...» Poi, ancora piu forte, finché la chiesa rimbombava per l’eco: «Diletti figlioli...» Quando scesi dal pulpito fui preso dalla tentazione di vuotare la cassetta delle elemosine: un colpo tentato con Titta, il quale fingeva di pregare, mentre noi si calava nella fessura della cassetta, con uno spago, una striscia di piom­ bo calamitata. Ma le monetine non si attaccarono. Meglio, perché la cosa mi dava fastidio. La chiesetta dei Paolotti, invece, aveva un piccolo tem­ pio a forma di battistero, staccato dalla costruzione princi­ pale, dove, ogni tanto, le «baffone» portavano gli animali Ter farli benedire dai frati. Si chiamavano «baffone» per a peluria dorata o bruna che visibilmente ricopriva il labòro e il polpaccione sodo, guizzante. Noi, fuori, contava­ mo febbrilmente le biciclette accatastate contro il muro del­ la chiesa per sapere quante «baffone» erano venute giù. Da un fanalino rotto, da un pedale senza gommino, da certi aggeggi fabbricaci in casa e applicati con spranghe e spaghi ai manubri, sapevamo se dentro la cappella c’era anche la «baffone» di Sant’Arcangelo, coi capelli rossi, che portava il maglione «argentina», senza reggipetto sotto; o le due sorelle di Santa Giustina, quadrate c spavalde, che si allena­ vano per partecipare al giro d’Italia. La bicicletta che solo

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rt vederla ci faceva battere il cuore svelto svelto, era quella della gattaccia di San Leo, una gladiacrice torva e possente, con un gran nuvolone di capelli neri, gli occhi fosforescen­ ti come i leoni, ci guardava lenta, indifferente, senza ve­ derti. Sbirciavamo ansiosi dentro il tempietto risonante di be­ lati, s tarn azzamenci, ragliacci. Finalmente le «baffone» uscivano coi polli, le capre, i conigli, e montavano in bi­ cicletta» Era questo il grande momento! I musi appuntiti delle selle infilandosi rapidi come sorci tra le sottane sci­ volose di satin nero lucente, scolpivano, gonfiavano, face­ vano scoppiare, in uno scintillio di riflessi abbaglianti, i più bei culoni di tutta la Romagna. Non si faceva in tempo a goderseli tutti; molti esplodevano contemporaneamente, a destra a sinistra davanti di dietro, non potevamo girare come trottole: un minimo di contegno dovevamo pur con­ servarlo, e questo ci costava molte perdite. Fortunatamen­ te, alcune «baffone» già sedute sul sellino restavano ancora un po’ a chiacchierare tra loro, un piede a terra e l’altro sul pedale, inarcavano ia schiena, dondolandosi con movimen­ ti vasti e lenti come le onde del mare al largo; poi il pol­ paccio dorato si gonfiava nella prima faticosa pedalata» le baffone se ne andavano salutandosi a gran voce, qualcuna già cantava, tornavano in campagna. La chiesa dei Servi era quell’immenso altissimo mura­ gliene senza finestre che veniva subito dopo il cinema Ful­ gor, Per anni non mi sono accorto che era una chiesa per­ ché la facciata c l’ingresso erano nascosti in una piazzetta sempre ingombra delle tende di un mercato. II parroco era don Baravelli, insegnante di religione nel nostro liceo. Piecoletto, robusto, completamente calvo, il brav’uomo si sforzava di esercitare la virtù cristiana della pazienza^ Per non strangolarci, don Baravelli entrava in classe con gli oc­ chi chiusi, cercando a tentoni la cattedra e cosi rimaneva per tutta l’ora di lezione: non voleva vedere! A volte si co­ priva anche il volto con tutte e due le manonc da contadino, e abbassava la testa sulla cattedra. Aprì gli occhi solo una volta e vide un gran fuoco acceso tra i banchi e noi che gli ballavamo attorno come i pellerossa. La chiesa dei Servi era buia, tetra, d'inverno si gelava, tutti ci siamo ammalati là dentro. Era diventato un modo di dire: «Ha preso l'influenza nella chiesa dei Servi». Un filtro modo di dire era: «Tu, per dieci lire, ci passeresti

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chiuso dentro una notte intera? * Sedassi, detto «quel pata­ ca di Tarzan », accettò la scommessa e una sera, con un chi­ lo di lupini c due salsicce, si nascose dentro un confessio­ nale. La mattina dopo, alle sei, quando in chiesa c’erano già le prime vecchine, si senti all’improvviso il raglio di un somaro raffreddato: era Bedassi, sprofondato nel confes­ sionale in mezzo alle bucce dei lupini, che russava a bocca aperta; quando apri gli occhi, disse al sacrestano che era riuscito a svegliarlo a forza di scossoni: «Mà, ’e caflàt» (Mamma, il caffè!atte). Per anni il confessionale di Bedassi, meta di pellegrinag­ gio incredulo e ammirato, fu più importante dei quadri sul­ l’altare maggiore. La chiesa nuova dei Salesiani - per continuare a parlare di chiese - l’abbiamo vista costruire. Era anzi diventata la tappa obbligatoria delle passeggiate domenicali in carrozza. «Andiamo a vedere i lavori della chiesa nuova», si diceva. Ma poi, siccome era domenica, i lavori non c’erano e si re­ stava li a guardare le impalcature silenziose, le grandi gru immobili, i mucchi di sabbia, di calcina. All’inaugurazione ci furono molti discorsi. Le campane a festa sbatacchiavano cosi sonoramente che non si capiva una parola. Il seniore della milizia, un certo L., che aveva sempre la barba blua­ stra anche quand'era appena uscito dal barbiere, a metà del suo discorso sul pulpito, vicino al prete, incrociò le brac­ cia e, con le vene del collo che gli scoppiavano» si mise a scandire urlando: «Cam-pa-ne basta! Ba-sta cam-pa-ne!» e subito tutti i fascisti che erano in chiessa gridavano anche loro l’ordine del capo, alle campane. Qualche anno più tardi, avevo dieci anni, ho passato un’estate intera dai Salesiani della chiesa nuova: ero a mez­ zo convitto. La sera mi venivano a riprendere. Ricordo con un senso di grande sconforto la squallida fossa del cortilacciò con i due lugubri pali della pallacanestro c tutto attor­ no un muragliene con sopra una rete metallica alta due me­ tri. Al di là di quella rete si sentivano le campanelle delle carrozze, le trombe delle automobili, le grida, i richiami della gente libera che andava a spasso col gelato in mano. Un lumacone di ragazzo sui ventanni, che non si sapeva bene se era prete o no, color della cera, voleva sempre at­ taccar discorso con me e con un mio amico che aveva gli occhi lunghi c dolci da odalisca. Ci offriva delle appiccicose caramelle, sospirava, avremmo dovuto essere più buoni, 22

piu bravi, c andare con lui in una delle aule deserte, perché voleva insegnarci il bel canto. Il lumacone aveva una bella vocina, infatti, e sapeva a memoria certe canzoncine che al­ lora mi sembravano noiose e che molti anni dopo ho senti­ lo di nuovo alle Terme di Caracalla nella Lucia di Lammermoor, Di un’altra chiesa mi ricordo, quella dei frati Cappucci­ ni, che si chiamava la «Colonnella», perché davanti al por­ tone, sul sagrato, spuntava un’antica colonna romana tutta smozzicata. La prima volta che ci andai era di sera. Mi ac­ compagnava mia nonna, non la Franzscheina - Toro Seduto, ma l’altra; questa era chiamata «La nonna piccola», per­ ché era tutta rimpicciolita, con un faccino minuscolo e grinzoso, rattrappito come le teste dei cacciatori di teste dei libri di Salgari. Non avevo mai visto l’interno di una chiesa dopo il tramonto. Era immensa, altissima, il rumo­ re dei passi risuonava in alto, nel buio, sotto le volte, come se un altro camminasse appresso a me lassù in aria. In fondo, vicino all’altare, in mezzo a una selva di ceri accesi, c’era Bonfante Bonfantoni, che era un pittore e lavorava n un grande affresco sul muro; Le sette piaghe d’Egitto. E io dovevo far da modello, non so per quale piaga, ma forse, poiché da ragazzino ero molto magro, si trattava di rappresentare la carestia. C’erano state un sacco di discussioni con mia madre. Non si fidava molto del Bonfantoni, diceva che nel quadro, chi lo sat potevano anche esserci donne nude, magari con ali d’angelo, comun­ que il bambino avrebbe riportato uno sconvolgimento delì'