Ettore Majorana. Un'indagine storica 8893597489, 9788893597487

Nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1938 scompare, in circostanze misteriose, il trentunenne fisico catanese Ettore Majo

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Ettore Majorana. Un'indagine storica
 8893597489, 9788893597487

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Prologo
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1. La storia
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2. Il canone
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3. Il metodo storico disatteso
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4. In Germania e Danimarca
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5. Involuzione depressiva?
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6. Testimonianze eccentriche
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7. Un interrogativo rimosso
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8. Sciascia, Majorana e la bomba
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9. Il filo d’Arianna
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Epilogo
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Il tempo ritrovato 3

Prima edizione in «Letture di pensiero e d’arte»: novembre 2002 Prima edizione in «Il tempo ritrovato»: aprile 2023 ISBN 978-88-9359-748-7 eISBN 978-88-9359-749-4

È vietata la copia, anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata Ogni riproduzione che eviti l’acquisto di un libro minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza

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A Federica, che il suo volo sia saldo

Prologo

Io non parto da una tesi, bensì da una storia. Friedrich Dürrenmatt, 21 punti su «I fisici» Vae mundo a scandalis! Necesse est enim ut veniant scandala. Verumtamen vae homini illi per quem scandalum venit. Matteo, XVIII, 7 Sempre ci si deve addossare il rischio che un giorno si faccia cattivo uso del lavoro, in sé buono, di un uomo. Ma se si sa già che il fine di quel lavoro sarà delittuoso o cattivo, non si può eludere la responsabilità personale. Kathleen Lonsdale

Questo piccolo libro ha due inconsapevoli, e dunque innocenti, maieuti: Giorgio Gilibert e Claudio Magris, con cui, in un tardo pomeriggio del marzo 2001 al San Marco a Trieste, si venne a chiacchierare di scienza e scienziati oggi. Un tema che mi affanna sempre più, diviso come sono fra il fascino d’un sapere ‘maraviglioso’ e intrinsecamente laico, e dunque liberatorio non solo da sofferenze e malattie, e suoi approdi e le sue linee di sviluppo attuali che ogni giorno ci fanno maggiormente intravedere orizzonti «oltre l’uomo», al di là quindi, e necessariamente, di un umanesimo ‘classico’ che è stato fino a oggi la più salda ancora contro ricorrenti, e non sopite, antropologie 7

negatrici di eguali diritti – epperciò di medesimi doveri – di ognuno e di tutti. L’uomo dell’era della tecnologia avanzata – propone Giuseppe O. Longo – non è uomo più macchine, sapere tecnico-scientifico cristalizzato, è un’unità evolutiva profondamente nuova, è un’entità organica, mentale, corporea, psicologica, sociale e culturale senza precedenti, che se partecipa ancora dei miti, dei desideri e delle necessità dell’uomo ‘tradizionale’, crea anche miti, necessità e desideri suoi propri e inediti1.

Spontaneo mi venne allora alla mente il nome, quanto mai conturbante, di Ettore Majorana. E tutto sarebbe, forse, rimasto lì, chiacchiera in un luogo di chiacchiere, se Erasmo Recami non avesse intanto deciso di ridare alle stampe il suo libro su Majorana, assai ricco di documenti, e il suo nuovo editore non avesse, maliziosamente, omesso di ricordare che appunto di riedizione si trattava. Forse, se quella notazione ci fosse stata, non avrei acquistato il volume o forse, chissà?, sì. Fatto sta che qualche giorno dopo quei conversari al San Marco, me lo trovai sugli scaffali della Libreria Feltrinelli di Bologna e mi dissi, nella mia ignoranza: «Vediamo che c’è di nuovo». Chi volesse qui trovare nuove prove per sciogliere l’enigma Majorana resterebbe deluso. Farebbe allora meglio a lasciare queste pagine. Che sono rigorosamente basate su quanto già noto, ed edito. Anche nel solo caso di una verifica su un documento inedito – che debbo alla gentilezza di Michelangelo De Maria e Francesco Guerra – si tratta appunto di una verifica, vale a dire della constatazione de visu di cose già note. E allora a che scriverne? Nella scomparsa di Majorana piuttosto che il come, punto cruciale è il perché. Cosa su cui del resto, alla fin fine, concorda tutta la letteratura sul «caso».

8

Si fosse ‘apertamente’ suicidato, la sua scelta avrebbe potuto essere vista, interpretata e proposta – come per lo più è stato – quale effetto di una causa privata, della sofferenza della vita in sé. Un doloroso caso umano che produsse una grave perdita per la scienza, e nulla di più. Se avesse programmato la sua scomparsa proprio per lasciare posto all’ambiguità che poi effettivamente ne seguì, il suo volatilizzarsi sarebbe stato – fu ed è – inquietante. Un messaggio radicale per il suo mondo, quello della scienza, e per le vie che percorre? Ancora più radicale se il tragitto da lui effettivamente intrapreso fosse quello ‘argentino’ e non quello adombrato da Leonardo Sciascia fondato su un pessimismo totale: unica via l’espiazione e il rifugiarsi nell’intuizione sapienziale degli antichi testi sacri. Rifiuto senza appello dunque della scienza e della ‘modernità’, si direbbe oggi. Il loro esito non può che essere catastrofico, come sa il pilota che sganciò la bomba su Hiroshima, la cui fuga dal mondo per espiare non a caso è in Sciascia parallela e intrecciantesi con l’abbandono di Majorana. La ‘via argentina’ lascia uno spiraglio, ma è in certo senso più aspra e ingrata per gli uomini di scienza. La scienza e la tecnica non vi sono rifiutate. In Argentina Majorana sarebbe ‘tornato’ al mestiere inizialmente scelto, e di tradizione familiare: l’ingegnere. Respinto sarebbe allora il cammino su cui le ha poste la moderna ricerca. Se così fosse Majorana parrebbe avvertire: ogni atto – per quanto affascinante sia intellettualmente – deve essere sottoposto ad analisi critica. Non è in sé ‘buono’ in quanto accresce il sapere scientifico e ‘neutro’ rispetto agli usi che se ne possono fare, questi, e solo questi – sostiene il senso comune da lui rifiutato – sì positivi o negativi. Lo scienziato – direbbe allora il messaggio – ha una precisa responsabilità a monte. Messa in evidenza da un gesto simbolico 9

e silenzioso. E dunque, viene da domandarsi, ‘semplice’ risposta a un tormento individuale oppure consapevolezza che se quell’annuncio fosse stato esplicitato avrebbe aiutato reazioni antiscientifiche, posizioni oscurantiste che non erano nel suo orizzonte mentale? Se fosse più attendibile la seconda ipotesi, allora Majorana vuole, disperatamente, rivolgersi agli uomini di scienza e solo a essi, caricandoli di una enorme responsabilità ma riconoscendo anche loro, in modo implicito, una perspicacia e una capacità che c’è da chiedersi se poi abbiano dimostrato di possedere. Come che sia, Majorana diviene un ‘paradigma’ e la paradigmaticità del suo caso si esplica nella ‘storiografia’ che ha prodotto, da cui emerge un diffuso rifiuto da parte degli uomini di scienza di vedere nella sua scomparsa l’espressione di un ‘allarme’.

Bologna-Trieste-Marina di Ravenna Aprile 2001-febbraio 2002 r. f.

Mirella mi ha illuminato un punto cruciale relativo a Pirandello, che spero di avere ben colto. Giuseppe Petronio mi ha fornito preziose indicazioni bibliografiche. Senza l’aiuto amichevole di Daniele Andreoz­ zi, Sergio Brasini, Loredana Panariti la mia pigrizia avrebbe prevalso sui buoni propositi. Ringraziarli è un piacevole dovere. A Mirella, Federico Codignola, Giorgio Gilibert, Claudio Magris, Loredana Panariti, Renato Zangheri ho imposto la fatica della lettura del manoscritto. Non so se sono sempre stato in grado di cogliere le loro acute osservazioni.

10

Addenda: Bologna 30 giugno 2002 Nelle more della pubblicazione di questo mio lavoro, per la serie «I grandi della scienza» della rivista «Le scienze» è uscito nel giugno 2002 il quaderno Majorana, il genio scomparso di Luisa Bonolis, uno scritto di cui si raccomanda la lettura, brillante e al tempo stesso denso. E rigoroso, nella sua ottica. Che, per quanto qui interessa, dal ‘canone’ non si discosta e dunque nulla aggiunge ai temi qui trattati.



1

r. f.

  Giuseppe O. Longo, Homo technologicus, Roma 2001, p. 12.

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1 La storia

Alle undici antimeridiane di sabato 26 marzo 1938 Antonio Carrelli, direttore dell’Istituto di Fisica della Regia Università di Napoli, ricevette un telegramma urgente: «non allarmarti, segue lettera. Majorana»1. Il mittente è Ettore Majorana, da pochi mesi titolare della cattedra di Fisica teorica nell’ateneo campano cui era stato chiamato – recita la lettera di nomina ministeriale – «in applicazione dell’art. 8 del R. D. L. 20 giugno 1935. XIII n. 1071 (…) indipendentemente dalla normale procedura del concorso (…) per l’alta fama di singolare perizia a cui Ella è pervenuta nel campo degli studi riguardanti la detta disciplina»2. Insomma, come si suole dire, al trentunenne Ettore Majorana era stata attribuita la cattedra per «chiara fama», servendosi di un meccanismo di legge a suo tempo inventato per uomini come Guglielmo Marconi e Arturo Gaetano Crocco e che poi fu usato non sempre nel modo migliore3. Carrelli resta interdetto. Il telegramma – racconterà in una lettera «riservatissima personale» inviata il 30 marzo al rettore – mi riuscì incomprensibile, mi informai e seppi che la mattina [Majorana] non aveva fatto la sua lezione. Il telegramma veniva da Palermo. Con la distribuzione postale delle 14 mi è pervenuta una lettera in data precedente, e da Napoli, nella quale manifestava propositi suicidi. Compresi allora che il telegramma urgente da Palermo del giorno successivo doveva appunto servire a rassicurarmi, dandomi la prova che nulla era accaduto. Ed infatti la domenica mattina mi è giunto un

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espresso da Palermo in cui mi si diceva che le brutte idee erano scomparse e che subito sarebbe ritornato4.

Sennonché Majorana non comparve più. Dalle ricerche in seguito svoltesi risultò che, recatosi da Napoli a Palermo con il piroscafo «postale», avrebbe poi intrapreso il viaggio di ritorno con lo stesso mezzo, ma a Napoli non si mise più in contatto con nessuno degli amici o dei conoscenti. Aveva attuato i propositi letti da Carrelli nella sua prima missiva? Si era gettato in mare? Un rapporto di polizia della seconda metà di aprile riassume il risultato delle indagini. Fatte le ricerche (…) a Napoli e Palermo non si è potuti venire a capo di nulla. Il prof. Maiorana erasi recato da Napoli a Palermo con proposito di suicidio (come da lettere da lui lasciate) e quindi supponevasi che fosse rimasto a Palermo. Però tale ipotesi viene ora a scartarsi col fatto che è stato rinvenuto il biglietto di ritorno alla Direzione della «Tirrenia» e perché è stato visto alle ore cinque nella cabina del piroscafo – durante il viaggio di ritorno – che dormiva ancora. Poi ai primi di aprile è stato visto – e riconosciuto – a Napoli, tra il Palazzo Reale e la Galleria mentre veniva su da Santa Lucia, da una infermiera che lo conosceva e che ha anche visto ed indovinato il colore dell’abito5.

Ecco dunque il dubbio – una certezza fino alla morte per la madre – che Majorana avesse deciso di sparire e non di suicidarsi, come intendeva lasciar credere, specie alla famiglia6. Quale il motivo? Il testimone che sostiene d’averlo visto durante il viaggio di ritorno da Palermo a Napoli ancora al mattino quando ormai la nave era in prossimità della città del Vesuvio – Vittorio Strazzeri, docente di geometria nell’ateneo del capoluogo siciliano – in una lettera del 31 maggio a uno dei fratelli di Ettore suggerisce la possibilità che si sia rifugiato in qualche convento «come è capitato altra volta con persone molto religiose»7. Pure questa strada, percorsa in particolare dai familiari, non porterà 14

a nulla. Anche perché dal Vaticano – cui i parenti si erano rivolti inviando una supplica al papa – non venne aiuto alcuno8. A ben vedere un indizio ulteriore a favore della scelta religiosa. Più volte d’altra parte, negli anni successivi, emergeranno voci su una presenza di Ettore in qualche monastero9. Fra le carte di polizia Leonardo Sciascia ha poi rinvenuto una nota, datata 6 agosto 1938, in cui si legge: «si prospetta in qualche ambiente» che Majorana «sia vittima di qualche oscuro complotto, per levarlo dalla circolazione», in quanto questo «uomo di grandissimo valore nel campo fisico e specialmente radio» era «l’unico che poteva seguitare gli studi di Marconi nell’interesse della difesa nazionale»10. Una voce destinata a ricomparire, in varie forme, più volte. Tanto che Edoardo Amaldi nel 1966 si sente in dovere di respingere come «non solo (…) destituita di qualsiasi fondamento, ma (…) assurda sia sul piano storico che su quello umano» l’ipotesi, per lui immaginata «solo quasi trent’anni dopo [da] qualcuno che non lo aveva mai conosciuto», secondo cui la scomparsa di Majorana fosse da mettere «in relazione con ipotetici affari di spionaggio atomico»11. Prima di dileguarsi Majorana aveva chiesto alla famiglia di mandargli la sua parte del conto che aveva in banca con un fratello e aveva ritirato alcuni mesi di stipendio arretrato. Disponeva quindi di una somma di denaro che gli avrebbe anche permesso di sostenere le spese di un lungo viaggio. E a un possibile espatrio pensa infatti la madre che scrivendo – con la presentazione autorevole di Enrico Fermi – a Benito Mussolini si preoccupa di segnalare al «duce» il numero e la data di scadenza del passaporto di Ettore12. La notazione assume un certo rilievo nella storia molti anni dopo la scomparsa di Majorana, nel 1978. Il 14 ottobre di quell’anno il corrispondente da New York del settimanale «Oggi» racconta sul suo foglio, sintetizza Recami, 15

quanto segue: un noto fisico italiano, suo amico, gli ha fatto sapere fin dall’aprile di un collega cileno, il quale sostiene di avere avuto notizie in un ristorante argentino circa la presenza di Ettore Majorana a Buenos Aires13.

Le ricerche poi fatte – forse non con metodo del tutto appropriato – non hanno portato a risultati conclusivi né in un senso né in quello opposto. Ettore Majorana era nato a Catania il 5 agosto 1906, quarto dei cinque figli di Fabio Massimo e Dorina (Salvatrice) Corso. La sua era una famiglia della borghesia professionale, nella quale si contavano numerosi docenti universitari alcuni dei quali erano divenuti anche esponenti politici di rilievo. Nella Sicilia a cavallo fra secolo XIX e secolo XX, come anche più tardi, ciò comportava spesso l’uso di metodi non ortodossi, e non a caso, dunque, i Majorana caddero sotto la sferza della critica democratica e moralizzatrice di Gaetano Salvemini14. Il più noto e di peso fra loro era Angelo, giurista, professore di diritto costituzionale, fratello del padre di Ettore, e di lui più vecchio di dieci anni, essendo venuto alla luce nel 1865 secondo di sette fratelli e sorelle di cui Fabio Massimo sarà il quinto ed ultimo dei maschi. Nel 1897, poco più che trentenne, era stato eletto deputato e poco dopo era entrato a far parte dei governi guidati da Giovanni Giolitti. Come si legge nelle sue memorie, su di lui «Giovanni bifronte» aveva puntato molto. Angelo Majorana si era però ben presto ammalato, scomparendo nel 1910 poco più che quarantenne. Erasmo Recami, biografo di Ettore, attribuisce questa morte precoce a una precisa causa fisica: una grave forma di nefrite15. Altre autorevoli fonti, vedremo, offrono versioni del tutto diverse. Ettore mostra ben presto una spiccata attitudine per il calcolo numerico, prodromo di una perizia che manterrà nel 16

tempo e che stupirà sempre gli amici. Come rivela l’aneddoto che segue ricordato da Amaldi: una volta Fermi e Majorana fecero una gara: si trattava di calcolare un’espressione, se ben ricordo un integrale, che Fermi doveva calcolare facendo uso della lavagna e Majorana a memoria. Mentre tutti noi stavamo a guardare in silenzio, Fermi scriveva passaggi e passaggi a gran velocità tanto da riempirne una lavagna di dimensioni normali; Majorana stava voltato da un’altra parte con lo sguardo fisso a terra. Quando Fermi giunse al risultato e disse: «Ecco, ho fatto», Ettore rispose: «Anch’io» e diede il risultato numerico16.

Studia dapprima in casa, poi – ancora frequentante le elementari – è inviato a Roma all’Istituto Massimo tenuto dai gesuiti, continuando poi a studiarvi come esterno nei primi anni del liceo, dopo che la famiglia nel 1921 si era trasferita nella capitale. L’ultima classe delle medie superiori la frequentò al Liceo Statale Tasso dove superò la maturità classica nella sessione estiva del 1923. Si iscrisse quindi a ingegneria, deciso – parrebbe – a seguire le orme del padre, che era appunto ingegnere. Durante gli studi Majorana – collega di corso, fra gli altri, di Emilio Segrè ed Edoardo Amaldi – «faceva da consulente a tutti i suoi compagni per la soluzione dei problemi più difficili: in particolare se si trattava di problemi matematici». E per la matematica ebbe sempre una grande ammirazione come risulta per esempio da alcune considerazioni sulla sua immensità che una volta fece con Segrè. Majorana in sostanza notava che se la fisica poteva essere riassunta in un trattato, come l’Handbuch der Physik, composto di circa 35 volumi, la matematica avrebbe richiesto un’opera enormemente più vasta17.

All’inizio del 1928 Ettore abbandona gli studi di ingegneria per quelli di fisica sotto la spinta di Segrè che quel passaggio

17

aveva compiuto l’anno precedente, dopo aver conosciuto e frequentato Enrico Fermi e Franco Rasetti. Dopo qualche mese (…) – racconta Segrè – rividi Ettore Majorana e gli raccontai cosa stavo facendo esortandolo a fare altrettanto. Gli dissi che la Scuola di ingegneria non era per lui, come non era per me, e che la situazione a fisica presentava un’occasione straordinaria. Ettore mi stette a sentire e poi venne a vedere di persona. All’Istituto parlò con Fermi che allora stava calcolando la funzione del metodo statistico di Thomas-Fermi servendosi di una piccola calcolatrice a mano (…). Con essa, in circa una settimana di lavoro, aveva costruito per approssimazioni successive la funzione che voleva. Majorana s’informò in dettaglio e poi tornò a casa senza fare commenti. Trasformò l’equazione non lineare di Fermi in una del tipo Riccati e la risolse numericamente servendosi del suo cervello come macchina calcolatrice. Dopo un paio di giorni tornò all’Istituto e chiese a Fermi di vedere la sua tavola della funzione. La confrontò con la sua e con meraviglia constatò che Fermi non aveva fatto sbagli. Dopo questa esperienza passò anche lui a fisica, ma essendo matematicamente molto superiore a tutti noi e forse anche a Fermi, non si faceva vedere molto alle lezioni private, pur partecipando alle conversazioni e alle discussioni. Non ricordo che abbia mai fatto alcun lavoro sperimentale18.

Commenta Leonardo Sciascia, che alla scomparsa di Majorana dedicò nel 1975 un «giallo filosofico» e l’aneddoto lesse nella versione datane da Amaldi nella Nota biografica19: non era andato dunque per verificare se andava bene la tabella da lui calcolata nelle ultime ventiquattr’ore (…) ma se andava bene quella che Fermi aveva calcolato in chi sa quanti giorni (…). Superata Fermi la prova, Majorana passò a fisica (…). Il suo rapporto con Fermi c’è da credere sia rimasto sempre per come stabilito il primo giorno: non solo da pari a pari (Segrè dirà che a Roma solo Majorana poteva discutere con Fermi), ma distaccato, critico, scontroso20.

Ne emerge l’immagine di un giovane in cui la timidezza – probabilmente originata anche da esperienze infantili legate al18

la precoce manifestazione delle sue propensioni matematiche21 – si volgerebbe in tracotanza, sfida incessante a sé e agli altri, che Ettore vuole di continuo meravigliare. In realtà la lettura dello scrittore siciliano ha un che di forzato. L’aneddoto pare piuttosto raccontare di un giovane che, nello sforzo e con lo sforzo di dominare la propria natura, perviene a essere consapevole del proprio valore, un valore che un altro grande conscio di sé come Fermi sembra immediatamente riconoscergli, donde un rapporto particolare fra i due, che ne determina uno altrettanto sui generis pure fra Majorana e gli altri del gruppo22. Tale sentimento di sé, e non altro, è, con ogni probabilità, alla base della reticenza a pubblicare i risultati delle sue ricerche e riflessioni da tutti i biografi messa in luce. Se ne trova la controprova in un episodio famoso. Majorana intravede prima del fisico tedesco quelle che verranno dette le forze di «scambio alla Heisenberg», ma si rifiuta di pubblicare qualsiasi cosa sulla sua teoria di cui pure aveva parlato agli amici e addirittura vieta a Fermi, che lo avrebbe voluto, di farne cenno a una conferenza internazionale di fisica svoltasi a Parigi all’inizio del luglio 1932, un paio di settimane avanti la pubblicazione del primo lavoro di Heisenberg. Uscito questo, Fermi e gli altri amici insistettero ancora una volta con Ettore perché rendesse pubblici i suoi risultati, ma questi rispose che «Heisenberg aveva ormai detto tutto quello che si poteva dire e che, anzi, aveva detto probabilmente anche troppo»23. Dunque: valeva la pena rendere noti solo risultati del tutto originali e del tutto certi. Passato a fisica, Majorana si laurea il 6 luglio 1929, lo stesso giorno in cui anche Amaldi ottiene il titolo dottorale. Entra così a far parte a pieno titolo dei «ragazzi di via Panisperna», il manipolo di giovani fisici che opera con e attorno a Fermi (anch’egli peraltro giovane essendo nato nel 1901), un gruppo 19

fortemente coeso che si autorappresenta come portatore di un nuovo verbo scientifico. Lo rivela non solo il lavoro di ricerca ma anche il modo in cui si definiscono attraverso scherzosi soprannomi, dove il motto di spirito s’appalesa una volta di più straordinario indicatore. Fermi è il «papa», Rasetti il «cardinal vicario» (ma anche il «venerato maestro»), Majorana, per il suo acuto senso critico, il «grande inquisitore», Segrè il «prefetto alle biblioteche», ma pure – per il suo carattere – il «basilisco»24. Come Majorana stesso scriverà nelle brevi Notizie sulla carriera didattica stilate nel maggio 1932, dopo la laurea frequenta «liberamente» – e cioè in modo volontario e senza alcuna carica accademica o impiego scientifico (né, ovviamente, remunerazione) – «l’Istituto di Fisica di Roma seguendo il movimento scientifico e attendendo a ricerche teoriche di varia indole»25. Tale lavoro lo porterà a ottenere il 12 novembre 1932, ventiseienne, la libera docenza in fisica teorica. «Presentava solo cinque lavori ma la commissione, composta da Enrico Fermi, Antonino Lo Surdo ed Enrico Persico, fu unanime nel riconoscere nel candidato ‘una completa padronanza della fisica teorica’»26. L’anno successivo, con una borsa del CNR procuratagli da Fermi, passa alcuni mesi in Germania e in Danimarca. Al ritorno ha inizio – secondo tutte le testimonianze – un periodo di almeno apparente chiusura in sé, su cui s’incardina gran parte del canone successivamente ritagliato sulla sua persona e sulla sua vita. Poi partecipa al concorso a cattedra, che gli viene assegnata nell’anomalo modo più sopra ricordato. Inizia a insegnare a Napoli e il 26 marzo 1938 scompare. Sulla sua vita fra il viaggio in Germania e Danimarca e la sua sparizione si avrà occasione di tornare in modo analitico nei capitoli che seguono.

20

  Lettera di A. Carrelli al rettore 30.3.38, in Erasmo Recami, Il caso Majorana, Roma 2000, pp. 213-214. Il libro di Recami, che costituisce la più preziosa e ampia fonte d’informazione, nonché la più organica riflessione sul «caso», fu edito dapprima presso Mondadori nel 1987 e quindi nel 1991, in versione riveduta e ampliata, corrispondente a quella del 2000 dell’editore Di Rienzo di cui ci si servirà nel presente lavoro. 2   Partecipazione di nomina fuori concorso, ibidem, p. 212. 3  Cfr. Sandro Gerbi, Le cattedre nere, «Corriere della Sera», 27 dicembre 1995. Su Crocco cfr. Franco Pastrone, Fisica matematica e meccanica razionale, in Simonetta Di Sieno – Angelo Guerraggio – Pietro Nastasi (a cura di), La matematica italiana dopo l’Unità. Gli anni tra le due guerre mondiali, Milano 1998, pp. 438-440. 4   Lettera di cui alla nota 1, Recami, Il caso Majorana, p. 214. 5   Citato in Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana (1975), in Id., Opere 1971-1983, a cura di Claude Ambroise, Milano 1989, p. 211. Sul valore della testimonianza Sciascia, più avanti nel suo racconto, puntualizza: «E l’infermiera non era una qualsiasi infermiera, una che lo conosceva appena e gratuitamente, come accade, si intrufolava nella vicenda: era la sua infermiera, quella di cui parla in una lettera alla madre e che gli aveva dato buoni indirizzi per la pensione che cercava» (p. 259). La lettera cui Sciascia accenna è del 22 gennaio 1938 e la si trova in Recami, Il caso Majorana, pp. 201-202. 6  Cfr. Lettera «Alla mia famiglia» 25.3.38 lasciata nella camera d’albergo fino a quel momento occupata, ibidem, p. 204. 7   Testimonianza di Vittorio Strazzeri 31.3.38, ibidem, p. 206. 8  Recami, Il caso Majorana, pp. 18-19. 9   Cfr. Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 267 sgg.; Recami, Il caso Majorana, p. 101. 10  Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 213. 11   Edoardo Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana (estratto dal vol. La vita e l’opera di Ettore Majorana), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1966, p. xlix. 12  Recami, Il caso Majorana, p. 21; Lettera della madre a Mussolini 27.7.38, ibidem, p. 207. 13  Recami, Il caso Majorana, p. 110. 14   Cfr. Gaetano Salvemini, Il ministro della mala vita. Notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale, a cura di Sergio Bucchi, Torino 2000, passim (la prima edizione del volume di Salvemini è del 1910). 15  Recami, Il caso Majorana, p. 46. 16  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xi. Al proposito si veda pure Laura Fermi, Atomi in famiglia, Milano 1954 (dello stesso anno è l’edizione originale statunitense), p. 58. 1

21

 Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. viii e p. xiii.   Emilio Segrè, Autobiografia di un fisico, Bologna 1995 (l’edizione originale statunitense è del 1993), pp. 69-70. Una versione un po’ diversa pare Segrè desse nelle conversazioni private in cui «ricordava che era stato proprio [Giovanni] Enriques a convincere Majorana a iscriversi alla Scuola di Fisica» (Gianni Sofri, Giovanni Enriques: un ricordo, Bologna 1991, p. 20). 19  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, pp. ix-x. 20  Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 223. 21   «I familiari e gli amici di famiglia raccontano che Ettore cominciò a dar prova di attitudine per l’aritmetica e il calcolo numerico già a quattro anni di età: attitudine che manifestava concretamente facendo come gioco, a memoria e in pochi secondi, moltiplicazioni fra numeri entrambi di tre cifre che gli venivano detti dai familiari stessi o dai loro visitatori. Quando uno di questi gli chiedeva di fare un calcolo, il piccolo Ettore si infilava sotto un tavolo quasi cercasse di isolarsi e di lì dava, pochi secondi dopo, la risposta» (Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. vii). Ha chiosato Sciascia: «sotto il tavolo per concentrarsi e perché, come tutti i bambini costretti ad esibirsi, si vergognava». Aggiungendo: «e forse un po’ della vergogna sentita da bambino ancora stingeva nella sua ritrosia e difficoltà a comunicare, da adulto, i risultati delle sue ricerche» (La scomparsa di Majorana, p. 224 nota 1). 22   Riferendosi al «gruppo di Roma», Emilio Segrè annota: «tutto sommato era una compagnia di buonissime amicizie, leali, generose ed oneste. C’era però una differenza nel livello di intimità tra Amaldi, Rasetti e me, e gli altri. Fra i primi tre si poteva parlare di tutto, compreso ragazze. Con Fermi e Majorana c’era molto più ritegno» (Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 71). 23  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, pp. xxiii-xxiv. 24   Emilio Segrè, Enrico Fermi, fisico. Una biografia scientifica, Bologna 19872, p. 52 (uso questa edizione e non la prima del 1971 perché più completa per l’aggiunta di una interessante parte documentaria. L’edizione originale statunitense è del 1970); Id., Autobiografia di un fisico, p. 71. Il basilisco nella zoologia mitica greco-romana era un mostro con poteri malefici e terribili, spesso rappresentato con una cresta a forma di corona (al proposito cfr. infra, cap. 4 nota 29). 25  Recami, Il caso Majorana, p. 142. 26  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xv. 17 18

22

2 Il canone

Come molte altre, la storia di Ettore Majorana è imbozzolata in un canone, costruito sul suo finale – anomalo, non v’ha dubbio – e affidato alla penna di Laura Capon in Fermi (che sempre si firma Laura Fermi), Edoardo Amaldi, Emilio Segrè, massimi custodi delle memorie del «gruppo Fermi». Lo ha ben colto Leonardo Sciascia nel «giallo filosofico» che al giovane scienziato e alla sua scomparsa dedicò ora è ormai più di un quarto di secolo: «non uno di coloro che lo conobbero e gli furono vicini, e poi ne scrissero o ne parlarono, lo ricorda altrimenti che strano»1. E fortunatamente, viene da dire, nessuno dei biografi di Ettore sembra aver conosciuto il brano delle memorie di Giolitti in cui il grande uomo politico racconta come e perché andarono deluse le sue speranze sullo zio di Ettore, Angelo Majorana. Nel ministero che aveva preso avvio il 27 maggio 1906, narra: al tesoro avevo chiamato Angelo Majorana, deputato di Catania, ancora assai giovane, uomo di forte ingegno e che pareva destinato a fare una grande carriera politica. Ma purtroppo, nel maggio 1907, fu colpito da una malattia di esaurimento nervoso, ribelle ad ogni cura, che si andò sempre più aggravando e lo condusse precocemente alla tomba2.

Che altro del resto, se non «strano», poteva essere un giovane scienziato di successo, giunto alla cattedra poco più che trentenne che, di punto in bianco, senza nessuna ragione ap-

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parente, decide di sparire in quel modo misterioso e anche indubbiamente abbastanza teatrale? Tanto da accorgersene, e suggerirlo, lui stesso. Quando – su carta intestata Grand Hotel Sole – il 26 marzo 1938 scrive da Palermo a Carrelli per dirgli che «il mare mi ha rifiutato» e quindi rassicurarlo annunciandogli il ritorno a Napoli per l’indomani, sente, non a caso, il bisogno di aggiungere: «non mi prendere per una ragazza ibseniana, perché il caso è differente»3. Costruito, vedremo, sulla base delle testimonianze degli amici, il canone informa poi di sé la vulgata. Lo mostra bene la trasmissione televisiva del 18 settembre 2001 su Enrico Fermi curata da Piero Angela. Lo mostra bene la voce, ampia e ben fatta, a Ettore Majorana dedicata nel Dizionario biografico degli scienziati e dei tecnici, uscito nell’anno 2000 a cura di Giorgio Dragoni, Silvio Bergia e Giovanni Gottardi per i tipi della Zanichelli, un editore – come è noto – di grande peso e importanza nella storia della cultura scientifica in Italia. Vi si ricorda la sua reticenza a pubblicare i risultati cui giungeva, l’«involuzione depressiva» che sembra averlo colpito nel 1933 al ritorno dal soggiorno in Germania e Danimarca e pure, con pudore, la sua «ammirazione (…) per la politica del governo tedesco del tempo»4, che poi altro non è se non quello di Adolf Hitler, che avrebbe portato alla grande tragedia della Seconda guerra mondiale e all’inaudita ferocia dello sterminio degli ebrei d’Europa. Temi tutti su cui si avrà occasione di tornare in maniera ampia che danno in modo chiaro il senso della direzione verso la quale il canone ha indirizzato l’intera letteratura sul «caso»: una vicenda il cui significato si collocherebbe tutto e interamente all’interno dell’io, della personalità (contorta) del protagonista. Che naturalmente fu, e resta, elemento decisivo, imprescindibile. Rimane però – e s’accentua 24

riflettendovi – l’insoddisfazione di un racconto in cui uomini che hanno largamente contribuito a una visione non deterministica della scienza descrivono un percorso di vita come in sostanza aprioristicamente determinato. Insomma: un fato da cui il protagonista non poteva sfuggire, del tutto indipendente dalla concreta vicenda storica in cui venne a trovarsi immerso. Quale che fosse il mondo che si fosse trovato dinanzi – sembrano dirci i canonisti – Majorana non avrebbe potuto sopportare l’ennui de vivre di un’esistenza normale, il peso delle quotidiane responsabilità. Così la vicenda è isolata dal contesto e la sua ‘inconsueta’ conclusione non può essere che una: il suicidio. Quando qualcuno troverà tracce di un altro epilogo – ad esempio: l’essersi Majorana rifugiato nell’America meridionale dandosi al mestiere che aveva scelto prima di farsi fisico – la risposta sarà secca: circa quelli che hanno visto Majorana in vari luoghi, c’è molta gente che ha visto il delfino figlio di Luigi XVI, i parenti dello zar Nicola, ecc. Il fenomeno è tutt’altro che raro5.

Insomma, sulla scomparsa di Majorana «in Italia si sono scritti infiniti articoli e romanzi. In realtà, non mi sembra che il triste caso abbia bisogno di spiegazioni romanzesche»: Ettore «con ogni probabilità si è buttato in mare dal piroscafo»6. Come ha scritto Lea Ritter Santini: «la scienza – si sa – è una irritabile forma del pensiero»7. A questa impostazione mi pare alla fin fine non sfugga né chi kanonikòs, conforme alla regola, non vuole essere programmaticamente come Leonardo Sciascia che alla storia decontestualizzata di fatto contrappone un’altra storia decontestualizzata – ché la ‘sicilianità’ (buona) non è certo categoria contestualizzante in questa vicenda8 – e alla ‘stranezza’ altra

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‘stranezza’, come quando ipotizza, senza documento alcuno, un’insofferenza e una sorta di essenziale incomunicabilità di Majorana verso Fermi e gli altri del gruppo9. Né la evita chi, come Erasmo Recami, si pone en historien, ma come uno storico la cui acribia filologica pare fermarsi alla soglia del contesto, dello scavo d’insieme. Così alla fine il canone continua di fatto a tenere la scena, rendendo ancora incomprensibile il messaggio che Ettore Majorana sembra aver disperatamente lanciato a un mondo sordo alla sua voce flebile ma insistente, poiché la sua statura scientifica invece di sbiadire col tempo, nel tempo sempre più è cresciuta10. E con essa gli interrogativi su quella notte del tardo marzo 1938. Per cercare d’intenderlo la sola via che rimane è ripercorrere la vicenda tentando di immergerla nel mondo in cui si dipanò, tenendo conto in primis dei non molti, ma decisivi, documenti che l’affetto dei congiunti e la pazienza di qualche ricercatore hanno consegnato alla riflessione dello storico.

 Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 227.   Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, con uno studio di Olindo Malagodi, Milano 1922, I, p. 236. 3   Lettera a Carrelli da Palermo 26.3.38, in Recami, Il caso Majorana, p. 205. 4   Giorgio Dragoni – Silvio Bergia – Giovanni Gottardi, Dizionario biografico degli scienziati e dei tecnici, Bologna 2000, p. 945. 5   Lettera di Emilio Segrè del gennaio 1980 citata in Recami, Il caso Majorana, p. 101. 6  Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 165. 7   Lea Ritter Santini, Uno strappo nel cielo di carta, appendice a Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana, Torino 1991, p. 84. Il saggio di Ritter Santini comparve originariamente come nota alla traduzione tedesca del libro di Sciascia (Stuttgart 1979). 1 2

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  «Come tutti i siciliani “buoni”, come tutti i siciliani migliori, Majorana non era portato a far gruppo» (Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 223). 9   «Qualcosa c’era in Fermi e nel suo gruppo che suscitava in Majorana un senso di estraneità, se non addirittura di diffidenza, che a volte arrivava ad accendersi in antagonismo. E per sua parte, Fermi non poteva non sentire un certo disagio di fronte a Majorana (…). E poi, tra il gruppo dei “ragazzi di via Panisperna” e lui, c’era una differenza profonda: che Fermi e i “ragazzi” cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per quelli la scienza era un fatto di volontà, per lui di natura (…). Un segreto fuori di loro – da colpire, da aprire, da svelare – per Fermi e il suo gruppo. E per Majorana era invece un segreto dentro di sé, al centro del suo essere; un segreto la cui fuga sarebbe stata fuga dalla vita, fuga della vita» (ibidem, pp. 223-224). 10   Al proposito cfr., ad esempio, Recami, Il caso Majorana, p. 25. 8

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3 Il metodo storico disatteso

Curioso davvero, a riflettervicisi anche un solo istante, che le più elementari regole del metodo storico siano state per lo più come dimenticate nell’affrontare i casi di Ettore Majorana. Ogni ricercatore sa fin dalle sue prime prove che i documenti sono le pietre essenziali dell’edificio storiografico e che i diretti testimoni rappresentano sì fonti essenziali, ma da maneggiare con cura tutta particolare. E che gli uni e gli altri vanno collocati nel loro contesto. Perché, dunque, tale rimozione che non si può, ovviamente, ascrivere a ignoranza? Un abbozzo di risposta mette in campo almeno tre fattori che di volta in volta si giustappongono o s’intersecano, assumendo, di caso in caso, importanza e ruolo diversi. In primo luogo l’autorevolezza delle ‘icone’ costruttrici e custodi del canone: il continuatore e tutore della tradizione di via Panisperna; la depositaria, come compagna di vita, delle memorie del più noto scienziato italiano del secolo XX, creatore del gruppo romano di cui pure Majorana era parte; un premio Nobel fattosi anche autorevole, e noto, storico della fisica. Secondariamente, il modo in cui in Italia si è sinora fatta, e spesso ancora si fa, storia della scienza. Volta in via prevalente alla ricostruzione di vicende teoriche più che alla concretezza delle strutture di ricerca e dei suoi protagonisti, con i loro problemi non solo scientifici. Basti pensare al clamoroso ‘buco’ della storiografia scientifica italiana, che solo da qualche tem29

po si sta cominciando a colmare1, rappresentato dall’assenza di uno scavo sull’effetto prodotto nel campo della ricerca non solo e non tanto dalla cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle università, dalle accademie, dai centri studi pubblici e privati, ma dal mancato rientro di molti di loro nel paese o nelle antiche strutture all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale. Infine, un ruolo non secondario nel modo di studiare la storia di Majorana ha avuto la riduzione della sua vicenda a ‘giallo’, genere letterario quanto mai nobile e affascinante che tuttavia nel caso specifico pare avere prodotto un effetto preciso: inutile volgersi a essa se non si è in possesso di nuove prove o almeno di nuovi indizi atti a sciogliere il mistero della sua scomparsa. Si è suicidato? Ha scelto il romitaggio di un convento? Può davvero essere fuggito in Argentina o altrove? Non è stato forse vittima di un rapimento per i risvolti militari che i suoi studi comportavano? Anche Sciascia, che pure ha il tarlo del perché di quella scomparsa, non riesce – forse non può – sottrarsi alla dimensione poliziesca della storia. Verso di essa, del resto, chi scrive queste pagine è stato più volte sospinto, conversando del suo lavoro, proprio da uomini del mondo dell’editoria, immediatamente delusi dall’ottica qui assunta, che, già lo si è detto, non è quella dello scoop, che ormai elettrizza non solo l’universo dei media.

  Cfr., al proposito, Roberto Finzi, Da perseguitati a «usurpatori»: per una storia della reintegrazione dei docenti ebrei nelle università italiane, in Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, a cura di Michele Sarfatti, Firenze 1998, pp. 95-114; Francesca Pelini, Appunti per una storia della reintegrazione dei professori universitari perseguitati per motivi razziali, in Ilaria Pavan – Guri Schwartz (a cura di), Gli ebrei in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione postbellica, Firenze 2001, pp. 113-139. 1

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4 In Germania e Danimarca

Concorde è la letteratura sul nostro «caso» nel suggerire che la permanenza in Germania e in Danimarca costituisce una cesura nella vita di Majorana. Non a caso lì si manifesta per la prima volta la malattia che poi lo accompagnerà fino alla scomparsa1 e che gli farà denunciare al momento dell’ entrata in ruolo una salute «alquanto cagionevole»2. Segno più evidente di un mutamento che – sempre stando ai testimoni – produce una metamorfosi e nel comportamento3 e nel carattere4. Sarebbe divenuto cupo e solitario da «allegro» che era, per quanto Sciascia abbia a descrivere una realtà per certi versi opposta: «da silenzioso e scontroso che era, a Lipsia, con Heisenberg chiacchiera – e amabilmente. Ma solo con Heisenberg»5. In Germania e in Danimarca Majorana è stimato e, per quanto lo permetta la sua riservatezza, circondato da affetto. Cosa, dunque, determina quella cesura? Laura Fermi, che scrive sedici anni dopo la scomparsa di Majorana, connette la trasformazione6 a una causa del tutto privata e personale, non legata alla permanenza e alle esperienze fatte in Germania. «Un tragico fatto che aveva colpito la famiglia» in cui Ettore si sarebbe assunto – con grande impegno e dispendio di energie specie psichiche – «la responsabilità di provare l’innocenza» di un parente ingiustamente accusato d’infanticidio. L’imputato fu assolto «ma lo sforzo, la preoccupazione continua, le emozioni del processo non poterono non 31

lasciare effetti duraturi in una persona sensitiva quale era Ettore». Il nostro si sarebbe così chiuso in se stesso uscendone solo quando, con imprevista decisione, nel 1937 presentò domanda al concorso per la cattedra di Fisica teorica bandito dall’Università di Palermo, scompaginando – divertendosi a scompaginare, suggerisce Sciascia7 – ogni previsione degli «ambienti fisici»8. Venne quindi nominato professore a Napoli. E così, dopo un lungo periodo di reclusione, si trovò a un tratto di fronte agli studenti, in un’aula gremita. Il cambiamento fu troppo brusco o troppo forte; la prova superiore alle sue forze9.

Questa ricostruzione del dramma di Majorana – divenuta anch’essa canonica in certa vulgata10 – è duplicemente debole. Presume intanto fatti non accertati, e anzi contestabili e contestati, come l’impegno di Majorana nella difesa del parente accusato, e quindi forza la cronologia11. Perché l’ipotetico stress dovuto all’impegno nel processo avrebbe dovuto esplicarsi dopo il soggiorno in Germania (e Danimarca) dove – ci dice Majorana stesso e ci dicono i suoi biografi12 – trovò ampi riconoscimenti professionali e strinse durature amicizie? I documenti e le testimonianze che possediamo se pongono in luce l’estrema fragilità della spiegazione avanzata con grande sicurezza dalla consorte di Fermi, non permettono in realtà d’individuare nessuna causa determinata e certa della frattura che, a detta di chi gli era amico, si produsse nella vita di Majorana con e dopo l’esperienza all’estero. Ci sono tuttavia indizi fino ad ora lasciati abbastanza in ombra che possono avere – hanno – una relazione non insignificante e con le fasi immediatamente successive della vita di Majorana e con gli interrogativi sollevati dalla sua misteriosa scomparsa. Si trovano nelle lettere inviate a familiari e amici

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durante il soggiorno in Germania e Danimarca. Dunque, in documenti verificabili, non solo in memorie soggettive che si alimentano reciprocamente negli anni. Quanto a prima vista colpisce in questo epistolario è lo spazio che hanno le notazioni politiche, su entrambi i paesi che visita. Ma non meraviglia: fra i «ragazzi di via Panisperna» la politica è una dimensione ben presente, parrebbe fin dagli anni in cui sono studenti13. E sarebbe stato strano il contrario, visto che nel gruppo si trovavano, oltre che rampolli di famiglie che non poco avevano avuto a che fare con la politica come Majorana, i figli di alcuni alti esponenti della politica e\o delle istituzioni culturali dell’epoca come Giovanni Gentile jr. e Giovanni Enriques. Entrati a far parte dell’Istituto di Fisica, sotto la guida di Enrico Fermi divengono rapidamente non solo provetti fisici, ma anche esperti accademici del tutto immersi nel loro tempo. Quando Fermi ironizza sull’interesse di Gian Carlo Wick, figlio di Barbara Allason, per la politica14, lancia al giovane allievo e amico un duplice segnale. Lo aveva voluto con sé sebbene sapesse del suo antifascismo15; lui, il «papa», per quanto potesse sembrare dalla politica alieno ed estraneo, ad essa era molto attento sia nel senso di seguire gli eventi sia in quello di muoversi tenendone conto. Non amava infatti le cause perse; «Don Chisciotte non era certo il suo eroe»16. Suo maestro – testimonia Emilio Segrè – era stato Orso Mario Corbino, grazie al quale «Fermi aveva raggiunto un livello di consapevolezza politica superiore»17. Sa di certo servirsene per le questioni universitarie. E una delle dimostrazioni si avrà proprio nel concorso cui partecipa Majorana. La usa, a quanto pare, per leggere attentamente e con partecipazione ciò che nel mondo si sta dando. È ancora Segrè a suggerircelo. 33

Quando partimmo per le vacanze estive del 1935 – racconta – eravamo di umore tutt’altro che allegro. Gli sviluppi politici degli ultimi tempi e in particolare i preparativi per la guerra di Etiopia e il grave peggioramento della situazione europea ci preoccupavano tanto da interferire seriamente col nostro lavoro. Ci mancava la tranquillità necessaria per una concentrazione totale. Io ero ben conscio di tutto ciò e ne parlai a Fermi che mi rispose che avrei trovato la risposta sul tavolo della biblioteca dell’Istituto. Su questo tavolo c’era un atlante geografico e se si provava ad aprirlo a caso da sé si apriva alla pagina dell’Etiopia; era stata consultata tante volte che la rilegatura era già leggermente deformata18.

Accadeva infatti da mesi – racconta Laura Fermi, che è con ogni evidenza ‘fonte’ o controprova dei ricordi di Segrè – che i membri dell’Istituto di via Panisperna spesso interrompessero le ricerche per andare in biblioteca a studiare l’atlante, cercando invano una scusa, se non una giustificazione, a una tale guerra coloniale. Ma l’atlante insisteva a far vedere un’Etiopia senza grandi risorse naturali, senza miniere, senza pozzi di petrolio, senza obiettivi militari, senza porti19.

L’episodio mostra bene che non è solo il caposcuola ad avere una acuta sensibilità politica. Ricorderà in un’altra occasione ancora Segrè sempre riferendosi al periodo della aggressione italiana all’Etiopia: soprattutto persone informate come eravamo noi, cominciavano a temere che nel mondo sarebbe successo qualcosa di terribile. Avevamo viaggiato, eravamo a contatto con fisici di diversi paesi, e forse eravamo meglio informati dei ministri degli esteri o dei politici20.

Del tutto normale allora riscontrare nella corrispondenza dalla Germania di Majorana – per di più proveniente, come già ripetutamente ricordato, da una famiglia con una importante tradizione politica – forti interessi politici.

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Secondo Amaldi, nel periodo trascorso all’estero Majorana fu molto colpito dal livello economico e organizzativo tedesco tanto da concepire una grande ammirazione per la Germania, ammirazione che espresse in alcune occasioni, in particolare in una lettera a Emilio Segrè: questa lettera sfortunatamente andò perduta, insieme ad altri documenti spediti dall’Italia agli Stati Uniti, nell’affondamento dell’Andrea Doria, avvenuto il 25 luglio 195621.

Per parte sua Sciascia – sebbene ne voglia sottolineare l’atteggiamento di «osservatore apparentemente impassibile» della realtà che gli sta di fronte in Germania – si sente in dovere di giustificarne, polemicamente e in modo erroneo, l’apparente benevolenza verso il nascente Reich con l’essere Majorana «disimpegnato dalla politica al limite di quanto allora si poteva essere disimpegnati», in un mondo in cui in Italia gli antifascisti è possibile incontrarli soltanto in carcere (…) i cattolici avevano sciolto le loro riserve nei riguardi del fascismo (…) Pirandello aveva montato la guardia alla mostra del decennale della «rivoluzione fascista». Marconi presiedeva la Reale Accademia d’Italia voluta da Mussolini. Fermi, accademico, era Sua Eccellenza Fermi

e via elencando22. Laura Fermi tace del tutto questo aspetto, ripreso invece da Segrè, seppure con una maliziosa svista cronologica, nella sua biografia di Enrico Fermi23. Ed è un silenzio che dà da pensare. Sapeva la moglie del «papa» del giudizio che circolava fra i «ragazzi di via Panisperna» sull’atteggiamento di Majorana nei confronti della Germania nazista? O non ne accenna perché lo ignora? Nel primo caso il suo silenzio potrebbe trovare una spiegazione nel contesto in cui scrive, segnato dai momenti più acuti

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della Guerra fredda. Il 1954 è bensì l’anno della messa in stato d’accusa per corruzione di Joseph McCarthy, ma è pure l’anno in cui Robert Oppenheimer è privato d’ogni carica. «Il suo lea­lismo – annota il 6 giugno 1954 Ranuccio Bianchi Bandinelli – è stato riconosciuto in pieno»; la commissione però ha concluso a maggioranza che «fosse da allontanare dagli incarichi di fiducia e di grande responsabilità fin ora coperti» in quanto «la sua mentalità e il suo carattere non appaiono alieni dal poter subire influenze e suggestioni»; insomma «Oppenheimer è risultato un uomo che poteva esser capace di ragionare: perciò va tolto dal suo lavoro, va isolato»24. L’anno precedente erano stati giustiziati i Rosenberg e poco prima, nel 1950, c’erano stati i casi di Klaus Fuchs e, soprattutto, di Bruno Pontecorvo. Con ogni evidenza Laura Fermi è impegnata a prendere distanze ampie, e incontrovertibili, dall’antico allievo del marito. Il gesto di Pontecorvo, dice, era per lei e per il marito «assurdo, inconcepibile». E del tutto inimmaginabile. Come ogni subdolo comunista, Pontecorvo si era infatti premurato di mimetizzarsi. Tanto che – racconta di sé e del marito Laura Fermi, smentita molti anni dopo non solo da Pontecorvo – «venimmo allora all’incredibile conclusione che non avevamo mai parlato di politica con Bruno. Conoscevamo il punto di vista di tutti gli altri amici (…). Non così di Pontecorvo»25. Perché allora creare ombre ancora maggiori sul gruppo di Fermi ricordando che in esso, nonché un comunista, s’annidava pure un simpatizzante per il nazismo? Se invece Laura Fermi ignorava la presunta propensione filonazista di Majorana, allora si potrebbe ipotizzare che con ogni probabilità si tratta di una percezione postuma dei suoi biografi e degli storici del gruppo di via Panisperna. Funzio36

nale e 1) a un’immagine della piccola comunità di fisici romani «preveggente» e fin da diversi anni prima della guerra antitotalitari, in perfetta consonanza con le scelte posteriori di lotta aperta, col loro lavoro, al nazismo e successivamente allo stalinismo, e 2) a una rappresentazione di Majorana come psicologicamente estraneo al gruppo di cui era invece parte integrante, e di peso, sotto il profilo scientifico26. Cosa in realtà emerge dai documenti che ancora esistono e dunque possono essere visti, compulsati e meditati? Si può – in certo senso: si deve – iniziare dal dato più «scandaloso»: le osservazioni sulla persecuzione antiebraica. Majorana ne parla in modo diffuso in due lettere del maggio 1933, l’una alla madre e l’altra a Segrè, quest’ultima a lungo, già lo si è visto, ritenuta scomparsa. I termini in cui affronta la questione appaio­no oggi, dopo il genocidio nazista degli ebrei, inammissibili. La persecuzione, sia razzista che degli avversari politici, gli sembra nella lettera alla madre come la risposta «a una necessità storica: far posto alla nuova generazione che rischia di essere soffocata dalla stasi economica». Per questo – sostiene con una frase che riecheggia quanto Ernesto Rossi scriverà alla madre dal carcere nel 1938 – «la persecuzione ebraica riempie di allegrezza la maggioranza ariana. Il numero di coloro che troveranno posto nell’amministrazione pubblica e in molte private in seguito all’espulsione degli ebrei è rilevantissimo e questo spiega la popolarità della lotta antisemita»27. Diversa è la prospettiva della lettera a Segrè, di una settimana successiva. In Germania esiste «una gravissima questione ebraica in sé e per sé» che va al di là e del fatto che fra gli avversari della «rivoluzione» erano da «annoverare, quasi senza eccezione, gli ebrei», e del fatto che, sebbene «al lume della menzogna statistica» gli israeliti possano apparire una esigua minoranza, «in realtà essi dominano la finan37

za, la stampa, i partiti politici e a Berlino erano in maggioranza perfino in qualche professione libera». Né «motivi religiosi né il pregiudizio di razza» sono tuttavia sufficienti «a spiegare da soli l’impossibilità della convivenza». Il fatto è, continua Majorana, che la realtà tedesca è del tutto dissimile da quella italiana. In Italia – scrive – siamo abituati a considerare gli ebrei come una sopravvivenza storica a cui non neghiamo tutto il nostro rispetto e non ce l’abbiamo a male se qualcuno di essi si sente orgoglioso della sua origine. La nostra politica, non di tolleranza, ma di comprensione, ha dato i migliori frutti e altri ne darà finché venga il giorno, che non può essere lontano, in cui la tradizione degli ebrei trafficanti si avvicini senza sforzo a quella delle repubbliche marinare fra le tante di cui si onora il popolo italiano, uno e indivisibile.

«Affatto diversa» la situazione tedesca dove «esisteva una questione ebraica che non mostrava alcuna tendenza a risolversi spontaneamente». Discutibile e da lasciarsi al giudizio della storia «se l’intervento chirurgico non potesse essere sostituito con l’instaurazione di una politica, tanto ferma quanto avveduta, che avrebbe dato risultati più lenti ma più desiderabili». La causa che «ha guadagnato alla lotta antisemita il suffragio quasi unanime degli ariani» non è «la romantica teoria della razza». Questa «non trova credito esagerato e la tendenza moderata che si contenta di aver tolto agli ebrei la direzione della cosa pubblica è ragionevolmente diffusa». È, invece, l’esistenza di quella cosa stolta e offensiva che è il nazionalismo ebraico. Gli ebrei tedeschi non erano nella maggioranza europeizzati, cioè, nel caso specifico, germanizzati. Può dirsi che questo sia dipeso dal continuo afflusso di elementi fanatici provenienti dai ghetti orientali; almeno questa è la spiegazione che si suole dare. Ma è certo che gli ebrei affermavano la propria separazione dai tedeschi press’a poco con la stessa energia di questi ultimi, salvo inefficaci tentativi di concilia-

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zione dell’ultim’ora all’approssimarsi della tempesta. E non è concepibile che un popolo di 65 milioni si lasciasse guidare da una minoranza di 600 mila che dichiarava apertamente di voler costituire un popolo a sé. Qualcuno afferma che la questione ebraica non esisterebbe se gli ebrei conoscessero l’arte di tenere chiusa la bocca.

Del resto – annota, volgendo al termine – la situazione degli ebrei «non è così grave come potrebbe apparire da lontana». A causa «della nota disposizione a favore dei vecchi impiegati ex combattenti», molti ebrei non hanno perso il posto, «in certe categorie quasi due terzi», e «non bisogna dimenticare che sotto l’impero solo gli ebrei battezzati potevano coprire uffici pubblici. La grande maggioranza di coloro che erano dediti ad attività private non hanno avuto a soffrire del mutamento salvo casi sporadici». Dunque, nel complesso è lecito guardare all’avvenire degli ebrei tedeschi con un certo grado di ottimismo sebbene la fusione con il resto della popolazione sarà ritardata dai recenti avvenimenti. Questi potranno tuttavia avere indirettamente conseguenze salutari se varranno a porre freno alla pericolosa immigrazione ebraica dalle comunità primitive dei paesi slavi, specie dalla Polonia. Fra i nuovi immigrati sono da ricercare i rabbini provocatori che, a quanto si dice, desiderano le persecuzioni per rinsaldare l’unità del loro popolo che rischia di sfaldarsi in seguito alla convivenza fortunata e pacifica con altri popoli. Storia vecchia che si ripete. Ma qualunque siano gli sviluppi che ci riserva il prossimo avvenire bisogna attendersi che in Germania, come negli altri paesi in cui ancora esiste una questione ebraica, dopo un cammino più o meno lungo, la civiltà non fallirà la sua meta28.

Il fatto che oggi sappiamo che quella meta la civiltà ha in real­ tà fallito rende ancora più inquietante un testo già di per sé sconcertante. Non lo si può certo esorcizzare né appellandosi all’ingenuità di un giovane politicamente disimpegnato, come fa Scia-

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scia, né, con Recami, ricorrendo a uno psicologismo che ne fa «una ragazzata: ma indubbiamente pesante» a spese del «collega ‘basilisco’ che, pur essendogli amico, probabilmente non avrà evitato a volte di punzecchiare anche Ettore»29. La spiegazione delle posizioni di Majorana è in realtà assai meno arzigogolata e ben più complicata. A un’analisi minimamente attenta Majorana, di salda educazione cattolica30, appare portatore 1) di una cultura e di un senso comune assai diffusi che assumono, sviluppano e trasmettono alcuni stereotipi antiebraici – fatti propri anche dai deliri degli antisemiti più radicali – come l’idea di essere gli ebrei, in via tendenziale se non per natura, nemici dell’ordine e della patria, sempre e ovunque in combutta tra loro31, nonché 2) del convincimento, in quel tempo maggioritario, per cui la soluzione più «razionale» e «progressiva» della questione ebraica fosse l’assimilazione. Quanto del resto di lì a qualche anno ribadirà un personaggio né clericale né fascista né antisemita, Benedetto Croce, allorché nel 1938, all’aprirsi della stagione della persecuzione antisemita in Italia, proporrà sulla sua rivista quale modello l’epistola di Antonio Galateo in difesa degli ebrei. E dei neofiti, occorre aggiungere. Che è sì una appassionata perorazione a favore dei «fratelli maggiori», ma pure l’indicazione di una via precisa. Il testo dell’umanista sostiene infatti la liceità del matrimonio fra il figlio di un nobile cristiano e una giovane ebrea convertita. Dunque, mentre difende la grandezza del messaggio biblico e rivendica l’origine ebraica del Cristo e di sua madre, Galateo traccia per l’ebreo una ben precisa traiettoria: la conversione e poi l’assimilazione attraverso le nozze con un cristiano32. A questa linea – forse non è del tutto inutile rammentare – Croce si manterrà fedele pure nel dopoguerra, una volta conosciuto lo sterminio perpetrato dai 40

nazisti, non solo creando polemiche, ma legittimando, lui che l’antisemitismo aborriva33, pure posizioni politiche e scelte di governo assai dubbie34. A un tale quadro culturale appartengono anche il disprezzo e la critica verso l’ebraismo orientale e nei confronti della «esistenza di quella cosa stolta e offensiva che è il nazionalismo ebraico». Critica e disprezzo diffusi peraltro pure presso la cultura socialista35 e fra gli stessi ebrei tedeschi36. Proprio perché questa è la realtà, Majorana non ha remore a scrivere in quei termini a un amico ebreo, come Segrè, che con ogni evidenza ritiene «assimilazionista» e altrettanto critico quanto lui del nazionalismo ebraico e dei suoi portatori provenienti dall’est europeo37. D’altronde non è senza significato che Majorana accenni in modo sempre critico, e anche negativo, alla teoria della razza. L’aggettivo «romantica» con cui la definisce nella lettera a Segrè del 22 maggio 1933 trova la sua esatta interpretazione in quanto scrive poco dopo, il 7 giugno, a Giovanni Gentile jr.: la Germania, che non trova nella cultura e nella storia elementi sufficienti per fondare il sentimento unitario dei popoli di lingua tedesca, è costretta a ricorrere a quella sciocca ideologia della razza che a quanto pare non ha suscitato in Austria un’eco adeguata38.

Ho accennato a Croce non perché si abbia qualche prova di una qualche ascendenza crociana delle posizioni di Majorana, ma sia per dare l’idea dell’ampiezza di determinati convincimenti, sia perché Croce è uno tra i pochi che aveva levato la voce contro la persecuzione degli uomini di cultura ebrei in Germania in nome della «comune umanità che è ora, in essi e per essi, offesa in tutti noi»39. La protesta di Croce è del 1935. Fin dal 1933 però – con la legge sul funzionariato del 7 aprile – in Germania la persecuzione è

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pienamente in atto, come aveva ben inteso Albert Einstein che già dal marzo aveva annunciato che non sarebbe rientrato in Germania in quanto finché me ne sarà offerta la possibilità, io risiederò soltanto in quei pae­ si dove regnino la libertà politica, la tolleranza e l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge40.

La stragrande maggioranza della comunità scientifica non lo seguì. Ci fu chi accusò la sua azione di essere dannosa «per i Suoi fratelli di razza e di religione», che dal suo atteggiamento «saranno oppressi ancora di più» e perciò «non trarranno alcun alleggerimento della loro situazione»41. I più – come osserverà Leó Szilárd – «si ponevano sempre da un punto di vista utilitaristico». Si chiedevano quale risultato pratico, concreto avrebbero ottenuto e se tali risultati avrebbero prodotto maggiori benefici della, più che prevedibile, certa perdita d’influenza che sarebbe seguita a loro eventuali proteste. «Il punto di vista morale era del tutto assente, o molto debole». Per questo il fisico ungherese, migrato in Gran Bretagna e poi negli USA, «attivista» e ispiratore della lettera di Einstein a Franklin Delano Roosevelt che invitava il presidente statunitense a mobilitare le forze del suo grande paese per costruire armi atomiche prima di Hitler, dice di essere stato fin dal 1931 convinto della vittoria nazista non per la forza del movimento «ma piuttosto perché pensavo che non ci sarebbe stata affatto resistenza»42. Szilárd è troppo drastico e semplifica la realtà. Ci fu chi si pose problemi morali giungendo, tuttavia, a conclusioni che oggi appaiono ingenue o complici. Come Heisenberg per cui, racconta il suo biografo sulla base di un manoscritto del novembre 1947,

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i tedeschi non ebrei che si opponevano alle misure naziste erano costretti (…) a scegliere fra due possibilità: un’opposizione passiva e un’opposizione attiva. Per Heisenberg l’opposizione passiva significava l’emigrazione: in senso letterale: «per assicurarsi la sicurezza dalla persecuzione in un paese straniero» o l’«emigrazione interna», il ritiro da «ogni responsabilità». Come suggeriscono le sue parole, l’opposizione passiva equivaleva ai suoi occhi alla diserzione43.

Giustamente Cassidy individua in questa posizione i prevedibili eccessi delle autogiustificazioni postbelliche. E tuttavia un atteggiamento di tal tipo è alla base della decisione di restare44, dopo un primo interrogarsi sull’opportunità di migrare45. Alimentato anche da illusioni cui si volle credere ai primi passi del regime. Come quella nata nella primavera del 1933 dall’incontro richiesto da Max Planck, scettico su qualsiasi forma di opposizione aperta e organizzata46, a Hitler per chiedere al Führer garanzie per la comunità scientifica. Quanto produce la risposta del dittatore è ben esemplificato da una lettera di Werner Heisenberg a Max Born del 2 giugno 1933: Planck ha parlato con il capo del regime e ha ricevuto da lui ampie assicurazioni che il governo, dopo la recente legge sui dipendenti statali, non intende fare nient’altro che rischi di danneggiare la nostra scienza. Poiché, d’altro canto, solo gli ultimi nella scala gerarchica sono toccati dalla legge – Lei e Franck certamente no e neppure Richard Courant – la rivoluzione politica potrebbe non comportare alcun danno per la fisica di Gottinga. Nonostante alcune espulsioni, so che nella nuova situazione politica, tra coloro che comandano, ci sono persone per il cui bene vale la pena di resistere. Certo con il passare del tempo le cose egregie si separeranno da quelle odiose47.

Balza immediatamente all’occhio la parentela fra la notazione di Majorana sulla relatività delle conseguenze della persecuzione antiebraica e quanto sostiene Heisenberg, sugge-

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stionato dalle menzogne di Hitler a Planck e da un certo clima per cui all’inizio del regime pure uomini come Max von Laue – che per la loro opposizione saranno poi considerati simboli di coraggio morale – penseranno a una tempesta momentanea48, cosa cui Majorana invece sembra credere meno, nel senso di una transitorietà del potere di Hitler49. Dopo la guerra e la conoscenza dello stermino degli ebrei d’Europa è difficile rendersi conto e della diffusione, anche – forse soprattutto – fra gli strati colti, di stereotipi e riflessi antiebraici e, per questo ma non solo, della sottovalutazione degli esiti della politica razzista del nazismo. Che non pochi del resto – come era stato all’inizio per il fascismo – consideravano fenomeno forse transitorio, di certo domabile, destinato a far posto all’espressione politica delle forze più moderate che in esso albergavano o che l’avevano appoggiato. Prevaleva il riflesso d’ordine, la possibilità che la «rivoluzione» potesse far uscire dalla crisi economica. Proprio questo è quanto si può leggere, in modo molto aperto, in Majorana, nel Majorana che vive la presa del potere «legale» da parte di Adolf Hitler. In Germania come in Danimarca quanto maggiormente lo preoccupa è la crisi economica50 da cui pensa significativamente si uscirà con una ripresa che, scrive alla madre il 29 marzo del 1933, non consisterà in un ritorno alle condizioni patologiche del 1929, ma nel graduale affermarsi di nuove iniziative e sarà perciò lenta ma sicura51.

E quel che del nazismo gli sembra più positivo – a costo anche di eccessi e ingiustizie – è appunto la potenzialità anticrisi della sua politica economica. L’attenzione pubblica – scrive alla madre il 2 giugno 1933 da Lipsia – è rivolta principalmente ai problemi interni, sopra tutto al gigantesco 44

piano di lavori pubblici che dovrà dare lavoro per due anni a cinquecento mila operai e risanare due milioni di ettari di terra ora scarsamente produttivi (…). Notevole per la sua importanza sociale la recente deliberazione governativa per la concessione di prestiti a condizioni di favore ai nuovi sposi. La situazione economica dà segni di miglioramento in tutti i campi52.

La crisi si colloca in un quadro di tensioni internazionali che Majorana ben coglie senza, tuttavia, avere la percezione della pericolosità per la pace del nazismo. A suo parere infatti la Germania non potrà mai essere fattore di guerra per un dato oggettivo: l’andamento della sua demografia. Lo scrive a chiare lettere al padre l’8 giugno: quando la crisi sarà passata e la Germania si sarà sgravata dei debiti (…) questo sarà il popolo più ricco d’Europa. Non credo tuttavia che la Germania possa costituire in avvenire un pericolo per la pace. Certo molti tedeschi sono per la rivincita (…). Ma prima che la carta militare di Europa subisca tali mutamenti da rendere possibili nuove avventure, la fisionomia del popolo tedesco sarà già stata cambiata in conseguenza della formidabile crisi di denatalità iniziatasi nel 1915. Fra trent’anni i tedeschi saranno il popolo più vecchio e in conseguenza il più tranquillo d’Europa53.

Nella lettura ottimistica del fenomeno nazista e, in particolare, dei suoi effetti internazionali ha un ruolo importante l’interpretazione di quanto era avvenuto e stava per lui avvenendo in Italia. Più volte nella corrispondenza di Ettore traspare un ingenuo orgoglio nazionale – come, ad esempio, nel brano di una lettera alla madre sulla trasvolata oceanica di Italo Balbo54 o in quello dedicato al successo riscosso in Germania da una missione di balilla e avanguardisti55 – che fa intendere una sua valutazione positiva del regime che ha riportato il paese all’ordine e a essere rispettato dalla e nella comunità in45

ternazionale. Nella quale ora un’Italia rispettata può svolgere un ruolo di pace. Il periodo in cui Majorana è all’estero è quello nel quale Mussolini lancia il progetto del Patto a quattro, firmato il 7 giugno 1933 ma mai divenuto esecutivo. Dell’iniziativa mussoliniana e dei suoi contenuti Majorana appare entusiasta56 pur essendo conscio che «non può eliminare di un tratto le difficoltà che si oppongono alla revisione, specie del confine polacco»57. La pace è, con il superamento della crisi, la preoccupazione che maggiormente traspare nel Majorana «viandante» in Europa. E se può apparire oggi sorprendente che ne rintracci fra – o: i – portatori nei regimi totalitari di destra che condurranno il nostro continente e il mondo al baratro del secondo conflitto mondiale, nondimeno così è e occorre tenerne conto nel prosieguo della nostra analisi.

  «Quando nell’autunno del 1933 tornò a Roma, Ettore non stava bene a causa di una gastrite i cui primi sintomi si erano manifestati in Germania. Quale fosse l’origine del male non è chiaro, ma i medici di famiglia lo collegarono con un principio di esaurimento nervoso» (Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvi). Sulla stessa linea si mantiene Sciascia quando a proposito del male di Majorana cita la frase di Marcel Proust: «le malattie delle persone intelligenti per tre quarti provengono dalla loro intelligenza» (Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 217). 2   Cfr. Recami, Il caso Majorana, p. 213. 3  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvi. 4   «Pochi sanno che, almeno fino al 1933 (anno in cui Ettore trascorse vari mesi a Lipsia, presso Werner Heisenberg) Ettore era di carattere allegro» (Recami, Il caso Majorana, p. 53). Testimonianze in tal senso anche nella Nota di Amaldi, all’inizio, dove si mette tra l’altro in rilievo l’atteggiamento contestatore di Majorana verso i docenti che non lo soddisfacevano (al proposito vedasi anche Segrè, Autobiografia di un fisico, pp. 57-58, nonché Recami, Il caso Majorana, pp. 53-54). 1

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 Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 237.   «Al ritorno non riprese il suo posto nella vita dell’Istituto; anzi, non volle più farsi vedere nemmeno dai vecchi compagni» (Fermi, Atomi in famiglia, p. 124. Ibidem anche la citazione che segue nel testo). 7  Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 249-250. 8  Fermi, Atomi in famiglia, p. 125. 9   Ibidem, p. 126. 10   Cfr., ad esempio, Pierre de Latil, Fermi. La vita, le ricerche, le testimonianze, Milano 1974 (edizione originale francese del medesimo anno), p. 89. 11   Cfr. Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 234-235 e anche 243-244; Recami, Il caso Majorana, pp. 103-104. 12   Cfr. al proposito Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxv, nonché Recami, Il caso Majorana, pp. 105, 151, 154. 13   Cfr. Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xi. 14   «“Come fa lei, Wick, a trovare interessante la politica? Io non lo capisco proprio”» (Miriam Mafai, Il grande freddo. Storia di Bruno Pontecorvo, lo scienziato che scelse l’URSS, Milano 1992, p. 65). 15   Il 6 maggio 1931 Fermi scrive a Enrico Persico per chiedergli di segnalargli qualche nome di giovane da «far venire temporaneamente a Roma», visto che l’anno successivo alcuni dei suoi «ragazzi» sarebbero andati in Germania. Fra gli altri, dice, avrebbe in mente Wick, ma «mi preoccupa un po’ (…) il fatto che ho sentito dire da varie parti che sia antifascista molto accanito. Naturalmente io non farei in linea di principio una pregiudiziale delle idee politiche. Tuttavia non gradirei, e credo che il prof. Corbino gradirebbe ancora meno, avere qui una persona che facesse o avesse fatto professione di antifascismo» (Segrè, Enrico Fermi, pp. 248-249). 16   Ibidem, pp. 103-104. 17   Ibidem, p. 96. 18   Ibidem, p. 90. Corsivo mio. 19  Fermi, Atomi in famiglia, p. 123. 20   Emilio Segrè, Mezzo secolo fra atomi e nuclei, Milano 1986, p. 23. Corsivi miei. 21  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvi. 22  Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 242-243. 23  Segrè, Enrico Fermi, p. 95. Al proposito si veda infra al capitolo 5. 24   Ranuccio Bianchi Bandinelli, Dal diario di un borghese e altri scritti, Milano 1962, pp. 291-292. 25  Fermi, Atomi in famiglia, pp. 318 e 322. Pontecorvo sconfessa decisamente la ricostruzione della consorte di Fermi laddove racconta a Miriam Mafai di non essere stato chiamato da Fermi a Los Alamos «per ragioni di sicurezza. Anche allora, anche nel periodo di guerra e quando dunque erano alleati con l’URSS, gli americani non amavano gli uomini di sinistra (…). Pensa a un 5 6

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uomo come Joliot. Groves certamente non lo avrebbe voluto a Los Alamos. E, probabilmente, non si fidava di me anche perché avevo lavorato per alcuni anni nel suo laboratorio» (Mafai, Il grande freddo, p. 124). Una conferma alle parole di Pontecorvo viene da Franco Modigliani che racconta come a Parigi alla vigilia della guerra «Pontecorvo professasse apertamente le sue convinzioni di estrema sinistra e cercasse di convincerci del loro valore, intrattenendoci continuamente sulle ragioni di quella scelta» (Franco Modigliani, Avventure di un economista. La mia vita, le mie idee, la nostra epoca, a cura di Paolo Peluffo, Roma-Bari 1999, p. 19). Sull’atteggiamento di alcuni degli uomini dell’ex gruppo di via Panisperna nei confronti di Pontecorvo cfr. le invettive di Segrè in Autobiografia di un fisico, pp. 309 e 344. Vari decenni dopo la sua scelta di vivere in URSS, Pontecorvo descrisse le sue idee politiche – che fra anni Trenta e anni Settanta, scrive, «erano dominate da una categoria che io chiamo adesso ‘religione’» – come «di sinistra», nate dal suo «odio per il fascismo» e spiegò la sua decisione di migrare in Unione Sovietica nei termini seguenti: «allora, come adesso, consideravo terribilmente ingiusta e amorale la profonda ostilità che alla fine della guerra l’Occidente nutriva nei confronti dell’Unione Sovietica la quale, a costo di sofferenze inaudite, aveva dato il contributo decisivo alla vittoria antinazista» (Bruno Pontecorvo, Una nota autobiografica, in Scienza & Tecnica 88-89, Milano 1988, pp. 86 e 83). 26   Anche da questo si manifesta come Sciascia si riveli molto più interno al ‘canone’ di quanto egli stesso non ne abbia coscienza. 27   Lettera alla madre 15.5.33, in Recami, Il caso Majorana, p. 170. Riferendosi alle università italiane dopo l’emanazione dei provvedimenti antiebraici voluti dal fascismo, il 22 ottobre 1938, Ernesto Rossi ironizzava amaramente dal carcere: «è un bel numero di cattedre che rimangono contemporaneamente vacanti: una manna per tutti i candidati che si affolleranno ora ai concorsi» (Ernesto Rossi, Elogio della galera. Lettere 1930-1943, Bari 1968, p. 444). 28   Lettera a Emilio Segrè 22.5.33, in Recami, Il caso Majorana, pp. 171-173. Dapprima, come detto, ritenuta perduta la lettera fu poi pubblicata, nel cinquantesimo anniversario della scomparsa di Majorana, su «Storia contemporanea», XIX (1988), pp. 107-111, da Emilio Segrè che poi la riprodurrà pure nella sua autobiografia (pp. 173-175). 29  Recami, Il caso Majorana, p. 86. Segrè stesso così spiega il soprannome affibiatogli nell’Istituto di via Panisperna: «perché dicevano che ero cattivo, sputavo fuoco e non so cos’altro» (Segrè, Mezzo secolo fra atomi e nuclei, p. 17). Sul soprannome affibiato a Segrè cfr. pure Fermi, Atomi in famiglia, p. 58. 30   Come si è visto aveva studiato dai gesuiti ed è lui stesso a reclamare la propria formazione cattolica (cfr. Recami, Il caso Majorana, p. 195). 31   Per un esempio di tale pregiudizio nel mondo scientifico si veda Giorgio Israel – Pietro Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna 1998, p. 167.

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32   «Si quis ex iudaeo vere christianus effectus, nonne est laude dignior, quam nos, qui in alieno loco sati, in aliena stirpe tamquam neophyti, hoc est novelli surculi insiti sumus? [Se alcuno da giudeo si è fatto veramente cristiano, forse non è più degno di lode, che noi i quali seminati in terreno altrui siamo innestati in aliena stirpe, come neofiti, cioè germogli novelli?]» (Un’epistola del Galateo in difesa degli ebrei riprodotta nel 1938 in «La critica» e ora in Alberto Cavaglion – Gian Paolo Romagnani (a cura di), Le interdizioni del duce. A cinquant’anni dalle leggi razziali in Italia (1938-1988), Torino 1988, pp. 238 e 241 per la traduzione). 33  Cfr., ad esempio, Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 196717, pp. 97-98; Id., Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari 196110, p. 277. 34   Per tutto ciò mi permetto di rinviare ai miei: Croce. Lettera sul «popolo eletto», «Corriere della Sera», 29 giugno 1998, p. 25; Che gli israeliti si controllino…!, «Il diario della settimana», III (22-28 luglio 1998), 29, pp. 74-77; Da perseguitati a «usurpatori»; Nel LX anniversario delle leggi razziali, «Il ponte», LV (aprile 1999), 4, pp. 92-99; «Bisogna che gli israeliti che ritornano si controllino», prefazione a Enrica Basevi, I beni e la memoria. L’ argenteria degli ebrei: piccola «scandalosa» storia italiana, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2001, pp. 9-23. 35  «Sono gli elementi più tradizionalisti dell’ebraismo che ora affluiscono dall’oriente verso l’altamente progredito occidente. La prima conseguenza è che il processo di assimilazione degli ebrei d’occidente s’incaglia. La seconda è che l’antisemitismo ne trae vantaggio (…). Contemporaneamente si è aperta (…) una frattura nell’ebraismo: molto spesso gli ebrei benestanti, colti e pressoché assimilati, d’occidente accolgono con scarso entusiasmo l’afflusso dei loro poveri e ignoranti fratelli yiddish d’oriente. Essi provano nei loro confronti, non di rado, sentimenti che si potrebbero definire un antisemitismo interno all’ebraismo» (Karl Kautsky, Razza e ebraismo [edizione originale Rasse und Judentum, 1914], in Massimo Massara (a cura di), Il marxismo e la questione ebraica, Milano 1972, pp. 461-462). 36   Oltre quanto detto da Kautsky alla nota precedente si veda, ad esempio, la testimonianza di Walter Boehlich nell’intervista rilasciata nel 1988 a Gert Mattenklott: «nell’impero tedesco, anche gli stessi ebrei hanno sempre nutrito pregiudizi nei confronti degli ebrei orientali. Quanto maggiore era l’integrazione culturale e l’assimilazione tanto più si illudevano di vivere liberamente. Gli ebrei orientali però erano l’esatto opposto» (Gert Mattenklott, Ebrei in Germania. Storie di vita attraverso le lettere, Milano 1992 [edizione originale tedesca 1988], pp. 135-136). Al proposito si confronti pure Renée Neher-Berheim, Histoire Juive. De la Rénaissance à nos jours, Paris 1971-1974, III, 1, pp. 198-199, e III, 2, p. 527. 37   Sulla scarsa attenzione di Segrè alle tradizioni – possibile spia di un suo «laicismo» assimilazionista – cfr. Autobiografia di un fisico, p. 81, laddove

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racconta che durante il periodo della scuola allievi ufficiali a Spoleto (luglio 1928-gennaio 1929) «fui chiamato al comando e mi dettero tre o quattro giorni di licenza per la solennità ebraica del Kippur. Non sapevo di averne diritto e rimasi meravigliato» (corsivo mio). 38   Lettera a Giovanni Gentile jr. 7.6.33, in Recami, Il caso Majorana, p. 178. Corsivo mio. Al proposito si veda pure la lettera al padre del giorno seguente (ibidem, p. 179). 39   Benedetto Croce, Pagine sparse, Bari 19602, III, p. 181. 40   Albert Einstein, Manifesto. [10] Marzo 1933, in Id., Idee e opinioni, Milano 1957, p. 193. 41   Così Max Planck in una lettera a Einstein del 19 marzo 1933, citato in John L. Heilbron, I dilemmi di Max Planck portavoce della scienza tedesca, Torino 1988 (edizione originale statunitense 1986), p. 129. 42  Leó Szilárd, Reminiscences, in The Intellectual Migration: Europe and America 1930-1960, edited by Donald Fleming – Bernard Baylin, Cambridge (Mass.) 1969, pp. 95-96. «Attivista» è definito Szilárd da Segrè in Dai raggi X ai quark. Personaggi e scoperte nella fisica contemporanea, Milano 1976, p. 206. 43   David C. Cassidy, Un’estrema solitudine. La vita e l’opera di Werner Heisenberg, Torino 1996 (edizione originale statunitense 1992), p. 343. 44   Al proposito si veda quanto ricorda Amaldi di un incontro con Heisenberg negli USA alla vigilia della guerra in Edoardo Amaldi, Da via Panisperna all’America, a cura di Giovanni Battimelli – Michelangelo De Maria, Roma 1997, p. 73 («in un discorso di natura generale egli associò la decisione di emigrare negli Stati Uniti con l’aspirazione a poter lavorare con la tranquillità indispensabile»). 45   Cfr. Alan D. Beyerchen, Gli scienziati sotto Hitler. Politica e comunità dei fisici nel Terzo Reich, Bologna 1981 (edizione originale inglese 1977), pp. 69-70. 46   Cfr. Heilbron, I dilemmi di Max Planck, p. 125. 47   Ibidem, p. 127. Corsivo mio. Quanto illusoria fosse la posizione di Heisenberg può essere misurato, ad esempio, dal brano che segue: «lo smantellamento da parte dei nazisti dell’Istituto di matematica di Gottinga in meno di otto mesi, fra l’aprile e il novembre 1933, deve attirare l’attenzione a più d’un titolo: a causa dell’importanza eccezionale dell’Istituto quale centro matematico, ma anche per la rapidità e radicalità di tale distruzione. Da nessun’altra parte un istituto di quella taglia fu annientato dai nazisti fin dal 1933» (Norbert Schappacher, Questions politiques dans la vie des mathématiques en Allemagne (1918-1935), in La science sous le Troisième Reich, sous la dir. de Josiane OlffNathan, Paris 1993, p. 56; corsivo mio). 48   Cfr. Beyerchen, Gli scienziati sotto Hitler, p. 71.

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49   Scrive infatti il 12 marzo 1933 a Giovanni Gentile jr.: «In Germania e Danimarca Hitler gode di scarsa simpatia e si profetizza, credo senza fondamento, la sua prossima caduta. I primi atti del suo governo, in particolare la totale sostituzione delle amministrazioni locali mediante elementi nazionalisti, fanno pensare che egli sappia abbastanza il fatto suo. È probabile che l’esempio dei metodi fascisti lo aiuti molto» (Recami, Il caso Majorana, p. 160). 50  Cfr. ibidem, pp. 156, 164, 170, 175, 179. 51   Ibidem, p. 164. 52   Ibidem, p. 175. 53   Ibidem, p. 179. 54   «Si annuncia col più grande rumore la prossima partenza dei 24 apparecchi di Balbo per l’America. Si esalta la parte avuta dalla Germania nella preparazione dell’impresa» (Lettera alla madre 23.5.33, ibidem, p. 174). 55   «Sono passati per Lipsia gli avanguardisti italiani che hanno avuto attraverso tutta la Germania accoglienze trionfali. Alcune delle più alte autorità politiche hanno riservato loro dei discorsi in cui si esprime generalmente il desiderio di portare la Germania al grado di civiltà raggiunto dall’Italia. I giornali rilevano l’aspetto marziale dei Balilla e degli Avanguardisti, e dei numerosi ufficiali che li accompagnano, tutti maestri di ginnastica del foro Mussolini» (Lettera alla madre 3.8.33, ibidem, p. 185). 56   «Ho letto il testo del patto Mussolini, meraviglioso per la parsimonia degli impegni reciproci, ma è la premessa indispensabile per il consolidamento della pace in quanto prevede una collaborazione non più saltuaria, ma permanente fra le 4 potenze» (Lettera al padre 8.6.33, ibidem, pp. 179-180). 57   Lettera alla madre 2.6.33, ibidem, pp. 175-176.

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5 Involuzione depressiva?

Di ritorno dalla Germania – raccontano i biografi – Majorana si trasforma in una specie di eremita. Non frequenta più l’Istituto di via Panisperna. Addirittura non si preoccupa della propria cura fisica. Così – testimonia Amaldi – gli amici debbono preoccuparsi persino di inviargli un barbiere a domicilio1. Un’immagine troppo unidimensionale, troppo adatta al «dopo» per non far sorgere il dubbio che nasca col e dal filtro degli avvenimenti successivi. Non, ovviamente, una ‘falsificazione’; piuttosto una memoria che si riorganizza, al di là di ogni volontà razionale, in base al finale della vicenda. Una sorta di inconscia rilettura dei precedenti sulla scorta di quanto si dà poi. A sedare, forse, anche qualche senso di colpa, non del tutto avvertito probabilmente. Una volta di più è dunque bene partire dalle carte. C’è una lettera del luglio 1934 a Giovanni Gentile jr., che offre un indizio importante. Gentile ha inviato all’amico un libro di cui è stato il curatore – James Jeans, I nuovi orizzonti della scienza (Firenze, Sansoni, 1934) – e Majorana gli scrive per ringraziarlo, commentando anche – sia pur brevemente – il volume: credo che il maggior merito di questo libro sia quello di anticipare le reazioni psicologiche che il recente sviluppo della fisica dovrà fatalmente produrre quando sarà generalmente compreso che la scienza ha cessato di essere una giustificazione per il volgare materialismo2.

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I progressi del sapere fisico implicano dunque, e richiedono, una non banale riflessione filosofica sui fondamenti del ‘vero’ e non solo sul metodo. Non c’è quindi in Majorana contraddizione fra la sua ricerca scientifica e il volgersi alla riflessione filosofica che Amaldi attesta contrapponendola invece, per quanto in modo implicito, al lavoro scientifico, di cui rileva una stasi3. Non si tratta, come sostiene Amaldi, dell’acuirsi di una curiosità intellettuale da sempre viva in Majorana; è una necessità consustanziale allo stesso lavoro di ricerca fisica. Come scriverà Heisenberg oltre vent’anni dopo la lettera di Majorana a Gentile jr., in questi campi della fisica atomica va perduta una gran parte dell’antica fisica intuitiva. E qui non si tratta solo dell’applicazione dei concetti e delle leggi di quella fisica, ma di tutta l’idea di realtà che ha costituito la base delle scienze naturali esatte fino all’epoca della fisica attuale. Con la frase «idea di realtà» alludiamo qui a quella concezione che ammette l’esistenza di fenomeni obiettivi svolgentisi in modo determinato nello spazio e nel tempo indipendentemente dal fatto che siano osservati o no4.

In quest’ottica si comprende l’interesse di Majorana per Scho­ penhauer, attestato da Amaldi, che fra i «vari filosofi» sulle cui opere Majorana in quel periodo avrebbe meditato «a fondo» fa solo questo nome5. Non certo maliziosamente, ma con un messaggio preciso, voluto o meno poco importa, se avulso dalle domande filosofiche che la fisica moderna impone6. Schopenhauer è infatti il filosofo per il quale anche in un manuale scolastico è necessario spiegare perché non concluda il suo argomentare con l’apologia del suicidio piuttosto che con l’esaltazione dell’ascesi. Due degli esiti cui più di frequente si è pensato per spiegare la scomparsa misteriosa di Majorana. Ma Schopenhauer è anche un filosofo che si pone il problema se possa esistere una realtà 54

separata dal soggetto che la «rappresenta». Uno dei temi che differenzia la nuova fisica da quella classica. Secondo le parole di Majorana stesso, gli aspetti caratteristici della meccanica quantistica, in quanto essa si differenzia dalla meccanica classica sono i seguenti: a) non esistono in natura leggi che esprimano una successione fatale di fenomeni; anche le leggi ultime che riguardano i fenomeni elementari (sistemi atomici) hanno carattere statistico, permettendo di stabilire soltanto la probabilità che una misura eseguita su un sistema preparato in un dato modo dia un certo risultato (…); b) una certa mancanza di oggettività nella descrizione dei fenomeni. Qualunque esperienza eseguita in un sistema atomico esercita su di esso una perturbazione finita che non può essere, per ragioni di principio, eliminata o ridotta7.

Posizione questa convergente con l’impostazione che darà alla lezione inaugurale del suo corso nel gennaio del 1938 dove – come risulta dagli appunti rimastici – inizia il suo ragionare mettendo in evidenza l’«enorme interesse speculativo» della moderna fisica e per illustrarlo prende avvio dalla critica dei «due pilastri» della fisica classica e della «concezione meccanicistica della natura» che da essa derivava: «l’esistenza oggettiva e indipendente della materia, e il determinismo fisico»8. Posizione, a ben vedere, che spiega anche l’interesse per Pirandello, tuttavia meno forte, parrebbe, di quanto non ci abbiano consegnato i biografi9. Pure in Pirandello ogni esperienza è «perturbata» dall’osservatore né i destini, come invece nel verismo (il «positivismo» della letteratura), sono espressione di una successione fatale di eventi. L’articolo sulle leggi statistiche – pubblicato postumo da Giovanni Gentile jr. e appartenente per Amaldi al periodo tardo 1933-1936 o 193710 – offre un’altra, e l’unica per mano di

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Majorana, indicazione sull’indirizzo dei suoi studi filosofici. Vi cita e vi discute infatti le tesi sulla «natura naturale» e sulla «natura artificiale» nonché sull’unità o meno delle scienze11 del Sorel di De l’utilité du pragmatisme, un’opera del 1917 ma di cui Majorana vede l’edizione parigina del 1921. Sarebbe, credo, d’interesse assai notevole, ma forse vano visto lo stato delle fonti, chiedersi perché nello studio del pragmatismo Majorana si rivolga, piuttosto che agli autori che avevano originalmente elaborato questa corrente di pensiero, a una sua rielaborazione di seconda mano. Da parte tuttavia di un personaggio che in quei decenni ha un ruolo di rilievo nella cultura e nel dibattito intellettuale italiani. Autore – scrive Antonio Gramsci in carcere – «tortuoso, saltellante, incoerente, superficiale, sibillino, ecc.», reso ancora più difficile dalle «incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero dagli ammiratori dilettanti e intellettuali», ma che «dà o suggerisce punti di vista originali, trova nessi impensati eppure veri, obbliga a pensare e ad approfondire»12. Qui, in queste pagine, è comunque sufficiente notare che nel Sorel di De l’utilitè du pragmatisme Majorana una volta ancora pare cercare risposta ai quesiti che la scienza moderna andava ponendo e che secondo Sorel – ci dice Eugenio Garin – passava, dopo la stagione positivistica, tramite la necessità di combattere «l’idoleggiamento della scienza», battaglia per cui, pure «il pragmatismo serviva (…) anche se poi doveva rivelare, nelle sue forme più diffuse, un semplicismo e una superficialità sconcertanti»13. Serviva quale arma forgiata «contro i servitori dello scientismo da parte di filosofi dotati di un robusto buon senso, che avevano meditato la lezione dei migliori maestri della scienza contemporanea ed erano stati capaci di interpretare seriamente le pratiche del metodo sperimentale»14. 56

Da queste notizie, poche ma certe, deriva l’impressione netta di essere in presenza di una profonda riflessione sugli aspetti ‘ultimi’ del sapere scientifico, se non del sapere tout court, piuttosto che di fronte a una crisi di rigetto del lavoro – come farebbe intendere, sia pure in modo indiretto, la penna di Amaldi secondo cui, in quel periodo di romitaggio, «nessuno di noi riuscì (…) mai a sapere se facesse ancora della ricerca in fisica teorica». È ben vero che l’amico e biografo aggiunge immediatamente dopo: «penso di sì». Subito tuttavia temperato «ma non ne ho le prove». Eppure una prova, certa e ben visibile, esiste. Quando Majorana nel 1937 decide di partecipare al concorso a cattedra pubblica – su pressione, per Amaldi, degli amici – un articolo sul «Nuovo Cimento» – Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone – in cui, scriverà la commissione di concorso presieduta da Enrico Fermi, ha escogitato un brillante metodo che permette di trattare in modo simmetrico l’elettrone positivo e negativo, eliminando finalmente la necessità di ricorrere all’ipotesi estremamente artificiosa ed insoddisfacente di una carica elettrica estremamente grande diffusa in tutto lo spazio, questione che era stata invano affrontata da molti altri studiosi15.

Più avanti nel tempo, con l’esame degli appunti scientifici di Majorana, si potrà dire che nelle sue «linee essenziali»16 la teoria lì contenuta era già formulata negli anni 1932-1933. Ma era Majorana personaggio da pubblicare una nuova ipotesi teo­rica senza riverificare e riverificare e riverificare ancora quelle «linee essenziali»? Comunque anche la mancanza di pubblicazioni poco vorrebbe dire per un personaggio di cui Amaldi sottolinea la costante «avversione a pubblicare o comunque a rendere noti i

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suoi risultati»17. A conferma del fatto che l’assenza di pubblicazioni non è conclusiva per affermare che Ettore ha interrotto il lavoro di ricerca, c’è, ad esempio, una lettera allo zio Quirino del 16 gennaio 1936 in cui, en passant, dice di «occuparsi da qualche tempo di elettrodinamica quantistica»18. Più avanti, già cattedratico a Napoli, dà a Carrelli «l’impressione che cercasse di fare qualche cosa di molto impegnativo di cui non desiderava parlare»19. Con questo ovviamente non si vuole porre in discussione il concreto comportamento di Majorana tramandatoci dai testimoni che in quegli anni gli vivono vicino. Semplicemente si vorrebbe mettere in luce come quella scelta di solitudine adombri innanzitutto un bisogno di riflessione essenziale sui fondamenti ultimi della scienza. E non solo. Attesta infatti Amaldi, prima di parlare dei suoi interessi filosofici, più che di fisica in quel periodo si interessava di economia politica, di politica, delle flotte dei diversi paesi e dei loro rapporti di forza, di caratteristiche costruttive delle navi20.

Un altro indizio da non tralasciare. L’unico evento pubblico noto della vita di Majorana tra il ritorno dalla permanenza all’estero e l’anno della sua scomparsa, il 1938, è la sua partecipazione al concorso per la cattedra di fisica teorica bandito dall’Università di Palermo, su pressione di Emilo Segrè che nel frattempo è divenuto membro di quell’ateneo. Sulla decisione di Ettore di presentare domanda le testimonianze non collimano. Laura Fermi, come già si è visto, parla di risoluzione improvvisa destinata a scompaginare ipotesi già consolidate. Del medesimo parere è Emilio Segrè che così racconta la storia:

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le vicende di quel concorso furono singolari. Inizialmente ci si aspettava una terna composta di Wick, Racah e Giovanni Gentile jr.: ciò perché nessuno contava più su Majorana che viveva come un recluso. Del tutto inaspettatamente, almeno per me, Majorana presentò domanda di partecipazione al concorso. La conseguenza era chiara: la terna sarebbe stata: Majorana, Wick, Racah, e Gentile rimaneva fuori. In un concorso di fisica teorica il giudizio di Fermi e di Persico sarebbe stato decisivo e tutti e due non avrebbero mai decampato dall’ordine di merito21.

La cautela dell’«almeno per me» serve al «basilisco» per ribadire la sua tesi senza entrare in contraddizione con Amaldi, protagonista su tale questione, come su altre, di una dura polemica con Sciascia all’apparire del «giallo filosofico» dello scrittore siciliano su Majorana22. Non solo «sottilizzando»23 si possono infatti trovare diversità fra le versioni di Laura Fermi – e poi di Segrè – e quella di Amaldi nella Nota biografica. Dove si legge: c’era naturalmente il problema di far concorrere Ettore, il quale sembrava che non ne volesse sapere e che comunque ormai da qualche anno non aveva più pubblicato lavori di fisica. Fermi e i vari amici si adoperarono in questo senso e Majorana alla fine si convinse a gran fatica a prendere parte al concorso e mandò alla stampa sul «Nuovo Cimento» il lavoro sulla teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone24.

Se le cose si svolsero come raccontato da Amaldi la realtà era ben diversa da quella tramandata e da Laura Fermi e da Segrè: si potrebbe dire che, in sostanza, la terna Wick, Racah, Gentile, poi datasi, non era se non una seconda ipotesi laddove Majorana non si fosse presentato, cosa su cui molti forse contavano, ma non Fermi, futuro arbitro del concorso, che anzi s’adoperò perché Ettore vi partecipasse. Le cose poi andarono in modo del tutto imprevisto: vinsero i tre e divenne cat59

tedratico pure Majorana chiamato a Napoli per chiara fama, su proposta della commissione di concorso che a quel passo e all’uso di quel particolare marchingegno era stata indirizzata da Giovanni Gentile senior25 per far sì che suo figlio potesse entrare in terna come poi avvenne. Nelle more delle prime fasi concorsuali Gentile jr. sapeva di avere poche chances e pare le attribuisse a un atteggiamento negativo di Fermi nei suoi confronti, della cui inesistenza Majorana lo rassicura26. Proprio la missiva con cui tenta di fugare le preoccupazioni dell’amico offre un indizio di qualche rilievo. Dal testo si evince che Majorana è ben attento agli sviluppi della vicenda concorsuale e che con ogni probabilità ne aveva parlato abbastanza di recente con Fermi, con cui del resto doveva aver continuato ad avere rapporti se, secondo la versione di Amaldi, lo stesso «papa» aveva fatto pressioni su Ettore perché avanzasse domanda al concorso palermitano. Un’altra testimonianza di attenzione alle vicende concorsuali è offerta da una ulteriore lettera a Giovanni Gentile jr. che gli scrive dopo la conclusione del concorso. Vi fa innanzitutto delle annotazioni sul risultato – «prevedevo una terna leggermente diversa, ma sapevo che Wick doveva essere primo» – e ironizza poi con duro sarcasmo sul proprio caso: mi meraviglio che per quanto mi riguarda tu dubiti del mio buon stomaco, in senso metaforico. Pio XI è molto vecchio e io ho ricevuto un’ottima educazione cristiana; se al prossimo conclave mi fanno papa per meriti eccezionali, accetto senz’altro27.

Qualche giorno prima aveva scritto allo zio Quirino, fisico sperimentale a Bologna e conoscitore delle spire del mondo accademico: «ho riso alquanto delle stranezze procedurali del mio concorso delle quali non avevo nessun sospetto»28.

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D’altronde, c’è da chiedersi, perché mai Ettore avrebbe dovuto né fare domanda di partecipazione al concorso né interessarsi del suo svolgimento se non per fedeltà al personaggio che su di lui verrà cucito dopo la sua scomparsa? Ormai sulla soglia dei trent’anni, Majorana non aveva infatti nessuna posizione certa. E che a essa aspirasse era del tutto naturale e indirettamente mostrato pure dall’aver preso la libera docenza. Un fatto, quest’ultimo, registrato dai biografi e poi lasciato cadere nel nulla. Così come nel nulla i biografi lasciano cadere un altro indizio: al ritorno dalla Germania Ettore si iscrisse al Partito Nazionale Fascista29. Solo atto di adesione politica reso finalmente possibile dalla riapertura delle iscrizioni al partito decisa nell’ottobre 1932, fatto che aveva «destato un certo interesse nelle classi medie»?30 O qualcosa d’altro? Forse non è qui del tutto inutile, né indebito, rammentare a proposito del passo fatto da Majorana che la «Gazzetta Ufficiale» del 21 dicembre 1932 nr. 293 aveva pubblicato un decreto del capo del governo del precedente 17 dicembre in cui si stabiliva che «per l’ammissione ai concorsi di qualsiasi ruolo, gruppo e grado» banditi dalle pubbliche amministrazioni centrali era «richiesta a seconda dell’età prescritta per l’ammissione ai concorsi stessi l’iscrizione al PNF o ai fasci giovanili di combattimento»31. Ammettere che Ettore pensava alla «carriera», al futuro avrebbe significato dovere prendere in considerazione l’ipotesi che la decisione di sparire, che Majorana prenderà pochi mesi dopo il concorso, non era la conclusione «logica», ancorché imprevista, di una progressiva involuzione depressiva. Avrebbe significato ammettere che quel gesto doveva connettersi anche a un alcunché legato al momento della scomparsa, che dunque diventava importante. 61

Pure restando ai racconti canonici emerge senz’ombra di dubbio che la monade Majorana aveva qualche finestra. Quante e quali non è dato di sapere, ma più e diverse – mi sembra – che non appaia dalla letteratura sul suo «caso». Si legga, ad esempio, la lettera allo zio Quirino del 1o settembre 1937 in cui esprime il desiderio, subito temperato da un «ma forse sarò costretto a rinunciarvi per evitare un viaggio troppo lungo dalla Sicilia», di assistere a un congresso che lo zio andava organizzando per cui, scrive, «ho improvvisato un discorso di apertura secondo quanto mi sembra che tu desideravi»32. Donde emergono due indizi non irrilevanti. Innanzitutto la disponibilità a collaborare a lavori accademici e di ricerca, sia pur con lo zio – «abile fisico sperimentale con una conoscenza però scarsa della teoria» da cui derivava come «conseguenza naturale (…) [un] antirelativismo fanatico»33 – col quale ha una fitta corrispondenza scientifica34. In secondo luogo una certa qual voglia di riprendere i contatti con la comunità scientifica fors’anche stimolata dalla partecipazione alla tenzone concorsuale. O si pensi, ancora, al già citato lavoro, pubblicato postumo, Il valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze sociali. Nel presentarlo nel 1942 su «Scientia» Giovanni Gentile jr. – fra i più stretti amici di Majorana, come sappiamo – afferma che l’articolo «fu scritto originariamente per una rivista di sociologia»35. Quale, a tutt’oggi, non è dato purtroppo di sapere. Se la notizia corrisponde a realtà – né c’è motivo di dubitarne – significa che Majorana non tiene rapporti solo con la famiglia e gli amici di via Panisperna. Ha altri contatti, interagisce con altri ambienti. Avrà fatto una vita da recluso, si sarà fatto crescere in modo abnorme i capelli, non avrà frequentato l’Istituto, ma tutto questo forse non è segno solo di quella stranezza che Sciascia denuncia come unica dimensione interpre62

tativa del personaggio da parte delle fonti del gruppo degli allievi di Fermi, molto autoreferenziale (e a ragione visti i risultati che raggiunsero) nel racconto delle vicende di quegli anni. Bisogna ancora volgersi ad Amaldi per trovare una traccia importante a comprendere il contenuto delle solitudini di Majorana di quel periodo. Polemizzando con l’idea di Sciascia che Majorana decida di scomparire perché aveva intuito i possibili esiti militari delle ricerche atomiche, Amaldi scrive nel 1975: è vero che nel periodo 1935-1936, in cui stava in casa, Ettore si interessava delle flotte dei vari paesi e faceva i calcoli per vedere quale dei due gruppi di potenze che entro qualche anno si sarebbero con ogni probabilità affrontati aveva maggiore possibilità di prevalere36.

Ecco allora un Majorana, dal carattere chiuso e poco socievole, pienamente partecipe del mondo in cui è immerso, occupato a riflettere, se si vuole, a rimuginare, sul significato ultimo della scienza e al tempo stesso sulla realtà che gli si dipana sotto gli occhi. Una realtà che doveva inquietare, e non poco, il giovane che aveva ingenuamente creduto la politica razzista del nazismo un «necessario» male passeggero e che i regimi totalitari di destra potessero apportare stabilità e pace al continente. In ciò, del resto, in compagnia e in consonanza cronologica con gli altri «ragazzi di via Panisperna». Sebbene Segrè dica di non avere avuto illusioni su come le cose sarebbero andate a finire fin dall’ascesa del nazismo in Germania, se non da prima37, per quanto nell’estate del 1934 Amaldi e Segrè, nel Regno Unito per lavoro, colgano i segni del deterioramento della situazione europea38, non c’è dubbio che la ‘svolta’ politica del gruppo di Fermi si situi nel 1935, con la guerra di Etiopia. Tutte le testimonianze vi convergono. Oltre quelle, già viste, di Emilio Segrè biografo di Fermi e della

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vedova di quest’ultimo, pure quella di Rasetti nella sua inedita autobiografia inviata ad Amaldi nel 1958 (con aggiunte nel 1968) nella pessimistica, e infondata, previsione della necessità di un suo «obituary» da parte dell’amico, custode delle memorie del gruppo, premortogli di molti anni39: nel 1935 con la preparazione della guerra di Etiopia, Mussolini e il fascismo erano rapidamente mutati da quel fastidio che avevano rappresentato fino a quel momento per persone come me estranee alla politica a una tirannia che colpiva la vita quotidiana dei loro sfortunati sudditi. La guerra di Spagna che seguì immediatamente quella di Etiopia e specialmente il «patto d’acciaio» con Hitler (…) m’indussero a considerare di lasciare l’Italia a costo di perdere l’eccellente posizione che vi avevo40.

Testimonianza tanto più significativa questa di Rasetti in quanto, a detta di Segrè, e alla ascesa del fascismo e successivamente per un certo tempo «persino persone di spirito critico come Rasetti erano entusiaste» del regime. Mentre «nei primi tempi Fermi fu certamente favorevole al fascismo»41. Poi, mentre indossava la feluca di accademico d’Italia, «che era, in fondo, un fez da tenuta di gala»42, passa di fatto – fino al maturare della critica al regime gettatosi in una anacronistica guerra coloniale e quindi all’abbandono dell’Italia dopo l’emanazione delle leggi antiebraiche che lo colpiscono direttamente negli affetti familiari – ad appartenere a quella categoria, vasta, che Bianchi Bandinelli ha mirabilmente descritto con la frase: «tutti ‘fanno’ i fascisti, nessuno, quasi, lo è». Con il risultato, pernicioso per il paese, che il regime è una «scuola di immoralità e di cinismo data a una società che è già di per sé immorale e cinica»43. Cosa impedisce di pensare che anche Majorana segua una strada simile a quella dei suoi amici e colleghi con cui, pur isolandosi in casa, continua ad avere contatti? 64

Una traccia, pur labile, a contrario si trova nella curiosa – e, già vi si è accennato, non priva di malizia – ricostruzione del filonazismo di Majorana ad opera di Segrè biografo di Fermi. Per coglierne il senso occorre partire un po’ da lontano. Dapprima il «basilisco» racconta l’effetto della crisi etiopica sul gruppo alla vigilia delle vacanze estive del 1935. Quindi narra le esperienze fatte da Amaldi e Fermi rimasti soli a Roma in quanto, nell’autunno 1935, il gruppo si disperse in diverse sedi universitarie. Dopo di che annota: il successo scientifico e personale dovuto agli importanti lavori del 1936 contrastava amaramente con l’evidente peggioramento della situazione politica europea che prometteva guai a tutti noi (…). A questa fosca situazione si aggiunse un fierissimo colpo del tutto inaspettato. Il 23 gennaio del 1937 il professor Corbino morì di polmonite.

A soli sessantuno anni d’età. Sarebbe stato naturale – continua Segrè – nominare suo successore Fermi, ma in seguito a manovre politiche il professor Lo Surdo emerse come nuovo direttore dell’Istituto di Fisica. Questo era un segno che le fortune di Fermi stavano declinando e non prometteva nulla di buono per la continuazione del lavoro a Roma44.

Come si vede siamo ormai giunti, nella narrazione della vita del «papa», al 1937. A questo punto Segrè introduce un altro elemento di sfondo, panoramico e generale. Nel mondo della fisica stava nel frattempo producendosi una mutazione profonda: «il tramonto della Germania». Frutto del «cancro del nazismo» che «stava distruggendo la fisica tedesca e temevamo che potesse rivolgersi al resto dell’Europa». Per tale motivo i membri del gruppo volsero la loro attenzione al mondo anglosassone che stava «togliendo alla Germania il primato della scien65

za». Presero allora il «papa», il «basilisco» e gli altri «ragazzi di via Panisperna» a studiare e perfezionare l’inglese e a pubblicare, anziché in tedesco, in questa lingua nella quale – a quanto risulta dalle fonti – Majorana sapeva districarsi nella sola lettura45. Il mutamento di rotta «era desiderato e approvato» da tutti gli allievi e i collaboratori di Fermi. L’unica eccezione era, per Segrè, Majorana che «andò in Germania nel 1934» e «si lasciò impressionare dalla propaganda nazista e scrisse lettere favorevoli al regime». Ognuno degli altri aveva infatti ben chiaro cosa stava succedendo in Germania. Cosa che, dice Segrè, non alterava le relazioni personali con i nostri amici molti dei quali erano vittime delle persecuzioni e della tirannia hitleriana e l’aborrivano non meno di noi (…) fino al 1936 cercammo in tutti i modi di aiutare, nei limiti delle nostre possibilità, i nostri amici vittime del nazismo. Dopo il 1936 ciò non fu più possibile46.

L’incastonamento della notazione sul filonazismo di Majorana nel quadro della progressiva crescita della consapevolezza «democratica» del gruppo lascia perplessi proprio per la «svista» cronologica che la caratterizza e che avrebbe benissimo potuto essere corretta solo che l’autore si fosse premurato di controllare le date sulla biografia di Ettore scritta da Amaldi, già edita da alcuni anni quando esce il libro di Segrè su Fermi. L’errore cronologico colloca le lettere ‘filonaziste’ non all’albore, ai primi passi del nazismo, nelle prime settimane e nei primi mesi del potere hitleriano, ma un anno dopo quando i caratteri della dittatura nazionalsocialista erano ormai ben più chiari. Quasi un tentativo di allargare il solco fra gli altri e lui, Majorana il diverso. E se invece, ripeto, le stesse vicende che avevano così colpito il «gruppo» fossero state parte anche del tormento di Ettore?

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Il percorso di Majorana potrebbe essere stato anche più mosso e complicato se si tenta di collocare nel quadro generale una testimonianza del tutto «eccentrica» e, francamente, abbastanza sconcertante, per non dire altro. Nell’inverno 1932-1933 passa un periodo a Roma presso l’Istituto di via Panisperna il tedesco Rudolf Ernst Peierls che, a chi gli si era rivolto per una testimonianza su Majorana, scrisse nel luglio 1984: «mi apparve come un fisico straordinariamente dotato, un poco timido, e veramente contrario al fascismo»47. Naturalmente la notazione di Peierls può essere – e quasi certamente è – una distorsione prospettica postbellica. Come si poteva pensare, dopo la guerra, che una mente brillante potesse essere stata affascinata dal fascismo? Se però corrispondesse a realtà fornirebbe l’indizio di un itinerario accidentato, sulla cui realtà Recami pare oscillare48: da una contrarietà al regime a una speranza nei suoi confronti, attestata anche da una inscrizione al PNF a far data dal 31 luglio 1933 giorno in cui scade la sua borsa per la permanenza in Germania, a una disillusione ancora più bruciante proprio perché la speranza era nata dall’abbandono di una precedente avversione. Qualcosa può, se non comprovare, far propendere per la veridicità della testimonianza del fisico tedesco? Nulla in realtà. Se non l’ipotesi, più che plausibile, del fastidio probabilmente mostrato da una intelligenza acuta per gli atteggiamenti più rozzi del regime e dei suoi gerarchi e/o quella di una certa insofferenza giovanile – di cui peraltro non si hanno prove dirette – verso una famiglia per tradizione saldamente governativa, tanto che – ricorda Sciascia, ricostruendo il famoso processo cui Laura Fermi attribuisce i turbamenti psicologici del giovane Ettore – fra i difensori della famiglia Majorana, «quasi tutti principi del foro», c’era pure Roberto Farinacci la cui «nullità professionale era ad usura compensata dalla temibilità politica»49. 67

Anche senza ipotizzare questo improbabile percorso complicato, non v’è dubbio che numerose siano le spie di un disagio, fors’anche di un tormento, di Majorana, come dei suoi amici del «gruppo di Roma», a fronte dell’evoluzione della politica italiana ed europea. Per un momento pare Ettore pensi alla possibilità che gli eventi possano, forse, essere padroneggiati o in qualche modo convogliati da un ausilio delle scienze sociali all’«arte di governo». Lo lascia intravedere la chiusa dell’articolo pubblicato postumo da Giovanni Gentile jr. Un brano peraltro oscuro su cui sono state avanzate altre, e contrarie, ipotesi interpretative. La disintegrazione di un atomo radioattivo – scrive terminando Il valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze sociali – può obbligare un contatore automatico a registrarlo con effetto meccanico, reso possibile da adatta amplificazione. Bastano quindi comuni artifici di laboratorio per preparare una catena comunque complessa e vistosa di fenomeni che sia comandata dalla disintegrazione accidentale di un solo atomo radioattivo. Non vi è nulla dal punto di vista strettamente scientifico che impedisca di considerare come plausibile che all’origine di avvenimenti umani possa trovarsi un fatto vitale egualmente semplice, invisibile e imprevedibile. Se è così, come noi riteniamo, le leggi statistiche delle scienze sociali vedono accresciuto il loro ufficio che non è soltanto quello di stabilire empiricamente la risultante di un gran numero di cause sconosciute, ma soprattutto di dare della realtà una testimonianza immediata e concreta. La cui interpretazione richiede un’arte speciale, non ultimo sussidio dell’arte di governo50.

Sciascia trova la conclusione del saggio sul valore delle leggi statistiche profondamente suggestiva (…) nel senso dell’inquietudine, della paura. Automaticamente, ci siamo trovati a versificarla, a disporre le parole su un foglio in un ritmo di dizione e di visione. Strana operazione 68

e gratuita, si dirà: ma il fatto è che nel condurla abbiamo sentito crescere in noi l’inquietudine, la paura. E provate anche voi, se vi pare: vi troverete di fronte a un tremendo epigramma51.

Di certo meno intenso e penetrante dell’autore del «giallo filosofico» intravedo piuttosto nella (voluta?) inintelligibilità della chiusa del saggio sul valore delle leggi statistiche la confusa indicazione, ricerca o speranza, della possibile esistenza d’uno strumento che aiuti l’arte di governo a correggersi, a intendere la direzione del movimento della realtà, a far sì che non si dia quel che, giovane, un grande pensatore e uomo politico francese del Settecento aveva osservato: «apprendiamo sempre gli avvenimenti troppo tardi e la politica ha sempre bisogno di prevedere per così dire il presente»52. Se l’interpretazione della chiusa e del senso ultimo del saggio sulle leggi statistiche è difficile, e dunque inevitabilmente arbitraria, non v’è dubbio che questo testo mostri una volta di più un Majorana profondamente attento alla realtà sociale e politica che lo circonda. Una realtà che va in direzione opposta a quella da lui prevista, secondo quanto attestano le sue lettere. I regimi dittatoriali di destra sempre più mostrano il loro volto aggressivo. Non possono certo più essere visti – nemmeno ‘ingenuamente’ – quali fattori di stabilità e di pace. La Germania si riarma rapidamente e fonda il suo discorso sull’ordine europeo sulla necessità per essa di un nuovo, diverso e più ampio «spazio vitale»; l’Italia s’avventura in una tardiva guerra coloniale; insieme alimentano l’incendio spagnolo. La guerra moderna, in particolare con il bombardamento di Guernica del 26 aprile 1937, si appalesa sempre più in tutta la sua atrocità tecnologica. Parimenti clamorosa è la dimostrazione della diversità, rispetto a quella ipotizzata da Ettore, dell’evoluzione interna dei 69

regimi, di quello nazista in particolare. Non le prospettive moderate, ma quelle più estreme hanno il sopravvento. Con le «leggi di Norimberga» del 15 settembre 1935 prende avvio una ulteriore, sempre più aspra persecuzione nei confronti degli ebrei tedeschi oramai non più considerati cittadini del Reich e impossibilitati a praticare la maggior parte dei mestieri e delle professioni. Contemporaneamente, e non a caso, riprendono vigore gli attacchi dei «fisici ariani» contro gli «ebrei bianchi»53 nella scienza, contro cioè coloro che praticavano e sostenevano la fisica moderna. Uno dei loro obiettivi principali era lo «spirito dello spirito di Einstein»54: Werner Heisenberg. Sarà un conflitto destinato a durare a lungo tanto che la pressione ideologica si allentò [solo] quando la guerra di Hitler cambiò da «Blitzkrieg» in una lotta prolungata. I nazisti dovevano appoggiarsi sempre di più su specialisti che potevano affrontare situazioni particolari in cui non era possibile ubbidire a proclami politici55.

Ad Heisenberg, ricorda Amaldi, Ettore si legò nel periodo della permanenza a Lipsia, cosa del resto confermata dalle sue lettere del tempo56. E aggiunge che per il grande fisico tedesco Majorana «conservò sempre profonda ammirazione e senso d’amicizia»57. Sciascia va oltre, ben oltre: con Heisenberg Ettore a Lipsia ha un rapporto intenso, «del tutto diverso» da quello che ha con il resto della comunità di fisici che nella città tedesca si trova. «E la ragione crediamo di intravederla, retrospettivamente, nel fatto che Heisenberg viveva il problema della fisica, la sua ricerca di fisico, dentro un vasto e drammatico contesto di pensiero»58. Come Ettore, appunto. Per quanto le carte nulla ci dicano di ulteriori contatti di Majorana con Heisenberg è ragionevolmente ipotizzabile che da Roma o da Napoli o dalla Sicilia, dovunque sia, Ettore segua non

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solo le ricerche, ma le personali vicende di Heisenberg. Del resto, per quanto chiuso in casa, Majorana – già lo si è detto – continua ad avere contatti con i «ragazzi di via Panisperna» e questi – oltre che tenersi aggiornati sulle riviste scientifiche – viaggiano, parlano con i colleghi stranieri, mentre lo stesso Istituto di Fisica di Roma è luogo di arrivi e permanenze di ricercatori di diversi paesi59. Al proposito è significativa la testimonianza di Léon Rosenfeld, raccolta da Recami nel 1964. A Copenhagen «l’unico, apparentemente, con cui [Majorana] conversava liberamente era Placzek, presumibilmente perché lo conosceva già da Roma»60. George Placzek, cecoslovacco con esperienze di studio e di lavoro cosmopolite, cui forse si deve l’abbandono da parte di Fermi della perdente via dell’uso dell’acqua pesante nel controllo della fissione61, era stato infatti a Roma durante l’anno accademico 1932-1933 stringendovi, con i membri dell’Istituto di via Panisperna, rapporti scientifici e umani «che lo dovevano riportare in questa università, per periodi più o meno lunghi, ogni due o tre anni per tutto il resto della sua vita»62, breve – purtroppo – essendo scomparso a soli cinquant’anni nel 1955. Se questa notazione di Amaldi è letteralmente esatta63, e non solo un modo di dire per sottolineare che dopo quel primo viaggio il cecoslovacco continuò ad avere rapporti abbastanza continuativi con Roma, allora Placzek può essere tornato nell’Urbe quando ancora Majorana non era scomparso. È azzardato pensare che si siano incontrati, scambiandosi idee e impressioni? E Placzek non si faceva illusioni sulla realtà europea come mostra una sua celebre battuta, posteriore – tuttavia – alla scomparsa di Majorana. Nell’estate del 1938 dopo che Niels Bohr aveva pubblicamente espresso il timore che se Hitler avesse invaso la sua patria, la Danimarca, le grandi democrazie occidentali non avrebbero mosso un dito, Placzek, allo71

ra a Copenhagen, aveva sarcasticamente commentato: «Perché Hitler dovrebbe occupare la Danimarca? Può limitarsi a telefonare, no?»64. Un modo sarcastico per dire la stessa cosa di Amaldi quando, a proposito del 1939, scrive: «ricordo che per descrivere la situazione usavo la frase ‘distruzione pacifica dell’Europa da parte dei nazisti’, frase nata all’epoca dell’Anschluss (…) dell’Austria»65. Almeno per quanto concerne l’Italia, i regimi dittatoriali di destra avevano riservato a Majorana un’ultima disillusione relativamente all’economia. Alla metà degli anni Trenta i più guardano al futuro con ansia. Lo attesta una limpida pagina di Renzo De Felice: se si scorrono i rapporti – soprattutto quelli della seconda metà del 1936, del 1937 e del 1938 (…) – dei prefetti, degli informatori della polizia, del partito, dell’OVRA e del SIM emerge chiaro quanto in questi anni le difficoltà economiche accomunassero, in misura maggiore o minore, contadini, operai, piccoli e medio borghesi, assorbendone le energie e condizionandone gli atteggiamenti verso il regime66.

In questa situazione fra i «ragazzi di via Panisperna» si acui­ sce non solo la preoccupazione, ma la tensione che si esplica nella sempre maggiore frequenza con cui diversi fra loro pensano di emigrare. Cosa che per molti si realizzerà – forzosamente, per chi «ariano» non era – dopo l’emanazione nel tardo 1938 dei provvedimenti antisemiti italiani. L’idea, che implica pure sacrifici pratici e non solo «sentimentali»67, però circola da ben prima. Rasetti, si è visto, la connette – per quanto lo concerne – alle aggressioni all’Etiopia e alla Spagna nonché al rinsaldarsi dell’alleanza con Hitler. Segrè afferma relativamente al periodo precedente la vittoria della cattedra a Palermo (autunno 1935): «se avessi trovato un posto in America mi sa-

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rei trasferito senz’altro, ma tali posti erano rari come le mosche bianche»68. Anche se al passo dell’abbandono dell’Italia si deciderà solo nell’estate del 1938, realizzandolo poi nel dicembre, Fermi aveva rimuginato sulla cosa già negli anni precedenti69. Non c’è alcuna notizia al proposito per quanto riguarda Majorana: né per quel che concerne sue possibili valutazioni rispetto alle idee degli amici, né relativamente a lui stesso, a riflessioni sul suo futuro. È un segno del suo disinteresse per quanto avverrà della sua vita? È un’indiretta controprova della sua adesione al regime? È la spia di una sorta di persistenza dell’influenza di Heisenberg su di lui? Oppure Ettore non pensa di potere trovare una possibile risposta alle sue ansie nei paesi, e i loro regimi, verso cui andavano le speranze degli altri del «gruppo di Roma»? L’analisi delle fonti relative agli anni fra il ritorno dalla Germania e la presa di possesso a Napoli della cattedra lascia aperti numerosissimi interrogativi e porta a un’unica certezza: le crepe enormi che appaiono nell’edificio del canone.

 Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvii.   Lettera a Giovanni Gentile jr. 27.7.34, in Recami, Il caso Majorana, p. 188. 3  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, pp. xxvi-xxvii. 4   Werner Heisenberg, La scoperta di Planck e i principi filosofici della fisica moderna (1958), in Werner Heisenberg – Max Born – Erwin Schrödinger – Pierre Auger, Discussione sulla fisica moderna, Torino 1959, p. 13. 5   Cfr. Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvi. 6   Sulla stessa linea di Amaldi si pone in questo caso Recami quando scrive, a proposito del momento della scomparsa: «senza forzare la realtà possiamo immaginare che davvero, su quello stesso comodino ove lascia la lettera alla famiglia, Ettore tenga Schopenhauer e Shakespeare; e Pirandello» (Il caso Majorana, p. 95). 1 2

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  Ettore Majorana, Il valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze sociali, «Scientia», XXXVI (1942), 71, pp. 58-66: 65. 8   Ettore Majorana, Appunti per la prolusione ai corsi (13.1.38), in Recami, Il caso Majorana, p. 197. Questi appunti, ritrovati da Recami nel 1972, furono pubblicati dapprima sul «Corriere della Sera» del 19 novembre 1982 e poi alle pp. 169-172 di Ettore Majorana, Lezioni all’Università di Napoli, con scritti di Nicola Cabibbo – Erasmo Recami, Napoli 1987. 9  Vedi infra, capitolo 7 al riferimento della nota 25. 10  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvi. 11   A proposito della quale Majorana rigetta «la pretesa di condannare l’ideale dell’unità della scienza che si è rivelata più volte un efficace stimolo al progresso delle idee» (Majorana, Il valore delle leggi statistiche, p. 60). 12   Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Torino 1975, II, p. 1494; I, p. 470. 13   Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari 19592, p. 266. 14   Georges Sorel, De l’utilité du pragmatisme, Paris 1921, pp. 1-2. 15   Relazione sulla attività scientifica del prof. Ettore Majorana, in Recami, Il caso Majorana, p. 211. 16  Recami, Il caso Majorana, p. 68. 17  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxiv. 18   Lettera a Q. Majorana 16.1.36, in Recami, Il caso Majorana, p. 191. 19  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xlvii. 20   Ibidem, p. xxvi. 21  Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 164. 22   Cfr. Edoardo Amaldi, L’ atomica non l’ha scoperta lui, «L’Espresso», XXI (5 ottobre 1975), 40, pp. 107-111 e 157; Leonardo Sciascia – Edoardo Amaldi, Duello intorno a una bomba, «L’Espresso», XXI (12 ottobre 1975), 41, pp. 56-61 e 140. 23   Il termine è di Amaldi nel secondo dei testi citati alla nota precedente p. 57. 24  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxvii. 25   «Il tutto era, a dir poco, insolito, e credo che la spiegazione sia questa: per evitare l’insuccesso del figlio, il padre del candidato Gentile, ex ministro della Pubblica Istruzione e tuttora una potenza nella vita politica italiana, aveva escogitato un piano ingegnoso e senza precedenti» (Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 164). 26   «Credo ingiustificata la tua volontaria diffidenza verso Fermi che mi ha parlato di te con la più schietta simpatia» (Lettera a Giovanni Gentile jr. 25.8.37, in Recami, Il caso Majorana, p. 192). 27   Lettera a Giovanni Gentile jr. 21.11.37, ibidem, p. 195. La citazione che precede nel testo è alla p. 194. 7

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  Lettera a Q. Majorana 16.11.37, ibidem, p. 194.  Recami, Il caso Majorana, pp. 57 e 165. 30   Alberto Aquarone, L’ organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1965, p. 185. 31   Ibidem, p. 257. 32   Lettera a Q. Majorana 16.11.37, in Recami, Il caso Majorana, p. 193. 33  Pastrone, Fisica matematica e meccanica razionale, p. 472. 34   Cfr. Recami, Il caso Majorana, p. 63. 35  Majorana, Il valore delle leggi statistiche, p. 58 nota 1. 36  Amaldi, L’ atomica non l’ha scoperta lui, p. 111. 37  Segrè, Autobiografia di un fisico, pp. 112-113. 38   Nell’estate del 1934 Amaldi è, con Segrè, a Cambridge presso Ernest Ruth­erford. In occasione di una gita a Londra incontrano Leó Szilárd con cui tuttavia, scriverà Amaldi nel 1984, «parlammo più di politica che di fisica. L’assassinio del cancelliere austriaco Dolfuss a Vienna per mano nazista, il 25 luglio 1934, aveva aperto in quei giorni un periodo di acuta tensione internazionale, che rappresentò uno dei primi passi verso la Seconda guerra mondiale» (Edoardo Amaldi, Neutron Work in Rome 1934-1936 and the Discovery of Uranium Fission [1984], in 20th Century Physics. Essays and Recollection. A Selection of Historical Writings by Edoardo Amaldi, edited by Giovanni Battimelli – Giovanni Paoloni, Singapore-New JerseyLondon-Hong Kong 1998, p. 15). 39   Rasetti è scomparso già centenario il 7 dicembre 2001. 40   Franco Rasetti, Biographical Notes and Scientific Work of Franco Rasetti, Archivio Amaldi, Scatola ES, Dipartimento di Fisica, Università di Roma «La Sapienza». Debbo la possibilità di citare questo inedito alla gentilezza squisita di Michelangelo De Maria e del direttore del dipartimento Francesco Guerra. La notizia e brani essenziali di questo documento sono in Giovanni Battimelli – Michelangelo De Maria, Prefazione, in Amaldi, Da via Panisperna. A proposito del quadro delle tappe di avvicinamento al conflitto delineato da Rasetti cfr. «le pietre miliari sulla strada della guerra» enumerate in Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano 1995 (edizione originale inglese 1994), p. 51. 41  Segrè, Enrico Fermi, p. 96. 42   Renato Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano 1962, p. 382. 43   Bianchi Bandinelli, Dal diario di un borghese e altri scritti, p. 69. 44   «Quando vennero le leggi razziali – racconta sempre Segrè ma nella Autobiografia (p. 75) – Lo Surdo dimostrò uno zelo antisemitico inusuale e non necessario. Per esempio proibì l’accesso alla biblioteca dell’Istituto al venerando professor Castelnuovo, suo collega da molti anni e matematico insigne. Si guadagnò però la gratitudine di Amaldi aiutandolo a tornare dalla 28 29

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Libia dove era stato mandato durante la guerra mondiale come ufficiale di complemento». Su quest’ultimo punto la versione dell’interessato è tuttavia alquanto diversa. Racconta infatti: «in seguito ad una disposizione generale per tutti i professori universitari che avevano compiuto 32 anni, e su richiesta unanime della Facoltà di Scienze di Roma fui rimandato in Italia [dalla Libia] il 4 o 5 dicembre [1940]» (Amaldi, Da via Panisperna, p. 87). Lo Surdo in realtà era intervenuto, ma senza successo, presso il comando della marina – con cui aveva collaborato durante il primo conflitto mondiale – «facendo presente che nell’interesse del paese» sarebbe stato meglio utilizzare i giovani fisici dell’Istituto in «qualche servizio tecnico» piuttosto che mobilitarli e inviarli al fronte (ibidem, p. 90). 45   A questa conclusione si perviene combinando due distinte notizie. Nello «stato matricolare» pubblicato da Recami (Il caso Majorana, p. 213) alla rubrica lingue straniere «che sa parlare o leggere» si trovano indicate, da Majorana stesso, tedesco, inglese, francese. Ma alla domanda relativa alle lingue «che sa scrivere» la risposta è solo tedesco e francese (relativamente – è specificato – ad argomenti tecnici). Nella Nota Amaldi racconta poi che poco prima del viaggio di Ettore in Germania e in Danimarca era arrivato a Roma, dalla Harvard University, Eugene Feenberg con cui Majorana simpatizzò subito. I due tuttavia «non riuscivano a stabilire rapporti stretti di lavoro dato che nessuno dei due era in grado di parlare la lingua dell’altro» (pp. xxivxxv). Ettore dunque non era in grado di parlare l’inglese. 46  Segrè, Enrico Fermi, pp. 90-96. 47   Citato in Recami, Il caso Majorana, p. 57 (per il testo tedesco) e p. 58 nota 8 (per la versione italiana). 48   Cfr., al proposito, Erasmo Recami, Ettore Majorana: lo scienziato e l’uomo, in Majorana, Lezioni, p. 152; Id., Il caso Majorana, p. 56. 49  Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 234. 50  Majorana, Il valore delle leggi statistiche, p. 66. 51  Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 248. 52   Œuvres de Turgot et documents le concernant. Avec biographie et notes par Gustav Schelle, Paris 1913-1923, I, p. 331. 53  Beyerchen, Gli scienziati sotto Hitler, p. 170. 54   Ibidem, p. 167. 55   Ibidem, p. 220. Sulla durata di tale polemica una controprova viene dall’Italia dove pure «anche dopo il 1938 l’idea dell’esistenza di una ‘scienza giudea’ rimase molto in ombra» (Roberto Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, Scandicci [Firenze], 1999, p. 318). Eppure ancora nel luglio 1941 sulla stampa appaiono attacchi alla fisica nucleare e a quella dei raggi cosmici come scienze ebraiche provocando la protesta di Amaldi che scrive una lettera a Lo Surdo, una protesta adeguata ai tempi – e che a noi oggi può ap-

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parire equivoca – in cui si legge ad esempio: «voi sapete meglio di chiunque altro, che il primo scopritore dei raggi cosmici fu l’italiano Pacini a cui seguirono i tedeschi Hess, Kholoester eccetera» (Amaldi, Da via Panisperna, pp. 141-142). 56   Cfr. al proposito Recami, Il caso Majorana, pp. 150 e 154. 57  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xxv. Al proposito cfr. anche Id., Ettore Majorana a cinquant’anni dalla morte (1988), in 20th Century Physics, p. 99. 58  Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 238. 59   Scrive Majorana dall’estero: «sembra che non vi sia molto da scegliere per i fisici teorici all’infuori di Lipsia, Zurigo, Copenhagen e Roma» (Lettera a Giovanni Gentile jr. 18.3.33, in Recami, Il caso Majorana, pp. 160-161). Sulla capacità attrattiva dell’Istituto romano cfr. anche Francesco Cordella – Alberto De Gregorio – Fabio Sebastiani, Enrico Fermi. Gli anni italiani, Roma 2001, p. 181. 60  Recami, Il caso Majorana, p. 165. Lo stesso Majorana, scrivendo al padre in vista del trasferimento da Lipsia alla Danimarca, dice: «ho a Copenhagen un vecchio amico, Placzek, che è stato un anno fa a Roma» (Lettera al padre 28.2.33, in Recami, Il caso Majorana, p. 155). Con lui non c’erano difficoltà a intendersi, almeno stando a quanto Ettore racconta alla madre il 7 marzo in una lettera da Copenhagen: non è riuscito a vedere Placzek, occupato a scrivere un libro, ma «mi ha telefonato più volte parlando ancora in buon transteverino» (ibidem, p. 157). 61   Richard Rhodes, L’ invenzione della bomba atomica, Milano 1990 (edizione originale statunitense 1986), pp. 322-323. 62   Edoardo Amaldi, George Placzek (1956), in 20th Century Physics, p. 496. 63   Un indizio in tale direzione viene dalla corrispondenza di Majorana che scrivendo a Giovanni Gentile jr. da Copenhagen il 18 marzo 1933 annuncia all’amico: «Placzeck si recherà probabilmente a Roma tra la fine di aprile e il principio di maggio» (Recami, Il caso Majorana, p. 160). 64   Citato in Otto Frisch, What Little I Remember, Cambridge 1979, p. 108. 65  Amaldi, Da via Panisperna, pp. 70-71. 66   Renzo De Felice, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario 1936-1940, Torino 19962, p. 165. 67   Solo una doppia distorsione prospettica – quella per cui l’ebreo è per natura «errante» (cioè non legato ad alcuna patria) e quella postbellica degli USA pronti ad attrarre ogni e qualunque «cervello» – può fare pensare, come da molti è stato fatto sia in modo esplicito che, soprattutto, in modo implicito, alla decisione – volontaria o necessitata che fosse – di emigrare come a una decisione che implicasse solo problemi psicologici. In realtà trovare una sistemazione adeguata era e fu un problema, eccetto che per pochi di grande

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notorietà come Fermi. Cfr., al proposito, oltre le notazioni di Rasetti e Segrè citate nel testo, Rhodes, L’ invenzione della bomba atomica, pp. 207-210, nonché Laura Fermi, Illustrious Immigrants, Chicago-London 1968, passim. 68  Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 133. 69   Cfr. Segrè, Enrico Fermi, p. 99. Sebbene abbiano avuto di certo un peso (su cui vedasi infra, Epilogo nota 1), non mi pare che, in base alle testimonianze, le difficoltà di finanziamento trovate nel 1937-1938 da Fermi e dai suoi per la costruzione di un ciclotrone possano essere considerate la causa che per prima avrebbe fatto maturare nei «ragazzi di via Panisperna» l’idea di emigrare solo «sulla base di considerazioni di stretta opportunità scientifica» (Battimelli – De Maria, Prefazione, p. 20).

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6 Testimonianze eccentriche

Nella letteratura su Majorana restano solitamente in ombra, in posizione marginale, alcune testimonianze ‘eccentriche’ con cui, a volerlo, si potrebbe tentare di costruire un labile tracciato di un Majorana sempre, linearmente contro. Sarebbe una forzatura, del tutto gratuita. Tuttavia se, come già visto, non pare plausibile la figura di un Majorana «veramente contrario al fascismo» già sul finire del 1932, altre testimonianze, assai inquietanti, non possono essere marginalizzate come irrilevanti, del tutto secondarie, quasi curiosità. Hanno in comune l’oggetto, per così dire, e la provenienza. Che è l’ambito familiare; e con la famiglia – genitori, fratelli, zii – Ettore, ci dicono tutte le fonti note, parla, si confida, comunica in modo particolarmente intenso. Partiamo da quella che può essere collocata con più certezza nel tempo. Nella lettera inviata dalla madre a Benito Mussolini il 27 luglio 1938, Dorina Corso Majorana descrive il figlio come «sempre savio ed equilibrato» di modo che «il dramma della sua anima o dei suoi nervi sembra dunque un mistero». Che non trova spiegazione in «precedenti clinici o morali che potrebbero fare pensare al suicidio; al contrario, la serenità e la severità della sua vita e dei suoi studi permettono anzi impongono di considerarlo soltanto come una vittima della scienza»1. Un artifizio retorico, indubbiamente; ma un 79

artifizio retorico che converge, e poi collima, con altre due testimonianze. La prima è della sorella Maria, secondo la quale Ettore prima di sparire – ma non si ha alcun preciso riferimento cronologico – ripeteva spesso che la fisica, o i fisici, erano su una strada sbagliata. Sciascia – senza peraltro produrre alcuna prova – non ha dubbi: certo non si riferiva forse alla vita o alla morte, voleva forse dire quel che il fisico tedesco Otto Hahn si dice abbia detto quando, al principio del 1939, si cominciò a parlare della «liberazione dell’energia atomica»: Ma Dio non può volerlo! 2

Per Recami invece Ettore «si riferiva a questioni teoriche, ‘speculative’, più che etiche»3. Pure in questo caso, però, l’affermazione non è sorretta da prova alcuna. E cosa vieta allora – ragionando in via d’ipotesi e senza il riscontro di prove – di pensare a un Majorana che si rende drammaticamente conto che «la guerra e la preparazione della guerra rappresentano un grande volano di accelerazione del progresso tecnico»?4 Un riscontro e una qualche luce viene da un’altra testimonianza di un familiare. Un cugino ha detto di Ettore: egli restò per tutto il tempo della sua vita prigioniero di una lucida razionalità e del freddo calcolo… Ma la svalutazione del mondo dei sentimenti era in lui solo apparente e forzata. Dietro quella convinta insignificanza del «fare», quel distacco dallo scrivere, dal parlare, dal lasciare traccia di sé che gli vengono attribuiti, si nascondeva qualcosa di più profondo ed intimamente drammatico: il sentimento della (pericolosa) insufficienza e parzialità del logos5.

Il cerchio pare dunque chiudersi: Ettore è alla ricerca di risposte che permettano a lui – e in generale agli scienziati – di 80

correggere la strada sbagliata su cui la fisica (la scienza) si è incamminata, sbagliata su di un piano «speculativo». Che per lui, tuttavia, è qualche cosa di diverso e maggiormente complesso di un nodo teorico in senso, per così dire, stretto; attiene infatti al logos, al principio che regola non solo l’ordine dell’universo e della natura, ma la vita degli uomini (che, del resto, parte dell’universo sono). In questo senso, a ben vedere, lo si può davvero considerare «vittima della scienza». Questa, e non altra, è l’immagine della personalità di Ettore consegnataci dai familiari, una personalità dallo spessore assai più profondo di quella cristallizzata nel canone e nella vulgata su di esso modellata. Pure qui, tuttavia, resta separata dallo sfondo, come su di un fondale bianco, uniforme, avulso dagli altri protagonisti cui pure gli interrogativi sul logos rinviavano senza possibilità di dubbi. Eppure le carte – per gran parte pervenuteci grazie alla famiglia e alla sua pietas per lo scomparso – ci parlano di un uomo che fa continuamente i conti con quanto lo circonda, è del tutto immerso nel contesto del suo tempo. Lo rivela – si vedrà nelle prossime pagine – anche la scelta del momento della scomparsa.

 Recami, Il caso Majorana, p. 207. Corsivo mio.  Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 248. A Hahn, sempre nel 1939, è attribuita anche la frase: «Voi fisici almeno per ora non costruirete una bomba all’uranio! Se Hitler avrà un’arma del genere io mi suicido» (Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni. Storia degli scienziati atomici, Torino 19582 [edizione originale tedesca 1957], p. 91). 3  Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 73. 4  Hobsbawm, Il secolo breve, p. 64. 5  Recami, Il caso Majorana, p. 125. Il primo corsivo è mio. 1 2

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7 Un interrogativo rimosso

Una domanda che tutta la letteratura sulla vicenda di Majorana più che non porsi sembra non prevedere è: perché Ettore decide di scomparire in quel determinato momento? Sottaciuto e rimosso, l’interrogativo ha in realtà, in quelle pagine, una risposta implicita: la crisi esistenziale che investe il protagonista dal ritorno dalla Germania in avanti accumula tensioni che a un dato punto esplodono di per sé, per motivi del tutto interni al procedere della sua patologia. Il percorso e lo scavo di chi viene dopo non possono dunque essere che tutti interni alla personalità di Majorana, indipendenti dal contesto. Anche da quello su cui – per quanto concerne l’ultimo periodo della sua vita o della sua ‘vita ufficiale’ – poco o nulla si sa e si è indagato. Laura Fermi in realtà pare, sia pur implicitamente, porsi la questione e, lo si è visto, trova la risposta attribuendo la crisi, che – secondo lei – avrebbe portato Majorana a sopprimersi, a una sorta di insostenibile fobia dell’aula. Tesi peraltro abbastanza diversa e contrastante, a ben vedere, con i ricordi di Carrelli – l’uomo che sembra essergli più vicino negli ultimi mesi della sua vita o della sua vita nota – secondo cui, riferisce Amaldi, Majorana provò «un eccessivo dispiacere» allorché «dopo qualche mese di insegnamento si rese conto che ben pochi degli studenti erano in grado di seguire e apprezzare le sue lezioni sempre oltremodo elevate»1. A sua volta discrepante con la diretta testimonianza di Majorana che all’inizio di quel 83

marzo 1938, e più precisamente il 2, scrive all’amico Giovanni Gentile jr.: «sono contento degli studenti, alcuni dei quali sembrano risoluti a prendere la fisica sul serio»2. Esempio, tutto questo, una volta di più di un rovesciamento della memoria a partire dall’esito della vicenda. L’«eccessivo dispiacere» che Majorana, a detta di Carrelli, avrebbe provato perché pochi erano gli studenti in grado di seguirlo è connesso da Amaldi al tormento provocato dalla sua malattia (di cui implicitamente si suggerisce un aggravamento) «che finiva inevitabilmente con l’avere una influenza sul suo umore e anche sul suo carattere»3. Malattia «nervosa» per tutti quella di Majorana. Salvo che, sembra, per Pietro Caldirola, che dopo essersi laureato nel 1937 a Pavia, era andato a Roma a specializzarsi in fisica teorica con Fermi4. Per lui il mal di stomaco di Ettore nascondeva «una qualche malattia grave: di ambito fisiologico, non neurologico»5. Se così fosse stato Majorana avrebbe potuto decidere di recidere la sua vita perché convinto di morire di lì a poco e spaventato dalle prevedibili sofferenze cui sarebbe andato incontro. Un’altra causa ‘classica’ di volontaria fine di un’esistenza è adombrata in Recami laddove rammenta come la scomparsa di Majorana sia da Amaldi ritenuta connessa a «ragioni personali, collegate ad esempio con la difficoltà di incontrare una compagna adatta alla sua vita»6. Tesi in qualche modo confermata dalla ripresa della testimonianza televisiva, di molti anni posteriore alla scomparsa di Majorana, di Gilda Senatore vedova Cennamo. A lei il giorno prima di svanire Ettore avrebbe affidato degli appunti dicendole: «Tenga queste carte, poi ne parleremo». Ormai in procinto di troncare i legami con il mondo – o almeno: con il suo mondo – Majorana, commenta Recami, 84

decise di affidare le proprie carte non alle strade burocratiche, alle Istituzioni, ma a chi rappresentava semplicemente la vita: quella sua bella, giovane studentessa, per la quale forse nutriva dei sentimenti7.

A porsi su questo terreno però ci si dovrebbe anche interrogare sul perché nei racconti sulla vita di questo giovane uomo che scompare a trentuno anni non si trovi mai cenno a un ruolo minimamente significativo di donne che non siano le più strette parenti. Tanto che Amaldi sente il bisogno – excusatio non petita – di sottolineare, a conclusione di vari aneddoti sulla vita di Ettore studente, che essi mostrano «la normalità dei suoi rapporti con altri giovani di ambo i sessi»8. E ci si troverebbe, in quella società esaltante la virilità maschile e guerriera, di fronte a una causa di disagio e d’angoscia di sé ben più pesante dell’incapacità di trovare un cuore gemello. In polemica con Sciascia Segrè adombra – sul finire del 1975 – un’altra possibile, pesante, causa di rinuncia all’esistenza da parte di Majorana: la vita sarebbe divenuta per lui insostenibile in quanto si sarebbe essiccata «la sua facoltà crea­tiva, un fenomeno comune fra matematici e fisici teorici per cui la vena si esaurisce presto»9. Fatto dirompente per «lo spirito critico di Majorana» per cui era «più che probabile che non si sarebbe accontentato di cose di minor importanza delle precedenti»10. È un’ipotesi assai forte che tuttavia non persuade i biografi che infatti ne tacciono. Un silenzio che non sarebbe conclusivo: eroderebbe dalla base non tanto e solo il «mito» di Majorana, ma il senso stesso della ricerca su di lui che trova la sua giustificazione in via precipua nella fama di scienziato del tutto fuori dal comune di cui lo scomparso continua a godere nel tempo11. Al di là di questo, tuttavia, la tesi di Segrè lascia dubbiosi per diversi motivi. Intanto, essendo lui stesso ed Amaldi – co85

me si è abbondantemente visto nel corso di queste pagine – le due fonti di gran lunga maggiori di testimonianze su Majorana, perché avanzare quest’ipotesi sulla sua scomparsa solo oltre trent’anni dopo che essa si era data? Si potrebbe supporre una sorta di pietas nei confronti dell’amico e la custodia della sua figura di grande studioso cui l’«assalto» di Sciascia induce a rinunciare. La risposta all’attacco di Sciascia però non spiega come mai in questo contesto Segrè non metta in dubbio l’asserto di Carrelli secondo il quale Majorana gli aveva confidato, negli ultimi mesi prima della scomparsa, che stava lavorando a qualcosa di molto importante. Avrebbe addirittura potuto, il «basilisco», usare la notizia a vantaggio della propria tesi. Vedete: cercava di fare qualcosa di grosso, ma in realtà non ci riu­ sciva. Conclusiva a favore dell’ipotesi di Segrè non è nemmeno la mancanza di tracce di tale lavoro: proprio lui e Amaldi ci hanno consegnato l’immagine di un Majorana del tutto alieno dal lasciare orme delle proprie intuizioni. Infine – ammettendo che Segrè colga nel segno – ancora una volta si è in presenza di un’ipotesi che non offre alcuna indicazione utile a intendere il perché della scelta di quel determinato momento per scomparire, dacché Majorana era da anni che non produceva o produceva assai poco. Non aiuta a sciogliere il quesito su cui stiamo affaticandoci nemmeno l’apparente rovesciamento del canone da parte di Sciascia, che fa della scomparsa il risultato di un’angoscia non puramente «esistenziale», senza tuttavia offrire alcun elemento che aiuti a identificare il perché della scelta (o dell’imposizione) del momento. Bisogna dunque rinunciare all’interrogativo, a chiedersi come mai Majorana decise di scomparire proprio allora, né prima né dopo? 86

Le lettere a Carrelli e alla famiglia, in cui – con ogni evidenza – vuol fare intendere d’essere deciso a suicidarsi, sono, già lo sappiamo, del 25 marzo 1938. Tredici giorni prima le truppe naziste avevano invaso l’Austria, accolte dall’entusiasmo dei più. Una volta ancora Ettore doveva constatare che i convincimenti da lui maturati in Germania si rivelavano clamorosamente errati. Nella lettera a Giovanni Gentile jr. del 7 giugno 1933, in cui parla della «sciocca ideologia della razza» cui la Germania deve ricorrere in quanto «non trova nella cultura e nella storia elementi sufficienti per fondare il sentimento unitario dei popoli di lingua tedesca», aveva annotato, subito dopo questo giudizio, che essa «a quanto pare non ha suscitato in Austria un’eco adeguata»12. Asserto che sembra correggere e interpretare in via definitiva quanto solo pochi giorni prima, il 2 giugno, aveva scritto alla madre: «è difficile giudicare se la maggioranza del popolo austriaco è realmente decisa a mantenere la propria indipendenza»13. Lo spirito di guerra s’andava rafforzando in Europa e nel mondo e con esso l’intolleranza che colpiva direttamente, ancora una volta, il mondo della scienza. Il gruppo Fermi – ormai sparso in varie sedi universitarie, ma sempre unito e in contatto – è direttamente e in modo immediato coinvolto, almeno sul terreno emotivo, nella bufera che travolge l’Austria, pochi giorni prima della scomparsa di Majorana. Subito dopo l’Anschluss – racconta Segrè – Fermi ebbe la visita drammatica di Schrödinger che, allora professore a Graz, era fuggito a piedi con un sacco da montagna in spalla come unico bagaglio. Una mattina arrivò improvvisamente all’Istituto di Roma e chiese a Fermi di accompagnarlo in Vaticano, dove voleva temporaneamente rifugiarsi, e di fornirgli un minimo di denaro per poter mangiare14.

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Austriaco di nascita, Erwin Schrödinger, premio Nobel per la fisica nel 1933 assieme a Paul Adrien Maurice Dirac, era andato a lavorare in Germania e fu tra i «pochi non ebrei» che «seguirono i loro colleghi in esilio»15, trasferendosi subito dopo la presa del potere da parte di Hitler in Gran Bretagna, ma accettando poi, nel 1936, un posto a Graz. «Imprudentemente», annota Beyerchen16, ma – vorrei dire – ben comprensibilmente, e dicendolo mi tornano alla mente le parole di una lettera di un altro grande austriaco, Sigmund Freud, appena scampato alla morsa nazista: il senso di trionfo della liberazione si mescola troppo con il cordoglio, perché abbiamo pur sempre amato la prigione da cui ci hanno lasciato fuggire17.

L’ Anschluss comportò l’applicazione della legislazione antisemita tedesca all’Austria e, sebbene «le leggi di Norimberga furono estese all’Austria solo il 20 maggio del 1938», tale sanzione non intervenne che «a legalizzare due mesi di interventi contro gli ebrei, la fase dell’antisemitismo cosiddetto ‘selvaggio’»18. A una mente acuta e attenta come quella di Majorana questi fatti dovevano rendere del tutto evidenti senso e futuro sbocco di quanto, nel frattempo, stava dandosi in Italia. Non solo il dibattito pubblico – e in sostanza a senso unico – sulla «questione ebraica» avviato con la pubblicazione del libro di Paolo Orano nell’aprile 1937, ma soprattutto l’inizio del censimento degli ebrei nella pubblica amministrazione e nell’università in particolare. È del 19 gennaio 1938 – cinque giorni dopo che Ettore ha tenuto la lezione inaugurale del suo corso napoletano – la richiesta del ministero ai rettori di censire gli «studenti di nazionalità straniera»; nemmeno un mese dopo,

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il 14 febbraio, viene avanzato il primo invito a rilevare gli ebrei fra l’intera studentesca e il corpo docente19. Una volta di più si è, ovviamente, nel campo delle ipotesi. Non più fondate, si potrebbe obiettare, perché inerenti il terreno del civile e del politico piuttosto che quello dell’esistenziale. E tuttavia – va sottolineato – più coerenti con le testimonianze e i documenti direttamente provenienti da Majorana nonché con le modalità della scomparsa. Al nuovo amico napoletano, Carrelli, Ettore scrive preannunciando la volontà di suicidarsi. La lettera del 25 marzo non lascia adito ad altra interpretazione, rafforzata peraltro dalla lettera alla famiglia lasciata nella camera d’albergo dove alloggiava a Napoli. Il giorno seguente da Palermo il telegramma di smentita e la nuova lettera a Carrelli in cui, annunciando il ritorno nella città della sua università, si giustifica affermando: «il mare mi ha rifiutato»20. Infine la misteriosa scomparsa. L’ipotesi che trovò più credito fra gli amici – scrive Amaldi – fu che egli si fosse buttato in mare: ma tutti gli esperti delle acque del Golfo di Napoli sostengono che il mare, prima o poi, ne avrebbe restituito il cadavere.

Nonostante tutto per l’antico amico Ettore doveva essersi soppresso. La sua scomparsa, dice, aveva lasciato in tutti un senso di profondo e ammirato stupore per la sua figura di uomo e di pensatore che era passata tra noi così rapidamente, come un personaggio di Pirandello carico di problemi che portava con sé, tutto solo: un uomo che aveva saputo trovare in modo mirabile una risposta ad alcuni quesiti della natura, ma che aveva cercato invano una giustificazione alla vita, alla sua vita21.

Come conciliare questo convincimento con l’evidenza opposta del non ritrovamento del cadavere? 89

Amaldi si trincera dietro Fermi, secondo il quale con la sua intelligenza, una volta che avesse deciso di scomparire o di far scomparire il suo cadavere, Majorana ci sarebbe di certo riuscito22.

Con ciò pensando di rimuovere quella evidenza contraria nel mentre che, come si è visto, fonda il topos del parallelo con personaggi pirandelliani su cui insisteranno poi a iosa e Sciascia e Recami23. La sua base sta in un’altra evidenza, banale: l’essere Majorana siciliano e, secondo Amaldi, amante di Pirandello, autore che, a detta dell’amico biografo, prediligeva in modo particolare assieme a Shakespeare24. Una volta di più i documenti, se attentamente letti, dicono qualcosa di un po’ diverso. A Pirandello – l’interesse per il quale può avere un senso su cui già ci si è soffermati – Majorana accenna in due lettere del maggio 1930 a Giovanni Gentile jr. allora in Germania. Nella prima si legge: «uno di questi giorni vedrò il Come tu mi vuoi di Pirandello, di cui mi hai parlato con tanto favore». E nella seconda: «ho veduto Come tu mi vuoi che mi è molto piaciuto»25. Ettore dunque appare un estimatore di Pirandello, ma non un suo accanito lettore se è dall’amico, e da un amico allora all’estero, che riceve la sollecitazione ad andarne a vedere una opera. Anche l’osservazione di Fermi sulla capacità di Majorana di organizzare la sua scomparsa senza lasciare tracce è tutt’altro che una conferma della tesi del suicidio. S’attaglierebbe infatti assai bene pure all’ipotesi di chi, familiare o meno, ritenne che sarebbe stato più facile trovare il corpo di un morto che di un vivo26. Come che sia, i fatti inducono tutti a pensare che Majorana, così schivo e riluttante alle luci della ribalta, voglia fare della sua scomparsa un caso, e un caso clamoroso. Perché? 90

Abbiamo cercato di mostrare come il momento non fosse indifferente. Il mondo, sempre più segnato da intolleranze e persecuzioni, s’avvia verso il baratro di una guerra che si annuncia la più distruttiva di quelle conosciute, anche (forse, soprattutto) per il ruolo che vi avranno scienza e tecnica27, pure prima e indipendentemente dalla costruzione dell’arma atomica. Sarebbero bastati a sconvolgere chi vi avesse riflettuto con un po’ d’attenzione quei calcoli sulle sole armi tradizionali che Majorana, come attestato da Amaldi, andava facendo nel suo «romitaggio» successivo al viaggio in Germania. A questo punto comunque si pone l’interrogativo più inquietante: Majorana immaginava Hiroshima? La risposta ‘scientifica’ – enfatizzata dal canone – è no. La soluzione del problema della fissione che avrebbe aperto la strada alla concreta possibilità di costruire la bomba atomica è successiva alla scomparsa di Majorana. Ma se in ogni vicenda storica la cronologia è essenziale è pur vero che essa va ‘letta’, non posta come un moloch. La questione infatti non è se a Majorana fossero noti tutti gli elementi scientifici e tecnici per arrivare a costruire un ordigno atomico. L’interrogativo semmai è se Majorana sapeva che vi si poteva arrivare in tempi brevi e quali effetti esso avrebbe prodotto. Ora, non c’è dubbio che Ettore, come tutti i fisici che si applicavano a quel nuovo campo di studi, sapeva cosa potevano comportare le ricerche, teoriche e sperimentali, in cui erano immersi. Non a caso, del resto, proprio di tali potenzialità si facevano forti per ottenere i mezzi necessari al loro lavoro. Le testimonianze sono numerose e disparate. Eccone alcune, senza pretesa alcuna di esaustività. Il 21 settembre 1929 – poco meno di nove anni prima della scomparsa di Majorana – Orso Mario Corbino, parlando al 91

congresso della Società Italiana per il Progresso della Scienza, poteva sottolineare la «incalcolabile portata» della «trasformazione della materia in energia e viceversa, in ragione di 25 milioni di kilowattora per ogni grammo di materia trasformata»28. Qualche anno dopo, nel 1932, Leó Szilárd, dopo una fantascientifica conversazione con l’amico Otto Mendl su un ipotetico destino extraterrestre dell’umanità, poteva decidere di dedicarsi alla fisica nucleare «perché solo la liberazione dell’energia atomica poteva darci i mezzi con i quali lasciare non solo la terra, ma il sistema solare»29. Né erano i soli fisici accademici a cogliere le possibili implicazioni della ricerca se è vero che, dopo una conferenza tenuta da Segrè verso la metà del 1935 ai «maggiorenti scientifici della Philips» di Eindhoven, la Philips stessa «aveva deciso di creare una nuova divisione di ricerca nucleare»30. È di certo a tutto ciò – oltre a quelle mediche subito intraviste da Fermi e dai suoi allievi31 – che Majorana pensa quando nella lezione inaugurale del suo corso a Napoli accenna alle «numerose e importanti applicazioni pratiche» della fisica atomica32. Quanto all’eventuale curvatura militare di tali applicazioni, la sua possibilità era stata adombrata fin dal 1903 da Pierre Curie che così aveva chiuso l’allocuzione di prammatica in occasione del conferimento del premio Nobel: si può pensare ancora che in mani criminali il radio possa divenire molto pericoloso e qui ci si può chiedere se l’umanità ha vantaggio nel conoscere i segreti della natura, se è matura per profittarne o se questa conoscenza non le sarà nociva. L’esempio delle scoperte di Nobel è caratteristico, gli esplosivi potenti hanno permesso agli uomini di fare lavori mirabili. Essi sono anche un mezzo terribile di distruzione nelle mani di grandi criminali che portano i popoli verso la guerra33.

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Certo, esistevano ancora molti problemi teorici e tecnici da risolvere prima di potere ‘usare’, in un senso o in un altro, l’energia atomica. Ma si può in modo assennato affermare che Majorana, dotato – scrive Amaldi – di «una naturale tendenza a precorrere i tempi, che in qualche caso ha quasi del profetico»34, non «sapesse», non potesse ragionevolmente ipotizzare quanto poi si sarebbe dato? Del resto, le cose erano già andate avanti in maniera notevole. Il 1932 aveva visto una serie di successi per cui Segrè non esita a definirlo «l’anno mirabile»35. C’era poi stato il «caso» di Ida Tacke Noddack. Lasciamo la parola a Segrè, storico della fisica. Il fenomeno della scissione, racconta, era stato suggerito fin dal 1935 da Ida Noddack in una nota in cui criticava alcune delle esperienze fatte a Roma (…). Questo lavoro era conosciuto da noi, da Hahn, dai Joliot, e presumibilmente da Rutherford tra gli altri, però non era stato debitamente apprezzato, né la Noddack si era curata di fare le esperienze, con cui avrebbe potuto suffragare la sua ipotesi36.

Appunto a questa debolezza sperimentale Amaldi attribui­ sce la sottovalutazione delle osservazioni di Ida Noddack da parte del «gruppo di Roma»37, che una testimonianza raccolta da Miriam Mafai attribuirebbe pure a un pronunciato maschilismo di Fermi38. Come che sia, per Segrè, la ragione della nostra cecità, del resto condivisa da Hahn e Meitner, i Joliot e quanti si occupavano allora dell’argomento non è del tutto chiara39.

Seguendo Sciascia40, si è chiesta Miriam Mafai nella sua biografia su Bruno Pontecorvo: e Majorana? Fu anch’esso cieco oppure, per quanto non presente agli esperimenti, dotato, come era, «di capacità di analisi assolutamente al di fuori 93

del normale» aveva intuito qualcosa, «sentì lo sgomento per il meccanismo che a via Panisperna era stato messo in moto?»41. Nessuno potrà mai rispondere con certezza. Non esistono prove conclusive né in un senso né nell’altro. Nemmeno quella – che potrebbe apparire decisiva – dovuta alla stessa Noddack, ormai vicina alla fine del suo tempo, frutto di una sollecitazione successiva e chiaramente favorevole al saggio di Sciascia e che rimanda, non senza malizia, a Segrè adombrando suoi voluti silenzi42. Indizi però ce ne sono, e molti, e tutti nella stessa direzione: della possibile consapevolezza da parte di Majorana dell’indirizzo intrapreso dalla ricerca e dei suoi esiti prevedibili. In modo sensato, ma dimentico di tutto quanto scrive sul carattere di Ettore, Recami sostiene: se davvero Majorana avesse temuto la liberazione dell’energia nucleare, avrebbe pure capito di poter essere più utile alla sua causa da vivo che da morto43.

Avrebbe presupposto questo che Majorana avesse una tempra di lottatore che non aveva, che non gli fosse propria quella «convinta insignificanza del ‘fare’» attribuitagli dal cugino. E che alle disillusioni, al tormento prodotti in lui dal mondo in cui aveva creduto, vedesse uno sbocco in altri universi. Ma così non era. Come avremo occasione di vedere nelle prossime pagine.

 Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xlvii.   Lettera a Giovanni Gentile jr. 2.3.38, in Recami, Il caso Majorana, p. 203. 3  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xlvii. 4   Cfr. la voce a lui dedicata in Dragoni – Bergia – Gottardi, Dizionario biografico degli scienziati e dei tecnici, p. 266 e la bibliografia ivi citata. 5  Recami, Il caso Majorana, p. 102. 1 2

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  Ibidem.   Ibidem, pp. 73-74. 8  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. x. 9   Opinione ampiamente diffusa fra gli scienziati e alla quale si deve indubbiamente il giudizio di Majorana su Bohr che – nato come era nel 1885 – doveva apparirgli un «vecchio». Scrive dunque Ettore alla madre da Lipsia il 18 febbraio 1933: «il 1o marzo mi recherò a Copenhagen da Bohr, il maggior ispiratore della fisica moderna, ora un po’ invecchiato e sensibilmente rimbambito» (ibidem, p. 151). Su questa frase Sciascia ha poi ricamato a vantaggio delle proprie tesi (La scomparsa di Majorana, p. 240), senza intenderne il senso proprio. 10  Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 172. La citazione è da un articolo apparso originariamente su «Il giornale nuovo» del 17 dicembre 1975 che l’autore poi ha riprodotto nella sua autobiografia (pp. 171-173 nota 16). Da qui citiamo per comodità. 11   Al proposito vedasi Recami, Il caso Majorana, pp. 23-24. 12   Ibidem, p. 178. 13   Ibidem, p. 176. 14  Segrè, Enrico Fermi, p. 98. Dell’arrivo di Schrödinger – scrivono Cordella, De Gregorio e Sebastiani – Fermi «rimase profondamente turbato» (Enrico Fermi. Gli anni italiani, p. 268). 15  Beyerchen, Gli scienziati sotto Hitler, p. 216. 16   Ibidem, p. 50. 17   Lettera a Max Ettingon, Londra 6.6.38, in Sigmund Freud, Lettere 18731939, Torino 1960 (dello stesso anno l’edizione tedesca), p. 410. 18   Enzo Collotti, Antisemitismo e legislazione antiebraica in Austria, in Camera dei deputati, La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Roma 1989, p. 306. 19   Cfr. Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino 2000, p. 139. 20   Lettera a Carrelli da Palermo 26.3.38, in Recami, Il caso Majorana, p. 205. 21  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xlix. Corsivo mio. 22   Ibidem. 23  Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 261-262; Recami, Il caso Majorana, pp. 95-96. 24  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xi. 25   Lettere a Giovanni Gentile jr. 15.5.30 e 19.5.30, in Recami, Il caso Majorana, pp. 138 e 139. Una curiosità: nella prima lettera a Giovanni Gentile jr. pervenutaci – del 22 dicembre 1929 – Ettore accenna a Dostoevskij, ma nessuno dei biografi pare essersene accorto (ibidem, p. 137). 26  Sciascia, La scomparsa di Majorana, p. 218; Recami, Il caso Majorana, p. 18. 6 7

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  Al proposito cfr., ad esempio, Rhodes, L’ invenzione della bomba atomica, pp. 95-99. 28   Riportato in Segrè, Dai raggi X ai quark, p. 173. 29   Spencer R. Weast – Gertrud Weiss Szilárd, Leo Szilard: His Version of the Facts, Cambridge (Mass.) 1978, p. 16. 30  Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 130. 31   Cfr. Cordella – De Gregorio – Sebastiani, Enrico Fermi. Gli anni italiani, p. 262. 32  Majorana, Appunti, p. 197. 33   Citato in Segrè, Dai raggi X ai quark, p. 42. 34  Amaldi, Nota biografica di Ettore Majorana, p. xlvi. Corsivo mio. 35  Segrè, Dai raggi X ai quark, p. 171. 36   Ibidem, pp. 204-205. 37  Amaldi, Neutron Work in Rome, pp. 25-26. 38   «Fermi rifiutò di prendere sul serio le critiche della Noddack anche perché si trattava di una donna, e Fermi da questo punto di vista era piuttosto conservatore» (Mafai, Il grande freddo, p. 73). Ma, se così fosse stato, perché avrebbe dovuto prendere per buone esperienze in cui erano coinvolte donne come Lise Meitner o Irène Joliot-Curie per non dire della celeberrima madre di Irène, Marie Skłodowska Curie? 39  Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 121. Le stesse parole Segrè aveva usato nella biografia di Fermi (Enrico Fermi, p. 78). 40   La scomparsa di Majorana, p. 265. 41  Mafai, Il grande freddo, p. 73. 42   «Ida Noddack mi scrive: “subito dopo la pubblicazione nel tardo autunno del 1934 inviai una copia dell’articolo Sull’elemento 93 al professor Fermi, e sono convinta che Majorana l’abbia letto. Esattamente deve saperlo il professor Emilio Segrè, con cui ne parlammo anche nel 1938”» (Ritter Santini, Uno strappo nel cielo di carta, p. 98). 43  Recami, Il caso Majorana, p. 73. 27

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8 Sciascia, Majorana e la bomba

La parte più scandalosa, e irritante, del romanzesco «giallo filosofico» dedicato da Sciascia a Majorana è il rovesciamento operato dallo scrittore siciliano della «storia dell’atomica, della bomba atomica». Chiunque la conosca sia pure in modo sommario, scrive è in grado di fare questa semplice e penosa constatazione: che si comportarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per condizioni oggettive non lo erano; e si comportarono da schiavi, e furono schiavi, coloro che invece godevano di una oggettiva condizione di libertà. Furono liberi coloro che non la fecero. Schiavi coloro che la fecero. (…) Precipuamente perché gli schiavi ne ebbero preoccupazione, paura, angoscia; mentre i liberi senza alcuna remora, e persino con punte di allegria la proposero, vi lavorarono, la misero a punto e, senza porre condizioni o chiedere impegni (…) la consegnarono ai politici e ai militari. E che gli schiavi l’avrebbero consegnata a Hitler, a un dittatore di fredda e atroce follia, mentre i liberi la consegnarono a Truman, uomo di «senso comune» che rappresentava il «senso comune» della democrazia americana, non fa differenza dal momento che Hitler avrebbe deciso esattamente come Truman decise1.

Nella sua «anarchica» foga polemica – assai diversa dal pessimismo di un Dürrenmatt2 – Sciascia, pur mosso da sacro fuoco morale, pare scadere in fanfaluche «ucroniche» che rammentano, ad esempio, le amenità di Sergio Romano sul prevedibile addolcimento che nel tempo il regime hitleriano avrebbe subito ove, invece di essere spazzato via dalla sconfitta, fos-

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se risultato vincitore della guerra3, dimenticando che l’intero universo politico mondiale sarebbe in tal caso completamente mutato con conseguenze del tutto imprevedibili. Non è per nulla scontato che gli scienziati nazisti abbiano rifiutato di costruire la bomba, magari attraverso l’inganno della voluta intrapresa di una strada errata; non è vero che le scelte di molti fra coloro che parteciparono al celebre «progetto Manhattan» – a cominciare da chi guidò scientificamente l’impresa, Robert Oppenheimer – non siano state sofferte; non è esatto che, pur nell’orribile delitto che rappresentò l’inutile bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, le decisioni del presidente statunitense e del Führer possano essere ritenute fungibili. Qui, tuttavia, poco importa il giudizio storico di Sciascia. Quanto è interessante è chiedersi se questa pagina possa attribuirsi a un «revisionismo» dell’autore, ammiccante con certa cultura postsessantottina, o invece nasca da qualche sollecitazione interna alla vicenda su cui sta lavorando e riflettendo. A chi legga, anche senza particolare attenzione, il «giallo filosofico» non può sfuggire che il rovesciamento del giudizio storico corrente è funzionale, in una con la difesa di Heseinberg – «vero» amico di Majorana perché come lui «viveva il problema della fisica (…) dentro un vasto e drammatico contesto di pensiero» – all’accentuazione del supposto conflitto Ettore-Fermi. Donde la sdegnata reazione di Segrè: chi poi vuole servirsi di Majorana per interpretare la storia con «goffa barbarie», come ebbe a dire Carducci, creando santi e diavoli e falsando intenti e fatti non ha di certo cara la di lui memoria4.

Conflitto, quello fra Majorana e il «papa», immaginario e immaginato, stando alle fonti. Un solo cenno infatti a un simile contrasto si trova in una testimonianza, successiva tutta-

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via alla comparsa del libro di Sciascia. Con il corrispondente di «Oggi» che ‘lancia’ la ‘versione argentina’ della scomparsa di Ettore e poi in un colloquio con Tullio Regge5 la fonte del giornalista riferitrice a sua volta di cose sentite nel 1950, Carlos Rivera Cruchaga, direttore dell’Istituto di Fisica della Pontificia Università Cattolica del Cile, sostiene che a quanto gli era dato di sapere Majorana se ne era «andato dall’Italia perché non gli piaceva Fermi» e che tale «avversione derivava in parte dal fatto che Fermi era un ‘tipo difficile’, e in parte dal fatto che aveva avuto un ruolo importante nella costruzione della bomba atomica»6. A conclusione del quadro delineato Rivera ipotizza poi che, come l’amico dalla cui madre aveva avuto notizie di Majorana, Ettore fosse in seguito stato vittima della repressione peronista essendo entrambi oppositori del regime. Alla inquietante testimonianza del fisico argentino non si possono fare spallucce ché – scrive Tullio Regge a Recami dopo avergli parlato nel 1978 – «Rivera non ha certo l’aspetto di un mitomane, è un rispettato professore alla Cattolica, educato a Gottinga, di vasta cultura e non mi pare il tipo da raccontare frottole»7. Il punto però non è l’attendibilità di Rivera, ma delle fonti delle sue informazioni. Ed è evidente – al di là del problema insoluto se davvero la sparizione di Majorana abbia avuto come esito l’Argentina, meta non solo di una vasta emigrazione ‘popolare’ italiana ma anche, all’indomani delle leggi razziste del 1938, dell’esilio di alcune importanti figure del mondo culturale e scientifico di origine ebraica – che nelle dichiarazioni da lui raccolte a proposito del motivo per cui Ettore aveva abbandonato l’Italia c’è un cortocircuito temporale e la impropria congiunzione di due possibili diverse vicende. Majorana infatti non avrebbe potuto lasciare l’Italia per il ruolo che Fermi aveva avuto nella costruzione del primo ordigno atomico per il sem99

plice fatto che tale costruzione, come si sa, avvenne diversi anni dopo la scomparsa di Majorana. E dunque la testimonianza direbbe: Ettore se ne andò dall’Italia per la sua avversione a Fermi, dovuta al carattere di quest’ultimo, antipatia che si sarebbe trasformata in ostilità dopo la «nascita» della bomba atomica. A parte la mancanza di qualsiasi altro riscontro sul disagio di Majorana nei confronti di Fermi, c’è da chiedersi come mai quell’antipatia diventi tanto cogente da indurre Ettore a lasciare l’Italia proprio nel momento in cui, avendo Majorana vinto la cattedra a Napoli, i suoi rapporti con Fermi potevano in concreto rarefarsi, fino, al limite, a sparire. Se la storia di cui Rivera si fa tramite è vera, c’è da supporre che il racconto introduca una variante soggettiva del narratore, di chi a Rivera aveva parlato: Majorana potrebbe avere confidato al suo nuovo amico argentino che la causa del suo volontario abbandono dell’Italia era – per usare la frase riferita dalla sorella Maria – che la fisica era su una strada sbagliata, e i fisici romani non se ne avvedevano o non volevano avvedersene, tanto che poi avranno un ruolo importante nella costruzione dell’ordigno che avvia l’era nucleare. Ancora una volta emerge la questione se Ettore sapeva o meno. E se mai avesse saputo quale atteggiamento avrebbe preso. A questo punto nella mente di chi conosca la storia dei «ragazzi di via Panisperna» s’affaccia insistente l’agire di un altro protagonista del gruppo. Se per Majorana abbiamo solo indizi che possono far pensare a un turbamento grave di fronte alla prospettiva che le ricerche sul nucleo potevano aprire, c’è stato un altro fra gli uomini di Fermi che rifiutò seccamente di partecipare alla costruzione della bomba atomica. Si tratta di Franco Rasetti, il «vicario» del «papa», per cui in occasione del centesimo genetliaco si è scritto: ha avuto due vite: «la prima da fisico la seconda da 100

naturalista» separate da «una decisione sofferta e traumatica», vale a dire la scelta di non partecipare – benché invitatovi – al progetto Manhattan8. E a proposito del quale, non a caso, subito dopo il ‘gran rifiuto’ emerge fra gli amici di via Panisperna la tentazione di classificarlo ‘strano’9. A Recami che gli aveva scritto per chiedergli una testimonianza Rasetti rispondeva il 4 gennaio 1979: purtroppo so pochissimo di Majorana, dato che egli viveva molto isolato (…) e probabilmente io avevo meno relazioni con lui che chiunque altro; se parlava con qualcuno, era piuttosto con Amaldi e Segrè, press’a poco suoi coetanei, e con Fermi con cui poteva discutere di fisica teorica. Se anche avesse cercato di spiegarmi le sue teorie, certamente non le avrei capite10.

D’altra parte, il rifiuto di Rasetti di prendere parte alla costruzione della bomba atomica è del 1943. Una volta ancora, dunque, la cronologia si erge come un muro invalicabile. E ancora una volta però resta più di un interrogativo. Rispondendo il 6 aprile 1946 a una lunga lettera di Enrico Persico del 23 gennaio in cui questi descrive le asprezze quotidiane degli anni di guerra, significativamente, proprio per il collegamento con il contenuto della missiva di Persico, Rasetti spiega in modo aperto e ampio la posizione da lui assunta dinanzi alla proposta di partecipare al progetto Manhattan, con argomenti che richiamano a contrario la condanna di sé del Galileo brechtiano11: io sono rimasto talmente disgustato dalle ultime applicazioni della fisica (con cui, se Dio vuole, sono riuscito a non avere niente a che fare) che penso seriamente a non occuparmi più che di geologia e di biologia. Non solo trovo mostruoso l’uso che si è fatto e si sta facendo delle applicazioni della fisica, ma per di più la situazione attuale rende impossibile a questa scienza quel carattere libero e internazionale che aveva una volta e la rende soltanto un mezzo di oppressione poli-

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tica e militare. Pare quasi impossibile che persone che un tempo consideravo dotate di un senso della dignità umana si prestino a essere lo strumento di queste mostruose degenerazioni. Eppure è proprio così e sembra che neppure se ne accorgano. Tra tutti gli spettacoli disgustosi di questi tempi ce ne sono pochi che eguaglino quello dei fisici che lavorano nei laboratori sotto sorveglianza militare per preparare mezzi di distruzione più violenti per la prossima guerra12.

Nelle sue già citate memorie è, sotto il profilo politico, ancora più duro, mentre assai più moderato è nella autobiografia da lui scritta per un importante dizionario degli scienziati e dei tecnologi moderni13. Vi esprime infatti una posizione somigliante, sotto certi aspetti a quella di Sciascia, che tuttavia con ogni evidenza non conosceva l’autobiografia di Rasetti, altrimenti se ne sarebbe servito per i suoi fini polemici: nel gennaio del 1943 mi fu offerto un posto nel gruppo di scienziati inglese che stavano tentando di sviluppare l’energia nucleare per scopi militari, trasferito dall’Inghilterra a Montreal. Dopo una riflessione approfondita declinai l’offerta: ci sono poche decisioni mai prese nel corso della mia vita per cui ho avuto minori motivi di rimpianto. Ero convinto che nulla di buono avrebbe potuto scaturire da mezzi di distruzione nuovi e più mostruosi. Per quanto perverse fossero le posizioni dell’Asse, era evidente che l’altro fronte stava sprofondando nella condotta della guerra a un livello morale (o immorale) simile come testimonia il massacro di 200.000 civili giapponesi a Hiroshima e Nagasaki14.

Il testo dell’aprile del 1946 è però assai più conturbante. Vi sembra infatti mettere in discussione al fondo non solo – secondo uno schema divenuto poi assai corrente – «l’uso» della scienza (fisica) ma la sua stessa «sostanza», le sue stesse basi non essendo più realmente tale la ricerca scientifica se privata, come quella fisica, della sua libertà. In tal caso – pare dirci Rasetti – non è

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più, come deve essere, strumento per l’affermazione e lo sviluppo della dignità umana. Lo stesso «avvertimento» proporrà, anni dopo, Friedrich Dürrenmatt nel suo «physikerdrama»15. Il quesito, che qui interessa, è: Rasetti arriva a questa posizione solo nel momento in cui è posto di fronte alla necessità di scegliere o vi perviene attraverso un più lungo processo di maturazione, parallelo e intersecatesi con quello che gli fa prendere le distanze dal regime e poi lo fa decidere, lui non ebreo, di andarsene come i suoi colleghi israeliti o a ebrei legati per motivi familiari come Fermi? Non c’è evidenza alcuna in direzione di questa seconda ipotesi se non che il mutamento di posizione di Rasetti come dell’intero gruppo dei fisici stretti attorno a Fermi è con chiarezza connesso al profilarsi dello spettro della guerra. E ognuno di loro doveva essere ben consapevole che, una volta scoppiato il conflitto, la fisica ne sarebbe stata coinvolta, come poi avvenne16. Un indizio non irrilevante è offerto da Amaldi. All’indomani della scoperta della fissione nel 1939, Amaldi stesso e Mario Ageno fanno alcune esperienze al proposito che portano a risultati assai buoni: «ci accingevamo a pubblicarli, ma Rasetti ci convinse a non farlo»17. Se così era – e tutto lascia pensare che lo fosse – è possibile che i «ragazzi di via Panisperna» non ne parlassero tra loro? E se ne parlavano è possibile che Amaldi e Segrè, che continuavano ad avere rapporti con Majorana, non riportassero a lui quei dubbi, che dovevano essere anche di Rasetti, «vicario» con cui – come attesta Segrè – avevano particolare confidenza?18 E quei dubbi, quei quesiti attenevano solo all’‘uso’ della scienza o portavano anche a interrogarsi su aspetti più profondi dell’agire scientifico? A queste domande fondamentali Rasetti arriva certamente nel 1943, di fronte a una scelta non più rinviabi103

le. Perché mai Majorana – che sulle fondamenta della scienza e dell’agire scientifico andava riflettendo da anni – non avrebbe potuto immaginare prima quel bivio di fronte al quale fu posto Rasetti, e non sentirsi in grado di affrontarlo e quindi lanciare un disperato ma silente allarme? Fra le due posizioni c’è tuttavia – mi sembra – una differenza essenziale. Né Rasetti né Majorana sono tempre militanti à la Szilárd o à la Einstein, per restare a figure già incontrate in queste pagine, sebbene Rasetti non tema di dire né rinunci a esprimere la sua posizione con gli amici e la mostri al mondo con le ‘opere’, cambiando linea di ricerca e poi abbandonando, in modo aperto, la fisica. Rasetti, che matura lentamente – come si è visto – nuovi convincimenti politici emigra, come gli altri, in un paese a democrazia consolidata – il Canada, allora più di oggi legato al Regno Unito. Il messaggio, suo come degli altri, è chiaro. C’è un’alternativa alla barbarie di chi si appresta a scatenare la guerra; sono i paesi democratici, è la democrazia. Che tuttavia non è un’universale panacea, non offre la soluzione a tutti i problemi, specie etici. Lo mostra il comportamento di Rasetti. Lo esprimerà in modo drammatico Robert Oppenheimer in una conferenza tenuta al Massachusetts Institute of Technology il 25 novembre 1947: nonostante la previdenza e la lungimiranza dei nostri capi di stato del periodo bellico, i fisici provarono un senso molto particolare di responsabilità personale nel suggerire, nell’aiutare e, infine, in larga misura, nel realizzare concretamente le armi atomiche. Né possiamo dimenticare che queste armi, quando furono effettivamente usate, resero drammatico, e in maniera così crudele, il male e l’inumanità della guerra moderna. In un senso un poco rozzo, che nessuna volgarità, nessun umorismo, nessuna esagerazione possono cancellare, il fisico ha conosciuto il peccato; e questa è un’esperienza che egli non può dimenticare19.

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Majorana per parte sua non sembra intravedere alternative al fallimento delle sue illusioni sui regimi di destra e sul regime in cui è immerso. Non si trova infatti in tutte le testimonianze cenno alcuno a una sua pur vaga idea di migrare, salvo ovviamente che non si accrediti la «pista argentina» sulla quale Recami, nell’accingersi a esplorarla visitando criticamente le testimonianze, si sente in dovere di mettere le mani avanti, di sospendere il giudizio: «giudicherà il lettore»20. Né, nella crisi della Germania come principale polo scientifico mondiale susseguente la presa del potere da parte dei nazisti, Ettore pare, con gli altri del gruppo, volgersi a quel mondo di lingua inglese che è sì, innanzitutto, punto di riferimento scientifico, e di risorse e di occasioni di lavoro, ma pure rinvio a un sistema politico, metafora di un altro mondo. D’altra parte Majorana aveva avuto occasione di sperimentare sia pur brevemente la vita di una democrazia, e non sembra ne avesse colto elementi positivi. Il lettore attento di queste pagine avrà avvertito che al capitolo 4 si accenna spesso, e fin dal titolo, alla permanenza di Ettore in Danimarca, oltre che in Germania, e che anche su questo paese nelle sue lettere fa osservazioni politiche, di cui tuttavia si tace. La scelta è stata in qualche modo obbligata dal ‘canone’, da quanto la storiografia ci ha poi tramandato dell’atteggiamento politico di Majorana emergente dalle sue lettere; ma è anche stata frutto di un’opzione di chi scrive, che ha trovato più congrue quelle osservazioni ad altri interrogativi su Majorana, che non semplicemente a rafforzare la sua indubbia adesione, nel 1933, ai regimi dittatoriali europei di destra. Majorana arriva a Copenhagen il 4 marzo 1933. Vi si reca per lavorare con Bohr e vi si ferma un mese o poco più. Di quel periodo sono rimaste cinque lettere, quattro alla madre e una a Gentile jr. 105

Mentre – come mostrano le missive del 7 marzo alla madre e del 12 dello stesso mese a Gentile – la sua attenzione resta rivolta alla Germania e alla sua situazione politica, in Danimarca Ettore trova conferma delle sue preoccupazioni sulla crisi economica che sta scuotendo il mondo21 e, sebbene non lo dica apertis verbis, della convinzione di una grande incisività dei regimi totalitari nell’affrontare i problemi da essa prodotti. Più grande, pare dirci, di quella delle democrazie. Ne è riprova la lettera alla madre del 29 marzo. [In Danimarca] – scrive – la disoccupazione è notevole. Gran numero di senza lavoro sono autorizzati all’accattonaggio che assume qui proporzioni mai viste altrove (…). In Germania la disoccupazione continua a diminuire sebbene non ne sia certo iniziato il riassorbimento da parte delle grandi industrie.

Le battaglie politiche democratiche non lo affascinano, anzi stimolano il suo sarcasmo. Anche in Danimarca – racconta alla madre il 7 marzo – sono prossime le elezioni politiche. Enormi cortei comunisti [?] sfilano per il centro della città e cantano ostentando cartelli diretti in prevalenza contro Mussolini e Hitler. Provocano più ilarità che sgomento.

D’altronde l’esperienza che andava facendo non poteva non determinare in lui scetticismo verso la vita democratica. Ritornato in Germania, il 15 maggio scriverà alla madre una lettera (la stessa in cui si trovano alcune delle osservazioni già viste sulla questione ebraica) in cui, impassibile, racconta: «Lipsia, che era in maggioranza socialdemocratica, ha accettato la rivoluzione senza sforzo». Dietro i suoi giudizi sta pure un’idea aristocratica dell’ordine sociale che traspare senza ombra di dubbio alcuno nel ripetuto quadro negativo della Danimarca descritto nelle lettere. 106

Il cinque marzo scrive alla madre: «venendo dalla Germania si ha l’impressione di uscire dall’Europa per entrare in una colonia di Esquimesi. Il senso delle distinzioni sociali è interamente assente». E il diciotto: «la popolazione di Copenhagen presenta stupefacenti caratteri di uniformità, non soltanto fisici e morali, ma anche economici». E dieci giorni dopo, il ventinove, nell’ultima missiva dalla Danimarca alla madre: «[i danesi] sono gente straordinariamente pacifica, quasi senza passioni che vive con la stessa serietà di un gregge al pascolo» per cui «non c’è molto da scoprire nell’anima danese»22. Poteva una tale realtà affascinare Majorana? Poteva trovare qui un’alternativa agli entusiasmi provocatigli dall’orgoglio nazionale stimolato dal fascismo e dalle misure volte a sconfiggere la crisi prese dal nazismo? Dopo quella breve esperienza Majorana non ha più diretti contatti con mondi retti da regimi democratici, come invece gli altri membri del gruppo romano che viaggiano in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti. Né, forse, ha stimoli a una particolare attenzione a quei paesi derivanti da esperienze di lavoro. Lui, teorico puro, non sembra avere interesse ai mezzi e all’organizzazione che cominciavano a palesarsi specie nell’universo scientifico d’oltreoceano. Amaldi – lo si è visto – sostiene che fra gli altri interessi che Ettore coltiva nel suo romitaggio successivo il ritorno dall’estero ci sono la politica e l’economia politica. Allo stato attuale delle conoscenze non è dato di sapere che problemi lo affascinano, quali autori legga e mediti. Dalle notazioni che emergono dalla corrispondenza da Copenhagen Majorana pare credere in una visione aristocratica, elitaria della società, contraria alla tendenziale eguaglianza, pure negli stili di vita, 107

stimolata dalla democrazia, in particolare negli USA. Resta un suo convincimento? Rimane un suo criterio di giudizio? Una volta di più interrogativi insoluti. E tuttavia indizi di una diversità e, in questo caso, incomunicabilità, fra Ettore e gli amici del gruppo di Roma. Se anche loro, come credo, cominciavano ad avere tormenti, erano però in grado di intravedere una prospettiva, pratica ma non solo. A Ettore restava solo la disperazione. Per renderla eloquente, capace di indurre dubbi e interrogativi, gli era necessario creare in qualche modo un ‘caso’. Così fece, ma – se la nostra ricostruzione non è infondata e non lo è – non riuscì a raggiungere i fini che pare si fosse ripromesso.

 Sciascia, La scomparsa di Majorana, pp. 238-239. Sciascia fa qui sue in sostanza le tesi espresse, sulla scorta delle ricostruzioni autoassolutorie di Heisenberg (cfr. Cassidy, Un’estrema solitudine, pp. 470-471), nel libro di Jungk, Gli apprendisti stregoni (pp. 109-111). Heisenberg tra l’altro si sarebbe recato nel 1941 a Copenhagen a trovare Bohr per confidargli, meglio, fargli trapelare, il «‘segreto negativo’ che i tedeschi non avevano intenzione di costruire una bomba atomica» nell’intento di far sì che pure il fronte avverso facesse altrettanto. Bohr però intese i discorsi di Heisenberg in modo opposto e ribadì la sua interpretazione in una lettera – mai peraltro inviata al destinatario, Heisenberg appunto – all’apparire nel 1957 dell’edizione danese del lavoro di Jungk (la versione dei fatti di Heisenberg si trova in Jungk, Gli apprendisti stregoni, pp. 112-113 nota 1; quella ribadita da Bohr nel 1957 in «il Manifesto» del 16 febbraio 2002, p. 12, tratta dalla versione inglese messa in rete dall’Archivio Niels Bohr di Copenhagen nel sito www.nba.nbi.dk/). 2  A Möbius, il personaggio chiave di Die Physiker (1962), l’autore fa dire rivolto ai colleghi spie che vogliono attrarlo nei rispettivi paesi (con ogni evidenza le due superpotenze dell’epoca): «È strano. Ognuno di voi mi loda una teoria [politica] differente, ma la pratica che mi proponete è identica» (Friedrich Dürrenmatt, I fisici, a cura di Aloisio Rendi, Torino 2000, p. 69). 3   Cfr. Sergio Romano, Prefazione a Se la storia fosse andata diversamente, a cura di John Collings Squire, Milano 1999 (trad. condotta sulla edizione ri1

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vista del 1972 dell’originale del 1931), p. xiii. «Ucronia», da cui «ucronico», è voce costruita, all’inizio del secolo XX in Francia, sul modello di «utopia», a significare – traggo la definizione dallo Zingarelli – «ricostruzione logica della storia di un periodo o di un evento sulla base di dati ipotetici o fittizi». 4  Segrè, Autobiografia di un fisico, p. 173. La citazione è dall’articolo di cui supra al cap. 7 nota 10. 5   Vedi Recami, Il caso Majorana, p. 113. 6   Ibidem, pp. 110-111. 7   Ibidem, p. 113. 8   Fabio Pagan, Una vita spezzata in due dalla Bomba, «Il piccolo», 10 agosto 2001. 9   Dopo la guerra Rasetti ‘scompare’, vale a dire taglia per un certo periodo i ponti con i suoi antichi compagni. Che peraltro sanno benissimo il perché del suo silenzio e dove, se necessario, trovarlo. Infatti, quando Amaldi, il 5 luglio 1945, si rivolge a Fermi per pregarlo d’intervenire presso Rasetti perché questi dia le dimissioni formali dalla sua cattedra romana – per far posto a Gilberto Bernardini – il «papa» gli risponde, in modo relativamente rapido, il 4 agosto (due giorni prima di Hiroshima), di avere «immediatamente scritto a Franco» (Amaldi, Da via Pasnisperna, p. 157). C’è allora da chiedersi se sia lui a ‘scomparire’ o se la sua ‘scomparsa’ non sia frutto anche di un più o meno conscio ‘cordone sanitario’ steso intorno a lui e alle sue fastidiose verità. Ce ne sono controprove evidentissime. Nello scrivere a Fermi a proposito delle mancate dimissioni di Rasetti, Amaldi lamenta il fatto che Rasetti stesso non avrebbe risposto a precedenti missive sue e di Wick aggiungendo: «la cosa mi dispiace più per lui [Rasetti] che per me dato che penso che si debba interpretare come dovuto ad un particolare processo d’isolamento psichico del nostro amico» (ibidem, p. 153; corsivo mio). Le ragioni del rifiuto di Rasetti non sono prese minimamente in considerazione, sono ridotte a ‘malattia’ dell’anima. Fermi rispondendo se la cava con l’ironia, venata, a ben vedere, di un certo sprezzo: «sono parecchi mesi che non mi ha scritto, ma credo che stia sempre pubblicando voluminose memorie sopra i trilobiti e simili fossili» (ibidem, p. 157). Successivamente, il 28 agosto 1945, scrivendo ancora ad Amaldi, il «papa» di via Panisperna dice d’aver ricevuto risposta da Rasetti che «a quanto mi scrive pare che per il momento non abbia intenzione di ritornare a lavorare in fisica ma voglia dedicarsi sempre più profondamente alla geologia e alla biologia» (ibidem, p. 159). Dove un qualche veleno è in quel «per il momento» che evoca una decisione che sarebbe stata presa sotto la pressione di spinte emotive piuttosto che una scelta meditata. 10   Lettera di F. Rasetti 4.1.79, in Recami, Il caso Majorana, p. 223. 11   «Misi la mia esperienza a disposizione dei potenti, perché la usassero, o non la usassero, o ne abusassero a seconda dei loro fini. Ho tradito la mia

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professione» (Bertold Brecht, Vita di Galileo, quadro XIII, trad. di Emilio Castellani condotta sulla versione americana del 1945-1946, in Id., Teatro, a cura di Emilio Castellani – Renata Mertens, Torino 1951-1954, vol. II). 12   In Amaldi, Da via Panisperna, pp. 172-173. 13   «Ma poiché le ricerche sui neutroni, in questo periodo, stavano passando in gran parte ai laboratori segreti diretti alle applicazioni belliche, Rasetti giudicò più produttivo dedicarsi a un nuovo campo, quello dei raggi cosmici» (Franco Rasetti, Rasetti Franco, in Scienziati e tecnologi contemporanei, Milano 1974 [edizione originale inglese 1968], I, p. 403). 14  Rasetti, Biographical Notes. 15  «MÖbius: E questi fisici, come sono? Liberi? Newton: Caro il mio Möbius, questi fisici si sono dichiarati pronti a risolvere problemi scientifici che hanno un’importanza decisiva per la difesa nazionale (…). MÖbius: Dunque non sono liberi» (Dürrenmatt, I fisici, p. 68). 16   Non vedo contrasto tra tale ipotesi e lo scambio di lettere fra Rasetti, ormai in Canada, e Amaldi a proposito della successione a Fermi nella cattedra di fisica teorica a Roma. Le lettere di Rasetti – la prima delle quali è curiosamente datata «Québec, 7 nov. 39-XVIII» – pubblicate dai curatori del volume in Amaldi, Da via Panisperna, pp. 122-123 e 127 mostrano il «vicario» interessato alle vicende dell’Istituto romano e persino al fatto se procedeva il progetto di costruzione del ciclotrone previsto nell’ambito delle iniziative per l’E42. Va però osservato che: 1. l’Istituto di Fisica di Roma era vissuto da tutto il gruppo cresciuto attorno a Fermi come una loro creatura, da loro fatta crescere e prosperare; 2. doppiamente vale quindi al suo proposito il senso di nostalgia che, abbiamo visto, persino Freud, drammaticamente scampato all’occupazione nazista dell’Austria, sente e rivendica; 3. le lettere sono anteriori all’entrata in guerra dell’Italia, di quel periodo di non belligeranza che aveva fatto sperare a troppi in una resipiscenza di Mussolini rispetto alle sue velleità belliche e a un riavvicinamento dell’Italia alle grandi democrazie europee. 17   Ibidem, p. 68. 18   Cfr. cap. 1 nota 22. 19   Robert Oppenheimer, Energia atomica problema d’oggi, Torino 1961, p. 78. Al proposito, quanto ai fisici italiani, cfr. Bruno Rossi, Momenti di vita di uno scienziato, Bologna 1987, pp. 80-81. 20  Recami, Il caso Majorana, p. 109. 21   Cfr., ad esempio, Lettera alla madre 5.3.1933, ibidem, p. 156. 22  Recami, Il caso Majorana, pp. 164, 157-158, 169, 156, 162, 163 (corsivo mio).

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9 Il filo d’Arianna

Ogni tessuto è frutto di una trama i cui fili, a loro volta, sono risultato di un intreccio di fibre. Non diversamente l’ordito d’ogni esistenza umana. E dunque, sebbene un filo tirato possa dissolvere il drappo, a dipanarla, a intenderla non è per lo più sufficiente un solo bandolo. Rarissime volte compare Arianna: il labirinto della vita, delle storie e della storia, resta così dinanzi a noi con tutta la sua angosciosa difficoltà. Se ne potrà forse uscire con faticose, sfibranti prove successive. È questo il peso del lavoro storico, che parte all’assalto di un interrogativo sapendo che quasi di certo la risposta sarà parziale e provvisoria. L’immersione di Majorana nel suo contesto non è il filo d’Arianna per risolvere il suo enigma. Di certo, però, non si può procedere sulla via della soluzione dell’enigma senza entrare, e a fondo, in quel contesto. Farlo ha permesso una serie almeno di abbozzi di risposte, la posizione d’interrogativi dimenticati, la completa restituzione di Ettore al «gruppo di Roma», di cui è parte non solo scientifica, ma pure umana nel senso più pieno. Ed è proprio per questo che la sua scomparsa ha continuato a essere per i suoi membri un tormento, mai esorcizzato completamente dalle semplificazioni canonistiche di cui pure sono stati gli autori. Con i «ragazzi di via Panisperna», si può arguire con certezza dai documenti, Majorana non condivide solo il fuoco, la pas111

sione della ricerca. Condivide i tormenti del mondo. Che non significa, è ovvio, giungere alle medesime conclusioni, adottare gli stessi comportamenti. Qui giocano le peculiarità di ognuno. Frutto di stimoli «esterni»: la famiglia, le scuole, gli incontri, gli amori. E di misteriose reazioni ‘interne’ per cui ogni singola personalità elabora in modo diverso non solo le differenti esperienze, ma pure quelle condivise con chi ti sta vicino. È a questo punto che Ettore sembra separarsi in modo visibile dalla storia del «gruppo Fermi», i cui membri paiono identificarsi in una autorappresentazione comune e condivisa. Sia nel senso di riconoscersi tutti partecipi di essa sia in quello di sentirsi parte di una vicenda generale, collettiva propria dell’intero corpo scientifico. Forse nella «solitudine» di Majorana gioca anche quel suo essere teorico puro, che mai ha provato la fatica e il piacere dell’esperimento, mentre il gruppo, chi più chi meno, cerca di unire i due piani. Come forse nella disperazione che lo induce a sparire, a dissolversi nel nulla sta anche l’esaurirsi della vena di intuizione e di fantasia teorica che lo aveva portato a essere uno scienziato così straordinario. Di un’eccezionalità da tutti riconosciuta. Certo vi è un rapporto faticoso con la vita e una difficoltà di comunicazione con gli altri. Tutto questo può spiegare quel comportamento ‘strano’ che, per i biografi, era il suo connotato tipico. Ma non ne decifra le cause, i perché, la scelta dei momenti. Le non molte tracce certe che lui stesso ci ha lasciate orientano – con indizi concomitanti sebbene non con prove conclusive – a pensare che le sue reazioni, intrise – parrebbe – di un pessimismo radicale verso la parola e il comunicare, siano del tutto interne e concomitanti alle preoccupazioni, agli interrogativi, alle ansie dell’intero gruppo dei «ragazzi di via Panisperna». Con 112

una differenza essenziale: sulla valutazione dei nodi etici che il progredire della ricerca proponeva a ognuno e a tutti. Per gli altri – Rasetti eccettuato – la loro soluzione non poteva che essere pragmatica (l’uso ‘buono’ della scienza). Per Ettore, invece, la risposta doveva essere assoluta. La convinzione dell’inutilità del fare e quindi di comunicare non gli lascerà altra alternativa dal gridare in modo silente la sua angoscia. Sperava d’essere inteso. Il suo però era un urlo inaudito e inattuale. Perché proponeva in filigrana una critica radicale della scienza, sebbene continuasse a sperare nel suo essere cammino verso la verità1, e anche per questo il suo silenzioso messaggio pare rivolto a chi sa, agli uomini di scienza: siano loro – pare dirci – e non altri a interrogarsi, a trovare quel bandolo che a lui sfugge. Perché si produsse in tempi terribili, in cui non sembrava ci fosse più posto per i dubbi: scegliere era inevitabile. A lui però – aristocratico e scettico – non era dato di farlo. Se l’avevano disilluso i ‘condottieri’ cui aveva creduto, non vedeva negli ‘altri’ una alternativa. Cambierà idea? Se le testimonianze della ‘pista argentina’ trovassero conferma certa, può darsi di sì. Se così fosse ci sarebbe da pensare che ancora una volta occorra rivolgersi al contesto per trovarne la spiegazione: la guerra con le sue carneficine, l’abisso dello sterminio degli ebrei d’Europa, il terrificante lampo di Hiroshima e Nagasaki.

  Su tale ambiguità sono illuminanti le parole di Longo, Homo technologicus, p. 12.

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Epilogo

L’incomprensione di Majorana da parte di coloro cui si rivolge è ben precedente la sua scomparsa e la successiva (ir)riflessione sui suoi casi. Risale, a ben vedere, a quel suo eloquente isolarsi dopo l’esperienza internazionale. Lui si piegava sugli interrogativi ultimi di quel che andavano facendo; gli altri erano del tutto immersi, assorbiti dai quesiti grandi che ogni esperimento, ogni riflessione teorica poneva loro sull’oggetto specifico del lavoro che andavano facendo. Fors’anche per questo le comuni preoccupazioni sulle tempeste che si stavano addensando sul mondo portarono a conclusioni così lontane. Ettore intravedeva scenari che lo inducevano a visioni sempre più cupe, alimentate pure – mi sembra – da un sopravveniente pessimismo totale sulle forme della politica. Gli altri erano, con ogni probabilità, aiutati a vedere una via di scampo, una prospettiva proprio da quel loro porre al centro della loro vita l’oggetto del loro lavoro1. Se la ricerca è indagine che porta a scoprire via via il vero, allora laddove la ricerca può dipanarsi liberamente deve esserci un mondo aperto al vero, a una convivenza tra gli uomini basata sulla ricerca della verità, che non può avere come fondamento che la libertà. Non a caso è quando quest’equazione pare spezzarsi o si spezza, con la subordinazione della scienza al potere politico e militare, che Rasetti reagisce e rifiuta quella subordinazione che snatura la scienza stessa. A posteriori si può azzardare, timidamente, di dire che ognuno aveva la sua parte di ragione. 115

Fermi, Segrè e gli altri avevano colto – sotto certi profili: erano stati obbligati a cogliere – il pericolo che la barbarie hitleriana comportava. In buona fede – loro, come un pacifista della statura di Einstein – pensarono, furono certi di dare un contributo a scongiurarlo. Non potendo che sottovalutare – sotto vari aspetti – la portata sconvolgente sul piano civile dei risultati, cui aspiravano anche per sete di conoscenza scientifica. Secondo non pochi indizi concomitanti, Majorana può avere avuto la visione dell’Apocalisse a venire. Che ha angosciato, angoscia le menti di chi ha vissuto dopo quel 6 agosto 1945, tremendo non solo per gli effetti sconvolgenti che ebbe lo scoppio della prima atomica, ma perché esso si dette quando Hitler ormai non viveva più, la Germania si era arresa, il Giappone era allo stremo e in procinto di chiedere l’armistizio. Angoscia, anche di molti di quelli che furono partecipi della costruzione degli ordigni prima atomici e poi nucleari. Forse proprio per questo bisognava cucire su Ettore un canone imperniato sulla sua ‘stranezza’, sinonimo gentile per dire: follia. Senza rammarico, peraltro: «chi ha una solida formazione scientifica finisce per sentirsi a posto, anche fra gli oggetti che mutano e perdono di continuo la propria identità»2. La storia di Ettore però pare sotto molti profili divenire ogni giorno più ‘normale’ nel sempre più straordinario e conturbante mondo della scienza. Per questo si ripresenta puntualmente, inquietante, a chi rifletta sul presente.

  In questo senso possono avere contribuito alla scelta di migrare le difficoltà presentatesi in Italia per trovare finanziamenti adeguati per le loro ricerche (cfr. supra, cap. 5 nota 69). 2   Claudio Magris, Danubio, Milano 19999, p. 21. 1

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Indice

Prologo 7 Note 11 1. La storia 13 Note 21 2. Il canone 23 Note 26 3. Il metodo storico disatteso 29 Note 30 4. In Germania e Danimarca 31 Note 46 5. Involuzione depressiva? 53 Note 73 6. Testimonianze eccentriche 79 Note 81 7. Un interrogativo rimosso 83 Note 94 8. Sciascia, Majorana e la bomba 97 Note 108 9. Il filo d’Arianna 111 Note 113 Epilogo 115 Note 116