Etiopia, Lontano dall’occidente [1]

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MARCO DE PAOLI

ETIOPIA, LONTANO DALL’OCCIDENTE Un pezzo di vita e uno studio storico e antropologico Vol I

MIMESIS

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INDICE

I VOLUME

PREMESSA FROM ETHIOPIA LO SPETTACOLO DELLA POVERTÀ IMPUDICA BAMBINI, LA SOLITA STORIA di Maria Maddalena Cusati IL GOURRI E LA DANZATRICE ETIOPE IL CIRCO, LA MUSICA, LA DANZA di Maria Maddalena Cusati GLI ANGELI DI GONDER E LA RELIGIOSITÀ ETIOPICA INSEGNANTI IN ETIOPIA ANTROPOLOGIA DEL CIBO: INVITO A PRANZO IN ETIOPIA VIAGGIARE IN ETIOPIA ETIOPIA ORIENTALE, UN VIAGGIO E QUALCHE NOTA SU RIMBAUD

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17 41

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p. 59 p. 83 p. 91 p. 103 p. 119

I POPOLI DELLA DANCALIA E DELLA VALLE OMO

p. 131

GLI AFAR DAL MAR ROSSO ALL’INFERNO DELLA DANCALIA LA MADRE TERRA E IL CIELO AVARO DEI BORANA I LACCI DELLA FAMIGLIA E DELLA PARENTELA

p. 133 p. 165 p. 211

E LE CERIMONIE DI PASSAGGIO: LA FRUSTA DEGLI

HAMER

IL RE DEI KONSO, I SUOI WAGA E IL TOTEM LA DECADENZA DEL “SELVAGGIO” E LA SUA SCOMPARSA

p. 281 p. 311

II VOLUME SULLA STORIA DELL’ETIOPIA ANTICA

p. 353

LA CIVILTÀ DI AXUM DALLA RELIGIONE ASTRALE ALLA RELIGIONE EBRAICA E CRISTIANA

L’OFFENSIVA ISLAMICA ASCESA E CADUTA DELLA DINASTIA ZAGWE: LALIBELA E L’ARTE RELIGIOSA ETIOPICA LA CERCA DEL “PRETE GIANNI” E LA LOTTA FRA CRISTIANESIMO E ISLAMISMO

SULLA STORIA DELL’ETIOPIA MODERNA IL DOPPIO VOLTO DEL COLONIALISMO ITALIANO L’ETIOPIA COMUNISTA DI MENGHISTU, L’ERITREA E L’IDEOLOGIA IMPERIALE NOTA SUL RITORNO DELL’OBELISCO APPENDICI ECCIDIO AD ADDIS ABEBA YEMEN: APPUNTI DI VIAGGIO UNA LETTERA A SORPRESA di Maria Maddalena Cusati

p. 355 p. 385 p. 397 p. 411 p. 455 p. 457 p. 495 p. 525 p. 529 p. 531 p. 541 p. 551

Ma se io non ho radici, perché le mie radici devono farmi tanto male? (Alicia D. Ortiz) Per me l’andare era sempre il massimo dei piaceri; e lo stare, il massimo degli sforzi; così volendo la mia irrequieta indole. (Vittorio Alfieri) L’uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero. (Ugo di San Vittore)

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PREMESSA

Viaggiare, andare altrove, può essere un’esperienza derealizzante e spaesante. Cartesio nella prima parte del Discours sur la méthode, narrando i suoi viaggi giovanili e insomma il suo romanzo di formazione e di apprendistato, scriveva che «viaggiando troppo si diventa stranieri nella propria patria». Invece Lévi-Strauss iniziava il resoconto dei suoi viaggi etnologici scrivendo lapidario in Tristes Tropiques: «detesto i viaggi e gli esploratori» (Je hais les voyages et les explorateurs). Ormai alla fine del lungo viaggio con cui iniziava la sua grande carriera di etnologo, si domandava sul senso di quella avventura: «qu’est-on venu faire ici? Dans quel espoir? A quelle fin?». Il viaggio, in realtà, portava a interrogarsi su se stessi ancor più che sugli uomini e le esperienze che si andavano facendo: «Etait-ce donc cela, le voyage? − si domandava − Une exploration des déserts de ma mémoire, plutöt que de ceux qui m’entouraient?»1. Quando, nel 1926, a soli vent’anni, Paul Nizan abbandonò la Francia imbarcandosi per Aden in Arabia, egli era mosso da un’insofferenza, un’inquietudine, un’esigenza vaga e indefinita di qualcosa di diverso, da uno spirito di ribellione nei confronti degli stanchi rituali della vita borghese. Aden Arabie2 si apre nel segno della rivolta: «J’avais vingt ans. Je ne lasserai personne dire que c’est le plus bel âge de la vie». E continuava: «Tutto congiura per mandare il giovane in rovina: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso tra gli adulti. È duro imparare la propria parte nel mondo». Seguiva una violenta requisitoria contro la prestigiosa École Normale di Parigi, ove il giovane aveva avuto il privilegio di studiare insieme all’amico Jean Paul Sartre: i suoi prestigiosi insegnanti, il fior fiore dell’intelligenza francese, apparivano quasi senza eccezioni al giovane inquieto come dei sepolcri imbiancati, consapevoli di se stessi e del loro privilegio, compiaciuti dei loro perfetti giri di frase, maestri di ipocrisia e di conformismo, funzionari 1 2

C. Lévi-Strauss, Tristes tropiques, Paris 1955, Plon, p.13, 434, 436. P.Nizan, Aden Arabie, 1931 (poi 1960 con prefazione di J.P. Sartre), tr. it. Aden Arabia, Milano 1996, Mondadori.

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dello spirito positivo per definizione sempre in progresso, «cani da guardia», chiens de guarde del sistema come egli li definirà fin dal titolo in un suo successivo e violento libro3. Quella scuola, quell’istituzione veneranda serviva solo a preparare il giovane a prendere il suo posto nell’ordinato e regolato mondo borghese, con i suoi doveri e le sue responsabilità, dove si sa già a memoria quello che ti aspetta: senonché, proprio quel mondo era oggetto di un lucido e radicale rifiuto. Sullo sfondo, rimaneva l’esigenza di una vita vera: «gli uomini non vivono come dovrebbe vivere un uomo»4, e invece «essere un uomo» è «l’unica impresa legittima»5. Non si trattava peraltro per Nizan solo della propria vita. In realtà la propria vita era inserita in un vasto mondo, ed era l’intero mondo occidentale ad apparire come un organismo fradicio e putrefatto in decomposizione, pochi anni dopo la catastrofe della prima guerra mondiale mentre già si intravedevano i segnali sinistri del secondo conflitto mondiale. Ma il «tramonto dell’Occidente» di splengleriana memoria non era più l’oggetto di un’analisi filosofica bensì la violenta percezione vitale di un giovane insoddisfatto. Rispetto al malato mondo occidentale, si stagliava così il fascino dell’oriente e del medio oriente esotico e lontano. Donde la decisione della fuga, che in Gauguin e in Rimbaud aveva già avuto i suoi precedenti illustri. Il giovane Nizan, come peraltro il giovane Rimbaud (non così invece Gauguin), fin dall’inizio non nutre soverchie illusioni: egli sa che «la terra conosciuta, misurata e registrata, è stata messa sotto torchio dagli europei»; sa che «dappertutto hanno rubato a man salva»; sa che «i paradisi sono imprese commerciali»6. Eppure legge con avidità e interesse i testi su Aden, e sono ben presenti nella sua mente i ricordi dell’Arabia felix e della via delle spezie. Così parte. Ma naturalmente dopo poco capisce quello che molti viaggiatori onesti con se stessi capiscono: capisce cioè che, come diceva Seneca, «dovunque vada (quocumque abis) porterai te stesso». E perfino il tuo mondo. Capisce, come diceva Orazio (Epistulae, I, 11), che «una faticosa indolenza ci tormenta (strenua nos exercet indolentia) / e andiamo per acque e per terre / per cercare di vivere bene (bene vivere)», ma «chi solca il mare muta il cielo, non il proprio animo» (caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt). Già Gide del resto aveva scritto il suo Voyage d’Urien (1893) per dire con gioco di parole che il viaggio è sempre un voyage du rien, un “viaggio del nulla”, a significare l’impossibilità di 3 4 5 6

P. Nizan, Les Chiens de garde, 1932 (tr. it. I cani da guardia, Firenze 1970, La Nuova Italia). P. Nizan, Aden Arabia, cit., p. 59. Ivi, p. 61. Ivi, p. 70.

Premessa

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ogni fuga. E Leiris, viaggiatore e antropologo, poteva scrivere: «le voyage ne nous change que par moments. La plupart du temps vous restez tristement pareil à ce que vous aviez toujours été»7. E così, al contrario di quanto scriveva Cartesio per il quale «viaggiando troppo si diventa stranieri nella propria patria», al giovane Nizan sembra invece che viaggiando troppo non si faccia altro che ritrovare per altra via quella patria che si voleva abbandonare, come se tutte le strade conducessero infine in circolo al punto di partenza. Nella colonia inglese di Aden, piena di ditte commerciali occidentali volte allo sfruttamento del petrolio e al commercio delle materie prime, Nizan ritrova la detestata Europa da cui fuggiva: «Aden era un’immagine in piccolo di nostra madre Europa, era un concentrato di Europa»8. Nei volti e nella vita degli emigranti ritrova la stessa vacuità, la stessa noia di una vita non vissuta solo dedita al lavoro nella prospettiva del gruzzolo: «questi uomini [...] si erano ancorati laggiù per guadagnare più denaro che a casa propria, [...] denaro per l’età matura e la vecchiaia, per poter aspettare la morte senza far nulla, salvo, forse, un po’ di giardinaggio o di golf. Che piccolo-borghesi, sotto sotto, questi dominatori coloniali!»9. I locali invece lavorano duramente nei campi, e alla fine cosa rimane dell’oriente? «Oriente, sotto i tuoi poetici palmizi, ancora una volta io non trovo che nuova sofferenza umana»10. Come più tardi Lévi-Strauss alla fine dei suoi viaggi, Nizan deve confessare a se stesso di essere andato lontano per abbandonare l’Identico e trovare il Diverso salvo poi ritrovare l’Identico nel Diverso: confessa cioè di aver trovato non uomini e mondi diversi bensì in fondo quello stesso mondo e quegli stessi uomini che aveva lasciato, perché al fondo l’uomo è lo stesso ovunque. Alla fine il disincanto sembra totale e anche Nizan come Lévi-Strauss dice di odiare i viaggi: «E non fatemi più un quadro affascinante di viaggi poetici e redentori»11; «io no, io non mi condannerò all’inferno dei viaggi»12. Al bisogno del viaggio subentra il bisogno del ritorno ad Itaca: «non ebbi altro per la testa che il ritorno [...]. Vedevo perdersi il mio tempo, questa cosa che mi appartiene. [...] Pensavo, insomma, all’Europa in modo diverso da come la pensavo prima di lasciarla».13 7 8 9 10 11 12 13

M. Leiris, L’Afrique fantôme. Da Dakar à Djibouti 1931-1933, Paris 1934 (poi 1981), Gallimard, p. 181 (tr. it. L’Africa fantasma, Milano 1984, Rizzoli). P. Nizan, Aden Arabia, cit., p. 106. Ivi, p. 109. Ivi, p. 115. Ivi, p. 129. Ivi, p. 130. Ivi, pp. 132-133.

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Etiopia, lontano dall’Occidente

Tuttavia non per ciò l’esperienza sarà stata vana, perché da essa Nizan apprende qualcosa: che egli non avrà più alcun bisogno di cercare l’esotico e il lontano. Così, pur nella repulsa di una certa Francia giudicata provinciale e meschina, Nizan ritorna. In patria, in Francia, si illuderà di evitare il vuoto esistenziale e di trovare un senso alla sua vita attraverso l’“impegno”, l’engagement: diventa comunista e prende la tessera del PCF, il ferreo e rigido Partito Comunista Francese che chiedeva ai suoi uomini obbedienza assoluta cercando di trasformare gli intellettuali − qualche volta strutturalmente “disorganici” − in “utili idioti”. Senonché, quell’esigenza di verità, quell’onestà con se stesso, e forse ancor più quell’attitudine a fuggire gli uomini e le loro false verità che era il retaggio della precedente fuga in Arabia, gli impongono, dopo aver a lungo cercato di giustificare machiavellisticamente in nome dei nobili fini gli sconci mezzi sovietici, di non mentire ulteriormente a se stesso: e Nizan abbandona il partito nel 1939, all’indomani del Patto Ribentropp-Molotov che, sulle spoglie polacche, sanciva l’alleanza fra L’Unione Sovietica di Stalin e la Germania nazista di Hitler. Da qui venne, auspice Aragon, la damnatio memoriae contro il “rinnegato”, contro il “borghese traditore della classe operaia”, contro il “venduto” e il “pennivendolo al soldo del capitale”. Poco importa. Il tempo gli ha reso giustizia. Nizan aveva semmai tradito se stesso quando si era illuso di trangugiare tutto in nome dell’ideologia e dell’onnipresente Partito, non quando abbandonò tutto ciò. La sua fuga dal Partito e dall’ideologia furono una replica della sua fuga ad Aden: in entrambe le fughe, egli cercava qualcosa di vero, cercava di sfuggire a strettoie insopportabili. E, anche in questa seconda fuga, ritrovò se stesso: appena in tempo per morire, a Dunquerque nel 1940 a soli 35 anni, ucciso da una pallottola vagante. Io sono partito per Addis Abeba il 2 febbraio 2005, con un aereo notturno da Malpensa. Non avevo più vent’anni. La donna che ci portava in taxi ci chiese scherzando se per caso stessimo scappando e se avessimo qualcuno alle calcagna. Era con me Maria Maddalena Cusati, che aveva avuto la nomina per l’insegnamento nella Scuola italiana di Addis Abeba. L’insegnante precedente era stata assassinata dal suo guardiano. Avevamo fatto insieme i concorsi per l’insegnamento all’estero, io per l’area di francese e spagnolo e lei per quella di inglese. Il nostro patto da carbonari cospiratori era che se la cattedra giungeva prima a me, lei sarebbe venuta con me e se invece fosse giunta prima a lei io sarei andato con lei. La cattedra è giunta prima a lei, più brava di me alle prese con risposte multiple e tests. Ci siamo sposati e siamo partiti con il nostro bassotto, che ci ha costretti a fare un lungo periplo per Francoforte visto che solo la compagnia tedesca

Premessa

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accettava il cagnolino in carlinga senza doverlo sbattere nella stiva. Perché siamo partiti? Lasciavo qualcosa, fuggivo da qualcosa? No. Però devo pur confessare, pur stando sulle generali, che io mi sono sempre sentito in tutta la mia vita un deraciné. Per quanto mi riguarda, mi muoveva, mi spingeva anzi, il desiderio di un’esperienza nuova e totalmente diversa rispetto alla quale ogni altra considerazione − compresa quella economica − passava in secondo piano. E per lei, la motivazione era che le piaceva venire con me anche laddove non avrebbe mai e poi mai pensato di andare, altrimenti avrebbe rifiutato la chiamata ed anzi nemmeno le sarebbe minimamente passato per la testa di fare quel concorso. Nell’immaginario e in molta letteratura, l’Africa può essere tante cose: il fascino del lontano, dell’esotico, del primitivo, del selvaggio, della natura incontaminata, della savana o del deserto. E tuttavia non sono queste le prime cose che mi hanno colpito e non sarà di queste cose che io in prima istanza parlerò. Ho letto vari resoconti di viaggio in Africa in cui, con evidenza, il narratore mostrava di essersi abbandonato e immerso nei suoni e nei colori e nelle situazioni. Per me non è stato così. Pur nel tentativo di partecipazione, pur in quella che il grande antropologo Malinowski chiamava “osservazione partecipante”, pur nel mio desiderio di capire e vivere a fondo e appieno quest’esperienza, il mio occhio è rimasto critico, né sarebbe stato possibile altrimenti. Del resto io non sono andato in lontane contrade in cerca di evasioni. Per me è un’“evasione” fuori dello spazio e lontanissima nel tempo, addirittura indietro di secoli, anche solo prendere l’auto ed andare in giornata da Milano a vedere un’antica abbazia medievale vicino a Saluzzo o un vecchio borgo nell’alto bergamasco: gli stimoli, le emozioni, le sensazioni, le immagini sono intense come se fossi andato nel più lontano oriente. Non dirò, insomma, come Orazio: «ciò che cerchi è qui, a Ulubre», sperduto paese delle paludi pontine (Quod petis, hic est, est Ulubris). Tuttavia, non posso negare che cinque anni in Etiopia sono qualcosa di più e di diverso da un viaggio in Borgogna o da una permanenza a Weimar per un corso di tedesco. Per quanto io abbia sempre amato molto viaggiare, ed ho viaggiato ogni qualvolta ho avuto del tempo per farlo (e molto di più avrei viaggiato se gli studi e la scrittura non mi avessero spesso trattenuto a casa), in realtà ho percepito subito cosa potesse voler dire fare non soltanto un viaggio più o meno lungo, ma proprio andare a vivere per vari anni in un altro continente. Ho percepito immediatamente che quella che mi attendeva era un’esperienza forte, e non del tutto facile per quanto indubbiamente vissuta in condizioni privilegiate, e ho subito capito che ne sarei stato segnato in profondo, e che non sarei più stato lo stesso al ritorno.

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Com’è dunque l’Africa? Io non so come si possa dire che l’Africa è bella, eppure è bella. Non mi sono fatto catturare dal mal d’Africa, e più che mai mi sento un figlio dell’occidente. Tuttavia, posso dirlo: l’Africa, per come l’ho conosciuta io dal mio parziale ma significativo osservatorio, è bella di una strana bellezza e forse già dire questo è un piccolo indizio di mal d’Africa. Ora cerco di narrare la mia, la nostra esperienza. Questo libro non è soltanto un libro di viaggio, anche se per le piste etiopiche abbiamo percorso non meno di 13.000 chilometri, bensì (oltre che un libro di analisi) è soprattutto un libro che narra di una permanenza quinquennale, e cinque anni sono una parte di vita. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che è stata una gioia per me scrivere questo libro. Posso veramente dire: «felicità da me provata nel tempo del comporre» (Leopardi).

FROM ETHIOPIA

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LO SPETTACOLO DELLA POVERTÀ IMPUDICA

Quali sono state le prime impressioni ad Addis Abeba, quelle che dall’Italia tutti mi hanno chiesto? Ebbene, devo rispondere: uno shock emotivo. Veramente, il primo impatto è stato traumatico. Sono stato violentemente investito da un bombardamento di immagini forti e a tutta prima certamente non belle: le immagini della miseria e della povertà. Sono abituato a viaggiare e mi so adattare alle diverse realtà, ma l’effetto suscitato dalla grande povertà di questo paese è stato veramente indelebile. Ero stato in Turchia, fino ai confini con la Siria e con l’Unione Sovietica, ma una cosa del genere non l’avevo mai vista. Non ci si lasci ingannare, nella capitale Addis Abeba, dalle due grandi arterie costellate di hotel, uffici e negozi che attraversano la città: l’una (la Bole Road) che dall’aereoporto giunge 300 metri più in alto ai palazzi imperiali di Menelik e Selassie ora divenuti governativi, e poi all’università sede della vecchia residenza imperiale, e poi ancora alle colline di Entoto ove a 2.600 metri di altezza ancora si trova la vecchia residenza di Menelik; l’altra (la Churchill Road) che attraversa la zona centrale della città. Non ci si lasci ingannare perché, anche nelle zone centrali e nelle arterie principali dove se non si sta attenti si possono spaccare i semiassi dell’auto in una delle tante buche non riparate, nessun muro o palizzata, a suo tempo voluta dal negus neghesti (dal “re dei re”, dall’imperatore) Selassie o dal negus rosso Menghistu, può celare alla vista la realtà della capitale. In realtà quasi tutta la vastissima città, che si estende oltre la Ring Road che la circonda, è fatta di banlieues o per meglio dire di slums e di bidonvilles, ovvero di lunghe file di baracche che sono catapecchie spesso maleodoranti e sporche fatte di vecchie lamiere, quando più alla periferia non si tratti di capanne di paglia, fango e argilla essiccata. Anche sulle strade principali si possono vedere circolare le pecore come da noi solo in montagna. Gli uomini espletano spesso i loro bisogni anche nelle strade più trafficate e frequentate della città, ed è inutile scandalizzarsi visto che nelle loro povere case per lo più non dispongono di servizi igienici.

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Tranne le principali, le vie ad Addis Abeba non hanno nome. Non ci sono indirizzi e numeri civici. Sui giornali locali gli alberghi, i ristoranti, i luoghi pubblici sono indicati come te li può indicare il passante: vai per quella strada, trecento metri dopo il supermercato c’è il tale albergo etc. Di conseguenza la posta non può arrivarti a casa: la vai a ritirare tu se hai una casella postale. Anche le bollette ti vengono consegnate quando le vai a pagare. Per avere l’allacciamento ad Internet occorre produrre una lettera di garanzia, pagare ed aspettare mesi. Le frontiere con Eritrea e Somalia sono chiuse per contrasti ed inoltre sono ricorrenti gli episodi di terrorismo, in particolare da parte di un’etnia (gli Oromo un tempo spregiativamente detti galla) che si sente discriminata. Di conseguenza, ovunque vada ti perquisiscono, ti controllano, ti fanno passare sotto ai metal-detector: anche all’albergo, al ristorante, al supermercato, negli uffici dove paghi le bollette. Io riesco talvolta ad evitare tutto ciò soltanto esibendo il passaporto di servizio. I negozi sono per lo più miseri baracchini di cui la città è piena perché tutti vendono tutto quello che possono, ma molti prodotti non si trovano nemmeno nei pochi supermercati in cui peraltro i prezzi di alcuni generi (acqua minerale, latte pastorizzato, olio di oliva, vino) sono più alti di quanto non siano in Italia perché qui sono generi di lusso e/o d’importazione. In ogni modo i supermercati, proibitivi per la maggior parte della popolazione, sembrano oasi al confronto con altre rivendite. In particolare le rare macellerie sono impressionanti da vedere: sono luridi baracchini privi di frigoriferi ove la carne è esposta per giorni al sole e all’azione delle mosche che possono deporvi tutte le uova che desiderano. Ci si domanda come questa carne possa non essere infetta da larve, vermi e parassiti, sempre ammesso che non sia già malata all’origine. Se vi fosse un minimo di controllo igienico, se vi fosse la certificazione sanitaria per gli animali, sicuramente tutti questi insalubri luoghi di rivendita verrebbero chiusi. Invece il macello di Addis Abeba, su cui tutto il giorno volteggiano corvi e avvoltoi per cibarsi degli scarti, sembra perennemente attivo: esso è inavvicinabile per il fetore e l’odore nauseante che ne emana e ci si domanda come vi si possa lavorare. I prodotti (tranne, come si è detto, alcuni generi) sono molto economici per noi, che indubbiamente siamo qui come privilegiati (andare a cena nei migliori ristoranti ci costa una decina di euro a testa, una ventina o poco più con un discreto vino): ma certamente non deve essere facile vivere per i locali, considerando che un impiegato di banca o un docente laureato, che sono già persone del ceto medio, guadagnano normalmente (con poche eccezioni) circa 700 birr al mese (il birr è la moneta locale) ovvero nemmeno 50 euro, mentre un muratore guadagna poco più di 300 birr al mese che equivalgono a circa 20 euro. Questa

Lo spettacolo della povertà impudica

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realtà desolante è confermata parlando con rappresentanti dell’Unicef e dell’ONU (architetti, ingegneri, agrari), con sacerdoti e persone che lavorano con i bambini di strada. Che cosa mi ha colpito anzitutto ad Addis Abeba? Mi ha colpito anzitutto il fatto che innumerevoli persone, intere famiglie con i bambini anche neonati, dormono per strada e veramente non sai come resistano durante la stagione delle piogge che qui sono torrenziali. La grande povertà è la prima cosa che mi ha colpito: l’Etiopia è agli ultimi posti nella poco invidiabile graduatoria dei paesi più poveri al mondo. La vita media in Etiopia non giunge ai 50 anni, non perché non vi siano persone anziane ma perché è molto alta la mortalità infantile. Nel paese opera come uno spettro la falce dell’Aids. Al di fuori degli altipiani il rischio della malaria, della siccità e della carestia è continuo (sembra che l’ultima, nel 1991, abbia causato un milione di morti). I poveri sono migliaia e migliaia. Anzi, definirli poveri non rende l’idea perché la povertà può anche associarsi a un’immagine di dignità mentre qui spesso − a voler usare il termine nudo e crudo − si tratta di straccioni. Drammatico è il quadro delle menomazioni di queste persone. Ad Addis Abeba vagano per le strade poliomielitici dagli arti rattrappiti, storpi e mutilati che spesso sono feriti di guerra perché il paese è uscito da pochi anni stremato ed esausto da una guerra fra poveri contro l’Eritrea. Ad Addis Abeba ho visto una donna giovane e bella trascinarsi per una via centrale senza gambe su una specie di skateboard arrancando con le mani; ho visto un grottesco uomo-rana con le gambe atrofizzate che come una scimmia ferita strisciava quasi invisibile fra le auto usando le braccia come gambe, continuamente rischiando di essere investito perché lo trovi all’ultimo ad elemosinare per terra sotto l’auto al semaforo; ho visto un uomo malato di elefantiasi elemosinare con una mano grandissima, enorme, ho visto un uomo aggirarsi con uno scroto enorme che fuoriesce dai pantaloncini, ne ho visto un altro privo di entrambe le mani chiedere l’elemosina e tu non sai come dargliela, e mi fermo nel descrivere questo museo degli orrori degno di un incubo surrealista o di un quadro di Bosch. Particolarmente grave è la cecità da tracoma. Il tracoma è una malattia infettiva causata da mosche, insetti e altri microrganismi: come la poliomielite, è una malattia associata alla miseria e alla povertà diffusa nelle regioni soggette a siccità in cui l’acqua è spesso infetta e sporca. Particolarmente diffuso in Africa (ma anche in Medio Oriente, Asia e America centrale) e già noto nell’antico Egitto, il tracoma (assieme alla cecità da xeroftalmia dovuta a carenza di vitamina A) è di gran lunga la malattia degli occhi più diffusa al mondo, causa del 10-15% della cecità a livello mondiale. Si manifesta con un dolo-

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roso bruciore agli occhi e, non curata, causa una perforazione della cornea. In realtà per la prevenzione del tracoma è sufficiente lavarsi regolarmente con acqua pulita e curare l’igiene e la pulizia propria e dell’ambiente, ma naturalmente proprio questo manca in un quadro di povertà e di carenza igienica. Oggi il tracoma si cura facilmente con antibiotici, e financo i casi più gravi precedenti la perforazione cornea si curano con semplicissime operazioni chirurgiche che anche un’infermiera specializzata può fare, ma naturalmente la gran parte delle poverissime persone colpite (spesso in lontani villaggi) non usufruisce delle poche strutture sanitarie. La conseguenza è che ancora oggi, nonostante la malattia sia pienamente evitabile, si vedono per le strade e in pieno centro ad Addis Abeba numerosi ciechi (altri invece fingono di essere tali) con gli occhi roteati all’in su come in un famoso quadro di Brughel che chiedono l’elemosina accompagnati da un ragazzo. Come ben si può comprendere stante il quadro descritto, i mendicanti (i meskin, termine probabilmente derivato dal francese mesquin) sono ovunque. Se ad Addis Abeba faccio quattro passi spesso vengo accerchiato da torme di sventurati vestiti di stracci, bambini di strada, vecchi vaganti che ti inseguono a stento per decine di metri, bambine di quattro o cinque anni abbandonate a se stesse fra le auto, ciechi con i loro bambini-guida, donne dall’aria supplice con neonati nel fagotto di stracci, neonati che − ci viene detto − spesso non sono figli loro bensì bambini presi in prestito o in affitto per commuovere il passante. Ovunque mani tese, tutti implorano l’elemosina e la lamentosa litania nelle poche parole inglesi smozzicate è sempre la stessa, monotona e alla fine assordante, esasperante, insopportabile: “Hungry, money, one birr”. Se ti fermi e dai qualcosa, la ressa e la calca possono diventare soffocanti. Per questo, finisci col dire continuamente yellem, non ne ho (è la prima parola che devi imparare: il che fra l’altro spesso è vero perché non sempre si ha moneta in tasca). La miseria e la povertà si presentano anche nel volto della degradazione e dell’abbruttimento. Una cosa che colpisce ad esempio è l’atteggiamento indecoroso di molti mendicanti, sia che si umilino e si prostrino nel chiedere sia che al contrario sbattano violentemente la mano su e giù ad indicare, più che una carità, una richiesta imperiosa e quasi un comando. Perché c’è una dignità anche nel chiedere l’elemosina. Per esempio: da noi un mendicante se ne sta tranquillo aspettando l’elemosina sul sagrato di una chiesa o in una strada. Se gli manca un braccio lo capisci solo dalla manica della giacca penzolante. A me questo pudore sembra dignitoso: è un segno della nostra cultura, condiviso anche da chi ne è ai margini, che sente il bisogno di coprire con un velo la nuda verità delle cose. Forse la civiltà consiste proprio, freudianamente, in questo continuo lavoro di ricoprimento. Qui invece un

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poliomielitico dagli arti rattrappiti lo fa apposta ad andare in giro senza manica e ti corre dietro, e ti implora e senza alcun ritegno ti sbatte sotto il naso il moncherino per indurti a pietà: egli mostra la sua “merce”, la sua fonte di guadagno, ostentandola come una prostituta ostenta le sue grazie all’angolo della strada. Questo, a mio giudizio, è anche peggio del mendicante che per impietosirti ti mostra una manica di giacca penzolante ad indicare un braccio mancante che invece si intravede ben nascosto a gomito. Io, figlio non pentito dell’occidente, rimango sconcertato di fronte al mendicante che ti sbatte il moncherino sotto il naso. Penso con una certa ammirazione al barbone tedesco di Milano che andava a mendicare in centro perché si vergognava di farlo nel quartiere dove tutti lo conoscevano. Penso al laureato in matematica finito male nella vita, e poi morto nel rogo della sua misera tenda, che rifiutava l’elemosina, voltandosi orgogliosamente dall’altra parte. Tutte cose queste che, nella metropoli di Addis Abeba, non sono nemmeno immaginabili. Ricordo, una volta a Milano, di avere chiesto a un indiano da tutti conosciuto nel quartiere, e poi morto di freddo una notte sul selciato, se volesse una sigaretta come a volte chiedeva. Rispose gentilmente di no e con timidezza mormorò a mezza voce che in quel giorno aveva altri problemi: doveva ancora procurarsi i soldi per mangiare. Certo in Etiopia la povertà non comporta di solito i rischi che altrove sono comuni in Africa, ad esempio a Nairobi in Kenya dove le rapine a mano armata sono quotidiane e dove possono tranquillamente tagliarti il dito per prenderti un anello. Ma devo dire che, di fronte a tanta impudicizia, a me comunque è infine venuto il pensiero blasfemo. Ricordando la frase di Jünger (che però era giovane quando l’ha scritta), per cui è meglio essere un delinquente che un borghese, ciò per cui quindi sembrerebbe doversi dedurre che a maggior ragione è meglio essere un delinquente che un paria, mi sono a un certo punto trovato a lottare con il pensiero tutt’altro che stupendo che mi assaliva, e cioè: è più dignitoso mendicare in quel modo indecoroso e umiliante oppure porsi decisamente fuori della legge, rischiare dandosi alla rapina disposti a pagare e pesantemente se presi dalla polizia? Tutti mi hanno però rimproverato e spiegato con molta pazienza come a un bambino che la prima soluzione è decisamente migliore. Nel paese naturalmente non esiste alcuna forma di assistenza sociale, che è parzialmente svolta solo dalle associazioni straniere (cattoliche o Unicef). Dunque chi non ce la fa, e chi è muto, cieco o menomato rimane nel baratro. Ma d’altra parte si capisce anche che il governo non possa avviare un programma di assistenza sociale, perché allora dovrebbe accollarsi la sussistenza della gran parte della popolazione e questo è impensabile. L’assistenza sociale, voglio dire, è un lusso che possono permettersi

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solo i paesi ricchi: un paese ricco (come ha teorizzato il liberale F. von Hayek) può anche permettersi, al di fuori delle regole del libero mercato, di passare un sussidio a una minima percentuale della popolazione se disoccupata, non fosse altro per evitare disordini sociali, ma un paese povero questo non lo può fare. Chiaramente, il governo non accetta questa realtà che deturpa l’immagine del paese e che evidentemente costituisce il rimorso e la cattiva coscienza della classe dirigente. Addis Abeba è una delle più importanti capitali africane, sede dell’Eca (Economic Commission for Africa) che è parte delle Nazioni Unite, ed è frequentemente visitata dai capi di Stato per le cui visite ogni volta si blocca il traffico e si paralizza la città. Donde lo sforzo vano e sempre ripetuto di “ripulire” la città. I mendicanti spariscono come per incanto quando vi è una riunione dell’Eca. Semplicemente, arrivano dei vecchi camion, li caricano tutti e li portano o meglio li riportano nella campagna (qualcuno dice addirittura nella foresta) da cui per lo più provengono. Del resto è vero che la vita di queste persone è più dignitosa nelle loro campagne: viaggiando per l’Etiopia, ci siamo accorti che in generale la povertà del contado (quando non è minacciata da siccità o carestie) è molto più dignitosa di quella dei poveri di Addis Abeba, metropoli evidentemente per molti aspetti “tentacolare” e “corruttrice”. Lo sforzo del governo consiste soprattutto nell’impedire la crescita incontrollata delle baracche nelle vie centrali, quelle che vengono percorse dalle auto blu dei capi di Stato, dei politici, dei diplomatici. In queste grandi vie dove si vogliono solo palazzi, banche, uffici, le bidonvilles sono accuratamente celate alla vista da palizzate e muretti e, recentemente, sono state proibite le costruzioni singole (che sono sempre baracche): da un giorno all’altro arrivano le ruspe che spianano le catapecchie di lamiera, fango e argilla, certamente abusive ma sola alternativa alla strada per i tanti poveracci che magari vi vivevano da trent’anni e che vengono mandati via senza tanti complimenti con 50 birr in mano (circa 3 euro). Nessuno osa chiedere l’elemosina a un bianco, a un ferengj (il termine deriva dalla parola al franj con cui gli arabi designavano i crociati “franchi”) se nei pressi vi sono dei poliziotti: essi allontanano immediatamente, anche in malo modo, chiunque chieda l’elemosina. L’uniformità dell’atteggiamento dei poliziotti naturalmente si spiega solo con direttive e ordini da eseguire, e si capisce. Se il governo ordina ai poliziotti di impedire ai mendicanti di avvicinarsi agli stranieri, è perché si vergogna di loro: si vergogna che l’immagine della capitale sia deturpata dai numerosissimi mendicanti ma si direbbe che si vergogna non tanto della diffusa povertà, che è male atavico ed endemico difficile da sconfiggere in tempi brevi, bensì proprio si vergogna per loro, di loro,

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del loro atteggiamento troppo spesso servile e privo di dignità. Ma, forse, il governo si vergogna anche della sua incapacità (o impossibilità) di migliorare le condizioni del suo popolo. Tuttavia un amico etiope ci assicura che, certo, «in Ethiopia people are poor» ma che nessuno ad Addis Abeba muore di fame (di fame si muore davvero quando nelle campagne subentra la carestia): ad esempio i ristoranti spartiscono equamente i loro avanzi fra i gatti e i poveri, e in qualche modo anche il povero riesce a mangiare. La Clup Guide dell’Etiopia dice addirittura che in realtà i mendicanti elemosinando triplicano un povero salario normale. Un livello di accattonaggio di tipo diverso è quello dei ragazzi o degli adulti che, quando scendi dalla macchina, si mettono a guardarla come custodi: anche se tu in realtà non hai bisogno di nessuna custodia perché sei a due passi e stai solo salutando una persona, almeno qui si vede, anche se per un “servizio” non richiesto, l’idea embrionale del dare qualcosa in cambio del birr. Un ulteriore livello di accattonaggio, che indubbiamente richiede faccia tosta e notevoli capacità istrioniche, al punto da divenire una sorta di arte truffaldina, è visibile nella quantità di persone che con fare gentile ed educato ti raccontano storie strappalacrime e sentimentali, chirurgicamente e spietatamente lavorando sulla tua parte molle per strapparti non un birr ma qualcosa di più, diciamo 60 o 80 o 200 birr, ciò che richiede un po’ più di fatica ed abilità al questuante. Uno ti ferma davanti alla chiesa italiana e ti racconta: è nato ad Asmara, ha perso la madre da bambino, è venuto in Etiopia, ha trovato un lavoro e si è sposato, la moglie è morta, lui ha perso tutti i suoi guadagni nel vano tentativo di curarla, poi − colmo di sfortuna − ha perso il lavoro, così si trova con un figlio da mantenere (mostra la foto di un bambino che a dire il vero non gli somiglia molto); ora ha trovato un buon lavoro come autista a Jimma, ma non ha un baiocco per andare a Jimma, così è venuto in chiesa per cercare don Angelo che non avrebbe avuto nessun problema nel prestargli 200 birr o anche più ma, maledetta sfortuna, don Angelo oggi non c’è e lui non sa cosa fare, quindi segue l’immancabile conclusione: mi vanno bene anche solo 60 birr, puoi prestarmeli? Tutti sanno che per un etiope basta mettersi fuori Addis sulla strada per Jimma per farsi portare anche gratuitamente da un camionista. Un altro, in una zona del centro, si presenta: viene da Axum, si trova qui non si capisce bene per cosa, è rimasto senza soldi perché non ha modo di ritirarli dalla sua banca di Axum, cosa che però potrà fare non appena tornato ad Axum: puoi prestarmi 100 birr, appena ad Axum te li invio? Un altro ancora ti ferma e dice che fa il pittore, parla dell’obelisco di Axum e delle chiese di Lalibela, per favore puoi prestarmi 60 birr per comprare l’olio per dipingere? I pittori li conosciamo, perché io sono ap-

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passionato di pittura: i pittori ad Addis frequentano la scuola d’arte, fanno le mostre, hanno lo studio e, relativamente ai prezzi locali, si fanno pagare decisamente bene dai bianchi che costituiscono la maggioranza dei loro clienti; chi ha il problema di sopravvivere certamente non fa il pittore; non ci sono ad Addis pittori poveri di strada, o se sì quello sarà l’unico caso. Un tizio elegantemente vestito un giorno si sbraccia al semaforo nel salutarmi e prima che io faccia in tempo a reagire mi balza in auto (avendo io quella volta stranamente dimenticato di azionare la chiusura interna) e, sempre chiedendomi come sto, come vanno i miei amici e il mio lavoro come se mi conoscesse da anni, comincia la scenetta: ha messo in piedi una squadra di calcio nel quartiere dove sempre mi vede passare e tutti contribuiscono, ecco, guarda qui, ti do la ricevuta tu mi devi dare 200 birr, sarai invitato a tutte le partite. Infine c’è il “raggiro della sirena”: una persona educata, ben vestita e gentile, di solito una ragazzina, ti ferma per strada e in un buon inglese ti chiede (come spesso peraltro avviene qui, anche senza secondi fini) come stai, da quando tempo sei qui, se ti trovi bene in Etiopia, da dove vieni e quanto tempo ti fermi: poi ti invita a conoscere la madre qui dietro, e se tu vai (a quanto ci dicono) da dietro la tenda compare sorridente anche il padre e lo zio e il fratello e il nonno e tutti ti fanno festa, ti fanno bere, ti mostrano la fotografia della sorella maggiore in Canada, quindi ti invitano a pranzo, fanno magari una danza, e se tu fai per andartene ti trattengono gentilmente per il braccio, quindi dopo un paio d’ore pretendono una cifra spropositata per lo spettacolino con cena manco tu fossi andato al night club pasteggiando a tartufo ostriche e champagne con una fotomodella ungherese. Insomma, il tentativo di spillar soldi al bianco è continuo e non si deve mai abbassare la guardia: anche le guide avvisano gli incauti e gli ingenui di stare attenti a questi reiterati tentativi di ottenere denaro. L’avidità di denaro in chi non ne ha o non ne ha abbastanza determina sovente nelle persone un modo obliquo, non franco e sincero. A un taxista, con cui pur hai dovuto contrattare il prezzo della corsa perché naturalmente ti chiedono prezzi che non chiederebbero a un etiope, devi sempre cercare di dare esattamente la cifra richiesta perché altrimenti lui facilmente ti dirà di non avere moneta e non ti darà il resto. Perfino i sacerdoti, che nelle chiese ortodosse raccolgono il prezzo dell’ingresso, fanno lo stesso: le guide consigliano di dare loro sempre i soldi contati. Nei tanti negozietti di artigianato, che poi sono i baracchini di cui si è detto, tu non puoi entrare liberamente, guardarti intorno e scegliere cosa comprare o cosa non comprare. Non fai in tempo a scendere dall’auto che ti corrono dietro, e ti fanno entrare quasi a forza, e poi ti offrono con insistenza mille cose inutili. Certo contrattare può a volte essere

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una forma di comunicazione anche in certo senso divertente, e rientra nel costume locale, ma a volte diventa faticoso e stressante. A volte vorresti semplicemente la franchezza e la precisione nei prezzi che non sono mai scritti, spesso nemmeno nei supermercati all’occidentale. Sei visto come il ricco, come la persona da trattare con ossequio ma anche da circuire. Esiste proprio uno sfruttamento intensivo e massiccio cui è sottoposto il bianco ovunque vada, e che può diventare serio nei casi di emergenza (a noi è capitato quando ci siamo trovati con l’auto in panne o col generatore rotto). Questo sfruttamento è financo legalizzato: infatti ovunque, non solo in modo ufficioso nelle contrattazioni e nei botteghini ma anche in modo ufficiale come nei musei e negli alberghi, i bianchi pagano i prodotti e i servizi molto più dei locali. Invano hanno tentato di convincermi che non si tratta di razzismo verso l’uomo bianco, ma soltanto del fatto che i locali non potrebbero mai permettersi certi prezzi. Poi, certo, vi sono i casi più credibili: una donna che mendica vicino casa e a cui sempre diamo qualcosa ci corre dietro, ci mostra una lettera scritta (certo non da lei) in inglese, ci mostra l’immancabile foto del bambino, e in amarico ci dice: se non paga 80 birr di affitto per la casa dovrà andarsene per la strada, possiamo darle 80 birr? Noi glieli diamo, però poi le sue richieste aumentano sempre più, per le cure all’occhio, per la scuola della figlia etc. O ancora, pochi giorni prima della nostra partenza definitiva dall’Etiopia: una donna vicina di casa viene alla porta, e in lacrime ci mostra il corpo piagato e ci dice: devo andare in ospedale, vi supplico datemi 400 birr, vi porto la ricevuta. O ancora: un mendicante a cui diamo del pane o una camicia ti ringrazia, ti benedice, invoca Dio per te e ti bacia le mani, in modo veramente imbarazzante anche perché quel pane non consumato non era stato comprato apposta per lui e quella camicia da tempo non era più usata. Comunque, devo dire che una cosa mi ha colpito: il fatto che la gente, anche se spesso truffaldina nel contatto con noi bianchi, è mite, gentile. Pur essendo questo un paese di grande povertà, a differenza di altri paesi africani qui non vi è sostanzialmente criminalità, tranne che nelle lontane zone di confine dove il governo non arriva. Certo, è bene stare attenti al portafogli, bisogna badare ai taxisti che cercano di alzarti troppo il prezzo, ai venditori truffaldini, bisogna evitare di camminare a piedi e da soli di notte in alcune zone (due nostri colleghi sono stati malmenati e derubati, e uno di essi stretto alla gola ha perso parte delle capacità vocali). Ma, a parte questi episodi che possono sicuramente capitare anche a Milano o a Roma, nonostante la sua povertà questo sembra un popolo fondamentalmente onesto e la cosa, oltre che alla massiccia presenza della polizia, è probabilmente anche dovuta, credo, ad un sincero senso religioso.

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Poi, ci sono i bambini. Qui i legami familiari sono piuttosto deboli, e i bambini vengono spesso trascurati. Ho sentito qui la battuta acida di un sacerdote salesiano, secondo la quale in Etiopia i bambini non vengono partoriti come altrove: qui escono prima non con la testa ma con le mani, già pronti a chiedere. Qui i bambini portano la mano allo stomaco, la roteano sulla pancia, poi la portano alla bocca col gesto del mangiare e, mimando da perfetti attori un volto afflitto e disperato, dicono supplichevoli “Hungry, money, one birr”. Ma in realtà dopo un po’ capisci la storia, cioè capisci che in realtà sono dei perfetti attori. Infatti essi non sanno che noi li osserviamo, da loro non visti, prima e dopo la scenetta: e immediatamente prima, prima cioè che ti vedano, sono fermi all’incrocio della strada del tutto normali e magari per nulla afflitti ridono e scherzano con altri bambini, e ancora tornano assolutamente normali un attimo dopo a prescindere che tu abbia loro dato o non dato il birr richiesto. Quando, alle loro lamentele volte a impietosire, ai loro accorati “hungry, hungry”, tu mostri che non te la danno a bere e fai loro capire che non te la contano del tutto giusta e che stanno sicuramente esagerando, allora loro per primi, smascherati, si mettono a ridere e se ne vanno salutandoti. Quando domandi loro come si chiamano o dai loro delle caramelle, essi ti ringraziano e a volte ti sorridono e allora puoi vedere la simpatia dietro questo atteggiamento truffaldino e in questo quadro di degrado. Un bambino a cui avevamo detto “Tomorrow” per togliercelo, perché in quel momento non avevamo caramelle a portata di mano, ci ha sorriso ed ha alzato il pollice in segno di intesa dicendo “Ok, tomorrow, next time”, andandosene. Lo stesso bambino torna all’attacco il giorno dopo con incerto inglese: “Yesterday you say [sic] tomorrow”. Ci guardiamo intorno, colti dal panico: ci sono infatti decine di altri bambini che ti guardano famelici pronti a circondarti e ad assediarti: se dai una caramella ad uno è la fine. Riusciamo comunque a lasciare, quasi a gettare loro, un po’ di caramelle e poi letteralmente scappiamo. Ci è perfino capitato di vedere un bambino fare la scenetta in modo assolutamente convincente lamentando la sua fame che poi, non ricevendo l’obolo e volendo comunque ricavarne qualcosa, tira fuori dal giubbotto una grande torta, evidentemente regalatagli da un turista impietosito, cercando di rifilarcela per dieci birr: un aspirante attore potrebbe venire a scuola da questi piccoli furbastri. Dunque questa loro nenia perennemente ripetuta (“Hungry, money, one birr”) è in non piccola misura un gioco. Questi bambini per primi giocano e scherzano sul drammatico problema della fame, ma è un gioco a cui il bianco straniero non dovrebbe indulgere, anche se qualche volta fatalmente si finisce per farlo: perché siamo proprio noi a corromperli con le nostre elargizioni, siamo noi ad incitarli a rimanere sulla strada aspettando che

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dalle nostre tasche cadano distrattamente i birr. Anche le guide scrivono di non dar loro del denaro e piuttosto consigliano di rivolgersi per le donazioni alle apposite organizzazioni, laiche o religiose (dicono anche di comprare eventualmente gli appositi buoni-pasto da dare ai bambini di strada, che però essi rifiutano). Noi abbiamo conosciuto delle italiane buoniste e terzomondiste che addirittura andavano in giro con i birr sempre pronti sul cruscotto dell’auto per elargirli ai bambini ma questo, pur stante il principio che ognuno dei suoi soldi fa quello che vuole, ci sembra profondamente sbagliato. Non sono loro i veri bisognosi, i veri affamati, i veri bambini di strada. Chi lavora all’Unicef impegnato in opere di ricostruzione, chi lavora davvero con i bambini di strada non fa così, e i locali tutti, per primi infastiditi da questo modo di fare, rimproverano questi bambini e ci consigliano di non dare loro elemosine, in quanto è diseducativo anzitutto perché con ciò li inviti a stare per la strada anziché andare a scuola: come ci spiegano i taxisti e altri del luogo, questi bambini dicendosi affamati spillano i birr agli stranieri solo per poi comprarsi le sigarette o la birra o magari per umiliare la sera il padre che in un giorno avrà faticato per guadagnare quei dieci birr che loro hanno in tasca semplicemente bighellonando per strada. Altri però dicono che almeno alcuni di questi bambini i soldi li portano in casa, e che anzi sono mandati dai genitori a mendicare. Comunque a volte i bambini, per quanto spesso assillanti, finiscono per suscitare simpatia anche in chi, come me, è poco incline alle smancerie. In una chiesa in un povero villaggio, in cui ci siamo trovati durante una funzione, i tanti bambini presenti non ti staccavano gli occhi di dosso un momento, ti venivano incontro e alla fine capivi che quello che volevano non erano né le caramelle né i birr: volevano semplicemente essere presi per mano, volevano un contatto, un sorriso, una parola, qualcosa che evidentemente essi, abbandonati a se stessi con i genitori impegnati nella dura lotta per la vita, non hanno mai avuto. Dal loro sguardo, sembrava perfino di capire che quello che desideravano è trovare una famiglia e andare via da quella realtà: mentre uno di essi reclinava il capo sul tuo braccio, come fulguratio all’improvviso mi è venuta in mente la scena evangelica dell’apostolo Giovanni che nell’Ultima Cena reclina il capo sul petto del Cristo, e anche, se sono leciti questi paragoni, la gattina randagia Chips che miagolando si aggira intorno a casa e non soltanto aspetta il cibo ma cerca in tutti i modi di entrarvi, cosicché te la trovi di notte entrata da uno spiraglio aperto che struscia e fa le fusa vicino al letto: i gatti etiopi sembrano diversi dai gatti di tutto il mondo, notoriamente piuttosto autosufficienti e indipendenti. In Etiopia sembra quasi che molti, troppi vogliano essere adottati, i gattini come i bambini. Da noi invece si discute di fecondazio-

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ne artificiale e di banca del seme. In un villaggio un bambino di quattro o cinque anni mi viene incontro e mi tende la mano. Cosa dovevo fare, rifiutargliela? Io cercavo una chiesa che volevo visitare e me lo sono portato dietro così, mano nella mano e un poco imbarazzato: alla fine, sono ritornato al taxi e ho dovuto dirgli che proprio me ne dovevo andare. Anche qui, mi è piombata addosso una folgorazione con il riemergere di un antico ricordo: ero bambino, mio padre mi aveva portato in campagna nella casa della nonna per le vacanze estive, e quando la sua grande auto nera (almeno io nella mia immaginazione me la ricordo grande grande, enorme, e nera, nera come la morte) riparte mi prende il panico, l’ansia, l’angoscia e gli corro dietro disperatamente, e lui si ferma e mi viene incontro dicendomi di non temere, che non mi abbandona. Benché non fossi suo padre, quel bambino temeva di essere abbandonato. Una volta, lungo la grande arteria della Churchill Road, una bambina di non più di quattro anni ci segue a piedi a rispettosa distanza per almeno un chilometro, con noi seriamente preoccupati perché le auto sfrecciano veloci sfiorandola. Un bambino, sulla Bole Road, ci segue cantando in un incerto miscuglio di francese ed inglese una malinconica canzoncina che finisce invariabilmente con il lamentevole ritornello che dice: «please, aidez-moi». Una sera, all’uscita da un ristorante ad Addis Abeba, una bambina per strada piange da sola vicino a una pozzanghera. Ci fermiamo perplessi, lei ha un attimo di esitazione, ci guarda e poi ci corre incontro come un cagnolino abbracciandoci. Non abbiamo capito cosa ci dicesse in amarico fra le lacrime. Ora non vorrei cadere nel melenso e nel dolciastro, non vorrei riscrivere con minor arte i racconti di Victor Hugo sui derelitti delle periferie di Parigi nell’Ottocento, magari ritrovando ad Addis Abeba (non sarebbe impossibile) il gobbo di Nôtre Dame, e dunque qui mi fermo. Tuttavia una certa situazione va denunciata, e si tratta proprio dell’adozione: infatti esiste in Etiopia, come ovunque nel terzo mondo, un sistema ben oliato dell’adozione che fa leva e lucra da un lato su questa realtà di degrado e dall’altro sul desiderio insoddisfatto di paternità e di maternità dell’occidentale che adotta e che non sa rassegnarsi e a tutti i costi vuole quel bambino che la natura gli ha negato. Abbiamo visto sugli aerei questi neopadri e neomadri adottanti con i loro nuovi pargoli e abbiamo conosciuto persone adottanti: in particolare una coppia di nostri amici che ha adottato un bimbo in Etiopia ci ha narrato del pesante sfruttamento cui sono stati sottoposti dall’industria dell’adozione minorile, per cui adottare un bimbo in Etiopia e così toglierlo dalla miseria costa oltre 20.000 euro comprese le spese strapagate di permanenza, spesso di molto allungata con la scusa che il bambino si deve acclimatare ai nuovi genitori dapprima nella sua terra e dunque non

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può essere portato via troppo presto, tranne poi vedere dimenticate queste nobili preoccupazioni ed essere rimpatriati prima del previsto stante la necessità di far posto a nuove coppie paganti in arrivo. Tutto ciò senza considerare la cosa più grave, perché in Etiopia un bambino può avere perso i genitori ma avrà sempre qualche parente che in qualche modo si occupa di lui e dunque ci si domanda come avviene che questo bambino possa essere strappato al suo alveo naturale, che pur povero e misero quanto si vuole è il suo ambiente, per essere portato via dalla sua terra e essere dato in adozione a occidentali provenienti da un altro continente: in particolare quando avviene che un bambino adottato non è del tutto orfano e viene ceduto in adozione dalla sua madre naturale perché “ne ha troppi altri”, ci si domanda se forse non l’abbia convinta a questo passo la promessa di una percentuale (piccola ma per lei significativa) dei lauti guadagni delle associazioni etiopiche che lucrano sulle adozioni; queste associazioni del resto, come ci risulta, per semplificare le pratiche che sono più difficili per un’adozione tardiva, possono falsificare l’età del bimbo spacciando un bimbo di 7/8 anni per uno di 5 (“quando verranno i signori che ti daranno tante belle cose tu devi dire che hai 5 anni, altrimenti non andrai con loro!”), ciò da cui conseguono tutti i prevedibili problemi degli adottanti che, quando capiscono la cosa, dovranno cercare di determinare l’età reale del bimbo per sapere almeno in che scuola inviarlo. E ancora, lascia perplessi sapere di questi bambini etiopi adottati che, portati via dalle loro capanne e trasferiti in un confortevole appartamentino medio borghese in un paese occidentale, dimenticano la loro lingua o meglio vogliono dimenticarla e la disprezzano perfino e, come ci è stato riferito, si vergognano di avere la pelle scura e vorrebbero essere in tutto e per tutto soltanto dei bianchi, e ancora ci si domanda quanto veramente si affezionino ai genitori adottivi e quanto più prosaicamente percepiscano e godano gli indiscutibili vantaggi pratici della loro nuova situazione. Piuttosto, più che con le adozioni che sradicano un bambino dal proprio contesto per soddisfare insoddisfatti desideri di maternità e paternità degli occidentali, un lavoro più proficuo è quello fatto “in sede” dai salesiani che in Etiopia hanno vari istituti. Noi conosciamo in particolare i salesiani di Addis Abeba, dove don Dino, un sacerdote piuttosto particolare proveniente dalla Valtellina che ricorda i comizi di Capanna nel ‘68 e ha fatto una tesi di laurea su Nietzsche, con grande energia e volontà ha messo in piedi con i suoi collaboratori dei centri di recupero, di ricovero e di formazione per i ragazzi di strada. Questi salesiani si muovono sulle orme del fondatore dell’Ordine, quel san Giovanni Bosco che a suo tempo compì un’opera veramente sovversiva strappando, in Piemonte e

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in un’Italia ancora povera e arretrata, i ragazzi di strada dall’abbandono, dalla degradazione, dalla criminalità nonché dallo sfruttamento intensivo tipico del capitalismo ottocentesco (fino a 16 ore di lavoro giornaliero per paghe miserabili), dando loro un tetto, un letto, del cibo, un’istruzione ed un lavoro. Così fa don Dino e i salesiani e i loro coadiuvanti volontari: essi escono la sera, vanno a cercare questi ragazzi spesso nemmeno sfruttati come agli albori del capitalismo ma semplicemente abbandonati a se stessi, prendono contatto con loro, li raccolgono previo accertamento di un minimo di disponibilità, li istradano, li guidano con disciplina (anche severa), danno loro appunto un tetto, un letto, del nutrimento, un’istruzione, un lavoro. Anch’essi tolgono i bambini dalla strada se non anche dallo sfruttamento minorile: quanti piccoli servitori abbiamo visto per l’Etiopia, pagati un nonnulla o solo con una ciotola di verdura! Ma anche qui la cosa ha il suo rovescio: questi ragazzi pasoliniani di strada, strafottenti e ribelli, sono destinati a diventare dei lavoratori onesti e disciplinati e buoni padri di famiglia, e possibilmente (pur senza obbligo alcuno) buoni cattolici. Volendo essere un po’ maligni, si potrebbe dire che i salesiani tolgono questi ragazzi dallo sfruttamento per farli a loro volta lavorare: infatti negli istituti salesiani in Etiopia i ragazzi − in cambio del tetto, del letto, del nutrimento, dell’istruzione − lavorano (certo in condizioni umane), e lavorando mentre imparano un mestiere forniscono al contempo il sostentamento alla comunità: corre così voce che − fra gli ordini religiosi − i gesuiti siano i più intelligenti, i domenicani i più ortodossi, i francescani i più sinistrorsi e i salesiani... i più ricchi (anche se non mi sembra che usino il denaro a fini personali). Devo dire infatti che, pur essendo Addis Abeba piena di ragazzi senza un braccio, non ricordo di averne visti in questi istituti di Addis Abeba: forse perché non possono garantire adeguata produttività? Anche qui inoltre può ravvisarsi un certo sradicamento dalla propria storia, seppur non così grave come per i bambini portati via che abbandonano tutto e cambiano continente: quando infatti don Dino mi racconta di aver portato un ex ragazzo di strada − ormai istruito e con un mestiere in mano − di fronte alla porta della misera casa dei suoi genitori, chiedendogli se voleva restare con lui o tornare dai suoi, ebbene era troppo scontata la risposta − anzi la supplica − del ragazzo di non voler assolutamente riprendere quella vita di povertà e miseria. Il governo etiopico, che pur cercando di diffondere il più possibile l’istruzione obbligatoria sa benissimo in realtà di non poter fare molto per questa parte sventurata della popolazione, oltretutto costituente un potenziale serbatorio di eversione e criminalità, acconsente alla cosa e concede ai salesiani le terre necessarie alle loro tenute e fondazioni.

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Certo si capisce molto della povertà stando qui. La povertà, propria di gran parte del mondo, sembra anzitutto connessa all’inclemenza del suolo e del cielo. Si sbaglia di molto se si pensa alla Terra come ad una felice madre e nutrice ricca di doni per i suoi figli. Il pianeta Terra è in realtà in gran parte inospitale e i quattro quinti del mondo sono totalmente poveri. La prosperità di cui gode il mondo occidentale, qui appannaggio solo di pochi, costituisce l’eccezione. La povertà, e qui lo si vede e lo si tocca con mano, è la condizione normale e naturale dell’uomo. L’uomo, in fondo di per sé naturalmente indolente, si trova gettato in un mondo ostile e arido che certo non è edenico, e anzitutto per questo è povero. In Etiopia in particolare la felice zona centrale degli altipiani è circondata da torridi bassipiani aridi e inospitali, zone paludose e acquitrinose, fortemente malariche e con scarse precipitazioni, culminanti nei territori desertici dell’Ogaden e della Dancalia. Gravissimo è il problema dell’acqua: come in molte parti dell’Africa, l’acqua − ad eccezione di alcune isole felici − è rara perché i fiumi sono spesso essiccati, cosicché il pericolo della siccità periodicamente ricorrente costituisce un problema drammatico. Vediamo così che in Etiopia (ove pur si produce una discreta acqua minerale) in molte città e paesi (anche nella capitale) per varie ore e anche giorni, oltre a mancare molto spesso la corrente elettrica e dunque la luce (noi infine ci siamo provvisti di un generatore autonomo), manca anche l’acqua, che oltretutto richiede anche nelle case l’applicazione di particolari filtri di depurazione che non tutti possono permettersi (noi abbiamo sempre le taniche piene in caso di mancanza d’acqua, nonché una apposita cisterna). Il rifornimento idrico è del tutto insufficiente e spesso per l’Etiopia si vedono autobotti portare la preziosa acqua ai villaggi più sperduti che ne sono privi; si vedono bambine raccogliere dalle pozzanghere l’acqua melmosa e infetta, che evidentemente sarà poi filtrata alla meglio e portata ad ebollizione senza che però possa evitare il flagello del tracoma; si vedono popolazioni come i Borana che traggono l’acqua (sempre più scarsa) da secolari pozzi scavati faticosamente dai loro avi. In tutta l’Africa del resto la scarsità d’acqua, e il forzato uso di acque impure e contaminate, sono la causa di gravi malattie fino alle esplosioni di colera. Va poi aggiunto che in Etiopia c’è anche una scarsa propensione allo sfruttamento dei beni naturali. Perché l’Etiopia, se pur non tutta, è in realtà ricca di beni della terra. Qui lo si vede bene. Vi sono le zone malariche esposte alla siccità e vi è carenza d’acqua, però una parte non piccola del suolo etiopico è fertilissima e per questo faceva gola ai colonialisti italiani. Le fertili zone degli altipiani e del tavolato centrale la cui altezza varia fra i 2000 e i 2600 metri, dalla costante temperatura mite, fresca e primaverile,

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sono ampiamente boscose e ricche di foreste, oltretutto immuni dalla malaria perché le zanzare che ne sono le portatrici non vivono a queste altezze. Queste zone sono ampiamente irrorate e fertilizzate nella stagione delle piccole piogge fra marzo e aprile e dalle grandi piogge fra giugno e settembre, che consentono lo sviluppo di una flora e di una fauna ricchissima con un patrimonio zootecnico invidiabile: viaggiando per l’Etiopia si possono vedere lungo distese sterminate numerosissimi animali utili all’uomo (cavalli, mucche, tori, agnelli, pecore, asini, muli, galline), e chiunque può confermare che una pianta di grano o di teff (il cereale etiopico) produce senza difficoltà ben tre pannocchie, senza contare le enormi quantità di banane che basta raccogliere, la grande quantità di caffè e perfino alcuni giacimenti auriferi; non a caso le molte popolazioni abissine per millenni si sono sempre ferocemente contese il possesso degli altipiani, e non a caso le principali città (la stessa Addis Abeba e poi Gonder e, in Eritrea, Asmara) sono state edificate sugli altipiani; anche grandi fiumi come il Nilo Azzurro, che nasce dal Lago Tana e poi confluisce nel Nilo Bianco in Sudan, costituiscono dei fertilizzanti naturali. Il problema è però che nessuno sa sfruttare questi beni della terra. Naturalmente abbiamo anche visto a tratti una vita operosa nelle campagne, con persone che raccolgono il grano, portano la legna, fanno il mercato, e parimenti abbiamo visto che il governo “mette sotto” questa gente facendola lavorare anche la domenica e anche la sera tardi per costruire le strade: Addis Abeba sembra una città piuttosto attiva, con grande traffico di gente che va e torna dal lavoro, e nell’Etiopia abbiamo visto i Borana lavorare ai pozzi, gli Afar raccogliere e commerciare il sale, i Konso praticare l’agricoltura su scarsi declivi. Tuttavia è indubbio che, anche senza considerare i poveri e i mendicanti, molti siano gli sfaccendati per le strade sia nella capitale che altrove: in particolare l’esterno delle chiese è spesso un ritrovo di grandi masse che, più che pregare, stanno lì per ore o addirittura per quasi tutta la giornata. Né di ciò v’è da stupirsi: dietro gli etiopi attuali sta pur sempre la mentalità delle popolazioni tradizionali che (a differenza dei moderni schiavi delle società industrializzate che lavorano moltissimo per soddisfare bisogni spesso artificiali e consumisticamente indotti) non amano lavorare troppo, prediligono l’ozio, e non vedono perché dovrebbero arricchirsi con tanto sudore della fronte quando a volte basta fare lo stretto necessario e indispensabile per vivere e accontentarsi di poco. C’è una parola in amarico che qui tutti usano: chigar yellem, che significa “non c’è problema” perché si intende che le cose − anche quelle che appaiono tutt’altro che positive − vanno sempre sdrammatizzate. Particolarmente debilitante sembra a questo proposito l’uso massiccio e diffuso del chat, un’erba dalle proprietà stimolanti, una blanda droga dal sa-

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pore amaro fatta di foglie che si masticano, un tempo usata anche dagli asceti per giungere a stati estatici. La consuetudine alle interminabili sedute collettive, rigorosamente riservate agli uomini, in cui il vegetale è consumato, soprattutto nelle ore post-prandiali e pomeridiane fino a sera, ove per ore e ore ci si perde nei propri pensieri, certamente non favorisce l’attività e, passata la momentanea euforia e il senso comunitario, produce poi stanchezza e spossatezza in una sorta di anestesia generale paragonabile a quella prodotta dalle foglie di coca andine. In Etiopia e nello Yemen esistono potenti lobby preposte alla vendita del chat, che spesso prende una parte considerevole del magrissimo budget familiare. A suo tempo il governo comunista yemenita del sud aveva rigorosamente proibito l’uso del chat e anche il governo nord yemenita tentò di stroncarne il commercio, ma il solo risultato fu di rinvigorirne il contrabbando e il mercato nero che ne rialzava il prezzo fino anche a dieci volte, con gravi ricadute su una popolazione già di per sé povera. Dal canto loro le leggi etiopiche, severissime altrove e capaci di chiudere come immorale un night club ad Addis Abeba per un seno nudo, non proibiscono affatto il chat. D’altra parte, sembra impossibile proibirlo veramente. La coltivazione del chat probabilmente non è inferiore a quella del caffé: tassisti e camionisti dicono di averne bisogno per mantenersi svegli durante le lunghe ore di guida, e tutti gli altri semplicemente lo trovano buono. Il fatto è che il chat, in questi paesi fra i più poveri al mondo, ha il grande vantaggio di non far sentire i morsi della fame, sebbene naturalmente ciò aggravi la malnutrizione rendendo quasi insensibili al cibo. Per questo ogni velleità proibizionistica risulta non solo vana ma anche controproducente, e così noi abbiamo visto, soprattutto nello Yemen, bancarelle di vendita di chat prese d’assalto dalla folla e persino folle radunate all’aereoporto di Dijbouti in spasmodica attesa dello scarico della merce per esse preziosissima. Del resto l’uso massiccio del chat, per il suo effetto debilitante, è anche un deterrente sociale contro possibili ribellioni.1 La cosa insopportabile è che, nei villaggi fuori delle città e cioè nella gran parte del paese, sembrano lavorare solo le donne: le vedi, anche giovanissime o ormai anziane, arrancare per le salite portando come muli enormi fascine di legna più grandi di loro. Esse macinano il frumento, preparano il pane dell’injera, vanno a raccogliere l’acqua e la legna anche molti chilometri lontano. Un uomo in Etiopia non si caricherebbe mai la le1

Vedi E.Hansen, Motoring with Mohammed, 1991, tr. it. In viaggio con Mohammed, Milano 1993, Feltrinelli: l’autore, desideroso di lasciarsi andare nella corrente della vita yemenita, indulge alquanto alle lunghe sedute di chat. Ben più critico invece Ali Moussa Iye, Sa majesté le khât, in A.A.V.V., Corne de l’Afrique, “Autrement”, Janvier 1987.

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gna sulle spalle, non andrebbe mai a raccogliere l’acqua, perché lo riterrebbe indecoroso e umiliante per la sua dignità virile. Mi è tornata in mente, al riguardo, l’impressione indelebile di un mio viaggio in Turchia: vedevo le donne arrancare cariche come somari e dietro, a pochi passi, l’uomo di casa che pigramente e fieramente incedeva a cavallo con la frusta in mano non sai se per il cavallo o per la donna o per entrambi. Nonostante in Etiopia esista il divorzio, la libertà sessuale e una certa indipendenza femminile, è sufficiente andare nelle campagne per constatare che le donne sono in realtà come degli attrezzi da lavoro, anche se poi l’antropologo Levy-Bruhl spiega il lavoro quasi esclusivamente femminile nei campi nelle società arcaiche come dovuto non ad una semplice prevaricazione maschile bensì ad una sentita connessione fra la fecondità della donna e quella dei campi per cui il lavoro femminile nei campi ne favorirebbe la fecondità in maniera superiore al lavoro maschile2. Certo il mito esotico della Venere nera, il mito dell’odalisca orientale, o anche il mito della “faccetta nera, bella abissina” che attirò tanti italiani in Africa, per chi sappia vedere si sgretola quando si viene qui: in occidente si veicolano le immagini patinate delle splendide e strapagate mulatte o modelle nere, tipo Naomi Campbell o in passato Donyale Luna, ma in realtà qui le donne appaiono in gran parte precocemente invecchiate. Certo questo non vale per le giovani ragazze di Addis Abeba: esse (quando non risultano un po’ eccessive con tutti i loro pesanti braccialetti, le cinture borchiate, i vestiti attillati che sembrano scoppiare, il fare spesso ammiccante nei confronti dello straniero), quando sono belle lo sono veramente come in genere le ragazze etiopi, per la regolarità e finezza dei tratti del volto, per la figura snella e l’incedere elegante, per le elaborate acconciature dei capelli. Ma questo appagamento dell’occhio non può occultare la dura realtà della condizione femminile in Etiopia. Levi-Strauss ha distinto le “società fredde”, più statiche e immobili, dalle più dinamiche “società calde” occidentali, che noi ormai vediamo sempre più prese dal mito della crescita economica e dello sviluppo tecnologico illimitato anche a costo della distruzione ecologica del pianeta. L’antropologo in fuga dall’occidente sembrava quasi preferire il primo tipo di società, ma rimane indubbio che il benessere occidentale sia il frutto di un maggior dinamismo, mentre qui una certa fatalistica rassegnazione è piuttosto comune. Per questo bisognerebbe smetterla di dire che il terzo mondo è affamato dall’occidente crasso e opulento. Spesso la situazione africana è drammatica per gli insanabili conflitti interni, e dovrebbe cessa2

L. Levy-Bruhl, La mentalité primitive, 1922, tr. it. La mentalità primitiva, Torino 1966, Einaudi, pp. 307-311.

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re in occidente quel diffuso senso di colpa e di autodenigrazione, accompagnato oltretutto da una sopravvalutazione del proprio ruolo del mondo, per il quale noi e soltanto noi occidentali saremmo i responsabili dei mali africani e di tutti i mali del mondo. La loro povertà non è colpa nostra. Non sono le fabbriche di Coca Cola o della Nike ad affamare questa gente: qui il capitalismo non arriva nemmeno, e forse sarebbe un bene se vi arrivasse un po’ di più (solo un po’). Bisognerebbe smettere di parlare della globalizzazione in termini demoniaci, come fanno i politically correct. Certo, i magnati che in Sud Africa mandano nelle miniere i bambini in cambio di pochi centesimi a cercare le pietre preziose, dove se non moriranno soffocati in caso di crollo moriranno per le esalazioni e le intossicazioni polmonari, i coltivatori americani che nel terzo mondo riducono praticamente in schiavitù i bambini per farli lavorare, meriterebbero decenni di carcere. Però i “no global” generalizzano in modo indebito: non c’è niente di male se un imprenditore intelligente impianta una industria in un paese del terzo mondo, abbattendo per sé i costi di produzione ma al contempo dando lavoro e pagando la manodopera secondo il corretto salario locale; se la Fiat fa costruire le auto in Polonia pagando la manodopera secondo un salario anche più alto del normale locale, così riducendo i costi per sé e al contempo dando lavoro in un paese povero, in questo in sé non vi è nulla di male (se non fosse per il lavoro tolto in Italia). Se poi un imprenditore occidentale (o anche non occidentale) tiranneggia e spadroneggia e schiavizza la manodopera locale, come in certi paesi del mondo sicuramente può accadere, la colpa è anzitutto dei governi locali corrotti e inefficienti che gli consentono questo, ma queste situazioni non sono generalizzabili. Infine, una parola sulla schiavitù. L’Etiopia è stata per due millenni un centro importantissimo del mercato internazionale di schiavi (circa 10 milioni di schiavi venduti in Africa dal XVI al XIX secolo, ovvero 25.000 schiavi all’anno): i guerrieri amhara reclutavano gli schiavi − uomini, donne, bambini − attraverso le incursioni e le razzie nei paesi delle razze considerate inferiori come oromo o guraghe, e poi le persone così strappate ai villaggi e ai familiari venivano trasportate in catene lungo le vie delle carovane per essere tenute o vendute nei paesi amhara o agli arabi facoltosi, dove la loro condizione si tramutava in servitù domestica. La schiavitù, nonostante i veti imperiali da Tewodros a Selassie, è continuata fino a pochi decenni or sono. Ma qui il punto. È veramente in tutto cessata? Consideriamo il caso degli zabagna (dal nome dei corpi di polizia negusiti preposti alla sorveglianza): si tratta di uomini, per lo più ragazzi, che fanno i guardiani nelle villette degli etiopi benestanti e degli occidentali. Spesso

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dormono, anche nella stagione delle piogge, in uno sgabuzzino su una branda. Quando ho visto lo sgabuzzino riservato al nostro guardiano mi sono sentito molto colpevole, ma tant’è: la villetta in affitto, oltre le stanze per la servitù, non prevede altro se non uno sgabuzzino per il servizio notturno. Noi abbiamo visto in almeno due casi uno zabagna dormire in una specie di tubo dove si poteva solo entrare strisciando. I locali pagano queste persone, quando va bene, un centinaio di birr al mese (6 o 7 euro). Ma a volte non li pagano neppure, in quanto essi devono già considerarsi fortunati ad avere una branda per dormire e magari un piatto di ceci o lenticchie. Si può dunque veramente dire che in Etiopia non esista più la schiavitù? Non è schiavitù tenere un uomo in casa per una manciata di birr oppure dandogli semplicemente un piatto di lenticchie e una branda? I padroni locali a prima vista possono sembrare molto più sfruttatori di quanto non lo siano mai stati i bianchi. In Etiopia non un imprenditore bensì un semplice docente italiano paga un guardiano per la casa o una donna di servizio molto ma molto più di quanto non lo paghi (quando lo paga) un padrone locale, e tutti smaniano di lavorare per un ferengj: le richieste arrivano da ogni parte. Questo fra l’altro non è in tutto positivo, perché altera l’equilibrio dell’economia tradizionale sovvertendo i rapporti di valore: perché comunque è strano pagare un ragazzo guardiano o una ragazza che cucina e stira qualche ora al giorno più di quanto guadagni un un funzionario statale o un impiegato cinquantenne con famiglia e un po’ di studi alle spalle. Ma il problema non è tanto capire se in Etiopia esista ancora o meno in qualche forma la schiavitù (e noi diremmo che in certo modo esiste ancora). Il problema, ben più grave, è capire se esista la mentalità e la cultura della schiavitù ed anche qui noi abbiamo pochi dubbi al riguardo. In un testo degli anni trenta3 si dice che «en parlant de leur maître, les esclaves disaient “Mon père”». Ebbene, quale lo stupore e l’imbarazzo quando un ragazzo, venuto a casa nostra a fare il guardiano per un certo periodo, baciandoci la mano ha chiamato Marilena mother e me father! Certo, è indubbio che lui in quei mesi guadagnava e migliorava la sua condizione: basti pensare che, quando è arrivato e ha visto nei servizi per lui predisposti la toilette, non sapeva cosa fosse e come si usasse. Abbiamo dovuto spiegarglielo, perché stava per usare la doccia come water. Certo nel tukul di campagna dove viveva i bisogni fisiologici si espletano nei campi, come peraltro molto spesso si fa anche nella capitale vista la carenza di servizi igienici. Certo, noi trattavamo bene quel ragazzo che poi ci è venuto a trovare con tutta la famiglia, né gli abbiamo mai detto nulla quando lui 3

H. Celarié, Éthiopie XXème siècle, Paris 1934, Hachette.

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− guardiano notturno! − regolarmente dormiva della grossa e ci lasciava fuori a picchiare sul portone e a suonare il clackson quando tornavamo a casa la sera ad ora peraltro non tarda. Ma la cosa che colpiva era quel retaggio di antico servilismo, in realtà non giustificato in un lavoro salariato: noi non eravamo né sua mother né suo father, e lui naturalmente lo sapeva. Cosicché noi vediamo in certi atteggiamenti, né crediamo di ingannarci, un’anima naturaliter servilis, usa ad obbedire e desiderosa di un padrone, retaggio di antiche schiavitù. Per esempio: una donna occidentale va per strada con il sacchetto della spesa e immediatamente si trova circondata da frotte di ragazzini, o anche persone che ragazzini non sono più, che si offrono di portare il sacchetto della spesa. Considerato che queste persone poi non proprio sempre si aspettano la mancia né rivelano seconde intenzioni, si può dire: questa è gentilezza, questa è cortesia e urbanità di modi. Va bene. Ma quando questa persona, Marilena, va nella scuola italiana di Addis Abeba dove insegna con la sua borsa, nemmeno troppo pesante, e subito i ragazzi e le ragazze si offrono di portargliela, allora non sai più fino a che punto si tratti di gentilezza e fino che punto di servilismo. Ancora un altro esempio, nel quale io scorgo non solo un atteggiamento servile ma anche un apartheid rovesciato: quando vado in un ufficio per una pratica, se mi siedo a fianco di un etiope, i poliziotti immediatamente lo allontanano da me e così io rimango solo seduto sulla panca con precedenza assoluta mentre altri trenta locali venuti prima di me stanno tutti ammassati in piedi ad aspettare. È una forma di ossequio verso lo straniero, in cui però si finisce col vedere una sorta di apartheid al contrario: che il bianco non voglia sedere al fianco del nero, o che il nero non possa o non voglia sedere a fianco del bianco, in fin dei conti è lo stesso. Soprattutto, ciò che più colpisce è vedere che gli etiopi, non di rado ossequiosi verso l’uomo bianco, appaiono poi a volte essi stessi razzisti nei confronti dei neri di livello sociale inferiore. Ovunque si vede che gli etiopi per primi evitano il contatto con la fascia più disperata della popolazione, ovvero con i ciandala che nel sistema indù gli indiani considerano “intoccabili”: spesso essi hanno un atteggiamento di indifferenza verso la parte più povera dei propri connazionali, come se tutto fosse naturale. Quando sono andato all’aereoporto accompagnato da un ragazzo locale che doveva aiutarmi con i bagagli, io sono potuto entrare fra gli inchini senza alcun problema: ma il ragazzo è stato bloccato all’ingresso in malo modo. Al riguardo basti pensare ad una realtà che abbiamo constatato di persona, e che ci è stata confermata da conoscenti vissuti in Somalia: la “governante” o mamité, che provvede alle faccende nelle case dei bianchi, e che pur essendo solo una persona di servizio ha un ruolo sociale invidiato per gli

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alti stipendi, tende a “schiavizzare” il guardiano o zabagna, considerato invece più in basso nella scala sociale forse perché non entra nelle case dei bianchi, e a volte gli serve poco cibo, lo invia a fare le spese così sottraendolo alla sua funzione, lo usa per faccende domestiche meno gratificanti del cucinare (come lavare i panni) che non gli competono, chiamandolo e dandogli ordini come se egli fosse alle sue dipendenze e non alle dipendenze del padrone di casa che paga gli stipendi ad entrambi. Noi abbiamo più volte dovuto intervenire per impedire ciò. Un conoscente che lavora in Somalia (veramente troppo indulgente) ci ha detto che la sua mamité addirittura, senza chiedere nessun permesso, grazie ai lauti stipendi si portava in casa un’altra donna da lei sottopagata a cui affidava i lavori domestici sotto la sua direzione, in una sorta di dialettica servo-padrone di hegeliana memoria in cui il servo, se lo si lascia fare, tende a diventare padrone anche del padrone. Soprattutto all’inizio della nostra permanenza (perché poi a tutto si fa il callo), tornando a casa la sera, con la testa piena di pensieri nella notte insonne, mi sembrava di aver rivissuto in una giornata e affrontato in un colpo solo alcune delle ‘apparizioni’ che subitaneamente illuminarono il principe Siddharta sulla vacuità dell’esistenza all’uscita dal suo palazzo reale: la povertà, la malattia, il dolore, lo spettro del disfacimento e della morte. Io ho sempre prediletto la religione buddista, perché è la sola che non occulta in una teodicea il negativo dell’esistenza. Naturalmente conoscevo la realtà della morte e del dolore anche senza venire qui (ho perso mio padre quando ancora ero ragazzo), così come sapevo che gran parte del mondo è povera: anche a Milano e a Roma ci sono i poveri ma mentre esperienze simili noi di solito le viviamo molto meno intensamente, in modo molto più diluito, mentre da noi la povertà col suo carico di miserie rimane un fatto piuttosto episodico e marginale, qui invece la vedi e la senti come un dato generalizzato naturale e ineluttabile. Quello che da noi è eccezione qui è norma. Il lato tragico dell’esistenza, qui, è più evidente e non occultato. Certo io non credo che su questi popoli gravi un oscuro fato e che la loro situazione sia immodificabile: l’Etiopia è in grado di evolvere in senso positivo, e di fatto è un paese che pur lentamente e fra mille difficoltà si muove e cambia. Ma tu capisci che per loro questa miseria non è una disgrazia, non è una sventura bensì è una condizione assolutamente naturale. Per questo vedi persone orribilmente sciancate capaci di sorridere e ridere come se niente fosse, capaci di benedirti per una piccola elemosina come se tu per loro avessi fatto chissà cosa. Tutto questo, qui, è normale, per loro questa è la vita. Non so più chi disse che «nell’insieme questo è un mondo

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felice, in cui i beni e la felicità prevalgono sui mali». Nella mia visione sostanzialmente pessimistica del mondo e della vita ho sempre considerato, con Schopenhauer, quasi immorali espressioni simili. Eppure in uno dei paesi più poveri del mondo devo ammettere che indubitabilmente gli uomini − anche i più sfortunati e apparentemente miserabili − sembrano felici di vivere, e sembrano godere del semplice fatto di vivere al di là di tutte le sventure e le sciagure che la vita può arrecare. Evidentemente la volontà di vivere, proprio come diceva Schopenhauer, sembra vincere su tutto.

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BAMBINI, LA SOLITA STORIA di Maria Maddalena Cusati

“What’s your name?” “Marilena”. Rispondo stancamente, un po’ annoiata, un po’ seccata. Ecco, è la solita storia. Adesso mi chiede il nome e fra un minuto mi chiederà un birr, una penna, una maglietta e chissà che altro... “My name is Abraham”. Lo guardo. Avrà circa otto anni. Indossa una lunga t-shirt che gli funge da vestina. Il suo colore è particolarmente scuro. Tækur verrebbe definito in amarico. Già, perché gli etiopi si ritengono tejæm ovvero “brown” e questo è invece indubbiamente nero, come i sudanesi, come i kenyoti. Del resto sono ai confini con il Kenya. Sono nella Omo Valley, nella parte più meridionale, più “africana”, più selvaggia. Non mi piace tutto questo, o meglio mi piace decisamente meno degli altri viaggi in Etiopia. Ho visto Yeha, Axum, Lalibela, Gonder, le chiese del lago Tana e quelle del Tigray. Ho sopportato i disagi e la fatica non tanto del viaggio quanto della scarsità di servizi, ma ho visto la storia, ho percepito la cultura, l’arte, la religione. Qui invece la cultura, l’arte e la religione sono allo stato naturale, allo stato “primitivo”, qui si “scende” in un mondo arretrato... E poi tutti i soliti disagi, e tutta quella solita sete di denaro. “One birr, one pen, one t-shirt”. Ed anche questo bambino passerà alle solite richieste, alla solita storia... Lo guardo ancora. Ha un volto sveglio ed anche un po’ triste. Mi fa tenerezza, ma non devo commuovermi, perché tanto lo so che è la solita storia: prima il nome, poi la nazionalità ed alla fine il denaro. “Where do you come from?”. “Italy”. Come da copione. È proprio la solita storia: ormai la conosco a memoria. “Adesso mi chiede la penna”, mi dico. E invece no. “How many children? Quanti bambini?”.

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Sono stupita della variazione sul tema. Ma perché mi stupisco? È la solita domanda che mi fanno gli adulti, che mi fanno i tassisti, che mi fanno tutti. È la solita domanda di cui sono stufa marcia. Anche perché sono stufa di essere guardata con quell’aria di compatimento, come se fossi un extraterrestre, come se fossi stata maledetta dal Cielo. Del resto loro pensano che i figli siano una benedizione di Dio e ritengono fortunati coloro che ne hanno cinque, sei, sette! “Lucky man, uomo fortunato!” aveva detto il tassista Kebabo quando aveva appreso che un mio amico aveva sei figli. “Gobez” (clever, brava!) ha detto Serkallem, la moglie etiope di un mio collega italiano, alla mia mamité che nemmeno trentenne cercava di sbarcare il lunario per mantenere cinque figli. Ed allora perché mi stupisco? Nella visione veterotestamentaria che caratterizza l’Etiopia la prole abbondante è benedetta, e più di un tassista mi ha augurato “novella prole”. “How many children?”, ripete il bambino. Non so come rispondere. Mi sono detta più volte: “Mi invento due marmocchi in modo da evitare le solite conseguenze, in modo da evitare la solita storia”. Tuttavia mi riesce difficile, perché non mi piace mentire, ed allora dico la verità. “I haven’t children, non ho bambini”. La risposta di Abraham è flebile ma chiara. E’ pronunciata male ma è inequivocabile. Mi si accappona la pelle, mi vengono le lacrime agli occhi. “Non posso aver capito bene, non è possibile”, mi dico. Perché questa non è la solita storia, non è quella che conosco a memoria. Ed anche se ho “fatto il callo” a tante cose, come alla miseria ed alle malattie, rimango senza parole, incredula, attonita: quando la vita in Etiopia cesserà di stupirmi, di toccarmi, di commuovermi? “Non posso aver capito bene”, mi ripeto. Ed allora lo guardo ancora, lo guardo con aria interrogativa e torno a dirgli che non ho bambini: “I haven’t children, non ho bambini”. E lui mi ripete ancora quella frase, quella richiesta, quella preghiera: “Take me, prendi me”.

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IL GOURRI E LA DANZATRICE ETIOPE

«I corpi seminudi color del bronzo risaltavano, lucidi pel sudore, in linee muscolari marcatissime ed aggraziate. Danzavano in gruppi separati per sesso, gli uomini brandendo lance e coltellacci, cantando imprese guerriere e vendette di sangue compiute o da compiere; mentre le donne, in gruppo o in catena, avanzavano, retrocedevano, compivano evoluzioni al centro del cerchio maschile, ripetendo allegri stornelli, protendendo il petto nudo e procace con movenze del busto, delle anche, delle braccia, della testa, così artisticamente flessuose e belle da mandare in visibilio il più asceta degli spettatori»1. Così l’esploratore italiano Franchetti, nei lontani anni trenta, descrive una danza dancala: e certo si capisce molto di quel non tanto misterioso “mal d’Africa” da cui venivano colpiti uomini più facilmente usi in patria a pensare al triste impiego, alla pensione, alla famiglia e ai doveri della vita. L’Africa con le sue foreste, i suoi deserti, i suoi animali selvaggi, i suoi spazi sconfinati, la sua vita più libera e elementare e − non ultimo − le sue donne attraeva e affascinava: il misterioso “mal d’Africa”, oltre che il sogno del gruzzolo, per i più non era altro che il sogno e il desiderio d’avventura che spezzasse la monotonia della vita quotidiana. Ricordo, bambino, una festa in cui ad un certo punto, mentre si aprivano le danze, venne chiesto ad un uomo ormai piuttosto anziano di ballare. L’uomo divenne tutto rosso, si schernì impacciato e infine si rifiutò quasi sdegnato dicendo che lui non si sarebbe mai messo a fare «il pagliaccio» in mezzo alla sala. Sembrava quasi ne andasse della sua onorabilità, della sua credibilità, della sua rispettabilità. Ricordo anche, la prima volta che ballai in una festa studentesca al suono della musica rock inglese che negli anni sessanta giungeva a noi quando si discuteva su chi fosse meglio fra Beatles e Rolling Stones, ricordo l’imbarazzo e la difficoltà che dovetti superare quasi facendo forza su me stesso e nascondendo la mia vergogna coll’ostentare una falsa sicurezza: superare l’ostacolo era per me allora in 1

R. Franchetti, Nella Dancalia etiopica. Spedizione italiana 1928-29, Milano 1930, Mondadori, pp. 134-135.

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quella circostanza una questione di una certa importanza, perché era il solo modo per entrare in contatto con le ragazze. La reichiana “corazza caratteriale”, la scorza rigida e severa dell’educazione e della morale, l’esigenza quasi calvinistica inculcata fin da bambino che imponeva l’assiduo controllo su se stessi, l’incapacità in un ragazzo solitario e troppo pensieroso di lasciarsi andare e di essere sciolto e spontaneo, come se qualcosa di rigido e meccanico ostruisse e ingolfasse il fluido vitale intorbidendolo, tutto ciò, prima di imparare per reazione a scatenarmi nelle danze, mi frenava e mi rendeva triste non certo per il non saper ballare, cosa del tutto secondaria, ma perché intuivo in quella difficoltà una più grave e generale difficoltà di rapporto col proprio corpo. Ebbene: simili difficoltà non sono nemmeno concepibili in Africa. Sarà un luogo comune, ma è un luogo comune vero. In Africa io ho visto dei bambini molto piccoli danzare benissimo, in modo del tutto sciolto e disinibito, del tutto naturale e spontaneo, senza che un’ombra di imbarazzo o di pudore li frenasse in alcun modo. Quando vado in auto ad Addis Abeba sentendo musica e mi fermo al semaforo, e subito un bambino si fa avanti per vendermi qualcosa, come abbasso il finestrino quello sentendo la musica si mette a danzare per strada. Ma forse la scena di danza africana più bella l’ho vista in Italia quando, andando in auto verso Ivrea passando per le campagne canavesane, vidi una prostituta nera, una delle tante prostitute per lo più nigeriane che affollano da tempo le città e i sobborghi italiani: era sul ciglio di un campo piuttosto lontana dalla stradale e, in uno splendido meriggio assolato, forse convinta di non essere vista da alcuno poiché la strada, eccettuata la mia presenza, era in quel momento deserta, o forse del tutto indifferente che qualcuno la vedesse o meno, danzava da sola dimentica di tutto come se al mondo − come recitava una canzone d’antan − non vi fosse che lei. Io fermai l’auto senza farmi scorgere e rimasi a guardarla incantato e ammirato: non potei fare a meno di pensare che questa giovane donna, che probabilmente dormiva la notte in un tugurio e che si vendeva certo per pochi soldi, sembrava assolutamente felice. Alberto Moravia2 ha scritto che gli africani traducono in danza la loro vita e che nella danza l’uomo e la donna africani riescono a entrare in sintonia con il più vasto e generale ritmo del cosmo, quasi uscendo dal principium individuationis e fondendo momentaneamente più corpi in un solo corpo vibranti panicamente all’unisono con il tutto, in un senso religioso e comunitario. In effetti credo proprio che in tutta l’Africa non vi sia un sol 2

A. Moravia, A quale tribù appartieni?, Milano 1972, Bompiani (“Le danze degli africani”, pp. 16-20 ed. 2001).

Il gourri e la danzatrice etiope

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uomo, purchè sano e non troppo anziano, impacciato nel danzare. L’uomo in Africa sembra danzare in un modo molto spontaneo e naturale, del tutto sciolto e “slegato” come se la cosa venisse da sé e mai fosse stata appresa. Il “ritmo”, che è poi il ritmo della vita stessa, è in Africa sottolineato anche dal suono dei tamburi, e sappiamo bene che in Africa (particolarmente in Senegal e nel Burundi) si trovano i migliori percussionisti del mondo. Io, che un tempo amavo suonare la batteria e le percussioni, mi sono affrettato a comprare ad Addis Abeba dei tamburi rituali dal suono sordo e grave. Ricordo bene del resto il tam-tam sordo, cupo, parossistico e inframezzato da urla e incitamenti, che caratterizzava un lungo pezzo rituale di percussioni registrato nel Burundi e poi trasformato in un disco negli anni sessanta col titolo Burundi Black (sebbene il secondo lato del disco contenesse un’impropria sovrapposizione di musica occidentale in un impossibile dialogo); e ricordo bene, una notte nella metropolitana di Parigi, la straordinaria performance ritmica di improvvisati suonatori nigeriani e senegalesi, il cui suono dal fondo buio della galleria, dapprima fievole ed attutito, cresceva sempre più di intensità al mio avvicinarmi generando un elettrizzante contagio psichico. Ma la danza per gli africani non è, o almeno non era fino a tempi recenti, un puro divertimento: le danze propiziatrici della pioggia, del raccolto, le danze della caccia, della pesca, della guerra erano cerimonie magiche sacre e rituali ritenute necessarie e indispensabili per ottenere la pioggia, il raccolto, la cacciagione, la vittoria. Ciascuna tribù aveva ed ancora ha le proprie danze, ognuna con il suo nome, i suoi canti, i suoi passi, le sue figure, i suoi costumi, i suoi strumenti musicali. In Etiopia, non ci sono mancate le esperienze musicali, come ad esempio alcuni concerti jazz in stile afro. Un’esperienza del tutto particolare è stata (poco dopo il nostro primo arrivo) vedere ad Addis Abeba, in uno dei più lussuosi hotel africani (lo Sheraton), presentato dall’ambasciatore e appositamente per la comunità italiana, un concerto di Eugenio Bennato patrocinato dall’Istituto Italiano di Cultura e dall’Ambasciata. In verità era un po’ una cosa per emigranti nostalgici della patria, con buffet italiano finale variante dagli spaghetti al parmigiano, ma ciò non toglieva la bellezza del concerto: Eugenio Bennato, all’estero probabilmente più noto del fratello Edoardo, da molti anni svolge una interessantissima ricerca musicale sulle “voices of Africa” spaziando, in collaborazione con musicisti africani, dalla autentica “taranta” salentina (che poco ha a che vedere con la sua deformazione folklorica) ai ritmi mediterranei tutti. C’è stato anche un intermezzo straordinario con un canto corale di bambini per lo più etiopi della Scuola Italiana. Per quanto mi riguarda, alla fine la nostalgia della musica è stata troppo forte e così, dopo essermi unito un paio di volte a musicisti in occasione di danze

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tradizionali, mi sono rimesso a suonare in un locale le percussioni con un gruppo di giovani etiopi (formato da chitarra, basso, tastiere, batteria, percussioni): ho fatto arrivare dall’Italia un nuovissimo set di percussioni professionali, perché ho subito constatato che naturalmente agli etiopi non piace sentir suonare il loro keberò dagli usi rituali e liturgici in modo per essi improprio. Ma ciò di cui voglio ora parlare è la danza, e di qualcos’altro ancora. Dunque, una ventina di chilometri fuori Addis, andiamo a vedere (eravamo ad Addis da pochi mesi) uno spettacolo di musica e danze tradizionali. Lo sfondo era costituito dal ritmo ripetuto e costante di una musica fatta con gli strumenti tradizionali etiopici di cui v’è un’ampia raccolta al Museo etnografico di Addis Abeba. Questa musica sembrava più di intonazione araba per non dire orientale e vagamente indiana che non “nera” nel senso consueto del termine, come dimostrava anche il sapore di incenso e spezie che impregnava la sala e che talora si sente anche in alcune strade. Assieme ai musicisti si esibiva un gruppo di giovani danzatori e danzatrici, con continuo cambio di costumi tradizionali spesso belli e riccamente decorati (anche se talora un po’ troppo ammiccanti al “colore” ad uso turistico). La danza era a tratti una libera riproposizione della iskista, una danza che va effettuata tenendo le anche e le gambe immobili mentre le spalle vengono ritmicamente alzate e abbassate nonché portate avanti e indietro. La peculiarità di questa danza è il contrasto fra il perno immobile del corpo, incardinato sul bacino e sulle gambe, e il movimento delle spalle. I danzatori, spesso accompagnandoli a un caratteristico grido ululato, alternavano movimenti meccanici che rivelavano una grande disarticolazione corporea, muovendo le spalle e il petto, ma anche gli occhi e le guance con scatti, fremiti e scosse nervose, con una specie di tremore, di sussulto spastico e convulso, come se il loro corpo fosse squassato da brividi febbrili e agitato come una marionetta da movimenti sincopati, in un ritmo che aveva qualcosa di frenetico, di nevropatico e ossessivo. Non si trattava però di uno scatenamento orgiastico, perché i movimenti erano perfettamente controllati e i danzatori si muovevano in grande sinergia e sincronismo, anche ridendo e scherzando in modo gioioso e coinvolgendo perfino i bambini che, come si è detto, qui sanno danzare in modo del tutto sciolto e naturale. A tratti poi i danzatori calpestavano energicamente e ritmicamente il suolo con i piedi, e al contempo sembravano mimare e “immobilizzare” una corsa frenetica, accompagnando il movimento dei piedi con un movimento ritmico su e giù delle mani congiunte. Poi all’improvviso la danza e la musica cessano. Dopo un lungo momento di attesa, di silenzio e di concentrazione una danzatrice, di rara bellezza, inizia a roteare il capo con gesto dapprima lento e poi, mentre la musica riprende in

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crescendo, sempre più veloce e infine velocissimo e frenetico, mentre i lunghi capelli venivano agitati e scagliati qua e là ma sempre in modo ritmico. Alla fine non riuscivi più a vedere il volto: quel volto giovane dai lineamenti fini e regolari diventava con inquietante metamorfosi una maschera di gorgone contratta, deforme e tirata, un volto sfaldato e come sfilacciato da vecchia che intravedevi fra la massa di capelli che andavano e venivano, come se l’accelerazione del ritmo rotatorio fosse al tempo stesso un’accelerazione del tempo fino a raggiungere anticipatamente la propria più estrema vecchiezza, e avevi l’impressione che da un momento all’altro le si potesse rompere l’osso del collo o che la testa le schizzasse via. Tutti gli altri danzatori, arrestata la loro danza, erano accovacciati in cerchio attorno a lei e come mistagoghi accompagnavano il suo ritmo con qualche battito di mani, qualche sussurro e qualche grido, ma soprattutto con partecipi sguardi di ammirazione. Io ero quasi preoccupato. Che roteando su se stessi si raggiunga uno stato di trance è ben noto (“giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra e tutti giù per terra”). Ho pensato ai dervisci (abbiamo visto danze dervisce, o meglio di origine derviscia perché ormai divenuti spettacoli, sia a Milano che al Cairo): essi raggiungevano l’estasi roteando per ore su se stessi, ma qui roteava solo il capo e inoltre certamente mancava quella calma e lenta ieraticità derviscia (o di origine derviscia) ammirata a Milano in una compagnia turca itinerante. Piuttosto la giovane sembrava una menade, una baccante in estasi nel senso letterale: ex-stasis significa appunto “stare fuori”, essere non “in sé” ma “fuori di sé”. Mancava solo Dioniso o un fauno caprino per rendere completa la cosa. Sovvenivano alla mia mente le vecchie descrizioni di danze dei primi esploratori africani: «si son visti uomini e donne cadere in uno stato d’assenza totale, dimenticare il mondo che li circonda e perderne apparentemente coscienza. [...] Ho osservato queste danze e posso testimoniare della maniera straordinaria in cui i ballerini perdono coscienza di quanto li attornia. Stai davanti a loro e non sembrano riconoscerti. Gli si parla e non si ottiene altra risposta che uno sguardo fisso. Solo a poco a poco tornano in condizioni normali».3 Io sapevo cos’era in origine quella danza. Quel vorticoso e impressionante roteare del capo è stato descritto dallo scrittore francese Leiris, partecipe del cosiddetto “surrealismo etnografico” che, nel desiderio di ritrovare l’uomo che veniva soffocato dalla civiltà occidentale, trovava ispirazione nelle culture “selvagge”. Egli, dopo aver partecipato nel 1931-33 alla famosa 3

G.T. Basden, Among the Ibos of Nigeria, 1910, cit. in L. Levy-Bruhl, Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive, 1931, tr. it. Sovrannaturale e natura nella mentalità primitiva, Roma 1973, Newton Compton, pp. 151-152.

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missione Dakar-Djibouti di Griaule (che attraversò l’Africa dall’Atlantico al Mar Rosso) in veste di secrétaire-archiviste con l’incarico di tenere quale homme de lettres il journal de borde, il carnet de route, il compte rendus, ne trasse in realtà un «journal personnel, intime» che trasfuse nel suo Afrique fantôme del 19344. In questo libro Leiris trattava con particolare interesse dei fenomeni di possessione in Africa e particolarmente in Etiopia. Egli non voleva studiare quel mondo dal di fuori, quale osservatore secondo le regole dell’inchiesta etnologica, bensì desiderava immergervisi: «Preferirei essere posseduto che studiare i posseduti»5, scriveva, comprendendo che i fantômes di cui parlava erano in realtà anzitutto quelli suoi interiori, salvo poi capire l’impossibilità di una sua immedesimazione con i posseduti. Dunque, la danza è o meglio era il gourri, che attraverso frenetiche roteazioni della testa consentiva all’invasato, al posseduto, all’ossesso, all’indemoniato di liberarsi in una catarsi attraverso la trance del male che lo rodeva o meglio degli spiriti maligni che avevano preso possesso della sua persona. Questi spiriti o demoni, detti zar, potevano essere benigni o maligni: la loro presenza richiedeva apposite cerimonie con sacrifici di pecore e galline o per attirarne la protezione o, più spesso, per liberare i disgraziati indemoniati invasati e posseduti inducendoli a lasciarne il corpo. Fra queste pratiche e cerimonie v’era appunto il gourri: «Ho visto Emawayish in trance roteare la testa e fare oscillare il busto, i tipici movimenti del gourri. [...] L’ho vista bere del sangue. [...] E non avevo mai sentito fino a che punto sono religioso; ma di una religione in cui è necessario che mi si faccia vedere il dio» − così scriveva Leiris in L’Afrique fantôme parlando della giovane ragazza da cui era avvinto. Questi aspetti “teatrali” della possessione ricomparvero fin nel titolo di una successiva opera di Leiris, che certamente pensava al “teatro della crudeltà” di Artaud, e furono da lui ritrovati nel vodu di Haiti.6 Naturalmente sussistono ancora in Africa i guaritori e i fenomeni di possessione7. Vi sono anche quelli che nell’immaginario collettivo sono 4 5 6

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M. Leiris, L’Afrique fantôme, cit., p. 216. M. Leiris, L’Africa fantasma, tr. cit., p. 338. M. Leiris, La Possession et ses aspects théâtraux chez les Éthiopiens de Gondar, 1958 (tr. it. La possessione e i suoi aspetti teatrali fra gli etiopi, Milano 1988, Ubulibri). V. J. Mercier, Les traverses éthiopienne de Michel Leiris, Paris, s.d., Minotaure. Sulla possessione presso altri popoli etiopici v. anche M. Cittadini, Malia ed ossessione presso i Sidamo, Addis Abeba 1969, Istituto Italiano di Cultura. Di A. Artaud v. Le théâtre et son double, 1964 (tr. it. Il teatro e il suo doppio, Torino 1968, Einaudi). V. le testimonianze dell’etnopsichiatra P. Coppo in Mali: Guaritori di follia. Storie dell’altopiano dogon e Negoziare il male. Stregoneria e controstregoneria dogon, Torino, Bollati Boringhieri, rispettivamente 1994 e 2007.

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i pazzi. Dicono che in Etiopia ce ne sono tanti, io ne ho visti alcuni: una giovane donna che completamente nuda camminava come inebetita in uno stato stuporoso sotto un sole terribile di primo pomeriggio, lungo una strada asfaltata a centinaia di chilometri da Addis Abeba in un luogo desolato e lontana parecchie decine di chilometri dal primo villaggio, per cui ella nel suo delirio psico-motorio e nel suo desiderio di andarsene altrove vagando senza meta stava sicuramente camminando da ore, come una menade o una Dafne in fuga che i camionisti sfioravano indifferenti e che abbandonando la sua casa e il suo villaggio non aveva però nessun Dioniso da seguire né alcun Apollo che la inseguiva, e un’altra giovane donna che sempre nuda camminava in una delle vie più frequentate di Addis Abeba a tutto indifferente e con lo sguardo fisso e immobile, come se nulla vedesse o sentisse attorno a sé; e poi due giovani e robusti uomini che in due circostanze diverse, in piena Addis Abeba l’uno e l’altro nella città di Gonder, andavano nudi fra le macchine, le bancarelle, i baracchini, fra la gente indifferente: l’uno correva, correva completamente nudo e rideva − è proprio il caso di dirlo − come un pazzo, l’altro faceva da semaforo immobile sempre nudo ma con la testa coperta. Pensiamo ad un uomo nudo che corre ridendo in corso Buenos Aires a Milano o in piazza Castello a Torino: verrebbe immediatamente arrestato e probabilmente la cosa finirebbe sui giornali. Qui no, qui è normale. Questi pazzi fanno parte della comunità, anzi forse sono addirittura visti come persone dotate di una percezione privilegiata le cui stranezze vanno rispettate, e sono accettati come da noi poteva essere solo nell’età medievale (gli aborriti “secoli bui”), prima che, come ha mostrato Foucault, nascesse la clinica e venisse codificata la pazzia. In questa nudità, che peraltro i manuali di psichiatria conoscono bene, io vedo una volontà estrema di spogliarsi di tutto e di ritrovare l’innocenza e la libertà di uno stato edenico e primordiale, affermandole di contro e in mezzo ai segni implacabili degli artefatti della civiltà: anche san Francesco, del resto, si spogliò e rimase nudo in pubblico per testimoniare simbolicamente la sua nuova vita. Ma in Africa anche gli altri, i “normali”, questa volontà o questo desiderio di spogliarsi e tornare innocenti credo che capiscano bene come sembra provare il fatto che essi non sono affatto scandalizzati né urtati da questo comportamento “deviante”. Poi, in Etiopia, vi sono i posseduti. Io li ho visti in una piccola e sperduta chiesetta di Entoto, appena fuori Addis Abeba, decorata con immagini sacre che chiaramente funzionavano come talismani: ricordo una giovane stramazzata al suolo che in totale solitudine come se nessuno vi fosse attorno a lei, con voce gutturale e grottesca che ovunque rimbombava (e che palesemente non poteva essere la sua voce normale) piangeva, grida-

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va, si contorceva per terra battendo i pugni, invocava Dio e san Giorgio, ripetendo mille volte la sua litania, e a me tornava alla mente il giovane indemoniato del Vangelo raffigurato con gli occhi arrovesciati nell’ultimo sconvolgente quadro di Raffaello, la Trasfigurazione, in cui con rasentata blasfemia la trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor in alto è accostata alla trasfigurazione dell’indemoniato in basso. Il gourri va compreso in questo contesto, in un quadro contrassegnato dalla miseria, dalle malattie, dalle sofferenze psichiche, dallo spettro delle siccità e delle carestie con tutto il loro carico di disperazione. Esso, per quanto certo non si debba eccedere con le analogie, per certi aspetti ricorda (oltre il ballo medievale di san Vito e di san Giovanni nelle aree tedesche) il ballo frenetico dei “tarantolati” salentini e dell’Italia meridionale (e in genere di alcune aree mediterranee): essi, credendosi avvelenati dal morso della tarantola − in realtà generalmente innocuo per l’uomo al contrario del morso pericoloso di altri ragni − ma in realtà più spesso preda complice la calura estiva di crisi nevropatiche convulsive ed epilettoidi o in stato di simulazione isterica, al suono di una musica sfrenata (fatta con tamburelli, violino, armoniche, organetti) danzavano e cantavano per ore fino allo sfinimento in quelle che per suggestione e contagio psichico diventavano feste popolari come di antichi coribanti, in cui i posseduti (a larga prevalenza femminile) al ritmo della danza incanalavano e stemperavano la loro febbrile agitazione psicomotoria e catarticamente consumavano e bruciavano con le energie il “veleno” che li rodeva liberandosi dal male8. Nelle ossessive e concitate danze dei tarantolati è attestato dai testimoni, sia antichi che recenti, proprio il frenetico roteare della testa del gourri: «ho visto personalmente or non è molto − racconta uno di questi testimoni − una donna colpita [dal veleno], la quale, sebbene fosse in preda al delirio per febbre violenta, e la mente fosse occupata da tremendi fantasmi, o piuttosto fosse assalita da tutta una schiera di protervi demoni, pure al suono di strumenti musicali si abbandonava a una danza così concitata, ed ad un così frenetico agitar le membra e soprattutto roteare il capo, che il mio capo e i miei occhi, trascinati nella stessa agitazione, pativano di vertigine». Ella danzava «girando il capo in qua e là, il volto fiammeggiante, lo sguardo torvo: di guisa che io grandemente mi meravigliavo fra me e me, non riuscendo a spiegarmi come mai la vertigine provocata da quel rapido

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Sulla tarantismo v. le ricerche cliniche di W. Katner (Da Rätsel des Tarentismus, 1956, tr. it. L’enigma del tarantismo. La malattia del ballo, Lecce s.d., Besa) e quelle etnografiche di E. de Martino (La terra del rimorso, Milano 1961, Il Saggiatore). L’editore Besa pubblica una nutrita serie di studi sul tarantismo.

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e violento scuoter la testa non la facesse vacillare e cadere al suolo»9. È come se la testa fosse percepita come una specie di scatola al cui interno tutto è in disordine e mal messo, cosicché la violenta roteazione, frenetica ma comunque a suo modo ordinata nel suo moto circolare “planetario” ora accelerato ora rallentato, scuotendone e mescolandone gli elementi potesse magicamente rimetterli a posto, in ordine e funzionanti. Spesso inoltre i tarantolati calpestavano energicamente il suolo con i piedi come se volessero calpestare il ragno malefico e così scacciare il male che li rodeva10, anche in questo similmente a quanto avviene nelle danze etiopiche in cui i danzatori calpestano il suolo come calpestassero uno di quei pericolosi serpenti facilmente rinvenibili in Etiopia e divenuti per spostamento metonimico simboli del male, accompagnando la cosa col movimento ritmico su e giù delle mani alternate che a mio parere evidentemente imita − non senza simboliche allusioni sessuali − il pestare il sorgo o altro cereale nella cavità cilindrica del mortaio. La moderna danza etiopica rammemora più antiche e drammatiche scene convulsive, come dimostra la descrizione di un occidentale vissuto nell’ottocento in Etiopia che descrive la danza nevropatica di una donna etiope a lungo giacente in uno stato catalettico ma risvegliata − proprio come una “tarantolata” − da «uno stuolo di sonatori di tromba, di tamburo, e di pifferi»: «la testa, il collo, le spalle, le mani, i piedi, e l’intero corpo moveansi a tempo di musica, e alla fine si levò ritta in piedi sul suolo. Si fece quindi a ballare, e tratto tratto a saltellare, e finalmente crescendo sempre più il fragore degl’instrumenti, e il canto degli astanti, fu veduta più di una volta saltare per ben tre piedi da terra. [...] Ciò durò per tutto quel giorno»11. A proposito di questi salti ossessivi, di cui ancora oggi noi vediamo l’eco nel saltellare nelle danze etiopiche (e financo in una cerimonia di passaggio come il “salto del toro” su cui si tornerà), il testimone parla di un vero e proprio «furor saltatorio presso gli Abissinj»12. L’antico Lexicum Aethiopicum parla al riguardo della «saltatio» e dice che «gli Etiopi, come testimonia Gregorio, di fronte a una certa malattia prendono ciò con cui [una pozione eccitante?] ciascuno è costretto ad agitare continuamente i piedi e quasi a scalciare» («Aethiopes, teste Gregorio, pro 9 10 11

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La testimonianza (del XVIII sec.) è riportata in E. de Martino, La terra del rimorso, cit., pp. 129-130 (v. anche p. 113, 164). Ivi, p. 142, 146. La testimonianza dell’occidentale in Etiopia è stata inserita da un illustre medico tedesco autore di una ricerca sulla danzimania (J. Hecker, Die Tanzwuth, eine Volkrankheit in Mittelalter, 1832, tr. it. Danzimania, Lecce s.d., Besa, pp. 84-85. Tutto il capitolo − pp. 83-88 − riguarda la danzimania etiopica). Ivi, p. 87.

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morbo quodam accipiunt, quo quis perpetuo pedes agitare, et quasi calcitrare cogitur»). Parallelamente, in queste antiche testimonianze di etiopi invasate, alla saltatio faceva seguito una corsa frenetica: «Finalmente al tramontar del sole − continua il ricordato testimone ottocentesco − [la donna] si diede a correre per buon tratto con tanta velocità, che il più abile corridore non avrebbe potuto raggiungerla, indi stramazzò come belva ferita»13. E così io potevo vedere il retaggio stemperato di questo dramma nella danza che stavo ammirando: i danzatori, che certo non potevano scappare dal palcoscenico, battevano i piedi per terra e al contempo mimavano una corsa frenetica “immobilizzandola”, parallelamente muovendo ritmicamente le mani su e giù come lavorando al mortaio. Per parte sua il commentatore occidentale, parlando di queste antiche danze nevropatiche, ricorda che in questi casi in Etiopia si pregava per il malato e lo si ribattezzava una volta guarito onde reinserirlo nella comunità cristiana14, e aggiunge: «per quanto questi popoli siano tra loro diversi per origine, per costumi e per abitudini, pure gli effetti delle indicate cause sono affatto identici tanto in Europa che in Africa, poich’esse risguardano l’uomo in sé, indipendentemente dalle particolarità del suo soggiorno; e lo stato attuale degli Abissinj riguardo alla superstizione offre uno specchio di quelli dei popoli europei nel medio evo» (infatti, aggiunge, anche in Abissinia vi sono i flagellanti che «si flagellano sino a dar sangue, e si feriscono con coltelli»)15. Evidentemente dunque in paesi di antica tradizione cristiana (orientale come in Etiopia o cattolica come in Italia meridionale) certi antichi rituali precristiani, probabilmente riconducibili (attraverso l’Egitto e il Sudan) dall’Etiopia ad arcaiche forme mediterranee africane e greche o comunque ad esse comuni − Emawayish beveva estasiata il sangue del capretto sacrificato come una menade −, sopravvissero nella trasformazione e retrocessione degli autori di una danza estatica in posseduti o financo in malati preda di un male oscuro, che in un caso (il gourri) si riteneva provocato da uno zar negativo e nell’altro (i tarantolati) dal morso di un ragno ritenuto velenoso. Ma in tal modo infine il gourri come la taranta, oltre la lacerazione dionisiaca dei limiti, manifestavano uno scopo comune che si riassume nell’antica dolente preghiera: Libera nos a malo. Ed ecco, ora, in un esclusivo locale a venti chilometri da Addis Abeba, in un locale per neri danarosi e bianchi delle ambasciate, vedo in un contesto 13 14 15

Ibidem. Ivi, p. 83, 85. Ivi, p. 87.

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del tutto estraniato riproposto il gourri un po’ come uno chef può riproporre un’antica ricetta della cultura contadina alleggerendola e raffinandola, o un po’ come in una bella serata estiva si può oggi riproporre fra turisti incuriositi in una piazza del Salento la taranta depurata da ogni sofferenza di indemoniato. Perché quegli scatti, quei fremiti, quelle scosse non avevano nessun carattere spastico bensì erano volontari. E la ragazza che replicava il gourri non era un’invasata, i suoi movimenti non erano minimamente scomposti e sconnessi bensì perfettamente ritmati pur se vertiginosi, e tutto era sotto controllo. Del resto la stessa estasi consiste nella temporanea lacerazione e rottura dei limiti imposti dalla normale condizione umana, da cui si fuoriesce ma a cui si deve comunque tornare: e così, dopo questo breve tuffo nel lato più oscuro e notturno, la ragazza “risaliva”, rientrava perfettamente in sé, rallentava con perfetta padronanza il ritmo frenetico del suo volto sconvolto, riprendeva i suoi lineamenti giovani e, con un sorriso e un inchino rituale a mani giunte sul cuore accompagnato da un lieve accenno di piegamento delle ginocchia, docilmente e umilmente ringraziava e usciva di scena.

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IL CIRCO, LA MUSICA, LA DANZA di Maria Maddalena Cusati

Non ho mai amato il circo. O almeno non l’ho mai amato da quando ho cominciato ad esprimere delle preferenze. Da bambina mi ci portavano spesso. All’inizio c’era forse la curiosità, ma poi... Chissà perché gli adulti sono convinti che ai bambini piacciano determinate cose e che a tutti i bambini piacciano quelle. I miei genitori erano convinti che ai bambini piacesse il circo. Così mi ci portavano spesso. E quando non mi portavano al circo mi obbligavano a vedere in Tv spettacoli circensi. “Obbligavano” non è esatto, perché io non avevo mai detto loro del mio scarso interesse per il circo, forse per non deluderli. Ricordo come un incubo il sabato pomeriggio, sintonizzati sulla Tv svizzera, a guardare il circo americano o quello scandinavo o quello della famiglia Orfei. Per questo quando lo scorso anno mi si disse che il circo etiopico è “diverso” non prestai attenzione. Non mi passò nemmeno per la mente di andarci. Oggi però (22 maggio 2006) c’era un collegio a scuola ed il suo termine veniva a coincidere proprio con l’ora di inizio dello spettacolo circense. “Si può entrare, vedere ed uscire” ci siamo detti io e Marco. Siamo entrati, abbiamo visto e non siamo usciti fino alla fine. È stato interessante, è stato bello. È stato bello perché è stato interessante. Non so se ci tornerò, perché in effetti acrobati e giocolieri sono comunque un po’ ripetitivi, anche quando sono bravi (e questi lo erano!). Insomma non rinnego le mie vecchie opinioni sul circo, ma non posso non riconoscere che questo circo è diverso, e che andarci è stato un altro tassello per capire l’Etiopia o per confermare precedenti impressioni. Non mi ha colpito l’assenza di animali. Non mi scandalizza l’uso degli animali nel circo. Non mi ha colpito l’agilità degli acrobati o l’abilità dei giocolieri. Penso che sia dovere di un acrobata essere agile e di un giocoliere essere abile. Mi ha colpito invece la cultura etiopica che trapela anche da questo tipo di spettacolo. Mi hanno colpito alcuni elementi che non avevo mai visto in un circo e che avevo visto invece nel mondo etiope. In primo luogo la musica.

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Sul palco c’era un gruppo che suonava musica etiopica. Gli strumenti erano quelli tradizionali: il chërar, ovvero la chitarra etiopica, il mësenkò, ovvero il violino etiopico, il sistro... Mancava il keberò, cioè il tamburo etiopico che, riservato all’uso liturgico, era sostituito da una potente batteria Yamaha di tipo moderno atta a tenere il ritmo. I primi cinque-dieci minuti sono stati esclusivamente di musica, musica tradizionale etiopica ritmata e coinvolgente. Poi sono entrati gli acrobati, ma la musica non si è mai fermata. Non era un sottofondo, era parte integrante dello spettacolo: anche gli acrobati cantavano durante l’esibizione. Cantavano e danzavano. Ecco la seconda cosa che mi ha colpito: la danza. Ho ritrovato qui quella danza che accompagna sempre il popolo etiope. Ed insieme alla danza la gioia, la festa, gli “ululati”. Li definisco così perché non saprei definire (così come, nonostante gli sforzi, non riesco a riprodurre) quel suono che gli etiopi producono nei momenti di festa per manifestare la loro gioia. È un suono simile a quello che da bambini attribuivamo agli indiani giocando ai cow-boys. Ma è più ilare e più gioioso. Gli etiopi lo producono facendo battere la lingua contro il palato. L’ho sentito alle feste di diploma, a quelle di matrimonio, l’ho sentito persino quando, in occasione della Pasqua, il sacerdote ha affermato che Gesù Cristo è risorto. Così questo popolo esprime la festa e la gioia: con la danza e, mi si passi il termine, gli “ululati”. Le feste di matrimonio, per esempio: da noi sono “la grande abbuffata”, ti alzi da tavola che non ti reggi più in piedi per l’abuso di cibo e di alcool. Qui no, qui è la festa. Si mangia qualcosa, servendosi da un buffet ricco ma non esagerato, e poi si danza, tutti insieme, battendo le mani, ridendo, “ululando”. Così al circo. Una coppia di acrobati si esibiva in esercizi difficilissimi ed intorno tutti gli altri che danzavano, cantavano, tenevano il ritmo, “ululavano”. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata un’altra. È una cosa che mi colpisce quotidianamente ma che non cessa mai di stupirmi perché sono figlia dell’occidente. E questa cosa è il nazionalismo. Anzi la definizione di “nazionalismo” è appunto la definizione di una figlia dell’occidente e del ventesimo secolo. La definizione più corretta è quella di “amor di patria”. Noi italiani non sappiamo più che cosa sia. Ci sembra qualcosa di retorico e fuori moda. Non facciamo altro che sparlare della nostra nazione se non per esaltarne, in modo un po’ becero e provinciale, gli spaghetti e la pizza. Per il resto cerchiamo gli scandali, sparliamo dei nostri governanti (Piove, governo ladro!), ci crogioliamo nei nostri mali mettendoli in piazza. Nello Yemen ho conosciuto una guida che era tutto l’opposto. Ci diceva che nel suo Paese non ci sono problemi di sorta, che tutto va bene, che non

Il circo, la musica, la danza

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c’è delinquenza... Ti veniva quasi il dubbio di esserti sognato le notizie di cronaca che leggi sui giornali. Il popolo etiope non rientra né nel primo gruppo (quello di noi occidentali che “sputiamo” nel nostro piatto) né nel secondo, quello della cecità nazionalista. Il popolo etiope è consapevole dei problemi e delle difficoltà. Sa di essere uno dei Paesi più poveri del mondo. Sa di essere vittima di malattie antiche (la lebbra) e moderne (l’Aids). Sa di avere problemi politici. Si definisce governato da un ambaghennen (un dittatore) per cui usa il termine tënkolegna, un aggettivo quasi intraducibile che sta ad indicare una persona completamente negativa (quando non ricordo il significato di tënkolegna, il mio professore di amarico risveglia la mia memoria con il nome del capo del governo etiopico....). Eppure questo popolo ama l’Etiopia. Si cessa forse di amare un padre povero ed in difficoltà? Si cessa forse di amare una madre malata? Così questo popolo ama l’Etiopia, così questo popolo spera nel riscatto. Per questo tornano sempre i colori della bandiera etiopica: nei vestiti, nelle sciarpe, nei braccialetti... Io stessa (che non ho certo mai avuto monili bianco-rosso-verdi) ho sciarpe e braccialetti con i colori etiopici. Sono colori allegri e vivaci ma simbolici: il verde è il colore della fertilità (lem lem), il giallo è il colore della pace (selam), mentre il rosso indica al tempo stesso l’amore (fëkër) per la patria e la speranza (tesfà) per essa. Quei colori rappresentano cioè il nesso con il proprio Paese, ciò che lega ad esso e ciò che ad esso si augura. È bello che sia così ed io mi sono quasi vergognata quando ho dovuto dire al mio professore di amarico che i colori della nostra bandiera non sono di origine simbolica ma storica... Ma torno al circo. Quei tre colori (il verde, il giallo ed il rosso) erano negli abiti dei musicisti, negli ornamenti degli acrobati, in quelli dei giocolieri. E lo spettacolo si concludeva con capriole e piroette fatte sventolando la bandiera etiopica. Mi rendo conto che tutto ciò può sembrare retorico a chi veda queste cose “dal di fuori”. Ed invece non era retorico, perché quei gesti e quegli abiti non manifestavano una cecità ottusa (alcuni giocolieri concludevano il loro numero con la scritta, comparsa come per magia più che per abilità, “Stop Hiv”) bensì manifestavano un amore tenace: quell’amore, quella fiducia e quella speranza che fanno credere nella fertilità in un Paese in cui le carestie sono ricorrenti, che fanno credere nella pace in un Paese che fino a ieri e per 30 anni è stato in continua guerra. È per quella speranza che questo popolo canta, danza e “ulula”. È per quella fiducia che il bambino a cui non do caramelle ma a cui dico “la prossima volta” si allontana felice. Ritrovo quella speranza fiduciosa ma non

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cieca nel mendicante senza gambe che trascinandosi su uno skateboard mi sorride anche se non gli do nulla. Se però gli do anche solo dieci centesimi sorride di più. Poi solleva gli occhi al cielo e mi dice: “Ëgziaber yëbarksh”. Ëgziaber yëbarksh. Dio ti benedica. Ed allora capisco il senso di quella speranza. Ed allora capisco che le virtù teologali possono essere operanti anche in un poveraccio che le virtù teologali non sa nemmeno cosa siano.

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Nelle chiese etiopiche si entra a piedi scalzi alla maniera ebraica e musulmana, togliendosi le scarpe onde lasciar fuori la «polvere del mondo». La struttura delle chiese cristiane è generalmente costituita da un deambulatorio circolare, per lo più reduplicato all’esterno, generalmente affrescato con temi dell’Antico e del Nuovo Testamento (possono anche essere affreschi moderni, per quanto l’arcaicità dello stile possa a prima vista farli ritenere antichi): esso racchiude la parte più interna e centrale ermeticamente chiusa contenente il santuario con il tabernacolo o tabot. Questa struttura, certo diversa dalle nostre chiese in cui il presbiterio e l’altare sono sì zone riservate ma non chiuse e cintate da mura, ricorda piuttosto il sancta sanctorum dell’antico tempio greco a cui si poteva solo girare intorno lungo il colonnato. I tre cerchi concentrici di cui solitamente si compone la chiesa ortodossa etiopica corrispondono a gradi diversi di purezza: il cerchio più esterno (Qene Mahlet) è riservato ai fedeli puri; il secondo cerchio (Qeddest) è riservato ai dotti che studiano i sacri testi, a coloro che possono fare la comunione e ai bambini; il terzo cerchio (il Maqdas) è riservato ai sacerdoti. I preti entrano dalla porta ad ovest, gli uomini da quella a nord e le donne dalla porta a sud. Una delle prime cose che più ci hanno colpito in Etiopia è che, pur essendo questo un popolo religioso, le chiese (sia le chiese cristiane che le moschee) sono quasi sempre chiuse: esse chiudono subito dopo la prima funzione mattutina, o aprono solo per il tempo strettamente necessario per le funzioni. Infatti, poiché in Etiopia sono comuni i matrimoni a tempo e comunque civili, e facili i divorzi, tutte cose non accettate dalla chiesa etiopica, e poiché per essere impuri è sufficiente aver mangiato carne o bevuto alcolici o aver avuto un rapporto sessuale nelle ultime ventiquattro ore o, per le donne, essere mestruate (in molti monasteri, quando pur non è vietato l’ingresso alle donne, si chiede espressamente loro, come recita un cartello a Debre Libanos, di non entrare se mestruate), allora di conseguenza non si vede solitamente nessuno

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nelle chiese e i primi due cerchi sono spesso deserti1. Così solo pochi entrano in chiesa, la grande maggioranza degli impuri rimane fuori. Gli etiopi sentono lo spazio sacro alla maniera arcaica, come rigidamente e nettamente separato dal profano: si sentono impuri, fuori della grazia divina e per questo indegni di entrare in chiesa. Quindi entrano poco nelle chiese, che oltre ad essere spesso chiuse all’esterno e sempre chiuse allo sguardo all’interno nel luogo più sacro, sono generalmente prive di banchi e sgabelli e troppo piccole per contenere la massa dei fedeli: la chiesa, di norma, è ad essi preclusa. La frequentazione della chiesa cristiana sembra più che altro limitata ai riti religiosi fondamentali dell’esistenza come il battesimo, il matrimonio, il funerale. La confessione è normalmente praticata solo in caso di grave malattia, e alla comunione partecipano in pratica solo i bambini e gli ecclesiastici, appunto perché, stante la rigorosa purità rituale richiesta, la maggior parte dei fedeli se ne sente indegna: e comunque, cosa di rilievo, non è il fedele che entra in chiesa per ricevere la comunione bensì è il sacerdote che ne esce con il calice di vino e il pane consacrati. Nelle poche occasioni in cui i pochi fedeli purificati possono entrare in chiesa per la liturgia essi, dopo essersi tolte le scarpe, vi prendono posto in rigida separazione come nelle moschee e come da noi in passato, a destra le donne entrate dalla porta sud e a sinistra gli uomini entrati dalla porta nord. Ma per lo più le cerimonie religiose si svolgono all’aperto sulla piazza antistante, dove il clero celebra al riparo di preziosi ombrelli rituali, cromatici e di velluto che, sorretti dai chierici, simboleggiano la volta celeste. I fedeli, anche al di fuori delle funzioni religiose, pregano quasi esclusivamente fuori della chiesa, talora in centinaia di persone, spesso inginocchiati, per lo più genuflessi a terra alla maniera musulmana o poggianti il capo sulla parete esterna more ebraico, e sembrano implorare pietà alla divinità: le loro preghiere, che alla domenica mattina proseguono per ore a partire dall’alba, suonano come monotone litaníe, cantilene, nenie, lamentationes continuamente ripetute alla maniera dei mantra. La maggior parte dei fedeli assiste alle funzioni vestita dell’abito tradizionale bianco, obbligatorio per i pochi che osano avvicinarsi alla comunione. Esiste dunque una separazione piuttosto netta fra il luogo sacro e il luogo profano. Tuttavia a noi sembra che essa non sia dovuta solo al sentimento di impurità dei fedeli che non si avvicinano all’interno del luogo sacro, bensì appare anche il riflesso di una separazione altrettanto netta fra il clero 1

Questi tabù sessuali sono il retaggio di antichi costumi propri delle popolazioni tradizionali che, se possono favorire le relazioni sessuali in certe circostanze (ad esempio durante la raccolta delle messi per un auspicio di fecondità), le vietano in altri casi (ad esempio in occasione di guerre, cacce e determinate cerimonie religiose), esigendo l’astensione dai rapporti sessuali come da altre varie attività.

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e la popolazione. Non si capisce infatti fino a che punto i fedeli evitino di entrare in chiesa o fino a che punto ne siano tenuti fuori da una severa prescrizione religiosa originata e imposta dal clero. I fedeli indubbiamente si sentono impuri, ma c’è anche un sistema clericale che impietosamente ricorda loro la loro impurità: così essi si estromettono fisicamente dalla chiesa, ma in realtà ne sono estromessi. Si ha l’impressione che i preti semplicemente non vogliano vedere degli impuri circolare a casa loro. Sembra di vedere una barriera quasi di casta fra il clero e il popolo degli straccioni, i “ciandala” intoccabili del sistema castale indiano, a cui la chiesa è preclusa. Certamente nel mondo orientale o medio-orientale i religiosi tendono a vivere la loro fede come un’esperienza essenzialmente privata di raccoglimento e di solitudine, cosicché non solo i monaci anacoreti, che tuttora vivono financo in grotte lontano dal mondo, ma gli stessi sacerdoti appaiono in certo modo come anacoreti chiusi con i loro libri sacri in un mondo interiore da cui il profano è lontano. Dobbiamo però dire che in Etiopia il clero, contrariamente a quello da me visto in Grecia e in Turchia, non ci ha fatto una bella impressione. Certamente vi sono stati mistici e santi nella chiesa etiopica, ma la realtà comune del clero è stata e tuttora sembra piuttosto diversa. Certo qui un prete ortodosso che si occupi dell’attività “parrocchiale”, che rechi conforto o svolga la sua opera evangelica fra i bambini o gli anziani appare impensabile. Il servitium religioso del clero ortodosso appare veramente ridotto al minimo indispensabile. I preti celebrano poco e a volte non capisci se la loro vita sia una ricerca individuale del divino o non piuttosto in certi casi una forma di vita parassitaria e avulsa dagli impegni, poiché essi sembrano proprio non avere niente da fare: uno in una chiesa era sdraiato su una panca, un altro in un’altra ti guardava di sottecchi aspettando la consegna al custode dei 30 birr, quasi tutti vogliono che venga loro fatta la foto con la croce per poi averne la mancia; le chiese, che sono quasi sempre chiuse, si aprono però eccome (soprattutto le chiese rupestri più “turistiche” di Lalibela o del Tigray) ma a pagamento (e di rado con regolare ricevuta) quando arrivano gli stranieri, e − lo si è detto − le guide consigliano ai visitatori di avere i birr giusti «perché i monaci non hanno mai il resto». Una viaggiatrice irlandese ha perfino scritto in un suo libro di viaggio di essere stata rapinata e derubata negli anni sessanta in un luogo isolato dell’Etiopia sulle rive del Lago Tana da quattro persone guidate da un prete ortodosso, e che un altro prete ortodosso avendola dapprima scambiata per un uomo le propose la nipote in cambio di qualche dollaro2, 2

D. Murphy, In Ethiopia with a Mule, 1968, tr. it. In Etiopia con un mulo, Torino 2000, EDT, pp. 177-180, 193-207, 212.

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sebbene ovviamente questi casi estremi non autorizzino a generalizzazioni indebite. Si sa anche che solitamente i preti celebrano funerali più lunghi e curati, o più sbrigativi e sommari, a seconda di quanto possa lasciare in offerta la famiglia del defunto in base al suo status sociale. Ma in realtà il vero funerale qui si svolge fuori dalle chiese. Ne abbiamo visti tre proprio poco lontano dalla nostra casa: in un caso la cerimonia funebre avvenne nella grande casa di un ricco, ma negli altri due casi era stata montata una grande tenda che quasi ostruiva la strada, e uomini e donne che andavano e venivano vi venivano accolti, si fermavano, parlavano, stavano lì, mangiavano secondo l’usanza universale del banchetto funebre (abbiamo capito che si trattava non di una festa ma di un funerale, o meglio della cerimonia di ringraziamento per i partecipanti al lutto, solo perché ci è stato detto da un vicino di casa): non so se la credenza sussista ancora, ma è attestata in passato la credenza universale che al banchetto funebre (affrescato nelle tombe egizie e etrusche) partecipasse anche il defunto a cui, come noi portiamo i fiori sulla tomba, si lasciavano appositi cibi e bevande affinché la sua anima potesse almeno gustarne l’essenza. Abbiamo anche sentito il “pianto rituale” che il De Martino rintracciava nell’area mediterranea e su cui ha scritto pagine interessanti3. Questo lamento e pianto funebre e rituale a volte stempera il dolore in canto e in poesia.4 Anche se i preti (che nella chiesa etiopica, a differenza dei monaci e dei vescovi, possono essere sposati, purché una sola volta e purché già lo fossero prima dell’ordinazione) sono di per sé poveri (non percepiscono un regolare stipendio), il clero nel suo insieme possedeva fino a poco tempo fa enormi latifondi. Un tempo molti preti ortodossi si preoccupavano di salvare i manoscritti e i tesori delle chiese dai saccheggi musulmani, ma nei tempi moderni una delle più gravi preoccupazioni del governo durante il regno dell’imperatore Selassie è stato l’inventario di questi beni per porre fine all’indecente commercio che ne facevano i preti con i ferengj. Non a caso nell’Ottocento il negus Tewodros, detestando i preti abissini che riteneva troppi e parassitari, e volendo attuare un vasto e radicale programma di riforme, pur riaffermando il cristianesimo come sola religione di Stato giunse a confiscare le terre della chiesa e ad incamerarne i beni, financo 3 4

E. de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino 1958, Boringhieri (poi Bollati Boringhieri 1997). Ad esempio sono commoventi alcuni canti funebri dei Cunama eritrei, come questo che dice: «Chi ti abbia chiamata non so, figlia mia: chi ti ha portato via nell’oscurità non lo so, o tenero germoglio. Non riesco a capire come io abbia partorito figli sulla terra e siano tornati alla terra» (M. Cittadini, Inferie e pianto funebre presso i Cunama, Addis Abeba 1970, Istituto Italiano di Cultura, p. 26).

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distruggendo e saccheggiando decine di chiese, così attirandosi l’odio del clero. Il clero ortodosso si oppose sempre ai tentativi di modernizzazione del paese, temendo la perdita dei propri privilegi: ad esempio al tempo di Menelik, rivendicando per sé l’esclusiva dell’insegnamento concepito come essenzialmente religioso, il clero si oppose alla fondazione di scuole, all’insegnamento delle lingue straniere, all’assunzione di docenti europei. Sempre al tempo di Menelik, il clero si oppose all’introduzione del telefono visto come la “voce del diavolo”; si oppose all’introduzione del cinema in Etiopia cosicché la prima sala cinematografica (denominata dal clero shatan bet, la casa del diavolo) dovette chiudere per mancanza di spettatori che non osavano contraddire il veto del clero (peraltro anche la popolazione diffidava delle stregonerie moderne, e si oppose all’introduzione del mulino che sfornava la “farina del diavolo”); ancora nei primi decenni del XX secolo il clero continuava ad insegnare che la Terra è immobile al centro dell’universo. Il sistema di potere clericale fu per la prima volta ridimensionato dalla politica coloniale fascista che ne abolì i diritti feudali, abolendo il gabar che comportava per le popolazioni l’obbligo del pagamento delle decime e le corvées gratuite. In Etiopia la religione era teocraticamente legata in modo indissolubile al vecchio sistema di potere imperiale che si proclamava erede del mitico Menelik, figlio del re Salomone e della regina di Saba: essa più che mai è stata qui instrumentum regni. Il sovrano (con l’eccezione di Tewodros) è sempre stato il protettore della chiesa a cui ha dispensato feudi, benefici, beni e ricchezze; l’impero si è sempre avvalso della chiesa per affermare la propria sacralità e sancire con essa le proprie decisioni. Così nella cattedrale di S. Giorgio ad Addis Abeba, costruita nel 1896 dall’imperatore Menelik in ringraziamento per la vittoria di Adua e dedicata a S. Giorgio, patrono dell’Etiopia (forse perché paese dalle molte guerre) la cui icona era stata trasportata in battaglia, si possono oggi vedere affreschi (per lo più di un pittore celebre, A. Tekle) non soltanto a carattere religioso bensì anche prettamente politici raffiguranti l’incoronazione dell’imperatore Selassie nel 1930. Parimenti nella cattedrale della Trinità, completata da Selassie nel 1941 per commemorare la liberazione dal dominio coloniale italiano, vi sono due troni (in ebano, avorio e marmo) destinati all’imperatore e all’imperatrice, altri quattro troni per principi e principesse, le tombe di Selassie e dell’imperatrice (quelle di Menelik sono invece in un mausoleo), le tombe di alcuni figli dell’imperatore nella cripta, l’affresco che ricorda il celebre discorso di Selassie alle Nazioni Unite del ’36 contro l’occupazione italiana e altri raffiguranti la fine del dominio coloniale italiano, nonché Selassie con Churchill e varie personalità (sarebbe come

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vedere raffigurato in una chiesa italiana Cavour o Umberto I); all’esterno vi è poi il cimitero con le sepolture dei capi storici della resistenza etiopica al fascismo (fra cui il leggendario ras Immirù), la tomba di Sylvia Pankhurst, l’intellettuale inglese che allora difese la causa etiopica, nonché un monumento dedicato agli ufficiali uccisi dal regime comunista nel 1974. Anche nel monastero di Debre Libanos, a cento chilometri a nord di Addis Abeba, vi sono due troni che erano riservati rispettivamente all’imperatore e all’imperatrice, senza dire dei numerosi affreschi che celebrano momenti politici come la battaglia di Adua, molto sentita come riscatto nazionale. Dunque è evidente che in Etiopia la connessione fra politica e religione è particolarmente stretta, proprio come appare negli affreschi bizantini e ravennati. La religione ortodossa e il potere imperiale erano strettamente connessi: quello etiopico fu sostanzialmente un antichissimo impero che sempre difese il primato del cristianesimo contro ogni altra religione, in particolare contro l’avanzata della religione islamica. L’imperatore, in base all’art. 10 della Costituzione selassiana, doveva essere membro della Chiesa ortodossa. Stato, religione, società appaiono così strettamente intrecciati in una visione totalizzante, per certi aspetti simile (anche se attualmente più liberale) alla prassi usuale nei paesi musulmani.5 La religione del resto è indubbiamente molto sentita, e le case (soprattutto le più povere) sono piene di immagini devozionali, come spesso anche l’interno dei taxi. Indubbiamente essa fornisce una speranza, un conforto e una consolazione alla popolazione. Indubbiamente il clero e il cristianesimo ortodosso, perlomeno fino ad un recente passato, sembra porre al primo posto la penitenza, il valore morale della sofferenza, l’accettazione del proprio destino e del proprio posto al mondo per quanto infimo, nonché l’attesa della ricompensa in un altro mondo per i torti patiti in questo, e al riguardo devo dire che in me non di rado è risuonata la vecchia idea (pur indubbiamente alquanto unilaterale) della religione quale “oppio dei popoli”, nonché l’invettiva lucreziana: tantum religio potuit suadere malorum. Quando ad esempio vedo fuori da una grande chiesa ortodossa alla periferia di Addis Abeba un piazzale enorme perennemente occupato da centinaia di persone che vi stazionano per ore e ore, se non per tutta la giornata, pregando, elemosinando ma anche semplicemente stando lì, come del resto avviene in tutte le chiese anche nei villaggi, quando vengo svegliato 5

Cfr. A. Pollera, Lo Stato etiopico e la sua chiesa, Roma 1926, Reale Società Geografica Italiana. Più recente P. Borruso, L’ultimo impero cristiano. Politica e religione nell’Etiopia contemporanea (1916-1974), Milano 2002, Guerini.

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in piena notte da nenie religiose diffuse attraverso gli altoparlanti, allora veramente la religione (ortodossa o islamica che sia) mi appare proprio “islam”, abbandono e sottomissione al destino nel senso però deteriore del termine, e non posso fare a meno di pensare che se questi uomini, anziché dividere la loro giornata ciondolando per le strade senza meta o pregando e stazionando sui piazzali delle chiese, fossero più attivi, probabilmente la loro condizione sarebbe meno miserabile. Come può essere pienamente attivo nel lavoro diurno chi prega la notte? L’idea che anche l’operosa attività quotidiana, lo spender bene i propri talenti secondo la metafora evangelica, possa essere una forma di preghiera esorbita da questa cultura. Si pensi al riguardo alle lunghe pratiche del digiuno (yezoom). Non penso soltanto al digiuno nel lungo periodo del ramadan, a cui ogni musulmano si attiene scrupolosamente per un mese durante il giorno salvo poi abbuffarsi la notte; penso agli ancor più lunghi periodi di digiuno previsti dalla religione ortodossa, che un testo a cura della stessa chiesa ortodossa etiopica definisce con orgoglio «the longest and most austere in the world»6: il digiuno − con prescrizione di astensione totale dal cibo fino alle 14.45 e divieto nelle ore seguenti del consumo di carne e dei suoi derivati come latte, uova, burro, grassi, formaggio − è previsto a partire dai 13 anni con rare dispense ogni mercoledì e venerdì (non festivo), giorni in cui Gesù venne rispettivamente condannato e crocifisso (molti ristoranti etiopici hanno appositi menu vegetariani in quei giorni); è previsto nei 56 giorni precedenti la Pasqua (Fasika), con restrizioni ancora più severe dal giovedì santo fino alla messa della domenica di Pasqua; poi v’è il “digiuno degli apostoli” da 10 a 40 giorni, in ricordo del digiuno degli apostoli dopo la pentecoste; il digiuno per il giorno dell’assunzione della Madonna (16 giorni), il digiuno dell’avvento (40 giorni), il digiuno nei giorni precedenti o seguenti il Natale, il digiuno di 40 giorni in ricordo della fuga in Egitto, il digiuno nel giorno della prediche di S. Giovanni (terza settimana prima della quaresima, da lunedì a mercoledì), il digiuno dell’epifania, il digiuno del pentimento imposto in espiazione di un peccato per 7 o 40 giorni fino a un anno (a cui è tenuto il vescovo nel periodo della nomina), il digiuno del desiderio, nonché altri digiuni volontari per i religiosi: circa 250 giorni all’anno di cui 180 obbligatori per tutti, e i rimanenti facoltativi o riservati ai religiosi. Anche nella società etiopica attuale le principali prescrizioni di digiuno, quelle del mercoledì e venerdì e i 56 giorni prepasquali, sono seguite con rigore dagli ortodossi e cioè da tutta la popolazione cristiana. 6

A. Wondmagegnehu - J. Motovu, The Ethiopian Orthodox Church, Addis Ababa 1970, The Ethiopian Orthodox Mission, p. 63.

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Ebbene, cosa bisogna dire a questo proposito? Non si nega che il digiuno possa essere una forma di ascesi nel senso etimologico greco del termine, e cioè askesis, «esercizio» al dominio di sé: è sufficiente riuscire ad evitare la pesantezza e l’intorpidimento dei sensi causati dal cibo per pochi giorni per avvertire, passati i primi morsi della fame, un grande senso di leggerezza, una soglia di attenzione più alta e una percezione sensoriale più affinata e sottile. Ma tale esercizio, per sua natura, può essere solo una scelta volontaria dell’asceta. Se invece lo si vuole imporre come prescrizione ad intere popolazioni, allora non possono non venirne alcune considerazioni di sana e vecchia marca illuministica come la seguente: con ogni probabilità non è un caso che questi lunghi periodi di digiuno religioso siano diffusi e prescritti e imposti dal potere religioso, naturale alleato di quello civile, proprio nei paesi più poveri del mondo in cui, soprattutto nei ricorrenti e tragici periodi di carestie e siccità, la fame costituisce un grave problema. Non si può non pensare che queste pratiche si siano diffuse in questi luoghi, non solo fra alcuni mistici ma anche fra le popolazioni, proprio come un modo di “far di necessità virtù” sopportando la fame abituandocisi e trasfigurando la mancanza di cibo in un precetto ed anzi un obbligo religioso. Anche la diffusa pratica dell’uso del chat, che come si è detto non fa sentire i morsi della fame, ha un suo significato sociale accettato dalle autorità. D’altra parte la funzionalità ultima della fame e del digiuno sta anche nel fatto che una popolazione debilitata non ha nemmeno più la forza di ribellarsi. Ma in realtà le pratiche del digiuno sono in tutto dannose perché debilitano organismi spesso già provati, rendendo inabili all’attività: non a caso in passato molti nemici dell’Etiopia attaccavano proprio durante la quaresima precedente la Pasqua, così infliggendo gravi perdite al nemico indebolito dal digiuno, per non parlare del ramadan che, oltretutto danneggiando per le abbuffate serali successive al digiuno diurno l’organismo (che semmai richiede pasti brevi ma ripetuti), paralizza per un mese la vita delle nazioni arabe, con chiusure prolungate di uffici, negozi, ristoranti e attività. Il danno maggiore costituito dalle lunghe pratiche di digiuno è proprio il conseguente affievolimento della capacità lavorativa, cui peraltro concorrono anche le numerose preghiere notturne spesso diffuse tramite gli altoparlanti. Il digiuno religioso, insieme alle molte festività e funzioni religiose, costituisce dunque un problema reale, e non a caso negli anni sessanta in Tunisia il leader Bourguiba aveva cercato di impedire questa pratica. Ma Bourguiba agiva in modo puramente autoritario, in nome di un’ideologia socialista avversa alla religione: come espropriava le terre mal coltivate del clero musulmano, aboliva la poligamia e il velo per le donne, sostituiva il ripudio con il divorzio, comminava impiccagioni ed ergastoli agli integra-

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listi islamici, così voleva abolire il ramadan imponendo al popolo arabo il primato tutto occidentale del lavoro. Impresa ardua: molte sue riforme erano avanzate e progressive, ma la sua politica repressiva non teneva conto della realtà religiosa del popolo cosicché il suo tentativo di sottrarre la società al peso opprimente del clero e di restituire un ruolo alla donna non poteva avere pieno successo. In realtà il problema del ramadan e del digiuno ortodosso dovrebbe essere anzitutto di pertinenza dei capi religiosi che dovrebbero con una certa saggezza alleviarne la rigidezza (così come in Italia la Chiesa cattolica ha alleggerito ad un’ora l’obbligo delle 24 ore di digiuno precedente la comunione, per il quale io a suo tempo al momento della prima comunione svenni cadendo come un sasso): ma, anche se in Etiopia è piuttosto raro certo fanatismo fondamentalista, ben si conosce la rigidità ortodossa e islamica sulle prescrizioni rituali, che certo rende difficili decisioni coraggiose o semplicemente ispirate al buon senso. Tuttavia va detto che se si riesce a penetrare oltre la dura scorza di questa religiosità tradizionale e funzionale al potere, veicolata e custodita da un clero intransigente e distaccato, si può recepire al di sotto delle forme liturgiche e delle devozioni una forma di religiosità non del tutto conforme ai severi dettami e financo trasgressiva. A noi è successo, fuori Addis Abeba, di sentire delle funzioni religiose molto meno tradizionali come ad esempio dei canti gioiosi tipo gospel accompagnati dal suono dei tamburi rituali (i keberò), qui molto usati nelle funzioni; in particolare a Gonder abbiamo assistito a canti religiosi con gioiosi e financo divertiti duetti parlati che suscitavano il riso ilare degli astanti. Ma la vera natura della religiosità di questo popolo credo di averla percepita, paradossalmente, durante le funzioni cattoliche officiate dai salesiani di Dilla, nel sud Etiopia. Ero già stato dai salesiani di Addis Abeba (ho detto di don Dino e del suo lavoro di recupero dei ragazzi di strada) ma a Dilla, ospite della comunità, ho assistito a due messe, la vigilia e la domenica di Pasqua. Ebbene, devo dire che è stato indimenticabile: ho percepito una intensissima partecipazione corale, quasi palpabile nell’atmosfera, e fra i ritmi del tamburo rituale ho udito cori e canti gioiosi fra cui un Alleluia di straordinaria bellezza. A un certo punto il sacerdote dice qualcosa in amarico, e tutti i presenti nella chiesa gremita e stipata (si trattava di gente sidamo) scoppiano in un uragano di applausi frenetici e ritmati, effettuando col rapido movimento della lingua quello strano e particolarissimo ululato che solo gli etiopi (o gli africani) sanno fare, e tutti manifestano incontenibile felicità. Quando più tardi chiedo a don Giorgio, il sacerdote, cosa avesse mai detto per suscitare un simile pandemonio, la risposta è stata: ho comunicato loro che Yesùs Christòs

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è risorto. Certo è lontano dalla nostra sensibilità questo modo di manifestare la religiosità fra canti, danze, applausi, ritmi, risate, ma esso esprime il sentimento di una popolazione che, pur vivendo nella miseria, pur camminando scalza e vestita di stracci, pur falciata dalle malattie, esprime comunque gratitudine per la vita in un modo che per noi può essere perfino incomprensibile: ma l’autentica preghiera non è richiesta di qualcosa bensì è essenzialmente ringraziamento. Quindi quando il sacerdote dice che è avvenuta la resurrezione, scoppia la gioia perché quell’annuncio non riguarda solo il Cristo bensì è una speranza di vita nuova per tutti loro. E a me sovviene alla mente una frase della poetessa Alda Merini: «I poveri credono in Dio. I poveri hanno un grande dono: la religione e la fede». Quello scoppio di gioia, quell’uragano di applausi frenetici e ritmati in una chiesa che per noi è il luogo buio del silenzio solo rotto dalla voce del sacerdote, a me ricordava un quadro di Salvador Dalì dal titolo Esplosione di fede in una cattedrale. Io non vorrei questo dono, il dono della fede, perché sono un figlio del dubbio, però in certi momenti ne scorgo la bellezza. Ho anche pensato alla sapienza della Chiesa in ciò: bisogna dare atto ai salesiani di Dilla di essere riusciti a non sovrimporre, dall’esterno e coercitivamente, la religione cattolica ad una popolazione rurale che vive nelle capanne e che naturalmente ha ereditato dagli avi un sentimento che possiamo definire animistico e panteistico della natura. Questi sacerdoti sono amati dalla popolazione non soltanto perché oggettivamente ne elevano il livello di vita materiale (distribuendo quotidianamente l’acqua a lunghe file di persone, istituendo scuole, insegnando i mestieri etc.), ma anche perché portando il cristianesimo non hanno preteso di cancellare e azzerare la cultura di queste popolazioni, bensì l’hanno integrata e sviluppata nel segno della continuità e non della rottura. Per questo la messa, anziché essere una fastidiosa incombenza cui ottemperare per non commettere peccato, diventa qui un’occasione unica, attesa, una festa di popolo a cui nessuno vuole mancare e per la quale vi sono uomini e donne che si mettono in cammino per ore con i bambini per assistervi, spesso per l’occasione vestendo il vestito tradizionale bianco variamente decorato e impreziosito (il kemis) con sopra il tipico mantello bianco o shamma (il colore bianco è molto diffuso perché contrasta bene col nero della pelle ed assorbe meno i raggi solari), e per questo la messa può durare tranquillamente un paio d’ore. Questa sentita religiosità la si sente e la si vede ovunque in Etiopia: la si vede nell’autista che immancabilmente passando con l’auto vicino ad una chiesa si fa il segno della croce, o passandovi a piedi appoggia il capo sulle sue mura, e la si vede nel povero mendicante che ti dice “Dio ti benedica” poiché gli hai dato qualche moneta. Proprio a questo proposito circola in Etiopia una

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storiella, potremmo dire una barzelletta, invero piuttosto amara. Dice di un italiano che la sera, dopo aver cenato con un abbondante piatto di pasta, salumi, formaggi, un arrosto brasato e un buon Chianti, va a dormire imprecando e bestemmiando perché non è contento della sua giornata e della sua vita. Dio dall’alto dei cieli guarda e dice tristemente: “evidentemente le cose non vanno bene laggiù”. Poi è la volta di un americano che, dopo aver cenato con un’enorme bistecca e patatine fritte accompagnando il tutto con grandi boccali di birra e qualche rutto, va a dormire imprecando e bestemmiando perché non è contento della sua giornata e della sua vita. Dio dall’alto dei cieli guarda e dice tristemente: “evidentemente le cose non vanno bene laggiù”. Quindi è la volta di un francese che, dopo aver cenato con cruditées e foie gras innaffiando il tutto con un buon Beaujoulais, va a dormire imprecando e bestemmiando perché non è contento della sua giornata e della sua vita. Dio dall’alto dei cieli guarda e dice tristemente: “evidentemente le cose non vanno bene laggiù”. Infine è la volta di un etiope che, dopo aver saltato il pranzo ed essere riuscito a mettere insieme per la cena un paio di patate e un poco di verdura, ringrazia Dio per quello che gli ha dato. Dio dall’alto dei cieli guarda e, ora lieto, dice: “finalmente, almeno laggiù non vi sono problemi e va tutto bene”. E qui bisogna capire una cosa: al contrario dell’islamismo che è nato come una religione guerriera e conquistatrice e al contrario dell’ebraismo più legalistico e ritualistico il cristianesimo, assai più che il cattolicesimo gerarchicamente strutturato, è originariamente una religione che dichiara l’accesso al cielo per i ricchi più difficile del passaggio per la cruna di un ago e diffonde il suo messaggio di eguaglianza e fraternità anzitutto fra i poveri, i reietti, i diseredati, gli schiavi, i “dannati della terra”, cui promette il conforto, la speranza, la redenzione, la resurrezione. Per quanto possa sembrare paradossale dirlo, il cristianesimo «risponde, come nessun’altra fede, alle più intime esigenze della natura africana. Lo dimostrano la rapidità con la quale la predicazione evangelica si sparse in tutti i centri conosciuti del continente e la tenacia con la quale l’eredità degli apostoli fu difesa dai popoli africani, in confronto alla facilità con la quale si convertirono all’Islam i popoli dell’Asia»7. Se in passato potevo pensare al cristianesimo come qualcosa di importato in Africa e più o meno sottilmente imposto dai missionari al fianco degli amministratori coloniali, se potevo pensare a certi ibridismi come ad astuzie pretesche volte a salvaguardare la forma di certi riti arcaici tollerandoli nell’intento di controllarli e convogliarli secondo 7

L. dei Sabelli (L. Pietromarchi), Storia di Abissinia, 4 voll., 1936-1938, Roma 1936, Ed. Roma, vol. I, p. 18.

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estranee finalità cristiane, se potevo pensare al cristianesimo come un qualcosa di radicalmente estraneo alla spontanea religione animistica e quasi panteistica delle genti africane, devo dire che ora mi sono in parte ricreduto. I popoli africani che abbracciano il cristianesimo (o anche l’islamismo, pur così diverso) non per ciò hanno rigettato e dimenticato le loro tradizioni e la loro cultura, bensì l’hanno mantenuta ampliandola e arricchendola (anzitutto da se stessi e non per machiavellica e subdola imposizione) in un sincretismo religioso e in un crogiolo per essi certamente efficace anche se per noi desueto: parleremo fra breve di importanti feste religiose etiopiche il cui peculiare ibridismo fra residui arcaici e cristianesimo è qualcosa di essenzialmente spontaneo non riducibile ad astuzia manipolatoria e sovrapposizione da parte delle gerarchie religiose. E ancora, in tema di spontanea riplasmazione del sentimento religioso, si pensi alla cosiddetta “teologia della liberazione” sudamericana (in cui peraltro la rivendicazione della lotta di classe finiva per sopravanzare l’esigenza religiosa), e ancor più si pensi ai movimenti cristiani (o a sfondo cristiano) millenaristici, messianici e profetici con la loro ansia di liberazione e di salvezza, con il loro anelito ad un rinnovamento religioso e sociale, con la loro richiesta di riscatto per il popolo nero, per capire come il cristianesimo non sia affatto una religione estranea all’anima africana8. Potremmo anche dire della figura di Emmanuel Milingo. Nato in Zambia e arcivescovo di Lusaka, egli con opere di grande impatto e fondazioni di ordini religiosi molto ha fatto per la diffusione in Africa del cattolicesimo, da lui però sempre vissuto (con crescente imbarazzo e apprensione delle autorità ecclesiastiche) in un senso alquanto africano con la sua attività di guaritore ed esorcista che ne ha fatto una sorta di padre Pio, con le sue quasi folkloristiche messe di sanazione celebrate di fronte a migliaia di persone, con le sue produzioni musicali (inclusa una partecipazione al festival di Sanremo) e discografiche di canti e riti tribali, fino all’avvicinamento (nonostante il “controesorcismo” di Giovanni Paolo II che in nome di Gesù gli ordinò il rientro nella Chiesa cattolica) alla setta di Sun Moon, al matrimonio interno alla setta, alla presa di posizione contro il celibato ecclesiastico visto quale generatore di perversioni e abusi sessuali, alla consacrazione vescovile di sacerdoti sposati, con finale e prevedibile scomunica ecclesiastica: proprio in queste ultime vicende, oltre che nella produzione musicale e nell’attività di guaritore, si vede bene il tratto 8

A torto V. Lanternari (Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano 1974, Feltrinelli) accentua in queste forme di sincretismo religioso più l’elemento compromissorio e manipolatorio istituzionale che non l’effettiva riplasmazione e sintesi “dal basso” delle culture, riducendo l’innesto cristiano a poco più di una vernice esteriore.

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africano di Milingo poiché alla mentalità africana, per la quale il celibato e la mancanza di figli sono un’ignominia, il celibato ecclesiastico appare incomprensibile. Per tutto questo Milingo è certamente un capitolo significativo della storia della religiosità africana contemporanea. Parlando dei movimenti cristiani (o a sfondo cristiano) millenaristici, messianici e profetici con la loro ansia di liberazione e di salvezza, con il loro anelito ad un rinnovamento religioso e sociale, con la loro richiesta di riscatto per il popolo nero, diremmo che il movimento dei Rasta ne è in Giamaica e in Etiopia l’esempio più chiaro. La strana storia del movimento dei “rastafariani” è veramente significativa9: nato in Giamaica per influsso delle idee di Marcus Garvey (che però non vi si identificò) e dedito alla marijuana come via di percezione religiosa, il movimento, a cui apparteneva anche Bob Marley, prende il nome da Ras Tafari (il nome dell’imperatore Selassie prima dell’incoronazione) in quanto vedeva in lui l’incarnazione divina dell’atteso Re e Messia nero capace di avviare il ritorno in Africa dei neri esportati nei secoli come schiavi e capace di liberarli dalla loro millenaria diaspora e soggezione. Per questo i Rasta nel 1934 rifiutarono la lealtà alla corona britannica (la Giamaica essendo allora colonia inglese) con conseguenti persecuzioni da parte delle stesse autorità giamaicane. Selassie, che nel 1963 indirizzò alle Nazioni Unite un appello alla pace che ispirò una canzone di Marley, visitò nel 1966 la Giamaica incontrandosi con i rastafariani, che da allora celebrano annualmente quel giorno, auspicando la liberazione e il ritorno dei neri in Africa. Grossa illusione, naturalmente, visto che in realtà gli etiopi non si ritengono affatto neri né fratelli dei neri: gli amhara di origine semitica, in realtà, si sono sempre ritenuti razzialmente superiori ai popoli neri del sud che hanno schiavizzato per secoli, e ben difficilmente si può immaginare l’Etiopia ergersi a campione della libertà dei neri. Ma Selassie non mancò di usare politicamente questa illusione in modo da fare dell’Etiopia, onde accrescerne l’importanza e il prestigio politico, un faro e un punto di riferimento per i neri del mondo: infatti donò terre e strutture per l’insediamento dell’attuale comunità rastafariana nell’Etiopia meridionale a Shashemane. Oggi i Rasta vedono nelle difficili condizioni attuali dell’Etiopia (passata attraverso la carestia, la dittatura comunista, la guerra con l’Eritrea) la punizione per la deposizione e il successivo assassinio di Selassie: essi credono che la sua morte sia stata soltanto apparente e che egli si sia occultato per tornare un giorno, in una nuova incarnazione, alla guida non soltanto dell’Etiopia ma del popolo 9

L. Barret, The Rastafarians. The dreadlocks of Jamaica, London 1977, Heinemann-Sangster’s Book.

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nero tutto. Quando il 23 luglio 1992, nell’anniversario della sua nascita, avrebbe dovuto svolgersi la cerimonia (all’ultimo rinviata) di traslazione della salma di Selassie alla nuova chiesa della Santissima Trinità, duemila rasta arrivarono dalla Giamaica per l’occasione. E non a caso nel 2005 il grande concerto annuale per l’anniversario della nascita di Bob Marley (di cui peraltro una parte del movimento rasta rigetta la musica come puramente commerciale) è stato per la prima volta tenuto ad Addis Abeba e non in Giamaica: il concerto gratuito (a cui abbiamo assistito proprio tre giorni dopo il nostro arrivo ad Addis Abeba), celebrato come un evento dalla stampa locale e internazionale e ripreso in diretta dalla televisione etiopica, è durato tutto il giorno fino a tarda sera con una folla strabocchevole anche di stranieri accalcata nella centrale ed enorme Meskel Square, per l’occasione splendente grazie ad un nuovo impianto di illuminazione. Noi abbiamo avuto modo di intrattenerci a Shashemane con uno dei più anziani e noti personaggi del mondo rastafariano, mister Gladstone Robinson: ci ha accolto nella sua casa tappezzata (come tutte le case rasta) di immagini dell’imperatore Selassie in commistione con immagini devozionali cristiane. Ci ha mostrato alcuni video sui Rasta e le foto di famiglia. Era nato a New York, figlio di neri, ma è venuto in Africa a fare il farmacista e ormai da 40 anni vive in Etiopia. Mi prende in particolare simpatia quando, vedendo in casa le percussioni, improvviso un pezzo ritmato: a quanto pare apprezza la performance che benevolmente giudica “da vero professionista”. Ci dice che ha 12 figli, di cui vediamo le foto, e ci fa un discorso in stile hippy anni sessanta su peace, people and love, ci dice della stupidità degli umani usi alla guerra, inframezzando il tutto con riferimenti a Jesus e a Selassie. Ma il discorso non è sconclusionato: mi rendo conto di avere a che fare con un idealista, con un uomo dall’animo buono e generoso che (come si diceva in quei tempi) “trasmette buone vibrazioni”. Quando guardo le foto di lui slanciato ed elegante farmacista quarantenne afroamericano e le confronto con il vecchio matto fricchettone che mi sta davanti, capisco che un cambiamento importante deve essere avvenuto ad un certo punto nella sua vita, se è passato da New York a Shashemane aderendo al movimento rasta. Ci abbracciamo quando ci lasciamo, e ci dice che ci vorrà rivedere: per intanto, salutandoci non manca di rifornirci di una piantina di marijuana che ci consegna come un cospiratore dicendoci di non mostrarla a nessuno (in Etiopia è proibita) e spiegandoci dettagliatamente come farla seccare e piantare. La religiosità etiopica appare spesso frammista a forme di magismo e medicina tradizionale popolare. Abbiamo parlato del gourri, della danza

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estatica che libera dalla possessione; abbiamo parlato delle indemoniate che nella chiesetta di Entoto invocano a loro modo il libera nos a malo; diremo più oltre della straordinaria esperienza vissuta nel santuario islamico di Sheick Hussein quasi al confine del deserto dell’Ogaden presso la Somalia. Ma per capire questo tipo di religiosità, occorre anzitutto assistere alla cerimonia del Timkat che dodici giorni dopo il Natale etiopico, celebrato a gennaio, rievoca il battesimo di Cristo nel Giordano da parte di Giovanni il Battista. Timkat significa appunto “battesimo”, e non dimentichiamo che nella storia etiopica vi sono state sette “adozioniste” (o goggiamesi dalla regione del Goggiam) per le quali il battesimo di Cristo è così importante che solo attraverso esso Gesù sarebbe divenuto figlio di Dio. La cerimonia del Timkat si svolgeva e tuttora si svolge con particolare suggestività a Lalibela e nei cosiddetti “bagni di Fasilidas” a Gonder, anche se in realtà non sono proprio “bagni” trattandosi di un luogo ad uso di cerimonie religiose. Il castello cosiddetto di Fasilidas era circondato dalle acque e nel giorno del Timkat un sacerdote ne benedice la grande vasca per l’occasione riempita d’acqua, presso la quale è stato trasportato il tabot, dando avvio alla cerimonia in cui per tre giorni la rievocazione del battesimo di Cristo nel Giordano supera il paludamento del clero e nulla ha della ieraticità con cui in occidente Piero della Francesca ha rappresentato il tema. Certo, lo sguardo occidentale può rimanere perplesso: «qui io non colgo alcuna vitalità spirituale − scrive ad esempio Devla Murphy −. Mi sembra che la cerimonia religiosa serva semplicemente come pretesto per una processione pittoresca, per un’orgia di canti e balli, per una giornata di vacanza e per qualche eccesso alimentare, alcolico o sessuale»10. E indubbiamente il battesimo di Cristo (come peraltro anche in antiche feste europee celebranti il battesimo di S. Giovanni il 24 giugno) viene rivissuto in una forma alquanto trasgressiva. Anzitutto la cerimonia non avviene nel chiuso di una chiesa ma all’aperto, per lo più sulle rive di un fiume. A Gonder la vasca viene presa d’assalto dalla folla in un caos di urla, spruzzi e risate. Si tratta di un momento di gioia e di festa, non di serietà raccolta e trattenuta, si tratta di un bagno in una sorta di “fontana della giovinezza” certamente piuttosto profana: le acque santificate ritemprano e rinforzano, favorendo una nuova nascita anzitutto in senso fisico e non puramente spirituale. Le acque magiche di Gonder ricordano quelle della chiesa di Bet Maryam a Lalibela, che secondo la credenza favoriscono la gravidanza delle donne sterili, e facilmente si intravede l’arcaico culto delle acque in una terra in cui la mancanza d’acqua è spesso causa di drammatiche siccità: 10

D. Murphy, In Etiopia con un mulo, cit., p. 142.

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non a caso gennaio, mese in cui si tiene la cerimonia (o la festa), è forse il mese più secco e privo di pioggia in Etiopia, per cui il Timkat appare come un’invocazione della pioggia che ricorda molto i rituali magici attestati dal Frazer in tutto il mondo e ovunque consistenti in immersioni rituali con ampie spruzzate d’acqua sulle persone e sulla stessa terra11. Probabilmente, se i “bagni di Fasilidas” assolvevano già in passato questa importante funzione religiosa di evocazione dell’acqua fecondante allora, poiché questi edifici furono costruiti nel XVII secolo dai portoghesi che solcavano l’Oceano indiano e si avvalsero di maestranze indiane, è facile pensare che tramite i portoghesi un influsso prettamente indiano, e cioè qualcosa della cerimonia del Gange, sia giunto fin qui. Che la rievocazione del battesimo cristiano sia sostanzialmente una sovrastruttura aggiunta ad antichi riti “pagani” della fertilità, della pioggia e della giovinezza appare confermato anche dal Pollera, che assistette ad una cerimonia con sacrifici animali e immersione nelle acque in Eritrea presso la popolazione dei Baria, in cui certamente il rito era legato alla tradizionale devozione alle acque sacre e nulla aveva di cristiano, anche vista la conversione dei Baria all’islamismo12. Tuttavia, come già detto, vediamo in queste forme di ibridismo religioso più una spontanea creazione del sentimento popolare che non una machiavellica astuzia pretesca. Con ogni evidenza, è spesso facilmente rintracciabile nelle cerimonie religiose etiopiche uno sfondo “pagano” e precristiano. Questo sfondo si rivela chiaramente nella grande e antica festa religiosa del Meskel, forse di origine bizantina ma in Etiopia risalente al tempo dell’imperatore Dawit (XIV sec.), che celebra ogni anno il 27 settembre (il 28 nell’anno successivo a quello bisestile) il ritrovamento da parte dell’imperatrice Elena, la madre di Costantino, del Meskel ovvero della Vera Croce. Ad Addis Abeba la cerimonia ufficiale si svolge nella Meskel Square, fra canti religiosi e sfoggio di bellissimi costumi da parte dei sacerdoti, con grande partecipazione di popolo e alla presenza del presidente della Repubblica e dell’abuna, il Padre e patriarca della chiesa etiopica: una colossale catasta di legna e paglia fatta con fasci di euforbie, alta forse una ventina di metri e sorretta da uno scheletro ligneo e arboreo, sulla cui cima è una piccola croce in legno cui sono legate margherite gialle (che in Etiopia crescono solo in questo periodo e sono un simbolo di pace), viene incendiata e diventa un grande 11

12

J. Frazer, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, 1911-1915, 12 voll., tr. it. dell’edizione ridotta del 1922 Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Torino 1973, 2 voll., Boringhieri, cap. “Il potere magico sulla pioggia”, particolarmente pp. 112-117. A. Pollera, I Baria e i Cunama, Roma 1913, Reale Società geografica, pp. 90-91.

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falò, avvolto dal fuoco fino a ridursi in cenere. Contemporaneamente alla grande celebrazione in Mesquel Square tutta l’Etiopia rigurgita di falò, e per le strade si vendono piccoli fasci di rami legati ad un mazzo di margherite gialle (la nostra stessa mamité quel giorno onde ricordare la festa ha adornato la nostra casa con un bel mazzo di margherite gialle). Se il Timkat è il rito che celebra l’Aqua fecondante, il Meskel è invece il rito del Fuoco purificatore. Il falò rimanda ad una tradizione universale (ricordata da Frazer in Il ramo d’oro) e in particolare ricorda antichi riti europei (talora ancora sussistenti nel folklore) che rivelano sullo sfondo arcaici elementi solari: danzare attorno al fuoco, saltarvi attraverso e passare fra i fuochi, camminare sui carboni ardenti, far ruzzolare per i declivi una ruota di paglia infiammata, significa evocare il Sole e le fiamme delle stelle e ripercorrere le danze dei corpi celesti in cielo. Se Estia è il focolare del mondo che ogni focolare domestico riproduce, il fuoco acceso dagli uomini in terra ad imitazione del fuoco celeste, e connesso ai periodi ciclici solari, non solo annuncia e celebra il ritorno della primavera ma anche favorisce la fatica del Sole che porta la buona stagione sulla Terra. Il falò rituale ha una funzione propiziatrice: accendere un fuoco in terra all’approssimarsi della primavera significa sostenere il Sole nel suo sforzo in cielo e “aiutarlo” a brillare; il fuoco vivente in terra, ad imitazione di quello celeste, aiuta il Sole in cielo a scacciare l’inverno, il freddo, il gelo e, come esso, apporta luce, ardore, calore, concima e fertilizza il terreno, consente una miglior crescita dei raccolti, comunica forza ed energia, celebra ed auspica il bel tempo e un buon raccolto, annuncia la fecondità e la fertilità delle messi, degli armenti, della natura tutta e delle donne; al contempo, allontana ed espelle le forze cattive e malefiche, distrugge gli spiriti negativi apportatori di disgrazie e di malattie, protegge gli uomini e il bestiame dal male.13 In Etiopia il falò del 27 settembre celebra non l’uscita dall’inverno e il passaggio alla primavera, poiché in prossimità dell’equatore non vi è una netta distinzione fra le stagioni, bensì (ma il senso è poi lo stesso) la fine della stagione delle piogge che hanno fertilizzato i terreni e, poco dopo il nuovo anno etiopico che cade l’11 settembre, l’inizio dei raccolti. Con il consumarsi del vecchio Sole il fuoco indica un tempo rinnovato e celebra una rigenerazione della natura e dell’uomo. Ciò che si consuma è la fine delle piogge: si accende il fuoco e questo fuoco, che asciuga e vince l’acqua, bruciando ha 13

Sul “culto degli alberi” e i riti del fuoco v. J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., particolarmente pp. 175-221, 943-1027. Tutta l’opera di Frazer (con enorme accumulo, e talora ammasso, di dati) privilegia nella religione arcaica i riti agrari, i culti fallici della fecondità, i riti della vegetazione con morte e rinascita della divinità. V. anche I. Buttitta, Il fuoco. Simbolismo e pratiche rituali, Palermo 2002, Sellerio.

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simbolicamente in se stesso il potere di allontanare la stagione delle piogge onde permettere i raccolti. Al tempo stesso il fuoco consuma con l’albero l’anno vecchio: prima di entrare nel nuovo anno si espellono, consumandoli e distruggendoli nelle fiamme, i mali e i dolori accumulati nell’anno vecchio (anche in Europa in certi casi nelle feste dell’albero del maggio si brucia l’albero dell’anno precedente), e così si segna l’uscita dall’anno ormai passato e al contempo si apre e si festeggia l’entrata nell’anno nuovo. Spesso, in varie parti del mondo e soprattutto in contrade europee, nelle feste del fuoco con l’albero si bruciavano anche effigi, pupazzi e fantocci che rappresentano qualcosa di negativo da esorcizzare; si gettavano nelle fiamme anche animali vivi, soprattutto gatti, ritenuti incarnazioni di streghe. Il Frazer dice che probabilmente un tempo in questi falò si bruciava un animale o un uomo, poi sostituiti dai pupazzi e dai fantocci: egli suppone che le antiche feste europee del fuoco con i loro falò di fantocci e animali vivi derivassero dalle feste celtiche in cui sembrano attestati (Posidonio, Strabone, Cesare) dei sacrifici umani in cui le vittime (criminali o prigionieri), sacralizzate quali incarnazioni del morente dio della vegetazione, venivano racchiuse e avvolte nei vimini e poi date alle fiamme onde propiziare la fertilità della terra, donde poi i roghi europei delle streghe accusate fra l’altro proprio di danneggiare i raccolti con i loro malefici. Cesare Pavese (che fu anche studioso di etnologia), narrando in La luna e i falò (1950) del ritorno nelle Langhe di un emigrante in America che invano cerca di ritrovare le proprie radici nel clima drammatico susseguente alla fine della seconda guerra mondiale, evoca la morte di una donna, fucilata dai partigiani come spia fascista, il cui cadavere viene dato alle fiamme con la benzina lasciando la cenere e il segno del rogo «come il letto di un falò»: ove il falò sembra richiamare un antico rito che però non risveglia nessuna terra ma soltanto riduce una vittima in cenere. Anche in Etiopia potremmo forse vedere una traccia di antichi riti sacrificali nel supplizio della “mussolina”, descritto dal celebre etnologo Griaule che vi assistette, ben più terribile della morte sul rogo che solitamente avviene per soffocamento in quanto il reo (che in quel caso aveva attentato alla vita di un potente ras), bendato come una mummia e cosparso di cera, viene dato alle fiamme come una torcia umana14; la morte per rogo era spesso applicata in Abissinia (Tewodros più volte fece incendiare dei tukul ove erano richiusi dei nemici o, in un caso, dei lebbrosi). Tuttavia la cerimonia etiopica del Meskel, come peraltro spesso altre simili cerimonie del fuoco, non è riducibile ad 14

M. Griaule, Les flambeurs d’hommes, 1934 (tr. it. Torce d’uomini. I riti arcaici dell’Etiopia cristiana, Milano 1999, Red).

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un culto “pagano” né v’è prova alcuna di connessioni con arcaici sacrifici umani: essa infatti, pur in peculiare contaminatio con riti agrari connessi ai cicli stagionali e annuali, è nondimeno − nel paese più cristiano dell’Africa − una festa della croce, anzi di un episodio emblematico (affrescato in occidente da Piero della Francesca ad Arezzo) come il ritrovamento da parte di Elena madre dell’imperatore Costantino della vera Croce, un frammento del quale si vuole conservato in una chiesa del Wollo. Senonché subentra un elemento di sconcertante stupore: qui sul rogo, per l’appunto, non v’è una strega e nemmeno il suo pupazzo. V’è invece una croce e la croce, che per il cristiano è il simbolo più prezioso, viene bruciata e ridotta in cenere di fronte a tutto l’alto clero riunito. Si può domandare: come può un cristiano bruciare la croce? Com’è possibile bruciare sul rogo una croce come se fosse un pupazzo di strega o un gatto indemoniato? Ricordiamo al riguardo che in occidente molti cavalieri templari furono mandati al rogo dietro l’accusa (o la calunnia) di esser usi a calpestare la croce: ora, bruciare la croce è meno blasfemo di calpestarla? Viene il sospetto che qui si sia infiltrata nella religione ufficiale, eludendo le maglie della più rigida censura, la convinzione propria di antiche sette cristiane etiopiche (di cui riparleremo) che, condannate come eretiche dal potere, disprezzavano la croce e ne rifiutavano il culto. E, certo, in questa dissolvenza nel fuoco si può anche scorgere come una volontà inconscia di dissolvere la Croce che, prima della resurrezione, rimane un simbolo di dolore e morte: la croce cioè “sta per” (stat aliquid pro aliquo) il crocefisso, “sta per” il Cristo proprio come il pupazzo della strega o il gatto indemoniato “sta per” la strega o come il rogo dell’albero “sta per” la morte sul rogo della vittima che incarna lo spirito morente della vegetazione autorinnovantesi. Ma, pur ammettendo un’infiltrazione di questo genere, pur ammettendo cioè una sorta di sotterranea volontà di rifiutare e distruggere il simbolo dell’umiliazione e del dolore, va detto che tale simbolo è distrutto soltanto in quanto rimanda al dolore e alla sofferenza della croce, perché questa distruzione della croce come luogo di morte è al contempo la visione di una nuova vita che non a caso viene fatta approssimativamente coincidere con il nuovo anno, che segue di poco: la cerimonia allude evidentemente ad una sorta di identificazione del Cristo con la salamandra che si vuole passi indenne attraverso il fuoco, con l’araba fenice che dopo l’estrema consunzione risorge dalle proprie ceneri, con gli stessi iniziati che camminano indenni sulle braci ardenti, e ricorda l’Eracle greco che esperisce la propria apoteosi e assunzione in cielo tramite il rogo. Il fuoco insomma distrugge l’impuro ma preserva e salva il puro: per questo motivo la croce può essere bruciata senza che danno le venga. La festa del Meskel del resto ricorda che l’avvenuto ritrovamento della vera

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Croce ad opera di S. Elena fu possibile grazie alla grande luce miracolosa che rese possibile l’indicazione del luogo del ritrovamento: il fuoco del Meskel reitera anzitutto questa luce; esso non è un fuoco di distruzione bensì un fuoco che illumina, un fuoco che è luce (come tale appare in un quadro di un giovane pittore di Addis da noi acquistato, in cui la fiamma del Meskel appare appunto come cromatismo, come pura luce). In questo senso nel falò del Meskel si consuma un sacrificio che non è più solo il sacrificio e la fine di un ciclo naturale, sebbene naturalmente lo inglobi, ma è anche e anzitutto il rito del sacrificio e della morte del Cristo in croce. Consumando, la fiamma libera e rigenera: distruggendo la croce libera lo spirito del Cristo crocefisso. La croce infiammata allude alla morte e alla resurrezione di Cristo, come alla resurrezione del Sole e del ciclo della natura (si ricordino la morte e la resurrezione di Osiride, di Attis, di Tammuz, di Adone, di Dioniso, nonché la scomparsa e ricomparsa di Persefone): è il Cristo stesso che, con la natura che risorge dopo le piogge, muore consunto dalla fiamma per poi risorgere. La croce bruciata, diventando fumo, sale e si ricongiunge al cielo. La forma stessa del rovo a cui viene dato fuoco − in cui i rami e i legni sono disposti a vertice conico − allude proprio a questa spinta verticale e ascensionale. Il fuoco è un mediatore in quanto stabilisce un contatto fra la Terra e il Cielo: esso discende dalla regione del cielo che è la regione del fuoco, perché la fiamma è la stessa che accende il Sole e le stelle e viene portata sulla Terra con i fulmini e il calore solare (o con un vero e propio furto, secondo il mito di Prometeo); ma poi essa ritorna al cielo ascendendo verso l’alto (secondo Aristotele il fuoco tende naturalmente verso l’alto in quanto l’alto è il suo “luogo naturale”). Il fuoco è purificatore: l’albero in fiamme diventa essenza, fumo. La sostanza bruciata non è annichilita ma, conservata trasformata in essenza e in fumo, sale al cielo: salendo al cielo, verso l’alto, verso la divinità il fumo, che conserva la sostanza bruciata, nel ricongiungersi alla divinità porta con sé e le trasmette le speranze, le attese, le richieste, le preghiere e i desideri degli uomini. Attraverso il fuoco, attraverso le fiamme, avviene una rinascita. In questo senso il fuoco purificatore dona l’immortalità, poiché la morte è vista come la premessa della rinascita e dell’assunzione in cielo: in questo senso la fiamma è il simbolo della morte e della resurrezione. Nuovamente, non penseremmo tanto ad una esteriore sovrimposizione delle gerarchie clericali, volta a incanalare a fini manipolatori e a rendere accettabili gli elementi “eversivi” di un rito arcaico di una popolazione naturaliter “pagana”, delle cui forme rituali è in realtà interiormente partecipe lo stesso clero, quanto piuttosto penseremmo alla naturale trasformazione − nel segno della continuità e non della rottura − di un rito arcaico

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che giunge ad inserire importanti elementi cristiani senza rinnegare la propria precedente natura. Ma certamente il volto precristiano della cerimonia rimane evidente per tutto quanto detto: non solo la croce posta in cima alla catasta arborea è veramente minuscola e quasi insignificante per dimensioni, ma in particolare all’epilogo della festa possiamo anche rilevare un aspetto superstizioso che consiste nell’attesa della caduta del traliccio ligneo sottostante il falò, poiché esso per essere propizio e non annunciatore di sventura deve cadere verso est, donde i vari trucchi dei sacerdoti per farlo cadere nella maniera desiderata (sbilanciamento del traliccio, incendio del falò dalla parte desiderata, etc.), sebbene poi una folata malandrina di vento possa sortire l’effetto opposto. Inoltre alla fine della cerimonia molte persone raccolgono a scopo propiziatorio parti delle ceneri del falò e spesso se ne cospargono il volto, si direbbe non tanto come memento mori e segno di penitenza cristiana quanto piuttosto come retaggio di una cultura tribale e tradizionale che dà molta importanza alla maschera, al tatuaggio, all’ornamento del volto e del corpo. Queste persone in realtà non si cospargono il capo di cenere bensì si dipingono il volto con la brace: essi credono infatti che, come la brace feconda i campi e ne permette la crescita, così protegge e guarisce preventivamente dai mali chi se ne adorna. Se questo popolo sembra fondamentalmente onesto, come prova la scarsa criminalità che tanto più colpisce in un paese così povero dove il furto e la rapina (molto più diffusi in altri paesi confinanti) potrebbero apparire una scorciatoia, questo è probabilmente dovuto non solo alle numerose forze di polizia ma anche ad un sincero e autentico senso religioso. Si direbbe che gli etiopi sentano sempre sopra di sé e attorno a sé l’occhio vigile del divino, che scruta nelle reni e nei cuori e a cui nulla sfugge del cuore e dei peccati dell’uomo. Forse l’emblema di questa religiosità sempre consapevole di non poter sfuggire allo sguardo divino è la chiesa di Debre Berhan Selassie di Gonder, fondata dall’imperatore e santo Iyasu. Nella chiesa si trova un’immagine della Trinità, e altri affreschi narrano della vita di Maria, di Gesù e dei santi cristiani. Ma ciò che cattura immediatamente l’attenzione è altro: infatti sul soffitto e anche sulle pareti della chiesa sono rappresentate, con molti altri affreschi risalenti al XIX secolo sebbene sembrino molto più antichi, più di 80 teste alate di cherubini. Nella religiosità etiopica è molto importante l’angelologia, e nella chiesa di Gonder gli occhi di questi angeli ti guardano da ogni dove, come se si trattasse di un unico occhio rifratto e moltiplicato in un fantasmagorico e inquietante gioco di specchi. In tutto il pensiero arcaico (dall’area indoeuropea all’area asiatica all’aerea africana e amerindiana) l’essere supremo è stato concepito come una divinità ura-

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nica del Cielo che (al contrario della Madre Terra buia e opaca che crea fra le viscere telluriche e ctonie in uno stato oscuro e notturno) tutto sa, tutto vede e tutto ode (sulle pareti di molti templi dell’antico Egitto si può vedere raffigurato l’occhio divino che tutto vede). La luce sparsa per il cielo è la condizione della piena visibilità e conoscenza, il Sole è l’occhio diurno dell’essere supremo celeste, la Luna è il suo occhio notturno, le mille stelle sono i mille occhi supplementari cosicché anche il cielo notturno è tutto cosparso di occhi: quindi anche nell’oscurità più fitta la divinità suprema dall’alto del Cielo tutto vede e tutto ode tramite i suoi spiriti intermediari: tutto vede attraverso il Sole, la Luna e i corpi celesti che sono i suoi organi, e tutto ode attraverso il vento che è il sospiro divino che con mille orecchie ascolta i discorsi degli uomini15. Secondo l’espressione di Senofane (che pretendeva di aver scalzato la visione antropomorfa del divino) il divino «tutto intero sa, tutto intero vede, tutto intero ode» (frammento B23). Gli spiriti intermediari attraverso cui nelle mitologie arcaiche la divinità vede e ode sono, proprio come avviene nei regni terrestri, i diecimila informatori e le diecimila spie che vedono quanto avviene nel regno o addirittura (come il vento fra le fronde) vagano per esso e si aggirano in incognito fra gli uomini: tutti questi spiriti intermediari scrutano e odono le colpe degli uomini e le riferiscono al collerico sovrano supremo le cui punizioni si manifestano inviando lampi, fulmini, tuoni, uragani, tempeste, inondazioni, diluvi, siccità, carestie. La divinità suprema dall’alto dei cieli attraverso gli occhi e le orecchie dei suoi intermediari tutto vede e tutto ode, e quindi tutto sa di quanto avviene in basso, proprio come noi guardando dall’alto in basso nella scatola in cui si muove prigioniera una formica possiamo vedere e sapere tutto quello che fa. L’essere supremo conosce il presente, il passato, financo il futuro e (secondo il detto evangelico) sa anche quanti sono i capelli sulla nostra testa: così in tutto il mondo si susseguono nelle più diverse e lontane culture le immagini di esseri mitologici o divini bicefali, dotati di due teste e quattro occhi come il dio Janus bifronte capace di guardare in direzioni opposte (passato-futuro), o tricefali dotati di tre teste (passato-presente-futuro) e sei occhi, o policefali ad esempio con quattro teste e otto occhi, e parimenti si rinvengono le immagini di esseri (come il cane Argo) dotati di cento occhi ovunque sparsi in grado di guardare in tutte le direzioni. Così anche le cose più intime e nascoste, anche il segreto tramato nell’ombra, anche il colpevole desiderio soltanto sussurrato o bisbigliato, o anche soltanto immaginato e pensato, è perfettamente investito 15

Vedi R. Pettazzoni, L’essere supremo nelle religioni primitive, Torino 1957, Einaudi.

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di chiara luce perché niente e nessuno può nascondersi, nemmeno nel ripostiglio o nell’anfratto più buio, e nulla sfugge a questa arcana presenza, a questo opprimente sguardo indagatorio e inquisitore che ci sorveglia e ci tiene prigionieri, in cui l’uomo si sente in assoluta solitudine, piccolo e ovunque controllato: in questa esperienza, «sul sentimento della precaria condizione umana trema l’ombra di un’altra angoscia, il senso di una diffusa immanente presenza che incombe su l’uomo in ogni luogo e in ogni momento, senza tregua e senza scampo, senza rifugio e senza evasione, di uno sguardo cui nulla sfugge e cui nessuno può sottrarsi, di un mistero che circonda l’uomo, lo fascia e lo imprigiona, e a volte subitamente prorompe nella violenza grandiosa dei fenomeni meteorici».16 Tuttavia, gli angeli di Gonder che ti circondano e ti guardano da ogni parte non infondono questa sensazione. Non si tratta qui di uno sguardo inquisitorio, punitivo, cattivo: è piuttosto uno sguardo vigile, attento, partecipe, protettivo, forse lievemente ironico, che tu senti sopra di te e attorno a te. Come se l’uomo di queste contrade si sentisse non spiato e indagato ma sostenuto e aiutato da questo sguardo. Platone parlava dell’anello di Gige che rende invisibili e pensava amaramente a quali torti e misfatti gli uomini si lascerebbero andare se avessero la sicurezza dell’invisibilità e quindi dell’impunità. Viceversa gli sguardi degli angeli di Gonder sembrano dire agli uomini che essi conoscono la loro debolezza, e per questo non li lasciano mai soli: gli uomini non sono mai invisibili. Del resto, l’Etiopia è anche quello strano paese ove si racconta e si dipinge negli affreschi delle chiese la storia del terribile Belay il Cannibale, salvato per intercessione della Vergine per aver una volta nella sua vita dato da bere ad un lebbroso. Certo non poteva mangiarlo, non era carne pregiata di primo taglio, ma tanto bastò per salvarlo: non solo perché dar da bere agli assetati è ritenuta cosa particolarmente buona là ove la siccità, la fame, la povertà sono un male secolare e endemico, ma ancor più perché solo un santo o un reietto della società possono avvicinare un lebbroso, uno di quei lebbrosi che tutti evitano con orrore, di cui Tewodros si sbarazzava facendoli bruciare vivi e che fino a pochissimi decenni or sono vagavano in gran numero e senza meta per le contrade etiopiche. Gli angeli di Gonder, evidentemente, avevano visto anche questo: ad essi non era sfuggita quell’unica buona azione di Belay il Cannibale.

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Ivi, pp. 93-94.

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Sull’insegnamento in Etiopia cedo la parola a Marilena, che insegna Italiano e Latino al Liceo dell’Istituto Galileo Galilei di Addis Abeba: «Il mio orario di servizio è apparentemente più pesante di quello italiano (ho 20 ore), ma in realtà l’insegnamento è per lo più meno faticoso perché è necessario procedere con una certa lentezza nei programmi, leggere insieme il libro in classe, far ripetere agli allievi, lasciare loro il tempo per sintetizzare ciò che si è letto: infatti a casa, dove spesso vivono in tanti in una stanza, non possono studiare. Se tutto questo significa meno fatica, significa anche meno soddisfazione. I primi giorni ero profondamente delusa, perché mi rendevo conto di come si trattasse di una “retrocessione”: mi trovavo di fronte a studenti che non sempre comprendevano anche i termini italiani più semplici, poiché per loro l’italiano è una lingua di studio: gli etiopi, che nelle mie classi sono decisamente la maggioranza, in casa parlano naturalmente amarico. C’è anche una generale arretratezza culturale, e mi chiedevo come fosse possibile fare un discorso letterario o storico o comunque di tipo culturale. E c’è un’incommensurabilità di mondi: come far capire la poesia “Nevicata”, forse la più bella del Carducci, a studenti che mai in tutta la loro vita hanno visto cadere la neve? Poi ho cominciato a vedere anche i pregi: innanzitutto l’educazione degli studenti, il loro rispetto per l’insegnante e soprattutto il loro desiderio di capire, di comprendere, di giudicare. Desiderano molto parlare, confrontarsi e sono tutt’altro che “ignoranti”: in prima non sanno ancora in che caso vada il complemento di specificazione, né sempre lo distinguono, però conoscono in maniera critica ed approfondita la loro storia, amano discutere del presente del loro Paese e mi hanno fatto meglio capire varie cose come gli scontri tra le diverse etnie, i problemi economici del paese e altro ancora. Dal punto di vista dell’insegnamento si tratta di recuperare molto di più l’elemento educativo rispetto a quello culturale, che pur non va tralasciato. Devo dire che è faticoso mantenere questa “via di mezzo”: non esagerare nelle richieste culturali senza però

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trascurarle. Quando faccio esercizi di latino e gli studenti di terza mi chiedono che cosa significhi hoc, io mi sento male ma poi glielo spiego, dico loro di ripassare, mi “rimbocco le maniche” con calma e cerco semplicemente di farli progredire. Comunque hanno voglia di imparare: quando tu dici “lo avete fatto in prima, è a pagina tot”, loro guardano, sottolineano, lo segnano sul loro quaderno e spero proprio che lo ricordino. Il rapporto tra la minoranza dei ragazzi italiani (per lo più i figli dei colleghi, del segretario o di chi lavora qui per vari motivi) ed etiopi è bello: vi è una buona integrazione. Noi docenti chiamiamo per nome i ragazzi, perché in Etiopia il cognome non esiste (esistono due nomi, il nome proprio e quello del padre, e talora quello del nonno): così, per rispettare la par condicio, chiamiamo per nome anche gli italiani. Prima dell’inizio delle lezioni o durante l’intervallo si è tutti nel giardino (nello stesso compound ci sono anche la scuola elementare e la scuola media) e capita di parlare tranquillamente con gli altri colleghi ed anche con gli altri studenti. Penso che l’esperienza più bella qui possa essere quella della maestra elementare, perché in essa viene meno quel dissidio fra ruolo di docente e ruolo educativo. E poi perché i bambini sono bellissimi, con quel loro viso scuro e quegli occhioni bianchi, quello sguardo del bambino che qui il contrasto cromatico fa spiccare ancora di più, con i capelli ricci e le treccine delle bambine. Al concerto di Eugenio Bennato il loro intervento è stato bellissimo». C’è anche un buon rapporto con gli altri docenti italiani qui: del resto tutti sono stati molto accoglienti, e non abbiamo avuto bisogno di andare in albergo prima di trovare casa in quanto siamo stati ospitati. Il docente italiano all’estero, e soprattutto in un paese lontano del terzo mondo, costituisce una tipologia piuttosto particolare. Una cosa che colpisce dei docenti italiani che vivono all’estero è che molti di loro, per lo più singoli, hanno alle spalle esperienze personali negative (divorzi o altro) da cui sembrano fuggire. Sono comunque molto nostalgici della patria lontana: per lo più escono poco, più che altro per cene nostalgiche in casa di uno o più spesso una di loro dove si sente Lucio Battisti mentre la mamité etiopica si improvvisa (con risultati variabili) esperta in lasagne e spezzatini, o per andare a vedere un film all’Istituto Italiano o per andare al “Circolo Juventus” dove si può vedere la televisione italiana oppure ancora per andare alla piscina del lussuoso hotel Sheraton. Un senso di tristezza e di solitudine si avverte facilmente in tutti i loro luoghi di ritrovo, che infatti proprio per questo noi evitiamo il più possibile: come scrive sul suo sito Internet un docente italiano intelligentemente critico (Mauro Del Re, a cui si devono

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alcuni dei migliori ritratti fotografici di volti che illustrano questo libro), «il senso di sradicamento si avverte in tutti, che stiano qui da poco oppure da molto, che si dichiarino felici oppure no, e questa tristezza e solitudine è palese un po’ in tutti quei luoghi che, apparentemente allegri e festosi, sono frequentati dagli italiani residenti, come discoteche, circoli, case private dove spesso ci si incontra per cene o aperitivi». I docenti uomini sono una categoria a parte: alcuni passano le serate in locali dove con estrema facilità possono rimorchiare avvenenti ragazze, non necessariamente prostitute ma comunque solitamente sempre molto ben disposte verso lo straniero per loro ricco, che esercita un fascino particolare soprattutto perché per il piatto di lenticchie paga tutto e di più senza fiatare. Il docente citato scrive al riguardo che la facilità estrema con cui in Etiopia uomini non più giovani e di scarsissimo fascino personale trovano la disponibilità interessata di ragazze belle e giovanissime scatena in essi «una sensazione di ritrovata giovinezza e di onnipotenza, che va a riempire un grande e triste spazio del loro cuore pieno di assenza femminile». Altri invece hanno fatto le cose in modo più serio e hanno trovato qui la fidanzata o perfino la moglie, senonché poi subentrano facilmente dissidi a cause delle grandi disparità culturali e sociali. I più confessano in privato che avere la ragazza etiope significa in realtà avere una sorta di figlia con cui si va a letto, perché bisogna provvedere a loro in tutto e per tutto come per una figlia. Certo impressiona andare un giorno fuori della scuola italiana: si vedono dei vecchi signori sessantenni o settantenni, italiani da lungo tempo residenti in Etiopia o qui nati, andare a prendere all’asilo nido dei bambini che non sono i loro nipotini bensì i figli, così come le giovani donne etiopi nemmeno trentenni che li accompagnano non sono badanti bensì le loro mogli. Ma anche nei ristoranti esclusivi di Addis si rivede sempre la stessa scena: il vecchio signore (inglese, francese, tedesco, italiano, che qui lavora in attesa di andare in pensione) con la ragazza etiope giovane, bella e vistosa al fianco. D’altra parte, senza falsi moralismi si potrebbe anche dire: se va bene a entrambi, perché non dovrebbero? Appena possono i docenti tornano in Italia, talora (ma è purtroppo prassi comune agli insegnanti italiani e in genere nel “pubblico impiego”) giocando in modo scorretto con i certificati medici con conseguente giusta preoccupazione (anche visti gli alti stipendi) sia del Ministero a Roma che dell’Ambasciata ad Addis Abeba, che devono far venire in tutta fretta dall’Italia un supplente. Il Ministero comunque non è esente da colpe: infatti, per l’infame e scelleratissima prassi burocratica che, anche nei punteggi nei concorsi necessari per l’insegnamento estero, premia l’anzianità di servizio più del valore meritato nelle prove, ben difficilmente un giovane

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docente che abbia superato le prove anche con ottimi voti viene assunto cosicché normalmente l’età media del docente italiano all’estero (almeno quello di ruolo) è piuttosto avanzata, non di rado alle soglie della pensione, con la conseguenza ovvia che spesso docenti vicini ai sessant’anni, costretti a cambiare di colpo vita e abitudini in un nuovo continente, manifestano malattie non solamente inventate. Inoltre i docenti italiani che prendono servizio all’estero sono tenuti a non tornare in Italia prima di sei mesi, evidentemente perché il Ministero teme che il trauma del primo impatto, soprattutto con la realtà del terzo mondo, generi situazioni di rifiuto e rinuncia (che in effetti accadono: un supplente è venuto e, traumatizzato, è ripartito nel giro di 24 ore). Infine i docenti italiani all’estero, anche nei giorni liberi dal servizio come ad esempio il periodo natalizio e pasquale, sono tenuti a prendersi le ferie se vogliono uscire dall’Etiopia così riducendo o annullando quelle estive. Tutto questo costituisce un assurdo giuridico perché obbliga i docenti all’estero ad una sorta di domicilio coatto che, pur essendo una gabbia semidorata, è a tutti gli effetti anticostituzionale: un cittadino è libero e, quando non è in servizio, dovrebbe potersene andare dove vuole come del resto fa un docente in Italia. Se io docente in Italia a Milano con il sabato giorno libero parto per il fine settimana per la Svizzera, sono libero di farlo e non devo chiedere permessi o ferie a nessuno: qui invece non è possibile per un docente prendere nel fine settimana l’aereo per Nairobi senza chiedere ferie e permessi, il che è un assurdo che invoglia i docenti ad andarsene a Nairobi alla chetichella per il fine settimana o, appena tornati in Italia, a prendersi congedi per malattie magari fittizie ritardando il ritorno. Se fatte in periodo scolastico queste assenze comportano un grave danno economico non solo dello Stato, visti gli stipendi, ma anche della scuola vista l’impossibilità di far venire da un giorno all’altro i supplenti dall’Italia. Il livello culturale medio dei docenti italiani all’estero non è disprezzabile rispetto a quello del docente medio in Italia: non fosse altro perché essi parlano qualche lingua, per forza di cose conoscono un poco la storia e la politica del paese in cui vivono e alla fine, girovagando per il mondo, anche se non hanno grandi interessi culturali finiscono comunque per acquisire un’esperienza di cose e di vita naturalmente ignota a chi rimane sempre a casa. Non diremmo tuttavia che in loro, beninteso parlando in generale, prevalga il desiderio di conoscenza e di esperienza. Cosa li muove qui? Per quanto ci riguarda, su tutto ha prevalso il desiderio di una nuova e diversa esperienza, il desiderio di mettersi in gioco, potremmo dire il desiderio di avventura. Ma è indubbio che in genere i docenti italiani qui, molti dei qua-

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li prossimi alla pensione, non sono mossi da spirito di avventura e di conoscenza. Del resto − pur finendo naturalmente per conoscere abbastanza la realtà in cui vivono − in genere si muovono abbastanza poco per il paese e i più non sembrano molto curiosi. Ne conosciamo non pochi che dopo anni non hanno ancora visto, e probabilmente non vedranno, ciò che noi abbiamo visto dopo poche settimane. Diciamo pure che la molla che li muove è, ovviamente, la possibilità di buoni o ottimi guadagni impensabili ad un docente in Italia (noi stessi, ovviamente, non ci saremmo mossi per 1000 o 1500 euro al mese, viste le molte spese). La prospettiva di queste persone sembra essere la più normale: mettere da parte dei soldi, magari per farsi una bella casa e garantirsi una decorosa vecchiaia. In alcuni il desiderio di risparmiare è parossistico, soprattutto considerati gli alti guadagni: c’è così il docente che per scaldarsi la sera e non comprarsi una stufetta elettrica fa su e giù a piedi le scale di casa, c’è quella che stacca il frigorifero la notte per non consumare elettricità, ci sono quelli che vanno alle manifestazioni culturali dell’Istituto Italiano di Cultura solo e soltanto se non si paga e si può mangiare al buffet, e quasi tutti pur di non spendere 300 euro per un generatore preferiscono rimanere senza luce un giorno sì e uno no (o due no e uno sì). I docenti italiani sembrano soddisfatti di poter fare cose che in Italia nemmeno si sognerebbero: i docenti maschi cinquantenni, se lo vogliono, possono trovarsi qui ragazze ventenni che in Italia se le sognano la notte, alcune docenti donne del pari trovano un bel ragazzo etiope con vent’anni in meno e tutti, uomini e donne, sono soddisfatti di avere ciò che in Italia non potrebbero avere e cioè la piscina allo Sheraton quando vogliono, la manicure e la pedicure per pochi soldi, il potente fuoristrada, la villetta con giardino tipo coloniale con il guardiano diurno e quello notturno nonché la governante o mamité di cui soprattutto le docenti donne sembrano andare fiere, nonostante se ne lamentino per la scarsa capacità di pulizia, visto che molto spesso ne parlano in salotto durante le loro cene noiosette. Il docente ricordato dice al riguardo che per queste persone l’Africa è «il luogo dei ribaltamenti sociali dove il povero diventa ricco» e senza tanti giri di frase parla di «bianchi insegnanti frustrati in patria e padroni fuori». Quasi tutti sono peraltro piuttosto critici e disincantati sulla realtà in cui vivono e lavorano: nessuno di essi sembra essere stato contagiato dal “mal d’Africa”, e i più non vedono l’ora di tornare una volta fatto il gruzzolo anche se poi sono molto dispiaciuti di tornare perché il gruzzolo non è mai abbastanza. Questo scarso interesse culturale si ripercuote talora, a quanto mi riferisce Marilena, nella qualità dell’insegnamento: questi docenti magari in giro da vent’anni per le scuole di tutto il mondo non conoscono più i nuovi libri di testo, lavorano con i testi vecchi magari di trent’anni che la scuola di Addis

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Abeba fornisce loro e, non avendo grandi motivazioni tranne quella economica, a volte trascurano l’insegnamento per cui sono qui accontentandosi di una routine sciatta e scialba. Alcuni di loro inoltre parlano l’italiano con una marcata cadenza dialettale che portano nelle classi, con la conseguenza che in un caso il preside dell’Istituto ha pregato in un collegio i docenti, naturalmente riferendosi solo ad alcuni di essi pur senza fare nomi, di insegnare agli allievi etiopi e italiani un corretto italiano e non il dialetto del loro paese. Al riguardo v’è stata anche una antipatica polemica da parte di un italiano residente in Etiopia che, sul giornale per emigrati pubblicato dal “Circolo Juventus” (“La Gazzetta”), senza nominarla espressamente ma con evidente riferimento ha accusato la scuola italiana di Addis Abeba di essere una “fabbrica di somari”, i cui allievi non imparano nemmeno l’italiano, gestita da una corporazione di docenti strapagati, fannulloni e assenteisti, in contrasto con i docenti etiopi sottopagati. La polemica era invero pretestuosa: l’autore, partecipe del comune risentimento qualunquistico diffuso anche in Italia verso gli insegnanti e che pur scrivendo in modo del tutto sgrammaticato si permetteva di dare dell’asino agli altri, non considerava i disagi che giustificano nel terzo mondo gli stipendi dei docenti, comunque non più alti dello stipendio di un autista o di un carabiniere in servizio all’Ambasciata e decisamente più bassi di quelli di chi lavora in alcune Ong; non considerava che i docenti etiopi, che non hanno cambiato continente per lavorare, sono comunque pagati molto e molto di più dei docenti etiopi che insegnano nelle scuole etiopiche; non considerava che se la preparazione media degli studenti della scuola italiana è normalmente di livello più basso del corrispondente livello italiano questo è anzitutto dovuto a un retroterra spesso costituito da situazioni di disagio e difficoltà (alcuni vivono in una stanza insieme ad altre cinque o sei persone, donde la difficoltà di studiare); nemmeno considerava che per essi è più arduo lo studio dei programmi italiani e l’apprendimento della lingua italiana che, pur padroneggiandola decisamente meglio di lui, rimaneva per loro la terza lingua dopo l’amarico e l’inglese. Soprattutto, l’autore della sgangherata e sconclusionata lettera generalizzava e sparava nel mucchio, colpendo tutti indistintamente e quindi offendendo gratuitamente chi nella scuola lavora dando il meglio di sé. Certo è vero che in certi docenti la qualità e l’impegno nell’insegnamento latitano, ma la cosa non è generalizzabile in quanto vi sono anche docenti seri e competenti. Invero ritorna alla mente la constatazione di Paul Nizan, che descriveva la vita noiosa e sostanzialmente vuota dei funzionari coloniali al di fuori ed entro il loro lavoro di routine, vedendo prosaicamente in questi “dominato-

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ri coloniali” soltanto dei piccolo-borghesi: e certo se quanto dice Nizan sui “piccolo-borghesi” si addice ai “dominatori coloniali”, a maggior ragione varrà per i docenti che certo non sono né vogliono sembrare “dominatori coloniali”. Tuttavia, per amor di giustizia, aggiungeremmo che nelle parole di Nizan c’è qualche moralismo di troppo: in fondo, è legittimo a chiunque emigrare per guadagnare di più, soprattutto quando si proviene da un ceto sociale medio-basso e si è mal retribuiti in patria. E bisogna avere qualche indulgenza, se per la maggior parte queste persone mostrano palesemente la loro preoccupazione di avere qualche soldo per la vecchiaia: le formiche che raccolgono sono forzatamente sempre più delle cicale che cantano senza preoccuparsi del domani. In fondo, i docenti italiani all’estero sono a tutti gli effetti, come essi stessi si definiscono, degli emigranti sia pur di un certo livello. Inoltre bisogna anche dire che queste persone rivelano − accettando di cambiare completamente vita financo in un altro continente − uno spirito di iniziativa e una certa carica giovanile, nonostante l’età per lo più non giovanissima, che manca ai loro colleghi italiani. Soprattutto, vi sono fra di essi delle rilevanti eccezioni: alcuni sono ottimi fotografi, che riprendono nel modo più interessante la vita del paese in cui vivono e sanno allestire delle buone mostre fotografiche (ad una di esse abbiamo partecipato anche noi, che pur non siamo fotografi professionisti); altri partono nel tempo libero in fuoristrada per il paese; un insegnante delle scuole medie è un bravo musicista, che ha suonato con un importante gruppo napoletano noto in tutta Italia. A quaranta o cinquant’anni e più questi docenti sono capaci di mettersi in gioco senza tema del ridicolo mettendo in scena al Circolo Juventus uno strano “San Romolo”, parodia di Sanremo in cui si improvvisano cantanti mostrando talora una buona voce. Resta comunque che, a conti fatti, in generale le persone più vive e più dinamiche qui non sembrano i docenti, che (tranne le dette eccezioni) fatalmente trasportano altrove la loro mentalità impiegatizia, ma piuttosto i liberi professionisti (architetti, ingegneri, imprenditori) forse meno “sostenuti” e meno intellettuali ma più sciolti e alla mano. Anche i sacerdoti, che fanno quello che fanno non per guadagnare, appaiono più convinti e capaci di trasmettere entusiasmo. Nell’insieme, si ha l’impressione che qui la vita risulti accettabile soprattutto per coloro che vivevano peggio in Italia: costoro, che qui hanno trovato un lauto stipendio e magari anche la fidanzata invano cercata in patria, alla domanda sull’impatto con una realtà diversa e per tanti versi disagevole rispondono che «il problema non è restare, ma dover un giorno tornare». E noi? Per quanto ci riguarda diciamo che per noi, che pur essendoci adeguati all’uso faremmo volentieri a meno di zabagna e mamité che girano per casa, per noi che in Italia vivevamo bene, uscivamo spesso, an-

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davamo spesso al cinema, a teatro, in libreria, in biblioteca, ai concerti, al ristorante, a vedere le pievi romaniche nei fine settimana, per noi «restare» è qualche volta faticoso. Ma solo qualche volta.

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ANTROPOLOGIA DEL CIBO: INVITO A PRANZO IN ETIOPIA

Gli italiani in fatto di cibo sono notoriamente molto tradizionalisti. L’immagine di Alberto Sordi che in un noto vecchio film del ’54 (Un americano a Roma) vorrebbe “fare l’americano” ma per intanto divora un italianissimo piatto di spaghetti ne è l’emblema. Altrettanto noto è che gli italiani all’estero solitamente non vogliono capire l’altrui cucina, ma cercano ravioli, spaghetti, maccheroni, lasagne, pizza che peraltro naturalmente all’estero non sono solitamente eccezionali. Gli italiani da noi conosciuti che lavorano e vivono qui, se escono al ristorante, vanno quasi immancabilmente nei ristoranti italiani. A noi, prima della partenza, più italiani di Addis Abeba avevano consigliato di portare nel container parecchie bottiglie di vino stante la mediocrità del vino locale, e parecchi docenti di nostra conoscenza se ne vengono dall’Italia portando in valigia mozzarella, provolone, salumi, parmigiano e quant’altro. Noi però non abbiamo mai seguito questi consigli e abitudini. Ricordiamo volentieri l’invettiva futurista contro gli spaghetti rei di favorire l’italica pigrizia e sonnolenza postprandiale e, pur sapendo che l’alta cucina italiana (che naturalmente non consiste in spaghetti-ravioli-lasagne-maccheroni-pizza) è effettivamente fra le migliori al mondo, quando siamo all’estero preferiamo avvicinarci alla cucina locale, anche se è vero che nel caso particolare la cucina in Etiopia può risultare pesante per un occidentale. In occidente abbiamo ormai perso il senso del valore quasi sacrale del cibo, che ancora pochi decenni fa persisteva nella cultura contadina: la grande tavolata è scomparsa, si mangia di fretta uno spuntino, spesso si mangia da soli. Ma nelle culture e nelle popolazioni più tradizionali, proprio come un tempo nelle nostre campagne, il valore e il significato del cibo è assai sentito: il cibo è offerto come ospitalità a chiunque del villaggio passi e si sieda, ed è offerto come naturale compenso per prestazioni di lavoro (ad esempio per chi aiuta nella costruzione di una capanna o di una canoa, che sono lavori eminentemente collettivi a cui spesso cooperano molte persone). Non v’è cerimonia (di iniziazione, matrimoniale, funebre) senza distribuzione di cibo: il capo tradizionale sanciva il suo prestigio e la sua considerazio-

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ne sociale attraverso periodiche feste ridistributive in cui il cibo, spesso in contrasto con situazioni di povertà reale, era addirittura sprecato; Menelik, grande capo tradizionale, offriva periodicamente grandi banchetti in cui, oltre ai grandi capi, trovavano posto migliaia di poveri e di derelitti.1 La cucina etiopica, memore di questa cultura tradizionale, è naturalmente una cucina povera, derivato ultimo di una popolazione agricola e pastorale nomadica. L’elemento base e comune a tutti i piatti è l’injera (o engerā), una sottile foglia di pasta spugnosa fatta con il teff, il grano particolare che cresce sugli altipiani dell’Etiopia. Essa viene preparata mescolando la farina di teff con acqua, e la crema così ottenuta viene fatta fermentare per un giorno e poi cotta. Nelle loro narrazioni, gli italiani del tempo coloniale parlano malissimo di questa pasta e in generale del cibo etiopico. Ad esempio Ennio Flaiano, nel suo romanzo Tempo di uccidere ambientato in Etiopia nel periodo del colonialismo italiano, narra di un vecchio uomo etiopico che prepara l’injera: «impastava senza fretta, aggiungendo acqua da una vecchia scatola; e, quando ebbe fatto una pasta ripugnante e molliccia, vi gettò dentro una pietra ovale che frattanto aveva tenuto sul fuoco, e ve la chiuse. Mise la pasta vicino al fuoco e aspettò»2. Il narratore continua dicendo di preferire i suoi cibi «ridotti a poltiglia dal bagno nel fiume» che aveva dovuto guadare, pur di non mangiare la «pasta ripugnante e molliccia», il «pane malamente impastato e cotto tra la terra»3, e senz’altro in effetti negli anni trenta il cibo a base di injera di un povero contadino degli altipiani etiopici non doveva essere molto gradevole. Tuttavia attualmente le cose non sono più così e, almeno per noi che lo apprezziamo, questo “pane”, questa pasta sottile e spugnosa, pur meno saporita del pane arabo o indiano ed anzi piuttosto insipida in sé, appare però buona una volta accompagnata al cibo adatto. Quando è di qualità (come ormai in molti ristoranti etiopici) l’injera è chiara, molto sottile e leggera, altrimenti (come di norma nelle case non ricche) appare piuttosto scura e più spessa (attualmente però v’è una injera più scura ma pregiata, fatta non con il teff ma con i “cinque cereali”, che sta all’injera classica un po’ come il pane scuro sta a quello bianco). Su questa pasta (in aggiunta anche presentata a lato arrotolata nel caso quella di base non bastasse) vengono poi messe varie spezie piuttosto piccan-

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M. Mabilia, Il valore sociale del cibo. Il caso di Kiorone, Milano 1991, Angeli (ricerca etnologia sulle abitudini alimentari condotta fra i Meru del Kenya). E. Flaiano, Tempo di uccidere, 1947, ora Milano 2000, Mondadori, p. 181. Ivi, p. 184.

Antropologia del cibo: invito a pranzo in Etiopia

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ti e in particolare un miscuglio aromatico, il berberé, ricavato da una trentina di spezie, molto profumato e anch’esso piuttosto forte. Il cibo più diffuso e di gran lunga più economico deposto sull’injera, e quasi obbligatorio nei giorni di quaresima in cui sono proibite le carni, è lo shiro che è una buona crema di vegetali fatta con ceci, fave, lenticchie. Un’altra diffusa verdura spesso abbinata è il gommen, che somiglia alle nostre coste. Ma sull’injera si possono mettere anche formaggio, uova e infine piccoli pezzettini (solitamente disossati alla maniera orientale) di carne di pollo, agnello, capra o anche manzo e, più raramente, pesce. Questo piatto a base di injera, carne, verdure e uova con berberé è il piatto nazionale ed è chiamato wot in Etiopia e zighinì in Eritrea: il tipo più diffuso è quello a base di pollo (doro), ed è chiamato doro wot; la tradizione, ormai però in disuso, esige che il pollo sia spezzato in dodici pezzi (invece il wat con altri tipi di carne, più diffuso al nord nel Tigray, è chiamato key wat). Su questo piatto poi può anche essere associata una porzione di verdure priva di berberé e quindi più leggera: è l’alecha. Accanto a questo piatto nazionale, o insieme ad esso, si possono anche assaggiare (e in tal caso manca il berberé) pezzetti di capretto preventivamente cucinato in vasi di terracotta (è il tibs): si tratta di piccoli pezzetti per favorire una miglior cottura della carne spesso piuttosto dura all’assaggio. Ma il piatto di carne preferito dagli etiopi è il tere sega, carne cruda di manzo tagliata a pezzi piuttosto grossi. Un tempo questa carne cruda, pasto per eccellenza dei guerrieri, veniva mangiata ancora palpitante subito dopo l’uccisione del bue: il modo tradizionale di consumarla − oggi fuori uso − consisteva nell’addentarne una grossa parte e poi tagliarla con un secco colpo di affilatissimo coltello dal basso verso l’alto, vicinissimo alla bocca e al naso; oggi invece si può mangiare il tere sega, servito con una piccola quantità di spezie di contorno disposte a parte, in quelle macellerie (dalle condizioni igieniche spesso poco rassicuranti) che forniscono anche un piccolo servizio di trattoria. Molto apprezzato è anche il kitfo, carne di bovino triturata che, seppur non cruda, è però appena scottata e servita fredda, disponendo a parte spezie e formaggio di capra con kotcho, una sorta di pane ottenuto da una specie di farina tratta da una pianta detta ensete o falso banano che cresce nei bassipiani: le sue foglie vengono raschiate fino a farne una poltiglia che avvolta da altre foglie viene interrata a macerare in apposite buche nel terreno per almeno tre mesi e poi bollita in modo da ottenerne il kotcho che si accompagna al kitfo. Come condimento per il kitfo si usa molto burro, utilizzato nella cucina etiopica in grandi quantità (a differenza dell’olio) anche stante l’abbondanza di mucche: anche il burro è stagionato sotto terra avvolto nelle foglie di ensete, anche 4 o 5 anni (in alcuni casi 30 anni).

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Al riguardo Lévi-Strauss sostiene che il crudo (non affumicato), che tende al putrefatto, sta al cotto come la natura sta alla cultura, ovvero come la preparazione più semplice e naturale sta ad una più elaborata e culturale4. La cosa invero non è in tutto così: da una parte infatti un cotto come il bollito è proprio della cultura contadina ma è sdegnato dalla più elaborata cucina signorile; viceversa se nei popolari riti dionisiaci le baccanti e le menadi potevano sbranare vivo un vitello e divorarne la carne cruda, dall’altra parte il crudo può essere un piatto frutto di una cultura piuttosto raffinata: si pensi al carpaccio (fette di filetto sottilissime marinate e condite con sale, pepe, limone, olio, prezzemolo, aglio, paprika e altro ancora), alla carne cruda all’albese (condita con olio, spremuta di aglio, sale, pepe, limone, tartufo) o alla tartare (con tuorli d’uova, salse, cipolle, capperi, acciughe e aglio tritati, succo di limone, cognac, pomodoro concentrato e quant’altro); anche porre il “putrefatto” dalla parte della natura anziché della cultura perché più vicino al crudo è improprio stante che il formaggio stagionato, che può dirsi un “putrefatto” arrestato al momento giusto, soggiace in realtà ad una complessa trasformazione culturale. Ma per quanto riguarda la carne cruda della cucina etiopica, o “quasi cruda” come il kitfo, essa (a differenza del carpaccio, della carne all’albese o della tartare) è veramente la carne più semplice e meno elaborata (meno “toccata”) che si possa desiderare, anche visto che le poche spezie e accompagnamenti sono disposti a parte, per cui essa potrebbe anche dirsi (nei termini di Lévi-Strauss) più dalla parte della “natura”. Stante l’eccezionale patrimonio zootecnico dell’Etiopia la carne è economica all’acquisto (soprattutto per noi bianchi, considerato il prezzo della carne in occidente) e dunque è alla portata di molti, in particolare nelle campagne dove molti posseggono polli o capre. Tuttavia essa è mal conservata e mal refrigerata (abbiamo detto degli orrendi baracchini di macelleria) e per questo appare spesso dura a mangiarsi (è preferibile lasciarla anche un mese nel congelatore perché divenga un po’ più tenera e i parassiti siano eliminati): per questo solo con attenzione e in luoghi fidati è possibile mangiare in Etiopia il tere sega o il kitfo (esistono apposite kitfo bet, case del kitfo), perché la carne cruda o appena scottata in condizioni igieniche non adeguate contiene facilmente dei germi che poi si sviluppano nell’intestino come tenia o verme solitario con possibile conseguente anemia. In realtà il cotto o betam leb leb è necessario in una terra dove il cibo e spesso anche l’acqua vanno scaldati per eliminarne le impurità, e ove la stessa forte speziatura ha un effetto purificante l’organismo. 4

C. Lévi-Strauss, Le cru et le cuit (Mythologiques I), 1964, tr. it. Il crudo e il cotto, Milano 1966, Il Saggiatore.

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In fatto di alimentazione in Etiopia esistono anche, oltre i veti temporanei dovuti al digiuno, anche divieti permanenti. Così il maiale è un animale la cui carne è vietata dalla religione sia ortodossa che musulmana perché sottoposta a tabù alimentare biblico: «Delle carni di questi animali non vi ciberete e non toccherete i loro corpi morti, perché sono immondi per voi [...] e chiunque li toccherà sarà immondo» (Levitico XI 8.24). Questo prova una volta di più come in Etiopia anche la religione cristiana, e non solo quella islamica, affondi le proprie radici più in profondità che in occidente nella religione ebraica5. Per il tabù biblico le sole carni lecite sono quelle degli animali ruminanti e a zoccolo fesso (Levitico XI 4-6) − dunque bovini, ovini, caprini − e il maiale, pur avendo lo zoccolo fesso, non è un ruminante (parimenti è esclusa anche la carne di cavallo, di cammello, di oca, anatra, lepre). Alle origini di questi tabù religiosi dovevano essere in origine motivazioni igieniche e alimentari: il maiale “si avvoltola nel fango e negli escrementi”, contiene il parassita della trichina, non è un ruminante capace di trasmettere alla dieta umana vegetali fermentati e purificati come fanno invece bovini, ovini e caprini6. Di conseguenza il maiale in Etiopia non è allevato perché ritenuto impuro: la carne di maiale e i suoi derivati 5

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Sul tabù del maiale v. M. Harris (esponente in antropologia del “materialismo culturale”): Good to eat. Riddles of Food and Culture, 1985, tr. it. Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Torino 1990, Einaudi, pp. 60-81. Harris − evidentemente un sostenitore del motto feuerbachiano per cui «l’uomo è ciò che mangia» − in modo quasi grottesco vede nell’allevamento del maiale «uno dei maggiori ostacoli all’accettazione del verbo del Profeta» (p. 80) e vorrebbe spiegare l’arenarsi in certe terre dell’offensiva islamica con la «resistenza opposta dai mangiatori di carne di maiale» (p. 79). In particolare egli erra nel vedere nel tabù ebraico del maiale un “marchio etnico” susseguente alla diaspora «in un mondo cristiano consumatore di carne di maiale» (p. 76), appunto perché in Etiopia gli ortodossi cristiani, come gli ebrei e i musulmani, non consumano carne di maiale, cosicché quivi il divieto non distingue come “marchio” alcuna delle tre religioni monoteistiche e tutte invece le accomuna. Il titolo del libro di Harris, secondo cui l’animale è anzitutto «buono da mangiare», è diretto contro la boutade di Lévi-Strauss che, assai più interessato alle motivazioni simboliche che non economico-fisiologiche della ritualità alimentare, riteneva invece l’animale assai più «buono da pensare», ad esempio nelle classificazioni totemiche. In realtà il maiale − animale più adatto alle foreste con le zone ombrose e la ricchezza di ghiande e bacche − si “avvoltola nel fango e negli escrementi” per rinfrescarsi nei climi caldi che mal sopporta, ed inoltre basta un tempo adeguato di cottura per eliminarne il parassita trichina. Circa la cottura “purificatrice” la difficoltà è calibrarne esattamente il tempo perché la carne di maiale è più saporita “rosa” con cottura breve (la cucina occidentale conosce vari piatti a base di maiale, come il popolare maiale sardo interrato e fatto alla brace o il raffinato maialino da latte al forno): ma nel dubbio, e in un contesto nomadico-pastorale

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come prosciutti e salumi si trovano solo, importati ad uso dei ferengj, in alcuni ristoranti con cucina internazionale e nei supermercati a un prezzo più alto di qualsiasi altra carne. È da notare peraltro che − nonostante la comune riprovazione per la carne di maiale − nessun cristiano ortodosso etiopico mangia la carne macellata alla maniera islamica, con sgozzamento e dissanguamento dell’animale (con la testa rivolta alla Mecca)7: la tradizione cristiana non impone il dissanguamento ma esige che al momento della macellazione la testa dell’animale sia rivolta ad oriente. Ancora ignari della cosa avevamo invano invitato a cena in un ristorante arabo un conoscente etiopico, per nulla interessato al kebab e allo shawerma benché fosse disponibile a qualunque altro ristorante. Parallelamente nessun musulmano mangia la carne cucinata da cristiani in modo per essi non conforme e senza il preliminare ringraziamento ad Allah: rammenta nelle sue memorie il cardinal Massaja, missionario in Etiopia alla fine dell’Ottocento, che in Etiopia per un cristiano mangiare carne alla maniera islamica era inteso come un’apostasia e una conversione all’islamismo (egli stesso − pur del tutto alieno da qualunque simpatia per la religione islamica − fu sospettato di apostasia per il solo fatto di aver mangiato una volta in mancanza d’altro della carne cucinata alla maniera islamica). Certamente quella etiopica è una cucina povera che riflette le sue origini nomadiche, la cui idea originaria è semplice: l’injera (il corrispettivo del nostro pane) non è accompagnamento bensì fondamento del pranzo (d’altra parte il teff da cui si ricava l’injera contiene molto ferro), mentre viceversa la carne sminuzzata in piccoli pezzettini diventa accompagnamento come le verdure. Si pensi alla tortilla messicana che avvolge il cibo o meglio ancora all’idea base della pizza napoletana: una pasta con sopra sugo di pomodoro e pezzi di verdura o altro (“una pasta con sopra schifezze”, mi disse una volta un amico schizzinoso e certo ben pochi ti mettono sulla pizza i funghi porcini o il prosciutto di Praga o di S. Daniele o il Pata Negra). Quello che nella pizza nutre è la pasta e non certo la fettina di prosciutto, le due o tre olive o il funghetto, tant’è vero che nelle più recenti varianti non napoletane (sdegnate dai puristi conservatori) la pizza, ormai non più piatto povero ma cibo da uscita serale, non ha più lo spessore e il

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in cui l’allevamento del maiale è poco redditizio, il tabù non può permettersi di distinguere e precisare e semplicemente proibisce senza andare per il sottile. Il divieto islamico di nutrirsi del sangue dell’animale può essere dovuto all’esigenza igienica di liberare la carne dalle impurità e dalle tossine del sangue, ma nondimeno risale a certi luoghi veterotestamentari (Levitico 17.11-14 e Deuteronomio 12.23) che rivendicano nel sangue l’esistenza di uno spirito vitale.

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bordo alto della napoletana ma diventa larga e molto sottile in modo che acquisti risalto non la pasta ma quanto vi è sopra. Peraltro fra la pasta di base della pizza e il pane arabo a forma di disco sottile (khobz) v’è una evidente somiglianza, dovuta alla comune ascendenza mediterranea (sembra che l’origine della pizza sia nell’antica “schiacciata” già nota ai romani, di cui si parla nel Moretum erroneamente attribuito a Virgilio): se si assiste alla preparazione del pane arabo (io ho potuto vederla effettuata da donne in Egitto), pare di vedere dei pizzaioli napoletani all’opera in una sorta di “catena di montaggio”: una donna con un mattarello stende e appiattisce la pasta in sottilissima forma circolare, poi la passa ad un’altra donna che la lancia per aria riprendendola al volo proprio come si vede fare in tante pizzerie, e infine questa la passa ad una terza donna che vi spalma sopra dell’olio. A questo punto le cose, rispetto alla pizza, divergono: mentre infatti il pizzaiolo pone gli ingredienti sulla pizza e quindi la mette nel forno, il panettiere arabo la richiude a focaccia e la mette nel forno spesso facendola gonfiare. Si comprende dunque che l’idea della pasta come “piatto” in cui porre o rinchiudere il cibo è comune, pur in diverse forme, sia alla cultura mediterranea (pizza napoletana e pane arabo e quindi indiano per diffusione culturale) sia alla cultura etiopica (l’injera) nonché − si potrebbe aggiungere − alla cultura messicana (la tortilla). La pasta dell’injera etiopica (o eritrea) è fondamentale perché essa, chiaramente, è economica, nutre e lascia un’impressione di sazietà. Per tutto ciò, proprio perché la cucina etiopica è evidentemente (per quanto saporita) la cucina di un popolo povero, non posso credere quando un diplomatico italiano, narrando in un libro le sue esperienze di Console in Etiopia, parlando delle tradizioni etiopiche dice che la sua mamité, aspramente rimproverando la seconda mamité rea di non aver tagliato ritualmente il pollo del wat in dodici pezzi, lo buttava via per cucinarne un altro, aggiungendo anche di «aver scoperto il motivo di un consumo di olio d’oliva assolutamente inspiegabile: c’erano evidentemente periodi nei quali buttavamo chissà quante cose»8. No, stante la mia esperienza e conoscenza oserei dire che questo è impossibile: in un paese in cui la povertà è endemica e la vita spesso ai limiti della sussistenza, nessuna donna etiopica (quantomeno sicuramente nessuna donna di servizio) butterebbe mai via un pollo, o l’olio o quant’altro. Io vedo bene che nei locali etiopici, in cui mi fermo a pranzare o cenare quando sono in viaggio, se un etiope non finisce il suo piatto questo viene con molta naturalezza consumato da un altro avventore del tutto sconosciuto al primo. Quelle cibarie non sono state buttate, bensì 8

F. Gentilini, In Etiopia, Udine 1999, Campanotto, pp. 90-91.

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sicuramente consumate con senso di affetto e gratitudine per la magnanimità del Console. Anche a noi durante l’operato di una mamité sparivano tre chili di zucchero a settimana, pur essendo solo io ad usare qualche cucchiaino di zucchero col caffé a colazione e dopo pranzo, ma mai abbiamo pensato che questo zucchero fosse stato buttato per un rito scaramantico. Il cibo etiopico − particolarmente il piatto con l’injera con aggiunta di vegetali o carne − consiste in una sola portata. Come avviene anche secondo l’usanza araba, esso viene servito in comune a più commensali e secondo la tradizione, particolarmente in caso di feste particolari, viene appoggiato sul mesob che è una cesta a forma di fungo, fatta di vimini sapientemente intrecciati a disegni geometrici, il cui piano superiore funge da tavolo per il piatto comune. Un coperchio conico, tolto all’ultimo quasi come nei più raffinati ristoranti occidentali, copre le vivande. Tranne che per la shorba (la zuppa) il cibo etiopico − o eritreo − si mangia con le mani: nulla di strano, se si pensa che qui le antiche tradizioni sono molto forti e che nello stesso occidente le posate sono state utilizzate molto tardi, circa nel XVIII secolo e solo nelle famiglie nobili o ricche. Invero i popoli usi a mangiare con le mani conoscono benissimo gli strumenti affilati e da taglio ma, semplicemente, non li adoperano per mangiare: è interessante ricordare l’aneddoto (ricordato dall’antropologo Mauss) sullo scià di Persia che, invitato da Napoleone III a mangiare con la forchetta d’oro e non con le mani, rispose: «maestà, voi non sapete di quale piacere vi private». Si potrebbe anche ricordare una vecchia pubblicità televisiva che, propagandando la bontà di un cibo, mostrava una giovane donna bella e strafottente che, incurante dello scandalizzato imbarazzo degli altri commensali e sotto l’occhio complice e divertito del partner, mostrava il proprio gradimento servendosi con le mani. Evidentemente, le posate in alluminio sono altrove percepite come estranee ed incompatibili con il cibo o almeno con un certo tipo di cibo: del resto, anche nei ristoranti arabi di Addis Abeba si attinge con le mani dal “piattone” di carne (al-mendi), e gli stessi orientali usano le bacchette in legno. Proprio per l’abitudine etiopica al mangiare con le mani, oltre che per rendere la carne più commestibile alla cottura, si taglia la carne di capretto in dadini onde fare i tibs. Il pranzo costituisce in Etiopia un rituale complesso e lento: non esiste il mangiare veloce, il famigerato fasting food. Il valore maggiore consiste proprio nel pranzo comunitario, nel mangiare insieme servendocisi dallo stesso vassoio. Non si pensi che il pranzo comunitario e fatto con le mani costituisca un modo primitivo di mangiare, perché anzi al contrario proprio il mangiare insieme servendocisi con le mani comporta una serie di regole

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che vanno rispettate9. Il pranzo etiopico si svolge con una sua etichetta, ed ogni mancanza da ferengj viene immediatamente notata anche se non espressamente rilevata. Noi (oltre che naturalmente nei numerosi ristoranti di Addis Abeba e, in viaggio per il paese, nelle varie locande) abbiamo potuto gustare il wot più volte in case private in Etiopia: alla periferia di Addis Abeba nella casa piccola ma decorosa della mamité di una nostra amica italiana che ci ha invitati alla festa in occasione del battesimo del figlio (che qui si fa dopo 80 giorni alla maniera ebraica), poi per la festa di capodanno etiopica dietro invito dell’imprenditore etiopico da cui affittiamo la casa, e infine per la festa di Natale invitati dal professore di amarico di Marilena. Ovunque si sia invitati, anzitutto viene portata una catinella con una brocca d’acqua da cui a turno ci si lava la mano destra che è quella con la quale si prende il cibo poiché la mano sinistra, come nei paesi musulmani, è la “mano della vergogna” riservata all’igiene personale che va pudicamente abbassata dietro il mesob. Quindi viene portato un asciugamano. Quando il pranzo è iniziato, si prende il cibo staccando con la destra un pezzo di injera col quale poi si arrotolano i pezzi di vivande facendone come dei minuscoli “panini”, proprio come si fa nei paesi islamici con il pane arabo; come si è detto è proprio per poterla meglio afferrare con l’injera (oltre che perché generalmente piuttosto dura) che la carne è disossata in piccoli pezzettini, ma anche quando si trova un pezzo con l’osso esso andrebbe pazientemente spolpato anziché direttamente addentato. Non è bene macchiarsi le dita né tantomeno leccarsele. Non è bene afferrare subito la carne, che di solito viene lasciata per ultima, né allungare le mani dall’altra parte. Questo pudore etiopico nel mangiare è ben ravvisabile nella antica abitudine, un tempo propria di molte popolazioni abissine (per quanto attualmente in disuso) e notata da molti esploratori (il Sapeto, il Bianchi e vari altri), di farsi circondare e nascondere alla vista con appositi shamma retti dai servi durante il pasto e soprattutto durante le libagioni (del resto molti abissini di alto lignaggio solevano coprirsi la bocca con lo shamma all’atto di parlare con un inferiore o con un ferengj onde non esserne contaminati). L’abitudine di mangiare nascondendosi, chiudendosi in casa o facendosi coprire da un panno o da una tenda è confermata dal Frazer per varie popolazioni africane (Africa centrale e Madagascar)10. In effetti l’omologia è sorprendente, anche se vadano comunque segnalate le differenze perché il 9 10

Sull’etichetta a tavola v. C. Lévi-Strauss, L’origine des manières de tables (Mythologiques III), 1968 (tr. it. L’origine delle buone maniere a tavola, Milano 1971, Il Saggiatore). J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 311-314 (“Tabù sul mangiare e sul bere”, “Tabù sul mostrare la faccia”).

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pudore etiopico nel mangiare spinto fino al nascondimento è (o meglio era) proprio solo dei ceti nobili. Un antropologo moderno come il Geertz pensa che questa diffusa usanza sia dovuta alla considerazione del mangiare e del bere come atti animaleschi riprovevoli e vergognosi da celare alla vista altrui: a Bali, egli dice, «non solo la defecazione ma anche il mangiare sono considerati un’attività disgustosa, quasi oscena, che si deve praticare in fretta e privatamente, perché associata con l’animalità»11. Certo se così è allora il pranzo frettoloso a Bali contrasta radicalmente con il lento pasto etiopico, e ci può apparire strano questo ribrezzo per l’animalità che in genere si associa piuttosto a popoli e culture “raffinate”: ma in effetti il mangiare nelle società tradizionali, quando non si tratti di un pasto cerimoniale, è spesso visto come un atto profano, volto a soddisfare i bisogni dell’esistenza materiale, donde i purificatori tabù alimentari e i periodi di digiuno rituale. Circa però l’antica usanza etiopica del mangiare velati va considerata la spiegazione addotta dal Frazer, per il quale il diffuso timore della fuoriuscita dello spirito vitale dal corpo12 e particolarmente il timore che lo spirito possa più facilmente uscire dalla bocca e abbandonare il corpo durante il mangiare, e dall’altro lato il timore opposto ma complementare che durante il mangiare spiriti maligni possano entrare dall’esterno nel corpo, fa sì che si mangi chiusi e isolati in modo che lo spirito interiore non possa fuggire lontano senza essere ripreso e lo spirito esteriore non possa entrare nel corpo.13 Tornando al nostro pranzo etiopico, va rilevato anche che non è bene finire tutto il cibo ripulendo il vassoio ma è bene lasciare qualche avanzo, beninteso dalla vostra parte. La cosa può sembrare strana: infatti il Frazer attesta che presso vari popoli (Australia, Nuova Guinea) si è ben attenti al contrario a non lasciare sul piatto alcun avanzo di cibo, che nel caso viene bruciato o sepolto nel timore che possa essere utilizzato da uno stregone per fare un maleficio14; parimenti da noi lasciare l’avanzo è a volte inteso come segno di non gradimento del cibo, e a volte ci tocca anche sentire l’invito un po’ rozzo a “finire” come dei lavandini non solo il cibo nel piatto ma tutto 11 12 13

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C. Geertz, The interpretations of Cultures, 1973, tr. it. Interpretazione di culture, Bologna 1988, Il Mulino, p. 393 (nell’ultimo capitolo: “Note sul combattimento di galli a Bali”). J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 283-297 (“Assenza e richiamo dell’anima”). Potremmo al riguardo ricordare certe forme schizofreniche in cui la persona giunge non a premunirsi durante il pranzo ma proprio a rifiutare il cibo per evitare gli influssi maligni esterni (il grande logico K. Gödel, rifiutando il cibo e le connesse contaminazioni esterne, si lasciò morire di inedia ). J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 315-317 (“Tabù sul lasciare avanzi di cibo”).

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il cibo in tavola (il cosiddetto “pezzo della vergogna”) quasi che l’ospitante voglia far fuori tutto e non lasciare dopo rimasugli in casa. Al contrario invece in Etiopia la consuetudine, anzi l’etichetta, prevede che si serva più cibo di quanto se ne mangi e che l’ospite lasci qualche piccolo avanzo: non finire il cibo non significa un mancato gradimento (poiché si sa che il piatto nazionale è buono) bensì significa che l’ospite è ormai sazio, con soddisfazione del padrone di casa che invece continua a riempire il piatto se lo vede del tutto vuoto. Lasciare qualche piccolo avanzo significa anche non mostrare ingordigia, che è segno non tanto di maleducazione bensì addirittura di stoltezza e di mancata previdenza in quanto chi esaurisce il cibo prima del tempo non può poi far fronte alle necessità in tempo di vacche magre e così attira sulla casa la terribile carestia, che in Etiopia in tempi ancora non lontani ha causato milioni di morti. Il fatto che in Etiopia l’usanza riguardo agli avanzi di cibo sia opposta a quella altrove diffusa sembra attestare la verità o almeno la parziale verità di quanto dice Lévi-Strauss, per il quale se in un certo luogo della Terra e presso una certa popolazione si rinviene un “mitema” di un certo tipo (ma noi diciamo più in generale una tradizione o un’usanza), allora si può prevedere che in qualche altro luogo della Terra e anche senza contatti diretti compaia in un’altra popolazione lo stesso mitema (o la stessa tradizione) ma di tipo opposto e a polarità invertita, perché il fondo mitico della mente umana è lo stesso ovunque pur declinandosi in polarità diverse. Così nella fattispecie appare chiaramente che presso varie popolazioni del mondo gli “avanzi di cibo” rivestono un significato simbolico importante, che però si declina in modi non solo diversi ma anche opposti: gli avanzi sono comunque importanti, ma da un lato lo sono con un segno − (non si devono lasciare avanzi e se sì vanno occultati) mentre dall’altro sono importanti con un segno + (è buona educazione lasciare qualche avanzo). In entrambi i casi l’avanzo di cibo è stato fatto oggetto di una riflessione culturale, sia pur declinata in sensi opposti per le opposte interpretazioni (scongiuro del maleficio / attestazione di gradimento). Sempre tornando al nostro pranzo etiopico, a volte il padrone di casa può anche offrirvi per due volte un gustoso boccone mettendolo personalmente davanti alla bocca (è la tradizione del gursha): egli considera questo un gesto di grande affetto che non va rifiutato, e l’abilità sta nel prendere l’offerta con la bocca come un cagnolino ben educato senza farla cadere e senza toccare le dita dell’offerente. Si tenga presente che in una zona dell’Etiopia (ad Harar) v’è la tradizione del “pasto delle iene”, cui abbiamo assistito, con la quale alcuni uomini offrono addirittura direttamente con la bocca grossi pezzi di carne alle iene (che conoscono singolarmente e chiamano per nome) senza esserne toccati così dimostrando la loro reciproca amicizia.

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Per fortuna la tradizione del gursha, forse ormai in disuso, a noi non è capitata: comunque avremmo cercato di fare i bravi cagnolini addomesticati. Durante il pranzo non abbiamo potuto non ammirare l’abilità con cui gli etiopi si servono: essi riescono naturalmente a prendere con la sola destra l’injera e con essa le vivande senza macchiarsi le dita. Alla fine del pranzo si ripete la lavanda della mano, a dire il vero necessaria soprattutto per noi, all’inizio non ancora del tutto abituati nonostante varie cene a Milano in ristoranti etnici eritrei o etiopici. Ogni volta per tutto il pranzo siamo stati seguiti passo a passo con cura e attenzione e mai una volta il nostro bicchiere è rimasto vuoto senza essere immediatamente riempito: in Etiopia, anche nei ristoranti ove pur il cameriere ti serve impeccabilmente il vino lasciando dietro la schiena la mano sinistra, si tende a riempire i bicchieri fino all’orlo. Generalmente si beve birra (in Etiopia si produce dell’ottima birra industriale, senz’altro migliore della più comune tella che è la birra etiopica “sfusa”), ma si possono anche bere vini locali (il Gouder rosso o l’Awash e il Kemila bianchi o l’Axumit per la fine pranzo) o anche del tej che è una bevanda all’idromele (fatta, come dice la parola, con acqua e miele con aggiunte di sapori di foglie aromatiche) o ancora dell’araké (una specie di acquavite). A questo punto, finito il pranzo (a cui se invitati è bene naturalmente andare con un dono), segue di consuetudine la cerimonia del caffè (bunna): gli etiopi ritengono che la loro sia la vera patria del caffè che dicono nato e ampiamente coltivato fin dai tempi antichi nei dintorni di Kaffah all’ovest (anche se gli etiopisti ne contestano la derivazione etimologica), dapprima come pianta da masticare e in seguito come bevanda; la coltivazione si sarebbe poi diffusa nello Yemen (XIV sec.), con epicentro nella città di al-Mokha, e da lì e dall’Etiopia (insieme agli schiavi) nelle piantagioni dell’America latina e infine ai mercati di tutto il mondo. Anche in questo caso non si parla nemmeno del caffè veloce e preso di fretta. Occorre tempo per bere del caffé in Etiopia. Sul pavimento vengono stese varie foglie ed erbe simbolo di fertilità e i chicchi di caffè, alla maniera delle nostre nonne o meglio bisnonne, vengono tostati sotto i vostri occhi e poi macinati: va assaporato anche l’aroma. Solo a questo punto il caffè viene messo in infusione con l’acqua fino all’ebollizione, mentre un odore di incenso bruciato si sparge per la casa. Il caffé viene servito in tazzine di porcellana almeno tre volte: l’ultima è quella della berekha o benedizione benaugurante.

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VIAGGIARE IN ETIOPIA

Le strade in Etiopia, tranne quelle nei dintorni di Addis Abeba per qualche decina di chilometri e tranne quelle che conducono a sud in Kenia e ad est ad Harar, non sono asfaltate, nemmeno (se non per tratti) la strada della “rotta storica” del nord. Solitamente, anche le strade asfaltate a un certo punto diventano piste fuori strada, sulle quali continuamente vedi vecchi autobus e camion fermi a lato per forature e guasti e, di tanto in tanto, carcasse di camion in fondo ai burroni. Già di per sé accidentate, le strade possono inoltre diventare davvero molto ardue dopo una pioggia, e anche impraticabili nella stagione delle piogge. Il governo ha varato un grande progetto volto alla costruzione delle strade, e ben a ragione: si è capito infatti che il progresso del paese passerà soprattutto da questo, quando per il trasporto delle merci non sarà più necessario impiegare due o tre giorni di estenuante e anche pericoloso viaggio per fare poche centinaia di chilometri. Ovunque e continuamente, anche alla domenica, si vedono operai al lavoro per costruire nuove strade asfaltate. Per ora però le strade sono ancora quello che sono e per questo, per viaggiare in Etiopia sulle lunghe distanze, è necessario il fuoristrada. Al riguardo io ho sempre avuto un debole per la vecchia Land Rover (modello 88 o 108): per le piste più impegnative la Land Rover rimane probabilmente il fuoristrada migliore, anche se è alquanto scomodo. In Etiopia però sono assai più diffuse la Range Rover e soprattutto le Toyota. Noi abbiamo usato quasi sempre una Toyota a quattro ruote motrici, con 4000 di cilindrata e le marce ridotte per le pendenze più ripide. Naturalmente può consumare molto, anche 5 Km per litro, ma (a parte il fatto che qui il carburante costa la metà) assorbe molto bene i colpi e va in fuori strada senza problemi anche ad andatura relativamente veloce, e solo per i tratti veramente impervi richiede le marce ridotte. Col fango è fantastica: lo passa con grande leggerezza e dolcezza anche con marce relativamente alte. Proprio non capisco le signore bene che a Milano si comprano il fuoristrada per fare acquisti, e a dire il vero non capisco nemmeno i docenti italiani qui tutti col fuoristrada che poi usano solo per fare i duecento metri di sterrato che ad Addis

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separano la strada asfaltata dalla loro abitazione: il fuoristrada va bene solo su pista, ed è del tutto sprecato, e addirittura scomodo su strada normale dove procede lento e a fatica con scarsa ripresa. Insomma col fuoristrada è più facile andare ai 100 Km/h sulle dune del deserto che non su strada asfaltata: anzi, in realtà sulle dune del deserto si è obbligati ad andare a una certa velocità perché così il veicolo “plana” e non si insabbia. Viaggiare per le piste africane con un poderoso fuoristrada Range Rover o Toyota ha un suo notevole fascino. Tuttavia, spesso quando torni verso Addis Abeba e dopo centinaia di chilometri ritrovi l’asfalto, vien voglia di baciarlo, anche se in realtà non puoi farlo perché le strade sono piene di gente e se ti fermi sei immediatamente circondato da curiosi. In Etiopia la segnaletica è quasi inesistente, tranne i cartelli in amarico all’inizio dei villaggi. I distributori di benzina si trovano solo nelle città e in pochi altri luoghi, per cui è preferibile fare sempre il pieno quando si può e, per certi itinerari, portarsi le taniche piene. Le cartine e le mappe sono poco attendibili: le guide (ne abbiamo varie sia in italiano che in inglese) sono ricche di informazioni e di notizie sui siti archeologici o naturalistici, ma le loro cartine sono del tutto inattendibili e non in scala: ti dicono quali sono i luoghi interessanti, ma non ti forniscono la mappa stradale se non sommariamente e (quello che è peggio) non danno i chilometri e le indicazioni dei distributori. Di conseguenza tu dici: andiamo per questa strada, e poi scopri che quella strada che è un segnetto sulla carta copre in realtà 300 Km, e magari per di più ti ritrovi a sera stremato 150 Km oltre in una strada completamente sbagliata. In Etiopia è difficile che la cosa abbia esiti veramente drammatici, ma è ben noto che ogni anno incauti viaggiatori avventuratisi nel deserto senza guide locali e senza riferimenti precisi sono poi ritrovati cadaveri, quando pur sono ritrovati. La sola guida veramente valida dell’Etiopia per quanto riguarda le carte geografiche e stradali rimane ancora la vecchia guida dell’Abissinia (la Guida dell’Africa orientale italiana) del Touring Club Italiano, comprendente anche l’Eritrea e la Somalia: risale al 1938, ovvero agli anni dell’occupazione italiana, ed è ormai una rarità da collezionisti (io l’ho pagata 80 euro a Milano da un mercante etiope). Le strade in Etiopia, anche quelle poche asfaltate, anche e soprattutto le principali, non sono concepite in primo luogo ad uso dei veicoli a motore, bensì anzitutto ad uso delle persone e degli animali. Ci si rende anzi conto di quanto sia popolata l’Etiopia (circa 72 milioni di abitanti) quando, guidando per centinaia di chilometri, si vedono le strade sempre e ovunque piene di persone: anche al di fuori dei centri abitati, continuamente vedi

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donne che portano fascine di legna, contadini sul mulo, pastori con gli armenti, gente che lavora, sfaccendati, bambini che vagano. In un paese di grande povertà come l’Africa, dove spesso possedere un mulo o un cavallo è già una ricchezza, gli uomini sono abituati a spostarsi per lo più a piedi anche coprendo grandi distanze. Sono grandi camminatori e nel camminare rivelano una grande resistenza: in Etiopia poi essi si sono abituati fin da piccoli a camminare per molti chilometri sugli altipiani a più di 2000 metri di altezza, ove sono i maggiori centri abitati, cosicché essi percorrono senza problemi dei lunghi cammini che un occidentale anche ben allenato fatica a compiere a quelle altezze ove l’aria è più rarefatta e, contenendo meno ossigeno, rende più difficile la respirazione: non a caso l’Etiopia è la patria dei più grandi podisti e corridori del mondo, fra cui il grande Abebe Bekila. Dove vanno tutti questi uomini, queste donne, questi bambini? Si ha l’impressione che molti vadano per andare, e si capisce il perché: le case di queste persone, i miseri e piccoli tukul di fango e paglia, sono luoghi in cui si può dormire ma certo non case in cui si possa passare la giornata, ed ecco perché le persone sono sempre per strada. Poi, naturalmente, si vende e si lavora anche: si va da un paese all’altro, o dalla casa ai campi di lavoro e ai pascoli con le mandrie e viceversa. Viaggiare per l’Etiopia al di fuori delle città è interessante perché qui si vede anche quella parte operosa del paese che è popolazione rurale. Naturalmente la meccanizzazione è praticamente inesistente e i contadini lavorano la terra con l’aratro, mentre i pastori conducono le mandrie e le donne portano la legna o grandi brocche d’acqua. I bambini vanno a piedi alla lontana scuola e tornano a piedi, tutti con la loro uniforme come da noi un tempo lontano. Spesso gli etiopi camminano ore per andare ad assistere, nei loro costumi tradizionali bianchi, ad una funzione religiosa. Una delle mete preferite è indubbiamente il mercato. Ogni paese ha (uno o due giorni alla settimana) il suo grande, vivace ed affollatissimo mercato, che attira gente anche da lontano per vendere o comprare, e ovunque si assiste ad affollate contrattazioni: caffé profumatissimo, secondo molti il migliore del mondo, spezie e droghe orientali (cannella, incenso, mirra, e tantissime altre); come scrive Moravia nelle sue note di viaggio, così «doveva essere l’Europa durante il Medioevo, con le sue grandi fiere e i suoi mercati e le migrazioni da una fiera all’altra, da un mercato all’altro»1. E poi naturalmente con le persone vi sono, condotti ai o dai pascoli o ai o dai mercati, gli animali, moltissimi animali: muli, asini, cavalli, capre, pecore, galline, cani, mucche, financo tori e in certe aree dromedari. 1

A. Moravia, A quale tribù appartieni?, cit., p. 25.

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Per questo bisogna fare molta attenzione e bisogna veramente avere cento occhi quando si guida da queste parti, e andare slowly. All’improvviso infatti ti trovi in mezzo alla strada, magari dopo una salita o una curva, una capra che dorme o un asino o un cammello che inaspettatamente ti tagliano la strada. Non bisogna dimenticare che investire anche solo una pecora è un danno economico non indifferente per un locale. Ma soprattutto sono pericolose le persone, perché esse con evidenza considerano tutta loro la strada e quindi possono attraversarla con la stessa indifferenza di un mulo. In particolare fa impressione vedere la quantità di bambini per le strade: soltanto i neonati sono portati dalle madri o dalle sorelline in una specie di fagotto legato alle spalle ma gli altri, anche piccolissimi di pochi anni, camminano da soli come abbandonati a se stessi. Il pericolo di investire non solo un animale ma proprio un uomo o un bambino è dunque reale. Al riguardo si pensi che perfino le guide e i testi di viaggio consigliano, in un caso del genere, di non fermarsi a prestare soccorso ma di proseguire fino al più vicino posto di polizia. Può sembrare questo un comportamento estremamente disumano, da noi oltretutto punibile come omissione di soccorso, mentre invece qui si tratta solo di salvare la propria vita. Si sa di intere famiglie compresi i bambini fatti letteralmente a pezzi e linciati in Africa dalla folla scatenata, per essersi fermati a prestare soccorso a una persona investita anche senza colpa. Io ad esempio avevo letto anni addietro di un caso in Egitto, ma ve ne sono ovunque: nel 2005 un sacerdote congolese, che si era fermato per soccorrere un bambino che aveva investito e ucciso avendogli questi attraversato la strada di colpo, è stato a sua volta ucciso a colpi di machete dai parenti del ragazzo. Sempre nel 2005 un docente della scuola italiana di Addis Abeba ha investito un bimbo che gli ha attraversato di corsa la polverosa strada verso il lago Tana ed il bimbo, cadendo, ha battuto la testa ed è morto: l’etiope suo compagno di viaggio gli intimò di andare via subito pena la sua vita, accompagnandolo al primo posto di polizia. A questo punto, sapendo di cose simili, anziché parlare della disumanità dell’omissione di soccorso si potrebbe al contrario parlare dell’inciviltà dei nativi che massacrano gli automobilisti. Tuttavia, se si capisce il contesto e quello che passa nella testa di queste persone, saremo più cauti nell’emettere giudizi. Bisogna capire infatti questo: per questi poverissimi abitanti dei villaggi che vivono in capanne o case di argilla e fango, noi siamo ineluttabilmente i ricchi bianchi dell’occidente che arrivano qui con macchinoni impressionanti e riprendono i “selvaggi” con intrusive cineprese e telecamere. Essi sono gentili e disponibili, solitamente per nulla aggressivi ed ostili, ma in caso di incidente scatta proprio una sorta di reazione atavica e ancestrale che compatta il gruppo contro lo straniero invadente e profana-

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tore; poi v’è anche un retaggio più tribale e arcaico che esige la “vendetta di sangue” della comunità quando ne sia ucciso un membro, pena l’ira dello spirito dell’ucciso. Così in questi casi scatta l’ira di tutta la popolazione del villaggio contro il ferengj, lo straniero anzi lo straniero bianco, il solo vero straniero perché un marocchino o un algerino non è un ferengj. Tu invece sei un bianco, un non habesha, un non abissino, un non africano. È impossibile per queste persone pensare che un bianco possa investire senza colpa un uomo o un bambino. Se un bianco investe un bambino, la colpa è sempre e necessariamente sua, perché il bianco con tutta la sua cultura e tecnologia non avrà capito che la strada, pur asfaltata, non è sua ma anzitutto delle persone, degli uomini e dei bambini nonché delle pecore e delle galline che la occupano: l’intruso è lui, non la pecora o il bambino. Quindi egli avrà offeso la popolazione, le avrà mancato di rispetto. D’altra parte bisogna dire che in queste contrade non può non apparire aggressiva e prepotente e priva di rispetto l’andatura veloce di un mezzo perché essa rischia di gettare le mandrie nel panico e perché, essendo le strade soprattutto piste in “sterrato”, un veicolo passando solleva grande polvere o schizzi di fango che investono le persone. Del resto quando ci si ferma e si lascia passare una persona per strada questa, soprattutto se donna, in genere sorride e saluta con un cenno del capo. Gli incidenti peraltro devono essere piuttosto frequenti, perché si vedono le autorità correre ai ripari: infatti la scritta inglese “slow”, certo non diretta solo ai locali, compare spesso nelle strade soprattutto in rifacimento; inoltre, poiché gli incidenti avvengono non solo a causa dei ferengj ma anche fra gli etiopi troppo usi all’intontimento da chat, sono frequenti i cartelli ammonitori in amarico con immagini fotografiche di incidenti spaventevoli fra camion e pulmini. Spesso poi i villaggi sono chiusi all’entrata e all’uscita da una sbarra mobile in legno, tenuta bassa e di volta in volta alzata e abbassata per costringere a rallentare all’ingresso, e non di rado si vede nella via centrale del villaggio una corda attraversare la strada, che è sufficiente alzare da un lato della strada per costringere i veicoli ad una velocità più moderata. Un momento particolarmente pericoloso, per il ferengj, è quando ci si ferma: immediatamente infatti l’auto viene circondata da molti bambini incuriositi anche piccolissimi, e quando riparti il loro numero cresce e la stretta diventa asfissiante. Così diventa reale il pericolo di investirne qualcuno, tanto più che ti inseguono. Si consideri inoltre che in Etiopia succede anche questo: che una persona si sacrifica per il bene della famiglia gettandosi all’ultimo istante sotto l’auto di un ferengj, col rischio di lasciarci la vita, onde poi ottenerne dal tribunale un congruo risarcimento che almeno per qualche anno sollevi i suoi dalla miseria; oppure (si tornerà più oltre su ciò) avviene che un uomo o un bambino sfiorino

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all’ultimo un’auto mettendo la propria vita a repentaglio per far calpestare la propria ombra percepita come negativa. Per tutti questi motivi la prudenza è d’obbligo. Pur essendo abituato ad una guida, diciamo così, “sportiva”, io in Etiopia guido sempre con molta prudenza e, fuori Addis, con i sensi tutti allertati, e devo confessare con un sottile e continuo senso di inquietudine per non dire di paura, perfettamente conscio di essere in mezzo a folle estranee per quanto poi le persone possano essere gentili al contatto: percepisco come sia sempre dietro l’angolo il pericolo potenziale e latente, trovo veramente pericoloso viaggiare in Africa sia per me sia per le persone e gli animali che continuamente rischiano di finire sotto le ruote; capisco che farei molto male a rilassarmi guidando, e sento che questa mia continua alta soglia di attenzione mi è preziosa per prevenire i pericoli. Una cosa veramente stressante, viaggiando in Africa (in Etiopia, ma anche in Egitto, etc.), è il trovarsi immediatamente circondati non appena l’auto si ferma, fosse solo per un momento. Subito vedi grappoli di bambini incuriositi ed elettrizzati che ridono, ti guardano come un animale strano e soprattutto chiedono money, caramelle, penne per scrivere, vedi mendicanti improvvisati pronti a chiederti denaro, uomini che si precipitano con galli starnazzanti per venderteli, ma che possono anche proporti le merci più diverse e talora inverosimili, cagnolini, tappeti, pecore, oggettini di artigianato, cappelli, ombrelli, chat, pelli, accendini, fazzolettini e quant’altro, vedi gente gentile pronta a chiederti se hai problemi, guide improvvisate che ti offrono i loro servigi, accompagnatori che se li lasci fare possono prenderti quasi di peso e portarti all’albergo, alla pensione, al ristorante, né mancano di tanto in tanto tori pronti a incornare la tua auto, etc. Anche quando non hanno nulla da guadagnarci, folle di persone circondano sempre l’uomo bianco ovunque vada: come dice Kapuscinski in un interessante reportage sui suoi viaggi in Africa, «l’uomo bianco è un fenomeno così strano, un alieno piovuto da un pianeta talmente diverso che lo si può stare a guardare senza annoiarsi per ore e ore»2. È vero che a volte un po’ di gentilezza distende il clima, soprattutto con i bambini che oltre alle richieste vogliono magari solo un po’ di attenzione e un sorriso, così come è vero che capitando in un posto sperduto fa piacere una persona del luogo che ti guidi nella sola pensioncina esistente. Tuttavia più spesso diventa veramente difficile da sopportare questo continuo essere sempre al centro dell’attenzione incuriosita come se tu fossi uno struzzo, un animale 2

R. Kapuscinski, Heban, 1998, tr. it. Ebano, Milano 2000, Feltrinelli, p. 184.

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allo zoo, oltretutto sempre oberato da richieste pressanti e soffocanti. Il bello è che tutte queste persone a volte si materializzano all’improvviso, sbucando fuori d’incanto laddove tu ti eri fermato in un luogo ritenuto deserto magari solo per fare una foto. Sembra incredibile, ma l’Africa appare proprio quel continente sterminato in cui − per quanto ci si allontani dalle rotte comuni − nonostante le savane e i canyons e i deserti, non si riesce mai a stare soli. Quando passi con l’auto, frotte di bambini e ragazzi ti corrono dietro, ti salutano e ti fanno festa, fischiano, gridano, ti invitano a fermarti, al punto che tu ti senti come gli astronauti che percorrono trionfali l’arteria principale di New York al ritorno dalla Luna. Però talvolta fanno anche segni minacciosi e aggressivi come il gesto di tirare una pietra. Viaggiando in Africa si capisce quanto è bello l’anonimato, quel passare inosservati come uno fra tanti che a molti, nella grande città europea, appare alienante e disumanizzante. Si capiscono in particolare le persone famose che a volte nelle interviste dicono che sì, la fama e la celebrità sono un privilegio che però si paga con l’impossibilità di uscire normalmente per strada: infatti in una contrada africana qualsiasi bianco, pur essendo del tutto sconosciuto, riceve le attenzioni per lo più interessate e spesso indesiderate di una rockstar che magari in quel momento vorrebbe semplicemente essere lasciata in pace. Mi è venuto in mente, viaggiando in Etiopia, un libro di Gianni Celati3 che narra di un viaggio in Mauritania, Mali e Senegal con lo scopo in fondo pretestuoso di girare un documentario sui guaritori dogon. Il documentario non si farà, ma l’autore prende nota e registra puntigliosamente e scrupolosamente tutto quanto visto e osservato nel viaggio di andata e ritorno, anche nei dettagli apparentemente più insignificanti, come una sorta di cinepresa o occhio meccanico che tutto vede: e le “avventure in Africa” appaiono veramente quanto di meno avventuroso si possa immaginare, fra paesaggi interminabili e monotoni sempre uguali a se stessi, strade polverose, forature di gomme, alberghi squallidi e decadenti, donne che lavano i panni per strada, uomini che bighellonano pigramente, scrocconi e scocciatori continui, giornate noiose, tempi vuoti e morti, lunghi viaggi stressanti su vecchissimi autobus che attendono per ore perché partono solo una volta gremiti fin sulle predelle e sui tetti di capre e di persone «aggrappate dappertutto». Il bianco, immediatamente riconoscibile come tale fra tanti neri, non può non chiedersi a un certo punto cosa è venuto a fare in quel luogo: «noi turisti bianchi siamo come delle vacche da mungere per un senso di giustizia naturale − scrive l’autore −, e tutto il gioco di mungitura del turista somiglia a quello delle colonie di parassiti che si attaccano al corpo di 3

G. Celati, Avventure in Africa, Milano 1998 (ed. 2000), Feltrinelli.

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qualche grande animale pieno di sangue»4; «il problema dei bianchi è che stimolano l’istinto della caccia, forse a causa del loro pallore, e tu diventi preda come le gazzelle del deserto»5; «il bianco è un mammifero destinato all’incessante assalto di piccole menadi nere»6, cosicché se non si ha la forza per tenere a bada le persone ci si può veramente trovare come l’autore, indubbiamente molto paziente, «avvolti dal codazzo che non ci molla, ci spinge, ci tira, ci grida non so cosa».7 Gli altri pericoli nel viaggiare per rotte desuete in queste lande, oltre a quello concretissimo di investire qualcuno, sono essenzialmente gli animali selvatici e il pericolo di furti nonché i banditi. Se infatti ci si inoltra nelle foreste facendo trekking si possono incontrare iene o sciacalli: un nostro conoscente, facendo una salutare passeggiata di mattina presto alle porte di Addis Abeba, si è trovato di fronte una iena. Ma in questi casi è per lo più sufficiente stare a debita distanza e non fare gesti inconsulti. Invece un pericolo grosso, se ci si inoltra nei laghi, sono i coccodrilli. L’Etiopia è piena di questi enormi animali arcaici che possono anche raggiungere otto metri di lunghezza e ogni anno vi sono persone che muoiono da essi divorate: pescatori, bambini, uomini e donne che non avendo nessun servizio in casa fanno il bagno nelle acque di fiumi e laghi o lavano i panni o si avventurano imprudenti fra le acque, e a volte le vittime sono anche turisti incauti. Il pericolo è costituito non solo dal fatto che i coccodrilli sono anche animali terrestri, ma ancor più dal fatto che essi possono acquattarsi al fondo di acque melmose e assai poco profonde dove nessuno si aspetterebbe di trovarli. Sono animali infidi: si acquattano sul fondo nella melma, immobili, e poi attaccano all’improvviso: un uomo sparisce in pochi secondi. In una farm di Arba Minch ho visto decine di coccodrilli placidi, sonnolenti al sole, ricoperti di scaglie corazzate, l’occhio vitreo semichiuso e ingannatore, ignari di diventare borsette di pelle mentre gli inservienti passavano fra loro distribuendo grandi pezzi di carne: non li avresti detti nemmeno vivi, tanto erano immobili. Il vecchio Nino Cirani, autore una quarantina d’anni fa di un memorabile libro sul raid automobilistico, dice che per guadare col fuoristrada un rivo infestato dai coccodrilli è sufficiente che l’uomo che procede a piedi davanti all’auto batta con un bastone per terra per farli fuggire!8 È vero che solitamente un po’ di chiasso e di rumore bastano ad 4 5 6 7 8

Ivi, p. 21. Ivi, p. 49. Ivi. p. 160. Ivi, p. 118. N. Cirani, Il raid automobilistico, Milano 1973, Editoriale Domus, p. 141.

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allontanare i coccodrilli, ma certo un simile guado a piedi (fortunatamente da noi mai fatto) deve richiedere molto sangue freddo. La mia guida inglese raccomanda poi di non lasciare penzolare fuori le braccia quando si attraversano certi laghi in barca, ove per barche intendesi per lo più piccole canoe simili a quelle degli antichi egizi. Incredibilmente la guida aggiunge, parlando di un dato lago, che in esso «the crocodile population is fortunately small, and you can waterski, windsurf, sail, swim»9. Ci si può domandare perché tanti etiopi muoiano ogni anno a causa dei coccodrilli, quando nella maggior parte dei casi basterebbe evitare di bagnarsi nelle acque che tutti sanno da essi infestate: perché mai in Etiopia tante persone si avvicinano indifferenti e tranquille alle rive, fanno il bagno e nuotano quando a poche decine di metri, ben visibili, si aggirano i coccodrilli, il cui tonfo cupo e sordo nel gettarsi dalla riva nel fiume dovrebbe essere un segnale premonitore? Probabilmente la risposta è data dall’etnologo Levy-Bruhl che, raccogliendo da ogni dove informazioni di missionari e viaggiatori, attesta la credenza diffusa in molti popoli secondo la quale in realtà i coccodrilli non attaccano gli uomini a meno che gli alligatori non siano il tramite e il veicolo di una stregoneria altrui e dunque di uno spirito malefico che si impadronisce di essi (nei tempi passati in vari luoghi del mondo degli uomini sono stati uccisi perché ritenuti responsabili di aver stregato, dirottato e inviato un coccodrillo contro una vittima). Di conseguenza − se ne può dedurre − vige una sorta di fatalismo: chi ritiene di non avere nemici che operano malefizi su di lui potrà avventurarsi tranquillo nel fiume infestato dai coccodrilli sicuro di non esserne attaccato e altresì sicuro che se fosse oggetto di un maleficio questo opererebbe comunque anche per altra via, con o senza coccodrillo che nel peggiore dei casi è solo uno strumento fra altri di una volontà malefica.10 Per quanto riguarda invece le persone, sono possibili anche accoglienze sgarbate, sono possibili i furti, sono possibili anche le sassate al ferengj: la Murphy nel suo viaggio in Etiopia, in verità molto particolare perché fatto da sola con un mulo per le zone più impervie e desolate quasi andasse in cerca di guai, racconta di molte accoglienze gentili e di persone disponibili, ma anche di persone sgarbate, ostili, minacciose. Gli shifta, i banditi, sono un altro problema in certi luoghi. Se ne possono trovare in certe zone isolate di frontiera dove il governo centrale non giunge. Una docente italiana qui mi ha raccontato tutta contenta di essersi imbattuta nella selvaggia 9 10

Dice proprio così: v. Spectrum Guide to Ethiopia, Nairobi 1995, Camerapix, p. 160. L. Levy-Bruhl, La mentalità primitiva, cit., pp. 35-43.

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valle dell’Omo a sud in uno shifta con gentile kalashnikov. Lo shifta è stato immobilizzato alle spalle dalla guardia del corpo e consegnato alle autorità, ma la docente (vagamente terzomondista) si è detta molto dispiaciuta in quanto era veramente eccessivo far arrestare un povero diavolo che si guadagnava il pane con il suo kalashnikov. Ignoro se la guardia del corpo della signora sia stata licenziata per aver bloccato l’uomo armato. Quando mi raccontano queste storie capisco il governo inglese per il quale il cittadino va all’estero dove crede ma a suo rischio e pericolo, e rifiuta di impegnare uomini, mezzi e denaro per la salvezza di certi squinternati. In ogni modo in caso di shifta la soluzione da tutti consigliata è molto semplice: mantenere la calma, scendere dall’auto, sorridere e dare una congrua cifra preventivamente messa da parte per la bisogna, stringere la mano, sorridere, ringraziare molto con un inchino e ripartire adagio ma subito subito. Comunque quando si va nelle zone di frontiera è meglio rimanere non soli ma dietro ai camion: viaggerete fra nubi di polvere, ma nessuno attaccherà una carovana. È anche bene non viaggiare mai dopo il tramonto e, se proprio si è soli, stare attenti e pronti alla deviazione o alla retromarcia o all’inversione se da lontano si vede un albero o dei massi che bloccano la strada poiché questi massi, anziché essere caduti da una scarpata, potrebbero essere stati messi apposta per bloccarvi. In ogni modo, come sempre, i pericoli maggiori si corrono per la propria colpevole imprevidenza. Posso spiegarmi con un esempio: l’auto che si rompe nel cuore dell’Africa. A noi è successo in un fine settimana quando, per vedere un lago in montagna, siamo andati a circa 150 chilometri da Addis Abeba (ovvero in capo al mondo perché qui allontanarsi di 100 chilometri può voler dire trovarcisi in capo al mondo). Quella volta, in effetti, ancora all’inizio della nostra permanenza, siamo stati piuttosto superficiali. Avevamo deciso il breve viaggio all’ultimo momento, perché ci sembrava il caso di approfittare della bella giornata via via più rara con l’avvicinarsi della stagione delle piogge. Così siamo partiti con la mia auto che non è un fuoristrada, come quelli che poi ho affittato per i lunghi e disagevoli viaggi fuori Addis, bensì una Focus wagon. La strada era asfaltata ma piena di buche, oltre che di asini, muli, cani, capre e passanti e così abbiamo impiegato circa tre ore per i primi 120 chilometri. A questo punto ci mancavano 27 chilometri di sterrato: avevamo preso le nostre informazioni e ci avevano detto che si trattava di un buon sterrato, spianato e fattibile anche con un’auto non fuoristrada sebbene il fuoristrada fosse la soluzione migliore. La guida consigliava di rivolgersi ad un hotel per l’eventuale noleggio del fuoristrada e così abbiamo fatto, però eravamo incerti: non per la spesa

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(350 birr erano allora una trentina di euro), quanto perché a me piace guidare la mia auto ed inoltre eravamo giunti sin lì e mancava solo l’ultimo breve tratto, che ci si diceva percorribile, per giungere alla meta. Lo stesso proprietario dell’hotel e noleggiatore contro il suo interesse ci confermava non indispensabile il fuoristrada col bel tempo e così abbiamo soltanto chiesto che un ragazzo ci facesse da guida. A questo punto il primo intoppo: bisognava aspettare la fine del lunch time per partire, non perché il pranzo (che noi avremmo saltato senza problemi) è sacro quanto perché l’albergatore e ristoratore voleva pur guadagnarci qualcosa. E qui io, solitamente così attento, comincio a commettere una serie di errori. Primo errore: si mette a piovere, ciò che aumenta la cica, il fango per le strade non asfaltate, ma siccome piove solo per poco penso ancora di proseguire con la mia auto. Secondo errore: fra una portata e l’altra guardo velocemente un depliant illustrativo che mi dice, cosa che la mia guida non diceva, che il lago montano è a quasi 4000 metri di altezza, ed io so che un’auto fatica molto a quelle altezze. Però la mia auto si era sempre comportata bene, e pochi giorni prima eravamo andati addirittura fra le gole del Nilo Blu fra piste di alta montagna e discese a strapiombo, e dunque penso di poter ripetere la cosa. Terzo errore, quello più grave: non aver dato retta ai segnali premonitori. Perché quando l’albergatore ci saluta gentilmente prima della partenza, io al sentirmi augurare good luck! sono colto come da una frustata: sto per cambiare idea e chiedergli il fuoristrada, ma so che ci vuole tempo perché giunga e lascio perdere. Errore imperdonabile. Quello era più che un segno premonitore, era un presagio che doveva far riflettere. Ho capito dopo che qui certi uomini sono di poche parole e quando ti sconsigliano una cosa non insistono mai per convincerti, te la sconsigliano o te la fanno capire e basta e poi auguri e fatti tuoi. Dice LevyBruhl, parlando dell’importanza dei presagi per le popolazioni “tradizionali”: «I presagi annunciano, per esempio, che l’impresa nella quale ci si sta per impegnare avrà esito buono o cattivo, oppure avvertono di un pericolo più o meno imminente che non si sospettava»11; di conseguenza «un gran numero di testimonianze attesta che, in mancanza di presagi favorevoli, o in presenza di presagi funesti, si rinuncerà a un’impresa, o anche la si abbandonerà se è già cominciata»12. Ora, un cattivo presagio non è soltanto la superstizione del gatto nero che ti attraversa la strada: può anche essere un qualcosa che richiede una percezione più fine e sottile. Un “primitivo”, per il quale un dato segno preannuncia o anche causa un evento, essendo 11 12

Ivi, p. 111 (cap. IV e V: “I presagi”). Ivi, p. 115.

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dotato (o essendolo un tempo) di quella percezione sottile, pur basata su credenze per noi inaccettabili, avrebbe colto il presagio. Ma io non lo colgo: o meglio, lo colgo, l’avevo colto, ma immediatamente subentrò in me una caratteristica tipica dell’uomo occidentale: la fretta. Dai, suvvia, ormai sei in ballo, vuoi “perdere altro tempo” chiamando il fuoristrada? Così, accompagnati dal ragazzo, ci rechiamo al sito previsto: l’auto va piano ma va e giungiamo al lago di Wonchi che vediamo dall’alto, bellissimo, incredibile, fiabesco. Scendiamo dall’auto in silenzio reverente, e come in punta di piedi guardiamo incantati per un bel pezzo. Era tornato il sole. Il nostro cagnolino si guarda intorno, annusa, scodinzola. Poi, al momento di tornare, guardiamo indietro e ci prende una sottile inquietudine: si vedeva la pista che si inerpicava molto in alto, quella stessa che nell’ultimo tratto avevamo fatto in discesa e che ora però si trattava di fare in salita. Ma soprattutto c’era il fango. Tento la salita e la macchina lentamente si inerpica. A un certo punto vediamo molte persone ai bordi della strada, probabilmente pastori o agricoltori. Procedo a passo d’uomo, loro sono appena fuori e naturalmente cominciano a guardare i ferengj come delle stranezze esotiche. Pur non essendo una situazione pericolosa, la cosa mi dà sui nervi e commetto un altro errore. Vedo del fango ma per non avvicinarmi troppo al bordo della strada ad un palmo da quegli sguardi curiosi e invasivi penso di passarlo. Error, error, error: la macchina si incaglia. E qui una cosa bella: quelle persone che mi suscitavano un certo imbarazzo, nel frattempo divenute decine e decine sbucate non so da dove, si mettono tutte a spingere, ma niente da fare, l’impresa in ripida salita su quel fango era impossibile. Allora tento il tutto per tutto e, ben sapendo che non si dovrebbe ma contando sulla mia auto, gioco di frizione ed acceleratore simultaneamente. In un baleno la frizione si spacca fra una grande puzza di bruciato. Soltanto a questo punto, con grande mia rabbia, mi ricordo che forse sarebbe bastato mettere qualche robusto ramo d’albero sul fango per tentare di passarlo. Risultato: mi trovo su una montagna dell’Africa a quasi 4000 metri di altezza, con l’auto rotta, sperduto e solo con una donna, un cagnolino ed un boy fra decine e decine di estranei. I cellulari non funzionano, non prendono campo come spesso in Etiopia fuori di Addis Abeba. Sono fuori del mondo, tagliato fuori da tutto. Che faccio? Mi prende lo sconforto, lo scoramento per l’incredibile e colpevole leggerezza con cui ho affrontato la cosa. Ma in realtà in Africa non sei mai solo, e quello che a volte ti può dare fastidio in altre circostanze ti può salvare. Il “capo” del numerosissimo gruppo, che parla inglese, mi conforta, mi consola, dice di non preoccuparmi, che si risolve e che a tutto c’è rimedio. Un altro mi arriva vicino e

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guardandomi fisso negli occhi mi sussurra addirittura in modo perentorio ed indiscutibile che Dio c’è. E così alla fine Dio invia un camion, che si materializza come un’apparizione sulla pista, sbuffando ed ansimando ma certo con molti cavalli in più della mia Focus. Lo guida un uomo con lo sguardo di chi non si stupisce di nulla. La gente lo ferma e gli chiede, o meglio gli ordina di darci una mano. Scopriamo che è impossibile fissare il cavo per il traino. Il camionista vuole mandarci tutti al diavolo e andarsene, ma tutti fra suppliche e inviti perentori e pacche sulle spalle lo fanno desistere. Io distribuisco sigarette a destra e manca e dico: non c’è altro da fare, bisogna caricare l’auto sul camion. Ma come? Il problema è: come caricare un’auto su un alto camion senza traini né pedane su una pista in ripida salita? A questo punto, assisto all’incredibile: il camion con alcune manovre esce di pista e, ondeggiando paurosamente, va nel campo a lato più in basso mettendosi a posteriori in modo che il rimorchio sia in piano con la pista. Allora tutti noi, almeno in trenta persone, solleviamo letteralmente l’auto di peso fra risate e canti (me lo ricorderò: And Ulet Sost! And! Ulet! Sost! Uno due tre!) e con molta fatica la poniamo sul rimorchio. Tutto questo i nostri salvatori non hanno certo fatto per pura solidarietà: abbiamo lasciato mance e soldi in gran quantità. Ma l’auto era al sicuro. Il camion ci ha riportati all’hotel da cui eravamo partiti. Si era ormai fatto buio ed abbiamo trascorso lì la notte. Siamo anche riusciti ad ottenere dal camionista che ci portasse ad Addis Abeba la mattina successiva. Ci ha chiesto una cifra folle per gli standard locali (tre mensilità di un impiegato, ed una l’aveva già chiesta prima per il trasporto all’hotel) ma non avevamo scelta: ad Addis Abeba abbiamo un meccanico bravo e fidato, mentre molti altri meccanici non solo sono incapaci e ti rovinano la macchina ma a volte sono anche disonesti e ti rubano i pezzi buoni per metterti quelli vecchi, senza contare il fatto che occorreva far venire dall’Italia i pezzi di ricambio. La mattina dopo, all’alba, siamo partiti con la macchina sul camion e noi sulla macchina. La strada, come detto, era pessima e la macchina saltava qua e là, facendosi parecchi graffi. Noi anche. Ma alla fine siamo arrivati ad Addis Abeba, e in quell’occasione la città spesso deprecata ci è sembrata l’Atene del V secolo: un faro luminoso e splendente di civiltà. È appena il caso di dire che errori del genere potrebbero costare la vita in una pista del deserto o fra gente malintenzionata. Racconto un altro episodio, avvenuto pochi mesi dopo. Marilena ed io prendiamo l’auto per concederci in un bel posticino qualche giorno di tranquillità dopo una febbrile attività estiva in Italia. Il risultato? A 250 Km da Addis Abeba, in piena città a Shashemane, lungo la grande strada asfaltata

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per il Kenya, da una stradina laterale alla mia destra appare un cavallo che al gran galoppo trascina un calesse col suo conducente. Per un istante resto come incantato da quello spettacolo di una forza prodigiosa della natura, anche se sconcertato pensando al conducente che lo porta a quella velocità: qui tutti i cavalli trotterellano lemme lemme, come bestie da soma e non come puledri selvaggi. Ma questo misto di incanto e sconcerto dura solo un brevissimo istante perché immediatamente percepisco che il cavallo non si ferma. Era imbizzarrito, come impazzito, privo di qualsiasi freno: il conducente sul calesse non lo dominava più. Inchiodo l’auto frenando per farlo passare, non facendo io in tempo a passare per primo, ed ero ormai praticamente fermo, ma il cavallo continuava a correre, a correre sempre più vicino. Sembrava che volesse quella fine, tanta era la foga con cui a rotta di collo correva verso di noi. E quando io, percependo inevitabile l’impatto, all’ultimo ho sterzato a sinistra nell’estremo tentativo di attutire l’urto se non di evitarlo, lui pure, quasi volesse suicidarsi, immediatamente a sua volta vira ancor più verso l’auto come se proprio volesse venirmi addosso. L’urto è molto violento. Il cavallo colpisce la fiancata dell’auto, si rovescia sul parabrezza quasi sfondandolo con la testa, poi cade sul cofano ed infine per terra fra convulse contrazioni spasmodiche. Io scendo dall’auto, ma faccio appena in tempo ad accarezzargli il capo: subito dopo cessano le contrazioni e il cavallo muore, subito ricoperto di sciami di mosche. Il cavallo mi faceva sinceramente pena, ma devo confessare che la mia carezza, circondato com’ero da centinaia di persone estranee che pressavano intorno senza che ne capissi le intenzioni, è stata anche una lenta e studiata mossa teatrale, una captatio benevolentiae. Più tardi una persona ci ha detto che sicuramente quella carezza è stata l’ultima ma anche la prima della sua vita. Quel bellissimo cavallo, veramente, ci ha messo molta tristezza. Sembrava furibondo con il mondo, e noi del resto ormai lo sappiamo bene: qui gli animali sono trattati malissimo, sfruttati senza pietà, presi a bastonate e picchiati, e quindi quando sono orgogliosi a volte si ribellano. Quel cavallo sembrava sprecato in quel posto: solitamente infatti i carretti, i gari, vengono trasportati da muli e somarelli, non da puledri giovani e forti. Un cavallo del genere sarebbe dovuto stare nel maneggio dell’Ambasciata italiana di Addis Abeba, vezzeggiato e ben curato da qualche raffinata signora, non in quel posto. Il conducente del gari non era un uomo maturo, ma un ragazzo giovane e sicuramente inesperto. Per discolparsi, dopo aver cercato invano di dar la colpa a noi, ha dichiarato che dei bambini avevano gettato polvere sugli occhi al cavallo facendolo impazzire: ma io penso che più probabilmente lui l’abbia portato in quello stato. A me sembrava un po’ uno di quei

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ragazzotti che sgommano con la potente auto di papà e poi non la sanno controllare, solo che l’auto era un cavallo. Noi siamo rimasti indenni, come il conducente del calesse che si era ribaltato. Anche i locali, accorsi immediatamente a frotte, ci hanno detto che non v’era responsabilità nostra, e che poteva andare peggio per il conducente del calesse, rincuorandoci. I poliziotti intervenuti hanno aspramente rimproverato il conducente, che cercava di addossarci la colpa. Come sempre in questi casi, come già sul monte ove eravamo rimasti con la frizione rotta, le persone del posto ci hanno detto che Dio ci ha protetto dal peggio: io naturalmente non riesco a credere in questa forma di religiosità che in ogni evento vuol vedere la mano benevola della provvidenza, anche perché non capisco perché la provvidenza debba proteggere me e non il piccolo bambino nero involontariamente ucciso pochi giorni prima dal docente italiano cui aveva improvvisamente tagliato la strada di corsa. Capisco però la sincerità di queste persone e il loro desiderio di rincuorarci. La polizia ha fatto le sue indagini ed ha steso il verbale senza riscontrare nostre colpe. Fortunatamente la nostra persona di fiducia ad Addis Abeba, bravo amico, chiamato al cellulare ci ha inviato una persona del luogo figlia di un italiano che ha fatto da interprete, mentre lui da Addis manteneva i contatti con la polizia inviandoci anche un carro attrezzi. Ma certo se una cosa simile ci fosse capitata in un luogo isolato, senza la polizia e l’intermediaria locale, non so, non so come sarebbe finita.

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ETIOPIA ORIENTALE, UN VIAGGIO E QUALCHE NOTA SU RIMBAUD*1

Siamo partiti verso l’Etiopia orientale con un Toyota in affitto e un autista etiopico (dopo l’incidente del cavallo non ci fidiamo più ad andare fuori Addis da soli e con la nostra auto, e qui nessuno ti affitta un fuoristrada senza darti anche l’autista). Visitiamo il Parco dell’Awash, a 500 Km da Addis, anche se non riusciamo a vedere molto. In serata raggiungiamo Harar all’estremo est dell’Etiopia. Qui salutiamo un nostro amico docente che si è messo in casa una ragazza etiope di Harar e adesso sconsolato non sa più che fare: passa il tempo in casa di lei dove tutta la famiglia e la parentela gli imbandiscono estenuanti “cerimonie del caffé” e lunghissimi pranzi. Mi sembra un animale al laccio. Lui non parla amarico, lei parla un inglese molto approssimato. Cosa si dicano, non so. Mi presentano il fratello della ragazza e vedo che quando si tratta di pagare il conto delle bibite lui si rivolge al nostro amico dicendogli l’importo da saldare, dando per scontato che sia lui a pagare. “E io pago”, diceva Totò. Lo strappiamo via, lui riconoscente ci segue e con una guida vediamo la città, con le sue moschee e le sue bianche case arabe. A un certo punto la guida (che parla sei lingue) ci inoltra nel cuore della città, fra viottoli e stradine, all’interno del grande mercato hararino. Io non amo la folla e odio gli assembramenti di più di 5 persone, però ammetto che ne valeva la pena: caffé, spezie e droghe orientali (cannella, incenso, mirra, e tantissime altre), muli, asini, cammelli, donne che allattano, vecchi cenciosi che mendicano e tanta tanta miseria, bambini che ti corrono dietro, ragazze dagli sguardi sensuali e curiosi e poi storpi, ciechi, costumi dai colori vivi e forti, davvero un’esperienza unica, a me sembrava di vedere un film, in una fantasmagoria di suo*

Forse l’idea di un viaggio in Etiopia appare meglio riportando, come faccio qui, le parti centrali di alcune e-mail, inviate ad amici nel primo anno di permanenza in Etiopia. La parte su Rimbaud è stata molto ampliata con brani tratti dalla sua corrispondenza, ma spero che la vivacità del racconto non sia andata del tutto persa. Sui luoghi islamici visitati (in particolare su Harar) ritorno nel testo nei capitoli sulle invasioni islamiche.

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ni e colori e odori degna di Baudelaire per cui les couleurs, les parfumes et les sons se repondent. E poi, Arthur Rimbaud viveva qui. Ti mostrano una bellissima casa in stile indiano con salone ad ovale (che bella figura l’ovale!), dove Rimbaud probabilmente non ha mai vissuto ma dove c’è un museo dedicato a lui (più tardi vediamo la casa, ora albergo, che un tempo era sede della ditta ove lavorava Rimbaud, ansioso di mettersi in proprio). Un autore dei miei libri di viaggio1 sgrida il poeta: la corrispondenza, dice costui, rivela un Rimbaud che viaggia per l’Abissinia e per lo Yemen sordo e cieco al paesaggio. Pensate un po’, dice, Rimbaud non ci ha nemmeno lasciato una poesiola sui tramonti africani, nemmeno una nota di colore su un mercato arabo, non una riga di costume, non notizie storiche, non letteratura di viaggio alla Goethe etc. Ma costui evidentemente non ha capito che Rimbaud − l’adolescente dalla «puberté perverse et superbe» (Mallarmé), le cui poesie scritte a sedici anni avevano lasciato stupefatti i maggiori poeti francesi, il ragazzo bello e sfrontato in cui Verlaine vedeva un «viso d’angelo in esilio» e contro cui sparerà rancoroso un colpo di rivoltella − aveva chiuso definitivamente con la poesia, e meno che mai potevano interessargli gli idilli africani, gli stereotipi sull’Africa nera, le melensaggini sui tramonti e i landscapes. I tramonti li vedeva benissimo (impossibile non vedere il cielo in Etiopia, così incredibilmente bello), ma non intendeva trasformarli in versi in rima baciata. Il rifiuto della letteratura da parte di Rimbaud era il rifiuto di risolvere la propria vita nella scrittura e nella letteratura. Era il rifiuto di sacrificare la propria vita su un altare, fosse pure quello delle Muse. Rimbaud, che era giunto a odiare Parigi, i salotti e le riviste, voleva andare oltre la letteratura, oltre la poesia, e questo lo portò in giro per mezzo mondo e infine in Africa. Egli voleva andare verso la vita, cercava la vita. Non voleva, come intese la sorella moralista, espiare i suoi peccati di gioventù, anzi voleva vivere ancora più a fondo e, come il suo bateau ivre, abbandonò la sua terra d’origine per andare verso l’ignoto: je est un autre, scrisse nella famosa lettera a G. Izambard (13 maggio 1871), e lui, a partire dal giovanile bisogno di evadere da una provincia francese bigotta e chiusa, voleva ritrovare il vero je divenuto un autre attraverso il «déréglement de tous les sens», ovvero attraverso lo «sregolamento di tutti i sentimenti, di tutti i significati» (di tutto il “sentire” e non semplicemente “di tutti i sensi” nell’accezione libertina, come solitamente si traduce), ciò che solo avrebbe consentito di ritrovare il disordine della vita vera di contro alle pastoie delle 1

Si tratta di F. Guyot, Le voyage en Ethiopie, dernier voyage en Orient, Paris 2001, Harmattan, pp. 59-65.

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regole. Egli diceva: noi non siamo ciò che potremmo essere, noi potremmo essere altro da ciò che siamo; troppo spesso la vita che viviamo è un fantasma sostituito a ciò che siamo, una vita che ci è stata cucita addosso senza che noi l’avessimo scelta: «la vraie vie est absente. Nous ne sommes pas au monde» (Vierge folle. L’époux infernal in Une saison en enfer). Per la maggior parte degli uomini, diceva Rimbaud, la vita è una perenne permanenza in seconda classe, o in sala di attesa, fino al momento della morte. Essi vivono per lo più infelici, tutti presi dal lavoro e dalle incombenze familiari, nell’attesa della vecchiaia: «l’uomo si propone di passare i tre quarti della propria vita a soffrire per potersi riposare l’ultimo quarto; e, quasi sempre, crepa di miseria senza neanche sapere a che punto era rimasto il suo progetto!» (lettera alla famiglia del 6 gennaio 1886). Da qui il bisogno di «cambiare la vita». La vita per Rimbaud deve essere bella, degna di essere vissuta: deve essere ricca, felice, appagante, completa, altrimenti non è vita. Questo − egli lo dice e lo ripete − è possibile, deve essere possibile: non è un sogno, non è un’utopia, deve essere una cosa realizzabile. L’errore più grande, per Rimbaud, sembra essere quello descritto da Buzzati nel Deserto dei Tartari: attendere perennemente una battaglia che non viene mai, o viene solo quando non si è più in grado di combatterla. La leggenda di Rimbaud non l’ha fatta Rimbaud, che per parte sua non voleva vivere nel mito e nella finzione. Egli voleva essere un uomo normale, non una leggenda. In effetti Rimbaud nello Yemen e in Africa non sembra mai stregato dall’esotico. Nelle sue lettere (soprattutto ai familiari) lamenta il caldo torrido lungo le coste del Mar Rosso e soffre le difficoltà economiche. Pur svolgendo il proprio lavoro con impegno ottenendo la stima generale, ne sente tutto il peso e lo vede come una «fatalità miserabile» (alla famiglia il 10 settembre 1884), come una schiavitù e un abbruttimento che sottrae tempo alla vita e la impoverisce: «jai horreur de tous les métiers», scriveva già in Mauvais sang in Une saison en enfer. La sua vita nello Yemen e in Africa è tutt’altro che piacevole, e alla famiglia scrive il 5 maggio 1884 dal “buco orrendo” (affreux trou) di Aden: «quelle existence désolante je traîne sous ces climats absurdes et dans ces conditions insensées! [...] Ma vie ici est un réel cauchemar. Ne vous figurez que je la passe belle. Loin de là; j’ai même toujours vu qu’il est impossible de vivre plus péniblement que moi». Il suo sguardo sugli indigeni è, soprattutto alla fine, assolutamente disincantato: lamenta (lettera alla famiglia del 4 agosto 1888) di essere «costretto a parlare il loro ostrogoto, a mangiare le loro schifose pietanze, a subire i mille fastidi che provengono dalla loro pigrizia, dal loro tradimento, dalla loro stupidità!», «nel timore di diventare a poco a poco abbruttito anch’io, così isolato e lontano da ogni società

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intelligente», vivendo (lettera del 18 maggio 1889) «une triste existence au milieu de ces nègres», un’esistenza «penosa, abbreviata da un tedio fatale e da fatiche d’ogni genere» (alla famiglia il 10 novembre 1888), vivendo in questi «satanés pays», in questi «tristes pays» anni «de fatigues qu’on ne peut s’imaginer et de privations les plus abominables» (alla famiglia dal Cairo, 23 agosto 1887), cercando con difficoltà di ottenere i pagamenti per i propri commerci. Egli si sente invecchiare e diventare malato: «la mauvaise nourriture, le logement malsain, le vêtement trop léger, les soucis de toutes sortes, l’ennui, la rage continuelle au milieu de nègres aussi bêtes que canailles, tout cela agit très profondément sur le moral et la santé, en très peu de temps. Une année ici en vaut cinq ailleurs. On vieillit très vite, ici» (alla madre il 20 febbraio 1891). Così, con gran delusione del critico odierno, Rimbaud non vede i tramonti e l’esotico bensì «déserts peuplés de nègres stupides, sans routes, sans courriers, sans voyageurs» (alla famiglia il 25 febbraio 1890). Egli accetta tutto ciò soltanto perché cercava fortuna, o almeno un’indipendenza economica per vivere meglio. Il suo desiderio è detto molto chiaramente in una lettera ai familiari (da Aden, il 15 gennaio 1885): «se trovassi il modo di viaggiare senza essere costretto a fermarmi per lavorare e guadagnarmi da vivere, non mi vedrebbero mai due mesi nello stesso posto. Il mondo è vasto, e pieno di magnifiche contrade, che l’esistenza di mille uomini non basterebbe per visitare. Ma, d’altra parte, non vorrei vagabondare in miseria, vorrei avere qualche migliaio di franchi di rendita e poter trascorrere l’anno in due o tre posti diversi, vivendo modestamente e facendo qualche lavoretto per pagarmi le spese. Ma vivere sempre nello stesso posto, sempre troverò che è molto triste. Insomma, la cosa più probabile, è che facciamo di preferenza quel che non vorremmo fare, e andiamo di preferenza dove non vorremmo andare, e viviamo e decediamo in modo assolutamente diverso da quello che vorremmo, e senza speranza d’alcuna specie di compenso». In Africa e nello Yemen Rimbaud si rivela non un poeta sognatore ma un uomo concreto, abile, accorto, buon commerciante. Per questo motivo in realtà il desiderio di buoni guadagni fu la molla principale, se non l’unica, che lo portò in quelle contrade dove, nelle lettere, confessa il desiderio di fare il gruzzolo, sposarsi e “sistemarsi” (alla famiglia, 6 maggio 1883), pur continuando a vivere laggiù perché ormai inadatto alla vita europea (alla famiglia, 10 agosto e 10 novembre 1890). Rimbaud vendeva armi, sì vendeva armi a Menelik che se ne è avvalso per infliggerci Adua, e anche se sembra proprio falsa la storia del commercio di schiavi (Rimbaud lo nega espressamente in una lettera alla famiglia del 3 dicembre 1885), sicura-

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mente voleva guadagnare un po’ di soldi, voleva smettere di fare l’enfant prodige povero in canna. È deludente tutto ciò? Non sto domandando se sia deludente un Rimbaud che vende armi e, ammesso che sia vero, è implicato nella tratta degli schiavi: questo scandalizzerà i moralisti, ma rientra nel mito. Voglio invece dire: è deludente un Rimbaud che, questo sì lontanissimo dal mito, anziché scrivere poesie vuol fare il gruzzolo e mettere su famiglia? Per me, no. A differenza di Gauguin, che veramente nei mari del Sud cercava l’esotico e l’ispirazione per la propria arte, Rimbaud in Africa è soltanto un emigrante che cerca la fortuna. Ma senza trovarla: tornerà in Francia, indifferente alla fama, precocemente invecchiato e malato, con una gamba incancrenita che gli sarà amputata a Marsiglia, «triste récompense de tant de travail, de privations et de peines» (alla madre, 30 aprile 1891). La lettera alla sorella del 10 luglio 1891 da Marsiglia, in cui risuona la nostalgia per l’Africa a parole tanto disprezzata, è desolante. Per un uomo che sopra ogni cosa amava la libertà e il viaggio, perdere la gamba fu traumatico: «Dove sono, dove sono − scrive disperato − le corse attraverso i monti, dove sono le cavalcate, le passeggiate, i deserti, i fiumi, i mari? […] E io, io che avevo stabilito di tornare in Francia, proprio quest’estate, per sposarmi! Addio matrimonio, addio famiglia, addio avvenire! La mia vita è passata, non sono più che un troncone immobile». Morirà pochi mesi dopo.2 Con la mente rivolta a Rimbaud vago per le strade e i viottoli di Harar. Lentamente, mi risveglio dal sogno. La sera andiamo ad assistere, anzi a partecipare, al “pasto delle iene” che gli “uomini delle iene”, che le chiamano per nome e danno loro da mangiare dei pezzi di carne offrendoli direttamente dalla bocca, reiterano al tramonto. Quando le iene affamate si sono avvicinate, al buio, circondate dai fari delle nostre auto, si vedevano i loro occhi brillare al buio: erano dei grossi cuccioloni, ma queste in pratica sono addomesticate. Le altre, le iene selvagge che si nutrono soprattutto di cadaveri, possono anche attaccare l’uomo in certi frangenti. Anche noi diamo da mangiare grossi pezzi di carne alle iene, con le mani però! La 2

A. Borer, Rimbaud en Abyssinie, Paris 1984, Seuil. Per le opere e la corrispondenza di Rimbaud v. Opere (con testo francese per le opere), Milano 1975, Mondadori. V. anche Viaggio in Abissinia e nell’Harar, Milano 1996, Mondadori; Lettere dall’Abissinia, Torino 1979, La Rosa; Lettere dall’Africa (con testo francese), Milano 1991, Nuages. Aggiungerò che con vero piacere, dietro invito del direttore Charles Courdent, ho fatto un commento e una lettura teatrale in francese del Bal des pendus di Rimbaud, il 5 giugno 2008 poi replicata il 4 settembre, presso l’Istituto di Cultura francese (Alliance ethio-française).

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mattina dopo assistiamo a un’anteprima della vita di famiglia, scampata da Rimbaud: a un certo punto, la nostra ragazza hararina riprende saldamente in mano il controllo della situazione e si riprende il nostro sventurato amico che ci lancia un ultimo struggente sguardo. Lo porta a cena da padre, madre, fratelli, sorelle, zii e cognati tutti*. 3 Noi invece partiamo. Dobbiamo tornare verso Addis per poi ritornare ad est, e sono centinaia di chilometri su pista. Ritorneremo poco sotto Harar, ma non c’è collegamento diretto (lo stanno facendo) tranne una pista al confine somalo pericolosa per gli shifta, per cui siamo costretti al lungo periplo. Il nostro autista, che non vale molto, continua a dirci che ci sono i banditi anche laddove non ci sono: in realtà cerca di metterci paura semplicemente perché vuole rimanere sull’asfalto senza fare la pista, anzi non vuole proprio guidare. Noi gli paghiamo tutte le spese, pur non essendovi tenuti essendo egli già pagato da chi ci affitta il fuoristrada e lui, che continua a chiedere sigarette con un insistente “give me, give me” ignaro della semplice parola “please”, ci chiede se vogliamo andare al lago di Langano. Figuriamoci, noi per cosa abbiamo affittato un costoso fuoristrada, per andare a Langano a giocare a ping pong con i turisti in bermuda mentre lo scimunito sta a bere birra a sbafo in piscina? Il pelandrone vorrebbe anche fermarsi a mangiare. Gli spieghiamo che non se ne parla nemmeno: ad est è notte alle 6 di sera, e dunque finché c’è luce si viaggia, altroché mangiare e poi la pennichella. Guiderei io, ma preferisco di no per non avere responsabilità in caso di incidenti. Lui guida male, troppo veloce in città e sulle strade asfaltate piene di gente e di animali e troppo lento sulla pista che invece è più libera e dove io andrei tranquillo agli 80. A un certo punto un guasto all’auto ci costringe in un buon albergo, che già conoscevamo di fama e dove subito si radunano in giardino molte piccole scimmie curiosissime e dalla lunga coda. Noi andiamo nei parchi naturali e magari non vediamo nulla, poi... ci troviamo le scimmie sul balcone della stanza dell’hotel! Tu ti svegli la mattina, e ti vedi una scimmia che ti guarda da dietro il vetro! Anzi, fuori della nostra stanza c’erano un sacco di scimmiette, alcune sugli alberi, altre nel giardino oltre la terrazza, altre ancora appollaiate in una maniera buffissima sul cornicione del tetto che si sporgevano e guardavano. Sono animali dal volto espressivo, intelligenti, curiosissimi. La curiosità anzi è ciò che anzitutto denota la loro intelligenza. Guardavano, ma non guardavano noi: noi uomini ormai non siamo più una novità per scimmie che vivono nei parchi degli alberghi. Guardavano *

Il docente italiano sposerà la sua ragazza etiope e ne avrà dei figli, anche se rivedendolo non mi è sembrato molto felice.

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stupitissime e quasi impaurite il nostro cagnolino bassotto Ivan: certamente non avevano mai visto un simile animale basso e lungo, ed esse visibilmente non sapevano darsene ragione, lo guardavano e poi si guardavano l’un l’altra con sguardo stupito e interrogativo. Avevano quasi paura e si ritraevano, e ciò conferma che è soprattutto l’ignoto che fa paura. Infatti di noi esseri umani, ben più forti e pericolosi del cagnolino ma anche ben noti, non avevano alcuna paura. Anzi, quando mi sono diretto verso di loro con il braccio alzato per toccarle, più volte hanno reagito cercando di... schiaffeggiarmi. Peraltro se lasci la finestra dell’hotel aperta, a quanto ci dicono queste scimmie sono capaci di tutto: entrano in camera, saccheggiano tutto, portano via tutto ciò che possono. Ci è stato detto di non aprire troppo il finestrino dell’auto con il cagnolino dentro mentre noi siamo fuori, perché quelle certamente − vinta la paura iniziale − lo attaccano e lo uccidono. E in effetti aggressive le scimmie possono esserlo. Un giorno, in un altro nostro viaggio, vediamo prima vari babbuini gelada che attraversano le piste, con le femmine che recano i loro piccoli aggrappati sul dorso (alcune hanno dei deretani vividamente cromatici, di un color rossiccio e arancione, evidente richiamo sessuale per il maschio). Poi, qualche ora dopo, vediamo altre scimmie (non gelada) al lato della strada, e l’autista ferma l’auto gettando loro una banana: ebbene, all’improvviso una scimmia si catapulta sull’auto e cerca di entrare dal finestrino per mangiare le banane. Marilena grida terrorizzata, Ivan il bassotto si rannicchia decisamente perplesso, io chiudo tutti i finestrini, e quella balza su e giù per il cofano e il parabrezza come a dire “datemi le banane, brutti stronzi!” mentre io rido come un pazzo cercando di filmare il tutto. Del resto ricordo bene una delle mie marachelle da ragazzo. Ero nel museo zoologico di Torino e, approfittando della distrazione dei guardiani, lanciai per scherzo una pera a un macaco centrandolo in pieno: ebbene, quello senza scomporsi e senza indugio riprende la pera e me la ritira, anch’egli centrandomi in pieno. A questo punto iniziò una vera e propria battaglia, e io e il macaco ci lanciavamo di tutto. Il macaco era arrabbiatissimo, e certamente aveva ragione. Il giorno dopo ripartiamo, e comincia la salita sui Bale, fra le nuvole ai 4000 metri di altezza. Passiamo una notte in una locanda veramente tesi, perché non sopportiamo più l’autista e i suoi discorsi sui banditi. Costui ci stava veramente rovinando il viaggio, ma ecco la salvezza: al Parco dei Bale conosciamo una guida veramente brava e simpatica, Tilahun, un tipo un po’ matto nonché “fatto” (mastica continuamente il chat) ma appassionato della natura e conoscitore della flora e della fauna. Parla continuamente in inglese a velocità impressionante (è la tipica accelerazione dei proces-

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si mentali prodotta dalle droghe). Ci mostra un tesserino in cui le autorità etiopiche chiedono, con molto tatto, di prenderci cura in qualche modo di lui. Lo ingaggiamo e viene con noi. Il parco è molto bello, e vediamo molti animali. Ci sembra di intravedere il lupo etiopico e poi vediamo molti Nyala, una specie particolare simile allo stambecco. Dev’esserci qualche cadavere animale nelle vicinanze, perché vediamo vari avvoltoi volteggiare sulle nostre teste: “kra-kra-kra”. Il verso ricorda un po’ quello del corvo, ma è più lugubre. La nostra nuova guida ci parla anche dell’aquila etiopica. È un tipo di rapace che vive solo in Etiopia, detto Lammergeier o Gypaetus barbatus, dotato di un’apertura alare di cui si dice (o si favoleggia) che possa superare i tre metri: quando con la sua vista acuta scorge dall’alto un capretto, vi si avventa, vi plana addosso stendendovi la sua ombra nera, lo afferra e stringendolo fra gli artigli poderosi lo solleva e lo porta in alto su nel cielo, fra le nubi, poi lascia la presa facendolo precipitare al suolo ove si sfracella sulle rocce, e a questo punto l’aquila etiopica consuma in tutta calma il suo pasto (noi abbiamo visto vari esemplari, non così grandi, dell’aquila etiopica: uno imbalsamato al Museo di Storia Naturale di Addis Abeba, altri al Museo di Storia Naturale Vittorio Bottego di Parma). Riprendiamo il fuoristrada. Siamo in altopiano ai 4000, la vista spazia. Stiamo percorrendo la strada più alta di tutta l’Africa, fatta costruire da Menghistu per trasportare l’esercito in guerra contro la Somalia. A un certo punto la pista scende a precipizio e si vede una sconfinata foresta, oltre la quale è la Somalia. Torniamo, e proseguiamo ancor più verso est. Notte in una misera locanda, e il giorno dopo giungiamo dopo 100 Km di pista in un luogo straordinario: le grotte di Sof Omar, uno dei primi musulmani rifugiati in Etiopia. Accompagnati dalle guide locali, camminiamo fra le caverne mentre l’acqua scorre al nostro fianco. A un certo punto spegniamo le torce e rimaniamo così, in silenzio per qualche minuto nel buio più totale. Poi, dopo aver studiato la cartina, si decide l’ultima avventura. Uno dei nostri testi dice addirittura che nessun bianco è mai giunto a Sheikh Hussein, definito un luogo di fanatici islamici che prende il nome dell’antico sceicco che convertì alla religione islamica le genti oromo dell’Etiopia orientale, ma la guida che abbiamo ingaggiato dice che lui conosce il posto e che la cosa è fattibile. Così si riparte per centinaia di chilometri di pista svoltando a nord. Notte in locanda, veramente al limite del sopportabile, e dopo altre ore di viaggio si giunge a Sheikh Hussein. Mura di cinta bianche tipicamente ondulate in stile moresco, che spiccano nel paesaggio desolato. All’interno, c’è la tomba a cupola bianca dello sceicco. Attualmente il sito è un santuario islamico e un centro di medicina popolare e magica ove l’islamismo svela tutto il suo legame con arcaiche credenze premonoteisti-

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che. I diseredati, i miseri, i sofferenti vengono qui, sporchi, laceri, coperti di stracci e cenci, percorrendo a piedi centinaia di chilometri per implorare alla loro divinità conforto e guarigione. Vi giungono anche ambigui santoni e fanatici religiosi. All’ingresso veniamo circondati da una folla. Un santone-guaritore ci prende per mano entrambi e ci conduce cominciando però subito a chiedere soldi per poter entrare. Forzatamente iniziamo la distribuzione, facendo attenzione a non esagerare per non incrementare la loro cupidigia. Naturalmente in precedenza avevo nascosto il denaro in modo da non mostrare portafogli gonfi. Compaiono altre persone a cui ci presentiamo con un inchino dicendo “selam”, ma subito comincia una lite fra santoni o perché le gerarchie nell’accoglienza non sono state rispettate (interpretazione benevola) o per accaparrarsi il ricco straniero (interpretazione malevola) o per entrambe le cose. Io sono preoccupato e già mi domando cosa sono venuto a fare in quel posto, quando interviene un uomo, coperto di collane, amuleti, braccialetti simbolo della sua autorità di capo. Ed è veramente un capo, emana calma e autorità. Quando solleva il braccio, di colpo il clamore tace e tutti ascoltano. Ci parla lentamente, mentre la guida traduce: ci dice che siamo i benvenuti, ci dice di non temere, aggiunge che non dobbiamo pensare che loro stiano litigando per il denaro, mentre invece noi siamo convinti che quello non sia l’ultimo movente della lite, e ci chiede 100 birr per la visita (sono tanti, ma per noi al cambio sono meno di 10 euro). Per prima cosa il capo ci mostra un laghetto di acque curative: è uno stagno di acqua rafferma coperto di frasche e fanghiglia. Entriamo per la porta moresca, facciamo il periplo della tomba. Donne accovacciate che chiedono scampo a non so quali mali mi guardano come implorando pietà. Alcune non hanno la forza nemmeno di sollevare lo sguardo. Entro nella cupola fra l’odore dell’incenso. Il primo santone, lo scroccone, sorride mostrando una orribile bocca sdentata. Mi dice, tramite la traduzione della guida, che qui non solo le acque ma anche la terra è sacra: si inchina, prende una manciata di terra e la divora ridendo. Poi ci spalma come augurio un poco di terra sulla fronte. Mi chiede anche se voglio conservare un poco di quella terra come ricordo, e naturalmente accetto. Mi rendo conto di stare vivendo un’esperienza molto particolare, grazie alla quale qualcosa mi sembra di capire di questa particolarissima forma di religiosità − mista con magismo e medicina tradizionale − alquanto diffusa nelle contrade africane, però sono inquieto e vorrei tornare all’auto. Infine usciamo lentamente, e ricomincia la questua. Da soli non saremmo mai stati così pazzi da andare in quel posto, e non ho nessun dubbio che se mai vi ci fossimo trovati senza “scorta” (l’autista e la guida) avremmo

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dovuto nel migliore dei casi lasciar loro tutto quello che avevamo. Sento gli sguardi addosso carichi di cupidigia, avverto la tensione sotterranea che un nonnulla potrebbe far esplodere. Torniamo all’auto e facciamo per ripartire, ma ricomincia la tensione. Vogliono soldi perché hanno custodito l’auto. L’auto è circondata. Cerco di mostrare calma, sorrido e ricomincio la distribuzione. Per fortuna la nostra nuova bravissima guida non si lascia intimorire e sa alzare la voce ma solo fino al punto giusto. Pretende perfino che mi diano il resto, e lo ottiene. Poi il santone-guaritore, interessato ma a suo modo premuroso, sale in macchina per fare i cento metri fino all’uscita del sito. Quando l’auto esce, mi dico che è fatta. Ormai siamo soli, bisogna solo liberarsi del santone. Ma c’è l’ultimo ostacolo. Il santone prima di scendere vuole ancora denaro. Io sono d’accordo nel darglielo pur di liberarmene, e mostro all’autista qualche banconota avanzata sul cruscotto. Ma lui non afferra la situazione, o forse voleva quella moneta per sé, così a questo punto la guida scende e allontana il santone con una spinta. Quello, anziano ma vigoroso, risponde con un pugno e comincia una colluttazione. L’autista innesca la marcia e parte, e la guida si libera dal santone balzando sull’auto. E via. Mi è spiaciuto che finisse così, anche perché in fondo quel cialtrone non riusciva a starmi antipatico. Però poi la guida mi spiega che lui lo conosce bene. Spaventa la gente poverissima che va da lui, minacciando di far piovere su di loro le peggiori malattie se non gli versano soldi. Con noi non attacca, ma ha presa sulle plebi miserabili, ignoranti, credule e superstiziose che vanno in quei luoghi. Sappiamo che esiste una medicina tradizionale, che esistono dei guaritori tradizionali che conoscono le erbe, i rimedi, che curano le fratture, guariscono le psiche fragili e sovraeccitate, ma in questo luogo l’impressione è di qualcosa di anomalo. La guida aggiunge anche che un tempo non era così, che non c’era quell’avidità di denaro (che oltretutto credo non utilizzano quasi, perché lì vivono sostanzialmente custodendo le capre e barattando le cose). Dice che sono stati anche i turisti a corromperli e lo so bene. Un turista va lì e fa il grandioso. Molti ragionano così: 50 birr per me non sono nemmeno 5 euro, quindi posso anche regalarli senza problemi. Ma costoro non tengono conto non solo che alla persona che chiede ne subentrano subito cento, ma soprattutto che per questa gente fra la più povera al mondo 50 birr sono una cifra alta, magari mai vista, e tale da suscitare quella brama, quella cupidigia che prima in effetti probabilmente non c’era, o almeno non in quella misura. Così il bianco che viene dopo è sempre più preso d’assalto a causa degli errori di coloro che sono venuti prima. Da qui l’escalation: alla richiesta implorante segue quella imperiosa e strafottente, poi quella vagamente minacciosa, e da qui alla rapina a mano

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armata (qui tutti hanno un coltello in tasca) non c’è che un passo. Noi, sulla base di quanto letto, temevamo di trovare un posto di integralisti fanatici islamici e invece no, il problema non era quello: quel luogo è effettivamente aperto a genti di tutte le fedi e la nostra stessa guida, mosca bianca cristiana in terra musulmana, ci dice che sua madre cristiana fa il pellegrinaggio in quel luogo così come peraltro lo ha fatto una donna cristiana di Addis Abeba nostra amica. La guida ci dice anche che, nonostante i capi islamici del santuario vigilino affinché non succeda nulla a chi fa centinaia di chilometri per andarvi, ormai la situazione va deteriorandosi. Io ho avuto netta la percezione della differenza fra il capo, autorevole e calmo, che ci ha accolti chiedendoci una certa cifra e poi basta, e il santone che pure ci ha accolti ma continuava a chiedere indecorosamente: li ho percepiti proprio come due tipi umani strutturalmente, gerarchicamente differenti e incomparabili, e ho avuto anche l’impressione che il capo fosse ben consapevole del livello di molta gente che gli sta intorno. Certo se la colluttazione fosse avvenuta alla presenza di tutta la folla che fino a un momento prima ci attorniava, sarebbe stato ben più grave. Invece a questo punto può cominciare il più rasserenante viaggio di ritorno. Oltre, più ad est verso la Somalia, c’è solo il deserto dell’Ogaden, che richiede un altro viaggio e un’altra attrezzatura. Alla fine del viaggio, tornato a casa, non mi sento stanco bensì mi sento la testa piena non di pensieri, ma di emozioni forti e di immagini in flash-back che continuamente ritornano, salgono su come onde potenti di marea e si accavallavano, si mescolano, si confondono, si scontrano fra di loro. La mia mente ha subito una sorta di trauma: non riesco a fare nulla, continuo ad aggirarmi per la casa e attendo pian piano che questo tumulto interiore si plachi.

I POPOLI DELLA DANCALIA E DELLA VALLE OMO

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GLI AFAR DAL MAR ROSSO ALL’INFERNO DELLA DANCALIA

Un viaggio nel nord dell’Etiopia è essenzialmente un viaggio nella parte storica del paese, che porta al contatto con le vestigia dell’antica civiltà axumita di filiazione sabea, con l’antica tradizione ebraica e cristiana del paese, con la tradizione dell’impero abissino, e con questa consapevolezza si vedono Gonder, i monasteri del lago Tana e del Tigray, Lalibela, Yeha, Axum; invece, al contrario, un viaggio in Dancalia nel nord-est dell’Etiopia (presso i confini con l’Eritrea e Gibuti) e un viaggio a sud nella Valle Omo (presso i confini con il Kenya, la Somalia e il Sudan) consistono essenzialmente in un inoltrarsi progressivo nel cuore non semitico, ma propriamente africano e nero, del paese. È un viaggio più antropologico ed etnologico che storico, un viaggio nella parte più selvaggia, anche se non incontaminata e ormai lungi dal generare quel senso di avventura e di scoperta che poteva esperire l’esploratore Bottego, ma in cui comunque ancora si incontrano − presumibilmente prima della loro definitiva scomparsa − quelli che nell’immaginario collettivo dell’occidente sono i selvaggi, i primitivi, gli “altri da noi”. In questo senso un viaggio in Dancalia o nella Valle Omo può ancora apparire, almeno per certi aspetti e poi nell’immaginazione che lo ricrea, come una sorta di regressione nel tempo verso l’arcaico, in una sorta di “discesa” o κατάβασις. La metafora non sembri del tutto eccessiva: infatti per andare in Dancalia o nella Valle Omo si abbandonano gli altipiani di Addis Abeba dal clima gradevolmente mite e salubre, protetti ai margini da poderosi contrafforti naturali e collocati fra i 2300 e i 2800 metri, e si scende, lentamente e progressivamente, per giungere a sud nella Rift Valley, che ancora rimane una zona ampiamente malsana e malarica, raggiungendo a nord-est il deserto della Dancalia caratterizzato da un’afa opprimente, a est il deserto dell’Ogaden, ad ovest le propaggini del deserto sudanese che si prolunga nel deserto del Sahara. La Rift Valley è un poderoso solco che per via della millenaria deriva dei continenti, partendo dalla Turchia e raggiungendo il Mozambico, per migliaia e migliaia di chilometri spacca in due come una cicatrice la

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grande catena dei monti e degli altipiani etiopici, attorniata dai grandi deserti circostanti, allontanando sempre più le terre che fra molti milioni di anni isoleranno dal continente il Corno d’Africa il cui destino sarà di essere sommerso dal Mar Rosso verso cui attualmente digrada il deserto dancalo. In Etiopia vivono decine di popolazioni allo stato tribale. Il primo imbarazzo è qui già nella terminologia, perché in realtà noi non abbiamo nemmeno un termine soddisfacente per definire adeguatamente questi popoli. Non definiremo queste popolazioni “selvagge”: a parte il fatto che in senso letterale “selvaggio” significa colui che vive nella silva, nella foresta, mentre invece queste popolazioni vivono anche altrove, ad esempio nella savana o financo in terre desertiche, resta poi il fatto che il termine “selvaggio”, ben lungi da ogni senso etimologico, ha ormai assunto un senso spregiativo che certo non costituisce l’inizio di un approccio conoscitivo con queste popolazioni. Nemmeno useremo il termine “primitivo”: infatti queste popolazioni, in cui le vecchie generazioni sono spesso ancora prive di una cultura scritta, non possono dirsi primitive nel senso che (come si è creduto per lungo tempo) possano richiamare l’uomo preistorico originario, perché hanno alle spalle una lunga storia e tradizione; sono lontane dalla condizione dell’uomo primitivo originario, di cui comunque nulla sappiamo se non per ipotesi non avendolo mai visto da nessuna parte, in quanto naturalmente conoscono non solo l’uso del fuoco e della pietra ma anche la pastorizia, l’agricoltura, il commercio, nonché i transistors. Anche la definizione (propria dell’etnologo W. Schmidt che rifletteva sull’origine dell’idea di Dio nel pensiero “primitivo”) di “uomini naturali” (Naturmenschen) o di “popoli naturali” (Naturvölker) appare piuttosto generica: sebbene certamente la vita di questi popoli sia più prossima e vicina a condizioni naturali da cui l’uomo occidentale moderno si è allontanato sempre più, segnate dal ritmo delle stagioni, dalla natura del suolo e del clima, dall’esigenza della caccia o della pesca, comunque non si tratta di uomini che vivono in un mitico stato di natura (ammesso vi siano mai stati uomini allo “stato di natura” in questo senso), bensì si tratta di popolazioni i cui complessi sistemi simbolici, mitici e religiosi collocano evidentemente dalla parte della cultura. Noi, senza impantanarci ulteriormente in discussioni terminologiche, definiremo questi popoli come popoli “privi di scrittura” costituenti “società tradizionali”. Queste popolazioni sono essenzialmente il residuo e la sopravvivenza delle antiche popolazioni non mescolate con l’elemento semitico. A tutta prima potrebbe quasi sembrare che esse si siano conservate e tramandate per vari aspetti immutate e inalterate per lungo tempo, quasi prive di storia e di interno dinamismo, e che esse siano sostanzialmente ancor oggi ciò

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che erano allora, anche se in realtà (come vedremo) vi sono molti motivi per ritenerle culture in fase involutiva rispetto alla condizione più antica e originaria. Sono popolazioni per lo più dedite alla pastorizia, alla caccia, all’allevamento, all’agricoltura. Sono anche popoli guerrieri, e ancora oggi si registrano sanguinosi scontri fra vicine tribù rivali per le dispute sui pascoli e sui terreni. Vivono spesso seminudi, coprendo solo le parti pubiche. Ciascuna “tribù” (ma anche questo è un termine carico di sottintesi impropri) parla una propria lingua, ed in tutta l’Etiopia − «museo di popoli» secondo l’etiopista C. Conti Rossini − sono diffuse oltre ottanta etnie con altrettante lingue: fra esse, a parte gli amhara e i tigrini che non vivono più allo stato tribale, possiamo ricordare le tribù oromo come i Borana, i Mursi, i Surma, i Konso, i Sidamo, e poi i Wolayta, i Guraghe, gli Afar, i Dorze, i Nuer, gli Anuak, gli Issa. La natura frastagliata del territorio etiopico, in cui gli altipiani fertili e pascolabili sono separati fra loro da catene montuose, come i monti Semien a nord e i Bale a est la cui altezza può superare i 4000 metri (il monte più alto dell’Etiopia raggiunge i 4620 metri), e anche sono separati da spaccature con gole e canyons profondi, da laghi vastissimi e da imponenti corsi d’acqua come il Nilo Azzurro e l’Awash, rendono le vie di comunicazione disagevoli e spesso impossibili, tali da richiedere alle popolazioni lunghi e faticosi giorni di cammino per gli spostamenti. Questa conformazione geomorfologica ha favorito il frazionamento e la separazione delle popolazioni e l’isolamento di ciascuna tribù e ciascun villaggio, rendendo labili nei secoli i tentativi di unità e coesione statale. Del resto nell’Africa gli Stati sono recenti creazioni artificiali, nazioni coloniali arbitrariamente spartite fra le potenze occidentali del XX secolo, spesso tracciando a tavolino una linea retta sulla carta geografica corrispondente anche a migliaia di chilometri, tagliando arbitrariamente terre, savane, deserti senza alcun rispetto per la geografia e le popolazioni, senza alcun’altra logica se non quella del profitto e del potere. In seguito (soprattutto a partire dagli anni sessanta) si sono formati gli Stati africani autonomi, ma essi sono spesso apparsi alle popolazioni indigene quali enti astratti e artificiali che non possono sostituire la vera, unica e autentica realtà etnica e tribale. Ogni tribù, legatissima alle proprie tradizioni e gelosa della propria indipendenza, può facilmente diventare rivale di un’altra cosicché l’uomo della valle accanto può diventare un nemico. Io sono di una certa tribù e parlo una certa lingua: e tu, come dice Moravia che dice di essersi sentito porre la domanda, «tu a quale tribù appartieni?». Non si comprenderà nulla dell’Africa, anche dell’Africa attuale, se non si capisce che tuttora in essa le lotte tribali e claniche sono molto più importanti delle lotte fra Stati o fra classi sociali.

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Quando per esempio in Somalia, in Sudan o in Etiopia un politico giunge al potere, egli sempre favorirà − anche in modo sfacciato, plateale, veramente senza alcun ritegno − non solo se stesso e la propria famiglia ma anche il proprio clan di appartenenza. Certamente in tutto questo noi vediamo giustamente un deprecabile fenomeno di corruzione che veramente, pur essendovi tutt’altro che sconosciuto, in quella misura non ha eguali in Europa ed è ormai riconosciuto dagli stessi africanisti neri come una delle peggiori piaghe dell’Africa. Tuttavia dobbiamo anche capire la persistenza sovra tutto della mentalità clanica in Africa e dobbiamo capire che, per la mentalità clanica, l’individuo che ha saputo emergere, per quanto ormai urbanizzato e lontano, per quanto possa anche aver studiato ad Oxford, non può mai rompere i legami con la tribù e il clan di origine perché questo sarebbe il massimo tradimento. Tutto quello che egli è lo deve al clan, senza il quale egli non sarebbe nulla, ed egli è tenuto a condividere la sua fortuna con tutto il clan che gli ha permesso di diventare quello che è. Se così non facesse, egli si potrebbe perfino esporre a pesanti ritorsioni che potrebbero minacciare la sua stessa vita, ma in realtà ciò non accade perché (per quanto ormai compaiano cenni di indipendenza individualistica) è tuttora molto raro che qualcuno infranga la regola del clan. Dunque la prima cosa che farà un politico africano giunto al potere è chiamare al governo gli uomini della sua stessa etnia e dotare la sua regione originaria di strade, infrastrutture, scuole, anche trascurando tutto il resto del paese e con ciò suscitando fatalmente il risentimento delle altre etnie che sono sempre numerose. Ma questo risentimento delle altre etnie vi è anche quando il politico in questione cerca di occuparsi dell’intero paese. Ad esempio attualmente in Etiopia il leader politico Melles Zenawi è poco amato dalla grande maggioranza della popolazione, ma questo perché? Egli invero, anche se ha indubbiamente costruito più strade nel nord tigrino dell’Etiopia (da cui proviene) che non nel resto del paese, si è comunque occupato della nazione nel suo insieme, che ha anzitutto liberato dalla precedente durissima dittatura di stampo comunista. Eppure non è amato dagli amhara e dagli oromo e non perché abbia fatto questo o quello, questo o quell’altro errore (come pur ha fatto), bensì per il semplice fatto che lui è tigrino e dunque di un’altra etnia. Invero la moderna etnologia ha posto in discussione l’abitudine dell’antropologia classica di studiare le comunità tribali come entità immutabili linguisticamente e culturalmente chiuse e isolate, caratterizzate da confini netti e precisi, vedendo in ciò non una caratteristica reale delle popolazioni suddette bensì una deformazione professionale dell’antropologo uso

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alla frammentazione e alla parcellizzazione nei suoi studi specialistici1. In effetti è indubbiamente vero che noi non dobbiamo vedere queste popolazioni come un’accozzaglia atomistica di enti isolati e che, anziché considerare entità separate ed estrinsecamente sommate, dovremmo procedere all’inverso dal tutto alle parti cogliendo i casi in cui una grande etnia (quale quella oromo) si frammenta in molteplici entità geograficamente definite senza tuttavia perdere alcuni comuni tratti linguistici e culturali, un po’ come le specie animali emigrando e isolandosi geograficamente in zone diverse si diversificano e variano mantenendo però un’unità o almeno una somiglianza di specie; ed è vero che (poiché le razze umane si differenziano assai più per lingue, costumi e tradizioni che non biologicamente) noi dovremmo cogliere i contatti fra le popolazioni attraverso le migrazioni, i prestiti culturali, i fenomeni di “diffusione” a partire da un centro originario (come voleva la scuola antropologica del “diffusionismo”), che soli sembrano spiegare certe notevoli affinità religiose e talora rituali2. Rimane però il fatto che, soprattutto in un suolo frastagliato e naturalmente frazionato come quello etiopico, indubbiamente la separazione e la conflittualità fra le diverse popolazioni non sono solo un’invenzione dell’antropologo. È vero che in certi casi alcune popolazioni rivelano allo studio etnografico una lontana origine comune, come ad esempio nel caso dei Baria e dei Cunama studiati dall’etnologo coloniale Pollera3: ma anche in questo caso l’etnogenesi ha mostrato che proprio le antiche migrazioni hanno portato il popolo originario a dividersi in zone diverse e anche lontane, cosicché alla fine ne abbiamo lingue e religioni diverse anche nel caso di popoli che originariamente costituivano un popolo solo. Di conseguenza può avvenire che una tribù − quali che siano i suoi legami originari con la grande etnia di appartenenza − appaia come un mondo a sé stante, racchiuso in se stesso con una propria lingua e tradizione, chiuso come in un guscio 1

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F. Barth, Ethnic Groups and Boundaries, London 1969, Allen und Unwin; AA.VV., Au coeur de l’ethnie, Paris 1985, Éditions La Découverte (tr. it. L’invenzione dell’etnia, Roma 2008, Meltemi); U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Roma 1995, NIS. Sui fenomeni migratori con conseguente frammentazione di una stessa etnia in fratrie e gentes, connesse a studi pionieristici sulle parentele claniche, insiste particolarmente (con riferimento all’area americana di sua competenza) il Morgan, le cui ipotesi di ricostruzione dei processi storici, pur inficiate da assunzioni proprie dell’antropologia evoluzionistica ottocentesca, sono state sbrigativamente liquidate dall’etnologia successiva (L.H. Morgan, Ancient Society, 1876, tr. it. La società antica, Milano 1970, Feltrinelli). A. Pollera, I Baria e i Cunama, cit. Cfr. B. Sòrgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera, Torino 2001, Bollati Boringhieri, pp. 54-67.

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ermetico entro i propri limiti territoriali, separato come da una barriera dalle altre tribù, spesso senza che un vero stimolo (se non percepito come pericoloso per la propria integrità e dissolvente) giunga dall’esterno. I casi rilevati dalla recente etnologia di uomini che in società tradizionali inziano la propria vita in una data etnia e la terminano in un’altra dimostrano soltanto quanto certe tribù abbiano ormai smarrito la propria identità perché generalmente − almeno giudicando da quanto ho potuto vedere in Etiopia − ogni etnia è fiera e orgogliosa della propria identità e nessun uomo di una data etnia vorrebbe essere confuso con un uomo di un’altra etnia, né del resto può minimamente essere confuso per inequivocabili segni distintivi che a prima vista e immediatamente fanno di un uomo un hamer o un borana o un mursi. In particolare per quanto riguarda l’Etiopia ciascuna tribù − checché ne possano dire molti etnologi moderni − vive separata dalla tribù della valle dietro le montagne, nelle cui vicinanze magari vive da secoli, ed appare antropologicamente distinta dalle altre stante la presenza di legami endogamici e intraclanici che escludono gli incroci e l’esogamia intertribale (che non del tutto a ragione Lévi-Strauss poneva alla base della società umana), senza che vi sia nessuna autentica fusione di gruppi e con la possibile conseguenza di una finale decadenza e degenerazione visto che gli incroci (contrariamente a quanto pensavano i teorici della razza pura) non sono sempre negativi in quanto possibili apportatori non tanto di “sangue nuovo” quanto piuttosto di cultura nuova. Donde i numerosi conflitti, soprattutto quando la transumanza e la ricerca di acqua, di pozzi, di pascoli e di terre fertili conducono una tribù ad invadere il territorio di un’altra, o conducono due tribù ad emigrare nello stesso territorio: questo può condurre ad un aspro e selvaggio struggle for life, ad una vera e propria lotta per la vita per il possesso del territorio. In tal caso, uscire dal proprio territorio può significare esporsi al pericolo di essere ucciso, e chi non appartiene alla tribù può essere facilmente il nemico col quale nessun contatto è possibile, preda e vittima potenziale della razzia. Quando avviene, l’uccisione di un membro del clan non è una cosa che riguarda soltanto i parenti dell’ucciso bensì è un’offesa mortale a tutto il clan, ed è un’offesa che esige vendetta, donde una serie inenarrabile di faide (lo stesso dio biblico che punisce fino alla trentatreesima generazione riflette indubbiamente una struttura clanica in cui la colpa di un uomo si riflette su tutta la discendenza). In certe popolazioni polinesiane avveniva addirittura che l’uccisione di un congiunto provocasse una furia omicida che colpiva indistintamente tutte le persone casualmente incontrate. La spirale della vendetta può essere arrestata e la faida estinta solo se il clan dell’offeso, dopo pressanti e lunghe trattative attraverso l’intermediazione

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delle autorità dei villaggi, accetta il “prezzo del sangue” ovvero un congruo ed adeguato risarcimento di natura economica (ad esempio in mucche) da parte dell’offensore e del suo clan: esso viene pagato ai parenti dell’ucciso dall’omicida e, in misura decrescente con il decrescere del grado della parentela, dai parenti e dal suo clan tutto. Questo perché l’omicidio, ancor prima che colpire negli affetti (come scriveva il Pollera che vi si sofferma piuttosto a lungo a proposito dei Cunama) costituisce «un danno economico che l’uccisore arreca alla famiglia o alla stirpe dell’ucciso»4. Così con un po’ di mucche (anche qualche decina, a volte) e qualche capra offerta ai parenti della vittima è in genere possibile sancire la pace e risolvere la questione: anzi, suggellato il patto di pacificazione, i parenti della vittima e dell’assassino possono diventare come nuovi parenti fra loro, e talora parenti a tutti gli effetti per via di scambi matrimoniali. La salvaguardia della parentela, e dei suoi diritti anzitutto economici, appaiono assolutamente prioritari. Infatti solitamente (per quanto poi possa essere violato nelle faide più sanguinose) v’è un codice che regolamenta la vendetta, che è un diritto e un dovere in caso di mancata pacificazione e di mancato pagamento del “prezzo del sangue”: così è lecito uccidere per vendetta il fratello dell’uomo che ha ucciso un proprio congiunto, qualora l’assassino non possa essere colpito, ma mai sarà lecito uccidere la sorella sposata dell’uccisore, non per rispetto al gentil sesso ma perché ciò lederebbe il diritto del marito (proveniente da altra famiglia e non legato per sangue all’uccisore) alla legittima sovranità sulla moglie. Nel “prezzo del sangue” comunque non bisogna vedere solo una venalità economica (peraltro comprensibile in dati contesti) bensì più profondamente l’esigenza prioritaria di spezzare la spirale della violenza per il bene della comunità tutta. Questa situazione di perenne conflittualità era particolarmente evidente, fino a pochi decenni or sono, nella terribile terra di Dancalia popolata dagli Afar o Adal o Danakil (plurale di Dankal), conosciuti ancora in epoca coloniale come temibili guerrieri e ancor oggi non del tutto innocui. Le origini degli Afar, che popolano la Dancalia, non sono certe. Una tradizione da essi stessi avvalorata li dice popoli di origine araba che a suo tempo attraversarono il Mar Rosso dalle terre yemenite (alcuni di essi del resto portano il pugnale ricurvo come nello Yemen e ormai da secoli sono anch’essi di religione islamica): si attribuiscono un’origine semitica (se non addirittura egizia) e, si direbbe a ragione visti i loro tratti fisionomici, non si ritengono neri. Poiché però parlano la lingua afar che è cuscita (e solo 4

A. Pollera, I Baria e i Cunama, cit., p. 151.

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da tempi recenti dotata di un alfabeto latino, essendo essi fino a poco tempo fa quasi tutti analfabeti), e visti certi tratti fisiognomici (come i capelli ricciuti), è probabile che questi lontani immigrati arabi si siano mescolati con l’elemento somalo autoctono e poi, almeno in parte, siano nuovamente emigrati dalla costa del sud verso nord: essi così, dopo aver attraversato il Mar Rosso (nell’ipotesi dell’origine arabo-yemenita), ne risalirono successivamente la costa da sud e infine si stanziarono sulle sponde eritree.5 Come tutte le popolazioni della costa eritrea, e spesso in situazione di reciproca conflittualità, essi si dedicarono alla pesca e alla caccia delle perle che rivendevano ai mercanti arabi. Ma la loro vita era molto dura e poco remunerativa. I pescatori di perle erano praticamente schiavi, non di rado bambini di quattro o cinque anni a cui i padroni, invero non molto più ricchi di loro, davano la barca per la pesca e i viveri indispensabili per sé in mare e per la loro famiglia a casa, ed essi in cambio portavano le preziose perle che da soli non potevano vendere: dunque in pratica i pescatori di perle, dovendo ripagare la barca loro data in affido e le cibarie, non traevano dalla loro pesca se non la possibilità di una mera e bruta sopravvivenza. La pesca delle perle, ricavate con fatica immergendocisi nelle acque e aprendo le valve delle conchiglie e delle ostriche, era inoltre impresa difficile e anche pericolosa con rischio della vita: sia per il rischio di affogamento per via delle forti correnti, sia a causa di certe grandi conchiglie che chiudendosi intrappolano il piede del pescatore che non può più risalire, sia per certi molluschi i cui tentacoli semplicemente accarezzando il corpo producono convulsioni spasmodiche che possono in poco tempo provocare la morte. Non a caso un motto dei pescatori di perle yemeniti era che «la perla porta sventura». A causa dei venti (soprattutto monsoni) e delle tempeste, lo stretto corridoio del Mar Rosso che separa la costa yemenita dall’eritrea è alquanto infido e pericoloso, e ancor più lo era per le piccole barche fragili e leggere, scavate nel tronco degli alberi, fino a non molti decenni fa usate dai pescatori. È un mare che in teoria si attraversa in poche ore da una sponda all’altra e che a prima vista può apparire calmo e liscio come uno specchio, ma poi all’improvviso possono comparire forti venti. Allora il vento traditore, che fino a poco prima poteva trasportare e sospingere tranquillamente la barca, all’improvviso comincia a spingerla da tergo velocissima in avanti o in altre direzioni come un torrente impetuoso. Le onde suscitate dal 5

V. la ricostruzione delle migrazioni somale in un testo dell’età coloniale: N. Puccioni, Le popolazioni indigene della Somalia italiana, Bologna 1937, Cappelli. Per una ricognizione sulla grande ricchezza e varietà delle popolazioni eritree (oltre ai Baria e ai Cunama) v. A. Pollera, Le popolazioni indigene dell’Eritrea, Bologna 1935, Cappelli.

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vento arrivavano, sollevavano la fragile barca in alto, proprio sulla cresta dell’onda, e poi essa ricadeva e ripiombava orribilmente in basso mentre immediatamente arrivava l’ondata successiva: con terrore si vedevano in lontananza avanzare le onde minacciose che potevano rovesciare la barca, e subito un muro liquido si rovesciava addosso ai barcaioli sommergendoli ripetutamente con grandi ondate. Portata come un fuscello la barca sottile e leggera vacillava paurosamente sotto l’assalto delle onde, e come la zattera di Géricault andava incontrollabile dove voleva senza che si potesse far nulla, portata sempre più lontano dalla costa in avanti e indietro, a lato e di traverso. Per più parti poi il mare, soprattutto fra gli isolotti costituenti l’arcipelago delle Dahlak, è punteggiato da banchi di corallo meravigliosi ma infidi e da numerosissime rocce e scogli quasi invisibili a filo d’acqua o appena sotto l’acqua che pericolosissimi appaiono all’improvviso, e basta avere il sole contro per non vederli anche in pieno giorno. A tutt’oggi − felicità dei subacquei che vi accorrono da ogni parte del mondo − le scogliere delle Dahlak sulla costa eritrea sono irte e disseminate di decine di rottami e relitti, visibili sul fondo, non di minuscole imbarcazioni (di cui, portate alla deriva, non è rimasta traccia) bensì di navi antiche e anche moderne che, incagliatesi negli scogli e nelle barriere coralline, sono affondate (ancora negli anni ottanta e novanta) con i loro carichi umani. Il mare è infestato di pescicani ma se anche, in anni lontani, i pescatori durante una tempesta vi sfuggivano e naufragavano su qualcuno di questi isolotti, essi potevano soltanto attendere la morte per sete perché nessun soccorso sarebbe giunto dal mare6. Questo mare spesso sconvolto era poi infestato dai pirati: per secoli continuarono a sbarcare sulle coste gli invasori musulmani a caccia di bottino e di schiavi, inviati dai sultani della costa yemenita e da Zanzibar; i pirati islamici abbordavano e attaccavano le imbarcazioni e i pescatori venivano uccisi, depredati, catturati e venduti come schiavi. Da tutto questo derivò, fin dai tempi più antichi, la leggenda del Mar Rosso: definito già da Erodoto nelle sue Storie come “Mar Eritreo” che in greco significa “Mar Rosso”, esso appare in alcuni punti rosso a causa delle miriadi di alghe ondeggianti sulla sua superficie, e anche le sue coste spesso mostrano un color rossastro per via degli ossidi di ferro. Ma questa colorazione rossastra del mare, peraltro naturalmente visibile solo in alcuni punti, è stata ingigantita dalla fantasia popolare e il color rossastro, esteso

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Le difficoltà e i pericoli del Mar Rosso durante una tempesta e sotto la sferza dei monsoni sono stati descritti dal viaggiatore Henri de Monfreid, che negli anni trenta vi si avventurò (Les secrets de la Mer Rouge, s.d., tr. it. I segreti del Mar Rosso, Milano 1933, Editrice Genio).

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nella fantasia a tutto il Mar Rosso, richiamava il rosso del sangue delle vittime annegate o uccise dai pirati. Ben si comprende dunque che le popolazioni costiere del Mar Rosso tuttora si diano tuttora alla pesca solo per sopravvivere, ma senza che in esse vi sia un autentico amore per il mare. Gli uomini del litorale del Mar Rosso (eritrei, yemeniti e somali) sono privi di una autentica tradizione marittima. Essi dicono che «vedere il mare è perdersi»; spesso evitano addirittura la pesca come una sfida peccaminosa al mare e (come altre popolazioni marittime, ad esempio nordamericane) considerano impuro il pesce e tabù l’alimentarsene, ciò che peraltro sembra anche indicare che queste popolazioni non siano originariamente marittime bensì immigrate dall’interno lungo le zone costiere. Per questo alcune popolazioni costiere del Mar Rosso dovettero ritirarsi verso l’interno. Così gli Afar, per sfuggire all’ostilità delle numerose popolazioni locali e evitare la vita marittima e la durissima vita dei pescatori del Mar Rosso, si spinsero verso l’interno emigrando fino in Dancalia o ancora più a sud-est ai cui estremi si trova il deserto dell’Ogaden: “afar” del resto significa “libero”. Probabilmente cercavano di andare verso la zona della savana e delle foreste meno disadatte alla vita, ma non poterono spingersi troppo oltre perché inevitabilmente si scontrarono con le popolazioni autoctone (particolarmente con gruppi oromo provenienti da sud), con cui pur in parte si mescolarono dopo violente lotte e razzie di donne. Infine restò loro solo il deserto dancalo. In una parola, gli Afar − essendo loro precluse altre possibilità − hanno preferito il deserto al mare: pur di sfuggire il mare e i suoi pericoli, essi sono emigrati più verso l’interno spingendosi nell’inferno del deserto, senza poter andare oltre. In questo modo essi speravano comunque di fuggire i pirati, i cacciatori di schiavi, la durissima vita dei pescatori di perle; speravano nel commercio del sale di cui abbondano i laghi dancali; cercavano un luogo ove poter essere razziatori anziché razziati. Ma in realtà caddero di male in peggio o, come si dice volgarmente, dalla padella alla brace. Trovarono infatti una terra arida e infernale che, rendendo impossibile qualsiasi agricoltura, lascia come sola possibilità la pastorizia e il nomadismo alla ricerca di acqua e pascoli quanto mai rari, e spesso il solo liquido che si riesce a trovare, escludendo le acque bollenti delle sorgenti e le acque salate dei laghi, è quello raccolto incidendo la corteccia delle rare palme dum. Si capisce molto di un popolo (soprattutto di un popolo tradizionale) quando se ne studia l’habitat naturale, e la fama non ancora spenta di leggendaria ferocia dei dancali non è altro che il fatale e tragico corrispettivo della ferocia della terra in cui essi vivono ed hanno vissuto per molti secoli.

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La Dancalia è uno dei luoghi più inospitali del pianeta. Situato fra Eritrea, Etiopia e Gibuti, il torrido deserto dancalo è un triangolo fra il Mar Rosso e gli altipiani abissini: è una depressione costituente una fossa che, digradando verso il Mar Rosso da cui un giorno sarà sommerso, costituisce uno dei punti più bassi della superficie terrestre giungendo a 120 metri e in taluni punti a 150 metri sotto il livello del mare. Il paesaggio è desolato, inframezzato da vulcani spenti, antiche colate di lava basaltica solidificata e nerissima, laghi salati, sorgenti di acque bollenti. In certi punti (splendide al riguardo le riprese di N. Hulot nel suo documentario Ushuaïa/Ethiopie, 2005) il paesaggio sembra veramente da incubo, un inferno dantesco fra dirupi, precipizi, sconfinate vallate desolate: diventa spettrale, lunare, e ricorda il suolo di Marte o la Terra come secondo gli astrofisici e i geofisici doveva essere due o tre miliardi di anni fa. Rimbaud, che attraversò la Dancalia, scrisse di essere passato «lungo sentieri spaventosi, come quelli che si presume esistano sulla Luna». Non piove quasi mai e le temperature si attestano sui 40 gradi (gli esploratori dell’età coloniale dicevano che in certi giorni esse superavano i 70 gradi); a volte vi si cerca invano una roccia capace di fare un poco d’ombra, mentre la sabbia e la terra scottano bollenti al contatto, e tuttavia possono lasciar affiorare scorpioni e rettili velenosi. Si cammina su pietre arroventate, ci si arrampica su rocce che scottano, fra lave solidificate aguzze e taglienti. Il caldo insopportabile è ulteriormente aggravato quando sorge il vento, la bufera che avvolge e sferza gli uomini con le sue folate di sabbia bollente che oscurano il cielo e impediscono la vista anche a pochi metri di distanza; le tempeste di sabbia sono numerose, e l’aria tremolante distorce la luce rifrangendola e causando alterazioni e sfuocamento delle immagini. Il grande fiume Awash, che scende dall’altopiano abissino a sud-est per poi piegare risalendo a nord, quando giunge in Dancalia non ce la fa e si arrende: infine si perde, termina il suo corso in una serie di laghi salati e si estenua, riassorbito dalla terra avida e arida. L’esploratore italiano Franchetti così descriveva un tratto del deserto dancalo attraversato dalla sua spedizione: «Non un albero su tutto il vasto orizzonte, non un uccello che solchi l’aria, o elevi il suo canto di sulle rocce o dalle sabbie; ogni segno di vita è in questo luogo scomparso; vi è in quell’aria, in quei luoghi, un silenzio che vi angoscia e vi opprime. In mezzo a quell’immenso e opprimente paesaggio la carovana si snoda lentamente, essa pure silenziosa, perché il passo degli uomini e dei quadrupedi è attutito dalla sabbia, e la gente è così involontariamente presa da questo incubo di silenzio che o non parla, o lo fa sottovoce per non rompere l’incanto che ci circonda».7 7

R. Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit., p. 249.

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Anche oggi “scendere” nella fossa dancala significa entrare nell’interno di una fossa infernale. La mancanza d’acqua vi è cronica. In Dancalia vi sono vari laghi salati (circa una trentina), residuo del grande lago che in remote epoche geologiche (come ancor oggi testimoniano conchiglie e coralli fossili) sommergeva la piana e che, prosciugandosi, lasciò enormi depositi di sale. In particolare in terra eritrea v’è, vicino al lago Assal al cui interno v’è l’isolotto di Dallol, la grande Piana del Sale che (posta in certi punti a 150 metri sotto il livello del mare) è un mare prosciugato, una sconfinata distesa salata, con strati di sale spessi anche più di un chilometro: l’immensa distesa di sale vi appare come una sorta di neve ghiacciata, «un mare di vetro»8, una crosta di sali cristallizzati che scricchiolano e si frantumano al passaggio. Questi laghetti salati del territorio dancalo sono per lo più alimentati da sotterranee sorgenti sulfuree e termali di origine vulcanica e la loro acqua è caldissima e imbevibile: il Franchetti narrava che i pesci non vi possono vivere, e quelli che vi capitano da affluenti minori vi muoiono immediatamente. Inoltre questi laghetti sono a tal punto pieni di sale che sovente l’acqua è talmente densa e satura che chi vi si inoltra a nuoto anche se incapace di nuotare non corre il rischio di annegare, perché vi galleggia senza andare a fondo e, se anche vi si inabissa, sempre viene risospinto alla superficie9. Quest’acqua altamente mineralizzata è, oltre che spesso caldissima, amarissima e ancor più imbevibile e pericolosa: lungi dal calmare la sete essa la aumenta e, come riferisce il Nesbitt, se bevuta per l’insopportabile sete strazia le viscere provocando dolori atroci e indicibili spasmi al ventre e alle reni. Le poche sorgenti d’acqua e i pozzi appositamente scavati, in cui si abbeverano e si lavano indistintamente i pochi uomini e animali che osano vivere in questo deserto, danno solo poca acqua putrida e malsana mista a fango, fonte di gravi malattie come il tracoma. I preziosi pozzi erano gelosamente custoditi e sorvegliati a vista da uomini armati che ne impedivano l’accesso ad altri che non fossero della propria tribù: gli esploratori narravano al riguardo che i dancali spesso non rivelavano l’ubicazione dei pozzi e delle sorgenti (o rigagnoli) d’acqua, onde riservarne la poca disponibilità per sé e i propri cammelli10. Il Nesbitt in particolare ci ha lasciato un drammatico resoconto delle sofferenze e delle fatiche di un lungo viaggio di tre mesi attraverso la Dancalia da sud a nord, ove si viaggiava in un silenzio impressionante per lo più di notte

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L. Nesbitt, Danakil transversed from south to north, 1930, tr. it. La Dancalia esplorata, Firenze 1930, Bemporad, p. 459. R. Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit., p. 256. Ivi, pp. 176-180.

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al chiarore spettrale della Luna, onde trovare un qualche scampo all’infernale calore diurno, nella quotidiana ricerca di qualche fossa d’acqua anche sporca e malsana, in un continuo andare avanti verso una lontana pozza conosciuta dalla guida dancala, nella paura di non trovarla o di trovarla disseccata, con il continuo incubo davanti agli occhi della morte per sete che nel frattempo falciava muli e cammelli, mentre al contempo incombeva la minaccia di un attacco dei dancali. La sola ricchezza della Dancalia, paradossalmente, è proprio in questa acqua imbevibile e salata che però, appunto, dà il sale. Immediatamente fin dall’inizio alcune tribù afar hanno posto sotto il loro controllo questi laghi, difendendoli con le armi senza permetterne l’uso ad alcun estraneo. Quindi essi hanno iniziato la raccolta del sale: si tratta di un lavoro duro e faticoso, e se il lago non è asciutto bisogna immergersi fino al fondo nell’acqua salata che causa bruciore agli occhi per prendere i blocchi di cristalli di sale, che tagliano e lacerano la pelle causando dolorose piaghe ai piedi e alle mani. Parallelamente, gli Afar hanno iniziato con carovane di dromedari il commercio del sale da essi raccolto: per secoli in Abissinia il sale, ritagliato in piccoli blocchi a parallelepipedo (i molliè), è stato una moneta apprezzata. Attualmente dalla Dancalia (tranne nella stagione delle piogge) 4000 o anche 5000 dromedari alla settimana portano giornalmente 300 tonnellate di sale agli altipiani etiopici. Tuttavia, la lotta per la vita non era con ciò ancora risolta. Infatti gli Afar, stanziandosi in Dancalia per sfruttarne le risorse saline, hanno finito per invadere il territorio dei guerrieri Issas (che ancora nell’Ottocento cercarono con dure rappresaglie di impedire la costruzione della ferrovia Gibuti Addis Abeba che, attraversando il loro territorio, ne ledeva gli interessi di pastori e di controllori del commercio carovaniero). Infine, si avvicinarono troppo al regno degli amhara che, pur da tempo ormai lontani dal mare, rivendicavano la sovranità anche sull’entroterra del deserto dancalo. Così gli Afar iniziarono a subire pesanti tributi per l’uso del territorio e balzelli doganali per il commercio del sale, di cui i sovrani amhara pretendevano il monopolio vietandone l’esportazione in Arabia; infine (soprattutto, ma non solo, in caso di mancate corresponsioni dei balzelli) dovettero anche subire le dure razzie amhara a cui si aggiungevano le razzie degli oromo provenienti da sud. Tutto l’antico sistema imperiale amhara (e anche il sultanato islamico) era di tipo feudale basato sui tributi imposti od estorti: e poiché oltre all’imperatore i ras locali avevano alle loro dipendenze numerosi soldati che non potevano mantenere, allora essi erano praticamente obbligati di tanto in tanto ad ordinare una razzia da cui trarre il bottino per pagare i tributi. Gli Afar reagirono a questa situazione, e alla grande desolazione di

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quella terra in cui il destino li aveva condotti, dandosi essi stessi in modo sistematico e violento alla razzia. Di conseguenza si costituì un circolo di sangue in cui il sistema delle guerre e delle razzie veniva sempre più incrementato e in cui ciascuno si rifaceva sul più debole: una tribù che doveva un tributo in montoni e cammelli a una tribù più potente se lo procurava razziandone un’altra che a sua volta si rifaceva su un’altra tribù ancora, mentre il sultanello a cui entrambe le tribù dovevano un tributo faceva a sua volta altre razzie per pagare il proprio tributo all’imperatore etiopico, e così via in questa spirale distruttiva. Così, narrando dei suoi viaggi in Dancalia e nel Giuba, Bottego dice che in queste terre vigeva solo e unicamente la legge del più forte. Chiunque vi si fosse avventurato con qualche armento poteva essere depredato e ucciso da un momento all’altro: «Guai al viaggiatore che si addormenta nel loro paese senza una sentinella che vigili! − scriveva Bottego − Corre il rischio di non rialzarsi mai più»11. Ma evidentemente in Dancalia anche addormentarsi con le sentinelle era pericoloso, visto che l’esploratore Bianchi fu ucciso proprio nottetempo dalle sue sentinelle afar. Rimbaud, che attraversava la Dancalia per il suo commercio di armi, scriveva alla famiglia: «Les gens de la route sont les Danakils, pasteurs bédouins, musulmans fanatiques: ils sont à craindre. Il est vrai que nous marchons avec des armes à feu et les bédouins n’ont que des lances: mais toutes les caravanes sont attaquées» (lettera del 3 dicembre 1885). La razzia, la rapina, la morte non risparmiarono i pochi esploratori europei che si avventuravano in quelle lande desolate: lo dimostra il massacro di due spedizioni italiane, la spedizione Giulietti (1881) e Bianchi (1884), i cui corpi di spedizione, procedenti tra l’ostilità dei piccoli sultanati islamici, furono trucidati dagli Afar12. Ed è inutile, come vorrebbe lo storico Del Boca, spiegare l’eccidio delle due spedizioni (e di un’altra svizzero-tedesca che le precedette) con il patriottismo dei dancali, la loro difesa del suolo patrio, la repulsa dei pericolosi intrusi visti come avanguardia delle ingerenze coloniali straniere. Certo i dancali sono tuttora gelosissimi come fiere di chiunque passi nel loro territorio, ma in realtà si trattava proprio non di patriottismo ma di istinto di rapina: come scrisse il Nesbitt dopo un colloquio con un vecchio dancalo che ricordava i fatti dell’eccidio della spedizione di Bianchi, «i

11 12

V. Bottego, Nella terra dei Danakil. Giornale di viaggio, Roma 1892, Società Geografica Italiana. Sull’eccidio della spedizione Bianchi v. documenti e relazioni in L’ultima spedizione africana di Gustavo Bianchi, Milano s.d., Ed. Alpes.

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moventi dell’eccidio non furono se non la sete di bottino ed il tradimento dei servi»13. Come disse il vecchio capo Suni Maa: «è la miseria, è la fame, è l’avidità di aver cose, quali si possono sognare soltanto in accessi di pazzia, belle e ricche come sono. Vedete come siamo noi? Come viviamo? Troppo tentatori i vostri oggetti e le vostre ricchezze. [...] Voi avete dei fucili meravigliosi: noi non abbiamo che le nostre lance».14 In Dancalia le popolazioni erano rese feroci dalla miseria e dalla lotta quotidiana per la vita: la razzia, in questi contesti di privazione e di povertà, non veniva percepita come furto e violenza, bensì diventava una necessità vitale, una cosa assolutamente normale e quasi quotidiana, proprio come gli uccelli e i rettili si impadroniscono delle uova di altri uccelli o di altri rettili per cibarsene: è un mezzo per vivere, che comporta naturalmente l’uccisione e il continuo rischio di essere uccisi. Il diritto con cui il razziatore faceva tutto ciò era semplicemente quello della forza: è il diritto elementare del falco di avventarsi sul capretto, del leone di rincorrere la gazzella, dell’uccello di cibarsi delle uova di un altro uccello. Se si vedevano passare in fondo alla vallata dei pastori con gli armenti che venivano da chissà dove, li si attaccava perché le loro pecore servivano. La razzia non era qualcosa di episodico e di eccezionale, bensì una normalità: «una tradizione e quasi un sistema di vita regolare», scrive il Franchetti15. Lo stesso esploratore, dopo aver conosciuto una banda di razziatori peraltro con lui molto ospitali, scrive: «come i nostri contadini sono usi parlare dell’annata agricola e del raccolto più o meno buono, questa gente narrava con uguale tranquillità e naturalezza che le razzie erano state quest’anno molto fruttuose»16. Le razzie venivano regolarmente preventivate, programmate e preparate, e si concludevano con feste, canti, danze, solenni abbuffate, in stridente contrasto con i pianti e le grida di chi nel combattimento aveva perso un padre, un figlio, un fratello. La prova che la razzia non era sentita come un furto e come un assassinio sta nel fatto che i razziatori, usi a scannare una parte dei buoi rubati per festeggiare dopo la razzia, si guardavano bene dal fare ciò nei giorni di digiuno religioso sia ortodosso che islamico: anche nei giorni dell’ira e del sangue si seguivano scrupolosamente le prescrizioni religiose e si pregava normalmente, perché tutti pensavano di andare semplicemente a procacciarsi di che vivere, e nessuno pensava di fare qualcosa di male assaltando e distruggendo, incendiando e uccidendo

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L. Nesbitt, La Dancalia esplorata, cit., p. 371. Ibidem. R. Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit., p. 384. Ivi, p. 322.

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e traendo bambini e donne in schiavitù. «In Dancalia nessuno lavora e solo si vive predando − scriveva Nesbitt −. [...] Ogni tribù vive isolata e solo suo scopo è di tenersi pronta a piombare sulla vicina o a fuggire da essa. Non hanno mai contatto tra loro per missioni pacifiche: ma i momentanei e pur rari accordi sono presi in concertati piani di assalto su di un vicino più debole per dividerne le spoglie e ritornare poi subito ciascuno ai suoi luoghi. [...] Nelle terre di Dancalia si vive per la razzia, la distruzione degli altri e la continuazione della propria tribù. [...] Un solo quadro, una sola vita di miseria e di squallore senza nome: esistenza da banditi, da fuoriusciti, da perseguitati e da carnefici. Gli uomini, magri, alti, felini, temprati ai digiuni e a tutte le sofferenze fisiche sono animali di rapina e fin nel cibo solo conoscono latte e carne, generalmente cruda»17. La stessa idea è ribadita da un altro viaggiatore, che scrive: «Les Danakils n’ont rien de particulier à faire, si ce n’est de se tenir prêts au combat»18. Così tutti razziavano tutto quello che potevano, tutti gli uomini adulti e validi erano razziatori, e il ladro e l’uccisore di un giorno poteva essere − anche per l’immancabile ciclo delle vendette e delle ritorsioni − il derubato e l’ucciso del giorno dopo. I razziatori spesso agivano in gruppi di decine o centinaia di persone, talora anche migliaia se si trattava di famosi capi tribù con il loro esercito e se l’obiettivo da colpire erano grosse mandrie. Armati anche di fucili, guidati da un capo, essi si avventavano sui villaggi e vi seminavano il terrore, uccidendo gli uomini, razziando le mandrie, conducendo con sé quali schiavi le donne e i bambini. Per questo le entrate dei tukul, delle capanne dancale fatte con rami ricurvi, sono ancora oggi basse e costringono ad inchinarcisi: per impedire ai razziatori, che in genere assalgono di notte o all’alba, di entrare all’improvviso. Andare a fare una razzia, uccidendo e depredando, era sentito non solo come una necessità vitale bensì anche come occasione per dimostrare il proprio valore e accrescere il proprio ruolo nella tribù e financo una sorta di divertimento, né più né meno di come è divertente la caccia alla gazzella. La cosa ricorda molto la celebre immagine di Nietzsche che, in un patetico tentativo dell’uomo occidentale decadente di recuperare l’antico orgoglio guerriero, era visibilmente affascinato dalle «bionde belve ariane che combattono, uccidono, distruggono e poi se ne tornano a casa allegri cantando, come ragazzi incoscienti che abbiano fatto una marachella». La sola onta per questi uomini non era certo il vivere di furto, bensì il non riuscire a fare 17 18

L. Nesbitt, La Dancalia esplorata, cit., pp. 184-187. J. Buchholzer, Le pays des visages brûlés, tr. francese dal danese, Paris 1955, Julliard, p. 137.

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il furto: la razzia non poneva alcun problema etico, e la sola cosa che contava era essere un buon razziatore. Di conseguenza il valore primario per questi uomini era la virilità, il coraggio, la forza fisica dimostrata in battaglia, ma anche nella caccia che richiede anch’essa abilità, astuzia e forza. Ancora oggi il giovane che riesce ad uccidere una fiera è molto considerato in ogni tribù. Un uomo è giudicato in base a questi valori, in base al proprio coraggio e alla propria forza: in base a ciò egli potrà guadagnarsi onore e rispetto nella tribù, in modo da acquisirvi il suo ruolo e poter essere degno di una o più donne. Per questo la mitologia di questi popoli non agricoltori è fondata non sui riti della fecondità e della fertilità della Terra madre, bensì sui valori guerrieri. Un buon guerriero, un uomo valente e forte è un vero uomo, altrimenti l’uomo non è nulla. In questa cultura guerriera, un uomo è valido ed accresce il suo prestigio nella tribù in quanto è un buon razziatore, in quanto sa portare al villaggio tante capre, mucche, cammelli rubati. Di conseguenza i riti di iniziazione o di passaggio, che segnano il passaggio all’età adulta e costituiscono la premessa indispensabile al diritto di procreare e di avere famiglia, erano e in parte sono tuttora quasi sempre basati su prove fisiche, di coraggio e di destrezza. Il valore di un uomo era valutato in base al numero di armenti che è capace di razziare e in base al numero degli uomini da lui uccisi: un proverbio dancalo diceva che «è meglio morire che vivere senza uccidere». Il guerriero andava fiero ed orgoglioso delle sue molte vittime: un uomo era solito infilarsi una penna in testa quando aveva ucciso il suo primo nemico; se le vittime erano due, si mozzava a ricordo un lembo d’orecchio; se le vittime erano più di dieci, allora indossava l’ambito bracciale di ferro. Il coraggio in battaglia era apprezzato su tutto. I soldati italiani all’epoca della guerra mussoliniana, e prima ancora quelli di Adua, hanno testimoniato dell’incredibile valore guerresco delle forze abissine nelle cui fila militavano molti elementi provenienti dalle tribù nomadi e più bellicose: i guerrieri affrontavano incuranti della morte il fuoco di sbarramento delle mitragliatrici, si avventavano a frotte contro il nemico, raccoglievano immediatamente i fucili dei compagni falciati e spesso giungevano nonostante tutto ad espugnare postazioni così ben armate. Le donne in questa bramosia di sangue sembrano aver avuto un ruolo importante. Con lucido realismo che nulla concede al mito del buon selvaggio il Pollera, parlando della popolazione eritrea dei Cunama non lontana dalle terre dancale, scriveva che in queste popolazioni la donna «vuole, come il bruto, che l’uomo, il maschio, combatta e dimostri la sua audacia virile con qualche uccisione, e siccome tali fatti fra la stessa gente porterebbero la vendetta del sangue, così le donne incitano i loro adoratori a cercare

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questa aureola altrove in danno di gente nemica. Nessuna donna cunama, in passato, avrebbe accettato un uomo che non si fosse macchiato di sangue e, nonostante la maggior vigilanza e le non poche condanne [da parte del governo coloniale italiano di allora], questo uso resiste specialmente per volontà e istigazione delle giovani. Sogliono queste portare come ornamento sopra i capelli, insieme con altre conterie, un piccolo gruppo di frutti rossi macchiati di nero della grossezza quasi di un pisello. Tale ornamento, detto gasciam, è il distintivo d’onore che esse offrono come ricompensa all’adoratore che sarà capace di uccidere. Anche qui, come nella tradizione biblica, è il frutto che induce l’uomo al male, poiché, nella speranza di guadagnare il gasciam e di possedere con esso la donna amata, l’uomo è spinto ad uccidere. Questi frutti danno anche luogo a scommesse fra i giovani che alla sera si riuniscono in crocchi colle ragazze del paese. Non è raro che in tali crocchi, lodando la bellezza dell’una o dell’altra, nascano dispute fra i vari aspiranti ad una stessa bellezza, sicché uno giura volersi guadagnare il gasciam della bella recandosi lontano e in luogo pericoloso ad uccidere; un altro, per lo stesso motivo, promette, oltre che uccidere, di rubare anche delle vacche o qualche grossa cammella, invitando tutti i presenti a banchetto per un giorno stabilito, nel quale sarà certamente di ritorno con la carne necessaria; un altro ancora promette con gran baldanza, come fosse a lui cosa facile e di nessuna apprensione, di uccidere uno nella notte stessa prima che sorga il nuovo sole. E le giovani approvano, istigano, danno sorrisi pieni di promesse ai giovani, che così eccitati e spesso alterati dalle libazioni di merissa, partono nella notte guidati dal destino e dall’odio di razza, senz’altra meta che quella di uccidere il primo che troveranno. [...] In tali circoli di giovani, e nelle veglie notturne, vengono spesso decise queste incursioni ed effettuate senz’altro e senza alcun preparativo, perché difficilmente, fatta una tal proposta, alcuno dei presenti può sottrarsi dal seguire gli altri, derivandone squalifica davanti a tutti e specialmente davanti alle donne. Al giudizio delle donne i Cunama tengono moltissimo, e di ciò mi sono potuto convincere dalle deposizioni di coloro che, resisi colpevoli di reati di sangue, mi confessarono ingenuamente di aver agito sotto questo unico impulso»19. Si noti poi che queste donne, per le cui grazie si combatteva, una volta sposate diventavano serve. Del resto sappiamo che presso i popoli tradizionali la comunità partecipa trepidante ai pericoli del padre, del marito, del fratello, dell’amato impegnato in una spedizione di guerra (o anche solo impegnato nella caccia grossa): le infedeltà delle spose, altrimenti spesso lecite, in questi frangenti non vengono tollerate, e 19

A. Pollera, I Baria e i Cunama, cit., pp. 140-142.

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apposite danze e riti magici vengono approntati nella convinzione propria della savage telepathy (Frazer) di poter influire a distanza sulla vita e sulla morte del congiunto a seconda dell’atteggiamento tenuto. Questi uomini che sapevano essere feroci e spietati eviravano regolarmente le loro vittime, e l’uso era ampiamente diffuso non solo fra i dancali bensì fra tutte le popolazioni abissine inclusi gli amhara e gli oromo (ad esempio i Borana): così tutti i cadaveri italiani nella battaglia di Adua furono evirati dai guerrieri abissini e lo stesso accadde per i caduti durante l’impresa coloniale italiana negli anni trenta. Ma i Danakil erano particolarmente feroci, perché si sa che a volte eviravano le loro vittime anche prima di ucciderle o financo lasciandole in vita per scherno (gli esploratori Franchetti e Nesbitt riferiscono di aver incontrato molti di questi sventurati, alcuni sopravvissuti solo perché ritenuti già morti). Questi organi mutilati costituivano un trofeo di guerra, com’era per i pellerossa americani che conservavano lo scalp del nemico ucciso o per i cacciatori di teste del Borneo volti a placare gli spiriti dei morti. L’escissione dei genitali del vinto era operazione ritenuta necessaria, sia perché pregna di valore simbolico in quanto, appropriandosi degli organi sessuali del nemico ucciso, l’uccisore riteneva di strappargli la sua forza virile e di appropriarsene, sia perché questi organi mutilati divenivano la prova tangibile per la tribù che l’uccisione del nemico era avvenuta realmente e non era una millanteria. Non bastava aver ucciso un uomo ma, soprattutto in assenza di testimoni, occorreva anche dimostrare di averlo ucciso. Bisognava cercare di tornare al villagio con i genitali del nemico come trofeo perché, in mancanza della prova dell’uccisione, gli uomini della tribù in segno di dispregio potevano anche impastare di sterco i capelli di chi tornava dalla razzia senza il trofeo di guerra e senza onore20. Il Pollera ricorda come, presso i Cunama, il gio20

La pratica dell’evirazione − che a noi sembra particolarmente efferata − è in realtà quasi “gentile” se paragonata ai casi, in passato ovunque accertati, di cannibalismo sul nemico ucciso e sui prigionieri di guerra. W. Arens (The Man-Eating Myth: Anthropology and Anthropofagy, 1979, tr. it. Il mito del cannibale. Antropologia e antropofagia, Torino 1980, Bollati Boringhieri) ha cercato di smentire l’esistenza reale di pratiche cannibaliche riducendole a dicerie di esploratori, missionari e funzionari coloniali, ma M. Harris ha mostrato l’attendibilità delle molte testimonianze che egli vorrebbe invalidare (in Cannibals and Kings. The Origins of Cultures, 1977, tr. it. Cannibali e re. L’origine delle culture, Milano 1979, Feltrinelli, pp. 111-125 e Buono da mangiare, cit., pp. 201-236). Con sguardo lucido e disincantato Harris precisa che in tutti i tempi la ferocia dei “civilizzati” non è stata inferiore a quella di qualsiasi «buonanima di cannibale» e sostiene che la loro rinuncia al cannibalismo è dovuta soltanto all’esigenza di avere schiavi e sudditi. Nella sua impostazione materialistica e fisiologistica egli rifiuta sostanzialmente la

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vane guerriero di ritorno dalla sua impresa vittoriosa veniva prima sottoposto a un rito di purificazione. È questa un’usanza comune presso tutti i popoli tradizionali: dopo la cruenta uccisione del nemico, anche nell’animo del fiero homo necans subentrava un oscuro senso di colpa e, soprattutto, il timore di essere perseguitato dall’anima dell’ucciso, donde l’esigenza di un periodo di segregazione, di lavacri speciali, di implorazioni e offerte allo spirito dell’ucciso per placarne l’ira, e anche di urla e grida minacciose per tenerne lontano l’anima persecutoria desiderosa di vendetta21. Dopo pochi giorni però poteva avere libero corso la gioia di tutti per la vittoria: fra gli Afar, dopo il rito di purificazione l’uccisore eseguiva una pantomima che raffigurava mimandolo e drammatizzandolo, e in certo modo replicandolo, l’omicidio e il furto, al termine della quale egli veniva festeggiato con danze e canti che celebravano il valore dell’eroe e che (come crudamente dice il Pollera) costituivano una «lode del furto e dell’assassinio»22. Una volta essiccati e raggrinziti i genitali escissi del vinto venivano appesi con orgoglio nell’interno della capanna, o anche all’esterno all’entrata onde subito avvisare, mostrando chi vive lì dentro, oppure venivano appesi alla sella del cavallo o ancora venivano donati alle promesse spose che ne facevano delle collane. Tuttavia, non si tratta sempre e solo di valore e onore guerriero: poiché infatti il valore di un uomo era valutato in base al numero delle sue vittime certificate dal trofeo, e poiché da ciò dipendeva il suo status nel villaggio e la sua stessa possibilità di accedere al matrimonio e di avere una famiglia, allora naturalmente questo favoriva non solo l’uccisione in battaglia a scopo di razzia, non solo l’assassinio per i più futili motivi e financo gratuito, ma anche l’uccisione vile dell’inerme. Sembra che ancora pochi decenni or sono i giovani Afar, come rito di passaggio e prova di coraggio onde ottenere in sposa una ragazza, dovevano uscire dal villaggio e tornare con il pene evirato di un nemico vinto, che a questo punto poteva anche essere un ignaro camionista intento sulla pista a cambiare

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spiegazione ritualistica del “banchetto cannibalico” (l’incorporazione dello spirito del nemico) riducendolo ad un’esigenza di nutrimento proteico se non alla fame, rispetto a cui ogni altro fattore diventa “sovrastrutturale”. In ogni modo non risultano nella tradizione etiopica testimonianze di pratiche cannibaliche, che al massimo possono essere adombrate dalla ricordata leggenda di Belay il Cannibale. Sui riti di guerra v. J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 330-339 (“Tabù di guerrieri”, “Tabù di omicidi”). Anche la caccia e la pesca sono in certo modo operazioni belliche che richiedono danze pantomimiche, digiuni, purificazioni, preghiere, astinenze sessuali preliminari e operazioni successive volte a pacificare l’animale ucciso stornandone l’astio e la vendetta. V. anche L. Levy-Bruhl, Sovrannaturale e natura nella mentalità primitiva, cit., pp. 304-318. A. Pollera, I Baria e i Cunama, cit., pp. 144-145, 239.

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la gomma. Il governo di Menghistu ordinò che tutti gli Afar colti sul fatto fossero immediatamente passati per le armi sul posto. Descrivendo la spietatezza della vita presso gli Afar il Franchetti narra della “prova del fuoco”, allora in uso presso queste popolazioni, per la quale chiunque, anche in base a mera animosità personale, poteva accusare un uomo di furto o di qualsiasi altra cosa ritenuta grave, senza che l’accusato, ancorché del tutto innocente, potesse esimersi dall’affrontare la prova: egli dimostrava la propria innocenza solo tenendo nelle mani, per pochi o parecchi minuti a discrezionalità di un giudice spesso tutt’altro che imparziale, un pezzo di ferro rovente senza che le sue mani ne venissero piagate23. L’usanza ricorda molto l’ordalia medievale poiché il principio è lo stesso, sia che la prova consista nell’ingerire una dose di veleno o nel mettere le mani nell’acqua bollente o nel tenere un tizzone rovente senza risentirne le conseguenze24. Come dice Levy-Bruhl, la pratica dell’ordalia mostra che per le popolazioni che vi ricorrono l’innocente è semplicemente il vincente e il colpevole il perdente. Egli spiega la credenza nell’ordalia rilevando come per la “mentalità magica” il veleno, l’acqua bollente, il ferro arroventato sono solo “cause seconde” in realtà veicolanti forze mistiche, per cui esse agiscono se attivate dalla colpevolezza di colui che effettua la prova e rimangono inattive se egli è innocente25. Ma poi vi è in realtà ancora qualcosa di più e la cosa non ci sembrerà più assurda se, entrando in questa mentalità, comprendiamo che per certe tradizioni il giudizio dell’ordalia è infallibile e inappellabile perché esso, ben lungi dal dipendere da fattori contingenti o dal caso che in questa visione non esiste, «rivela la decisione delle potenze invisibili»: così ad esempio nell’ordalia della corsa «se uno dei due avversari vince la corsa, non è perché è più agile dell’altro e corre meglio di lui; è perché le potenze che gli sono favorevoli hanno il sopravvento su quelle che proteggono il suo avversario»26, proprio come nel duello fra Achille e Ettore è la decisione della dea a stabilire chi deve vivere e chi deve morire e quindi, per deduzione, chi è giusto e chi non lo è. Non il caso o altri fattori estemporanei bensì le potenze hanno voluto così, hanno voluto salvare quella persona e condannare quell’altra e tanto basta: al limite la persona condannata potrebbe anche non aver commesso il reato, ma le potenze hanno voluto così e diventa financo incomprensibile o blasfemo domandarsi nei nostri termini se il condannato sia veramente 23 24 25 26

R. Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit., pp. 122-123. Sulle ordalie nelle società tradizionali v. L. Levy-Bruhl, La mentalità primitiva, cit., pp. 209-251 (cap. VIII). Ivi, pp. 213-214. Ivi, p. 220.

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colpevole. Certo, ai nostri occhi il “giudizio di Dio” (il Gottersurteil) privilegia anzitutto la forza psichica e fisica di un uomo, nonché il suo coraggio, ma non ne dimostra l’innocenza o la colpevolezza. Ma forse Dio ama i forti e precisamente la forza, il coraggio, la capacità di resistere al dolore sono i veri valori rispettati nel mondo afar, e importa poco o nulla stabilire se veramente il soggetto in questione abbia o meno rubato una capra al suo vicino o lo abbia ucciso. La terribile desolazione del suolo dancalo e la conseguente spietatezza priva di misericordia della vita che vi si svolgeva sono comprovate dalla scarsa considerazione per i più deboli nei periodi di siccità e di carestia, e questa è ancora cosa recentissima: quando gli operatori umanitari in Dancalia distribuirono i viveri, videro che gli uomini adulti arraffavano per sé tutto il cibo inviato nulla lasciando per i bambini e i vecchi. Quando essi chiesero spiegazioni per il fatto increscioso (e insolito soprattutto per quanto riguarda gli anziani, normalmente molto considerati nelle società tradizionali), si sentirono rispondere con un ragionamento lucidamente cinico: nell’emergenza loro non davano cibo ai bambini e ai vecchi perché i primi non sono ancora capaci e i secondi non sono più capaci di cacciare, di razziare, di combattere e di uccidere, e nemmeno di fare figli, e quindi in quei frangenti di penuria diventavano un onere e un peso. Essi invece erano i soli uomini in grado di cacciare, razziare, combattere, e i soli in grado di fare nuovi figli per rimpiazzare quelli morti per fame, così salvaguardando la continuità dell’etnia. Per fare tutto ciò però essi dovevano nutrirsi per essere in forze: «quindi − concludevano − dacci da mangiare, e che muoiano vecchi e bambini». La cosa ricorda l’ipotesi di Harris, il solo antropologo contemporaneo che non occulta la crudezza del mondo “selvaggio”, per il quale i tabù alimentari della gravidanza ricorrenti in molte popolazioni (soprattutto africane e polinesiane), per cui si proibiscono alle donne le carni e i cibi più proteici, non sono riducibili a credenze religiose bensì sono dovuti alla dura esigenza di razionare il cibo nel momento in cui viene meno la forza-lavoro della donna puerpera, che come una malata non può sobbarcarsi compiti faticosi come portare l’acqua o la legna e che proprio per questo − non lavorando − deve mangiare di meno, perché mangiando di più toglierebbe il necessario alimento energetico a chi ha diritto alla carne e ai cibi migliori dovendo lavorare anche per lei e per la nuova bocca da sfamare; parimenti Harris suppone anche che la xeroftalmia (la cecità causata da carenza di vitamina A), così diffusa nel terzo mondo, sia dovuta non solo ad una generica sottoalimentazione collettiva bensì al fatto che i bambini ne sono colpiti perché sfavoriti nella spartizione del magro pasto familiare a favore degli

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adulti27. Particolarmente nei casi in cui necessitas premit viene meno il pranzo comunitario, che abbiamo descritto altrove, e viene meno anche la tradizionale distribuzione del prodotto della caccia ai familiari, ai parenti e al villaggio tutto: l’ordine decrescente per cui al capo villaggio si offre il pezzo migliore e poi decrescendo ai congiunti e via via ai parenti meno prossimi diventa un drastico taglio. Nell’emergenza la dura lotta per la vita può richiedere un sacrificio di cibo alla puerpera, o financo in casi estremi l’abbandono per inedia alla morte di vecchi, malati e bambini, proprio come gli antropologi classici riferivano di popolazioni selvagge che durante le faticose marce di migrazione abbandonavano alla morte i vecchi e gli inabili (spesso pienamente consenzienti) la cui infermità era oltretutto considerata motivo di impurità contaminante la collettività. Del resto è stato accertata presso i Cunama eritrei (almeno fino a pochi decenni fa) la pratica di affrettare la fine del moribondo per soffocamento tramite pressione dell’addome, del petto, del collo, onde evitare a lui penose agonie e ai familiari inutili cure28. Quindi si comprende che in casi di emergenza non si dice − come i gentiluomini del Titanic − “prima le donne e i bambini”, e tantomeno “prima i vecchi e i bambini”, bensì: “prima gli uomini sani, forti, robusti, affinché continuino ad essere tali per poter provvedere ai loro compiti, e muoiano pure gli altri”. La Dancalia dunque continuamente mieteva le sue vittime, sia per il clima terribile e la siccità che causa la morìa di capre, mucche, asini, cammelli, sia per i continui conflitti armati: ogni carovana lasciava dietro di sé la sua sequela di animali dispersi, ammalati, abbandonati, morti o moribondi. Su di essi sempre volteggiavano gli avvoltoi: essi attendono in cerchio la fine di un cammello o di un mulo moribondo per farne il proprio cibo, e sono capaci di divorare un cadavere di un animale o di un uomo in rapidissimo tempo, lasciandone in poche ore solo lo scheletro. Per questo presso gli Afar gli avvoltoi, animali per noi foschi e lugubri, erano al contrario rispettati e quasi venerati: in quell’inferno di uccisioni essi alla fin fine (come in parte le iene) sono fra i pochi esseri viventi che non ne uccidono altri per mangiarli, in quanto si nutrono solo di esseri già morti, e così facendo inoltre, distruggendo i rifiuti organici e le carogne degli animali che infettano e ammorbano l’aria, provvedono a farli scomparire; infine, essi andavano rispettati perché cibandosi di un uomo morto in un conflitto armato e rimasto senza sepoltura, ne sottraevano il cadavere all’ingiuria 27 28

M. Harris, Buono da mangiare, cit., pp. 237-251. M. Cittadini, Inferie e pianto funebre presso i Cunama, cit., p. 5.

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degli elementi e degli uomini nemici e ne custodivano in sé lo spirito. Un avvoltoio non doveva essere ucciso, perché egli avrebbe potuto portare in sé lo spirito di un tuo fratello messosi un giorno in cammino con le pecore e mai ritornato al villaggio. In Dancalia sono numerose le tombe, ancor oggi visibili: in questa terra dimenticata da Dio, le sole costruzioni in pietra sono quelle per i morti. Le tombe generalmente sono delimitate esteriormente da una bassa muratura circolare che racchiude uno spazio interno. In esso, all’interno del cerchio, vi è un alto cono di terra e pietre che, come una torretta, copre la tomba sotto cui è riposto il cadavere. Spesso si accede alla tomba attraverso un viottolo costituito da file parallele di grossi sassi, magari 10 o più massi, il cui numero indica quante furono le vittime uccise dall’uomo ivi sepolto. I cerchi bassi in pietra sono le tombe dei poveri, di quelli che pur avendo ucciso dei nemici non hanno lasciato un segno incisivo della loro vita. Poi, vi sono le tombe dei grandi, dei capi, dei potenti, per lo più collocate su alture da cui si domina la vallata desertica in basso. Il loro muro circolare in pietra può raggiungere i due metri di altezza. L’ingresso nel muro di pietra che introduce allo spazio interno, che per tombe grandi può misurare oltre dieci metri di diametro, può essere sormontato da una più alta apertura che, nel caso degli uomini più potenti, oltre ai massi ricordo delle uccisioni commesse poteva conservare anche i trofei virili dei nemici e le pelli delle fiere uccise. Le tombe erano spesso costruite non in prossimità dei villaggi bensì in luoghi ancora più solitari e desolati, perché spesso questi sono i luoghi in cui un uomo era deceduto di morte violenta durante una razzia. In questo caso, alcune tribù erano solite porre sulla tomba una pietra cilindrica quale giuramento di futura vendetta; quando invece la vendetta era stata compiuta, ed era stato a sua volta ucciso l’uccisore o comunque uno della sua tribù, allora sul cilindro veniva posta una pietra tondeggiante a significare che lo spirito dell’ucciso poteva ora avere pace. Queste tombe in cui è sepolto un uomo morto di morte violenta sono così rigidamente distinte: da una parte vi erano le tombe dei vendicati e dall’altra quelle degli invendicati, o meglio dei non ancora vendicati29. Questo imperativo della vendetta è così cogente che i Danakil incontrati da Franchetti e da Nesbitt nelle loro spedizioni del 1928 nei luoghi ove vennero trucidate le spedizioni di Bianchi e Giulietti, o anche lungi da quei luoghi, si mostravano estremamente diffidenti e ostili di fronte alle domande in proposito, e perennemente a un passo dal muovere all’attacco, perché non si capacitavano che dei bianchi − pur quasi mezzo secolo dopo i fatti − volessero giungere a quelle tombe 29

L. Nesbitt, La Dancalia esplorata, cit., pp. 200-201.

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solo per rendere omaggio alla memoria dei morti e non per vendicarli. Non vi è nulla qui della nostra immagine foscoliana dei sepolcri «all’ombra de’ cipressi» e delle «urne confortate di pianto»: «non lapidi non molli parole di pietà [...] − commenta il Nesbitt di fronte ad una tomba costruita (in mancanza di pietre) con cataste di rami raccolti lontano, preceduta da un corridoio di 14 massi − ma il ricordo muto e insensibile della ferocia e del sangue»30; «non la pietà, non la pace − pie, dolci muse dei nostri cimiteri − aleggiano in quei luoghi asperrimi su le tombe dancale, ma l’onore al morto, pel sangue che ha sparso fumante, negli agguati, nelle lotte, nelle battaglie».31 Tuttora i dancali si offendono profondamente (ma comprensibilmente) se lo straniero entra in questi sacri recinti rintracciabili un po’ ovunque calpestandone il suolo: la cosa può anche avere conseguenze pericolose. Del resto in tutte le popolazioni tradizionali è assai sentito il culto dei morti e degli antenati, soprattutto dei lontani avi fondatori della stirpe il cui valore guerriero viene mitizzato. Quando un uomo muore, si ritiene che egli non muoia veramente bensì sopravviva: secondo il Tylor la credenza nell’immortalità dell’anima (e per proiezione tutta la visione animistica che personifica la natura) nasce originariamente con l’esperienza dello sdoppiamento propria del sogno, in cui con l’impressione di un’entità sconosciuta operante in noi si percepisce la fuoriuscita della propria persona dal corpo e dunque uno psichismo, una parte di sé staccata dal corpo e anche bilocata, o viceversa si percepisce la comparsa di una persona defunta come vivente32: la morte di un uomo, il progressivo esaurimento delle sue forze, gli stessi sforzi del moribondo che cercano di trattenere la vita, suggeriscono l’idea che qualcosa, una forza, una linfa, un’essenza vitale stiano abbandonando quel corpo e fuggendo via. Ma la linfa vitale che abbandona il corpo rimane tuttavia nei pressi dei congiunti e della popolazione tutta. I defunti diventano spiriti e gli spiriti dei trapassati non trasmigrano in un mondo ultraterreno bensì rimangono come spiriti buoni o cattivi in questo mondo, imprigionati nella terra, acquistando un potere misterioso, positivo o negativo, sui viventi: essi possono anche impossessarsi di un altro essere e fargli del male, causando malattie o fenomeni di possessione, donde la necessità di riti scaramantici e propiziatori con sacrifici animali ed offerte di cibo, frutta, bevande, che i defunti incarnati in qualche animale mangeranno. An-

30 31 32

Ivi, p. 200. Ivi, p. 302. E. Tylor, Primitive Culture, 1871, tr. it. Alle origini della cultura, 6 voll., Roma 1988-2000, Ed. dell’Ateneo, vol. IV (Animismo. L’anima e le anime).

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che per questo l’esigenza di placare e vendicare lo spirito offeso del morto è imprescindibile, soprattutto per i popoli guerrieri come erano gli Afar. Certamente la durezza della vita, il clima torrido e la terra arida spiegano molti caratteri degli Afar, e in particolare degli Afar di un tempo: in queste contrade tutti i sistemi culturali e simbolici e tutto lo stile di vita apparivano in un passato non lontano come una sorta di formazione reattiva e difensiva − la sola possibile − di fronte ad una natura inclemente ed ostile. Veramente in questi casi sovviene alla mente la parte di verità contenuta nella visione di Montesquieu, per la quale è il clima a rendere diverse le culture, e si capisce come questa consapevolezza non può essere sempre facilmente tacciata di determinismo e riduzionismo geografico: «la natura e il clima dominano quasi esclusivamente presso i selvaggi», scriveva Montesquieu in De l’esprit des lois (1748); e ancora sovviene alla mente l’antropogeografia di F. Ratzel in cui l’uomo, come ogni altro animale, è sempre visto in relazione all’ambiente in cui vive, adattandovisi e interagendovi; infine sovvengono alla mente le tanto criticate tesi dell’ultimo Malinowski (anch’esse accusate di riduzionismo biologistico) per le quali occorre capire queste società come in ampia misura fondate sulle risposte (non economicistiche ma in larga misura indirette, simboliche, culturali) agli ineludibili bisogni fondamentali dell’esistenza. È vero che i condizionamenti posti dai bisogni e dalle necessità della vita materiale non determinano sempre così pesantemente le forme culturali e soprattutto cognitive di una società, è vero che la natura umana ha una sua struttura non così facilmente malleabile dall’ambiente, per cui in ambienti simili si scorgono culture differenti e in ambienti diversi culture simili; tuttavia in molti casi questo condizionamento geografico e ambientale è indubbiamente pesante, a meno di non immaginare la vita dei popoli tradizionali come una sorta di innocente vita edenica. Per quanto riguarda gli Afar, solo quando si pensa alle durissime condizioni di vita di questo popolo, in uno dei luoghi più terribili del pianeta, ben lontani dalle rive del Mediterraneo foriero di grandi civiltà, si riesce in qualche modo a capirne la passata ferocia e la disumanità: «Les gens du Harar − scriveva Rimbaud alla madre e alla sorella il 25 febbraio 1890 − ne sont ni plus bêtes, ni plus canailles que les nègres blancs des pays dits civilisés; ce n’est pas du même ordre, voilà tout. Il sont même moins méchants, et peuvent, dans certains cas, manifester de la reconnaissance et de la fidélité. Il s’agit d’être humain avec eux». Prevedo già l’ovvia obiezione a queste pagine e rispondo anticipatamente. Certo, il quadro dato dei popoli dancali risente delle vecchie fonti coloniali: ma non per ciò è inattendibile. Quando parecchi viaggiatori

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dell’epoca coloniale − inglesi, francesi, tedeschi, svizzeri, italiani − riportano sostanzialmente concordi ed indipendentemente l’uno dall’altro notizie simili su usanze e abitudini, non v’è motivo di sospettare troppo della veridicità delle loro affermazioni, tanto più che nelle loro relazioni, seppur indubbiamente vi possa comparire talora un tono razziale certamente non conforme alle attuali tendenze etnologiche e alla nostra sensibilità, è spesso ammirevole lo sforzo di capire, l’acutezza dell’osservazione, la vastità delle conoscenze acquisite direttamente in loco. Certo questi uomini, i cui testi ho cercato avidamente per sottrarli all’oblio, non indulgevano a nessun mito del bon sauvage come talora appare alla lettura dei moderni etnologi per i quali sembra quasi che fra i pacifici villaggi da essi conosciuti non vi siano mai state faide o conflitti sanguinosi, che invece questi altri vecchi autori conoscevano decenni or sono e riportavano direttamente, non senza crudi e disincantati giudizi. Questi uomini affrontavano in altri anni viaggi disagevoli e pericolosi e, correndo certo ben più rischi di quanto ne corrano gli odierni etnologi, spesso vivevano anni in contatto con le popolazioni di cui parlavano, e potevano averle sotto gli occhi quando esse non erano ancora use − come oggi − ai transistors e ai più vari segni della modernità. Io ho passato alcuni mesi tutti i giorni al ricchissimo Institute of Ethiopian Studies di Addis Abeba, che contiene un patrimonio di 25.000 volumi sull’Etiopia di cui una congrua parte a carattere etnografico, cercando testi sulla storia e sui popoli etiopici: e lo studio di molti di questi testi, per lo più irreperibili in Italia, ha costituito una documentazione di valore inestimabile per le mie ricerche. Ma cos’è oggi un viaggio in Dancalia? Certo, essa rimane una zona a rischio sconsigliata dalle ambasciate, in cui si è scortati dalla polizia armata e in cui ancora recentemente sono avvenuti rapimenti e sequestri di persone. Ma comunque oggi si può andare in Dancalia con un comodo fuoristrada, sia pur lungo piste pretracciate col divieto di spingersi troppo oltre. È una cosa che si può fare in una settimana. Noi abbiamo fatto così: abbiamo preso l’aereo da Addis e in un’ora siamo arrivati a Makallé. Lì ci aspettavano due driver con i fuoristrada e con essi siamo andati poco più a nord a riposarci nel bel lodge recentemente costruito a Hawzen da Silvio Rizzotti, un ingegnere italiano colto e signorile il cui padre era uno dei sette medici dell’imperatore Selassie: abbiamo sfogliato i suoi libri sull’Etiopia e parlato con lui del paese, di cui è ottimo conoscitore e in cui ha voluto tornare dopo avervi passato l’infanzia e l’adolescenza. Poi, il giorno dopo, ben riposati e rifocillati, siamo tornati verso Makallè e quindi siamo partiti per la Dancalia. Dai 2000 e più metri della zona di Makallé si scendeva per una stretta pista fra le gole delle montagne. Voi scendete e scendete, come

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e più che per andare nella Omo Valley, fino a giungere ben sotto il livello del mare, e più scendete più fa caldo e fa caldo e fa caldo: dai 2000 metri si arriva presto al livello zero e poi si scende a –10 metri sotto il livello del mare, –20 etc. e intanto la temperatura sale, da 18° a 22 e poi a 25 e poi a 30 fino ad arrivare (nella stagione più benevola, fra ottobre e novembre) a 45°, mentre la pista si fa via via più impervia con i fuoristrada che scendendo fra il pietrame ondeggiano e barcollano paurosamente. La conformazione geologica, vero paradiso dei geologi, si fa col passare delle ore sempre più interessante, e lunghe linee parallele, segni di antichi sprofondamenti della terra che noi ingenuamente crediamo stabile, tagliano come interminabili ferite tutti i fianchi delle montagne. Si finisce in un villaggio (Berhale) dove d’ufficio e a nostro carico ci affidano due soldati armati ed una guida, quest’ultima un uomo anziano di poche parole e dal comportamento riservato e dignitoso. Avevamo anche una seconda guida, uno studentello imberbe e superficiale “prenotato” ad Addis nella convinzione rivelatasi del tutto erronea che potesse fornirci qualche utile informazione sulle popolazioni, di cui invece non sapeva quasi nulla pur essendo anch’egli un afar. Si prosegue e si vedono i primi dromedari, i primi afar in cammino: sono alti, magri, dai capelli spesso crespi e dalla fisionomia inconfondibile con altre etnie, si vedono le ragazze e le donne dagli abiti vivacemente colorati, e io mi domando come alcune di queste ragazze possano essere così belle in un ambiente tanto impervio e ostile dove la vita è così dura e faticosa, e poi si vedono le caratteristiche capanne afar con le pecore e gli asini. Dopo aver dormito all’aperto in un piccolo villaggio (Ahmed Ela), si riparte e comincia il deserto: siamo in una pianura circondata sullo sfondo dalle montagne, con una vegetazione bassa che non riesce ad alzarsi di più. Si procede nella vasta piana in cui si trova il lago salato Assal, si lascia l’auto e si cammina faticosamente nel caldo torrido sino a giungere alle sorgenti calde di Dallol, in un terreno dai colori incredibili e mai visti dal giallo al blu all’arancione come in un luogo delle fate, poi andiamo al lago che vediamo asciutto, mentre all’orizzonte sullo sfondo del Sole sorgente si vedono lunghe teorie costituite da centinaia di dromedari in fila che gli Afar conducono al lago, dove gli animali potranno finalmente riposare e dove molti uomini già lavorano in équipe: alcuni con l’aiuto di lunghi bastoni staccano faticosamente sotto il Sole impietoso ampi blocchi di sale, altri prendono questi blocchi e li ripuliscono dalle ruvide scorze di terriccio, e infine un terzo gruppo lavora più “di fino” sgrezzando ulteriormente i blocchi di sale nella caratteristica forma di parallelepipedo. Non vi sono canti di lavoro, tutti lavorano con energia e sveltezza ma nessuno spreca il fiato: il silenzio della vallata non viene turbato se non dal picchiare degli arnesi.

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Più tardi, al tramonto, sullo sfondo del Sole degradante sotto l’orizzonte, vedremo in lontananza le stesse lunghe file dei dromedari, viste all’alba, riprendere il cammino in direzione opposta, verso i confini della Dancalia con le zone più centrali ove i blocchi di sale verranno smerciati. Dopo un’altra notte all’aperto si riparte e ci si inoltra sempre più nel deserto. L’anziana guida è un ottimo conoscitore delle piste e, anche quando queste sono state cancellate dai venti e dalle erbe, le ritrova pazientemente e con calma semplicemente chiedendo informazioni ai pastori afar di passaggio a cui a volte porta qualche dono: i nomadi del deserto, che a volte salgono per un tratto sull’auto onde fornire indicazioni e poi tornano a piedi alle capanne, ben lo conoscono e immancabilmente gli baciano la mano in segno di rispetto. Si scende dall’estremo nord dell’Etiopia al confine eritreo verso sud, attraversando tutta la Dancalia etiopica in un percorso di due giorni: a un certo punto sembra di essere in una savana dalle alte erbe, poi torna il deserto, con moltissima pietra vulcanica scura o nera e solo pochi tratti sabbiosi. Si possono solo immaginare gli immani sommovimenti tellurici che milioni di anni fa hanno sconvolto queste terre: è come se enormi massi bollenti fossero stati scagliati nel raggio di centinaia di chilometri da vulcani giganteschi ora inghiottiti. A distanza di milioni di anni si vedono gli effetti dei vulcani ma, per quanto si proceda e si estenda lo sguardo, non i vulcani. Poi si supera il lago Afrera e finalmente compare sullo sfondo il vulcano Ert Ale, uno dei pochi rimasti visibili. Non ce la sentiamo di avvicinarci con ore di marcia notturna all’interno del vulcano attivo ove la temperatura anche di notte giunge a 70 o 80 gradi. Qua e là, piccole capanne afar, qualche dromedario, alcune struzzi, pochi asini e pecore. Vediamo sulle colline varie tombe dancale con le loro pietre accatastate, e in alcuni casi vediamo veri e propri cimiteri con molte tombe. Non diremmo tuttavia di rinvenirvi quel qualcosa di cupo e di barbarico che vi vedevano i vecchi viaggiatori, il cui sguardo era certamente condizionato dalle immani difficoltà dei loro viaggi fra gli Afar in perenne agguato contro l’estraneo, per quanto certo nulla evochi la malinconica quiete e la pace dei nostri cimiteri: piuttosto vediamo in queste tombe un che di solitario, di impervio, di scarno, di ruvido e di essenziale. Il viaggio è duro, faticoso, di gran lunga il più duro fatto in Etiopia: il Sole è implacabile, la gola è riarsa e la sete è continua, quasi non si riesce a mangiare, l’acqua delle taniche è calda e poco dissetante (molto meglio il tè caldo la sera e la mattina), qualche refrigerio si ha solo in alcune ore notturne. Non è un viaggio del tutto privo di pericoli: i rischi di insolazione o di blocco intestinale sono reali, la zona essendo bassopiano è malarica, i serpenti ci sono, gli sbalzi di altitudine e di temperatura che nella prima

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giornata hanno portato dall’altopiano posto ai 2000 metri a parecchie decine di metri sotto il livello del mare possono provocare aritmie cardiache, l’alta marea nelle brevi stagioni in cui il lago non è asciutto può sommergere senza scampo l’incauto che vi si faccia sorprendere nelle ore sbagliate. E poi possono esservi problemi d’altro genere: nello stesso villaggio in cui abbiamo dormito, pochi mesi prima, durante un’incursione notturna erano stati rapiti (evidentemente grazie a varie complicità nel villaggio) dei turisti, tenuti prigionieri per settimane. Ma tutto questo è nulla rispetto a ciò che era un viaggio in Dancalia ottanta anni fa, all’epoca dei Franchetti e dei Nesbitt quando si partiva (non in fuoristrada ma in dromedario) in cinquanta e − ma solo se andava bene − si tornava in dieci. Quando giungiamo a Semera, la parte più difficile è passata. Superato un malore, dopo aver dormito in una locanda sotto le stelle ad Asaita, su letti avvolti da zanzariere antimalariche, facciamo un’ultima vana puntata verso la zona dei laghi della Dancalia meridionale ai confini con Gibuti: un vasto allagamento impedisce qualsiasi guado anche al guidatore più coraggioso, e se fosse avvenuto al ritorno da questi laghi anziché all’andata ci avrebbe bloccati per chissà quanti giorni. A questo punto torniamo ad Addis dopo aver percorso, dal giorno della partenza a Makallé, più di 1500 km di cui oltre 800 su pista. Certo oggi queste popolazioni hanno perso molti dei loro caratteri originari. Oggi gli Afar non sono più i feroci guerrieri di un tempo, ma lavoratori e commercianti del sale. Tuttavia la ferocia delle guerre tribali è ancora ben visibile oggi, a conferma della sostanziale validità del quadro delineato dai vecchi osservatori dell’età coloniale, e preoccupa non poco le autorità. Ancora oggi gli operatori umanitari rimangono sconcertati in Dancalia per certi atteggiamenti che ad essi non possono che apparire disumani, sebbene noi abbiamo cercato di capirli nelle loro motivazioni profonde. Ancora negli ultimi decenni e ancora recentemente sono avvenuti in Dancalia rapimenti e sequestri di persona che, se pur ormai vadano inseriti nel quadro dell’opposizione al governo centrale, serbano il ricordo di antiche o ancor recenti razzie. Ancora negli ultimi decenni alcuni sventurati uomini di passaggio sono stati uccisi ed evirati per poter compiere a qualsiasi costo il rito arcaico che garantisce una moglie solo a chi abbia ucciso, e la cosa − come abbiamo visto − preoccupò non poco il governo di Menghistu. In questo peraltro e con ogni evidenza ogni autentico senso rituale, che in altro contesto può nobilitare anche l’efferatezza, sembra scomparso se il nemico vinto può anche essere un ignaro camionista trovato per la strada a cambiare una gomma: il guerriero che pratica un suo feroce ma simbolico rituale diventa in tal caso un assassino qualunque, che pur di trovarsi uno straccio di ra-

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gazza colpisce a tradimento vittime inermi e ignare. Noi abbiamo cercato di capire quale era la vita dei dancali nell’inferno dancalo, quale era fino a pochi decenni or sono e non quale è oggi in un clima ormai mutato dall’irrompere, anche nelle zone più desolate, della modernità. A questo fine, gli etnologi coloniali ci servono più dell’antropologo moderno. Non facciamo fatica a credere che oggi, con l’avvento dei fuoristrada e degli aiuti umanitari e la diffusione della modernità, la vita dei dancali sia cambiata anche se spesso permangono tracce delle loro abitudini passate, ma essa era diversa e ben più cruda quando la lotta per la vita nell’inferno dancalo era ancora più aspra e non conosceva pietà.

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Più, scendendo dagli altipiani etiopici, ci si addentra nella Omo Valley più sembra di tornare indietro nel tempo e di ridiscendere a ritroso verso epoche antiche, che si crede di riuscire a intravedere fra i camion, le taniche di benzina, gli uomini che vanno con le bottiglie di plastica e con l’orecchio attaccato ai transistors. Scendendo progressivamente, si giunge là-bas in una pianura che procedendo si fa (e ancor più si faceva in passato) malsana, caratterizzata dalla presenza endemica della malaria e della mosca tze tze che portano febbri e malattie del sonno, in un clima via via sempre più caldo e infine torrido in certe stagioni dell’anno. Più ci si addentra nella Valle Omo più sembra di perdersi nel labirinto di una vasta savana, in una interminabile e monotona steppa in cui prevalgono i cespugli bassi, finché ci si inoltra nel labirinto di foreste quasi tropicali. Qui, con gli spazi, le foreste secolari, le acque lente e solenni, si possono ancora parzialmente ritrovare, purché non si proceda di fretta, le solitudini, i silenzi dell’Africa, le notti illuminate dalla luna e dalle stelle che hanno ispirato tante pagine di letteratura più o meno scadente, ma anche i resoconti di Bacchelli in Mal d’Africa (1934) e quelli − ondeggianti fra fascinazione estetica e denuncia del colonialismo − di Gide in Voyage au Congo e in Le retour du Tchad (1927-1928). Intravedendo per la prima volta il maestoso fiume Omo, di cui Bottego rintracciò le sorgenti nel Lago Turkana (ex Lago Rodolfo) nell’attuale Kenya, e guardandolo dall’alto delle colline nelle sue serpentine fra le foreste, sembra veramente di avvicinarsi al “cuore di tenebra” dell’Africa, e sovvengono alla mente le pagine di Conrad, in cui la navigazione sullo Zaire in Congo diventa sempre più una discesa agli inferi, fino all’incontro con l’anima folle, delirante e tormentata del mercante belga d’avorio Kurtz che, «stando sola nella sua solitudine selvaggia, aveva guardato dentro di sé e, santo cielo!, vi dico, era impazzita»1: «risalire quel fiume − scrive Con1

J. Conrad, Hearth of Darkness, 1899, tr. it. Cuore di tenebra, Roma 1993, Newton Compton, p. 85.

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rad − era come viaggiare indietro ai primordi del mondo, quando la vegetazione tumultuava sulla terra e alberi enormi ne erano i signori. Un fiume vuoto, un grande silenzio, una foresta impenetrabile. L’aria era calda, spessa, pesante, torpida. Non c’era gioia nel brillare della luce solare»2; «mai prima quella terra, quel fiume, quella giungla, lo stesso arco di quel cielo splendente mi erano apparsi così privi di speranza e così bui, così impenetrabili per il pensiero umano, così impietosi verso l’umana debolezza»3. Si risente l’eco del bateau ivre di Rimbaud: «Comme je descendais des Fleuves impassibles,/ Je ne me sentis plus guidé par les haleurs [...]./ Les Fleuves m’ont laissé descendre où je voulais». Sovviene alla mente la nave del mercante di caucciù e visionario Fitzcarraldo interpretato da Klaus Kinski che, in un memorabile film di Werner Herzog, percorrendo il Rio delle Amazzoni si inoltra nella giungla misteriosa e quasi vi scompare come inghiottita, mentre risuonano minacciosi i tamburi di guerra degli indios. Ma noi il fiume Omo lo vediamo dall’alto o lo sfioriamo appena: l’esperienza è piuttosto quella del sublime romantico (come quella del Viandante nel mare di nebbia di Friedrich), in cui il pericolo che potrebbe disintegrare e annichilire l’io si trova oltre una certa soglia, ad una distanza di sicurezza dalla quale comunque non mancano di giungere − fosse anche solo nell’immaginazione alterata dal calore − inquietanti bagliori ed echi che, per quanto sommessi, rinviano ad una perigliosità atavica. Certo viaggiando per queste terre − nelle foreste, nella savana, nella steppa, fra le montagne e i fiumi − sembra, talora con una sottile inquietudine, di percepire ovunque delle presenze e così di capire donde tragga il suo alimento quella visione del mondo che (con termine tyloriano) ancora oggi viene spesso definita animistica. In questa percezione del mondo tutte le cose hanno un’anima, tutta la natura è popolata di esseri invisibili e animati. Per questa visione della natura e del mondo, un’anima traspare in tutti i fenomeni naturali: un’anima, un’energia, una forza vitale pervade tutte le cose ed è presente nel Sole, nella Luna, nelle stelle, nei fiumi, negli alberi, nei boschi, nelle pietre, nella pioggia, nel vento, negli animali4. Gli occidentali hanno a lungo misconosciuto questa visione del mondo: Comte vedeva in essa un “feticismo”, intendendolo come la prima fase religiosa dell’umanità, ed Hegel diceva con sprezzo (nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia) che agli albori primitivi dello “spirito del mondo” «un negro, 2 3 4

Ivi, pp. 48-49. Ivi, p. 73. E. Tylor, Alle origini della cultura, cit. (vol. III, Mitologia, cit., pp. 21-38). Vedi A. Ciattini, L’animismo di Tylor. Uno sguardo sulla religione primitiva, Torino 1995, Harmattan.

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semplicemente, prende un pezzo di legno e lo adora». Ma in realtà nessuno adora un pezzo di legno in quanto tale: piuttosto, si scorge in una cosa un’anima e non la si vede solo come un oggetto. Una forza, un potenziale energetico, un mana (come si diceva nelle culture melanesiane) pervade gli esseri e le cose e agisce in esse e attraverso esse: gli oggetti e le cose sono come il precipitato di forze, azioni, fluidi, onde misteriose che vi si celano e che essi ricevono o emanano, cosicché la loro energia possa essere captata o evitata. Anche in questa terra, anche nella Valle Omo come in Dancalia, vi sono molti popoli tradizionali, vestiti con le pelli di capra e col corpo tutto dipinto proprio come nell’immaginario. Sono popolazioni povere, le più povere in un paese povero, fra le quali la carenza d’acqua è endemica, la malaria sempre incombente, la terra per lo più avara e ingrata, la lotta per la vita dura. I contadini, quando è possibile l’agricoltura, scavano la terra con un aratro trainato da buoi che è − come molti millenni or sono − un tronco rozzamente appuntito. Vi sono molte popolazioni: i Borana, i Konso, gli Hamer, i Banya, gli Erbore, i Kara, i Mursi, gli Tsamai, i Galeb, i Bume, i Surma, i Wolaita, i Nuer, i Dorze e ancora molte altre ciascuna con la propria fisionomia e peculiarità, con i propri riti e le proprie abitudini. Degli ottanta gruppi etnici che vivono in Etiopia, più di cinquanta vivono nella Valle Omo. Passando per i villaggi o anche per le piste, come peraltro non solo nella Valle Omo ma in quasi tutta l’Etiopia ad eccezione del nord tigrino, si vedono ovunque i tukul, le capanne di forma conica di base circolare e con tetto di paglia la cui struttura, riempita con canne di bambù o con paglia, fango e argilla essiccata, è costituita da travi di legno, fornito in abbondanza dalle foreste, convergenti verso il grande asse centrale. Il tukul insomma è costituito nel suo scheletro da un’asta centrale dalla cui cima partono a raggiera verso terra linee incrociate plurime: è una sorta di ombrello aperto. Spesso i tukul sono decorati, soprattutto all’ingresso, con motivi geometrici o con oggetti vari: non si tratta solo di ornamentazioni bensì di amuleti in funzione protettiva e propiziatoria. Essi ricordano le capanne dei pellerossa americani, ma dovevano essere così anche i villaggi di campagna nel nostro medioevo. Il tukul è proprio anche delle popolazioni agricole, e ancora oggi le popolazioni abissine, anche se ormai divenute abbastanza stabili, conservano nelle campagne l’abitudine (certo più economica) alla costruzione in fango e paglia; ma in particolare il tukul è il riflesso di una cultura nomadica e pastorale che non sente il bisogno della pietra e della costruzione duratura, perché fin dai tempi più antichi usa alla transumanza del bestiame e all’emigrazione in terre più salubri o meno infestate di

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popolazioni nemiche. A parte le antiche costruzioni in pietra di Axum, edificate da popoli di origine arabica, la stessa corte sovrana fu in Etiopia per molti secoli una corte mobile, costituita da centinaia di migliaia di uomini e animali, che si spostava con le tende per sfuggire ai numerosi rivali e per cercare terre adatte allo stanziamento, fino al momento (XVII secolo) in cui la capitale del regno venne stabilita a Gonder, peraltro costruita non dagli indigeni usi alle capanne ma da schiavi locali e maestranze indiane sotto la direzione dei portoghesi. A prima vista il tukul può dare un’impressione di grande miseria, ma questo non è sempre vero. Non sempre beninteso, trattandosi di popolazioni povere, ma all’interno le capanne appaiono spesso spaziose, ordinate e abbastanza pulite. In effetti queste povere capanne suscitano non di rado ammirazione. Le più belle ed elaborate sono sicuramente le capanne giganti dei Dorze. Ne abbiamo visitate alcune viaggiando in quella regione, a nord di Arba Minch proprio là dove inizia la Valle Omo. Le capanne dei Dorze non sono costruite con paglia e argilla, tranne nel rivestimento superiore, ma in bambù intrecciato. Queste mirabili capanne possono raggiungere i 12 metri di altezza, sono molto robuste e possono durare anche oltre 60 anni nonostante le stagioni delle piogge, ma ciononostante la loro intelaiatura è trasportabile nel caso le esigenze vitali costringano ad una migrazione. Viste dall’esterno, le capanne dei Dorze ricordano volutamente il volto di un elefante: la protuberanza proboscidale è tratteggiata dall’ingresso piuttosto basso, in cui spesso si può entrare solo inchinandocisi in modo da mettere a disagio l’eventuale assalitore; esso costituisce un atrio su due piani chiuso ai lati e, al piano di sopra, una camera con varie panche ai bordi interni. Le orecchie dell’elefante sono rappresentate da due camini in alto a destra e a sinistra. L’interno è piuttosto buio ma molto accogliente: il terreno dei tukul è spesso cosparso di rami e foglie, ma nel caso dei Dorze è per lo più dotato di vari tappeti che filtrano il contatto con la nuda terra. Lo spazio centrale con panche ai bordi è riservato al pranzo comunitario, mentre il resto dello spazio lungo la circonferenza è diviso in scompartimenti che costituiscono altrettante stanze dotate di letti, anche rialzati, per i genitori e per i figli nonché ripostigli per stoviglie e granaie. Un compartimento speciale, separato da uno steccato, è spesso riservato agli animali (in particolare mucche e capre), e in tal caso lo spazio è generalmente diviso agli estremi in due metà rispettivamente a destra per gli umani e a sinistra per gli animali: gli animali sono troppo preziosi per poter essere lasciati esposti ai furti e alle intemperie durante le violente stagioni delle piogge, e inoltre essi come il bue e l’asinello di evangelica memoria riscaldano col loro calore durante la notte gli abitanti della capanna. Oltre

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al pianterreno, queste alte capanne hanno spesso un piano rialzato più in alto, sempre diviso in scompartimenti. Proprio stante questa opportuna delimitazione e ripartizione degli spazi interni attraverso gli steccati, non si può parlare di una promiscuità fra uomini, bambini e animali (quale quella rilevata ad esempio da Carlo Levi nelle grotte e nelle capanne abitate dai contadini di Eboli). Spesso vi sono capanne plurime per grandi famiglie: una famiglia Dorze allargata può abitare in varie capanne che si affiancano a quella centrale dell’avo fondatore e del paterfamilias. Il terreno circostante le capanne, singole o plurime, è per lo più recintato da staccionate e palizzate fatte con lo stesso bambù di cui sono fatti i tukul, secondo intrecci e disposizioni molto belle e armoniche. Queste staccionate oggi servono meno di un tempo alla difesa, in villaggi ove tutti si conoscono, quanto piuttosto ad evitare l’allontanamento degli animali e anche a delimitare la proprietà sottolineandone il possesso. Accanto a questi tukul si vedono spesso grandi covoni, animali domestici, terre arate, legname. All’esterno del compound gli uomini lavorano la terra e pascolano gli armenti. All’interno le persone svolgono varie attività: noi abbiamo visto un uomo tessere un tradizionale shamma lavorando ad un telaio a mano (la tessitura è riservata agli uomini), e una donna preparare il kotcho secondo la procedura che è già stata descritta parlando del pranzo etiopico. In generale i Dorze ci hanno dato l’impressione di un popolo attivo e laborioso. I più intraprendenti fra essi allestiscono anche capanne particolarmente confortevoli ad uso turistico, con letti rialzati all’interno. Queste mirabili capanne sono tali che spesso esse vengono riprese in versioni più affinate da alcuni albergatori che ne fanno dimore turistiche molto accoglienti: per esempio nella non lontana Yirga Alem abbiamo dormito in un moderno hotel (costruito da un piccolo imprenditore greco e dalla moglie di origine italiana), immerso nel verde e costituito da appartamenti fatti di capanne in stile sidamo in bambù intrecciato, in tutto confortevoli ma le cui sole concessioni alla modernità (oltre alla luce elettrica e i bagni) erano il basamento circolare in pietra atto ad evitare le erosioni delle termiti. Invece in un albergo ad Arba Minch l’alloggio di tipo tradizionale consisteva nel rivestimento esterno in bambù a forma di elefante in stile dorze, mentre gli appartamenti erano in pietra. Ma ogni popolazione ha un suo stile nella costruzione del tukul: quelli afar ad esempio non sono costruiti con paglia e fango bensì con tronchi di legno ricurvi e contorti come solo possono essere contorti i tronchi di legno nel deserto torrido, oppure sono capanne emisferiche (talora minuscole come igloo del deserto) fatte con stuoie di giunco intrecciato. Molte capanne, fra i Dorze e altrove, appaiono in costruzione (e così se ne può vedere lo

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scheletro), segno di una continua attività: la costruzione di una capanna è generalmente un’opera collettiva che vede impegnate varie persone della comunità, e richiede riti di fondazione e festeggiamenti5. È significativo, e non sempre noto all’antropologia, il complesso simbolismo che presiede alla costruzione di una capanna: tale simbolismo può anche non essere consapevole perché, come dice Lévi-Strauss, all’uomo tradizionale spetta vivere i simboli e i miti (il cui significato è al di là della coscienza) e non necessariamente capirli. La capanna è dunque un microcosmo immagine del macrocosmo: essa è circolare come circolare è percepita la sfera del cosmo all’orizzonte e come circolari sono gli astri del cielo; all’interno il pavimento è piatto e circolare come piatta e circolare nella linea dell’orizzonte appare la Terra; le pareti simboleggiano i confini della Terra e del mondo tutto, al di fuori del quale sta qualcosa di avvolgente immenso e pericoloso; il tetto di frasche a emiciclo della capanna rappresenta la volta del cielo; la sommità del cono (a volte dotata di apertura per l’uscita del fumo del fuoco acceso), a cui gli assi lignei convergono perché tutte le linee “parallele” convergono nella loro molteplicità verso l’unità al vertice, rappresenta la stella polare che appare più in alto di tutte nella volta del cielo; il palo centrale all’interno, la cui sommità è il vertice del cono, rappresenta l’Axis Mundi che, stabilendo un centro quale difesa di quella che De Martino definiva l’“angoscia territoriale”, connette la base con il vertice ovvero la Terra con il Cielo. Ma la capanna è al tempo stesso, oltre che l’immagine del macrocosmo, anche l’immagine del microcosmo in una precisa corrispondenza fra superiora et inferiora: essa non è soltanto un’immagine in piccolo del cielo e della volta celeste bensì è anche l’immagine dell’uomo e della sua vita. In questo senso essa può anche essere l’immagine simbolica della tomba e dunque la prefigurazione della futura dimora oltre la morte: infatti nel caso dei Konso la capanna ha un ingresso costituito da un piccolo e stretto corridoio in cui si può solo entrare carponi o inchinati. Precauzione certo per evitare visite indesiderate e per mettere a disagio l’eventuale aggressore, fiera o uomo che sia, ma al tempo stesso elemento simbolico che richiama i dolmen le cui “uterine” tombe a camera sono precedute da un corridoio. Inoltre un elemento chiaramente antropomorfico si palesa in quelle popolazioni (come i Wolaita) che costruiscono capanne 5

V. la descrizione della costruzione, in un solo giorno, di una capanna kikuyu in Kenya in J. Kenyatta, Facing Mount Kenya. The Tribal Life of the Gikuyu, 1938, tr. it. La montagna dello splendore, Milano 1977, Jaca Book, pp. 89-96. Etnologo di origine kikuyu formatosi con Malinowski (che scrisse la prefazione al libro), Kenyatta fu in seguito per anni imprigionato dal governo coloniale inglese dopo la rivolta dei Mau Mau e infine divenne il primo presidente del Kenya.

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ad alveare simili a parrucche che imitano il volto umano, con i bordi del tetto (su cui sono poste uova di struzzo quale simbolo di fecondità) tagliati in modo da sembrare frange; anche le capanne dei Nuer (ne abbiamo viste molte in un viaggio a Gambela presso il confine occidentale dell’Etiopia) hanno fogge particolari e ricordano volutamente un’acconciatura a caschetto. La cosa qui, oltre ogni funzionalità, diventa veramente arte: ricordo del resto che Salvador Dalì nei suoi esperimenti di anamorfosi ha mimetizzato dei volti umani nascondendoli nell’immagine di capanne primitive in modo da trarne un’unica immagine dalla doppia lettura, apparente e nascosta. Peraltro non solo la capanna ma tutto il villaggio è spesso costruito secondo una simbologia, quantomeno finché resiste la cultura tradizionale. Al riguardo M. Griaule, noto studioso dei Dogon del Mali e della Nigeria, aveva rilevato che i villaggi dogon sono costruiti ai piedi delle alture ricalcando modelli antropomorfi: la casa degli anziani simboleggerebbe la testa del villaggio antropomorfo, le case con i granai sarebbero il petto, le case isolate delle donne mestruate sarebbero le mani, il frantoio in basso alluderebbe al sesso femminile e l’altare fallico a quello maschile. Invero Griaule ha lavorato troppo di fantasia: il villaggio dogon non rivela una chiara forma antropomorfica, ed è normale che la casa degli anziani detentori dell’autorità sia collocata più in alto e che le case delle donne mestruate siano isolate ai bordi6. Ma è vero che la struttura dei villaggi delle popolazioni tradizionali 6

Del resto appare troppo debitrice alla fantasia anche la ricostruzione di Griaule della cosmologia dei Dogon, adoratori della luminosissima stella Sirio la cui comparsa annunciava agli egiziani le inondazioni del Nilo (i Dogon, come altre tribù sudanesi, erano di probabile origine nilotica, immigrati a partire dal XV secolo, e appare evidente l’affinità fra il mito dello smembramento con dispersione delle parti del corpo di Osiride e il mito di Nommo, il primo uomo divino secondo i Dogon): secondo l’etnologo francese i Dogon celebravano da almeno 500 anni, usando apposite maschere rituali, la loro discendenza da esseri divini anfibi provenienti da un pianeta invisibile orbitante intorno alla stella Sirio con un’orbita di 50 anni, da cui le speculazioni sulla cosmologia dogon addirittura edotta sulle stelle doppie (Sirio è una stella doppia) fino alla successiva fantastica tesi di Temple sui Dogon in contatto con gli extraterrestri di Sirio ed edotti non solo sulle stelle doppie ma anche sul duplice moto terrestre, sui satelliti medicei gioviani e sugli anelli di Saturno (T. Temple, The Sirius Mystery, London 1976, Sidgwick and Jackson). Ma Griaule comunicava per interprete e fondava su un solo informatore (probabilmente non ignaro tramite il passaggio di missionari di certe acquisizioni astronomiche occidentali) la sua iniziazione alla “conoscenza segreta” di cui gli altri Dogon erano all’oscuro; inoltre la convinzione dell’esistenza di una doppia stella in Sirio potrebbe essere un miraggio del deserto nel giorno dell’anno in cui Sirio appare all’alba e al tramonto basso all’orizzonte (W. McKrea), senza considerare che potrebbe non esserci alcun rapporto fra la leggenda dogon della

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ha spesso un significato simbolico. Al riguardo Durkheim e Mauss hanno rilevato che la divisione sociale e parentale della tribù in fratrie totemiche viene precisamente rispecchiata nella topografia del villaggio7. Così all’interno del cerchio del villaggio due fratrie si pongono nei due semicerchi rispettivamente a destra e a sinistra dell’asse costituito dalla strada principale che taglia il cerchio: «poiché le due fratrie hanno personalità distinte, poiché ciascuna di esse ha un compito diverso nella vita della tribù, esse spazialmente si oppongono: una si pone da un lato, la seconda dall’altro lato: una si orienta in un senso, l’altra nel senso opposto»8. Poi all’interno di ciascun semicerchio sono disposti in ordine di corrispondenza i clan in cui si suddivide ciascuna fratria: ad esempio all’ingresso del villaggio vi è dapprima nell’emisfero di sinistra il clan del fuoco a cui corrisponde il clan dell’acqua nell’emisfero di destra, e poi più oltre nell’emisfero di sinistra vi è il clan del vento a cui corrisponde simmetricamente nell’emisfero di destra il clan della terra. In questa divisione sociale dello spazio «all’interno del cerchio ogni gruppo particolare ha un suo posto determinato»9: ciascuna fratria ha il suo posto in uno dei due settori della circonferenza e ciascun clan ha il suo posto in uno dei quattro sottosettori della circonferenza nel luogo del clan cui è correlato. Nell’impostazione sociocentrica dell’École sociologique française di Durkheim e Mauss10 i riferimenti astronomici e cosmologici sono secondari: la suddivisione e ripartizione dello spazio tribale è proiettata nello spazio celeste, ed essi giungono a pensare che le categorie di tempo, spazio, causa etc. nonché le categorie classificatorie logiche incluse le sussunzioni di genere e specie siano originate dalle gerarchie sociali e siano «faites à l’image des choses sociales» («le fratrie sono state i primi generi, i clan le prime specie»11) per cui «la gerarchia logica altro non è se non un

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stella intorno a Sirio e l’effettiva esistenza di una nana bianca orbitante intorno ad essa (v. M. Griaule, Dieu d’eau, 1948, tr. it. più recente Dio d’Acqua, Torino 2002, Bollati Boringhieri. Per uno studio sui Dogon più equilibrato v. M. Aime, Diario Dogon, Torino 2000, Bollati Boringhieri). Anche la figlia di Griaule è stata una studiosa dei Dogon: v. G. Calame-Griaule, Ethnologie et langage. La parole chez les Dogon, Paris 1965, Gallimard (tr. it. parziale Il mondo della parola. Etnologia e linguaggio dei Dogon, Torino 1982, Boringhieri). É. Durkheim - M. Mauss, De quelques formes primitives de classification, 19011902, tr. it. in É. Durkheim, H. Hubert, M. Mauss, Le origini dei poteri magici, Torino 1977, Boringhieri, pp. 56-62. Ivi, p. 60. Ivi, p. 56. Ivi, pp. 73-78. Ivi, p. 73.

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altro aspetto della gerarchia sociale»12; parimenti Hubert e Mauss minimizzano il correlato astronomico della rappresentazione del tempo in favore di una convenzione sociale13. Al riguardo certamente va detto che i fenomeni di proiezione sono indubbiamente intrinseci alla mente umana, del tutto spontanei e in ampia parte inevitabili, e rivestono una parte fondamentale nella nostra rappresentazione del mondo esterno: la conoscenza (come in modi molto diversi hanno mostrato Kant, Fichte, Feuerbach) consiste in larga misura nel proiettare sul mondo esterno, ritrovandole al di fuori di sé, le strutture mentali e l’«immaginazione produttiva» del soggetto (Fichte): come diceva Salvador Dalì, la conoscenza è strutturalmente paranoica. Ma − senza negare i fenomeni di proiezione − occorre anche dire che l’uomo riflette nondimeno in sé il mondo cosicché il meccanismo dell’introiezione è operante tanto quanto quello della proiezione. Non è vero che l’uomo proietta sempre nel cielo la sua realtà terrena: avviene anche il contrario, e l’uomo costruisce il suo habitat in base alla sua percezione della forma e dell’ordine cosmico. Così è lecito dire che l’idea del cerchio con i suoi emisferi e quadranti non sia la proiezione cosmica della topografia del villaggio bensì al contrario questa topografia sia tratta dall’immagine della sfera celeste con il suo centro, l’Axis mundi, la distinzione fra l’emisfero celeste superiore e quello inferiore, i punti cardinali, e in questo senso il palo del totem è il tramite che collega la comunità al principio che sottende l’universo. Durkheim e Mauss vedono nei popoli tradizionali un’esigenza classificatoria che, per essi solamente in base ad esigenze sociali, ripartisce e distribuisce tutto lo spazio e l’universo in base alle ripartizioni di fratrie e di clan. Ad ogni clan appartiene una determinata porzione dello spazio, un dato punto cardinale nonché vari simboli connessi: così per esempio alla fratria del cielo possono appartenere l’uomo, il padre, il re, la luce, l’immobilità e molte altre cose di apparentemente inspiegabile connessione, mentre alla fratria della terra possono appartenere la donna, il bestiame e quant’altro14. Come scrive Levy-Bruhl, «l’insieme degli esseri viene diviso come gli individui del gruppo sociale; gli alberi, gli animali, gli astri appartengono a questo o quel totem, a questo o quel clan o fratria»15. In questo 12 13 14 15

Ivi, p. 74. H. Hubert - M. Mauss, Étude sommaire de la représentation du temps dans la magie et la religion, 1909, tr. it. in É. Durkheim, H. Hubert, M. Mauss, Le origini dei poteri magici, cit. É. Durkheim - M. Mauss, De quelques formes primitives de classification, in É. Durkheim, H. Hubert, M. Mauss, Le origini dei poteri magici, cit. L. Levy-Bruhl, Les fonctions mentales dans les societés inferieurs, 1910, tr. it. Psiche e società primitive, Roma 1970, Newton Compton, p. 217.

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modo il totem di un clan (ad esempio l’aquila) è una metà che rimanda ad un’altra metà complementare propria di un totem di un altro clan (ad esempio il corvo) sancendo due metà esogamiche nella trama delle alleanze matrimoniali, ma al contempo si stabilisce anche una classificazione zoologica che connette l’aquila e il corvo all’interno di uno stesso gruppo di viventi. Dunque le specie naturali vengono distinte, differenziate, classificate allo stesso modo dei gruppi sociali ai quali vengono rapportate: la sezione della tribù il cui simbolo totemico è l’aquila può stabilire alleanze matrimoniali con la sezione il cui simbolo è il corvo perché esse sono congruenti proprio come l’aquila e il corvo sono animali congruenti, mentre fra due altre sezioni sono impossibili gli scambi matrimoniali in quanto né esse né i simboli totemici corrispondenti sono congruenti. Il totemismo appare così un rigoroso sistema di strutturazione ed ordinazione della realtà naturale e sociale, come un sistema di pensiero che attraverso segni distintivi distingue e classifica in classi e in gruppi le specie animali o vegetali differenziandole e rapportandole in precisa corrispondenza biunivoca ai corrispettivi gruppi umani (che spesso si ritiene ne discendano realmente), cosicché i clan differiscono fra loro come i rispettivi animali o vegetali totemici a cui si rapportano: esso coglie da un lato le differenze fra le specie naturali e dall’altro le differenze fra i gruppi sociali.16 16

Il rinvenimento di un sistema classificatorio insito nel totemismo (che peraltro ne ha fatto dimenticare altri aspetti) è stato sviluppato da A.R. Radcliffe-Brown (La teoria sociologica del totemismo, in Structure and Function in primitive Society, 1952, tr. it. Struttura e funzione nella società primitiva, Milano 1968, Jaca Book) e soprattutto da Lévi-Strauss che ha ridotto il totemismo ad un sistema tassonomico di tipo dicotomico ed oppositivo, funzionale ad una esigenza classificatoria sia delle persone in quanto membri del tessuto sociale sia del reale come nella nomenclatura di animali, che rinvia ad un sistema puramente formale quale correlato di quella struttura logica dicotomica, binaria, duale e polare della mente umana, dell’esprit humain, che secondo l’antropologo si rivela anche nei mitemi quali elementi costitutivi (differenziali e similari) del patrimonio mitico universale, variamente combinati secondo date regole di trasformazione (C. Lévi-Strauss, Le totémisme aujourd’hui, 1958, tr. it. Il totemismo oggi, Milano 1958, Feltrinelli; ma anche alcuni capitoli di La pensée sauvage − Paris 1962, Plon, tr. it. Il pensiero selvaggio, Milano 1964, Il Saggiatore − sono dedicati al totemismo). In realtà però il totemismo non è riducibile a quanto risulta all’analisi formalistica di LéviStrauss e, oltre che con un sistema classificatorio, si ha a che fare qui con quella che Levy-Bruhl definiva una partecipazione che «circola tra certi esseri, li unisce e li identifica» (L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., p. 162): così la connessione fra l’uomo, il re, la luce da una parte e il bestiame e la donna dall’altra non appaiono solamente una classificazione nel senso occidentale e astratto del termine (come la distinzione fra specie e generi) quanto piuttosto un’associazione metonimica che vede una circolazione di vita fra determinati elementi per noi

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Una caratteristica delle popolazioni della Valle Omo (come di tutte le popolazioni tradizionali) che si nota immediatamente, viaggiando nelle loro terre ed entrando nei loro villaggi, è la grande ricercatezza nell’ornamento. Ad esempio le donne hamer sono ben note per l’elaborata acconciatura dei capelli in treccioline a caschetto, fatta con un impasto di ocra, grasso animale, acqua, burro e resina e financo fango: questa acconciatura (ormai ampiamente diffusa, naturalmente senza impasto, anche in occidente) per non essere rovinata richiede appositi poggiatesta per la notte (simili a quelli usati nell’antico Egitto). Significativo è anche, sia per gli uomini che per le donne, l’uso di braccialetti ai polsi e alle caviglie, di collane di perline (in realtà amuleti protettivi e non solo oggetti estetici), ma soprattutto colpiscono le decorazioni sull’intero corpo. Esse, effettuate in particolare dopo una caccia felice o in occasione di danze rituali, si effettuano dipingendo l’intero corpo spalmandovi fango, ocra, calce bianca, brace di legna secondo figurazioni e ornamentazioni varie17. Quello che più colpisce è vedere come questa ricerca di ornamentazione giunga alla violenza su se stessi e alla deformazione del proprio corpo. Sono infatti diffuse le scarificazioni che (fatte soprattutto in occasione di riti di passaggio o di iniziazione) sono ferite rituali, cicatrici fatte ad arte: l’intero corpo appare così “vestito” e “scritto” come in un affresco surreale di stelle, spirali, puntini, linee rette e curve. Vi sono infine i celebri piattelli labiali (usati anche da talune popolazioni dell’Amazzonia) e lobulari diffusi fra le donne dei Mursi e dei Surma (prevalentemente e rispettivamente nel sud e nell’ovest dell’Etiopia): le orecchie o anche le labbra vengono stirate e deformate a partire dal compimento del quindicesimo anno inserendovi un piattello d’argilla via via più grande. Per poter effettuare questa operazione, affinché il piattello labiale poggi direttamente sul palato e rimanga ben teso, alle ragazze mursi vengono estratti i quattro incisivi inferiori. Quando il piattello viene tolto per mangiare, una enorme striscia di labbro pende dal mento come una collana che (almeno a me) appare oscena e orrenda: infatti per inveterata consuetudine nessuna donna mursi o surma dovrebbe togliersi il piattello in presenza di estranei. Secondo una tesi l’uso del piattello era originariamente dovuto proprio all’esigenza di rendere brutte e indesiderabili le donne deturpandone il volto per sottrarle alla tratta schiavile, ma forse questa idea riflette soltanto la repulsione occidentale per questa deforma-

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eterogenei e incommensurabili ma in questa visione legati e accomunati tramite nessi che rinviano al mondo della vita e li differenziano da altri elementi. Sulla pittura del corpo presso i Caduveo del Mato Grosso, secondo motivi spesso stilizzati e geometrici rinvenibili anche nella decorazione della ceramica, v. le considerazioni di Lévi-Strauss, Tristes tropiques, cit., pp. 193-224.

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zione volontaria del corpo. Le donne kara invece si trafiggono il mento con una scheggia di osso o di avorio, o financo con un chiodo che (a rischio di setticemia) trapassa il mento da parte a parte fuoriuscendo dalla bocca. I popoli Anuak, che vivono ai confini con il Sudan in perenne conflitto con i Nuer, estraggono ai bambini di dodici anni i sei denti frontali anteriori. A volte l’ornamentazione è un memento mori: così fra certi popoli etiopici in cui è molto alta la mortalità infantile i bambini (secondo un’usanza che già compare piuttosto simile nelle antiche raffigurazioni egizie a proposito dei bambini di più alto censo) sono rasati lasciando un piccolo ciuffo sulla fronte che servirà a Dio per trarli a sé in caso di morte. Poi vi sono per le donne hamer i simboli della vita matrimoniale o nubile: le nubili portano un disco di alluminio fra i capelli elaboratamente acconciati, mentre le donne sposate portano pesanti e grandi cerchi intorno al collo. Se sono la prima moglie (essendo in un contesto in cui è possibile la poligamia) indossano il binyere: esso è un pesante collare, simile al giogo di un bue, come simbolo (invero un po’ sinistro) della loro condizione, dotato di una protuberanza fallica quale auspicio di fecondità, che in certi casi può anche deformare il collo. L’importanza di queste ornamentazioni, anche volte alla decorazione del corpo financo fino alla sua deformazione indelebile, deve essere compresa: esse sono esibite come un richiamo erotico e uno sfoggio di bellezza sia per le donne che per gli uomini, e spesso hanno funzione scaramantica e propiziatoria, ma sono anche altro e ben di più in quanto sottolineano e simboleggiano lo stato sociale e il prestigio della persona. Così ad esempio, come che sia nato l’uso del piattello presso Mursi e Surma, esso è sicuramente ormai da tempo un ornamento e soprattutto un segno di distinzione perché quanto più il piattello è grande tanto più la donna vale socialmente e tanto più costerà al futuro sposo in termini di capi di bestiame. Per gli uomini in particolare le ornamentazioni sono un emblema di coraggio e forza in quanto a seconda dei popoli il diritto di portare una o più piume, anelli o un dato bracciale o le stesse cicatrici è subordinato all’uccisione di uno o più nemici o di uno o più animali pericolosi. La cura ornamentale del corpo fino alla sua deformazione riveste dunque una precisa funzione che peraltro non deve stupire, perché per popolazioni che hanno un abbigliamento minimo questa ornamentazione e body art sono il solo modo di abbellire e simboleggiare la propria persona e il proprio status. Queste persone camminano e vivono normalmente seminude: a parte gli animali e una capanna, il corpo è in fondo il loro unico bene e dunque non v’è da stupirsi che essi lo carichino di significati e lo curino fino all’esasperazione.

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Fra queste popolazioni le cerimonie e le danze rituali celebrano i matrimoni, il tempo della semina e del raccolto, i riti di passaggio e le iniziazioni, i riti di ringraziamento o di perorazione della pioggia e spesso simulano, in cerchio, la lotta o la battaglia. Al centro del cerchio vi è spesso una donna, quasi a significare che per lei o per mostrare a lei il proprio valore si svolge la lotta. Nelle cerimonie e danze rituali alcune persone indossano maschere. Esse possono rappresentare gli antenati o gli spiriti dei morti che così vengono in certo modo fatti rivivere oppure l’animale che, nei riti propiziatori alla caccia, deve con azione magica essere convinto a lasciarsi uccidere. In ogni caso l’uso di una maschera non è mai inteso come un semplice travestimento (come nel nostro carnevale), che lascia intatta l’identità reale della persona, bensì come l’espressione della reale trasformazione della persona che viene temporaneamente a incarnare l’antenato, il morto, la preda: così la maschera, nascondendo il corpo e la persona reale, ne rivela almeno temporaneamente una identità nascosta e diversa; se “persona” nell’etimo latino significa “maschera”, a indicare che la persona è in realtà soltanto una maschera, qui invece con paradossale capovolgimento la maschera diventa la persona più vera e profonda, quello che la persona è veramente. Per questo le maschere sono geloso possesso di particolari persone e vengono usate in occasioni particolari: nelle nozze, nei funerali, nelle cerimonie del raccolto e della guerra, nonché − con il fine di terrorizzare e così rinforzare i ragazzi − nei riti di passaggio della pubertà18. Ma la maschera, come ha mostrato Lévi-Strauss in riferimento alle culture americane, può anche essere un segno distintivo rappresentante un certo mito di un dato clan (ad esempio il mito dell’orchessa) che non va considerato in se stesso, bensì in un rapporto differenziale ed oppositivo ad altre maschere (ad esempio la maschera ad occhi concavi di una tribù si oppone in un rapporto di opposizione/complementarità ad una maschera ad occhi sporgenti di un’altra), donde la possibilità di un’analisi strutturale delle correlazioni, delle differenze e opposizioni fra le maschere.19 La vita fra queste popolazioni sembra scorrere sostanzialmente uguale a se stessa, e le attività appaiono concentrate sulle fondamentali occupazioni volte a procacciarsi l’esistenza. La cultura di questi popoli è naturalmente orale, basata sulla trasmissione di leggende e credenze e, solo che la si co18 19

Sulle maschere rituali v. L. Levy-Bruhl, Sovrannaturale e natura nella mentalità primitiva, cit., pp. 143-149. V. anche M. Griaule, Masques Dogons, Paris 1938, Institut de l’Ethnologie. C. Lévi-Strauss, La voie des masques, 1975 (tr. it. La via delle maschere, Torino 1985, Einaudi).

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nosca un poco, si percepirà il peso notevole che in essa riveste una visione del mondo che possiamo definire naturaliter “magica”. A proposito di questa visione naturalmente magica dell’esistenza, voglio ricordare un aspetto che mi ha particolarmente colpito, e che riguarda la visione della propria ombra come dotata di vita e di anima. Già il Frazer aveva raccolto molte notizie dalle quali risultava che presso le più diverse popolazioni del mondo l’ombra è considerata come «una parte viva dell’uomo e dell’animale, così che il danno fatto all’ombra è sentito dalla persona come se fosse fatto al suo corpo»20. Del resto nel Purgatorio (III, 88-92) le anime capiscono che Dante è vivo vedendone l’ombra stagliata sul terreno: l’ombra dunque rivela la vita, mentre la mancanza d’ombra è segno di inesistenza. Tale è anche in un racconto di A. von Chamisso, Storia straordinaria di Peter Schlemihl, che narra di un infelice uomo che, dopo aver venduto la propria ombra al diavolo in cambio della ricchezza, si accorge del terribile errore commesso quando, poiché tutti vedono la sua mancanza d’ombra, non potendo più uscire di giorno col Sole diventa un reietto che (come l’autore stesso) troverà conforto solo dedicandosi alla scienza e diventando un naturalista; e nel racconto di H. von Hofmannsthal, La donna senz’ombra, un’imperatrice, per avere figli e impedire che l’imperatore diventi di pietra secondo la profezia divina, cerca di acquistare l’ombra da una donna che non vuole figli. Così nelle più diverse culture arcaiche l’ombra è spesso percepita come cosa preziosa e inalienabile che va salvaguardata e protetta: uscire dalla capanna al mattino, quando la propria ombra è lunga e forte, va bene mentre invece perdere la propria ombra, come a mezzogiorno in certe zone dell’equatore o come al tramonto quando l’ombra sparisce nell’oscurità progressiva, equivale a perdere la propria forza vitale cosicché in quelle ore si evita di uscire dalla capanna; calpestare l’ombra di un uomo vuol dire calpestarne e ucciderne l’anima, farsi calpestare l’ombra vuol dire subire un affronto; in particolare, farsi intersecare dall’ombra di un uomo cattivo significa subire del male e cadere in stato di malattia anche a rischio della vita.21 Ora, la cosa suscita alcune riflessioni. Come si è già rilevato, LéviStrauss dice che se in un certo luogo della Terra e presso una certa popolazione si rinviene un “mitema” di un certo tipo allora, poiché il fondo mitico della mente umana (sostanzialmente operante su base binaria e dicotomica) è lo stesso ovunque pur declinandosi in polarità diverse, si può di con20 21

J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., p. 298. Ivi, pp. 297-300. Sull’ombra v. anche L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., pp. 80-82.

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seguenza prevedere che in qualche altro luogo della Terra e anche senza contatti diretti compaia in un’altra popolazione lo stesso mitema ma di tipo opposto e a polarità invertita, proprio come Mendelejev rintracciando la tavola degli elementi per progressione di numero atomico poteva vedere fra un elemento e l’altro delle caselle vuote che sarebbero state riempite con la successiva scoperta di nuovi elementi mancanti ma previsti. Ebbene, questo è proprio il caso della credenza (ma chiamiamola pure “mitema”) dell’ombra. Dunque, poiché in tutto il mondo sono comuni fra le più varie e diverse popolazioni determinate credenze sull’ombra, che evidentemente non lascia mai indifferenti, allora questo significherà che, se in varie parti del mondo esiste un mitema dell’ombra con segno +, ovvero un mitema che considera l’ombra quale inalienabile parte del sé, allora dovrà esistere nei termini lévi-straussiani almeno qualche luogo del mondo in cui il mitema dell’ombra appaia con polarità invertita e segno −. Ebbene, nel caso specifico questi luoghi ci sono: ad esempio nell’antica cultura cherokee (secondo quanto riporta Levy-Bruhl) quando un uccello proietta la propria ombra su un bambino e stende su di lui un velo nero, il bambino si ammala gravemente; egli dorme sonni agitati, piange spesso, è estremamente nervoso e rischia la morte se non si attivano riti magici onde allontanare il velo nero entrato nella sua anima22. E poi, e qui volevo giungere, vi è l’Etiopia: dove (per le molte persone ancora legate a queste credenze) l’ombra non è mai la parte positiva intrinseca che accompagna la persona, né si può distinguere fra l’ombra positiva di una persona positiva e quella negativa di una persona malevola, bensì è sempre qualcosa di buio e di oscuro, è sempre e solo negativa e sempre e solo contrassegnata col segno − in quanto mancanza di luce; in Etiopia l’ombra è essenzialmente l’oscuramento e la negazione della luce, è precisamente l’estroflessione sul terreno della parte ed anzi della controparte negativa e malefica che ognuno di noi porta in sé come un doppio malefico. Di conseguenza in Etiopia la credenza nell’ombra appare declinata secondo una valenza opposta a quella riscontrabile altrove, proprio come se tale valenza opposta venisse a colmare una ipotetica ma prevista casella vuota nella tavola dei mitemi: in Etiopia la credenza nell’ombra, che pur come ovunque è percepita come parte della propria vita e della propria anima, funziona esattamente a rovescio e quindi in queste contrade un uomo che soggiace a queste credenze non difende e salvaguarda la propria ombra dalle intersezioni o dagli attacchi delle ombre altrui, ma anzi la percepisce come un peso, un compagno insopportabile che in tutti i modi, ma infine invano, si cerca di scacciare. Così in Etiopia 22

L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., p. 326.

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avviene che certe persone attraversino la strada ad un’auto all’ultimo istante o quasi vi si gettino sotto sfiorandola pericolosamente: non si tratta di quelle persone di cui si è detto, che onde ottenere un risarcimento si sacrificano per il bene della famiglia povera, bensì si tratta di persone che mettono a repentaglio la vita per far calpestare e uccidere la propria ombra così liberandosene. A noi è capitato: in una giornata di sole un bambino fermo al ciglio della strada, pur avendoci visti arrivare con l’auto, all’ultimo ha attraversato la strada. È riuscito nell’intento: lui è riuscito a passare, mentre la sua ombra è stata calpestata dalle ruote della nostra auto. Nella pletora di spiriti, anime, divinità propria delle culture tradizionali un ruolo preminente viene svolto dalla divinità del cielo e dalla divinità terrestre della fertilità. Non solo, ma questa visione per la quale, come diceva Talete di Mileto, «tutto è pieno di dèi», questa religione per la quale veramente un uomo potrebbe dire, come Eraclito che invita a sedersi accanto al fuoco, «anche qui vi sono gli dèi», può anche conciliarsi con la credenza in un essere unico supremo. Ma questo essere supremo delle religioni primitive, inestricabilmente frammisto con rappresentazioni naturalistiche e antropomorfe, non è un essere “unico” e spesso non è nemmeno creatore per cui non va confuso con il monoteismo di matrice ebraica. Si tratta invece di un «essere celeste».23 Così J. Kenyatta, descrivendo l’etnia kenyota dei Kikuyu a cui apparteneva, diceva che Ngai ne era la divinità celeste suprema (simile alla divinità della pioggia per i Masai), dimorante lontano sulla vetta del monte Kenya, mentre più vicini agli uomini sono gli spiriti degli antenati che sono gli spiriti della terra passibili di divenire spiriti protettori (come nel culto dei Mani) se ingraziati nel culto24. Un altro esempio può essere quello dei Nuer25. Gli uomini di questa vasta popolazione nilotica sudanese, che abita anche le confinanti terre occidentali etiopiche, credono in uno spirito del 23

24 25

La teoria per cui il pensiero “primitivo”, oltre l’animismo, non sia stato (in un tempo lontano idealizzato) impermeabile alla credenza originaria in un essere supremo è stata affermata da W. Schmidt. La precisazione (contro Schmidt) che questo essere supremo non va confuso con un essere unico e creatore di tipo monoteistico è stata sviluppata da R. Pettazzoni (in L’essere supremo nelle religioni primitive, Torino 1957, Einaudi; su Schmidt e la critica di Pettazzoni v. G. Cocchiara, Il mito del buon selvaggio. Introduzione alla storia delle teorie etnologiche, Messina 1948, D’Anna, pp. 223-236; sulle religioni arcaiche v. E. Evans-Pritchard, Theories of Primitive Religion, 1965, tr. it. Teorie sulla religione primitiva, Firenze 1978, Sansoni). J. Kenyatta, La montagna dello splendore, cit. E. Evans-Pritchard, Nuer Religion, 1956, Oxford, Clarendon Press.

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cielo chiamato Kwoth, simile al Manitù dei pellerossa d’America. Tutto ciò che sta in alto, come le nuvole e gli uccelli, è figlio della luce e simbolo divino: quando gli uccelli migratori spariscono dalla vista, vuol dire che sono andati in volo presso le più alte regioni celesti, presso la “casa del Padre”. Per questo i Nuer «ritengono disonorevole cibarsi degli uccelli» (Evans-Pritchard): del resto presso molte popolazioni (abbiamo detto degli Afar) sussiste la credenza che le anime dei defunti trasmigrino in uccelli o almeno in certi uccelli e dunque volino al cielo. La divinità celeste si manifesta attraverso la pioggia, la luce, il tuono, il vento, si materializza nel Sole e nella Luna e nelle stelle: lo spirito supremo non è la pioggia ma cade con la pioggia, non è il Sole ma illumina nel Sole, non è il vento ma soffia nel vento. Tuttavia i Nuer affermano che, dopo la creazione del cielo e della terra, la suprema divinità celeste rimane imperscrutabile e appartata: proprio come il dio Annah dei Cunama eritrei, di lontana ascendenza nilotica e quindi probabilmente non privi di qualche antico legame con i Nuer. Però questo spirito del cielo lontano e imperscrutabile è affiancato − anche secondo i Nuer come secondo i Kikuyu − da altri spiriti minori del cielo e della terra (i Nuer li chiamano i Kuth) che, più vicini agli uomini, possono essere più facilmente pregati e invocati con riti propiziatori. Il mistero della creazione per i Nuer consiste proprio in questa originaria unità dello spirito divino che si pluralizza e si manifesta nella molteplicità delle sue teofanie. Sulla Terra, lontana dal cielo, i gemelli sono un miracolo in cui si manifesta il mistero dell’unità nella dualità: essi sono due ma, visibilmente, sono uno nella loro perturbante somiglianza che richiama un’identità originaria; essi sono la testimonianza visibile ed evidente della divaricazione e della scissione, dello sdoppiamento di un’unità nella dualità che ripete il mistero della creazione e della bipolarità simmetrica e per questo, come gli uccelli, pur essendo quaggiù sulla terra appartengono in realtà al regno dei cieli (e figli del cielo sono del resto chiamati i gemelli presso i Bantù Baronga).26 26

Presso vari popoli dell’arcipelago indiano la placenta di un neonato (o anche il cordone ombelicale) veniva custodita, seppellita, venerata e considerata «come il fratello o la sorella minore del bambino, secondo il sesso di questi», come «un doppio, un secondo bambino» non sviluppatosi ma assunto quale spirito tutelare inestricabilmente legato al primo (v. J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 66-68 e L. Levy-Bruhl, Sovrannaturale e natura nella mentalità primitiva, cit., pp. 363371), in base ad un’idea di polarità per la quale ad ogni bambino fa riscontro un doppio come bambina e viceversa, cosicché ad ogni + corrisponda un − ed ad ogni − corrisponda un +. Anche nella cosmologia dei Dogon, a parte la sventurata nascita del “solo” (lo sciacallo Yourougou) dal violento amplesso fra il dio Amma e la Terra Tenga, vi fu alle origini una serie di parti gemellari e androgini e

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Tutta la cosmologia nuer sembra fondata sull’idea di un contrasto fra Cielo e Terra, fra la purezza e l’ordine del cielo e il disordine e la caoticità vigenti sulla terra: ad esempio in cielo i corpi celesti si muovono ordinatamente ciascuno al proprio posto in equilibrata disposizione, mentre sulla terra le popolazioni umane nelle loro migrazioni e spostamenti, nella loro ricerca di pascoli, di acque e di terre fertili sembrano vagare senza meta e spesso entrano in urto reciproco. I Nuer in effetti durante la stagione delle soltanto in seguito si formarono gli individui differenziati: secondo i Dogon tutte le nascite sono originariamente gemellari e il parto normale è sempre il risultato della morte del feto gemello (M. Griaule, Dio d’acqua, cit., pp. 237-248). D’altra parte una sorta di sorprendente dualità gemellare è già insita nell’asse bipolare del corpo umano, e uno studioso dei Dogon ha rilevato in essi la credenza in inquietanti esseri del bosco che hanno un solo occhio, un solo braccio e una sola gamba (P. Coppo, Guaritori di follia. Storie dell’altopiano dogon, cit., p. 74). Il parto gemellare (a conferma delle tesi levi-straussiane sulle polarità psichiche) è oggetto di valutazioni opposte nelle culture tradizionali. In vari casi è considerato un prodigio di fertilità e una nascita miracolosa con attribuzione ai gemelli di straordinari poteri magici (Nuer, Dogon, Bantù Baronga, Ewe del Togo, vari popoli amerindiani – v. anche Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 107-109). Invece presso altri popoli (africani, amerindiani e australiani) è un segno di sventura o il frutto di un doppio rapporto, di cui uno adulterino, della donna (come nel mito greco di Eracle e di Ificle, gemelli figli rispettivamente di Zeus e Anfitrione): Frazer riporta che in certe tribù ugandesi il padre di due gemelli rimaneva isolato in stato di tabù per qualche tempo dopo la loro nascita (Il ramo d’oro, cit., p. 355); van Gennep riporta che in una tribù congolese i genitori dovevano vivere isolati con i figli gemelli per anni prima di essere reintegrati nella società (A. von Gennep, Les rites de passage, 1909, tr. it. I riti di passaggio, Torino 1981, Boringhieri, pp. 40-41). A volte si vedeva nei gemelli un duplicato a polarità invertita con caratteri opposti (gemello buono / gemello cattivo), cosicché uno dei due gemelli − per lo più quello nato per secondo e individuato quale portatore del maleficio − veniva messo a morte; invece fra gli Hamer entrambi i gemelli venivano (e forse ancora vengono) sacrificati. Lévi-Strauss in un’analisi comparativa mostra quanto in vari popoli la gemellarità e il labbro leporino (una divisione del labbro superiore che richiama un inizio di dualità gemellare), e anche la nascita podalica, siano stati associati nella percezione di una comune anomalia percepita ora come positiva ora come negativa (C. Lévi-Strauss, Myth and meaning, 1978, tr. it. Mito e significato, Milano 1980, Il Saggiatore, cap. III, pp. 39-46: Labbri leporini e gemelli: analisi di un mito; v. anche Le regard eloigné, 1983, tr. it. Lo sguardo da lontano, Torino 1984, Einaudi, cap. XV, pp. 245-257: Una prefigurazione anatomica della gemellarità). La mitologia occidentale conosce vari miti di gemelli (Romolo e Remo, Castore e Polluce, etc.). In Il Visconte dimezzato Italo Calvino narra del Visconte Medardo che, tagliato in due per una mutilazione di guerra, rimane solo con la sua metà negativa (un solo occhio, un solo braccio, una sola gamba come gli esseri del bosco dogon!) che lo porta a commettere crimini e soprusi prima di ritrovare l’altra metà buona così ricostruendo l’integrità della persona.

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piogge sono dediti all’allevamento, all’agricoltura e alla pastorizia, mentre durante la stagione secca si danno al nomadismo. Il loro bene più prezioso sono gli armenti, e ad essi devono provvedere in tutti i modi. I Nuer sono noti per riservare una sorta di culto agli animali indispensabili alla loro esistenza, in particolare ai bovini, un po’ come le popolazioni agricole indiane per le quali la vacca è sacra: come in certi casi in India le vacche sono inghirlandate e celebrate, così i Nuer conoscono e chiamano per nome i loro capi e compongono poesie in onore dei loro bovini; essi possono financo prendere un particolare “nome bovino”, con cui saranno appellati, dal nome del bue regalato dal padre o dallo zio paterno una volta effettuato il rito di passaggio all’età adulta o dal nome del proprio bue preferito. Nel caso in cui i Nuer si debbano nutrire di bovini in circostanze particolari, possono farlo solo uccidendo ritualmente l’animale. Le mucche in effetti producono latte, da esse si ricava burro e formaggio nonché concime fertilizzante i terreni, usato anche quale cemento per la costruzione delle capanne, esse partoriscono vitelli che continuano il ciclo vitale, mentre i buoi sono animali da tiro che dissodano i terreni conducendo l’aratro: per tutti questi motivi questi animali servono assai più vivi che non quale alimento carneo. Lo stesso tabù alimentare indiano, pur legato al rispetto della vita propugnato dalle religioni della compassione, aveva nondimeno l’implicita finalità tutta terrena di invitare la gente non a mangiare le mucche vaganti così distruggendo una fonte di ricchezza bensì ad usarle proficuamente per i latticini e il lavoro agricolo: come disse una volta Gandhi, «la mucca è sacra perché dà il latte e rende possibile l’agricoltura»27. Certo si può domandare allora perché mai la mucca non sia stata sacra in tutte le antiche culture agricole come ad esempio nella Val Padana, ma solo in alcune come presso i Nuer e ancor più in India ove si giunge al tabù alimentare, e la risposta sembra data: la valle del Gange e la valle del Nilo giù fino in Sudan, quando non giunga la stagione delle piogge, sono entrambe esposte alla siccità; in questi casi la mucca − animale dotato di grande resistenza capace di sopravvivere per settimane quasi senza cibo e acqua − diventa la sola àncora di salvezza e, se si riesce a resistere alla tentazione di mangiarla, una promessa per la rinascita e il ritorno ai campi una volta passata la siccità. Probabilmente il motivo per cui i Nuer, a differenza degli Indù, ammettono (sia pur solo in rare occasioni rituali) la macellazione della mucca è soltanto perché nell’arsura del deserto un periodo di siccità può costringere a cibarsene (così come Maometto, in evidente considerazione 27

Sul carattere funzionale e non meramente “superstizioso” del culto della vacca in India v. M. Harris, Buono da mangiare, cit., pp. 39-59.

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delle necessità delle popolazioni del deserto arabo, aveva abolito il veto del Levitico sulla carne di cammello). L’intimità fisica dei Nuer con le mucche giunge al punto che i giovani nuer (e sono stati così immortalati da parecchie fotografie) sono soliti stimolare sessualmente con la bocca la vagina della mucca convinti che in tal modo essa produca più latte. I Nuer bevono anche il sangue di mucca: del resto la mucca è per essi preziosa anzitutto in quanto fornisce latte, e il latte non è altro che sangue trasformato, secrezione ghiandolare emessa dalla mammella, con ricco contenuto proteico, soddisfacente dunque stante la carenza d’acqua propria delle loro terre. Anche circa il sangue peraltro si rivela la bipolarità fra segno + e segno − già altrove attestata (avanzi del cibo, l’ombra, i gemelli): il sangue è inteso ovunque come la sede della forza e dello spirito vitale, a partire dai luoghi veterotestamentari in cui si dice che «la vita di ogni carne è il sangue» (Levitico 17, 11-14) e «il sangue è la vita» (Deuteronomio 12, 23) fino a molta letteratura medico-filosofica occidentale, ma proprio per questo suo particolare significato, proprio perché sanguis est vita, esso può assumere una valenza positiva o al contrario negativa a seconda delle culture e dei contesti28. Da un lato si registra il segno + ovvero l’usanza di versare a fini propiziatori il sangue dell’animale sacrificato, come in certi riti di fertilità fra cui quelli di Baal (I Re 8, 28) o negli antichi riti ebraici (Esodo 29, 10-14; Levitico 9, 8-11), o l’usanza di bere il proprio sangue (come nella stipulazione di patti), oppure di bere il sangue o di cospargersi il volto col sangue di un animale sacrificato, usanza attestata dal Frazer presso le più diverse culture nonché propria delle baccanti greche: così è anche per i Nuer, sebbene qui la cosa non passi necessariamente attraverso il sacrificio dell’animale, poiché solitamente essi ne incidono la vena del collo onde farne sgorgare il sangue e poi richiudono la ferita facendola cicatrizzare con un impasto di fango. Dall’altro lato invece al contrario (ma specularmente) appaiono in tutto il mondo i tabù del sangue: ovvero il divieto onde evitare contaminazioni di bere il sangue di un animale, il divieto di versare il sangue per terra, il timore della perdita di sangue (vista come perdita di forza vitale) per una ferita anche leggerissima, l’orrore del sangue femminile durante le mestruazioni, il divieto ebraico e islamico del sangue donde il dissanguamento dell’animale macellato («guardati dal mangiarne il sangue, perché il sangue è la vita» − Deuteronomio 12, 23 e anche Genesi 9, 4), fino alla prescrizione del tribunale dell’Inquisizione di eseguire le 28

Vedi L. Levy-Bruhl, Sovrannaturale e natura nella mentalità primitiva, cit., cap. IX (“Il sangue e le sue virtù mistiche”, pp. 290-318). Sui “tabù del sangue” v. J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 355-359.

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condanne a morte sine effusione sanguinis (sul rogo il condannato moriva per soffocamento senza perdita di sangue), senza dimenticare che ancor oggi certi gruppi religiosi rifiutano le trasfusioni di sangue. Come esige la loro tradizione prevalentemente nomadica e individualista, i Nuer sembrano emblematizzare nelle loro peregrinazioni il disordine sulla Terra che contrasta con il moto regolare degli astri nel Cielo. Essi infatti sono frammentati in una moltitudine di tribù che, pur appartenenti alla stessa etnia, sono prive di un’autorità centrale e appaiono come “società acefale”. Ciascuna tribù è fiera della propria indipendenza e proprio da questa refrattarietà ad una autorità centrale possono nascere i conflitti: vagando inquiete, queste popolazioni possono entrare in collisione. Ma ecco la soluzione nuer del problema, volta a ricreare almeno parzialmente sulla Terra quell’ordine e quell’equilibrio visibile nel Cielo: quando la tensione rischia di degenerare, quando ad esempio una scaramuccia col morto rischia di innescare terribili faide di clan, i conflitti vengono composti (con adeguati risarcimenti di natura economica) attraverso l’intervento di un mediatore riconosciuto da entrambi i contendenti, un personaggio sacro, detto per il suo abbigliamento “il capo dalla pelle di leopardo” la cui parola viene rispettata. Così in queste società “segmentarie” gli elementi (i “segmenti” a base essenzialmente familiare componenti la società) si coagulano, superando le discordie in base ad un principio di solidarietà. L’autorità fra i Nuer (come nella maggior parte delle popolazioni tradizionali) non è sostenuta da nessuna forza fisica di polizia: le sanzioni religiose e magiche contro i trasgressori, anzi la semplice minaccia di tali sanzioni che possono giungere alla scomunica e all’emarginazione o anche all’allontanamento della comunità, che significherebbe la morte per chiunque ma che in realtà è un disonore ben peggiore della morte, sono più potenti di qualsiasi atto coercitivo. In questo modo i diversi clan possono giungere alla costituzione di un sistema di alleanze, pur provvisorio e sempre mutevole: proprio il perenne reciproco conflitto di una tribù verso l’altra fa scattare complessi meccanismi di alleanze dall’una e dall’altra parte per le quali il conflitto viene bloccato. In questo modo i Nuer possono mantenere una cronica ed endemica rivalità bellicosa con i Dinka, rivali per il possesso della terra nei periodi nomadici e ai loro occhi colpevoli di aver a suo tempo accettato il dominio inglese, ma non entrano in guerre fratricide fra di loro29. Questa aggressività bloccata in una 29

E. Evans-Pritchard, The Nuer: A Description of the Modes of Livelihood and Political Institutions of a Nilotic People, 1940 (tr. it. I Nuer. Un’anarchia ordinata, Milano 1975, Angeli). Sulla vita quotidiana e le “forme di allocuzione” fra i Nuer vedi anche due articoli di Evans-Pritchard in The Position of Women in Primitive Societies and Other Essays in Social Anthropology, 1965, tr. it. La donna

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forzata alleanza è stata anche rintracciata (a partire da W. Robertson Smith) in varie tribù arabe, e nello Yemen era sancita attraverso la “danza dei pugnali” (oggi solo più spettacolo turistico) in cui la fragile alleanza veniva sancita in una danza ove i danzatori brandivano il proprio pugnale. Anche i Borana e i Konso, popolazioni diffuse in Etiopia nella Omo Valley vicine al confine kenyota (e anche sudanese le seconde), ed in genere alcuni gruppi oromo cusciti (solo in superficie cristianizzati o islamizzati), credono in un supremo Dio-cielo, Waq, che fa cadere le piogge fertilizzando Atete, la dea della fecondità, il ventre della Madre Terra: Waq dona abbondanza ai raccolti e fecondità alle donne e, dopo aver dispensato la pioggia benefica, può mostrare all’orizzonte la sua cintura circolare che è la striscia multicolore dell’arcobaleno, che infatti nelle zone equatoriali appare circolare (noi l’abbiamo visto ad Addis Abeba, quasi per caso alzando gli occhi al cielo, e in Etiopia la cosa è considerata di buon auspicio). Già il Tylor, che in gioventù viaggiò nell’America centrale e nella terra degli Aztechi, narra il mito del dio celeste che secondo varie popolazioni indiane rovescia la pioggia sulla Terra attraverso il suo setaccio (anche se nella sua visione evoluzionistica del mito quale infanzia dell’umanità egli eccede in una lettura letterale misconoscendone la valenza simbolica e metaforica, quasi che il “selvaggio” credesse letteralmente al setaccio divino). Questa religione del cielo − che per vari aspetti ricorda quella dei Kikuyu e dei Nuer − si accompagna, nei Borana, ad una complessa astronomia calendariale (descritta da A. Legesse nel 1973) basata non sul Sole bensì (in modo simile ai calendari maya, cinese e indù) sulla Luna e in particolare sull’osservazione delle congiunzioni mensili della Luna con il sorgere di una serie di sette stelle (o gruppi di stelle) in successione: l’anno (di 354 giorni) è per essi composto di dodici mesi (ciascuno di 29 o 30 giorni, non vi sono settimane), che è approssimativamente il tempo in cui la Luna compie le sue fasi (mese sinodico). Queste stelle sono considerate secondo morfologie antropomorfiche: le Pleiadi sono sette sorelle, Aldebaran è l’occhio del toro nella costellazione del Toro, Belletrix è la spalla destra del cacciatore costituito dalla costellazione di Orione, di cui la nebulosa di Orione attornia la spada mentre Saiph ne è il ginocchio destro, e Sirio è la testa della costellazione del Cane. Il nuovo anno inizia con la Luna nuova (novilunio)

nelle società primitive e altri saggi di antropologia sociale, Bari 1973, Laterza, pp. 197-216. Sulle società “acefale” tradizionali v. P. Clastres, La société contre l’État. Recherches d’anthropologie politique, 1974 (tr. it. La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica, Milano 1977, Feltrinelli).

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in congiunzione col Triangolo di Beta e poi si prosegue con le successive congiunzioni: il secondo mese inizia con la Luna nuova in congiunzione con il gruppo delle Pleiadi, il terzo con la Luna nuova in congiunzione con Aldebaran, il quarto con la Luna nuova in congiunzione con Belletrix, il quinto con la congiunzione con Orione e Saiph, il sesto con Sirio che è la stella più brillante nel cielo notturno. Negli ultimi sei mesi dell’anno la Luna è nuovamente in congiunzione con Beta Triangulum, come all’inizio ma secondo distinte fasi che appaiono verso la metà del mese (Luna piena o plenilunio con le successive fasi calanti: tre quarti di Luna calante, mezza Luna, un quarto di Luna etc.). Quindi all’inizio nei primi sei mesi la fase della Luna è costante (Luna nuova) e ne variano le posizioni in relazione alle sette stelle, mentre negli ultimi sei mesi le fasi della Luna cambiano rimanendo costante la sua posizione in relazione ad una sola stella (Beta Triangulum): alla fine il ciclo ricomincia con un nuovo anno. Le osservazioni astronomiche determinano dunque il mese e, entro un certo margine di approssimazione, il giorno. V’è però un fatto: in realtà noi non troviamo le corrispondenze mensili fra la Luna e le sette stelle esattamente nell’ordine sequenziale del calendario borana. Per questo, l’ipotesi al riguardo meglio esplicativa induce a ritenere che il calendario borana sia in realtà molto più antico. Questo sembra dimostrare un sito archeoastronomico rinvenuto (B. Lynch e L. Robbins 197730) a Namoratunga II nel Kenya settentrionale vicino al Lago Turkana in un territorio compreso fra l’attuale Kenya, il Sudan e l’Etiopia. Probabilmente legato all’antico regno cuscita di biblica memoria, il sito di Namoratunga II è costituito da 19 pilastri fatti di pietre (rivelatesi magneticamente e quindi “magicamente” cariche). Questi pilastri (recanti alla cima dei petroglifi) sembrano allineati quali marcatori di posizioni, fra i quali doveva scorrere una ideale “lancetta” del tempo, proprio in direzione degli azimut ovvero della posizione ove all’incirca nel 300 a.C. secondo i calcoli astronomici (coincidenti con la datazione al carbonio di questo e di un analogo sito gemello funerario, detto Namoratunga I, posto un centinaio di chilometri più a sud) dovevano sorgere le sette stelle dell’attuale calendario borana, che hanno mantenuto le loro posizioni relative ma la cui posizione apparente nel cielo risulta ora spostata rispetto alle posizioni della Terra (e della Luna) per via della precessione degli equinozi dovuta al lento moto dell’asse terrestre.31 30 31

B. Lynch - L. Robbins, The First Archaeoastronomical Evidence in sub-Sahara Africa, in “Science”, 1978. Si noti inoltre che (come hanno osservato R. Soper, L. Doyle e E. Frank nel 1982) all’epoca cuscita la stella Beta era invisibile così come lo è la Luna nuova, solo fiocamente visibile prima dell’alba e dopo il tramonto del Sole stante la vicinan-

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A quanto sembra dunque i Borana continuano ad usare il calendario lunare cuscita, vecchio di oltre due millenni, basato sulla corrispondenza generale fra la Luna nel suo sorgere e nelle sue fasi e le sette stelle anzidette, sebbene le corrispondenze specifiche fra la Luna e ciascuna di queste stelle non siano più le stesse: in realtà il calendario borana risulta oggi sfasato rispetto alle stelle, mentre era esattissimo nel 300 a.C. Questo, indubbiamente, la dice lunga sul fatto che gli attuali “popoli naturali”, ben lungi dall’essere simili ai popoli più antichi, spesso ne hanno invece smarrito le più alte conoscenze in un mutamento nel quale alcuni antropologi (specialmente “diffusionisti”) non a torto hanno visto un processo di progressiva involuzione e decadenza. Si potrebbe perfino dire che in realtà fra i due calendari non vi sia relazione, che i Borana potrebbero anche non aver mai conosciuto l’antico calendario cuscita, e che gli studiosi che pongono questa derivazione potrebbero anche errare: l’osservazione delle fasi lunari non richiede la preventiva conoscenza del calendario cuscita il quale era più complicato proprio perché connetteva le fasi lunari alle stelle e ai gruppi di stelle più lontani. Sapendo però quanto è forte in queste culture il peso della tradizione, che può essere acriticamente accettata e trasmessa di generazione in generazione, non stupisce affatto che i Borana possano aver ricevuto in eredità ed aver usato un calendario senza nemmeno rendersi conto che nel frattempo le corrispondenze stellari erano saltate. Ma, alla fin fine, che importano le stelle ai fini della misurazione del tempo? L’antico calendario cuscita va benissimo per i Borana, anche se le corrispondenze con le stelle non vi sono più. Una volta compresa la successione delle diverse fasi lunari, non importa più ai Borana che le corrispondenze fra la Luna e le stelle siano nel frattempo saltate, ammesso pur che lo sappiano: essi infatti guardano ormai il cielo non più con l’occhio dell’astronomo come i loro antichi avi cusciti bensì solo con l’occhio più za ad esso, così da rendere impossibile l’osservazione della loro congiunzione all’inizio dell’anno nuovo, con conseguente osservazione ritardata che causa lo slittamento delle altre osservazioni, nonché la scomparsa di Aldebaran − terza stella in ordine di comparizione al terzo mese − dal quadro visivo e il sorgere della Luna nuova dall’inizio del sesto mese dopo Sirio con un ritardo di quattro ore. Ma evidentemente (Doyle 1986) gli antichi cusciti intendevano la congiunzione non come il più vicino allineamento fra due oggetti celesti visibili nello stesso tempo (Luna-stella) bensì come la posizione di un oggetto celeste quale la Luna sorgente all’orizzonte in direzione della posizione di una stella pur al momento invisibile per il chiarore del cielo di giorno. Se ne deduce quindi, quale testimonianza del valore di quella cultura, che per l’antica astronomia cuscita la corrispondenza fra la Luna e le sette stelle era un dato deduttivo e teorico e non semplicemente osservativo.

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pragmatico e preoccupato del pastore, dell’allevatore, dell’agricoltore che ansiosamente scruta il cielo sperando l’arrivo delle piogge. Per la mentalità pratica dei Borana l’importante è avere un calendario, e questo può essere del tutto convenzionale e arbitrario: l’osservazione della successione delle diverse fasi lunari è sufficiente al computo del tempo, e per essi sarebbe un’inutile raffinatezza e una perdita di tempo verificare ai fini di una maggior precisione le ulteriori connessioni di queste fasi lunari con questa o quella stella o gruppo di stelle. Essi aggiungono un mese ogni tre anni perché l’anno lunare resta indietro di 11 giorni rispetto al solare, e questo è tutto. Il calendario borana è semplificato rispetto al calendario astronomico cuscita: da calendario luni-stellare è in pratica diventato un calendario lunare, ma per essi va bene così. It works, funziona. Cos’è infatti il bel tempo per i Borana? Il bel tempo per i Borana non consiste nel Sole splendente, fin troppo presente e causa di siccità, bensì consiste nella pioggia benefica, fertilizzante e dissetante. Mentre alle nostre latitudini la vegetazione cresce in primavera quando le piogge invernali diminuiscono, qui invece il periodo favorevole è proprio costituito dalla stagione delle piogge. È per questo del resto che il sistema calendariale borana è lunare e non solare: esso non contempla l’avvicendarsi di stagioni fra loro ben differenti, dovute alla diversa inclinazione dei raggi solari, semplicemente perché nei pressi dell’equatore le stagioni praticamente non esistono. Il clima è sempre quello, temperato sull’altopiano e caldo e anche torrido nel bassopiano, quindi calcolare il tempo attraverso le stagioni è impossibile e una loro determinazione ai fini agricoli è totalmente inessenziale: la sola differenza di stagione è data dal fatto che piova o meno, e questa è la sola cosa veramente importante. Il Sole è dunque poco importante nel calendario lunare borana: essi amano e desiderano la pioggia non il Sole, che causa la siccità e che c’è sempre. Lo abbiamo già rilevato: la mancanza dell’acqua, il bene più prezioso, è cronica in molte terre aride del Corno d’Africa, e del tutto drammatica nel deserto dancalo e sudanese. Nella Omo Valley la vegetazione compare rigogliosa solo in certe zone. In realtà in queste terre è in atto ormai da tempo un processo di desertificazione. La savana dai bassi cespugli e dalla scarsa vegetazione prelude al deserto: la terra diventa sempre meno produttiva, sempre meno utilizzabile, e sopporta sempre meno non solo le attività agricole ma anche quelle pastorali. Così la vita che i Borana hanno condotto per secoli, la pastorizia e il nomadismo, diventa sempre più difficile e alla fine rischia di rivelarsi non più percorribile. La cosa peraltro non riguarda solo i Borana: da molteplici segni si evince che il mondo sta sempre più esaurendo le sue riserve d’acqua a causa del massiccio sfruttamento idrico:

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il Nilo ad esempio ha oggi una potenza idrica molto minore che in passato e giunge quasi estenuato al Mediterraneo, e alcuni dicono che la prossima guerra mondiale sarà combattuta per l’acqua. Lo spirito del cielo Waq, lo spirito lontano e imperscrutabile, come a voler punire le colpe degli uomini, inaridisce la terra e come Demetra offesa invia la siccità. I bambini chiedono l’acqua per strada, le bambine la bevono e la raccolgono dal fango esponendosi al tracoma per le infezioni, e anche nelle case e negli alberghi manca l’acqua. Nella Omo Valley molti fiumi che scendono dalle vicine montagne per confluire nel grande fiume Omo sono alvei secchi, asciutti e vuoti per gran parte dell’anno: noi abbiamo guadato col fuoristrada almeno una decina di fiumi, tutti asciutti tranne uno. Anche molti piccoli laghi cui sono soliti abbeverarsi le mandrie appaiono del tutto asciutti durante la stagione secca. Bisogna viaggiare per l’Etiopia e in particolare nella Omo Valley per capire cosa possa essere la siccità: la temperatura è alta e durante la stagione secca non piove mai; si viaggia per giorni fra terre aride e (tranne sulle rive dell’Omo) con scarsa vegetazione senza scorgere un filo d’acqua. Così durante la lunga stagione secca il Cielo non dà la pioggia, e la Terra non dà l’acqua. Nell’ultimo secolo l’Etiopia è stata colpita dalla siccità con tragica scadenza decennale, mietendo milioni di vittime fra uomini e armenti. Per fortuna però la siccità non è perenne e durante la “stagione” delle piogge, che nella Valle Omo dura all’incirca da ottobre a novembre (“piccole piogge”) e da marzo a maggio (“grandi piogge”), se non vi è siccità vi sono le inondazioni periodiche e annuali dell’Omo: esse, come le inondazioni del Nilo, fertilizzano il terreno rendendolo disponibile all’agricoltura e sono attese con ansia. Anche il Sole appare in qualche modo connesso alle inondazioni periodiche dell’Omo. Infatti un altro popolo della Omo Valley, i Mursi, che quando non sono a caccia dei birr dei turisti qualche volta si ricordano di essere anche dei coltivatori, sanno che le inondazioni dell’Omo appaiono in concomitanza con l’attività solare e sono misurabili in base al ciclo solare: infatti ogni anno, quando il Sole scioglie le nevi sulle montagne circostanti e quando essi osservano il tramonto eliacale di quattro determinate stelle che scompaiono l’una dopo l’altra in successione sotto l’orizzonte, allora l’Omo straripa quattro volte. I Mursi dicono che il Sole sorgendo insegue le stelle, che per sfuggirgli cercano di dileguarsi, e le ingoia. Trasformando il post hoc in un propter hoc, essi dicono che fra la comparsa del Sole e la successiva scomparsa delle stelle vi è una correlazione causale e che il Sole causa la scomparsa delle stelle. Tuttavia, anche i Mursi relegano ai margini il Sole nel loro calendario che è lunare come quello dei Borana.

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Il periodo della stagione delle piogge e delle inondazioni costituisce per i Mursi il riferimento temporale privilegiato, non tanto per la pastorizia come nel caso dei Borana quanto per l’agricoltura. Vivendo infatti nelle vicinanze dell’Omo essi, in coincidenza con la stagione delle piogge e con le inondazioni annuali che fertilizzano il terreno, piantano il sorgo sulle rive del fiume. Naturalmente per decidere il momento in cui piantare il sorgo i Mursi devono calcolare con una certa approssimazione l’arrivo delle piogge e delle inondazioni, perché il raccolto va perso non solo se mancano le piogge e le inondazioni ma anche se si sbagliano i tempi di previsione: se il sorgo viene piantato troppo presto sulle sponde del fiume verrà spazzato via dalle inondazioni, mentre se viene piantato troppo tardi non crescerà. A questo scopo i Mursi si avvalgono naturalmente del loro calendario lunare. Il calendario lunare mursi (esaminato da D. Turton) conta le lunazioni attraverso 12 mesi detti bergu (“capra”): nel primo bergu le inondazioni sono massime, cosicché i Mursi nel secondo bergu dissodano il terreno, nel terzo piantano il sorgo e nel quarto strappano le erbacce che ne impediscono la crescita; nel quinto bergu il sorgo nutrito dalle acque del cielo e della terra fiorisce, cosicché nel sesto bergu essi mietono il raccolto, nei bergu successivi lo trasportano ai villaggi e finalmente nel dodicesimo bergu lo trebbiano, per poi ricominciare il ciclo. Tuttavia, se la successione è questa, la difficoltà consiste nel sapere quando inizia un bergu e in quale bergu o almeno in quale giorno del bergu si è. Invero un calendario lunare non può prevedere con precisione l’arrivo della stagione delle piogge e delle inondazioni. Siccome in un anno vi sono in realtà 12,5 mesi lunari, allora i Mursi per mantenere la sincronia dovrebbero inserire ogni tot anni un mese aggiuntivo di durata opportuna (così come i Borana inseriscono un mese ogni tre anni), ma invece questo non accade: i bergu sono dodici, e nemmeno il periodo intermedio (gamwe) considerato fra il dodicesimo bergu e il primo del ciclo successivo recupera i tempi in quanto esso (essendo una costante e non un periodico inserimento) allunga l’anno. Così in base a questo calendario il Sole, che per i Mursi riposa in due montagne fra il tramonto e l’alba, dovrebbe arrivare nella prima casa nella prima metà del quinto bergu e nell’altra nella prima metà dell’undicesimo bergu, mentre invece ciò non avviene. Occorrerebbe considerare meglio anche il ciclo solare per una migliore determinazione, ma i Mursi non sentono il bisogno di modificare il loro calendario lunare e, anziché dire che il loro calendario non ha previsto correttamente l’inizio delle piogge e delle inondazioni, preferiscono dire che la natura è imprevedibile: così a chi dice che siamo nel bergu 5 perché sono comparse le rondini un altro può ribattere che siamo nel bergu 4 ma che le rondini quest’anno sono arrivate

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in anticipo. Insomma per i Mursi gli eventi sono quelli previsti (lo scioglimento delle nevi, il tramonto delle stelle, le inondazioni), ma i tempi in cui essi si presentano possono variare considerevolmente ed essere accelerati o ritardati: in caso di sfasatura si dirà che quest’anno le rondini sono arrivate prima, le nevi sulle montagne si sono sciolte prima, il Sole è arrivato presto, le quattro stelle sono tramontate in anticipo, oppure al contrario si potrà dire che tutti questi eventi si sono verificati più tardi del previsto.32 Per i Mursi è inutile calcolare per prevedere: la loro è una concezione biologica e non matematica del cosmo ed essi, anziché migliorare il calendario, dicono in sostanza che le stelle tramontano quando a loro pare e che il Sole è ballerino e fa i capricci, potendo arrivare prima o dopo proprio come gli uccelli, così come una pianta può fiorire un po’ prima o un po’ dopo il tempo previsto. I Mursi sembrano sentirsi in balìa di una natura imprevedibile, spesso volubile, capricciosa, anche cattiva. Essi sanno che la natura non si comporta sempre con perfetta regolarità matematica, e che le cose non si ripetono sempre uguali. Per esempio, alla carenza d’acqua durante la stagione secca può fare riscontro durante la stagione delle piogge il dramma opposto: infatti può succedere che, durante la stagione delle piogge, la pioggia prima assente diventi quotidiana e torrenziale causando non un’inondazione provvidenziale e benefica bensì una catastrofica alluvione. Quando noi siamo andati nella Valle Omo, nell’agosto 2006, la situazione era drammatica: una grande alluvione del fiume Awash a Dire Daua nel nord-est del paese aveva già causato trecento morti e, proprio mentre partivamo, ci era giunta la notizia che una alluvione del fiume Omo aveva causato altre centinaia di morti e trasformato migliaia di persone in sfollati e senzatetto. Pur non trovandoci nell’epicentro del dramma, noi abbiamo visto distrutto il campeggio ove intendevamo fermarci per la notte e, dall’alto di un monte, abbiamo visto il fiume Omo straripato, in un andirivieni di elicotteri e di camion trasportanti i soccorsi. Queste alluvioni non sono episodiche bensì sono un fenomeno annuale ricorrente, seppur fortunatamente non sempre raggiunga gli apici di una simile catastrofe. Il 32

È significativo al riguardo osservare come, mentre per i Mursi non sono errate le misurazioni umane bensì è imprevedibile la natura, al contrario (ma in modo del tutto complementare) per i Nuer studiati da Evans-Pritchard il tempo è direttamente computato dall’uomo in base alle proprie esigenze funzionali: per i Nuer, «non si erigono gli sbarramenti per la pesca perché è novembre, ma è novembre perché si erigono gli sbarramenti per la pesca» (E. Evans-Pritchard, Social Anthropology, 1951, tr. it. Introduzione all’antropologia sociale, Bari 1971, Laterza, p. 128). In entrambi i casi (Mursi e Nuer) il tempo non ha alcuna oggettività intrinseca e regolare.

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cielo insomma in queste contrade sembra non conoscere mezze misure, e ora rifiuta di inviare la pioggia per mesi causando morìa del bestiame ora la invia torrenziale con effetti devastanti. Talora i due opposti fenomeni si presentano simultaneamente a cento chilometri di distanza, cosicché da una parte i Borana sono disperati per la carenza d’acqua mentre poco lontano i Mursi sulle rive dell’Omo vengono falciati da un’alluvione. Invero si potrebbe dire che il loro impreciso calendario non aiuta i Mursi nelle previsioni, ma per alcuni studiosi che hanno esaminato la cosa sembra non sia politically correct dire che il calendario mursi è poco efficace: per i moderni etnologi tutto ciò che fanno questi popoli è giusto e adeguato, perché a dire il contrario si passerebbe per razzisti, e dunque essi dicono che ai Mursi non servono i cronometri e che il loro calendario è adatto ai loro bisogni e alla loro vita. Ma perché non si può dire che certamente non siamo qui in presenza di una grande sapienza astronomica, e che un migliore calendario gioverebbe ai Mursi per la semina e per la loro stessa vita? Infatti, quando l’inondazione annuale arriva prima del previsto, e si configura come un’alluvione, vi possono essere centinaia di morti mentre, proprio perché le inondazioni dell’Omo sono cicliche e prevedibili, probabilmente il loro effetto, spesso catastrofico non solo sui raccolti ma anche e soprattutto in termini di vite umane, potrebbe essere almeno in parte prevenuto attraverso un adeguato calcolo astronomico. In questo caso non si può dire che un calendario impreciso funziona egualmente ai fini pratici, come nel caso dei Borana che utilizzano con profitto un calendario vecchio di millenni in cui sono saltate le corrispondenze luni-stellari, perché nel caso dei Mursi la vicinanza all’Omo, con le sue inondazioni fruttuose e pericolose al tempo stesso, richiederebbe conoscenze più precise. Ma si direbbe che i Mursi accettino con un certo fatalismo e rassegnazione le imprevedibilità e i capricci della natura, e preferiscono dire che la natura è irrazionale piuttosto che poco predittivo il loro calendario. In ogni modo ben si comprende che a queste popolazioni il dio del cielo Waq appaia, nella sua imperscrutabile lontananza, incomprensibile e minaccioso. Al riguardo però i Borana sembrano essere un popolo con altra tempra rispetto al fatalismo dei Mursi, ormai sempre più inclini a dipendere dai birr elargiti dagli stranieri di passaggio33. I Borana sono veramente un popolo alacre e laborioso. Essi dicono che a Waq − si direbbe in una dialettica fra monoteismo e politeismo, o meglio fra unità e molteplicità, fra uranico 33

M. Bassi, I Borana, Milano 1996, Angeli; H. Isack, Boran, Nairobi 1986, Evans Brothers.

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e tellurico − sono sottoposti gli ayana, i molti spiriti e le forze della natura nascosti nelle grotte, negli anfratti della terra e dei monti, nei tronchi degli alberi, nelle sorgenti e nelle acque dei fiumi. Essi sono spiriti intermediari (come quelli in cui credono i Kikuyu e i Nuer) che consentono il legame con Waq: secondo essi non v’è semplicemente la pioggia o il tuono etc. bensì “Waq piove”, o tuona o fulmina attraverso i suoi spiriti intermediari. Così, quando Waq rifiuta di fecondare la terra portando la stagione secca e addiritura la siccità, ai Borana «uomini dell’aurora» (boru in lingua oromo significa “aurora”) e parte della grande famiglia oromo, non resta altro che rivolgersi agli spiriti intermediari nascosti nella terra. Qui la Madre Terra riacquista tutta la sua pregnanza: è l’elemento tellurico che i Sidamo venerano come Batta ed è l’elemento ctonio ravvisabile nel culto konso del serpente, che muta la propria pelle rigenerandosi ed è quindi associato ai simboli di fertilità. Così in certe antiche narrazioni etiopiche si narra di un serpente mostruoso (in un museo a 400 km da Addis Abeba ho visto una pelle di pitone lunga 9 metri e larga quasi mezzo metro) che spargendo il suo seme mise incinta una fanciulla che si bagnava nel fiume e poi, ucciso perché esigeva il sacrificio delle vergini, fecondò col suo corpo martoriato la terra donde la crescita del teff mentre il suo uccisore fondava una dinastia regale da cui infine venne la Regina di Saba. Il simbolo di fertilità, in questo caso raffigurato dal serpente, è anche emblematizzato presso molte popolazioni etiopiche ponendo un uovo di struzzo sul tetto delle capanne. Ma, non fecondata dal dio celeste, La Terra rimane sterile: oltretutto le onnipresenti termiti, che costruiscono termitai ovunque visibili alti più di tre metri, e talora anche cinque o sei metri, divorano la vegetazione e impediscono l’agricoltura (donde anche per ciò, per i Borana, la scelta della pastorizia e dell’allevamento). In realtà la terra dei Borana è un’arida savana. L’alternanza di siccità e di alluvione, fra eccesso e penuria di acqua, appare una sorta di gioco crudele del destino. Non a caso nel vicino Kenya i pastori e guerrieri masai e kikuyu chiamano l’essere supremo Ngai, che significa “Cielo” o anche “pioggia”, e distinguono in esso due aspetti: il volto nero e benefico del cielo scuro che preannuncia la pioggia e il volto rosso e cattivo del cielo infuocato che porta la siccità. I Masai ritengono che questa alternanza di doni e di disgrazie che proviene dal cielo sia l’effetto di una scissione nella divinità e di una lotta nel cielo: «il dio nero vuol dare l’acqua agli uomini, il dio rosso vuole trattenerla».34 Peraltro, se tutto è pregno di anime e di spiriti ovunque attivi e operanti, allora nulla in realtà avviene per caso: quelle che noi chiamiamo cause di 34

R. Pettazzoni, L’essere supremo nelle religioni primitive, cit., p. 66.

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un fenomeno sono solo occasioni suscitate da forze occulte che sole determinano veramente il fenomeno: da qui la diffusa credenza nella magia e nella stregoneria35. Così malattie, morti, disgrazie, e soprattutto la siccità, non sono causate se non apparentemente dalle cause seconde bensì sono intese come il prodotto di potenze, di influenze, di forze, di spiriti buoni o cattivi che, spesso mediati da incantesimi o malefizi, circondano l’uomo da ogni parte e tessono la trama della sua vita. Da ciò l’arcaica credenza che gli spiriti malefici apportatori di male e di sofferenza, di sfortuna e di disgrazie, possano con grande strepito e baccano e con apposite cerimonie essere cacciati dal villaggio a bastonate vibrate a vuoto nell’aria, oppure magicamente trasferiti e trasmessi in un animale, in una persona, in un oggetto, in un capro espiatorio ucciso o bandito dalla comunità che prende il male su di sé: il Frazer riporta vari esempi di credenze e pratiche tratti dalle più diverse culture, in cui periodicamente o in circostanze particolari i demoni e gli spiriti portatori del male se ne vanno via con un uccello liberato, con un’imbarcazione ricca di vivande abbandonata alla deriva, con la morte di una vittima sacrificale, fino al capro ebraico abbandonato nel deserto (e, si potrebbe aggiungere, all’agnello di Dio che assumendoli su di sé tollit peccata mundi).36 Ma come cacciare il male che affligge i Borana e far venire l’acqua? Al riguardo esistono gli stregoni. Perfino secondo uno studioso di etnologia come il De Martino non si può liquidare la magia come illusione ed errore logico in quanto non si può pregiudizialmente escludere (ed egli anzi afferma) la possibilità del possesso, da parte di particolari persone come gli stregoni, di certi poteri paranormali (di cui egli fornisce vari esempi) come la telepatia e la chiaroveggenza37. Certo riguardo la realtà dei poteri magici va detto che la salomonica risposta del De Martino (gli spiriti non esistono per la cultura occidentale ma esistono entro la cultura magica, il missionario non ha rubato la zucca secondo i criteri occidentali ma l’ha rubata per 35

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J. Frazer, Il ramo d’oro, cit.; M. Mauss – H. Hubert, Saggio di una teoria generale della magia, 1902-1903, in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino 1965, Einaudi; E. Evans Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, 1937 (tr. it. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Milano 2002, Cortina). J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 831-905 (su trasmissione del male, espulsione degli spiriti, capri espiatori). J. Kenyatta (La montagna dello splendore, cit., pp. 237-239) decrive la cerimonia dei Kikuyu sull’espulsione degli spiriti con i bastoni in termini molto simili ai resoconti del Frazer (tratti da Nuova Guinea, Australia, Africa occidentale, Bali). E. de Martino, Il mondo magico, I ed. 1948 (ora Torino 1973, Bollati Boringhieri).

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la cultura magica perché egli è stato visto in sogno durante il furto38) non può soddisfare, perché impregnata di relativismo culturale nell’ipotizzare due diversi ordini di verità con il supposto divenire storico interno alle categorie dell’intelletto dalla fase magica alla razionalità occidentale39. Ma in ogni modo è indubbia la credenza da parte della collettività nei poteri magici, come dimostrano anche i vecchi casi (attestati presso tribù australiane e africane) di persone dalla perfetta salute fisica e mentale che, convinti di essere incappati nelle trame di uno stregone o avendo violato per errore un tabù alimentare, colti da spavento e da terrore si lasciano morire per apatia e inedia nel giro di pochi giorni40. È indubbia la funzionalità dell’operazione magica, per chi vi crede. Così il Pollera nei suoi studi sulle popolazioni eritree riporta che in molte di esse nei primi decenni del XX secolo esistevano stregoni addetti a far piovere, a scongiurare le invasioni di cavallette etc. Lo studioso aggiunge che essi, prigionieri del proprio ruolo a cui non potevano sottrarsi, venivano riveriti dalle popolazioni e colmati di doni per i loro “successi” ma anche (secondo un’usanza abolita dal governo coloniale fascista) non di rado uccisi in caso di siccità o di carestia quando le loro pratiche magiche non avevano successo: nell’attesa della comunità infatti lo stregone deve saper dominare il corso della natura, deve saper imporre al Sole di splendere, alle nubi di dare la pioggia, alla terra e agli armenti di essere fertili, dando un buon raccolto a beneficio di tutti, e se questa attesa viene disattesa ne segue l’ira e la punizione. Per evitare questi pericoli spesso alla morte di uno stregone colui che era designato al suo posto (solitamente un figlio o un familiare), comprensibilmente riluttante alla carica, si nascondeva e fuggiva.41 Si comprende qui la parte di verità contenuta nel pensiero di De Martino. Di formazione crociana e razionalistica ma attratto dall’“irrazionale”, influenzato dal pensiero heideggeriano e dalle correnti esistenzialistiche, egli 38 39 40 41

Ivi, pp. 135-136 e 167 (ed. 1973). Ivi, pp. 157-164. Proprio questo punto suscitò la critica del Croce che difendeva l’unità della mente umana (i suoi due interventi ora in Il mondo magico, cit., pp. 240-253). M. Mauss, Effetto fisico nell’individuo dell’idea di morte suggerita dalla collettività, 1926, in Sociologie et antropologie, 1950, tr. it. in Teoria generale della magia e altri saggi, cit., pp. 327-347. A. Pollera, I Baria e i Cunama, cit., pp. 85-87, 137-139. Frazer cita molti casi di stregoni o maghi (e anche di re) che, caricati di aspettative perché ritenuti dotati di poteri taumaturgici in grado di garantire magicamente bel tempo (ovvero pioggia o sole a seconda della necessità) e buoni raccolti, corrono in caso di mancata realizzazione seri pericoli e spesso vengono uccisi (Il ramo d’oro, cit., particolarmente pp. 138-142, 170-173, 270).

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(anche proiettando sul contesto magico e primitivo la crisi e l’insicurezza esistenziale europea susseguenti alla seconda guerra mondiale) vedeva nell’uomo “selvaggio” una fragile identità, ben differente dal tradizionale Subjekt occidentale contrapposto all’Objekt: si potrebbe ricordare al riguardo la diffusa idea primitiva delle molte anime esistenti nel soggetto che ne minano l’unità (ma una tripartizione dell’anima si trova anche in Platone e Aristotele) o il rischio − percepito come reale − di perdere la propria anima per furto (donde le ricordate abitudini del nascondimento all’atto del pranzare). Esposto a difficili e talora drammatiche condizioni di vita e dunque alla minaccia del mondo l’uomo tradizionale avverte il rischio della perdita della propria presenza, del proprio Dasein: da qui il carattere rassicuratorio dell’azione magica in cui, attraverso lo stregone che nella sua discesa agli inferi spinge al limite nella trance la propria dissoluzione e poi la riscatta, l’intera collettività fronteggia e padroneggia la crisi placando l’angoscia esistenziale. La volontà di potenza insita nell’operazione magica, il sogno di dominare attraverso essa la realtà si rivelano per De Martino una formazione reattiva e difensiva, una risposta alla paura e all’angoscia dell’uomo esposto in tutta la sua fragilità al mondo. Tuttavia, di fronte alla sterilità della loro terra, i Borana non si limitano ad appellarsi allo stregone, a celebrare riti scaramantici, a effettuare offerte propiziatorie: essi infatti concepiscono tutte queste operazioni come coadiuvanti, che non possono sostituire la necessaria azione in cui si rivela la forza della volontà. Essi sanno infatti che la Terra, quella terra arida che ad esempio i non lontani Konso coltivano a fatica nelle loro colline a terrazze rendendola fertile, è in realtà nelle sue viscere ricca di doni preziosi: sanno che molto in realtà dipende dal lavoro umano. Così i Borana, al sud vicino al Kenya, conoscono bene il cratere vulcanico di El Sod. Questo vulcano invero è spento: da secoli non dà segni di vita e, come tutta la natura in questa zona, il suo cratere spento trasmette un’immagine desolata di una vita che, se fu, è ormai passata e lontana. Però il cratere vulcanico da molto tempo è diventato un piccolo lago e i Borana sanno che il laghetto vulcanico di El Sod, pur spento, è generosissimo di sale: all’interno del cratere, che è ora il piccolo lago, v’è un’acqua scura, una melma nerastra come una chiazza di petrolio o di catrame, una specie di grande occhio nero, che nasconde uno dei più grandi depositi naturali di sale dell’Etiopia e dell’Africa orientale. Come sappiamo, anche in Dancalia vi sono laghi salati. L’Africa orientale abbonda di laghi salati. Anche nel Kenya vi sono molti laghi salati. Il più ricco è il piccolo lago Magadi, che è il più meridionale di tutti i laghi della Rift Valley (a sud di Nairobi): esso, grazie all’evaporazione a 38° C dell’acqua ricca di minerali espulsa dalle profondità delle sorgenti calde,

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è quasi del tutto ricoperto da una crosta di sale, da uno strato minerale che conferisce al paesaggio una strana atmosfera lunare. In Kenya l’estrazione del sale (e della soda) ha dato origine a Magadi ad una ricca industria estrattiva, ma non altrettanto fra la povera e arretrata popolazione che vive nei pressi del lago di El Sod. Anche in Sudan, nel deserto di Bayuda, v’è un vulcano spento il cui cratere contiene ora un lago dalle acque scure sui cui bordi i nomadi Bisharin, come gli Afar, raccolgono il sale caricandolo su carovane di cammelli. Da parte loro i Borana in gennaio vanno al cratere, vi discendono con asini e muli e, nudi e immersi nell’acqua, estraggono dal fondo del lago grossi blocchi di sale nero. Il piccolo lago diventa un pozzo che anziché dare acqua dona sale, sale che i Borana, dopo aver fatto asciugare sulle rive, caricano a sacchi sui muli risalendo il cratere e tornando al villaggio donde poi sarà portato ai mercati per barattarlo in cambio di altri beni o viveri. Invece durante la temibile stagione secca, quando l’acqua del laghetto evapora e il cratere si secca, i Borana devono semplicemente scendere al cratere e raccogliere direttamente il sale depositato sul fondo evitando la dura fatica di cercarlo immersi nell’acqua. L’importanza di questo cratere spento è tale per i Borana che alcuni di essi si sono stanziati stabilmente in un villaggio costruito nelle sue immediate vicinanze, in modo da garantirne il controllo e riservare solo alle genti borana il diritto e l’esclusività del prezioso sale. Dunque i Borana sanno che la Madre Terra è ricca di beni preziosi nascosti nelle cavità e negli anfratti: il cratere vulcanico di El Sod ricco di sale ne è la testimonianza vivente. Parimenti i Borana sanno anche che, come la terra contiene il sale a El Sod, così essa custodisce nei suoi segreti meandri la preziosa acqua. Essi sanno con certezza che la loro terra, pur non esuberante in fertilità, non è il terribile deserto della Dancalia, ove gli Afar lottano quotidianamente per la vita: qui, nella terra borana, i laghetti ci sono e non bollenti e i fiumi anche, anche se per lo più asciutti. Del resto più a nord c’è il grande lago Chamo e il vicino lago Abaya, ad ovest il grande Omo River, e i Borana sanno che i confinanti Konso riescono sia pur faticosamente a rendere coltivabili le loro terre. L’acqua dunque c’è, ma è nascosta proprio come il sale giaceva dimenticato al fondo di un cratere spento: l’acqua c’è, ma la terra la trattiene nelle sue viscere rifiutando di portarla alla superficie e lasciando aridi e asciutti i letti dei fiumi e dei laghi che sono la testimonianza della presenza nascosta dell’acqua. E allora i Borana, alla ricerca disperata dell’acqua preziosa che il dio celeste Waq si rifiuta di inviare e che la Madre Terra custodisce gelosamente e avaramente in sé, scelgono la soluzione estrema che praticano ormai da cinquecento anni: se al fondo di un cratere spento c’è il sale, allora bisognerà scavare con le proprie mani

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nell’arida terra un cratere, anzi dieci crateri, cento crateri, per andare a stanare non più il sale ma l’ancor più preziosa acqua. Così i Borana da secoli cercano i luoghi umidi, laddove v’è un po’ più di vegetazione e dunque sicuramente dell’acqua nascosta. In migliaia essi hanno scavato con le mani nel terreno, perforato l’arida e dura roccia, spostato una pietra dopo l’altra e infine hanno costruito rudimentali tulas, pozzi profondi fino a trenta metri (36 metri il più profondo): essi prima costruiscono dall’alto in basso il cratere e il pozzo, poi scavano un tunnel per giungervi più agevolmente con gli animali, quindi penetrano nelle viscere della terra attraverso stretti cunicoli per trovarvi l’agognato nettare. Sono come minatori che scendono nelle profondità e nelle viscere della terra per cercarvi e per estorcervi non diamanti e pietre preziose, ma la più preziosa delle risorse, il bene più prezioso e introvabile: l’acqua. A questi pozzi i Borana conducono le loro mandrie che, indispensabili alla loro vita di allevatori, ogni giorno devono dissetarsi per non morire di sete, e raccolgono l’acqua per sé e per gli animali. Da cinquecento anni i Borana estraggono l’acqua in questo modo. Molte popolazioni, naturalmente, scavano pozzi in profondità per raccoglierne l’acqua (ad esempio dancali e somali). Ma soltanto i Borana, che io sappia, hanno trasformato la dura e faticosa ricerca dell’acqua in un rito, che è una cerimonia e una festa. Noi abbiamo potuto assistere all’evento della raccolta dell’acqua dai pozzi, che veramente è un rito: abbiamo dovuto pagare per assistervi ma non era uno spettacolo inscenato ad uso turistico come sembra talvolta avvenga, poiché siamo arrivati inaspettati ospiti ad uno dei pozzi (distante 14 chilometri dal cratere di El Sod) quando l’estrazione dell’acqua aveva già avuto inizio. Avvicinandoci al luogo, ci siamo dapprima inoltrati in una lunga galleria a cielo aperto scavata dai Borana che scende con lento digradare per almeno cento metri più giù nella terra, simile a certe gallerie etrusche. Questa rampa consente di giungere al pozzo conducendovi anche le mucche in una comoda e progressiva discesa. Alla fine della rampa, percorsa in compagnia di uomini e mandrie, abbiamo visto il pozzo. Era proprio un piccolo cratere, ma fatto dagli uomini e scavato dall’alto molti decenni or sono e certamente senza ruspe e macchine. Mentre scendiamo con gli uomini e le donne borana e le loro mucche nei pressi del cratere, attraverso la galleria in discesa, sentiamo sempre più chiaramente dei canti ritmati. Erano canti di lavoro, uno di quei canti ritmati che accompagnano le fatiche degli uomini su cui hanno scritto vari studiosi. Secondo H. Sperber − linguista vicino alla psicoanalisi − il linguaggio originario è il linguaggio del corpo e della sessualità; esso nasce dal richiamo sessuale, e mantiene sempre uno stretto rapporto con

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l’attività lavorativa collettiva: la sessualità e il lavoro sarebbero alle origini stesse del linguaggio; in particolare il canto ritmato di lavoro è una replica del ritmo del movimento pelvico nell’atto sessuale, tale da trasformare la fatica del lavoro in un piacere42. Scrive al riguardo Sperber: «credo di poter dimostrare verosimile come le primitive attività, eseguite con l’ausilio di strumenti di lavoro, fossero accompagnate da manifestazioni simili a grida di richiamo in quanto avevano intonazioni sessuali»43. In effetti, se arare la terra gettandovi il seme onde renderla fertile e far crescere la spiga è da sempre una metafora dell’atto sessuale e del concepimento, se pestare il sorgo col pestello nel mortaio cavo è una metafora dell’atto sessuale, allora anche lo scavare la terra, anche il produrre in essa delle cavità penetrando in esse onde estrarne l’acqua di vita potrà essere partecipe di un’analoga metafora sessuale. Certo, si può dire che gli psicoanalisti hanno sempre in testa quello. Ma anche l’antropologo Evans-Pritchard ha rilevato come i canti lascivi e erotici siano sovente connessi ad attività − spesso fra loro connesse − lavorative e cerimoniali. Egli sostiene che i canti licenziosi e osceni in cui i normali freni inibitori del pudore vengono sospesi sono socialmente consentiti quale sfogo non violento in occasione di eventi dolorosi (lutti) o carichi di tensione (iniziazioni) o − che è quanto qui ci interessa − in occasione di duri e faticosi lavori collettivi in cui l’attività sessuale, spesso temporaneamente probita dai tabù onde evitare la dispersione energetica, viene trasferita in modo compensatorio nel canto erotico e osceno in modo tale da alleviare la fatica44. Inoltre, il tempo del canto scandisce il lavoro, lo automatizza, lo allevia e lo velocizza: «i Ba-Thonga − scrive Evans-Pritchard − non sarebbero riusciti a trasportare tanto facilmente i tetti delle loro capanne né a pestare il miglio mentre cantavano se i loro movimenti, almeno in una certa misura, non fossero stati coordinati al ritmo delle loro canzoni. [...] Il valore funzionale del ritmo inoltre aumenta grandemente quando accompagna un lavoro collettivo; poiché organizza i movimenti di ogni lavoratore in armonia con tutta l’attività nel suo insieme. [...] Trasportare canoe, seminare, pescare, fondere, possono diventare operazioni estenuanti, e se sono eseguite in maniera efficiente lo si deve 42

43 44

H. Sperber, Über den Einfluss sexueller Momente auf Entstehung und Entwicklung der Sprache, in «Imago», I, 5, 1912, tr. it. L’influsso di istanze sessuali sul sorgere del linguaggio e sul suo sviluppo, in AA.VV., Feticismo, linguaggio, afasia, Marsilio 1977, Padova, pp. 159-201. «Imago» era la rivista diretta da Freud. Ivi, p. 165. E. Evans-Pritchard, Alcune espressioni collettive di oscenità in Africa, 1929, in La donna nelle società primitive e altri saggi di antropologia sociale, cit., pp. 71-99.

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in larga misura alle forme di alleggerimento della fatica consentita a chi lavora»45. Anche dopo l’incidente che ho raccontato, quando in alta montagna alla mia auto si ruppe la frizione, le persone che ci aiutarono cantavano ritmicamente − e noi con loro − nel sollevarla sul camion: And, Ulet, Sost! (Uno, due, tre!). Nel film Riso amaro di G. De Santis (1949) il duro e sottopagato lavoro delle mondine nelle risaie del vercellese, chine nell’acqua sotto il sole cocente e le punture degli insetti, viene per quanto possibile stemperato e allietato proprio attraverso i canti, attraverso cui deve passare ogni comunicazione: «non si parla sul lavoro − dice una anziana mondina a una neofita −. Se hai qualcosa da dire dillo cantando». E così avviene un duello a colpi di stornelli fra le mondine regolari e le clandestine che accelerano il ritmo di lavoro per essere assunte, ove alla mondina che canta (una indimenticata Silvana Mangano) altre ripetono e altre ancora rispondono in coro, con “botta-risposta”, “chiamo-richiamo”. Anche qui la connessione fra lavoro, sessualità e socialità è ben evidenziata: le mondine lavorano nel modo più duro ma anche se le raccontano, flirtano con i giovani scavalcando i muretti la sera, ballano ed eleggono “miss mondina” sullo sfondo della trama passionale del film. I canti di lavoro dei Borana ai pozzi li ricordo bene. Non so se fossero canti licenziosi come quelli di cui parlava Evans-Pritchard, ma in ogni modo l’aspetto che più mi ha colpito, l’elemento centrale, stava nel ritmo. Le parole del canto dei Borana non le ho intese (mi sembra anzi che non vi fossero parole) ma il ritmo, quello sì che l’ho inteso! Era un ritmo gioioso e vitale, e a me ricordava perfino vagamente il ritmo di una canzone rock dei Deep Purple: oh ohohoho ohohoho, oh ohoho ohohoh... E veramente vedendo dal vivo un canto ritmato durante un lavoro, duro e faticoso, ho potuto capire la cosa come in nessun testo erudito. Come con la musica strumentale, ancor più con la voce e il canto (che non impegnano le mani) la scansione ritmica e regolare del tempo facilita enormemente il lavoro: infatti vedo alcuni uomini borana che, calati seminudi all’imboccatura del pozzo fra le acque finalmente concesse dall’avara terra, ricevono secchi pieni d’acqua da altri uomini non visibili calati a decine di metri di profondità nelle viscere della terra, in una catena in progressiva discesa all’interno dello stretto cunicolo del pozzo; questi secchi pieni d’acqua e portati in alto dal fondo del pozzo in una catena umana vengono raccolti in superficie da altri Borana e da lì a loro volta trasmessi ad altri uomini che immediatamente li travasano in un abbeveratoio appositamente costruito ove a turno si dissetano una decina di mucche. Il lavoro in profondità è ri45

Ivi, pp. 97-98.

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servato agli uomini, ma alla superficie in alto collaborano anche le giovani donne del villaggio, devo dire davvero molto erotiche per l’acqua che ne rende trasparenti e aderenti le vesti. Al contempo, e con perfetto tempismo veramente degno del miglior ritmo rock, con perfetto feed-back retroattivo, gli uomini all’abbeveratoio, mentre ricevono con la destra il secchio pieno dagli uomini alla superficie del pozzo, restituiscono loro con la sinistra un secchio vuoto che a loro volta gli uomini all’entrata del pozzo rapidamente trasmettono sempre con la sinistra al primo uomo all’imboccatura del pozzo che immediatamente lo passa all’uomo più in basso nel cunicolo, sempre ricevendone un secchio pieno, fino all’ultimo uomo posto più in basso nel pozzo a decine di metri di profondità: in tal modo, passando di mano in mano in un continuo movimento, di continuo un secchio vuoto scende al pozzo e di continuo un altro risale pieno d’acqua. Si tratta dunque di una veloce ed efficiente catena di montaggio umana, di una sorta di catena tayloristica ove la macchina è l’impressionante forza lavoro umana, capace di estrarre (secondo i calcoli effettuati) 100 e più litri e in certi casi fino a 340 litri di acqua al minuto, e qui si capisce veramente la funzione insostituibile del canto ritmato: il ritmo del canto serve a rendere regolare e automatica la trasmissione dei secchi pieni lungo la catena con la mano destra dall’ultimo uomo in basso al primo in alto, e la parallela e concomitante trasmissione con la mano sinistra dei secchi vuoti dal primo uomo in alto all’ultimo in basso. Se non ci fosse un tempo e un ritmo cronometrato, quale quello dato dal canto, tutto il lavoro sarebbe più confuso, più caotico perché non sincronico, mentre così procede rapido e spedito. Poi naturalmente il canto di lavoro serve a dare forza ed energia, serve a dare la carica, e finisce veramente per trasformare in una sorta di festa quella che svolta in silenzio sarebbe la fatica disumana di una pura e semplice lotta per la vita. Ma in realtà il canto ritmato non soltanto semplifica il lavoro rendendolo automatico e scorrevole con perfetta sincronia e tempismo, così facendone una sorta di festa, bensì è realmente e veramente una festa: i Borana cioè cantano non soltanto perché il ritmo del canto consente loro come una sorta di droga di allievare la fatica, bensì cantano perché sono veramente felici. Essi sono felici e cantano perché hanno trovato l’acqua, quell’acqua che le divinità del cielo e della terra rifiutano di dare pur possedendone in quantità, sono felici perché l’acqua c’è, perché essa anziché essere piovuta dal cielo è venuta dalla terra quale frutto del loro lavoro, della loro intelligenza, della loro perspicacia, sono felici perché gli animali bevono e lo spettro della morìa e della siccità è allontanato, in una parola: sono felici perché hanno risolto nel miglior modo possibile il loro problema, che è la carenza d’acqua in una terra poco generosa.

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La cosa paradossale in tutto ciò è che, mentre i Borana con grande fatica alleviata e allietata dal canto estraevano l’acqua dalle viscere della terra, nello stesso tempo appena un centinaio di chilometri più ad ovest l’Omo River paurosamente si gonfiava, trasbordava e invadeva le terre alluvionandole con una enorme quantità d’acqua, mietendo centinaia di vittime e privando le popolazioni anche delle loro misere abitazioni in paglia e fango. Forse è proprio per questo motivo che i Borana, pur essenzialmente nomadi, non hanno voluto emigrare sulle più verdeggianti rive dell’Omo. Come conseguenza di questa drammatica alternanza fra siccità e carenza d’acqua da un lato e profluvio di acqua torrenziale e distruttiva dall’altro, queste popolazioni sembrano connettere una duplice e opposta valenza all’acqua, benefica e distruttiva. Da un lato, è forte la convinzione che anche la terra più apparentemente arida non sia veramente tale, e che un pozzo scavato nell’arida terra possa rivelare miracolose riserve d’acqua; dall’altro lato, è altrettanto forte il timore che l’acqua donatrice di vita e vittoriosa sulla siccità sia la stessa acqua che può divenire furia devastatrice. Non a caso, come abbiamo visto, i Masai e i Kikuyu del Kenya vedono nel dio Ngai un doppio volto, benefico e malefico, apportatore di doni come di sventure; si ricordi del resto il timore delle popolazioni litoranee africane per le perigliose acque del Mar Rosso, a cui gli Afar hanno addirittura preferito la fuga nel deserto. Questa ambivalenza percettiva, questa compresenza e intrinseca connessione fra gli opposti conduce a vedere la stessa apertura di un pozzo come una pericolsa liberazione di energie telluriche e nettuniche devastanti e negative. Una leggenda raccolta fra gli indigeni dancali dal Franchetti narra al riguardo che in una zona della Dancalia, ove ora è un terribile deserto, era un tempo un’oasi fertile di pascoli e ricca di greggi. Al centro di quest’oasi era un pozzo miracoloso, che forniva inesauribilmente l’acqua necessaria a rendere paradisiaca quella terra. V’era però un tabù, un divieto assolutamente cogente: nessuno poteva guardare nelle profondità abissali di quel pozzo. Un triste giorno però la giovane e bellissima figlia del re locale, mossa da femminile curiosità, volle guardare nel pozzo vietato trasgredendo il tabù e l’ordine divino: immediatamente − raccontò quasi con spavento un cammelliere locale − «l’acqua traboccò dal pozzo così travolgente e impetuosa che in poco tempo tutta la bassura ne fu inondata, annegando popolazioni ed armenti». Sul luogo si formò un lago di morte, un desolato lago salato dall’acqua densa ed amara, al cui centro rimase quasi come monito un isolotto su cui era il pozzo tragico: il lago e l’isolotto erano diventati sacri, e nessuna guida indigena volle accompagnare l’esploratore che vi si diresse da solo con una piccola imbarcazione46. Al ri46

V. R. Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit., p. 257.

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guardo v’è anche un antico mito australiano che parla dell’acqua di un pozzo che, avendo una cornacchia incautamente dimenticato di richiudere la pietra che lo ricopriva dopo essersi dissetata, fuoriuscì in modo incontenibile dando origine a tutti i fiumi e i laghi di un’ampia zona dell’Australia. In queste leggende, evidentemente, la bocca del pozzo è, proprio come la bocca dei vulcani disseminati ovunque in Dancalia, qualcosa che rimanda a un fondo abissale e terrifico, che contiene terribili energie latenti in grado di sprigionarsi e di eruttare da un momento all’altro seminando scompiglio e rovina: guardare nel pozzo è come guardare in un cratere e ancor più è esporre la propria vita agli spiriti maligni che immediatamente si impossessano della propria immagine riflessa trascinandola sott’acqua e facendo con ciò morire sia l’immagine che la persona che la riflette; guardare in un pozzo è vedere come in uno specchio di Dioniso la propria immagine riflessa ma deformata al fondo e questo conduce alla morte Narciso, e urlare o bisbigliare in un pozzo significa evocare una eco rimbombante e minacciosa. V’è un brano straordinario di D’Annunzio in cui il poeta ricorda, con tutto il suo proprio compiacimento estetizzante e decadente, l’orrore infantile provato nel suo guardare al fondo del pozzo tuttora visibile nella sua casa natale di Pescara. Guardare, parlare, urlare in un pozzo o in un cratere significa evocare e suscitare la collera divina e naturale, cosicché una bocca erutta lava incandescente, un’altra un diluvio apocalittico. Le viscere della terra contengono il Fuoco e l’Acqua, due elementi opposti ma complementari ed entrambi possono essere distruttivi. Non a caso i Maya, i cui insediamenti erano sempre disposti nei pressi di pozzi naturali o artificiali profondi decine di metri (in un caso 140 metri), gettavano delle persone nei loro pozzi, insieme a preziosi oggetti d’oro, offrendole in sacrificio agli dèi dell’acqua per placarne l’ira. I pozzi dunque, come i crateri della terra, contengono energie ambivalenti. Ma, soprattutto, essi non sono eterni e le loro riserve d’acqua non sono inesauribili. Attualmente infatti i pozzi ancora funzionanti, da 35, sono solo nove: negli altri, sfruttati e spremuti fino all’ultima goccia, l’acqua non c’è più. E quando un solo pozzo, come accade a Teltele, deve servire a più di 50.000 persone, la situazione diventa drammatica. Ritorna così lo spettro della siccità e della morìa, che ci si illudeva di aver fugato. Attualmente i Borana soffrono ancora le devastanti conseguenze di una grave carestia e siccità che li ha colpiti nel 1999, quando morì la quasi totalità del bestiame e la quasi totalità dei raccolti fu distrutta. Ormai devono dipendere in larga misura dagli aiuti umanitari e dalle “Organizzazioni non governative” (Ong) per sopravvivere, e questa crisi li ha fiaccati non solo materialmente, ma soprattutto psicologicamente e spiritualmente.

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Da qui la rinnovata esigenza di migrazioni: i Borana sono essenzialmente nomadi che tre o quattro volte l’anno trasportano le loro capanne smontabili spostandosi anche di un centinaio di chilometri. Quando l’acqua si esaurisce, quando la terra diventa totalmente arida, quando imperversa la siccità, quando i pascoli sono stati del tutto sfruttati, quando nemmeno i pozzi danno più acqua, allora i Borana abbandonano quelle terre da cui ormai non si ricava più nulla ed emigrano o temporaneamente, finché quella terra non torni produttiva, o definitivamente. Queste popolazioni lottano continuamente per la vita in un ambiente ostile e per questo sono nomadi: esse sono costrette a continue migrazioni dall’esaurimento dei pascoli, dalle necessità della transumanza, dalla siccità che periodicamente costringono all’abbandono delle terre e impediscono insediamenti stanziali. Senonché, proprio questa continua migrazione, proprio questo continuo andare altrove alla ricerca dell’acqua e dello “spazio vitale”, porta queste popolazioni ad invadere terre già sottoposte ad insediamento o a lottare per la stessa terra in competizione con altre tribù: i Borana fatalmente entrano in terre occupate da altre popolazioni invadendone il territorio e se queste popolazioni a loro volta hanno trovato una terra pascolabile e idricamente meglio rifornita, si guarderanno bene dal cederla. Questo, fatalmente, comporta conflitti con queste popolazioni (oltre che con i grandi allevatori i cui campi recintati bloccano la transumanza). Da qui, da questa situazione insostenibile, derivano scontri sanguinosi, oggi acuiti dalla facile reperibilità di armi automatiche al posto delle vecchie lance: in ogni momento può scoppiare fra le tribù un conflitto per un pascolo o per una fonte d’acqua, in ogni momento queste tribù possono essere attaccate o possono attaccare, in ogni momento esse possono rubare gli armenti altrui ed in ogni momento i propri armenti possono essere rubati. Tutte le guerre tribali sono oggi in Africa, come ieri, guerre per le risorse. Un dato clan borana è disposto a spartire l’acqua, anche la poca acqua rimasta, con un altro clan borana: la solidarietà tra clan borana è ammirevole. Ma questa solidarietà borana non si estende ad altre popolazioni. Di conseguenza, la lotta per lo “spazio vitale”, la lotta per l’accaparramento, il controllo e lo sfruttamento delle risorse, ovvero dei pochi pascoli e delle acque, delle poche fonti idriche, diventa accanita e sanguinosa. La guerra appare come una necessità vitale. Da secoli i Borana non sono solo costruttori di pozzi ma anche guerrieri: nel XIX secolo essi hanno sterminato gli Arsi, pur essendo essi pure di discendenza oromo. Anche i guerrieri borana sono usi − come tutti gli oromo e tutti gli abissini − all’evirazione del nemico ucciso. Nella loro tradizione l’iniziazione di un giovane e la sua trasformazione in uomo consiste anzitutto nel dare prova di essere un diira,

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un guerriero, e questa prova di iniziazione può dirsi compiuta solo quando il giovane avrà fatto il suo battesimo del fuoco ed avrà ucciso un nemico. Per antica tradizione presso i Borana solo il guerriero che ha ucciso almeno un nemico può indossare orecchini, e poi via via con il numero delle vittime collane e bracciali d’avorio. Del resto la cosa vale per molti se non per tutti i popoli tradizionali: il guerriero Afar, come si è detto, si fregia di una penna per un nemico ucciso, per due si strappa un lembo d’orecchio e per più di dieci nemici uccisi ha diritto al bracciale di ferro. Presso i Nuer le scarificazioni maschili sono cicatrici rituali emblema di coraggio e forza: le devono subire già da ragazzi, ma per tradizione il diritto di fregiarsi di particolari scarificazioni in età adulta è subordinato ad un’ulteriore dimostrazione di coraggio e di forza previa uccisione di un nemico o di un animale pericoloso. Fino a pochi decenni fa le razzie (le zemeccià) erano per questi nomadi viventi in terre povere addirittura richieste e programmate dal sistema sociale. L’antico sistema Gada dei Borana e di molte popolazioni centroafricane (Masai, Kikuyu etc.), riservato ai maschi, è basato sulla scansione della vita a seconda della fascia di età con un passaggio attraverso cicli di otto anni47. Ogni uomo cioè a partire dalla nascita attraversa cinque fasi della vita ciascuna della durata di otto anni48: il passaggio al terzo gada ai 24 anni consentiva il matrimonio ma non il diritto ad avere figli (che, se nati, venivano impietosamente abbandonati nella boscaglia), mentre il passaggio al quarto gada consentiva ad un uomo sposato giunto a 32 anni di generare figli. Ma è solo al compimento del quarantesimo anno che l’uomo della tribù, passando al quinto gada aveva e normalmente ancora ha il diritto di essere considerato anziano con tutta l’autorità e i privilegi che ne derivano (non sembri strano che un uomo di 40 anni sia considerato anziano poiché l’età media in queste popolazioni non supera i cinquant’anni): egli potrà assumere un ruolo politico e decisionale e avrà la possibilità di esprimere il proprio parere nelle assemblee di villaggio, solitamente tenute all’ombra di un gigantesco sicomoro (a volte le si vede in lontananza pas47

48

Vedi B. Bernardi, I sistemi delle classi d’età, Roma 1984, Loescher; F. Stewart, Fundamentals of Age-Group Systems, New York 1977, Academic Press. Anche fra i Sidamo vi è (per quanto attualmente attenuato) un sistema simile al gada (il sistema luva) in cui la vita è scandita in cinque fasi. Il museo etnografico di Addis Abeba è stato intelligentemente pensato con criteri che si rifanno ad una sorta di sistema gada in quanto non vi si segue alcun labile criterio cronologico bensì i reperti documentano il ciclo vitale degli uomini delle popolazioni tradizionali secondo le fasi biologiche (nascita, infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia, morte).

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sando per le piste impolverate). Per lo più in questo sistema gli individui ammessi ad una data classe sono quelli nati entro un dato numero di anni consecutivi, cosicché essi possono essere interni ad una data classe ma non coetanei (la distinzione per età all’interno di una data classe è stabilita attraverso differenti gradi interni), ma in ogni modo il principio rimane lo stesso. In una di queste assemblee, ogni otto anni, si elegge un capo che governerà il villaggio con la cooperazione e il parere degli anziani in un sistema politico che è fra i più democratici di tutta l’Africa, anche perché la gerontocrazia è resa impossibile dal fatto che, allo scadere del mandato di otto anni, il gruppo dirigente se ne va “in pensione” cedendo il posto alla nuova classe entrante. Tuttavia il passaggio al quarto gada, in attesa di giungere al quinto, è soltanto la premessa per poter avere una famiglia con figli e per contare nel villaggio in quanto in realtà la possibilità di una migliore “sistemazione”, di una discendenza e di un buon peso decisionale non è qualcosa di semplicemente automatico dovuto al passaggio dal terzo gada al quarto bensì richiede la previa dimostrazione del proprio valore e in particolare − ancora oggi − la prova di essere un guerriero: alle razzie è possibile partecipare entrando nel secondo gada a sedici anni, ma l’antica tradizione dei Borana vuole che solo chi ha ucciso un uomo, e non semplicemente chi “ha partecipato” ed è giunto a 32 anni, abbia la facoltà non semplicemente di sposarsi ma anche di fare un matrimonio di prestigio e di essere “utilmente collocato” in società. Ne segue una catena infernale: occorre dimostrare di essere un guerriero. Per dimostrare di essere un guerriero, naturalmente, bisogna combattere. Per combattere, bisogna trovare un nemico e all’uopo risponde una qualsiasi tribù vicina o un qualsiasi pastore che casualmente si trovi nelle vicinanze con le sue pecore. E siccome il Gada è un passaggio che concerne non un individuo ma tutti gli individui maschi di una data età (o di una data fascia di età) cosicché gli appartenenti allo stesso gada, un po’ come i coscritti di leva di una stessa annata, costituiscono un gruppo affiatato e scalpitante per ottenere il proprio posto nella società, allora ogni otto anni, per festeggiare il battesimo di fuoco di tutti gli uomini entrati nel quarto gada, occorre fare una guerra speciale (il butta) anche se da null’altro motivata se non dall’esigenza degli aventi diritto a fare il battesimo del fuoco quale cimento per il loro futuro destino nella società. E poiché i Borana sono una grande etnia di 300.000 persone, ne derivano non solo delle semplici razzie ma delle vere e proprie guerre che vedono impegnati migliaia di combattenti. Oggi invero la rigidità del sistema Gada, fino ad un secolo fa integralmente in uso presso tutte le tribù oromo in tutte le sue rigide prescrizioni, è attenuata. Esso è molto alterato ed è ormai caduto in disuso, diluito in un

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meccanismo di periodica elezione assembleare di un capo: di fatto presso i Borana oggi i giovani si sposano e procreano anche molto prima dei 32 anni ed è possibile per un uomo, giunto o meno al quarto gada, sposarsi senza dover uccidere qualcuno. Ma il fatto è che spesso, e sempre più negli ultimi decenni, mentre divengono più rare le guerre fatte senza un vero e impellente motivo, quasi per gioco e solo per rispettare le scadenze del Gada, aumentano invece sempre più i conflitti determinati da situazioni drammatiche. Ecco dunque, con la siccità e la cronica carenza di risorse, la “guerra dell’acqua”, fatta di infiniti scontri con i vicini Hamer e con tante altre popolazioni e tribù. Ora il conflitto non deve più essere procrastinato di otto anni in otto, bensì assume una frequenza molto maggiore: due, tre, più volte all’anno e a volte diventa quotidiano. Così, in queste drammatiche condizioni, passo dopo passo, nella loro ricerca spasmodica dell’acqua i Borana non mostrano più il volto laborioso ed alacre dei lavoratori dei pozzi bensì il volto di feroci ed efferati assassini: né fra le due cose v’è contraddizione alcuna, in quanto il faticoso lavoro ai pozzi e il sanguinoso conflitto sono semplicemente due vie diverse come una “via della mano destra” e una “via della mano sinistra”, entrambe percorribili a seconda delle circostanze per ottenere lo stesso fine prioritario che è semplicemente la sopravvivenza. Così, all’alba del 12 luglio 2005, dopo un anno di ricorrenti scaramucce con varie vittime da ambo le parti negli scontri, duecento guerrieri borana, la cui tribù era sconfinata in Kenya, armati di fucili, lance e machete, hanno fatto irruzione a Turbi in un villaggio dei Gabra e, approfittando dell’assenza degli uomini che avevano condotto le mandrie al pascolo, hanno fatto razzia e massacrato 22 bambini che andavano a scuola e poco dopo altre 40 persone, per lo più donne; sul terreno, nel successivo scontro a fuoco con la polizia, hanno lasciato dieci persone e numerosi feriti. La tecnica di guerra, come sempre per queste popolazioni, non è quella dello scontro aperto e frontale bensì quella dell’agguato a sorpresa, spesso notturno o poco prima dell’alba, con incendio delle tende e immediato massacro (in questo caso i Borana hanno attaccato più tardi per via delle tradizioni nomadiche che all’alba allontanavano gli uomini per il pascolo)49. Ormai, in questa lotta aspra per la sopravvivenza, tutti diventano nemici: anche i Gabra, che un tempo erano alleati e con cui i Borana sono legati da vincoli di parentela essendo anch’essi (come un tempo gli Arsi) della stessa etnia oromo. All’efferato massacro seguì pochi giorni dopo l’ovvia ritorsione dei Gabra che causò dieci morti fra cui 49

Sulle tecniche belliche delle popolazioni tradizionali v. L. Levy-Bruhl, La mentalità primitiva, cit., pp. 321-324.

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quattro bambini, mentre migliaia di persone fuggivano dai villaggi. Ma la situazione è endemica e ricorrente in questa landa kenyota: in queste stesse terre, pochi mesi prima e per gli stessi motivi, una tribù somala di Murule aveva sconfinato assalendo e sterminando una trentina fra donne e bambini in un villaggio dei Garre; e negli anni precedenti dopo una grave siccità nel 1996 una violenta disputa fra Samburu e Turkana dovuta a furti di bestiame e a contese per i pascoli degenerò (sempre complice il possesso di moderne armi da fuoco facilmente reperibili) in un violento conflitto con centinaia di vittime, che richiese l’intervento dell’esercito. Si noti che in questi casi lo sterminio delle donne e dei bambini è voluto e ricercato: si tratta infatti di colpire anzitutto proprio le donne produttrici di vita e i bambini destinati a diventare uomini rivali. Proprio per questo il governo etiopico e le Ong cercano di eliminare o almeno di ridurre la pastorizia vedendo in essa un ostacolo allo sviluppo economico e soprattutto un elemento di instabilità stante il nomadismo foriero di conflitti. Alcuni Borana cercano nuove vie, nel commercio o attraverso un definitivo stanziamento, ma la cosa non è facile: cosa commerciare, e dove mettere radici? Molti altri infatti, come spesso avviene fra i popoli nomadici, si sentono legati alle loro tradizioni, amano la libertà, rifuggono dal duro e pesante lavoro dell’agricoltura che costringe a chinarsi per terra, e non vedono alternative alla pastorizia e al nomadismo. Essi si dicono anzitutto pastori e dicono che continueranno ad essere pastori; ma dicono anche di essere guerrieri e dicono che, quando una terra diventa improduttiva e l’acqua manca, non v’è altro da fare se non abbandonarla e andarsene, anche a costo di conquistare il diritto alla vita negando con le armi in pugno il diritto altrui.

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I LACCI DELLA FAMIGLIA E DELLA PARENTELA E LE CERIMONIE DI PASSAGGIO: LA FRUSTA DEGLI HAMER

Le tribù costituenti le popolazioni arcaiche sono formate dalla riunione di clan familiari, in un complesso sistema di parentele. È ben noto il ruolo fondamentale esercitato dalla parentela nelle società arcaiche e tradizionali. Per questo uno dei temi principali dell’antropologia e dell’etnologia è sempre stato lo studio dei complessi sistemi di parentela1. L. Morgan studiò sul campo i «Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family» (1871) presso gli Irochesi e i Sioux (ma anche presso alcune popolazioni australiane previo invio di questionari): il suo fu il primo tentativo scientifico di classificazione dei sistemi di parentela. Quindi W. Robertson Smith scrisse su «Kinship and Marriage in Early Arabia» (1885), W. Rivers effettuò ricerche in Melanesia sulla «Kinship and Social Organization» (1914), A. Kroeber scrisse su «Classificatory Systems of Relationship» (1909), R. Lowie su «Exogamie and the Classificatory Systems of Relationship» (1915), A. Radcliffe-Brown analizzò le regole strutturali la cui combinazione costituiva il sistema della parentela nelle società aborigene australiane (The social organization of Australian Tribes, 1931) e africane (African Systems of Kinship and Marriage, 1950), E. Evans-Pritchard scrisse un libro su Kinship and Marriage Among the Nuer, C. Lévi-Strauss dopo aver studiato i Bororo brasiliani analizzò la struttura generale della parentela in Les structures elementaires de la parenté (1949), H. Geertz analizzò il «Kinship in Bali» (1975).2 Del resto, senza bisogno di andare fra i Bororo o gli aborigeni, è sufficiente conoscere nella nostra società le culture contadine (particolarmen1

2

Per una antologia di testi antropologici sulla parentela v. F. Remotti (a cura), I sistemi di parentela, Torino 1974, Loescher. V. anche F. Héritier, L’exercice de la parenté, 1981 (tr. it. L’esercizio della parentela, Bari 1984, Laterza) e M. Arioti, Introduzione all’antropologia della parentela, 1995 poi Bari 2006, Laterza. Per quanto riguarda lo studio dei sistemi di parentela nelle società africane si veda A. Haji, Les Oromo. Étude des systemes de parenté et echanges matrimoniaux, 1986, Tesi di Laurea discussa alla Sorbona di Parigi (copia rinvenibile ad Addis Abeba all’Institute of Ethiopian Studies).

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te nel mezzogiorno d’Italia) per vedere che i contatti e la frequentazione nell’ambito della parentela sono molto più stretti, anche per la vicinanza fisica, che non nella cultura urbana dove tali rapporti appaiono più diluiti e assai meno importanti: nelle culture contadine spesso si vive tutta la vita fianco a fianco dei parenti a cui invece nelle culture urbane si fa visita una volta l’anno. Ad Addis Abeba, che è una grande metropoli urbana in cui tuttavia ampia parte della popolazione proviene dal contado o vi ha i parenti, con conseguente permanenza di certe abitudini, colpisce molto la pratica del saluto fra le persone: mentre da noi tutto si risolve in un rapido e formale “come stai?”, viceversa gli etiopi ogni volta che si incontrano, dopo essersi scambiati un triplice bacio sulla guancia a partire dalla destra o un contatto della spalla destra fino ad incunearsi nella spalla sinistra del conoscente, si profondono in lunghi saluti non formali consistenti in domande molto precise su come stai tu, come stanno i tuoi genitori, i tuoi fratelli, le tue sorelle, su come è andata la semina in campagna etc. (“Stai bene?” “Bene, grazie a Dio. E tu?” “Bene, grazie a Dio. Tua madre sta bene?” “Sì, tutto bene, grazie a Dio. E tuo fratello?” etc.): saltare questi “preliminari” − che in realtà non sono tali − risulta per essi estremamente sgarbato e maleducato, e in uno straniero è perdonato solo per via della sua ignoranza delle consuetudini. Un incontro in Etiopia non può cominciare senza tutti questi preliminari, e spesso finisce una volta che essi siano esauriti, come se null’altro di importante vi fosse da dire oltre lo scambio di notizie sui propri rispettivi cari. D’altra parte bisogna capire che in una società dove ancor oggi la durata della vita media si attesta sui cinquant’anni e ove vige una cultura del contado non è affatto un puro pro forma chiedere come sta la madre o come è andata la semina. In particolare colpisce la modalità con cui nel «rito del saluto» una persona di rango inferiore esprime rispetto nei confronti di un superiore porgendogli la mano, modalità peraltro non limitata all’Etiopia poiché un etnologo l’ha riscontrata tale e quale nel paese dei Dogon, nel lontano Mali all’altro capo dell’Africa: «quello che vuol usare rispetto all’altro si prende con la sinistra l’avambraccio destro, curvandosi leggermente».3 L’importanza della parentela diretta o acquisita e dei suoi codici nelle popolazioni tradizionali è comprovata anche dall’importanza data alla genealogia. Quanti di noi uomini occidentali urbanizzati sanno chi era e cosa faceva il padre del padre del proprio padre o la madre della madre della propria madre, o chi era o cosa faceva il fratello del proprio nonno o della propria nonna? Ben pochi sanno del bisnonno o della bisnonna, e 3

P. Coppo, Guaritori di follia. Storie dell’altopiano dogon, cit., p. 73.

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parimenti ben pochi sanno dei parenti dei nonni, anche se le leggi della genetica e dell’ereditarietà stanno lì a ricordarci che noi siamo comunque biologicamente condizionati da queste persone da cui abbiamo ereditato brandelli e frammenti di codice genetico. Direi che soltanto nelle famiglie nobiliari (talora anche di piccola nobiltà) si conserva la conoscenza genealogica, e questo perché in essa consiste il prestigio della famiglia e del casato anche se magari decadente e spiantato. Nell’antica Roma il patrizio era precisamente una persona che si sentiva parte della sua gens, di cui aveva piena conoscenza anche a ritroso nel tempo, mentre invece il plebeo era colui che non aveva una storia genealogica significativa alle spalle, e spesso non la conosceva nemmeno. Il disprezzato “figlio di nessuno” (un tempo bollato all’anagrafe come “n.n.”) era precisamente il disgraziato che non poteva ricostruire nessuna storia personale e che, non sapendo da dove veniva, nemmeno sapeva chi era. Ora, noi uomini urbani occidentalizzati rischiamo tutti di diventare, in un certo senso, “figli di nessuno”, incapaci di risalire al di là dei propri genitori o, quando va bene, dei nonni. La cosa non deve peraltro suscitare moralistiche condanne: noi abbiamo sviluppato un più forte senso dell’individualità, sappiamo che i legami dello spirito possono essere più forti di quelli volgarmente e impropriamente detti “del sangue”, sappiamo quanto la parentela sia spesso soffocante e noiosa e tale da frenare il nostro cammino. Fortunatamente noi non abbiamo alcun bisogno di rinforzare e allargare i legami di parentela per condividere nella disgrazia, nella carestia o nella siccità, il pezzo di montone o la catena dell’acqua. Però scotomizzando il preambolo della nostra storia rischiamo di non capirla più: lo stesso detto per il quale “alle origini di ogni grande casata c’è un ladrone”, se può esprimere una cruda verità, esprime però anche indubbiamente il disprezzo democraticistico che la nostra cultura riversa verso le genealogie. Invece nei popoli tradizionali la conoscenza dell’albero genealogico (anche nelle più complicate diramazioni e linee collaterali) è importantissima e − anche se custodita soprattutto nella memoria dagli anziani e dai capi − in realtà riguarda tutti, ricchi e poveri, potenti o meno che siano. Essi conservano lunghe genealogie dei loro antenati, che risalendo a ritroso le generazioni e il tempo sfumano spesso in un mitico antenato e padre fondatore. Né la cosa riguarda solo i singoli, i singoli clan e le singole famiglie, bensì riguarda l’intera comunità, l’intero villaggio che celebra ritualmente la propria discendenza, al di là delle singole componenti, da un’origine mitica. La parentela nelle società tradizionali non è soltanto la famiglia nucleare, bensì un sistema complesso e allargato in parte basato sulla consanguineità

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e in parte basato sulla parentela d’acquisto per alliance matrimoniale (secondo la terminologia di Lévi-Strauss). Il caso indubbiamente più eclatante al riguardo era costituito, in tempi lontani, dai grandi patriarchi biblici: uomini con magari dieci mogli e decine e decine di concubine, con cinquanta o cento figli fra legittimi e naturali, con uno sterminato numero di nipoti e pronipoti, e centinaia di parenti per acquisizioni matrimoniali. In questi casi si costituiva una numerosa tribù i cui membri erano tutti legati dai vincoli del sangue e/o della parentela ma, anche senza giungere a questi esempi quasi mitici, in tutte le società tradizionali la tribù è in ampia parte intessuta dalla fitta trama della parentela. In questo sistema, i rapporti fra parenti possono essere anche più importanti del rapporto genitore-figlio: Morgan notava che fra gli Irochesi un individuo chiama “padre” lo zio fratello di suo padre e “madre” la zia sorella di sua madre, e a sua volta lo zio chiama “figlio” il nipote figlio del fratello e la zia chiama figlio il nipote figlio di sua sorella, mentre i cugini figli dello zio o della zia si chiamano fra loro “fratello” e “sorella”: in queste società per un uomo i figli dei suoi fratelli e per una donna i figli delle sue sorelle sono come i suoi figli, e viceversa per questi figli essi sono come padri e madri. Viceversa un uomo chiama nipoti i figli delle sue sorelle, e questi lo chiamano zio; una donna chiama nipoti i figli dei suoi fratelli, ed essi la chiamano zia; i figli di una donna e quelli di suo fratello si chiamano tra loro cugini e cugine. Morgan denominò “sistema classificatorio” questo sistema che (in linea matrilineare o patrilineare) può fondere in uno stesso termine sia il parente in linea diretta sia il parente in linea collaterale (il padre e lo zio, il cugino e il fratello) e denominò “sistema descrittivo” quello vigente in Europa in cui invece vige una separazione terminologica fra i due tipi di parenti, anche se in un senso più profondo tutti i membri di una stessa tribù irochese, ancorché ripartiti in una delle loro cinque nazioni, si consideravano (al di là della effettiva consanguineità) fratelli fra di loro4. Da parte sua Radcliffe-Brown rilevò che in certe tribù indiane nordamericane, come peraltro in certe popolazioni africane bantù, la cugina figlia del fratello della madre viene chiamata “madre”, mentre gli zii fratelli o sorelle del padre vengono chiamati entrambi “padre” o “madre”. In taluni casi (in culture asiatiche, africane, australiane) le sorelle della madre, le cugine matrilineari e le loro figlie sono tutte chiamate “madri” e tutti i figli di fratelli e sorelle (senza distinzione alcuna fra maschio e femmina) sono fratelli e sorelle. Risulta così, quale comprova di uno stretto legame, che in molte di queste società gli zii, i nipoti, i cugini sono chiamati padre e madre, figli, fratelli e sorelle. 4

L.H. Morgan, La società antica, cit.

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Gli evoluzionisti (a partire da Morgan) hanno voluto vedere in questo la sopravvivenza di un sistema matrimoniale arcaico: a loro giudizio, se un uomo chiama “figlio” il figlio di suo fratello, questo significa che un tempo la moglie di suo fratello era anche sua moglie; le terminologie “confusive” sarebbero così la traccia dell’usanza arcaica del matrimonio poligamico con la moglie del fratello o con la figlia del fratello della moglie oppure con la vedova del fratello della madre e, più in generale, di un’arcaica libertà e promiscuità sessuale soprattutto entro il cerchio parentale, di cui rimarrebbe traccia nella relativa libertà sessuale ravvisabile in molte di queste popolazioni soprattutto a discendenza matrilineare: si è parlato così − rintracciandovi un ordine stadiale − di eterismo e afroditismo (Bachofen), di comunismo delle donne (Engels) e di matrimoni consanguinei e di gruppo (McLennan e Morgan, secondo cui i matrimoni erano fra fratelli e sorelle nonché fra fratelli che si spartivano le mogli e sorelle che si spartivano i mariti); in ciò sarebbe ravvisabile l’origine spuria della famiglia con successivo passaggio alla famiglia monogamica. Ad esempio in una situazione di poliandria i figli non possono che considerarsi fratelli, così come in regime di poligamia. In questo senso vi sarebbe stato un passaggio dal più primitivo sistema classificatorio, caratterizzato da un’indistinzione e confusione arcaica (fusione di parenti) rivelatore di originari legami sessuali, al più evoluto sistema descrittivo occidentale capace di precise distinzioni concettuali (distinzione di parenti) e precise scelte sessuali. Ma in realtà non si vede in queste popolazioni − come praticamente in nessuna fra le popolazioni tradizionali conosciute − traccia alcuna di tutto ciò. La nomenclatura dei popoli tradizionali non testimonia alcuna “indistinzione mitica” e alcuna “confusione simbiotica” arcaica e primitiva: infatti, mentre in inglese il termine “zio” vale per due distinte tipologie di persone, viceversa spesso quelle lingue, accusate di confusione concettuale perché non distinguono lo zio dal padre, distinguono invece accuratamente con due termini diversi lo zio fratello del padre e lo zio fratello della madre. Del resto anche la nomenclatura romana manteneva una distinzione fra il fratello del padre, il patruus, e il fratello della madre significativamente denominato avunculus con chiara assonanza col termine avus che designa l’antenato. In tal modo fra gli Irochesi un uomo chiama con lo stesso termine “padre” sia il padre reale che il fratello di suo padre, ma chiama “zio” e non “padre” il fratello della madre; un uomo chiama “figlio” il figlio del fratello, ma chiama “nipote” e non “figlio” il figlio della sorella; un uomo chiama “fratello” il figlio del fratello del padre ma “cugino” il figlio della sorella del padre; chiama “fratello” il figlio della sorella della madre, ma chiama “cugino” il figlio del fratello della madre: è in questione infatti il

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tipo di discendenza − matrilineare o patrilineare − e il diritto ereditario, per cui una data società distingue ciò che un’altra unifica e viceversa. Così in molte società tradizionali si denominano con termini diversi i fratelli e i fratellastri, poiché diverso è l’asse ereditario, e i cugini paralleli non sono confusi con i cugini incrociati poiché diverse ne sono le aspettative o le prescrizioni matrimoniali. È certo che fino a tempi recenti possa essere stato in vigore (o financo ancora lo sia) il matrimonio con la figlia del fratello della moglie (nipote d’acquisto) o con la vedova del fratello della madre (zia d’acquisto), ma questo non autorizza ad una generalizzazione indebita. In realtà la terminologia “confusiva” di parentela indica semplicemente l’esistenza di stretti rapporti di parentela e non necessariamente l’esistenza universale di passate usanze matrimoniali: come scrive Radcliffe-Brown, «non vi è nessuna prova che le cose siano andate realmente in questo modo. La tesi è assolutamente a priori. È il punto debole per eccellenza della storia congetturale: le sue ipotesi non sono verificabili. Perciò l’ipotesi precedente non può essere considerata altro che una supposizione o congettura sul come le cose potrebbero essersi svolte»5. Ma in realtà in molti casi la congettura è non solo improvata ma anche erronea perché le terminologie non vanno confuse con eventi reali, presenti o passati: ad esempio in molte società tradizionali un uomo chiama “moglie” la sua nonna, ma questo perché ella può servirgli il pranzo come la moglie e perché egli può sposare una donna del clan di sua nonna e non certamente perché vi sia un “residuo” di un’antica usanza matrimoniale fra nonne e nipoti. Circa le designazioni proprie del sistema “classificatorio” o “descrittivo”, che unisce la parentela diretta o collaterale, Morgan confondeva la terminologia con la relazione effettiva e questa confusione si è a lungo perpetrata nell’antropologia successiva: così, poiché vedeva che in certe culture la cugina è chiamata “sorella” e che in queste culture era possibile sposare la propria cugina, ne concludeva che un tempo si potesse anche sposare la sorella. Ma in realtà, anche se studiare la parentela a partire dalla nomenclatura può fornire utili indicazioni, la corrispondenza fra la nomenclatura della parentela e le pratiche matrimoniali non è meccanica. Ad esempio il fatto che lo zio fosse chiamato “padre”, lungi dal significare una promiscuità originaria, può addirittura voler dire l’opposto, e cioè significare per la figlia il tabù dell’incesto e l’interdetto per la relazione sessuale con lo zio equiparato al padre. In ogni modo la predominanza dello zio (solitamente materno), che ne giustifica l’appellativo di “padre” da parte del nipote, non 5

A.R. Redcliffe-Brown, Studio dei sistemi di parentela, 1941, in Struttura e funzione della società primitiva, cit., p. 77.

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significa una confusione con il padre reale né più né meno di come l’appellativo amarico abba (padre) con cui si designa il prete significa una confusione con il padre reale: quando il giovane guardiano della nostra casa ad Addis Abeba mi chiamava “father” come gli antichi schiavi abissini, non ho mai con ciò pensato che egli mi prendesse davvero per suo padre, e quando vedo un’anziana signora di mia conoscenza chiamare “babbo” il marito non penso affatto che questo rifletta un passato incesto dei suoi antenati. Parallelamente, se il nostro “sistema descrittivo” usa lo stesso termine “zio” sia per il fratello del padre sia per il fratello della madre, ciò non significa che sia arretrato e “confusivo” il nostro sistema bensì semplicemente che per esso non è importante distinguere fra zio paterno e zio materno, mentre invece questa distinzione è importante in altre culture. La differenza non è fra sistemi confusivi e sistemi distintivi, bensì fra diverse modalità di classificazione in base ai diversi rapporti sociali: ogni sistema classifica ciò che ritiene opportuno e necessario. In questo senso la nomenclatura di parentela indica naturalmente una certa trama dei rapporti sociali. Così, che in certe culture lo zio materno sia denominato “padre” come il padre reale dimostra l’importanza della sua figura: egli è distinto nella nomenclatura dallo zio paterno perché in queste società lo zio per parte di madre svolge un ruolo sociale ben più importante e gode di un’autorità ben superiore a quella dello zio per via paterna. In questi casi la denominazione dello zio materno come “padre” appare particolarmente propria delle società a discendenza matrilineare, che però non costituiscono affatto un “matriarcato” (come riteneva Bachofen) stante l’autorità dello zio materno al posto non solo del padre ma anche della madre (in genere la discendenza patrilineare vige in quelle società, soprattutto fondate sull’agricoltura, in cui la maggiore importanza della proprietà privata rende necessario stabilire l’erede maschio legittimo). Circa l’origine della famiglia è importante, ma molto speculativa e discutibile, la vecchia teoria di Ferguson McLennan6. Questa teoria, improntata al paradigma evoluzionistico al tempo in auge, è un perfetto parallelo al metodo evoluzionistico in biologia: come nella biologia evoluzionistica si considerano i reperti fossili costituiti da differenti cavalli databili alle epoche più disparate, e si mettono in fila a partire dal cavallino più piccolo e pentadattilo fino al cavallo più grande e ungulato considerato come il più recente sbocco evolutivo della serie passando per tutti i gradi intermedi, così nell’etnologia evoluzionistica di McLennan si consideravano i più 6

J. Ferguson McLennan, Primitive Marriage, 1865, tr. it. Il matrimonio primitivo, Roma 1994, EI.

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vari tratti delle più diverse tribù dislocate nei luoghi più diversi del pianeta e li si metteva in fila credendo di rintracciarvi una sequenza stadiale ed evolutiva. Vale a dire: attestata presso le più varie tribù del globo la presenza di tratti e di pratiche come la discendenza matrilineare o patrilineare, la residenza matrilocale o patrilocale, l’infanticidio delle femmine, la poliandria fra fratelli o fra non fratelli, il levirato, il sororato, il ratto della sposa reale o simbolico, si mette tutto in fila per bene e così, a partire da un supposto stato di promiscuità originaria con abitazione comune, ne avremmo per prima cosa la discendenza matrilineare stante l’incertezza della paternità e con essa la residenza matrilocale, poi la pratica dell’infanticidio femminile stante l’inabilità delle donne al duro lavoro, alla caccia e alla guerra e dunque la loro inutilità, quindi il mancato equilibrio numerico fra uomini e donne per l’uccisione delle femmine, da cui conseguirebbe da un lato la pratica della poliandria in cui prima più uomini e poi in seguito più fratelli condividono la stessa moglie (traccia ne sarebbe rimasta nel “sistema classificatorio” analizzato da Morgan), con successiva evoluzione nel levirato e nel sororato, mentre dall’altro lato ne conseguirebbe il “ratto della sposa” durante le razzie con successiva evoluzione in ratto simbolico e concordato che evolve verso l’alleanza matrimoniale esogamica fra tribù, quindi ancora il passaggio dalla matrilocalità alla virilocalità con successiva evoluzione dalla discendenza matrilineare alla discendenza patrilineare, con ulteriore sviluppo nella poliginia, per poi giungere finalmente a Roma e dunque alla civiltà, sempre nella convinzione che «il più rozzo genera il meno rozzo». L’allineamento è seducente, ma piuttosto infido a partire dai suoi presupposti. Secondo McLennan stante la carenza per infanticidio la sola donna matrimonialmente disponibile diventa quella in condivisione o quella appartenente ad altra tribù e procacciata per ratto, ma il fatto è che l’infanticidio femminile, pur certamente praticato in molte popolazioni (ancora oggi nella Cina agricola), non doveva essere una pratica così universalmente diffusa come egli pretende, non fosse altro che per il fatto che le donne servivano in quanto destinate ai pesanti lavori domestici e agricoli spesso disdegnati dall’uomo e in quanto portatrici di un cospicuo “prezzo della sposa” all’atto del matrimonio. Noi conosciamo l’esistenza passata della pratica della poliandria presso varie popolazioni, ad esempio nell’area tibetana e himalayana e fra i britanni di cui testimonia Cesare (De bello gallico V, 14), in cui una moglie è condivisa da più uomini per lo più fratelli (con ovvia discendenza matrilineare), ed essa certamente, lungi dal rivelare una libertà sessuale femminile e un matriarcato bachofeniano, indica effettivamente l’uso comune e condiviso di una donna (per non dire

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di una schiava o di una bestia da soma) in situazioni di carenza femminile7; parimenti sappiamo che nelle razzie le donne erano rapite come gli armenti e fatte prigioniere e schiave per poi magari diventare infine spose, ma appare indebito fare di queste pratiche l’origine della famiglia a causa della sopravvalutata carenza di donne per infanticidio come improvato appare, dalla constatazione dell’esistenza passata o anche presente di società in cui vige il “matrimonio di gruppo” con varie donne in comune a più uomini, ritenere tale prassi un tempo universale (ad esempio che in certe comunità più uomini vivessero in una casa comune non dimostra affatto che condividessero anche le loro mogli). Particolarmente errata è in particolare la generalizzazione della leggenda del “ratto delle Sabine” con conseguente trasformazione del ratto violento in alleanza e scambio reciproco: seppur molti matrimoni possano effettivamente aver avuto questa origine, la teoria di McLennan non è esaustiva né generalizzabile proprio perché spesso fra le diverse tribù vige una ostilità latente o esplicita che proibisce le relazioni matrimoniali, che solitamente avvengono non con donne di altre tribù bensì all’interno della stessa tribù fra persone di differenti clan fra i quali vige un rapporto di buon vicinato dovuto all’origine, alla lingua e alla religione comuni, senza considerare il fatto che una schiava, anche se usata sessualmente, non è ancora una sposa; in realtà non è il ratto della sposa a liberare le donne per la fondazione dell’esogamia, bensì lo scambio fra clan della stessa tribù e non fra tribù diverse. Laddove piuttosto la teoria di McLennan appare plausibile è nel ridimensionamento del preteso valore universale del tabù dell’incesto (cardine come si sa della teoria freudiana e lévi-straussiana) in quanto egli, negando la pretesa derivazione dal tabù dell’incesto dell’esogamia (che fa invece derivare dall’infanticidio femminile), giunge a dire che al passaggio dall’endogamia all’esogamia fa in realtà spesso riscontro un movimento inverso dall’acquisita esogamia ad una successiva chiusura endogamica di ritorno, connessa a orgoglio razziale, con formazione di caste (come fra i tartari e le caste manciù e indù). L’errore di fondo di queste più antiche impostazioni etnologiche consiste nel vedere l’origine della famiglia e della società nella promiscuità sessuale originaria, ovvero nell’“eterismo” e nell’“amazzonismo” che secondo Bachofen sarebbe poi evoluto in matriarcato8. Invero la promiscuità originaria, pretesa origine della famiglia, non si riscontra quasi mai 7 8

Su situazioni attuali o recenti di poliandria in contesti amerindiani (peraltro vissute non senza gelosie e rivalità maschili) v. P. Clastres, La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica, cit., pp. 91-93. J. Bachofen, Das Mutterrecht, 1861, tr. it. Il matriarcato, Torino 1988, 2 voll., Einaudi.

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nemmeno nel mondo animale, soprattutto fra mammiferi e uccelli ove la prolungata gravidanza e la necessità di cure parentali favorisce la formazione di coppie sponsali. Ma soprattutto, anche ammessa presso le società tradizionali una certa libertà sessuale (comunque non generalizzabile), non v’è alcuna prova (come per primo rilevò A. Kroeber nel 1909) che essa sia il retaggio di una promiscuità originaria, che probabilmente era assai più nei sogni dell’antropologo occidentale ottocentesco frustrato dal “disagio della civiltà”, in quanto ogni società per quanto arcaica presenta una struttura familiare originaria e nessuna di esse (pur nelle sue forme di libertà sessuale) rivela una derivazione da originarie forme promiscue: in realtà nessuna società può vivere senza regolare e incanalare le dissipative energie sessuali (come è noto, in ciò consisteva per Freud il “disagio della civiltà”). Dopo Bachofen, ancora un etnologo coloniale come il Pollera ha detto che la discendenza matrilineare vigente in molte di queste popolazioni deriva dall’alto grado di libertà sessuale per la donna: mater secura est, pater numquam donde la certezza del nome materno e la scarsa importanza di stabilire la reale paternità. Ma ciò, seppur possa essere in parte vero per alcune di queste società, non è generalizzabile in quanto solitamente le società a discendenza matrilineare non si accompagnano a particolari licenze sessuali e mai in esse vige una reale autorità e potere decisionale della donna: stante l’autorità dello zio, in queste società non sussiste traccia né del fantasticato amazzonismo né del “matriarcato” ginecocratico di Bachofen. L’ideale condizione di eguaglianza o di superiorità della donna nel matriarcato primordiale e nel “comunismo primitivo” celebrata da Engels (che si rifaceva a Morgan e a Bachofen), e da lui contrapposta allo sfruttamento della donna nella società occidentale9, non sussiste come non sussisteva il matriarcato e come in realtà nemmeno sussisteva in modo generalizzato quel mitico comunismo (vi sono anzi società tradizionali con accentuata gerarchia sociale e preminenza della regalità, in cui ai re è consentita la poligamia e talora l’incesto agli altri proibito). Al riguardo Malinowski (che lavorò soprattutto fra gli aborigeni australiani e in Melanesia), sfatando il mito engelsiano del “comunismo primitivo” e i correlati miti bachofeniani della “promiscuità originaria” e della “licenza universale” (rilevando le severe norme e regole cui è soggetta, anche nella generale libertà e nei periodi di licenza durante alcune cerimonie particolari, la vita sessuale fra le popolazioni tradizionali), rilevò l’importanza 9

F. Engels, Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des Staats, 1884 (tr. it. L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Roma 1971, Ed. Riuniti).

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fondamentale che in essi assume la famiglia come cellula originaria della società10. L’opera di Malinowski Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi è essenzialmente un libro sull’importanza della famiglia, vista come una reduplicazione e uno sviluppo a livello culturale della famiglia naturale − già ravvisabile nel mondo animale − basata sulle esigenze primarie della generazione e dell’accudimento della prole: nel suo intendimento essa è un dato originario e non derivato, è la cellula sociale primaria, il nucleo germinale della società, che non si fonda su un generico “istinto gregario” aggregante gli individui bensì è precisamente costituita da un’associazione di nuclei familiari originari; la società non è per lui costituita, come per Lévi-Strauss, dall’uscita dall’endogamia familiare verso l’esogamia bensì è essenzialmente un’associazione di famiglie.11 Invero Malinowski afferma che anche nelle società tradizionali la famiglia è fondata sul tabù dell’incesto e sull’esogamia. Tuttavia egli, pur ribadendo la centralità in ogni cultura del tabù dell’incesto, ne constatava la declinazione come dipendente dalla costellazione sociale e rilevava la non universalità e naturalità del complesso edipico nei precisi termini freudiani al di fuori delle società occidentali. Egli rilevava che, nelle popolazioni delle isole Trobiand nel Pacifico (ma anche fra certe popolazioni australiane) a discendenza matrilineare, il marito non era propriamente nemmeno considerato il padre dei figli, che si ritenevano trasmessi alla madre dallo spirito dei suoi parenti o dagli antenati per una sorta di reincarnazione, ed egli nemmeno provvedeva al mantenimento familiare cosicché, con la negazione del fondamento biologico della paternità, ne veniva negato anche il fondamento culturale12. In una visione del mondo in cui le anime dei defunti vagano dopo la morte al punto da tormentare i vivi costringendoli ad appositi riti purificatori, e in cui uno spirito malefico può prendere possesso di un uomo tanto da richiedere appositi esorcismi, è naturale pensare che uno spirito vagante, solitamente quello di un antenato vista la loro grande importanza, possa incarnarsi in una nuova vita (così spiegandosi certe somiglianze): mentre nella nostra cultura un bambino può prendere il nome del nonno in sua memoria, in queste culture − in una forma peculiare dell’antichissima e quasi universale dottrina della metempsicosi − se un 10 11 12

B. Malinowski, The Sexual Life of Savages in Northwestern Melanesia, 1929 (tr. it. La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale, Milano 1968, Feltrinelli). B. Malinowski, Sex and Repression in Savage Society, 1927 (tr. it. Sesso e repressione sessuale fra i selvaggi, Torino 1999, Boringhieri). B. Malinowski, The Father in Primitive Psycology, 1927, tr. it. in Il mito e il padre nella psicologia primitiva, Roma 1976, Newton Compton, pp. 80-93.

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bambino prende il nome del nonno ciò significherà che letteralmente lo spirito del nonno vi si è incarnato (l’idea della reicarnazione di un antenato in un neonato della tribù comprova peraltro quanto sia forte in queste società il legame tribale)13. Di conseguenza l’idea che una donna possa restare gravida senza l’intervento di un uomo grazie ad uno spirito divino o di antenato (magari mentre passa per un sentiero impregnato di anime o, secondo l’antica credenza trobiandese, mentre si bagna al fiume) si ritrova ovunque: gli Ewe del Togo pensano che lo spirito, il soffio vitale preesistente in una sorta di limbo prenatale, sceglie il proprio destino (in modo straordinariamente simile a quanto raccontato da Platone nel mito di Er nel X libro della Repubblica) e quindi, plasmato con l’argilla dalla madre primordiale, viene inviato incarnato nel corpo della madre; parimenti l’incarnazione senza padre è anche raccontata nel mito greco (Leda e il Cigno dietro cui si cela Zeus), nella religione cristiana (verginità di Maria), nella fiaba occidentale (i bambini portati dalle cicogne senza alcun rapporto sessuale); del resto si noti che in Europa ancora nel XVII secolo, all’epoca della grande rivoluzione scientifica, molti noti biologi di fede ovista ritenevano che il vero fattore generativo fosse l’ovulo femminile e per nulla affatto lo sperma maschile14. Da tutto ciò consegue che spesso nelle società tradizionali il 13

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Le credenze trobiandesi rinvenute da Malinowski sono simili a quelle rinvenute presso altre culture tradizionali: v. E. Tylor, Alle origini della cultura, cit., vol. IV: Animismo, pp. 95-96; L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., pp. 401405. Questo non significa, come riteneva Malinowski, che il “selvaggio” non connettesse mai il rapporto sessuale alla fecondazione e che fosse del tutto ignaro del ruolo generativo del seme maschile, ma piuttosto che egli pensasse ai figli come doni della vita che, provenendo da lontano, dallo spirito degli antenati, passa attraverso il corpo materno avvalendosi del seme maschile come di un mezzo coadiuvante (ad esempio nutritivo o protettivo del feto). In realtà quando le donne interrogate da Malinowski su come potessero generare senza l’uomo rispondevano menzionando «in termini più o meno volgari e scherzosamente alcuni mezzi di perforazione che avrebbero usato» (Il padre nella psicologia primitiva, cit., p. 83), quando gli uomini − a cui Malinowski obiettava la necessità dell’uomo per procreare − dicevano ridendo che evidentemente Tilapo’i aveva avuto un figlio senza rapporto sessuale perché ella era talmente brutta che nessun uomo avrebbe avuto un rapporto con lei (p. 84), si ha il sospetto della presa in giro; quando Malinowski dice (pp. 91-93) che i trobiandesi accettano come propri i figli avuti dalla moglie durante una lunga assenza, questo dimostra solo l’inessenzialità di stabilire la reale paternità biologica all’interno del matrimonio e non che essi non si rendano conto di quanto è avvenuto; infatti gli indigeni dicono (anche contro ogni evidenza) che il figlio somiglia sempre al padre per via della comunanza di vita e mai alla madre o alla sorella o a persone del clan materno perché dire questo significherebbe dire offensivamente che vi è stato incesto o che il vero padre

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padre non è una figura veramente importante. In particolare nelle società a discendenza matrilineare per il bambino non il padre è oggetto di sentimenti ambivalenti nel senso edipico freudiano – vi è anzi un rapporto affettuoso e confidenziale fra padre e figlio proprio perché sganciato da ogni autorità – bensì lo zio materno che, detentore dell’autorità, provvede al mantenimento e trasmette i suoi beni in eredità al nipote. Questa deprivazione dell’autorità paterna, e anche materna, in favore dell’autorità esterna dello zio materno non convivente faceva inoltre sì, secondo Malinowski, che in queste società il complesso edipico non riguardasse tanto le pulsioni incestuose nel rapporto fra genitori e figli con i suoi tratti nevrotici (almeno in un recente passato) tipicamente occidentali: invece in queste popolazioni (anche se in esse, aggiungeremmo noi, vada considerato il caso tutt’altro che raro della violenza domestica del padre sulla figlia) le pulsioni incestuose riguardano in realtà più la sorella che la madre, più il fratello che il padre, donde il tabù − sentito come assai importante − del contatto intimo fra fratello e sorella tenuti ad evitarsi il più possibile.15 All’analisi di Malinowski dunque la famiglia non sembra affatto il retaggio e il residuo di una famiglia originariamente fondata sulla promiscu-

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sarebbe nel clan materno (pp. 99-105). A prescindere dagli abitanti delle Trobiand ai cui racconti forse Malinowski credeva troppo, che gli uomini delle popolazioni tradizionali sappiano bene che un figlio viene da un rapporto sessuale è dimostrato dal fatto che nell’antichissimo sistema gada oromo giunti a 24 anni era possibile sposarsi ma bisognava evitare di avere figli fino a 32 anni, e che (come vedremo) nei villaggi konso gli uomini desiderosi di evitare figli da tempo immemorabile si isolano la notte in una apposita capanna lontano dalla moglie. In ogni modo Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi di Malinowski, pur confermando l’universalità del tabù dell’incesto, ne nega l’universale declinazione nella forma del complesso edipico e, conseguentemente, critica decisamente l’antropologia freudiana di Totem e tabù. Gli psicoanalisti (in particolare E. Jones e G. Róheim) obiettarono affermando che l’assenza del complesso edipico nei termini freudiani sarebbe una “rimozione” con conseguente “spostamento” atto a stornare sulla sorella l’attrazione incestuosa in realtà rivolta alla madre e a stornare sullo zio l’ostilità edipica salvandone il padre a tal fine opportunamente ritenuto estraneo alla generazione, ciò che dimostrerebbe proprio l’esistenza del complesso freudiano (in particolare per Róheim chi nega l’universalità del complesso edipico ne sarebbe egli stesso vittima e dovrebbe farsi curare). In questo modo però, come fece notare Malinowski, l’assenza di prova (la mancata traccia del complesso edipico nel folklore, nel mito e nella realtà trobiandese) diventa molto stranamente una prova (v. Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, cit., pp. 113-119): in effetti con la “rimozione” − infalsificabile per definizione − si può dimostrare l’esistenza di tutto ciò che si vuole, perché basta dichiarare che ciò che non si vede e non risulta c’è ma non si vede appunto perché è stato rimosso.

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ità fra parenti e consanguinei, e la società appare un sistema di relazioni fra famiglie fortemente strutturato e codificato, atto alla partizione della vita sociale nell’interesse comune. Tuttavia, se è vero che la famiglia delle società tradizionali non è il residuo di una originaria promiscuità, rimane vero che alle origini della società non sembra esservi stata solamente la famiglia nucleare monogamica fondata sul rapporto fra padri e figli. Lo stesso Malinowski, notando in molte di queste popolazioni l’importanza dello zio materno, già ne coglie una configurazione non precisamente nucleare nel senso occidentale. In realtà la famiglia strutturante le società tradizionali è una famiglia nell’accezione più larga del termine, tale da includere i sistemi di parentela e di affinità clanica: gli appartenenti ad un medesimo clan si considerano consanguinei anche se in realtà non tutti lo sono. Nelle società tradizionali l’importanza della parentela, consanguinea o acquisita, consiste nel suo essere una forma di solidarietà reciproca fra le persone interessate. La struttura della parentela vi definisce un codice rigido e vincolante, determinato in non piccola misura a livello inconscio come riteneva Lévi-Strauss. Mentre nelle moderne società occidentali la regolazione del matrimonio si limita sostanzialmente alla proibizione dell’incesto e del rapporto fra consanguinei stretti e diretti, viceversa nella società tradizionali accanto al tabù e al divieto di dati rapporti sessuali, come ad esempio in certe società il divieto di sposare un cugino parallelo (ovvero il figlio di un fratello del padre o di una sorella della madre), esiste anche la prescrizione e il dovere (per quanto poi possa non essere percepito come tale) di sposare quantomeno una persona data entro un ambito di scelta ristretto e delimitato se non proprio, in pratica, una determinata persona. Si pensi al riguardo all’antica istituzione biblica del levirato (dal latino levir, cognato): ancora sussistente in molte popolazioni tradizionali soprattutto patrilineari, questa istituzione consente di salvare la discendenza genealogica e patrimoniale attraverso il passaggio della vedova (o delle vedove) al fratello ovvero al cognato oppure al figlio (naturalmente di altra moglie) del defunto morto senza figli. Parallelamente esiste anche il sororato, in cui un uomo sposa la sorella della moglie morta: secondo il Deuteronomio (25, 5-10) «quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà fuori, con un forestiero: il suo cognato viene da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere di cognato; il primogenito che essa metterà al mondo andrà sotto il nome del fratello morto, perché il nome di questo non si estingua in Israele». Il passaggio di consegne (e di beni) dal fratello morto al fratello vivo, dal marito al cognato, non richiede un nuovo matrimonio, che però è come se vi fosse. Il figlio sarà ufficialmente

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e legalmente considerato figlio del defunto cosicché egli avrà un duplice padre: un padre naturale e reale e un padre fantasma di diritto che è lo zio defunto. Nel dettato biblico si tratta di «ricostruire la famiglia del fratello», mantenendo la discendenza maschile, e per questo la vedova o il cognato non possono rifiutare l’adempimento del dovere pena l’ignominia. Questa consuetudine di biblica memoria per la quale si può ereditare una moglie dal fratello morto, che nuovamente richiama la grande importanza della figura dello zio (in questo caso però paterno) nelle società tradizionali, è attestata in Africa presso varie tribù: in particolare è attestata in Sudan e in Etiopia presso i Nuer, che in tal modo salvaguardano nei casi estremi la discendenza patrilineare, e ancora in Etiopia è rintracciabile nell’antico costume sidamo secondo il quale il figlio ereditava anche l’harem del padre ad esclusione della madre. La cosa avvenne anche nelle antiche famiglie regnanti abissine e l’imperatore Amda Sion (XIV sec.) reagì con feroce repressione alle accuse dei sacerdoti etiopici scandalizzati dalla sua immoralità poiché egli aveva preso in moglie, accanto alle altre, la vedova del padre; anche il sovrano Fasilidas (XVII sec.) si prese in eredità tuttte le mogli del padre, e il nipote del capo musulmano Gragn (XVI sec.), ereditandone il potere, ne sposò la vedova. Secondo i diffusionisti si tratterebbe della “diffusione” di una consuetudine per via delle migrazioni del popolo ebraico, e in effetti sia i Nuer nilotici sia gli amhara abissini hanno origini semitiche: ma, stante il gioco di interessi patrimoniali ed ereditari in questione, è probabile che la pratica del levirato e del sororato non sia solo una diffusione storica a partire da un centro (ebraico) d’origine, bensì sia una consuetudine nata indipendentemente in parecchie culture. Del resto la consuetudine biblica si ritrova presso molti popoli africani piuttosto trasformata e alquanto ampliata: secondo questo ampliamento, non soltanto il fratello può prenderne in consegna la moglie quando un uomo muore senza figli perché, in mancanza o indisponibilità del cognato, anche un altro parente può prendere il posto del defunto a fianco della vedova. Parimenti, allo stesso modo, un uomo rimasto vedovo può in certe popolazioni rivendicare in sposa la sorella della moglie morta. Ma spesso non v’è bisogno che chieda: particolarmente in caso di divorzio la famiglia della sposa, onde evitare la restituzione d’obbligo dei ricchi capi di bestiame a suo tempo avuti quale compenso matrimoniale e nel frattempo moltiplicati tramite la discendenza, al fine di mantenere l’alleanza matrimoniale propone essa stessa la sostituzione della moglie persa con una sorella o una cugina. In certe popolazioni avviene che un uomo, in condizioni di poligamia, può sposare non solo la sorella della moglie quando questa sia morta ma anche quando questa sia viva (sebbene, come

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si è detto, non si possa vedere in ciò una originaria pratica universale). Avviene anche che, in caso di morte di un uomo giovane non ancora sposato e dunque senza figli, onde evitare l’onta della discendenza senza figli egli può in certo modo sposarsi anche dopo morto: infatti in questi casi il fratello sposa in sua vece una donna che sarà ufficialmente la moglie del morto, che ella può anche non aver nemmeno conosciuto (matrimonio con il fantasma), e ancora una volta i figli avranno un duplice padre, l’uno legale e defunto e l’altro naturale. Il levirato, come gli altri esempi detti di matrimonio fra parenti, non può non apparire ripugnante alla nostra mentalità. Secondo questa usanza infatti una donna rimasta vedova non può disporre liberamente di sé: ella non può nemmeno ereditare bensì viene ereditata; passa di diritto al fratello del marito morto, in eredità né più né meno di come si può ereditare una mucca o un cammello. Tuttavia, se inseriamo questa usanza nel quadro della durezza di vita e nel contesto in cui essa è nata, ne comprendiamo il senso. Nelle società tradizionali la donna solitamente non eredita nulla se non i più stretti oggetti personali. In genere le sostanze del defunto come le mucche non vanno alla moglie e nemmeno ai figli, bensì passano ai parenti maschi più stretti (come il fratello del marito nel diritto patrilineare): essi gestiscono i beni ereditati prendendosi cura della vedova e degli orfani. Questo vale anche nelle società di diritto matrilineare, in cui erroneamente Bachofen vedeva un matriarcato inteso come un reale potere femminile: viceversa in queste società l’erede in caso di morte del marito è il fratello della vedova. Infatti la vedova rimasta sola, se usufruisse dei suoi beni, passando a nuove nozze con un estraneo del clan familiare disperderebbe il patrimonio di armenti mentre invece, passando sotto la diretta tutela dello zio, tutto rimane in famiglia. Ma allora a questo punto si comprende che lo zio, fratello del defunto, ufficializzi la situazione nella forma del levirato (ciò che ovviamente pena l’incesto non può fare il fratello della vedova). In questo modo infatti né il capitale né quella forma di peculiarissimo capitale che è la donna vanno dispersi: è lo stesso motivo insomma per cui anche in occidente fino al XIX secolo, per evitare la dispersione del patrimonio fra i figli, vigeva in molti Stati l’istituzione del maggiorascato. Per questo dunque in queste società il fratello del padre, lo zio, è spesso chiamato padre e sua moglie è chiamata madre: perché in caso di uccisione o di morte del padre lo zio e la zia possono veramente divenire a tutti gli effetti il padre e la madre putativi, anche senza esplicita sanzione matrimoniale. Si consideri inoltre che il divieto di matrimonio fra cugini paralleli non è affatto universale, perché il matrimonio fra cugini paralleli patrilineari

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è alquanto diffuso nell’area medioorientale (ad esempio presso i Kabili, una popolazione berbera algerina studiata da P. Bourdieu). Nessun motivo eugenetico spiega i casi di interdetto matrimoniale fra cugini paralleli, perché l’identica vicinanza di consanguineità in un caso proibisce e nell’altro favorisce il matrimonio. Infatti, se è vero che in molte società tradizionali si vieta il matrimonio fra cugini paralleli, cioè nati da due fratelli o da due sorelle e dunque figli di fratelli dello stesso sesso, essendo essi stessi considerati come fratelli donde la ricaduta nell’incesto (Eschilo in Le Supplici narra la leggenda delle Danaidi che rifiutarono il matrimonio con i figli di Egitto essendo fratelli i rispettivi genitori), è anche però vero che può costituire unione preferenziale e in taluni casi rigidamente prescrittiva il matrimonio − assai diffuso anche se proibito in talune società − fra cugini incrociati, ovvero fra cugini figli di un fratello e di una sorella (di un fratello della madre o di una sorella del padre) e dunque figli di fratelli di sesso diverso. Se generalmente i figli di due fratelli o di due sorelle non possono sposarsi fra di loro, invece in molti casi i figli di un fratello e di una sorella possono e financo dovrebbero sposarsi fra di loro: così il matrimonio ideale può risultare quello di un uomo con la figlia di un fratello della madre. Lévi-Strauss afferma che (in caso di discendenza patrilineare) il matrimonio fra cugini incrociati è un matrimonio fra persone di gruppi diversi e perciò esogamico e quindi consigliato o prescritto, mentre invece il matrimonio fra cugini paralleli è endogamico e perciò incestuoso e quindi proibito. Ma potrebbe essere il contrario, e cioè che il matrimonio fra cugini incrociati sia in realtà consigliato perché a ben vedere più endogamico e “incestuoso” di quello fra cugini paralleli. Infatti le esigenze di salvaguardia del clan familiare prevalgono su qualsiasi altra considerazione: in tal modo si rinsaldano le alleanze di parentela perché, se il figlio ne sposa la figlia, lo zio fratello della madre e sua moglie (che potrebbe anche essere la zia sorella del padre) diventano anche il padre e la madre della moglie (suoceri), e gli altri loro figli essendo fratelli e sorelle della moglie diventano parenti più stretti (non solo cugini ma anche cognati), mentre viceversa per la nuova moglie quella che prima era “soltanto” la zia diventa ora anche la madre del marito (suocera). Sempre il fratello della madre, la sorella del padre, i loro figli, il fratello della moglie, il marito della sorella sono persone importanti in queste popolazioni al punto che diventa quasi cogente un ulteriore rinsaldamento per via matrimoniale: così in certi casi la stessa persona può essere il fratello della madre, il marito della sorella del padre, il padre della moglie (e infatti in varie popolazioni tribali esiste un termine specifico per denominare questa persona), e a questo punto la trama della parentela diventa strettissima.

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Tutto rimane per così dire in casa, quando un uomo ad esempio prende in sposa la figlia del fratello della madre. In particolare il matrimonio con la figlia del fratello della madre, con la “cugina incrociata”, è preferenziale in quelle società in cui è importante conservare la discendenza familiare matrilineare poggiante sull’autorità dello zio materno: essa invece viene persa nel matrimonio (spesso proibito) con la figlia della sorella del padre, poiché quest’ultima è stata o verrà ceduta ad un uomo di altra famiglia, così come sarebbe persa nel matrimonio (parimenti spesso proibito) con il figlio del fratello del padre o con il figlio della sorella della madre (che consegna la donna all’autorità di un capofamiglia esterno). Questo fa sì che, nei casi in cui due giovani vogliano unirsi indipendentemente dall’età socialmente stabilita o rifiutando il cugino o la cugina incrociati, così ribellandosi alle prescrizioni sociali, non rimanga altra via che il “matrimonio per ratto”, diffuso in molte popolazioni (noi stessi abbiamo conosciuto un giovanissimo konso sposatosi in tal modo), in cui il giovane organizza il rapimento della ragazza consenziente: in tal modo i giovani in questione si riappropriano della propria vita mettendo i parenti di fronte al fatto compiuto e vanificando le loro trame di alleanze. V’è anche il caso in cui una ragazza costringe l’uomo al matrimonio introducendosi di soppiatto nella sua casa cosicché questi debba accettarla in sposa, ma nell’insieme tutti questi stratagemmi sono rari appunto stante la rete di interessi che si intesse intorno ad un matrimonio che di fatto, pur non impedendola del tutto, limita la libertà decisionale degli interessati. L’ideale insomma è che tutto rimanga il più possibile in famiglia: questo dimostrano l’autorità dello zio materno, i casi di levirato, il matrimonio fra cugini incrociati. In quest’ultimo caso, evidentemente, si attua financo un matrimonio − spesso prescrittivo − fra parenti con tasso piuttosto alto di consanguineità. Al riguardo esiste anche il caso di un incesto diretto − non trasgressivo del tabù ma ufficialmente riconosciuto e legittimato − fra fratello e sorella: si pensi alla pratica del matrimonio incestuoso fra fratello e

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sorella (o addirittura fra il padre faraone e due sue figlie come nel caso di Ramses II) consentito nelle caste regnanti dei faraoni dell’antico Egitto, ad imitazione della coppia divina costituita dai fratelli e sposi Iside e Osiride con il figlio Horus: esso era finalizzato a impedire la degenerazione del sangue attraverso la mescolanza con l’estraneo e a preservare la dinastia regnante, che era una dinastia familiare. Il tabù dell’incesto vi veniva violato, ma veniva violato in modo tale da rafforzarlo in seno alla società: ciò che era proibito come orribile profanazione ai comuni mortali diventava invece lecito in quell’unico caso riguardante interessi superiori e personalità divine a cui tutto era lecito. Il matrimonio incestuoso fra fratello e sorella in realtà, oltre che in varie mitologie sull’avo fondatore, esiste o esisteva nelle famiglie reali di varie altre società: gli Inca, i Wunambal australiani, i Nyoro dell’Uganda, varie tribù polinesiane, fra gemelli di sesso opposto a Bali. In particolare è appurato sussistesse nella famiglia reale e fra gli esponenti dell’aristocrazia nobiliare degli Azande, fra cui la pratica usuale dell’incesto non solo fra i principi e le sorelle ma anche fra il padre sovrano e le figlie non era minimamente occultata; particolarmente frequente, in una diffusa poliginia in cui un principe poteva avere decine di mogli e ancor più figli, era l’“incesto a metà” con cui il figlio del principe o del sovrano si univa sessualmente con una delle tante sorellastre figlie dello stesso padre ma non della stessa madre: questo matrimonio fra fratelli e sorelle nati da padre o da madre diversa è anche attestato per l’antica Grecia e nella Bibbia ove si narra (Genesi 20, 11-12) che Abramo ebbe in moglie la sorellastra figlia del padre. Un altro caso di sospensione del tabù, in cui l’incesto di un uomo con la figlia o la sorella era spesso ammesso in varie società, era quando questi si doveva preparare ad una caccia particolarmente pericolosa o ad un’altra azione eroica, nella supposizione che ad un uomo eccezionale fossero consentite cose eccezionali solitamente proibite ai più e che anzi questi traesse dalla violazione del tabù un incremento di energia psichica necessaria per la sua azione. Malinowski però riporta di aver constatato un caso di incesto non clandestino e del tutto normale fra padre e figlia alle isole Canarie: essi vivevano tranquillamente insieme ed allevavano i figli comuni. Del resto nel Genesi (19, 30-38) si narra che le due stirpi dei Moabiti e degli Ammoniti nacquero rispettivamente dall’incesto della figlia maggiore e della figlia minore con il padre Lot, il che peraltro non deve stupire: se il tabù dell’incesto è connesso all’esogamia, viceversa l’incesto può essere conseguenza di una pratica endogamica che vietava di prendere in sposa le donne di altri paesi (Esodo 34, 12-16). Ricordiamo del resto l’ipotesi che attribuisce l’estinzione dell’uomo di Neanderthal a un processo degenerativo per eccesso di consanguineità.

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Pur essendo certamente impossibile ritenere (come Morgan) che alle origini della civiltà fosse comune e universale l’incesto fra fratello e sorella, rimangono dunque attestati casi di matrimoni incestuosi e ancor più fra consanguinei in senso più ampio. Nelle culture e nelle popolazioni tradizionali la rete matrimoniale è in buona parte intessuta con legami familiari, al punto da contemplare anche casi di consanguineità matrimoniale come nel matrimonio dinastico e come nell’assai diffuso matrimonio tra cugini incrociati. Naturalmente non è che nella famiglia e nella parentela di consanguineità non vi siano conflitti, dispute per l’eredità etc.: ma evidentemente la famiglia consanguinea è comunque percepita come un fronte unico rispetto all’estraneo e come la solida base per qualsiasi altro allargamento esogamico. L’importanza della parentela nelle società tradizionali è tale che (come è stato mostrato per l’area medioorientale) i legami sociali non di parentela vengono assimilati a legami di parentela e spesso conducono a manipolazioni genealogiche onde far rientrare nella parentela chi pur non ne farebbe parte.16 Questo dimostra, se non di contro almeno a correttivo dell’assunto lévi-straussiano per il quale la cultura nasce con l’esogamia17, quanto sia comune e diffuso il ripiegamento endogamico. Lévi-Strauss ha risposto che i suoi sono modelli teorici a cui la realtà può soltanto approssimarsi con scarti e deviazioni, ma la risposta non è soddisfacente perché in realtà l’alto numero di eccezioni smentisce l’universalità della regola e dimostra che il rafforzamento della coesione sociale passa non tanto attraverso il superamento dell’endogamico “naturale” nell’esogamico “culturale” bensì attraverso l’esistenza di un irriducibile nucleo endogamico all’interno della struttura sociale esogamica. Infatti è importante cercare di non cedere a terzi la donna ma di trattenerla nel lignaggio originario. Tutto questo certamente limita la diffusa convinzione (a partire da Freud fino in certo modo a Malinowski e poi a Lévi-Strauss) dell’universalità del tabù dell’incesto quale condizione della fondazione dell’esogamia. Laddove la tesi di Lévi-

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U. Fabietti, Culture in bilico. Antropologia del medio Oriente, Milano 2002, Bruno Mondadori, pp. 45-108 (ci sembra però che l’esistenza di legami non parentali, necessari per la piena costituzione sociale, non infici l’importanza della parentela nelle società esaminate ma anzi la confermi, proprio perché i legami non parentali vengono cementati sul modello dei legami parentali fino alla manipolazione genealogica). C. Lévi-Strauss, Les structures elementaires de la parenté, 1949 (tr. it. Le strutture elementari della parentela, Milano III ed. 1978, Feltrinelli): «la proibizione dell’incesto […] costituisce il passo fondamentale grazie al quale, per il quale, e soprattutto nel quale, si compie il passaggio dalla natura alla cultura» (p. 67).

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Strauss si rivela troppo rigida è nella convinzione che all’aspetto proscrittivo del tabù dell’incesto segua l’aspetto prescrittivo che impone di cercare il coniuge al di fuori del gruppo di parenti e familiari, perché invece le cose − come abbiamo mostrato − appaiono più complesse. In realtà il problema non è tanto evitare l’incesto quanto stabilire la discendenza e l’asse ereditario: infatti in società a discendenza patrilineare un uomo può sposare parenti molto stretti di parte materna (ad esempio la figlia della sorella della madre), e in società a discendenza matrilineare è possibile o addirittura preferenziale e quasi obbligatorio sposare parenti molto stretti di parte paterna. Si rintraccia piuttosto una parziale verità nelle tesi di McLennan sulla diffusione del matrimonio endogamico fra consanguinei all’interno di uno stesso clan: la regola levi-straussiana per cui si prende una donna solo in un altro clan della tribù non vale sempre. Però occorre precisare. In queste popolazioni rimane valido il tabù dell’incesto hard inteso come unione fra stretti consanguinei (con la sola eccezione di talune dinastie reali). Vi sono al riguardo precise regole, misure protettive e severe precauzioni volte ad impedire contatti intimi fra stretti consanguinei e a salvaguardare il tabù dell’incesto: il tabù proibisce in primo luogo il rapporto sessuale fra genitori e figli e lo previene impedendone l’eccessiva intimità (sebbene poi di fatto l’incesto trasgressivo fra padre e figlia sia tutt’altro che raro); soprattutto, il tabù proibisce il rapporto fra fratelli e sorelle, ritenuto assai pericoloso e possibile sia per la mancanza di salto generazionale (che rende un genitore sessualmente poco attraente) sia per la giovane età dei fratelli e delle sorelle spesso quasi coetanei, donde le cautele che sovente comportano specifiche misure di reciproco allontanamento. Il tabù invero proibisce come incestuoso anche il rapporto − pur in realtà non consanguineo − del genero con la suocera o il suocero, donde l’usanza presso molte popolazioni australiane, polinesiane, africane (ad esempio decenni or sono fra i Cunama eritrei studiati da Pollera) dell’“evitamento della suocera” da parte dell’uomo sposato e del concomitante “evitamento del suocero” da parte della donna sposata, per cui l’uomo non può parlare con la suocera né volgersi verso lei se la incontra per strada né tantomeno intrattenervisi in un luogo isolato, e ugualmente dicasi per la donna nei confronti del suocero (sebbene qui però si tratti non tanto, come pensava Freud, di evitare rapporti sessuali indebiti quanto piuttosto di evitare l’esplosione di conflittualità latenti che metterebbero a repentaglio la conquistata alleanza dei gruppi per via matrimoniale); parimenti presso certe culture esiste anche l’“evitamento della cognata” o del cognato, e la probizione di rapporti intimi con il coniuge dello zio o della zia o con la moglie del figlio defunto; spesso si proibisce anche il rapporto e di conseguenza il matrimonio fra cugini paralleli che possono parlarsi solo a distanza. Resta comun-

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que il fatto che a queste forme di proibizione, e in particolare alla probizione dell’incesto hard (che conosce solo l’eccezione istituzionalizzata di dinastie reali quali quelle egizie), si accompagna la liceità e financo la prescrizione di una forma di “incesto soft” fra parenti parzialmente consanguinei anche se non direttamente consanguinei (come nel matrimonio fra cugini incrociati). Naturalmente in questi casi di legami di consanguineità più o meno stretta (sebbene sia Freud che Lévi-Strauss lo neghino) non possono mancare in una certa percentuale conseguenze genetiche negative per la prole (come mostrano l’alto tasso di deficienza degenere e di malattie mentali nelle antiche famiglie regnanti europee, esemplificata nell’infante bambolotta reale dipinta da Velasquez in Las meninas): in termini darwiniani la riproduzione fra consanguinei è antiselettiva poiché (stante la più alta probabilità che un gene difettoso di un genitore anziché elidersi si raddoppi se coniugato con un gene allele di un consanguineo) facilmente danneggia la prole e indebolisce la razza. Invano si suol dire che i popoli tradizionali non conoscono queste cose: non conoscono le cause genetiche per cui nella prole di consanguinei è più alto il tasso di anomalia, ma certamente possono notare il fatto puro e semplice del maggior tasso di anomalie conseguenti all’incesto. Non a caso presso moltissime popolazioni del mondo si crede fermamente che la violazione del tabù dell’incesto attiri non solo la punizione divina sui colpevoli ma anche la disgrazia (sotto forma di cattivi raccolti, siccità, epidemie, catastrofi naturali, guerre, disgrazie di vario genere) sulla comunità intera che dunque deve assolutamente proteggersi da queste pericolosissime infrazioni. Evidentemente però le popolazioni tradizionali ritengono comunque che il rischio sia in certi casi e a certe condizioni sopravanzato dal vantaggio sociale. In questo senso a ragione Lévi-Strauss dice che il tabù dell’incesto, in realtà molto imperfettamente attuato nelle popolazioni tradizionali, non sia dovuto in prima istanza a profilassi genetica anche se certamente non si può concordare con lui quando dice che in queste società non si conoscano le anomalie del caso: in effetti esso è dovuto ad «alliance» interparentale, spesso effettuata − più di quanto ritenesse l’etnologo francese − su base endogamica e consanguinea sia pur in senso largo (come dimostra il diffuso matrimonio fra cugini). Quello che Lévi-Strauss ha inteso fare è stato proprio di tentare di ricondurre la grande varietà ed eterogeneità dei sistemi di matrimonio e di parentela vigente nelle più diverse società ad un numero limitato di princìpi universali fondamentali, le cui regole di trasformazione (in senso matematico) consentissero di spiegare la molteplice varietà della

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realtà empirica18. Lévi-Strauss diceva che la pensée sauvage, strutturante le relazioni simboliche e sociali in cui tanta parte svolgono le relazioni di parentela, rimanda in ultima analisi al meccanismo di funzionamento proprio della mente umana o esprit humain (in quello che P. Ricoeur definiva un «kantismo senza soggetto trascendentale»), il quale a sua volta rimanda infine ad un tessuto biologico, neurologico e genetico: secondo l’etnologo francese, la “struttura sociale” di Radcliffe-Brown poggia sulla più ampia struttura universale della mente umana; le «strutture elementari della parentela» costituiscono il codice primario soggiacente alla strutturazione delle forme arcaiche di società e in ultima analisi esso poggia sulla biologia19. In effetti, non si potrebbe negare il fondamento biologico e genetico che presiede alla notevole importanza (ben superiore a quella occidentale) che i legami di consanguineità e di parentela assumono nelle società tradizionali, necessariamente meno artificiali e meno lontane dalla nostra da un rapporto naturale e primario con l’esistenza. Ma non è vero che il tabù dell’incesto e la conseguente regola esogamica segnino lo spartiacque, come dice Lévi-Strauss, fra natura e cultura, non è vero che il tabù dell’incesto segni la discriminazione e il passaggio dall’animalità all’umanità, dalla natura alla cultura. Infatti l’incesto avviene raramente nel mondo animale e quasi mai fra i mammiferi superiori ove sembra valere come un veto naturale; in particolare fra i primati e le scimmie le relazioni sessuali fra consanguinei sono rarissime; in realtà con ogni probabilità nel mondo animale l’incesto avviene meno di quanto avviene nel mondo umano, dove in realtà l’incesto non è così desueto. Inoltre nel mondo animale è ben presente la parentela 18

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Le strutture della parentela volte a rintracciare l’algebra nascosta e lo scheletro segreto della società sono state sottoposte da Lévi-Strauss ad una analisi strutturale logico-formale altamente astratta (un capitolo del suo libro sulla parentela è stato approntato dal grande matematico A. Weil sulla base della teoria dei gruppi), ed essa ha suscitato molte discussioni (v. D. Sperber, Le structuralisme en anthropologie, in AA.VV., Qu’est-ce que le structuralisme?, 1968, tr. it. Lo strutturalismo in antropologia, in Che cos’è lo strutturalismo?, Milano 1971, Isedi, pp. 187- 264). Sul pensiero di Lévi-Strauss v. P. Cressant, Lévi Strauss, 1970 (tr. it. Introduzione a Lévi Strauss, Firenze 1971, Giunti Barbera); S. Nannini, Il pensiero simbolico. Saggio su Lévi-Strauss, Bologna 1981, Il Mulino; S. Moravia, La ragione nascosta. Scienza e filosofia nel pensiero di Claude Lévi-Strauss, Firenze 1969, Sansoni; F. Remotti, Lévi-Strauss. Struttura e storia, Torino 1971, Einaudi; R. Cipriani, Lévi-Strauss: un’introduzione, Roma 1988, Armando; E. Leach, Lévi-Strauss, 1970 (tr. it. Roma 1975, Newton Compton); M. Hénaff, Lévi-Strauss et l’anthropologie structurale, Paris 1991, Belfond; L. Scubla, Lire Lévi-Strauss, Paris 1998, Odile Jacob; E. Comba, Introduzione a Lévi-Strauss, Bari 2000, Laterza.

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di consanguineità, cosicché il “tabù dell’incesto” rivela un fondamento non culturale ma biologico20. L’importanza della consanguineità e della parentela è ampiamente comprovata anche nelle società animali21: anche nel mondo animale infatti, quando entrambi i genitori e non uno solo si occupano della prole (come avviene soprattutto fra molti pesci, uccelli e mammiferi), si costituisce una famiglia. Nella maggior parte dei casi gli stormi costituiti da molti tipi di uccelli e i branchi costituiti da lupi, leoni, gorilla non sono altro che gruppi di animali fra loro legati per consanguineità genetica e familiare. Parimenti le società delle api, delle formiche e delle termiti sono grandi e talora enormi famiglie di fratelli e sorelle in quanto tutti discendenti da un’unica femmina che è la regina madre, accudita e difesa fino alla morte dalle figlie operaie e fecondata dai fuchi loro fratelli. Quando sono in gruppo gli animali (rondini, vespe, api, etc.) riconoscono i propri parenti da vari segnali − soprattutto chimici e olfattivi, nonché acustici − e quindi sanno sempre discriminare fra un estraneo e un parente con cui condividono in tutto o in parte i geni e per la cui difesa possono intervenire ed eventualmente anche sacrificarsi. Perfino gli animali usi al cannibalismo (certi girini di stagno, le salamandre) solitamente evitano di cibarsi dei propri simili quando vi siano con essi legami di parentela genetica. Al riguardo, circa l’importanza della parentela nel mondo animale, si possono ricordare i gruppi sociali costituiti da una stessa famiglia che combattono ferocemente altri gruppi di una diversa famiglia. Così le api, tutte sorelle perché figlie di una stessa regina madre, costituiscono società ostili ad altre società di api costituite da altre famiglie: un’ape che cerchi di introdursi in un alveare non suo viene immediatamente riconosciuta dall’odore come appartenente ad un altro clan familiare e immediatamente uccisa. Parimenti le società familiari delle formiche assaltano ferocemente i formicai ove vivono altri clan familiari. Significativo è il caso di certi topi che, spesso mortalmente aggressivi fra loro e capaci di fare a pezzi un topo estraneo portatore di un diverso odore, diventano reciprocamente solidali non appena, essendosi il maschio dominante accoppiato con tutte le femmine, si forma una 20

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F. Ceccarelli, Il tabù dell’incesto. I fondamenti biologici del linguaggio e della cultura, Torino 1978, Einaudi: «È assai difficile considerare il tabù dell’incesto come un’acquisizione unicamente umana, dovuta all’opera della cultura o ad un qualche passaggio fra natura e cultura» (p. 66). La tesi sociobiologica secondo cui la socialità umana con i suoi sistemi di parentela si basa sulla socialità animale (soprattutto dei primati) è stata sostenuta ad esempio da R. Fox (Primate kin and human kinship in AA.VV., Biosocial Anthropology, London 1975, Malaby Press, pp. 9-35).

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società chiusa in cui tutti i topi sono fratelli cosicché al generico legame di specie si sostituisce un ben più forte legame genetico (anche un topo della stessa famiglia può essere ucciso se, sottrattovi e poi reimmessovi, non è più riconoscibile dai familiari avendo perso l’odore del gruppo di appartenenza). Nelle società umane e in particolar modo tradizionali proprio il fatto che i vincoli di consanguineità e di parentela familiare, attorno a cui si strutturano tutte le altre relazioni di parentela, affondino le loro radici nei legami genetici e biologici, ampiamente condivisi anche nel restante mondo animale, fa sì che essi cementino fra i membri del gruppo un’unione e una solidarietà ben più forte di quella che vi sarebbe in assenza di tali legami, ed essa può peraltro facilmente accompagnarsi a fenomeni di xenofobia verso gruppi portatori di reti di parentela estranee. Come si vede, siamo qui in presenza di quella che Bergson (in Les deux sources de la morale et de la religion) definiva «société close». Tutto questo naturalmente non nega che la peculiarità umana rispetto al mondo animale sia sicuramente la fuoriuscita dal “nucleo duro” della più stretta consanguineità in favore di un più ampio gruppo, per quanto non sconosciuto anche nei branchi animali. In questo senso il tabù dell’incesto sembra anzitutto volto a contrastare in nome di superiori esigenze sociali la possibile tendenza al legame sessuale fra consanguinei favorita dalla vicinanza fisica, poiché si vieta ciò a cui si inclina (se tale tendenza non vi fosse il tabù, come osservò il Frazer, sarebbe del tutto inutile). Nelle società umane infatti i legami matrimoniali permessi e sanciti fuoriescono dai limiti dell’incesto soft (ad esempio fra cugini) per allargarsi nella più ampia fondazione esogamica, sebbene ciò avvenga chiaramente secondo una disposizione “a ventaglio” il cui punto di partenza è sempre il nucleo originario caratterizzato dalla stretta consanguineità familiare. Per questo nelle società tradizionali l’interferenza dello zio, il levirato, il matrimonio tra cugini, e tutto quanto richiama al più stretto ambito familiare e rischia di rinchiudervisi, non può infine bastare alla costituzione di un gruppo sociale pur essendone in una forma o nell’altra la matrice originaria. L’alleanza matrimoniale non è che il primo e più forte nucleo di una vasta ragnatela di parentele che costituisce una solida trama di rapporti: ma in ogni modo, per quanto (secondo la tesi di Lévi-Strauss) la regola esogamica consenta l’uscita dalla consanguineità e un allargamento della parentela, rimane chiaro che essa non può mai comportare il matrimonio con l’estraneo. Soprattutto, la regola pressoché universale fra le popolazioni tradizionali (almeno fra quelle rimaste tali, cioè non urbanizzate) esclude tassativamente l’unione matrimoniale con altre et-

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nie: un uomo hamer non sposerà mai una donna mursi, una donna borana non sposerà mai un konso e questo isolamento genetico spiega peraltro la fisionomia assolutamente distinta e inconfondibile, davvero riconoscibile a colpo d’occhio, delle diverse etnie. La trama della società è precisamente costituita nelle popolazioni tradizionali dalla fitta e complicata rete, che si perde nella notte dei tempi, delle alleanze matrimoniali e delle parentele dirette e acquisite in cerchi clanici e tribali sempre più allargati a partire dal nucleo originario spesso collocato ai limiti dell’incesto. L’esigenza di ampliare, uscendone, questo nucleo originario, pericolosamente costeggiante l’abisso dell’incesto, è precisamente ciò in cui consiste la costituzione di una società allargata sebbene sempre cementata dalla trama dei rapporti di parentela. Così la federazione irochese studiata da Morgan comprendeva cinque nazioni ciascuna formata da otto tribù (cosicché ad esempio la tribù del Lupo si ritrovava in ognuna delle cinque nazioni) e un membro di una tribù poteva sposare solo una donna di un’altra tribù e non della propria. In questo ordinamento, peraltro, il conflitto fra nazioni diventa praticamente impossibile perché contrapporrebbe i “fratelli” di una stessa tribù dimoranti in due nazioni. Si potrebbe perfino dire (a parziale conferma di antiche tesi etnologiche) che l’usanza in questione trasforma probabilmente un originario ratto delle donne di un’altra tribù e una originaria conflittualità fra esse in un libero e pacifico scambio: anziché rubare la donna ad un’altra tribù la si ottiene tramite accordi. Parimenti in Australia certe tribù (come riferiscono gli studi en chambre di Durkheim e Mauss) si dividevano in due fratrie, ciascuna delle quali a sua volta suddivisa in specifici clan totemici, e gli uomini di dati clan potevano sposarsi solo con donne di altri determinati clan nell’altra fratria (spesso residenti in un altro villaggio). Ad esempio nel sistema in uso presso i Kariera e altre tribù di aborigeni australiani, studiato da Radcliffe-Brown, un individuo è assegnato dalla nascita ad una sezione (che definiamo A) su quattro della tribù: egli potrà sposarsi soltanto con una donna di una e una sola sezione fra le altre quattro (che definiamo la sezione B); i loro figli apparterranno solo ed unicamente alla terza sezione (C) e potranno sposarsi solo con persone della quarta sezione (D). In tal modo per un giovane in cerca di moglie la scelta nel villaggio è ristretta: è vietato prendere sia una donna della propria sezione, sia una donna della sezione del padre sia una donna della sezione della madre, cosicché solo una su quattro è la “sezione libera” ovvero la sola in cui il giovane potrà cercare la moglie (invece nel sistema Aranda la tribù è suddivisa in otto sezioni). Da parte sua Lévi-Strauss rilevò che i villaggi Bororo sono divisi (nella struttura più semplice) in due moitiés, e in ciascuna metà ogni clan è costituito di tre sezioni (supérieure, moyenne, inférieure): ciascun

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uomo di una metà può sposare solo una donna dell’altra metà, con l’ulteriore restrizione che la moglie può solo appartenere al suo stesso livello di sezione (superiore, medio o inferiore)22. Questa divisione di una stessa tribù in due metà esogamiche, all’interno o meno dello stesso villaggio, peraltro imitazione della struttura cosmologica (destra-sinistra, alto-basso, cielo-terra, luce-tenebre, estate-inverno etc.), è assai comune fra i popoli tradizionali: la si ritrova in varie popolazioni australiane, melanesiane, nordamericane nonché africane (in alcuni gruppi oromo come certe tribù borana e fra i Konso). Ci si chiarisce così (ben oltre l’aspetto classificatorio lévi-straussiano) un aspetto fondamentale del totemismo: nelle parole di un missionario citato da Levy-Bruhl, «se il sistema totemico proibisce ai membri di una classe esogamica di mangiare il loro totem, questo vuol dire puramente e semplicemente (come me l’ha spiegato un vecchio indigeno, che ne sapeva al riguardo più di noi tutti) che queste persone non possono aver relazioni sessuali le une con le altre, poiché il commercio sessuale è simbolizzato dall’atto di mangiare [...] Ecco a cosa mira l’astensione dal mangiare il totem, ed a nient’altro. Il totem è tabù (è proibito mangiarlo), per esprimere con questa astensione che tutte le persone che appartengono alla stessa classe totemica sono tabù le une per le altre dal punto di vista sessuale»23. Se avveniva che un uomo ignaro della parentela sposasse una cugina di quarto o quinto grado vivente in una contrada lontana, si procedeva ad appositi riti e cerimonie sacrificali in cui la parentela veniva annullata con conseguente scomparsa dell’incesto.24 La proibizione dell’incesto e del rapporto con consanguinei, in un clan ove tutti sono o si sentono consanguinei, pone naturalmente il problema della reperibilità delle donne per farne delle spose. La relazione fra tabù dell’incesto ed esogamia, scorta non tanto dal McLennan (Totem and Totemism, 1870) quanto dal Frazer (Totemism and Exogamy, 1910), ritorna su nuove basi in Lévi-Strauss: nella sua teoria la proibizione dell’incesto − comunque non così universale come egli pretendeva − costituisce e fonda l’esogamia ed è dovuta alla necessità dell’articolazione sociale dello scambio, che è comunicazione in quanto scambio di parole (linguaggio), scam-

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C. Lévi-Strauss, Tristes tropiques, cit., pp. 248-253, 273-277. L. Levy-Bruhl, Sovrannaturale e natura nella mentalità primitiva, cit., pp. 232233 (su “Le trasgressioni e l’incesto” tutto il cap. VII, pp. 219-250). Levy-Bruhl però (pp. 233-234, 236) riduce il tabù dell’incesto ad un terrore del fatto insolito e anomalo, paragonabile alla comparsa di una cometa o a un parto gemellare, e non ne vede le più profonde ragioni. Ivi, pp. 243-245.

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bio di merci (economia), scambio di donne (strutture della parentela)25. Nell’impostazione dell’etnologo francese, anche quello matrimoniale è uno scambio e un dono la cui fondamentale importanza è nell’essere costitutivo della società. Infatti, nonostante l’indubbia e ampia presenza di quello che abbiamo definito “incesto soft”, basato su un legame più largo di consanguineità, la società in quanto tale richiede comunque un ulteriore ampliamento e questo ampliamento esige che un uomo prenda infine in moglie non una donna della sua famiglia e del suo clan bensì la donna di un’altra famiglia e di un altro clan, perché solo ciò consente quella rete di relazioni e di legami che allarga l’ambito chiuso della famiglia originaria e costituisce l’ossatura della società. La parentela consanguinea non è infatti esente da tensioni e rivalità e la chiusura endogamica e incestuosa impedisce la formazione di più ampie unità: se fosse lecito sposare la propria sorella o la propria figlia il clan familiare si rinchiuderebbe in se stesso e non potrebbe darsi alcuna società con la sua caratteristica rete di scambi e di alleanze che ne costituiscono la trama. Per questo, a parte l’eccezione costituita da certe dinastie regnanti, il tabù dell’incesto − quantomeno dell’incesto hard − è universale (nonostante poi la sua pratica sia alquanto frequente). La probizione dell’incesto (almeno dell’incesto hard) attiva la trama degli scambi matrimoniali e intesse la rete delle strutture sociali. L’impossibilità di avere rapporti sessuali all’interno di una determinata cerchia di parenti o all’interno della metà esogamica della propria tribù fa sì che si debba per forza ricercarne all’esterno di questa cerchia: «la proibizione dell’uso sessuale della figlia o della sorella costringe a dare in matrimonio la propria figlia o sorella a un altro uomo, e nello stesso tempo crea un diritto sulla figlia o la sorella di quest’ultimo. […] La proibizione equivale ad un obbligo, e la rinuncia apre la strada ad una rivendicazione»26. I membri di un dato clan che si riconoscono all’interno di uno stesso totem si sentono legati fra loro da vincoli di consanguineità e di parentela come fratelli e sorelle in quanto discendenti da un comune capostipite, anche se in realtà una vera consanguineità può poi esservi solo in misura ristretta, cosicché ne consegue il divieto di relazioni sessuali e matrimoniali all’interno del clan, donde la destinazione delle donne ad altri clan. La donna che un uomo si nega (la sorella o la donna del proprio clan) è al contempo data ad altri. 25

26

«In ogni società, la comunicazione avviene almeno a tre livelli: comunicazione delle donne; comunicazione dei beni e dei servizi; comunicazione dei messaggi. Di conseguenza lo studio del sistema di parentela, quello del sistema economico e quello del sistema linguistico presentano talune analogie» (C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, Paris 1958, Plon, p. 326). C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, cit., p. 98.

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Il matrimonio consente per l’appunto questo scambio, questa circolazione della “merce-donna”: vi sono così (come dicono gli antropologi francesi) «les donneurs de femmes» e «le preneurs de femmes». In realtà non è vero che i membri di un clan sono tutti consanguinei fra di loro, e dunque la proibizione del matrimonio all’interno di un clan non è veramente una forma di tabù dell’incesto sebbene sia avvertita come tale: però, nella costituzione della società e in nome delle esigenze sociali, si tratta dell’esigenza avvertita come impellente di uscire non solo dal cerchio soffocante e incestuoso delle relazioni familiari ma anche di uscire dal proprio stesso ristretto ambito clanico percepito anch’esso come chiuso da legami di consanguineità magari fittizi ma avvertiti come reali e cogenti. Così la ragione ultima della probizione del rapporto di un uomo con la propria sorella è che essa è destinata ad un altro uomo proveniente dall’esterno (sebbene non da un’altra etnia) e, più in generale, la proibizione di una donna per un uomo appartenente al suo stesso clan familiare (o, come in altri casi, alla stessa metà clanica del villaggio) coincide con la disponibilità di questa donna per un altro uomo di altro clan e, parallelamente, la disponibilità di una donna di questo altro clan per l’uomo che rinuncia alla propria sorella. La circolazione delle donne collega i clan, previene o limita l’esplodere delle rivalità claniche, permette di passare dalla diffidenza reciproca, dal sospetto e dallo stato di guerra permanente all’amicizia. Questo consente la formazione di più ampie unità sociali. Un uomo può così cedere la propria sorella ad un altro gruppo familiare, e da esso potrà a sua volta prendere una donna come moglie: come scrive Lévi-Strauss, «la donna che ci rifiutiamo e che ci viene rifiutata è per ciò stesso offerta»; «a partire dal momento in cui io mi vieto l’uso di una donna, che così diviene disponibile per un altro uomo, c’è da qualche parte un uomo che rinuncia ad una donna che, perciò, diviene disponibile per me»27; «io rinuncio a mia figlia o a mia sorella solo a patto che anche il mio vicino rinunci alle sue; […] il fatto che io possa ottenere una moglie è, in ultima analisi, la conseguenza del fatto che un fratello o un padre abbiano rinunciato a lei»28. Se una donna lascia la sua famiglia per andare sposa ad un altro uomo, ella lascia un posto vuoto (un posto lavorativo vuoto ancor prima che un posto affettivo), ma questo posto vuoto potrà essere riempito sostituendo la donna perduta con un’altra acquisita come sposa dal fratello (o dallo stesso padre che si prende un’altra moglie laddove vige la poligamia). Così se il capofamiglia cede una donna (una figlia) è sempre nella prospettiva di riceverne un’altra 27 28

Ivi, p. 99. Ivi, p. 113.

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in futuro, in modo che il conto totale sia pareggiato e non in perdita. Da una parte lo scambio delle donne previene il conflitto e, dall’altra parte, il rifiuto a tale scambio innesca il conflitto: non a caso la leggenda del ratto romano delle Sabine narra del ratto come di una reazione innescata dal rifiuto dei padri sabini a cedere le figlie ai loro vicini e del conseguente conflitto che però viene fermato dalle donne sabine stesse che, ormai madri e mogli, implorano la cessazione di una guerra che sarebbe ormai fratricida per l’acquisita parentela fra i combattenti.29 Certamente poi il principio della reciprocità non si riduce ad un meccanismo automatico e meccanico di dare-rendere: al riguardo Lévi-Strauss distingue lo “scambio ristretto”, in cui il gruppo A dà una donna a B e ne riceve un’altra, dallo “scambio generalizzato” in cui la restituzione è indiretta e su tempi più lunghi perché ad esempio A dà a B che dà a C il quale ultimo infine ridà ad A. Queste sono le «strutture elementari» della parentela, laddove invece − ma la distinzione non appare rigida − le «strutture complesse» (almeno quelle proprie della società europea) consentono un allentamento dei vincoli della parentela e una maggiore libertà di scelta matrimoniale (Lévi-Strauss, in seguito concentratosi sullo studio della mitologia, non ha fornito la promessa analisi delle “strutture complesse” che avrebbe dovuto costituire una teoria generale della parentela). La fondazione dell’esogamia nelle società tradizionali è ancora più evidente quando alla regola della filiazione segue quella della residenza, per cui ad esempio alla patrilinearità corrisponde anche la patrilocalità, perché ciò consente un maggior distacco (in questo caso per la sposa) dalla famiglia d’origine. Ma anche la matrilocalità, in cui lo sposo va a vivere in un altro villaggio a casa della sposa o dei genitori della sposa, è funzionale allo scambio: in questo caso la famiglia della sposa non cede in tutto la propia donna e acquista un uomo tenuto ad aiutare nella caccia, ma d’altra parte lo sposo che va a vivere presso la sposa diventa una sorta di avamposto inviato dalla famiglia per tessere in loco una nuova alleanza. Invero lo scambio costituisce l’essenza stessa del rapporto sociale e della vita comunitaria: esso non è riducibile ad un automatismo perché in realtà avviene più facilmente sulla base dell’introiezione fiduciaria del principio dello scambio. Tuttavia, si noti: anche e soprattutto nella più chiara strutturazione esogamica, l’importanza della parentela clanica nelle società tradizionali permane evidente, come dimostra il fatto che spesso in esse i beni vengono trasmessi in eredità non al coniuge o al figlio ma ai fratelli, alle sorelle, agli zii e in genere al clan di appartenenza del defunto, perché in esso (come rilevò il Morgan) 29

G. Dumézil, Mariages indo-européens, 1979, tr. it. Matrimoni indoeuropei, Milano 1984, Adelphi, pp. 95-100.

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vigono stretti legami di consanguineità che sono per metà persi nel figlio che per metà riceve anche il “sangue” (oggi diremmo il codice genetico) dalla madre proveniente per via esogamica da un altro clan o da altra tribù.30 È dunque evidente che ogni relazione di scambio improntata al principio di reciprocità, a partire dallo scambio matrimoniale che mette in relazione clan diversi all’interno della stessa tribù fino agli scambi commerciali più generali fra diverse tribù, è in realtà un deterrente dell’ostilità e della conflittualità reciproca. Per Malinowski questo è il dato di partenza, la crisi originaria che sempre attende una soluzione: «L’atteggiamento fondamentale di un indigeno verso degli altri gruppi estranei è di ostilità e di diffidenza − scrive l’etnologo polacco −. Il fatto che per un indigeno ogni straniero sia un nemico è una caratteristica etnografica rilevata in ogni parte del mondo»; parlando degli abitanti delle isole Trobiand nel Pacifico come di ogni altro indigeno sotto ogni latitudine, egli dice che «al di là del suo ristretto orizzonte sociale un muro di sospetto, di incomprensione e di latente inimicizia lo divide anche dai vicini più prossimi»31. Ma al riguardo è rilevante l’antico cerimoniale Kula esaminato da Malinowski e tuttora in uso nelle isole Trobiand: gli “argonauti”, che per motivi di commercio affrontavano i pericoli del mare viaggiando fra una trentina di isole dell’arcipelago disposte in cerchio, scambiavano fra di loro (in uno scambio con restituzione posticipata che non era un baratto) delle collane − simbolicamente maschili − di conchiglie rosse (soulava) alludenti alla Luna, che circolavano in senso orario da occidente a oriente, con dei braccialetti − simbolicamente femminili − di conchiglie bianche (mwali) alludenti alla rinascita del Sole e circolanti in senso antiorario da oriente a occidente in una reciproca intersezione: le conchiglie non potevano essere trattenute e, in una specie di catena di S. Antonio, tornavano idealmente al mittente dopo aver fatto tutto il giro nel duplice senso (giro che dunque, aggiungeremmo noi, era anche l’emblema di una rotazione cosmica). In tal modo gli abitanti delle Trobiand superavano le loro rivalità etniche e le reciproche ostilità rinsaldando i legami pacifici e commerciali fra le diverse tribù: ogni transazione commerciale era sempre preceduta da un dono (collana o braccialetto) del visitante, che avrebbe dovuto a suo tempo essere restituito e che per intanto predisponeva ad una transazione economica improntata a lealtà e fiducia

30 31

L.H. Morgan, La società antica, cit., pp. 134-135 (e tutto cap. VI sulle regole dell’eredità). B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, 1922, tr. it. Argonauti del Pacifico occidentale, Torino 2004, Bollati Boringhieri, p. 346.

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foriera di più ampi legami culturali, proprio come la collana maschile si lega naturalmente al braccialetto femminile e come nell’ordinata interrelazione cosmica il Sole-maschio procede appaiato con la Luna-femmina. In tal modo il rapporto amichevole fra tribù è simbolicamente concepito sul modello del rapporto di scambio matrimoniale fra uomo e donna. Dalla rilevanza del Kula e dei fenomeni di scambio segue la teoria di Mauss sul dono (che ha molto influenzato Lévi-Strauss): come l’antropologo francese ha messo in rilievo, nello scambio di doni si sottintende un triplice obbligo morale, «l’obbligo di dare, l’obbligo di ricevere, l’obbligo di ricambiare», con cui si cementano le relazioni fra individui e comunità in base al principio della reciprocità. Come cemento sociale, lo scambio emblematizzato nel dono è per Mauss la struttura primaria dell’intersoggettività e la costituzione stessa del sociale: esso è una sorta di forma pura e a priori dell’intersoggettività32. Non per ciò tuttavia la conflittualità originaria è annullata, in quanto essa sempre sussiste al fondo. Il dono stesso infatti è spesso a ben vedere un “regalo avvelenato” in quanto serve a dimostrare la propria ricchezza, il proprio prestigio e status: accettare un dono, cosa peraltro inevitabile, lega, impegna, pone in condizione di inferiorità. Emblematico il caso del potlatch: in certe tribù (soprattutto nordamericane e dell’area eschimese-siberiana) vi erano capi e persone di prestigio che in occasioni di feste e di buon raccolto distribuivano e regalavano a tutti in maniera spropositata cibo in quantità ed altri beni (potlatch è appunto il “luogo dove ci si nutre”). Ora, l’obbligo morale per chi ha di distribuire parte di quel che ha (a partire dai frutti della caccia e della raccolta) è sentito come un sentimento di giustizia naturale: il principe Kropotkin vedeva in queste distribuzioni (da lui rintracciate fra gli eschimesi) un modo di ristabilire nel “mutuo appoggio” l’eguaglianza e il comunismo primitivo da parte di società acefale33. Però nel potlatch non si trattava di ristabilire una condizione egualitaria ed anzi si trattava proprio del contrario, in quanto i diversi capi rivali si sfidavano in gare di folle munificenza per guadagnarsi l’ammirazione e il seguito della comunità del villaggio, anche indebitandosi e andando in rovina. Essi giungevano a privarsi dei propri beni o financo a distruggerli (distruzione di canoe, di preziose stoviglie di rame etc.) in una furia incontenibile per dimostrarne l’esubero, ma in realtà il fine di 32

33

M. Mauss, Essai sur le don, 1923-1924, tr. it. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Teoria generale della magia e altri saggi, cit. (v. J. Cazeneuve, Sociologie de Marcel Mauss, 1968, tr. it. La sociologia di Mauss, Milano 1971, Il Saggiatore). P. Kropotkin, Il mutuo appoggio fattore dell’evoluzione, 1902, tr. it. Bologna 1950, Libreria di Avanguardia.

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questi doni spropositati che tuttavia esigevano di essere ricambiati era proprio renderne impossibile la restituzione, onde sancire la propria potenza e preminenza sociale di fronte ad altri personaggi di rilievo e scalzarne il potere: il “dono” aveva in questi casi lo scopo di distruggere colui che lo accettava e non poteva non accettarlo. Così, mostrando la natura in ultima analisi necessaria e interessata del dono e dello scambio, Mauss giunge a dire che spesso in esso «non c’è che finzione, formalismo e menzogna sociale e, al fondo, obbligo e interesse economico»34. Tuttavia, la solidarietà dello scambio non si riduce a ciò in quanto comunque rinsaldante i rapporti sociali cosicché lo scambio rimane la base, interessata quanto si vuole, della società: «il sistema che proponiamo di chiamare delle prestazioni totali, da clan a clan − quello in cui individui e gruppi si scambiano ogni cosa tra loro − costituisce il più antico sistema economico e giuridico che ci sia dato di constatare e di concepire. Esso forma lo sfondo da cui si è distaccata la morale del dono-scambio».35 Lo scambio, a partire dallo scambio primario delle donne nella rete matrimoniale costituente i legami di parentela e la solidarietà sociale (adombrato nelle Trobiand nello scambio di braccialetti femminili con collane maschili), si allarga al contempo via via in cerchi sempre più ampi e diventa scambio nel senso più generale del termine. Questo vale in particolare per il tipo peculiare di scambio che avviene nella sfera economica e che, nelle società tradizionali, ha il suo culmine nel mercato. Se v’è un elemento che in Africa controbilancia almeno in parte l’antagonismo e la rivalità bellicosa fra le diverse popolazioni, questo è il mercato. Quando ad esempio si viaggia nel sud dell’Etiopia per la Valle Omo si vede che ogni tribù dedica almeno un paio di giorni della settimana al mercato che riunisce gente di diverse etnie provenienti da ogni dove. Vi si vende e vi si compera di tutto − verdura, spezie, burro, latte, zucche decorate, e anche oggetti di artigianato e vestiti tradizionali per i ferengj −, ma con ogni evidenza questi mercati africani non sono solo luoghi di affari bensì piuttosto fiere come nel nostro Medioevo, luoghi di incontro e di socializzazione dove genti di diverse etnie spesso in conflitto tra loro si incontrano. La contrattazione 34 35

M. Mauss, Saggio sul dono in Teoria generale della magia e altri saggi, cit., p. 158. Ivi, p. 275. Mauss, che si ispirava a ideali politici moderatamente socialisti, in conclusione del suo saggio (pp. 271-275) difendeva come necessario anche nelle nostre società economicistiche un ritorno ad un’etica della solidarietà. Sugli ideali sociali di Mauss v. la silloge in traduzione italiana tratta dalle Oeuvres in M. Mauss, I fondamenti di un’antropologia storica, Torino 1998, Einaudi, parte seconda.

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con il ferengj vi diventa un gioco del “tira e molla”, una recita di teatro con acquirenti che fingono di andarsene per i prezzi elevati chiesti e venditori che corrono loro dietro giurando di non guadagnarci nulla, ma naturalmente fra i locali anche di diverse etnie tutto è più semplice, schietto e informale e l’eventuale acquisto non è che una parte di un più ampio scambio di notizie e informazioni. In questo senso i mercati africani, pur essendo luoghi deputati ad uno scambio di tipo economico, appaiono luoghi di uno scambio più generale. Essendo infatti l’economia di queste popolazioni una economia di produzione domestica essenzialmente volta alla sussistenza (pastorizia, agricoltura, caccia e pesca) in cui i “bisogni indotti” sono minimi, è lecito pensare che l’indubbio incentivo alla produzione di un surplus atto ad uno scambio commerciale non sia solamente economico bensì risponda proprio all’esigenza di fuoriuscire un paio di volte la settimana dal ristretto ambito della propria regione e della propria tribù, per incrementare il livello di socialità con altre tribù altrimenti potenzialmente nemiche per la competizione per le risorse. In questo modo viene in parte superato il frazionamento e l’isolamento che le peculiari condizioni geografiche impongono alle popolazioni del Corno d’Africa, separate fra loro da asprezze di terreno che tuttavia possono e devono essere superate un paio di volte la settimana in cui ci si scambia quello che si ha e parimenti si attiva una circolazione di pensieri: come gli “argonauti” delle isole Trobiand solcano coraggiosamente sulle loro piroghe e canoe le onde dell’oceano Pacifico così collegando isole fra loro lontane e separate, ed instaurando fra i loro abitanti uno scambio economico e culturale simbolicamente sancito dal passaggio di mano in mano delle collane e dei braccialetti che percorrono tutte le isole idealmente unificandole, così gli abitanti delle diverse tribù in queste lande africane lasciano le loro “isole tribali” e camminano a lungo sotto il Sole cocente attraversando vallate e colline convergendo verso il luogo del mercato, da cui poi si dipartono sulla via del ritorno avendo nel frattempo celebrato una sorta di cerimonia di pacificazione e di conoscenza reciproca. Il dono che si scambia nei mercati non è naturalmente l’oggetto che viene regolarmente venduto e comprato, e nemmeno è un dono materiale che viene contraccambiato, bensì è un dono simbolico e spirituale della massima importanza: è un dono e uno scambio di idee e pensieri fra popolazioni altrimenti isolate e lontane. Il principio dello scambio, che è un principio di reciprocità e di solidarietà, appare dunque il tessuto stesso della trama sociale e il vero e solo deterrente all’aggressività sempre latente fra queste popolazioni impegnate in una dura lotta per la vita. Questo scambio, che è uno scambio di beni e servizi ma più in generale uno scambio di relazioni, è cementato e reso possibile (all’interno di ciascuna etnia) proprio

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dalle alleanze matrimoniali e dalle rete delle parentele. In tal modo, per cerchi sempre più ampi a partire dai vincoli di consanguineità e parentali, si costituisce la società: al riguardo Morgan (sia pur all’interno di una impropria concezione ottocentesca stadiale e necessitaristica del “progresso umano”) parlava di un allargamento progressivo dalla gens alle fratrie alle tribù fino alla confederazione di tribù, con possibile frammentazione successiva all’inverso della tribù in nuove gens, fratrie, tribù, vedendo infine nella costituzione dello Stato fondata sulla gerarchia e la proprietà privata il discrimine e l’affossamento dei più arcaici sistemi “gentilizi” basati sulle consanguineità e le parentele. La costituzione della società non è dunque possibile senza l’apparire del principio, via via più ampio, di scambio e reciprocità. A questo scambio, costitutivo della trama sociale, presiedono nelle società tradizionali gli anziani del villaggio cui compete l’autorità: il sistema di potere nelle società tradizionali appare spesso come una gerontocrazia fondata sull’età. A dire il vero non è del tutto così nel sistema Gada, in cui le decisioni passano attraverso le discussioni svolte nelle assemblee di villaggio e in cui gli anziani detentori dell’autorità alla fine del loro ciclo devono lasciare il posto alla nuova classe entrante, ma anche in questo sistema un uomo non può esercitare alcuna autorità finché non ha una famiglia e non ha raggiunto i quarant’anni che per queste popolazioni possono già dirsi un’età abbastanza avanzata. Il carattere democratico ed assembleare di molte di queste comunità naturalmente non ne nega la strutturazione gerarchica secondo una data scala di valori, e al vertice di questa scala in un modo o nell’altro sta indubitabilmente l’anziano: egli è il depositario del sapere e spesso in queste popolazioni il consiglio degli anziani decide su tutto, sulle dispute terriere, sui litigi, sui pagamenti di ogni tipo. In varie società tradizionali gli anziani raccolgono in appositi granai il prodotto della caccia o dell’agricoltura e poi lo ridistribuiscono. L’importanza della vecchiaia in queste società appare spesso nel modo più chiaro al momento della morte: mentre infatti nella nostra cultura la morte di una persona anziana viene più facilmente accettata e la morte di un bambino suscita particolare pena, viceversa in queste società la persona anziana defunta è onorata con degna sepoltura e ritualmente pianta a lungo, mentre invece il neonato o anche il giovane morto, che ancora non ha potuto mostrare il suo valore e la sua utilità nella società, ha diritto solo a modestissime fosse. Per gli anziani, o più semplicemente per quelli che noi considereremmo degli uomini maturi, i figli e i giovani della comunità sono un bene inestimabile: essi infatti, già a pochi anni di età, assolvono quelle mansioni

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proprie del ciclo produttivo che agli anziani non spettano più e che essi comunque non sarebbero più in grado di svolgere; essi così fin da bambini accudiscono i fratelli, raccolgono l’acqua e la legna, cucinano (le bambine), oppure custodiscono gli armenti (i bambini). Non solo nelle società tradizionali, ma in tutte le società povere basate sulla difficile ricerca della sussistenza, i figli e per estensione i giovani − ovvero i figli cresciuti, non morti in fasce laddove è alta la mortalità infantile − sono un investimento. Durante la discussione fra etnologi e nativi della Omo Valley approntate dal Centro di ricerche antropologiche di Jinka, realizzato da missioni tedesche, e visibile anche nel documentario che ne ha tratto Konrad Licht (Let’s get to know each other, 2002), una donna Bashada spiega così la cosa: «è bene mettere al mondo molti maschi e molte femmine. Se una delle figlie va via per sposarsi, tu ne avrai ancora una più piccola che ti aiuta. E quando anche lei se ne sarà andata via per sposarsi, tuo figlio maggiore porterà sua moglie e lei ti aiuterà. In questo modo tu hai sempre qualcuno che ti aiuta. Avere una sola figlia o un solo figlio è male. [...] Questo è il motivo per cui a noi piace avere molti bambini: perché ci possono aiutare»36. I figli in questo modo diventano un investimento per il futuro, una forma di pensione primitiva: il ciclo riproduttivo diventa qui parte integrante e componente fondamentale del ciclo produttivo37. Per questo la sterilità è vissuta come una maledizione: una donna che non partorisce figli è come una mucca improduttiva o una capra che non dà latte, e oltretutto rischia di essere considerata una strega portatrice di sventura la cui sterilità contamina tutto il villaggio, i campi e gli armenti, con tutte le conseguenze del caso. Ella andrà sicuramente dalla fattucchiera o dallo stregone per cercare di vincere la propria sterilità con un incantesimo. Ma se la moglie appare indiscutibilmente sterile sicuramente il marito pur di avere dei figli prenderà una seconda moglie (l’Antico Testamento ricorda anche Giacobbe che, dietro incitamento di Rachele che era sterile, genera con un’ancella figli di 36 37

S. Epple - T. Brüderlin, The Pride and Social Worthiness of Women in South Omo, South Omo Museum and Research Center, Jinka (Ethiopia) 2002, pp. 44-45 (trad. mia, come le seguenti del libro). Per un’analisi dell’endiadi e della circolarità fra ciclo produttivo e riproduttivo v. C. de Meillassoux, Femmes, greniers & capitaux, Paris 1975, Maspero (tr. it. Donne, granai e capitali, Bologna 1978, Zanichelli; dello stesso autore v. anche Anthropologie économique des Gouro de Côte d’Ivoire, Paris 1964, Mouton). Non riusciamo però a vedere, in queste economie domestiche rurali alquanto isolate e largamente autosufficienti, un intervento capitalistico distruttivo così massiccio quale quello postulato dall’autore (sull’etnologia marxista di Meillassoux v. E. Terray, Le marxisme devant les sociétés «primitives», 1969, tr. it. Il marxismo e le società primitive, Roma 1969, Samonà e Savelli, pp. 81-153).

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cui sarà madre Rachele: Genesi 30, 3); se invece sterile è l’uomo allora la donna − come dicono sia le donne bashada che kara − col suo consenso si incontrerà segretamente nel bosco con un altro uomo (in genere il fratello del marito) per farsi mettere incinta pur essendo poi il figlio pienamente riconosciuto dal marito38. Addirittura presso i Nuer del Sudan e presso gli Yoruba della Nigeria la cosa è legalizzata: la donna sterile sposa una giovane donna a cui regolarmente versa il “prezzo della sposa” e le fornisce un amante (o questa se lo procura) per averne dei figli che saranno suoi e non dei genitori biologici. La necessità in queste società di avere dei figli, anche molti figli, spiega l’onnipresenza della simbologia fallica. Molti indizi rimandano in queste società al simbolo fallico: il binyere fallico al collo delle donne hamer sposate, il boko baciato dalle donne e orgogliosamente portato dal giovane che si appresta a fare il salto del toro (ne riparleremo), l’antica tradizione dell’evirazione del nemico ucciso il cui pene diventa un trofeo nonché (come vedremo) le stele falliche e i waga funebri ornati di simboli fallici. Il simbolo fallico certamente celebra l’onore e la potenza del guerriero, ma è anche imprescindibilmente un simbolo della generazione, un simbolo e un auspicio di fecondità e di fertilità che va inteso nel senso più ampio: non si tratta soltanto della fecondità delle donne ma anche della fecondità degli armenti, della fecondità delle mucche nel dare latte e dei tori nel procreare, e più in generale si tratta della fecondità e della fertilità della terra e della natura tutta, cosicché contro la siccità e la carestia si auspica il rigoglio della vegetazione e il fiorire delle messi. Non a caso spesso le cosmologie religiose di questi popoli concepiscono la creazione del mondo come il risultato di uno ιερòς γάμος, di un amplesso sacro e originario fra una divinità del cielo che si manifesta nel raggio di Sole o nella pioggia fecondante, e la Madre Terra che quel raggio di Sole e quella goccia di pioggia accoglie nel suo seno, come una Danae che irrorata dalla pioggia d’oro, dalla polvere e dalla luce dorata che dall’alto le scivola dolcemente in grembo, viene fecondata da Zeus. Al riguardo ricordo l’antico tempio campano della fecondità rinvenuto dal Patturelli, a cui si accedeva tramite un ingresso che recava a fianco due sfingi dai molti seni fecondi e che conduceva ad un’area ai cui lati stavano le statue, alcune delle quali risalenti all’età etrusca, di donne assise con uno o più bambini (i reperti sono ora al museo nazionale di Capua). E anche ricordo la “festa del maggio” di Accettura in Lucania (tenuta anche nel viterbese ma con rispondenze 38

S. Epple - T. Brüderlin, The Pride and Social Worthiness of Women in South Omo, cit., p. 62.

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in antiche simili feste germaniche, provenzali e greche documentate dal Frazer), in cui si celebra uno “sposalizio arboreo”: i contadini si recano alle due opposte estremità del paese, vi tagliano in una l’albero più alto e robusto e nell’altra quello più frondoso e rigoglioso, poi portano i due tronchi nella piazza del paese e, incastrandoli l’uno nell’altro come in un amplesso facendone un sol tronco, li innalzano, un tempo anche legando sulla cima quale emblema di fecondità vari animali vivi (conigli, galline et.) a cui poi si sparava liberamente39. Ancora si possono ricordare le “coppelle”, le piccole cavità scavate nella roccia rintracciate ovunque in tutto il mondo e spesso risalenti a età lontane: nel quadro di arcaici riti di fertilità esse sembrano rimandare a riti propiziatori in cui la Madre Terra, come una matrice uterina e un centro energetico e germinale, evoca e attira la divinità del Cielo che in un’unione sacra la feconda ingravidandola e impregnandola di seme, di sole, di pioggia, affinché essa custodisca quel raggio e quella pioggia così come custodisce il seme germogliante40. La diffusione dei riti di fertilità è invero universale e, riguardo l’Etiopia, noi abbiamo già ricordato la festa religiosa del Timkat, il grande rito dell’Acqua ove sullo sfondo della cerimonia del battesimo cristiano è ben percepibile, in un libero e gioioso tripudio, il retroterra di antichi culti della fertilità che il Pollera ad esempio aveva rintracciato nelle popolazioni eritree. Non è dunque un paradosso né una contraddizione il fatto che in queste società povere, in cui la fecondità della natura viene financo elevata a principio cosmico e religioso, si mettano spesso al mondo parecchi figli. Non è che non si sappia come evitarli ed invero è assai diffusa la pratica dell’aborto (soprattutto per gravidanze di donne non sposate) e tuttora a volte quella dell’infanticidio (dei gemelli, di coloro che nascono dai piedi, di coloro a cui spuntano prima gli incisivi superiori, dei malformati, dei nati in esubero, talora delle femmine etc.41), così come è diffusa la pratica di fatto anticoncezionale che vieta il rapporto sessuale anche per uno o più anni dopo la nascita di un figlio onde, col distanziamento delle nascite, rafforzare il neonato con adeguato periodo di allattamento (che in queste società può durare anche due anni o più) in zone ad alta mortalità infantile spesso caratterizzate da alimentazione a basso apporto proteico: ma queste pratiche sono del tutto complementari e non antitetiche al desiderio di 39 40 41

G. Bronzini, Accettura. Il contadino, l’albero, il santo, Galatina 1979, Congedo Editore. Sulle feste dell’Albero di Maggio v. J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 459501. G.C. Borgna, Arte rupestre preistorica europea, Cavour 1980, Edizioni Ephedra. Sull’infanticidio connesso ad eventi desueti (gemellarità, parto podalico etc.) v. L. Levy-Bruhl, La mentalità primitiva, cit., pp. 138-148.

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avere figli. Spesso essi non vengono particolarmente curati e come pulcini seminudi e sporchi razzolano nel villaggio o fuori quasi abbandonati a se stessi: è incredibile quanti bambini e bambine anche di pochissimi anni si vedono in giro da soli per le polverose piste africane, pericolose per il passaggio di camion e di fuoristrada, e anche colpisce vedere bambine di sette-otto anni portare sulle spalle sotto il sole cocente lo “zainetto” con la sorellina neonata. Se muoiono ancor piccoli, per questi bambini e per queste bambine vi sarà solo una modestissima fossa ma se vivono essi presto, molto presto imparano a lavorare i campi, a pascolare gli armenti, ad andare a caccia e a pesca, ad occuparsi degli anziani genitori. In particolare le ragazze (o anche le bambine) lavorano veramente molto, più degli uomini: cucinano, vanno a prendere l’acqua e la legna, lavorano i campi, accudiscono i fratelli e le sorelle più piccoli. Per questa loro fatica queste ragazze, col passare degli anni, possono ricevere dai loro padri come ricompensa dei braccialetti, e poiché esse lavorano molto allora possono di conseguenza avere molti braccialetti: indossati essi diventano un simbolo di prestigio, della prosperità frutto del duro lavoro, ma soprattutto diventano agli occhi del futuro sposo una garanzia di avere per moglie una buona lavoratrice. Stante la realtà insopprimibile e naturale del lavoro svolto dai giovani e soprattutto dalle ragazze nelle società tradizionali ben si comprende che un uomo per aver diritto ad una sposa, ovvero per poter sottrarre una donna ad una famiglia nella quale e per la quale lavora duramente per farne una moglie che lavorerà per lui e gli darà dei figli che parimenti lavoreranno per lui, dovrà pagare il “prezzo della sposa” ovvero una consistente dote in beni economici soprattutto in mucche e in pecore (in base alle sue disponibilità) non solo al padre e ai familiari più stretti della futura sposa ma, in misura via via decrescente col decrescere del grado di parentela, ai suoi parenti tutti: ad esempio una o due mucche (o molte più) per il padre, per la madre e per ciascuno dei fratelli e sorelle, e poi pecore in quantità a stabilirsi per cognati e cugini etc. Viceversa è impensabile il pagamento di un “prezzo dello sposo” proprio perché l’uomo, anche se con la caccia esercita un lavoro, non è percepito come un lavoratore bensì come un proprietario di se stesso. Il pagamento della dote della sposa, proprio perché oneroso, può essere fatto anche a credito: nel caso muoia il creditore, ovvero il padre della donna, allora i parenti più prossimi (principalmente i fratelli della sposa) riceveranno un pagamento supplettivo in vece del morto. Se invece muore il debitore, ovvero il novello sposo, allora i suoi familiari dovranno pagare per lui: in tal caso però (come si è detto) è previsto in

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certe popolazioni che il fratello del defunto sposo si prenda la vedova e si unisca con lei pur senza un vero e proprio matrimonio cosicché i figli avranno due padri, uno vero ma defunto e l’altro putativo. Che la sposa sia al centro di una complessa trattativa fra la sua vecchia famiglia e la nuova appare particolarmente chiaro nella lunga cerimonia matrimoniale dei Luo del Kenya, descritta dal grande africanista EvansPritchard: quando i giovani compagni dello sposo vanno a prelevare la sposa dall’abitazione, ella oppone resistenza, grida, fa un gran baccano, viene trascinata a forza e accade un combattimento fra i giovani del villaggio della sposa e i giovani compagni dello sposo. Naturalmente è una scena mimata, potremmo dire un gioco rituale, un pezzo di teatro, tant’è vero che poi le ragazze della famiglia della sposa seguono gli sposi alla casa dello sposo, ma la valenza simbolica resta. Si simula un “matrimonio per ratto” (un vecchio evoluzionista lo definirebbe “sopravvivenza” di un antica usanza di ratto reale): la ragazza deve essere trascinata via e le ragazze accompagnatrici non vengono in questa occasione rifocillate dai parenti dello sposo che le considerano come nemiche. Quando poi la novella sposa torna la mattina dopo (dopo essere stata deflorata alla presenza di testimoni per provarne la verginità, secondo un’antica usanza di cui la Mead attestava l’esistenza anche a Samoa), i parenti gettano della cenere sui suoi genitori in segno di cordoglio per la perdita che stanno subendo. Quindi un centinaio di giovani del villaggio della sposa si reca armata di bastoni al villaggio dello sposo per reclamare il compenso matrimoniale: anche in questo caso il simbolismo dei randelli non fa che alludere ad una conflittualità sotterranea. Al momento del primo “saldo” la sposa ritorna dai suoi genitori e vi rimane finché non sia stato dato un ulteriore congruo acconto in bestiame: solo allora tornerà dal marito, che potrà anche nuovamente rapirla a forza in una contesa simbolica se la vede al mercato. In realtà il tutto si svolge in un clima di gioia e di allegria, ma il cerimoniale allude a una sotterranea conflittualità che si rivela in una contrattazione spesso lunga ed estenuante, con continua “finta” del suocero di volersi riprendere la figlia perché non soddisfatto dall’indennizzo42. Un altro elemento in cui si rivela, fra due gruppi estranei in procinto di contrarre un’alleanza matrimoniale, 42

E. Evans-Pritchard, Usanze matrimoniali dei Luo del Kenya, in La donna nelle società primitive, cit., pp. 243-260. La cerimonia descritta da Evans-Pritchard con la simulazione del ratto della sposa è o era, mutatis mutandis, assai diffusa in tutto il mondo fra le più varie popolazioni: ne parla già J. Lubbock che ne fornisce numerosi esempi, connettendoli a più antiche o coeve pratiche di ratto reale (The origin of Civilization, 1870, tr. it. parziale in AA.VV., Alle origini dell’antropologia, Torino 1980, Bollati Boringhieri, pp. 188-194).

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una situazione di ostilità latente e sotterranea dovuta al fatto che uno dei due gruppi perde una donna cedendola all’altro gruppo, è nella cosiddetta “parentela di scherzo” (parenté à plaisanterie): l’ostilità latente fra i gruppi parentali di nuova formazione traspare e si rivela chiaramente, ma al tempo stesso è stemperata in gioco cosicché il conflitto simulato evita quello reale, nell’usanza di scambiarsi reciprocamente (particolarmente fra ego e i fratelli e le sorelle della moglie) pesanti motteggi e insulti senza che tuttavia la cosa debba essere intesa da nessuna delle parti come un’offesa reale43. Non c’è bisogno di scomodare il Freud di Psicopatologia della vita quotidiana per sapere che spesso dietro i “motti di spirito” si cela e filtra un’aggressività stemperata: parandosi dietro la battuta scherzosa si può dire quello che in fondo si pensa veramente (l’oraziano ridentem dicere verum) senza che la cosa debba risultare offensiva. Si attiva così, nel gioco dei matrimoni, un sistema di scambi economici in un reciproco dare e rendere: ai familiari viene pagato il “prezzo della sposa” perché il matrimonio sottrae ad essi una importante forza-lavoro che viene trasferita al nuovo padrone di casa. Si tratta a tutti gli effetti di un indennizzo, di un risarcimento danni. Dice una donna bashada di una ragazza che va in sposa: «sua madre piangerà moltissimo. Piangerà perché è sempre stata sua figlia che ha fatto tutti i lavori. Era sua figlia che serviva bene gli ospiti e che macinava la farina. Era l’unica che mandava avanti tutto. La madre piangerà. Il padre piangerà. Quando la figlia andrà a vivere dal marito, la madre dovrà fare di nuovo tutti i lavori da sola. La madre allora macinerà la farina come le prime volte. Cucinerà come se avesse appena imparato a cucinare. Dovrà fare molta fatica perché tutto sia fatto come lo faceva sua figlia»44. Come si vede, in queste parole la figlia non è rimpianta in termini affettivi bensì in termini di danno materiale. Per queste popolazioni la donna è un capitale, una merce, e una merce di primaria importanza: essa è necessaria per partorire gli indispensabili figli, ed è a sua volta una forza-lavoro. Ora, se la donna è una merce e una forzalavoro, destino di ogni merce è di essere inserita nel circuito dello scambio e del conseguente uso e di conseguenza la donna viene ceduta e scambiata, in certo modo comprata e venduta anche se non nello stesso modo in cui viene scambiato un oggetto qualsiasi. La reciprocità è garantita e gli eccessi di speculazioni sul prezzo della figlia sono impediti anche perché, in 43 44

A.R. Radcliffe-Brown, Le parentele di scherzo e Altre osservazioni sulle parentele di scherzo, in Struttura e funzione nella società primitiva, cit., cap. VI-VII, pp. 105-128. S. Epple - T. Brüderlin, The Pride and Social Worthiness of Women in South Omo, cit., p. 43.

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molte popolazioni, se un padre domandasse troppo per cedere la figlia, poi un’altra famiglia gli richiederà altrettanto quando egli vorrà trovare moglie per il figlio. Parimenti è necessario che il pretendente non se la cavi solo con qualche mucca e qualche capra, ma dia precise garanzie. Egli deve essere soprattutto un uomo sano, valido, forte e deve rappresentare una solida famiglia con fratelli e parenti altrettanto validi e forti: non per il bene della sposa e nemmeno tanto per l’onore della famiglia, ma semplicemente perché i nuovi parenti acquisiti saranno coloro con cui si stabiliranno relazioni economiche privilegiate, con cui si andrà a caccia e da cui si avrà diritto a pretendere dei buoi in caso di magra. Quando dunque alcune autrici femministe hanno contestato il linguaggio “maschilista” di Lévi-Strauss che parla delle donne come di “segni” o oggetti di scambio, Lévi-Strauss ha potuto a buon diritto rispondere che egli non ha fatto altro che descrivere una realtà sociale: la struttura dello scambio rimarrebbe inalterata anche se fossero le donne a scambiarsi gli uomini, ma così non avviene nella grande maggioranza dei casi. Stante questo imperativo di stabilire con lo scambio delle donne dei buoni matrimoni, ne viene di conseguenza che essi sono combinati dalle rispettive famiglie per lo più senza che i diretti interessati abbiano grande voce in capitolo. L’alleanza principale che si viene costituendo per via matrimoniale è fra il padre dello sposo e il padre della sposa: essi, una volta avvenuto il matrimonio dei rispettivi figli da essi stessi preparato o financo già durante il loro fidanzamento, si considerano fratelli, e per lo sposo e la sposa i rispettivi suoceri diventano dei secondi padri. Certo una assoluta costrizione può essere impossibile e non auspicabile e generalmente in queste popolazioni la donna trova comunque il modo di manifestare il suo assenso o il suo dissenso ad una richiesta di matrimonio: ad esempio presso gli Ari, come racconta una di esse durante il meeting con gli antropologi attuato dal centro di Jinka, il ragazzo riceve dalla ragazza che vuole sposare un lembo di stoffa in segno di approvazione e quando più tardi il ragazzo tramite un intermediario chiederà al padre della ragazza di averla in sposa, invierà anche quella stessa stoffa onde informarlo dell’interesse che la figlia ha per lui45. Ma è innegabile che la volontà della famiglia, o nel migliore dei casi il suo assenso, sia indispensabile: noi conosciamo addirittura una donna che (non in uno sperduto villaggio di campagna ma ad Addis Abeba), pur convivendo con un italiano, non lo sposa (pur potendo legalmente farlo) perché priva dell’assenso parentale. Un crudo detto in uso sulla costa swahili del Kenya, che sintetizza in poche ma efficaci paro45

Ivi, p. 33.

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le la situazione, dice: «piacersi, fra uomo e donna, è affar loro. Sposarsi è affare delle loro famiglie». Da qui si comprende che (come riferiva ad esempio il Pollera nei suoi studi sui Cunama, i Begia e altre popolazioni eritree) in certe popolazioni tradizionali si sia riscontrata e si riscontri una notevole libertà sessuale della donna: in certe popolazioni essa può intrattenersi in intimità nella capanna con l’amico a cui basta piantare la lancia fuori per avvisare il marito di stare alla larga, può mettere al mondo figli illegittimi che il marito accetta come suoi (e può anche essere disinvoltamente ceduta per una notte all’ospite, sebbene sia difficile vedere in questo una autentica libertà per la donna). In molte società tradizionali la donna è rigorosamente tenuta alla fedeltà coniugale solo quando il marito è impegnato in guerra o in difficili battute di caccia, nella convinzione che essa debba in questi frangenti inviare magicamente influssi positivi all’uomo lontano e in pericolo. A dire il vero in realtà le cose variano da cultura a cultura, perché in certe popolazioni l’infedeltà coniugale femminile non costituisce problema mentre in altre è punita con la morte, ma in ogni modo rimane in generale indubbia la diffusione di una certa libertà sessuale presso molte popolazioni tradizionali. Questa libertà sessuale non è però il segno di una libertà interiore né tantomeno, come si è ritenuto in particolare per le società a discendenza matrilineare in cui solo mater secura est, il retaggio di una originaria licenza primordiale (l’“amazzonismo” e l’“eterismo” bachofeniano), bensì è essenzialmente soltanto l’altro lato di una cruda realtà: una ragazza andata sposa per lo più giovanissima senza un suo reale desiderio, e un uomo che pur desiderando il matrimonio ha però preso in sposa non la ragazza che voleva ma quella che gli è stata presentata, saranno entrambi naturalmente inclini a seguire i liberi desideri che un matrimonio poco convinto avrà negato loro. Nelle società tradizionali certi liberi costumi sessuali e la mancanza del sentimento della gelosia sono il più delle volte non il riflesso del superamento del legame monogamico bensì più prosaicamente l’altro lato di una situazione in cui il matrimonio per lo più precoce è soprattutto fondato sull’interesse e non su autentici legami, con conseguenti facili divorzi e frequenti infedeltà da ambo le parti: questo è comprensibile stante la sostanziale indifferenza per la donna “acquistata” col matrimonio di cui possono essere talora accettati financo i figli adulterini in quanto utile forza-lavoro. Per questo, fra l’altro, in queste società è spesso possibile la poligamia: essendo le donne tutte egualmente soggette all’uomo, e poiché il matrimonio non è basato sull’amore o sull’affinità spirituale, allora normalmente non esiste gelosia fra le donne e le mogli di un uomo possono tranquillamente convivere fra loro ed anzi aiutarsi e spartirsi il lavoro.

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Comprensibilmente gli occidentali vedono nel matrimonio siffatto un deprecabile mercato, una semplice compravendita: un uomo cede la figlia in sposa e in cambio ne ha dei beni di natura economica. La corresponsione della dote viene, peraltro abbastanza comprensibilmente, equiparata all’acquisto della sposa. Ma in realtà − senza con ciò voler negare ed edulcorare una realtà spesso cruda, e ricordando quanto spesso in passato anche in occidente il matrimonio è stato una questione di interesse gestita più dai familiari che non dai diretti interessati − si dovrebbe capire che per queste popolazioni impegnate in una dura lotta per la vita una donna è un bene e un valore soprattutto economico: una figlia farà i lavori per i genitori anziani e si occuperà di loro, e in questo modo lei li ricambia per averla cresciuta, per averla nutrita e vestita; di conseguenza se a un certo punto si presenta all’entrata del tukul un uomo che reclama quella figlia in sposa, l’assenso potrà essere dato ma quell’uomo deve dare un risarcimento economico in mucche e capre ai genitori della ragazza (e in una certa misura anche ai suoi parenti), perché egli (almeno nei casi, che sono la maggioranza, di residenza virilocale) porta via a questa famiglia per beneficiarne lui stesso una importante forza-lavoro e una fattrice di figli che (almeno nei casi − la maggioranza − di discendenza patrilineare) saranno “conteggiati” quali figli non della famiglia d’origine bensì della famiglia del marito. Al riguardo − e ciò fa capire l’assoluta naturalità di una situazione che noi uomini d’oggi dall’esterno giudicheremmo perversa − nelle discussioni fra etnologi e nativi nel ricordato documentario di Jinka a un certo punto la prospettiva antropologica viene rovesciata e, anziché essere gli antropologi a giudicare i rozzi “selvaggi” che vendono e comprano le donne, sono i “selvaggi” che giudicano le strane usanze occidentali. L’antropologa infatti spiega come se fosse la cosa più normale del mondo che attualmente in occidente una donna si sposa se le piace un dato uomo senza che la cosa sia vincolata all’approvazione del padre e senza che nulla gli sia dovuto in cambio per la “cessione” della figlia, e una donna proveniente da una delle tante popolazioni della Valle Omo, fra l’assenso convinto di tutte le altre, quasi si indigna: «ma come? Tuo marito non dà nulla per te, nemmeno una capra? Così un padre non ottiene nulla quando sua figlia si sposa? Tua madre ha sofferto tanto per metterti al mondo! [...] Ti ha portato nel ventre, ha sofferto e ti ha dato la nascita e non ottiene nulla quando tu te ne vai? [...] Che? Voi siete come gli animali selvaggi nella foresta, voi siete animali! Voi siete come animali perché vi sposate senza alcuna ragione e ve ne andate e non lasciate nulla dietro di voi. Proprio come gli animali!»46. Lo stupore di queste donne 46

Ivi, pp. 149-150.

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è simile a quello a suo tempo manifestato dalla moglie di un piccolo sultano somalo all’esploratore Vittorio Bottego che narrava gli usi matrimoniali occidentali, inclusi la dote della sposa e la monogamia: «cominciò a gesticolare meravigliata: “ma come? Il ferengj non paga per avere la moglie? È lui che si fa pagare? Non ha che una moglie sola e non la può mandar via? Vergogna!»47. Dunque noi diciamo: questi selvaggi sono soliti comprare e vendere le donne come al mercato, fra i selvaggi un padre vende la propria figlia che un uomo acquista come moglie in cambio di qualche mucca e di qualche pecora. Ma essi dicono: in occidente gli uomini regalano le proprie figlie in sposa, e un uomo per averle non fa nessun sacrificio, non paga nulla ed anzi viene pagato con la dote di cui la sposa è portatrice, perché in realtà queste donne occidentali non valgono niente, perché gli uomini occidentali non tengono a loro e non se ne curano affatto. Senonché alla fine le donne della Valle Omo, messe un po’ alle strette, lo ammettono con amarezza e la cruda realtà tanto spesso edulcorata dagli etnologi viene a galla: «noi siamo vendute, anche se non ci piace. Non ti guarda nessuno. Tu piangi. Tuo padre ti vende. Non si può tornare indietro. Egli vuole il bestiame e le capre». Si tratta proprio di una cessione, di un definitivo passaggio della donna dalla vecchia famiglia alla nuova, da un’autorità all’altra: presso i Maale della Valle Omo la ragazza quando si sposa e mette al mondo il primo figlio è tenuta a restituire al proprio padre tutti i gioielli, i bracciali, i braccialetti e le collane che questi le aveva donato, in quanto ella ora (ma si noti: dal momento della maternità e non dal momento del matrimonio) dovrà portare solo i gioielli donati dal marito. In questo modo, viene sancita la definitiva cessione della donna dal padre al marito.48 Certo il danno subito da chi cede la donna è irreparabile e non può essere semplicemente compensato con mucche e capre: ma proprio qui e proprio per questo, oltre il pagamento della dote che può solo risarcire nell’immediato il danno subito, si attiva il meccanismo dello scambio: infatti la cessione di una donna comporta la necessità che prima o poi un’altra donna sia restituita, comporta la necessità che alla cessione segua un acquisto. Ad esempio il figlio si porterà a casa una moglie: «mio figlio porterà sua moglie affinché lei possa fare i lavori. Lei cucinerà per me», dice la donna bashada già ricordata. La rinuncia ad una donna della propria famiglia, e la rinuncia ai suoi servizi, verrà presto o tardi compensata dall’acquisto di

47 48

V. Bottego, L’esplorazione del Giuba. Viaggio di scoperta nel cuore dell’Africa, Roma 1900, Società Editrice Nazionale, p. 305. S. Epple - T. Brüderlin, The Pride and Social Worthiness of Women in South Omo, cit., pp. 35-36.

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una nuova donna portata in casa dal figlio. Proprio in ciò, ancor più che nel pagamento della dote, consiste il principio dello scambio che tesse la trama delle parentele. Costituire le parentele e rinsaldarle per via matrimoniale non significa soltanto rinsaldare un legame affettivo, ma proprio stipulare alleanze costituenti una rete vincolante di solidarietà con i relativi obblighi, per ciascuno, di «ricevere, dare, cooperare» (M. Godelier). Così tutti i membri della rete in tal modo costituita sono tenuti a spartire il bottino di caccia con la parentela, secondo proporzioni e qualità pari al grado di vicinanza o lontananza parentale, e questo significa che ciascun membro della parentela potrà mangiare anche in caso di caccia sfortunata o di malattia49. Il principio della parentela, e il motivo della sua importanza in queste società, è che più si è e più si è legati meglio è: l’unione fa la forza. Kropotkin ha parlato al riguardo di “mutuo appoggio” e di solidarietà che egli vedeva nelle tribù selvagge (come peraltro nel mondo animale). Al riguardo Bottego in una relazione di una spedizione in Dancalia riferisce un’opinione particolarmente significativa circa l’importanza della parentela, espressa da un danakil in merito al sistema poliginico che consentiva ad un uomo di prendere più mogli: «un giorno chiesi ad una mia guida, che difendeva questa istituzione − scrive Bottego −, se avrebbe avuto piacere che suo padre ne avesse prese parecchie. Egli mi rispose che sì, perché con maggior numero di fratelli sarebbe stato più facilmente vendicato se l’avessero ucciso»50. Parimenti un uomo, provocatoriamente interpellato al riguardo, negando scandalizzato la possibilità stessa dell’incesto con la sorella dice sdegnato: «ma come! Tu vorresti sposare tua sorella? Ma che ti prende? Non vuoi avere un cognato? Non capisci che se tu sposi la sorella di un altro, e un altro sposa tua sorella, avrai almeno due cognati, e se invece sposi tua sorella non ne avrai nemmeno uno? E con chi andrai a caccia? Con chi farai le coltivazioni? Chi andrai a visitare?»51. Come si vede più che l’orrore per l’incesto la valutazione segue ad un preciso e matematico calcolo di opportunità, proprio come il danakil rispondeva a Bottego sulle molte mogli del padre in termini di opportunità. Proprio stante l’importanza e il valore economico delle donne, gli anziani e gli uomini maturi tendono ad avocarle a sé nella rete dei rapporti 49

50 51

In alcune società amerindiane anzi il cacciatore non può consumare la selvaggina da lui uccisa in quanto è tenuto a dividerla con altri: egli può solo consumare la carne altrui, e proprio ciò fonda il sistema paritetico e solidale dello scambio sociale (P. Clastres, La società contro lo Stato, cit., pp. 88-90). V. Bottego, Nella terra dei Danakil. Giornale di viaggio, cit., pp. 27-28. C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, cit., p. 621.

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matrimoniali, escludendone in un primo momento i figli e i giovani che devono giungere all’età adulta prima di poter pensare a farsi una famiglia. Questo non significa che i giovani nelle società tradizionali non abbiano una vita sessuale prima del matrimonio. Spesso anzi è questo il solo periodo della vita in cui è consentito amoreggiare con una certa libertà con chi si vuole, senza doverne rendere conto a nessuno e senza tener conto di altri interessi che non siano l’attrazione erotica: per questo le ragazze tendono non di rado a procrastinare il matrimonio. In effetti spesso nelle società tradizionali vige fra i giovani una certa libertà sessuale, del resto favorita dalla nudità: basti pensare a certe danze africane − penso in particolare alla sensuale danza iwagandi dei giovani e delle giovani Banya della Valle Omo − che si protraggono per ore e dopo la scelta di un partner si concludono generalmente in un rapporto sessuale. Però la cosa non è generalizzabile e in molti casi questa libertà sessuale è stata enfatizzata: in particolare va ricordato che, a riprova dell’importanza tutta particolare del matrimonio, in molte di queste società la ragazza è tenuta (o era tenuta fino a pochi decenni or sono) a presentarsi vergine all’appuntamento decisivo della sua vita. Per quanto certamente oggi le cose stiano cambiando, sappiamo che in varie popolazioni africane (ad esempio presso i Luo del Kenya su cui scrisse Evans-Pritchard) le ragazze andavano a trovare quando volevano la notte il loro ragazzo nell’apposito dormitorio per scapoli (ve ne sono in varie popolazioni africane, nell’America latina, in Melanesia e in Polinesia), e tuttavia i giochi erotici (come avveniva anche fra i Kikuyu di Kenyatta) costituivano in realtà un petting che si arrestava al limite della penetrazione che era severamente proibita proprio per salvaguardare l’illibatezza (a questo punto direi più formale che reale) della ragazza: spesso infatti (nell’area polinesiana come fra popolazioni africane quali i Luo) è stata attestata la cerimionia della deflorazione pubblica della vergine da parte dello sposo. La grande importanza assunta dal matrimonio presso queste popolazioni è del resto comprovata anche dal fatto che, pur potendo sussistere in molte di esse libere relazioni sessuali fra i giovani anche prima del matrimonio, gli eventuali figli in tal modo nati sono in genere impietosamente abbandonati proprio come i bambini malformati (o come, ad esempio presso gli Hamer della Valle Omo, i gemelli considerati portatori di sventura). Per lo più, non la semplice procreazione bensì solo il matrimonio e una famiglia regolare abilita ad avere e a crescere dei figli: si arriva anche alla situazione in cui un figlio nato all’interno del matrimonio è riconosciuto dal marito anche qualora sia frutto adulterino mentre viceversa nessun uomo riconoscerà un figlio nato all’infuori del matrimonio per quanto ne possa essere veramente il padre.

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Per questo non sono in tutto condivisibili i discorsi di M. Mead sul libero amore delle ragazze polinesiane, nel suo libro Coming of Age in Samoa del 192852. In realtà l’antropologa nel delineare il suo quadro dava nell’insieme una rappresentazione abbastanza realistica della vita samoana, ma quello che il pubblico americano e europeo avido di esotismo ne colse fu un’immagine edulcorata (memore di Marlon Brando impersonante il grande ammutinato del Bounty) di ragazze polinesiane adolescenti gioiosamente dedite al libero sesso senza angosce religiose, sensi di colpa e gelosie, in contrasto con la difficile adolescenza nelle società occidentali: brani come il finale del secondo capitolo sul calare della notte a Samoa fra «il molle sciaguattio della scogliera e il sussurrare degli amanti» hanno certamente molto colpito l’immaginazione occidentale negli anni sessanta e settanta. Non senza un grato ricordo di tempi belli ricordo bene Rosa, una ragazza spagnola che conobbi in gioventù: non aveva interessi specifici per l’etnologia ma, uscendo da poco dalla Spagna cattolica e franchista chiusa e bigotta (nella quale lei e i miei amici di Barcellona dovevano passare la frontiera per andare a vedere in Francia lo scandaloso “Ultimo tango a Parigi” vietatissimo in patria), mi parlava con ammirazione dei libri della Mead che allora spalancavano un’immagine di libertà. Ma in realtà questo amore naturale e incorrotto nelle popolazioni “selvagge” era un sogno tutto occidentale. La Mead, come spesso succede agli antropologi, ha visto in quelle ragazze polinesiane ciò che soprattutto le premeva vedere e cioè quella libertà sessuale e comportamentale di cui ella si faceva paladina in America, senonché non va dimenticato l’altro lato della medaglia che ella peraltro conosceva bene: in quel fortunato libro infatti la Mead scriveva anche brani tutt’altro che idilliaci (ma che nessuno in quegli anni sembrava voler leggere) sulla mancanza in terra polinesiana di legami d’amore (fra amanti come fra genitori e figli) veramente profondi e forti, sui matrimoni combinati per interesse e procrastinati il più a lungo possibile, sul valore prioritario della verginità preservata fino all’isolamento per le ragazze di maggior prestigio, sulle gelosie e le rivalità erotiche nel villaggio ove tutto è pubblico e non esiste intimità; in una tarda appendice (la terza) al suo libro, ella si premurò anche di precisare che nella Samoa più antica e precoloniale le condizioni di vita erano ben più severe e contemplavano anche il potere del capofamiglia di punire a morte i suoi familiari, particolarmente la figlia

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M. Mead, Coming of Age in Samoa, 1928 (trad. it. L’adolescente in una società primitiva, Firenze 1959, Universitaria). V. anche Sex and Temperament in Three Primitive Societies, 1935 (tr. it. Sesso e temperamento in tre società primitive, Milano 1967, Il Saggiatore).

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trovata non vergine al matrimonio durante la cerimonia della deflorazione pubblica. Quella libertà sessuale, dunque, era probabilmente più il frutto dell’irruzione del colonialismo europeo che non un elemento originario. In ogni modo, quali che siano le libertà adolescenziali, il matrimonio rimane in tutte le società tradizionali una tappa fondamentale dell’esistenza che è inconcepibile saltare. Esso è particolarmente voluto dai giovani maschi che solo giungendovi possono vedere riconosciuta nel villaggio la loro maturità e il loro status. Tuttavia all’impazienza dei giovani fa riscontro la mancanza di fretta degli anziani che invece esigono che il matrimonio sia procrastinato a lungo: essi infatti vogliono che i figli lavorino a lungo per loro e così i figli e i giovani devono dimostrare di essere giunti all’età adulta prima di poter pensare a farsi una famiglia. Come si è detto nel sistema Gada, letteralmente applicato fino a pochi decenni or sono in tante zone dell’Africa, un uomo non poteva sposarsi prima dei 24 anni e non poteva avere figli prima dei 32. Ma, per quanto l’attesa possa essere procrastinata, la data fatidica arriva. In realtà ciò a cui principalmente aspira un giovane nelle società tradizionali è dimostrare di essere un uomo capace di cacciare, di pescare, di fare la guerra e di uccidere i nemici: su questo infatti si basa il suo solo diritto a farsi una famiglia, anche in giovanissima età laddove non sia vigente (come ormai non è più) il rigido sistema Gada. Infatti solo diventando uomo, e dimostrando di esserlo e costituendo a sua volta una famiglia con una moglie e dei figli, un giovane può sperare di diventare a sua volta e a suo tempo un anziano che conti, esentato dai lavori gravosi che svolgeranno per lui i figli, e avente il diritto all’esercizio del potere. In questo modo si ha un ciclo e un avvicendamento: dopo che il giovane ha servito la comunità e prestato il suo lavoro al servizio degli anziani per un periodo più o meno lungo, egli avrà diritto a sua volta di ricevere una moglie con cui avere una prole del cui lavoro potrà un giorno beneficiare. In questo avvicendamento delle generazioni a tutti viene così offerta la possibilità di usufruire, una volta raggiunta l’anzianità, del lavoro delle nuove generazioni: proprio per questo, per questo avvicendamento ciclico fondamentalmente democratico del lavoro dei giovani e del godimento dei diritti una volta divenuti anziani, il sistema gerontocratico di potere proprio della maggior parte delle società tradizionali non può definirsi − tranne casi particolari ed eccezionali − un rapporto di mero sfruttamento e di dissidio generazionale: questo sistema è accettato e assunto, perché non fondato sulla forza bensì sull’attesa da parte del giovane del proprio turno e del proprio momento. La sola differenza riguarda la donna che, a differenza dell’uomo, dopo aver servito il padre deve servire il marito prima di essere a sua volta servita dai figli e

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soprattutto dalle figlie. Ma il meccanismo ha una sua logica e non appare meramente gerontocratico nel senso peggiore del termine. Anzi in esso è chiaramente visibile la differenza essenziale fra l’autorità dei seniores nelle società tradizionali umane, autorità eminentemente culturale e simbolica, e il potere puramente biologico esercitato dagli anziani in talune specie animali: ad esempio spesso fra i gorilla il capobranco che avoca a sé le femmine, soggioga gli altri maschi più giovani e li caccia al margine del gruppo, è il gorilla più forte e “maturo” d’età che però, una volta divenuto vecchio, certamente non concede alcun avvicendamento ai giovani dai quali viene spodestato a forza; invece fra i leoni il potere è esercitato, più che da un maschio agé dominante, dagli elementi anziani del gruppo che alleandosi fra loro possono sopperire al declino delle forze fisiche e contrastare l’avvicendamento generazionale che però è solo rinviato e sempre forzato. Invece nelle società tradizionali umane una trama di rapporti simbolici, politici e sociali rinsalda il gruppo in base a meccanismi di adesione sociale, evitando o almeno contenendo l’esplosione del conflitto edipico e generazionale in una rete di avvicendamento sostanzialmente ugualitaria anche se sbilanciata a favore dell’uomo rispetto alla donna. Nel suo libro Coming of Age in Samoa la Mead, come abbiamo visto, rilevava assai meno traumatico che in occidente il passaggio del giovane e in particolare della giovane donna delle isole Samoa all’età adulta, in quanto tale passaggio non mostrava alcuna “crisi adolescenziale”. In effetti certamente in generale si può dire che nei popoli tradizionali il passaggio dall’adolescenza all’età adulta non è così traumatico e difficile come nelle moderne società occidentali in cui i giovani, in un difficile rapporto all’interno della famiglia nucleare ed esposti a messaggi ambigui e multipli, possono faticare nel processo di adattamento sociale e di presa di possesso del ruolo adulto. Ma se in generale nelle società tradizionali il processo di crescita appare più organico e spontaneo, questo non significa che esso sia senza difficoltà: precisamente, la difficoltà non consiste nel superare continui e prolungati turbamenti e disadattamenti a carattere nevrotico bensì consiste, nei riti di passaggio, in una sola ma impegnativa prova che deve essere superata. Tutti i passaggi fondamentali dell’esistenza sono segnati presso queste popolazioni da particolari riti, e in particolare il passaggio all’età adulta e l’accesso al matrimonio comportano il superamento di prove di virilità. Per esempio i Nuer al tempo opportuno effettuano ad arte sui ragazzi di quindici anni delle scarificazioni, delle ferite rituali e cicatrici sul petto e sulla fronte: si tratta appunto di un rito di iniziazione, di una prova di co-

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raggio che il giovane nuer deve superare di fronte all’intero villaggio onde poter dimostrare di aver compiuto il primo decisivo passo nel processo che farà di lui un uomo. Egli deve rimanere calmo senza il minimo lamento ed essere forte: infatti un suo brusco movimento dovuto al dolore potrebbe deviare la lama causando una scarificazione malfatta che lo marchierebbe per sempre di vigliaccheria. Superando invece la prova egli smetterà di raccogliere lo sterco e di mungere le vacche: potrà portare la lancia di due metri e fumare il tabacco nella caratteristica pipa in legno e creta. Oppure, a proposito di eventi ritualizzati volti a celebrare la forza guerriera e la destrezza, si pensi al Donga, il “duello dei bastoni” in uso presso i giovani surma e mursi53. Non è un vero e proprio rito di iniziazione, ma è comunque un duello rituale con regole severe, una specie di “danza delle spade”, un’arte marziale, una cerimonia di orgoglio guerriero. La lotta era fatta originariamente per placare gli spiriti delle acque e ad essa, o comunque ad una simile, si riferisce probabilmente il Frazer (che come spesso purtroppo tace del tutto sulle fonti) quando parla di un non meglio precisato distretto dell’Abissinia, l’Egghiou, in cui a gennaio i villaggi si impegnavano per una settimana in sanguinosi conflitti (che Menelik poté ridurre ma non abolire) nella convinzione che il sangue versato, essendo un liquido, propiziasse la caduta della pioggia54. Ma la lotta dei bastoni poteva anche essere un mezzo per ritualizzare stemperandola la conflittualità fra diverse tribù. In ogni modo, a prescindere dall’originaria funzione, la lotta dei Donga era anche al tempo stesso, com’è tuttora, una scuola di sangue per i giovani che dovevano imparare a combattere prima di affrontare le razzie e i nemici esterni, e al tempo stesso dovevano mostrare il proprio valore di fronte alla tribù e alle giovani del villaggio onde aver diritto in futuro a sposarsi. Tuttora nessun giovane si vuol sottrarre a questa prova, pena il disprezzo degli uomini e soprattutto delle donne del villaggio, e tutti aspettano con impazienza il momento dell’agone. La conflittualità latente fra i due gruppi oromo, Surma e Mursi, viene stemperata e ritualizzata in una sfida fra due gruppi rappresentanti le tribù: i duellanti, tutti giovani celibi con il corpo dipinto e ansiosi di mostrare chi sono, armati di un nodoso bastone (il donga appunto) se le danno di santa ragione manovrando i bastoni con grande abilità, grande velocità e destrezza. La lotta un tempo era molto più cruenta: spesso degenerava in risse feroci in cui facilmente si passava dai bastoni alle lance, e molti erano i morti. Ma anche ora il duello è cruento: tutto è lecito, tranne uccidere l’avversario, e i guerrieri si pestano ben bene 53 54

Esiste al riguardo un film di J. Queyrat dal titolo Black Samourai. J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., p. 107.

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a sangue fra di loro eliminandosi reciprocamente finché uno solo fra loro rimarrà in piedi, presumibilmente più morto che vivo, per avere l’onore di essere portato in spalla dalle tanto desiderate figliole, una delle quali potrà scegliere in sposo l’uomo forte che non deve chiedere mai (perché a quanto pare non tenuto a pagare il prezzo della dote o, più verosimilmente, avente diritto ad uno sconto sul prezzo della sposa). Peraltro la lotta rituale dei bastoni era diffusa anche in certe culture rurali occidentali: esiste al riguardo un celebre e fosco quadro di Goya rappresentante due contadini in lotta armati di bastone, il cui significato è spesso frainteso come la rappresentazione di un banale alterco. Tuttavia la lotta dei Donga rimane un evento periodico che alla fine diventa una sorta di competizione sportiva. Poi, come si diceva, vi sono i veri e propri riti. Al riguardo, si deve distinguere fra rito propriamente iniziatico e rito di passaggio: il rito iniziatico non è aperto a tutti, e richiede prove particolarmente difficili (passanti per una morte iniziatica e successiva rinascita) il cui superamento non è scontato, mentre invece il rito di passaggio (ad esempio il rito di circoncisione maschile o il rito di passaggio all’età adulta) è aperto a tutti e in pratica viene da tutti superato (necessariamente nel caso della circoncisione). Ma la distinzione è di grado, non di essenza: il rito di iniziazione è semplicemente un grado ulteriore e ancor più lungo e difficile che presuppone il primo. In ogni modo anche nel rito di passaggio vi è un aspetto traumatico, consistente nella discontinuità fra lo stato da cui si proviene e quello a cui si aspira che richiede appunto la prova di un “passaggio” da una condizione all’altra. Nelle culture tradizionali il ragazzo non partecipa veramente alla comunità, non ne è un membro effettivo, non ha diritto di parola, non ha diritto ad una famiglia, non esiste veramente e la sua stessa morte non suscita particolare cordoglio finché non abbia effettuato i riti di passaggio. Questi riti possono consistere nel superamento di prove molto dolorose: digiuni prolungati, privazioni del sonno, isolamento lungamente protratto, percosse, fustigazioni, torture, traumi psichici e spaventi, stati di deliquio indotti fino alla morte apparente e pubblicamente annunciata cui dovrà far seguito (dopo un ritiro di mesi o anche anni per certi riti iniziatici) la rinascita del novizio che ormai uomo prenderà il suo posto nella società55. In un’analisi di tipo comparatista e strutturale l’etnologo (e studioso del folklore francese) von Gennep ha rintracciato nel rito di passaggio tre fasi, ovunque ravvisabili quali elementi costanti e universali pur nella variabilità dei “contenuti” delle prove: il rito 55

Sui riti di passaggio e di iniziazione v. L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., pp. 412-424.

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preliminare della separazione almeno spirituale dell’iniziando che si prepara alla prova (separation); il rito in cui consiste la prova propriamente detta che costituisce il momento più delicato in quanto in esso nell’incertezza dell’esito l’iniziando è al limen, in una condizione di “margine” ancora indefinita fra lo status precedente e quello nuovo cui aspira (liminality); il rito postliminare di aggregazione e di festa celebrante il nuovo arrivato nella comunità degli adulti (incorporation).56 Così il “salto del toro” presso i giovani Hamer (e anche presso popolazioni ad essi affini come i Bashada, i Banya e i Kara), che sono una delle tante etnie che popolano la Omo Valley in Etiopia. Noi abbiamo potuto assistere alla cerimonia del salto del toro, che si svolge per più giorni alla fine di agosto: è una cerimonia lunga, che dura una intera giornata e può anche coinvolgere più giovani per volta, sebbene la cerimonia a cui abbiamo assistito ne coinvolgesse uno solo. Era con noi e ci faceva da interprete uno dei capi del villaggio hamer, un giovane uomo anglofono vestito di un pareo avvolto alla vita. In precedenza ci aveva fatto entrare nel suo tukul e ci aveva presentato la sua giovane moglie, una ragazza molto bella di 19 anni dall’aspetto riservato ma consapevole del suo ruolo: come in genere gli Hamer, era vestita con una piccola pelle di capra avvolta attorno alla vita; come le donne hamer portava la tipica acconciatura a caschetto ma, più delle altre donne hamer, era riccamente adornata di elaborati braccialetti alle braccia e alle caviglie e di numerose preziose collane che ne sottolineavano lo status e ne ricoprivano parzialmente il seno. Lui passa tutto il giorno nel vicino campeggio con i ferengj, mentre la giovane moglie rimane nel tukul a seguire la pentola con l’acqua che bolle e a svolgere le faccende. Prima della prova del salto del toro le ragazze e le donne parenti del giovane (anzitutto le sorelle) festeggiano e danzano nel villaggio, e la danza tradizionale hamer, non a caso, è costituita da piccoli saltelli all’interno di un cerchio costituito dagli uomini. Durante le danze preliminari si effettuano abbondanti libagioni di birra e, per le donne imparentate all’iniziando, la cosa è ben comprensibile: esse stesse infatti sono coinvolte nella cerimonia che prevede per loro una fustigazione rituale, donde la necessità di una libagione preliminare per sopportare il dolore. Mentre nel villaggio si danza, gli uomini fustigatori (gli ukuli che sono sempre donzas, uomini sposati) si avviano verso il non vicino fiume, armati di verghe lunghe, sottili e flessibili: le stesse con cui picchiano le mucche. Dopo qualche ora, cessate le danze e le libagioni, le ragazze e le donne si incamminano a loro volta verso la riva del 56

A. von Gennep, I riti di passaggio, cit.

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fiume ove subiranno la fustigazione, mentre noi seguiamo a distanza. Danzano e cantano come baccanti nelle loro ridotte pelli di capra, inebetite dalle libagioni. Questo è per noi indubbiamente l’aspetto più crudo della cerimonia: non a caso nell’interessante museo etnografico di Addis Abeba si mostra in un filmato la cerimonia del salto del toro, sorvolando però pudicamente sulla fustigazione rituale che la precede; ma certo sappiamo bene che anche nell’area mediterranea i riti dionisiaci prevedevano la fustigazione rituale, ed avremo modo di constatare che le ragazze e le donne hamer parenti dell’iniziando sono fiere e orgogliose di subire la fustigazione: esse la vogliono, assolutamente la esigono, e l’uomo del villaggio che ci fa da interprete ci dice che esse vorrebbero morire piuttosto che evitare questa prova. Giunte alle rive del fiume, alcune ragazze suonano i corni mentre altre intonano canti nella loro lingua: questi canti, come ci traduce il nostro interprete, dicono che esse subiscono la prova per il loro congiunto, che esse non hanno paura, che esse per il loro caro sarebbero disposte anche a soffrire la morte. Infine, dopo una lunga attesa sulle rive del fiume, gli Hamer si dirigono in un boschetto appartato e lì comincia la fustigazione. La cerimonia è indubbiamente autentica e reale, e non è una messa in scena ad uso turistico anche se vi sono vari occidentali che vi assistono a pagamento armati di macchine fotografiche e cineprese, peraltro totalmente ignorati dagli Hamer tutti intenti al loro rito. Questa “loro” (almeno apparente) indifferenza per “noi”, ancor più frustrante di un’accoglienza ostile, è ben conosciuta dall’antropologo di professione, soprattutto nella prima presa di contatto: «gli abitanti del villaggio − così scrive Geertz − ci trattavano come sembra che i balinesi trattino sempre le persone che non fanno parte della loro vita, ma che si inoltrano tra di loro: come se non esistessimo. Per i balinesi, e in certa misura per noi stessi, eravamo non-persone, spettri, uomini invisibili»57. Ma proprio questa indifferenza, che stride così tanto con la curiosità convulsa che solitamente il nostro arrivo nei villaggi genera soprattutto nei bambini, garantisce che la nostra presenza non altera la cerimonia. L’inizio della fustigazione è di una bellezza sconcertante, e purtuttavia suscita in me come una viscerale repulsione. Una giovane donna, a seno nudo, ornata di collane e braccialetti e col bacino coperto da una pelle di capra, si avvicina danzando e cantando, con aria provocatrice e sfrontata, al giovane hamer che le sta di fronte: gli dice, gli grida − questo mi traduce il nostro intermediario − di picchiarla, di picchiarla pure, di picchiarla forte perché lei non ha paura. Un’altra giovane ragazza si avvicina allo stesso modo, ma la prima la allontana bruscamente schiaffeggiandola perché il 57

C. Geertz, Interpretazione di culture, cit., p. 383.

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privilegio della prima frustata deve essere suo. Ed ecco, il giovane e aitante uomo seminudo e anch’egli coperto al basso ventre solo di una pelle di capra, dall’aria fiera e dal portamento nobile, con la mano destra estrae lentamente, con studiata calma e ritualità, una verga sottile, lunga e flessibile, mi sembra di bambù, fra le altre che tiene nella mano sinistra. La alza in alto, e quando la ragazza gli è a un paio di metri di distanza vibra il colpo. La staffilata è uno schiocco, un sibilo violento, secco che fende l’aria, lo stesso che ho sentito tante volte in Africa quando i pastori picchiano le mucche, e colpisce la ragazza sul ventre. Ella si muove in trance e inebetita dall’alcol come se non sentisse nulla, avanza ancora sfrontata e sicura di sé, poi torna indietro di qualche passo per quindi riavvicinarsi, e parte una seconda frustata. Le altre ragazze intorno fanno lo stesso, e nell’aria è ormai un continuo sibilare di frusta, ma non si sente un sol gemito di dolore: solo canti, grida, danze. Con ogni evidenza la flagellazione risveglia ed eccita i sensi, provoca uno stato estatico. Come menadi e baccanti invasate, le ragazze si contendono i fustigatori e ciascuna di esse sembra desiderare la schiena e il ventre più martoriato. Nel giro di pochi, lunghi minuti, si vedono le schiene e il ventre delle ragazze pieni di lunghi tagli e ferite sanguinanti, mentre un odore acre e insopportabile di sangue, di sudore, e di fango misto a sudore colante dalle loro acconciature, si diffonde per l’aria. Più tardi queste ferite si cicatrizzeranno, e saranno esibite con orgoglio da queste donne e ragazze, proprio come quelle che noi vediamo sulla schiena e sul ventre delle donne presenti che non affrontano la prova ma l’hanno a suo tempo affrontata. C’è anche una donna incinta di parecchi mesi: viene frustata sui fianchi e sulla schiena, ma non rinuncia alla prova. La accompagneremo noi, più tardi, vicino al villaggio dove ha la capanna, poiché faticherà a camminare, portandola sul nostro fuoristrada per evitarle ulteriori sforzi. Attorno a me scattano i flash, e ronzano le cineprese di persone curiose ed eccitate, ma io non li vedo, non le sento e, dopo aver scattato un paio di foto, mi fermo impietrito e paralizzato come attonito spettatore in tutto quel trambusto di gente e di voci. È un’impressione che ho vissuto altre volte, come una sorta di shock e di estraniamento traumatico, una sorta di stato stuporoso e catatonico che mi rende del tutto avulso dalla realtà come quando in ben altro contesto vedo una antica pieve romanica di campagna e per un attimo astraggo da tutto il mondo moderno che mi circonda. In un fulmineo flashback, rivedo come davanti agli occhi la scena della flagellazione rituale negli affreschi della Villa dei Misteri di Pompei: rivedo (sono forse io?) la giovane donna che retrocede atterrita di fronte alla flagellazione della sua compagna e, come in un atto di repulsa e di orrore, tiene davanti a sé la palma aperta della mano sinistra come per difendersi o

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rimuovere qualcosa; rivedo l’altra giovane donna iniziata ai riti dionisiaci che, colpita sulla schiena nuda, si rifugia nel grembo di una compagna; rivedo la terza giovane donna che, nuda, danza agitando i cembali in preda all’esaltazione orgiastica. Poi ripassa alla mia mente, e subito fugge via, la Flagellazione di Piero della Francesca, quindi cavalcando sull’onda della psiche vengono su i flagellanti medievali. Rivedo la fustigazione, la diamastigosis, praticata in Arcadia sulle giovani fanciulle durante gli skiereia, le cerimonie di iniziazione femminili in onore di Dioniso di cui parla Pausania, rivedo i giovani spartani che dovevano mostrare il loro valore sotto i colpi del flagellum, tornano alla mente le feste romane dei Lupercalia in cui si frustavano le donne. Poi, in un attimo, mi vedo catapultato in un altro flashback temporale all’indietro, indietro di millenni, e mi vedo assistere ad un rito tribale in un bosco dell’Africa nera nel più profondo “cuore di tenebra”. Per un attimo, mi sembra proprio di vedere i “selvaggi”, rozzi, sporchi, superstiziosi, dalle menti ottuse e ristrette come li ha dipinti certa vecchia antropologia coloniale. Perfino le giovani ragazze seminude fra cui sono, pur essendo alcune di esse molto belle, mi suscitano repulsione e nessuna attrazione. Però capisco che − sicuramente unico fra tutti i ferengj che freneticamente scattano foto − non sono uno spettatore bensì, pur ignorato in disparte e immobile e come in incognito, a mio modo partecipo al rito. Nel caos di pensieri che affolla la mia mente, mi domando infine qual è il senso vero di questa cerimonia. Perché mai le donne devono essere frustate a sangue perché il loro fratello o il cognato o il cugino deve affrontare una prova rituale? Nei Lupercalia romani le donne venivano frustate per favorirne la fecondità, ma qui nessuno mi parla di questo. Evidentemente, una prima risposta è questa: in questo popolo dove (come in tutti popoli tradizionali) i legami familiari e di parentela sono fortissimi, e spesso costituiscono il solo deterrente all’esplosione di violente conflittualità, la prova che coinvolge il giovane coinvolge strettamente e fortemente tutta la famiglia, anzi tutto il parentado, che quindi deve soffrire con lui, deve caricarsi simbolicamente e non solo simbolicamente sulle spalle il peso di quella prova come per alleggerirla. Sappiamo del resto quanto sono diffuse nelle popolazioni tradizionali le prove di sofferenza che giungono fino alla mutilazione (estrazione di denti, etc.) e a vere e proprie torture e sevizie: e spesso queste prove coinvolgono i parenti del soggetto in questione, come ad esempio in vari riti funebri (attestati presso antiche popolazioni australiane) in cui anzitutto i congiunti del morto (e per contagio anche i membri della tribù), per stornarne il rancore e rinsaldare i vincoli sociali lesi dalla perdita, fra grida pianti e lamenti esprimono la sofferenza colpendosi, lacerandosi, tagliandosi, ferendosi, bruciandosi talora con crudeltà e ferocia fino a

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giungere a parossistici stati estatici. Non avveniva del resto che i flagellanti medievali nel frustarsi a sangue partecipavano nella settimana santa alla sofferenza del Cristo flagellato e crocefisso onde condividere e in qualche modo alleviare la sua sofferenza caricandosela su di sé? Nondimeno si tratta di una sorta di punizione inflitta, che deve procurare una morte iniziatica dal valore catartico, purificatorio e liberatorio a cui dovrà seguire una nuova nascita. Ma se i flagellanti identificandosi col Cristo punivano anche le loro colpe ci si domanda quali sono le colpe di queste donne, anche considerando che siamo molto lontani qui dal senso cristiano della colpa e del peccato, trattandosi piuttosto di una prova di forza in cui si deve sopportare il dolore onde essere degni di fronte alla comunità. E allora, volendo rintracciare un sentimento che va punito, si potrebbe dire: l’iniziazione del giovane consiste nello strapparlo per la prima volta alla famiglia e ai parenti, per farne un uomo capace a sua volta di costruire una nuova famiglia e una nuova rete di parentele; dunque le donne parenti vengono simbolicamente (e non solo simbolicamente) frustate per essere preventivamente punite per qualsiasi loro umano ma indebito (e in realtà del tutto inesistente) desiderio di trattenere il ragazzo nell’alveo familiare. Se la flagellazione rituale e iniziatica è in generale un rito di aggregazione e di comunione e al contempo un mezzo di purificazione volto ad allontanare ed espellere i demoni e gli spiriti del male, se percuotere vuol dire tagliare e separare rispetto al mondo precedente58, allora nel caso specifico degli Hamer la flagellazione delle donne significa aggregare le donne nella festa del loro congiunto ma al tempo stesso ricordare loro che un cambiamento importante sta avvenendo nella loro famiglia, cosicché occorre colpirle preventivamente al fine di espellere e allontanare da loro non solo ogni cattivo e insano desiderio di trattenere il congiunto ma anche qualsiasi desiderio di pericoloso attaccamento, che non potrebbe non avere i suoi nefasti influssi, e questo affinché la separazione e il taglio con la condizione precedente sia netto e inequivocabile. Tutto questo è vero, ma perché nel rito hamer solo le sorelle, e poi le cugine e le cognate, devono essere frustate e non i parenti maschi? E qui non credo di cadere vittima di una pregiudiziale occidentale se vedo riflessa in questa cerimonia la struttura fallocentrica di una società quale quella hamer che, come quasi tutte queste società, è fortemente patriarcale anche laddove sia vigente in esse una discendenza matrilineare in cui il nato assume il nome materno. Sappiamo bene qual è la realtà quotidiana di queste donne: le vediamo affrontare i lavori più duri, le vediamo fare chilometri e chilometri per andare a prendere l’acqua alla lontana sorgente, le vediamo cucinare e portare ricurve enormi fa58

A. von Gennep, I riti di passaggio, cit., p. 152.

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scine di legna sulle spalle, le sappiamo in tutto servitrici dell’uomo di casa che le ha in certo modo comprate pagando la sua ricca dote in capre e mucche ai familiari e parenti della donna. In particolare, in queste popolazioni della Valle Omo, l’uomo non deve dire se torna o non torna a casa, e tuttavia quando torna il caffé deve essere sempre pronto pena la fustigazione e la donna senza proferir parola gli deve togliere i sandali mentre lui si sdraia. Ella non sa quando il marito torna: egli potrebbe tornare in qualsiasi momento, ma tutto deve essere pronto per il suo rientro pena la fustigazione. L’essere frustate è una esperienza comune per queste donne: se ne salvano in parte solo le donne in condizione di matrilocalità, perché è più difficile che un uomo batta la propria moglie in casa di lei e nelle vicinanze dei suoceri. Così le donne Kara dicono nel documentario di Jinka: una donna intelligente è quella che, avendo già raccolto l’acqua e la legna, acceso il fuoco e preparato il caffé e il cibo in modo che tutto sia già pronto per il ritorno del marito, evita in tal modo di essere frustata. In realtà la cerimonia del salto del toro non riguarda solo il giovane iniziando, bensì riguarda di volta in volta tutte le donne della comunità, perché molto probabilmente non esiste in questi villaggi nemmeno una donna sola senza parenti maschi iniziandi: e la fustigazione, cerimonia preliminare al salto del toro ma non meno importante di essa, ha lo scopo di rinsaldare nelle donne il senso di appartenenza alla tribù ricordando loro le gerarchie che la reggono. Vale qui, nel senso più letterale, la massima di Nietzsche: «vai da una donna? Non dimenticare la frusta». L’uomo fustiga ritualmente la donna, e ha il pieno diritto di farlo. In particolare questo è un diritto, oltre che del padre, del fratello verso la sorella. Sappiamo che in molte popolazioni tradizionali il fratello gode di notevole autorità sulla sorella: in alcune società egli perfino provvede al mantenimento delle sorelle sposate, il cui marito a sua volta provvederà alle sue sorelle, donde l’obbedienza che la donna deve al fratello fino alla fustigazione subita e accettata per lui. Nel documentario ricordato, girato nel non lontano museo etnologico di Jinka (180 chilometri di pista da Turmi ove si svolge la cerimonia del salto del toro), una donna bashada dice, come se fosse la cosa più normale del mondo: «attualmente la persona che mi picchia è il mio fratello maggiore. Se tuo fratello maggiore urla sempre contro di te, tu cominci ad avere paura di lui. Tu pensi che egli comincerà a fare il pazzo contro di te e ti frusterà: così tu vai a prendere l’acqua, tu macini la farina e la metti da parte in modo da poter cominciare a cucinare proprio quando lui arriva. [...] Se tu vai a raccogliere l’acqua solo quando lui è già arrivato a casa, o se tu cominci a macinare quando è già lì, lui ti frusterà. Se tuo padre vede che tu non cucini mai per tuo fratello e non gli prepari mai il caffé, se vede che tu non lavori in fretta, allora anche tuo padre ti frusterà. Tu cucini il cibo per tuo fratello nello stesso modo in cui più

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in là sua moglie lo farà per lui. È lo stesso modo in cui tu un giorno cucinerai per tuo marito»59. L’uomo che frusta la donna che non svolge bene il suo lavoro non esercita solo un diritto ma anche un dovere. Egli avrà l’approvazione di tutto il villaggio, e la donna conosciuta come una cattiva lavoratrice sarà mal considerata ed evitata: ella rischia di rimanere sola e senza figli, il che significa la massima ignominia60. Quindi queste donne condividono pienamente la severità di questa educazione a colpi di frusta, perché senza di essa − esse dicono − sarebbero cresciute pigre e indolenti, e nessuno le avrebbe volute: «io penso che sia bene che i miei fratelli maggiori mi sgridino. Così io imparo a lavorare bene», dice la donna bashada61. La fustigazione maschile delle donne è intesa come un normale atto correttivo ed educativo. Dice una donna kara: «c’è qualche uomo che non frusta le sue donne? Egli le picchia se esse fanno qualcosa di sbagliato»62. Una donna della tribù Bashada giunge a dire: «va tutto bene se mio marito batte un giorno me e un altro la sua seconda moglie, ma se batte soltanto me e non l’altra moglie allora io e lei litighiamo»63. In realtà queste donne, che a dire il vero sembrano in parte compiacere le intervistatrici piuttosto femministe dicendo loro quel che esse vogliono sentirsi dire, considerano assolutamente naturale la loro condizione, ed esse stesse per prime disprezzerebbero e rifiuterebbero di sposare un uomo che, come loro, cucinasse o andasse a raccogliere l’acqua o la legna. Un’altra donna kara racconta la sua giornata quotidiana con il marito: quando arriva, lo attende alla porta del tukul con una donna o anche una bambina che normalmente è la sorella dello sposo e, senza dire una parola e senza che lui la dica, gli toglie i sandali, gli offre il caffé che dev’essere già pronto, etc. Invero sembra più la descrizione dell’etichetta a cui una serva è tenuta quando arriva un padrone di casa molto esigente che non il racconto di una donna che parla del suo uomo, ma la cosa che più colpisce è proprio la descrizione delle frustate con cui l’uomo tornando a casa risponde al saluto della donna che lo accoglie: «egli ha con sé un micere, una bacchetta per frustare, e con il micere ti frusta. La ragazza che hai portato con te gli dirà di

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S. Epple - T. Brüderlin, The Pride and Social Worthiness of Women in South Omo, cit., p. 42. Cfr. M. Mead: «Le possibilità matrimoniali di una ragazza sono molto ridotte se nel villaggio circola la voce che essa è pigra e poco abile nei lavori domestici» (L’adolescenza in Samoa, cit., p. 36). S. Epple - T. Brüderlin, The Pride and Social Worthiness of Women in South Omo, cit., p. 46. Ivi, p. 51. Ivi, p. 20.

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smetterla di frustarti e lui smetterà»64. Soltanto la donna o la bambina portata dalla moglie, che normalmente è la sorella dello sposo, può fermare le frustate, non la sposa che le subisce. Al riguardo il Franchetti riferisce che in Dancalia questa usanza iniziava con il primo giorno di matrimonio: lo sposo infatti attendeva l’arrivo della sposa nella sua capanna e la accoglieva «con un solenne colpo di frusta, quale affermazione della sua autorità maritale e della presa di possesso»65. Sempre in Dancalia la sposa veniva consegnata allo sposo (ignoro se la cosa avvenga ancora) legata in un complicato intreccio di bende, che lo sposo doveva togliere senza usare alcun oggetto tagliente: l’usanza prevedeva che la sposa cercasse di impedirglielo difendendosi e che lo sposo ne vincesse la resistenza usando la frusta, finché ella vinta dal dolore non pronunciava le parole rituali che significano «mi hai vinto!»66. In tutte queste circostanze la frustata rituale, che sancisce simbolicamente un atto di possesso da una parte e di cedimento o di assenso dall’altra, fa parte di un sistema di regole, di un’etichetta, di un gioco perfino, e come tale può non essere riservata soltanto alle donne. Così il Pollera narra che presso la popolazione eritrea dei Baria, durante un rito evocatore della benevolenza divina per un buon raccolto, il Log Namà (il celebrante) «dà qualche scudisciata a caso nei gruppi che si recano vicino a lui, e le sue frustate sono, sebbene assai dolorose perché violente, ambite e ricercate, costituendo buon augurio per il raccolto della nuova annata. I pochi fortunati che da quelle scudisciate furono colpiti mostrano con compiacenza il dorso nudo solcato dalle strisce, spesso sanguinolenti, lasciate dallo scudiscio del Log Namà, e sono da tutti festeggiati ed anche invidiati»67. Ove ciò che più colpisce in queste descrizioni, sia della donna Kara sia dell’uso dancalo, è precisamente la ritualizzazione cerimoniale dell’atto del frustare, proprio come mutatis mutandis avviene durante la fustigazione in occasione del salto del toro: qui non c’è un uomo, un fratello o un marito che, adirato per una mancanza vera o presunta della donna, perde le staffe e la picchia, bensì (uso dancalo) un uomo che accoglie la sposa per la prima volta in casa con una frustata oppure (uso kara) un uomo che ogni volta che torna a casa alla moglie che gli si avvicina per rendergli omaggio risponde con le frustate rituali. Ora, quando un giovane si sposa, come sicuramente farà dopo aver superato il salto del toro, in casa ci sarà un uomo in meno pronto a battere la donna, ma la fustigazione rituale serve proprio a ricordare alla donna che

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Ivi, p. 59. R. Franchetti, Nella Dancalia etiopica, cit., p. 212. Ibidem. A. Pollera, I Baria e i Cunama, cit., p. 93.

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la sua condizione non muta ed è sempre quella, in quanto per un uomo che se ne va con la sua frusta altri rimangono pronti ad usarla e altri ancora verranno un giorno come mariti perché nella vita quotidiana il marito sempre frusterà e picchierà la moglie, proprio come fa con la sua mucca se essa recalcitra. In questo senso la fustigazione rituale dice alla donna qual è il suo destino: dice che la donna appartiene all’uomo, dice che ella deve affrontare questo e accettarlo di buon grado per il bene del congiunto e della comunità, dice che ella deve accettare il potere del marito in casa e l’autorità dell’uomo in generale. La condizione è perfettamente speculare e simmetrica: mentre un giovane se ne va perché è diventato uomo, le donne sue parenti devono esser frustate perché devono sapere che l’allontanamento del ragazzo in nessun modo si tradurrà per esse in una condizione di licenza in cui potranno fare ciò che vogliono. Lui se ne va, ma vi sono molti altri uomini pronti a prenderne il posto e a frustarle. Semplicemente, la frusta passa in altre mani. L’iniziazione del ragazzo è così in certo modo una parallela e concomitante iniziazione per tutte le donne della sua famiglia: lui dimostra che sa saltare sui tori ed è un uomo, loro dimostrano che sanno affrontare ed accettare senza paura le frustate indispensabili per fare di esse delle donne. Questo vale anche per le donne sposate, che subiscono la fustigazione per i loro fratelli in quanto anche ad esse si ricorda la loro condizione. Oltre l’uso (punitivo e rituale) della frusta, un altro rito profondamente simbolico a cui sono tenute le donne in queste società, che può avvenire in diverse età dalla prima infanzia all’adolescenza a seconda delle usanze e che, sempre accompagnato da festeggiamenti e apposite cerimonie, segna un passaggio significativo nella loro vita, è la circoncisione. Essa è parte delle più generali pratiche di mutilazione rituale del corpo, ma vi si inserisce con una indubbia peculiarità e una particolare motivazione. La “circoncisione femminile” − usiamo per brevità questo termine in realtà più adatto a definire una specifica operazione maschile − avviene solitamente nella forma del taglio e dell’escissione del clitoride (clitoridectomia), a cui spesso si accompagna anche l’asportazione delle grandi e piccole labbra (labiotomia), ma può anche essere attuata nella forma della infibulazione con la cucitura della vagina (o con l’unione cicatrizzata delle labbra conseguente l’incisione). Le donne della tribù Arbore, intervistate, si dicono tutte orgogliose di aver subito l’escissione secondo la tradizione, proprio come le loro madri e le loro nonne: «tu devi farlo. Quando sei una ragazza tu vuoi che sia fatto perché è la tua tradizione e tua nonna e tua madre e tutte lo

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hanno fatto»68. In effetti in queste società chi ancora non è stato circonciso è un minus habens privo di qualsiasi diritto sociale. Si ricorda del resto che quando nel 1929 in Kenya i missionari protestanti cercarono di proibire fra i Kikuyu questa pratica per le ragazze cristiane, vi fu una protesta e una sollevazione generale. J. Kenyatta nella sua descrizione invero piuttosto idealizzata della vita dei Kikuyu, in cui sembra non esservi ombra di nessun reale conflitto, si sofferma piuttosto a lungo sulla clitoridectomia descrivendo la cerimonia in tutte le sue fasi69. Egli dice che questo rito (tale può infatti definirsi) non dovrebbe essere soppresso d’autorità e ne rivendica il significato e l’importanza nella vita delle donne e della comunità tutta. Certo quando viene al punto, alcune domande si pongono: sorprende infatti (come sorprende il suo maestro Malinowski nella introduzione al libro dell’allievo) che un kenyota colto, mutuando la terminologia dalla medicina ospedaliera occidentale, possa definire «bisturi» il rozzo coltellaccio con cui una praticona, con la faccia dipinta di ocra e di «aspetto terrificante», pratica «con l’abilità di un chirurgo di fama» il suo «intervento chirurgico»; fa impressione vedere spacciate per «antisettiche e cicatrizzanti» certe «erbe speciali» e delle foglie con cui (insieme a latte, acqua e olio di ricino) vengono tamponate e pulite dall’«infermiera di turno» le ferite delle ragazze impossibilitate a camminare subito dopo il taglio e nei giorni seguenti70. Si rimane molto dubbiosi che foglie ed erbe, che non possono essere prese se non dalla nuda terra, possano prevenire la setticemia, per non parlare del coltello insanguinato usato che è lo stesso per tutte le bambine sottoposte alla pratica, e infatti sappiamo che, proprio per le condizioni antiigieniche in cui avvengono queste operazioni, ogni anno il rito causa in Africa migliaia di vittime per setticemia: ma Kenyatta dice che queste sono solo «affermazioni irresponsabili» dei missionari e dei dottori occidentali «più da compatire che da condannare», e che tutto quanto può succedere sono rari casi in cui la guarigione richiede più tempo.71 Comunque, per parte nostra, più che condannare vorremmo capire il significato di tutto ciò: è un rito di passaggio e in certo modo un’iniziazione, d’accordo, ma perché per una ragazza questo passaggio deve passare attraverso la clitoridectomia? Contrariamente infatti alla circoncisione maschile, che pure è praticata e che è già attestata nell’antico Egitto in una tomba di 68 69 70 71

S. Epple - T. Brüderlin, The Pride and Social Worthiness of Women in South Omo, cit., p. 151. J. Kenyatta, La montagna dello splendore, cit., cap. VI (pp. 133-151). Ivi, pp. 145-147. Ivi, p. 150.

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Saqqara, la “circoncisione” femminile non solo non ha alcuna motivazione igienica, fosse anche solo presunta, ma anzi è massimamente rischiosa perché riguarda organi interni e per le condizioni antiigieniche in cui si effettua. Al riguardo, non possiamo non vedere qui una forma di controllo del corpo e della sessualità femminile. In particolare si comprende abbastanza facilmente che la cucitura delle grandi labbra o la loro unione cicatrizzata causata dall’infibulazione ha lo scopo di una “cintura di castità”: essa impedisce i rapporti sessuali precoci e preserva la verginità della ragazza o, in certe tribù in cui l’operazione viene ripetuta nel tempo, assicura la fedeltà della sposa durante la lontananza dell’uomo per la transumanza. Ma per quanto riguarda la forma di circoncisione femminile, assai più praticata, consistente nel taglio e nell’escissione del clitoride cui spesso si aggiunge l’asportazione delle grandi e piccole labbra? Ebbene, il motivo è che, tagliando il clitoride, si taglia nella donna una parte maschile che non le compete. Una donna dassanetch lo dice nel modo più chiaro: «se tu non sei tagliata la gente ti insulterà e dirà che tu sei come un animale selvaggio. Essi dicono che il clitoride deve essere tagliato, perché è qualcosa di maschile. Per diventare donna tu devi tagliare il clitoride»72. In queste società l’escissione del clitoride ha lo scopo precipuo di togliere fin da bambine alle donne qualsiasi parvenza maschile onde ricordare loro il loro ruolo di donne e non di uomini. Già nella cosmologia dogon studiata da Griaule il dio maschile del cielo Amma prima di unirsi in amplesso con la Terra Madre Tenga le distrugge ed estirpa il clitoride costituito da un termitaio a forma fallica, che gli impedisce il congiungimento, in tal modo ristabilendo la precisa ripartizione dei sessi e dei ruoli e con ciò avviando l’ordine strutturato del cosmo. Nel mito dogon l’equiparazione fra il clitoride e il termitaio è molto significativa: infatti il termitaio, la cui forma appare in certo modo fallica e di cui si vedono in Africa molti esemplari alti anche più di tre metri, talora sette o otto o dieci metri, è fatto dalle termiti che sono animali piccolissimi (come piccolo è in sé il clitoride) ma molto pericolosi perché capaci di divorare e distruggere le capanne e la vegetazione di un intero territorio così impedendo l’agricoltura. Si direbbe che come le termiti erodono con gli anni anche le più solide travi in legno delle capanne causandone il crollo, come distruggono i campi coltivati, così i “termitai clitoridei” − se non estirpati − potrebbero erodere e distruggere dalle fondamenta la fragile casa e il vulnerabile campo dell’autocoscienza maschile. Dunque nel mito dogon il dio maschile ha paura del termitaio fallico femminile, che compete con 72

S. Epple - T. Brüderlin, The Pride and Social Worthiness of Women in South Omo, cit., p. 92.

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il proprio fallo e rischia di rendere sterile la terra, e per questo provvede a distruggerlo. Il timore della pericolosa ipertrofia del clitoride femminile, tale da volerne l’escissione, sembra essere un tabù inconscio della mente maschile, al punto che perfino un osservatore occidentale colto come lo scozzese James Bruce (nel suo Viaggio in Nubia e in Abissinia scritto dopo il viaggio compiuto fra il 1768 e il 177273), cercando di capire le ragioni di questa pratica così diffusa nelle terre da lui attraversate, ha supposto che in certe razze e in certi climi il clitoride delle donne sia talmente grande da costituire una deformità naturale e financo un impaccio per la gravidanza oltre che per il rapporto sessuale, così credendo di giustificare la necessità dell’escissione. Naturalmente la cosa non ha alcun fondamento, ma il timore per l’eccessiva grandezza (non importa quanto reale o immaginaria) del clitoride femminile sembra qui un elemento costitutivo di una sotterranea angoscia della psiche maschile74. Oltretutto il clitoride, nella maggioranza delle donne, è anche l’organo più sensibile al piacere, donde l’avvertita ulteriore necessità dell’escissione di quest’organo rivale del pene ai fini della piena sottomissione del sesso femminile. Al riguardo il Pollera, questo funzionario coloniale in Eritrea attento osservatore delle usanze tribali, vede in ciò il vero motivo della pratica della circoncisione femminile: «io ritengo − scrive − che con la recissione della femmina [...] si sia cercato di diminuire [...] la sensibilità sessuale della donna, per infrenarne le passioni e gli istinti».75 Veramente si direbbe dunque ravvisabile nell’uomo arcaico, che recide alle donne la loro parte anatomicamente maschile, una sorta di invidia ancestrale per il sesso femminile capace di generare e financo di provare piacere e dunque pericoloso rivale del sesso maschile, in un autentico contraltare della freudiana “invidia del pene”. Questa sorta di invidia maschile (propria non solo dell’“uomo arcaico”, stante che le pratiche di escissione furono difese anche in occidente da C. Lombroso e praticate da J.M. Charcot come terapia per le donne isteriche76) sembra peraltro trasparire negli antichi rituali di travestimento e soprattutto dal noto fenomeno della 73 74

75 76

J. Bruce, Travels and Adventures in Abyssinia, Edinburgh 1860, A. & C. Black. Ancora nel 2007 in Egitto un dirigente dei Fratelli musulmani, di fronte alla morte di una bambina dodicenne dopo l’escissione del clitoride (pratica ovunque attuata in Egitto e vanamente contrastata dalla legge), ha dichiarato che l’operazione diventa improcrastinabile «nel caso in cui gli organi genitali femminili siano troppo sporgenti» (Corriere della Sera, 25 giugno 2007). A. Pollera, La donna in Etiopia, Roma 1922, Industrie grafiche, p. 14. M. Fusaschi, I segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili, Torino 2003, Bollati Boringhieri, pp. 131-135.

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couvade, in cui gli uomini aiutano le donne partorienti mimando essi stessi l’atto e la sofferenza del parto e di una simbolica cova delle uova. Del resto in alcuni casi vale anche la reciproca, seppur sia assai meno praticata: ricorda infatti il Cerulli che, ancora negli anni trenta, presso certe tribù dell’Etiopia occidentale ai bambini maschi venivano recisi i capezzoli evidentemente onde estirpare in loro qualsiasi traccia anche solo embrionale di femminilità77. Anche i Dogon di Griaule dicono che con la circoncisione maschile e femminile è tolta l’anima doppia, fonte di indistinzione e confusione, e favorito il processo di individuazione o in senso maschile o in senso femminile78. Si direbbe al riguardo che l’uomo arcaico abbia paura del piccolo clitoride che potrebbe un giorno mostruosamente crescere in un aggressivo fallo maschile trasformando la femmina in maschio, e parimenti possa anche provare angoscia per il capezzolo maschile magari passibile un giorno di crescere in seno femminile mostruosamente trasformando un uomo in una donna. Evidentemente in queste popolazioni la differenza fra uomo e donna deve essere ben netta e marcata e i rispettivi ruoli sociali devono essere ben ripartiti, senza alcuna possibile confusione. Sembra qui di ravvisare un elemento di quella logica duale, dicotomica e bipolare che Lévi-Strauss riteneva elemento strutturante della mente umana, ma particolarmente visibile nella pensée sauvage in cui le opposizioni giocano un ruolo fondamentale: sì/no, bianco/nero, alto/basso, destra/sinistra, oriente/ occidente, giorno/notte, cielo/terra, luce/tenebra e infine e soprattutto maschio/femmina. Del resto, un inconscio timore atavico e ancestrale unito ad una gelosia profonda per la capacità generativa femminile sembra evidente nelle pratiche di isolamento e reclusione della donna in gravidanza o in mestruazione, per non parlare delle pratiche talora disumane di reclusione della fanciulla alla prima mestruazione: il timore atavico nei confronti del pericoloso clitoride non sembra dissimile dal timore altrettanto atavico nei confronti del sangue mestruale o dell’ingrossamento del ventre gravido. Eppure queste donne, sia per quanto riguarda l’escissione del clitoride sia per quanto riguarda la fustigazione, se interrogate affermano di non sentire minimamente tutto ciò come un’imposizione. In particolare, se nella cerimonia della fustigazione si può vedere la celebrazione della sottomissione della donna alla frusta maschile, si tratta però di una sottomissione accettata e voluta all’uomo che, in cambio di questa sottomissione e del loro duro lavoro quotidiano, porta anche alle donne dei vantaggi in quanto 77 78

E. Cerulli, Etiopia occidentale, 2 voll., Roma 1933, Sindacato Arti grafiche, vol. II, p. 19. M. Griaule, Dio d’acqua, cit., pp. 192-199.

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garantisce o garantirà loro la ricerca del cibo ed una capanna. Per tutto questo nel rito della fustigazione non v’è traccia alcuna di sottomissione: la fustigazione è voluta e sfrontatamente richiesta, e le ragazze si avvicinano al fustigatore senza un lamento onde dimostrare che esse non lo temono. Queste donne non semplicemente subiscono la fustigazione rituale, ma la esigono e la vogliono e financo ne traggono un piacere erotico e estatico: questa celebrazione della sottomissione in occasione della cerimonia del congiunto è anche una loro cerimonia ed è una celebrazione dell’orgoglio femminile, è la loro festa in cui le donne ribadiscono di non avere in realtà alcuna paura dell’uomo. Al confronto dello sforzo e del dolore che richiede la fustigazione preliminare delle donne, la cerimonia del salto del toro sembra quasi una cosa solo essenzialmente simbolica. Il giovane, dopo che le donne e le ragazze sue parenti sono state fustigate, si avvia anch’egli al luogo ove dovrà superare la prova ma, prima di affrontarla e mentre avviene la fustigazione, si ritira in un luogo appartato per prepararsi psicologicamente, assistito dagli amici più grandi che già hanno superato la prova (i maz). La cerimonia del salto del toro avviene in un luogo diverso del luogo della fustigazione, per cui si cammina ancora un po’. Le persone del villaggio, e in primo luogo i parenti e le donne che sono state fustigate, si inoltrano in un boschetto in cui infine si scorge una piccola radura circolare, senza erba, dove in seguito giungerà per ultimo l’iniziando, inorgoglito dalle giovani donne del villaggio che a volte (non però nella cerimonia a cui abbiamo assistito) baciano in segno benaugurante il suo bastoncino fallico (il boko) mentre egli si avvia alla prova. Vari buoi (spesso portati in mancanza di tori) sono già pronti, e il padre del ragazzo iniziando controlla il tutto: ha un vestito molto elegante, e certamente avrà fatto uno sforzo economico non da poco per poterselo permettere. Accanto al padre, v’è lo zio del ragazzo. Quindi, ormai verso il crepuscolo e quasi al tramontar del sole, alla fine di questa lunga giornata compare il giovane iniziando. È completamente nudo, perché la prova va affrontata nudi: ha solo una piuma sulla testa tenuta da una piccola coroncina e, al petto, una specie di ghirlanda. La nudità, evidentemente, intende significare che l’iniziando si spoglia delle sue vesti precedenti e ritrova una nuova e pura condizione che gli permette di affrontare la prova. Egli è visibilmente emozionato: è impacciato dalla sua nudità e pudicamente copre i genitali con la mano a foglia di fico; è intimidito perché lui ora è da solo al centro dell’attenzione di tutti; non dà nessun segno di ostentazione e di orgoglio, ma quasi si apparta a lato. Non è più proprio un ragazzo, ma un uomo alto e robusto, che dimostra qualche anno in più

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dei suoi 24: l’autorità del villaggio che ci accompagna ci spiega che egli affronta la prova piuttosto tardi perché proviene da una famiglia povera che ha avuto bisogno di tempo per raccogliere tutto quanto occorre (per il vestito del padre, per la festa a seguire, per le spese ormai imminenti del giovane che superando la prova potrà aspirare presto ad un matrimonio). Come ultimo preliminare alla prova, l’iniziando − completamente circondato in modo quasi soffocante da parecchi membri della tribù − effettua accovacciato per terra con un compagno un rito propiziatorio, che consiste nel far cadere nella disposizione opportuna per tre volte degli anelli disposti intorno a un bastoncino. Quindi, inizia la prova. Per dimostrare di essere ormai un uomo e non più un ragazzo, l’iniziando deve saltare nudo sulla schiena di almeno una decina di buoi da lui scelti e poi affiancati, correndo avanti e indietro quattro volte di fila sulla loro schiena. Vari testi dicono che nella cerimonia hamer il fallimento dell’impresa non lascia scampo e che, se una sola caduta è perdonata pur essendo considerata un cattivo auspicio, per chi cade una seconda volta non vi sarà futuro in quanto egli sarà frustato dai parenti, dileggiato e schernito per tutta la vita, emarginato dalla vita sociale, disprezzato e ridotto a zimbello del villaggio, financo insultato e picchiato anche dalle donne come massima offesa, impossibilitato per sempre ad avere una sposa e dei figli. L’autorità del villaggio che ci accompagna ci dice che i libri non dicono il vero; egli aggiunge di non ricordare un solo caso di fallimento, che in realtà le cadute sono perdonate e che il giovane deve solo cercare di portare a termine il suo compito. Alla mia domanda su come possa mai un ragazzo con una menomazione fisica superare questa prova, egli mi risponde che in tal caso gli abitanti della tribù costringono i tori (o i buoi) a piegarsi sulle zampe onde facilitare il passaggio del giovane finché la prova non venga superata, e che in casi estremi è anche consentito passare sotto gli animali anziché sopra: insomma, nulla deve rovinare la festa che tutti vogliono. Il nostro informatore è rassicurante, sempre comprensibilmente impegnato come tutti gli informatori a dare l’immagine più edulcorata del suo popolo e preoccupato ad evitare che immagini troppo crude si stampino nella mente dello straniero, ma invero in un documentario francese (il citato Ushuaïa/Ethiopie di N. Hulot, girato nel 2005, in cui fra l’altro viene ripresa la cerimonia del salto del toro) un uomo borana intervistato conferma senza mezzi termini che nel caso, peraltro rarissimo, di mancato superamento della prova per il ragazzo è la vergogna e l’emarginazione sociale. Al riguardo io ritengo probabile che la prova sia stata più severa in passato, tale da non ammettere scampo in caso di fallimento, ma che oggi sia essenzialmente più simbolica.

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Certo, il significato della cerimonia implica naturalmente una presa di dominio dell’elemento ctonio e selvaggio; per un giovane hamer camminare in equilibrio su e giù sulla schiena di un toro senza cadere è quello che per un giovane cow-boy era cavalcare un puledro selvaggio: si tratta sempre del dominio dell’elemento inferiore tellurico e animale. La capacità di dominare la potenza selvaggia di un toro era richiesta in molte antiche culture, ove costituiva anche un gioco e uno sorta di sport. A parte la corrida spagnola (dove sicuramente la lotta è impari a tutto vantaggio del torero coadiuvato dagli assistenti che provvedono a ferire preventivamente l’animale con le banderillas), basti ricordare l’antica civiltà minoica nell’isola di Creta: in una stanza del palazzo di Minosse a Cnosso si trovava un affresco (circa 1600-1400 a.C., ora conservato al Museo di Herakleion) rappresentante la prova del salto del toro, ove veniva fissato il momento in cui un giovane prende un toro per le corna e, facendo leva su di esse, con un balzo salta in piedi sulla sua schiena effettuando poi una spettacolare capriola nel ridiscendere a terra. Ma nella cerimonia hamer non si richiedono simili virtù acrobatiche, e la difficoltà della prova non va esagerata. Essa non appare molto difficile. Certo occorre dominare la situazione, avere fiducia in se stessi, vincere l’emozione degli occhi di tutti puntati addosso, ma alla fin fine non si tratta di camminare sulle acque e a volte nemmeno sui tori trattandosi più spesso di buoi bloccati e tenuti fermi: non è un “salto del toro” alla maniera minoica ma un passaggio sul dorso dei tori o delle mucche. In realtà nella cerimonia del salto del toro la difficoltà viene di fatto attenuata in una prova non severissima per chi la effettua: mi sembra chiaro che questa prova è piuttosto facile per qualsiasi ragazzo di queste tribù, che certamente fin dall’infanzia si diverte a camminare sui buoi. Anche per questa sua relativa facilità la prova, aperta a tutti i giovani e il cui esito fallimentare sembra piuttosto remoto, appare non propriamente un rito iniziatico quanto piuttosto un rito di passaggio. Così a un dato momento il giovane alto e grosso inizia a correre, salta con scioltezza e sicurezza sul primo bue sdegnando lo “sgabello” iniziale costituito da un vitello, quindi passa sul dorso degli animali senza mai cadere ripetendo la corsa per quattro volte. A questo punto la cerimonia è finita. Il giovane, che ormai è un uomo pienamente parte della comunità, viene acclamato e portato in trionfo fra canti e danze. Sua madre, se è la prima sposa del padre, si toglie il binyere simbolo del suo giogo matrimoniale e auspicio di fecondità: esso viene tolto appunto quando il figlio ha superato la prova del salto del toro, o quando la figlia si è sposata, con ciò simboleggiando che evidentemente ella, ormai anziana, avendo cresciuto un figlio che è ormai diventato un uomo (o una

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figlia che è ormai diventata una donna sposata) ha con ciò assolto il suo compito. Si torna al villaggio e qui comincia la festa: per l’occasione, verrà mangiato il capretto e noi, nel vicino campeggio, sentiremo i canti e i suoni fino a tarda notte. Tuttavia la festa non riguarda il giovane uomo che ha effettuato il salto del toro. Egli infatti, pur avendo superato la prova, non può abbandonarsi alle danze e alle libagioni, perché un nuovo cimento lo aspetta. Durante la festa egli dunque si nutrirà solo di latte di cocco e di miele, sostanze dal valore purificatorio. Quindi prenderà un nuovo nome, dal nome della prima di nove mucche che incontrerà al villaggio, a sancire il suo nuovo e diverso status. Infine, al di fuori della vista di estranei, viene rasato e si dipinge tutto il corpo con burro e carbone. Starà così per tre giorni e poi andrà a lavarsi nello stesso fiume nei cui pressi ha superato la prova. A questo punto, per il giovane uomo inizia − e inizia subito − una nuova fase. Infatti nella sua cultura il primo requisito di un uomo, quale ormai egli è, è di avere una famiglia propria: nessun uomo hamer ha il diritto di sposarsi senza prima aver superato la prova del salto del toro, ed egli ha affrontato la prova anzitutto per sancire il proprio diritto ad una moglie e ad una famiglia. Dunque, la stessa flagellazione rituale delle donne non è soltanto un rito di preparazione che prelude alla cerimonia del salto del toro, ma ancor più un rito che celebra un imminente matrimonio. Del resto, in tutte le culture tradizionali, quasi sempre al superamento del rito di passaggio segue immediatamente il matrimonio: la stessa flagellazione rituale dei misteri dionisiaci affrescata a Pompei era precisamente un rito di iniziazione e di preparazione al matrimonio e un auspicio di fecondità. Così, il giovane uomo inizia la cerca della donna. Cherchez la femme, per un giovane uomo hamer che ha appena superato la prova del salto del toro, vuol dire questo: egli si munisce a sua volta di un buon numero di verghe, a cui ormai ha diritto, e inizia a battere violentemente con esse tutte le donne che incontra nel suo villaggio. Peraltro i riti in cui in certe occasioni un uomo può frustare o comunque battere tutti coloro che incontra sono diffusi in tutto il mondo: ad esempio in certe tribù australiane si esprimeva così il dolore per un lutto (i parenti del morto percuotevano anche a morte le prime persone trovate per strada), mentre nei Lupercalia romani gli iniziati frustavano chiunque incontrassero, soprattutto donne. Il nostro giovane hamer invece frusta solo le donne, e a questo punto un nuovo elemento di destrutturazione è introdotto nella vita del villaggio: il momento di aggregazione e di festa per il nuovo venuto nella comunità degli adulti, conseguente alla cerimonia e costituente un nuovo equilibrio sociale, è rotto. E siccome nel villaggio l’effervescenza del giovane in cerca di moglie

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deve essere placata, affinché essa non diventi un elemento destabilizzante, allora la famiglia e tutto il villaggio gli trova una ragazza (o già l’aveva trovata) disposta ad accettarlo, cioè gli trova una moglie. In pratica tutto il villaggio è seriamente impegnato a trovare una donna per il nostro esuberante giovane, perché egli smetterà di frustare le donne con la verga solo quando avrà trovato una moglie. Come si vede, il passaggio all’età adulta e il matrimonio sono un tutt’uno fra gli Hamer: dall’una consegue immediatamente e necessariamente l’altro, a meno di non trasformare l’intero villaggio in un luogo di tortura per le donne. Il nuovo matrimonio sancisce così il ritorno alla normalità, alla pace e all’equilibrio della comunità: l’ordine sociale viene ristabilito, e il nuovo arrivato nel mondo degli adulti ripone la verga e si trasforma da elemento di perturbazione e squilibrio in elemento rinsaldante la coesione e la struttura sociale. Ma se il giovane ha superato con un exploit la prova del salto del toro, ripetendo la corsa più volte sul dorso di decine di tori, allora il suo prestigio sarà tale che egli verrà personalmente scelto e conteso da una delle ragazze libere del villaggio: anziché doversi accontentare di ciò che si trova, egli sarà considerato un uomo di particolare valore e sentirà attorno a sé la stima e la considerazione di tutto il villaggio.

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Siamo fra i Konso, ancora nella Omo Valley1. Le terre dei Konso sono convenzionalmente separate da un fiume che solitamente demarca i confini tra tribù vicine, e confinano a nord-est con quelle degli Tsemay (un ramo staccatosi dagli Hamer). A differenza dei non lontani Borana che abitano prevalentemente nel bassopiano, i Konso vivono in montagna all’altezza di circa 1300-1400 metri: tuttavia, nonostante ciò, mentre i Borana vivono come pastori e allevatori nella loro terra arida, i Konso vivono per lo più di agricoltura (banane, sorgo, mais, patate, cotone). Vi sono infatti molti piccoli fiumi nella regione dei Konso, anche se asciutti per alcuni mesi l’anno, e questo giustifica la scelta dell’agricoltura che comunque costa grande fatica: infatti i campi coltivati vengono ricavati spianando a terrazza i pendii delle colline e dei monti. Guracho, un giovane uomo di un villaggio situato alla periferia della cittadina di Konso, che ha frequentato le scuole e parla un buon inglese, ci accompagna nei dintorni per farci vedere i villaggi. Particolarmente attenta è la visita al villaggio di Arfaide. I villaggi konso hanno una struttura molto particolare, che li differenzia da tutti i villaggi etiopici. Essi sono circondati da vecchie basse mura in pietra, residuo di epoche più bellicose: nei Konso è rilevabile, rispetto ad altre popolazioni tradizionali della Valle Omo, un certo uso sia pur limitato della pietra. All’interno di un villaggio konso le capanne sono connesse da un dedalo di stretti camminamenti affiancati ai lati da bassi muretti in pietra, che separano i tukul pur tutti vicini in modo che i tetti spioventi di paglia quasi si tocchino così da fare da un lato e dall’altro del viottolo una specie di tettoia: essa copre le strette stradine del villaggio in un modo che contrasta visibilmente con gli ampi spazi di tutti gli altri villaggi che abbiamo finora visto, ma certamente costituisce una soluzione intelligente e pragmatica per fronteggiare la stagione delle piogge. Nel villaggio vi sono vari luoghi comunitari: anzitutto granai e depositi perché le popolazioni tradizionali immagazzinano anche e non vivono di sola sussi1

Vedi C. R. Hallpike, The Konso of Ethiopia, Oxford 1972, Clarendon Press.

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stenza come a volte erroneamente si ritiene, e poi vi sono spazi sotto tettoie riservati ai pasti comunitari, e ancora spazi per la preparazione del cibo, spazi per le feste, capanne per le coppie che vogliono appartarsi lontano dai figli, capanne dove (proprio come nelle isole Trobiand descritte da Malinowski) i bambini e i ragazzi dormono da soli fino all’età del matrimonio, e financo capanne in cui gli uomini attuano una radicale campagna di controllo demografico dormendo soli per tre anni dopo la nascita dell’ultimo figlio onde distanziare le nascite e non concepirne altri prima del tempo. Sul piazzale esterno di ogni villaggio v’è l’albero della vita, il totem − possiamo sicuramente definirlo tale − che ricorda gli antenati, segnati a tacche sull’albero. In basso, pietre di una certa altezza testimoniano le battaglie vinte, mentre altre pietre più piccole a lato ricordano quelle perse e le loro vittime. Per ogni villaggio, naturalmente, è un onore avere accanto all’albero della vita molte pietre grandi e poche pietre piccole. Il totemismo, diffuso nelle società degli aborigeni australiani e degli indiani nordamericani, è stato un vecchio e dibattuto argomento, ormai abbandonato dall’etnologia dopo essere stato ridotto (con Radcliffe-Brown e Lévi-Strauss) a un sistema classificatorio, ma nei totem dei villaggi konso io trovo la parte di verità contenuta nell’interpretazione datane nell’etnologia sociologica di Durkheim. In quella impostazione, il totem rappresenta un “fatto sociale” (un fait social): precisamente esso, come del resto secondo Durkheim tutta la religione arcaica di cui il totemismo è parte incipiente e importante, è un emblema della società, della “coscienza collettiva” e delle représentations collectives, quale entità sovraindividuale che assicura e rinsalda la coesione sociale imponendosi in modo vincolante ai suoi membri e rafforzandone la solidarietà. Durkheim afferma giustamente che il vincolo sociale, il legame che vincola l’uomo alla propria comunità, è particolarmente forte nelle società tradizionali, così forte che egli le vede caratterizzate da una coesione più meccanica che organica stante in esse l’accettazione irriflessa da parte dell’individuo delle credenze e delle tradizioni del gruppo: già Frazer, del resto, parlava della «apparente libertà della vita selvaggia [così era allora definita], dove la sorte dell’individuo è foggiata, dalla culla sino alla tomba, nella ferrea forma del costume ereditario»2. I membri del clan totemico credono di discendere dal totem, si sentono legati al totem da un’origine comune e si riconoscono in esso: di conseguenza essi attraverso il totem si sentono uniti fra loro in un profondo legame di consanguineità e di parentela. Il totem rappresenta dunque secondo Durkheim il clan e in particolare il ceppo atavico e ancestrale degli 2

J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., p. 79.

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antenati, anzi dell’antenato fondatore; rappresenta e simbolizza la coesione sociale del villaggio; rappresenta le radici profonde della comunità e della tribù tutta, suddivisa in clan a loro volta totemici di cui gli individui sono solo incarnazioni momentanee e temporanee; rappresenta lo strato arcaico e collettivistico pre-personale di suolo e di terra, di sangue e di fratellanza, rappresenta l’anima mistica del gruppo. Questi legami totemici sono in prima istanza vincoli sociali ancor più che familiari, ma le due cose coincidono di fatto perché gli appartenenti allo stesso totem si considerano dello stesso sangue, anche se poi sono effettivamente tali solo in piccola parte. Questa coesione, poiché rimanda ad un antenato comune, lega tutti i membri in una parentela e una consanguineità (reale o fittizia): totem, del resto, deriva da ototem che nella lingua degli indiani americani Ojibwa significava «egli appartiene alla mia parentela». In questo modo, stante il riconosciuto primato del proprio gruppo clanico sia rispetto all’individuo sia rispetto ad ogni altro clan, l’associazione fra il totem di ciascuna tribù (o di ciascun clan di una data tribù) e un dato simbolo (che nella maggior parte delle culture è il più delle volte un animale o un vegetale) significa anzitutto che la comunità si riconosce in quel simbolo visibile che la distingue da ogni altra tribù, e vi si compatta e vi si salda come attorno a qualcosa di pregnante; contro ogni elemento centrifugo, essa celebra in quel simbolo l’unità, il legame reciproco e la coesione dei suoi membri3. In questo senso, il totemismo risponde all’esigenza profonda di un clan di distinguersi e denominarsi attraverso un totem, che è un simbolo di appartenenza e un contrassegno di riconoscimento della comunità come per noi la bandiera o lo stemma della città. Certo, l’impostazione di Durkheim, che pur coglie l’imprescindibile funzione sociale del valore totemico, è parziale nella sua riduzione sociologistica del fattore religioso poiché sacralizza la società identificandola con il divino. Per Durkheim il totemismo è il culto del proprio clan e una proiezione del gruppo sociale. Egli nega alla religione “primitiva” (come ad ogni religione) qualsiasi senso di reale trascendenza, ma in realtà nel totem una collettività non venera semplicemente se stessa: già Feuerbach aveva detto che nella divinità l’uomo senza saperlo non fa altro che adorare se stesso, già Comte aveva additato il superamento della religione nel culto del “Grande essere” e del “Grande Feticcio” che altro non erano se non

3

É. Durkheim, Sur le totémisme, 1901 (poi in “Journal sociologique”, Paris 1969, Presses Universitaires) e Les formes élémentaires de la vie religieuse: le système totémique en Australie, 1912 (tr. it. Le forme elementari della vita religiosa, 1963, ora Roma 2005, Meltemi).

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(rispettivamente) la stessa umanità e la Terra, ma − come giustamente disse Evans-Pritchard con pungente battuta − in realtà era il sociologo Durkheim che divinizzava la società e non il “selvaggio”. Certo Durkheim coglie l’importanza della religione − non la rifiuta come alienazione dell’uomo (Feuerbach) o come «oppio dei popoli» (Marx) o come stadio infantile (Comte) o come nevrosi (Freud). Tuttavia, cercando di rinvenire le «formes élémentaires de la vie religieuse», cercando cioè di rinvenire l’elemento semplice e permanente di tutte le religioni al di sotto delle forme più varie e complesse, e ritenendo di aver rintracciato (contro vari autori per cui il totemismo non è una religione) tale religione elementare nel totemismo australiano, in cui certamente è evidente il valore di coesivo sociale, Durkheim (che estrapola e generalizza a tutte le religioni quanto ritiene di avere appurato per il totemismo) non si avvede non solo che in altre forme di religione tale valore sociale può essere assai meno spiccato ma nemmeno che esso non è così integrale nello stesso totemismo. Al riguardo diremmo che, nel totemismo, la comunità non si limita a venerare se stessa in un compiaciuto narcisismo, bensì trova il suo autorafforzamento coagulandosi e cementandosi in un simbolo che trascende il livello sociale e antropologico pur comprendendolo. Infatti il totem al centro o all’ingresso del villaggio (nella cui forma il freudismo vede soltanto un simbolo fallico) simboleggia in realtà l’Axis mundi, quale perno immobile e immutabile attorno a cui per gli antichi e per gli uomini arcaici ruota la sfera del cosmo, come in terra ruota attorno ad un perno la ruota del mugnaio e del vasaio: così il totem, simbolo dell’Axis mundi attorno a cui ruota la sfera del cosmo, è al tempo stesso il fulcro e il perno attorno a cui ruota tutta la vita della comunità. La stabilità e il perno cosmico immobile che in cielo presiede alla rotazione ordinata della sfera celeste diventa il paradigma e il modello trascendente in base a cui concepire e a cui saldare l’ordinata stabilità della società attorno al proprio perno simbolico. Guracho ci fa visitare con particolare attenzione il suo villaggio, anch’esso munito di vecchi bassi muretti in pietra, e ci guida fra le capanne nella sua casa, composta di due stanze le cui pareti sono tappezzate di vecchie immagini devozionali che ne testimoniano la fede cristiana. Pur essendo poco più che ventenne Guracho ha già una moglie, una giovane ragazza sedicenne, e un bambino appena nato: ce li mostra dormienti, nella buia stanzetta attigua a quella in cui siamo. Ci dice che presso i Konso il rapporto sessuale è proibito prima del matrimonio, precisa che questa proibizione non viene trasgredita e aggiunge che, proprio per questo, per aver diritto ad una vita sessuale altrimenti impossibile o difficoltosa, gli uomini konso

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vogliono sposarsi presto, da giovani o quasi da ragazzi quando la spina del desiderio sessuale è particolarmente acuta. Dice che, pur essendo molto giovane, egli in realtà si è sposato piuttosto tardi rispetto alle abitudini dei giovani del villaggio, perché proviene da una famiglia povera. Riconosce che la sposa è veramente molto giovane, e dice che essi per mettere di fronte al fatto compiuto i rispettivi genitori, intenzionati a ritardare il matrimonio subordinandolo al possesso futuro di migliori disponibilità economiche, sono ricorsi alla “fuga d’amore” solitamente attuata in questi casi. In ogni modo attualmente le condizioni del giovane, che è sveglio e lavora come guida ufficialmente registrata a Konso, sono migliorate come dimostra anche la sua abitazione, che pur modesta non è un tukul tradizionale ma è la sola casetta del villaggio, sia pur anch’essa costruita con fango (la cica) mescolato a paglia. La giovane sposa e madre dormiente (o forse semidormiente) non può uscire dal minuscolo sgabuzzino, privo di finestre e tutto scuro e buio, in cui si trova: infatti dopo il parto la donna presso i Konso per purificarsi deve rimanere in assoluto e totale isolamento per due mesi con il suo bambino, o in una apposita capanna (come abbiamo visto in un villaggio) o in una stanza appartata di una casa come in questo caso. Anche dopo il matrimonio la sposa è tenuta all’isolamento, per circa tre mesi. Se esce, essenzialmente per espletare i propri bisogni, dovrà farlo possibilmente quando nessuno la veda e comunque dovrà essere interamente velata. In tutte le popolazioni tradizionali la condizione di impurità di una persona è legata agli opposti poli correlati della vita e della morte: così da un lato è impuro il guerriero uccisore che torna al villaggio come è impuro ogni familiare di un morto o financo chi ha partecipato alle esequie, e dall’altro lato è impura la donna in gravidanza e la donna che partorisce ma anche a volte la donna appena sposata. Del resto anche il neonato è considerato impuro finché non battezzato, e per questo (secondo la consuetudine ebraico-cristiana) occorrono 40 giorni per i maschi e 80 per le femmine. La persona impura, vista come portatrice di un influsso nefasto e contagioso pericoloso per l’intera comunità, deve essere isolata anche in modo estremamente severo per non dire crudele attraverso un «cordone sanitario mistico» (Levy-Bruhl): non perché debba essere punita per qualche colpa bensì per la salvezza della comunità fino a che essa (attraverso digiuni e varie proibizioni del toccare) non possa essere reintegrata a pieno titolo nella comunità dopo un periodo più o meno lungo4. Questa consuetudine, legata in particolare all’idea della 4

L. Levy-Bruhl, Sovrannaturale e natura nella mentalità primitiva, cit., cap. VIII (“Impurità e purificazione”, pp. 250-289).

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sacralità della maternità che esige la recinzione di ciò che è sacro, è quasi ovunque applicata, oltre che alla partoriente, anche alla ragazza o alla donna “impura” in mestruazione, in certe culture (anche nelle nostre campagne) ritenuta financo capace di emanare sostanze passibili di far appassire i fiori e uccidere le sementi: questo perché la perdita di sangue mestruale, contrariamente alla volontaria effusione rituale di sangue da parte degli uomini o alle libagioni di sangue animale, non arreca forza ed energia vitale ma la disperde; inoltre il sangue mestruale (particolarmente se coagulato), essendo simile alla perdita di sangue durante il parto e essendo spesso l’embrione concepito come il frutto del coagulo di un grumo di sangue, richiama alla mente un aborto, un parto fallito, con conseguente aggirarsi malevolo dello spirito del non nato invidioso dei nati5. Per tutto questo è necessario isolare col massimo rigore (non di rado fuori dal villaggio) la ragazza mestruata soprattutto alla prima mestruazione, perché essa è ormai in grado di generare ed è passibile d’ora in poi di rimaner gravida: in certi casi essa poteva venire rinchiusa al buio per giorni o mesi come ad evitare la luce “fecondante” del Sole. La reclusione (oltre che della donna mestruata) della donna in gravidanza, o prima o dopo la gravidanza o sia prima che dopo, unitamente a vari tabù alimentari e a tabù del toccare, si ritrova in varie culture in cui varia solo la durata del periodo di segregazione: Frazer l’ha rinvenuta ovunque (Nordamerica, Australia, Africa)6; Malinowski l’ha rinvenuta nelle Trobiand: «dopo la nascita, madre e figlio vengono tenuti appartati per circa un mese, durante il quale la madre cura costantemente il bambino e lo nutre, e solo alcune parenti sono ammesse nella capanna»7; van Gennep ne parla nel suo libro sui riti di passaggio (quarto capitolo), vedendo nelle varie cerimonie attinenti la condizione della donna gravida le tre fasi di preliminare separazione dalla società, di situazione al limite fra la vita vecchia e la vita nuova all’epoca della gravidanza e infine di reintegrazione sociale nel nuovo ruolo di madre. L’isolamento, la separazione temporanea dal resto della comunità è ritenuta in questi casi necessaria, non soltanto per l’instaurazione del legame simbiotico fra la madre e il bambino in un clima di assoluta intimità, ma soprattutto affinché l’impurità della condizione puerperale e post-puerperale non contamini la comunità o addirittura la terra e il cielo circostanti: alla donna tenuta al buio viene portato da mangiare, ridotto per i tabù alimentari, 5 6 7

Ivi, cap. X (“Il sangue della donna”, pp. 319-371 in particolare pp. 339-353). J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 326-330 (“Tabù di donne durante la mestruazione e il parto”) e pp. 920-937 (sulla “reclusione delle fanciulle puberi”). V. anche L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., pp. 305-310. B. Malinowski, Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, cit., p. 39.

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senza che nessuno possa parlarle o vederla e spesso senza che ella possa toccare alcun utensile. Quando uscirà, vi sarà una grande festa in tutto il villaggio, che avrà recuperato uno dei suoi membri alla vita sociale. Anche fra i Konso naturalmente, come in questa casa vediamo bene, il matrimonio è una tappa fondamentale dell’esistenza e Guracho ci spiega (e quanto ci dice ci verrà confermato da altri) la procedura matrimoniale in uso presso il suo popolo. Premettendo che in ciascuno dei 46 villaggi konso vi sono nove clan, e che (secondo la struttura universalmente diffusa ed ampiamente studiata dagli antropologi) un uomo di un clan può sposare solo una donna di un altro clan che (nel caso dei Konso presso cui vige la patrilocalità) andrà a vivere nella sua casa, il nostro prezioso informatore continua spiegando in quale modo si giunge al matrimonio presso i Konso. Se presso gli Hamer il matrimonio segue ad un rito, che segna il passaggio all’età adulta, in cui il giovane deve dimostrare il proprio valore camminando avanti e indietro sui tori di fronte alla comunità, viceversa presso i Konso (ormai agricoltori e non più guerrieri) il legame con la donna non è legato ad una prova di prestanza bensì è mediato dal cibo. Avevamo già sentito dire ad Addis Abeba da una nostra amica, figlia di un italiano e di una donna eritrea, che in certe popolazioni tigrine ed eritree l’uomo prima di sposare una donna a cui garantirà protezione e sostentamento si accerta delle sue qualità come cuoca: si siede di fronte a lei, vede come prepara il piatto nazionale (lo zighinì in Eritrea e il doro wot in Etiopia) e lo assaggia emettendo il verdetto. Qui invece, presso i Konso dalla parte opposta dell’Etiopia, avviene così: ogni giovane ragazza a partire da una certa età prepara un piatto tradizionale, il kurkufa, che non è il piatto tradizionale etiopico a base di injera (in questa zone la coltivazione del teff da cui la si ricava sono poche cosicché l’injera è riservata al pranzo domenicale e festivo), bensì è fatto con cereali ricavati dalla pianta del sorgo; come accompagnamento la ragazza prepara anche una birra (checka), solo in parte simile alla tella consumata nelle zone più a nord dell’Etiopia e fatta con vegetali tratti dall’oronka, una pianta tradizionale usata anche terapeuticamente contro la malaria. A questo punto gli abitanti maschi e scapoli del villaggio vanno a mangiare e bere a casa della ragazza o in un luogo comunitario del villaggio, e pagano regolarmente la consumazione che serve alla ragazza per farsi la dote. In pratica insomma la ragazza sotto l’occhio vigile dei genitori apre un bugigattolo, una sorta di bar e fa la cuoca e la cameriera mettendo da parte i soldi guadagnati. Quando poi la ragazza decide che è ora di sposarsi e prova simpatia e attrazione per un giovane particolare fra i tanti del villaggio che vanno a consumare il pranzo da lei, allora

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ella come segno tangibile della sua attenzione e del suo interesse gli serve una pranzo migliore, meglio condito e ben speziato, accompagnato da una birra particolarmente buona. A questo punto il giovane, se non interessato, potrebbe anche far finta di nulla e magari evitare di tornare a pranzare dalla ragazza, dimostrando così di essere stato interessato solo ad un pranzo e ad una birra, ma questa eventualità è piuttosto rara visto il desiderio di matrimonio che solo apre a questi giovani le possibilità di una vita piena: il giovane, si presume, è andato a consumare il pranzo dalla ragazza non solo per mangiare e bere ma proprio nella speranza di essere da lei scelto. Dunque a questo punto l’uomo, che quasi sempre è un giovane, quando si rende conto (o quando si illude) che a partire da un certo momento gli vengono serviti un piatto e una birra migliori del solito, va da un amico e lo prega di dire ad una ragazza amica di colei che suscita il suo interesse che lui la ama8. Ciò fatto, il nostro giovanotto torna il giorno dopo e comunque a breve tempo a mangiare e a bere dalla ragazza: se questa gli avrà preparato un pranzo con un piatto e una birra ancora migliori, questo significa l’assenso inequivocabile di lei e la prova che lui fra tanti è il prescelto. Mi rendo conto che descrivendo questa specie di rito preliminare al matrimonio (trascrivendo nei termini più esatti possibile le frasi del mio interlocutore anglofono) ho forse involontariamente dato un alone romantico alla cosa, o forse l’ha data lui. Certo, se volessi vedere la cosa in modo più smaliziato potrei dire che essa a me, in una sorta di “amarcord” felliniano, ricordava irresistibilmente la bella del paese in cui da ragazzo passavo le vacanze d’estate, che serviva al bar: il bar era guarda caso sempre pieno di giovani maschi, fra cui chi scrive, e si discuteva accanitamente su chi di noi fosse stato servito meglio e avesse beneficiato del miglior sorriso onde appurare il grado di simpatia della ragazza per il fortunato. Allocchi come eravamo, non capivamo che spesso – oggi forse non più ma allora sì – la ragazza per timidezza finisce per essere apparentemente distante proprio dal ragazzo che le piace di più. Guido Gozzano in Signorina Felicita diceva: «donna, mistero senza fine bello». Io invero preferisco il brillante aforisma di Oscar Wilde secondo cui in realtà la donna è «una sfinge senza misteri»: però bisogna essere abbastanza bravi nel capirne la psicologia 8

L’importanza dell’amico mediatore nelle questioni amorose è attestata anche in altre società tradizionali: «Quando un ragazzo ha passato la pubertà da due o tre anni, la scelta di un amico è influenzata dalla convenzione che obbliga un giovane a non dichiarare direttamente il suo amore e a non fare mai di persona proposte di matrimonio. Per conseguenza il giovane ha bisogno di un amico della sua età, del quale possa fidarsi, che illustri le sue lodi e sostenga la sua causa col necessario fervore e con discrezione» (M. Mead, L’adolescenza in Samoa, cit., p. 65).

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e, avendola capita, poter quindi dire che, appunto, in essa non v’è nessun mistero. Insomma, più che essere terribilmente complicata e misteriosa la psicologia femminile è più che altro spesso molto inadeguato il comprendonio maschile. Un mistero non è più ovviamente un mistero quando lo si è capito, altrimenti la psicologia femminile rimane indubbiamente discretamente complicata: io per esempio rimasi esterrefatto quando, vent’anni dopo, una donna mi confessò di essere stata molto innamorata di me in età adolescenziale. Mai avevo immaginato una cosa simile: anche a me ella piaceva, ma mai avevo osato avvicinarla tanto la sua ritrosia e apparentemente assoluta indifferenza nei miei confronti mi sembrava un palese segno di totale disinteresse. Ma non divaghiamo e torniamo all’usanza dei Konso. Per quanto riguarda la loro tradizione, se detta in soldoni e in termini più crudi e meno poetici, o almeno un poco smaliziati, la faccenda suona indubitabilmente così: anche e soprattutto per gli uomini di queste popolazioni, come sotto quasi tutte le latitudini, la cosa importante per un uomo è alla fin fine che la donna sappia cucinare un buon pranzetto, visto che proprio in base alla capacità di fare un buon pranzetto si sceglie costì la donna o se ne viene scelti. Si potrebbe dire cioè che alla fin fine questi uomini cercano non tanto una donna e una sposa quanto una serva che faccia loro da mangiare: e, se si pensa alla condizione e al ruolo subordinato delle donne in queste società tradizionali, use non solo ai lavori domestici ma spesso anche ai lavori più pesanti sdegnati dagli uomini, non si sarebbe del tutto lontani dal vero. Tuttavia, se pur ciò sia vero, una versione dissacrante di questo che possiamo definire una sorta di rito non sarebbe giusta e costituirebbe un fraintendimento. Come sempre in questi casi, dobbiamo anzitutto pensare alla durezza della vita di queste popolazioni prima di emettere giudizi estrinseci e superficiali. Probabilmente nessuno di noi uomini occidentali, almeno oggi, cercherebbe in una donna una buona cuoca. Addirittura, in occidente una nota fotomodella compagna di una celebre rock-star ha gettato una boutade dicendo: «affinché una donna possa tenere un uomo [ha detto proprio così, “tenere un uomo”, come una ragazza d’altri tempi], deve essere una brava cuoca in cucina, una ottima padrona di casa in salotto e una puttana a letto», precisando: «io non sono molto brava nelle prime due cose, ma mi rifaccio ampiamente nella terza». Viceversa per questi uomini con ogni probabilità, e pur fatte salve le esigenze ormonali giovanili, non è molto importante che una donna sia una puttana a letto avendo ella a letto sostanzialmente il compito primario di generare figli: è invece fondamentale che sappia cucinare il piatto della tradizione, per sé e per gli eventuali ospiti, e noi dobbiamo capire

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quanto il cibo, il mangiare, sia fondamentale per queste popolazioni povere oltre che atto comunitario denso di significato (che ho cercato di descrivere nel capitolo sul pranzo etiopico). L’uso konso, o tigrino, che lega in un viluppo reciproco il cibo e il matrimonio, può essere capito meglio se rapportato al rito di corteggiamento in uso presso certi animali − non dobbiamo dimenticare che l’uomo è anche un animale, per quanto ci piaccia dimenticarlo: ad esempio presso molti tipi di uccelli il maschio persuade la femmina all’assenso costruendole il nido nuziale in cui ospitare lei e i piccoli, e prima della copula le offre del cibo (del resto anche nella nostra cultura l’invito a cena rivolto da un uomo ad una donna può sottintendere un richiamo erotico). L’alleanza matrimoniale fra un uomo e una donna riveste una importanza fondamentale nella durezza della vita di queste popolazioni: l’uomo costruisce la capanna, porta qualche bene economico come alcuni animali domestici, offre riparo e protezione alla donna e le procura il cibo (in un villaggio konso sentiremo dire che «un buon marito è quello che dà del buon cibo alla moglie»); la donna, dal canto suo, oltre a garantire la discendenza all’uomo, dovrà in cambio preparare e cucinare quel cibo che le viene portato crudo oltre che svolgere le varie altre pesanti incombenze come raccogliere l’acqua e la legna. Alla donna insomma spetta il compito, fondamentale secondo LéviStrauss, di trasformare il crudo in cotto garantendo il passaggio dalla natura alla cultura. Vi è quindi una ripartizione del lavoro, per quanto indubitabilmente sbilanciata a favore dell’uomo, e siccome alla donna competerà la preparazione del cibo ella viene giudicata (uso tigrino cui si è accennato) o dimostra in proprio (uso konso) la propria capacità in tale ambito: a sua volta la donna, di cui si apprezza la capacità in cucina, nell’accettare (o nello scegliere) un giovane uomo ne valuterà non solo la bellezza ma sicuramente anche altre più concrete qualità. L’uso konso, o tigrino, evidenzia dunque un legame particolarmente sentito fra il cibo e il sesso, o meglio fra il mangiare e la vita in comune a due. Il carattere generale di questo abbinamento fra cibo e matrimonio è attestato ad esempio dall’uso dei Kwoma della Nuova Guinea: qui è in uso un matrimonio di prova in cui la ragazza va a vivere per un certo periodo nella casa del ragazzo e dei suoi genitori, dove cucina solo per sé mentre il cibo del ragazzo viene preparato dalle donne di casa; quando poi, dopo un certo periodo, viene appurato che il legame funziona, la madre durante un’assenza del figlio gli fa preparare il pranzo dalla fidanzata; quando il ragazzo torna e comincia a mangiare la madre gli dice che il cibo è stato preparato dalla ragazza, cosicché il mangiarlo significa dire che egli è ora sposato. A questo punto l’usanza vuole che il ragazzo corra fuori di casa e sputi il cibo dicendo: «è pessimo! È sta-

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to cucinato in modo orribile!»9. Nell’usanza è insito un notevole umorismo perché in realtà la madre rivela al figlio la cosa, e con essa il matrimonio, quando egli ha già mangiato e non prima, cosicché il ragazzo finge di lamentarsi quando ormai les jeux sont faits. Ma in questo legame fra cibo e matrimonio è chiaro che in tutti questi casi − fra i tigrini, fra i Konso o fra i Kwoma − il cibo ha un valore altamente simbolico e che in realtà non si tratta solo del cibo: la donna che sa servire un buon pranzo, anzi il cibo della tradizione, dimostra con ciò stesso di saper fare anche altre cose, e cioè di saper lavorare. Anche presso gli altri popoli la ragazza dà prova di sé in casa, anche se non in modo così ufficiale come fra i Konso: «quando un ospite arriva − dice una ragazza Bashada − egli guarda le ragazze. Guarda se le ragazze lavorano bene»10. Cioè, l’ospite che guarda la ragazza non guarda tanto se la ragazza è bella, come indiscutibilmente farebbe ciascuno di noi corrotti occidentali: guarda se e come lavora. Se una ragazza lavora bene, avrà molti ospiti, altrimenti quella casa sarà disdegnata. Tuttavia rispetto a quelle popolazioni tigrine ed eritree di cui ci parlava la nostra amica, in cui l’uomo sedendosi sottopone la donna ad una specie di esame culinario, la differenza è molto netta anzitutto stante il versante economico della cosa (la ragazza guadagna) e poi per il suo aspetto collettivistico: non c’è qui un uomo che osserva e giudica una donna che cucina usufruendo del cibo da lei preparato, bensì più uomini − in pratica tutti gli scapoli maschi del villaggio − che osservano una donna (o meglio una ragazza) cucinare e servire il pranzo che essi consumano (e pagano). Ma la differenza fondamentale è un’altra: nell’usanza tigrina e eritrea la donna viene scelta in base alla sua capacità in cucina, mentre invece nell’usanza konso è la donna che sceglie l’uomo fra i tanti che le si presentano. La cosa porta con sé un importante corollario: in quelle popolazioni tigrine ed eritree (non in tutte) in cui sussiste l’usanza anzidetta, la donna è esposta ad un giudizio, ad un verdetto e quindi anche alla possibilità umiliante del rifiuto, mentre viceversa fra i Konso è lei che sceglie ed è l’uomo che viene scelto anche se la dignità maschile viene comunque salvaguardata perché egli non è esposto all’umiliazione: l’onta del diniego e del rifiuto − che certamente sarebbe sentita molto fortemente in questi uomini − non sussiste, sia perché si tratta della scelta di un uomo ancor prima che del rifiuto di un altro sia perché solo il giovane prescelto (che può sempre ignorare la cosa) sa che a lui è stato servito un pranzo migliore, perché apparentemente il pranzo è 9 10

B. e J. Whiting, Becoming a Kwoma, New Haven 1941, University Press, p. 125. S. Epple - T. Brüderlin, The Pride and Social Worthiness of Women in South Omo, cit., p. 49.

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uguale per tutti e solo all’assaggio se ne percepisce la differenza. Rimane però certamente il fatto − abbastanza desueto in queste popolazioni − che alla donna spetta non soltanto un semplice assenso più o meno volontario ad una proposta, ma anche una scelta segreta e si presume del tutto autonoma. Infatti fra i Konso mi è sembrato che le donne, anche se use a svolgere le solite pesanti mansioni subordinate, godano però, almeno in un certo ambito, di una relativa libertà: essa sembra comprovata dalla loro abitudine di andare a seno nudo per la strada, anche in luoghi lontani ed esposti a contatti con gente di altre etnie come al mercato, nonché dalla generale sfrontatezza con cui apostrofano e ammiccano allo straniero, che contrasta in modo così netto con la ritrosia e il pudore delle donne hamer o borana che si voltano dall’altra parte (e talora si offendono per l’invasività) di fronte alla macchina fotografica. In ogni modo l’usanza konso ci testimonia che, nonostante il pagamento di una consistente dote da parte dello sposo, la donna certamente non viene “comprata” proprio in quanto si richiede il suo assenso. Oggi sono agricoltori che faticano duramente, ma un tempo non lontano i Konso erano guerrieri (assalirono anche la carovana di Bottego nella sua ultima spedizione) e la struttura della società konso reca ancora le tracce, pur in una temperie storica ormai diversa, di un ordinamento aristocratico e gerarchico. Attualmente l’autorità è naturalmente esercitata dal governo etiopico ma, per tutte le questioni di non diretta competenza governativa, ancora vige il cosiddetto “diritto consuetudinario” basato su norme tradizionali non scritte, cosicché nominalmente l’autorità secondaria viene esercitata dai capi appartenenti ad un ristretto gruppo di famiglie privilegiate, un po’ pomposamente chiamati Re. Noi andiamo, appena fuori della cittadina di Konso, presso il compound di una di queste famiglie reggenti. Il compound è situato abbastanza in alto, su una collina dalla vetta spianata circondata dalla boscaglia. Nel vasto spiazzo antistante la dimora del capo konso vi è anche qui, come nel piazzale dei villaggi, l’“albero della vita” sottile e altissimo. Anch’esso è un totem, in quanto è un simbolo di appartenenza e di coesione, ma quello che vedo sul piazzale antistante la dimora del re dei Konso e dei suoi familiari è un totem particolare, perché in realtà rappresenta il lignaggio della sua famiglia, il casato, potremmo dire il blasone, e non la comunità del villaggio: varie tacche sull’albero segnano la successione delle generazioni che, come testimonia l’altezza dell’albero, rimonta a molto tempo addietro. Proprio questa importante e ostensiva genealogia familiare, a tutti visibile, forgia il diritto dell’attuale re alla giurisdizione sulla parte di villaggi di sua competenza, che in quel lignaggio fondatore si riconoscono.

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Il compound è tutto recintato in bambù. Attraverso l’apertura d’ingresso, scorgiamo vari tukul fra cui si aggirano bambini seminudi incuriositi dalla nostra presenza. Chiediamo con discrezione del paterfamilias e, dopo un po’ di attesa, probabilmente necessaria per il cambio d’abito, si presenta un giovane uomo vestito elegantemente con una camicia all’occidentale. Fatte le presentazioni, il “re” Konso inizia il racconto come una guida: «i villaggi dell’etnia Konso sono 46, e l’autorità è esercitata da nove famiglie preminenti le cui dimore simili a quella che qui vedete sono distribuite nella zona. Fra queste nove famiglie, le più ragguardevoli sono tre fra cui la mia che si chiama Kala. Vi sono buoni rapporti fra queste famiglie eminenti, e ciascuna di esse esercita l’autorità in una propria zona di influenza». La presentazione mi sembra un po’ edulcorata. Poiché questa ripartizione del potere nel territorio e questa autorità sui villaggi ricorda l’autorità esercitata dai signori feudali nel nostro medioevo, e ben sapendo quanto fossero aspre le lotte fra i signori feudali, allora attacco: davvero i rapporti sono così buoni, e lo sono sempre stati? Perché allora i villaggi konso sono tutti circondati da mura in blocchi di pietra? I Konso combattevano soltanto con tribù limitrofe e rivali, o v’erano anche faide e lotte per il potere fra le famiglie dominanti e, attraverso esse, fra i rispettivi 46 villaggi facenti capo all’una o all’altra famiglia? Le tre famiglie preminenti fra le nove non hanno a suo tempo costretto le altre attualmente meno importanti ad abbassare la cresta? Le domande, naturalmente, sono volutamente provocatorie, atte a rompere il ghiaccio di una presentazione puramente formale. Il capo konso sorride con lieve amarezza e dice un po’ elusivamente che in genere le guerre avvenivano con tribù rivali, ammettendo però che talora potevano anche insorgere rivalità e tensioni fra le famiglie dominanti senza che la cosa degenerasse oltre un certo limite. Il capo konso continua il suo racconto: egli − dice − è diventato sovrano esercitante l’autorità sulla cittadina di Konso e sulle zone immediatamente limitrofe da meno di un anno, dopo la morte del padre perché nella società konso l’autorità si trasmette di padre in figlio. Mi immagino quanto possa essere forte il complesso edipico laddove il padre è al tempo stesso anche un re, e quanto pesante possa esserne l’eredità vista la giovane età del nostro interlocutore: mi sovviene alla mente il Don Carlos di Schiller, tutto incentrato sul conflitto fra Don Carlos e il padre, il potente Re di Spagna Filippo II perennemente rinchiuso in una tragica solitudine nelle sue tetre dimore dell’Escorial e tutto preso dalle sue cupe meditazioni religiose; e, naturalmente, mi sovviene Amleto che non si decide a vendicare il re suo padre assassinato, perché in realtà non vuole. Il re e padre defunto − continua interferendo nei miei pensieri il giovane sovrano − «prima di essere sepolto viene mummificato. La mummifica-

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zione richiede un tempo più o meno lungo a seconda dell’età del morto: il cadavere, depurato dei suoi organi interni di cui i principali (come il cuore) vengono conservati, deve seccare completamente, e questo richiede un tempo più o meno lungo a seconda dell’età. In genere il procedimento dura da due a tre mesi. Viene effettuato dalla sorella del sovrano morto secondo una tecnica complessa, non dissimile − aggiunge ad una mia domanda − da quella praticata nell’antico Egitto». Nel mentre il giovane sovrano parla, mi domando fra me e me circa le origini della civiltà egizia. Un’ipotesi “diffusionista” classica potrebbe vedere l’epicentro e la sorgente di questa grande civiltà (che secondo Elliot-Smith è addirittura l’origine di ogni civiltà umana) sulle rive del Mediterraneo, da dove poi si sarebbe “diffusa” per cerchi progressivi (i Kulturkreise di Frobenius) fino ad estenuarsi nelle sue ultime più rozze propaggini fra le popolazioni nilotiche e sudanesi, raggiungendo però anche la mitica terra di Punt dell’Arabia felix come sembrano provare le famose stele-obelisco axumite sull’altra sponda del Mar Rosso, di evidente ispirazione egizia. Molti infatti, fra le terre nilotiche più meridionali lontane dall’epicentro egizio, sono i segni culturali simili o addirittura identici agli antichi manufatti egizi: le piroghe del Lago Tana identiche a quelle egizie di due o tre millenni precedenti, i famosi poggiatesta identici a quelli dell’antico Egitto, e infine lo stesso procedimento konso di mummificazione di cui ci parla il giovane re, alquanto simile a quello egizio e che con stupore ritrovo nel sud dell’Etiopia. Certo sappiamo che le tecniche di mummificazione erano note anche ad alcune etnie aborigene australiane, ma qui sembra più probabile una derivazione “diffusionista” diretta. Però io non credo tanto ad un’ipotesi “diffusionista” da nord a sud con progressiva discesa culturale dall’alto in basso, dal Mediterraneo al deserto, quanto vedo sempre più rafforzata l’idea che le origini della grande civiltà egizia stiano ben più a sud dell’area mediterranea, lungo le rive del Nilo che nasce dal Lago Vittoria e attraversa tutto il Sudan prima di sfociare nel Mediterraneo: perfino negli stessi totem, come quello del piazzale antistante la casa del re konso, mi sembra possibile scorgere una possibile lontana origine dell’obelisco egizio. Mentre io sono immerso nei miei pensieri, il giovane capo konso continua la sua spiegazione, o il suo racconto. Quando il cadavere del padre-re è mummificato, il corpo è posto a sedere in un tukul e tenuto sotto continua sorveglianza: finché non è sepolto, egli non è considerato morto ma solo seriamente malato e come tale viene accudito e pulito. Secondo la più antica tradizione il corpo mummificato del re rimaneva così, prima di essere sepolto, per nove anni nove mesi e nove giorni dopo la sua morte. Questo risponde alla pratica, diffusa in molte culture tradizionali, di conservare le

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ossa o il teschio o il corpo disseccato del morto quale sede di uno spirito protettore. Attualmente però questa tradizione (fra i capi konso come altrove) è in disuso, probabilmente anche per la difficoltà di pagare i guardiani: la cerimonia di sepoltura avviene in tempi più rapidi, e per il padre del re Konso è già stata effettuata11. Il figlio descrive la sepoltura della mummia del padre: «la cerimonia inizia con una processione. Il cadavere essiccato e mummificato viene portato in cima ad una collina nei pressi della nostra dimora. Si scava una fossa rettangolare di due metri per sei al cui fondo viene collocata la mummia. L’accesso viene chiuso da un cancelletto e il tutto viene ricoperto di terra». All’esterno, sopra la terra, in corrispondenza dell’ingresso sottostante al piccolo corridoio sotterraneo che conduce al sito della mummia, viene eretto un cippo funebre: il waga. A questo punto, avvenuta la sepoltura del re e padre, avviene − su un’apposita modesta panca in pietra posta nel compound che egli ci mostra − l’incoronazione del figlio e nuovo re. Lo zio materno, che come sappiamo in molte società tradizionali svolge un ruolo fondamentale, gli consegna anzitutto un bracciale in avorio. Questo bracciale d’avorio è veramente prezioso: eredità degli antenati, viene trasmesso dal padre che a sua volta lo ha ricevuto da suo padre, ed egli lo mette (lo ha messo) all’altezza del bicipite sinistro, come ci mostra. Al contempo lo zio materno gli consegna (gli ha consegnato) un bracciale d’argento che egli, come ci mostra, porta al polso destro, e una pelle di leone che avrà cura di conservare. Il giovane capo konso continua a parlare. Prima della sua incoronazione e prima che avvenga la sepoltura del re suo padre − egli dice −, il figlio e futuro re inizia da quel momento una purificazione ascetica, a suo tempo seguita anche dal padre, che durerà per tutta la vita: essa consiste nel divieto di cibarsi della carne di alcuni animali (pollo, mucca, selvaggina). Ma il tratto più severo, e quasi disumano, di questo processo di purificazione è la separazione, l’isolamento imposto per tutta la vita: dal momento in cui è avvenuta la mummificazione precedente la cerimonia di sepoltura egli non potrà più uscire dalla propria dimora, per tutta la vita. Questo perché egli deve ormai prendere il potere ed esercitare la propria autorità sulla zona di competenza: per fare ciò, egli non deve essere di parte e dunque non può frequentare né i villaggi né la cittadina di Konso. Se per esempio egli an-

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In un reportage di viaggio pubblicato nel 2004 (G. Colasanti, Vanishing Africa, Vercelli 2004, White Star Publishers, pp. 294-295) compare la foto della mummia del re defunto, Welde Davit Keyote, che era già stato sepolto all’epoca del nostro viaggio (agosto 2006).

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dasse a mangiare alla locanda del paese, diverrebbe con ciò stesso parziale e un giorno anche senza volerlo e senza rendersene conto potrebbe favorire il gestore della locanda che gli serve il cibo. Mi sembra invero di scorgere nuovamente qui una concezione in qualche modo “egizia” dell’autorità: il sovrano è nascosto, invisibile, e proprio da questa sua lontananza, da questa sua non mescolanza col popolo la sua figura cresce in rispetto e la sua autorità trae forza. Come a suo tempo per suo padre, al re dei Konso sono consentite solo brevi assenze, il cui limite massimo è fissato in un mese. In tal caso, il giovane capo deve portarsi il cibo da casa, per non contaminarsi con cibo altrui che «frammenterebbe e disperderebbe il corpo», nonché una zolla di terra di casa che continuamente gli ricordi dove dovrà tornare. Certo, sappiamo che nelle culture tradizionali (con l’eccezione parziale dei popoli nomadi) il legame con la propria terra è molto forte: come scrive Levy-Bruhl, nella cultura tradizionale l’uomo si sente più al sicuro nel proprio territorio mentre «fuori di questa contrada, non ci sono più appoggi per lui. Pericoli sconosciuti, e tanto più terrificanti, lo circondano da ogni parte. Non è più la sua aria che respira, la sua acqua che beve, i suoi frutti che raccoglie e mangia, non sono più le sue montagne che lo circondano, i suoi sentieri in cui cammina: tutto gli è ostile, perché mancano le partecipazioni che è abituato a sentire. Da ciò la sua estrema ripugnanza a lasciare il suo territorio, anche momentaneamente»12. Ma in certe culture la naturale ripugnanza ad abbandonare la propria terra sia pur solo momentaneamente diventa per un capo un preciso obbligo di residenza. Mentre ormai tutto cambia e nella cittadina di Konso la gente si sposta e si muove, invece per il re dei Konso il legame naturale con la propria terra diventa coatto: allontanandosene, egli dovrà portare con sé il cibo della sua terra e una zolla della sua terra proprio per mantenerne il ricordo ed evitare in terra straniera il rischio della frantumazione e della dispersione. Senza parlare, lo guardiamo quasi increduli: in pratica quest’uomo è agli arresti domiciliari, prigioniero per tutta la vita fra queste capanne. Certo, lo sappiamo: il sacro, il sacer, è per eccellenza e per definizione il separato e questo tratto lo distingue dal religioso. Certo, l’abbiamo capito e l’abbiamo visto, i Konso concepiscono la purificazione come un rigido isolamento dal resto della comuità: le madri dopo aver dato alla luce un bimbo vengono isolate dalla comunità per tre mesi, gli uomini per distanziare le nascite dormono per ben tre anni da soli lontani dalle loro mogli, i bambini stessi dormono da soli in una propria grande capanna. Però per le partorienti questo duro isolamento dura tre mesi, alla fine dei quali esse vengono rein12

L. Levy-Bruhl, La mentalità primitiva, cit., p. 203.

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tegrate nella vita sociale del villaggio con una grande festa; gli uomini attuano la loro pratica anticoncezionale (strana ma certamente efficacissima) dormendo da soli per tre anni, però finirà e comunque durante il giorno la loro vita sociale sarà del tutto normale; i bambini dormono da soli in apposite capanne, ma sono comunque fra di loro e di giorno possono razzolare e giocare finché vogliono. Invece i capi konso, tranne i visitatori e le rare brevi assenze per causa maggiore, non vedono mai nessuno oltre i propri familiari: la loro è una reclusione a vita. Mentre il re dei Konso parla, mi sovvengono alla mente le pagine di Freud in Totem e tabù e ancor prima le pagine di Frazer sul “tabù della sovranità”, sulle pesanti limitazioni e divieti imposti ai sovrani e ritenuti necessari per il benessere della comunità, in realtà frutto di una profonda ambivalenza psichica13. Sovviene alla mente Frazer laddove parla di sovrani impossibilitati ad uscire pena la morte dalla residenza reale, in particolare di un importante sacerdote del Togo ritenuto capace di elargire alla comunità benefici miracolosi ma proprio per questo impossibilitato a lasciare la dimora sulla vetta del monte in cui vive dove deve passare tutta la vita: «solo una volta all’anno può scender giù a far le sue compere al mercato; ma anche allora non può mettere il piede nella capanna di alcun mortale e deve ritornare al suo luogo d’esilio lo stesso giorno»14. Freud scrive che «il cerimoniale tabù non solo isola i re e li innalza al di sopra di tutti i comuni mortali, ma trasforma anche la loro esistenza in un tormento e in un peso intollerabile, costringendoli a una servitù assai più penosa di quella dei loro sudditi»; «il cerimoniale tabù dei re è apparentemente il massimo degli onori e la massima protezione loro accordata, propriamente invece è la punizione per tale elevazione, la vendetta che i sudditi si prendono su di loro»15. A torto invero Freud riduce ad una semplice vendetta il complesso sistema di tabù e riti che circonda la sovranità onde garantirle la massima efficienza nel buon governo, ma certo sono evidenti le gravose rinunce comportate dallo status sovrano. Qui, con il re dei Konso, vediamo come un riverbero o meglio un residuo fossile di antichissimi costumi in piena era moderna. Il re dei Konso percepisce i nostri sguardi stupefatti, e ci risponde tradendo nella voce una sottile inflessione malinconica: «anch’io un tempo − dice quasi volesse rassicurarci −, anch’io prima andavo a Konso, bevevo la birra nei bar, parlavo con la gente, passeggiavo, conoscevo tutti ed avevo gli amici. Ma ora 13 14 15

Sul “tabù della sovranità” v. J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 265-276, 319-323; in particolare p. 314 sul “Tabù dell’uscir di casa”; S. Freud, Totem und Tabu, 1912, tr. it. Totem e tabù in Opere, Torino 1975, Boringhieri, vol. VII, pp. 49-59. J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., p. 268. S. Freud, Totem e tabù, cit., p. 58.

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è diverso, ora questo non è più possibile». Guardo quest’uomo giovane, ben curato, che orna il mento con un pizzico di barba ben rasata, che parla un ottimo inglese e mi dico: ma quale re, quale sovrano, questo è semplicemente un giovane moderno e sufficientemente colto prigioniero del suo ruolo, tenuto prigioniero in casa da vecchie e anacronistiche tradizioni in cui certamente non si riconosce più, o almeno fatica a riconoscervisi, e a cui tuttavia volente o nolente si piega. Mi dico: la sua è la posizione più difficile, quella di passaggio. Infatti a queste tradizioni, certo presto destinate a scomparire, i suoi avi potevano credere e non sentirle come un peso, ma lui già non riesce più a credervi del tutto. I suoi figli sicuramente abbandoneranno queste tradizioni, in cui invece suo padre e suo nonno e il suo bisnonno credevano, e lui si trova in mezzo nel punto più difficile: non riesce più a credervi e tuttavia non può disfarsene. Quando egli dice che un tempo − un tempo che poi risale solo a circa un anno prima, essendo la sua investitura recente, ma che è già lontano e sepolto per sempre − egli poteva «andare a bere la birra con gli amici», io lo guardo e lo vedo per quello che è: non un sovrano, non un re, non un’autorità, sebbene certo assolva i suoi compiti, ma semplicemente un giovane dei nostri giorni che ha studiato, conosce l’inglese e si trova intrappolato in una ragnatela vischiosa di consuetudini e tradizioni arcaiche che lo rendono prigioniero. All’improvviso mi viene in mente quel giovanissimo frate francescano − poco più che un ragazzo − conosciuto ad Assisi trent’anni fa, quand’ero poco più che ventenne, che mi disse che quella notte dopo il nostro colloquio avrebbe pregato per me e tenuta accesa per me una candela: io stavo male per lui vedendolo con i sandali a piedi nudi fra la neve di dicembre, ma lui era tutto preso nel suo ruolo novizio che cercava di interpretare e vivere al meglio, e mi diceva francescanamente quanto è dolce “sora nostra morte corporale” e io avrei voluto dirgli “vieni via da qui, stupido!”, e infine ebbi la prova sintomatica che quel giovane cercava faticosamente di costruirsi una sovrastruttura, un’intelaiatura spirituale che lo aiutasse a vivere e che aveva cercato entrando nell’Ordine, quando ad un certo punto gli scappò senza volerlo l’interiezione “mizziga” e io in un lampo vidi in questa sorta di lapsus freudiano il giovane uomo, che si sforzava di interpretare al meglio il suo pesante ruolo di frate, per quello che era: un ragazzo, un ragazzo che quando pochissimi anni o addirittura pochi mesi prima giocava a calciobalilla con gli amici, se l’avversario gli segnava contro con un bel passaggio, esclamava ammirato e dispiaciuto al contempo: «mizziga!». Così il nostro interlocutore, il nostro “re dei Konso” che ricorda quando passeggiava per il paese, e anziché un “mizziga” si lascia sfuggire che gli piaceva bere la birra a Konso con i suoi amici. Del resto, quale au-

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torità potrà mai esercitare questo “Re dei Konso”? Nella cittadina di Konso ormai, come in tutta l’Etiopia, l’autorità non è più affidata al signorotto locale, non è più questione di feudi, bensì è esercitata dal potere centrale di Addis Abeba. Se nella cittadina di Konso o in un villaggio vicino avviene un omicidio, lui non c’entra nulla, non può dire né fare nulla perché interviene la polizia locale in nome del governo centrale. La dicitura “Re dei Konso” è peraltro del tutto impropria, anche perché egli non è il sovrano del popolo konso bensì è semplicemente uno dei nove signori locali che si ripartiscono il controllo del territorio. Ma in cosa consiste questo controllo del territorio, dove sta, dov’è, in cosa consiste questa autorità che richiede sacrifici così disumani? E infatti quando, sia pur non in termini così crudi, gli pongo questa domanda, il “Re dei Konso” risponde: le sue funzioni sono essenzialmente quelle di paciere, di arbitro, di mediatore. Si tratta insomma di un potere più che altro nominale, simbolico, ed egli lo deve ammettere: si tratta più che altro di intervenire in qualche attrito, diciamo pure in qualche bega locale di villaggio o di paese, per attutire e ricomporre il dissidio con equilibrio e moderazione: «beninteso quando questo è possibile − aggiunge con il suo mesto sorriso −, perché a volte la mia mediazione non serve a molto». A questo punto il capo konso ci mostra il compound in cui vive, che è una sorta di piccolo villaggio simile a quelli konso da noi già visti, con vari tukul fra cui il suo in cui vive con la moglie e i figli, quello del fratello, quello della sorella, il granaio, il locale per le feste e vari altri. A un certo punto vediamo una donna che, al riparo di una tettoia in paglia, piegata in due prona e affaticata, pesta e tritura il grano passando su e giù con il mortaio su un piatto in pietra. Pensiamo che sia una mamité, una serva, ma per fortuna evitiamo la gaffe quando il nostro interlocutore, come a precederci e ancor prima che noi gli chiedessimo qualcosa, ci dice che quella è sua moglie. La “regina” continua il suo lavoro in ginocchio, guardandoci di sottecchi e con poca simpatia, accettando una foto in cambio di tre birr. Fra loro non corre alcuna parola. Il capo konso, che l’aveva soltanto indicata quando ce la siamo trovata di fronte ma nemmeno ce l’aveva presentata quasi fosse l’ultima ruota del carro, non la degna di uno sguardo e ci spiega: «ho conosciuto questa donna il giorno in cui lei è entrata in questo luogo per celebrare il matrimonio con me. Prima non l’avevo mai vista. Ha deciso così mio padre e la famiglia, da noi si usa così, così vuole la tradizione». E ancora una volta mi sembra di scorgere nel tono pacato e come rassegnato dell’uomo come un malcelato interrogativo, lasciato in sospeso, sul senso della tradizione. Una volta “in tema” di donne e matrimoni, egli ci spiega anche che fra i Konso è ammessa la poligamia, anche se essa è

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alquanto rara: infatti la gente è povera e solo chi è ricco può permettersi più donne, e poi attualmente con l’avvento della modernità e delle scuole la maggioranza della popolazione (sebbene non manchino alcune famiglie muslim e a Konso vi sia una moschea) ha adottato la religione cristiana (ortodossa o, per l’influsso delle missioni tedesche, protestante), pur senza rinnegare la tradizione “animista” e il culto degli antenati. Alla domanda su come sia conciliabile il cristianesimo con una tradizione poliginica e in senso lato “pagana”, egli ci ricorda giustamente che il cristianesimo ortodosso etiopico è alquanto veterotestamentario, e l’Antico Testamento parla in più luoghi sia della poligamia (ad esempio del re Salomone) sia dei sacrifici rituali di animali che i Konso praticano in talune circostanze come in occasione della semina. Il capo konso precisa però che la poligamia è possibile a tutti ma non a lui e agli altri otto capi konso: egli è tenuto alla monogamia. La cosa lì per lì ci stupisce, appunto perché solitamente (come lui stesso ci aveva detto) la poligamia è praticata in quelle terre povere solo dai pochi personaggi ricchi e potenti che possono permettersela, e lui dovrebbe essere uno di quelli, ma subito comprendiamo senza dover insistere con richieste di spiegazione: uno che può permettersi più mogli è comunque, per quanto possa essere ricco e potente, un uomo qualunque, che magari ha fatto fortuna con il mercato, ma lui non è tanto un uomo ricco e potente bensì è soprattutto un capo, è un’autorità morale. In paese un uomo può anche dirsi cristiano, ed avere due o più mogli, ma non lui, il re dei Konso, che cristiano − nel senso particolare che tale termine assume in Etiopia − lo è veramente. Inoltre, se possono essere concepibili due o tre mogli, è del tutto inconcepibile l’esistenza di più regine: la regina può essere una e una sola, anche se poi è una donna probabilmente trascurata che fatica al mortaio e accudisce piccoli marmocchi sporchi e cenciosi, certo ben lontani dalla cura del corpo mostrata dal padre. Ora chiediamo al capo konso di poter vedere il cimitero degli antenati di cui ci ha parlato, situato sulla collina, ed egli ci ricorda ancora una volta − semmai ce ne fossimo dimenticati − il suo divieto di uscire da casa: egli non può uscire di casa nemmeno per andare al cimitero del padre e dei familiari, posto a poche centinaia di metri di distanza su terreni di sua proprietà. Ci accompagnerà il fratello. Lasciamo al nostro interlocutore i 50 birr richiesti (ci è sembrato un uomo veramente onesto anche in questa moderata e pudica richiesta di denaro, abituati come siamo ad essere pesantemente sfruttati in tal senso) e lo salutiamo con affetto. E qui avviene un’ultima cosa spiazzante: poiché ci ha visti interessati e attenti, egli insiste per farci avere il suo indirizzo e-mail nel caso volessimo scrivergli per avere altre notizie e informazioni.

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Mi guardo intorno: così sa anche scrivere a computer, ma qui, fra queste capanne, qui in questo luogo privo di elettricità dov’è un computer con allacciamento ad Internet? No, mi risponde il nostro interlocutore: il sito Internet è a Konso, e se gli scriveremo a Konso gli verrà recapitato il messaggio che lui non può andare a leggere. Piuttosto sconcertati per questa strana mescolanza e commistione di arcaismo e modernità, di sacrifici animali e computer, di inglese elegantemente parlato e di matrimoni imposti, di pizzi di barba ben curata e di marmocchi sporchi e ignudi, ma consci ormai che questa è in diverse e molteplici varianti l’Africa attuale, usciamo dal compound e accompagnati dal fratello del capo konso e da un altro ragazzo ci dirigiamo verso il cimitero in collina. Vi giungiamo dopo un breve cammino e lo guardiamo con ancora nella mente la descrizione del capo konso: «Il cadavere essiccato e mummificato viene portato in cima ad una collina nei pressi della nostra dimora. Si scava una fossa rettangolare di due metri per sei al cui fondo viene collocata la mummia. L’accesso viene chiuso da un cancelletto e il tutto viene ricoperto di terra. All’esterno, sopra la terra, in corrispondenza dell’ingresso sottostante al piccolo corridoio sotterraneo che conduce al sito della mummia, viene eretto un cippo funebre: il waga». Il waga è, per l’appunto, un cippo funebre, una stele, una edicola votiva. In queste popolazioni, la morte dell’individuo diventa l’occasione per una sorta di riassunto finale della sua vita e delle sue opere, e per questo nell’Etiopia meridionale si trovano migliaia di interessantissime stele funerarie: ad esempio sparse per le campagne in una vasta area a sud di Addis Abeba e prima della Valle Omo (particolarmente Tiya ai piedi dei monti nell’area guraghe, nella zona compresa fra il lago Abaya e il fiume Omo, e nel Sidamo a Tuto Fela presso Dilla) si trovano (oltre alle tombe oromo) centinaia e centinaia di stele, molte delle quali risalenti al XIII secolo dopo Cristo (Tiya) o al X (Tuto Fela) ma anche ai primi secoli dopo Cristo (alcune con iscrizioni in arabo arcaico; del resto si ritiene che le stele di Kassala, poco oltre il confine col Sudan, risalgano addirittura al 2500 a.C.). Molte stele, successive al sec. XI e con iscrizioni arabe, erano anche nelle isole Dahlak da cui alcune sono state portate nei musei europei. Le stele dell’Etiopia meridionale, che a Tuto Fela costituiscono un vero e proprio cimitero con 320 stele, sono spesso a carattere fallico, talora alte fino a sei metri, e di forma antropocosmica: vi è caratteristico il classico uomo a Y con le braccia alzate, che rappresenta anche l’Axis Mundi e i punti cardinali est-ovest. Sono effigiate con spade o pugnali per gli uomini e con seni per le donne e, talora, con simboli solari peraltro spesso identificabili a quelli an-

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tropomorfi. Queste stele, a comprova dell’universalità del tema, ricordano in maniera impressionante quelle che ho visto in Lunigiana (ma altre simili si trovano in Italia e in Europa; in particolare i pugnali raffigurati ricordano certi antichi graffiti rupestri della Valcamonica). Le sepolture sono vicine o immediatamente sotto alle stele, e i cadaveri sono stati ritrovati in posizione fetale16. Probabilmente le origini ultime di queste stele si perdono negli antichi culti semiti e cananei della pietra, diffusi nella penisola araba e poi proibiti nel monoteismo ebraico e islamico (Sura V del Corano) come adorazioni demoniche (con la sola eccezione per l’islamismo della Pietra nera). Si trattava di pietre alte e ritte rozzamente levigate (dette assebe e ascere in ebraico, ansab in arabo), connesse ad arcaici culti della fertilità e per questo spesso di carattere fallico. Poi evidentemente, con l’invasione semita in terra abissina, il cippo e la pietra vennero associate come pietre tombali al culto dei defunti, mantenendo tuttavia la connessione con i riti della fertilità nella riaffermazione della vita contro la morte.17 I waga però sono “stele” funerarie di un tipo particolare, anzitutto perché fatte in legno e non in pietra. Nel villaggio di Arfaide, a una ventina di chilometri da Konso, abbiamo visto la prima grande stele waga, ma tutta la regione dei Konso è famosa per contenere decine, centinaia di waga. Il waga è una piccola scultura in legno, che rappresenta un personaggio importante di una famiglia importante che dopo la morte viene eroicizzato e diventa antenato. Egli è il capo della famiglia, il guerriero, l’eroe, l’antenato e il fondatore, e in suo onore è eretto il waga. I defunti sono spiriti, e gli antenati e i padri sono spiriti dotati di particolare pregnanza: il waga è precisamente “qualcosa dei padri”. Per il figlio che gli succede, il waga rappresenta il re e il padre, terribile e severo, lontano e inaccessibile, poi v’è il waga che rappresenta il padre del padre, e il padre del padre del padre, e lo zio che è il padre del cugino. Il waga rappresenta il padre fondatore, il guerriero che ha molto combattuto e molto ucciso, il re: è raffigurato con un accentuato fallo che ne sottolinea il carattere maschile, virile, e spesso 16

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Sulle stele funerarie etiopiche vedi A. Kammerer, Monuments mégalithiques et néolitiques d’Abyssinie, in Essai sur l’histoire antique d’Abyssinie, le Royaume d’Axum et ses voisins d’Arabie et du Meroe, Paris 1926, Geuthner, pp. 171-180 (Annexe V), con ricca documentazione fotografica. Invece l’archeologia moderna vede, misura, fotografa e non capisce: R. Joussaume (Tyia. L’Ethiopie des mégalites, Paris 1995), in una conferenza all’Istituto francese di Cultura di Addis Abeba, con singolare incompetenza mi ha obiettato (nonostante l’evidente universalità dei temi) la pretesa incomparabilità fra le stele etiopiche e quelle della Lunigiana (evidentemente lo specialista monoculo conosce solo le stele etiopiche). B. Trucca, Il culto delle pietre ritte in terra etiopica, in “Quaderni del Centro Studi Etiopici”, Asmara 1980, Centro Studi etiopici, pp. 66-78.

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reca anche sulla fronte l’effigie di un ornamento fallico, il kallacha, che nella vita l’uomo konso può portare sul capo in occasione di particolari cerimonie così come la donna hamer sposata porta al collo il suo ornamento fallico. Il guerriero e padre fondatore porta spesso una spada o uno scudo e, sul braccio sinistro, reca l’effigie del bracciale in avorio simbolo di regalità di cui l’originale è ora al braccio del re dei Konso. È attorniato dalle immagini un po’ più piccole delle mogli e dalle immagini, ancora più piccole e ai suoi piedi, dei nemici uccisi (che, come abbiamo visto, nelle tombe afar in Dancalia sono invece rappresentati con pesanti massi all’ingresso). Questi nemici uccisi sono sempre rappresentati privi di simboli fallici: anche i Konso infatti, come tutti i popoli etiopici, erano soliti evirare i nemici uccisi e in passato si ornavano la testa con i loro genitali donde poi l’abitudine di portare il kallacha. Riecheggiano come in un’eco le parole del capo konso: «l’effigie del nemico ucciso deve stare per sempre vicina al suo uccisore. Essa è custodita, la sua anima sarà sempre presente: l’uccisore è legato per sempre all’ucciso». Infine, a latere o ai piedi in segno di soggiogamento, vi sono anche le raffigurazioni degli animali pericolosi − come un leone o un coccodrillo − uccisi dal padre terribile. Anche l’anima di questi animali è custodita da chi l’ha carpita, che sparendo sotto terra la porta e la tiene con sé. Chi erano i nemici uccisi da questo padre padrone freudiano, terribile e severo? Sicuramente, erano altri uomini potenti, altri feudatari e probabilmente non solo di altre etnie ma anche della stessa etnia. Non fatichiamo a immaginare le faide feudali fra i signorotti locali per il controllo dei pascoli e delle fonti idriche, per il dominio della popolazione e del territorio, per l’esazione dei pedaggi e delle corvées, e nuovamente ci tornano alla mente le parole imbarazzate e elusive del capo dei Konso: «talora potevano anche insorgere rivalità e tensioni fra le famiglie dominanti, ma la cosa non degenerava oltre un certo limite». Il ritratto del fiero uccisore, del fiero homo necans, campeggia coperto da una piccola tettoia lignea a tempietto che ricorda vagamente una piccola pagoda indiana: sotto, invisibili, sotto terra, stanno le umili spoglie mortali; sopra, visibile e riparata dalla piccola tettoia, un’immagine che è un monito. Poco più in là, accanto al waga del padre del re dei Konso, c’è il waga del nonno. Ci avviciniamo prima all’uno poi all’altro, e ci soffermiamo e scrutiamo a lungo. Il waga sembra uno spaventapasseri. Gli occhi, fatti con uova di quaglia, sembrano sbarrati e sembrano fissare minacciosi; i denti, fatti con pezzetti di sorgo, spuntano fuori dalla bocca cosicché la scultura sembra una maschera digrignante. In fondo il waga è un ritratto funerario del padre, dello zio, del nonno, e in subordine della madre, della zia, della nonna: qui siamo in un cimitero, ma chiaramente non è questa l’immagine

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che il waga vuole trasmettere. Infatti esso è stilizzato come nella miglior arte africana, e non ha nulla di realistico: non vi si riconoscono fattezze individuali, bensì si tratta di una maschera grottesca atta a incutere paura. I waga sono maschere in legno impressionanti a vedersi, potremmo dire financo orrifiche. Sono, come le sculture dei leoni alle porte delle antiche città assire, un monito per chi si avvicina. Come già le tombe afar, il waga non ha nulla a che vedere con l’immagine rassicurante e affettuosa dell’estinto dei nostri cimiteri. Come nella terra dancala ove l’ingresso alle tombe dei potenti è un corridoio di massi che indicano il numero degli uccisi e ove una pietra specifica − cilindrica o tondeggiante − indica se il morto ucciso dal nemico attende ancora o ha già avuto la sua vendetta, anche qui «non lapidi, non molli parole di pietà, ma il ricordo muto e insensibile della ferocia e del sangue». Ancora una volta, «non la pietà, non la pace − pie, dolci muse dei nostri cimiteri − aleggiano in quei luoghi asperrimi, ma l’onore al morto, pel sangue che ha sparso fumante, negli agguati, nelle lotte, nelle battaglie». Anche il waga, come l’albero genealogico della vita posto sullo spiazzo antistante la casa e come l’albero della vita collocato sui piazzali di tutti i villaggi, è un totem, un totem non di villaggio o di tribù bensì di famiglia: proprio perché rimanda all’idea di antenato, esso può e deve essere considerato un totem, un totem ristretto che celebra il capofamiglia eroico o l’antenato fondatore quale axis e perno non di un’intera società bensì di un suo importante segmento familiare, a cui spetta comunque il compito di rappresentare e dirigere una intera etnia o almeno una sua parte consistente. Il waga rappresenta e celebra unicamente un mito familiare, un eroe fondatore della grandezza e dell’onore di un gruppo familiare che rinvia ad un antenato comune i cui contorni sfumano nella leggenda. Non può così non presentarsi infine il rimando all’idea freudiana di totemismo (proprio come il totem di villaggio rimandava alla lettura sociologica durkheimiana). Ricordiamola in breve. Per Freud, l’orda primitiva (di darwiniana e akinsoniana memoria) era guidata da un padre dispotico, tirannico e accaparratore di donne, odiato dai figli che gli si ribellano e giungono fino al parricidio, quasi come avviene fra i gorilla in cui i giovani membri del gruppo, esclusi dal possesso delle femmine, a un certo punto spodestano a forza il gorilla dominante ormai invecchiato. Ne consegue fra i figli parricidi un pasto cannibalico e l’uso sessuale delle donne del padre tiranno, e quindi una situazione di incesto essendo le donne del padre in larga parte le madri e le sorelle dei figli ribelli: alle origini dell’umanità vi sarebbe così un branco di scimmie gelose, rivali, assassine e parricide, incestuose e cannibali. A questo punto però insorgerebbe il rimorso e uno

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schiacciante senso di colpa e, con esso, l’idealizzazione e l’interiorizzazione del padre ucciso rappresentato a futura memoria nel totem nonché la parallela interdizione all’uso sessuale delle sorelle e delle madri (tabù dell’incesto) con conseguente nascita dei riti e della cultura. Dunque per Freud l’animale totemico è il simbolo del padre ucciso e rimpianto e il pasto sacrificale, in cui l’animale totemico viene ritualmente sacrificato in onore della divinità e mangiato in modo da assimilarne la natura e rinsaldare la comunione sociale e religiosa, sarebbe la reiterazione sublimata dell’originario pasto cannibalesco fino − si potrebbe aggiungere − alla cena eucaristica in cui viene assimilato il corpo di Cristo.18 Beninteso conosciamo l’unilateralità e l’inadeguatezza della teoria freudiana: l’ipotesi dell’orda primordiale, concepita sulla falsariga dei gorilla, in cui i figli uccidono il padre poi idealizzato per rimorso nel totem, è del tutto fantastica: la pratica del cannibalismo supposta da Freud, per quanto sia stata reale, non è dimostrabile come prassi universale agli albori della civiltà umana; la realtà dell’incesto originario susseguente al parricidio (che sposta sulla madre l’incesto originario da Morgan presupposto fra i fratelli) è assai poco credibile; la credenza iperlamarckiana di Freud per la quale la memoria dell’evento originario si sarebbe conservata e trasmessa per eredità nelle tracce mnestiche è obsoleta. Inoltre non si vede come degli scimmioni pre-umani viventi allo stato di natura possano improvvisamente e immediatamente passare, dopo il crimine e suo tramite, alla fondazione della cultura e della civiltà, che in realtà è già presupposta nel momento in cui si ritiene un pitecoide capace di provare rimorso e di istituire il rituale totemico: il delitto edipico, il parricidio primordiale in realtà già richiede quella cultura specifica che pretende di fondare con un salto improvviso dall’animalità scimmiesca alla socialità umana19; infine le «concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici» (come recita il sottotitolo dell’opera) riscontrate da Freud appaiono vaghe e generiche. Invero la tesi freudiana del parricidio originario ricalca la tesi frazeriana sulla diffusione nelle culture arcaiche dell’usanza del regicidio. Frazer infatti attesta in molte antiche culture (soprattutto africane) l’usanza di uccidere il re (o di intimargli il suicidio) non appena o anche ancor prima che egli manifesti i 18

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S. Freud, Totem e tabù, cit. Sul problema del tabù Freud si rifà ampiamente a W. Robertson-Smith (The Religion of the Semites, 1889) e a Frazer (Il ramo d’oro, cit., pp. 305-406). Per una panoramica delle teorie sul tabù v. F. Steiner, Taboo, 1956 (tr. it. Tabù, Torino 1980, Boringhieri). Anche sul pasto cannibalico Freud si rifà a Robertson-Smith. V. la critica di Malinowski al mito freudiano del parricidio originario e del totemismo in Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, cit., pp. 120-135.

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sintomi dell’indebolimento senile o comunque quando sia in condizioni di cattiva salute o di infermità: nelle società in cui vigeva questa usanza il re doveva essere perfettamente in grado di svolgere le sue funzioni, e in certi casi doveva dimostrare (pena la morte in caso di fallimento) di superare determinate prove rituali periodiche atte a saggiarne l’efficienza. In queste antiche società il re non può ammalarsi o invecchiare: si ritiene infatti che dalla sua salute e perfetta efficienza dipenda per azione e contatto magico il benessere degli uomini, del bestiame, delle messi, la prosperità tutta del paese che invece cadrebbe preda dell’anarchia e della disgrazia in caso di decadimento del sovrano, donde la necessità del regicidio affinché lo spirito del re ucciso risorga nel suo successore. In certi casi addirittura il potere regio era un mandato temporaneo (spesso calcolato in base a cicli astronomici) alla cui scadenza seguiva il regicidio rituale, donde la prassi di molti sovrani di nominare un sostituto (pratica in seguito diventata carnevalesca) che assieme a certi temporanei privilegi subiva poi in sua vece la sentenza capitale o l’esilio20. Parallelamente sembra attestato che anticamente in certe culture arcaiche, in caso di necessità di fronte a siccità e a carestie e particolarmente in caso di forzata emigrazione, si uccidessero gli anziani e i padri − solitamente rispettati e venerati − sia per risparmiare loro le sofferenze sia per avere delle bocche in meno da sfamare. Freud dunque non ha scoperto né il totemismo né il tabù dell’incesto né il suo rapporto con l’esogamia, né ha inventato il mito dell’orda primitiva e del pasto cannibalico, tutte cose che si ritrovano in Robertson-Smith o in Durkheim o in Frazer: piuttosto, egli ha identificato (e indebitamente generalizzato a matrice universale) il re sacrificato, il regicidio frazeriano, con il Padre e il parricidio; ha tradotto la messa a morte del re frazeriano, dovuta ad un sistema di credenze magiche e rituali che esigono la buona condizione fisica e spirituale del sovrano, nell’ostilità inconscia e nel complesso edipico dei figli che vogliono sbarazzarsi del padre. Ma in effetti l’elemento di verità freudiano va colto, stante la comune associazione per successivo ampliamento gerarchico fra il Padre, il Re e Dio: basti pensare alla rappresentazione letteraria del complesso edipico per così dire “raddoppiato” da parte del figlio e principe ereditario il cui padre è al tempo stesso re (l’Amleto di Shakespeare, il Don Carlos di Schiller), e d’altra parte è ben noto come in tutti i grandi imperi antichi la sovranità è sempre stata vista e presentata come immagine terrena della divinità celeste, donde l’associazione fra il Re, Dio e il Padre (esplicitamente teorizzata dal teorico 20

J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 410-447 (“L’uccisione del re divino” e “Re temporanei”).

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della monarchia assoluta R. Filmer contro cui Locke polemizzò esponendo la sua teoria liberale dello Stato). Ora, l’elemento che rimane parzialmente valido nella fantastica teoria etnologica freudiana è precisamente l’immagine del padre arcaico: la novità della sua interpretazione sta nella sua identificazione (che generalizza casi specifici in fenomeno universale) del re messo a morte con il padre; sta nella sua identificazione del totem con il Padre, in certo modo stabilita peraltro dagli stessi popoli tradizionali per i quali il totem è il fondatore, l’avo, l’antenato, il capostipite (dunque un Padre nel senso simbolico più ampio) per cui tutti gli uomini e donne che discendono da uno stesso totem sono consanguinei e come fratelli fra loro. Così certamente queste sculture waga, dove il guerriero si erge solitario e orgoglioso fra le sue donne avvinte a sé mentre ai suoi piedi giacciono i cadaveri dei nemici e degli animali uccisi, appaiono veramente l’effigie di un padre − waga significa proprio «qualcosa dei padri» − e di un padre terribile e collerico, di un avo fondatore tanto amato e rispettato quanto odiato e temuto. Non v’è bisogno di pensare ad un freudismo letterale: lo stesso Freud nelle ultime pagine di Totem und Tabu attutisce la sua tesi ammettendo che il parricidio e l’incesto primario e universale da lui narrato possa essere un evento psichico e non realmente avvenuto, e che il conflitto edipico sia anzitutto un conflitto interiore. E così si direbbe sia per il nostro mite e malinconico re dei Konso, la cui vita è stata sicuramente pesantemente condizionata se non spezzata dalla greve ombra paterna, in una società in cui la tradizione rappresentata dagli avi e dagli antenati − e dunque per antonomasia dal Padre − diventa una rete inestricabile e un fardello. Ancora mi avvicino ai waga e, ancora osservandoli, capisco che, indubitabilmente, essi in occidente sarebbero definite opere d’arte. Vi ritroviamo infatti tutte le caratteristiche di certa arte africana nei suoi stilemi fondamentali: un carattere “espressionistico” ma anche al tempo stesso una spiccata tendenza all’astrazione e alla stilizzazione, e in questo caso un lato notturno e cupo nella visione della vita. Soprattutto, mi colpisce l’utilizzo creativo di materiali di ripiego: gli occhi fatti con uova di quaglia, i denti fatti con pezzetti di sorgo. Penso alla nostra “arte povera” con i Burri e i Pistoletto, ma qui capisco che cos’è veramente in origine l’“arte povera”. Certo, conoscevo l’intendimento di un Burri: il materiale di scarto può produrre bellezza o comunque essere significativo; l’opera d’arte non si fa solo con gli strumenti nobili. Tuttavia in Italia, vedendo esemplari di “arte povera” fatti da artisti tutt’altro che poveri, non sapevo sottrarmi all’impressione che alla fine il fare un’opera con vecchie tele o stracci fosse soltanto un vezzo intellettualistico e compiaciuto. Qui invece, è così: si fanno

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le cose con quello che si ha, necessitas premit. Del resto, in tutta l’Etiopia è ravvisabile questo modo di produrre creativamente: al grande Merkato di Addis vi sono artigiani che riutilizzano vecchi pneumatici, contorte lamiere arrugginite e rottami vari facendone in un batter d’occhio sotto i tuoi occhi se non proprio degli oggetti artistici quantomeno degli oggetti funzionali come dei sandali o quant’altro; del resto anche il costruire una casa con lamiere, fango e argilla essiccata è usare quello che si ha. Ripenso all’esempio “nobile” di bricolage da noi acquistato ad Addis Abeba: quattro grandi piatti decorati in legno a forma di scudo, di cui l’uno serve da sedile, l’altro da schienale, due da ruote poggianti per terra e tutti e quattro saldati insieme costituiscono una comoda poltrona. Si giunge così a certa “arte povera” visibile nelle gallerie di Addis Abeba che, ormai, è una precisa scelta stilistica: ecco allora un dipinto su pelle di capra con supporti lignei, ecco un mirabile paesaggio africano ove i prati i cieli e le foreste sono fatti con vecchi stracci, logori lembi di vestiti, pelli di capra, paglia, oppure composizioni varie fatte con centinaia di tappi di bottiglia, bottoni et varia et similia. Ma, alle origini, doveva essere così: ti arrangi con quel che hai. Del resto ricordo bene la docente di Storia dell’Arte all’Università di Torino che mi diceva: noi conosciamo l’estetica di Croce e discutiamo perché un pittore abbia fatto il cielo in quel dato colore, ma la realtà è che magari aveva finito il blu. Faccio per scattare delle foto, ma subito mi fermo perché capisco la cosa e chiedo il permesso, subito accordato: qui siamo comunque in un cimitero, per quanto lontanissimo dalla nostra immagine foscoliana dei sepolcri. Per quanto mi sia lasciato andare sull’onda dei pensieri, il waga non è un oggetto d’arte: fotografare un waga è fotografare un cimitero, non un’opera d’arte; qui queste persone hanno i loro cari, e io sto fotografando l’effigie del parente del ragazzo che ci accompagna. E ancora mi tornano le parole del capo konso, il cui senso non avevo subito afferrato ma che ora è lampante: «il waga − aveva detto sibillino − non può essere separato dal suo luogo, perché questa sarebbe una profanazione». E infatti, le profanazioni dei waga sono all’ordine del giorno. Che ne è ormai dei waga? Come lamentava amaramente il nostro capo konso, ormai da decenni vengono rubati, scissi ed estirpati dal loro luogo funebre, staccati dal corpo che ricoprono. I ladri sono connazionali, compaesani che conoscono i siti: essi vanno sulle colline, penetrano financo nei villaggi, li rubano e poi li vendono a diplomatici, ambasciatori, mercanti e ricchi turisti. Non è forse vero che un waga può essere visto come un’opera d’arte? E cosa ci vuole, in un paese fra i più poveri al mondo, a corrompere un povero diavolo o anche un funzionario per farsi dare un waga? Il prezzo di un

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waga − ci dice il capo konso − è attualmente di circa 30.000 birr, più o meno 2.500 dollari, ma i mercanti che li comprano poi li rivendono all’estero per una cifra molto più alta. Cosicché, per cercare di salvare i waga, spesso collocati in colline isolate e facilmente raggiungibili, essi vengono ormai per lo più portati altrove: noi abbiamo visto decine di waga ammassati in un magazzino della polizia a Konso; altri ne vedremo assemblati insieme e cementati ad un basamento sul piazzale di un villaggio, custoditi giorno e notte dalla polizia. E ancora una volta sovviene il monito del capo konso, di cui ora afferro pienamente il senso: «il waga non può essere separato dal suo luogo, perché questa sarebbe una profanazione». Ed è chiaro: questa è una stele funebre, questa è una tomba, qui siamo in un cimitero di famiglia. Staccare il waga dal suo contesto sarebbe come rubare la foto di un defunto in un cimitero e portarsela a casa. Guardiamo tutti questi waga affastellati e accatastati insieme alla rinfusa nel comando di polizia e nel villaggio ove sono stati saldati al basamento: può darsi che sul momento non vi fosse altro da fare per salvarli, ma certamente la fisionomia dei waga, sottratti al loro contesto, viene così completamente stravolta. Infatti i singoli waga sono veri, ma il loro assemblaggio è puramente arbitrario: anziché avere al di sopra della sua tomba la rappresentazione di un guerriero attorniato dalle sue mogli e dalle effigi dei nemici vinti, abbiamo o una caotica mescolanza o − come nella fusione su basamento − una disposizione seriale senza senso: un uomo/una donna, un uomo/una donna, tutti in serie. La tradizione dei waga, ci diceva amaramente il nostro capo konso, è ormai in declino. Non si tratta soltanto del gravissimo problema dei furti. Il problema è che i tempi sono cambiati e i waga, un tempo retaggio di poche e orgogliose famiglie potenti, si sono col tempo moltiplicati a dismisura. Ormai tutte le famiglie vogliono il loro waga, e dopo la morte tutti diventano eroi per decreto. Il waga, un tempo simbolo di potere aristocratico, è diventato un oggetto di massa. Nei nuovi waga l’immagine è semplificata: non v’è più l’effigie del nemico ucciso, perché ormai i Konso sono un popolo di agricoltori e non più di guerrieri, e probabilmente chi mettesse l’effigie di un nemico ucciso su un waga potrebbe trovarsi la polizia di Stato in casa a chiedere ragguagli. Nemmeno i leoni da uccidere dando prova di valore si trovano più ormai in Etiopia: non solo la loro caccia è severamente proibita, ma sono introvabili financo nei parchi naturali ove non si riesce a vederli nemmeno cercandoli per giorni. Cosicché quale sarà il nemico vinto ed effigiato? Un serpentello? Ormai la tradizione dei waga − ci dice amaramente il capo konso − va scomparendo, perché va scomparendo quella società aristocratica, gerarchica e guerriera che la sorreggeva. Ormai i Konso coltivano la terra. I waga, anzi, sono diventati un souvenir turisti-

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co: i bambini konso costruiscono statuette lignee in stile waga e le offrono in vendita ai turisti per pochi birr. «Il nostro mondo non ha più bisogno di eroi», dice il re dei Konso. E io vorrei dirgli: ma quali eroi? Fuor di metafora, doveva trattarsi per lo più alla fin fine di razziatori dediti alle faide di potere. È proprio così grave, è proprio soltanto una perdita di identità il fatto che questi tempi truci siano cessati? È forse disdicevole che i giovani konso oggi vadano a scuola, che lavorino anziché darsi alle faide e alle razzie, che cerchino di sposare la donna che vogliono e non quella imposta dal padre? Tuttavia non dico nulla di tutto ciò, anche se sono sicuro che il re dei Konso ha capito, e che ha capito che io ho capito che lui ha capito. Certo, v’è una perdita di identità. Capisco il “re dei Konso” a cui non piace l’idea che, oltre a quelli veri, perfino i modellini di waga vengano venduti dai bambini di strada. Lo capisco, e infatti io − ancor prima di conoscerlo in quel lungo colloquio, sapendo già preventivamente della cosa − mi ero ripromesso di non acquistare mai una di queste statuette: se è giustamente proibito comprare per migliaia di dollari i veri waga, come per molto tempo hanno fatto ambasciatori e diplomatici, è però stupido − mi dicevo − prendersi per pochi birr un oggettino kitch che simula un waga ma non lo è, proprio come sarebbe un po’ puerile comprare a Verona un modellino dell’Arena. Il waga, mi dicevo, è qualcosa di rituale e di simbolico: è una stele funebre, sotto la quale giace un corpo imbalsamato, non è un souvenir. Così mi dicevo e così ho per lungo tempo fatto, respingendo quasi infastidito tutti i bambini konso che correvano dietro all’auto con i loro falsi waga in mano per venderli, pensando: questi bambini hanno totalmente perso la loro cultura, e la svendono per qualche birr ai ferengj. Finché un giorno la macchina rallenta e quasi si ferma per effettuare il guado di un fiume, e subito i bambini approfittandone si accalcano intorno ad essa mostrandomi eccitati i loro waga che non sono waga e che a questo punto non posso non vedere perché me li sbattono di fronte al naso. E io rimango stupito e ammirato nel vedere il paziente lavoro di intarsio sul legno che essi hanno saputo fare, e in particolare rimango ammirato nel vedere un waga, che non è un waga, dipinto in un bellissimo color ocra. Lo acquisto, pensando all’uomo gentile e malinconico di cui non ho fatto in tempo a trascrivere il nome ma che per me resterà il Re dei Konso.

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LA DECADENZA DEL “SELVAGGIO” E LA SUA SCOMPARSA

Ah, ah! Il signore è persiano! È una cosa proprio straordinaria! Come si può essere persiano? (Montesquieu, Lettres Persanes, 1721)

L’esigenza di cercare di comprendere la cultura delle società tradizionali iuxta propria principia, ponendo per quanto possibile fra parentesi il filtro interpretativo e deformante della nostra cultura ampiamente contrassegnata dalla mentalità razionalista e scientifica, è divenuta pressante nell’etnologia del XX secolo in aperta contrapposizione all’etnologia classica spesso peraltro molto riduttivamente intesa. Ad esempio un elemento di difficile comprensione per la mentalità occidentale sono state le credenze magiche e le pratiche di stregoneria tuttora vigenti nelle società tradizionali. In esse, lo stregone del villaggio è percepito come dotato di poteri psichici particolari (oltre che di reali conoscenze pratiche, mediche, botaniche): si ritiene che egli, o per sé o per altri previa ricompensa, attraverso rituali particolari sia in grado di fare incantesimi e di gettare malefizi a distanza. Si ritiene comunemente che egli, modellando a distanza un’immagine in argilla del nemico e poi trafiggendola, ne possa veramente causare la morte: si ritiene cioè che per il tramite di un oggetto lo spirito che vi è legato possa esercitare un’influenza. Ma si crede vi siano anche stregoni occulti e nascosti, insospettabili, ritenuti portatori anche inconsci e contro la propria volontà di un principio malefico, capaci di fare del male, di inviare cattivi sortilegi e spiriti maligni che richiedono pratiche propiziatorie in grado di stornare il ripetersi del pericolo1. La malattia consiste così in un influsso negativo che si è impossessato della persone e che occorre espellere; le siccità, le epidemie, i cattivi raccolti e in genere le 1

L. Levy-Bruhl, Sovrannaturale e natura nella mentalità primitiva, cit., pp. 173218 (“La stregoneria”).

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disgrazie, le sventure, le calamità, non sono mai percepite come gratuite e casuali bensì come l’effetto di una volontà occulta, il veicolo di una forza che vi si manifesta: può trattarsi dell’ira degli antenati o degli spiriti per le colpe degli uomini (fosse anche la trasgressione del tutto involontaria di un tabù)2 ma può trattarsi anche della volontà perversa − conscia o inconscia poco importa − di un malefico stregone. In particolare (come diceva Levy-Bruhl raccogliendo molte informazioni in proposito) «la morte non è mai dovuta a cause naturali, perché essa è sempre violenta, in altri termini perché essa è sempre un omicidio, un assassinio, voluto, premeditato, e compiuto da una certa persona mediante pratiche magiche»3. Al riguardo il Frazer, nella sua visione evoluzionistica della civiltà che per certi versi ricorda i tre stadi comtiani il cui culmine è il pensiero scientifico, afferma che la credenza nella magia propria del “pensiero selvaggio”, con la sua convinzione di agire a distanza sulle cose, pur essendo la premessa della scienza in quanto fondata su una credenza per quanto distorta nei nessi causali su cui opererebbe il mago, è però una false science, ovvero un errore logico e un’illusione (che Freud avrebbe definito illusione di onnipotenza), cosicché egli snocciola nella sua opera con dovizia di particolari le infinite superstizioni che costituiscono la «triste istoria degli errori e delle follie umane»4. Secondo Frazer nella sequenza evolutiva magia-religione-scienza la magia precederebbe la religione: egli riconosce i legami fra magia e religione, ma dice che la loro differenza sta nel fatto che la magia è fondata su una volontà (per quanto fittizia) di potenza, che vuole imporsi (per rapporto simpatetico di similarità o di contiguità) sulle forze naturali e impersonali per costringerle e volgerle a proprio vantaggio, mentre invece la religione è fondata su un senso di sottomissione ad 2

3 4

L. Levy-Bruhl, La mentalità primitiva, cit., cap. IX (Interpretazione mistica degli incidenti e delle sventure). In virtù di antiche credenze la disgrazia era vista come una punizione per una colpa, cosicché lo sventurato poteva non ricevere le onoranze funebri o addirittura poteva essere ucciso (come nel caso degli eschimesi che rifiutavano di salvare chi affogava ed anzi lo affogavano essi stessi) o depredato di tutti i suoi beni (ivi, pp. 265-281). La credenza che vede nella malattia la punizione di una colpa spiega il fatto che spesso i malati vengono isolati dalla comunità e abbandonati privi di cure e di viveri (ivi, pp. 283-297). L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, p. 332 (sulla concezione magica e “mistica” della malattia e della morte, v. il cap. VII, pp. 314-342). Cfr. dello stesso autore La mentalità primitiva, cit., pp. 20-44. J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., p. 1093. Sulla magia come distorto procedimento mentale di associazione analogica di idee confusa con associazione reale di cose o eventi v. anche E.B. Tylor, Alle origini della cultura, cit., vol. I: La cultura delle credenze e delle superstizioni, pp. 119-169.

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una divinità personale che si tenta di propiziare con l’offerta e il sacrificio. Per questo egli vede una crescita nel passaggio dalla magia come illusione di potenza, infine smentita dalla realtà, alla religione come accettazione “adulta” della dipendenza: comprendendo di non poter dominare magicamente le forze della natura, l’uomo primitivo passa alla fase religiosa in cui accettando la propria dipendenza cerca di ottenere con suppliche e sacrifici dalla divinità quanto non può ottenere operando sulle forze naturali (egli pensa anche, piuttosto implausibilmente, che la credenza in una divinità personale sarebbe più complessa e quindi posteriore alla credenza in forze impersonali); infine anche la fiducia religiosa viene meno in favore della scienza5. In realtà la visione frazeriana − separandole come stadi diversi − non coglie l’intreccio peculiare fra magia e religione che si danno sostanzialmente insieme all’interno della stessa visione (secondo alcuni autori anzi la religione, essendo fondata sulla credenza in divinità personali e non in forze impersonali, sarebbe più arcaica e primitiva e la magia ne sarebbe un sottoprodotto): quando mai l’uomo ha abbandonato la magia per la religione? Invero non v’è mai stato un momento in cui l’“uomo magico” abbia riconosciuto l’impotenza della magia a modificare il corso delle cose con successivo passaggio alla religione, perché ad esempio al rito della primavera è ben difficile che non segua l’avvento della primavera quando ne è stagione, ed inoltre egli poteva sempre addossare la magia inoperante ad inefficacia dello stregone o a rito magico avversario. Ma soprattutto, e per rifarci ad alcune fra le mille «superstizioni» elencate dal Frazer, anziché vedervi una superstizione dovremmo cogliere il tessuto di legami simpatetici implicito nell’atto di uno stregone che non fa spegnere il fuoco mentre i guerrieri sono in guerra per evitare la disfatta, e nel digiuno delle donne volto a non sottrarre il cibo ad essi che sono lontani e rischiano la vita6, né dovremmo vedere una semplice “superstizione magica” nella credenza che un buon governo favorisca i buoni raccolti e la prosperità7. Le innumerevoli usanze che Frazer riporta come testimonianze di un’arcaica mentalità magica e superstiziosa (raccogliendole e accumulandole indistintamente da ogni dove senza molto discernimento critico, isolate dal loro contesto con metodo comparativo incontrollato) non sono sempre comprese nel loro autentico significato, e peraltro trovano riscontri nel nostro mondo senza con ciò essere necessariamente atti superstiziosi o magici. Si 5 6 7

J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 147-148. Ivi, pp. 23-146, in particolare pp. 45-46. Ivi, pp. 143-144.

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potrebbero fare decine di esempi al riguardo: sia per noi che per i “primitivi” vi sono riti, credenze, atti pregni di significato simbolico e viceversa sia fra noi che fra essi si riscontrano superstizioni risibili, visto quanti occidentali “evoluti” sono soliti fare l’incrocio scaramantico delle dita o cambiare strada al passaggio di un gatto nero. Proprio questo è il fulcro della critica di Wittgenstein a Frazer: egli critica severamente la volontà di Frazer di “spiegare” indebitamente, oltretutto con fallaci ipotesi evolutive, credenze e atteggiamenti che anziché essere visti come errori andrebbero semplicemente descritti, rilevando da un lato che una donna che bacia l’immagine dell’amato lontano non necessariamente pretende di compiere un atto magico, e dall’altro lato che queste credenze sono presenti anche in noi nonché nel nostro linguaggio animistico e mitologico che parla di spirito e di anima8. Del resto lo stesso Frazer riconosce che la visione magica − vista come premessa del pensiero scientifico − non è mai del tutto superata nemmeno nella civiltà occidentale moderna ove tuttora persiste, ad esempio nelle campagne, perché essa affonda le proprie radici «nella struttura mentale della gran maggioranza degli uomini»9, in un «solido strato selvaggio, non influenzato dai cambiamenti superficiali di religione e cultura»10, poiché «in fin dei conti, le nostre somiglianze con i selvaggi sono ben più numerose delle differenze».11 La moderna etnologia ha fatto molti sforzi per cercare di capire, oltre Frazer, la credenza nella magia (De Martino, come abbiamo visto, giunse financo ad ammettere la possibile realtà dei poteri paranormali). Invero i fatti che noi riteniamo di spiegare in modo logico e razionale vengono in 8

9 10 11

L. Wittgenstein, Bemerkungen über Frazers «The Golden Bough», tr. it. Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Milano 1975, Adelphi, p. 21, 34, 31. Tuttavia Wittgenstein non tiene conto dell’impareggiabile sforzo di comprensione attuato da Frazer e la sua critica è troppo severa e ingiusta (p. 23 e 28: «quale ristrettezza della vita dello spirito in Frazer», «Frazer non è in grado di immaginarsi un sacerdote che in fondo non sia un pastore inglese del nostro tempo», «Frazer è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi», etc.). Quando Wittgenstein dice che un uomo irato che calpesta la terra non per ciò crede veramente di punire la terra (p. 22), confonde un gesto istintivo o spontaneo con una credenza rituale: ad esempio egli erra quando sembra ritenere che lo stregone che trafigge in effigie il nemico compia solo un atto puramente simbolico e non invece un maleficio che nelle sue intenzioni dovrebbe raggiungere la persona avversata. Stupisce che Wittgenstein, volto a purificare il pensiero dalle superfetazioni linguistiche e dai sottofondi arcaici e irriflessi della psiche, non veda quanto in Frazer vi sia un’analoga tensione. J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., p. 96. Ivi, p. 92. Ivi, p. 409.

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queste culture spiegati come effetto di stregoneria: «Dire che la stregoneria ha provocato il carbonchio alle colture di arachidi, che ha messo in fuga la selvaggina, che ha fatto ammalare il tal dei tali, tutto ciò equivale a dire, nei termini della nostra cultura, che le arachidi sono state danneggiate dal carbonchio, che la selvaggina in questa stagione scarseggia e che il tal dei tali s’è preso l’influenza»12. Tuttavia è necessario comprendere la logica spesso fraintesa sottesa alla credenza nella magia. In realtà (come ha messo in luce Levy-Bruhl) il “primitivo” non ignora affatto i nessi causali: egli sa che le termiti hanno materialmente causato la rovina di una capanna, ma pensa anche che le termiti che hanno rovinato la capanna sono soltanto il mezzo di cui si è avvalso uno stregone per fare del male ad una persona, così come pensa che l’elefante che ha caricato un uomo era mosso da uno spirito maligno. Le termiti rovinano la capanna, le persone vanno a cercare refrigerio nella capanna e tutto questo si spiega in termini perfettamente logici e naturali: ma queste sono solo le “cause seconde” (come EvansPritchard le definisce riprendendo l’espressione di Levy-Bruhl) che spiegano soltanto il “come” dei fatti, mentre la stregoneria viene vista come la “causa prima” che spiega “perché” quelle persone si trovino nella capanna con non casuale coincidenza proprio nel momento in cui le travi erose dalle termiti crollano ferendole13. Sicuramente la preventiva netta separazione fra il pensiero occidentale razionalista e scientifico e il pensiero proprio delle culture tradizionali, ove il nostro pensiero è stato ritenuto il metro in base a cui giudicare ogni altro pensiero, è stata la prima causa della difficoltà di comprendere la mentalità propria delle culture tradizionali. Al riguardo Levy-Bruhl, antropologo molto frainteso, pur non negando l’identità strutturale della mente umana sosteneva però la diversità irriducibile della mentalità “primitiva” rispetto alla nostra: di formazione filosofica, studioso da un lato dell’intuizionismo di Jacobi (La philosophie de Jacobi, Paris 1894) e dall’altro 12

13

E. Evans Pritchard, Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, cit., p. 22. L’autore non manca di smascherare l’impostura degli stregoni che, pur capaci di guarire effettivamente con le loro medicine a base di erbe, pretendono però di aver magicamente estratto dal corpo del paziente il minuscolo oggetto malefico che essi tenevano nascosto (pp. 120-126). L’impostura è stata replicata in anni non lontani dai cosiddetti “guaritori filippini” che, dietro alti esborsi di denaro e grande ostensione di sangue animale, illudevano i malati giunti dall’occidente di essere stati magicamente operati e guariti dal cancro. Ivi, pp. 24-29. Scrive Levy-Bruhl: «Solo la vera causa ha importanza e, almeno in certe società, questa causa è sempre di natura mistica» (Psiche e società primitive, cit., p. 335).

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del positivismo (La philosophie d’Auguste Comte, Paris 1900), influenzato dal sociologismo di Durkheim ma anche da Bergson con cui era in rapporti personali, Levy-Bruhl vedeva operante nella “mentalità primitiva” un pensiero “pre-logico”, che non significa illogico, irrazionale o infantile (come si è inteso) bensì diversamente orientato e ritenuto più arcaico e strutturalmente precedente (“pre-logico”, precedente il logico) rispetto alla configurazione scientifica e oggettivistica volta alla conoscenza e alla spiegazione causale predominante nel pensiero occidentale; questo pensiero sarebbe caratterizzato da una “loi de partecipation mystique”, che non allude (come si è inteso) ad un senso di confusione e indistinzione fra le cose, bensì ad una percezione della natura e del mondo in termini di eventi e non di cose, in una stretta interconnessione di naturale e sovrannaturale non fra loro separati, laddove il mondo appaia come pregno di influenze, potenze e forze occulte e misteriose, come una totalità organica e vivente in cui tutto è interrelato in una universale connessione e un legame profondo fra gli esseri, scorgendo una relazione anche fra entità che il nostro pensiero percepisce come contraddittorie al punto da rilevarsi una sorta di impermeabilità all’esperienza e come un’indifferenza alla contraddizione logica14. Per questo Levy-Bruhl contesta la teoria dell’animismo di Tylor, vedendovi l’indebita proiezione di un concetto occidentale e razionalistico di anima in popolazioni per le quali non sussiste una separazione assoluta fra l’anima e il corpo, fra lo spirito e la materia, e a cui la “partecipazione mistica” vieterebbe il senso delle individualità discrete: per Levy-Bruhl, il “selvaggio” invoca la benevolenza del fiume prima di attraversarlo o invoca l’ascia affinché tagli bene, non un’“anima” che sarebbe nel fiume o nell’ascia; parimenti lo stregone tramutatosi in coccodrillo non vi ha inviato la sua “anima”, così come l’antenato non si reincarna integralmente in un essere vivente inviandovi il suo spirito bensì permane al contempo nell’oltretomba e nella tomba, trattandosi in entrambi i casi di un’unità duale bilocata o multilocata15. Egli cerca in molti modi di rilevare le differenze fra il pensiero occidentale e la “mentalità primitiva”, anche laddove sembrerebbe di cogliere una vicinanza: così quando noi portiamo fiori sulle 14

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Oltre alle opere citate ricordiamo di L. Levy-Bruhl: L’âme primitive, 1927 (tr. it. L’anima primitiva, Torino ed. 1990, Bollati Boringhieri); La mythologie primitive, 1935; L’expérience mistique et les symboles chez les primitives, 1938. Su Levy-Bruhl v. P. Di Palma, Lucien Levy-Bruhl. Dalla scienza dei costumi all’antropologia, Lucca 1983, Fazzi Editore. L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., pp. 108-119, 130-134; Sovrannaturale e natura nella mentalità primitiva, cit., pp. 111-112, 126, 131; L’anima primitiva, cit., cap. IV-V, XII.

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tombe dei nostri cari o lasciamo un rosario nelle mani del morto compiamo degli atti simbolici, perché non crediamo che i nostri cari sentano realmente il profumo dei fiori loro dedicati o recitino il rosario nella tomba, mentre invece l’uomo tradizionale che lascia il cibo o depone presso i suoi morti la loro lancia crede veramente che, in modo per noi incomprensibile, i morti o i loro “doppi” mangino le focacce o almeno ne gustino l’essenza ed usino la lancia per andare a caccia nell’oltretomba; parimenti noi possiamo dare ad un bambino il nome del nonno in sua memoria, mentre invece l’uomo tradizionale dà ad un bambino il nome del nonno perché egli pur vivendo nell’oltretomba vi si è in certo modo “reincarnato”16. Quelli che per noi sono diventati simboli, appaiono in essi realtà vissute. Per Levy-Bruhl questa visione “mistica” del mondo, tutta basata su tonalità emotive e affettive (su una logique des images et des sentiments), deve essere colta nella sua specificità iuxta propria principia «avec ses caractères propres» e non più giudicata quale scarto differenziale rispetto al nostro pensiero, stante l’irriducibilità e la contrapposizione fra la mentalità “logica” occidentale oggettivistica e scientifica e la mentalità “pre-logica” quali modalità diverse di funzionamento della mente umana che pur rimane la stessa. Egli giunge a dire (in Les fonctions mentales dans les sociétés inférieurs) che la conoscenza filosofica e scientifica puramente concettuale basata sul principio di non contraddizione, cui è giunto il pensiero occidentale, resterà sempre qualcosa di estrinseco e fermo alla superficie delle cose che mai appagherà lo spirito umano nella sua aspirazione ad una conoscenza più simpatetica e più simbiotica, che in una più profonda partecipazione all’essere superi il dualismo e la contrapposizione posta dal pensiero razionale fra un soggetto e un oggetto posto come esterno e estraneo. Così, negando − di fatto se non di principio − l’identità profonda dello spirito umano, negando infine che vi sia veramente uno stesso spirito umano identico «in tutti i tempi e in tutti i luoghi», negando che vi sia l’homme en géneral e contrapponendo bipolarmente due diverse modalità di funzionamento della stessa mente Lévy-Bruhl proiettava la sua duplice anima scissa, da un lato positivista e attratta dalle distinzioni logiche e dall’altro lato nostalgica della “partecipazione mistica”, rispettivamente sul pensiero occidentale e sulla “mentalità primitiva”. In tal modo però i “selvaggi” e le società “non civilisés“ venivano relegati in una alterità assoluta: financo il giusto monito a non confondere il concetto occidentale di “anima” con rappresentazioni diverse finisce, nell’assoluta opposizione fra la mentalità occidentale e quella “altra”, per 16

L. Levy-Bruhl, L’anima primitiva, cit., pp. 312-314, 330, 338, 346, 378 et varia.

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fare del concetto occidentale di anima un unicum che non avrebbe il minimo riscontro altrove e di cui non si capisce la genesi. Invero Levy-Bruhl era sufficientemente affinato per riconoscere che «di fatto la nostra attività mentale è insieme razionale ed irrazionale. La prelogica e la mistica vi coesistono con la logica»17. Egli ribadiva l’identità fondamentale della mente umana per cui v’è del “prelogico” nella mentalità moderna e del logico in quella “primitiva”: in particolare nei suoi ultimi appunti personali pubblicati postumi rispondeva alle critiche precisando e definendo meglio il suo pensiero, attutendo il divario fra mentalità “civile” logica e mentalità “selvaggia” pre-logica riconoscendo quanto di irrazionale e di emotivo è anche nel pensiero “civile” e in genere nell’animo umano18. Ma, nonostante le sfumature e gli approfondimenti ultimi, certamente Levy-Bruhl accentuava troppo l’ambito dell’affettività emozionale e della “partecipazione mistica” nelle modalità con cui il pensiero tradizionale affronta e risolve funzionalmente i suoi problemi attraverso i suoi codici, i suoi riti e i suoi simboli, laddove invece questo pensiero (come nelle classificazioni claniche e totemiche) distingue e separa e non solo accomuna. Levy-Bruhl ha indubbiamente rinvenuto certe caratteristiche fondamentali del “pensiero selvaggio”, ma non ha considerato come questo pensiero, lungi dall’essere in totale opposizione al pensiero “civile” e “moderno”, ne sia in realtà la base naturale e l’imprescindibile fondamento, appunto stante l’unità della natura umana, cosicché il pensiero occidentale nella sua componente scientifica e razionale ci appare in realtà come una sorta di sovrastruttura rispetto a questo fondo originario. In realtà vi è una logica nel pensiero “primitivo” e vi è un fondo mitico nel pensiero moderno. Questa era del resto l’obiezione fondamentale che Bergson muoveva all’amico antropologo, ribadendo che «la structure générale de l’esprit humain» è sempre «la même», perché «on a beau parler de mentalité primitive, le problème n’en concerne pas moins la psychologie de l’homme actuel». Scriveva Bergson con grande radicalità: «Grattons la surface [...]: nous retrouverons au fond de nous [...] l’humanité primitive», quell’umanità che invero anche nei “primitivi” attuali «est recouverte, chez eux aussi, 17 18

L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., p. 454. L. Levy-Bruhl, Carnets, 1949, tr. it. I quaderni, Torino 1952, Einaudi. Va precisato che la cosiddetta “autocritica” che compare negli appunti postumi di Levy-Bruhl (in cui egli approfondisce il concetto di “partecipazione” e riconosce inadeguati i concetti di “prelogico”, di “indifferenza alla contraddizione” e di “impermeabilità all’esperienza”) è in realtà soprattutto una più accurata definizione del suo pensiero in riferimento ai numerosi fraintendimenti da esso suscitati, perché per chi ben comprende il suo pensiero precedente non v’è alcuna frattura.

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d’une couche d’habitudes», per quanto «moins épaisse que chez l’homme civilisé»; infatti «ce qui fut primitif n’a pas cessé de l’être, bien qu’un effort d’approfondissement interne puisse être nécessaire pour le retrouver». Per Bergson v’è una stretta parentela (parenté) fra l’«intelligence spontanée» e la «mentalité primitive»: «les deux mentalités ne diffèrent pas essentiellement l’une de l’autre». Al fondo, per Bergson è la medesima «pensée spontanée et semi-consciente» che opera «en vertu d’une tendance naturelle»: «plus nous effacerons de notre esprit la science graduellement e presque inconsciemment acquise, plus l’explication “primitive” nous paraîtra naturelle», e allora «le naturel reparaît, comme l’immuable étoile dans la nuit», riapparirebbe come «notre conviction naturelle et originelle», e riapparirebbero «les croyances originelles que notre science recouvre de tout ce qu’elle sait et de tout ce qu’elle espère savoir», come la magia «innée à l’homme» e come la «religion naturelle», in quanto sempre «la forme originelle subsiste, simplement recouverte par l’acquis»19. Secondo Bergson la vera differenza fra queste società e la nostra consiste piuttosto (come non si stancano di ripetere i manuali) nel fatto che queste sono sociétés closes caratterizzate da una religion statique, mentre la nostra società è più dynamique e più ouverte. Levy-Bruhl, beninteso, ha perfettamente ragione nel dire che la mentalité primitive, particolarmente nelle sue credenze magiche, va capita nella sua logica interna e non giudicata come negativo e scarto differenziale rispetto alla mentalità scientifica e razionalista (proprio per questo anzi egli ha potuto comprendere così a fondo questa mentalità): ma egli non considera che quello che nel suo intendimento è il funzionamento di una mente, quella “primitiva”, diversa dalla nostra o comunque diversamente funzionante, è invece − come ha rilevato Bergson − il normale funzionamento della mente umana, quando ancora non vi si sia sovrapposta con il progresso tecnologico la conoscenza scientifica e razionale che con forte accentuazione caratterizza il mondo occidentale. In questo senso non la “mentalità primitiva” bensì la mentalità occidentale è una deviazione rispetto ad un parametro normativo, una via nuova e diversa intrapresa dal pensiero occidentale fin dalle origini greche: quella che andrebbe spiegata non è l’esistenza della mentalité primitive bensì l’esistenza della mentalità scientifica e razionalista occidentale per la quale si è financo parlato di un originario “miracolo greco”. Dunque il pensiero mitico, in cui lo spirito non ha ancora fatto 19

H. Bergson, Les deux sources de la moral et de la religion, Paris 1932, poi 1982 Presses Universitaires, pp. 107, 110-111, 132, 133, 140, 153, 155, 157, 168, 172, 171, 176, 217, 169.

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irruzione nel mondo dell’anima spezzando un’unità primigenia (secondo la rigida opposizione di Geist e Seele formulata da L. Klages in Vom Kosmogonischen Eros, 1922), è in realtà una struttura antropologica latente e fondamentale dello spirito umano. Esso è sempre vivo e operante nella psiche umana e sempre riemergente dal sottosuolo della coscienza, anche nella nostra cultura laddove più sembra sepolto da cumuli di stratificazioni scientifiche. Il pensiero mitico non è prerogativa esclusiva del pensiero “selvaggio” bensì è in realtà la modalità normale, il funzionamento normale del pensiero, una sua attività spontanea e necessaria. Il pensiero propriamente logico e concettuale ne è una parte che infine se ne distacca, senza tuttavia poter mai occultare del tutto il sottosuolo da cui esso stesso nasce. Anche Lévi-Strauss in Tristes Tropiques giunse a sostenere che «l’esprit humain» (usava proprio la stessa espressione bergsoniana) è sempre lo stesso, e alla fine dei suoi viaggi etnologici dice di non aver trovato fra i selvaggi il Diverso bensì l’Identico, perché identico è nella sostanza il funzionamento della mente umana. Piuttosto egli rinviene una differenza fra la pensée sauvage e il pensiero occidentale non in una differenza di natura, ma in una diversa inflessione per cui la pensée sauvage appare caratterizzata (cosa che anche Levy-Bruhl avrebbe potuto sottoscrivere) da una “logica del concreto”, attenta al reale e alle infinite sfaccettature del mondo. Questa “concretezza” del pensiero proprio delle popolazioni tradizionali, questa maggior aderenza al vissuto e all’esperienza è ben visibile nelle lingue. Si tratta di percepire e di denominare la realtà che ci circonda in base alle proprie esigenze: gli eschimesi, che continuamente vedono la neve, non utilizzano come noi un termine astratto per dire “neve” bensì ne conoscono vari tipi che denominano in vari modi, mentre invece gli aztechi, a cui la neve era quasi sconosciuta, la indicavano con lo stesso termine generalissimo indicante anche il ghiaccio e il freddo. Uno dei capitoli più interessanti de Les fonctions mentales dans les sociétés inférieurs di LevyBruhl verte proprio sulle lingue dei popoli tradizionali20: egli vi mostra come in molte di queste lingue non esiste il plurale generico come nelle nostre lingue bensì il plurale specifico nella forma del duale, del triale, talora del quatriale, oppure forme specifiche per dire se si tratti di pochi o di molti, o altre forme ancora (lingua cherokee) per dire “me e te”, “me e voi”, “me e voi due” etc. anziché semplicemente “noi”21; in altre lingue tradizionali 20 21

L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., pp. 173-221 (cap. IV). Ivi, pp. 174-180. Ricordiamo del resto che nell’amarico parlato in Etiopia non v’è un solo modo generico per dire “buon giorno”, “buona sera”, “buona notte” bensì

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non esistono termini per i pronomi dimostrativi “questo” o “quello”, bensì termini appositi specificanti “questo, vicino”, “questo, lontano”, “questo, presente”, “questo, assente”, oppure “questo, di fronte”, “questo, dietro”, “questo, a nord”, “questo, a sud” etc.22; in altre lingue ancora esiste una pletora di prefissi, suffissi, affissi verbali e nominali onde specificare forma, dimensioni, movimenti, posizioni e quant’altro, mentre invece noi per le stesse specificazioni dobbiamo costruire una frase intera23; in molte lingue tradizionali è importante l’ausilio del linguaggio pittografico mimico-gestuale (che secondo alcuni autori settecenteschi sarebbe addirittura all’origine del linguaggio)24. In molte lingue “primitive” la parola generale (“mano”, “piede”, “padre” etc.) viene sempre accompagnata da un complemento di specificazione o dal pronome personale possessivo specificante (“la mia mano”, “tuo padre” etc.) spesso attaccato come suffisso25. In altre lingue ancora il termine astratto semplicemente non si trova: vi sono molti nomi per i vari tipi di pesci o di uccelli o di alberi, ma non la parola astratta “pesce”, “uccello”, “albero”, oppure per dire un colore si dice “nero come il carbone”, “nero come la cornacchia”, oppure ancora vi sono termini per dire l’avambraccio, il braccio destro, il braccio sinistro etc. ma non il termine generale “braccio”, oppure ancora diverse parole per le diverse varietà di formiche o di cervi o di volpi etc. ma non la parola “formica”, “cervo”, “volpe”, oppure si trova un nome specifico per il più piccolo rivolo ma non il termine generale “fiume”, mentre i lapponi conoscono decine di termini per indicare la renna di varie età, donde la grande e talora stupefacente ricchezza lessicale di queste lingue26. Per quanto riguarda i verbi e per le azioni da essi espresse può non esistere il verbo “ferire” ma verbi specifici per il ferire con la spada, con la freccia etc.; in molte lingue tradizionali possiamo trovare vari verbi per dire “cavalcare al galoppo”, “cavalcare al passo” ma non il verbo astratto “cavalcare”; nella lingua degli Ewe si regi-

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forme specifiche a seconda che il saluto sia rivolto ad un uomo, a una donna o a più persone (ad esempio “buona notte” detto a un uomo è “dehna ider”, a una donna è “dehna ideri”, a più persone è “dehna ideru”); parimenti i verbi all’imperativo hanno forme diverse per il maschile, il femminile e il plurale. Ivi, pp. 184-185. Ivi, pp. 188-195. Ivi, pp. 195-203. Ivi, pp. 208-209. Parallelamente, nella lingua dei Kikuyu non esiste una parola generale per dire “padre” o “madre” perché si deve specificare cosicché v’è un termine per dire “mio (o nostro) padre”, un altro per “suo padre”, un altro ancora per “tuo (o vostro) padre”, e parimenti un termine per dire “mia (nostra) madre” etc. (J. Kenyatta, La montagna dello splendore, cit., pp. 36-37). L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., pp. 210-215.

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stravano almeno trentatré avverbi specifici che aggiunti al verbo “camminare” ne specificano le diverse modalità (camminare energico, camminare fiacco, camminare tranquillo etc.)27, e agli esempi di Levy-Bruhl potremmo aggiungere che nella lingua dei Navajo non v’è nessun verbo per dire “andare” in quanto occorrono verbi specifici per dire se si va a piedi o a cavallo etc., mentre nella lingua bantù non esiste il verbo “essere” ma “essere con”: si deve dire con chi si è, con la moglie, con il marito, con i figli, gli amici etc. Così Boas dice che gli indiani da lui studiati, come non dispongono abitualmente di un termine generale per dire “occhio” bensì specificano con due termini diversi a seconda che si tratti dell’occhio di un uomo o di un animale, così non dicono generalmente “stare seduti”, pur disponendo di un termine astratto all’uopo, ma preferiscono usare termini specifici per dire se la persona è seduta a casa, sulla spiaggia etc28. Quasi tutte le lingue delle società tradizionali possiedono forme verbali per dire l’essere qui o l’essere là, l’essere in quel momento o in quell’altro ma non dispongono del termine astratto “essere”, col quale il pensiero occidentale ha costruito le sue categorie metafisiche. Ugualmente si potrebbe dire per la matematica di queste popolazioni, che è una matematica più concreta che astratta in cui il numero (spesso dotato di valore magico e sacrale) è legato alla cosa numerata: così in molte popolazioni vi è un prefisso o una parola distinta per dire tre oggetti tondi, un’altra per dire tre uomini etc.; la numerazione è visiva e per lo più legata alle parti del corpo in successione cosicché ad esempio a partire dal dito mignolo il pollice sta per il numero 5, il polso per il 6, la spalla per l’8 etc.; spesso i numeri superiori al 3 o al 4 vengono indicati solo genericamente con termini quali “tanti”, “molti”, “innumerevoli” donde la scarsa attitudine ai calcoli anche semplici29: io stesso ho constatato ad Addis Abeba (che pur non è un villaggio tribale bensì una 27 28

29

Ivi, pp. 203-205. F. Boas, Introduction to Handbook of American Indian Languages, 1911, tr. it. Introduzione alle lingue indiane d’America, Torino 1979, Boringhieri. Sulle lingue “primitive” v. F. Boas, The Mind of Primitive Man, 1938, tr. it. L’uomo primitivo, Bari 1979, Laterza, pp. 171-181. Il grande antropologo (tedesco naturalizzato americano), che sempre difese l’attinenza al dato e la conoscenza concreta delle culture contro le speculazioni evoluzioniste in etnologia, fu un eccellente conoscitore delle lingue dei popoli tradizionali nordamericani. Sull’influsso del linguaggio sulle concezioni del mondo v. le tesi radicali del relativismo linguistico di B.L. Whorf (Language, Thought and Reality, 1956, tr. it. Linguaggio, pensiero e realtà, Torino 1970, Boringhieri). V. il cap. V in L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., pp. 222-272, nonché E.B. Tylor, Alle origini della cultura, cit., vol. II (Gesti, parole, numeri), cap. VII (L’arte del contare).

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delle più grandi capitali africane) che al suq o nelle officine meccaniche le persone (che pur sono commercianti o financo abili imprenditori usi a maneggiare il denaro) stilando il conto totale sono alquanto impacciate nel fare a mente semplici somme e ancor più nel fare la sottrazione dando il resto, esattamente come in occidente fino a pochi secoli fa (quando non era ancora pienamente diffusa la più comoda numerazione araba) risultavano difficili anche i calcoli più semplici. Per lungo tempo si è visto nelle lingue e nella matematica dei popoli tradizionali la riprova di un deficit astrattivo dei “primitivi”. In realtà però i termini generali o astratti, seppur poco usati, non mancano e semplicemente si tratta della loro inutilità in determinati contesti: «il fatto che non siano usate forme generalizzate di espressione non prova l’incapacità di formarle − dice Boas in Introduzione alle lingue indiane d’America −, ma soltanto che il modo di vita di quel popolo è tale da non richiederle e che comunque esse potrebbero svilupparsi non appena ce ne fosse bisogno». Il fatto che in una data lingua manchi il termine generale “albero” significa che in questa cultura è più importante distinguere questo o quel tipo di albero (ad esempio quando si tratta di vedere con quali alberi fabbricare la canoa o la capanna) mentre è meno importante denominare l’“albero” in generale, ma questo non significa la mancanza dell’idea di albero, proprio come designare molti tipi di cammello non significa misconoscere i tratti comuni che ne fanno dei cammelli. Parimenti circa l’esigenza di specificazioni concrete si potrebbe obiettare che anche nelle nostre lingue possiamo dire “noi pochi”, “noi tutti”, “io e voi” anziché il generico “noi”, e similmente possiamo dire “questo oggetto è a sud” etc., così come possiamo rilevare che gli Ewe hanno comunque un termine astratto per “camminare” (zo) a cui si aggiungono le specificazioni fornite da avverbi per specificare come si cammina: la differenza posta da Levy-Bruhl fra pensiero occidentale e pensiero “prelogico”, come si è detto, va certamente attenuata. Tuttavia rimane il fatto che in queste lingue esistono suffissi, prefissi, ausiliari o termini specifici per i plurali o i pronomi, così come avverbi specificanti precodificati per esprimere le modalità concrete dell’azione denominata dal verbo, che evidentemente interessano più della funzione generale che può mancare o non essere mai o quasi mai usata senza l’ausiliare specificante. Tutto questo peraltro ha anche l’altro lato, e scrive al riguardo R. Cantoni che le lingue “primitive” «così straordinariamente ricche di parole che esprimono particolari concreti che le nostre lingue lasciano sottintesi o inespressi, così intente a specificare la modalità dell’azione, le circostanze nelle quali essa si è svolta, gli stati d’animo degli uomini che vi partecipano, ci danno una riprova che il pensiero primitivo mentre rifugge

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dall’astratto vive a suo agio nell’immagine intuitiva e concreta. Sempre ci troviamo alle prese con lingue di una straordinaria ricchezza, che vogliono esprimere le sfumature più delicate, animate da un bisogno di parlare agli occhi, di disegnare e dipingere ciò che si vuole esprimere»30. Un solo esempio fra migliaia, tratto dall’amarico: ove, con sottile sfumatura a noi ignota, si distingue l’amaro nel senso psicologico di un’esperienza amara (merir) dall’amaro al sapore come di un caffé amaro (merara). Al riguardo potremmo financo dire che le lingue occidentali moderne (si intende la lingua parlata, non letteraria), con la loro grande semplificazione pragmatica e funzionale, come nell’inglese ove con un paio di migliaia di parole si ritiene di poter dire tutto, possono essere considerate (almeno da un certo punto di vista) non come un’evoluzione bensì come un’involuzione con progressiva perdita di ricchezza rispetto all’estrema complessità sintattica e lessicale delle lingue più antiche (il latino, il greco, l’amarico e anche le lingue cosiddette “primitive”), che sanno esprimere le più sottili sfumature e la più grande varietà di situazioni, anche se nelle lingue occidentali tale perdita è compensata dalla maggiore capacità astraente delle parole che, inutile all’uomo tradizionale nel suo contesto, consente l’emergere del pensiero metafisico e scientifico. Peraltro, ovviamente, molte cose sono cambiate e stanno cambiando e attualmente le lingue dei popoli tradizionali, influenzate da quelle occidentali e da nuovi e diversi stili di vita, stanno sempre più perdendo quelle infinite sfumature, quella minuziosa precisione dei dettagli, quella capacità di descrizione del particolare, stanno smarrendo la finezza, la ricchezza e la precisione lessicale via via semplificandosi: come poteva già dire Levy-Bruhl un secolo fa, «numerose forme, numerose parole cadono in disuso e finiscono per scomparire», in quello che egli definiva un «impoverimento progressivo».31 Spesso, nel contatto con le popolazioni tradizionali si soggiace ad una certa fascinazione per la loro vita, e spesso questa fascinazione si configura, soprattutto nel contatto più estrinseco e superficiale ma anche se non soprattutto in quello più colto, come una sorta di nostalgia dell’arcaico, del semplice e del primitivo. Il fascino del primitivo fa parte dell’occidente. Per 30

31

R. Cantoni, Il pensiero dei primitivi, Milano 1963 (I ed. 1941), Il Saggiatore, p. 46. La tesi di Cantoni (allievo di A. Banfi) è che l’antropologia e lo studio del pensiero mitico possono significativamente integrare elementi rimossi dalla cultura occidentale, e così allargare le maglie troppo rigide di un razionalismo prevalentemente scientifico-tecnologico in una pluralità di forme simboliche non necessariamente culminanti (come in Cassirer) nel pensiero scientifico. L. Levy-Bruhl, Psiche e società primitive, cit., p. 216.

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l’ideologia imperialista e coloniale quale si riflette ad esempio nei romanzi di Kipling, la missione − o financo “il fardello” − dell’uomo bianco (nella fattispecie inglese) era di portare ed imporre la civiltà ai popoli selvaggi ed inferiori: e con il diffondersi delle imprese coloniali, destinate a portare ad una spartizione dell’Africa, cresceva nell’occidente la fascinazione per il primitivo. Così Gauguin nel 1891 partiva per l’isola di Tahiti nei mari del Sud del Pacifico per rompere con la tradizione pittorica dell’accademia europea e con l’occidente e la civiltà stessa in modo da far crescere il seme della propria arte, come scriveva ad un amico, «in un suolo selvaggio e primitivo» che nemmeno le sue tele dedicate alla Bretagna potevano evocare. Dopo aver abbandonato l’impiego, il benessere di una soffocante vita borghese, e la stessa famiglia, egli apprestandosi a partire per i mari del Sud scriveva nel febbraio 1890 alla moglie (alquanto rancorosa per quella che definiva la sua «gita a Tahiti»): «A Tahiti, nel silenzio delle notti tropicali, potrò ascoltare il ritmo dolce e suadente del mio cuore in armonia con le presenze misteriose che mi circondano. Libero, senza problemi di denaro, potrò amare, cantare e morire». E poi, nel luglio dell’anno seguente, sempre alla moglie riportava le sue impressioni: «Gli indigeni s’aggirano spesso la notte, a piedi scalzi, in silenzio. E sempre, questo silenzio! Capisco come questa gente possa restare seduta intere giornate senza parlare, guardando malinconicamente il cielo. Sento che lentamente tutto questo mi penetra, e mi lascio andare dolcemente. […] Che notte stupenda stasera. Migliaia di uomini fanno come me, si lasciano vivere e i loro figli crescono da soli. Camminano senza una mèta precisa in un villaggio qualsiasi, dormono sotto un tetto, mangiano senza neppure ringraziare, così, a buon rendere. E li chiamano selvaggi! Cantano; non rubano mai, la mia porta è sempre aperta, non uccidono». A Tahiti e poi nelle Isole Marchesi Gauguin vive in una capanna, ammalato, precocemente invecchiato, in rotta con la famiglia lontana; però dipinge ed ama le donne indigene, si identifica con i “selvaggi” e i “primitivi”, diventa selvaggio fra i selvaggi difendendoli coraggiosamente contro i soprusi e gli abusi coloniali, prendendo le parti anche di un indigeno accusato di cannibalismo, ritrova un eden al tempo stesso innocente e lussurioso, ritrova nuove luci e nuovi colori, fondamentali e forti, ignoti alla pittura europea32. Quella fascinazione del primitivo ben presto invaderà il mondo occidentale nelle sue avanguardie artistiche antiaccademiche: l’arte africana con le sue maschere di natura rituale, con i suoi elementi decorativi, stilizzati e geometrizzanti, come si sa e come abbiamo visto a proposito 32

P. Gauguin, Écrits, tr. it. Scritti di un selvaggio, Parma 1988, Guanda (e Lettere, Milano 1984, Longanesi).

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delle maschere e dei waga, ha influenzato molto le avanguardie artistiche europee soprattutto fauves e cubiste (Matisse e Picasso) che hanno trovato in essa una rigenerazione ed un nuovo linguaggio. Ma, evidentemente, questo desiderio di abbandonare la cultura occidentale virando verso il “selvaggio” e il “primitivo” era l’altro lato di una stanchezza e di una crisi profonda che portava il mondo occidentale a cercare una nuova linfa nell’esotico e nel lontano. Così ci si faceva e spesso ancora si fa, di queste popolazioni, un quadro idealizzato: la loro vita viene immaginata come edenica e incontaminata come sarebbe stata quella dell’uomo primitivo, ma naturalmente non è così e questo quadro riflette soltanto la nostalgia di una vita “altra” da parte dell’uomo occidentale. L’uomo “selvaggio” contemporaneo non è affatto l’erede dell’uomo primitivo e preistorico, oltretutto idealizzato quale felice abitante delle silvae: non è la cartina di tornasole che ci permette di vedere quale fu il mitico uomo archetipico e originario. Non dobbiamo credere che le tribù attuali riflettano tali e quali una condizione più antica e primitiva. Le culture tradizionali non sono affatto primitive ed originarie bensì hanno in realtà una lunga storia alle spalle. Anche se sicuramente queste popolazioni sono più statiche e immobili rispetto al frenetico dinamismo che caratterizza la società occidentale, anche se certamente la società “primitiva” è più «fredda» (come scriveva Lévi-Strauss) rispetto alla società occidentale più «calda», questo non significa che essa sia priva di storia solo perché tale storia non si configura come un indefinito “progresso” nel senso occidentale, perché non esiste società senza storia33. È un errore, a suo tempo commesso dagli antropologi, considerare queste società come astoriche, statiche e immutabili nel tempo. Malinowski e Radcliffe-Brown avevano rifiutato di studiare la storia dei popoli tradizionali non per dispregio della storia ma, stante la mancanza di documentazione, per evitare le speculazioni evoluzionistiche sulle origini dell’uomo e delle società: per questo motivo essi ritenevano opportuno concentrarsi sullo studio sincronico di una società data e visibile. Ma ciò non toglie che, se pur quella cautela metodologica potesse essere comprensibile in un tempo ancora foriero di eccessive speculazioni evoluzioniste, in realtà occorre considerare nello studio di queste società la dimensione diacronica, utilizzando come fonte al riguardo il loro ricco patrimonio di miti e leggende, perché in mancanza di questa considerazione se ne ha proprio quell’immagine astorica e immobile che in realtà non è in tutto corretta: in questo senso giustamente Evans-Pritchard, di contro ai suoi maestri, rivendicò l’antropologia come scienza anche storica (seb33

C. Lévi-Strauss, Race et Histoire, Paris 1952, Unesco.

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bene egli personalmente non abbia molto cercato di ricostruire la storia dei popoli da lui studiati). Di questa storia, che si perde nella insondabile notte dei tempi, noi possiamo conoscere qualcosa almeno riguardo ai secoli più recenti. Oggi queste tribù sono sparse e isolate fra loro, ma secoli addietro esse erano organicamente inserite in regni e dinastie perché non è vero che quella africana sia soltanto una preistoria fatta di tribù selvagge: vi era il regno di Nubia, il regno del Mali che controllava il traffico delle carovane d’oro attraverso il Sahara, il regno del Ghana, il regno del Benin, il regno degli Azande, i sultanati islamici dell’Africa orientale, il grande regno di Axum e quant’altri34. Ora tutto questo è scomparso, tutta questa intelaiatura sociale non c’è più e rimangono solo le tribù sparse e isolate. Quale ricordo però di antiche culture rimangono (poiché non solo e sempre in capanne viveva l’uomo africano) antichi siti archeologici in pietra, come la grande costruzione dello Zimbawe (risalente al II sec. d.C.) e il sito di Axum (primi secoli d.C.), senza considerare ovviamente la grande civiltà egizia. Al riguardo sono da rivalutare oggi le ricerche di Frobenius che, sulla base di dodici lunghe esplorazioni in Africa, non solo mostrò per primo (in polemica con l’occidente “meccanico e materialista”) la ricchezza delle tradizioni, dei miti e delle leggende africane, nonché delle arti dalle pitture rupestri alle sculture in legno o avorio, ma anche individuò alcune fondamentali linee di sviluppo storico: per Frobenius all’alba del mondo la civiltà non nasce da un progresso delle tecniche secondo esigenze utilitaristiche bensì da una percezione sacrale, in un atteggiamento vichianamente stuporoso e commosso dell’uomo di fronte alla natura, poi fatalmente perso nell’ornamentazione e nell’intellettualismo35. Nonostante certi difetti di impostazione (ad esempio la retrodatazione di più tardi graffiti rupestri o l’incomprensione della civiltà etiopica dilatata in senso generico ben oltre i suoi confini reali) Frobenius ha cercato di ritrovare con acute indagini, a partire dal paleolitico franco-ispanico-nordafricano e dalla cultura asiatica, la diffusione per “cerchi culturali” (Kulturkreise) dei motivi simbolici arcaici (ad es. la diffusione della ceramica geometrica di Susa I fino alla ben più tarda ceramica geometrica greca attraverso le zucche ornamentali asiatiche e poi africane, 34 35

Vedi K. Shillington, History of Africa, New York 1989, MacMillan. Di L. Frobenius v. la raccolta di favole africane in Das schwarze Dekameron (1910) e in Atlantis (1921-1928, tr. it. parziale in Fiabe del Kordofan, Milano 1997, Adelphi), nonché Der Ursprung der afrikanischen Kulturen (1898) e Kulturgeschichte Afrikas (1933, tr. it. Storia delle civiltà africane, Torino 1950, Boringhieri, con una dura e ingiusta prefazione di F. Bianchi Bandinelli volta a accomunare l’“irrazionalismo” di Frobenius e la mitologia del nazismo).

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la connessione e la diffusione fra le figure rotanti e il simbolo della svastica, la diffusione dell’immagine del bovino e poi del bovino con il simbolo del disco solare fra le corna dal paleolitico fino alle raffigurazioni egizie, la diffusione dell’amplesso uomo-donna come metafora del rapporto CieloTerra dal paleolitico alla dea Nut egizia, le rappresentazioni diffusive del predatore che rincorre o afferra la preda che simboleggiano il Sole che all’alba rincorre la Luna e mette in fuga o sbrana le stelle, etc.).36 In base a queste considerazioni appare lecito vedere nelle popolazioni tradizionali più una storia di progressiva involuzione e decadenza anziché di pretesa evoluzione. Ad esempio non è affatto vero, come ormai è stato sufficientemente dimostrato, che nel campo delle credenze religiose vi sia stato un passaggio evolutivo da un originario politeismo ad un monoteismo ritenuto superiore: in realtà la credenza in un essere superiore del cielo (tuttora ravvisabile presso i Nuer, i Borana e i pellerossa americani) è antichissima, e semmai poi questa idea originaria si è complicata inverosimilmente fino a decadere (come in molti casi sembra lecito dire) in forme successive di religiosità politeistiche prive di un senso unitario del divino. Parimenti, se noi confrontiamo l’attuale calendario dei Borana con il loro precedente calendario risalente a duemila anni or sono, vediamo che le attuali popolazioni non sono più nemmeno in grado di leggere il calendario che usano, ormai sfasato rispetto all’attuale situazione celeste: essi hanno totalmente smarrito i codici della sapienza astronomica dei loro antenati, e tutto quanto sanno e possono fare è cercare di usare − peraltro in modo imperfetto − il loro antico calendario in modo puramente pragmatico e operativo ai fini delle esigenze dell’agricoltura e della pastorizia. Così, esaminando le stele funerarie etiopiche che rimontano ai secoli più diversi, commetteremmo un grosso errore se pensassimo che le stele più grossolanamente abbozzate siano le più antiche e che le più recenti siano le più lavorate e intagliate e le più ricche di iscrizioni e di segni simbolici, perché invece per lo più è esattamente il contrario. Non è affatto detto che, di due tratti culturali affini in diverse regioni, il più rozzo sia l’originario. Appare così lecito rinvenire un barlume di verità nelle teorie del monarchico e teorico della restaurazione Joseph de Maistre, per il quale i popoli “selvaggi” sono in realtà soltanto il residuo di una avanzata degenerazione rispetto alle culture più antiche da cui provengono. La “degenerazione” è qui concepita sulla falsariga del concetto di degenerazione in biologia (ad esempio in Buffon), ove essa è intesa quale allontanamento involutivo da 36

L. Frobenius, Storia delle civiltà africane, cit., rispettivamente pp. 136-139, 140146, 165-172, 198-203, 213-221.

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un tipo biologico puro e originario. Così, per quanto oggi possa apparire desueta, in realtà l’idea di degenerazione etnologica si ritrova nell’etnologia fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento: ad esempio i teorici del “diffusionismo” (come W. Schmidt e G. Elliot Smith), volti a spiegare − come anche Frobenius − le somiglianze non generiche (e difficilmente riconducibili a produzioni indipendenti) fra tratti fondamentali propri di diverse culture in base ad un centro originario di irradiazione e diffusione tramite prestiti, contatti e migrazioni, hanno inteso questa “diffusione” e irradiazione culturale a partire da un centro come un processo di allontanamento e di progressiva decadenza e alterazione, come un processo di degenerazione e involuzione rispetto alla matrice originaria ancora non contaminata e frammischiata con elementi estranei e derivati. Certo, noi in realtà non sappiamo ove si trovi questa tipologia originaria pura e incontaminata in quanto la storia è sempre storia di contaminazioni, di modificazioni e di mutazioni successive, ma sicuramente è del tutto errata la pretesa di vedere nelle differenti storie la trama di un’unica continua evoluzione progressiva.37 Invero spesso l’idea di degenerazione richiama un’idea di caduta e di peccato originale o almeno un’ingenua idea di grandezza decaduta: così nel missionario Schmidt, autore del monumentale Der Ursprung der Gottesidee in dodici volumi (1926-1935), per cui l’originaria e più alta “idea di Dio” quale essere unico e creatore (la Gottesidee), rivelata ai popoli con il “monoteismo primordiale” (Urmonotheismus), sarebbe poi andata persa per degenerazione e involuzione decadendo con la caduta dallo stato edenico in forme successive di religiosità inferiore caratterizzate dal predominio degli aspetti naturalistici e antropomorfici; così nel panegizianesimo di Elliott Smith, per il quale la cultura originaria sarebbe stata l’antica cultura egizia poi diffusa attraverso viaggi e commerci in progressiva degradazione sull’intero globo fino all’America precolombiana. Tuttavia, sfrondata di queste incongruenze (abbiamo ricordato la

37

Nemmeno un teorico del progresso per evoluzione stadiale come Tylor nega i fenomeni di degenerazione e regressione delle civiltà, sebbene nel suo intendimento essi partano comunque non da una privilegiata condizione originaria bensì dalla perdita di conquiste evolutive precedenti e sebbene tali fenomeni nel suo intendimento non possano arrestare la linea maestra dello sviluppo attraverso le invenzioni e le tecniche (E.B. Tylor, Alle origini della cultura, cit., vol. I, cap. II su Lo sviluppo della cultura). In ogni modo secondo Tylor le “sopravvivenze” nel mondo moderno di antiche credenze e pratiche primitive attestano non un progresso del tutto unilineare bensì «quanto diretto e stretto sia il legame tra la cultura della civiltà moderna e lo stato selvaggio più rozzo» (ivi, p. 169).

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critica di Pettazzoni a Schmidt), l’idea degenerazionista conserva una parte di verità, laddove le attuali culture possano apparire quali residui di una superiore cultura originaria i cui miti e simboli diventano vuoti orpelli del tutto incompresi e via via dimenticati, proprio come del resto si parla della decadenza dell’antica civiltà egizia o greca o romana o della scomparsa della civiltà incaica. In tal modo l’etnologo W. Rivers, scrivendo la sua History of Melanesian Society (1914), scorse nella società melanesiana di cui era un eccezionale conoscitore i segni di un progressivo impoverimento dei tratti culturali stante l’allontanamento da un centro di origine di superiore civiltà; e anche gli aborigeni australiani, lungi dall’essere una eco dell’uomo preistorico quali rappresentanti della fase più primitiva dell’umanità, con assai maggiore probabilità appaiono invece gli ultimi esponenti di una più antica e grande cultura (capace di creare un oggetto complesso come il boomerang) in ineluttabile disintegrazione. Non si possono attribuire questi casi di declino sempre e solo al micidiale contatto con l’uomo bianco, perché a volte possono intervenire anche altri fattori quali carestie, epidemie, guerre etc. In realtà non solo l’idea di degenerazione − correttamente intesa − è plausibile, ma ancor più plausibile è l’idea di una fondamentale staticità (priva sia di progresso che di decadenza) delle culture tradizionali isolatamente sussistenti. Certo la condizione dei primi uomini è stata sicuramente “selvaggia” prima dello sviluppo delle arti, della ceramica, della metallurgia, dell’agricoltura, e nell’antico Egitto possiamo ben vedere le prime rozze e sbilenche piramidi che precedono quelle più evolute di Cheope, Kefren e Micerino, tuttavia è stato più volte rilevato (ad esempio dallo storico B. Niebuhr nel XVIII secolo) come non risulti in realtà alcun chiaro caso di popolazione “selvaggia” che da sé e per forza propria si sia evoluta con la padronanza delle tecniche: questi popoli, quando non sono decaduti da una condizione più elevata, sono di per sé effettivamente rimasti per molti secoli in una condizione statica. In realtà la normalità della condizione umana sembra essere non la legge del progresso bensì, se non proprio una poco credibile degenerazione universale, quantomeno una condizione di staticità. Il cosiddetto “progresso” (peraltro quanto mai parziale, evidente nell’evoluzione tecnologica e scientifica ma meno evidente altrove), lungi dal costituire la norma, costituisce l’eccezione: sostanzialmente la peculiarissima eccezione verificatasi − per cause mai precisate − nel mondo occidentale da cui poi si è diffusa (spesso con la violenza e comunque traumaticamente) in tutto il resto del mondo, che molto probabilmente sarebbe rimasto nel proprio stato precedente se non vi fosse stato sottratto a forza dall’impatto con il mondo occidentale.

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Così anche in Africa, così in Etiopia: là ove v’erano un tempo potenti regni e monarchie, vi sono oggi (e vi erano già nei secoli scorsi) tribù sparse e spesso alla deriva. Consideriamo ad esempio la grande etnia oromo, a cui appartengono popolazioni come i Borana, i Konso, i Mursi, i Surma, tutte popolazioni peraltro (ad eccezione dei Mursi e dei Surma fra loro vicini) diversissime anzitutto nella stessa fisionomia. Gli Oromo comparvero sul suolo etiopico vari secoli fa, e successivamente entrarono in conflitto con le popolazioni amhara. Per le cronache di parte amhara, si trattava dell’avanzata da sud di una numerosa popolazione di paria e di schiavi fuggitivi che invadeva le loro terre, il cui destino era comunque infine quello di tornare ad essere naturaliter schiavi sotto il legittimo giogo amhara, donde il termine spregiativo “galla” che era l’equivalente del termine “barbaro” per i greci e i romani; invece per gli attuali storici oromo (alcuni dei quali docenti presso università americane) gli Oromo fin dal X secolo avevano occupato le terre meridionali dell’Etiopia, cosicché per essi si trattava della difesa o al più della rioccupazione delle proprie terre da cui erano stati a suo tempo cacciati o in cui erano vessati dagli amhara. Per gli antichi cronachisti abissini gli Oromo, anzi i Galla, erano degli invasori che attaccavano il loro regno, mentre per gli attuali storici oromo essi difendevano il loro territorio o attaccavano il nemico che li vessava. Quello che si può capire, vista la diffusione della grande etnia oromo nell’Africa centrale e viste le attuali o recenti abitudini degli oromo etiopici (Borana, Mursi, Surma, Konso), è che probabilmente essi erano − come alcune tribù oromo ancora sono − pastori nomadi forse originari delle coste somale che, non usi all’insediamento stanziale agricolo, spostatisi dalle terre dell’attuale Kenya ove probabilmente erano in continuo conflitto con le tribù somale, e migranti (più che cacciati), si spostarono verso nord nella loro perenne ricerca di terre fertili per la pastorizia. Installatisi nella Valle Omo e nell’attuale Etiopia meridionale gli Oromo furono in misura non piccola convertiti all’islamismo fin dal XIII secolo da Sheikh Hussein, uno sceicco (sheikh) la cui tomba (non lontana dalle grotte di Sof Omar nell’Etiopia sud-orientale laddove inizia a degradare verso la costa somala) nonostante i veti passati degli imperatori etiopici è ancora (come abbiamo visto) grande luogo di pellegrinaggio. Sebbene gli amhara li disprezzassero come popolo di paria e di schiavi, in realtà gli Oromo, come necessariamente tutte le popolazioni antiche di pastori usi a sconfinare nelle terre altrui, erano valorosi guerrieri volti all’invasione e alla conquista, abilissimi soprattutto nelle cariche a cavallo, sprezzanti del pericolo e noncuranti della vita, forse anche perché in certe condizioni di miseria ben poco avevano da perdere nel combattimento e tutto da guadagnare. Le invasioni e le razzie oromo o, come vogliono gli

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attuali storici oromo, la loro resistenza e il loro contrattacco all’occupazione amhara, furono un flagello (ne parleremo meglio oltre). Ma, nel tempo, alcune frange di queste popolazioni, ancor più islamizzate nel XVI secolo nel contatto (dapprima solo bellico) con le armate islamiche che parimenti combattevano il regno amhara, iniziando un processo di sedentarizzazione, si insediarono con intento colonizzatore nel sud e nell’ovest dell’Etiopia, anche nel centralissimo Shoa e ancora più a nord ove un grande feudatario oromo fondò nei pressi del lago Tana l’importante città di Debre Tabor, e poi fin quasi nel Tigray. Soprattutto, queste frange oromo si insediarono in parte nel Wollega ad ovest dell’Etiopia ove v’erano giacimenti d’oro, facendo capo a Nekemte, e in parte a sud-ovest nella fertile area di Jimma (circa 250 Km di strada a sud di Nekemte), patria del caffé e importante rotta commerciale. Qui i gruppi oromo fondarono potenti sultanati e monarchie giungendo perfino (XVIII sec.) ad un’alleanza matrimoniale fra membri della famiglia reale amhara e principesse oromo, che infine portò al regno dell’imperatore Yosas di madre oromo (l’ascesa oromo venne interrotta dalla congiura amhara che, rigettandone come un corpo estraneo l’intrusione nella corte reale, fece assassinare l’imperatore). Ancora al tempo di Menelik il sultanato oromo e islamico di Kaffah manteneva la sua indipendenza (o almeno una relativa autonomia) tramite il pagamento di un tributo annuale da parte dell’ultimo sovrano oromo, Abba Jiffar. A Jimma, su una collina nei pressi del centro, esiste ancora la residenza di Abba Jiffar, che regnò fino al 1933 (anno in cui, vecchio e malato, venne destituito dall’imperatore Selassie con conseguente alleanza dei figli del sovrano spodestato con le forze coloniali italiane): il “palazzo dei princìpi oromo”, costruito in legno, potrebbe in realtà ricordare più una vecchia cascina a due piani della bassa padana che non una dimora reale, se non fosse per la presenza di uno stemma e di eleganti lavori e rifiniture di intaglio su alcune porte e sulla balaustra del ballatoio del piano superiore, nonché per alcune vaghe reminiscenze orientali probabilmente frutto del lavoro di maestranze indiane (d’altra parte ricordiamo che lo stesso imperatore Menelik, prima della fondazione di Addis Abeba, abbandonate le tendopoli mobili visse in un “cascinale” ad Entoto presso Addis). Attualmente le stanze della dimora di Abba Jiffar (la cui tomba si trova poco lontano sulla strada per Jimma) sono spoglie, ma dovrebbero in futuro esservi trasferiti gli oggetti del museo di Jimma: esso, che ricorda per certi aspetti i nostri musei dell’artigianato locale e della cultura contadina, contiene fra le altre cose i vestiti di paglia dei contadini ma anche il trono ligneo del sovrano e vari suoi oggetti personali come strumenti musicali tradizionali. Anche l’ultimo sovrano del regno di Nekemte, Kumsa Moroda, che si era

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convertito al cristianesimo, combatté contro Menelik riuscendo anch’egli a mantenere il regno e una limitata indipendenza attraverso il pagamento di un tributo (anche in questo caso il figlio, come già i figli di Abba Jiffar, appoggiò le mire coloniali italiane in funzione antietiopica). Anche a Nekemte come a Jimma si trova un museo della cultura oromo, contenente strumenti musicali, scudi tradizionali, armi, bardature di cavalli, ricostruzioni di antichi telai a mano e di una capanna contadina. La cultura oromo si è anche dotata seppur tardivamente (XIX secolo) di una lingua scritta sulla base dell’alfabeto latino (il padre della letteratura oromo, la cui statua celebrativa è visibile nel villaggio natale di Hurumu, è Onesimus Nesib − 1850-1931 −, un ex-schiavo educato in Svezia dai missionari protestanti, traduttore fra l’altro − e per questo imprigionato dal clero amhara − della Bibbia in lingua oromo di cui copia è visibile al museo di Nekemte). La potenza oromo sarà debellata alla fine dell’Ottocento da Menelik, ma ancor oggi gli Oromo, ormai maggioranza della popolazione etiopica, costituiscono un problema politico per le loro rivendicazioni etniche e indipendentistiche (sostenute dall’Oromo Liberation Front) recentemente giunte anche ad atti terroristici. Essi oggi vanno con i loro cavalli sontuosamente bardati e nel sud dell’Etiopia sono tuttora visibili, lungo la strada che da Addis Abeba porta al Lago Langano, varie e piuttosto recenti tombe oromo in pietra rettangolare dal vivace cromatismo con rappresentazioni piuttosto naif del defunto a cavallo.38 Dunque, quando si parla delle tribù tradizionali oromo, non bisogna pensare solo alle tribù che ancor oggi vivono numerose nelle capanne. Attualmente queste popolazioni vivono in tribù sparpagliate e isolate fra loro, ma non sempre esse si arrestarono all’organizzazione tribale e nomadica. La cultura oromo, anche in passato, non fu riducibile ad una cultura pastorale nomadica. Nemmeno si ravvisa nel tempo un generale passaggio evolutivo dalla pastorizia e dal nomadismo all’agricoltura: oggi alcune tribù oromo sono ancora essenzialmente nomadiche e pastorali (Mursi e soprattutto Borana), e altre (Konso) sono ormai del tutto stanziali e agricole, mentre invece − come si è visto − in passato (un passato risalente ad almeno due o tre secoli or sono) altre frange oromo erano stanziali. Queste popolazioni 38

Nella cultura tradizionale oromo l’elemento funerario è certamente importante, ma non ho trovato conferma di quanto asserisce una guida turistica secondo la quale gli uomini oromo del Wollega, esercitando una meditatio mortis e un memento mori, si costruiscono da sé le proprie bare in legno (quantomeno quelle che si possono vedere nel museo dedicato alla cultura oromo di Lekemti – un tempo Nekemte – sembrano cassapanche e la stessa guida locale non le ha definite bare come invece la guida).

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in realtà non solo sono, ma ancor più erano in passato, popolazioni culturalmente ben più complesse di quelle dipinte dalla letteratura amhara39. Cosicché, le attuali tribù oromo sembrano quasi il residuo lasciato per strada da una grande etnia dalla storia secolare che in altre sue frange, vuoi per migliori opportunità di terreno fertile vuoi per maggiore intraprendenza e sapienti politiche di alcuni importanti personaggi, giunse alla costituzione di regni e sultanati fino ad assurgere al trono imperiale amhara, costruendo non solo tukul di paglia e fango ma anche costruzioni in legno e in pietra con raffinate risonanze indiane. Rispetto a queste realizzazioni, certamente alcune attuali tribù oromo non possono non apparire quali discendenti e rappresentanti stanchi o almeno quali rami collaterali di una più complessa storia. Certo occorre andare cauti prima di parlare di processo involutivo, perché indubbiamente un tukul di pastori ha un significato culturale come una più raffinata dimora dalle assonanze orientali: non v’è un processo involutivo in tutto generalizzabile e tale da concepirsi come il rovescio speculare della vecchia legge positivistica del progresso. Ma quello che si intende dire è che la vita attuale di queste tribù non deve far dimenticare la complessità dell’etnia da cui esse discendono, proprio come l’attuale imperfetto calendario borana non deve far dimenticare che essi disponevano duemila anni or sono di un calendario assai più avanzato.40 Infine un processo involutivo può spesso apparire più chiaramente e anche drammaticamente accentuato nel mondo attuale, in quanto le culture tradizionali sono uscite spesso devastate nella loro identità dal confronto con la più forte − anche se spesso non più civile − cultura occidentale moderna. L’uomo bianco − agli inizi del colonialismo visto come un potente stregone (il naturalista Wallace disse che gli indigeni pensavano che egli

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Vedi il resoconto dell’esploratore Bianchi, che a più riprese istituisce un raffronto fra oromo e amhara favorevole ai primi (G. Bianchi, In Abissinia alla terra dei Galla, Milano 1896, Editore Treves, pp. 341-342, 377-378). Un breve resoconto di parte amhara della storia degli Oromo fu scritto nel XVI secolo dall’ecclesiastico Bahrey nella sua Storia dei Galla (v. E. Cerulli, La letteratura etiopica, Milano 1968, Sansoni, pp. 136-138). Il ricordato W. Schmidt ha inoltre scritto su Die Religion der Galla (1937). V. ora G. Melbaa, Oromia. An Introduction to the History of the Oromo People, Minneapolis 1988, Kirk House Publishers; M. Hassen, The Oromo of Ethiopia. A History 1570-1860, Trenton 1994, Red Sea Press; AA. VV., Being and Becoming Oromo. Historical and Anthropological Enquiries, Uppsala 1996, Nordiska Africa Institutet; H.S. Lewis, Jimma Abba Jifar. An Oromo Monarchy 1830-1932, Lawrenceville 2001, Red Sea Press. Ad Addis Abeba esiste un Centro della cultura oromo.

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imbalsamasse gli uccelli per poi risuscitarli41) − ha portato la sua forza e distrutto. Basti pensare agli indiani d’America, confinati nelle riserve ed abbruttiti dall’alcol importato loro dai coloni. Lévi-Strauss, per il quale i tropici sono tristes tropiques, ha scritto su questo pagine dolenti ed amare, trasfigurate nel ricordo delle sue spedizioni in una dimensione letteraria: parlando dell’allora incipiente «monoculture» e «civilisation en masse», inesorabilmente avanzante e ormai dispiegata a livello planetario, egli parla della «notre lordure lancée au visage de l’humanité»; definendo se stesso come un uomo «courant après les vestiges d’une réalité disparue», parla della sparizione progressiva delle culture indigene distrutte al fatale contatto con l’occidente, dice delle tribù ridotte «à une poignée de misérables déracinés», commisera i «sauvages de la forêt amazonienne, tendres et impuissantes victimes» divenuti oggetto di album patinati, scrive che a causa dell’uomo occidentale «les sociétés que nous pouvons étudier aujourd’hui [...] ne sont plus que des corps débiles et des formes mutilées»42. Al riguardo Leiris, che fu al seguito di Griaule nella Dakar-Dijbouti, diceva che di fronte alla realtà del colonialismo l’etnologo aveva un dovere preciso: «noi, che per mestiere abbiamo il compito di comprendere le società colonizzate alle quali ci siamo legati per motivi spesso estranei alla pura curiosità scientifica, abbiamo il dovere di essere i loro avvocati naturali di fronte alla nazione colonizzatrice cui apparteniamo: se abbiamo una qualche possibilità di essere ascoltati, dobbiamo porci costantemente come difensori di queste società e delle loro aspirazioni, anche se tali aspirazioni urtano contro gli interessi considerati nazionali e sono oggetto di scandalo».43 Al riguardo, circa gli effetti devastanti causati dall’impatto delle società tradizionali con l’arrivo (o anche solo il passaggio turistico) dell’uomo bianco, voglio qui narrare la triste storia dei Mursi, la famosa popolazione oromo della Valle Omo le cui donne usano ornarsi con il famoso piattello labiale. I Mursi erano − un tempo non lontano, risalente a pochi decenni or sono − un fiero e orgoglioso popolo di agricoltori ma soprattutto di pastori nomadi usi alla guerra con i vicini. Il loro portamento appare tuttora nobile ed eretto, la loro figura alta e slanciata. Le loro decorazioni corporee, 41 42 43

A.R. Wallace, The Malay Archipelago, 1891, tr. it. antologica in F. Focher, L’uomo che gettò nel panico Darwin, cit., p. 85, 95. C. Lévi-Strauss, Tristes tropiques, cit., p. 39, 38, 45, 42, 375. M. Leiris, L’Ethnographe devant le colonialisme, 1950, tr. it. in L’occhio dell’etnografo, Torino 2005, Bollati Boringhieri, p. 117. Prescindiamo qui dagli entusiasmi di Leiris a favore della Cina maoista o della Cuba castrista, irrimediabilmente datati ad anni fortunatamente ormai passati, che accompagnavano le sue giuste posizioni anticoloniali.

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ammiratissime e tanto fotografate, erano usate in guerra per atterrire l’avversario nonché in funzioni rituali e cerimoniali. Poi, è avvenuto qualcosa. Sul territorio in cui i Mursi vivevano da generazioni, e che conoscono palmo a palmo perché lo attraversano nomadicamente e periodicamente da una parte all’altra, sono stati costruiti grandi parchi nazionali come il Mago Park e (con capitali di una fondazione belga) l’Omo Park. La costruzione di questi parchi nazionali per lo più non è dovuta, come si dice e si scrive sui depliant pubblicitari, all’esigenza di “proteggere la natura”. I parchi naturali in Etiopia non sono paragonabili a quelli del Kenya o della Tanzania. Tranne in parte quello del Nechisar presso Arba Minch, i parchi naturali etiopici sembrano delle finzioni tanto è difficile vedervi gli animali che spesso sembrano soltanto millantati. Si ha veramente il sospetto che questi parchi semideserti in cui vaghi per ore e ore senza scorgere animale alcuno siano davvero una sorta di truffa a danno dei turisti, che comunque per intanto indubitabilmente ne perturbano l’equilibrio ecologico. Nemmeno camminando ore anche all’alba e al tramonto, che dovrebbero essere i momenti migliori per gli avvistamenti, si riescono a vedere i famosi leoni, i leopardi, gli elefanti. I bracconieri nei decenni hanno lavorato bene e, chissà, forse il ruggito dei leoni che le guide dicono udibile di notte nel campeggio è soltanto registrato. Io il solo leone l’ho visto in una gabbia ad Addis Abeba nel recinto del Consigliere d’Ambasciata; un altro l’ho visto impagliato nel museo etnografico di Addis Abeba. I babbuini gelada li abbiamo visti soprattutto sulle piste lontano dai parchi, come le scimmiette sugli alberi del giardino o sul balcone della stanza degli hotel. Invece nei parchi, oltre a qualche babbuino, quando è andata bene abbiamo visto qualche dik dik, gazzelle, zebre, e poi scoiattoli, in un caso enormi struzzi alti due metri dalle uova dure come palle da football, e qualche avvoltoio volante in cerchio attorno alle sue carogne: basta. Ma sembra che in Etiopia funzioni così: di tanto in tanto il governo fa recintare un vastissimo appezzamento di terreno, fa costruire un paio di baracche, assolda qualche dipendente e qualche guardia armata, stabilisce i prezzi di ingresso, chiede un finanziamento estero, fa scrivere “Parco naturale” e quello, in modo del tutto arbitrario, diventa un parco naturale. Ma intanto, che ne è delle popolazioni che, come i Mursi, vivevano in quelle zone? Non è, come dicono le guide, che “i Mursi vivono nel Parco”: in realtà, sarebbe meglio dire che il Parco è andato a vivere fra i Mursi con tutte le sue recinzioni. E i Mursi, nel Parco, sono diventati immediatamente una specie endemica come quel tale lupo e quella tale iena. La costituzione etiopica (articoli 40 e 45) prevede ovunque il riconoscimento dei diritti di pascolo e transumanza. Ma in realtà i diritti sul territorio sono stati sempre

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disattesi e mai applicati, sempre negletti e calpestati in nome del turismo che peraltro ancora scarseggia. Così i Mursi, non potendo più attraversare liberamente con le mandrie i territori ormai recintati, hanno di fatto quasi abbandonato la pastorizia. Hanno allora incrementato l’agricoltura sulle rive dell’Omo, ma le spaventose alluvioni che regolarmente causano centinaia di vittime e di sfollati li hanno disamorati anche dall’agricoltura. I Mursi, dunque, non lavorano quasi più: non praticano il commercio, sono lontanissimi dagli industriosi Borana e dai Konso, e sempre meno praticano l’agricoltura e la pastorizia. E allora? Allora stanno praticamente tutto il giorno nei loro villaggi pigri e sfaccendati all’ombra dei sicomori, al massimo lasciando ai bambini il compito di curare gli armenti. La loro stessa “lotta dei bastoni”, che abbiamo descritta, sembra diventata solo più uno sfogo di aggressività repressa. La loro sola occupazione sembra ormai l’attesa pigra e indolente dello straniero, del bianco, del turista, del ferengj da cui farsi fare le foto a pagamento e a cui vendere qualche paccottiglia. I Mursi, visibilmente, vivono aspettando l’arrivo del turista che li fotografa: per loro questo è, se non più redditizio, certamente meno faticoso del coltivare le sponde dell’Omo o del pascolare gli armenti. Fino a poco fa, i Mursi − uomini e bambini − erano dediti al furto nei confronti dello straniero a cui rubavano macchine fotografiche e orologi, scappando poi nella boscaglia. Poi evidentemente le autorità sono intervenute minacciando sanzioni, la più grave e convincente delle quali sarà certamente stata la minaccia di proibire l’ingresso dei ferengj nei loro villaggi, e così i Mursi hanno dovuto accontentarsi non delle macchine fotografiche ma della richiesta di foto a pagamento e della vendita delle paccottiglie. Né la cosa riguarda peraltro solo i Mursi. Ormai, tu vai per una pista desolata dell’Africa e ad un certo punto vedi che da un vicino villaggio arrivano di corsa uomini, donne e bambini tutti trafelati e imbellettati. In realtà, come sappiamo, in queste società le persone normalmente si dipingono il corpo in occasioni particolari, cerimoniali e rituali: queste pitture sul corpo erano un tempo, un tempo ancora recente, pitture fatte in occasioni particolari come matrimoni, feste, guerre, funerali etc. Ma ormai non è più così: essi si conciano così per te, per avere qualche birr. E veramente, sembra di andare al circo. Con i Mursi in particolare la cosa è diventata estenuante. Tu vai ai loro sperduti villaggi, ed essi − uomini, donne, bambini − ti si fanno incontro assillanti e soffocanti, conciati nei modi più strani, seminudi, il corpo interamente dipinto nelle fogge più varie. Ti si affollano intorno, circondano l’auto, la scuotono quasi volessero rovesciarla, se scendi ti tirano di qui e di là, chiedono di essere fotografati e poi esigono i soldi per la foto, cercano di venderti di tutto − loro, che quasi mai ho visto al mercato con le altre etnie. Si ha

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l’impressione che, se la cosa non degenera, è soltanto per la presenza della guardia armata il cui accompagnamento viene imposto ai ferengj, e per la loro consapevolezza di non dover urtare le autorità costituite che tengono molto alla immagine e alla moneta di cui il ferengj è portatore. Il rapporto appare esclusivamente mercantilistico: con grande insistenza ti chiedono la foto a pagamento, donde la necessità di conciarsi nel modo più vistoso possibile in modo da essere prescelti per la foto. Alcuni dicono che poi, se si riesce ad entrare in un contatto un po’ più autentico, essi si rivelano simpatici, alla mano, dotati di senso dell’umorismo. Non lo nego, ma la realtà non cambia. I Mursi evidentemente hanno dimenticato tutto delle loro tradizioni, per le quali la decorazione del corpo è qualcosa di cerimoniale e di rituale, e per qualche birr accondiscendono al turista che nemmeno si rende conto del suo ruolo perturbante e distruttivo. Secondo la loro tradizione, mai le donne dovrebbero togliersi il piattello labiale in presenza dell’estraneo e invece queste donne, del tutto dimentiche di ciò, mostrano orrende e oscene a chiunque labbra prive di piattello pendenti dal mento e orribilmente deformate. Davvero, è stata pessima la mia impressione di questo popolo e questa impressione negativa è da molti condivisa: i Mursi mi sono veramente apparsi come un popolo degenerato e dimentico di sé, della sua storia e del suo passato. Invece non posso dire la stessa cosa dei Borana, degli Hamer, dei Konso, per quanto anche questi ultimi non siano sempre alieni da certi comportamenti: in loro vedo la vita attiva, la fatica quotidiana, il lavoro, che pur mai nega il tempo della festa.44 Soffermiamoci un poco sulla questione delle foto a pagamento, perché la cosa è significativa. Per cogliere la paradossalità della cosa, si deve partire da una constatazione: tranne i bambini che vi si divertono, e forse alcune ragazze giovani che si sentono lusingate nella loro vanità femminile, in genere queste popolazioni non amano essere fotografate. Essi dicono che il mezzo meccanico ruba la loro immagine e con essa anche la loro anima. Già il Frazer aveva raccolto molte notizie a questo riguardo, su popolazioni che non amano e spesso non tollerano non solo la ripresa fotografica ma più in generale qualsiasi ritratto fatto a mano e nemmeno la 44

Già Levy-Bruhl, sulla base di numerose testimonianze e relazioni, notava l’avidità di doni e di denaro dell’indigeno che sempre chiede anche quando è lui il beneficiato (ad esempio per cure mediche somministrate), e la spiegava con il fatto che egli si ritenesse debitore per il fatto di accettare cure e vitto dai bianchi con ciò venendo meno alle proprie usanze entrando in quelle altrui (La mentalità primitiva, cit., pp. 417-424). Ma è evidente che da allora c’è stato un ulteriore degrado nel comportamento di chi sempre chiede.

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propria immagine riflessa nello specchio o nelle acque45: egli parla di varie popolazioni ove gli uomini «mostravano un vero orrore e si andavano a nascondere appena gli si dirigeva contro la lente della macchina fotografica o, come essi la chiamavano, “l’occhio maligno della scatola”. Credevano che insieme al ritratto si prendesse loro anche l’anima mettendola in potere del possessore del ritratto per farci sopra degli incantesimi»46. In realtà il Frazer − come spesso gli avviene − degrada troppo semplicisticamente le notizie etnografiche da lui raccolte a dimostrazioni di rozze superstizioni di menti puerili e ottuse, perché in realtà dietro le credenze del “selvaggio” vi sono ragioni del tutto plausibili: giustamente Sartre diceva in L’être et le néant che lo sguardo altrui, l’occhio altrui, è invadente e intrusivo, e ancor più può esserlo l’occhio meccanico della macchina fotografica o della cinepresa. Inoltre, e comprensibilmente, queste persone si sentono degradate ad oggetto esotico quando qualcuno le fotografa: si sentono evidentemente come un fenicottero o uno struzzo o un qualsiasi animale esotico che il turista fotografa in un parco naturale. Così, quando io ho cercato di fotografare alcune ragazze konso, esse immediatamente si sono voltate intimidite nascondendo il volto, pregandomi di non farlo: se fate una foto senza permesso a queste persone, rischiate di essere insultati o anche presi a sassate. La reazione può sembrare abnorme, ma in parte comprensibile. Provate a mettervi nei panni di queste persone: voi state nel vostro paese o nella vostra città, state seduti o parlate con un amico o passeggiate senza far nulla, e un estraneo scende da un macchinone, vi fissa, vi guarda, vi inquadra e vi fotografa o vi riprende con la cinepresa. Come reagireste? Forse non col lancio di sassi, forse non pensereste che vi sta rubando l’anima, ma probabilmente ne sareste quantomeno seccati, e vi direste (e direste all’intruso) che cosa diavolo voglia da voi. Tuttavia, ecco l’aspetto paradossale della cosa: ormai con l’impatto della modernità le cose sono cambiate e, ammesso che la fotografia rubi l’anima della persona, ciononostante, chiedendo il permesso, quasi tutte queste persone accettano che si rubi la loro anima purché in cambio si dia loro qualche birr. Anzi, essi si mettono preventivamente in posa, richiedono insistentemente che li si fotografi, arrivano dai villaggi già tutti truccati da selvaggi e colorati in ocra rossa (il colore del sangue vitale) per farsi fotografare, si accapigliano fra di loro per la precedenza e per questo fra l’altro, naturalmente, le foto non vengono affatto spontanee. Si noti bene che, almeno per quanto mi riguarda, tranne qualche circostanza non sono 45 46

J. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 301-303. Ivi, p. 303.

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quasi mai stato io a chiedere di fare le foto, nel qual caso può anche essere comprensibile una richiesta di denaro in cambio di un favore che tu hai chiesto e ti è stato concesso. No, sono loro che chiedono insistentemente la foto che, si potrebbe dire, veramente ruba la loro anima, e sono loro che poi esigono il denaro per qualcosa che essi stessi hanno chiesto. Non si risponda che la povertà costringe a ciò, perché un birr elargito solo di tanto in tanto (il turismo in Etiopia non è ancora molto diffuso) non cambia la vita di queste persone, che per il sostentamento volenti o nolenti devono ancora rifarsi alla pastorizia o all’agricoltura. E poi, come fare queste foto? Un esempio. Fotografo una ragazza borana, ma d’istinto penso che la foto venga “rovinata” se la ragazza nel suo abito tradizionale tiene in mano una tanica vuota e per questo le chiedo di metterla da parte. Ma subito dopo aver fatto la foto ci ripenso e mi dico: ma perché? E la risposta è presto data, impietosa: perché la tanica vuota è un’immagine moderna e rovina l’immagine “pittoresca” del selvaggio e del primitivo, che anche inconsciamente si ha nella testa. Senonché quando vedo che la capiente e pesante tanica contiene l’acqua, quando penso alla cronica mancanza d’acqua delle terre borana e ai chilometri che questa persona ha fatto per andare alla sorgente, e quando vedo le bambine che a più riprese mi chiedono per strada non i birr e nemmeno l’acqua bensì le mie bottiglie di plastica vuote d’acqua, e capisco che il problema non è soltanto trovare la preziosa acqua ma anche metterla da qualche parte, allora vada pure al diavolo la mia immagine pittoresca con la ragazza senza tanica. La ragazza con la tanica, in realtà, definisce assai meglio la situazione. Per quanto mi riguarda, io ho smesso molto presto di fare foto alle persone (in questo libro sono poche le mie foto alle persone). Ma c’è un businnes del libro patinato sui selvaggi. Di tanto in tanto fra queste popolazioni arriva qualche donna occidentale, molto elegante in Land Rover. Fa splendide fotografie e riprese degli uomini nudi, accuratamente scegliendo i più belli e prestanti e indugiando con la cinepresa e la macchina fotografica sui loro corpi ben torniti, e poi ne viene uno splendido libro fotografico ove l’occidente ricco e consumista mostra la sua nostalgia per la vita selvaggia che ha dovuto sacrificare alla civilizzazione. Ma in realtà questi libri fotografici (sebbene alcuni siano effettivamente splendidi e davvero unici come nel caso della Riefensthal) non dovrebbero ingannare: queste popolazioni non sono così seducenti come certe immagini potrebbero indurre a pensare. Quando si vedono queste foto patinate, foto di alta professionalità che io mai sarei in grado di fare, dobbiamo sapere che tutto è edulcorato, smorzato e infine cancellato. Lévi-Strauss, al riguardo, parlava di come gli autori dei libri fotografici sui selvaggi cercassero di darne l’immagine più primitiva possibile,

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quasi essi fossero in tutto incontaminati dalla civiltà, tranne poi tradirsi per un particolare sfuggito della foto che rivelava «les bidons rouillés où cette humanité vierge fait sa popote», «i bidoni arrugginiti in cui questa umanità vergine fa il suo pasto»47. In effetti, quando vedi una foto della “bella abissina” con la tanica d’acqua, tu non riesci sul momento a pensare che questa ragazza ha camminato ore per andare a prendere quel po’ d’acqua. Quando vedi una splendida foto che mostra il lavoro dei campi, tu non vedi che questi uomini faticano come bestie con gli stessi aratri del neolitico: ti sembra tutto bello, bucolico, naif e vorresti mettere la Pastorale di Beethoven, rileggere le Bucoliche di Virgilio e dire “anch’io, anch’io!”. In queste foto, tu non vedi la cacca degli animali per terra, le punture continue e insopportabili degli insetti, il calore cocente, l’afa a quaranta e più gradi che rallenta il respiro e il tuo passo, appesantisce le tue gambe, annebbia la vista, accelera i battiti del cuore, non vedi la sporcizia, il fango, il sudore, gli odori, la fatica. In realtà il punto è che indubitabilmente, e naturalmente, già l’occhio dell’osservatore impregnato di modernità, con il suo stesso semplice guardare, altera la vita dell’osservato: come in meccanica quantistica, anche qui l’occhio dell’osservatore pur nel suo volersi esterno perturba il fenomeno osservato. Alberto Moravia che, sia pur solo come turista, ha viaggiato moltissimo e ha scritto apprezzabili resoconti di viaggio, lo ha detto con lucidità parlando (nel 1979) di una tribù kenyota prossima alla sparizione: ormai − egli disse allora, e tanto più la cosa è vera ora − vi è un’«industria turistica che si dedica allo sfruttamento della cosiddetta primitività. Le grandi agenzie turistiche ormai spediscono migliaia di viaggiatori occidentali a guardare e, beninteso, a fotografare, le tribù ancora “africane”. Ma questo consumo della primitività come spettacolo contiene dentro se stesso la propria fine, in quanto, distruggendo l’isolamento della tribù, ne distrugge anche il primitivismo». Infatti «il gruppo etnico che viene trasformato in merce e consumato si trova nella strana, pirandelliana situazione di recitare la propria vita nel momento stesso che la sta vivendo»: «gli Elmolo, a cui la nostra troupe cinematografica paga una certa somma di denaro ogni giorno affinché si lascino fotografare mentre vivono la loro vita quotidiana, sono in fondo ormai degli attori»; essi vivono «dando spettacolo della propria vita», e «alla fine non potranno non risentire come irreale questa loro esistenza pur così

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C. Lévi-Strauss, Tristes tropiques, cit., p. 40.

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reale nella sua povertà e difficoltà»48. Autorità, tour operator, albergatori, guardie, scouts, guide spesso improvvisate, uomini, donne, bambini nei villaggi, tutti traggono profitto dall’industria del selvaggio, che quindi a questo punto se vuole guadagnare deve fare veramente il selvaggio. L’“industria del selvaggio”, insomma, coinvolge in primo luogo ed attivamente il “selvaggio” stesso che con impegno recita e “fa” il selvaggio. Tu paghi, e in primo luogo è lo stesso “selvaggio” a fare la sua recita. Molte tribù fanno pagare una tassa d’ingresso nei loro villaggi e tu paghi per entrare in un villaggio fra quattro capanne; paghi perfino (e qui è lo Stato che ci guadagna) per entrare in una cittadina (Turmi) che è in una “zona strategica” della Valle Omo ma dove non c’è nulla di particolare tranne una misera locanda per dormire e dove comunque devi passare per forza perché è sulla strada; paghi per vedere una danza anche non espressamente allestita per te, paghi per assistere ad una cerimonia, paghi e paghi sempre, come in quelle vecchie trattorie di Trastevere a Roma in cui non la finisci più di pagare perché paghi la cena, paghi la fioraia con le rose, paghi quello che fa la schitarrata, paghi quello che canta, paghi il mendicante che si intrufola, paghi e paghi sempre. Ma il selvaggio spesso recita la sua parte non solo di fronte all’inesperto turista, bensì anche di fronte all’etnologo a cui spesso racconta quello che vuole o quello che l’etnologo vuole sentirsi dire. Come diceva Bertrand Russell, il selvaggio è «una persona molto accomodante, che fa di tutto per favorire le teorie degli antropologi». Al riguardo ho trovato una bella vignetta in un testo di storia dell’antropologia: rappresenta dei “selvaggi”, fino a poco prima intenti a guardare la televisione, che trafelati e in tutta fretta fanno sparire tutti i segni della modernità, a partire dal televisore, non appena si profila all’orizzonte la buffa sagoma dell’etnologo con il cappellino e il binocolo. Quanti altri popoli stanno facendo la fine dei Mursi? In realtà, tanti, troppi e starei per dire quasi tutti. In Etiopia abbiamo visto in molte genti di altre popolazioni lo stesso modo di fare e di vivere. Il turismo certo, per quanto ancora limitato in Etiopia, ha alterato e corrotto non poco il sistema di vita di queste popolazioni, fiaccandone l’orgoglio. E altrove non è da meno, anzi è anche peggio. In Kenya ad esempio i Masai, fieri e orgogliosi guerrieri che a suo tempo rifiutarono di riconoscere il dominio inglese combattendolo coraggiosamente, sembrano aver perso ogni dignità e sono ormai diventati l’ombra di se stessi: penose comparse che non ap48

A. Moravia, Una tribù consumata dai turisti, 1979, ora in Viaggi. Articoli 19301990, Milano 1994, Bompiani, pp. 1515-1516.

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pena vedono un turista gli si affollano intorno soffocanti per vender loro paccottiglie, per fare danze a pagamento, per farsi fare foto a pagamento, per chiedere loro money, t-shirt, penne e quant’altro. In generale questi popoli appaiono oggi in uno stato di evidente corruzione e degenerazione, «ridotti a sbandati straccioni o comparse esotiche»49. Non siamo più ai tempi di Livingstone, e queste popolazioni stanno perdendo tutte le loro fiere caratteristiche: gli animali feroci da cacciare mettendo in mostra tutto il proprio valore, come leoni ed elefanti, non ci sono quasi più e comunque ne è proibita l’uccisione. Il nemico da uccidere con onore nella razzia e nella guerra, il cui trofeo portato nel villaggio accresce il prestigio nella tribù e la considerazione della ragazza che si desidera, sta scomparendo per i controlli del governo centrale. In ogni caso i nemici ormai non si uccidono più in un duro combattimento frontale, bensì da lontano con i kalashnikov dei bianchi comprati al mercato ed esibiti e portati a spalla. Le decorazioni sono sempre meno il segno tangibile di una prova superata, e sempre più un mero e vanitoso ornamento estetico. I nomadi dediti alla pastorizia, volenti o nolenti, si sedentarizzano adattandosi all’odiata agricoltura che richiede duro lavoro e non consente più di guardare il cielo per ore mentre si custodiscono gli armenti. Adulti e ancor più bambini, con grande avidità e senza alcun ritegno, rubano e chiedono l’elemosina. Le celebrazioni rituali e le danze sono sempre più finte rappresentazioni, spettacoli a pagamento inscenati per i turisti privi di un vero significato religioso o sociale. Non solo i bambini ma anche gli adulti konso, nei loro bugigattoli, non riscono a fare di più che vendere pseudo statuette waga. L’antica cultura è sempre più dimenticata: le popolazioni hanno adottato la religione islamica o cristiana; molte popolazioni eritree hanno dimenticato la loro lingua e parlano ormai l’arabo o il tigrino; i racconti, le leggende tradizionali, gli antichi miti cosmogonici sono ormai dimenticati, ricordati solo più da qualche anziano del villaggio che preferisce non parlarne, i nomi degli antenati sono ormai dimenticati. Tuttavia, pur con tutto ciò, ci si deve domandare infine se il rapido mutamento attraversato da queste popolazioni dette tradizionali abbia solo ed unicamente risvolti negativi. Quando ad esempio Moravia dice che l’impatto della modernità «distruggendo l’isolamento della tribù, ne distrugge anche il primitivismo», io vedo nella sua amarezza di fondo anche una nostalgia, un fascino dell’altrove e del primitivo, il cui nucleo incontaminato e primigenio viene stravolto dal contatto con la civiltà occidenta49

G. Celati, Avventure in Africa, cit., pp. 162-163.

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le. E l’antropologo Lévi-Strauss denuncia nella violenza dell’occidente la sola responsabile della distruzione di queste culture. Ma, in realtà ci si può chiedere: è veramente tutta e solo colpa nostra? È tutta imputabile a noi la rovina di queste culture? Anziché dire che l’uomo bianco ha corrotto queste popolazioni, non è altrettanto lecito rilevare che in molti casi queste popolazioni si sono fatte corrompere dall’uomo bianco? In realtà, come abbiamo mostrato, il processo di decadimento di molti fra i popoli tradizionali è spesso un processo secolare di gran lunga antecedente all’arrivo devastante dell’uomo bianco. Moravia avrebbe desiderato vedere queste popolazioni per sempre primitive, selvagge, pure e incontaminate e invece vede con rammarico che esse cambiano. Egli vede gli aspetti deprecabili di questo cambiamento, ma ci si domanda: il mutamento, il cambiare dei popoli, è sempre negativo? In realtà nessuna cultura è completamente chiusa in se stessa in una sua purezza incontaminata e ogni cultura − per quanto autarchica − è comunque esposta al contatto con altre culture e tale contatto, anche quando, avvenendo con culture più forti, si manifesta nei suoi aspetti più deleteri e più destrutturanti, non è sempre e solo negativo. Al riguardo Leiris, che pur denunciò con veemenza i soprusi del colonialismo, disse chiaramente (e, ci sembra, nel modo più lontano da certa nostalgia decadente ed estetizzante ravvisabile in Lévi-Strauss) che la tutela delle popolazioni tradizionali non va confusa con la loro conservazione, «come fanno molti etnografi che sperano di vedere le culture di cui si sono occupati trasformarsi il meno possibile, per continuare − verrebbe quasi da sospettare − a studiarle o a dilettarsi con il loro spettacolo»50. In effetti le culture, anche quando sembrano immobili o mobili solo al rallentatore, sono sempre realtà vive e dinamiche in trasformazione (non dico necessariamente in progresso), cosicché la volontà di conservarle tali e quali in nome di un malinteso fascino dell’esotico e del primitivo, quasi fossero specie in estinzione da imbalsamare nei musei o da mettere in naftalina sotto una campana di vetro, equivale a pietrificarle e a ucciderle vieppiù, per cui nonostante il rischio reale di una perdita dell’identità e della tradizione ben vengano infine le trasformazioni, ben venga la diffusione dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria, ben venga la diffusione del nero colto e laureato rispetto al nero vestito di pelle di capra, perché le culture cambiano comunque e la tradizione non può diventare qualcosa di fisso e atemporale che blocca qualsiasi divenire solo perché percepito come pericoloso. 50

M. Leiris, L’etnografo di fronte al colonialismo, in L’occhio dell’etnografo, cit., p. 118.

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Praticamente nessuno dei popoli della Valle Omo da me conosciuti vive oggi alla maniera puramente “selvaggia”, ma in questo io vedo anche un aspetto positivo. I Borana ad esempio sono un popolo alacre e industrioso che, vivendo nei pressi dell’arteria per il Kenya, non può dirsi isolato: essi portano abiti dai colori sgargianti e anche raffinati, sono ormai islamizzati e vivono non solo nei tukul nei villaggi ma anche nella cittadina di Dublock. In questa cittadina v’è una scuola e vi sono chiese ortodosse, mentre nel villaggio di El Sod v’è una moschea; alcuni uomini lavorano per strada con vecchie macchine da cucire, i ragazzi giocano per strada a calciobalilla (cosa stupefacente che di colpo ti riporta alla tua infanzia), e tutti vivono non più in capanne ma in case fatte di fango e argilla o anche in pietra. I pochi pozzi che ancora scavano non li scavano più con le nude mani, ma con manodopera e macchinari finanziati con fondi governativi e internazionali. Ma tuttto questo è forse un male? Certo, spariranno quei canti straordinari di lavoro, ma io non riesco a credere che sia negativa la possibilità di un lavoro meno duro, non riesco a credere che la scuola di Dublock abbia effetti negativi sui bambini che imparano a leggere e a scrivere, e nemmeno credo che la moschea o la chiesa ortodossa del villaggio siano soltanto luoghi di perdita della propria identità “animistica”. L’identità non è qualcosa di fisso e di immutabile, di astorico. Moravia va a cercare i primitivi e si dispiace di non trovarli abbastanza primitivi perché noi li abbiamo guastati e rovinati. Io invece non mi dispiaccio molto del fatto che queste persone siano meno primitive, e che non abitino più solo nelle capanne, perché i segni sempre più incipienti della modernità non mi appaiono soltanto negativi. Dirò di più. Io alla fine non riesco più a scandalizzarmi se queste tribù e queste persone si fanno pagare per farsi vedere. Alla fin fine loro dicono: volete venire con i vostri macchinoni a vederci, a fotografarci e a riprenderci con le cineprese e le videocamere, volete venire a vedere gli esotici selvaggi e a perturbare la nostra vita? Va bene, venite pure, ma dateci dei soldi perché noi siamo poveri e ne abbiamo bisogno. Il ragionamento non fa una grinza. Se io pago una cinquantina di birr (che poi equivalgono a pochi euro) per entrare in un villaggio konso o mursi, se paghiamo 250 birr per assistere alla raccolta dell’acqua dei Borana, non lo trovo scandaloso, non trovo che queste persone stiano vergognosamente mercanteggiando la loro vita: semplicemente, un contributo di 50 o di 250 birr può servire al villaggio, ed io sono ben lieto se questi birr servono a qualcosa. Il problema non è in sé il dare o il non dare i birr ma come e a chi li si dà: un conto è darli al bambino rompiscatole, ancor peggio è doverli dare all’erario etiopico per entrare in una cittadina nella Valle Omo, ma un altro conto è darli come tassa d’ingresso all’anziano del villaggio che ne fa uso per la comunità. Certo

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l’aspetto mercantile può falsare e snaturare i rapporti e può perfino condurre un popolo ad una sorta di degradazione, come mi è apparso evidente nel caso dei Mursi. Ma la cosa grave non è il pedaggio, quanto piuttosto che la realtà venga del tutto snaturata da questo aspetto mercantilistico: una danza inscenata a pagamento può risultare fiacca, falsa, priva di mordente, ma se tu pagando qualcosa assisti alla raccolta dell’acqua dei Borana, vedi che essi stanno lavorando e faticando, vedi che ciò che fanno lo farebbero tale e quale anche senza di te, ed anzi lo stavano già facendo prima che tu arrivassi e dunque in ciò non v’è nulla di falso. La modernità è evidentemente, per questi popoli, un’arma a doppio taglio e tuttavia non dovremmo vedere, di quest’arma, solo il lato che per essi risulta autolesionistico. Mi domando ad esempio se non sia stato un bene la proibizione del governo inglese dell’usanza del rogo delle vedove e dei servitori in India, usanza spesso attuata con la forza. O più semplicemente: è un male che si cerchi di estirpare la clitoridectomia e l’infibulazione femminile, che ogni anno in Africa causa dolorosissime amputazioni e la morte (se son veritiere le cifre) di migliaia di bambine? Alcuni in modo piuttosto cinico dicono: lasciate loro i loro riti arcaici, lasciamoli nel loro brodo, sono affari loro. Altri in accezione più colta come Lévi-Strauss dicono che nessuna autorità è legittimata a rendere illegali queste pratiche, che noi non dobbiamo intrometterci e dobbiamo rispettare le loro usanze: egli auspica il rispetto delle culture, in parte per uno sguardo decadente e venato di nostalgia per il primitivo ma soprattutto nella convinzione che compito dell’antropologo è conoscere e capire e non giudicare e condannare né tantomeno intervenire in queste culture per “migliorarle” perché comunque «aucune société n’est parfaite» e tutte sono caratterizzate da «une certaine dose d’injustice, d’insensibilité, de cruauté»51: egli esemplifica dicendo che un selvaggio potrebbe vedere in una operazione di dissezione anatomica la stessa orribile profanazione del cadavere che noi vediamo in certe antiche pratiche di antropofagia52. Così, considerando il caso della clitoridectomia e dell’infibulazione femminile con le sue dolorose amputazioni spesso letali, si prende atto che imponendo ex lege l’abolizione di questa pratica, come fa il governo in Egitto, l’imposizione rimane inascoltata e inefficace. Però che c’è di male se, parlando con i nativi, qualcuno cerca di dire loro ciò che essi non sanno, e cioè che le tante bambine che muoiono in realtà muoiono, prima ancora che per la malevolenza dei cattivi spiriti, perché l’operazione effettuata con lo stesso coltello sporco e 51 52

C. Lévi-Strauss, Tristes tropiques, cit., p. 446. Ivi, p. 447.

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insanguinato su decine di persone causa la setticemia? Che c’è di male se si dice loro che, se proprio tengono ad esercitare sulle bambine il loro rito arcaico, quantomeno lo facciano lavando i coltelli e cambiandoli sempre? Che c’è di male se, come a Jinka, degli antropologi si trovano con i nativi e, discutendo apertamente della cosa, senza interferire né giudicare, lasciano implicitamente cadere un seme, il prezioso seme del dubbio nei confronti dell’assoluto rispetto delle antiche tradizioni? Io in questo atteggiamento, che col tempo potrà modificare certe abitudini salvando migliaia di vittime innocenti, non vedo nulla di male, né tantomeno vi scorgo qualcosa di deprecabilmente colonialistico o razzista. È destino comunque che questi popoli cambino e si trasformino: di fatto stanno già cambiando, e questo mutamento non sarà solo in negativo. Ormai in Africa un numero sempre crescente di persone lavora nelle città, diventa funzionario governativo, impiegato statale o che altro: di conseguenza la vecchia struttura sociale del villaggio cede, l’autorità dei vecchi capi si dissolve, nasce un nuovo individualismo, vecchi legami si allentano, molte donne urbanizzate si sposano con chi vogliono senza che i loro genitori vengano indennizzati con mandrie di buoi. Indubbiamente una struttura tradizionale si dissolve, ma il processo sembra irreversibile per cui, anziché rimpiangere i “bei selvaggi” passati, forse è meglio vedere anche i lati positivi di questo processo pur senza negarne gli scompensi e i traumi. Se vogliamo avere idea di come il mondo moderno in realtà attragga queste persone, bisogna guardare con attenzione gli oggettini che i bambini costruiscono e vendono per le strade e nei villaggi. Il più delle volte questi bambini costruiscono oggetti che rimandano alla loro vita quotidiana: ad esempio i bambini che vivono nei pressi del lago Tana nel nord dell’Etiopia costruiscono belle piccole canoe in bambù, perché la canoa fa parte della loro vita; e i bambini konso propongono ai ferengj i loro piccoli waga che non sono waga. Però gli stessi bambini konso costruiscono e vendono anche dei modellini di camion e fuoristrada, nonché modellini di televisore. Ne ho acquistati alcuni: sono oggettini delicati e fragili, fatti con sapiente incastro di piccoli pezzetti di fragile sorgo tenuti insieme con minuscole puntine da disegno. Il modellino di camion ha addirittura un montacarichi che può essere sollevato e abbassato attraverso l’uso di una cordicella; il modellino di fuoristrada reca sul tetto un minuscolo pacchetto simulante i bagagli; il modellino di televisore davvero genialmente serra al proprio interno una striscia disegnata a fumetti a colori che, avvolta a due minuscoli bastoncini alle estremità, ruotando uno dei bastoncini scorre mostrando il “filmato”. Sono rimasto ammirato dalla intelligenza pratica, dalla grande abilità costruttiva e creatività mostrata da questi ragazzi: questi mo-

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dellini sembrano veramente i modellini di auto che alcuni collezionano in occidente, solo che sono fatti in sorgo e non raffigurano Ferrari o Porsche ma camion e fuoristrada. E, riflettendo, capisco anche perché questi bambini, nel momento in cui costruiscono un oggettino per venderlo ai ferengj, costruiscono proprio quell’oggettino e non un altro. Questi bambini, per lo più pastori che sembrano abbandonati a se stessi, stanno tutto il giorno, almeno quando le scuole sono chiuse, non al loro villaggio bensì lungo le polverose e interminabili piste africane. Essi stanno lì per sfuggire alla monotonia della vita del loro villaggio e per vendere i loro oggettini: la strada, la pista è per loro il luogo di passaggio della modernità, è una finestra sul mondo moderno che essi guardano incantati e affascinati o perlomeno incuriositi. Sulle piste africane, per l’appunto, passano ogni giorno molti camion, anche decine di camion: e i bambini, la cui immaginazione è colpita dal passaggio di questi mostri moderni, una volta a casa ne fanno il modellino. Parimenti, sulle piste africane passano i ferengj che guadano i fiumi con i loro potenti fuoristrada: allora i bambini salutano, urlano, chiedono di tutto, corrono dietro all’auto e a volte (in particolare i bambini konso) improvvisano canti, danze (divertentissima la danza della rana) e scenette di vario genere (li ho visti perfino camminare in posa su alti trampoli). Poi, tornati a casa, essi costruiscono con pazienza e abilità il modellino del fuoristrada che li ha tanto colpiti. Poi costruiscono il modellino del televisore, perché ormai anche i più modesti alberghetti africani hanno un televisore collettivo (che tutti guardano insieme come da noi in anni lontani) ed essi sono non solo affascinati da questo simbolo della modernità, ma anche vogliono cercare di capirne il funzionamento e così “smontano” idealmente il loro televisorino e, a differenza dei bambini che rompono i giocattoli per vedere cone sono fatti dentro, poi lo ricompongono inserendovi un vero e proprio filmato, in tal modo mostrando di aver capito, se non le connessioni elettromagnetiche della cosa, comunque il principio base dello scorrimento cinematografico dell’immagine. Insomma, il camion, il fuoristrada, il televisore fanno ormai parte per questi bambini della loro vita quotidiana, né più né meno della canoa per i bambini del lago Tana, anche se essi a casa non posseggono alcun televisore ed anche se il padre non possiede nessun fuoristrada e nessun camion. Quindi la questione è che ormai queste popolazioni sono fin dall’infanzia di fatto inserite nella modernità, per quanto la loro cultura originaria ne sia lontana, e in tutto questo non dovremmo vedere soltanto una deprecabile perdita dell’identità e la fine di quell’immagine del selvaggio che ci piace tanto. Un mix micidiale di arcaismo e modernità contraddistingue ormai il terzo mondo: nel villaggio tribale vedi fra le capanne l’uomo che

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ascolta il transistor e il bambino ignudo che guarda il tuo cellulare con occhi estasiati (e se può te lo ruba); per le piste impolverate vedi il pastore che fa la guardia agli armenti non con la lancia ma col kalashnikov; altrove conosci il capo konso che sacrifica la capra e sposa una donna impostagli dal padre ma ha un sito Internet e parla un perfetto inglese che io mi sogno; nella Omo Valley vedi un giovane “selvaggio” che procede ignudo e acclamato dalle donne del villaggio al luogo ove compirà il “salto del toro” non su un puledro bensì in piedi sul cassone posteriore scoperto di un Toyota fuoristrada guidato da un amico. Il selvaggio di Frazer, di Tylor, di LevyBruhl, il selvaggio incontrato dal giovane Darwin nella Terra del Fuoco non lo trovi più da nessuna parte, nemmeno negli angoli più sperduti del pianeta: ovunque invece trovi questo micidiale miscuglio. Ad Addis Abeba campeggia enorme sui muri una straordinaria pubblicità, che ogni volta guardo incantato: è la foto in gigantografia che rappresenta due “selvaggi” seminudi, un uomo armato di lancia e una donna col piattello labiale che armeggiano di fronte ad un sofisticato computer dell’ultima generazione. E magari in vicinanza passa una donna islamica velata ma il cui lungo vestito nero lascia intravedere tacchi a spillo, jeans alla moda, unghie laccate. Ora, ciò che avviene nella capitale avviene, sia pur naturalmente in misura minore e in tempi più lunghi, anche altrove. Nella realtà avviene così: sono pochi gli integralisti che rifiutano in toto il mondo occidentale moderno ma sono anche pochi quelli che lo accettano senza riserve. I più contaminano in modo incredibile, e spesso a suo modo affascinante, due culture totalmente diverse che sembrerebbero incompatibili e incommensurabili: quella occidentale o semplicemente moderna che proviene loro dall’esterno e quella loro propria, antica e tradizionale. Da un lato è indubbiamente una situazione patogena e schizofrenica, ma dall’altro è per questa gente il solo modo per cominciare a cambiare senza buttare a mare tutta la propria storia. Dunque avviene così, che il funzionario di villaggio dopo le scartoffie va dalla fattucchiera, che per il bimbo malato si vada dalla maga ma, se c’è, non si disdegni l’antibiotico. Insomma, il cammello e l’aereo, lo stregone e l’antibiotico, in uno sconcertante e fantastico mélange, in un pastiche e un bricolage che ogni volta ti lascia incredulo e di stucco. Ritornano qui alla mente gli Appunti per un’Orestiade africana di Pasolini, che sono “appunti” per un film mai completato girato in Tanzania e in Uganda. Pasolini trasporta il mito greco di Oreste nella cultura arcaica e agricola africana, che però non è più misteriosamente lontana, aliena e misteriosa in quanto al fondo non dissimile dalla cultura della vecchia Italia rurale, distrutta come la cultura africana tribale dall’avvento della ragione propria della civiltà moderna, speculare del neocapitalismo consumistico,

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così come nel mito greco Oreste è favorito dalla nuova dea Atena e le arcaiche Furie selvagge e oscure vengono trasformate in Eumenidi inserite in un nuovo ordine. Pasolini non è qui, come spesso lo si vede, un semplice nostalgico e laudator temporis acti: egli vede la complessità dei processi africani nel loro particolare innesto di arcaico e moderno, pur temendo lo stravolgimento delle antiche culture. Per quanto mi riguarda, alla fine di questo viaggio (di questi viaggi) nel cuore arcaico dell’Etiopia devo dire di aver appreso molto. Non sono un etnologo di professione ma posso ben dire che cinque anni vissuti in Etiopia, e vari mesi passati in viaggio per il paese anche nei suoi angoli più impervi e sperduti, percorrendo oltre diecimila chilometri per le piste più accidentate, oltre ai mesi passati nell’Institute of Ethiopian Studies e nelle biblioteche dell’Istituto di Cultura italiano e francese a fare quotidiane ricerche d’archivio, per non dire dei contatti con le persone più diverse e delle centinaia di libri e documenti letti e studiati in italiano e in altre lingue, mi danno la possibilità di parlare a ragion veduta. Così, nonostante le prevedibili accuse di dilettantismo da parte dei pedanti rappresentanti della cultura accademica e universitaria, che in realtà si limitano soltanto a difendere gelosamente dagli intrusi il loro territorio di caccia né più né meno di come fa ogni onesto animale impegnato a procurarsi il pranzo nella savana e nella steppa, devo dire di considerare a tutti gli effetti queste mie pagine sui popoli tradizionali della Valle Omo e della Dancalia come un lavoro di etnologia pur se non condotto con i canoni tradizionali dai quali peraltro io prendo le distanze. Certamente questa esperienza non sempre facile e questo cambio quinquennale di continente mi hanno segnato: e questo mio viaggio attraverso l’alterità, soprattutto quando sono entrato in contatto con le culture tradizionali nella parte più arcaica del paese, è stata un’esperienza nella quale ho percepito barriere invalicabili nel contatto con questi popoli. Per quanto l’etnologia moderna − ansiosa di emendarsi dalle passate pecche razziste e coloniali − continui oggi a ripetere che occorre «abbattere le barriere fra noi e loro»53, io ho invece percepito «fra noi e loro» o (come scriveva Geertz54) fra «ici occidental» e «là-bas étranger» uno scarto irriducibile di cultura e di civiltà, una differenza di esperienza e di vissuto incolmabile che oltretutto, pur nel mio interesse sincero e nel mio sforzo di capire senza 53 54

Questa la tesi di F. Remotti, Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Torino 1990, Bollati Boringhieri. C. Geertz, Interpretazione di culture, cit.

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pregiudiziali, non sento il bisogno di colmare: nemmeno le numerose contaminationes rilevate fra arcaico e moderno hanno colmato questo scarto che anzi in certi casi hanno acuito. Comprendo come il grande antropologo Malinowki, che pur tanto ha fatto per capire le società tradizionali, vivendo per lunghi mesi ed a più riprese fra i popoli melanesiani, nel suo diario privato ed intimo (pubblicato venticinque anni dopo la sua morte), complice anche una sua profonda crisi personale ed affettiva che ne spiega l’interesse per la vita sessuale delle popolazioni da lui studiate, si lasci spesso andare ad espressioni di spaesamento, di stanchezza, di difficoltà interiore e financo a scatti intemperanti e a sconcertanti espressioni razziste, in una difficoltà esistenziale fronteggiata soltanto attraverso il continuo e salvifico richiamo calvinista al dovere del lavoro etnografico55. Lo so che al fondo l’uomo è lo stesso ovunque e che un contadino lucano degli anni cinquanta non è poi così lontano da un contadino di un villaggio africano. Ma le differenze si sentono. La coabitazione con l’altro o anche la sua sola vicinanza, soprattutto quando l’altro è molto diverso da noi, non è facile: alla fine, similis gaudet simili. Io sono un lupo solitario. Non credo di aver mai eretto barriere, come deve fare chi deve difendere una fragile identità ma, pur senza erigere barriere, ho sempre avvertito chiaramente l’esistenza di una differenza irriducibile che rende addirittura vani e retorici i discorsi di molti etnologi attuali. So che la costruzione di un’identità non fittizia deve passare attraverso il confronto con l’altro, però la “via del Sé” rimane per me prioritaria rispetto alla “via dell’Altro”. Ai fini di una «comprensione antropologica» ho cercato di mettermi non nella testa dei nativi (questo mi sembra impossibile) ma almeno − come recitava il titolo di un saggio di Geertz che riprendeva un’analoga espressione di Malinowski − «from the native’s point of view» perché solo in tal modo si può capire qualcosa, senza dimenticare tuttavia che alla fine l’occhio critico che guarda dall’esterno (lo «sguardo da lontano» di Lévi-Strauss) è non meno prezioso di qualunque ricerca di empatia. Così, tramite quella che Malinowski definiva «osservazione partecipante», io − per quanto si tratti di cose lontanissime dalla mia cultura e in particolare dal mio modo di vedere il mondo − riesco a capire che un uomo konso apprezzi sopra tutto in una donna il fatto che sappia cucinare e lavorare tanto e bene, e così capisco che in certe società può essere una necessità e una salvaguardia sociale l’obbligo di sposare la moglie del fratello defunto o la cugina incrociata, capisco che fra gli Hamer un uomo per potersi sposare deve dimostrare di saper saltare sulla 55

B. Malinowski, A Diary in the Strict Sense of the Term, 1967 (tr. it. Giornale di un antropologo, Roma 1992, Armando).

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schiena di una mandria di tori, capisco che in certe società la razzia con i suoi funesti corollari di sangue e di morte possa diventare un imperativo, capisco che in una certa cultura sia sentita come necessaria e difesa dalle stesse donne l’infibulazione di una bambina, capisco in certo modo tutto soprattutto quando tutto viene inserito nel contesto aspro e difficile di una natura avara in cui la lotta per la vita assume un’urgenza a noi sconosciuta. Capisco, o almeno credo o cerco di capire tutto ciò, ma indubbiamente alla fine non posso non sentire che, semplicemente, tutto ciò non è la mia esperienza, non è la mia vita e, pur grato dell’opportunità avuta, con questi pensieri ritorno, risalendo dalla Valle Omo «là-bas» verso gli altipiani di Addis Abeba. Non dirò veni, vidi, vici ma semplicemente: veni, vidi. Non ho trovato il Diverso, ma ho rivisto me stesso quale in parte sono e quale avrei potuto essere se, come dice Pascal, fossi nato dall’altra parte del fiume o se, come dice la sapienza esoterica, quando ancora ero nel regno delle ombre avessi scelto una diversa incarnazione.