«Fare un figlio per altri è giusto». Falso! 8858129148, 9788858129142

Spesso la 'gestazione per altri' o 'maternità surrogata' è presentata come un dono, un atto di liber

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«Fare un figlio per altri è giusto». Falso!
 8858129148, 9788858129142

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Idòla

Daniela Danna

“Fare un figlio per altri è giusto” (Falso!)

Idòla | Laterza

© 2017, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Progetto grafico di Riccardo Falcinelli Prima edizione luglio 2017 1

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Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da sedit - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa isbn 978-88-581-2914-2

Indice

Introduzione. Chi dice donna dice dono 1. Non è la madre, è una portatrice 2. L’utero è mio e lo gestisco io

vii 3 25

3. Si comprano “servizi gestazionali”, non un bambino 43 4. Fare un figlio per altri è una libera scelta

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5. I regolamenti tutelano le donne

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6. È l’amore – e l’intenzione – che fa una famiglia

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7. La neonata è una tabula rasa 128 8. La maternità surrogata è come la prostituzione

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Introduzione

Chi dice donna dice dono

Quando si parla di gravidanza come dono, le combinazioni possibili tra i soggetti in gioco sono alquanto numerose. La donna che fa il dono regala solamente il servizio della gestazione se l’ovulo che è stato fecondato in vitro non è suo. Solo il suo utero è allora oggetto del dono. L’ovulo può invece provenire dalla donna che ha intenzione di usufruire del dono di un utero diventando madre della creatura portata dalla donatrice, dopo la sua nascita. Oppure l’ovulo può essere di un’altra donatrice che si è generosamente separata da alcuni suoi gameti mettendoli a disposizione della scienza e della medicina. La donatrice di ovuli può ricevere un rimborso spese per compensarla della sua generosità, o uno sconto sul dono che a sua volta farà alla clinica, sia che i medici la facciano diventare madre sia che non ci riescano. Anche la

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introduzione. chi dice donna dice dono

donna che fa il dono dell’utero, di nove mesi di gravidanza e del parto può ricevere un rimborso spese. Questo rimborso può avere un limite stabilito da leggi nazionali oppure, sempre nel rispetto della legge di un particolare posto, essere liberamente contrattato dalle parti, come una sorta di contro-dono elargito per sdebitarsi, in modo che tutti siano d’accordo e nessuno si senta fregato dopo aver donato. Negli Stati Uniti l’associazione dei ginecologi si preoccupa che il dono non sia sproporzionato, e pone un limite di 10.000 dollari – generalmente superato dalla generosità di chi fa e riceve doni. Alcune donne però davvero non vogliono accettare alcun contro-dono da coloro che riceveranno una o un neonato1 fatto da loro – e molto spesso più di uno perché le tecniche di fecondazione in vitro portano a impiantare tanti embrioni e poi magari a “ridurli” se i futuri doni che attecchiscono diventano eccessivamente numerosi. I beneficiari di doni umani allora insistono perché le donatrici ricevano qualcosa in cambio, non volendo evidentemente avere più molto a che fare con loro. Oppure sì, vogliono rimanere in contatto, ma a propria discrezione e sotto il proprio controllo. Quel qualcosa che vogliono donare in cambio 1   Nel testo alternerò il maschile e il femminile nelle generalizzazioni, invece di usare il maschile in funzione di neutro secondo la convenzione.

introduzione. chi dice donna dice dono

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sono dei soldi. Il denaro infatti scioglie i legami sociali, mentre il dono li mantiene o li crea. È complicato il quadro della gravidanza come dono, perché coloro che ricevono in dono i bambini possono essere persone che non sono in grado di procreare, ad esempio una donna che ha le ovaie, le quali producono i gameti femminili (gli ovuli), ma non ha l’utero dove si sviluppa il futuro bambino. Oppure una donna può avere qualche malattia che le rende pericolosa la gravidanza – un rischio troppo grande per pensare di farla in prima persona. Se trova una donna generosa che le dona il suo corpo e il suo tempo per nove mesi e fa un bambino al posto suo, potrà anche lei diventare madre. Oppure una donna può essere troppo vecchia perché i suoi ovuli fusi con spermatozoi possano generare una bambina o un bambino. Oppure ancora quella donna può avere accettato l’offerta della sua ditta (succede negli Stati Uniti) di far congelare i suoi ovuli quando, ancora giovane, ha cominciato a lavorare per loro. Gli ovuli, tenuti nel congelatore di un’altra ditta specializzata, non invecchiano e quando lei e il suo compagno saranno pronti a diventare genitori, potrebbero a quel punto cercare una donna a cui subappaltare la sua gravidanza fatta con gli ovuli di quando era più giovane. La ditta l’aiuterebbe anche in questo, se ciò che lei guadagna e fa guadagnare in quei nove mesi (o anche molti meno, perché non è che

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introduzione. chi dice donna dice dono

le donne smettano di lavorare appena scoprono di essere incinte!) rende a tutti razionale fare un qualche regalo di minore entità a un’altra donna che poi le offrirà la neonata in dono. Ma non dobbiamo parlare solo di donne. Ci sono persone che sarebbero pienamente in grado di procreare, ma non è che non vogliano: è che sono maschi! Dove potrebbero quindi far crescere l’embrione ottenuto dal dono di un ovulo fuso con il loro sperma? Oppure quello originato dal doppio dono di ovulo e sperma, se non sono fertili? Devono trovare almeno un utero in dono. Ecco che anche tutti gli uomini possono candidarsi per ricevere dei doni. Possono essere maschi in coppia tra loro, o anche maschi single, che desiderano avere dei figli in dono ma non hanno o non vogliono avere una donna tra i piedi del neonato – a meno che non sia pagata per dare il latte e fare la baby sitter – sia che abbiano un orientamento eterosessuale che omosessuale che bisessuale o altro. Tutte queste persone poi possono anche francamente dire: noi non vogliamo nessun dono, noi possiamo pagare. Oppure: noi vogliamo essere pagate. Non capiscono perché, se tutti sono d’accordo, questa transazione non possa aver luogo nella stragrande maggioranza delle nazioni in cui sono divisi gli umani di questo pianeta. Il quadro è piuttosto confuso, non vi pare? Ma abbiamo la possibilità di unificare tutte que-

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ste situazioni – che sono infatti chiamate “gestazione per altri” o “maternità surrogata” – perché hanno in comune la pretesa che colei che porta a termine una gravidanza partorendo dei bambini non venga chiamata madre né considerata tale dalla legge, e che la, il o i suoi neonati vengano separati da lei (e in genere questo avviene il prima possibile, cioè subito dopo il taglio del cordone ombelicale) per essere legalmente riconosciuti e cresciuti da altri, da coloro che li hanno “commissionati” volendone diventare i genitori sociali. Che questi altri, che almeno uno di loro, siano o meno anche i genitori biologici dei bambini fatti da un’altra donna dipende dalle diverse leggi degli Stati che hanno ammesso questo istituto giuridico. E non solo: alcuni genitori che hanno ricevuto in dono un figlio credendolo proprio, si sono poi accorti che non lo era: ci sono naturalmente i casi di truffa e di mancato rispetto della legge, o anche semplicemente di errore. Di cosa tratta dunque questo libro? Della “maternità surrogata” o “maternità sostitutiva” o “gravidanza/gestazione di sostegno” o “gravidanza/gestazione per altri”, nel dibattito solitamente abbreviata in forma “tecnica” e asettica come Gpa, la cui definizione è: una gravidanza intrapresa da una donna a seguito di un accordo con validità legale tra lei (e il suo eventuale marito) e altri che vogliono diventare i genitori sociali del-

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introduzione. chi dice donna dice dono

la neonata, oppure con i loro rappresentanti. Se la Gpa si svolge in forma anonima non è infatti necessario che i futuri genitori sociali incontrino la donna che partorirà il loro neonato. Non è nemmeno necessario che i futuri genitori sociali siano biologicamente imparentati con le bimbe che vogliono allevare. Se non lo sono, la Gpa è una sorta di adozione programmata. Con l’importante differenza che l’adozione non ammette accordi tra madre di nascita e adottanti proprio per evitare che si crei un mercato di neonati. Solo in due paesi, gli Stati Uniti e la Grecia, l’adozione tramite la promessa del nascituro a una specifica coppia è possibile. Ma nell’adozione promessa negli Stati Uniti la madre mantiene il diritto di decidere di crescere suo figlio alla nascita, e lo può anche riprendere con sé entro i primi sei mesi, mentre in Grecia l’adozione privata (descritta però prevalentemente come un traffico di bambini dalla Bulgaria) viene anch’essa conclusa da un tribunale con il consenso della donna diventata madre. Se la si riesce a trovare. Invece nei casi di Gpa in alcuni Stati degli Usa e in Grecia le madri non hanno alcun diritto a proseguire il rapporto con i propri figli. Il trasferimento della potestà genitoriale è automatico persino se le neonate non sono biologicamente imparentate con i committenti. Tra Gpa e adozione, quindi, due pesi e due misure. Infatti la Gpa, che è essenzialmente un isti-

introduzione. chi dice donna dice dono

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tuto giuridico, per potersi realizzare richiede lo stravolgimento del quadro attuale di riconoscimento della parentela. Nel nostro paese vige fin dall’epoca romana – quindi da molto tempo prima del divieto di maternità surrogata esplicitato dalla legge 40/2006 – il principio giuridico mater semper certa est, che significa semplicemente che la madre legale è colei che ha partorito. È questo principio che impedisce che la gravidanza, ma diciamo pure il suo frutto – il bambino –, possa essere oggetto non di un dono ma di un commercio legalizzato nella Gpa.

“Fare un figlio per altri è giusto” (Falso!)

1. Non è la madre, è una portatrice

Come si è arrivati a pensare che una donna che rimane incinta e poi partorisce possa non essere la madre della creatura che mette al mondo? L’affermazione che, in particolari casi detti di gestazione per altri, la donna che è passata attraverso l’esperienza della gravidanza e del parto non sia la madre dei neonati risultanti si sta diffondendo anche nel nostro paese. Forse ciò che più pesa nel non voler più definire “madre” una puerpera è il fatto che molte donne che hanno fatto l’esperienza di una gravidanza per altri dicono di se stesse che non sono madri, bensì portatrici di figli altrui: Cosa vorrei che le persone capissero della maternità surrogata? La cosa più importante da capire è che questi non sono figli nostri. Non sto dando via il mio bambino, sto portando in grembo il figlio di altre persone, alle quali lo restituirò quando sarà nato1.   A. Motluk, Perché ho deciso di fare la madre surrogata, in

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“fare un figlio per altri è giusto”

Sono sdraiata su un lettino in una clinica per la fertilità in Grecia. La dottoressa, con la siringa in mano, si gira verso di me: “Allora, quanti embrioni dobbiamo mettere?”. Non so cosa dire. Penso a varie ipotesi. Due, tre, quattro neonati. No, sicuramente non quattro. Mio fratello Nick e sua moglie Jane, per i quali sarò una madre surrogata, sarebbero certamente felicissimi se fossero gemelli... Oppure no? Loro non sono qui. La dottoressa continua: “Cosa ne pensa della riduzione selettiva?” [...] È un accidente di decisione da prendere al momento dell’inseminazione. E questi bambini non sono nemmeno miei2.

Queste donne e le altre che la pensano come loro non possono però negare di aver fatto un’esperienza che le qualifica, all’osservazione, come madri di nascita, madri naturali delle creature che hanno partorito. Ciò che esse intendono dire è che non sono e non hanno mai avuto l’intenzione di diventare le madri sociali di neonati che fin da prima del loro concepimento erano destinati ad essere cresciuti da altri. La gravidanza di queste donne, quindi, sarebbe una specie particolare di gravidanza, in cui “hanno aiutato” altri per i quali era impossibile avere dei figli, diciamo così, in prima persona. E particolare la loro gravidanza lo è stata certamente, perché tutte le

“Internazionale”, 19.4.2016 (http://www.internazionale.it/reportage/2016/04/19/madri-surrogate-canada). 2   Anonymous, Secret Diary of a Surrogate Mother, in “The Guardian”, 27.4.2013 (https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2013/apr/27/secret-diary-of-a-surrogate-mother).

1. non è la madre, è una portatrice

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donne che si autodefiniscono “portatrici” vivono in luoghi dove la gravidanza per altri è legale, dove i tribunali quindi possono distinguere tra una gravidanza per così dire “in proprio” e una il cui prodotto è destinato ad essere cresciuto da altri: o perché sono gli stessi giudici ad autorizzarla, o perché devono prendere atto di un contratto che ha il potere di stabilire la filiazione dei bambini nati per adempierlo. Perché altri che non le madri e i loro partner possano uscire dal reparto maternità con una neonata in braccio senza che sia stata partorita da nessuno di loro, ci deve essere una legge che ammetta tale possibilità. Nel nostro paese infatti non ci sono “portatrici” che rivendicano la propria scelta – ce ne occuperemo meglio nel capitolo successivo – perché nessuna donna ha fatto una gravidanza per altri, che ha bisogno di leggi apposite per esistere. Dobbiamo quindi cominciare mostrando come questo istituto giuridico si configura nei diversi Stati. Possiamo distinguere tre dimensioni principali tra le diverse caratteristiche che l’istituto giuridico della Gpa ha assunto nella quindicina di paesi in cui è stato introdotto: – che vi sia o meno l’obbligo di consegna della neonata ai committenti, detti “genitori intenzionali”; – che vi sia o meno l’obbligo di parentela genetica con uno o entrambi i committenti;

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“fare un figlio per altri è giusto”

– che sia riservato agli infertili o aperto a persone senza difficoltà procreativa. La differenza tra Gpa altruistica e Gpa commerciale invece non esiste. Le donne – tranne rarissime eccezioni nell’ambito di relazioni strette già esistenti – non si prestano a portare a termine una gravidanza per altri se non ricevono un compenso, in alcuni paesi ufficialmente sottoposto a un tetto (facile da aggirare). La spesa più elevata, che viene sempre approvata in tutti i paesi con Gpa detta “altruistica”, è il cosiddetto “rimborso per i mancati guadagni” di donne che possono anche essere disoccupate quando la gravidanza inizia. La somma è chiamata “rimborso” anziché “compenso” per ragioni fiscali e per sfuggire al diritto del lavoro – oltre che per rendere culturalmente più accettabile la compravendita di bambini, mascherandola. Un’unica giurisdizione ha legalizzato la gestazione per altri come puro contratto che vincola la “portatrice” a separarsi dalla neonata anche se non è biologicamente dei committenti: la California nel 1993. Qui basta comprare gameti e servizi gestazionali e la figlia è tua ancora prima di nascere, persino se non sei residente. In Grecia lo stesso effetto californiano di obbligo di consegna anche nei confronti di estranei genetici è ottenuto mediante un accordo convalidato da un tribunale ai sensi della legge del 2002, che richiede però che la madre sociale debba avere

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un problema di salute che le impedisce la gravidanza. (Fino al 2014 doveva anche essere domiciliata in Grecia, ora non più.) Accordi parimenti irreversibili sul destino delle neonate sono convalidati solo per genitori “intenzionali” – che siano però anche entrambi genetici – dai tribunali dell’Illinois e di altri Stati degli Usa, dell’Ucraina, della Georgia, della Bielorussia e del Kazakistan (questi ultimi due pae­ si prevedono anche una valutazione di idoneità sugli aspiranti genitori). È sufficiente invece un solo genitore genetico nelle coppie committenti perché gli accordi siano irreversibili in Israele, mentre in Sudafrica sono irreversibili anche nei confronti di committenti che sono estranei genetici, se nemmeno la partoriente non ha legami genetici con il neonato. Anche in Colombia, dove non ci sono né leggi né regolamenti, la maternità surrogata è diventata legale nel 2009 con una sorprendente sentenza della Corte costituzionale, che ha ammesso il contratto con cessione obbligatoria del neonato se il motivo della donna che vi si presta non è il lucro. La Corte ha considerato la Gpa una “tecnica di riproduzione assistita”. Ma la gravidanza non è una tecnica: è una facoltà fisiologica del corpo femminile! E la Gpa è una forma di relazione con una donna che si impegna a cedere la bambina. Negli Usa le regole variano da Stato a Stato, tuttavia se non ci sono conflitti i contratti sono

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approvati persino dove la Gpa è formalmente proibita. Non vi è obbligo di consegna in Russia, e formalmente nemmeno in Sudafrica per le madri di nascita genetiche, a patto però che restituiscano i soldi ricevuti. La Gpa commerciale è chiamata “Gpa altruistica” in Grecia, Australia, Canada e Regno Unito, dove i compensi alle donne devono essere approvati dai tribunali come “rimborsi spese”, che appunto comprendono anche i “mancati guadagni” persino in caso di disoccupazione. Nei paesi di lingua inglese, in generale non ci sono requisiti di infertilità né di legame genetico per i genitori intenzionali. In Canada l’obbligo di cessione del neonato è stabilito in alcune province, e in Inghilterra si discute ora della sua introduzione creando anche qui, come in Grecia, l’interessante figura giuridica di una “Gpa altruistica e forzata”. C’è un unico paese in cui effettivamente possono essere rimborsate solo le spese connesse con la gravidanza (ad esempio gli abiti premaman) sulla base di una precisa documentazione: l’Olanda. Qui l’autorizzazione alla Gpa è data dai medici solo se la coppia può fornire i gameti – con un limite di età di quarant’anni per la madre genetica – e se si presenta in ospedale già con un’amica disponibile all’impianto del loro embrione. Le regole restrittive vogliono evitare l’istituzione di un commercio di bambini, come è avvenuto in tutti i paesi nominati. Queste regole

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sensate sono però evase da un numero significativo di olandesi che vanno negli Stati sopra elencati, tornando con neonati i cui certificati di nascita nel paese di origine sono a norma di legge, e che lo Stato olandese riconosce. Il mercato, infatti, è transnazionale, perché in molti paesi dove vi è l’obbligo di consegna del “prodotto” – che è l’aspetto che più interessa i committenti – la Gpa è legale anche per i non residenti. Non si chiede che la Gpa esista anche nel paese di origine e volutamente si attrae il “turismo procreativo”. Un esempio: dato che in Ucraina, a differenza che in Russia, le madri retribuite non hanno alcun diritto a vedersi riconosciuta la filiazione, molte agenzie russe organizzano la Gpa in Ucraina. È ai russi di Rosjurconsulting che si sono rivolti i coniugi Paradiso e Campanelli, ritornati poi in Italia con un bambino nato a Kiev e non imparentato biologicamente con nessuno dei due. Chi controlla in Ucraina che le cliniche rispettino la legge? In Asia alcuni Stati hanno dapprima spalancato le porte a questo fiorente business, ma poi sono tornati sui loro passi: la Thailandia e il Nepal hanno infatti ristretto ai propri cittadini la possibilità di ricorrere alla “gestazione per altri” e l’India vuole fare altrettanto. Le Gpa, però, si realizzano anche in assenza di leggi specifiche dove il diritto è lontano dall’essere una certezza. In India la pratica è stata accettata nel 2002 e

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dal 2005 è in teoria sottoposta alle linee-guida dell’Indian Council of Medical Research, che ad esempio danno alla partoriente la possibilità di riconoscere i figli. Nella pratica, i neonati vengono estratti con taglio cesareo senza nemmeno farli vedere alla madre. I rischi del cesareo sono maggiori di quelli del parto naturale per chi non ne ha bisogno: possibili infezioni, emorragia, tagli e danni a tessuti adiacenti, ferite al nascituro e problemi causati dall’anestesia. La stampa ha dato notizia di donne indiane che hanno abortito i figli di cui erano in attesa per sottoporsi a una gravidanza per altri, e di donne morte in seguito a complicazioni post parto, perché le cliniche per le quali avevano lavorato avevano rifiutato di curarle. I parenti non sono mai stati risarciti dai committenti né dalle cliniche per la loro morte sul lavoro. Dopo la progressiva chiusura delle frontiere negli ultimi due anni in questi tre paesi asiatici, parte del business della Gpa ha cercato di trasferirsi in Cambogia, ma nel novembre 2016 anche questo paese ha proibito completamente la pratica, neppure qui regolata dalla legge. Si teme ora uno spostamento verso Laos e Malesia. Gli Stati messicani di Tabasco e di Sinaloa – dopo un periodo di “turismo procreativo” costellato da truffe di agenzie, abusi sulle donne e traffico di neonati – ora ammettono alla surrogazione di maternità solo le coppie in cui la don-

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na non può portare a termine una gravidanza e ha meno di quarant’anni. In Uganda e in Kenya sono le cliniche che organizzano la Gpa ad offrirla al di fuori di ogni quadro giuridico decidendo, senza venire contrastate dalle autorità, che la donna è una generosa portatrice (pagata) e che il neonato appartiene ai committenti. Per il Guatemala, già luogo di traffici di bimbi destinati all’adozione internazionale, la produzione di bambini per la vendita, anche attraverso rapporti sessuali con la futura gestante, è un segreto di Pulcinella. I fautori della Gpa, comunque, sconsigliano di recarsi nei luoghi dove la legge non è dalla loro parte. Infatti la gestazione per altri, definita dai suoi beneficiari “gravidanza come dono”, si può realizzare solo in un quadro di legalità, che è necessaria soprattutto negli scambi internazionali. Non può esistere un mercato nero di neonati verso i paesi dove esiste l’anagrafe e la legge è fatta rispettare, perché i bambini non sono cose che si possano nascondere, e con la Gpa vengono prodotti per diventare dei figli (almeno per ora di questo si tratta, anche se nulla vieta naturalmente che i bambini vengano prodotti per scopi diversi, e magari in futuro anche a beneficio di persone giuridiche o dello Stato). I figli saranno presentati a parenti e amici, andranno al nido e poi a scuola, verranno visitati e curati e avranno bisogno di tutti i diritti di un cittadino. Per fa-

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“fare un figlio per altri è giusto”

re tutto questo, il loro certificato di nascita deve essere riconosciuto come valido alla frontiera e quindi nel paese in cui vivranno: i neonati devono avere un’esistenza giuridica che indichi come genitori coloro cui sono stati donati e non la madre che li ha partoriti – una “madre temporanea”, secondo l’arguta definizione di Marina Terragni3. È certo che una puerpera che neghi di essere madre tout court in ogni possibile significato della parola solo perché non vuole diventare madre sociale negherebbe l’evidenza, perché quando partorisce la gestante diventa madre. Non si possono avere figli senza una madre. L’unica possibilità di farne a meno è l’idea fantascientifica dell’“utero artificiale”. Gli scienziati si accaniscono: Yoshinori Kuwabara ha fatto esperimenti in Giappone mettendo feti di capra in un utero misto organico-acrilico. Sono maturati, ma poco dopo l’estrazione i capretti sono tutti morti. Svincolare dal corpo femminile quella che diventerebbe una produzione industriale di capretti o bambini non mi pare un’idea buona, ma Simone de Beauvoir e Shulamith Firestone consideravano invece il ricorso all’utero artificiale come l’occasione per emancipare definitivamente le donne dall’incombenza della riproduzione. Eppure le donne che vogliono liberarsi 3   M. Terragni, Temporary mother. Utero in affitto e mercato dei figli, Vanda epublishing, Milano 2016.

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dalla gravidanza possono benissimo non diventare madri, non è mica un obbligo! E poi l’utero artificiale non diventerà mai realtà perché è impossibile duplicare la complessità necessaria alla costruzione di una nuova creatura. La vita non si può costruire con una macchina. E se anche fosse possibile ricreare in una macchina una versione semplificata delle relazioni organiche tra la donna in gravidanza e il feto producendo un neonato vitale, è impensabile che un essere umano che si sviluppa in una macchina non ne soffra per lo meno psicologicamente, se non anche fisicamente. E quindi a chi gioverebbe? All’ambizione degli scienziati? Ai produttori di macchine? Ma torniamo alla questione della madre che non vuole dire il suo nome. Perché le “portatrici” non si sentono le madri delle creature che hanno fatto crescere nel loro stesso utero, che sono state parte di se stesse? La risposta cui si pensa solitamente è che solo quando l’ovulo non è il loro diranno “ho fatto da baby sitter”, “lo ospito per nove mesi”, “sono solo un forno”, e le altre loro colorite espressioni: “È dentro di me ma non è mio” in Israele, e in Canada: “Quella bambina non era mia. Non provavo alcun attaccamento, alcun desiderio di essere sua madre”; “Lasciarlo andare è stato molto più facile di quanto avessi previsto. È stato concepito per essere il bambino di un altro. Non è come dare un

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“fare un figlio per altri è giusto”

figlio in adozione”4. E invece queste donne parlano sia di bambine concepite con ovuli propri sia con gli ovuli di un’altra donna. Le cose non sono affatto così chiare come le leggi e i tribunali hanno stabilito tracciando una distinzione e una precisa gerarchia tra “madre genetica” e “(madre) portatrice” (naturalmente da quando nel 1978 la fecondazione in vitro con impianto dell’embrione è stata applicata anche agli esseri umani). La prima realizzazione di questo tipo di maternità surrogata, detta “completa” o “gestazionale”, avvenne nel 1984. L’embrione originato dall’ovulo di una donna priva di utero venne impiantato in una sua amica, che partorì un bambino per la prima. Da allora si distingue tra una “Gpa tradizionale” e una “Gpa gestazionale” benché la “tradizionale” con ovuli propri, senza fecondazione in vitro, fosse cominciata solo nel 1976, con una distanza tra le due di nemmeno un decennio – a meno che non si voglia rivendicare come “Gpa tradizionale” anche il (sempre esistito) commercio di bambini, dal quale però i fautori di questa pratica vogliono solitamente differenziarla, oppure quello che nella Bibbia accadeva alle schiave, che “donavano” figli ai loro padroni senza ovviamente essere interpellate in alcuno step della procedura. Gpa “parziale” o “piena” sono altre espressioni impiegate al po  Motluk, Perché ho deciso cit.

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sto di “tradizionale” e “gestazionale”, e personalmente le preferisco. Le leggi quasi sempre sottolineano la differenza tra Gpa piena e Gpa parziale mettendo al primo posto, nelle loro considerazioni sulla filiazione, il legame genetico. È facile, quindi, pensare che il caso dell’embrione altrui sia la ratio stessa della Gpa. Ma le cose sono più complicate, e questa specie particolare di maternità/non maternità intrapresa con la tecnica di fecondazione in vitro non ha affatto significati culturali univoci. Le donne indiane che si sottopongono a gravidanze per altri sono fermamente convinte di essere le madri anche se l’ovulo non è loro e i figli sono bianchi o giapponesi: “Sarà pure il loro embrione ma è il mio sangue”5; “Dopo tutto lei ha solo dato le uova, ma tutto il sangue, tutto il sudore, tutto lo sforzo è mio”; “È assolutamente mio. Sono passata attraverso un’operazione così grande, mi hanno fatto così tante iniezioni..., naturalmente il bambino è mio”6; “Ovunque sia il mio bambino, proteggilo, che nessun male sia fatto al mio bambino. Quando prego, dico a Dio che

5   A. Pande, “It May Be Her Eggs But It’s My Blood”: Surrogates and Everyday Forms of Kinship in India, in “Qualitative Sociology”, vol. 32, n. 4, 2009, pp. 379-397. 6   Globalization and Transnational Surrogacy in India: Outsourcing Life, a cura di S. Dasgupta e S. Das Dasgupta, Lexington Books, Lanham 2014, p. 13.

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ho tre bimbi, e che li protegga ovunque siano. Anche se non ho mai incontrato il mio bambino, la madre sono io. L’augurio di una madre raggiungerà sempre il figlio”7. Testimonianze canadesi dicono lo stesso: “Non volevo dare anche il mio ovulo, ma loro avevano bisogno di una donatrice e io potevo farlo. Così è stato tutto molto più facile. [...] La biologia per me non conta”8 (intendendo: “La genetica per me non conta”). Così come vi sono donne che, non volendo allevare i figli concepiti con i propri gameti, dicono di non esserne le madri, ve ne sono altre che anche quando l’ovulo non è il loro cercano di rompere gli accordi sulla consegna del neonato per continuare ad esserne la madre. L’esperienza soggettiva contraddice la netta gerarchizzazione tra madre genetica e madre solo di nascita, smentendo che questa differenza sia il fondamento della Gpa. Tale gerarchizzazione è però alla base delle decisioni dei tribunali dei paesi dove esiste la Gpa, che riflettono la suprema importanza data nella cultura odierna ai geni, considerati alla stregua di un moderno Fato (il dio greco che predetermina i destini individuali). Un altro,

7   Nel documentario Can We See the Baby Bump Please? di Sama - Resource Group for Women and Health (2013). 8   Motluk, Perché ho deciso cit.

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non secondario, motivo di questa gerarchizzazione è l’automatico prevalere del punto di vista maschile. Grazie alla tecnica di trapianto embrionale, infatti, l’aspirante madre che lo è solo geneticamente può vivere l’esperienza maschile della procreazione. È come se fosse un “padre femmina”, e viene fatta prevalere sulla madre naturale, che quando nasce la bambina è l’unica che possa chiamarsi “madre” nel significato relazionale ed esperienziale della parola. La possibilità di fecondazione in vitro non l’ha affatto resa incerta, né ha “frammentato la figura della madre”, bensì ha reso le donne da cui sono stati estratti gli ovuli appunto dei “padri femmina”, la cui relazione con la neonata non è affatto quella di una madre, ma è uguale a quella del padre, che attende dall’esterno la figlia concepita con il proprio seme, senza avere nessun rapporto diretto con la nascitura se non attraverso la vicinanza con la donna in gravidanza. L’impronta genetica data dall’ovulo è diversa, ma l’esperienza e la relazione materne sono quelle che sono sempre state perché i processi di gravidanza e parto non sono cambiati. Una donna che mette al mondo una figlia, costruendola con la propria carne e il proprio sangue, non può esserne altri che la madre. Mentre l’origine dell’ovulo è considerata di suprema importanza quando le donne che non possono dare alla luce un bambino vogliono un

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proprio figlio genetico, la biologia passa misteriosamente in secondo piano sia per la medicina sia per la legge se l’aspirante madre non può produrre ovuli. In quel caso la “donatrice” di ovuli rimane un’anonima fornitrice di materiale biologico, e la madre è giustamente riconosciuta come colei che dà alla luce il neonato anche da un ovulo non suo. La presunta “pluralità di madri” o la “frammentazione della madre” sono espressioni che non riflettono quello che accade nella realtà del trasferimento di embrioni, tuttavia la madre è sicuramente “diminuita”, nel momento in cui può dare vita a un neonato che geneticamente non è suo. In nessun caso però si tratta di una “surrogata”, cioè di una sostituta: la madre è proprio lei. Ad essere una “madre surrogata” è invece colei che si occupa di bambini che non ha partorito, persino se ne è la madre genetica. Si può cercare di cancellare la gravidanza, il parto e le madri naturali solo perché la nostra società patriarcale non dà la giusta importanza a quello che fanno le donne, che sia lavoro domestico o riproduttivo. La gravidanza non è un’esperienza maschile, quindi viene svalutata e cancellata. Non a caso il paradigma vigente nella società liberale è quello dell’individuo, necessariamente di genere maschile, perché la terminologia più corretta per le donne, che hanno la possibilità di essere madri, è quella di dividua,

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un termine femminista valorizzato da Emma Baeri9. Dove il concetto di “gravidanza/gestazione per altri” è presente nella legge, nei casi di disputa sui figli i tribunali hanno dato la priorità ai geni: la vera madre di un neonato è colei da cui esso discende geneticamente, e la “portatrice” viene considerata effettivamente tale, cioè come una sorta di incubatrice. La legge sudafricana, come abbiamo visto, dà “facoltà di recesso” dal contratto esclusivamente alla donna che non ha “semplicemente” avuto la maternità fisica ma ci ha messo anche i geni. È peraltro una facoltà che può esercitare solo se rifonde i genitori intenzionali di tutto il denaro che le hanno dato, quello classificato come “rimborso” – quindi non è un vero e proprio diritto al riconoscimento della relazione materna. Così anche nei contratti negli Stati Uniti la possibilità di cambiare idea rispetto agli accordi ce l’ha soltanto la madre di nascita e genetica, che però oltre a restituire i “rimborsi” deve persino risarcire i genitori intenzionali. Interessante è poi l’art. 1464 del codice civile greco che stabilisce che la portatrice può riconoscere il figlio solo se “biologicamente” proviene da lei – cioè sempre. A dispetto del fatto indubitabile che un neonato provenga biologicamente dalla 9   E. Baeri Parisi, Dividua: femminismo e cittadinanza, Il poligrafo, Padova 2013.

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donna che lo ha partorito, giuristi e avvocati favorevoli al commercio di bambini hanno interpretato tendenziosamente la norma traducendo “geneticamente” al posto di “biologicamente”10, e affermando che la portatrice può riconoscere la prole solo se, malgrado l’impianto di embrioni (in Grecia è ammessa solo la Gpa totale), i figli provengono dai suoi ovuli. I tribunali hanno ritenuto di dover scegliere tra possibili madri, ed è apparso impossibile escludere quella genetica non solo a causa del modello maschile di filiazione, ma sicuramente anche per la somiglianza che i figli hanno con lei. Il caso Johnson vs Calvert del 1993 è stato alla base della legislazione californiana, che da allora si è posta all’avanguardia nella piena contrattualizzazione delle nascite stabilendo con questo verdetto sia la genetica sia l’intenzione come basi per la filiazione. Nello Stato più popoloso e tecnologicamente all’avanguardia degli Usa, questo caso giudiziario fece a brandelli il principio mater semper certa est, ovvero che la madre legale è colei che partorisce. Anna Johnson durante la gravidanza volle rompere il

10   K.A. Rokas, Greece, in International Surrogacy Arrangements: Legal Regulation at the International Level, a cura di K. Trimmings e P. Beaumont, Hart Publishing, Oxford 2013, p. 148. Vedi anche il rapporto al Parlamento europeo, A Comparative Study on the Regime of Surrogacy in EU Member States, European Union, Bruxelles 2013, p. 291.

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contratto firmato a beneficio di Mark e Crispina Calvert e tenersi il nascituro, e li citò in giudizio. Altrettanto fecero i Calvert. I rapporti tra le parti si erano deteriorati sia perché i Calvert avevano scoperto che Johnson aveva avuto aborti spontanei (non era quindi una buona fattrice) prima di iniziare la gravidanza per loro, sia per i ritardi dei Calvert nel pagamento della polizza assicurativa promessa a favore di Johnson. La Corte Suprema della California stabilì che, siccome un essere umano nasce dall’incontro di un ovulo e di uno spermatozoo, la madre deve essere colei da cui proviene l’ovulo. Il fondamento della decisione furono le definizioni di “organismo” ed “embrione” che vengono date nel dizionario di termini scientifici e tecnici McGraw-Hill. La Corte, tuttavia, mise in evidenza anche l’importanza dell’intenzione di diventare genitori che avevano i Calvert al momento del concepimento (un criterio che può anche essere in contrasto col criterio genetico). L’intenzione di continuare ad essere madre da parte di Johnson non venne invece ritenuta degna di considerazione. Al contrario, la Corte dichiarò che non era lei la “madre naturale” bensì la Calvert, la quale (nove mesi prima!) aveva espresso l’intenzione di occuparsi di un figlio ancora nemmeno concepito. La Corte non ordinò a Johnson di consegnare il bambino come fosse un prodotto, anzi addirittura lamentò nel

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suo verdetto che in questi contratti i bambini venissero considerati come cose, in contrasto con la legge. I giudici di una corte di grado inferiore cui il caso venne riassegnato valutarono quindi l’interesse del neonato, stabilendo incredibilmente che fosse quello di venire separato dalla madre per essere cresciuto dalla coppia. Oltre ad essere suoi genitori genetici, questi erano infatti bianchi facoltosi, mentre la madre era una donna nera a cui vennero negati anche i diritti di visita, dichiarandola per legge un’estranea nei confronti del bambino che aveva portato in grembo. Persino in Italia, a dispetto della perdurante invalidità del contratto, i tribunali hanno capovolto la propria posizione sulla differenza tra “madre” genetica e non genetica. Se nel 1989 il Tribunale di Monza invalidò un contratto di surrogazione riconoscendo che aveva come oggetto la compravendita di un neonato, nel 2000 invece il Tribunale di Roma ammise in linea di principio la “maternità” di una donna attraverso il corpo di un’altra, dichiarando che quest’ultima avrebbe avuto “la funzione di una ‘superincubatrice’” – strumento ovviamente inesistente. Il giudice scrisse infatti che la “reale” (virgolette sue – un residuo di pudore?) discendenza della prole è dall’ovulo11. 11   Tribunale civile di Roma, sez. XI, 14 febbraio 2000, giudice C. Schettini, Contratto in genere. Contratto di sostituzione di

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L’attacco alla madre perché non possa più dirsi tale, e soprattutto perché non possa più continuare la sua relazione materna se lo vuole, è serrato. L’industria del commercio dei bambini preme: tutto si deve tramutare in denaro per far marciare la società al ritmo del profitto. Ma perché ostinarsi a chiamare “madri” donne che sono rimaste incinte rifiutando consapevolmente questo ruolo? In primo luogo perché non tutte alla fine dei nove mesi di gravidanza sono ancora disposte a mantenere la promessa e a cedere l’infante, come il caso Baby M mostrò al mondo intero nel 1984 e come mostrano persino le donne ucraine che fanno di tutto per non separarsi dai figli in un paese che giuridicamente le obbliga a farlo12. In secondo luogo perché hanno vissuto l’esperienza di una madre (naturale, senza la quale però non esistono madri sociali) e hanno già una relazione con il neonato che hanno cresciuto nel proprio corpo. Sarà utile una spiegazione sul metodo, perché spesso nel dibattito politico e culturale si confondono i piani dell’esperienza soggettiva e di ciò che è osservabile nella realtà dei fatti. Una donna che

maternità in determinati casi. Validità (http://www.diritto.it/ sentenze/magistratord/roma14_02_2000.html). 12   Another “Surrogate” Scandal in Ukraine. Ukrainian Surrogate Mother Refused to Give the Children She Had Carried to Their Legitimate Parents (http://www.surrogacy.ru/eng/news/news11. php). Vedi anche altri casi sullo stesso sito.

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neghi di essere madre perché non si sente pienamente tale, né vuole diventarlo, non potrà però negare di essere rimasta incinta e di aver partorito, che è il significato primario della parola “madre”; specifichiamo poi che è una “madre sociale” la donna che si occupa dei bambini partoriti da un’altra. Ma, repetita iuvant, senza una madre naturale non può esserci alcuna madre sociale. Questo è ciò che avviene sul piano della realtà, ciò che accade anche se i soggetti partecipi lo negano spiegando gli accadimenti con le proprie credenze (come la madre che dichiara di non esserlo). Un esempio che forse può chiarire definitivamente la questione: negli anni Settanta Elena Gianini Belotti mise alla prova la credenza sulla remissività femminile e l’aggressività maschile che genitori e maestre d’asilo ritenevano innate. Osservando l’interazione di questi soggetti con i bambini e le bambine all’asilo, si accorse che essi attivamente incoraggiavano o scoraggiavano le due qualità nei due sessi. Al di là delle credenze e delle interpretazioni, esistono una storia e una realtà condivise – certamente difficili da descrivere e ricostruire, ma comunque accadute. I fatti, come la gravidanza e il parto, non vengono modificati dalle nostre interpretazioni. Tuttavia le madri di nascita vogliono donare e si fanno mettere incinte apposta. Potranno ben farlo! In fondo l’utero è loro, devono poterlo gestire loro.

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Se non si accetta l’introduzione della gestazione per altri, si lede l’autodeterminazione delle donne sul proprio corpo? Per rispondere, è opportuno spiegare ancora una volta che cos’è l’autodeterminazione femminile, un concetto-parola d’ordine elaborato dal femminismo degli anni Settanta. L’autodeterminazione è il principio in base al quale le donne hanno rivendicato la possibilità legale di accedere all’aborto su propria richiesta, non appena si accorgono di una gravidanza non voluta da interrompere nelle settimane in cui l’embrione è poco sviluppato, in modo che la pratica sia facile dal punto di vista sanitario. Una delle forme di protesta utilizzate dalle femministe e dai radicali contro il divieto di abortire era infatti la pratica autogestita del metodo Karman basato sull’aspirazione, ribellandosi apertamente a un divieto ingiusto che

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provocava danni alla salute, e anche la morte per infezioni ed emorragie delle donne che abortivano clandestinamente, sfruttate economicamente e svilite come donnacce che non meritano cure ed igiene adeguate1. Le femministe si riappropriarono quindi letteralmente dei rimedi alla gravidanza non voluta che già nel passato erano completamente in mano alle donne, che conoscevano le pozioni abortive e le altre pratiche tramandate nei millenni, registrate anche da uomini come il naturalista Linneo. Queste pratiche furono oggetto di violenta repressione nel periodo della caccia alle streghe cosicché, nel corso dei secoli successivi, la conoscenza sulla riproduzione finì principalmente in mano ai medici e allo Stato. Secondo Silvia Federici questo sapere ostacolava il bisogno capitalistico (ma anche degli Stati nazionali che si stavano costituendo) di espandere la popolazione per far crescere “l’economia”, cioè l’accumulazione di capitale. Fu infatti la Rivoluzione francese a vietare l’aborto per legge, mentre prima era considerato un peccato solo se avveniva dopo i primi uno o due mesi, quando secondo i Padri della Chiesa l’anima è ormai entrata nel feto. I motivi per togliere alle 1   D. Turone, L. Foletti, L. Leonelli, Movimento Femminista Romano, Solo la donna può decidere, in “Effe”, febbraio 1975 (http://efferivistafemminista.it/2014/07/solo-la-donna-puo-decidere/).

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donne quella che era sempre stata una loro facoltà furono dunque, per la borghesia francese, la volontà di accrescere la popolazione dello Stato, e, per le varie religioni, quella di accrescere la comunità dei credenti. L’aborto è sempre stato una faccenda di donne perché il concepito non può avere un’esistenza separata dalla donna incinta ma deve essere accettato da lei (nonché, dove gli spazi di autodeterminazione della donna sono ristretti, anche dalla sua famiglia e dalla società in generale). Per questa ragione il feto non può vantare diritti in contrasto con la donna, che deve voler diventare madre e accettare la nuova vita dentro di sé. Ed è per prevenire gli infanticidi che un numero crescente di paesi ammette il parto anonimo con l’adozione della neonata, se la madre di nascita non vuole o non può occuparsene. “Autodeterminazione”, peraltro, non è un concetto assoluto, ed è molto diverso da “autonomia”, come fa notare Emma Baeri. Se mi autodetermino significa che sono libera di fare delle scelte in una situazione data, ma non è detto che io sia autonoma, cioè che io possa per lo meno influenzare la situazione in cui mi trovo. Carla Lonzi e il gruppo di Rivolta Femminile infatti chiedevano e si chiedevano: per il piacere di chi sono rimasta incinta? Il coito non è sempre fonte di piacere per le donne e quello senza protezione è anche fonte di angoscia se non si vuole

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una gravidanza. Con quella domanda Lonzi stimolava le donne a trovare la propria sessualità, che non è riducibile al coito né complementare al piacere maschile, e per soddisfarsi deve essere libera dal rischio di gravidanze non volute. Non è né autonoma né autodeterminata la donna che si impegna a fare una figlia che non vuole allevare ma cedere ad altri, perché mette a disposizione il suo corpo rinunciando alla sua autodeterminazione sulla gravidanza, a cominciare proprio dall’aborto. Fare una gravidanza per altri, non solo in India ma anche in California e negli altri Stati Usa che la ammettono, significa infatti impegnarsi a rinunciare al diritto ad abortire e a quello a non abortire. Anche in Canada l’aborto è un diritto condizionato nella Gpa (cioè non è più un diritto della donna) perché le cosiddette “portatrici” possono autodeterminarsi ma, se lo fanno in contrasto con la volontà dei committenti, per contratto devono risarcirli. L’aborto è configurato come una decisione medica, e il medico fa riferimento alla volontà dei committenti. Negli Stati Uniti i contratti di Gpa abitualmente – e, aggiungerei, logicamente – danno ai committenti il diritto di prendere tutte le decisioni mediche, compresa l’assunzione di qualsiasi farmaco, che deve essere autorizzata dal medico da loro scelto. Per contratto le future madri si obbligano a sottoporsi a regolari e approfondite visite mediche in

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presenza dei committenti, a prendere vitamine e integratori e a sottoporsi a una particolare dieta (ad esempio, è proibito il consumo di bevande con troppa caffeina). È un paradosso logico autodeterminarsi a non autodeterminarsi. Credere che questo paradosso abbia un senso, usarlo, ritenerlo degno di difesa significa dare valore solo alla forma e non al contenuto dell’autodeterminazione. Il principio di autodeterminazione femminile afferma in definitiva che i figli devono essere voluti, e che il corpo delle donne non è a disposizione di nessuno perché faccia nascere bambine non volute dalla madre. Il concetto di maternità desiderata, di procreazione responsabile è intrinseco a quello di autodeterminazione: non è autodeterminata la donna che ha un figlio per darlo in adozione, perché questo istituto giuridico è un rimedio al suo non volere quel figlio. C’è un’altra importante differenza tra la Gpa e l’aborto che rende l’autodeterminazione inapplicabile alla Gpa. L’aborto era ed è un fenomeno di massa, trasversale alle classi, qualcosa di realmente rilevante per tutte le donne, persino per chi non ha attività eterosessuale coitale, perché una donna può sempre incontrare un uomo o più di uno che le usi violenza, apertamente con la forza o approfittando di uno stato di incoscienza o dell’effetto di sostanze, magari da lui somministrate. Tutte le donne fertili possono

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dover ricorrere a un aborto. E infatti il numero degli aborti clandestini in Italia prima della legge era stimato in più di un centinaio di migliaia ogni anno. La difesa dell’autodeterminazione era quindi davvero un “partire da sé” – un altro principio del femminismo degli anni Settanta –, dalle orribili e diffuse esperienze di aborti clandestini. Le femministe agivano davvero in prima persona, non in nome di qualcun’altra come fanno ora le fautrici e i fautori della introduzione della Gpa: “Ma se una donna vuole farlo, chi sono io per impedirglielo?”2. E tantomeno le femministe parlavano in nome di un gruppo sociale di donne inesistente nel nostro paese. Nessuna donna denuncia la sua oppressione per aver fatto clandestinamente una maternità per altri. Non lo denunciarono nemmeno le donne che a Napoli negli anni Settanta facevano riconoscere i figli non voluti a falsi padri, la cosa più vicina alla Gpa di cui abbiamo notizia nell’Italia repubblicana3. Non fu espressione né di libertà, né di 2   Vedi la risposta di Alessandra Bocchetti, Nessuna donna è un’isola, al Seminario Nazionale Udi (Unione donne in Italia), Maternità surrogata. Diritto alla genitorialità o mercificazione del corpo femminile? (Roma, 18.3.2017). 3   Cliniche private evidentemente corrotte compilavano certificati di nascita falsi per i bambini non riconosciuti dalle madri, permettendo di “riconoscere” figli non propri a chi pagava. Il passaggio successivo al Tribunale per i minorenni del padre per la convalida dell’adozione da parte di sua moglie era quello in cui i giudici scoprivano la falsità del riconoscimento. M. Cavallo, Si fa presto a dire famiglia, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 166.

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autodeterminazione: fu una compravendita di bambini aggirando le leggi sull’adozione. Allora le femministe non si espressero a favore del fatto che queste donne potessero vendere liberamente i neonati invece che in un mercato nero. Perché oggi dovrebbero farlo? Questa rimane una domanda oziosa perché non esiste alcun gruppo sociale di donne che vogliano intraprendere una gravidanza per altri, come non esisteva un gruppo sociale simile nei paesi che l’hanno resa una realtà legale. È stata invece la domanda pagante delle coppie infertili – intercettata e trasmessa da medici e avvocati – che ha fatto sorgere la risposta “altrui­ stica” di donne che vengono sempre pagate, sia che ricevano apertamente un compenso sia che questo venga mascherato da “rimborso spese” a cinque cifre. Le eccezioni sono rarissime. Nessuna di loro avrebbe fatto una gravidanza per altri se non ne avesse tratto anche un vantaggio economico. La domanda ha creato l’offerta. Certo, la Gpa viene fatta anche per spirito di sacrificio e altruismo femminile – ecco la mistica della maternità contro cui le femministe da sempre si battono! Ma non esiste un bisogno delle donne di rimanere incinte per poi donare i figli ad altri, tanto che nessun gruppo femminista o di altro tipo cerca di soddisfarlo organizzando autonomamente le gravidanze per altri. Eppure, a differenza dell’aborto, l’atto in sé è perfettamente

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legale nel caso in cui una donna diventi madre ma senza riconoscere il figlio, che viene poi riconosciuto dal padre naturale, e successivamente adottato dalla compagna di quest’ultimo (la Gpa totale ne è esclusa in quanto necessita del trasferimento dell’embrione). È molto facile immaginare che ci sia là fuori qualcun’altra, non certo noi, che possa voler fare una gravidanza per altri. Ma forse sapere che cosa effettivamente comporta dal punto di vista medico il trasferimento nel proprio utero di un embrione altrui renderebbe più caute nell’affermare questa presunta facile disponibilità. Cosa succede dal punto di vista medico all’ipotetica “portatrice” convinta di voler fare questo dono? Se serve una semplice inseminazione, le cliniche abitualmente concentrano lo sperma eliminando la maggior parte del liquido seminale per poterlo inserire direttamente nell’utero, che altrimenti lo rigetterebbe. Lo sperma trattato è messo in una coltura e centrifugato in modo da ottenere gameti concentrati. Quindi viene inserito con una pipetta nella vagina, o nelle tube, o direttamente nell’utero oppure – nella Gpa totale – viene usato per la fecondazione in vitro con ovuli maturati raccolti dopo “un’iperstimolazione ovarica controllata”. La portatrice e la madre intenzionale devono iniettarsi gonadotropine, che sono ormoni ricavati per sintesi, una o due volte al giorno per settimane (anche

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un paio di mesi) prima di riuscire a sincronizzare i loro cicli mestruali – a meno che gli ovuli impiegati non siano stati estratti antecedentemente, congelati e poi scongelati. In ogni caso, gli ovuli sono fatti maturare attraverso una stimolazione con ormoni di sintesi. Non ci si può certo accontentare dell’unico ovulo che viene a maturazione spontaneamente durante il ciclo! Se ne preleveranno il più possibile, e la stimolazione ovarica necessaria per farli maturare in sovrannumero è chiamata da qualcuno, con franchezza, iperstimolazione ovarica e basta: a volte è un rischio, a volte un’azione intenzionale. L’iperstimolazione ovarica è una sindrome pericolosa anche per la stessa vita e aumenta il rischio di altre malattie. Permette però di portare a maturazione e raccogliere (“normalmente”, si dice) da cinque a venticinque, ma anche quaranta, cinquanta o sessanta ovociti maturi; dipende dal dosaggio ormonale usato per “stimolare” le ovaie e da quanto si vuole e si può sfruttare la venditrice di ovuli, se non è la madre intenzionale. I rischi della stimolazione ormonale sono dolore e sindrome di iperstimolazione ovarica, con infiammazione addominale, collasso renale, altre infezioni e sanguinamenti, e a lungo termine infertilità, emboli o trombosi e instabilità cardiaca. In rari casi ci sono state la paralisi e anche la morte4.   American Society for Reproductive Medicine, Assisted Re-

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Per far uscire i gameti maturi dal corpo femminile li si aspira con una sonda mentre la madre intenzionale o la venditrice è anestetizzata in modo profondo. Si aggiungono quindi altri rischi legati all’anestesia e a un’operazione chirurgica. Segue la fecondazione degli ovuli in provetta. Il trasferimento dell’embrione è fatto da due a quattro giorni dopo, con un catetere – qui non è necessaria l’anestesia. Alla futura madre vengono prescritti ormoni a partire da settimane prima del trasferimento, ormoni che si inietta da sé quotidianamente anche per due mesi, per aumentare la possibilità che lo zigote si annidi ed evitare aborti spontanei (sono gli stessi ormoni che servono anche ad armonizzare il ciclo della surrogata e della madre intenzionale laddove siano usati gli ovuli di quest’ultima). La maturazione degli ovuli della surrogata, cioè il suo ciclo mestruale, deve essere bloccata per poter ricevere l’embrione derivato dall’ovulo di un’altra. Nella Gpa ottenuta con materiale genetico totalmente estraneo alla “portatrice” non è affatto scontato che l’embrione attecchisca al primo colpo, proprio per la diversità biologica di entrambe le sue componenti genetiche. Il tasso di successo degli impianti è solo del 20%. L’In-

productive Technologies. A Guide for Patients, 2015 (https://www. asrm.org/uploadedFiles/ASRM_Content/Resources/Patient_ Resources/Fact_Sheets_and_Info_Booklets/ART.pdf ).

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ternational Committee Monitoring Assisted Reproductive Technologies, composto da specialisti del settore, nel 2013 ha pubblicato dati da tutto il mondo relativi alle tecniche di riproduzione assistita praticate nel 2004, trovando che le tecniche di fecondazione in vitro e di iniezione di uno spermatozoo nell’ovulo riescono solo in un caso su cinque5. I tassi di successo del trasferimento dell’embrione nelle 2.184 cliniche monitorate variavano dal 31% al 9% – e un embrione trasferito non diventa necessariamente un neonato. Oltre alla fecondazione in vitro, altri possibili interventi di fecondazione assistita sono micromanipolazioni come l’Icsi (l’iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo) e l’innesto assistito, o l’ancor più spinto utilizzo del mitocondrio di un ovulo e del Dna di un altro. L’American Society for Reproductive Medicine dichiara che le tecniche di fecondazione assistita sono associate a un maggior rischio di gravidanze ectopiche, di placenta previa, di gravidanze multiple con aborti e parti prematuri, di preeclampsia e di diabete gestazionale6.

5   E.A. Sullivan, F. Zegers-Hochschild, R. Mansour, O. Ishihara, J. de Mouzon, K.G. Nygren, G.D. Adamson, International Committee for Monitoring Assisted Reproductive Technology (ICMART) World Report: Assisted Reproductive Technology 2004, in “Human Reproduction”, vol. 28, n. 5, 2013, pp. 1375-90. 6   Vedi anche gli studi citati da L. Corradi, Nel ventre di un’al-

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Quanti embrioni verranno trasferiti? Una volta la risposta era “il più possibile” per aumentare le probabilità di successo, cioè di attecchimento alla parete uterina (ricordiamo il numero record di otto gemelli nati nel 2009). Secondo l’International Federation of Fertility Societies invece il trasferimento di un solo embrione ha lo stesso tasso di nati vivi dell’impianto di più embrioni7. Ciononostante generalmente si impone o si raccomanda di non trasferirne più di due o tre (mai uno) per non rischiare di ricominciare tutto il ciclo da capo (le medie non funzionano per ogni caso singolo). Se poi attecchiranno embrioni in numero superiore ai figli voluti – o a quanti il corpo della portatrice dovrebbe riuscire a portare a una nascita non prematura – si può sempre fare la riduzione embrionale, cioè l’aborto selettivo, eliminando quelli con caratteristiche indesiderate, ad esempio appartenenti a un determinato sesso. È vero che le agenzie si sforzano di far incontrare genitori intenzionali e future madri di nascita che siano d’accordo sull’opportunità o meno di procedere ad aborti selettivi, ma la realtà è che ci sono molti conflitti su questo tema, più che sull’effettiva consegna delle neonate. tra. Una critica femminista delle tecnologie riproduttive, Castelvecchi, Roma 2017. 7   Vedi anche le pagine di One at a time: http://www.oneatatime.org.uk/372.htm. In Austria e in Danimarca le norme impongono il trasferimento singolo.

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Secondo il protocollo di una clinica degli Stati Uniti riportato da Latashia Alexander, una “surrogata” che ha scritto un manuale per le altre, gli interventi sulle madri retribuite che si sottopongono al trasferimento embrionale sono questi: cominciare le pillole contraccettive 3-4 giorni dopo l’inizio del ciclo; cominciare il Lupron 14 giorni dopo l’inizio del ciclo successivo; cominciare l’Estrace 7 giorni dopo il ciclo; test dello spessore della parete dell’utero 6-7 giorni dopo l’inizio dell’Estrace; il trasferimento può avvenire fino a 14 giorni dopo. Scomposizione dei farmaci per quel ciclo (prima del trasferimento): 33 pillole contraccettive; 28 iniezioni di Lupron; 20 pillole di Doxiciclina mattina e sera; 8 cerotti di Vivelle per otto giorni (uno o due alla volta); 16 aspirine; 6 pillole di Medrol; 21 pillole di Estrace; 1 Valium; 5 iniezioni di Pio (progesterone e Delestrogen) intramuscolo; 2 supposte di progesterone; vitamine prenatali per l’intero ciclo8. 8   L.S. Alexander, I’m Having Their Baby: A Guide to the Gestational Surrogate, Instantpublisher.com, 2006, p. 51.

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Alcune cliniche richiedono alle donne di continuare le medicine fino all’ottava settimana di gravidanza, altre fino alla quattordicesima e oltre. Latasha Alexander consiglia di chiederlo in anticipo: “Fare queste domande prima, vi aiuterà a prepararvi non solo fisicamente ma anche mentalmente”. La credenza nel potere della mente di dominare il corpo e le emozioni è tutta statunitense: Alexander consiglia di chiedere ai genitori intenzionali se vogliono tenere loro per primi il bambino appena nasce: “Dovete essere d’accordo su dove andranno il o i bambini: accertatevi di saperlo da prima, così alla fine non ci saranno sentimenti feriti”9. L’utero è mio ma la gravidanza è la loro. Ecco un principio del femminismo distrutto e ridotto a vuoto slogan, compatibile con l’esatto contrario di quel che le femministe affermavano negli anni Settanta. Ha scritto Barbara Katz Rothman: “Mentre il principio ‘corpo-come-proprietà’ ha funzionato per le donne nell’evitare la maternità, è meno chiaro come possa funzionare per dare potere alle donne come madri”10. Lo stato del dibattito con le giovani femministe è particolarmente penoso. Non arriva loro il semplice messaggio che riconoscere il legame   Ivi, p. 64 e p. 77.   B. Katz Rothman, Motherhood Under Capitalism, in Consuming Motherhood, a cura di J.S. Taylor, I.I. Layne e D.F. Wozniak, Rutgers University Press, New Brunswick 2004, p. 24. 9

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neonata-madre dal punto di vista della neonata non significa voler recedere dall’aborto per scelta della donna. Non arriva il messaggio che riconoscere lo stesso legame neonata-madre ma dal punto di vista della madre di nascita che lo rivendica significa sostenere quella donna, e non ha niente a che vedere con un dover essere madri di tutte le donne, né con un’assurda svalutazione dell’adozione o degli altri rapporti di maternità sociale non basati sulla biologia. Non arriva il messaggio che se la parola “donna” è definita dalla sua biologia riproduttiva, non per questo dobbiamo tutte riprodurci. Perché queste semplici distinzioni non vengono comprese? Siamo giunte a un punto in cui il dibattito politico e intellettuale è ridotto allo schierarsi con l’una o con l’altra parte, quindi – da laiche – contro tutto quanto possa dire la Chiesa cattolica? E se la pena di morte ridiventasse di attualità politica, la sinistra si schiererebbe per una sua reintroduzione, giusto per prendere una posizione opposta a quella della Chiesa? Si è persino argomentato che l’impossibilità per le donne italiane di fare questo dono a norma di legge rende la Gpa un privilegio dei ricchi. Evidentemente anche la classe media vuole potersi permettere l’accesso a questo dono, la cui produzione sarà però sempre riservata ad altre: “Sembra che il diritto di compiere atti eroici e

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generosi sia riservato alle donne povere”11, nota Etti Samana a proposito della Gpa in Israele. Ma la posizione più incredibile è esigere che si volti la testa da un’altra parte perché ci sono cose molto più importanti della Gpa di cui occuparsi, come lo sgombero di un centro sociale a Roma (sul n. 115 della rivista “Leggendaria”!) o la condizione delle operaie in Asia. Tutto il resto è importante, ma non la distruzione legale e filosofica del rapporto madre-neonata. Infine, a chi ancora sostiene che poter fare una gravidanza per altri è una questione di autodeterminazione femminile vorrei chiedere: in che senso mettere al mondo un bambino per affidarlo ad altri rientra nell’autodeterminazione sul corpo delle donne? Quello che le portatrici “donano” è un neonato, non è un pezzo di sé, né parte del corpo della madre. Peraltro anche la vendita di pezzi di corpo è proibita. Impedire che si crei un mercato di organi per il trapianto è una lesione dell’autodeterminazione degli esseri umani? È proprio quello che vogliono farci credere i giuristi di Law and Economics12, che vorrebbero legalizzare tutti i 11   E. Samana, Within Me, But Not Mine. Surrogacy in Israel, in New Cannibal Markets. Globalization and Commodification of the Human Body, a cura di J.-D. Rainhorn e S. El Boudamoussi, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, Paris 2015, p. 126. 12   W.M. Landes, R.A. Posner, The Economics of the Baby Shortage, in “The Journal of Legal Studies”, vol. 7, n. 2, 1978, pp. 323348; R.A. Posner, The Ethics of Enforcing Contracts of Surrogate

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mercati, anche quelli per la compravendita di organi e di bambini. La teoria liberale li sostiene: riescono a dimostrare con equazioni e grafici che la massima felicità nella società si ottiene quando tutte le relazioni sono contrattualizzate, perché l’unica cosa che conta è che gli esseri umani siano riconosciuti liberi di scegliere. La scelta è libertà, la scelta è il valore supremo che la collettività dovrebbe tutelare, pertanto il contratto è il modo migliore di regolare i rapporti sociali. Questa è la filosofia del neoliberismo, una versione estremista e ora egemone del liberalismo, che richiede uno Stato minimo che garantisca esclusivamente il rispetto dei contratti e la sicurezza. Secondo questa filosofia sociale il divieto di commerciare organi umani è una misura che limita ingiustamente il mercato: i “proprietari” devono poterli vendere, perché se lo fanno significa che hanno scelto per sé, sempre migliorando la propria condizione in quanto soggetti razionali – perché qualcuno dovrebbe volontariamente stare peggio? Lo stesso discorso vale per i genitori, in quanto “proprietari” di bambini da piazzare al migliore offerente. In realtà, invece di essere una limitazione alla nostra libertà, il divieto di commercio di organi tramite la legge (naturalmente dove viene fatta Motherhood, in “Journal of Contemporary Health Law and Policy”, vol. 5, 1989, pp. 21-31.

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rispettare) è una salvaguardia per la classe lavoratrice. La lotta politica ed economica tra le classi avviene anche attraverso la legge, ottenendo norme che proibiscano ai ricchi di poter comperare anche pezzi del corpo dei lavoratori, come accadrebbe nel libero dispiegarsi dei rapporti di forza tra le classi in situazioni di estrema disuguaglianza. I ricchi non devono poter comprarsi né organi né bambini. Comunque, siccome nessuno in Italia vuole essere tacciato di neoliberismo, si dice allora: la Gpa non riguarda affatto la compravendita di un bambino. Riguarda i “servizi gestazionali” che una donna mette a disposizione dei veri genitori, cioè coloro che hanno l’intenzione di diventarlo.

3. Si comprano “servizi gestazionali”, non un bambino

È chiaro che le donne generose che mettono l’utero a disposizione altrui non donano un bambino. Non possono farlo perché un bambino non è una cosa su cui si vantino diritti di proprietà e che possa cambiare padrone. L’accusa che coloro che hanno avuto figli da una donna cui hanno dato del denaro proprio non vogliono sentire è che li abbiano comprati. Invece, si dice, il dono che hanno ricevuto è stato in termini di “servizi gestazionali” – lo dicono tra le altre Catherine Waldby e Melinda Cooper e anche la Carmel Shalev di Nascere per contratto1. Abbiamo visto come spesso nella Gpa si usi un ovulo altrui per convincere una madre di non 1   Ad esempio: “I venditori e le venditrici di spermatozoi e ovuli e le madri surrogate forniscono i tessuti viventi e i servizi in vivo”, in C. Waldby, M. Cooper, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, DeriveApprodi, Roma 2015, p. 34. C. Shalev, Nascere per contratto, Giuffrè, Milano 1992, passim.

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esserlo mentre presta i suoi servizi incubatori. Spesso il legame genetico è però solo con uno o una degli aspiranti genitori, mentre l’altro genitore genetico viene declassato a “donatore” (solitamente retribuito per essersi separato o separata dai suoi gameti; solo alcune “donano” ovuli in soprannumero asportati per la propria fecondazione in vitro in cambio di uno sconto sulla pratica cui si sottopongono per avere un figlio). Oppure – solo in California obbligatoriamente, ma anche altrove se la madre consente – anche se non ci sono legami genetici la bambina viene “restituita” ai proprietari dei gameti, che li hanno acquistati così come hanno acquistato i servizi gestazionali. Qui sembra proprio che si applichi il concetto di proprietà agli esseri umani, nonché al materiale biologico umano. Ma vediamo il caso più difficile da considerare in termini di compravendita di un bambino e non di servizi gestazionali: quello in cui vi è una parentela genetica con gli aspiranti genitori. In questo caso ci saranno quindi una madre genetica e un padre genetico a cui i figli tornano, a cui effettivamente vengono restituiti dopo il servizio gestazionale? Come scrive Sylvaine Agacinski, bisogna svelare innanzitutto l’inganno dei nomi “gestazione per altri” o “gestazione di sostegno” o anche appunto “servizi gestazionali”, che fanno pensare che la gestazione non si debba concludere con

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un parto e quindi con la maternità. In quel nome incompleto si mette l’accento sul processo di “cottura” dell’embrione e del feto, non sulla loro trasformazione in neonato e della gestante in madre con la nascita, che rimane lo scopo del processo. Gpa è un’espressione che “isola nella parola gestazione una funzione parziale (come l’ovulazione, la fecondazione o il parto), per imporre l’idea di una funzione separabile. La maternità per altri deve passare per un semplice procedimento tecnico di procreazione”2, come fosse un compito parcellizzato in un processo di produzione. La donna diventa il sacco in cui mettere l’embrione, o il magazzino per stoccare l’infante di cui si attende la consegna, scrive sempre Agacinski. E questa dizione occulta il parto, momento cruciale e pericoloso – come se si potesse fare la gestazione di un bambino senza metterlo al mondo. È un gioco di prestigio che purtroppo funziona. Come racconta Cristina Gramolini di Arcilesbica: “Un ragazzo gay mi dice che la portatrice non crea il bambino, perché il bambino è stato già creato in vitro. Per lui l’ovocita fecondato è il bambino! Manco Aristotele...”3. Il filosofo greco   S. Agacinski, Corps en miettes, Flammarion, Paris 2013, p. 90.   Non sono pochi gli uomini che pensano cose bizzarre riguardo alla riproduzione. Una coppia di gay si è dissuasa dall’idea di comprare un bambino quando è stato loro obiettato: “Ma come farete con il latte?”. A un incontro pubblico a Palermo un padre 2

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infatti più di due millenni fa aveva fatto piazza pulita della madre come origine delle nuove generazioni. Era solo apparenza: nel creare un nuovo essere umano le donne ci potevano mettere solo la materia bruta, mentre la forma era impressa dal seme maschile. Per molti popoli la donna è la terra che aspetta il seme maschile per dare frutti umani. Queste sono le idee del patriarcato, che svaluta l’apporto femminile alla società e persino alla procreazione e rende culturalmente insignificanti, anche se materialmente imprescindibili, il lavoro domestico, di cura e il lavoro riproduttivo, in cui l’apporto femminile alle nascite non si limita al gamete, ma include la simbiosi per nove mesi con la nascitura e il parto. Come fa notare Luigi, gay palermitano: “Nessuno è mai morto di paternità”, riconoscendo che non c’è parità tra uomini e donne in campo procreativo. Non sembra inutile approfondire il discorso su che cosa sia la gravidanza, prima ancora di decidere se possa diventare una prestazione ordinabile sul mercato. I servizi gestazionali sono impegnativi. Paola Tabet in Fertilità naturale, riproduzione forzata (1985) ha calcolato il dispendio energetico legato alla gravidanza, di cui gli uomini si sono storicamente (e preistoricagay ha detto che “con una piccola stimolazione una donna produce una cinquantina di ovociti maturi a ciclo”. Ma per comprare un bambino non serve sapere come viene fatto. Anzi, meno se ne sa, meno dubbi si avranno.

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mente) appropriati nel loro ruolo di capifamiglia o di patriarchi, per dimostrare che le donne fanno un lavoro non pagato e nemmeno riconosciuto di utilità sociale. Questo “servizio gestazionale” che si protrae per nove mesi apporta cambiamenti innanzitutto alla fisiologia della donna incinta. Le informazioni più utili e approfondite su gravidanza e parto le possiamo trovare nel classico Noi e il nostro corpo e in Nato di donna del Collettivo per la salute delle donne di Boston della poeta Adrienne Rich, libri rivolti al pubblico generico (statunitense) e non a specialiste, e nei lavori sia specialistici che divulgativi delle socie dell’Associazione Iris4. La consapevolezza di una nuova vita che cresce nelle viscere della donna gravida prende anche un aspetto sensoriale al quinto mese con i primi movimenti del feto. Diventano percepibili la differenza tra il sonno e la veglia della creatura, in genere sincronizzati sui ritmi materni. A sei mesi di sviluppo il feto ha già un apparato uditivo funzionante, che amplia le sue capacità sensoriali nel ricevere informazioni anche dal di fuori del ventre materno. L’interazione della donna incinta (e di coloro ai quali essa consente di entrare in relazione tattile con esso) 4   G. Bestetti, A. Regalia, G. Colombo, Mani sul parto, mani nel parto. Mantenere normale la nascita, Carocci, Roma 2005; R. Spandrio, A. Regalia, G. Bestetti, Fisiologia della nascita. Dai prodromi al post partum, Carocci Faber, Roma 2014.

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con il feto che si muove sarà fonte di gioia per colei che sta prestando servizi gestazionali? Nella sua vita intrauterina il feto non è una cosa, anche prima di diventare un bimbo da donare. La futura madre e il nascituro hanno una relazione anche prima dell’indipendenza fisica con la nascita del figlio. Mano a mano che i suoi organi di senso si sviluppano, il feto non solo fa esperienze sensoriali ma anche emotive. Le alterazioni del battito cardiaco del feto seguono quelle della futura madre: lo stress viene percepito, eventi traumatici hanno come conseguenza ritardi nello sviluppo o parti prematuri. E le sensazioni di benessere e felicità sono condivise dal feto. Ma se una donna sta prestando servizi gestazionali, che rapporto potrà intrattenere con un feto “altrui”? Riceverà il feto il messaggio di essere desiderato da altri, oppure quello di non essere desiderato dalla madre? In Israele la subcultura delle madri surrogate impone di non comunicare in nessun modo con l’inquilino nella propria pancia. Questo comportamento è efficace per staccarsi dalla neonata: nessun caso di controversia legale è mai sorto in Israele. E dopo il quinto mese di gravidanza le portatrici incinte d’Israele non si toccano più la pancia. Lo racconta Elly Teman, un’antropologa entusiasta delle “mappe cognitive” che queste donne – di cui è diventata amica e di cui esalta la missione eroica – hanno elaborato per il loro corpo: que-

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sta zona è mia, quell’altra appartiene ai committenti5. È il loro lavoro: non possono venire meno all’impegno, devono essere in grado di consegnare la neonata senza ripensamenti – anche perché comunque i tribunali considererebbero nulla la loro istanza: i bambini sono assegnati ai committenti sin da prima del loro concepimento, al momento dell’autorizzazione alla Gpa da parte dell’apposito Comitato statale. Così queste bambine nascono dal ventre di una donna che presta servizi gestazionali, e che da quando cominciano a muoversi non le tocca più, perché emotivamente non può permettersi di cercare alcun contatto, anche se nessuna delle nasciture è imparentata geneticamente con la prestatrice di servizi. Non bisogna poi trascurare l’importanza dell’epigenetica nel processo di riproduzione umana. L’epi-genetica è la conoscenza di ciò che accade agli organismi “intorno” alla genetica: tutti i processi molecolari che influenzano lo sviluppo di un organismo ma non sono ascrivibili al Dna. L’epigenetica è il modo in cui la gestante dà la sua impronta al feto indipendentemente dalla presenza di una parentela genetica: “Lo studio dimostra che la madre attraverso molecole di microRNAs prodotte nel suo utero può 5   E. Teman, Birthing a Mother: The Surrogate Body and the Pregnant Self, University of California Press, Berkeley 2010.

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modificare le informazioni genetiche del futuro bambino. [...] Questa ‘comunicazione’ fa sì che nell’embrione si esprimano o si inibiscano specifiche funzioni, in risposta alle informazioni rilasciate dalle cellule endometriali”6, scrive un centro per la fecondazione assistita, allo scopo di incoraggiare le aspiranti madri a ricorrere all’acquisto di ovuli altrui. La gravidanza poi culmina nel momento cruciale del parto, prova ardua e fonte di forza e potere, come tutte le prove che si superano nella vita. È questo a rendere una donna madre (di nascita, per lo meno). Sia la gravidanza che il parto sono fisiologici nell’80-85% delle donne, che avrebbero bisogno di poche visite durante la gravidanza e potrebbero tranquillamente affrontare il parto con il sostegno di un’ostetrica e del o della propria partner. Invece le donne incinte si trovano davanti a una patologizzazione estrema del processo che stanno affrontando, tramite la quale i medici esercitano un controllo sui corpi gravidi, persuadendo le donne che i loro interventi sono necessari, fomentando paura. Come 6   Il legame epigenetico tra mamma e nascituro durante la gestazione, 28.9.2016 (http://www.centrofecondazioneassistita. com/news/news/il-legame-epigenetico-tra-mamma-e-nasciturodurante-la-gestazione), con riferimento a F. Vilella, J.M. Moya, M. Balaguer et al., Hsa-miR-30d, Secreted by the Human Endometrium, Is Taken Up by the Pre-Implantation Embryo and Might Modify Its Transcriptome, in “Development”, vol. 142, 2015, pp. 3210-21.

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ha scritto Ann Oakley, il senso comune si è rovesciato per opera dei medici (sempre diffidenti delle capacità del “paziente” se non è guidato da loro stessi), quindi una gravidanza non è più “normale fino a prova contraria”, ma è sempre sospetta finché non supera impossibili prove di perfezione. Quante donne che desideravano un parto naturale (a casa, in acqua in un centro nascite) sono state trascinate in una sala parto ospedaliera al minimo sospetto, prima ancora che diventasse un problema? Quante sono state fatte partorire con il taglio cesareo, magari innescato dall’iniezione di ossitocina per rimediare a contrazioni “troppo distanti”, spesso per pura convenienza del frettoloso personale ospedaliero? L’Italia come sappiamo ha tassi altissimi di ricorso al cesareo, intorno al 35% delle nascite. Il tema è stato affrontato di recente da giornaliste che non hanno trovato un panorama più confortante rispetto all’epoca di Mettere al mondo7. In questa bellissima ricerca del 1984 si osservarono un centinaio di nascite, mettendo a confronto cinque luoghi ospedalieri ispirati in teoria a una diversa filosofia della nascita. In tutte le strutture

7   A. Regalia, G. Colombo, F. Pizzini, Mettere al mondo. La produzione sociale del parto, F. Angeli, Milano 1984. Le ricerche recenti di giornaliste sulla procreazione sono: R. Campisi, Partorirai con dolore, BUR, Milano 2015; C. Palmerini, Quello che alle mamme non dicono. Falsi miti, curiosità e scienza della gravidanza, Codice, Torino 2015.

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invece furono osservati maltrattamenti psicologici e fisici delle partorienti8. L’oppressione e lo sfruttamento delle donne e la svalutazione del femminile rendono trascurabile socialmente e personalmente spaventoso l’evento che ha dato origine a tutti noi. Potrebbe invece essere una fonte di potere femminile, come scrivono Paulina Perez e Cheryl Snedeker: Il parto naturale è difficile, però il corpo della donna è predisposto per questa funzione. Quando una donna partorisce senza droghe, senza anestesia, senza interventi medici, strumentali, apprende di essere forte e potente. Apprende la fiducia in sé. Impara a fidarsi di se stessa anche di fronte a potenti personaggi autoritari. Una volta che realizza la propria forza e il proprio potere, avrà un’attitudine diversa verso il dolore, le malattie, il disagio, la fatica, le situazioni difficili, per il resto della sua vita9.

Margaret Mead e altre antropologhe hanno interpretato i riti di iniziazione maschili come il bisogno di “segnarsi” culturalmente per rimediare alla propria incapacità di dare la vita affrontando la prova del parto, una deficienza da compensare con altre prove di coraggio.

8   È quello che l’Organizzazione mondiale per la sanità ha chiamato “violenza ostetrica”, indagata in Italia da Elena Skoko (https://ovoitalia.wordpress.com). 9   P. Perez, C. Snedeker, Special Women. The Role of the Professional Labor Assistant, Cutting Edge Press, Jonson, VT 1994, citato da A. Di Pietro, P. Tavella, Madri selvagge. Contro la tecnorapina del corpo femminile, Einaudi, Torino 2006, p. 141.

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Con l’appropriazione medica del potere riproduttivo delle donne, svalutandone l’aspetto umano e relazionale, la gravidanza è ora considerata una malattia, e la donna incinta una paziente da controllare. Lei stessa, come ha notato Barbara Duden, affida il suo rapporto con il feto alla visione esterna, all’ecografia, assumendo un punto di vista che è piuttosto maschile, perché contempla la vita che nasce dal di fuori (assordando i feti che possono udire). I medici-esperti si ergono a uniche fonti di autorità avendo sradicato la trasmissione in linea femminile del sapere su gravidanza e parto. Capita così di leggere in un testo dedicato alla procreazione, a proposito degli effetti sul feto delle parole e delle emozioni della donna “in attesa” (un’altra espressione curiosa che nega la febbrile attività del corpo gravido): “D’altra parte, la divulgazione di queste conoscenze ha modificato l’atteggiamento delle madri verso il loro futuro figlio. Ora possono parlargli, fargli ascoltare della musica, anche coinvolgendo il padre in questi scambi”10. È ridicolo pensare che le donne incinte abbiano aspettato il consiglio degli esperti per parlare ai figli nella pancia, e tanto più lo è ritenere che la musica che ascoltano debba essere scelta pensando al nascituro!

10   M.-J. Soubieux, M. Soule, La psichiatria fetale, F. Angeli, Milano 2007, p. 30.

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Dall’appropriazione medica della procreazione11 deriva il bombardamento della donna incinta con esami superflui come l’amniocentesi prima dei trentacinque anni, e le costrizioni sul corpo della partoriente, a partire dalla posizione sdraia­ ta sul lettino, che è comoda solo per chi la visita, non certo per lei che ha bisogno di spostarsi, cambiare posto e fare gioco sulla forza di gravità. Sono di routine anche l’inutile rasatura, e spesso anche la molto più seria episiotomia, cui negli ospedali italiani sono sottoposte il 60% delle partorienti. Queste pratiche sono state lamentate dall’Associazione Iris nel suo convegno del 2014 a Milano. Solo in Italia, inoltre, vi è negli ospedali il monitoraggio continuo del battito cardiaco del feto attraverso una macchina attaccata al corpo della partoriente che quindi viene immobilizzata sul lettino anche per questo, quando sarebbero sufficienti controlli periodici fatti da chi l’assiste con un semplice stetoscopio. Al convegno si è parlato anche – cosa molto interessante per chi dà importanza solo al servizio gestazionale e glissa sull’evento del parto – dello sprigionarsi all’incontro tra neonata e puerpera dell’ossitocina. E 11   In Women As Wombs (Spinifex, North Melbourne 1994) Janice Raymond traccia un nesso tra l’esproprio medico della procreazione con le tecniche di riproduzione assistita e la Gpa: “l’oggettificazione e la violazione delle donne [nella Gpa] è resa invisibile perché la riproduzione tecnologica [ha] reso accettabile l’accesso medicalizzato al corpo femminile e ha trasformato l’abuso medicalizzato in trattamenti normali”.

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l’ossitocina, che asseconda l’espulsione della placenta, è il veicolo biochimico del benessere. L’incontro è considerato di grande importanza non solo psicologica ma anche fisiologica dalle ginecologhe e dalle altre esperte più vicine alle donne, che promuovono una concezione della gravidanza e del parto come appartenenti alla fisiologia femminile, da vivere come fonte di orgoglio non solo nel rapporto con il neonato ma con il mondo intero. Quante donne invece al momento di dare alla luce i loro figli vengono traumatizzate dalla gestione burocraticomedica di questo straordinario atto di coraggio, espressione delle capacità del corpo femminile? Al convegno si è anche ricordato, suscitando l’applauso della platea di ostetriche di tutta Italia, che la lealtà di chi assiste al parto deve andare alla partoriente e non all’équipe medica. Si è ricordato che la partoriente non è affatto il problema, ma rappresenta al contrario la soluzione alle paure del personale medico e ostetrico. E, cosa molto rilevante nel nostro contesto, si è detto che vi è un diritto del neonato a conoscere, a incontrare la sua mamma come prima persona che lo accoglie in questo mondo. Ma torniamo ai servizi gestazionali. Un altro luogo dove è legalmente possibile prestarli è la Georgia. La quota maggiore del pagamento passa di mano però solo dopo la consegna del bambino:

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1. Prima della conferma della gravidanza le nostre madri surrogate richiedono alla coppia di rimborsare solo i costi di trasporto per raggiungere il luogo delle procedure mediche e i costi del tempo di lavoro impiegato, che in totale fanno al massimo 200 dollari. 2. Alla conferma della gravidanza il compenso e le spese della madre surrogata non eccedono 15.300 dollari durante il periodo di gravidanza e dopo la nascita di un bambino (periodo di riabilitazione post-natale). La maggior parte del compenso alla madre surrogata (12.900 dollari) sarà pagato nel periodo di riabilitazione post-natale. 3. Il nostro Centro seleziona solo quelle madri surrogate e donatrici di ovuli che hanno bambini, hanno preso una decisione sulla surrogazione e donazione molti mesi fa, hanno un carattere stabile e sono persone puntuali e responsabili12.

Una recente ricerca svolta in Israele conferma che solo nel 40% dei casi gli accordi di surrogazione hanno effettivamente dato vita a un bambino, e dà notizia di donne che si sono sottoposte alle tecniche mediche per ottenere gravidanze per altri fallendo, e anche rimettendoci la propria fertilità. Etti Samana, l’autrice dello studio13, lamenta che nessuna compensazione è stata data a queste donne generose. In Israele la compensazione per le “portatrici” comprende tra i suoi motivi anche il danno biologico. Con la gravidanza infatti sono 12   T. Khachapuridze, Center of Reproductive Health, http:// www.surrogacy.ge/en/2013-03-12-09-56-54. 13   Samana, Within Me, But Not Mine cit.

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molto concreti i rischi di preeclampsia ed eclampsia, infezioni del tratto urinario, incontinenza urinaria, emorroidi, diabete gestazionale, emorragia ed embolia polmonari. Chiamare la gravidanza per altri un servizio è scorretto proprio per il significato di “servizio”, che va trovato nel linguaggio dell’economia, in cui “servizio” è termine complementare a “bene”: si producono beni oppure servizi, venduti entrambi come merci il cui valore monetario (o costo, per quanto riguarda i servizi pubblici) va a costituire il Pil. La definizione che economisti scherzosi danno di un servizio è “tutto ciò che non ti può cadere su un piede”. Non sembra che l’oggetto della transazione nella Gpa sia così immateriale: è un bambino che non esisteva prima – a meno, ovviamente, di non essere Aristotele, che vedeva le donne come campi in cui sbocciano i semi maschili. Non è come accompagnare una bambina all’asilo, o badarle in casa come baby sitter, o darle lezioni di pallacanestro o di yoga, sempre svolgendo un servizio. La bambina, a differenza di quanto accade con le lezioni di italiano o di matematica, prima non c’era. Si tratta proprio di farla. E nei luoghi dove i contratti sono validi, se per colpa propria non la si fa bene si può essere costrette a un risarcimento, ad esempio se i difetti riscontrati alla nascita possono essere ricondotti all’uso di alcool, tabacco o altre droghe da parte della fornitrice.

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L’ammissibilità della Gpa induce dunque gravi trasformazioni nel concetto di essere umano dal punto di vista giuridico: “Un essere umano ora non è più un soggetto, ma diventa oggetto di un contratto, persino prima della propria nascita”, scrive Chris Thomale14. In un dibattito alla Camera dei Comuni a Londra la deputata inglese Jessica Lee ha infatti paragonato la surrogazione all’acquisto di beni: “Non vorrei che i miei elettori – la brava gente di Erewash – dovessero comprare una casa o noleggiare un’auto senza un contratto. Dunque perché quando cercano di farsi una famiglia, che è la cosa più importante che potranno mai fare, con una surrogazione dovrebbero farlo in un quadro inadeguato?”15. Ha affermato poi che ci sono stati in trent’anni solo due casi di ricusazione degli accordi, quando la sola stampa ne ha riportati molti di più, e molti accordi convalidati dai tribunali non si sono poi conclusi con un passaggio di potestà genitoriale. Chi presta servizi gestazionali? Allo statunitense Center for Surrogate Parenting (Csp) questo è il profilo tipico della loro dipendente: “sposata, cristiana, di classe media [negli Stati 14   Ch. Thomale, Mietmutterschaft: Eine international-privatrechtliche Kritik, Mohr Siebeck, Thubingen 2015, p. v. 15   https://hansard.parliament.uk/Commons/2014-10-14/debates/14101451000001/Surrogacy.

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Uniti tutti credono di essere di classe media], ha due o tre figli biologici, lavora a part time, vive in una piccola città o in periferia piuttosto che in una grande, ha un’istruzione a livello di college ma di solito non ha preso il diploma”16. Il reddito della sua famiglia è sotto i 60.000 dollari, e dal 15 al 20% di queste donne sono mogli di soldati, la cui assicurazione sanitaria può essere usata per partorire anche per altri senza ulteriori esborsi. Le mogli dei soldati guadagnano con la Gpa più dei loro mariti: “Sono pagate bene; la tariffa per la surrogacy pagata direttamente alle madri surrogate che lavorano per il Csp va dai 20.000 ai 30.000 dollari per gravidanza, senza dover pagare tasse”. Perché mai non le pagano? “Le surrogate non pagano tasse sui versamenti dai clienti, che legalmente sono per il dolore e la sofferenza in cui sono incorse, non per aver fatto un bambino”17. In italiano si chiama “risarcimento del danno biologico”. Ti infliggo un danno e te lo risarcisco. Non sembra un bel modo di rapportarsi a una donna. Così come è curioso che nessuno paghi tasse per questi servizi, se sono davvero tali – infatti la giurista statunitense Bridget Crawford non ha dubbi sul fatto che si 16   L.M. Steiner, The Baby Chase. How Surrogacy Is Transforming the American Family, St. Martin’s Press, New York 2013, p. 18. 17   Ivi, p. 20.

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debbano pagare, anche perché questo chiarisce bene a tutte le parti in causa che non si tratta di altruismo ma di lavoro18. 18   Cita ad esempio una donna che ha scritto a un sito di consulenza fiscale: “Sono convinta di non dover pagare le tasse per essere stata compensata per aiutare una coppia ad avere un figlio. E tutti gli aghi, punti, smagliature e dolore fisico/sofferenza che ho subito?”, in B.J. Crawford, Taxation, Pregnancy, and Privacy, in “William & Mary Journal of Women and the Law”, vol. 16, n. 2, 2010, p. 346.

4. Fare un figlio per altri è una libera scelta

Scrivo proprio per dimostrare che le donne non sono incubatrici, né forni, né fattrici, e soprattutto non producono bambini altrui. Ma se proprio volessero loro stesse in prima persona liberamente scegliere di diventarlo ed erogare i famosi servizi gestazionali al migliore offerente o al più simpatico? Chi ragiona in questo modo non chiama più in causa il principio dell’autodeterminazione femminile ma un principio altrettanto importante: la libertà di scegliere. Questa terminologia è quella della teoria sociale liberale, cui la maggior parte degli italiani oggi aderisce consciamente o inconsciamente. Tutti noi adulti siamo capaci di scegliere ciò che è meglio per noi stessi, e quindi vogliamo che le leggi ci riconoscano questa libertà. Se voglio diventare una portatrice per qual-

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cun altro, se mi hanno bene informata su quel che mi succederà, rischi della gravidanza compresi, se quindi sono d’accordo sulla consegna del neonato perché appunto questa è l’essenza del contratto che sto per firmare, allora chi vuole impedirmi tale libera scelta è un tiranno. Carmel Shalev negli anni Ottanta scrisse un libro a favore della Gpa proprio in nome dell’autodeterminazione delle donne e della libera scelta, perché anche le donne devono essere trattate come soggetti razionali in grado di sottoscrivere contratti, tra cui vi può essere quello per impegnarsi a fare una gravidanza per altri. Non si deve dubitare della loro sanità di mente perché le donne non sono condizionate “dagli ormoni” (dimenticava la concreta relazione con il nascituro). La stessa autrice ora ha parzialmente rivisto la sua posizione pro contratto: “I pilastri morali dei mercati economici sono la libertà dell’individuo di stringere accordi con altri individui liberi. Ma ci sono limiti intrinseci al principio di libertà individuale. Il principio di libertà secondo John Stuart Mill è il diritto di individui maturi e razionali di scegliere volontariamente qualunque corso di azione nella misura in cui non sia di danno agli altri, ma la libertà personale non si estende al diritto dell’individuo di vendersi in schiavitù”1, 1   C. Shalev, Limiting Commodification: International Law and Its Challenges, in New Cannibal Markets cit., p. 364.

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per continuare con considerazioni sul principio che proibisce, nell’etica e nel diritto internazionale della medicina, la vendita di organi, mentre ammette che sfruttamento, coercizione e inganno colpiscono le madri surrogate, facendo l’esempio di quello che accade in India. Anche in India però, se non si vuole la Gpa, si rischia di ledere la libera scelta delle donne! Le madri retribuite hanno manifestato nell’agosto 2016 davanti all’Indian Council of Medical Research mentre il Parlamento deliberava la stretta legislativa che regolamenterà la pratica, riducendola a casi di impossibilità a portare a termine una gravidanza di una cittadina indiana sposata da almeno cinque anni (il provvedimento non è ancora stato definitivamente approvato). Cosa pensare delle indiane che protestano perché si toglie loro una fonte di guadagno? Che difendono la loro libertà di scelta o che stanno ponendo l’interesse monetario personale al di sopra dell’interesse della loro classe e del loro genere? Volere continuare a usufruire dei guadagni per la vendita dei bambini è una questione di libera scelta? Rassegnarsi a vivere una gravidanza nelle baby farms, le fabbriche dei bambini, perdendo completamente il controllo del proprio corpo con la firma di un contratto in una lingua sconosciuta per lavorare per nove mesi ininterrottamente è una libera scelta? No, questo è un lavoro. È stato loro tolto il lavoro,

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non una “libera scelta” che non avverrebbe mai né in India né negli altri paesi che hanno introdotto la Gpa se la persona che la fa non percepisse anche un compenso. E non tutte le cose che si fanno per un compenso sono accettabili: è una libera scelta vendere il proprio voto? Solitamente questa azione viene moralmente condannata, e ha addirittura rilevanza penale, persino se il votante dichiara che avrebbe comunque scelto quel partito. E se qualcuno partecipa a proteste politiche perché viene retribuito pensiamo che sia comunque una sua libera scelta e che il pagamento non abbia importanza? Il salario che non osa dire il suo nome in questo modo riesce efficacemente ad evadere sia la tassazione che, cosa molto più importante, le norme sul lavoro e sulla sua retribuzione – ad esempio la paga minima oraria, fatta a pezzi dalle somme ridicole incassate all’ora dalle madri retribuite. Le donne che accettano liberamente l’impegno di portare a termine una gravidanza per qualcun altro sono delle dipendenti dei committenti, sono delle lavoratrici che per loro scelta si assumono la responsabilità di adempiere alle clausole del contratto di lavoro, compresa la consegna del prodotto finale sia in India che in California o in Canada. La condizione della classe lavoratrice è diversa in ciascuno di questi pae­ si, e ciò si riflette sulle diverse modalità con cui

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le lavoratrici indiane o nordamericane vengono trattate. Un lavoro può certamente piacere, può essere svolto con entusiasmo, motivato dalla generosità. Tutti dovrebbero poter fare un lavoro appagante e socialmente utile. Questo non impedisce di constatare che si entra in un rapporto di lavoro spinti dalla costrizione economica, che sia per mangiare, per far studiare gli altri figli, per comprarsi la macchina o per qualunque altra libera scelta nell’impiego del denaro che si è ottenuto dal rapporto di lavoro. Se infatti la libera scelta si riduce per le madri retribuite alla scelta di un lavoro, questo tipo di scelta non è mai libera. La sfera del lavoro non è affatto quella cui si possa applicare il concetto di libertà, bensì di necessità. Come nella maternità surrogata, nel nostro lavoro siamo state libere di sottoscrivere un contratto, ma esso limiterà la nostra libertà e riconfigurerà i nostri diritti secondo la legislazione sul lavoro. Persino le garanzie costituzionali di libertà, per esempio la facoltà di spostarsi liberamente sul territorio nazionale, si annullano una volta timbrato il cartellino e varcata la soglia del proprio posto di lavoro. A meno di non poter ottenere il soddisfacimento dei nostri bisogni lavorando in proprio per la nostra sussistenza, in un rapporto diretto con la natura, e a meno di non essere tra coloro che organizzano la produzione degli altri posse-

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dendone i mezzi (il capitale, le macchine), dobbiamo ottenere il denaro con cui acquistare ciò che ci permette di vivere entrando nel mercato del lavoro. In esso si fronteggiano due classi: chi ha la proprietà dei mezzi di produzione e chi ne è privo, e sarà costretto ad entrare in un rapporto di lavoro dipendente e salariato. Altro che libera scelta. È nel neoliberismo che si vuole ridurre la sfera del lavoro a facoltà di scelta individuale, abbattendo tutte le garanzie che la classe lavoratrice ha strappato con le proprie lotte: dal divieto di licenziamento senza giusta causa con reintegro obbligatorio sul posto di lavoro (in Italia recentemente cancellato dal Jobs Act) ai servizi dello stato sociale pagati anche con i contributi dei datori di lavoro. È il neoliberismo a volere che i lavoratori, spogliati di diritti e anche della possibilità di organizzarsi collettivamente, fronteggino i datori di lavoro come “individui liberi e razionali” piuttosto che come classe che si autodifende per mezzo del diritto del lavoro. L’alfabeto dell’analisi di classe è però andato perso tra le nuove generazioni. Non è colpa loro, perché il potere della classe lavoratrice è oggettivamente diminuito a causa delle efficaci mosse della classe dominante. Con la globalizzazione i lavoratori di ogni paese sono stati messi in concorrenza con quelli di tutti gli altri che hanno aperto i confini ai movimenti incontrollati dei

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capitali. L’Unione Europea aveva proprio questo fra i suoi scopi, e promuove ora progetti più avanzati di trattati che addirittura garantiscono al capitale il profitto, come il Ttip con gli Stati Uniti e il Ceta con il Canada. Così la classe dominante ha ottenuto l’arretramento dei diritti dei lavoratori, sia in termini di retribuzione che di garanzie di vita, assistenza sanitaria, pensione. Anche la cultura della classe lavoratrice è cambiata in peggio: alla consapevolezza della necessità della lotta collettiva, che in passato ha portato a tutti questi risultati, si sono sostituite la rassegnazione individualistica, la concorrenza al ribasso, la lotta intestina contro i lavoratori migranti. Le leggi sul lavoro hanno subìto un arretramento perché per i lavoratori sono peggiorati i rapporti di forza. Forse per questo pare accettabile che persino la gravidanza diventi un lavoro. Ma non solo lo stipendio, i contributi, la pensione, le altre indennità, sono oggetto di negoziazione tra le parti, lo è anche il grado di invasività cui una mansione può legalmente assoggettare chi la effettua. Il lavoro di notte è regolamentato – se la classe operaia fosse più forte potrebbe anche essere proibito. Lavorare mettendo a rischio la propria salute è qualcosa che i lavoratori cercano di non fare, sempre se riescono a spuntarla nei rapporti di forza. Gli orari di lavoro in nessun caso assicurano una disponibilità di ventiquattro ore al giorno. La sorveglianza ha dei confini

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stabiliti per legge. Le molestie sessuali non fanno parte delle prerogative dei capi sulle sottoposte. I prelievi di materiale biologico da parte del datore di lavoro sono vietati, persino se gli stessi lavoratori decidessero di accettarli. L’alfabeto delle relazioni sindacali dice che non si può “scegliere” quel che si vuole quando si lavora. Se si lavora durante uno sciopero, si fa del crumiraggio. Se si lavora senza rispettare le leggi sul lavoro, si lavora in nero. Se si vuole rinunciare unilateralmente a diritti fondamentali non lo si può fare, perché la propria decisione influenza le relazioni sindacali peggiorando la condizione degli altri lavoratori. La costituzionalista Silvia Niccolai fa questo esempio: “Se le ferie sono irrinunciabili, ciò va contro la libertà di scelta? No, è una misura di legge che protegge la collettività dei lavoratori. Se per libera scelta io rinunciassi alle ferie, dovrebbero rinunciarvi tutti i colleghi: il datore di lavoro se ne approfitterebbe immediatamente ricattando tutti perché si adeguino al ribasso”. La scelta di lavorare è obbligata per la classe che non può autosostentarsi, né impiegare il lavoro di altri per farlo, e questa classe ha posto dei paletti attraverso il diritto del lavoro per avere – tra l’altro – un diritto alle ferie retribuite. Nel dibattito italiano si rimprovera a chi è contraria all’introduzione della Gpa il fatto di non dire nulla nello stesso flatus vocis contro i

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mille altri mestieri pericolosi che esistono. Ma in che senso il fatto che, ad esempio, i migranti vengano costretti illegalmente a turni sfibranti nei campi di pomodori per una paga misera dovrebbe farci accettare la Gpa? Si tratta di abusi da combattere, esattamente come il fatto che la gravidanza diventi un lavoro. Se non vogliamo lavorazioni pericolose resistendo al ricatto della chiusura delle fabbriche, tantomeno dovremmo accettare i bombardamenti ormonali sul corpo delle portatrici e delle venditrici di ovuli. È parte della stessa lotta! Invece si sente dire che se l’utero viene messo al lavoro è cosa normale, dal momento che esistono lavori estremamente usuranti, anche più della gravidanza. Ma l’autodifesa della classe lavoratrice si fa anche rifiutando un’estensione dell’orario di lavoro a ventiquattro ore al giorno per nove mesi ininterrotti con disagi fisici e a rischio della vita, per consegnare poi al committente – non dimentichiamolo – un altro essere umano come prodotto. C’è quindi anche nei paesi che hanno ammesso la Gpa lo spazio giuridico per smontare le leggi che permettono la maternità surrogata in quanto leggi contrarie al diritto del lavoro. La stessa protezione della classe lavoratrice da invasioni indebite del corpo si deve applicare alla vendita di ovociti, parti del corpo il cui commercio è proibito dalla Convenzione di Oviedo.

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Tuttavia l’Unione Europea – imparato il trucco del rimborso spese – ha già configurato con le direttive 2004/23/CE, 2006/17/CE e 2006/86/ CE un mercato di gameti, cellule, tessuti e organi (di cui, a differenza del passato, va garantita la tracciabilità): “I donatori possono ricevere un’indennità, strettamente limitata a far fronte alle spese e agli inconvenienti risultanti dalla donazione” (art. 12 della direttiva 2004/23/CE). Quali inconvenienti esattamente sono compensati con le somme a quattro o cinque cifre per le “donatrici” di ovuli? Anche questi sono salari per un’intrusione senza precedenti nel corpo della lavoratrice: abbiamo visto prima i rischi a breve e lungo termine dell’iperstimolazione ovarica. Una venditrice di ovuli che ha poi avuto una gravidanza ectopica scrive: “Vorrei consigliare alle ragazze e alle donne che mi leggono di non farsi tentare dal compenso monetario che l’industria della raccolta degli ovuli vi offre, perché potreste morirne. Nessuna dovrebbe morire per poche migliaia di dollari”2. Offrire queste migliaia di dollari per una cosiddetta “donazione” ricade sotto “l’indebita influenza” che invalida la volontà espressa dalla donna cui è rivolta la pubblicità, perché si fa uso di un potere, in questo

2   Long Term Disastrous Effect of Egg Donation, 8.4.2016 (https://anonymousus.org/long-term-disastrous-effect-egg-donation). Vedi anche il sito http://www.weareeggdonors.com.

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caso economico, per distoglierla dalle possibili conseguenze sulla sua salute. Una volta innescato, il ciclo di “donazioni” continua: La mia esperienza di donazione di ovuli è stata molto sgradevole. È successo quando avevo 24 anni. A causa dell’alto costo dell’università avevo molti debiti. Una volta vidi una pubblicità sulla donazione di ovuli e decisi di provare. Dovevo pagarmi tutto da sola, così mi tentava la possibilità di guadagnare, sembrava molto redditizio. Il procedimento è stato abbastanza veloce e in poche ore sono ritornata a casa. Tutto sembrava andar bene finché non decisi di avere un figlio. Ora ho 27 anni e dicono che ho un grave problema di fertilità. Sono confusa e sconvolta. È triste che sulla stampa se ne cominci a parlare solo ora, perché prima nessuno parlava dell’impatto negativo della donazione di ovuli sulla salute. Con il mio ragazzo stiamo cercando una soluzione nei centri medici per la riproduzione. Stiamo considerando una clinica a Kiev, in Ucraina. Fornisce servizi di madri surrogate e ha molte recensioni positive. Così avrò il mio bambino con questa clinica3.

Il controverso, e fortunatamente bocciato, Rapporto De Sutter all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa dipingeva così la situazione delle donne che si prestano alla Gpa: Le madri surrogate corrono tutti i rischi di una gravidanza causata medicalmente e del parto. Inol3   A. Barber in http://www.weareeggdonors.com/blog/eggdonor-ads, 2.12.2016.

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tre, sono particolarmente vulnerabili perché sono destinate a rinunciare al bambino poco dopo la nascita – di solito la loro piena remunerazione dipende da ciò. Questo implica rischi psicologici, maggiori nei casi in cui la madre surrogata è anche la madre genetica del bambino, quando la surrogata non riceve un counseling appropriato e/o non può rimanere in contatto con il bambino. C’è anche il rischio che i genitori intenzionali interferiscano nella gravidanza (ponendo limitazioni alla capacità di decidere delle madri surrogate riguardo alla loro salute o persino alla continuazione della gravidanza), o rifiutino di accettare e quindi abbandonino un bambino che non è in salute o che per altre ragioni [come il divorzio] non è più voluto. La maggior parte degli accordi internazionali per lucro coinvolgono madri surrogate che sono relativamente povere e non istruite, la validità del cui consenso può essere messa in dubbio a causa della somma di denaro “che cambia la vita” che ricevono come compenso4.

A maggior ragione si tratta di influenza indebita nell’offrire denaro per fare una bambina. Attenzione però: nel Rapporto De Sutter l’indignazione per la surrogazione si stempera nell’invocazione di regolamenti, come spesso purtroppo dobbiamo sentire. Questo Rapporto rivela un’altra stranezza dell’applicazione dei concetti di libera scelta e autodeterminazione alla Gpa: perché si richiede 4   Parliamentary Assembly of the Council of Europe, Human Rights and Ethical Issues Related to Surrogacy. Revised Draft Report, a cura di Petra De Sutter, marzo 2016, p. 3.

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il sostegno psicologico per le donne che si prestano a diventare madri per altri? La letteratura scientifica sottolinea l’importanza oltre che della subcultura delle portatrici nei gruppi di autoaiuto (dove lo si considera come un lavoro persino in Gran Bretagna) anche degli incontri della aspirante surrogata con una psicologa – sul libro paga dei committenti – per riuscire a portare a termine il compito in modo indolore. Ma non era una questione di libera scelta? Di autodeterminazione? Perché allora l’affiancamento di una psicologa? E che lavoro deve fare esattamente questa professionista? Rafforzare la convinzione che il bambino che la donna porta in grembo non sia suo, che non abbia un legame primario con lei, anche se lei lo vuole rifiutare? Dissuaderla dal cambiare idea sulla consegna? È etico tutto questo, secondo gli organi di autogoverno della professione degli psicologi dei paesi dove essi contribuiscono alla riuscita delle Gpa? Inoltre, ovunque esiste la Gpa, i riflettori dei media sono puntati sulle “portatrici” che sono definite e si autodefiniscono volontarie della gravidanza, niente affatto motivate dal “rimborso spese” – che rimane però necessario. Alla loro ombra prosperano le agenzie che le reclutano, gli avvocati che stilano i contratti che le parti firmeranno, le cliniche che guadagnano da ogni intervento che queste donne subiscono. Sul fatto che tutte queste presunte volontarie siano

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remunerate come operaie della gravidanza (cosa che le indiane ad esempio ammettono) non vi sono dubbi: “In praticamente tutti i casi, le madri surrogate sono pagate: ‘spese ragionevoli’ connesse alla gravidanza nel caso di accordi altruistici, oppure compensi più grandi negli accordi per lucro (anche se in tali accordi i pagamenti più consistenti sembrano essere quelli fatti ad agenzie, intermediari e dottori/cliniche)”5, si legge nel Rapporto De Sutter. Questa è anche la realtà del Canada, grande esempio per i fautori della “Gpa altruistica”, l’unica ammessa secondo una legge ipocrita. La giornalista Alison Motluk riconosce che l’aggettivo “altruistico” è una presa in giro: “Anche se tutto funzionasse come lo intende la legge, è una forzatura lasciar intendere che la produzione di bambini in Canada non sia commerciale. È un affare lucroso per gli specialisti della legge sulla fecondazione [segue listino prezzi]. Anche il lato medico non è a buon mercato”6. Alle madri surrogate vengono “rimborsate” somme fuori da ogni controllo, sotto la “guida” di agenzie che per legge non dovrebbero essere pagate, però lo sono. E in Ontario e in Columbia Britannica la   Ivi, p. 9.   A. Motluk, The Baby-Making Business: On the Front Lines of Toronto’s Booming, Semi-Legal Surrogacy Market, in “Toronto Life”, 3.2.2014 (http://torontolife.com/city/baby-making-business-surrogacy-market-toronto). 5

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donna che partorisce avendo fatto un accordo di surrogazione non è più la madre già da prima di diventarlo: se la Gpa è volontaria, deve essere volontaria sempre, non soltanto prima di rimanere incinte. Esistono forse la “volontarietà forzata” o un “altruismo” a cui si viene obbligate? (In Alberta, la terza e ultima provincia dove le nascite da surrogata non sono sporadiche, il trasferimento di genitorialità avviene invece dopo il parto, mentre il Québec vieta la surrogazione di maternità e negli altri Stati-province la Gpa praticamente non viene realizzata.) L’articolo di Motluk rivela la parziale illegalità di quello che succede realmente, perché la legalizzazione della Gpa detta altruistica in Canada ha creato un blocco di interessi di agenzie, cliniche e avvocati che reclutano le donne principalmente sotto le insegne della generosità e dell’altruismo, additando a modello la Madre autosacrificale. In Canada e altrove, scrive Gupta, “Le donne sono socializzate a fare sacrificio di sé, far piacere agli altri e mettere i bisogni degli altri al di sopra dei propri, e viene fatto loro credere che fare figli sia l’attività più importante in cui possono impegnarsi”7, tanto più se ne ricavano anche un reddito. 7   J.A. Gupta, Towards Transnational Feminisms. Some Reflections and Concerns in Relation to the Globalization of Reproductive Technologies, in “European Journal of Women’s Studies”, vol. 13, 2006, pp. 32-33.

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A livello internazionale tra gli organizzatori dell’offerta di madri surrogate ci sono gli autori del “Sito che ti trova una surrogata” (surrogatefinder.com). Nelle sue schede sull’Italia i profili consultabili sono più spesso di straniere: russe, nigeriane, rumene, brasiliane, in genere disponibili a diventare madri a vantaggio di coppie etero, gay, lesbiche (?!), singoli anche uomini. Non ci sono comunque solo donne che provengono dai paesi della migrazione o tratta per la prostituzione, perché anche una spagnola e una britannica hanno dato la loro disponibilità. Perché vogliono fare le surrogate? Rosalba di Salerno scrive: “Non ho soldi”. Nonostante non parli inglese, è disposta a viaggiare ovunque per fare da surrogata. È una frase che si ritrova in tutti i profili: “Ho un passaporto e sono disponibile a viaggiare in qualunque parte del mondo”. Uno di questi profili è quello di “Marie”, un’irlandese che nel dicembre 2016 ha chiesto aiuto a Stop Surrogacy Now. Secondo il suo racconto, mise un annuncio su surrogatefinder.com e dopo poche settimane venne contattata dalla clinica Embryolab di Salonicco, che le propose di lavorare per una coppia francese. Avrebbero pagato le sue spese e le avrebbero dato 10.000 euro di compenso – promesse che non furono mantenute. La coppia andò a trovarla in Irlanda e poi Marie si trasferì in Grecia. L’attivista di Stop Surrogacy Now Jennifer Lahl ha diffuso la sua lettera accompagnata da un’intervista:

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Ho partorito da poco in Grecia come surrogata, dando alla luce due gemelli, un maschio e una femmina. La mia salute ha sofferto terribilmente perché la gravidanza e i farmaci ormonali che stavo prendendo mi hanno danneggiato la tiroide. Ho quasi perso la vita, e tutto quello di cui si preoccupavano gli aspiranti genitori e la clinica che ha organizzato la maternità surrogata erano i genitori. [...] Dopo la nascita non ho ricevuto nessuna cura. Mi hanno lasciata senza soldi e ho dovuto prenderli a prestito per il volo di ritorno. Sono stata trattata come una pezza da piedi e non consiglierei mai a nessuno la maternità surrogata. Le donne hanno bisogno di essere avvertite e protette. Avrei potuto morire e non mi hanno mai ringraziato per quello che ho fatto. La maternità surrogata deve essere fermata. Nessuna donna dovrebbe mai passare quello che ho passato io8.

Il tribunale che approvò il suo accordo non le fece nessuna domanda. In Grecia vigono i regolamenti, ma il controllo da parte dei tribunali sugli accordi è solo formale. E la gravidanza andò così: Alla nona settimana mi sono ammalata molto gravemente. Sono andata dal medico, ma mi ha detto che sarebbe passato. All’undicesima settimana ero ancora malata, peggioravo di giorno in giorno fino al punto di vomitare sangue. Non riuscivo a parlare né a camminare. Ho trascorso una settimana da sola nell’ap-

8   J. Lahl, I Was a Surrogate. I Want People to Know What’s Really Going On, 26.12.2016 (http://www.cbc-network. org/2016/12/i-was-a-surrogate-i-want-people-to-know-whatsreally-going-on).

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partamento che mi avevano dato, senza che nessuno mi aiutasse o si prendesse cura di me. Svenivo e facevo fatica a respirare. Sono state settimane terribili per me, non le auguro a nessuno. Quando hanno fatto gli esami in ospedale si è scoperto che la mia tiroide era fuori controllo e il mio fegato era danneggiato. Non avevo mai avuto problemi con la tiroide. [...] Tutti sembravano così leali, ma ora so che sono stata semplicemente l’incubatrice per i bambini di questa coppia. Quando ero in ospedale, quando mi sono ammalata, la madre intenzionale venne dalla Francia. Mi disse che ero stata uno sbaglio; non avrebbero dovuto scegliere me. Mi ha anche accusata di aver cercato di uccidere i suoi bambini perché non mangiavo! Io non mangiavo perché stavo veramente male.

La domanda di madri retribuite è più grande dell’offerta, ciononostante i “genitori intenzionali” non sono affatto umili, bensì piuttosto voraci e tirannici, non solo in questo caso estremo. Una madre intenzionale confessa: “Qualcosa che abbiamo ammesso solo tra di noi [lei e suo marito] e a nessun altro era che eravamo entrambi segretamente felici per il fatto che lei fosse immobilizzata a casa. Mike scherzava con lei sul fatto che ci auguravamo che fosse dentro a una bolla”9. L’atteggiamento giusto di chi vuole chiedere a una donna la promessa di separarsi dalla propria neo­nata per farla crescere da altri dovrebbe essere quello di riconoscere che sarà lei a diventare 9   Globalization and Transnational Surrogacy in India cit., p. 138.

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madre con il parto, avendo tutto il diritto di proseguire la relazione già instaurata nei precedenti nove mesi di gravidanza con la sua creatura, se non se ne vuole più separare10. Ma di questo atteggiamento non vedo traccia. I committenti, nella loro veste di datori di lavoro, sono assolutamente convinti di avere diritto al figlio e non esitano a rivolgersi ai tribunali contro le donne “inadempienti”. I contratti statunitensi, come abbiamo visto, fingono persino che l’aborto possa essere deciso dai committenti, mentre è una scelta personale garantita ai sensi della Costituzione (con il verdetto Roe vs Wade). In Israele la situazione dei diritti “sindacali” delle portatrici è ancora peggiore: L’accordo spesso include restrizioni alla libertà personale delle surrogate. Per esempio alla surrogata si può proibire di mangiare certi cibi. Di solito negli accordi c’erano restrizioni sui rapporti sessuali per tutto il periodo del trattamento ormonale e della gravidanza. Gli accordi includevano anche un obbligo di non fumare e, in alcuni contratti, un obbligo

10   A ben vedere per dimostrare l’inammissibilità della Gpa, che finisce per essere forzata, non serve nemmeno concentrarsi sulle donne che soffrono e subiscono il distacco come una violenza: se una donna cambia idea e vuole proseguire la relazione materna, magari semplicemente perché non è più amica dei committenti, deve poterlo fare, perché questa è la sua volontà, punto. Ed è nell’interesse del neonato (che non è un bambino che ha vissuto uno, tre, sette o dieci anni con altri genitori come nelle famiglie esaminate da Golombok, vedi infra cap. 6) che lei prosegua la sua relazione materna.

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di sottoporsi a esami del sangue per essere certi che la surrogata non avesse violato il suo impegno a non farlo. Una surrogata che avesse fumato durante la gravidanza rischiava una causa legale. Alcuni degli accordi includevano anche restrizioni alla libertà di movimento. Qualche volta c’era una clausola che stipulava che la surrogata doveva ottenere il permesso dei genitori intenzionali per andare all’estero durante il periodo del trattamento e fino alla nascita11.

La libera scelta, come in tutte le situazioni di lavoro retribuito, finisce nel momento in cui si firma il contratto: se non lo si adempie sono previste sanzioni e risarcimenti. La sanzione più grave è per la mancata consegna, sanzione che i committenti non mancano di richiedere. Ci sono moltissimi casi di donne che si rifiutano di consegnare le loro figlie, a cui purtroppo solitamente vengono loro strappate dai tribunali, a meno che non si rifugino in uno Stato che non ammette la Gpa. Invece non ho mai avuto notizia di casi in cui i genitori intenzionali abbiano rinunciato alla prole promessa. Se hanno retribuito la donna per i suoi servizi gestazionali dovrebbero riconoscere che, avendo lei prestato questi servizi al bambino, il contratto lo ha adempiuto, e ha il diritto di proseguire con servizi materni che spettano a lei, se desidera farlo. Ma, servizi gestazionali a parte, dovrebbe essere chiaro ai committenti che la vera madre è la donna che hanno messo sotto con  Samana, Within Me, But Not Mine cit., p. 133.

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tratto. La realtà è invece che nei casi di conflitto i genitori intenzionali sempre fanno causa, forti anche della loro superiorità economica. Un caso recente di controversia è quello della californiana Melissa Cook contro il padre intenzionale C.M., un single quasi cinquantenne dello Stato della Georgia, sull’altra costa, che ha chiesto e ottenuto la consegna dei bambini malgrado Cook volesse crescere i figli. La donna ha fatto ricorso chiedendo che sia dichiarata incostituzionale la legge che in California permette la surrogazione proprio alla luce di quanto le è successo, così descritto dai giornali: l’agenzia Surrogacy International aveva fatto da intermediaria, ottenendo con lo sperma del padre intenzionale e gli ovuli di una venditrice ventenne i quattro embrioni poi impiantati e attecchiti nell’utero di Cook. I dissapori tra le parti cominciarono con la richiesta del committente di ridurre da quattro a due gli embrioni (diventati poi tre per un aborto spontaneo). Cook, ancora incinta, chiese a un tribunale di essere dichiarata la sola genitrice di baby C (il terzo non voluto dall’uomo) e madre legale di A e B condividendo la potestà con il padre biologico. La nascita avvenne a febbraio 2016, e il personale dell’ospedale – che era parte dell’accordo – portò via i neonati alla puerpera, cui non dissero nemmeno se erano vivi o morti. Le guardie dell’ospedale piantonavano la sua stanza, chiedendo i documenti a chi andava a trovarla.

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La denuncia di Melissa Cook ha ispirato un’altra donna che si trovava in una situazione simile. Brittneyrose Torres era anch’essa incinta di tre gemelli biologicamente non suoi e destinati a una coppia, che le chiese di abortire la femmina e tenere i due maschi. Quando rifiutò di obbedire, dato che anche nel contratto acconsentiva ad abortire solo in una situazione di rischio per la sua vita, la coppia sospese i pagamenti. Il padre intenzionale minacciò anche di chiederle i danni per l’eventuale cura futura dei figli, se fossero nati con disabilità. Anche Torres si è rivolta a un tribunale per contestare la legittimità delle leggi sulla Gpa in California. Vorrei richiamare brevemente anche il caso di Elizabeth Kane, che nel 1980 fu la prima “surrogata” ad apparire sui media negli Stati Uniti, quattro anni prima del caso Baby M. Anche Kane, come la madre di Baby M, si pentì di quello che aveva fatto. Solo quando il figlio aveva sei mesi di vita capì che l’aveva venduto per 10.000 dollari. Quando firmò il contratto pensava che la surrogazione fosse l’occasione di fare qualcosa di eroico nella sua vita. Era una casalinga dalla vita normale, voleva aiutare una coppia infertile senza volerci guadagnare. Si accorse tardi che, per coloro che avevano organizzato la sua gravidanza, in primo luogo il ginecologo Richard Levin, lei era una fattrice da mungere per ottenere soldi e pubblicità12. Come   Il medico è ancora in attività, e sul suo sito scrive che tutte

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per dozzine e poi centinaia di donne che dopo di lei negli Usa e altrove hanno risposto al richiamo delle agenzie, degli avvocati o dei medici, la solidarietà e la generosità erano le sue uniche motivazioni. Per parlare di surrogazione in termini oblativi ed entusiastici venne esibita nei talk show dell’epoca per più di un anno, e anche le foto del suo parto furono vendute e pubblicate senza il suo consenso, come fosse un evento che non la riguardava. Il suo contratto le impediva di bere alcool e di fumare sigarette, ma venne fatta viaggiare da un talk show all’altro per fare pubblicità alla surrogazione e al medico che con lei aveva cominciato a praticarla. La moglie dell’uomo che si impossessò di suo figlio non era più fertile, e una volta le disse che si sentiva “vuota” per il fatto che il marito avesse voluto ingaggiare lei per avere un suo figlio biologico (ne avevano peraltro già uno adottivo). Kane scrive: “Mio figlio non mi aveva chiesto di essere abbandonato alla nascita. Non ha deciso che voleva vivere in un altro Stato con un uomo che io non avevo mai incontrato”13. Non solo lei, ma anche la sua famiglia (il marito, le due figlie quasi adolescenti e il figlio piccolo) soffrirono durante la sua gravidanza e poi per la sparizione del fratellastro. La cosa più grave e triste della Gpa a mio pale Gpa da lui organizzate sono andate a buon fine. Le conseguenze sulle madri come Kane evidentemente non hanno alcuna importanza (http://www.babies-by-levin.com/spa_1.htm). 13   E. Kane, Birth Mother: The Story of America’s First Legal Surrogate Mother, Harcourt Brace Jovanovich, San Diego 1988.

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rere è proprio il tratto culturale per cui i committenti si sentono in diritto di ricevere i figli, sia che la donna che ha fatto la promessa rimanga consenziente, sia che non lo sia più. Il loro atteggiamento diventa prevaricatore in virtù del fatto che hanno pagato. La risposta dei fautori della Gpa alla realtà dei casi di disaccordo e di sottrazione dei neonati alle madri è solitamente che i casi in cui la madre retribuita cambia idea sono molto pochi e dunque non devono pesare sulla politica pubblica. Ma questa separazione forzata tra madre e neonata è una violenza gravissima che si commette con il pieno appoggio delle leggi che permettono di configurare una particolare “gravidanza per altri”. Strappare un neonato alla madre perché ha firmato un contratto è inumano. È proprio esaminando il modo in cui la Gpa risolve i casi di conflitto che ci si rende conto dell’insostenibilità e della ferocia di questo istituto giuridico. Tuttavia se l’Italia compilasse un buon regolamento sulla gestazione per altri, tutti questi orrori non si verificherebbero e le portatrici/ madri sarebbero protette: basta non affidarsi alla forma-contratto, ma fare una bella legge che tuteli tutti e tutte, dando soprattutto alla donna che partorisce la facoltà, se cambia idea, di tenersi la bambina.

5. I regolamenti tutelano le donne

In Italia tutti vogliono i regolamenti. Nessuno sa però come farli, nemmeno le loro fautrici. Le uniche proposte sul tavolo sono irricevibili perché obbligano chi si presta alla Gpa a consegnare la neonata: così i disegni di legge che la introducono presentati finora al Senato1 su ispirazione di Famiglie Arcobaleno che da dieci anni fa propaganda a questo istituto giuridico. Allora, agli albori dell’associazione, l’incipiente dibattito interno sul tema fu censurato estromettendo un intero gruppo di avvocate, psicologhe e una sociologa – la sottoscritta – che proponevano agli altri soci una Carta etica per autoregolamentare i 1   È scritto chiaramente nella proposta di legge di Manconi (S1607), mentre pare lo si dia per scontato in quelle di Orellana ed altri (M5S) e di De Petris ed altri (Gruppo Misto), che ammettono la Gpa in quanto “tecnica di riproduzione medicalmente assistita” nell’introdurre il matrimonio per le persone dello stesso sesso (S393 e S204).

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rapporti tra genitori, soprattutto in caso di separazione, in mancanza di una legge che li regoli2. Il punto della Carta etica che rifiutava i contratti che obbligano le donne a consegnare i loro bambini venne stralciato senza nemmeno essere stato discusso all’assemblea di Prato nel 2007, segno di come già allora fosse diffuso tra una parte dei gay il senso di un “diritto all’omogenitorialità” che implica l’uso del corpo delle donne. Il maschilismo non è certamente prerogativa degli uomini eterosessuali. Benché siano una piccola frazione delle coppie che usano la Gpa, le coppie gay sono infatti le uniche a chiedere a gran voce che le donne si mettano a disposizione – ovviamente per denaro – perché loro abbiano dei bambini. I radicali di Certi Diritti le seguono a ruota, e nel settembre 2016 hanno firmato con Famiglie Arcobaleno Una sintesi dei parametri etici per il ricorso alla gestazione per altri da parte di aspiranti genitori promossa da Men Having Babies, organizzazione statunitense che pubblicizza la Gpa e offre mutui per accedervi. Nella loro Gpa etica la portatrice non ha nessun diritto sulla prole. Anzi il suo diritto sarebbe quello di separarsi dalla prole3. In questa Gpa etica gli obblighi vanno a incidere a senso unico 2   Vedi anche http://www.danieladanna.it/wordpress/?p=732. La Carta etica è pubblicata in Crescere in famiglie omogenitoriali, a cura di C. Cavina e D. Danna, F. Angeli, Milano 2009. 3  http://www.certidiritti.org/wp-content/uploads/2016/09/

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sulla vita della gestante. Solo l’eventuale imposizione ai committenti di accettare il figlio anche se disabile è considerato un diritto della madre – ma non si capisce come si possa impedire che i genitori intenzionali lo diano comunque in adozione (come peraltro potrebbe fare anche lei: solo nel caso di un figlio con handicap i fautori della Gpa si ricordano dell’amore materno che impedisce di abbandonare l’infante!). Non sbagliano però coloro che non riconoscono alla “portatrice” alcun diritto sulla prole. L’essenza della Gpa è infatti proprio questa: colei che ha partorito non è la madre dal momento che ha fatto una gestazione per altri. Inutile scervellarsi per trovare un regolamento che soddisfi tutti, dai genitori intenzionali alle donne portatrici ai neonati. In caso di disaccordo qualcuno deve prevalere, e nella Gpa non sarà certo la madre, ridotta a portatrice. Per non parlare del pericolo di far costituire attraverso una regolamentazione l’interesse di ulteriori soggetti: avvocati, medici e agenzie, comprese quelle che cominciano con l’essere no profit e finiscono per volersi professionalizzare, come sta succedendo in Gran Bretagna. Una volta aperto il mercato di bambini, volenti o nolenti, questo diventa un luogo di lavoro, di specializzazione, di perfezionamento e di 323161648-MHB-Ethical-Surrogacy-Italian-Statement-of-Principles.pdf.

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fantastiche possibilità di far carriera diventando un’intermediaria, data la propria esperienza in prima persona che può fare da guida alle altre. Persino l’ormai bocciato Rapporto De Sutter al Consiglio d’Europa aveva toni meno feroci verso le donne della proposta dei radicali e delle Famiglie Arcobaleno. Dico “verso le donne”: verso tutte noi, e non solo verso la minoranza che si presterebbe alla Gpa, perché la gravidanza è una potenzialità femminile, e tutte noi donne siamo coinvolte nella considerazione sociale e giuridica che si ha del nostro genere – in altre parole, del trattamento che la società riserva a quelle di noi che realizzano la potenzialità femminile diventando madri. De Sutter, ad esempio, nella sua proposta di regolamenti sovranazionali voleva scoraggiare la “Gpa tradizionale” riconoscendo che almeno in questo caso le donne avrebbero potuto a diritto considerarsi madri della prole – naturalmente nella logica dei parlamentari al Consiglio d’Europa il motivo era la parentela genetica con i neonati, non la maternità a seguito di gravidanza e parto. È stata così considerata una “buona pratica” (in effetti l’unica ammessa in molti paesi) un’operazione medica in più su due donne: l’iperstimolazione ovarica delle madri sociali o delle “donatrici” di ovuli (in genere anonime) e poi quella delle portatrici, con l’impianto di un embrione a loro biologicamente estraneo. Lo scopo è semplicemente che la figlia

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non somigli a loro, anche se poi spesso non si sa a chi somiglierà per via dell’anonimato dell’ovulo – un fatto cui spesso, come abbiamo visto, le “portatrici” nemmeno danno importanza, ma i committenti evidentemente sì. De Sutter proponeva anche di “Eliminare pratiche che portino rischi non necessari dal punto di vista medico per le surrogate e i bambini”4 – tra cui personalmente annovererei il ricorso ad ovuli altrui e al trapianto di embrioni, resi invece obbligatori. Gli altri punti del regolamento proposto erano di eliminare le restrizioni all’autonomia personale delle surrogate; di conservare le informazioni sull’origine biologica dei nati con la Gpa; di fare uno screening dei committenti per ridurre il rischio di abbandono o abuso dei bambini; di fornire informazione e counseling a tutti i partecipanti. Il Rapporto voleva proibire la Gpa for profit, vedeva bene una “stretta regolamentazione della surrogacy altruistica”, ammettendo però, come abbiamo visto, che anche qui le donne vengano pagate. Il lavoro sarebbe quindi una sottospecie dell’altruismo? Il diritto a crescere i figli non sarebbe poi sempre stato garantito alle loro madri, perché doveva rimanere possibile per i genitori intenzionali chiedere a un tribunale il riconoscimento come genitori prima della nascita (§ 5.1.4. del

4   Parliamentary Assembly of the Council of Europe, Human Rights cit., p. 13.

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Rapporto). Per il diritto vigente essere riconosciuti come genitore prima della nascita di un essere umano è un’aberrazione, perché fino alla nascita un essere umano è solo una potenzialità di persona che, rimanendo all’interno del corpo di un’altra, non può essere ancora “figlio” di nessuno! Il Rapporto De Sutter mirava comunque principalmente a dare un quadro giuridico ai paesi del Consiglio d’Europa per il riconoscimento delle Gpa fatte all’estero. Se fosse stato approvato avrebbe dato il via libera alla corsa al ribasso verso i luoghi dove i genitori intenzionali hanno più potere e dove la Gpa costa meno, garantendo la sua validità in tutti i paesi del Consiglio. Per questo è stato bocciato. Quando nel 2015 le donne di Se non ora quando-Libere hanno pubblicato l’appello No all’utero in affitto sono state tacciate di proibizionismo per aver chiesto che “La pratica della maternità surrogata venga dichiarata illegale in Europa e sia messa al bando a livello globale”5. Rifuggendo dalle proibizioni, molte giovani femministe, ma anche alcune politiche, intellettuali, giuriste, hanno chiesto la regolamentazione di una Gpa in una forma “che tuteli le donne”. Certo, dal punto di vista della legge è innegabile che un comportamento sia o consentito o vietato. E infatti ora nulla osta a rimanere incinta e   http://www.cheliberta.it/2015/12/04/appello-che-liberta/.

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non riconoscere il figlio a favore del padre, senza ovviamente essere pagata perché il pagamento contraddice non la legge 40/2006 ma il diritto del lavoro e le regole di validità di un contratto, che non può avere come oggetto la vendita di un essere umano né la rinuncia alla parentela e alla responsabilità sui figli. Luisa Muraro, contraria ai regolamenti, parla infatti di mantenere l’indisponibilità della relazione materna all’essere oggetto di commercio6. In ogni caso è un paralogismo, come molte fanno, chiamare “antiproibizionista” la posizione che vuole regolamentare la Gpa. “Proibizionismo” e “antiproibizionismo” sono termini del dibattito politico relativi al trattamento giuridico delle sostanze psicoattive esistenti in natura o di sintesi. Cinzia, un’antiproibizionista contraria alla Gpa, ha detto a un convegno organizzato da Arcilesbica: “Sono antiproibizionista per minimizzare il danno delle sostanze, lo sono perché il proibizionismo non funziona, non perché sono favorevole alla dipendenza da droghe!”. E l’oggetto dell’antiproibizionismo sono sostanze, cioè cose (o piante), non rapporti di filiazione che la legge deve regolare in un modo o nell’altro. Non è peraltro indifferente che cosa sono concretamente le cose proibite perché anche gli

6   L. Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, La Scuola, Brescia 2016.

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antiproibizionisti sulle droghe accettano molte proibizioni, ad esempio spesso la coltivazione e l’uso di piante geneticamente modificate. Anche nel campo, più pertinente, dei rapporti tra le persone troviamo condotte che vogliamo proibire, come ad esempio l’uso della violenza nelle relazioni interpersonali, anche intime. Si tratta di “proibizionismo”? Si tratta certamente di proibizione e di sanzione di questi comportamenti. Il movimento femminista contemporaneo Nonunadimeno non è affatto “antiproibizionista” su questo, anzi si interroga proprio su quali siano gli strumenti più idonei a far rispettare la proibizione anche culturale della violenza, in opposizione a una cultura maschilista che conferisce al genere maschile il diritto morale di correggere e castigare il genere femminile. Esaminiamo allora la relazione interpersonale della gravidanza per altri. È veramente necessario proibire la Gpa? Che una donna venga o non venga considerata la madre dei figli che mette al mondo a seconda che abbia o meno firmato un contratto è una perversione del rapporto tra diritto e realtà. Il diritto, infatti, nel riconoscere chi partorisce come madre legale, attesta un rapporto di filiazione più che costituirlo. Al contrario, per dire che qualcun altro ma non la puerpera è imparentato con il neonato è necessaria una distorsione del diritto, introdotta appunto dal concetto di “gravidanza per

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altri” governata da regole speciali, cui la donna consente prima di rimanere incinta. Ma la gravidanza si svolge nello stesso modo. Si dice: “I genitori intenzionali attendono nove mesi, non possono avere questa incertezza. I possibili conflitti vanno risolti prima, con i prebirth orders, dando la potestà prima della sua nascita a chi ha avuto l’intenzione di fare un figlio”. Ma è la donna che ha fatto il figlio, nell’arco di quei nove mesi! Perché le intenzioni di coloro che vogliono diventare genitori dovrebbero prevalere sulla relazione esistente? Se una puerpera vuole crescere la figlia, non le mancherà certo anche l’intenzione di diventare madre! Se non si vuole ammettere una restrizione alla scelta della puerpera di separarsi o meno dalla neonata, basta non modificare la legge e continuare a non ammettere né contratti né regolamenti di Gpa. In questo senso la battaglia culturale e politica contro la Gpa è una battaglia realmente abolizionista, perché richiede l’abolizione delle leggi che hanno configurato la Gpa nei pochi Stati sopraelencati. In assenza di una legge ad hoc una gravidanza “per altri” semplicemente non esiste. Bisogna pensare la Gpa proprio a partire dai casi in cui non funziona e in cui sorge un conflitto tra le parti: è allora che rivela di essere una trappola per le madri, perché fa prevalere l’interesse (smodato e prevaricatore) dei committen-

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ti sul rapporto concreto tra madre e bambina. In Italia i fautori della Gpa invece solitamente negano che esistano conflitti, oppure quando lo ammettono dicono che sono pochi, e lo sono certamente quelli che sfociano in un ricorso ai giudici e vengono riportati dalla stampa, ma che dire dei ripensamenti successivi, come quello di Elizabeth Kane, e dell’incognita su che cosa penseranno i figli? Dunque secondo loro non varrebbe la pena di impedire straordinari gesti d’amore a causa di poche guastafeste che non vogliono adempiere la loro promessa ai genitori intenzionali, e sono per questo, secondo loro, chiaramente nel torto. Cosa succede quando una donna che si è pensata come “portatrice” vuole rompere l’accordo siglato più di nove mesi prima e continuare la sua relazione materna con la neonata? La risposta precisa dipende da dove si trova, sotto quale legislazione ha intrapreso una “gravidanza per altri”. Ma in nessuno di questi luoghi la sua relazione materna è al sicuro, lo è solo in quegli Stati in cui, come in Italia, vige il principio secondo il quale la madre legale è sempre colei che partorisce. I regolamenti non possono che intaccare questo principio. È esattamente questo il problema nell’approvazione di un concetto giuridico di “maternità/gestazione per altri”: introduce la concezione che la donna che fa un bambino non abbia importanza, che sia un semplice mezzo per

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gli scopi altrui. Introdotto sotto forma di accordo regolamentato, anche senza la libertà di contratto, l’istituto giuridico della Gpa afferma proprio quello che dice il suo nome: che la gravidanza è per altri, che il figlio non è della madre. Si comincia col regolamento che garantisce le donne e si finisce con i cataloghi di portatrici e venditrici di ovuli, e forse in futuro con scenari ancora più sinistri, ad esempio quelli paventati da Alexis Escudero ne La riproduzione artificiale dell’umano. Non solo rischia di avverarsi la previsione di Gena Corea di “un mondo in cui donne senza valore sono usate come fattrici per gli embrioni delle donne di valore”7, ma la selezione sugli embrioni è il germe di un futuro fondato su classi che avranno fondamenti biologici – il vero opposto dell’attuale ideale di uguaglianza tra esseri umani8. Istruttivo è il caso della Gran Bretagna, dove la Gpa esiste da una trentina di anni, e dove vediamo in atto una lenta e inesorabile “slippery slope”. La “china scivolosa”, o “pericolosa”, è una figura retorica che di solito aborrisco, dato che attribuisce a una specifica azione delle conseguenze più gravi, di solito in modo arbitrario 7   G. Corea, The Mother Machine: Reproductive Technologies from Artificial Insemination to Artificial Wombs, Harper & Row, New York 1985, p. 276. 8   A. Escudero, La riproduzione artificiale dell’umano, Edizioni Ortica, Aprilia 2016.

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– come quando gli antiabortisti negli Stati Uniti dicono che approvando la decisione esclusiva delle donne in materia di aborto si arriverà all’uccisione dei vecchi. Nel caso della Gpa però il punto di arrivo, cioè per le donne l’esautorazione della gravidanza e il disconoscimento della relazione materna, è insito nella sua introduzione proprio in quanto si distingue una speciale “gravidanza per altri”. Il punto finale verrà raggiunto travolgendo qualunque paletto che si cerchi di porre al pieno dispiegarsi del concetto che cancella la volontà della madre, che non lo sarà più diventando piuttosto un’incubatrice umana. È solo questione di tempo. Infatti molti gay (e radicali) ci sono già arrivati, e le lesbiche arrancano dietro, illudendosi ancora di poter conciliare il principio di autodeterminazione con il concetto di gravidanza per qualcun altro. Dunque, nel 1985 il concetto culturale e giuridico che esiste una gravidanza “per altri” è stato introdotto in Gran Bretagna con molte restrizioni, ma ha assunto via via connotati più precisi, e ora sta per realizzarsi in pieno (un dibattito analogo esiste in Olanda). Si vuole ora fare distinzione tra gravidanza per sé e per altri non più alla fine di essa e per decisione della madre, ma nel suo corso, per garantire i committenti sulla consegna. In questi termini i parlamentari, i visconti e i baroni dibattono alla Camera dei Lord sul “ricorso alla surrogazione” e sui “bambini nati da surrogazio-

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ne”, non quindi da una donna, ma da un concetto astratto. Dichiarano ipocritamente: “Dobbiamo salvaguardare il principio della surrogazione altruistica nel Regno Unito – la surrogazione come relazione e non compravendita. La legge deve riconoscere le persone giuste come genitori dei bambini nati dalla surrogazione. Non farlo non è nel migliore interesse dei bambini o delle famiglie”9. E quindi, argomentano, vanno introdotte le ordinanze di genitorialità pre-nascita e anche la doppia donazione, cioè permettere che nascano bambini destinati ad estranei genetici e prodotti da una madre retribuita: la gravidanza è per altri, e se alle neonate puoi togliere la madre, perché non togliere anche ogni parentela genetica? Anche la proibizione dei profitti agli intermediari sta per saltare: le agenzie – ora gestite da donne con precedenti esperienze di Gpa – vogliono la possibilità di farsi pubblicità (il taciuto motivo è che non ci sono abbastanza aspiranti madri retribuite disponibili in rapporto alla richiesta) ed è sentita l’esigenza che si professionalizzino. Le ex portatrici promuovono una subcultura che esalta il valore dell’autosacrificio e dell’altruismo, svalutando e rendendo socialmente impossibile venire meno alla promessa di consegna per con9   L. Horsey, Surrogacy in the UK: Myth Busting and Reform. Report of the Surrogacy UK Working Group on Surrogacy Law Reform, 2015, p. 6. Il testo ha l’introduzione di Mary Warnock, Margot Brazier e Susan Golombok.

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tinuare il rapporto con la neonata. L’obbligo solo sociale e culturale di consegna è anch’esso un’aberrazione perché comunque non riconosce la priorità del rapporto tra neonato e madre. Così ha scritto Elizabeth Kane alla fine della sua gravidanza: Se lo amavo così tanto ora senza averlo mai visto, come mi sarei sentita quando sarebbe stato via? Cominciai a sentirmi male per l’assenza, anche se giaceva tranquillo dentro di me, riposando nel mio grembo. Un’ora dopo tornai di soprassalto alla realtà. La maternità surrogata avrebbe funzionato se io l’avessi fatta funzionare. Avevo annunciato pubblicamente e ripetutamente che idea meravigliosa fosse, che innovazione fantastica era stata per le coppie infertili. Ma se alla fine avessi fallito? Se fossi crollata ora, o all’ospedale, l’intero mondo mi avrebbe vista10.

Non postulo affatto che debba esistere per tutte un istinto/desiderio/bisogno di proseguire la reazione con il neonato, ma nemmeno si può postulare che quel legame non abbia valore per nessuna madre. La maggioranza – non certo l’unanimità – delle madri surrogate dichiara infatti di ritenerla un’esperienza positiva, come si è visto fin dall’inizio degli anni Novanta con gli studi di Hazel Baslington11. Per loro il culmine dell’espe  Kane, Birth Mother cit., p. 223.   Già nel 2002, inoltre, Baslington rivelò che nell’altruistica Gran Bretagna la Gpa era comunemente considerata un lavoro da chi lo praticava o ne usufruiva (mentre curiosamente negli Usa sem10 11

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rienza è “vedere l’espressione del viso dei genitori alla consegna della bambina”, seguito normalmente da un temporaneo senso di vuoto: È una sensazione assolutamente straordinaria. Sei in una situazione unica. Sei il centro del mondo della coppia, ti senti così speciale. È il legame che crei con loro – piuttosto che con il bambino – quello che dà tanta dipendenza. Ma sfortunatamente non dura.

Così Kim Cotton, la prima “surrogata” inglese, fondatrice di Cots, una delle associazioni che organizzano la surrogazione nel Regno Unito. E aggiunse, a proposito delle “portatrici” che si offrono per ricercare nuovamente quella sensazione: Una volta che il bimbo è nato e la coppia lo porta via per cominciare la loro vita familiare, anche se si può rimanere in contatto, è finita. Questo può essere un momento molto difficile per la surrogata e la tentazione dell’“ancora solo per una volta” è immensa12.

I problemi, notava già Hazel Baslington, sorgono soprattutto se la relazione con la coppia si deteriora. Una madre retribuita intervistata da bra che si insista sull’aspetto di oblatività e solidarietà). H. Baslington, The Social Organization of Surrogacy: Relinquishing a Baby and the Role of Payment in the Psychological Detachment Process, in “Journal of Health Psychology”, vol. 7, n. 1, 2002, pp. 57-71. 12   H. Weathers, Now I Realise How Hopelessly Naive I Was to Become Britain’s First Surrogate Mother, Admits Kim Cotton, in “Daily Mail”, 14.2.2008 (http://www.dailymail.co.uk/femail/ article-514230/Now-I-realise-hopelessly-naive-I-Britains-surrogate-mother-admits-Kim-Cotton.html).

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una blogger descrive così la relazione con i committenti: Qual è stata la cosa più difficile nel tuo percorso come madre surrogata? Lo stato di abbattimento dopo il bambino [la nascita]. Mentre sei incinta sei su un piedistallo, sei l’eroe di qualcuno. Una volta che il bambino è nato non servi più così tanto. È un adattamento emotivo, e c’è un po’ di insicurezza in quel momento. Sei ancora importante per loro, ma sei importante in un modo diverso. Non si parla più così tanto, la comunicazione rallenta, non sei più “la surrogata”. Non aiuta poi il fatto che hai appena partorito un bambino che non hai portato a casa, e nel tuo corpo infuriano gli ormoni13.

Acutamente l’antropologa Helena Ragoné nota: Il supporto sociale per mantenere quella visione è essenziale. I programmi aperti [con conoscenza reciproca dei partecipanti] promuovono l’amicizia tra la surrogata e i genitori intenzionali: “È il legame tra la coppia e la surrogata, promosso con tanta cura dai programmi, a sostituire il legame tra la surrogata e il bambino, che alle surrogate manca nella maggior parte dei casi”14.

Ecco perché secondo Ragoné le madri retribuite si offrono. Sono donne che provengono 13   T. O’Connor, Up Close and Personal with a Canadian Surrogate Mother, 21.4.2015 (http://tinaoconnor.com/up-close-andpersonal-with-a-canadian-surrogate-mother). 14   H. Ragoné, Surrogate Motherhood: Conception in the Heart, Westview Press, Boulder 1994, p. 44.

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dalla classe lavoratrice, incantate dall’opportunità di frequentare persone di classe più alta, mentre adempiono i valori del sacrificio di sé e dell’altruismo che corrispondono all’ideale materno assorbito da famiglia e società. Ragoné sottolinea anche l’importanza del fatto che questo lavoro non può essere considerato poco femminile, egoistico, non volto alla cura o ambizioso, anzi è quanto di più socialmente accettabile esista per una donna: l’amore per i bambini e l’aiu­to alle coppie infertili15. La scelta è comunque quella di fare figli per le coppie infertili ricche – e c’è appunto una certa soddisfazione nel fatto che i committenti siano ricchi: I programmi di surrogazione prendono donne le cui vite girano intorno alla casa e ai figli, o donne che anche se hanno un lavoro lo svolgono per necessità economica, non certo per far carriera, e le immettono in un mondo nuovo e interessante pieno di interazioni sociali, a cominciare dal processo iniziale di scelta, con moduli, valutazioni psicologiche e test fisici, continuando con una serie di interazioni sociali con esperti, coppie e altre surrogate. Nel momento in cui si stabilisce il contatto telefonico iniziale con un’agenzia, lo staff fa sentire la surrogata importante e speciale16.

Questo richiama un’altra china pericolosa tipica del dibattito italiano: “La ammettiamo solo   Ivi, p. 85 e p. 84.   Ivi, p. 63.

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gratuita!” dicono le fautrici dei regolamenti. “Ah, ok, allora non si vendono bambini”, siamo tentate di acconsentire. “Ma quelle povere donne, non potranno mica fare una gravidanza gratis!” è l’inevitabile conclusione. Ma qualunque somma cui le madri di nascita abbiano diritto per legge apre le porte al mercato: perché il rimborso sia un diritto, deve esistere un istituto giuridico di “gravidanza per altri”, per poter distinguere la loro gravidanza con diritto al rimborso dalle altre fatte in proprio in cui nessuno è tenuto a pagare. Perché ha diritto al rimborso? Ma perché lo sta facendo per altri! E poi come evitare che vengano retribuite? Controllando capillarmente le ricevute? In Canada infatti i giudici non lo fanno, e ognuna può ricevere quello che riesce a contrattare – di solito poco perché le donne in genere a contrattare non sono brave. Perciò molte madri retribuite preferiscono lavorare con le agenzie, si occuperanno loro della trattativa. L’Uk Working Group on Surrogacy Law Reform è il gruppo che sta lavorando in Gran Bretagna alla riforma della legge sulla surrogazione. La trovano confusa17, e alcuni giudici hanno

17   Horsey, Surrogacy in the UK cit. Il gruppo dichiara anche che: “La surrogazione dovrebbe essere inclusa a scuola nel curriculum di classe per l’educazione alla sessualità e alle relazioni, a partire dalle elementari – collegata alla consapevolezza dell’(in) fertilità e alle opzioni di famiglia per coppie dello stesso sesso ecc.” (p. 7).

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dichiarato che i loro verdetti non corrispondono al migliore interesse dei bambini, dei genitori intenzionali e delle surrogate (finché queste non cambiano idea, naturalmente). Le madri retribuite organizzate sostengono i progetti di riforma. Nelle parole della baronessa Barker: “Hanno assolutamente chiaro che sono surrogate, non sono mai state madri surrogate, non sono le madri dei bambini. In realtà la protezione che la legge dà alle madri di nascita non è quasi [mia enfasi] mai voluta dalle surrogate e non è nel migliore interesse dei neonati, i cui genitori intenzionali sono etichettati come estranei legali che non possono prendere decisioni mediche nel primo periodo di vita del bambino, vicino alla nascita”18 – non si capisce perché le madri di nascita non dovrebbero volere prendere le migliori decisioni mediche nell’interesse dei bambini. Oltre a quelle del “quasi” che hanno voluto tenersi i figli, anche altri soggetti si sono espressi contro le ordinanze pre-nascita, come il Children and Family Court Advisory and Support Service. Una surrogata che invece avrebbe al contrario gradito dalla legge una maggiore protezione della sua relazione materna è “S”, che aveva un accordo

18   Dibattito alla Camera dei Comuni (https://hansard.parliament.uk/Lords/2016-12-14/debates/391AB95D-1999-4D52A5D0-C9EF6CF44407/Surrogacy).

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informale con il padre biologico e il suo partner, secondo la sua versione per avere un bambino con un padre conosciuto, secondo la loro per cedere la bambina. Alla nascita venne citata in giudizio dalla coppia. L’incredibile verdetto arrivato all’età di quindici mesi della bimba fu che doveva cederla alla coppia perché era “omofoba”. Non solo il padre biologico ma anche il suo partner ne detengono ora la potestà, mentre la bambina può vedere la madre due volte al mese in un luogo protetto per un’ora e mezza. L’argomento del miglior interesse del bambino è stato introdotto nel 2010 nelle norme sulla surrogazione, e ora viene impiegato per cancellare la madre di nascita, separando a forza da lei una bimba di un anno e tre mesi anche se S non era affatto incapace di prendersene cura. È insensato un “giudizio comparativo” che scelga, tra i pretendenti alla figlia per biologia o per contratto, chi sia il “più degno” a occuparsene. Gli esperti chiamati dai tribunali in simili casi di contese non possono indovinare il futuro, e ovviamente giudicheranno più idoneo chi è più ricco, se non è palesemente inadatto al ruolo genitoriale. Quale altro criterio oggettivo potrebbero impiegare? Alla parte perdente andranno al massimo i diritti di visita, come è stato nel celebre caso di Baby M, in cui il contratto di surrogazione è stato giudicato invalido ma la bambina è finita lo stesso ai committenti perché “più idonei” della madre di nascita (e pure genetica). Alcuni anni

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dopo i committenti divorziarono. Ma come avrebbero potuto indovinarlo i giudici? Della Gpa “altruistica” inglese sentiamo parlare poco in Italia perché è concessa solo ai residenti. Ma non tutti gli inglesi che hanno avuto figli con la Gpa lo hanno fatto in Gran Bretagna. Il problema di cosa fare con coloro che comperano bambini all’estero si pone infatti anche per i paesi che hanno regolamenti. La direzione di Care Surrogacy Center Mexico dichiara: “I futuri genitori provenienti da Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Germania, Francia, Spagna, Canada, Brasile e Cina richiedono la nostra esperienza come opzione di surrogazione in Messico”19. Quindi le coppie in cerca di portatrici di figli propri non provengono solo dai paesi dove la Gpa non esiste, come la Germania, la Francia, la Cina e da quelli che hanno regolamenti, ma persino da quelli, come gli Stati Uniti, in cui in molti Stati l’industria fiorisce. Ma è cara. Come affronterebbero il problema i nostrani sostenitori dei regolamenti senza chiedere anche delle proibizioni? Per questo pare buffo il dibattito italiano, ossessionato dai fantasmi del “proibizionismo” e dell’“antiproibizionismo”. Non si può poi contemporaneamente soste19   E. Jiménez, M. García, México, considerado paraíso para la renta de vientres, 24.10.2015 (http://www.milenio.com/cultura/Mexico-considerado-paraiso-renta-vientres_0_615538446. html).

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nere i regolamenti e usare l’argomento dell’autodeterminazione delle donne. O si ritiene che fare figli per qualcun altro sia un diritto delle donne, un’espressione della loro autodeterminazione, oppure si controlla per bene chi vuole sottoporsi a una Gpa dando un limite di età e richiedendo requisiti di salute, di buona condotta penale, di non uso di sostanze psicotrope – e tutte le altre specificazioni variamente richieste dagli Stati nei regolamenti. La proposta De Sutter infatti prevedeva un’indagine psicologica: “Deve essere fatto ex ante uno screening sia dei genitori intenzionali che della madre surrogata per ridurre i rischi di abbandono o di abuso dei bambini nati per surrogazione, e il rischio di nuocere alla madre surrogata”20. È di solito richiesto anche che le donne disponibili abbiano già figli e non ne vogliano altri. Capita poi invece che alcune facciano un altro figlio per sé. Vogliono rivivere la beata condizione della gravidanza? Vogliono rivivere l’evento traumatico in condizioni di controllo? L’interpretazione è aperta. Vi sarà comunque sempre incertezza sulla futura consegna persino se la gestante considera la sua famiglia completata, perché le relazioni umane sono uniche. Non vuole adempiere al contratto? “Può sempre fare un altro figlio” è stata la repli-

20   Parliamentary Assembly of the Council of Europe, Human Rights cit., p. 4.

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ca agghiacciante che ho avuto in un dibattito. È tra l’altro paradossale che si ritenga che aver già avuto figli faciliti il fare da “surrogata”, perché l’esperienza di una madre non è mai stata quella di dare via il bimbo partorito, anche se alcune ricerche svolte all’inizio della diffusione della surrogazione negli Stati Uniti mostravano come una quota importante di madri retribuite, compresa la famosa Elizabeth Kane, avevano effettivamente dato in adozione i figli e anche avuto aborti (Kane entrambe le cose) in misura maggiore del resto della popolazione. Anche gli Stati che regolamentano dovrebbero quindi impedire che si possano importare neo­nati al di fuori dei casi di adozione dai paesi in cui il commercio è selvaggio, e anche da quelli in cui le regole sono diverse. Non sarebbe difficile: se una donna che non sia già residente all’estero da più di nove mesi si reca fuori dal paese per tornare con un neonato, dovrebbe come minimo esibire alla frontiera una prova di essere stata incinta. Se non lo era e si accetta che il neonato passi il confine, è di fatto accettato qualunque commercio e persino rapimento di bambini: basta avere un certificato di nascita di cui non è ovvia la falsità e si diventa genitori. Ma forse è giusto che la madre di nascita sia un’estranea legale, se la bimba in fondo è nata per volontà dei committenti, per riceverne l’amore.

6. È l’amore – e l’intenzione – che fa una famiglia

Riflettendo sulla Gpa ci stiamo quindi chiedendo in realtà che cosa sia una famiglia, come vada costruita la parentela legale, se ha senso un istituto giuridico che faccia eccezione rispetto al principio mater semper certa est in base al quale la filiazione femminile è stabilita dal parto quando la madre non ha intenzione di crescere i figli e indirizza ai committenti il suo gesto d’amore, persino senza conoscerli, come disse Elizabeth Kane al marito: “Che importa se li conosco o no? Voglio farlo per le coppie senza figli che ci sono al mondo, per il dolore e l’angoscia che i nostri amici hanno sofferto perché non possono avere figli”. Sotto l’antico principio romano, poi universalmente adottato – mater semper certa est – la madre legale è certa (alcuni paesi come l’Italia comunque ammettono il parto anonimo) mentre il padre legale è il marito della madre: pater

6. è l’amore – e l’intenzione – che fa una famiglia 109

est quem nuptiæ demonstrant. Ma attenzione: benché formalmente basata sul matrimonio, anche la filiazione maschile legale resta sostanzialmente l’attestazione di quella biologica. Infatti il marito ha facoltà di disconoscere i figli se non sono biologicamente suoi (a meno che non abbia acconsentito all’eterologa della compagna o consorte). Se la madre non è sposata, invece, vale in Italia l’art. 250 del codice civile: “Il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i sedici anni non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento”. Al solito, nessuna filiazione può essere stabilita prima della nascita, dato che il figlio fino a quell’evento non esiste come persona separata, e la madre è la prima a poterlo riconoscere, essendo certo presente al momento del parto. Se lo fa, è lei il “primo genitore” che si trova nella posizione di negare al secondo, cioè al padre biologico, l’appartenenza giuridica alla famiglia naturale ora costituita da madre e figlia. È giusto poter negare al padre biologico di avere un rapporto genitoriale con sua figlia? La risposta non può essere che sì. Se la madre non vuole il padre biologico nella sua famiglia, è probabile che costui non abbia frequentato la donna incinta, e quindi non ha potuto avere con il nascituro neanche una relazione indiretta attraverso il corpo di lei. Un uomo non può avere un bambino, cioè relazionarsi con esso, prescin-

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dendo dal rapporto con la madre (il “matrimonio” è infatti il legame con la possibile madre1 – ancora una volta dal punto di vista maschile). Questo ha perfettamente senso perché la discendenza genetica non è una relazione effettiva: è la somiglianza fisica e mentale, a cui naturalmente diamo una certa importanza. Ma è la madre ad avere una priorità relazionale nel rapporto con il figlio che ha partorito, che è stato dentro di lei, che è da lei inscindibile fino alla sua maturazione. È per forza lei il “primo genitore”, non per il fatto biologico del parto ma proprio dal punto di vista sociale, cioè delle relazioni che instauriamo. Invece col padre non si è necessariamente in relazione pur avendo un legame genetico. Credo sia giusto che il legame genetico sia alla base di un diritto a rintracciarsi a vicenda tra figli e genitori quando i figli sono diventati grandi, ora effettivo in Svezia, Norvegia, Olanda, Svizzera, Regno Unito, Austria, Nuova Zelanda e 1   Il riconoscimento pubblico e legale di una famiglia che avviene attraverso il matrimonio, cioè dando rilevanza pubblica a un legame sessuale, non sembra comunque il modo migliore di trattare le relazioni effettive di dipendenza. Secondo la giurista Martha Fineman (The Neutered Mother, the Sexual Family, and Other Twentieth Century Tragedies, Routledge, New York 1995). Le relazioni di dipendenza dovrebbero, per il loro contenuto di affetto ma soprattutto di imprescindibilità della cura, avere priorità di riconoscimento nella sfera pubblica. In altre parole, Fineman propone di uscire dalla logica del legame sessuale come fondamento di una famiglia e riconoscere piuttosto come sua base i legami di cura e di dipendenza materiale.

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Australia. In questi paesi si tengono registri dei donatori di materiale genetico, uomini e donne, proprio perché siano rintracciabili su istanza dei figli. Non si dà ai donatori di gameti né ai loro figli un diritto alla relazione reciproca, ma solo alla possibilità di conoscersi – per realizzarsi la relazione deve essere desiderata da entrambe le parti, sia dai genitori genetici che da ragazze e ragazzi sufficientemente maturi per avere relazioni sociali indipendentemente dai loro genitori sociali. Quello che la genetica non può dare alla persona che vanta un legame di questo tipo è il diritto di relazionarsi con il neonato, di occuparsene quindi contro la volontà della madre2. Ma i padri non si sono dati per vinti. Poco saggiamente all’art. 250 del codice civile che stabilisce il diritto della donna non sposata e divenuta madre di non avere a che fare, o meglio di non dover condividere la vita familiare con il padre biologico dei suoi figli, è aggiunta la postilla: “Il consenso non può essere rifiutato ove il riconoscimento risponda all’interesse del figlio”. Questo concetto di interesse del figlio a volte, fortunatamente non sempre, viene interpretato dai giudici a favore di un padre che voglia 2   Non dimentichiamo che nella Gpa può esserci anche la donna che chiamiamo il “padre femmina”, per la quale vale il discorso fatto sul padre naturale in termini di quali diritti debbano essere legati all’origine genetica: solo la conoscenza in età matura e non un diritto alla relazione a prescindere dalla volontà della madre.

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imporre il riconoscimento, quando invece la cosa peggiore che possa accadere a una neonata e poi a una bambina dal punto di vista relazionale è di venire sballottata tra due famiglie diverse, tra due genitori che non vogliono avere una relazione tra di loro. Le relazioni non si possono imporre: se lo si fa non è certo una ricetta per la serenità e la gioia, nemmeno se lo ordinano dei giudici, che spesso interpretano il “migliore interesse del bambino” nel senso di dare al padre la garanzia della sua presenza, forzando una famiglia – composta dalla madre, dal figlio e da coloro che effettivamente stanno o staranno loro vicini – che non ne ha alcun bisogno. Per togliere la piena potestà e responsabilità su un neonato a una donna non sposata che vuole essere una madre sola ed escludere il padre biologico, bisognerebbe che fosse inadeguata secondo i criteri di intervento dei servizi sociali: estremamente povera, maltrattante, tossicodipendente, assente. Ma si presuppone che una donna che diventa madre sia una madre sufficientemente buona, fino a prova contraria. Deve rimanere libera di scegliere le sue relazioni. Perciò quella postilla è ingiusta, non può esserci un interesse del neonato che dal punto di vista delle relazioni sociali vada contro quello della madre, cioè di colei che prima l’ha fatto nascere e poi se ne è presa cura, se lo fa in modo sufficientemente buono. Se il padre biologico durante la gravidanza non

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ha affiancato la donna diventata madre, non ha avuto effettivamente nessuna relazione con suo figlio biologico. E se per un periodo è stato al fianco della donna ma si sono lasciati prima del parto, ha avuto comunque una relazione solo indiretta, perché solo alla nascita avrebbe potuto cominciare effettivamente a occuparsi del figlio, cosa che gli avrebbe sì dato un diritto, basato sulla relazione, a proseguirla. Ma un padre per fare il padre ha bisogno dell’approvazione materna, della relazione con lei. Che la volontà materna sia rispettata è l’unico interesse del bambino di cui lei già si prende cura. Se riconoscessimo l’importanza delle relazioni, nonché la disparità tra i sessi nella procreazione basata sulle diverse capacità e funzioni del corpo maschile e di quello femminile in relazione ai nuovi nati, quella postilla non ci sarebbe. La questione non può essere la parità tra “primo” e “secondo” genitore, perché nella procreazione uomini e donne non sono pari. Silvia Niccolai scrive che “Con l’universalismo è Lei che ci perde”3. Non si può considerare un’ingiustizia il modo in cui sono fatti i nostri corpi sani e le loro funzioni biologiche. Dato che la posizione del padre non è simmetrica a quella della madre, ma ha bisogno per realizzarsi socialmente (cioè per diventare un   “Il manifesto”, 17.2.2016.

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padre sociale) di una relazione con questa, che relazione si configura nel caso della Gpa? È una relazione in cui prima della gravidanza le parti si accordano sull’esclusione futura della madre dalla vita dei figli dal punto di vista legale. E quindi anche a questo caso particolare deve applicarsi la norma generale: la donna che ha fatto un figlio con l’intenzione di fare una Gpa, se cambia idea ha diritto a riconoscerlo perché ha avuto con lui la relazione materna, l’ha letteralmente fatto. Invece il padre biologico non deve potere riconoscere il figlio senza l’approvazione della madre, per evitare che un neonato si trovi programmaticamente, per volontà di un tribunale, in una situazione di contesa e conflitto tra le persone che se ne occupano. Le relazioni vanno verificate alla nascita – ancora una volta: non può esserci “volontarietà forzata”! Nella Gpa quindi il neonato legalmente figlio del padre biologico non è suo per diritto genetico ma perché questi ha comprato da sua madre l’adesione alla Gpa, che esclude che lei possa essere riconosciuta come madre dalla legge. Il solo diritto genetico può bastare se – al di fuori della Gpa – la madre non riconosce il figlio, ma questa rinuncia rimane (giustamente) nell’incertezza fino a dopo la nascita. Nella gravidanza per altri conclusa dal parto abbiamo visto che il denaro cambia di mano per tutta la gestazione fino alla consegna del suo

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prodotto. Le madri spesso non la vedono così, e anche se prendono soldi dicono che non è questo il loro motivo principale. Però il passaggio di denaro culmina e termina al passaggio in direzione opposta di una neonata: questo è ciò che si può osservare. Se proprio vogliamo vederla in altri termini che non di compravendita, la madre prende soldi per rinunciare al suo rapporto con il neonato e sparire – oppure apparire a discrezione dei committenti e se si mantiene nelle loro grazie. Una delle sette esperienze di Gpa di Susan Fuller, che ha scritto una guida per i genitori intenzionali, non andò bene per questo motivo: “Non ho più visto i bambini da quando li ho dati alla luce e loro (i genitori) non sono rimasti in contatto. Questo mi fece molto male”4. Non voglio dire che non ci siano accordi su ciò, anzi in Usa, Canada e Regno Unito le agenzie cercano di organizzare incontri tra persone con aspettative simili anche riguardo alla frequentazione futura. Nondimeno non ci sono garanzie, e possono sempre scoppiare conflitti, anche ad esempio se la condizione di anonimato della gestante viene violata dai committenti, o viceversa quando viene imposto un anonimato che non era nei patti, sempre a discrezione

4   S.M.Z. Fuller, Successful Surrogacy. An Intended Parents’ Guide to a Rewarding Relationship with Their Surrogate Mother, Roosevelt Academy Press, Reston 2015, p. 10.

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dei committenti. Ma la donna che ha partorito diventa sempre legalmente un’estranea rispetto alla prole. Questa situazione, secondo Leslie Steiner, che scrive della Gpa di una coppia statunitense, è fonte di rassicurazione per la madre intenzionale, che può provare invidia o senso di inferiorità nei confronti della “surrogata”: “Dopo la nascita, se lei vuole, la surrogata può svanire come il gessetto cancellato dalla lavagna”. E Steiner continua: Per molti genitori, un vantaggio della surrogazione gestazionale è che i loro figli non incontreranno mai la donna che li ha portati in grembo (gestate). Ciò può sembrare una cosa freddamente egoista o psicologicamente immatura, ma una componente centrale di ogni legame tra genitore e figlio, non importa come il bambino sia stato concepito o portato nel grembo, è la tinta di mutua appartenenza: noi siamo una famiglia, tu sei mia madre, tu sei il mio bambino. Di nessun altro5.

Le tecniche di riproduzione assistita hanno introdotto modifiche importanti ai principi sulla filiazione. Diventare padre, per chi non è imparentato geneticamente e ha accettato la fecondazione assistita di sua moglie o della sua compagna con il seme di un altro, è un atto di pura volontà. L’intenzione del futuro padre è certificata dalla legge prima della fecondazione,

  Steiner, The Baby Chase cit., p. 27.

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e il suo impegno a diventare il padre legale non ammette ripensamenti. Ciò è giusto, poiché è la futura madre a essere sottoposta alle tecniche mediche di aiuto alla procreazione e lo fa per scelta di entrambi. Non deve certo essere costretta ad assumersi completamente la responsabilità del figlio se il marito o compagno ha un ripensamento perché il seme non è suo, una volta che questi ha accettato che venisse usato. Che ne sia o meno il padre genetico, il futuro padre legale avrà lo stesso tipo di relazione con la nascitura attraverso il corpo della futura madre. Nella Gpa è invece una donna a concepire un bambino con l’intenzione di darlo via. Non sarà questa intenzione, e quella simmetrica dei genitori detti appunto “intenzionali”, a dover essere imposta per legge? No. Non ha senso applicare il modello dell’irrevocabilità dell’intenzione paterna alla situazione della madre retribuita, perché la bambina è cresciuta nel suo corpo, è stata una parte di lei, la sua relazione è diretta e sfocia nel bisogno della neonata di proseguirla. In generale l’intenzione non è un fattore né sufficiente né necessario alla procreazione. Le gravidanze accadono per l’incontro dei corpi (o di gameti nella fecondazione assistita), non certo per un’intenzione di rimanere incinta. Se ci si dimentica la contraccezione, se l’uomo non la vuole usare, se questa fallisce, si concepisce un figlio che lo si voglia o no. Non è l’intenzione che fa un bambi-

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no, lo sono la gestazione e il parto, cioè l’accettazione del processo fisico del concepimento da parte della donna. E l’intenzione può cambiare, come quando una coppia si separa durante la gravidanza, o quando alcuni dei partecipanti alla Gpa cambiano idea. Questi cambiamenti non fermano la gravidanza. Se si privilegia l’intenzione come criterio di assegnazione dei figli, inevitabilmente si finisce per cancellare l’esperienza corporea, che è quella che fisicamente crea un bambino, con le sue gioie e con i suoi rischi. A proposito di amore, noto che il nostro discorso pubblico di lesbiche e gay si è completamente ribaltato. Prima chiedevamo che fossero riconosciute le nostre relazioni. I nostri amori non potevano esistere nella sfera pubblica, al contrario di quelli tra uomini e donne, che possono assumere rilevanza pubblica col matrimonio e ora anche, sempre più, con la semplice convivenza. Siamo invece arrivati a nominare come atto d’amore quella che in realtà è primariamente una separazione: la Gpa che crea una famiglia programmando il distacco della madre dal neonato. Molti gay ne fanno una questione di parità con la procreazione delle lesbiche, che però utilizzano un prodotto del corpo maschile che se ne stacca proprio per adempiere la sua funzione biologica nel coito o nella donazione, senza che siano necessari alla procreazione altri rapporti con il corpo maschile. L’accesso dei gay alla Gpa

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non è una pratica sociale equivalente. Inoltre l’uguaglianza giuridica tra etero e omosessuali non può passare attraverso il “diritto alla procreazione” perché un simile diritto non esiste: la procreazione è una capacità del corpo, e non averla non costituisce una disabilità, né l’infertilità è una malattia, anche se può essere conseguenza di malattie. Più spesso è conseguenza delle alterazioni umane dell’ambiente, come l’inquinamento da sostanze chimiche e organiche, come scrivono Paola Tavella e Alessandra Di Pietro: Se nei Paesi sviluppati la fertilità umana è diminuita soprattutto a causa dell’inquinamento alimentare e ambientale, la soluzione sarebbe vietare l’agricoltura chimica e l’emissione in atmosfera di nuove sostanze incontrollate. Invece si sceglie la protesi rea­ zionaria, la fecondazione artificiale extracorporea, che apre ai gruppi farmaceutici un nuovo immenso spazio di speculazioni e profitti. Chi provoca l’infertilità fornisce, allo stesso tempo, il rimedio artificiale6.

L’infertilità non è un concetto chiaro né assoluto perché può anche essere idiosincratica: Marco e Maria non sono fertili tra loro senza avere problemi a concepire con altri. Tavella e Di Pietro scrivevano, al tempo della campagna sul referendum sulla fecondazione assistita: In quei giorni leggevamo avidamente le inchieste giornalistiche sull’argomento e osservavamo l’imma-

  Di Pietro, Tavella, Madri selvagge cit., p. 30.

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ginario mediatico in via di costruzione. Veniva raccontato, per esempio, come se si scrivesse del Paese di Bengodi, che squattrinate studentesse di Barcellona vendono i loro ovuli per novecento euro sentendosi altruiste. Le donne infertili erano descritte come corpi e menti totalmente consegnati alla tecnomedicina, vittime di una sciagura che la scienza può oltrepassare trattando l’utero come un banale pezzo di corpo, senza indagare sulla persona, sulla mente, su quel venti (e secondo alcune stime anche trenta) per cento di inspiegabili ragioni della sterilità, su ansie, desideri, accanimenti7.

Ciò vale soprattutto per chi si consegna a ginecologi che promettono una figlia ad ogni costo, presentando alla fine la surrogazione come soluzione di ultima istanza, come abitualmente fanno nei paesi in cui è consentita. L’ipotetico diritto alla procreazione non può esistere nemmeno per ricorrere – prima ancora che alla relazione con una “surrogata” – alle tecniche mediche, perché queste non sono cure: se si usano gameti esterni alla coppia, sono piuttosto una riconfigurazione delle relazioni di filiazione; se si usa il materiale biologico della coppia, sono espedienti per far funzionare gameti inadatti, ad esempio con l’Icsi. Se ci fosse un diritto alla procreazione dovrebbe corrispondervi il dovere di qualcuno di realizzarlo. Dovrebbero garantirlo le madri retribuite e forzate al distacco? Donazioni di sperma forzate?   Ivi, pp. 13-14.

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È un dramma per chi vuole avere figli non poterne avere. Ma una domanda polemica è inevitabile: piuttosto che richiedere i servizi di una madre surrogata a cui – come abbiamo visto – tutti reputano necessario affiancare un sostegno psicologico, perché non offrire piuttosto un sostegno simile a coloro che non riescono a rassegnarsi alla loro infertilità perché trovino altre fonti di appagamento personale e contribuiscano in altri modi alla vita sociale invece di incoraggiarli a inseguire il sogno di un figlio, comunque primariamente non loro, a un prezzo altissimo, persino impiegando una donna che faccia da portatrice? Invece di introdurre per loro l’istituto della Gpa (e perché poi non per tutti quelli che la possono pagare?), la collettività dovrebbe piuttosto ringraziarli per non aver aumentato il numero già esorbitante di esseri umani su questo pianeta, tutti impegnati a perseguire l’infinita crescita per ordine del capitale. Se tutto il mondo avesse il tenore di vita medio degli italiani, avremmo bisogno di tre pianeti per i nostri consumi. Le religioni potrebbero fare molto per attenuare l’obbligo sociale a procreare – perché il papa “ecologista” invece punta ancora sul crescete e moltiplicatevi? Come non esiste un diritto alla procreazione, tantomeno può esistere un “diritto all’omogenitorialità”. A un incontro sulla Gpa nell’aprile 2016 su invito di Bocconi Equal Students

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scoprii che i gay ventenni considerano invece l’avere un bambino come un loro diritto, di cui li sta defraudando l’inesistenza in Italia (loro dicono la “proibizione”) della maternità surrogata. Terminato l’incontro ho chiesto a uno di loro perché mai volessero dei figli, cosa, secondo la mia esperienza, non comune nella riflessione dei gruppi gay. La risposta è stata: “Per essere accettati. Anche gli etero li fanno per questo motivo. Vogliamo essere accettati come tutti”. Non dubito che, molto più di un qualche istinto procreativo spazzato via dalla cultura8, la via della normalità renda inclini ad avere figli anche le coppie eterosessuali. Ma avere figli può essere un diritto di chi non è in grado di farli? E, di nuovo, il dovere di chi dovrebbe soddisfare questo diritto? Chi non può avere una gravidanza dovrebbe usare una portatrice stipendiata dalla mutua? L’idea di uguaglianza che il movimento Lgbt ha promosso, intendendo il pari valore delle scelte affettive omo o eterosessuali, è ora diventata la ricerca di assimilazione all’eterosessualità? Anche noi dobbiamo poterci sposare e sottostare all’imperativo sociale di avere figli, nonché di essere fedeli: un’altra esclusione che, ho imparato quel giorno, indigna i ventenni di Bocconi Equal Stu-

8   Si veda il libro di Sarah Blaffer Hrdy L’istinto materno, Sperling & Kupfer, Milano 2001.

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dents? È vero che la procreazione rende normali, nel senso di partecipi della vita quotidiana delle famiglie, oltre a perpetuare il nome e la casata e soddisfare le aspirazioni dei genitori a diventare nonni. Ma perché i gay interessati alla paternità non chiedono principalmente l’accesso all’adozione, oppure non si accordano per condividere la genitorialità con le donne anche senza avere con loro relazioni basate sulla sessualità? Un’eccentricità di ricchi che vanno in California a farsi assemblare embrioni in laboratorio pagando un’operaia della gravidanza felice è diventata la priorità del movimento? È forse già l’aspirazione del gay medio? Si sente dire infatti che bisogna rendere la Gpa possibile anche in Italia perché adesso solo i ricchi se la possono permettere. E chi andrà a comprare e chi a vendere al mercato dei bambini? È assurdo dire, come sostiene qualcuna, che la Gpa va bene come fonte di arricchimento: “le donne dovrebbero essere pagate centinaia di migliaia di euro”; “per 100.000 euro io lo farei”. L’economia non funziona così. Il prezzo della Gpa lo fa il mercato in ragione della domanda e dell’offerta secondo la distribuzione del reddito: circa 30.000 dollari negli Stati Uniti, appena 3.000 in India. Ho una proposta per il movimento Lgbt: facciamo un passo indietro e ammettiamo di avere sbagliato nel promuovere la “gravidanza per

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altri”9. Chiediamo invece di poter essere valutati per le adozioni senza inventarci uno speciale “diritto all’omogenitorialità”, cioè la facoltà legale di comprare bambini. Richiediamo finalmente i diritti civili che sono di tutti: scuola e sanità pubblica, pensioni adeguate, un’abitazione dignitosa, la protezione dai licenziamenti arbitrari, la protezione sociale anche quando non si è in grado di lavorare. Sono diritti che abbiamo tutti perso, in questi anni di neoliberismo di destra e di sinistra, e la loro rivendicazione non ci contrapporrebbe al resto della popolazione – in particolare alle donne – come fa il presunto diritto di avere figli mettendo sotto contratto delle operaie della gravidanza. Mi dicono che ai miei discorsi manca l’amore, ed è l’amore che fa una famiglia. Però i gay interpellati (perché gli etero, forse più saggiamente, tacciono) unanimemente dichiarano che se la madre non avesse voluto adempiere al contratto: “Saremmo andati in tribunale!”. Famiglia uguale amore più soldi più medici più agenzie più contratti più tribunali. La donna disponibile ad aiutare che poi però volesse fare la madre si troverebbe citata in giudizio e sottoposta allo scrutinio delle sue opinioni e decisioni: se di-

9   Come suggerisco anche ne La maternità per altri, in “La falla”, febbraio 2016 (http://www.danieladanna.it/wordpress/wpcontent/uploads/2016/02/il-cassero.docx).

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chiarata “omofoba” sarebbe certo anche indegna di crescere suo figlio, come abbiamo visto accadere nella Gran Bretagna della Gpa altruistica. È ancora l’idea di una “gravidanza per altri” che fa sì che questi “altri” vogliano poi a tutti i costi appropriarsi del bambino iniziando cause legali se la madre ritira il suo consenso. Gli uomini pensano che un neonato sia (almeno) per metà cosa loro perché c’è la parità, e inoltre hanno dato l’indispensabile contributo di un orgasmo. Le famiglie fondate sulla surrogazione sono quindi strane e inadeguate per via della loro complicata origine? Secondo le ricerche condotte su coppie eterosessuali non ce ne sono prove. Anzi, in Inghilterra quelle che hanno partecipato alle ricerche stanno addirittura meglio delle altre nei primi anni di vita dei bambini. Susan Golombok, direttrice del Centro studi sulla famiglia dell’Università di Cambridge, nel suo ultimo libro Famiglie moderne ha passato in rassegna le ricerche esistenti, in gran parte realizzate dal suo stesso Centro. Importante è lo Uk longitudinal study of assisted reproduction families che compara tre gruppi di famiglie originate da rapporti sessuali, da gameti donati e con la madre retribuita. Il contesto britannico è quello dei regolamenti sotto la bandiera dell’altruismo, non il mercato selvaggio alla californiana dove le agenzie scompaiono con la cassa che serviva a pagare le surrogate e le donne vengono messe

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incinte, al lavoro in attesa del committente che offra di più (questo è stato poi considerato un reato). Naturalmente, come fa notare la stessa Golombok, c’è incertezza sui risultati, sia perché gli studi si basano su piccoli numeri (42 famiglie “surrogate” nel Longitudinal study), sia a causa dell’autoselezione dei campioni. Per esempio il tasso di risposta al Longitudinal study è stato inizialmente circa del 60%, poi negli anni molte famiglie hanno cessato di partecipare. Molti fattori dovrebbero in teoria influenzare negativamente queste famiglie: l’ansia per la “consegna”, l’incertezza sul mantenimento di una relazione accettabile con la madre retribuita, il debole legame prenatale dei genitori adottivi fai-da-te, le spiegazioni dovute al contesto familiare per la comparsa improvvisa di un neonato, la possibile disapprovazione delle famiglie e anche la possibilità dell’insorgere di un senso di inadeguatezza e scarsa autostima nella madre intenzionale quando si paragona alla madre di nascita, con l’esito possibile della depressione. Ciononostante non sono stati misurati svantaggi delle famiglie da Gpa, anzi nei primi anni i figli osservati stanno addirittura meglio che nei gruppi di controllo: le relazioni tra genitori e figli sono migliori, e non ci sono differenze nel temperamento (sic) dei figli e nella qualità delle cure genitoriali. Il benessere psicologico e l’adattamento alla genitorialità sono più grandi

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nei genitori che hanno fatto ricorso a una madre retribuita, e le madri sociali mostrano una minore incidenza della depressione di quelle di altre famiglie. I vantaggi scompaiono all’età di sette anni dei figli, quando i bambini della Gpa mostrano più problemi nelle scale “dell’adattamento” (Golombok nota che i problemi, comunque non gravi, erano riferiti dalle madri ma non dalle maestre) proprio come i figli adottati fuori dal Regno Unito, e probabilmente per gli stessi interrogativi sulla propria identità che emergono a quell’età. Le differenze con i gruppi di controllo scompaiono con la crescita dei bambini: a dieci anni non erano già più rilevabili, allo stesso modo dei bambini adottati dall’estero10. La tappa dell’adolescenza in questa ricerca non è stata ancora raggiunta. Tutto bene allora. I neonati devono proprio essere delle tabulæ rasæ.

10   S. Golombok, Famiglie moderne. Genitori e figli nelle nuove forme di famiglia, Edra, Milano 2016. Il modo di procedere di Golombok è generalmente questo: se non ci sono differenze tra le famiglie osservate, il risultato è immediatamente accettato. Solo se si riscontrano differenze allora l’autrice evoca altri possibili fattori non osservati che possano giustificarle riportando le “famiglie moderne” alla normalità. Golombok menziona ma non discute l’articolo di Stacey e Biblarz, che invece riflettono sulle differenze riscontrate tra famiglie formate da lesbiche e da eterosessuali, che i ricercatori tendevano a minimizzare. J. Stacey, T.J. Biblarz, (How) Does the Sexual Orientation of Parents Matter?, in “American Sociological Review”, vol. 66, n. 2, 2001, pp. 159-183.

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“Che cosa sappiamo dei neonati?” mi si chiede polemicamente negli incontri pubblici, sicure che qualunque cosa se ne dica o è una fantasia o una proiezione, dal momento che i neonati non parlano né poi ricordiamo questa fase della nostra vita. Per di più le neonate sono inermi e possono e devono adattarsi a qualunque situazione, anche ad essere oggetto di dono. Qualcosa però ne sappiamo. Di certo sappiamo che le ha fatte e poi partorite quella donna particolare che chiamiamo madre di nascita o naturale. Quella è la loro storia, è a lei che devono la vita, ci sia stata o meno anche una decisione e intenzione solo sua o anche di altri (come il necessario padre naturale) nel farle venire al mondo. Sappiamo poi che hanno bisogno del latte materno, che è il nutrimento migliore attraverso il quale si acquisisce anche la protezione immunitaria (se la

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madre vuole e può fornirlo, se è sufficiente e se l’allattamento non troppo doloroso). Sappiamo anche che il contatto con il corpo materno rassicura e tranquillizza più del contatto con altri corpi. Dal punto di vista della neonata, chi sia sua madre è chiaro come il sole – ma in questo assurdo dibattito tra genetica, intenzione e relazione, nessuno pensa di chiederlo a lei. Appena nati, i neonati di tutte le specie di mammiferi – se non storditi da antidolorifici dati durante il travaglio in circolo nel sangue materno – cercano il capezzolo da succhiare, e lo trovano guidati dall’olfatto. Riconoscono la voce della madre e anche di chi le è stato vicino. Non mancano interessanti ricerche sulle capacità cognitive e sulle preferenze sia dei mammiferi che dei neonati umani. I fautori del dono, invece, preferiscono considerare il neonato come una tabula rasa e non come un essere che ha già una storia e un forte legame. Certo, non abbiamo ricordi della nostra prima infanzia. La relazione con la madre, se interrotta, è un legame che poi il neonato dimentica. Alcuni però soffrono per il distacco dalla madre, per quanto precocemente avvenga. Alcuni genitori intenzionali hanno difficoltà nell’accudire piccoli che hanno perso il loro unico punto di riferimento. E che cosa ne penseranno i neonati stessi una volta cresciuti? Sul web si trovano storie agli estremi opposti: quelli che sono grati ai genitori

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intenzionali e quelli che si sentono comprati e venduti. C’è chi si duole di aver perso la madre; c’è una donna che è cresciuta in una famiglia in cui il padre era violento e considera anche la sua nascita da una “surrogata” tra i maltrattamenti subiti; c’è invece una donna che ha voluto fare la stessa cosa che ha fatto sua madre di nascita, trovando entusiasmante l’esperienza della Gpa. Gli esseri umani sono flessibili. Questo non significa che si possano fare esperimenti con loro, né che non si debba per lo meno riflettere sulla responsabilità che ci si assume nel volere e programmare – come lo vogliono i genitori intenzionali – una separazione tra madre e figlio come origine per la propria famiglia. Anche dalla parte dei neonati sicuramente gioca la variabilità umana: alcuni saranno meno nostalgici del corpo materno di altri. Ma possiamo giocare ai dadi con la loro vita? E poi non risulta che nessun genitore intenzionale abbia ridato la bambina alla madre (chiedendole, naturalmente, se la rivoleva) nemmeno se la bambina dava chiari segni di malessere fisico, irrequietezza, irritabilità, inconsolabilità come la figlia di ­Heather, che racconta la sua storia nel documentario Breeders di Jennifer Lahl (2014). Non esiste un’ArciNeonata, un’Associazione per il riconoscimento della cultura e degli istinti del/la neonato/a! Perché i neonati hanno l’una e gli altri: è cultura la relazione con la loro madre, che

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conoscono e riconoscono in quella particolare donna per la voce, l’odore e il corpo (anche se la vista dei neonati non è ancora al massimo dello sviluppo), e sono istinti le loro capacità di cercare quel che loro serve e di orientare chi se ne prende cura a soddisfare i propri bisogni, senza usare gli ancora sconosciuti simboli culturali. Si dice sia “essenzialismo” affermare l’esistenza di un legame tra madre e neonato, si dice che gli esseri umani non abbiano istinti. Nemmeno i neonati che cercano il capezzolo per sfamarsi? Come possiamo classificare se non come “biologica” la funzione di nutrimento e passaggio di anticorpi che ha il latte materno? Dalla parte della madre, certo, non ci sono istinti ma cultura: è culturale il suo rapporto col feto durante la gravidanza, e ha modalità specifiche, non sempre uguali: la Gpa dimostra che può essere soggettivamente vissuto persino con distacco. Ma è assurdo dare per scontato che una donna che ha promesso il futuro bambino ad altri non possa invece sentire un legame con lui quando poi nasce. Sarebbe ancora “essenzialismo” dare questo riconoscimento nei casi in cui il legame si è formato? Quello che accade nel non-essenzialismo della Gpa è invece la manipolazione delle donne perché pensino che la gravidanza in cui sono impegnate non sia la loro. Certamente non sono tabulæ rasæ gli altri figli che, addirittura in molti Stati per legge, le

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surrogate devono già avere. Essi assistono alla gravidanza in conto terzi della madre, alla sparizione del bimbo nato allo stesso modo di un fratello, e a dispetto delle rassicurazioni a volte temono di essere a loro volta dati via. La clausola di avere già dei figli, che complica la situazione di questi, non sembra essere altro che un criterio di selezione sulla capacità dell’aspirante surrogata di portare a termine una gravidanza. Samana, che ha fatto ricerca in Israele, racconta che la metà dei figli delle madri retribuite intervistate avevano tra i cinque e gli undici anni, età nella quale è difficile comprendere che cosa sia una Gpa: Nelle interviste alcune delle surrogate descrivevano situazioni complesse che hanno avuto un’influenza negativa sui loro figli: il dolore nel separarsi dal bebè, suppliche perché la madre abbia un bebè “anche” per la sua famiglia, l’esperienza dell’abbandono in tenera età per il lungo ricovero della surrogata, la delusione perché i genitori designati sono rimasti in contatto solo mentre la loro madre portava il bambino, e la paura che anche loro sarebbero stati dati via come i loro “fratelli”1.

Elizabeth Kane, dopo essere stata la prima ed entusiasta portavoce per la surrogazione con il suo sincero desiderio di aiutare una coppia infertile, alla fine della sua esperienza cominciò a

  Samana, Within Me, But Not Mine cit., p. 131.

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fare domande scomode: “Perché pensiamo che creare bambini con qualcuno che a malapena (o per nulla) conosciamo e abbandonare questi bambini sia qualcosa di nobile perché ha reso ‘felici’ i genitori intenzionali? Questa è follia”2, è la sua scomoda risposta. Anche l’ovodonazione, spesso usata nella Gpa e come questa presentata principalmente come un atto di generosità (però retribuita), è qualcosa di cui a volte le “donatrici” si pentono. Le storie riportate sul sito AnonymousUs mostrano le sue possibili conseguenze non solo fisiche ma anche emotive: È molto difficile per me ora ammettere che mi sono pentita delle mie donazioni. Mi sono pentita di avere avuto figli biologici con uomini che non conosco, del fatto che là fuori ci sono figli miei che non conosco. Non posso dire di rimpiangere di aver creato delle vite perché, insomma, come si può dire una cosa del genere? Non mi pento di questo. Ma mi pento del modo in cui è accaduto. [...] Ora che io e mio marito abbiamo nostra figlia, mi rammarico delle mie donazioni perché ho costretto mia figlia ad avere dei fratellastri senza poterli incontrare né conoscere.

Siccome la procreazione assistita viene erroneamente pensata come una terapia dell’infertilità, al centro dell’attenzione è sempre e solo la 2   https://anonymousus.org/no-one-who-was-created-fromdonor-conception-was-ever-wanted/.

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coppia destinataria dello sforzo, mentre il materiale biologico con cui si ovvia alla loro infertilità viene trattato anonimamente (tranne che nei pochi Stati sopracitati). Però gli esseri umani che ne sono derivati non sempre la pensano allo stesso modo, perché questo “materiale biologico” ha determinato le loro caratteristiche: Non potevo dare un senso alla mia storia. Sono un essere umano, tuttavia sono stato concepito con una tecnica che ha avuto origine nell’allevamento animale. Peggio di tutto: gli allevatori tengono registri migliori della genealogia del loro bestiame di quanto le cliniche per la riproduzione assistita abbiano fatto alla mia epoca per la gente concepita da un donatore. Mi sono sentito strano anche al pensiero che i miei geni fossero stati montati insieme provenendo da due persone che non si sono mai innamorate, che non hanno mai ballato insieme, che non si sono nemmeno mai incontrate. Il mio donatore era giovane e vedeva solo il fatto di fare “una buona azione”. Ha creduto alle cliniche, che gli hanno detto che il legame biologico può essere estinto firmando un contratto.

Chi interviene su AnonymousUs avendo avuto l’esperienza personale dell’origine da “donatori” anonimi spesso esprime amarezza per la propria identità incompleta o frammentata. Racconta anche come questa sua esigenza sia messa a tacere da reazioni verbalmente violente, e generalmente esprime un grande desiderio di conoscere i “veri genitori” (così li chiama), cioè

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i genitori in senso genetico3, che per lo più sono venditori di sperma, ma anche venditrici di ovuli (non ho trovato invece “post” che cercassero specificamente la madre di nascita): “Come hanno potuto i dottori, che hanno giurato ‘per prima cosa non nuocere’, creare il sistema nel quale ora affronto il dolore e la perdita della mia identità e del mio retaggio?”; “Come ha potuto il mio donatore crearmi e poi abbandonarmi, senza nemmeno lasciare il suo nome?”. Per facilitare il contatto tra donatori e figli e tra fratellastri Wendy Kramer ha fondato il Donor Sibling Registry, che oggi ha circa 50.000 aderenti. Per un quarto di essi la ricerca è riuscita e il contatto si è realizzato. Altri notano che chi si conosce e si piace dovrebbe oggi fare un test del Dna per sapere con certezza che la relazione non sia incestuosa, dato anche che la maggior parte dei figli di donatori non sa di esserlo. Nel sito AnonymousUs appaiono anche le testimonianze di persone infertili che hanno rinunciato alla genitorialità piuttosto che fare ricorso a gameti di estranei, anche se conoscibili, per non mettere in difficoltà i figli che ne sarebbero nati. 3   È certo opinabile il fatto che chi scrive su AnonymousUs chiami “vera madre” e “vero padre” le persone che hanno dato solo il contributo genetico alla sua esistenza, svalutando i genitori che l’hanno concretamente cresciuto. Però se una portatrice o una donatrice può dire di non essere una madre, perché i figli non possono invece chiamarla tale? Se il criterio è la soggettività, il risultato – come volevasi dimostrare – è l’incomunicabilità.

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Diciamolo apertamente: nella Gpa si fa ricorso ad ovuli acquistati (non sempre, ma spesso anonimi) per dare ai committenti garanzie in più: dal punto di vista legale sull’effettiva consegna del “dono” e dal punto di vista psicologico per meglio convincere la donna che sta diventando madre che non lo è veramente, in quanto “porta” il futuro bambino di un’altra. Eppure con le tecniche di riproduzione medicalizzata si ottengono, in media, bambini meno sani degli altri e le tecniche vanno “migliorando” solo nel senso di consentire la riproduzione a gameti sempre più inadatti biologicamente. Il rapporto dell’International Committee Monitoring Assisted Reproductive Technologies del 2013 parla infatti di maggiori problemi di salute dei neonati che hanno all’origine la procreazione assistita: “Un’incidenza più alta di anomalie congenite e di anormalità sia nel cromosoma autosomico che in quello del sesso sono state specificamente riferite, sia per la fecondazione in vitro che col trasferimento di spermatozoo (Fivet e Icsi), comparati con infanti concepiti spontaneamente”4. Non si sa ovviamente se ciò debba essere attribuito alla scarsa qualità del materiale genetico, che proviene appunto da

4   Citazione a p. 1388. Sui difetti alla nascita vedi anche l’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.who.int/reproductivehealth/topics/infertility/new/en/).

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persone che non riescono ad avere figli in modo naturale, o dalle procedure di manipolazione dei gameti per la fecondazione in vitro e l’impianto dell’embrione. Gli embrioni creati in vitro hanno però sicuramente saltato numerosi passaggi tuttora sconosciuti che avvengono a livello molecolare nell’interazione tra spermatozoo e ovulo nell’ambiente uterino. Ad esempio si osserva che l’ovulo non attende affatto passivamente la penetrazione, come nell’immaginario diffuso che proietta sui gameti i ruoli sociali maschili e femminili, ma attrae e cattura un particolare spermatozoo. Ci sono molte ragioni dunque per non preoccuparsi se nella maternità per altri – quella informale che già è possibile in Italia – non si può ovviamente fare ricorso ai laboratori. Intendo con “maternità per altri” la semplice rinuncia della madre al riconoscimento del figlio che viene riconosciuto dal padre naturale, senza alcun bisogno di un istituto giuridico apposito. Consideriamo ora le situazioni eccezionali finora messe da parte: una volta escluso il compenso per la vendita di un bambino rimangono appunto pochissime eccezioni di donne altruisticamente disponibili a diventare madri di nascita e far crescere il bambino al padre e alla sua o al suo compagno. Per queste poche donne e situazioni non c’è bisogno di alcuna legge apposita, che può solo limitare la loro libertà di riconoscere la propria

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neonata senza essere obbligate a consegnarla a nessuno. Queste donne eccezionali potrebbero quindi già fare una “maternità per altri”, e solo per un padre naturale, come è giusto che sia per non evadere le leggi sull’adozione. Lo svantaggio dal punto di vista dei genitori intenzionali è che la donna che diventerà madre sociale non può contribuire geneticamente – ammesso che sia in grado di farlo. Non poter ricorrere alle cliniche significa però anche risparmiare i trattamenti ormonali alle due donne. Non è ovviamente uno svantaggio dei committenti di cui doversi preoccupare il fatto che la volontà della madre venga verificata solo dopo la nascita e non prima. Non voglio infatti pensare che i genitori intenzionali rifiutino di riconoscere che la madre di nascita ha tutto il diritto di proseguire la sua relazione con la neonata, la quale viene lesa dall’allontanamento (che per lei è sempre forzato) dal suo punto di riferimento. È ovvio che la creatura voglia proseguire il rapporto con la madre, e ne avrebbe anche il diritto secondo le convenzioni internazionali. Ma, come per i bambini dati in adozione, non si può imporre nessuna relazione a chi non la vuole. Qualcuno ha parlato di “modello Danna” per questa prospettiva di “maternità per altri”. Non è questo che auspico: si tratta comunque di una situazione di incertezza cui sarebbe ancora più saggio rinunciare accettando l’infertilità e pro-

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vando a offrirsi per l’adozione o per l’affido o per condividere le fatiche delle famiglie con cui si è in relazione. Il mio modello è piuttosto far sì che tutti noi, in primo luogo i “genitori intenzionali” magari in procinto di cercare il paese migliore in cui farsi produrre un bimbo, ci rendiamo conto che il costo umano dell’accordo sarà certamente pagato dal neonato, e probabilmente anche da sua madre. Se davvero chi vuole figli non potendone avere ritiene che “l’amore fa una famiglia” e che i neonati non abbiano bisogno della madre, questa strada rimane aperta (solo a un padre biologico) senza dover stravolgere le leggi esistenti. Non è un “modello Danna”, ma un accordo che non si può legalmente impedire – se non sono avvenuti scambi di denaro, senza nessuna compravendita dell’infante. Su questo non sembra difficile che le autorità sorveglino, esaminando eventuali passaggi di denaro nei pochi casi in cui la madre non riconosce il figlio e lo riconosce solo il padre. Ma è questa incertezza che risulta intollerabile ai committenti. Per funzionare, la Gpa deve attivamente impedire il legame tra madre e neonata. Se questo non ci piace, possiamo forse imporre agli altri la nostra particolare visione morale, come quando si vuole impedire quello che fanno le sex worker?

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Un altro mantra di questi mesi di dibattito è stato: “A parte i motivi etici, che cosa c’è che non va nella maternità surrogata?”. La prima risposta è che la parola “etica” non significa “religione cattolica”: da laiche dobbiamo comunque riflettere su cosa è giusto e cosa è sbagliato nella vita pubblica, che cosa va incoraggiato e che cosa va impedito, trovandone il fondamento non in testi sacri ma nelle relazioni e nella loro autenticità. A partire da un’etica laica si sono così riunite a Parigi nel febbraio 2016 le Assise per l’abolizione universale della maternità sostitutiva. Promosse dai tre gruppi Coordination des Associations pour le Droit à l’Avortement et à la Contraception, Coordination Lesbienne en France e Collectif pour le Respect de la Personne, le Assise hanno rivolto il proprio appello agli Stati (chissà perché solo europei) e ai consessi internazionali:

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chiediamo alla Francia e agli altri paesi europei di rispettare le convenzioni internazionali per la protezione dei diritti umani e del bambino di cui sono firmatari e di opporsi fermamente a tutte le forme di legalizzazione della maternità surrogata sul piano nazionale e internazionale1.

I firmatari e le firmatarie di questa Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata sono stati, tra gli altri, Sylvaine Agacinski, Marie-Jo Bonnet e José Bové. Le Assise hanno anche constatato che le norme per impedire l’introduzione della Gpa o per cancellarla già esistono a livello internazionale. La Convenzione sui diritti dell’infanzia proibisce “la vendita o il traffico di bambini per qualunque scopo” (art. 35), quindi anche a fin di bene per la creazione di nuove famiglie, che non vanno basate sullo sfaldamento intenzionale di quelle esistenti. Inoltre dichiara che: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente” (art. 3), e l’interesse del neonato non può essere altro che continuare l’unica relazione che ha avuto, cioè stare con sua madre, che lo nutre e lo accudisce. Anche la Convenzione sull’adozio  www.abolition-gpa.org.

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ne internazionale dell’Aja dichiara di avere come scopo: “Stabilire salvaguardie per assicurare che le adozioni internazionali siano intraprese per l’interesse del bambino [...] e con questo prevenire il rapimento, la vendita o il traffico di bambini”. La Convenzione europea in materia di adozione elaborata dal Consiglio d’Europa, inoltre, garantisce che l’adozione può essere effettuata solo con il consenso della madre e del padre del bambino, che devono essere stati “dati e non ritirati”, prevedendo quindi che i genitori possano cambiare idea. Gli Stati del Consiglio d’Europa si sono accordati anche sul fatto che il consenso all’adozione non può essere dato che dopo la nascita della bimba, trascorso un periodo non inferiore a sei settimane per permettere alla madre di riprendersi dal parto. L’adozione peraltro non può prescindere da una valutazione delle coppie o dei singoli (anche omosessuali) che la richiedono. La Convenzione europea sullo statuto giuridico dei bambini nati fuori dal matrimonio dichiara che: “La filiazione materna di tutti i bambini nati fuori dal matrimonio è stabilita dal solo fatto della nascita dell’infante” (art. 2). E questa vita familiare dell’unità minima puerpera-neonato ricade sotto la protezione accordata al rispetto della vita privata e della vita familiare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “Ogni individuo ha

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diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni” (art. 7), nonché dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza” (art. 8). La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, elaborata in seno all’Onu nel 1979, è il documento principale di riferimento per il miglioramento della condizione delle donne nel mondo. Afferma che: “Gli Stati Parti convengono che tutti i contratti e tutti gli altri strumenti privati di qualsiasi tipo con un effetto giuridico che mira a limitare la capacità giuridica delle donne sono considerati nulli” (Cedaw, parte 4, art. 15, comma 3). Si tratta certamente di un articolo volto a proteggere il diritto di proprietà e la partecipazione delle donne alla vita lavorativa, ma è evidente che anche chi ha firmato un contratto di Gpa si sottopone a una limitazione della propria capacità giuridica di riconoscere il figlio in quanto madre alla nascita. Il Comitato sui diritti delle donne e la parità di genere del Parlamento europeo ha affermato nel 2013 che: “La maternità surrogata rappresenta una mercificazione sia dei corpi delle donne che dei bambini, e rappresenta una minaccia all’in-

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tegrità corporea e ai diritti umani delle donne”2. Infine dal 2015 il Parlamento europeo “condanna la pratica della surrogazione, che compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce; ritiene che la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani”3. La mobilitazione contro la Gpa è una vera battaglia abolizionista, che chiede la sua cancellazione dai testi di legge solo di recente approvati, che sovvertono la certezza di maternità legale. L’abolizionismo è il movimento che nell’Ottocento lottava per l’abolizione della schiavitù, che era un istituto giuridico come lo è la Gpa e quindi poteva davvero essere abolita con un tratto di penna. Il termine “abolizionismo” fu 2   European Parliament, Committee on Women’s Rights and Gender Equality, Report on Sexual and Reproductive Health and Rights, approvato il 18.9.2013, Ref. A7-0306/2013, § 9 (http:// www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP// TEXT+REPORT+A7-2013-0306+0+DOC+XML+V0//EN). 3   Parlamento europeo, Relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2014 e sulla politica dell’Unione europea in materia (punto 115), approvata il 17.12.2015 (http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-// EP//TEXT+TA+P8-TA-2015-0470+0+DOC+XML+V0// IT&language=IT).

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poi adottato dalle femministe che chiedevano l’abolizione dei regolamenti sulla prostituzione e anche della prostituzione tout court, e oggi il termine si usa prevalentemente in questo ambito. Però, al contrario della schiavitù e della Gpa, non è possibile “abolire” la prostituzione con un tratto di penna su un codice legislativo, perché si tratta di uno scambio tra sesso e denaro che non ha bisogno di alcuna legge per realizzarsi4. La legge non può abolire ma solo reprimere la prostituzione, oppure accettarla. Ecco perché non è corretto affiancare le due situazioni come fa ad esempio la giornalista e attivista svedese Kajsa Ekis Ekman, intervenuta anche a Parigi per chiederne la contemporanea “abolizione”. Nel suo libro “Essere ed essere comprata”5, oltre a presentare le storie più raccapriccianti che sono accadute nei due ambiti, Ekman mette giustamente in luce i parallelismi nei due sistemi di sfruttamento femminile: la prostituzione e la Gpa (uno criminale, l’altro pienamente rispettabile) che similmente traggono guadagno dall’uso del corpo e della sessualità femminili. C’è però, oltre al ruolo della legge, un’altra dif-

4   Mi permetto di rinviare ai miei lavori: Che cos’è la prostituzione? Le quattro visioni del commercio del sesso, Asterios, Trieste 2004 e Donne di mondo. Commercio del sesso e controllo statale, Eleuthera, Milano 2004. 5   K.E. Ekman, Being and Being Bought: Prostitution, Surrogacy and the Split Self, Spinifex Press, Melbourne 2013.

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ferenza fondamentale tra queste due situazioni: se da una parte è in gioco l’intimità sessuale per una donna e “niente altro”, tanto che fin dall’Illuminismo si è proposto il principio del “nessun danno a terzi” per richiedere che lo Stato smettesse di criminalizzare la prostituzione, dall’altra quella che è in gioco è una nuova vita, quindi un terzo oltre alle parti contraenti esiste certamente. Il rilievo che dobbiamo dare alla soggettività delle donne che possono decidere di dedicarsi alla prostituzione o alla surrogazione è quindi diverso, perché nella Gpa il soggetto donna non decide su di sé ma su di una neonata. È questo che non è ammissibile, ed è questo che ha bisogno di norme apposite che creino la situazione in cui i neonati passano legalmente di mano. Infine un’altra, minore, differenza salta all’occhio: la grande mobilitazione per la legalizzazione della Gpa di avvocati e giuristi, esperti soprattutto di diritto privato internazionale ma anche di altre specialità come il diritto di famiglia6. La Conferenza dell’Aja, formata da questi esperti, sta infatti lavorando in questa direzione, per proporre una convenzione internazionale sulla Gpa sul modello dell’adozione internazionale in cui furbescamente hanno proibito solo i “guadagni 6   Ad esempio il già citato rapporto al Parlamento europeo, il testo curato da Trimmings e Beaumont (vedi supra) e i convegni organizzati in Italia dalla Rete Lenford.

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impropri” e non i guadagni tout court, creando naturalmente un mercato internazionale di bambini per l’adozione in cui si pagano “giuste tariffe”, anche per la rappresentanza legale. Se la prostituzione potesse avvenire solo dopo la firma di un contratto, gli avvocati si farebbero in quattro per la sua legalizzazione! Invece si dedicano a quelli, assai lucrativi, che sono indispensabili per sostituire al concetto biologico di madre un concetto artificioso istituito da un diritto arbitrario. La Conferenza dell’Aja va avanti con i lavori per far introdurre o accettare la Gpa a ogni Stato, sotto il pretesto dell’imprescindibile bisogno della certezza della genitorialità – che è ovviamente quella dei committenti dal cui portafoglio dipende tutta la costruzione – nonché del “bene del bambino”, cioè per evitare i temporanei disagi di quei pochissimi infanti rimasti nel limbo degli apolidi per pochi mesi (nel caso peggiore i gemelli Balaz rimasero due anni in India) a causa dell’insipienza dei genitori intenzionali che li hanno fatti fare per poi cercare di importarli infrangendo le leggi del proprio Stato. A tutti questi neonati sono poi stati riconosciuti motivi umanitari per conferire loro la cittadinanza degli sciagurati genitori intenzionali. Si diceva che il fatto più persuasivo per non definire madre colei che partorisce se ha promesso il bambino ad altri è rappresentato dalle dichiarazioni delle donne che si pensano come

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“portatrici”. Ma il motivo principale che spinge per l’introduzione della Gpa non è questo, non è la volontà delle non-madri: è quella degli agenti economici (intermediari, avvocati, cliniche per la fertilità) che intravvedono nuove possibilità di guadagno, e vogliono aprire un mercato di neonati che garantisca lauti guadagni organizzandone l’offerta con il reclutamento delle portatrici. Nell’attuale economia-mondo capitalistica, in cui il circuito del denaro deve espandersi continuamente ed è il profitto a decidere quali attività verranno intraprese (sia nella sfera civile sia in quella militare, in quest’ultima con la garanzia dei pagamenti dello Stato), l’esplosione numerica delle Gpa da un decennio a questa parte è probabilmente correlata alla crisi, all’aumento delle disuguaglianze (più denaro per comprare bambini da una parte e più bisogno economico dall’altra), al bisogno appunto di configurare nuovi mercati per nuove merci, soprattutto di lusso come un bambino, e attingere a nuove occasioni di profitto. Leggere gli annunci delle agenzie che pubblicizzano le loro surrogate lascia un’impressione inquietante, come questo dell’agenzia Matching Angels: Florida; Surrogata gestationale con esperienza Amy è una 35enne madre di 3 bambini. È anche una surrogata con esperienza che nel 2007 ha partorito un bimbo surrogato.

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Ha portato [carried] gemelli (i propri, concepiti con la Fiv). Ha avuto successo con la Fiv – conosce bene il protocollo. Poiché ha dovuto usare la Fiv per concepire i suoi bambini ed è stata fortunata nel poter avere lei stessa la gravidanza, cosa ardua, vuole aiutare chi ha bisogno dell’aiuto di qualcuno che faccia la gestazione per loro. È disposta a lavorare con coppie sposate, singoli, gay o lesbiche. Il compenso è come segue: Compenso base: $27.000 – include la tariffa per il cesareo (che sarà richiesto). Indennità di spesa mensile: $100. Tariffa per il trasferimento embrionale: $1.500. Tariffa per il ciclo mancato o cancellato: $500. Vestiti premaman: $500 se singolo/$750 se gemelli. Tariffa per la procedura invasiva: $1.500. Assicurazione completa sulla gravidanza e il parto. Tutte le spese pagate per il processo di selezione. Se possibile vorrebbe rimanere in Florida Centrale per il trasferimento embrionale, vorrebbe stare in zona a causa dei suoi bambini. Quindi se avete un medico nell’area di Orlando/Gainesville/Tampa sarebbe un +. Per maggiori informazioni su questa meravigliosa candidata contattatemi per favore usando il modulo qui sotto. I migliori saluti e auguri per il bambino. Laura per Amy7

7   http://www.angelmatcher.com/florida_experienced_gestational_surrogate.

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La gravidanza è un dono? Lo può forse essere in rarissimi casi, che non giustificano l’introduzione per legge di un nuovo istituto giuridico, la gestazione per altri, perché comunque si configuri questo istituto, esso dischiuderà la porta all’industria che da una parte usa le donne come contenitori normalizzando lo sfruttamento, in un lavoro nemmeno riconosciuto come tale, mentre dall’altra parte considera i neonati come cose che si possono separare per lucro dalla madre, non esseri umani che nascono da e con questa precisa relazione. Si può donare una cosa propria, ma con un bambino si ha una relazione: un essere umano non è appunto una cosa. Sulle eccezioni delle donne generose non vale la pena di legiferare perché la “gravidanza per altri” non è un dono. La gravidanza è il punto di origine di nuove relazioni umane che non devono essere create appositamente per troncarle. Riconosciamo il progresso umano nel passaggio da società basate sullo status a quella basata sul contratto. Ma facciamo ora un altro passo avanti per andare dal fondamento su un contratto a quello sulla relazione.

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