Il mito dell’Impero. Storia delle guerre italiane in Abissinia e Etiopia

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Il mito dell’Impero. Storia delle guerre italiane in Abissinia e Etiopia

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Anthony Mockler

Il mito dell »Impero

STORIA DELLE GUERRE ITALIANE IN ABISSINIA E IN ETIOPIA RIZZOLI

A

Amthony Mockler ha compiuto gli studi a Cambridge, al Downside e al Jesus College. Ha studiato poi all’Università per stranieri a Perugia prima di iniziare la sua carriera di scrittore e di giornalista per il Times Educational Supplement e il Guardian, per conto dei quali è stato inviato speciale in Congo, Rhodesia, Vietnam e Spagna. Recentemente ha inse­ gnato alla Sorbona. Ha pubblicato i libri Mercenaries, Our Enemies the French e Francis of Assisi, the wandering Years, prima di accingersi alla stesura della grande opera di storia Haile Selassie’s War. JL

In questo volume Anthony Mockler nar­ ra gli avvenimenti politico-militari della pe­ netrazione italiana in Abissinia non tanto sullo sfondo della complessa realtà politica e sociale dell’Etiopia, quanto attraverso fat­ ti e protagonisti. Campeggiano gli eroi della resistenza etiopica, si staglia la figura di Hailé Selassié, astuta, realistica nella presa del po­ tere; si mostrano le incapacità e le borie di generali e gerarchi fascisti, la loro inettitu­ dine, che fece crollare d’un colpo un impero di carta. Quegli anni di smanie imperialistiche, quel­ la tragedia della conquista di un “posto al sole”, conseguenza della politica bellicista del fascismo, sono qui fatte rivivere dall’Au­ tore senza intenti polemicL II suo intento è presentare fatti mai troppo discussi, ricorda­ re le grandi battaglie soprattutto con la forza evocativa di chi sa cogliere non solo i lati umani dei protagonisti maggiori, ma anche le testimonianze umili, le piccole storie se­ grete che non fanno testo, ma sono parte es­ senziale di ogni avvenimento. Le fonti sono spesso diari, memoriali, esperienze dirette o riferite all’Autore dai capi stessi della guerri­ glia, da uomini politici etiopi, da persone coinvolte negli avvenimenti. Un taglio insomma che per il gusto del par­ ticolare, del pittoresco, oggi potremmo chia­ mare cinematografico, ma che affonda più ^recisamente le sue radici in una tradizione ipicamente inglese, inaugurata nel secolo .corso da W. Scott e Th. B. Macaulay. Il ettore potrà quindi cogliere, attraverso i 'ari episodi qui ricordati, gli aspetti ne­ ttivi del nazionalismo fascista, l’inaugura-

zione in Etiopia di una politica di discrimi nazione razziale ben diversa dal vecchio im­ perialismo coloniale. Si veda ad esempio co­ me nelle stragi che seguirono l’attentato a Graziani aleggiasse già l’ombra sinistra del­ l’antisemitismo e delle violenze nazifasciste. La sensibilità del lettore viene colpita da­ gli avvenimenti storici così tragici e anco­ ra così vicini a noi al di là dell’avvincente racconto d’avventure africane. Avvenimen­ ti di un Paese che, nello sforzo di uscire da un feudalesimo protrattosi anche con le responsabilità del colonialismo, sta oggi vi­ vendo i suoi momenti storici forse più vio­ lenti e drammatici. G. S.

In sovracoperta: Truppe italiane alzano la bandiera a Adua il 26 ottobre 1935. (Foto Farabola) Grafica di Enzo Aimini

V

Progetto Fascismo 2019

Collana Storica Rizzoli a cura di GIORGIO BORSA

ANTHONY MOCKLER

Il mito dell’Impero STORIA DELLE GUERRE ITALIANE IN ABISSINIA E IN ETIOPIA Versione italiana a cura di:

GIANNI SCARPA e BRUNO ODDERA

RIZZOLI EDITORE

Hanno collaborato alla traduzione: Carla Amadio, Gabriella Borghini, Anna Lucia Menghini

© 1972 by Anthony Mocklcr © 1977 Rizzoli Editore, Milano Titolo originale delfopera: The War of the Negus 1. The Return of Hailé Selassie 2.

VOLUME PRIMO

PARTE PRIMA

ADUA E L’ITALIA

CAPITOLO PRIMO

LA BATTAGLIA DI ADUA 1896

I

Cinque generali si incontrarono in cima ad un monte nel Tigrai: il gene­ rale Oreste Baratieri, Governatore dell’Eritrea, un uomo vanitoso, e i suoi quattro comandanti di brigata i generali Albertone, Arimondi, Dabormida ed Ellena. Era la sera del 28 febbraio 1896. I generali si incontrarono nella tenda del Generale. Intorno a loro sulle alture del monte Enticcio erano accampati migliaia e migliaia di soldati italiani e di ausiliari del luogo, comandati da ufficiali italiani, la più grande spedizione che l’Africa avesse mai conosciuto. Di fronte a loro si estendeva un antico Impero, un Regno Cristiano, la terra della leggenda del Prete Gianni. Di fronte a loro a circa 20 miglia, ad Adua si trovava l’esercito non solo del ras Mangascià del Tigrai, il loro vecchio nemico, ma anche quello del suo signore, l’imperatore Menelik e di tutti gli altri signori dell’Impero, gli eserciti di Scioa, Goggiam, Beghemder e Uotlo, e i co­ scritti del Sud. Finalmente si trovavano davanti l’occasione di conquistare la gloria. In questi ultimi due decenni del Diciannovesimo Secolo in tutta l’Africa le potenze d’Europa stavano spartendosi i loro Imperi; e sebbene i francesi, gli inglesi, i belgi, i tedeschi, i portoghesi e gli spagnoli avessero tutti avuto i loro impedimenti, le loro schermaglie perdute, e i loro eroici morti, tut­ tavia non era mai successo che un esercito europeo non avesse trionfato, in battaglia, sui suoi avversari africani, per quanto coraggiosi, feroci e nu­ merosi fossero stati. E per l’Italia da poco unita che, per grazia di Dio, per debolezza dell’Egitto e per gentile concessione dell’Inghilterra si era installata ai confini del Mar Rosso, questa, se mai ve ne era stata una, era l’occasione per infliggere la sua decisiva vittoria coloniale sui potentati in­ digeni; e i cinque generali lo sapevano. La vittoria avrebbe comportato un vasto Impero per l’Italia e gloria per loro; la sconfìtta era impensabile e quasi senza precedenti per un esercito europeo di tali dimensioni. Ma i generali, in particolare quelli di vecchia data, sono esseri esitanti e in molti casi piuttosto riluttanti a mettere a repentaglio il loro esercito per timore di rischiare di perdere la loro reputazione. Il generale Baratieri aveva fama di essere incline al rischio : era stato uno dei Mille di Garibaldi e un governatore di colonia di successo’. A Serobem e Agordat aveva scon­ fitto i dervisci del Sudan, con la conquista di Kassala si era assicurato il

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fianco occidentale della nuova colonia di Eritrea contro la minaccia da parte del Ralifa; ai confini a sud solo un anno prima aveva sconfitto il ras Mangascià del Tigrai sia a Coatit che a Senafè. Aveva occupato Agamé e Adigrat. Erano stati tre anni di successi, un periodo di consolazione e di glorie militari, un’epopea su scala minore. La sera di sabato 29 febbraio il corpo di spedizione italiano, rinforzato con i quattordici battaglioni inviati dall’Italia dopo il disastro di Amba Alagi per unirsi ai tre già in Eritrea, scese dalle alture dell’Enticciò. Cir­ ca sedicimila uomini e cinquantaquattro cannoni avanzavano in quattro colonne; il loro compito era di occupare alla prima luce del giorno il valico sopra la città e la pianura di Adua, possibilmente senza provocare l’allar­ me. Ogni fantaccino — e tutti fuorché un migliaio o due erano fantaccini — portava 120 cartucce, rifornimento di cibo per due giorni e due razioni di acquavite. Ciascun battaglione era seguitò da dieci muli con medicinali e munizioni di riserva, ogni batteria da sedici muli carichi di polvere e proiettili. I soldati sapevano che la marcia sarebbe stata lunga e contrasta­ ta; i loro ufficiali dovevano saperlo che, come tutte le marce notturne in un paese sconosciuto e privo di piste, si correva il rischio di perdere l’orienta­ mento. Ma il morale era alto come sempre quando a un giovane esercito sicuro di sé viene ordinato di passare all’azione dopo una snervante attesa; e anche se i soldati erano reclute inesperte, a nessuna era passata per la mente la possibilità di un disastro. « Non temere, Nina mia » aveva scritto Dabormida a sua moglie pochi giorni prima « qui non si fanno impru­ dènze »3. A nord di Adua si estendeva la valle di Mariam Scioaitù; ad est si erge una catena di alte montagne: Sc'ielloda, Semaitù, Esciascia, Erara, Abba Carimà, Gasosso — e, al centro di questa catena il monte Rayo. A nord del monte Rayo si trovava il passo di Rebbi Arienni; a sud un passo che era segnato sulla carta del capo di stato maggiore di Baratieri, colonnello Valenzano, come il passo di Ridane Meret. Ma tutti i passi si assomigliano un po’, soprattutto di notte, e tutti i nomi, per i non etiopi, sono molto simili anche di giorno. Comunque il passo di Ridane Meret era stato assegnato alla brigata eri­ trea del generale Albertone. Al generale Dabormida che comandava il 3° e il 6° reggimento (4.269 uomini e 18 cannoni) fu dato l’ordine di occupare il passo di Rebbi Arien­ ni a nord entro le 5 di mattina e il generale Arimondi (con il 1° e il 2° reggimento che comprendeva 2.793 uomini e 12 cannoni) avrebbe dovuto seguirlo da vicino. La brigata del generale Ellena (composta dal 4° e 5° reggimento: 4.341 uomini e 12 cannoni) doveva fungere da riserva. Oltre 2.000 uomini furono lasciati al campo base sul monte Enticciò da dove partivano le linee di comunicazione per l’Asmara, la capitale dell’Eritrea, e per Massaua, il suo porto sul Mar Rosso. In Etiopia fa buio verso le 18.30 e dodici ore più tardi è giorno. La notte sull’altopiano è sempre piuttosto fresca, a volte anzi decisamente fredda e verso la fine di febbraio ed i primi di marzo piove di frequente. Quella 8

notte sebbene fosse piuttosto fredda era però molto chiara. Le colonne de­ gli uomini armati di fucili con la baionetta inastata e seguite dai muli ave­ vano in coda i cannoni delle batterie che erano partite tre ore dopo il tramonto fra le 21.00 e le 22.00 a marcia serrata. Sulla sinistra Albertone e al centro, leggermente spostato indietro, Arimondi, sulla destra si tro­ vava Dabormida. Era indubbiamente una cosa piuttosto complicata far avanzare un grosso esercito attraverso il paese di notte. Tre ore dopo la mezzanotte gli uomini di Arimondi dovettero fermarsi per due ore per lasciare il passo ai guerrieri indigeni di Albertone. Le truppe indigene era­ no ovviamente più veloci di quelle composte da giovani italiani. Alle 5 di mattina il maggiore Turitto con un battaglione e il tenente Sapelli con la sua banda avevano raggiunto Ridane Meret sopra a Adua — o perlomeno stan­ do alle parole della guida che erano senz’altro esatte, si trovavano al passo di Ridane Meret; gli altri tre battaglioni con il generale ed i cannoni erano di poco più indietro. Il primo di marzo non solo era domenica ma secondo il calendario etio­ pe era anche la festa di S. Giorgio, santo patrono dell’Impero. I signori di Etiopia si erano riuniti nella chiesa di S. Gabriele prima dell’alba a sentir messa. Le porte della chiesa erano aperte. Nel momento in cui l’Abuna Matteos elevava l’ostia, si udirono due colpi di fucile — il segnale d’al­ larme. Ras Maconnen degli Harar, il cugino fidato dell’Imperatore, uscì; nel giro di pochi minuti era di ritorno per comunicare che gli italiani sta­ vano avanzando. L’Imperatore accolse la notizia piuttosto freddamente; si diresse verso l’Abuna, bisbigliò poche parole e ritornò tranquillamente al suo posto. L’Abuna alzò la croce con la mano destra e parlò con voce som­ messa, sospirando: « Figli miei, » disse, « oggi la volontà di Dio sarà fatta. Andate e difendete la vostra fede ed il vostro re. Siano perdonati tutti i vostri peccati ». I signori si alzarono e baciarono la croce, si avviarono quin­ di ai loro accampamenti. I ras Mangascià e Alula agli accampamenti degli uomini del Tigrai a nord, il ras Maconnen e il ftaurari Gabreiehu verso i loro uomini accampati sul versante sud del monte Shelloda, il ras Mikael verso la sua cavalleria di Uollo-Galla dietro la città, VUagscium Guangul e Hailù di Lasta e il jantirar Asfaù verso i giovani guerrieri dell’Uag e Lasta e Ambassel a sud, il ras Mangascià Atikim verso gli uomini di Ifrata, il ras Uule verso gli uomini di Beghemder, il degiace Besciasc, il cugino dell’Imperatore, votato alla morte, e il Liquemanquas Abate verso gli uo­ mini dell’Imperatore che provenivano da Scioa. Si dice che il Negus Teklehaimonot di Goggiam preferì restare e fare la comunione; ma l’Impe­ ratore gli ricordò che i suoi peccati erano stati perdonati e che indugiare sarebbe stato pericoloso. Menelik soltanto rimase nella chiesa di S. Gabriele. Si disse poi che nelle sue preghiere ringraziò Dio per aver persuaso gli italiani ad avanzare. Alle cinque di mattina la colonna di Dabormida che si trovava sul lato più lontano del monte Rayo raggiungeva il passo di Rebbi Arienni. Venti Ininuti più tardi l’avanguardia raggiungeva la cima e poteva osservare la valle di Mariam Scioaitù. Alle 5.30 arrivarono gli ordini del generale Ba9

ratieri: la colonna doveva completare l’accerchiamento unendosi a quella di Albertone sulla sua sinistra. Alle 6 Baratieri in persona, scortato dalla sua guardia di cavalleria con l’elmetto giallo e le piume nere di struzzo, avanzava a cavallo verso la cresta del passo con il suo capo di stato mag­ giore Valenzano e Dabormida. Ma nessuno degli ufficiali che si trovava sulla sinistra scrutando ansiosamente l’orizzonte nell’incerta luce dell’alba poteva scorgere la colonna di Albertone che a quell’ora avrebbe dovuto avanzare sull’altro fianco del monte Rayo. Erano le 6.30 quando si udì l’eco degli spari lontano sulla sinistra. Per qualche oscuro motivo, che Baratieri ed i suoi uomini non poterono mai spiegarsi, la colonna che avrebbe dovuto trovarsi sull’altra parte del monte Rayo, separata solo da un picco, era perlomeno due o tre montagne più in là. Albertone e la sua brigata, isolati, subivano un attacco: almeno que­ sto era chiaro. Dove? Dove avrebbero dovuto essere — a Ridane Meret. Dal momento che il passo di Ridane Meret era stato erroneamente segnato sullo schizzo che il colonnello Valenzano aveva fornito ai generali. Il passo si trovava a sud del monte Gasosso; il nome esatto del passo a sud del monte Rayo era Grido Endereassie. Non era la prima volta e non sarebbe stata certo l’ultima volta che le operazioni militari italiane in Etiopia erano condotte sulla base di carte geografiche approssimate, ma si sarebbe rivelata senza dubbio la più disastrosa. Al sorgere del sole dietro di loro, la staffetta della colonna di Albertone, composta da ufficiali italiani a dorso di muli e da ascari in tunica e fez variopinti, scorse la prima ondata dell’esercito del Mahel Safari avanzare all’attacco; i capi che portavano criniere di leone comandavano un’orda di guerrieri celati dietro grandi scudi di cuoio nero, che brandeggiavano lance di ferro; luccicavano le canne dei nuovi fucili a ripetizione. Per molti di loro era l’ultima cosa che avrebbero visto: solo mezz’ora dopo il maggiore Turitto e tredici altri ufficiali italiani del V erano già morti in battaglia; i pochi superstiti del battaglione si riversarono sulla posizione principale di Albertone, dietro il passo. Alle 8.15 le batterie di Albertone aprirono il fuoco a duemila metri con­ tro la seconda ondata. Proprio di fronte a loro avanzavano le truppe im­ periali degli scioani, comandate dal fitaurari Gabreiehu; più sopra il costo­ ne contro l’ala sinistra degli italiani marciavano l’Uagscium Guangul e il ras Mangascià con i guerrieri dell’Uag del Tigrai; l’ala destra italiana era fronteggiata dagli Amhara di Beghemder al comando di degiacc Besciasc e ras Uule, fratello dell’imperatrice Taitù. Sotto il tiro degli eritrei la seconda ondata si infranse. Ma il fitaurari imperiale Gabreiehu dal rosso mantello, che aveva infranto la resistenza di Toselli ad Amba Alagi, e che era stato incatenato per la sua impetuo­ sità dal ras Maconnen, riunì le sue truppe e sferrò un terzo attacco. Alber­ tone e i suoi ufficiali italiani con le truppe eritree, le pivi esperte in guer­ ra, sapevano bene che la tattica impiegata dalle orde dei guerrieri era solo in apparenza caotica, con tutte le loro urla e le cariche selvagge. Avevano 10

imparato che al di là della polvere delle cariche gli uomini di prima linea del fitaurari si sarebbero divisi e li avrebbero circondati dal dietro; e che la seconda linea si sarebbe a sua volta divisa in due ali comandate da un cagnasmacc sulla destra e da un grasmacc sulla sinistra, muovendo all’as­ salto ai loro fianchi. Sapevano anche che solo allora la terza linea, coman­ data da un ras o da un degiacc, avrebbe attaccato frontalmente il centro dello schieramento. Esperto in questo tipo di attacco il generale Albertone aveva disposto i suoi uomini e l’artiglieria in conseguenza. Ma anche gli etiopi avevano una loro artiglieria. Dal monte Latsat sei Hotchkiss a tiro rapido diretti dal comandante dell’artiglieria, il giovane eunuco Galla, il begerond Balcha e dall’imperatrice Taitù in persona, aprirono il fuoco per coprire l’ultimo attacco del fitaurari imperiale. La marea della battaglia si alzava e si abbassava al passo di Ridane Meret. Poco dopo le 9 il fitaurari Gabreiehu rimase ferito. Tre quarti d’ora più tardi il tenente Caruso dell’artiglieria, che veniva portato prigio­ niero ad Adua, potè vedere il fitaurari imperiale che moriva all’ombra di una quercia. Appresa la notizia della morte del suo condottiero il Mahel Safari si sbandò, si disperse e prese la fuga. Sul monte Latsat dietro i suoi cannoni l’imperatrice Taitù non dava segno di voler fuggire. Con lei erano riuniti sotto l’ombrello nero — al posto di quello imperiale rosso, in segno di lutto per la battaglia contro i cristiani - la figliastra Uoizerò Zauditù, la sorella Uoizerò Azalee e le loro serve. C’era anche l’Abuna Matteos, messo dal Patriarca a capo della Chiesa copta d’Etiopia, e il Nevraid di Axum con le sue croci, i suoi stendardi e le sue lunghe trombe di corno. Il Nevraid aveva portato la statua di Maria con sé dal più santo dei santuari di Etiopia, la chiesa di Maria ad Axum, dove Menelik I, figlio di Salomone e Saba aveva portato l’Arca dell’Alleanza. La notizia si propagò fra gli etiopi; la Madre di Gesù era arrivata ad aiutare l’Imperatrice. Ma il fitaurari imperiale stava morendo, l’Iman Tafari Fitaurari era già morto e si trovava già con i suoi antenati ; ora mancava all’appello degiacc Besciasc mentre il fronte italiano sembrava tenere bene, e il grosso del­ l’esercito italiano non era ancora sotto l’attacco nemico. L’imperatore Menelik II, cuore generoso ma ormai stanco, stava per ordinare una ritirata, non sapendo che quel giorno teneva ancora la gloria in serbo proprio per lui. Il ras Mangascià, figlio dell’imperatore Giovanni, che era morto in battaglia solo sette anni prima combattendo contro i dervisci a Ivjetemma, protestava e rimproverava all’imperatore Menelik II: « Sono otto anni che combatto gli italiani e tu non hai abbastanza coraggio di farlo per un solo giorno ». L’imperatore Menelik richiamò la guardia imperiale, forte di ben 12.000 uomini. Poco prima delle 10 del mattino il generale Albertone e la sua brigata videro gli etiopi raccogliersi per avanzare la quarta volta. Sulla destra il maggiore Cossa del VII era stato ferito, il capitano Rossini aveva preso il suo posto: nove ufficiali erano caduti. La terza batteria fu distrutta; il capitano Musotto della quarta fu ucciso mentre continuava a sparare. Il 11

capitano Henry cercò di far indietreggiare le due restanti batterie, ma l’ar­ tiglieria di Taiti'i cominciò a sputar fuoco dalle alture del monte Latsat. Il capitano e due ufficiali furono uccisi. Anche il comandante della bri­ gata di artiglieria maggiore de Rosa, cadde. Alle 10.15 veniva ordinato all’Vili, che era la riserva, di contrattaccare. Il nemico si riversava giù da tre parti: da Semaiata, da Sendedo e dalla valle di Mai Agam; erano gli scioani della Guardia imperiale. Quando la brigata di Arimondi aveva già aggirato i declivi occidentali del monte Rayo, i superstiti della brigata di Albertone apparivano improv­ visamente, disorganizzati e in fuga, con gli etiopi alle calcagna « che sca­ turivano come demoni tutt’intorno ». « I nostri soldati erano pallidi » scris­ se in seguito uno degli ufficiali di Arimondi, « ma calmi, orgogliosi, splen­ didi. » Nel giro di pochi minuti la brigata subiva l’attacco dei trionfanti scioani. Sull’altro fianco della montagna gli uomini di Dabormida stavano già sopraffacendo i Mantelli rossi delle serpeggianti ali della cavalleria Galla del ras Mikael. Il generale Baratieri capì che il destino stava per compiersi al passo di Adua. Si rese conto che Arimondi e Dabormida erano entrambi inchiodati e ordinò all’unico battaglione superstite di indigeni della riserva di Ellena, e a due batterie da campagna di correre in aiuto di Arimondi. Ma ottenne solo che fossero immediatamente sopraffatti. Era ormai troppo tardi per salvare Arimondi poiché gli scioani avevano già occupato le alture di Zeban Darò e quelle del monte Erara. La la dei bersaglieri aveva perduto quattordici dei propri diciotto ufficiali. Le batte­ rie sbaragliate e i cannoni catturati. Il generale Arimondi allora ordinò la ritirata. Era metà mattino, appena passate le undici, il sole era alto, il caldo torrido: mentre le sue truppe soccombevano nel caos urlante di una riti­ rata disorganizzata, il generale venne ferito a una spalla; cadde da cavallo, e mentre si rialzava per tentare di fuggire gli fu sparato in un ginocchio, cadde al suolo e rimase ucciso. La brigata di Ellena cadde ora a sua volta in una disperata situazione di sbandamento e rotta. Il colonnello Nava del V reggimento si stava muo­ vendo verso il monte Rayo per coprire le spalle di Arimondi con cinque compagnie, ma il V, avanzando contro gli etiopi, impetuosi e vittoriosi, indugiò, esitò, perse due ufficiali, fu in rotta. Un battaglione fu spazzato via completamente, mentre il suo comandante cadde ucciso; un altro sul fianco destro perse 14 dei suoi 19 ufficiali. Il colonnello Nava invece fu fatto prigioniero. L’altro reggimento di Ellena, il 4°, fu bloccato ed attaccato nella sua avanzata verso il monte Bairot. Il colonnello Romero formò un quadrato. Verso mezzogiorno il quadrato era completamente circondato; un quarto d’ora più tardi il colonnello Romero, ferito gravemente, ordinò la ritirata. Il caos in questa zona del campo di battaglia era inimmaginabile; su tutta la piana alle spalle del monte Rayo, piccoli gruppi di italiani ed eritrei, i superstiti delle brigate di Arimondi e Albertone, cercavano disperatamente scampo nella fuga. Quattordici ufficiali e il colonnello Romero rimasero 12

uccisi. I superstiti della brigata di Ellena, comprendenti un gruppo di alti ufficiali, lo stesso Ellena, il generale Baratieri e lo stato maggiore si riuni­ rono nella piana di Iehà prima di fuggire nella direzione di Belesa, Adi Caiè, verso il nord e la salvezza. I due reggimenti di Dabormida, il 3° e il 6°, l’unica formazione rimasta intatta di quello che tre ore prima era stato il più bell’esercito coloniale in Africa, erano rimasti completamente isolati sul lato sbagliato del passo di Rebbi Arienni e cosa più grave, senza nessuna cognizione di essere or­ mai abbandonati al proprio destino. In essi era riposta l’unica speranza di evitare il più grosso disastro della storia coloniale europea, anche se si trattava di una debole speranza. Ciò nonostante per altre tre ore soffocanti il colonnello Ragni del 3° ed il colonnello Airaghi del 6° tennero testa agli attaccanti e riuscirono per­ sino a contrattaccare con successo. Ma ora gli uomini di Menelik avevano raggiunto le alture tutt’intorno alla brigata; e l’Imperatore stesso, in sella al suo cavallo preferito Dagneu, da Zeban Darò potè vedere la scena fino a che l’ultimo degli italiani superstiti fu ucciso. Alle 3.30 del pomeriggio i goggiami del Negus Tekle-Haimonot, sferrarono l’assalto finale, travolgendo i pochi ascari rimasti: ma furono momentanea­ mente respinti da un attacco ben guidato da Dabormida e Airaghi in per­ sona, e ritornarono alla carica. Durante la ritirata del 6° verso la collina, caddero il colonnello Airaghi e 18 ufficiali. I muli erano feriti ed esausti. Alle cinque gli italiani avevano esaurito tutte le loro munizioni. Dabormida decise di tentare di aprirsi un varco verso la piana di Iehà, alle spalle. Una donna anziana lo descrisse come lo vide : « un capo, un grande capo, con gli occhiali e l’orologio e le stel­ lette d’oro; mi chiese dell’acqua e disse di essere il generale ». Verso sera aveva con sé un centinaio di uomini. Dove si trovava? Nessuno può dirlo con sicurezza. Un comandante Turkbash di 25 anni gli piombò alle spalle, sparandogli un colpo mortale per rubargli armi, portafoglio e sciarpa — così almeno riferì il ras Maconnen un mese più tardi al generale Albertone, suo prigioniero, consegnandogli la sciabola e la sciarpa di Dabormida. « Fais avec bonne volonté ce que tu dois faire », era ciò che gli aveva scritto suo padre nella lingua francese di cui si compiacevano i gentiluo­ mini piemontesi. Così morì Dabormida, quattro ore dopo Arimondi. Così finì l’ultima delle quattro brigate, battuta e in ritirata come il resto del­ l’esercito verso le desolate e insanguinate montagne e le aride pianure del Tigrai. Settanta uomini superstiti di una compagnia di Dabormida riuscirono a sopravvivere stringendosi assieme « soli, isolati, perduti, senza una goccia d’acqua » in una dura marcia. Volsero verso oriente, i feriti caricati in groppa ai muli, che gemevano e chiedevano acqua. Nella notte echeggiò uno sparo. I due ufficiali sopravvissuti, non feriti, avevano messo mano ai revolver « decisi ad uccidersi l’un l’altro ». Più tardi nella notte un fortunasco portò loro acqua e sollievo: per placare la sete i soldati succhia­ rono i vestiti fradici d’acqua. Dopo mezzanotte echeggiarono nuovi spari; 13

due soldati e due muli furono uccisi; nel panico creatosi, il maggiore ferito e dieci soldati ridotti allo stremo vennero lasciati indietro e non furono più ritrovati. All’alba del giorno successivo sbucarono in una piana disse­ minata di cadaveri bianchi « completamente nudi, mutilati, torturati, con i visceri strappati e attorcigliati intorno al corpo ». Nella stessa giornata raggiunsero il campo base italiano di Enticciò da cui, meno di 24 ore prima, le colonne italiane erano uscite piene di spe­ ranza verso la notte; là, delle 2.000 guardie rimaste, trovarono solamente quattro italiani e due soldati indigeni, ubriachi. Il campo era già stato sac­ cheggiato ma i soldati gettarono via i fucili e si azzuffarono per le poche scatolette di cibo che erano rimaste. Quella notte ripresero il cammino in direzione nord, verso Addi Caiè: vedevano etiopi dappertutto; apparve una figura. « Il nemico! Il nemico! », urlarono tutti, e il piccolo nemico accovacciato si arrampicò velocemente su un albero e si dondolò da un ramo: «con nostro stupore osservammo che gli etiopi avevano la coda». Ma la tragedia, più del riso si accompagna al panico. Mentre si riposa­ vano durante la notte un mulo urtò contro i piedi di un soldato: « La cavalleria Galla! ». Quando finì la paura e cessò il fuoco, tre soldati erano stesi al suolo feriti e un ufficiale era morto. Solo la sera del 5 marzo, quat­ tro giorni dopo la battaglia, questa compagnia, sospinta durante gli ultimi giorni come bestiame da ufficiali con le armi in pugno, raggiunse finalmen­ te un villaggio amico : « Scoppiammo a piangere senza ritegno » ; di tutti i battaglioni, questa era la sola compagnia che fosse tornata riuscendo a con­ servare le proprie armi. Millenovecento italiani, compreso il generale Albertone, erano stati fatti prigionieri insieme a circa mille ascari eritrei. Gli uomini del degiacc Besciasc, cugino di Menelik, furiosi per la morte del loro capo, uccisero tutti i prigionieri su cui poterono metter mano — settanta bianchi e duecentotrenta indigeni; e per questo crimine il fitaurari Lemma fu esiliato da Me­ nelik su un amba, una cima di montagna, mentre i superstiti furono rispe­ diti in Italia quando fu firmata la pace. Sette ufficiali e settanta soldati morirono durante la marcia di ritorno ad Addis Abeba, un ufficiale e sette soldati morirono durante la prigionia; ma tutto sommato non furono trat­ tati male, almeno non quelli che erano prigionieri di Ras. Gli altri, quelli catturati da piccole bande, furono spogliati dei loro averi. Ma a ognuno degli ufficiali fu dato un servitore. Ma la peggiore umiliazione subita fu quella da parte di un soldato condotto davanti all’imperatrice Taitù ed obbligato a cantare Funiculi, Funiculà e Dolce Napoli. Prima della fine dell’anno erano già ritornati in Italia in buona salute, dando il loro con­ tributo a ingrossare la già straripante letteratura in circolazione su Adua. Ben altro accadde agli ascari indigeni. Nell’accampamento etiope vi fu­ rono molte diatribe su come punirli, ma nessuno mostrò di prendere in considerazione se lo meritassero o meno; il desiderio generale era di farli a pezzi. L’Imperatore chiese consiglio agli alti dignitari e all’Abuna Mat­ teos, e questi decisero che meritavano una punizione, perché avevano già tradito l’Imperatore due volte e due volte erano stati perdonati. Furono 14

pertanto puniti come traditori; furono loro tagliati la mano destra e il piede sinistro, e molti morirono così durante la notte. Quattrocento furono alla fine rilasciati. Non ci fu un inseguimento, né grandi festeggiamenti all’accampamento etiope. Menelik mise fine alle danze di vittoria e alle canzoni di guerra composte in onore di Abba Dagneu, il nome del suo cavallo. Avrebbe detto più tardi al dottor Neruzzini che non vedeva alcun motivo di ralle­ grarsi per la morte di tanti cristiani.

CAPITOLO SECONDO

L’ASCESA AL POTERE DI TAF ARI MACONNEN

La città di Harar si trova sulla punta nord-orientale degli altopiani etio­ pi, bianca, cinta da mura e ben protetta, era stata per secoli la roccaforte dei nemici musulmani. Da Harar, nei primi anni del Sedicesimo secolo, le orde dell’imano Mohammed Gragn, il Mancino, avevano definitivamente sconfitto l’Imperatore regnante ed avevano invaso ed occupato tutti i ter­ ritori cristiani all’infuori della base centrale di. Amhara che si trovava sul­ l’altopiano del Beghemder. Nel 1887 il Negus di Scioa, Menelik con il cugino ras Maconnen, condusse 40.000 uomini all’attacco di Harar. Nella battaglia di Ciallanco furono uccisi 11.000 uomini di Harar e Ito Galla. Menelik, sfidato dall’emiro Abdullahi, aveva giurato di bruciare la mo­ schea, di estinguere il fuoco orinando sull’ultima brace delle rovine fumanti e di costruire una chiesa cristiana sul luogo. Abdullahi fu catturato dietro le mura della città e portato in catene a Entotto, un monte sovrastante Addis Abeba, la nuova capitale di Menelik. Il ras Maconnen fu nominato governatore della nuova provincia Scioana. Era all’epoca sui trentacinque, piccolo e energico con i capelli scuri e la barba a punta, a un primo sguardo sembrava delicato, timido e riser­ vato ma era invece un ospite cortese e affabile. Maconnen, quale governatore di Harar, per prima cosa incoraggiò l’im­ migrazione degli Scioani e degli Amhara, fece costruire una chiesa copta nel centro della città e al tempo stesso incoraggiò gli Hararini a costruire una nuova moschea. Al suo ritorno dall’Italia, nel 1898, fondò il primo ospedale in Etiopia e diede il benvenuto ai certosini francesi che fondarono una missione ed aprirono delle scuole. Harar era a quell’epoca il maggiore centro commerciale d’Etiopia. Si trovava sulla strada che conduceva dal porto di Zeila verso l’interno e con­ trollava i tradizionali scambi commerciali con l’Arabia e lo Yemen tramite il Mar Rosso. Con l’apertura del Canale di Suez ed il conseguente movi­ mento di merce dall’Europa era diventata sempre più importante. Sebbene gli Hararini, un popolo pacifico che abitava nelle valli, fossero dei piccoli mercanti e artigiani, il nuovo impulso commerciale dell’Etiopia aveva por­ tato molti stranieri, per lo più greci e armeni e qualche indiano e un gran numero di avventurieri europei (quali Rimbaud) la cui principale atti­ vità era il commercio di armi. 17

Ligg Tafari era nato ad Harar il 23 luglio 1892. Si sa molto poco di sua madre Uoizerò Gescimmabet che sarebbe morta poco dopo la sua seconda gravidanza. Si diceva che fosse figlia di una schiava guraghé catturata du­ rante la guerra, tale Uoizerò UalletenGiorgis che era stata la concubina del ras Darghiè e di un nobile Uollo. Il ras Maconnen nel 1902 si mise nuovamente in viaggio. A Gerusa­ lemme acquistò della terra sul Golgotha e contribuì al completamento dei lavori per una chiesa a Debre Guenet. A Londra assistette all’incorona­ zione del Re Edoardo VII che lo lasciò pieno di stupore e meraviglia. Si fece spiegare tutto il rituale ed i simbolismi della cerimonia ed anche se alcune delle sue domande apparivano piuttosto ingenue ai suoi ospiti, chiese per esempio dove fossero gli attendenti armati dei lord, essi rima­ sero comunque piacevolmente sorpresi notando il suo interesse per i con­ gegni meccanici. Per contro, è probabile che egli non fosse altrettanto compiaciuto degli inglesi stessi. Si disse che aveva pronunciato questa frase « Ils sont comme un chat qu’on caresse, quand on le caresse, il est content, quand on veut le bousculer il griffe ». Ma le loro relazioni erano ottime, era l’epoca in cui ras Maconnen era affiancato dagli inglesi nell’Ogaden nel comune tentativo di eliminare l’Iman Mohammed Ibn Abdulla Hassa, chiamato il Mullah il pazzo ed anche l’epoca in cui insigniva gli ufficiali in­ glesi dell’Ordine della Più Brillante Stella di Menelik e regalava una zebra a re Edoardo. Nel mese di settembre il ras Maconnen ritornò ad Harar con un oriundo della Guadalupa per il suo ospedale, un certo dr. Vitalien. Il giovane figlio Tafari studiava a Collubi poco fuori Harar con due altri giovani, suo cu­ gino Immirù ed un certo Tafari Belù. Inizialmente gli vennero insegnati il Ge’ez e l’Amharico dal prete Abba Samuel, i salmi di Davide e come a tutti i figli dei nobili etiopi gli fu insegnato a cavalcare, a lanciare l’asta e a tirar di scherma. Però il padre avrebbe preferito un’educazione più moderna di quella che egli stesso aveva ricevuto per cui il ragazzo fu affi­ dato al priore della missione certosina nonché vescovo cattolico di Harar, monsignor Jarosseau, perché gli impartisse un’istruzione adeguata. All’età di 11 anni fece la sua prima visita alla corte di Menelik ad Addis Abeba dove sarebbe rimasto fino all’età di 17 anni. Qui frequentò la scuola di Menelik III per giovani nobili, migliorò il suo francese ed apprese i primi elementi di scienza sotto la guida del dr. Vitalien che fu il primo di una lunga serie di confidenti e medici personali. Nel 1904 il nobile e maestoso Menelik, l’imperatore dalla barba ricciuta e dalla pelle scura che portava sempre un cappello a tesa larga, fu colpito da una grave malattia ai reni. Nel febbraio 1906 il ras Maconnen partì da Harar per Addis Abeba ma si ammalò quando arrivò a Burca e morì a Collubi il 22 marzo. Fu un grande dolore per tutti gli scioani e Menelik, che apprese la notizia mentre era in viaggio per l’Uollo, pianse per tre giorni e tre notti nella sua tenda ed una volta ritornato al suo palazzo, il Grande Ghebbì, non si mosse quasi più. L’Imperatore nel giugno 1908 no­ minò suo nipote Ligg Yasu, figlio di Scioagarad e del ras Mikael di Uollo, 18

suo successore. Prima della fine dell’anno fu colpito da paralisi e si riebbe solo in parte. Agli europei il nome di Ligg Yasu non dice molto ma per gli etiopi è tuttora, dopo più di cinquanta anni dalla fine del suo regno, un nome che evoca paura, compassione, ammirazione o dolore. All’epoca era un ragaz­ zino di dodici anni, estroverso, energico e molto più benvoluto del suo timido cugino Tafari che aveva allora sedici anni, la sua importanza era dovuta alla posizione di suo padre. L’Uollo, la provincia del Galla, era incuneata fra le regioni cristiane Scioa e Tigrai all’epoca in cui due tribù di Galla che erano molto po­ tenti, i Raya e gli Azebò, si spostarono ad ovest sulla costa del Golfo di Aden molto prima dell’avvento della civiltà islamica (come ricordano le cronache etiopiche) e fu in seguito convertita all’islamismo da Mohammed Gragn il Mancino. Per anni guerre e ribellioni di popolazioni Uollo si sus­ seguirono attorno alla fortezza di Magdala. In questa fortezza morì nel 1868 l’imperatore Teodoro, bombardato dall’artiglieria inglese e dalla ca­ valleria Galla alleata agli inglesi, che gridava selvaggiamente agli ahmara di Teodoro ormai sconfitti e senza speranza, mentre attendeva che la sua preda scendesse dalla montagna: «Venite, beneamati, venite». Prima di morire Teodoro era riuscito a imprigionare in cima all’Tmùa, la monta­ gna, metà della nobiltà del suo nuovo impero compreso Menelik ed un ostaggio, il figlio della regina Uorkit dell’Uollo Galla. Quando Menelik e sua madre fuggirono durante la notte, Teodoro fece mutilare il figlio della regina Uorkit e 24 capi Galla e li fece precipitare dalla fortezza di Mag­ dala. Ciononostante Uorkit accolse i fuggitivi alla sua corte e Menelik strinse amicizia con suo figlio Mohammed Ali. Più avanti Menelik divenne Negus di Scioa e Mohammed Ali fu convertito al cristianesimo e fu bat­ tezzato con il nome di Mikael. Nel 1899 ras Mikael partecipò con l’imperatore Giovanni alla battaglia di Metemma. Nel corso dello stesso anno lo appoggiò con l’aiuto di Mene­ lik contro Vuagscium Gobaze e assistette nel mese di novembre all’incoro­ nazione di Menelik. Tre anni più tardi sposava la figlia di Menelik, Scioagarad e quattro anni dopo comandava la cavalleria Galla, tanto temuta dagli italiani, a Adua. Fu il ras Mikael a fondare Dessiè, la prima città nonché la nuova capitale della provincia di Uollo. Rimase al potere tanto tempo quanto lo era stato Menelik e la nomina ad erede di suo figlio ave­ va lasciato molto perplessa la nobiltà scioana che cominciava a chiedersi fino a che punto la politica di Menelik, che consisteva nell’associare i Galla agli Amhara al potere, potesse essere portata avanti senza inficiare i loro privilegi quali signori d’Israele *. Nel 1909 l’imperatore Menelik riunì i nobili, l’esercito e il popolo ed alla presenza dell’Abuna Matteos e dell’Echege presentò Ligg Yasu quale suo successore: « Maledetto sarà colui che si rifiuterà di obbedirlo ed avrà per figlio un cane nero. Se egli vi tradirà sarà maledetto e suo figlio non potrà che essere un cane nero». Il 10 aprile 1911, ras Tessemà moriva avvelenato e non si seppe mai da 19

chi né per quali motivi. Il ras Abate, un suo parente, che era stato il Liquemanquas di Menelik ad Adua, continuava ad insistere affinché ve­ nisse nominato un nuovo reggente ma alcuni alti ufficiali quali il ras Lui Seghed, il fi.tau.rari HapteGiorgis e Ligaba Uolde Gabriel, che temevano la sfrenata ambizione del ras Abate, decisero che la reggenza non era necessaria. Il 2 giugno ras Abate con un esercito di 3.000 uomini si accampava alle porte del Ghebbì dove si trovavano, alla sua mercé, l’Imperatore, la princi­ pessa Taitù e Zauditù, la figlia di Menelik. Il fitaurari HapteGiorgis avanzava a cavallo dal suo ghebbì con l’esercito e Ligg Yasu, l’Erede, che indossava un cappello viola come la camicia ed un mantello di seta rosso e oro e cavalcava un cavallino arabo. Sulla capitale incombeva ancora una volta la minaccia della guerra civile. Ma il 5 giugno l’Abuna Matteos e l’Echege Uolde Giorgis decisero di intervenire e il ras Abate dovette rico­ noscere di aver fallito quale protettore e paladino dell’Erede. Ordinò per­ tanto ai suoi uomini di ritirarsi e accettò quale punizione l’esilio temporaneo. La fine della reggenza segnò l’effettivo inizio del regno di Ligg Yasu. Una delle prime azioni di Ligg Yasu fu quella di ratificare la nomina concessa da Menelik, in uno dei suoi rari momenti di lucidità, a Tafari quali governatore di Harar. « Ti do Harar, cugino » disse Ligg Yasu, « ma voglio che tu in cambio mi giuri che finché io ti appoggerò ad Harar tu mi sarai fedele. » Molto probabilmente Tafari giurò e fu subito dopo nominato ras e il Degiacc Balcha, l’eunuco Galla, dopo aver effettuato uno scambio di province con Tafari si apprestò a governare il Sidamo così male e tanto severamente da crearne un feudo indipendente dal quale, molti anni dopo, sarebbe ritornato alla ribalta per sfidare Tafari stesso. Le relazioni fra Ligg Yasu e Tafari non erano mai state delle migliori. Tafari era piccolo di statura, molto istruito, timido, riservato e più vec­ chio di Ligg Yasu di circa quattro anni. Ligg Yasu era alto, bello, in­ telligente, un cavaliere e un atleta, quasi l’ideale di un giovane principe per gli etiopi. Era un po’ paternalista e a volte trattava suo cugino con una certa condiscendenza. Questo fatto rese la storia del matrimonio di Tafari ancora più strana. Secondo una versione Tafari era venuto nella capitale per giurare fedeltà a Ligg Yasu e lì si innamorò perdutamente di una nipote di Ligg Yasu, una certa Menin, che era sposata al ras Lui Seghed. Sapendo quanto Ligg Yasu detestasse Lui Seghed Tafari lo per­ suase a dargli Menin. A questo punto della vicenda la morale della corte etiope oscillava tra la farsa e la bassa millanteria ma c’era comunque una tradizione di rapire le donne per sposarle con uno stile tipico dei paesi di confine scozzesi. Mentre Ligg Yasu intratteneva ras Lui Seghed al suo Ghebbì, Tafari conduceva Menin fuori dalla città e la metteva su un treno diretto a Diredaua dove la raggiunse per condurla con sé a Harar. Non si seppe nulla della reazione di Menin mentre quella di ras Lui Seghed può essere facilmente immaginata. Nel luglio 1912 Menin e Ta20

fari furono uniti in matrimonio da un vescovo a Harar e nel gennaio dell’anno seguente nacque Tenagne Uorq, la loro primogenita. Il grande Menelik morì il 12 dicembre 1912, ma fu sepolto dall’Abuna in silenzio e in un posto segreto. Non furono accese candele e non fu bru­ ciato un solo granello d’incenso. Lo vegliò e ne portò il lutto solo la devota figlia Zauditù. Questo fu l’inizio di una serie di incidenti che provarono più tardi come Ligg Yasu avesse rinunciato alla sua religione per abbrac­ ciare quella musulmana. Adesso il Negus Mikael rappresentava la maggiore potenza di tutto il territorio. L’Abuna Matteos era molto tollerante con gli eccessi del nipote Ligg Yasu (si limitò a rifiutarsi di incoronarlo finché non avesse raggiunto i 20 anni) poiché li riteneva tipici della sua età ed erano perfettamente giustificati dalla sua personalità. Con ogni probabilità Ligg Yasu non avrebbe mai avuto problemi di sor­ ta se non fosse scoppiata la guerra in Europa. Infatti quando scoppiò la guerra i diplomatici a Addis Abeba cominciarono a complottare, a tramare e a dar fastidio ai loro vicini. Tutto questo accadeva non tanto perché l’Etiopia fosse molto importante ma perché si pensava che fosse molto pe­ ricoloso per l’Etiopia dimostrare un’eccessiva simpatia nei confronti del­ l’Islam dal momento che i turchi erano entrati in guerra e non si potevano certo scordare le loro antiche rivendicazioni nei riguardi di quelle regioni che adesso costituivano l’Eritrea italiana, il Gibuti francese e la Somalia inglese, per non parlare dell’iniziativa tedesca di appoggiare i musulmani. Nella capitale i consoli francesi, inglesi e italiani avevano emarginato il loro collega tedesco. Il console inglese a Harar e il console francese a Diredaua complottavano contro il console turco, Ydlibi (che era per metà siriano e per metà inglese), le cui trame, ordite per forzare un’alleanza fra Mullah il pazzo e Ligg Yasu, era senz’altro di maggior successo. Si pensava infatti che la Turchia avesse promesso a Ligg Yasu, in cambio dell’alleanza etiope, non solo la Somalia e l’Eritrea ma anche il Sudan — sarebbe dav­ vero stata una vasta espansione territoriale se fosse stata raggiunta ed avrebbe fatto di Ligg Yasu il più grande imperatore etiope. Nel febbraio del 1916 Ligg Yasu faceva visita alla città di Harar. The­ siger della Delegazione Inglese era preoccupato dell’incolumità del degiacc Tafari « che era unanimamente considerato l’erede al trono nel caso in cui qualche cosa fosse successa a Ligg Yasu » 2. E forse i suoi timori non erano del tutto infondati. Lo stesso giorno che Ligg Yasu partiva per Dessiè, Tafari e suo cugino Immirù erano stati sul punto di annegare nel lago Aramayo — infatti Abba Samuel che si trovava con loro e non sapeva nuotare, .annegò, si disse che nella barca erano stati deliberatamente pra­ ticati dei fori che sarebbero poi stati riempiti con del fango. Nel luglio 1916 la situazione era diventata insostenibile. Ligg Yasu rice­ veva due inviati del Mullah al Grande Ghebbì malgrado le proteste della delegazione inglese. Thesiger propose allora al Conte Colli, un ministro italiano, di deporre Ligg Yasu per mano della legazione e pen­ sava di mandare delle truppe alle frontiere della Somalia inglese. Tafari si 21

trovava ad Addis Abeba agli arresti domiciliari quando nasceva a Harar Asfauossen, il suo primogenito. Ligg Yasu fissò un appuntamento a Thesi­ ger il 1° di agosto al Ghebbì ma la sera del 28 luglio partiva per Akaki con la sua guardia a cavallo — Akaki si trovava a dieci miglia dalla capi­ tale sul percorso della ferrovia. Ligg Yasu aveva permanentemente stabi­ lito il suo quartier generale ad Harar. A Harar l’uomo più preoccupato era senz’altro Immirù, cugino di Tafari, che era rimasto in città per prendersi cura della moglie di Tafari, della figlia e dell’erede che era appena nato. Tafari gli telegrafò « Tratta Ligg Yasu gentilmente ma stai attento al bambino. » Due giorni più tardi arri­ vò un messaggio carico di presagi da Dodds il console inglese a Harar: il ras Lui Seghed si trovava con Ligg Yasu e rivoleva indietro la sua ex moglie Menen. Thesiger passò la notizia a Tafari; un agente di Tafari si recò a Diredaua e riuscì a portar fuori Menen e i due bambini, che si erano tra­ vestiti per non farsi riconoscere, passando dalla porta a sud e li riportò a Addis Abeba dove Tafari li affidò a Thesiger, insieme ai suoi soldi e al suo testamento, che li ospitò alla delegazione inglese. Il 13 agosto la cavalleria di ras Lui Seghed circondava il Ghebbì di Ta­ fari a Harar. Immirù fu messo in prigione. Ligg Yasu annunciò che avreb­ be egli stesso preso il comando di Harar e Tafari venne mandato in esilio a Kaffa. Thesiger, il Conte Colli e il console generale francese Brile invia­ rono una protesta per cui le potenze straniere cominciarono ad allineare le loro truppe lungo la costa del Mar Rosso a Massaua, Gibuti e Berbera. Pareva che l’Etiopia venisse trascinata nella Guerra Mondiale a causa di trame ordite dagli stranieri e di controintrighi. Non solo, ma un’invasione congiunta da parte delle tre potenze coloniali anche se fosse cominciata come semplice misura di controllo a carattere temporaneo, avrebbe inevi­ tabilmente spinto le cose molto più in là. Il nocciolo della questione era che i francesi, gli inglesi e gli italiani erano ai confini con l’Etiopia; i tede­ schi e i turchi invece per tutte le promesse fatte avrebbero potuto anche essere a milioni di chilometri. Il 16 settembre i signori di Scioa si misero in marcia con i loro eserciti e andarono al Ghebbì dove chiesero di essere sciolti dai voti fatti. Undici giorni dopo, esattamente il 27 settembre 1916, dopo una riunione alquanto agitata che aveva avuto luogo nella Sala dei Banchetti al Ghebbì, l’Abuna Matteos, servo di Cristo, figlio della chiesa di S. Marco l’Evangelista an­ nunciò al fitaurari Gabre e ai principi di Harar, all’esercito e a tutto il popolo che Zauditù, figlia di Menelik, era la nuova imperatrice e che Tafari Maconnen sarebbe stato quindi l’erede al trono e reggente dello Impero 3. Nessuna donna dai tempi della Regina di Saba era mai assurta al trono d’Etiopia. E tuttavia la scelta di Zauditù, figlia di Menelik e simbolo delle forze tradizionali e della Chiesa, era più che scontata. Ma perché proprio Tafari — o meglio ras Tafari come si chiamava adesso? Aveva pochi soste­ nitori, non aveva mai compiuto grandi imprese e per nascita era senz’altro inferiore a molti nobili scioani. È probabile che i nobili scioani avessero

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appoggiato la sua nomina a reggente proprio perché era giovane e ine­ sperto mentre non si sarebbero fidati di uno del loro gruppo. Sembra invece più probabile che Tafari fosse stato imposto dai ministri francesi e inglesi 4. Per educazione e per l’esempio ricevuto dal padre, Tafari era il più pro­ gressista fra i principi etiopi. Ligg Yasu disprezzava profondamente l’Eu­ ropa e tutto ciò che era ad essa connesso per cui può darsi che le legazioni avessero agito non solo per motivi puramente egoistici. Chiaramente sareb­ be stato molto più facile trattare con Tafari; inoltre Tafari era il più adatto fra tutti i candidati a dare all’Etiopia un capo con una mentalità europea. Quasi simultaneamente gli Scioani si mossero per proteggere Ha­ rar. A Harar Immirù ricevette per telefono l’ordine di arrestare Ligg Yasu. Ma già allora la tecnologia aveva fatto grandi progressi. Ligg Yasu aveva fatto mettere sotto controllo il telefono di Immirù. Quando il piccolo Im­ mirù apparve fu atterrato da un pugno sferrato dal giovane furente per aver appena ascoltato l’ordine del suo arresto. Ligg Yasu giurò sulla Bibbia e sulla croce che era ancora cristiano e sebbene ras Lui Seghed, che era sempre stato un amico poco fidato, lo avesse abbandonato e fosse corso ad Addis Abeba per far atto di sottomissione al nuovo regime inviò il fitaurari Gabre a contrastare l’esercito scioano, forte di 10.000 uomini, che il degiace Balcha, su richiesta dei nobili, stava conducendo all’attacco di Harar. Ap­ pena quaranta miglia fuori dalla città il fitaurari Gabre ed i suoi uomini disertarono. Comunque Ligg Yasu, malgrado i disperati telegrammi e le telefonate fatte dal ras Tafari, riuscì a fuggire a nord con il tesoro di Harar passando da Diredaua e attraversando poi i deserti della Dancalia. Il 9 ot­ tobre gli scioani entravano incontrastati a Harar e incominciarono subito a massacrare tutti i somali che poterono trovare. Ne furono uccisi 400 pri­ ma che il console inglese Dodds riuscisse a raggiungere il degiacc Balcha e a por fine alla carneficina. Eppure fino ad ora si era trattato di poco più di una riuscita rivoluzio­ ne di palazzo e anche in quanto tale non era certo stato un esempio bril­ lante. Era stato rovesciato un governo ed occupata una capitale quasi senza spargimento di sangue ma al deposto capo di stato era stata permessa la fuga. Tuttavia anche se Ligg Yasu fosse stato arrestato a Harar inevitabil­ mente la lotta per il potere avrebbe avuto luogo comunque. La contesa non era fra Ligg Yasu e il ras Tafari ma fra Scioa e Uollo. E prima ancora che il figlio abbandonasse Harar il Negus Mikael si era già messo in marcia dal nord. È sempre stato molto difficile calcolare di quanti uomini potesse con­ tare un esercito etiope. Ma il controspionaggio inglese — incredibile ma vero ufficiali della Marina — riuscì ad effettuare una stima abbastanza pre­ cisa di quanti uomini i vari ras avrebbero potuto riunire. Calcolarono che le forze imperiali, l’unico corpo che assomigliava vagamente ad un esercito regolare, contavano 51.000 uomini — divisi fra il Mahel Safari del Fitaurari imperiale e la guardia del corpo imperiale composta da 8.000 uomini al co­ mando dell’agiacc Metaferia e del begerond Ighezzù. I coscritti dello Scioa furono calcolati intorno a 150.0005 ; quelli del Negus Mikael di Uollo a 23

120.000 come pure quelli del ras Seyum Mangascia del Tigrai; quelli del Negus Uolde Giorgis del Beghemder a 60.000 e quelli del ras Hailù di Goggiam a 40.000. Il 7 ottobre il Negus Mikael partì da Dessie alla volta della capitale con 80.000 uomini e 12 cannoni. Aveva distaccato circa 20-30.000 uomini al comando di suo figlio il ras Gabre Hiuot perché controllassero il Tacazze e difendessero la sua frontiera a nord contro un attacco da parte del Negus Uolde Giorgis e se necessario anche contro il ras Seyum. Ras Imer, il comandante in seconda del Negus Mikael fu lasciato a Dessie a difen­ dere la città. Con l’esercito Uollo c’era l’Abuna Petros il quale a suo tem­ po aveva dato la nomina al Negus Mikael. Gli Scioani decisero di concentrare le loro forze a 60 chilometri a nordest di Addis Abeba sulla strada di Ancober. Il ras Lui Seghed e il Liquemanquas Abebe Atnaf Seghed con 12.000 uomini furono mandati a nord di Ancober per coprire le loro mosse. Come il Negus Mikael attaccava il ras Lui Seghed si ritirava. Il giorno 17 il Negus Mikael attaccava Ancober; il giorno seguente il ras Lui Seghed, che aveva ricevuto dei rinforzi, contrattaccava e quando fu sera mandò dei guerrieri a cavallo alla capitale per riferire che lo Scioa era uscito vin­ citore dalla battaglia e che stava inseguendo l’esercito Uollo in fuga. Il giorno dopo, il 19 ottobre, il Negus Mikael accerchiava ed annientava l’esercito di ras Lui Seghed ed occupava l’antica capitale di Ancober. La capitale era affranta perché le speranze di vittoria si erano tramutate in paura per la sconfitta e per l’arrivo dei selvaggi e vendicativi eserciti del nord. La sera del 21, 60.000 scioani, la cui artiglieria contava molti cannoni, erano concentrati a Shano. Il ras Cassa di Salale con 5.000 scioani e la sua cavalleria, alle spalle dell’esercito Uollo, raggiungevano i passi mon­ tani. Contemporaneamente il Negus UoldeGiorgis da Gondar stava diri­ gendosi contro gli Uollo e aveva mandato la sua avanguardia al comando del degiacc Ridane Mariam ad attaccare ras Imer a Ambasel. Ras Imer si ritirò. Finalmente il 27 ottobre nella pianura di Sagalle ebbe luogo la grande battaglia. Il fitaurari Hapte Giorgis aveva ritardato lo scontro intratte­ nendo dei negoziati con il Negus suo vecchio compagno d’armi finché era­ no arrivati i coscritti di Uollega al comando di ras Demissiè e quelli di Baie e Kambata. Al degiacc Balcha, che era un fanatico sostenitore della disci­ plina, fu ordinato di lasciare Harar per Addis Abeba e di prendere il co­ mando della città mentre i dignitari di corte e della chiesa avanzavano al centro. Dall’alba al tramonto la battaglia infuriava nella pianura di Sagalle. Ras Cassa e i suoi uomini che erano alla retroguardia vennero giù al ga­ loppo per deciderne le sorti. Il Negus Mikael, il ras Ali e l’Abuna Petros con l’artiglieria ed il grosso dell’esercito furono fatti prigionieri. Almeno diecimila corpi erano sparsi su tutta la pianura. Wilfred il giovane figlio del ministro guardava sfilare la parata di vit­ 24

toria dal palazzo della delegazione inglese. « Non fu proprio una gran parata militare », scrisse. « Gli uomini erano appena ritornati dall’aver combattuto disperatamente per la vita ed erano ancora stravolti per ciò che avevano appena passato. Il sangue non si era ancora rappreso sui panni che avevano strappato ai morti e che avevano drappeggiato intorno ai loro cavalli. Venivano su a ondate, uomini a cavallo mezzo nascosti dalla polvere seguiti da uomini a piedi in una gran calca. Urlando i loro atti di valore e brandendo le loro armi arrivarono fino ai primi gradini del trono dove il ciambellano di corte li ributtava indietro con lunghe pertiche. « Ricordo un bambino che pareva poco più vecchio di me che veniva portato in trionfo. Aveva ucciso due uomini. Ricordo il Negus Mikael, il Re del Nord, che veniva trascinato in catene con una pietra sulle spalle in segno di sottomissione, un vecchio che indossava un semplice burnous nero con la testa avvolta in uno straccio bianco. « Il momento più commovente di quel folle giorno fu quando improv­ visamente i tamburi smisero di suonare e nel silenzio assoluto qualche cen­ tinaio d’uomini nei loro abiti di tutti i giorni, bianchi e stracciati vennero lentamente giù dal viale formato dalle truppe: li conduceva un ragazzino. Era il figlio del ras Lui Seghed che guidava quel che restava dell’esercito del padre, un esercito che prima della battaglia contava 5.000 uomini. » 6 Le truppe sconfitte non furono inseguite. Per interi giorni l’esercito ri­ mase nella pianura di Sagalle a celebrare la vittoria e a seppellire i morti. Se fossero avanzati fino ad Ancober avrebbero potuto catturare Ligg Yasu che avendo attraversato il territorio dei Dancali era arrivato giusto in tem­ po per apprendere che il padre era stato sconfitto. Ligg Yasu riuscì a fug­ gire. Telefonò a sua sorella Lloizero Tuarec, sposata al ras Seyum Mangascia del Tigrai e per un breve e non facile periodo rimase nascosto presso il ras Seyum a Axum. Ras Seyum era all’epoca sui trent’anni. Fu più avanti descritto come « un piccolo e lezioso Enrico Vili di cioccolata con gli stessi lineamenti e adiposità che aveva avuto quel monarca negli ultimi anni della sua vita e con il buon umore e la cortesia della sua giovinezza » 7. Apparteneva all’ul­ tima generazione come ras Tafari e ras Hailù di Goggiam i cui padri ave­ vano combattuto gli italiani a Adua e molto spesso si erano dati l’un l’altro battaglia ma in quest’epoca erano solo dediti al consolidamento del loro potere. Ras Seyum come il ras Hailù era riuscito a mantenere il Tigrai neutrale alla guerra fra Scioa e Uollo. Però non poteva proprio rifiutarsi di aiutare il figlio del Negus Mikael che l’aveva fatto ras e governatore di tutti i territori di suo padre del Tigrai. Fu comunque fatto presente a Ligg Yasu che la sua permanenza era imbarazzante e Ligg Yasu dovette lasciare Axum e girovagare per il deserto dancalo come un fuggiasco solo per riap­ parire alla ribalta della storia etiope come pedina o come prigioniero e mai più come fautore libero, il destino gli aveva riservato una ben triste fine, una vita che si sarebbe protratta nella noia mentre era cominciata nell’eccitazione, nella lussuria e nel pericolo. Nel 1918 finirono le ostilità e con la fine della Grande Guerra e della 25

pressione diplomatica esercitata dagli stranieri scemarono anche gli intri­ ghi di corte a Addis Abeba. I primi anni del 1920 rappresentarono per l’Etiopia un periodo pacifico mentre in Italia fu un periodo denso di eventi. Ligg Yasu fu finalmente catturato o meglio venduto all’Imperatrice dal capo dancalo, Abu Bakr. Per undici anni, dal 1921 al 1932, sarebbe rimasto agli arresti domiciliari, prigioniero del ras Gassa di Salale nella sua capitale di Ficcè. II fatto di aver scelto ras Cassa, invece di ras Tafari o ras Hailù, quale fidato guardiano del deposto capo, rappresentava un riconoscimento della crescente stima che Zauditù e il potente partito dei tradizionalisti nutrivano per lui. Il ras Cassa era sui quarant’anni e per tutta la vita avrebbe mantenuto la reputazione di uomo onesto e di grande dirittura morale. Per nascita aveva maggiori diritti a rivendicazioni dinastiche di suo cugino ras Tafari; ma ras Cassa era uno dei pochi etiopi per i quali il senso della fedeltà superava l’ambizione così come era stato per suo padre ras Darghiè che era sempre rimasto solidale sia al fratello e ai suoi successori che al nipote Menelik. Il suo feudo di Salale si trovava a nord-ovest della regione di Scioa di fianco al territorio del grande monastero di Debra Libanos. Pro­ fondamente religioso, ras Cassa era tenuto in grande considerazione per la sua cultura teologica. Non c’è dunque da meravigliarsi se Zauditù e i suoi consiglieri avevano affidato Ligg Yasu a lui piuttosto che al suo am­ bizioso cugino. Eppure fra il ras Cassa e ras Tafari era quasi sempre corso buon sangue. Si erano entrambi distinti nella battaglia della pianura di Sagalle ed anche se ras Cassa ne aveva tratto maggior gloria ras Tafari non pretese mai di essere un guerriero, egli infatti non avrebbe più con­ dotto il suo esercito in battaglia per vent’anni. Ras Tafari eccelleva nella diplomazia. Nel 1923 l’Etiopia con l’appoggio dell’Italia e malgrado l’opposizione dell’Inghilterra, dell’Australia, della Norvegia e della Svizzera, entrava a far parte della Società delle Nazioni8, e l’anno dopo ras Tafari partiva per il suo famoso viaggio in Europa. Portò con sé ras Seyum, ras Hailù, qualche appartenente alla nobiltà minore e sei leoni. Il pittoresco entourage visitò Gerusalemme, Alessandria, Marsi­ glia, Parigi, Bruxelles, Amsterdam, Stoccolma, Roma, Londra, Ginevra e Atene - mai prima d’allora un tale viaggio aveva suscitato tanti aneddo­ ti 9. Ras Tafari riuscì a stabilire dei contatti personali con tutti i perso­ naggi di rilievo in Europa e per l’uomo della strada l’Etiopia, che era sim­ bolicamente rappresentata dal gruppo dei ras e da questo distinto giovane dalla barba nera e dall’enorme cappello, cominciò a significare qualcosa e questo viaggio ufficiale rimase impresso nella mente di tutti per lungo tempo. Ras Tafari si doveva essere reso conto per la prima volta che l’ar­ ma della propaganda era molto utile e estremamente importante, questa fu una lezione che non avrebbe mai dimenticato. La visita che fece a Roma non portò a risultati concreti in quanto Mus­ solini era troppo preoccupato per l’affare Matteotti. A Parigi ras Tafari regalò due dei suoi leoni al presidente Poincaré e due al Giardino Zoolo26

gico. La rimanente coppia di leoni fu donata al Re Giorgio V e in cambio gli inglesi fecero a ras Tafari un regalo molto più importante, gli dona­ rono la corona imperiale dell’imperatore Teodoro che era stata portata in Inghilterra da Lord Napier nel 1868. « Il gesto di Re Giorgio V », scrisse il console inglese Hodson nella lontana cittadina di Magi « di re­ stituire la corona etiope all’Imperatrice in occasione della recente visita di ras Tafari all’Inghilterra ha fatto una grande impressione nel sud-ovest. » Il 1926 vide la morte dell’Abuna Matteos e del fitaurari HapteGiorgis che era l’altro capo sopravvissuto al vecchio regime. Morì il 12 dicembre 1926 esattamente tredici anni dopo la morte del suo signore Menelik. Con queste due morti veniva meno il precario equilibrio di potere fra i tradizionalisti e i progressisti. L’imperatrice Zauditù sembrava più isolata e pareva che ras Tafari fosse molto vicino a raggiungere il suo scopo che era quello di concentrare tutto il potere nelle sue mani. Come prima cosa chiamò tutti i governatori nella capitale affinché si rendessero conto che la situazione era cambiata e prendessero atto della sua supremazia. Vennero tutti fuorché il degiacc Balcha. Per anni il degiacc Balcha ave­ va governato la provincia sud-occidentale di Sidamo come se fosse stata il suo feudo personale e non aveva mai pagato le tasse al governo centrale verso il quale non aveva alcun rispetto. Alla presenza di un visitatore inglese aveva chiamato ras Tafari « mezzo uomo, mezzo serpente », e quan­ do gli fecero presente che avrebbe dovuto stare più attento a come parlava di fronte alla servitù, disse che non aveva alcuna importanza perché aveva fatto tagliar la lingua a tutti i suoi servi. Passarono alcuni mesi e fu inviata una seconda convocazione a Sidamo e si diceva che l’imperatrice Zauditù avesse contemporaneamente mandato a Balcha il suo anello come segno per fargli capire che avrebbe potuto venire quando questi lo avesse ritenuto opportuno. Il degiacc Balcha annunciò che sarebbe arrivato e un mese dopo venne davvero a Addis Abeba ma con diecimila uomini e con essi si accampò a tre miglia a sud della capitale. La corte e il popolino erano ansiosi di vedere come sarebbe finita que­ sta contesa per il potere. Balcha poteva contare sulla sua reputazione di valoroso guerriero, sulla fedeltà dei suoi uomini e sulla fedeltà che egli stesso aveva dimostrato a Menelik e a Scioa all’epoca in cui Ligg Yasu era stato deposto nonché sull’appoggio segreto dell’Imperatrice. Contro di lui c’era il giovane reggente, « l’infingardo », come Balcha l’aveva sempre sprezzan­ temente chiamato. Tafari fece la prima mossa: l’invitò ad un banchetto che avrebbe avuto luogo al Grande Ghebbì. Il degiacc Balcha accettò: ma avrebbe potuto portare, chiese, in onore al suo ospite la sua guardia personale? Natural­ mente, rispose il messaggio del reggente ; a proposito di quanti uomini era composta la sua guardia personale? Soltanto di seicento, fu la risposta man­ data dal ghebbi di Balcha. La risposta del reggente fu sospettosamente accondiscendénte. Eppure, temendo un tradimento, Balcha avvisò i suoi uomini che non avrebbero

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dovuto mangiare né bere troppo al ghebir, una festa tradizionale, o sarebbe­ ro stati frustati. A cavallo del suo mulo da cerimonia e scortato dai suoi seicento uomini, Balcha arrivò al Ghebbì di Menelik. Il banchetto fu splen­ dido e Tafari fu generoso di lodi per il degiace, per gli uomini del degiacc e per la sua capacità quale governatore. Balcha cominciò a pensare di aver sopravvalutato il giovane; fece un gesto verso i fucili e le spade che i suoi uomini avevano portato nella sala e annunciò a Tafari che se non fosse ritornato entro la mezzanotte il suo esercito aveva ricevuto l’ordine di at­ taccare la capitale. Con il passare del tempo il festino si animò, si bevve parecchio e gli uomini di Balcha cominciarono i canti della « cerimonia del vanto ». Arrivarono fino al tavolo dove stavano pranzando i loro si­ gnori, facendo ondeggiare le loro armi, lodando Balcha e denigrando tutti gli altri signori d’Etiopia. Gli uomini di Tafari cominciarono ad inner­ vosirsi e si fecero impazienti. Con affettata cortesia ras Tafari chiese loro di far silenzio — a meno che non avessero delle canzoni da cantare in onore dei loro ospiti. Il degiacc Balcha e i suoi uomini lasciarono il Grande Ghebbì un bel po’ prima della mezzanotte, ben pasciuti e soddisfatti, accompagnati da salve di cannoni. Quando arrivarono al Ghebbì di Balcha si accorsero che la pianura circostante era deserta. Mentre al Gran Ghebbì si banchettava il ras Cassa faceva visita aH’accampamento del degiacc Balcha. Aveva portato con sé molti sacchi pieni di dollari e un certo numero di bastoni. Non si seppe nulla dell’uso che fecero dei bastoni ma si sa che furono offerti dieci dollari in cambio di ogni fucile. Nel giro di poche ore l’eser­ cito di Balcha non esisteva più; ras Cassa spinse gli uomini ormai disar­ mati sulla strada per il Sidamo dove rimase ad aspettare Balcha nel caso il degiacc avesse cercato di riconquistare la sua provincia. Ma Balcha sapeva di essere stato sconfitto — o quasi. Liquidò personal­ mente la sua guardia e con l’aiuto dell’Echege si rifugiò nella chiesa di S. Raguel sul monte Entotto che dominava la capitale. Ras Tafari non commise l’errore di violare un santuario. Circondò invece la residenza del­ l’Echege con le sue truppe che lentamente ma sistematicamente gli resero la vita impossibile. Contemporaneamente aveva appostato l’artiglieria in­ torno a S. Raguel e dava un ultimatum di 24 ore al degiacc Balcha. Que­ sto sapiente miscuglio di bluff e terrore funzionò. Il degiacc Balcha si arrese e fu messo in prigione per due anni e poi liberato a condizione che firmasse una « confessione » e si ritirasse in un monastero. Egli firmò e si chiuse nel monastero e per i seguenti due anni non ci fu altra possibilità di spodestare Tafari. Lentamente Tafari Maconnen si era fatto strada verso il potere asso­ luto, con attenzione e sistematicamente, senza mai rischiare una mossa falsa o di mettersi in una situazione pericolosa. Da degiacc era diventato ras e da ras Negus: il Negus di tutta l’Etiopia e non solo di una provincia come in genere succedeva. Il solo Negus del paese in quanto per tutta la durata del suo lungo regno non avrebbe mai più concesso questo titolo a nessun altro. La Chiesa si mostrava sottomessa e l’Imperatrice era ormai

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una figura puramente simbolica, sembrava proprio che Tafari avesse vinto la sua lunga battaglia. Ma in Etiopia non era mai molto facile mantenere una posizione di potere e non lo era neppure adesso. Nel mese in cui ras Tafari fu incoronato Negus i Raya Galla si ribel­ larono nel Uollo. La rivolta iniziò dapprima a Lasta, si estese poi a Yeggiu il cui governatore si trovava in visita ufficiale in Italia. Fallirono molti tentativi fatti da Dessiè per domare la rivolta e tutto l’Uollo era in grande fermento ,0. Fu ordinato ai comandanti delle province vicine di riunire i giovani guerrieri e di dar inizio all’invasione. Il cugino fidato Immirù fu trasferito da Harar a Dessiè e fu fatto governatore del Uollo perché la rivolta stava prendendo una brutta piega. Gli intrighi dei nobili che avrebbero dovuto domare la rivolta erano an­ cora più preoccupanti della rivolta stessa. Il ras Chebedde veniva sospet­ tato di appoggiare i rivoltosi11 e si venne a sapere che il ras Gugsa stava tramando con il capo dei Raya Galla, Irissa Dangom. Il ras Gugsa Uule era nipote del grande ras Batul, figlio di un padre tradito e nipote dell’imperatrice Taitù nonché marito divorziato dell’im­ peratrice Zauditù, era un principe ambizioso e incline alla guerra. Nel Beghemder e in tutto il paese si pensava che sarebbe diventato impera­ tore. Era stato distratto per molto tempo dall’ostilità di suo cugino Ayaleu Burrù « un adolescente ». Del cugino aveva detto indignato « chi ho mai allevato alla mia corte » 12. Con l’assenza di Aialeu impegnato a combat­ tere i ribelli Galla a Lasta ras Gugsa Uule riuscì a portare la maggior parte del Semien, il territorio di Aialeu, sotto il suo controllo. Data la sua nascita e la sua posizione, egli rappresentava un pericolo molto più serio per il Negus di quanto lo fosse stato il degiacc Balcha. Il ras cercava di accattivarsi le simpatie dell’Etiopia tradizionalista met­ tendo in evidenza il fatto che Tafari subiva in misura eccessiva l’influenza dello straniero — a tal punto che, segretamente, era diventato un cattolico della Chiesa di Roma. Ma la reazione di Tafari fu immediata. Dall’Egitto venne un nuovo Abuna che si chiamava Kyrillos. reggente. Quattro monaci etiopi furono consacrati vescovi al Cairo: l’AbA tutto ciò si aggiungeva un problema più serio. Alla morte del ftaurari imperiale HapteGiorgis, Tafari aveva lasciato che il Mahel Safari, l’eser­ cito del Centro, si disperdesse; evidentemente riteneva che gli uomini di questo esercito erano troppo devoti all’imperatrice Zauditù. Il nuovo mi­ nistro della guerra il degiacc Muluguetà poteva contare solo su 16.000 uo­ mini in tutto e quando alla fine di gennaio si mise in marcia verso il nord di Dessiè era riuscito a riunirne solo 2.000; prese cinque cannoni e sette mitragliatrici e si portò nella pianura di Anchim vicino al confine con il Beghemder. Nel frattempo il ras Gugsa Uule stava concentrando a Debra Tabor un esercito forte di 35.000 uomini e tutti molto fedeli. La loro fedeltà fu messa in discussione dal proclama imperiale del 17 Yakatit (24 febbraio) emanato congiuntamente dall’Imperatrice e dal Ne­ gus che dichiarava che il ras Gugsa Uule era un ribelle. Allegato al pro­ clama vi era anche un anatema firmato dall’Abuna Kyrillos e dai cinque 29

vescovi di recente nomina vale a dire Saurios, Abraham, Petros, Mikael e Isaac che era stato inviato a tutti i monasteri del Beghemder per essere divulgato. « E perciò » concludeva l’anatema « colui che seguirà il ras Gugsa Uule e ne diverrà seguace, sarà perseguitato e scomunicato, la sua vita e la sua carne verranno bandite dalla comunità cristiana. » Il 28 marzo l’esercito del Beghemder varcava i confini per portarsi a sud verso Scioa e qui fece un’esperienza inusitata. Fu sorvolato da tre bi­ plani che gettavano sugli uomini in marcia migliaia di copie del proclama imperiale e episcopale: questa era la prima volta che l’Etiopia si avvaleva della guerra psicologica che, naturalmente, era stata ideata dall’ingegnoso Tafari. Ma non fu sufficiente fermare gli uomini del ras Gugsa Uule. Tre gior­ ni dopo la battaglia infuriava nella pianura di Anchim. Uondossen Cassa era alla testa dell’avanguardia scioana. Aialeu Burrù comandava l’ala de­ stra e il fitaurari Fikremariam, comandante delle truppe di Uollo, era alla testa dell’ala sinistra. Alla retroguardia c’erano i generali più anziani come il degiacc Muluguetà che era stato uno di quelli di Menelik e il degiacc Adafrisau che aveva fatto parte dell’esercito di Maconnen, en­ trambi erano due veterani di Adua. La battaglia iniziò con la drammatica apparizione dei biplani : sor­ volarono l’esercito del Beghemder alle nove sganciando piccole bombe e delle bombe a mano. Per quattro ore l’esercito, terrorizzato, subì l’attacco. Da parte scioana si distinsero Uondossen Cassa e Aialeu Burrù. Gli uo­ mini del Gondar cominciarono a disertare e poco prima di mezzogiorno il ras Gugsa Uule era completamente accerchiato e gli fu intimato di arrendersi. Ma rifiutò e morì combattendo. Il suo vice-comandante il fitau­ rari Shumye continuò a battersi finché fu catturato nel tardo pomerig­ gio. I Raya Galla, su cui ras Gugsa Uule aveva fatto conto, arrivarono con un giorno di ritardo. Il degiacc Burrù UoldeGabriel e l’esercito di Sidamo entrarono incontrastati a Debra Tabor. La morte del condottiero segnava, come sempre in Etiopia, la fine della campagna. Gli uomini del Beghemder non resistettero a lungo. Tutti i territori che erano apparte­ nuti al defunto Gugsa Uule furono dati al ras Gassa; infatti il capo effet­ tivo diventò suo figlio Uondossen che fu installato a Debra Tabor in qua­ lità di governatore. Aialeu Burrù, l’altro eroe della battaglia, che aveva sempre eccessivamente simpatizzato con il clan Batul di cui era adesso l’unico condottiero superstite, dovette accontentarsi di piccole nomine e gli fu persino negato il titolo di ras. Il suo popolo compose una canzone: « Ayaleu lo stupido, l’ingenuo si fida degli uomini. Si fida degli uomini. » Due giorni dopo la battaglia nella pianura di Anchim l’imperatrice Zauditù moriva improvvisamente a Addis Abeba u. Il giorno seguente, il 3 di 30

aprile, nella capitale fu emesso un Awaj, un proclama: per unanime con­ senso della nobiltà e del popolo, per il supremo bene dell’Impero, il Negus Tafari Maconnen assurgeva al trono imperiale con il titolo di Sua Maestà Imperiale Hailé Selassie I, Negus Neghesti, Re dei Re.

CAPITOLO TERZO

IMPERATORE D’ETIOPIA

L’incoronazione del nuovo imperatore ebbe luogo il 2 novembre 1930 dopo un periodo di lutto stretto da parte dell’Imperatrice e al termine della stagione delle piogge. Fu una cosa grandiosa e insperatamente ben riuscita in quanto molti degli ospiti europei che avevano accettato l’in­ vito vennero veramente ad assisterla. I tedeschi mandarono 800 bottiglie di vino bianco del Reno e delle fotografie con firma autografa del gene­ rale von Hindenburg e il barone von Waldthaussen in persona. I belgi che avevano già provveduto ad inviare dei consiglieri militari per adde­ strare la guardia imperiale furono rappresentati dal nuovo ministro pleni­ potenziario Janssens; le delegazioni al loro arrivo alla stazione ferroviaria di Addis Abeba venivano accolte dalla Guardia al comando di sei ufficiali belgi e dalla banda diretta da Nicoud, un capobanda svizzero. Dal Cairo arrivarono un certo numero di ambasciatori in rappresentanza dei loro paesi: Sua Eccellenza M.H. de Bildt di Svezia accompagnato dal conte Eric von Rosen, un tenente delle guardie reali a cavallo, la contessa (nata barone Rosenorn Lehn) e il conte Stan von Rosen; Sua Eccellenza Isabaro Yoshida in rappresentanza del Giappone, Sua Eccellenza il generale Muhittin Pascià di Turchia e, quale rappresentante dell’Egitto, Sua Eccel­ lenza Mohammed Tewfik Nessim Pascià con una gran quantità di bauli di ferro contenenti « dei bellissimi ma non eccezionali mobili per una camera da letto » (come ben riportò Evelyn Waugh che aveva viag­ giato con i venti uomini della delegazione egiziana). Ma la delegazione più grandiosa fu senz’altro quella inviata dall’impe­ ro britannico : a capo era il Duca di Gloucester e i doni erano piuttosto mo­ desti : « un paio di scettri di gran classe con incisa un’iscrizione in amarico che era quasi corretta ». Insieme al Duca di Gloucester venne, oltre al Conte di Arilie e al giovane Wilfred Thesiger, inviato personalmente dall’Imperatore in segno di gratitudine per l’opera svolta dal padre, una banda della marina condotta dal maggiore Simpson che si sarebbe rivelato il primo attore per tutti i dieci giorni di quelle rappresentazioni cerimo­ niali. La delegazione era composta anche da un gruppo di proconsoli quali Sir John Maffey, il governatore generale del Sudan anglo-egiziano, Sir H. Baxter Kittermaster, governatore della Somalia britannica e Sir Stewart Symes, governatore di Aden. 33

L’Imperatore e l’Imperatrice furono incoronati dall’Abuna nel corso di una interminabile cerimonia che si svolse nella chiesa della Trinità. Waugh scrisse 1 di tutti quei diplomatici che i loro volti erano « tesi e contratti, e i loro abiti li facevano apparire ancora più fuori posto. Solo il maresciallo d’Esperey manteneva intatto il suo aspetto dignitoso, il petto in fuori, il bastone sul ginocchio, rigido come un monumento di guerra, e, a quanto sembrava, completamente sveglio ». Era una cerimonia organizzata ad uso e consumo degli stranieri, rical­ cava a grandi linee l’incoronazione a cui ras Maconnen aveva assistito con meraviglia ventotto anni prima in Inghilterra, ideata per destare meraviglia nel mondo intero e in effetti colpì nel segno anche se non proprio come era nelle intenzioni dell’Imperatore. Addis Abeba infatti era una città fa­ tiscente e i paraventi approntati in fretta per nascondere gli squallidi sob­ borghi agli occhi dei visitatori bardati a festa non riuscirono compiutamente nell’intento. La guardia reale addestrata per l’occasione si compor­ tava in modo impeccabile ma gli uomini non indossavano calzature di alcun genere. Le macchine mandate a Diredaua per portare la prima co­ lazione agli ospiti appena arrivati scaricavano porridge, aringhe affumi­ cate, uova e champagne. L’albergo ancora in costruzione dove alloggiava la banda della marina era dotato di spazzole per capelli, appendiabiti e sputacchiere smaltate nuove di zecca. Era una città che era sorta disorganizzatamente intorno ai ghebbi di Menelik e dell’alta nobiltà e era abitata, a quest’epoca, da una vasta co­ munità formata da varie razze. Ai piedi della scala sociale c’erano i com­ mercianti indiani provenienti da Harar, circa millecinquecento dei com­ ponenti erano dei musulmani Bohra e il capo di questa comunità, tale G.M. Mohammedally, era proprietario della più grande catena di negozi di tutto il paese, la comunità comprendeva anche qualche Indù. A metà della scala si trovavano le colonie greche e armene e ognuna di queste era due volte più numerosa degli indiani. Ai margini vivevano gli avventurieri quali Albert Nicoud, il capoban­ da, che aveva lasciato il posto di agente consolare svizzero per diventare un maggiore dell’esercito etiope2; un francese di Carcassonne che aveva impiantato un’azienda di importazioni-esportazioni e diventò agente della Shell per Mogadiscio e l’Asmara nelle colonie italiane e, più importante di tutti e due, il Fitaurari Babitchev che era arrivato in Etiopia nel 1895 con la missione Leontiev3 quale portabandiera del 9° Dragoni di Kazan quello' della granduchessa Maria Nicolayevna e che, rassegnate le dimis­ sioni, si era messo al servizio dell’Etiopia e era stato nominato Fitaurari dal reggente d’allora il ras Tessemà e aveva sposato Uoizerò Tekebec Uolde Tsaddik, figlia di un anziano e rispettabile uomo di stato. Nel 1930 suo figlio Mischa veniva addestrato da tre piloti francesi che erano stati ingaggiati per formare un’aviazione embrionale ed erano stati poi impiegati con molto successo contro il ras Gugsa Uule. La figlia maggiore aveva sposato il degiacc Nasibù Emmanuel e la più giovane aveva invece sposato un giovane nobile altrettanto importante, il Bituoded Ghetacciù 34

Abate, figlio e erede dell’ambizioso ras Abate uno dei pretendenti al trono dopo la morte del reggente ras Tessemà. Le missioni delle sette protestanti che si erano stabilite per prime nel paese erano la Missione Interna americana del Sudan e la Missione Evan­ gelica svedese, i primi svedesi erano arrivati a Massaua nel lontano 1866. Hanner che era stato nominato console svedese nel 1930 era il direttore dell’ospedale di Beit Saida. Al vertice della scala sociale c’erano naturalmente i diplomatici. Nel 1930 sei paesi avevano già la loro rappresentanza diplomatica nella capi­ tale; le legazioni erano composte da molti diplomatici che abitavano i tukul e gli edifici sparsi in una vasta zona residenziale ai bordi della capi­ tale: Menelik e i suoi successori avevano messo a disposizione delle varie nazioni queste splendide residenze. Nell’angolo nord-orientale della città c’erano cinque delegazioni, piut­ tosto vicine ma non appiccicate: la delegazione americana si trovava a due o tre miglia, ad ovest del centro della città, dall’Albergo Imperiale, dalla cattedrale di S. Giorgio e dai negozi di Mohamedally. Janssens, il ministro belga era il decano del corpo diplomatico ma i membri più importanti erano senz’altro i ministri inglese e italiano — il mi­ nistro francese 4 e tedesco avevano meno carne al fuoco. Sir Sidney Barton era il ministro inglese, un eccentrico che per 34 anni era stato nel servizio consolare in Cina e che, essendo sopravvissuto alla rivolta dei Boxer sapeva cosa voleva dire un attacco alla delegazione. Si tro­ vavano sotto la sua giurisdizione un gruppo di consolati britannici dislo­ cati nel sud e nel sud-ovest del paese: a Magi dove il console cercava di tenere sotto controllo il contrabbando di armi e d’avorio ai confini segnati dalle colline fra l’Etiopia, il Kenya e il Sudan che erano pressoché incon­ trollati ; a Danghila nel Goggiam dove Roberto Cheeseman, l’esploratore, te­ neva d’occhio le acque del Nilo che costituivano la maggiore preoccupa­ zione imperiale dell’Inghilterra, a Moyale nel profondo sud alla frontiera con il Kenya; a Gore e Gambela all’ovest e a Harar all’est: sei in tutto. Nel 1932 gli italiani (il cui ministro ad Addis Abeba veniva continuamente sostituito) avevano già creato sei consolati: a Adua, Gondar, Dessiè, Debra Marcos che erano le rispettive capitali del Tigrai, Beghemder, Uollo e Goggiam, a Magalo nella provincia di Arussi che non era molto lontana dal confine somalo e a Harar — dove, data l’esistenza di un con­ sole francese a Diredaua, che si trovava sul sottostante percorso della ferrovia, fiorivano gli intrighi internazionali. Se il compito principale del console britannico consisteva nel controllare le zone di frontiera in collaborazione con i commissari di distretto attra­ verso la via per il Kenya e il Sudan, il compito primo dei consoli italiani era quello di raccogliere informazioni e di riferire sulla politica locale al fine di assicurarsi che la voce e l’influenza dell’Italia fossero sentite e che di tanto in tanto anche gli aiuti finanziari italiani potessero essere ap­ prezzati. La politica di Hailé Selassié, adesso che era al potere, non era affatto 35

quella di limitare l’influenza straniera; al contrario se voleva che i suoi programmi di ammodernamento dell’Etiopia avessero successo avrebbe avuto sempre più bisogno dell’aiuto straniero. Ma egli era perfettamente cosciente dei pericoli che comportavano gli aiuti da parte degli stranieri e in particolare del pericolo che avrebbe comportato il fare affidamento sulle potenze coloniali vicine quali la Francia, l’Italia e l’Inghilterra. Per cui scelse i suoi consiglieri, nel limite del possibile, fra le nazioni meno importanti e più lontane. Questo è il motivo per cui per ovviare alla sua più grande preoccupazione che era quella di formare un esercito moderno, si era rivolto ai belgi. Chiaramente il Belgio rappresentava una potenza coloniale in Africa ma il Congo belga non aveva frontiere ai confini con l’Etiopia e sicura­ mente i belgi non nutrivano alcuna ambizione per una espansione territo­ riale in un luogo che era gelosamente controllato dai suoi maggiori vicini europei. Inoltre l’eroismo che i belgi avevano dimostrato nella Prima Guerra Mondiale aveva garantito all’esercito di questo piccolo paese un’ot­ tima reputazione. Non fu soltanto per addestrare la guardia imperiale in occasione dell’incoronazione che il Negus Tafari aveva invitato il ministro belga a inviare una missione militare. Al contrario il suo obiettivo era quello di formare con l’impiego della Guardia un piccolo esercito regolare ben armato e addestrato su modello europeo che gli avrebbe consentito di domare subitaneamente qualsiasi ras ribelle. Nel dicembre 1933 il colonnello Stevens, l’addetto militare inglese a Roma, nel corso di una visita a Addis Abeba aveva ispezionato la Guardia e riferì a Hailé Selassie che li aveva trovati « veramente notevoli ». Adesso all’Etiopia occorreva una facciata politica moderna; questo non implicava soltanto la stesura di una Costituzione, la prima della storia etiope, ma anche un intero gruppo di nuovi consiglieri esteri; l’avvocato Auberson, un avvocato svizzero esperto in questioni costituzionali, de Halpert, un inglese che aveva ricevuto l’incarico di presiedere la commis­ sione per l’abolizione della schiavitù e, più importante di tutti, Colson, un americano dal carattere forte che era stato inviato dal Dipartimento di Stato e che era la vera mente delle relazioni straniere dietro l’Etiopia e in particolare nelle trattative con la Società delle Nazioni. Ma i tre personaggi di maggior levatura della « nuova » generazione erano tre nuovi ministri e cioè il Ministro di Grazia e Giustizia, il Mini­ stro degli Interni e il Ministro degli Affari Esteri. A differenza di molti ministri di giustizia il Bituoded Maconnen Demissie si era trovato in disgrazia e era stato in prigione: era caduto in disgrazia per essere fuggito con Yasciascià Uorq, figlia di Yilma Maconnen e della nipote preferita di Hailé Selassié e era stato messo in prigione (anche se per poco tempo) per aver appoggiato l’imperatrice Zauditu. Eppure nessun altro avrebbe potuto essere più adatto di lui per ricoprire quest’incarico anche se non lo mantenne a lungo. Come suo padre il ras Demissie e suo nonno ì’afenegus Nasibù era famoso per la sua generosi­ tà e per essere incorruttibile. Era un ospite perfetto — i suoi ricevimenti 36

erano molto famosi — e come molti nobili etiopi era affascinato dai con­ gegni meccanici e in particolare dalle armi. Ogniqualvolta che una nuova arma arrivava al Ghebbi il Bituoded Maconnen veniva chiamato a stu­ diarla; e per suo divertimento era solito smontare una mitragliatrice e senza istruzioni rimontarla bendato. Era molto ammirato per questa sua capacità ma era anche molto amato per la solidarietà che dimostrava ver­ so i poveri. Si diceva che se egli incontrava un mendicante gli dava tutti i soldi che aveva con sé in quel momento. « Posso solo descriverlo » disse di lui molti anni dopo ras Immirù « come un uomo che sembrava amasse veramente l’umanità, vale a dire che trasudava affetto per ogni persona con la quale veniva in contatto. Sì, era un uomo diverso. » Il Ministro degli Esteri Blattenguata Herouy Uolde Selassié era uno scioano e uno scrittore5. Era sui cinquanta e era forse la persona che aveva viaggiato di più in Etiopia: aveva assistito all’incoronazione di Gior­ gio V, aveva preso parte ai negoziati di pace a Versailles, aveva soggior­ nato a Ginevra e accompagnato ras Tafari nel giro di visite ufficiali che aveva fatto nel 1924. « Parla l’inglese » diceva un rapporto diplomatico italiano datato 1926 « e merita una particolare attenzione. » I suoi due figli Fekade Selassié e Sirak erano stati mandati a studiare a Cambridge. Ai suoi tempi era stato presidente del Tribunale Speciale, inoltre Kantiba di Addis Abeba e editore del quotidiano di Tafari Berhanena Sa­ lam. Subito dopo l’incoronazione fu inviato quale ambasciatore straordi­ nario in Giappone, ufficialmente per congratularsi con l’imperatore Hirohito in occasione della sua incoronazione nel 1928 — una cortesia fra giovani imperatori — ufficiosamente per vedere se l’ultimo piano di Hailé Selassié, che era quello di modernizzare l’Etiopia sul modello giapponese, poteva essere preso in considerazione. Al suo ritorno scrisse un libro descri­ vendo e lodando il Giappone e consigliandolo quale modello. Questo pro­ gramma avrebbe causato la stesura di innumerevoli rapporti nell’ambiente diplomatico occidentale in quanto già nel 1931, data dell’invasione giap­ ponese della Manciuria, c’era stata una crisi nella Società; il Giappone era temuto dall’Occidente ed essa aveva rivelato per la prima volta di ave­ re una posizione di debolezza nei confronti di un eventuale aggressore. Le potenze occidentali non desideravano affatto avere un altro Giappone in Africa; ma ciò non accadde. Se Addis Abeba era un centro di attività diplomatiche — il solo in Afri­ ca in quanto era il solo paese indipendente oltre alla Liberia — gli Etiopi da parte loro si rendevano perfettamente conto di quanto fosse importante stabilire delle relazioni diplomatiche all’estero. Charles Martin, alias Azaz Uorkneh, il ministro della delegazione lon­ dinese, aveva avuto un’esistenza rocambolesca. Quando la spedizione di lord Napier aveva conquistato Magdala nel 1868, aveva trovato fra i prigionieri un bambino di tre anni. Due colonnelli umanitari, il colonnello Charles e il colonnello Martin, decisero di prendersi cura di lui e lo por­ tarono in India con loro dove lo fecero battezzare mettendogli i loro nomi. Il giovane etiope crebbe in India e nel 1887 si laureò al Medicai 37

College di Lahore. In seguito viaggiò dalla Scozia alla Birmania come uf­ ficiale e ritornò al suo paese all’epoca di Adua dove ritrovò i suoi pa­ renti e assunse il suo nome originario, combattè con Mullah il pazzo con l’esercito anglo-etiope, ritornò in Birmania, poi si recò nuovamente in Etiopia quale chirurgo al servizio della delegazione inglese, quindi ritornò ancora una volta in Birmania; nel 1920 andò in pensione quale funzio­ nario del governo inglese. Ritornò in Etiopia quale consigliere e fondò e diresse la Scuola Tafari Maconnen6 che lasciò per recarsi a Londra e vi­ vere a Prince’s Gate dove il governo etiope aveva acquistato una casa. Era stata una carriera straordinaria e ancora più incredibile era il fatto che il Foreign Office non sembrava essere a conoscenza del passato del nuovo ministro etiope e neppure del fatto che egli era da un punto di vista tecnico un cittadino inglese. Con il suo perfetto inglese e la sua vasta conoscenza della mentalità britannica, la sua numerosa e allegra famiglia dalla pelle scura ma con nomi tipicamente inglesi 7 egli divenne molto noto nei circoli diplomatici londinesi, benché non avesse mai raggiunto il succes­ so sociale del conte Grandi, il rappresentante italiano. Il ministro della delegazione parigina aveva lo stesso straordinario background del ministro di Londra. Il begerond Tekleauariat si presen­ tava per molti aspetti come la controparte del Fitaurari Babitchev in quanto, dopo Adua, durante la sua giovinezza aveva vissuto in Russia per diciassette anni dove aveva raggiunto il titolo di colonnello dello Zar al servizio dell’esercito imperiale russo. Aveva lasciato la Russia poco prima che i tempi si facessero duri per i colonnelli onorari dell’eser­ cito imperiale e aveva soggiornato per un breve periodo a Aden da dove ritornò in Etiopia per avere una parte di primo piano nel colpo di stato scioano nei confronti di Ligg Yasu. Fu lui a spingere il nuovo imperatore a introdurre una costituzione; quando Hailé Selassié acconsentì, il bege­ rond aveva già interpellato tutti i rappresentanti stranieri perché gli for­ nissero delle copie della costituzione vigente nei loro paesi8. La scelta cadde sulla costituzione imperiale giapponese del 1889: consisteva in un senato nominato dall’Imperatore e di una camera dei deputati eletta dai notabili, entrambi avevano solo una funzione consultiva. Se poi fosse man­ dato a Parigi per paura che diventasse un personaggio troppo influente piuttosto che per la sua abilità diplomatica non si seppe mai. In ogni caso la costituzione, che era stata annunciata nel luglio del 1931, fu formalmente firmata nel mese di novembre. Per questa grande occasione Hailé Selassié aveva invitato tutti i tradizionali capi provin­ ciali nella capitale affinché si installassero quali primi senatori dell’impe­ ro. Non fu che un ennesimo stratagemma poiché una volta installatisi, i nobili scoprirono che i nuovi compiti impedivano loro di ritornare imme­ diatamente alle rispettive provincie e quando lo poterono fare sei mesi più tardi alcuni amministratori al diretto servizio dell’Imperatore si erano già intrufolati nelle amministrazioni dove rimasero quali cani da guardia. Due ras avevano però rifiutato l’onorificenza che veniva loro così gen­ tilmente offerta. Ras Cassa aveva mandato a dire che non avrebbe po38

tuto essere presente in quanto era occupato a fare penitenza. Ras Hailù si limitò a riferire che non poteva parteciparvi. Si pensò che ras Hailù fosse seccato per non essere stato nominato Negus dal nuovo imperatore. Il che era probabile e fu anche, molto probabilmente, il più grosso errore di Hailé Selassié. Menelik, dopo aver sconfitto in battaglia il padre di ras Hailù il Negus TekleHaimonot, aveva personalmente ri-incoronato il Re che si era sottomesso e si era così assicurato la sua fedeltà. Se fosse stato nominato Negus, come era avvenuto per suo padre, ras Hailù sarebbe quasi certamente stato soddisfatto; era un onore a cui egli teneva in modo particolare perché era un figlio illegittimo con tutte le implicazioni psico­ logiche di necessità di affermazione personale che questo fatto gli com­ portava. Goggiam, la ricca e fertile provincia di cui il Negus TekleHaimonot era stato il capo, si trova sulla curva che il Nilo Azzurro fa attorno alla sua sorgente nel lago Tana. La ripida gola del Nilo formava una barriera naturale fra Goggiam, Scioa a est e il regno Galla e i distretti a sud. Al suo nord, trincerato dietro invalicabili montagne c’era il Beghemder, a ovest il contrafforte di montagne che si gettano ripide nei deserti del Sudan. Isolati dalla loro posizione geografica i Goggiami erano costantemente quasi indipendenti, sebbene non fossero mai stati dei separatisti poi­ ché il vincolo della religione era troppo forte, in tutta l’Etiopia non c’era una regione che fosse più devota ai suoi preti del Goggiam e alle sue pra­ tiche religiose, al punto da rasentare l’austerità. Dal 1908 in poi ras Hailù aveva governato il Goggiam con una gran­ diosità che andava sempre più aumentando. I visitatori europei, che erano molti se si pensa alla fama che ras Hailù aveva per la sua generosità e data la vicinanza del Goggiam al Sudan e all’affascinante Nilo, avevano tutti avuto dei bellissimi ricordi della sua splendida ospitalità, della sua magnifica casa risplendente di luci — l’elettricità era una vera rarità in Etiopia - dei suoi grandiosi banchetti dove gli ospiti di sesso opposto ballavano insieme con orrore dei tradizionalisti, le accoglienze reali, le musiche dei guerrieri e la sua impeccabile cortesia nonché le sue nume­ rose concubine. Dopo la sua prima visita in Europa avvenuta nel 1924 aveva importato nel Goggiam la prima autovettura, una Rolls-Royce, che arrivò in pezzi da montare e aveva fatto costruire appositamente una strada per Debrà Marcos su cui poterla guidare; aveva chiesto a un visi­ tatore se pensava che i trattori e gli aratri americani fossero adatti per l’Etiopia. A Addis Abeba aveva effettuato degli investimenti in alberghi, cinema, un servizio di noleggio macchine e nel primo night-club della città. Come tutti i nobili etiopi apprezzava in modo particolare che gli venissero regalati dei bei fucili e carabine. Per potersi permettere una corte così grandiosa tassava il suo popolo in modo crudele e cinico ma pareva che la popolazione non ne fosse particolarmente scontenta. Era l’equivalente etiope di un principe rinascimentale dato il suo entusiasmo per lo sviluppo delle arti e per il progresso della tecnica. In politica ras Hailù era sempre stato molto accorto; lasciava raramen-

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te la sua provincia e solo per incontrare i nuovi capi della capitale, chiun­ que fossero, per offrire loro la sua alleanza solo dopo che si erano stabil­ mente installati al potere; prometteva loro aiuti per le spedizioni militari ma evitava sempre per un motivo o per l’altro di essere coinvolto in cam­ pagne militari. Nel 1910 sua figlia Sableuongel era stata data « in sposa» a Ligg Yasu ma Ligg Yasu detestava l’avidità e l’ambizione del futuro suocero e era attratto dalle meno raffinate fanciulle musulmane. Venti anni dopo ras Hailù sospettato di prestare aiuti al ras Gugsa Uule; si disse che furono trovate delle lettere che lo incriminavano. Sebbene fosse stato assolto dal nuovo imperatore i loro rapporti non erano molto facili. Ras Hailù fu pertanto molto felice di ricevere da Hailé Selassié una proposta di matrimonio fra il figlio e erede dell’Imperatore AsfaUossen dell’età di sedici anni e la sua secondogenita Dinchinese9 in quanto at­ tendeva invece con timore l’ordine per una convocazione a palazzo. Per poter condurre meglio le trattative ras Hailù si recò alla capitale. Arrivò al suo ghebbi a Addis Abeba verso la fine del 1931 solo per rendersi conto che era stato gabbato; infatti sebbene la proposta di matrimonio fosse sincera le trattative si protraessero più del necessario. Ras Hailù si rese conto che era stato più facile arrivare a Addis Abeba di quanto non lo fosse lasciarla. Non lo consolò neppure la nomina in extremis a sena­ tore: rifiutò infatti di sottoscrivere la nuova costituzione contestando il fatto che, al contrario della tradizione salomonica, il successore al trono poteva essere scelto solo fra i discendenti diretti di Hailé Selassié. Questa clausola era stata contestata persino dal fedelissimo ras Cassa. L’alta no­ biltà non aveva difficoltà ad accettare il figlio di ras Maconnen quale imperatore ma non vedeva per quale motivo anche i loro stessi figli non avrebbero potuto beneficiare della stessa opportunità non sospettando che i loro figli sarebbero tutti morti prima di vedere la fine del regno di Hailé Selassié. È l’ora di presentare il degiacc Yghezzù. Vicino ai sessanta, figlio di Negradas Behabte, un servo della madre di Menelik, il degiacc Yghezzù fu descritto pochi anni dopo come « un personaggio molto somigliante a Menelik... un uomo di grande levatura fuorché in senso fisico, poiché le sue gambe erano vecchie e curve ». Menelik lo aveva fatto capo della Dogana di Harar per contrapporlo al ras Maconnen e dopo la morte di quest’ultimo egli aveva viaggiato molto quale Inviato Speciale a Roma, Vienna, Pietroburgo, Costantinopoli, Il Cairo e Gerusalemme, prima di diventare Ministro degli Esteri nel 1910. Ma una malattia della pelle lo aveva distrutto (i suoi nemici dicevano che si trattava di lebbra e che egli aveva cercato di curarla con la stregoneria) ; e egli aveva talmente modificato il carattere che persino i viaggi all’estero non erano riusciti a migliorare la situazione. Ma nel 1932 Yghezzù era uno dei consiglieri fidati dell’Imperatore e sebbene ricoprisse la carica di governatore distret­ tuale era molto spesso ad Addis Abeba. Il fatto più rilevante è che aveva sposato la figlia maggiore del ras Hailù, Uoizerò SableUongel — che era stata « sposata » a Ligg Yasu. 40

Alla fine del maggio 1932 il degiacc Yghezzù stava facendo le cure termali a Ambo quando un Galla entrò come una furia nelle terme con la notizia che Ligg Yasu era fuggito da Ficcò alla volta di Ambo, in cerca della moglie e del sangue di Yghezzù. Yghezzù ebbe appena il tempo di buttarsi addosso uno shamma musulmano prima di fuggire in macchina a Addis Abeba. Era una delle tipiche reazioni di panico che avevano fat­ to seguito alla fuga di Ligg Yasu. Non si era più visto per dieci anni ma non era stato mai dimenticato e nel cuore di molti era ancora il legittimo imperatore, sembrò pertanto che lo spettro della guerra civile potesse an­ cora una volta oscurare l’impero e sbalzare il nuovo Imperatore dal trono appena conquistato. Fu proclamato lo stato d’emergenza, furono chiuse le frontiere e interrotte le linee telefoniche e telegrafiche. Forse Hailé Selassié sospettava che Ligg Yasu potesse essere fuggito con la connivenza di ras Cassa e che pertanto il ras Cassa fosse sul punto di ribellarsi; ci furono delle voci che dicevano che ras Hailu aveva preso contatti con ras Cassa per deporre Hailé Selassié e rimettere Ligg Yasu sul trono. La versione « ufficiale » del complotto faceva ricadere tutta la responsabilità sul ras Hailù e sempre secondo questa versione il ras Cassa che si trovava nella capitale per le trattative del matrimonio reale aveva tradito ras Hailù informando l’Imperatore di ogni sua mossa e lo fece infine arrestare nel suo ghebbi nei dintorni a nord di Addis Abeba. Ma i racconti di questa congiura sono così contraddittori che è impossibile stabilire cosa veramen­ te fosse successo; si diceva anche che il ras Hailu avesse mostrato una let­ tera falsa scritta da Ligg Yasu all’imperatore per comprovare la sua fe­ deltà ma che una lettera autentica, recapitata da un Fitaurari nella quale Ligg Yasu spronava ras Hailù a raggiungerlo immediatamente e a solle­ vare il Goggiam, fosse stata intercettata e fosse finita nelle mani di Hailé Selassié. Comunque siano andate le cose l’Imperatore prese delle immediate mi­ sure di sicurezza; il Mahel Safari fu mandato a controllare i distretti di frontiera del Tigrai e della Dancalia, Maillet e Corriger decollarono per cercare di rintracciare il fuggitivo dall’alto; e un fidato giovane nobile, tale Destà Damteù, che aveva sposato la figlia maggiore dell’Imperatore, Tenagne Uorq, fu mandato con un gruppo di cavalieri a controllare la frontiera del Goggiam. Quattro giorni dopo la sua fuga, Ligg Yasu fu avvistato da Maillet e arrestato alla frontiera del Goggiam dal Fitaurari Ghesesse Belù, il ni­ pote di ras Hailù. Mentre ras Destà galoppava verso il luogo dove era stato arrestato per prendere in consegna il prigioniero incontrò il Fitaurari Gindo, uno dei comandanti di ras Hailù che stava cavalcando nella stessa direzione. « Perché tanti cavalli? », chiese Destà. « Per Ligg Yasu », rispo­ se ingenuamente Gindo. Il pericolo, se di pericolo si era trattato, era scongiurato. Si disse che Ligg Yasu, in catene, ma d’oro, fu portato nella sua prigione definitiva, una casa dalle alte pareti di pietra nel villaggio di montagna di Graua 41

sulla catena di montagne Garamulata nella provincia di Harar, quella di Hailé Selassié, dove ebbe per carceriere il prete Abba Hanna 10. Il ras Hailù fu processato il 30 giugno e condannato a pagare una multa di 300.000 dollari e a scontare l’ergastolo. L’11 di luglio fu messo su un treno, in un wagon-salon, diretto a Diredaua, per essere poi trasfe­ rito nella remota provincia di Arussi. Il fidanzamento di sua figlia con il Principe ereditario era andato a monte. Da Debrà Marcos, il console italiano Medici aveva già riferito al go­ vernatore dell’Eritrea 11 che da quando ras Hailù veniva trattenuto nella capitale si era creato un vuoto di potere e la criminalità stava aumen­ tando in modo preoccupante. Adesso riferiva che sebbene i Goggiami fossero felici di dover pagare meno tasse non vedevano però di buon occhio l’interferenza dei capi scioani che effettuavano l’inventario degli averi e dei beni di ras Hailù prima di spedirli a Addis Abeba. Quando nel mese di agosto Immirù fu promosso al rango di ras e nominato nuovo governatore del Goggiam, le proteste raddoppiarono. Alcuni capi locali avevano deciso di inviare una delegazione a Addis Abeba per chiedere all’Imperatore di lasciare il Goggiam ai Goggiami, altri andarono al con­ solato per chiedere l’appoggio italiano. Alem Saguet, un figlio diciot­ tenne di ras Hailù si ribellò e il vescovo Abraham del Goggiam dovette persuaderlo a accettare il perdono dell’imperatore. Andò a Addis Abeba, fu pubblicamente perdonato, fu ospitato nella casa di ras Destà, arrestato durante la notte e in catene portato a Ancober dove il ras Mangascià, il padre di Seyum, era morto. Gesesse Belù, colui che aveva catturato Ligg Yasu, era ancor più scontento degli altri anche se aveva mancato di dimostrarlo. Aveva creduto infatti, che quale membro della casa re­ gnante, avrebbe ricevuto tutto il Goggiam. Invece era stato solo promos­ so al grado di Degiacc e fatto governatore di un piccolo distretto. Dopo di questi non vi furono altri rilevanti complotti contro il nuovo Imperatore. Senza dubbio i potenziali pretendenti avevano passato in rassegna con sconforto la lunga lista dei loro predecessori i cui complotti per detronizzare l’imperatore erano miseramente falliti; sia che si fosse trattato di ex-imperatori o di imperatrici regnanti, di valorosi guerrieri o di giovani nobili, di signorotti o alti personàggi di corte, questi erano stati tutti smascherati e ridotti all’impotenza dal figlio di ras Maconnen e le loro ossa e i loro corpi riposavano in tutte le tombe e le prigioni d’Etiopia. Inaspettatamente e con molta fretta furono celebrati due matrimoni reali. Asfa Uossen fu sposato a Ualata Israel, la figlia del ras Seyum e alla fine dell’anno fu mandato a Dessiè per governare personalmente la sua provincia di Uollo sotto la guida del suo tutore Uoagiò Alì. Contem­ poraneamente Zenabe Uorq, la figlia preferita di Hailé Selassié nonché sua secondogenita, fu data in sposa, all’età di 14 anni, a un giovane nobile di nome Hailé Selassié Gugsa, figlio e erede del ras Gugsa Araya del Tigrai orientale. Con questa doppia alleanza l’Imperatore sperava di assicurarsi la fedeltà dei due capi del Tigrai; con il fedele ras Immirù nel 42

Goggiam e l’altrettanto fedele ras Cassa nel Beghemder, suo figlio nel Uollo e se stesso nello Scioa, egli poteva finalmente godere di una certa tranquillità, non solo per il suo posto nella capitale ma anche per quanto riguardava il suo controllo delle cinque grandi province che formavano lo storico impero.

CAPITOLO QUARTO

AI CONFINI DELL’IMPERO

L’Impero etiopico era completamente racchiuso da un blocco di paesi. A nord, a sud, a est, a ovest, in qualsiasi direzione l’imperatore Hailé Selassié volgesse lo sguardo, non poteva che avvertire come un laccio le colonie europee che lentamente ma inesorabilmente tentavano di strango­ larlo; un vezzo composto di sei perle imperiali, tre inglesi, due italiane ed una francese. A sud si estendeva l’Africa orientale britannica. L’Etiopia aveva scarsi contatti con Γ« Oriente inglese », in parte perché la frontiera settentrio­ nale del Kenya, quasi totalmente disabitata, rendeva le comunicazioni difficili, in parte perché non c’erano, comunque, ragioni di comunicare, ed inoltre perché le zone alla frontiera meridionale dell’Impero etiopico erano state conquistate di recente ed erano quasi del tutto sprovviste di amministrazione. Le tre province meridionali del Borana, Gofa e Bacco erano popolate da miriadi di tribù primitive nelle quali era assente per­ fino l’influenza unificante della lingua e della cultura galla; non esisteva ricchezza, non esistevano commerci, né strade e neppure città. L’esistente amministrazione era stata organizzata più dal consolato inglese di Moyale e dalla piccola colonia che si era sviluppata in quel luogo, in una zona torrida e polverosa, che dagli infelici governatori etiopi inviati laggiù da Addis Abeba. E nell’angolo sud-occidentale, dove il Kenya, il Sudan e l’Etiopia si toccavano presso la riva settentrionale del lago Rodolfo, si estendeva una terra considerata quasi da tutti terra di nessuno, teatro, a memoria d’uomo, delle continue guerre di due potenti tribù, i Gallaba e i Turkana. La frontiera etiopica occidentale confinava con. il Sudan per centinaia di miglia. Numerosi fiumi scendono dalla regione montuosa dell’Etiopia occidentale, lungo le pendici scoscese dei monti, bagnando i deserti del Sudan ed ingrossando il Nilo durante la sua corsa al nord, verso l’Egit­ to. Lungo le rive di alcuni fiumi o lungo le piste che attraversavano le gole dei ripidi monti si erano stabilite rotte commerciali; e dove arrivava il commercio, si stabilivano contatti e, talvolta, seguivano invasioni armate. Prima che l’egiziano Mohammed Ali lo conquistasse, il Sudan era una mera e molto vaga espressione geografica, la terra di innumerevoli tribù nomadi e bellicose, con il vago ricordo di una antica civiltà quale era stata 45

quella del regno di Meroe, che si era sviluppata sull’« isola » di Meroe tra i due bracci gemelli del Nilo e dell’Atbara. Sul finire del secolo, dopo che il violento, drammatico, pittoresco, san­ guinoso flagello rappresentato dai dervisci ebbe fine, quando, dopo un intermezzo di dieci anni l’ordine fu ristabilito dai cannoni Gatling e dai fucili a ripetizione, il trattato congiunto fu firmato, ed il Sudan passò sotto la dominazione congiunta degli anglo-egiziani. Le due bandiere, l’inglese e l’egiziana, sventolavano ancora fianco a fian­ co, ma dal 1924 gli inglesi governarono il Sudan anglo-egiziano da soli. Fu un’esistenza abbastanza pacifica; a parte la repressione delle scorrerie oltre a saltuari lavori di polizia i bimbasci ed i giovani commissari distret­ tuali delle province centrali ed i signori della palude del Sudan meridio­ nale amministrarono vaste aree con pochissimi conflitti. La ragione di ciò era dovuta principalmente al fatto che la frontiera occidentale dell’Etiopia era stata definita in modo preciso in un accordo anglo-italo-etiopico del 1902. La maggior parte della linea di confine non era fonte di problemi perché la frontiera era, in ogni caso, un concetto artificiale. Nel profondo sud non esisteva di fatto un’amministrazione sui due lati del confine: sul lato inglese esistevano posti di polizia sparpa­ gliati tra Juba e Malakal; sul lato etiopico, da Maji, venivano compiute spedizioni punitive organizzate su iniziativa del console inglese del luogo con l’intento di prevenire razzie di schiavi e contrabbando d’avorio. A nord del Nilo Azzurro la via principale sia delle invasioni che del commercio conduceva da Khartum via Gedaref al forte inglese di Gallabat, quindi proseguiva attraverso la frontiera, ad un tiro di schioppo da Metemma e su fino a Gondar. Questa era la strada che i fucilieri di Abu Anga avevano preso in rivincita per il saccheggio di Gallabat, per sconfiggere il Negus TekleHaimonot e saccheggiare Gondar. Fu a Gallabat che i dervisci di Zeki Tummal, un anno dopo, si fortificarono contro le orde di etiopi, 150.000 unità capeggiate dall’imperatore Giovanni, per vendicare quel­ l’insulto sanguinoso. Fu là che, in quella che fu la più feroce battaglia mai combattuta in Africa in quel secolo, gli Jehadia di Abu Anga furono di­ strutti, e l’imperatore Giovanni fu assassinato sulla sua poltrona dorata; fu là che morirono 60.000 guerrieri '. I sudanesi e gli etiopi ben sapevano dove si trovava la frontiera, lì, nell’arido letto del fiume, il Khor che divi­ deva il forte Gallabat dal villaggio di Metemma. L’unico motivo d’attrito era rappresentato dal cosiddetto saliente del Baro. Sulla carta esso sporge, su una frontiera quasi completamente di­ ritta, come un grosso pollice conficcato dentro i confini del Sudan. Dal punto di vista del governo sudanese sarebbe stato tutto più semplice se il saliente del Baro non fosse esistito, tuttavia si trattava di territorio pianeggiante, le sue foreste erano popolate dalle tribù Anuak e Nuer situate principalmente nel Sudan; gli etiopi non lo avevano mai veramente posto sotto il loro controllo; la sua esistenza rappresentava una seccatura amministrativa ed una complicazione politica; tuttavia era lì, in un primo tempo strappato ai dervisci dal ras Gobana, e più tardi ed in modo 46

definitivo dal ras Tessemà, che aveva piantato la bandiera etiopica nel Sudan alla confluenza del Baro con il Nilo Azzurro, nel 1898, prima di ripiegare su rivendicazioni minori. Tuttavia, per quanto gli inglesi non potessero annetterlo al Sudan, essi fecero di più. Con l’accordo del 1902, presero in affitto una stazione com­ merciale sul fiume Baro, prima a Itang poi a Gambeila, dove fu installato un console inglese (dipendente direttamente dal governo sudanese). Questa zona dell’Africa era una regiorfe selvaggia e primitiva, con fitte foreste e ricca selvaggina, abitata dalle genti del Nilo: i Nuer, i Dinka. i Luo, gli Scilluk e gli Anuak; alti, primitivi, nudi. Gli Anuak erano circa 40.000, i tre quarti vivevano sul saliente del Baro, un quarto nel Su­ dan; erano coltivatori e vivevano in villaggi indipendenti. I Nuer erano nomadi dediti all’allevamento del bestiame, erano divisi in clan sparpa­ gliati su tutta la pianura a sud di Malakal, in conflitto ora con gli Scilluk, ora con gli altri allevatori, i Dink, e spesso con gli Anuak. Nessuna di queste tribù del Nilo era stata realmente assoggettata dagli inglesi fino al 1928-1930.

La frontiera settentrionale, invece, chiaramente determinata dal fiume Mareb che divideva il Tigrai dall’Eritrea, era ed era stata per anni una frontiera tranquilla. Fin dal ripristino della pace dopo Adua, i governatori italiani successivi si erano dedicati alla costruzione di una colonia modello e a evitare che avvenissero incidenti di frontiera e a rafforzare le relazioni amichevoli con i capi Tigrini: riuscirono a raggiungere il loro obiettivo. Quando Vittorio Emanuele visitò l’Eritrea nel 1932 accompagnato dal ministro delle colonie De Bono, trovò una comunità prosperosa e tran­ quilla. L’altopiano era il cuore dell’Eritrea che circondava la nuova capitale dell’Asmara, una cittadina italiana ben costruita e urbanisticamente ben programmata, il centro degli abitanti cristiano-tigrini dell’altopiano; men­ tre la base dell’Eritrea era costituita dai porti della Costa Rossa, prima quello di Assab e poi quello di Massaua. Tutti gli abitanti delle pianure eritree erano stati islamizzati da questi insediamenti arabo-turchi. Nel bas­ sopiano Baraka al confine con il Sudan viveva la potente e numerosa tribù dei Beni Amer e altre tribù strettamente connesse a quelle Fung e Beja nel Sudan, dai capelli crespati, come gli Hadendoa al di là del confine. La piccola città di Cheren si trovava alle porte occidentali dell’altopiano e veniva raggiunta da una sola linea ferroviaria che partiva da Massaua. Il deserto della Dancalia, una sterminata pianura salata nel luogo più tor­ rido del mondo, si estendeva fino all’isolato porto di Assab. I Dancali no­ madi èrano divisi da una frontiera: circa 33.000 vivevano in Eritrea e il doppio in Etiopia. Erano tutti per così dire musulmani, una confedera­ zione di clan non compatti che dovevano obbedienza ai loro sultani nel territorio etiope, e erano con molta probabilità i più feroci e primitivi di tutti i popoli che vivevano ai confini dell’Etiopia: si limavano i denti ed 47

avevano fama di xenofobi per aver ucciso più esploratori di ogni altra tribù dell’Africa nord-orientale 3. L’Italia aveva fatto quasi una nazione di questa eterogenea collezione di razze differenti che in tutto contava circa un milione e mezzo di persone. I successivi eventi avrebbero provato che essere un eritreo e un cittadino italiano al tempo stesso era un motivo d’orgoglio. Gli eritrei erano sorprendentemente fedeli ai loro colonizzatori. I battaglioni eritrei in Libia - che venivano principalmente reclutati fra i musulmani - di­ mostrarono di combattere molto bene contro i loro compagni di fede. Coloro che parlavano il tigrino e erano cristiani erano un po’ meno fidati; eppure molti dei loro Fitaurari diventarono sottufficiali dei bat­ taglioni o furono a capo di bande, sotto il comando italiano, formatesi in ogni distretto sin dall’epoca di Adua4. In ogni caso la fedeltà dei Tigrini era tutta per i signori che discendevano dall’imperatore Giovanni e non per gli italiani e tantomeno per coloro che parlavano Amhara e per l’im­ peratore Amhara. Questi potenti signori per molti anni avevano avuto più contatti personali con il governatore Gasperini che con la corte scioana. Assumevano tecnici italiani e medici senza alcun problema; e se ras Gugsa Araya o ras Seyum dovevano visitare Addis Abeba, quasi sem­ pre, ritenendo che fosse più semplice e più veloce — e anche più sicuro — andavano a Massaua a dorso di mulo, poi via mare a Gibuti e quindi prendevano il treno per la capitale. Come molti nobili tigrini il ras Gugsa Araya era solito recarsi in Eri­ trea dai medici italiani quando doveva curarsi e quando sua nuora la principessa ZenabeUorq si ammalò, al settimo mese di gravidanza, egli le consigliò d’andare dal suo dottore. Ma i preti rifiutarono il permesso (per motivi liturgici) e anche il suo giovane marito Hailé Selassié Gugsa si dichiarò contrario (si diceva che la maltrattasse). Così il ras mandò un messaggio alla capitale e due giorni più tardi il dr. Zervos arrivava in aereo ma era troppo tardi: infatti la giovane principessa era morta due giorni prima, il 24 marzo 1933. Aveva sedici anni e era la figlia prefe­ rita di Hailé Selassié e la prima di sei figli che non gli sarebbero so­ pravvissuti. Il dr. Zervos ritornò in aereo a Addis Abeba con il corpo della ragazza — fu un insulto per il vedovo e Hailé Selassié Gugsa se la prese molto a male. Solo un mese più tardi, il 28 aprile, moriva anche il ras Gugsa Araya. Il bere, la violenza e la dissolutezza avevano minato la sua salute per cui l’Imperatore l’aveva autorizzato a andare in Svizzera via Eritrea. Se si fosse messo in viaggio su una barella probabilmente sarebbe andato tutto bene ma per tradizione un ras poteva viaggiare solo sul suo mulo da bat­ taglia. Viaggiava a una media di un’ora al giorno. A Adagamus il medico gli disse che non poteva continuare, ma i preti che lo accompagnavano desideravano celebrare la Pasqua a Adigrat. La leggenda dice che un cadavere seduto dritto su un mulo entrò a Adigrat. Suo figlio Hailé Selassié Gugsa si trasferì al Palazzo di Macallè. A nord-est degli altopiani etiopi, andando verso la sommità della costa 48

del Mar Rosso a sud dello stretto di Bab-el-Mandeb e poi giù a est lungo la costa di Benadir verso i distretti nord del Kenya, si trovavano, nel corno d’Africa, i vasti territori dei Somali, divisi dopo l’apertura del Canale di Suez dalle tre potenze coloniali o meglio quattro se si conta l’Etiopia. I Somali sono la razza più bella in Africa. Alti, snelli, con lunghi nasi e labbra sottili, avvolti in una specie di kilt che arrivava fino ai piedi, il tobe, percorrevano i vasti e ondulati altopiani sui quali vivevano portando i loro greggi di cammelli da un pozzo all’altro. Ancor oggi non si sa quale sia la loro origine. Secondo una teoria sono un incrocio di Arabi e Galla, secondo un’altra i Somali arrivarono in Africa dalla penisola arabica spin­ gendo i Galla fuori dalla punta del Corno verso gli altopiani. Comunque furono una di quelle razze che si trovarono nell’occhio del ciclone de! Medioevo etiope quando i pagani Galla e i musulmani di Mohammed Gragn furono quasi sul punto di cancellare dalla terra il vecchio impero. Alla fine dopo lunghe guerre contro i Galla per il possesso del territorio i Somali uscirono vincitori. Coraggiosi, avidi, suscettibili, erano uniti dalla lingua, una specie di arabo, dalla loro vita nomade, dalla religione e da nulì’altro. Non ci fu mai un’autorità centralizzata fra i Somali e comun­ que quasi nessuna forma d’autorità nella loro società che era indipendente e egualitaria. Ciascuno dei quattro gruppi principali, i Dior, gli Isaak, gli Hawiya e i Darod, era diviso a sua volta in un certo numero di clan e sottoclan e il nomade somalo sentiva di appartenere soltanto al suo clan. Era innanzitutto un Habr Yuris, un Rer Ali, un Issa, un Migiurtino — uno degli innumerevoli clans — e solo dopo un Darod o un Dir e infine un somalo5. Le donne somale, che erano tanto indipendenti quanto gli uo­ mini, erano — e sono tuttora — famose per la loro bellezza. Mentre i Somali vagavano nell’interno, la costa lungo il corno comin­ ciava a brulicare di piccoli sultanati arabi da Zeila, Alula e Berbera sul Mar Rosso fino a Obbia, Mogadiscio, Brava e Chisimaio sulla costa del Benadir. Il primo contatto con una potenza europea, da quando ven­ nero i portoghesi, avvenne nel 1839 quando gli inglesi installarono una stazione per i rifornimenti di carbone a Aden, sulla via di Bombay, sul golfo. Ma fu soltanto con l’apertura del canale di Suez che i territori sulla costa del Corno divennero molto appetibili. Nell’anno dopo Adua, le varie missioni straniere alla corte di Menelik si erano accordate per spartirsi le terre dei Somali. Rennell Rodd e ras Maconnen firmarono un accordo per la definizione dei confini anglo-etiopi che definiva da un punto di vista teorico i confini della Somalia inglese con il confine a nord-est dell’Impero. Leonce Lagarde definì i confini della Côte Française des Somalis nel difficile territorio che il clan Dancali e dei Somali dell’Issa dividevano e per il quale avevano combattuto; Nerazzini, il rappresentante dell’Italia concordò con l’Etiopia che la futura frontiera fra l’Italia, la Somalia e l’Etiopia sarebbe stata fissata a 180 miglia dalla costa; nel frattempo, molto più a sud gli inglesi dell’Africa 49

orientale britannica estendevano le loro frontiere del nord fino al fiume Giuba che sfociava nel piccolo sultanato di Kisimaio. Teoricamente le terre somale erano state spartite equamente. Natural­ mente la commissione incaricata del controllo delle frontiere doveva ancora recarsi sui luoghi e stabilire le frontiere effettive; ma prima che questo avvenisse era necessario informare i clan che adesso erano passati sotto il dominio di questa o di quell’altra potenza. Questa fu una faccenda lunga e dolorosa, una faccenda che i francesi dalla loro piccola ma ben organizzata colonia (il cui porto di Gibuti sa­ rebbe diventato lo sbocco commerciale dell’Etiopia grazie ai successi diplo­ matici che Lagarde avrebbe ottenuto con Menelik) poterono permettersi di star a guardare con un certo senso di soddisfazione. Gli inglesi non avevano alcuna intenzione di amministrare la Somalia britannica — per essi era soltanto una fonte di carne fresca per la guarnigione dell’impor­ tantissima stazione di Aden e nulla più. Infatti, il protettorato, come la stessa Aden, furono amministrati durante i primi anni dal governo di Bombay che aveva un ufficiale inglese e una compagnia di soldati indigeni dell’esercito anglo-indiano di stanza a Berbera, oltre a qualche babus. Per quanto riguardava gli italiani, era il console italiano a Aden che « pro­ teggeva » i due sultanati di Obbia e Migiurtina mentre più a sud control­ lavano soltanto dei piccoli posti intorno a quella che sarebbe diventata la capitale della loro colonia, Mogadiscio. Nel frattempo gli italiani stavano gradatamente organizzando i loro territori. Tommaso Carletti, il primo governatore vero e proprio a Moga­ discio, si spostò all’interno essendosi alleato con il precedente nemico degli italiani, il sultano di Gheledi, su per l’Uebbi Scebelli. Si fece alleato an­ che della setta Qadaryah rivale del Mullah e riuscì a rendere gli italiani benvoluti nei luoghi dove gli inglesi e gli etiopi erano odiati. Con il regime fascista la politica cambiò e fu mandato un nuovo governatore. Nell’ottobre 1923, un anno dopo la marcia su Roma, De Vecchi arrivò a Mogadiscio e si mise subito al lavoro per riorganizzare, o meglio organizzare, un sistema, alquanto confuso, di due protettorati e di una semi-colonia. De Vecchi deve essere stato più intelligente e più abile di quanto si pensava poiché per la fine del suo mandato aveva rag­ giunto tutti i suoi obiettivi. Con dodicimila soldati, compresi molti eritrei, aveva mosso guerra a Yusuf Ali il sultano di Obbia e aveva fatto del protettorato una provincia. Al nord il vecchio Bogor Isman, sultano di Migiurtina, resistette due anni più a lungo prima di essere deposto e esi­ liato a Mogadiscio, il suo sultanato fu quindi abolito. E nel sud, secondo il trattato di Londra, gli inglesi cedevano l’Oltregiuba agli italiani. Con l’annessione dell’Oltregiuba la colonia della Somalia era arrivata a un effettivo di sette province suddivisa in 33 distretti o Residenze. La sua popolazione era di circa 1.200.000 indigeni e 8.000 europei, la maggior parte dei quali viveva a Mogadiscio6. Quando De Vecchi se ne andò, poco prima della firma del trattato di amicizia con l’Etiopia del 1928, per diventare il primo ambasciatore italiano nel Mar Rosso, lasciò dietro 50

I

di sé una colonia modello. Era stato particolarmente abile a ristrutturare le forze armate sia quelle regolari che quelle particolari. Le forze regolari, i Corpi Reali, contavano 134 ufficiali italiani e 6.700 uomini divisi in sei battaglioni arabo-somali ( « arabo » in quanto molti degli uomini erano stati reclutati nello Yemen). Le forze irregolari consistevano in un certo numero di bande armate di confine - che da 9 nel 1925 divennero 40 nell’arco di dieci anni, si trattava di piccoli gruppi di uomini provenienti dai clan e comandati da ufficiali italiani che erano conosciuti come Dubats (Dub in somalo significa turbante, At bianco). La cosa ebbe molto successo, l’unico neo fu la ribellione a El Bur, vicino a Obbia, di un uomo di un clan Migiurtino, tale Omar Samanthar, che aveva assassinato un Residente e si era fatto una certa fama per essere riuscito a sfuggire ai suoi inseguitori per oltre un anno. Nel 1930 gli italiani, gli inglesi e gli etiopi sotto il nuovo Imperatore cominciarono ad avere la sensazione che era importante poter definire i confini dei loro possedimenti. La prima commissione iniziò i lavori per la definizione delle frontiere al nord fra la Somalia inglese e quella italiana nel mese di settembre. Il colonnello Clifford rappresentava l’Inghilterra e Enrico Cerulli, l’etnografo ed esploratore, gli italiani. Non vi furono dif­ ficoltà e il confine fu ratificato da un accordo anglo-italiano che fu firmato l’anno seguente. Il colonnello Clifford era anche un membro della Commissione per la definizione dei confini anglo-etiopi che due anni dopo iniziò il lungo e sfibrante lavoro di definire la frontiera etiope con la Somalia britannica. Il rappresentante etiope era Lorenzo Taezaz e anche se i lavori si pro­ trassero a lungo, date le assenze e i ritardi da parte etiope, l’atmosfera era molto amichevole. I dirigenti locali italiani, sul cui territorio la com­ missione doveva passare, furono altrettanto gentili da offrire l’uso dei loro pozzi—-il capitano Cimmaruta si distinse in modo particolare per la sua cortesia. Solo i clan tribali la boicottarono e fecero resistenza; uno dei componenti la commissione fu ucciso e da allora gli etiopi fornirono alla commissione una notevole scorta. Ma l’adempimento della terza parte del concordato si rivelò molto arduo; si trattava della definizione della frontiera italo-etiope. Vi erano già stati degli incidenti nel 1907 quando truppe etiopi avevano annien­ tato un avamposto italiano a Lugh che si trovava nell’angolo formato dal Kenya, dall’Etiopia e dalla Somalia. Ma la cosa era stata sistemata con un trattato nel 1908 che definiva il confine a favore degli italiani e non sembrava che ci fossero dei reali motivi per cui non potessero essere trovate delle soluzioni. Il motivo, molto probabilmente, era che il nuovo governatore Guido Corni non voleva essere da meno del suo predecessore e ciò implicava guadagnare nuovi territori, una « politica lungimirante ». Dappertutto nell’interno vi erano pasticci e intrighi. Gli italiani formarono e prezzo­ larono delle bande irregolari al comando di capi quali il sultano Abderrahinan Ali (che fu fatto « Cavaliere Ufficiale ») e il sultano Ahmed Abu 51

Bakr di Gheledi, capo del clan Digii (egli diventò Commendatore del­ l’Ordine della Stella Coloniale); ma il loro alleato più potente era Olol Dinle, capo degli Ajuran e imparentato con la dinastia Mozaffar che aveva governato Mogadiscio. Gli Ajuran controllavano il vitale territorio lungo l’Uebi Scebeli che andava da Ferfer, che si trovava senza ombra di dubbio in territorio italiano, a Callafo, che era decisamente nel terri­ torio etiope. Il governatore lo nominò sultano degli Sciavelli e lo assoldò per depredare le spedizioni etiopi addette alla raccolta delle tasse — un compito per il quale era particolarmente tagliato dato il suo odio per gli etiopi che avevano messo in prigione suo padre. Gli etiopi reagirono ar­ mando Omar Samanthar e quando la tensione cominciò a crescere, la col­ lera del governatore di Harar, il degiacc GabreMariam, nella provincia del quale si trovava l’Ogaden, diventò esasperazione. Con il suo esercito avanzò lungo l’Uebi Scebeli, liberò dagli italiani il forte di Mustakil nel cuore del territorio di Olol Dinle e minacciò la Residenza italiana lungo tutto il fiume fino a BeletUen. Tutto ciò accadeva nel set­ tembre del 1931. Gli italiani radunarono in tutta fretta dei rinforzi ma fu evitato uno scontro frontale e alla fine il degiacc GabreMariam si ritirò. Molto probabilmente né il Degiacc né il governatore italiano erano quasi arrivati alla guerra aperta per ordine dei rispettivi governi; si trat­ tava di una contesa locale7 piuttosto che nazionale come avrebbe dimo­ strato la sua conclusione pacifica. Ma non fu mai istituita una commis­ sione italo-etiope. Fu solo nell’ottobre 1934 che gli appartenenti alla commissione anglo­ etiope si recarono nell’Ogaden, dopo due anni e mezzo di lavoro ininter­ rotto, per studiare i diritti di pascolo di alcuni clan, che si sovrapponevano alle frontiere. Oltre che dal colonnello Clifford la delegazione era com­ posta da due ufficiali, un caporale e da Lex Curie, un ufficiale coloniale. La commissione etiope era composta da Lorenzo Taezaz e dal fitauran Tessemà Bante e Ligg Zaudi Balaineh. Mentre i componenti la commis­ sione si recavano a Ualual, il fìtaurari Scifferau, che, sotto l’autorità del degiacc GabreMariam governava l’Ogaden dalla cittadina di Giggiga ai piedi delle colline di Harar, arrivò per prendere personalmente il coman­ do della scorta. A Ualual c’erano più di un migliaio di pozzi d’acqua, la maggiore concentrazione dell’Ogaden. In Somalia un pozzo non era semplicemente un buco nel terreno con dell’acqua in fondo, era — ed è tuttora — una importante proprietà. Ogni pozzo apparteneva a un gruppo di famiglie, e ogni gruppo di pozzi apparteneva a un clan. I pozzi che non si prosciu­ gavano mai avevano un valore maggiore di quelli che di tanto in tanto si prosciugavano; e se un pozzo si prosciugava, le famiglie che lo stavano usando dovevano barattare con i loro vicini più fortunati il diritto, gelo­ samente difeso, di attingere l’acqua. I mille pozzi erano sparsi su un vasto territorio pianeggiante; e un gruppo di nomadi era accampato vicino a ogni pozzo con le loro tende fatte di pelle di cammello, i loro cammelli e i loro greggi. Appartenevano ai clan Rer Ibrahim e Migiurtini: il Rer 52

Ibrahim veniva dall’Etiopia o dal territorio controllato dagli inglesi, il Migiurtino dal sultanato che era stato annesso all’Italia. La mattina del 23 novembre i componenti la commissione con la loro scorta arrivarono a Ualual. Trovarono che i pozzi erano già stati semi­ occupati da circa 200 bande al comando di un ufficiale indigeno somalo. Il Fitaurari Scifferau aveva messo il campo a nord e appostato i suoi uomini lungo una linea che correva attraverso il centro dei pozzi di fronte alle bande. Il colonnello Clifford e i commissari etiopi avevano messo le tende qualche centinaio di metri più in là, fianco a fianco; e il colon­ nello Clifford alzò la bandiera inglese. Quel giorno un sottufficiale somalo del Fitaurari Scifferau attraversò le linee e disertò. Il Fitaurari inviò una lettera di minacce attraverso le linee e il tenente Mousti, il capo banda, rispose dicendo che il disertore sarebbe stato rimandato indietro. Ma i suoi uomini si rifiutarono: « Quest’uomo si è rifugiato al riparo della bandiera italiana », contestarono. « Anche se moriamo, egli non deve morire. Non deve ritornare dagli etiopi ». Alquanto perplesso Mousti mandò qualcuno a prendere istruzioni alla sua base, la cittadina di Uerder che si trovava a 8 chilometri, e quella stessa notte il capitano Cimmaruta, l’ufficiale di confine italiano, venne di persona a prendere il comando della situazione con l’appoggio di altri tre o quattrocento uomini delle forze irregolari. All’alba Cimmaruta mandò una nota a Clifford chiedendo un collo­ quio e mentre stava aspettando la risposta disse ai suoi uomini che i Somali erano dei leoni. Il colloquio ebbe luogo nella tarda mattinata. Le trattative nei confronti del disertore si stavano facendo complicate; Clifford chiese a Cimmaruta di ritirare i suoi fintantoché i commissari non avessero portato a termine il loro compito. Cimmaruta rifiutò e sug­ gerì che al fine di evitare uno scontro le due parti avrebbero dovuto segnare una linea di confine provvisoria segnando gli alberi con i coltelli; gli etiopi nel timore che questo significasse ammettere che gli italiani ave­ vano diritto a trovarsi così avanzati nell’entroterra, rifiutarono — e fecero presente che Cimmaruta era molto più in là delle 180 miglia dalla costa somala. Il colloquio terminò in una atmosfera carica di tensione con la minaccia di Cimmaruta di richiamare « molte altre centinaia dei suoi uomini ». In effetti ritornò a Werder con la maggior parte di essi la­ sciando solo 100 bande a guardare gli etiopi. Nel pomeriggio due aerei militari italiani sorvolarono a bassa quota le tende dei commissari e Clifford e gli ufficiali inglesi poterono distinguere uno dei mitraglieri italiani puntare una mitragliatrice verso di loro. Essi mandarono una lettera di protesta congiunta a Cimmaruta dicendo che dato Γatteggiamento italiano non erano in grado di portare a termine la loro missione e si sarebbero pertanto ritirati a Ado, 8 chilometri indietro. La commedia continuò durante la notte; Cimmaruta mandò un messag­ gero a informare Clifford che gli inglesi soltanto avrebbero avuto libertà di movimento. Clifford naturalmente rifiutò e il giorno seguente, il 25 no53

vembre, la commissione inglese e quella etiope si ritiravano a Ado. Sem­ brava che fosse stato evitato uno spiacevole incidente. Ma le due linee rimasero nella loro posizione, una di fronte all’altra e la commedia dei comunicati diventò una tragica farsa. Le lettere di Cimmaruta al fitaurari Scifferau dovevano essere riportate a Ado per es­ sere tradotte in amarico dai commissari e viceversa. In una di esse Cim­ maruta si riferiva al Fitaurari come « il vostro capo Sciftà » il che era stato causa di grande offesa8. Nei giorni che seguirono sedici bande Migiurtine disertarono gli italiani per unirsi a Omar Samanthar che si trovava nelle vicinanze. Ma fu solo il 5 dicembre che le cose precipitarono. L’occasio­ ne vera e propria fu data da un gesto triviale: nell’accampamento un etiope aveva gettato un osso a un somalo, ma prima o poi era inevitabile che succedesse qualcosa con due gruppi di uomini armati e ostili costretti a guardarsi l’un l’altro giorno e notte. Erano le 3 e 30 del pomeriggio. Un osso, un insulto, un gesto, un fucile puntato — secondo gli italiani era stato il Fitaurari a ordinare di aprire il fuoco. Ma gli italiani sembravano i meglio preparati. Nel giro di dieci minuti dall’inizio degli spari, appari­ rono tre aerei e due carri armati leggeri. Alemaiù Gosciù, un Fitaurari etiope, fu ucciso, e al calar della notte quando il fitaurari Scifferau e i suoi uomini si ritirarono a Ado, 107 etiopi erano stati uccisi e 40 feriti. Fu solo un giorno più tardi che Ali Nur, un ex KAR, comandante della retroguardia che era rimasto isolato dai carri blindati, riuscì a raggiun­ gere Ado. Da Ado i commissari retrocessero in gran fretta a Harradiguit seguiti due giorni dopo da Ali Nur e dal tenente Collingwood con i bagagli, furono bombardati mentre lasciavano il villaggio ma rimasero incolumi. Questa fu la famosa crisi di Ualual, che avrebbe sollevato — come si dice o si disse — un gran pandemonio fra le cancellerie d’Europa. Il 9 dicembre Blattengueta Herouy, il ministro degli esteri etiope, inviò un telegramma di protesta alla Società delle Nazioni per chiedere di appli­ care la clausola arbitrale contenuta nel Trattato di amicizia stipulato nell’anno 1928; il giorno 11 l’incaricato d’affari italiano presentò un ricor­ so contenente le seguenti richieste: 1. il degiacc GabreMariam venisse a Ualual di persona per presentare una scusa formale ai rappresentanti del governo italiano mentre il distaccamento etiope doveva rendere omaggio alla bandiera italiana; 2. coloro che erano stati i responsabili dell’attacco, dovevano essere arrestati, degradati, puniti e avrebbero dovuto rendere omaggio alla bandiera italiana; 3. il governo etiope avrebbe dovuto conse­ gnare agli italiani « il fuorilegge somalo nonché suddito italiano Omar Samanthar già colpevole del crimine d’omicidio, quello del capitano ita­ liano Carolei » Il 14 l’Italia respingeva l’arbitrato. Il 15 Lorenzo Taezaz ritornò da Giggiga con il rapporto scritto del fitaurari Scifferau e Ali Nur fu promosso barambaras. Il 21 un aereo ita­ liano faceva un volo di ricognizione sui pozzi d’acqua di Gherlogubi dove i rinforzi etiopi si stavano organizzando al comando di Afeuork. E il 28 mentre gli italiani attaccavano Gherlogubi con carri armati e aerei e gli etiopi retrocedevano, Gerard riferiva a Bruxelles, dalla lega54

zione del Belgio che nell’Ogaden venivano inviate truppe e munizioni e traducevano, tra le tante, una scritta murale in amarico che era tipica nonché molto sintomatica dell’atmosfera che regnava tra l’opinione pub­ blica etiope : « Quando volete mangiare maccheroni, è meglio che non aspettiate ma mangiateli subito finché sono caldi ».

PARTE SECONDA

LA GUERRA CON L’ETIOPIA

CAPITOLO QUINTO

LA GUERRA DI MUSSOLINI

Ricorrendo alla Società delle Nazioni il governo etiope aveva creato una crisi europea: un appello comportava una serie di dibattiti a Ginevra, una guerra aperta diplomatica e, soprattutto, della pubblicità. Il fatto di Ualual, l’interpretazione dei diritti di pascolo in tutta la Migiurtina, come dal concordato del 1908, la questione se la frontiera della Somalia era a 180 miglia nautiche o a 180 miglia terrestri dal mare, l’adempimento o meno del Trattato del 1928 e la responsabilità delle morti avvenute il 5 dicem­ bre furono tutte cose discusse nel corso di estenuanti riunioni senza al­ cun risultato. Ci furono innumerevoli commissioni e furono scritti innume­ revoli articoli e fatti innumerevoli discorsi. E cominciarono a delinearsi i benefìci dalla visita di Hailé Selassié in Europa. La gente si ricordò del­ l’ometto solenne con il famoso mantello e con la sua collezione di cap­ pelli; l’opinione pubblica di tutta l’Europa era all’erta e i capi politici del­ l’Europa ne venivano trascinati — o di tanto in tanto destituiti se non era­ no in grado di andare dove l’opinione pubblica conduceva. Fu un errore Tessersi appellati alla Società? Implicava una crisi aperta nella quale l’Italia non poteva che far la parte dell’aggressore prepotente. Si­ gnificava inoltre che il prestigio di Mussolini era in pericolo; non solo per Mussolini ma per tutti gli italiani diventò una questione di non perdere la propria reputazione. Da un punto di vista politico fu una mossa saggia da parte di Hailé Selassié ma da un punto di vista psicologico fu un disastro. Un dittatore può solo raramente ammettere nei confronti degli altri capi di Stato, quando accusato dall’opinione pubblica estera, di aver sbagliato; deve minacciare, infuriarsi e giustificare le proprie azioni e alla fine può lasciarsi trasportare dall’ondata di riflusso che egli stesso ha provocato. Dal­ l’incidente a Ualual gli eventi cominciarono a evolversi lentamente ma inesorabilmente in direzione della guerra. I due capi assoluti, Hailé Selassié a Addis Abeba e Mussolini a Roma, diedero il via a mosse e contromosse diplomatiche, rafforzando rapidamente i loro eserciti ma fingendosi pronti a sedere al tavolo delle trattative, prestando ascolto ai consigli di compro­ messo, esitando e quasi sul punto di accettare questo o quel piano, ma né l’uno né l’altro era veramente convinto che un conflitto armato potesse essere evitato. Stavano forse studiandosi l’un l’altro? Devono averlo fatto, devono essersi studiati attentamente, nel tentativo di prevenire le intenzio59

ni dell’altro e di prevedere la loro prossima mossa. Ma ognuno di loro aveva grossolanamente sbagliato nel giudicare l’altro; da Ualual all’inizio della guerra e persino dopo fu solo un pocker giocato a distanza da due uo­ mini che si erano incontrati una sola volta — e non si sarebbero rivisti mai più. Può darsi che ciascuno giudicasse l’altro sulla base di ciò che sem­ brava essere nel 1924: all’epoca Hailé Selassié aveva osservato in Musso­ lini un rumoroso leader politico che stava traballando e era quasi sul punto di cadere nella scia della crisi Matteotti, e Mussolini aveva visto in Hailé Selassié un giovane etiope, tranquillo e basso di statura, non ancora capo del suo Paese, ma una specie di ambasciatore speciale, circondato da una corte di suoi pari, come lui rilevanti se non di più come stile e per­ sonalità. Riuscì uno dei due a rendersi conto di quanto era cambiata la posizione dell’altro in quegli undici anni, e di quanto importante fosse per l’altro non perdere la faccia di fronte al proprio popolo? Con il ricorso alla Società delle Nazioni, il governo etiope aveva gioca­ to d’azzardo. Ualual fu soltanto un incidente di frontiera; chiaramente fu un incidente di frontiera piuttosto grave ma ve ne erano stati altri — per esempio l’uccisione, che era solo di un mese prima, di un ufficiale francese, tale capitano Bertrand, e della sua guardia alla frontiera di Gibuti — che erano stati tranquillamente risolti e senza far troppo chiasso. Chiaramente se il gioco fosse stato fortunato e l’Italia avesse fatto marcia indietro, l’Etio­ pia ne avrebbe tratto un grosso punto a suo favore: la definizione di tut­ te le sue frontiere. Ma se il gioco non avesse funzionato, proprio come accadde, i rischi sarebbero stati enormi. Infatti giocare d’azzardo sarebbe stato giustificato se gli etiopi fossero stati convinti che all’epoca Mussolini intendeva entrare in guerra; se fosse stato così, essi non avrebbero avuto nulla da perdere e forse tutto da guadagnare nel creare una crisi in Europa. Ma Mussolini all’epoca di Ualual intendeva entrare in guerra e invadere l’Etiopia? La risposta deve essere un no a ragion veduta. Chiaramente doveva aver pensato a una guerra con l’Etiopia; infatti fin dal 1932, ci dice De Bono, Mussolini aveva fatto riferimento, in tutta segretezza, a questo piano, e le due visite che aveva fatto De Bono in Eritrea nel 1932 erano in realtà più una ricognizione militare che un semplice giro d’ispe­ zione del ministro delle colonie. Il 1933 fu secondo De Bono « l’anno in cui cominciammo a pensare in termini concreti alle misure da prendere in caso di un conflitto con l’Etiopia » *. II Duce non aveva parlato a nes­ sun altro di questa operazione. « Solo lui ed io eravamo al corrente. » Il Duce aveva chiesto a De Bono di cosa avrebbe avuto bisogno. « Di soldi capo, » aveva risposto De Bono, « di un sacco di soldi. » « I soldi non mancheranno » aveva risposto Mussolini. Non è esser pignoli però affermare che tutto ciò, insieme all’altra prova che abbiamo — l’apertura di consolati per esempio — dimostra che Mus­ solini fino dal 1932-1933 stava facendo dei piani per una guerra con l’Etiopia, d’altro canto tutto questo non dimostra neppure che egli avesse già deciso una guerra contro l’Etiopia. In un certo senso tutti i capi po­ litici italiani da Adua in poi avevano fatto dei piani per far guerra al­ 60

l’Etiopia: la sua conquista o perlomeno la sua trasformazione in un pro­ tettorato italiano, era sempre stata nella mente degli italiani e in alcuni periodi — per esempio nel 1906 e nel 1926 — quest’idea era diventata assillante; sarebbe piuttosto ingenuo contestare il fatto che non erano stati fatti dei piani per una guerra contro l’Etiopia in queste due occa­ sioni e per quella del 1915-1916. Ma il fare dei piani per una guerra, per quanto precisi, non prova l’intenzione di dichiarare una guerra. È quasi certo che negli ultimi mesi del 1935 i capi di stato maggiore ita­ liani avevano ricevuto l’ordine di studiare un piano di guerra contro l’In­ ghilterra, e nel luglio del 1934 contro la Germania. Eppure sarebbe ridi­ colo arguire da ciò che Mussolini intendeva far guerra all’Inghilterra o alla Germania. Perciò neppure il fatto che avesse fatto circolare il 30 di­ cembre le sue « Direttive e Piano d’Azione per risolvere la questione italoabissina » prova che da Ualual in poi egli avesse deciso per la guerra. Prova solo che, come Hailé Selassié a Addis Abeba, egli stava seriamente consi­ derando di entrare in guerra e si stava preparando a farla. Ma un atten­ to studio delle sue mosse diplomatiche nei mesi che seguirono dimostra quanto fosse indeciso. Molto raramente le guerre vengono dichiarate deli­ beratamente; un incidente porta a un altro, i politici, i diplomatici e i ge­ nerali cercano disperatamente di controllare questo processo che sfugge ai controlli e scoppia la guerra. Questo è il normale corso degli eventi. Il massimo della tensione, ovviamente, deve avvenire nel momento giu­ sto. A.J.B. Taylor nel suo libro Origini della Seconda Guerra Mondiale scrive degli « eventi che avevano per epicentro l’Etiopia » : « Il loro corso esterno è chiaro ma ciò che ci sta dietro e il significato è tuttora un mi­ stero... La vendetta di Adua era implicita nelle vanterie fasciste; ma non si era fatta certo più urgente nel 1935 di quanto non fosse stata in qual­ siasi momento da quando Mussolini salì al potere nel. 1922. La situa­ zione in Italia non richiedeva una guerra. Il fascismo non era politicamente minacciato e la situazione economica italiana favoriva la pace e non l’inflazione causata dalla guerra. Non sembrava che la posizione di­ plomatica dell’Italia nei confronti dell’Etiopia fosse in pericolo... Comun­ que per motivi che sono tuttora difficili da capire Mussolini decise nel 1934 di conquistare l’Etiopia ». In altre parole non: «Perché la guerra?» ma: «perché la guerra in questo momento? » Si potrebbe non concordare con il Taylor, nei detta­ gli. Per esempio non fu nel 1934 che Mussolini aveva la prima volta fatto dei piani per la conquista dell’Abissinia; e si può affermare che solo nel settembre 1935 egli aveva finalmente preso la decisione. Eppu­ re, la domanda principale resta: perché la guerra era scoppiata in quel periodo? L’Italia avrebbe potuto scegliere un’occasione migliore: per esem­ pio durante la rivolta di ras Gugsa Uule nel 1930 o persino quando Goggiam si rivelò una polveriera due anni dopo. Stante le cose, l’Italia invase l’Etiopia in uno dei rari momenti in cui non vi erano crisi interne e inoltre scelse d’attendere finché l’esercito etiope non fosse, se non com­ pletamente modernizzato, almeno addestrato e riequipaggiato. Da un punto 61

di vista tecnico Mussolini non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore. Una parte della risposta può essere trovata nei commenti stessi del Taylor. Fu esattamente perché non c’era una reale crisi economica o politica2 in Italia che i pensieri di Mussolini si volsero verso la conquista coloniale. Vi sono dei dittatori che hanno un atteggiamento passivo; una volta al potere se ne stanno tranquilli senza correre rischi. In genere que­ sti sono i dittatori che governano un popolo passivo, incolto, oppresso e senza interessi. Mussolini non era questo tipo di dittatore e gli italiani non erano questo tipo di gente. Nell’Europa occidentale i dittatori de­ vono alimentare la fantasia della gente che governano; i democratici sono i soli a potersi permettere di essere ottusi. Verso la fine del 1932 e l’inizio del 1933 Mussolini deve aver consi­ derato che il mondo era piuttosto sbiadito. A casa e all’estero la stabilità aveva sostituito le agitazioni. In Italia lo stato fascista era stato comple­ tamente organizzato e funzionava efficientemente: l’opposizione era stata eliminata e un nuovo segretario generale, Achille Starace, nel ruolo di numero due del paese stava mettendo l’uniforme a tutta l’Italia. Mentre lo sguardo di Mussolini vagava sopra questo scenario insignificante, egli deve aver provato il disgusto che provano tutti gli uomini d’azione quando si rendono conto che il loro successo è un fatto scontato. All’estero, la guerra libica stava volgendo al termine con successo. Badoglio era ritornato alla sua scrivania al Ministero della Guerra a Roma e era stato sostituito da Italo Balbo quale governatore della Libia. Mussolini aveva fatto una mossa molto astuta: il melodrammatico Balbo, che era molto ben visto, era il suo unico eventuale rivale in Italia3. In Libia era fuori dalla mi­ schia. Il resto dell’impero coloniale italiano, le due colonie d’Eritrea e della Somalia, era ben organizzato e amministrato. C’è forse da meravi­ gliarsi se gli occhi del dittatore, che stava svogliatamente cogitando nella Sala del Mappamondo a Palazzo Venezia, furono attratti da un vuoto sulla carta dell’Africa? Etiopia... Vendetta per Adua... Lì attendeva l’occa­ sione che avrebbe compiutamente messo alla prova la sua abilità e la tempra dell’Italia fascista. Sarebbe stata l’impresa ultima che avrebbe in­ coronato l’Italia e il regime fascista: forse con gli occhi dell’immaginazione si vedeva al balcone di Palazzo Venezia mentre proclamava l’Impero d’Ita­ lia e degli italiani il cui entusiasmo non avrebbe avuto precedenti. Perché un tale progetto non avrebbe dovuto balenare nella mente del dittatore — ancora vago, impreciso, poco delineato, che non doveva esser discusso con nessuno, forse sì, con quella vecchia carretta di De Bono; e dal progetto scaturivano piani su piani che avrebbero sempre potuto esser cambiati o modificati o abbandonati, ma dei piani che stavano gradatamente met­ tendo le radici nella mente del dittatore? Etiopia... se non proprio tutta doveva almeno averne un po’. Se non con le minacce diplomatiche, allora — be’, allora con la realistica minaccia della guerra. Per restituire la fanta­ sia all’Italia — un impero; per un impero — un gesto e per un gesto — se necessario, una guerra. 62

E la cosa si stava facendo urgente perché un rivale era apparso sul pal­ coscenico d’Europa; e Mussolini non era più il più temuto, il più odiato, il più ammirato, il più rispettato o comunque il personaggio più contro­ verso. Il 30 gennaio 1933 Hitler diventava Cancelliere della Germania; l’assetto dell’Europa uscita da Versailles, che era sembrato così stabile, cominciava a incrinarsi, e il centro dell’attenzione si spostò al Nord. Per Mussolini la mutevole situazione dell’Europa era una sfida, un peri­ colo e un’occasione da cogliere. Era pericolosa perché una mossa falsa all’estero avrebbe potuto far vacillare la sua posizione personale — se ne era reso conto quando lo scandalo seguito all’assassinio del re Alessandro di Jugoslavia e del ministro degli esteri francese Barthou per mezzo degli ustascia che erano stati addestrati in Italia lo avevano fatto venire a più miti consigli. Era un’occasione in quanto una minaccia da parte tedesca significava che per la Francia e l’Inghilterra l’alleanza di Mussolini era molto importante: per cui al fine di mantenere lo status quo in Europa questi paesi gli avrebbero più facilmente lasciato mano libera in Africa. Sarebbe ridicolo motivare una guerra solo in base alla psicologia di un dittatore. Le cause della guerra italo-etiope erano da ricercarsi nella storia; il pretesto fu un insignificante incidente di frontiera, ma il momento in cui la guerra esplose può trovare una spiegazione solo nella fervida fan­ tasia di Mussolini.

CAPITOLO SESTO

I PREPARATIVI PER LA GUERRA

Per quasi dieci mesi dopo l’incidente di Ualual l’Europa fu in gran sub­ buglio. Due erano i problemi dibattuti dall’opinione pubblica: prima, Mussolini stava o no per invadere l’Etiopia? seconda, se l’avesse fatto quale avrebbe potuto essere la reazione della Società delle Nazioni e dei suoi membri? La seconda domanda ne implicava una terza: ci sarebbe stata una guerra in Europa? Questo era il vero motivo che manteneva la tensione così alta e non la preoccupazione per l’Etiopia anche se se ne faceva un gran parlare. In termini di realpolitik la Società era lo strumento tramite il quale l’Inghilterra e la Francia mantenevano la pace e l’equili­ brio di potere in Europa nonché i loro stessi imperi coloniali all’estero. Sfidare la Società delle Nazioni era sfidare i suoi sostenitori e se l’Italia l’avesse sfidata, allora l’Inghilterra e la Francia avrebbero potuto tentare di mettere l’Italia in ginocchio — forse con la persuasione ma probabil­ mente con la forza. La Società delle Nazioni non era vista solo in termini di realpolitik neppure dai politici più incalliti. La regola per cui la politica è la costante interazione fra il reale e l’ideale non si sarebbe mai rivelata più vera che in questo periodo a cavallo delle due guerre. La gente, com­ presi i politici, riteneva che le controversie potessero e dovessero essere risolte con mezzi pacifici e che essa fosse lo strumento per la definizione di queste controversie. Così nel gennaio del 1935 si nutriva la speranza che si sarebbe potuto raggiungere un compromesso fra l’Italia e l’Etiopia. Il pericolo di una guerra in Africa se il compromesso fosse fallito e la pre­ visione non troppo nascosta, mista a paura e a eccitazione nervosa, erano sentiti da molte persone sia in Inghilterra che in Francia, poiché una guer­ ra in Africa avrebbe portato a una guerra in Europa nel corso della quale il regime fascista italiano sarebbe stato rovesciato. Nel corso dei dieci mesi che seguirono e per molti altri, la crisi etiope cominciò a dominare l’intera scena politica in Europa. In Inghilterra c’era un appoggio minoritario nei confronti di Mussolini da parte dell’estrema desta e tra un gruppo di strepitanti giornalisti catto­ lici e di parlamentari. Ma l’opinione pubblica era per la quasi totalità contro l’Italia fascista. Fra i suoi più eccezionali leader vi era una donna formidabile, Sylvia Pankhurst; dietro di lei si trovava la miglior tradi­ zione vittoriana di agitazione popolare delle donne dell’alta borghesia che, 65

da Florence Nightingale in poi, ne aveva fatto il flagello della burocrazia inglese. Mussolini probabilmente lesse un rapporto dal suo ambasciatore a Lon­ dra sulla fondazione del Comitato Internazionale Matteotti nel 1932, ma non avrebbe certo potuto essersi reso conto quale genere di disastro per l’Italia fascista sarebbe stato il momento in cui Sylvia Pankhurst abban­ donò la pamphlettistica sul parto per dedicarsi interamente alla lotta con­ tro l’Italia fascista. Divenne il più grande agitatore d’Inghilterra, come già era stata sua madre prima di lei. Lenin la prese molto seriamente. Bernard Shaw le scrisse chiamandola « il più strano genio idiota del­ l’epoca ». Per gli antifascisti inglesi la crisi etiope fu la manna dal cie­ lo: per Sylvia Pankhurst fu l’inizio di un entusiasmo che sarebbe durato tutta una vita, sostituendo quello precedente per il voto femminile, la libe­ razione sessuale delle donne, e persino le poesie di Eminescu. Aiutata e con­ sigliata dal suo grande amico Silvio Corio, un giornalista di sinistra e un rifugiato che aveva visto i soldati al ritorno da Adua, cominciò a aprire il fuoco con tutte le sue batterie. Bombardò i quotidiani — specialmente la stampa pro-Mussolini, il Daily Mail, il Morning Post e YObserver — e i personaggi pubblici, i dirigenti statali e i politici con raffiche di lettere, formò comitati, organizzò pubbliche adunanze, fu l’animatrice del Voto della Pace e più in generale spina nel fianco nel corpo dei diplomatici. D’altro canto i diplomatici quando non venivano punzecchiati erano più che amichevoli. Dino Grandi che era stato ministro degli esteri e era ora l’ambasciatore italiano, abbellito da una moglie bolognese della media bor­ ghesia, divenne molto ricercato in società; come il primo ministro Ramsey Macdonald, un altro ornamento indispensabile per i ricevimenti pomeridiani ducali, e un ulteriore esempio della capacità dell’alta borghesia inglese nell’addomesticare gli orsi del proletariato, sia che fossero minatori scozzesi o squadristi bolognesi. A Roma il governo inglese aveva rifiutato di pro­ lungare il periodo di permanenza di Sir Ronald Graham 1 malgrado la personale richiesta di Mussolini. Ma Mussolini deve essere stato ancora più soddisfatto del successore di Graham, Sir Eric Drummond, futuro Con­ te di Perth, del quale Giano avrebbe scritto : « quasi uno dei nostri per il suo amore per il fascismo » — un altro esempio della potenza dell’ideologia fascista nell’affascinare i civilizzati cinici delle classi elevate inglesi. Inoltre Drummond vantava Futilissima debolezza di fidarsi dei suoi domestici : quel che « Cicerone » venne a sapere da Knatchbull-Hugessen in Turchia non era nulla in confronto alle informazioni che gli italiani trafugarono da Drummond 2. Il Conte di Chambrun, il genero di Lavai, era l’ambasciatore di Francia. Con gli interessi delle potenze garantiti da due antagonisti di tale schiatta il ministro degli esteri italiano non avrebbe avuto quasi bisogno di alleati. Scortesemente la storia non ha coperto con un velo i mesi di strata­ gemmi diplomatici volti a impedire all’Italia l’invasione dell’Etiopia o a punirla una volta che l’avesse fatto. Non era mar stata spesa tanta ener­ gia umana in tentativi così futili; o se lo era stata non venne certamente 66

mai così ben documentata. Eppure per i risultati prodotti la Società avrebbe anche potuto fare a meno di riunirsi, di presentare alcuna riso­ luzione, di istituire alcun comitato, di ascoltare alcun discorso, di decidere alcuna sanzione. È una storia deprimente e infine piuttosto marginale per la storia del conflitto italo-etiope, sebbene centrale per la storia europea. Ci sono tanti racconti di questi futili intrighi quanti sono i grani di un rosario per cui qui non ce ne sarà un ennesimo. Lasciatemi però scostare un pochino il velo per dare un’occhiata alla reazione dell’Europa vista attraverso gli occhi di una piccola potenza mol­ to preoccupata, il Belgio. I belgi erano dalla parte della Francia e del­ l’Inghilterra nell’ambito della Società, ma come le altre piccole potenze erano molto preoccupati e non desideravano affatto essere trascinati in un conflitto europeo. Erano molto soddisfatti del loro nuovo importante ruolo quali consiglieri degli etiopi, ma d’altra parte la figlia del Re aveva spo­ sato il principe ereditario italiano. Era una strana situazione. Per il mo­ mento c’era una staccionata sulla quale volevano continuare a star seduti ma per quanto tempo sarebbe stata disponibile? Nel 1935 l’ambasciatore belga sondò nervosamente il terreno in tutta l’Europa. Da Roma il prin­ cipe Albert de Ligne riferì che gli italiani almeno per il momento non volevano una vera guerra coloniale. D’altra parte però non avevano mai dimenticato Adua. « C’est là », scriveva il principe, « un mot que l’étran­ ger doit banner de son vocabulaire en Italie, a peu près au même titre que Caporetto ». Ma era un nome che echeggiava in tutta l’Europa. A Ber­ lino un alto ufficiale riferì al barone Kerchove de Dentighem che « Mus­ solini n’a jamais oublié Adua ». Secondo Berlino Mussolini stava prepa­ rando un blitzkrieg senza una dichiarazione di guerra che sarebbe stata comunque fatta risaltare da un intervento inglese dall’Egitto. A Stoccolma secondo il barone Villefagne de Sorinnes, si pensava che sebbene gli ita­ liani non volessero la guerra la Francia aveva dato loro un buon motivo. Il 12 febbraio l’Italia annunciava la mobilitazione di due divisioni, la « Gavinana » in Toscana e la « Peloritana » in Sicilia. La notizia esplose come una bomba a Stoccolma, ma gli svedesi pensavano ancora che la guerra fosse improbabile: le difficoltà di una campagna e del terreno era­ no troppe e l’Etiopia poteva mobilitare due milioni di uomini. I tedeschi pensavano che l’Etiopia poteva essere conquistata ma ci sarebbero voluti due anni. L’opinione pubblica italiana era ancora contraria alla guerra, scriveva il principe di Ligne: il grosso problema era - aggiungeva in tono informativo — usare o meno le due divisioni. Da Addis Abeba Janssens, il roturier solitario, che aveva già riferito di aver sentito dire di « ricacciare gli italiani dalla Somalia in mare », informò il suo governo che « les milieux abyssins sont très pessimistes. On est convaincu qu’une guerre ne peut être évitée ». Il 22 febbraio Graziani si imbarcava a Napoli con la « Peloritana » di­ retto in Somalia. Nel-corso della stessa settimana la divisione « Gavinana » salpava alla volta dell’Eritrea. Mussolini fece alla Camera un discorso bel­ le uso su Ualual: i deputati si alzarono in piedi e cantarono l’inno fascista 67

« Giovinezza ». Hailé Selassié fece un discorso altrettanto bellicoso al par­ lamento etiope. Il conte Vinci, il ministro italiano, contestandone certe af­ fermazioni come « intenzione criminale » e « vile aggressione », non prese parte alla festa data in onore di Sua Maestà in occasione del quarantaduesimo compleanno. Eden allora fece una visita a Roma e suggerì che l’Etio­ pia cedesse una parte dell’Ogaden 3. Quando Mussolini rifiutò, l’Inghilterra bloccò l’esportazione di armi all’Etiopia. La Società delle Nazioni passò varie risoluzioni, ci furono colloqui tripartiti a Parigi, i quattro arbitri rife­ rirono e cinque arbitri furono nominati e Hailé Selassié ne chiese un’imme­ diata riconvocazione che si riunì e la seduta fu aggiornata. E in Etiopia, in Eritrea e in Somalia i preparativi per la guerra continuavano incessan­ temente. Hailé Selassié aveva passato la maggior parte dell’anno precedente a mi­ gliorare il suo esercito come se fosse stato conscio dei futuri pericoli. Il 15 marzo del 1934, nove mesi prima di Ualual, si era tenuta a Addis Abeba una parata militare, a Janhoy Meda, la base dell’aviazione etiope che — con l’acquisto di altri sei aeroplani — saliva a dodici all’inizio del­ la guerra. Hailé Selassié scortato dal ras Cassa di Salale e Beghemder e dal ras Mulughietà dell’Ulubabor donava una bandiera al fitaurari imperiale Burrù Uolde Gabriel per il Mahel Safari, raffigurante S. Giorgio che trafiggeva il drago. Dava quindi un’altra bandiera al comandante della Guardia, il Barambaras Mukria: il Leone di Giuda. Tremila uomini della Guardia sfi­ larono in parata con i loro ufficiali belgi. C’erano tre battaglioni 4, tre com­ pagnie di mitraglieri, due batterie e uno squadrone a cavallo di enormi cavalli appena importati dall’Australia. Gli ufficiali belgi erano molto or­ gogliosi dell’opera compiuta: ai sottufficiali era stato insegnato a leggere e a scrivere, e i soldati erano ben disciplinati e ben vestiti entro certi limiti (l’Imperatore stesso aveva proibito loro di indossare stivali o calzature di qualsiasi genere per non diminuire la loro innata capacità di marciare) e si distinguevano, secondo un rapporto dell’epoca, per il loro interesse al­ l’istruzione, una vivace curiosità e una straordinaria abilità nell’imitazione nonché un grande spirito combattivo. Hailé Selassié, ora che aveva tre battaglioni che costituivano la maggior parte del suo esercito regolare nella capitale, intendeva estendere il siste­ ma alle province. Il 12 settembre 1934 arrivò un terzo gruppo di ufficiali belgi comandati dal maggiore Dothée. Dothée e due dei suoi ufficiali, il capitano Listray e un tenente di cavalleria con l’altisonante nome di Che­ valier de Dieudonné de Corbeek OverLoo istituirono un nuovo centro di addestramento a Harar. Il compito di Dothée era di formare due batta­ glioni di fanteria oltre a uno squadrone di cavalleria, uno squadrone cam­ mellato e uno squadrone di autoblinde. Dopo i fatti di Ualual, a Harar l’Imperatore aveva bisogno di un amico fidato dalla mente fredda: infatti richiamò il degiacc GabreMariam che era troppo bellicoso e lo fece ministro degli interni sostituendolo con il degiacc Nasibù. A Baie mise il degiacc Beienè Mered, il figlio di un agafari 68

di Menelik. Beinè Mered aveva sposato in seconde nozze la figlia di Hailé Selassiè, la principessa RomaneUorq. Il degiacc Abebe Damteu, fratello di ras Destà, fu nominato governatore delle lontane province di Gofa e Bako che si trovavano fra il lago Rodolfo e il lago Stefania, con questa nomina il degiacc sostituiva Beienè Mered5. Per cui nel 1935 la situazione dei confini a sud e a est era la seguente: la frontiera con il Kenya era controllata dai due figli del fitaurari Damteù, Abebè e Destà. Abebè governava le province minori e più lontane e Destà la vasta zona Sidamo e Borana dalla piccola capitale che aveva egli stesso fondato, la città di Yirgalem. Destà aveva sposato TenagneUorq, la figlia maggiore dell’Imperatore e di Menen. L’altra provincia, altrettanto vasta, i cui confini erano segnati dal fiume Ganale Doria e dall’Uebi Scebeli, era governata da Goba da un altro genero dell’Imperatore, Beinè Mered. Ed infine Harar e l’Ogaden erano governate dal degiacc Nasibù, la mano destra fedele e progressista dell’Imperatore che era vagamente disprezzato dai suoi pari per aver sposato la figlia del fitaurari Babitchev che non apparteneva a una casa regnante. In questo modo un gruppo di fedeli governatori, per lo più sui quarant’anni, chiaramente legati alla corte, controllavano il potere nel sud. Con due nuovi battaglioni della Guardia ad Harar, due a Goba e uno a Yirgalem l’Imperatore stava concentrando le sue forze militari anche nel sud. Ma Hailé Selassiè non intendeva far affidamento solo sui belgi. Nel gennaio 1934 un consigliere militare svedese era arrivato per sostituire Kolmodin, il precedente consigliere politico, che era morto di infarto l’an­ no prima. Il generale Virgin, un uomo molto riservato, affiancò Colson e Auberson al ministero degli esteri. Uno dei suoi primi compiti fu quello di disegnare le livree e le uniformi di tutto il personale di palazzo com­ prese quelle dei cacciatori. Un altro fu quello di preparare la visita del principe e della principessa ereditari di Svezia nel gennaio 1935 6. Molto più seriamente, insieme agli altri due membri del triumvirato, approntò la stesura di un dossier da presentare alla Società delle Nazioni e negoziò con Sir Sidney Barton le proposte di Eden, ed infine mise giù dei piani per lo spiegamento delle forze e per una guerra di guerriglia. Nell’estate del 1934 il generale Virgin e l’Imperatore decisero di isti­ tuire una scuola per cadetti ufficiali che sarebbe stata aperta a Oletta, una delle residenze estive dell’Imperatore a circa 30 chilometri dalla capi­ tale. Cinque ufficiali svedesi arrivarono proprio prima di Natale 7. Come i suoi quattro colleghi, tenenti Bouveng, Thorburn, Heuman e Nyblom, il capitano Viking Tamm, il capo della missione e del 6° reggimento, gli Svea Life Guards, aveva semplicemente risposto a un annuncio apparso su un quotidiano svedese: « L’Imperatore d’Etiopia... cerca degli ufficiali sve­ desi quali capo istruttori ». Come un funzionario svedese aveva spiegato al preoccupatissimo ambasciatore belga nel mese di febbraio, gli ufficiali non erano, a differenza dei belgi, ufficialmente appoggiati. Per cui il governo svedese non avrebbe preso delle misure atte a proteggerli o a evitare inci­ di»

denti che avrebbero potuto coinvolgerli. Non disse naturalmente che il governo svedese pagava la metà del loro stipendio; in questo senso erano meno mercenari degli ufficiali belgi che ricevevano l’intero stipendio diret­ tamente dagli etiopi. Comunque la scuola di detta fu fondata nel gennaio del 1935 e solen­ nemente inaugurata dall’Imperatore alla metà di aprile. Era frequentata soltanto da 120 cadetti, scelti fra gli allievi che parlavano francese delle scuole Tafari Maconnen e Menelik, fra i 16 e i 20 anni, e nella media se­ condo Tamm « molto più intelligenti dei ragazzi svedesi della loro età », fisicamente erano piuttosto deboli — niente ginnastica o sport a scuola, ma troppa sifilide — erano impulsivi ma non timidi e non erano molto portati per la meccanica, incapaci di sopportare una critica, non erano né sinceri né severi e neppure ordinati, avevano un temperamento un po’ dramma­ tico e a volte sopravvalutavano se stessi. Uno dei ragazzi era già un balambaras e più della metà erano figli di nobili; molti di loro portavano i loro domestici a Oletta. Kifle Nasibù, il figlio del degiacc Nasibù Emmanuel « non era il più intelligente e neppure il più forte ma era per natura un condottiero», egli aveva 21 anni. Educato in Francia e in Egitto era, se­ condo Tamm, maturo, rilassato, serio e un grande organizzatore — in effetti il capo ideale 8. Vista in retrospettiva appare difficile considerare la Scuola per Cadetti quale serio strumento di guerra, ma gli ufficiali svedesi la consideravano esattamente così e più tardi anche gli italiani. C’erano 45 cadetti di fan­ teria e 25 per gli ingegneri, la cavalleria e l’artiglieria; il corso avrebbe avuto la durata di sei mesi. Ma la storia interruppe il programma e nes­ sun cadetto potè passare gli esami e dal momento che l’addestramento effettivo degli ufficiali aveva inizio solo alla metà del corso, i cadetti pote­ rono apprendere molto poco. Il fatto stesso di aver istituito una scuola per cadetti per ragazzi al di sotto dei vent’anni dimostra che Hailé Selassié sperava in un lungo periodo di pace: questi cadetti avrebbero, nelle in­ tenzioni dell’Imperatore, dovuto sostituire gli ufficiali della Guardia. La Guardia era stata presa così com’era dagli ufficiali belgi che si erano limi­ tati a sgrezzarla un po’; ma l’Imperatore era conscio del fatto che i suoi ufficiali, che erano tutti dei veterani, avrebbero abbandonato la loro idea di come fare una guerra soltanto a livello superficiale. E così si sarebbe dimostrato: infatti i battaglioni della Guardia, in modo particolare i tre di Addis Abeba, che avevano ricevuto un maggior addestramento, erano più disciplinati delle reclute etiopi, ma in fondo rimanevano la Guardia dei tempi di Menelik. Se i cadetti avessero potuto finire il corso, diplomarsi e entrare a far parte del servizio attivo, l’Etiopia avrebbe avuto un piccolo ma moderno esercito con il quale fronteggiare gli italiani. Ma data la situazione Hailé Selassié fu costretto a reclutare aiuti ovun­ que fossero disponibili. Con l’aggravarsi della crisi, nei primi mesi del 1935, tutti i treni da Gibuti portavano una buona parte di avventurieri, giornalisti e mercenari9. Malgrado gli embarghi e le varie difficoltà le armi e le munizioni continuavano ad affluire in Etiopia. In marzo l’am­ 70

basciata tedesca a Londra negava « categoricamente » di aver offerto a Hailé Selassié 10 istruttori dell’esercito e dell’aviazione e trecento autoblinde a credito. Un monoplano Junker era effettivamente arrivato con un pilota tedesco, tale Ludwig Weber, ma solo quale mezzo personale di trasporto dell’Imperatore in caso di necessità. Fra i nuovi arrivati c’era un esperto in elettrotecnica che avrebbe avuto un ruolo molto importante, era un ufficiale russo che aveva prestato servizio in Turchia e in Egitto e si chiamava Theodore Konovaloff. Aveva guada­ gnato la fiducia dell’Imperatore molto rapidamente e in luglio veniva mandato nel Tigrai a ispezionare le forze di ras Seyum. Tre ufficiali turchi arrivarono dalla Turchia 11 e furono mondati a Harar per sostituire Dothée, l’ufficiale belga che era stato richiamato a Addis Abeba quale consigliere del Degiacc Nasibù. George Steer, il corrisponden­ te del Times avrebbe più tardi descritto il trio molto fedelmente: Uehib Pascià, il capo consigliere, come « un uomo anziano e tarchiato in calzoni color avana e scarpe da ginnastica... un romantico»; Farouk Bei «un uo­ mo alto e sottile, con il volto del gran fautore della rigida disciplina mili­ tare », che era incaricato dell’amministrazione e Tarik Bey « un negro con dei baffetti... un vero sudanese... che aveva passato la cinquantina da un po’ ». Ma questo accadde più avanti; prima, nell’agosto, prima ancora dell’arrivo dei turchi, Steer visitava l’Ogaden. Nelle sei settimane che seguirono Ualual avevano avuto luogo parecchi scontri ai pozzi intorno a Ualual, a Gherlogubi e a Afdub e la cosa aveva preso una tale piega che sembrava che la guerra si sarebbe estesa come fatto naturale. Ma il T di marzo fu raggiunto un accordo locale per il cessate-ilfuoco: questa fu una prova, se ce ne fosse stato bisogno, della scarsa impor­ tanza dell’incidente di Ualual. Entrambe le parti sembravano aver tacita­ mente abbandonato Ualual: gli italiani stavano a Uerder e gli etiopi a Gherlogubi. Ma nel mese di agosto il comandante etiope Afeuork ritornò dai poz­ zi di Gherlogubi ai pozzi di Gorrahei, una piccola oasi con un fortino in pietra, nella parte più a sud del Tug Fafan, uno di quei letti asciutti di fiume di deserto che, durante la stagione delle grandi piogge, nell’Ogaden diventava improvvisamente torrenziale. Gorrahei era un avamposto e Giggiga, dove c’erano il quartier generale e il governo dell’Ogaden, si trovava sotto a Harar, all’estremo opposto del­ l’affluente del Tug Fafan, il Tug Jerrer. A Harar Steer trovò Nasibù « alto e ben piantato con un viso duro e bello », che stava facendo dei piani — per mancanza di mitragliatrici — per una campagna difensiva. A Giggiga c’era il fitaurari Scifferau « un simpatico ragazzo ». Fra Giggiga e Gorrahei, sul Tug Jerrer e il Tug Fafan, c’erano due cittadine; la prima, quella di Dagghabur, era abbastanza grande e era governata dal cagnasmacc Malion con i suoi 300 uomini « un bell’uomo alto con l’andatura di Wordsworth ma con un sorriso più bello » 12 La seconda, quella di Ghebredar, era molto piccola e era guardata da 300 uomini e infine l’oasi di Gorrahei dove 71

appena Steer arrivò fu arrestato « con estrema gentilezza, devo ammet­ tere » dal comandante Afeuork. Afeuork, sebbene fosse uno xenofobo, aveva sempre fatto un’ottima im­ pressione agli stranieri che avevano avuto l’occasione di conoscerlo. Da un punto di vista tecnico egli era subordinato al ftaurari Scifferau, il capo effettivo dell’Ogaden militare, un uomo corpulento con una gran forza di carattere, dai lineamenti africani, energico, sospettoso, ammirato e te­ muto e molto amato dai suoi uomini, famoso in tutto l’Ogaden dal giorno della sua cattura di alcuni italiani nel corso delle recenti scaramucce e, qualità più unica che rara in Etiopia, un ottimo amministratore. Perfettamente in linea con la mutevole situazione che si era venuta a creare nell’Ogaden — dove la guerra veniva combattuta non lungo le linee di frontiera ma come su una scacchiera, dai pozzi ai fiumi e poi ancora ai pozzi e dove un elevato numero di uomini era più un fastidio che un aiuto a causa della difficoltà di approvvigionarsi di cibo e acqua — Afeuork era ritornato a Gorrahei con i suoi seicento uomini perché gli italiani avevano offerto a Hussein Ali dei Rer Naib, capo di una banda irregolare compo­ sta da seicento uomini, due cannoni e « forse anche un carro armato » se avesse occupato l’oasi di Gorrahei e il forte del Mullah. Ma né Hussein Ali né gli italiani si erano fatti vivi, c’era la pace nel­ l’Ogaden. Ma Afeuork trincerava i suoi uomini e aveva sistemato il suo Oerlikon antiaereo e le sue due mitragliatrici nei pressi del fortino di pie­ tra del Mullah, il Garesa, al centro della sua postazione. Una volta rilasciato Steer era andato a visitare i due posti di « confi­ ne ». Tafarè Ketema, sull’Uebi Scebeli, dove c’erano 500 etiopi al comando di Nagradas Bascia « un uomo corpulento che aveva sempre bisogno di consigli », stava appostato di fronte al forte italiano di Mustahil tenuto da 700 Dubat, due ufficiali bianchi con un cannone da 15 e una radio; e poi c’era Gherlogubi tenuto dal balambaras Tafarè con 300 uomini lasciati da Afeuork. A cinque miglia più in là, a Uerder, c’erano 3.000 Dubat e cin­ quanta ufficiali italiani. Questa era la situazione nell’Ogaden poche settimane prima che scop­ piasse la guerra; piccoli gruppi di etiopi controllavano i vari pozzi e i vil­ laggi — due linee lungo il Tug Fafan e l’Uebi Scebeli con delle posta­ zioni sparse nel mezzo, fronteggiate da numerose forze italiane nei punti strategici e difensivi — controllati e guidati da un solo uomo, Afeuork. Fra le postazioni etiopi si aggiravano i clan somali che avrebbero do­ vuto essere fedeli. Mentre Steer ritornava a Harar incontrò dei rinforzi che si stavano spo­ stando verso Gorrahei: si trattava di uno dei due battaglioni della guardia di Harar con il comandante fitaurari Simù. E da Harar un migliaio di uomini del degiacc Hapte Michael provenienti da una lontana provincia del sud si erano diretti a Giggiga per attraversarla. L’Impero, lentamente ma in massa, stava cominciando a mobilitarsi. Da parte italiana fu approntato un enorme campo intorno a Mogadi­ scio dove Graziani e il governatore Maurizio Rava si erano installati. 72

I sentimenti di Graziani erano contrastanti. Da una parte era felice di aver di nuovo il comando attivo; era stato rimosso dalla Libia per ordine di Balbo e aveva passato due anni di inattività con mansioni di presidio nell’Italia del nord. Dall’altra, in qualità del più famoso generale colo­ niale, era piuttosto seccato per aver ricevuto il comando del secondo fronte con l’ordine tassativo di tenersi sulla difensiva e di tenere la Somalia a tutti i costi u. Per un uomo della sua vanità non poteva che sembrare un complotto ordito per rovinare la sua reputazione: se avesse obbedito agli ordini e fosse rimasto sulla difensiva allo scoppiar della guerra sarebbe stato biasimato dall’opinione pubblica italiana per la sua inattività. Se avesse avanzato sarebbe stato biasimato per aver disobbedito agli ordini. Egli in­ vece non biasimava De Bono, verso il quale aveva sempre nutrito « un affetto filiale » ma lo stato maggiore italiano — quindi Badoglio, il suo comandante in Libia. Ma nel nord gli italiani stavano raggruppando quello che si sarebbe rive­ lato il più grande esercito che fosse mai stato mobilitato per una campa­ gna coloniale. Nella primavera e nell’estate del 1935 decine di migliaia di ufficiali e di soldati si imbarcavano in Italia per giungere a Massaua attra­ verso il Canale di Suez. In tutto il Mediterraneo era un febbrile acquisto di rifornimenti. Gli ufficiali italiani tagliarono da Gassala per il Sudan e lasciarono sbalorditi i commissari di distretto inglesi per il loro sistema di comprare cammelli: se il garrese del cammello era alto novanta centimetri, il cammello veniva comprato. A Aden, in Egitto e nel Kenya gli agenti italiani compravano foraggio per i muli e passavano ordini per la confe­ zione di uniformi color kaki. In Eritrea i battaglioni di indigeni vennero potenziati al massimo e sud­ divisi in due divisioni al comando del generale Pirzio Biroli. Furono riunite le bande. A Balbo fu ordinato di mandare un battaglione libico e un grup­ po di volontari dalla Libia. Ma la maggior parte delle truppe erano ita­ liane, giovani della classe 1911 che stavano prestando il regolare servizio militare per due anni, e « volontari » delle camicie nere. Quasi tutti i capi fascisti conosciuti comparvero in Eritrea; i più vecchi andarono per un giro d’ispezione e i più giovani si arruolarono in una forza o nell’altra. L’aviazione era l’arma più nota; i due figli di Mus­ solini, Bruno e Vittorio, e suo genero Galeazzo Ciano fecero parte degli equipaggi dei bombardieri Caproni nella squadriglia « La Disperata ». Anche il poeta futurista Marinetti si arruolò nell’aviazione così come Farinacci e Muti che ricoprirono entrambi, in momenti diversi, la carica di segretario generale del partito. L’allora segretario generale Achille Starace fu messo al comando di una speciale colonna motorizzata. Duecento inviati speciali dall’Italia e quaranta dall’estero assicuravano pubblicità a questo enorme ammassamentol4. Henri de Monfreid, i cui romanzi avevano reso famoso il Mar Rosso, rappresentava Le Petit Soir, c’era anche Raoul Salan sotto falso nome per Le Temps e il Deuxième Bureau. Un ufficiale di stato maggiore tedesco il capitano von Strunk, fu inviato dal Wolkischer Beobachter; il generale Fuller rappresentava il 73

Morning Post e Herbert Matthews il New York Times. Tutto ciò comportava un’enorme organizzazione; i magazzini del porto di Massaua dovettero essere ampliati, furono costruiti degli accampamenti e delle basi e soprattutto delle strade di comunicazione. I legionari delle Camicie nere furono adibiti a molti di questi compiti; non era certo la gloria per cui erano venuti in Africa, ma il morale era alto e inoltre erano pagati meglio delle truppe regolari e il loro cibo era migliore sebbene le truppe regolari ricevessero in un giorno quanto un contadino italiano po­ teva guadagnare in una settimana ls. Furono coniati in Italia un milione di dollari Maria Teresa (dalla ma­ trice originale che il governo italiano aveva acquistato dopo il 1896 dalla zecca imperiale) che vennero mandati in Eritrea. Avrebbero dovuto servire alle forze di spedizione per pagare ai contadini il diritto di passaggio sulle loro proprietà. Ma molti di questi dollari finirono all’ufficio politico che De Bono aveva istituito con a capo il colonnello Ruggero dei Bersaglieri. Lo scopo dell’ufficio politico era di preparare un terreno politico; o più cinicamente di comperare il maggior numero possibile di potentati etiopi con il sistema della corruzione e delle promesse unite alle minacce; e se non proprio della loro amicizia l’ufficio politico si sarebbe accontentato della loro neutralità. Ma era una cosa alquanto diffìcile, infatti l’alleanza di un potentato comportava quasi automaticamente l’inimicizia da parte di un altro dal momento che i signori del Tigrai, dove, naturalmente gli italiani avevano concentrato i loro sforzi, erano pervicaci nella loro tradi­ zionale rivalità. In marzo l’ufficio politico aveva preso in considerazione una possibile alleanza con ras Seyum ma l’aveva subito scartata. Innanzitutto « egli non era mai stato un guerriero » e secondariamente manteneva delle buone relazioni con gli inglesi a Cassala e a Khartum, il che era piuttosto sospetto, terzo « egli non sarebbe mai stato un vero alleato di cui ci si sarebbe potuti fidare ma avrebbe continuamente oscillato dal tradimento a una doppia alleanza, come aveva sempre fatto suo padre il ras Mangascià ». Fu deciso che se. il ras Seyum si fosse messo in contatto con gli italiani questi avreb­ bero seguito la tattica di dargli corda cercando al tempo stesso di corrom­ pere alcuni dei suoi luogotenenti, quali il degiace Tedia Abbaguder e il degiacc Negasc, con promesse di denaro e di beni mentre sarebbero stati molto accorti con gli altri, in particolare con l’Uagscium Chebedde dell’Uag e il Nevraid Aregai di Axum 16. Gli italiani non furono mai contattati da ras Seyum bensì, nel mese di maggio, da Hailé Selassié Gugsa di Macallè. Dopo la morte della sua giovane moglie, la principessa ZenabeUorq, Hailé Selassié Gugsa era diventato sempre più scontento. Anche se 1Ί1 di maggio furono annessi ai suoi territori quelli di Agame, Enderta, Enda Maconnen e Uoggerat, egli tuttavia governava dei territori che non erano tanto vasti quanto lo erano stati quelli di suo padre il ras Gugsa Araya. Mentre era nella capitale fece una visita amichevole al conte Vinci e di 74

ritorno nel Tigrai si era recato all’Asmara dove il 28 maggio assicurava al governatore dell’Eritrea Gasperini che desiderava allearsi con l’Italia: non occorreva essere dei geni, disse, per capire che i piani del tiranno Hailé Selassié per il Tigrai, il cui intento era di fomentare una disputa fra ras Seyum e lo sciumagame, il degiace Cassa Sebhat al fine di poter avere un prestito per imporre un capo scioano. Tre giorni dopo Hailé Selassié Gugsa rivelò di avere un piano ben pre­ ciso: gli italiani avrebbero dovuto agire adesso mentre ras Seyum si tro­ vava nella capitale e portarsi a Quoram ai confini con i suoi territori che « potevano essere difesi anche con delle pietre ». Questa sarebbe stata « la scintilla che avrebbe dato fuoco all’Etiopia ». Per l’Imperatore l’unico mo­ do per sfuggire alla morte sarebbe stato quello di fuggire in aereo « e di godersi in Europa le ricchezze che aveva disonestamente accumulato e de­ positato nelle banche europee ». A Quoram gli italiani sarebbero stati difesi da un doppio paravento: dalla malaria che infestava i circostanti basso­ piani e « dai miei Azebo Galla ». Nel caso le operazioni fossero state ritar­ date fino al mese di ottobre, egli avrebbe attaccato da solo Adua e avrebbe ucciso ras Seyum e nel frattempo l’Italia avrebbe dovuto portare le sue truppe a contrastare Aialeu Burrù e Uondossen Cassa. Hailé Selassié aveva anche aggiunto il suo preventivo dell’equilibrio di potere nel nord: egli stesso poteva raccogliere 30.000 uomini, metà dei quali armati di fucile oltre a un cannone e 14 mitragliatrici. Ras Seyum aveva soltanto 5.000 effettivi. Aialeu Burrù, il cui figlio aveva sposato la sorella di Hailé Selassié Gugsa, poteva appoggiare una rivolta a motivo della sua personale ambizione e per il suo disgusto di non essere stato no­ minato ras. Uondossen Cassa nel Beghemder del nord poteva solo contare sui suoi « molli e poco combattivi Amhara » che non potevano certo reg­ gere il paragone con gli « indomiti e bellicosi guerrieri del Tigrai ». Lo stesso valeva per il ras Imrù del Goggiam. Gli italiani trovarono che questo entusiasmo era quasi imbarazzante. Hailé Selassié Gugsa aveva solo ventisette anni e sebbene fosse molto in­ telligente pareva che stesse già seguendo la strada di suo padre per quanto riguardava il bere e la dissolutezza. Più tardi De Bono avrebbe detto di lui « che non aveva l’intelligenza e l’influenza di suo padre » ; ma questo fu dopo il fatto. Gasperini lo mandò via con un milione di lire, una richiesta di discre­ zione e la promessa che due « disertori » eritrei gli avrebbero insegnato l’italiano e che un ingegnere italiano avrebbe fatto visita a Quoram per effettuare un sopralluogo. Sarebbe stato informato quando fosse giunto il momento. Gli italiani ritennero che era « fedele » all’Italia. Come suo padre egli desiderava ardentemente il potere che apparteneva a ras Seyum. Alla fine, cosa ne avrebbero fatto di lui? Forse avrebbe potuto essere no­ minato Negus del Tigrai. Inevitabilmente l’Imperatore venne a conoscenza di questo tradimento. Uodagiò Alì, il tutore e consigliere del principe ereditario a Dessiè fece visita al consolato etiope all’Asmara e si recò in aereo alla capitale verso 75

la metà di settembre con le copie delle ricevute bancarie comprovanti che gli italiani avevano dato del denaro a Hailé Selassié Gugsa. Ma l’Impera­ tore si rifiutò di prendere la cosa seriamente. « Molti dei miei comandan­ ti », pare abbia detto, « prendono soldi dagli italiani. È una corruzione senza corruzione. Infatti essi intascano i soldi e rimangono fedeli all’Etio­ pia ». Fu uno dei pochi errori di Hailé Selassié che era sempre stato un ottimo conoscitore della natura umana; era stato un errore strano e gene­ roso — anche se più tardi gli avvenimenti avrebbero provato che forse egli non lo aveva commesso. Ma a quell’epoca l’Imperatore aveva cose ben più importanti di cui oc­ cuparsi. Gli eventi stavano volgendo al culmine. Comunque le formalità venivano ancora osservate. Il 3 settembre ebbe luogo a Addis Abeba una funzione religiosa in memoria della regina Astrid dei Belgi; per l’ultima volta i corpi diplomatici si riunirono al gran completo. Il ras Mulughietà e il conte Vinci si scambiarono il saluto. Janssens riferì che l’Imperatore aveva sempre al suo fianco la guardia del corpo personale. Il 4 settembre la Società si riunì ancora per studiare « la minaccia di guerra » ; fu nominato un comitato composto da cinque membri. Il 6 di settembre Janssens riferiva a Blattenguetà Herouy che la missione militare belga sarebbe stata ritirata in caso di guerra e che se necessario sarebbero rimasti cinque ufficiali per organizzare un corpo di polizia (questa idea fu di sir Sidney Barton) a patto che la Francia, l’Inghilterra e l’Italia avessero dato il loro consenso. Il 9 di settembre Hailé Selassié mandava una nota alla Società offrendo concessioni all’Italia e un ritocco dei confini. 17 11 di settembre sir Samuel Hoare, il ministro degli esteri inglese, fece un discorso piuttosto pesante a Ginevra in cui ammoniva che un’aggres­ sione sarebbe stata contrastata con la forza e fu moderatamente appog­ giato da Lavai; Sylvia Pankhurst mandò un telegramma di congratula­ zioni. Il 13 settembre la flotta navale britannica fu mobilitata e inviata nel Mediterraneo, la flotta italiana si spostò dal Dodecanneso per portarsi verso La Spezia e l’Europa che era giunta sull’orlo della guerra, tremò. Il 18 di settembre il comitato dei cinque riferì alla Società delle Nazioni consigliando la rettifica dei confini e l’istituzione di un protettorato econo­ mico d’Etiopia. Il 21 settembre Roma rifiutava il rapporto del comitato in quanto « inaccettabile ». Il 25 settembre Hailé Selassié chiedeva che ve­ nissero mandati degli osservatori neutrali alle frontiere etiopi; il Foreign Office dava ordine a sir Sidney Barton di tergiversare. Il 26 settembre la Società nominava un comitato di quindici membri. Il 27 settembre veniva celebrata in tutta l’Etiopia la grande festa del Mascal che segnava la fine delle grandi piogge. A Adua sfilarono in parata le truppe di ras Seyum armate di nuovi Mauser e di mitragliatrici. A Addis Abeba il Mascal fu festeggiato con la tradizionale Danza dei Preti e con le « cerimonie del vanto » da parte dei guerrieri. Il 28 di settembre Hailé Selassié dava il saluto d’addio al generale Virgin che soffriva di mal di cuore come il suo predecessore. Il 29 settembre Hailé Selassié si mostrò a una folla entusiasta di giovani guerrieri scioani ma continuò a ritardare l’ordine per una mobi76

litazione generale. Il 30 di settembre ras Seyum dava una cena al suo ghebbi di Adua a cui partecipavano Konovaloff e Franca, il console ita­ liano a Adua e Ligg Tadla, il console etiope all’Asmara e il vecchio degiace GabreMedhin, lo sciumtembien. Il 1° di ottobre la prima banda eritrea occupava Mussa Ali, una mon­ tagna nel territorio dancalo proprio sopra il confine. Il sultano Moham­ med Yayo di Aussa non ebbe modo di informare Addis Abeba ma un aereo francese proveniente da Gibuti aveva notato l’incursione e Bodard il ministro francese a Addis Abeba portò la notizia a palazzo. Franca la­ sciò nella prima mattinata il suo consolato a Adua avendo avuto cura di bruciare tutti i documenti ma fu arrestato vicino al confine dal cagnasmacc Abbai Gassa. Quella stessa notte Hailé Selassié ordinava il suo rilascio e promuoveva Abbai Cassa al titolo di Fitaurari. Il 2 di ottobre l’Imperatore passò la prima mattinata in preghiera nella chiesa di Mariam sull’Entotto 17. Alle 11 lo spiazzo di fronte al Ghebbi era pieno di soldati; quattro ser­ vitori portarono il negaret del Negus Neghesti; due portabandiera neri co­ me il carbone rimasero ritti in piedi su entrambi i lati, mentre un quinto servitore lo percuoteva ripetutamente con una mazza di legno. E quando il ligaba Tasso ebbe finito di leggere ad alta voce Yauagg imperiale che proclamava la mobilitazione, migliaia di spade risplendettero sopra migliaia di guerrieri urlanti. Alle 9, quella sera, le campane delle chiese di tutta l’Etiopia suonarono a distesa i rintocchi sinistri delle nazioni cristiane in guerra.

CAPITOLO SETTIMO

L’INVASIONE

Nelle prime ore del 3 ottobre centomila uomini attraversarono la fron­ tiera. La notizia fu annunciata in tutto il mondo e in Europa si ebbe l’agghiacciante sensazione che l’invasione dell’Etiopia preannunciasse la fine di molte speranze e di molte vite. L’èra della pace era finita, comin­ ciava l’èra delle invasioni. La prima fase dell’invasione italiana si svolse, tuttavia, in maniera sorprendentemente pacifica, quasi idillica. L’èra delle invasioni era ini­ ziata ma il periodo delle guerre lampo apparteneva ancora a un futuro inimmaginabile. L’invasione dell’Etiopia sotto l’egida mite di De Bono fu ancora un affare di tipo tradizionale: irregolari a cavallo e a piedi apri­ vano il cammino combattendo, dietro procedevano lentamente lunghe co­ lonne di fanteria e di muli, seguite a loro volta dai genieri e da colonne di autocarri. Centomila uomini non potevano ancora attraversare un con­ fine al passo dell’oca all’unisono: si snodavano lentamente divisi su tre colonne di marcia. Sulla destra il Secondo Corpo d’Armata del generale Maravigna pun­ tava direttamente su Adua. Sulla sinistra il Primo Corpo d’Armata del generale Santini seguiva la cosiddetta « via imperiale », la pista che, at­ traversando la frontiera, portava a sud fino a Macallè, a Dessiè e quindi ad Addis Abeba. L’obiettivo immediato era Adigrat. Al centro il Corpo d'Armata eritreo del generale Pirzio Biroli avanzava verso l’Enticciò, la base sulle montagne dove le truppe di Baratieri erano rimaste accampa­ le per lunghe settimane prima di scendere su Adua1. « O Etiopia abbia­ mo pazientato quarant’anni ora basta! » avrebbe gridato Mussolini alla folla osannante che gremiva piazza Venezia. Quattro giorni dopo, Adua, Enticciò e Adigrat erano state occupate, senza una battaglia e senza quasi incidenti. Mentre le forze degli invasori attraversavano il Mareb, i nove aerei della «Disperata» decollavano per lanciare le loro bombe e i loro volantini sulla capitale di ras Seyum. Quatlordici persone e molte vacche restarono uccise sul colpo. Ras Seyum, l’Abba Isaac, il vescovo del Tigrai e gli uomini di ras Seyum si rifugia­ rono nelle grotte delle montagne vicine. Il giorno seguente alcune centi­ naia di uomini agli ordini del degiacc Sahle ebbero dei brevi scontri con l'avanguardia del Secondo Corpo d’Armata; con orgoglio il Degiacc ri­ 79

portò ά ras Seyum l’uniforme del tenente Morgantini della Banda Serae, che fu il primo ufficiale italiano ad essere ucciso in questa guerra e l’unico a morire al momento dell’invasione. Fu il solo combattimento che ebbe luogo. Quando il generale Villa­ santa, comandante della « Gavinana », entrò ad Adua il 6 ottobre, ras Seyum spedì i suoi capi militari a est e a ovest e decise di ritirarsi sul Tembien, a una settimana di marcia. Le truppe italiane che avanzavano in territorio « ostile » fraternizzando con i tigrini e cantando gaiamente e senza tregua la loro canzone prefe­ rita « Faccetta Nera »2, furono piacevolmente sorprese dalla mancanza di resistenza. De Bono e i suoi comandanti rimasero meno sorpresi: già in luglio avevano appreso dai loro informatori che ras Seyum progettava di abbandonare Adua, per poi accerchiarli. Sapevano anche che Hailé Selassié aveva impartito ordini precisi ai signori del Tigrai di non fare resi­ stenza contro l’avanzata italiana: il suo proposito era di mostrare al mondo chi fosse l’aggressore. Più sorprendente era il fatto che i suoi ordini fos­ sero stati eseguiti, o quasi. Così cadde Adua, e il generale Santini rialzò la bandiera che aveva visto ammainare quando era tenente. Anche se la stampa italiana non potè pro­ prio vantare una grande vittoria militare, l’onta del grande disastro era in un certo senso cancellata, l’onore vendicato e la sconfitta riscattata. I priori dei sei conventi di Adua si sottomisero pochi giorni dopo; il Ca­ pitolo della cattedrale di Axum, meno il Nevraid, andò a fare atto di omag­ gio, e il 15 ottobre De Bono entrò a cavallo fra acclamazioni di circostanza nella città santa di Axum, antica sede della regina di Saba e dei discen­ denti di Salomone. Per le truppe del fianco occidentale era un momento di trionfo e di felicità. Nell’estremo fianco orientale ci fu un improvviso arresto. La colonna blin­ data italiana che il 2 ottobre aveva preso il monte Mussa Ali, s’era inol­ trata animosamente nel piatto deserto della Dancalia in direzione di Sardo e della valle dell’Auasc. Il primo giorno, dopo soli trenta chilometri la tem­ peratura interna dei piccoli carri armati Fiat-Ansaldo raggiunse i cinquan­ ta gradi. Il giorno seguente i motori e gli stessi equipaggi non ressero più. Ma fu sull’ala orientale del contingente italiano più avanzato che si ebbe un ritardo veramente preoccupante. Il Primo Corpo d’Armata aveva chiaramente occupato Adigrat senza resistenza, ma questo non era che un momento del balzo iniziale, che doveva portarli a Macallè, capitale del Tigrai orientale, e residenza di Hailé Selassié Gugsa. Qualcosa, però, non aveva funzionato a Macallè. Sarebbe dovuto giun­ gere un messaggio da parte di Hailé Selassié Gugsa con l’annuncio che egli si dichiarava in favore dell’Italia e che la strada per Macallè era aper­ ta. Ciò che, invece, arrivò Γ8 ottobre fu un disperato appello di aiuto al­ l’esercito italiano per attaccare il degiacc Hailé Chebbede, e settemila dei suoi uomini. Non ci fu un secondo messaggio; tre giorni dopo apparve ad Adigrat Hailé Selassié Gugsa in persona, con solo 1.200 uomini invece delle decine di migliaia promesse. Santini lo giudicò « insicuro e pieno di 80

timore » e, benché a Roma la notizia dell’alleanza fosse accolta positiva­ mente, e la stampa aumentasse di dieci volte il numero dei suoi guerrieri, era successo qualcosa di molto grave. Santini avrebbe dovuto essere insieme ad Hailé Selassié Gugsa già a Macallè; al contrario Hailé Selassié Gugsa era ancora fermo ad Adigrat con Santini. La scintilla che avrebbe dovuto dar fuoco all’Impero con una rivolta si era spenta. Mussolini decise di mandare Badoglio, assieme al suo sottosegretario alle Colonie, Lessona, a fare un’ispezione al fronte etiopico. Che cosa era successo realmente a Macallè? È impossibile saperlo con certezza, ma si può indovinarlo. Il degiacc Hailé Chebbede, figlio dell’uagscium Chebbede, era giunto in città con l’esercito dell’Uag. Hailé Chebbede era anch’egli un uomo di oltre cinquant’anni che, essendo stato ad un certo momento console all’Asmara, conosceva bene le idee e le personalità del nord del Tigrai. Per anni aveva rappresentato suo padre alla corte imperiale e, solo un anno prima l’aveva lasciata con l’ordine segreto, da parte di Hailé Selassié, di prendere in mano di fatto il governo dell’Uag, lasciando al vecchio Uagscium solo la carica fittizia di governatore. Pare probabile che Hailé Selas­ sié considerasse più seriamente gli ammonimenti di Uodagiò Alì di quanto non fosse allora sembrato. Inoltre se c’era un uomo su cui poteva contare per controllare i movimenti del violento e infido giovane governatore di Macallè, questi era Hailé Chebbede che, per quello che lo riguardava, non nutriva ambizioni personali sul Tigrai. Ciò che colpisce particolarmente è che l’armata dell’Uag era già mo­ bilitata e in marcia, mentre ovunque la mobilitazione procedeva lenta­ mente e faticosamente, perfino sotto ras Cassa e ras Immirù3. È im­ probabile che la presenza di Hailé Chebbede sia stata davvero accidentale. Ad ogni modo, egli prima di partire fece tagliare i fili del telefono, cioè l’unico legame diretto tra ras Seyum e la capitale, e portò con sé ad Adigrat non solo il suo profumo personale e lo champagne preferito, ma anche un ingegnere svizzero, un certo Ferdinand Bietry, le cui carte circa una possibile nuova strada tra Addis Abeba e Dessiè, da lui ispezionata, potevano rivelarsi quanto mai utili. All’Asinara Hailé Selassié Gugsa ricevette una bella uniforme con i cal­ zoni ornati di strisce rosse e alti stivaletti di cuoio e gli venne conferito l’incarico di governatore di tutto il Tigrai, che De Bono piuttosto prematu­ ramente aveva annesso. Ma benché gli italiani nel loro disappunto ' trat­ tassero il giovane principe con un malcelato disprezzo, la sua defezione inferse un duro colpo alla causa etiopica. Quando la notizia si diffuse i contadini etiopici si stupirono e i signori d’Etiopia presero a guardarsi l’un l’altro con sospetto chiedendosi chi sarebbe stato il prossimo a cam­ biare fronte. Al tempo di Adua i soli traditori che l’invasione italiana aveva fatto emergere furono ras Sebhat e i suoi uomini. Questa volta era successo l’inverso. E comunque fu questa la prima, ma anche l’ultima de­ fezione di un nobile di alto rango e dei suoi uomini. Nei mesi seguenti ci sarebbero state sì rivolte e complotti, ma mai, fino alla sconfitta finale, 8/

un aperto cambiamento di fronte. Gli italiani, ingannati dalle ben note rivalità, non avevano tenuto in sufficiente considerazione la coesione in­ terna della classe dirigente etiopica in caso di minaccia proveniente dal­ l’esterno. Quando Badoglio e Lessona arrivarono a Massaua il 17 ottobre l’e­ sercito italiano era attestato sulla linea Adua-Enticciò-Adigrat. Dal pun­ to di vista tecnico questo loro giro di dieci giorni risultava come un viag­ gio di ispezione avente per oggetto « lo studio delle possibilità di opera­ zioni verso il Sudan ». I rapporti con l’Inghilterra erano tesi, le sanzioni stavano per essere varate e c’era il timore che gli inglesi chiudessero ille­ galmente il canale di Suez, e di conseguenza tagliassero fuori la spedizione italiana, facendo scoppiare quasi inevitabilmente un conflitto coloniale, per lo meno a livello locale. Ma vi erano anche delle questioni di secondo ordine che davano mo­ tivo al viaggio e che costituivano una più immediata minaccia per De Bono. Egli era ben conscio che il suo incarico non aveva suscitato consensi unanimi, e avrebbe dovuto parimenti sapere che il generale Baistrocchi, sottosegretario alla Guerra4, aveva desiderato il comando per sé e, quan­ do questo gli era stato rifiutato, aveva proposto Pirzio Biroli, cugino di Lessona. In altre parole erano presenti i soliti banali e squallidi intrighi personali, che, mascherati sotto l’apparente compattezza della gerarchia fascista, negli anni a venire avrebbero scardinato e distrutto l’intero edi­ ficio. In verità la scelta di De Bono era per lo meno strana. Egli si av­ vicinava ormai alla settantina, ed era considerato più un oggetto di scher­ no che non di rispetto da parte dei soldati e dei giovani ufficiali, a cui soleva rivolgersi con l’appellativo di « figlioli »: era difficile vederlo come il conquistatore dinamico di un nuovo impero. La sua strategia consiste­ va nell’avanzare lentamente aggirando le difficoltà, costruendo strade e stabilendo centri di sussistenza prima di ogni nuovo balzo in avanti; pre­ feriva conquistare il territorio con minacce e promesse dove possibile, sen­ za maltrattare le popolazioni indigene, accettando il combattimento solo quando questo fosse stato proprio inevitabile. De Bono era il capo quasi ideale per conquistare un impero in modo lento e pacifico, ma sfortuna­ tamente per lui e forse anche per l’Etiopia, l’Italia non aveva il tempo che De Bono riteneva necessario: due o tre anni. Quando Badoglio ritornò in Italia, presentò a Mussolini un lungo rap­ porto scritto. Aveva trovato il Primo Corpo d’Armata di Santini del tut­ to soddisfacente e il suo comandante un uomo pieno di decisione. A suo avviso Maravigna mirava troppo a conquistarsi medaglie; e i muli del Secondo Corpo d’Armata erano in cattive condizioni. Quanto al Corpo d’Armata eritreo era, secondo lui, il migliore di tutti. Pirzio Biroli era « straordinariamente popolare presso tutti, molto attivo e maestro in tàt­ tica militare » 5. Solo alla fine del suo rapporto Badoglio entrava nel merito della que­ 82

stione più importante, quella del comandante in capo. Secondo lui, De Bo­ no soffriva di quella paura che Badoglio definì con accortezza « psicolo­ gia eritrea » ( il fatto, cioè, che non si menzionasse mai la parola Adua, come se fosse un anatema, si dimostrò fin troppo vero), ed evitava di dare battaglia. Egli metteva in contrapposizione De Bono « uomo stanco e quasi completamente sfinito » con « l’energico e attivissimo » Baldissera, il governatore che aveva preso il posto di Baratieri, e sotto il cui co­ mando si era trovato Badoglio quarant’anni prima. Mentre l’esercito indugiava, l’Asmara e Roma si tempestavano di tele­ grammi. Il 20 Mussolini telegrafò: « Non ci saranno complicazioni in Eu­ ropa prima delle elezioni inglesi fissate per la metà novembre. Ebbene per quella data tutto il Tigrai fino a Macallè e oltre deve essere nostro... colla fine dell’embargo armi moderne e munizioni arrivano in grande quantità in Etiopia per cui il tempo lavora contro di noi ». Il 28, dopo la partenza di Lessona e Badoglio, De Bono rispose con­ trapponendo alla situazione politica europea un lungo rapporto sulle pro­ prie difficoltà logistiche. Un terzo dei suoi muli si trovava nelle « inferme­ rie quadrupedi ». Promise tuttavia di avanzare il 5 o il 6 novembre e, prima di assicurare il duce circa la sua « immutata affettuosa devozione », lo mise in guardia contro qualsiasi « faciloneria » che avrebbe potuto es­ sergli riferita da Lessona, o forse anche da Badoglio. Il giorno seguente gli giunse una risposta vaga: doveva avanzare il mattino del 3: « Il 3 ottobre andò bene, adesso andrà meglio. Rispondi. Mussolini ». Il 2 novembre De Bono spostò in avanti ad Adigrat il suo quartier ge­ nerale. Il 3 novembre gli eritrei di Pirzio Biroli e il Primo Corpo d’Armata di Santini avanzarono per incontrarsi a poche miglia a nord di Macallè. L’8 gli italiani erano in vista della città: gli uomini di Hailé Selassié Gugsa levarono il grido di « Macallè Macallè! ». Non incontrarono alcuna resistenza; sembra che il Degiacc Hailé Chebbede avesse saccheggiato la città (il Ghebbì, costruito dall’italiano Negretti per l’imperatore Giovanni, era in rovina) e, che quindi le forze dell’Uag si fossero ritirate nell’interno. Santini e Hailé Selassié Gugsa entrarono in città fianco a fianco. La stampa italiana uscì con testate e articoli che commemoravano « la disperata resistenza di Galliano ». Dove la stampa ricordava Galliano, Mussolini, la cui immaginazione faceva sempre un balzo in avanti, pensava a Toselli. L’11 novembre egli telegrafò a De Bono di continuare la mar­ cia « su Amba Alagi senza indugi ». De Bono rispose lo stesso giorno: « A parte doloroso ricordo storico che secondo me non abbisogna di rivendica­ zione, posizione di Amba Alagi non ha alcuna importanza strategica ed est tatticamente difettosa perché aggirevole ovunque ». Era un telegramma che avrebbe dovuto leggere il Duca d’Aosta. Fu in ogni caso l’ultimo telegramma di De Bono in qualità di comandante del­ la spedizione italiana. Intanto i primi seri combattimenti stavano per scoppiare sul fianco si­ nistro del principale attacco italiano. Due battaglioni indigeni e il batta­ glione libico inviato da Balbo erano stati distaccati per formare la « colon­ 83

na dei bassopiani orientali »; con tre Bande questa formò una colonna forte di 2.500 uomini che si portò avanti il 3 novembre attraverso il de­ serto della Dancalia per proteggere il fianco del corpo d’armata di San­ tini in marcia da Adigrat a Macallè. La colonna era comandata dal generale Oreste Mariotti; tra la trentina di ufficiali italiani che lo accompagnavano vi era un giovane tenente colonnello, Orlando Lorenzini, nome che doveva divenire famoso. Trenta cammelli trasportavano quattro cannoni da montagna, quattro casse con­ tenenti 10.000 dollari e 10.000 fucili che si sarebbero dovuti distribuire a un gruppo di dancali che, secondo le previsioni dell’Ufficio Politico, si sarebbero congiunti alla colonna prima che questa raggiungesse i pozzi di Elefan. Per tre giorni e mezzo la colonna marciò attraverso le pianure salate, cercando di tracciare il cammino con carte topografiche poco pre­ cise e facendo la guardia di notte. Solo dopo essere giunti a Elefan apparve qualche dancalo e in seguito appena duecento. La colonna si mosse lenta­ mente verso Damalè e Aù; ad Aù i capi'locali venutigli incontro per sot­ tomettersi, li informarono che lo scium dell’Agamé, degiacc Cassa Sebhat, con 400 uomini ben addestrati e 100 soldati regolari si stava preparando ad attaccare. Mariotti scrisse una lettera al degiacc Cassa, ricordandogli la lunga amicizia intercorsa tra gli Italiani e suo padre ras Sebhat. La lettera non ebbe risposta. All’alba del 12 novembre la colonna di Mariotti, rimasta ormai indie­ tro, dal momento che Macallè — come si venne a sapere per radio — era stata occupata quattro giorni prima, lasciò Aù e quattro ore dopo giunse in una piccola gola lunga circa mezzo miglio, che costituiva il letto del fiume Endà in secca. Per tre ore la colonna salì faticosamente lungo la gola in un calore ter­ ribile. La Banda Massaua che aveva il compito di proteggere i fianchi della colonna era solo a una trentina di metri sul costone della montagna, su entrambi i lati della colonna serpeggiante. Sul fianco sinistro ci furono dei richiami molto distinti, due note ripetute con insistenza. La colonna sbandò. L’avanguardia di 200 dancali al comando del colonnello Belly, si trovava quasi alla fine della gola, mentre le salmerie e la retroguardia non vi erano ancora entrate. Mariotti al centro, sentendosi improvvisamente insicuro, mandò avanti una staffetta per far fermare l’avanguardia e una indietro a dar l’ordine di mettere in batteria i cannoni. Mentre i cammelli avanzavano e la batteria veniva scaricata e montata in modo da avere a tiro la cresta della montagna di fronte, si fece fuoco da tre parti. L’ufficiale d’artiglieria cadde con un proiettile nella caviglia, 23 cammelli furono uccisi e tutti i servienti di un pezzo furono abbattuti. Il colonnello Belly, un veterano di 62 anni, ferito ad una mano e a un ginocchio, guidò un attacco verso la cresta della montagna di fronte. Ma cinque mitragliatrici facevano fuoco sulla colonna e l’attacco fu fermato. Per qualche minuto parve che perfino gli ascari eritrei rompessero le file e fuggissero; ma vennero riuniti insieme dai loro sciumbàsci vestiti di pelle di leone. 84

La battaglia continuò senza sosta tutto il giorno. Ma ancora peggiore del fuoco delle armi era il suono beffardo dei corni etiopici. Sulla vetta di una collina lontana si poteva scorgere il Degiacc Cassa Sebhat dirigere con un binocolo il fuoco assieme ai suoi comandanti. Per due volte un ri­ cognitore sorvolò la gola ma non vide nulla. Il 26° battaglione indigeno tentò un attacco laterale dalla retroguardia, ma fu bloccato. Quando scese la notte la situazione sembrò quasi disperata. Le truppe italiane dormirono dove si trovavano, senza accendere fuochi. Si era perso il contatto radio con la base. Poco prima dell’alba Mariotti ordinò a un piccolo gruppo di esploratori di salire in fila indiana sulla montagna nel disperato tentativo di guadagnare la vetta prima che un nuovo giorno segnasse la loro distruzione. Gli etiopici erano svaniti nella notte e la pos­ sibilità, la quasi certezza di annientare una colonna italiana era svanita con loro. Quattro giorni dopo la colonna arrivò a Macallè stremata dalla fame: durante quei quattro giorni aveva sempre visto gli aerei lanciare rifornimenti a mezza giornata di marcia dietro di sé. Quel giorno un telegramma da Roma a De Bono autorizzò una « ragio­ nevole sosta » a Macallè, ma nella stessa giornata, il 17 novembre, fu spedito un altro messaggio. De Bono veniva informato che con la caduta di Macallè la sua « missione » era compiuta; che Badoglio sarebbe dive­ nuto il comandante in capo del corpo di spedizione italiano e che Musso­ lini lo abbracciava « con immutata cordialità ». Le elezioni generali in Gran Bretagna si tennero il 14 novembre e per il 17 novembre Mussolini aveva avuto il tempo di riflettere sui risultati e di vagliare i rapporti dalle varie ambasciate in Europa. In un certo senso i risultati furono per lui un sollievo: il Partito Laburista, che era pronto a chiudere il canale di Suez e passare alla guerra, aveva ottenuto solo 184 seggi, mentre il Go­ verno Nazionale, diretto da Baldwin, aveva riacquistato il potere con una maggioranza schiacciante di 431 seggi. Ma si trattava solo del minore dei due mali. Baldwin aveva basato la sua campagna elettorale sullo slo­ gan « Tutte le sanzioni ma non la guerra » e il 18 novembre le sanzioni, che erano state votate un mese prima, vennero imposte all’Italia6. Il 19 novembre fu proclamato, in Italia, data di ignominia della storia del mon­ do. Gli italiani, amareggiati dal loro improvviso stato di reietti dell’Euro­ pa, che né comprendevano né sentivano di meritare, si strinsero intorno al loro capo, pieni di risentimento e di orgoglio ferito. Il duce, irritato dal fallimento delle promesse francesi — Lavai aveva detto a Chambrun che sarebbe stato costretto a sostenere gli inglesi a Ginevra — voleva a tutti i costi una rapida avanzata e, se possibile, una rapida vittoria in Africa. Questo era tanto più urgente in quanto le sanzioni sul petrolio, quelle che veramente contavano, non erano state ancora imposte. Mussolini ave­ va affermato chiaramente che le sanzioni sul petrolio sarebbero state inter­ pretate come un casus belli. Le grandi potenze avevano esitato, timorose di provocare quanto avrebbe potuto non essere un bluff. Tuttavia da tutte le parti si facevano pressioni sugli uomini politici; le sanzioni sul petrolio dovevano essere discusse a Ginevra il 12 dicembre e sembrava probabile 85

che l’uomo politico inglese più popolare, il giovane Anthony Eden, allora ministro degli Affari della Società delle Nazioni avrebbe fatto di tutto per farle approvare. Se le sanzioni sul petrolio fossero state varate e applicate, l’Italia avrebbe dovuto fermare la sua avanzata e probabilmente accettare una pace basata sulla linea del cessate il fuoco. Era perciò importantissimo agli occhi di Mussolini conquistare quanto più territorio possibile prima del 12 dicembre. De Bono non avrebbe avanzato neanche quando questo gli fosse stato ingiunto, perciò doveva essere sostituito. Tra i generali disponibili la scelta più ovvia era il capo di Stato maggiore generale; egli era già stato in territorio africano, cono­ sceva i soldati, era un abile organizzatore, e soprattutto conosceva la mentalità di Mussolini. Badoglio salpò dall’Italia un’altra volta neanche quindici giorni dopo il suo ritorno da Massaua. De Bono era ritornato da Macallè il 17 e aveva trovato il telegramma di Stato 13181 che lo attendeva. « Ho risposto subito » scrisse De Bono, « tra l’altro dicevo nel mio telegramma che il richiamo mi faceva anche piacere. »* Ma era una grossa bugia. Il giorno seguente seppe di essere stato nominato Maresciallo d’Italia, e il 26 novembre andò ad incontrare Badoglio al suo arrivo a Massaua ed uscì dalla storia d’Etiopia, e in realtà quasi anche dalla storia d’Italia, fino al suo voto fatale nella notte tra il 24 e il 25 luglio otto anni più tardi.

Sul fronte meridionale non c’era stata un’avanzata sostanziosa ma una serie di scaramucce e un avvenimento di una certa importanza: la morte di Afeuork. Due giorni dopo la dichiarazione di guerra gli italiani attac­ carono Gherlogubi vicino a Ualual e a Dolo, posto di guardia etiopico al confine col Kenya. In due giorni gli italiani attaccarono tre volte prima che Gherlogubi cadesse; persero dieci uomini e il barambaras Teferè due volte tanti prima di ritirarsi a Gorrahei. A Dolo, dove le due guarnigioni vivevano fianco a fianco, alcuni emissari italiani avvertirono il capo indi­ geno Mukria di evacuare prima che iniziassero le ostilità. « Io sono Fitaurari », egli rispose, « cioè capo dell’avanguardia. Devo fare il mio dovere. Ogni metro quadro ed ogni capanna saranno difesi fino all’ultima goccia nel nostro sangue. » Venne sepolto nel luogo in cui cadde, gli italiani posero una croce sulla sua tomba e risparmiarono sua moglie e i figli. Dieci giorni dopo, gli italiani attaccarono il terzo posto di guardia di frontiera di Tafarè Ghetemma sull’Uebi Scebeli. Olol Dinle fece un’incur­ sione a nord e catturò il piccolo posto di guardia di Scellabo, difeso senza entusiasmo da Hussein, un parente del Mullah, e Dagnerei, dove suo cugino Hamil Badel aveva ricevuto l’incarico di governare il distretto dall’Imperatore. Hamil Badel venne catturato, gli fu offerta una tenda * Emilio De Bono, «La preparazione e le prime operazioni», INFC, Roma, 1937, pag. 213 [N.d.C.]

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sontuosa, una cena e delle donne. Quella notte fu strangolato per ordine di Olol Dinle dal suo stesso fratello. In modo più serio gli italiani si preparavano a muovere contro Gorrahei dove le forze di Afeuork si erano ora congiunte al secondo batta­ glione di Guardie provenienti da Harar. Vi erano tremila uomini, armati di mortai e mitragliatrici, comandati da Afeuork, da Ali Nur e Omar Samanthar, dal fitaurari Baade e dai comandanti di battaglione i fitaurari Simù e Chebbede. Il colonnello Frusci preparò un’operazione su larga scala servendosi di tutti i sei battaglioni arabo-somali, di 150 autocarri, 9 carri armati e 20 autoblindo. Il 2 novembre venti aerei7 italiani bombardarono il forte in muratura del Mullah. Afeuork fu ferito gravemente a una mano e a una gamba; due giorni dopo entrò in coma. Prima di morire raccomandò ai suoi uomini di seppellirlo sul posto: « Non riportatemi indietro », disse, « anche il mio corpo deve combattere contro gli italiani ». Ma i suoi uo­ mini gli disobbedirono, perché per loro era impensabile non dare al loro capo una sepoltura cristiana. Con uno dei pochi automezzi a disposizione trasportarono il suo corpo nel più vicino cimitero, presso la chiesa di San Giorgio, a Dagahbur. Quando le colonne italiane, lasciate Gherlogubi e Ferfer, giunsero il 7 novembre a Gorrahei, trovarono il campo deserto, le capanne bruciate e 500 fucili abbandonati. La morte di Afeuork e i continui bombardamenti avevano demoralizzato tutti i soldati; perfino i battaglioni delle Guardie erano fuggiti e gli sforzi del fitaurari Baade di riunire più lungi un po’ di uomini ebbero scarso successo. Il giorno seguente gli italiani raggiunse­ ro con i camion Ghebredar, un villaggio dopo Gorrahei, e catturarono la retroguardia nemica, parecchie centinaia di uomini con fucili e alcuni mez­ zi motorizzati. Si spinsero avanti velocemente per 81 miglia verso nord, fino al luogo in cui il Tug Fafan (o Faf), che era in piena, si congiunge al suo affluente il Tug Gerrer. Qui furono fermati dalle forze etiopiche, numerose e ben armate per cui retrocessero verso le loro nuove basi, a Gorrahei e Ghebredar. I capi dei Rer Dalai, degli Abdallah, dei Talamogne e dei Gheline si presentarono agli italiani per sottomettersi, e così fece anche Abdel Krim ibn Mohammed, l’unico figlio superstite del Mul­ lah, con 1.000 fucili. Se a questo punto Frusci avesse osato fare una mossa audace avrebbe potuto spingersi fino a Dagahbur e perfino ad Harar. Gli etiopi erano de­ moralizzati e disorganizzati e le tribù somale erano pronte a prendere parte a quella che, secondo il loro punto di vista, era un’altra tappa, comandata dagli italiani, della loro secolare lotta contro i cristiani dell’Etiopia. Due fatti contribuirono a migliorare la labile situazione etiopica. L’ 11 novembre, il fitaurari Gongol scese da Anale per rinforzare Gorrahei, probabilmente senza sapere che questa posizione era caduta. Il colonnello Maletti attaccò la sua retroguardia e in seguito cadde in un’imboscata. Tre dei piccoli carri armati Fiat-Ansaldo furono presi in trappola e distrutti. 87

Lo stesso fitaurari Gongol fu gravemente ferito e riportato ad Harar. Si trattò solo di una mezza vittoria, perché entrambe le parti dovettero retrocedere per trenta miglia dopo lo scontro, ma tuttavia fu un fatto incoraggiante. Il secondo fatto fu un’improvvisa e inaspettata visita dell’Imperatore in persona. L’11 novembre arrivò in aereo a Giggiga e all’alba raggiunse in automobile la pittoresca città di Dagahbur, che si trova nel cuore del deserto sul Tug Gerrer, dominata dalla sua bianca moschea, una città di poche migliaia di abitanti, la più importante dell’Ogaden. Qui egli distri­ buì ricompense e punizioni: medaglie a coloro che avevano catturato i carri armati (presentatigli completi delle loro mitragliatrici binate), una corona per la tomba di Afeuork, alla cui memoria venne conferito il titolo di Degiacc dell’Ogaden, trenta frustate e due colpi di baionetta al fitaurari Simù, condannato a morte da Nasibù per vigliaccheria, e la fustigazione per il comandante dell’altro battaglione delle Guardie, il fitaurari Ghebbede. Avendo, così, a suo modo rinsaldato il morale delle truppe nell’Ogaden, Hailé Selassié ritornò in aereo nella capitale per riflettere sulla mossa seguente.

Nelle sei settimane trascorse dall’inizio della guerra l’Imperatore aveva avuto ugual cura per le questioni militari e quelle diplomatiche. Per ore ed ore presiedeva le feste tradizionali (ghebir) nella sala dei banchetti del Grande Ghebbì dove i suoi guerrieri erano intrattenuti quando passavano di lì durante i loro viaggi a nord, a est e a sud. Per il resto del tempo, l’Imperatore rimaneva chiuso a discutere, con i suoi consiglieri stranieri e i vari diplomatici, la posizione che l’Etiopia doveva tenere a Ginevra e risolveva i mille problemi che il grande afflus­ so di stranieri gli aveva creato. Vi erano dozzine di giornalisti impazienti, che affollavano i bar all’Hotel Kakophilos, all’Hotel Imperiai Le Select (gestito da un tetro bordolese), il Perroquet (gestito da un allegro mar­ sigliese) e il Montciné (di dubbia reputazione), i quali si lamentavano per la censura loro imposta da un ufficiale belga di scarsa cultura del gruppo Reul. Essi erano tenuti a freno o quasi con promesse mai mantenute, di visite al fronte da parte di Lorenzo Taezaz, capo dell’Ufficio Stampa e venivano forniti di resoconti esageratamente ottimistici e poco accurati sulle vittorie etiopiche sul fronte nord. Vi erano i problemi posti dal conte Vinci e dall’addetto militare italiano colonnello Calderini che si rifiutavano di lasciare l’ambasciata per Gibuti finché l’ultimo impiegato del consolato non fosse giunto sano e salvo dall’Arussi8; vi erano i pro­ blemi delle due missioni militari belghe e del mantenimento dell’ordine in città, su cui sir Sidney Barton, che non si fidava delle capacità del giovane Abebè Aregai, continuava a insistere 9. Vi erano poi i problemi riguardanti i rapporti da tenere con avventurieri come il « Black Eagle of Harlem », colonnello Hubert Fauntleroy Julian, un sedicente pilota che immedia­ tamente riuscì a distruggere uno dei pochi aerei etiopici10, e infine vi era88

no i problemi meno fastidiosi di distribuire gli aiuti che erano cominciati ad arrivare nel paese. Alcuni aiuti erano di tipo militare e non era neces­ saria una distribuzione. Sir Sidney Barton che non si fidava mai completamente degli indigeni fece rafforzare il corpo di guardia della sua ambasciata con due compa­ gnie del 5° e 14° Punjabis provenienti da Aden; (Lady Barton, nel frat­ tempo organizzava le signore etiopiche per confezionare bende per il suo comitato sanitario. « Esse, benché questo non rientri nei costumi del paese, rispondevano splendidamente » notò un osservatore) e i francesi, notò Eve­ lyn Waugh, rientrato, «occupavano in massa Dire Daua; mezza città era una fortezza francese ». 100 Tirailleurs Sénégalais erano stati « importati » da Gibuti. Ma la maggior parte degli aiuti era di tipo sanitario. Poiché l’esercito etiopico aveva solo un servizio medico rudimentale, diversi vo­ lontari della Croce Rossa provenienti dall’Europa cercarono di colmarne le lacune. Si formarono vari gruppi di volontari sotto la direzione generale di un medico svizzero inviato da Ginevra e dal capo americano della Sudan Interior Mission, il dottor Lambie, e vennero mandati presso i vari eserciti. I volontari erano molto eterogenei, alcuni erano missionari, vi era un medico greco di nome Dassios, due avventurieri irlandesi, Brophil e Hic­ key, un inglese di 62 anni, Gran Maestro di caccia alla volpe, il maggiore Gerald Burgoyne (che dichiarò di avere 52 anni) e un giovane pilota acrobatico, la pecora nera della sua famiglia, il conte Carl von Rosen che arrivò con un aereo a due posti, il primo aereo recante il simbolo della Croce Rossa. Con volontari come questi, la Svezia, l’Inghilterra, l’Olanda, l’Egitto e la Finlandia organizzarono i primi corpi della Croce Rossa, mentre il medico svizzero cercava di controllare tutto il resto e di placare l’orgoglio ferito del corpo medico etiopico. Tutto era caotico, dall’organizzazione dei muli a quella dei rifornimen­ ti, dalle scorte ai contatti da prendere, ma alla fine i gruppi riuscirono a partire per i diversi fronti. Questo era un altro esempio delle difficoltà e dei ritardi che colpivano profondamente gli europei, ma che agli occhi degli etiopi erano cosa normale. Il caccia Pothez, per esempio, non aveva pallottole e gli aerei più piccoli non avevano pezzi di ricambio. In realtà l’Imperatore non aveva mai pensato di lanciare Mischa Babitchev ed i suoi 12 aerei contro i 400 bombardieri italiani: essi venivano usati per portare messaggi e persone importanti da un luogo all’altro e benché subissero vari incidenti nessuno venne abbattuto dal nemico. Le comuni­ cazioni costituivano sempre un grosso problema: non vi erano apparecchi radio a sufficienza o linee telefoniche e questa situazione era destinata a divenire sempre più seria. Vi erano poi le difficoltà politico-amministrative. Che fare, per esempio, dei focosi giovani cadetti di detta? Mandarli come consiglieri militari dai ras secondo il suggerimento dell’Imperatore? Dei ragazzi, consiglieri di uomini con la barba bianca?... Fortunatamente questo progetto fallì. Il 15 novembre Tamm suggerì che si organizzasse una brigata comandata 89

dai cadetti. L’Imperatore accolse il progetto e lasciò che Tamm ne orga­ nizzasse tutti i dettagli assieme a Maconnen Hapteuold. Non fu un accop­ piamento soddisfacente perché Tamm definì il Direttore del Commercio « inefficiente e pigro » e colpevole di « ciò che in Europa verrebbe chiama­ to sabotaggio». Tuttavia si trovò il modo di tenere occupati i quattro ufficiali svedesi e i cadetti, soprannominati « Ragazzi di Tamm » n. Frattanto gli eserciti si erano mobilitati. Il 17 ottobre ras Mulughietà e il Mahel Safari, con settantamila uomini erano sfilati per quattro ore davanti all’Imperatore 12 prima di intraprendere a piedi la « Strada im­ periale », l’unica strada al centro dell’Impero adatta ai mezzi motorizzati, che andava da Addis Abeba a Dessiè. L’esercito del centro giunse a Dessiè il 4 novembre. Da Dessiè ras Mulughietà si mosse lentamente verso nord fermandosi a incendiare e a radere al suolo i villaggi e a frustare i capi dei recalcitranti Azebò e Raia Galla. A Gondar ras Gassa aveva battuto il chitet e aveva raccolto 160.000 uomini. Con un terzo di costoro anch’egli mosse verso nord. Da sinistra ras Immirù stava salendo da Debrà Marcos con 25.000 uomini e il degiacc Aialeu Burrù aveva raccolto 10.000 montanari nel Uolkait e Semien e minacciava la frontiera eritrea. Grandi eventi stavano per accadere a nord. Una settimana dopo il suo ritorno dall’Ogaden l’Imperatore partì per Dessiè in automobile accom­ pagnato dal colonnello Reul13 e dal capitano Viseur, dal suo segretario Uolde Giorgis, ex ministro della Guerra, dal fitaurari Burrù e da tre battaglioni della Guardia. Prima di partire diede al degiacc Ighezzù l’in­ carico di « Deputato per tutti gli affari interni » equivalente quasi al titolo di Reggente e sotto di lui nominò Blatta Taklè Uolde Auariat direttore generale della città di Addis Abeba.

CAPITOLO OTTAVO

LA CONTROFFENSIVA ETIOPICA

Alla fine del mese di novembre del 1935 quasi simultaneamente i coman­ danti dei due eserciti nemici si recarono presso i rispettivi quartieri gene­ rali nel nord del paese: Hailé Selassié a Dessiè e Badoglio a Macallè. Badoglio non fu molto soddisfatto della situazione che gli si presentò al suo arrivo. Il Primo Corpo d’Armata comandato da Santini a sud presso Macallè, e il Secondo comandato da Maravigna a nord-est presso Adua si trovavano in posizioni isolate. Tra i due Corpi, infatti, si stendevano in linea retta i monti del Tembien quasi privi di sentieri percorribili. Al di là di queste montagne gli eritrei di Pirzio Piroli stavano formando un anello non compatto tra le retroguardie dei due Corpi d’Armata. Questa disposizione somigliava troppo su larga scala a quella tenuta nella batta­ glia di Adua: divisioni questa volta, non brigate, che si stendevano in una lunga linea con comunicazioni tra loro incomplete e con gli etiopi com­ patti che li fronteggiavano, pronti a balzare a ondate successive su gruppi isolati. Badoglio non aveva dubbi che gli etiopi si stessero radunando in grandissimo numero: tutti i resoconti delle ricognizioni aeree parlavano di eserciti nemici in avvicinamento. Non era certo quello il momento per una grande avanzata da Macallè che avrebbe soltanto allentato ulterior­ mente le comunicazioni e formato nel centro dell’esercito un vuoto ancora maggiore attraverso il quale gli etiopi avrebbero potuto sfondare. Bado­ glio esitò, fece un giro d’ispezione, ordinò che gli uomini del Tigrai fos­ sero disarmati, fece confinare tutti i giornalisti all’Asmara, e infine ordinò all’aviazione di bombardare Dessiè. Dessiè fu bombardata la prima volta il 6 dicembre. L’Imperatore in persona, che aveva preso alloggio nell’unico edificio moderno della città, il Consolato italiano, venne fotografato mentre sparava con una mitraglia­ trice contro gli aerei nemici. Tutta l’Europa fu pervasa da una profonda indignazione soprattutto per le bombe sganciate sull’ospedale americano dove operavano le unità della Croce Rossa organizzate dal greco dottor Dassios. Difficilmente per gli etiopi le bombe italiane avrebbero potuto ca­ dere in un luogo ed in un momento migliori. Questo fatto e le fotografie dell’Imperatore che combatteva fanno comprendere l’immensa ondata d’in­ dignazione propagatasi in Europa quando solo tre giorni più tardi le pro91

poste di Hoare e Lavai trapelarono nelle righe di un giornale parigino, L’Echo. Mussolini non era il solo a sentirsi preoccupato circa la discussione, de­ cisiva, sulle sanzioni sul petrolio che avrebbe dovuto tenersi il 12 dicembre. Gli inglesi e i francesi avevano anch’essi motivi di nervosismo e non erano affatto disposti a correre i rischi di una guerra. Da quando nell’agosto dello stesso anno si erano tenuti gli incontri tripartitici a Parigi, Maurice Peterson, l’esperto dei problemi dell’Africa Orientale del Foreigìi Office, si era tenuto in contatto con il conte Alexis de St. Quentin del Quai d’Orsay e assieme a lui aveva concordato una possibile soluzione alla guerra italo-etiopica. Il suo progetto era stato approvato dal governo francese, e a questo punto gli mancava solo il beneplacito di quello inglese. Su richie­ sta urgente di Laval, Sir Samuel Hoare, che si trovava in vacanza in Sviz­ zera, si recò in segreto a Parigi: il progetto venne approvato e ne vennero inviate simultaneamente alcune copie, anch’esse segrete, a Roma e ad Ad­ dis Abeba. L’unico intoppo fu che il giorno seguente i piani « segreti » furono pubblicati sulla stampa francese e il fatto si diffuse in tutto il mondo. Secondo le proposte di Hoare e Lavai, l’Etiopia avrebbe dovuto cedere all’Italia due fasce del suo territorio, più o meno le zone che in quel mo­ mento erano sotto il controllo italiano, in sostanza il territorio dell’Ogaden a est di Dagahbur e la maggior parte della regione del Tigrai, all’infuori della città sacra di Axum. Per di più l’Italia avrebbe dovuto godere di « diritti economici », di fatto di un vero e proprio protettorato, sulla mag­ gior parte meridionale dell’Impero etiopico tranne che sull’Ilù Babor e lungo il Baro Salient. All’Etiopia, in compenso, si sarebbe dovuto lasciare uno sbocco al mare ad Assab e un corridoio attraverso il deserto della Dancalia che congiungesse il resto del paese a questa città '. Una proposta di questo tipo non era in fondo diversa dalle numerose proposte di compromesso emerse fino a quel momento; ne sono un esem­ pio quelle fatte da Eden durante la sua visita a Roma nel giugno prece­ dente. Ma situazione e sentimenti erano cambiati e quando l’Imperatore rifiutò il compromesso di Hoare e Lavai definendolo « un premio per gli aggressori », il suo gesto ebbe consensi unanimi in tutta Europa. Il pub­ blico inglese, soprattutto, mostrò chiaramente la sua indignazione perché lo stesso Hoare, solo poche settimane prima a Ginevra aveva pronunciato un duro discorso bellicoso contro l’Italia mettendola in guardia2. Dopo una serie interminabile di riunioni di gabinetto, di articoli sulle prime pa­ gine dei giornali, di riunioni pubbliche e di dibattiti all’interno della Ca­ mera dei Comuni, il progetto di compromesso venne respinto e Hoare fu costretto a dare le dimissioni. Lavai e il suo Ministero caddero una o due settimane più tardi. Sfortunatamente, in mezzo a tali convulsioni, il dibat­ tito sulle sanzioni petrolifere era passato quasi inosservato: non furono prese infatti decisioni serie e divenne presto chiaro che non vi sarebbero state sanzioni sul petrolio. Il Duce tirò un sospiro di sollievo, fece un infiam­ mato discorso per incitare alla guerra dei poveri, dei diseredati, del prole­ tariato e se ne ritornò a palazzo Venezia a meditare con chi poteva sosti92

tuire Badoglio, che secondo lui perdeva troppo tempo e si era rivelato lento nell’azione, come e forse più dello stesso De Bono, tempestando le sue esi­ tazioni con telegrammi sulle grandi virtù, meglio necessità, di una « bat­ taglia strategica di difesa ». Ma quando la minaccia delle sanzioni sul petrolio svanì, venne meno anche la necessità impellente di una avanzata a tutti i costi3. In ogni caso in quel momento stava incominciando in territorio africano proprio una « battaglia strategica di difesa ».

Il primo esercito che raggiunse il nord fu quello del Beghemder. Al­ l’inizio di novembre ras Cassa e i suoi due figli Uondossen e Averrà Cas­ sa, accompagnati dal begerond Latibelù Ghebre, avevano raggiunto l’Am­ ba Alagi. Il loro arrivo aveva rincuorato gli uomini del Tigrai, scossi dalla notizia del tradimento di Hailé Selassié Gugsa. Ras Seyum era riu­ scito a raggruppare solo seimila o settemila soldati nel Tembien, ma quan­ do giunse al campo di ras Cassa le sue fila si erano raddoppiate grazie soprattutto all’apporto datogli dagli abitanti della valle del fiume Ghevà, dietro la cittadina di Abbi Addi, centro più importante del Tembien, re­ gione governata nominalmente dal giovanissimo figlio ed erede di ras Seyum, Mangascià, ma di fatto retta dal degiacc Marù4 Il 17 novembre ras Seyum giunse all’Amba Alagi. Si prostrò a baciare i piedi di ras Cassa ma quest’ultimo lo fece alzare e lo baciò su entrambe le guance. I due capi si fermarono sull’Amba Alagi, passo importantissimo, alle por­ te dell’Etiopia centrale e qui prepararono una strategia da seguire. Ai co­ scritti del Beghemder e del Tigrai si unirono gli eserciti di tre province, piccole ma combattive, che si trovano a nord dell’Uollo: le forze dell’Uag sotto il comando del degiacc Hailé Chebbede, quelle del Lasta sotto il ftaurari Andarghe e quelle del Yeggiù con a capo il degiacc Admassù Burrù. Benché l’Imperatore fosse già giunto a Dessiè, solo nella seconda setti­ mana di dicembre il grosso esercito di ras Mulughietà vi arrivò. Il Mahel Safari pose i suoi accampamenti sul fianco destro della montagna, a Gherak Sadek, postazione a cui più tardi gli inglesi avrebbero dato il nome di Triangolo. Così le vaste forze etiopiche appostate attorno e sulla montagna fronteggiavano i sessanta battaglioni e i 350 cannoni che Badoglio stava concentrando a Macallè, circa 50 chilometri a nord. Ma non era qui che i due eserciti nemici si sarebbero scontrati: infatti gli etiopi, mentre il grande esercito di ras Mulughietà si apprestava a sa­ lile lentamente sulla montagna, lanciarono il loro primo attacco contro la parte opposta del fronte italiano. Ras Immirù aveva compiuto una lunga e difficile marcia, più di 1.000 chilometri, verso nord partendo dal Goggiam con 25.000 uomini. Ai primi 93

di dicembre la sua colonna di truppe scioane che marciavano in testa, con i coscritti del Goggiam che la seguivano, si trovava a nord di Gondar e in avvicinamento a Débat. Qui il 4 dicembre furono bombardati per la pri­ ma volta. Passato il panico ras Immirù si accorse che i suoi uomini erano stati quasi dimezzati. Il degiacc Ghessesse Belù, nipote di ras Hailù e che aveva fatto prigioniero Ligg Yasu aveva disertato e era retrocesso a Debra Marcos con quasi tutti i coscritti del Goggiam. Nello stesso momento ras Immirù si trovava già nel territorio di Aialeu Burrù e già in contatto con questi. Aialeu Burrù aveva ricevuto l’ordine di compiere scorrerie e se possibile di invadere i bassopiani dell’Eritrea occidentale, difesi solo da due battaglioni indigeni e da alcune bande irre­ golari italiane. I suoi uomini si erano spinti dalla loro base sull’Amba Bircutan presso Dabat verso nord fino a Om Ager, ma Maravigna aveva man­ dato giù le sue bande da Adua e da Axum. I guadi del Tacazzè erano strettamente sorvegliati e Aialeu Burrù si ammalò (secondo quanto affermò un medico svedese giunto in aereo per curarlo, « si sottopose a una cura cercando di guadagnar tempo » ). Anche se Aialeu Burrù non era più giovane e attivo — ancora robusto e abbastanza corpulento nonostante avesse superato la cinquantina — la sua malattia rasentava il diplomatico. Dopo la caduta di Macallè suo figlio, at­ traverso un suo cugino, aveva scritto una lettera al comando italiano in cui affermava di voler passare dalla loro parte. De Bono gli aveva risposto con una lettera personale indirizzandola anche al padre di lui — lettera che agli occhi dello scrivente era talmente importante che solo il Duce ne ebbe notizia. Ma Aialeu Burrù non era un giovane inesperto: a differenza di Hailé Selassié Gugsa era un condottiero di grande fama. Se fosse pas­ sato dalla parte italiana sarebbe stata una vittoria di capitale importanza. Ma egli non passò al nemico. Tuttavia seguì la tattica di evitare attacchi violenti contro gli italiani e di frenare, per quanto possibile, i suoi Fitaurari più bellicosi. Ras Immirù e i capi militari che si trovavano sotto il suo comando probabilmente non ebbero prove di questo ma intuirono di poter diffìcilmente contare sui 10.000 uomini di Aialeu Burrù. Questo metteva in serie difficoltà il ras·, si trovava nel territorio di un alleato equivoco, in avvicinamento al fronte di un nemico più potente, con solo metà dei suoi uomini rimasti, ancora scossi da un bombardamento aereo, e con il degiacc Ghessesse Belù ritiratosi nel Goggiam probabilmente per usurpar­ gli, in sua assenza, il potere. A questo punto arrivò un aereo Pothez a Dabat recante ordini prove­ nienti da Dessiè. Aialeu doveva cessare i suoi attacchi sul Setit, confine all’Eritrea sud-occidentale, che correva lungo i bassopiani di Baria-Kunama, e unire le sue forze con quelle di Immirù: assieme avrebbero dovuto marciare sul Tacazzè. Immirù inviò immediatamente una colonna, in pie­ no giorno, verso nord-ovest. Questo inganno riuscì pienamente: gli italiani individuarono la colonna e la bombardarono, segnalandone subito la dire­ zione al comando. Nella notte, Aialeu e Immirù si mossero verso nord-est. La valle attraversata dal fiume Tacazzè segnava il confine tra la parte 94

occidentale del Tigrai, ora in mano agli italiani, e il Beghemder, un fiu­ me impetuoso entro una gola profonda. In questo periodo dell’anno, a metà della stazione secca, il fiume era in magra. Poco prima dell’alba del 15 dicembre, gli etiopi dopo una notte intera di marcia senza sosta guada­ rono il Tacazzè in due punti. L’avanguardia di Immirù, forte di 2.000 uomini, guadò in un punto non sorvegliato. Nove miglia a monte il guado di Mai Timchet sulla pista principale Gondar-Adua era protetto da un piccolo fortino di pietra. Il fitaurari Scifferau, comandante dell’avanguar­ dia di Aialeu Burrù, attraversò il fiume, distrusse nell’oscurità la posta­ zione e si diresse speditamente lungo la pista che conduceva alla postazio­ ne italiana più importante sul passo di Dembeguinà. Poco dopo le prime luci dell’alba si scontrarono con una pattuglia italiana in perlustrazione: gli etiopi delle prime file spararono troppo presto, la pattuglia a cavallo fuggì, gli etiopi attaccarono furiosamente i nemici ma il fitaurari Scif­ ferau anch’egli a cavallo, li fermò. Il maggiore Criniti, comandante del « Gruppo Bande Altopiano » che presidiava il passo si mise in contatto con la base di Axum chiedendo rin­ forzi aerei. Gli fu inviato uno squadrone di carri armati leggeri. Uno di questi fu mandato in ricognizione: gli uomini del fitaurari Scifferau, chiesero a gran voce di poterlo distruggere e, nonostante il suo ordine di farlo passare, aprirono il fuoco. Le mitragliatrici binate del carro armato, a loro volta, risposero immediatamente. Gran parte degli uomini di Scif­ ferau furono messi in fuga, ma il barambaras Tascemma strisciò veloce­ mente attorno al carro armato, dal retro vi saltò sopra, e incominciò a colpirlo con violenza gridando: «aprite». Attonito il mitragliere italiano aprì, mentre il carrista cercava disperatamente di fare retromarcia. Il Balambaras li decapitò entrambi a colpi di spada. Gli italiani impietriti dallo sgomento avevano osservato tutta l’azione dal loro posto di guardia più in alto. Il maggiore Criniti radunò i suoi ufficiali e fece un breve discorso: tutti insieme avrebbero dovuto irrom­ pere nelle file nemiche al grido di «Viva il Duce! Viva l’Italia! ». Quando gli italiani uscirono dal passo il carro armato capovolto, bru­ ciava più in basso. Nove carri armati guidavano la colonna, seguiti da quattro compagnie, dal maggiore a cavallo, dalla colonna delle salmerie, e da altre due compagnie formanti la retroguardia. Una vista impressio­ nante: 2.000 uomini di Scifferau si diedero subito alla fuga in modo di­ sordinato e il resto si sparpagliò. « Siete donnette? » gridò il Fitaurari. « Non vedete che io sono qui? » Suonò il corno di guerra e raccolse più in basso, sul sentiero, 500 uomini attorno a sé. Il fitaurari Belai e suo figlio avevano raccolto un altro gruppo di sol­ dati e facevano fuoco sugli italiani dalle spalle. Prese tra due fuochi le bande sbandarono. Il maggiore Criniti fu ferito e due ufficiali italiani uc­ ci si. La colonna retrocesse per ripararsi sul passo. A loro volta gli etiopi fuggiaschi tornarono indietro, si unirono a que­ sto o quel Fitaurari. Accerchiati, gli italiani spinsero fuori dal passo la colonna delle salmerie nel disperato tentativo di distrarre il nemico con 95

speranze di bottino. Il tentativo fallì, scoppiò una mischia breve, estre­ mamente violenta: gli etiopi inseguirono i muli disorientati nell’accampa­ mento italiano, uccidendo i feriti, saccheggiando e massacrando. Le truppe italiane si raccolsero su una collinetta, ma ormai la maggior parte degli ufficiali erano morti e decisero di arrendersi. Alzarono, perciò, le mani in segno di resa. Un gesto non compreso dagli etiopi che videro un’occasione insolitamente favorevole per ucciderne il maggior numero possibile. Accortisi dell’errore, disperati, gli italiani uniti, scesero correndo racco­ gliendosi attorno ai carri armati quasi fermi. Il fi.taura.ri Scifferau fu uc­ ciso. Il padre ottantenne, il ftaurari Negasc, diritto, davanti al corpo privo di vita si lamentava gridando: « Figlio mio! » Il confessore di Scif­ ferau, che lo aveva seguito in battaglia gridò al padre: « Io prenderò cura di tuo figlio, ma tu sarai dannato se non vendicherai la sua morte ». Il vecchio si asciugò le lacrime, sguainò la spada e chiamò a raccolta gli etiopi che esitavano, indietreggiando, facendo passare gli italiani. « Gio­ vani! » urlò « Scifferau non è morto. Egli vi ordina: non fate fuggire i nemici. Seguitemi! » Gli italiani furono investiti dai nemici infuriati: gli autocarri in cui la disordinata ressa dei soldati si rifugiava furono rovesciati e incendiati. Un carro armato invertì il senso della marcia: gli etiopi vi balzarono sopra e ne uccisero l’equipaggio. Altri due carri armati furono rovesciati e dati alle fiamme. Un altro venne abbandonato dall’equipaggio mentre cercava di attraversare un fiumiciattolo: appena i carristi uscirono furono colpiti a morte. Altri due carri furono catturati, un altro rovesciato e distrutto. « Cristos, Cristos » gridarono gli uomini di un carro armato mentre uscivano. Furono questi, forse, i due soli italiani fatti prigionieri quel giorno. Le bande si nascondevano dietro gli alberi o dietro i carri armati rovesciati. « Non fate scappare questi cani ! » urlava Negash. Alle 4 del pomeriggio ad occidente, in una nuvola di polvere, cantando canzoni di guerra, comparve l’esercito di Immirù comandato dal fitaurari Tesceggher. Anche gli ultimi due carri armati furono presi e i loro equi­ paggi uccisi. Gli italiani in fuga disordinata, furono inseguiti dalle due colonne nemiche, a distanza ravvicinatissima lungo la strada che portava alla città di Enda Selassié, a circa 8 chilometri. Enda Selassié fu liberata all’arma bianca e qui gli etiopi, esausti e vittoriosi, posero fine al loro inseguimento. Enda Selassié dista solo una cinquantina di chilometri da Axum. Gli etiopi avanzavano nel vallone di Selaclacà. Da Selaclacà una colonna mo­ torizzata di Camicie nere e di dieci carri armati mosse contro gli etiopi: a tre o quattro chilometri da Selaclacà gli italiani caddero in un’imboscata. Enormi pietre rotolarono giù sul percorso: il conduttore del carro armato che si trovava in testa venne ucciso e gli altri coinvolti in un tampona­ mento a catena. L’intera colonna divenne facile bersaglio fisso. Due carri scivolarono di lato e si bloccarono. Due altri carri colpiti da torce lanciate dagli uomini di ras Immirù presero fuoco. Altri due italiani furono fatti prigionieri. La colonna si ritirò alla meno peggio. Il giorno seguente gli etiopi avanzarono giungendo a soli 20 chilometri da Axum. Qui, sulla 96

cresta della catena montuosa dello Scirè che corre da nord a sud attra­ verso la strada, a ridosso di Selaclacà, presero posizione. Gli uomini di ras Immirù e di Aialeu Burrù seguirono le loro vittoriose avanguardie attra­ verso il fiume Tacazzè all’intemo del territorio del Tigrai. Non era stata una battaglia molto sanguinosa: gli etiopi stessi afferma­ rono che le perdite nemiche ammontavano a 500 uomini. Ma aveva di­ mostrato agli etiopi che, in battaglie campali, benché armati solo di spade e fucili, erano oltremodo temibili per le forze nemiche addestrate all’ita­ liana. Alcuni ufficiali italiani erano stati uccisi. I piccoli carri armati ita­ liani con il loro brandeggio di soli quindici gradi si erano dimostrati quasi del tutto inutili. In questo tipo di combattimento, corpo a corpo, l’avia­ zione non poteva intervenire e per di più il morale etiopico era incredibil­ mente alto. Soltanto il degiacc Aialeu Burrù che aveva dato ordini precisi al fitaurarì Scifferau di non avanzare al di là delle fortificazioni del Tacaz­ zè non era del tutto soddisfatto. Ras Immirù era soddisfatto sia per la cattura di 50 mitragliatrici — solo il suo esercito fino a quel momento ne era stato del tutto sprovvisto — sia per la presa della grande città di Enda Selassié da cui si potevano controllare le fortezze sul Tacazzè. Egli avanzò fino alla catena dello Scirè e prese in considerazione la possibilità di attac­ care direttamente la zona di Axum e di Adua. In quella zona, però, erano stanziati trenta battaglioni italiani e 193 cannoni; una forza troppo potente per poterla attaccare frontalmente. « ...dopo il combattimento di Dembeguinà, scrisse Badoglio, col quale avevamo preso contatto col nemico, noi tale contatto momentaneamente perdevamo proprio nel momento in cui la rapida avanzata dell’avversario a nord del Tacazzè poteva lasciar presumere l’attuazione di un suo piano of­ fensivo. Quello cioè di puntare, attraverso lo Scirè, contro la nostra linea di comunicazione Selaclacà-Axum, o di aggirare, per l’Adi Abò, il fianco destro del nostro schieramento. » [La guerra d’Etiopia, Mondadori, 1936, Milano, pag. 54, N.d.C.]. Ras Immirù mandò avanti alcune pattuglie, lasciò la sua avanguardia sulle alture dello Scirè e il grosso del suo esercito nella valle del Tacazzè e si mise in marcia solo con alcune migliaia di uomini; attraversò l’arido, roccioso deserto dell’Adi Abò, verso il deposito militare, quasi del tutto indifeso, del Secondo Corpo d’Armata di Maravigna, a Addi Qualà in Eritrea sull’altra sponda del Mareb. Il Mareb non costituiva un ostacolo; le sue acque erano ancora più basse di quelle del Tacazzè, un vero e pro­ prio rigagnolo. Badoglio, intanto, ben più preoccupato di quanto possa tra­ pelare dal suo resoconto a posteriori, ordinò due contromisure. La prima era di tipo convenzionale: un attacco di 12.000 uomini contro il passo di Af Gagà, sulle montagne dello Scirè. Fu messa in atto il 25 dicembre. L’avanguardia etiopica era composta di circa 8.000 uomini. Ci fu un aspro combattimento che durò un giorno e una notte; entrambi gli eserciti, infine, si ritirarono e la colonna italiana si ricongiunse con il Secondo Corpo d’Armata dopo aver perso meno di duecento uomini. Se questo attacco voleva essere una dimostrazione di forza, ebbe certo succes97

so. Ma se (come pare probabile) Maravigna sperava di aprirsi una brec­ cia nel fronte etiopico sulle alture dello Scirè e di respingerli fino al fiume Tacazzè, l’attacco fu un fallimento. La seconda contromisura presa da Badoglio fu drastica. Ras Immirù do­ veva essere fermato a tutti i costi prima che riuscisse ad invadere l’Eritrea, a distruggere il deposito dei rifornimenti, e a tagliare le linee di comu­ nicazione del Secondò Corpo d’Armata. Era il mattino del 23 dicembre. Gli aerei italiani sorvolarono la colonna di ras Immirù che si sparse cer­ cando rifugio, abituata ormai ai continui bombardamenti. Ma quel giorno caddero dal cielo degli strani fusti che andavano in frantumi non appena toccavano il suolo spandendo tutto intorno un liquido incolore. Quando questo liquido incolore veniva in contatto con le membra nude degli etio­ pi, bruciava. Parecchie centinaia di soldati riportarono ustioni alle mani, ai piedi, al volto. Alcuni divennero ciechi. « Fu uno spettacolo terrifican­ te » affermò ras Immirù. « Io stesso fuggii come se la morte mi fosse alle calcagna » *. Le conseguenze psicologiche di questo bombardamento furo­ no ancora più terribili di quelle materiali. I piloti italiani proseguirono il volo per sganciare il resto dei loro fusti sugli etiopi di stanza nella valle del Tacazzè; le truppe di Immirù duramente colpite e demoralizzate ripiega­ rono nello Scirè. La prima e meglio condotta offensiva etiopica era finita, spezzata con l’uso del gas, l’iprite 5.

Il 15 dicembre mentre gli eserciti di ras Immirù e di Aialeu Burrù attra­ versarono il Tacazzè, l’armata dell’Uag attaccava nel Tembien. La cittadina di Abbi Addi, centro intorno al quale sarebbero scoppiate tutte le battaglie del Tembien, si trovava circa a metà strada tra Macallè e Adua, nel mezzo, quindi, del fronte italiano che si stendeva su circa 150 miglia. Lungo la maggior parte di questo fronte le montagne sono invalicabili. Solo nella parte centrale alcune piste che da Socotà capoluogo dell’Uag, conducono verso nord, si snodano, attraversando Abbi Addi e oltrepassando il passo Uarieu, verso il centro del Tigrai. Al di là di Abbi Addi, a sud, si stende la valle del Ghevà. Abbi Addi è dominata da quattro montagne a sud dell’Amba Tsellarì, ad est dal Debra Amba e a nord-ovest il passo Uarieu è fiancheggiato dal Debra Hansa e dalle pareti alte e sco­ scese del Uorc Ambà, la « Montagna d’oro ». Quando ras Seyum si portò con i suoi uomini sull’Amba Alagi, l’avan­ guardia del Corpo d’Armata eritreo, il I Gruppo di Camicie nere al co­ mando del console generale Diamanti, era riuscita ad avanzare fino ad Abbi Addi e a occuparla. I quattro battaglioni di soldati si erano accam­ pati alle falde e sulle pendici dell’Uorc Ambà dove si era stabilito il quartier generale. Il 15 dicembre il degiace Hailé Chebbede mosse con le sue forze, ora * Dichiarazione di ras Immirù a Angelo Del Boca, in La guerra d’Abissinia, Mi­ lano, 1965, p. 74 [N.d.C.].

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più di 10.000 uomini, attraverso la valle del Ghevà per riconquistare Abbi Addi. Il morale delle truppe era alto, pur con un solo fucile per ogni sei soldati e con due o tre mitragliatrici in tutto. Il 18 le truppe dell’Uag sferrarono un violento attacco contro gli uomini di Diamante. Gli italiani, armati di mitragliatrici e cannoni, resistettero; il giorno dopo Pirzio Biroli, preoccupato, inviò quattro battaglioni eritrei in appoggio alle truppe ita­ liane. All’alba del 22 gli eritrei contrattaccarono e si impadronirono dell’Am­ ba Tsellarì respingendo i nemici nella pianura. Diamante, tuttavia, decise di ritirarsi 6. Le forze dell’Uag rioccuparono l’Amba Tsellarì e, ridiscese ad Abbi Addi, si prepararono ad attaccare gli italiani al passo Uarieu, nonostante le pesanti perdite subite: un morto ogni dieci soldati e nessuna possibilità di prendersi cura dei feriti. Ma un messaggero di ras Gassa, acquartierato sull’Amba Alagi, li raggiunse con l’ordine di fermarsi dove si trovavano. E mentre si fermavano, Badoglio faceva invertire la direzione di marcia ai Corpi eritrei che stava concentrando a Macallè, e mandò alcuni batta­ glioni a rinforzare i dieci già stanziati nel Tembien.

Da Dessiè l’Imperatore aveva seguito gli sviluppi della situazione. I suoi piani erano ostacolati dalla mancanza di contatti con ras Immirù e con Aialeu Burrù (occorrevano quattro giorni ai suoi messaggeri per raggiun­ gere il telefono a Dabat) e dalla non conoscenza della situazione nel Tem­ bien, da dove i messaggeri dovevano portarsi fino alla linea telefonica che congiungeva Dessiè con l’Amba Alagi e oltre. Ma a questo punto l’Impe­ ratore inviò ordini ai tre ras. Mulughietà e i suoi 70.000 uomini furono fatti avanzare per occupare il vasto altopiano dell’Amba Aradam, a trenta miglia a nord dell’Amba Alagi; ras Ghebbede con i coscritti scioani di Ifrata marciò verso nord da Dessiè per occupare l’Amba Alagi; ras Cassa e ras Seyum, infine, con gli eserciti del Beghemder, del Tigrai, oltre a quelli del Lasta e del Yeggiù dovevano scendere nella zona del Tembien. Gli italiani si trovarono circondati da un vasto semicerchio nemico: sulla destra, Adua e Axum erano minacciate da ras Immirù e dal degiacc Aialeu Burrù: alla loro sinistra ras Mulughietà dall’Amba Aradam impediva qual­ siasi tentativo di avanzata verso sud e minacciava l’accampamento fortifi­ cato di Macallè. E al centro, punto più vulnerabile, ras Cassa e ras Seyum, il 9 gennaio, erano arrivati a Abbi Addi, e stavano riorganizzando i loro uomini, pronti ad attaccare e a sfondare il fronte italiano. Se Badoglio avesse indebolito Macallè per rinforzare il Tembien, ras Mulughietà avreb­ be potuto avanzare; se avesse ordinato a Maravigna di spostarsi verso de­ stra, ras Immirù avrebbe potuto di nuovo accerchiarlo e attaccare le sue linee di comunicazione. Badoglio concentrò a Macallè tutti i cannoni in dotazione, circa 300, rinforzò le postazioni nel Tembien con parte delle truppe raccolte a Ma< allé, costituiti un Quarto Corpo d’Armata con le due divisioni appena 99

arrivate, la Cosseria e la 3 Febbraio, col compito di proteggere le linee di comunicazione italiane a nord di Adua e da nuove incursioni di ras Immirù. Badoglio, poi, inviò i suoi bombardieri sull’Amba Aradam e tele­ grafò a Mussolini I’ll gennaio informandolo di dover sospendere la tanto promessa « offensiva verso sud in vista della possibilità di dover subire un attacco avversario ». [Op. cit., pag. 66, N.d.C.] Di fatto, furono gli italiani ad attaccare per primi nel Tembien, forse senza aver prima appurato che, in quel momento, più di 100.000 etiopi stavano loro di fronte. Ras Gassa aveva distribuito le sue forze poderose sulle quattro montagne. Gli uomini del Yeggiù e del Lasta, al comando del degiacc Admassù Burrù e del ftaurari Andarghe occuparono le due montagne che fronteggiano il Passo Uarieu; ras Seyum con i coscritti del Tembien occupò il Debra Amba, e il degiacc Aberrà Cassa l’Amba Tsellarì sul retro. Attorno ed entro la cittadina di Abbi Addi S’era accampato ras Cassa in persona: come riserve vi erano le forze già provate di Hailé Chebbede. All’estremità destra del semicerchio, al di là del Debra Amba vicino al piccolo villaggio di Melfà, si era accampato con i suoi uomini il figlio mag­ giore di ras Cassa, il degiacc Uondossen rafforzato da degiacc Uorkineh e dal begerond Latibelù. Proprio qui fu sferrato, la mattina del 20 gen­ naio, il primo attacco italiano guidato dalle truppe eritree di Pirzio Biroli. Per un po’ l’operazione parve avere successo: il degiacc Uorkineh fu ferito, e i suoi uomini sbandarono; Uondossen Cassa venne, però, in aiuto con le sue truppe e l’attacco fu arginato. Il giorno seguente gli eritrei attaccarono nuovamente; le Camicie nere, cioè i quattro battaglioni di Diamanti rafforzati dalle tre legioni della 28 Ottobre, si riversarono giù dal Passo Uarieu per attaccare le truppe del Lasta sull’Uork Amba, e quelle di Seyum sul Debra Amba. Konovaloff, che assieme a ras Cassa si era appostato su un’altura per osservare le mosse degli attaccanti, ebbe l’impressione che la tattica adottata dagli italiani non fosse molto diversa da quella seguita nella battaglia di Adua: fanti allineati in colonne, gli ufficiali sui muli, che guidavano l’attacco e, in appoggio, batterie da campagna e mitragliatrici. Seguì un combattimento serrato a est, intorno a Melfà; al centro i battaglioni di Diamanti rag­ giunsero nel primo pomeriggio le pendici occidentali del Debra Amba. Ma nel ripiegamento subirono un attacco violentissimo: metà degli uffi­ ciali del 2° e 4° battaglione delle Camicie nere persero la vita. Il cappel­ lano militare, il centurione padre Giuliani fu colpito e ucciso mentre som­ ministrava l’estrema unzione. La 28 Ottobre fu alla testa di quella caotica ritirata verso il Passo Uarieu7. Quel giorno, all’alba, gli italiani erano riusciti a intercettare un messag­ gio radio di ras Cassa che chiedeva rinforzi, poiché si trovava « in peri­ colo di venire accerchiato ». Badoglio, non rassicurato da queste notizie che avrebbero dovuto fargli capire l’insicurezza del nemico, ordinò che una colonna avanzasse ad attaccare l’avanguardia di ras Immirù impe­ gnandola; fece uscire da Macallè il Terzo Corpo d’Armata (Sila e 23 100

Marzo) per osservare e intercettare ogni possibile spostamento delle trup­ pe di ras Mulughietà verso il Tembien e pensò di retrocedere il suo quar­ tier generale dal forte di Endà Jesus a Macallè, all’Asmara. Ma le sue erano tutte preoccupazioni vane: ras Immirù non aveva apparecchi radio e si trovava troppo lontano a occidente per potersi tenere in contatto per mezzo di messaggeri con il Tembien. Ras Mulughietà era profondamente indignato perché l’Imperatore aveva nominato ras Cassa comandante di tutte le forze del Nord, scavalcandolo così nei diritti di fitaurari impe­ riale e di ministro della guerra. Dall’Amba Aradam non giunse alcun aiuto. Ma per tutto il giorno seguente la lotta si fece ancora più violenta e spietata sotto il Passo Uarieu, dove le Camicie nere della 28 Ottobre, comandate dal generale Somma, sbandarono sotto gli attacchi del degiacc Admassù Burrù. All’imbrunire, gli attacchi continuavano e le Camicie nere stavano per crollare. A Badoglio, che da Macallè attendeva ansiosamente i messaggi radio seguenti, sembrò che il Passo stesse per cadere in mano nemica. Se il Passo fosse caduto, l’intero fronte italiano sarebbe stato pro­ fondamente diviso : dirigendosi verso destra gli etiopi sarebbero potuti piombare alle spalle di Macallè o, peggio ancora, avrebbero potuto tagliare le linee di comunicazione, le strette mulattiere che riportavano da Macallè ad Adigrat, all’Asmara e al mare. Dirigendosi a sinistra, cosa meno proba­ bile, avrebbero potuto tagliar fuori il Corpo d’Armata di Maravigna ad Axum ed Adua. Muovendosi in linea retta, avrebbero potuto invadere la Eritrea. Dividendo le loro forze, dirigendole verso sinistra e verso destra mandando avanti una colonna sulle gole dove nessun esercito regolare avrebbe potuto andare, avrebbero potuto tagliar fuori entrambe le ali del fronte italiano e minacciare l’Asmara. Quella notte, per Badoglio e gli italiani, fu la peggiore di tutta la cam­ pagna. Nel quartier generale di Macallè nessuno chiuse occhio. Si inviò ordine all’intendente generale di spostare e, se necessario, di distruggere tutti i depositi a nord di Adua e di Macallè; al generale Aimone Cat, capo dell’aeronautica, si ordinò di bombardare il Tembien con l’iprite; ai suoi aiutanti si ordinò di preparare un piano per una ritirata da Macal­ lè di 70.000 uomini e di 14.000 quadrupedi. Chi quella notte vide Bado­ glio riferì di non aver mai visto un uomo così visibilmente angosciato e in preda a un panico quasi irrazionale. Con l’alba, giunsero via radio notizie più rassicuranti. Le Camicie nere avevano resistito per tutta la notte e in loro aiuto stava per giungere una colonna di rinforzi al comando del generale Vaccarisi, comandante della seconda divisione eritrea. Per tutto il giorno gli attacchi di ras Cassa si susseguirono, ma al calar della notte del 23 gli etiopi iniziarono il ripiega­ mento sulle loro posizioni di partenza. Passarono il giorno seguente a pian­ gere i loro mille morti e a curare i duemila feriti. Gli etiopi incomincia­ vano a perdere le speranze di ripetere una seconda Adua: questi italiani, a differenza dei loro padri, erano uomini coraggiosi, « gobos » disponeva­ no di una potente artiglieria e i loro aerei pilotati dai Mussolini Ligg, vo­ lavano bassi e con ardimento8. La seconda offensiva etiopica era conclusa. 101

Badoglio revocò tutti gli ordini impartiti e rimase a Macallè a riflet­ tere sulla lezione appresa dalla battaglia. Si convinse che, benché l’eser­ cito etiopico fosse stato modernizzato, il progresso fatto era stato « super­ ficiale più che profondo » ; il potere effettivo era ancora nelle mani dei vari ras, di « uomini di chiesa », come ras Cassa, o di « capi insicuri », come ras Seyum. La tattica etiopica era sempre quella degli attacchi in massa e non quella molto più pericolosa della guerriglia, per la quale solo ras Immirù aveva mostrato una certa attitudine. Le forme organiz­ zative dello Stato Maggiore etiopico erano tra le più rudimentali con « solo qualche radio — che, molto compiacentemente, serviva più a me col servizio d’intercettazione e decrittazione funzionante egregiamente — e una organizzazione di servizi assolutamente non degna di questo nome ». [Op. cit., pag. 96, N.d.C.] Badoglio aggiungeva che i « vasti e ben concepiti piani strategici » del nemico erano stati vanificati e che ras Immirù non avrebbe abbeverato i muletti al mare. [Op. cit., pag. 88, N.d.C.] A Dessiè Hailé Selassié rifletteva amaramente su come si era disobbe­ dito ai suoi ordini. Aveva ordinato ripetutamente ai suoi ras di non am­ massare gli uomini, di adottare la tattica della guerriglia, e di vessare più che fronteggiare gli italiani. Tutto ciò s’era rivelato inevitabilmente irrea­ listico: tutte le tradizioni e tutto l’addestramento militare degli etiopi li portavano, sia soldati che capi, ad opporsi all’idea della guerriglia. Come ras Seyum aveva dichiarato « un discendente del Negus Neghesti Giovanni fa la guerra ma non può fare la guerriglia come un capo seiftà » *. L’Im­ peratore avrebbe concordato col giudizio di Badoglio, sull’organizzazione del proprio stato maggiore e particolarmente sul fatto di non riuscire a comunicare con ras Immirù. D’altro lato, però, anche se non si era spezzato lo schieramento italiano, si era riusciti a contenerlo e ce n’erano di motivi validi. Per prima cosa anche se gli ufficiali italiani erano coraggiosi, i soldati valevano poco. Gli italiani avevano dovuto ricorrere alle truppe indigene nei momenti di maggiore difficoltà, e gruppi eritrei incominciavano a disertare, stanchi di vedersi affidare le imprese più difficili e rischiose. Altro motivo era che l’uso delle armi meccaniche appariva molto meno decisivo di quanto gli etiopi avessero temuto. I piccoli carri armati italiani erano di ben poca utilità su un terreno aspro e montagnoso e gli etiopi si erano abituati con molta rapidità alle incursioni aeree che ora causavano poche perdite. Il gas costituiva un grosso problema, ma causava più spavento che danni reali: quand’era lanciato tendeva a ristagnarè nei luoghi pianeggianti e gli etiopi presto presero l’abitudine di portarsi sulle alture. Anche quando il gas veniva a contatto della loro pelle, le scottature potevano essere evi­ tate. Ras Immirù aveva avvertito i suoi uomini di « lavarsi sempre ». Per ultimo le temute diserzioni non si erano verificate. Gli era giunta notizia che gli uomini di Hailé Selassié Gugsa lo stavano abbandonando, sdegnati per essere stati disarmati su ordine di Badoglio. * L’affermazione è riportata da„’o/>. cit. di Badoglio, pag. 89 [N.d.C.]

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Chiaramente l’esercito Uollo, non dava garanzie di fedeltà (rei Mulughietà l’aveva usato soprattutto come scorta alle enormi mandrie neces­ sarie per il vitto dei suoi uomini) e il Goggiam era in rivolta. Ma l’Impe­ ratore in 'persona si trovava a Dessiè per tener gli Uollega sotto controllo; inoltre aveva inviato il Nevraid Aregai con mille uollega e il degiacc HapteMariam Gabre Egziabher con altri mille soldati da Lechemti a dare man forte alla piccola guarnigione scioana stanziata a Debrà Marcos, assediata in quel momento dal degiacc Ghessesse Belù. Nel frattempo aveva libe­ rato quasi tutti i suoi prigionieri politici, tra cui il fitaurari Burrù e il veterano degiacc Balcia, e aveva perfino trasferito ras Hailù dalla sua re­ mota prigione a quella del Piccolo Ghebbì9. Da parte loro i nobili, per­ fino quelli che avevano ostacolato l’ascesa al potere di Tafari Maconnen, ora che si trovavano di fronte a un nemico comune, parevano aver messo da parte i loro eterni conflitti, raccogliendosi attorno al Leone di Giuda 10. C’era un vecchio nemico con cui, fortunatamente per l’Imperatore non occorreva più scendere a patti: Ligg Yasu era morto nel 1935 nel villag­ gio sul Garamullata, dove era vissuto per tre anni. Non si sa con certezza la causa della sua morte, né in quale periodo dell’anno avvenisse. Nel luglio del 1934 Henri de Monfreid si era recato al villaggio in cui Ligg Yasu era stato confinato e aveva visitato il principe prigioniero, senza ca­ tene e apparentemente in buona salute. Secondo De Monfreid, il principe sarebbe morto nel gennaio del 1935, ma il decesso sarebbe stato tenuto segreto fino al luglio dello stesso anno. Altre fonti affermano che il prin­ cipe morì alla fine di ottobre cioè dopo l’inizio dell’invasione.

L’asserzione di Badoglio di essere riuscito a reggere e sventare una gran­ de offensiva etiopica a nord è da ritenersi quanto mai inesatta. Risulta molto difficile stabilire quali fossero esattamente i piani dell’Imperatore, quanto spesso fossero stati mutati e in che misura dipendessero dal caso. Ma, per quanto ci è dato di conoscere, appare chiaro che il piano ori­ ginale consisteva nel contenere l’invasione italiana a nord, mediante le forze delle province settentrionali appoggiate da ras Mulughietà e di inva­ dere la Somalia a sud, dove gli italiani si trovavano in una posizione di debolezza molto maggiore, e di spingerli verso il mare. Era questo fronte che, nella terza settimana di gennaio, preoccupava l’Imperatore più del­ l’equilibrio regolare sul Fronte nord. Nel sud, infatti, l’invasione della So­ malia, operazione in cui gli etiopi avevano riposto gran parte delle loro speranze, era fallita provocando un vero e proprio disastro. Nell’Ogaden, dopo la morte di Afeuork, le truppe indigene della Soma­ lia italiana si accamparono a Gorrahei e gli italiani si limitarono a bom­ bardare Dagahbur. Nel frattempo gli etiopi si rafforzavano rapidamente. I coscritti degli Arussi, 3.000 uomini, furono stanziati al quartier generale di Giggiga. Dalle lontane province meridionali di Ghenu e Gofa al con­ imi· con il Kenia, giunsero a Dagahbur altri 3.000 uomini al comando del degiacc Abebè Damteu; qui si congiunsero con l’esercito ben più pode­ 103

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roso deirillubabor, 12.000 soldati che il degiacc Maconnen Endallacciù aveva guidato dà Gore attraverso tutto l’Impero. Nel frattempo i turchi e i belgi stavano organizzando una solida posi­ zione difensiva intorno a Sassabaneh, sulle colline a sud di Dagahbur, nella zona in cui il Tug Gerrer si congiunge con il Fafan (il generale turco Wehib Pascià la battezzò la « linea Maginot » etiopica). Non che ci fosse una grande armonia e un forte senso di cooperazione fra i tre turchi e i tre belgi della missione di Reul. Come disse Farouk Bey: « Parmi ces types-la, il y avait des avocats, il y avait des commerçants, il y avait des comédiens d’ailleurs ». Dal punto di vista militare ad ogni modo, l’Ogaden era tranquillo. Graziani si rese conto di dover far fronte a una minaccia seria nella parte meridionale della sua zona di operazioni. Le forze del Baie con a capo il degiacc Beienè Mered stavano portandosi a sud dello Uebi Scebeli. E ancora più pericoloso: ras Destà stava concentrando le sue forze a Sidamo, per attraversare il Giuba e aggirare il fianco dello schieramento di Graziani. In novembre l’armata dei Sidamo, forte di almeno 20.000 uomini, era giunta a Magalo, a nord di Neghelli. Si trattava di truppe ben istruite ed equipaggiate, talmente bene armate da far supporre agli italiani che ras Destà avesse ricevuto fucili inglesi dal Kenia. I soldati erano guidati da due Fitaurari, Ademe Ambassù e Tademme Zelleké, mentre il battaglione delle Guardie imperiali, non molto addestrato, aveva a capo il cagnasmacc Bezibè Silescì. Con la preziosa radio di ras Destà, si tenevano in contatto con l’Imperatore a Dessiè ed erano protetti da attacchi aerei con alcuni pezzi di artiglieria antiarea Oerlikon. Inoltre, questa armata operava in accordo con le forze del Baie, la pro­ vincia contigua a nord. A metà novembre il fitaurari Tafari, comandante dell’avanguardia del Baie, raggiunse Imi sullo Uebi Scebeli da cui poteva tenersi in contatto con gli avamposti del degiacc Nasibù nell’Ogaden alla sua sinistra, mentre il degiacc Beienè Mered con la parte più numerosa dei coscritti del Baie si spostava verso destra scendendo a sud oltre il Ueb Gestro, verso il Giuba per proteggere il fianco dello schieramento di ras Destà. Tutto questo apparve a Graziani come un piano ben organizzato, parti­ colarmente difficile da sventare perché il fianco destro dell’esercito di ras Destà era protetto dal confine con il Kenia: situazione molto pericolosa se si fosse combinata con un’offensiva nell’Ogaden, poiché gli era giunta solo piccola parte delle Camicie nere della Tevere e della divisione libica; poteva quindi contare solamente sulla Peloritania, al comando del gene­ rale Pavone, e sulle truppe indigene somale. Il 13 novembre Graziani spo­ stò in avanti il Comando tattico del Corpo di Spedizione, a Baidoa, e assunse personalmente il comando del settore del Giuba. Fortunatamente per Graziani, l’avanzata di ras Destà attraverso le im­ praticabili foreste e montagne della parte meridionale del Sidamo si com­ piva lentamente. Il degiacc Beienè Mered si era già stanziato con il suo 104

esercito tra il Giuba e l’Uebi Scebeli, a Lamascilìindi, mentre ras Destà era ancora a Neghelli, a più di 300 chilometri a tergo. Quando i due Fitaurari di Destà giunsero a Bogolmagno, a distanza ravvicinatissima dal­ l’avamposto di Dolo, Graziani poteva contare su un esercito di 85.000 uomini, 50.000 nazionali e 35.000 indigeni. A metà dicembre il governatore Rava ricevette assicurazione da parte del governatore del Kenia, che gli inglesi non avrebbero permesso viola­ zioni di frontiera; Graziani rinforzò le sue posizioni a Dolo e fece la sua prima mossa: Olol Dinle con 1.000 dubat fece un’incursione sullo Uebi Scebeli verso Imi. Nella notte fra il 25 e il 26 dicembre fu attaccato dalle forze del degiacc Beienè Mered e subì perdite molto gravi. Trecento dei suoi disertarono. Tuttavia il degiacc Beienè Mered rimase ferito e, come accade invariabilmente in questi casi, il morale degli abissini, rimasti senza guida, crollò. Entrambi gli eserciti ripiegarono; Graziani intercettò un al­ larmante messaggio radio del degiacc Nasibù all’Imperatore in cui le « or­ de » di Olol Dinle, stimate in cinquemila come numero, erano supposte avanguardie delle forze di Graziani. Sarebbe diffìcile esagerare l’importanza di queste intercettazioni radio: per esse sia Graziani che Badoglio sapevano ciò che gli avversari avevano in mente di fare. E non solo venivano a sapere le opinioni dei vari coman­ danti nemici sui loro piani, ma anche come gli etiopi progettavano di rea­ gire. Così, nessun movimento importante o tanto meno nessun attacco di rilievo fu mai intrapreso da un comandante etiopico provvisto di radio senza che i generali italiani ne avessero prima notizia. Fu proprio questo il vero fattore che, più di ogni altro, aiutò gli italiani a vincere la guerra. Graziani era ora sicuro che il centro della tenaglia etiopica, l’avanzata verso l’Uebi Scebeli, era stato infranto e con esso tutto il piano nemico. Mandò Olol Dinle a nord dello Uebi Scebeli nella regione dell’Ogaden, a Danan da dove avrebbe potuto arrestare qualsiasi improvviso spostamento verso sud del degiacc Nasibù. Il 4 gennaio telegrafò a Mussolini: «Sul fronte Giuba giudico ormai paralizzata ed infranta grande offensiva stra­ tegica ras Destà Damtù ». [Fronte Sud, Mondadori, 1938, pag. 227, N.d.C.] Il 6 gennaio le forze del ras Destà, sottoposte a continui bombardamenti durante la loro avanzata tra la boscaglia della valle del Giuba, si trova­ rono, disposte a semicerchio, a circa 160 chilometri da Dolo, con il fianco sinistro a ridosso di Lammascillindi. Questa era ancora presieduta dai due battaglioni di Guardie del Baie, che si trovavano però a oltre 400 chilo­ metri dalla loro base. 11 9 gennaio i radiointercettatori di Graziani iniziarono a trasmettere i loro ordini e messaggi sulla stessa lunghezza d’onda usata da ras Destà creando, per tre giorni, una confusione indescrivibile. Il 10 gennaio Graziani fece spostare * le sue truppe verso nord, nella * I.a descrizione degli spostamenti delle truppe prima della battaglia del Canale Doria è riportata dettagliatamente, se degna di fede, da Graziani nel suo libro di memorie [op. cit., pag. 239 N.d.C.]

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zona di Dolo, e si accinse ad attaccare gli avversari da entrambi i lati del Giuba che era in piena. Il 12 gennaio le sue truppe erano pronte e il 13 avanzarono. La colonna del generale Morelli sulla riva sinistra del Giuba, la seconda condotta dal generale Agostini, più a nord, verso Lammascillindi e la più importante, quella di centro, agli ordini del generale Ber­ gonzoli, equipaggiata con carri armati, autoblinde e le mitragliatrici auto­ carrate dei Lanceri d’Aosta, risaliva la riva destra del Giuba. Sembra che gli uomini di ras Destà non si aspettassero l’attacco italiano. Il loro morale era stato alto ma i continui bombardamenti culminati il giorno precedente all’attacco con una massiccia incursione di cinquanta Caproni, li avevano profondamente prostrati. La colonna centrale italiana assalì, nei pressi di Merlcadida, l’avanguardia etiopica del Sidamo coman­ data dai fitaurari Ademe Ambassù e Tademme Zelleké. Gli italiani si apri­ rono una breccia a Bogolmagno e una battaglia tumultuosa si allargò per più di 30 chilometri tutt’intorno durando un giorno intero. Nella pianura che circonda il corso del Giuba i carri armati, le autoblinde e gli autocarri italiani riuscirono a muoversi con una facilità impensabile nelle strette gole rocciose del Nord. Il mattino seguente gli italiani avanzarono ancora; l’esercito del Sidamo non era che un ammasso di uomini che si ritiravano all’impazzata, lungo le stesse mulattiere che avevano già percor­ so con speranza e fiducia, bombardati e mitragliati mentre fuggivano. Solo la retroguardia, sulla sinistra del fiume, riuscì a bloccare la colonna del generale Morelli per un altro giorno e mezzo. Il tenente Frère, l’ufficiale frengi di ras Destà che aveva sostituito, dopo la sua morte, il tenente Cambier, inviò un telegramma al quartier generale di Reul: « Situation desesperée. Telegrapher femme tout va bien». Gli italiani trovarono una copia di questo telegramma assieme alle carte di Frère nel quartier gene­ rale di ras Destà, abbandonato in tutta fretta. Il Ras aveva lasciato anche tutto il suo bagaglio personale, il suo negarit e la sua bandiera, senza con­ tare l’enorme quantità di bestiame e vettovaglie. Il 19 i Lanceri d’Aosta, avanguardia del generale Bergonzoli, giunsero a Neghelli e il 23 alcune colonne italiane vennero mandate a nord di Neghelli nella fitta foresta dell’Uadarà dove gli uomini di ras Destà stavano riunendosi; altre colon­ ne si portarono a sud verso Malca, dove il fiume Daua, affluente del Giu­ ba, lascia il confine tra l’Etiopia e il Kenia. Le notizie davano 3.000 uo­ mini di ras Destà uccisi e lo stesso Ras, assieme al tenente Frère, in fuga verso Irgalèm. I Digodia somali dei bassopiani, andarono a Dolo per sot­ tomettersi, e i Galla-Borana dell’altopiano, si recarono a Neghelli per ar­ rendersi anch’essi. Graziani emise un proclama in cui dichiarava abolito il sistema gebar. Mussolini si congratulò con lui, soddisfatto sia perché i rifornimenti provenienti dal Kenia all’Etiopia erano stati tagliati, sia perché l’esercito italiano era entrato come « liberatore nel territorio dei Galla ». Era un’operazione pienamente riuscita: per la prima volta gli italiani avevano inflitto una vera e propria sconfitta al nemico. Non tutto, però, era andato per il meglio: le colonne italiane, che si erano inoltrate nelle foreste dell’Uadarà erano state bloccate dal nemico, la colonna inviata da 106

Neghelli aveva incontrato una fortissima resistenza e i Lanceri d’Aosta eb­ bero 47 uomini fra morti e feriti. Non erano, comunque, incidenti molto gravi. Tra tutti i possibili modi di invadere l’Etiopia, l’attacco da sud era il più lento e difficile. Graziani non aveva mai avuto veramente intenzione, e tanto meno ordini, di spingersi all’interno della selvaggia regione del Sidamo, verso i laghi centrali e infine su Addis Abeba. Un incidente ben più grave fu tenuto segreto: un ammutinamento del­ le truppe eritree. Alcuni eritrei della divisione libica avevano combattuto per più di vent’anni attorno a Tripoli e Bengasi. Quando fu costituita la divisione libica, fu loro promesso che sarebbero ritornati nella loro terra a Massaua. Invece le navi che li trasportavano fecero un breve scalo a Massaua e ripresero il mare, sbarcandoli a Mogadiscio in un’altra zona di deserti e di nuove battaglie. Il 4° Gruppo della divisione libica, comandato dal colonnello Moramarco, fu spostato nella zona di Dolo pronto per l’attacco contro ras Destà. Poco prima dell’attacco, 12 uomini con a capo il grasmacc Ghebrai di­ sertarono e, durante la notte, parecchie centinaia di soldati al comando del ftaurari Tegai Negussiè. Appartenevano ai quattro battaglioni del 4° Gruppo, e si portarono via 40 mitragliatrici. I fatti che seguirono sono molto confusi. Il piano dei disertori era di unirsi a ras Destà, ma in realtà solo due o trecento riuscirono a portarlo a termine. Gli altri si spersero attaccati dai somali Borana, inseguiti dalle autoblinde e bombardati. A un certo punto, un gruppo numeroso, verso mezzanotte attraversò a piedi le linee del generale Agostini sul Daua, con i nervi tesi come del resto le truppe che si svegliarono tutto attorno con le armi all’erta. Ma per una curiosa e spontanea tregua, come a volte suc­ cede in guerra, non fu sparato un solo colpo. Fu tutto molto imbarazzante per il generale Nasi che minacciò e fece inseguire i disertori ma non potè sparare per paura che l’ammutinamento si estendesse agli altri tre reggi­ menti. E per finire quasi 600 dei disertori furono catturati in Kenia dal forte corpo KAR al comando di un ufficiale inglese che li disarmò com­ pletamente minacciando di rispedirli al quartier generale di Graziani a Baidoa. Questo episodio divenne motivo d’imbarazzo anche per il governo del Kenia, esattamente come lo era stato per Graziani. Gli eritrei furono rin­ chiusi a Isiolo poco a nord del monte Kenia, in un campo di concentra­ mento chiamato « Campo di concentramento Numero 1 per disertori eri­ trei ». Il generale Nasi inviò tutto il 4° Gruppo a Mogadiscio e lì lo sciol­ se; gli ascari ritenuti fedeli furono divisi tra gli altri battaglioni al suo comando. Questo incidente, benché molto serio, non ebbe conseguenze immediate: l’esempio dei disertori eritrei non fu contagioso11. La notizia della sconfìtta subita da ras Destà causò disappunto a Dessiè. L’Imperatore contava moltissimo sulle sue forze migliori come preparazio­ ne ed equipaggiamento e, soprattutto sul genero. Benché l’avanzata ita­ liana fosse stata fermata e si stesse costruendo una serie di fortificazioni

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sotto l’Uadarà, giungevano gravi notizie sui dissensi fra i capi del Sidamo. Con le diserzioni e le destituzioni, il numero dei soldati era sceso al di sotto delle 10.000 unità e molti capi del Sidamo richiedevano un coman­ dante più energico. L’Imperatore si rese conto di dover intervenire. Mandò due suoi aerei a lanciare nel Sidamo centrale volantini in cui si chiedeva all’esercito di obbedire a ras Destà fino all’arrivo dei degiacc Balcia e GabreMariam. Molto probabilmente l’Imperatore non aveva alcuna inten­ zione di permettere al degiacc Balcia di ritornare nei suoi feudi: anche alla sua età avrebbe potuto costituire ancora una seria minaccia per l’Etio­ pia una volta vinta la guerra. Ma GabreMariam era stato fitaurari di Balcia prima di diventare governatore dell’Harar, e tutti ricordavano la sua spedizione del 1931 con la quale aveva ricacciato gli italiani fino all’Uebi Scebeli. Così l’Imperatore da Dessiè inviò il degiacc GabreMariam nel Sidamo con il compito preciso di conciliare i capi militari discordi fra loro, e di risollevare il morale delle truppe. Era, tutto sommato, una vittoria della vecchia Etiopia di Menelik sulla nuova Etiopia di Hailé Selassié. Nello stesso tempo l’Imperatore ordinò al degiacc Maconnen Uossene, governatore dell’Doliamo, la popolosa provincia meridionale oltre il lago Margherita, di dar man forte a ras Destà. Il degiacc Mangascià Uolde, governatore dell’altra popolosa provincia, il Cambatta che si trova pro­ prio a nord dell’Uollamo, si era già portato ad Amba Alagi con decine di migliaia di coscritti. In quel momento, quindi, i coscritti delle pro­ vince del Sud, orientali e centrali, avevano già raggiunto o erano in marcia verso uno dei fronti. Le uniche riserve dell’Impero risiedevano a Dessiè nell’UolIo e nelle zone sud-occidentali del paese.

CAPITOLO NONO

LE BATTAGLIE DEL NORD

Nel Nord Badoglio aveva ora undici divisioni al completo, due eritree e nove italiane, organizzate in quattro Corpi d’Armata e in riserve. Il 31 gennaio telegrafò al duce annunciandogli che finalmente « un’importante battaglia » era imminente. Il 4 febbraio inviò ordini operativi ai coman­ danti delle sette Divisioni ora riunite a Macallè. Nello stesso giorno Mulughietà riferiva all’imperatore a Dessiè che « era imminente un attacco in forze ». Dessiè si trovava a 450 chilometri di strade e piste a sud di Macallè. Lungo queste, erano avanzati gli eserciti, e le forze etiopiche si erano disposte da sud a nord, da Dessiè alla roccaforte rocciosa dell’Amba Aradam, dove ras Mulughietà fronteggiava Badoglio e attendeva l’offen­ siva italiana. Gli aerei italiani sorvolavano queste piste e i sentieri bom­ bardando, quasi indisturbati, le colonne degli etiopi in marcia, le città, i villaggi e gli accampamenti che si trovavano lungo il percorso. Nel Sud, Dessiè era stata per oltre due mesi un quartier generale del­ l’imperatore. Qui si trovavano l’imperatore e i suoi due figli, il principe ereditario Asfauossen e il giovane Duca di Harar, con i battaglioni della Guardia di Addis Abeba e i non molto fidati coscritti dell’Uollo, comandati da scioani fedeli come il degiacc FikreMariam, ma anche dai parenti del­ l’imperatrice, figli, nipoti e pronipoti dell’indimenticato Negus Mikael. Mi­ gliaia di genieri italiani erano impegnati ad ampliare e migliorare piste che si stendevano per 130 chilometri tra gli altipiani fino alla cittadina di Ualdia. Da qui si dipartiva un’altra pista fino a Lalibelà, capitale della provincia del Lasta, famosa per le sue chiese monolitiche e un tempo sede della dinastia Zaguè, da cui discendevano gli Uagscium. Da Ualdia le piste scendevano in una pianura bassa e sabbiosa che a est si perdeva nel deserto della Dancalia. Nel centro di tale pianura era situato il malfamato villaggio di Cobbo, mercato degli Azebò Galla. Que­ sta era una terra di nessuno, delimitata dalle quinte montuose dell’Uollo e del Tigrai, un territorio sciftà in cui nessun ufficiale dell’Amhara nean­ che in tempo di pace si sarebbe mai avventurato senza scorta armata. Gli Azebò e i Raia Galla, a nord di questi, offrivano infatti fedeltà a qualsiasi capo al di fuori delle loro tribù: la concedevano ai nobili del Tigrai, ma non ai re e ai signori scioani. Qui Hailé Selassié Gugsa godeva di un vasto credito e l’Ufficio Politico di Asmara vi aveva inviato un capitano (de 109

Sarno) per distribuire fucili e impartire consigli. Sebbene anche qui in questa lunga pianura, ci fossero moltissimi genieri al lavoro e si fosse accampato a Ualdia un battaglione d’avanguardia della Guardia, solo grossi gruppi bene armati potevano attraversare incolumi la pianura, fino al piccolo e polveroso villaggio di Aiamata, situato a ottanta chilometri, ai piedi delle alture del Tigrai. Da Aiamata una mulattiera con diciassette tornanti conduceva su a Quoram, dove si trovava l’ospedale militare inglese del dottor Melly. Solo gli inglesi erano riusciti a trasportare i loro 18 autocarri lungo quelle scarparte. Da Aiamata in avanti si poteva avanzare solo a dorso di muli o a piedi. Il 4 febbraio il bituoded Maconnen Demissiè si trovava accampato a Quoram con 12.000 uomini ben armati dell’Uollega-Argio, assieme al maggiore Burgoyne e a 200 muli dell’unità della Croce Rossa di Burgoyne. Quoram si affacciava sulla vasta e fertile pianura del lago Ascianghi, alla cui estremità era situata Mai Geu, l’unica città di una certa rilevanza tra Macallè e Dessiè. Il governatore di Mai Ceu, degiacc Aberrà Tedia, uno scioano scelto per il suo vigore e per la sua fedeltà all’Imperatore, si era sistemato con una guarnigione scioana nel centro del territorio dei Raia Galla e per questo era avversato violentemente da Hailé Selassié Gugsa, il cui padre, ras Gugsa Araia aveva governato personalmente quel territorio. A Nord di Mai Geu le cime dell’Amba Alagi dominavano tutte le alture del Tigrai, dominando lo stretto e tortuoso sentiero sia a nord che a sud. Questo era il cardine ed il punto d’incontro di tutto il fronte etiopico; sul contrafforte a nord-est del sentiero, si era accampato ras Chebbede, mentre tutto intorno le cime dell’Amba Alagi si erano disposti i coscritti delle varie piccole province del sud, guidati dal degiacc Mangascià Yilma, dal nipote dell’Imperatore, degiacc Beienè Abba Sebsi e dal fdaurari Zaudi Abba Korra. Con loro c’era il degiacc Mescescià Uoldiè, con la sola scorta personale, dall’esercito di Gambata. Il resto era stato messo, secondo gli ordini dell’Imperatore, sotto il diretto comando di ras Mulughietà. Il piccolo villaggio di Endà Medhan Alem giace ai piedi dell’Amba Alagi dalla parte di Macallè; e a circa cinquanta chilometri si trova il baluardo naturale dell’Amba Aradam. L’Amba Aradam si stende per dieci chilometri in lunghezza e per tre, quattro in ampiezza alto sopra la pianura di fronte a Macallè impedendo qualsiasi movimento verso sud. Era una vera amba, con la vetta tronca, ricoperta di fenditure, di burroni e di caverne, inespugnabile sui fianchi nord-est dove, tra gole scoscese, scorreva il Gabat, e sul retro scendeva l’ampia piana di Buiè. Ras Mulughietà era accampato su questa monta­ gna da cinque settimane; con lui erano: il degiacc Auraris, governatore scioano del Mens; il degiacc UoldeMariam, governatore di Gemu Buffa, nel sud che era stato nelle file del cagnasmacc Tafasse Abaineh, morto ad Adua; ras Abate che aveva combattuto a Sagalle ed era divenuto l’Agafari di Menelik; Uodagiò Alì tutore del principe ereditario, e due nobili dell’Uollo, ras Ghebriat Mikael e il degiacc Amediè Alì, che a sua volta aveva 110

partecipato alla battaglia di Sagalle dalla parte, però, del Negus Mikael. Metà dei suoi 70-80 mila uomini si trovava su queste alture, metà distri­ buita sui fianchi della montagna. Disponeva di 400 mitragliatrici, 10 can­ noni, e qualche Oerlikon antiaereo. Dietro a lui, la piana di Buiè, era piena del bestiame raccolto in marcia e lì condotto per sfamare il suo possente esercito; nel villaggio di Antalò i contadini tigrini tenevano mer­ cato ogni giorno alzando vertiginosamente i prezzi del loro miele e dei loro dolci. La linea del telegrafo si stendeva da Dessiè al presidio di Buiè nella valle omonima; da qui i messaggi venivano recapitati a piedi al quartier generale. Il 5 febbraio l’Imperatore ordinò alle forze del bituoded Maconnen di avanzare *. Il sabato, 8 febbraio, questi raggiunse l’Amba Alagi dove trovò solo ras Chebbede; ras Mulughietà aveva dato ordine a Mangascià Yilma, Beienè Abba Sebsid, Uoldiè e a Zaudi Abba Korra di attraversare il Tembien per dare man forte, con i loro 15-20 mila uomini, a ras Gassa e ras Seyum. Domenica 9 febbraio Badoglio convocò i giornalisti da Asmara e tenne una conferenza stampa con tono sicuro e quasi arrogante. Il lunedi 10 febbraio, prima dell’alba, quattro divisioni italiane iniziarono ad avanzare. Il piano di Badoglio era abbastanza semplice: non un attacco frontale dell’Amba Aradam, impossibile, ma una morsa a tenaglia. Due divisioni di Camicie nere avevano il compito di puntare verso il centro dell’Amba Aradam e di impegnare ras Mulughietà; due divisioni regolari dovevano avanzare su due colonne compiendo un più ampio movimento circolare per tagliar fuori la montagna e ricongiungersi ad Antalò. In tal modo ras Mulughietà e tutto il suo esercito sarebbero rimasti intrappolati. Nei preparativi per questa battaglia Badoglio aveva riversato tutta la sua espe­ rienza, come comandante, nella Grande Guerra. Questa volta nessuno avrebbe potuto accusarlo di non far uso dell’artiglieria. Per intere setti­ mane i suoi 280 cannoni spararono da Macallè sull’dwòa e 170 aeroplani la bombardarono in continuazione. L’azione di sbarramento e i bombar­ damenti raggiunsero il culmine quando iniziò l’offensiva. Il Primo Corpo d’Armata, con la Sabauda di Santini e la 3 Gennaio, si mosse sul lato sinistro dello schieramento italiano e il Terzo Corpo d’Ar­ mata, composto dalla Sila e dalla 23 Marzo, si mosse sul lato destro, es­ sendo stati entrambi trasportati con centinaia di autocarri al punto di partenza su strade appositamente preparate. Il 10 febbraio attraversarono il Gabat e 1Ί1, sotto una pioggia torrenziale, avanzarono senza incontrare alcuna opposizione; e soltanto il terzo giorno, mercoledì 12 febbraio, le ( lamicie nere della 3 Gennaio furono inchiodate sul costone di Enda Ga­ iter. Qui persero 47 uomini, un numero non elevato, ma Badoglio, non fidandosi delle Camicie nere dopo la quasi totale sconfitta al passo Uarieu, li fece retrocedere per rimpiazzarli con la migliore delle sue divisioni di riserva, la divisione alpina Pusleria. Schierati di fronte a questi si tro­ vavano le forze dell’Uollo, 20 mila uomini al comando di Uodagiò Alì, di ras Ghebriet Mikael e del degiace Amediè Alì, in un luogo chiamato 111

Scelikot, che distava ancora cinque miglia dall’Amba. Ben presto però, l’euforia per il loro primo successo si tramutò in disperazione quando gli alpini attaccarono e Uodagiò Alì venne ferito gravemente. Forse sarebbe stato sufficiente un qualsiasi pretesto per abbandonare Γ odiato ras Mulughietà, ma certamente la sconfitta di Segalle, l’ultima grossa battaglia combattuta in Etiopia, doveva avere indotto gli Uollo ad accettare senza troppa vergogna una « sconfitta scioana » : portando con sé il loro con­ dottiero ferito, abbandonando il campo di battaglia e ras Mulughietà, fermandosi solo quando giunsero in salvo a Dessiè. L’accerchiamento italiano sui fianchi della montagna procedeva assai speditamente e fu allora che intervenne l’esercito dell’Uollega chiamato in aiuto da ras Mulughietà dopo la defenzione degli Uollo. Il giovedì il bituoded Maconnen dai piedi dell’Amba Alagi, a Endà Medhani Alem, aveva visto i bombardamenti aerei e i cannoneggiamenti che mostravano come l’avanzata italiana stesse progredendo. Messosi in contatto telegrafico con ras Mulughietà, gli fu ordinato di rimanere sulla Amba Alagi e di prepararne la difesa. Ancor prima di questo al bituoded Maconnen era giunto un appello di ras Chebbede affinché ritirasse le trup­ pe per congiungersi'al suo esercito sulle alture dell’Amba Alagi: per ras Chebbede la fine dell’Amba Aradam era segnata. Il bituoded Maconnen aveva ricevuto dall’Imperatore l’ordine specifico, e lo fece presente ai suoi superiori di sostenere ras Mulughietà. « Come potremo presentarci davanti all’Imperatore? » chiese, « riportandogli solo dure notizie, quando noi stessi non abbiamo neppure provato la durezza della battaglia? » Fu anche incoraggiato a resistere dalla presenza di un gruppo di disertori eritrei, guidati da Aqa Selebà Uolde Selassié2. Igno­ rando comunque i consigli di ras Chebbede e gli ordini di ras Mulughietà, ordinò di avanzare agli uomini dell’Uollega e durante la notte raggiunse la piana di Buiè. Per l’ultima volta scambiò messaggi con ras Mulughietà. Consigliò al ras di ritirarsi prima che la morsa si chiudesse. Mulughietà rifiutò la proposta in modo categorico e ravvisando che l’Amba Aradam stava per essere ag­ girata da est, diede queste istruzioni : « Combattete se lo volete, dove e quando volete ». Quella notte il bituoded Maconnen lasciò il grosso del suo esercito nella piana di Buiè dirigendosi con poche forze scelte verso est, per arrestare la ganascia sinistra dell’accerchiamento (divisione Sabauda). Fu una mar­ cia di 16 chilometri su un terreno accidentato e che i riflettori italiani perlustravano in parte; obiettivo: postazioni di mitragliatrici piazzate il pomeriggio precedente che battevano la piana sottostante. Nella semioscu­ rità che precede l’alba gli etiopi si calarono lungo un precipizio scosceso oltre le rovine del villaggio di Adi Acheitì. Un cane abbaiò. Il bituoded Maconnen divise i suoi uomini in tre gruppi e si pose a capo del gruppo centrale. Il fitaurari Gheta, suo vecchio comandante protestò: «Non de­ vono muoversi per primi i regolari ». Maconnen, spazientito, lo redarguì accusandolo di non aver fiducia del suo comando. « Ho vissuto tutta la 112

vita sotto il tuo tetto e ho servito tuo padre — replicò il ftaurari — ora ti seguirò e mi vedrai cadere prima di te. » Mentre scivolavano furtivamente tra gli arbusti, venne dato l’allarme; e l’assalto disperato ebbe inizio. Alle dieci del mattino gli Uollega conquista­ vano le postazioni più avanzate delle mitragliatrici, ma metà degli uomini era rimasta ferita o uccisa, esposti com’erano, su una cresta rocciosa, al fuoco italiano a terga e ai bombardamenti chiamati a rinforzo. Il bituoded Maconnen Demissiè fu colpito di lato, alle anche, da un colpo di mitra­ glia. Ormai morente, fu portato dai suoi uomini lontano da quell’altura in una caverna della piana di Buiè, dove era accampato il suo esercito. Visse per un’altra notte e morì in quella caverna la mattina del 4 febbraio. I suoi capi ne tennero segreta la morte; il loro scopo principale era di tra­ sportare il corpo di Maconnen nella sua regione natale, per lì seppellirlo: una questione d’onore. Ma nello stesso tempo la sua morte doveva essere tenuta nascosta. Il maggiore Burgoyne si trovava ancora con le forze dell’Uollega. Quella sera i capi lo chiamarono alla grotta e, aiutato da un assistente, compì un’operazione, probabilmente fra le più macabre mai richieste ad un me­ dico non professionista: il corpo del bituoded Maconnen fu tagliato in due parti e messo, poi, in due tamburi da guerra. La notte di venerdì fu una notte di temporali e venti violenti. Le forze dell’Uollega credendo che il capo fosse ferito ma vivo, ritornarono dietro ai negarit ben sorvegliati ai piedi dell’Amba Alagi. Qui si incontrarono con ras Chebbede che, informato della morte di Maconnen, aveva fatto scavare per lui, una tomba. « Glielo avevo detto », disse fissando i tamburi da guerra. Ma i capi dell’Uollega non vollero usare quella tomba. Per Badoglio questo era stato uno dei « due brevi contrattacchi » che si sarebbero conclusi nell’assalto finale che stava allora preparando. Verso le dieci del mattino di sabato 15 febbraio la nebbia che avvolgeva la monta­ gna si disperse e le quattro divisioni italiane avanzarono per concludere la manovra di accerchiamento. Fu un giorno di violenti e accaniti com­ battimenti corpo a corpo; ma gli uomini di ras Mulughietà erano demo­ ralizzati da settimane di inattività, dall’essere colpiti senza riuscire a col­ pire, asserragliati in grotte e gole, cannoneggiati, martellati dai gas e dalle bombe, quasi impossibilitati a muoversi nelle ore del giorno, con le perdite che aumentavano sempre più. La piccola ambulanza da campo diretta dal medico polacco Belau era sommersa di feriti. Ma, anche se le forze dell’Uollega si erano ritirate, quel giorno la Sabauda e la Sila non riuscirono a ricongiungersi ad Antalò. Al crepuscolo ras Mulughietà, il suo mitragliere cubano Del Valle e lo stato maggiore scivolarono fuori dalla sacca; il resto delle forze del Cen­ tro moriva nelle grotte o cercava disperatamente di sfuggire. Gli alpini scalarono il fianco orientale, a picco, della montagna, ma l’onore di issare per primi la bandiera italiana sulla vetta dell’Amba Aradam fu concesso alle Camicie nere della 23 Marzo. Era stata la più grossa battaglia coloniale mai combattuta e non era 113

certo colpa di ras Mulughietà se quel bastione naturale era, in modo rela­ tivamente facile, caduto. Gli etiopi non erano preparati a questo tipo di combattimento e diffìcilmente possono essere biasimati per non aver saputo prevedere gli effetti di un’azione lampo che risultava completamente estra­ nea alla loro esperienza. Se ras Mulughietà si fosse ritirato, avrebbe lasciato scoperte le forze del Tembien e un’avanzata con i suoi dieci cannoni contro i concentra­ menti di batterie e le divisioni italiane — che da settimane fortificavano il perimetro di Macallè — sarebbe equivalsa a un suicidio. Ma anche un at­ tacco suicida sarebbe stato più positivo allo spirito dei soldati etiopi di un demoralizzante passivo appostamento di difesa. Ras Mulughietà aveva per­ so l’occasione di attaccare tre settimane prima, quando le sorti della bat­ taglia del Tembien non erano ancora decise. Anche così, e con tutte le concessioni possibili, era stata una difesa ben triste. Le truppe di Badoglio erano avanzate come quelle di Baratieri ad Adua, su quattro colonne sepa­ rate. Se ras Mulughietà avesse concentrato tutto per distruggere, o per lo meno arrestare, una delle divisioni invece di opporsi debolmente a tutte e quattro, la difensiva italiana avrebbe potuto essere sbaragliata e i nervi di Badoglio, sempre tesi, avrebbero probabilmente ceduto. Ma forse nel momento in cui si stava svolgendo l’attacco, ras Mulu­ ghietà sentiva nel profondo che la disfatta era inevitabile: gli ultimi ordini impartiti al bituoded Maconnen Demissiè, avrebbe potuto darli solo un comandante incompetente o del tutto privo di ogni speranza. Si disse che gli italiani trovarono ottomila corpi sull’Amba Aradam. Bruciarono i cadaveri e per molti mesi l’odore dei corpi carbonizzati sta­ gnò sulle valli circostanti. Alle due di domenica mattina ras Mulughietà e i suoi uomini, cinquanta soldati in tutto, raggiunsero Endà Medhani Alem, ai piedi dell’Amba Alagi. Lo stretto passo Alagi, martellato senza sosta, divenne una trappola mortale per i sopravvissuti del Mahel Safari bombardati secondo il resoconto di Badoglio, con 546 incursioni. Per quat­ tro giorni ras Mulughietà tentò invano di fermare i fuggitivi, nella notte di mercoledì 19 fece pervenire un messaggio a ras Chebbede, appostato sullo sperone di nord-est di Gerak Sadek, in cui diceva che stavano ab­ bandonando la posizione. L’Amba Alagi tuttavia era ben più fortificata dell’Amba Aradam e più diffìcile da attraversare o accerchiare. Ras Cheb­ bede protestò: il suo esercito non era ancora stato provato in battaglia e abbandonare l’Amba Alagi voleva dire spalancare la via per Dessiè. Ma, a differenza di tanti degli altri comandanti, egli obbedì agli ordini. Ras Mulughietà, ras Chebbede e le retroguardie delle forze Uollega im­ piegarono molti giorni per raggiungere Mai Ceu. Tutto attorno i Raia Galla erano in rivolta e quando il 24 ras Mulughietà e i suoi uomini oltre­ passarono lo sperone del passo Dubai si trovarono dinanzi agli occhi una città in fiamme, bombardata senza pietà con gli abitanti che fuggivano sulle montagne. I ras si accamparono nella piana, fi giorno successivo gli sciftà dei Raia Galla attaccarono il recinto dell’Aberrà Tedia e diedero fuoco alla sua re­ 114

sidenza. Fu allora che intervennero gli uomini di ras Chebbede, con ve­ loci incursioni per sgominare i Raia Galla *. Avevano comunque guada­ gnato solo una breve tregua. Giunse notizia che gli sciftà si stavano riu­ nendo in forze sulla strada per Quoram per tagliare loro la via. Ma si seppe anche che l’Imperatore stava muovendosi da Dessiè, in quel momento, con il suo esercito. L’ultimo e il meglio addestrato degli eserciti imperiali, si dirigeva verso nord. La mattina del 27 gruppi organizzati a malapena e disgiunti abbando­ narono Mai Ceu ; i feriti a dorso di mulo o su barelle con il maggiore Burgoyne, la retroguardia uollega a scortare ancora il corpo del bituoded Maconnen, ras Mulughietà e i suonatori di tamburo dai rossi tur­ banti e suo figlio sciallaka Tadessa Mulughietà, e le forze di ras Cheb­ bede. In una delle prime incursioni aeree venne colpito in pieno uno dei muli che trasportavano i negarti degli Uollega, e il tamburo di guerra s’infranse. Gli Uollega si affrettarono a seppellire i resti lungo il ciglio della strada sotto un albero di acacia, e condussero il mulo sopravvissuto alla vicina chiesa di S. Giorgio. Lì, fu sepolto dai sacerdoti il secondo negarti con riti funebri cristiani al battito dei tamburi di guerra di ras Mulughietà 3. Le 10 del mattino erano già passate. Ras Mulughietà riprese speditamente la marcia con l’avanguardia sotto il fuoco incessante dei fucilieri sciftà. Mentre Tadessa Mulughietà e il maggiore Burgoyne raggiungevano il guado di Aio apparvero tre « Caproni ». Una bomba cadde su di loro e li uccise entrambi sul colpo **. Mentre gli aerei viravano, ritornando su di loro e mitragliando i corpi, un servo correva da ras Mulughietà a rife­ rirgli della morte del figlio. Il Ras ritornò subito indietro in mezzo al fuoco degli sciftà. Orde di Raia Galla * uscirono dai boschi scontrandosi con gli uomini di ras Chebbede. E quando un uomo cadde sul corpo del figlio probabilmente non si resero conto che erano riusciti a uccidere ras Mulughietà, Fitaurari imperiale e comandante dell’armata del Centro.

Il mattino che ras Mulughietà moriva Badoglio lanciava la seconda of­ fensiva nel Tembien. Fu solo sabato 15, quando l’Amba Aradam stava già cadendo, che ras Gassa ricevette un radiogramma inviato dall’Imperatore quattro giorni pri­ ma: in cui gli si ordinava di attaccare sul suo fronte per diminuire la pressione sull’Amba Aradam. E quando pervenne l’ordine di ritirarsi sul­ l’Amba Alagi (consegnato da un messo, a piedi, il giorno 20), era di nuovo troppo tardi, perché già gli italiani controllavano il guado del Ghevà, e così il passaggio per l’Amba Alagi era bloccato. • Del Boca parla di Azebò Galla, op. cit., pag. 122 (N.d.C.]. ·· I.a morte del figlio di ras Mulughietà è riferita in maniera diversa da altri autori, tra X quali Del Boca: sarebbe stato ucciso e mutilato orrendamente durante un agguato dagli Azebò Galla. Op. cit., pag. 122 [N.d.C.].

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L’eco dell’imponente battaglia sull’Amba Aradam si era già propagata e fu confermata prima dal degiacc Aberrà Gassa e poi dai volantini lan­ ciati dagli aerei italiani. Si pensò che il bituoded Maconnen fosse rimasto intrappolato nel filo spinato e mitragliato a morte; la sua fine fu un colpo più pesante della sconfitta di ras Mulughietà, impopolare presso tutti per la sua severità e per non pagare mai le truppe. E fu un esercito esiguo e demoralizzato quello che gli italiani si trovarono ad attaccare; anche con i rinforzi dalle province meridionali dell’Amba Alagi era in tutto un massimo di cinquan­ tamila uomini o meno, contro i centocinquanta che avevano attaccato gli italiani un mese prima. Non era facile tenere in campo un grosso esercito etiopico: dopo un mese o due i coscritti, mal nutriti e inattivi, incominciavano pian piano a fare ritorno alle loro case. E sebbene un esercito minore fosse senza dubbio più facile da dirigere e rifornire, la vista dei compagni che se ne andavano, come in un qualsiasi esercito, sortiva l’effetto di demoralizzare chi rimaneva. Ras Cassa sapeva che l’attacco italiano era imminente, sapeva che gros­ se forze italiane stavano scendendo lungo la valle del Ghevà per tagliarli, a tergo, una possibile ritirata4. A questo scopo appostò sull’Amba Tsellerè, a sud, con Abbi Addi alle spalle forze ben più poderose: le armate di ras Seyum e di suo figlio maggiore Uondossen. A est, la Debra Amba era tenuta con forze meno poderose da Aberrà Cassa con i coscritti del Salale, e a nord le due montagne di fronte al passo Uarieu erano difese dalle truppe fresche del sud, spalleggiate dalle forze restanti del Lasta, Uag e Yeggiù logoratesi nell’azione d’attacco contro il passo un mese prima. C’era una forte posizione difensiva, con montagne quasi inespugnabili. Ras Cassa ordinò che i soldati preparassero torce da usare, come aveva fatto ras Immirù, contro i carri armati nemici, e aspettò, quasi fiducioso che gli italiani si arrestassero sulle falde più basse delle montagne, come già era successo. Lo sbaglio di ras Cassa era stato di non prendere in considerazione l’abi­ lità alpinistica degli italiani. Scalare le pareti a picco della Montagna d’Oro, la Uorc Amba, sarebbe stata una vera impresa anche di giorno. Di notte, occupata dal nemico era una gesta eroica. All’una di notte del 27 febbraio sessanta uomini * raggiunsero il lato nord della montagna. Ognuno portava con sé, oltre l’equipaggiamento da rocciatore e provviste per due giorni, un moschetto, 120 cartucce, e 5 bombe a mano; il gruppo aveva anche 3 mitragliatrici leggere. Più di metà erano Camicie nere della 114a legione; 25 ascari del XII batta­ glione indigeno, tutti volontari, al comando di un capomanipolo 26enne, il tenente degli alpini Tito Polo. Per un’ora e mezza la loro scalata fu rallentata quando sfilarono davanti ad una postazione nemica avanzata; le sentinelle fortunatamente erano addormentate e continuavano a dor* 150 secondo Del Boca, op. cit., pag. 128, 60 più gli ascari secondo Dominioni, op. cit., pag. 406 [N.d.C.].

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mire indisturbate. Fu soltanto alle 5, pericolosamente tardi, che arrivaro­ no sotto la vetta. 12 uomini furono inviati a destra, e 12 a sinistra. Un’ora prima dell’alba scivolarono allo scoperto fin sulla cima della montagna custodita da 30 etiopi addormentati. Furtivamente 2 mitragliatrici e le loro squadre furono tirate su a corda, poi un altro gruppo di otto con le bombe a mano pronte. Nessuna sentinella diede l’allarme, nessun dor­ miente si mosse. Un ordine, spari, bombe a mano... tutto finito in pochi minuti. Gli italiani avevano preso la cima della montagna. O meglio la cima nord. Un altro gruppo, che aveva tentato di scalare la cima sud, fu bloccato a mezza via. All’alba i battaglioni avanzarono dal passo Uarieu per circondare la Uorc Amba e altri tre battaglioni attacca­ rono Debra Hansa sull’altro lato del passo. I combattimenti si sussegui­ rono per tutto il giorno sul versante nord. Per quattordici volte gli etiopi contrattaccarono lungo i pendìi scoscesi contro la piccola banda di italiani ed eritrei sulla vetta. Ma il fuoco delle mitragliatrici li respingeva indietro ogni volta. « Venite venite » gridavano gli eritrei, « anche noi siamo gli schiavi di Menelik ». Nel tardo pomeriggio fu ucciso il degiacc Beienè Abba Sebsid, mentre guidava l’ultimo attacco. Da Debra Hansa il degiacc Mangascià Yilma guidò un attacco contro il passo: il suo esercito, vittorioso agli inizi fu spezzato in due e Mangascià Yilma si salvò solo fingendosi morto. Al cader della notte il fitaurari Zaudi Abba Korra teneva ancora la cima sud della Debra Amba e a Debra Hansa gli uomini di Gambata, guidati dal degiacc Masciascià Uolde, avevano respinto gli eritrei ed era­ no convinti che l’indomani sarebbe loro arrisa la vittoria. Ma il giorno seguente a mezzogiorno i cannoni italiani martellarono la vetta sud, mentre i bombardieri in azione e sei battaglioni stavano accer­ chiando da ovest Aberrà Cassa sulla Debra Amba. Il degiacc Masciascià Uolde aveva chiesto aiuto ad Aberrà Cassa e quando non arrivò alcun rinforzo, si ritirò indignato. Regnava una confusione generale, e per di più c’erano voci che le forze italiane stavano circondandoli da sud. Ras Seyum fu inviato a fermarle nella valle del Ghevà e ras Gassa andò a congiungersi al figlio sulla Debra Amba. All’imbrunire si sparava nella cit­ tadina di Abbi Addi e gli europei al seguito di ras Cassa ricevettero l’or­ dine di ritirarsi a Quoram. Gli etiopi non abbandonarono la vetta sud dell’Amba Uorc fino all’alba ilei giorno seguente e ras Cassa con le sue forze del Salale di Ficcò riuscì a resistere sulla Debra Amba fino a sera. Ma nel primo pomeriggio del 28 si preparava un’altra vittoria italiana, la resistenza era ormai sporadica. Ma nuovamente gli italiani non riuscirono a chiudere la morsa. Ras Cassa e i suoi due figli, assieme a ras Seyum e a un’avanguardia al co­ mando del degiacc Masciascià Uolde e dal fitaurari Zaudi Abba Korra, attraversarono il Ghevà. Mangascià Yilma seguì un cammino diverso; Ipianto rimaneva degli eserciti dell’Uag, Lasta e Yeggiù era già lontano. 11 degiacc Hailé Chebbede guidò la ritirata attraverso i nemici. Nella battaglia che durò tutta la notte gli uomini dell’Uag subirono le perdite

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più pesanti che avessero mai subito nello scontro con le avanguardie del Terzo Corpo d’Armata nella valle del Ghevà. I bengala lanciati dagli aerei italiani illuminavano tutta la zona, agli etiopi sembrava che la notte si fosse fatta giorno. Bombardati lungo tutto il percorso i superstiti si riuni­ rono a Socotà, dove il vecchio uagscium Chebbede li rifornì di viveri e di truppe fresche di rinforzo. Avevano pensato che ras Mulughietà sarebbe riuscito a tenere l’Amba Alagi, ma era giunta voce che l’Amba era stata abbandonata. Aspettarono di sapere dove si trovasse l’Imperatore e quali fossero i suoi piani e i suoi ordini. E mentre si trovavano là il degiacc Masciascià Uoldié del Cambata morì in seguito alle ferite riportate. Il primo marzo ricorreva il quarantesimo anniversario della battaglia di Adua. Quella sera l’Imperatore raggiunse a dorso di mulo Quoram avendo lasciato la sua auto ai piedi delle alture del Tigrai. Qui si incontrò con ras Chebbede e con il capitano del Valle e seppe della morte di ras Mulughietà e di suo figlio, e del maggiore Burgoyne. Ad Addis Abeba 1’Abuna Kyrillos ordinò un digiuno di otto giorni, un digiuno molto rigoroso, a pane e ac­ qua, senza carne, uova, tegg, che doveva essere osservato sia dagli uomini che dalle donne. In Europa Hitler decise di rioccupare la Renania. E Badoglio aveva spostato il quartier generale in una tenda ad Addi Qualà, da dove dirigeva contro ras Immirù la terza fase della sua battaglia di annientamento.

Ras Immirù aveva saputo molto poco di quanto succedeva nei princi­ pali campi di battaglia ad occidente. I messaggi e gli ordini che gli veni­ vano inviati tramite l’ufficio telegrafico di Gondar o il posto telefonico di Dabat, impiegavano dai cinque agli undici giorni per arrivargli, e quando arrivavano era già troppo tardi. Ai primi di febbraio era giunto un mes­ saggio da Dessiè in cui si annunciava l’intenzione italiana di avanzare da Gondar — « Intenzione piuttosto prematura allora », come disse Badoglio e in cui si ordinava a ras Immirù di rimanere all’erta. Il ras obbediva sempre agli ordini che riceveva, così si limitò a inviare gruppi di disturbo dietro le linee italiane5 e si appostò, trincerandosi intorno all’Amba Coiezà, sulle montagne dello Scirè. Badoglio era sicuro del successo, non solo perché alcune informazioni davano a soli venticinquemila uomini « in non buone condizioni morali e materiali » * le forze complessive di ras Immirù, ma anche per il « con­ tegno del degiacc Aialeu Burrù », il quale aveva, in alcune circostanze, dimostrato di non essere alieno dal sottomettersi al nostro governo **. Nonostante ciò ras Immirù fu l’avversario più pericoloso per l’Italia, * Del Boca, op. cit., pag. 155 [N.d.C.]. ** Ibidem.

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l’unico comandante etiope che aveva tentato delle manovre, di tagliare le comunicazioni, di minacciare una controinvasione, e di incitare rivolte tra le retroguardie italiane. Badoglio non correva alcun rischio: tre divisioni rinforzate dovevano muoversi verso ovest dal loro campo base di AduaAxum e allo stesso tempo due divisioni del Quarto Corpo d’Armata, agli ordini del generale Babbini, dovevano attraversare il Mareb da Nord per isolare gli etiopi alle spalle S Il Secondo Corpo d’Armata si trovava a soli venti chilometri * di pi­ sta dalle posizioni di ras Immirù; il Quarto Corpo invece distava 80 chilometri ** con un deserto privo d’acqua e di piste da attraversare. Queste due divisioni del Nord giunsero sul luogo dei combattimenti quan­ do la battaglia era conclusa ma anche senza il loro aiuto le tre divisioni del Secondo Corpo soverchiarono, per soldati e armi, un ras Immirù già disorientato da contradditori ordini-fiume che giungevano dall’Impera­ tore. Ciò che fu sorprendente non fu che gli italiani vinsero ma che gli etiopi furono in grado di opporre una qualche resistenza. Il 29 febbraio il Corpo d’Armata di Maravigna avanzò in una lun­ ghissima colonna che si snodava su entrambi i lati della pista camiona­ bile. In testa la 21 Aprile poi la Gavinana, la Gran Sasso, la Brigata eritrea. Era più una processione che un’avanzata militare; nessuna battaglia in ricognizione né alcuna particolare precauzione. A un bivio, la divisione delle Camicie nere si staccò dalla colonna per raggiungere il suo obiettivo, le alture di Acab Saat, mentre la Gavinana puntava direttamente su Selaclacà. L’avanguardia della Gavinana (due battaglioni e un raggruppamento d’artiglieria) cadde in un’imboscata e stava per essere circondata dai 6.000 uomini di ras Immirù che erano avanzati nascosti dal terreno accidentato. Quasi tutto il resto della divisione fu inviato a soccorrerla e . Maravigna, molto allarmato, arrestò l’avanzata, attestandosi sulla difesa per tutta la notte e il giorno seguente, con gran disappunto di Badoglio. Per il 2 marzo Maravigna aveva cambiato la disposizione del suo Cor­ po secondo canoni più militari : le tre divisioni procedevano su file paral­ lele, la 21 Aprile a sinistra, la Gavinana al centro e la Gran Sasso a de­ stra. Per tutta la mattina le posizioni etiopiche erano state martellate dagli aerei e dai cannoni italiani, ma invece di rimanere sotto il fuoco nemico, ras Immirù, rinforzato sulla destra da quattromila uomini del degiacc Aialeu guidati dal fitaurari Tesciaggher e dal proprio figlio il fitaurari Zaudi ordinò ai suoi di uscire all’attacco. Il combattimento più cruento avvenne nel primo pomeriggio, mentre entrambi i fronti avanzavano. I cannoni italiani dovevano far fuoco spes­ so a bruciapelo; sulla destra, la Gran Sasso si trovava in difficoltà e do­ vette essere riunita dal Duca di Bergamo. • Badoglio parla di trenta chilometri dall’avversario. Op. cit., pag. 157 [N.d.C.]. ** Badoglio 90 chilometri, ibidem [N.d.C.].

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Come disse Badoglio: « Il corpo d’armata non riusciva a raggiungere gli obiettivi fissati, e a sera, dopo aver lentamente progredito, si raffor­ zava sulle alture... mantenendo immutato lo schieramento iniziale ». [B. op. cit., pag. 164, N.d.C.]. Fu proprio questo, il giorno più cruento di combattimenti che mai gli italiani affrontarono al fronte nord. Al mattino gli etiopi avevano respinto gli italiani per parecchie centinaia di metri, ma nel pomeriggio il ptaurari Zaudi Aialeu, mentre guidava in avanti metà delle forze del padre in soccorso delle truppe di ras Immirù che iniziavano a sbandare, fu colpito dal fuoco delle mitragliatrici, e perse mille uomini. La guardia del corpo di ras Immirù combattè disperatamente ma all’imbrunire più di metà di loro erano morti e la grotta da cui Aialeu e Immirù nel pomeriggio ave­ vano diretto insieme la battaglia era stata individuata e bombardata. E alla sera gli etiopi - esclusi i resti della guardia del corpo del ras Immirù — avevano soltanto venti colpi a testa, le loro perdite pesanti, e i loro ardimentosi contrattacchi falliti. Il Corpo di Maravigna aveva sparato die­ ci milioni di colpi e 50 mila proiettili di cannone « tanti — annotò Steer — quanti l’intero fronte nord-etiopico possedeva all’inizio della guerra ». Il mattino seguente quando le tre divisioni italiane avanzarono nuova­ mente si trovarono davanti ad un « vuoto assoluto ». Gli etiopi avevano lasciato il campo e s’erano ritirati durante la notte verso il Tacazzè (una manovra che avrebbe potuto riuscire, come meritava di riuscire, se non fosse stato per l’aviazione italiana). Nelle parole di Badoglio: «Sotto la costante offesa dell’aviazione, si mutava ben presto in una fuga disordi­ nata ». [op. cit., pag. 165, N.d.C.]. I guadi del Tacazzè erano difficili e avrebbero dato, in altre condizioni, impervi e con fitta vegetazione, riparo e rifugio agli uomini di ras Immirù ma « oltre l’efficace bombardamento e mitragliamento, impiegando pic­ cole bombe incendiarie... aveva appiccato fuoco a tutta la zona circostante ai guadi, rendendo quanto mai tragica la situazione del nemico in fuga. » [Ibidem].

CAPITOLO DECIMO

PRIMA DI MAI CEU

Da nessuna delle due jîhrti fu una guerra cavalleresca. Le spaventosità sortite dall’aviazione italiana furono eguagliate, a terra, dalle forze etio­ piche. Il sottotenente pilota Tito Minniti fu decapitato pubblicamente a Dagahbur * che egli aveva bombardato e mitragliato; fu per vendicare la sua morte che gli italiani usarono per la prima volta l’iprite. Da quel momento le atrocità si susseguirono senza sosta inevitabilmente gonfiate da chi le subiva, e assolutamente negate da chi le aveva inflitte. Il 15 dicembre il maggiore Burgoyne scrisse da Dessiè: « Quattro aerei hanno recato gravissimi danni, sfortunatamente intorno e dentro all’ospedale svedese e alla Sede stampa. Certo a duemila metri di altezza era impossibile che gli aerei distinguessero la Croce Rossa sul tetto dell’ospedale e in ogni modo è fuori dubbio che la loro incursione non è frutto di precise direttive; tuttavia non è possibile addurre alcuna scusante e prima che gli aerei fossero scomparsi, l’Imperatore inviava una protesta a Ginevra; poi le linee telegrafiche furono lasciate libere per gli inviati della stampa, e si inondò l’Europa con descrizioni dei danni recati all’ospe­ dale. » Ma solo tre settimane più tardi, a Ualdià, Burgoyne fu di nuovo bom­ bardato: « ”La tua tenda è distrutta” mi disse il veterinario. E lo era davvero. Un colpo ben centrato. Gli italiani vedendo la Croce Rossa sul tetto sganciarono con precisione sei grosse bombe tutto intorno... fortunatamen­ te, oltre a ricoprire tutto di terra e mandare in frantumi la cassetta dei medicinali, non subii alcun danno. Gli italiani lanciarono tre o quattro grosse bombe sulla città, ma la maggior parte erano bombe incendiarie, piccole cose che non facevano molto danno, anche se bruciavano com­ pletamente le case scaraventando schegge in ogni direzione. Ma era chia­ rissimo l’intento di bombardare deliberatamente il mio ospedale da cam­ po. Non avevano fatto cadere alcun tipo di bomba sulle tende dei miei uomini, quaranta metri più in là. Non capisco il perché. » * Steer riferisce invece che la sua testa fu portata a Dagahbur dai somali (Caesar in Abyssinia, Londra, 1936, pag. 243) [N.d.C.].

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E alcuni giorni più tardi dopo avere assistito i feriti di Ualdià dura­ mente colpiti dai bombardamenti del giorno precedente: « La maggior parte dei miei pazienti sono donne e ragazze con ferite alla schiena, allo stomaco, alle cosce, sul petto, sulle braccia e sulle cavi­ glie. È tragico che non possiamo contrapporre un paio di caccia a questo stravincere degli italiani; basterebbe un solo aereo per tenerli in scacco! Mi meraviglio che non siano nauseati di seminar morte proprio tra i civili, si considerano soldati ma si scagliano sugli inermi. » « Combatto stando seduto » scherzò Galeazzo Ciano. Vittorio Mussolini nel suo libro Voli sulle ambe descrisse con accenti lirici la bellezza del rosso fiore di sangue che si allargava sotto di lui. Questa era la via che portava a Guernica e poi Rotterdam, Londra, Dresda e Colonia. Nessuna delle due parti fece molti prigionieri. Menelik aveva condotto circa duemila soldati ad Adua, ma durante tutta la campagna gli etiopi ne presero solo cinque, di cui quattro a Dembeguinà. Furono trattati ab­ bastanza bene e furono mandati a Dessiè dove fecero i giardinieri per l’Imperatore. Ma cinque prigionieri erano tuttavia un numero incredibil­ mente esiguo. Quando gli uomini di ras Immirù si impadronirono di un campo di genieri italiani, il ministero degli esteri italiano rimostrò a Gi­ nevra non solo per il massacro di uomini disarmati, ma perché erano stati sventrati ed evirati. Anni dopo ras Immirù disse che se si fosse ritrovato in quella medesima situazione, avrebbe ordinato il medesimo attacco. Nes­ suna delle due parti aveva qui mostrato il minimo rimorso nello spargere lo stesso sangue cristiano. Se la guerra non fu leale lo si dovette probabilmente perché fu una guerra impari. Gli etiopi potevano fare ben poco contro gli aerei che li tempestavano di bombe e gas e li incalzavano durante la ritirata; si disse che ras Destà era riuscito ad abbattere tre apparecchi con i suoi Oerlikon antiaerei e che gli uomini di Aialeu Burrù ne avevano distrutto uno con il fuoco concentrato dei fucili, ma fu tutto qui. Era facilmente comprensibile che soldati-contadini, disorientati e frustrati, si accanissero contro i piloti o qualsiasi uomo bianco che cadesse nelle loro mani. Sen­ za l’aviazione le ritirate degli etiopi non si sarebbero tramutate in rotte. Ben raramente le forze italiane di terra si lanciavano all’inseguimento. Ba­ doglio usò gli aeroplani proprio come i generali dei tempi passati usavano la cavalleria: come mezzo di ricognizione e di inseguimento, e con esito molto vittorioso. Fu l’azione di inseguimento dei nemici in ritirata che risultò decisiva nelle battaglie del nord. Infatti benché le battaglie di per se stesse aves­ sero successo, non erano fulgidi esempi di arte militare. In tutte e tre le sue offensive Badoglio s’era posto come obiettivo di isolare da tergo l’av­ versario, e in tutte e tre le offensive aveva fallito l’obiettivo. La colpa non era nella sua strategia, che teoricamente non presentava una piega, ma negli ufficiali e negli uomini che la eseguivano. Generali come Maravigna e Bertini, comandante della « Sila », che non erano riusciti a chiudere la morsa ad Antalò dietro l’Amba Aradam, esitavano troppo, erano troppo 122

precipitosi nel ripiegare su posizioni difensive. Per quanto riguarda i sol­ dati, erano giovani e inesperti. Le Camicie nere erano formate da volon­ tari che proprio per questo erano spesso fanatici anche se mal comandati. I regolari erano giovani reclute. Nel Tembien l’esercito dell’Uag aveva visto alcuni di questi gettarsi con i fucili dalle rupi — « inimmaginabile per un etiope », come anni dopo disse un nipote del degiacc Hailé Chebbede. D’altro canto i giovani ufficiali italiani facevano una grande impressione sui nemici. Uno di loro sull’Uorc Amba impugnò una mitragliatrice quan­ do tutti i suoi uomini giacevano morti intorno a lui e continuò a sparare finché non rimase ucciso lui stesso. Tali racconti sul coraggio degli italiani si propagavano tra le truppe etiopiche. Ma i nemici che gli etiopi vera­ mente temevano come pari erano gli eritrei che attaccavano con il loro stesso impeto, ma con maggiore disciplina. Man mano che la campagna si sviluppava Badoglio si affidava sempre più, come aveva fatto De Bono e come faceva Graziani, alle truppe indigene e sempre meno alle divisioni italiane *. In un certo senso non c’era stato molto combattimento. Nelle due bat­ taglie dell’Amba Aradam e del Tembien le perdite italiane ammontarono solo a 70 ufficiali, 975 soldati italiani e 337 ascari. La battaglia dello Scirè era stata relativamente più pesante, tuttavia anche qui il Secondo Corpo d’Armata perse solo 63 ufficiali e 594 soldati (più 12 ascari). Le perdite etiopiche risultavano naturalmente molto maggiori, almeno dieci volte superiori all’Amba Aradam e nel Tembien e quattro volte nella battaglia dello Scirè 2. Ma anche con le ulteriori migliaia di morti o feriti causati dagli inseguimenti dei bombardieri italiani, le perdite si sarebbero difficil­ mente notate se tutti gli arruolati dell’Impero si fossero radunati e fossero sfilati tutti assieme. E sebbene gli italiani si fossero impadroniti delle deco­ razioni personali di ras Cassa e dello scettro di ras Mulughietà (oltre a una dozzina di casse di champagne) sull’Amba Aradam, non avevano catturato alcun guerriero importante; Gli unici condottieri importanti che furono uccisi per mano italiana furono il bituoded Maconnen Demissiè e il degiacc Mescescià Uoldiè e l’unico grande comandante fu ras Mulughietà. Non fu certo un numero tanto impressionante per tre grandi battaglie che rap­ presentavano, nella mente di Badoglio, « la grossa battaglia strategica per l’annientamento del Tigrai ».

E tuttavia a metà marzo il nord dell’Etiopia era in mano italiana, le forze del nemico si stavano disgregando, si diffondevano dissensi e rivolte aperte, si continuava a inviare le colonne in tutte le direzioni. 11 Primo Corpo di Santini, al centro, occupò senza resistenza l’Amba Alagi nove giorni dopo che ras Mulughietà l’aveva abbandonata. Dalle « Porte di Alagi» (Alagi Ber) che furono ribattezzate quasi immediata­ mente « Passo Toselli », gli italiani potevano scorgere Mai Ceu e, oltre la piana del lago Ascianghi, laggiù, verso le alture del Quoram, dove l’Im­ peratore stava riunendo le sue forze. Dietro a Quoram, e tutt’intorno, giù 123

nelle torride piane sottostanti, il paese era in aperta rivolta, bande di Galla forti di centinaia, a volte migliaia, di uomini, vessavano i fianchi dell’Armata Imperiale vagando come branchi di lupi pericolosi, fiutando sangue, saccheggio e distruzione, tenuti malamente a bada3. Parallelo alla principale avanzata italiana il Terzo Corpo di Bastico dalla valle del Ghevà s’era diretto a sud e si muoveva attraverso le alture settentrionali dell’Uag verso Socotà, più lentamente perché la loro avan­ zata era contrastata dallo Scium del Tembien, Gabremedhin. Ad est sulla sinistra dello schieramento italiano, una colonna era riuscita, alla fine, ad attraversare il deserto della Dancalia. L’l 1 marzo le avanguar­ die di irregolari della colonna, dopo sedici giorni di marcia tra le distese salate di questo mare morto, rifornite nella marcia da 25 aerei, raggiunsero la fertile oasi di Sardo, residenza del Sultano Mohammed Yayo e unico luogo importante di tutto il deserto della Dancalia. Sardo si trova solo a 200 chilometri da Dessiè (formalmente Mohammed Yayo doveva obbe­ dienza al Principe Ereditario) e a soli 240 chilometri dalla ferrovia di Diredaua. Si organizzò un campo di atterraggio e nelle due settimane seguenti 12 aerei italiani erano già a Sardo, minaccia per la strada Dessiè-Addis Abeba e, cosa ancora più importante una minaccia alla ferrovia e un primo passo verso il congiungimento delle forze di Badoglio e Graziani. Ad ovest Badoglio fece muovere due colonne verso Gondar. La Terza Brigata Eritrea puntò diritta, attraverso i guadi del Tacazzè, seguendo la pista principale sul Beghemder, mentre sulla destra si muoveva da Asmara una colonna motorizzata guidata dal segretario generale del partito, Achille Starace, via Keren, Agordat e Tessenei giù fino a Om Ager, sulla frontiera sudanese 4. Nessuna delle due colonne incontrò opposizione nemica. Ras Immirù era riuscito a radunare solo diecimila uomini ai guadi del Tacazzè e a sud del fiume l’intera regione pullulava di fuggiaschi demoralizzati dall’esercito del Tembien di ras Cassa. Ras Immirù aveva deciso di organizzare una lotta di guerriglia nel Sernien, ma il degiacc Aialeu Burrù non ne voleva sapere. Verso la metà di marzo ras Immirù era stato abbandonato da tutti, tranne che dalla sua guardia del corpo, composta di trecento uomini; fece allora in modo di inviare un telegramma da Dabat a Dessiè, poco prima che vi giungesse la colonna eritrea. Il messaggio diceva: « La maggior parte delle truppe del Goggiam ha disertato e si rifiuta di battersi se non nel rispettivo paese; i pochi rimasti hanno fatto opera di disgregazione, anche tra i nostri armati personali, così che non abbiamo potuto eseguire il nostro piano. Tutte le popolazioni hanno, non solo diser­ tato, ma dimostrato poco rispetto al loro capo o degiacc Aialeu, rispon­ dendogli con schioppettate. » * Sebbene Aialeu non si fosse sottomesso, né avesse disertato, com’era nelle speranze degli italiani, e in effetti stesse ripiegando su Gondar parallelo a * Badoglio, op. cit., pag. 197 [N.d.C.].

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ras Immirù per accordarsi con il fratello Admassu, non aveva organizzato alcuna resistenza. Forse non era in grado di farlo, neppure nel suo terri­ torio, situato nelle immense distese montagnose del Beghemder del nord e del Semien 5. A sud del Beghemder gli aerei italiani lanciavano volantini e munizioni ai ribelli del Goggiam; non era quindi lì, nella provincia di cui era ancora teoricamente il governatore, che ras Immirù avrebbe potuto sperare di tro­ vare aiuti e rinforzi e che avrebbe potuto organizzare la resistenza.

Nel frattempo l’Imperatore si era stabilito a Quorain con i dignitari di corte e la sua Guardia, con l’esercito di ras Chebbede giunto dall’Amba Alagi e pochi altri uomini. La propaganda italiana stava ottenendo gli effetti voluti, si dovette emettere una serie di comunicati, da Dessiè e da Addis Abeba, in cui si smentiva che l’Imperatore fosse ammalato o rimasto ferito, si negava che si stesse preparando una villa a Gibuti e che l’Impe­ ratore si preparasse ad abbandonare l’Impero « che ora gli era più devoto che mai », si smentiva categoricamente un ipotetico contatto di ras Cassa col nemico, si negava ancora che Hailé Selassié progettasse di abbando­ narli 6, si negava che fossero stati aperti negoziati con gli italiani, si smen­ tiva che ras Destà fosse caduto in disgrazia, si asseriva che cinquemila Azebò Galla, anche se comprati, si erano uniti a loro, si negava che il principe ereditario Asfaoussen fosse stato ferito e condotto alla capitale, si smentiva una rivolta nell’Uollo. Il Principe ereditario non era stato ferito, però a Dessiè vi era stato, se non proprio una rivolta, per lo meno un serio complotto. Sembra che il capo di tale complotto fosse il sessantasettenne ras Ghebriet Mikael, governatore dell’Uorrà Haimanot e di Alibiet, dove viveva sua madre, Uoizerò Zennabish, vedova del Negus Mikael. C’era­ no inoltre coinvolti il primo marito dell’imperatrice Menen, il degiacc Amediè Ali di Lagagora, e, cosa molto strana, uno dei nobili scioani più rispettosi, il Degiacc Auraris, governatore del Menz, che si era battuto con ras Mulughietà sull’Amba Aradam. Costoro erano tutti capi della vecchia generazione; agli occhi di gran parte della popolazione Uollo il ras Ghebriet era il loro capo riconosciuto, e al di fuori della città di Dessiè la sua parola aveva maggior peso di quella del principe ereditario. Si sa molto poco sui particolari e sugli scopi di tale complotto; sembra tuttavia improbabile che fosse filoitaliano. È molto più probabile che si trattasse del focolaio di una cospirazione volta a deporre il principe eredi­ tario e possibilmente anche l’Imperatore, o, in ogni caso, ora che ras Mulughietà era morto, c’era l’intento di porre la direzione della guerra sotto la guida di capi più militari, cioè nelle mani dei nobili guerrieri per tradizione. Ad ogni modo, ras Ghebriet, il degiacc Amediè Amde Ali, il degiacc Auraris e un altro nobile scioano furono arrestati ad un banchetto e tra­ dotti in catene ad Addis Abeba con il Junker dell’Imperatore pilotato da Ludwig Weber. Quasi contemporaneamente al messaggio pessimistico 125

di ras Immirù da Dabat, il Negus gli inviava con un messo una lettera dallo stesso tono disperato7. « Il nostro esercito » scriveva Hailé Selaissé, « famoso in tutta Europa per il suo valore, ha perduto il suo nome condotto alla rovina da alcuni traditori, a tanto è stato ridotto ». « Avrai certamente saputo delle morti valorose del degiacc Mescescià Uoldiè, del degiacc Beienè e del bituoded Maconnen. Dal momento che la morte è un evento inevitabile, è bene riuscire a morire dopo avere compiuto prodezze come le loro ». « Coloro che ci hanno tradito per primi, coloro che hanno poi seguito il loro esempio, precisamente i capi delle forze dell’Uollo come ras Ghebriet, degiacc Amediè Ali e anche altri dell’esercito scioano, cioè degiacc Auraris... sono stati tutti arrestati. » « ... Se pensi che con le tue truppe e con l’appoggio degli abitanti locali che puoi mettere insieme puoi fare qualcosa dove sei, fallo; se d’altra parte ti trovi in una posizione difficile e sei convinto di non avere alcuna possi­ bilità di combattere, avendo perso ormai ogni speranza per il tuo fronte e se pensi che sia meglio venire qui per morire insieme a noi, facci sapere telefonicamente la tua decisione da Dabat... Fino ad ora dalla Società non abbiamo ottenuto né speranza né benefici. » * Il 7 marzo Hitler aveva invaso la Renania. Nella stessa Europa, fron­ teggiata da un destino sconosciuto, l’interesse per il destino dell’Etiopia svanì rapidamente. Mussolini abbandonò gli oscuri negoziati indiretti con Hailé Selassié, tramite la mediazione di un certo Jacir Bey, non appena Badoglio telegrafò a Roma assicurando al duce una sicura vittoria. Tuttavia la situazione di Hailé Selassié non era del tutto disperata. Egli sottovalutava gli effetti che la sua presenza avrebbe provocato. Hailé Chebbede in un primo momento inviò da Socotà a congiungersi con l’Impera­ tore solo il suo fitaurari Tafari. Ma quando Hailé Selassié chiamò a rac­ colta lui p le sue truppe, essi lo fecero volentieri, fiduciosi perché Janhoy stesso era lì con forze fresche. A lui si unirono ras Cassa e ras Seyum: l’Im­ peratore aveva esagerato quando scrisse a ras Immirù che « ras Cassa e ras Seyum sono con noi; ma non hanno con loro un solo armato. » E sebbene l’esercito dell’Uollo si trovasse nella più completa confusione dopo l’arre­ sto dei suoi capi, e il principe ereditario avesse dovuto rimanere a presi­ diare Dessiè assieme al suo comandante militare, il degiacc FikreMariam, da sud-ovest giunse al completo un’armata ancora fresca: le reclute di Caffa, guidate da ras Ghetacciù Abate. Giunsero anche gli altri capi che avevano combattuto sull’Amba Aradam e nel Tembien eccettuato Admassù Burrù che si era ritirato, con le sue truppe del Yeggiù, a sud-ovest verso i confini del Beghemder. Ras Cassa e ras Seyum giunsero a Quoram provenendo da Socotà a mez­ zogiorno del 19 marzo. L’Imperatore non li aveva più visti da quando erano iniziate le ostilità. Il giorno seguente Hailé Selassié si appostò sul* Riportato da Badoglio, per il suo testo vedi op. cit., pp. 202-3 [N.d.C.].

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l’Aià, proprio davanti alla piana del lago Ascianghi e in una caverna delle montagne stabilì il suo quartier generale avanzato, di fronte alle postazioni nemiche a Mai Ceu. Il 21 egli inviò un radiogramma all’imperatrice Menen: « Poiché la nostra fede è riposta nel nostro Creatore e nella speranza che egli ci aiuti, avendo noi deciso di avanzare e entrare nelle fortificazio­ ni, e dato che l’unico nostro aiuto è Dio, confida in segreto questa nostra decisione dell’Abuna, ai ministri e ai dignitari e rivolgete a Dio le vostre fervide preghiere. » * L’imperatore d’Etiopia aveva deciso di seguire la tradizione millenaria dei suoi predecessori, di dirigere personalmente le truppe etiopiche nelle battaglie. I radiotelegrafisti di Badoglio intercettarono il messaggio: il Maresciallo revocò immediatamente l’ordine di avanzata e dispose invece le truppe per attendere l’attacco imperiale.

Badoglio op. cit., pag. 201 [N.d.C.].

CAPITOLO UNDICESIMO

MAI CEU

Era destino che la battaglia più significativa della guerra non fosse com­ battuta tra subalterni ma tra il comandante in capo dell’esercito italiano e l’Imperatore in persona, i due protagonisti del conflitto armato uno davanti all’altro sulle alture centrali, a metà strada tra Magdala, che aveva visto la sconfitta e la morte di un Imperatore, e Adua, che aveva visto la gloriosa vittoria di un altro. I comandanti subalterni avevano fatto fino a questo momento le loro mosse, vittoriose o perdenti, ed erano stati spazzati via. Il proscenio era libero. Sia l’Imperatore che il Marescial­ lo dovettero capire che l’imminente battaglia avrebbe segnato il destino di un Impero e né l’uno né l’altro avrebbe potuto, nel suo intimo, deside­ rare altrimenti. Badoglio aveva riunito le truppe migliori: soldati nati nei paesi montani ai piedi delle Alpi, le reclute della Savoia, fedelissimi alla dinastia sabauda e orgogliose delle tradizioni storiche dell’esercito piemontese, tre divisioni di fanteria regolare dell’Italia settentrionale, tre legioni di Camicie nere e l’esercito eritreo quasi al completo, di cristiani e maomettani pronti a combattere sotto la bandiera italiana come avevano fatto cinquantanni prima contro l’impero centrale. Accanto al maresciallo stavano due gene­ rali superiori: Pirzio Biroli del Corpo d’Armata eritreo e Santini del Primo Corpo, oltre a sei comandanti di divisione: il generale Pesenti della Prima Eritrea, già comandante del Corpo Reale d’Armata in Somalia, il generale Vallarsi della Seconda Eritrea e il generale Negri Cesi degli alpini l'alpusteria, entrambi attestati sul fronte dell’imminente battaglia, e i generali Gariboldi della Sabauda e Tessitore della 3 Gennaio — divenuti in segui­ to ben noti ai loro nemici — e i comandamenti della divisione Assietta. Sotto a questi si trovavano molti altri generali per ogni brigata ed ogni batteria di cannoni. Era uno spiegamento di forze di molte volte superiori a quelle di Baratieri distrutte ad Adua. Facevano fronte i capi più prestigiosi dell’Impero. I loro padri, ras Maconnen, padre dello stesso Imperatore, ras Mangascià, padre di ras Seyum, ms Mangascià Atikim, padre di ras Chebbede, il liquemanquas Abate, pa­ lile di ras Ghetacciù, avevano condotto i loro eserciti alla vittoria di Adua; 129

o, se non proprio i loro padri, i loro zii, come Y uagscium Guangul, il figlio del cui fratello eia il degiacc Hailé Ghebbede. Ras Cassa poi aveva com­ battuto in persona, ragazzo, ad Adua, all’età di quindici anni accanto al padre Hailù di Lasta, mentre suo nonno, ras Darghié, difese i confini occi­ dentali dello Scioa contro i Galla ribelli. Dopo Adua la storia dell’Etiopia era stata forgiata da questi uomini e dalle loro famiglie; agli occhi dei loro seguaci essi apparivano i simboli dell’Impero cristiano e della sua indipendenza. Con quattro ras, l’Imperatore e l’erede della dinastia Zaguè si trovava­ no i nobili di corte e i capi guerrieri delle varie province: chi più insi­ gne dei due figli di ras Cassa, Uondossen e Aberrà, governatori di Debrà Tabor e Ficcè in nome del padre e del luogotenente di ras Seyum, il begerond Latibelù? Aberrà Tedia, il fiero governatore di Mai Ceu, era giunto con la sua guarnigione; il nipote dell’Imperatore, il degiacc Mangascià Yilma, ritornato dalla disfatta nel Tembien; il fitaurari Andarghe, sotto Hailé Chebbede, comandava gli uomini del Lasta. L’Imperatore aveva voluto con sé il suo precedente ministro della guerra, il fitaurari imperiale Burrù Uolde Giorgis. C’erano cortigiani di vecchio stampo, come il Ciam­ bellano di Corte, il ligaba Tasso e due veterani che, come ras Cassa, si erano battuti, ragazzi, nella battaglia di Adua, il degiacc Uandirad, ministro della corte imperiale e il degiacc Adafrisau, comandante della Guardia imperiale. E di questa, ufficiali delle nuove leve, tra cui Sciallaka Mesfin Scilesci, che sarebbe un giorno diventato il più potente uomo d’Etio­ pia dopo l’Imperatore. C’erano preti e vescovi e perfino delle donne combattenti come Uoizero Likelesh Bayan che, imbracciato il fucile dell’ormai vecchio genitore, aveva seguito il degiacc Mescescià Uoldiè dalla sua città natale, Hosanna nel Cambata. C’erano ufficiali, già nel « King’s African Rifles », ufficiali fran­ cesi educati alla scuola di Saint Cyr e ufficiali belgi. Ma, a parte il russo Konovaloff, accanto all’Imperatore si contavano ancora ben pochi stra­ nieri. Era un’armata quasi completamente etiopica anche se la migliore messa in campo con 400 mitragliatrici, una batteria o forse due di cannoni da 75, sei mortai e abbastanza Oerlikon per mettere in guardia i piloti italiani. E, soprattutto, gli etiopi erano felici perché l’Imperatore era con loro e perché sarebbe toccato a loro di attaccare.

Il pomeriggio del 24 marzo, in occasione del tradizionale ghebir, in cui si mangiava carne cruda e tegg, l’Imperatore fece festa nella grotta di Aià, sedendo su di un trono improvvisato con a fianco ras Seyum’e ras Cassa. Konovaloff era stato inviato il giorno precedente, travestito da diacono copta, a spiare le fortificazioni nemiche, mentre l’Imperatore aveva tra­ scorso la mattinata a studiare con il binocolo il campo italiano. Dopo la festa, venne improvvisato un consiglio di guerra lungo e confuso, perché fuori le truppe, tese e nervose, scaricavano in aria i fucili, e, benché i più 130

vicini fossero presi e fustigati, il frastuono continuava, e disturbava l’ascol­ to. L’Imperatore voleva attaccare quella notte, qualcuno fra i suoi coman­ danti propendeva d’altro canto per un ripiegamento a Ualdià o addirit­ tura a Dessiè. La discussione si protrasse per ore; coloro che proponevano la ritirata furono oggetto di scherno; ma si rinviò l’attacco a sabato 28 o a lunedì 30. Era impensabile per degli etiopi attaccare di domenica. Una delle ragioni principali per posticipare l’attacco stava nella speranza di riuscire ad avere gli Azebò Galla dalla propria parte. Ora dopo ora i Galla erano affluiti alla grotta sull’Aià e ricevendo sovente dalle stesse mani dell’Imperatore dieci o quindici dollari, ampie camicie di seta a strisce o cappe di raso nero. Fu loro chiesto di vessare gli italiani sui fianchi e i Galla promisero il loro appoggio per quel lunedì 30. Domenica sera, l’Imperatore non aveva ancora stabilito da dove avreb­ be diretto la battaglia, un riparo che aveva ordinato di costruire al degiacc UoldeManuel non era pronto. Il Negus, visibilmente agitato, tenne un al­ tro consiglio di guerra decidendo di rimandare ancora l’attacco. Così fu solo il martedì 31 marzo che la battaglia ebbe inizio, ma in quel giorno ricorreva la festività di San Giorgio, e per molti soldati etiopici quasi convinti che San Giorgio, loro patrono, avesse con loro combattuto nella battaglia di Adua, era un giorno di grandi speranze. Badoglio aveva disposto davanti le tre divisioni migliori sul fronte dove i passi che riportano a Mai Ceu si immettevano nella pianura del lago Ascianghi. Sul fianco destro erano disposti gli alpini della Valpusteria, al centro la Seconda divisione Eritrea, a sinistra gli ascari della Prima divi­ sione. Alle spalle di queste tre divisioni ne erano schierate altre tre, la Sabauda, la 3 Gennaio e, dislocata in profondità, verso nord, per preve­ nire un aggiramento sul fianco sinistro la Assietta. Tre distaccamenti di battaglioni eritrei coprivano il vuoto tra gli alpini e la Seconda eritrea sulla linea del fronte. Sull’estrema destra degli alpini si trovava un piccolo grup­ po di Camicie nere, facenti parte distaccata del 6° gruppo « Montagna », che era tenuto sul retro come riserva. Gli italiani, conoscendo in anticipo dell’imminente attacco etiopico, ave­ vano avuto il tempo di fortificare le posizioni, di cintare con zeriba* di filo spinato, di appostare l’artiglieria di fare pervenire dalla loro base motorizzata che distava circa venti ore di mulo, le provviste di cui neces­ sitavano. Sapevano non solo che l’attacco era imminente, ma perfino quan­ do sarebbe sopraggiunto. Erano intercettati i messaggi radio nemici, e molti Azebò Galla erano passati dalla parte italiana, per ottenere altri dollari e armi migliori, e per informarli che l’attacco etiopico era stato deciso per il lunedì seguente. E per finire, un ufficiale della Guardia im­ periale etiopica disertò e avvisò gli italiani di tenere gli occhi bene aperti.

* /.eriba = robusta siepe o palizzata di difesa usata dagli etiopi attorno alle

campagne. Spesso se ne trovava una attorno ad ogni capanna e poi una più alta e robusta attorno all’intero gruppo di capanne [N.d.C.].

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Alle tre del mattino del giorno di San Giorgio sul fronte italiano si sve­ gliarono gli uomini e alcune pattuglie di ascari furono inviate in perlu­ strazione nella terra di nessuno. Alle 5.45 due colpi di Mauser ruppero il silenzio e due razzi rossi balenarono nel cielo: era l’allarme dato contem­ poraneamente sul fronte degli alpini e della Seconda eritrea. Dalle pendici dell’Aià i cannoni e i mortai etiopici aprirono il fuoco contro il fronte degli alpini dei battaglioni piemontesi, liguri e veneti Intra, Feltre e Pieve di Teco. S’aggiunse il tambureggiare delle mitragliatrici. Molti rimasero uccisi. Particolarmente precisi furono i colpi di batteria * di Schneider da 75, diretta dall’ex allievo di St. Cyr, cagnasmacc Kiflé; i mortai etiopici, uccisero tutti gli ufficiali dell’ottava batteria nemica. Mentre i primi soldati etiopici si gettavano all’attacco il fuoco della loro artiglieria fu diretto con­ tro le pendici della parete orientale del passo Mecan, di fronte alla quale si trovava la Seconda divisione Eritrea. Gli etiopi tentarono di arrivare a trecento, quattrocento metri dalle po­ sizioni italiane prima che venisse sparato un sol colpo '. Il loro primo assalto ebbe l’arditezza che gli italiani si aspettavano; ma fu con sorpresa che gli etiopi si accorsero che le zeriba italiane erano ben pili difficili da oltrepassare di quanto avessero previsto e i cannoni italiani che rispondevano al fuoco erano numerosi e ben sistemati. L’assalto vacillò e si dovette ripiegare. Il sole era ormai sorto quando la seconda colonna etiopica attaccò il centro dello schieramento italiano. Hailé Selassié aveva diviso le sue trup­ pe d’assalto in tre colonne: tre, quattromila uomini, guidati da ras Cassa, quindicimila uomini guidati da ras Seyum e infine altri diecimila, tra cui la Guardia imperiale, guidati da ras Ghetacciù. I tre ras erano i capi no­ minali, ma le loro colonne erano condotte da condottieri, vecchi e giovani, come il begerond Latibelù, il ligaba Tasso, ras Chebbede, il degiace Mangascià Yilma e il veterano degiacc Uandirat2. La prima colonna, quella di ras Seyum, aveva sferrato un attacco sul fianco destro dello schieramento italiano, ma con il solo intento di attacco diversivo. La colonna principale, guidata da ras Cassa, cinque volte più numerosa, si era mossa venti mi­ nuti dopo e aveva impiegato più tempo per raggiungere le posizioni sta­ bilite. Erano le 7 del mattino, quando sferrò il suo attacco. Al centro dello schieramento gli etiopi si gettarono all’assalto contro il 3° gruppo battaglioni eritrei, punto di sutura tra gli alpini a destra e il Secondo battaglione eritreo a sinistra. In un primo momento sembrò quasi che le truppe etiopiche riuscissero a sfondare quasi spezzando le due divi­ sioni italiane. Il 3° gruppo si piegò e ondeggiò. Ma gli alpini distaccarono il battaglione « Exiles » dalla loro seconda linea, e attaccarono sul fianco gli uomini di ras Cassa. E alle quattro si udì il rombo che gli etiopi ave­ vano imparato a temere: giungevano dall’alto gli aerei da bombardamen* Normalmente una batteria è formata da due o quattro pezzi; qui probabilmen­ te ΓΑ. si riferisce a un solo pezzo. Vedi anche Del Boca op. cit., pag. 153 [N.d.C.].

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to. Sessanta di questi, mitragliando e bombardando le retroguardie della colonna di ras Cassa, si spinsero avanti per colpire il quartier generale del­ l’Imperatore. Ma quel giorno, gli Oerlikon abbatterono trentasei dei ses­ santa aerei *. Alle 9, la Guardia imperiale, non ancora provata dal fuoco, si lanciò all’attacco contro il fianco sinistro della Seconda divisione eritrea3. La bat­ taglia durò tre ore. « Makallè Alagè » gridava la Guardia imperiale mentre gli ascari cantavano l’Arcfan/erè. Il grosso dell’assalto si abbatté sul De­ cimo battaglione eritreo; e la maggior parte degli ufficiali rimase uccisa o ferita. Alle undici il tenente colonnello Zuretti segnalò via radio: « Forte pressione nemica da ’’ditale rovesciato” e tucul antistanti alt prego con­ centramento artiglieria alt ». Qualche minuto più tardi egli stesso cadde ucciso, e con lui anche il colonnello Ruggero, il quale aveva lasciato l’Uf­ ficio Politico per il campo di battaglia. Assunse il comando uno dei pochi ufficiali superstiti, Raffaello Tarantini, e inviò al generale Dalmazzo il se­ guente messaggio: « Qui coinbattono i feriti. Fra poco saremo tutti morti, ma anche i morti spareranno ». Verso mezzogiorno, la Seconda divisione eritrea venne a trovarsi a corto di munizioni, le forze etiopiche si erano spinte fino al passo Mecan e stavano attaccando la Prima divisione nel fianco sinistro italiano, dove il terreno accidentato offriva maggiori pos­ sibilità di difesa. Incontrarono una grandine di fuoco, eppure avanzarono ancora, « dando prova », come affermò Badoglio, « di saldezza e di un no­ tevole grado di addestramento, unito a un superbo sprezzo del pericolo »**. Pirzio Biroli ordinò il contrattacco. Contemporaneamente lo stesso gene­ rale Dalmazzo, baionetta in canna, portò gli artiglieri e la Prima divisione, più riposata, all’assalto all’arma bianca. Il Quarto, il Quinto e il Venti­ quattresimo battaglione si gettarono nella mischia, mentre l’artiglieria del­ le due divisioni scatenava una valanga di fuoco. E fu troppo, perfino per la Guardia imperiale. Con il ripiegamento degli etiopi, la battaglia subì una pausa e seguì una lunga attesa. Gli italiani non fecero alcun tentativo di abbandonare il riparo delle fortificazioni e inseguire il nemico. Nel primo pomeriggio il cielo era coperto e cadeva una pioggia inter­ mittente. Le incursioni degli aerei italiani andavano diminuendo. Hailé Selassié rinforzò le colonne e ordinò l’attacco generale su tutto il fronte, nell’ultimo tentativo di spezzare lo schieramento italiano prima del so­ praggiungere della notte. Per un’altra ora si riaccese un violentissimo com­ battimento corpo a corpo su tutta la linea, facendosi particolarmente in­ tenso nel punto di sutura tra le due divisioni eritree, dove gli etiopi ave­ vano conquistato alcune trincee. Un tentativo di spezzare il fianco italiano sull’estrema ala destra venne sostenuto e poi contrattaccato dal battaglione « Intra » e dalla banda dello Scimezana. Fu a questo punto che interven­ nero gli Azebò Galla, concentratisi a Uarrabei, nella parte orientale del * « Settanta apparecchi » Del Boca op. cit., pag. 154 [N.d.C.]. ·· Badoglio, op. cit., pp. 206-7 [N.d.C.].

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campo di battaglia. Non è difficile immaginare con quale ansietà i co­ mandanti rivali osservassero queste orde di uomini a cavallo, armati di spade e fucili, ben conoscendo la loro proditorietà e le loro doppie pro­ messe, incerti fino all’ultimo da quale parte avrebbero combattuto e dove avrebbero attaccato. Fu certo un momento d’angoscia per Hailé Selassié, quando, nella confusione della mischia, potè alla fine discernere le loro mosse e li vide attaccare il fianco destro etiopico. Inseguiti dai Galla, mitragliati dal nemico, bombardati dal cielo, gli etiopi ripiegarono, per la seconda volta, sulle pendici di Quorarn. Con l’oscurità il pericolo di un più violento attacco, per quel giorno, s’era allontanato. Ma durante tutta quella notte gli italiani lavorarono febbrilmente per riparare le fortificazioni e per raccogliere le munizioni, prevedendo con sicurezza un nuovo attacco, l’indomani. La Prima divisione eritrea, che aveva svolto la parte minore nella battaglia, disponeva solo di quindici cartucce per fucile e di due caricatori per mitragliatrice. I rifor­ nimenti e le munizioni inviate con i muli, arrivarono solo la sera seguente. Hailé Selassié, come sospettavano gli italiani, aveva intenzione di sfer­ rare un nuovo attacco il giorno seguente. Se l’avesse fatto, avrebbe potuto trattarsi di una vittoria decisiva quanto quella di Adua. Dietro le tre di­ visioni italiane stanziate sulla linea del fronte se ne trovavano altre tre che non erano però dello stesso valore e soprattutto non così coperte. Se il fronte italiano avesse ceduto, probabilmente questo secondo schieramen­ to non sarebbe stato in grado di resistere. E le divisioni eritree erano state duramente colpite, perdendo in quella giornata quasi mille uomini. Tuttavia i comandanti etiopici, riunitisi, rigettarono i progetti del Ne­ gus. Nonostante tutto il loro coraggio, ogni loro assalto perfino quello della Guardia era fallito; gli Azebò Galla li avevano traditi per l’ennesima volta e la via del ritorno verso il sicuro Scioa si prospettava difficile e pericolosa. C’erano stati molti morti e ancor più feriti, e stavano per sopraggiungere dei grossi temporali. Piovve per tutto il giorno seguente. Gli etiopi si misero a raccogliere le salme dei loro morti e, tra i lamenti delle donne e il canto dei preti, die­ dero loro sepoltura sulla piana del lago Ascianghi. Tra i morti c’erano tre degiace e due fitaurari·. il fìtaurari Ashennaf e il fitaurari Negasc Tesfae; degiacc Uandirat, che era stato ferito qua­ rantanni prima ad Adua e che gli italiani erano riusciti ad uccidere qua­ rantanni dopo; il nipote dell’Imperatore, degiacc Mangascià Yilma, figlio del primogenito di ras Maconnen e degiacc Aberrà Tedia, governatore di Mai Ceu. Ma fu solo la notte successiva che, alla fine, l’Imperatore con­ sentì di ordinare la ritirata.

CAPITOLO DODICESIMO

L’APRILE 1936

Aprile fu per gli etiopi un mese di disastri quasi senza tregua e per gli italiani di successi quasi ininterrotti. Difficilmente nel Nord avrebbe po­ tuto andare in modo diverso. Una dopo l’altra le armate etiopi erano state sconfitte e, con la stessa Armata imperiale battuta e in ritirata, sembrava agli etiopi che solo Dio, che aveva così spesso in passato sal­ vato il loro impero da invasori musulmani e cristiani, potesse salvarli un’altra volta. E così gli etiopi pregavano; ma la loro fede nell’aiuto di Dio non era una mera recitazione verbale. In Europa, per molti secoli, il dio dei cri­ stiani era stato devotamente invocato da tutti gli schieramenti finché, per­ fino agli occhi della persona più ingenua, questa invocazione era apparsa vuoto e contraddittorio rituale. Ma gli etiopi erano vissuti per secoli circondati da musulmani e, perfino nei momenti di maggiore pericolo, Dio aveva miracolosamente preservato la loro indipendenza e le forze del­ l’Islam si erano ritirate. Ancora una volta l’Impero veniva invaso dai musulmani dei bassopiani settentrionali e del nord e dell’est, comandati, certo, da cristiani e al se­ guito di una bandiera straniera, musulmani non dichiarati ma tuttavia musulmani, e cristiani ben strani che apertamente preferivano i musul­ mani ai loro fratelli di chiesa. A parte l’intervento divino gli etiopi pote­ vano contare su due risorse: l’Imperatore, miracolosamente illeso, e l’Ar­ mata del Sud. Se Hailé Selassié fosse stato ucciso a Mai Ceu o durante la ritirata la guerra si sarebbe conclusa. Con l’Imperatore in vita e finché egli non avesse ammesso la sconfitta, nessuna vittoria italiana poteva considerarsi definitiva. Sul Fronte Sud gli italiani erano rimasti stranamente passivi; quando alla fine attaccarono c’era la possibilità che essi si infrangessero contro la « linea Maginot » di Wehib Pascià *. C’era ben poco su cui gli etiopi potessero ancora contare. Il senato man­ dò un messaggio che implorava l’Imperatore di ritirarsi a Dessiè, e decise di radunare mille uomini per mandarli a Ualdià. A Dessiè il principe ere­ ditario Asfauossen dovette impedire a un capo con seguaci armati di diri­ 135

gersi a nord perché « la strada era interrotta e gli abitanti gli avrebbero portato via le armi ». Il 1° aprile, il giorno dopo la sconfitta di Mai Geu, Gondar, la capitale storica del Beghemder e, fino ai tempi di 'Teodoro anche capitale impe­ riale, cadeva senza resistenza. Starace alzò la bandiera italiana alle dieci di mattina e, due ore più tardi, il generale Gubeddu, che era rimasto diplo­ maticamente accampato fuori Gondar per quasi una settimana, entrò alla testa delle sue truppe eritree nella città. Qui le due colonne si fermarono: correvano voci che ras Immirù si trovasse ad est, che fosse in atto una concentrazione di 40.000 uomini a Ifag nel sud e che ras Cassa fosse con 8.000 guerrieri a Debrà Tabor, pronti a marciare tutti su Gondar per riconquistarla con l’aiuto britannico. In realtà non erano in atto concentrazioni, né piani, né aiuti inglesi. Lo stesso ras Immirù era stato quasi bloccato a Gondar dall’avanzata ita­ liana. Era riuscito a fuggire attraverso la campagna pullulante di shiftà, e stava marciando alla volta del Goggiam e di Debrà Marcos. Gli italiani non incontrarono alcuna resistenza nel Beghemder, il che appare tanto più straordinario in quanto questa regione era il cuore dell’altipiano dell’Amhara, tradizionale ultimo baluardo dell’Impero, e bisognava certo atten­ dersi che l’avanzata sarebbe stata contrastata passo dopo passo dai capi locali e dai contadini. Non ci fu alcuna aperta rivolta contro l’Imperatore, come già nel Goggiam, e nemmeno alcuna forma di resistenza contro gli italiani; ciò può essere spiegato solo dai fatti accaduti nel 1930. Allora i capi e il popolo del Beghemder, condotti da ras Gugsa Aliè erano stati sconfitti e bombardati da Hailé Selassié e dai suoi guerrieri scioani. Cinque anni più tardi toccava a Hailé Selassié ed agli Scioani d’essere sconfitti e bom­ bardati dagli italiani. Gli amhara del Beghemder avevano seguito i capi a loro imposti, ras Cassa e suo figlio Uondossen, verso nord; avevano fatto il loro dovere, si erano dispersi o lo erano stati, avevano visto sconfiggere ras Cassa e Uon­ dossen ed erano tornati alle loro case e ai loro campi. Non combatterono per gli italiani ma non avrebbero combattuto contro di loro. In effetti ad Addis Abeba c’era il timore che le colonne italiane dirette ad ovest fossero un pericolo più immediato del grosso dell’esercito a nord di Dessiè. Blattengueta Herouy spedì, il 2 aprile, un nuovo telegramma alla lega­ zione etiopica a Parigi per dire che « soltanto cinquemila uomini si trova­ vano al lago Tana per opporsi all’avanzata — via Gondar — verso il Gog­ giam e la capitale ».* L’esercito di ras Immirù era stato decimato e l’ar­ mata imperiale rischiava l’accerchiamento « l’Imperatore resterà lì sino alla morte. Allora sfacelo dell’Impero... ». Badoglio intercettò il messaggio e tuttavia non ordinò alia colonna rinforzata di Starace di avanzare se non due settimane più tardi, sebbene si fosse preoccupato di alleviare la sua * Badoglio, op. cit., pag. 212 [N.d.C.].

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ansia segnalando che ras Immirù e Aialeu Burrù non avevano ai loro or­ dini che poche truppe e che si stava per prendere la decisione di bom­ bardarle. Diversamente da Blattengueta Herouy, Badoglio pensò probabilmente che la via verso Addis Abeba, attraverso il Goggiam, non era così sgom­ bra come poteva sembrare; più probabilmente egli non desiderava che il segretario del partito entrasse nella capitale nemica prima del comandan­ te superiore delle forze di spedizione. Starace aveva issato la bandiera a Gondar, egli stesso l’avrebbe alzata ad Addis Abeba. Telegrafò a Lessona e Bottai, ministro alle corporazioni, governatore di Roma, di venirgli in­ contro per la marcia trionfale sulla capitale. Nella notte del 2 aprile il comando generale etiopico trasmise quello che doveva essere il suo ultimo comunicato di guerra, l’annuncio di una grande vittoria a Mai Ceu, subito dopo l’Imperatore ordinò la ritirata. L’esercito in ritirata si mosse prima dell’alba del giorno seguente, l’Impe­ ratore in uniforme ed elmetto cavalcava un cavallo bianco. Era una splen­ dida mattina e la ritirata era, se non ordinata, almeno non così caotica come ci si sarebbe potuto aspettare in tali circostanze. Tuttavia le circo­ stanze cambiarono il mattino presto quando le due minacce latenti si ma­ terializzarono. Gli Azebò Galla cominciarono a vessare i fianchi dell’ar­ mata; comparvero gli aerei italiani. Da quel momento non fu che carne­ ficina e confusione *. Un volo dopo l’altro i trimotori Caproni lasciarono cadere bombe e iprite sugli etiopi in ritirata. Centocinquanta aerei parte­ ciparono all’azione: uno solo fu abbattuto, anche se 28 furono danneggiati. Per tutto quel giorno e il giorno seguente, mentre l’armata tentava di attraversare la piana di Golgolò, gli attacchi aerei si susseguirono inces­ santemente. I fiumi erano pieni di cadaveri, e ras Ghetacciù che coman­ dava la retroguardia fu selvaggiamente attaccato dagli Azebò Galla. In quei due giorni di incubo l’armata imperiale subì perdite ben più gravi che non nella battaglia di Mai Ceu. La sera del 4 l’Imperatore giudicò impossibile continuare la ritirata ver­ so sud. Le colonne aggirarono faticosamente le rive del lago Ascianghi, si riversarono verso Quoram e lì si dispersero attraverso la campagna diri­ gendosi verso ovest, muovendosi solo di notte. Con ogni parvenza di ordine e organizzazione ormai scomparsa, gli uomini si diressero verso le loro terre. Hailé Chebbede, seriamente ferito a Mai Ceu da un proiettile nel collo, fu riportato indietro verso l’Uag, non a Socotà occupata la settima­ na precedente, il 28 marzo, dal terzo corpo di spedizione Bastico. Uondossen Cassa non si diresse verso il suo governatorato a Debrà Ta­ bor nel Beghemder, ma a Lasta a sud dell’Uag, terra di suo nonno, i cui abitanti erano battaglieri e fedeli all’Imperatore scioano. Aberrà Cassa, suo fratello, si rifugiò nel Salale feudo Cassa nello Scioa del nord. Ras * Vedi racconto di H. Selassié fatto a Marcel Griaule (in «Vu», Parigi 1936: « Une victoire de la civilisation », pp. 45-48). Riportato anche dal D. Del Boca in op. cit., pag. 162 [N.d.C.].

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Seyum, allora quasi cinquantenne *, ricevette dall'Imperatore l’ordine di andare a nord per accendere la guerriglia nel Tigrai. Ras Chebbede tornò nell’Ifrata probabilmente con ordini analoghi, ordini che lo stesso Hailé Selassié doveva considerare quasi impossibili ad eseguire, e certamente da ras Seyum. E inoltre erano ordini incoerenti perché l’Imperatore, nono­ stante la sua insistenza iniziale sui vantaggi della guerriglia, aveva alla fine combattuto la tradizionale imponente battaglia campale, alla quale gli etiopi erano tutti preparati fisicamente e soprattutto mentalmente. Ras Cassa e ras Ghetacciù con i resti della Guardia e delle loro forze ac­ compagnarono Hailé Selassié nella manovra di allontanamento dagli Azebò Galla verso gli altopiani ospitali dell’Uag e Lasta. Il 5 Badoglio ordinò al corpo d’armata eritreo di avanzare nella dire­ zione di Dessiè e al Primo corpo, meno gloriosamente, di continuare i lavori stradali attraverso l’Amba Alagi, fra Quoram e Mai Ceu, e all’aviazione di lanciare rifornimenti agli eritrei in marcia, e quindi a Dessiè. L’aviazione andò oltre. Per la prima volta gli aerei da bombardamento sorvolarono Addis Abeba, distrussero due dei superstiti aerei etiopici a Janhoy Meda, e causarono panico fra i residenti stranieri che da lungo tempo temevano un bombardamento massiccio. Tre giorni dopo, fu dira­ mato dalla capitale un decreto di mobilitazione generale. Tutti gli uomini validi dovevano radunarsi, con o senza anni, tutti i cittadini dovevano immediatamente riferire ogni attività sospetta alle autorità, e così via...: gli ultimi un po’ patetici sintomi del crollo imminente di ogni regime. Più concretamente: l’ultima armata fu richiamata da sud-ovest, le truppe di leva dello Uollega Saio, condotte dal governatore degiacc Mangascià Uube, furono chiamate a difendere la capitale. Il capitano Tamm e i due ufficiali che gli rimanevano progettarono d’impiegare i cadetti e la loro brigata, e Blatta Taklé Uolde Hauariat di raccogliere armi. Il 9 il corpo eritreo lasciò il campo di battaglia di Mai Ceu incontrando sulle prime « alcune lievi resistenze »** ma presto passando « attraverso manifestazioni di giubilo e di omaggio da parte delle popolazioni » : in effetti, anche se Badoglio non si peritò di menzionarlo, gli Azebò Galla. Ma anche oltre le polverose pianure non incontrarono alcuna resisten­ za. I mille uomini che il senato aveva ordinato di radunare sembra non ab­ biano mai raggiunto Ualdià, se mai furono radunati. Mentre pattuglie di cavalleria, avanguardia del Corpo di Pirzio Biroli, entravano a Dessiè il principe ereditario e il suo seguito, Uodagiò Alì, suo tutore e governatore effettivo dell’Uollo, FikreMariam, comandante della guardia e della guar­ nigione scioana, la abbandonarono senza combattere. « Su grandi strisce di tela, tese attraverso le vie pavesate della città » * D.B. citando l’opera del Konovaloff (Con le armate del Negus, Zanichelli, Bo­ logna, pag. 168) : « all’età di circa 60 anni... » op. cit., pag. 160 [N.d.C.]. ** Badoglio, op. cit., pag. 124 [N.d.C.].

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notò Badoglio « la popolazione aveva scritto nella lingua locale ”il falco ha volato”. » * Dov’era l’Imperatore nel frattempo? La risposta colpisce stranamente gli occidentali. L’Imperatore non stava riorganizzando il suo esercito, né stava ripiegando precipitosamente verso la capitale o prèndendo contatti con le grandi potenze in un’ultima disperata richiesta di aiuto. L’Impera­ tore si trovava a Lalibelà in preghiera. Aveva perso una battaglia e con essa quasi perso il suo Impero, per questo si recava in pellegrinaggio. La testimonianza di quei tre giorni apparteneva solo a lui e ai suoi reconditi pensieri. Badoglio non intercettò alcun messaggio, né terreno né divino: probabilmente non immaginava neppure, in quel momento, dove si trovasse il suo avversario e quando uno o due anni più tardi pubblicò il proprio resoconto non fece alcun commento né come generale né come cristiano sui « giorni perduti » di Hailé Selassié**. E sarebbe comunque interessante sapere se gli italiani furono colpiti da un gesto che essi dovevano aver compreso nel loro intimo sebbene non avrebbero ormai più imitato. Le famose chiese scavate nella roccia di Lalibelà erano state costruite dalla dinastia Zaguè come fortezza; il pensiero che era degno di un Im­ peratore morire in un simile luogo dovette attraversare la mente di Hailé Selassié. Se così fu, fu tuttavia un pensiero momentaneo. Con i suoi ras e la sua scorta, dopo tre giorni di preghiere si diresse a sud-ovest verso Dessiè, unicamente per scoprire, man mano che si avvicinavano alla città, che essa, e con essa l’intera provincia dell’Uollo erano state abbandonate. Lo Scioa era ora alla mercè degli invasori. Nel frattempo la guerra nell’Ogaden divampava di nuovo dopo una lunga pausa. Incitato da Mussolini e Badoglio, Graziani finalmente riprese o si pre­ parò a riprendere la sua avanzata su Harar. Dagahbur era stata bombar­ data, così Harar, così Giggiga, base delle operazioni di Nasibù era stata onorata da un sorvolo personale del generale Ranza, comandante dell’avia­ zione sul fronte sud e « ridotta a un ammasso di rovine ». Sul terreno, nel deserto costellato di pozzi e avamposti fortificati, i due capi stavano muovendo le loro pedine. Al centro della scacchiera il colon­ nello Frusci e i suoi battaglioni motorizzati arabo-somali erano dislocati a Gorrahei, divenuta la base aerea più avanzata, che fronteggiava la prin­ cipale posizione difensiva etiope sulle colline di Sassabaneh dove il tug Gerrer si biforcava nel tug Fafan, difendendo la città di Dagahbur, il quartier generale di Nasibù e la strada per Giggiga e Harar. Nell’Ogaden settentrionale il generale Agostini con un gruppo di cami­ cie nere della Coorte forestale, carabinieri e altri elementi si stava con­ centrando a Gherlogubi, oltre Ualual. Nell’Ogaden meridionale tra lo Uebi Scebeli e il tug Fafan si trovava il meglio delle truppe di Graziani: * B., op. cit., pag. 215 [N.d.C.]. ** In realtà Badoglio accenna alla « sosta » a Lalibelà, mostrandolo però, non molto chiaramente, come un momento, della fuga e temporaneo nascondiglio di H. S., op. cit., pag. 221 [N.d.C.].

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la divisione libica del generale Nasi. Erano di stanza a Belet Uen e marcia­ vano per concentrarsi intorno a Danan che Olol Dinle aveva raggiunto sin da gennaio e che aveva occupato senza incontrare resistenza. Le due divisioni italiane le Camicie nere della « Peloritana » e della « Tevere » erano significativamente tenute da Graziani in riserva. Meno preoccupato di Badoglio del risvolto politico o forse meno esperto e meno astuto, egli non capì l'importanza di consentire ad entrambe le unità al­ meno una presenza simbolica in prima linea. Egli era un generale con esperienza coloniale, che combatteva una guerra coloniale con truppe coloniali che conosceva e in cui fidava. Il piano italiano era chiaro: un attacco su tre fronti, il cui urto mag­ giore sarebbe stato un attacco a sorpresa sul lato sinistro effettuato dai regolari di Vernè e dai dubat di Navarrini con l’obiettivo di isolare le fortificazioni di Sassabaneh, piuttosto che assalirle frontalmente. Ma gli etiopi non aspettarono d’esser sorpresi dall’attacco. Per l’ultima volta nella guerra tentarono, attaccando per primi, di spezzare l’offensiva che il nemico si proponeva, di romperne il concentramento e di inseguirlo nella ritirata. C’erano tre possibilità: un attacco a sud contro le postazioni di Frusci a Gorrahei condotto dal degiacc Nasibù e degiacc Amde Mikael con i battaglioni della Guardia e con le leve dello Harar e Arussi; un attacco nell’Ogaden settentrionale, verso Ualual o, infine, un attacco nell’Ogaden meridionale. L’attacco al centro avrebbe significato avanzare da una po­ sizione difensiva di grande importanza strategica. Un attacco nell’Ogaden settentrionale difficilmente poteva essere decisivo o anche seriamente peri­ coloso per gli italiani. Al contrario nell’Ogaden meridionale lo sfondamen­ to sull’Uebi Scebeli e l’occupazione di Callafo o, meglio ancora, di Belet Uen avrebbero minacciato seriamente la linea di comunicazione italiana e quasi inevitabilmente costretto Frusci ad arretrare da Gorrahei fino a Gherlogubi, Ualual e forse anche oltre. Inoltre c’era sempre la possibilità di un nuovo ammutinamento nella divisione libica e, fatto ancor più importante il degiacc Beienè Mered stava ricostituendo il suo esercito nel Baie sebbene Goba, sua « capitale », fosse stata rasa al suolo dalle incursioni aeree. C’era quindi la possibilità di ricongiungersi e di ricostituire un fronte sud. Per di più le truppe di Nasi erano appoggiate dalle bande di Olol Dinle e Hussein Ali; se uno o entrambi i capi fossero stati uccisi le tribù dell’Ogaden che si erano sottomesse agli italiani, sarebbero tornate quasi ine­ vitabilmente alle loro primitive alleanze e anche i dubat regolari si sareb­ bero demoralizzati : gli etiopi si stavano già attestando lungo il saliente di piccoli villaggi e di pozzi che da Dagahbur conduceva, attraverso Danan, a Iddidole sull’Uebi Scebeli. Il degiacc Maconnen Endelacciù era a Dagomedò, il fitaurcfri Malion con 2.500 uomini a Bircut e il fitaurari Scifferau con 500 uomini era a Gianagobò di fronte a Danan nella posizione più avanzata. Il degiacc Abebè Damteu con le sue 3-4.000 nuove leve giunte dal sud 140

si era accampato intorno a Maleico. Era stato lui che con Maconnen Endelacciù come rinforzo, guidò l’attacco. Con loro era la moglie del degiacc HapteMikael governatore di una piccola provincia meridionale, giunto per primo ad Harar, e rimasto a Giggiga perché caduto malato, che aveva preso il comando delle truppe. Il totale delle forze etiopiche ammontava a circa 10.000 uomini. Dotate di un carro armato, abbondanza di munizioni trasportate da muli, il loro morale era alto. Il degiacc Abebè aveva sempre avuto una reputazione migliore di quella del fratello ras Destà come soldato e condottiero e i suoi uomini erano desiderosi di mostrare che potevano riuscire dove l’ar­ mata del Sidamo era stata sconfitta. Il 14 aprile degiacc Abebè e degiacc Maconnen avanzarono contro le truppe del generale Nasi. Nasi avanzò contemporaneamente e la battaglia divampò per 3 giorni su tutta l’area compresa tra Bircut e Danan. Fu questa la più importante battaglia dell’Ogaden, l’unico grosso combatti­ mento avvenuto in quella regione, uno scontro confuso, come sempre ac­ cade quando il terreno è tale che è impossibile parlare di un fronte, solo di una serie di combattimenti separati e quando il clima è tale da imporre continue pause ai contendenti per trovare acqua e riposo. Alla fine gli eritrei di Nasi, gli jurans di Olol Dinle e i Rer Naib di Hus­ sein Ali sconfissero gli uomini dell’Uollega, del Ghemu Gota, e del Rulu che erano giunti da così lontano per combattere. Dove uomini a piedi avevano combattuto contro uomini a piedi, le sorti della battaglia avevano omeri­ camente oscillato ora dall’una ora dall’altra parte. Ma Nasi aveva formato due colonne motorizzate sul lato destro, e mentre queste colonne li aggi­ rarono alle spalle i degiacc Abebè e Maconnen arretrarono. Il gioco d’az­ zardo non era riuscito. Il 19 aprile la divisione libica si trovava a Bircut e la colonna motoriz­ zata di Vernè aveva raggiunto Segag, circa 90 chilometri a nord. Il 21 aprile Nasi aveva raggiunto Ducam nonostante la pioggia torrenziale che ostacolava qualsiasi spostamento. Il 23 la colonna di Vernè occupò Dagamedò, un gruppo di capanne somale su un pendio. Intanto nella capitale le ambasciate straniere rafforzarono le difese delle loro concessioni e cominciarono a mettere in guardia i connazionali per­ ché si tenessero pronti a lasciare le proprie case e a mettersi in salvo. I pochi consiglieri militari rimasti reagirono in due modi: gli ufficiali belgi (Frère aveva lasciato ras Destà ed era tornato ad Addis Abeba) avevano già ricevuto il preavviso di tre mesi secondo il contratto stipulato con Lorenzo Taezaz « per ragioni di natura economica ». Con gli italiani alle porte, tutti, eccetto Vanfleteren, insistettero per parire alla volta di Gibuti e partirono. Erano mercenari, senza la protezione dei loro governi, ed era possibile che gli italiani fossero brutali, se non feroci, con chiunque fosse caduto nelle loro mani. Tuttavia gli ufficiali svedesi erano ancora ufficiali delle forze armate regolari del loro paese. L’immediata reazione 141

del capitano Tamm fu di radunare i suoi cadetti e difendere la capitale. Così l’ultima « armata » etiope, che doveva dirigersi verso nord per ar­ restare la costante avanzata italiana non era che un gruppo di giovanis­ simi cadetti guidati e incitati da tre giovan· ufficiali svedesi. Come e dove? 116 cadetti erano una forza appena sufficiente a difen­ dere solo la scuola in cui erano stati addestrati; e in ogni caso Addis Abeba situata ai piedi della catena montuosa di Entotto non era città che potesse essere difesa. Ma la strada che si snodava tra Dessiè e Addis Abeba ad un tratto saliva ripidamente ad un passo più alto di quello nell’Amba Alagi. Fu lì, a Ad Termaber che Tamm decise di combattere le sue ter­ mopili. Allora Tamm non aveva solo i suoi cadetti su cui contare. Alcuni mesi prima con l'approvazione dell’Imperatore egli aveva iniziato la formazione di una brigata e a metà marzo essa era pronta a muoversi. Era costituita da 870 sottoufficiali, 4.100 uomini, 117 muli da sella e 1.298 da soma. Quantitativi certamente rilevanti ma le truppe erano ben poco valide: le ultime erano sessantenni che avevano combattuto ad Adua, e quindicenni entusiasti, ma che ricominciavano già a disertare per la delusione di non essere stati immediatamente mandati al fronte. Su questa cenciosa banda male armata e male addestrata i giovani cadetti regnarono con titoli esi­ laranti: Kiffle Nasibù, colonnello e comandante di brigata, Negga Hailé Selassié capo di stato maggiore e comandante in seconda, Ketema Becha luogotenente colonnello a capo del I reggimento, Belai Haileab luogote­ nente colonnello a capo del II reggimento. Ogni reggimento era diviso in 3 battaglioni e ogni battaglione in 3 compagnie. Fra i 6 comandanti di battaglione due sarebbero diventati famosi: Essayas Gabre Selassié e Mulughietà Bului uno dei pochi ufficiali Galla e quindi preziosissimo dato che un terzo delle truppe erano contadini che parlavano l’Oromo e con cui i cadetti e i loro ufficiali potevano comunicare solo a gesti *. Le due compagnie mitraglieri — con solo 30 mitragliatrici — erano gui­ date da Abebè Tafari e Assefa Araya. C’erano sei cannoni senza proiettili e fucili solo per 2.000 uomini. Il 17 aprile Tamm si recò al Grande Ghebbì e rimproverò i ministri radunati in assemblea per aver rifiutato di ascoltare le sue continue richie­ ste di equipaggiamento adeguato per la sua brigata. « È stato con un senso di amara soddisfazione che ho detto loro cosa pensavo ». Se la sua brigata fosse già stata equipaggiata e mandata al Passo due mesi prima si sarebbe potuto contare su una postazione difen­ siva adeguatamente preparata. Ormai era troppo tardi, mandarla in quel momento avrebbe significato sacrificarla inutilmente. Tuttavia, continuò Tamm, meno categorico, era forse ancora possibile fare qualcosa. Con due battaglioni si sarebbe potuto tenere il passo per 10 giorni procurando così alla brigata, equipaggiata adeguatamente, il tempo necessario per so* Oromo o Galla: lingua che fa parte del sottogruppo basso-cuscitico; compren­ de numerosi dialetti. [N.d.C.].

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praggiungere in aiuto. Perciò supponendo che gli italiani raggiungessero Ad Termaber il 1“ maggio, due battaglioni avrebbero già dovuto trovarsi sul posto a fronteggiarli e l’intera brigata sarebbe sopraggiunta entro il 10 maggio. C’era bisogno di muli, munizioni, divise e denaro, non più promesse da Maconnen Hapteuold ma una immediata dimostrazione di buona volontà. Gli dissero che Taezaz si trovava già al Passo con 300 uomini e il veterano degiacc Metaferia marciava lungo una pista verso ovest con altri 1.000 uomini. Tamm lasciò il grande Ghebbì con una conferma scritta delle promesse ricevute. Nella scuola di Oletta, quando Tamm riferì le buone nuove, i soldati e i cadetti danzarono dalla gioia. Il 19 aprile i comandanti della brigata Kiffle e Negga Hailé Selassié, una compagnia di fucilieri, e la compagnia mitraglieri di Assefà erano pronti a partire. Erano stati promessi 20 autocarri, mitragliatrici e denaro. Entro l’una del mattino arrivarono 16 autocarri e le mitragliatrici; ma era tardi poiché il viaggio poteva essere effettuato solo di notte per paura delle in­ cursioni aeree italiane: Tamm condusse il suo convoglio nella capitale, co­ strinse ad un colloquio Maconnen Hapteuold e chiese il denaro entro un’ora. Entro un’ora, per una volta lo ebbe, segno che, perfino i ministri della capitale, si rendevano conto di quanto pericolosa fosse la situazione. I 30.000 dollari pesavano 840 chili. Quando Tamm tornò al convoglio, Negga, un giovane capo di stato maggiore, gli andò incontro sconvolto: « Due autocarri sono fuggiti. » « In quale direzione? » « Verso il Fronte. » Per un giorno ancora Tamm attese invano altri autocarri. La sera suc­ cessiva il convoglio finalmente partì. Nel cuore della notte, alla periferia di Addis Abeba, incrociarono il principe ereditario con la sua scorta. A Debrà Berhan 130 chilometri a nord si fermarono per rifornimento di carburante e incontrarono Ligg Legesse GabreMariam figlio del degiacc che si dirigeva dalla parte opposta con i 5 prigionieri italiani catturati a Dessiè e alcuni cannoni che rifiutò di consegnare loro. Quel giorno furono costretti a restare a Debrà Berhan. Gli autisti hindi, e quindi sudditi britannici, avevano incrociato le braccia: non avrebbero proseguito oltre. Nessuno dei cadetti di Tamm e nessuno dei soldati sape­ va guidare. Fu una triste giornata in ogni senso2. Un gruppo di giornalisti che tornava indietro riferì che l’armata Uollo si stava ritirando. Tamm, Kiffle e Negga decisero di fermarla e di riunirla. Ma quando durante il giorno, i fuggitivi, senza uniformi e senza cibo giunsero disordinatamente chiedendo pane, senza più capi, e rifiutando di tornare indietro, i cadetti capirono che erano inservibili, un’accozzaglia, non più un esercito. Il loro primo contatto con la guerra fu la visione deprimente di un esercito sconfitto.

Quella notte il problema della guida degli autocarri fu finalmente risolto e Ad Termaber raggiunto. Il mattino seguente, il 23 aprile, Tamm e

Kiffle si recarono dal ministro della penna Lorenzo Taezaz: occhi arros­ 143

sati, barba, mantello, impermeabile e scarpe nere con fori in corrispon­ denza dei mignoli (particolare che confermò allo svedese l’opinione che si era fatta di lui: un burocrate). La posizione del passo non aveva in realtà l’importanza che Tamm supponeva: il pendio era ripido ma non invalicabile. Lorenzo Taezaz aveva reso impraticabile la strada ma, non conoscendo le più elementari nozioni di strategia militare, non era stato sufficientemente abile da proteggere col fuoco delle armi « l’ostacolo » che aveva costruito. Più sotto, il capo del villaggio, un grasmacc si era rifiutato di permettere che la strada fosse fatta saltare, adducendo che ciò avrebbe potuto causare una rivolta locale. Non c’era alcuna notizia sul degiacc Metaferia e i suoi 1.000 uomini che avrebbero dovuto proteggere la caro­ vaniera da Uorrà Ilù. Con pattuglie in avanscoperta Tamm scoprì altre cinque piste che salivano dal basso e che potevano essere usate per aggi­ rare la sua postazione. Tamm telegrafò al principe ereditario e a Maconnen Hapteuold per informarli che, anziché sbarrare uno stretto passo di montagna, avrebbe dovuto difendere un fronte di 40 chilometri. Badoglio era arrivato a Dessiè con il suo stato maggiore, evidentemente ignorando che a 115 chilometri più ■ a sud un ufficiale svedese con due compagnie si preparava a contrastare l’avanzata su Addis Abeba ai suoi corpi d’armata. Non si preoccupava della eventuale resistenza, solo del trionfo e della maniera migliore per trarne vantaggio. Per settimane aveva preparato la marcia trionfale conclusiva: una splendida colonna autocar­ rata sarebbe avanzata da Dessiè su Addis Abeba, occupandola. Essa doveva impressionare gli indigeni, soff ocare ogni resistenza, ed essere abbastanza forte da occupare la capitale, i dintorni e la ferrovia. Riparare 400 chilo­ metri della strada imperiale, che Badoglio sarcasticamente chiamò una « cattiva carrareccia » * avrebbe comportato problemi di ingegneria più che di arte militare. Le colonne di autocarri scortate da uno squadrone di carri armati e tre gruppi di artiglieria motorizzata, stavano già dirigendosi alla volta di Des­ siè attraverso la piana di Mai Ceu. Badoglio la battezzò « la colonna della ferrea volontà » un titolo brillantemente scelto per l’utilizzo della stampa italiana come in effetti accadde. La colonna autocarrata comprendeva la divisione « Sabauda » e la se­ conda brigata eritrea del generale Gallina, il meglio delle truppe eritree. Il nome di Gallina era diventato tra gli etiopi che avevano combattuto a Tembien e a Mai Ceu, famoso più di quello di qualsiasi altro comandante. Allo stesso tempo Badoglio prese comunque delle misure cautelative, anche se non le rese note: i fianchi della « colonna della ferrea volontà » doveva­ no essere coperti da due colonne parallele di fanteria. Da un lato, la la brigata eritrea e, dall’altro, il gruppo battaglioni eritrei di formazione che aveva già combattuto a Mai Ceu. Mentre queste colonne si ammassavano a Dessiè e Tamm febbrilmente tentava di organizzare le postazioni difensive sul Termaber, la 3a brigata * Badoglio, op. cit., pag. 230 [N.d.C.].

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Sopra: Una tavola umoristica del 1889: l’Africa alletta Crispi, ma il Negus e il suo esercito sono pronti alla guerra. (Moro-Roma)

A lato in alto: La battaglia di Adua in un dipinto etiopico dell’epoca. Λ fianco: Ras Seyum e Ras Cassa.

eritrea di Cubeddu occupava la città di Bahàr Dar sull’estremo lato meri­ dionale del lago Tana: avevano guadato il Nilo Azzurro e si trovavano nel Goggiam senza aver incontrato alcuna resistenza. Lo stesso giorno, 24 aprile, Oraziani sferrava il suo attacco contro la posizione difensiva di Sassabaneh nell’Ogaden. La colonna centrale, quella di Eluscì, attaccò Anale; in due giorni di combattimento caddero 20 uffi­ ciali e 600 uomini. Agostini, con la colonna destra e, appoggiato da carri armati e aerei (7 di questi furono danneggiati e due piloti furono feriti), investì un campo trincerato e massacrò tutti i difensori. Sull’ala sinistra, lo scaglione Vernò fu contrattaccato a Dagamedò dal degiacc Abebè Damteu e Maconnen Endelacciù, mentre la divisione libica di Nasi si spostava rapidamente in sua difesa. Il combattimento continuò sporadicamente finché la sera del 25 aprile, le tre colonne italiane raggiunsero l’obiettivo — sfondamento della fascia difensiva esterna di Nasibù — ed erano ormai prossime a Sassabaneh. Il fitaurari Malion, che si trovava ancora dietro le linee italiane presso Bircut ricevette l’ordine di ritirarsi a Sassabaneh. Quando il fitaurari Malion raggiunse Sassabaneh trovò che la postazione più avanzata era stata abbandonata dal 2° dei due battaglioni Guardie, visto che Nasibù, nella confusione, aveva dato ordini per una ritirata a Dagahbur. Si verificarono pochi combattimenti corpo a corpo nell’attacco finale. Del resto la stessa idea di un sistema di fortificazioni, isolato, nel deserto, e che era stato facilmente aggirato, si era rivelata una presun­ zione, come i turchi dovevano sapere e gli etiopi ben presto comprendere. Le tribù a sud di Dagahbur, condotte da Ugaz Mohammed Osman dell’Ogaden Malinga andarono a sottomettersi e quando, il 28 aprile, gli italiani sferrarono il loro attacco da manuale sul Sassabaneh ci furono solo sporadici episodi di resistenza. Il degiacc Nasibù e gli altri capi erano tornati ad Harar, le loro leve si stavano disperdendo come era accaduto nel nord, con l’unico pensiero di tornare al loro paese, mentre i capi con­ tinuavano a discutere. Il fitaurari Malion e i suoi 2.500 uomini, quasi del tutto incolumi, erano a Giggiga a difesa del Passo Mardà che metteva in comunicazione il deserto dell’Ogaden con gli altipiani dell’Harar. Il 30 aprile, a sei giorni dall’inizio dell’attacco finale, le colonne avanzate di Oraziani entrarono nella città di Dagahbur. Si dice che un plotone di soldati italiani rendesse gli onori militari alla tomba di Afeuork, un oppo­ sitore che perfino gli italiani avevano rispettato. La via verso Harar era ormai spianata.

Al capo opposto dell’impero la città di Debrà Tabor era stata occupata. Il giorno che gli italiani sferrarono l’attacco finale a Sassabaneh, due bat­ taglioni della colonna Starace, il battaglione Camicie nere « Mussolini » e Γ11" battaglione ascari, sferrarono un attacco a sorpresa che non incontrò 145

la minima resistenza. Ras Gassa e il degiacc Aialeu Burrù erano stati se­ gnalati nel luogo, ma ras Gassa si trovava in realtà a molti chilometri di distanza e degiacc Aialeu s’era ritirato dinanzi all’avanzata italiana. Nella regione centrale tuttavia c’era un capo inadatto per azioni di guerriglia che stava già negoziando. Ras Seyum, aveva inviato una missiva al generale Bastico a Socotà, il cui succo era « ho fatto il mio dovere. Quali sono le vostre condizioni? ». Dopo la lettera giunse un messaggero, il cagnasmacc Lemma; Bastico lo fece ripartire accompagnato da un suo messaggero, il tenente Mosca che ras Seyum aveva avuto molo di conoscere al consolato di Adua dove Mosca era stato addetto militare. Per gli italiani si era trattato di una settimana di manovre sia diplomatiche che militari sul fronte nord, ormai molto esteso. Per gli ultimi difensori etiopi si era trattato invece di un periodo di stasi su una posizione determinata. Se in quei sei giorni vi era stato qualcosa questo era il deterioramento della situazione sul Termaber. Gli aerei italiani avevano volato sulla zona, senza dimostrare molto interesse. Era incoraggiante e tuttavia subito dopo, durante la notte 45 uomini e tutte le sentinelle avevano disertato; lo stesso Tsehafi Taezaz era partito per « ispezionare » Ancober che si trovava nelle retrovie. Quando sarebbe sopraggiunto il resto della brigata? Due battaglioni, al comando del te­ nente Bouveng, avrebbero dovuto mettersi in marcia la stessa notte che Tamm e la sua avanguardia erano partiti con gli autocarri. Il resto della brigata aveva ricevuto l’ordine di seguirli una settimana dopo, agli ordini del terzo ufficiale svedese rimasto, Thorburn. Non si avevano notizie; Bou­ veng e quei battaglioni d’importanza vitale, non erano giunti. L’unico modo di mettersi in contatto con Addis Abeba era per mezzo del posto telefonico di Debrà Berhan, a 70 chilometri di distanza, e la linea con Debrà Berhan funzionava solo in modo discontinuo. Il 28 aprile fu riferito che due colonne nemiche si trovavano a 65 chilo­ metri di distanza; una colonna motorizzata a nord, e ascari a Uorrà Ilù sulla carovaniera. A mezzogiorno, dopo una mattinata di serrati ed inutili tentativi, Tamm e Kiffle dovettero ammettere che la linea con Debrà Berhan era completamente inutilizzabile. In serata si sparò ai piedi della collina; Negga Hailé Selassié dal suo avamposto nella vallata riferì che italiani, con 100 autocarri stavano costruendo un ponte sul torrente, e che più oltre nel deserto Auasa bruciavano i fuochi degli accampamenti nemici. La mattina seguente gli italiani avevano terminato la costruzione del ponte e, nel villaggio sottostante, il grasmacc che Tamm sospettava come traditore si era barricato in casa. Chiaramente un assalto al Termaber era ormai questione di poche ore, a difesa del passo c’era solo un pugno di cadetti, due compagnie pesantemente minate nel numero e nel morale dalle diserzioni, e due o trecento contadini guidati dal figlio di Lorenzo Taezaz, Ligg Ayele. Tamm si trovò dinanzi al dilemma: o rimanere spe146

rando nel sopraggiungere di Bouveng all’ultimo istante, come Blucher a Waterloo, e ordinare la difesa o muoversi e scoprire cosa stesse accaden­ do, dove e perché. Entrambe le decisioni erano equivoche; scelse la meno equivoca e partì. Abbandonati i due ufficiali più anziani i giovani etiopi si prepararono a fronteggiare l’attacco. A metà strada sulla via per Debrà Berhan Tamm incrociò gli autocarri dell’unità sanitaria inglese del dottor Melly e li consigliò di tornare indietro; così fecero. A Debrà Berhan il telefono era inutilizzabile e così quella notte Tamm si diresse per oltre 40 chilometri sulla via del ritorno. Come Bouveng riferì in seguito, alle tre del mattino le sue sentinelle videro passare l’auto di Tamm. In altre parole i due battaglioni di Bouveng si trovavano ancora a oltre 130 chilometri dal Termaber. Si erano mossi da Addis Abeba quattro giorni prima e avevano quindi percorso l’incredibile distanza di 65 chilometri al giorno, ma erano partiti con ben tre giorni di ritardo. La notte del 29 aprile Tamm riuscì finalmente a comunicare telefoni­ camente col principe ereditario e gli chiese di inviare un aereo alla ricerca dei battaglioni di Bouveng, per lanciar loro l’ordine di spingersi avanti. L’aereo fu inviato in ricognizione ma il pilota lanciò l’ordine da un’altezza di 1.500 metri. Non stupisce che non fu mai ricevuto da Bouveng. Lo avesse ricevuto sarebbe stato comunque troppo tardi. La colonna autocarrata di Badoglio si era fermata ai piedi del Passo Termaber, alto 3.000 metri. Gallina e la sua seconda brigata eritrea costituita da vete­ rani ascari ricevettero l’ordine di sferrare l’attacco; gli abitanti del vil­ laggio ai piedi della salita li guidarono su per le varie mulattiere. Tutto si concluse rapidamente, non ci furono Termopili, gli autocarri erano pronti per la ritirata e il pugno di cadetti era alla sua prima battaglia non all’ultima. Un cadetto e 50 uomini perirono e gli italiani, quasi senza resisteYiza occuparono il secondo degli importanti passi tra Asmara ed Addis Abeba. Se l’Amba Alagi fosse stata seriamente difesa o se anche i due batta­ glioni di Bouveng fossero arrivati in tempo, forse i risultati dell’invasione non sarebbero cambiati, ma ecco, ancora una volta come in guerra un avvenimento insignificante può portare ai risultati più inaspettati ed una scaramuccia perduta può avere maggiore importanza di una battaglia perduta. Ritornando indietro, verso Debrà Berhan, i cadetti incontrarono Bou­ veng ed i suoi uomini diretti a nord. Sembra che non ci fosse alcuna idea di resistere e che Bouveng, i suoi cadetti e tutte le armi possibili fossero fatti salire sugli autocarri, con méta la capitale. Non si sa che cosa suc­ cesse alle truppe; presumibilmente si ordinò loro di disperdersi o di loro stessa volontà si dispersero una volta che furono abbandonate dai cadetti. A Debrà Berhan già sventolava una bandiera bianca e gli abitanti erano ostili. Era il pomeriggio dell’ultimo giorno di aprile. Tamm era già ritornato 147

alla capitale: troppo umanitariamente, aveva deciso di recarsi dopo la telefonata dal principe ereditario. Alla periferia della città incontrò Thorburn:' il corpo prihcipale della brigata, privo di autocarri e con pochi muli, non era nemmeno partito. Quando giunse al Ghebbì seppe da Maconnen Hapteuold che Kiffle ave­ va comunicato da Debrà Berhan, via telefono, che il passo era stato ab­ bandonato e che tra gli italiani e la capitale c’era solo l’inezia di 280 chilometri di piste indifese. Gli si chiese di collaborare alla difesa di Addis Abeba ma rifiutò all’istante. Si incontrò con il principe ereditario per dirgli che lui e i suoi compagni, gli ufficiali svedesi, dovevano dimettersi da quel momento. Sulla strada di Addis Abeba, prima di incontrare Thorbum, Tamm in­ contrò un altro corteo che ritornava: il corteo dell’Imperatore.

CAPITOLO TREDICESIMO

I NOVE GIORNI DI MAGGIO

Trovando Dessiè occupata, l’Imperatore con la sua scorta s’era allonta­ nato dalla pista degli invasori dirigendosi a Ficcé nel Salalè, roccaforte dei Cassa. Quando alla fine giunse ad Addis Abeba, esattamente un mese dopo la battaglia di Mai Ceu, si trovò davanti a una città quasi in preda al panico e in attesa, da un momento all’altro, dell’arrivo delle colonne italiane. Nel pomeriggio del giovedì si tenne, su questo, un consiglio al Ghebbì. L’Imperatore, ras Cassa e ras Ghetacciù che erano ancora con lui ed altri notabili con essi, i sopravvissuti di Mai Ceu, erano depressi e titubanti, non sapendo che fare o se qualcosa valeva la pena di esser fatto. Ma chi era rimasto nella capitale e non aveva conosciuto direttamente l’amarezza della sconfitta non era pronto ad abbandonare la lotta. Un uo­ mo parlò con fermezza e propose un piano ben definito: Blatta Taklè Uolde Hauariat, il giovane governatore della città. Secondo il suo piano il governo avrebbe dovuto spostarsi nel sud-ovest, a Gore nell’Illubabor. Stava già cominciando la stagione delle piogge e gli italiani non sarebbero riusciti ad attraversare il Nilo Azzurro o a procedere lungo le piste che verso Ovest attraversavano l’Uollega-Liecà, governata dal fedele degiacc HapteMariam Gabre Egziabher. Addis Abeba sarebbe caduta ma ras Immirù avrebbe intrapreso la guerriglia nel Goggiam, ras Seyuin nel Tigrai e, Uondossen Cassa e Hailé Chebbede nell’Uag e nelle province a nord dell’Uollo. A Gore, inoltre, il governo si sarebbe trovato in prossimità del Sudan e avrebbe avuto una via di rifornimento attraverso Gambela. Il piano fu accettato senza troppo entusiasmo. Quella sera alcuni autocarri carichi di scritti e documenti partirono dalla capitale diretti verso ovest. Gli avvenimenti di venerdì primo maggio sono confusi e le notizie di­ sponibili spesso contraddittorie: è difficile stabilire che cosa esattamente successe e perché. Senza dubbio Hailé Selassié aveva continuato a spe­ rare fino all’ultimo per una soluzione miracolosa del conflitto in Europa; ci sono prove di un suo messaggio inviato da Ficcé a Sir Sidney Barton in cui domandava se l’Inghilterra avrebbe proposto l’inasprimento delle sanzioni. È certo comunque che col cadere del giorno la decisione di an­ dare a combattere nel lontano sud-ovest, isolati dall’Europa e da qualsiasi contatto diplomatico (a parte quello di un console inglese di secondo pia­ no), dovette sembrare più disperata. L’unico modo di fermare gli italiani 149

era di contrastarli in Europa: si fece strada l’idea di un appello diretto e drammatico dell’Imperatore alla Società delle Nazioni. Ma Hailé Selassié era incerto. Si dice che l’imperatrice Menen passasse la notte ad esortarlo a recedere dalla sua decisione di continuare la lotta nel sud-ovest. È certo che egli aveva già preso un contatto con il governo inglese e che questi aveva offerto asilo ai membri della sua famiglia; i suoi cinque figli (tre figli, la principessa Tenagne Uorc che aveva lasciato il marito ras Destà e la figlia favorita sopravvissuta Tsahai a cui aveva inviato messaggi gior­ nalieri da Dessiè) erano a Addis Abeba. Non era solo « l’Imperatore » ma « il padre » che esitava. Ciò nonostante il mattino seguente vibrava nell’aria uno spirito batta­ gliero. Nel Grande Ghebbì si suonò il negarti e si emise un decreto impe­ riale, un awaj in cui si ordinava che anche la capitale doveva essere difesa. Il piano prevedeva che cinquemila uomini marciassero verso Nord incon­ tro agli italiani: le forze del degiacc Mangascià Uube, appena arrivate dallo Uollega Saio, l’unica armata ancor non provata, e quelle di ras Ghetacciù che avevano seguito l’Imperatore ed il loro comandante da Mai Ceu. Fu probabilmente Blatta Taklè a suggerire all’Imperatore di emet­ tere tale decreto e a non permettere che la capitale del suo impero ca­ desse miseramente senza combattere. Fu certo Blatta Taklè a riunire gli 800 volontari sotto giuramento, armati con nuovi fucili che egli aveva deliberatamente trattenuto dal Fronte Nord. « Sono pronti a morire per te» disse Blatta Taklè. «Gridano così con le tue mitragliatrici alla schie­ na » rispose Hailé Selassié « ma nessuno combatterà per noi. Le masse ci tradiranno. » Doveva essere evidente, in quel momento, che né gli uomini di Mangascià né di Ghetacciù avrebbero ubbidito all’awaj: s’era rag­ giunto il punto in cui gli ordini, perfino gli ordini imperiali venivano ob­ bediti solo in parte, non certo poi l’ordine di combattere e morire. Quel pomeriggio, al Piccolo Ghebbì, si tenne un altro consiglio, una cosa inconcludente che durò per ore mentre gli argomenti si incrociavano l’un l’altro. Ad un certo punto l’Imperatore mandò a chiamare Bodard, il ministro francese ed alla presenza del proprio segretario UoldeGiorgis gli disse che la capitale non sarebbe stata difesa e che egli stesso si sarebbe diretto verso ovest a continuare la lotta: come si sarebbero comportati i francesi verso la sua famiglia che egli voleva inviare a Gibuti? Bodard disse che sarebbero stati accolti di buon grado ma insistette perché si libe­ rassero i cinque prigionieri italiani (ed essi infatti quella sera alle nove arrivarono all’ambasciata francese). Poi, ras Cassa prese l’Imperatore da parte; quando ciò accadde il resto del consiglio capì che il ras avrebbe trattenuto per ore l’Imperatore. L’Imperatrice seguì ras Cassa, insistendo col marito sul suo dovere a recarsi in Europa; ras Ghetacciù e il prin­ cipe ereditario intanto scherzavano nella stanza accanto. Fu a questo punto che Blatta Taklè entrò, con aria drammatica, nel Salone Verde con la canna di una pistola puntata alla bocca: « Janhoy » disse, «non sei tu il figlio di Teodoro? » 150

Più tardi Lorenzo Taezaz riferì a Tamm gli argomenti trattati in quel consiglio: non era più il caso di continuare la lotta armata ed era troppo pericoloso dirigersi verso ovest poiché gli abitanti del Gimma erano loro ostili; la Società delle Nazioni rimaneva la sola speranza; sua maestà do­ veva recarvisi in persona. Sembra che la posizione presa da ras Cassa come uomo di governo più anziano fosse decisiva. In ogni caso se l’Imperatore doveva lasciare il paese era un problema della massima urgenza. In ogni momento gli italiani avrebbero potuto interrompere la linea ferroviaria, sia a nord da Sardo che da sud e poiché ci volevano quasi due giorni interi per compiere il viaggio la perdita di ogni minuto era pericolosissima. Pare che si mettesse ai voti e che il consiglio votasse 21 contro 3 perché l’Imperatore lasciasse il paese. I tre che votarono contro erano tutti rima­ sti, durante il conflitto, nella capitale. Sorprendentemente uno di questi era Blattenguatà Herouy, ministro degli esteri ; probabilmente più di tutti i pre­ senti si rendeva conto come il carattere degli inglesi fosse imbevuto alle radici di pragmatismo e come quel popolo, che per un momento s’era pre­ parato ad una guerra in Europa per difendere un’Etiopia indipendente, avrebbe offerto ad un eroe sconfitto rifugio e compassione, ma niente di più. Gli altri due che votarono contro furono Blatta Taklè e il degiacc Ighezzù. Alle 18 Uolde Giorgis fu inviato all’ambasciata britannica per chiedere a Sir Sidney Barton se il suo governo avrebbe portato in Pale­ stina l’Imperatore con la sua famiglia. Fu una notte di pioggia e vento. Tamm passò la sera a casa del dottor Hanner, e con suo grande sollievo alla fine comparve Bouveng assieme a Kifle e agli altri giovani ufficiali. Sembra che gli ufficiali svedesi si vergognassero all’idea di dover abbando­ nare i loro giovani « pupilli ». « Questa è la fine dell’Etiopia e dobbiamo ringraziare i nostri capi. Andate, Dio vi benedica, salvatevi » dissero, pian­ gendo, i cadetti. A sera inoltrata, ritornando all’albergo, udirono degli spa­ ri. Correvano voci che gli italiani fossero giunti alla ferrovia di Anase. Su quella notte si disse anche che l’Imperatore per la disperazione avesse dato ordine ai suoi servi di saccheggiare « questa città maledetta » ma chie­ desse loro di risparmiare il Ghebbì. Non sembra molto consono al suo carattere benché sia sempre difficile stabilire come, in momenti di dispe­ razione, anche i grandi uomini possano reagire. E in quel momento Hailé Selassié doveva essere sull’orlo della disperazione, conscio che, una volta lasciato il suo paese, non sarebbe probabilmente più ritornato, e conscio inoltre che qualunque cosa il consiglio avesse votato o comunque avesse reagito la Società, egli stava prendendo una decisione che agli occhi della maggior parte della popolazione Amhara lo avrebbe reso un fuggiasco se non un codardo. Nessun imperatore, per quanto sfortunato, nemmeno Ligg Yasu, aveva abbandonato l’Impero e i suoi seguaci sconfitti per fare appel­ lo all’estero a degli stranieri. Perfino il Principe ereditario aveva accen­ nato al suo seguito — a FikreMariam, comandante delle sue truppe e a Gurassù Duché un capitano della sua guardia del corpo — che avrebbe dovuto lasciare il padre e seguirli come sciftà sulle colline. 151

A entrambi questi uomini, come al barambaras Abebè Aregai, capo della polizia, Blatta Taklè aveva già distribuito alcuni dei fucili che aveva trat­ tenuto in città « se l’Imperatore dovesse fuggire ». Si riferì che FikreMariam avesse detto quella sera a Blatta Taklè « il nostro onore ci impone che noi assaliamo il treno ad Acachi e che egli muoia per nostra mano ». Ed in vero l’Imperatore fuggì, e il fatto che tra i suoi sudditi ci fossero capi determinati, violenti e armati come degiace FikreMariam e Blatta Taklè le cui emozioni erano parossistiche come estremo il loro nazionali­ smo, forse spiega il modo usato per partire. Quella notte si preparò un treno e l’Imperatrice, e la famiglia imperiale e servitù e mobilia e molti dei cortigiani e dei nobili vi salirono ma gli osservatori nella città forse no­ tarono che l’Imperatore non si trovava nel treno quando un’ora o due prima dell’alba uscì sbuffando dalla stazione. Infatti l’Imperatore e i suoi collaboratori più stretti uscirono furtivamente dal Piccolo Ghebbì e si di­ ressero a cavallo alla seconda fermata del treno, Acachi, a sedici chilo­ metri di distanza ; portò con sé un « ospite » che egli doveva giudicare troppo pericoloso per lasciare ad Addis Abeba: ras Hailù. Non ci fu quindi alcuna imboscata ad Acachi e il treno si mosse verso est nel sole nascente, verso il ponte sull’Auasc a mezza strada per Diredaua, che per quanto quei passeggeri sapevano poteva già essere in mano italiana. Blatta ChidaneMariam informò Blatta Taklè e FikreMariam della par­ tenza dell’Imperatore. Si diressero precipitosamente ad Acachi per sco­ prire se la notizia era vera: il treno era già partito. Sembra che non riu­ scissero a credere che un imperatore etiope avesse veramente deciso di abbandonare il suo popolo. « Patria mia, — esclamò Blatta Taklè — non c’è nessuno a difendere la tua causa. » Alle otto un secondo treno uscì dalla stazione per Gibuti; questo era il servizio normale — l’unica cosa anormale era la sua improvvisa popolarità. Su esso si trovavano i tre ufficiali svedesi, Lorenzo Taezaz e la maggior parte dei ministri e dei notabili della corte. Su uno o l’altro dei due treni una ottantina tra nobili e personalità, con o senza famiglia si recavano a Gibtiti, in esilio — ras Cassa, ras Ghetacciù, perfino quei due che avevano votato contro la partenza, Blattengueta Flerouy e degiace Ighezzù — e Vanfieteren l’ultimo degli ufficiali belgi che avevano esercitato del potere sulla polizia di Abebè Aregai fino alla fine. Ma non era la rotta completa, anche se tale deve esser sembrata alla folla di parenti in lacrime raccoltisi alla stazione. La sera prima l’Imperatore aveva fatto pervenire messaggi a ras Immirù a Debrà Marcos (qui il ras era riuscito alla fine a ricuperare il suo radiotelefono e il radiotelegrafista GabreMaskal) con il quale lo de­ signava Reggente e al bituoded Uolde Tsaddik, che si trovava nella parte sud-occidentale del paese, nominandolo Presidente del Governo provviso­ rio a Gore, e a quanto rimaneva della Guardia con l’ordine di unirsi ad Aberrà Cassa a Ficcè. Il triangolo occidentale (Debrà Marcos-Ficcè-Gore) avrebbe resistito: simbolo dell’indipendenza dell’Etiopia mentre il suo im­ peratore in persona avrebbe rivolto un ultimo appello alla Società delle Nazioni. 152

Queste sottili considerazioni strategiche e diplomatiche non toccavano minimamente coloro che erano rimasti nella capitale. La gente cominciò a radunarsi nelle strade, allegra come in occasione di una festa civile, do­ mandandosi se veramente le autorità e i loro capi se ne fossero andati abbandonandoli a se stessi. Col volgere della mattinata, un numero sempre più cospicuo di residenti stranieri veniva convocato nell’ambasciata inglese e francese; gli abitanti di Addis Abeba e i superstiti dei vari eserciti si radunarono nel centro della città e cominciarono a guardare con interesse crescente le case lasciate vuote dai ricchi, dai ferengi e i depositi dei com­ mercianti indiani che cominciarono a sentirsi insicuri della caotica situa­ zione. Il saccheggio fu sulle prime contenuto, ma ad un certo punto della gior­ nata Blatta Taklè, kantiba della capitale e unica autorità rimasta, suggerì di incendiare la città. « Sei pazzo? » chiese ChidaneMariam. « Il mondo dirà che Tafari era l’unica forza che ci teneva uniti. » Blatta Taklè non era pazzo, ma era un uomo dalle emozioni violente e tale sarebbe rimasto fino alla morte. Probabilmente vedeva l’incendio come un rito di purificazione, l’incendio di una città costruita dagli europei, corrotta dall’influenza euro­ pea e sul punto di cadere nelle mani di europei. Percorse la città a cavallo assieme a Abebè Aregai dando per primo l’esempio. Il ministro belga riferì: « dalla partenza dell’Imperatore la città fu sistematicamente sottoposta al saccheggio e alla testa dei rivoltosi si poteva perfino notare il capo della polizia ». Non è facile saccheggiare una città, soprattutto quando i tucul dei nor­ mali cittadini e le chiese devono essere rispettate, le ambasciate straniere sono difese e perfino gli indiani si sono barricati nei loro negozi. Mischa Babitchev partì in aereo nel primo pomeriggio per atterrare ad Auasc non ancora occupata dagli italiani, dove Tamm lo incontrò e sep­ pe solo che ad Addis Abeba erano iniziati i saccheggi. Di quella sera i resoconti parlano di due soli incendi nella città, ma il saccheggio e le razzie dilagavano ovunque. Alcuni cadetti, tra i pochi corpi organizzati rimasti in città, stavano già partendo verso ovest. Ad altri ca­ detti era stato ordinato all’ultimo momento di difendere la città, ma i loro uomini si rifiutarono, alcuni furono fucilati e gli altri si unirono alle bande dei saccheggiatori. Altri ancora, rimasti isolati, cercarono di raggiungere il loro campo ad Oletta e dovettero combattere per difendere le loro armi, Uolde Johannes Scita con Essayas e Abebè Tafari rimasero gravemente feriti in questa sorta di scontri. Quel che ogni etiope valido cercava affannosamente erano fucili e pos­ sibilmente mitragliatrici. Negga, una delle guardie del principe ereditario, che ci ha lasciato un resoconto di quei giorni, si recò alla stazione a pren­ dere armi. Gli fu sparato addosso, e probabilmente non se ne rese conto, da un gruppo di francesi, dipendenti delle ferrovie, che, capeggiati dal­ l’addetto militare, colonnello Guillon, stavano rapidamente trasformando la stazione in un forte. Ci furono combattimenti tutto attorno alla stazio153

ne. Si sparò addosso al dottor Hanner mentre si allontanava da lì con la sua auto. Negga si diresse quindi al Grande Ghebbì e saccheggiò il palaz­ zo, trovò la spada di Menelik e vide il Negarit sfondato; poi con la sua banda si diresse al mercato ad Arada prese 10.000 dollari dal negozio di Kerkos li divise fra i suoi uomini, si fece fotografare e stava per « ini­ ziare a combattere quando quelli della mia banda disertarono ». Ma Blatta Taklè era meglio preparato di Negga e degli altri. Aveva progettato e organizzato la guerriglia, aveva nascosto mitragliatrici nella sua terra a Sabata, nei sobborghi occidentali della città. Prima di mettersi alla testa dei suoi volontari ebbe una violenta lite con Abebè Aregai, aven­ do saputo che s’era messo in contatto con un ufficiale all’ambasciata fran­ cese. Minacciò di fucilarlo a meno che non fosse partito immediata­ mente per Jiru nello Scioa orientale dove si trovavano le sue terre e la sua gente. Mentre i profughi si ammassavano nelle ambasciate (l’ambasciata fran­ cese ai piedi dell’Entotto quella notte ne ospitava 2.000 di sedici nazio­ nalità compresi 300 bambini accampati sul suo terreno), Abebè Aregai e i suoi dieci uomini partirono per recarsi a nord-est e Blatta Taklè si diresse a ovest. Dei giovani amministratori solo Blatta Chidane Mariam rimase ad Addis Abeba con l’approvazione di Blatta Taklè per organizzare un « movimento giovanile » e « un movimento femminile » all’interno della città.

Nelle prime ore di domenica 3 maggio il primo treno, che trasportava l’Imperatore e la sua famiglia, si fermò a metà strada, alla stazione di Diredaua; qui, in zona territoriale francese, circondato da ufficiali francesi e da truppe senegalesi, l’Imperatore poteva considerarsi quasi al sicuro. Dif­ ficilmente c’era il pericolo di trovare la ferrovia interrotta nel deserto della Dancalia che si stendeva più innanzi e ancor più di essere bombardati o mitragliati. Sembra che il treno si fosse fermato una volta attraverso l’Auasc nella valle dei monti Gercer, dove i governatore begerond TekleHauariat, discese dalle colline col fucile in mano e rivolse un appello all’Imperatore perché si unisse a continuare la lotta con loro sulle montagne del Gercer. Hailé Selassié, già pentito della decisione presa, era sul punto di seguirlo ma ras Cassa, l’Imperatrice e gli altri consiglieri che si trovavano con lui, rifiutarono di lasciarlo scendere. Il begerond, di nuovo deluso dal suo im­ peratore, rifiutò l’invito di Hailé Selassié a unirsi a loro. Rimase, e il treno ripartì. Tuttavia quando giunsero a Diredaua l’Imperatore era deciso a non abbandonare la sua terra. Il console inglese ad Harar, ChapmanAndrews, informato dall’ambasciata della partenza del treno, era venuto ad incontrarlo con la sua scorta di 40 poliziotti della Somalia britannica. L’ultimo progetto dell’Imperatore era di unirsi a ras Destà nel Sidamo presumibilmente assieme alla figlia Tenagne Uorc. « Mi ci volle un po’ di 154

tempo a dissuaderlo ma era necessario farlo » * dirà Chapman-Andrews più tardi. « La situazione militare era ormai senza speranza. » Durante la sosta a Diredaua si verificò un episodio che doveva rive­ larsi della massima importanza, anche se per se stesso poco chiaro. Quan­ do arrivò il secondo treno, due ore dopo la partenza del primo, incrociò un terzo treno, diretto ad Addis Abeba. Su quel treno si trovava ras Hailù. Alcuni ritengono che ras Hailù semplicemente uscisse dallo scompartimen­ to dove era tenuto « sotto sorveglianza » e che nessuno osasse fermarlo. È possibile che egli sia « fuggito » in questo modo. È possibile che Hailé Selassié lo liberasse come atto di clemenza o anche che egli si fosse segre­ tamente accordato con l’Imperatore per tornare ad Addis Abeba a trat­ tare con gli italiani quale rappresentante clandestino dell’Etiopia. Ma è più probabile che sia i rappresentanti francesi che inglesi, ben consape­ voli dell’importanza e del rango di ras Hailù, avessero fermamente messo in chiaro con l’Imperatore che, mentre avrebbero sistemato di buon grado la famiglia imperiale, la servitù e la corte imperiale, essi non potevano ac­ cettare prigionieri imperiali per quanto eminenti. Così, mentre l’Imperatore lasciava la scena etiopica, ras Hailù ne rien­ trava. Sfortunatamente non è dato sapere quali fossero i suoi sentimenti in questo drammatico capovolgimento delle sue sorti né quali fossero le reazioni dei nobili che viaggiavano sul secondo treno quando videro l’an­ tico governatore del Goggiam, liberato dopo quattro lunghi anni passati nell’ombra, dirigersi su un treno verso la capitale che essi avevano lasciato così frettolosamente, verso un destino che, anche se incerto, era probabil­ mente più drammatico e affascinante della vita che li aspettava in esilio. Ad Harar la notizia della partenza dell’Imperatore affrettò il crollo fina­ le. I cinque degiace lasciarono la città; tre, Nasibù, Maconnen Endelacciù e Amdè Mikael, cercarono salvezza sulla costa; due, Abebè Damteu e HapteMikael, sofferente, ritornarono nelle loro lontane province meridionali. Nell’Ogaden, Omar Samanthar combattè un’ultima azione di retroguar­ dia tra Dagahbur e Giggiga, dove riportò gravi ferite riuscendo però a sfuggire la cattura. Era abbastanza perché Graziani non si affrettasse ad avanzare come avrebbe potuto fare e come gli veniva richiesto. Nella capitale i saccheggiatori, ora armati, cominciavano ad assalire le ambasciate. A mezzogiorno fu assalita la legazione turca, poi quella degli Stati Uniti situata dall’altra parte della città. Sir Sidney Barton che aveva da tempo previsto gli avvenimenti e si era preparato a fronteggiarli, inviò autocarri armati per salvare i turchi e per condurre nell’ambasciata inglese le donne della legazione statunitense. Mandò un biglietto a Janssens al­ l’ambasciata belga che era molto vicina, consigliandolo di abbandonarla e di rifugiarsi nell’ambasciata inglese. Ma i belgi avevano 10 europei, 15 • Episodio riferito da L. Mosley in Hailé Selassié, the Conquerin Lion e riporta­ to da Del Boca, op. cit., pp. 185-6 [N.d.C.].

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ascari congolesi e disponevano di 20 Mauser e 2.000 cartucce e decisero di restare. In tutta la città i ferengi venivano assediati all’interno delle loro lega­ zioni. Il console britannico, Hope Gill, uscì per raggiungere Mohammed Alì e gli indiani che si erano barricati nei loro rinomati negozi. Tre di­ plomatici francesi fecero una sortita fino alla stazione, distante quattro miglia, dove furono sollevati dal trovare bene armato il colonnello Guillon. Un disastro stava per succedere all’ambasciata francese dove le guardie (zabagnà) improvvisamente puntarono le loro mitragliatrici contro gli eu­ ropei,· fortunatamente Bodard aveva preparato dei bunker sotterranei nelle cantine e dopo una ritirata strategica i francesi ristabilirono l’ordine al­ l’interno della loro concessione. Un fatto tragico accadde agli inglesi. L’uni­ tà della Croce Rossa era acquartierata nella scuola « Menelik » a circa un chilometro dall’ambasciata appena oltre l’incrocio di Arat Kilo. Il dottor Melly uscì con i suoi autocarri per raccogliere i feriti. Gli spararono: era il secondo comandante inglese di una unità della Croce Rossa a morire nella guerra1. Fu un brutto giorno per gli europei; nella mente eccitata della plebaglia, ubriacata di tegg, pronta a saccheggiare, libera da ogni freno, un bianco significava un italiano e quindi un nemico. Ludwig Weber il pilota tedesco dell’Imperatore indossando il suo ber­ retto condusse con sé altri tre tedeschi armati al suo Junker a Janhoy Meda. « Sono io il governo » disse alle guardie che chiedevano un’autorizzazione per lasciarlo partire con l’aereo. Mentre i comunicati delle ambasciate ve­ nivano trasmessi alla radio e riportati dalla stampa nella mente di tutti gli europei e nella maggior parte dell’Europa occidentale c’era un solo pen­ siero, contraddittorio e tuttavia comprensibile: quando sarebbero giunti gli invasori, gli italiani? Non c’era tuttavia alcun serio pericolo nel recinto dell’ambasciata in­ glese che poteva contare su 150 Punjabs ben armati e ben addestrati; e neppure alla legazione giapponese e tedesca, due fortezze che si sosteneva­ no a vicenda. Il giorno successivo, lunedì 4 maggio, il Quay d’Orsay or­ dinò che un’altra compagnia di senegalesi fosse inviata per treno da Gibuti mentre nella città autocarri francesi giravano per raccogliere missio­ nari « Lazzaristi » (che rifiutarono di salireX e riferì che il Piccolo Ghebbì era stato saccheggiato ed era circondato dalle fiamme. All’imbrunire fu attaccata l’ambasciata belga da 150 sciftà e dalla guardia imperiale al­ meno secondo resoconti belgi. Sir Sidney Barton fu immediatamente in­ formato e una pattuglia di Sikh giunse sul retro e respinse altri due attac­ chi verificatisi nella notte. Ci furono sparatorie alla stazione dove gli uo­ mini del degiacc Ighezzù cercarono di opporsi all’arrivo di ras Hailù. Mentre ras Hailù giungeva ad Addis Abeba, l’Imperatore e il suo se­ guito stavano partendo da Gibuti via mare. A Gibuti Hailé Selassié era stato ricevuto con gli onori militari; si era recato subito al consolato etio­ pico, dove il console Ligg Andergacciù Masai gli aveva dato il benvenuto. 156

Aveva conferito con il governatore de Goppet sul cui palazzo sventolavano affiancate la bandiera etiopica e quella francese e, prima di imbarcarsi sull’incrociatore britannico Enterprise, che doveva portarlo ad Haifa col suo seguito, l’Imperatore si era soffermato per alcuni istanti con i « suoi » stranieri. Tamm si trovò davanti « un uomo distrutto ». « Ci ringraziò con poche parole e ci augurò felicità e successo. » Prima che Y Enterprise salpasse giunsero Nasibù, Maconnen Endellacciù e Wehib Pascià dopo una serie di rocambolesche avventure fra cui una corsa in taxi dalla Somalia inglese per paura di essere fermati ai posti di confine francesi. « C’est fini » disse Nasibù, Wehib Pascià era comunque molto fiero del fatto che i suoi uo­ mini avessero resistito fino a quando il loro morale era stato distrutto dal­ la propaganda, dalla notizia della sconfitta dell’Imperatore e dalle voci della sua partenza. Ci furono complicazioni all’ultimo momento con le autorità britanniche che si rifiutavano di accettare a bordo tutti gli etiopi; 47, dei circa 80 uomini del suo seguito presero alla fine posto sull’incro­ ciatore. A Nasibù e a Maconnen Endellacciù fu permesso di salire solo per il tempo necessario a salutare il loro imperatore e a informarlo della bat­ taglia sul fronte dell’Ogaden. Alla folla rimasta a terra giunse il lamento dei mesti saluti sulla nave, e il saluto dell’Imperatore per l’ultima volta quando YEnterprise salpo.

Ad Addis Abeba il pericolo era quasi passato: gli italiani erano alle porte. Ci fu perfino un tentativo di Ciano, il genero di Mussolini, di at­ terrare col suo aereo a Janhoy Meda; ma poiché si tentò di abbatterlo, egli prudentemente rinunciò al suo proposito. In serata la la brigata eritrea, la colonna fanti, aveva raggiunto i sob­ borghi della città; il tenente Toselli si recò all’ambasciata francese a pre­ sentare gli omaggi di Badoglio e a ringraziare Bodard per aver salvato la vita dei 5 prigionieri italiani, e si fece consegnare le chiavi dell’amba­ sciata italiana « Villa Italia ». Era quasi una scena di famiglia : europei ben educati che liberavano europei assediati da un’orda selvaggia. Tut­ tavia entrambe le parti dovettero avvertire una certa nota stonata nella cerimonia, dato che gli europei assediati, fino a 60 ore prima, erano schie­ rati a fianco dell’orda selvaggia. Così con un senso di sollievo misto ad una certa amarezza il pomeriggio seguente, il corpo dell’ambasciata in­ glese e coloro che lì si erano rifugiati, si allinearono dietro i recinti e i cancelli, per assistere all’ingresso trionfale nella capitale della colonna di Badoglio. La legazione inglese, alla periferia della città, era il primo gruppo im­ portante di edifici sulla strada che la « colonna della ferrea volontà », stra­ namente preceduta da una fila di auto di giornalisti, doveva percorrere. I .a colonna era composta da 2.000 veicoli, compresi i carri armati e gli autocarri, e 25.000 uomini. Gli eritrei marciavano con fiori sui loro fucili c brandendo le spade che avevano catturato. 157

Alcuni fra i rifugiati applaudirono con discrezione quando sfilarono i primi italiani, ma smisero come le Camicie nere della colonna comincia­ rono a fischiare e insultare la bandiera britannica. A Buckingham Palace quel martedì, 5 maggio, il barone de Cartier presentò le sue credenziali al nuovo monarca Eduardo Vili. Eden gli si avvicinò per riferire che i belgi, assediati nella loro legazione, erano stati salvati dai Sikh; l’amba­ sciatore italiano, lì accanto, spiegò che il ritardo con cui le truppe erano giunte nella capitale era dovuto alle strade che erano state fatte saltare e alle piogge torrenziali. Ma all’ambasciata statunitense quella sera Chur­ chill disse al barone: « Mussolini sarà esultante per questo spettacolo che getta una vivida luce sulle reazioni di un popolo che sta ora perfino ribel­ landosi contro le grandi Potenze che hanno imposto le sanzioni ». Il sospetto di Churchill, che gli italiani avessero deliberatamente ritar­ dato la loro avanzata per mostrare al mondo le barbarie degli etiopi e dare quindi credito al loro famoso slogan della « missione civilizzatrice » sembra trovare indirettamente conferma nei commenti di Badoglio: « se an­ cora vi fossero dubbi », egli scrisse in seguito « dello stato di barbarie di queste genti, le condizioni in cui è stata trovata Addis Abeba, distrutta e saccheggiata per ordine espresso del Negus prima di partire, li avrebbero dissipati » *. La verità era che le piogge erano state violentissime e il tratto di strada sotto l’Ad Termaber, fatto saltare dal ministro della penna Taezaz Hailé, era stato un ostacolo più efficace di quanto Tamm si aspettasse richie­ dendo una giornata per essere riparato. Per di più, ad un certo punto, la colonna aveva subito un’imboscata; quattro autocarri erano stati attac­ cati con mitragliatrici fra Debrà Sina e Addis Abeba; un tentativo del tutto personale di un balabat del luogo, Hailé MariamMammo (proprie­ tario terriero), che, dopo aver combattuto a Mai Ceu ed essere tornato alle sue terre, non voleva lasciar passare gli italiani senza sparar loro ad­ dosso almeno qualche colpo; tuttavia perfino una piccola imboscata senza alcuna efficacia, può provocare enorme confusione e ritardo in una lunga colonna di veicoli che si muovono in fila indiana e che non si aspettano alcuna reazione. E per la difficoltà della strada e per le piogge, e per rimboscata, è molto probabile che la colonna autocarrata italiana non potesse raggiungere Ad­ dis Abeba prima del pomeriggio del 5 maggio. Tuttavia è ugualmente certo che la brigata eritrea era giunta a piedi ad Addis Abeba prima della colonna motorizzata e sarebbe stata perfettamente in grado di occu­ pare la città. Probabilmente Badoglio non progettò deliberatamente quello spettacolo desolante, ma certamente decise che l’ingresso trionfale nella capitale ne­ mica dovesse essere riservato alla sua già famosa colonna e che la fanteria eritrea, arrivata prima e più efficacemente a piedi, non dovesse rubargli il trionfo. * Badoglio, op. cit., pag. 233 [N.d.C.j.

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A Roma dove ci si attendeva l’occupazione per il giorno successivo, gli ufficiali e la gente furono colti un po’ alla sprovvista. Quando le campane cominciarono a suonare e gli altoparlanti convogliarono la folla incerta a piazza Venezia, il Duce apparve sul balcone e annunciò alle « Camicie ne­ re della rivoluzione, uomini e donne d’Italia » che le gloriose truppe del maresciallo Badoglio avevano fatto il loro ingresso in Addis Abeba. La notizia e l’entusiasmo si diffusero in tutta Italia, mentre le truppe di Ba­ doglio occupavano Addis Abeba. Badoglio in persona e il suo stato maggiore, con Lessona e Bottai, si recarono direttamente a Villa Italia, l’ambasciata rimasta vuota. Trascor­ sero una serata calma e sobria; Badoglio era sempre molto padrone di sé e di temperamento piuttosto freddo. All’avvicinarsi degli italiani, la massa di soldati sbandati e male armati, i saccheggiatori e gli sciftà di Addis Abeba, si erano rifugiati sulle colline insieme a molti civili. Negga, più geniale di molti altri, si era travestito da monaco indossando il cabbà, il mantello tipico dei monaci. « Presi ·— scrisse — una croce e scesi dalle colline. Vidi gli italiani entrare in Addis Abeba, il martedì e il giovedì cominciai ad ucciderli. Uccidevo durante la notte e di giorno tornavo ad essere il monaco col nome di Memhir Hailé Mikael. » Era un fatto sintomatico; anche se la capitale era occupata, la guerra era vinta solo a metà. Il mercoledì le pattuglie italiane occuparono tutti i punti strategici del­ la città, costituirono posti di blocco e cominciarono a disarmare gli sban­ dati. Bottai fu nominato governatore della città e si trasferì al Piccolo Ghebbì, Le ambasciate furono ufficialmente informate che gli italiani ave­ vano assunto i poteri in Etiopia e che da quel momento non dovevano riconoscere nessun’altra sedicente autorità. Incerto su come comportarsi di fronte a Badoglio, Janssens telegrafò a Bruxelles per consigli: «Dois je faire visite ou simplement laisser ma carte? ». Appena gli italiani cominciarono a muoversi dalla periferia della città ai villaggi circostanti, vari gruppi di etiopi armati fuggirono sulle colline. Fortunati quelli che avevano seguito Blatta Taklè: egli era un capo che sapeva cosa fare e che possedeva armi. Blatta Taklè si recò nella chiesa di Meta Abo a Sabata dove suo padre era stato sepolto ed estrasse 50 mitragliatrici di fabbricazione cecoslovacca nascoste sotto l’altare; ne spedì 15 al Gurassù Duché 1 e si mise lentamente in cammino alla volta della sede del governo provvisorio a Gore. Ad Oletta il piccolo gruppo dei cadetti rimasti, circa 40 con 40 mitra­ gliatrici, con muli e con alcuni civili, si misero in marcia per raggiungere le colline, incerti su cosa fare e dove andare, mentre gli italiani si avvici­ navano. La maggior parte di loro, come Essayas, il più anziano, erano del Tigrai o del Nord. Si raccontava che i Galla dei distretti di Meccià e Ginderabat ad ovest di Addis Abeba si stessero ribellando, ciò nonostante un piccolo gruppo partì per cercare di giungere a Gore. Due giorni più tardi il gruppo quasi dimezzato tornò indietro — Mengistu Neuay e Zaudi Zarefa — per riferire 159

che era impossibile attraversare le terre dei Galla. Qualsiasi gruppo amhara, per quanto numeroso, avrebbe rischiato di essere massacrato; gli altri loro compagni, compreso Tafaré GabreFIiuot, erano stati uccisi2. La mentalità dei cadetti era quella tipica di qualsiasi gruppo, grande o piccolo che fosse, di ex soldati sbandati che si ritiravano sulle colline men­ tre gli italiani avanzavano. Erano combattuti fra il desiderio di tornare alle loro case e alle loro terre, dato che il continuare a combattere sem­ brava ormai inutile, e la naturale riluttanza dell’etiope armato a sottomet­ tersi all’invasore straniero e, cosa ancora più umiliante, a consegnargli le armi. Erano alla disperata ricerca di capi, ma, poiché coloro che avrebbero dovuto guidarli erano fuggiti, non sapevano più dove volgersi. Sempre di più, e non solo nei distretti attorno alla capitale, essi tendevano a raggrup­ parsi intorno ai balabat, i proprietari terrieri3, o ai capibanda sciftà e perfino intorno a uomini che impersonavano entrambi i ruoli, come Hailé MariamMammo che era stato imprigionato per omicidio prima di venir liberato per combattere a Mai Ceu. Tuttavia i gruppi più incerti tendevano, quasi automaticamente, a rag­ grupparsi intorno ai capi naturali che ancora rimanevano, cioè gli alti ufficiali di corte o dell’esercito, gli appartenenti alla famiglia imperiale o ai ras; così i cadetti furono raggiunti da Destà Tana, un nipote del degiace Ighezzù che consigliò loro di raggiungere Mesfìn Silescì a Uormara. I bandisti della guardia imperiale, che s’erano recati a protezione del­ l’Imperatrice quando i battaglioni avevano marciato verso nord alla volta di Mai Ceu, mandarono un messaggero a Zaudi Asfau per chiedergli se potevano unirsi. Zaudi Asfau Dargiè era uno dei tanti cugini dell’Impera­ tore che avevano sofferto l’esilio e la prigione, nel suo caso per 12 anni, fino a quando Hailé Selassié aveva dichiarato un’amnistia generale prima di marciare verso Nord. Figlio di un cugino di primo grado di Menelik, egli aveva già 100 uomini con sé prima che si unissero a lui Uolde Johan­ nes il capobanda, e i suoi uomini bene armati. Sempre ad ovest si formò un altro gruppo intorno ad un altro prigioniero che era stato rilasciato: degiacc Balcha, quasi il fantasma di un’altra epoca, la cui ferocia e il cui odio per gli italiani non erano stati mitigati né dall’età né dalla for­ zata vita monastica. L’individualista Negga invece dormiva nella chiesa di Abò sull’Entotto e di giorno scendeva in città .travestito. Stando albe sue memorie uccise due soldati italiani che stavano saccheggiando e in seguito un comandante italiano a Jahnoy Meda. «Gli sparai; sua moglie uscì. Sparai anche a lei. » Cercò poi di impedire agli italiani di riportare in città la testa del fitaurari Bantyergeu4. « Non vi riuscii perché le mie pallottole non per­ foravano la loro auto. » Per finire tentò il colpo più grosso: «Diedi 3.000 dollari ad una dorma perché mi prendesse Badoglio, ina mi tradì; un’al­ tra donna si dimostrò troppo molle per questo lavoro ». E infine anche Negga come tutti gli altri, si unì ad un capo, degiacc FikreMariam, che era già stato suo comandante nelle Guardie del principe ereditario e in160

torno al quale si andava formando, a sud-est della capitale, una banda di guerriglieri. Dal punto di vista italiano, gli sporadici atti di terrorismo e gli assassinii furono irrilevanti; essi controllavano così saldamente la capitale che entro venerdì 8 maggio 50.000 di quelli che erano fuggiti verso le colline erano già rientrati e la vita della città stava riprendendo a scorrere nor­ malmente. Quello stesso giorno le truppe di Graziani fecero finalmente il loro in­ gresso ad Harar. La divisione libica di Nasi era giunta da sud lungo una mulattiera, e nello stesso tempo le colonne autocarrate di Frusci supera­ vano il Passo Mardà e l’altopiano di Babile. Il movimento a tenaglia non era necessario: gli episodi di resistenza furono scarsi e nessuno di essi or­ ganizzato, anche se il fitaurari Malion, alla testa della retroguardia, s’era trovato ad Harar solo il giorno precedente. Duecento amhara furono uccisi dai dubat di Frusci nell’euforia di rioccupare la seconda città dell’Impero, poi l’ordine fu ristabilito. « Graziani troverà il bastone da maresciallo ad attenderlo ad Harar » aveva detto Badoglio a Lessona. Non quel giorno. Graziani aveva avuto un incidente a Giggiga. Quando le rovine della cit­ tadella erano state occupate Graziani aveva visitato la chiesa copta e in tale chiesa era caduto in una profonda buca nascosta: egli fu convinto che gli fosse stata preparata come una sorta di trappola. Il sospetto e l’odio paranoico di Graziani per il clero copto5 possono aver tratto origine da tale episodio. Sabato 9 maggio fu un gran giorno per gli italiani. Essi appresero in­ fatti con loro grande soddisfazione che Hailé Selassié al suo arrivo ad Haifa era stato accolto solo dal sindaco e da un commissario di distretto, C. Pirie Gordon e che, a Gerusalemme, era stato sistemato al King David Hotel e non, come tutti si sarebbero aspettati per un ospite di riguardo, alla residenza dell’Alto Commissario, generale Sir Arthur Wauchope. L’at­ teggiamento ufficiale britannico era inequivocabilmente freddo. Ad ovest i ribelli del Goggiam s’erano recati a Bahardar a far atto di sottomissione a Starace e a chiedergli armi; tre colonne, di cui una di 5.000 uomini era condotta da Ghessesse Belù, si stavano mettendo in mar­ cia alla volta di Debrà Marcos con la protezione dell’aviazione italiana6. Sembrava che alla fine la popolazione di un’intera regione dell’Amhara si fosse apertamente schierata con le armi dalla parte degli italiani e che ras Immirù sarebbe stato messo in trappola da un suddito ribelle della sua stessa provincia 7. Al centro ras Seyum, seguendo l’esempio di capi come degiacc Maru e il begerond Latibelù, si sottomise formalmente al generale Bastico a Socotà, offrendogli la spada che fu simbolicamente accettata e restituita. La formula del suo giuramento fu la seguente: « Giuro di essere fedele a te, al tuo potente re, al tuo giusto capo e al tuo vittorioso generale, il maresciallo Badoglio. Per cui il tuo re è il mio re, i tuoi comandanti i 161

comandanti del mio popolo ». Ad est una colonna motorizzata di Camicie nere della divisione Tevere al comando del colonnello Navarra si mosse da Harar verso Diredaua, dove gli ufficiali francesi del battaglione se­ negalese consegnarono formalmente gli edifìci pubblici: la dogana, la sta­ zione ferroviaria e il Ghebbì. La bandiera italiana fu issata alle 7 del mat­ tino e, subito dopo mezzogiorno, il 45° battaglione di fanteria arrivò in treno e fu ricevuto alla stazione da una guardia d’onore formata dalla 22 la legione del console generale Parini. Le armate del nord e del sud si erano riunite e le Camicie nere, simbolicamente presenti per prime al mo­ mento opportuno, avevano dato il benvenuto ai loro commilitoni dell’eser­ cito regolare. Ma il culmine di una gloriosa giornata per l’Italia si ebbe come era logico a Roma. Questa volta il partito era stato avvisato e l’entusiasmo del popolo ita­ liano, inebriato dalle vittorie, ebbe l’opportunità di esprimersi. Mai, in nessun altro momento, il fascismo e Mussolini furono così popolari come in quei giorni. Alle 8 di quella sera di primavera, preceduto dallo squillo delle trombe, il Duce si affacciò al balcone di palazzo Venezia per an­ nunciare l’annessione dell’Etiopia alla folla sommamente eccitata che gre­ miva il Corso fino al Colosseo. In ogni città italiana grande e piccola, in ogni villaggio gli altoparlanti ripeterono il suo discorso. Mentre il Duce proclamava Vittorio Emanuele III imperatore di Etio­ pia e una salva di cannoni rimbombava sul Campidoglio e sui sette colli, Roma riecheggiò al grido delirante delle masse che l’ultima volta le sue pietre avevano udito secoli prima, negli ultimi giorni prima della caduta dei Cesari: Imperatore ! Imperatore !

PARTE QUARTA

IL VICERÉ E I RAS

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

A.O.I.

Pochi politici in Europa si erano aspettati l’immediata annessione della Etiopia, e fino alla fine il compromesso non era parso impossibile. Perfino quando la « Colonna della ferrea volontà » aveva lasciato Dessiè, il capo di Stato Maggiore di Badoglio, generale Gabba, stava formulando un piano onde permettere all’Imperatore di rimanere Negus degli Scioani. Badoglio pur non condividendo fino in fondo il progetto di Gabba, inten­ deva varare una politica di controllo indiretto sull’esempio inglese. Tuttavia una volta decisa la politica dell’annessione, essa fu applicata con grande zelo, particolarmente dal ministro alle colonie e da Lessona 1 che credeva fosse possibile trasferire tout-court il sistema politico italiano nella sua interezza in Etiopia. Con la legge organica del 1° giugno l’intera colonia africana fu riorga­ nizzata come Africa Orientale Italiana (A.0.1.) governata da un viceré che allo stesso tempo era anche governatore generale. Viceré come rappre­ sentante e responsabile, tramite il ministero delle colonie, verso il capo del governo. Con la legge organica l’Africa Orientale Italiana fu divisa in 5 governi, ciascuno con un governatore militare. Così le due colonie della Somalia e dell’Eritrea divennero due governi all’interno del nuovo dominio. Il gene­ rale Santini, comandante del primo corpo fu inviato a Mogadiscio come governatore dell’Eritrea ad Asmara. La miriade di province dell’Impero fu raggruppata in tre grandi gover­ ni: Harar, governato dal generale Nasi, comandante della divisione libica; Amhara con capitale Gondar, dove il generale Pirzio Biroli, comandante dei corpi eritrei, successe a Starace, infine Galla-Sidamo che sarebbe stata governata a Gimma dal generale Geloso. La capitale Addis Abeba diven­ ne la sede del viceré e con i territori circostanti (Residenze) costituì un governatorato a parte amministrato dal governatore di Addis Abeba e dal vice governatore (un civile). L’amministrazione era strettamente controllata da Roma. I cinque go­ vernatori, sebbene sotto l’autorità del viceré, dovevano rispondere direttaniente al ministero delle colonie per i « problemi di ordinaria amministra­ zione » e potevano rivolgersi direttamente a Roma: un sistema che mentre indeboliva logicamente la posizione del viceré faceva in modo che le istru165

zioni ministeriali giungessero direttamente ai cinque governi che in effetti rappresentavano cinque colonie diverse con problemi diversi; problemi che erano quasi inesistenti in due e gravi nelle altre. Esisteva tuttavia una certa unità militare. Il viceré era ex-officio co­ mandante in capo delle forze armate in A.O.I., sebbene ogni governatore avesse alle proprie dipendenze un « Comando delle truppe ». Alle dipen­ denze del governatore erano i commissari, equivalenti ai commissari di di­ stretto inglesi, insediati in tutte le città più importanti. Sotto i commissari c’erano i residenti e i vice residenti che governavano circoscrizioni chiama­ te residenze e vice residenze. Si voleva un sistema di controllo molto rigido perfettamente uniformato in tutta l’Etiopia che ovviamente non lasciasse alcuno spazio ai capi indigeni. « Nessun potere ai ras » era lo slogan su cui Lessona basò la sua politica di governo diretto2. Ciò significò che dopo un breve periodo in cui ras Hailù forse sperò di poter essere nominato Negus del Goggiam e sia ras Seyum che Hailé Selassié Gugsa di essere nominati a loro volta Negus del Tigrai, essi furono dimenticati né di loro si fece menzione in docu­ menti, ad eccezione, in parte, di ras Hailù. Ad ogni modo il Tigrai e il Goggiam non esistevano più come entità separate. Il Tigrai era stato unificato all’Eritrea e il Goggiam all’Amhara. La provincia dell’Harar si estendeva quasi fino alla periferia di Addis Abeba e tutte le province meridionali, centrali e occidentali furono unificate nel vasto governo del Galla-Sidamo. Tali divisioni amministrative erano naturalmente possibili solo sulla carta. Il 1“ giugno il generale Geloso, ben lontano dall’occupare la sede del suo governatorato a Gimma, stava formando una « divisione speciale laghi » per fronteggiare ras Destà a Irgalem. Tuttavia anche la divisione del paese in governatorati e residenze riuscì a convincere gli italiani e l’opinione pubblica europea che la guerra era stata vinta, l’Impero con­ quistato e che s’era quasi insediata l’amministrazione italiana. Questa im­ pressione, totalmente falsa, fu ulteriormente rafforzata da due avvenimenti tra loro connessi: il rientro di Badoglio in Italia e il rimpatrio della mag­ gior parte delle truppe italiane. Il primo dei tre viceré dell’Africa Orientale Italiana rimase in carica per meno di due settimane. Il 21 maggio Graziani, non ancora ristabilito, giunse ad Addis Abeba. A Villa Italia trovò il maresciallo Badoglio, che fumava, come sempre, una sigaretta dietro l’altra stranamente euforico. I rapporti fra i due non erano mai stati buoni. Graziani, sempre suscetti­ bile, consapevole che metà degli scolari italiani avevano scommesso che sarebbe entrato in Addis Abeba prima di Badoglio, sospettava che il co­ mandante in capo lo tenesse deliberatamente nell’ombra, e Badoglio lo sapeva. Fu quindi con sorpresa che Graziani lesse la copia del telegramma di dimissioni che Badoglio aveva spedito al Duce3 e che apprese di essere stato proposto quale successore di Badoglio. 166

Quando Graziani, il giorno successivo, accompagnò Badoglio all’aero­ porto le parole che quest’ultimo pronunciò suonarono come un’oscura mi­ naccia : « Ricordati, Graziani, io strangolo i miei nemici lentamente con un guanto di velluto ». Quando Balbo, che si trovava in Libia, apprese dalla radio la notizia che Graziani era stato nominato viceré ruppe con un calcio l’apparecchio. Sono due incidenti sintomatici per capire il tipo di armonia che regnava all’interno della Corte fascista. Perché Badoglio lasciò così frettolosamente l’Etiopia? Probabilmente perché i suoi programmi per un governo indiretto erano stati messi da parte, o forse più semplicemente perché egli aveva già ottenuto il trionfo che cercava e quel che rimaneva erano solo difficoltà senza gloria. Era naturale, per non dire ammirevole, che egli desiderasse tornare al suo po­ sto di capo di stato maggiore. Con Badoglio partì la massa dei dignitari fascisti e di familiari: il figlio di Badoglio Mario, i due figli di Mussolini e il genero Giano, Giuseppe Bottai per così breve tempo governatore di Addis Abeba e tutti gli altri. Alcuni partirono coperti di gloria altri meno; il fanatico Farinacci aveva perso una mano mentre pescava con una bom­ ba a mano a Dessiè e si sentiva, aveva notato Lessona, « moralmente diso­ norato ». Starace segretario del partito in quel momento, al contrario, ave­ va avuto la soddisfazione di ricevere la sottomissione di Aialeu Burrù a Debrà Tabor, di conquistare Debrà Marcos e quasi di catturare ras Immirù prima che la sua colonna fosse ufficialmente disciolta 4. Ritornò quindi col prestigio accresciuto. Ad ogni modo la parata era terminata e il clamore stava scemando. Ai primi di giugno, quando fu pubblicata la legge organica, il generale Graziani era stato promosso maresciallo e nominato viceré; si era instal­ lato con i suoi collaboratori al Piccolo Ghebbì sostituendosi, quasi alla let­ tera, all’Imperatore, sebbene la sua abitazione e residenza ufficiale fosse villa Italia. L’Imperatore, l’ex Imperatore come gli italiani ora lo chiama­ vano, era giunto a Southampton il 3 giugno, lo stesso giorno in cui il maresciallo Badoglio giungeva in nave a Napoli. A Badoglio, ricevuto al molo dal principe ereditario Umberto, fu offerta un’accoglienza delirante 5. Così, in maniera ben più sorprendente, Hailé Selassié fu salutato a Water­ loo 6. Ma benché in quei giorni vi fosse un’intensa attività diplomatica a I -ondra, Roma e Ginevra mentre Hailé Selassié e i suoi consiglieri prepa­ ravano il loro appello alla coscienza del mondo civile, la partita era ormai quasi persa prima ancora di cominciare. 11 delegato italiano, conte Aloisi, s’era opposto alla presenza e alla lingua usata dal rappresentante dell’Etiopia UoldeMariam e il giorno seguente la delegazione italiana si era ritirata. A Londra Hailé Selassié era un ospite onorato ma chiaramente, in via ufficiale, un ospite non ufficiale. Eden non si era recato al suo ricevimento; Edoardo Vili aveva rifiutato di invitarlo a Buckingham Palace e, quando Hailé Selassié pranzò alla Camera dei 167

Comuni, il primo ministro Baldwin si mise dietro un tavolo per evitare di incontrarlo. Il 10 giugno il cancelliere dello scacchiere Neville Chamberlain in un suo discorso non tenuto alla Camera disse che il mantenimento delle san­ zioni era ormai « una vera e propria follia » dal momento che non vi era alcuna possibilità di riportare sul trono l’Imperatore se non con un intervento armato. Il 18 giugno Eden propose alla Società l’abolizione delle sanzioni e, il 23 giugno, disse alla Camera dei Comuni che l’Inghil­ terra non avrebbe inviato armi al governo provvisorio di Gore. Gli etiopi intanto si erano riuniti a Ginevra per lanciare la loro offen­ siva diplomatica. Il 25 Hailé Selassié, Blattengueta Herouy, UoldeGiorgis e Lorenzo Taezaz lasciarono Londra; il 27 il degiacc Nasibù inviò alla Società delle Nazioni una nota a favore dell’Imperatore. L’assemblea ebbe inizio il 30 giugno, presieduta dal belga van Zeeland che, come ministro degli esteri, aveva ricevuto più d’un resoconto dal preoccupato Janssens. L’Imperatore, che faceva la sua prima comparsa ufficiale da quando aveva perso l’Impero, era naturalmente al centro del­ l’interesse e dell’attenzione, una piccola e pittoresca figura avvolta nel suo famoso mantello, con la sua barba, dignitoso come sempre e più triste del solito. Quando si alzò per parlare, poteva contare su un uditorio attento e partecipe e tanto più impressionabile perché dinanzi a quell’uomo tutti si sentivano in parte responsabili. Nello stupore e nell’indignazione generale un gruppo di giornalisti italiani cominciò a fischiare e ad insultare. « À les portes ces sauvages » * gridò allora il delegato romeno Titulesco e solo l’immediata espulsione salvò gli inconsiderati giornalisti da un probabile linciaggio. Hailé Selassié parlò in amarico, con tono giusto e pacato. Se si permetteva alla forza di trionfare sugli accordi, allora la sicurezza di tutti i piccoli stati era minacciata. Era un argomento che il presidente dell’assemblea avrebbe dovuto ascoltare con maggiore attenzione. Emozio­ ne ci fu solo alla fine quando l’Imperatore concluse con la domanda: « Quale risposta dovrò riferire al mio popolo? » Non c’erano risposte. Le sanzioni, come Eden aveva fatto osservare, non avevano più alcuna utilità se mai ne avevano avuta. Uno dopo l’al­ tro i rappresentanti delle tre grandi potenze Eden, Blum, Litvinov chie­ sero che fossero revocate. Solo il delegato del Sud Africa era per mante­ nerle. Quel giorno non si votò ma, il 2 luglio, due altre mozioni etiopiche — la prima che « l’annessione ottenuta con la forza » non fosse riconosciu­ ta, e la seconda di sottoscrivere un prestito di 10 milioni di sterline a favore del governo imperiale perché potesse continuare la guerra — furono respinte. Il 4 luglio si votò la revoca delle sanzioni: 44 voti a favore, 1 contro e 4 astensioni; 11 giorni più tardi furono ufficialmente revocate. L’Imperatore era già tornato a Londra e si preparava per l’amara vita d’esilio. Si recò a Worthing per una vacanza, poi a Bath, dove soggiornò * « Au nom de la justice, faites taire ces sauvages! » Del Boca, op. cit., pag. 192 [N.d.C.].

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al Spa Hotel; più tardi, preparandosi a ricevere il resto della famiglia, comprò una piccola villa, la « Fairfield », che doveva essere la sua casa nei tristi anni seguenti7. Tuttavia, sebbene l’offensiva diplomatica etiopica avesse fallito, Hailé Selassié rimaneva Imperatore d’Etiopia. Nessuno degli stati che facevano parte della Società riconobbe il titolo che Mussolini aveva conferito alla Casa dei Savoia; finché la situazione fosse rimasta tale, c’era sempre spe­ ranza per il piccolo gruppo di esiliati a Bath. Di tanto in tanto giungevano visitatori o notizie, il più delle volte deprimenti. I nobili dell’Impero, un tempo così famosi, erano concentrati a Gerusalemme vivendo miseramente e in povertà, nel convento e nella chiesa etiopici Rechov Habashim nella Strada degli abissini o nelle vicinanze. Altri si erano recati in luoghi diver­ si. Maconnen HapteUold, ad esempio, era andato a Parigi, dove dava una mano nella conduzione di una piccola pensione. L’Imperatore mandava ai nobili il denaro che poteva. In tale situazione la notizia della morte di degiacc Nasibù, avvenuta in ottobre a Davos in una clinica svizzera dove si stava sottoponendo ad una cura per la tubercolosi, dovette sembrare quasi un sollievo. Finiva così la vita del principale collaboratore di Hailé Selassié nello sforzo di fare dell’Etiopia una nazione moderna. Finiva mi­ seramente e lontano dalla sua terra, ma almeno con la vista delle monta­ gne a consolazione verso la fine.

Agli inizi dell’estate della conquista, non era l’attività diplomatica di uomini come Nasibù che preoccupava il nuovo viceré quanto l’attività dei suoi figli rimasti in Etiopia e anche questa non molto. Alla metà di giugno era cominciata la stagione delle piogge e da en­ trambi i lati i movimenti di qualsiasi tipo, specialmente di colonne moto­ rizzate, erano diventati completamente impossibili. Fino al Mascal, la celebrazione del ritrovamento della Croce dà parte di Sant’Elena, che in Etiopia segnava la fine della stagione delle piogge, non era dunque possibile condurre alcuna azione contro i due ras che ancora resistevano nel sud. A sud-ovest ras Immirù, fuggendo da Debrà Marcos si era unito al bituoded Uolde Tsaddik a Gore. Sebbene Kifle Nasibù e la maggior parte dei cadetti e dei membri del movimento nazionalista « Giovani Etiopi » si trovassero già nella regione a sud-ovest e anche se i consoli inglesi a Gore ed a Gambela stavano macchinando oscuri intrighi, non c’erano con­ crete minacce per il futuro dal punto di vista militare soprattutto perché nel sud-ovest la situazione era incredibilmente confusa. E benché nel sudovest il degiacc GabreMariam stesse riorganizzando l’armata di ras Destà nel Sidamo e il degiacc Beienè Mered con sua moglie la principessa RoinaneUorc detenesse ancora quasi il completo controllo della sua provincia del Baie, gli italiani erano perfettamente consapevoli che non esistevano, contatti fra i due ras. Graziani doveva quindi preparare nel sud, nella nuova provincia di 169

Galla-Sidamo due campagne militari dopo la stagione delle piogge ma non vide minacce né immediate né potenziali. Nell’ovest tre fitaurari ave­ vano riunito i loro eserciti nelle montagne del Garamullata; il fitaurari Scimellis Arti governatore del Garamullata; il fitaurari Malion e i suoi uomini e il ftaurari Bahadè che aveva fatto riunire gli amhara di Harar. Ma la popolazione della città cinta da mura aveva accolto gli italiani loro nuovi signori come avevano fatto con i tanti signori che si erano succe­ duti nei sessanta anni precedenti e non si profilavano minacce che il ge­ nerale Nasi non fosse stato in grado di fronteggiare. Nel nord e intorno ad Addis Abeba non c’erano eserciti né compatti né invitti. L’ufficio politico stava intavolando stretti negoziati con i capi piccoli o grandi che non si erano ancora sottomessi. Tra questi i più importanti e potenzialmente i più pericolosi erano i tre figli di ras Cassa; Uondossen Cassa, che si tro­ vava ancora nel nord e che si muoveva attraverso le province del Lasta e Yag, molto vicino alla valle del Tacazzè; Aberrà Gassa, il secondo figlio ma nominato da suo padre capo della famiglia che governava da Ficcè il distretto del Salalè, e il fratello più giovane Asfauossen 8, rimasto con lui. Essi erano già in trattative con gli italiani e apparentemente solo dettagli, come la mancanza di abiti da mattina appropriati, ritardavano la loro sottomissione. L’atto di sottomissione era infatti una cerimonia molto rigida. Non era sufficiente firmare un atto formale come ras Hailù, l’Abuna Kyrillos e una miriade di capi minori che ruotavano intorno a loro avevano fatto quando gli italiani erano giunti ad Addis Abeba. Doveva esserci anche una cerimo­ nia. La prima fu celebrata il 9 giugno. Oltre a ras Hailù e l’Abuna Kyrillos fra coloro che fecero atto formale di sottomissione, si trovavano i cospira­ tori dell’Uollo che erano stati imprigionati: ras GabreHiuot Mikael, i de­ giacc Amde Alì, Aialeu Burrù dal fronte nord, HapteMikael del fronte sud, Mangascià Uube figliastro della principessa Zauditù, il governatore dell’Uo*llega-Saio, le cui forze erano state convocate all’ultimo momento per difendere la capitale (era l’unico rappresentante della nobiltà del Mens) e l’ambasciatore Afeuork giunto da Roma. La seconda cerimonia si tenne due settimane più tardi e segnò la sottomissione di un altro grande condottiero, ras Chebedde Mangascià Atikim e di un notabile musulmano proveniente dal sud-ovest. Un giornalista francese era presente e ce ne ha lasciato una vivida descrizione. Essa si tenne nel piccolo Ghebbì il 24 giugno. Sessanta dignitari etiopi erano seduti dinanzi al trono nella sala d’onore su scranni di cuoio rosso. In prima fila ras Hailù, col suo mantello riccamente ricamato e a capo scoperto, somi­ gliava ad « un personaggio delle guerre di religione, un uccello da preda potente e minaccioso ». Dietro di lui sedeva il degiacc Amde Alì, e ras GabreHiuot « col viso segnato dalla lunga prigionia ». I mantelli neri rica­ mati d’oro dei nobili contrastavano con i mantelli blu orlati di rosso del clero. A mezzogiorno il cannone sparò a salve e all’una, con un’ora di ritardo, il viceré a capo scoperto indossando un’uniforme grigia fece il suo 170

ingresso. Tutti si alzarono e fecero il saluto fascista col braccio destro in alto mentre si cantava l’inno fascista « Giovinezza ». Graziani prese posto su una predella, dinanzi ai due capi che dovevano fare atto di sottomissione, col generale Magliocco comandante dell’aero7 nautica, il colonnello Calderini9 che molti dei presenti conoscevano e Guido Cortesi segretario federale del partito. «In nome di Dio» disse Graziani (« Bismillah » tradusse un italiano che parlava arabo; « Egziabher » aggiunse l’interprete amarico) « parlo a nome del re d’Italia, imperatore di Etiopia (tutti si alzarono e fecero il saluto fascista) e del Duce del fascismo Benito Mussolini (tutti si alza­ rono e salutarono di nuovo) ; a voi ras Chebedde Mangascià, a voi Abba Giobir di Gimma, a voi ftaurari Kenfi 10... ecco l’atto di sottomissione al grande e potente governo italiano. Giustizia e generosità per i nostri amici. Per i nostri nemici la forza e la legge... Roma... Amen. » Ancora saluti fa­ scisti, poi tutti in coro risposero amen. Ras Chebedde, un piccolo uomo coriaceo con occhi vivissimi e una bar­ ba nera, salì sulla predella per pronunciare il suo giuramento. Sembra che egli non fosse tornato alla capitale con l’Imperatore ma che si fosse recato nel suo governatorato dell’Ifratà nello Scioa settentrionale. Probabilmente l’amicizia di suo padre, non più in vita, con ras Hailù era stata determi­ nante, anche se, probabilmente, come correva voce, gli era stata offerta la somma di 172.000 lire da pagarsi al momento della sottomissione. L’Abba Giobir pronunciò il suo giuramento subito dopo; era un giovane grasso che « sorrideva con una curiosa smorfia conturbante » e portava dei grandi occhiali simili a quelli di una vecchietta. Graziani si alzò per parlare di nuovo. Dov’erano le loro strade e i loro porti, « dov’è il vostro Negus che ha rinnegato la sua razza e ammassato nelle sue banche l’oro guadagnato col sangue del suo popolo, che ha inca­ tenato Hailù e GabreHiuot che sono il sangue dei vostri ras? Ecco il duce del fascismo. Dimentichiamo il passato. Attenti! » Tutti si alzarono: tre saluti per il re « a noi! » e tre per il Duce « a noi! ». La curiosa cerimonia non era terminata. Graziani disse che voleva sentir parlare degli etiopi. Si rivolse a ras Hailù. Il ras fu molto breve: « Vostra eccellenza, siete venuto con la forza delle armi e potete fare ciò che più vi aggrada. Ci avete riu­ niti in questo consiglio. Tutti i presenti sono venuti spontaneamente a sottomettersi al governo italiano. Sono venuti per una loro libera scelta. Coloro che non sono qui verranno di buon grado a sottomettersi alla vostra autorità. » Graziani chiamò Afeuork. « Vieni qui a parlare » gli disse. Afeuork fu ancora più breve. Sua eccellenza non era venuta a distruggere il popolo, ma ad associarlo alla potenza italiana. Graziani si guardò ancora intorno e fece segno ad un prete con un turbante bianco. « Un momento » disse, « il vecchio vuole parlare. Sono pronto ad ascoltare chiunque. » Il prete salì la predella borbottò in maniera iticomprensibile. Solo in parte soddisfatto, Graziani concluse: « Non dovete 171

dirmi sempre di sì. Ditemi i miei errori, datemi la vostra fiducia. » Nuovo inno fascista, nuova selva di braccia alzate, la cerimonia era finita. Tale era l’atmosfera del nuovo regime, semifarsesca e un po’ militare, segnata da una quasi totale incomprensione della natura della società etiopica da parte dei governatori militari italiani e presumibilmente que­ sta garbata ambiguità nascondeva anche una totale incomprensione da parte dei capi etiopi della natura della società fascista; la barriera lingui­ stica inoltre rendeva ancora più difficile ogni comunicazione. Ciò che meraviglia è il livello a cui fu portato non solo come regime coloniale militare ma come preciso regime fascista. Come in ogni regione italiana, era già stato insediato il federale con posizione e poteri analoghi a quelli delle autorità civili e militari e responsabile, non verso il ministero delle colonie, ma verso il segretario del partito a Roma. In breve tempo, tutto l’apparato del partito fu insediato: la casa del fascio e i quartieri generali della milizia al centro di Addis Abeba, le fede­ razioni fasciste e i segretari federali in ciascuno dei cinque governatorati Più importante dal punto di vista militare era l’organizzazione delle Cami­ cie nere, anche se i loro battaglioni erano generalmente usati come truppe di guarnigione nelle grandi città e il loro ruolo si limitava a mantenere l’ordine pubblico. Secondo la teoria fascista tutti indistintamente, di leva o permanenti, erano soldati addestrati e membri del partito, ispirati dalla devozione al re e al duce. Nei fatti, dopo che i reggimenti dell’esercito regolare smobilitarono e furono gradualmente rimpatriati, le truppe im­ piegate nelle operazioni vennero ad essere sempre più i battaglioni eritrei e le bande 12. Due parole sulle « bande ». Il generale Cavaliere le descrisse più tardi con quattro caratteristiche: in primo luogo quelli che ne facevano parte erano contrari al servizio a lungo termine, in secondo luogo essi combat­ tevano per amore dell’avventura e del saccheggio il che « rende il loro impiego alquanto delicato », in terzo luogo non amavano spingersi lontano dai loro territori e infine non volevano « sottomettersi ad una disciplina più rigida come quella dei battaglioni indigeni ». Con giudizio molto meno lusinghiero un ufficiale italiano scrisse: « Le bande, sia quelle cosiddette regolari che quelle irregolari, sono veramente bande e, salvo casi del tutto eccezionali, non hanno nulla di militare. Esse servono gli interessi del capo che le ha formate, del comandante, e dei componenti della banda, mai quelli della popolazione e dei beni che essi dovrebbero proteggere ». Fisicamente erano, sempre secondo l’ufficiale, « a posto », come dovevano, ma il loro comando veniva troppo spesso affidato a giovani ufficiali o a ufficiali della milizia inesperti e il sistema finiva « per corrompere moralmente anche gli ufficiali ». Tecnicamente un grup­ po di bande era formato da 1.200 uomini, ma ce n’erano generalmente 400 che si davano il cambio ogni qualche mese anche se le paghe mensili 172

erano sempre calcolate sulla base di 1.200 uomini. « Di qui la passione per formare bande, tipica di residenti e commissari. » Nonostante tutti i loro difetti, le bande erano comunque uno strumento indispensabile; non solo presidiavano i villaggi e pattugliavano gli altipiani almeno in nome dell’Italia, ma offrivano una possibilità di impiego ai sol­ dati di leva non ancora congedati. Rimane da far notare la differenza fra le bande irregolari, cioè quelle organizzate e comandate da capi fedeli, e le bande regolari, cioè quelle dirette da alcuni ufficiali italiani. Le prime prendevano il nome del loro capo, ad esempio la banda Assegè nel Goggiam; le seconde prendevano il nome dai distretti in cui operavano e venivano solitamente riunite in un « gruppo » di tre bande che aveva un nome più generale: ad esempio le bande Uollo Yeggiù. Alcune bande, come la banda Serae o la banda Akele Guzai, avevano lunghe storie che riportavano ad Adua e prima. Queste due prendevano il nome da due delle tre residenze vicino all’Asma­ ra e, poiché erano formate da eritrei, erano ovviamente considerate più degne di fiducia. Ma, col passare degli anni, altre bande presero il nome degli ufficiali italiani che le comandavano: le Bande Rolle dovevano di­ ventare l’esempio più famoso.

La cerimonia di sottomissione era inoltre sintomatica dell’importanza di ras Hailù. « Era l’uomo » scriverà più tardi Gfaziani « in cui avevo riposto la mia fiducia. Divenne mio consigliere e lo autorizzai a formare una banda di oltre un migliaio di uomini. » Così, sebbene Graziani esageri, non ci furono posti o posizioni particolari accordati a ras Hailù e il suo titolo era semplicemente onorifico, egli era, comunque, agli occhi degli etiopi, indubbiamente la figura più importante del nuovo regime e usò la sua influenza con alterno successo per convincere gli altri nobili a sottomet­ tersi e gli italiani a trattarli umanamente. Non gli fu tuttavia permesso di ritornare alle sue terre nel Goggiam: in qualsiasi direzione fosse inviata la sua banda non era certo oltre il Nilo Azzurro. Gli altri ras, meno fidati, erano trattenuti nei loro ghebbì ad Addis Abeba sotto una blanda forma di arresto domiciliare, come molti di loro avevano in momenti diversi sperimentato sotto Hailé Selassié; erano ras Seyum, ras Chebedde, ras GabreHiuot e ben presto ras Ghetacciù che per ragioni oscure era tornato dalla Palestina per sottomettersi. Questi e gli altri famosi condottieri, come degiace Aialeu Burrù, e suo fratello Admassù, che avevano fatto a loro volta atto di sottomissione, furono presto dimenticati sotto il governo dei viceré. Quali fossero i loro pensieri, le loro azioni, i loro sentimenti non si ha memoria; il loro potere e la loro influenza eclissati; se cospirarono, le loro cospirazioni furono insignificanti e per la loro sottomissione non ricevette­ ro nessuna delle ricompense che avevano sperato, se si eccettua una ri­ compensa cara ai ras come alle persone comuni: la vita. Vissero meno miseramente, ma più dimenticati della moltitudine dei 173

loro parenti e dei nobili, come ras Cassa al convento di Gerusalemme o Maconnen Endellacciù nella piccola villa vicino a Bath; probabilmente a volte invidiarono perfino degiacc Nasibù nella sua tomba solitaria ma ono­ rata. Non avevano nessuna collaborazione nella nuova vita sicura di una metropoli fascista.

CAPITOLO QUINDICESIMO

L’ATTACCO AD ADDIS ABEBA

Essayas e gli altri cadetti si recarono a cavallo a incontrare Mesfin Silesci neH’Uormara. Gli dicemmo: « Abbiamo armi, cosa dobbiamo fare? » « Andate nel Mullù, nella mia terra » egli rispose « ed aspettatemi lì. Andremo insieme da mio cugino, degiacc Aberrà. Col suo aiuto potremo fare qualcosa per que­ sto paese. » Come i cadetti si erano rivolti ad un uomo di prestigio, comandante di un battaglione delle guardie, a sua volta il comandante si rivolse, quasi au­ tomaticamente, al capo di una grande famiglia. Gettati nello scompiglio dall’assenza dell’Imperatore, non riuscendo a sopportare il vuoto creatosi al vertice della loro società gerarchica, gli amhara tentarono istintiva­ mente di riempire il vuoto. La storia dell’Etiopia nei mesi e negli anni che seguirono la partenza di Hailé Selassié è la storia di un popolo che cerca disperatamente di ricostruire una gerarchia imperiale in circostanze del tutto nuove, cioè alla presenza di un conquistatore straniero, e nel­ l’assenza sempre più evidente di membri di sangue imperiale colpiti dalla morte, dall’esilio e dalla sottomissione. Sarebbe inappropriato dire che gli imperatori si susseguivano l’un l’altro, inappropriato a dirlo e inappropria­ to geograficamente, poiché la presenza di un conquistatore straniero confi­ nava oggettivamente l’influenza dei capi etiopi alla provincia o alla regione in cui si trovavano. Perfino in periodo di pace gli imperatori avevano tro­ vato difficoltà a estendere la loro autorità su tutta la nazione. In un pe­ riodo di occupazione straniera era impossibile per un leader, per quanto potente, comandare o anche coordinare attività fuori dalla sua zona d’inlluenza. Tuttavia se si vogliono comprendere gli avvenimenti di quegli an­ ni bisogna tenere ben presente l’unità di un principio sotto rivalità, vio­ lenza e la confusione alla superficie: il principio era quello della continua ricerca di un imperatore, anche se solo di un imperatore a livello locale. Si potè assistere quindi all’ascesa ed alla caduta di una serie di capi che •..irebbe più appropriato chiamare pretendenti ai privilegi imperiali, se non al trono imperiale. Le insegne del potere imperiale erano note a tutti l’Ii amhara. Quando nello Scioa si sparse la voce che Aberrà Cassa caval< ava su una sella d’oro sotto un ombrello rosso la gente si precipitò a Ficee. 175

Naturalmente Aberrà Cassa aveva qualcosa di più di un corredo pitto­ resco: egli aveva, come era del resto risaputo, molto denaro e la sua posi­ zione era molto solida. Nominato da suo padre capo della famiglia Cassa e governatore del distretto del Salale, egli era di gran lunga il più im­ portante signore dello Scioa, per sangue, prestigio e potere reale. Egli stesso di sangue imperiale, aveva sposato una figlia di ras Seyum, Uoizerò Chebeddesh, e suo fratello più giovane, Asfauossen, aveva sposato una figlia di ras Hailù. Sebbene ancora giovane, si era guadagnato la fama di valo­ roso condottiero nel Tembien; gli uomini sopravvissuti della Guardia che avevano seguito suo padre e l’Imperatore nella ritirata di Mai Ceu erano stati posti sotto i suoi ordini. E forse, cosa ben più importante, egli aveva l’appoggio della Chiesa; il vescovo di Dessiè, l’Abba Petros, s’era unito a lui a Ficcè. La posizione della Chiesa copta era in quel momento doppia. L’Echege si era rifugiato a Gerusalemme nel suo vecchio convento, ma l’Abuna Kyrillos aveva fatto atto di sottomissione nella capitale. Tuttavia l’Abu­ na Kyrillos non aveva né il potere né il prestigio del suo predecessore Matteos. Il suo arrivo era troppo recente perché si dimenticasse che egli era egiziano e quindi straniero. Dei 4 vescovi etiopi solo l’Abba Abraham del Goggiam si era sottomesso, egli aveva seguito, cosa del resto inevitabile, ras Hailù di cui era in un certo senso il cappellano. L’Abba Mikael di Gore era rimasto nel sud-est col governo provvisorio; l’Abba Isaac del Tigrai si pensava che fosse con Uondossen Cassa vicino alla città santa di Lalibelà; l’Abba Petros, come vescovo di Dessiè rappresentava il prin­ cipe ereditario e così unendosi ai figli di ras Cassa a Ficcè egli conferì loro un’investitura semi-imperiale, assicurando loro allo stesso tempo l’appog­ gio della Chiesa: ciò significava che vi erano dunque gli eredi al trono. Con Aberrà Cassa si trovava il suo giovane cugino Abiye Abebe '. Mesfin Silesci, un altro cugino portò con sé il figliastro Mered Mangascià. Era una nuova generazione che si preparava a riprendere e a dirigere la lotta che i loro padri avevano abbandonato. Era come se tutto fosse stato spazzato via lasciando piena libertà d’azione ad uomini giovanissimi, non ancora ventenni, euforici per un potere che non si aspettavano e tuttavia profondamente consci non solo del loro retaggio ma anche del loro rango. E’ sintomatico che Essayas e Abebè Tafari dessero 30 delle loro preziose mitragliatrici ad Aberrà Cassa e solo 2 a Mesfin Silesci; le mitragliatrici erano un segno di potere ben più effettivo di un ombrello rosso. Aberrà e Asfauossen Cassa progettarono il piano più ardito di tutta la guerra: un contrattacco combinato contro le postazioni italiane e la ricon­ quista di Addis Abeba. Non si trattava di un progetto così fantastico e assurdo come sulle pri­ me sarebbe potuto sembrare. Se gli italiani non avevano conquistato così facilmente Addis Abeba era perché, come città, essa, situata ai piedi delle montagne, circondata da foreste di eucalipti, estesa su un’area enorme in maniera difforme, poteva essere difficilmente difesa contro un esercito che, fornito di artiglieria, l’avesse attaccata. Gli etiopi ormai non possedevano 176

più un’artiglieria, ma gli stessi svantaggi che non avevano permesso agli etiopi una qualsiasi difesa la rendevano ora altrettanto difficile agli ita­ liani. Sebbene gli italiani controllassero saldamente la città e ufficialmente il loro morale fosse alto, questo era, meno ufficialmente, piuttosto basso. I! tempo era pessimo, la città dal punto di vista italiano un ammasso di tuguri, gli indigeni ostili, i rifornimenti scarsi, l’immediato futuro incerto e le truppe stavano rimpatriando. Nelle prime settimane d’occupazione dopo la partenza di Badoglio e di gran parte delle truppe della colonna della ferrea volontà gli italiani vis­ sero in un’atmosfera incerta, quasi di assedio: bastava alzare gli occhi per vedere le montagne e le colline intorno ad Addis Abeba occupate da ban­ de in movimento di etiopi armati ed ostili mentre vicino non c’era traccia di quelle caratteristiche tipiche e psicologicamente rassicuranti delle città italiane: mura che chiudessero il centro della città e una fortezza che do­ minasse dall’alto. Informe, senza ingressi né uscite Addis Abeba era aperta a qualsiasi infiltrazione. Per tutto il mese di maggio e durante le prime settimane di giugno ci furono continue voci di imminenti attacchi etiopi. E benché queste voci non si avverassero non servivano certo a rassicurare le inquiete guarnigioni e gli ancor più inquieti civili. L’esistenza della ferrovia sem­ brava essere l’unico legame con la civiltà, per mezzo suo giungevano i rifornimenti e le truppe partivano. L’altra arteria vitale, la strada per Dessiè e verso il Nord, era malsicura e, soprattutto nella stagione delle piogge, quasi del tutto impraticabile. Ci fu un periodo particolarmente difficile, dalla metà di giugno alla metà di luglio, quando la città rimase quasi priva di truppe; Graziani aspettò con ansia l’arrivo della colonna di Tessitore da Dessiè ed altri rin­ forzi dalla Somalia. Al loro sopraggiungere la guarnigione superava di poco i 10.000 uomini, un numero non certo eccessivo se comparato al peri­ metro della città che essi dovevano difendere e che, secondo Graziani, si stendeva per 40 chilometri. Il generale Gariboldi fu nominato governa­ tore militare, il suo secondo, generale De Biase, prese il suo posto come comandante della divisione Sabauda, la sola colonna di fanteria regolare italiana rimasta nello Scioa. Il generale Gariboldi adottò l’unica soluzione possibile: costruì dei pic­ coli fortini lungo il perimetro della città proteggendo fin dove possibile le strade e le piste che conducevano o si dipartivano dai tucul e concentrò il resto delle sue truppe in numerosi accampamenti e caserme provvisorie in punti diversi della città. La concentrazione più massiccia fu posta in­ torno alla stazione ferroviaria, e lungo la ferrovia, la linea vitale per gli italiani, Graziani aveva fatto costruire fortini presidiati. Come truppe di guarnigione impiegò la 219a e 22Oa legione, della divisione Camicie nere Tevere che avevano combattuto al fionte sud sotto il suo comando, i ve177

terani della grande guerra o gli eroi mutilati nella lotta fascista e gli italiani d’oltremare (gli studenti universitari erano ritornati ai loro studi). La XV legione della milizia ferroviaria fu inviata dall’Italia perché fosse pronta a far funzionare la linea ferroviaria se i francesi se ne fossero an­ dati o avessero scioperato. Sia la ferrovia che la strada da Dessiè erano di continuo sotto attacchi ripetuti e crescenti. Nella terza settimana di maggio la 2a brigata eritrea dovette essere mandata a nord per riaprire la strada e presidiare Debrà Berhan. Alcu­ ne settimane più tardi gli attacchi alla ferrovia divennero preoccupanti. Il forte di Las Addis a metà strada nella direzione di Auasc fu attaccato il 6 luglio e, quando la colonna inviata a rinforzo lo raggiunse, quella stessa sera, lo trovò in mano nemica. Dieci giorni più tardi circolavano voci insistenti di un prossimo attacco alla città e di infiltrazioni al mer­ cato. A Maria Landi, un’infermiera italiana, fu vietato dal dottor Bora suo superiore di recarsi all’ex ospedale Menelik ad Arat Kilo sebbene esso si trovasse fra il Piccolo e il Grande Ghebbì: la zona era considerata troppo pericolosa. In quelle settimane, comunque, ci furono più missive che combattimenti. Le colline e i sentieri dello Scioa erano attraversati in ogni direzione da messaggeri: dal viceré con saluti e richieste di sottomissione ai balabat', dai balabat e capi locali, che si scambiavano reciproci messaggi, da ras Hailù e ras Seyum, su suggerimento dell’ufficio politico, ai loro generi e da Aberrà e Asfauossen Cassa, i quali si destreggiavano tra molte possi­ bilità, al viceré, ai loro suoceri, ai balabat e ai capi stabilitisi tutt’intorno alla periferia di Addis Abeba. Agli inizi di luglio si tenne un consiglio a Debrà Libanos presieduto dall’Abba Petros. Vi presero parte Zaudi Asfau, Hailé MariamMammo, Abebè Aregai; molti balabat locali come Alemù Ighersa e Zaudi Abba Cora. I degiace Balcha e FikreMariam, i cui uomini avevano attaccato la ferrovia, non poterono partecipare di persona ma inviarono loro rappre­ sentanti. Sembra che l’Abba Petros fosse la forza trainante nella lunga discussione che si protrasse per 5 giorni, l’uomo che coordinò veramente i piani e risollevò il morale dei giovani capi profetizzando loro che la vit­ toria era certa se avessero attaccato la capitale. Fu studiato un piano per sferrare un attacco combinato nelle ore pri­ ma dell’alba del 28 luglio, 21 Hamliè nel calendario etiopico. Fu prepa­ rato e steso con cura. Aberrà Cassa e Mesfin Silesci, i cadetti e le forze principali avrebbero attaccato da nord attraverso il sobborgo settentrio­ nale del Gulalè; il loro obiettivo era la zona del mercato di Arada, cuore della città, e la cattedrale di S. Giorgio suo centro. Abebè Aregai da nordovest doveva spingersi oltre l’ambasciata francese e impossessarsi del Pic­ colo Ghebbì. Da ovest FikreMariam, provenendo a sud della strada che la colonna di Badoglio aveva percorso entrando nella capitale, doveva oltre178

passare l’ambasciata inglese e occupare il Grande Ghebbì. La parte sud della città fu assegnata alle forze più deboli del degiacc Balcha e di Zaudi Asfau. Balcha, giungendo da ovest doveva impossessarsi dell’area di Bole dove gli italiani stavano costruendo una base aerea e doveva resistere sul­ l’unico ponte che portava alla stazione ferroviaria mentre Zaudi Asfau, entrando dalla strada di Oletta, aveva il compito di tagliare la comunica­ zione fra la stazione e il centro della città. Sacerdoti con lettere nascoste nei turbanti furono inviati a Blatta Taklè e a Gurassù Duché nella parte sud-occidentale del paese, con l’ordine di marciare in loro appoggio e di isolare la guarnigione italiana da poco insediata ad Ambo. Era un piano audace soprattutto per capi che non avevano alcun mezzo di comunicazione diretta oltre i messaggeri. La sua riuscita sarebbe dipesa da un esatto coordinamento e sincronizzazione. E questa, sempre difficile nelle operazioni militari meglio preparate non era mai stata una caratte­ ristica degli etiopi. In quel momento c’erano tuttavia buone probabilità che riuscisse visto che un gruppo di cadetti addestrati all’europea occupavano posizioni di rilievo. Gli ideatori del piano dovevano essere ben informati. Sapevano che il globale delle forze italiane non era eccessivo, avevano informazioni precise sulla brigata di artiglieria dislocata sull’Entotto e sullo squadrone di cavalleria nel Gulalè e, cosa ancor più importante, con la piog­ gia il pericolo di attacchi aerei era minore. Soprattutto la ricompensa di una vittoria era più importante dei danni di una sconfitta. La riconquista di Addis Abeba, la distruzione della guarnigione italiana e, possibilmente, la morte del viceré Graziani avrebbero significato: una riaccensione della guerra ovunque; attacchi alle colonne o guarnigioni isolate e indebolite; l’impossibilità degli italiani, con le piogge, di ricevere ordini o condurre rappresaglie; la fine degli atti di sottomissione e il ritorno dei sottomessi; quasi certamente confusione in Italia e tripudio in Europa; dramma alla Società delle Nazioni; la fine della guerra. Ad Acachi, sulla linea ferroviaria, FikreMariam con la spada di Menelik che Negga gli aveva consegnato e col vessillo che Negga aveva preso du­ rante il saccheggio del Grande Ghebbì radunò i suoi uomini e fu raggiunto da una grande banda condotta dal barambaras Yifra. FikreMariam cantò il suo inno di guerra « Io, figlio di Ato Nedu » suonò il Gite e incaricò Negga e i suoi 70 uomini di condurre l’attacco il giorno seguente, lunedì, 21 Hamliè giorno di Mariam. Negga rifiutò e affermò che era il baramba­ ras Yifra che doveva condurre l’attacco perché il barambaras era inutile: respirava con la bocca e non con il naso. « Io affermo che se un uomo o un cavallo fanno questo essi sono inutili. » Ma durante la notte molti uomini di Yifra disertarono e, alla fine fu Negga che condusse l’attacco. All’alba con i suoi uomini attaccò la « por­ ta » di Shola Ber e uccise 6 guardie poi marciò sul ghebbì del degiacc Paye Guleat. FikreMariam rimase indietro, uccise un bue e diede un ban­ chetto nel ghebbì del degiacc UoldeMariam. Negga pensò « egli se ne sta là dietro ed io combatto ». Tornò indietro per sparargli. « Pensavo che rimanendo indietro avresti finito per arrenderti. » « Mai » rispose Fikre179

Mariam. Mentre banchettavano continuarono a far piani. FikreMariam chiese dove fosse la casa del generale; pensava che fosse ancora Badoglio. La gente gli disse che il generale si trovava nel Ghebbì del ras Mulughietà. FikreMariam disse che avrebbe attaccato passando vicino la chiesa di Ga­ briel sulla collina del Grande Ghebbì « tu ti muoverai sulla destra e occu­ perai Bahia » ordinò a Negga. Negga raggiunse il ghebbì del degiacc Maconnen Endelacciù, i pochi italiani che si trovavano sul posto fuggirono. Poi con i suoi uomini avanzò fino al ghebbì di ras Ghetacciù. Lì dentro, la moglie di degiacc Nasibù e sua sorella, cioè le figlie russo-etiopiche del fitaurari Babitchev, stavano bevendo con un italiano. Negga attaccò ma, con sua somma ira, Fikre­ Mariam gli impedì di entrare. Successivamente Negga e i suoi uomini tentarono di prendere il ponte Tesas sul torrente Cabanà. Qui furono attaccati dagli italiani con carri armati e mitragliatrici. « Le rocce del Cabanà mi salvarono la vita. » Era ormai sera; il mattino seguente marciarono lungo il fiume fino ad Auore alle case di Blatta Ascene e Zeifù Zellecà dove furono attaccati, dall’alto, dalla cavalleria che aveva già respinto degiacc Aberrà. Negga e i suoi uomini li inseguirono fino alla chiesa di Selassié dove Negga uccise 3 ca­ valieri con il suo « Lee Metford ». Lì Lullu, una guardia del corpo del principe ereditario, fu ferito. « Me lo caricai sulle spalle e sparai a due italiani che stavano frustando una donna uccidendoli. Caddero riversi su di essa. La donna mi diede una scatola di proiettili e angera * a tutti i miei uomini. Seppellimmo Lullu sulla sponda del Cabanà quella sera stessa. » Nelle prime ore della notte, la seconda notte di combattimenti nella città, FikreMariam mandò 5 uomini armati di mitragliatrice ad avvisare Negga di raggiungerlo immediatamente perché si trovava accerchiato vici­ no al ghebbì di ras Ghetacciù. Negga rifiutò e, spossato andò a dormire sul fieno col fratello di FikreMariam, Ghezuuerk. Il mattino successivo, 23 Hamliè, giorno di S. Giorgio, egli e i suoi com­ pagni stavano facendo colazione con l’angera, quando alcuni uomini en­ trarono gridando che il nemico era lì. « Avevo i capelli lunghi e finsi di essere un qulica (stregone) e dissi loro di darmi incenso, mirra, e zolfo. » Mentre la mistura fumava e la gente si inchinava Negga profetizzò : « Chi beve caffè ucciderà, chi non lo beve non ucciderà, ho dato la mia benedi­ zione; ho dato il palazzo inferiore al degiacc FikreMariam, il palazzo su­ periore a degiacc Aberrà, l’aeroporto a degiacc Balcha ». I suoi compagni, col morale così sollevato, uscirono fuori a combattere sulle rocce quando Negga batté le mani tre volte. Egli stesso scaricò tre caricatori della sua mitragliatrice leggera finché esplose bruciandogli la pelle delle mani. Cor­ sero. Pioveva. Erano circondati. Fortunatamente FikreMariam aprì il fuo­ co con due mitragliatrici e riuscì a salvarli quando ogni speranza era già perduta. « Egli mi abbracciò battendo la sua fronte contro la mia come * Pane acido fatto con farina di teff [N.d.C.].

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era sua abitudine e mi diede un fucile che apparteneva al suo scudiero. » Nel prendere il fucile Negga disse: « Fa’ che uccidere quelli oltre il recinto sia come uccidere topi » e FikreMariam ripetè « fa’ che sia come uccidere dei topi ». Le cose volsero al peggio. Sopraggiunse un aereo italiano. I due usci­ rono e fecero fuoco contro. «Lo abbiamo colpito!» gridò FikreMariam. « Di tanto è capace il figlio di Ato Nedu! » « Signore! » disse Negga. All’ae­ reo seguirono carri armati « essi uccisero sette dei miei compagni. Mi sen­ tivo stordito. Estraendo la spada dell’Imperatore, e pregando Melka Edom (una preghiera che un sacerdote mi aveva detto di recitare nei momenti di pericolo) saltai su uno dei carri armati. Vidi due uomini all’interno. Uno era basso con una brutta faccia rossa, l’altro era grasso. Decapitai quello basso e lo scagliai contro quello grasso che gridò ’’mamma! mam­ ma! mamma!” ». Assefa Mangascià gridò a Negga « sta’ attento! » C’erano carri armati da entrambi i lati che sparavano su di lui. Si rifugiò dentro il recinto e cantò una canzone di guerra.

C’è chi uccide mentre giace c’è chi uccide mentre siede, fiducioso in se stesso c’è chi uccide stando in piedi c’è chi uccide individui con il suo fucile c’è chi ne uccide molti con la sua mitragliatrice mentre il nemico è organizzato in battaglioni mentre coloro che fuggono camminano per tre mesi c’è chi uccide nei carri armati con la sua spada! Di nuovo FikreMariam batté la sua testa contro quella di Negga gri­ dando: «Ti ho dato la mia vita, ti ho dato la mia vita, cosa posso fare per te? « Poi mentre noi facevamo fuoco in ogni direzione cominciarono a bom­ bardarci con l’artiglieria, causandoci gravi danni ». I cannoni italiani fecero fuoco dalle colline soprastanti la legazione in­ glese, bombardarono veramente FikreMariam e i suoi uomini. FikreMa­ riam disse allora a Negga: «Va’ a uccidere quegli artiglieri». Ma i capi tennero consiglio: «Dobbiamo lasciarci annientare, degiace? » chiesero. Fu Negga a suggerire di ritirarsi; stava scendendo la sera, era il terzo giorno di combattimenti ininterrotti. « Io, proprio io figlio di Ato Nedu? » protestò FikreMariam. « Si dovrà dunque dire di me che entrai in Addis Abeba per poi fuggire? Si dovrà dunque dire di noi che siamo entrati per poi fuggire? Io non fuggirò. » « Che gloria ci si può attendere », chiese Negga, « se non ci si mette in salvo dopo aver ucciso? » Si ritirarono con il favore delle tenebre lasciando la città da dietro il ghebbì di Taye Guletat.

Questo è il resoconto di Negga dell’attacco combinato sul lato nordest della città. Nella prima mattinata: sorpresa iniziale e un successo, se181

guiti da uno stallo al ponte sul « fiume » Cabanà, un torrente, ingrossato dalle piogge, che nasce sull’Entotto, e scorre lungo il lato orientale della cit­ tà e che come gli altri corsi d’acqua, rappresentava un notevole ostacolo ed era meglio difeso di quanto gli attaccanti si aspettassero. Nel secondo giorno: combattimenti confusi e piuttosto statici, con i difensori e gli at­ taccanti entrambi incerti sull’entità delle forze avversarie e sulle loro po­ sizioni. Il terzo giorno: contrattacco italiano, sferrato con carri armati ap­ poggiati da artiglieria e aerei che costrinsero gli attaccanti a lasciare la città. Due cose si rilevavano chiaramente dal resoconto di Negga, indipen­ dentemente delle difficoltà che FikreMariam, come ogni capo etiope, in­ contrava nel controllare i suoi uomini. In primo luogo gli abitanti di Addis Abeba non aiutarono attivamente gli invasori scesi dalle colline e, in se­ condo luogo, sebbene fossero filtrate alcune informazioni su cosa stesse ac­ cadendo sugli altri fronti d’attacco, non ci fu alcun reale coordinamento, una volta iniziati i combattimenti. In effetti il coordinamento era venuto meno dall’inizio e gli uomini di FikreMariam furono i soli ad attaccare, come stabilito, all’alba del lunedì. E’ difficile dire cosa esattamente non funzionasse. Secondo un resoconto il segnale che avrebbe dovuto dare il via all’attacco combinato avrebbe dovuto essere un colpo di cannone spa­ rato da Aberrà Cassa, segno che, almeno lui, era pronto; FikreMariam sa­ rebbe stato indotto ad attaccare troppo presto ingannato dal colpo di cannone che gli italiani sparavano all’alba. Secondo un secondo resoconto i messaggeri etiopi sarebbero stati comprati dagli italiani e ancora per un altro, che sembrava il più improbabile, l’alto comando italiano, in realtà, si sarebbe augurato e avrebbe addirittura incoraggiato un attacco per po­ ter così avere la possibilità di spazzare via le forze nemiche, finalmente riunite e allo scoperto, con cui era estremamente difficile venire a con­ tatto sulle colline. È certo che le abbondanti piogge costituirono uno svantaggio per le for­ ze che dovevano muoversi, cioè gli attaccanti. Non solo i torrenti che at­ traversavano la città erano ingrossati al punto da costituire un ostacolo effettivo ma si ritardò l’avvicinamento e il concentramento dei gruppi che dovevano sferrare l’attacco; in particolare a sud dove Zaudi Asfau e i suoi 1.000 uomini giunsero con un giorno di ritardo e il degiacc Balcha, trattenuto dalle piene, il giorno seguente. Aberrà Cassa con Mesfin Silesci e le leve del Salalè passarono la notte della domenica accampati sull’Entotto e attaccarono il lunedì mattina lungo la strada che conduceva da Mullù attraverso il mercato di Arada alla cattedrale di S. Giorgio. Apparentemente gli italiani furono colti di sorpresa; molti civili stavano camminando per strada e sulle prime non ci fu alcuna resistenza quando i primi etiopi raggiunsero il ponte Giorgis e si avvicinarono alla cattedrale e al centro della città. I primi italiani in cui si imbatterono e che attaccarono erano ingegneri che stavano lavo­ rando ad un pozzo. Ma non appena fu dato l’allarme il generale Gariboldi reagì con prontezza. Presumibilmente gli italiani avevano già preparato 182

piani per respingere l’attacco tanto vociferato e fu solo questione di ren­ derli operativi. Due battaglioni, un battaglione Camicie nere della 221a legione e l’VIII battaglione eritrei furono inviati al Piccolo Ghebbì, dove si stavano infiltrando gli uomini di Abebè Aregai minacciando lo stesso Graziani. Regolari con autoblindo, presto rinforzati da due altri battaglioni eritrei e un gruppo di carabinieri, tutti sotto il comando del generale Tessitore, furono mandati in piazza San Giorgio. I combattimenti veri e propri iniziarono il martedì mattina quando gli italiani tentarono di isolare a terga il nemico piombato da nord e di attac­ carlo frontalmente. Benché Gariboldi non lo sapesse, era questa l’unica colonna ad aver raggiunto il suo obiettivo, o quasi. Abebè Aregai fu re­ spinto dal Piccolo Ghebbì; FikreMariam, trattenuto dal Cabanà in piena non aveva nemmeno attaccato il Grande Ghebbì; Balcha non era arrivato; Zaudi Asfau, arrivato e trovandosi isolato si rifiutò di attaccare da solo a sud e Gurassù Dukè, ancora più lontano dei sobborghi meridionali della città e senza alcuna effettiva speranza di successo anche se era pronto a morire per la gloria del sacrificio2, esitò ed infine si ritirò quando non vide arrivare alcun messaggero. In ogni caso, anche se Aberrà ed Asfauossen Cassa erano consapevoli che il loro piano stava fallendo e si tenevano un po’ indietro, i loro uo­ mini erano pieni di speranze e sicuri della vittoria ed il morale dei gio­ vani cadetti, arrivati in ritardo ma con entusiasmo, era altissimo. Nella zona del mercato di Arada molti s’erano sparsi per visitare parenti ed amici e festeggiare, come avevano fatto gli uomini di FikreMariam, be­ vendo tegg. Sembra che fosse stato ordinato a Mesfin Silescì di mettersi in contatto con ras Hailù nel suo ghebbì nel Gulalè, che le forze attac­ canti si aspettassero di poter contare su Hailù e i suoi uomini, ma che Mesfin fosse bloccato dall’artiglieria italiana sull’Entotto e che ras Hailù con i suoi, senza dubbio avvertito in precedenza, si fosse ritirato e gli fosse stato ordinato dagli italiani, desiderosi di saggiarne la fedeltà e di aizzare uno contro l’altro gli etiopi, di combattere in prima linea. Sembra proba­ bile, anche se non certo, che perfino in questa fase ci fossero negoziati tra i figli di Cassa ed i loro due suoceri mentre gli italiani richiamavano in fretta la la brigata eritrea di stanza ad Acachi, lungo la ferrovia. Fu l’Abba Petros a radunare gli etiopi e a guidarli di persona lungo la strada, scherzando con i cadetti, dicendo loro che dovevano morire e da loro rimbeccato che prima volevano vivere e combattere. Aberrà Cassa mandò uomini perché lo riportassero in salvo ma l’Abba Petros rifiutò dicendo che in ogni caso era venuto per morire. Portando la croce e in­ dossando i paramenti vescovili si diresse senza esitazioni in piazza S. Gior­ gio davanti alla cattedrale dove erano raggruppati gli italiani e una banda, seguito, con comprensibile esitazione, da un gruppo di giovani. Secondo il resoconto di Graziani furono gli uomini di ras Hailù a catturare il vescovo. Egli fu consegnato agli italiani quella mattina e fucilato alle 16.30 « dopo un giudizio all’aperto - come Graziani telegrafò a Lessona mezz’ora dopo alla presenza di numerosi indigeni che applaudirono ». Fu fucilato in un 183

piccolo spiazzo vicino a piazza S. Giorgio sul punto dove ora s’erge la sua statua. Ormai Graziani e Gariboldi erano sicuri che la situazione fosse sotto controllo. C’erano ancora combattimenti alla periferia e il generale Tessi­ tore ricevette l’ordine di attaccare FikreMariam il giorno seguente, mer­ coledì. Ma Aberrà Cassa e Asfauossen stavano già ritirandosi, i loro uomi­ ni erano sparsi in piccoli gruppi in tutta la città, e i maggiori scontri avvenivano tra i boschi di eucalipti nei dintorni settentrionali e nordorientali della città dove i componenti la banda, sotto la direzione di Martini3 un ufficiale italiano che parlava l’amarico, combattevano contro uomini loro commilitoni poche settimane prima. Quando il degiacc Balcha con le sue poche centinaia di uomini alla fine arrivò per attaccare il distretto dell’aeroporto di Bole, Tessitore con due battaglioni di eritrei e Gallina con la maggior parte della la brigata eritrea stavano sbaragliando l’ultimo gruppo organizzato rimasto, gli uo­ mini di FikreMariam, nella zona del ghebbì di ras Ghetacciù. Il grosso delle forze attaccanti si era già ritirato durante la notte nelle terre di Mesfin Silescì e di Hailé MariamMammo vicino a Mullù; e benché due giorni più tardi due colonne di eritrei al comando di Gallina e Tessitore si mettessero all’inseguimento era ormai troppo tardi. Per una volta, pro­ tetti dalle piogge, gli etiopi subirono perdite minori durante la ritirata che nella battaglia 4. La mancanza di un qualche coordinamento, le piogge, la superiorità ita­ liana dal punto di vista delle armi, l’esitazione dei capi, l’indisciplina fra i soldati, l’indifferenza fra la popolazione civile e specialmente fra i gurage del mercato, l’errore tattico di un avanzamento in massa lungo una strada principale, ecco molteplici ragioni per cui l’attacco di Addis Abeba fallì. Probabilmente tuttavia se fosse possibile avere una maggiore documenta­ zione risulterebbe certo chiaro che l’elemento decisivo fu l’atteggiamento tenuto da ras Hailù, sebbene, per opposte ragioni, gli italiani e gli etiopi abbiano cercato più tardi di sminuirne l’importanza. Era lui che in quel periodo deteneva l’equilibrio del potere nella capitale, non tanto attra­ verso i suoi 1.000 uomini armati, elemento importante ma non certo de­ cisivo, ma attraverso la sua influenza e il suo prestigio. Un suo attacco improvviso contro gli italiani avrebbe fatto insorgere la città e avrebbe scosso perfino le truppe eritree, fedeli agli italiani5. Se fosse rifiuto di tradire, innata prudenza, attaccamento per l’Italia, timore delle conseguenze future di una vittoria dei figli di ras Gassa o vero desiderio di evitare uno spargimento di sangue e di avere un ruolo di secondo piano, non è dato sapere né forse mai si saprà6. Il 1° agosto Aberrà Cassa ritornato nel Salalè scrisse a Graziani ricor­ dandogli di aver ricevuto la sua del 29 luglio e annunciandogli che da al­ lora aveva « cessato qualsiasi combattimento ». Mandò allo stesso tempo una lettera ad Abebè Aregai in cui accennava che « l’Imperatore risolle­ vato dagli aiuti sperati e dalle decisioni della Società delle Nazioni non arriverà così presto come speravamo ». 1S4

Sebbene a metà agosto si diffondessero nuove voci che Aberrà Cassa e FikreMariam stavano per marciare di nuovo su Addis Abeba alla testa di 11.000 uomini7 e sebbene sul lato occidentale della città il degiacc Balcha continuasse a far infiltrare i suoi uomini e sferrare da solo un attacco du­ rante gli ultimi giorni di agosto, il pericolo di un attacco in forze contro la città era superato. Graziani tornò a preoccuparsi di ordinare che, al passaggio, la sua auto fosse salutata « fascistamente — cioè alzando il braccio » e a preparare le sue campagne per l’autunno, finita la stagione delle piogge.

CAPITOLO SEDICESIMO

NEL GALLA E SIDAMO

Nell’ultima settimana del maggio 1936, mentre Graziani, il secondo viceré italiano, si installava nella sua capitale di Addis Abeba, il reggente etiope ras Immirù si muoveva attraverso la sua provincia del Goggiam roccaforte ribel­ le, verso la sua nuova capitale, Gore, nel sud ovest. La raggiunse solo verso la metà di giugno, cinque o sei settimane dopo la partenza dell’Im­ peratore; durante quelle settimane la situazione, tutt’altro che semplice, si era fatta ancora più complicata. Uno dei grandi fiumi etiopi, l’Omo, dalla sua foce nel lago Rodolfo, in una zona sperduta dove si incontrano le frontiere del Kenya, del Sudan e dell’Etiopia, fa una curva verso nord e sembra quasi che confluisca nel Nilo Azzurro mentre si precipita giù, da est a ovest, attraverso la sua stretta gola. Le terre dei Galla dell’ovest limitate a nord dal Nilo Azzurro e l’Omo a est confinano con le tribù nilotiche del Sudan meridionale; una vasta estensione di foreste e montagne suddivisa, prima dell’arrivo degli inva­ sori scioani, in un mosaico di piccoli regni rivali in lotta, ricchi, con un grado elevato di organizzazione, ognuno con una propria cultura e civiltà, in genere basata su quella islamica. Questo divenne l’Impero di Menelik: i suoi generali scioani e galla (ras Tessema, ras Gobana, ras Maconnen, il Negus UoldeGiorgis, il degiacc Balcha, il ftaurari HapteGiorgis e ras Darghie) avevano condotto a sud le loro spedizioni, scacciato le forze nemiche del Negus TekleHaimonot, si erano alleati con alcuni dei poten­ tati Galla contro gli altri e sotto una vernice di cristianità, la civiltà amarica e il governo centrale avevano rispettato le divisioni tradizionali e fino a un certo punto anche i capi tradizionali. Il regno del Rafia, la sola terra cristiana, fu il più grande e il più ricco degli stati che si trovavano a sud-ovest. Nell’anno che seguì la disfatta di Adua, Gaki Seroc, diciannovesimo re della dinastia Manjo fu sconfitto e catturato dagli eserciti riuniti di ras Tessema, del Negus UoldeGiorgis, del fitaurari Damteu e dai loro alleati locali e cioè gli eserciti di Kunto, Geru e Gimma, il più importante di tutti. Mentre lasciava la sua capitale di Bonga per la prigione reale di Ancober egli gettò l’anello d’oro dei re del Rafia nel fiume Gogeb e maledì il suo regno. All’epoca della sua morte, ad Ancober oltre vent’anni dopo, sotto i governatori scioani la sua male­ 187

dizione s’era avverata: Kaffa era diventata, come scrisse il console inglese a Magi « un’enorme foresta » e la sua popolazione che un tempo contava 250.000 persone era scesa a poche migliaia. Alleandosi con gli Scioani, Gimma, lo stato musulmano rivale al nord, era riuscito a mantenere la sua prosperità e la sua indipendenza. Il suo capo il sultano Abba Gifar II era uno dei grandi mercanti di schiavi del sud: ogni anno un migliaio di muli portava il suo tributo di zanne, oro e schiavi fino a Addis Abeba. Mr. Hodson aveva due opinioni nei suoi con­ fronti, lo ammirava per la sua intelligenza e per la sua abilità politica ma non gli piaceva il suo aspetto e il suo modo di fare *. « È ora di dare a questo vecchio una lezione », scrisse. A quel tempo, verso la metà degli anni Venti l’Etiopia faceva già parte della Società delle Nazioni e ras Tafari si stava cautamente avviando verso l’abolizione del commercio di schiavi sul quale si fondava la prosperità del Gimma. Dieci anni più tardi il 19 settembre 1934 Abba Gifar II moriva all’età di 73 anni dopo aver regnato per 48 anni. Il governo centrale l’aveva gradualmente spogliato di ogni potere e quando scoppiò la guerra, un anno dopo, suo nipote Abba Giobir, un uomo vicino alla quarantina da lui designato suo successore, si trovava agli arresti domiciliari ad Addis Abeba accusato di commercio di schiavi e un dignitario di corte amarico governava ad interim una po­ polazione inquieta che sotto la politica di centralizzazione perseguita dal­ l’Imperatore scioano vedeva svanire la propria indipendenza 2. Nella parte settentrionale del territorio i due regni Galla dell’UoIIega, il Liecà Lechemti e il Liecà Qelam, erano divisi da un affluente del Nilo, il Diddessa. Il regno di Lechemti, a est e più vicino allo Scioa, fu il primo a essere conquistato: Moroda, il suo re, lo governò quale tribu­ tario di Menelik fino alla sua morte, nel 1888. Gli succedette suo figlio Kumsa ma quando si fece cristiano prese il nome di Gabre Egziabher e il comportamento di un degiacc. Alla sua morte gli succedette il figlio che sia nel nome scioano che nei modi era, in fondo, un giovane re Galla; il degiacc HapteMariam Gabre Egziabher. A ovest di Didessa re Gioti Tullu aveva creato più problemi ai conqui­ statori scioani della fedele dinastia di Lechemti. Anch’egli aveva i suoi nemici a nord; le popolazioni arabizzate del Beni Sciangul che traevano la loro importanza dalle miniere d’oro di Asosa situate quasi al confine con il Sudan. Nell’anno che seguì la vittoria di Adua ras Maconnen conquistò questa zona, più tramite negoziati che con l’uso delle armi, avva­ lendosi dell’aiuto di re Gioti e di uno sceicco di secondo piano del Beni Sciangul, Cogiali al Hassan della tribù dei Berta. Lo sceicco Gogiali fu tenuto in prigione per i nove anni che durò la definizione della linea di frontiera e quando fu rilasciato toccò a re Gioti recarsi a Addis Abeba e di godere cinque anni di prigionia ad Ancober. Ligg Yasu liberò Gioti e « sposò » la figlia Askale Mariam: un onore già spartito dalle figlie della maggior parte dei governanti del sud-ovest, compresa la figlia dello sceic­ co. Cogiali, nemico di Gioti, il quale durante la prigionia di Gioti era riusciti a prendersi con intrighi il posto di governatore dei Beni Sciangul 188

e a ottenere la città di Becca (Beghi) a metà strada fra Asosa e Saio, capitale del regno di Gioii — « tutto ciò avvenne tramite la corruzione della corte etiope » — come riferì a Eden il console inglese di Gore quando cercò di spiegare la complessa situazione esistente nelle province dell’Uollega. Il vecchio sceicco Cogiali era ritenuto dagli scioani fidato quanto il giovane degiace HapteMariam Gabre Egziabher; ogni anno 96 kg. di oro arrivavano nella capitale provenienti dal territorio dei Beni Sciangul e 200.000 dollari d’oro da Lechemti. Lo sceicco Cogiali aveva interessi commerciali con ras Destà e il principe ereditario: il de giace HapteMa­ riam fu descritto da Steer come un « giovane e ricco commerciante d’armi che aveva guadagnato abbastanza da farsi ricoprire d’oro la sua lancia da cerimonia ». Ίη cambio del loro tributo, della loro assistenza commerciale e della loro fedeltà gli Scioani li lasciavano governare le loro terre senza quasi interferire. Così non fu per il terzo governatore, Mardassa, figlio dello sfortunato re Gioti, morto nel 1918. La maggior parte del suo breve regno Mardassa la passò in rivolta e in prigione e i suoi due figli, il fitaurari Johannes e il fitaurari Hosanna, furono privati del potere che avrebbero dovuto ere­ ditare con l’imposizione del governo scioano diretto3. Essi non avevano alcun motivo per essere fedeli all’Imperatore scioano. Quando ebbe inizio la guerra con l’Italia nell’autunno del 1935 i go­ vernatori e le guarnigioni scioane furono gradualmente ritirati anche se con riluttanza, e spostati verso le frontiere settentrionali e meridionali: Maconnen Endalacciù da Gore, Maconnen Demissiè dal Uollega, ras Ghetacciù da Caffa ed infine, e solo per disperazione, Mangascià Uube dalla sua provincia, già regno di re Gioti4. I Galla che ricordavano tutti, a parte i giovani, i giorni della loro indipendenza, guardarono alla partenza degli Scioani con crescente interesse. Molti di loro andarono in guerra e caddero in battaglia come Sasa Rasa Otoro e Caia Rasa Sacaco, della stessa tribù del « catami rascio » * dei re di Caffa, i quali, al seguito di ras Ghetacciù, erano caduti a Mai Ceu. Ma quando i ras e i degiace al pari dell’Imperatore lasciarono l’Etiopia per andare in esilio o si sottomi­ sero nella capitale ai nuovi conquistatori, i soldati Galla ritornarono alle loro terre pronti a seguire nuovamente i loro capi. « Sperduto in un mare di Galla » era il modo in cui il console inglese a Gore, il capitano Erskine, aveva descritto la posizione del bituoded Uolde Tsaddik. « Un amabile vecchio di 68 anni che era stato mandato nel sud-ovest l’anno prima quale rappresentante dell’Imperatore. » Il bi­ tuoded Uolde Tsaddik era stato ministro sotto Menelik, presidente del senato subito dopo la sua costituzione e era stato nominato presidente del governo provvisorio a Gore da Hailé Selassié proprio prima della sua partenza per Gibuti. Ma sebbene fosse « un comandante poco capace » egli non era tuttavia senza aiuti. Aveva con sé delle truppe scioane abba* Capo della città e dell’amministrazione interna, dal quale dipendevano le mi­ lizie in guerra e i capi dei distretti; specie di ministro degli Interni [N.d.C.].

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stanza numerose, e a Gore (una città fondata congiuntamente, nel 1911, da ras Tessema e dal console inglese in una parte del territorio Galla dove non c’erano stati forti) la sua posizione in quel momento non era minacciata. C’erano anche altre guarnigioni scioane con cui erano stati mantenuti i contatti, a Burè a metà strada per Gambela, a Magi nel profondo sud, a Gimma e nella cittadina di Jimirra governata dal degiacc Taye Gulelat. Il degiacc Taye Gulalat, nipote dello zio di Menelik, il meridasmacc Hailé Mikael, era uno dei tanti della dinastia imperiale le cui rivendicazioni al trono erano, da un punto di vista dinastico, più valide di· quelle del figlio di ras Maconnen e uno dei tanti la cui vita era stata spesa per questo in prigione o in esilio lontano dalla capitale. Egli era stato protetto dall’im­ peratrice Taitù ed era stato da lei indicato a Menelik, durante la sua malattia, quale successore al trono al posto di Ligg Yasu. Il risultato fu il comando di piccoli governatorati nel sud-ovest, una vita molto amara per un uomo di 55 anni all’inizio della guerra con l’Italia. Egli non aveva condotto i suoi coscritti né a nord né a sud e sembra che fosse stato dato l’ordine per il suo arresto e che un gruppo di Scioani fosse sul punto di partire dalla capitale per arrestarlo quando l’Imperatore ritornato da Mai Ceu decise di fuggire. Il terzo filo di questo complicato intreccio di poteri era tenuto dagli inglesi. Come i capi locali Galla e gli altri governatori essi erano divisi in posizioni, potere, alleanze e punti di vista. A Magi oltre a un console inglese, il capitano Whalley, c’era anche un consigliere del governatore, il colonnello Sandford, che era stato presso la legazione di Addis Abeba e aveva rassegnato le dimissioni all’epoca di Ligg Yasu per cercare di riuscire in una serie di iniziative che gli erano servite per accrescere la sua esperienza e conoscenza del paese ma che non avevano certo contri­ buito alla sua fortuna. A Gore c’era un console inglese, il capitano Ers­ kine, al servizio diretto del Foreign Office e a Gambela c’era un console inglese nominato dal governatore generale del Sudan dal quale dipendeva. Il consolato inglese a Magi — come quello a Moyale al confine con il Kenya — era stato chiuso subito dopo l’entrata degli italiani a Addis Abeba. Tuttavia gli altri tre inglesi erano rimasti ed esercitarono un’enor­ me influenza anche se spesso contraddittoria. I loro obiettivi erano tanto diversi quanto il loro carattere e la loro vita: Sandford voleva vedere l’ultimo saliente dell’Impero etiope soprav­ vivere agli italiani nel nome dell’Imperatore; Erskine voleva soppiantare gli Amhara e prevenire una guerra civile da parte dei Galla; Maurice, solo interessato al commercio e alla pace, non aspettava altro che l’arrivo degli italiani anche se con quel confuso stato d’animo del vecchio colo­ nialista che rischia di vedere il suo potere usurpato dagli ultimi arrivati. Questo era il vortice di rivalità, complicazioni e intrighi verso cui ras Immirù, che aveva solo conosciuto la struttura di potere relativamente semplice delle province dell’Harar, Uollo e Goggiam, si dirigeva nel mag­ gio del 1936. Ma prima che raggiungesse Gore e desse vita a ulteriori 190

complicazioni con la sua presenza, la situazione si era già evoluta in senso drammatico — e con incredibile velocità. Quando il 2 maggio l’Imperatore lasciò la capitale, il degiace HapteMariam Gabre Egziabher, che sembra si trovasse a Addis Abeba, partì immediatamente per Lechemti per scoprire al suo arrivo che la sua po­ sizione nel suo stesso regno era stata resa inaspettatamente complicata dalla presenza della maggioranza dei cadetti di Oletta e dei più giovani fra i Giovani Etiopi che cominciarono a definirsi i « Leoni Neri ». Assie­ me i loro seguaci (che comprendevano 50 disertori eritrei) erano in tutto 350, ma giovani come Kifle Nasibù e Belai Haileab e i due figli del dr. Martin, Joseph e Benjamin, erano molto sicuri di sé, ben armati e decisi a combattere gli italiani. Questa determinazione non era condivisa dai giovani capi Galla come il degiacc Yilma Deressa, figlio di Blatta Deressa uno dei dignitari Galla che governava un altro stato Galla molto meno importante. Sebbene fe­ dele all’Imperatore scioano, come già al padre e il nonno, HapteMariam era stato educato dai Padri della Consolata e era stato molto amico del Padre Borello, un missionario, e del figlio mulatto di un noto esploratore italiano, Prasso. « Ricco, giovane, colto e con le idee chiare » — secondo Steer — « non ci si poteva certo pensare che dimostrasse entusiasmo per il ritorno di un Impero la cui improvvisa sparizione gli offriva occasioni molto allettanti. » Una delle sue prime mosse fu di rifiutare al degiacc Mangascià Uube (che a sua volta era rimasto a Addis Abeba) il permesso di attraversare le terre di Lechemti e di ritornare così al suo posto di governatore a Saio (Dembidollo). Le mosse seguenti furono improvvise e audaci. Tre petizioni che richie­ devano un mandato inglese sull’Etiopia sud-occidentale firmata da 33 po­ tentati Galla minori furono consegnate a Erskine a Gore; alla reazione favorevole di Erskine il degiacc HapteMariam formò la « Confederazione Galla occidentale». L’11 giugno Yilma Deressa quale incaricato della nuova confederazione scriveva a Eden : « Sua eccellenza il degiacc Hapte­ Mariam è attualmente occupato ad organizzare l’amministrazione civile. Fino ad ora ha istituito un ministero della Sanità, delle Finanze e del Commercio, delle Forze Armate e della Polizia e il dicastero delle Comu­ nicazioni. Egli ha, per porre a capo di questi ministeri, molti giovani edu­ cati in Europa o altrove. Istituendo un esercito modello sotto la direzione di ufficiali giovani e ben addestrati e con il suo deciso intervento egli ha già salvato le province del Galla occidentale dal caos che imperversa nel resto dell’Etiopia ». Dopo aver spiegato i meriti amministrativi dei Galla si mise ad illustrare il vitale argomento economico: « ... I Galla esportano caffè e altre materie prime al Sudan. Perciò per dieci anni e più la loro vita economica è dipesa più dal Sudan che dal resto dell’Etiopia. » Ed era vero; le esportazioni di caffè via Gambela avevano raggiunto nel solo 1936 il valore record di 200.000 sterline e da (piando era stata fondata una base commerciale dal capitano Màurice erano stati esportati attraverso il Sudan gomma, avorio e oro per il valore 191

di un milione e mezzo di sterline e erano stati importati manufatti di quasi pari valore. Dal punto di vista economico il sud-ovest era già un protettorato ingle­ se; in termini di politica locale la proclamazione di un mandato avrebbe significato la fine di interminabili controversie di confine e una logica estensione dell’Impero orientale britannico. Dal punto di vista Galla un mandato inglese sarebbe stato preferibile ad un governo italiano o scioano e essi erano abbastanza attenti da capire che avevano bisogno dell’appog­ gio di una potenza europea per poter salvare la loro indipendenza dagli altri. Il progetto sulle prime dovette sembrare agli inglesi cdmpletamente fantasioso ma appoggiato entusiasticamente da Erskine, che sognava già di poter aggiungere una nuova gemma al diadema imperiale, cominciò chiaramente a farsi più interessante dopo qualche riflessione. Visto che l’Etiopia aveva inevitabilmente perso la sua indipendenza perché solo gli italiani dovevano trame vantaggio dal momento che in tutte le prece­ denti discussioni di situazioni simili, Imperi erano stati spartiti fra le po­ tenze coloniali vicine? Dal punto di vista della realpolitik la difficoltà maggiore era il calcolo del momento opportuno; se si dichiarava un man­ dato bisognava farlo prima che gli italiani prendessero o cercassero di prendere il controllo della zona, in altre parole prima della fine delle piogge. Ma Haile Selassié si trovava a Londra e in procinto di appellarsi alla Società: la situazione ideale sarebbe stata quella di dichiarare il man­ dato e reinstallare Hailé Selassié quale capo di almeno una parte del suo Impero sotto la protezione inglese. Ma questo era esattamente, a quanto pareva, ciò che i Galla, che avevano sollecitato il mandato, non volevano. Un mandato accettato dagli inglesi ma denunciato da Hailé Selassié sarebbe stato immediatamente recepito dal mondo intero e soprattutto dall’opinione pubblica inglese, ferocemente partigiana, come una prova che Baldwin e Mussolini erano stati conniventi nello spartirsi l’Etiopia fra di loro e che l’intera questione delle sanzioni non era stata una sem­ plice farsa ma una farsa profondamente ipocrita. Inoltre qualunque fosse il pensiero del Colonial Office, una parte molto influente del Foreign Office era a favore di un ravvicinamento con l’Italia. Poi, c’era sempre il pericolo che Mussolini, ebbro delle sue vittorie e infuriato per vedersi derubato di una parte del suo bottino, potesse prendere la dichiarazione di un mandato come casus belli. Alla fine gli inglesi ritennero tutta la faccenda troppo intricata e scar­ tarono l’idea. Ma due avvenimenti dimostrarono che sia essi che gli ita­ liani la consideravano una possibilità concreta. Il primo di questi fatti fu l’arrivo a Gore di un aereo pilotato dal conte Carl von Rosen con a bordo un irlandese che era anche stato con la Croce Rossa sul fronte nord, il capitano Brophil5. Infatti il capitano Brophil era il corriere incaricato di far uscire dal sud-ovest prove docu­ mentate che i Galla avevano effettivamente e spontaneamente richiesto un mandato inglese. 192

Von Rosen aveva portato il suo importante passeggero via Khartum a Malakal e poi a Gore. Le prime copie delle lettere e delle petizioni scritte dai capi Galla giunsero con successo a Khartum ma andarono perse in circostanze misteriose a Brindisi — probabilmente dirette a Gine­ vra dove potevano essere prodotte nel momento decisivo se gli inglesi lo avessero ritenuto opportuno. Le lettere e le petizioni dovettero essere riscritte e ci furono ritardi. In quei giorni ras Immirù era arrivato a Gore e il numero dei preten­ denti rivali nel sud-ovest era divenuto ridicolamente elevato. Solo a Gore c’erano il Reggente e il Presidente del governo provvisorio, reciproca­ mente sospettosi e dubbiosi del potere legale che entrambi detenevano, oltre a un console inglese che li disprezzava entrambi e si considerava il Lugard di un nuovo protettorato inglese. A Lechemti c’era il degiacc HapteMariam, capo della confederazione Galla, e un gruppo di giovani scioani dai sentimenti contrastanti nei confronti dell’Imperatore esiliato ma che non avrebbero certo favorito una qualsiasi forma di indipendenza Galla. Nello Scioa Ghimizza c’era un probabile pretendente al trono imperiale. A Addis Abeba c’era il governatore scioano di una metà dell’Uollega e l’erede maomettano Galla al sultanato di Gimma, entrambi già sottomessi agli italiani. E lontano, al di là dell’Omo c’era il generale Geloso che era uffi­ cialmente il governatore di tutta la zona, con sede a Gimma. Per compli­ care ancor più la situazione i fitaurari Hosanna e Johannes, nipoti del re Gioii, avevano preso il potere a Saio, imprigionato lì gli Amhara e si stavano preparando ad attaccare il vecchio nemico di famiglia, lo sceicco Gogiali del Beni Sciangul; Blatta Taklè UoldeHauariat si stava portando, attraverso il Limmù, a sud di Lechemti con la sua banda ben armata di patrioti scioani; la guarnigione scioana di Gimma era attaccata dai citta­ dini e i comandanti scioani a Magi erano presi da una faida micidiale. Il 23 giugno Eden annunciava alla Camera dei Comuni che il governo di Sua Maestà aveva rifiutato di fornire armi al governo etiopico provviso­ rio a Gore « perché il governo provvisorio non aveva l’appoggio degli abi­ tanti del luogo, i Galla ». A quanto pare gli italiani presero questa dichia­ razione come un segnale d’allarme — i primi passi di prova fatti dagli inglesi per preparare l’opinione pubblica alla dichiarazione di un mandato. Una settimana dopo l’assemblea generale doveva aprire i lavori a Ginevra e a loro volta gli italiani passarono all’azione. Come gli inglesi, il solo mezzo bellico che gli italiani avevano per eser­ citare una qualche influenza sul sud-ovest durante le piogge era l’aviazio­ ne. Quattro giorni dopo il discorso di Eden un gruppo di alti ufficiali italiani accompagnati da Padre Borello e Prasso atterrarono vicino a Lechemti; il generale Magliocco comandante dell’aviazione, il maggiore Calderini già addetto militare, il capitano Locatelli decorato tre volte con medaglia d’oro al valor militare e altri otto. Ovviamente la loro missione consisteva nel prendere contatti con il degiacc HapteMariam per persua­ derlo che l’egemonia italiana sarebbe stata molto più piacevole e vantag­ giosa anche di un dominio indiretto da parte degli inglesi. 193

Pare che l’aereo atterrasse verso sera e che, naturalmente, gli italiani decidessero di accamparsi durante la notte e di recarsi a Lechemti la mattina seguente. Tuttavia furono così ingenui da supporre che l’arrivo dell’aereo non fosse stato notato e il loro comportamento fu così scarsa­ mente militare da non mettere delle sentinelle. Kifle Nasibù con i cadetti e i disertori eritrei li attaccò nel sonno e li uccise tutti — fuorché Padre Borello che riuscì a scappare e a raggiungere il suo vecchio amico il degiacc HapteMariam sotto la cui protezione rimase. Per un momento HapteMariam, preoccupato per la propria posizione equivoca, incerto che il pericolo immediato dei cadetti fosse maggiore di una possibile rap­ presaglia degli italiani, prese in considerazione la fuga nel Sudan. Probabilmente fu il discorso di Hailé Selassié, o piuttosto le reazioni di tipo emotivo dei delegati e della stampa al suo discorso, che diedero il via alla decisione del governo inglese (il Foreign Office cercando di prendere tempo aveva pensato di chiedere alla Società di prevenire qual­ siasi avanzata italiana finché la questione del mandato non fosse stata sistemata) di non rischiare un secondo disastro a la Hoare. Il 2 luglio fu deciso che le proposte per un mandato sarebbero state scartate e la deci­ sione fu mandata a Gore tramite Erskine. Con essa la « Confederazione del Galla occidentale », che non aveva più alcuna ragione d’essere, si dis­ solveva e il degiacc HapteMariam Gabre Egziabher si dedicò al consoli­ damento del suo potere personale a Lechemti persuadendo i cadetti e i loro seguaci a dirigersi verso Gore, tenendosi in contatto con gli italiani tramite Padre Borello e aspettando di vedere da che parte avrebbe sof­ fiato il vento d’autunno. Al suo arrivo a Gore ras Immirù non era più ottimista circa le sue probabili possibilità di resistere nel sud-ovest di quanto ci si poteva atten­ dere da un capo che era stato bombardato, vessato ed inseguito per più di 150 chilometri. Egli mandò un telegramma tramite Erskine a Hailé Selassié a Londra dicendogli di aprire i negoziati per una resa agli italiani e avvertendo che se Hailé Selassié avesse rifiutato egli avrebbe usato come intermediario ras Cassa che si trovava a Gerusalemme. Per quanto lo ri­ guardava pensava di stabilirsi in Uganda e ancora una volta tramite Erskine, ne chiese il permesso al governo inglese. Era una situazione demoralizzante sotto tutti i punti di vista; c’era il problema dei Galla nell’Uollega, l’attacco aperto alla guarnigione scioana a Gimma (600 regolari mandati da Uolde Tsaddik per togliere l’assedio disertarono lungo la via e divennero sciftà'), l’atteggiamento del console inglese che era quasi felice del progetto di ras Immirù di arrendersi o meglio ancora di andarsene, le inevitabili controversie con Uolde Tsaddik e per finire la richiesta di Hailé Selassié affinché quanto contenuto nella Banca di Gore fosse mandato a Londra tramite Erskine — una richiesta che sia ras Immirù che il bituoded Uolde Tsaddik rifiutarono di prendere in considerazione 6. Con il collasso della « confederazione del Galla occidentale » e con l’arrivo a Gore dei cadetti, i « Leoni Neri » e i loro seguaci, che appog­ 194

giavano Immirù contro il poco combattivo Uolde Tsaddik, la situazione cominciò a migliorare e il Reggente cominciò a estendere il suo controllo al di fuori degli immediati confini di Gore e dell’Illubabor. 11 sistema ghebar fallì o quanto meno lasciarono che scomparisse7, i soldati furono regolarmente pagati e sembrò che si potesse organizzare una forza armata moderna ed efficiente al comando dei cadetti il cui morale era compren­ sibilmente alto dopo le riuscite uccisioni di Lechemti che, tra l’altro, non erano state approvate da ras Immirù. Sfortunatamente per il Reggente, la possibilità di mantenere un eser­ cito, per non parlare di riorganizzazione, dipendeva dalla sua disponibilità di soldi e questa dipendeva dalle tasse che il fedele sceicco Cogiali conti­ nuava a pagargli quale rappresentante di Hailé Selassié e comandante di un esercito che poteva in caso di necessità andare in suo aiuto. Ma quan­ do nel mese di luglio lo sceicco Mustafà el Tor, capo di un’altra tribù del Beni Sciangul, s’impossessò del distretto di Asosa e i fitaurari Johannes e Hosanna attaccarono da sud, lo sceicco Cogiali fuggì a Kurmuk, posto al confine con il Sudan, e le sue richieste di aiuto a Gore non ottennero risposta. Ras Immirù non era abbastanza forte per opporgli tutti i Liekà Qelam Galla anche se era in giuoco la posta dei tributi in oro. Questo colpo fu quasi la fine per il governo provvisorio nel sud. Alla metà di settembre Immirù e Uolde Tsaddik ebbero un incontro; Immirù dichiarò che avrebbe preso la nave diretta da Gambela a Malakal nel Sudan e Uolde Tsaddik dichiarò che si sarebbe sottomesso agli italiani dopo le piogge cercando di ottenere le migliori condizioni possibili. Essi decisero di dividersi quanto rimaneva dalla tesoreria. Il 29 di settembre veniva chiuso ufficialmente il consolato inglese a Gore; la politica del Foreign Office era quella di un ravvicinamento con l’Italia che doveva culminare il gennaio seguente con la firma di un Gentlemen’s Agreement a Roma. Le piogge stavano finendo; e con la rapida diminuzione del livello del fiume Baro si fissò la data in cui sarebbe partita l’ultima nave da Gam­ bela: il 14 di ottobre. Ma con l’ultima nave arrivò un passeggero inatteso, George Herouy figlio di Blattengueta Herouy, che era stato con il padre alla « Fairfield » a Bath e che aveva persuaso gli inglesi a lasciarlo passare per andare a prendere sua moglie, la figlia di ras Immirù che aveva se­ guito il padre dal Goggiam. George Herouy portò con sé una serie di lettere scritte da Hailé Selassié e notizie molto confortanti anche se completamente false: l’Imperatore sarebbe molto presto arrivato a Gore scortato da 15 bombardieri inglesi; Eden nel corso di un colloquio aveva promesso l’intervento militare inglese e così via. Erskine fu preso da parte dall’Abba Mikael in persona, vescovo di Gore, che gli chiese se era vero che il duca di Harar8 stesse per spo­ sare una principessa inglese. « Le false speranze così alimentate hanno dato vita a un’ondata di resistenza che fino alla fine di settembre si era praticamente calmata, e ora il ritorno di questo insignificante falso individuo che è George Herouy 195

ha portato gli Amhara sopravvissuti a credere prossimo un potente aiuto dall’Europa », così Erskine irato scrisse a Eden. Con o senza ragione. Hailé Selassié aveva ancora una volta surclassato i suoi alleati e nemici riu­ scendo a sollevare il morale dei suoi sostenitori e nel rendere tutti certi che un’Etiopia indipendente, anche se ridotta per dimensioni e potere, continuava a combattere. L’ultima nave partì il 14 di ottobre con un ex­ console inglese a cui era stata data una vacanza di sei mesi e un futuro oscuro, ma lasciando il Reggente a Gore a fronteggiare l’inevitabile at­ tacco italiano.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

L’INSEGUIMENTO DEI RAS

Uoizerò Dabritù Abaye, sorella del padre di ras Desta, viveva vicino la chiesa di Abbo a Erer vicino alla ferrovia. Un giorno, dopo il Mascal, un giovane andò da lei per dirle: «Mamma, la figlia del Re d’Italia è qui. Sapessi quante guardie ci sono e come è numeroso il suo seguito! È ap­ pena arrivata con 18 vagoni ed è scesa al lago di Biscioftù. Come sono belli! » Negga con i suoi 80 uomini era accampato vicino alla chiesa, aveva messo in fuga la banda che lo tallonava con uno stratagemma creando nu­ vole di polvere con 17 cavalli e annunciando al suono di un tamburo: « Sono il figlio di Abba Gran *. Il principe ereditario è qui ». Gli ordini datigli dal degiace FikreMariam erano di fare incursioni sulla linea fer­ roviaria nel tratto fra Biscioftù e Addis Abeba e benché riluttante a obbe­ dire a FikreMariam che sospettava di debolezza («non c’è alcuna sicu­ rezza se uno attacca un ladro o si unisce con un codardo » gli aveva detto) la notizia dell’imminente arrivo della principessa italiana lo spinse a com­ piere un’altra delle sue gesta. « Lo state proprio dicendo a me! » pensò fra sé e sé quando la Uoizerò Dabritù lo fece chiamare. Con i suoi uomini e con molti altri si recò al ponte nei pressi di Ducam e preparò un’imbo­ scata al treno che sopraggiunse poco dopo rimbrunire. « Per prima cosa colpii il macchinista, poi attaccai il treno; tutti gli uomini dei 18 vagoni saltarono a terra. Fuggimmo quindi sulle colline per non essere bombardati dall’aria. Gli italiani portarono 40 bare e le riempirono di cadaveri. » Il treno si fermò alla stazione e gli italiani misero sentinelle a guardia del treno mentre Negga si preparava per un nuovo attacco, nominando i capi in nome del principe ereditario e facendoli giurare fedeltà « Perché l’uomo deve essere uomo, giuriamo insieme fratelli. » « Dopo aver sconfitto il primo treno ne giunse un altro proveniente da Addis Abeba e fece fuoco su di noi. Fui colpito in 12 punti e essendo ferito allo stomaco, i miei intestini uscirono fuori. Dissi al mio attendente di rimetterli dentro ed egli obbedì usando delle foglie, ma i miei visceri si erano attorcigliati. » Ottantasette dei suoi uomini furono uccisi, Negga fu trasportato su un mulo a Erer dove molti che erano fuggiti tornarono ad unirsi a lui. Egli disse: « Keran Geremau » cioè: «colui che è rimasto in­ dietro viene sorpreso » 2. Si mise a letto e ricevette una lettera di simpatia, 197

ben poco incoraggiante, dal suo capo FikreMariam: «mi spiacerà, non per la tua morte, ma per averti perso come un testimonio dell’Etiopia ».

In realtà le principesse Iolanda, Mafalda e Giovanna erano al sicuro in Europa e il loro padre, il re Vittorio Emanuele, non dovette mai temere che potessero incontrare nuovi sudditi come Negga. Il treno che subì rim­ boscata trasportava il ministro delle colonie Lessona e le voci della sua straordinaria bellezza che si erano diffuse attraverso l’Erer, erano senza dubbio una grossa esagerazione. Lessona stava effettuando un giro d’ispe­ zione per assicurarsi che Graziani, di cui aveva osteggiato la candidatura e di cui non amava il carattere, stesse efficacemente combattendo o stesse per combattere gli ultimi focolai di resistenza etiopica. L’imboscata a Ducam, a pochi chilometri da Addis Abeba, fu un- inzio singolarmente sfa­ vorevole. Nonostante il pronto ed efficace salvataggio e che Graziani avesse con­ sigliato il suo eminente ospite di utilizzare un aereo da Diredaua, Lessona commentò amaramente che lungo la linea ferroviaria gli italiani sembra­ vano più delle sparute guarnigioni in terra straniera che i vittoriosi por­ tatori di pace di un nuovo impero. Non sembrò essere troppo soddisfatto della teoria espressa dal viceré che un’imboscata così abilmente preparata, doveva indubbiamente essere stata suggerita da consiglieri europei. Durante la visita di 10 giorni Lessona e Cobolli Gigli, ministro dei la­ vori pubblici che lo aveva accompagnato, danneggiarono il più possibile la posizione di Graziani. Lessona ascoltò con attenzione ras Seyum che gli chiese di rimanere, di far dimettere Graziani e di « riferire a Mussolini che qui viviamo nel dolore e nell’ingiustizia ». Nonostante le raccomandazioni di Graziani, Lessona e Cobolli Gigli si recarono una sera nella piazza di San Giorgio a controllare la rimozione della statua equestre di Menelik (Lessona annotò con tono trionfante che invece dei temuti disordini pubblici solo un miserabile giovane aveva pian­ to alla vista), del Leone di Giuda alla stazione ferroviaria, che fu sostituita con la lupa di Roma che allattava i gemelli 3. Tuttavia, e certo più impor­ tante, dopo che Lessona finalmente arrivò sano e salvo il 13 ottobre, Gra­ ziani potè riferire non solo di aver avuto un’estate tranquilla dopo gli al­ larmi e le incursioni del luglio ma di intervenire dovunque dato che le piogge erano terminate. Un mese prima ras Hailù e i suoi uomini erano stati inviati fuori dalla città con l’ordine di sgombrare le vie d’accesso ad Addis Abeba a nord e a ovest, ordini che essi avevano eseguito con successo 4. A nord-est Aberrà e Asfauossen Cassa si erano ritirati nel Salalè e stavano negoziando i ter­ mini della resa. A nord-ovest Abebè Aregai e altri capi erano nascosti sulle montagne del Mens e dell’Ancober ma il generale Tracchia, al comando della 2a brigata eritrea, pattugliava Debrà Berhan e teneva sgombra la stra­ da per Dessiè. Nel sud-ovest l’attacco alla ferrovia doveva ricevere una

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pronta risposta con l’invio, il 19 ottobre, di due colonne: la la brigata eritrea del generale Gallina e la 220a legione del console Mazzetti. Allontanandosi dalla capitale la situazione variava da governatorato a governatorato. La Somalia e l’Eritrea erano tranquille; nel governatorato dell’Harar il generale Nasi riattivava i passi e spediva colonne in esplora­ zione sulle montagne del Cercer; nella vasta regione dell’Amhara la sola armata nemica, divenuta ben più di una banda di guerriglieri era costi­ tuita dagli uomini di Uondossen figlio maggiore di ras Cassa. Secondo gli italiani Uondossen Gassa aveva fatto in luglio un falso atto di sottomissione, « predicato » come lo chiamavano gli etiopi, per poi di­ chiararsi contro gli italiani in settembre, subito dopo aver ricevuto un messaggio dal viceré lanciatogli da un aereo. Graziani, infuriato aveva telegrafato a Pirzio Biroli ordinandogli di compiere rappresaglie e di bom­ bardare e usare i gas sull’intera zona di Lalibelà ad esclusione delle chiese « senza alcuna distinzione fra quelli che si sono sottomessi e quelli che non lo hanno ancora fatto ». Il 12 settembre Pirzio Biroli riferì che il maggiore Caffaro e le sue bande avevano distrutto tutti i villaggi nella valle di Bilbolà Giorgis, scoperto 15 fucili e molte munizioni nella chiesa, fucilato tutti i « ribelli » catturati (250) e feriti molti altri. Ci sono cronache discordi di questo amaro episodio di resistenza nel Lasta ma, da resoconti frammentari raccolti qua e là, sembra che Uon­ dossen Cassa avesse attaccato Lalibelà, ricacciando la guarnigione al co­ mando del capitano Bertelli e egli stesso fosse stato poi ricacciato sulle valli e sulle colline del Lasta. Aveva circa 1.500 uomini e, secondo gli italiani, con lui si trovava il vescovo del Tigrai, Abba Isaac. Non è certo se in questo periodo il degiacc Hailé Chebedde fosse con Uondossen Cassa o da solo sulle colline o, come l’anziano padre, a Socotà convalescente per la ferita riportata al collo. Ad eccezione dei minori fo­ colai di resistenza il viceré poteva riferire al ministro che, con la fine della stagione delle piogge, nelle regioni settentrionali, centrali e orientali dell’Etiopia era stata spazzata via ogni forma di resistenza organizzata. Solo i superstiti degli eserciti sconfitti, resistevano ancora qua e là nelle zone montane. La maggior parte del paese era calma e ordinata, era stato accettato l’arrivo degli ufficiali e delle colonne italiane, poi quello dei com­ missari e dei residenti e la nuova struttura amministrativa. Così il cuore delle tradizioni etiopiche, l’altopiano abitato da popolazioni che parlavano amarico e tigrè era sotto fermo controllo. Le forze di una certa impor­ tanza erano quelle radunate intorno ai due ras ancora in armi: ras Immirù nel sud-ovest e ras Destà nel sud-est. Ma per la metà di ottobre colonne stavano marciando contro entrambi gli oppositori e Graziani, del tutto fiducioso, poteva assicurare Lessona che la posizione dei due nemici era militarmente disperata. Tornato a Roma Lessona riferì a Mussolini sulla situazione etiopica e Mussolini tenne il famoso discorso « dell’olivo e della baionetta » annun­ ciando una nuova era di prosperità per il secondo impero romano. « In 199

sei mesi — egli disse — abbiamo conquistato l’Impero ma ci occorrerà an­ cora meno tempo per occuparlo interamente e ristabilire la pace. »

Iniziò così una serie di settimane disastrose per gli ultimi capi etiopi che, uno dopo l’altro si arresero, si sottomisero e furono sconfitti e le tron­ fie parole di Mussolini sembrarono quasi avverarsi. Il primo a morire fu il degiacc FikreMariam; non si sa come e dove fu ucciso e neppure da chi. Negga seppe che egli era andato con il degiacc Bakale HapteGabriel e aveva attraversato l’Auasc diretto nell’Arussi, sconfitto dalle colonne ita­ liane che avanzavano. Negga stesso, come altri soldati di FikreMariam, fuggì5 nell’Arussi e fu lì che appresero che il loro capo era morto; il suo corpo non fu mai ritro­ vato; si disse che era stato ferito e che s’era trascinato fino ad una caverna per morirvi e che un galla di nome Gimma Sebete era perito con lui. Nacquero numerose leggende su di lui nel Mingiar come accade in tutti i paesi per eroi morti i cui corpi non sono ritrovati. In ogni caso la sua morte avvenne più o meno verso la fine di ottobre e i suoi seguaci si river­ sarono, come già avevano fatto gli uomini dell’esercito del degiacc Nasibù, nella provincia dell’Arussi, demoralizzati, ripetendosi a vicenda « il corag­ gio non serve » ; attaccando o subendo attacchi per rapinare e imposses­ sarsi delle armi. Molti furono uccisi in una battaglia con gli uomini del begcrond FikreSelassié e Hailé Abba Mersa, finché si rivolsero tutti alla sola legittima autorità rimasta nella provincia, nonostante fosse una donna: la Uoizerò Qualamuoro, moglie del degiacc Amde Mikael il governatore rifugiatosi a Gerusalemme. Era una donna non più giovane e non priva di autorità; aveva 45 anni, un forte carattere ed era nipote del Negus Mikael alla cui corte era stata allevata; capace quindi di riscuotere fiducia degli ex membri della guardia di Dessiè. Si tennero varie riunioni e fu deciso, quasi inevitabilmente, di cercare di congiungersi al degiacc Beienè Mered a Goba. Il ftaurari Bahadè sulle montagne del Garamullata era giunto da solo alla stessa decisione. Il fattore decisivo fu, in entrambi i casi, la presenza al fianco del degiacc Beienè Mered della moglie, la figlia dell’Imperatore, principessa Roma­ ne Uorq.

Nell’Etiopia sud-orientale ancora più primitiva e priva di strade del sud-ovest o del nord, gli italiani si erano fermati all’inizio delle piogge e non avevano cercato né di muoversi verso nord dalle posizioni su cui si erano attestati (il generale Navarrini e una guarnigione a Neghelli) né di infiltrarsi a sud di Addis Abeba o a sud-ovest di Harar. I Galla orientali erano più primitivi e di gran lunga meno organizzati del ceppo occiden­ tale e, nell’assenza di capi indigeni, la propaganda e gli intrighi erano del tutto inutili. Gli intrighi miravano a rompere l’unità dei capi Amhara; in realtà obiet200

tivo superfluo poiché essi erano già divisi. Il degiacc Beienè Mered e ras Destà Damteu controllavano ancora perfettamente le loro rispettive capitali Irgalem e Goba. Inoltre un terzo governatore indipendente, il degiacc Maconnen Uossenè dell’Uollamo, a cui era stato ordinato nel momento di crisi verificatosi in gennaio di appoggiare ras Destà e che aveva rag­ giunto il fronte due mesi più tardi a Uadarà con 8.000 uomini, era tor­ nato a Saddu, sua capitale, senza aver in alcun modo combattuto. In altre parole il sud-est aveva conservato pressoché intatta la sua struttura di go­ verno. I governatori di Hailé Selassié erano al loro posto a governare le loro province, quasi del tutto privi di contatti esterni, senza ordini dall’alto e quindi ancor più propensi ad agire individualmente nelle loro rispettive giurisdizioni ed ancora meno disposti a cooperare che in tempi di pace. Anche se ce ne fosse stata la voglia, ma i fatti lo negano, nessuno dei tre governanti poteva vantare una supremazia sugli altri; le comunicazioni erano inoltre molto più difficoltose nel sud-est che nel sud-ovest. Erano province povere, con scarse vie commerciali o carovaniere. Una differenza precipua col sud-ovest stava nel fatto che proprio a causa della loro pover­ tà, non c’erano mai stati molti contatti con la colonia inglese confinante. Ad ogni modo le possibilità anche minime di contatti erano bloccate dalla presenza italiana a sud che concretamente tagliava loro la strada con il confine del Kenia. Nonostante le province non avessero pressoché subito l’invasione, l’ani­ mo dei capi scioani, dopo le sconfitte subite e le notizie che giungevano da nord, era comprensibilmente abbattuto. Il ftaurari Teferè comandante dell’avanguardia del Baie, aveva « predicato » agli italiani e il ftaurari Ademè Ambassù uno dei due più importanti ftaurari di ras Destà aveva fatto vero atto di sottomissione. L’altro ftaurari, Tademme Zellecà, si era superficialmente riconciliato e riconosceva l’autorità di ras Destà, pur te­ nendo in disparte i suoi uomini. Per quanto concerne i governatori sembra che gli emissari italiani, come l’ingegnere Castagnola, fossero in diretto contatto con i tre, ma che solo Maconnen Uossenè dell’Uollano (che non partecipò ulteriormente alla lotta) fosse indotto ad accettare le condizioni degli italiani, sebbene formalmente non si fosse ancora sottomesso. Chi in realtà stimolò la resistenza del sud-est non fu né ras Destà né Beienè Mered, ma uno dei più antichi e fieri oppositori degli italiani, il degiacc GabreMariam. Inviato da Dessiè dall’Imperatore per indurre alla riconciliazione ras Destà e i suoi ftaurari egli era riuscito solo in parte in questo, ma era riuscito del tutto nel far rinascere lo spirito di lotta e nel creare un fronte compatto contro il nemico. Anche se nominalmente sottoposti all’autorità di ras Destà 6, i nobili del Sidamo guardavano a GabreMariam come loro capo. Le sconfitte conse­ cutive avevano screditato sia l’esercito « moderno » sia le idee progressiste di ras Destà. Non si seppe più nulla del battaglione delle guardie di Irga­ lem e Goba (sembra proprio che Bezabeh Silescì contrariamente a suo fratello Mesfin, non prendesse più parte al combattimento o alla resisten­ za ) e, benché non si dubitasse del coraggio personale di ras Destà7, fu 201

GabreMariam con 4.000 uomini a fermare l’avanzata italiana a nord, sul Giabassirè. Il 14 ottobre il generale Geloso sferrò l’usuale attacco su tre colonne contro il nemico che, durante tutta la stagione delle piogge, era rimasto attestato a due, tre chilometri dalle sue postazioni e impedendogli di ricevere gli onori legittimi quale governatore di tutta l’Etiopia meridio­ nale. La postazione avanzata etiopica sul monte Gegassirè fu aggirata e il capo che la presidiava, il degiacc Agaye, ucciso. Sei giorni più tardi il grosso delle truppe di GabreMariam fu attaccato, il vecchio degiacc ferito e il suo esercito respinto. Ma l’avanzata del generale Geloso fu lenta e dif­ ficile; i fianchi e le linee di rifornimento (a mezzo muli) erano continuamente minacciati, e alla fine di ottobre la divisione Laghi, nonostante l’avanzata, non era giunta molto lontano. Con la fine di ottobre nel sud-ovest si verificava tuttavia un cambia­ mento decisivo nel delicato equilibrio di potere: il degiacc HapteMariam Gabre Egziabher decideva, dopo un’estate di esitazioni, di sottomettersi agli italiani; Lechemti veniva occupata da una colonna italiana. Sembra che fosse stato padre Borello a preparare, quasi materialmente, il terreno per l’arrivo degli italiani. Nelle prime due settimane di ottobre 26 bombardieri « Caproni » atterrarono a Lechemti, questa volta senza dif­ ficoltà e senza alcuna opposizione. Una colonna, la la brigata eritrea del generale Malta, partì da Addis Abeba I’ll ottobre. Il 14 ottobre l’ultimo vaporetto partì da Gambela trasportando Erskine con un’ultima richiesta di aiuto rivolta agli inglesi e firmata sia da ras Immirù che dal bituoded Uolde Tsaddik 8. ' Il 22 gli aerei italiani lanciarono sull’Uollega e sull’Illubabor volantini firmati dal degiacc HapteMariam : « Galla, non resistete all’avanzata ita­ liana », Il 24 la colonna di Malta giunse a Lechemti e, temendo un at­ tacco da parte di ras Immirù che si diceva disponesse di 10.000 uomini, occupò i ponti sul Diddessa nella parte orientale della città. Ma l’occupazione di Lechemti fu solo la posizione più avanzata di un movimento a tenaglia progettato per spezzare simultaneamente il potere degli Scioani nel sud-ovest. Gli italiani s’erano impadroniti della regione immediatamente ad ovest della capitale per mezzo di un potentato locale, il degiacc HapteMariam; il piano degli italiani era di utilizzare un altro capo per impadronirsi delle regioni ricche ed equidistanti nel sud-est: Abba Giobir del Gimma. La differenza era che Abba Giobir si trovava nella capitale con gli ita­ liani e non aveva il controllo del suo territorio come HapteMariam. Tuttavia l’influenza di Abba Giobir era sentita anche da Addis Abeba. Ad un certo punto durante l’estate il comandante della guarnigione scioana Tana Behapte aveva attaccato e bruciato la città « indigena » e cattu­ rato il figlio di Abba Giobir rilasciato poi dietro pagamento di un riscatto. Si dice che Abba Giobir più tardi offrisse 3 dollari per la testa di ogni 202

amhara cristiano che gli fosse portata e che gli italiani dovessero interve­ nire per fermare le uccisioni che seguirono. Il 7 ottobre, leggermente in anticipo sulla colonna di Malta, l’Abba Giobir con un migliaio di uomini armati dagli italiani e con l’appoggio degli aerei italiani marciò per rioccupare il territorio già di suo nonno. Non si sa se egli fu fermato in cammino da bande amhara, o se avesse delibe­ ratamente deciso di fermarsi alla notizia che Blatta Taklè era sceso a Gimma rinforzando temporaneamente la guarnigione scioana. Quel che è cer­ to è che alla fine di ottobre solo un lato del movimento a tenaglia, prece­ dentemente progettato, aveva raggiunto il suo obiettivo: Lechemti era in mano italiana, Gimma non ancora. Novembre fu un mese di grandi manovre da entrambe le parti,, sia in tutto il sud che nel sud-est dell’Etiopia, con la differenza che le manovre italiane erano coordinate e quelle etiopiche no. È diffìcile essere sicuri dei piani o degli esatti movimenti degli eserciti e delle bande etiopiche in quel periodo; le testimonianze sono confuse e spes­ so contraddittorie; l’impressione che se ne trae è più di una caccia che di una guerra, con gli italiani, fiduciosi anche se non eccessivamente, nel ruo­ lo di cacciatori che incalzavano i loro nemici ancora pericolosi, spingen­ doli da un nascondiglio all’altro, azzannandoli alle calcagna e con gli etiopi, rabbiosi ma confusi e disorientati e incerti, che cambiavano ogni giorno i piani nel tentativo di rompere l’accerchiamento o di sfuggire dalle maglie della rete che si stava chiudendo intorno a loro. Non si sa con precisione quando ras Immirù e i suoi uomini s’allontana­ rono da Gore. Ad un certo punto i « Leoni Neri »ei cadetti avevano im­ posto un piano che prevedeva un attacco contro ras Hailù ad Ambo, e da qui contro la capitale. Con l’arrivo degli italiani a Lechemti ciò divenne impossibile. Benché il degiacc HapteMariam non avesse mai formalmente riconosciuto l’autorità del governo di Gore, non lo aveva neanche mai rin­ negato fino al crollo della « confederazione Galla ». Sembra proprio che in agosto la città di Lechemti avesse deciso di allearsi definitivamente con il governo di Gore e che fossero le insistenze dei suoi balabat assieme alle lusinghe di padre Borello che fecero scegliere alla fine ad HapteMariam gli italiani. In ogni caso le prime forze che attaccarono ras Immirù non erano ita­ liane ma quelle combinate degli Uollega Galla orientali e occidentali, al comando dei due fratelli originari di Saio, i ftaurari Johannes e Hosanna, e del fitaurari Kara, comandante dell’esercito del degiacc HapteMariam. Nonostante le forze di entrambi i contendenti ammontassero a diverse mi­ gliaia, si trattò più di una lunga scaramuccia che di una battaglia con la sua logica conseguenza; e comunque tre ufficiali del ras Immirù furono uccisi e molti soldati. Per gli scioani ciò significava la fine di qualsiasi speranza di conservare l’Uollega e il Nord. Essi marciarono in direzione sud-ovest verso Gaffa e Gimma dove si trovavano le loro rimanenti guarnigioni: sotto assedio quel203

la di Gimma, di dubbia lealtà quelle di Caffa e Magi, divise ma pur sem­ pre scioane tra una popolazione galla. Divenne improrogabile per gli italiani completare il movimento a tena­ glia con il secondo fronte. Il 3 novembre Graziani inviò una colonna moto­ rizzata al comando del colonnello Princivalle,· lungo la strada per Gimma perché si congiungesse con le truppe di Abba Giobir in marcia e insieme muovessero alla conquista di Gimma. La colonna impiegò tre giorni per percorrere circa 50 chilometri e al terzo giorno fu attaccata da un nemico quasi dimenticato : il degiace Balcha. Il vecchio capo galla aveva vissuto una vita sanguinosa e crudele. Da ragazzo, alla prima battaglia, giacque esanime al suolo, evirato dai conqui­ statori amhara, da giovane combattè ad Adua sotto Γ imperatrice Taitù e vide gli eritrei della brigata Albertone sbandare e battere in ritirata sotto il fuoco della sua artiglieria, guidò le truppe scioane contro Ligg Yasu ad Harar, e gli eserciti del Sidamo contro ras Tafarì ad Addis Abeba. Conobbe potere e prigione e la pace forzata di un monastero. Rimase le­ gato da sentimenti di lealtà non a Tafarì, figlio di Maconnen, ma a Menelik suo capo e al vecchio Impero. Non sarebbero certo toccati a lui, Balcha Abba Nefso, sconfitta, esilio o sottomissione con cui i figli della generazione di Menelik si disonorarono. Egli che aveva comandato i can­ noni imperiali ed era stato alla testa di migliaia di soldati doveva aver pre­ visto che sarebbe stata la sua ultima battaglia. Con la sua banda di soli due o trecento uomini contrastò l’avanzata della colonna motorizzata dei suoi antichi nemici giunti dall’Europa. Forse aveva ripetuto tra sé con ironica amarezza la frase con cui i guerrieri etiopi andavano spesso a morte sicura: «Vieni, questa è la nostra notte di nozze». Secondo alcuni il degiacc Balcha sarebbe morto nel modo seguente. Quando i combattimenti e il fuoco cessarono, egli inviò un messaggio agli italiani per dire che desiderava arrendersi. Due ufficiali italiani e un sacer­ dote che lo aveva conosciuto si recarono da lui con una scorta per accet­ tare la sua resa. Lo trovarono seduto da solo. Senza nulla sospettare, si fecero avanti: l’ultima immagine che i loro occhi percepirono fu quella del terribile vecchio che estraeva dalle pieghe del suo sciamma una mitra­ gliatrice. Morì, come aveva vissuto in una pioggia di proiettili e in un bagno di sangue e trascinò con sé, all’inferno o in paradiso, tre degli odiati ferengi invasori: infido, impressionante, quasi eroico. Il 14 novembre Malta e la la eritrei si mossero da Lechemti alla volta di Gore. Il 15 novembre Tessitore e la 7a brigata eritrea raggiunsero Lechemti da Addis Abeba e presero il posto della la brigata. Il 17 no­ vembre la colonna di Princivalle raggiunse e occupò Gimma, il 24 novem­ bre Princivalle telegrafò a Graziani di inviare una squadriglia aerea sulla zona di Gaffa per affrettare la resa del degiacc Taye Gulelat. Il 26 novembre il generale Malta raggiunse Gore e trovò la città già occu­ pata dal ftaurari Johannes « nostro vecchio amico e fedele alleato » co­ me Graziani lo chiamò. Il 3 dicembre il generale dell’aeronautica Pinna 204

atterrò a Saio, dove fu accolto dal fratello di Johannes, ftaurari Hosanna che fu promosso degiacc come suo fratello9. Sembra che il bituoded Uolde Tsaddik rimanesse a Gore e si sottomet­ tesse immediatamente. Il solo a non sottomettersi fu l’Abba Mikael ve­ scovo di Gore. Non solo rifiutò di collaborare ma scomunicò quelli che lo avevano fatto. Fu prima imprigionato e poi fucilato pubblicamente: il secondo vescovo che gli italiani uccidevano. In un giorno di novembre Blatta Taklè finalmente giunse con i suoi uomini forse nel triangolo di foreste tra Gore, Lechemti, Gimma o forse nella stessa Gore (se anche ras Immirù era arrivato a Gore dopo la sua battaglia con gli eserciti galla riuniti) proponendo come tattica la guerriglia e di ridurre l’esercito di ras Immirù (che con i civili si era gonfiato fino a toccare la cifra di oltre 20.000 fra uomini donne e bambini) a 3.000 uomini ben armati. Quando le sue proposte furono respinte, invitò i giovani ufficiali di ras Immirù ad unirsi alle sue forze, ma quasi tutti rifiutarono. Ripartì allora suonando la sua tromba di guerra predicendo la cattura e la morte di ras Immirù entro 15 giorni. Mentre il generale Nasi incalzava ad est sulle montagne del Garamullata e del Cercer, il fitaurari Bahadè decise di unirsi al degiacc Beienè Mered a Goba. Con migliaia di uomini e donne marciò attraverso le impervie montagne e colline dell’Arussi e del Baie, inseguito e bombardato durante il giorno dagli aerei italiani. Sembrava più l’esodo di un intero popolo che un esercito in marcia. Alla fine, abbandonato da molti, dovette stanca­ mente ritornare verso le colline dell’Harar, perché quando si trovava an­ cora a Goba, il fronte sud stava crollando. Il 10 novembre il generale Navarrini tentò di uscire dà Neghelli e su­ perare la foresta dell’Uadarà che da nove mesi bloccava l’avanzata ita­ liana. Gli abitanti dell’Uollo si arresero senza quasi sparare un colpo. In cinque giorni la colonna Navarrini attraversò la foresta dirigendosi an­ che se lentamente alla volta di Irgalem minacciando di tagliare ras Destà da qualsiasi contatto dal Baie. Contemporaneamente il generale Geloso marciava verso nord subendo un ritardo per via di un attacco di retroguardia condotto da GabreMariam. Da ultimo il terzo inevitabile attacco finale giunse da Addis Abeba. Una colonna autocarrata al comando del capitano Tucci e costituita principalmente dalla banda tigrina del degiacc Toclu Mescescià, partì dalla capitale il 23 novembre e una settimana più tardi aveva aggirato i laghi passando al di là di Sciasciamanna. Lungo il percorso Tucci reclutò ed armò 5.000 Galla Arussi. Intorno a Irgalem e Uondo, aree fittamente popolate, i Sidanci si sollevarono e cominciarono ad uccidere i colonizzatori scioani. Quando le prime colonne del generale Geloso giunsero a Uondo il 29 novembre ricevendo la sottomissione del Motte degli Aliata Sidanci, uno dei loro primi compiti fu di porre fine alla uccisione degli Scioani che ave­ 205

vano cercato rifugio nella città. Il generale Geloso occupò Irgalem il 1° dicembre senza incontrare resistenza. Il degiacc GabreMariam, abbandonato da molti dei suoi, si unì a ras Destà che si trovava nella regione più impervia del Sidamo, la zona mon­ tuosa di Hula fra i due villaggi di Ghevenna e Arbagona ai confini del Baie e non lontano da Beienè Mered e dalla principessa Romane Uorq. Era il solo governatore di Hailé Selassié che ancora risiedeva nella capi­ tale della sua provincia. Il fitaurari Tademme Zellecà e la sua gente (6.000 compresi le donne e i bambini) erano stati divisi da ras Destà dalla rapida avanzata del ge­ nerale Geloso. Il fitaurari non fece alcuno sforzo reale né per attaccare gli italiani da terga né per riunirsi a ras Destà anche se nel confuso com­ battimento i messaggeri sarebbero riusciti a passare. E, cosa ancor più sorprendente, sembra che non avesse mai considerato la possibilità di arrendersi. Con i suoi uomini attraversò la regione dei laghi, la grande fossa galla, diretto alla provincia del Gamò-Gofa, una destinazione verso cui, più a nord, si stavano dirigendo gli ultimi seguaci di FikreMariam e gli Scioani della provincia degli Arussi. In un periodo così confuso è difficile seguire gli spostamenti di tutti i protagonisti, e il degiacc Abebè fratello di ras Destà è tra quelli i cui movimenti non sono chiari. Ovunque fosse, e se ne parlerà ancora non era né con suo fratello né nella provincia del Gamò-Gofa di cui era stato governatore e coman­ dante delle truppe condotte nell’Ogaden. In sua assenza, in questa remota provincia del sud, era sorto un nuovo capo che, piuttosto significativa­ mente, era figlio di Ligg Yasu. Ligg Girma, un giovane di bell’aspetto, di circa venti anni, insignificante ma nome e sangue imperiali lo rendevano importante. Fu lui il magnete che attirò le bande vaganti di armati e i profughi dall’Arussi e dal Sidamo e perfino dal lontano nord e giù fino a Gamò-Gofa.

Agli inizi di dicembre Graziani poteva guardare con soddisfazione la carta militare: le sue bande e le sue brigate occupavano tutti i punti chiave del centro e del sud; rimaneva solo da coordinare i loro movimenti per­ ché la guerra terminasse e l’Impero di Etiopia fosse definitivamente con­ quistato. Delle sue brigate eritree, sua vera forza di combattimento, qualora fosse stato ancora necessario combattere, sei erano a disposizione e pronte a marciare. La la agli ordini di Malta a Gore, la 7a agli ordini di Tessitore a Lechernti, l’ll'a sull’Entotto sopra la capitale, la 3a agli ordini di Natale a Debrà Marcos, la 2a agli ordini di Tracchia a Debrà Berhan e la 6a agli ordini di Tosto sulle colline dell’Uorrà Ilù fra Dessiè e Ficcè. Ras Hailù e i suoi uomini si trovavano ad Ambo agli ordini del colon­ nello Belly, Abba Giobir con i suoi uomini a Gimma agli ordini del co­ lonnello Princivalle. Nel sud-est il capitano Tucci con la banda del degiacc Toclu Mescescià, ingrossata da numerosi Galla Arussi si erano uniti alla 206

divisione Laghi comandata dal generale Geloso e alla colonna del generale Navarrini giunta da Neghelli nella zona dell’Irgalem Sciasciamanna. Nel centro-nord la banda Uollo del capitano Farello, si trovava nel Lasta sotto il controllo indiretto del generale Tracchia braccio destro di Graziani di stanza a Debrà Berhan. Dalla parte etiopica rimanevano solo pochi im­ portanti comandanti di sangue imperiale, per nascita o matrimonio, che avevano combattuto ininterrottamente contro gli italiani dall’inizio della guerra. Si trattava di ras Immirù, ras Destà, degiacc Beienè Mered e i tre figli di ras Cassa, degiacc Aberrà, degiacc Uondossen, degiacc Asfauossen. Con la loro eliminazione e con l’eliminazione dell’unico capo « storico » rimasto dalla loro parte, il degiacc GabreMariam, gli italiani avrebbero potuto affermare non senza ragione, che la guerra era finita. Obiettivo di Graziani divenne la loro eliminazione.

Ras Immirù si arrese. Si stava dirigendo verso Caffa sperando di unirsi a Taye Gulelat quando Princivalle lo raggiunse sulle rive del fiume Naso. Un’aspra battaglia fra l’esercito di Gimma e gli Scioani sorpresi all’improv­ viso in un tratto di aperta campagna si protrasse per tutto il giorno. Al cadere della notte ras Immirù riusciva a fuggire ma le sue munizioni erano quasi del tutto esaurite, tanto che alla fine i' suoi soldati dovettero combattere con spade e coltelli. Apprese che Malta giungendo da Gore aveva occupato Bonga mentre l’altra brigata eritrea al comando di Tessi­ tore marciava verso Aggarò con gli uomini del degiacc HapteMariam per arrestare ogni tentativo di fuga verso nord. Cinque giorni più tardi, mentre si dirigeva verso Magi inseguito da Tessitore, Princivalle e dai loro alleati galla, ras Immirù e i suoi tentarono di attraversare il fiume Gogeb, ma si accorsero che i guadi erano salda­ mente in mano del colonnello Minniti, della colonna di Malta, e degli uomini del degiacc Taye. Accerchiato dai Galla e dagli Scioani al comando dei tre capi più potenti del sud-ovest e dagli italiani, ras Immirù scese a negoziati. Un cagnasmacc dell’esercito del Gimma accompagnato da due ufficiali italiani con tanto di decorazioni si recò alla sua tenda. Immirù mandò tre dei suoi ufficiali perché trattassero col colonnello Minniti. Gli italiani chiesero una resa incondizionata. Ras Immirù rispose che nessuna resa era possibile finché la gente che lo aveva seguito non fosse stata eva­ cuata dalla zona dei combattimenti. La richiesta fu accolta. Le donne, i bambini e gli anziani furono condotti oltre le linee. Ma ras Immirù con­ tinuava a temporeggiare. Con il passar delle ore gli italiani minacciarono di usare i mortai e gli aerei ed avvertirono di avere ordini da Graziani per usare i gas contro l’accampamento e per uccidere gli ostaggi civili se ras Immirù non si fosse arreso entro poche ore. « Questo — disse ras Immirù — sarà il loro giorno di nozze. » Sembra che temporeggiasse soprattutto per poter dare la possibilità ai 50 eritrei disertori che si trovavano con lui di mettersi in salvo con la complicità della notte. Per tutta la notte continua­ 207

rono le discussioni, condotte con cortesia; all’alba, quando gli etiopi si riunirono e deposero le armi, gli eritrei al comando di Abhanon Kifleaghi erano scivolati attraverso le linee nemiche scampando l’inevitabile fucila­ zione e dirigendosi verso il Gamò-Gofa, a sud-ovest, dove si unirono poi ai capi raggruppatisi intorno a Ligg Girma. Ras Immirù, gettata nel fiume la pistola donatagli dall’Imperatore suo cugino e ordinato ai suoi di distruggere le armi, salì su un mulo e si diresse, disarmato, all’accampamento italiano scortato da un cagnasmacc, Deyonè che indossava insensatamente l’uniforme di un ufficiale italiano con tutte le sue vistose decorazioni. Con ras Immirù si arresero anche Kifle Nasibù, Belai Haileab, e molti altri dei cadetti sopravvissuti; inoltre Yilma De­ ressa, Joseph e Benjamin i due figli del dottor Martin, George Herouy, Haddis Alemaiu, genero di ras Immirù che era stato con lui nello Scirè; tutta l’élite della più giovane generazione etiope in armi. Fu loro pro­ messa salva la vita e, ad eccezione del cagnasmacc Deyonè che ancor più insensatamente, si vantò di come fosse riuscito ad ottenere la sua unifor­ me, la promessa fu allora mantenuta. Così la leggenda ebbe termine, il governo provvisorio e l’incerta indipendenza dell’Impero di Etiopia mantenuto in vita nel sud-ovest per sei mesi, dopo la partenza dell’Imperatore. Era stata tutt’al più una debole fiamma, un disperato espediente tentato da Hailé Selassié per avere ancora una base legale e un territorio su cui basare la richiesta di aiuto alla Gran Bretagna e alla Società delle Nazioni. Sembra improbabile, qualunque cosa i cadetti pensassero, che la presenza dell’Imperatore nel sud-ovest o in un qualsiasi altro luogo dell’Etiopia avrebbe potuto modificare, anche minimamente, il risultato finale. Che si fosse unito a ras Immirù a ras Desta o al begerond TaklèHauriat, alla fine gli italiani lo avrebbero sco­ vato, le colonne e le bande lo avrebbero accerchiato e un imperatore ri­ dotto allo stremo avrebbe dovuto scegliere fra un suicidio, come già Teo­ doro, una morte come Giovanni o forse avrebbe dovuto perfino offrire lo stesso temibile spettacolo paventato da Cleopatra: « Mi innalzeranno e mi mostreranno al vociante servitorame di una Roma che mi biasima. Preferisco che un Fossato in Egitto mi sia gentile tomba. »

Hailé Selassié avrebbe potuto cercare una « gentile tomba » a Mai Ceu, ma egli, come aveva più volte ripetuto, non era un soldato. Fu il primo di quella lunga schiera di capi di stato che si trovarono a dover amara­ mente scegliere fra l’esilio in Inghilterra e il rimanere a fianco dei loro popoli sconfitti come capi fantoccio. Lo si può forse biasimare per esser stato il primo di così tanti re, regine, granduchi e presidenti dell’Europa che, anni dopo, dovettero affrontare aggressioni simili e simili scelte? Vor­ rebbero i suoi più aspri critici forse suggerire che egli avrebbe dovuto com208

portarsi come fecero un re in Belgio e un maresciallo in Francia? Visse per combattere, e vincere, un altro giorno. Ras Immirù era stato fedele ai suoi princìpi e coerente con se stesso. La ragionevolezza aveva moderato il suo coraggio ed anche la sua lealtà; il senso di umanità e il desiderio di evitare un inutile spreco di vite, come anche i suoi nemici riconobbero, contraddistinsero il suo comportamento in quasi tutte le circostanze della guerra. Tuttavia la resa deve essere stata momento d’amara esperienza. Era stato lui che, nonostante metà del suo esercito avesse disertato, aveva attaccato per primo gli invasori italiani e, solo fra tutti i ras, era riuscito a fare un’incursione nel territorio colo­ niale italiano. Degli altri comandanti che si trovavano a nord, ras Mulughietà e bituoded Maconnen Demissiè erano morti, ras Cassa era fuggito, ras Seyum e il degiacc Aialeu Burnì si erano arresi. Egli solo era sopravvissuto sempre in armi, costretto a ritirarsi sotto la pressione italiana dal Tigrai attra­ verso il Tacazzè nel Beghemder, dal Beghemder al di là del lago Tana nel Goggiam, dal Goggiam attraverso il Nilo Azzurro, nell’Uollega; dall’Uollega all’Illubabor; dall’Illubabor nel Caffa e ai guadi di un torrente insignificante diretto verso l’ultima, insignificante capitale di una provin­ cia del sud egli, reggente d’Etiopia, era stato alla fine fermato e circon­ dato. La lunga, estenuante odissea era quasi conclusa anche se rimaneva da percorrere la distanza maggiore. Gli italiani lo inviarono in aereo ad Addis Abeba dove Graziani stesso andò ad incontrarlo all’aeroporto con molti dei capi sottomessi. Da Addis Abeba fu mandato in Italia. Musso­ lini ebbe il buon gusto di non farlo sfilare a Roma. Ras Immirù fu confi­ nato all’isola di Ponza nella piccola casa dove 7 anni più tardi lo stesso Mussolini sarebbe stato imprigionato. , I cadetti ei« Giovani Etiopi » furono tenuti in campi di prigionia nel sud per un certo tempo poi condotti nella capitale e liberati un po’ per volta. Due dei potentati del sud furono inviati al confine con ras Immirù. lima Deressa e, probabilmente più per il sangue imperiale che per i poco compromettenti servizi dell’ultima ora, il degiacc Taye Gulelat. Per un breve periodo i capi galla esercitarono il loro potere e la dina­ stia di re Gioti salì di nuovo al potere nel Saio, la dinastia di re Kumsa a Lechemti, il sultano Gimma Abba Gasta Gachito, figlio di Kaki Seroc, 18° re della dinastia Manjo si insediò a Caffa e lo sceicco Cogiali tornò nel Beni Sciangul come alleato dei nuovi invasori. Ma quando il generale Geloso finalmente si insediò come governatore di tutto il sud del Gimma e commissari e residenti si insediarono nelle loro terre e città, ben poco si sentì parlare di loro. I fitaurari Johannes e Hosanna scompaiono dalla cronaca pur essendo stati innalzati al titolo di degiacc; i nomi di Abba Giafar e dello sceicco Cogiali ricompaiono brevemente, ma HapteMariam che più aveva meritato, dimenticato del tutto. Gli etiopi credettero e cre­ dono ancora che egli, al pari del degiacc Ghessesse Belù del Goggiam, fosse stato avvelenato dagli italiani. In ogni caso né il loro potere, né le loro vite durarono molto a lungo. 209

Uondossen Cassa fu ucciso. Fu catturato dalla banda Uollo del generale Farello nelle grotte vicino alla sorgente del Tacazzè e fucilato per ordine del generale Tracchia il 19 dicembre, il giorno seguente la resa di ras Immirù. Nessuna documentazione su come e perché fosse catturato con tanta facilità dagli Uollo Galla. Fu fucilato sull’evidenza del fatto che es­ sendosi tecnicamente sottomesso egli era un ribelle. In questo strano modo gli Uollo Galla vendicarono la morte di ras Gugsa Uule avvenuta 6 anni prima quando essi erano giunti nella piana di Anchino troppo tardi per poterlo salvare. Aberrà e Asfauossen Cassa si sottomisero o meglio tentarono di sotto­ mettersi. Dopo il fallito attacco alla capitale essi s’erano ritirati a Ficcè e durante i mesi tranquilli delle piogge ripresero a negoziare con i rispet­ tivi suoceri ras Hailù e ras Seyum e direttamente con gli italiani. Verso la fine di novembre Aberrà Cassa rifiutò l’appello di Abebè Aregai per inviare 100 uomini ed un cannone a bloccare una prevista avanzata del generale Tracchia da Debrà Berhan. « Non è questo il nostro momento — scrisse il degiacc Aberrà ad Abebè Aregai — di combattere poiché al mo­ mento non siamo in grado di sconfiggere completamente gli italiani. Ad ogni nostro tentativo di dar battaglia essi si vendicheranno bruciando le nostre case, i nostri raccolti e il bestiame. Andrò ad Ensara Kollo in modo che gli italiani possano entrare a Dennebà senza incontrare resistenza e possano pensare di essere ben accolti. Le trattative di pace saranno con­ dotte da ras Hailù. » Il gruppo di cadetti (20 o 30), che si trovava a Ficcè e che compren­ deva Essayas, Abebè Tafari, Negga Hailé Selassié, Mulughietà Bulli e Menghistu Neuay, aveva tentato di persuadere Aberrà Cassa e suo fratello ad unirsi a ras Immirù a Gore. Mentre si facevano sempre più evidenti i segni di una prossima resa (5 prigionieri italiani furono rimandati in­ dietro con doni, il tributo di guerra di Abebè Aregai fu rifiutato e si sapeva che gli italiani avevano promesso delle terre al degiacc Aberrà) i cadetti decisero di lasciare il Salalè e di unirsi ad Hailé MariamMammo nelle terre intorno a Mullù. Il degiacc Aberrà ebbe sentore dei loro piani e cer­ cò di disarmarli. Quando poi raggiunsero i confini della regione di Hailé MariamMammo furono scambiati per bande dalla popolazione locale e attaccati. Perfino quando sani e salvi raggiunsero Hailé Mariam Mammo, il degiacc Aberrà inviò Mesfin Silescì per pregarli, inutilmente, di tornare. Erano decisi a rimanere al fianco di un capo che sapevano avrebbe com­ battuto. Nella seconda settimana di dicembre cinque colonne cominciarono ad avanzare minacciosamente su Ficcè. Trecchia, da Debra Berhan occupò senza incontrare resistenza il passo a Dennebà che Abebè Aregai voleva difendere; la 6a brigata eritrea si mosse da Uorrà Ilù e la lla giunse da Addis Abeba. La 3a, comandata dal colonnello Natale, subì, durante la marcia, un attacco da parte di Zaudi Asfau e dei suoi soldati ed ebbe oltre 60 tra morti e feriti. Zaudi Asfau catturò 80 muli e l’alta uniforme del generale Natale ma alcuni giorni più tardi fu attaccato all’alba da 210

bande; Uolde Johannes fu ferito, tre uomini uccisi e tutto il bottino andò disperso. La 5a colonna che si mosse verso Ficcè fu quella di ras Hailù da Ambo. Fu lui a condurre fino all’ultimo le trattative col genero garantendogli vita e terre. Il 16 dicembre mentre le 5 colonne compivano l’accerchia­ mento i messaggeri di ras Hailù portarono a Ficcè l’ultimatum: una let­ tera di Graziani indirizzata al degiacc Aberrà Cassa e scritta 5 giorni prima: «Vi ordino di arrendervi e vi assicuro che non vi accadrà nulla. Perché volete morire inutilmente? » Solo i suoi cugini, Mesfin Silescì e i due giovani Ligg Mered Mangascià e Ligg Abiye Abebè erano rimasti con il degiacc Aberrà. Consideravano sleali gli italiani « Se vuoi essere ucciso, vuoi che lo faccia io? » disse Mesfin. Ma Aberrà aveva deciso di seguire il consiglio di ras Hailù. Aveva ricevuto una lettera da ras Seyum che scriveva come « un suocero al ge­ nero ». Non senza perplessità, suo fratello Asfauossen condivise la scelta. E qui, ancora una volta, è difficile stabilire l’esatta successione degli av­ venimenti che seguirono. Messaggeri a cavallo fecero la spola fra Ficcè e le due colonne nemiche più vicine, quella del generale Tracchia e quel­ la di ras Hailù. Un aereo sorvolò Ficcè a bassa quota, giunse voce che le avanguardie del generale Tracchia erano a nord a soli due chilometri di distanza e il degiacc Aberrà, ancora indeciso, condusse i suoi uomini fuori dalla città verso il bassopiano. Quella notte il colonnello Belly che era con ras Hailù si recò, sembra di persona, all’accampamento e Aberrà e Asfauos­ sen decisero alla fine di arrendersi. Aberrà tuttavia fece partire sua moglie e suo figlio 10 con Mesfin e i due cugini cedendo, all’ultimo momento, alle loro implorazioni e minacce. Spedì una lettera al generale Tracchia che aveva già occupato Ficcè: « Al generale Tracchia Poiché mi avete assicurato nella vostra lettera che le nostre vite saranno risparmiate, noi raduneremo il nostro esercito e vi riceveremo in pacifica parata in un luogo chiamato Bidigon. Aberrà Gassa »

Sembra che l’avanzata dell’esercito di ras Hailù in qualche modo allar­ masse i due fratelli e che la parata a Bidigon non avesse luogo. Tuttavia le delicate trattative alla fine ebbero esito positivo. Ras Hailù inviò il suo fitaurari, Taferè, ad incontrarli. I due fratelli seguirano il fitaurari con la loro scorta e furono ricevuti da ras Hailù in persona alla periferia di Ficcè. Ras Hailù condusse Aberrà e Asfauossen all’accampamento del generale Tracchia. Mentre erano nella tenda a bere caffè col generale, gli uomini del loro seguito furono disarmati, pare senza alcuna difficoltà, e condotti via ”. Un gruppo di carabinieri entrò nella tenda e arrestò i due fratelli. Era il 21 dicembre, 3 giorni dopo la resa di ras Immirù. Alle 7 di sera gli uomini della scorta udirono una scarica di colpi nel centro della città. 211

Tracchia spedì un laconico telegramma a Graziani « Degiace Aberrà e suo fratello fucilati tramonto nella piazza Ficcè ». Graziani mandò a sua volta un telegramma a Lessona ripetendo il messaggio di Tracchia e ag­ giungendo « Situazione Salalè liquidata » *. Al suo ritorno ad Addis Abeba ras Hailù chiese udienza al viceré. Sem­ bra che i due fratelli fossero stati non solo fucilati, ma decapitati e che le loro teste fossero state esposte alla vista del pubblico prima di essere se­ polti il giorno seguente nella chiesa di S. Giorgio. In vista della preoc­ cupazione di ras Hailù, Graziarli convocò un’assemblea di notabili al Pic­ colo Ghebbì e lì davanti a tutti si assunse ogni responsabilità per le ucci­ sioni. Il generale Tracchia fu, comunque, mandato in Italia. Anni dopo Lessona scrisse « Non sono mai riuscito a sapere perché e come (dati i diversi rapporti falsi che mi furono fatti) il figlio di ras Gassa fosse fucilato per ordine del generale Tracchia, uno dei nostri vecchi co­ loniali »**. Secondo il generale Pesenti « Il viceré, ancora pallido di disgu­ sto, mi disse che quell’atto di tradimento portava alla perdita di altre vite umane, oltre a rafforzare la convinzione degli indigeni che noi non era­ vamo un popolo che rispettasse la parola data ». Ma secondo i resoconti etiopici il generale Tracchia fu sentito dire il giorno dopo: « Cosa potevo fare? Graziani mi ha telegrafato l’ordine di farlo ». Probabilmente l’evidenza più circostanziata che dimostra l’inganno da parte di Graziani va ricercata nel passo di una lettera da lui spedita ad Aberrà Gassa I’ll dicembre: « Ho mandato un messaggio a vostro fratello Uondossen chiedendogli di venire qui. Come voi già sapete egli si è arreso a Lalibelà. Sarà qui fra pochi giorni. Vi scriverò quando arriverà. Voi do­ vreste allora venire ad Addis Abeba senza alcuna esitazione ». A meno che Graziani stesso fosse stato male informato, queste erano menzogne ed egli doveva saperlo perché Uondossen Cassa era stato fucilato. La sua fucila­ zione fu solo giustificata da una motivazione tecnico-legale; sembra tutta­ via possibile 'che Graziani irritato dalla continua elusione 12 dei figli di ras Cassa avesse già deciso di eliminarli. Sarebbe anche stato nel suo carattere il non riuscire a perdonargli di aver organizzato l’attacco su Addis Abeba o di aver, dunque, progettato di ucciderlo. D’altro canto furono uomini agli ordini del generale Tracchia che fucilarono non solo Aberrà e Asfauossen ma anche Uondossen. Inoltre non si può mai dare eccessivo credito a ciò che scrive Lessona, soprattutto quando si riferisce ad un atto di tradi­ mento di cui in ultima analisi egli era il responsabile e per il quale, con­ siderata la sua avversione per quella razza e per i capi indigeni, poteva aver certo dato permesso se non l’ordine preciso. Comunque l’evidenza del­ le circostanze e il modo di comportarsi indicano Graziani quale responsa­ bile. La sola cosa certa è l’errore di ras Hailù. Utilizzato come interme* Del Boca, op. cit., pag. 198 [N.d.C.]. ** Alessandro Lessona, Memorie, Sansoni, 1958, pag. 305. Riportato da A. Del Bo­ ca, op. cit., pag. 198 [N.d.C.].

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diario e garante, egli era stato tradito dagli italiani e spinto a collaborare all’uccisione del proprio genero, fatto che non gli avrebbe portato alcun vantaggio né immediato né futuro. Ras Seyum dovette ringraziare che sua figlia e i suoi nipoti erano fuggiti e che la sua partecipazione si limitava ad un’unica lettera. Per quanto riguarda ras Cassa non si sa quando e chi gli portasse a Gerusalemme la notizia dell’uccisione dei suoi tre figli. Nel sud-est i capi etiopi furono braccati. Ci vollero ancora alcune setti­ mane e molte altre vite ma la conclusione fu inevitabile. Come per gli altri capi si trattò all’inizio di trattative. Su questo fronte Graziani utilizzò come suo emissario l’ingegnere Castagna che era stato fatto prigioniero ad Adua e da allora era rimasto in Etiopia, dirigendo per un certo periodo il ministero dei lavori pubblici. Le trattative conti­ nuarono per tutto il mese di dicembre ma si interruppero quando ras Destà in una lettera al generale Geloso lo chiamò, chiaro insulto, non governa­ tore ma ministro plenipotenziario e si rifiutò di accettarne l’ultimatum. Il 7 gennaio Graziani volò a Irgalem per dirigere personalmente le ope­ razioni. Le zone dove i due eserciti etiopi ancora resistevano furono bom­ bardate, le colonne del generale Geloso avanzarono e il degiacc Maconnen Uossenè giunse da Saddu con 300 armati e 12 capi per arrendersi al viceré. Navarrini, Pascolini e Zambini avanzavano sull’altopiano di Hula e il 20 gennaio catturavano i due villaggi di Arbagona e Chevenna. Ras Destà e GabreMariam perdettero 1.000 uomini e 6.000 fucili contro i 100 di Geloso 13 ma fuggirono verso sud inseguiti da 3 colonne. Alla fine di gen­ naio un ftaurari di nome Solomon e 700 uomini si arresero, if generale Mariotti uno dei comandanti della colonna si ammalò e morì. Graziani, imprecando contro la fuga di ras Destà, partì in aereo per ispezionare la Somalia e la regione dell’Harar. Il ras e GabreMariam lasciarono il Sidamo 14. Tornando indietro in direzione nord-est, ras Destà e GabreMariam si inoltrarono nella regione del Baie e si congiunsero infine alle forze del degiacc Beienè Mered nel distretto fra i monti Ghedeb e Ussota a sudovest di Goba. Beienè Mered aveva circa 3.000 uomini: l’esercito deci­ mato del Sidamo non poteva certo contarne molti di più. Poiché Baie si trovava nel suo governatorato dell’Harar, il generale Nasi assunse il comando supremo delle operazioni e inviò una nuova co­ lonna di 3 battaglioni libici al comando del generale Cubeddu. Il 31 gennaio la colonna di Pascolini attaccò sul Ghedeb; il 2 febbraio i battaglioni libici del generale Cubeddu combatterono una battaglia di­ sperata sull’Ussota durante la quale il fitaurarì Scimellis Arti fu ucciso. Gli eserciti riuniti degli etiopi ruppero ancora una volta la rete che li cir­ condava e si diressero verso nord, lasciando una retroguardia a combat­ tere contro le bande del capitano Tucci. Attraversarono l’Uebi Scebeli il 5 febbraio e Γ8 febbraio si scontrarono con due altre colonne inviate per l’inseguimento: le bande di Ravazzoni e Pellizzari. Per 4 settimane ras Destà, era stato braccato spietatamente; anche le 213

truppe relativamente fresche del Baie erano state sconfitte e costrette a fuggire dopo un aspro combattimento. Si dispersero dirigendosi istintiva­ mente verso nord nello Scioa. Nasi, con la perizia che distinse sempre le sue manovre, ordinò una pausa deliberata per permettere agli etiopi di raggrupparsi e formare un corpo compatto; allo stesso tempo altre colon­ ne furono inviate nelle zone fra i laghi per arrestare ogni tentativo di fug­ gire o di dirigersi nel sud-ovest. Gli italiani attesero mentre le bande di­ sperse si riunirono di nuovo con i loro capi e marciarono stancamente verso il lago Sciala; si trattava forse di 2.000 uomini. Poiché erano ormai usciti dal governatorato dell’Harar ed erano entrati nella zona che cadeva sotto l’influenza diretta di Addis Abeba, il generale Gallina ricevette l’ordine di assumere il comando della caccia e fu inviato da Addis Abeba con una colonna, mentre il colonnello Natale e la 3a bri­ gata eritrea, da Ficcè marciarono verso la parte a nord-est del lago Zuai e il console generale Mischi condusse le sue Camicie nere a sud della linea ferroviaria. Il 17 febbraio Tucci li raggiunse, il 18 sferrò l’attacco e il 19 chiese rinforzi. Muovendosi rapidamente gli etiopi erano passati nel tratto tra il lago Langano e lo Zuai verso i monti Guraghè. Questa volta non ci furono trattative e ben poco senso cavalleresco. La cruenta battaglia conclusiva della guerra di Etiopia si svolse a Gogetti. I resti degli eserciti del Sidamo e del Baie erano largamente superati nel numero dalle sole forze che li fronteggiavano, e appena al di fuori della zona dei combattimenti li accerchiavano colonne e colonne di truppe pron­ te a balzare su di loro se necessario. Non fu necessario. Quel giorno mori­ rono il degiacc Beienè Mered e GabreMariam. Il vecchio GabreMariam ferito mortalmente chiese ad un sottufficiale eritreo di dargli il colpo di grazia per evitare di cadere prigioniero in mano italiana. L’atto di quel­ l’eritreo fu l’unica cosa onorevole in quel giorno. Beienè Mered fu fatto prigioniero e fucilato. Quattro mesi più tardi un tenente italiano, Cesare Alberini, ricevette la somma di 10.000 dollari come ricompensa per la loro eliminazione. Da quel momento la guerra era diventata una vile e disgu­ stosa caccia all’uomo. Ma ras Destà era fuggito, ferito, accompagnato da un servo. Si diresse verso il villaggio natale di Mescan nel Guraghè. La banda di Tucci lo inseguì: il 23 febbraio Tucci raggiunse Mescan ma ras Destà era già fug­ gito innanzi, nel sud-ovest. Perfino la gente nel suo luogo d’origine lo aveva abbandonato. Le bande marciarono tutta la notte e all’alba, nel piccolo villaggio di Egià, circondarono il tucul in cui ras Destà si era rifu­ giato. Fu l’ultimo giorno della sua vita. Le ore passarono lentamente mentre Tucci attendeva di ricevere le inevitabili istruzioni; nel tardo po­ meriggio, un’ora prima del tramonto il degiacc Toclù Mescescià lo legò ad un albero e lo fucilò. Così morì il nobile ras Destà, genero dell’Impera­ tore, marito della principessa TenagneUorq, figlia primogenita dell’Impe­ ratore. Il colonnello Natale pronunciò una irriverente orazione funebre dicendo che « egli non valeva più dello schiavo che lo aveva seguito da un cespuglio all’altro ». 214

FikreMariam, Balcha, Uondossen Cassa, ras Immirù, Aberrà e Asfauossen Cassa, GabreMariam, Beienè Mered, ras Destà. I capi etiopi ancora in armi dopo l’occupazione di Addis Abeba erano stati eliminati in vario modo, ma eccetto un solo caso, sempre in modo drastico e cruento. Nove mesi dopo la designazione a viceré Graziani poteva legittimamente van­ tare che la guerra era finita e l’Impero pacificato.

Rimanevano ancora alcune situazioni da risolvere. Nel governatorato dell’Harar il generale Cubeddu dopo la vittoriosa battaglia contro Beienè Mered si volse a distruggere i resti degli eserciti del sud. L’11 marzo egli riferì al generale Nasi la resa del migliore e più risoluto esercito regolare dell’ex Negus costituito da 10 nobili, 800 uomini, 1.080 vecchi, donne e bambini, 15 mitragliatrici, 100 fucili15. Con quest’ultima resa avvenuta a Shec Hussen Cubeddu considerò conclusa l’occupazione del Baie. Per quanto riguardava il fitaurari Bahadè, Cubeddu riferì che con lui c’era soltanto lo sciallaka Asfau, probabilmente comandante di un battaglione delle guardie, e che era stato abbandonato dal degiacc Abebè 16 che gli si sarebbe presto sottomesso. Il 22 marzo il fitaurari Malion si arrese. Alla fine del mese il fitaurari Bahadè licenziò i suoi seguaci di lingua somala e si recò nella Somalia in­ glese con 1.200 uomini, donne e bambini. Furono inviati in un campo profughi ad Hargheisa. Hailé Abba Mersa uno dei capi del Baie era fuggito nella direzione opposta e da Gogetti aveva marciato attraverso la provincia centrale del Cambat, a nord dell’Uollano (dove il fitaurari Tamrat si era sottomesso) giù oltre Saddu e il degiacc Maconnen Uossinè nel Gamò-Gofa nel lon­ tano sud. Qui si unì ad Assefà Demissiè e àd un gruppo di altri capi tra cui si trovava anche Negga. Sembra che Malta e la la brigata eritrea fossero stati inviati attraverso l’Olmo a nord del Gamò-Gofa. « Il colon­ nello Malta è giunto dal Caffa » annunciò Negga « andiamo a combat­ tere contro di lui. » A Gauanta ci fu uno scontro. « Perdemmo Hailé Abba Mersa e Mesfin Uorcu. Essi persero il colonnello Malta. Eravamo felici. » Sembra improbabile che il colonnello Malta fosse stato ucciso sebbene il suo nome non appaia più nei resoconti italiani reperibili dopo la cattura di ras Immirù. Questi resoconti tendono a non menzionare gli eventi sfa­ vorevoli. Sembra vero invece che gli italiani non facessero ulteriori tenta­ tivi per entrare nel Gamò-Gofa dove, intorno alla figura di Ligg Girma si radunarono profughi e capi dilaniati dalle molte rivalità: il fitaurari Tademme Zellecà dell’esercito di ras Destà, Negga che aveva seguito Fi­ kreMariam, il degiacc UoldeMariam che aveva combattuto con l’Impera­ tore a Mai Geu e Zaudi Aialeu 17 secondo cugino dell’Imperatore, da non confondersi con il fitaurari Zaudi Aialeu, figlio del degiacc Aialeu Burrù, suo comandante dell’esercito. Ad essi si unirono gli eritrei che avevano combattuto con ras Immirù e altri che avevano disertato a Dolo e si erano uniti a ras Destà 1S. Col passare dei mesi la loro posizione divenne sempre 275

più disperata. Gli italiani incominciarono ad armare i feroci Galeb che abi­ tavano fra il lago Rodolfo e il lago Stefania. Alla fine giunse una lettera dell’Imperatore (presumibilmente per mezzo degli inglesi e con la loro ap­ provazione) che diceva di « non morire invano ». Quando un gruppo di soldati riuscì ad attraversare la frontiera col Ke­ nia tutti decisero di seguirli. Negga emise il suo ultimo e il suo più saggio « Portate le donne con voi, per non essere come gli asini ». Nel luglio 1937, 6.000 uomini, donne e bambini attraversarono la frontiera. Furono disarmati al posto di blocco di Garissa sotto la supervisione dei KAR * e del commissario di distretto e condotti a Isiolo dove fu organiz­ zato un campo profughi a 10 chilometri di distanza dal campo di concen­ tramento dei disertori eritrei, molto più sorvegliato. « Quando alla fine raggiunsi il Kenia divenni monaco » annota Negga. Così terminò la saga degli ultimi combattenti di tutti gli eserciti del Sud. La guerra era finita. La conquista dell’Etiopia completata.

* King African Rifles [N.d.C.]. J

VOLUME SECONDO

PARTE PRIMA

RIBELLIONE NELL’A.O.I.

(

CAPITOLO PRIMO

IL 12 YEKATIT

Agli inizi del 1937, la conquista italiana di quello che era stato l’Impero d’Etiopia poteva considerarsi virtualmente completata. L’esercito era pe­ netrato in Etiopia da nord e da sud; Hailé Selassié aveva dovuto fuggire, dapprima a Gibuti e poi in Inghilterra, il maresciallo Badoglio era entrato in Addis Abeba alla testa delle sue truppe vittoriose e re Vittorio Emanue­ le era stato proclamato a sua volta Imperatore dei nuovi domini italiani costituiti dall’Etiopia e dalle due colonie della Somalia e dell’Eritrea, l’Africa Orientale Italiana. Molti dei grandi signori etiopi, come ras Cassa, si erano rifugiati a Gerusalemme. Molti altri avevano seguito l’esempio di ras Seyum e di degiacc Aialeu Burrù, sottomettendosi. Qualche nemico personale di Hailé Selassié collaboré attivamente con i conquistatori, e tra questi ultimi fa­ ceva spicco ras Hailù, che il viceré, il maresciallo Graziani, considerava il suo più fido consigliere indigeno. Tra coloro che avevano capeggiato la resistenza, il più in vista, ras Immirù, era stato fatto prigioniero e man­ dato in Italia. Altri, o in combattimento leale, o proditoriamente, avevano perduto la vita: degiacc Balcha, degiacc GabreMariam, e i tre figli di ras Cassa. Soltanto ras Destà rimaneva vivo e in armi, ma si trattava di un fuggiasco inseguito e ci si aspettava di giorno in giorno la notizia della cattura o della morte di lui. Così, agli inizi del 1937, meno di un anno e mezzo dopo l’invasione dell’Etiopia, la nuova pax romana era stata vit­ toriosamente imposta, in pratica su tutto quel vasto territorio; e i vantaggi della colonizzazione e della civilizzazione, dei quali si aveva l’esempio più spettacolare nelle nuove strade dei « nuovi romani », cominciavano ad es­ sere veduti e persino apprezzati dalle grandi potenze coloniali confinanti. Nei primi mesi del 1937 si ebbero indizi di una détente anglo-italiana. Il Foreign Office stava facendo del suo meglio per eliminare i rancori con­ seguenti alla guerra italo-etiopica. Sir Sidney e lady Barton, che avevano appoggiato apertamente Hailé Selassié, erano stati richiamati un mese dopo l’occupazione italiana di Addis Abeba, i vari consolati inglesi erano stati chiusi — tranne che nel caso tutto particolare della concessione di Gambela — e, al di là delle frontiere, i governatori e i commissari distret­ tuali inglesi cominciavano a collaborare con i loro colleghi italiani. In gennaio, le rimanenti legazioni dell’Inghilterra, della Francia, del Belgio e 219

degli Stati Uniti, seguendo l’esempio tedesco, furono trasformate, con un mutuo accordo, in consolati generali, il primo passo verso il riconosci­ mento de jure dell’Africa Orientale Italiana, e fu firmato un accordo che regolava i diritti di pascolo dei nomadi sul confine tra Somalia britannica e A.O.I. L’incaricato d’affari inglese ad Addis Abeba, Patrick Roberts, fu giudicato dagli italiani freddo ma corretto ed era comunque in ottimi rapporti con il maggiore Pallavicino, direttore dell’Ufficio politico, e spo­ sato con una inglese. Sul piano diplomatico locale, pertanto, gli intrighi erano apparentemente cessati con la scomparsa deìYancien regime. Con i francesi, i rapporti erano particolarmente buoni. Bodard non aveva mai goduto della fiducia di Hailé Selassié; durante la guerra, aveva tutelato gli interessi italiani e sia durante, sia dopo il conflitto si era accertato che, nonostante tutte le difficoltà, il vitale collegamento ferroviario con Gibuti funzionasse senza intoppi, pur rimanendo in mani francesi. Anche nella più vasta arena internazionale, a Londra e a Roma, Grandi e Drummond si erano dati da fare. Il 2 gennaio, Eden firmò a Roma il cosiddetto Gentlemen’s Agreement, la Dichiarazione comune an­ glo-italiana con la quale entrambi gli Stati riconoscevano essere di vitale e reciproco interesse la libertà di movimento nel Mediterraneo e si impe­ gnavano ad astenersi dall’incoraggiare in qualsiasi modo attività sovversi­ ve nei rispettivi territori e possedimenti. Ciò nonostante, l’atmosfera in Europa venne avvelenata dal secondo grande conflitto degli anni Trenta: dopo l’Etiopia, la Spagna. Dagli inizi del 1937 in poi, gli alti e bassi delle relazioni anglo-italiane in Europa dovevano ripercuotersi con conseguenze sempre più rilevanti, anche se ogni volta lievemente ritardate, sulla situazione in Etiopia.

Dopo la puntata a Irgalem e un rapido viaggio nella Somalia e nello Harar, Graziani tornò in aereo ad Addis Abeba, il 13 febbraio, e venne a sapere che nella piazza del mercato avevano continuato a circolare voci secondo le quali egli era stato ucciso e GabreMariam e ras Destà si tro­ vavano alle porte della capitale. I due uomini che, insieme, avrebbero potuto far cessare queste voci, e le inevitabili speranze e cospirazioni da esse causate, non si trovavano nella città: il colonnello Hazon, comandan­ te dei Carabinieri, era in licenza in Italia, e ras Hailù si trovava con i suoi uomini al proprio posto di comando, a Ambo. Graziani controbattè una delle due voci inviando il generale Gallina a sud della capitale con l’ordine di eliminare ras Destà ed ogni potenziale minaccia; si accinse inoltre a smentire l’altra cogliendo l’occasione offer­ tagli dalla nascita di un figlio al principe ereditario Umberto. Così, il 17 febbraio, fu annunciato che, per festeggiare la nascita del Principe di Napoli, il viceré avrebbe distribuito personalmente elemosine ai poveri nel Piccolo Ghebbì. La cerimonia doveva aver luogo quarantott’ore dopo. La sera del 18 febbraio vi fu un ricevimento al Consolato generale francese; continuò fino alle prime ore del mattino. Graziani ebbe un col­ 220

loquio soddisfacente con il direttore della ferrovia, Gerard, ma notò che tanto Bodard quanto la moglie di lui, Pierrette, erano nervosi; un nervo­ sismo che egli attribuì a qualche « dissapore coniugale ». Quanto a lui, sembra che fosse di ottimo umore, poiché prevedeva di ricevere da un momento all’altro buone notizie dal generale Gallina.

Il 19 febbraio, 12 Yekatit secondo il calendario etiopico, era un venerdì. Notabili e popolazione si alzarono di buon’ora per andare ad assistere alla cerimonia nel Piccolo Ghebbì: tra loro si trovavano due giovani eritrei, Abraham Debotch e Mogus Asghedom. Prima di uscire di casa, Abraham Debotch distese sul pavimento di legno una bandiera italiana e ve la inchiodò con una baionetta; all’impugnatura della baionetta legò la ban­ diera etiope. « Levate tutti bene in alto il braccio » proclamò il viceré, « tendetelo verso il cielo e verso il sole per salutare la sfolgorante Maestà di re Vit­ torio Emanuele III, vostro e nostro sovrano, e il Duce del Fascismo e creatore dell’Italia, Benito Mussolini. » I notabili fecero atto di sottomissione, aerei sorvolarono la cerimonia e, alle undici, funzionari cominciarono a distribuire monete ed elemosine ai sacerdoti e alla popolazione. Tra i notabili giunti quel giorno si trovava Hailé Selassié Gugsa. Ro­ sario Gilazgi, un interprete europeo che aveva lavorato per anni alle di­ pendenze degli italiani, lo stava presentando al maggiore Pallavicino quando Abraham Debotch e Mogus Asghedom si insinuarono tra la folla, verso il gruppo pittoresco di sacerdoti, nobili e funzionari riuniti sui gra­ dini di fronte al Ghebbì. V’è qualcosa di analogo in tutti i tentativi di assassinio nel corso di cerimonie pubbliche: incredulità e parziale consapevolezza, seguite dalla confusione, dalla violenta impressione e dagli inizi del panico. Abraham Debotch e Mogus Asghedom riuscirono a lanciare addirittura dieci bombe a mano, che esplosero sui gradini del Piccolo Ghebbì o intorno ad esso, ed a fuggire nel panico che seguì, lasciando dietro di loro un gruppo di uomini feriti e morenti. L’uomo che reggeva il parasole dell’Abuna Kyrillos rimase ucciso, e l’Abuna ferito; furono feriti il vicegovernatore generale, Armando Petretti, il comandante dell’aviazione, generale Liotta, il capo di stato mag­ giore, generale Gariboldi, il capo di Gabinetto del viceré, colonnello Mazzi, e più di altre trenta persone. Lo stesso Graziarli venne portato d’urgenza all’ospedale italiano; la terza bomba a mano era esplosa alla sua destra e ben trecentosessantacinque schegge gli erano penetrate nei corpo. All’ospedale, venne operato immediatamente dal chirurgo capitano Tarquini, e ben presto dichiarato fuori pericolo. Il più gravemente ferito era il generale Liotta, cui dovette essere amputata una gamba. La notizia si sparse ben presto in tutta la città. Nel panico seguito a quello che sembrava essere il segnale di un massacro generale, i carabinieri 227

italiani avevano aperto il fuoco contro la folla di mendicanti e di poveri riunitisi per la distribuzione delle elemosine; e si dice che il Segretario Federale Guido Cortese avesse addirittura esploso colpi di rivoltella con­ tro il gruppo di dignitari etiopi in piedi intorno a lui. « Automobili cor­ revano qua e là, » scrisse Rosario Gilazgi « la gente fuggiva, le mitraglia­ trici sparavano... era il caos, gli etiopi fuggivano dagli italiani, gli italiani dagli etiopi... era corsa voce, prima, che ras Destà minacciava la capitale e che patrioti etiopi sarebbero venuti a sterminare tutti gli italiani. » Befekadù Uolde Selassié, sposato con una delle figlie del dr. Martin, era partito insieme ai nobili per Gerusalemme, ma quindici giorni prima aveva fatto ritorno e lavorava come portiere dell’Hotel de l’Europe, diret­ to da un tedesco, Ernst Vogel. « Il 12 Yekatit, verso le undici e mezzo del mattino » egli scrisse « due alti ufficiali dell’esercito entrarono nell’albergo e, dal banco della portine­ ria, vidi che uno dei due zoppicava e l’altro aveva un fazzoletto avvolto intorno al collo. Non riuscivo a udire nulla di quel che dicevano, ma a un tratto la faccia del mio principale tedesco cambiò colore passando dal bianco al roseo. Vi furono molti gesticolamenti, poi egli accompagnò i due ufficiali nelle loro camere e venne verso di me. Ero curioso di sapere che cosa fosse accaduto e lui mi disse: ’’Befekadù, è successa una cosa terribile. Sembra che gli etiopi abbiano lanciato bombe a mano contro Graziani nel Sidist Kilo. Sembra” soggiunse il tedesco ’’che gli italiani stiano per vendicarsi”. » Rosario Gilazgi si recò con il suo capo, il conte De la Porta, alla Casa del Fascio, nel centro della città, ove si stavano riunendo tutte le Camicie Nere. Là udì il Segretario Federale impartire gli ordini che fecero incen­ diare la capitale. « Camerati » gridò Guido Cortese « questo è il giorno in cui dobbiamo dimostrare la nostra devozione al viceré reagendo e di­ struggendo gli abissini per tre giorni. Per tre giorni vi dò carta bianca, potete distruggere e uccidere e fare quello che volete agli abissini. » « Rimasi nella hall » ricordò Befekadù « sbrigando il mio lavoro e in realtà non attribuii molta importanza alla cosa fino al pomeriggio, quan­ do le sparatorie e gli incendi dei tucul si estesero al quartiere Filuoha. Allora il tedesco, preoccupato dagli incendi delle capanne e dalle uccisioni degli etiopi, pensò, per salvare il suo albergo e farne rispettare il recinto, di esporre la bandiera con la svastica all’ingresso... esponendo la bandiera tedesca, riteneva di potersi sottrarre ad ogni tentativo degli italiani di entrare negli edifici e di massacrare gli etiopi, il che sarebbe stato orri­ bile. Così vedemmo accadere molte cose lì attorno, mentre il recinto nel quale noi lavoravamo rimaneva indisturbato. Vedemmo la cameriera del proprietario tedesco dell’albergo (si occupava di una delle sue figliole) recarsi nel tucul al lato opposto della strada a trovare il proprio bambino; lo aveva affidato, infatti, a qualcuno in un tucul situato fuori del recinto dell’albergo. Si recò la, dunque. Stando nel recinto, vedemmo sopraggiun­ gere tre italiani che la spinsero nel tucul, chiusero la porta e lo incendia­ rono. Vedemmo la casa bruciare mentre all’interno madre e bambino (e 222

chissà chi altri?) arrostivano. La donna non tornò mai indietro. Non la vedemmo più... Il primo giorno trascorse mentre si udivano qua e là spa­ ratorie sporadiche, grida di bambini, urla di vecchi, pianti, e inoltre belati e muggiti di bestiame. Essendo etiopi, fu una tortura, durante la notte, udire tutte quelle voci. » Negli anni successivi, vi fu il solito giuoco a scaricabarile. Durante il suo processo, Graziani sostenne di aver detto a Cortese, all’ospedale, di non consentire «eccessi»; ma, secondo altre prove, fu lo stesso Graziani a impartire gli ordini delle rappresaglie, ordini che, a loro volta, gli erano stati telegrafati da Mussolini. Risulta che, essendogli stato domandato se dovessero esservi rappresaglie, egli rispose con una sola parola: «Fate». Sembra chiaro, tuttavia, anche dai resoconti etiopici, che gli italiani più in vista, come Avolio, direttore generale degli affari politici, e Petretti, vicegovernatore generale, rimasero inorriditi, ma non poterono far nulla per impedire gli stermini. Esplosero le tensioni accumulatesi nei mesi di paura durante i quali la popolazione italiana aveva vissuto isolata, insi­ cura, sotto la continua minaccia di un’invasione o di un’infiltrazione dalle alture circostanti, costretta a dominarsi e ad avere rapporti distaccati con una popolazione indigena sospettosa e diffidente, che aveva reagito a ma­ lapena ai primi spontanei gesti di amicizia. Protetti materialmente e psi­ cologicamente dalle Camicie nere, operai, piccoli funzionari, camionisti e coloni diedero libero sfogo a tutto il loro odio e alle loro frustazioni. Fu un ritorno ai tempi di Balbo, degli squadristi e del saccheggio di Por­ taferrata, ma su più vasta scala. Quasi tutti gli incendi furono provocati con petrolio e benzina, quasi tutte le vittime vennero uccise con pugnali e randelli, al grido di « Duce! Duce! » e « Civiltà italiana! ». Sembra che Petretti avesse detto: « Questi uomini sono barbari e non ci si può far niente ». Le uccisioni e gli incendi dilagarono in tutta la città nella notte di venerdì, e gli arresti cominciarono il sabato mattina. C’era sangue nei corsi d’acqua e i cadaveri si ammonticchiavano sopra e sotto i ponti. Non è chiaro se le Camicie nere della guarnigione — quelle del gruppo « Dia­ manti » — partecipassero agli stermini e appiccassero incendi, ma è certo che gli ufficiali italiani dell’esercito e gli eritrei non vi ebbero alcuna parte e che i carabinieri tentarono, quando possibile, di tenere sotto controllo, se non di fermare, le Camicie nere. Nella giornata di sabato, autocarri percorsero le strade, alcuni per portar via i cadaveri, altri per caricare prigionieri. Le Camicie nere stavano incendiando le abitazioni più picco­ le, adducendo a pretesto, adesso, « ragioni igieniche », e scrivevano il loro nome sulle case più grandi, come una forma di annessione personale. Ab­ battevano con il manganello gli abissini in fuga per le vie e spaccavano loro il cranio; si recavano alla Banca d’Italia a cambiare i dollari di cui si erano impadroniti durante la notte, saccheggiando le case degli armeni e dei greci e linciandone i servi; ammassavano i cadaveri, li gettavano sugli autocarri e addirittura posavano per fotografie sopra i corpi delle loro 223

vittime. La sera di sabato, un gruppo munito di bidoni di benzina tentò, senza riuscirci, di incendiare la cattedrale di San Giorgio. « Seguì una seconda notte di massacri » scrisse un medico ungherese, il dottor Ladislas Sava. « Mi trovavo di nuovo nella mia stanza. Dopo l’ini­ zio dello sterminio, avevo tenuto là con me il mio servo etiope, vietandogli di mostrarsi anche alla finestra, in quanto l’essere veduto da un italiano avrebbe potuto causare la sua morte. Possedeva una piccola casa accanto alla mia che venne risparmiata durante la prima notte, ma bruciò nella seconda. Rimase seduto, per tutte quelle ore terribili, ammutolito e con il capo tra le mani. Non osai domandargli che cosa pensasse. » Domenica, 21, non si vedeva alcun abissino per le strade; il fetore degli incendi e della morte gravava sulla città mentre gruppi di Camicie nere circolavano su automobili e autocarri. Nel pomeriggio, le autorità inter­ vennero fermamente; un progetto di bombardare con aerei la cattedrale fu bloccato, Graziarli emanò un proclama dal suo letto in ospedale, e il Segretario Federale, dalla Casa del Fascio, impartì ordini ai comandanti delle squadre, intimando di « porre termine alle ostilità ». Quante persone erano state uccise nei tre giorni di massacri? Gli abis­ sini parlarono, in seguito, di tremila vittime; gli italiani si limitarono ad ammettere che i morti erano poche centinaia. È probabile che il numero esatto si aggiri sulle tremila persone. Questa cifra, però, può riferirsi soltanto alle vittime del massacro semi­ organizzato nella capitale; non alle decine e decine di uomini processati e fucilati nei giorni successivi, o alle centinaia, se non alle migliaia, uccisi, in seguito al 12 Yekatit, durante le settimane che seguirono, in tutta l’Etiopia. Immediatamente dopo il tentativo di assassinio, venne istituito nella capitale un tribunale militare presieduto dal generale Olivieri; e, nel pomeriggio di quello stesso venerdì, sessantadue etiopi furono processati e fucilati in serata. Migliaia di persone vennero fermate dai carabinieri; mol­ te di loro, se in grado di esibire carte di identità, furono rilasciate nella notte di domenica. Ma molte altre finirono nelle prigioni di Addis Abeba e dei dintorni: nella prigione San Giorgio, affidata al maresciallo Bellis­ simo (il cui motto era: « Nessuno può entrare in questa prigione senza essere stato prima fustigato»), nella meno gremita prigione di Acachi, comandata dal maresciallo Stappachetti, e nei posti di polizia, nonché altri improvvisati posti di polizia, al centro della città. Sui giovani etiopi che avevano studiato in Europa e sui cadetti super­ stiti, arresisi con ras Immirù e liberati, si accentrarono soprattutto i so­ spetti e le diffidenze ufficiali italiane. Befekadr'i e due ex-cadetti furono tratti in arresto all’Hotel de l’Europe, incatenati insieme e, dopo un giorno o due di prigionia, condotti al Piccolo Ghebbì per esservi interrogati. Là, Befekadù trovò i suoi cognati, Joseph e Benjamin Martin, degiacc Uolde Emmanuel, Tafarà Uork, Chidane Uold (l’interprete del Consolato gene­ rale inglese) e molti altri. Vennero interrogati uno per uno allo scopo di stabilire se si fossero trovati nel Ghebbì quando erano state lanciate le bombe a mano. Inoltre, furono loro poste « varie domande, come ad esem224

pio dove avevo studiato, quando ero tornato dall’Europa, dove avevo la­ vorato prima della guerra ». Nelle prime ore della notte successiva, molti di questi giovani si sentirono chiamare a due a due; tra essi i figli del dottor Martin. « Dopo questo appello sensazionale non sapemmo che cosa fosse accaduto ai nostri amici, dove fossero andati, o quale sorte li aspet­ tasse. » Fortunatamente per Befekadù, gli appelli cessarono — era il venerdì successivo al tentato assassinio — e non ricominciarono che dopo un’altra settimana. Quando ripresero, i prigionieri vennero chiamati ad uno ad uno e con­ dotti prima dell’alba alle porte del Piccolo Ghebbì, ove li aspettavano autocarri. Dovevano essere in molti, perché si trovavano là venticinque autocarri; furono portati all’aeroporto e fatti salire su una squadriglia di Caproni. Tra i compagni di prigionia, Befekadù riconobbe l’alto funzio­ nario di Corte e comandante a Mai Ceu, ligaba Tasso. « La squadriglia decollò da Addis Abeba. In quel momento, ricordam­ mo quanto avevamo sentito dire della leggenda di Graziani. Ci era stato detto che Graziani, mentre dirigeva le operazioni della guerra in Libia, aveva fatto salire su aerei prigionieri politici e ordinato ai piloti di lan­ ciarli nel vuoto. Per conseguenza, pensammo che anche noi saremmo stati gettati giù dagli aerei sorvolando un deserto o qualche altra località. Una supposizione del genere non è poi tanto strana quando ci si trova su un aereo con grandi portelli aperti e si vede, attraverso ad essi, il terreno sottostante. Quei portelli servivano, naturalmente, a sganciare le bombe, ma noi avevamo saputo che Graziani soleva fare la stessa cosa con gli esseri umani. Fortunatamente, però, arrivammo sani e salvi all’aeroporto di Asmara... » E dall’Asmara furono in ultimo trasferiti a Napoli e internati nell’isola di Asinara. Sulla scia del tentato assassinio, le autorità italiane avevano dunque deciso di fare piazza pulita di tutti i notabili etiopi, giovani e anziani. Nella settimana immediatamente successiva al 12 Yekatit, molti di loro vennero sommariamente processati e fucilati; soprattutto i giovani che si erano arresi con la banda di ras Immirù ed erano sospettati, probabilmente a ragione, di complottare contro il regime. Tra i fucilati si trovarono Kiflè Nasibù, Belai Haileab, Catamà Besciasc, Benjamin e Joseph Martin, e George Herouy. Poi, una volta cessate le prime reazioni — dovute sia al panico, sia a un voluto « terrore » — i rimanenti prigionieri partirono per destinazioni diverse: i più importanti, internati in Italia; un altro e più numeroso gruppo di parecchie centinaia di uomini per le isole Dahlac, nel Mar Rosso; e, infine, parecchie migliaia di prigionieri furono internati in un campo di concentramento a Danane. Sembra che anche i ras più importanti, i quali si erano sottomessi, siano stati mandati al confino in Italia in questo periodo. Nel frattempo, gli eccidi si allargarono alle province; particolarmente ai danni degli Amhara. 11 primo marzo, Graziani telegrafò a Nasi ordinandogli di fucilare tutti 225

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i notabili e gli ex-ufficiali amhara « secondo le direttive del Duce mille volte ripetute eppure poco osservate da molti... Date assicurazione con la parola ’’fucilati”, ma che si tratti di un’assicurazione seria ». Due giorni dopo, avendo ricevuto da Nasi una risposta dilatoria (presumibilmente), Graziani telegrafò con minore isterismo, ma con una ancor più fredda ferocia. « Fucilate tutti — dico tutti — i ribelli, notabili, capi, seguaci, sia fatti prigionieri in azione, sia arresisi, o i fuggiaschi isolati, o gli elementi che ordiscono intrighi... o comunque sospettati di malafede, o di essere colpevoli di aver aiutato i ribelli, o di esserne anche soltanto intenzionati, o di avere nascosto armi. Le donne sono naturalmente escluse, tranne casi particolari, e così i fanciulli. » Il 21 marzo telegrafò a Mussolini, che si era recato a far visita a Balbo, a Tripoli, per autoproclamarsi Protettore dell’Islam (abbastanza opportunamente, se la protezione dell’Islam impli­ cava la distruzione dei copti cristiani) per dirgli che, a partire dal 19 feb­ braio, vi erano state 324 esecuzioni sommarie « naturalmente senza com­ prendere in tale cifra le repressioni del 19 e del 20 febbraio » e che 1.100 uomini, donne e fanciulli amhara erano stati mandati a Danane. Il 31 marzo telegrafò a Lessona per comunicargli il numero complessivo delle esecuzioni sommarie avvenute in tutto il paese fino al 28 marzo: 1.469. Sembra che alla fine di aprile la ferocia del viceré stesse diminuendo. Il 23, Nasi riferì, con un luogo telegramma, che seicento capi con i quali si erano arresi, o avevano abbandonato il fitaurari Bahadè, o si erano sotto­ messi, erano stati giustiziati in base agli ordini; era consentito mostrarsi clementi e offrire la vita al ftaurari Bahadè se avesse consegnato i fucili e le armi da lui catturate? Quattromila uomini, compresi duecento capi con duemila fucili si erano arresi insieme al fi.ta.urari Malion; molti ave­ vano parenti nella Banda Pelizzari e nei battaglioni Amhara; inoltre, se fossero passati nella Somalia britannica, quali difficoltà avrebbero causato! Non era per conseguenza disposto, Sua Eccellenza il viceré, ad annullare l’ordine di fucilare cinquantaquattro capi, fucilazione che avrebbe creato il panico nella regione di Cercer? Due giorni dopo, Graziani telegrafò la risposta, ribadendo le sue direttive generali, ma aggiungendo una clausola restrittiva. « In ogni modo, poiché in questioni del genere sono le sfuma­ ture di opinione a contare, lascio a Vostra Eccellenza decidere la cosa come riterrà più opportuno. Graziani. » Nel mese di maggio, tuttavia, si doveva assistere a un nuovo e sangui­ noso massacro ’.

Gli eccidi di maggio furono il risultato immediato e, in un certo senso, logico della politica italiana in quel periodo, ma, più esattamente, delle indagini svolte dagli italiani sul tentato assassinio. Quanto più si veniva a sapere dei due terroristi fuggiti, tanto più para­ dossale sembrava la loro azione. Non soltanto essi erano entrambi eritrei, ma il capo della congiura, Abraham Debotch, era stato in effetti una spia e un informatore degli italiani: durante la guerra, gli abissini lo 226

avevano imprigionato, ed egli, una volta liberato dagli italiani, era stato assunto dal maggiore Pallavicino affinché lavorasse per l’Ufficio politico. Risultò inoltre che Abraham Debotch e Mogus Asghedom si erano sempre incontrati al consolato generale tedesco, ove era impiegato un tale che abitava nella stessa casa di Mogus. A priori sarebbe stato difficile imma­ ginare una coppia più improbabile di aspiranti assassini — in quella città pullulante di ex-militari dell’esercito etiopico, uomini amareggiati e teme­ rari — dei due eritrei, uno dei quali assunto dall’Ufficio politico italiano, mentre l’altro aveva legami con il rappresentante diplomatico tedesco. Gli italiani, ed è abbastanza logico, sospettarono che nel tentativo di assassinio vi fosse qualcosa di più delle apparenze; e, ripensando alla sera del 18 febbraio, Graziani fu meno propenso ad attribuire il nervosismo dei Bodard a dissensi coniugali. La logica voleva che il primo ad essere so­ spettato fosse il dottor Strum, il console generale tedesco; una pista preoc­ cupante che, a quanto pare, le autorità rinunciarono ben presto a seguire. « Carattere e origine europei, senza dubbio » fu il commento di Mussolini, dopo che egli ebbe studiato i particolari dell’attentato. E soggiunse, sem­ bra: « Intelligence Service, o Comintern ». I sospetti si accentrarono quasi immediatamente sugli inglesi. Sin da sabato 20 febbraio, i gruppi di italiani che irrompevano nelle case degli abissini, osserva en passant il dottor Ladislas Sava, cercavano bombe a mano di costruzione inglese2. Tafarà Uork Chidane Uold, l’interprete del consolato britannico, venne arrestato e interrogato. I sospetti caddero non soltanto su Mohammed Alì, nei cui negozi in tutto l’Impero, si ordivano congiure, scrisse Graziani, « sotto la guida di elementi stranieri esperti », ma anche sul maggiore Pallavicino, la cui moglie e la cui madre erano di nazionalità inglese 3. Al contempo, gli italiani svolsero indagini partendo da un’ipotesi paral­ lela, ma non necessariamente contraddittoria: una vasta congiura organiz­ zata da notabili etiopi per eliminare il viceré e per consegnare la città a ras Destà e a GabreMariam, i quali ne sarebbero stati informati, anche se non erano gli ispiratori. Se si deve credere a Graziani, l’eminenza grigia era stata — tra i tanti — ras Immirù. « Nel corso delle indagini sulla cospi­ razione del 1937 » egli scrisse « si accertò che ras Immirù, al momento della resa, aveva affidato a elementi nazionalisti il compito di effettuare azioni terroriste ad Addis Abeba. » In altre parole, ras Immirù aveva ordinato a Kifle Nasibù e ai « Giovani Etiopi » di organizzare l’assassinio di Graziani. « Se ras Hailù si fosse trovato nella città » soggiunse Graziani « sono certo che una congiura di questo genere non sarebbe mai stata attuata. » La versione etiope è, naturalmente, del tutto diversa. Stando agli abissi­ ni, fu proprio il fatto che Abraham Debotch lavorava per gli italiani a renderlo più consapevole di altri delle crudeltà e delle ingiustizie della loro politica; e quando egli andò al cinema e venne a trovarsi segregato dagli spettatori italiani, questa circostanza fu la goccia che fece traboccare il vaso4. Non si trattò, tuttavia, di un gesto spontaneo, di un tentativo 227

attuato nell’impeto della passione. Abraham Debotch preparò accurata­ mente l’attentato. Il 72 Yekatit, lui e il suo compagno agirono, sebbene soli, da veri patrioti: i pochi notabili etiopi da loro avvertiti, come il degiacc Uolde Emanuel e il begerond Latibelù, li credettero agenti pro­ vocatori e si recarono ugualmente alla cerimonia. Le indagini del procuratore militare Franceschino accertarono, tuttavia, una nuova circostanza e orientarono l’inchiesta in una direzione totalmen­ te nuova: dieci giorni prima della cerimonia, Abraham Debotch si era allontanato da Addis Abeba con la moglie e l’aveva condotta — e su questo punto le versioni etiopi confermano i risultati degli accertamenti italiani — al monastero di Debrà Libanos. Graziani ricordò che, alla cerimonia, l’abuna Kyrillos era sembrato « pallido » 5. Ulteriori indagini accertarono che i monaci di Debrà Libanos si erano recati ad Addis Abeba nella prima settimana di febbraio, per chiedere fondi al governo; avevano lasciato la città, tornando al monaste­ ro, ventiquattr’ore prima di Abraham Debotch, con il quale, di conse­ guenza, erano ovviamente stati in contatto durante la settimana trascorsa nella capitale. Si scoprì inoltre che, fuggendo dalla città, Abraham De­ botch era tornato a Debrà Libanos per riprendere, o avvertire, la moglie, e si sospettò che potesse trovarsi ancora là, nascosto dai monaci. Il rapporto di Franceschino venne trasmesso otto settimane dopo l’at­ tentato, a metà maggio. Graziani, ancora ricoverato in ospedale, lo studiò e prese una decisione. Il 19 maggio, telegrafò le conclusioni del rapporto e i suoi ordini al generale Maletti, che aveva sostituito il generale Tracchia come comandante di divisione a Debrà Berhan. Il telegramma di Graziani a Maletti, dopo l’accenno a « un nido di assassini camuffati da monaci », concludeva con l’ordine raggelante: « Per conseguenza giustiziate sommariamente tutti i monaci senza distinzioni compreso il vice priore ». Il 20 maggio, i monaci si riunirono per la festa del più grande dei Sette Santi Uomini, nonché fondatore del loro monastero, San Tekle Haimonot. Il colonnello Garelli, il comandante locale, vi si recò con riluttanza, stan­ do al suo interprete, ma vi si recò. Dopo la cerimonia, i monaci vennero arrestati per suo ordine e dai suoi uomini; alcuni furono portati con auto­ carri a Shinkurst, altri a Debrà Berhan. Gli italiani ne fucilarono 297, oltre a 23 laici, ritenuti essere loro complici; i giovani diaconi assegnati al monastero rimasero prigionieri a Debrà Berhan. Una settimana dopo, pervenne un altro telegramma: « essendo stata dimostrata anche la loro complicità», i 129 diaconi a Debrà Berhan furono a loro volta fucilati. Di tutti coloro che si trovavano nel più noto centro religioso dell’Etiopia, sopravvissero soltanto trenta scolari che venivano istruiti al monastero6. Il generale Maletti rimproverò il colonnello Garelli perché non aveva cat­ turato Abraham Debotch7. E Graziani telegrafò a Roma: « In questo modo del monastero di Debrà Libanos... non rimane alcuna traccia ». La crescente paranoia di Graziani stava allarmando persino gli ufficiali coloniali per i quali egli era sempre stato un eroe, sin dai tempi della 228

campagna libica. Vennero impartiti ordini di arrestare e giustiziare tutti i veggenti, gli indovini, i bardi e gli individui sospetti8. Il comunicato di­ ramato dopo la morte di ras Destà, e trasmesso a tutti i comandi, è redatto nel linguaggio di cui si servono coloro che si considerano gli strumenti scelti dal destino: « Dopo attentato ignobile del giorno 19 la giustizia di Dio habet indicato palesemente sua condanna colpendo uno dei capi an­ cora ribelli... oggi catturato e ucciso ras Destà da colonna Tucci. Dare massima diffusione ». Corse voce che Graziarli, nei 78 giorni di ospedale, tormentato dai dolori del suo corpo tutto cicatrici — « questa tunica di sangue che sto portando da dieci anni », come lo definì al suo processo — giacesse desto la notte facendo progetti di vendetta e dopo la guarigione visse nel conti­ nuo timore di nuovi attentati. Così, sanguinosamente, venne festeggiata, nell’Africa Orientale Italiana, la nascita del principino Vittorio Emanuele, erede al trono della Casa di Savoia.

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CAPITOLO SECONDO

GLI INIZI DELLA RIVOLTA

A Roma, come in tutte le capitali imperiali, ci si preoccupava più dei risultati che dei modi con i quali quei risultati potevano essere conse­ guiti, o delle sofferenze dei governati e, ancor più cinicamente, dei gover­ natori. Sembra che Mussolini avesse avuto nei confronti di Graziani quella tolleranza quasi affettuosa, assai lontana dalla stima, di cui un impresario teatrale potrebbe dar prova nei riguardi di un primo attore ricco di tem­ peramento ma dalle capacità mentali limitate... un affetto capace di du­ rare fino a quando i lazzi fossero giustificati dai risultati, ma non un attimo di più. Il Duce non attribuì molta importanza al dramma dell’at­ tentato, considerandolo, con somma irritazione e con vivo stupore di Gra­ ziani, un mero incident de parcours e non il momento culminante di una congiura diabolica. E quando il primo anniversario della fondazione dell’Impero venne festeggiato con sfilate a Roma e il viceré chiese che al fianco dei marescialli Badoglio e De Bono apparisse il suo destriero bianco, anche se colui che lo cavalcava si trovava disgraziatamente nel­ l’impossibilità di essere presente, Mussolini sospirò: « Ah, quel Graziani! » e accolse la richiesta. Fu una grande cerimonia imperiale, quella del maggio 1937, studiata per porre Roma sullo stesso livello di Londra e di Parigi, e per celebrare il riuscito risorgere di un Impero italiano. Fra i diecimila uomini che sfi­ larono dietro i due marescialli vittoriosi e il simbolo del terzo, a strappare i più grandi applausi furono, come la Legione straniera in Francia, o i gurkha in Inghilterra, i meharisti della Libia, e i dubat somali dal bianco turbante. La sfilata delle nuove legioni destò ricordi atavici; simile alla Fenice, un nuovo Impero era sorto. Consapevolmente o inconsapevolmente, gli Italiani e il loro capo stavano già modellando il proprio comportamento imperiale su quello antico: sfilate e monumenti nella capitale imperiale ’, e, nell’Impero conquistato, colonizzatori e strade. Il primo gruppo di colonizzatori, quattrocento contadini della Romagna, capifamiglia, non giunse in Etiopia fino all’autunno; e la politica di colo­ nizzazione non venne mai, in realtà, attuata in vasta misura, anche se si distribuirono terre e se colonie furono fondate nei dintorni di Addis Abeba, e in particolare a Oletta e a Biscioftù. Ma le strade rivaleggiarono con 231

quelle degli antichi romani. Nel mese di luglio, il viceré inaugurò solen­ nemente la strada maestra imperiale che conduceva dall’Asmara ad Addis Abeba e sarebbe stata continuata fino a Mogadiscio; la prima di tutta una serie di magnifiche rotabili che scavalcavano altipiani incredibilmente ac­ cidentati, progettate da ingegneri del Genio e costruite da uno stuolo di lavoratori italiani il cui numero oscillò tra i settantacinquemila e i cen­ tocinquantamila uomini: strade senza pari ovunque2.

Mussolini si spinse più in là dei propri remoti predecessori imperiali con i piani militari. Il suo progetto era grandioso: consapevole di avere scon­ fitto nell’Amhara una delle più grandi razze marziali dell’Africa, si propo­ neva di creare un esercito indigeno rispetto al quale le forze indigene delle altre potenze imperiali sarebbero sembrate quasi simboliche: 1’« armata nera ». Il 22 febbraio, indifferente all’attentato, conscio soltanto del fatto che gli ultimi eserciti etiopici erano stati sbaragliati, il Duce telegrafò al viceré: « A cominciare da settembre p.v. bisogna iniziare il reclutamento, inqua­ drare e addestrare i primi 100.000 uomini dell’armata nera: obiettivo è di avere almeno trecentomila mobilitati per l’epoca nella quale il riarmo sarà stato completato: 1940-1941. » Il progetto era tanto intelligente quanto grandioso: reclutando gli am· hara sconfitti, Mussolini si proponeva di rafforzare il suo nuovo Impero sia all’esterno sia all’interno: all’esterno creando nei confronti dei territori confinanti una forza militare che sarebbe stata sempre minacciosa e che, nell’eventualità di una guerra, sarebbe stata quasi autonoma dalla madre­ patria; all’interno offrendo alle truppe dei nemici di ieri una nuova possi­ bilità, un’alternativa rispetto alla cocente disfatta e al ritorno alla tediosa routine della vita nei campi, la possibilità di conservare la loro condizione di soldati e il diritto di possedere (e, qualora se ne presentasse l’occasione, di impiegare) un fucile. A partire dal settembre del 1937, gli uomini vennero reclutati in nume­ ro sempre più grande nei battaglioni regolari indigeni di nuova formazione. Il nucleo intorno al quale fu creata 1’« armata nera » consistette dei ventiquattro battaglioni eritrei, con l’intenzione di arrivare a ventiquattro bri­ gate, cioè a triplicare gli effettivi esistenti. Ogni brigata era formata da tre o quattro battaglioni — qualcosa come tremila uomini complessiva­ mente. Ogni battaglione contava, al completo degli effettivi (la qual cosa accadeva di rado) diciassette ufficiali italiani, un sottufficiale italiano, e milleventiquattro uomini distribuiti in tre compagnie fucilieri e in una compagnia mitraglieri, mentre i mezzi di trasporto consistevano in cento muli. È chiaro che i sottufficiali erano di solito eritrei; non è altrettanto chiaro dove e tra quali razze venissero reclutate le nuove truppe regolari, in quale percentuale si trattasse di Galla, in quale di puri Amhara, e così via. Naturalmente, non pochi degli ufficiali italiani addetti al reclu232

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tamento avevano in sospetto gli Amhara, la cui élite veniva così sistema­ ticamente distrutta. Eppure, sembra che quasi tutte le reclute risultassero essere Amhara, e meravigliarono persino gli ufficiali italiani con la loro lealtà, come dimostreranno gli eventi successivi. La posizione e l’uniforme (ogni battaglione aveva una fascia di colore diverso) piacevano agli Am­ hara, facendo leva sul loro senso della gerarchia. Ciò spiega la ragione per cui gli italiani non incontrarono assolutamente alcuna difficoltà nel reclutare i futuri soldati. Mentre le bande erano indisciplinate e spesso (particolarmente nel caso delle bande « irregolari ») in quasi-collusione con i ribelli3, ai quali vendevano talora fucili e munizioni distribuite loro dagli italiani, le truppe regolari, a quanto pare, accettarono la normale disciplina sin quasi alla fine. Ciò nonostante, gli italiani facevano conto, nell’eventualità di una crisi, sulle brigate eritree; in generale, le brigate migliori e i migliori battaglioni erano — ed è abbastanza naturale — i più vecchi: le brigate e i battaglioni, per conseguenza, con il numero più basso. I loro comandanti cambiavano spesso; ma la fama dei reparti rimaneva immutata. Tutti i successivi combattimenti in Etiopia furono caratterizzati, da parte italiana, daU’impiego delle brigate come unità più o meno separate o indipendenti: talora suddivise nei singoli battaglioni, o, ma ancor più di rado, raggruppate in divisione, il più delle volte unite a una banda, o magari a uno squadrone di cavalleria e a un distaccamento di artiglieria per formare una colonna. Quanto alle bande, i loro ufficiali cambiavano di rado, se non mai; tra le più note, sia per la loro crudeltà, sia per la loro bravura in combattimento, v’erano le bande formate tra i galla Uollu, come il Gruppo bande Uollu Zeggia, di Farello, che aveva cattu­ rato Uondossen Cassa, il Gruppo bande Altopiano, di Criniti, proveniente dai pianori eritrei, e il Gruppo bande Rolle, che avevano preso il nome dal loro comandante. Nel mese di novembre, un regio decreto precisò che le forze armate dell’Africa Orientale Italiana erano costituite da 25.784 italiani (2.500 ufficiali, 1.600 sottufficiali e approssimativamente 21.500 soldati) nonché da 43.270 indigeni. Queste cifre, citate spesso nei rapporti ufficiali, erano forse esatte nel mese di novembre, ma in seguito ebbero lo scopo di na­ scondere la vera forza dell’« armata nera », sia agli stranieri troppo cu­ riosi, sia a quei pochi italiani che, nella Camera dei Deputati non elettiva, osavano ancora preoccuparsi per questioni di spese. L’armata nera regolare oscillò, negli anni successivi, intorno alla cifra indicata da Mussolini di centomila uomini, mai molti di meno e, in caso di mobilitazione, molti di più. Quanto alle forze armate italiane, la « Sabauda », l’ultima divisione re­ golare, venne ritirata nel dicembre del 1936, ma senza i Granatieri di Savoia. Nove battaglioni dei Granatieri di Savoia4 rimasero ad Addis Abeba, come riserva e truppe di guarnigione: venne loro assegnato il titolo di « Guardie dell’Impero ». La crema delle più numerose unità della milizia erano, i battaglioni mi233

traglieri motorizzati5, cinque dei quali - il gruppo « Diamanti » - si tro­ vavano ad Addis Abeba, mentre gli altri nove si suddividevano come truppe di guarnigione nei diversi governatorati — uno nella sicura Asmara e due, rispettivamente, a Mogadiscio, Harar, Gondar e Gimma. Subito dopo venivano i battaglioni regolari di Camicie nere, sia quelli inviati dall’Italia, sia quelli rimasti nel paese; truppe scadenti, con ufficiali sca­ denti, ma pur sempre soldati regolari. In terzo luogo v’erano le legioni formate sul posto, i soldati « part-time », le Camicie nere residenti nel­ l’Africa Orientale Italiana, unità formate esclusivamente da bianchi e denominate le camicie nere d’Africa, che, naturalmente, non prendevano parte alle operazioni se non appositamente mobilitate: una Legione per ciascun governatorato e un’altra nella capitale, approssimativamente ventidue battaglioni in tutto. La quarta categoria, che difficilmente può es­ sere definita militare, sebbene i suoi « legionari » venissero sottoposti a un certo addestramento, era quella dei lavoratori stradali, che Lessona aveva deciso in ottobre di inquadrare in legioni agli ordini di ufficiali della Milizia; anche in questo caso una legione in ciascun governatorato ed una nella capitale. Infine, c’erano le forze speciali: la legione della Milizia ferroviaria e la legione della Milizia forestale (una coorte in ciascun governatorato)6. Dei quattro comandi militari nella capitale7, il più im­ portante era naturalmente il comando dell’esercito, agli ordini del capo di stato maggiore, e le più importanti, e soprattutto le più attive, tra le truppe cui venivano impartiti ordini da questo comando erano le brigate indigene, i cui effettivi, in questo periodo, continuarono a essere potenziati.

Un anno dopo la conquista, dunque, il nuovo Impero sembrava essere solidamente stabilito, e la sua futura prosperità — basata su ottime linee di comunicazione, sui coloni italiani e su un potente esercito indigeno — pa­ reva in teoria garantita. La nobiltà e l’intellighenzia del vecchio Impero erano state liquidate o imprigionate; gli ultimi suoi eserciti e capi militari erano stati sconfitti, la pace risultava stabilita quasi ovunque, eccezion fatta per qualche dispersa banda ribelle nelle regioni periferiche dello Scioa. Si riconosceva che le relazioni con la Chiesa copta erano pessime; ciò nonostante, quando, nel mese di giugno, dopo essere stato convocato al Ministero dell’Africa Italiana (così il Ministero delle Colonie era stato ribattezzato due mesi prima) l’abuna Kyrillos se la svignò durante il viaggio di ritorno per rifugiarsi nel suo natio Egitto, non si trattò, dal punto di vista italiano, di un evento negativo: non soltanto egli era un legame visibile con il vecchio Impero, ma, in quanto egiziano, veniva so­ spettato di avere rapporti con gli inglesi. In ogni modo, la politica italiana in quel periodo era filo-islamica; in occasione del viaggio a Tripoli nel mese di marzo, Mussolini si era autoproclamato Protettore dell’Islam, e gli italiani in Etiopia ben presto cominciarono a mettere in pratica questa politica istituendo scuole islamiche in lingua araba a Harar e a Gimma, nominando cadì quali presidenti dei tribunali arabi, e costruendo o rico234

struendo moschee in tutto il paese, compresa la moschea di Addis Abeba. In tali circostanze, l’ostilità di un clero spesso giustamente disprezzato perché venale e incolto, la scomparsa del suo capo, uno straniero, la morte dei monaci-terroristi, non preoccuparono le autorità italiane 8. Se per gli italiani la primavera del 1937 fu un periodo di ottimismo, per i pochi Scioani superstiti si trattò, a causa delle stesse ragioni, di un periodo quasi disperato. Anche i cadetti di Hailé MariamMammo, nella valle del Mugher, si erano nuovamente divisi, sostenendo che la lotta non aveva speranze in un territorio circondato da Galla dei quali gli italiani stavano volutamente destando l’ostilità. Mulughietà Bulli, Menghistu Neuay e i loro amici si misero al sicuro a Gibuti. Gli altri cadetti vagabonda­ rono nei bassopiani con i loro seguaci, isolati, dopo un importante at­ tacco nella valle del Mugher, di Hailé MariamMammo, penetrando occa­ sionalmente in Addis Abeba durante la notte, e organizzando durante il giorno brevi scorrerie « colpisci-e-fuggi », camuffati da bande, o addirittu­ ra di ascari9. Dopo la cattura di Abebè Tafari, soltanto Essayas e Negga Hailé Selassié rimasero attivi, e vennero respinti verso ovest. Quanto agli altri capi, nei primi mesi del 1937, i loro « eserciti » erano altrettanto esigui; Zaudiè Asfau disponeva di cento uomini, Abebè Aregai soltanto di quaranta e Mesfin Sillescì di circa trenta quando si incon­ trarono a Marabete, al nord di Salale, e decisero di portarsi nel Mens ove degiacc Auraris ancora governava. Ma, in tutto questo periodo, il numero dei seguaci oscillò in modo così accentuato che le cifre signifi­ cavano ben poco: una banda di trenta uomini poteva diventare un eser­ cito di parecchie migliaia dopo un successo, per poi ridursi di nuovo non appena il capo dei guerriglieri si portava da quella zona ad un’altra. Questo fu quanto accadde ai capi scioani: essi sorpresero e catturarono un collaborazionista, degiacc Mescescià Tand Belai e gli incendiarono la casa. Ma il figlio di Mescescià, il fitaurari Chidane, fece intervenire gli italiani e, in tre giorni di combattimenti, Mesfin rimase ferito, Uolde Johannes rimase ferito, e Mescescià fu ucciso dalla sua guardia; e le bande, rafforzate dopo il loro primo successo, si dispersero di nuovo e vennero respinte fino alle caverne del Mens e circondate; riuscirono a fuggire, furono ricacciate a Marabete 10 e infine respinte a ovest. Fu quasi un caso, sembra, se le diverse bande confluirono verso il di­ stretto di Gindabarat, situato tra il Nilo Azzurro e la strada Addis AbebaLechemti, a nord di Ambo. Quasi tutte le bande, come gli uomini di Zaudiè Asfau e i cadetti, non avevano alcun piano; tentavano, sempli­ cemente, di sottrarsi agli italiani e alle bande ostili. Forse speravano di poter trattare con ras Hailù, che si trovava ad Ambo con il generale Belly, o anche con degiacc HapteMariam a Lechemti. In tal caso furono sfortunate. Degiacc HapteMariam, infatti, morì, così misteriosamente, pro­ prio in quel periodo; quanto a ras Hailù, il suo atteggiamento sembra essere stato totalmente ostile — o perché considerava i capi superstiti poco importanti per nascita e per influenza, o perché, dopo l’uccisione dei figli di ras Cassa, non voleva aver parte in alcun’altra trattativa. 235

Ciò nonostante, i capi non erano del tutto disorganizzati; soprattutto, si tenevano in contatto gli uni con gli altri, e sorvegliavano le loro mitra­ gliatrici come se fossero state d’oro. E fu all’incirca in quel periodo che in tutta l’Etiopia cominciò a spargersi una voce: si raccontava di un prete che aveva profetato, e, secondo la sua profezia, gli italiani sarebbero ri­ masti soltanto cinque anni in Etiopia Il morale dei guerriglieri si risollevò, e le loro forze essendo state accresciute da questo e da uno o due successi minori, i capi scioani si riunirono in consiglio a Gindabarat, il loro scopo era quello di scegliere un comandante e di coordinare gli sforzi. Il personaggio più anziano e rispettato, il Nestore della resistenza, era degiacc Auraris del Mens; aveva combattuto con ras Mulughietà sul­ l’Amba Aradam — soltanto per essere imprigionato e incatenato prima di Mai Ceu in seguito all’oscura cospirazione Uollo. È probabile che fosse stato liberato dagli italiani, anche se non risulta dai documenti; le ragioni per cui non si sottomise, come ras GabreHiuot e degiacc Amde Alì — o, se si sottomise, lo fece soltanto come un’astuzia per riconquistare la liber­ tà — risiedono con ogni probabilità nel fatto che egli era un nobile del Mens, e non soltanto un nobile, ma un governatore del regno scioano, in un territorio ove le tradizioni scioane erano più sentite. Degiacc Auraris lo superava come rango. Ma vigeva ormai la prassi secondo la quale i capi accettavano il rango conferito ad essi dai loro seguaci. Così il barambaras Abebè Aregai era ora stato promosso per acclamazione dai suoi uomini a « ras » 12. Egli aveva affermato il proprio potere nella regione di Ancober, a est della Strada Imperiale e a nord della linea ferroviaria. Ma quando la pressione esercitata dal nemico diventava eccessiva, soleva attraversare la strada durante la notte e rifugirsi tra le sue montagne natie del Mens. Fino ad un certo punto rico­ nosceva la supremazia di degiacc Auraris, ma, in quanto capo giovane e fortunato, e in particolare in quanto comandante il cui territorio era il più vicino ad Addis Abeba, la fama di lui, almeno presso gli italiani, era di gran lunga maggiore. Anche Zaudiè Asfau, sebbene per ragioni diverse e per un periodo assai più lungo, era stato imprigionato da Hailé Selassié. Per quanto di sangue imperiale, non sembra che fosse un uomo ambizioso; era un combattente, non un politicante. Aveva come braccio destro Uolde Johannes, ex-aiutante della banda imperiale. Anche Mesfin Scillescì era un combattente. Come sciallacà della Guar­ dia, e membro dell’aristocrazia dominante, poteva essere considerato, in un certo senso, il capo naturale, poiché in lui si accomunavano la nascita e la posizione, e ad entrambe si aggiungeva l’esperienza. Ma si trattava di un lealista, devoto ad Hailé Selassié, e, tenuto conto delle circostanze, ciò non lo favoriva. Lo seguivano Ligg Mered Mangascià, ufficiale delle guar­ die a Mai Ceu, e Ligg Abiye Abebè, entrambi suoi parenti stretti. Hailé MariamMammo — mezzo sciftà e mezzo balabat — era il solo ca­ po che avesse compreso d’istinto e posto in pratica i princìpi della guer­ 236

riglia. Nel mese di gennaio, aveva incendiato la propria casa — un gesto simbolico, divenuto noto ovunque; e quando gli italiani avevano attaccato in forze la valle Mugher, egli si era burlato dei cadetti con le loro difese fisse e le postazioni di mitragliatrici, consigliando invece la tattica delle azioni di sorpresa — da essi respinta n. Era stato lui a tendere una imbo­ scata alla « colonna della ferrea volontà » ; in seguito era stato coinvolto in un gran numero di effettivi combattimenti, più di qualsiasi altro capo. Suo cugino, Zaudi Abra Kora, che si era battuto nel Tembien e aveva ucciso Alemù Igersa a Debrà Libanos, era fisicamente un uomo più robu­ sto, ma veniva considerato di gran lunga meno coraggioso. Negga Hailé Selassié e Hailé MariamMammo avevano giurato insieme - un giuramento al quale era stata presente la moglie di Hailé Mariam Mammo — di battersi fino alla loro ultima goccia di sangue e all’ultimo respiro, e di non arrendersi mai prima di aver riconquistato l’indipenden­ za. Negga era stato capo di stato maggiore della «Brigata di Tamm», nella quale Essayas, anch’egli eritreo, comandava un battaglione. Entrambi avevano veduto la banda di Ligg Guenet — i cadetti di Oletta — retroce­ dere da Ad Termaber a Addis Abeba, da Addis Abeba al Gogeb, e dalla resa del Gogeb agli stermini e alle catture di Yekatit. Erano più giovani di una generazione di quasi tutti gli altri capi. Blatta Taclè Uoldeauariat era sui quarant’anni. Come oratore non ave­ va rivali; e come profeta — da quando aveva abbandonato ras Immirù, prevedendone la morte o la cattura entro quindici giorni — la sua repu­ tazione andava crescendo 14. Intorno a lui sorsero leggende; a Gimma era stato scambiato per un janhoy, lo scacciamosche di bianco crine di cavallo dal quale non si separava mai aveva poteri magici; egli era in grado di parlare con gli uomini a distanza. Blatta Taclè non fece nulla per smentire tali leggende, che si fusero stranamente con la sua reputazione di esponen­ te più progressista della nuova generazione di amministratori. Tra tutti, egli era stato il più vicino ad Hailé Selassié: un tempo, avevano dormito spesso nella stessa casa, dopo serate trascorse tenendosi reciprocamente compagnia. Ma Blatta Taclè conosceva e capiva troppo bene Hailé Se­ lassié per poter provare nei suoi riguardi qualcosa di simile alla tradizio­ nale devozione di un suddito per il suo Imperatore; altrettanto rusé, aveva un carattere più violento; altrettanto patriottico, era più nazionalista; al­ trettanto ambizioso, era per temperamento avverso ad ogni gerarchia ba­ sata sul diritto di nascita o sulla tradizione. Tra le personalità riunitesi nel Gindabarat, egli era il più complesso. Tutti capivano quanto fosse necessario scegliere una sorta di comandan­ te in capo che coordinasse la loro attività. Zaudiè Asfau fu il primo ad essere proposto, perché apparteneva alla casa imperiale. Ma i più giovani volevano una figura più conosciuta, e fecero il nome di Abebè Aregai, re­ spinto però da Hailé MariamMammo. A quanto pare, si ricorse allora all’estrazione a sorte e toccò di nuovo ad Abebè Aregai, il quale, tuttavia, rifiutò la carica a favore di degiacc Auraris; e questi, a sua volta, dopo aver inizialmente accettato, rassegnò le dimissioni. Nascita, capacità o po­ 237

sizione... nessuno sapeva su quale criterio avrebbero dovuto basare la scelta di un capo militare; ed è comprensibile... una situazione del genere non si era mai presentata prima di allora nel corso di mille anni di storia. Il compito risultò più facile per quanto concerneva l’aspetto politico. Blatta Taclè venne eletto segretario e coordinatore politico del movimento di resistenza — « Per queste cose » egli disse « non potete trovare un uomo migliore di me » — e fu così formato una sorta di Gabinetto-ombra. Zaudiè Asfau, ad esempio, ebbe l’incarico di occuparsi degli affari dei Galla, un certo grasmacc Endescià Kutche divenne capo della commissione che doveva predisporre l’ordine dei lavori, e Essayas segretario della stessa. Ma, man mano che le discussioni si trascinavano, risultò sempre e sem­ pre più chiaro che sarebbe stato impossibile scegliere un capo militare i cui ordini venissero eseguiti da tutti; apatia e pessimismo sostituirono le vivide speranze iniziali. Essayas, che aveva avuto l’ordine di preparare un piano, perdette ogni fiducia nell’organizzazione: egli si persuase che i capi non si proponevano affatto di collaborare. Inoltre, sebbene la regione fosse deserta e remota, la presenza dei capi scioani, riunitisi per conferire, non potè essere nascosta agli italiani. Furono continuamente molestati dalla banda di ras Hailù, poi bombardati e attac­ cati con i gas da stormi di aerei che, secondo Essayas, comprendevano settantaquattro apparecchi, e infine attaccati in forze da ras Hailù e dal generale Belly, partiti da Ambo. Anche se nel primo scontro si impadro­ nirono di settecento fucili e di diciassette mitragliatrici pesanti e ricaccia­ rono le bande fino ad Ambo — Hailé MariamMammo per poco non cat­ turò ras Hailù, che fu aiutato a sottrarglisi dal pronipote, anch’egli co­ mandante di banda e anch’egli chiamato (così da confondere le idee) Mammo Hailé Mariam — subirono ben tre attacchi. I viveri scarseggiava­ no, le bestie da soma morivano a causa dell’erba avvelenata, e, entro la settimana, essi si dispersero, suddividendosi in piccoli gruppi e spostan­ dosi durante la notte — poiché a furia di esperienze avevano imparato qualcosa — per riunirsi ancora, alcuni giorni dopo, in un’altra zona. Blatta Taclè, Mesfìn, Zaudiè Asfau e i loro seguaci si diressero a ovest, verso Gore, dietro suggerimento di Blatta Taclè, per riorganizzarsi, per stabilire contatti con il Sudan, prepararsi a ricevere rifornimenti di ogni genere e disporre, se necessario, di una via di ritirata. Blatta Taclè so­ stenne inoltre, a quanto sembra, che una volta incominciata la guerra mondiale sarebbe stato più facile riconquistare l’Etiopia da ovest. Se ciò risponde al vero, la sua fama di profeta è giustificata. Abebè Aregai, Hailé MariamMammo e degiacc Auraris si recarono a est — di nuovo sui loro altipiani del Mens e di Ancober ove gli italiani e le bande potevano penetrare, senza però mai riuscire a tenerli sotto con­ trollo. Il primo tentativo di coordinare un movimento di resistenza — problema che, alcuni anni dopo, doveva dimostrarsi altrettanto difficile in molti paesi d’Europa - era fallito. I sei capi poterono congratularsi a vicenda soltanto per un unico successo, ma un successo di estrema im­ portanza: erano per lo meno, a differenza dei loro predecessori, ancora 238

in vita. E, a poco a poco, gli Scioani superstiti cominciarono ad adattarsi alle tattiche della guerriglia. Come sempre in questo periodo, le date sono incerte. Ma da quel poco che si sa, la riunione nel Gindabarat sembra aver avuto luogo durante la stagione delle piogge, mentre il primo attacco di ras Hailù e del generale Belly venne sferrato il 25 luglio, o intorno a tale data. Per conseguenza, soltanto poche settimane dopo si ebbero, con stupore e allarme degli italiani, i primi incidenti seri in regioni che erano state considerate non tanto pacificate quanto pacifiche per natura. Negli ultimi giorni di agosto vi furono attacchi quasi simultanei, ma apparentemente non coordinati, degli shiftà contro il 25° battaglione nei pressi di Debrà Tabor, contro l’ll° battaglione a est del Goggiam e contro il 27° batta­ glione vicino a Bahar Dar. Il primo settembre tutto il Goggiam era in fiamme e le guarnigioni di Biccenà, Buriè e Dembeccia dovettero essere ritirate a Debrà Marcos, mentre la guarnigione di Engiabara ripiegava a Dangila. Durante il Mascal, la rivolta si era diffusa a nord, dal Gaint al Belesa, allo Uolcait, allo Tsegghedè, e ai bassopiani dell’Ermacciò, sul confine del Sudan. Colonne dirette verso il Goggiam vennero attaccate e circondate; la banda « Uollo Ieggia » a Mata, e due battaglioni della co­ lonna De Laurentis vicino a Debrà Tabor. Nello Uollo, sui confini dello Uag, ribelli avevano attaccato e saccheggiato Quoram. E il 7 dicembre, una forte colonna di cinque battaglioni comandata dal colonnello Barbacini e inviata da Gondar in soccorso di De Laurentis, venne essa stessa attaccata e tagliata in due, e un battaglione, il 6° arabo-somalo, fu quasi annientato. Impossibile negare l’evidenza. Quanto a tutta prima era stato attribuito ad attività isolate di sciftà non poteva più essere minimizzato: al termine della stagione delle piogge, le province del Goggiam e del Beghemder, il nuovo governatorato dell’Amhara, così facilmente conquistate e così pa­ cificamente tenute, si trovavano in preda alle fiamme della ribellione.

Smarrito, confuso e infuriato da quella situazione del tutto inaspettata e peggiore di giorno in giorno, in un Impero che lui e i suoi ufficiali avevano considerato pacificato, Graziani tornò dall’Asmara, ove era rima­ sto durante la stagione delle piogge. La sua prima furia si diresse contro l’unico ribelle il cui nome e la cui reputazione fossero noti: il capo delle bande che avevano attaccato e saccheggiato Quoram, degiacc Hailé Chebedde dello Uag. Le bande dei Galla Uollo vennero rafforzate, riarmate e scatenate con­ tro il Lasta e lo Uag. « Un’azione violenta, orrenda, devastatrice e scrite­ riata, condotta dagli Azebò Galla nel 1937 d’ordine del Governatore Ge­ nerale », ecco come la descrisse un ufficiale italiano 15. Come sempre, l’eroi­ smo si alternò con la crudeltà, e l’umorismo nero con l’uno e con l’altra. 239

« Quanti di voi turchi ha ucciso mio figlio? » domandava quasi quotidia­ namente Y uagscium Chebedde al commissario italiano di Socotà, tornando con la mente, nel rimbambimento della vecchiaia, alle sue stesse battaglie contro gli egiziani in Eritrea. « Che cosa stai facendo qui alla tua età? » domandò Hailé Chebedde a un ragazzo di quattordici anni che, molto fiero, aveva consegnato un prigioniero italiano, ma soltanto per essere rimandato a casa e alla sua famiglia. Un altro italiano, un sottufficiale, si offrì volontariamente di uccidere Hailé Chebedde, purché gli venisse eretto un monumento nella sua cittadina natale: non si faceva illusioni di sorta sul carattere suicida della missione. Si annerì la faccia e si diresse verso l’accampamento di Chebedde, ma lo scoprirono, trovarono le sei bombe a mano appese intorno alla vita di lui, sotto lo mamma, e lo impiccarono; potè forse consolarlo fuggevolmente Tessersi reso conto che lo ammiravano per il suo coraggio? In ultimo, gli italiani e i Galla Uollo catturarono Hailé Chebedde, la cui fine fu atroce. Lo decapitarono e ne esposero la testa, infilzata su una picca, a Socotà; vi sono le fotografie. E i suoi parenti etiopi dicono persino che la testa di lui venne conservata nel ghiaccio e spedita in seguito in Italia. Le terre di Chebedde vennero confiscate; ma suo figlio, Ligg Uossene e la vedova Uoizerò Yisceuanisc fuggirono, attraversando il Tacazzè, nel Beghemder e, a partire da quel momento, le scorrerie e i violenti scontri non cessarono mai nello Uag. « Il nemico interno lo abbiamo creato noi » osservò un altro ufficiale italiano, il generale Pesenti. Nuovi spargimenti di sangue, nuove uccisioni e nuove rappresaglie risultarono inutili, poiché gli Amhara erano stati portati alla disperazione e tutte le loro antiche faide e beghe intestine che avevano indotto molti di loro ad accettare, se non a gradire, un’alter­ nativa ai dominatori scioani, vennero dimenticate di fronte a un nemico comune. L’Imperatore era stato sconfitto e il suo Impero non esisteva più, i loro capi erano stati uccisi, il loro clero massacrato: ed essi, come ogni razza minacciata di sterminio, si ribellarono. Le promesse di perdono non avevano su di loro più effetto delle minacce di repressione: i nuovi domi­ natori si erano resi colpevoli di troppi tradimenti. E poiché essi sapevano di dover morire, in un modo o nell’altro, preferivano andare incontro alla morte opponendo resistenza anziché essere massacrati come bestiame da macello. La ribellione cominciò spontaneamente, con sollevazioni locali e sotto la guida di capi locali i cui nomi erano quasi sconosciuti al di fuori delle zone nelle quali si esercitava il loro ascendente. Nel Bircutan fu il fitaurari Mesfin Redda a disertare con quaranta pastori e ad attaccare la banda Ramperti. Altrove furono i capi stessi delle bande come il cagnasmacc Iman Mesciascià ad Abraimotu e degiacc Mangascià Gimbirre di Fagutta che a un tratto si rifugiarono sui monti con i loro uomini. NelTErmacioccò la ribellione cominciò ad un banchetto nuziale offerto a Jenferqerza dal cagnasmacc Chidane per le nozze di suo figlio Uolde Maconnen. Mentre lo sposo e gli amici intonavano canzoni di guerra, i vecchi si infuriarono e domandarono loro quali imprese coraggiose avessero com240

piu to per avere il diritto di cantare simili canzoni; un vecchio disse di essersi battuto contro i dervisci con la sola spada, mentre quelli della giovane generazione, sebbene disponessero di fucili e di munizioni, con­ sentivano ai loro nemici di vivere pacificamente come vicini. Il banchetto nuziale terminò quando tutti gli invitati, guidati dallo sposo, andarono ad attaccare la banda locale. A Meccia, quattro amici pronunciarono un giuramento: « Se io morirò tu prenderai il mio fucile, e se tu morirai io farò altrettanto. Se il pericolo minaccerà uno di noi e se udrai la tromba di guerra e spari, verrai a darci man forte, e noi faremo la stessa cosa». Nel Goggiam, le notizie degli stermini del clero e dei monaci di Debrà Libanos, giunte con ritardo e a tutta prima credute a stento, avevano orientati i pensieri degli uomini verso la ribellione; quando, alla fine di novembre, le autorità italiane frettolosamente convocarono dignitari della Chiesa ad Addis Abeba e fecero eleggere abuna l’anziano e quasi cieco ve­ scovo del Goggiam, Abraham, era ormai troppo tardi: la delegazione giun­ ta dal Goggiam rifiutò addirittura, dando prova di considerevole corag­ gio, di partecipare alla votazione. E gli anatemi scagliati dal nuovo abuna contro i ribelli furono meno efficaci della scomunica di Abraham da parte del Patriarca al Cairo. Nel frattempo, era ormai nell’aria un cambiamento di politica; nel frattempo era stato annunciato ufficialmente che Graziani sarebbe stato sostituito.





CAPITOLO TERZO

IL DUCA D’AOSTA

Giunge un periodo nella vita di tutti i dittatori in cui essi non sono disposti ad accettare altro che buone notizie. Nel caso di Mussolini, questo periodo fu breve e si determinò soltanto alla fine; durante i primi vent’anni al potere, egli rimase notevolmente lucido e notevolmente distaccato, in parte perché le cattive notizie significavano un insuccesso, e un insuccesso signi­ ficava la possibilità di screditare un possibile rivale. Nulla poteva dare più soddisfazione a Mussolini di un’atmosfera di intrighi e di rivalità tra i suoi subordinati; sia perché ciò rinsaldava la sua posizione e indeboliva la loro, sia perché confermava il disprezzo da lui più volte espresso nei confronti della natura umana. Esisteva poi l’ulteriore vantaggio che egli veniva invariabilmente informato delle mancanze dei suoi subordinati dai loro rivali e nemici. Lessona, uno dei più instancabili orditori di intrighi, ha comunque il merito di essere l’autore di Memorie che rivelano per lo meno con un certo grado di franchezza e di esattezza l’atmosfera velenosa nella quale agivano i gerarchi fascisti e la sua stessa disgustosa personalità. Egli non faceva alcun segreto del proprio odio e del proprio disprezzo per Graziani e fu lui a far circolare a Roma, nell’estate del 1937, la voce secondo cui Graziani rimaneva volutamente nel proprio letto d’ospedale per paura, e, in seguito, a far dire che Graziani si era rifugiato nella sicurezza dell’Asmara ove « dormiva di notte barricato nel palazzo del governatore, circondato da filo spinato, mitragliatrici, carri armati, e un battaglione di guardie ». Lessona sfruttò pertanto le notizie sullo scoppio della rivolta come una ragione legittima per sbarazzarsi del viceré; e insinuò persino che Graziani, geloso della calma nel territorio dell’Amhara, di Pirzio Biroli, avesse deliberatamente fatto assassinare due uomini importanti e gettare nel lago Tana i loro cadaveri allo scopo di fomentare una rivolta e di minare la posizione di Pirzio Biroli. Mussolini non accettò come oro colato tutte le asserzioni e tutti i rap­ porti di Lessona; ciò nonostante, risultava manifesto che era scoppiata una seria rivolta e che i sistemi di Graziani — i quali, egli non lo dimenti­ cava, erano anche i sistemi di Lessona - non avevano avuto successo ’. L’at­ teggiamento di Mussolini nei confronti dell’Etiopia era strano. Né lui — né, del resto, il nuovo Re Imperatore — visitarono mai l’Africa Orientale 243

Italiana; e si direbbe che, una volta ottenuta la conquista, egli provasse un profondo disinteresse, sconfinante nell’indifferenza, per l’Impero. Il suo solo scopo era che l’Etiopia divenisse prospera in pace e autosufficiente in guerra; per ottenere ciò, era disposto a investire enormi somme di denaro — e ovviamente il primo sine qua non consisteva nella pacificazione totale. La questione morale, se la politica di repressione di Graziani fosse giusta o ingiusta, sembra averlo lasciato del tutto indifferente; una sola cosa contava per Mussolini, che quella politica era fallita e che, tenuto conto di ciò, sia la politica stessa, sia i suoi esecutori, dovevano essere cambiati. Il 25 novembre, il ministro dell’Africa Italiana, Lessona, fu convocato a Palazzo Venezia insieme al comandante della divisione dell’aeronautica Aquila — Amedeo, Duca d’Aosta, che uscì dalla riunione come viceré designato. Si può soltanto supporre quali furono le ragioni che indussero Mussolini a scegliere il Duca. Trentanovenne, popolarissimo nelle forze armate e in Italia in genere, Amedeo era, ciò nonostante, una figura di secondo piano e aveva avuto scarse occasioni di distinguersi in qualsiasi modo. È noto che Mussolini aveva già avuto in mente il Duca d’Aosta: lo aveva pro­ posto a Franco come possibile Re di Spagna, un suggerimento al quale Franco aveva reagito nel modo usuale che ci si sarebbe potuto aspettare da lui. Non ci si poteva aspettare che un viceré così giovane e inesperto diri­ gesse le operazioni militari contro i ribelli: stabilire chi sarebbe stato il « comandante delle truppe » agli ordini del Duca d’Aosta nell’Africa Orien­ tale Italiana, diede luogo a intrighi quasi farseschi. Lessona aveva il suo candidato - il generale Cavaliere — che gli aveva scritto in agosto propo­ nendo il proprio nome e ricordando i suoi due anni di esperienza in fatto di guerra coloniale, come capitano di fanteria in Libia; c’erano però, a sfavore di Cavaliere, due precedenti negativi: il litigio di lui con Badoglio, che lo aveva costretto a dimettersi da Ministro della Guerra nel 1928, e, successivamente, uno scandalo nella vita civile: pretesi falsi e corruzione come direttore della fabbrica d’armi Ansaldo, accuse dalle quali egli era stato discolpato, ma che lo avevano indotto a rassegnare le dimissioni. L’« affare Ansaldo » era stato causa di un contrasto tra lui e Ciano, che stava cercando di fare assorbire l’Ansaldo da un gruppo rivale dell’indu­ stria degli armamenti, e tra lui e Starace. Nel 1937, i nemici di Cavaliere a Roma comprendevano per conseguenza Badoglio, Capo di Stato Maggio­ re Generale, Ciano, nominato di recente Ministro degli Esteri, e Starace, il Segretario del Partito. Ciò nonostante, quando Lessona si recò da Mussolini, una settimana do­ po il colloquio precedente, ebbe il piacere di essere informato del fatto che il suo candidato èra stato effettivamente prescelto. Con un piacere notevolmente minore, si accorse che il Duce aveva un’altra decisione da annunciargli: imbarazzato e agitando nervosamente le dita2, il Duce lo informò che « naturalmente » il Ministro avrebbe dovuto essere cambiato insieme al viceré, e siccome la carica di viceré veniva assunta da un 244

principe di sangue reale, egli stesso avrebbe dovuto riassumere la carica di Ministro delle Colonie, o piuttosto — poiché questa era la nuova denomi­ nazione — di Ministro dell’Àfrica Italiana. Così uscì di scena Lessona. Il suo era stato un ministero breve e fatale, in quanto le tre pietre angolari della sua politica, governo diretto, separazione razziale, freddezza nei con­ fronti della Chiesa, avevano costituito le cause fondamentali di tutti i di­ sastri nell’Africa Italiana, presenti e futuri. Ed entrò in scena Teruzzi: sebbene, infatti, Mussolini avesse assunto la direzione nominale del mini­ stero, Teruzzi, ex-comandante generale della Milizia, ex-comandante del­ l’unica divisione di Camicie nere che non avesse mai sparato un colpo nella guerra in Abissinia, era, in quanto sottosegretario (e successivamente in quanto ministro), il vero direttore degli affari coloniali in Africa, e lo sarebbe stato fino a quando fossero rimasti affari coloniali da dirigere. Esisteva, tuttavia, un altro candidato alla carica di « comandante delle truppe » nell’Africa Orientale Italiana ; lo stesso Graziani, il quale era così riluttante ad andarsene che propose di rimanere al fianco del nuovo viceré « soprattutto allo scopo di portare a termine le operazioni contro i ribelli dell’Amhara che, proprio in questi ultimi giorni, hanno sterminato il VI battaglione arabo-somalo ». La successiva confusione fa sembrare straordi­ nario che il governo fascista sia mai riuscito a funzionare — a meno che non si sia trattato di un altro esempio del malizioso senso dell’umorismo del Duce. Cavaliere era stato nominato ufficialmente e ufficialmente informato della sua nomina, ma il decreto che lo nominava, in seguito alle pressioni esercitate da Teruzzi e da Farinacci, non era stato pubblicato nella Gaz­ zetta Ufficiale. Il Duca d’Aosta si era imbarcato sull’incrociatore Zara il 21 novembre, il giorno dopo l’annuncio della sua nomina e stava viag­ giando verso Massaua. Graziani sapeva del proprio congedo e anzi, il 7 dicembre, era stato creato Marchese di Neghelli, come contentino. Ciò nonostante, 1Ί1 dicembre, a quanto pare avendo ricevuto l’assenso di Mussolini alla proposta di restare, telegrafò a tutti i governatori : « Ordino che si pubblichi un’edizione straordinaria del quotidiano locale con la se­ guente notizia: Sua Eccellenza il Capo del Governo, Duce del Fascismo, ha deciso che Sua Eccellenza il Maresciallo Rodolfo Graziani rimanga nel­ l’Africa Orientale Italiana quale comandante delle truppe », e soggiunse che volantini per annunciare la lieta notizia dovevano essere stampati nelle varie lingue locali e lanciati da aerei su tutto il paese. Vi sono due versioni completamente contraddittorie sull’atteggiamento del Duca d’Aosta. Stando a Lessona, egli aveva rifiutato Graziani prima del colloquio del 15 novembre: «Non voglio Graziani come comandante delle truppe. Se il Duce insisterà, rinuncerò definitivamente alla carica di viceré. Conosco Graziani dai tempi in cui ero maggiore nei meharisti e militai ai suoi ordini. L’ho sempre veduto tradire tutti i suoi capi. Se lo accettassi come mio collaboratore, finirebbe con il tradire me ». E quando arrivò, infine, ad Addis Abeba il 28 dicembre (pilotando il proprio bipla­ no partito da Massaua) respinse l’offerta di consigli da parte di Graziani 245

con la fredda frase : « Sentite, Graziani, consentitemi di commettere i miei errori ». Stando invece a De Biase, il Duca d’Aosta accettò volentieri Graziani come collaboratore e il 31 dicembre approvò un rapporto sottopostogli dal Maresciallo che proponeva un rapido giro di ispezione di Cavallero — giun­ to a sua volta a Massaua quello stesso giorno — ma la propria sostituzione da parte di Cavallero soltanto nell’ottobre del 1938. In ultimo, il groviglio venne districato da un telegramma di Mussolini il 2 gennaio. Come riferì a Eden il console generale inglese, c’era stato un « vero pasticcio » : nel mese di dicembre, era corsa voce che Graziani sarebbe rimasto come co­ mandante in capo delle forze armate dell’Impero; il 10 gennaio, egli partì da Addis Abeba con poche ore di preavviso, ufficialmente per un’ispezione in Somalia. Il 3 febbraio, il suo successore, il generale Cavallero, arrivò ad Addis Abeba. Graziani rientrò in patria, ove lo aspettavano una quasidisgrazia e il pensionamento, sebbene allora sembrasse definitivo. Quando, nell’estate del 1939, gli fu accordata un’udienza da Mussolini, nel corso della quale egli chiese che gli si consentisse di tornare in Somalia come colono, Mussolini, molto benevolmente, diede la propria autorizzazione e consigliò all’ex-viceré di coltivare banane. « Il nostro mercato le richiede sempre » disse il Duce, a quanto pare con un’espressione imperturbabile. Con la definitiva partenza di Graziani, l’Africa Orientale Italiana si av­ viò verso quello che il signor Helm, del consolato generale inglese, definì3 « virtualmente un nuovo inizio ». Persone nuove sostituirono quelle di un tempo in tutte le posizioni-chiave: il Duca d’Aosta e Cavallero, natural­ mente, ma anche Enrico Cerulli come vice-governatore generale, Daodiace come governatore dell’Eritrea e Caroselli come governatore della Somalia. Gli altri tre governatorati rimasero affidati ai militari, ma il generale Mezzetti — con una lunga esperienza in Libia e, nonostante la parte da lui avuta nel massacro di Debrà Libanos, ritenuto più propenso ad avvalersi della diplomazia che della forza — aveva già sostituito il parente di Lessona, Pirzio Biroli, come governatore dell’Asmara; e in agosto il generale Gazzera, ex ministro della Guerra, sostituì il generale Geloso, sospettato di troppo scoperto nepotismo, come governatore del Galla-Sidamo. Il solo governatore che rimase al suo posto fu il generale Nasi, a Harar. Insieme alle nuoye personalità emerse una politica completamente nuo­ va. I tribunali militari che avevano ordinato esecuzioni sommarie in tutto il paese furono soppressi, e, ai primi di marzo, il Duca d’Aosta fece liberare mille detenuti a Danane4. Anche la prima visita di Teruzzi, contrasse­ gnata dall’inaugurazione della galleria sotto l’Ad Termaber, il « Passo Mussolini », una magnifica opera di ingegneria, si svolse senza un solo intoppo; e un altro illustre visitatore, Balbo, giunse in aereo dalla Libia per offrire al generale Nasi una spada cerimoniale. La schiavitù venne ufficialmente abolita e quattrocentomila gabir ottennero le terre loro nel Galla-Sidamo. Il Duca d’Aosta era « instancabile ». Apparve « un tipo mi246

gliore di amministratori », e, sebbene la segregazione venisse formalmente imposta sugli autobus e sui treni, nonché nei cinematografi5, e gli italiani dovessero essere muniti di speciali lasciapassare per recarsi nei « quartieri indigeni » della capitale, ove musulmani, indiani, guraghè e così via era­ no tutti raggruppati a seconda della razza e della religione nei loro settori intorno al nuovo Mercato indigeno, tutto sommato si trattava di un genere di regime che gli inglesi avrebbero potuto accettare e approvare. Tuttavia, i rapporti tra il governatore generale e il vice-governatore ge­ nerale non sembravano buoni. Enrico Cerulli era uno studioso con una lunga esperienza come esploratore, etnologo, amministratore e funzionario del Ministero. Conosceva il paese, eccelleva anche nelle minuzie e colpiva tutti con la sua lucidità e la Sua prontezza nel prendere decisioni. Egli si riteneva — e a buon diritto — il vero amministratore del paese, autorizzato a mettersi direttamente in contatto con Roma. Tuttavia, quando andò in licenza a settembre, e il Duca assunse personalmente, per un breve perio­ do, il compito dell’amministrazione dell’Impero — con l’aiuto della Duches­ sa, appena arrivata — il cambiamento fu « un successo sotto ogni aspetto ». Agli inizi del 1938, le relazioni anglo-italiane erano pertanto bene avviate in Africa, e stavano migliorando anche in Europa. La fine della guerra in Spagna si profilava all’orizzonte; e, con il placarsi graduale delle passioni dell’opinione pubblica, il governo inglese si accinse ad affrontare quello che riteneva essere il suo compito essenziale in Europa, indurre l’Italia ad abbandonare la pericolosa alleanza de facto con la Germania. Gli italiani, essi stessi sospettosi delle iniziative tedesche in Austria, erano disposti a lasciarsi corteggiare: ma il prezzo consisteva nel riconoscimento de jure dell’Africa Orientale Italiana. Chamberlain si recò a Roma e disse al suo ministro degli Esteri, Eden, di non avere scrupoli : « Dovremmo affrontare la questione dal punto di vista della necessità di pervenire a un appeasement generale... e giustifi­ care il riconoscimento de jure su tali basi ». Eden, violentemente antiitaliano — come il sottosegretario permanente del Foreign Office, Sir Ro­ bert Vansittart, era violentemente anti-tedesco — rassegnò le dimissioni la sera del 20 febbraio e, all’età di quarant’anni, venne a trovarsi con la car­ riera apparentemente troncata. Lo sostituì, come ministro degli Esteri, Lord Halifax. La Svizzera era stata il primo paese a riconoscere l’Africa Orientale Ita­ liana nel 1937. Nel febbraio del 1938 fu seguita dall’Olanda, poi dal Belgio nel mese di marzo; e in aprile vi furono a Roma conversazioni anglo­ italiane. Quella che potrebbe sembrare una sterile controversia giuridica, rivestiva importanza vitale per un uomo: Hailé Selassié. Hailé Selassié continuava però a essere l’Imperatore d’Etiopia. Lui, e non Vittorio Emanuele, era stato invitato, in tale veste, all’incoronazione di Re Giorgio VI, l’anno precedente6. Se si fosse riconosciuto de jure che l’Italia governava l’Etiopia, egli sarebbe divenuto un semplice profugo, senza posizione né titolo; la Legazione sarebbe stata chiusa; Γ ’’Etiopia” avrebbe cessato di esistere. Su un piano più serio, l’unica speranza di una 247

eventuale restaurazione sarebbe scomparsa: infatti, come Hailé Selassié ave­ va capito con perfetta lucidità — e basta questo a spiegare la sua decisione di recarsi in Inghilterra, mentre quasi tutti gli altri profughi restavano a Gerusalemme - soltanto gli inglesi avevano il potere di rimetterlo sul tro­ no. Una volta che la sua posizione ufficiale, per quanto artificiosa, si fosse dileguata, le speranze di lui che, egli stesso lo ammetteva, erano vaghe, sarebbero divenute completamente infondate. Fortunatamente, Hailé Selassié non mancava di amici devoti: un mese dopo l’occupazione italiana, Sylvia Pankhurst aveva pubblicato il primo numero di una rivista che doveva sopravvivere per molti anni: la New Times and Ethiopia News. Un mese dopo l’altro, i suoi articoli di fondo si scagliarono contro la pusillanimità dei governi e della burocrazia inglese, e i collaboratori della pubblicazione — soprattutto un indiano a nome Wazir Bey che, rifugiatosi a Gibuti dopo varie disavventure, era in stretto contatto con il console dell’Etiopia in quella città, Ligg Endellacciù Messai, un protetto di ras Gassa — fornirono notizie sulle grandi vittorie etio­ piche e le enormi perdite italiane alle classi medie liberali, curiose di sa­ pere come andassero realmente le cose in Etiopia. Nel periodo dei mas­ sacri di Yekatit, a proposito dei quali soltanto voci confuse raggiunsero la libera stampa d’Europa, la tiratura della NTEN salì a venticinquemila co­ pie. Di norma era assai più bassa. La pubblicazione, e questo risultato era più efficace, offriva ad Hailé Selassié il solo mezzo di cui egli disponesse per stabilire un contatto con il pubblico e la classe dirigente inglese: pub­ blicò ad esempio, integralmente, il suo appello a tutte le chiese cristiane, dopo il 72 Yekatit, nel quale egli condannava gli italiani per i loro crimini, un appello che indusse l’Arcivescovo di Canterbury, Cosmo Lang, uno dei più leali sostenitori dell’Imperatore, ad affrontare l’argomento alla Ca­ mera dei Lord. Su un piano più personale, la Pankhurst era instancabile: si teneva in contatto con i profughi e i campi dei profughi nei territori inglesi e bom­ bardava i governatori delle colonie e i funzionari del Foreign Office con lettere che non mancavano di avere effetto. Ella non era, tra gli amici di Hailé Selassié, la sola ad agire. Sir Sidney Barton, sebbene a riposo, premeva affinché la famiglia imperiale venisse aiutata finanziariamente. George Steer, in quegli anni amico personale dell’imperatore, si recò due volte a Gibuti e scrisse i soli articoli esatti e prescienti apparsi nei giornali inglesi sull’occupazione italiana e la resistenza etiopica; e, il 6 aprile, il colonnello Sandford, che si era imboscato paradossalmente come teso­ riere della cattedrale di Guilford, si recò al Foreign Office quale porta­ voce di Hailé Selassié e disse ai suoi amici del Dipartimento egiziano che l’Imperatore sarebbe stato disposto a tornare in una posizione subordinata nel territorio dell’Amhara. Tre settimane dopo, più disperatamente, Sand­ ford scrisse alla grande dama della politica coloniale inglese, Margery Perham, per esortarla a dare il suo aiuto; ella si mise immediatamente in contatto con il Lord del Sigillo Privato, Lord de la Warr, e il più grande tra tutti i veterani coloniali inglesi, Lord Lugard, preparò uno schema di 248

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progetto che proponeva un Goggiam autonomo, con Hailé Selassié quale suo governante, senza il titolo di Imperatore. Ciò è ben lontano dall’atteggiamento dell’estate precedente, quando, il 18 agosto, Hailé Selassié aveva detto a Halifax che non avrebbe trattato con gli italiani se non su una base di pari a pari7. Il motivo di questi piani sempre più disperati — nessuno dei quali, te­ nuto conto dell’atteggiamento di Ciano, venne preso in seria considerazione dal Foreign Office - era la firma prevista per il 16 aprile, a Roma, del­ l’accordo di « Bon Voisinage», e l’imminenza della 101a Assemblea della Società delle Nazioni a Ginevra, nel corso della quale sarebbe stata discus­ sa la questione del riconoscimento. Dopo il riconoscimento de facto dell’Africa Orientale Italiana sanzionato dalla Camera dei Comuni il 17 marzo, l’accordo di « Bon Voisinage » pro­ metteva il riconoscimento de jure, con la strana clausola condizionale — un’offa all’opinione pubblica inglese, tale da offrire ancora una vaga spe­ ranza ad Hailé Selassié e ai suoi sostenitori - che l’accordo stesso non sa­ rebbe entrato in vigore fino a quando la questione spagnola non fosse stata risolta e, in particolare, fino a quando tutti i « volontari » italiani non fos­ sero stati ritirati dalla Spagna8. Il governo inglese, dal canto suo, preoc­ cupato dalla rivolta scoppiata in Palestina e dalle attività dei terroristi arabi ed ebrei, considerava il « capitolo » etiopico « virtualmente chiuso ». Il risultato del dibattito a Ginevra era ritenuto scontato, E così fu. Ma non prima che Hailé Selassié, resosi conto che le proposte di Sandford non avrebbero ottenuto alcun risultato, avesse compiuto un ultimo e drammatico tentativo di impedire l’inevitabile. Il 10 maggio, non senza orrore del governo inglese, egli annunciò che si sarebbe recato, una volta di più, personalmente a Ginevra. E il 12 maggio, tre giorni dopo l’apertura della 101a sessione, l’Imperatore d’Etiopia parlò per la seconda volta all’Assemblea. A stento si sarebbe potuto riconoscere in lui l’uomo che si era rivolto a quella stessa Assemblea quasi due anni prima. Due anni di esilio avevano minato la sua salute e due anni di delusioni avevano distrutto il suo otti­ mismo. In Europa egli era quasi dimenticato; e nel suo paese quasi non si era più sentito parlare dopo la trionfante proclamazione del nuovo regi­ me il 9 maggio di due anni prima. Come a sottolineare la differenza, cin­ quanta capi etiopi guidati da ras Hailù e da due dei suoi nipoti avevano assistito alle sfilate organizzate a Roma per celebrare sia il secondo anni­ versario dell’A.O.I., sia la presenza di Hitler, il Cancelliere del Reich — 1’incontro di due dittatori i quali avevano entrambi ritirato i loro paesi dalla Società delle Nazioni. Ras Hailù trionfalmente esibito: un uomo vi­ cino, dal punto di vista geografico, al suo imperatore, ma moralmente lontano da lui come non mai; entrambi etiopi sul suolo di un altro conti­ nente ove doveva essere deciso il loro stesso destino e quello del loro paese. Il rappresentante della Cina, Wellington Koo, aveva denunciato l’ag­ gressione giapponese, e il rappresentante della Spagna repubblicana, Alva­ rez del Vayo, aveva chiesto che si accertassero le circostanze dell’aggres­ 249

sione tedesca e italiana contro il suo paese prima che Hailé si alzasse per aggiungere l’Etiopia. In seguito alla lunga malattia, l’Imperatore aveva un aspetto emaciato; dopo poche parole, dovette rimettersi a sedere, e Lorenzo Taezaz lesse il discorso in sua vece. Il tema era: pacificazione, sì... ma non pace a qualunque costo. Come Edward Wood, quindici anni prima, Lord Halifax si era opposto all’ammissione dell’Etiopia nella Società delle Na­ zioni ; probabilmente, sia lui sia Hailé Selassié se ne ricordarono quando, dopo che egli ebbe parlato per primo, seguito da Georges Bonnet per la Francia, l’ombra di uno Stato membro rappresentata da un imperatore senza impero, andò a raggiungere la propria concretezza nell’oblio. Anche la Svezia seguì l’esempio; soltanto la Cina, la Bolivia e la Nuova Zelanda si opposero al riconoscimento. La questione non fu messa ai voti : il pre­ sidente dell’assemblea dichiarò che i membri della Società delle Nazioni dovevano « decidere singolarmente il loro atteggiamento alla luce della propria situazione e dei propri obblighi ». Hailé Selassié tornò in Inghilterra in un’estate durante la quale la cre­ scente tensione in Europa dovette a volte dargli qualche motivo di sperare. In autunno, Blattengueta Herouy moriva a Fairfield9, e, un mese dopo, il 16 novembre, Sir Eric Drummond presentava la lettera di credenziali al «Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia». Il giorno dopo, il Times si riferì all’« ex-imperatore », e, quindici giorni dopo, il dottor Martin scrisse dal n° 43 di Gloucester Place a Lord Halifax cancellando l’intestazione della lettera « Legazione del Governo Imperiale di Etiopia », riferendosi all’uc­ cisione dei suoi due figli nel mese di Yekatit e supplicando che lo si aiu­ tasse ad alleviare « la mia infelice esistenza e le mie rinviate speranze ». Nel mese di dicembre, Lord Southborough, un amministratore del Wel­ lington College, si presentò al Foreign Office, informò i funzionari compe­ tenti dell’intenzione di Hailé Selassié di mandare Asfauossen a Wellington e domandò con tatto e discrezione se Lord Halifax ritenesse l’Imperatore in grado di pagare la retta della scuola10. Un anno prima, anteriormente al 12 Yekatit, la cartina sarebbe stata quasi verginalmente bianca, segnata soltanto da alcune chiazze scure nei « settori » militari intorno ad Addis Abeba. Cavallero, che aveva assunto il comando il 12 gennaio 1938, venne a trovarsi di fronte a una ribellione che si era diffusa in tutti gli altopiani centrali dell’Amhara e nelle pro­ vince del Beghemder e del Goggiam, ormai unite per formare il governa­ torato dell’Amhara. Il 14 gennaio, egli si recò in aereo a Gondar per con­ ferire con il nuovo governatore, il generale Mezzetti, e, il 19 gennaio, le colonne iniziarono da Gondar la marcia contro i ribelli. Fu l’inizio di un anno di marce e contromarce, di colonne, di manovre, di schermaglie e contromanovre, di costruzioni di forti e di strade, una guerra di bande e di brigate eritree combattuta in distretti i cui nomi di­ vennero, alla fine dell’anno, stancamente familiari agli ufficiali italiani che avevano arrancato da una regione all’altra: lo Uolcait, il Semien, l’Erma250

ciohò, il Gaint, il Damot, l’Agaumeder, il Marabeti, il Mens, l’Ancoberino, 10 Tsegghedè, il Salala, lo Uombera, l’Amhara Saint, il Mingiar e gli altri — territori dalla grandiosità quasi incredibile, ove catene montuose dopo catene montuose si perdono senza fine verso orizzonti invisibili, ove gole e burroni si celano dietro ogni cresta, e gli asciutti e poco profondi letti dei torrenti diventano ostacoli tonanti durante la stagione delle piogge, e i più grandi centri abitati sono raggruppamenti di miserabili capanne, difficil­ mente grandi quanto i grossi paesi in Italia, e le mulattiere svaniscono e scompaiono, o si suddividono in dozzine di diramazioni che disorientano e conducono a dozzine di minuscoli villaggi nascosti. Dall’Auasc al Nilo, dal Nilo al Tacazzè, le colonne italiane marciarono e contromarciarono nel 1938 agli ordini di maggiori, colonnelli e generali, di Gaibi, Tabellini e Focanti, Gallina, Natale e Lorenzini, Tosti, Raugei e Molinero, Rocco, Rolle e Piccioni, Criniti Quirico e Ajmone-Cat, Solinas e Martinelli, Prina, Rean e Maraventano, d’Agostino, Marzoli e Angelini, Barbacini, Giaglietti e Castagnola, Scavone, Alis e Martini. Alcuni di loro erano già ben noti, altri divennero famosi in seguito; e per taluni quello fu l’unico momento di gloria modesta, ed è giusto perciò che i loro nomi vengano ricordati. Questi ufficiali e le loro brigate e le loro bande ven­ nero spostati dall’Armagiac al Mens, dall’Ancoberino al Damot, o dal Limmu al Semien, a seconda di quel che imponevano i piani e i capricci di Gavallero. Ma vi furono tre punti centrali dai quali si irradiò l’azione: Gondar, ove era installato il generale Mezzetti come governatore dell’Amhara (un governatore attivo, che guidò egli stesso le colonne finché non cadde da cavallo il 23 aprile e fu sostituito dal generale Gallina) ; Debrà Berhan, centro del « settore nord-est » del comando di Addis Abe­ ba, ove il generale Maletti aveva sostituito il generale Mazzetti, e dispo­ neva della famosa Seconda brigata; e Ambo, nel settore ovest, ove (un po’ meno confusamente) il generale Martin, con l’aiuto di ras Hailù, ten­ tava di mantenere l’ordine a sud del Nilo Azzurro. Ad Ambo, Cavallero si recò in aereo da Gondar il 26 gennaio per avere colloqui con Martini e con il generale Belly in partenza; e da Ambo prese l’avvio la prima mossa importante. Nelle prime due settimane di febbraio, ingenti forze11 cominciarono a prendere posizione per un attacco contro 11 gruppo di ribelli subito a nord e a sud della strada Addis Abeba-Lechemti, nei distretti di Horro Gudru e di Monte Gibati. Le chiazze scure sulla carta rappesentavano, in effetti, Blatta Taclè UoldeHauariat, Zaudié Asfau, Mesfin Sillescì e i loro seguaci: i vecchi ri­ belli, più che i nuovi. Dopo la riunione a Gindarabat, durante la stagione delle piogge del 1937, sette o otto mesi prima, avevano vissuto quasi paci­ ficamente nelle foreste a sud del Nilo Azzurro, portandosi a Gudru, Gindarabat, e in direzione di Gimma, raggiunti da molti uomini, compresi numerosi Galla locali, finché in ultimo, agli inizi del 1938, le loro forze riunite compresero parecchie migliaia di combattenti. Si erano mantenuti 251

vagamente in contatto con i ribelli nel Goggiam - si dice che Blatta Taclè e Mesfin lanciassero lettere avvolte intorno a sassi, mediante fionde, al di là del Nilo Azzurro — e in particolare con i ribelli del Damot a sud di Buriè (la chiazza più vicina a loro sulla cartina di Cavallero) e che aves­ sero studiato piani vaghi per coordinare le loro azioni. Ma sembra che, dopo le difficoltà e i pericoli della campagna del 1936-37, conducessero, senza alcun vero piano, l’esistenza piacevole dei potenti capi sciftà, va­ gando, indipendenti, e badando bene a non scontrarsi con gli italiani o con ras Hailù che, dal canto loro, evitavano ogni movimento fuori della zona delle strade dalle quali erano collegate Addis Abeba, Lechemti e Gimma. Sebbene i ribelli sapessero che gli italiani stavano spostando forze in­ genti, non si aspettavano, per conseguenza, l’attacco coordinato posto in atto il 20 febbraio. Fu un nuovo disastro: vennero bombardati, respinti con i gas, attaccati, molestati e ricacciati a monte e contro la gola del Nilo Azzurro. Fortunatamente per loro, era la stagione dell’anno in cui l’acqua rimane bassa e il fiume è guadabile. Lo attraversarono a piccoli gruppi — centinaia di uomini, a corto di minuzioni, inseguiti dagli ita­ liani, persuasi di aver perduto Blatta Taclè e Mesfin, e senza quasi più alcuna speranza di potersi nuovamente riunire. Ma, sull’altra riva del Nilo, trovarono i ribelli del Damot pronti a dar loro il benvenuto e, in ultimo, circa duemila uomini demoralizzati si riunirono a Burié, che i ribelli Damot ormai controllavano, insieme a tutti i loro capi, i quali, alla fine, arriva­ rono salvi e (sebbene Mesfin fosse stato ferito per la terza volta) fonda­ mentalmente sani.

Era un fatto significativo che i ribelli del Goggiam si fossero impadroniti della piccola cittadina di Burié. In tutto il Goggiam, le guarnigioni italiane erano assediate o avevano dovuto sgombrare; la felicità con la quale que­ ste guarnigioni erano state accolte all’inizio aveva finito con il tramutarsi in odio. Il 12 febbraio, Stonehewer Bird riferì che la situazione nel Gog­ giam era seria. Debrà Marcos, circondata dai ribelli, poteva considerarsi isolata; e, una quindicina di giorni dopo, egli soggiunse che tutte le truppe disponibili, compresi reparti di cavalleria con poche settimane appena di addestramento, venivano inviate nel Goggiam, che ad Addis Abeba era stato imposto il razionamento della benzina, e che il generale Cavallero stava dirigendo personalmente una vera e propria invasione. La ribellione nel Goggiam era cominciata soltanto dopo la stagione delle piogge del 1937; eppure, nel breve intervallo di tempo di pochi mesi, aveva finito con il diventare la più minacciosa di tutte le ribellioni nell’Africa Orientale Italiana. Si imperniava su quattro zone e su quattro capi — e tre di questi capi erano legati alla casa regnante del Negus TekleHaimonot. Nel Damot e tutto intorno alla cittadina di Burié, comandava i ribelli degiacc Negasc Bezibé, nipote del ras Bezibé TekleHaimonot, figlio mag­ giore del Negus e fratello maggiore del ras Hailù. Come discendente di­ retto della casa regnante, egli poteva forse vantare i più validi diritti alla 252

successione e godeva pertanto del maggior prestigio ereditario. Ma era giovane e, sebbene coraggioso, alquanto pigro; anche se non fu mai tra­ scurabile, mai dominò gli eventi. A nord rispetto a lui si estendeva il territòrio di degiacc Mangascià Gimbirre. Degiacc Mangascià era un uomo di mezza età, molto rispettato e sposato con Uoizerò Sableuondel, la figlia del ras Hailù 12. Unitosi a lei nel 1934, promosso dal ras Immirù, aveva combattuto nello Scirè, si era sottomesso agli italiani e per un anno aveva comandato una delle loro bande, finché non era stato costretto a fuggire sui monti, essendo perve­ nuto da Graziani l’ordine di uccidere tutti i nobili e gli ex-ufficiali amhara. La sua base era il monte Fagutta e, in determinati periodi, egli si impa­ dronì dei villaggi di Dangila e di Engiabara — il distretto noto come Acefer, e il distretto di Meccià fino a Bahar Dar. Un nemico pericoloso per gli italiani. Il territorio di Hailù Belu si trovava nell’angolo nord-ovest del Goggiam vero e proprio rispetto al distretto di Amhara Saint. Hailù Belu era il figlio del ras Belu, secondo figlio del Negus TekleHaimonot, e, per conseguenza, fratello di quel degiacc Ghessesse Belu la cui rivolta contro il ras Immirù e il cui aiuto alla colonna di Starace aveva aperto tutto il Goggiam alla penetrazione italiana. A differenza del fratello, morto in cir­ costanze miseriose, Hailù Belu non si era interessato in alcun modo alla politica. Per anni era stato eremita a Amhara Saint, e soltanto dopo lo sterminio dei monaci di Debrà Libanos aveva risposto agli appelli del suo popolo affinché venisse a guidarlo contro l’oppressore. Non si trattava di un grande capo militare, ma era rispettato. Il quarto capo ribelle era un tipo d’uomo completamente diverso. Ligg Belai Zellecà era diventato sciftà prima dell’invasione italiana, dopo aver vendicato la morte di un parente, e aveva vissuto nelle foreste. A tutta pri­ ma si era deciso a collaborare con gli italiani, ma quando, nel dicembre del 1936, Graziani aveva ordinato il disarmo dei sostenitori indigeni, a meno che non fossero ufficialmente arruolati come banda, e a Belai Zelleché era stato detto di ritirare e consegnare tutte le armi dei suoi uomini, egli si era presentato al Residente con tre soli antiquati fucili. Da quel momento in poi aveva fatto ritorno nelle foreste e comandato bande di seguaci in tutto il sud-est del Goggiam, tra Debrà Marcos, Biccenà e il Nilo Azzurro. Energico, giovane, vanesio, aggressivo e coraggioso, era un capo ideale degli sciftà. Senza nobiltà di nascita o di sangue, aveva saputo affermarsi e, man mano che il suo potere cresceva, andava distribuendo titoli di degiacc e di bituoded tra i suoi seguaci. Ma, per quanto lo con­ cerneva, rifiutava la carica di ras con il quale i suoi uomini avrebbero voluto acclamarlo. « Mia madre mi ha già chiamato più di tutti gli altri » soleva dire, intendendo che, tenuto conto della sua fama, il nome che por­ tava era un titolo sufficiente; eppure, nei momenti di vanteria adottava un titolo, o piuttosto una forma onorifica di omaggio riservata (come janhoy) ai soli imperatori e si autonominava Atse « Begolbetù » — Maestà « per mio potere ». 253

Intorno a questi capi se ne riunirono molti altri, i grandi capi, gli arbenya aleca, i capi meno importanti, i gobaz aleca e i gruppi di giovani guer­ riglieri camoniché (una parola che significa « io non sono meno degli altri»). C’erano inoltre piccoli capi indipendenti, in particolare nelle va­ ste zone a ovest di questi territori, nelle regioni di Uembera e di Agaumeder, confinanti con i bassipiani del Sudan13; i loro nomi erano noti più che altro ai curiosi commissari distrettuali di Gallerai e di Roseires, ma si trattava di nomi di gran lunga meno importanti. Ed anche i quattro capi vivevano nell’ombra di una figura di gran lunga più importante di loro, poiché a imperare davvero sul cuore delle genti del Goggiam era il ras Hailù. E anche se gli italiani badavano bene a tenere il ras Hailù lontano dal suo feudo di un tempo, il ricordo di lui campeggiava e tutti dovevano essere persuasi che, prima o poi, il ras Hailù sarebbe tornato e avrebbe rimesso al loro posto i più giovani signori e i capi litigiosi. I quattro capi, infatti, si mantenevano in contatto, ma non collaboravano. A ovest di Debrà Marcos, Negasc Bezibé e Mangascià Gimbirre erano apertamente rivali e spesso sul punto di attaccarsi a vicenda; e, a est, Hailù Belu ce l’aveva con le arie e le attività del vanaglorioso Belai Zellecà. Tenuto conto di questa mancanza di collaborazione, sarebbe dovuto essere un compito facile per Cavallero eliminarli ad uno ad uno. E questa, in effetti, sembra fosse la sua intenzione.

60.000 uomini parteciparono all’« invasione » del Goggiam. Il generale Mezzetti, con undici battaglioni, si portò da Gondar a Bahar Dar e poi da Bahar Dar a Dangila. Il colonnello Natale, con sette battaglioni, si avvi­ cinò a Engiabara; altre colonne avanzarono a ventaglio da Debrà Marcos. E poi, il 25 marzo, il generale Gallina, « il generale con un solo occhio », la cui fama di coraggio era ben nota tra gli etiopi, sferrò un attacco com­ binato contro il quartier generale di Mangascià Gimbirre sul monte Fagutta. Gli abissini affermano che, nonostante gli aeroplani e i carri armati e le forze ammassate contro di loro, respinsero il primo attacco di Gallina e catturarono numerosi fucili e grandi quantitativi di munizioni. Caval­ lero riferisce che v’erano soltanto tremila uomini con Mangascià Gimbirre e che le perdite italiane si limitarono a quattro ufficiali e trentacinque asca­ ri, ma questa sembra essere una grossolana sottovalutazione perché, in ogni caso, i tre capi scioani si erano uniti a Mangascià, e, secondo Uolde Johannes, gli Scioani disponevano di mille uomini e le bande del Goggiam di diecimila, cifra, quest’ultima, più o meno confermata da Essayas, il quale afferma che gli etiopi perdettero tremila uomini. Gli Scioani ammi­ rarono il coraggio degli uomini del Goggiam e il modo con il quale attac­ cavano durante la notte; ma quando, quattro giorni dopo, gli italiani sfer­ rarono un nuovo attacco, gli stanchi etiopi vennero sconfitti e dispersi. Sembra che gli uomini del Goggiam, conoscendo bene la regione, non fossero demoralizzati e disperati come gli Scioani, che erano stati sconfitti 254

così spesso in precedenza e avevano subito tante perdite. Zaudié Asfau e i suoi uomini si separarono dagli altri e, quasi in preda alla disperazione decisero di tornare nello Scioa. Blatta Taclè e Mesfin abbandonarono il territorio di Mangascià Gimbirre e tornarono nel Damot da Negasc Bezibè — quando Gallina avanzò per attaccare a sua volta. Il risultato fu che Gallina potè rioccupare, senza colpo ferire, la cittadina di Buriè e i se­ guaci di Negasc cominciarono a mormorare contro gli Scioani, dicendo (inesattamente) che soltanto a causa della loro presenza gli italiani ave­ vano attaccato. Era la fine: Blatta Taclè e Mesfin e tutti i giovani scioani istruiti decisero di portarsi verso il confine sudanese e forse di organizzare un centro della guerriglia a Uombera, sul Nilo14. Degiacc Negasc Bezibè voleva andare con loro, ma i suoi seguaci si rifiutarono. Una notte, le pat­ tuglie italiane trovarono l’accampamento di Negasc; ottanta uomini ven­ nero uccisi, e questo fu il segnale della dispersione. Negasc si rifugiò sui monti e i capi scioani, con le poche centinaia dei loro seguaci superstiti, si diressero, attraverso Uombera verso il Sudan, con l’intenzione di chie­ dere aiuto agli inglesi e di far sapere al governo di Sua Maestà che ave­ vano organizzato un governo patriottico nell’ovest. Nel frattempo, all’altro lato del Goggiam, ove per settimane i genieri italiani, attaccati quasi quotidianamente da Belai Zelleché, avevano ten­ tato di collegare Debrà Marcos e Addis Abeba gettando un ponte sul Nilo a Safertar, secondo l’antico e bel sistema romano, stavano affluendo rinforzi: le due migliori brigate, l’lla, al comando di Lorenzini, e la 2a, al comando di Maletti, seguite dalla 17a arabo-somala e da quattro squa­ droni di cavalleria, avanzarono da Debrà Berhan (ove avevano combat­ tuto aspramente per due settimane contro seicento ribelli bene armati che tentavano di tagliare la strada imperiale) e giunsero a Debrà Marcos il 1° aprile, appena un giorno dopo l’arrivo dello stesso Cavallero. Buriè venne occupata quello stesso giorno dalle forze di Mazzetti; e Cavallero, dopo aver tolto di mezzo Mangascià Gimbirre e ripreso Buriè a Negasc Bezibè, mandò indietro Maletti e Lorenzini e Ugolini a Biccenà, per dare una lezione a Belai Zelleché. Entro la metà di aprile, la moglie di Belai Zelleché fu uccisa e sua figlia fatta prigioniera; da allora in poi, colonne marciarono in tutto il Goggiam inseguendo Negasc Mangascià e Belai Zellecà, e impegnandosi qua e là in aspre schermaglie, che non raggiunsero però mai la portata della battaglia di Fagutta. Cavallero, quanto a lui, volò di forte in forte, studiando l’organizzazione dei territori, disegnando carte precise con progetti di strade, postazioni e ponti, riferendo al Duce (il 18 aprile) che «il segreto di un efficace controllo di questo paese sta nelle linee di comunicazione » e spiegando, in modo meno persuasivo, co­ me « il brigantaggio » fosse « endemico e cronico » per cui si sarebbe reso necessario un numero assai maggiore di squadroni di cavalleria e di bande per sradicarlo, e anche così... A metà maggio, le operazioni nel Goggiam erano concluse, e Cavallero si congratulò con se stesso per avervi lasciato 255

ventitré guarnigioni, quasi sempre della forza di un battaglione, mentre prima ne erano esistite soltanto sette, e per il « graduale processo di nor­ malizzazione », sorvolando sul fatto che i quattro capi locali erano ancora vivi, in buona salute, armati e nemmeno di un passo più vicini alla sottomissione, e che il solo vero successo era consistito nell’eliminazione dei tre capi scioani e dei loro seguaci. Il 31 maggio, il governo del viceré annunciò ad Addis Abeba che il Goggiam era pacificato.

Gli altri tre capi scioani divisi dopo l’insuccesso della riunione a Ginderabat, non erano stati affatto eliminati e non rimanevano inattivi. L’an­ ziano degiace Auraris aveva il controllo più o meno completo del Mens; Abebè Aregai dell’Ancoberino ; e Hailé MariamMammo portava le sue bande di guerriglieri a sud fino alla linea ferroviaria. Vi fu inoltre un fatto nuovo significativo e, dal punto di vista degli italiani, sinistro. Si venne a sapere che esisteva un nuovo pretendente, un figlio sedicenne di Ligg Yasu, Melecai Esahai; che la Tabot, l’Arca dell’Alleanza, l’Arca di San Giorgio che aveva seguito Menelik ad Adua, era stata rubata dalla cattedrale di San Giorgio, nella capitale, dopo Yekatit, e affidata ad Abe­ bè Aregai, e che Melecai Tsahai era stato incoronato Imperatore sulle Tre Ambe da Abebè Aregai, il cui titolo di ras egli aveva confermato 1S. L’esistenza di un nuovo Imperatore, il « Piccolo Negus », era una mi­ naccia che gli italiani non avrebbero potuto ignorare. Le truppe italiane si trovavano di guarnigione a Debrà Berhan e a Debra Sina, sulla strada imperiale, nonché nella cittadina di Ancober, ma non controllavano affat­ to tutto l’interno montuoso, privo di strade e di guarnigioni. Al culmine delle azioni militari nel Goggiam, giunse la notizia che Abebè Aregai si preparava ad attraversare la strada imperiale e a passare dall’Ancoberino al Mens, sventando così (senza saperlo) le manovre che Cavallero stava studiando per isolarlo. Il 1° giugno Cavallero tornò dal Goggiam con molte truppe, si avvicinò ad Ancober e constatò che Abebè Aregai si tro­ vava tuttora nell’Ancoberino. Le truppe occuparono frettolosamente le po­ sizioni tutto intorno alla zona. La strada imperiale venne sorvegliata e, nella notte del 29, Abebè Aregai tentò, ma senza riuscirci, di attraversarla a sud di Debrà Berhan, mentre, nella notte del 31, Gimma Sembetè (il galla che si riteneva fosse morto con FikreMarìam), nel tentativo di far passare un gruppo di cavalleggeri più a sud, veniva tagliato fuori da Ma­ letti e respinto verso la linea ferroviaria, ove colonne comandate da Prina, Maraventano, Costa, Marzoli, D’Agostino e Cipelli avevano preso posi­ zione per bloccare la fuga a sud di Abebè Aregai. L’unico capo così avventato da rimanere nella trappola a nord fu Hailé MariamMammo. Egli fu non solamente tanto avventato da rimanervi, ma tanto avventato da attaccare. Con una banda di cinquecento uomini, attaccò Maletti e sei compagnie di ascari a Cosso Gorfu. Fu la sua fine. Rimase mortalmente ferito il 6 giugno e morì; tutte le sue salmerie cad­ dero nelle mani degli italiani e la banda si disperse, frazionata in piccoli 256

gruppi. Era stato il più coraggioso e il migliore tra i capi della guerriglia balabat, e aveva continuato a battersi mentre tutti gli altri intorno a lui si arrendevano o si sottomettevano. Senza il suo esempio, la resistenza nello Scioa sarebbe probabilmente cessata quando i figli del ras Cassa comincia­ rono a trattare con gli italiani. La morte sua sembrava essere l’inizio della fine per Abebè Aregai; Γ8 giugno, Piccinini avanzò per sorvegliare la strada e, nei tre giorni suc­ cessivi, bloccò piccoli gruppi che tentavano di attraversarla; Γ11 giugno, Cavallero tenne una riunione con Maletti e riorganizzò il territorio, divi­ dendolo in una zona meridionale e in una zona settentrionale, e stabilendo sette guarnigioni (formate tutte, questa volta, da due battaglioni). La co­ lonna Rean continuò l’inseguimento di Abebè Aregai, che tentò di attraversare la strada il giorno 18 e, avendo fallito di nuovo, dovette venire a trovarsi sull’orlo della disperazione. Poi, il 24, cominciarono le piogge. Vi fu uno scontro con la colonna Scavone il giorno 29, ma, essendo comin­ ciata la stagione delle piogge, i movimenti sulle montagne prive di strade divennero impossibili. Il 4 luglio, le truppe furono ritirate e si considerò terminata la caccia per il momento: Abebè Aregai continuava ad essere libero nell’Ancoberino, e nessuna operazione era stata varata contro il Mens.

Era ancora la stagione asciutta quando Zaudiè Asfau e i suoi seguaci, inseguiti dalle bande e dalla cavalleria assegnata alla colonna Gallina rag­ giunsero il Nilo Azzurro, ma soltanto per constatare che la riva opposta era occupata dai Galla Uollega, alleati degli italiani. « Dovevamo passare o morire » scrisse Uolde Johannes. « Sebbene non fosse ancora la stagione delle piogge, l’acqua del Nilo ci arrivava al petto e dall’alto sparavano contro di noi. Era un inferno. E così molti rimasero e i nostri muli rima­ sero con loro. Dio ci accompagnò e nessuno di noi venne ucciso. Giungem­ mo sulla riva opposta e uccidemmo circa trenta uomini. » Ma i seguaci di Zaudiè Asfau erano ormai ridotti ad appena duecento uomini; venivano inseguiti durante il giorno, riposavano durante la notte, poi l’inseguimento ricominciava. Non avevano acqua né viveri; erano stan­ chi e disperati; fu il viaggio peggiore che avessero mai affrontato. Le mu­ nizioni rimaste vennero divise tra tutti gli uomini che avevano un fucile e Uolde Johannes fu mandato in avanscoperta e trovò acqua cinque chi­ lometri più oltre e tutti accorsero per bere e gli italiani tentarono di sco­ varli, ma la zona era troppo accidentata e rinunciarono all’inseguimento. Per dodici giorni i fuggiaschi si nutrirono, nella giungla, di frutta e dei pesci che riuscivano a catturare nei torrenti, senza osare servirsi dei fucili per timore di essere uditi. Una notte passarono accanto a un avamposto italiano, furono veduti e seguiti il giorno dopo. Nei dieci giorni successivi, si sottrassero, combattendo, agli inseguitori per cinque volte, dormendo mentre camminavano, perdendo uomini ogni giorno, fino ad essere ridotti a cento di numero e a due muli, circondati da Galla ostili e minacciati ovunque dalla banda. 257

Quando giunsero nel Meccià, ai confini dello Scioa, vi fu una crisi. Uolde Johannes disse a Zaudiè Asfau che voleva fermarsi; e si fermò, con quindici uomini e una mitragliatrice, e per un anno si riposò e trascorse il tempo piacevolmente, finché gli italiani, venuti a sapere che si trovava là, inviarono truppe, e suo nipote Ghessesse venne ucciso mentre tentava di fuggire a Gudrù, « un brutto posto »; una Banda Tigrai gli mandò dal suo paese una lettera consigliandogli di arrendersi, e quando lui rifiutò cir­ condarono la sua casa dicendogli che non aveva scampo. Così venne cat­ turato, ma soltanto per due mesi, poiché il capo della banda, degiacc Zaudi Telahun, decise di ribellarsi e uccise il tenente italiano che lo co­ mandava, ed entrambi fuggirono e divennero capi della resistenza a Ad­ dis Alem, e ricominciarono a battersi. Ma stiamo precorrendo troppo gli eventi. Quanto a Zaudié Asfau, con i superstiti del suo gruppo, passò dal Meccià al Gibati, quindi giunse a Mengashire e infine ad Adaberga, il suo paese, ove aveva riunito agli inizi gli uomini. Di lì a un anno, poco dopo Uolde Johannes, venne catturato, si sottomise e fu portato a Roma, deco­ rato da Mussolini, nominato degiacc, e là rimase per un anno.

Nel frattempo, gli altri due capi scioani avevano attraversato Uombara e il 3 giugno si presentarono a due allarmatissimi soldati della Sudanese Defence Force, in una capannuccia sulla frontiera: due capi, centosettantacinque amhara, trentasei galla, venticinque donne, con tredici mitraglia­ trici e cento fucili. Asserirono di far parte dell’esercito di degiacc Negasc e di essere venuti a chiedere aiuto (come il Foreign Office annotò meti­ colosamente, aggiungendo un punto esclamativo all’ultima frase). Per for­ tuna, arrivarono altri due soldati a dorso di mulo e, dopo il cambio della guardia, i primi due condussero l’esercito di degiacc Negasc fino a un pic­ colo posto di frontiera, dal quale il sottufficiale sudanese telefonò al più vicino commissario distrettuale, a Roseires. Confidando nelle assicurazioni di Blatta Taclè e nutrendo grandi spe­ ranze di ottenere aiuti immediati dagli inglesi, gli uomini si diressero, at­ tenendosi alle istruzioni, a Roseires, ma, cinquanta o sessanta chilometri al di là della frontiera, furono caricati su autocarri, disarmati e condotti alla presenza di un allibito commissario distrettuale. Un interprete suda­ nese spiegò a quest’ultimo che Γ« esercito » era venuto a nome del popolo etiopico per chiedere appoggi nella sua lotta, e spiegò all’« esercito » che lettere sarebbero state spedite a Khartum; nel frattempo gli uomini sareb­ bero dovuti rimanere in quarantena. Il primo giorno ricevettero cibo, fa­ rina di pesce e arance; il secondo giorno, soltanto farina e sale. Il terzo giorno, furono portati in una caserma, intorno a loro venne eretta una recinzione e intorno a quest’ultima presero posto sentinelle sudanesi. La situazione sembrava poco incoraggiante e non venne migliorata dall’in­ formazione data dai sudanesi: che gli inglesi volevano restituirli agli ita­ liani. Quello che sembrava essere uno scherzo divenne qualcosa di molto 258

sinistro pochi giorno dopo, quando arrivò una lettera da un abissino di Khartum, Daba Burrù, il quale scriveva : « Hanno deciso di restituirvi » e, quasi contemporaneamente, giunsero sei autocarri Fiat 34 guidati da italiani che, mentre passavano accanto alla caserma, rumorosamente imi­ tarono plotoni di esecuzione, mentre gli Scioani, in modo altrettanto vivi­ do, rispondevano passandosi le mani sulla gola ed emettendo suoni gorgo­ glianti. Furono lasciati uscire, sei alla volta, per visitare la cittadina, e là acquistarono, o rubarono, coltelli sudanesi che nascosero sotto le ascelle 16. Due settimane dopo, gli italiani erano scomparsi; il Commissario Distret­ tuale convocò i guerriglieri tutti insieme e (per il tramite di Essayas, che parlava l’arabo) disse loro che erano fortunati; si scusava per le brutte notizie, ma adesso ce n’erano di buone: sarebbe stato loro consentito di proseguire. La sera dopo, giunsero quattordici autocarri. Molto sospetto­ samente gli Scioani vi salirono e, partendo nella notte, osservarono con attenzione la corrente del Nilo per vedere se fossero diretti a valle, verso Khartum, o se stessero tornando a monte, verso la frontiera. La loro tappa successiva fu Singa, ove vennero tenuti in quarantena per parecchie settimane, dopodiché si sentirono domandare quali fossero i loro progetti. Se volevano guadagnarsi da vivere, disse il Commissario Distret­ tuale, il governo avrebbe dato terre e denaro fino al primo raccolto. Que­ sta proposta non poteva piacere all’ex-direttore generale di molti ministe­ ri, all’ex-comandante di un battaglione delle Guardie, ad ex-ufficiali dei cadetti e cugini dell’Imperatore, né, invero, alla figlia di ras Seyum e alla nuora di ras Cassa. « No » rispose Essayas. « Che cose intendete fare? » domandò il Commissario Distrettuale. « Dio lo sa » fu il coro generale. Il commissario si adirò molto. « Nel nostro paese » disse « non abbiamo Dio, abbiamo soltanto il lavoro. Se non lavorerete, non potrete restare. » « Non preoccuparti » intervenne un mite scioano « noi abbiamo un Dio che è venuto dal nostro paese. » Ma questo interessante spunto, che avreb­ be potuto dar luogo a una discussione teologica, venne ignorato. « Quelli che sono disposti ai lavori agricoli, alla mia destra » disse il Commissario Distrettuale. « Gli altri alla mia sinistra. Voi alla mia destra, benissimo, il governo vi aiuterà. Gli altri possono andarsene. Andate sin dove volete e per quanto tempo vorrete. Andate a Londra, se vi fa piacere. Ma non vi è consentito tornare in Etiopia. » Per gli inglesi, i profughi costituivano al contempo un problema diplo­ matico e una complicazione finanziaria. Entro l’estate del 1940 ce n’erano seimila e più nel Kenya, oltre ai cinquecento disertori eritrei (comprese do­ dici donne) in un campo a parte; millequattrocento in Somalia; sessanta nobili a Gerusalemme e trentadue (più quattro disertori italiani) a Aden... tutti in territorio inglese, tutti mantenuti dal governo imperiale o dai go­ verni coloniali, senza che nessuno di essi si adattasse a una ragionevole atti­ vità agricola; e molti di loro causavano grattacapi alle autorità con le loro attività. Nel novembre del 1937 si erano avute quelle che Sir Robert 259

Brooke-Poham, governatore del Kenia, aveva definito « piccole difficoltà a Isiolo ». I disertori eritrei avevano esercitato pressioni affinché si con­ sentisse loro di tornare a combattere nella ribellione, ma le loro armi era­ no state gettate in mare, e, in ogni modo, la richiesta, dal punto di vista diplomatico, era fuori questione. Un sabato, nel mese di novembre, la loro frustrazione giunse alla crisi decisiva; il comandante inglese era assente; montava di servizio un sergente del KAR ed essi (come si espresse la Court of Enquiry) erano « sorvegliati da indigeni che consideravano giustamente appartenenti a una razza inferiore ». Un incóntro di calcio amichevole de­ generò - la solita storia - in una rivolta, gli ascari del KAR aprirono il fuoco e nove eritrei rimasero uccisi e ventisette feriti. Il Foreign Office tentò speranzosamente — cercava un’arma con l’intenzione non tanto di servirsene quanto di averla disponibile contro l’illustre ospite — di indivi­ duare la responsabilità dei disordini in una lettera inviata da Hailé Selassié e che aveva circolato nel campo, ma non vi riuscì. Era un’esistenza miserevole quella nel Campo N° 1 dei disertori eritrei, per gli internati sottoposti a una stretta sorveglianza e senza speranze; la situazione migliorò notevolmente, anche se alla lunga risultò altrettanto disperata, per i seimila etiopi con i loro capi sempre più anziani, il fitau­ rari Tademe Zellecà, degiacc UoldeMariam e Zaudiè Aialeu; per lo meno essi avevano terre da lavorare, donne, e il diritto di spostarsi entro un raggio limitato. Formavano una comunità più del gruppo che, per numero, veniva subito dopo il loro, i milleduecento del campo di Manjaseh, vicino alla Somalia, il cui capo, il fitaurari Bahadè, parve essere, al governatore A.S. Lawrence, « pigro e non interessato all’amministrazio­ ne ». In effetti, il fitaurari, sin dai primi di novembre del 1937, aveva chiesto il permesso di recarsi in Palestina per divenirvi monaco, ma non gli era stato consentito di partire fino a quando Hailé Selassié non avesse promesso di mantenerlo finanziariamente in quel paese. Ma, anche dopo tale promessa, vi furono indugi e la Pankhurst dovette scrivere a Chur­ chill, nel giugno del 1938, per protestare e chiedergli di intervenire alla Camera; e soltanto in ottobre il fitaurari Bahadè ottenne infine il visto e si recò a Gerusalemme, ove morì agli inizi dell’anno successivo, non infa­ stidito dall’« amministrazione », sui pendìi del Golgotha. Non che i funzionari inglesi fossero senza cuore; si trattava semplicemente che essi accomunavano la pelle nera agli indigeni conquistati e ser­ vili, e non alla fiera e suscettibile aristocrazia di una civiltà già indipen­ dente prima che i romani abbandonassero le isole britanniche. Erano però poco immaginosi... e non troppo generosi. Nel mese di luglio, Uoizerò Chebedde Seyum chiese alle autorità di Khartum di potersi recare con i suoi figli dal loro nonno, il ras Cassa, a Gerusalemme. Ras Cassa aveva mandato dieci sterline per le spese di viaggio, ma l’Alto Commissario, Sir Arthur Wauchope, rifiutò... perché ras Cassa non era in grado di dimo­ strare le proprie possibilità di mantenere lei e i bimbetti quando fossero arrivati. Ella aveva perduto il giovane marito e il cognato, entrambi fuci­ lati. Per un anno e mezzo aveva condotto un’esistenza pericolosa e vaga260

bonda in regioni desertiche. Apparteneva per nascita alla Casa Imperiale del Tigrai, per matrimonio alla Casa Imperiale dello Scioa... e Sir Arthur Wauchope non le consentì di raggiungere il suocero in esilio. Non ci si può stupire se l’Impero inglese è scomparso, e non ci si può meravigliare se la gratitudine dei profughi eritrei si tramutò in sospetto, e spesso in odio, allorché essi vennero a trovarsi di fronte alla mancanza di immagi­ nazione, e persino all’assenza di cultura di cui davano prova i funzionari inglesi. Agli Scioani provenienti da Singa fu in ultimo consentito di recarsi a Khartum, ma esisteva un regolamento in seguito al quale i forestieri dove­ vano viaggiare in prima classe e non potevano salire negli scompartimenti di seconda classe. Così, essi andarono a piedi.

CAPITOLO QUARTO

ANDANDO VERSO LA GUERRA

Settembre 1938. Governatore generale del Sudan in quel periodo era Sir Stewart Symes, un gentiluomo che, nella sua carica precedente di Governatore di Aden, aveva assistito all’incoronazione dell’Imperatore, ma che, a quanto pare, non era rimasto favorevolmente colpito dall’Etiopia, dal suo popolo o dai suoi governanti. Voleva decisamente la pace, la tran­ quillità, l’ordine, e buoni rapporti con l’ammirevole Duca d’Aosta, ancor più di Sir Miles Lampson, ambasciatore in Egitto e virtuale tutore del giovane re, Faruk, sebbene Sir Miles avesse sposato un’italiana. Sotto l’egida di Sir Stewart, il vero amministratore del Sudan era il Segretario Civile, Douglas Newbold, un uomo molto efficiente, coscienzio­ so, alquanto oppresso e assai amato; all’età di diciannove anni aveva preso parte alla spedizione inglese inviata ad aiutare gli italiani contro i Senussi, ed era stato presente alla cattura di Omar El Muktar da parte di Graziani; era fondamentalmente filo-italiano. Dopo la guerra, entrato nel Servi­ zio civile sudanese, era stato per sette anni commissario distrettuale a Gedaref, nella provincia di Kassala, sovraintendendo alle centomila miglia quadrate della principale tribù Beja, gli Hadendoa, che, con Osman Digna, ai loro tempi d’oro, avevano effettuato scorrerie fino a Massaua. Al termine di questi cinque anni di furti di bestiame e di contrabbando dell’avorio, egli aveva scritto: « Non ci si può stupire se Isaia ha detto ’’Guai a chi è sotto gli etiopi”! ». Era l’atteggiamento tipico del servizio civile sudanese. Nel 1938 fu promosso Civil Secretary. I suoi diari e le sue lettere sono un ininterrotto commento delle relazioni tra gli italiani dell’A.O.I. e gli in­ glesi del Sudan anglo-egiziano. Era scapolo, e in genere tutti vedevano in lui il migliore prototipo dell’amministratore coloniale — con la migliore specie di cecità. Il Sudan essendo giuridicamente un condominium più che una colonia, il Foreign Office lo seguiva molto più da vicino di quanto facesse, o gli fosse consentito di fare, con le colonie dell’Africa Orientale, ad esempio. Il capo del dipartimento egiziano del Foreign Office, F.W. Cavendish Bentinck era responsabile nei confronti del Chief Diplomatic Adviser, Sir Robert Vansittard, e naturalmente anche nei confronti del Ministro degli Esteri, Lord Halifax. Ma Cavendish Bentinck agiva quasi indipendente­ mente, e quando Vansittard interferiva, la notoria germanofobia di lui 263

non sembrava destare la corrispondente italofilia della quale è stato spesso accusato. Nessuno di questi due gentiluomini teneva in gran conto Sir Stewart Symes. L’altro potente personaggio nel Sudan era il Caid, il comandante della Sudan Defence Force, responsabile naturalmente nei confronti del Gover­ natore generale, ma anche del Ministero della Guerra. Il Caid, generale Franklyn, era logicamente un mangiafuoco più del Governatore generale e dei funzionari civili. E quando si determinò la crisi in Europa, nel set­ tembre 1938, egli preparò e sottopose al Ministero della Guerra un piano per invadere l’Etiopia con mille dei suoi uomini suddivisi in piccoli gruppi e provenienti dal sud-ovest. « Pianificazione di contingenza », la si definisce nell’esercito e il piano passò al vaglio di tutti gli esponenti militari; non venne accettato, ma viaggiò parecchio. Era la prima volta che gli inglesi, o alcuni, inglesi, prendevano in considerazione la possibilità di attaccare gli italiani in Etiopia. In quest’ultimo paese, la crisi europea ebbe un effetto sorprendentemen­ te drammatico. « Era giunta nell’Impero » scrisse Gavallero « l’onda lunga della tensione europea » *. « Il tentativo di mantenere all’oscuro gli etio­ pi », riferì il console generale, « fu comunque inutile. Le notizie sembra­ vano diffondersi con una rapidità straordinaria, e gli indigeni aspettavano fiduciosamente quell’occasione di vendicarsi che ritenevano stesse per es­ sere loro offerta. La delusione fu inversamente proporzionale al sollievo degli italiani allorché venne reso noto l’accordo di Monaco. » Uno di coloro che diffondevano con così straordinaria rapidità le noti­ zie si chiamava GabreMascal, un altro Getahun Tessemà, e un terzo UoldeGiorgis Tedia. Sin dall’inizio del soggiorno a Khartum, GabreMascal si era messo in contatto con l’Imperatore esiliato, al quale era estremamente devoto; e, si può dire, incominciando con la prima lettera, aveva proposto di tornare nel suo,paese natio, l’Eritrea, per tentare di indurre le bande a disertare. Questo progetto avventato ottenne una risposta scoraggiante da parte del segretario dell’Imperatore, UoldeGiorgis, a Bath; ma Hailé Selassié do­ vette gioire per il fatto che, se anche la vecchia generazione si era ritirata nei monasteri di Gerusalemme, e molti esponenti della generazione più giovane se la stavano cavando senza di lui in Etiopia, gli rimanevano ancora seguaci devoti, pronti a rischiare la vita per lui nel periodo in cui era ridotto all’impotenza. GabreMascal, scoraggiato soltanto temporaneamente, fece una seconda proposta: di recarsi, insieme ad altri due uomini, in zone diverse lungo i confini del Sudan, portando lettere del Patriarca al Cairo, dell’Echege a Gerusalemme, e del Janhoy in Inghilterra, ai vari capi ribelli e al popolo, e di viaggiare in lungo e in largo spiegando la situazione internazionale e * Cavaliere, op. cit., pag. 163 [N.d.C.].

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destando speranze. Poiché si rendeva conto, però, che anche i più amiche­ voli funzionari inglesi nel Sudan non avrebbero mai appoggiato un simile progetto, e nemmeno chiuso un occhio, ricorse all’astuzia dell’impiego al Cairo; la sua sola delusione fu quella di constatare che l’Associazione profughi abissini aveva spedito le 210 sterline occorrentigli per acquistare armi nella lontana Cairo, ad aspettarvi un arrivo che non avrebbe mai avuto luogo. GabreMascal adottò precauzioni nel partire « per il Cairo» . Fu un tassista etiope a portarlo a Uad Medhani, e a Gedaref egli alloggiò presso un immigrato dello Uollo, un commerciante affermato, conosciuto dalla gente del posto come Koja Hailù. Cucì nelle vesti i talleri d’oro che pos­ sedeva e partì per Gallabat e la frontiera con un pugno di seguaci — armati di stocchi. Così, senza essere intercettati dagli inglesi, essi attra­ versarono furtivamente il confine passando nella zona montuosa dopo Metemma e scendendo nei bassopiani del Beghemder, il distretto dell’Ermaciohò Il comandante italiano di Metemma, il villaggio di frontiera, colon­ nello Castagnola, aveva rastrellato i bassopiani per tre settimane nel mese di maggio, contemporaneamente alla colonna Binacchi proveniente da Gondar e alla colonna Raugei proveniente da Adi Remoz, nel cuore dei monti Uolcait — l’ultima, quasi, e la meno efficace delle operazioni italiane prima della stagione delle piogge2. Ma l’operazione era stata infruttuosa — sembra che in quel periodo i ribelli del Beghemder evitassero gli scontri accettati dai ribelli del Goggiam, e, in ogni modo, la regione era di gran lunga più accidentata, per cui il colonnello Castagnola e i suoi ufficiali si limitarono al loro compito di cani da guardia lungo la principale via dei traffici, tra Khartum e Gondar, e alle attività sociali con le quali intrat­ tenevano i loro colleghi inglesi a Gallabat. Era impossibile sorvegliare la frontiera; e, una volta attraversatala, GabreMascal si diresse a sud, oltre il lago Tana, entrando nel Goggiam. Quando arrivò (ciò dovette avvenire poco dopo lo scontro a Fagutta e l’occupazione di Buriè), trovò Mangascià Gimbirre nascosto con cinquan­ ta uomini e Negasc Bezibè « che aveva quasi perduto ogni speranza e si accingeva a recarsi nella regione di suo padre, il Beghemder ». Constatò che quasi tutti si erano sottomessi agli italiani, che forti e guarnigioni si trovavano a Dangila, Dembeccia, Buriè e molti altri villaggi, ma che gli italiani, una volta di più, maltrattavano la popolazione, uccidevano molti uomini e si comportavano ingiustamente « e pochi mesi dopo il mio arrivo il numero degli uomini di degiacc Negasc e di quelli di degiacc Manga­ scià aumentò e le loro speranze si ridestarono ». GabreMascal (soprannominato Nifas Silk, « Il senza fili ») viaggiò in tutto il Goggiam' occidentale e tenne riunioni. Cambiava casa ogni giorno tranne la domenica — la popolazione del Goggiam era la più meticolosa tra tutti gli Amhara nell’osservanza della religione — alzò la bandiera etiope sulle case ove alloggiava, e lesse a voce alta le due lettere di Sua Maestà (nonché le lettere del Patriarca e dell’Echege che scomunicavano Abba 265

Abraham, il Vescovo del Goggiam) alle folle dei contadini e degli abitanti di villaggio riuniti. Sembra che spesso messaggeri andassero e venissero attraverso il confine, e in ogni modo che gli attendenti degli ufficiali ita­ liani ascoltassero la radio e vi fossero alcune radio nei villaggi in grado di captare la BBC — un preannuncio della resistenza in Europa — e che egli avesse trascorso gran parte del suo tempo, dopo il mese di settembre, spiegando come una guerra europea fosse inevitabile e in qual modo essa avrebbe toccato gli inglesi e gli italiani. Quello del « contadino ignorante » era un mito in Etiopia come nella maggior parte dei paesi; tanto più in quanto, a causa della loro religione, i contadini dell’Amhara si sentivano strettamente legati al Cairo, a Gerusalemme, e, invero, ai paesi cristiani d’Europa. E, così come i contadini analfabeti dell’Andalusia avevano stu­ pefatto osservatori inglesi, ad esempio Gerald Brennan, negli anni Trenta, con la loro chiara comprensione delle teorie politiche dei pensatori anar­ chici e dei sindacalisti anarchici, i contadini analfabeti delle regioni del­ l’Amhara — ove la tradizione orale e il senso della storia erano ancor più forti — dovevano meravigliare quegli europei in grado di conversare con essi per la loro comprensione, se non dei particolari, almeno delle conse­ guenze della situazione politica in Europa. Già un anno prima, Graziani aveva riferito a Roma che i ribelli pensavano ormai « chiaramente nei termini di una guerra europea e del ritorno del Negus ». Dopo la Ceco­ slovacchia e dopo l’arrivo di un inviato dell’Imperatore latore di lettere con il sigillo imperiale, tali idee vennero ovviamente confermate. La facilità con la quale GabreMascal si spostava nelle campagne di­ mostra quanto poco gli italiani controllassero il territorio lontano dalle strade e fuori delle cittadine e dei villaggi ove si trovavano guarnigioni. Ovviamente, esistevano osservatori sui monti che talora davano l’allarme; ma nei molti mesi durante i quali egli circolò, principalmente nel territorio di Mangascià Gimbirre, GabreMascal non dovette mai salvarsi fortunosa­ mente e molto di rado vide un italiano, o anche soltanto un ascaro, a meno che non si recasse nei centri abitati. Anche le bande si spostavano, ma molti uomini delle bande, in particolare quelli delle bande irregolari, ave­ vano stretti rapporti con i ribelli e vendevano o talora persino facevano loro dono dei fucili e delle munizioni che gli italiani avevano distribuito. Quanto alle guarnigioni, gli avamposti isolati come il forte di Sarakwì dovevano essere riforniti mediante lanci di paracadute — e non soltanto durante la stagione delle piogge, quando rimanevano completamente iso­ lati, ma anche in seguito. Durante la stagione delle piogge si era avuta una scarsa attività mili­ tare; il Goggiam era tranquillo, sebbene il Belesa, vicino al confine del Sudan, fosse, come fece rilevare Cavallero, « completamente ostile », e degiace Mangascià stesse incrementando le sue forze a Fagutta, come fa­ ceva degiacc Negasc intorno a Buriè. Al termine delle piogge, nel mese di novembre, le colonne ripartirono, ma fu soltanto un tiepido ripetersi delle operazioni primaverili (anche se, il 7 dicembre, Criniti e Piccinini attaccarono gli uomini di Belai Zellecà, vicino a Biccenà, uccidendo due 266

dei suoi fratelli, e se Hailù Belu isolò due battaglioni più a nord) soprat­ tutto perché Mangascià Gimbirre aveva catturato cinque italiani e, per ordine del viceré, nessuna operazione di vasta portata doveva essere intra­ presa fino a quando questi uomini non fossero stati liberati; si resero ne­ cessarie trattative svolte dal potere civile, in seguito alle quali Cavallero si mangiò le dita, metaforicamente, tanta fu la sua delusione. Egli si volse allora contro Abebè Aregai e 1’« esercito del Piccolo Negus ». A quanto pare a causa del fiasco delle operazioni primaverili accurata­ mente preparate, Maletti venne sostituito, a Debrà Berhan, da un nuovo comandante, Galliani3; e le operazioni cominciarono brillantemente il 1° ottobre con l’avanzata di tre Gruppi Bande, quelli di Criniti, di Farello e di Rolle, nell’Ancoberino. Ciò significò combattimenti, grosso modo in con­ dizioni di parità, tra gruppi opposti di irregolari; si ebbero tre aspre scher­ maglie, ma, nella terza settimana di ottobre, giunse la notizia che Abebè Aregai, con Zaudi Abba Korra e tutti i loro uomini, avevano attraversato la strada maestra andando ad unirsi a degiacc Auraris nel Mens 4. Il Mens, il regno interno dello Scioa, ottocentocinquanta miglia quadra­ te di vasti pianori, circondati su ogni lato da ripide montagne, a più di tremila metri sul livello del mare; un paese freddo e vigoroso. « La nostra terra è Marna, la nostra terra è Lulo, il nostro fiume il Dangazè »

diceva uno scillala, o canto guerresco, del Mens. « Quale bastardo oserà maltrattarci quando gli diremo di star lontano dalle nostre terre? »

Vi fu una conferenza ad Addis Abeba per preparare l’invasione, e, una volta di più, Cavallero partì in aereo — il 30 ottobre, diretto a Debrà Sina — per dirigere le operazioni. Lorenzini invase il Mens da ovest, Galliani dal nord-est, Sora dal sud-est e Rean dal sud. Li seguirino Quirico Criniti e Favello. Il 6 novembre, Lorenzini e Favello sferrarono un attacco com­ binato contro la base di degiacc Auraris tra le montagne, a Colag, e, una settimana dopo, Criniti attaccò Abebè Aregai. Ci si batté con disperato accanimento da entrambe le parti. Ma, entro dicembre, anche gli eritrei dell’ll3 brigata di Lorenzini erano stanchi morti e avevano bisogno di riposo. Il 13 dicembre, si tenne un consiglio nel corso del quale si stabi­ lirono, quali princìpi-guida della futura politica, « la riorganizzazione e un assoluto rispetto delle persone e delle proprietà », princìpi dai quali si può arguire che cosa fossero stati i combattimenti prima di allora. Si disse, dopo la guerra, che in pratica non esisteva villaggio di pietre nel Mens, ove erano passati gli italiani o una banda, che non fosse stato saccheggiato e, per quanto possibile, distrutto. Galliani, stando ai rapporti ufficiali, « si ammalò e morì » (viene fatto di domandarsi — inevitabilmen­ te, tenuto conto della tendenza italiana a tacere i disastri — se egli non fu 267

ucciso dai ribelli) e Lorenzini ricevette l’ordine di sostituirlo a Debrà Berhan. Non giunse nella sua nuova destinazione, tuttavia, fino al 15 febbraio dell’anno seguente, sebbene si trovasse soltanto a Debrà Tabor — un indizio del fatto che gli italiani, in quel periodo, dovevano aprirsi una strada com­ battendo quasi passo per passo attraverso le montagne ostili. La banda di Rolle, nel frattempo, era stata richiamata dopo l’incursione nell’Ancoberino e inviata nel « settore occidentale » dello Scioa (ampliato da un decreto del 6 luglio in modo da comprendere la regione Guraghé) per effettuarvi un attacco con tre colonne 4 contro i due capi ribelli rivali che agivano intorno allo Uolliso, sulla strada di Gimma, Gurassù Duché e Olonà Dinkel. Vi era già stato uno scontro in febbraio, quando Rolle aveva perduto un ufficiale e quarantacinque uomini nei pressi del monte Gibatti, e la fine della stagione delle piogge aveva trovato Olonà Dinkel di nuovo attivo e aggressivo. Gurassù Duché divenne in ultimo il più noto — e fu quello che visse più a lungo — ma ai suoi tempi Olonà 5 Dinkel fu altrettanto leggendario. Era un Galla uollega di Saio e aveva sposato una donna amhara, Ghennet Uorq. Essendo ella stata rapita, ne uccise l’amante e si rifugiò nei boschi come sciftà. Con la venuta degli italiani, il bandito si tramutò in patriota e derubò il ricco balabat Galla della zona per mantenere i suoi seguaci. Era un organizzatore intelligente, e modellava le proprie forze sull’esem­ pio italiano; si diceva che l’Imperatore gli avesse mandato armi e denaro, riconoscendogli il grado di sciallacà, o colonnello. Gli italiani, senza dubbio, lo temevano; sul suo capo posero una taglia di cinquantamila lire. Quanto a Gurassù Duché, per ordine personale del viceré, la taglia di lui venne raddoppiata. Ciò dopo che egli ebbe ucciso, nel mese di settem­ bre, un inviato italiano, l’ingegnere Sebastiano Castagna. Castagna era l’inviato del quale si era già servito Graziani nelle trattative fallite con ras Destà; e non ci si può forse stupire se, ricordando la fine di ras Destà, Gurassù Duché sospettò un tradimento e lo fece impiccare. Nel mese di novembre ci si batté corpo a corpo, e molti caddero da entrambe le parti, ma senza che si arrivasse a una decisione. Cavaliere riferì, a proposito di Gurassù Duché : « Egli è ora un capo senza seguaci e senza alcun ascendente sulla popolazione ». Sembra che questo fosse vero; sembra che Gurassù, abbandonato da tutti i suoi uomini, avesse pensato di mettersi un turbante e di recarsi nel Sudan come monaco, fin­ ché un amico non gli domandò: « Come morirai laggiù? », dopodiché egli ci ripensò e rimase. Ma, come sempre in questa lotta, finché il capo ribelle rimaneva in vita, i successi italiani erano soltanto temporanei; e, nonostan­ te tutte le campagne di Cavaliere (un nuovo attacco su vasta scala venne sferrato contro Mangascià Gimbirre a Fagutta, in gennaio), resta il fatto che le operazioni di quell’anno erano state inconcludenti. I quattro capi ribelli del Goggiam continuavano a vivere e a dominare i loro territori, i due minori capi ribelli nella regione Uoliso erano anch’essi in vita, il Mens rimaneva totalmente da conquistare, e il solo successo concreto era consi­ stito nell’uccisione di Hailé MariamMammo. La morte del « Piccolo Ne268

gus » poteva essere consolante, ma non costituiva di certo un successo, e se l’Ancoberino era stato liberato dalla presenza di Abebè Aregai, anche questo doveva risultare soltanto un sollievo temporaneo. E, soprattutto, pochissimo era stato fatto, o anche soltanto tentato, nel governatorato dell’Amhara, a parte il Goggiam, nelle vaste regioni situate tra Debrà Tabor e Gondar e tra Gondar e il Tacazzè, a nord. « Il Duce » annotò Ciano nel suo diario, il 1° gennaio 1939, « è tornato a Roma ieri sera e abbiamo avuto un lungo colloquio. È molto scontento della situazione nell’A.O. e pronunzia un giudizio severo sull’opera del Duca d’Aosta. In realtà l’Amhara è ancora in piena rivoluzione e i sessantacinque battaglioni che colà risiedono sono costretti a vivere nei fortini. Mezzetti ha fatto male. Il Duce attribuisce la responsabilità della nomina a Teruzzi, che agì per considerazioni di carattere personale »; e, quello stesso giorno, Mussolini trasmise ad Aosta un irritato telegramma6 che così terminava: « Abbiamo ancora sei mesi prima della stagione delle piogge per liquidare Aregai, Mangascià e Gurassù, nomi che già appaio­ no sulla stampa europea come quelli dei capi della rivincita contro l’Italia. Mussolini ». La difficoltà stava nel fatto che, come si espresse Cavendish Bentinck nel suo memorandum di febbraio per Lord Halifax, « l’Impero in Africa Orientale è per il momento una bancarotta ». « Economicamente un ele­ fante bianco » lo definì Steer. « Sul piano economico la situazione è ma­ linconicamente disastrosa » disse Helon, del consolato generale. Una una­ nimità di pareri impressionante. Il costo dell’organizzazione e dell’ammi­ nistrazione dell’Africa Orientale Italiana era stato di tremila milioni di lire nel 1-936-37, di quattromilacento nel 1937-38 e di tremilacinquecento nel 1938-39. Ma questo era niente in confronto alle operazioni militari, costate diciassettemilacinquecentodiciannove milioni di lire nel 1936-37 e novemila milioni per le campagne del 1937-38, somme enormi, la prima delle quali aveva fruttato risultati, mentre la seconda non aveva fruttato nulla. Sebbene gli italiani non soffrissero del complesso inglese secondo cui le colonie dovevano essere autosufficienti, e fossero disposti a investire som­ me ingenti per la costruzione di strade, di scuole e di ospedali (la qual cosa svergognava le vicine colonie inglesi), tali spese erano classificate sotto le voci organizzazione e amministrazione. Spendere il triplo in futili operazioni militari un anno dopo l’altro era impossibile, e nel 1939 non si ripeterono le vaste manovre dell’anno precedente, anche se vi fu, è super­ fluo dirlo, un gran numero di operazioni minori. Ma se la liquidazione di Mangascià, Aregai e Gurassù non era stata conseguita con operazioni importanti, non si sarebbe certo potuto ottenerla con azioni su più piccola scala, come gli ufficiali e gli amministratori italiani in Etiopia ben sape­ vano. Il 7 gennaio, Mezzetti fu sostituito come governatore dell’Amhara dal comandante delle truppe in Somalia, Frusci. Un anno dopo il suo arrivo, 269

la posizione di Cavaliere era divenuta molto più debole: non mancavano persino coloro che rimpiangevano « lo slancio e la crudeltà dei suoi pre­ decessori ». Egli era criticato a Roma per essersi precipitato dappertutto a dirigere personalmente operazioni che sarebbero potute essere affidate ai comandanti ai suoi ordini. I rapporti di lui con il Duca di Aosta, un tempo buoni, si erano deteriorati. Aveva fallito; e, ciò nonostante, le sue sole direttive si limitavano ad essere « ancora la stessa cosa ». Altre colon­ ne, altre guarnigioni, altri forti, altre strade... e nessuna intromissione da parte dei funzionari civili. È facile schernire la mentalità militare che si attiene sempre agli stessi schemi e continua a vedere il successo appena al di là dell’angolo, come se occorresse soltanto un altro piccolo sforzo e un’altra piccola spinta. Ma Cavaliere era quasi riuscito; aveva quasi eliminato Mangascià e Negasc, aveva quasi ucciso Belai Zellecà, aveva quasi fatto cadere in trappola Abebè Aregai, e quasi indotto Gurassù Duché a mettersi il turbante bian­ co. Senza dubbio, era riuscito a colpire Cavendish Bentinck, il quale, alle sue osservazioni sulla situazione economica antepose la frase : « Non si può assolutamente dubitare del fatto che forze italiane abbiano ora il controllo completo dell’Etiopia ».

Questa irritazione degli italiani per quanto concerneva Gibuti non era stata causata soltanto dalle tariffe ferroviarie o dal fatto che essi dipen­ devano dalla buona volontà francese per il rapido arrivo dei rifornimenti. L’irritazione era andata accumulandosi da molto tempo, in parte perché gli italiani si rendevano conto che i francesi, grazie al personale della ferrovia, la sapevano più lunga sulla situazione interna dell’Etiopia di quanto sarebbe dovuto essere consentito a qualsiasi potenza straniera, ma soprattutto perché sospettavano i francesi di fornire armi e aiuti ai ribelli, e particolarmente ad Abebè Aregai. Era noto da tempo che Abebè Aregai aveva avuto stretti rapporti con la legazione francese ad Addis Abeba, fino alla vigilia dell’invasione italiana. Si sapeva, inoltre, che i francesi ospita­ vano a Gibuti un figlio di Ligg Yasu a nome Menelik. Il loro consolato generale ad Addis Abeba era più attivo di quello degli inglesi e si man­ teneva in contatto con le comunità greca e armena che gli italiani consi­ deravano con sospetto. La linea ferroviaria correva lungo il margine meri­ dionale del territorio di Abebè Aregai nell’Ancoberino; e la guarnigione di Gibuti, comandata dall’energico generale Le Gentilhomme, era stata qua­ druplicata. Tutto ciò avrebbe rivestito scarsa importanza se le relazioni in Europa tra la Francia e l’Italia fossero state buone. Ma non lo erano7. Il telegramma inviato da Mussolini al Duca d’Aosta il 1° gennaio comin­ ciava così: « Situazione tesa tra noi e francesi tenuto conto che misure militari francesi a Gibuti con arrivo senegalesi e equipaggiamento possono aizzare nuovamente elementi ostili all’Italia sia a Gibuti sia neH’Impero... Tenuto conto disposizioni adottate dalla Francia a Gibuti il governatorato 270

dello Harar non può restare privo di forze militari come lo è in questo momento ». Tre settimane dopo, durante l’ispezione di Teruzzi, e presumibilmente dopo che Teruzzi e Cavallero si erano incontrati per esaminare la que­ stione, il Duca d’Aosta trasmise a Mussolini un lungo rapporto segreto. In esso egli minimizzava la portata della rivolta, riferendo che Abebè Aregai era stanco e malato e aveva soltanto mille seguaci armati, Gurassù Duché stava fuggendo, e solamente Mangascià Gimbirre rappresen­ tava una minaccia — una questione con la quale « le ripercussioni della tensione con la Francia non sono prive di un rapporto», osservazione as­ sai curiosa, tenuto conto del fatto che il Goggiam è così lontano da Gibuti, e spiegabile soltanto con una ancor più curiosa convinzione italiana, del tutto infondata, ma utile come pretesto, che, cioè, i francesi stessero for­ nendo armi al Goggiam via Sudan. Il Duca d’Aosta continuava chiedendo denaro per la costruzione di stra­ de, pezzi di ricambio per radio, altro vestiario ed equipaggiamento per le truppe, e personale medico. Ma la parte più interessante del rapporto è quella che concerne la « minaccia » da Gibuti. « È stata studiata un’operazione di sorpresa che dovrà, se del caso, es­ sere condotta da quindici battaglioni motorizzati più un’orda di seimila Azebò Galla raggruppati in cinque bande e un’altra orda di seimila Dancali che sono già organizzati in bande e si trovano in posizione in prossimità della frontiera. L’organizzazione delle bande degli Azebò Galla è già stata predisposta. » Così, se il primo piano di un attacco al vicino era stato proposto dal Caid nel settembre del 1938, gli italiani non rimasero molto indietro. Press’a poco in questo stesso periodo, probabilmente durante il viaggio di Teruzzi, il generale Cavallero cominciò a criticare la « mancanza di ma­ turità » del Viceré, e a suggerire che, fino a quando il paese non fosse stato completamente pacificato, il Duca d’Aosta si sarebbe dovuto limitare a compiti principalmente cerimoniali... un suggerimento che in ultimo si tramutò nella richiesta di « pieni poteri ». Per questo motivo un mese dopo il viceré venne convocato per consultazioni a Roma. Nel frattempo, nel Sudan venne concepito un altro e più efficace piano per invadere l’Etiopia.

Questo piano fu un parto di Dick Whalley, il capitano Whalley, che era stato a Magi prima dell’occupazione italiana e che, in seguito, il go­ verno del Sudan aveva richiamato e lasciato cuocere a fuoco lento nel Towoth Post, sul pianoro Boma: nel profondo sud, tra i «signori della palude », in un piccolo posto di polizia, a tener d’occhio la situazione al di là del confine, uno dei pochi ufficiali coloniali decisamente avverso al suo collega italiano e che, invero, aveva riferito come all’ufficiale co­ mandante di Magi fosse stato proibito dal viceré di portare la rivoltella « a causa dell’inguaribile abitudine di sparare in faccia a qualsiasi indi277

geno gli venga tra i piedi ». Whalley aveva figurato nel piano del Caid e ne era stato un grande sostenitore. Ma il generale Franklyn fu sostituito, agli inizi del 1939, da un nuovo Caid, il generale Platt, e Whalley escogitò una versione migliorata del piano di Franklyn, sulla quale rimuginò con due dei suoi amici, El Miralai Cave Bey, comandante del Corpo Equato­ riale, che manteneva la pace nelle terre degli Shilluk, dei Nuer, dei Dinka e degli Anuak, fino ai confini dell’Uganda e ai territori desertici dei Karamoja e dei Turkana, e il capitano Erskine, di Gore. Lo approvarono en­ trambi. Whalley non chiedeva altro che le poche centinaia di uomini del Corpo Equatoriale, quattromila fucili e duecentomila cartucce per armare i ri­ belli che prevedeva sarebbero accorsi, diecimila talleri di Maria Teresa, alcuni aerei per lanciare volantini, e l’impiego dei disertori eritrei affluiti dalla regione di Magi e la maggior parte dei quali erano finiti nei campi del Kenya. O meglio, non chiedeva soltanto questo; chiedeva anche un gentiluomo al quale, in armonia con le norme della sicurezza militare, si riferiva alquanto timidamente chiamandolo « H.S. Esquire ». Era questa la prima volta che si ventilava la proposta di far rientrare nel giuoco l’Imperatore, o piuttosto l’ex-Imperatore. Per buona misura, Whalley proponeva ancora una nuova idea: che un altro suo amico, un altro giovane vice-Commissario Distrettuale, si recasse più a nord, a Kassala, con il Principe ereditario: questo amico era Wilf Thesiger, ex-stu­ dente a Eton, ex-capitano della squadra di pugili a Oxford, ex-esploratore della Dancalia, il cui padre, come senza dubbio Whalley sapeva, aveva ospitato il giovane Asfauossen ai tempi in cui il Negus Mikael e Ligg Yasu si erano messi in marcia dallo Uollo e avevano massacrato ras Lui Seghed e il padre di Abiye Abebè, Abebè Atnaf Seghed, prima del disastro della battaglia di Sagallè. « Assolutamente fantastico » commentò Sir Stewart Symes, prima di inoltrare il piano a Cavendish Bentinck, alla fine di febbraio; e aggiunse alcune osservazioni spregiative a proposito di coloro che credevano di essere dei nuovi Lawrence. Ma Cave Bey aveva adottato la precauzione di parlare del piano al brigadiere Stone, a Khartum, e così il governatore generale non riuscì a farlo cadere del tutto nell’obliò, come senza dubbio avrebbe voluto, forse perché era in ottimi rapporti di amicizia con il Duca di Aosta. Amedeo di Aosta si recò in aereo a Khartum, in incognito, Γ8 marzo, vi rimase per un paio di notti, giocò una volta al polo, poi ripartì per il Cairo e Roma. Ciano annotò nel suo diario, il 14 marzo: « Il Duca d’Aosta parla con notevole ottimismo della situazione dell’Impero. Devo però aggiungere che tra i tanti che vengono di là egli è il solo ottimista ». Le cose sembravano mettersi male per il Duca d’Aosta. Ma, quindici giorni dopo, egli ripartì in aereo, sempre viceré in base a tutte le appa­ renze. In quella quindicina di giorni le cose parvero mettersi male 272

anche per l’Europa e il vivido anche se improvviso ottimismo dei primi mesi del 1939, che aveva baluginato saltuariamente a partire dall’accordo di Monaco, scomparve per sempre. Hitler invase la Cecoslovacchia e fran­ cesi e inglesi si prepararono alla guerra. Le luci potevano spegnersi in Europa, ma continuavano a splendere con una luminosità calda sulle rive del Nilo. Il Duca d’Aosta sostò al Cairo, ove Sir Miles Lampson Io trovò « alto, di bell’aspetto, atletico e molto affabile e amichevole » 8, senza — cosa ancor più importante — « mai una pecca nel suo senso dell’umorismo ». Il 28 marzo, il signor Bateman, un funzionario dell’High Commission, cenò con lui e rimase non meno colpito, sia per le lingue che conosceva — « Parla l’inglese, il francese, lo spagnolo, il tedesco, l’arabo e forse l’amarico »9 — sia per quel che diceva. Per quanto concerneva l’Europa, nutriva speranze: « Grazie a Dio, quella stupida avventura spagnola è finita. Non vedo ancora profilarsi all’orizzon­ te la pace perpetua. Ma non prenda troppo alla lettera tutto quello che dice il signor Brown (vale a dire Mussolini)... Ha letto il discorso del re? Quelle sono le cose che contano. Tenga d’occhio il re. Esprime più di quanto lei possa immaginare, di questi tempi. » Per quanto concerneva l’Etiopia parve quasi volersi scusare e ammise che la situazione era alquan­ to disastrosa, anche se meno di come lo era stata. « Supponga di aver mandato tutta la feccia dell’East End in Etiopia e di aver lasciato che si scatenasse, può ben immaginare che cosa sarebbe accaduto. È per l’ap­ punto quello che abbiamo fatto noi e ora bisogna ripulire il paese, in un modo o nell’altro. » Il 30 e il 31, il Viceré fu ospite di Sir Stewart Symes, nel Palazzo di Khartum. Ripetè le sue critiche alla canaglia, accennò al fatto che aveva espulso mille e sette italiani indesiderabili, si lagnò della carenza di uffi­ ciali e funzionari fidati nell’A.O.I., alluse sfavorevolmente al giovane re Faruk, e spiegò che Mussolini era furente con i francesi e che lui e Balbo - i due proconsoli d’Italia — avversavano entrambi la politica del Duce di sterminio dei ribelli nelle colonie. Soltanto sull’eterno problema del lago Tana e delle acque del Nilo si mostrò « un po’ equivoco ». Rientrò in aereo ad Addis Abeba il primo aprile. Era comprensibile che Sir Stewart Symes e compagni rimanessero in­ cantati dal Duca anglofilo per eccellenza, trovassero quasi impossibile immaginarlo come un potenziale nemico e ritenessero disgustoso all’estre­ mo che i loro subordinati potessero studiare piani pazzeschi per invadare i territori che egli stava cercando di amministrare quasi nello stesso spirito dei migliori governatori coloniali inglesi. Esisteva una vera e propria pas­ sione per il Duca d’Aosta nei circoli inglesi. Lennox Boyd e Lady William Percy andarono a fare una visita deliziosa e trovarono nel vice-governatore generale, il signor Cerulli, « una miniera di informazioni ». Dodds-Parker, del servizio civile del Sudan, li accompagnò, venne invitato a Villa Italia come ospite personale del viceré e volle rassegnare le dimissioni ed entrare nel Times come corrispondente speciale da Addis Abeba. Il governatore 273

del Kenya era, né più né meno, geloso di Sir Stewart e scrisse al Conso­ lato generale chiedendo una visita privata del Duca a Nairobi. Anche in Etiopia, la stella del viceré era in ascesa. Dopo quindici giorni di tensione durante i quali si aspettò e ci si posero interrogativi, la notizia venne annunciata. Cavallero se ne andava, Cerulli veniva retrocesso e il viceré aveva pertanto riportato, a Roma, quella che il Consolato generale inglese definì « una piccola ma soddisfacente vittoria ». Il generale Ugo Cavallero fu richiamato in Italia en disponibilité (per riemergere di nuovo nel dicembre del 1940, finché l’ultimo atto della rivalità protrattasi per tutta la vita con Badoglio non si concluse tragicamente nella notte del 14 settembre 1943, in una camera del Park Hotel di Frascati) e il viceré assunse il comando delle forze armate, con una relativa nullità, il generale Luigi De Biase, come capo di stato maggiore; ed Enrico Cerulli, vicegovernatore generale, prese il posto del generale Nasi, che a sua volta occupò quello di lui — Cerulli divenne governatore dello Harar, e Nasi che, era noto, andava molto d’accordo con il Duca d’Aosta, passò ad Addis Abeba come vice-governatore generale, nonché ex officio, governatore del ricostituito governatorato dello Scioa 10. La nomina fu approvata da tutti e con l’arrivo di un governatore civile nello Harar apparve chiaro che il progetto di un attacco di sorpresa a Gibuti (la cosa era inevitabilmente trapelata, e non si sarebbe trattato di una sorpresa per nessuno) era stato actantonato, sebbene il colonnello Raugei e « l’orda dancala » sorveglias­ sero attentamente l’intera frontiera di Gibuti per accertarsi che non ne uscissero armi di contrabbando e non vi entrassero messaggeri. Ma francesi e inglesi si erano spaventati. E, nonostante la riluttanza dei governatori coloniali, si decise di tenere conversazioni degli stati mag­ giori collegati a Aden, alla fine di maggio. Per preparare tali conversazioni, fu fatto circolare il piano di Whalley; e la prima persona alla quale venne richiesto di commentarlo per il Mini­ stero della Guerra fu il nuovo Gaid, il generale Platt. Egli presentò il suo rapporto e le sue proposte al Ministero della Guerra quattro giorni dopo che l’Italia, seguendo l’esempio della Germania in Cecoslovacchia, aveva invaso e si era annessa l’Albania, facendo sì che la guerra si avvicinasse ancor più in Europa. La riuscita invasione italiana, che in un giorno pose una nuova corona sul capo di Vittorio Emanuele, ebbe luogo il Venerdì Santo, mentre la Mediterranean Fleet si divertiva nei porti italiani Il generale Sir William Platt G.B.E.12 vive ancora, sebbene sia in con­ gedo da trentotto anni. Nel corso della sua esistenza ha veduto epoche quasi mitiche della storia militare inglese. Nacque undici anni prima di Adua e combattè sulla North West Frontier e nella prima guerra mon­ diale. « Abbiamo un nuovo Caid » osservò Douglas Newbold, « un certo maggior generale Platt, e un nuovo capo di stato maggiore, il brigadiere Stone, ex-addetto militare a Roma. » Platt era rigoroso nella disciplina e lo era in modo alquanto burberon. Si trattava inoltre di un ottimo soldato, anche se ortodosso, « un piccolo, segaligno terrier d’uomo », come lo definì Newbold quando potè conoscerlo meglio. Ma nell’aprile del 1939 274

si stava ancora orientando nel suo nuovo incarico — e ignorava quasi tutto dell’Etiopia. Né più né meno, invero, stando al rapporto di lui, come tutti i suoi colleghi nel Sudan. « In tutto il paese (vale a dire l’Etiopia) » egli scrisse « il tessuto dei capi è stato lacerato... a tutti i fini pratici è calato un sipario impenetra­ bile sull’aspetto politico tra il Sudan e l’Etiopia... disponiamo di ben pochi dati aggiornati e non v’è modo di portare i nostri uomini sulla scarpata, o al di là della scarpata, del confine ». L’idea di una rivolta aiutata dal Sudan era cominciata « nello scorso settembre » quando « le nostre infor­ mazioni sul paese, la popolazione e la situazione erano più aggiornate ». In seguito gli avvenimenti l’avevano superata e il progetto « era venuto a co­ noscenza di troppe persone ». Platt può aver esagerato l’ignoranza inglese — meno però di quanto gli italiani esagerassero l’efficienza del temuto, e troppo spesso mitico, « Intelligence Service ». Nel consueto stile militare, il Caid continuava paragonando le forze ami­ che e le forze nemiche. Le « forze amiche » disponibili per un’invasione sarebbero consistite in forse mille fucili in tutto della Sudan Defence Force, appoggiati da una squadriglia di bombardieri di Vincents. Contro queste forze, gli italiani disponevano di centoquarantamila uomini, com­ presi quarantamila nazionali, e di trecento aerei14. Esisteva pertanto una certa sproporzione. Il Caid ammetteva gli svantaggi dello « starsene fermi ». « Ma, tenendo conto della realtà pratica, vale a dire delle forze terrestri e aeree quali esistono oggi, non ritengo che sia una proposta ragionevole lanciare appe­ na mille soldati armati di fucili e di una o due mitragliatrici, con l’esten­ sione di fronte e la profondità di penetrazione contemplate, tra le monta­ gne d’Etiopia contro un esercito comandato da europei e di gran lunga superiore per terra e nell’aria, come numero e come armamento, sulla base di informazioni nebulose e senza alcun capo locale noto sul quale far conto per un appoggio e un’insurrezione. » Soggiunse di avere fatto legge­ re il rapporto a Sir Stewart Symes, il quale — e non ce se ne può stupire — lo aveva approvato in linea di massima; Symes disse, sembra, che se gli fosse stato rifilato « H.S. Esquire », lo avrebbe accettato soltanto come parte integrante del proprio bagaglio. Dick Whalley era sistemato — una mosca schiacciata dalla logica di un maglio. Ma il rapporto di Platt non piacque affatto al Foreign Office,, che era deciso a disporre di «zi qualche piano da proporre ai francesi. « Non apprezzo molto l’atteggiamento di Khartum, che consiste nel sotto­ porre invariabilmente a docce fredde l’entusiastico capitano Whalley » scrisse un funzionario del dipartimento egiziano. «... Anche un insuccesso preoccuperebbe probabilmente, all’inizio, il quartier generale italiano in misura sproporzionata alla portata reale dell’azione »; e Cavendish Bentinck soggiunse che Whalley poteva immaginare se stesso come una sorta di Lawrence dell’Etiopia, ma che, ciò nonostante, gli inglesi avrebbero dovuto « fare qualcosa nell’eventualità della guerra »... fornendo per lo meno armi, munizioni e danaro. 275

I falchi di Londra erano decisi a smuovere un poco le colombe nella colombaia di Khartum. Dopo aver cogitato per una settimana sui loro trespoli, cominciarono ad avventarsi. Anzitutto calarono su Platt: il suo rapporto era ammirevole, ma occorreva inviare immediatamente agenti in Etiopia. I « nostri esperti » ritenevano probabile una sollevazione sponta­ nea nell’eventualità della guerra. Quali erano i requisiti per stimolare una rivolta ? Platt tenne la testa a posto e rispose in modo concreto: denaro e armi... diecimila sterline in talleri di Maria Teresa, cinquemila sterline in scellini del Kenya, cinquemila fucili e due milioni di cartucce. Sir Stewart Symes venne costretto ad agitarsi molto di più. Anzitutto, il 22 aprile, gli pervenne dal Cairo una lettera di Sir Miles Lampson, il quale gli chiedeva, in via amichevole, a che punto stesse in fatto di agenti etiopi, e aggiungeva che ne avevano alcuni al Cairo. Symes, a quanto pare, rabbrividì all’idea di volgari spie. Mentre stava vergando la risposta a Sir Miles, giunse una richiesta direttamente dal Foreign Office: i suoi commenti, per favore, sul piano di Whalley. Tenendo la penna tra i denti, Sir Stewart formulò le risposte. In primo luogo, il 27 aprile, la lettera a Lampson. Tutta quella faccen­ da era « estremamente diffìcile ». Egli conosceva personalmente la situa­ zione dal 1906 in poi; l’economia dell’Africa Orientale Italiana era senz’al­ tro caotica, e l’amministrazione inefficiente, ma i cosiddetti ribelli consi­ stevano soltanto di pochi sciftà ostili, il cui morale era crollato. Quanto alla guerra, bene, (a) le forze di cui noi disponevamo diffìcilmente avreb­ bero potuto impedire l’invasione di una colonna motorizzata, (b) le forze della RAF erano di gran lunga inferiori a quelle della Regia Aeronautica, e (c) dopo l’occupazione italiana «le comunicazioni con il Sudan sono cessate completamente o si riducono a semplici relazioni con piccoli capi che risiedono in prossimità del confine ». Non esistevano più, si lamentò Sir Stewart, i ras di un tempo 15 ; ed egli concludeva con una stoccata a Erskine, Whalley e compagni: « La sezione informazioni a Khartum non dispone di un personale particolarmente abile... mi farebbero comodo uo­ mini in possesso di dati più aggiornati ». Sei giorni dopo, e con maggior fiducia, spedì la sua risposta alle pres­ sioni esercitate dal Foreign Office. Le informazioni dall’Etiopia erano insuf­ ficienti, soltanto « pettegolezzi e rapporti occasionali di profughi e viaggia­ tori ». Non esistevano contatti politici di sorta con capi ribelli all’interno dell’Etiopia, era inutile incoraggiare « sollevazioni indigene premature o mal coordinate »; era troppo tardi perché avessero luogo conversazioni con i francesi, e quanto alla proposta di Whalley di impiegare disertori, « i profughi locali, tranne pochi individui, sono inutilizzabili a qualsiasi sco­ po ». Il tono fiducioso al quale era improntata questa risposta lo si doveva al fatto che egli potè almeno riferire una certa attività: stava mettendo insieme diecimila fucili, oltre a bandoliere e a due milioni di cartucce. Gli sarebbero occorsi cinquantamila talleri di Maria Teresa. E, con il sospiro soddisfatto del governatore coloniale che sa per esperienza come ogni ri-

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chiesta di denaro determini intromissione da parte dei padreterni degli uffici a Londra negli affari di una colonia bene amministrata, Sir Stewart Symes posò la penna. « Ecco », scrisse Lampson a Oliphant, al Foreign Office, « finalmente abbiamo la vera opinione di Symes. Essa rivela la pericolosa insufficienza della nostra forza militare nel Sudan. » Disponevamo, rilevò il Foreign Office, della Sudan Defence Force — diciamo cinquemila uomini — oltre a due battaglioni di fanteria inglesi più un battaglione egiziano di valóre dubbio; e, in caso di emergenza, si sareb­ be potuto fare arrivare per via aerea, dalla Palestina, un altro battaglione inglese. Il Ministero della Guerra voleva raddoppiare la Sudan Defence Force — ma da dove sarebbe venuto il denaro? Era un peccato che la guerra non fosse scoppiata nel precedente mese di settembre, quando vi era stata una sollevazione generale in Etiopia. Ma ancora adesso una ri­ bellione, sia pure fallita, avrebbe consumato le riserve italiane di benzina e di farina. Sir Robert Vansittart non misurò le parole. Il rapporto di Symes era « penoso a leggersi ». « Esortai Symes » egli scrisse « a potenziare la Sudan Defence Force nel 1936. Egli rispose che era sufficiente. Non gli ho perdo­ nato questa mancanza di prescienza perché è imperdonabile... Si potrà fare ancora qualcosa? » Il dipartimento egiziano agitò il dito. Nell’eventualità di una guerra, il piano generale sarebbe stato quello di provocare una débàcle dopo che l’Impero italiano nell’Africa Orientale fosse rimasto isolato per alcune set­ timane. Bisognava predisporre tutto, compresi talleri a sacchi. Il gover­ natore del Kenya riferì che avrebbe potuto radunare e armare mille pro­ fughi etiopi; il governatore della Somalia britannica ne aggiunse duecento. Ma poi vi fu un intoppo. Il governatore del Kenya riferì che i militari — l’ispettore generale delle forze coloniali africane, maggior generale G.J. Giffard — rifiutavano di consentire che i profughi etiopi venissero armati16. Aggiunse, come contentino, che stava cercando di trovare individui per dirigere spie - una parola che il Foreign Office trovò disgustosa. Cavendish Bentinck era furente. Razzi vennero lanciati contro i poveri governatori. Lasciate che i profughi tornino in Abissinia e si battano... date loro fucili, eccetera. Per quanto concerneva i disertori eritrei, esiste­ va il pericolo che potessero disertare anche da noi. In ogni modo bisognava assolutamente avvalersene come agenti per fomentare disordini. « Il nostro obiettivo nell’Africa Orientale sarà quello di rendere la posizione degli ita­ liani così difficile da impedir loro di disporre di forze per un violento attacco ai nostri possedimenti, e tale da determinare una débàcle italiana. Se riusciremo a ottenere un efficace appoggio al nostro scopo sia dai pro­ fughi etiopi, sia dai disertori eritrei, dovremo accettarlo ed esserne grati. » Queste erano, al contempo, parole forti e una direttiva chiara. Né le une né l’altra piacquero al Colonial Office, che difese la propria direttiva. L’impiego di profughi e di disertori avrebbe potuto causare, fece rilevare il Colonial Office, interrogazioni in Parlamento. E così prevalse l’inerzia. 277

Gli etiopi non vennero armati né addestrati, e gli eritrei non furono man­ dati in Etiopia come spie 17. Fortunatamente per gli inglesi, i francesi non avevano inibizioni di questo genere. Il generale comandante delle truppe francesi a Gibuti, LeGentilhomme di cognome, era, constatò Platt, « un uomo dinamicissimo ed energico, sui cinquantacinque o cinquantasei anni, e senza dubbio un abile soldato ». Gibuti era stata fortunata disponendo di due abili capi dei servizi segreti, che avevano l’innocua denominazione di Section Etudes. Il primo, De Jonquières, nominato alla fine del 1936, l’anno della conquista italiana, aveva subito deciso che il modo migliore di difendere Gibuti dagli appetiti italiani sarebbe consistito nel fomentare disordini nell’Africa Orientale Italiana mantenendo i contatti con i capi delle bande ribelli, rifornendoli occasio­ nalmente con armi e denaro, mantenendo viva la propaganda politica per assicurarsi che continuasse ad esistere un’atmosfera di latente ostilità con­ tro gli italiani anche quando la rivolta aperta fosse cessata, e infine ap­ prontando bande in territorio francese. Il vantaggio di tale piano, dal punto di vista francese, consisteva nel fatto che esso sarebbe venuto a costare assai meno della costruzione di complesse fortificazioni. Il piano fu approvato. Ma i francesi, sebbene si fossero mantenuti vagamente in contatto con Abebè Aregai e persino con Gurassù Duché, non riuscirono a trovare alcun capo da finanziare nei territori somali e dancali lungo i confini della loro colonia, ove la politica filo-islamica e anti-amhara degli italiani riscuoteva l’approvazione generale. Nel marzo 1938, De Jonquières fu sostituito dal capitano Jean Trocard; al contempo, il generale Cavallero cominciò a far sorvegliare molto più attentamente la frontiera, e non passarono altre armi. Trocard e LeGentilhomme spiegarono la situazione all’attivo Ministro delle Colonie francese Mandel, e Mandel cominciò ad esercitare pressioni sugli inglesi affinché lasciassero passare le armi dal Sudan — senza ottenere alcun successo a questo riguardo — e anche affin­ ché l’Intelligence Service favorisse il passaggio di agenti. Trovò l’Intel­ ligence Service « molto lento ». E la crescente minaccia da parte ita­ liana, della quale i francesi erano naturalmente ben consapevoli, co­ strinse questi ultimi a ricorrere, nei primi mesi del 1939, a rimedi più ortodossi: rafforzarono le fortificazioni a Gibuti e ne aumentarono la guarnigione. Quando cominciarono le conversazioni tra gli stati maggiori, a Aden, i francesi poterono riferire di avere a Gibuti cinquemila uomini delle truppe regolari18, viveri e munizioni per tre mesi, benzina per cinque mesi, e affermare che la colonia era, o presto lo sarebbe stata, quasi im­ prendibile, sebbene la frontiera con l’Africa Orientale Italiana si estendes­ se per oltre trecentoventi chilometri. Le conversazioni tra gli stati maggiori a Aden cominciarono il 30 maggio e si protrassero per quattro giorni. Costituirono un grande succes­ so. I militari valutarono le forze contrapposte, valutarono le forze nemiche, si valutarono a vicenda e partorirono un piano. 278

La situazione all’inizio della guerra, ritennero, sarebbe stata la seguente: gli italiani, con la loro potente aviazione e i loro sommergibili, avrebbero dominato il Mar Rosso e, fino a un certo punto, il Golfo di Aden; la flotta italiana avrebbe quasi certamente dominato il Mediterraneo, e per con­ seguenza tutti i traffici marittimi sarebbero stati vulnerabili. Gibuti doveva essere difesa a qualunque costo. La sua caduta avrebbe significato la fine della ribellione in Etiopia 19, e in ogni caso si trattava della base migliore per un attacco. 11 suo solo punto debole consisteva nel breve confine con la Somalia britannica. Se gli italiani fossero penetrati nella Somalia britannica — ove il Corpo meharisti di Chater contava appena cinquecentosettanta uomini e doveva difendere, con l’aiuto di po­ che centinaia di illalo, milleduecento chilometri di frontiera desertica — sarebbero potuti arrivare a Gibuti passando per il varco oltre Zeila. Per conseguenza i francesi dovevano mandare rinforzi dal Madagascar, e gli inglesi dovevano potenziare la difesa della Somalia britannica con due battaglioni, aumentare il numero dei bombardieri ad Aden (una squadri­ glia per volta) e accrescere le forze navali nelle basi delle Indie Orientali. Occorrevano stretti collegamenti tra Gibuti e Aden e, per renderli possi­ bili, sarebbe stato collocato un cavo sotto il Mar Rosso. Secondo argomento all’ordine del giorno: Aiuti ai ribelli nell’Etiopia. Questo era un problema, e i generali si grattarono la testa. « Nessun cieco incoraggiamento a una sollevazione prematura », ma disertori e pro­ fughi dovevano essere organizzati. Sin qui tutto bene. Ma come far avere le armi ai ribelli? Impossibile da Gibuti, e difficoltoso lungo la ferrovia. Il Kenia era troppo isolato. Il Sudan sarebbe stato la soluzione migliore, ma non esistevano contatti via Sudan, e pochissimi sulla frontiera del Kenia. Tutto sommato, la base migliore dalla quale mandare armi sarebbe stata, si decise, la Somalia Britannica. Allo scoppio della guerra, il piano sarebbe stato il seguente: i francesi dovevano attaccare lungo la ferrovia, appoggiati dal Kenia e dal Sudan. Il concetto dell’attacco era chiaro, la questione dell’appoggio più vaga. Nel Kenia, le due brigate KAR dovevano assumere una posizione difen­ siva di fronte a Nairobi, lungo la linea fiume Tana-Isiolo. In seguito avrebbero potuto avanzare, non nella direzione del fiume Giuba, ma da Mojale, al nord, contro (in ultimo) Addis Abeba. Quanto al Sudan, con i suoi due battaglioni inglesi (che presto sarebbero stati tre), il battaglione egiziano e le cinque compagnie mitraglieri motorizzate della Sudan Defence Force, esso si sarebbe limitato a fornire « appoggio ». L’essenziale era, fin­ ché si fosse rimasti sulla difensiva, impedire i rifornimenti di nafta e di benzina agli italiani, che avevano riserve per soli tre mesi. Questo, dunque, era il piano. Non si .trattava di un piano molto buono e i buchi che lo crivellavano non si limitavano a essere buchi; si trattava di veri e propri squarci. Rifornire di armi i ribelli dalla Somalia britannica quando la regione adiacente alla Somalia britannica era precisamente la sola zona nella quale non esisteva, e mai era esistita, e mai sarebbe esisti­ ta, una qualsiasi opposizione al dominio italiano, era una proposta che 279

rasentava la follia. Impedire i rifornimenti italiani di carburante rimanen­ do sulla difensiva costituiva, a dir poco, un paradosso. Chiedere potenzia­ menti delle forze aeree e navali era un’ottima cosa, ma non sembrava realistico. Il piano aveva però almeno tre meriti: anzitutto, si trattava di un piano; in secondo luogo, non si limitava a essere un piano difensivo; e, in terzo luogo, era probabilmente valido quanto qualsiasi piano potes­ sero escogitare gli italiani, se non migliore. Sir Stewart Symes fu convocato a Londra. Il Governatore generale si espresse in modo assai reciso: la Sudan Defence Force non poteva essere potenziata, e tanto meno raddoppiata. Cavendish Bentinck doveva essere stanco. Accettò l’asserzione offensiva secondo cui, tra le razze che avevano fornito al Mahdi decine e decine di migliaia di uomini abili nel manovrare la spada e la lancia, tra le tribù montanare del Kordofan, i clan di Darfur, nelle terre dei cavalleggeri neri di Sennar, tra i discendenti dell’Impero di Fung che, a memoria di uomo, aveva con i suoi eserciti, dilagato fino a Massaua, saccheggiato Gondar, ed era tornato trionfalmente a Khartum con la testa di un imperatore etiopico, non esistevano e non potevano esistere reclute. « È troppo tardi » disse Vansittart. « Si tratta del nostro prediletto e, se mi è lecito, infallibile difetto ». Per la seconda volta, vi furono allarmi e andirivieni entro i confini dell’impero coloniale italiano e fuori di essi. A metà agosto giunse da Roma un cablogramma che ordinava al Duca d’Aosta di mobilitare. Una settimana o due dopo, l’Africa Orientale Inglese mobilitava a sua volta: tre battaglioni del KAR costituirono la Northern Brigade nel Kenia; e altri tre furono portati al completo degli effettivi per formare la Southern Brigade a Dar-es-Salaam. Il generale Wavell arrivò dall’Inghilterra per assumere la carica di Comandante in capo del Medio Oriente, al Cairo; il generale Weygand arrivò dalla Francia per assumere la carica di Co­ mandante in capo dell’Esercito del Levante; i due uomini conferirono e complottarono per distruggere la Libia. In Europa, Hitler invase la Polo­ nia, e la seconda guerra mondiale scoppiò il 3 settembre. Churchill e Eden divennero Ministri della Corona. Il giorno seguente, ad Addis Abeba, venne limitato l’impiego degli automezzi e si razionò la benzina. A nessuno che avesse l’età di andare sotto le armi venne consentito di lasciare il paese e sei classi di riservisti furono mobilitate. Il governo francese ordinò che tutte le donne e i fanciulli francesi partissero da Addis Abeba. Indiani e arabi cominciarono ad andarsene di loro iniziativa. Fu notata la presenza di un agente di Goebbels, il dottor Reck. Poi, con la stessa rapidità con la quale tutto ciò era avvenuto, ogni cosa tornò a calmarsi; divenne manifesto, infatti, che l’Italia non sarebbe entra­ ta in guerra; e la diplomazia inglese concentrò gli sforzi per rendere più ferma l’Italia in questa augurabilissima esitazione. 280

« Non mi aspettavo » scrisse Douglas Newbold, nella sua prima circolare come Civil Secretary trasmessa ai nove governi delle province del Sudan « che la stesura della mia prima lettera mensile potesse essere interrotta, come è accaduto ieri, da una dichiarazione di guerra. Fino ad ora l’Italia non è intervenuta... la famiglia reale e il popolo italiano sono, a quanto pare, contrari — ma il pericolo non è certo passato. Abbiamo ricevuto ri­ petutamente istruzioni dal governo di Sua Maestà di evitare ogni genere di incidenti che possano sembrare una provocazione nei confronti del­ l’Italia. » Anche i militanti del Foreign Office dovettero limitarsi a mere futilità. Il 20 settembre, un gruppo di generali e diplomatici, compreso il focoso Cavendish Bentinck, si riunì a Londra allo scopo di esaminare le iniziative da prendere per fomentare una rivolta; e si accordarono... su che cosa? Sulla distribuzione di armi, di denaro, o su piani di operazione? No, sulla stampa di volantini. I temi proposti per i volantini (che ovviamente sarebbero stati distri­ buiti soltanto in caso di guerra) erano i seguenti: « Il Canale di Suez è chiuso: gli italiani sono circondati: e in ogni modo non sanno battersi. Ricordate Adua! »’aNon O . ntagonismo Èttocento, hite una cisupremacy sono considerazione «democratico» termini politicodie che per sociale, sisé vale definiva innon anche grado ciilsono per di partito esprimere letermini categorie impegnato ideologicamente alloche stato asembrerebb difendere puro l ep

CAPITOLO QUINTO

« RAS » ABEBÉ AREGAI

Le nubi di guerra si dissolsero; e il 27 settembre i dignitari dell’Impero celebrarono il Mascal in pompa magna nella capitale. Sciabole argentee balenarono pacificamente e parasoli colorati sbocciarono; Adua poteva quasi essere dimenticata. Avendo al fianco il suo nuovo vice-Govematore generale, il generale Nasi, il Viceré conferì il titolo di « ras » a tre dignitari: il primo fu l’oscu­ ro degiace Ambachau, un tempo liquemanquas dell’imperatrice Zauditù; il secondo fu il più degno di nota degiacc Amde Alì dello Uollo, uno dei più importanti cospiratori del 1936 ai danni di Hailé Selassié a Dessiè; il terzo e di gran lunga il più grande fu il degiacc Aialeu Burrù, che aveva guidato in battaglia contro gli italiani i combattenti del Beghemder e del Semien, e si era battuto al fianco di ras Immirù fino alla caduta di Gondar. Tre grandi signori etiopi assistettero a questa cerimonia: ras Hailù del Goggiam, com’era logico... da quel fedele alleato degli italiani che era sempre stato e doveva ancora essere. Accanto a lui si trovava un altro « ras » creato dagli italiani, Hailé Selassié Gugsa, il traditore che entrambi gli schieramenti disprezzavano; e con loro v’era un nuovo venuto, ras Seyum. Ras Seyum, infatti, era finalmente tornato dalla sua protratta « vi­ sita » in Italia. Poiché il fatto stesso che le tradizionali famiglie regnanti del Goggiam, di entrambe le regioni del Tigrai, del Beghemder e dello Uollo, erano lì rappresentate dai loro esponenti superstiti riuniti intorno al Viceré che li onorava, stava ad attestare un mutamento significativo intervenuto nel­ l’orientamento della politica italiana. Quella riunione in occasione del Mascal del 1939 era il segno esteriore dei primi passi mossi verso la poli­ tica del « governo indiretto », ricalcata sui princìpi britannici, e alla quale, lo si sapeva, erano favorevoli sia il Duca d'Aosta sia il generale Nasi *. Lo scopo di ras Hailù e di ras Seyum, nonché, invero, degli altri, era quello di tornare a governare i territori di un tempo. Tale scopo non lo avevano conseguito, e non dovevano conseguirlo fino all’ultimo momento; gli italiani li trattenevano nella capitale o negli immediati dintorni, e la politica dei ras era ovviamente quella di conciliarsi gli italiani e di proce­ dere con i piedi di piombo. Ciò nonostante si può a buon diritto supporre 283

che la notizia del ritorno di ras Seyum si fosse diffusa rapidamente nel Tigrai, e che questa mossa da parte italiana fosse stata saggia, in quanto la semplice presenza di ras Seyum sul suolo etiopico, e le speranze destate da tale presenza, avrebbero placato tutte le tendenze alla ribellione nel Tigrai — sebbene non vi fosse mai stato, né dovesse esservi in avvenire, un gran movimento di resistenza in quelle regioni. Gli spostamenti non si verificavano in una sola direzione. Mentre ras Seyum partiva da Napoli, il capo dei dancali, il sultano Mohammed Yayo era arrivato a Roma e là gli era stata concessa un’udienza dal Duce, al quale aveva offerto un hatoilly, un tappeto tradizionale tessuto — ironico a dirsi — per l’ex-Imperatore. La nuova politica, dunque, consisteva non soltanto nel placare, ma nell’onorare i grandi capi « indigeni », senza però consentir loro, ancora, alcun vero potere. E, fatto ancor più significativo, si ebbe un capovolgi­ mento completo della politica religiosa: un capovolgimento destinato ad avere conseguenze ad assai lungo termine. Il Viceré precedente, Graziani, aveva commesso l’errore di disprezzare e poi perseguitare il clero copto; se avesse evitato questo sbaglio, forse non si sarebbe mai avuta una ribellione, e, senza alcun dubbio, essa non sarebbe mai divenuta così estesa e violenta. La pacificazione si adeguava ovviamente alla nuova politica; e gli ispiratori della nuova politica anda­ rono anche oltre. Non soltanto pacificarono... ma innovarono, e, con le loro innovazioni, fecero saltare i legami che avevano mantenuto la Chiesa etiopica subordinata al Patriarca copto del Cairo, sin dai tempi del conci­ lio di Calcedonia. Cieco e infermo, l’abuna-marionetta, l’abuna Abraham, era morto alla fine di luglio. Il Viceré convocò un Consiglio al quale parteciparono settantadue capi di comunità; e questo Consiglio dichiarò la Chiesa etiopica autocefala e, il 12 settembre, elesse quale metropolita indipendente uno scioano di quarantacinque anni, il liehe Papasat Johannes. Johannes di­ venne così il primo capo etiope ed eletto da etiopi della Chiesa etiopica, associando in sé le due cariche di abuna e di echege; festeggiò la propria nomina consacrando quattro vescovi (per lo Uollo, lo Scioa, il Goggiam e l’Eritrea) e aggiunse insulto ad offesa consacrandone un quinto, cinque mesi dopo, destinato ai monasteri di Gerusalemme, ove si erano riuniti i profughi. Come è logico, dal Cairo piovvero le scomuniche; e le impreca­ zioni da parte del vero abuna, Kyrillos, e dell’echege GabreGiorgis a Geru­ salemme. Ma non v’è dubbio che una certa impressione era stata fatta; e non v’è dubbio, neppure, che la tradizione in seguito alla quale soltanto un monaco egiziano poteva diventare abuna e soltanto il Patriarca poteva consacrare vescovi etiopi era stata spezzata, e quasi definitivamente inva­ lidata. Una parte bizzarra a impersonarsi da parte del Viceré, la parte di un Enrico Vili dei nostri tempi. Ma Enrico Vili non era mai stato benvoluto 2. Vi furono altri indizi di un mutamento di politica. Cinquecento ettari di terra nello Uag, appartenenti al defunto Hailé Chebedde, erano stati 284

« concessi » al Maresciallo Badoglio; gli uffici del Viceré promulgarono un decreto contenente sedici articoli che ne limitavano lo sfruttamento e, in effetti, li privavano di ogni vero valore per il proprietario assente. Molti prigionieri, furono liberati a Danane e altrove e poterono fare ritor­ no alle loro case. E vennero impartiti ordini ai comandanti sul campo di evitare « gravi atti illegali », come due esecuzioni sommarie nello Scioa occidentale. « Gli atti di questo genere hanno causato, lo scorso anno, una rivolta, con le note conseguenze e ripercussioni. » La nuova politica, e le critiche contro quella precedente, erano state riassunte in una analisi trasmessa al Ministero il 29 maggio. Sembra che questa analisi non esista più; ma si conosce la reazione di Teruzzi. Egli approvò, e i suoi collaboratori compilarono un elenco riassuntivo degli errori commessi dal regime precedente, come segue: 1. Aveva distrutto la savia organizzazione del 1936 basata su pochi capi realmente importanti, sostituendoli con troppi uomini insignificanti, fatti venire quasi sempre dall’Eritrea. 2. L’amministrazione della giustizia era pessima. 3. Non vi era stato alcun potenziamento dell’attività economica. 4. Non si era asso­ lutamente capito il problema religioso. 5. Si erano avuti eccessi in fatto di provvedimenti arbitrari e rigorosi, e troppe confische di terre. 6. Ita politica razziale era stata identificata con i maltrattamenti e l’asservimento. Queste critiche erano ovviamente valide; e si stavano compiendo seri sforzi per porre rimedio a ognuno degli errori commessi in precedenza, sforzi che sembravano poter avere successo, con il tempo. Il solo punto riguardo al quale sembrava non esservi alcun progresso era il punto 3. concernente l’attività economica. E appariva manifesto che l’attività eco­ nomica difficilmente avrebbe potuto svilupparsi fino a quando il paese non fosse stato quasi totalmente pacificato e reso sicuro. Il 1939 non fu un anno di grandi spargimenti di sangue in Etiopia. Il 1936 aveva assistito alle grandi battaglie e ai grandi stermini; il 1937 era stato l’anno dei massacri; il 1938 quello del dilagare della ribellione e delle colonne punitive. Ma il 1939 fu relativamente calmo; entrambe le parti, ribelli e forze occupanti, erano, fino ad un certo punto, esauste, entrambe manovravano per assicurarsi posizioni, ma entrambe si mostravano, entro certi limiti, disposte a trattative. Soltanto nel 1941, in effetti, i veri ster­ mini dovevano ricominciare, ma allora, almeno, questo accadde nel corso di un periodo relativamente breve. Nel 1939, in occasione del Mascal, al termine della stagione delle piogge e all’inizio di nuove campagne, il Viceré e i suoi consiglieri militari pote­ rono contemplare l’Impero con un misto di soddisfazione e di scontento. Avevano motivo di essere soddisfatti, poiché la loro nuova politica già sembrava avere un effetto positivo. L’abuna Johannes aveva diramato una lettera pastorale che ordinàva a tutti i capi delle chiese e ai sacerdoti di non benedire i cadaveri di coloro che morivano come ribelli e di non seppellirli in terreno consacrato. Le bande ribelli non si trovavano in 285

nessun luogo all’offensiva; ed erano state evitate spedizioni costose e inu­ tili. Tra i sei governatorati, Harar e Somalia erano completamente calmi; nel Galla Sidamo esisteva una scarsissima attività di ribelli; e in Eritrea le due bande di degiacc Abiye Cassa e di degiacc GabreHiuot Mangascià sul fiume Tacazzé procuravano pochi fastidi, o nessuno. Ma dei due rima­ nenti governatorati, l’Amhara, a parte i centri abitati ove si trovavano guarnigioni, era cjuasi completamente dominato dai ribelli, e, peggio an­ cora, a nord di Addis Abeba, nello stesso Scioa, Abebè Aregai risultava essere potente come non mai; egli stava divenendo il simbolo stesso della resistenza opposta agli italiani. A inquietare soprattutto, alla lunga, era la concomitanza della guerra e delle minacce di guerra in Europa: le accresciute intromissioni di « estra­ nei ». Lettere e agenti entravano di nascosto in Etiopia, soprattutto attra­ versando il lungo confine con il Sudan, e, all’interno del paese, le comu­ nicazioni tra i diversi gruppi ribelli stavano migliorando. Il confine veniva attraversato persino da europei: non che di ciò potessero essere incolpate le autorità inglesi, tutt’altro.

Le iniziative da parte inglese non venivano affatto dalle autorità, ma da un minuscolo eppur molto influente gruppo di amici — i « veterani dell’Etiopia », che si erano trovati ad Addis Abeba prima dell’invasione e che avevano mantenuto i contatti con Hailé Selassié negli anni di esilio; tra costoro si trovavano il colonnello Sandford; l’ex-Ministro ora a riposo Sir Sidney Barton; e, probabilmente — il più attivo di tutti—, George Steer, che era stato corrispondente del Times durante la guerra e aveva sposato una giornalista peruviana nella sede della Legazione durante i giorni di tumulti dopo la partenza dell’Imperatore e prima dell’arrivo di Badoglio. George Steer aveva scritto in seguito un libro eccellente sulla guerra in Etiopia, e un altro, altrettanto brillante, sulla guerra civile spagnola, da lui seguita sempre per conto del Times. La moglie peruviana era morta ed egli aveva successivamente sposato la figlia di Sir Sidney, Esme. I cari ricordi della Legazione, che gli aveva procurato, in un senso o nell’altro, entrambe le consorti, e l’odio contro il fascismo italiano, lo riportarono, quasi, sui propri passi. Si recò a Gibuti nel 1938; e di nuovo nel 1939, quando scrisse due ottimi articoli per The Spectator, degni di nota perché lodavano la preparazione militare francese e l’attività spionistica del Quai d’Orsay 3. Era un atteggiamento bellicoso; ma George Steer non si limitò a scri­ vere. Un mese dopo si trovava a Parigi, ove si incontrò con Lorenzo Taezaz e con un francese a nome Monnier. Il francese condusse Steer « da un certo Ministro », dal quale ottenne i fondi per recarsi, con Lo­ renzo Taezaz, nel Sudan. Quale fosse il compito di Steer, non è chiaro: una sorta di capo dello spionaggio non ufficiale per conto dell’esiliato a Bath sembra essere la spiegazione più probabile. Poi egli tornò in Inghil­ terra e gli altri due si recarono nel Sudan. 286

Paul-Robert Monnier, detto « André », era stato rappresentante del 17° arrondissement nel Conseil Municipal di Parigi dal 1929 al 1933. In pre­ cedenza, si era stabilito nel Marocco; in seguito, a quanto pare, si arruolò nella Brigata internazionale in Spagna. Era nei primi anni della quaran­ tina, una di quelle figure crepuscolari che lasciano dietro di sé una piccola leggenda, probabilmente, in qualche modo, un eroe, o forse un semplice professionista. Lui e Lorenzo Taezaz giunsero a Khartum e, alla fine di luglio, nascondendosi a Malakal, sfuggirono alla sorveglianza del Commis­ sario distrettuale e attraversarono il confine a dorso di cammello. A Mon­ nier si accompagnarono due altri giovani etiopi, in seguito notabili, Getahum Tessemà e Assegna Araya. Mentre essi entravano nell’Etiopia, un altro dei leali seguaci dell’Impe­ ratore, Gabré Mascal « il Senza-fili », ne usciva. Era rimasto per un anno e mezzo nel Goggiam, soprattutto con degiacc Mangascià Gimbirre, ed ora se ne andava perché la sua corrispondenza con i profughi nel Sudan e, per il loro tramite, con l’Imperatore, era stata interrotta dagli inglesi. Molte volte egli aveva mandato lettere; ma i messaggeri non erano mai tornati. In quel periodo il confine veniva attraversato continuamente in entram­ bi i sensi ; Essayas e un gruppo di uomini lo avevano attraversato per por- /" tarsi nel Beghemder, Blatta Taklè UoldeHauariat li aveva seguiti, e Mesfin Silescì si era recato nel Goggiam meridionale. Inoltre esisteva tutta una rete di sostenitori locali: il fitaurari Uorku di Kuara, subito a sud della guarnigione italiana di Metemma; e, più a nord, vicino a Gallabat, un prete famoso, Abba Qirqos; poi, in prossimità del confine, un balabat a nome Kuaya Hailù. La tradizione amarica nomina non uno ma ben quattro europei ai qua­ li Kuaya Hailù diede ospitalità. Monsieur Indreas, Monsieur Johannes, Monsieur Paul e Monsieur Pietros. Monsieur Indreas è ovviamente « An­ dré », vale a dire Monnier. Gli altri tre sembrano essere stati italiani che avevano adottato noms de guerre francesi; a quanto pare, si trattava di comunisti esiliati e inoltre di ex-appartenenti alle Brigate internazionali: si chiamavano Velio Spano, Ilio Barontini e Rolla*. GabreMascal si tro­ vava a Khartum quando « Monsieur Paul » uscì di nuovo dall’Etiopia; inviato, a quanto pare, da Monnier. Il funzionario dell’Intelligence a Khartum tentò di mandarlo indietro, se non altro per liberarsi di un individuo indesiderabile. « Devi andare con il tuo padrone. » « Non ho alcun padrone » fu la risposta di ’’Monsieur Paul” « tranne Sua Maestà Imperiale. » Tutto ciò era molto imbarazzante per le autorità inglesi locali, che fa­ cevano del loro meglio per evitare di provocare gli italiani; esse, in ogni caso, non avevano dubbi riguardo al responsabile. Khartum riferì che tre spie « molto dilettantesche » erano state mandate dal Comandante in capo * Gli italiani erano comunisti del PCI, inviati dall’Internazionale comunista, che si unirono ai ribelli, e in seguito alle forze imperiali per organizzare una resi­ stenza politica agli italiani.

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francese, generale Gamelin, all’insaputa del Quai d’Orsay, e stavano cau­ sando grande imbarazzo al Commissario distrettuale di Gedaref. « Natu­ ralmente, la cosa è imbarazzante all’estremo per i nostri rappresentanti nel Sudan, che si sono strettamente attenuti alle istruzioni del Governo di Sua Maestà, di astenersi da ogni atto tale da potei’ irritare gli italiani. » Naturalmente, inoltre, gli italiani sospettavano che tutto ciò avvenisse « con la nostra complicità ». « Una situazione davvero allegra » commentò Sir Miles Lampson dal Cairo, ove presumibilmente aveva deciso di accer­ tarsi che il generale Wavell non giocasse tiri del genere. La notizia della morte di Monnier venne accolta pertanto con conside­ revole sollievo a entrambi i lati del confine. Egli morì I’ll novembre, nell’Ermacioccò, di malaria; ma non prima di avere scritto una lettera, o piuttosto un lungo rapporto, a un suo « con­ tatto » a Parigi4. Il Foreign Office entrò in possesso del rapporto; i fun­ zionari rimasero scettici per quanto concerneva la rivolta armata univer­ sale che Monnier riteneva imminente, e ancor più scettici per quanto concerneva le notizie di lui sulla popolarità dell’ex-Imperatore. « Con la stessa rapidità con cui i ras di un tempo sono stati fatti oggetto di di­ sprezzo, l’Imperatore è divenuto un personaggio mistico dal quale l’etiope sente che dipende il suo benessere » egli aveva scritto. Il « colonnello André Monnier » venne decorato alla memoria dal Re dei Re nell’aprile del 1945, contemporaneamente a Orde Wingate. Un episodio curioso e inconcludente; ma che sembra dimostrare come, nel 1939, Hailé Selassié non fosse tanto inattivo quanto sembrava esserlo. Egli aveva già un altro dei « suoi » inglesi situato al Cairo; infatti, nel mese di settembre, dietro consiglio degli ufficiali addetti alle informazioni, il generale Wavell tolse « Dan » Sandford dalla cattedrale vicino a Guldford e lo fece venire al Cairo affinché organizzasse, nel Comando del Medio Oriente, i piani di una rivolta. Là, dopo vari scontri con funzionari locali del Sudan, venne in ultimo a riposare GabreMascal, e fu persino, proba­ bilmente per ordine di Sandford, portato in giro con un’automobile del­ l’Ambasciata inglese. Allegria al culmine. Tuttavia, egli si rifiutò di con­ segnare il proprio rapporto agli inglesi: era destinato agli occhi di Hailé Selassié e soltanto ai suoi. Un uomo cocciuto, GabreMascal, ma troppo prezioso come tecnico perché si potesse lasciarlo andare di nuovo alla deriva. In ultimo, egli consegnò il rapporto (che si riferiva anche a una grande quantità di corrispondenza rubata nei sacchi postali italiani) a un altro etiope giunto al Cairo quell’autunno: Lorenzo Taezaz. Lorenzo Taezaz si era limitato ad accompagnare Monnier al di là della frontiera. Si recò a Bath con il rapporto; e comunque, nel marzo del 1940, si trova­ va di nuovo a Londra.

Quanto Lorenzo Taezaz aveva riferito, può essere soltanto supposto. Ma è logico supporre che, da esperto nell’arte della diplomazia, egli aves­ se dedicato gran parte del suo rapporto alla situazione non tanto all’interno 288

dell’Etiopia quanto a Khartum, e una parte di esso per spiegare l’insucces­ so di quella che, probabilmente, era stata la sua missione. Infatti, dal punto di vista di Hailé Selassié, esisteva un uomo pericoloso a Khartum; up uomo pericoloso che stava diventando ancor più perico­ loso. Costui era Blatta Taclè Uoldeauariat. Si ricorderà che, dopo varie avventure e disavventure, e dopo due anni di resistenza abbastanza attiva, un gruppo di circa duecento amhara aveva attraversato la frontiera nel giugno del 1938 e si era rifugiato nel Sudan. I due capi del gruppo, Blatta Taclè, il cortigiano, e Mesfin Silescì, l’uf­ ficiale della guardia del corpo, erano entrambi uomini energici e godevano fama di buoni combattenti e patrioti; nessuno ha mai insinuato che dal­ l’uno o dall’altro fossero state prese sia pur soltanto in considerazione le offerte degli italiani affinché «passassero dalla loro parte », per quanto allettanti potessero essere. Ma, mentre Mesfin Silescì si limitava ad esse­ re leale, Blatta Taclè era un rivoluzionario nato, un uomo ricco di fascino, di intelligenza, e animato da una grande ambizione. Fu il solo coetaneo di Hailé Selassié che, nel corso di tutta la sua lunga esistenza, si dimostrò disposto a opporsi apertamente ad un uomo il cui potere e la cui influen­ za risultarono sempre superiori al potere di cui egli disponeva e all’ina/ fluenza che poteva esercitare. Alcune delle sue azioni sembrano sconside­ rate, alcuni suoi atteggiamenti possono apparire contradditori, eppure egli fu, senza alcun dubbio, il più originale dei capi della sua generazione; il genere di uomo che può infiammare di entusiasmo i più giovani, un de­ magogo, forse, ma senza dubbio un non conformista. Durante tutta la vita, pagò per il suo non conformismo; egli ormai non vive più, essendo perito di una morte violenta ed eroica nella vecchiaia, quando era nella settantina. Mesfin Silescì divenne alfine ras, governatore dello Scioa e probabilmente, dopo l’Imperatore, l’uomo più potente e più ricco del­ l’Etiopia. Mesfin Silescì, dunque, e Blatta Taclè, e i cadetti che si trovavano con essi, e i loro seguaci, si erano stabiliti a Khartum, vivendo misera­ mente, complottando per ritornare, ma disperando, e a ragione, dell’aiuto inglese. Sembra che Blatta Taclè, il quale non fu mai uomo da accettare una situazione negativa senza tentare di porvi rimedio, disprezzando gli inglesi si fosse rivolto ai francesi: e si fosse rivolto alla Francia non sol­ tanto per ottenere aiuti, ma per trovare una filosofia. È improbabile, in­ vero, che sia stato aiutato: viveva infatti molto poveramente, il denaro che c’era andava a Mesfin Silescì e ai suoi seguaci, e sembrerebbe, a giudicare dall’episodio Monnier, che gli « agenti di Gamelin » fossero in effetti uomini di Hailé Selassié. Ma la filosofia era ancor più inebriante del denaro, per un etiope: Blatta Taclè si convertì all’idea de «.la Ré­ publique ». Blatta Taclè e i suoi seguaci — poiché tra i cadetti e nel gruppetto di ufficiali che erano stati addestrati a St. Gyr egli aveva dei seguaci — scris­ sero alle autorità francesi chiedendo aiuto e guida. Queste lettere furono copiate da Mesfin Silescì e spedite a Bath, ove causarono un conside289

revoie sgomento. Sebbene sia un altro paio di maniche stabilire se Blatta Taclè sperò mai seriamente di poter imporre una forma di governo repubblicano a uno Stato monarchico da millenni. In ogni modo, Hailé Selassié prese sul serio la minaccia, soprattutto quando venne a sapere che Blatta Taclè, con il figlio decenne Sime e un piccolo gruppo di seguaci, era partito da Khartum e aveva attraversato il confine entrando nell’Ermacioccò, presumibilmente per predicare il nuo­ vo vangelo.,Le date e la sequenza precisa degli eventi sono in questo caso oscure, ma sembra abbastanza chiaro che Hailé Selassié inviò Lorenzo Taezaz con lettere sulle quali aveva apposto il suo sigillo e con ordini di sventare i piani di Blatta Taclè; e, al contempo, ordinò al leale Mesfin Silescì di attraversare il confine più a sud, portandosi nel Goggiam, per impedire che il contagio si diffondesse da quella parte. Contemporaneamente, un piccolo gruppo avanzato di seguaci di Blatta Taclè, guidati dal cadetto Essayas, precedette gli altri penetrando in pro­ fondità nel Beghemder.

Anzitutto, e quel che più contava, constatarono di poter circolare più o meno liberamente - entro determinati limiti. Altrettanto potevano fare i nemici, gli italiani — anch’essi entro determinati limiti. Gli italiani occupa­ vano le città: Gondar, la capitale, ove governava il generale Frusci; Debrà Marcos nel Goggiam e Debrà Tabor nel Beghemder vero e proprio; e tutta una sequela di più piccole cittadine e di villaggi e di forti e posti di guarnigioni tra esse. Gli italiani dominavano anche le strade — poiché i ribelli avevano quasi rinunciato ad attaccare le autocolonne ormai pe­ santemente armate. Ma, a parte le cittadine e i forti e le strade, gli italiani dominavano soltanto il territorio sul quale si trovavano; e poiché le loro marce e contromarce di colonne dell’anno precedente erano cessate, ciò equivaleva a ben poco ed era molto temporaneo. Persino le bande aveva­ no accettato una forma di quasi pacifica coesistenza: erano in contatto con i capi ribelli locali e spesso vendevano loro armi e munizioni. I com­ battimenti continuavano, ma erano sporadici, perché l’entusiasmo dei ri­ belli si affievoliva e anche la guerra in Europa, da tempo promessa, non faceva, contrariamente alla propaganda degli emissari, alcuna differenza. Inoltre, come corollario, constatarono che le loro lettere e i loro mes­ saggeri potevano circolare altrettanto liberamente. Essayas manteneva una fitta corrispondenza con Blatta Taclè e Blatta Taclè era in contatto epi­ stolare con il suo vecchio compagno Abebé Aregai nello Scioa. E circola­ vano non soltanto lettere, ma anche « giornali », fogli di notizie. Un prete, Abba HapteMariam, era famoso perché viaggiava continuamente tra lo Scioa e il Beghemder con i fogli di notizie sullo Scioa... e mai a piedi, ma sempre su autocarri italiani. E, sebbene in pratica non esistessero più ap­ parecchi radio, ormai, venivano fatti circolare anche i quotidiani italiani... e l’intera popolazione veniva così tenuta al corrente degli avvenimenti sia nelle altre parti dell’Impero, sia in Europa. 290

In secondo luogo, constatarono che la struttura del potere si era modifi­ cata e che, inevitabilmente, con la scomparsa di una gerarchia centraliz­ zata si era avuta una frammentazione dell’autorità. Ne conseguiva, in ge­ nerale, che ovunque negli altipiani centrali emergevano capi locali, appar­ tenenti soprattutto, ma non invariabilmente, alla classe dei balabat, alla classe dei possidenti, dei signorotti di campagna. Quasi tutti questi uomini avevano combattuto contro gli italiani agli ordini di Aialeu Burrù; una volta tornati nelle loro terre, a tutta prima si erano, o formalmente, o effettivamente sottomessi, ma soltanto per « ribellarsi » in seguito e impa­ dronirsi di tutto il potere e di tutta l’autorità possibili. I più abili erano stati eletti degiace dai loro uomini: una procedura irregolare, che tuttavia conferiva loro l’importanza e il prestigio di cui avevano bisogno per sosti­ tuire, agli occhi della loro gente, i governanti di un tempo. Alcuni domi­ navano vaste zone; altri si spostavano continuamente nelle campagne con le loro bande. Eppure, in particolare nel Beghemder, questi uomini di quando in quan­ do davano prova di una notevole capacità di organizzazione e persino di collaborazione. Il Beghemder differiva in misura significativa dal Goggiam: nel Goggiam esistevano quattro importanti capi ribelli, ciascuno con un suo territorio con i suoi seguaci, con la sua gerarchia, e tutti, inevitabil­ mente, rivali. Nel Beghemder (e lungo i suoi confini) c’era un numero di gran lunga maggiore di capi e, piccoli o grandi, tutti tendevano ad agire indipendentemente, la qual cosa significava che le loro alleanze e inimi­ cizie intestine cambiavano spesso; ma significava altresì che non veniva a formarsi nessun compatto blocco rivale e che, a volte, questi capi poteva­ no essere capaci di un’azione comune. Ad esempio, nel Beghemder, i ri­ belli avevano istituito una tassazione più o meno sistematica; e il riforni­ mento dei viveri era organizzato di gran lunga meglio. Non così nel Goggiam, e ancor meno nello Scioa, ove soltanto una minoranza della popolazione si trovava in armi o era disposta a dare il proprio appoggio attivo. Nell’Amhara, tutti i contadini erano potenziali ribelli.

I primi « ribelli » incontrati dagli emissari furono i piccoli capi locali di confine come il fitaurari Uorku di Kuara. Quando si addentrarono nei bassipiani, essi stabilirono contatti con altri capi minori, finché, in ultimo, avanzando sugli altipiani, incontrarono i signori della guerra che si van­ tavano di poter radunare bande di decine di migliaia di uomini. Le terre di confine dell’Ermacioccò erano dominate da Uobné Tessemà, noto come « Amorau », « l’Aquila », in parte per la ragione che continuava a spostarsi, e in parte in seguito ad un particolare exploit, quando aveva ucciso un gruppo di soldati nemici sparando, come un cecchino, dalla cima di un albero. « Un uomo dall’aspetto imponente, piuttosto giovanile e di bell’aspetto, ma alquanto malato », come venne descritto in seguito da un ufficiale inglese 5, Uobné Amorau era spalleggiato dal fratello, « ligg » Hagos, « volonteroso ed energico ». 291

Sempre nei bassopiani si trovavano due capi minori, Birré Zegaie, « gio­ vanissimo, molto simpatico, non troppo imponente », che aveva l’ambizio­ ne di occupare la posizione del defunto degiacc Uondossen Cassa quale governatore del Beghemder, e Aiane Chekol. Sugli altipiani, nell’interno, c’erano tre capi potenti: Mesfin Redda nello Uolkait, Adane Maconnen nello Tsegghedé, e Negasc Uorkiné nel Semien. Il fìtaurari Mesfin Redda veniva descritto come « un bel vecchio, alto, dai capelli grigi, cortese... l’etiope più imponente ch’io abbia mai veduto ». « Non si dava arie », era religiosissimo e smontava continuamente per baciare la croce incontrando un prete. Quanto al potente Adane Maconnen, doveva colpire l’osservatore arri­ vando con l’accompagnamento di squilli di tromba e seguito da una scorta numerosa. « Aveva l’aspetto di un uomo forte... non posso dire che mi abbia ispirato molta fiducia... sebbene sembri avere una personalità deci­ sa ». Nel febbraio del 1940, i suoi uomini uccisero il maggiore Loy, co­ mandante del 14° Battaglione indigeno. Negasc Uorkiné, balabat di Beida, si faceva chiamare Principe del Se­ mien, la regione montuosa confinante con il Lasta e lo Uag. Persuaso a ribellarsi dal giovane figlio del decapitato Hailé Chebedde dello Uag, in seguito litigò con lui... a tal punto che un’accesa battaglia venne combat­ tuta tra i seguaci dei due capi, e molti uomini rimasero uccisi. Ligg Uossené e i montanari dello Uag attraversavano continuamente il Tacazzé per attaccare gli avamposti italiani del Commissariato di Socotà, ove, nell’autunno del 1939, lui e i suoi uomini decimarono il 24° Battaglione indigeno e ne uccisero il comandante, il capitano Tedesco, anche se lo stesso Ligg Uossené rimase gravemente ferito. Insieme a Ligg Uossené si battevano sua madre, la vedova di Hailé Chebedde, Uoizeró Isceuanisc, e il fìtaurari Hailù Kibret, luogotenente di suo padre. Il fitaurari Hailù Kibret era un sostenitore talmente fanatico di Hailé Selassié che portava sempre con sé un ritratto dell’Imperatore ed era solito co­ stringere i contadini a inginocchiarsi e a baciarlo. Questo gli giovò ben poco quando fu impiccato per ordine di Hailé Selassié, molti anni dopo. Più a sud, a est del lago Tana, sui monti intorno all’ex-capitale del Beghemder, Debrà Tabor, un altro gruppo di capi ribelli molestava la guarnigione italiana del colonnello Angelini. Il più importante di quei capi era il degiacc Dagneu Tessemmà; e gli altri avevano con lui rapporti di parentela. Gli italiani misero insieme, su Dagneu Tessemmà, un dossier che in ultimo cadde nelle mani degli inglesi. Giovane (nato nel 1908), intelli­ gente, coraggioso e disciplinato, egli aveva combattuto con il degiacc Aialeu Burrù e si era sottomesso, come il suo capo, dopo la caduta di Gondar; e non soltanto si era sottomesso, ma aveva deciso di arruolarsi nella banda locale, ottenendo anche la nomina a funzionario. Sua madre aveva sposato, en deuxiemes noces lo stesso Aialeu Burrù; sarebbe stato logico aspettarsi, pertanto, che egli fosse estremamente leale come la sorella « una donna 292

colta e intelligente che ha studiato in F rancia » e come il fidatissimo co­ gnato, degiacc Bezibé Zellecà. Ma Dagneu Tessemà aveva sposato la figlia del fitaurari Asfau Boggolà, che era stato cagnasmacc di Aialeu Burrù. Il fitaurari si ribellò; e nel giugno del 1938 suo genero lo imitò, conducendo con sé i fratelli, il balambara Asfau Tessemà, il cagnasmacc Iman Tessemà, e il fitaurari Be­ lai Tessemà. Attaccò il forte di Ifag « infliggendo gravi danni con la mas­ sima crudeltà », tese imboscate alle autocolonne sulla strada e si batté in due accese battaglie nel novembre del 1938, la prima contro la colonna del colonnello Solinas, poi contro lo stesso generale Mezzetti.

Tuttavia, vi fu, in questo settore del Beghemder, un’ulteriore e insolita complicazione: la presenza di ancora un altro figlio di Ligg Yasu, questa volta non un ragazzo, ma un giovane, Ligg Johannes. E, come sempre, la presenza di un figlio di Ligg Yasu significava la presenza di un preten­ dente al trono. Assai più degli altri figli di Ligg Yasu - troppo lontani dal centro, come Ligg Girma e Ligg Menelik, o troppo giovani, come « il piccolo Negus » — Ligg Johannes divenne il punto focale di diversi intrighi politici. Quando Essayas giunse nella zona, gli italiani avevano migliorato l’offerta origina­ ria di un titolo onorifico e stavano offrendo a Ligg Johannes non soltanto il governo del Beghemder come una sorta di protettorato, ma altresì armi, denaro e una corona... tutte offerte alle quali Ligg Johannes aveva opposto un rifiuto 6. Le trattative continuarono... fino a un certo punto. Il punto nel quale cessarono riuscì quasi fatale ai negoziatori italiani: essi avevano commes­ so l’errore di fidarsi troppo ciecamente dei ribelli, e cinque ufficiali italiani, compreso il colonnello Boneli di Gondar e lo stesso colonnello Angelini di Debrà Tabor, erano caduti nelle mani di degiacc Dagneu. Si trattava di un grande trofeo e i capi ribelli di tutto il Beghemder si riunirono. Sembra che i negoziatori italiani fossero stati ammanettati perché le loro proposte — le quali miravano essenzialmente alla cessazione immediata degli attacchi dei guerriglieri, con l’autonomia locale e aiuti come esca — non erano state giudicate abbastanza vantaggiose; e sembra inoltre che uno di loro avesse peggiorato di gran lunga la situazione vantandosi e dicendo che il governo italiano poteva distruggere il Belesa (la regione di Dagneu) in un giorno. In tal caso, domandò Dagneu Tessemà, alquanto ragionevolmente, perché gli italiani non lo avevano già fatto? I cinque sfortunati ufficiali furono tenuti sotto sorveglianza mentre il loro fato veniva discusso. Birré Zagaie voleva ucciderli, ma un altro capo, più moderato, fece rilevare che, siccome erano stati mandati per una mis­ sione di pace e non catturati in combattimento, non dovevano essere uc­ cisi, ma tenuti in ostaggio. In cambio della loro liberazione, Dagneu e gli altri capi che si trovavano con lui chiesero lo sgombro di Debrà Tabor, 293

di Ifag e di altri fortini; gli italiani avrebbero dovuto abbandonare le armi come pegno della loro buona fede. Il comandante locale accettò — purché prima fossero stati liberati i cin­ que ostaggi. Una situazione di stallo. In tale situazione venne a inserirsi un nuovo fattore con l’arrivo di Es­ sayas, che precedeva Blatta Taclè. Blatta Taclè aveva mire più ambiziose: i suoi scopi erano, come li riferì Mesfìn Silescì in una lettera inviata a Bath, in primo luogo impedire a Ligg Johannes sia di proclamarsi Imperatore, sia di accettare di essere proclamato Negus dagli italiani e, una volta ottenuto ciò, in secondo luogo, servirsi di Ligg Johannes come di un uomo di paglia per istituire la Repubblica — se necessario con la connivenza italiana. Ma perché proprio Ligg Johannes? Perché Blatta Taclè ovviamente si rendeva conto che, come in tanti paesi dalle tradizioni monarchiche, sol­ tanto con l’aiuto e l’approvazione di un pretendente di sangue reale sareb­ be stato possibile istituire una repubblica. E così Essayas cominciò a trattare con gli italiani, e non già con i co­ mandanti locali, ma con il generale Frusci a Gondar. Presentò le richieste iniziali sotto forma della domanda di una federazione e, a quanto pare, riuscì a fare approvare il suo punto di vista da quasi tutti i capi riuniti nel Belesa. La risposta data da Gondar fu ferma: se i « patrioti » giunti dal Sudan avevano bisogno di armi o denaro, armi e denaro avrebbero avuto. Ma qualsiasi forma di federazione, no: questo era assolutamente impossibile. E le trattative furono interrotte mentre il generale Frusci riuniva sedici battaglioni e numerose squadriglie di aerei e si accingeva ad attaccare.

Blatta Taclè riuscì a preparare un documento per la Società delle Na­ zioni nel quale erano espressi i desideri di circa novecento capi « patrioti » per quanto concerneva la forma del futuro governo in Etiopia. Uomo che non si era mai arreso di fronte alle difficoltà, egli aveva rinunciato, almeno temporaneamente al suo piano su Ligg Johannes. Un documento di questo genere era ancor più importante di quanto lo fosse stata la richiesta di un protettorato inglese da parte della « Federa­ zione Galla » nel 1936, e poteva risultare di gran lunga più minaccioso per la posizione dell’exTmperatore. Sembra che Hailé Selassié ne fosse venuto a conoscenza con sorprendente rapidità. Egli inviò una lettera piuttosto blanda con il suo sigillo, firmata dal proprio segretario personale UoldeGiorgis, che condannava le tendenze repubblicane come « un concetto estraneo, tale da porre in pericolo il progredire dell’Etiopia verso la liber­ tà » ; scrisse inoltre lettere meno blande a molti dei capi, attaccando il repubblicanesimo come concetto, ma ammettendo — una concessione scal­ tra — che potevano esservi imperatori rivali, più di lui meritevoli del trono, e impartendo istruzioni segrete di gran lunga più drastiche. Lorenzo Tae294

zaz ricevette Pèrdine di attraversare il confine, probabilmente per far circolare le lettere e per impartire queste istruzioni. Nei mesi di giugno e luglio, Blatta Taclè tornò nel Beghemder. Poi, ai primi di luglio, il suo campo venne circondato ed egli stesso fu fatto pri­ gioniero dagli uomini di Uobné Amorau. A Uobné Amorau erano state infatti impartite istruzioni segrete, semplici e definitive: Blatta Taklè do­ veva essere arrestato e impiccato pubblicamente nella piazza del mercato. L’impiccagione era prevista per il 12 luglio; e Uobné Amorau consegnò il prigioniero a suo genero, Abbai Belai, affinché eseguisse la condanna. Ma poi le cose andarono male: stando alla leggenda, il figlio di Blatta Taclè, Sime, fuggì e andò in cerca di aiuto; Abbai Belai rifiutò all’ultimo momento di eseguire gli ordini del suocero; e, chiamati dal ragazzetto, Aiane Chekol e i suoi uomini accorsero poi, nello scontro che seguì, libe­ rarono il prigioniero e bruciarono la casa di Ligg Hagos. Ma anche se l’impiccagione — ammesso che fosse mai stata seriamente voluta — non ebbe luogo, e se Blatta Taclè rimase per parecchi altri mesi nell’Ermacioccò, il suo prestigio ne era uscito scosso e i suoi trucchi con il telefono da campo che si portava dietro, fingendo di comunicare con l’Im­ peratore, per impressionare il popolino, e i titoli nobiliari potevano consi­ derarsi finiti; e il breve episodio della progettata Repubblica si concluse. Il governatorato dell’Amhara tornò alla condizione di un’anarchia semi­ organizzata, con l’equilibrio tra le forze contrapposte appena turbato dalle nuove tattiche che Essayas ed altri come lui stavano adottando con suc­ cesso: scorrerie notturne e l’uccisione selezionata, durante la notte, di uf­ ficiali italiani. Quanto agli italiani, effettuarono rappresaglie incendiando case e uccidendo animali dappertutto nel Belesa.

Altrove, gli italiani avevano avuto più successo. A sud della capitale, nella regione tra Addis Abeba e Gimma, il temuto Olona Dinkel era stato ucciso7; una donna mise del veleno nel suo kosso e il marito di lei gli sparò e lo fulminò. I due, sembra, pretesero la taglia di cinquantamila lire, e quando gli italiani ne esposero il cadavere in pubblico, i lunghi ca­ pelli scompigliati dal vento Io fecero sembrare ancora vivo e tutti fuggi­ rono inorriditi. Il generale Nasi, cogliendo l’occasione, lanciò proclami nei mesi di mag­ gio, giugno e luglio, alle popolazioni di Biscioftù e Bulga, invitandole a consigliare ai ribelli rimasti di sottomettersi e promettendo il perdono, la libertà, la restituzione dei beni e, particolare abbastanza interessante, la possibilità di arruolarsi nell’esercito. « Il perdono del governo è generoso come quello di Dio. Tutti sanno che è così. » I tempi erano senza dubbio cambiati da quando Graziani e lo stesso Nasi avevano, sebbene a malin­ cuore, giustiziato tutti gli amhara eminenti venuti a sottomettersi nei pressi di Harar. La copia di uno di questi proclami pervenne al Foreign Office. Eccone la perorazione: « Che questi personaggi illuminati scompaiano dunque

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dalla scena, coloro che aspettavano aiuti ’’domani” dall’estero, sebbene questo ’’domani” si protragga ormai da quattro anni e non possa mai giungere, nemmeno quando i bambini ancora nell’utero delle loro madri avranno veduto le loro barbe diventare bianche per la vecchiaia ». « L’eloquenza del generale Nasi ha un bello stile da ostetrico » annotò un funzionario del Foreign Office. Gurassù Duché, comunque, l’unico ri­ belle superstite di qualche importanza da quelle parti, non si presentò. A preoccupare Nasi, tuttavia, non era, e non era mai stata, la situazione a sud della capitale, bensì la situazione a nord, nell’Ancoberino, ove ’’ras” Abebé Aregai e i suoi seguaci che, l’anno prima, avevano resistito a tutte le colonne inviate ad eliminarli, continuavano adesso a essere altrettanto impervi a tutte le lusinghe e le promesse del generale. Il fenomeno Abebé Aregai non sconcertava soltanto Nasi, ma anche Hailé Selassié. Lo Scioa era, a tutti i fini pratici, fuor di portata dei suoi emissari nel Sudan, ed egli non sapeva proprio che cosa pensare del suo ex Capo della polizia autopromossosi ’’ras”. Lo dimostrano due lettere che Hailé Selassié indirizzò ai « patrioti dello Scioa », nel 1939, rispon­ dendo a lettere ricevute da loro e che non sono rimaste. Le lettere del­ l’Imperatore sono blandamente incoraggianti nel tono, danno buoni con­ sigli e promettono preghiere. Il loro interesse risiede più nella forma che nel contenuto. La prima, datata 4 gennaio, è indirizzata da « Hailé Selassié I, l’Eletto di Dio, Imperatore di Etiopia » a « Degiacc Mangascià Uossen, al balambaras Abebé Aregai, al fitaurari Zaudi Abba Kora e a tutti i nobili e il popolo intorno a voi ». La seconda, datata 28 giugno, è indirizzata a « Ras Abebé Aregai, a degiacc Auraris, a degiacc Mangascià Uossen, a degiacc Hailé Uolde Mehdin, al begerond Latibelù Gabrè, al cagnasmacc Abebé Auraris, a kantiba Kibret Hailé Selassié e a tutti quei nobili, patrioti e uomini gio­ vani e vecchi che si trovano intorno a voi e con voi ». È accompagnata, inoltre, da una lettera personale diretta a « Ras Abebé Aregai », che si congratula con lui per la sua elezione. Il significato è chiaro: tra gennaio e giugno, Hailé Selassié aveva deciso di accettare Abebé Aregai come capo dei patrioti scioani, di accettare il titolo di « ras » che egli si era autoconferito, e, invero, anche i titoli su­ bordinati che Abebé Aregai sembrava aver conferito ai suoi sostenitori; di accettare, incidentalmente, la posizione di uno dei suoi ex-nemici, de­ giacc Auraris, quale mentore di Abebé Aregai; e, infine, di accettare una « elezione » che doveva essere alla base della notizia pervenuta al conso­ lato inglese all’inizio di quell’anno, e secondo cui Abebé Aregai era stato « nominato » comandante in capo di tutte le forze ribelli, in tutta l’Etiopia. Eppure, Hailé Selassié doveva diffidare profondamente di Abebé Aregai; infatti, l’episodio del « Piccolo Negus » dimostrava come Abebé Aregai non fosse particolarmente leale nei confronti dell’Imperatore esiliato — e in­ vero si era pensato, a un certo momento, che i francesi di Gibuti stessero appoggiando lo stesso Abebé Aregai come candidato al trono. Né Hailé 296

Selassiepoteva essere ignaro del fatto che i rapporti di Abebé Aregai con gli italiani erano ambivalenti. Proprio questa ambivalenza infuriava e incoraggiava al contempo gli italiani. Ripetutamente era sembrato che Abebé Aregai, contro denaro, ti­ toli, armi, onori o potere, fosse sul punto di sottomettersi al regime italiano; la cosa divenne un’ossessione per gli italiani, e in particolare per il gene­ rale Nasi che, come· vice-Governatore generale, era ex Officio Governatore dello Scioa. E il generale Nasi dedicò tutta la sua intelligenza, tutta la sua capacità di persuasione, tutta la sua buona volontà al ricupero di que­ sto ribelle sulla soglia della capitale. Che genere di uomo era Abebé Aregai? « Basso di statura ed esile, con una zazzera di ispidi capelli e una faccia espressiva, assolutamente senza l’aspetto di un capo di briganti » — così lo descrisse un sud-africano che lo conobbe in seguito. Per nascita era un nobile con sangue misto gallaamhara, figlio del nevraid di Axum, nipote del grande generale di Menelik ras Gobana, per preparazione un cortigiano, un funzionario governati­ vo, un poliziotto. Ma quali erano le capacità che gli avevano consentito di raggiungere una posizione così dominante? Sembra che fossero due: l’ostinazione e la prudenza. A quanto pare, egli non ebbe mai esitazioni; ma sembra anche che non si espose mai a inutili pericoli. È superfluo dire che possedeva quplle qualità senza le quali nessun no­ bile etiope poteva sperare di assicurarsi il rispetto di una banda di uomini armati che a quei tempi si riteneva contasse più di quindicimila uomini, o di dominarla: coraggio personale, generosità e il gusto della magnificenza. Godeva, inoltre, di appoggi esterni: l’appoggio dei francesi per il tramite dei loro agenti sulla linea ferroviaria, e l’appoggio di nuovi elementi nella capitale... coloro che, allo scoppio di una guerra generale in Europa, entra­ rono seriamente nella «resistenza», i greci e in particolare gli armeni. Avedis Terzian, figlio del « Bismarck di Etiopia », dirigeva non soltanto una rete di informatori nella capitale che gli riferivano i movimenti e gli atteggiamenti.degli italiani (informazioni successivamente da lui ritra­ smesse nell’Ancoberino), ma anche una tipografia clandestina, ove si stam­ pavano i fogli di notizie scioani molto diffusi tra i ribelli. Con la loro ricchezza, i loro contatti internazionali e la conoscenza delle personalità e delle lingue etiopiche, gli armeni erano una comunità insediata da tem­ po nel paese e la cui opposizione i presuntuosi italiani avrebbero fatto bene a prendere sul serio. Ma torniamo ad Abebé Aregai. Si ricorderà che il 1° gennaio 1931) Mussolini aveva inviato al Duca d’Aosta un telegramma segreto esortan­ dolo a liquidare Aregai prima della stagione delle piogge e che il Viceré si era affrettato a rispondere in modo rassicurante, spiegando come Abebé Aregai fosse stanco e malato e avesse con sé al massimo un migliaio di uomini armati; una risposta che doveva essere ricordata in seguito, come meritava. Eppure, esistevano allora fondate speranze che i ribelli potessero sot­ tomettersi. Cerulli era ancora, nei primi mesi del 1939, vice-Governatore 297

generale, e Cerulli ospitava in casa sua il figlio quindicenne di Abebé Aregai, Daniele, che, rimasto ferito nella sua prima battaglia, era stato sottratto alla morte da un tenente italiano, trattenuto prigioniero... e poi, astutamente e umanamente, accolto nella dimora del vice-Governatore generale, curato, trattato come se avesse fatto parte della famiglia; gli venivano persino passate cinquanta lire al giorno per le piccole spese. Infine, Daniele venne mandato a raggiungere il padre sui monti e a pro­ mettergli un salvacondotto qualora si fosse arreso. Il ragazzo partì su un cavallo bianco; ma non tornò più. Abebé Aregai poteva essere stanco e malato; ma non era un sentimentale. Alla fine di aprile, Nasi sostituì Cerulli, e a tutta prima, a quanto pare, tentò di arrivare a una soluzione più energica. Cinque o sei settimane do­ po, cominciarono a giungere ad Addis Abeba notizie di una feroce batta­ glia nei dintorni di Ancober, conclusasi con la disfatta e la ritirata di sei Battaglioni indigeni; si diceva che le perdite erano state elevate da en­ trambe le parti. Non sembra nel carattere di Nasi avere ordinato questa offensiva (in effetti, può darsi che la decisione fosse stata presa prima della sua nomina e non potesse più essere annullata). In ogni modo, egli passò immediatamente alla guerra dei volantini e inondò l’Ancoberino con of­ ferte di pace lanciate dall’aria. Le trattative che seguirono, anche se protratte a lungo, rasentarono il successo. Al termine della stagione delle piogge, persino la New Times and Ethiopia News, la rivista di Sylvia Pankhurst, ancora mantenuta in vita dalla sua fede quasi fanatica, dovette riferire: « Ras Abebé Aregai ha accettato l’offerta di pace del Viceré ». Stando a tale notizia, pervenuta via Gibuti, Abebé Aregai aveva accettato di governare l’Ancoberino come capo autonomo, oltre alla maggior parte del Mens e del Bulga — quasi tutto lo Scioa settentrionale, in effetti — facendo sventolare la bandiera etiope. Quest’ultima, se vera, costituiva una concessione importantissima: equivaleva, più o meno, a riconoscere uno Stato etiope in miniatura, e coincideva con le voci corse a Londra e a Roma di una mossa ancor più importante: approcci fatti dagli italiani per offrire all’ex-Imperatore di consentirgli di tornare in una posizione subordinata, come governatore indipendente dello Scioa. Il generale Nasi mandò ad Abebé Aregai quattromila chilogrammi di farina di frumento per sfamare i suoi uomini; ed anche, dietro sua richie­ sta, munizioni per sopprimere gli elementi più turbolenti. Il mascal, con le sue cerimonie, venne e passò, e senza dubbio se ne parlò sui monti; sem­ bra che un altro degli ex-grandi, ras Ghetacciù Abate, fosse stato mandato a persuadere Abebé Aregai a scendere dalle montagne. In ottobre, la sot­ tomissione era attesa da un momento all’altro. Ma poi, in novembre, tutto andò storto. Avendo saputo che le truppe si avvicinavano, e sospettando una trappola, Abebé Aregai levò le tende durante le trattative e andò a nascondersi. Si riteneva tuttavia che fosse a corto di armi e che le colonne lanciate al suo inseguimento, una volta fallite le trattative, lo avrebbero finalmente circondato. « Molto denaro ha cambiato mano » notò il conso298

lato inglese « ma il personaggio scellerato (o l’eroe) del dramma è tuttora in libertà. » « Per il momento », si sottintendeva. Poi, il 29 dicembre, il consolato inglese trasmise un nuovo rapporto. Vi era stato un ritorno di Abebé Aregai; in tre diversi scontri egli aveva sconfitto le colonne inseguitrici. Questo trionfo venne attribuito al « bril­ lante » sistema spionistico di Aregai. Il generale Nasi era disperato. Eppure, in dicembre, si riuscì a concludere una tregua: gli italiani die­ dero ad Aregai viveri e denaro, con l’intesa che non vi sarebbero dovuti essere attacchi contro le loro truppe o le autocolonne o i forti. E il gene­ rale Nasi si accinse, una volta di più, a un ulteriore e definitivo tentativo di trattative nel nuovo anno, il 1940. Il 2 febbraio il Ministro dell’Africa Italiana, Teruzzi, giunse per la sua seconda — e ultima — visita all’Impero. Il consolato inglese parve non essere a conoscenza del vero scopo del viaggio. Ne riferì abbastanza fedelmente gli eventi esteriori: le dimostra­ zioni inscenate contro Teruzzi dai camionisti italiani all’Asmara, le voci su un attentato a Gimma, il discorso di lui alle Camicie nere della capi­ tale, durante il quale aveva loro raccomandato di « lavorare e tacere », e il ricevimento offertogli dal Governatore dello Harar, Cerulli, nel cui corso « il generale Teruzzi è sembrato essere di ottimo umore e trovare molto soddisfacenti sia la compagnia femminile, sia i liquori ». \ Ma, pur accennando a una voce secondo la quale il generale Nasi sap­ rebbe potuto essere trasferito a causa della sua incapacità di ottenere la resa di Abebé Aregai, il rapporto sottolineava soprattutto l’aumento del costo della vita, la disoccupazione, e lo scontento, la delusione, persino la disperazione dei coloni e dei funzionari civili italiani, che conseguivano a tutto ciò, nonché l’impopolarità personale di Teruzzi. Sui manifesti affìssi in una parte della capitale, 1’« Evviva il Ministro » era stato modificato in « Abbasso il Ministro! » « Nella grande maggioranza, gli italiani lo odiano, lo disprezzano, e lo criticano apertamente nelle conversazioni con gli stra­ nieri... Egli deve essere mantenuto al suo posto perché è stato uno dei primi a scendere in campo. » Il rapporto accenna brevemente al fatto che Teruzzi avrebbe protratto di quindici giorni il viaggio della prevista du­ rata di un mese per ricevere la sottomissione dei ribelli; ma non dice altro. In effetti, però, il solo scopo del viaggio di Teruzzi era stato quello di ottenere la fine ultima del mito di Abebé Aregai, e di assistervi. Per conseguire tale scopo e per arrivare alla pacificazione completa del paese, il Ministro aveva escogitato un piano più ambizioso, al quale oc­ correva il consenso tanto dei capi religiosi quanto di quelli politici del paese, tanto dei ribelli quanto dei sottomessi. Si trattava, in effetti, del ritorno di Hailé Selassié, che sarebbe stato riportato al potere non già come Imperatore, ma come Negus dello Scioa e come Negus del Tigrai. Sembra che si trattasse di un piano serio, e non soltanto di una festuca per saggiare il vento; una sola cosa non sappiamo, dove, quando, come, 299

da chi — e invero se — il piano venne sottoposto allo stesso Hailé Selassié; né a fortiori quali furono le sue reazioni. È improbabile, tenuto conto della situazione nella quale si trovava, che, se la proposta gli venne presentata, l’abbia respinta. Il fatto stesso che si avanzasse una proposta del genere era, in un certo senso, l’ammissione, da parte degli italiani, del loro in­ successo; e, così stando le cose, non sembra che possa esservi stata l’ap­ provazione di Mussolini... tutt’al più egli potè assentire con riluttanza. Il Ministro, dunque, era arrivato a Massaua il 2 febbraio. Il 10 feb­ braio, il Capo di stato maggiore, generale De Biase, accompagnato a quan­ to sembra da ras Seyum e forse anche da ras Hailù, si recò segretamente nella chiesa di Assagherti sui monti nelle vicinanze di Debrà Berhan e là si incontrò con il capo ribelle ed ebbe una lunga e alquanto parte soddisfacente conversazione con lui, nel corso della quale il progetto del ritorno di Hailé Selassié venne -esposto e, sembra, accolto favorevolmente nelle sue linee generali. Era, questo, il primo incontro tra Abebé Aregai e un generale italiano; il semplice fatto che avesse avuto luogo senza tradimenti né da una parte né dall’altra sembrava un buon segno. Il 20 febbraio, dieci giorni dopo, Nasi inviò sui monti un elenco di concessioni su punti di minore importanza e propose un nuovo incontro una settimana dopo. Correva voce, nella capitale, che Abebé Aregai sa­ rebbe ormai disceso dalle montagne da un giorno all’altro. Il 22 febbraio, Teruzzi, il Duca d’Aosta, Nasi, Biase e due altri ufficiali si riunirono a Villa Italia; fu nel corso di questa riunione che Teruzzi accettò di pro­ trarre il suo soggiorno fino al 16 marzo. Se, entro il 14 marzo, Abebé Aregai non si fosse presentato e non avesse pronunciato il giuramento di fedeltà all’Italia, tutte le trattative sarebbero state abbandonate. Non si nutrivano molte speranze. Due giorni dopo, vi fu un’altra riunione a Villa Italia, alla quale parte­ cipò questa volta anche il Delegato Apostolico, Monsignor Castellani. Egli riferì sulle proprie conversazioni con l’abuna Johannes, che si sapeva de­ voto all’ex-Imperatore, e con gli altri Vescovi; anche in questo caso, gli indizi erano favorevoli. Tuttavia, Abebé Aregai non si presentò al proposto luogo di riunione il 27 febbraio. Gli italiani ancora non disperarono: due vescovi furono man­ dati sui monti e, stando ai loro rapporti, Abebé Aregai e Zaudié Abba Kora giurarono fedeltà al governo sulle croci episcopali... ma giurarono fedeltà a determinate condizioni. Questo accadde il 1° marzo, quando mancavano meno di quindici giorni. L’indomani, il generale Nasi inviò un lungo messaggio, che lievemente rimproverava, e lievemente minac­ ciava, all’« onorato Abebé Aregai », insistendo nel dire che lui e gli altri capi avrebbero dovuto pronunciare un giuramento solenne in chiesa, con la comunione e senza condizioni, o a Debrà Berhan, o, meglio ancora, ad Addis Abeba, il 14 marzo. Invitò Abebé Aregai a non allarmarsi per i movimenti di truppe nello Scioa, truppe « che io impiegherò soltanto contro quei capi e quegli uomini armati i quali non mi forniranno una prova chiara e leale della loro ubbidienza e della loro sottomissione » e 300

concluse facendo appello al senso di responsabilità di Abebé Aregai nei confronti della popolazione sofferente. Il 6 marzo, il generale Nasi diramò quello che doveva essere un ordine del giorno ironico alle sue truppe nello Scioa, sotto l’intestazione « Io vo­ glio degli ascari, non dei predoni ». Era il momento « di agire contro i resti delle formazioni ribelli che, sorrette con assurde speranze da una propaganda straniera molto attiva, non hanno voluto credere alle mie offerte di pace ». Avendo così preparato le sue truppe a possibili com­ battimenti, Nasi continuò esponendo norme di guerra molto precise. Era falso affermare che le truppe coloniali « non possono sussistere senza scor­ rerie ». Di coloro che si erano abbandonati a tali abitudini, « pericolosi portatori di microbi contagiosi » egli aveva già « fatto piazza pulita ed era deciso a continuare ». La morale era la seguente: « Voglio eliminare i ribelli; non voglio crearne di nuovi e di più implacabili ». Non dovevano esservi, di conseguenza, scorrerie, incendi, atti di violenza o maltratta­ menti. Nonostante la tregua, un giovane tenente italiano aveva scambiato un gruppo di uomini di Abebé Aregai, impegnati nel compito pacifico di ri­ scuotere le tasse, per sciftà, catturandone e uccidendone parecchi. A titolo di rappresaglia, Abebé Aregai attaccò Debrà Berhan, infliggendo gravi perdite; e Teruzzi, infuriato, impartì ordini affinché venissero fatti afflui­ re rapidamente rinforzi e si preparassero operazioni militari su vasta scala. L’8 marzo, novanta autocarri carichi di truppe attraversarono la capitale diretti a Debrà Berhan; ventotto battaglioni e l’aviazione stavano ora ac­ cerchiando l’Ancoberino. ' Sembrava quasi essere la fine. Ma Nasi, riluttante ad ammettere che tutti i mesi di pazienti fatiche non erano serviti a nulla, persuase il Mi­ nistro a non impartire immediati ordini operativi; e il 14 marzo, il giorno del giuramento, si recò egli stesso speranzosamente a Debrà Berhan, ac­ compagnato da ras Seyum e dall’abuna Johannes. I capi ribelli non avevano osato recarsi a Debrà Berhan, ma vi era stato uno scambio di messaggi. Gli italiani avevano offerto il prezzo del sangue per la morte dei due nobili uccisi dal tenente italiano, il cagnasmacc Admassé e il barambaras Timtime; ma Abebé Aregai pretese non già il prez­ zo del sangue, bensì l’impiccagione dell’ufficiale responsabile di quell’assas­ sinio durante la tregua, prima che lui e i suoi seguaci pronunciassero il giuramento. Nasi, sempre sperando nonostante tutto, accettò un incontro per la mattina seguente, 15 marzo, sui monti nei dintorni di Ancober. Un uomo coraggioso e ostinato, il generale Nasi. Doveva avere sospettato il tradi­ mento quando Abebé Aregai non si era fatto vivo; e, invero, risulta che riuscì a salvare la pelle soltanto perché « un traditore » (termine etiopico) lo informò che ras Abebé aveva ventimila uomini nelle foreste e si pro­ poneva di impadronirsi di lui durante la cerimonia del giuramento. Presumibilmente, in base ai criteri di Abebé Aregai, questa sarebbe stata la giusta ritorsione per l’assassinio a tradimento dei suoi due uomini. 301

In ogni modo, significò la fine definitiva di tutte le trattative. Sembra che Mussolini avesse provato un gran sollievo; egli mandò un telegramma a Teruzzi, esasperato alla vigilia della partenza, nel pomeriggio dell’indo­ mani, dicendo come la pensava e stabilendo una politica8. Tale politica era la seguente: ricorrere all’azione militare immediata con tutti i mezzi, senza escludere l’impiego dei gas. Non si doveva perdere un solo giorno, aggiunse Mussolini, per molte ragioni, compresa la situazione in Europa. Nel Kenia, i sei battaglioni dei King’s African Rifles erano stati riman­ dati nelle loro guarnigioni del tempo di pace; e quando tre disertori ita­ liani arrivarono su un autocarro a Uagir, nel Northern Frontier District, il nuovo Governatore, Sir Henry Monk-Mason-Moore, si accinse a ricon­ segnarli alle autorità italiane, e non lo fece soltanto perché glielo impedì il Foreign Office. Nel Sudan, Newbold fece sapere ai suoi Governatori che era giunto il momento di « avere più notizie sul Centro Culturale Suda­ nese ». Soltanto al Cairo le autorità militari inglesi adottarono alcuni provvedimenti. Sandford incaricò GabreMascal di scegliere otto profughi etiopi a Khartum e di portarli al Cairo per esservi addestrati come radio­ telegrafisti. Ma tutto si svolse nella massima segretezza; affinché la Lega­ zione italiana in quella città, già allarmata dalla visita in febbraio del nuovo Ministro dei Dominions (« Non ho mai veduto espressioni di incre­ dulità, orrore, e corretta curiosità susseguirsi così rapidamente sulle fat­ tezze di un diplomatico » scrisse Eden a proposito del suo abboccamento con il Ministro italiano al Cairo, Conte Mazzolini), non venisse a cono­ scenza dell’iniziativa, GabreMascal e i suoi allievi furono muniti di tarbusc, un astuto mascheramento allo scopo di farli passare per soldati dell’eser­ cito egiziano.

CAPITOLO SESTO

DOMINE DIRIGE NOS

Mentre gli eserciti tedeschi si riversavano in Francia, l’Italia di Mussolini si preparò a entrare in guerra al fianco della Germania. Era questa la terza volta che tanto i funzionari inglesi quanto quelli italiani nelle colonie africane facevano preparativi di guerra. Nel Sudan, Newbold diramò la sua circolare mensile il 6 maggio : « Di recente si sono avuti certi ’allarmi e certe incursioni’ » scrisse « ... e abbiamo ricevuto dal Cairo e da Londra inviati a stare sul ’qui vive’... La propaganda della stampa e della radio italiana contro gli Alleati non è stata rispecchiata fino ad ora dall’atteggiamento dell’Africa Orientale Italiana o dei suoi fun­ zionari, ma i rapporti amichevoli del 1939 non sono stati migliorati dal­ l’episodio di Nyangatom [scorrerie di indigeni della tribù merlile dal­ l’Etiopia, vicino al lago Rodolfo] né dal modo di agire del funzionario italiano a Gambela nel riscuotere le tasse dai Muer del Sudan, nonostante l’accordo intervenuto lo scorso anno ». Per il momento, però, si trattala ancora di piccole difficoltà locali; poiché, dopo tanti falsi allarmi, né gli inglesi né gli italiani in Africa riuscivano davvero a credere all’imminenza della guerra. A Gallabat, sulla frontiera tra il Sudan e l’Etiopia, la guarnigione locale, la compagnia n° 3 dell’Eastern Arab Corps della Sudan Defence Force, cominciò a costruire la sede del comando, a rinforzare il forte e a proget­ tare trincee, ma tutto ciò senza molta convinzione, osservando gli amici nell’alquanto più importante posto italiano di Metemma, all’altro lato della frontiera, caratterizzato dal letto asciutto di un khor. « Intrattenere rapporti amichevoli e scambiare visite con i propri probabili nemici di domani dev’essere un’esperienza anche troppo familiare per coloro che presidiano le zone di frontiera in Europa » osservò uno degli ufficiali « ma è una cosa alquanto rara per gli inglesi isolani ! » E ripensò alla « travol­ gente ospitalità » degli italiani, alla cordialità del comandante della guar­ nigione, colonnello Castagnola, « un individuo piccoletto, grasso, scuro di pelle, ma gioviale, molto astuto e un ottimo cacciatore »; e al Natale pre­ cedente, che il maggiore Saroldi, comandante in seconda, aveva trascorso con gli ufficiali dell’Eastern Arab Corps nella loro mensa a Gedaref. Saroldi era amato da tutti, portava invariabilmente « immacolati calzoni al ginocchio e stivali da cavallerizzo », e a sua volta era « sinceramente 303

affezionato » agli inglesi conosciuti nel Sudan orientale. Man mano che la guerra si avvicinava, le visite cessarono per reciproco consenso; ma, appena una settimana prima della dichiarazione di guerra, il maggiore Saroldi scrisse una lettera al suo amico bimbasci Cousens: « Sebbene la situazione sia minacciosa » scrisse il maggiore « spero che al mio paese verrà evitata la vergogna di battersi al fianco dei barbari contro i quali io stesso combattevo da ragazzo a diciotto anni ». Non ci si può meravi­ gliare se quello che era chiamato sul posto « l’Asse Gallabat-Metemma » sembrava simboleggiare i veri rapporti tra i funzionari che amministrava­ no le confinanti colonie italiane e inglesi in Africa. Era però l’altro Asse, l’Asse più famoso, quello che stava per essere fatto rivivere. Il 10 maggio, con l’invasione dell’occidente, con la constatazione che la guerra in Europa era una guerra fatta sul serio, e inoltre con la nomina di Winston Churchill a Primo ministro, si era determinata la svolta. Il 16 maggio, ciò nonostante, il nuovo Primo ministro trasmise un mes­ saggio di speranza e conciliante a Mussolini. Il 18 maggio, Mussolini rispose al Primo ministro: « Rispondo al messaggio che mi avete trasmesso per dirvi che senza dub­ bio vi rendete conto delle gravi ragioni di carattere storico e contingente in seguito alle quali i due paesi si sono schierati in campi opposti. Senza risalire molto indietro nel tempo, vi ricordo l’iniziativa presa nel 1935 dal vostro governo di organizzare a Ginevra sanzioni contro l’Italia, impegnata nell’assicurarsi un piccolo posto al sole in Africa senza minimamente mi­ nacciare i vostri interessi e territori o quelli di altre potenze. »

Churchill trovò che se « la risposta era dura. Aveva per lo meno il me­ rito della franchezza ». E avrebbe potuto rilevare che secondo Mussolini la causa profonda dell’imminente conflitto anglo-italiano era la questione delle sanzioni (alle quali Churchill era stato personalmente contrario) e che il Duce lasciava capire come la guerra tra le due nazioni fosse dive­ nuta inevitabile, prima o poi, sin dai tempi in cui erano state divise dalla questione dell’Etiopia, vale a dire sin dal 1936. Era mancata soltanto l’occasione. Il 18 maggio, a Khartum, Newbold scrisse a Margery Perham: «Le buffonate di Mussolini sembrano averlo portato vicino al precipizio... ma io spero che le idee del Papa, del Re e di Ciano prevarranno ». Nel suo diario personale fu più esplicito e meno fiducioso. « Ieri 18 mag­ gio » scrisse « è stato il giorno più tormentoso della mia vita. A giudicare dalle notizie della BBC sulla guerra sembrava che la Francia fosse sul­ l’orlo della sconfitta... « Qui a Khartum abbiamo ricevuto avvertimenti dal Foreign Office e dal War Office che la guerra con l’Italia è imminente. Gli italiani hanno nell’Africa Orientale circa duecentocinquantamila uomini e più di duecen­ to aerei. Le nostre forze sono inferiori ai diecimila uomini e i nostri aerei sono un decimo dei loro. Non disponiamo di cannoni contraerei né, in 304

1937: partenza per il fronte africano. (Moro-Roma)

Ascari e ufficiali italiani oltre il confine etiopico. (Moro-Roma)

Ras Destà

Ras Immirù

Ras Mangascià Atikim

Ras Ghetacciù Abate

Ras Mesfìn

Blattangueta Heroy

Oraziani (Moro-Roma)

Ras Nasibù

L’Imperatore (Moro-Roma)

effetti, di artiglieria. Gli italiani possono prendere Kassala quando voglio­ no. E cosi, probabilmente, Port Sudan e, forse, Khartum. « Ieri mattina sono stato attaccato... per l’assenza di una politica difen­ siva da parte del governo del Sudan, per la mancanza di coordinazione tra esercito e civili, e la mancanza di ’’direttive” in tempi di pericolo. Ho accettato gran parte delle critiche, ma non sono Governatore generale o Caid... « Non avevo mai saputo fino a ieri che cosa fosse la vera ansia... Platt è coraggioso e si dà da fare come un eroe, ma non è molto avvicinabile. La popolazione civile (europea) è amorfa e senza capi e reagisce ad ogni mutevole diffondersi di voci. I sudanesi sono beatamente ignari del peri­ colo, persuasi della potenza Alleata, e considerano l’Italia indegna anche di disprezzo. Potrebbero andare incontro a una sorpresa terribile... Posso soltanto dire: ’Domine, dirige nos’. »

Il 18 maggio, l’entrata in guerra dell’Italia era divenuta inevitabile, e tutti lo riconoscevano. A partire da quel momento rimaneva in dubbio soltanto la data precisa. Restava, naturalmente, anche un altro interrogativo: con la partecipa­ zione dell’Italia alla guerra, il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Africa sarebbero divenuti teatri di operazioni per mare, per terra e per aria. Chi avrebbe vinto questa guerra? Newbold, e come lui tutti gli inglesi nel Sudan, erano pessimisti, non a torto. Ma il quadro generale risultava di gran lunga più favorevole. Le forze dell’Italia oltremare erano concentrate, in Libia, agli ordini del Governatore generale Balbo. Queste forze consistevano di un enorme esercito bianco e di un piccolo esercito indigeno. Nell’Africa Orientale Ita­ liana, agli ordini del Duca d’Aosta, la situazione era capovolta: là esisteva un enorme esercito nero e un piccolo esercito bianco. Separava le due colonie italiane la base della potenza inglese, l’Egitto, con la propria ap­ pendice, il Sudan quasi sprovvisto di truppe, ossia vittima di un ovvio movimento a tenaglia che avrebbe collegato Libia ed Etiopia ed eliminato efficacemente non soltanto il centro strategico degli interessi inglesi in Africa e nel Medio Oriente, ma anche la base della Mediterranean Fleet ad Alessandria. Sfortunatamente, però, ai fini di questo grande disegnò, la maggior parte dell’esercito italiano in Libia doveva essere concentrato sul­ l’altra frontiera a ovest, pronto a parare la probabile invasione lungo la costa dal Nord-Africa francese... ed anche possibili invasioni minori, attra­ verso il Sahara dall’Africa Occidentale Francese, e persino dall’Africa Equa­ toriale Francese. Infatti, i possedimenti francesi in Africa, diversamente dalle colonie inglesi, italiane o portoghesi, formavano un blocco enorme e ininterrotto, diviso, a scopi militari e amministrativi, in tre vaste zone: il Nord-Africa francese con il suo potente esercito e l’enorme popolazione di coloni (un decimo dei quali, centomila, erano italiani) ; l’Africa Occi­ dentale Francese, raggruppata intorno alla sua capitale, Dakar, impor­ 305

tante ma con soli venticinquemila europei; e poi la parente povera delle tre, l’Africa Equatoriale Francese (capitale: Brazzaville), con cinquemila europei. Complessivamente, gli eserciti francesi ammontavano a dieci divi­ sioni di fanteria e a tre brigate di cavalleria '. Balbo aveva formato in Tripolitania la sua Decima armata, con nove divisioni italiane, da contrapporre a queste forze. Di fronte agli inglesi, in Cirenaica, c’era la Quinta armata — due divisioni libiche e due divisioni di Camicie nere, di gran lunga inferiori, ma più che sufficienti per arginare, o anche per eliminare, le deboli forze inglesi in Egitto. Nell’Egitto stesso, gli inglesi disponevano di meno di quarantamila uo­ mini — un paio di brigate corazzate, otto battaglioni inglesi e, fortunata­ mente per loro, una divisione frettolosamente inviata dall’India quando la guerra era scoppiata in Europa, la Quarta divisione indiana. Ma il Co­ mando del Medio Oriente aveva un vasto settore: nel Sudan si trovavano circa diecimila soldati, soprattutto indigeni; nella Somalia britannica circa duemila, nella grande maggioranza indigeni; a Aden altri duemilacinquecento, nella grande maggioranza indigeni; nel Kenia circa diecimila, anch’essi quasi tutti indigeni. Ma in Palestina e in Transgiordania si trova­ vano quasi trentamila soldati bianchi, compresa una brigata della Nuova Zelanda, e stavano inoltre arrivando gli australiani. Complessivamente, per­ tanto, le forze inglesi nel Medio Oriente e in Africa ammontavano a un po’ meno di centomila uomini, molto dispersi in un immenso settore, nella grande maggioranza truppe indigene, male equipaggiate e, in quasi tutti i casi, senza alcuna esperienza in fatto di combattimento. Per fortuna, al di là della Palestina e della Transgiordania si trovavano la Siria e il Li­ bano, con il generale Weygand e l’Armée du Levant, centoventimila sol­ dati bene addestrati e formidabili. E dietro il Cairo, in Africa, v’era tutta una serie di colonie e protettorati inglesi: il Sudan, il Kenia, l’Uganda e il Tanganica, le due Rhodesie, il Niassa, la Nigeria, la Costa d’Oro, e una dozzina di altre piccole enclaves o isole, le quali tutte avrebbero potuto fornire uomini. Ma, in tutte queste colonie, esistevano meno di centomila bianchi (oltre la metà dei quali concentrati nella Rhodesia Meridionale; nel Sudan, a parte i missionari, c’erano soltanto millecento inglesi), un nu­ mero di inglesi, cioè, di gran lunga inferiore, in tutta l’Africa, a quello degli italiani che si trovavano nella sola Etiopia. Bisognava tener conto degli alleati, naturalmente: i belgi del Congo Belga, cobelligeranti, con un esercito indigeno, la Force Publique, i cui quindicimila uomini potevano essere raddoppiati con la mobilitazione. E inoltre, proprio all’estremità del continente africano, si trovavano due milioni di bianchi : i cittadini -del do­ minion indipendente del Sud Africa. Ma i sudafricani erano alleati dubbi: soltanto gli eserciti oltremare della Francia potevano realmente proteggere gli inglesi in Africa. Ciò era vero anche al livello locale: tra tutte le forze schierate lungo le frontiere dell’Etiopia, gli italiani temevano soltanto l’esercito di diecimila uomini del generale LeGentilhomme a Gibuti. Sin dal 1° maggio si erano avute notizie di concentramenti su vasta scala di truppe italiane in quel 306

settore, e del fatjto che undicimila uomini si stavano ammassando per un attacco a Gibuti (attraverso la Somalia Britannica. Seguirono riunioni regio­ nali tra i comandanti alleati: a Rabat, a Gerusalemme e ad Aden. Ci si accordò nel senso che la Francia avrebbe sferrato un’offensiva su vasta scala in Tripolitania, purché la Spagna fosse rimasta neutrale... e, in ogni caso, un’offensiva su scala minore se gli italiani avessero invaso l’Egitto. Si decise che il Mar Rosso doveva essere reso sicuro; dopodiché un’offen­ siva sarebbe stata sferrata da Gibuti. Il generale LeGentilhomme venne nominato comandante militare delle forze alleate sia nella Somalia fran­ cese, sia nella Somalia inglese. Esse consistevano di quasi diecimila uomini delle truppe regolari a Gibuti — principalmente battaglioni senegalesi — e di meno di mille uomini nella Somalia Britannica, il Corpo meharisti. Aden, alle loro spalle, era principalmente una base navale e aerea, con due squadriglie di bombardieri e una di caccia (i francesi avevano un’avia­ zione assai debole) e più di mille uomini della RAF, oltre alle truppe del protettorato. Il comandante era il vice-Maresciallo dell’Aria Reid. Queste, quindi, erano le forze complessive con le quali ci si proponeva di sferrare un’offensiva. Sulle altre due frontiere « ostili » dell’Africa Orien­ tale Italiana, il piano prevedeva che ci si limitasse strettamente alla difen­ siva. Tenuto conto delle forze a disposizione, ciò era comprensibilissimo. Le forze militari del Sudan consistevano in tre battaglioni inglesi, piut­ tosto di second’ordine, e nella Sudan Defence Force (non potenziata, no­ nostante le disperate esortazioni del Foreign Office) dispersa in tutto il vasto territorio agli ordini del Gaid, l’irascibile generale Platt. Esistevano da trenta a quaranta aerei, e nessun carro armato. La Sudan Defence Force contava circa cinquemila uomini. Tenuto conto della tensione, erano state formate numerose compagnie mobili di mitraglieri, attingendo alle forze esistenti; ognuna di esse comprendeva cinquanta uomini che manovravano mitragliatrici Vickers sulla sommità di « carri armati » improvvisati — furgoni Ford trasformati alla meglio. Il loro numero passò da cinque a otto, e poi a dieci. Questi erano i soli mezzi corazzati del Sudan. / La situazione sembrava un po’ migliore nel Kenia, se non altro perché tra l’invasione delle truppe italiane e Nairobi si interponeva un deserto: il deserto del Northern Frontier District. Inoltre esisteva un porto, Mom­ basa, e grazie ad esso, rinforzi sarebbero potuti giungere ed essere inviati rapidamente al « fronte ». Alle due brigate dei Fucilieri Africani del Re stavano per aggiungersi altre due brigate provenienti dall’Africa Occiden­ tale. Come forze corazzate, c’era l’East African Reconnaissance Squadron: un gruppo di autocarri con mitragliatori Bren su supporti girevoli. Gli aerei arrivavano alla cinquantina. Queste erano le forze alleate che « accerchiavano » l’Africa Orientale Italiana — meno di quarantamila uomini, quasi tutti indigeni, appoggiati da poco più di cento aerei. Si poteva, naturalmente, aumentare il numero dei battaglioni e delle brigate indigene — e lo si aumentò rapidamente una 307

volta dichiarata la guerra. Ma altrettanto fece la parte avversa; e la parte avversa disponeva già di una superiorità schiacciante. Il 1° febbraio 1940 si trovavano nell’Africa Orientale Italiana seimilaquindici ufficiali italiani, cinquantanovemilaquattrocentocinquantacinque soldati italiani — già più di tutti gli eserciti nemici messi insieme — e non meno di centosessantasettemilaseicentosettantacinque militari indigeni. Il 10 giugno, dopo la mobilitazione totale, i soldati italiani erano ottantaseimila e gli indigeni centonovantaquattromila — e il 1° agosto, dopo il poten­ ziamento, vennero a trovarsi sotto le armi novantaduemilasettecentotrentuno italiani e più di un quarto di milione di indigeni2. Questo enorme esercito era suddiviso in varie parti: i gruppi bande, schierati in posizione avanzata sulla frontiera, le bande irregolari, coman­ date da indigeni fidati, e i reparti agguerriti, agli ordini di uomini come Farello e Rolle, nell’interno, i Granatieri di Savoia, che costituivano la riserva, nello Scioa, e le legioni locali, o i battaglioni, di Camicie nere, di guarnigione nella città e nei villaggi. Ma la spina dorsale di questo eser­ cito era costituita dalle brigate coloniali — da trenta a trentacinque brigate complessivamente. Il loro numero oscillava in misura enorme, così come la loro composizione e gli ufficiali comandanti, ma si trattava di truppe regolari e, il più delle volte, esperte. Esistevano squadroni di cavalleria — per lo meno sedici Gruppi di Squa­ droni; ma esisteva anche un certo numero di mezzi corazzati arrivati di recente: 24 carri armati medi Mil, trentanove carri leggeri CV33 (armati con una sola mitragliatrice), centoventisei autoblinde Fiat An­ saldo, e settantacinque ’’autoblinde” improvvisate, sul genere dei mezzi improvvisati inglesi. L’aviazione disponeva di trecentoventitré aerei, la grande maggioranza dei quali — duecentottantasei - erano bombardieri3. Esisteva persino una piccola marina, che agiva partendo dalla base na­ vale potentemente fortificata di Massaua — alcune motosiluranti, alcune cannoniere, e, quel che più contava, poiché rappresentavano una minac­ cia strategica nel Mar Rosso, otto sommergibili e sei cacciatorpediniere leggeri. Gli italiani, dunque, erano enormemente più forti sulla terra, nell’aria, e persino nel Mar Rosso, dei loro potenziali nemici. Come si proponevano di avvalersi di tale forza? Vennero proposti piani: di minare lo stretto di Bal el Mandeb, di co­ struire forti con artiglieria pesante per colpire i convogli diretti nel Mar Rosso verso il Canale di Suez, di sferrare un attacco combinato contro Port Sudan, di invadere per via di terra il Sudan meridionale, di attaccare la Somalia francese e la Somalia britannica. Il Duca d’Aosta fu convocato a Roma appena quindici giorni dopo il viaggio del Ministro in Etiopia; e durante il suo soggiorno nella capitale, protrattosi dal 3 al 25 aprile, ven­ nero messi a punto i piani definitivi. Sembra quasi incredibile — la penna esita — si stabilì che, nell’eventualità 308

di una guerra, fensiva ».

ero sarebbe dovuto rimanere « strettamente sulla di-

Senza dubbio, la posizione italiana non era salda come sarebbe potuta sembrare a prima vista. In primo luogo, esistevano ribellioni sparse che tenevano impegnato un certo numero di truppe e che avrebbero sempre potuto divampare e raggiungere proporzioni pericolose. In secondo luogo, lo spionaggio militare italiano, il SIM, sopravvalutava enormemente la po­ tenza inglese. E, in terzo luogo, nell’eventualità di una guerra, l’Impero sarebbe rimasto isolato e non avrebbe potuto ricevere rinforzi, né di uo­ mini né di materiali. Ma questi argomenti, per quanto validi, erano controbilanciati da argo­ menti che appaiono ancora più irresistibili. La ribellione sembrava quasi cessata e, in ogni modo, i ribelli non agivano in alcuno dei settori attra­ verso i quali gli italiani si proponevano di sferrare le loro offensive; non esistevano ribelli in Eritrea, nello Harar, o in Somalia e pertanto non era possibile che rivoltosi ostacolassero l’invasione del Kenia, della Somalia inglese o francese, o del Sudan. Nel peggiore dei casi, avrebbero potuto impegnare qualche altro reparto; ma, in ogni modo, avevano smesso da tempo di attaccare i forti e le autocolonne. Quanto alle forze inglesi, sebbene sopravvalutate, erano pur sempre inferiori alle forze note degli italiani. Il terzo argomento era il più valido; ma valeva anche a rovescio. Se l’Impero correva il pericolo di una graduale asfissia tanto più sembrava esservi ragione di esercitare una spinta decisa attraverso il Sudan nella direzione della Libia; poiché, una volta che l’Africa Settentrionale e l’Afri­ ca Orientale italiane avessero intrecciato le mani, sarebbero stati gli in­ glesi, e non gli italiani, a sentire il cappio stringersi intorno alla gola. E fra Tripoli e Addis Abeba si interponevano enormi distanze, questo è ve­ ro, ma non si interponeva quasi altro... soltanto Khartum, con i suoi pochi difensori. Numerosi italiani hanno sostenuto che l’Africa Orientale non fu mai in grado di iniziare un’offensiva — difficoltà di rifornimento di viveri, beijzina, armi e munizioni. Altri li hanno confutati 4. Con una parte appena dello slancio che aveva portato i loro alleati in tutta l’Europa, gli italiani si sarebbero potuti impadronire di Khartum, di Nairobi e, forse, del Cairo. Non furono gli uomini e i materiali a fare difetto: furono i generali. Non che fossero soltanto i generali italiani a non essere ottimisti. Ciano, il Ministro degli Esteri, ricevette il Duca d’Aosta poco dopo il suo arrivo a Roma. « Il Duca d’Aosta, che ho visto stamane » scrisse nel suo Diario il 6 aprile « mi dichiara che per lui non solo è impossibile fare offensive, ma anche estremamente problematico mantenere le posizioni attuali perché i 309

franco-inglesi sono ormai attrezzati e pronti all’urto e le popolazioni, tra le quali la ribellione serpeggia ancora, insorgerebbero non appena aves­ sero la sensazione che siamo nei guai. » Come mai il Duca d’Aosta era così pessimista, lui che era stato tanto ottimista, come aveva notato Ciano, appena pochi mesi prima? Probabil­ mente, il pessimismo era più artificioso che genuino; niente egli poteva volere meno di una guerra contro gli inglesi da lui ammirati e pieni di ammirazione, o contro la Francia che gli aveva dato tanto la madre quan­ to la moglie. Ancora in quella data così tardiva dovette sperare di poter dissuadere il Duce esagerando i pericoli: e invero, stando al generale Cerica, allora comandante dei carabinieri para-militari nell’Impero, dal quale era stato accompagnato a Roma, il Duca d’Aosta asserì di essere riuscito nell’intento e di aver avuto assicurazione da Mussolini « che per il mo­ mento » non vi sarebbe stata « la guerra » 5. Quello stesso giorno, Badoglio scrisse al Duce per dirgli che si sarebbe reso necessario rivedere i piani proposti « dall’attuale stato maggiore del Viceré ». Come capo di Stato Maggiore generale, il Maresciallo Badoglio aveva il compito di coordinare lo sforzo bellico delle forze armate italiane. L’anno prima, egli aveva indetto una riunione dedicata alla situazione nell’Africa Orientale, nel cui corso era stata espressa la soddisfazione unanime per quanto concerneva la posizione strategica, i piani in corso di preparazione e, soprattutto, la situazione dei rifornimenti. Quella riunione aveva avuto luogo il 18 novembre, sei settimane dopo lo scoppio della guerra in Eu­ ropa, e ad essa era stato presente un uomo richiamato appena quindici giorni prima dall’oscurità e dalla quasi-disgrazia per divenire capo di stato maggiore dell’esercito, una nostra vecchia conoscenza, il maresciallo Gra­ ziane Eppure, sei mesi dopo, quando il consiglio di guerra tornò a riunirsi, la situazione era diventata quasi catastrofica — o almeno così sembrava. Fu forse il reale approssimarsi della guerra in Europa a terrorizzare questi Marescialli? Forse l’età e l’apprensione li aveva resi pavidi. Il verbale della loro conversazione (citato, di nuovo, da De Biase) dà un’idea spaventosa del livello in genere della loro incompetenza. Come si addiceva ai conqui­ statori dell’Etiopia, e ai due primi Viceré dell’Impero, furono Graziani e Badoglio a dominare la discussione: Graziani'. La situazione in Africa Orientale è molto grave. L’Amhara è in rivolta. Il Goggiam è incontrollabile. Vi domina Mangascià Seyum [rie]. I capi ribelli si stanno combattendo a vicenda. Il governo ad Addis Abeba sta a guardare senza riuscire a sistemare le cose come faceva il Negus. Nell’eventualità di una guerra, non facciamoci illusioni: la ribellione esplo­ derà ovunque nello Scioa e nell’Amhara6. Da un pro-memoria inviatomi di recente dal generale De Biase, apprendo che il Viceré sta pensando di dividere l’Impero in tre grandi settori e di istituirvi tre comandi militari. L’unità di comando è andata perduta da quando io lasciai l’Impero. 310

Soddu: Le forze inglesi sui confini dell’Impero stanno aumentando. Cavagnari: Piazzeranno una flotta a Gibilterra e un’altra a Suez e ci schiacceranno a morte entro il Mediterraneo. Badoglio: Tenuto conto dell’attuale stato di cose, è impossibile guardare all’avvenire. Mancano idee chiare sulla politica. Quando mi è stato do­ mandato quanto tempo sarebbe occorso per pacificare l’Impero, ho rispo­ sto: almeno dieci anni. Graziarli: Ricordo che nel settembre del 1937 ricevetti un telegramma nel quale mi si ordinava di domare la ribellione nell’Amhara entro la fine del mese. Badoglio: Chiunque sia stato a ordinarlo non aveva un’idea dell’Impero. Graziarli: Ma Sua Eccellenza Balbo sta ancora covando l’idea di un’of­ fensiva contro l’Egitto. Badoglio: Ho restituito il piano e ho chiesto che venisse completamente riveduto. Graziarli: Non basta. Balbo è tornato alla carica. Badoglio: Ne ho parlato con il Duce e gli ho scritto... Graziarli: Possiamo escludere una mossa franco-inglese? Badoglio: Io non la escludo. Cavagnari: Per quanto concerne la flotta, la situazione oggi è peggiore di quanto lo fosse il 1° settembre 1939. Badoglio: Riassumendo: la situazione è estremamente delicata e noi ce ne rendiamo conto. Ma c’è sempre il Duce che, con l’alta capacità e la sensibilità di cui ci ha dato tante prove durante la guerra contro l’Abissinia, piloterà la nave dello Stato nel suo modo magistrale: sarà in grado di prendere una decisione al momento giusto. Badoglio, in seguito alla legge del luglio 1939, era, come Capo di Stato Maggiore generale, responsabile della « preparazione bellica » dell’Africa Orientale Italiana. Ogni commento su questa discussione penosa è superfluo.

Il 13 aprile, Badoglio fece rapporto al Duce sulla sua conversazione coù il Duca d’Aosta: « Sua Altezza Reale il Viceré è venuto da me e mi ha fatto un rapporto completo sulla situazione nell’Impero, sia all’interno, sia in rapporto alle forze franco-inglesi lungo le nostre frontiere. Sua Altezza Reale mi ha altresì informato di una sua proposta concernente la divisione dell’intero territorio in settori militari. Come Sua Altezza Reale il Viceré mi ha detto, e come ha già informato Voi, Duce, egli ritiene che nell’eventualità di una nostra di­ chiarazione di guerra gli sarà difficile tenere le posizioni più importanti nel­ l’Impero. Egli esclude nel modo più assoluto la possibilità di intraprendere azioni offensive contro sia Kassala sia Gibuti, tranne che in circostanze favo­ revolissime. Ciò corrisponde a quanto disse il Maresciallo Graziani alla riu­ nione dei capi di stato maggiore da me presieduta il 9 aprile. » Corsero voci, a Roma e ad Addis Abeba, che vi sarebbero stati cambia­ si/

menti. Il Ministro Teruzzi doveva essere congedato. Balbo sarebbe stato ri­ chiamato per prenderne il posto al Ministero, e reso così innocuo; Nasi sarebbe andato in Libia come Governatore e Gazzera avrebbe sostituito Nasi ad Addis Abeba. Si disse inoltre che il generale De Biase sarebbe stato sostituito. E questa fu la sola diceria che risultò essere vera. De Biase rassegnò le dimissioni e, con Decreto Reale del 27 aprile, il generale Claudio Trezzani fu nominato capo di stato maggiore nell’Africa Orientale Italiana, con il compito di pre­ disporre la mobilitazione e la preparazione alla guerra, e di coordinare l’impiego di tutte le forze armate nell’Impero. Freddo, scolastico e quasi universalmente odiato dai colleghi, questo nuo­ vo signore supremo della guerra doveva soprattutto frenare i più impetuosi impulsi dei generali italiani sul posto e sottrarre efficacemente il comando delle forze armate all’inesperto Viceré. Era uno dei pochi ufficiali superiori italiani che non avesse mai combattuto in una campagna coloniale e, invero, che non avesse mai militato nelle colonie... la sua carriera era stata quella di un professore della Scuola di Guerra, la tattica costituiva la sua passione, ed egli era un calcolatore cinico e distaccato. Si trattava dell’uomo di Bado­ glio — imbevuto di scetticismo prima ancora di avere posto piede in Africa. E alla prima riunione del suo stato maggiore ad Addis Abeba, convocata il 15 maggio, sottolineò come un principio-guida il fatto che l’Impero era ab­ bandonato a se stesso, senza alcun rapporto con il piano strategico gene­ rale, e perciò costretto alla difensiva. Se gli italiani avevano volutamente deciso di scegliere un generale la cui caratteristica dominante fosse la capa­ cità di demolire il morale delle truppe ai suoi ordini, difficilmente la loro scelta sarebbe potuta cadere su un uomo migliore. Abbiamo accennato più volte alla proposta di dividere l’Africa Orientale Italiana in vari settori o zone. Questa decisione venne presa durante la pre­ senza del Viceré a Roma, e attuata al suo ritorno. Come conseguenza, ai fini militari — e da quel momento in poi i fini civili divennero sempre meno importanti — l’Impero fu diviso in tre settori e in un sotto-settore: il settore settentrionale, il settore orientale, il settore meridionale e il sotto-settore del Giuba. Il comando dei tre settori venne affidato ai tre governatori militari già presenti sul posto — vale a dire ai generali Nasi, Frusci e Gazzera. Dei tre, soltanto il generale Frusci dovette trasferire il proprio comando, all’Asmara; gli altri due avevano già i loro quartieri generali ad Addis Abeba e a Gimma. Nonostante la nomina di Trezzani, i tre generali divennero così semi-indipendenti, e ognuno di essi si preparò a combattere — e in ultimo combattè — guerre diverse su fronti diversi. Il settore settentrionale disponeva del maggior numero di soldati, oltre centomila, e della metà circa del numero complessivo delle brigate colo­ niali. Ciò era giustificato, in quanto il settore stesso si estendeva ai due go­ vernatorati dell’Amhara e dell’Eritrea, vale a dire alle ex-province etiopi­ 312

che del Goggiam e dell’Amhara, entrambe in rivolta, oltre alla provincia del Tigrai, nonché alla base di tutta la potenza italiana, l’ex colonia del­ l’Eritrea — dalla quale ci si era proposti di invadere il Sudan e di paraliz­ zare Khartum investendo Port Sudan e la ferrovia. Il settore orientale comprendeva i governatorati dello Scioa, dello Harar e della Somalia, senza il sotto-settore del Giuba, ma con la provincia dell’Uollo. Il nemico che il generale Nasi doveva affrontare era così limitato alle forze alleate nella Somalia francese e nella Somalia britannica. Lo pro­ teggeva alle spalle il sotto-settore del Giuba, al comando del generale Pesenti. Anche Nasi disponeva di centomila uomini, dei quali facevano però parte molte guarnigioni locali di Camicie nere, mentre il numero delle bri­ gate coloniali era inferiore. Quanto al generale Pesenti, aveva ai propri or­ dini quattro brigate coloniali per difendere la linea del Giuba contro la te­ muta invasione dal Kenia, e di un certo numero di bande sparse nel settore tra il Giuba e la frontiera — circa venticinquemila uomini in tutto. Questi tre generali erano tutti veterani; tutti avevano preso parte alla riuscita invasione dell’Etiopia, cinque anni prima; Nasi e Frusci con Graziani (Nasi come comandante della Divisione libica, Frusci come coman­ dante delle truppe somale), e Pesenti nel nord, con Badoglio, quale co­ mandante della prima Divisione eritrea. Il generale Gazzera, comandante del settore sud, che corrispondeva quasi esattamente al suo governatorato del Galla-Sidamo, non aveva comandato truppe coloniali durante la guerra. Tuttavia, era stato Ministro delia Guerra (e si irritò partendo, particolarmente, quando le sue critiche alla strategia «di settore» vennero completamente ignorate dal generale Trezzani). Era, come doveva dimostrare l’avvenire, più un uomo politico che un combatten­ te; ma, come uomo politico, era altresì uno scrittore e, nelle sue memorie, ha lasciato un resoconto accurato delle disposizioni da lui adottate nel sud. L’enorme settore di Gazzera, praticamente libero di ribelli, se non di bri­ ganti, era diviso, dal punto di vista amministrativo, in undici Commissariati, e, dal punto di vista geografico, in tre zone - una zona confinante con il Sudan, delimitata dal Nilo Azzurro a nord e dall’Omo a est; una zona cen­ trale tra l’Omo e i Grandi Laghi, e una zona a est dei Grandi Laghi che terminava a Dolo e sui bassipiani della Somalia. Quest’ultima era la zona nella quale ci si poteva aspettare qualche seria minaccia, essendo infatti l’unica che avesse un posto di frontiera in comune con gli inglesi, a Moyale, e la sola in cui una specie di strada attraversasse la frontiera portando da un lato ad Addis Abeba e dell’altro a Nairobi, e facendo così dell’invasione una possibilità teorica. Gazzera dispose la sua prima linea difensiva (o di attacco) : cinque Grup­ pi bande Frontiera, ognuno dei quali formato da circa milleduecento irre­ golari, con due o tre ufficiali italiani. Da nord a sud, il maggiore Venturini con il 4° Gruppo ad Asosa, il maggiore Praga con il 3° Gruppo a Gambela, il maggiore Gabitto con il 2° Gruppo a Magi, il capitano Dini con il 5° Gruppo nella zona centrale, subito a nord-est del lago Rodolfo, e infine il maggiore Cicinelli con il 1° Gruppo a Mega, pronto a portarsi verso Moyale. 313

Dietro a questi gruppi si trovavano le truppe regolari — sette brigate co­ loniali che formarono tre divisioni quando i tre generali arrivarono dal­ l’Italia, il 6 giugno. Il generale Tissi assunse il comando della « zona di pericolo »: la sua 21a Divisione consisteva nella IX brigata, a lavello e della XXV, formata di recente, a Neghelli, nonché di due battaglioni di Camicie nere, il 336° (dalla pessima reputazione) a Neghelli e il 585° (dalla buona reputazione) a Mega. Il generale Vandenheuvel, italiano nonostante il suo cognome, che doveva metterlo in imbarazzo quando in ultimo si batté con­ tro i belgi, assunse il comando della più piccola 23a Divisione nel nord-est: la X brigata a Gimbi e il 506° Camicie nere a Lechemti. Il terzo generale, Gallarati, comandava la 22a Divisione, al quartier generale, o nei pressi: la I brigata a Scioa Gimirra e la XVIII nella stessa Gimma, ove, inoltre, Gazzera avrebbe potuto avvalersi della banda di Abba Giobir, il sultano. Com­ plessivamente, dunque, circa cinquantamila uomini; come dimostra questo esempio, la numerazione delle divisioni, delle brigate e dei battaglioni era puramente arbitraria, una forma elementare di bluff militare, un inganno che doveva essere tentato anche dall’altra parte. Varie forze militari o para-militari non si trovavano agli ordini dei co­ mandanti di settore. Tra esse, quella di gran lunga più importante era la Divisione Granatieri di Savoia, l’unica divisione regolare di fanteria esi­ stente nell’Impero. Era formata da due reggimenti (il 10° e l’ll°) ciascuno con tre battaglioni, un battaglione di alpini e uno di bersaglieri, oltre a un battaglione mitraglieri, un reggimento di artiglieria, tre squadroni di caval­ leria e un gruppo di carri armati. Si trattava di truppe scelte; costituivano la riserva strategica ed erano comandate dal generale Liberati. Il generale Varda comandava la Divisione Cacciatori d’Africa. Sembra che questa fosse una divisione speciale di Camicie nere, formata in Italia, il cui compito era quello di fornire una forza d’urto nelle varie capitali dei governatorati. Comprendeva complessivamente nove battaglioni mitraglieri motorizzati ( ciascun battaglione aveva due compagnie motorizzate, una com­ pagnia carri pesanti e una compagnia carri leggeri, con ventiquattro uffi­ ciali e seicentocinquanta uomini) : due battaglioni erano di stanza a Harar, due a Gimma, due a Gondar, due a Mogadiscio e uno all’Asmara. I Carabinieri, nell’Impero, erano 1.800 oltre a 3.500 indigeni arruolati come zaptié. Erano suddivisi in cinque « gruppi mobili », equivalenti a cinque battaglioni. Anche la polizia doganale, la Guardia di Finanza, costituiva un corpo para-militare - così come la Milizia forestale e la Milizia portuale. Ma la PAI — la Polizia dell’Africa Italiana — era considerata assai meno fidata. Comprendeva tuttavia quasi novemila uomini, un quarto dei quali italiani. Agli ordini di un Comandante generale e di quattordici questori (o colon­ nelli), era suddivisa, ai fini bellici, in sei battaglioni. Tutto faceva numero. L’aviazione, nell’Africa Orientale Italiana, era al comando del generale Pinna; la marina, dell’Ammiraglio Bonetti (che comandava la guarnigio­ ne di marinai e la base navale di Massua) ; quanto alla Milizia, si trovava 314

agli ordini del generale Passerone (un uomo molto avversato dal Duca d’Aosta) e aveva, come Ispettore generale/Arconovaldo Bonacorsi. Questi tre stati maggiori, pertanto, e lo stato maggiore dell’esercito, e gli stati maggiori dei tre settori, dipendevano dal Duca d’Aosta, o meglio dal generale Trezzani7. Si trattava di una struttura farraginosa, ma non più farraginosa di quella che finì con l’essere chiamata in Inghilterra, e sul posto, ’’Muddle East” anziché Middle East, qualcosa come « Oriente della confusione ». In Egitto, esistevano ben tre Comandanti in Capo, anziché uno solo. L’Ammiraglio Sir Andrew Cunningham, ad Alessandria era il Comandante in Capo della Flotta del Mediterraneo. Non dipendeva da lui, tuttavia, il Mar Rosso, affidato al Comandante in Capo delle Indie Orientali, nella base di Bombay. L’Air Chief Marshal Sir Arthur Longmore era il Coman­ dante in Capo dell’aviazione nel Medio Oriente; il suo quartier generale si trovava al Cairo, così come quello del « General Officer », Comandante in Capo del Medio Oriente, Tenente-Generale Sir Archibald Wavell. Questo triumvirato funzionava notevolmente bene, nonostante il fatto che non esisteva alcun comandante supremo e che Cunningham si trovava distaccato ad Alessandria. Le strutture di comando della Marina e del­ l’Aviazione, in ogni caso, erano bene organizzate sin dalla prima guerra mondiale. Soltanto sulla terra vi era stata una continua confusione. Fino all’estate del 1939 si erano avuti, in effetti, tre diversi comandi dell’esercito: in Egitto, nel Sudan e nella Palestina-Transgiordania. Alla nomina di Wavell questi comandi erano stati unificati e si erano studiati piani per eventuali forze di nove divisioni nel settore — tre nella PalestinaTransgiordania, e sei in Egitto. Disposizioni abbastanza logiche. Meno lo­ gica, ma inevitabile, fu la graduale estensione delle responsabilità di Wa­ vell: dipendevano da lui le forze terrestri inglesi nell’Africa Orientale e in Somalia, le guarnigioni di Malta, di Cipro e di Aden, tutte le truppe che potessero essere impiegate o avessero le basi nell’Iraq, nell’Iran o nel Golfo Persico, tutte le forze militari che potessero essere inviate in Turchia, in Grecia o nei Balcani. Si trattava di responsabilità enormi per un uomo solo ; e implicavano decisioni non soltanto militari, ma, in sempre cre­ scente misura, politiche. Wavell non si lasciava mai prendere dall’agitazione. Era un uomo che giocava ogni giorni? al golf, calmo, tutto di un pezzo, famoso per i suoi silenzi, più abile nell’esprimersi sulla carta che in una discussione. « La guerra è una faccenda rovinosa, tediosa, confusa » aveva scritto. Gli era stato possibile rendersene conto a Ypres, ove aveva perduto un occhio. Era arrivato al Cairo nell’agosto 1939, un mese prima dello scoppio del­ la guerra in Europa. Nel marzo del 1940 continuava a essere ben lontano dal disporre del previsto numero di nove divisioni, ma australiani e neozelandesi stavano affluendo in Palestina, la 4a Divisione indiana si trovava in Egitto e un’altra Divisione indiana, la 5a, era stata formata dal Viceré 315

e doveva partire in estate per difendere i pozzi petroliferi anglo-iraniani a Basra. Inoltre, due brigate della Royal West Africa Frontier Force sta­ vano per andare a rafforzare le difese del Kenia; e, con un’ulteriore bribata sud-africana, e, soprattutto, con piloti sud-africani addestrati, Nairobi e Mombasa sarebbero dovute essere, entro l’estate, al sicuro da un’invasione. Sandford, dal canto suo, aveva preparato un piano, destinato ad essere la base di tutti i piani futuri sull’Etiopia, per aiutare i ribelli. Prevedeva, tra le altre cose, l’apertura di un ufficio informazioni a Khartum, il censi­ mento dei profughi etiopici nel Sudan, con l’intenzione di formare un bat­ taglione, l’organizzazione di arsenali sulla frontiera e la formazione di un battaglione di frontiera per rifornire di armi e d’altro i ribelli. Contro questo piano vi fu una violenta opposizione, sia al Cairo, sia, più partico­ larmente, a Khartum, ove Sir Stewart Symes e il generale Platt erano av­ versi ai ribelli e ai profughi, tanto in pratica quanto per una questione di principio; e giudicavano i tentativi di aiutare i primi e di organizzare i secondi una perdita di tempo, di denaro, di armi e di ufficiali inglesi. Ciò nonostante, il colonnello Elphinstone, l’ufficiale di collegamento tra il War Office e il Comando del Medio Oriente, riuscì a varare il piano — in fin dei conti, contrastarlo significava opporsi, in ultima analisi, sia a Wavell, sia a Ghurchill; le armi vennero preparate, i profughi etiopi elencati e si istituì a Khartum un ufficio informazioni affidato a Robert Cheeseman, che anni prima era stato console inglese a Dangila e i cui libri sul lago Tana erano già divenuti testi classici - un gentiluomo di mezza età, richiamato dalle sue coltivazioni di luppolo nel Kenia. Si procedette alla formazione del Battaglione di Frontiera, togliendo una compagnia a ciascuna delle unità della Sudan Defence Force e affi­ dando il comando del reparto a un ufficiale richiamato dal Politicai Service, Hugh Boustead. Dall’altro lato della frontiera, ufficiali del servizio infor­ mazioni italiano seguirono con preoccupazione quanto accadeva, e sparsero la notizia che il nuovo battaglione era formato da cinque diverse compa­ gnie di quattro razze diverse, i neri Nuba, i Baggara dalla pelle molto chiara, i Cabalise dalla pelle color cioccolata e con due invisivi superiori e due inferiori mancanti — un tocco sinistro — e infine soldati color ebano, appartenenti a una tribù sconosciuta, che portavano orecchini e un peri­ coloso braccialetto di ferro sotto il gomito — un insieme di uomini davvero minaccioso. Quanto all’amministrazione italiana, essa tentò, alquanto tie­ pidamente, di preparare il terreno per una ribellione maomettana nel Sudan invitando un’appartenente alla tribù Mirghani a viaggiare nell’Im­ pero — un colpo mancino, per il fatto che costei, nel mondo maomettano, era una personalità, anzi la più rara tra le personalità, una mangiatrice di fuoco, Sciarifat Alaoui el Mirghani, chiamata « Alaoui la combattiva ». L’aspetto davvero controverso del piano di Sandford, tuttavia, consisteva in questo: egli insisteva nel dire che, affinché la ribellione in Etiopia dive­ nisse realmente pericolosa, bisognava far rientrare nel giuoco l’ex-Imperatore. 316

La guerra con l’Italia era la grande occasione per Hailé Selassié, la sua sola speranza, invero, di tornare sul trono. Ma la guerra con l’Italia, pur offrendo tale possibilità, presentava anche un pencolo... il pericolo che l’Imperatore potesse essere dimenticato, o estromesso a favore di capi già sul posto, sia a Khartum, sia nel paese; e, inoltre, l’ulteriore pericolo che i « liberatori » dell’Etiopia potessero successivamente impadronirsi dell’Im­ pero « liberato ». In effetti, proprio sfruttando questo secondo timore, con­ diviso da tutti gli etiopi, Hailé Selassié riuscì a evitare il primo pericolo: egli era infatti, agli occhi del mondo, il simbolo della libertà dell’Etiopia, e gli etiopi che volevano riconquistare la libertà non potevano permettersi di gettarne a mare il simbolo. Così, alla lunga, il viaggio compiuto in Eu­ ropa da Hailé Selassié sedici anni prima, e la costante attenzione da lui rivolta alla propaganda, furono giustificati dai risultati. Ma, prima che tali risultati venissero in ultimo conseguiti, l’ex-Imperatore doveva ancora sor­ montare molte difficoltà e sopportare molte offese, più da parte dei suoi alleati ufficiali che dei suoi nemici ufficiali. Tuttavia, ebbe sempre l’ap­ poggio di un piccolo gruppo di amici e seguaci devoti, sia inglesi, sia etiopi. Quando l’entrata in guerra dell’Italia divenne inevitabile, Hailé Selas­ sié scrisse per ricordare sia al governo francese sia a quello inglese la pro­ pria esistenza, e per mettersi formalmente a loro disposizione. Occorsero tre settimane prima che Lord Halifax, il Ministro degli Esteri, al quale la lettera era stata indirizzata, ne accusasse anche soltanto ricevuta. Ma essa non era passata inosservata dal Foreign Office. Il 20 maggio, un alto fun­ zionario la commentò come segue: « Non abbiamo alcuna indicazione del fatto che tra gli indigeni ribelli in Etiopia si richieda il ritorno dell’Imperatore... Se la guerra scoppiasse e aiutassimo attivamente i capi ribelli in Etiopia, dovremmo essere molto sicuri per quanto concerne il loro atteggiamento nei riguardi dell’Impera­ tore prima che venga presa una qualsiasi decisione di riportarlo nella turbata arena della politica etiopica. » Il funzionario, per lo meno, non si riferì a lui come all’ex-Imperatore, ma non si trattava di un atteggiamento incoraggiante. L’8 giugno, Hailé Selassié si recò a Londra per partecipare a un batte­ simo: aveva accettato di fare da padrino al figlio di George Steer e di sua moglie Esme. Al battesimo erano presenti anche l’orgoglioso nonno, Sir Sidney Barton, e un deputato socialista amico di famiglia, Philip Noel Baker. Il bambino venne battezzato, in pompa magna, nella cattedrale di San Paolo; e, dopo la funzione, i signori si ritirarono nello studio del canonico, ove Hailé Selassié disse loro di avere scritto una lettera a Hali­ fax senza ricevere alcuna risposta. Che cosa gli consigliavano di fare, i suoi amici? Gli suggerirono di scrivere ancora una volta a Lord Halifax e di dirgli, con cautela, che aveva: i suoi alleati. Anche tale consiglio non fu particolarmente incoraggiante. Nessuno dei consiglieri dell’Imperatore si rendeva conto, però, che la situazione stava per cambiare in modo drastico. Essi non potevano sapere che pochi giorni prima, il 29 maggio, Mussolini aveva convocato a Palazzo 317

Venezia i capi militari italiani e annunciato la sua decisione definitiva e irrevocabile: l’Italia stava per entrare in guerra e qualunque giorno dopo il 5 giugno sarebbe stato « conveniente ». L’8 giugno, Newbold diramò da Khartum la consueta circolare mensile per tenere alto il morale. « Durante tutto il mese scorso » scrisse « Mussolini ha continuato a gri­ dare ’’Strage!” ma non ha ancora, mentre scrivo, sguinzagliato i mastini della guerra. Potrà farlo, comunque, da un momento all’altro - forse pri­ ma che riceviate questa lettera — e secondo le informazioni ufficiali in no­ stro possesso dobbiamo presumere che la guerra con l’Italia sia imminente e inevitabile... Non sappiamo dove o come l’Italia colpirà... « Qui a Khartum stiamo arruolando circa duecento altri uomini della polizia... Vorrei controbattere le voci, giunte al mio orecchio, secondo le quali il Sudan è relativamente indifeso, o non si propone di fare alcun serio tentativo di difendersi... ma le truppe esistenti nel paese e le forze di polizia non sono affatto trascurabili. « Può darsi che le più recenti circolari del Comitato per la Difesa del Sudan, con i loro accenni a uno ’’sgombero” e ad una ’’occupazione” italiana di determinate località abbiano dato l’impressione che se gli ita­ liani venissero, noi ci affretteremmo a servire loro cittadine e villaggi su un vassoio. Non è, naturalmente, così, e tanto meno lo è nell’eventualità di possibili attacchi di paracadutisti o di truppe aerotrasportate. A parte le forze regolari, le forze ausiliarie per la difesa del Sudan e la polizia si opporranno ad ogni attacco qualora vi sia una ragionevole possibilità di re­ sistenza. Noi vogliamo guardarci dal franco tiratore improvvisato o dal­ l’inutile difesa fino all’ultimo uomo di una cittadina indifendibile contro forze la cui superiorità sia schiacciante... ma ciò non significa ’’disfattismo”. « Alcune lugubri conclusioni sono state tratte dalla ’’preponderanza delle forze aeree e terrestri italiane nell’Africa Orientale”. È innegabile che esse potranno sferrare duri colpi e causare danni, ma la loro superiorità è più apparente che reale. Gli italiani in Etiopia si trovano in una grande zeriba, in un continente ostile ove le forze Alleate, sebbene disperse, sono consi­ derevoli. Potranno rimanere isolati dall’Italia, e devono far fronte ester­ namente alla Somalia francese e inglese, al Kenia, al Sudan e al mare, e internamente ai ribelli che aspettano la parola. Alcune delle loro truppe indigene possono essere infide, la situazione economica del paese è pessi­ ma, e i viveri scarseggiano. Molti di loro non vogliono la guerra... « Se la guerra con l’Italia dovesse scoppiare prima della mia prossima lettera, buona fortuna alle Province! »

Vi fu un’aggiunta apportata all’ultimo momento a questa circolare:

« P.S. 11/6/40. La presente lettera era stata appena duplicata al ciclo­ stile quando Mussolini ha deciso ieri sera di saltare il fosso... Tutti gli ita­ liani di sesso maschile sono stati internati stanotte. L’autoaffondamento, 318

ieri a Porto Said, dell’Umbria che a quanto pare avevo bordo un grosso quantitativo di bombe per aerei, è stato un buon inizio.

« Popolo italiano, abbiamo dato la nostra parola... » Mussolini aveva sguinzagliato i mastini della guerra, per la seconda volta. Questa volta, dovevano braccarlo fino all’ultimo.

■MBBbbbbbmbhIb^^ Badoglio a Addis Abeba riceve l’omaggio della rappresentanza tedesca.

Il Duca d’Aosta passa in rassegna la guardia d’onore inglese sulle pendici dell’Amba Alagi, accompagnato dal Maggior Generale Mayne. Sopra: De Bono riceve Badoglio al suo arrivo in A.O.I. Massaua, 1935 (Moro-Roma')

PARTE SECONDA

LA GUERRA DI CONFINE

CAPITOLO SETTIMO

I PRIMI GIORNI DI GUERRA

Lunedì, 10 giugno, il primo giorno di guerra. Al Cairo, GabreMascal ascoltò, trasmesso dalla radio italiana, il discor­ so di Mussolini che annunciava la dichiarazione di guerra, e, metaforica­ mente, lanciò in aria, in preda alla felicità, il tarbusc rosso; quella sera uscì e spese diciotto sterline per festeggiare l’evento: un patrimonio. Hailé Selassié, in preda all’entusiasmo come GabreMascal, anche se, probabilmente, senza diciotto sterline da gettar via, prese immediatamente un treno per Paddington, si installò al Great Western Hotel e, dopo cena, si riunì con i suoi amici, molto più speranzosi di quanto lo fossero stati due giorni prima, in casa di George Steer. « Finalmente » scrisse Sylvia Pankhurst « la lunga e tormentosa attesa è finita. » Al Cairo, Sandford venne chiamato al Quartier Generale e ricevette ufficialmente dal generale Wavell l’ordine di fomentare la rivolta in Etio­ pia; il Maresciallo dell’Aria Longmore era presente e promise l’appog­ gio aereo. Ma a Khartum e, si può dire, quasi in ogni altra località africana, la gente venne a sapere che Italia e Inghilterra erano in guerra soltanto quan­ do ascoltò le notizie della BBC, alle otto meno un quarto di quella sera. Telegrammi cifrati vennero immediatamente spediti a Gedaref e a Kassala; ma, e fu abbastanza tipico, i collegamenti telegrafici e telefonici con Kassala erano interrotti. Non che la cosa rivestisse importanza... il paven­ tato « colpo » italiano non ci fu. Nel Kenia, il KAR rilevò che il 9 giugno era stato « una giornata molto tranquilla ». Anche là, a Uagir, seppero la notizia dalla radio. Sfortunatamente, il notiziario della BBC arrivò troppo tardi per qual­ cuno. A Mojale, due funzionari inglesi avevano cenato, la sera prima, con il Residente italiano al di là della frontiera. La riattraversarono al cre­ puscolo e subito, a buon diritto, ma alquanto poco cavallerescamente, fu­ rono arrestati. Così, il vice-Sovraintendente Carter e il sergente Bulstrode divennero i primi prigionieri della nuova guerra. A quanto pare, gli italiani lungo il confine avevano ricevuto la notizia più prontamente e con maggiore efficienza degli inglesi; naturalmente, era­ no stati gli italiani ad avere scelto la data e l’ora della dichiarazione di 323

guerra, e pertanto la cosa era comprensibile. Non tutti, però, furono dina­ mici come il Residente di Moyale. A Gambela, il maggiore Praga si recò dal suo vecchio amico, il mag­ giore Maurice, all’ora di pranzo, lo informò, non ufficialmente, della di­ chiarazione di guerra e, non ufficialmente, gli concesse sei ore di tempo per sgomberare e andarsene; la sola condizione fu che i fucili e la potente trasmittente del consolato venissero lasciati dove si trovavano... e intatti. Così Maurice partì con il solo mezzo disponibile, in canoa lungo il Baro. Venne fermato sulla frontiera, due giorni dopo, al posto di Jokau, da un sergente che comandava una delle bande di Praga; in ultimo, però, fu la­ sciato passare, pagaiò fino a Nasir e infine si portò a Khartum. Così finì — temporaneamente — il regno del « re di Gambela ». A Gallabat il telegrafo funzionava; il dispaccio in codice venne deci­ frato e rivelò la dichiarazione di guerra; « non appena Thesiger venne a saperlo, la sua esuberanza si manifestò con una sfrenata danza guerresca ». Thesiger, il bimbasci Thesiger, era una nuova recluta dell’Eastern Arab Corps. « Il bimbasci W.P. Thesiger, ex-vice Procuratore distrettuale, si presentò al n° 3 » scrisse un ufficiale suo collega « accompagnato dal proprio servo che era un assassino graziato e un tipo davvero incantevole, anche se un po’ caparbio. Thesiger aveva ucciso più di settanta leoni durante la sua carriera nel Sudan, era campione di pugilato e, complessivamente, un ele­ mento prezioso ad aversi sul posto. » Si erano serviti di lui poco dopo il suo arrivo; avevano ricevuto, final­ mente, le prime armi per i ribelli: trecento fucili Martini, a un solo colpo, seguiti da altri quattrocento; e, il 2 giugno, 1’« asse Gallabat-Metemma » venne ufficialmente annullato con la chiusura della frontiera. Due giorni dopo, il ftaurari Uorku « con un solo occhio » arrivò da Kuara alla testa di duecento uomini, impazienti di entrare in possesso di un fucile. E, il giorno dopo, il colonnello Castagnola chiese un colloquio. Si incontrarono, formalmente, sotto la tettoia della Dogana sudanese, giù al khor: il colonnello Castagnola, piccoletto e tondo, con il principe de Bourbon-Siciles come interprete, e, per gli inglesi, non già la vecchia conoscenza di Castagnola, il bimbasci Wreford-Brown, ma questo nuovo arrivato estremamente alto, piuttosto minaccioso e formidabile, il bimbasci Thesiger. Dietro di loro, sul forte di Gallabat, la bandiera inglese e quella verde dell’Egitto sventolavano l’una accanto all’altra. Il colonnello protestò a causa dell’attività dei ribelli e dell’appoggio for­ nito loro dagli inglesi; la guerra, fece osservare, non era ancora stata di­ chiarata. Il bimbasci respinse la protesta e, concludendo il colloquio su una nota più cordiale, ma al contempo più sinistra, si rammaricò di non poter ricambiare l’invito a pranzo del colonnello e del principe a causa delle « manovre » previste per quel pomeriggio. Con i ribelli, Thesiger dovette ricorrere a uno stile di diplomazia molto diverso: infatti, insieme ai fucili, erano pervenuti ordini severissimi di non distribuirli fino a quando la guerra non fosse stata dichiarata e, il 9 giu­ 324

gno, il fitaurari Uorku e i suoi uomini, scontenti, avevano deciso di tor­ nare sulle montagne. Fortunatamente, persuasi da Thesiger, aspettarono ancora un giorno. Ma, anche allora, arrivarono altri telegrammi contrad­ dittori per avvertire che né armi né munizioni dovevano essere distribuite fino a nuovo ordine; ma vennero ignorati, in base a princìpi alla Nelson, dagli uomini sul posto e il fitaurari ritrovò la fiducia negli inglesi ed ebbe le armi da tempo concupite. L’esuberanza di Thesiger, quella sera del 10 giugno, ebbe tuttavia breve durata; due ore dopo, infatti, giunsero altri dispacci dal comando a Gedaref: si era saputo che un attacco degli italiani al forte di Gallabat dove­ va essere sferrato un’ora prima dell’alba del mattino seguente e che a Metemma erano arrivati rinforzi: tre battaglioni indigeni e trentuno carri armati. Quattro ore dopo mezzanotte, i due bimbasci, Thesiger e Hanks, incaricati della difesa del forte, vennero destati e bevvero « alquanto so­ lennemente una tazza di tè » prima di partire con i loro plotoni per andare a prendere posizione nel forte e sulle alture circostanti. Ma l’alba spuntò senza essere preannunciata da alcuna sparatoria, ed essi poterono contemplare « una tipica e pacifica mattinata africana » a Metemma: vacche portate al pascolo e donne che scendevano al khor per attingere acqua. Ecco come incominciò la guerra e come l’Italia colpì alla frontiera. Tre delle nove province del Sudan confinavano con l’Africa Orientale Italiana: al nord la provincia di Kassala, al centro la provincia del Nilo Azzurro e a sud la provincia dell’Alto Nilo. Le provincie centrale e meri­ dionale venivano a trovarsi di fronte al settore del generale Gazzera nel Galla-Sidamo; sulle loro frontiere non esistevano centri abitati, ma sol­ tanto posti di polizia sparsi e lontani l’uno dall’altro, per cui non poteva esservi alcuna minaccia reale e immediata. Il pericolo si trovava al nord, soprattutto nella provincia di Kassala, diretto principalmente contro l’unico obiettivo strategico del Sudan, la linea ferroviaria che collega Port Sudan, sul Mar Rosso, con la capitale e attraversa il fiume Atbare mediante il vulnerabile ponte di Butana — lungo quasi quattrocento metri e sostenuto da sette arcate. Lungo questa linea ferroviaria il Gaid schierò le sue truppe migliori: uno dei suoi bat­ taglioni inglesi lo assegnò a Port Sudan, l’altro a Khartum, e nel mezzo, a difesa del ponte di Butana, dispose un gruppo delle appena costituite compagnie mitraglieri motorizzate (MMG Coys) della Sudan Defence Force. Il resto della provincia di Kassala, situato tra la linea ferroviaria e la frontiera, era sacrificabile, e in particolare le tre località che si trovavano a distanza di voce dagli italiani al di qua del confine: il minuscolo posto di polizia di Karora, sul Mar Rosso, il forte e il minuscolo villaggio di Gallabat e, tra i due, la cittadina di Kassala. Furono impartite disposi­ zioni nel senso che, in caso di invasione, Kassala doveva essere dichiarata città aperta e sgombrata. Gli stessi ordini vennero impartiti anche per quanto concerneva Gedaref — e, a fortiori, il suo avamposto di Gallabat. 325

Ma sebbene Hussey de Burgh Bey, esultante a causa del nuovo titolo di « comandante delle truppe di Gedaref e Gallabat », avesse detto ai suoi bimbasci di non tenere il fronte fino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia, si era affrettato ad aggiungere un codicillo più tradizionale: « Ma deve essere versato sangue! » I Commissari distrettuali, con il loro nuovo alone di gloria militare, si misero all’opera per formare quella che essi stessi chiamarono, rubando il termine italiano, la loro « banda » locale. A nord, Lea di Port Sudan istituì una « Meadowforce », un gruppo di Beni Amer armati, formato da un nucleo di uomini indisciplinati della polizia di quella stessa tribù. Ma, in giugno, sul Mar Rosso imperversò lo habub, soffiando con tanto impeto intorno a Karora da impedire alle reclute di arrivare o al reparto di avanzare. A Gedaref, Trevor Blackley ebbe più successo. La « Bakrforce », con duecento uomini, venne formata e posta agli ordini dello sceicco Abdullah Bakr, nazir del Khat centrale, con il compito di pattugliare la zona tra Gedaref e Gallabat. E, nella stessa Gallabat, il capo degli etiopi del vil­ laggio, a nome Demissié, si presentò al forte: non voleva paga, ma sol­ tanto il « via », in quanto conosceva i bassipiani — e così si formò la « Demissiforce », con quindici uomini. Ma tutta questa attività, sebbene febbrile, era pur sempre su piccolis­ sima scala e lo schieramento della difesa risultava assai rado. A Gallabat, ad esempio, a parte la « Demissiforce », esisteva nel forte un solo plotone, con due plotoni alcuni chilometri più indietro, in posizioni difensive su un « passo » più stretto lungo il corso del khor el Otrub — il solo punto in cui un’avanzata italiana sulla strada Metemmeh-Gedaref sarebbe potuta essere fermata. Alle spalle dei due plotoni si trovavano la « Bakrforce » e l’Eastern Arab Corps n° 3, forte di duecento uomini, a Gedaref; a nord, il posto più vicino era situato a Showak, lontano duecentoquaranta chilo­ metri e tenuto da un unico plotone Easter-Arab, mentre il posto più vicino a sud distava ancora di più, quattrocento chilometri sull’altro lato del Nilo Azzurro: settanta uomini della polizia sudanese a Kurmuk. Gedaref, tuttavia, era stato prescelto come il centro dal quale l’attività dei ribelli sarebbe potuta essere, se non coordinata, per lo meno incorag­ giata. L’Ufficio Informazioni di Cheeseman non era rimasto con le mani in mano; e Γ11 giugno, il giorno successivo alla dichiarazione di guerra, sei messaggeri partirono da Gedaref per attraversare la frontiera, latori di lettere su pergamena dirette a sei capi ribelli. Li seguirono, pochi giorni dopo, altri sei messaggeri con altre sei lettere. Queste lettere, identiche, dicevano quanto segue: « Possa giungere a . . . Sia pace a te « Gli inglesi e gli italiani sono ora in guerra. Per schiacciare il nostro comune nemico, abbiamo tutti bisogno di ogni possibile aiuto. Se ti oc­ corrono fucili, munizioni, viveri o denaro, mandaci uomini e animali da 326

soma, quanti potrai, nel luogo che il messaggero ti indicherà. Qualsiasi cosa ti occorra, noi possiamo aiutarti. Inoltre sarebbe preferibile se tu mandassi un tuo rappresentante a parlare con noi e a consultarsi su come possiamo meglio danneggiare il nemico. » Le lettere erano firmate dal Caid. Furono inviate a Mangascià Gimbirre, a Negasc Bezibè e a Belai Zellechè nel Goggiam; a Uobnè Amorau, Aiane Chekol e Birré Zagaie nell’Ermacioccò, al fitauran Mesfin Reddà nello Uolcait, ad Adane Maconnen nello Tsegghedé, a Negasc Uorkiné nel Semien, nonché, ancor più lontano, ad Asfau Bogale e a Tadesse Imam nel Beghemder vero e proprio, vicino a Debrà Tabor. Si trattava di quasi tutti i capi più noti nel settore del generale Frusci; le sole sorprendenti eccezioni essendo Dagneu Tessemà e Ligg Johannes nel Beghemder, e Hailù Belu, il quarto grande capo del Goggiam. Tutto continuava a essere sorprendentemente tranquillo lungo la fron­ tiera. Infine, non riuscendo a sopportare oltre quello scenario di serenità pastorale, il bimbasci Hanks fece partire i primi colpi della campagna etiopica. Era il crepuscolo del 14 giugno e tutti gli uomini, trascinati dal suo esempio, spararono a intervalli irregolari e riuscirono a consumare otto­ mila cartucce. Seguirono dieci minuti di sorpreso e scandalizzato silenzio, poi la guarnigione italiana aprì il fuoco e rispose al tiro ininterrottamente per due ore. La sola vittima di quel rumoroso scambio fu, ingiustamente, un mercante greco di Metemma. Hussey de Burgh Bey si infuriò a causa dello sperpero di munizioni e telegrafò da Gedaref proibendo qualsiasi azione offensiva al di là della frontiera. Il giorno dopo, gli uomini del colonnello Castagnola riuscirono, sparando, ad abbattere la bandiera in­ glese che sventolava sul forte di Gallabat. Un insulto. La guerra sulla frontiera Sudan-Etiopia era cominciata sul serio.

Non così sulla frontiera tra il Kenia e l’Etiopia — in parte perché il solo punto nel quale esistesse un minimo contatto era Moyale. Il generale Dickinson tenne indietro la sua Brigata sul fiume Tana, a difesa di Nai­ robi; dall’altro lato, il generale Pesenti tenne indietro le sue due divisioni sul fiume Giuba, a difesa di Mogadiscio. Tra loro si stendeva una terra di nessuno, il deserto popolato da somali e nettamente suddiviso dalla geo­ metrica frontiera. A Nairobi regnava il pessimismo; donne e fanciulli avevano ricevuto l’ordine di tenersi pronti a sgombrare Mombasa. Tutti i profughi furono allontanati da Isiolo, in parte per la loro sicurezza, in parte per evitar di provocare gli italiani. I disertori eritrei vennero trasferiti a Gotani e formarono reparti di lavoro eritrei; i profughi etiopi andarono a Taveta e là un colono del Kenia sottopose alcuni degli uomini ad un approssi­ mativo addestramento militare *. Il generale Dickinson aveva schierato la sua seconda brigata intorno ai pozzi di Uagir — una posizione strategica ove si intersecano sei piste caro­ vaniere. Da Uagir, tre battaglioni KAR di « Fluffy » Fowkes dovevano 327

parare, e controbattere, ogni mossa della banda a El Uak, rafforzata di recente, sorvegliare l’intera linea del Galla-Sidamo a nord, e in particolare difendere Moyale. Sul lato opposto del lago Rodolfo, il Commissario distrettuale formò e armò una banda di duecento indigeni, i « Turkana Scouts ». Il 14 giugno, il giorno in cui vi era stata la sparatoria tra Gallabat e Metemma, una pattuglia del KAR attraversò la frontiera a Moyale e si avvicinò senza incontrare resistenza alla dimora del Residente. Sembrava che Moyale « italiana » fosse stata abbandonata. Con la dichiarazione di guerra, il Canale di Suez venne logicamente chiuso alle navi italiane. L’ultima a passare era stata l’Umbria, e il Foreign Office aveva tentato di escogitare pretesti per trattenerla, con le sue cin­ quemila tonnellate di bombe e le sue millesettecento tonnellate di macchi­ nario, quando il problema venne risolto. Il giorno prima della dichiara­ zione di guerra, l’Umbria, come aveva annotato Newbold, si autoaffondò al largo di Port Sudan. Non appena l’Ammiraglio fu informato della cosa, a Aden, si « precipitò sul molo dell’albergo ed eseguì una danza marina­ resca di gioia », scrisse un osservatore. Il comandante, gli ufficiali e l’equi­ paggio della nave furono internati in un campo nel lontano entroterra2. Il piroscafo Umbria trasportava inoltre duemila tonnellate di cemento. Ad Alessandria, l’Ammiraglio Cunningham si era crucciato disperatamente temendo che gli italiani potessero affondare una nave esattamente come quella all’una o all’altra imboccatura del Canale di Suez, bloccando così, efficacemente, la linea vitale di rifornimento dell’Impero inglese. Anche Hitler aveva immaginato che l’Italia avesse rinviato per cinque giorni la dichiarazione di guerra perché Mussolini e l’Ammiraglio italiano stavano preparando un coup ai danni del Canale. Sia le aspettative di Hitler, sia l’ansia di Cunningham risultarono ingiustificate; l’Ammiraglio italiano non stava preparando niente del genere; e l’Umbria si autoaffondò inutilmente al largo di Port Sudan. L’alberatura continuò a sporgere dall’acqua, visi­ bile memento di un’occasione sprecata. Il Canale di Suez sarebbe stato reso ugualmente inutile, comunque, se gli italiani fossero riusciti a chiudere il Mar Rosso. La chiusura del Mar Rosso ai convogli inglesi avrebbe significato l’isolamento virtuale dell’Egit­ to e del Comando del Medio Oriente, con la sola possibilità della rischiosa navigazione attraverso il Mediterraneo, e non del più lungo, ma molto più sicuro, viaggio intorno al Capo. Era, quello, l’ovvio obiettivo strate­ gico, un obiettivo che faceva assumere un’enorme importanza strategica all’A.O.I. e faceva sì che il Gabinetto di Guerra a Londra fosse eterna­ mente preoccupato, ansioso e, invero, timoroso. Eppure, sembra che l’Ammiragliato italiano avesse predisposto pochi piani, e anche quei pochi mal studiati, per l’impiego della maggiore forza navale presente nel settore, la flotta italiana a Massaua. Il 10 giugno, quattro degli otto sommergibili italiani presero il mare. 328

Invece di dare la caccia in branco, si dispersero facendo rotta verso Aden, verso Gibu.ti, verso il Golfo di Oman e verso Port Sudan. L’Ammiraglio Cunningham, innervosito, ordinò a una nave da carico di passare da Aden, sotto scorta, a titolo di prova; la nave passò indenne, e, di nuovo indenne, fece la traversata di ritorno. Ma, il 16 giugno, il Galileo Galilei riuscì ad affondare una petroliera norvegese; tre giorni dopo, venne sorpreso in su­ perficie dal motopeschereccio armato Moonstone e, dopo un vivace scam­ bio di tiri, durante il quale il comandante rimase ucciso, si arrese. L’equi­ paggio, evidentemente inesperto, aveva sofferto per le fughe di gas; non distrussero nemmeno i documenti sui quali figuravano gli ordini di navi­ gazione e le posizioni degli altri sommergibili. Per conseguenza, il Falmouth sorprese e affondò il Galvani e il Torricelli. Il quarto sommergibile, il Perla, si arenò nei pressi di Port Sudan e venne distrutto dai cannonieri egiziani — e dalla bomba di un aereo italiano. Quanto al Galileo Galilei catturato, lo si rimorchiò fino all’estremità sud del Canale di Suez, a Porto Said e là venne impiegato, ignominiosamente, come generatore, per caricare le batterie dei sommergibili inglesi3.

Nel cielo, gli italiani furono più aggressivi e riscossero maggiori successi. Nei giorni successivi alla dichiarazione di guerra, bombardarono due volte Moyale, e poi Kassala. A Kassala, una bomba uccise lo zio dell’omda. L’omda andò su tutte le furie e pretese che il Sudan contrattaccasse; ma, quel che più conta, la guarnigione infuriata aveva aperto il fuoco contro gli aerei attaccanti, e per conseguenza era divenuto impossibile attenersi al piano di dichiarare Kassala città aperta, nell’eventualità di un’invasione. Incoraggiata, la Regia Aeronautica bombardò Khartum, causando un con­ siderevole panico tra gli automobilisti; in seguito, Khartum venne oscurata ogni notte. La RAF effettuò rappresaglie. « A metà giugno, nove Wellesley sorvo­ larono maestosamente Gedaref per andare a bombardare Gondar. A par­ tire da quel giorno, tutti si persuasero che stavamo vincendo la guerra » scrisse il Governatore della provincia di Kassala, Kennedy-Cooke. Ma i Wellesley erano antiquati e superati, come lo erano, nel Kenia, gli aerei pilotati dai bianchi della Rhodesia del Sud, nella 237“ squadriglia. Wavell si affrettò ad accettare un reparto della contraerea offerto dal Sud-Africa, trovò i cannoni, e insediò il reparto a Mombasa, il porto che sarebbe stato impiegato per i rifornimenti... o per lo sgombero. La guerra aerea fu più accesa nel settore del Mar Rosso, ove la RAF, la cui base si trovava ad Aden, era più forte. Fortunatamente, rimane un documento che fa una vivida descrizione di questa guerra nell’aria veduta dagli italiani: il diario, scritto da un aviatore italiano, e caduto poi nelle mani degli inglesi, tradotto e spedito in Inghilterra a dormire negli archivi del War Office. O meglio, fu la traduzione a essere spedita... l’originale venne perduto, o gettato via, e con esso si perdette il nome di chi lo 329

aveva scritto. Di lui sappiamo soltanto ciò che si può dedurre dalle osser­ vazioni o dai riferimenti del diario: era scapolo, aveva frequentato la scuola di pilotaggio di Elmas, si era battuto in Spagna e si trattava proba­ bilmente di un sergente pilota; aveva una sorella di nome Gina. Può darsi che viva ancora. Subito prima dello scoppio della guerra, lui e la sua squadriglia si tro­ vavano nell’aeroporto dei dintorni di Assab, un tempo il centro dei traffici italiani sul Mar Rosso, ai confini della Dancalia 4. Il 12 giugno, tre Blenheim provenienti da Aden bombardarono Assab « distruggendo sacchi di riso, di maccheroni, e circa ventimila fiaschi di vino». I piloti italiani balzarono sui loro Caproni; e «inseguimmo i ne­ mici sul mare, ma avevano una velocità superiore alla nostra e, rasen­ tando l’acqua, divennero invisibili nella bruma ». La RAF tornò quella notte stessa. « Non appena l’aereo venne udito, il colonnello Fedeli impartì l’ordine di oscuramento, ma l’incaricato, agitato com’era, invece di spegnere, illuminò il campo di atterraggio. L’aereo non aspettava altro che questo incidente, una fortuna dal suo punto di vista, per incominciare lo spasso. » E più tardi, nel corso della notte, i Blenheim tornarono numerosi. « L’aeroporto aveva un aspetto sinistro e desolato » scrisse il fratello di Gina. « I pompieri erano spariti, spariti erano i nostri ufficiali, l’incendio infuriava come non mai e le esplosioni delle munizioni si susseguivano sempre e sempre più rapide. Ma la tortura più grande d’ogni altra fu quella di dover fuggire dall’aeroporto con materassi sul capo. Io e pochi altrij colti di sorpresa, completamente nudi, sudati a causa della fatica di dover correre con il peso dei materassi, camminavamo o correvamo tra i cespugli e i ceppi e alle nostre spalle avevamo i bagliori dell’incendio e le esplosioni di tremila cartucce distrutte a una a una in poco meno di un’ora. Era la mezzanotte passata quando dopo aver disteso al suolo mate­ rassi e lenzuola in quella notte afosa lacerata dalle esplosioni cercammo di trovare un po’ di pace e di riposo dopo una giornata di bombardamenti, di inseguimenti con i nostri caccia, di calura e di sete. E il giorno dopo tutto sarebbe ricominciato. » Così, demoralizzati e molto accaldati, lui e i piloti suoi colleghi si ac­ camparono sotto un pino solitario. La sola cosa che trovarono ancora funzionante la mattina dopo fu la ghiacciaia, per fortuna... con una tem­ peratura di 104° Fahrenheit. La calura continuò per tutta la settimana suc­ cessiva, con temperature oscillanti tra i 122 e i 130 gradi. « Caldo terrifi­ cante, indescrivibile » scrisse il fratello di Gina. « Il cervello è stordito, la testa pesa, braccia e gambe sono indolenzite; se almeno si potesse fare una doccia fredda o riposare di notte! » Fortunatamente, non rimasero lì a lungo... una settimana dopo, la squadriglia venne trasferita a Diredaua: « Con il nostro trasferimento a Diredaua finisce questa orribile esistenza ad Assab». A Diredaua fu assegnato loro un obiettivo: l’altro nemico, il nemico che si trovava a Gibuti. 330

L’l 1 giugno, il giorno dopo che Mussolini aveva dichiarato guerra agli Alleati, all’Inghilterra e alla Francia, Churchill si recò in aereo a Bordeaux, con Eden, ora Ministro della Guerra, il generale Ismay e il generale Dill, capo dello stato maggiore generale imperiale. Si incontrarono con Pétain e con il Primo ministro Reynaud; e a cena, quella sera, conobbero il sottose­ gretario del Ministero della Guerra, il giovane General de Brigade Charles de Gaulle. Meno di una settimana dopo, gli eserciti di Weygand erano in rotta, i tedeschi si trovavano a Parigi e il Maresciallo Pétain, divenuto capo del governo, chiedeva l’armistizio. Il giorno dopo, 18 giugno, il gene­ rale De Gaulle, rifugiatosi a Londra, diffondeva dalla BBC al popolo fran­ cese l’invito a resistere. L’invito rimase in vasta misura inascoltato. Il 22 giugno, francesi e tedeschi firmavano l’armistizio nei dintorni di Parigi. L’esercito italiano, agli ordini del Principe ereditario Umberto, aveva, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia, invaso, o meglio tentato di in­ vadere, la Francia indebolita. Le truppe vennero fermate sulle Alpi e ai piedi dei monti della Riviera. Ciò nonostante, inevitabilmente, seguì un armistizio: l’armistizio franco-italiano venne firmato due giorni dopo, il 24 giugno, a Villa Incisa, a Roma. Questi avvenimenti sbalorditivi, rapidi e turbolenti, sconvolsero com­ pletamente l’equilibrio della guerra, soprattutto nel Medio Oriente e in Africa. Con la Francia e i francesi e gli eserciti e la Marina francesi fuori del conflitto, gli inglesi rimasero soli ad affrontare in Libia un esercito italiano immensamente più forte e, nel Mediterraneo, una flotta italiana che, sebbene ancora inferiore, era ormai potente quasi quanto la Mediter­ ranean Fleet — e sarebbe divenuta di gran lunga più forte se per caso le navi della flotta francese fossero state consegnate all’Asse vittorioso, o se quest’ultimo se ne fosse impadronito. Non tutto, però, era stato completamente perduto in un colpo solo. De Gaulle lanciò appelli da Londra, per telegramma e per lettera, ai gover­ natori e ai generali dell’Impero francese affinché si schierassero con la « Francia Libera ». Il 23 giugno, il generale Mittelhauser, il successore di Weygand in Siria come comandante dell’esercito del Levante, decise di continuare la lotta. Ma il giorno dopo, il generale Nogues, comandante dell’esercito del Nordafrica, dichiarò « l’armistizio è firmato », e il gene­ rale Mittelhauser cambiò idea. Dell’esercito del Levante, soltanto il capo di stato maggiore, colonnello de Larminat, e uno squadrone di spahis si dichiararono dissidenti e si schierarono con De Gaulle. Vi fu anche un battaglione di marines — il Premier bataillon d’infanterie de Marine — che si trovava per caso nell’isola inglese di Cipro; anche i suoi uomini furono persuasi, senza troppe difficoltà, a passare dalla parte della Fran­ cia Libera. Ma la flotta francese, dalla disciplina assai più salda, era tutt’altra cosa; ad Alessandria, l’ammiraglio Godefroy che si trovava là in visita con la squadra da battaglia, si accinse a salpare ubbidendo all’or­ dine di Vichy; si fermò soltanto quando l’Ammiraglio Cunningham gli fece capire chiaramente che sarebbe ricorso alla forza per impedirglielo. L’Ammiraglio Godefroy rimase con la flotta neutralizzata e all’ancora, nel 331

porto di Alessandria: ma, per la prima volta, una delle nazioni ex-alleate ricorreva alla minaccia dell’impiego della forza contro l’altra. Sembrava che presto sarebbero potute diventare nemiche. Dopo l’Africa Settentrionale francese, anche l’Africa Occidentale fran­ cese annunciò la propria ubbidienza al Maresciallo Pétain. Rimaneva sol­ tanto l’Africa Equatoriale francese, confinante con le potenti colonie in­ glesi della Nigeria e della Costa d’Oro, e ove i governatori locali tergi­ versavano. Ma, ciò nonostante, l’armistizio aveva scombussolato tutti i pia­ ni inglesi, anche nei loro particolari di minor rilievo. Si era convenuto, ad esempio, che le due brigate dell’Africa Occidentale, destinate a po­ tenziare le difese del Kenia, si sarebbero trasferite via terra attraverso l’Africa Equatoriale francese; questi piani dovettero ora essere riveduti e le brigate si trasferirono per via mare intorno al Capo. In ultimo, soltanto due alti ufficiali nelle Colonie risposero all’appello di De Gaulle: il generale Catroux, nell’Indocina francese, e il generale LeGentilhomme a Gibuti. Per ricapitolare la posizione di LeGentilhomme: egli non era Governa­ tore di Gibuti, ma comandante militare non soltanto della guarnigione di Gibuti bensì anche delle truppe inglesi nella Somalia britannica. Si trattava di un uomo pugnace e di un mangiafuoco, ma veniva altresì invariabil­ mente lodato dagli ufficiali inglesi che lo conoscevano, come un uomo simpatico, cordiale e leale; era quasi impensabile che LeGentilhomme, con i suoi piani per invadere l’Africa Orientale Italiana, potesse accettare l’ar­ mistizio e per conseguenza esporre a un’invasione i colleghi della Somalia britannica. Per giunta, I’ll giugno egli aveva ricevuto l’ordine di resistere « jusqu’au bout » e di fomentare una « rivolta generale » nel territorio italiano. E il 18 giugno gli italiani avevano attaccato, sulla strada princi­ pale, il posto di Ali Sabieh, ma soltanto per essere respinti; e, tre giorni dopo, quattro Savoia, durante un’incursione, erano precipitati al suolo. Il giorno dopo, il fratello di Gina partì per Diredaua, scortando un altro gruppo di bombardieri. « La difesa contraerea è molto scarsa » scrisse. « Facciamo un altro giro per vedere se qualche caccia francese avrà il coraggio di decollare. Nem­ meno uno! » Ma quando la sua squadriglia ebbe fatto ritorno a Diredaua, vi fu un imprevisto sgradevole. All’ora di pranzo « tre aerei francesi ci attaccarono di sorpresa... uno dei nostri velivoli viene distrutto al suolo ». Quello fu il giorno in cui venne firmato l’armistizio franco-tedesco. Quando, due giorni dopo, i francesi firmarono l’armistizio con l’Italia e Gibuti venne dichiarata zona smilitarizzata sotto il controllo francese, ma con il porto e la ferrovia aperti agli italiani5, il generale Buhrer, àcWEtat Majeur Général des Colonies trasmise altre istruzioni segrete a LeGentil­ homme, ordinandogli di fermare le operazioni, ma di tenere le sue forze sulla frontiera della Somalia britannica e di continuare a collaborare là 332

con gliinglesi — nessuna pugnalata alla schiena, questo almeno era certo. Ma il generale LeGentilhomme andò più in là e, quando, il 28 giugno, la locale Commissione italiana d’armistizio tentò di entrare nella colonia, egli la fermò alla frontiera e rifiutò addirittura di ricevere l’emissario in­ viato da Vichy come membro della commissione, suo collega, generale Germain. E così i diecimila soldati di Gibuti continuarono, a quanto parve, a essere in guerra; un grande sollievo per il generale Wavell e una grande minaccia per gli italiani. In questo modo trascorsero, nell’Africa Orientale, i primi quindici giorni di guerra, senza alcun grande avvenimento o sconvolgimento, senza alcuna modifica delle frontiere, e con la morte di due sole persone alquanto inno­ centi: lo zio àell’Omda di Kassala e un mercante greco di Metemma. Si trattava di una guerra molto tiepida; non vi era stato, e non v’era, alcun entusiasmo da entrambe le parti, come dimostrano i seguenti due brani sorprendentemente analoghi, scritti l’uno da un generale italiano, e l’altro da un giornalista inglese: « L’entrata in guerra dell’Italia » osservò il generale Maravigna « ha sorpreso la cosiddetta opinione pubblica ad Addis Abeba. È curioso rile­ vare come negli ambienti altolocati della capitale dell’Impero esistesse un’assoluta incredulità per quanto concerneva la nostra partecipazione al conflitto incominciato in Europa, o, come minimo, la possibilità che l’A.O.I. potesse restarvi seriamente coinvolta. « E così la vita continuava nel solito modo alquanto languida ad Addis Abeba, agli inizi del 1940, come è di solito il ritmo della vita nelle colonie. « La popolazione civile era persuasa, con assoluta certezza ( fondata su Dio solo sa cosa), che la pace non sarebbe stata minacciata e che gli affari non sarebbero stati turbati... Tra l’altro, esisteva una vera e propria osti­ lità, anche negli ambienti politici, contro l’addestramento militare dei civili italiani, che veniva considerato non soltanto inutile, ma ’’dannoso per la normale attività dell’Impero”. » « Ci trovavamo da pochi giorni a Khartum » scrisse Alan Moorhead « quando constatammo quanto dolorosamente impreparati si fosse alla guerra, dal punto di vista psicologico e da quello materiale... Là, lontano dalle manovre della politica in Europa, era difficile capovolgere le proprie idee da un giorno all’altro. Là, ove ogni bianco, inglese o italiano, era alleato nella fatica di portare gli indigeni alla civiltà, aizzare le tribù si­ gnificava il netto diniego di ogni buon senso. Così, il Sudan inglese e l’Africa Orientale Italiana entrarono in guerra con riluttanza, lentamente e a malincuore. Era un conflitto tra gentiluomini... « Constatai la presenza della sensazione inespressa e segreta che le due colonie, l’italiana e l’inglese, non fossero realmente interessate alla guerra; 333

e poiché le loro battaglie non potevano influire sulla situazione generale, era inutile portare lo scontro agli estremi... » « Alla fine di luglio del 1940 » Moorhead scrisse queste parole qualche tempo dopo « quando le piogge cominciavano a rinfrescare un poco l’aria torrida, a Khartum regnava l’apatia. » Se questo era vero alla fine di luglio, lo era ancor più alla fine di giu­ gno6. In effetti, si trattava di qualcosa più dell’apatia, si trattava di sim­ patia per gli italiani. Quando il Governatore generale della Libia, Italo Balbo, perdette la vita in un incidente aereo, abbattuto dalle stesse batterie italiane, il 28 giugno, il Sudanese Herald listò a lutto la notizia, sebbene le due nazioni fossero in guerra. Mussolini, d’altro canto, non parve « ec­ cessivamente addolorato », quando uno dei suoi collaboratori militari glielo comunicò. Se ne può dedurre che forse l’incidente non era stato affatto un incidente; eppure, sebbene Balbo fosse sempre stato potenzialmente un suo rivale, le qualità di lui — in particolare l’aggressività — erano quel che occorreva in Libia in un momento in cui, con l’armistizio, la minaccia francese sul fianco occidentale e meridionale della colonia era stata elimi­ nata, e rimaneva soltanto una facile vittima a oriente, l’Egitto. Il posto di Balbo venne preso dal Maresciallo Graziani. E così Graziani tornò di nuo­ vo al potere e all’alto comando militare in Africa del quale era stato privato trenta mesi prima, al termine della sua disastrosa prova come Viceré ad Addis Abeba. La Libia aveva una frontiera in comune non soltanto con l’Egitto, ma anche con la provincia settentrionale del Sudan. Tuttavia, sebbene la po­ polazione di Khartum parlasse con disgusto del « macellaio » Graziani a paragone del « gentiluomo » che, nella sua ignoranza, credeva fosse stato Balbo, vaste estensioni di deserto quasi prive d’acqua si frapponevano per centinaia di chilometri tra le zone abitate della Libia e del Sudan. Per tale motivo, la nomina di Graziani non rappresentò una minaccia diretta; e non bastò a scuotere con la paura l’apatica burocrazia nel Sudan. Né fu sufficiente l’arrivo a Khartum del colonnello Sandford, venuto per assumere il comando della « Missione 101 », dalla denominazione oscu­ ra, e impaziente di fomentare la ribellione al di là della frontiera; ancor meno fu sufficiente l’arrivo alla frontiera di tre capi ribelli dopo la lettera del Caid: i tre capi dell’Ermacioccò : Uobné Amorau, Aiane Chekol e Birré Zagaie. Occorse la minaccia dell’arrivo di un ospite molto più illustre per sconvolgere la piccionaia e causare un clamore di telegrammi angosciati. Questo illustre personaggio era il profugo a Bath. Erano occorse due settimane di pressioni prima che il Foreign Office cedesse. Ma, quindici giorni esatti dopo la dichiarazione di guerra del­ l’Italia, un aereo decollò dai Wilshire Downs per portare Hailé Selassié, il suo secondo e prediletto figlio, il Duca di Harar, i due segretari Lorenzo Taezaz e UoldeGiorgis, e infine George Steer, promosso capitano e nomi­ 334

nato aiutante di campo, fino alla prima tappa del lungo viaggio di ritorno dall’esilio al trono. Sorvolarono, pericolosamente, durante la notte, la Francia immobilizzata dall’armistizio e neutrale, atterrarono a Malta e ripartirono con un idro­ volante a scafo centrale. L’indomani, all’ora del tè, l’idrovolante ammarò nel porto di Alessandria e una lancia gli si fece incontro: a bordo c’era un’altra vecchia conoscenza, Chapman-Andrews, « oriental secretary » del­ l’Ambasciata del Cairo. Chapman-Andrews aveva veduto l’ultima volta l’Imperatore durante la drammatica sosta a Diredaua, ove, dopo l’abban­ dono della capitale, si era fermato il treno imperiale; là egli, allora vice­ console a Harar, si era assunto la responsabilità di persuadere Hailé Selassié ad abbandonare l’Impero e a non rifugiarsi sui monti: una decisione che spesso, negli amari anni successivi, doveva essere causa di rammarico. Ma, come sempre, non sappiamo nulla dei sentimenti di Hailé Selassié; pos­ siamo soltanto immaginare gli stati d’animo contrastanti che dovette pro­ vare mentre, in quei giorni, rivedeva un così gran numero di facce che gli ricordavano il passato, con i suoi fasti e i suoi errori, ma anche, senza dubbio, con la sua importanza. Sappiamo, però, che in quel periodo era ottimista: una volta ottenuto, finalmente, l’appoggio ufficiale inglese, tutto sembrava possibile. Ma il Foreign Office non era entusiasta, e i suoi rappresentanti sul po­ sto sembravano sgomenti. Sir Miles Lampson, inorridito dal telegramma che annunciava l’arrivo imminente dell’idrovolante, riteneva che la pre­ senza di Hailé Selassié in Egitto, tenuto conto della neutralità di questo paese, avrebbe causato serie conseguenze politiche. Eppure, ecco l’idrovo­ lante: qualcosa bisognava fare per quanto concerneva i viaggiatori. A Chapman-Andrews venne pertanto affidato lo spiacevole compito di accogliere Hailé Selassié e di informarlo che, in luogo delle bandiere, dei pavesi e delle guardie d’onore, lo aspettava la necessità di rimanere nel porto fino a quando fosse discesa l’oscurità, per evitare che la sua presenza venisse notata. Quando fece buio, il « signor Smith » venne portato di nascosto a riva e alloggiato per la notte nell’ex-Circolo nautico italiano, vicino al Palazzo. La mattina dopo, Lampson, ansioso di liberarsi di lui, lo fece portare in aereo a Uadi Alfa, sulla frontiera tra Egitto e Sudan. Scaltramente, soltanto dopo che l’apparecchio era partito da un pezzo, l’ambasciata al Cairo trasmise un telegramma cifrato al Palazzo di Khar­ tum per informare Sir Stewart Symes e il generale Platt dell’arrivo immi­ nente di Hailé Selassié. Se al Cairo si erano sentiti in imbarazzo, a Khartum regnò la costerna­ zione. La prima reazione di Symes fu quella di rifiutarsi di ospitare l’exImperatore nel proprio territorio, ed egli spedì un telegramma a Uadi Alfa, impartendo ordini espliciti nel senso che l’apparecchio non doveva per nessun motivo portarsi più a sud e Hailé Selassié e il suo seguito do­ vevano restare a Uadi Alfa fino a nuovo avviso. Nel frattempo, il Gover­ natore del Kenia, al quale si erano rivolti sia Symes sia Lampson, rifiutò a sua volta di accogliere l’ospite sgradito. 335

Ed ecco così l’ex-Imperatore e i suoi collaboratori sospesi in una sorta di terra di nessuno, in una soffocante e remota località di frontiera, men­ tre governatori e proconsoli cercavano di palleggiarsi la responsabilità. Si trattava di una situazione che ovviamente non poteva durare; e Wavell, trovandola del tutto giustamente «assurda», intervenne. Trasmise un brusco telegramma al Foreign Office dicendo che bisognava sbrogliare le cose. Il risultato fu che lo sfortunato Chapman-Andrews venne inviato a Khartum per il secondo e spiacevole colloquio. Là egli apprese le ragioni di quanto era accaduto. Platt parlò irosamente di « provocazione » e so­ stenne che la presenza dell’Imperatore avrebbe « invitato a rappresaglie » e « suscitato un vespaio ». Symes era altrettanto preoccupato a causa della possibile reazione degli italiani. In ultimo, naturalmente, dovette cedere: la sua posizione era troppo insostenibile, in quanto il Sudan si trovava, in fin dei conti, in guerra, e gli italiani erano nemici, non alleati. Ma cedet­ tero con riluttanza e con tutto il risentimento di funzionari importanti, non consultati riguardo a una mossa strategica che toccava la loro sfera, e soltanto quando Chapman-Andrews ebbe spiegato quale « diavolo di putiferio » si sarebbe avuto se Hailé Selassié fosse rientrato in aereo in Inghilterra per lagnarsi pubblicamente del trattamento riservatogli, ed eb­ be lasciato capire come fosse stato lo stesso Churchill a suggerire la mossa. Così Chapman-Andrews venne rimandato a Uadi Alfa, accompagnato questa volta dal Brigadiere Sandford, un altro amico incaricato di dare altre cattive notizie all’ex-Imperatore. Giunsero a destinazione il 28 giu­ gno e, quasi immediatamente, si riunirono in conferenza. Chapman-Andrews annunciò che Hailé Selassié e il suo seguito sarebbero stati i benve­ nuti a Khartum... ma a determinate condizioni; e annunciò inoltre che numerosi eminenti profughi erano arrivati quello stesso giorno da Gerusa­ lemme: Yechege GabreGiorgis, il ftaurari Burrù UoldeGabriel, i degiace Abebè Damteu e Adefrisau. Si trattava di buone notizie, poiché Hailé Selassié, con un suo decreto, a Londra, aveva già nominato il fitaurari Burrù alla carica da lui ricoperta anni prima, di fitaurari imperiale e comandante di tutte le truppe imperiali, e l’arrivo di quei capi religiosi e politici non soltanto stava ad attestare la buona volontà inglese, ma met­ teva altresì Hailé Selassié in una posizione di forza nei confronti dei « dis­ sidenti » di Blatta Taclè Uoldeauariat a Khartum. Nella sua immagina­ zione, egli doveva già essersi veduto alla testa di un ricostituito esercito, con tutto l’appoggio inglese nel Sudan. Poi Sandford parlò e sottopose questi sogni a una doccia fredda. Sand­ ford spiegò che non esisteva alcun corpo di spedizione pronto ed equipag­ giato; che gli inglesi erano molto deboli e per mesi non sarebbero stati in grado di intraprendere alcuna azione offensiva, meno che mai durante la stagione delle piogge. Vi sarebbero stati pochissimi aerei disponibili, ed egli stesso, sebbene capo della Missione 101, disponeva, a parte le armi leggere, soltanto di quattro mortai e di quattrocento proiettili. Hailé Selas­ sié, deluso e abbattuto, scrisse appunti dopo cena, e in seguito, sulla base 336

di tali appunti, prese a sua volta la parola per dire che era sgomento a causa della manifesta mancanza di preparazione per una rivolta in Etio­ pia, e per dare vari suggerimenti. Sandford potè soltanto rispondere che la situazione sarebbe potuta migliorare anche mentre loro stavano par­ lando: una settimana prima, infatti, lui e Boustead Bey e Trevor Blackley erano partiti in macchina da Gedaref per incontrarsi con i ribelli in arrivo e, con il loro aiuto, la prima offensiva inglese era stata progettata per quel giorno stesso: un attacco contro Metemma che si proponeva di aprire la strada fino ai territori tenuti dai ribelli del Goggiam e del Beghemder. Inoltre, egli soggiunse, il compito principale doveva essere svolto da un altro vecchio amico, o meglio dal figlio di un vecchio amico, il figlio del capitano Thesiger, che era stato Ministro ad Addis Abeba ai tempi di Ligg Yasu, e che aveva ospitato nella legazione i figlioletti dell’allora ras Tafari. Le reminiscenze dei grandi giorni, delle avventure condivise, della leal­ tà del passato e del presente, colmarono la mente dei tre inglesi e dei tre etiopi che si conoscevano da così lungo tempo. Poi Sandford si congedò; doveva partire in aereo, infatti, nelle prime ore della mattina, per vedere come si fosse svolta l’operazione. Non fu un grande successo. Il piano era abbastanza semplice: una mar­ cia notturna del bimbasci Thesiger e dei suoi uomini verso un’altura al lato opposto di Metemma, là un rendez-vous con i ribelli e l’organizza­ zione di un’imboscata... una trappola nella quale gli italiani sarebbero stati indotti a cadere mediante provocatori tiri di cecchini provenienti dalle colline. Thesiger partì senza intoppi, prese, senza intoppi, posizione prima del­ l’alba del 28, e cominciò a fare sparare i cecchini senza intoppi. Ma poi le cose cominciarono a mettersi male. Nella confusione della notte, gli uomini di Birré Zagaie e di Aiane Chekol predisposero rimboscata sul versante sbagliato dell’altura. Quanto a Uobnè Amorau, insoddisfatto per la precedenza — o meglio per la mancata precedenza — accordatagli, aveva rifiutato di prendere parte all’azione. All’alba, Thesiger e il suo plotone, appoggiato soltanto dalla « Demissiforce », che comprendeva ormai qua­ ranta uomini, e altrettanti ribelli, vennero a essere attaccati dall’intero 27° Battaglione coloniale, formato da uomini del Beni Amer (poiché gli indigeni del Beni Amer si battevano per diversi padroni a entrambi i lati della frontiera), il grosso delle forze che formavano la guarnigione del colonnello Castagnola. Si « ritirarono » frettolosamente, e il servo perso­ nale di Thesiger, l’assassino graziato, corse giù per la collina con la canna del fucile appoggiata alla spalla e puntata all’indietro, sparando senza voltare la testa mentre fuggiva7. Sebbene le perdite fossero state minime — cinque feriti e quattro dispersi — questo primo tentativo di un’operazione combinata con i ribelli si era concluso con un fiasco. Del tutto manifestamente, occorrevano molte più 337

riflessioni e una preparazione di gran lunga più accurata, sia sul piano psicologico, sia su quello puramente militare.

E così, quando Hailé Selassié arrivò in ultimo a Khartum, in treno, i primi giorni di luglio, vi fu accolto non già con la notizia di un successo, ma con quella di una sconfìtta. Venne condotto, con discrezione, e sem­ pre in forma anonima, nell’alloggio assegnatogli, alcuni chilometri fuori della città, a Gebel Aulia, ove trovò la propria « corte » ricostituita, gli esiliati giunti da Gerusalemme. Dovette essere un’altra e ancor più com­ movente riunione; poiché costoro, a differenza dagli amici inglesi, erano uomini della sua stessa razza che, nel corso di lunghi anni, lo avevano veduto salire al potere, e che egli stesso aveva più volte onorato e, talora, privato della sua protezione. Essi lo consideravano non già un profugo, ma il loro Imperatore consacrato.

CAPITOLO OTTAVO

L’AFRICA ORIENTALE ATTACCA

Sebbene continuassero in questo modo a evitare « provocazioni », le auto­ rità inglesi furono costrette a prendere molto più sul serio la guerra sulla frontiera; e in particolare a Gallabat, ove le incursioni e le contro-incur­ sioni continuavano. Un paio di giorni dopo, cinque Wellesley bombarda­ rono Metemma. Uno degli apparecchi, colpito, sfiorò il forte e andò a schiantarsi nei pressi del khor. Thesiger e i suoi uomini corsero a trarre in salvo l’equipaggio; trovarono il pilota ucciso, ma l’aviere ancora in vita. Lo trascinarono lontano e al sicuro. « Abbiamo fatto un buon lavoro, non è vero, signore ? » egli domandò a Thesiger. « Berrei volentieri una buona pinta di birra gelata, adesso. Quanto mi piacerebbe starmene lungo disteso in uno di quei freschi ruscelli dello Yorkshire! » Morì la mattina dopo; lui e il pilota, Davidson e Bush, furono così i primi due militari inglesi a perdere la vita in quella guerra. In seguito, quello stesso giorno, bombardieri italiani effettuarono una rappresaglia, o almeno la guarnigione di Gallabat, rimasta illesa, immaginò che si trattasse di una semplice rappresaglia. Ma, il mattino seguente, su­ bito prima dell’alba, vi fu un altro bombardamento del forte; un sudanese venne ucciso da una scheggia; e, pochi minuti dopo, dilagando da en­ trambi i fianchi, i Beni Amer del 27“ Battaglione sferrarono un attacco in piena regola contro il forte. Quest’ultimo era difeso soltanto da un ploto­ ne, agli ordini di un ufficiale indigeno, il mulazin Tani Abdullah Effendi Mustafà e, dopo pochi minuti di un vivace scambio di tiri, i difensori lo abbandonarono, come si era convenuto, e ripiegarono sul passo a Khor el Otrub. Ma, sebbene Gallabat fosse caduta, sangue era stato versato·, un altro sudanese rimase ucciso e quattro furono feriti; gli altri affermarono di avere ucciso ventisette dei Beni Amer, ferendone quarantaquattro. Al passo, destati dalle esplosioni delle bombe e dalla sparatorià nella fioca luce dell’alba, i bimbasci Thesiger e Hanks tentarono di schierare i loro uomini dispersi e di mettersi in contatto con i capi ribelli — i quali, in effetti, erano prudentemente scomparsi. Trasmisero un messaggio a Khartum e, aspettandosi un attacco da un momento all’altro, bruciarono, come volevano le disposizioni, il codice « estremamente infiammabile » e i dispacci cifrati per impedire che cadessero in mano al nemico, liberandosi così, al contempo, di quello che era divenuto per loro un incubo. Khartum 339

giudicò la situazione « disperata », e mandò come rinforzi una compagnia del Corpo meharisti; ma quando la compagnia arrivò, parecchi giorni do­ po (vale a dire di gran lunga troppo tardi se la situazione fosse stata davvero disperata), «aspettandosi di impegnarsi immediatamente in bat­ taglia », la minaccia, non senza una grande delusione da parte loro, era cessata. Gli uomini del colonnello Castagnola non avevano proceduto oltre sulla strada di Gedaref e si erano ben guardati dall’attaccare perfino i due plotoni rimasti sul passo. Contemporaneamente, più a nord, gli italiani attaccarono Kassala. Quella non fu la puntata limitata di un battaglione, ma una spedizione massiccia. Frusci aveva riunito 12.000 uomini e 40 cannoni prima di sferrare l’attacco in quel punto. Ma, sebbene la cittadina non fosse più priva di difensori, le truppe che la difendevano contavano meno di sei­ cento uomini, dei quali soltanto sei erano inglesi, e pertanto le sorti della battaglia non furono mai realmente in dubbio. La città venne bombardata con gli aerei e con le artiglierie, aggirata da squadroni di cavalleria, pene­ trata da carri armati e occupata da fanteria autotrasportata e dal suo comandante, il generale Tessitore. Gli invasori fecero prigionieri 61 uomini della polizia e — circostanza più significativa — altri dieci uomini disertarono con i fucili. Simultaneamente, e ancora più a nord, gli italiani attaccarono Karora nonostante lo habub. Poiché quell’avamposto era difeso da appena nove poliziotti, gli attaccanti incontrarono una resistenza ancor minore. E così, a mezzogiorno del 4 luglio, il generale Frusci aveva iniziato l’invasione del Sudan occupando vittoriosamente i tre avamposti inglesi sulla frontie­ ra del suo settore. Era adesso in grado di marciare su Port Sudan lungo la costa da Karora; o su Gedaref e poi su Khartum da MetemmaGallabat e dalla base di Gondar nelle retrovie; oppure, avanzando dal­ l’Eritrea e da Kassala nella direzione di Khartum; o, più ragionevolmen­ te, puntando direttamente sul ponte di Butana... o, invero, avrebbe potuto fare tutte e quattro le cose contemporaneamente. Sembrava agli inglesi che l’invasione del Sudan da lungo tempo paventata avesse avuto inizio sul serio, e che la loro situazione fosse davvero senza speranze. Dal Cairo, il generale Wavell telegrafò a Eden quello stesso giorno, facendogli rilevare la propria debolezza non soltanto nel Sudan, ma anche in Egitto, e chiedendo più mezzi corazzati, più pezzi controcarro e più artiglieria. Ovviamente, egli temeva che l’invasione del Sudan dall’A.O.I. potesse coincidere con l’invasione dell’Egitto dall’Africa Settentrionale ita­ liana, il vasto movimento per troncare « la vita di vespa dell’Impero inglese ». In ogni modo, per quanto fosse a corto di truppe, inviò un terzo battaglione inglese a sostituire un battaglione egiziano « neutrale » a Khartum. A Londra vi furono recriminazioni. Nella capitale inglese avrebbero potuto fare ben poco di più che recriminare: quasi tutto l’equipaggiamen­ to dell’esercito inglese, l’artiglieria, i carri armati, persino i fucili, era an­ 340

dato perduto a Dunkerque e, con l’invasione che minacciava l’Inghilterra, non potevano mandare niente. Eden rispose telegrafando a Wavell parole di incoraggiamento: « Con­ dividerete il nostro vivo desiderio di colpire gli italiani, specie se dovessero tentar di avanzare da Kassala a Khartum »; e soggiunse, un’osservazione alquanto superflua: « Una insurrezione in Etiopia faciliterebbe in grande misura il vostro compito ». Questo era ovviamente vero; ma si trattava di stabilire come provocarla; poiché, mentre Wavell stava tempestando, e tempestando invano Londra, Hailé Selassié tempestava, con risultati quasi altrettanto infruttuosi, Khartum. Per quanto concerneva gli etiopi nel paese, egli si accinse a scrivere, con l’aiuto di Lorenzo Taezaz, un auagg, un proclama imperiale, annun­ ciando il proprio ritorno, invitando coloro che si erano sottomessi, e anche gli eritrei, a disertare, e controbattendo gli ammonimenti anti-inglesi di Blatta Taclè ’. L’auagg, con tanto di sigillo imperiale del Leone di Giuda, venne fatto stampare da George Steer, che era a capo di una Sezione Propaganda; e ben presto migliaia di copie del proclama vennero lanciate da aerei sugli accampamenti militari e sulle campagne dell’Etiopia, nonché su Kassala occupata, ove si videro gli eritrei baciare il sigillo, premerselo sulla fronte e piangere. I carabinieri minacciarono la pena di morte a ogni ascaro sorpreso a leggere il proclama e impiegarono interi battaglioni per cercare i volantini. Sembra che, da quel momento in poi, un rivoletto di disertori avesse cominciato a passare nel Sudan — una prova di quanto fosse efficace il nome dell’Imperatore 2. Al contempo, Hailé Selassié rivolse la propria attenzione agli inglesi; inviò una lettera a Churchill ponendogli domande, dandogli suggerimenti e facendogli richieste. Sembra chiaro che l’Imperatore dovette scrivere questa lettera di con­ certo con il Brigadiere Sandford, poiché essa conteneva tutti gli elementi del suo piano; il Piano X. In breve, i punti più importanti del Piano X consistevano nel ritorno trionfale di Hailé Selassié in Etiopia, alla testa di un esercito etiopico formato da « Battaglioni di profughi », addestrati, equipaggiati e consigliati dagli inglesi; una volta attraversata la frontiera, questo esercito sarebbe stato raggiunto dalle bande dei ribelli, anch’esse equipaggiate, e, fino a un certo punto, addestrate da elementi inglesi infil­ tratisi nel paese; poi, sempre più numeroso man mano che si fosse adden­ trato nell’Amhara, l’esercito avrebbe in ultimo scacciato dalla capitale i terrorizzati usurpatori italiani. A lunga scadenza, il piano poggiava sulla supposizione che tutti gli etiopi fossero fedeli all’Imperatore; a breve sca­ denza si basava sulla formazione, l’addestramento e l’armamento dei « Battaglioni di profughi »; e la lettera di Hailé Selassié aveva ovvia­ mente lo scopo di conseguire tutto ciò. Poco dopo, Chapman-Andrews fu in grado di dire all’Imperatore che suo figlio Asfauossen aveva lasciato l’Inghilterra ed era in viaggio, che Abebè Damteu e Blatta Taclè erano stati mandati nel Kenia, al campo Taveta, e che cinquanta profughi somali sarebbero stati portati a Khar34/

tum per formare una guardia del corpo, mentre gli altri avrebbero for­ mato due Battaglioni di profughi nel Kenia. Così, dopo la lettera al Primo ministro inglese, Hailé Selassié ottenne quasi tutto ciò che aveva chiesto — o almeno la promessa che quasi tutte le sue richieste sarebbero state accolte. Le richieste più aggressive, però, vennero accettate in un solo caso particolare: il lancio su Kassala di quindicimila copie del suo auagg insieme a ventuno tonnellate di bombe sul Commissariato italiano. Alla fine del mese, il panico era cessato nel Sudan. Divenne manifesto che gli italiani non avrebbero avanzato, non, almeno, fino al termine della stagione delle piogge sugli altipiani. E così, a entrambi i lati della « nuova » frontiera tra Sudan ed Etiopia, la « guerra » si spense, e l’inerzia venne ravvivata soltanto da notizie come quella giunta da Khor el Otrub, che la consorte del colonnello, signora Castagnola, era partita in aereo da Metemma, o come quella dalla pro­ vincia di Kassala che annunciava la creazione della «Frosty Force» nel Gasse3, o il « grande giubilo » e il « morale più alto » nella regione dopo il bombardamento di Kassala 4. Da parte italiana, non è affatto chiara, in primo luogo, la ragione per cui il generale Frusci aveva invaso il Sudan5; né, in secondo luogo, era chiaro perché, l’invasione essendovi stata, si fosse proposta obiettivi così limitati. Forse aveva avuto luogo senza l’autorizzazione del generale Trezzani, o almeno del Maresciallo Badoglio, e di conseguenza era stata fer­ mata. Più probabilmente, era stata autorizzata a mo’ di tentativo, come un primo possibile passo che precedesse un’invasione su più vasta scala e meglio preparata nel mese di settembre, dopo le piogge. È invece assolutamente chiaro che gli italiani non avevano idea del panico causato tra gli inglesi dalle loro mosse. Eppure, con l’impiego di forze preponderanti, avevano occupato tre avamposti, compresa la capitale di una provincia, in pochi minuti anziché in poche ore. Si sarebbero dovu­ ti rendere conto che, semplicemente continuando nello stesso modo, avreb­ bero potuto occupare il ponte di Butana, Gedaref, Port Sudan, e, forse, anche Khartum. Disponevano degli uomini necessari e non sopravvaluta­ vano più il nemico. Invece, si limitarono a istituire un’amministrazione militare a Kassala, a imporre il coprifuoco, a liberare tutti i prigionieri, compresi i pazzi, e a tentar di portare dalla loro parte la setta khatmia 6. Per controbattere Vauagg, gli aerei italiani lanciarono sul Sudan volantini che sottolineavano la moderazione del governo dell’Italia nella Libia, nel­ l’Eritrea e nella Somalia, l’affetto di Mussolini per i musulmani e il suo entusiasmo per i piani favorevoli al progresso come l’allevamento del be­ stiame. L’Italia faceva la guerra agli inglesi, non ai sudanesi — sebbene chiunque opponesse resistenza fosse avvertito che lo aspettavano severi castighi. Gli inglesi si preoccuparono, a causa di questi volantini, più di quanto vollero ammettere in seguito e si fecero rilasciare assicurazioni di ovvia 342

fedeltà dai nazire dagli omda locali, più per tranquillizzare se stessi ri­ guardo al fatto che continuavano a essere amati, che perché le conside­ rassero prove di intenzioni sincere. E furono al contempo rassicurati e turbati dalle notizie secondo cui a Kassala vi erano stati pochissimi sac­ cheggi e nessuna « atrocità »; rassicurati perché ciò lasciava capire che gli italiani, se avessero conquistato il Sudan, si sarebbero comportati bene, e turbati perché, quel fatto stesso minava la loro volontà di resistere. Come ebbe a osservare Newbold « alcuni erano alquanto scoraggiati e alcuni falsamente aggressivi ».

Nel frattempo, si era avuta un’altra incursione oltre la frontiera; ma siccome essa si era svolta su un « fronte » diverso, a sud del Nilo Azzurro, non costituiva una vera minaccia. Una piccola guerra era già andata sviluppandosi a sud del saliente di Baro, ove, con l’aiuto di Evans-Pritchard, l’antropologo, e del suo annuak, il Commissario distrettuale di Akobo aveva preso audacemente l’iniziativa, attraversando il Gilo e respingendo due piccoli avamposti della Banda di Praga. Gli italiani effettuarono una rappresaglia molto più a nord, attaccando Kurmuk. Una volta di più avanzarono con forze preponderanti, due bat­ taglioni e squadriglie di bombardieri, contro un posto di polizia nel quale si trovavano un vice-Commissario distrettuale e 70 uomini. Un missiona­ rio in visita aveva cenato là il sabato, e si destò la domenica mattina ferito dalla scheggia di una bomba, mentre aveva luogo un si salvi chi può generale, comprendente Bell, il vice-Procuratore generale, « un mera­ viglioso cacciatore ». Un poliziotto rimase ucciso; e Hancock, a Roseires, sul Nilo Azzurro, un villaggio blandamente minacciato, ottenne esili rin­ forzi. Bell, che ardeva dal desiderio di vendicarsi, fece progetti per attac­ care Kurmuk con archi e frecce e giavellotti in fiamme. Per molti giovani del Sudan, la guerra continuava ad essere uno sport divertente 7, specie a sud del Nilo.

Questo attacco a Kurmuk fu significativo soltanto perché venne sferrato dal settore del generale Gazzera. Lasciava capire come gli attacchi prece­ denti non fossero stati semplicemente una iniziativa dell’impaziente ed emotivo generale Frusci, ma avessero fatto parte di un piano generale coordinato. L’attacco a Kurmuk preannunciava pertanto una mossa in direzione sud del generale Gazzera: l’invasione del Kenia. In effetti, l’attacco preliminare a Moyale aveva avuto luogo alquanto in precedenza, il 1° luglio. Il generale Tissi era avanzato con una delle sue brigate, la IX di Orrigo, tentando, cpn l’appoggio dell’aviazione e dell’artiglieria, un attacco esplorativo che era stato respinto; si trattava ovviamente soltanto di una mossa ingannevole, e il Brigadiere Fowkes venne a ispezionare e a spiegare le sue forze il 9 luglio, un giorno in cui 343

« il nemico era minacciosamente tranquillo ». Lasciò una compagnia del 1° KAR nella stessa Moyale e schierò il resto del battaglione sulle alture circostanti; il 6° KAR venne fatto avanzare come riserva. Il giorno dopo, all’alba, gli italiani bombardarono Moyale con le arti­ glierie, uccidendo tre soldati e ferendone gravemente altri quattro. A quanto pare, Moyale venne abbandonata per breve tempo dalle truppe in preda al panico. Gli altri reparti del 1° KAR sferrarono un contrattacco, che fallì; il capitano Drummond rimase gravemente ferito e gli uomini ripiegarono. Il Brigadiere Fowkes tornò in gran fretta da Uagir, con il suo ultimo battaglione, il 5° KAR; ma i segnali vennero fraintesi e f interà Brigata, dispersa e demoralizzata, corse il rischio dell’accerchiamento; il 13 luglio, Fowkes decise di ritirarsi con la protezione dell’oscurità. Anche questa operazione non riuscì; la compagnia che si trovava a Moyale non ripiegò fino alla notte successiva. E la vittoriosa IX Brigata italiana fu premiata a Moyale da una enorme quantità di bottino: equipaggiamento, vestiario, viveri e munizioni, tutto il materiale che non era stato distrutto. Moyale non rivestiva alcuna importanza di per sé: consisteva di un basso edificio rossastro simile a un forte, di un suk con pochi mercanti indiani, lungo un torrentello asciutto tra fitte boscaglie spinose, ed era infestata da zecche che succhiavano il sangue e circondata da rocce, sab­ bie, iene e briganti di confine — sul margine meridionale della scarpata etiopica. Ma ad essere significativo fu il fatto che, per la prima volta, una brigata inglese e una brigata italiana si erano scontrate in condizioni di quasi parità, e che la brigata inglese era stata sconfitta e aveva dovuto ripiegare ignominiosamente, e in considerevole disordine. Gli ufficiali del KAR analizzarono scoraggiati l’episodio. « Sebbene le truppe nemiche non si siano dimostrate affatto propense a impegnarsi in combattimenti corpo a corpo, hanno senza dubbio dato prova di una freddezza eccezionale sotto il fuoco e della capacità di strisciare fino a distanza ravvicinata con i fucili » osservò uno di loro. Erano « indubbia­ mente esperte nella guerra della boscaglia » notò un secondo ufficiale. E « si trattava di truppe efficienti all’estremo, che conoscevano bene l’impor­ tanza di far fuoco soltanto al momento giusto », stando ad un terzo. Tutto ciò costituiva un presagio estremamente infausto; e gli ufficiali del KAR, che avevano sempre avuto un’opinione molto alta di se stessi, cominciarono addirittura a domandarsi se i loro metodi di addestramento fossero quelli giusti. « Giudicando da queste truppe e tenuto conto del fatto che devono trovarsi da lungo tempo sotto le armi, sembra che i sistemi italiani di addestramento, probabilmente non temperati come i no­ stri dalla bontà, siano più efficaci nel preparare le truppe a combattere. » In altri termini, gli ufficiali del KAR, riconoscevano di essere troppo poco severi e inesperti. Si trattava di autocritica a oltranza. 11 morale crollò ancor più verso la fine del mese, quando un battaglione appena giunto dall’Africa Occidentale — il 1° Nigeriani — attaccò un grup­ po di bande a Dobel, con 2.000 cammelli, perdette due ufficiali e si ritirò, disorganizzato, passando tra l’altrettanto demoralizzato 6° KAR, il cui 344

stendardo venneeatturato dal nemico. Le due brigate dell’Africa Occi­ dentale erano infine giunte — quella nigeriana, agli ordini del Brigadiere Smallwood, e quella della Costa d’Oro, comandata dal Brigadiere Richards. Ma se anche gli Aussa della Nigeria settentrionale — truppe regolari e bene addestrate - potevano essere sconfitti da un gruppo di Dubat somali irre­ golari, quali speranze rimanevano per il Kenia e per i suoi difensori? Il generale Dickinson tentò frettolosamente un attacco diversivo alquan­ to disperato. In base al principio che per conoscere un furbo occorre un furbo e mezzo, egli diede via libera ai profughi etiopi. A Taveta si formò in fretta e furia il « 1° Battaglione etiopico », lo si divise in cinque com­ pagnie di cento uomini, si distribuirono vecchi fucili e cento cartucce a testa, e lo si lanciò all’altro lato del Galla-Sidamo, al di là del lago Rodolfo, nella direzione di Magi. Per anni i profughi avevano languito nei campi, chiedendo invano armi e munizioni e l’autorizzazione di attaccare gli. italiani. In fin dei conti, avevano tutti, all’inizio, attraversato il confine per chiedere l’aiuto inglese. Finalmente lo ebbero: i loro capi di un tempo, degiacc UoldeMariam, degiace Zaudiè Aialeu e il ftaurari Tademe Zellechè, assunsero il coman­ do. Ricevettero razioni per tre giorni, furono scortati fino alla frontiera da due plotoni del KAR e là, subito oltre la linea di confine, in territorio etiopico, alzarono la bandiera etiope. I plotoni del KAR salutarono. Era la prima volta che la bandiera etiope veniva alzata in Etiopia da una forza di invasione etiopica dopo la fuga dell’Imperatore. Fu il momento più bello e più romantico di questa « invasione ». Il piccolo reparto, comprendente cinquecentodieci uomini, si addentrò nelle terre ostili e sconosciute dei Merlile, con l’intenzione di raggiungere il ter­ ritorio che conosceva al di là dell’Omo. Ma l’Omo, in piena, non poteva essere attraversato, e i profughi vennero a trovarsi in una regione aspra, nuda, ostile e priva di risorse. Per tredici giorni continuarono ad arran­ care dopo aver esaurito le razioni: una breve schermaglia con una banda bastò a fermarli e ad indurli a tornare indietro. Ripiegarono lungo la frontiera finché non vennero trovati, il 7 agosto, da una pattuglia del KAR e riportati alla base di partenza perché si sfamassero e si riposas­ sero. Avevano perduto soltanto quattro uomini, ma la spedizione era stata un fiasco completo. Erano stati lanciati troppo in fretta nella parte meno adatta del paese; le autorità inglesi nel Kenia, però, non incolparono se stesse, bensì i profughi, e, dopo di allora, si avvalsero ben poco dei combattenti etiopi, ai quali si riferivano di solito chiamandoli con disprez­ zo shiftà. Il « 1° Etiope » venne riorganizzato a Lodwar e posto agli ordini di un colono del Kenia, il capitano Angus Buchanan. Al contempo, si formò il « 2° Etiope » con i profughi rimasti a Taveta, anch’esso agli ordini di un ufficiale inglese, il capitano Boyle. In avvenire non si sarebbe più lascia­ ta briglia sciolta ai profughi, agli ordini dei loro capi. Nel frattempo, Blatta Taclè e degiacc Abebè erano arrivati a Taveta e furono nominati ufficiali di collegamento, ma tenuti d’occhio molto attentamente. Blatta Taclè, al 345

quale era stato vietato di parlare ai suoi compatrioti di problemi politici, commentava lungamente i testi di Ezechiele. Il tentativo del generale Dickinson di creare una diversione era stato un fiasco assurdo, ma il generale Gazzera continuava a non tentare alcuna seria avanzata da Moyale; e Nairobi tornò a respirare, e con grande sol­ lievo, quando la la Brigata sudafricana arrivò finalmente a Mombasa. Questo significava che esistevano ora nel Kenia cinque brigate — mentre alcune settimane prima erano state soltanto due — e un numero di gran lunga maggiore di armi d’appoggio, compagnie di carri leggeri e unità mediche sudafricane, qualche reparto di artiglieria e, di lì a non molto, tre squadriglie dell’aviazione sudafricana dotate dagli inglesi dei moderni Hurricane. Il Kenia non era più indifeso come appena poco tempo prima. Ciò nonostante, 1’« invasione », susseguitasi all’« invasione » del Sudan, aveva spaventato Londra. Wavell, a quei tempi fatto spesso oggetto di critiche nel corso delle riunioni di Gabinetto, venne chiamato a Londra «per consultazioni». Churchill era deciso a scuotere il Comando del Medio Oriente e ad evitare altre sconfitte a opera degli italiani incorag­ giati. Ma per questo doveva arrivare troppo tardi.

CAPITOLO NONO

LA CADUTA DELLA SOMALIA BRITANNICA

Tecnicamente, Gibuti, una colonia francese, era stata neutralizzata come la madrepatria dall’armistizio. In pratica, il generale Le Gentilhomme, « un incubo affibbiatoci dagli inglesi », come diceva il Duca d’Aosta, non soltanto aveva temporeggiato, ma si era rifiutato di consentire alla Com­ missione italiana di armistizio, e al rappresentante ufficiale del governo francese, di entrare nella colonia. Gli italiani sapevano inoltre, probabil­ mente, che egli aveva telegrafato al generale Dickinson nel Kenia (il 30 giugno) per dirgli che si sarebbe battuto al fianco degli inglesi. Con cre­ scente impazienza, osservavano, apettavano e ordivano intrighi, nell’impos­ sibilità di attaccare la Somalia francese fino a quando la posizione dei francesi non fosse divenuta del tutto chiara; nel frattempo, erano esposti a loro volta a un attacco del temibile Le Gentilhomme. Anche dopo il disastro di Mers-el-Kebir, anche dopo che la Francia ufficiale aveva rotto i rapporti diplomatici con l’Inghilterra e i francesi ovunque si erano per­ suasi una volta di più di ciò che in cuor loro avevano sempre saputo, della perfidia, cioè, dell’ex-alleata, il generale Le Gentilhomme, sorprendendo tutti, rimaneva inflessibile. Il 10 luglio, una settimana dopo Mers-el-Kebir, mentre il Maresciallo Pétain si faceva votare i pieni poteri in Francia e scioglieva l’Assemblea, quest’unica e piccola colonia francese, tra tutte le colonie francesi ovun­ que, in Africa, in Asia, nel Medio Oriente o negli oceani, proclamava apertamente la propria fedeltà alla precedente alleanza, e diveniva così, anche sul piano ufficiale, « dissidente ». Il generale Le Gentilhomme aveva ai propri ordini diretti circa 10.000 uomini: sette battaglioni di truppe senegalesi, una compagnia mitraglieri e tre squadroni di cavalleria. Inoltre, come comandante alleato, disponeva delle forze della Somalia britannica. Queste ultime, di gran lunga inferiori, consistevano fondamentalmente del Corpo meharisti *, nonché di due o tremila Maio, una via di mezzo tra la polizia irregolare e la banda irre­ golare. Ma Wavell, prima che la guerra venisse dichiarata, aveva rafforzato la Somalia britannica con un battaglione di truppe coloniali provenienti dalla Rhodesia settentrionale. Non si trattava ancora di un grande appa­ rato militare. Però altre forze più importanti si stavano riunendo come riserve e truppe di contenimento. Il 2° KAR era in viaggio da Mombasa, 347

e, quello stesso giorno, il 10 luglio, due battaglioni del Punjab arrivarono da Bombay per unirsi alle truppe di Aden e alle truppe a terra della RAF, che costituivano il nocciolo della guarnigione di Aden. Ciò nonostan­ te, questa guarnigione comprendeva soltanto 2.500 uomini e veniva spo­ radicamente fatta oggetto di azioni di disturbo da parte degli indigeni della tribù dei Qataibi, pagati dagli italiani. E, naturalmente, la guarni­ gione di Aden non dipendeva dal generale Le Gentilhomme. Complessivamente, pertanto, Le Gentilhomme poteva contare su 10.000 soldati regolari nella Somalia francese e su circa 1.500 nella Somalia bri­ tannica. Con questi uomini doveva studiare il modo di parare un’offensiva italiana che entrambe le parti ritenevano ormai imminente. Esistevano sei possibili direttrici per un’invasione motorizzata; sei passi attraverso i quali strade o piste conducevano alla piatta e non difendibile pianura costiera lungo il Mar Rosso. Dal passo principale, la strada prin­ cipale che conduceva a Gibuti da Diredaua attraversava la frontiera pas­ sando per il posto saldamente fortificato di Ali Sabiet. La linea ferroviaria correva nelle immediate vicinanze, parallelamente alla strada. In quel punto, le truppe francesi avevano già dato prova del loro valore respin­ gendo un attacco esplorativo italiano due settimane prima. L’altro passo che conduceva nel territorio di Gibuti si trovava più a nord, spostato verso Assab. Anch’esso era saldamente fortificato e salda­ mente difeso. La vera minaccia alla Somalia francese sarebbe venuta da un movimento aggirante lungo la costa, dopo un’avanzata italiana su uno dei quattro passi che conducevano alla Somalia britannica, o su tutti. Questi quattro passi si trovavano già in profondità nel territorio della Somalia britannica. Il piano originario aveva previsto che i francesi for­ tificassero e tenessero i due passi più vicini al loro territorio, Jirreh e Dobo; ma il denaro per le fortificazioni non era pervenuto dal governo francese e Le Gentilhomme, con riluttanza, aveva dovuto rinunciare all’at­ tuazione di questo piano. Jirreh, dal quale la strada portava direttamente a Zeila, sulla costa, prima di curvare verso Gibuti, era tenuto con scarse forze da un distaccamento del Corpo meharisti; e Dobo non era difeso affatto. Ma truppe francesi si tenevano pronte ad avanzare qualora si fosse profilata la minaccia di un attacco. Gli inglesi concentrarono le loro difese sui rimanenti due passi e più particolarmente sul Tug Argan, situato sulla strada che collegava direttamente Harar e la capitale della Somalia britannica, Berbera. Là il batta­ glione della Rhodesia del Nord si spiegò insieme alle truppe motorizzate del Corpo meharisti. Una compagnia mitraglieri difese il passo Sheikh, più a est, e le compagnie del Corpo meharisti, pur rimanendo momen­ taneamente nei loro avamposti di Hargheisa e di Burao, si prepararono ad abbandonarli e a ripiegare sui passi ai primi indizi di un’invasione. E poi, stando al piano del generale Le Gentilhomme, gli italiani sareb­ bero stati respinti e colonne alleate avrebbero marciato da Gibuti, da Zeila e da Berbera, spingendosi lungo la linea ferroviaria e verso Giggiga, per convergere, dopo la caduta di Harar, a Diredaua; di là, tre colonne 348

parallele si sarebbero limitate ad avanzare lungo la ferrovia per attraver­ sare il fiume Auasc e piombare sugli italiani demoralizzati ad Addis Abeba. Il piano aveva, per lo meno, il merito della semplicità. E negli ambienti militari di Gibuti non esistevano indizi di disfattismo, e tanto meno di panico.

Il fratello di Gina e la sua squadriglia erano stati nuovamente trasferiti nella « orribile » Assab, e, mentre il colonnello del Cairo si trovava a Gi­ buti, bombardieri inglesi partiti da Aden fecero loro un’altra visita. « 6.30. Un Bristol Blenheim sta già sorvolando Assab. Come sono mat­ tinieri questi inglesi! Il nostro personale a terra, come al solito, si dirige nel rifugio sotterraneo. Io decollo e comincio a sparare, ma il pirata non precipita, fugge e mi lascia indietro con la sua diabolica velocità. » Un’ora e mezzo dopo, i bombardieri — «luridi maiali! » — erano di nuovo lì. « Quasi non è ancora stato dato l’allarme che tutti si precipitano verso i rifugi e soltanto Micca, l’armiere, va nella sua tenda a prendere due mitragliatrici. È genovese e ha saputo del premio (40.000 lire) offerto dal Comando orientale all’Asmara per ogni aereo abbattuto dal suolo. « I Gloucester sono di nuovo qui e io vedo ad appena pochi metri di distanza gli zampilli di terra causati dalle pallottole delle mitragliatrici che colpiscono e rimbalzano. Seguendone la traiettoria vedo l’aereo a circa dodici metri di distanza e riesco a distinguere ogni minimo partico­ lare del piccolo apparecchio, il pilota, il colore verdastro della fusoliera e i distintivi sulle ali, il tricolore in un circolo. Dopo alcuni altri passaggi ci rendiamo conto, dal rombo dei motori, che gli aerei si stanno allonta­ nando e udiamo anche il crepitio di tutto ciò che brucia, come legna secca scoppiettante nel fuoco. « Un’impressione terrificante. I nostri aerei sono in fiamme! Nel rifugio regna il silenzio: è il silenzio che segue alla rovina e alla distruzione. Il momento viene reso ancor più tragico dalla distruzione delle munizioni a bordo, che cominciano a esplodere a causa del calore. Aspettiamo all’in­ gresso del rifugio che le esplosioni cessino, perché potrebbero facilmente colpire qualcuno di noi. Contemporaneamente, il vento spinge il fumo nero della benzina e dei materiali che ardono impetuosamente tutto in­ torno. » E il fratello di Gina, la cui squadriglia era stata trasferita lì appena tre giorni prima per sostituire « la squadriglia distrutta di Lucertini », conclude il diario della giornata con un vero e proprio grido d’angoscia: « Che cosa faremo senza i caccia? » Pochi giorni dopo, gli aviatori italiani, tornati a Diredaua, furono nuovamente bombardati. « Diredaua. 12.30. È l’ora di pranzo ed io mi trovo nella mensa e sto mangiando quando le sirene ululano per la seconda volta. I camerieri in­ digeni, molto sensibili a queste cose, abbandonano vassoi carichi di vivan­ 349

de; alcuni li lasciano addirittura cadere sul pavimento. I danni sono gravi; una bomba è caduta su Villa Blu, devastando gli alloggi ufficiali. Un’altra fa saltare in aria un deposito di iprite; fortunatamente per noi, il vento sta soffiando nella direzione giusta. Già un’altra volta, nei primi giorni di guerra, le bianche colonne di fumo dell’iprite avevano diffuso il panico nell’aeroporto e nella cittadina e un gran numero di persone si era sottratto al pericolo fuggendo sulle vicine alture. Durante l’incursione è accaduto un incidente molto buffo. Il cappellano dell’aeroporto, in piedi con le mani giunte e gli occhi levati al cielo, diceva: ’’Dio mio, Dio mio, non sono ancora degno di venire a Te”. » Con i camerieri di mensa terrorizzati dalla pioggia di bombe e il cap­ pellano terrorizzato dalla condanna eterna, con i depositi di gas venefici che esplodevano2 e i Caproni distrutti al suolo, la RAF di Aden, poten­ ziata, stava dominando i cieli con la stessa sicurezza con cui Le Gentil­ homme si proponeva di dominare sul terreno. Eppure, il 1° agosto, il fratello di Gina, che era quasi riuscito ad ab­ battere un Blenheim — la mitragliatrice era rimasta priva di munizioni mentre egli stava sparando quella che sarebbe dovuta essere la raffica fatale - parve più ottimista. « Gli inglesi » scrisse « si stanno perdendo di coraggio e non hanno più la fiducia in se stessi dei primi giorni della guerra ». Aveva ragione, sebbene — minuscolo ingranaggio della macchina mili­ tare — non sapesse perché.

Durante le ultime tre settimane di luglio, la situazione, dal punto di vista italiano, era improvvisamente migliorata mentre, dal punto di vista alleato, sembrava essersi deteriorata in modo drammatico. A Gibuti erano state ristabilite le comunicazioni telegrafiche con il territorio metropolitano della Francia, con Vichy. Seguì una sequela di ordini e così, il 27 luglio, i francesi di Gibuti, influenzati per giunta da una tempestiva minaccia italiana di invasione, accettarono le condizioni d’armistizio. Le Gentilhomme dal cuore di leone non le accettò, ma egli era ormai, in effetti, un generale senza truppe e senza potere. Il 2 agósto arrivò il generale Aymé, il nuovo comandante militare, sorvolando il Sudan dalla Libia. Il generale Le Gentilhomme rifiutò saggiamente il rimpatrio e attraversò la frontiera della Somalia britannica, seguito soltanto da due ufficiali, il capitano Appert, capo del suo Deuxième Bureau, il sostenitore di Abebè Aregai e dei ribelli, e il capitano Des Essarts. « Aveva tenuto duro » commentò Newbold « ma era stato abbandonato dai civili e non gli sarebbe stato possibile continuare senza una guerra intestina. E così, ecco un’altra colonia che se ne va. » Da Berbera fu mandato al sicuro ad Aden e di là egli ebbe il dubbio piacere di poter seguire una battaglia alla quale non gli era possibile partecipare. La battaglia, infatti, era ormai inevitabile, e sembrava che si sarebbe trattato di una battaglia dalle sorti già decise. La Somalia britannica era 350

ormai inaspettatamente e drammaticamente sola, di fronte a forze di gran lunga superiori, radunate per schiacciare il calabrone francese, non la vespa inglese. Non ci si' può stupire se i francesi adottavano una neutralità amichevole, se il generale Nasi era esultante e se gli inglesi si mostravano demoralizzati. Nasi si accinse adesso a gettare tutto il peso delle sue forze contro le trascurabili difese della Somalia britannica e a spazzare in mare gli inglesi. « L’occupazione della Somalia sembra certa » scrisse Newbold in una lettera scoraggiata « tanto è grande la superiorità numerica degli italiani. Spero soltanto che a Berbera non avvenga una seconda Dun­ kerque. »

Il 3 agosto, quasi un mese dopo le « invasioni » del Sudan e del Kenia, gli italiani invasero la Somalia britannica. Ma questa volta si trattò di una faccenda molto più seria; le colonne che avanzavano comprendevano non già pochi battaglioni, ma 40.000 uomini; ventisei battaglioni di truppe regolari appoggiati dall’artiglieria, dall’aviazione e da truppe irregolari. Il generale Nasi aveva studiato le carte di cui disponeva — e che, come doveva constatare in seguito, lasciavano qualcosa a desiderare — e deciso di conseguenza i propri piani. La spinta principale doveva, come gli ingle­ si avevano sempre sospettato, essere esercitata contro Berbera, attraverso l’ampio passo di Tug Arg'an; e, in vista di tale spinta, egli aveva formato a Harar una « Divisione speciale » agli ordini del generale Carlo de Simo­ ne, comprendente quattro brigate — la XIII di Nasi, la XIV di Tosti, la XV di Graziosi e, soprattutto, la II, comandata da un famoso mangiafuoco, il colonnello Lorenzini. Il generale Bartello comandava tutti i Gruppi dubat di irregolari somali nei territori della Somalia, nove o dieci gruppi in tutto, alcuni dei quali sorvegliavano la frontiera del Kenia nel Giubaland, e altri nell’Ogaden. compresa la un tempo famigerata Ualual. Questi ultimi cinque gruppi vennero riuniti per costituire una seconda colonna di irregolari agli ordini del loro comandante. Dovevano aprirsi a ventaglio sul fianco destro della principale colonna di invasione e sondare le difese dello stretto passo di Sheikh. Il generale Nasi sapeva benissimo, probabilmente, che gli altri due passi, di Jirreh e di Dobo, erano stati affidati a truppe francesi, per cui, adesso che non esistevano più truppe francesi per tenerli, sarebbero stati quasi indifesi. Si proponeva pertanto di spingere il secondo rebbio dell’attacco rapidamente fino a Zeila, sul Mar Rosso; da Zeila, questa colonna, vol­ tando le spalle a Gibuti amica, avrebbe dovuto lanciarsi lungo la strada costiera fino a Berbera, aggirando così alle spalle i difensori inglesi del Tug Argan e travolgendoli. Per avere la certezza del successo di questo aggiramento, si proponeva, invero, di mandare non una sola colonna, ma due nella direzione di Zeila, e di affidare il comando di queste colonne a due generali noti per la loro accesa rivalità personale: un generale della Milizia, il generale Passerone (definito una volta dal console inglese «un 351

tizzone fascista»), e un generale dell’esercito, Bertoldi. Così spronati dal­ l’emulazione — l’idea originaria e le parole erano di Trezzani — si sareb­ bero precipitati avanti con le alì ai piedi, entrambi ansiosi di arrivare a Berbera prima dell’altro. Al generale Bertoldi vennero affidate le forze più potenti, due brigate (la LXX e la XVII), nonché due battaglioni di truppe bianche. Il generale Passerone disponeva soltanto di un battaglione di Camicie nere e di un battaglione indigeno, oltre all’artiglieria — la forza per l’uno, la mobilità per l’altro. Gli ufficiali del servizio informazioni italiano avevano, come sempre, sopravvalutato enormemente il numero delle truppe nemiche. Ritennero che ammontassero in totale a 11.000 uomini (forse comprendendo tra le truppe combattenti gli Maio, sebbene gli Malo non si muovessero). V’era­ no certamente, però, più uomini di quanti ve ne fossero stati prima; i due battaglioni indiani e il 2° KAR erano stati mandati da Aden, più che rad­ doppiando il numero dei circa 1.600 uomini già sul posto, e migliorando di gran lunga le possibilità della difesa. Infatti i battaglioni indiani erano — come tutti i battaglioni indiani — truppe eccellenti e addestratissime, ben diversamente dai rhodesiani del nord, reclute, o dal Corpo meharisti, il cui entusiasmo, quando veniva impegnato contro truppe somale di una potenza filo-musulmana, diveniva dubbio. Non senza stupore degli italiani, gli inglesi sembravano decisi a opporre resistenza: riunirono il grosso delle loro forze intorno a Tug Argan e trasmisero una disperata richiesta di rinforzi. I rinforzi erano disponibili. Wavell aveva deciso — ignorando molti consigli — che la Somalia britannica, se invasa, sarebbe stata difesa seria­ mente; e Wavell aveva mandato ad Aden un battaglione del suo reggi­ mento, il 2° battaglione della Black Watch. Se i sikh erano ottimi com­ battenti, questi scozzesi godevano di una fama ancora più grande. Si trovavano scomodamente accampati ad Aden, in un attendamento a Khormaksur — in tutta Aden soltanto il consolato italiano disponeva di impianti igienici moderni: un water e un bagno rivestito in marmo — quando le colonne degli invasori attraversarono la frontiera. Non vi fu alcuna resistenza. Gli uomini del Corpo meharisti, nelle posi­ zioni avanzate, ripiegarono su Tug Argan senza nemmeno tentare di im­ pedire l’aggiramento di Nasi, e, due giorni dopo l’inizio dell’invasione, il generale Bertoldi e la sua colonna si trovavano a Zeila, con Passerone non lontano alle loro spalle, pronti a proseguire lungo la pista costiera verso Berbera e a isolare i difensori del passo Tug Argan. Soltanto il giorno successivo la Black Watch ricevette finalmente l’ordine di interve­ nire, ed è un indizio della pessima preparazione inglese il fatto che occor­ sero tre giorni per traghettare quest’unico battaglione da Aden attraverso il golfo, per prendere posizione a Berbera come riserva. E, in quei tre giorni, le colonne italiane — ecco un indizio dell’inefficienza italiana — non fecero virtualmente nulla, limitandosi ad avanzare con cautela men352

tre avrebbero potuto gettarsi sui loro obiettivi prima che venissero raf­ forzati. Il generale de Simone si mostrò particolarmente cauto e continuò a fare avanzare la poco maneggevole colonna centrale in una formazione da manuale, sebbene gli esploratori riferissero che la regione più avanti era virtualmente indifesa fino ai passi. Il 6 agosto, una volta occupata Hargeisha dopo un breve scambio di colpi con un avamposto dei rhodesiani, la colonna centrale si fermò e, alla sua destra, i dubat di Bartello, dopo aver occupato il villaggio di Odueina, si fermarono a loro volta: mentre Burao e un’altra pista fino a Berbera, con tutto l’hinterland indifeso, erano a loro portata di mano. I piani italiani, a quanto pare, non erano sola­ mente cauti, ma anche inflessibili: non vi fu alcun tentativo di sfruttare le occasioni offerte. E, per due interi giorni, con il pretesto della pioggia e delle pessime strade, tutte le colonne del generale Nasi rimasero immobili ove si trovavano; si rimisero in movimento soltanto Γ8 agosto, dopo conti­ nui incitamenti di Trezzani da Addis Abeba e addirittura del Duca d’Ao­ sta, il Viceré. Il giorno dopo, mentre le pattuglie si spingevano avanti verso il Tug Argan, il Duca d’Aosta telegrafò a Roma per annunciare che gli inglesi avevano ripiegato; poi -soggiunse, interdetto: « E sembra che intendano accettare battaglia. A quale scopo non saprei dire: o per avere il tempo di sgombrare su Berbera e di là ad Aden, oppure per guadagnare tempo in attesa di rinforzi ». Il Duca d’Aosta era stato contrario all’invasione della Somalia britannica, non vedendo affatto l’utilità di occupare Berbera e Zeila, che senza dubbio non rappresentavano una minaccia per l’A.O.I. Del pari, non riusciva a capire a quale scopo gli inglesi sacrificassero truppe per difendere una posizione essenzialmente priva di valore, una volta iniziato l’attacco. In termini strettamente militari, il suo atteggia­ mento era razionale, ma egli, e molti altri da entrambe le parti, non tenevano sufficientemente conto del fattore psicologico. Gli inglesi, nel frattempo, grazie ai movimenti da tartarughe dei gene­ rali italiani, avevano portato sul posto i rinforzi; e, entro la sera del 10, la Black Watch si trovava nel piccolo villaggio di Laferug, dietro Tug Argan. Avevano dinanzi a sé il comando della brigata sulla collina di Barkasan, e tre dei quattro battaglioni schierati lungo i fianchi dell’am­ pio varco del passo. Il quinto battaglione era stato distaccato e inviato a tenere l’altro passo più a est, a Sheikh. Ma, alle loro spalle, e tutto attorno e in ogni altro luogo, c’era il vuoto militare: nulla... nulla tranne pochi gruppi mobili del Corpo meharisti e alcuni uomini della polizia somala. Berbera rimaneva esposta e sarebbe potuta essere occupata se soltanto l’aggiramento avesse avuto luogo. Ma le due colonne italiane sulla costa sembravano inesplicabilmente e inestricabilmente ritardate. Intanto, una decisa battaglia si profilava al Tug Argan; mentre, dopo aver decollato da Harar3 il fratello di Gina atterrava sul campo d’avia­ zione di Hargheisa ( « che i signori inglesi hanno abbandonato fuggendo l’altro giorno. Il reparto avanzato che per primo ha occupato la località, 353

ha trovato bistecche ancor calde sui tavoli coperti di tovaglie di lino colorate. Forse quello era. il terzo o il quarto dei loro cinque pasti quoti­ diani ») e ripartiva per mitragliare il deposito male mimetizzato di una pattuglia a Berbera: « I fusti hanno preso fuoco come fiammiferi, erut­ tando dense colonne di fumo. Che piacere brutale si ricava dalla distru­ zione! ».

Anche gli inglesi dovevano provare a loro volta piaceri brutali; ma la loro volta non era ancora arrivata, decisamente. Mentre carri armati leg­ geri italiani si portavano avanti nel passo, in esplorazione, il quartier ge­ nerale al Cario — poiché Wavell era in viaggio per Londra — ordinava l’in­ vio per mare di un reggimento di artiglieria campale, che non arrivò mai, e impartiva disposizioni affinché un maggior generale proveniente dalla Palestina assumesse il comando della difesa, come infatti avvenne. Il maggior generale Godwin-Austen, già in viaggio per il Kenia quan­ do gli giunse l’ordine, arrivò al Tug Argan la sera dell’ll agosto e vi trovò il consueto schieramento dell’esercito inglese: una dispersione di compagnie distaccate in posizione sui versanti o sulle cime o sui crinali di una serie di alture appena ribattezzate — « Bitorzolata », « Mulino », « Nera », « Castello », « Osservazione » e così via. Erano state bombar­ date quel giorno all’alba e attaccate dalla XIV Brigata, mentre la II di Lorenzini aveva tentato un movimento aggirante intorno a Laferug. Le due Brigate italiane vennero respinte, quella sera; ma entrambe le parti sembravano meravigliate, e lievemente allarmate, a causa della po­ tenza e della decisione dell’avversario. Il generale De Simone apprese che alla sua destra anche i dubat di Bertello erano stati bloccati dal battaglione indiano sul passo Sheikh. Fece riposare le truppe per un giorno, poi attaccò, e attaccò ancora, e venne contrattaccato e respinse il contrattacco, e chiese l’intervento del­ l’aviazione e tentò, sempre senza successo, altri aggiramenti e si stupì e si sgomentò constatando che la difesa inglese non era semplicemente am­ pia e sottile, ma anche profonda. Le truppe indigene, in particolare scioane e amhara, si get cavano avanti selvaggiamente durante gli attacchi e subivano molte perdite; la XIV Brigata dovette essere ritirata dall’azione, tanto era stata falcidiata. E il terreno era così difficile che gli eritrei di Lorenzini, meglio addestrati e di gran lunga più esperti, non riuscirono ad aggirare il fianco delle posizioni nemiche, per quanto ci si provas­ sero 4. Così, sebbene gli attaccanti avessero una superiorità di quattro con­ tro uno, rispetto ai difensori, e sebbene due alture fossero state conqui­ state, nessuno dei generali italiani era molto soddisfatto di come stavano andando le cose — né De Simone al fronte, né Nasi che coordinava le operazioni da Harar, né Trezzani ad Addis Abeba. Di una cosa si resero conto, che i loro avversari erano ancora più in­ 354

quieti, e che idue battaglioni di truppe africane, il 2° KAR e i rhode­ siani del nord, avevano raggiunto il punto di rottura. Così come i nervi del generale. Quest’ultimo era stato particolarmente turbato da un epi­ sodio svoltosi nella notte del 13, quando, per la prima volta, una compa­ gnia della Black Watch, fino a quel momento tenuta di riserva, aveva ricevuto l’ordine di avanzare. Gli uomini del generale Lorenzini le ave­ vano teso un’imboscata al chiaro di luna e, nella confusione generale, il capitano Rose, il comandante, era alla fine fuggito, tornando indietro. Ma gli autisti negri, ancora più fulminei lo avevano preceduto con notizie la­ coniche, ma nettamente disastrose: « Maggiore ucciso, capitano ferito, tut­ to finito, non buono ». Se anche una compagnia della Black Watch poteva essere sbaragliata e ridotta al caos (il suo comandante era stato sostituito con l’assai dubbio pretesto ufficiale di un improvviso « stato di prostrazio­ ne fisica»), quali speranze rimanevano? E, sebbene il generale avesse sosti­ tuito anche il comandante del 2° KAR con un altro maggiore della Black Watch, la situazione sul Tug Argan andava peggiorando, il morale degli africani era basso e, con ogni probabilità, pensava il generale (che aveva studiato i rapporti sulla débàcle del KAR a Moyale), sarebbe crollato. Godwin-Austen non poteva sapere, naturalmente, che anche i generali nemici erano altrettanto preoccupati; e che Nasi e Trezzani, incontratisi per conferire, stavano prendendo in seria considerazione la possibilità di rinunciare a tutta l’impresa, tanto più in quanto il loro piano machia­ vellico imperniato sulle due colonne costiere partite da Zeila era andato malissimo. Come Trezzani scrisse in seguito al Maresciallo Badoglio, en­ trambi i generali rivali si erano impegnati a fondo non già per avanzare, ma per impedire all’altro di farlo. Una parte della colonna di Bertoldi aveva raggiunto persino il villaggio di Buchar, superando i tre quarti della distanza da Berbera, ma soltanto per essere ritirata. E non affluivano altro che lagnanze concernenti ostacoli, mancanza d’acqua, inesistenza di strade in precedenza ritenute transitabili. Così, l’intero piano italiano, in teoria eccellente, era fallito a causa dell’errore, non ancora conosciuto, degli ufficiali del comando: le carte topografiche; errore in seguito al quale vi erano state gravi perdite, ma anche a causa della quasi crimi­ nosa incapacità di due generali italiani e della cautela eccessiva di un terzo. Fortunatamente per loro, si trovavano di fronte a un generale in­ glese che non valeva molto di più. Infatti, nelle prime ore del 15 agosto, Godwin-Austen diede partita vinta all’avversario ; telegrafò al Cairo chiedendo l’autorizzazione di ripie­ gare e dicendo che non vedeva altre alternative. A mezzogiorno giunse l’autorizzazione. Non si ripetè la battaglia delle Termopili sul Tug Argan anche se una battaglia delle Termopili, per quanto si può giudicare con il senno di poi, sarebbe stata non soltanto una grande impresa, ma un vero trionfo per le armi inglesi.

Il problema consisteva adesso nell’evitare « una Dunkerque a Berbera », 355

e in questo Godwin-Austen — aiutato, bisogna riconoscerlo, da De Simone — ottenne risultati molto migliori. Ordini vennero diramati: ripiegamento e sgombero del 17“; i tre batta­ glioni avanzati sul Tug Argan dovevano ripiegare attraverso la Black Watch; le quattro compagnie della Black Watch dovevano attestarsi a Barkusan e tenere le posizioni fino al cader della notte. Tutto ciò era più facile a dirsi che a farsi; il passo in quel punto aveva un’ampiezza di oltre un chilometro e mezzo, e le compagnie attestate a ciascun lato si trovavano sui versanti più bassi, ove potevano essere domi­ nate dall’alto e bersagliate da qualsiasi movimento aggirante del nemico. E per fermare i carri armati italiani disponevano di un solo pezzo contro­ carro Bofors e di un pezzo controcarro Breda, catturato agli italiani, con cinque colpi. « Se il nemico avesse impiegato a dovere i propri carri ar­ mati » scrisse in seguito l’ufficiale reggimentale delle informazioni « le di­ fese sarebbero state travolte ». Ma non li impiegò — e in parte ciò è comprensibile, perché due carri leggeri e uno medio erano stati distrutti dal sergente maggiore Sandy e lo spettacolo di simili distruzioni tende logicamente a rendere i comandanti dei carri superstiti circospetti, se non vili. Così la Black Watch resistette per tutto il giorno benché attaccata al mattino dagli eritrei di Lorenzini — mantenendosi in collegamento con fi­ schietti finché « l’intera campagna fu tutta una complessa sinfonia di fischi » — e sebbene l’attacco fosse stato sferrato sulla sinistra con grande coraggio, fino al momento in cui cinquanta Highlander balzarono in piedi e anda­ rono all’assalto, lanciando urla selvagge, con le baionette inastate, per seicento metri, uno spettacolo terrificante, tale da mettere « i nemici in fuga come lepri a centinaia » ; e poi nel pomeriggio all’avanzata di venti carri armati, mentre un battaglione di Lorenzini, con muli, eseguiva un lento movimento aggirante, visibilmente e minacciosamente. La Black Watch resistette fino a poco prima del crepuscolo, perdendo soltanto sette uomini, coprendo con successo il ripiegamento degli altri battaglioni; infi­ ne, fu autorizzata a ritirarsi, con vigile cautela, verso Berbera. Il fratello di Gina sorvolò la battaglia, disposto a credere a qualsiasi versione, per quanto esagerata, di quell’epico scontro. «Una battaglia accanita» scrisse. «La mattina del 17, i nostri mezzi di trasporto, gli autocarri, i mezzi corazzati, eccetera, stavano affluendo come enormi tartarughe e, in fila indiana, percorrevano la bianca strada verso Berbera. La più valida resistenza veniva opposta ai ripetuti attacchi delle nostre truppe bianche e di colore. Dall’alto potevamo assistere a ter­ rificanti duelli di artiglieria. Ondate di Caproni e di Savoia martellavano le posizioni del nemico. Dopo giorni e giorni di disperati combattimenti, il nostro stato maggiore lo aveva aggirato. Le nostre truppe di colore, ine­ briate dall’alcool e dal sapore del sangue, prendevano d’assalto i fortini, massacrando le truppe australiane e rhodesiane al servizio dell’Impero Britannico ». E così via, nella stessa vena. Ma le truppe non massacrate — e le perdite complessive da parte inglese 356

in tutto l’episodio somalo ammontarono ad appena 260 uomini, contro un totale di 2.029 caduti italiani5 — poterono allontanarsi tranquillamente, per nulla molestate dagli italiani. Il generale De Simone, infatti, a quanto pare non prese mai in considerazione un opportuno incalzante insegui­ mento, sebbene la strada fosse aperta; e, poche ore dopo mezzanotte, an­ che la retroguardia, la Black Watch, si era tranquillamente imbarcata; le pattuglie italiane arrivarono a Berbera soltanto la sera di due giorni dopo. Per conseguenza, non fecero altri prigionieri e trovarono assai meno bottino ed equipaggiamento di quanto avessero avuto il diritto di aspettarsi. Tro­ varono, però, grandi accoglienze: nessuno dei somali si era particolarmen­ te dispiaciuto vedendo partire gli inglesi. Il Corpo meharisti non esisteva praticamente più; e, subito prima di imbarcarsi, le autorità militari inglesi avevano dimostrato la loro sfiducia nei funzionari da esse stesse nominati, inducendo con un espediente la polizia somala di Berbera a schierarsi sulla piazza e disarmandola poi sotto la minaccia di un distaccamento di mitra­ glieri del Punjab. Così la Somalia britannica entrò a far parte, con soddisfazione generale dei suoi abitanti, del governatorato dello Harar e venne annessa dai suoi conquistatori all'A.O.I. La stampa italiana era trionfante. La stampa inglese sminuì, natural­ mente, l’episodio e sottolineò il fatto che quella striscia di territorio deso­ lato e deserto non aveva alcun valore. Pubblicamente, alla Camera dei Comuni, Churchill parlò di « un piccolo, ma spiacevole, episodio militare ». A Aden, però, la perdita causò un vero choc, così come a Londra, del resto, ove l’opinione pubblica era stata indotta ad aspettarsi che l’Etiopia cadesse, come una prugna matura, nelle mani degli inglesi, e nessuno si sentì consolato dall’improvviso cambiamento di nazionalità delle mani nelle quali sembrava che stesse cadendo la prugna. I generali italiani interessati trassero, più pacatamente, le loro conclu­ sioni. Il generale Nasi ritenne che fosse stata sottovalutata la posizione frontale inglese, e questo era vero; che i movimenti aggiranti avessero avuto successo, e questo non era vero; e che la manovra fosse stata, in ogni caso, un trionfo logistico. Il generale Trezzani, il quale aveva fatto rilevare di quale splendido coraggio nell’attacco avessero dato prova le truppe scioane e Amhara, in genere ritenute infide, fece rilevare altresì che le truppe bianche — vale a dire le Camicie nere — erano di gran lunga inferiori, in questo genere di operazioni, alle truppe indigene: eccessiva­ mente delicate, pretendevano troppi lussi. Non asserì che i movimenti ag­ giranti erano stati un successo; all’opposto, il fatto che fossero falliti dimo­ strava come le truppe, anche quando erano impegnate in battaglia, ne­ cessitassero non soltanto di essere pungolate, ma di ricevere ordini dal centro, vale a dire da lui. Il Maresciallo Badoglio, cui premeva soprat­ tutto la situazione politica generale, si dimostrò più soddisfatto: mentre l’operazione era in corso, aveva inviato un telegramma di incoraggiamen357

to a Nasi per esortarlo a continuare, lasciando capire che la pace in Europa era vicina e l’Italia aveva bisogno di una netta vittoria, tale da porla in una posizione di maggiore forza alla conferenza per la pace 6. Quanto al Duca d’Aosta, egli era sempre stato contrario all’invasione, forse per la sua anglofilia, e si lagnò alquanto stizzosamente perché riserve preziose di uomini e materiali erano state sprecate per conquistare un inutile tratto di sabbia. Fu una critica che molti italiani, in particolare negli ambienti militari, dovevano esprimere, ragionamento che non sembra essere giustificato: ovviamente, il Sudan o il Kenia sarebbero stati una preda più preziosa, ma entrambi, se non altro per la famosa « logistica », avrebbero richiesto uno sforzo maggiore; e, ai fini di tale maggiore sforzo, l’esperienza acquisita nel corso dell’invasione — gli errori commessi, in ef­ fetti — sarebbe stata inestimabile. Inoltre, dal punto di vista tattico, l’occu­ pazione della Somalia britannica aveva eliminato la base di un possibile attacco; amministrativamente ed etnicamente era riuscita a includere una appendice naturale dell’A.O.I., e strategicamente non poteva affatto dirsi inutile. Gli italiani dominavano adesso un ininterrotto tratto di costa che andava dal Mar Rosso al Golfo di Aden; ciò avrebbe potuto rappresenta­ re una minaccia, e infatti gli inglesi tale la considerarono; e quando gli italiani spensero il faro sull’estremità del corno dell’Africa, a Capo Guar­ dafili, tutti i convogli inglesi dovettero portarsi a est di Socotra, aggiun­ gendo così 200 miglia alle loro rotte e qualche giorno alla durata del viaggio: soltanto questo ritardo era un vantaggio rilevante ai fini dello sforzo bellico dell’Asse. Ma il vero vantaggio fu psicologico. L’esercito italiano aveva affrontato e sconfitto l’esercito inglese — come chiunque fosse in grado di consultare un atlante poteva constatare: non era stata una schermaglia di frontiera per l’occupazione di un oscuro posto di confine, ma una vera e propria invasione, al termine della quale gli inglesi, ricacciati in mare, avevano, per la prima volta, dovuto cedere una delle loro colonie al nemico. Gli italiani, ovunque, esultavano; e il loro stato d’animo era identico a quello del fratello di Gina, mentre volava verso la capitale: « Così lasciai Hargheisa, questo fiore della terra, questo giardino di opu­ lenta vegetazione e di clima primaverile che un giorno, senza dubbio, sarà popolato da nostre famiglie di contadini. Esse coltiveranno e sfrutteranno ovunque queste immense estensioni di territori, dopo decenni di dominio e di ingiustizia inglese. »

Quanto a Churchill, in pubblico egli poteva sminuire l’episodio, ma in privato più che irritato era furente. La sua prima reazione fu di chiedere che Godwin-Austen venisse sospeso dal comando, niente meno; un « tele­ gramma incandescente » partì per il Cairo. Wavell, rispondendo, rifiutò: « Non dubito che sia la richiesta del generale Godwin-Austen, sia la deci­ sione del generale Wilson siano state giuste»; e soggiunse: «Un grosso conto del macellaio non è necessariamente la prova di buone tattiche ». 358

Si dice che quest’ultima frase rese Churchill furente come i suoi collabo­ ratori non lo avevano mai veduto, ma le pressioni che egli continuò ad esercitare per ottenere almeno un’inchiesta non valsero a nulla. E la perdita della Somalia britannica contribuì pochissimo a scuotere dal letargo il Comando del Medio Oriente. Il 26 agosto, Eden tentò di placare Churchill con la notizia di rapporti rassicuranti da Wavell: so­ prattutto, non esisteva alcun pericolo immediato per quanto concerneva l’Egitto, sebbene sul confine sudanese la situazione non fosse « affatto al­ trettanto rassicurante ». Wavell, tuttavia, aveva deciso di potenziare la difesa del Sudan non già con truppe dell’Africa Occidentale, ma con la nuova divisione indiana, la 5a. E Eden, per la prima volta, parlò di una possibile offensiva: propose che i capi di stato maggiore esaminassero i modi di attaccare gli italiani in Etiopia e, effettivamente, prospettò tre possibili piani: bombardamento e una rapida puntata contro la linea fer­ roviaria italiana in Eritrea, oppure il bombardamento di Massaua - e forse anche uno sbarco dal mare — oppure un attacco a Kassala. Queste propo­ ste avevano probabilmente lo scopo di placare Churchill, lasciandogli ca­ pire come vi fosse negli alti comandi una mentalità offensiva; ma senza dubbio la notizia che la difesa del Sudan sarebbe stata potenziata entro qualche settimana con tre brigate indiane dovette soddisfare Churchill per quanto concerneva quel territorio, ma non per quanto riguardava la difesa generale del Kenia. Eden e Wavell sbagliavano, però, in una cosa: credendo, cioè, che non esistesse alcuna minaccia contro l’Egitto. In realtà, il 13 settembre il Maresciallo Graziani invase l’Egitto con forze enormi: cinque divisioni all’attacco, altre due di riserva, un raggrup­ pamento carri, e trecento aerei in appoggio. Sembra chiarissimo che questa invasione fu la conseguenza diretta della caduta della Somalia britannica. Non v’è dubbio che fosse stata predisposta da tempo; ma il piano fu at­ tuato soltanto — e anche allora solamente dopo indugi, poiché Mussolini incontrò, nello stimolare il riluttantissimo Graziani, o nell’ordinargli di passare all’azione, le stesse difficoltà incontrate da Churchill con Wavell — quando l’invasione precedente aveva avuto successo; quando, cioè, era sta­ to dimostrato che gli italiani potevano battere, sia sul campo, sia come capacità di comando, gli inglesi. Questa, la quarta invasione di un terri­ torio inglese da parte di truppe italiane, fu di gran lunga la più importante sia per la portata, sia per gli obiettivi; e sarebbe dovuta essere decisiva. Se fosse riuscita, avrebbe dimostrato che Churchill aveva ragione, e con­ dannato Wavell per sempre. Ma Graziani, ancor più tartarughesco di De Simone, si fermò a Sidi el Barrani e « consolidò le posizioni », concedendo ai nemici, ormai seriamente allarmati, il tempo di prepararsi. Una volta di più, e stavolta su scala decisiva, un comandante italiano evitava di as­ sumere un rischio giustificato: consciamente o inconsciamente, il ricordo di Adua e del generale Baratieri, ossessionava i pensieri di tutti i generali 359

italiani in Africa. Soltanto questo può spiegare la loro eterna riluttanza ad avanzare fino a quando non si fossero assicurati nel modo più totale una superiorità schiacciante, e linee di comunicazione sicure; e la loro incapa­ cità, anche allora, di procedere più che a passo di lumaca.

CAPITOLO DECIMO

TROVARE UN LAWRENCE

Λ Khartum, nell’agosto del 1940, terzo mese di guerra, vi fu un continuo andirivieni di visitatori e un susseguirsi di attività innervosita, ma alquanto inutile. Al Maggiore Maurice venne affidato il comando di tutti i volontari etiopi nel Sudan. Arrivò perfino un tenente ciclista belga a chiedere il collegamento dopo la resa di Re Leopoldo; a quanto pareva, era venuto in bicicletta dal Congo. Un ufficiale di collegamento francese venne inviato, più banalmente, dal più vicino avamposto francese della tentennante Afri­ ca Equatoriale Francese, Port Lamy nel Ciad. Il Governatore della pro­ vincia di Darfur giunse con entusiastici piani che prevedevano la costitu­ zione di un Groupe Nomade di esploratori zaghaua per fare scorrerie in Libia. Passarono da Khartum schiere di Commodori dell’aria e di Mag­ gior generali « omettendo però, sfortunatamente, di portare con sé le loro squadre aeree e le loro divisioni », come ebbe a dire Newbold nel bel mezzo di quel « maledetto turbine », al cui centro egli doveva trattare con « imperatori in incognito, con Richard Dembley ( ammalatosi di dif­ terite), con donne piangenti di internati italiani, con spie yemenite, e con il console egiziano ad Addis Abeba, che non se ne è andato e ci sta cau­ sando ora un monte di difficoltà, in quanto dobbiamo alzare bandiera bianca nel distretto di Gedaref ». Ebbe a cena l’Imperatore in incognito, «una persona molto mite, illu­ minata e cortese... che però non venne con il famoso mantello. Aveva comunque la barba ». Ma l’Imperatore era stanco e scoraggiato. L’entusiasmo e il vigore del­ l’inizio si erano spenti mentre constatava personalmente fino a qual pun­ to la guerra stesse andando male per gli inglesi e si rendeva conto che, anche la migliore buona volontà, non erano in grado di aiutarlo molto. Sconfortato com’era, pensava più alla famiglia che alle sue prospettive. E mandò un telegramma commovente a Sir Sidney Barton, a Londra; forse è il solo documento conosciuto nel quale la solitudine e gli affetti del­ l’uomo traspaiano di sotto la placida maschera politica. « Nessuna lettera dalla famiglia » diceva il telegramma « nemmeno da Tsahai. Cinque lettere rimaste senza risposta. Sono molto preoccupato. La supplico di informarsi e darmi notizie. Hailé Imperatore. » 361

Sul lato italiano del confine, ufficiale del servizio informazioni racco­ glievano rapporti sui movimenti delle unità inglesi e sui capi ribelli. Sape­ vano che il ftaurari Mesfin Redda era stato a Khartum e aveva fatto ritorno; ritenevano che circa 5.000 fucili fossero stati distribuiti a Gedaref e a Gallabat e apprendevano che il fitaurari Uorku ne aveva ricevuti 350 e si proponevano di attaccare il maggiore Parodi e la sua piccola guar­ nigione nel forte di Kuara. Sorvegliavano, in modo particolare, l’uomo che, a quanto sembrava, giudicavano il più pericoloso, Adane Maconnen: egli aveva detto alla sua gente che avrebbe potuto continuare a coltivare i campi fino al 5 settembre, ma si sarebbe dovuta riunire il 6 settembre, prima del mascal. Ma a far sì che si sentissero davvero sollevati era l’as­ senza di ufficiali inglesi presso i ribelli. « È stupefacente » scrisse il colonnello Talamonti « che gli inglesi non abbiano ancora trovato un Lawrence da mandare nell’Ermaciohò, in quan­ to l’effetto politico sulle popolazioni di altre regioni come il Beghemder e il Goggiam sarebbe considerevole. » Ma gli inglesi stavano cercando di porre rimedio a tale lacuna.

« Ho veduto uno dei vostri ottuagenari esperti dell’Etiopia barcollante nel bar, l’altro giorno » disse un brillante, giovane ufficiale dello stato mag­ giore al Cairo a un amico di Khartum. E, senza dubbio, gli ufficiali inglesi che erano stati prescelti in quel periodo per guidare piccoli gruppi nel Sudan sembravano, anche se arzilli, una scelta bizzarra come potenziali fomentatori di ribellione. Erano tre, il colonnello Dan Sandford, di cin­ quantotto anni, il maggiore Count Bentinck, di un anno più giovane, e il tenente Arnold Weinholt, di sessantatré anni. Facevano parte — tutti con incarichi diversi — ufficiale comandante, «generai staff officer», ufficiale alle informazioni — della Missione 101. Ma i loro gradi e i loro incarichi significavano in effetti ben poco, in quanto l’intenzione era che agissero separatamente. Sappiamo perché Sandford si trovava là. « Rocky » Weinholt, era australiano, un volontario divenuto cinque anni prima ufficiale addetto ai trasporti nella Croce Ros­ sa etiopica, quando gli italiani avevano invaso il paese: per conseguenza, « lo conosceva ». Quanto a Bentinck, era un ufficiale in congedo delle Coldstream Guards e presumibilmente non avevano potuto trovare per lui nessun altro impiego; con ogni probabilità era imparentato con un certo Charles Henry Bentinck, Ministro inglese ad Addis Abeba negli anni Venti. Senza alcun dubbio, secondo i burocrati britannici, questo faceva di lui un esperto. In ogni modo, il piano prevedeva che questi tre ufficiali attraversassero la frontiera passando nel territorio di Frusci, con piccole carovane di muli, per portare fucili, denaro e promesse, allo scopo di causare altre ribel­ lioni attive tra gli indigeni e la costernazione tra gli italiani. Era previsto che Bentinck e Weinholt attraversassero separatamente l’Ermaccioccò. Ma per Sandford si preparava qualcosa di più importante. 362

Erano giunte notizie, infatti, dal più stimato dei capi ribelli, degìacc Mangasejà Gimbirre del Goggiam *. Egli scrisse apparentemente per ri­ spondere alla lettera inviata I’ll giugno dal Caid, ma indirizzò la risposta a « Mr. Hancock » a Roseires, perché Hancock aveva spedito una lettera a uno dei suoi seguaci, il fi.ta.urari Taffere Zelleché di Belaia. La lettera era, in ogni caso, incoraggiante e, cosa ancor più rara, con­ creta. Mangascià Gimbirre rendeva noto che gli italiani rimanevano inerti e circondati in pochi nascondigli, non dominavano più di un quarto del paese, e non erano mai penetrati nel Belaia, una regione montuosa, ricca di stretti passi e completamente libera dal nemico. Poiché egli dominava il Belaia, dominava la porta del Goggiam, per l’intera lunghezza della fron­ tiera, circa 320 chilometri, tra le guarnigioni italiane di Metemma a nord e di Gubba a sud. Asseriva che per scacciare il nemico con l’aiuto — finalmente — del governo inglese, gli occorrevano non soltanto fucili e munizioni, ma cento mitragliatrici e cinque cannoni di piccolo calibro. Aveva per conseguenza, come propostogli, mandato una carovana, in quel momento in viaggio, per farsi consegnare dagli inglesi fucili, munizioni e armi di ogni genere. Aggiungeva poi, di sua iniziativa, una proposta molto concreta : « Che una persona importante del governo inglese venga nel Belaia a scegliere un campo di atterraggio per aeroplani. Quando ciò sarà stato fatto, non rimarrà nessun’altra difficoltà ». Concludeva con un avvertirrtento: non consegnare fucili e munizioni senza la sua firma, e trattare, per conseguenza, soltanto con il fitaurari Taffere Zelleché. Questa lettera era al contempo incoraggiante e imbarazzante: incorag­ giante per il quadro generale che forniva di vaste distese del Goggiam com­ pletamente libere dagli italiani; imbarazzante a causa delle richieste che faceva e a causa di ciò che tali richieste implicavano. Gli inglesi non ave­ vano né mitragliatrici né cannoni di cui privarsi, e in ogni modo gli « esperti » sapevano, o comunque potevano dedurre leggendo tra le righe, che Mangascià Gimbirre voleva cannoni e mitragliatrici tanto per accre­ scere il proprio potere, e in particolare per intimidire il suo vicino e più giovane rivale Negasc Bezibè, quanto per attaccare gli italiani. Per giunta, oltre ad altre richieste2 chiedeva con insistenza non soltanto che si man­ dassero rifornimenti per via aerea, ma che si procedesse all’« immediato » bombardamento delle guarnigioni di Bahar Dar, Engiabara e Debrà Mar­ cos e dei forti di Gubba, Kuara e Dangila. Questo era impossibile. Ma, almeno, « una persona importante del go­ verno inglese » sarebbe potuta andare nel Belaia.

Gedaref divenne il centro dell’attività, dei preparativi in vista di tutti questi andirivieni. E nel frattempo si ebbe un prorompere di attività anche più a sud. Whalley, l’entusiasta capitano Whalley, l’ex-console a Magi, i cui piani per un’invasione dell’A.O.I. erano stati sottoposti, con tanta regolarità, a docce fredde da parte degli alti papaveri di Khartum, era stato finalmente 363

mandato sull’altipiano di Boma, a raggiungere il suo compagno di com­ plotti Cave Bey, del Corpo Equatoriale, con l’ordine di fomentare la rivolta nel sud-ovest, di isolare Magi, tagliare la strada Gore-Gimma e, se possi­ bile, la strada Gimma-Addis Abeba. Ma non doveva essere un Lawrence. Gli furono dati ordini espliciti di non entrare personalmente nel territorio dell’A.O.I. : sembra che il generale Platt fosse disposto a servirsi di lui, ma se ne fidasse soltanto finché lo teneva sotto gli occhi. Il 6 agosto, Sandford e la sua carovana partirono da Gedaref: cinque inglesi, cinque etiopi e cinquanta uomini tra mulattieri, servi e soldati di scorta, nella grande maggioranza sudanesi. Una settimana dopo, attraversarono con molta cautela la frontiera una ventina di chilometri a sud di Metemma, liberandosi di due indigeni ostili del posto e portandosi sull’altipiano Kuara, nella relativa sicurezza del territorio del fitaurari Uorku. Procedevano, inevitabilmente, molto adagio. Con il « balzo » successivo giunsero nel territorio di un altro capo di se­ condaria importanza, il ftaurari Aialeu Maconnen, di monte Zibist. Una metà del gruppo si recò laggiù con cento muli, una radio e duemila dol­ lari, alla fine di agosto. Nel frattempo, erano partiti anche gli altri due ufficiali. Bentinck partì da Gedaref il 21, con ventiquattro mulattieri, cinque soldati sudanesi, quasi mille fucili e un ufficiale del genio, il capitano Foley. Wienholt passò da Gallabat il 31, più modestamente, con una mezza dozzina di uomini e pochi somari. Già dai primi giorni di settembre, il servizio informazioni italiano sapeva della presenza di ufficiali inglesi, con apparecchi radio, e fucili da distribuire nell’Ermaciohò, ma gli italiani, dopo i recenti successi che avevano risollevato il loro morale, non si allarmarono troppo: riten­ nero che « tentavano forse di rialzare il morale dei loro uomini, che dove­ va essere basso dopo la caduta di Kassala e della Somalia britannica ». Per settimane non doveva pervenire nel Sudan alcuna notizia di questi ufficiali. Tuttavia, suscitò entusiasmo l’arrivo della carovana inviata da Mangascià Gimbirre, nonostante le voci secondo le quali era stata attac­ cata e distrutta; e ne arrivò anche una di Negasc Bezibè, e Mesfin Silescì andò a riaccompagnarle a Gedaref. A Gedaref, nella prima settimana di settembre, Hailé Selassié ebbe il suo momento di gloria; venne portato in volo a Gedaref con il più grande e il più imponente aereo del Sudan, un Vickers Valentia, per incontrarsi con gli uomini di Mangascià Gimbirre. Lo accompagnò l’intera Corte rico­ stituita, comprendente due graditissimi nuovi arrivati da Gerusalemme, degiacc Maconnen Endellacciù, il gigantesco capo del clan Addisghé, e sua moglie, la diletta nipote dell’Imperatore, lilt Ysciascia Uorq. Trevor Blackley lo rese orgoglioso facendo montare una tenda ricamata sul cam­ po di polo; e gli ufficiali inglesi del posto vennero presentati a un Impe­ ratore protetto, con tutta la pompa cerimoniale, dal Parasole di Stato e difeso da Mesfin Silescì con lo staffile di cuoio. Furono fotografati in gruppo e George Steer, in seguito, fece riprodurre e stampare la fotogra­ fia su volantini che vennero distribuiti con una didascalia dalla quale 364

risultava come l’Imperatore fosse a colloquio con ufficiali superiori dello stato maggiore generale inglese. Che cosa stavano facendo gli italiani, nel frattempo? Si accontentava­ no semplicemente di rimanere inerti, raccogliendo informazioni sugli inglesi e cercando di prevedere che cosa avrebbero potuto fare i capi ribelli dopo la stagione delle piogge? Tutto ciò sta ad indicare che non era così. Si trovano accenni, più che prove, qua e là, nelle lettere, nei diari e nei rapporti, da cui si può de­ durre che il generale Frusci si proponeva di attaccare Port Sudan e il ponte di Butana (con le brigate 34a, 429a e ventotto battaglioni, stando a Newbold), ma si imbatteva nel continuo ostruzionismo del Duca d’Ao­ sta, che seguitava a fare a Roma richieste impossibili di migliaia di nuovi pneumatici per autocarri e di decine e decine di nuovi aerei prima di un’eventuale invasione. Esistevano, inoltre, difficoltà interne nel settore di Frusci, causate dalla personalità scorbutica del generale Tessitore, coman­ dante delle truppe e governatore militare di Kassala occupata, dalla quale sarebbe dovuta partire l’invasione. « Non ci sarà mai pace qui » scrisse l’anziano Talamonti, nel suo diario personale, « fino a quando non si abo­ lirà il Comando Truppe o non si silurerà Tessitore. » Ovviamente, non era questa l’atmosfera ideale per quella stretta coordinazione e quella fiducia tra comandanti che sono tanto più vitali per un piano di inva­ sione difficoltoso. E così, l’ultima possibilità di un facile trionfo tramontò mentre rinforzi davvero efficaci affluivano nel Sudan. La Quinta Divisione indiana del generale Heath giunse dal Cairo a Khartum; e, sebbene ridotta e fosse al di sotto degli effettivi, con soltanto sei battaglioni di fanteria e un reggi­ mento di cavalleria, lo Skinner’s Horse, si trattava di truppe di mestiere, baluchi e pathan della frontiera di nord-ovest, garwhali dei monti cen­ trali, sikh del Punjab, mahratti di lingua indù provenienti dal cuore del­ l’impero mongolo, agli ordini di esperti ufficiali dell’esercito indiano, pro­ vati in campagne militari. Per portare la divisione al completo, vi vennero inclusi tre battaglioni inglesi, e così si formarono tre brigate, la 9a, la 10a e la 29a, ognuna con­ sistente di un battaglione inglese e di due battaglioni indiani. E le com­ pagnie mitraglieri al ponte di Butana vennero unite allo Skinner’s Horse motorizzato, formando la « Gazelle Force », posta agli ordini di un impe­ tuoso colonnello — di nome Messervy — della cavalleria indiana. Ma sebbene gli italiani fossero preoccupati — e giustamente — a causa di quanto stava accadendo nel settore del ponte di Butana, che aveva mi­ racolosamente resistito ai loro ripetuti bombardamenti aerei, Khartum continuava a essere sulla difensiva. Newbold diramò la consueta circolare mensile per sostenere il morale, facendo rilevare come, a parte i rinforzi, il numero dei sudanesi sotto le armi fosse raddoppiato, fino a raggiungere i 15-20.000 uomini, ma osservando altresì, con la massima sincerità, che 365

forze italiane si stavano ammassando a Kassala e dietro a Kassala, e avreb­ bero potuto tentare di « irrompere » nel delta del Gasc, .o a nord, verso Port Sudan per sincronizzarsi, poiché Graziani aveva iniziato l’azione, con l’invasione dalla Libia. E avvertì che si sarebbero dovute adottare misure contro lanci di paracadutisti — il solito spauracchio — ma prove­ nienti questa volta dall’Africa settentrionale. In una lettera privata, tuttavia, egli espresse il proprio stato d’animo e i propri crucci più sinceramente, anche se forse con un eccesso di riserve. « Noi non abbiamo una mentalità puramente difensiva » scrisse. « Platt non potrebbe essere più aggressivo, è una vera e propria piccola tigre, un ottimo, retto, focoso (spesso suscettibile) e capace soldato. Dobbiamo im­ pedire che il nemico si impadronisca di Gedaref o di Tokar o di Atbar, rendendo così più difficoltosa la nostra avanzata quando il momento ver­ rà... Pochi di coloro che incitano il Caid ad attaccare subito si rendono conto della potenza e del morale del nemico. Wavell, H.E., Platt ed io siamo troppo informati sulle sue forze, l’armamento, le direttive e i rifor­ nimenti per fare una cosa simile, ma le persone fuori della nostra cerchia e nelle province, ignorando la realtà, sono propense a dire che si tratta soltanto di sporchi italiani e che un esercito tribale di entusiasti sudanesi, armati con lance e moschetti, basterebbe a sgominarli. In ogni modo, li sgomineremo senz’altro e i sudanesi avranno una parte di rilievo nell’of­ fensiva. Non so quando. Occorre tempo per radunare forze sufficienti, con i mezzi di trasporto, i segnalatori, i rifornimenti di munizioni, eccetera, e annientare un esercito di un quarto di milione di uomini, anche se il loro morale è basso e se i ribelli stanno alzando la testa... » In altri termini, le autorità inglesi, precisamente come le autorità ita­ liane, tendevano a sopravvalutare la forza numerica, la strategia, la coor­ dinazione e l’efficienza in genere del nemico, e a insistere sulle loro diffi­ coltà « logistiche », adducendole a pretesto per rimandare azioni aggressive. Eppure, la situazione strategica nel Sudan era, entro il mese di settem­ bre, miglicfrata. Infatti, alla fine di agosto, l’Africa Equatoriale francese aveva deciso di schierarsi con De Gaulle ; e il Congo Belga sembrava voler­ ne seguire l’esempio. Questo significava che un’intera, vasta estensione di territori potenzialmente ostili lungo i confini del Sudan era adesso amica, e che una causa di gravi preoccupazioni veniva eliminata. Significava inol­ tre che, dal punto di vista logistico, la rotta aerea sull’entroterra, dall’Afri­ ca Occidentale, via Takoredi, era adesso aperta per l’invio di rifornimenti e di rinforzi. E significava, dal punto di vista strategico, che gli italiani in Libia dovevano ora affrontare una seria, anche se minore, minaccia da sud, e ciò riduceva il pericolo che potessero attaccare il Sudan. Significava, infine, speranze e promesse di futuri potenziamenti delle truppe francesi e belghe per l’eventuale attacco all’Etiopia. Queste, comunque, erano tutte prospettive a lunga scadenza. A breve scadenza, giunsero notizie attraverso il confine, dal terzetto dei potenziali « Lawrence » ; alcune buone, altre quasi comiche, altre tragiche. 366

Le buone notizie pervennero da Sandford. II 15 settembre, GabreMascal montò la trasmittente in un punto elevato sul monte Zibist per annunciare che il secondo « balzo » era stato effettuato con successo, che si trovavano con il fitaurari Aialeu Maconnen, e avevano ricevuto, dal grande degiacc Mangascià Gimbirre, una lettera nella quale veniva fissato loro un ap­ puntamento. Avevano avuto un viaggio diffìcile: era la stagione delle piogge, i muli di cui disponevano non valevano un granché, e le provviste erano finite sin dai primi tempi nel Kuara, ove avevano dovuto chiedere due quintali di fagioli al fitaurari Uorku. E sebbene Aialeu Maconnen avesse inviato un messaggero per invitarli a un banchetto mentre si stavano avvicinando al suo territorio — era il 10 settembre, il primo giorno dell’anno etiopico — una volta giunti nel suo villaggi, in prossimità della vetta della montagna, avevano constatato che non si trovava più là. Più prudente che valoroso, si era affrettato ad andarsene non appena saputo che agli italiani erano giunte voci di infiltrazioni di bianchi, e che pattuglie del colonnello Torelli si avvicinavano in forze da Dangila con mille dollari di ricompensa alle informazioni. La mattina dopo, il gruppo si incontrò per la prima volta con il nemico e si salvò per un pelo. All’alba, un aereo sorvolò a bassa quota il monte Zibist e li individuò. Alle dieci, Ghetahun Tessemà, che montava di sen­ tinella, sparò un colpo di avvertimento: gli italiani si stanno avvicinando. Nel panico che seguì, corsero in tutte le direzioni alla ricerca di un rifugio, abbandonando i muli e i cofani del denaro su di essi, lasciandosi scivolare lungo i pendìi della montagna per nascondersi in caverne decine e decine di metri più in basso, mentre le truppe italiane lanciavano dietro di loro bombe a mano e incendiavano il villaggio di Aialeu Maconnen. Ma, fortunatamente per la Missione 101, l’inseguimento cessò nel po­ merìggio; Sandford e i suoi compagni tornarono indietro strisciando con cautela e vennero guidati là ove si nascondeva Maconnen. Di «Rocky» Wienholt non si era saputo più niente dopo il 10 settem­ bre. Il giorno seguente, contadini armati scorsero una piccola carovana con un bianco, in marcia quarantotto chilometri a sud di Metemma; lo riferirono all’avamposto della Banda più vicina. La Banda attaccò il grup­ po, che fuggì. Gli uomini della Banda ritennero di aver ferito il bianco e poterono identificarlo come Wienholt perché si impadronirono della sua corrispondenza — comprendente una lettera indirizzata a Sylvia Pankhurst nella quale egli la pregava di riferire a Churchill che il ritorno di Hailé Selassié non era veduto di buon occhio dalla popolazione e che gli inglesi sarebbero dovuti essere molto cauti nel giocare quella carta. A Gedaref, Trevor Blackley aspettava ansiosamente notizie; finalmente tornò uno dei servi di Wienholt, raccontando una storia confusa. Il succo, comunque, sembrava chiaro. Wienholt era morto. Esattamente dove e quando fosse perito, e dove — se pure ciò era accaduto — fosse stato sep­ pellito, né gli inglesi né gli italiani lo seppero mai. Quando Bentinck, alcune settimane dopo, fu informato della sua morte, scrisse con indigna­ 367

zione nel proprio diario : « Aveva più di sessant’anni e si è consentito che arrancasse dietro le altre colonne... Non parlava né l’amarico né l’arabo. Sembra lo sperpero di una buona vita ». Quanto a Bentinck, era stato più fortunato, in un certo senso. Aveva veduto un solo rappresentante del nemico, il cuoco italiano di Uobnè Amorau, fatto prigioniero. Ma, con viva irritazione da parte sua, non ap­ pena l’etiope che si trovava con lui, UoldeGiorgis, mostrò l’auagg di Hailé Selassié, tanto Uobnè Amorau quanto Aiane Chekol annunciarono che partivano per Khartum allo scopo di far visita al loro Imperatore. E, nel­ le settimane che seguirono, Bentinck vide ripetersi la stessa cosa ogni qual volta si incontrava con un capo importante : « Anche lui, con mio orrore, voleva recarsi a Khartum! », sebbene egli protestasse, dicendo che la cosa era assurda : « Come potrò svolgere la mia missione se tu sarai lontano ? » E così l’avvento del mascal trovò Bentinck ospite sconsolato di Abba Qirqos, il prete, intento a osservare con disapprovazione i ribelli senza un capo che sparavano con i loro nuovi fucili e sprecavano le sue munizioni. Sospettava, per giunta, che avessero rivenduto agli italiani i vecchi fucili catturati in combattimento... Ma a Khartum ebbe luogo, per il mascal, una numerosa e quasi splen­ dida riunione, dopo l’arrivo dei capi dall’Ermaciohò : la prima occasione pubblica di esultanza che Hailé Selassié avesse mai avuto da quando era partito dall’Inghilterra. « Ieri » scrisse Newbold a sua madre « sono andato ad assistere a una cerimonia, la prima rivista (dell’Imperatore) ai suoi uomini... una ceri­ monia religiosa, non soltanto una rivista, con preti e ufficiali. Una sfilata piuttosto misera: poveri profughi, e alcune truppe sue, e un pugno di uffi­ ciali; ma hanno marciato davanti a lui ed egli ha sorriso loro e ha baciato la croce che gli veniva offerta dal Vescovo etiope. Gli sedevo accanto, e mi domando quali pensieri gli siano passati per la mente alla vista di questi fedeli superstiti. Noi eravamo una trentina, rappresentanti del Consiglio, dell’Esercito, della RAF, e, mentre uscivamo, l’Imperatore mi ha bisbigliato: ”Mi com­ muove molto il fatto che siate venuti tutti a sostenermi in un caldo po­ meriggio”. Può darsi che i suoi uomini riescano a fare quello che fecero i laceri uomini in camicia di Garibaldi. Molte tirannie sono state rove­ sciate da persone come queste. » Così, finalmente, l’Imperatore, « l’ometto », come lo chiamavano quasi affettuosamente gli inglesi, fu riconosciuto pubblicamente, e si può dire emotivamente, dagli esponenti ufficiali di Khartum3. Se il Governatore ge­ nerale non presenziò alla cerimonia, ciò accadde per un’ottima ragione: se riera andato, senza lasciare rimpianti, e il nuovo Governatore, il generale Hudleston, non aveva ancora avuto il tempo di arrivare. Non molto lontano da Bentinck, a Bahar Dar, sulle sponde del lago Tana, ove era appena arrivato quello stesso giorno, anche il fratello di Gina stava assistendo ai festeggiamenti del mascal, sebbene con una sim­ 368

patia di gran lunga minore, e con occhio molto più critico di Newbold. « Le campagne sono disseminate di tucul ove gli indigeni vivono in condizioni primitive. È strano che durante quattro anni di occupazione italiana non siamo riusciti a inculcare in questa gente almeno una traccia di civiltà. Si guadagnano da vivere vendendo bestiame, pelli di serpenti, pelli di coccodrillo e così via. La religione è, in misura predominante, copta, ma vi sono alcuni musulmani. Oggi, 27 settembre, è la festa copta del mascal e, dai tucul più vicini, giungono le loro canzoni stridule e gut­ turali accompagnate dal ritmo dei tam-tam. Verso il crepuscolo vengono al campo intorno ai tinisc robilano (piccoli aeroplani) eseguendo le loro danze e i loro movimenti fantastici, tutto molto strano e primitivo. Poi, un gruppo di indigeni puzzolenti si impadronisce di sorpresa di ognuno di noi e, con le braccia tese, ci lanciano in aria, a volte fino a un’altezza pericolosa, riafferrandoci e lanciandoci di nuovo, finché non promettiamo di dar loro fata. Si tratta di una costumanza ed è preferibile assecondarli... Dopo cena brindiamo alle vittorie imminenti che auguriamo a noi stessi. » Eppure il fratello di Gina, sebbene fiducioso e traboccante di speranze, era avvilito a causa della mancanza di donne bianche — ce n’era una sola a « rappresentare il sesso femminile tra gli italiani » — e, più particolar­ mente, a causa delle sue condizioni di vita. Gli aviatori dovevano risiedere entro uno spazio di un chilometro quadrato, recintato con rete metallica lungo la quale montavano di guardia sentinelle e che veniva continuamente pattugliata. Perché? Egli ci dà la risposta, in tono sconsolato, nella sua annotazione di quello stesso giorno. « Il Goggiam è popolato esclusivamente da ribelli che sono ora colmi d’odio e di rancore contro gli italiani, forse ancor più di quanto lo fos-, sero nel 1936, quando Starace occupò Gondar, il lago Tana e le regioni circostanti. E, qui, Bahar Dar è circondata da bande di sciftà unificate da ras Mangascià; un tempo si erano sottomesse, ma ora sono di nuovo apertamente in rivolta. Così la nostra guarnigione, e anche le altre, a Dangila, a Buriè, a Engiabara, a Debrà Marcos, eccetera, possono essere attaccate da un momento all’altro dai ribelli, che si troverebbero di fronte a fortezze difese da centinaia di fucili e mitragliatrici. La squadriglia bom­ bardieri N" 13, la cui base si trova qui, interviene continuamente e instan­ cabilmente contro questi ribelli, distruggendone i centri abitati, i mercati, il bestiame e così via. » Non ci si può meravigliare se Mangascià e il fitaurari Taffere Zellecà volevano, più di ogni altra cosa, veder apparire nel cielo aerei inglesi che bombardassero precisamente le fortezze menzionate. Ma non ci si può nep­ pure meravigliare se, in quella situazione, gli alti comandi italiani segui­ vano con crescente ansietà l’accrescersi della potenza di Mangascià Gimbirre man mano che le carovane filtravano dal Sudan verso i suoi terri­ tori, e se, anche in una località lontana come Gondar, il generale Martini, ignorando minacce più prossime di ribelli di fninore importanza, si pro­ poneva di inviare una colonna a tagliare la strada alla carovana partita da Gedaref. 369

Era questa la prima carovana formata da uomini di Mangascià, il cui arrivo era stato annunciato per lettera. Essa partì da Gedaref a metà set­ tembre, e la carovana di Negasc Uorkinè partì il giorno dopo. Due set­ timane dopo, si ebbe la partenza di una terza carovana, questa volta di Taffere Zellecà, non da Gedaref, ma da Roseires. Con tutti questi rifor­ nimenti e tutte queste armi in viaggio — e la notizia dei concreti aiuti bri­ tannici divenne infine nota in tutto il Goggiam occidentale — un numero sempre più grande di indigeni cominciò a passare dalla parte di Manga­ scià. Si era saputo, inoltre, che laggiù si trovavano bianchi con una radio trasmittente. Sandford e il suo gruppo, infatti, scortati dal fitaurari Aialeu Maconnen e da duecento Uomini, erano finalmente riusciti ad arrivare nel territorio del grande capo, sui monti intorno a Dangila. I filo-italiani, i capi delle bande irregolari, come degiacc Aberrà Imam, erano scoraggiati. Gli italiani dovevano agire. Mentre Sandford e il suo gruppo si portavano a sud per fare visita a degiacc Negasc Uorkinè, rivale di Mangascià, vicino a Buriè, tre battaglioni vennero mandati da Buriè verso nord, a Dangila. E, quando arrivarono, Torelli attaccò sui monti. Questa azione conseguì un brillante successo. Torelli era uno dei più abili e dei più audaci comandanti italiani4 e la sua brigata, la XII, era esperta e fedele. Non soltanto mise in fuga gli uomini di Mangascià Gimbirre dopo averne uccisi molti, dimostrando così agli esitanti che gli italiani sapevano ancora mostrare i denti, ma catturò altresì il figlio del degiacc, il quale confermò che con suo padre si trovavano inglesi, il cui capo si chiamava « Mr. Room ». « Mr. Room », nel frattempo — gli italiani si sarebbero allarmati se aves­ sero saputo che si trattava di Sandford, sul cui conto avevano messo insie­ me un voluminoso dossier — stava tornando, con il suo gruppo, dal molto scosso Mangascià. La sconfitta del degiacc aveva, dal loro punto di vista, un aspetto positivo. Infatti, scossa la sua arrogante fiducia, egli era adesso disposto, finalmente, a far pace con il rivale. YYagiacc Ghebedde Tessemà, del gruppo di Sandford, si assunse l’incarico delle trattative. Sebbene fosse lento e di « vecchia scuola » per i gusti di Sandford, era il vero uomo politico del gruppo, e riuscì. Il 24 ottobre, Negasc e Mangascià giurarono di lasciare in sospeso tutti i loro contrasti, da dirimere soltanto dopo il ritorno dell’Imperatore, di rinunciare, da quel giorno in poi, a ogni intro­ missione nei rispettivi territori, e di non accettare che chi avesse disertato la banda dell’uno si unisse a quella dell’altro. Fu, questo, un grande succes­ so dovuto al tatto deìYagiacc Chebedde, sebbene Sandford lo criticasse per essersi lasciato eccessivamente coinvolgere nella politica del Goggiam e perché era riluttante a mandare messaggeri che stabilissero contatti con altri capi ribelli più lontani. E, quando giunse la notizia che aerei inglesi erano effettivamente apparsi e avevano effettivamente bombardato Engiabara e Bahar Dar, l’esultanza fu grande. Così, il giorno dopo, tennero un consiglio di guerra; GabreMascal an­ nunciò che ancora un’altra carovana era sul punto di partire da Gedaref, più grande e più fornita, questa volta, affidata al tenente Drew, il medico 370

che era stato rimandato indietro, e scortato da Mesfin Silescì con cento dei suoi uomini. Questa era una buona notizia; ma i due degiacc chiesero mortai, poiché non esisteva alcuna speranza di ottenere pezzi di artiglieria, e Sandford riconobbe che con i mortai avrebbero potuto espugnare tutte le postazioni italiane tranne le più salde, tutti i fortini e gli avamposti fuori delle città sedi di guarnigioni. Getahun Tessemà, il quale faceva parte anch’egli del gruppo di Sandford, riferì di avere ormai agenti all’interno di tutti i forti italiani e di tutti i centri abitati ove si trovavano guarni­ gioni, e diaver organizzato un sistema di portaordini in tutto il territorio del Goggiam occidentale. E Sandford, mentre inviava messaggeri da ogni parte, a Destà Iscetti presso i Galla a sud del Nilo e a degiacc Mangascià Aboie verso Dessiè (anch’essa bombardata) ove era stato un tempo gover­ natore, con ordini ottimistici di sollevare la regione dell’Uollo e di met­ tersi in contatto con Abebè Aregai, e mentre si preparava a recarsi perso­ nalmente nel Goggiam orientale per stabilire rapporti con i capi ribelli, accettò di rivolgere a Khartum una richiesta urgente di denaro. I degiacc sostennero, infatti, che soltanto pagando i loro uomini si sarebbero potuti assicurare l’obbedienza immediata agli ordini, e avrebbero evitato discus­ sioni interminabili e perdite di tempo ad ogni proposta. Non è una cosa semplice organizzare una rivolta. Sebbene Sandford e i suoi uomini, fino a quel momento, non avessero intrapreso alcuna azione, non avessero attac­ cato reparti italiani (era, semmai, piuttosto il contrario), né organizzato sabotaggi, o teso imboscate, né altro, e sebbene le aspettative del degiacc Mangascià fossero state inevitabilmente deluse, ciò nonostante sembrava che la tregua armata nel Goggiam fosse finita, sembrava che, sotto l’egida britannica, la ribellione fosse sul punto di tramutarsi in rivolta.

Gli italiani, senza dubbio, temevano che questo accadesse. Alla fine di settembre, erano già stati distribuiti dal Sudan ai ribelli 2.000 fucili non a ripetizione e 676.000 cartucce. Esisteva un solo modo per impedire la rivolta: eliminare le linee di rifornimento e fermare le carovane; e il solo modo realmente soddisfacente per eliminare le linee di rifornimento con­ sisteva nell’eliminazione delle basi dalle quali partivano le carovane: Gedaref e Roseires. Sebbene ci fossero i piani di un attacco, o per lo meno di una mossa contro Gedaref, il colonnello Castagnola, il conquistatore di Gallabat, a Metemma, era divenuto a sua volta nervosissimo e trasmetteva rapporti secondo i quali migliaia di ribelli andavano radunandosi per un attacco imminente. Chiedeva rinforzi. Gli furono mandati in aiuto due battaglioni, la XLIII Brigata di Postiglione, venne posta all’erta nella sua base più a nord, a Om Ager. Tuttavia la data prevista dell’attacco passò senza che nulla accadesse, e da Gondar il generale Martini, molto irritato a causa di quel falso allarme, chiese un rapporto confidenziale sul nervoso co­ lonnello. Nel frattempo, l’Alto Comando ad Addis Abeba, disgustato, a quanto 371

pare, dall’incapacità dimostrata nel settore di Frusci di organizzare un at­ tacco contro Gedaref, decise di predisporre una operazione, controllata dal centro, contro Roseires. Stabilì che l’attacco sarebbe stato sferrato dal sud del Nilo Azzurro, e, non riponendo la benché minima fiducia nel generale Gazzera, il coman­ dante del settore, dimostratosi completamente inattivo dopo la « conqui­ sta » di Moyale, non consultò nemmeno lui o. il suo comandante di divi­ sione. Mandò dallo Scioa ad Asosa, il punto di partenza dell’attacco, due unità, l’eccellente XI Brigata di Prina, e uno dei più esperti tra i Gruppi Bande, quello di Rolle, con 1.300 uomini. Secondo il piano, le Bande do­ vevano effettuare una puntata esplorativa, con compiti anche di osserva­ zione, mentre le truppe regolari della brigata avrebbero sferrato l’attacco decisivo. Le prime notizie di una nuova forza di invasione nemica diretta, oltre la frontiera, a Roseires, pervennero a Geoffrey Hancock intorno alla metà di ottobre. Come sempre, le notizie degli informatori indigeni e degli uo­ mini della polizia spaventati e in ritirata erano esagerate: si parlava di numerose e potenti colonne nemiche in avanzata. Si trattava di un attacco improvviso, pericoloso e ben preparato: im­ provviso perché gli inglesi non si erano aspettati una puntata attraverso la diffìcile regione a sud del Nilo Azzurro; ben preparato perché sembrava ormai manifesto che, tre mesi prima, gli italiani avessero occupato Kurmuk proprio per predisporre questa mossa; e pericoloso perché la diret­ trice dell’invasione passava attraverso il territorio tribale degli uatauit. Gli uatauit, invasori arabi appena cent’anni prima, erano venuti a tro­ varsi, nei tempi passati e caotici, nella sfera di influenza dello sceicco Cogiali dei Beni Sciangul, e sebbene il vecchio tiranno fosse morto, rite­ nevano di dovere ancora fedeltà alla vedova di lui, Sitt Amna. Orbene, Sitt Amna era stata arrestata dagli inglesi prima della guerra per traffico di schiavi, e imprigionata lontano, a Uadi Haifa5. Per conseguenza, odiavano gli inglesi ; e, dopo la dichiarazione di guerra, il loro odio si era acuito quando Hancock ne aveva fatti fucilare due per aver distribuito volantini italiani. Sembrava quindi che gli italiani, copiando una pagina del manuale in­ glese, avessero l’intenzione di armare gli uomini della tribù e di fomentare una rivolta. E al contempo, Hancock temeva un attacco simultaneo dal posto italiano di Gubba, sull’altra riva del Nilo. Gubba era stata il centro del regno negro dello Hamej, precedentemente governato dal gigantesco Hamdan Abu Skok, fedele ai conquistatori dell’Amhara e morto in esilio nel Sudan. L’antica dimora di lui era divenuta la sede del Commissariato e la cittadina la base di un Gruppo Bande che difendevano il margine meridionale del Goggiam. In effetti, i rapporti avevano accennato a colon­ ne in movimento lungo entrambi i lati del Nilo. Hancock era giustamente preoccupato. La carovana per il fitaurari Taf­ fere Zellecà, appena partita, poteva essere intercettata, fermata e distrut­ ta, con tutte le conseguenze imprevedibili che la notizia di un disastro

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di questo genere avrebbe avuto per la ribellione nel Goggiam. Inoltre, sol­ tanto il battaglione di frontiera di Boustead Bey e pochi uomini della polizia difendevano Roseires, e sembrava che gli italiani stessero per attac­ care, come avevano sempre fatto in passato, con forze schiaccianti. E da dove sarebbero potuti giungere i rinforzi se Gedaref era forse altrettanto minacciata e se sarebbero occorsi più giorni per inviare truppe da Khar­ tum? Sembrava che Roseires, come Kassala e Gallabat in passato, fosse destinata a cadere. Da Khartum, inoltre, sembrava che gli italiani si apprestasseroinfine a sferrare l’offensiva da tempo attesa dopo la stagione delle piogge. A Gedaref, a Port Sudan e al ponte di Butana i difensori furono posti in stato di all’erta, e avvertiti che questa volta stava inco­ minciando la vera invasione. Sui monti Engessana, il Commissario distrettuale di Wisko bruciò i do­ cumenti e abbandonò il proprio alloggio mentre gli invasori avanzavano sul letto asciutto del khor Offat. A Roseires, il noncurante Boustead Bey si mostrò improvvisamente attivo, come doveva sempre fare nei momenti di crisi reale, noleggiò a Uad Medhani dieci vecchi autocarri del mercato e partì, ignorando le alte proteste di Khartum, per andare a tentar di fermare gli invasori, alla testa dei suoi uomini ormai motorizzati e mobili, su una piccola automobile marrone. Nel frattempo, però, le cose si erano messe male per Rolle e i suoi uo­ mini, abituati a combattere sugli altipiani delle regioni montuose e a vi­ vere con quanto offriva il paese: avevano attraversato la frontiera a nordest di Kurmuk con razioni per soli quattro giorni e, quando giunsero a Wisko, stavano quasi morendo di fame e i loro muli erano quasi morti di sete. Così, a Wisko, Rolle tornò indietro; dieci giorni dopo che il suo reparto aveva attraversato la frontiera, fu di ritorno, dopo aver perduto 52 uomini e tutti gli animali. Ma l’inseguimento di un giubilante batta­ glione di frontiera non era stato efficace. La piccola automobile di Boustead si era guastata per prima e poi, a uno a uno, gli autocarri ne avevano seguito l’esempio. La sola perdita da parte sudanese consisteva in un uomo della pacifica tribù degli engessana che, veduta una delle bombe a mano italiane rosse e nere sul margine della strada, scambiandola a quanto pare per un salvadanaio, aveva tentato di spaccarla in due. Con silenziosa soddisfazione del generale Gazzera, l’XI Brigata e For­ mai screditato Gruppo Bande di Rolle vennero fatti ripiegare nello Scioa. Questo fu il primo e l’ultimo tentativo del generale Trezzani di mettere in pratica il principio, che riteneva di avere imparato dall’invasione della Somalia britannica, di dirigere un’operazione sulla frontiera dal lontano centro. L’attacco, se coordinato sul posto, sarebbe potuto riuscire: invece era fallito. Questo fu il primo insuccesso degli italiani con risultati del tutto spro­ porzionati alla sua importanza. Khartum capì che si era trattato di una puntata isolata e non della prima mossa offensiva di una campagna coor­ dinata, e cominciò a prendere in seria considerazione la possibilità di passare all’offensiva. 373

Il Ministro della Guerra, Eden, scelse questo momento propizio per gli inglesi per recarsi in aereo a Khartum. La sera del suo arrivo, apprese che Mussolini, incoraggiato dai suoi successi, aveva potenziato i propri eserciti in Albania e si accingeva a invadere la Grecia. Non era questa, tuttavia, la preoccupazione immediata di Eden. Egli venne a Khartum con le idee chiare, incoraggiato dalle notizie sulla rivol­ ta dilagante in Etiopia, ma assai desideroso che le truppe regolari inglesi riportassero qualche successo militare, sia per stimolare la rivolta stessa, sia, su un piano più generale, per migliorare il morale in tutto il Medio Oriente. In nessun luogo, infatti, gli inglesi erano ancora venuti alle prese con gli italiani riportando un successo; in tutti gli scontri sostenuti erano rimasti sconfitti, e anche l’incursione più recente nel Sudan era stata sven­ tata non già dalle truppe inglesi, ma dagli ostacoli naturali. Inoltre stavano circolando strane voci a proposito del figlio del Mahdi e di suoi contatti con le truppe egiziane tuttora nel Sudan; gli italiani ne erano venuti a conoscenza e ritenevano che la fedeltà dell’Anwar nei confronti degli in­ glesi non fosse come era sembrata essere e che stessero agitandosi remini­ scenze della gihad, la guerra santa, e dei dervisci dietro la Mezzaluna Verde. « Politicamente l’intera situazione qui » aveva telegrafato Eden a Chur­ chill dal Cairo « migliorerebbe in misura incommensurabile se riuscissimo ad assicurarci qualche successo militare. » E poiché non possedeva poteri magici di preveggenza, ritenne, com’era abbastanza prevedibile, che un primo successo sarebbe dovuto e potuto essere riportato contro gli italiani in Etiopia; e accennò, nel telegramma a Churchill, ai piani che venivano preparati dal Comando del Sudan per la riconquista di Kassala. Aveva convocato una conferenza su vasta scala a Khartum. Il generale Wavell era arrivato con lui, il generale Platt si trovava là, naturalmente, ma c’erano anche il generale Dickinson, giunto dal Kenia, e un certo ge­ nerale Cunningham, fratello dell’ammiraglio Cunningham ad Alessandria, che di lì a non molto avrebbe sostituito Dickinson come comandante in capo nell’Africa Orientale. Erano inoltre presenti il generale Hudleston, l’anfitrione, e altri due generali, il generale Smuts e il suo capo di stato maggiore, generale Rynevald. Infatti, il Primo ministro sud-africano aveva deciso di venire in aereo da Città del Capo, appositamente per quella riunione 6. Dopo cena, la conferenza su vasta scala ebbe inizio. Il Caid annunciò di disporre adesso di 28.000 uomini, di qualche reparto di artiglieria e di alcuni carri armati e si disse fiducioso di poter arginare un attacco da Kassala. Questo non era affatto ciò in cui aveva sperato Eden, che si era aspettato di sentir parlare di piani d’attacco non già di difesa a Kassala. Ascoltò pertanto, ancor più avidamente, una proposta di Smuts di attac­ care dal Kenia nel Giuba e di occupare il piccolo porto di Chisimaio. Smuts aveva bisogno di un successo militare con il quale le truppe sud­ africane avrebbero soddisfatto l’opinione pubblica in patria e controbat­ tuto la propaganda filo-tedesca di Oswald Pirow, ex-Ministro della Difesa. Eden riteneva che la conquista di Chisimaio avrebbe potuto fino ad un 374

certo punto soddisfare Churchill — e a questo proposito suggerì che venisse ritirata anche una delle brigate dell’Africa occidentale. Ma i militari si dissero contrari. Ci si accordò nel senso che Smuts e Cunningham si sareb­ bero recati in aereo il giorno dopo nel Kenia per accertare se Chisimaio potesse essere occupata prima della stagione delle piogge. Possibilmente in gennaio; e possibilmente anche Kassala, propose Eden. Faceva un caldo soffocante, quella notte: dormirono tutti sul tetto a terrazza del Palazzo. La mattina dopo, Smuts e Cunningham partirono; e Huddleston, tutt’altro che in buona salute, si mise a letto con una lom­ baggine. Nelle prime ore del pomeriggio Eden, insieme a Platt, ispezionò la guarnigione di Khartum; rimase turbato dalla situazione dei West Yorks, che erano a corto di ufficiali e al di sotto degli effettivi, ma lo en­ tusiasmarono i tre MMG Coys della Sudan Defence Force, carri armati improvvisati che erano « ideali per quel terreno », anche se notò « una sorprendente riluttanza a offendere Mussolini e in seguito difficoltà nel trovare il tipo giusto di ufficiale che parlasse l’arabo ». Nel tardo pomeriggio, Eden, insieme a Wavell, si recò a far visita ad Hailé Selassié, cui si doveva se la conferenza era· stata convocata : infatti, lasciatosi alle spalle il precedente letargo, stimolato dalle notizie del succes­ so di Sandford e dai festeggiamenti del mascal che, per tradizione, segna­ vano in Etiopia l’inizio dei combattimenti, Hailé Selassié aveva all’im­ provviso preteso molto di più. Probabilmente dietro consiglio dei suoi amici inglesi, aveva chiesto ufficialmente un immediato Trattato di alleanza e di amicizia, e il suo riconoscimento come sovrano indipendente. Era questa una richiesta che sollevava l’intera questione del futuro regi­ me in Etiopia; poneva, e intendeva porre, il governo inglese in una situa­ zione imbarazzante. Il Foreign Office non aveva ancora preso una deci­ sione e a Londra esistevano orientamenti diversi. In ogni caso, bisognava placare l’Imperatore. E così Eden, che era già persuaso, e Wavell che lo era meno, ascolta­ rono le sue lagnanze con comprensione. Dubitarono della fiduciosa asser­ zione che non appena l’Imperatore fosse rientrato nell’Impero, vi sarebbe stata una rivolta generale. Ma riconobbero che, anche se la ribellione sem­ brava diffondersi, vi era stata una malaugurata mancanza di coordinazione da parte del Sudan; e Eden si infuriò apprendendo quanto poco aveva fatto il Caid per aiutare e, invero, di quanto scarso interessamento aves­ sero dato prova tutti gli alti funzionari del Sudan per i ribelli, i profughi, e persino per la Missione 101. E così, dopo cena, vi fu una riunione tempestosa. Eden, Wavell, il Mi­ nistro' della Guerra e il generale Comandante in Capo con tutto il peso della loro autorità criticarono Platt e gli ufficiali del suo stato maggiore, accusandoli di letargo, di incompetenza, e di non aver fornito alcun aiuto, in generale, ai ribelli in Etiopia e agli etiopi nel Sudan. « Vi sono mo­ menti in cui serve a ben poco partecipare a un piacevole ricevimento se­ rale » osservò Eden, che era di norma così compito e affabile, e divenne con premeditazione intollerabilmente offensivo. Il Caid, una volta tanto, 375

dovette dominare la sua suscettibilità, e accettare le critiche quasi in si­ lenzio. Hailé Selassié, se fosse stato presente, ne avrebbe gioito. Il giorno dopo all’alba Eden partì in aereo per recarsi dapprima al ponte di Butana e poi nell’avamposto minacciato di Gedaref. A Gedaref lo aspettava un triste spettacolo: dapprima l’aeroporto ove i resti carbo­ nizzati di otto Wellesley e due Vincent mitragliati dai caccia italiani for­ mavano « un doloroso groviglio ». In secondo luogo, alcuni artiglieri in­ glesi, con un’aria afflitta, braccia e ginocchia bendate, « erano stati punti da rovi velenosi che abbondano da quelle parti » ; e, un’altra e più il­ lustre vittima di un incidente, il maggior generale Heath, comandante della divisione indiana, « poveruomo, si era fracassato di recente finendo di notte con la sua automobile contro un cammello ». Ma a Eden Heath piacque: «robusto, ponderato, e, direi, leale». Il Ministro della Guerra passò rapidamente in rivista l’Essex — « da quello che ho visto lo giudicherei un buon battaglione » (un’osservazione disgra­ ziata) ; quindi tornò in volo a Khartum e vi apprese che Smuts e Cun­ ningham, nel Kenia, avevano approvato le proposte di un attacco a Chisimaio e alla linea del fiume Giuba per i primi mesi dell’anno seguente.

CAPITOLO UNDICESIMO

GALLABAT

Eden aveva ottenuto quel che voleva: vi sarebbe stata, tutto sommato, un’immediata operazione militare, e, con ogni probabilità, un immediato successo militare. Soltanto, l’obiettivo era diverso: non più Kassala, ma Callabat e Metemma. Il Brigadiere cui egli aveva stretto la .mano a Gedaref, e che era stato torvamente deciso a non far sapere del « mercoledì » nemmeno al suo Mi­ nistro della Guerra, era il comandante della 10“ Brigata di fanteria indiana, il Brigadiere Slim. Si trattava di un militare di carriera, ricco di senso dell’umorismo e di umanità, « un piccolo terrier ringhioso », e l’attacco contro Gallabat doveva essere la sua prima operazione attiva come coman­ dante di una brigata. Egli era deciso a far sì che l’azione avesse successo. Sembrava che così sarebbe stato. In effetti l’attacco era stato prepara­ to da Eden e accettato dai generali riuniti a Khartum. Se dunque Meternma non si muoveva e non attaccava Gedaref, che fosse Gedaref ad attac­ care nella direzione di Metemma! Per questo il generale Heath, nonostante le ferite causategli dallo scon­ tro, si era recato a Gedaref. L’idea di un attacco era nell’aria da alcune settimane: una tra tante mosse possibili prese in considerazione ancor prima dell’arrivo di Eden, e Slim e la sua brigata si erano segretamente spostati per unirsi agli impressionatissimi dilettanti dell’Eastern Arab Corps. Ma quando infine la decisione venne presa, la parola d’ordine fu segre­ tezza. Vi sarebbe stato, infatti, un equilibrio quasi perfetto tra le forze di fanteria, tre battaglioni contro tre battaglioni, ma gli inglesi dispone­ vano di due « armi segrete », un reggimento di artiglieria e, soprattutto, un gruppo di carri armati, leggeri e pesanti, che bisognava nascondere agli italiani, e per questa ragione erano state adottate così severe misure di sicurezza a Gedaref. Poiché senza i carri e l’artiglieria l’attacco non sarebbe potuto riuscire; con essi, la vittoria sembrava quasi certa. Il colonnello Castagnola, infatti, poteva mancare di spirito offensivo, ma senza dubbio non era rimasto con le mani in mano per quanto con­ cerneva la difesa. Aveva circondato il forte catturato a Gallabat con un robustissimo muro e con intrichi di filo spinato, per una lunghezza di sei­ cento metri e una profondità di quattrocento; e aveva eliminato alberi e cespugli tutto attorno per consentire campo libero al tiro in un settore di

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parecchie centinaia di metri. Quanto a Metemma, era difesa in modo ancor più formidabile da due diversi e profondi reticolati di filo spinato che circondavano l’intera zona entro la quale si trovavano gli edifici fortificati. E la strada che correva attraverso il khor, collegando Gallabat a Metemma, era anch’essa difesa in modo massiccio da filo spinato a en­ trambi i lati. Sarebbe stato inutile attaccare quelle posizioni con la sola fanteria, come i ribelli avevano potuto constatare nel caso di attacchi analoghi contro posti meno fortificati nel Goggiam. Era necessaria l’artiglieria per aprire un varco nelle fortificazioni e occorrevano i carri armati per pas­ sare attraverso i reticolati e i muri affinché la fanteria potesse seguire nei varchi aperti dai mezzi corazzati. Pertanto, Slim spostò segretamente i suoi depositi di proiettili d’artiglieria, durante la notte, fino al khor El Otrub; e ordinò ai carristi di togliersi i vistosi berretti neri, affinché non potessero essere veduti da qualche spia italiana, che ne avrebbe dedotta la presenza dei carri. Il generale Heath approvò e diede un suo suggerimento per accrescere la confusione e l’allarme tra il nemico: che, da allora in avanti, tutti do­ vessero parlare non già di Quinta divisione indiana, ma di cinque divisioni indiane, sfruttando così Formai risaputa tendenza dello spionaggio militare italiano ad esagerare il numero dei nemici che avevano di fronte. Slim si proponeva di fare svolgere la battaglia in due fasi: di impadro­ nirsi nella prima di Gallabat con un attacco di sorpresa all’alba, impe­ gnando il battaglione garhwali e i carri sotto la copertura dell’artiglieria; e di fare avanzare nella seconda l’Essex per un attacco preceduto dai carri contro la posizione principale di Metemma. Nel frattempo l’avia­ zione, quello che ne restava, doveva effettuare bombardamenti violenti per creare confusione e, in particolare, per distruggere la stazione radio di Metemma e impedire così al colonnello Castagnola di richiedere l’ap­ poggio aereo a Gondar. Lo scontro doveva essere qualcosa di molto di­ verso dalle azioni tipo quelle del bimbasci Thesiger e di alcuni ribelli che sparavano qualche colpo dalle colline. Doveva trattarsi di un’operazione militare accuratamente preparata e organizzata, la prima che gli inglesi avessero mai tentato contro gli italiani. E nulla venne trascurato per assi­ curarne il successo. Infatti, non appena tale successo fosse stato conseguito, gli inglesi avrebbero avuto una riuscita impresa d’armi di cui vantarsi e per giunta sarebbe stata aperta la migliore, e la di gran* lunga più comoda delle piste carovaniere che da Sudan portavano nel Goggiam e nell’Ermacioccò, e sarebbe stato possibile fare arrivare ai ribelli - o meglio ai Patrio­ ti ', come venivano ormai chiamati - le carovane con relativa rapidità e sicurezza, facilitando in questo modo, e diffondendo, la rivolta. L’attacco era stato previsto per la mattina dell’8; ma giunse notizia che stavano affluendo rinforzi da Gondar, e pertanto esso venne anticipato al mattino del 6 novembre, esattamente un mese e un giorno dopo la data per la quale Castagnola lo aveva inizialmente temuto. 378

Slim dormì nel suo posto di comando, una piccola altura di fronte al khor el Otrub, a circa due chilometri e mezzo da Gallabat. Nell’oscurità prima dell’alba fu destato dall’attendente garhwali con la tradizionale tazza di tè. « A est, i monti dietro Gallabat, gebel Negus e gebel Mariam Uaha, cominciarono a divenire visibili come scuri e lontani profili contro il primo pallido chiarore color limone dell’alba. Pian piano, il color limone si inten­ sificò tramutandosi in oro e passando poi a un morbido e luminoso az­ zurro, ma la collina di Gallabat rimaneva invisibile, affondata nell’oscurità degli altri rilievi. » Cosi scrisse in seguito Slim. Era un comune ufficiale dell’esercito, ma come i migliori, come lo stesso Wavell, aveva in sé una vena poetica e sentiva, spècie nello scenario di quell’epico paese, gli aspetti lirici e tragici — e invero anche quelli comici — della guerra. Un piccolo gruppo di ufficiali si era riunito al posto di comando. Slatter, il comandante della RAF, consultò l’orologio. « Dovrebbero essere sull’obiet­ tivo tra otto minuti a partire da questo momento » disse. Il colonnello Welcher, dell’artiglieria, con un grosso cannocchiale a tracolla e una lancia lunga un metro e ottanta stretta nel pugno, impartì l’ordine che le reti mimetiche venissero tolte dai cannoni; si udì un rombo lontano prove­ niente da ovest, e, mentre i bombardieri e i caccia passavano, i pezzi dell’artiglieria aprirono il fuoco per la prima volta sul fronte sudanese. Mentre gli aerei si allontanavano segnalando che la stazione radio di Metemma era stata centrata da una bomba, i carri armati si misero in moto verso l’altura di Gallabat e dal terreno si sollevarono file di figure dal cappello a cencio, i fanti garhwali. Mentre scomparivano nel fumo che avvolgeva Gallabat, l’artiglieria allungò il tiro verso Metemma. Quando lo strepito e il clamore si furono spenti, razzi Very saettarono fumosa­ mente in alto ed esplosero con luci verdi e rosse sopra il forte di Gallabat. Era questo il segnale del successo. Gli inglesi avevano riconquistato Gal­ labat. Slim, il suo stato maggiore e gli artiglieri, con i loro pezzi, si portarono avanti verso il forte catturato, e vennero fermati da un piccolo ma ben disposto campo minato, mentre la sparatoria ricominciava tutto intorno a Gallabat, facendo loro temere che il segnale del successo fosse stato alquanto prematuro. Quando infine ebbero raggiunto il pendio della col­ lina, si gettarono urlando attraverso un varco nel filo spinato e nel muro, aperto evidentemente dai carri armati, e si trovarono di fronte a un uffi­ ciale italiano. « Un generale nemico! » gridò Welcher. Molto eccitati, impugnando le rivoltelle, il Brigadiere e il colonnello saltarono giù dall’automezzo. L’italiano, saggiamente, alzò le mani. Era giovane, con la faccia liscia; Slim non potè fare a meno di pensare che aveva un aspetto un po’ troppo giovanile per essere un generale. « Mi arrendo » disse l’ufficiale, in un buon inglese. « Sono capitano nel battaglione coloniale. » 379

Alquanto deluso, Slim gli domandò dove fosse il suo comandante. « A Metemma, ormai » rispose l’altro, amaramente. « Non appena è cominciato il vostro bombardamento, è corso fuori gridando: ’’Alle mura! Alle mura!” ed è scomparso verso il khor del confine. Da allora nessuno 10 ha più veduto! » L’ufficiale era probabilmente il comandante interinale del 27°, in quanto 11 maggiore Spada, il comandante molto stimato del battaglione, era rima­ sto gravemente ferito durante un bombardamento aereo alla fine di agosto. Così il 27° aveva perduto il forte, tolto con tanta facilità pochi mesi prima ai bimbasci Thesiger e Hanks; ma soltanto dopo aver subito gravi perdite, e secondo il piano. Gli italiani sapevano infatti che un attacco era imminente; sin dal 3 novembre era stato dato l’allarme agli aviatori a Gondar. In questo senso, i tentativi inglesi di mantenere il segreto erano falliti. Gli italiani non si erano aspettàti, però, i carri armati e l’artiglieria; carri e cannoni avevano sfondato le loro difese, causando molte perdite. Ciò nonostante, ripiegando, essi si erano limitati a eseguire gli ordini; il piano italiano prevedeva infatti lo sgombero di Gallabat non appena la cittadella fosse stata attaccata in forze, e poi un rapido contrattacco con i rinforzi concentrati a Metemma — il 25°, il 77° e una compagnia dei mitraglieri Savoia, prima che gli inglesi avessero il tempo di riorganizzarsi. E questo contrattacco ebbe in effetti luogo, molto' rapidamente e con grande efficienza, nonostante l’inevitabile confusione causata dal bombar­ damento di Metemma. Tuttavia fallì, respinto dagli efficienti garhwali, non prima però che un mitragliere del Savoia fosse quasi riuscito a colpire Slim. « Non credo che questi terroni ritenteranno subito » disse il colonnello dei garhwali. « Scommetto di no » riconobbe Slim. « Ora che sono completamente scombussolati, quanto prima passeremo alla fase successiva e attacchere­ mo Metemma, tanto meglio sarà. Da dove si può vederla meglio? » Si portarono dinanzi a una feritoia del muro est e Slim contemplò Metemma. Alcuni tucul erano avvolti da alte fiamme, ma gli edifici sem­ bravano intatti e le formidabili recinzioni di filo spinato non erano state sfondate. Là dunque i carri sarebbero dovuti passare per primi. Vi erano state innumerevoli difficoltà per ottenere quei carri armati. I mezzi corazzati, dopo Dunkerque, valevano, nell’esercito inglese, quasi il loro peso in oro e venivano tesaurizzati — specie i carri pesanti « I », chiamati Matilda, la cui corazza era così spessa che nessun pezzo contro­ carro italiano riusciva a penetrarla. E Slim ne aveva sei. O meglio, li aveva avuti. Infatti il comandante del gruppo (Gruppo B del 6° Royal Tank Regiment) si presentò, scuro in volto, per riferire che cinque dei suoi sei Matilda e quattro dei sei carri leggeri erano fuori uso. I Matilda in effetti, sebbene invincibili, potevano essere fermati. Era accaduto che l’arma segreta degli italiani, le taglienti rocce vulcaniche di trachite dell’altura di Gallabat, ne aveva sfasciato i cingoli fatti di pia­ stre d’acciaio collegate da gomma dura. Questo il primo disastro; il se­ 380

condo era stato più tragico. Fermatisi i carri, i carristi erano discesi per esaminare i danni e i garhwali ne avevano uccisi o feriti molti, scambian­ doli, a causa dei berretti, per italiani. È difficile prevedere tutto in guerra. Slim si consolò requisendo un paio di fiaschi di Chianti intatti mentre, con riluttanza, decideva di rimandare al tardo pomeriggio la seconda fase dell’attacco. Gli Essex stavano arrivando in quel momento a Gallabat per prendere posizione, ma bisognava portare avanti i cannoni e puntarli ed effettuare prolungati tiri di sbarramento per aprire varchi nelle due fasce di filo spinato intorno a Metemma. L’attività cessò con la calura del giorno pieno. Slim tornò al suo posto di comando per prepararsi alla battaglia del pomeriggio. Verso le tre, mentre stava parlando al telefono da campo, udì un rombo di aerei, pro­ veniente questa volta da est. Era una grossa forza aerea, partita dalle basi di Gondar e di Bahar Dar; circa dieci bombardieri, che sganciarono grappoli su grappoli di bombe sopra Gallabat, scortati da quasi venti caccia tra i quali si tro­ vava, inevitabilmente, quello del fratello di Gina. « Questi sono giorni di guerra vera», egli annotò nel suo diario. Finalmente potè vendicarsi2 e riportare la sua vittoria. Due solitari Gloucester Gladiator si stavano avvi­ cinando per intercettare gli incursori, e il fratello di Gina ne abbatté uno, l’altro precipitò al suolo mentre lui guardava. Tutto ciò era l’opposto del piano di Slatter, che aveva previsto di attac­ care soltanto in forze. Tuttavia altri aerei giunsero con il contagocce dalla pista di Gedaref, soltanto per essere abbattuti ad uno ad uno dai caccia italiani. Tra i piloti uccisi vi fu il comandante dell’appena arrivata squa­ driglia di caccia sud-africana. Fu una grande giornata per il generale Pinna e i suoi aviatori. Infatti, non solo dominarono i pochi aerei rimasti nel Sudan, ma decisero altresì le sorti della battaglia. Quando il bombardamento e i duelli aerei furono cessati, Slim si dires­ se a Gallabat per vedere come se la fossero cavata gli Essex e i garhwali, non eccessivamente allarmato in quanto immaginava che si fossero, alme­ no in parte, rifugiati in trincee improvvisate. Solo, armato soltanto di un bastone da passeggio e in preda al furore, Slim si incamminò su per la strada verso il forte. Incontrò e fermò un gruppo disordinato di uomini che scendevano a piedi, tutti, tranne uno, notò, con il fucile. Riferirono confusamente e con molte divagazioni che gli italiani avevano riconquistato il forte dopò un grande massacro; loro si erano difesi disperatamente e poteva darsi che fosserò gli unici super­ stiti del battaglione cui appartenevano. Il loro colonnello era stato ucciso. E uno di essi aggiunse avventatamente : « Anche il Brigadiere è stato uc­ ciso! » Slim riuscì a persuaderlo che quest’ultima notizia era infondata e li costrinse tutti a tornare sui loro passi, raccogliendo poi per via altri dispersi, compreso un gruppo del quale faceva parte un ufficiale dell’Essex, la cui vista lo fece mandar bava dalla bocca per la rabbia. Era accaduto, e Slim lo scoprì quando in ultimo giunse al forte, che du­ rante il bombardamento aereo gli Essex si erano lasciati prendere dal pani­ 381

co. Con le schegge che colpivano la dura roccia e ne rimbalzavano, e le truppe nell’ovvia impossibilità di scavare trincee, gli effetti delle bombe erano stati raddoppiati dalla natura del terreno, senza che, tuttavia, vi fossero perdite particolarmente elevate; in ultimo, gli Essex avevano sol­ tanto tre uomini uccisi e ventinove feriti. Ma l’incidente che aveva causato il panico era stato un colpo centrato su un autocarro carico di munizioni, vicino alla compagnia di riserva; alcuni uomini avevano perduto la testa, il panico era diffuso. Occorsero ore, fino al cader della notte, per ristabilire l’ordine. Le trup­ pe indiane erano rimaste perfettamente calme; ma anche alcuni dei loro reparti, a causa degli ordini confusi, avevano finito con il ripiegare, seb­ bene in buon ordine. Ovviamente, però, l’attacco contro Metemma non poteva più aver luogo, almeno per quel pomeriggio. Gli altri reparti degli Essex erano svogliati e innervositi, e inoltre apparve chiaro che i carri armati non potevano essere riparati. Gli Essex, pertanto, non impiegabili per un attacco, sarebbero dovuti essere sostituiti dal terzo battaglione di Slim, i baluchi, fino a quel momento tenuto di riserva. Tutto ciò signifi­ cava che bisognava rimandare ogni eventuale attacco al giorno successivo; nel frattempo, Gallabat venne bombardata quella sera, e di nuovo l’indo­ mani mattina all’alba, con molte perdite tra i garhwali. E vi furono altri momenti di panico tra i superstiti dell’Essex, quando gli italiani spararono bombe fumogene da Metemma e si levò il grido di «Gas! ». Il generale Heath, venuto per vedere che cosa fosse accaduto, incontrò a sua volta un fiume di truppe e di veicoli che si allontanavano dal fronte. Slim, riluttante ad ammettere la sconfitta e a perdere la battaglia, ma sapendo come fosse impossibile tenere Gallabat senza la protezione degli aerei da caccia, e informato inoltre del fatto che stavano per giungere rinforzi da Gondar, studiò un piano per mandare i baluchi e i sudanesi dell’Eastern Arab Corps intorno all’altura situata dietro e più in alto di Metemma, l’altura già nota al bimbasci Thesiger, il gebel Mariam Uaha. Immaginò che il colonnello Castagnola, ignorando il panico delle truppe inglesi e la loro impossibilità di impiegare i carri armati, allarmato dalla perdita di Gallabat e dall’insuccesso del suo contrattacco, demoralizzato dai tiri incessanti dell’artiglieria inglese, avrebbe potuto a sua volta lasciarsi prendere dal panico venendo a trovarsi preso tra due fuochi. E forse, per paura del peggio, avrebbe abbandonato Metemma prima che la sua linea di ritirata venisse tagliata definitivamente. Si trattava di un bluff, poiché i rinforzi erano in marcia; e se Casta­ gnola avesse deciso di restare dov’era, sarebbero stati gli assedianti a cor­ rere il rischio di venire a trovarsi isolati e circondati. Gli ufficiali di Slim fecero rilevare questi pericoli; e, contro il proprio giudizio, contro il pro­ prio istinto, egli si piegò ai loro consigli. Così Slim, con rincrescimento, ritirò la sua brigata e lasciò il forte Gallabat al nemico. I rinforzi, la IV Brigata di Polverini, giunsero a Me­ temma quarantott’ore dopo e dovettero subire, il 20 novembre, un terri­ bile martellamento di bombardieri inglesi che, stando a quanto disse lo 382

stesso Castagnola, ridusse Gallabat e Metemma a « un mucchio di ma­ cerie ». Il 27° — i Beni Amer — era stato « molto bistrattato » e anche la brigata di Polverini dovette essere sostituita, dopo soli quindici giorni, a causa dei bombardamenti e delle continue scorrerie di pattuglie. Ma non si poteva nascondere il fatto che la battaglia era stata perduta. La facile pista carovaniera da Gallabat non era stata aperta; e invero, la notizia della sconfitta degli inglesi, diffusasi ben presto nel Goggiam, alla fine del mese, aveva smorzato molte delle speranze dei Patrioti. Inoltre, Eden non ottenne l’anelato successo militare per migliorare la situazione politica in tutto il Medio Oriente. All’opposto, si era trattato di una nuova sconfìtta per le armi inglesi, e tutto il possibile venne fatto affinché non se ne parlasse in Egitto e nel Sudan; infatti, e questa era la conseguenza più grave di ogni altra, il rovescio subito sembrava dimostrare che, per quanto incapaci potessero essere le truppe italiane, quelle inglesi erano ancora peggiori. Mai, infatti, un battaglione di Camicie nere si era lasciato prendere dal panico sotto i bombardamenti; e il fatto che soldati inglesi fossero fuggiti di fronte a qualche aereo, era preoccupante per numerose persone. Per giunta, la spaventosa incapacità delle truppe inglesi non era stata controbilanciata né dalla superiorità dell’equipaggiamento tecnico, né dall’abilità dei comandanti. All’opposto, i carri Matilda erano stati fatti a pezzi e immobilizzati in pochi minuti da alcune rocce, i caccia si erano lasciati distruggere singolarmente e senza alcuna coordinazione, e gli uffi­ ciali a livello di battaglione si erano lasciati prendere dal panico, mentre, a livello di brigata, non avevano saputo organizzare un attacco riuscito contro forze nemiche più deboli, sebbene appoggiati dai mezzi corazzati, dall’artiglieria e dall’aviazione — in parte per sfortuna, ma in parte, anche, per mancanza di preveggenza e di efficienza. Se tutto ciò era sintomatico, gli inglesi nel Medio Oriente avevano dinanzi a sé prospettive desolanti, e lo scoraggiamento dominò, a tutti i livelli, il Comando del Medio Oriente e il War Office, quanto più si esaminavano le manchevolezze implicite nell’azione di Gallabat. I colpevoli pagarono. Tanto gli Essex quanto il Brigadiere Slim non si trovavano più nel Sudan prima della fine dell’anno. Il Brigadiere Rees, affettuosamente noto come « la piccola meraviglia tascabile », assunse il comando della brigata, e scozzesi più marziali - il 2° Highland Light Infantry — sostituirono i poco combattivi Essex provenienti dall’East Anglia.

CAPITOLO DODICESIMO

UN LAWRENCE D’ETIOPIA

Eppure, il giorno stesso in cui gli Essex si lasciavano prendere dal panico e l’attacco-contro Metemma falliva, fu quello in cui si determinò un avvenimento che, anche se nessuno poteva ancora rendersene conto, do­ veva segnare la svolta nelle sorti della guerra. Quel giorno, infatti, l’ultimo e forse il più grande dei personaggi apparsi nel corso della presente storia apparve sulla scena etiopica. L’uomo che arrivò a Khartum in quella prima settimana di novembre del 1940, il maggiore Orde Wingate, era stato inviato dal Cairo per agire in stretto collegamento, e come ufficiale di stato maggiore, con Hailé Selassié. Dopo la conferenza di Khartum, Wavell e Eden, rientrati al Cairo, avevano deciso che era ormai tempo: l’uomo prescelto non doveva essere un esperto di questioni etiopiche, ma un ufficiale di carriera, sintonizzato quindi, per così dire, sulla stessa lunghezza d’onda del generale Platt, ma in grado, sebbene tecnicamente un subordinato di quest’ultimo, di esercitare pressioni su di lui affinché attuasse le decisioni prese alla conferenza di Khartum: le decisioni, vale a dire, in seguito alle quali si doveva por ter­ mine alla diffidenza e all’assenza di interessamento con le quali erano state considerate, fino ad allora, sia la ribellione in Etiopia, sia la persona stessa di Hailé Selassié. Eden e Wavell presero in esame i vari ufficiali disponibili, e si trovarono d’accordo su Wingate. Wavell lo mandò a chiamare; e i tre uomini discus­ sero a lungo sugli scopi e la portata della missione che stava per essergli affidata. Perché Wingate? Già, perché? Eden, se avesse avuto sotto gli occhi il dossier di Wingate, avrebbe appreso qualcosa sul conto di quell’uomo pri­ ma di incontrarsi con lui. Sarebbe venuto a conoscenza del fatto che Orde Wingate, trentasettenne, aveva percorso una carriera apparentemente ab­ bastanza normale come ufficiale d’artiglieria; che apparteneva a una fami­ glia di militari, sia per parte di padre, sia per parte di madre; che — e que­ sto era abbastanza interessante — aveva già militato nel Sudan dieci anni prima, sia a Gallabat sia a Roseires, come bimbasci nella Sudan Defence Force; e, fatto ancor più significativo, in quanto ne conseguiva che il suo nome sarebbe stato riconosciuto lungo tutto il confine e nell’interno — che il cugino di suo padre era stato Sir Reginald Wingate, Governatore gene385

rale del Sudan, fondatore del Sudan Civil Service, sirdar dell’esercito egi­ ziano e, ventiquattro anni prima, Comandante in capo delle operazioni nello Hegiaz, con base a Port Sudan. Eden avrebbe saputo inoltre che, sette anni prima, Wingate era partito, solo, per una spedizione nel deserto libico, alla ricerca delle ossa dell’esercito di Camisse e della scomparsa oasi di Zerzara. Con precedenti come questi, e soprattutto con un simile antenato, si sarebbe potuto non scegliere Wingate? Ma in tal caso, d’altro canto, Wavell avrebbe dovuto accennare al fatto che conosceva da un pezzo Wingate, che invero, lo aveva avuto ai suoi ordini in Palestina, ai tempi della seconda ribellione araba, dopo la Con­ ferenza della Tavola Rotonda nel 1936; e sarebbe stato costretto ad at­ trarre l’attenzione di Eden su un documento contenuto nella pratica: il rapporto del comandante di Wingate a Gerusalemme, allorché era stato rimandato in Inghilterra. « Orde Charles Wingate DSO [Distinguished Service Order], È un buon soldato, ma, per quanto concerne la Palestina, pericoloso ai fini della sicu­ rezza. Non si può riporre fiducia in lui. Antepone gli interessi degli ebrei a quelli del suo paese. Non si dovrebbe più consentirgli di tornare in Palestina. » Eppure Wavell, sebbene fosse stato Comandante in capo in Palestina dal ’37 al ’39, e avesse avuto abbastanza noie a causa di Wingate per ricordarsi benissimo di lui, non sarebbe stato in grado, anche se avesse voluto, di riferire la faccenda. Soltanto coloro che risiedevano nel kibbutz Afikim avrebbero potuto dire come questo giovane ufficiale inglese si fosse presentato un giorno al kibbutz, traboccante di entusiasmo per la causa sionista e di discorsi sui suoi rapporti con Weizmann a Londra; come, a tutta prima, lo avessero guardato con sospetto, considerandolo una proba­ bile spia e un agente provocatore in particolare quando si era meravigliato perché l’Al-Haganà non organizzava scorrerie notturne contro gli arabi e aveva consigliato di fare qualcosa del genere, e addirittura si era offerto di guidarli. Ma i sospetti avevano finito a poco a poco con il dileguarsi mentre Wingate veniva sempre più spesso, sempre con la Bibbia in mano, parlando entusiasticamente delle guerre di Saul e di Gedeone, criticando Davide, come troppo mite; e man mano che venivano a sapere come suo nonno fosse stato un missionario scozzese a Budapest, e come suo padre, dopo un’intera esistenza trascorsa nell’esercito indiano, fosse divenuto un seguace dei Plymouth Brothers, sua madre lo aveva allevato insegnandogli l’Antico Testamento, i Salmi e i Proverbi, e abituandolo, opportunamente, a un regime severo e frugale. Di questa stoffa erano fatti i fanatici; prima che un anno fosse trascorso, Wingate aveva formato le Squadre Speciali Notturne e, la Bibbia in mano — poiché non si serviva della carta topo­ grafica, ma della geografia delle guerre bibliche per orientarsi — guidava i più giovani appartenenti al kibbutz in scorrerie di rappresaglia contro gli 386

arabi. Per qualche tempo le autorità inglesi, esse stesse divise da dissensi, avevano chiuso un occhio. « Il mio pazzo prediletto », lo chiamava Weizmann, e Moshe Dayan, che lo seguiva nelle scorrerie notturne, aggiungeva di non aver mai veduto Wingate uscire sconfitto da uno scontro o preoc­ cuparsi per la disparità delle forze. Ma tutto questo non poteva durare. Wingate si era fatto odiare parec­ chio, nell’esercito, con le sue critiche della « scimmia militare », l’ufficiale medio inglese, e il soldato medio inglese. « Non imitate il Tommy inglese » consigliava ai giovani ebrei. « Imparatene la calma e la disciplina, ma non la stupidità, la brutalità e l’ubriachezza. » E, in ogni modo, le scorrerie e le rappresaglie stavano sfuggendo di mano e gli inglesi, a un tratto, appli­ carono la legge che aveva istituito la pena di morte per ogni ebreo trovato in possesso anche di una sola pallottola. Per quanto concerneva Wingate, la goccia che fece-traboccare il vaso fu forse il consiglio da lui dato al­ l’ebreo di Odessa destinato a divenire il successore di Ben Gurion, Shertok, quando stava per avere un colloquio con Wavell: « Andrai e ti metterai a sedere senza essere stato invitato a farlo » gli consigliò Wingate « e dirai ’’Voglio questo, e questo e quest’altro”. Poi ti alzerai e uscirai. È il solo modo di trattare gli inglesi. »

Fu lui a definire in seguito Slim « un piccolo terrier ringhioso », senza, tipicamente, considerare la cosa un insulto. « L’unico soldato degno di questo nome a est di Suez », doveva aggiungere. Questo era l’uomo che Wavell e Eden, nonostante inevitabili apprensioni, scelsero per scuotere Khartum dal letargo. Lui, dal canto suo, era abbastanza impaziente. Per quasi due anni aveva languito in un reparto della contraerea nei dintorni di Londra, finché un suo memorandum sulla situazione militare nel NordAfrica era arrivato fino al Primo ministro. E Churchill, colpito sia dal memorandum stesso, sia dai pareri di Wingate sulla necessità di armare gli ebrei, pareri che coincidevano con i suoi, lo aveva fatto assegnare al Cairo. Ma le « scimmie militari », forse saggiamente, si erano rifiutate di prendere iniziative per quanto concerneva gli ebrei; e lo sconsolato Winga­ te, pascolando tra le pratiche al quartier generale, era stato acceso da un nuovo entusiasmo. Aveva trovato là una lettera di cinque disgustati ser­ genti australiani in Palestina, i quali avevano scritto offrendosi volontari per contribuire alla ribellione in Etiopia. L’Etiopia era un paese che non poteva non attrarre un uomo come Wingate: un paese oppresso dai conquistatori bianchi, ricco di storia e abi­ tato da un popolo dalla mentalità biblica come quella degli ebrei, impre­ gnato, comedo era lui, dai Salmi e dall’Antico Testamento. Wingate studiò tutto quello che gli riuscì di trovare sulla campagna etiopica, e la sua indi­ gnazione crebbe mentre rifletteva sull’incapacità con la quale era stata condotta, e sull’entusiasmo sprecato dei cinque australiani e di tanti altri come loro. 387

Giunse a Khartum con un milione di sterline da spendere e idee chiare. Quasi immediatamente, si rese simpatico al generale Platt dicendogli che, a parer suo, le promesse fatte ad Hailé Selassié erano state mantenute molto male e il colonnello Sandford era stato appoggiato in modo molto fiacco. « Non posso fare a meno di pervenire alla conclusione, Sir » conti­ nuò la perorazione di Wingate « che il modo di fomentare la rivolta, fino ad ora, dimostra povertà di immaginazione accomunata all’intenzione di limitarne la portata al di sotto di quanto è possibile e augurabile. » Questo non è, di norma, il genere di commenti che un generale possa accettare da un maggiore; ma quando il maggiore si presenta munito di denaro a sacchi, e quando è noto che alle spalle del maggiore v’è l’autorità del Comandante in Capo e del Ministro della Guerra, un generale assennato digrigna i denti, sforzandosi di tacere. E così il Caid si accontentò di fare osservare al suo rispettoso subordinato: « Il flagello di questa guerra è Lawrence, in ultima analisi » ; un convincimento tanto più radicato in quanto altri aspiranti-Lawrence, come il maggiore Hamilton della Missione 106 — de! quale diremo di più in seguito — stavano contemporaneamente calando su Khartum per tormentarlo. E invero, con la comparsa del mag­ giore Nevill, della Missione 107, a Nairobi, le missioni segrete parvero proliferare. V’è un capitolo di Machiavelli nel quale lo scrittore si domanda se sia preferibile, per chi governa, essere amato o essere temuto, e decide che, tutto sommato, è meglio essere temuti. Forse Wingate agì istintivamente e, nel breve intervallo di tempo d’una quindicina di giorni, si era fatto temere da alcuni e detestare da molti. Ancor oggi, trent’anni dopo la sua morte, basta un semplice accenno al suo nome per causare reazioni vio­ lente non soltanto tra gli inglesi, ma anche tra gli etiopi che lo conobbero. Una cosa egli non fece, in nessuna circostanza: ispirare indifferenza, a causa di quello che era: i modi, il comportamento, il suo stesso aspetto. Newbold provava nei suoi riguardi un tale disgusto che, a quanto sembra, non riuscì nemmeno a menzionare una sola volta il nome di Wingate nelle sue circolari e nelle sue lettere. Il maggiore Dodds-Parker, ufficiale di collegamento a Khartum, soleva sedere al tavolo più piccolo del Grand Hotel per non dover consumare i pasti in compagnia di Wingate. Ed ecco come lo descrisse il bimbasci Harris del Battaglione di frontiera: «...somigliava alquanto a un orco: occhi piccoli e molto ravvicinati sopra un naso enor­ me. Aveva i capelli lunghi e tutt’altro che puliti. Portava un colletto e una cravatta assurdi. La sua voce era raschiante come una lima ». Qualsiasi altra cosa potesse essere, non era il tipico ufficiale di carriera. « Sebbene fosse un uomo tanto piccoletto » era solito dire Moshe Dayan « quando si arrabbiava poteva farti sentire minuscolo come un topolino ». Uno dei primi bersagli della sua ira fu, precisamente, il Battaglione di frontiera. Era stato formato all’inizio, per aiutare i ribelli scortando armi e rifornimenti nel loro territorio; e invece, si lagnò Wingate, aveva prefe­ rito rimanersene inerte di guarnigione a Roseires, la qual cosa non rien­ trava nei suoi compiti. 388

Prima della fine del mese, una carovana partì da Roseires scortata da una delle cinque compagnie del Battaglione di frontiera, trasportando qua­ si mille fucili, munizioni e settantaduemila talleri di Maria Teresa; cento­ cinquanta cammelli carichi, il più grande convoglio che fosse stato diretto, fino ad allora alla base del ftaurari Taffere Zelleché, sul monte Belaia. Questo fu soltanto un esempio di quanto Wingate riuscì a far fare. Invero, tre giorni dopo il suo arrivo, i capi dell’Ermaciohò che avevano indugiato a Khartum, Uobnè Amorau, Birrè Zagaie e Aiane Chekol, erano stati ri­ mandati nella mischia, accompagnati dal rappresentante dell’Imperatore nel nord, tschafe Taezaz Hailé; Cheman-Andrews (ormai maggiore e uf­ ficiale di collegamento, per la politica, con l’Imperatore) era stato inviato, insieme a Lorenzo Taezaz, nel Kenia, ad accertare che cosa stessero fa­ cendo laggiù i battaglioni profughi; e una sorta di scuola militare, dal nome grandioso di Accademia Militare Sobat, era stata aperta a pochi chilometri da Khartum per addestare ufficiali etiopi. Hailé Selassié fu anche troppo felice di constatare che, finalmente, un po’ di dinamismo veniva iniettato nella rivolta e, invero, nel suo stesso avvenire. La prima visita fatta da Wingate dopo il litigio con Platt era stata quella ad Hailé Selassié; e Wingate aveva immediatamente preso a cuore Γ« ometto » e la sua causa... a tal punto da offendere alcuni dei più vecchi e più leali sostenitori dell’Imperatore, in particolare Gebrge Steer, criticando il lavoro svolto dall’Unità di propaganda. Eppure, dopo il successo iniziale deWauagg. l’Unità di propaganda aveva operato assai fruttuosamente e stava stampando, a migliaia di copie, un foglio-notizie, il Banderachin, che veniva distribuito, mediante le carovane, ai ribelli, o lanciato sulle guarnigioni italiane dalla RAF, e che aveva fatto affluire nel Sudan un numero considerevole di disertori. Wingate non aveve niente da ridire per quanto concerneva la propaganda, ma criti­ cava le sparate propagandistiche che venivano fatte: secondo un suo prin­ cipio, tutta la propaganda doveva essere fondata sulla verità. « Le men­ zogne sono per il nemico, la verità è per i nostri amici. La rettitudine esalta una nazione » diceva. E in particolare protestò a causa di una foto­ grafia nella quale si vedeva l’Imperatore in piedi su un carro armato inglese mentre passava in rivista le truppe a Gedaref. Essa era contraria a un principio al quale Wingate aveva deciso di attenersi ancor prima di venire a Khartum, e dal quale non si sarebbe mai discostato. Hailé Selassié doveva essere Davide — non il Davide di Betsabea, ma il Davide dei Salmi, la cui recitazione costituiva la base dell’istruzione etiopica tradizionale, e soprattutto il Davide che aveva distrutto Golia — Golia essendo rappre­ sentato in questo caso dagli italiani. E, per riuscirvi, il nuovo Davide non aveva bisogno di grandi forze e di moderne armi come quelle simboleg­ giate dal carro armato, ma di mobilità, delle armi che più si prestavano alla mobilità, e soprattutto di fiducia nella giustizia della propria causa e nella grandezza del proprio nome. Pertanto, Wingate non approvò mai il « Piano X » — il piano originario che prevedeva il ritorno dell’Imperatore nel suo paese alla testa di un 389

grande esercito — o come minimo di una sua Guardia del corpo ricosti­ tuita —, idea che Wingate trovava « degna del Medioevo ». « L’idea se­ condo la quale l’Imperatore dovrebbe spostarsi circondato da un’orda alla maniera di Menelik » egli la considerava, in ogni caso, tutt’altro che ragio­ nevole: non soltanto avrebbe impedito la mobilità e reso ingombrante la spedizione, ma avrebbe altresì offerto al nemico un bersaglio ideale per i bombardamenti aerei. Secondo la sua idea, l’Imperatore avrebbe dovuto avere una guardia del corpo di cento uomini - la sola « necessaria o desi­ derabile » — e inoltre, in luogo di un potente corpo di spedizione disposto su una sola colonna massiccia di piccoli gruppi di uomini armati e perfet­ tamente addestrati si sarebbero dovuti disporre tutto intorno all’Impera­ tore, in direzioni diverse e a distanze diverse, causando confusione e allar­ me tra il nemico con le loro tattiche di guerriglia. Sarebbero stati questi gruppi di guerriglieri ad assicurare la vera protezione ad Hailé Selassié. Wingate denominò tali gruppi di guerriglieri Centri operativi, o, più brevemente, Centri op. Egli ne prevedeva dieci, ognuno dei quali sarebbe dovuto consistere di un ufficiale inglese, di cinque sottufficiali inglesi e di duecento etiopi suddivisi in dieci squadre — duecentosei uomini in ciascun gruppo. Rapidi nei movimenti, privi di armi pesanti, ma bene equipag­ giati, essi si sarebbero aperti un varco nel Goggiam, precedendo l’Impe­ ratore e diffondendo la ribellione — e ciò non tanto mediante una collaborazione con i Patrioti, quanto con il dare loro un esempio. Wingate, infatti, aveva punti di vista molto precisi anche per quanto concerneva i Patrioti. Riteneva — sia pure a titolo sperimentale — che si dovesse consentire loro di agire di propria iniziativa, perché si sarebbero attenuti a sistemi diversi da quelli delle truppe addestrate ', e pensava, in modo assai più deciso, che il modo di fomentare una rivolta non consi­ stesse nel distribuire fucili e munizioni a chiunque ne richiedesse. Questo concetto minava alle radici quanto la Missione 101 e gli altri avevano fatto fino ad allora. Erano stati, precisamente, distribuiti fucili a tutti i capi dei patrioti che li avevano richiesti. E, in effetti, sebbene que­ sto fosse il sistema più ovvio per stimolare una rivolta di guerriglieri, i risultati non erano stati buoni, nonostante l’avvenuta distribuzione dei fu­ cili — molte migliaia di fucili — e benché la rivolta fosse teoricamente in corso. Ma in pratica, come fece rilevare Wingate, si era ottenuto pochis­ simo, a parte le promesse; pochissimi danni erano stati inflitti agli italiani, e sebbene sia Sandford, sia Bentinck avessero sentito parlare molto di scorrerie e di attacchi, in effetti, tutti questi progetti sembravano essere svaniti nell’aria una volta giunto il momento di attuarli. Gli attacchi che realmente avevano avuto luogo erano stati sferrati dagli italiani. Come osservò Wingate con una logica stringente, la presenza degli ufficiali inglesi era stata « blandamente incoraggiante » per i patrioti, ma non aveva in­ fluenzato in alcun modo gli etiopi che avevano aderito alla causa italiana. Una delle ragioni, come fece rilevare Wingate, stava nel fatto che era inutile consegnare antiquati fucili francesi — « ferraglia », così egli li defi­ niva — a un capo di patrioti già in possesso di parecchie centinaia di fucili 390

moderni catturati agli italiani : « La conseguenza era quella di fargli pen­ sare o che ci stavamo burlando di lui, o che mancavamo di materiale bellico ». Più ancora, comunque, egli era contrario al principio stesso di distribuire fucili moderni, tranne quando dovevano essere impiegati per uno scopo molto specifico. Qual era, infatti, di solito, il risultato? La men­ talità del capo di patrioti — così la descrisse Wingate in un brano famoso — tendeva a ragionare nel modo qui sotto descritto.

« Questa persona, evidentemente, ha bisogno del mio aiuto (molto inef­ ficace) ; a tal punto che la persona in questione è disposta a privarsi di armi sul cui impiego, deve saperlo, io ho soltanto le idee più rudimentali... Devo affrontare la realtà. Perché dovrei morire senza alcuna speranza di vittoria? Credo, tutto sommato, che la soluzione migliore e più cortese sia quella di accettare l’aiuto con gratitudine; di conservare le armi nel­ l’eventualità che un giorno possa impiegarle contro il comune nemico; e, nel frattempo, di imparare a servirmene regolando, una volta per tutte, quella disputa per l’acqua con i vicini. » Non molto tempo dopo, Bentinck, amaramente ed empiricamente, per­ venne alla stessa conclusione : « Si rende conto il Comando » annotò nel suo diario « di quanto sia pericoloso armare in massa questi capi indisci­ plinati e turbolenti? » Le idee positive di Wingate sui combattimenti di guerriglia e sul com­ pito e la composizione ideali di quelle che egli cominciava ormai a consi­ derare le « sue » forze armate, riecheggiano, consapevolmente o inconsa­ pevolmente, Lawrence, e anticipano Mao Tse.-tung, soprattutto per quan­ to concerne la sua più importante premessa, che egli espose in questo modo. « Non è affatto essenziale, sebbene possa essere una situazione ideale, che il cento per cento della popolazione sia amichevole. Ad essere essenziale è che i supposti amici siano degni di fiducia. Questi abitanti amici sono la matrice dalla quale viene generata la forza. »

E, contraddicendo direttamente Platt, il quale, due anni prima, aveva ritenuto inutile sacrificare mille uomini per operazioni mal concepite con­ tro forze enormemente superiori, soggiunse: « Con una popolazione favorevole all’invasione, mille uomini risoluti e bene armati possono paralizzare, per un periodo indefinito, le operazioni di centomila soldati. »

Ma a questo principio aggiunse vari correttivi: che le doti, sia degli uomini sia del comandante, dovevano essere le più alte; che essi dove­ vano agire indipendentemente, con unità di comando; che dovevano inter­ venire contemporaneamente a una propaganda chiara e precisa; e che bi­ 391

sognava assegnare loro un obiettivo la cui conquista avrebbe influito in modo vitale sulla campagna. Erano, queste, clausole limitative che egli doveva aggiungere in seguito; e perciò sono soffuse dall’amarezza della delusione, poiché Wingate si sa­ rebbe lagnato della mancata unità di comando, della propaganda incerta, degli obiettivi mutevoli e, soprattutto, echeggiando la parola di Wellington, del fatto che, per svolgere tale compito, era stata scelta « la feccia di un esercito »2. Per quanto concerne i rapporti con i capi dei patrioti locali, Wingate stabilì il giusto modo di agire: « Il comandante del gruppo di guerriglieri, al suo arrivo, non offrirà nulla. ’’Questo è strano” dirà a se stesso il capo dei patrioti. ”si tratta di un reparto molto piccolo, ma senza dubbio è seguito da altri molto più numerosi, altrimenti non sarebbe così sicuro di sé. Mi domando come mai non abbia chiesto il mio aiuto. Farò bene a stare attento”. E, la notte suc­ cessiva, il comandante del gruppo di guerriglieri sferrerà un attacco riu­ scito, ma segreto, contro un posto nemico. Questo indurrà il capo dei patrioti, preoccupato, a implorare che gli si consenta di aiutare: ’’Sono un soldato e ho combattuto per anni contro il nemico. Dimmi soltanto che cosa vuoi ch’io faccia e ti dimostrerò se ne siamo capaci” ».

Ciò è forse meno persuasivo della sua critica del sistema errato. Ciò nonostante, esemplifica i due principi nei quali Wingate credette sempre, e che sempre furono alla base della sua azione come capo della guerriglia: l’esempio personale fondato sulla fiducia in se stesso, e il bluff. Eppure Wingate, nonostante tutte le sue capacità di pensare e di analiz­ zare con chiarezza, e nonostante tutta la sua energia, non riuscì ad at­ tuare i piani di una perfetta azione di guerriglia. Ciò in parte perché egli stesso non fu sempre coerente, e in parte perché il « Piano X » aveva già assunto un tale slancio che divenne impossibile cambiarne completamente la direzione. Vien fatto di sospettare, inoltre, che Wingate, contro il pro­ prio buon senso, si fosse lasciato influenzare da Hailé Selassié; in ogni modo, in ultimo, egli accettò che, ai fini del prestigio, l’Imperatore attra­ versasse la frontiera non semplicemente con una piccola guardia del cor­ po, ma con una scorta relativamente numerosa, come si addice al discen­ dente di Salomone e della regina di Saba, che non può, come si era espres­ so ras Seyum anni prima, « nascondersi tra i monti come uno sciftà ». Un battaglione di profughi di Taveta, il 2° Etiopi, comandato dal capi­ tano Boyle, era quasi pronto a entrare in azione, e venne disposto che si trasferisse a Khartum via terra, passando per l’Uganda. A Blatta Taclè, in quanto ufficiale del reparto, venne acconsentito di accompagnarlo fino al Giuba prima di tornare indietro; per conseguenza, lui e Wingate non poterono mai conoscersi. Un peccato, perché erano simili per energia e aggressività; anche se un incontro con Blatta Taclè avrebbe potuto scuo­ tere la dedizione di Wingate all’Imperatore. 392

Si stava inoltre formando un altro battaglione, il 3° Etiopi, con i vari disertori che attraversavano il confine, provenienti dall’Eritrea o dal Goggiam; fu posto agli ordini del capitano Whinney, uno degli ufficiali che, come lo stesso Wingate, insegnavano, due o tre volte alla settimana, al­ l’Accademia Militare Sobat, ove tutti i rampolli più intelligenti della no­ biltà etiope esiliata, dal Duca di Harar in giù, dovevano prima o poi es­ sere addestrati: il meredasmacc Asfauossen, ligg Abie Abebè, ligg Àsrate Gassa, ligg Mered Mangascià, Muluguetà Bulli, Negga Hailé Selassié, Assefa Demissiè, Aman Andon... e Mengistu Neuay. Eppure Wingate, sebbene costretto ad accettarli, disapprovava questi Battaglioni profughi, in parte perché costavano enormi somme di denaro, in parte perché erano stati formati troppo tardi — a parer suo, quegli uo­ mini, e gli eritrei soprattutto, sarebbero dovuti essere radunati a Khartum poche settimane dopo la dichiarazione di guerra — ma soprattutto perché erano comandati da pèssimi ufficiali. Wingate, infatti, sebbene eccentrico, era un ufficiale di carriera e, di rado, sembrava credere nei valori dell’eser­ cito regolare. « Per essere bravi » scrisse « questi Battaglioni profughi era­ no una canaglia male addestrata, male armata, male equipaggiata e de­ moralizzata, al comando di ufficiali e sottufficiali inglesi provenienti quasi sempre da colonie africane e che, sebbene di stoffa eccellente e ricchi di coraggio, non avevano, nella maggior parte dei casi, la preparazione ne­ cessaria per addestrare truppe alla guerra moderna. » Ciò nonostante, i battaglioni esistevano; i suoi Centri Op. non erano ancora stati costituiti, e l’Imperatore esercitava pressioni affinché gli si consentisse di attraversare il confine 3, né si sarebbe potuto tenerlo a freno ancora a lungo, anche se Wingate lo avesse ritenuto desiderabile. E così consapevole del fatto che, in linea generale, avrebbe dovuto accettare il « Piano X », nella speranza di poter presto disporre dei propri Centri Op. e di riuscire gradualmente a modificare il piano stesso in modo più conforme alle sue idee, egli ripartì in aereo da Khartum. Vi si era trattenuto ap­ pena due settimane, ma in quelle due settimane aveva rivoluzionato com­ pletamente l’atmosfera. Wingate si recò nell’interno, a vedere con i propri occhi come proce­ desse la rivolta e, soprattutto, a incontrarsi con Sandford, nominalmente il suo comandante, e colui che aveva concepito il « Piano X ». Sapeva che, in ogni caso, si sarebbero trovati d’accordo sul punto più importante dei loro scopi: il ritorno di Hailé Selassié in Etiopia come Imperatore. Sapeva inoltre che, avendo le idee più chiare di Sandford, si sarebbe trovato in dissenso con lui su molti punti e in particolare per quanto concerneva gli obiettivi e i sistemi immediati : « È un errore molto comune » scrisse « pen­ sare che si sia conseguito qualcosa quando sono state riunite truppe in zone desolate, lontane dai punti vitali per il nemico ». Eppure, lo sapeva bene, Sandford aveva fatto proprio questo su piccola scala, e si proponeva di farlo su vasta scala. Fino a un certo punto Wingate avrebbe concordato 393

con lui ed elaborato il sistema migliore per radunare forze ingenti, ma lo scopo non doveva essere semplicemente la presenza dell’Imperatore al si­ curo entro il proprio Impero; lo scopo doveva essere quello di attaccare, molestare, e, se possibile, distruggere gli italiani. Il 20 novembre, Wingate, accompagnato da uno dei giovani profughi che avevano frequentato l’università, Maconnen, sorvolò una metà del Goggiam e atterrò su una pista appositamente preparata a Sacalà, sui monti subito a est di Buriè, nel territorio di degiacc Negasc. Si trattenne là soltanto quarantott’ore prima di ripartire e di fare ritorno a Khartum; ma, in quel breve intervallo di tempo, Sandford espose la situazione nel Goggiam, e Wingate lo interrogò in merito a numerosi particolari, e i due uomini si accordarono su un piano. Sandford era appena tornato da un viaggio di tre settimane nel Gog­ giam orientale, il Goggiam vero e proprio, come veniva chiamato. Là aveva trovato, in gran parte, la stessa situazione del Goggiam occidentale: gli italiani arroccati nei forti e nelle città sedi di guarnigione e sulle strade che li collegavano, ma la ribellione stagnante a causa della rivalità tra due grandi capi patrioti. Strano a dirsi, aveva constatato come il nobiluomo dalla fama di un santo, ligg Hailù Belù, fosse « un individuo dall’aspetto piuttosto comune, ossessionato dalle lagnanze contro il vicino di casa » e come questo vicino, il bandito e ancor più volgare ligg Belai Zelleché, fosse « un uomo di bell’aspetto, dalla faccia allungata e scarna e dalla nera barba a punta ». Ma, a parte l’aspetto fisico, si era trovato meglio con Hailù Belù, che egli riteneva fosse « un uomo di parola » e che aveva promesso di agire, finalmente, di attaccare due fortini italiani. Belai Zellechè, all’opposto, gli era sembrato goffo, ignorante, privo di intelligenza e molto sospettoso, circondato da sciuscium (buoni a niente), incapace di portare dalla sua parte i capi delle bande locali perché aveva ucciso troppi dei loro parenti, e, benché promettesse di investire Biccenà e persino di tentare di isolare Debrà Marcos, era tutt’altro che disposto a scoprirsi le spalle rispetto a Hailù Belù. E sebbene Sandford avesse lasciato là Vagiacc Chebedde affinché tentasse di pervenire a un accordo come aveva fatto con i due degiacc nel Goggiam occidentale, sembra che, nel migliore dei casi, i due rivali del Goggiam orientale si sarebbero limitati a firmare un patto; ma senza incontrarsi. Sandford aggiunse che la notizia della presenza di Hailé Selassié nel Sudan si era diffusa in Etiopia molto lentamente e parzialmente. Lo de­ luse essere informato da Wingate del fatto che i battaglioni profughi neces­ sitavano ancora di molto addestramento prima di essere capaci di qualsiasi azione, e si interessò molto al progetto dei Centri Op. Wingate, tuttavia, proiettandosi nel futuro, assediò Sandford di doman­ de. Sarebbero stati in grado cammelli carichi di superare la scarpata pro­ venendo dal Sudan? Era in grado il nemico di impedirlo e lo avrebbe fatto? Sarebbe stato possibile mandare muli a sostituire i cammelli sulla sommità della scarpata? Era possibile la libertà di movimento nel Gog­ giam? Avrebbero potuto convogli di muli non molto ben difesi giungere 394

a destinazione senza essere fermati dal nemico? Potevano i rifornimenti essere acquistati sul posto? Sandford diede risposte incoraggianti a tutte queste domande e promise che avrebbe fatto in modo di procurare 5.000 muli per aspettare, in ul­ timo, le forze dell’Imperatore sulla sommità della scarpata. I due uomini decisero il loro piano: non appena possibile, l’Imperatore e i suoi uomini, accompagnati da Wingate, avrebbero attraversato la frontiera; e il luogo in cui tutti si sarebbero incontrati, la base di ogni ulteriore futura mossa, sarebbe stato il monte Belaia, nel territorio del fitaurari Taffere Zelleché, il seguace di degiacc Mangascià. Queste notizie finirono con il giungere agli italiani. La loro reazione dimostrò che si era trattato di una decisione saggia. Come lo spionaggio militare italiano dovette ammettere: « Il Belaia è una zona a noi ignota ». Altri due particolari vennero decisi: il capitano Critchley, comandante in seconda di Sandford, soffriva di un grave disturbo agli occhi e si stabilì che sarebbe stato sostituito. Vennero scelti il nome e il titolo della spedi­ zione che avrebbe accompagnato l’Imperatore, e furono "scelti, evidente­ mente, da Wingate: Forza Gedeone. Così, Wingate tornò in aereo a Khartum; e una settimana dopo, il 1° dicembre, Sandford trasmise il suo rapporto: la carovana — centocinquanta cammelli — era arrivata, ahimè senza mortai e mitragliatrici. La rivolta stava procedendo bene; le Bande disertavano dopo il recente bombarda­ mento di Dangila; il generale Nasi, preoccupato, si era recato, a quanto si diceva, a Buriè; il viaggio del maggiore Wingate era stato utilissimo e Sandford era lieto di sapere che Wingate stava organizzando il ritorno dell’Imperatore. In effetti, l’intera situazione aveva assunto una piega molto favorevole. Così, l’uomo più anziano accettava con buona grazia una situazione che ovviamente gli avrebbe fatto perdere il proprio ascendente a favore di un ufficiale più giovane e vigoroso. Gli etiopi che si trovavano con lui avevano riconosciuto in Wingate un capo nato4. Ma Wingate considerò i punti di vista di Sandford il frutto di una mente annebbiata e, in particolare, si infuriò a causa dell’abitudine di Sandford di fare ai capi ribelli promesse di armi e di appoggio aereo che erano mere parole — promesse contropro­ ducenti, secondo Wingate, anche se forse, in questo caso sottovalutò la capacità degli etiopi di non aspettarsi che le promesse ricevute fossero più credibili di quelle fatte da loro. Wingate, in ogni modo, tornò a Khartum consapevole del fatto che tutto il peso dell’organizzazione del rientro dell’Imperatore avrebbe gra­ vato sulle sue spalle e, a causa della tensione nervosa, si fece più che mai malvolere da tutti. Durante una sfilata all’Accademia Sobat, percosse e gettò a terra un etiope la cui uniforme non era perfetta. Allo scopo di incoraggiare la puntualità, portò ostentatamente una piccola sveglia assi­ curata al polso in luogo dell’orologio. Trattò con modi altrettanto bruschi i suoi colleghi inglesi e addirittura accusò di viltà due ufficiali dello stato maggiore. Quanto ai suoi subordinati inglesi, li convocava nella propria 395

camera al Grand Hotel per rapporti che conduceva completamente nudo, strofinandosi con spazzolini da denti. Uno di coloro che convocò fu l’uffi­ ciale prescelto per sostituire il capitano Gritchley, il bimbasci Thesiger. « È contento? » gli domandò. « Be’, sì, presumo di esserlo, ragionevolmente » rispose Thesiger. « Io non lo sono » disse Wingate. « Ma, d’altro canto, penso che nes­ sun grand’uomo sia mai stato davvero felice. » Eppure, sebbene a Khartum lo giudicassero un megalomane, un eccen­ trico, quasi un pazzo, egli aveva le idee molto chiare per quanto concer­ neva i propri poteri, e i meriti dei suoi piani. Ai primi di dicembre, si recò in aereo al Cairo, ove il generale Wavell aveva convocato una confe­ renza militare per decidere sui piani futuri, e là gli fu consentito di arrin­ gare i comandanti riuniti. Alcuni affermarono che li coprì di insulti, altri no. Una cosa è certa: fece un’impressione favorevolissima, semplicemente perché quanto aveva da dire era musica per le orecchie del comandante in capo e dei suoi generali. Asserì che, ottenendo rifornimenti adeguati, e l’appoggio aereo, sarebbe stato in grado di fomentare una rivolta tale da por fine all’A.O.I., e che, per conseguenza, non esisteva alcuna necessità di rischiare truppe regolari in un’azione offensiva. « Datemi un piccolo re­ parto combattente formato da uomini di prim’ordine » disse « e dal cuore dell’Etiopia io divorerò la mela italiana e la renderò così putrida che ci cadrà nelle mani. » Wavell, con le sue più numerose fonti di informazioni, dovette rendersi conto che quella era una asserzione avventata; e, in particolare, che esiste­ vano regioni dell’Impero italiano nelle quali non v’era alcuna speranza di fomentare una rivolta, soprattutto l’Eritrea e la Somalia. Eppure, la con­ cezione di Wingate si adattava così bene a quanto gli sarebbe piaciuto fos­ se vero che, dopo di allora, resistette con la massima ostinazione a tutti i tentativi fatti a Londra per indurlo a invadere seriamente l’A.O.I. Secon­ do il suo parere, una volta stimolata la ribellione, e, al più, con attacchi di contenimento sferrati da truppe regolari ai confini dell’Eritrea e della Somalia, l’Africa Orientale Italiana poteva essere lasciata « a marcire per suo conto » — per conseguenza non esisteva alcuna necessità di mettere a repentaglio la vita dei suoi uomini; e, spronati dal ragionamento di Win­ gate, lui e i generali ai suoi ordini si attennero a questo punto di vista con tutta l’ostruzionistica testardaggine della quale erano capaci — e di ciò Wingate è, sia pure indirettamente, responsabile. Dopo questo trionfo, Wingate si trattenne per breve tempo al Cairo allo scopo di arruolare il nucleo del suo primo Centro Op. — i cinque au­ straliani la cui lettera gli aveva fornito l’ispirazione iniziale — fece dira­ mare richieste di volontari nei reggimenti oziosi di stanza in Palestina e in Transgiordania, e addirittura ottenne l’autorizzazione di arruolare un certo numero di suoi amici ebrei, una ventina in tutto, per assegnarli a Forza Gedeone, sia pur soltanto con compiti semi-civili, come segretari e medici. Poi, seguito da questa cerchia, tornò in aereo a Khartum, per organizzarvi la Forza Gedeone, e in particolare i mezzi di trasporto. 396

In occasione della conferenza di Wavell, un rapporto era stata richiesto non soltanto a Sandford, ma anche all’altro capo della Missione 101, Bentinck. Il rapporto di Bentinck fu quasi altrettanto ottimistico. Il mese di no­ vembre aveva veduto (grazie alle energiche iniziative di Wingate) il ritor­ no dei capi dei patrioti nell’Ermaciohò insieme al rappresentante dell’Im­ peratore, con una carovana che trasportava fucili, e la rivolta era adesso « pienamente in corso ». Per giunta, il capitano Foley aveva agito per suo conto « dando prova di grande decisione ed energia » e facendo saltare la strada che da Metemma conduceva a Gondar; era appena arrivato — alla fine del mese — al campo di Bentinck « preceduto da uomini che can­ tavano e suonavano un’arpa e una tromba ». Con l’aiuto di un pugno di patrioti volontari, agli ordini di ligg Chidane Mariam era riuscito a distrug­ gere dodici autocarri e un carro armato. Secondo altre notizie, inoltre, nei pressi di Debrà Tabor ligg Johannes e i suoi uomini avevano attaccato e distrutto una colonna di sei autocarri, uccidendo cinquanta uomini e cat­ turando quattro mitragliatrici. Quanto a Bentinck, egli aveva ricevuto una lettera personale di ringraziamenti — in versi — da uno dei capi Uangiò del Marabeti, « un’epistola consolante e insolita ». Ma, ora, per sfruttare la situazione, gli occorreva un certo numero di ufficiali inglesi, se possibile una compagnia di gurkha, e fucili. Il rappre­ sentante dell’Imperatore, infatti, lo tsehafe Taezaz Hailé, che Bentinck riteneva ancora fosse « un vecchio cortese », aveva portato soltanto 250 fucili in luogo degli 852 promessi, e al campo di Bentinck si trovavano diciannsve capi con i loro seguaci (che, sia detto per inciso, dovevano essere nutriti), in attesa di armi e di munizioni — e Birrè Zagaie aveva minacciato addirittura di impadronirsi dei fucili con la forza. I rapporti ottimistici di Bentinck e di Sandford furono trasmessi entram­ bi il 1° dicembre. Sebbene non potessero saperlo, gli italiani erano altret­ tanto preoccupati a causa degli attacchi frontali che ritenevano imminenti lungo l’intero confine, e a causa dell’attività dei ribelli in altre due zone: nello Tsegghedè, ove Adane Maconnen, temuto da loro più di tutti i capi dell’Ermaciohò, aveva radunato i suoi uomini dopo il mascal e stava mi­ nacciando tutti i forti e gli avamposti intorno a Adi Remoz; e, fatto di gran lunga più sorprendente, al di là dell’alto Semien, nel Tigrai. Erano pervenuti, infatti, rapporti allarmati con la notizia che forze enormi — 5.000 ribelli armati, si riteneva — si trovavano riunite sui monti agli or­ dini di Negasc Uorkinè, e non soltanto minacciavano Macallè, ma parla­ vano di avanzare su Adua — e tutto questo nel Tigrai, che era sempre stato tanto pacifico. Gli italiani sapevano che v’erano ufficiali inglesi nel Goggiam e néll’Ermaciohò — avevano ormai identificato « Mister Room » come Sandford - e sospettavano che truppe inglesi si fossero già infiltrate in quelle regioni 397

(esisteva persino un rapporto allarmatissimo sulla presenza di sette batta­ glioni nell’Ermaciohò) pensavano che venissero distribuite mitragliatrici e avevano saputo che sia Adane Maconnen, sia l’assai minaccioso Negasc Uorkinè, pur non avendo presso di sé ufficiali inglesi, si erano messi in con­ tatto con Khartum. Allarmati dalla situazione sugli altipiani e temendo un estendersi della rivolta quando Hailé Selassié fosse tornato in ultimo nell’Impero, gli italiani decisero tutta una serie di contromosse. Dovevano riportare il massimo successo. La mente animatrice di queste mosse sembra essere stata quella del generale Nasi. Tanto per cominciare, si dovevano incoraggiare attivamen­ te intrighi e rivalità tra tutti i capi locali, e a quelli fedeli agli italiani si doveva consentire di formare una loro Banda, premiandoli con aumenti di paghe, doni e decorazioni. Senza dubbio, Bentinck non sapeva che il ftaurari Mesfin Redda, la cui cortesia e la cui imponenza aveva tanto ammi­ rato, stava avendo contemporaneamente conversazioni con l’ex-Governatore dell’Eritrea, Gasperini, al quale aveva detto di essere pronto a recarsi « ovunque ». Né che da parte di Birrè Zagaie vi era stata la promessa di ostacolare gli inglesi; né che Adane Maconnen era stato avvicinato da due Degiacc filo-italiani, Abitau Mintuab e Destà Maru, con la promessa di procurargli armi e una zona da dominare5. Ma, a metà dicembre, Ben­ tinck era senz’altro in preda allo sconforto — irritato a causa del mancato appoggio di Khartum alla sua « manovra secondaria », deluso dallo tsehafe Taezaz Hailé, che aveva dimostrato di difettare di « personalità ed ener­ gia »6, e molto turbato dall’atmosfera tempestosa nel suo campo, ove i capi non facevano che complottare e ordire intrighi per sottrarsi a vicenda i fucili e per assicurarsi il favore dello tsehafe Taezaz. Quanto alla minaccia dell’Alto Semien, là gli italiani aizzarono con successo l’erede dell’Uag e sua madre, Uoizerò Scioanisc, contro Negasc Uorkinè — sebbene ligg Uossenè fosse malato di malaria e avesse con sé soltanto cento uomini e due mitragliatrici pesanti. L’intrigo italiano riuscì così bene che ligg Uossenè e gli uomini dello Uag, amareggiati dalle pre­ tese di Negasc Uorkinè, attaccarono effettivamente il capo rivale; e molti furono i caduti tra i patrioti, da entrambe le parti. Inoltre, anche a Debrà Tabor venne provocato un litigio tra Dagneu Tesemmà e suo suocero, Asfau Bogale. Sui confini del Goggiam si ebbe un colpo di fortuna. Il fitaurari Uorku di Kuara, quello « con un solo occhio », si era autoproclamato Rappre­ sentante del governo inglese, e il maggiore Parodi, già in gravi difficoltà con il suo piccolo avamposto nel forte di Kuara, si stava accingendo ad abbandonare quest’ultimo, quando, nella prima settimana di dicembre, il fitaurari Uorku venne colpito e gravemente ferito dal cecchino di una tribù gumz. Le inevitabili discussioni per stabilire chi sarebbe dovuto suc­ cedergli divisero i suoi seguaci. E così morì il primo e il più leale di tutti i piccoli capi sostenuti dagli inglesi, un capo il cui territorio costituiva il primo « balzo » sulla strada del Belaia. 398

Ma tutto questo era soltanto un preannuncio. L’l 1 dicembre, il gene­ rale Nasi eseguì la sua mossa più magistrale. Riportò ras Hailù nel Goggiam. Ras Hailù — quasi dieci anni erano trascorsi da quando il figlio del Negus TekleHaimonot aveva posto piede nel regno di suo padre. Da allora egli era stato imprigionato da Hailé Selassié, liberato sul treno dell’Imperatore diretto a Gibuti, nominato primo consigliere indigeno di Graziani e, a causa di ciò, e della parte disgraziata da lui avuta nell’uccisione dei due figli di ras Cassa, relegato nell’ombra dopo la nomina a Viceré del Duca d’Aosta. Soltanto la più grave crisi che avesse minacciato il potere italiano consentì a ras Hailù, dopo quei lunghi anni di assenza, di realizzare i pro­ pri pazienti desideri e di tornare al suo popolo. Apparve subito chiaro che non lo avevano dimenticato. Fu accolto con enorme entusiasmo nella sua capitale, Debrà Marcos, e quando si recò a visitare le minacciate città sede di guarnigioni, Buriè e Dangila, fu « ac­ colto con grande esultanza da tutti », come gli inglesi dovettero ammet­ tere. Sandford inviò un rapporto estremamente allarmato per dire che la situazione locale si presentava critica. Molti piccoli capi di patrioti si sot­ tomettevano di nuovo agli italiani, il disagio si diffondeva tra gli altri, e il generale Nasi, che aveva preso personalmente in pugno la situazione nel Goggiam e aveva fatto separare l’intera provincia dal settore del ge­ nerale Grusci, assegnandola al suo, approfittò dell’occasione per inviare rinforzi ai colonnelli Natale e Torelli e formare nuove Bande — degiace Cassa Mesciascià, venne mandato in aiuto a Parodi a Kuara — ; inoltre annunciò che gli inglesi avevano sospeso i bombardamenti perché avevano perduto molti apparecchi. A Khartum ci si allarmò: Hailé Selassié autorizzò l’inizio di trattative con ras Hailù. L’allarme sembrava giustificato, poiché, dei quattro grandi capi ribelli del Goggiam, due erano imparentati per sangue e uno per matrimonio con ras Hailù. A tutti loro ras Hailù inviò lettere, e la loro confusione, e ancor più quella dei loro seguaci, può essere giudicata dalla risposta inviata a ras Hailù da un capo di bassi natali, che non aveva le­ gami di parentela con lui, ligg Belai Zelleché; in essa Belai, che si firma « vendicatore del sangue dell’Etiopia », esulta per il ritorno del Ras, ma... « Vostra Altezza! Il paese ed io siamo vostri. Ma, proprio perché vi ap­ parteniamo, se, come abbiamo saputo che è già stato fatto nello Scioa. e tra i Galla, siete venuto con l’intenzione di metterci gli uni contro gli altri con inganni, io abbandonerò il paese e mi ritirerò nel deserto allo scopo di opporre resistenza da uomo per la libertà e l’onore del mio paese, e mi comporterò in modo tale che la mia storia verrà scritta in Etiopia. »

E, invero, il desiderio di Belai Zelleché venne esaudito. Egli si compor­ tò come aveva detto; la sua storia è stata, e viene ora di nuovo, scritta in Etiopia. Ma, in una simile confusione per quanto concerneva la lealtà, appariva chiaro che nessuna rivolta sarebbe potuta esplodere. Tre settimane dopo, il generale Nasi, che era senza dubbio molto abile 399

in fatto di propaganda, assestò il secondo colpo. Promulgò ufficialmente un decreto a Debrà Marcos per festeggiare il ritorno di ras Hailù e rendere nota la benevolenza dell’Italia, mettendo inoltre in guardia le genti del Goggiam contro le trappole di un popolo barbaro e straniero: «Nella vostra terra, ove scorrono il latte e il miele, circondata dal sacro fiume che Dio vi ha dato come confine su ogni lato [il Nilo Azzurro], questo popolo ha appena smesso di avvelenarvi con il miele delle sue parole... », e, non ufficialmente, furtivamente, e nel modo più efficace, fece diffondere un documento falso sul quale figurava, come suWauagg dell’8 luglio, il si­ gillo imperiale del Leone di Giuda ed Eletto da Dio, Hailé Selassié I, e che nominava degiacc Mangascià Gimbirre Negus del Goggiam. Questo falso, nonostante le smentite, ottenne i risultati voluti; e tutta la popola­ zione del Goggiam, tranne i più intimi di quel Degiacc, cominciò a di­ sprezzare e a detestare il nome dell’usurpatore e, fatto più significativo, a ricordare come fosse stata trattata dal Negus Neghesti, e come egli avesse, anni prima, un’altra volta nominato un governatore che nessuno di loro aveva mai scelto. Eppure, anche se la ribellione venne bloccata, e se le guarnizioni rico­ minciarono a spingersi fuori di Buriè e di Dangila, minacciando perico­ losamente Sandford, che invano chiese un’azione immediata e drastica, la gran massa dei ribelli non passò agli italiani. Questi ultimi, infatti, e in particolare il direttore degli Affari politici ad Addis Abeba, il dottor Fran­ gipani, esitarono a compiere il passo realmente decisivo: a concedere cioè a ras Hailù una vera autonomia ritirando alcuni dei loro residenti e com­ missari, armandolo con le mitragliatrici e con i quattro cannoni che egli « timidamente » chiedeva, e soprattutto nominandolo di loro iniziativa. Questa esitazione costituì il loro grande errore. Ciò nonostante, l’idea era nell’aria; poiché, al contempo, avevano ri­ portato altri due grandi capi nei loro distretti, ras Aialeu Birrù a Gondar, e ras Hailé Selassié Gugsa a Macallé. Di riserva ad Addis Abeba trattene­ vano ancora ras Seyum, del quale si fidavano meno7. Ma, nonostante ciò; si parlava di nominare ras Seyum negus del Tigrai; poiché, con il ritorno degli altri grandi capi, sia pure senza titolo, nelle loro regioni, la minaccia della ribellione fomentata dagli inglesi era stata arginata, se non eliminata.

CAPITOLO TREDICESIMO

EL UACH

Il generale Cunningham aveva assunto, il 1° novembre, nel Kenia, il comando passatogli dal generale Dickinson, che era « stanco e bisognoso di riposo »; trovò ai propri ordini non meno di tre generali arrivati di recente, il generale Wetherall, un gioviale sud-africano chiamato « Papà » Brink, e il generale Godwin-Austen, divenuto noto nella Somalia britannica. Questi alti ufficiali erano giunti per assumere il comando di truppe di­ venute, nel corso dei mesi estivi, enormemente più numerose. Il Kenia, si ricorderà, aveva cominciato la guerra con appena due brigate del KAR; poi erano arrivate le brigate nigeriane e della Costa d’Oro dalla West Coast e la Prima brigata sudafricana da Città del Capo. Entro novembre, erano state formate altre due brigate del KAR e due nuove brigate di sudafricani erano giunte a Nairobi. Infatti si poteva adesso percorrere la camionabile fino al Capo, e non soltanto uomini, ma anche materiali e veicoli stavano affluendo per rafforzare la East Africa Force, che com­ prendeva, quando Cunningham assunse il comando, complessivamente nove brigate: tre divisioni, donde la necessità di tre generali. Si trattava di un esercito considerevole; e inoltre c’erano le armi d’ap­ poggio, i carri armati locali, e i carri pesanti e un gruppo di carri leggeri arrivati anch’essi dal Sud Africa, oltre a una cinquantina di aerei, all’arti­ glieria, a uno sciame di autoveicoli, e a tutto il rimanente armamentario. Esisteva, infine, un certo numero di reparti irregolari; numerosi gruppi di « irregolari » erano stati formati, dapprima come compagnie, poi, man mano che gli effettivi aumentavano, come battaglioni. A volere ciò era stato un funzionario coloniale della Somalia britannica, a nome Curie, quello stesso Curie che aveva fatto parte della commissione di confine anglo-etiopica attaccata a Ualual. Egli aveva assistito, allora, all’inizio della lunga guerra contro gli italiani, ed era venuto a trovarsi sotto le bombe molti anni prima che fosse cominciata la guerra contro gli inglesi. Allontanato, come tutti i funzionari civili, dalla Somalia, indi­ gnato perché buoni combattenti quali erano i profughi etiopi dalla Soma­ lia britannica rimanevano inattivi, si era fatto nominare ufficiale e aveva ottenuto il permesso di formare un gruppo armato con questi profughi: il 2° Irregolari, che si distingueva per gli antiquati fucili del 1898, e per gli eterogenei ufficiali. 401

Lo stesso Curie, il comandante, aveva idee decisamente personali. Pro­ metteva di pagare, nutrire e vestire i suoi uomini; essi, a loro volta, si dichiaravano disposti ad accettare una sola punizione: 25 frustate. Quanto agli altri ufficiali, un rude gruppo di coloni del Kenia, comprendevano un austriaco a nome Kamete, che aveva combattuto sia contro gli inglesi, sia contro gli italiani nella prima guerra mondiale, e un estone a nome Nurk, fuggito dalla prigionia nell’A.O.I. Entro i primi giorni di novembre, Curie aveva formato cinque compagnie, ciascuna di sessanta uomini, e, entro la metà di novembre, aveva assorbito i resti del 1° Etiopi: i superstiti della fallita « invasione » a nord del lago Rodolfo. Nel frattempo, nel lontano nord-est, erano state organizzate dieci com­ pagnie di feroci turkana, per formare il 5° Irregolari. E Bonham, l’ufficiale delle informazioni a Marsabit, aveva formato il proprio gruppo di indigeni - gli sciftà di Bonham, come venivano chiamati. Egli era in contatto, al di là del confine, con i soli capi ribelli conosciuti, fuorilegge dell’Amhara che disponevano di una Banda subito a sud dei grandi laghi, Hailé Degaga e Tasfai Uolde. Il generale Cunningham sottovalutava l’importanza di tutte le truppe indigene, sia regolari sia irregolari, e confidava soprattutto, perché si trat­ tava di bianchi, nelle capacità combattive delle sue tre brigate bianche sudafricane. Era un ufficiale convenzionale e non aveva alcuna esperienza coloniale. Si trattava, in effetti, del più tipico militare di carriera che sarebbe stato possibile trovare: abbordabile, a differenza dal generale Platt, socievole, a differenza del generale Wavell, e molto cauto, a diffe­ renza di quell’altro ufficiale d’artiglieria che era il maggiore Wingate. Applicava ai suoi eserciti i princìpi che aveva imparato ad applicare ai cannoni: avrebbero funzionato a dovere purché fossero stati puntati esat­ tamente su un bersaglio bene individuato, riforniti prima della battaglia con scorte adeguate, e, soprattutto, bene impiegati nell’ambito della loro portata.

Il generale Cunningham, probabilmente, si sentì rimordere la coscienza per avere rinviato l’attacco contro Chisimaio quando seppe che a metà novembre un mercantile si era ormeggiato in quel porto carico di riforni­ menti: riso, zucchero e, quel che più contava, pneumatici e benzina ’. Chisimaio era dunque importante; e Cunningham si affrettò a porre in atto la puntata in quella direzione. Si trattava davvero di un’azione mo­ desta poiché il suo unico obiettivo era il varco, nella frontiera artificiosa tra Kenia e Somalia, denominato El Uach. Il generale Pesenti, comandante del sotto-settore del Giuba, Governa­ tore militare della Somalia, e l’antagonista di Cunningham su quel fronte, dopo il consueto allarme diffusosi tra tutti i comandanti italiani allo scop­ pio della guerra, si era fiduciosamente abituato a una situazione tranquilla. Non vi erano mai stati attacchi di sorta lungo il suo fronte, tranne spora­ diche incursioni aeree che avevano risparmiato, come egli notò non senza 402

irritazione, il porto di Chisimaio, senza dubbio perché gli inglesi intende­ vano avvalersene, in seguito, per le loro navi. Egli aveva invero riferito a Roma che il nemico era stato « sopravvalutato » e sembrava temere la «nostra avanzata»; inoltre, le forze esistenti complessivamente nel Kenia erano state da lui valutate, con un po’ di esagerazione, in 70.000 uomini, irregolari compresi, 200 cannoni, 90 aerei, 50 carri armati e 6.000 auto­ mezzi che dovevano far fronte non soltanto alle sue truppe, ma anche a quelle del generale Gazzera, sulla destra. Le due divisioni di Pesenti sul Giuba erano state portate al completo degli effettivi e comprendevano 30.000 ascari comandati da circa 1.200 ufficiali e sottufficiali italiani, egli aveva inoltre a sua disposizione 3.000 Camicie nere della Somalia e - importantissimi rincalzi — una metà delle riserve dello Scioa, Γ11° Reggimento dei Granatieri di Savoia. Per giunta, disponeva della sua Banda: i famosi dubat somali dal turbante bianco, due gruppi dei quali pattugliavano al di là del Giuba verso la frontiera. Un gruppo, forte di mille uomini, si trovava proprio sulla frontiera, a El Uach, e Pesenti lo aveva rinforzato di recente con un battaglione indigeno, il 191°. Queste minacciose forze di duemila uomini si trovavano dunque sulla frontiera del Kenia, ad appena 160 chilometri da Uagir. Furono queste le forze che Cunningham decise di attaccare, e si espose ad ancor meno rischi di quanto avessero fatto i generali italiani nei loro attacchi. Radunò a Uagir la Gold Coast Brigate e il 1° Sudafricani di Pienaar, vi aggiunse i carri armati di Pemberton e qualche reparto di arti­ glieria leggera, si assicurò la protezione aerea di diciassette velivoli, innu­ merevoli autocarri per il trasporto delle truppe e affidò l’intera spedizione agli ordini del generale Godwin-Austen. Con forze che superavano quelle nemiche nella proporzione di quattro a uno, anche il generale Godwin-Austen difficilmente avrebbe potuto fal­ lire. Lo sfortunato colonnello Garino, chimico di professione, al quale era stato affidato il comando dell’avamposto di El Uach, vide i propri uomini spazzati via da queste colonne motorizzate. Ma i dubat si difesero corag­ giosamente e addirittura riuscirono a fermare temporaneamente un attac­ co frontale dei carri armati con le loro rumorose bombe a mano; i difen­ sori perdettero soltanto cinquanta uomini, compresi i prigionieri, contro la perdita riconosciuta di due uomini da parte degli attaccanti. Il giorno dopo, questi ultimi si ritirarono dopo essersi impadroniti della bandiera del 191«. Ma le ripercussioni della piccola schermaglia furono straordinariamente vaste. L’inquietudine e il senso di inferiorità che regnavano tra le truppe nel Kenia scomparvero quasi da un giorno all’altro (sebbene il generale Cunningham avesse adottato la precauzione di non impiegare né i nige­ riani né il KAR, le truppe che erano state precedentemente sconfitte). E al contempo, anche i generali si sentirono soddisfatti: per la prima volta, nell’Africa Orientale, un’operazione si era svolta come previsto, senza il benché minimo intoppo, e questo nonostante il fatto che si trattava di un’azione complessa, attuata con una temperatura di quaranta gradi, alla 403

quale avevano preso parte truppe di diverse nazionalità e di diverso co­ lore, autocolonne, mezzi corazzati, con l’intervento dell’aviazione, e su di­ stanze considerevoli. Era stata quasi un’esercitazione da manuale. Gli italiani in Somalia, all’opposto, furono straordinariamente demora­ lizzati da questa dimostrazione dell’efficienza inglese e decisero subito di non aver sopravvalutato il nemico, ma anzi di averlo sottovalutato. Quan­ to al generale Pesenti, appassionato di musica e compositore nei momenti liberi, si sentì particolarmente sconfortato a causa dell’armonia con la quale i comandanti inglesi avevano orchestrato i loro movimenti; e, da quel momento in poi, considerò la guerra, lui che, non essendo fascista, non l’aveva mai considerata con favore, bell’e perduta. Il Duca d’Aosta venne dapprima a conoscenza dell’episodio ascoltando il notiziario della BBC, che ne esagerò molto la portata. Ordinò immedia­ tamente un’inchiesta, avendo ricevuto, in risposta ad un telegramma a Pesenti, la notizia stupefacente che il generale non ne sapeva nulla. E anzi, partì poi egli stesso in aereo con il suo aiutante di campo, il generale Volpini, per svolgere l’inchiesta personalmente. Al suo arrivo all’aeroporto di Mogadiscio trovò ad accoglierlo il generale Pesenti, al quale ordinò in tono brusco di presentarsi al Palazzo. Là vi fu una scena davvero straor­ dinaria. Il generale Pesenti, dopo aver riferito sull’episodio di El Uach, pervenne alla conclusione che tutto era perduto, che la lotta era disperata, e suggerì al Viceré di chiedere agli inglesi un armistizio immediato, come premessa alla pace separata tra l’A.O.I. e la Gran Bretagna. E sebbene il Duca gli avesse subito imposto di tacere, si ostinò a parlare, facendo rilevare le ripercussioni politiche e psicologiche che una mossa così audace avrebbe potuto avere in Italia; inoltre, turbò Amedeo d’Aosta con accenni al suo antenato Carlo Emanuele, e aggiungendo infine che il Re non aveva mai voluto la guerra — così gli era stato detto da Badoglio. Esiste una frase curiosa nel lungo memorandum inviato da Churchill ai capi di stato maggiore circa una settimana dopo. La frase è la seguente: « Da un momento all’altro potremmo ricevere proposte di armistizio dalla guarnigione italiana isolata in Etiopia ». Questa parte del memorandum, che era quasi una direttiva sul modo di condurre la guerra in tutto il Medio Oriente, continua spiegando perché; ma il punto significativo è questo accenno a « proposte di armistizio ». Si direbbe quasi che il governo inglese fosse stato informato dell’intervento del generale Pesenti, e ciò iihplica o che un servizio informazioni straordinariamente efficiente l’aveva resa nota in un momento successivo, o che il generale Pesenti, nonostante le sue affermazioni di avere parlato spontaneamente, era stato in effetti già in contatto con i comandanti nemici. Lo stesso Pesenti riferisce che, appena un mese prima della dichiarazione di guerra, aveva fatto un viag­ gio d’affari nel Sud Africa; è chiaro, perciò, che sarebbe potuto essere in grado di comunicare con il governo sudafricano. È altrettanto chiaro che il Duca d’Aosta dovette sentirsi seriamente tentato. Ma, al contempo, le argomentazioni antifasciste di Pesenti e i suoi richiami all’esempio dell’antenato erano un’arma a doppio taglio. Pesenti 404

avrebbe dovuto ricordare che il padre del Duca, Emanuele Filiberto, era stato indirettamente responsabile del successo della Marcia su Roma di Mussolini, il quale lo aveva ricompensato con onori, se non con il trono cui aspirava. E sebbene Amedeo d’Aosta non fosse fascista, e non sia mai stato divorato, a quanto risulta, dall’ambizione di suo padre, era più in debito con il duca che con il re. Perciò, anche se forse non senza esita­ zioni, interruppe di nuovo Pesenti, facendo rilevare, secondo un rapporto, che il generale avrebbe dovuto essere fucilato per quelle proposte da tradi­ tore, e che egli stesso avrebbe meritato la stessa sorte per averle ascoltate. Ma Pesenti non venne fucilato. Fu esonerato dal comando e sostituito dal generale De Simone, il pigro conquistatore della Somalia britannica, il quale aveva almeno dimostrato di essere un osso più duro da rodere per il generale Godwin-Austen.

I

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

LA BILANCIA OSCILLA

Nella seconda settimana dì dicembre, si svolsero, lontano dall’Africa Orientale, avvenimenti che ebbero conseguenze decisive sulla campagna in quel teatro d’operazioni; e Eden ottenne infine il desiderato successo militare, anche se nel luogo ove meno se lo era aspettato. Il Maresciallo Graziani e il suo enorme esercito d’invasione erano ri­ masti accampati per tre mesi entro l’Egitto senza avanzare. Il 9 dicembre, quasi sei mesi dopo il giorno in cui l’Italia aveva dichiarato guerra, l’Eser­ cito del Nilo, di Wavell, attaccò gli invasori. « Le notizie dell’attacco su Sidi el Barrani arrivavano come un colpo di fulmine », annotò Ciano nel suo Diario, e, due giorni dopo, accennò a un « catastrofico telegramma » di Graziani. Gli inglesi avevano travolto le posizioni italiane, catturando in due giorni 38.300 prigionieri, 237 cannoni e 73 carri armati — con la perdita di 624 uomini. Da un mese, la guerra in generale stava andando male per l’Italia. Dapprima vi era stato il tracollo dell’offensiva in Grecia, poi la RAF aveva bombardato la flotta italiana nel porto di Taranto, e infine, in uno scontro navale al largo di Capo Spartivento, numerose delle migliori navi da guerra italiane erano state affondate dall’Ammiraglio Cunningham. Ma nessuno di questi disastri aveva impressionato come la catastrofe nell’Afri­ ca settentrionale. D’un colpo solo, la minaccia sul Cairo e la speranza di collegare le due metà dell’Impero italiano in Africa erano state eliminate; e, d’un colpo solo, l’intero sforzo bellico italiano era stato screditato. Entro una settimana, il Maresciallo Badoglio fu esonerato dalla sua carica di capo delle forze armate italiane per essere sostituito da un altro uomo che si era conquistato e aveva perduto una reputazione in Etiopia, il Ma­ resciallo Cavallero. Quanto a Graziani, « Ecco un altro uomo » disse il duce « col quale non posso arrabbiarmi perché lo disprezzo ». Graziani rimase al suo posto soltanto per organizzare una ritirata ancor più cata­ strofica, prima di essere ignominiosamente richiamato in patria. I militari italiani ovunque erano scoraggiati; ad Addis Abeba, secondo il colonnello Talamonti, non regnava altro che la confusione, tutti impartivano ordini, e il Viceré perdeva tempo e non decideva niente. L’Italia aveva deciso di entrare in guerra soltanto perché era sembrato che il conflitto sarebbe stato deciso in poche settimane anziché in pochi mesi. Ma ad Addis Abe407

ba, dopo il disastro nel Nord Africa, tutti prevedevano tetramente almeno un altro anno di guerra, e, ancor più tetramente, meditavano sulla loro critica situazione. Questa era l’atmosfera nella quale Pesenti aveva potuto parlare di armistizio senza correre alcun vero pericolo di venire a trovarsi davanti al plotone d’esecuzione. Non che tutti gli italiani fossero demo­ ralizzati; il fratello di Gina trascorse il Natale insieme a lei, assistette alla Messa natalizia nella cattedrale con Sua Altezza Reale, e il 31 di­ cembre annotò sul suo diario: « Per essere l’ultimo giorno dell’anno, devo ammettere che è trascorso molto bene (senza dubbio non come l’anno scorso) ». Andò a cavallo e, in seguito a una caduta, si scorticò le ginoc­ chia e un gomito. Churchill, reso esultante dalla vittoria, parlò per radio da Londra al popolo italiano, subito prima di Natale: « I nostri eserciti stanno facendo a brandelli, e continueranno a farlo, il vostro Impero africano... Come è accaduto tutto ciò, e quale ne è lo scopo? Italiani, vi dirò la verità. Tutto questo è accaduto per colpa di un solo uomo... Che sia un grand’uomo non lo nego, ma nessuno può negare che dopo diciotto anni di potere senza alcun freno egli abbia portato il vostro paese sull’orlo terribile della rovina. » Ë improbabile che molti italiani lo abbiano ascoltato, ma queste parole riflettevano senza dubbio il nuovo stato d’animo degli inglesi che, dopo un così gran numero di sconfitte e di insuccessi, avevano appena riportato la loro prima grande vittoria della guerra. Questa vittoria si ripercosse in modo quasi immediato sui piani inglesi. Churchill non si era mai rassegnato alla virtuale inattività sui fronti del Kenia e del Sudan; ed era meno che mai propenso ad accettare i blandi progetti del Comando del Medio Oriente adesso che, a parer suo, la debo­ lezza del nemico era stata rivelata appieno. La battaglia di Sidi el Barrani era stata combattuta e vinta da due sole divisioni inglesi: la 7a Corazzata (e, sul terreno desertico, gli inarrestabili Matilda avevano potuto far va­ lere le loro possibilità), e la 4a Indiana. Con stati d’animo contrastanti, pertanto, egli apprese che Wavell stava ritirando la trionfante 4a Indiana per trasferirla nel Sudan. Da un lato, ciò significava un inseguimento me­ no efficace degli eserciti sconfitti e in ritirata di Graziani; dall’altro, costi­ tuiva la prova del fatto che Wavell intendeva davvero sferrare un’offensiva più seria nel Sudan e che, in ogni caso, la riconquista di Kassala (per la quale Eden aveva richiesto altre truppe) era imminente. Ma, naturalmente, le conseguenze maggiori della sconfitta di Graziani si determinarono tra gli etiopi. Egli era stato il loro conquistatore e, come Viceré, il loro tiranno. Mentre il vittorioso Esercito del Nilo incalzava e, a sua volta, invadeva il territorio nemico per conquistare dapprima Bardia « poi Tobruk, insieme a nuove orde di prigionieri, George Steer volantinò fotografie delle lunghe colonne di soldati italiani catturati e preparò un’alta 408

tiratura di un numero del Banderachin, nel quale insisteva sul tema della sconfitta di Graziani e sull’inconsistenza di tutte le vanterie e le promesse fatte dagli italiani in A.O.I. Infatti: «Dopo il mascal che cosa hanno fatto? Quattro mesi di condizioni meteorologiche favorevoli ai combatti­ menti sono passati e gli italiani non hanno marciato. » Né sarebbero avan­ zati adesso perché: « Come ha predetto anche il profeta Isaia: ’’qualcosa del Signore tornerà, e verrà con canti a Sion, e la sofferenza e la malin­ conia fuggiranno”. » Wingate, in preda all’entusiasmo, era decisissimo ad affrettare il ritorno a Sion e ad approfittare dello scompiglio nel quale le notizie dalla Libia avevano gettato gli italiani e le loro truppe indigene. Si decise che il rientro di Hailé Selassié in Etiopia non poteva più essere rimandato al momento in cui i Centri Qp. o i battagliani profughi fossero stati adde­ strati e pronti; e Sandford, tenuto conto degli allarmi nel Goggiam, approvò. Il piano fu allora modificato nel senso che l’Imperatore avrebbe attra­ versato la frontiera di lì a poche settimane, anziché dopo mesi, scortato dalla propria guardia del corpo di giovani nobili, dal 2° Etiopi, l’unico battaglione profughi che fosse moderatamente bene addestrato e pronto, dal Centro Op. n. 1 e dalle truppe sudanesi del Battaglione di frontiera di Boustead. Infatti, dopo il loro dissenso iniziale, Boustead e Wingate stavano an­ dando sorprendentemente d’accordo. Boustead era un combattente. Seb­ bene fosse rimasto per sedici anni nel Sudan, facendo parte di recente del Politicai Service, aveva disertato dalla Marina durante la prima guerra mondiale per poter combattere, arruolandosi come soldato semplice, nei Gordon Highlanders; e, essendosi meritato la Military Cross, aveva otte­ nuto contemporaneamente il perdono del Re e la decorazione. Era stato uno dei primi ufficiali entrati a far parte della Sudan Defence Forcç quando il generale Hudleston, una volta scacciati gli egiziani, l’aveva fondata. Una così lunga conoscenza con il Governatore generale gli fu molto utile; lui e Wingate, infatti, impiegarono ora tutte le loro energie per ra­ dunare i cammelli che sarebbero stati necessari per trasportare i riforni­ menti della Forza Gedeone fino alla sommità della scarpata. Il Battaglione di frontiera disponeva di soli novecento cammelli e non aveva basti per i muli. Ma, con l’appoggio del generale Hudleston, e aiutato in particolare dal Governatore della provincia di Kordofan, la più importante per l’al­ levamento dei cammelli, Wingate, in quattro settimane, risolse il problema dei trasporti. Non fu facile: sapendo quanto fosse inutile la coscrizione obbligatoria con i renitenti uomini delle tribù, egli li assunse come civili insieme ai loro cammelli con un contratto per il trasporto di armi, oppo­ nendo tribù a tribù, e, dopo quattro settimane, disponeva di 25.000 cam­ melli e di 5.000 cammellieri che si stavano riunendo intorno alla base dalla quale doveva partire la Forza Gedeone: Roseires, sul Nilo Azzurro. 409

Venne deciso che la Forza Gedeone avrebbe attraversato la frontiera nella terza settimana di gennaio. Da Gerusalemme, per unirsi all’Imperatore, arrivò ras Gassa, il più grande dei nobili esiliati, con il suo quarto figlio Asrate, l’unico superstite. Gli altri figli di lui, Uondossen, Aberrà e Asfauossen, erano stati traditi e uccisi per ordine di Graziani; lo stesso ras Cassa aveva guidato gli eser­ citi del nord contro Badoglio — due nemici ormai caduti in disgrazia. E cosi, a entrambi i lati della frontiera, si recarono nel luogo prestabilito i signori grandi e piccoli dell’Etiopia: a Roseires Hailé Selassié, figlio di ras Maconnen, il famoso ras Cassa, degiacc Maconnen Endellacciù e il ftaurari imperiale Birrù UoldeGabriel; nel Kenia il degiacc Abebè Damteù, il cui fratello, ras Destà, era partito a sua volta per ordine di Graziani ; e contro di loro avevano i signori che conoscevano così bene, ras Hailù, da tempo nemico personale di Hailé Selassié, tornato infine al potere nel Goggiam, ras Aialeu Burrù, più inquieto, a Gondar; e, assillato dal più grave dilemma di ogni altro, ras Seyum ad Addis Abeba, protetto dagli ita­ liani contro i quali lui e ras Gassa avevano combattuto insieme nel Semien, mentre Hailé Selassié si trovava sul campo insanguinato di Mai Ceu. For­ se, mentre essi si domandavano a chi avrebbe arriso la fortuna, e chi, al termine della lotta, sarebbe rimasto in vita — seppure vi sarebbero stati superstiti — per avanzare pretese sul trono imperiale, dedicarono un pen­ siero anche agli assenti periti e agli assenti ancora in vita, al ras Muluguietà e a degiacc Balcha, defunti, e a ras Immirù, vivo, ma lontano e libero dalle rivalità e dal caos che minacciavano loro.

In questi frangenti, il progetto del ritorno dell’Imperatore fu reso più facile. Il 1° febbraio giunse la notizia che il maggiore Quigini e i suoi uomini avevano sgombrato Gubba. Gubba era il più vicino avamposto italiano; situato di fronte a Roseires, nel Goggiam, sulla riva del Nilo Azzurro, sbarrava, in teoria, la strada di monte Belata. Il maggiore Quigini disponeva di quasi seicento ascari, un piccolo battaglione, ma, sotto la crescente pressione, aveva finito con il trovarsi in una situazione sempre più disperata. Gubba era stata bombar^ data tre volte nel corso del mese di settembre, con il ferimento del Com­ missario; gli inglesi l’avevano bombardata altre quattro volte in dicembre, coprendola di volantini. Per giunta, Hancock aveva armato, a est, i mon­ tanari berta dell’a&w Ramie, quando da essi gli erano stati fatti pervenire i galloni di un caporale italiano a riprova della loro ferocia e della loro buona volontà; da ovest inoltre minacciavano il fitaurari Taffere Zellecà con novecento uomini armati. La seconda festa di Natale, Quigini aveva riferito che i suoi uomini stavano disertando e che la situazione era senza speranze; il 28 gli venne inviato in rinforzo il 28° battaglione da Gimbi, a sud del Nilo. Ma il 1° gennaio Quigini, disperando ormai defi­ nitivamente, abbandonò Gubba alla testa della sua colonna — ventuno bianchi, cinquecento ascari e un centinaio tra donne e fanciulli — si dires­ 410

se a sud per tentare di incontrarsi con il 28° battaglione al guado Sciogali del Nilo. Una settimana dopo, un aereo della RAF occupò Gubba, portandovi soltanto George Steer e il suo assistente dell’unità propaganda, il grasso e gioviale Mamur, con cinquecento dollari e Γauagg imperiale da distribuire. Trovarono Gubba deserta e nessuna risposta venne data alle loro grida in amarico e in arabo. Steer ammainò la bandiera blu e gialla della Banda e alzò la bandiera dell’Etiopia con il leone; era la prima volta che la bandiera veniva alzata in un avamposto italiano « conquistato » sulla fron­ tiera del Sudan. Egli trovò inoltre abbandonate, non distrutte, preziosis­ sime carte a grande scala (1 : 50.000) delle regioni dell’Eritrea. Lo sgombero di Gubba dimostrava che Wingate aveva torto: il combi­ narsi dei bombardamenti, della propaganda e la minaccia costituita dai ribelli armati bastava a sconfiggere gli italiani senza che dovesse interve­ nire un gruppo di esperti professionisti della guerriglia. Si trattava, natu­ ralmente, soltanto di un piccolo avamposto, ma con il suo abbandono era stata eliminata la sola minaccia che si opponesse al sicuro ritorno dell’Im­ peratore. A nord, Kuara, isolata e lontana, era il più vicino avamposto italiano. Alla fine dell’anno, ed entro la prima settimana di gennaio, il Caid potè considerarsi soddisfatto del settore ai suoi ordini; egli aveva infatti sotto di sé non soltanto la Sudan Defence Force con tutte le sue ramificazioni, e un Imperatore con una guardia del corpo quasi addestrata, ma anche due maggior-generali e due divisioni indiane. Infatti, la 4a Divisione indiana, supremamente fiduciosa dopo le vittorie riportate sugli italiani in Egitto, stava cominciando ad arrivare. La prima brigata a sbarcare a Port Sudan, ove rimase, fu la 7a Fanteria indiana, comandata dal Brigadiere Briggs. Port Sudan era insopportabilmente afosa. Persino gli ufficiali dell’eser­ cito indiano si lagnavano del caldo umido. Si può dire che i soli avveni­ menti di rilievo, a parte il bombardamento del sommergibile italiano al­ l’inizio della guerra, fossero consistiti nelle incursioni aeree; una di queste ultime aveva ucciso ventidue scaricatori portuali, lasciando per qualche tempo i moli deserti di mano d’opera. La contraerea era riuscita tuttavia ad abbattere un caccia; Lea, il Commissario distrettuale, espose l’appa­ recchio nel mercato sudanese e vi mise accanto una cassetta per le of­ ferte delle persone grate. In tre ore, furono raccolte cinquanta sterline - « la polizia venne a trovarsi in difficoltà soltanto a causa delle numerose persone che volevano dimostrare il loro disprezzo nei riguardi di Mussolini servendosi del velivolo per scopi impropri ». Nei dintorni della cittadina vi erano stati i consueti drammi a causa delle bombe inesplose che sembravano attrarre in modo irresistibile gli indigeni beja, i quali scambiavano le parti in ottone per oro puro finché non venivano costretti a cambiare idea. Ma i beja avevano sostituito in 411

gran parte i beni amer nella « Meadowforce », in parte perché i beni amer avevano troppi parenti che si battevano magnificamente dalla parte sbagliata, e in parte perché gli stessi beja, nonostante una simulata inno­ cenza, erano esperti razziatori Beaton, vice-Commissario distrettuale a Tokar, più vicino alla frontiera, ne divenne il comandante, agli ordini del Brigadiere Briggs. Molto diversi erano gli hadendoua della « Frosty Force » nel Gasc, la cui uniforme consisteva in una fascia rossa e in una zazzera lanosa di capelli, la cui idea dell’addestramento si riduceva, secondo il loro comandante, « a starsene sdraiati supini al sole per tre giorni, voltandosi poi per spa­ rare alcuni colpi e tornando quindi a riposare supini per altri tre giorni ». Non che importasse... Avevano avuto una guerra sorprendentemente cal­ ma, nel Gasc, e quasi sempre si erano limitati a divertirsi, dopo la caduta di Kassala, con il « Codice Gasc », basato sull’impressionante somiglianza della frontiera con la pianta di Londra, per cui Gedaref era « Chelsea », il delta del Gasc « Soho », Atbara « la Edgware Road », e la stessa Kassala « Piccadilly Circus ». Ciò aveva causato confusione tra i radiotelegrafisti italiani che intercettavano le comunicazioni, nonché, tra i loro superiori, i quali immaginavano che queste parole in codice si riferissero in modo misterioso, agli ammassamenti di truppe inglesi. Coloro che si erano abi­ tuati al « codice », divennero esperti nell’improvvisazione — e così l’ami­ chevole sceicco Othmar Alì Keilù finì con l’essere noto come « Eros » per­ ché risiedeva nel cuore di « Piccadilly Circus ». Il solo vero avvenimento drammatico era consistito in una incursione effettuata sul Gasc da un migliaio di uomini tra componenti di una Banda e ascari, ai primi di novembre, per rappresaglia contro blande scorrerie dei coy. Ciò aveva offerto alla Gazelle Force dieci giorni movimentati; ma al tentativo di Messervy di circondare e isolare gli invasori aveva fatto seguito un impiego efficace in misura allarmante dell’artiglieria italiäna, ed entrambe le parti si erano ritirate con onore, soddisfatte e più ricche di esperienza. Da allora in poi tutti e due gli schieramenti avevano gra­ dualmente eliminato i beni amer e gli hadendoa dal delta del Gasc, finché il settore tra Kassala e il ponte di Butana era divenuto, letteralmente, una terra di nessuno. Proprio al ponte di Butana l’appena giunto comandante della 4a Divi­ sione indiana, il generale Beresford-Peirse, stabilì il proprio quartier gene­ rale insieme alle due rimanenti brigate, 1Ί la e la 5a. Queste truppe, insie­ me alla Gazelle Force e agli altri indiani, costituivano un concentramento formidabile nei dintorni di Kassala; e il concentramento venne ulterior­ mente rinforzato con un gruppo di carri armati e con le prime truppe francesi che arrivarono, uno squadrone di spahis 2. Si trattava, ripetiamo, di forze formidabili; e inevitabilmente gli italiani a Kassala si aspettavano innervositi un attacco. Il generale Platt fece del suo meglio per ingannarli, ordinando ai suoi comandanti a Port Sudan e nei pressi di Gallabat di costruire falsi carri armati e di dare l’impres­ sione di una grande attività e di molti preparativi. Ma Kassala si trovava, 412

in ogni caso, a mal partito. La popolazione si era ridotta durante l’occu­ pazione italiana, passando da 37.000 a 12.000 abitanti, eppure continuava ad esservi scarsità di viveri (forse perché i mercanti greci erano stati portati via e internati — come tutti gli altri greci nell’Impero — a Quoram). Da mesi e mesi il generale Tessitore stava osservando il concen­ tramento di forze al ponte di Butana; si aspettava, invero, un’offensiva importante il 5 dicembre. Il morale della guarnigione era basso, e rapporti giunti a Kassala da « Eros » annunciarono che le file degli italiani si sta­ vano diradando. La nera gobba del gebel Kassala dominava l’orizzonte per chilometri e chilometri in tutte le direzioni. Il colonnello Messervy propose che l’attac­ co venisse sferrato il 18 gennaio. Ciò si armonizzava abbastanza bene con il piano del Caid.·, egli si proponeva di sferrare lungo tutti i duemila chilometri della frontiera una serie di attacchi, alcuni importanti, alcuni modesti, altri semplici finte, altri ancora con obiettivi seri, in coincidenza con il ritorno dell’Impera­ tore; ma il colpo principale doveva essere inferto dal ponte di Butana. Esso aveva come importantissimo obiettivo la riconquista di Kassala — della quale si parlava da tempo e che ora era stata decisa e preparata in ogni particolare. Questo, dopo quanto era avvenuto in Libia, non poteva essere il punto di vista di Churchill. Il 6 gennaio, egli inviò al generale Ismay un dispac­ cio che equivaleva a una seconda Direttiva generale per il Comando del Medio Oriente. Il primo punto dava la tonalità: « 1 ) La rapida distruzione delle forze armate italiane nell’Africa Set­ tentrionale e nell’Africa Orientale deve essere il nostro obiettivo fondamentale nei primi mesi del 1941. »

I quattordici punti che seguivano spaziavano dalla Spagna a Vichy, dalla Jugoslavia alla Grecia e, naturalmente, alla Libia. Il punto quinto concerneva l’Africa Orientale. « 5) Le predette operazioni libiche non devono pertanto minimamente influire sulla contemporanea continuazione della campagna contro gli ita­ liani in Etiopia. Il generale Wavell ha già ritirato la 4a Divisione indiana. Anche la 5a Divisione indiana è disponibile e dovrebbe essere possibile effettuare l’operazione di Kassala e diffondere la rivolta in Etiopia eserci­ tando al contempo una pressione a nord dal lago Rodolfo con le truppe del Kenia. In qualsiasi momento potremmo ricevere proposte di armistizio dall’isolata guarnigione italiana in Etiopia. Questo esercito deve essere stato sorretto dalle speranze di una conquista italiana del delta e del Ca­ nale, conquista che avrebbe consentito di ristabilire le comunicazioni e di fare affluire rifornimenti lungo il Nilo e dal Mar Rosso. Tali speranze si sono già spente. D’altro canto, la grande estensione dell’Etiopia, la man­ canza di ogni linea di comunicazione, specie via mare, e l’impossibilità di provvedere al sostentamento di grandi forze possono causare un indugio 413

non determinabile. Non è in ogni modo irragionevole sperare che entro la fine di aprile l’esercito italiano in Etiopia si sia arreso o sia stato sgominato. » Questa sola analisi è sufficiente per dimostrare la grande abilità di Churchill come stratega. Quasi contemporaneamente, parole alate giunsero dal Nestore sudafri­ cano all’Agamennone inglese: le magnifiche vittorie riportate nel Medio Oriente, telegrafò il generale Smuts al Primo ministro Γ8 gennaio, di­ schiudevano nuove prospettive ovunque:

« Proporrei pertanto che in questa fase si debba prendere in considera­ zione la liquidazione della situazione etiopica. La conquista dell’Etiopia sarebbe un colpo mortale sferrato al prestigio di Mussolini e al saccheggio fascista. L’Italia potrebbe essere costretta a uscire dalla guerra... A favore di una rapida liquidazione dell’Etiopia v’è anche l’argomento che il mo­ rale degli italiani deve essere adesso particolarmente basso e che un anti­ cipato completamento della campagna libererebbe ingenti forze per po­ tenziare il nostro fronte nel Medio Oriente. Se una parte dell’esercito di Wavell nel Medio Oriente potesse essere distaccata tra breve per rendere più forte un attacco all’Etiopia da nord, e se un contemporaneo attacco venisse sferrato dal Kenia, la resistenza italiana potrebbe cedere molto presto. » Churchill rispose telegraficamente, felice: « Vostro messaggio letto al Comitato Difesa. Tutti colpiti da assoluta coincidenza punti di vista. Unica divergenza è che a nostro modo di ve­ dere avanzata a nord attraverso Kenia con forze ingenti implicherebbe grandi ritardi a causa insufficienza mezzi di trasporto. Ribellione sta pro­ cedendo bene; Imperatore rientrerà presto. Avanzata Kassala Agordat taglia radice principale. Forze cui accennate già in viaggio... Qualsiasi cosa possa accadere eserciti italiani in Etiopia (saranno) probabilmente distrutti. » E tutto questo esultante mutamento di umori, dal nervosismo scorag­ giato a uno sfrenato ottimismo, era stato causato dalla disfatta di Graziani nel deserto.

PARTE TERZA

LE MACINE DI DIO

CAPITOLO QUINDICESIMO

FELICITÀ MATTUTINA

La battaglia non cominciò con uno scontro. Gli italiani avevano abban­ donato Kassala due notti prima. E così le pattuglie della Gazelle Force si portarono avanti e, non incontrando alcuna resistenza, rioccuparono Kassala senza che venisse sparato un sol colpo. Fu, in un certo senso, molto soddisfacente; in un altro senso, almeno per i militari, deludente al massimo. Ma le autorità civili erano felicissime. Kennedy-Cooke, il Governatore della provincia, tornò nella sua dimora, lieto di constatare che i danni causati erano di gran lunga inferiori a quanto si aspettasse, I due sayid, vennero a porgere i loro omaggi e a spiegare che avevano tentato di far pervenire un messaggio per annunciare lo sgombero degli italiani, ma senza riuscirvi. Con la rioccupazione di Kassala, la minaccia contro il Sudan era cessata. L’iniziativa passava ora, definitivamente, agli inglesi. Il fronte settentrionale Una volta occupata Kassala, la situazione nelle prime ore del mattino del 19 gennaio era la seguente: dalla parte inglese, i due maggior generali, Beresford Peirse e Heath, avevano il grosso delle loro due divisioni con­ centrato a Kassala — ma questo grosso comprendeva soltanto tre brigate di fanteria indiane, più la Gazelle Force, sebbene una quarta brigata do­ vesse arrivare da Port Sudan e potesse, ai fini della manovra, essere consi­ derata in quel momento di riserva. Quattro brigate a Kassala, dunque, e altre due sui fianchi: la 7a sulla costa del Mar Rosso, appoggiata dalla Meadowforce, e, al sud, la 9a, con l’Eastern Arab Corps, di fronte alla non ancora conquistata Metemma. A meno di trecentoventi chilometri da Kassala si trovava Asmara, capi­ tale dell’Eritrea e sede del comando di Frusci; a metà strada tra le due v’era la cittadina di Agordat, collegata con l’Asmara da una strada e dalla ferrovia. Da Agordat due rotabili si diramavano verso Kassala, una più a nord che passava per Biscia, Cherù e Sabderat, e una più a sud che passava per Barentù, Gogni, Aicotà e Tessenei. La spinta inglese sa417

rebbe stata esercitata ovviamente lungo l’una o l’altra, o entrambe queste strade e Frusci schierò di conseguenza le sue forze. Fondamentalmente, dispose cinque brigate lungo le due rotabili, abban­ donando i due primi piccoli centri di Sabderat e Tessenei. Sulla strada a nord, la XLI, di Fongoli, affrontava l’invasione nemica avendo alle spalle, a Biscia, la XII, la brigata che era stata ritirata da Kassala due notti prima. Sulla strada a sud l’VIII teneva Aicotà e la XVI Gogni, più in­ dietro. Quanto ad Agordat, ove le strade si univano, era tenuta dalla XLII, e infine, dietro ad Agordat, per essere doppiamente sicuro, Frusci lasciò sui monti che dominavano la piacevole cittadina di Cheren una brigata fatta venire appositamente dall’ex-Somalia britannica, la II di Lorenzini, mai sconfitta. Sei brigate italiane erano dunque schierate lungo le strade che una forza di invasione formata da quattro brigate inglesi si proponeva di conquistare. V’erano altre brigate sparpagliate nell’Eritrea; due lungo il settore del Mar Rosso e un’altra a tergo di queste ultime, a Massaua; una nel settore di Adua e una, la XLIII di Postiglione, a Om Ager, sulla riva nord del Tacazzé, ove si poteva temere un attacco diversivo inglese. (In effetti, non ve ne fu alcuno.) Undici brigate in tutto, nel governatorato dell’Eritrea, contro una forza di invasione di cinque brigate (poiché la 9a Brigata di fanteria indiana, di fronte a Metemma, si trovava, a tutti i fini pratici, in un altro settore della guerra, a sud del Tacazzé). Anche questa era una parte dell’Impero ove virtualmente non esistevano ribelli e ove gli invasori non potevano contare su alcun aiuto, diretto o indiretto. Il van­ taggio sembrava essere decisamente dalla parte del generale Frusci e della difesa. La battaglia manovrata che seguì ha i suoi aspetti affascinanti: per essere capita, occorre seguirla molto attentamente sulla carta. Gli inglesi non perdettero tempo a Kassala; all’ora di pranzo del 19 gennaio, l’lla Brigata di fanteria indiana, preceduta dalla Gazelle Force, stava avanzando lungo la strada nord e aveva occupato la sgombrata Sab­ derat, mentre la 10a, procedendo lungo la strada sud, aveva analogamente occupato la sgombrata Tessenei. Poi le due brigate sostarono per un gior­ no e prepararono le mosse successive. Cheru minacciava di essere un grosso ostacolo: una stretta strada serpeggiava attraverso la gola tenuta dai cinque battaglioni della brigata di Fongoli. Tra Cheru e Aicotà, sulla strada sud, si trovava una catena montuosa attraversata da un solo sentiero sul passo Adal. Prima dell’alba del 21 gennaio, autocarri con una parte della Gazelle Force avevano percorso questo sentiero e trovato, con lieto stupore, il passo indifeso. Sarebbe do­ vuto essere difeso da un reparto della PAI aggregato all’VIII Brigata ad Aicotà. Si gettarono in basso, dietro ad Aicotà e all’alba attaccarono la retroguardia, il 102° battaglione, catturando i primi due cannoni della campagna — una fulminea incursione prima di scomparire di nuovo sui monti, ma sufficiente per scuotere il comandante dell’VIII Brigata, che si ritenne in pericolo di essere tagliato fuori e abbandonò immediatamente le 418

proprie posizioni. E così la IO3 Brigata di fanteria indiana venne defrau­ data dell’attacco ad Aicotà e della possibilità di vendicarsi della sconfitta subita a Gallabat. Quando avanzò su Aicotà, la trovò deserta. L’VIII Bri­ gata si ritirò attraverso la XVI, che teneva Gogni, fino a Barentù, per unirsi, molto demoralizzata, a quella guarnigione, un battaglione di Cami­ cie nere, il 170°. Dopo aver seminato il panico sulla strada sud, la Gazelle Force si gettò attraverso le campagne nella direzione della strada nord per ripetere lo stesso giuoco con i difensori di Cherù. Ma a Cherù, nel frattempo, vi era stato uno dei più eroici e pittoreschi episodi della guerra. Gli inglesi si erano fermati fuori della gola e avevano piazzato i cannoni. Mentre^ pezzi venivano messi in batteria, subito dopo l’alba, gli artiglieri si accorseli a un tratto di essere caricati sul fianco da circa sessanta cavalleggeri guidati da un ufficiale italiano su un cavallo bianco. I cavalleggeri avanzavano al galoppo in formazione spiegata, spa­ rando selvaggiamente e lanciando bombe a mano, mentre gli artiglieri si affrettavano a modificare il puntamento dei pezzi e sparavano ad alzo zero; i proiettili squarciavano il petto dei cavalli senza esplodere, o stri­ sciavano sul terreno. Ma anche questo non fermò la carica. Un Brigadiere e il colonnello d’artiglieria che, contro il regolamento, non erano muniti della pistola, tentarono di afferrare i fucili dei soldati intorno a loro. L’ultimo dei cavalleggeri stramazzò a venticinque metri dai cannoni. Dei sessanta che avevano preso parte alla carica, i due terzi furono uccisi, compreso il loro prode comandante, il tenente Togni. Facevano parte del Gruppo bande a cavallo Amhara, un reparto di cavalleria comandato dal tenente Guillet. Un’ora dopo, quest’ultimo, temerariamente, ma non con una foga così selvaggia, attaccò di nuovo, con tutta la sua banda, compren­ dente più di cinquecento uomini. Soverchiarono i sikh che si erano portati avanti e deviarono quando vennero a trovarsi di fronte all’artiglieria die­ tro ad essi. Nel corso di quella mattinata, 179 cavalleggeri rimasero uccisi e 260 feriti — i cavalli uccisi furono 89, i feriti 68. Deve essersi trattato dell’ultima grande carica di cavalleria guidata da europei in Africa — e Churchill, che, egli stesso, in gioventù, era andato alla carica con gli us­ sari a Omdurman, l’avrebbe ammirata. E la carica di Togni per poco non era riuscita; senza dubbio, aveva scosso gli inglesi e dimostrato a coloro i quali ne dubitavano che gli ufficiali italiani sapevano battersi e morire. Guillet ritirò i suoi cavalleggeri superstiti sulle alture di Scianfallà, quella notte, e pattugliò sui fianchi degli inglesi. Il distaccamento della Gazelle Force, nel frattempo, aveva raggiunto la strada Cherù-Biscia, subito dietro Cherù. Venne tesa un’imboscata a una autocolonna che si allontanava da Cherù; il colonnello Messervy lasciò passare il medico con uomini ammalati e feriti, ma incendiò gli autocarri che trasportavano rifornimenti, e poi attaccò un’altra autocolonna vuota, diretta a Cherù, che ripiegò su Agordat. Ma queste, una volta di più, erano soltanto punture di spillo da parte di reparti avanzati. Ad Aicotà, il Brigadiere Rees organizzò una colonna più forte: distaccò lo Highland 419

Light Infantry e lo inviò a nord con alcuni « carri armati » sudanesi, fino ad un villaggio denominato Bahar, a est di Cherù; la colonna giunse a Bahar la sera del 22, tagliando effettivamente fuori Fongoli e i suoi cinque battaglioni che per tutto il giorno erano stati fatti oggetto di blandi attac­ chi frontali. Questo era troppo per il generale Fongoli, un nuovo arrivato nell’A.O.I., destinato a grandi cose. Egli si accinse a ritirarsi durante la notte del 22; all’alba del giorno seguente, il tenente Guillet trovò sulla strada gruppi disorganizzati di ascari dei cinque battaglioni, che lui e i suoi cavalleggeri scortarono tra i monti; soltanto nelle prime ore del pomeriggio, tuttavia, la fanteria indiana entrò a Cherù; e occorse un altro giorno prima che gli automezzi e i mezzi corazzati della Gazelle Force passassero, perché gli italiani avevano minato in modo efficacissimo le vie di accesso a Cherù. Ma sebbene l’avanzata degli invasori fosse stata ostacolata, la ritirata dei difensori fu caotica e disorganizzata. Se non fosse stato per Guillet e i suoi cavalleggeri, sarebbero caduti quasi tutti nelle mani della colonna che bloccava la strada dietro Cherù. In effetti, gli Highlanders fecero 700 prigionieri, compreso lo stesso Ugo Fongoli, il primo generale italiano a essere catturato. E il giorno seguente, 24 gennaio, mentre gli inglesi, pre­ ceduti dalla Gazelle Force, proseguivano lungo la strada nord, pervennero ordini al comandante della XII Brigata, la guarnigione di Biscia, di ripie­ gare su Agordat, abbandonando così l’ultima posizione difensiva avanzata, prima che difese sicure fossero state organizzate in queirimportante città. Per cui la situazione era tale che, entro il 25 gennaio, sei giorni dopo l’invasione, gli italiani avevano ceduto la strada nord fino ad Agordat, ove avevano la maggior parte di tre brigate, oltre a un battaglione Camicie nere, il 150° — la XLII (la guarnigione della città), la XII proveniente da Biscia, e quasi tutta la XLI proveniente da Cherù - per affrontare l’at­ tacco di più deboli forze inglesi consistenti di due brigate (essendo ormai la 5a Brigata di fanteria indiana arrivata per unirsi all’ll3) : mentre, sulla strada sud, altre due brigate delle forze di invasione erano state trattenute a Gogni dalla resistenza assai decisa della XVI. Dal punto di vista italiano, la situazione era quindi seria, ma non disa­ strosa. Gli italiani avevano perduto terreno, erano stati aggirati, avevano subito una sconfitta e perduto un generale. Ma in compenso le loro forze, anziché essere sparpagliate, con il rischio di venire fagocitate a una a una, si stavano concentrando. La ragione principale della sconfitta era consistita nella mancanza di coordinazione tra i comandanti, rispetto alla stretta coordinazione tra i due generali inglesi; ordini contraddittori avevano con­ tinuato a susseguirsi da Addis Abeba, dall’Asmara, e dai comandanti divi­ sionali sul campo, generali Tessitore, Bergonzi e Baccari. Ne erano risul­ tati confusione e ripiegamenti inutili, come quello da Biscia. E l’Alto co­ mando italiano se ne rese conto. Sebbene Addis Abeba proclamasse che l’invasione si riduceva a meri « tentativi di infiltrazione », il Duca d’Aosta ordinò di mandare immediatamente sul posto una metà delle sue riserve, l’ll° Granatieri di Savoia. E, all’alba del 25 gennaio, il generale Trezzani 420

arrivò all’Asmara, per portarsi poi ad Agordat con Frusci e con il coman­ dante dell’aviazione, il generale Pinna. Venne presa una decisione immediata, e una decisione saggia. Lorenzini fu promosso generale, la sua II Brigata fu fatta avanzare da Cheren ad Agordat, e gli venne affidato il comando del settore di Agordat. Sfortu­ natamente, dopo la partenza di Trezzani, Frusci mandò indietro i generali Baccari e Tessitore a « consigliarlo ». Questo significò che due interi giorni, vitali per studiare le mosse difensive, o offensive, andarono perduti: il 26 e il 27. Entro la sera del 27, telegrafando energiche'proteste, Lorenzini si era sbarazzato dei suoi « consiglieri ». Ma ormai era quasi troppo tardi. Nelle prime ore del 28, truppe inglesi occuparono la vetta di una montagna che, sebbene situata a sud di Agordat, la dominava : monte Cochen. Il monte Cochen sarebbe dovuto essere tenuto da un battaglione italiano, ma il giorno prima v’era stato un contrordine per il fatto che « gli inglesi non abbandonano mai le strade » — una regola basata sulla pratica che, sebbene generalmente valida, era senz’altro pericolosa, e che gli inglesi, con altrettanta leggerezza, ritenevano essere vera per quanto concerneva gli italiani. In ogni modo, gli inglesi si trovavano sul monte Cochen; e questo significava una minaccia alle retrovie di Agordat, il pericolo di trovare tagliata la strada Agordat-Cheren. Lorenzini tentò di sloggiarli; il coraggioso Guillet e i suoi cavalleggeri furono mandati subito di nuovo avanti. Ma attacchi ininterrotti susseguitisi per quarantott’ore fallirono, anche se gli indiani che difendevano le posizioni li trovarono violenti e spossanti. Entro la sera del 29, i mezzi corazzati e i carri armati inglesi stavano premendo lungo la strada nord e, sebbene respinti, erano assai minacciosi. Nel frattempo, lungo la strada sud, le due brigate della 5a divisione indiana erano state fermate a Gogni. Effettivamente, il loro secondo at­ tacco era stato respinto da un riuscito contrattacco italiano. Ma, nella notte del 28, gli italiani si ritirarono; la XVI brigata venne fatta ripiegare a Barentù, per unirsi all’VIII che già vi si trovava, entrambe le brigate agli ordini del generale Bergonzi. Così Lorenzini era con quattro brigate ad Agordat, Bergonzi con due a Barentù. Entrambi gli antagonisti aveva­ no ormai concentrato le loro truppe. Dal punto di vista inglese, Agordat costituiva il più importante, anche se meno facile, dei due obiettivi. Infatti, se Agordat fosse caduta, i difen­ sori di Barentù, a meno di uno sgombero immediato, sarebbero stati tagliati fuori. E così, il colpo cadde su Agordat. I carri « I », i pesanti Matilda, avanzarono sulla pianura; le vie d’accesso non erano state minate, non esi­ stevano rocce taglienti che potessero fracassare i loro cingoli come a Gallabat, e undici dei carri armati italiani, dalla potenza di fuoco inferiore, mandati a fermarli, furono distrutti. Nel frattempo, l’lla Brigata di fante­ ria indiana avanzò a nord-est dal monte Cochen e tagliò dietro Agordat la strada 'che conduceva a Cheren. Questa fu la fine: i mezzi corazzati della Gazelle Force precedettero la fanteria entro Agordat e, a mezzogior­ no del 31, la XLII Brigata di Luziani, la guarnigione fissa, venne travolta, 421

mentre il battaglione di Camicie nere era stato distrutto dagli indiani. Il tenente Guillet e i suoi cavalleggeri furono gli ultimi a ripiegare, dopo aver resistito fino alla fine. Seguirono tutti la linea ferroviaria, evitando la strada e la sua trappola; e così, dei quindicimila uomini presenti ad Agordat, soltanto mille furono fatti prigionieri. E, al crepuscolo del 31., il generale Frusci, inevitabilmente, ordinò lo sgombero di Barentù. La fortuna era avversa a Bergonzi. Le sue due brigate avevano, quello stesso giorno, contrattaccato con successo gli assedianti. Senza dubbio, la Quinta divisione indiana non era all’altezza della Quarta; non aveva ripor­ tato il trionfo della Quarta nel deserto occidentale; le sue truppe non avevano veduto, come gli uomini di Beresford-Pearse, migliaia su migliaia di italiani arrendersi. Conoscevano, invero, soltanto il sapore della sconfitta subita a Gallabat. La vittoria che riportarono a Barentù fu strategica, non tattica. Le due brigate attaccarono il 1° febbraio e si imbatterono in una resistenza ostinata. Quella notte, abilmente, Bergonzi fece ripiegare i suoi uomini. E, la mattina dopo, gli attaccanti bombardarono con l’artiglieria una città deserta prima di avanzare e di occuparla. Ventiquattr’ore prima, la Gazelle Force aveva occupato Agordat. E così, quella che gli italiani denominarono « la battaglia dei bassipiani » si concluse meno di quindici giorni dopo che era cominciata; e una gran parte dell’antica colonia dell’Eritrea cadde nelle mani degli inglesi. Non esisteva nessuna ragione particolare per cui gli invasori avrebbero dovuto avere successo, e invero, se i generali italiani fossero stati coraggiosi o attivi come i tenenti di cavalleria italiani, l’avanzata inglese non sarebbe andata molto oltre. Ma anche lo stimato Lorenzini organizzò una ben misera dife­ sa ad Agordat; e, soprattutto, gli italiani, a quanto parve, non presero mai in considerazione un contrattacco serio e deciso. Gli inglesi li aggirarono e tagliarono loro la ritirata da tergo. Ma essi, pur disponendo di un maggior numero di truppe, non aggirarono mai gli inglesi. A loro favore si può dire soltanto che effettuarono con successo la ritirata da Barentù e Agor­ dat; le brigate italiane ripiegarono con pochissime perdite sulle posizioni predisposte a Cheren; e anche dalla periferica Om Ager il colonnello Po­ stiglione e la sua brigata, la XLIII, si ritirarono senza inconvenienti attra­ verso le campagne. Non v’era, tuttavia, alcunché di inevitabile nel successo degli invasori, come dimostrarono gli avvenimenti sul margine nord del fronte setten­ trionale. Là, mentre si preparava l’attacco ad Agordat, il Brigadiere Briggs e la 7a Brigata fanteria indiana ricevettero l’ordine di riconquistare Karora nella quale si trovava di guarnigione un solo battaglione della Guardia di Finanza. Un battaglione autotrasportato partì da Port Sudan, lontana quasi trecento chilometri, per sferrare l’attacco all’alba del 24 gennaio, appoggiato dalla Meadowforce, già in pattugliamento avanzato. Ma, la sera del 23, gli autocarri, che avevano proceduto alla velocità di soli dodici 422

chilometri all’ora, furono immobilizzati o quasi dalla sabbia, e all’alba si trovavano ancora a sedici chilometri dall’obiettivo. La Meadowforce, però — tre inglesi e novanta indigeni —, non aveva ricevuto l’ordine di annullare l’operazione e, quando gli uomini avanzarono con qualche scaramuccia, vennero attaccati e mancò poco che rimanessero circondati. L’intera fac­ cenda era stata, nel gergo militare, «una castroneria». La mattina dopo, aerei italiani bombardarono gli autocarri bloccati, e due brigate italiane, la V e la XLIV, furono portate nel settore per impedire il ripetersi di un attacco del genere e per coprire il fianco settentrionale di quella che era ormai divenuta la chiave dell’intera posizione difensiva italiana: Cheren. Il 1° febbraio, la Gazelle Force, guidando come sempre l’inseguimento degli italiani in ritirata, trovò un ostacolo che non sarebbe dovuto essere affatto un ostacolo: il letto asciutto del fiume Baraca, largo centocinquanta metri e sul quale il ponte — Ponte Mussolini — era stato fatto saltare al­ quanto inutilmente. Ma il letto del corso d’acqua era minato per proteg­ gere la ritirata degli uomini di Lorenzini. Occorsero agli uomini di Messervy otto ore per aprire un passaggio attraverso il campo minato, e, mentre gli ultimi italiani arrancavano entrando nella gola più avanti, i genieri fecero saltare tratti massicci della parete rocciosa dietro di loro. Alle cinque di quel pomeriggio, i carri armati della Gazelle Force si im­ batterono nel primo blocco stradale italiano, a otto chilometri da Cheren. Dinanzi a loro, la strada e la linea ferroviaria serpeggiavano attraverso la gola Dongalaas; a entrambi i lati della gola torreggiavano monti — il Samanna, il Sancii, il Dologorodos, il Falestò, lo Zeban. Il fronte Gallabat-Gondar

Il giorno in cui cadde Agordat, il generale Frusci telegrafò a Metemma gli ordini di ripiegamento; quella notte, la notte del 31 gennaio, il colonnel­ lo Castagnola e la sua guarnigione rafforzata abbandonavano la posizione difesa per così lungo tempo e con tanto successo. Tre notti prima, il capi­ tano Braca e la sua banda, forte di mille uomini, inviata a ripulire il settore di Kuara, erano stati a loro volta ritirati. Gli italiani ripiegarono; le truppe regolari senza inconvenienti, le bande tormentate dai successori del ftaurari Uorku. Ma la 9a Brigata di fanteria indiana si fece avanti soltanto lentamente — soprattutto perché i genieri italiani avevano, una volta di più, protetto la ritirata delle loro truppe mediante campi minati ben disposti. Là dove terminavano i bassipiani e cominciavano i monti Camant, la colonna che stava avanzando si fermò. Questo accadeva il 6 febbraio; il 10 febbraio i patrioti locali stabilivano il contatto. Era, quello, il settore di operazioni di Bentinck. Egli aveva notato, nel­ l’ultima settimana di gennaio, un’atmosfera « più sana » man mano che 423

le notizie dell’invasione e dei ripiegamenti italiani si diffondevano nel Beghemder. La regione Uolcait e il Commissariato di Adi Remoz, al suo centro, vennero completamente abbandonati, e i quattro battaglioni indi­ geni che vi si trovavano trasferiti oltre il Tacazzè nel Tigrai, con grande gioia di Adane Maconnen e del fitaurari Mesfin Reddà. Gli avamposti italiani furono ritirati e concentrati lungo la strada che collegava Gondar con l’Asmara, a Debarech, Dabat e Amba Giorgis. Corse persino la voce (falsa) che il generale Martini stesse sgombrando Gondar. Bentinck venne subissato di richieste di fucili, munizioni, denaro. I capi proposero, a quan­ to parve con intenzioni serie, di tagliare le strade Gondar-Asmara e GondarGallabat. Ma, ciò nonostante, non se ne fece niente; per una ragione o per l’altra - in un caso, tsehafe Taezaz Hailé mise il veto sull’attacco propo­ sto da Uobnè Amorau, sostenendo che sarebbe stato « politico » — non vi fu alcuna azione. E sui monti Camant, nella regione delle amichevoli tribù camant, la IV Brigata italiana bloccava la via di Gondar. La brigata in­ diana non attaccò: i battaglioni a Uahni si diradarono mentre la brigata tornava a Gedaref, ove rimase fino alla prima settimana di marzo, quando i suoi tre battaglioni furono trasferiti a Sabderat, verso Cheren. Lo Eastern Arab Corps, di Hussey de Burgh Bey, occupò la posizione di Uahni e continuò a mantenere i contatti con i patrioti. Così, su questa strada, gli invasori vennero fermati.

Il fronte del Goggiam Come il banderachin di Steer ebbe a descrivere l’evento: « Il 20 gennaio, Sua Maestà l’Imperatore Hailé Selassié I, accompagna­ to dal Principe ereditario e dal Duca di Harar, àaXY echege, dal ras Cassa, dal degiacc Maconnen' Endellacciù, dal degiacc Adafrisau, dal suo delegato presso la Società delle Nazioni atò Lorenzo Taezaz e dal suo primo segre­ tario atò UoldeGiorgis, dal comandante della Guardia Imperiale, cagnasmacc Mokira, da due potenti eserciti, uno etiope e uno inglese equipag­ giati con materiale bellico superiore a quello italiano, attraversò la fron­ tiera tra Sudan ed Etiopia ed entrò nel suo impero... Di conseguenza esul­ tiamo per l’infinita misericordia di Dio nostro e di Gesù Cristo e ringra­ ziamo dinanzi al Trono Divino. » O, come scrisse Newbold: « L’Imperatore è partito di qui oggi per l’Etio­ pia, in aereo fino alla frontiera e poi per via di terra. Spero che non gli accada nulla. » L’Imperatore e il suo seguito avevano raggiunto Roseires da Khartum il 18 gennaio; due giorni dopo, sempre in aereo, furono portati nel villag­ gio di Um Idia, in prossimità del confine, una località prescelta da Wingate perché escludeva « in pratica ogni individuazione o intercettazione da par­ te del nemico ». Era assolutamente escluso già allora, e sarebbe continuato 424

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a esserlo anche in seguito, che Hailé Selassié potesse guidare personal­ mente le sue truppe; la persona di lui era troppo preziosa perché si po­ tesse correre un simile rischio. L’Imperatore, con la sua guardia del corpo di giovani nobili, e con Chapman-Andrews sempre al suo fianco, era pre­ ceduto da Wingate e dagli altri. Wingate aveva raggiunto Um Idia pochi giorni prima dell’imperatore, quasi contemporaneamente a uno dei « due potenti eserciti », il 2° Etiopi del capitano Boyle. L’altro « esercito », quello inglese, era il Battaglione di frontiera di Boustead, che, in effetti, non accompagnò l’imperatore. Infat­ ti, in quella fase dell’invasione del Goggiam, non esisteva alcun pericolo; il solo scopo era quello di radunare i diversi gruppi della Forza Gedeone al di là del confine, nella località monte Belaia, ove una delle quattro com­ pagnie di Boustead si trovava già in posizione e stava preparando un accampamento-base ai piedi della montagna, sotto il villaggio del fitaurari Taffere Zelleché. Occorsero più di quindici giorni perché l’Imperatore vi giungesse. Mentre Hailé Selassié rimaneva accampato per una settimana una cinquantina di chilometri al di là della frontiera, presso la riva del fiume Dinder, Win­ gate si portò avanti con due autocarri, nel tentativo di trovare un itine­ rario adatto alla colonna imperiale. Il 3 febbraio, Hailé Selassié era arri­ vato al « Road’s End Camp », ma soltanto dopo aver ridotto la propria scorta personale da settanta a venti persone e dopo aver rinunciato al proprio automezzo per viaggiare sul cavallo bianco di Boyle. Al « Road’s End Camp », Wingate aveva, a sua volta, abbandonato i due autocarri proseguendo solo a cavallo. Il giorno seguente, tornò all’accampamento con la cavalcatura sfiancata, insieme a un sergente inglese e a tre muli sfiniti, annunciando che si trovavano ancora a ottanta chilometri dal Be­ laia. Il 4 febbraio, il « potente esercito » si mise in cammino su muli e cammelli: Wingate, Boyle, Chapman-Andrews, Sua Maestà Imperiale e due o tre etiopi. Quel giorno, percorsero una decina di chilometri. Il 5 febbraio fu la giornata più tremenda e faticosa di ogni altra. Ma il 6 febbraio giunsero infine ai piedi di monte Belaia e vi trovarono Boustead sorridente; egli era arrivato da Roseires seguendo la più facile strada a sud, lasciata libera dallo sgombero di Gubba. « Aveva ragione lei e mi sbagliavo io » ammise Wingate. Dietro di loro, il 2° Etiopi arrancava adagio, e la colonna interminabile di lenti cammelli, molti dei quali mo­ rivano man mano che giungevano sugli altipiani, percorreva la pista in­ fuocata. Lì, al Belaia si trovava anche Sandford, che vi era giunto una settimana prima dall’interno, ma senza i cinquemila muli promessi a Wingate quan­ do si erano incontrati nel mese di dicembre. Sugli altipiani, i muli erano preziosi quanto i fucili, e le promesse di fornirli, o anche di venderli, non venivano quasi mai mantenute, come dovevano constatare a loro spese tutti gli ufficiali inglesi assegnati ai patrioti. Così, con gli automezzi nel­ l’impossibilità di viaggiare su quel terreno accidentato, e con i muli rari come diamanti, la Forza Gedeone fu costretta a far conto sui cammelli. 425

« Non raccomando questo arcaico sistema di trasporti per le campagne in altri teatri di operazioni » doveva scrivere in seguito Wingate. Il 2 feb­ braio, quando Hailé Selassié consegnò la bandiera al 2° Etiopi, centinaia di cammelli morti o morenti erano disseminati sui primi pendìi di Monte Belaia. Wingate e Sandford non assistettero a quella cerimonia. La pista di atterraggio era stata completata il giorno prima ed essi avevano fatto ritorno in aereo a Khartum per consultarsi con il generale Platt. La mossa successiva dipendeva, naturalmente, in parte dagli italiani, e in parte da due degiacc, Mangascià e Negasc. Poco tempo prima, alla fine di dicembre, un altro ufficiale inglese aveva attraversato la frontiera per raggiungere la Missione 101. Si trattava del maggiore Simonds, ufficialmente terzo al comando dopo Sandford e Win­ gate, ex-collega di quest'ultimo in Palestina e al Cairo; ed egli conduceva con sé, come scorta e come forza d’urto, il Centro Op. n° 1 - i cinque australiani, con i loro duecento etiopi. Durante l’assenza di Sandford — già partito per il Belaia — Simonds con il Centro Op. n° 1 e degiacc Mangascià avevano tentato di conquistare Engiabara. L’attacco era fallito, a causa, secondo Simonds, dell’« incompetenza e dello scarso entusiasmo di degiacc Mangascià, il quale lasciò fuggire la principale forza d’urto, for­ mata da milletrecento uomini, senza che fosse stato sparato un solo colpo ». Questo era accaduto il 28 gennaio. Wingate, quando seppe del fiasco, andò su tutte le furie. A suo modo di vedere, si trattava precisamente del tipo di operazione combinata che non sarebbe dovuto essere tentato. Su una sola cosa si trovò d’accordo con Simonds, il giudizio di lui riguardo al fatto che il Centro Op. n° 1 era « insufficientemente adde­ strato ». I cinque australiani non dovevano distinguersi né allora né in seguito — sebbene fossero stati loro, all’inizio, a ispirare Wingate inducen­ dolo a sposare la causa dell’Etiopia. Il fronte Galla-Sidamo

Gli indigeni nuba della quinta compagnia del Battaglione di frontiera, comandata dal bimbasci Campbell, erano stati distaccati da Boustead, con l’ordine di agire di loro iniziativa, a sud del Nilo Azzurro, nella regione Beni Sciangul. Gubba, sulla riva nord, era stata sgombrata, si ricorderà, alcune settimane prima, e il maggiore Quigini e la guarnigione avevano marciato faticosamente attraverso la boscaglia nella direzione di Sciogali, ove il 55° Battaglione coloniale era stato mandato a costruire un ponte sul Nilo per trarli in salvo. Il 20 gennaio Campbell attraversò la frontiera, appoggiato dagli irregolari di Abdullà Bakr provenienti dalla regione di Gallabat, e si era lasciato indietro Geissem occupata, dirigendosi verso il guado di Sciogali. È difficile accertare esattamente che cosa accadde, ma a quanto pare il terreno era tanto accidentato che gli avversari di rado, se non mai, vennero alle prese e Quigini riuscì a sottrarsi all’inseguimento. 426

Soltanto il 14 febbraio Campbell giunse al guado di Sdogali e lo occupò; e press’a poco in questi stessi giorni altri reparti inglesi riconquistarono gli avamposti occupati nel Sudan: un distaccamento dell’Eastem Arab Corps si impadronì di Geissen e un battaglione appena arrivato del KAR occupò Kurmuk. Là, come lungo tutta la frontiera del Galla-Sidamo, nelle giungle soffo­ canti, nelle zone boscagliose e nel deserto, le varie avanzate inglesi venne­ ro contrastate principalmente dai Gruppi Bande frontiera del generale Gazzera: antagonista del battaglione del KAR era il comandante del 4° Gruppo, il maggiore Venturini, il cui comando si trovava nell’ex-capitale dello sceicco Cogiali, Asosa. La riconquista di Asosa era per conseguenza l’obiettivo del battaglione del KAR; nel frattempo, impadronendosi del guado di Sciogali, Campbell aveva efficacemente sventato tutti i piani del generale Gazzera di inviare rinforzi nel Goggiam per minacciare sul fian­ co l’imperatore. Non che Gazzera si proponesse un’impresa del genere. Più a sud si trovava il saliente di Baro, difeso dal maggiore Praga a Gambela con il 3° Gruppo. Lì, i Commissari distrettuali locali combatte­ rono la loro piccola guerra di scorrerie insieme ai loro soldati indigeni anuak e nuer. Alcuni potenziali « ribelli » galla furono portati nella capi­ tale della provincia, Malacal, e ricevettero somme di denaro per diffon­ dere la ribellione. Le spesero acquistando indumenti. Ancora più a sud, il capitano Whalley si trovava sul pianoro Borna, a Touoth, con l’Equatorial Corps, e aveva di fronte a sé il maggiore Gobatto e il 2° Gruppo, la cui base era Magi. La sequela di rapporti urgenti trasmessi da Whalley a Khartum era cessata; gruppi di possibili ribelli erano venuti, ma, non trovando disponibili né armi né munizioni, avevano fatto ritorno nell’interno. Sembra però che Whalley e i suoi uomini fos­ sero stati infine autorizzati ad attraversare la frontiera. L’avamposto di Eribo venne attaccato il giorno 25; ma si trattava di una regione molto accidentata.

Quanto alle operazioni dal Kenia, una brigata del KAR formata di recente, la 25a, doveva anch’essa spingersi verso Magi. La base della bri­ gata si trovava nella regione Turkana, a nord di Lodwar, sul lato del Sudan del lago Rodolfo, e gli obiettivi assegnatile con l’ordine di operazioni del 31 gennaio furono i piccoli avamposti di Todenyang, Mamupuruth e Kalam, a ovest dell’Omo. Il comandante disponeva di due soli battaglioni, ma più di mille indigeni turkana erano stati radunati e armati formando il « 5° Irregolari », suddi­ viso in compagnie lancieri e compagnie fucilieri. Gli invasori disponevano così di forze che si aggiravano sui tremila uo­ mini. Al di là della frontiera si trovavano alcune Bande del gruppo di Magi, ma, soprattutto, i feroci indigeni menile, che, insieme ai loro allea­ ti, i dongiro, erano nemici giurati degli altrettanto feroci turkana. Merlile 427

e dongiro disponevano complessivamente di 4.000 uomini armati di fucile, ed erano nei migliori rapporti con gli italiani, il cui residente a Kalam, il tenente Modesto Furesi, li aveva armati e riforniti. < Tutti i menile che si incontrino devono essere attaccati » diceva l’ordine di operazioni; una volta fatti prigionieri, gli indigeni menile dovevano essere segregati, do­ podiché se ne sarebbero scelti sei, fornendoli di due bracciali bianchi e di una bandiera bianca, nonché di bastoni sulla cui estremità sarebbero stati infilati messaggi per i tre grandi capi dei menile, il vecchissimo e mezzo paralizzato Lokueria, il potente Tappo, e Lomoromoi, capo dei moran, messaggi che li invitavano tutti a venire a Kalam per una riunione nel corso della quale si sarebbe discusso del bestiame rubato, degli scotti di sangue per le passate uccisioni e della questione degli ostaggi. Fu una guerra tribale, con tutta la sua tradizionale gloria. Todenyang venne occupata, Mamuruputh fu conquistata dopo una schermaglia, ma i merlile si concentrarono per difendere un guado sulla strada che portava a Kalam, e gli uomini del KAR vennero respinti, anche se i bombardamenti avevano scosso gli indigeni. Entro il 12 febbraio « colloqui di pace » erano stati iniziati con i merille.

All’altro lato del lago Rodolfo, a ovest rispetto ad esso, due delle tre brigate sudafricane, la 2a e la 5a, erano schierate intorno alla regione Marsabit, con una forte colonna pronta a riconquistare Moyale, e ad avanzare di là su Magi, la base del 1° Gruppo di Cicinelli, e verso nord. Il piano del generale Cunningham in quel settore si proponeva di aprire l’intera regione meridionale affidata al generale Gazzera e di incoraggiare, con uno o due rapidi successi militari, la ribellione latente. Sfortunatamente (come Cunningham avrebbe dovuto sapere), esisteva in quella regione ben poca ribellione latente; e ancor meno vi vennero riportati successi militari. Sembra che le truppe sudafricane fossero pessi­ me. Gli irregolari etiopi (quasi duemila uomini) che agivano con esse, avevano una assai misera opinione dei bianchi. Il 17 gennaio vi fu una schermaglia, un attacco preparatorio al piccolo avamposto di El Yibo, in seguito al quale gli irregolari giudicarono i sudafricani « cattivi soldati », « riluttanti a serrare le distanze », e finirono con il farsi « una pessima opinione sul loro conto ». Gli uomini di un battaglione sudafricano ven­ dettero gli scarponi agli etiopi, e gli equipaggi dei carri armati sudafricani falciarono interi branchi di antilopi oryx con le mitragliatrici. Alla fine di gennaio venne sferrato un attacco più importante. Ma il battaglione che difendeva Moyale, il 54° Colonia, respinse gli attaccanti; e i due Brigadieri sudafricani consolarono se stessi e i generali loro supe­ riori conquistando un pozzo ciascuno: Gorai il primo e Hobok il secon­ do. Ma non era certo quanto il generale Cunningham aveva sperato da parte di truppe che lui, e anche Wavell, si ostinavano a considerare « le migliori » del fronte meridionale. 428

Il fronte del Giuba Il generale Cunningham disponeva di altre quattro brigate schierate lungo la linea del Giuba e pronte a entrare in azione: la brigata della Costa d’Oro, la brigata nigeriana, la la sudafricana di Pienaar e la 2a est-africana (KAR) di Fowkes. Ai fini dell’organizzazione militare esse erano raggruppate in due divisioni, che però molto di rado vennero impie­ gate come tali. L’unità di manovra era la brigata: e queste quattro brigate, tre nere e una bianca, furono le unità con le quali manovrò Cunningham nella campagna che seguì. La campagna ebbe un inizio assai lento. Cunningham, come si ricorderà, aveva rifiutato di tentare l’occupazione di Chisimaio prima della stagione delle piogge, e il 21 gennaio Wavell telegrafò a Londra chiedendo un’altra divisione sudafricana per il Kenia. La risposta di Churchill può essere immaginata: « Sotto la forte pressione esercitata dalla patria » egli scrisse in seguito, « Wavell decise in ultimo di compiere il tentativo prima delle piogge ». Questo non rispondeva del tutto alla verità. Era accaduto che il batta­ glione KAR di Fowkes si era impadronito della sorgente di Liboi, sulla frontiera, senza incontrare virtualmente alcuna resistenza. Dal punto di vista di Cunningham, le cose andavano male all’altro lato del lago Ro­ dolfo — che non rivestiva molta importanza — e peggio ancora sul fronte Moyale-Megu, che invece era importante. Là egli si era proposto di eser­ citare le spinte principali; ma sembrava che le azioni di svolgessero con assai poco slancio, mentre, all’opposto, un morale di gran lunga più alto dominava sul lato ove egli aveva già svolto un’azione riuscita poche setti­ mane prima a El Uach. E nel frattempo il generale Platt stava facendo avanzare con successo le sue forze d’invasione lungo tutta la frontiera del Sudan. Sarebbe forse ingiusto sostenere che esistesse tra Platt e Cunningham l’equivalente di quella gelosia personale e professionale che, sei anni prima, aveva animato i precedenti invasori dell’Etiopia, Badoglio e Graziani. Ma Cunningham non sarebbe stato umano se non si fosse indispettito pensan­ do a tutti i successi e a tutta la gloria che andava accumulando l’austero Platt; e Cunningham era un uomo molto umano. In ogni modo, il 28 gennaio, chiese l’autorizzazione di tentare quasi subito l’occupazione di Chisimaio, e il 2 febbraio Wavell trasmise al Primo ministro un telegram­ ma che fu miele e balsamo per Churchill, dopo tante delusioni. « Nel Kenia » diceva il telegramma « ho approvato la proposta di ten­ tare la conquista di Chisimaio intorno alla metà di febbraio... In generale, ho impartito istruzioni, sia a Cunningham sia a Platt, di esercitare il mas­ simo sforzo possibile contro l’Africa Orientale Italiana nei prossimi due mesi. »

E pertanto non ci si può certo stupire se, nel suo discorso del 9 feb429

braio alla Camera dei Comuni, Churchill non riuscì a resistere alla ten­ tazione di fare un accenno trionfante alla campagna nell’Africa Orientale. Tre settimane dopo l’invasione, tutti i fortini inglesi in mani italiane erano stati riconquistati, forze inglesi, grandi e piccole, avevano penetrato in pro­ fondità il territorio italiano in una mezza dozzina di punti e si accingevano a investirne altrettanti, e l’Imperatore era rientrato, senza correre alcun pericolo, nel proprio Impero. « Dateci gli strumenti e porteremo a termine il lavoro », fu il tema del discorso di Churchill. Dopo avere descritto i trionfi in Libia, egli continuò come segue: « Duemilaquattrocento chilometri più a sud, un forte esercito inglese e indiano, dopo avere scacciato gli invasori dal Sudan, sta avanzando co­ stantemente nella colonia italiana dell’Eritrea, mirando così all’isolamento completo di tutte le truppe italiane in Etiopia. Altre forze inglesi stanno penetrando nell’Etiopia da ovest, mentre l’esercito riunito nel Kenia — nelle cui avanguardie possiamo vedere le potenti forze dell’Unione del Sud Africa organizzate dal generale Smuts — sta colpendo verso nord lun­ go tutto lo sconfinato fronte. Di recente, i patrioti etiopi, ai quali l’indi­ pendenza venne sottratta cinque anni or sono, hanno preso le armi, e il loro Imperatore, che così di recente era un profugo in Inghilterra, si trova tra essi allo scopo di battersi per la loro libertà e il suo trono. Ecco dunque che laggiù assistiamo all’inizio di un processo di riparazione e punizione dei torti tale da ricordarci come, sebbene le macine di Dio stritolino adagio, stritolino in particelle finissime ».

CAPITOLO SEDICESIMO

IL GENERALE TREZZANI

La ritirata da Kassala e da tante altre località prima ancora dell’attacco non era dovuta a semplice incapacità, o, peggio ancora, a viltà. Faceva parte di un piano: il piano del generale Trezzani. È difficile dire se Trezzani agì di sua iniziativa, o per ordini del Ma­ resciallo Badoglio. Era così poco benvoluto dai suoi colleghi che nessuno di loro ha una parola buona da dire per lui; la strategia che egli impose fu, in ultimo, così disastrosa da far sì che tutti lo incolpassero di una scon­ fitta la quale era forse dovuta al più volte proclamato disinteresse di Ba­ doglio per « l’Impero ». Eppure, fosse stato o meno Trezzani l’ispiratore della strategia, nulla sarebbe potuto essere più disfattista della sua circo­ lare del 24 dicembre, diramata in un momento in cui la situazione ita­ liana era relativamente favorevole. Fu probabilmente questa circolare, più di ogni , altro singolo fattore, a far perdere all’Italia la guerra nell’Africa Orientale. Lo scoraggiamento la pervadeva, e lo scoraggiamento inevitabilmente si diffuse dagli alti ge­ nerali ai quali venne trasmessa ai loro subordinati, e dai subordinati agli ufficiali subalterni e alla truppa. Un esercito che si crede sul punto di essere sconfitto è più che a metà strada verso la sconfitta. Trezzani, senza dubbio, ritenne di essere freddamente realistico nell’analizzare la debolez­ za della situazione italiana, nel paragonare la costante riduzione della sua potenza militare allo stupefacente aumento della potenza del nemico che lo accerchiava, e nel far rilevare che le truppe indigene sarebbero state infide nei momenti della difensiva e della sconfitta. Tutto ciò era vero; ma Trezzani non seppe pervenire alla conclusione logica, che cioè l’esercito italiano doveva passare all’attacco, o, nel peggiore dei casi, contrattaccare e vincere, riducendo così le probabilità a suo sfavore, rialzando il morale delle truppe e demoralizzando il nemico. Egli propose la creazione di « ridotte » fortificate in ognuno dei tre settori, nelle quali la popolazione civile italiana, le donne e i fanciulli soprattutto, doveva ritirarsi, e ove le forze italiane in ritirata li avrebbero a poco a poco seguiti, per resistere il più a lungo possibile. Dopo che era stato fatto circolare un simile documento, difficilmente ci si può stupire se il generale Pesenti aveva osato proporre un armistizio immediato nel­ l’Africa Orientale, in quanto Trezzani non prendeva nemmeno in consi­ 431

derazione la possibilità che gli italiani riuscissero a sconfiggere il nemico. Vi fu un’altra strategia che venne proposta immediatamente dal gene­ rale Gazzera: si trattava dell’abbandono di tutta l’Etiopia, eccezion fatta per i governatorati leali, le ex-colonie della Somalia e dell’Eritrea. Ugual­ mente disfattista, militarmente ancor più errata, questa proposta non me­ ritava e non ricevette alcuna considerazione. Era la pessima variante di un piano precedente, suggerito prima dello scoppio della guerra dal gene­ rale De Biase: il concentramento di tutte le truppe italiane nell’Eritrea e nell’Amhara, in un quadrato quasi imprendibile delimitato da Cheren, Massaua, Amba Alagi e Gondar. Ciò avrebbe potuto avere un senso mili­ tarmente, ma sarebbe stato disastroso politicamente. Ad essere significa­ tivo, in realtà, è il fatto che tutte e tre le strategie proposte — e delle quali quella di Trezzani era probabilmente la meno peggio — implicavano una ritirata anziché un’avanzata, un rinchiudersi anziché uno sferrare colpi. Una settimana prima dell’invasione, 1Ί1 gennaio, il Duca d’Aosta ave­ va telegrafato a Mussolini proponendo la ritirata di quasi tutte le forze sulla frontiera tra Eritrea e Sudan a est della linea Tessenei-SabderatCherù; e questo piano era stato, il giorno seguente, approvato dal Duce (il quale aveva ricordato al Viceré che il destino dell’Àfrica sarebbe stato deciso in Europa). Per conseguenza erano stati diramati gli ordini relativi al ripiegamento da quelle tre località e da Metemma - ordini, come ab­ biamo visto, eseguiti in modo abbastanza riuscito, tranne che nel caso di Cherù. Ma all’altro lato dell’Impero — e in questo senso la strategia venne attuata senza entusiasmo — De Simone ricevette l’ordine di resistere sulla linea del Giuba invece di sgombrare il bassopiano somalo. E anche al nord sarebbe stato più logico evitare la « battaglia dei bassipiani » ritirando im­ mediatamente tutte le truppe avanzate sulla grande posizione difensiva di Cheren. E su Cheren, tardivamente, mentre Agordat cadeva e le colonne di Lorenzini ripiegavano, Trezzani e il Duca d’Aosta concentrarono la loro vo­ lontà e le loro riserve. Altre due brigate, la VI e l’XI, furono fatte affluire dallo Scioa; e l’ll° Reggimento dei Granatieri di Savoia venne frettolosa­ mente richiamato dalla linea del Giuba e inviato, con autocolonne che non sostarono mai, a rafforzare Cheren. Per liberare il generale Frusci da tutte le altre responsabilità del governatorato dell’Amhara, Gondar fu tolta dalle sue dipendenze e si costituì un nuovo settore, il Settore Ovest, for­ mato dallo Scioa e dall’Amhara e affidato al generale Nasi. Così il terri­ torio sul quale il generale Frusci esercitava il comando si ridusse al gover­ natorato dell’Eritrea; ed entrambe le parti concentrarono le loro truppe migliori su quella che il generale Platt denominò « l’orribile scarpata », Cheren.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

CHEREN (Il fronte settentrionale: dal febbraio al 2 aprile.)

Undici vette dominavano le vie d’accesso a Cheren, sette a nord della strada, dal monte Samanna, il più alto di tutti (m. 1.959), al Sanchil, subito sopra la gola, e quattro a sud, il monte Dologorodoc, lo Zeban e il Falestò, raggruppati come un triangolo ostile, e, leggermente isolato e se­ parato dal Col Acqua, il picco di Zelale, chiamato « la Sfinge » ; ogni vetta era una fortezza difesa da una guarnigione. Per duecentoquaranta chilo­ metri a nord e a sud la scarpata del Cheren si estendeva ininterrotta. Molti chilometri più a sud, Postiglione e la sua brigata, fatti ripiegare da Om Ager, sbarravano la sola possibile strada di un aggiramento ad Arresa. Le vie d’accesso al Mar Rosso attraverso Karora e le piste a sud, non avreb­ bero sostenuto, a parere dello stato maggiore inglese, « traffico di ingenti forze ». E, in ogni modo, gli inglesi sembravano gradire la necessità di un attacco frontale, di quella che sia Platt sia Newbold dovevano chia­ mare, con manifesto piacere, una vera « battaglia con i fiocchi ». Eppure, sembra che a tutta prima i comandanti inglesi avessero imma­ ginato di poter travolgere i difensori come era accaduto sui bassipiani e ad Agordat. Nel pomeriggio del 2 febbraio, i mezzi corazzati della Gazelle Force avevano raggiunto i piedi della serie di montagne che circonda il pianoro di Cheren, e appena ventiquattr’ore dopo la brigata di Savory, I’lla, stava attaccando nella direzione della vetta, sul lato nord della gola Dongalaas rispetto al Sanchil. Nei tre giorni che seguirono, mentre gli Highlander di Cameron, i rajput e i punjab attaccavano e vincevano e venivano nuovamente respinti, Platt e i comandanti ai suoi ordini giun­ sero nelle prime linee per rendersi conto della forza delle posizioni dei difensori e delle difficoltà dell’impresa. Faceva caldo e i pendìi dei monti erano aridi. I proiettili dei cannoni inglesi dovevano essere trasportati a mano; e quando un uomo rimaneva ferito, ne occorrevano dodici per portarlo di nuovo ai piedi dei pendìi; tutti i movimenti inglesi lungo la strada e nella gola erano visibili al ne­ mico sulle alture; ben presto gli inglesi si fecero furbi e si spostarono sol­ tanto durante la notte. Quanto alla strada, risultò impossibile avanzarvi; anche quando i carri « I » si portarono avanti, li fermò la parete rocciosa che i genieri italiani avevano fatto saltare, un enorme cumulo di macigni. Le difese italiane, poi, erano ben situate e ben munite. Le posizioni 433

avanzate del nemico, le sole che l’artiglieria inglese (a causa delle traiet­ torie necessarie) riuscisse a colpire, si trovavano su false creste, sotto le vette principali, e avevano dinanzi e a tergo, fuor di portata dei tiri del­ l’artiglieria, un duplice reticolato di filo spinato. Postazioni di mitraglia­ trici in sangar di pietre spazzavano le vie d’accesso e si proteggevano a vicenda con il loro tiro. E anche se una falsa cresta veniva conquistata, affrontando le bombe a mano che arrivavano dall’alto sulle truppe attac­ canti, e gli scontri alla baionetta che divennero abituali, il tiro dei mor­ tai nascosti più indietro si concentrava su di essa e rapidamente rendeva precaria, se non insostenibile, la posizione degli attaccanti; i mortai erano, come riferirono gli ufficiali delle informazioni, « ben piazzati, precisi e im­ piegati abilmente ». Quanto ai contrattacchi italiani, li caratterizzavano « audaci e intelligenti infiltrazioni, con l’appoggio dei tiri di piccoli gruppi bene appostati ». Si trattava di un nemico ben diverso da quello che gli invasori, troppo frettolosamente e poco saggiamente, avevano finito con il disprezzare. Se­ guì una sosta, esitante e allarmata. Il maggior generale Beresford-Peirse avanzò con l’altra sua brigata, la 5a, e tentò un attacco notturno a sud, contro il Col Acqua. Si determinò una gran confusione, come accade spesso nel corso degli attacchi notturni, il sistema di segnalazioni non fun­ zionò, e le compagnie lanciate all’assalto dei Royal Fusiliers e dei Rajputan Rifles subirono gravi perdite. Ovviamente, gli attacchi isolati con singole brigate erano peggio che inutili. Il generale preparò un assalto combinato, un attacco importante sia a nord sia a sud della gola, con entrambe le sue brigate, contro il nemico che era stato così facile preda della Divisione nel deserto libico. Il Duca d’Aosta si recò personalmente a Cheren il 7 febbraio. Il gene­ rale Frusci aveva il comando in capo del settore, all’Asmara. Il generale Carimeo era stato nominato comandante della zona di Cheren. Egli si ri­ fugiò in una caverna sulla destra della piccola cittadina di Cheren, situata nel fondovalle dietro la gola Dongolaas, e non ci fece mai vivo. Ma Lorenzini, con la sua II Brigata venne inviato a sud della gola per difendere il pericoloso varco del Col Acqua, insieme alla XI Brigata, giunta dallo Scioa, in appoggio sulle vette vicine. La VI, prima di stanza a Metemma, difendeva la linea ferroviaria e la gola, avendo alle spalle, sulle al­ ture sopra Cheren, gli ex-difensori della strada nord, la XII, la XLII, e i resti della XLI di Fongoli. Dal settore del Mar Rosso, la V, in posizione avanzata presso la frontiera, venne richiamata e lasciò così aperta la stra­ da alla 7a Brigata di fanteria indiana, che attraversò contemporanea­ mente la frontiera e avanzò rapidamente a sud finché non fu fermata a Cub-Cub dal battaglione avanzato dei difensori a settentrione di Cheren, la XLIV Brigata. Ma, soprattutto, truppe eccellenti, le migliori di cui di­ sponessero gli italiani, difendevano le vette a nord della gola Dongolaas, dal Samanna al Sanchil: i tre battaglioni dell’ll0 Reggimento Granatieri 434

di Savoia, comandato dal colonnello Corso Corsi e rinforzato, intorno al 10 febbraio, dal battaglione alpini « Uorq Amba » del 10° Reggimento, e dalle migliori Camicie nere, i tre battaglioni dell’XI Legione. Complessi­ vamente, pertanto, i difensori ammontavano a circa 25.000 uomini (con 144 cannoni agli ordini del colonnello Lamborghini), consci del fatto che la sorte dell’Eritrea, e forse dell’intera guerra, dipendeva da loro. Nel pomeriggio del 10 febbraio, la Quarta Divisione indiana sferrò il du­ plice attacco. I combattimenti continuarono, con esito incerto, per quaran­ ta ore. A nord della gola, l’I la Brigata di fanteria indiana due volte con­ quistò e per due volte perdette la doppia vetta del Sanchil, il « Picco di Brigg ». A sud, la Gazelle Force e la 5a Brigata di fanteria indiana attacca­ rono, senza alcun esito, la Brigata Lorenzini sul Col Acqua. A mezzogiorno del 12 febbraio, Beresford-Peirse decise di annullare le operazioni succes­ sive; la Gazelle Force non potè ripiegare né quella notte né il giorno se­ guente; dovettero trascorrere altre quarantott’ore prima che gli uomini di Messervy riuscissero a fuggire sfiniti. Le due brigate indietreggiarono per leccarsi le ferite e riposare. Beresford-Peirse si recò a conferire con Platt, nel frattempo promosso tenente­ generale, che rinunciò ad ogni nuovo attacco. Per un mese gli invasori si fermarono e fecero ben poco. Le due brigate della 5a divisione indiana — la decima e la ventinovesima — che non avevano preso parte ai combatti­ menti, furono richiamate a Barentù e sottoposte a un intenso addestra­ mento in montagna. Là le raggiunse la terza brigata della divisione, la nona, fatta venire dalla strada Gallabat-Gondar, ove era stata fermata. La Gazelle Force venne sciolta; e al colonnello Messervy, il suo audace e abile comandante, promosso Brigadiere, venne affidato il comando della nona. Nel frattempo, la guerra aerea fu intensificata. Squadriglie di bom­ bardieri della RAF, partendo dai campi d’aviazione occupati a Barentù e ad Agordat, bombardarono, oltre Gheren, l’Asmara, Massaua e Macallè. Non che la cosa fosse unilaterale; la Regia aeronautica distrusse tredici aerei inglesi al suolo con una sola incursione contro Agordat. Ma, a metà marzo, esistevano meno di cinquanta velivoli ancora utilizzabili in tutta l’A.O.I. Il fratello di Gina scrisse brevi annotazioni sul diario. Tre mesi erano trascorsi dalla gioiosa festività della Madonna di Loreto, protettrice degli aviatori italiani — una giornata durante la quale, alquanto irreligiosamente, egli aveva esplorato corsi d’acqua in luoghi appartati « ove sorprendo fan­ ciulle indigene intente a bagnarsi... e riesco, non senza qualche difficoltà, a inquadrare nel mirino le nude rotondità di una ragazza giovanissima, aumentando così la mia collezione di veneri nere ». In quei tre mesi, l’avia­ zione italiana era stata virtualmente distrutta *, mentre altri mirini inqua­ dravano scene diverse. Padrona dei cieli, la RAF lanciò migliaia di volantini su Gheren; alcuni 435

con la riproduzione della bandiera etiopica e, sull’altro verso, il ritratto dell’Imperatore e la scritta:

« Oh mio Re Hailé Selassié Son pronto a battermi e a morire per te Voglio essere un uomo libero! » Altri recavano messaggi, sia in tigrino sia in amarico, degli inglesi ai soldati dell’Eritrea. E un volantino con il sigillo dell’imperatore Hailé Se­ lassié si rivolgeva in particolare alle truppe indigene dello Scioa e del Goggiam dell’XI e della VI Brigata: « Uomini del Goggiam! Nel fedele Goggiam io ho alzata la mia ban­ diera e ho riportato le prime vittorie. Tornate alle vostre case, soldati dell’XI Brigata!... Venite a me passando tra gli inglesi. Ras Gassa si trova al mio fianco nel Goggiam, e quando l’intera regione sarà nostra, voi sa­ rete il nostro esercito per eliminare gli italiani da Salale e da Debrà Berhan ».

Questa propaganda risultò efficace, in particolare per quanto concerne­ va i soldati dello Scioa nell’XI Brigata, che cominciarono a disertare in numero crescente, sebbene i reticolati di filo spinato che proteggevano le posizioni italiane ostacolassero i disertori e le pattuglie italiane spietata­ mente fulminassero ogni ascaro sorpreso a tentar di strisciare sotto i reti­ colati stessi. Ciò nonostante, ai primi di marzo quasi seicento disertori ave­ vano, dopo l’invasione dell’Eritrea, raggiunto le linee inglesi. Gli italiani tentarono di reagire alla propaganda dell’Imperatore e alle notizie della presenza del rispettato ras Gassa, il quale, sei anni prima, aveva comandato gli eserciti del nord contro di loro, con una importante mossa politica. Il 26 febbraio, il Viceré nominò ras Seyum Negus del Tigrai e, poco dopo, lo rimandò nella sua capitale di Adua. Per assicurarsene la fedeltà e per dimostrare la loro fiducia, gli italiani consegnarono al nuovo Negus, accolto con rapimento, settemila fucili, e, quasi contemporanea­ mente, rimandarono ras Aialeu Birrù a Gondar. Entrambi i capi, va rile­ vato, erano sorvegliati: Aialeu Birrù dal generale Martini e dalla guarni­ gione di Gondar; ras Seyum, che avrebbe potuto costituire una minaccia più grave, dall?. XLV Brigata del colonnello Deiitala, la guarnigione del Tigrai occidentale. Nella notte del 23 febbraio, gli italiani contrattaccarono con un certo successo, impiegando quattro carri armati e, come truppe d’urto, un bat­ taglione famoso, il 4° Battaglione coloniale « Toselli », già celebre prima della battaglia di Adua per la difesa dell’Amba Alagi, agli ordini del colonnello Persichelli. Il tenente-generale Platt preparò i piani per un attacco con due divisioni 436

a metà marzo, da far coincidere con un’avanzata, sul lato del Mar Rosso, delle truppe del Brigadiere Briggs2 verso la catena montuosa a sud di Cheren, sulla quale era stata spostata la II Brigata di Lorenzini, precisamente per affrontare e respingere questa minaccia. « La battaglia di Cheren è in pieno svolgimento » scrisse Newbold il 10 marzo. « È fino a ora la più grande della guerra nel Medio Oriente, in quanto quelle nel deserto occidentale sono state più che altro una facile vittoria. » Aveva ragione per quanto concerneva la portata e l’importanza della battaglia, ma torto affermando che essa era in pieno svolgimento. Mancavano ancora cinque giorni all’importante attacco inglese : « Sarà una battaglia sanguinosa » disse Platt « sia contro il nemico, sia contro il terreno. Verrà vinta da chi saprà resistere più a lungo ».

Sabato 15 marzo, all’alba giunsero i bombardieri — Blenheim, Wellelsley e Hardy. Un’ora dopo, l’artiglieria aprì il fuoco davanti alla Quarta Divi­ sione indiana mentre attaccava a nord della gola Dongolaas, poi spostò il tiro a sud mentre la brigata di Messervy, la brigata in prima linea della Quinta Divisione indiana, avanzava su Dologorodoc. Per quarantott’ore, lo strepito e la mischia della battaglia infuriarono a entrambi i lati della gola Dongolaas. Furono questi i grandi giorni, da parte inglese, dell’esercito indiano, dei sikh e dei punjab, dei gurhwali e dei mahratta, dei pathan e dei baluchi, nonché dei nobili rajput prove­ nienti dalla regione intorno a Jaipur — più di quindici battaglioni di trup­ pe indiane complessivamente e due battaglioni di highlander. Messervy fu il più fortunato dei comandanti inglesi, in quanto conquistò e tenne il Dologorodoc, ma fu il solo. Tutti gli altri attacchi vennero respinti dagli italiani e, mentre entrambe le divisioni si ritiravano, le cime a nord, dal Samanna al Sanchil, rimasero inviolate, e, delle cime al sud, soltanto il monte Dologorodoc rimase nelle mani degli attaccanti. L’attacco era fallito. Era fallito anche a nord di Cheren, ove Lorenzini aveva tenuto la cate­ na montuosa di Ab Aubes contro l’attacco combinato anglo-francese. Egli era virtualmente il comandante dell’intera difesa di Cheren, riconosciuto come tale in tutto e per tutto, tranne che ufficialmente, quando, giunto al sud, dopo un giorno di sosta, per dirigere e guidare il primo dei sette con­ trattacchi contro Messervy, rimase ucciso sul Dologorodoc. Ventiquattr’ore dopo, Newbold ne scriveva il necrologio in nuce : « Il generale Lorenzini, il ’’Leone del Sahara”, che aveva il comando a Cheren, era uomo capace ed energico e la sua morte in combattimento è un duro colpo, in quanto dispongono di pochi abili generali ». Persichelli era rimasto gravemente ferito; anche Corsi era stato ferito, e uno dei suoi comandanti dei batta­ glioni Savoia, il colonnello Barzon, aveva perduto la vita. I difensori, pur essendo risultati vittoriosi nella battaglia, avevano pagato un caro prezzo, e, dal 20 marzo in poi, i rapporti di Frusci divennero di ora in ora più ansiosi. Ma gli inglesi non potevano saperlo. Churchill, che si era aspettato una 437

rapida vittoria, telegrafò a Eden, al Cairo, per chiedere se fossero neces­ sari rinforzi, in quanto la battaglia sembrava « quasi pari ». Sul Dologorodoc, gli alpini del 10° Reggimento arrivarono a ottanta metri dal comando di brigata, e il settimo contrattacco (che i difensori non potevano in alcun modo sapere essere l’ultimo), sferrato durante la notte, venne appoggiato da tre carri armati italiani. Dal canto loro, gli inglesi disponevano di soli pochi carri di riserva e avevano impiegato una quantità di munizioni pari al carico di 1.000 autocarri, sparando 110.000 colpi. Cercarono di com­ pensare con stratagemmi quanto mancava loro in fatto di potenza. Il figlio del conte Baldwin, Lord Corvedale, organizzò un sistema di altoparlanti, diffuse tra le alture brani di opere liriche italiane e, dopo aver destato interessamento e nostalgia, fece seguire alla musica eroica di Verdi prosaici annunci sulle disfatte italiane in Libia. I comandanti di batta­ glione ricorsero a espedienti strani e ingegnosi nel tentativo di sfondare le imprendibili difese. I sikh andarono all’attacco verso il Sanchil come guer­ rieri medioevali, ogni soldato, con tanto di turbante, reggendo dinanzi a sé uno « scudo » alto quanto un uomo, di lamiera ondulata e, mentre si avvicinavano al reticolato, l’artiglieria sparò granate fumogene per cinque minuti, allo scopo di nascondere l’ultimo assalto su per la china. Ciò no­ nostante, i sikh vennero respinti con 71 perdite. Platt, al pari di Frusci, stava esitando; gli inglesi prendevano in considerazione una ritirata. Eppure, rimaneva per gli inglesi una speranza. Durante l’attacco dal Dologorodoc, i genieri avevano raggiunto ed esaminato il cumulo di rocce che bloccava la gola, per poi riferire che, potendo disporre di quarantott’ore di tempo, sarebbero riusciti a eliminarlo. Mentre il Dologorodoc con­ tinuava a resistere e li copriva con tiri di appoggio, i genieri indiani lavo­ rarono durante la notte — e anche durante il giorno — a quel compito.

Il 25 marzo, sotto gli occhi di due ansiosi generali, Platt da Khartum e Wavell dal Cairo, due brigate, quella di Messervy e quella di Rees, attac­ carono direttamente su per la gola Dongalaas, a entrambi i lati della linea ferroviaria, avanzando a piedi verso i loro obiettivi al di là della ripida parete dell’ostruzione stradale e mantenendo con feroce decisione le posi­ zioni — mahratta e punjabi sulla sinistra, highlander e baluchi sulla destra — nonostante i tiri dei mortai e dell’artiglieria, mentre i genieri si facevano sotto con i loro veicoli e i loro esplosivi, affrontando seriamente l’ostruzio­ ne. Truppe italiane che si ammassavano per un contrattacco nel pomerig­ gio vennero sparpagliate e disperse dall’artiglieria inglese; entro sera circo­ lavano al comando notizie confuse di bandiere bianche che si erano vedute sventolare sulle vette, e della minaccia di contrattacchi che sarebbero stati sferrati quella notte. I contrattacchi non ebbero luogo; le bandiere bianche, se ce n’erano state, scomparvero. Ma, man mano che l’ostruzione stradale veniva a poco a poco sgretolata e diminuiva nella giornata successiva3, fino ad essere quasi eliminata nel tardo pomeriggio, Frusci decise che la situazione era 438

disperata. La mattina dopo, 27 marzo, un’ora prima dell’alba, gli india­ ni attaccarono dal Dologorodoc nella direzione dello Zeban. Trovarono il monte abbandonato. I carri armati « I » passarono rombando attraverso l’ostruzione stradale. Alle 7 del mattino, la ricognizione aerea riferì che Cheren era stata sgombrata e, un’ora dopo, i carri scendevano nella gola e raggiungevano la graziosa cittadina. Contemporaneamente, i quattro bat­ taglioni agli ordini del Brigadiere Briggs, appoggiati dall’aviazione e dal­ l’artiglieria, con una compagnia di marines francesi — appena giunta — in avanguardia, sferrarono un attacco ben coordinato contro i cardini delle posizioni italiane a nord di Cheren, i monti Engiahat e Ab Aubes. « Rien n’y manquerait » osservò un caustico ufficiale della Légion « si l’ennemi n’avait jugé bon de décrocher dans la nuit. » Su ogni lato, gli italiani si erano dileguati durante la notte. Gli inglesi che avanzavano bombarda­ rono e bersagliarono con i tiri dell’artiglieria e delle armi di piccolo calibro le rocce deserte e l’aria. Soltanto alcune bandiere bianche sventolarono, infine, sul Sanchil — un gruppo di difensori lasciati indietro durante la notte. Era stata una ritirata condotta con estrema abilità. « Io credo » scrisse Newbold nel post scriptum di una lettera datata quel giorno « che Cheren stia per cadere. L’ostruzione stradale è stata superata e mi risulta che nostri carri armati si trovano nella cittadina. Ma la notizia è ancora segreta e mancano i particolari. Una grande notizia, se vera. » La batta­ glia di Cheren era finita. Con il sacrificio, da entrambe le parti, di tremila perdite. I francesi si affrettarono a scendere tra le montagne e il giorno seguente avevano tagliato la strada dietro a Cheren. La Legione Straniera fece più di 1.000 prigionieri, compresi 50 ufficiali e 200 superstiti dei Granatieri di’ Savoia « qui retraitaient en bon ordre ». Ma l’inseguimento non venne continuato. Sebbene soltanto una cinquan­ tina di chilometri separasse Cheren dall’Asmara, più avanti si trovava un altro passo — un’altra gola spaventosa, Ad Teclesan. Il 28, Frusci mandò dall’Asmara le sue migliori riserve: i due rimanenti battaglioni del 10° Reggimento granatieri di Savoia, comandati dal colonnello Borghese, a difendere una posizione che il generale Platt temeva potesse essere un osso ancor più duro di Cheren, poiché dinanzi ad essa, per l’artiglieria inglese, vi sarebbe stato meno spazio in cui spiegarsi. Durante i due giorni di sosta che seguirono, il generale Frusci riorga­ nizzò i reparti e gli uomini. Il generale Carnimeo ricevette l’ordine di ri­ portare all’Asmara i difensori di Cheren e di far loro prendere posizione, insieme al 10° Reggimento, su Ad Teclesan. Gli uomini erano stanchi, ma anche scoraggiati e, per la prima volta, gli eritrei stavano disertando, non già per passare agli inglesi, ma per fare ritorno alle loro case e alle loro famiglie. Persino le file dei fedeli ascari della II Brigata si diradavano. Il colonnello Delitala ricevette l’ordine di portarsi da Enda Selassié ad Adua, con la sua brigata, e di strappare garanzie a ras Seyum. Frusci 439

stava facendo tutto il possibile. E, cambiata idea, ordinò al generale Tes­ sitore di spostare la XLII Brigata, oltre all’ll0 battaglione coloniale, su Ad Teclesan, per dare man forte ai granatieri riposati, ma non ancora posti alla prova. Prima dell’alba del 31, Messervy e la sua Brigata andarono all’attacco di Ad Teclesan. Due ore dopo 19 ufficiali e 460 uomini del I battaglione del 10° Reggimento si erano arresi, e, anche se i cambiamenti si protras­ sero per tutto il giorno e il colonnello Borghese rimase ucciso, apparve ovvio che i difensori non erano dello stesso calibro dell’ll0 Reggimento e che il passo sarebbe caduto. Alle ore 10.30 antimeridiane, il generale Frusci dichiarò l’Asmara, capitale dell’Eritrea, sede del governatorato e del comando del suo settore, città aperta e si accinse a sgombrarla. Al crepu­ scolo, inviò un messaggio al generale Carnimeo, su Ad Teclesan, ordinan­ dogli di rompere il contatto e di ripiegare lungo una strada secondaria verso Metemma, agli ordini del generale Tessitore. All’Asmara, ai rivol­ tosi e ai saccheggiatori tenuti a bada dal capo della polizia, si unirono in serata soldati indigeni dei battaglioni coloniali 50° e 51°, che lanciavano bombe a mano. A mezzanotte in punto, il generale Frusci trasmise un messaggio ad Addis Abeba:

« Le parole non possono descrivere il coraggio dimostrato dalle mie truppe durante la lotta sovrumana alla quale hanno preso parte. Prima di distruggere la radio invio a Vostra Altezza Reale il leale saluto dei miei soldati e mio. Viva l’Italia! » Eppure, se gli italiani avessero resistito ancora per breve tempo a Cheren, se, in ultimo, non avessero ceduto sotto la pressione esercitata dal nemico, si sarebbero potuti assicurare la vittoria; una ritirata inglese avreb­ be avuto effetti disastrosi. La perdita di Cheren rappresentò la svolta della guerra e poco mancò che tutto si svolgesse altrimenti.

Durante la notte, Frusci e il suo stato maggiore partirono per la nuova sede del quartier generale: Adigrat. Prima dell’alba, muniti di bandiere bianche e guidati dal Vescovo furono fatti segno da colpi sparati dalla colonna indiana che stava avanzando. Gli italiani non nascosero la loro impazienza che gli inglesi li sostituissero al più presto. Si ebbe spesso un’aperta complicità tra avversari bianchi, spe­ cie quando esisteva un pericolo di « anarchia » da parte degli indigeni. Entro mezzogiorno, la 10a Brigata di fanteria indiana aveva occupato l’Asmara; e l’ammiraglio Bonetti, comandante di Massaua, sulla costa, era stato persuaso a ridare l’acqua e la corrente elettrica, servizi che dipen­ devano da lui, e che egli aveva interrotto come atto di guerra. Il 2 aprile, le autorità inglesi assunsero ufficialmente il controllo dell’amministrazione civile e militare nella capitale dell’Eritrea.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

LA FORZA «GEDEONE» (La campagna del Goggiam: dal febbraio al 6 aprile.)

La Forza Gedeone si accampò ai piedi di monte Belaia, in attesa che Wingate e Sandford tornassero in aereo da Khartum — un insieme etero­ geneo, anche se pittoresco, di uomini e di animali. V’erano alcune centi­ naia di profughi etiopi, un ex-imperatore, una frotta di nobili ridotti in miseria che avevano trascorso gli ultimi cinque anni nei monasteri copti di Gerusalemme; v’erano alcune centinaia di soldati sudanesi con i loro dilettanteschi ufficiali inglesi; v’era un gruppetto di coloni del Kenia al comando del battaglione etiopico; v’erano cinque australiani, un pugno di ebrei e un pugno di impazienti, giovani ufficiali di cavalleria, volontari degli oziosi reggimenti in Palestina, venuti con i nuovi Centri Op. Ma il numero dei combattenti veniva di gran lunga superato dalle migliaia di cammellieri assoldati, con i loro cammelli morti e morenti. Fra le truppe, a parte Wingate, si poteva dire che non esistesse un solo ufficiale di carriera. Wingate e Sandford si trattennero per quattro giorni a Khartum, met­ tendo a punto i loro piani con il generale Platt. Venne deciso che lo scopo della Forza Gedeone sarebbe stato quello di molestare i comandanti ita­ liani in tutto il Goggiam, e invero tanto a nord quanto a sud di Gondar — era quello il momento in cui Platt temeva di dover inviare rinforzi a Cheren — e in profondità nell’interno fino a Dessiè, nonché tanto a sud quanto a nord del Nilo, lungo la strada Addis-Lechemti. Si trattava, dav­ vero, di obiettivi vasti ed eccessivamente ambiziosi. L’attraversamento del Nilo era impossibile, e nulla venne mai fatto al sud; quanto al nord, un Centro Op. venne inviato a nord di Gondar, mentre un appena arruolato bimbasci Sheppard, giovane professore di poesia all’Università del Cairo, ricevette l’ordine di recarsi sulle alture a nord della strada GallabatGondar per dare il cambio allo stanco Bentinck. L’obiettivo della Forza Gedeone era quello di molestare gli italiani, ma non di distruggere le strade, o di tentar di occupare i centri abitati; essa doveva limitarsi a inchiodare il maggior numero possibile di truppe nel­ l’intero, vasto settore di operazioni. Ma, quando Wingate tornò in aereo al Belaia, il 15 febbraio, la situa­ zione era mutata, facendo sì che questa strategia fosse divenuta impos­ sibile ad applicarsi. 441

La strada che, seguendo una curva, scendeva da Gondar, capitale del Beghemder, a Debrà Marcos, capitale del Goggiam, attraversava quattro cittadine sedi di guarnigioni a sud del lago Tana: Bahar Dar, all’estre­ mità del lago, Dangila, Engiabara e Buriè. Gli inglesi avevano supposto che gli italiani le avrebbero difese. Abbandonare anche soltanto una cit­ tadina significava dividere in due le loro forze, nonché la fine delle comu­ nicazioni dirette tra Gondar e Debrà Marcos. Ma si sbagliavano. Il generale Nasi era arrivato in aereo a Gondar, la città che doveva essere la sua futura base, Γ8 febbraio, per assumere il comando del nuovo settore occidentale. Il giorno seguente — continuava ad essere vice-Governatore generale — insediò solennemente ras Seyum ad Adua. Tornato a Gondar, dopo aver fatto del suo meglio per organizzare la difesa delle vie d’accesso settentrionali, dedicò la propria attenzione al sud, al Goggiam. Si avevano notizie di una divisione inglese nel Belaia. Nasi decise di rinunciare al tentativo di tenere la strada. Ordinò a Torelli e alla XIII Brigata di ritirarsi da Dangila a nord portandosi su Bahar Dar; e al colonnello Natale, contemporaneamente, di far ripiegare su Buriè gli ele­ menti avanzati della sua brigata, la III, a Engiabara. Ciò avrebbe lasciato Torelli a bloccare la strada a nord verso Gondar, nei pressi della sorgente del Nilo Azzurro — e Natale in una posizione meno agevole, unico difen­ sore del Goggiam. Natale aveva con sé il pronipote di ras Hailù, ligg Mammo, capo di una Banda sperimentata, e Nasi fece trasferire in aereo ras Hailù, che ave­ va tenuto al proprio fianco a Gondar, nell’avamposto di Mota, dinanzi a Debrà Marcos, con un gran numero di fucili. Così, quando Sandford raggiunse Wingate ai piedi del monte Belaia, Dangila ed Engiabara erano state sgombrate e Torelli si trovava a Bahar Dar al nord, mentre Natale era a Buriè al sud. Dinanzi alla Forza Gedeone si trovava l’ultima e più difficile parte del­ l’ascesa, fino alla scarpata di Matacal e all’acrocoro più in alto. A Matacal governava un comandante di Banda voltagabbana, il fitaurari Zellecà Burrù, che quando le guarnigioni di Engiabara e di Dangila si ritirarono, passò dall’altra parte e, disceso dal suo villaggio, si prostrò dinanzi all’Im­ peratore. Minacciandolo e corrompendolo, Wingate riuscì a strappargli 60 muli. Occorsero a Wingate, ai suoi uomini, e ai suoi cammelli cinque gior­ ni per arrampicarsi fino al passo a est di Matacal. Lassù, infine, si stendeva l’altipiano dell’acrocoro che Mark Pilkington, un ufficiale di cavalleria giuntovi due settimane dopo, doveva così descrivere: « Si trattava di praterie piacevoli, molto fertili, in certi luoghi simili ai Cotswold, con verdi fasce d’alberi lungo tutti i fiumi, e molte piccole cate­ ne di alture, alcune rocciose come quelle scozzesi. Lassù faceva molto più fresco durante il giorno e a notte alta si gelava... Attraversammo alcune meravigliose valli arabili, estremamente fertili, con un gran numero di bovini dal dorso a gobba, di pecore, di capre e di cavalli. Ci nutrimmo estremamente bene in questa parte del viaggio, poiché potemmo acquistare 442

pane, latte, uova, polli, capre, pesche acerbe, tegg (birra locale ricavata dal miele) e persino un manzo. » Ma non così bene come gli ufficiali inglesi che entrarono con Wingate nella deserta Engiabara e là si godettero il loro primo e memorabile bot­ tino di guerra: minestra, funghi, spaghetti, pesche con panna e Chianti. Il loro morale aveva bisogno di risollevarsi: la colonna d’urto della Forza Gedeone si radunò fuori di Engiabara nel pomeriggio del 23 feb­ braio: 300 cammelli, 200 muli, tre compagnie del Battaglione di fron­ tiera di Boustead, il 2° Etiopi di Boyle, il Centro Op. n° 1 e una Unità di propaganda... complessivamente 1.500 uomini. Questa piccola colonna si proponeva di sbaragliare un esercito. Esistevano naturalmente ribelli — i Patrioti — gli uomini di degiacc Mangascià e di degiacc Negasc, e, insieme a loro, già sull’altipiano, il maggiore Simonds e un pugno di appartenenti alla Missione 101. Mangascià aveva ormai con sé almeno 4.000 uomini, ma, nonostante gli incitamenti di Simonds, non aveva attaccato seriamente Torelli durante la ritirata da Dangila — un insuccesso condannato, alquanto ingiustamente, da Wingate come « esempio classico della follia di fare scattare troppo presto una trappola ». « Torelli si sta precipitando verso Bahar Dar » aveva segnalato Simonds: « la RAF potrebbe annientarlo. Bersaglio indifeso. » Ma non si era visto alcun aereo. Thesiger, più avanti di Wingate con un plotone mortai, ave­ va tentato alcune azioni di molestia ma in realtà degiacc Mangascià non era particolarmente interessato a mettere a repentaglio la vita dei suoi uomini ora che gli italiani si stavano ritirando di loro iniziativa e, a quan­ to pareva, definitivamente, dalla preda che egli aveva bramato per anni... la città di Dangila. Egli vi entrò e vi si insediò come suo governatore, e Simonds « liberò » l’ex-Consolato inglese fuori dalla città. Wingate si era portato avanti sui Fagutta, i monti che dominano Dan­ gila, il 22 febbraio, per parlare con Simonds. Là gli impartì i suoi ordini: Simonds doveva assumere il comando della Forza Beghemder e inseguire Torelli fino a Bahar Dar e, se possibile, scacciarlo di là. La Forza Be­ ghemder consisteva di Simonds, della sua scorta personale formata da 24 fucilieri, e della compagnia n° 3 del Battaglione di frontiera. Così, con queste esigue forze, Simonds partì per inseguire i 10.000 uomini di Torelli. I patrioti non furono di aiuto; dopo la liberazione di Dangila si disinteres­ sarono di ogni altra cosa. I fucilieri sudanesi cominciarono ben presto ad « assediare » un battaglione nel forte di Mescihemti, davanti a Bahar Dar, mentre Simonds e la sua piccola guardia del corpo « tagliavano la strada » dietro a esso e si appostavano nei dintorni di Bahar Dar, in attesa, spe­ ranzosi, dell’arrivo di rinforzi.

La battaglia per l’occupazione di Buriè: 24 febbraio - 8 marzo Alla Forza Gedeone rimanevano tre compagnie delle sue truppe migliori,

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i sudanesi, e non al completo degli effettivi, essendo vari plotoni rimasti indietro per proteggere l’ascesa dell’Imperatore sull’altipiano. Quanto ai patrioti, gli alleati sui quali la Forza Gedeone poteva far conto, erano degiacc Negasc e i suoi uomini — alquanto demoralizzati, rilevò Wingate, nel constatare « che noi non avevamo né l’appoggio aereo né l’artiglieria, mentre il nemico poteva disporre dell’uno e dell’altra », ma entusiasti a causa dell’obiettivo dichiarato da Wingate: isolare, molestare e invero, se possibile, occupare Buriè. A Buriè, il colonnello Natale aveva ricevuto l’ordine di rimanere e di formare uno schieramento. Disponeva di migliaia di uomini regolari e irregolari, di artiglieria, dell’appoggio aereo, nonché, alle sue spalle nella direzione di Debrà Marcos, di tutta una serie di posti fortificati. Eppure, già il 23 febbraio egli stava inviando a Nasi rapporti preoccupati sulle attività dei ribelli nelle sue retrovie. Ciò nonostante, Natale era un esperto combattente coloniale e per anni aveva comandato colonne percorrendo in lungo e in largo il paese, con i ribelli dinanzi a sé, a tergo e da ogni lato. E la sua Brigata, la III, era una delle più sperimentate dell’Impero. La Forza Gedeone procedette lentamente durante il giorno, molestata da aerei italiani i cui piloti, vedendo l’interminabile colonna di cammelli, riferirono ravvicinarsi di ingenti forze di invasione. Poi, a distanza di investimento da Buriè, Wingate preparò i suoi uomini per la marcia notturna che doveva condurli, attraverso le campagne, alle spalle del nemico per l’alba del giorno seguente. I cammelli bianchi ven­ nero mimetizzati con fango e Wingate si portò avanti con trenta etiopi per accendere falò, il suo piano essendo quello di lasciare accanto a ciascun falò due etiopi che si sarebbero fatti riconoscere fischiando — un fischio lungo, uno breve, uno breve; e di nuovo un fischio lungo, uno breve, uno breve. Alle 5 pomeridiane, l’enorme colonna di cammelli si mise in cam­ mino, ma « tutto » scrisse il bimbasci Harris « parve andare storto non appena discese l’oscurità ». Le colonne si sparpagliarono e si dispersero, si fermarono, vennero ur­ tate e superate dalle altre, si smarrirono. Poi, quasi inevitabilmente, uno dei falò non potè essere tenuto sotto controllo e si allargò, illuminando l’intera campagna. « Fu una scena selvaggia » scrisse un ufficiale del 2° Etiopi « che nes­ suno dei presenti riuscirà mai a dimenticare. Pianure ondulate sulle quali soffiava un vento tagliente, gonfie nubi nel cielo color dell’inchiostro, il bagliore dei falò ruggenti sullo sfondo, file di cammelli spettrali che emer­ gevano dalla notte provenienti da ogni direzione, uomini rannicchiati e avvolti in coperte, mentre tutti cercavano di proteggersi dal gelo pene­ trante, nella paziente attesa dell’ordine di proseguire. » « I nervi » soggiunse l’ufficiale, abbassando con tatto un velo « erano talmente tesi, a causa dell’ansia e della stanchezza, che vi furono inutili recriminazioni. » 444

Il bimbasci Harris non ebbe altrettanto tatto. Mentre, completamente smarrito con la sua compagnia, stava andando per buona sorte nella dire­ zione giusta... « ... udii yna sequela di imprecazioni inglesi pronunciate dalla voce in­ confondibile di Boustead e seguite da un torrente di frasi arabe nelle quali le parole ”ma talukhabat” (non mischiatevi gli uni con gli altri) si ripe­ tevano spesso. Boustead era quasi fuori di sé per l’ira, Wingate in preda a un parossismo di rabbia. » Infatti, due delle compagnie di Boyle si erano perdute, e non mancava molto all’alba, ormai. Il povero Boyle, la cui professione era quella di venditore d’automobili, non venne risparmiato.

« Wingate si accinse a dirmi, con abbondanza di particolari, quello che pensava degli etiopi in generale e del battaglione di Boyle in particolare. Fu tutt’altro che compito, e mi dispiacque per Boyle, il quale sedeva con un’aria piuttosto avvilita e senz’altro a portata d’orecchio. » L’incendio stava ormai illuminando l’intera zona.

« Ci trovavamo a facile portata di tiro di una forte guarnigione nemica, immobili in una sorta di arena che sembrava illuminata da riflettori e alla mercé di qualsiasi reparto che avesse deciso di attaccarci, costretti a rima­ nere lì immobili per altre tre ore in attesa delle pecorelle smarrite. »

Il colonnello Natale non ne approfittò per sbaragliare, mettere in rotta e probabilmente distruggere la Forza Gedeone. Rimase entro le fortifica­ zioni sulla collina conica di Buriè, al sicuro, mentre la Forza Gedeone si ricomponeva e ripartiva nonostante un altro dramma dell’ultimo momento — gli uomini lasciati accanto ai falò per indicare la direzione non fischia­ rono (« erano etiopi, e una metà di loro non sapeva fischiare ») ; alle ore 6.45, l’intera colonna si trovava al riparo in un vasto bosco nei dintorni di Buriè. Mezz’ora dopo, due bombardieri Caproni sorvolarono il bosco, ma non videro nulla. Nonostante il caos e gli errori, la marcia notturna era riuscita. La Forza Gedeone si trovava in posizione per colpire. La notte seguente si rimisero in marcia. Wingate mandò Boyle e il 2° Etiopi a tagliare, con una lunga deviazione, la strada che da Buriè con­ duceva a Debrà Marcos, mentre lui e Boustead, con le poche centinaia di uomini dei quali ancora disponevano, si accingeva ad attaccare Buriè. Tre forti difendevano Buriè, uno a nord della strada che attraversava la cittadina, e due a sud. All’alba del 27 febbraio, Wingate si trovava dietro il forte settentrionale, con un centinaio di sudanesi che sparavano ininter­ rottamente. Bousted, con il grosso, rimase nascosto nei boschi al lato op­ posto fino al tardo pomeriggio, quando lui e quasi tutti gli uomini che gli rimanevano avanzarono per dare man forte a Wingate. 445

Era questo il momento che i difensori avevano aspettato. I mortai ita­ liani aprirono il fuoco e incendiarono il bosco, poi gli uomini di Boustead, mentre, allo scoperto, esitavano, udirono « gli zoccoli di cavalli lanciati al galoppo e le urla selvagge di cavalleggeri che si avventavano contro di noi attraverso il fumo ». I cavalleggeri, una cinquantina, deviarono, spa­ rando mentre cavalcavano, e si allontanarono : « per salvare la pelle, ci precipitammo di nuovo nel bosco ». La situazione risultò essere di stallo; gli attaccanti erano troppo deboli per portare a fondo l’azione, riluttanti a impiegare i mortai contro una cittadina piena di etiopi, e privi di qualsiasi appoggio aereo. I difensori si guardavano bene dall’uscire dalle fortificazioni. Per la Forza Gedeone vi fu quasi un unico incoraggiamento, la scoperta che la Banda, e, a dire il vero, anche le truppe indigene regolari, davano prova di riluttanza a sparare contro la bandiera etiopica. Anzi, la vista della bandiera stava facendo affluire disertori, sia pure in piccolo numero. Natale riferì preoc­ cupato la notizia di queste diserzioni; ma pervenne un dispaccio, dallo stesso Duca d’Aosta, che molto severamente ordinava al colonnello di tenere Buriè a qualunque costo. Entro la mattina del 1° marzo, Wingate aveva adottato tre provvedi­ menti per sbloccare la situazione. In primo luogo, si liberò dell’ingombro delle salmerie, organizzando un campo per i cammelli in un burrone situa­ to circa cinque chilometri a est di Buriè; in secondo luogo, rinunciò all’at­ tacco infruttuoso contro la salda posizione di Buriè e concentrò gli sforzi contro un altro forte isolato, il forte Mancusa che, una decina di chilometri più avanti sulla strada, difendeva le spalle di Buriè ed era occupato da due sole compagnie di truppe indigene italiane. Infine, in terzo luogo, fece venire al suo fianco Boustead e quasi tutti gli uomini nel bosco: il bimbasci Johnson e la sua compagnia si erano portati davanti a Buriè du­ rante il giorno, ma alla lontana, inducendo i difensori a sciupare una grande quantità delle loro munizioni. Boustead li aveva seguiti, con mag­ gior cautela, in una notte illune. E là essi erano stati raggiunti da Zellecà Destà, il più importante consigliere militare di degiacc Negasc, e da un’or­ da di patrioti, comandata da Thesiger. L’obiettivo di Wingate era la con­ quista del forte Mancusa. L’Unità di propaganda blaterò con gli altoparlanti, annunciando la presenza dell’Imperatore e la liberazione imminente di tutto il paese. Gli ascari eritrei risposero urlando con scherno che non sapevano niente del janhoy, che erano sudditi italiani, e non schiavi. Thesiger aveva riferito che la banda di irregolari agli ordini del fitaurari Hailé Iusus era pronta a disertare quel mattino. La mattinata trascorse e non si vide alcuna banda. Wingate ordinò un attacco. I patrioti dovevano andare all’assalto, e i suoi uomini avrebbero assicurato il fuoco di copertura con le mitragliatrici e i mortai. Era la prima volta che Wingate tentata di coordinare un at­ tacco combinato delle sue truppe e dei patrioti — ma fu anche l’ultima, poiché imparò subito la lezione: andarono all’assalto con troppo slancio e 446

di gran lunga troppo rapidamente; le prime bombe di mortaio sparate dai sudanesi caddero tra loro e l’assalto cessò. L’attacco era fallito. Ma, nel frattempo, rispondendo agli appelli disperati della Forza Ge­ deone, alcuni Wellesley della RAF erano apparsi e stavano bombardando i forti di Buriè. « I patrioti » scrisse Wingate « e, immagino, quasi tutti i guerriglieri, attribuiscono una grande importanza all’azione aerea. Una indebita im­ portanza, come ritengo che questa campagna dimostri... Al contempo, la bomba giusta nel punto giusto (in collaborazione con una quinta colonna) può essere utilissima. »

Fu questa la sola volta in cui la RAF appoggiò la Forza Gedeone, ma senza dubbio riuscì a sganciare la bomba giusta nel punto giusto. E nella cittadina di Buriè esisteva una sorta di quinta colonna: l’Imperatore si stava avvicinando all’altipiano, e la fedeltà di ligg Mammo cominciò a vacillare; quel giorno, lui e la sua banda presero la via dei monti, in attesa dell’esito degli eventi: 1.500 uomini in tutto. Natale sapeva che gli inglesi si trovavano alle sue spalle e riteneva che il forte Mancusa sarebbe molto probabilmente caduto. Quella diserzione, insieme al bombardamento, fece crollare il suo morale già scosso. Egli trasmise per radio a Gondar un rapporto dominato dal panico, chiedendo l’autorizzazione di abbandonare Buriè prima di essere completamente circondato; e sembra che il generale Nasi lo autorizzò. La mattina del 4 marzo, gli stupiti e felici « assedianti » sulle alture, tra i quali il bimbasci Harris, videro « file su file di truppe nemiche uscire marciando dalla cittadina, precedute da quattro carri armati leggeri. La strada nereggiò ben presto di truppe, di animali e di mezzi di trasporto sin dove poteva giungere lo sguardo, eppure gli uomini continuavano a uscire in sempre maggior numero». Gli «assedianti» fuggirono: tre bom­ bardieri Caproni volavano in alto, e quando la colonna attraversò il vil­ laggio di Mancusa, ad essa si unirono i difensori del forte. Wingate, so­ praggiunto poco dopo, si adirò parecchio constatando che Boustead si era lasciato sfuggire « un’occasione gloriosa » di aprire il fuoco sulla colonna in ritirata. Ma Boustead additò gli aerei in volo: i suoi sudanesi si trova­ vano allo scoperto e lui non aveva voluto attrarre bombe su di loro. Quella notte, comunque, il Battaglione di frontiera molestò gli accampa­ menti di Natale; e la mattina, mentre le colonne ripartivano verso Debrà Marcos, il bimbasci Harris, con il suo subalterno sudanese Hassan, le at­ taccò alle spalle. Troppo entusiasti, si avvicinarono eccessivamente e, dopo una curva, vennero a trovarsi di fronte a una carica di cavalleria — sei piccoli fanti avrebbero dovuto affrontare 50 cavalleggeri i quali distavano appena duecento metri. Corsero con tutta la velocità di cui erano capaci le loro gambe, gettandosi, al di là di un torrentello, in salvo nella boscaglia. « Avevamo evitato la morte per un pelo ed eravamo completamente

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sfiniti. Ma le reazioni, in una situazione del genere, sono spesso curiose e la sola cosa che riuscimmo a fare in quel momento consistette nello sdraiar­ ci e ridere. Ridemmo tanto che le lacrime ci corsero giù per le gote. » All’altro lato della strada, anche Boustead e Acland erano stati costretti a fuggire, con i mitragliatori Bren. Wingate aveva fatto ritorno a Buriè ove stava esaminando, molto soddisfatto, il materiale abbandonato dal nemico, e disponeva, con Sandford, affinché la città venisse occupata dal Centro Op. n° 1, gli australiani. In effetti, furono degiacc Negasc e i suoi uomini a occuparla; il degiacc si autonominò governatore e si accinse ad accogliere l’Imperatore e a dargli il benvenuto con i suoi uomini, nella sua città. Quella notte, la notte del 5 febbraio, gli uomini di Boustead spararono una volta di più contro gli italiani accampati; e la mattina seguente ripre­ sero, sia pure con maggiore cautela, l’inseguimento. A un tratto, con vivo stupore sia degli inseguitori, sia della retroguardia degli inseguiti, si udì una violenta sparatoria in testa alla colonna, a nord-ovest. La spiegazione cominciò ad essere intuita tre o quattro ore dopo, mentre cammelli dispersi, carichi e abbandonati, passavano... il battaglione di Boyle! Il 2° Etiopi era rimasto quasi completamente privo di contatti con Wingate e con gli altri della Forza Gedeone per cinque giorni; Boyle aveva ricevuto l’ordine di tagliare la strada di Debrà Marcos, in prossimità del piccolo forte di Dembeccia; e questo, dopo un fallito, ma spossante, attac­ co notturno contro un altro piccolo forte, Gigga, egli si era accinto a fare. Il 2° Etiopi, per citare le parole di Wingate, « si piazzò sulla linea di ritirata del nemico... in quella che deve essere stata una delle peggiori posizioni tattiche difensive della storia ». Wingate fu comunque così gene­ roso nei riguardi di Boyle da aggiungere il complimento a doppio taglio: « a questo il battaglione dovette la propria parziale sopravvivenza ». Le colonne in ritirata di Natale, con automezzi, carri armati, mitraglia­ trici, squadroni di cavalleria, complessivamente 3.000 soldati indigeni, fra truppe regolari e irregolari, inquadrati da 500 bianchi, ai quali si era ormai aggiunta la piccola guarnigione del forte Gigga, venne ad un tratto, men­ tre ancora era sorvolata dai bombardieri, a cozzare contro i 500 e più uomini del 2° Etiopi, con i loro sette ufficiali bianchi, nell’aperta campa­ gna, sulle rive di un fiume asciutto; e, in armonia con la teoria di Wingate, tutti rimasero tanto sorpresi, vedendo forze apparentemente ostili in una posizione così esposta, da non riuscire, semplicemente, a credere ai propri occhi... finché gli uomini di Boyle aprirono il fuoco a distanza ravvicinata. Una delle compagnie si lanciò addirittura all’attacco. Dopo il primo e ini­ ziale stupore, i carri armati italiani aprirono il fuoco a loro volta con le mitragliatrici, mentre la lunga colonna si fermava. Ma il caporale Uandafresc Falakà, con otto colpi del suo pezzo controcarro, centrò in pieno due carri armati dalla distanza di centro metri. Allora, la massa turbinosa degli italiani si gonfiò, si riversò fuori della strada e dilagò; le bande si spiegarono per attaccare e saccheggiare il campo dei cammelli di Boyle, 448

mentre tre colonne di fanteria andavano direttamente all’attacco lungo la strada e a entrambi i lati, travolgendo il piccolo reparto, la cui inferiorità numerica era assoluta. A mezzogiorno tutto era finito: gli italiani avevano fatto prigioniero un ufficiale inglese, ferito gravemente il ftaurari Garadeu e un altro ufficiale della compagnia C, ucciso il grasmacc Dabbala della compagnia D. Un quarto degli uomini del battaglione erano morti o feriti. Ma, anche se il 2° Etiopi non doveva più agire come unità combattente nella campagna del Goggiam, questa battaglia, la sola sostenuta dal re­ parto, aveva assai colpito gli italiani. Le colonne di Natale lasciavano infatti dietro di sé 250 morti, oltre ai due carri armati distrutti, e avevano inoltre perduto un bombardiere, abbattuto da terra. L’avanguardia del Battaglione di frontiera arrivò un’ora dopo che la retroguardia nemica era passata, e con grande indignazione dei superstiti del 2° Etiopi, requisì la bandiera italiana della quale si erano impadroniti gli uomini di Boyle. Quella notte, la retroguardia nemica difendeva ancora il forte di Dembeccia. Il bimbasci Harris, mentre con i suoi uomini lo mitragliava dalla distanza di duemila metri, rimase fierito. Questo significò per lui la fine della campagna: « La pianti di fare tutto questo dannato strepito e torni indietro » gli ordinò Boustead, poco comprensivo. Egli tornò indietro e Wingate gli bendò personalmente la ferita. Venne poi condotto via su un autocarro. Era stato un piccolo scontro feroce, quello di Dembeccia. Wingate si portò avanti, insieme a GabreMascal, il suo radiotelegrafista prediletto, appena in tempo per assistere a tutta una serie di assalti alla baionetta del nemico. « Ritirati! » ordinò Wingate. GabreMascal non gli badò affatto. « Vattene! » urlò Wingate. « Come posso lasciarti solo? » domandò Gabre Mascal in tono di rimprovero, indietreggiando, comunque. Wingate pos­ sedeva le doti del comando. Soltanto quarantott’ore dopo, la guarnigione, forte di cinquecento uomini, sgombrò Dembeccia, dopo avere incendiato i tucul intorno al forte, e ripiegò verso l’ultimo caposaldo italiano nel Gog­ giam, la capitale della provincia, Debrà Marcos.

La sosta: 8 marzo - 17 marzo Mentre la guarnigione di Dembeccia si ritirava, il generale Nasi arrivò infuriato in aereo da Gondar. Per prima cosa, esonerò il colonnello Natale dal comando e lo inviò, ignominiosamente, aggregato alla guarnigione di Massaua. A parere del generale, Natale era stato indotto con un bluff ad abbandonare Buriè e non aveva schiacciato un nemico le cui forze erano di gran lunga inferiori. Egli aveva inoltre appena sgombrato due avam­ posti, Boma e Forte Emanuele e, ignorando gli ordini espliciti di Nasi, non si era sognato di difendere la linea del fiume Temeccià. Al suo posto, come comandante della guarnigione di Debrà Marcos, Nasi nominò un altro e di gran lunga più duro ufficiale coloniale, il colonnello Maraventano. La guarnigione venne potenziata: con reparti di artiglieria, aerei, 1.000 Ca449

micie nere e con la maggior parte della XIX Brigata, fino a comprendere complessivamente 12.000 uomini, con altri 3.000 uomini delle bande irre­ golari sulle alture retrostanti. Prima di tornare in aereo a Gondar, il ge­ nerale Nasi, con ras Hailù al fianco, riunì la guarnigione a Forte Dux e pronunciò un discorso: era insensato ritirarsi dal Goggiam e portarsi al di là del Nilo per affrontare forze nemiche ancora più ingenti; era disono­ rante per gli uomini del Goggiam lasciarsi sconfiggere da Tafari Maconnen; contrattaccassero, piuttosto, a loro volta, e scacciassero l’invasore dalla terra ove erano nati. Wingate, nel frattempo, dopo avere anch’egli preso la parola nel corso di una « sfilata della vittoria » del 2° Etiopi davanti al forte di Dembeccia, era tornato a Buriè trovandovi l’Imperatore furente per essere stato così poco informato, e un Brigadiere ancor più furente per ragioni più valide. Sandford si lagnò perché la Forza Gedeone sembrava scacciare gli italiani dal Goggiam, invece di molestarli nel Goggiam come era stato convenuto: la strategia più sottile era stata abbandonata, ed esisteva il pericolo che le guarnigioni del Goggiam andassero a rinforzare altri settori, in particolare Cheren. A questo, Wingate non seppe che cosa rispondere. Egli era comunque di pessimo umore. Insoddisfatto a causa della fuga del colonnello Natale, in quanto aveva la certezza che con l’appoggio aereo sarebbe riuscito ad annientare l’intera colonna italiana mentre veniva trat­ tenuta sulla strada dal 2° Etiopi; e scontento di se stesso per non essere riuscito, a causa della mancanza di carte topografiche, a tagliare la riti­ rata a Natale più avanti, sul fiume Temeccià. Sia Wingate, sia Sandford erano preoccupati per i Centri Op.; ne esi­ stevano dieci, ma quasi tutti vagavano senza direttive sugli altipiani e sui bassipiani. A parere di Wingate, erano stati formati troppo tardi, in ogni caso. Avrebbero dovuto precedere il grosso, e non seguirlo. In realtà, due di essi difendevano Buriè nelle retrovie. E un altro Centro Op., il n° 2, si stava portando a nord per unirsi all’intrepido Simonds davanti a Bahar Dar. Prima che il Centro Op. n° 2 giungesse al nord, Torelli aveva ritirato la guarnigione dall’avamposto di Mescemti, ed era « assediato » a Bahar Dar. Ma l’arma più efficace degli assedianti, una mitraglitrice pesante, ave­ va una portata massima di duemila metri, mentre i cannoni degli assediati potevano colpire bersagli situati alla distanza di otto chilometri. Al coman­ dante del Centro Op. n° 2, il capitano McKay, si accompagnava un perso­ naggio gioviale, il fitaurari imperiale Burrù, seguito da una scorta di 500 patrioti, armati con nuovi fucili dagli inglesi a Um Idia. « 450 di loro » rilevò Simonds amaramente « disertarono il giorno dopo, ansiosi di ven­ dere la armi. » Ma il fitaurari Burrù era, sotto ogni aspetto, un alleato importante, ricco, generoso e amato, già nominato da Hailé Selassié go­ vernatore designato del Beghemder, e ansioso di spingersi fino a Debra Ta­ bor, lasciandosi indietro Bahar Dar, per « liberare » la sede del proprio comando. Già era in corso la lotta per il potere territoriale nell’Etiopia post-bellica, tanto più in quanto nessuno poteva prevedere ancora quale sarebbe stata la sorte dell’Imperatore; e i possedimenti potevano signifi­

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care un diritto al potere qualora avesse dovuto determinarsi una situa­ zione di anarchia. Ma il colonnello Torelli fece saltare il ponte sul Nilo, e invitò un alleato a farsi avanti per sorvegliare la riva opposta: degiace Yggigù Aialeu. Con risultati così efficaci che Simonds, dopo un’incursione fallita, si persuase (e riferì) di avere, al di là del Nilo, « l’intera regione ostile a noi ». Rientrato a Gondar, il generale Nasi si ritenne più soddisfatto del pro­ prio settore, ordinò che venisse interrotto il traffico attraverso il Tacazzè nella regione di ras Seyum — gli inglesi stavano sferrando il loro attacco più violento contro Cheren — e riferì ad Addis Abeba che si poteva far conto sulla lealtà di ras Hailù. Prima di partire da Debrà Marcos, aveva inviato ras Hailù a raggiungere la sua banda sui monti e stavano pervenendo noti­ zie soddisfacenti su feroci scontri tra le montagne Ciokkè, a est, tra ras Hailù e i guerriglieri rivali di ligg Hailù Belù, suo nipote. Come Nasi, Wingate si rendeva perfettamente conto del fatto che l’at­ teggiamento di ras Hailù era la chiave del successo o dell’insuccesso nel Goggiam. Presi come scorta trecento sudanesi, egli si portò, attraverso le campagne, oltre Debrà Marcos, sui monti orientali, diretto verso il ponte strategicamente importante di Safertak, il ponte sul Nilo Azzurro che col­ legava Debrà Marcos e Addis Abeba. Ma, molto prima che lo avesse rag­ giunto, ras Hailù discese dalle montagne. I due gruppi si accamparono bellicosamente, a una distanza di poco più di tre chilometri, separati dal­ l’Amba Mariam. Wingate inviò un messaggio all’accampamento di ras Hailù, con una lettera che lo invitava a riconoscere il suo sovrano e ad arrendersi. Ras Hailù mandò indietro il messaggero, opponendo un cor­ tese rifiuto, e, il giorno seguente, 15 marzo, entrò in Debrà Marcos con la metà dei suoi uomini, 3.000 armati. Questo scacco diplomatico indusse Wingate a modificare i suoi piani: mandò avanti il bimbasci Thesiger con l’ordine di incontrarsi con ”ligg” Belai Zellecà e di tendere un’imboscata sul ponte Safertak. Quanto a lui, con quasi tutti i sudanesi, tornò indietro. Ormai bisognava occupare Debrà Marcos... oppure essere ricacciati a Buriè, e più indietro.

La battaglia per Debrà Marcos: 18 marzo - 6 aprile Nei dintorni a ovest di Debrà Marcos, a circa quattro chilometri dalla città, la strada diretta a Buriè passava attraverso una serie di piccole al­ ture, la catena Gulit; là il colonnello Maraventano schierò due battaglioni, la sua prima linea di difesa. Wingate e Boustead si disposero di fronte alla catena Gulit, con i loro uomini e i mortai; ma la potenza offensiva della Forza Gedeone era ormai ridotta al minimo: plotoni del Battaglione di frontiera si trovavano sparsi in una buona parte del Goggiam per di­ fendere capisaldi locali; ora, di fronte alle alture, v’erano appena 400 sudanesi e una dozzina di inglesi che « assediavano » 16.000 uomini armati. Dietro il « fronte », a Dembeccia, il 2° Etiopi stava — in teoria — riposan­

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dosi, riprendendosi dalle fatiche e riorganizzandosi; e il Centro Op. n° 1 doveva avanzare per rafforzarlo. Wingate faceva conto su questi rinforzi e sul fatto che Maraventano avrebbe ricevuto cattive notizie dalle sue re­ trovie, dal ponte di Safertak. Nel frattempo, i sudanesi martellavano con i mortai la catena Gulit durante il giorno, mentre, durante la notte, pat­ tuglie andavano a sparare da distanza ravvicinata. Queste tattiche ebbero il loro effetto e la banda che copriva i fianchi del battaglione coloniale co­ minciò a ridursi: gli uomini disertavano in gran numero e passavano nelle file degli assedianti. Ma, in quel periodo, non c’erano patrioti con Wingate; tutti i loro capi stavano convergendo su Buriè per rendere omaggio a Hailé Selassié. Il giorno 17, un mercante greco arrivò con numerosi cammelli che tra­ sportavano rifornimenti; doveva recarsi a nord-ovest, al Forte Emanuele, lontano trentadue chilometri, che, abbandonato dal colonnello Natale, era stato occupato da un plotone di sudanesi; tornò due giorni dopo con no­ tizie allarmanti: a Forte Emanuele erano in corso violenti combattimenti, e molti sciftà venivano uccisi : « Cane schifoso » gli replicò GabreMascal « noi li chiamiamo patrioti, non banditi ». Per la prima volta, gli italiani avevano preso l’iniziativa; Maraventano aveva mandato due battaglioni da Debrà Marcos, rioccupando Forte Ema­ nuele e spazzando via il plotone dei sudanesi con i loro alleati locali; al contempo, aveva mandato un altro battaglione a rioccupare Motà. Poi, due giorni dopo, i reparti che si trovavano sulla catena Gulit attaccarono « High Hill Camp », la piccola base degli assedianti, e inflissero numerose perdite. Sembrava che Maraventano non fosse uomo da lasciarsi bluffare come il colonnello Natale : « I patrioti locali vennero influenzati negativamente » osservò Wingate, « sembrava loro che noi ci trovassimo in una situazione assurda. » La guarnigione di Forte Emanuele minacciava il fianco degli inglesi; la guarnigione di Gulit minacciava il loro fronte; e, tanto per ren­ dere la situazione ancor più precaria, i pochi assedianti erano circondati da un numero tre volte superiore di disertori « amichevoli » — 1.200 uomini della Banda accampati tutto attorno e che, tuttavia, mantenevano le di­ stanze. Era autentica, la loro diserzione... o soltanto un’astuzia? Maconnen Destà riteneva « estremamente probabile » il tradimento. La Forza Gedeone non era mai venuta a trovarsi in una situazione più pericolosa, con gli alleati demoralizzati, i reparti dispersi e il nemico che andava concentrandosi. Giunsero notizie secondo le quali ras Hailù aveva trasportato con autocarri muli dai monti... e questo sembrava lasciar pre­ sagire una sortita en masse dei suoi uomini, un’ultima spedizione punitiva che, insieme a un attacco traditore da parte dei disertori della Banda, avrebbe eliminato Boustead e i sudanesi. Quanto ai « rinforzi », a Dembeccia, si trovavano in una situazione ancor peggiore. Per citare le parole alquanto sorvegliate di uno degli ufficiali del 2° Etiopi : « Stava divenendo evidente, a Dembeccia, che il battaglione cominciava a sentire le conse­ guenze di libagioni eccessive ». Boyle e l’aiutante avevano « i nervi a fior 452

di pelle ». Le ferite si infettavano, la tensione nervosa degli ufficiali e l’ubriachezza degli uomini causavano contrasti che rasentavano l’ammuti­ namento. Il Centro Op. n° 1 era arrivato, ma era nella stessa situazione: tre dei cinque australiani dovettere essere rimandati a Khartum. Wingate esitava e stava prendendo in considerazione la possibilità di ritirarsi sulla linea del fiume Tamoha. Mantenere la posizione di fronte alla catena Gulit sembrava temerario e la prudenza imponeva una ritirata parziale e temporanea, secondo le norme manuali militari. Ma la Forza Gedeone, fino a quel momento, non aveva mai ripiegato e sempre, quali che potessero essere gli svantaggi, era andata avanti. Una qualsiasi riti­ rata sarebbe stata interpretata dal nemico — e non senza giustificazioni — come un indizio di debolezza, e più nulla, virtualmente, avrebbe impedito al colonnello Maraventano e a ras Hailù di uscire da Debrà Marcos per dilagare, tra gli sparsi e demoralizzati reparti della Forza Gedeone, fino a Buriè, per poi impadronirsi, forse, della persona dell’Imperatore. Era una visione da incubo. Si ritirassero, i sudanesi, o rimanessero dove si trova­ vano, il disastro sembrava imminente. Wingate prese una decisione: quando sei in dubbio, quali che possano essere gli svantaggi, attacca. Il 24 gli italiani attaccarono per primi nelle ore antelucane; tuttavia, avvertiti dalla Banda, i sudanesi sgombrarono « High Hill Camp », prima che gli attaccanti lo raggiungessero... circo­ stanza incoraggiante che fece dileguare i timori di tradimento. Quella notte, gli uomini di Boustead si suddivisero in tre gruppi e attaccarono le postazioni sulla catena Gulit con mitragliatrici, bombe a mano, e alla baio­ netta. Al comando del battaglione italiano, una mitragliatrice respinse gli attaccanti; tre sudanesi caddero, là, e un inglese fu gravemente ferito. La ritirata venne coperta dai tiri dei mortai di « High Hill Camp » e, nei giorni che seguirono, persuasi della forza dei reparti assedianti, né i bat­ taglioni sulla catena Gulit, né la guarnigione di Debrà Marcos tentarono altre mosse. Lasciato Boustead in posizione avanzata, Wingate tornò a Buriè per procurarsi rifornimenti e, soprattutto, rinforzi. Si era già fatto precedere da GabreMascal; secondo il suo piano, tutti i patrioti, guidati dall’Impe­ ratore in persona, dovevano avanzare per sferrare un attacco a fondo con­ tro Debrà Marcos; a parer suo, soltanto la presenza dell’Imperatore avrebbe potuto controbilanciare, dalla parte degli inglesi, la presenza di ras Hailù tra gli italiani e far pendere favorevolmente la bilancia. Ma Sandford si oppose a una politica così pericolosa; mentre continuavano a Buriè le accese discussioni, il colonnello Maraventano, notata l’inattività del nemi­ co, preparò un nuovo e più deciso attacco. Sfortunatamente, per quanto concerne lo svolgimento di questa campa­ gna nel Goggiam, le memorie e i documenti, ufficiali e non ufficiali, mentre abbondano da parte inglese, mancano da parte italiana. Sembra che il ge­ nerale Nasi, coordinando da Gondar le operazioni dei suoi subordinati, si fosse proposto un movimento a tenaglia: un contrattacco che doveva ricac­ ciare sui monti gli invasori del Goggiam. Il colonnello Torelli doveva at453

taccare a sud, da Bahar Dar, e il colonnello Maraventano a ovest da Debrà Marcos. L’attacco era previsto per il 27 marzo. Ma la sera del 26 marzo, il generale Frusci impartì l’ordine di sgom­ brare Cheren : un ordine che, entro poche ore, divenne noto a tutti gli ufficiali superiori italiani nell’Impero. E, da altri fronti, quella giornata portò ulteriori cattive notizie; ovunque la situazione appariva ai coman­ danti italiani fluida e passibile di mutamenti di ora in ora. Essi si guar­ darono alle spalle e pensarono alle linee di ritirata. Così, fortunatamente per i sudanesi, non vi fu alcun attacco da Debrà Marcos il giorno 27, e, entro il 30, Boustead aveva riferito alcuni indizi di ripiegamento imminente dalla catena Gulit, nonché certi contatti (aveva con sé quell’esperto negoziatore che era Vagiacc Chebedde) con sottufficiali di uno dei due battaglioni sui monti Gulit, un battaglione, a quanto pa­ reva, disposto ad arrendersi. Al nord, però, Torelli attaccò, anche se con due giorni di ritardo. McKay, dal Centro Op. n° 2, rimasto gravemente ferito, era stato portato nelle retrovie una settimana prima, e innumerevoli ordini e contrordini da Buriè e da Khartum avevano sommerso Simonds. Egli dovette ora far fron­ te a « un attacco forte e ben pianificato contro la posizione principale ». Simonds aveva con sé soltanto 250 sudanesi, e il fitaurari imperiale Burrù con 75 seguaci — un reparto minuscolo che Torelli, avendolo ritenuto forte di 3.000 uomini, attaccò con cinque battaglioni, con artiglieria someggiata e con la banda di 1.500 indigeni di degiacc Yggigù, su tre colonne. Gli « assedianti », come è naturale, fuggirono sulle alture. La ragione per cui Torelli non continuò l’avanzata lungo la strada e non riconquistò Dangila è alquanto misteriosa. Ovviamente, senza un movimento analogo da Debrà Marcos che minacciasse Buriè da entrambi i lati, il vantaggio stra­ tegico sarebbe stato scarso. Forse aveva saputo che ligg Mammo e la sua Banda, fino ad allora passivi sui monti sopra Dangila, una volta apprese le notizie dal nord, si erano decisi a stabilire quale fosse la parte vincente, unendosi a degiacc Mangascià. Torelli perdette 175 uomini, uccisi o feriti dai cecchini di Simonds, e si ritirò a Bahar Dar sette ore dopo esserne uscito.

Stimolato dalle buone notizie giunte dal nord e da ovest, Wingate, sem­ pre a Buriè, impartì nuovi ordini. Il Centro Op. n° 6 - 180 uomini — do­ veva portarsi a nord e unirsi a Simonds con la sua scorta di ventiquattro sudanesi e al ftaurari Burrù con il suo pugno di seguaci. Questo reparto, agli ordini di Simonds, doveva attraversare il Nilo dirigersi verso l’interno, verso Debra Tabor, ove il colonnello Angelini e una forte guarnigione di­ fendevano la strada tra Gondar e Dessiè contro i ribelli ligg Johannes, Dagneu Tessemà e i loro seguaci. La confusione doveva diffondersi e dovevano essere tagliate tutte le comunicazioni nemiche con il comando del generale Nasi. Nel frattempo, la compagnia dei sudanesi doveva conti­ nuare 1’« assedio » a Bahar Dar; e, ancora più a nord, a nord di Gondar, 454

venne ordinato a un altro ufficiale inglese, Ringrose (che si era unito al prete Abba Qirqos), di tagliare la strada a nord di Gondar. Invero, tutto il settore a nord della strada Gondar-Gallabat, quello che era stato il ter­ ritorio di caccia di Bentinck, sembrava in fermento. Uobnè Amorau e i suoi seguaci si proponevano — ma si trattava pur sempre soltanto di pro­ positi - di attaccare il filo-italiano Kemant; il fi.ta.urari Mesfin Reddà era attivo nello Uolcait; e il formidabile Adane Maconnen, dopo una visita al campo di Bentinck, attaccò effettivamente gli italiani 24 chilometri a nordovest di Gondar, a Tucul Dimbiè, impegnandosi in una feroce scherma­ glia. Ufficiali inglesi battevano le alture. Ma la minaccia principale contro Gondar, lungo la strada di Gallabat, si profilò come sempre a Cilga, sui monti Kamant. E per ordine di Nasi, i kamant, agli ordini del ftaurari Alomiaihù, attaccarono Adane Maconnen e scacciarono lui, e gli ufficiali inglesi, lontano dalla strada che da Gondar conduceva a nord. Pochi gior­ ni dopo, il tenente che comandava i sudanesi riferì — e la cosa non fu sor­ prendente — di trovarsi « in difficoltà » nei pressi di Bahar Dar.

Nel frattempo, Wingate aveva rivolto di nuovo la propria attenzione all’ovest. A Boyle venne inviato l’ordine di attaccare Forte Emanuele, e, rinforzata da alcuni plotoni di sudanesi, una compagnia del 2° Etiopi « im­ bastì » effettivamente un attacco. « Tornatene a casa dalla mamma » gridò uno dei difensori a uno degli uomini di Boyle, Cassai Legas: « Sei soltanto un marmocchio! » Ciò nonostante, i due battaglioni sgombrarono il forte quella sera, perdendo 23 uomini quando due dei loro autocarri saltarono su mine disposte dai sudanesi. Boustead aveva riferito che la guarnigione sui Gulit avrebbe probabil­ mente ripiegato il 1° aprile. E il piano prevedeva un attacco frontale alla loro posizione sferrato dai sudanesi, nonché un attacco sul fianco, del 2° Etiopi, che avrebbe teso un’imboscata lungo la strada verso Debrà Marcos, sorprendendo le truppe durante la ritirata. Nelle prime ore del mattino, la guarnigione sulla catena Gulit, forte di 2.000 uomini, si ritirò mentre gli uomini di Boustead attaccavano. Ma gli uomini di Boyle non erano in posizione ; la compagnia « A » aveva rifiutato di avanzare, si era in ef­ fetti ammutinata, e nel battaglione esisteva il caos. Gli ammutinati si la­ gnavano di essere stati percossi e trattati come schiavi dal comandante e dall’aiutante maggiore, e una deputazione venne inviata a protestare pres­ so Hailé Selassié che, insieme a Wingate, procedeva adagio con la sua scorta verso Dembeccia. Boyle e l’aiutante, richiamati a Dembeccia per dare spiegazioni, vennero esonerati, forse ingiustamente, dal comando. Ma intanto, una volta di più, l’occasione di annientare forze nemiche che si ritiravano era stata mancata. Il 2 aprile, Wingate, l’Imperatore, ras Cassa, e con loro molti patrioti, si trovavano a Dembeccia; Maraventano, ras Hailù e tutte le loro truppe erano a Debrà Marcos, presidiandone i forti e le difese, e tra le due località, sulla catena Gulit e più oltre si trovavano Boustead e i suoi uomini, nonché pochi etiopi con Maconnen Destà, che 455

investivano con i tiri dei mortai e dei fucili i forti periferici delle difese di Debrà Marcos. Wingate si proponeva di sferrare il colpo decisivo nelle retrovie di De­ brà Marcos, quaranta chilometri più a ovest, al ponte Safertak. Questa volta il nemico non doveva fuggire! Thesiger si trovava già là con alcuni sudanesi, insieme a "ligg” Belai Zellecà e ai suoi banditi-patrioti; Win­ gate mandò ad unirsi a loro, e a rafforzarli, oltre la metà delle rimanenti truppe di Boustead, nonché un gruppo di 140 uomini non ammutinatisi del 2° Etiopi, e Yagiacc Chebedde con i suoi seguaci. Tutti costoro si portarono quindi al di là di Debrà Tabor. Nella città di Debrà Tabor, il 2 aprile, vi furono molti andirivieni; Maraventano ricevette gli ordini dell’ultimo momento, e ras Hailù inviò e ricevette emissari e messaggi da ogni parte. Bombe di mortaio colpirono il palazzo della figlia di ras Hailù. Il 3 aprile, gli osservatori all’interno e all’esterno della città videro la scena che avevano aspettato. Lunghe colonne di truppe stavano uscendo da Debrà Marcos; il colonnello Maraventano sgombrava la capitale del Goggiam. Gli autoveicoli, la cavalleria e la fanteria si riversarono fuori delle porte a est della città: due brigate, la III e la XIX, 7.000 soldati indigeni, 1.100 italiani e, insieme alla colonna, oltre 2.000 tra donne e bambini. Wingate sorrise quando gli venne data la notizia. Sapeva che la colonna era condannata. Ma, prima di abbandonare la città, il colonnello Maraventano aveva passato il comando di tutte le truppe irregolari, e consegnato tutte le mu­ nizioni e i fucili non portati con sé, a ras Hailù. Con più di 6.000 uomini armati, ras Hailù era il padrone di Debrà Marcos e il potenziale domi­ natore di tutto il Goggiam. Wingate e Boustead e i soldati, l’Imperatore e ras Cassa e la corte, aspettarono, con i nervi tesi, fuori della città, la mossa successiva di ras Hailù. Al crepuscolo videro alzare la bandiera etio­ pica, che sventolò sopra la cittadella. Ma non giunse alcuna offerta di sot­ tomissione. Maconnen Destà, mandato a Debrà Marcos, vinto da un ti­ more reverenziale, si prostrò e baciò le mani e i piedi di ras Hailù. Dopo tanti anni, ras Hailù era tornato come signore della capitale da lui un tempo governata, tra il suo popolo fedele; dopo tante umiliazioni aveva quasi alla propria mercé il suo vecchio nemico Tafari Maconnen. Avvalersi del potere di cui disponeva dovette essere una grande tenta­ zione per ras Hailù; ma, sebbene egli avesse a portata di mano il successo immediato, e forse la vendetta, a lunga scadenza le probabilità erano con­ tro di lui. Contro il solo Hailé Selassié avrebbe potuto rischiarsi a tentare un colpo di Stato; contro Hailé Selassié spalleggiato dagli inglesi sapeva di non poterlo fare. Eppure, per altri due giorni egli si godette quella breve indipendenza prima di annunciare, con eleganza e con dignità, la propria sottomissione. Furono, quelli, due giorni vitali: la colonna Maraventano si era fer­ 456

mata, e sembrava decisa a tenere i forti tra Debrà Marcos e il Nilo Az­ zurro. Ma Wingate intercettò una telefonata italiana e, chiamato Stevens, il giornalista americano che parlava un italiano perfetto, gli fece impar­ tire ai comandanti dei forti l’ordine di sgombrare. L’astuzia, della quale entrambi andarono fieri, riuscì. Ma nel frattempo, un uomo più astuto aveva condotto un gioco ancora più scaltro. Ras Hailù sapeva di potersi aspettare poca misericordia sia da Hailé Selassié, sia da ras Cassa, dell’uccisione dei cui figli anch’egli era stato responsabile. Ciò nonostante, pochissimi etiopi, allora e in seguito, lo ave­ vano condannato apertamente. Taluni dicevano che egli era sempre stato in cuor suo un patriota; altri che aveva ammorbidito la severità degli italiani, in particolare di Graziani. La popolazione del Goggiam lo vedeva come il suo governatore e protettore di diritto. Più in generale, si riteneva che durante la lunga lotta per il potere imperiale, dopo la morte di Menelik e durante il regno di ligg Yasu e dell’imperatrice Zauditù, egli aves­ se, come tutti i grandi signori, tentato la fortuna e perduto; con l’arrivo degli italiani gli era stata offerta un’insperata possibilità di capovolgere la situazione. Si poteva forse fargli una colpa se ne aveva approfittato? Ma, agli occhi degli inglesi, ras Hailù era un traditore e un collabora­ zionista, niente di più e niente di meno. Forse, se all’ultimo momento si fosse messo contro gli italiani, avrebbe potuto assicurarsi la loro simpatia. Ma sembra che ras Hailù fosse, a suo modo, un uomo nobile. Non sol­ tanto non si schierò contro gli italiani in difficoltà, ma promise al colon­ nello Maraventano che lui e la sua colonna avrebbero attraversato sani e salvi il Nilo Azzurro. E la colonna di Maraventano attraversò effettivamente, indenne, il Nilo Azzurro. Boustead e i suoi uomini si portarono al di là di Debrà Marcos per attaccare alle spalle gli italiani, aspettandosi di trovarli in preda alla confusione e al panico, e nell’impossibilità di attraversare il ponte Safertuk. Invece trovarono le rovine fumanti del ponte bruciato e, nelle vicinanze, Thesiger e gli altri si giustificarono, con malinconiche versioni dei fatti, del tradimento di Belai Zellecà, dell’attraversamento del ponte e di una violenta azione di retroguardia. Era stato l’ultimo servigio reso da ras Hailù ai suoi alleati ed ex-protettori. Egli aveva inviato messaggeri a ’’ligg” Belai Zellecà, ordinandogli di lasciar passare gli italiani. Thesiger, in potere di Belai Zellecà, non aveva potuto far niente per impedire che ciò avvenisse. Correva voce che ras Hailù avesse, in cambio di questo fa­ vore, promesso di dare in moglie a Belai Zellecà una delle sue figlie e che l’idea di una simile promozione sociale avesse fatto girare la testa all’ex-bandito, corrompendone la lealtà. Wingate non potè fare altro che adirarsi. La sua trappola meglio preparata e più drammatica non aveva funzionato. Attraversato il Nilo, gli italiani, tranne un battaglione isolato, lasciato a Motà, erano fuori del Goggiam. E la domenica delle Palme, 6 aprile Hailé Selassié entrò trionfalmente a Debrà Marcos, sul sedile anteriore di un autocarro guidato dal bimbasci LeBlanc.

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

A SUD DEL NILO AZZURRO (Il fronte del Galla-Sidamo: febbraio - prima settimana di aprile.)

A ovest dell’Omo Più per l’incapacità dei suoi nemici e le virtù dei suoi subordinati, sia delle truppe regolari che di quelle indigene, che per le proprie doti militari, il generale Gazzera era riuscito a mantenere il settore da lui comandato virtualmente intatto, immune dall’invasione nemica. Per le piogge primave­ rili il livello del fiume Omo cominciò a salire, dividendo il territorio in due zone separate, giacché solo due ponti lo attraversavano e non era guadabile. A ovest dell’Omo, intorno al proprio quartier generale a Gimma, Gaz­ zera disponeva, a parte reparti più piccoli, di tre Gruppi bande frontiere — nella regione dei Beni Sciangul, nel saliente del Baro, e lungo il Magi — nonché di tre brigate regolari. La X Brigata la spostò avanti, dalla tran­ quilla Ghimbi alla minacciata Asosa, a nord; la I Brigata, quella di Pialorsi, la ritirò da Magi minacciata al sud lungo la strada di Gimma, fino a Scioa Gimirra e a Bonga, mentre spostò avanti su Ghimbi parte della guarnigione di Gimma. O riteneva che la minaccia al nord fosse la più grave e aveva deciso di contrastarla, oppure era disposto a rinunciare a Magi; o ancora, forse, riteneva che le vie d’accesso a Magi e alla città sarebbero state difese più efficacemente dalle truppe irregolari e dalle ban­ de indigene che dalle truppe regolari. I Tiscianà, nella fitta boscaglia a ovest del Magi, si erano ribellati; ma, d’altro canto, si trattava di una tribù sempre in fermento, e, con ogni probabilità, avrebbe combattuto tanto contro il Corpo equatoriale d’invasione quanto contro qualsiasi Banda italiana. Nel sud, altri mille fucili vennero mandati ai merille. Rimaneva così, fortunatamente per Gazzera, una brigata di riserva, la XCVI di Fenoglio. Fortunatamente perché, il 4 febbraio, una improvvisa e inaspettata rivolta scoppiò nella capitale della regione settentrionale del Galla, Lechemti. Gli irregolari della banda Uollo che, nel saliente del Baro, avevano a malapena difeso l’avamposto di Jokau contro la Forza Romilly dieci giorni prima, improvvisamente attaccarono la guarnigione locale di Camicie nere, il 506° Battaglione. Una settimana dopo, la rivolta si stava diffondendo, un Residente era stato ucciso, un forte saccheggiato, e la situazione sembrava seria. Soltanto alla fine del mese la Brigata di

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Fenoglio rientrò nella città e disperse i ribelli ricacciandoli sulle alture. A quanto pare, non esiste alcuna spiegazione di questa rivolta isolata; il generale Gazzera, nelle sue memorie, non insinua neppure che fosse stata causata da intrighi inglesi. Parla soltanto di un « capo locale ». Sem­ bra probabile che la Banda Uollega fosse comandata da uno degli eredi della dinastia dei ras Uollo, e non è escluso che una zuffa con le Camicie nere sul posto — le quali trattavano spesso con disprezzo gli indigeni — avesse causato l’improvvisa esplosione in una parte della regione Galla ove gli italiani erano in genere bene accetti.

Nel frattempo, si ebbero nuovi allarmi a Gimma. Al quartier generale di Gazzera erano giunte notizie sull’arrivo nel Sudan di soldati prove­ nienti dal Congo Belga, e lo spionaggio militare riferì che questi temibili nuovi venuti erano cannibali. I nuovi alleati giunsero a Malakal a metà febbraio, dal Giuba, sui bat­ telli fluviali Lord Cromer e Zafir che navigavano il Nilo. Secondo una proposta del generale Platt, sarebbero dovuti restare di guarnigione a Malakal, capitale della provincia dell’Alto Nilo, per difenderla contro un temuto attacco diversivo del generale Gazzera — idea che non era mai pas­ sata per la mente di questo pacifico alto ufficiale. Il colonnello Johnson del 2/6th KAR si trovava là per dare il benvenuto ai belgi; colpito dai loro cannoni, dai loro eleganti fez e dai loro piedi nudi, decise che il battaglione dei congolesi si sarebbe reso più utile andando all’attacco insieme a lui al di là della frontiera invece di restarsene a Malakal. Così, il 1° marzo, Johnson e il comandante belga si recarono insieme a Khartum. Il generale Platt diede l’autorizzazione: i belgi avrebbero agito come unità a sé, in collegamento con il comandante del settore, Johnson. Il giorno dopo, furono impartiti gli ordini: il primo obiettivo era la regio­ ne dei Beni Sciangul. II 9 marzo, il colonnello Johnson e il suo KAR, appoggiati dal bimbasci Campbell con la compagnia n° 5 dei sudanesi provenienti dal guado di Sciogali, attaccò il 55° Battaglione coloniale ad Afodu. Vi fu un breve, ma violento scontro prima che i sudanesi si impadronissero della batteria di cannoni italiana, poi il battaglione ripiegò. Nel frattempo, i belgi sta­ vano marciando a sud con un lungo movimento aggirante, verso il loro obiettivo, Asosa. Una Banda fatta prigioniera diede loro un’informazione terrorizzante: che Asosa era difesa da cinque battaglioni; ma quando, a mezzogiorno dell’ 11 marzo, giunsero nella periferia della cittadina, trova­ rono soltanto indigeni che sventolavano fazzoletti bianchi per far capire che il nemico si era ritirato durante la notte. Così occuparono Asosa. E il generale Wavell, dal Cairo, inviò un telegramma apparentemente non ironico al generale Gilliaert, a Stanleyville, congratulandosi per 1’« admi­ rable ardeur et allant » delle sue truppe. Nella « campagna » successiva, i belgi dovettero effettivamente combat­ tere. Il colonnello Johnson arrivò ad Asosa il 15 marzo per assumere il

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comando, e annunciò un attacco combinato contro Gambeila e il saliente del Baro. Egli rimandò i suoi alleati a Malakal, da dove avrebbero rag­ giunto in battello Gambeila. La X Brigata si era ritirata a Mendi. Quanto a lui, egli si proponeva, con il suo KAR, di scendere dal nord e di tagliare la strada tra i monti a nord di Gambeila. I belgi dovevano attaccare dal fiume e un reparto della polizia sudanese doveva tagliare la strada di Gore a est di Gambeila, intrappolando così il maggiore Praga e la sua Banda. Il 22 marzo, i belgi attaccarono, mettendo in azione le loro mitraglia­ trici dall’altra riva del Baro, largo duecento metri e infestato da cocco­ drilli, contro la piccola colonia sulla riva opposta. Il maggiore Praga, con i 500 uomini della banda e i suoi sette colleghi italiani, rispose al fuoco e tre tenenti belgi rimasero feriti. Quando discese il crepuscolo, per comune consenso, la sparatoria cessò. Ma dove si trovava il KAR che sarebbe do­ vuto discendere dal nord? Il KAR, in effetti, non si trovava affatto nelle vicinanze. Johnson era stato troppo ottimista dopo i facili successi nella regione dei Beni Sciangul. Afodu e Asosa si trovavano in zone relativamente basse, e il generale Gazzera aveva già deciso di rinunciarvi, se necessario; ma, dietro ad Asosa, la scarpata saliva e incominciava l’alto acrocoro; ciò era ancor più vero dietro il saliente del Baro: la regione ondulata dei pastori galla intorno a Dembi Dolio era il granaio degli italiani, una regione di gran lunga più utile delle afose, ostili e basse giungle del saliente del Baro. Il maggiore Praga e la Banda si ritirarono durante la notte; l’ufficiale doveva aver sup­ posto che il suo vecchio amico, il maggiore Maurice, si trovava con i belgi. La ruota aveva girato di nuovo, e « il Re di Gambeila » rientrò nel suo regno trovando il braccio destro di Praga, il nuer dielo, morto accanto alla sua mitragliatrice, e accolto, a metà mattinata, dalle bombe di due Caproni che sorvolarono la località. Ma lì l’avanzata « alleata » si fermò. Il KAR aveva fatto prigioniero, nei dintorni di Mendi, un ufficiale italiano, perdendo però, a sua volta, un ufficiale ucciso. Quanto ai belgi, dei loro trenta e più tra ufficiali e ser­ genti, ne restavano in piedi soltanto tredici; gli altri erano malati e per­ sino centoventisette congolesi dovettero essere « hospitalisés ». Il reparto rimase quindi dove si trovava, in attesa che giungessero rinforzi dal Congo. Buone notizie precedettero questi ultimi: al battaglione venne concesso un motto: tu Comme II Se D-oi{·», e il diritto di ricamare sulla bandiera, a lettere maiuscole, le sue famose vittorie: «Asosa», «Gambeila». Nella zona di Magi, giunse, dal capitano Whalley, il 1° marzo, un altro rapporto entusiastico — l’accerchiamento di forze italiane — e poi il silenzio. Nel frattempo, la guerra merille-KAR, più a sud, non stava andando trop­ po bene. Il capo Tappo si incontrò con il Commissario distrettuale e ac­ cettò la consegna dei fucili da parte dei menile ; ma un ufficiale italiano fatto prigioniero sostenneche quasi tutti i merille possedevano tre o quat­

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tro fucili, sepolti nella boscaglia, e, come ebbe a commentare uno dei po­ chi ufficiali intelligenti dell’Intelligence Service a Nairobi, « per una tribù combattiva come quella dei merille, consegnare le armi è quasi come dare la vita ». In ogni modo, i moran non fecero alcun segreto della loro deci­ sione di non consegnare i fucili. Confuso, il Brigadiere Owens tornò in aereo a Nairobi ed ebbe lunghi colloqui con esperti tribali e con lo stato maggiore del generale Cunningham. Rientrò il 22 marzo; e l’indomani tenne un barazza con i capi merille; la questione delle indennità per il bestiame da corrispondere ai turkana e da essere da loro corrisposte sem­ brava insolubile, ma, per quanto concerneva le armi, egli era autorizzato a promettere che, non appena i merille avessero consegnato le loro, anche i turkana sarebbero stati disarmati. Per un momento parve che i concilia­ boli avessero avuto successo; la piccola Banda comandata da ufficiali ita­ liani si ritirò da Kalam, e il Brigadiere Owens la occupò. Corsero voci, voci insistenti, secondo le quali Magi era stata evacuata, ma corsero altresì voci più inquietanti secondo cui quella Banda e i merille, in gruppi nume­ rosi, agivano nelle retrovie degli invasori. Gli inglesi decisero di agire con il pugno di ferro. Venne presentato un ultimatum: le armi dovevano essere consegnate entro il 6 aprile — e, per sottolineare la serietà dell’ultimatum stesso, aerei della RAF decollarono da Nairobi e bombardarono le regioni tribali dei merille « causando spa­ vento ». Ma al cader della notte del 6 aprile, soltanto cento appartenenti alla tribù avevano consegnato i fucili; e da ovest i sudanesi riferirono che Magi era ancora « saldamente difesa ». A est dell’Omo

A est dell’Omo, Gazzera disponeva ormai di forze lievemente superiori - quattro brigate coloniali raggruppate in due divisioni agli ordini di due generali. Queste due divisioni, la 21a del generale Tissi (forte di 8.000 fucili e 28 cannoni) e la 24a del generale Pralorno (6.000 fucili e 36 can­ noni), avevano come basi, rispettivamente, lavello e Neghelli, i due an­ goli di un triangolo equilatero i cui lati erano costituiti da 240 chilometri di strada che andavano a nord, verso l’interno e Addis Abeba, per incon­ trarsi al vertice del triangolo, nell’ex-capitale del Sidamo e di ras Destà, Irgalem. Mega e Moyale, sulla scarpata che domina il deserto nel distretto della frontiera settentrionale del Kenia, erano semplici avamposti. La loro difesa era stata affidata a Tissi, che non ispirava fiducia a nessuno; e il generale di Pralorno, da Neghelli, li aveva presi sotto la propria prote­ zione. Il 16 febbraio, le due brigate sudafricane (forti di 6.000 fucili, con le truppe irregolari) attaccarono questi avamposti. Sotto la pioggia e nel fango, un battaglione sudafricano scalò i dirupi a ovest di Mega, catturò i cannoni dei difensori, e calò sul piccolo centro abitato: la guarnigione, che consisteva principalmente di un battaglione di Camicie nere, circon­ 462

data e sopraffatta dalle superiorità numeriche dell’avversario, si arrese — 26 ufficiali, 598 soldati italiani e 7 cannoni. Questi battaglioni di Camicie nere erano formati principalmente da coloni locali, agricoltori, impiegati governativi e così via, e, tranne pochissime eccezioni, venivano impiegati come truppe di guarnigione; una sorta di Home Guard potenziata, suffi­ ciente a difendere il centro delle città e a tenere a bada i ribelli, ma inca­ pace di fare di più. Curie fece avanzare a piedi i suoi etiopi, mentre i sudafricani si dirige­ vano, autotrasportati, su Moyale. Gli irregolari vi giunsero per primi, pre­ cedendo di ventiquattr’ore i sudafricani, che, con scherno, li avevano sca­ ricati su una strada secondaria; e Curie trasferì il suo comando nell’ex­ consolato inglese. I sudafricani, allarmati, riferirono l’esistenza di ostru­ zioni stradali costituite da bottiglie piene di benzina e bombe a mano senza la sicura nonché, a Moyale, di terribili piccole trappole esplosive. Moyale era stata occupata senza combattere, il generale di Pralorno aven­ do ritirato i battaglioni avanzati della XXV Brigata dopo la caduta di Mega. Più avanti si trovava Neghelli, o lavello. Ma non dovevano occuparla i sudafricani. Il generale Cunningham ave­ va altri progetti, alla fine di febbraio tornarono nel Kenia, sostituiti dalla 21a 'Brigata est-africana. Era, questa, una delle originarie Brigate KAR, due battaglioni della quale, il 2° KAR e il 1° Northern Rhodesians, avevano agito nella Somalia britannica e vi erano stati sconfitti e scacciati sei mesi prima. Il Brigadiere Ritchie ne aveva assunto il comando. Non senza compiacimento da parte sua — poiché l’unica brigata che comandava era di gran lunga più debole, sia per il numero degli uomini, sia per l’equipaggiamento, delle due brigate sudafricane — ma anche con un certo dispiacere, la prima notizia da lui ricevuta fu che lavello era stata attaccata da sciftà e che il generale Tissi e la sua divisione avevano ripiegato, tornando ad Algo. Tutto ciò non era opera di Curie. Lo si doveva al suo rivale, l’agente segreto Jack Bonham, che aveva fatto avere armi alle bande amhara iso­ late nell’interno. Gli « sciftà di Bonham », Tasfae Uolde e la sua banda, avevano spaventato Tissi al punto da indurlo ad abbandonare lavello. Il KAR avanzò e occupò lavello il 10 marzo. In quella regione coperta di giungle, priva di strade, abitata da tribù primitive (tra le quali, da cinque anni, gruppi di amhara, ridotti alla con­ dizione di banditi, incalzati dalle bande locali, avevano vagabondato), era quasi impossibile, soprattutto nell’imminenza della stagione delle piogge, svolgere « serie » operazioni militari. Schermaglie confuse, il cui esito la­ sciava perplessi, ebbero luogo su una vasta zona, man mano che i patrioti amhara e gli irregolari di Curie avanzavano e si scontravano con le bande locali presso i grandi laghi e venivano bombardati, una o due volte, dai loro stessi alleati, i piloti sudafricani, mentre tentavano di accerchiare i battaglioni di Tissi. Verso la fine del mese, tuttavia, quasi mille di questi uomini si erano riuniti agli ordini di Cari Nurk, l’estone, a Soruppa, unendosi poi con un 463

battaglione del KAR in una battaglia protrattasi per tutta una mattinata contro uno dei battaglioni di Tissi, il 61°. La principale caratteristica del paesaggio, intorno alla quale la battaglia si svolse con sorti alterne, era un enorme termitaio; e, al termine della mattinata, entrambe le parti si riti­ rarono lasciando quel prezioso obiettivo strategico apparentemente intatto. Gli uomini del KAR rimasero molto impressionati dal primo combatti­ mento. Sebbene cannoni inglesi e aerei sudafricani avessero appoggiato l’attacco, la « buona reputazione del 61° venne confermata appieno », poi­ ché gli italiani « opposero la più risoluta resistenza ». Ma, mentre il 61° si ritirava, gli irregolari di Nurk, dispostisi per un’im­ boscata, fecero scattare la trappola: 9 europei e 140 ascari rimasero tagliati fuori e si arresero: inoltre, tra gli europei si trovava un trofeo inaspet­ tato, il comandante di una delle due brigate del generale Tissi, Rolandi della XVIII. A Nairobi aspettava un personaggio infelice e dimenticato. Il maggiore Ralph Neville, dell’artiglieria, era stato inviato dal War Office, a dirigere la Missione 107. Teoricamente, egli doveva essere, per il Kenia, quello che era Sandford, della Missione 101, per il Sudan. Nel mese di gennaio, Neville aveva avuto un colloquio con il generale Cunningham, che si era espresso nel modo più incoraggiante, dicendogli di recarsi nel sud del Galla-Sidamo e di organizzarvi la ribellione. Ma soltanto nel mese di mar­ zo gli venne assegnato un aiutante - il capitano Bilborough, che aveva fatto parte del 5° Irregolari (i turkana) — e soltanto alla fine di marzo potè avere uno scritturale. Tanto meno gli furono assegnati una radio rice­ trasmittente, o un qualsiasi mezzo di trasporto, o una qualsiasi arma pe­ sante. Disponeva, tuttavia, di una certa somma di denaro e di una certa quantità di fucili e di munizioni da distribuire; e, al campo profughi, egli trovò gli unici due etiopi che sembravano essere in grado di radunare seguaci e di utilizzare i suoi fucili: degiace Abebè Damteu e Blatta Taclè UoldeHauariat. Il maggiore Neville non sapeva niente della storia e della politica del­ l’Etiopia; ancor meno (se possibile) dei governi del Kenia. Dopo aver trovato gli uomini, li armò e li mandò oltre la frontiera, per cui Blatta Taclè e Abebè Damteu, ognuno con un gruppo comprendente meno di cento seguaci, si unirono alla mischia nel Galla-Sidamo. Si diressero verso la regione intorno a Neghelli, ove le tribù borana si erano già sollevate in armi, e ben presto cominciarono a giungere messaggeri con la notizia che Neghelli era stata abbandonata, con la notizia che Neghelli non era stata abbandonata, che Blatta Taclè era rimasto gravemente ferito, che Blatta Taclè era stato fatto prigioniero dagli italiani; insomma, con ogni sorta di notizie contraddittorie. Soltanto il 27 marzo giunsero notizie precise: il generale di Pralorno si era ritirato, e Neghelli era stata occupata, ma occupata da truppe prove­ nienti da un diverso teatro di operazioni, la Brigata della Costa d’Oro.

CAPITOLO VENTESIMO

IL COLPO DI CUNNINGHAM

Il fronte somalo: febbraio - 6 aprile

Il generale Cunningham aveva promesso di tentare la conquista di Chisimaio prima della stagione delle piogge. Disponeva, grazie ai sudafricani, di un gran numero di autoveicoli e di un valido appoggio aereo. Ma aveva soltanto quattro brigate sul fiume Tana, e di fronte, lungo il fiume Giuba, che scorreva verso nord dal retroterra di Chisimaio, il generale De Simone, il suo antagonista, schierava a sua volta quattro brigate: la 101“ Divisione coloniale, al nord, forte di 6.200 fucili e 24 cannoni, e, al sud, la 102’ Divisione coloniale, che, con la guarnigione di Chisimaio e i grup­ pi di « dubat », equivaleva a non meno di 14.000 fucili e 60 cannoni, ed era, di per sé, potente quanto l’intera forza di invasione.

Il primo balzo: a Mogadiscio - 11-25 febbraio Le colonne dell’avanzata di Cunningham si riunirono lungo la frontiera, a metà strada tra i due fiumi. Allo scopo di far credere a De Simone che l’attacco principale sarebbe stato sferrato a nord, Cunningham aveva rioc­ cupato l’abbandonato posto d’acqua di El Uac con due plotoni, sistemato là una radio a grande potenza, costruito nel deserto colonne di finti carri armati e saturato lo spazio aereo, da Nairobi e da Uagir, con messaggi diretti a questa mitica e nuova « Quarta Divisione ». L’inganno ebbe un moderato successo. Non che, in seguito ad esso, la 102“ Divisione fosse stata allontanata dal settore meridionale. L’11 febbraio, le colonne attraversarono la frontiera: i nigeriani del Bri­ gadiere Smallwood portandosi direttamente verso Chisimaio, lungo la stra­ da costiera; il KAR del Brigadiere Fowkes andando, invece, verso Gelib sulla linea del Giuba. Dinanzi alla colonna del KAR si trovava la città fortificata di Afmadù che, a quanto risultava, era difesa da tre battaglioni nemici e dalla banda di Mohammed Zubeir, appartenente alla tribuù ostile degli Aulihan. Alle ore 5.45, il 6° KAR, lanciato all’assalto, entrò in Afmadù per la porta sud; cinque minuti dopo, il 1° KAR, per la porta ovest. Soltanto nel

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pomeriggio il Brigadiere Fowkes scoprì l’accampamento nemico, otto chi­ lometri fuori della cittadina, e scoprì inoltre che vi si trovavano soltanto una compagnia e un pugno di uomini delle bande, e non già tre batta­ glioni e la crema degli Aulihan, a difenderlo. Il bottino consistette in sei mitragliatrici, un autocarro, diciotto cammelli e molti finimenti: un primo assaggio del più ingente bottino successivo. Quarantott’ore dopo, la Brigata della Costa d’Oro aveva attraversato Afmadù e si era impegnata in un violento scontro a Gulo Erillo, sulla riva del Giuba. Quella sera, con vivo stupore di Cunningham, giunsero notizie straordinarie: gli italiani stavano abbandonando Ghisimaio. Sembra che una piccola schermaglia fosse stata sufficiente a minare la fermezza del generale De Simone; e, manco a dirlo, nel tardo pomeriggio del 14 feb­ braio, carri armati, precedendo l’avanzata dei nigeriani, trovarono Chisimaio indifesa; e non soltanto indifesa, ma con tutti i cannoni abbandonati, venticinque navi in porto, e — tanto per smentire la tesi secondo cui gli italiani erano a corto di carburanti — un milione di litri di benzina e mezzo milione di litri di carburante per aerei, non distrutti. Sembrava quasi incredibile. Tre giorni dopo l’attraversamento della fron­ tiera, il generale Cunningham non. soltanto aveva mantenuto la promessa, ma era riuscito a impadronirsi, con sua grande meraviglia, di un’immensa quantità di bottino. Potè soltanto immaginare che lo sgombero di Chisimaio facesse parte della strategia nemica, che fosse stato male organizzato in seguito ad ordini confusi e contraddittori, e che il nemico si proponesse di difendersi seriamente lungo la linea del Giuba. Nella notte del 17 febbraio, i sudafricani di Pienaar attraversarono il Giuba a Ionté ; e, il giorno seguente, i battaglioni della Costa d’Oro di Richards, dopo una finta a Gelib, lo attraversarono a Mabungo, e, dietro le teste di ponte della fanteria, vennero gettati ponti di chiatte, sui quali passarono gli autoveicoli e il grosso delle truppe, per poi aprirsi a ventaglio a nord, a sud, e ad est, sulle piatte e vaste pianure delle campagne somale; dietro il grosso venne il KAR proveniente da Afmadù, diffondendo il panico nelle retrovie delle quattro brigate italiane ridotte a lunghe file di uomini sulle rive del fiume con ormai alle spalle il nemico. Si ebbe lo sfacelo quasi completo delle due divisioni del generale De Simone; dapprima piccoli gruppi, poi gruppi più numerosi si arresero qua e là agli esultanti africani e ai loro ufficiali inglesi. Il KAR raggiunse Bra­ va, sulla costa, il 24; ma, quello stesso giorno, i nigeriani passarono tra le sue file e proseguirono, lungo la strada costiera, verso Merca. Centododici chilometri dopo Merca si trovava Mogadiscio, la capitale del­ la Somalia italiana, sede del governatorato e del comando di De Simone. Quel giorno stesso, i nigeriani occuparono Mogadiscio — la sola resistenza essendo stata opposta da un giovane ufficiale di marina italiano, Luchini, che morì alla testa dei suoi uomini. Il Vescovo e il Podestà firmarono l’atto di resa al generale Godwin-Austen ; tutti gli altri ufficiali e funzionari erano fuggiti — il generale Sabatini, il segretario generale della colonia, 466

Bottazzi, e il comandante della guarnigione, console generale Eugenio Fioretti. Quanto al bottino, era enorme : milleottocento tonnellate di carburante — oltre due milioni di litri di benzina e un altro milione di litri di carburante per aerei. Ma furono trovati, inoltre, autocarri, armi, depositi di munizioni, materiale militare di ogni genere, un numero di uniformi sufficiente per equipaggiare una divisione e viveri e bevande bastanti a saziare diecimila uomini per un periodo da sette ad otto mesi. All’aeroporto, ventuno velivoli che non erano minimamente intervenuti nella difesa della linea del Giuba rimanevano danneggiati al suolo; nel porto si trovava un numero di navi ancor maggiore, e le prigioni ospitavano numerosi marinai della marina mercantile internati, felicissimi dell’inaspettata liberazione: centosettantanove inglesi, tredici francesi e trentasei jugoslavi.

Il secondo balzo: ad Harrar - 25 febbraio-29 marzo Il generale Cunningham, entusiasta, telegrafò a Wavell chiedendo l’auto­ rizzazione di tentare la conquista di Harrar, lontana oltre 1.280 chilometri. L’autorizzazione venne concessa. A questo punto Cunningham richiamò le due brigate sudafricane dal fronte del Galla-Sidamo. La sua strategia era capovolta: egli aveva im­ maginato che la spinta principale sarebbe stata esercitata attraverso il Galla-Sidamo nella direzione di Addis Abeba e secondo lui, l’attacco a Chisimaio aveva costituito un’offa per accontentare Churchill che insiste­ va. Ma con il tracollo in Somalia (e oltre al bottino stavano cominciando ad affluire migliaia di prigionieri, compresa la XGI Brigata di Pini, i « difensori » di Chisimaio, al completo) e la delusione che stava dilagando nel Galla-Sidamo, la situazione sembrava essersi rovesciata. E Cunningham decise di unire le due brigate sudafricane nel Galla-Sidamo alla la Brigata sudafricana di Pienaar, formando così, di nuovo, la Divisione sudafricana. Ma non soltanto per ragioni militari. « Stavo prendendo in considerazione l’impiego della 1“ Divisione del Sud Africa » egli scrisse in seguito « per l’avanzata da Mogadiscio all’interno dell’Etiopia, in quanto non soltanto pensavo che la sua maggiore potenza di fuoco e il suo equipaggiamento superiore sarebbero stati necessari sul­ l’acrocoro etiopico, ove gli uomini avrebbero trovato un ambiente nuovo e difficile, ma anche perché volevo, per motivi politici, assegnare alla Divi­ sione sudafricana un compito di maggiore rilievo nella campagna. » Ma Cunningham rinunciò al suo progetto di dimostrare la superiorità dei bianchi, sia perché gli avvenimenti stavano precipitando, sia, forse, perché si rese conto che, obiettivamente, le due Brigate sudafricane nel GallaSidamo erano le peggiori tra le sue truppe. A metà marzo, si imbarcarono a Mombasa per l’Egitto, e scomparvero, dapprima nel deserto occidentale, poi, alquanto ignominiosamente, e quasi subito, nei campi di concentra­ mento tedeschi. 467

Dopo una sosta di tre giorni a Mogadiscio, i nigeriani — « grazie alla benzina catturata al nemico » — ripresero l’avanzata lungo la strada che conduceva nell’Ogaden, la strada che le colonne dell’esercito di invasione di Graziani avevano percorso cinque anni prima. Nella prima settimana di marzo, il generale De Simone si trovava a Dagahbur, ove, sempre cin­ que anni prima, degiacc Nasibù, opponendo resistenza a un’analoga inva­ sione, aveva avuto a sua volta il proprio quartier generale. Ma, a differenza dagli etiopi, gli italiani non opposero resistenza. Il 1° marzo, i nigeriani giunsero nel Villaggio Duca degli Abruzzi; il 3 marzo, si trovavano a Belet Huen, su quello che era stato il confine tra Etiopia e Somalia Italiana; il 7 marzo avevano raggiunto Gabredorre; il 10 marzo sorpresero gli italiani mentre abbandonavano Dagahbur, ma furono a loro volta sorpresi da bombardieri italiani; nel pomeriggio del 17 marzo entra­ vano in Giggiga, appena mezz’ora dopo che gli italiani ne erano usciti — un’avanzata di 1.190 chilometri. E il giorno precedente, 16 marzo, gli inglesi avevano ancor più dolce­ mente assaporato la vendetta. Una flottiglia uscita da Aden aveva attra­ versato il Golfo per effettuare il primo sbarco della guerra su spiagge tenute dal nemico. Ma lo sbarco a Berbera, anche se riuscito, non mise certo alla prova l’efficienza delle operazioni combinate. Mentre incrociatori e cacciatorpe­ diniere si affacciavano all’orizzonte, il generale Bertello, comandante mili­ tare del territorio annesso, montava in sella al suo mulo. E quando i primi reparti dei due battaglioni del Punjab sbarcarono, si fece loro incontro il colonnello che comandava Berbera, con i suoi sessanta ufficiali e uomini schierati; egli consegnò la rivoltella e subito scoppiò in lacrime. « La guerra può essere molto imbarazzante », come ebbe ad annotare uno degli ufficiali inglesi presenti. La Brigata della Costa d’Oro era stata inviata lungo una tangente per inseguire la scoraggiata 101a Divisione lungo la linea del fiume Giuba. A Dolo, subito ai piedi dell’acrocoro, raggiunse una delle due brigate nemiche, il cui comandante si arrese con il proprio stato maggiore e tremila uomini. La brigata superstite, la XCII, si ritirò verso Neghelli; e, adagio, la Brigata della Costa d’Oro avanzò lungo quella difficile strada, mentre si diffondevano voci sulla presenza, più avanti, di sciftà e di tribù ribelli, per trovare infine, il 27 marzo, Neghelli abbandonata e occupata soltanto dagli sciftà. La strada da Giggiga serpeggiava tra le alture disseminate di macigni del passo di Marda e continuava per quasi centosessanta chilometri attra­ verso una regione ideale per i difensori, prima di sfociare nel più basso pianoro di Harrar. Il Brigadiere Smallwood e i suoi ufficiali battezzarono le vette circostanti Saddle Hill (Monte Sella), Observation Hill (Monte Osservazione), Carnei Hill (Monte Cammello), e, con un po’ più di originalità, Marda’s Left Breast (Seno Sinistro di Marda), Marda’s Right 468

Breast (Seno Destro di Marda) e Marda’s Behind (Deretano di Marda). Avevano ricevuto l’ordine di aspettare rinforzi prima di attaccare, ma non erano abituati alle attese e tre giorni nella afosa e polverosa Giggiga furono più che sufficienti. Il 2° Nigeriani aveva guidato l’avanzata; al 1° Nigeriani fu consentito di guidare l’attacco. Non si trattò di un’operazione indolore; il 1° Nige­ riani, attaccando sulla destra dei « Seni di Marda », perdette due fratelli, entrambi ufficiali, che rimasero uccisi, ed ebbe molti feriti. Al crepuscolo, dopo cinque ore di bombardamento dell’artiglieria sudafricana, il reparto occupò il « Seno Sinistro », ma la XIII Brigata, i difensori, continuava a tenere il « Seno Destro » e il « Deretano ». Ma, quella notte, la XIII Brigata si ritirò. La notte precedente, uno dei suoi battaglioni, il 38°, aveva disertato in massa, lasciando il coman­ dante e gli ufficiali a difendere da soli la montagna. Nel corso della mattinata, l’ultimo « Seno » e il « Deretano » vennero occupati dai sol­ dati di Smallwood. Sulla seguente posizione difensiva lungo la strada, l’artiglieria italiana trattenne i nigeriani per due giorni e mezzo. Ma, scrisse un ufficiale italiano : « I giorni trascorsi a Babile sono stati davvero tremendi. Le vite degli ufficiali erano in pericolo ogni notte, ogni notte altri ascari disertavano, e poi ci sparavano contro nella speranza di terrorizzarci al punto da consentire loro di andarsene con le armi e con l’equipaggiamento del battaglione ». Il bottino, e non il tradimento, era il movente. Il ripiegamento della brigata, un tempo tenuta in gran conto, fu « il disastro ultimo ». « Alla partenza, le compagnie consistevano di 30-40 uomini ciascuna, quasi tutti sottufficiali eritrei che noi ritenevamo ancora fedeli, ma du­ rante la marcia gli ascari continuarono a sparare e a lanciare senza posa bombe a mano. Divenne impossibile restare sui muli perché le pallottole ci sibilavano accanto alle orecchie da ogni lato. Gli ordini e i rimproveri degli ufficiali venivano ignorati, e apparve chiaro che ci trovavamo di fronte a uno sfacelo irreparabile e completo. Quando si vede la propria autorità finire in niente in questo modo, si cade in preda a una completa disperazione, poiché si è costretti ad assistere impotenti alle scene più barbare e disonoranti senza che sia possibile far nulla per impedirle. » Eppure, il giorno seguente, 25 marzo, gli italiani opposero una violenta resistenza sul fiume Bisidimo, l’ultima linea difensiva, a sedici chilometri da Harrar. Nel pomeriggio, il generale De Simone dichiarà Harrar città aperta e ne offrì la resa all’alba del giorno seguente. La sua proposta — che avrebbe implicato una temporanea tregua locale — venne respinta; e, il 26 marzo, i nigeriani andarono all’attacco e occuparono Harrar, facendo « un numero imbarazzante di prigionieri » : il 5° Gruppo di artiglieria, il 2° Battaglione Camicie nere, il 20°, il 29°, il 48°, l’83°, il

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140° e il 142> per non parlare di quattro Gruppi bande, che portarono il numero degli uomini fatti prigionieri in sei mesi di campagna a quasi cinquantamila, vale a dire, grosso modo, tre volte il numero delle forze di invasione. Il Brigadiere Smallwood scrisse, con giustificato orgoglio, e nei toni di un panegirico : « Mio caro generale, mi sia consentito cogliere questa occasione per dirle quanto compietamente il soldato nigeriano ha smentito tutti i dubbi concernenti le sue reazioni alle condizioni nelle quali si svolgono queste operazioni. « Era stato detto che non avrebbe potuto fare a meno dell’acqua; ne ha fatto a meno senza un solo mormorio di protesta. Era stato detto che non avrebbe saputo battersi bene lontano dalla boscaglia ove è nato: sul passo di Marda egli si è aperto un varco combattendo su per pendìi di montagne che sarebbero state riconosciute tali anche sulla Frontiera. Era stato detto che non avrebbe saputo reggere bene ai bombardamenti e ai tiri delle mitragliatrici allo scoperto; a Babile, sotto un fuoco di questo genere, gli uomini cercavano di abbattere i reticolati nemici con i loro coltellacci. Era stato detto che lo avrebbero influenzato negativamente le grandi altezze e il freddo; a Bisidimo, dopo una notte gelida sulla montagna, il soldato nigeriano è avanzato sull’aperta pianura, all’al­ ba, con la stessa tranquillità e allegra decisione che sembra essere una sua immancabile caratteristica. È magnifico ». Si sarebbe quasi indotti a credere che il « caro generale » fosse stato udito vantare pubblicamente i sudafricani, e disprezzare i neri. I sudafricani si trovavano in quel momento nell’occupata città di Harrar ove, al momento di entrarvi, erano stati accolti con una ban­ diera sulla quale figurava la scritta « Un benvenuto dalla congregazione della Chiesa Presbiteriana », e si stavano collegando ad Hargheisa con i Punjab provenienti da Berbera. Il loro primo compito, strano a dirsi, consistette nel salvare i nemici e nel punire gli alleati. Durante la notte del 28 marzo, il 40° battaglione coloniale di stanza a Diredaua, sulla linea ferroviaria, rifiutò di salire sull’ultimo treno di­ retto ad Addis Abeba, si ammutinò e si impadronì dell’arsenale. A Dire­ daua rimanevano centoventi italiani, con le loro famiglie, oltre a ven­ tisette greci e a otto armeni appena liberati dall’internamento. Gli am­ mutinati si coprirono di bombe a mano, disposte come festoni, e, attra­ versato il letto asciutto del fiume che separava il quartiere « indigeno » da quello « europeo », si accinsero a fare baldoria e a saccheggiare alla loro maniera. Il capo della polizia italiana, forte di quaranta uomini, telefonò al generale Wetherall, a Harrar, chiedendogli in tono suppliche­ vole di essere « invaso » e « occupato » ; e un distaccamento dei South African Scottish venne inviato lungo la strada tortuosa, abbondantemente distrutta da cariche esplosive, ma indifesa, nella valle sottostante. Quando 470

arrivò, quattro civili e tre agenti della polizia italiana erano stati uccisi, uno di questi ultimi dopo essersi difeso, fino alla morte, con il fucile, la pistola, un coltello, e le nude mani. Gli ammutinati esultarono all’ar­ rivo dei loro nuovi « alleati », ma i sudafricani, in un giorno e in una notte, dopo l’unico combattimento di strada di tutta la guerra, avevano ristabilito 1’« ordine ».

Essendosi impadronito dapprima di Mogadiscio, poi di Harrar, di Ber­ bera e della linea ferroviaria, il generale Cunningham, che aveva pro­ messo soltanto Chisimaio, decise, nonostante tutte le norme della logi­ stica, di tentare l’occupazione della capitale dell’Impero, il grande trofeo, Addis Abeba.

Il terzo balzo: ad Addis Abeba - 30 marzo-6 aprile Ad Addis Abeba, il Duca d’Aosta e il generale Trezzani avevano saputo con turbamento della conquista della Somalia, con attonito stu­ pore della caduta di Harrar e con allarme e orrore degli avvenimenti a Diredaua. Ad Addis Abeba si trovavano più di undicimila donne ita­ liane e di settemila fanciulli italiani della cui sicurezza essi erano respon­ sabili, come il generale Wavell ricordò con tatto al Viceré, in un mes­ saggio lanciato dalla RAF su Addis Abeba il 30 marzo. L’indomani, dopo il messaggio, vi fu una minaccia meno velata: volantini in lingua italiana lanciati dal cielo, e firmati dal generale Cunningham i quali informavano chiunque potesse essere interessato alla cosa che, se la capitale non si fosse arresa, egli non si sarebbe ritenuto responsabile della sicurezza dei civili italiani circondati da una popolazione esasperata. Tutti i funzionari italiani sapevano benissimo come si era comportata la popolazone nei tre giorni di anarchia tra la fuga dell’Imperatore e l’entrata del Maresciallo Badoglio e delle sue truppe nel maggio del 1936. Ricordavano, inoltre, i massacri perpetrati ad Addis Abeba dalle sfrenate Camicie nere nei giorni successivi all’attentato contro Graziani; c’era motivo di temere che la popolazione, se avesse avuto mano libera, si sarebbe scatenata. Ma il Duca d’Aosta, pur avendo inviato un suo rappresentante in aereo — come proposto da Wavell — dietro le linee di Cunningham, non intendeva lasciarsi indurre da un bluff alla resa della capitale, in parte perché non poteva credere che gli inglesi avrebbero davvero con­ sentito il massacro di altri bianchi, tra i quali anche donne e fanciulli (e la conclusione dell’episodio di Diredaua sembrava dargli ragione), e in parte perché le difese di Addis Abeba, grazie alle precauzioni da lui adottate, erano molto salde. Tra le forze di polizia e la guarnigione di Camicie nere, si trovavano in Addis Abeba oltre diecimila italiani armati. Tutto intorno alla città, 471

proprio per impedire un attacco di sorpresa dei ribelli contro le linee difensive, come quello tentato una volta dai figli di ras Cassa, erano stati costruiti trentacinque forti, collegati da un enorme reticolato di filo spi­ nato; e tutto intorno a questa cinta fortificata erano disseminati fortini e postazioni di mitragliatrici. All’interno della città si levavano altri sette forti. Tutti gli edifici pubblici erano protetti da filo spinato e casematte, e ovunque si trovavano piante della città sulle quali erano indicate « zone di sicurezza », con istruzioni affinché tutti i civili italiani si dirigessero verso l’una o l’altra di tali zone al suono delle sirene — un segnale di sirena della durata di dieci minuti avrebbe significato un importante at­ tacco di ribelli. A ovest di Addis Abeba, si ebbe un’improvvisa attività di ribelli; più precisamente ad Addis Alàm, lontana appena pochi chilometri dalla città, sulla strada per Lechemti. Si erano già avuti disordini, laggiù, ai primi di dicembre; ma l’improvviso attacco alla Residenza, ai primi di aprile, guidato da una donna, Uoizeró Scioagarad Ghedle, risultò del tutto inaspettato. Venne inviato un reparto di cavalleria; quattrocento cavalleggeri su quattrocentocinquanta furono uccisi o posti fuori com­ battimento dai ribelli esultanti. Era un presagio di quello che sarebbe potuto accadere nella capitale. Addis Abeba, situata in una conca tra le alture, difficilmente sarebbe potuta essere difesa da un attacco nemico. Ma la strada da Harrar era lunga, e il generale De Simone ordinò alle brigate e ai battaglioni in ritirata da Harrar e da Diredaua di trattenere il nemico fino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia, per lo meno sui monti. Ma le cinque brigate si erano praticamente disintegrate e, entro il 2 aprile, il movimento a tenaglia della brigata di Pienaar — poiché il generale Cunningham era riuscito a far prevalere la sua volontà e aveva mandato in testa i sudafri­ cani, .alcuni lungo la strada alta da Harrar, altri lungo la strada bassa da Diredaua — si era chiuso a Mieso, a metà strada dalla capitale. Di­ nanzi a queste truppe, strada e linea ferroviaria correvano parallelamente attraverso il deserto della Dancalia, fino alle prime alture a sud e a est di Addis Abeba. Il generale Trezzani mandò una compagnia mitraglieri dei Granatieri di Savoia, con il 504° Camicie nere, il 210° Fanteria d’Afri­ ca, sei carri armati e Rolle e la sua banda, a presidiare l’ultima possibile linea di difesa, il fiume Auasc. Là queste truppe furono raggiunte da elementi della XVII Brigata che si ritiravano, ancora uniti al comando del colonnello Franzoni. Il fiume era largo una ventina di metri e, rinforzati dai Granatieri, i reparti che lo difendevano potevano conside­ rarsi rispettabili. Eppure, il 3 aprile, quando il KAR di Fowkes sostituì i sudafricani alla testa dell’avanzata e venne a trovarsi contro questo ostacolo, la difesa cedette rapidamente e i soli ad opporre una vera resistenza furono i mitraglieri, la maggior parte dei quali rimase uccisa. Ma occorse il resto del giorno e poi l’intera notte perché ottanta uomini trascinassero sul­

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l’altra riva del fiume i sei carri armati che dovevano precedere la spinta finale verso Addis Abeba. Nella capitale, quando giunsero le cattive notizie dell’attraversamento dell’Auasc, il Viceré tenne l’ultimo suo consiglio a Villa Italia. Doveva recarsi al sud per unirsi al generale Gazzera nella « ridotta » del GallaSidamo, a Gimma, o a nord-ovest per raggiungere il generale Nasi a Gondar, o a nord con il generale Frusci sulla grande Strada Imperiale, la rotabile che collegava la perduta Asmara con la condannata Addis Abe­ ba? A nord, insistette Trezzani. E, alle ore diciassette del 3 aprile, il Duca d’Aosta e la sua scorta, con l’aiutante di campo e vecchio amico generale Volpini, con il comandante dell’ormai quasi inesistente aviazio­ ne, generale Pinna, e con il capo di stato maggiore, generale Trezzani, abbandonarono la capitale diretti verso i monti settentrionali.

Il giorno dopo, mentre la RAF bombardava e distruggeva l’ultimo aereo italiano sull’aeroporto di Addis Abeba, pattuglie avanzate del KAR entrarono nel villaggio di Auasc e vi fecero prigionieri quasi tutti i difen­ sori della linea del fiume, sebbene Rolle e la sua banda, e il 210° Fante­ ria si fossero diretti a nord-ovest, attraverso il deserto, per portarsi a Dessié. I sei carri armati pattugliarono più avanti per trentadue chilo­ metri mentre i genieri lavoravano per riparare i due ponti. Nel corso della notte, uno dei ponti venne ricostruito e l’intera brigata di Fowkes e i rimanenti carri armati passarono, alle tre antimeridiane, e prosegui­ rono. Alle ore sette e quaranta antimeridiane, si fece loro incontro, sulla strada, un carro armato nemico con la bandiera bianca e un emissario del generale Mambrini, governatore militare e capo della polizia di Addis Abeba. Questo emissario era il maggiore Fausto de Fabritis, scortato da trenta Camicie nere ; egli chiese che il « nemico » occupasse Addis Abeba il più rapidamente possibile. I carri armati, con due compagnie autotra­ sportate del KAR, si precipitarono avanti. Entro le cinque di quella sera erano giunti ad Acachi, alla periferia della città. Ma là un alto funzionario della polizia li fermò, cortesemente consegnando un messag­ gio del loro stesso comandante. L’entrata nella capitale doveva essere qualcosa di più solenne di una fulminea puntata dei soldati del Kenia. E così, soltanto la mattina dopo, e soltanto dopo la colazione fatta ad un’ora ragionevole, una solenne colonna si mise in marcia da Acachi per entrare in Addis Abeba. Il generale Wetherall, avendo al fianco il Bri­ gadiere Fowkes e il Brigadiere Pienaar, scortato da un gruppo di carri armati e seguito anzitutto dai sudafricani, e poi dal KAR, si portò avanti, tra file di urlanti etiopi tenuti a freno dalla polizia italiana armata e da Camicie nere armate, fino al Piccolo Ghebbì, ove il generale Mambrini e la sua guardia d’onore fascista consegnarono solennemente ai conqui­ statori la capitale dell’Africa Orientale Italiana. Seguirono quarantott’ore di quella che la Storia ufficiale inglese defi­ nisce « una deliziosa collaborazione tripartita », il momento culminante

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di ciò che era stato « non tanto una guerra quanto un miracolo bene organizzato ». In meno di due mesi, le quattro brigate del generale Cun­ ningham avevano occupato tre delle sei capitali dei sei governatorati del­ l’Africa Orientale Italiana, sconfiggendo, disperdendo o facendo prigio­ niere, senza alcun aiuto da parte dei ribelli, forze di parecchie volte ad esse superiori, con perdite che ammontavano complessivamente a 135 ufficiali e uomini caduti, a 310 feriti e 52 dispersi.

CAPITOLO VENTUNESIMO

LA DECISIONE DEL VICERÉ

In undici brevi settimane, l’Impero italiano nell’Africa Orientale era crollato. Caduta la capitale, Addis Abeba; caduta Harrar, la seconda città in ordine di importanza dell’Etiopia; cadute le due originarie colonie dell’Eritrea e della Somalia, con le rispettive capitali. L’aviazione era stata virtualmente eliminata; la marina, quella poca esistente, rimaneva bloccata nel porto di Massaua, minacciato da un imminente attacco da terra. L’esercito risultava minato dalle diserzioni e dalla sconfitta, demo­ ralizzato dalla perdita di Cheren, suddiviso in gruppi sconnessi, con ap­ pena un minimo di coordinazione al vertice. Il Viceré e il suo stato maggiore erano fuggiti sui monti. L’ex Imperatore stava per fare ritorno trionfalmente nella sua capitale, i ribelli si sollevavano ovunque per soste­ nerlo, gli alleati indigeni degli italiani stavano facendo un rapido volta­ faccia. La campagna militare era ovviamente perduta, e continuare a battersi significava combattere per una causa inesistente. In base alla logica, gli italiani avrebbero dovuto, senza alcun inutile indugio, allo scopo di evitare vani spargimenti di sangue, arrendersi. Invece non si arresero. Alla fine della prima settimana di aprile del 1941, l’Africa Orientale Italiana era poco più di un nome; e non doveva rinascere mai più, nonostante le speranze degli italiani e la loro retorica. Obiettivamente, l’Impero poteva considerarsi perduto; e così, dopo la caduta di Addis Abeba, sembrava giunto il momento opportuno per chiudere il conto. Perché, allora, il Duca d’Aosta non si arrese? Si può rispondere che, soggettivamente, gli italiani non si resero conto di essere sconfitti. Spera­ vano ancora nella vittoria. Con una sbalorditiva subitaneità, l’intero aspetto della guerra nel Me­ diterraneo era mutato proprio nei giorni in cui le truppe di Platt stavano avanzando sull’Asmara e quelle di Cunningham su Addis Abeba. Il 5 aprile, Eden, il Ministro degli Esteri, in quel momento al Cairo, fu informato di « notizie sconvolgenti nel deserto ». Rommel e 1’Afrika Korps erano sbarcati, avevano attaccato e, con fulminea rapidità, erano riusciti a riconquistare la Cirenaica e stavano minacciando l’Egitto stesso. Inol­

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tre, quella stessa notte, i tedeschi iniziarono l’invasione da tempo at­ tesa della Grecia e della Jugoslavia, un riuscito blitzkrieg che fece tro­ vare a Eden, al suo ritorno a Londra il 10 aprile, « altre cattive notizie »; e il generale Frusci, quello stesso giorno, riferì al Viceré che « Le opera­ zioni vittoriose delle forze armate italo-tedesche hanno colmato le truppe di entusiasmo e risollevato il loro morale ». Divenne di grande importanza per l’Asse che la resistenza continuasse in Etiopia, che le forze italiane non si arrendessero, ma impegnassero il maggior numero possibile delle truppe di Wavell e, così facendo, impe­ dissero che venissero inviate in Grecia o nel deserto. Al contempo, voci ottimistiche cominciarono a diffondersi nell’esercito italiano; voci secondo le quali i tedeschi e gli italiani in Libia stavano spingendo colonne coraz­ zate dal nord verso Khartum, ragion per cui i soccorsi, i rinforzi e, inverq, la vittoria stessa, si trovavano a portata di mano. Gli italiani, inoltre, osservarono le loro posizioni sul terreno, e le trovarono meno precarie di quanto avessero creduto. Era vero, avevano perduto la capitale e molte città; era vero, le diserzioni, la resa e la disfatta avevano diminuito il loro esercito. Ma le schiere italiane erano state enormi e continuavano a essere molto numerose. E gli eserciti inglesi, inizialmente di gran lunga più modesti, si stavano già riducendo: infatti, immediatamente dopo la caduta di Cheren, una delle due divisioni indiane, la Quarta, era stata richiamata da Wavell per dare man forte nella difesa dell’Egitto. Rimanevano così in Etiopia soltanto una divisione indiana e una divisione sudafricana; e gli italiani sapevano che Wavell era ansioso di richiamarle entrambe, su altri fronti. Una volta che queste divisioni fossero state ritirate, sa­ rebbero rimaste soltanto truppe africane inquadrate da ufficiali inglesi — i sudanesi, i nigeriani, la brigata della Costa d’Oro, e soprattutto il KAR — ad opporsi alle forze italiane: un nemico non certo formida­ bile come gli indiani o i bene equipaggiati sudafricani. E i carri armati, gli aerei, le autoblinde, le artigliere... tutte o quasi tutte queste armi occorrevano a Wavell nel deserto o in Grecia, e per conseguenza si po­ teva prevedere che il loro numero complessivo si sarebbe ridotto. Gli ita­ liani in Etiopia ripresero coraggio. Quanto alla loro situazione, continuava a essere forte. Al sud, il gene­ rale Gazzera si trovava sempre nella sua capitale, Gimma, e aveva re­ spinto il tentativo di invasione belga dal Sudan per Gambeila e il tentativo di invasione dal Kenia per il lago Rodolfo. Certo, con la caduta di Addis Abeba egli era rimasto completamente isolato e poteva aspettarsi nuovi attacchi dalla direzione della capitale; e inoltre, a est dell’Omo, le sue divisioni venivano sconfitte un po’ alla volta. Ma l’Omo costituiva un ostacolo formidabile, mancavano appena due mesi alla stagione delle piogge e, da Addis Abeba, egli aveva ricevuto ingenti rinforzi in seguito alla fuga delle truppe e dei generali italiani — venti generali complessi­ vamente, si lagnò — comprese alcune ottime unità come i gruppi cara­ binieri. 476

Anche il generale Nasi si trovava tuttora nella sua capitale, Gondar, e a sua volta aveva respinto gli invasori dal Sudan, trattenendoli a Gelga. Certo, Debra Marcos era perduta, e sia Bahar Dar, con Toselli, sia Debra Tabor con Angelini, erano assediate. Certo, esistevano ribelli e ufficiali inglesi sui monti. Certo, ras Hailù, il suo grande sostenitore al sud, si trovava virtualmente prigioniero, e ras Seyum, sul quale egli, non troppo fiduciosamente, aveva riposto le proprie speranze nel nord, era appena passato agli inglesi (come aveva fatto degiace Aialeu Birrù). Ma la re­ gione tutto intorno a Gondar era saldamente difesa; il precipite passo di Uolchefit, al nord, avrebbe bloccato qualsiasi avanzata inglese da Adua; e, per Debra Tabor, Nasi si trovava in contatto diretto, anche se intermittente, con il terzo grande raggruppamento di forze italiane, ora disseminato lungo la strada imperiale tra l’Asmara e Addis Abeba. Là si trovavano il Duca d’Aosta con il suo stato maggiore, la scorta e le truppe, in marcia da sud, da Addis Abeba, inseguiti dai sudafricani. Là si trovavano il generale Frusci con il suo stato maggiore e le truppe dell’Eritrea, in marcia dal nord, dall’Asmara, inseguiti dagli indiani. Ma lungo quella grande arteria tra i monti, gli inseguitori vennero ben pre­ sto fermati ; e gli italiani organizzarono due settori difensivi, uno nel sud, intorno a Dessié, uno nel nord, intorno ad Amba Alagi, e in questi due capisaldi si accinsero ad aspettare e a respingere l’attacco. A est della strada, il colonnello Rangei comandava ancora la sua « orda » dancala, manteneva buoni rapporti con il sultano Mohammed Yayo e teneva il porto di Assab. A ovest, la colonna Maraventano, forte di sette­ mila uomini, proveniente da Debra Marcos e inseguita da Thesiger e da ras Cassa, si stava dirigendo, attraverso le campagne, su Dessié — trattavasi di rinforzi inestimabili. A nord, Massaua era isolata e sul punto di essere attaccata dai Francesi Liberi e dagli indiani; ma ci si poteva aspettare che opponesse una forte resistenza, appoggiata dai cannoni navali. No, la posizione italiana non era debole. Il morale stava migliorando, si sperava in soccorsi... e mancavano appena poche settimane alla stagione delle piogge. Le speranze per quanto concerneva l’Africa Orientale si riaccesero in molti petti italiani, e il Duca d’Aosta scartò con disprezzo ogni proposito di resa nel suo Ordine del giorno del 28 aprile — mentre i tedeschi penetravano sempre più profondamente in Grecia e Rommel stringeva la rete intorno a Tobruk.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

LA CADUTA DEL VICERÉ

La ritirata sui monti Appena quattro settimane prima Amedeo, duca d’Aosta, viceré dell’Afri­ ca orientale italiana aveva indetto a Villa Italia quella che sarebbe stata l’ultima riunione del suo consiglio nella capitale minacciata. Il consiglio si riunì nel primo pomeriggio del tre aprile. Alle cinque, trentasei ore prima che Addis Abeba fosse occupata dalle forze avversarie, il Viceré si stava già dirigendo verso nord. Aveva telegrafato poco prima al duce: « Ci rimane solo da resistere ovunque e finché potremo per l’onore della bandiera ». Indubbiamente difendere Addis Abeba, come già aveva constatato Hailé Selassié, era cosa impossibile. Ma perché verso nord? L’Asmara — e con essa tutta l’Eritrea — era caduta in mano agli invasori dal Sudan e Massaua era circondata e in procinto di arrendersi. A nord non era loro rimasta né una sola città importante né un corpo di truppe abbastanza compatto, anche se il ge­ nerale Frusci, dopo il disastro seguito alla caduta di Cheren, era riuscito a rimettere insieme un certo numero di battaglioni. Il viceré avrebbe potuto dirigersi o a nord-ovest e congiungersi a Gon­ dar con il generale Nasi, o a sud-ovest e unirsi a Gimma al generale Gazzera. In entrambi i casi sarebbe riuscito, e il corso degli eventi doveva dimostrarlo, a resistere più a lungo e con maggior successo. Ma egli pre­ ferì dirigersi verso i monti. Quando disperato è il corso di una guerra non ancora completamente perduta, quando cadute sono le capitali e i palazzi rasi al suolo, sembra che, istintivamente, i condottieri romantici prendano la via dei monti. Fu l’istinto che fece fortificare a Hitler il ridotto alpino, e fu un piano di Mussolini il tanto patetico tentativo di raggiungere, negli ultimi giorni della repubblica di Salò, l’ultimo rifugio sulle Alpi. Si sa così poco del carattere vero e proprio di Amedeo d’Aosta, solo che era ingenuo, fanciullesco e affascinante nei momenti di fortuna. E come nella sfortuna? Non c’è alcuna testimonianza di quanto si disse in quell’ultimo consiglio, dei molteplici argomenti che certo si accavallarono l’un l’altro. Continuare o no a difendere Addis Abeba? Arrendersi e dar fine ad una guerra senza speranza o proseguire nella lotta? E in questa ultima ipotesi, come e dove? E vien da chiedersi se mai i reggenti della

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città che si riunirono a Villa Italia avessero avuto il tempo per pensare quanto simile fosse la loro situazione a quella di altri reggenti che cinque anni e mezzo prima s’erano trovati ad affrontare una situazione quasi analoga. Anche allora l’impero era sul punto di cadere, invaso da nord e da ovest. Anche allora s’era compreso quanto disperato fosse il tentativo di difendere Addis Abeba, perché sparsa in una vasta conca. Anche allora chi governava s’era riunito con il suo consiglio. La differenza allora era che la minaccia diretta veniva da nord e non da ovest e che quindi esi­ steva una via di scampo; e che Hailé Selassié era realista, non « romanti­ co ». Ma a differenza di Hailé Selassié e come i più famosi e infami « romantici » prima e dopo lui, Amedeo d’Aosta si diresse verso i monti. Per questo fu poi criticato. Il maresciallo d’Italia considerò « puerile » la sua decisione, e senza dubbio il duca avrebbe avuto più realismo se si fosse diretto verso le foreste del Galla-Sidamo, a Gimma nella zona sudoccidentale del paese, come la maggior parte dei suoi uomini e dei suoi generali; oppure, a nord, verso l’antica capitale imperiale di Gondar. Ma c’era qualcosa a nord che toccava il cuore degli italiani e ne attirava lo sguardo; era stato lì, dopo tutto, su quella lunga, serpeggiante strada di montagna tra l’Asmara ed Addis Abeba che l’Italia aveva ottenuto le sue grandi vittorie e s’era attestata nelle eroiche ultime difese: dalla resi­ stenza degna delle Termopili di Toselli e della sua piccola banda contro le orde di ras Maconnen prima del disastro di Adua, ai grandi trionfi di Badoglio e delle forze del Fronte nord sull’Amba Aradam contro ras Mulughietà e, a Mai Ceu, contro lo stesso Re dei Re. Così il duca d’Aosta si portò in volo a nord assieme al generale Pinna, comandante delle sue diminuite forze aeree, il generale Trezzani, coman­ dante di Stato maggiore ed il generale Volpini suo aiutante di campo, compagno e amico inseparabile. Atterrarono ad Allomatà, press’a poco a metà strada tra l’Asmara, già caduta, e Addis Abeba che stava per cadere e come nuovo quartier generale approntarono un campo aereo segreto nei boschi. Pochi chilometri più a nord, a Mai Ceu, il generale Frusci aveva stabilito la sua base d’operazioni.

Nel caos che seguì la caduta di Cheren il comando del generale Frusci crollò nel quasi più totale disordine. Ma il governo italiano in Eritrea (sua più antica e fedele colonia) non si disintegrò completamente da un giorno all’altro. La caduta dell’Asmara, il primo aprile, divise in due le forze re­ stanti di Frusci: una parte si rifugiò con il generale Tessitore nella città costiera di Massaua; l’altra ripiegò a sud lungo la Strada Imperiale, atte­ standosi sulla importante posizione difensiva delle alture del passo Toselli, sulla imponente montagna dell’Amba Alagi. Il colonnello Deiitala vi portò la 45a brigata da Adua, il colonnello Postiglione la 43a da Arresa. Frusci designò un generale appena arrivato, Valletti-Borgnini, come comandante del « Settore Amba Alagi » che si stendeva in avanti fino a Addi Caiè subito a sud dell’Asmara. Ma gli inglesi s’impadronirono con estrema fa­ 480

cilità delle postazioni avanzate; il tre aprile, giorno in cui il viceré si portava in volo verso nord, le colonne britanniche travolsero una « debole resistenza» ad Addi Gaiè (un gruppo di PAI al comando dello screditato colonnello Natale) isolando due battaglioni della V Brigata del colonnello Genova ad Adigrat. Per alcuni attimi il panico dilagò fino a Enda Medani Alem, ai piedi del passo Toselli, dove il blocco stradale era stato fatto saltare. « Non fu possibile » riferì Valletti-Borgnini « far passare tutti i veicoli in tempo. I 200 veicoli rimasti serviranno a rendere più efficace il blocco stradale. » Si potrebbe difficilmente immaginare osservazione più insensata per inizio peggiore; da questo momento si saprà ben poco di Valletti-Borgnini (sembra infatti che il suo comando fosse in pratica as­ sunto da Frusci e dal suo stato maggiore). Ma gli inglesi, per il momento, non avanzarono oltre. Bisognava atten­ dere altre due settimane perché le loro prime pattuglie in avanscoperta aggirassero, costeggiandole, le colline pedemontane dell’Amba Alagi. Frat­ tanto, essi dovevano risolvere altri problemi — prima la cattura di Massaua (non certo un vero problema), poi l’insediamento di una nuova ammini­ strazione in Eritrea ed infine l’effettiva divisione in due delle forze del generale Platt. La guerra infatti stava andando male per gli inglesi in tutto il Medio Oriente e nel deserto c’era bisogno immediato della 4a Divisione Indiana. Così, nel breve intervallo che seguì, il generale Frusci consolidò le sue difese. Simile ad una lunga asta sottile con due grossi pesi agli estremi, la posizione italiana s’estendeva dall’Amba Alagi a nord a Dessiè nel sud — un tratto di circa 300 chilometri. Le forze italiane (quelle che c’erano) erano concentrate a Dessiè e sull’Amba Alagi — circa 5.000 uomini sul­ l’Amba e approssimativamente lo stesso numero a Dessiè. Fra questi due agguerriti avamposti s’estendeva una catena di presidi — Mai Ceu, Quoran, Alomatà, Cobbo e Ualdià — nel territorio fondamentalmente amico di antichi nemici dell’imperatore, gli Azebò Galla — e ad oriente nella altrettanto filoitaliana Dancalia. La Strada Imperiale, che univa 1’Asmara ad Addis Abeba s’estendeva per poco più di mille chilometri. Dopo il tre aprile, i primi 400 (dall’Asmara a Endà Medani Alem ai piedi del tortuoso tratto che saliva al passo Toselli, da cui si giungeva alla vetta dell’Amba Alagi) erano in gran parte sotto il controllo degli inglesi. I trecento successivi, la parte centrale della « Strada », erano in mano italiana. L’ultimo tratto, di circa 400 chilometri, che da Combolcià a sud di Dessiè portava ad Addis Abeba, era una specie di terra di nessuno, con esigui avamposti italiani a Debrà Berhan e a Debrà Sina in difesa del passo di Termaber* e sotto i continui attacchi delle forze del ras Abebè Aregai. * Probabilmente la galleria del Termaber; solo la vecchia strada raggiungeva il passo. La galleria, lunga m. 587, larga m. 8 e alta 6,30 fu ipaugurata il 5 giu­ gno 1938 ed era la più importante opera di tutta la « Strada Imperiale » tra l’Asmara ed Addis Abeba [N.d.C.].

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Ma benché la principale posizione italiana si trovasse all’esterno della sottile linea che la strada segnava, non era isolata o confinata del tutto. Una rete di piste e sentieri s’estendeva verso l’interno: da Mai Ceu a Socotà, capitale dell’Uag, e da Ualdià a Lalibelà, capitale del Lasta. Ma il principale nodo di comunicazione era Dessiè (l’unica città sulla strada che probabilmente meritasse un tale nome) capitale dell’Uollo, un tempo sede del Negus Mikael e sempre violentemente ostile agli scioani ed a Hailé Selassié, l’imperatore cristiano. Qui furono raccolti tutti i civili italiani dell’intera regione (che ammontavano a molte migliaia), sotto la prote­ zione di numerosi battaglioni di Camicie nere che ivi stanziavano. Ad oriente, attraverso il deserto della Dancalia, la strada portava all’unico porto ancora in mano italiana: Assab, sul Mar Rosso. Ad ovest, nell’inter­ no, alcune piste collegavano gli italiani, oltre i monti, attraverso Debrà Zebit e Debrà Tabor, con il generale Nasi a Gondar, al quale potevano chiedere rinforzi. Fu riferito che da sud due gruppi di soldati italiani stavano dirigendosi verso nord nei pressi di Dessiè: Rolle con la sua banda, e i soldati del 210° reggimento fanteria dall’Auasc e sull’altro fianco Maraventano con la sua colonna di 8.000 soldati che battevano in ritirata da Debrà Marcos e dal Goggiam. Per poter riunire le sparse forze italiane dell’interno era quindi essenziale che Dessiè e le sue difese avanzate resistessero. Per fortuna la posizione di Dessiè era molto forte (anche se non scoscesa e a strapiombo come quella sull’Amba Alagi) e le sue difese avanzate, in quella prima settimana d’aprile, resistevano ancora. Al comando del settore di Dessiè fu designato il generale Varda e i suoi quattro battaglioni di Camicie nere furono rafforzati con artiglieria e truppe coloniali della VI Brigata. Il duce inviò un messaggio che il generale Frusci passò ai suoi due comandanti di settore: generali Varda e Valletti-Borgnini e questi a loro volta ai soldati. « Resistere all’estremo. Nessuno abbandonerà la postazio­ ne che tiene per qualunque ragione anche se circondato. » Frusci apportò un’aggiunta di proprio pugno: « Non è questa cosa di ordinaria comunica­ zione. Sia costante fonte di forza morale e ratifichi la nostra volontà di resistere ». Indubbiamente rafforzati dal messaggio del duce, gli italiani rafforzarono le loro difese su entrambe le estremità di quella lunga linea, attendendo che le loro colonne avanzate rientrassero e, inoltre, che si verificasse il primo attacco. Sembrava, all’inizio, che questo sarebbe stato sferrato nel nord. Perfino in epoca così avanzata come il primo aprile gli italiani conta­ vano ancora sulla cooperazione di ras Seyum, continuando a inviargli messaggi rassicuranti per mezzo dell’ufficio Politico di Adua e lusingan­ dolo ancora, con la tardiva offerta di un titolo ormai senza valore. Ma con la caduta dell’Asmara e la ritirata della brigata di Deiitala, ras Seyum gettò la maschera della fedeltà e agì prontamente. Si presentò all’Asmara 482

con 7.000 uomini chiedendo un incontro con il generale Platt e il capo della nuova amministrazione, Kennedy Gooke del Sudan. Platt, diffidente come sempre degli irregolari e degli indigeni, lo mandò via rudemente: non voleva la cooperazione armata di ras Seyum, c’era il rischio di scontri tra i suoi regolari e le orde di Seyum. Gli uomini di ras Seyum erano co­ munque i benvenuti per aiutare come portatori. Se la cosa offese ras Seyum, egli non ne mostrò alcun segno aperto. Stilò una obbediente e amichevole lettera a ras Gassa a Debrà Marcos (non all’imperatore, perché forse sarebbe stato prematuro) e ignorò lo sdegnoso rifiuto di Platt. Dalle montagne del Tigrai, avidi di preda e vendetta uomini armati si portarono sotto le sue insegne. Assieme a Ligg Uossenè, figlio dello Uagscium senza un capo egli ripercorse quello che sei anni prima era stato l’amaro sentiero della sua ritirata puntando come prima mossa contro Socotà nell’Uag, mentre le sue bande armate si apri­ vano a ventaglio a sud, verso Lalibelà, e a est verso Mai Ceu. Solo il suo vecchio nemico, Hailé Selassié Gugsa, teneva ancora innalzata a Macallè, in sfida disperata, la bandiera italiana. Ancora un volta, dietro le appa­ renti battaglie campali italiane e inglesi, ricominciava in Etiopia la vera lotta per il potere. Voci sull’avanzata di ras Seyum e la paura della sua vendetta, incóminciarono a filtrare tra le linee italiane. Disastro a Dessiè

E tuttavia fu proprio all’altra estremità di quella lunga linea, a Dessiè, che si verificarono i primi attacchi. Attorno ai posti avanzati erano esplo­ se, in modo piuttosto terrificante, le azioni dei « ribelli ». Abebè Aregai aveva catturato Debrà Berhan; il battaglione di stanza a Uorrà Ilù, nel­ l’interno, era stato costretto a battere in ritirata, il colonnello Timossi era stato inviato a riorganizzare la difesa di Debrà Sina; e si diceva che Maraventano con i suoi 8.000 uomini avesse attraversato il Nilo. Il 10 aprile il generale Frusci si recò ad ispezionare le difese a Dessiè, convinto che fosse imminente un attacco. Trovò che le difese consistevano in tre linee: le prime due erano a sud di Gombolcià — dove la strada di Assab si con­ giungeva alla Strada Imperiale — la prima linea, 14 chilometri a sud, es­ sendo « difettosa » e la seconda, quattro chilometri fuori Combolcià e di­ fesa da una unità di Camicie nere, molto migliore. La terza ed ultima linea difensiva era posta a soli sette chilometri fuori dalla stessa Dessiè. Frusci era solo in parte soddisfatto di quanto aveva ispezionato e spostò il suo quartier generale da Mai Ceu a Ualdià. A questo punto il generale Cunningham da Addis Abeba diede inizio al suo attacco al morale degli italiani con l’invio di un messaggio al viceré con cui declinava oghi respon­ sabilità per la sicurezza della popolazione bianca di Dessiè. « Ciò sembra significare — segnalò a Frusci il Viceré — che probabilmente le prime trup­ pe ad arrivare a Dessiè saranno le colonne ribelli... Se così fosse, i civili sarebbero in grave pericolo fino all’arrivo delle truppe regolari. » Il Viceré 483

respinse comunque l’implicito ricatto *, e ordinò che i civili fossero evacua­ ti ad Assab. E quando le donne e i bambini con l’aiuto del vescovo, rifiutarono quello spaventoso viaggio e una destinazione peggiore, egli accettò il loro rifiuto e fece venire la maggior parte della guarnigione di Assab al comando del colonnello Raugei a rinforzare le tre linee difen­ sive a Dessiè. Nella settimana che seguì il morale degli italiani mutò enor­ memente — Maraventano si stava avvicinando, non c’era alcuna notizia di Rolle, le incursioni dei « ribelli » aumentavano; il generale Nasi era restio ad inviare la banda Uollo — « la mia migliore unità » — che gli serviva per tenere aperte le comunicazioni fra Debrà Zebit e Gondar; ma su un piano più generale « le operazioni vittoriose delle forze armate italogermaniche hanno colmato le truppe d’entusiasmo e rinnovato il loro morale » 2. Tuttavia sul piano più immediato c’erano gravi problemi. « Ho scoperto — riferì Frusci al Viceré il 15 aprile — parecchie cose che interferiscono con i lavori dello stato maggiore. Tale difetto è dovuto a parecchie cause che sto eliminando. Sembra infatti che il generale Varda ed il colonnello Montagnani siano distratti dai loro doveri dalle attenzioni di due donne che vivono nella stessa casa dello stato maggiore. Trasferendo il settore dello stato maggiore a Combolcià spero di chiarire uno stato di cose che ha causato parecchi commenti sfavorevoli nel distretto di Dessiè. Inoltre ho distaccato al quartier generale di Dessiè un maggiore del mio coman­ do 3. Questo ufficiale, che è ben preparato al suo compito, rileverà l’incari­ co di capo di stato maggiore del colonnello Montagnini che s’è dimostrato inadatto a tale mansione. Il colonnello Montagnini diverrà presidente del tribunale di guerra. Non sono soddisfatto dell’opera del generale Varda. Questo ufficiale non è di alcun affidamento ma al momento non posso sostituirlo, in parte perché l’attacco britannico è imminente e in parte perché non c’è un altro generale con cui sostituirlo. Sarei ad ogni modo anche propenso ad affidare il suo incarico ad un colonnello se si dovesse rendere necessario. » È difficile dire se il generale Frusci sia da compatire per l’incompetenza da cui era circondato o da accusare di non aver preso provvedimenti più severi per sostituire simili incompetenti. Fu il rango che, aiutato dalla convenienza e sostenuto dalla mancanza di tempo, finì per vincere. Varda rimase, con conseguenze disastrose, comandante del settore di Dessiè. Addis Abeba era caduta in mano alle forze di Cunningham il 5 aprile. Solo otto giorni più tardi la brigata sudafricana di Pienaar si dirigeva verso nord. Non che il generale Cunningham desiderasse fare lo sgambetto al generale Platt; il vero motivo era l’assoluta impossibilità di tenere trup­ pe sudafricane, con tutti i loro pregiudizi contro gli « indigeni », in una città dove essi dovevano lottare con i negri contro i bianchi. Gli etiopi d’alto rango venivano insultati quotidianamente; e entro una settimana dalla « liberazione » la gente di Addis Abeba cooperava più con i prece484

denti oppressori che con i nuovi liberatori. Perfino Abebè Aregai nascose ufficiali fascisti italiani dalla polizia militare inglese e sudafricana che era andata per arrestarli 4. Perché l’etiope perdona più facilmente un danno di una offesa. Così i sudafricani si diressero a nord per attaccare Dessiè con in testa, come forza d’urto, i « Campbell’s Patriots », una banda di scioani al co­ mando del tenente Campbell della « Black Watch ». Si mossero da Addis Abeba il 13 aprile e il 17, due giorni dopo il preoccupato resoconto di Frusci, avevano già spazzato via Timossi e le sue camicie nere dal passo di Ad Termaber e da Debrà Sina, al di là di quello, e avevano incomin­ ciato ad attaccare la prima linea di difesa a 14 chilometri fuori di Combolcià. Per quattro giorni, davanti e dietro Dessiè, si susseguirono gli scon­ tri. « Da fonti degne di fede — comunicò Frusci al viceré — vengo a sapere che gli inglesi stanno facendo tutto il possibile per organizzare le forze ribelli in testa alla loro avanzata. Tale obiettivo non è puramente per at­ taccare una posizione dal retro ma per intimidire anche gli abitanti del luogo. » Nella campagna che circondava Ualdià bande numerose di Azebò Galla attaccavano gli abitanti dello Yeggiù, gli Uoggherat. Furono incen­ diati migliaia di tucul e razziati molti capi di bestiame. Il 22 si verificarono diserzioni (accuratamente nascoste) anche tra le Camicie nere del 12° CCNN. Quella notte, tra il 22 e il 23, i carabinieri di Natale attaccarono: la prima linea di difesa crollò. Seguirono trentasei ore di calma mentre Pienaar ed i « Campbell’s Patriots » si preparavano per la mossa seguente. Il 24, poco dopo mezzogiorno gli uomini di Campbell attaccarono ma furo­ no ributtati indietro; quella notte stessa attaccarono nuovamente. Nelle ore che precedettero l’alba del 24 gli ascari disertarono in gran numero dagli italiani, e già nella prima mattinata due unità di Camicie nere s’erano riversate su Dessiè, quasi in preda al panico pur non avendo incontrato il nemico. Il blocco stradale dietro la seconda linea era stato fatto saltare. Il governatore civile di Dessiè segnalò « un po’ di irrequietezza fra la po­ polazione del luogo »; e, meno eufemisticamente, il governatore di Ualdià riferì che la situazione era « allarmante perché le popolazioni dello Yeggiù avevano dichiarato la loro indipendenza dal governo ». Per difendere la terza linea furono riuniti elementi della terza, 11° e 12° CCNN e del 70° Battaglione Coloniale, in tutto duemila soldati soprattutto italiani, appog­ giati dall’artiglieria. Il 26 aprile, come giunse notizia che le posizioni avanzate tanto di Socotà che di Lalibelà erano circondate dai ribelli, Dessiè cadde. E co­ munque, verso l’una, c’erano soltanto 20 veicoli schierati davanti alla terza e ultima linea di difesa e nessuna « forza ribelle » sui fianchi. Anche se sulle prime « il basso morale delle nostre truppe che difendevano la posizione era molto evidente » e « il mio capo di stato maggiore sul posto riferì che la nostra reazione fu lenta e tardiva » tuttavia alle iÌ6 Frusci si senti giustificato di inviare un comunicato più ottimistico: \

« No. 06201. Il mio capo di stato maggiore che si trova sul posto riferi485

see che il colonnello Vanetti ha organizzato la terza linea di difesa, che è molto forte. E che il colonnello Vanetti procede energicamente per ren­ dere la posizione ancora più forte. Sono state inviate pattuglie in avansco­ perta verso Combolcià con l’intendimento di scoprire le intenzioni del ne­ mico... La situazione attuale all’interno di Dessiè è uno stato di inattività. » Un’ora più tardi era tutto finito. Mentre la colonna sudafricana avanzaza, le Camicie nere fuggivano, il vescovo, il governatore civile, e il capo della polizia uscivano con la bandiera bianca; la capitale dell’Uollo, con la sua guarnigione di quasi cinquemila italiani e tremila ascari, con i suoi 25 cannoni e le sue vettovaglie si arrese al generale di brigata Pienaar al prezzo di una perdita complessiva, da parte sua, di nove morti e trenta feriti. Alle 18 quando tutto era finito Frusci inviò un breve ed esplicito messaggio al viceré:

« Segue mia comunicazione telefonica delle 17.45 al tenente Solari e i miei comunicati delle 13 e 16. Il nemico dopo aver superato il blocco stradale attaccò la nostra posizione a sud di Dessiè con fanteria appoggiata da artiglieria. I battaglioni CCNN desistettero dopo breve resistenza. Inol­ tre, i cannoni nemici bombardavano la città. Vedendo che era inutile continuare la lotta abbiamo dato ordine alle truppe di Dessiè di cessare il fuoco per salvare la popolazione civile. »

Il duca d’Aosta reagì con comprensibile acredine: « Non posso — segnalò — far quadrare il vostro ottimistico messaggio 06201 con le notizie catastrofiche di un’ora dopo. La perdita di Dessiè è la fine più ignobile che si possa immaginare ed è chiaro che si è arresa senza combattere. Intendo conoscere chi sia il responsabile di questo vile tradimento. Amedeo di Savoia. »

La perdita di Dessiè significò la fine di ogni speranza di rinforzi, la rottura del tenue collegamento con Gondar, l’abbandono della colonna di Maraventano alla mercè dei suoi inseguitori: ras Cassa e Wingate. Signi­ ficò la fine di qualsiasi ragionevole strategia militare: tra Dessiè e Amba Alagi non c’era alcuna posizione che potesse essere seriamente difesa da­ vanti alla ribellione e all’anarchia crescenti. Significò la fine per il campo di aviazione di Alomatà. Significò l’ultima e forse eroica resistenza, ma disperata. Saggiamente, il generale Frusci cercò di attutire il colpo.

« Capisco bene lo sdegno di Sua Altezza Reale per quanto è successo e accaduto a Dessiè — egli rispose — dai piani fatti e confermati questa mattina sarebbe stato possibile contare su una resistenza di almeno parec­ chi giorni. Le truppe erano poche e provate dopo due ritirate. Cionono­ 486

stante era ragionevole aspettarsi una difesa più virile e più degna degli italiani, soprattutto considerando il tipo di terreno. « Alle 16.30 quando il mio capo di stato maggiore abbandonò Dessiè c’erano già indubbi segni di panico tra le unità CCNN. Ma ciò fu pron­ tamente arrestato con l’azione immediata degli ufficiali. Assicuro Sua Al­ tezza Reale che appena possibile fornirò le prove della responsabilità per questo lamentevole stato di cose che, per la maggior parte, è conseguente alla ritirata dalla prima e seconda posizione. »

E per finire Frusci fece ricadere la responsabilità principalmente sul generale Varda, che s’era assentato:

« Ritirata caotica dovuta — spiegò — alla mancanza di coordinamento che avrebbe dovuto essere eseguito con colonne molto leggere quando la pressione nemica era diminuita. L’ufficiale al comando del settore avrebbe dovuto notarlo e nessun altro ufficiale sul posto lo fece non sapendo che l’ufficiale comandante il settore era andato a Batiè. La caduta di Dessiè avrebbe potuto essere perciò ritardata di molti giorni se il comandante aves­ se compiuto il suo dovere, anche se la sua caduta finale era inevitabile, s « Inevitabile ? » si chiederebbe qualsiasi studioso di storia militare. La posizione di Dessiè era immensamente forte per i suoi difensori, i quali inoltre, superavano di gran numero la sola brigata che li aveva attaccati. Nella guerra (e le campagne d’Etiopia lo mostrano in continuazione) è di gran lunga più importante il morale che il numero delle truppe e delle munizioni; ma il morale, in ogni esercito, dipende in gran parte dall’esem­ pio dato dall’alto. Che cosa successe al generale Varda e alla sua dolce passione (e se questa fosse bianca o nera, leale o sleale) la storia non lo registra. Solo il colonnello Raugei con alcuni dei suoi uomini, fuggì, ritirandosi nel de­ serto della Dancalia, per lì continuare, quasi solo, una guerriglia che diede parecchio fastidio agli inglesi. Frattanto, guidati dai « Campbell’s Pa­ triots », i sudafricani, dopo breve pausa, avanzarono nuovamente; e ai primi di maggio presero Ualdià, poi Alomatà (dove liberarono oltre 150 greci) e infine Quoram. Il fratello di Gina fu tra quelli che si ritirarono mentre quelli avanzavano — la sua precedente baldanza ridotta a un pianto greco. Mentre i razziatori Galla assalivano il campo, gli aviatori distrug­ gevano i loro aerei e si ritiravano da Alomatà verso la montagna. « Abbandoniamo gli aeroplani distrutti sul campo nella notte del primo maggio — scrisse nel suo diario — temiamo un attacco notturno di sorpre­ sa, così carichiamo tutto su un convoglio motorizzato per Mai Ceu... Anche la principale colonna motorizzata si ritira nella notte, giungendo dalla di­ rezione di Addis Abeba. Centinaia di veicoli nell’oscurità delle valli asso­ migliano a un lungo serpente che si torce e ritorce lungo la strada tortuosa. Un lontano ronzio di motori di aerei. Simili spettacoli accadevano sei anni 487

fa. Allora era la conquista dell’Impero. Un esercito conquistatore era in marcia. Oggi, un esercito in ritirata. » Gli aviatori senza aeroplani passarono una fredda umida, notte a Mai Ceu — l’ultima prima di ritirarsi sulla montagna. « 2 maggio. Ripariamo nella valle dove c’è un torrente e vegetazione verde in compagnia di un piccolo gruppo di ragazze sharmite fuggiasche. Suoniamo canzoni abissine su un grammofono; Puliti approfitta dell’occa­ sione per fare alcune fotografìe. Da lontano sentiamo il cupo ruggito delle delle artiglierie che bombardano l’Amba Alagi. »

L’ultimo atto del dramma era già cominciato. Aosta sull’Amba: l’ultima resistenza

Dopo il blocco stradale vicino la chiesa di Enda Medani Alem la Strada Imperiale s’inerpicava con incredibili curve e tornanti su su, fino al Passo Toselli dove a quasi 4.000 metri sul livello del mare, si trovava, vicino la cima dell’Amba Alagi, il forte Toselli, quartier generale del viceré. Il ge­ nerale Mayne, comandante di nuova promozione della quinta divisione indiana, stimò che la sua importanza difensiva era doppia di quella di Cheren. Come a Cheren un intero gruppo di cime era difeso dagli italiani e ribattezzato dagli inglesi: the Pyramid (la piramide), Elephant Hill (la collina dell’elefante), Whale’s Back (il dorso di balena), Middle Hill (col­ lina centrale) e Castle Ridge (cima di castello). Questi picchi si trovavano raggruppati tutt’attorno la roccaforte centrale del forte Toselli, ad ovest del Passo. Ad est si trova un altro gruppo di cime ancora più alte: Gumsa e le Twin Pyramids (piramidi gemelle) che, assieme, formavano il Triangle (triangolo); e circa otto chilometri più a est, sull’ultima catena di colline, oltre cui s’apre l’arido deserto della Dancalia, si trova il Passo Falagà. La « 5th Indian Division » si raccolse piuttosto lentamente e in maniera impacciata5, mandando avanti nell’ultima settimana d’aprile piccole co­ lonne, per mettere alla prova le difese avversarie. Non ci fu mai la minima idea di tentare un’avanzata suicida direttamente su per la Strada Impe­ riale anche se la « Skinner’s Horse » aveva simulato un attacco di quel tipo, mentre una compagnia di mitraglieri della « Sudan Defence Force » prima e poi lo « Highland Light Infantry » aveva saggiato senza succes­ so le difese del colonnello Postiglione sul Passo Falagà e i « Royal Garhwalis » avevano tentato una manovra d’aggiramento sulle montagne del­ l’interno. Il 28 aprile il generale Mayne elaborò il suo piano: stimò le forze ita­ liane in cinquemila combattenti con trenta cannoni, stese su un fronte 488

complessivo di pressappoco 15 chilometri: troppi. E decise, inevitabilmente, di concentrare il suo attacco sul posto avanzato del Passo Falagà. Dopo una lunga e difficoltosa marcia notturna il «51° Commando», una speciale forza d’attacco assegnata al comando di Mayne, si impadroni delle alture a nord e ovest del Passo Falagà. Poi, nella notte del 3-4 mag­ gio, carri armati e carri « bren » della « Fletcher Force » con un attacco in massa raggiunsero quasi, ma non del tutto, la cima del Passo. Frat­ tanto la « 29th Indian Infantry Brigade » quella stessa notte attaccò dalle alture pedemontane occidentali; prima la « Pyramid », poi la « Whale’s Back », poi 1’« Elephant Hill » e infine la « Middle Hill » furono conqui­ state dai « Frontier Force Rifles », dai « Punjabis » e dai « Worchester » e con le colline cadde in loro mano il colonnello Deiitala e il suo stato maggiore. Sembrava proprio la fine, ma non lo era ancora. Gli uomini del duca subirono poche perdite e beneficiarono più che esserne danneg­ giati dalla riduzione del loro perimetro. Una barriera di filo spinato che attraversava la stretta gola, protetta da mitragliatrici, tenne a bada gli uomini di Mayne. Il fratello di Gina si era svegliato prima dell’alba del 4 maggio al rombo degli aerei6 sovrastanti e dell’« artiglieria che ha già aperto il fuoco con il suo fragore che manda i nervi a pezzi ». « Aeroplani sopra di noi — scrisse nel suo diario — in alto e a volo radente, dal mattino alla sera, impossibile accendere il minimo fuoco per fare un po’ di tè. Il nemico sa molto bene che non c’è più un’aviazione in A.O.I. Questa frase si sente dappertutto ed è l’argomento del giorno fra le truppe che devono sottostare alle loro continue incursioni... Aumenta lo scoraggiamento insinuandosi nei soldati come l’umidità della notte s’in­ sinua nelle nostre ossa. » Per tutto il giorno le ambulanze continuarono ad andare su e giù « men­ tre di notte squadre di zappatori scavano fosse nel terreno del piccolo ci­ mitero che un po’ alla volta diventa sempre più grande ». All’imbrunire le mitragliatrici nemiche aprirono il fuoco da distanza ravvicinata dagli aviatori sgomenti. « Buttandoci al suolo, occhi spalancati e la paura nel cuore, siamo spettatori della battaglia in corso che illumina ogni cosa intorno a noi fino a un miglio di distanza. L’oscurità è rotta dai proiettili esplosivi e dalle bombe a mano mentre le pallottole dei fucili si schiacciano attorno a noi. I bombardieri ci sorvolano e da dove siamo possiamo vedere il fuoco intermittente di una mitragliatrice che spara loro contro, dietro una siepe. » L’attacco è spezzato un’ora più tardi. « Il cielo è pieno di nerofumo, tutt’attorno a noi il silenzio quando tutti i fucili e le mitragliatrici cessano il fuoco. Piove. Suoniamo un disco di Chopin op. 62. C’è in noi così tanta tristezza e così tanta ansia perché non possiamo vedere la fine di tutto questo... « Veniamo a sapere dalle truppe in ritirata che i ribelli di ras Seyum sono penetrati oltre Passo Falagà e si trovano ora sotto noi a una o due miglia di distanza. Veniamo a sapere dell’orribile trattamento dei prigio­ nieri che cadono in loro mano. Alcuni sono riusciti a fuggire, completa­

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mente nudi, e a raggiungere le nostre linee e a raccontarci di altri soldati uccisi dalla violenza perpetrata per mano dei ribelli ebbri di sangue e di vendetta. » Lalibelà, abbandonata dal console Muratori, era caduta (come anche Socotà) ; con l’uccisione del Commissario e di una parte della guarnigione italiana, le atrocità (logica conseguenza di quelle passate italiane) furono ingigantite dalle voci, col conseguente terrore per i difensori dell’Amba. Già il primo maggio ras Seyum e i suoi erano stati segnalati a Corbetta, al di sotto di Mai Ceu; quando Frusci abbandonò il suo quartier generale per rifugiarsi con il duca e la sua schiera di generali nelle grotte scavate sull’Amba, ras Seyum occupò Mai Ceu; mentre la « 5th Indian Division » eseguiva le sue corrette manovre tattiche e strategiche, i fianchi della mon­ tagna pullulavano di armati del Tigrai che si avvicinavano agli italiani protetti dai cannoni inglesi e dagli aerei, nello stesso modo che due anni prima gli italiani li avevano asserragliati nel Tembien. Per tutta quella settimana continuarono ad avvicinarsi. Il sette maggio i ribelli spararono al fratello di Gina mentre faceva il bagno. L’otto « svegliati dagli spari dei fucili dei ribelli, li vediamo avvi­ cinarsi nascosti dagli altri già sulla cima della strada, poi i nostri soldati aprono il fuoco con i loro fucili: appartengono tutti a unità diverse e sono senza controllo e senza ordini. Come sempre gli ufficiali sono tutti al riparo nelle grotte, inconsci, al presente, delle loro responsabilità ». Il 10 maggio apparve « l’alba di un nuovo giorno, una grigia alba che ci sor­ prende vicino alle nostre mitragliatrici, pallidi e stanchi dopo una notte insonne anche se tranquilla... Verso le otto pattuglie di ribelli di 15-20 uomini avanzano e si impadroniscono di alcune nostre posizioni. Il nostro fuoco è rallentato poiché i ribelli si confondono con alcuni dei nostri sol­ dati che sono stati fatti prigionieri e che sventolano bandiere bianche. Da dove sono posso vedere soldati che al posto di rifornimento si accalcano sugli autocarri sventolando bandiere bianche e scendendo la strada per arrendersi. Alcuni ufficiali danno l’esempio alzando le mani sopra la testa... Mi porto sulla strada e ho appena il tempo di afferrare qualche indumento dalla mia valigia e saltare su un autocarro che mi porta più in là, verso la collina, verso il Passo Toselli. Qui trovo il capitano Barozzi già como­ damente sistemato in una grotta. Tutti gli altri uomini della nostra unità sono stati fatti prigionieri... Dall’ospedale una fila di autoambulanze piene di feriti si dirige verso Mai Ceu ora in mano agli inglesi. Ciò significa che non abbiamo alcuna scorta medica su cui contare per i feriti e per gli ammalati che affollano completamente l’ospedale. I soldati sono consci di ciò e forse è per questo che combattono con tanto poco vigore. In realtà non combattono ». Che cosa facevano intanto Amedeo d’Aosta e i suoi generali? Rinserrati giorno e notte nelle loro grotte, come asserisce il fratello di Gina? Non così, perché nonostante le diserzioni, le perdite e lo scoramento c’era an­

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cora un forte contingente bene armato e con buoni rifornimenti che oc­ cupava posizioni quasi imprendibili proprio sull’Amba Alagi e sull’altro lato del Passo, nel « Triangle ». Bombardamenti e cannoneggiamenti non vincono mai un esercito ben trincerato; e benché l’otto di quel mese il Passo Falagà cadesse alla fine sotto un attacco deciso degli « Indiani », gli uomini di Mayne non poterono più avanzare su entrambi i fianchi. Con loro disappunto la « 5th Indian Division » dovette aspettare l’arrivo da Dessiè dei sudafricani di Pienaar prima di poter definire l’attacco finale. Campbell si congiunse con ras Seyum a Mai Ceu il 7 maggio; i suda­ fricani arrivarono tre giorni dopo. L’undici, durante una breve pausa dei combattimenti, Mayne si recò in volo ad accordarsi con Pienaar; il 14 i sudafricani assaltarono il « Triangle » da sud. La difesa di Postiglione li tenne a bada, ma gli uomini di ras Seyum, irrompendo da tutti i lati e nel mezzo, si avventarono ad ondate, con estremo ardimento, contro le mitragliatrici e il filo spinato dei difensori lasciando i bianchi, che avan­ zavano strisciando, strabiliati dal loro coraggio. Fu così che le « Pyramids » e quindi tutta la posizione furono espugnate. E all’alba del giorno suc­ cessivo gli invasori dal nord si congiunsero finalmente agli invasori da ovest mentre i « Garhwalis » salivano attraversando il « Triangle » per lanciare un primo assalto sul Passo e sulle ultime opere difensive davanti all’Amba Alagi. « Dopo due giorni di vita sottoterra — scrisse il fratello di Gina nel suo ultimo resoconto completo — esco alla sera come un pipistrello ma con le membra rattrappite e con dolori reumatici. Sono agli ordini del capitano Barozzi, che è al comando di alcune postazioni di cannoni sulla pendice meridionale dell’Amba... Credo che il mio peregrinare sia giunto alla fine perché, nella posizione in cui mi trovo, non posso ritirarmi ulteriormente e sarò preso prigioniero quando l’intero Amba Alagi cadrà. » E così fu. Il generale Mayne progettò un assalto combinato di tutte le forze al suo comando per il 17 maggio. L’assalto non ebbe mai luogo. Il 16 il duca d’Aosta inviò emissari a piedi per trattare con gli inglesi: una piccola de­ legazione guidata dal suo aiutante di campo generale Volpini. Furono uc­ cisi dagli uomini di ras Seyum prima di raggiungere le forze britanniche *. Dove, come e soprattutto perché non ci è dato sapere: fu probabilmente un errore, perché non era certo abitudine degli uomini del Tigrai uccidere, ma spogliare, gli italiani che si arrendevano. L’inutile morte del suo amico d’infanzia spezzò il cuore al duca. Il co­ lonnello Russell dello stato maggiore del « 5th Indian » raggiunse il Forte Toselli per condurre negoziati con lui; dapprima Amedeo chiese che la guarnigione italiana rimanesse in armi sull’Amba ma non belligerante. Secondo il colonnello A.J. Barker, presente nella campagna d’Etiopia, probabil­ mente furono uccisi da predoni che razziavano alle spalle dei partigiani abissini (Eritrea 1941} [N.d.C.].

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Gli fu rifiutato, ma fu garantito il diritto di arrendersi con tutti gli onori delle armi. Il 19 maggio la guarnigione dell’Amba, ancora con i suoi 5.000 uomini, scese sfilando davanti ad una guardia britannica d’onore; e il duca d’Aosta dopo aver ammainato la bandiera italiana inviò a Roma l’ultimo tele­ gramma. « Lascio il comando — telegrafò — ringraziando Voi, Duce, che in un anno di dura lotta sempre mi concedeste l’ausilio del Vostro Consenso et della Vostra Fiducia. Non è finita la guerra. In queste terre, ancora una volta iridate del sangue italiano per la maggiore grandezza della nostra patria, presto ritorneremo. » Araldo più veritiero del futuro fu l’enorme busto di pietra di Mussolini, rovesciato dal suo piedestallo e che giaceva in terra per traverso vicino al deposito di munizioni del Forte Toselli, ormai catturato.

Post-mortem

Né gli italiani né il duca dovevano più ritornare in « queste terre ». L’ultimo duca di una casa reale, gli Aosta, che condusse un esercito italiano in battaglia, fu mandato dal generale Platt all’Asmara e in seguito trasfe­ rito come prigioniero di guerra nel Kenya. In prigione fu trattato bene, ma morì miseramente di tubercolosi nel marzo dell’anno seguente — Amedeo duca d’Aosta della Casa dei Savoia POW 1190*. L’Amba aveva appena fatto in tempo a cadere che gli inseguitori cir­ condarono la colonna braccata di Maraventano. Il 22 maggio, dopo una battaglia di quattro giorni, egli si arrese a ras Cassa ed a Wingate. « Così finì - scrisse ammirato il colonnello Platt — quella che doveva esser stata per tutta la sua colonna una fuga estenuante e disperata attraverso quella montagnosa regione, piena di etiopi ostili. » Dopo l’Amba Alagi i « South Africans » e la « 5th Indian Division » seguirono la « 4th Indian Division » nel deserto occidentale, nella battaglia contro Rommel, lasciando soltanto truppe coloniali di colore a combattere le ultime battaglie di una guerra puramente africana. Per molte settimane gli invasori furono bloccati nelle foreste a nord di Neghelli dalla valorosa difesa del XXI; ma quando i «Nigérian» scesero da Addis Abeba nel nord, l’intera posizione italiana ad est dell’Omo si spezzò. Ad ovest dell’Omo Gurassù Duché con migliaia di seguaci marciò su Gimma; e mentre Mesfin Silescì e Yagiacc Chebedde scendevano da Lechemti alla testa di orde di « patrioti dell’ultima ora », il generale Gazzera ed il suo stato maggiore, ritirandosi verso ovest, s’arresero ai Belgi. Nessuno, nonostante le paure, fu mangiato dai congolesi. * Pow = prisoner of war, prigioniero di guerra [N.d.C.]. 492

Isolato a Debrà Tabor, il colonnello Angelini si arrese al fitaurari Burrù, a McLean ed a Pilkington; Pilkington arruolò la banda Uollo di Farello ( « le migliori truppe » di Nasi ! ) sotto il suo comando ; McLean fece lo stesso col 79° battaglione coloniale, tramutatosi così nel « 79th Foot ». Il generale Nasi resistette da solo a Gondar fino alla fine delle piogge e s’arrese agli inglesi ed alle forze del principe ereditario solo dopo un’ulti­ ma, aspra battaglia vicino al lago Tana. Con la sua resa termina la storia dell’Africa Orientale Italiana. Per quanto riguarda gli etiopi, di come Hailé Selassié ristabilisse il suo potere e si sbarazzasse alla fine degli alleati britannici; di come fosse libe­ rato ras Immirù; di come scoppiasse una rivolta nel Tigrai mettendo in pericolo di vita di ras Seyum; di come Blatta Taclè UoldeHauariat intri­ gasse e fosse imprigionato; di come il Sultano dei Dancali arrivasse alla pace; di come un falso imperatore Teodoro sorgesse nel sud-ovest; di come Ligg Johannes e Hailé Selassié Gugsa fossero arrestati e imprigionati fino ad oggi ; di come « Ligg » Belai Zellecà e altri fossero impiccati ; di come UoldeGiorgis il segretario divenisse il vero detentore del potere dietro al trono e cadesse quindi in disgrazia; di come nel 1960 ras Seyum e ras Abebè Aregai fossero uccisi nella stanza verde del piccolo Ghebbì; di come, più tardi ancora, Blatta Taclè Hauariat morisse in età avanzata, mitraglia­ trice in mano; di come l’imperatore sopravvivesse a tutti i suoi rivali e buona parte dei propri figli per finire deposto dall’esercito che aveva creato in età molto avanzata; di come il figlio di ras Desta, Ligg Iskander, ras Mesfin Sileshi, l’ultimo dei figli di ras Cassa, ras Asrate Cassa e Ligg Endellacciù Maconnen, erede del bituoded Maconnen fossero bestialmente uccisi con il resto dell’alta nobiltà dell’impero da quegli stessi ufficiali nel novembre del 1974; di come l’impero venisse ancora una volta abolito: tutto questo è un’altra storia, parte della perenne storia d’Etiopia, e non è qui che può essere riferita.

NOTE AL CAPITOLO SECONDO

1. II titolo che veniva dato collettivamente ai nobili che discendevano da Saiomone e Saba. 2. Questa affermazione è curiosa. Perché Tafari era considerato l’erede al trono? Thesiger non ne dà spiegazione. Era semplicemente perché sia la delegazione inglese che quella francese appoggiavano a quell’epoca il francofilo Tafari? 3. Chiunque si fosse rifiutato di accettare il messaggio sarebbe incorso, disse VAbuna, nella collera del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e nell’ana­ tema dei 12 apostoli e dei 318 Padri del Concilio di Nicea e colpito dalla maledizione di Ario e dalla dannazione di Giuda. E aggiunse Matteos : « E con le mie umili parole io lo scomunico ». 4. E anche dal Conte Colli di Felizzano, il decano dei corpi diplomatici, che non si rendeva certo conto di che tipo di sciagurato servizio avrebbe reso al suo paese. 5. Questa cifra comprendeva i giovani guerrieri delle nuove province conquistate da Menelik nel sud. Le divisioni più importanti erano quelle del ras Tafari: (16.000 uomini dell’Harar), del ras Cassa (16.000 di Salale), del ras Demissié (12.000 dell’Uollo) e del sultano Abba Gifar (12.000 di Gimma). 6. Il Conte Colli, il ministro italiano, scrisse : « Stasera il sangue scorre nella cacapitale, e le mani e i volti ne sono imbrattati, ma non è più il sangue degli uomini del Negus Mikael, è quello della capra e del bue che sono stati immo­ lati... ogni donna della città ha fatto ressa al Janhoy Meda per accogliere i soldati. Tafari ha inviato doni di tegg e talla. Senza dubbio quest’estate man­ cherà la carne e ci si dovrà sfamare per lunghi mesi quest’inverno ». Questa citazione è presa dal libro di Mosley su Hailé Selassié ed egli è il solo scrittore che dia una cronaca dettagliata della battuta di Sagalle. Sfortuna­ tamente non ne cita la fonte ma sembra probabile che la sua cronaca sia stata redatta sulla base del rapporto scritto dal conte Colli,· certamente non ve ne è alcuna traccia negli archivi inglesi. 7. Citazione di George Steer, corrispondente del Times nel 1935. 8. Il ftaurari HapteGiorgis commentò a questo proposito: « Adesso siamo sotto l’occhio vigile e malefico dello straniero ». 9. A Londra in quel momento c’era un’ondata di caldo e gli etiopi che erano vestiti molto pesantemente nel loro jodhpurs e sciamma furono accolti a Lon­ dra da una folla impietosita per quel che dovevano soffrire così abbigliati dato il gran caldo. A Roma, meno pietosamente, circolavano barzellette sul lancio di ossa nel corso del banchetto reale a danno dei servitori e dei tappeti. Co­ munque i mantelli e gli ombrelli da cerimonia diventarono famosi dappertutto. 10. Oltre a molte altre zone dell’Etiopia. Da Magi nel sud-ovest il console Hodson riferì che la situazione politica « era poco tranquilla » insieme alle voci che Zauditù era morta e che c’era un forte desiderio per un ritorno di Ligg Yasu. Pare che i capi locali dicessero che « se Ligg Yasu è vivo, vogliamo che egli sia l’imperatore e se è morto mostrateci la sua tomba ». 11. Ras Chebedde dopo la sconfitta del Negus Mikael era stato nominato governa­ tore dell’Uollo. Ma nel 1927 ras Tafari aveva nominato il giovane figlio AsfaUossen governatore dell’Uollo con il titolo speciale di Meredasmacc. Quale nipote del Negus Mikael, il giovane AsfaUossen potè far conto su un grande appoggio; perciò Immirù era tecnicamente Yenderassie o l’alter ego di Asfa­ Uossen. 12. Aialeu si sposò con Manalibish, una figlia di ras Cassa. Suo fratello Admassù

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con il quale ras Gugsa Uule aveva dei rapporti decisamente migliori si sposò con Irbane Uorq, una figlia del ras Hailù. La loro madre Uoizerò Gessassash era una prima cugina di Taitù. 13. Naturalmente l’opportuna morte dell’Imperatrice sollevò molti sospetti. Ufficial­ mente fu detto che ella era morta durante un lungo digiuno, essendo già am­ malata. Il dr. Germain, il capo medico dell’ospedale Menelik a Addis Abeba le aveva consigliato tranquillità e normalità. Ma essa continuò a fare il bagno in acqua fredda, prese la polmonite e morì. Ufficialmente si disse che era morta di dolore nel ricevere la notizia della morte del suo precedente marito, nel successo del quale aveva segretamente sperato. Ci furono naturalmente voci di avvelenamento.

NOTE AL CAPITOLO TERZO

1. Thesiger con la pedanteria di un giovane studente della vecchia Eton non approvava questi nuovi intrusi. « Durante dieci febbrili giornate » scrisse « ho partecipato a processioni, ceri­ monie e ricevimenti di stato e infine ho assistito all’incoronazione da parte del Patriarca di Hailé Selassié quale Re dei Re di Etiopia... Ho visto le strade affollate di uomini delle tribù provenienti da tutte le parti dell’Impero. Ho rivisto gli scudi e i costumi luccicanti come li ricordavo dalla mia infanzia. Ma il mondo esterno si era intromesso... C’erano giornalisti che spingevano per fotografare l’Imperatore sul suo trono e i preti che danzavano. Mi fu dato uno spintone da uno di essi che urlò ’’Fai posto agli Occhi e agli Orecchi del Mondo” ». 2. C’era anche un certo capitano De Witlin dalla Svizzera « un ufficiale di artiglieria» la cui artiglieria nel 1935 consisteva in sei cannoni tradizionali ad Auasc sul percorso della ferrovia che gli Austriaci nel 1919 avevano cercato di dare a Ligg Yasu. L’aiuto svizzero pare che venisse concesso a livello semiufficiale, secondo le migliori tradizioni mercenarie svizzere; e la banda, che in quell’occasione si dimostrò molto più efficiente dell’artiglieria, aveva anch’essa un aspetto terribilmente svizzero. 3. La Russia aveva avuto delle relazioni molto strette con i cugini ortodossi d’Etio­ pia fin dall’epoca dell’insolito tentativo di fondare « La nuova Mosca » nel 1885. Nel 1886, al seguito del capitano Leontiev era apparsa sulla scena una « Missione militare e sanitaria » di notevoli proporzioni comandata da un ge­ nerale. Al suo ritorno in patria Leontiev fu scortato dal fitaurari Damteu, i cui due figli avrebbero raggiunto più tardi un grado molto alto. 4. Il declino dell’influenza francese irritò molto i francesi residenti in Etiopia quali il famoso romanziere francese Henri de Monfreid. Quanto segue è la sua amara descrizione di Addis Abeba negli anni Venti: « Addis Abeba est une étrange ville submergée par le feuillage sans reicheur, d’une forêt d’eucalyptus... Au temps où Menelik fonduit cette ville dans la plaine de Filoa, tantôt fangeuse tantôt poudroyonte selon la saison de ce climat extrême, l’Ethiopie avait gardé toutes ses moeurs archaïques. Aujourdhui... Ta­ tari qui en sa première jeunesse alors qu’il n’était que Dejaz d’Harar donnait tant d’espoirs à ceux qui aimaient l’ancienne Ethiopie a perdu au milieu d’une cour burlesque de flatteurs éhontés les notions des réalités. Tout ce que le vieux évêque Jarousseau avait péniblement refréné en cette âme byzantine, toute cette tourbe remonta en surface et, avec le pouvoir absolu, détruisit les dernières velléités d’une conscience sans forme. Il y avait a cette époque à Addis deux partis opposés: celui de l’imperatrice avec les vieux Abyssins fidèles au maître défunt Menelik et certains commer­ çants français ou suisses arrivés aux temps Arrouiques d’Ilg et de Chef neaux... Quant au parti opposé, celui de Tafari, il comprenait tout le rest, c’est à dire la foule des intrigants, des aigrefins et des métèques, montés à l’assault du vieil Empire dès le jour où le rail franchit les montagnes ». 5. Le sue origini non erano altrettanto nobili - era originario di Marabete - ma era uno scrittore di talento. Nel corso della sua vita scrisse 28 libri di viaggi, di storia e poesia. \ 6. « Se Tafari vuole che mandiamo i nostri figli a scuola, » aveva logicamente osservato un vecchio nobile « allora deve permetterci di tenere degli schiavi per guardare il nostro bestiame. » 7. Le sue quattro figlie non ancora ventenni si chiamavano Elsie, Sarah, Rebecca e Susie. È molto strano invece che il figlio maggiore, in questo caso di madre

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inglese, fosse l’unico con un nome etiope, ed anche uno strano nome se si pensa all’infanzia del dr. Martin: Teodoro. La storia non ci ha lasciato una documentazione di quello che offrì sir Sidney Barton. E sembra anche fra la seconda figlia dell’Imperatore, la principessa ZenabeUorq e un nipote di ras Hailù a nome Mammo. Che era un grande confidente dell’Imperatore, molto invidiato e odiato, il qua­ le nel 1917 era entrato nel monastero di Debrà Libanos con Destà Damteu ma come questo ultimo era stato richiamato quando il potere di Tafari aveva co­ minciato a espandersi. Molti rapporti consolari giunsero in Eritrea invece che alla legazione di Addis Abeba, il che era un costante motivo di attrito.

NOTE AL CAPITOLO QUARTO

1. I dervisci mandarono la testa dell’imperatore Giovanni a Khartum, un dono, che come ricorda Churchill: «inebriò di gioia il Khalifa ». Quando Kitchener riconquistò Khartum fece decapitare e tagliare a pezzi il cadavere del Mahdi. Le due teste furono sepolte insieme al confine settentrionale del Sudan a Uadi Haifa - dove, per quel che mi risulta, si trovano tuttora. 2. Circa mezzo milione di Tigrini vivevano in Eritrea; al di là del Mareb nel Tigrai vivevano un altro milione di persone che parlavano tigrino. 3. Chiaramente discritti da Thesiger come « cacciatori di teste che colleziona­ vano testicoli invece di teste ». I Dancali sono divisi in due grandi gruppi nomadi, gli Addaimara nel sud vicino alla ferrovia e gli Assaimara al nord intorno alle oasi di Aussa. Il sultano Abu Bakr degli Addaimara era stato un grande sostenitore di Ligg Yasu al quale aveva dato in sposa la figlia Fatumata. Fu ucciso nel 1916 in un combattimento alle porte di Harar e Fatumata con il figlioletto cercò protezione presso i francesi. Questo figlio di Ligg Yasu mezzo dancalo che si chiamava Menelik fu tenuto sotto controllo dai fran­ cesi nella città di suo zio a Tadgiourah sulla baia di Gibuti. Era uno dei molti figli di Ligg Yasu le cui rivendicazioni al trono si sarebbero potute sfrut­ tare in seguito. Ma con la morte di Abu Bakr, il capo dei rivali Assaimara, nominalmente un tributario dell’Uollo, divenne il più importante capo il sultano Mohammed Yayo di Aussa che a modo suo era un grande uomo, dancalo. Nel 1933 il giovane Thesiger si mise in viaggio per esplorare il paese dei Dancali dove Munzinger, Giulietti e Bianchi avevano trovato la morte e solo Nesbitt nel 1928 era sopravvissuto. Thesiger incontrò Mohammed Yayo, con la allarmante scorta di quattrocento Dancali, nella pianura di Galaface, « parlò poco e non sorrise mai, ci furono lunghi intervalli di silenzio. Aveva un’espressione intelligente, orgogliosa e autorevole ma non crudele». Thesiger lo definì «questo tiranno sospettoso»; George Steer, un po’ più originalmente, lo definì « un uomo basso di statura con un piccolo kilt e un lungo coltello ». 4. Molti Tigrini del Tigrai vero e proprio erano stati reclutati per le campa­ gne di Libia. Più tardi gli italiani si dovevano pentire di aver addestrato per il nemico « un forte nerbo di uomini ben istruiti e molti graduati ». 5. Il nome « somalo » sembra derivi dalla frase « su mal » « Vai a prendere il latte ». 6. Questi dati sono del 1939. 7. Il console italiano ad Harar, Sampini, aveva cercato di corrompere GabreMariam ma senza successo così cercò di sollevare una rivolta dei Dancali e di liberare Ligg Yasu. Da parte sua Hailé Selassié nel 1934 invitò Olol Dinle ad Harar e cercò di por fine alla sua fedeltà verso gli italiani. Ma sembra che il console italiano lo trattasse con più tatto e gli promettesse più soldi e armi dell’arrogante GabreMariam. 8. Sciftà in amarico significa bandito. 9. Questi termini non erano così provocatori come potrebbero sembrare. Solo due mesi prima c’erano stati incidenti che avevano coinvolto il consolato italiano a Gondar. Gli etiopici avevano fatto le loro scuse, avevano allonta­ nato il capo della polizia locale pagando un indennizzo. Chiaramente, questa volta le cose stavano ben diversamente. \

NOTE AL CAPITOLO QUINTO

1. Comunque sin dalla fine del 1932 il ministero delle Colonie aveva emesso ordini segreti affinché l’addestramento militare degli eritrei fosse intensificato; solo ai musulmani doveva essere insegnato come usare le mitragliatrici. Nel 1933 cominciarono ad arrivare in Eritrea carri blindati e fu dato ordine di congedare le reclute originarie dell’Etiopia in quanto la loro fedeltà all’Italia non era affatto sicura. Ma fu solo all’inizio del 1934 che il comandante dei reali corpi di Eritrea, Pirzio Biroli, e l’addetto militare a Addis Abeba, Calderini, furono richiamati a Roma per colloqui. 2. Benché la questione di una crisi economica sia più discutibile. Il 1931 e il 1932 furono anni di bancarotta, di salari ridotti e di disoccupazione massiccia. Nel 1933 ci furono molti scioperi contadini. Gli effetti - e soprattutto il problema di un proletariato rurale disoccupato - perduravano e, con l’immi­ grazione negli Stati Uniti tenuta sotto più stretto controllo, molti intravidero come unica soluzione la colonizzazione oltremare. 3. Si dice che nel 1943 Mussolini, ricordando i suoi colleghi, esclamasse: «Balbo? Un grande alpino, un grande aviatore e un autentico rivoluzionario. Il solo che sarebbe stato capace di uccidermi ».

NOTE AL CAPITOLO SESTO

1. Che fu ambasciatore dal 1930 al 1933. Kirkpatrick che si trovava con lui scris­ se: « Un diplomatico della vecchia scuola. Il rifiuto del governo britannico di accogliere la richiesta di Mussolini fu la prima causa dell’incrinatura delle re­ lazioni anglo-italiane ». « In quel periodo della sua vita, » aggiunse « il Duce aveva un notevole fascino e non era privo d’umorismo ». 2. Ben più importante fu il rapporto Maffey scritto per il Foreign Office da un gruppo di esperti con a capo sir John Maffey che aveva assistito all’in­ coronazione di Hailé Selassié. Fu fatto circolare nel giugno 1935 e conclu­ deva dicendo che: « Per quanto riguarda gli interessi inglesi è del tutto indifferente se l’Etiopia rimarrà indipendente o se sarà assorbita dall’Italia ». Non appena Drummond ricevette il rapporto gli italiani ne furono in pos­ sesso. Sembra che l’importanza di questo rapporto nel far procedere Mussolini fosse seconda solo alle garanzie segrete fornite da Lavai. 3. Contemporaneamente sir Eric Phipps, ambasciatore inglese a Berlino, sugge­ riva di dare a Hitler il Tanganica — che perlomeno spettava agli inglesi farlo. 4. Uno dei quali era comandato da Mesfin Silesì il cui padre il cagnasmacc Silesì aveva comandato il Mitraya Zabagna nella pianura di Anchim. 5. Più o meno alla stessa epoca il fitaurari Burru UoldeGabriel cadde in disgra­ zia. Il ras Mulughietà fu richiamato a Addis Abeba per ricoprire la carica di ministro della guerra. Il degiacc Maconnen Endellacciù fu mandato nell’Illubabor. 6. Questa fu una visita che Hailé Selassié ritenne estremamente importante. Fece ricostruire il ghebbì di suo padre per ospitare gli ospiti reali ricalcando lo stile della casa di lord Noel-Buxton a Norfolk che egli aveva visitato nel cor­ so della sua visita ufficiale nel 1924. I mobili furono importati direttamente da Waring e Gillow e la Guardia di Addis Abeba fu messa a lavorare alla costruzione del nuovo palazzo — che fu chiamato il Piacere del Principe o Pic­ colo Ghebbì - che fu pronto pochi giorni prima dell’arrivo del Principe Eredi­ tario. Quando il principe ereditario Gustavo Adolfo partì l’Imperatore vi si tra­ ferì dal Grande Ghebbì di Menelik nel nuovo palazzo. Al suo ritorno da Pa­ rigi il begerond TaclèHauariat sollevò delle obiezioni in parlamento per queste spese — costa un milione di dollari — e fu pertanto mandato a governare il di­ stretto modello di Chercher vicino a Diredaua. 7. Con disgusto dei belgi. George Laloux un inviato belga e trafficante d’armi riferiva : « Je dois enfin vous signaler qu’au moment où je quittais Addis Abeba arri­ vaient dans cette ville 5 officiers suédois, 1 capitaine et 4 lieutenants... On s’étonnait à juste titre parmi les membres de la colonie Européene que le Ne­ gus se soit addressé pour ces functions à des officiers d’une autre nationalité. Ce manque logique s’explique peut-être tout simplement par le désir de l’Em­ pereur de partager ses faveurs entre differents pays. Gela me parait assez bien dans sa manière, s’il m’est permis d’exprimer uru: opinion à ce sujet. La présence du Général de Virgin à ses côtés au Ghebbi n’aura sans doute été sans influencer sa décision ». 8. Gli altri scolari che si distinguevano erano Negga Hailé Selassié « all’altezza di Kiflé in quanto a capacità decisionale e persino più intelligente. Però era più impulsivo, più veloce a capire, più delicato e più attaccato ai vecchi pregiu­ dizi » ; Chetemmà Becha, un ragazzo energico e entusiasta, capace di forti sim­ patie e antipatie che esternava a differenza dei suoi compagni : « Se fosse stato uno svedese sarebbe indubbiamente nato nella parte a sud di Stoccolma » ; e il diciottenne Belai Haileab, piccolo, dignitoso, severo e patriottico.

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9. Come arrivarono gli avventurieri se ne andarono gli antropologhi. Il professor Evans Pritchard dovette rinunciare al suo programma di vivere per due anni fra i Galla e ritornò a dedicarsi ai Nuer del Sudan - questa fu una grande sfortuna in quanto sembra non ci siano studi antropologici in alcuna lingua della cultura Galla. 10. Janssens riferì da Addis Abeba: «Je dois reconnaître que les délégations ici m’ont paru assez molles. Il ne m’étonnerai nullement si un jour ou autre nous voyions débarquer ici des officiers allemands ». Una profezia che sem­ brava momentaneamente giustificata in agosto quando un certo generale Kundt di nazionalità boliviana ma nato a Danzica passò brevemente sulla scena etiope. 11. Di loro iniziativa o con il benestare del governo turco? Questo punto non è chiaro. Nell’agosto del 1935 un incaricato d’affari turco e un addetto militare arrivarono ad Addis Abeba. Sembra pertanto probabile che si trattasse di una mossa semi-ufficiale. 12. Che Steer con un totale disinteresse per la cronologia descrisse come un uomo di 45 anni e figlio bastardo dell’imperatore Teodoro. 13. Egli scrisse pensando all’Eritrea che « si dimenticava il grande ascendente del quale godevo presso gli ascari eritrei ». 14. In campo rivale c’era un numero ancora maggiore di giornalisti stranieri e per interi mesi Addis Abeba ne brulicò. Ma molto raramente era permesso loro di lasciare la capitale e per la fine dell’anno la maggior parte avevano già esaurito il loro conto spese concesso dagli editori e ritornarono a casa. In questo periodo il mondo intero veniva sommerso dai rapporti inviati da Addis Abeba e dalI’Asmara. 15. Nell’aprile del 1936, 298.821 soldati e lavoratori, 19.233 animali, 5.000 veicoli motorizzati e 207.219 tonnellate di materiale erano già stati trasportati via mare dall’Italia in Africa, cinque sesti diretti in Eritrea. Badoglio aveva det­ to che la preparazione amministrativa avrebbe richiesto due anni e De Bono aveva solo dieci mesi a disposizione. 16. L’Afenegus Aregai, un figlio di ras Gobana, sposato alla sorella di ras Seyum Uoizerò Almaz, aveva avuto la nomina particolare di Nevraid, vale a dire il comando civile e spirituale della città santa di Axum. Nel luglio 1934 era pas­ sato attraverso Dessiè con 100 soldati e due mitragliatrici per dirigersi alla capitale dove suo figlio barambaras Abebé Aregai era capo della polizia. 17. Alle undici lo spiazzo di fronte al Ghebbì era pieno di soldati; quattro servi­ tori portarono il Negaret del Negus Neghesti; due portabandiera neri come il carbone rimasero in piedi da entrambi i lati mentre un quinto servitore lo batteva ripetutamente con un bastone di legno e quando il ligaba Tasso ebbe finito di leggere ad alta voce Vauagg imperiale che proclamava la mobilita­ zione, migliaia di spade in aria luccicarono sopra migliaia di guerrieri urlanti.

NOTE AL CAPITOLO SETTIMO

1. Il Primo Corpo d’Armata di Santini era composto da due divisioni, la «Sa­ bauda » e la « 28 Ottobre » oltre alla sesta « Montagna » di Camicie nere e due battaglioni indigeni, mentre l’avanguardia era costituita dalla Banda Scimenzana. Il Secondo Corpo d’Armata di Maravigna era composto di una sola divisione al completo, la « Gavinana », da tre .battaglioni che raggruppava­ no la fanteria italiana regolare (un battaglione di Granatieri di Savoia, uno di Alpini e uno di Guardie di Frontiera) ; inoltre sei battaglioni indigeni e l’avanguardia formata dalla Banda Serae. Il corpo eritreo di Pirzio Biroli era senza dubbio il più forte. Ne facevano parte la Prima e la Seconda Divisio­ ne eritrea, affiancate da una terza, la « 23 Marzo » e dalla Prima Camicie nere, « Diamanti », più quattro squadroni di cavalleria eritrea e la Banda Harrarino come avanguardia. 2. « Faccetta Nera Bella Abissina Aspetta e spera Che già l’ora s’avvicina Quando saremo Vicino a te Noi ti daremo Un’altra patria E un altro Re ». 3. Nel Beghemder il degiacc Latibelù Gabriet aveva scritto all’Imperatore per informarlo che ras Cassa non si dimostrava per nulla alacre nell’organizzare il suo esercito. Nel Goggiam, secondo il console italiano prima dello scoppio della guerra si delineavano tre fazioni: alcuni desideravano entrare in guerra quanto prima, altri, molto più numerosi, erano disposti a contribuire finanziariamente ma preferivano restarne fuori, altri ancora attendevano solo il momento « di libe­ rare il Goggiam dal gioco scioano ». 4. Mussolini stesso fu anche ministro della Guerra dal 1933 in poi. In quel mo­ mento era anche ministro delle Colonie, carica che ricopri per poco tempo, con Lessona come sottosegretario. 5. « Un tipo maledettamente in gamba » lo definì Mortimer Durand, un giorna­ lista americano inviato speciale al seguito del Corpo di spedizione italiano. 6. L’ 11 ottobre l’assemblea della Società delle Nazioni condannava l’Italia come paese aggressore, con 50 voti contro 4 (Austria, Ungheria, Albania e Italia). Il 19 ottobre l’assemblea votava di far cessare l’embargo delle armi all’Etiopia, di non concedere prestiti o far crediti all’Italia, di non importare merci ita­ liane, lingotti d’oro, d’argento e denaro, di aiutare le piccole nazioni che avrebbero potuto essere danneggiate da queste misure, e soprattutto porre l’embargo sull’esportazione in Italia di quasi tutti i tipi di prodotti. L’Egitto, il Liechtenstein e il Brasile decisero di mettere in atto solo alcuni di questi provvedimenti, mentre l’Albania, l’Austria, l’Ungheria e il Paraguai furono con­ trari a tutti. Sia gli Stati Uniti che la Germania non erano stati membri della Società, ma applicarono volontariamente e alla lettera, la politica delle san­ zioni. 7. Gli italiani avevano 100 aerei in Somalia e circaalfri 300 nel nord. 8. Si decisero infine a partire per Gibuti il 25 ottobre. M. Besse, membro del consolato francese, fu nominato garante degli interessi italiani. D’Agostino, l’unico impiegato italiano che ebbe delle noie, era stato trattenuto dal degiacc degli Arussi Amde Mikael perché sospettato di essere una spia. Quando ar-

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rivo ad Addis Abeba fu ospitato in un villino che era situato nel quartiere di ras Desti. L’ambasciatore italiano a Parigi, Cerrutti, protestò presso l’ambasciatore belga perché soltanto il ministro belga, a differenza del resto del corpo diplomatico, non si era recato alla stazione a render omaggio al conte Vinci che partiva. Queste sono le meschinità sempre presenti nella storia della diplomazia. Il 9 ottobre gli Etiopi comunicarono agli ufficiali belgi che avrebbero potuto restare tutti in Etiopia tranne uno, il capitano Systermans che, secondo loro, era troppo amico dell’ambasciata italiana. Il maggiore Dothee si oppose con forza all’esclusione di Systermans; egli, assieme agli altri ufficiali belgi (escluso il tenente Cambier che rimase con ras Desta) lasciarono col treno Addis Abe­ ba il 7 novembre, proprio quando i battaglioni di Guardia che essi si erano sforzati di addestrare a Harar fuggivano da Gorrahei. Nonostante tutto Do­ thee venne sempre tenuto in grande stima da Hailé Selassié che lo richiamò presso di sé dopo la fine della guerra. Frattanto le continue minacce del Primo ministro belga sul piano politico e legale avevano indotto alcuni membri del gruppo Reul a dare le dimissioni. Tuttavia De Fraiport era andato a Dessiè per unirsi all’esercito del Principe Ereditario, De Bois e Witmeur erano scesi ad Harar e il tenente Frère aveva raggiunto ras Destà nel Sidamo. Vandenhende e la maggior parte degli ufficiali belgi divennero « consiglieri », con il compito di presiedere l’ordine pubblico nella città di Addis Abeba, soddisfando così sir Sidney. La sua comparsa sulla scena, indica comunque come il problema etiopico fosse sentito dai negri negli Stati Uniti. In Nigeria si distinse, per il suo appassio­ nato fervore per l’indipendenza dell’Etiopia, il movimento « Zik ». Per ulterio­ ri e più approfondite informazioni sul « Black Eagle » vedi il mio testo The Mercenaries, edito a Londra e New York nel 1971. Un solo ufficiale, il tenente Nyblum, aveva dato in ottobre le dimissioni «per ragioni di famiglia », benché, originariamente, gli ufficiali avessero tutti deciso di dare le dimissioni se fosse scoppiata la guerra. Per gli ufficiali bianchi era questa una difficile decisione da prendere. Per loro la guerra era ben più peri­ colosa di quanto sarebbe stata in Europa. Come scrisse alla moglie il maggiore Burgoyne : « Nessun bianco salverà la pelle se cadrà in mano italiana ». Ciò era generalmente creduto ma, poiché nessun bianco - escluso un medico po­ lacco - fu catturato, non potè essere provato. Verso mezzogiorno ras Mulughietà in persona preceduto dai suoi tamburini e trombettieri si recò a cavallo alla Grande Tenda Scarlatta ai piedi del Ghebbì, dove Hailé Selassié, in divisa kaki, sedeva circondato dai suoi ministri arma­ ti e da cortigiani, che tenevano lontani gli irrequieti guerrieri con fruste di ri­ noceronte. Ras Mulughietà piantò la spada in terra davanti all’Imperatore e incominciò a pronunciare consigli non richiesti : « Non interessarti troppo di politica. La tua debolezza sta nel confidare troppo negli stranieri. Scacciali. Che fanno qui tutti questi sciocchi della stampa? Sono pronto a morire, come te, per il mio Paese. Sappiamo che il problema è ora la guerra e, per dirigerla, faresti bene a rimanere nella città di Addis Abeba. Manda via tutti gli stra­ nieri. Ti giuro fedeltà completa... » « Très en faveur à ce moment »: Janssens.

NOTE AL CAPITOLO OTTAVO

1. Un « corridoio per cammelli » lo definì il Times. 2. Duff Cooper, allora membro della Camera dei Comuni scrisse: « Si sentivano un sacco di chiacchiere sulla terribile forza della marina italiana e su una possi­ bile rabbiosa azione alla quale ulteriori irritazioni avrebbero potuto spingere il Duce. Ma prima che il Duce potesse esprimere una sua opinione sul progetto, si levò dalla popolazione inglese un grido unanime di indignazione. In tutti i miei anni di esperienza come uomo politico non ho mai assistito a una presa di posizione di tale portata da parte dell’opinione pubblica: sir Samuel Hoare dovette lasciare la sua carica ». 3. Mussolini avrebbe accettato il progetto di Hoare e Lavai? Probabilmente sì. In quel momento sia i comandi militari inglesi, sia quelli francesi, ritenevano che all’Italia sarebbero stati necessari parecchi anni per conquistare l’Etiopia e Badoglio stesso valutava che la campagna sarebbe durata circa sette anni. Tuttavia dopo la pubblicazione sulla stampa del progetto Hoare-Laval e il ri­ fiuto di Hailé Selassié, ovviamente Mussolini fu costretto a respingerlo anche con maggiore fermezza. 4. L’influenza politica del vecchio scium Tembien Gabremedhin era, comunque, enorme. Allo scium Tembien in questo momento era stato concesso di ritornore al suo feudo, il Tembien, perché arruolasse il maggior numero possibile di coscritti. 5. L’uso del gas iprite (il diclorodietilsolfuro) era stato vietato dal protocollo di Ginevra del 17 gennaio 1926 sottoscritto anche dall’Italia, e i diplomatici ita­ liani fecero sempre di tutto per screditare i resoconti dei giornalisti e le pro­ teste che l’Etiopia presentava alla Società delle Nazioni. Essi riuscirono così bene nel loro intento dìe perfino oggi molti italiani citano il Memoriale di Lessona senza rendersi conto, forse, di che tipo di fonte si tratti, in cui si afferma che vennero lanciate solo tre bombe a gas e in una sola occasione: quella in cui si volle dare una lezione agli etiopi e vendicare il pilota italiano Minniti che essi avevano decapitato, dopo averlo catturato sul fronte meridionale. È vero che questa fu la prima occasione in cui venne usato il gas, e anche allora Mus­ solini era recalcitrante. Gli era giunto un telegramma da parte di Graziani che gli chiedeva l’autorizzazione della « massima libertà d’azione nell’impiego di gas asfissianti». Mussolini aveva risposto: «Sono d’accordo con l’uso del gas solo nel caso in cui Sua Eccellenza lo consideri un mezzo necessario e in­ dispensabile per supreme ragioni di difesa ». Quella non fu tuttavia certo la prima e ultima occasione in cui fosse usato il gas, ma piuttosto la prima di una lunga serie. L’iprite non uccideva; bruciava terribilmente e rendeva invalidi per sempre coloro che ne venivano in contatto, i muli e il bestiame in genere, invece, morivano per avvelenamento in quanto si nutrivano dell’erba conta­ minata dal gas, e questo era un fatto gravissimo per l’esercito etiopico. 6. « A malgrado del felice risultato dell’azione, il comandante giudicava necessario ritirare le truppe vittoriose dall’Amba Tzelleré su Abbi Addi. Tale decisione derivante da un apprezzamento del tutto personale della situazione locale, non ha consentito di trarre da questo combattimento i risultati che l’eroico com­ portamento dei reparti avrebbe permesso di raggiungere. In particolare, ri­ nunciando all’occupazione di Amba Tzelleré, noi consentivamo al nemico, non appena rinforzato dai nuovi scaglioni provenienti dal Seloà, di affermarsi sal­ damente sull’Amba, ciò che in seguito ci costringeva ad abbandonare le domina­ te posizioni di Abbi Addi e a ritirarci su quelle di passo Uarieu, assai meno favorevoli alla difesa di quelle dello Tzelleré ». [Badoglìq, op. cit. pp. 55-6 N.d.C.]

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Z. Lessona nelle sue memorie superò se stesso nell’arte di minimizzare : una divi­ sione di Camicie nere, comandata dal generale Somma passò « un momento di crisi » davanti agli attacchi del nemico. 8. L’Imperatore e il ras Cassa più tardi affermarono che l’attacco fu spezzato con bombardamenti all’iprite. Da parte italiana risulta che il generale Cat non potè eseguire l’ordine di Badoglio di usare i gas perché i rifornimenti erano mo­ mentaneamente terminati. 9. Qui ras Hailù fu in seguito intervistato da alcuni giornalisti, per smentire le voci di una sua morte presunta. 10. In Italia si era verificata la stessa cosa. Perfino sindacalisti in esilio e intellet­ tuali, come Labriola e Sem Benelli, scrissero a Mussolini per offrirgli la loro collaborazione e chiedendo di venir arruolati. Patriottismo e fascismo marcia­ vano fianco a fianco. Le sanzioni erano più un fastidio che una minaccia, suf­ ficienti però per rendere spiacevole la vita quotidiana e a far crescere negli italiani l’odio per le « plutocrazie », soprattutto quella francese e quella inglese le quali, con vasti imperi coloniali, ne negavano uno piccolo all’Italia. Il caffè, lo zucchero e anche il pane erano razionati; gli scolari piantavano semi di cereali nelle piazze invece dei fiori; e gli adulti non sopportavano l’idea che gli ingle­ si facessero cinque pasti al giorno quando da loro mancavano i viveri. Tutti credevano che gli inglesi facessero pagare un pedaggio di cinque lire d’oro per ogni soldato italiano che attraversava il canale di Suez (31 lire corrisponde­ vano a una sterlina, allora). Hailé Selassié trovò nel nuovo Echege Nembir GabreGiorgis, un validissi­ mo sostenitore della sua causa: lo richiamò dall’incarico di Capo del Conven­ to di Gerusalemme, a prendere il posto del vecchio avversario dell’Imperatore, Y Echege Abba Sauriros morto nel 1934. In Italia benché il papa fosse attento a non incoraggiare come crociata l’invasione di una nazione cristiana, vescovi, arcivescovi e cardinali andavano distribuendo benedizioni all’« Uomo della Provvidenza », al « nostro incomparabile condottiero » (cardinale Nasalli Roc­ ca, di Bologna) e ai « gloriosi soldati dell’Africa italiana ». Il Congresso Euca­ ristico del 1935 inviò a Mussolini un messaggio di devota solidarietà, e il mi­ nistero degli Esteri tedesco notò che « durante la guerra d’Etiopia il cardina­ le Pacelli si contraddistinse per l’incoraggiamento e il sostegno dell’atteggia­ mento nazionalista del clero italiano ». Il cappellano delle Camicie nere, Padre Giuliani, morto in Etiopia, venne canonizzato dalla stampa italiana come santo martire del fascismo. 11. D’altra parte se ras Desta avesse vinto a Dolo, molti altri eritrei avrebbero po­ tuto disertare. La loro fedeltà era incerta soprattutto perché alcuni provenivano proprio dal Tigrai. « Tutti gli eritrei avrebbero disertato se gli etiopi avesse­ ro attraversato il Mareb », raccontò all’autore il fitaurari Hailé Beienè, uno dei superstiti dei campi di internamento. Forse, un po’ esagerato, ma...

NOTE AL CAPITOLO NONO

1. Questo era uno dei tre eserciti dell’Uollega: il degiacc HapteMariam Gabrè Egziabher di Uollega-Lechemti si trovava nel Goggiam per aiutare a reprimere la rivolta di Ghessesse Belù e il degiacc Mangascià Uube era rimasto nella sua provincia dell’Uollega-Saio come riserva. Il capitano Maurice di Gambela ave­ va impedito il reclutamento delle truppe, consigliando agli Uollo « di non provare a cimentarsi contro gli italiani », ma il bituoded Maconnen entro il 1° ottobre aveva radunato dodicimila reclute. Giunti ad Addis Abeba, qui aveva avuto luogo la tradizionale cerimonia in onore dei condottieri valorosi, durante la quale il bituoded Maconnen fu udito esclamare: « Sarebbe meglio sperimentare cosa sappiamo fare prima di decantare le nostre prodezze ». L’esercito quindi si mosse dall’accampamento vicino ad Addis Abeba, dirigen­ dosi verso nord con marce giornaliere di circa 16-19 chilometri. Dapprima i soldati si recarono in pellegrinaggio a Debrà Libanos quindi, passando per Uorra Ilù, si diressero a Dessiè, dove era stata promessa loro una ulteriore consegna di fucili belgi. I fucili non erano arrivati, ma l’Imperatore consegnò al bituoded Maconnen dieci Oerlikon e in ogni caso questo era considerato dagli osservatori stranieri l’esercito del nord meglio equipaggiato. 2. Aqa Selebà assieme a una trentina di uomini aveva disertato due settimane prima dell’inizio della guerra, rubando autocarri e grossi quantitativi di armi : dodici mitragliatrici, cinque cannoni e 13.500 fucili secondo una fonte. Assie­ me a « due bulukbasci, un muntaz e sedici ascari. Hanno passato il confine con cinque muli, asportando cinque mitragliatrici, dodici fucili, diciassette mo­ schetti e l’intera dotazione di cartucce » [secondo P.C. Dominioni, op. cit. pg. 122, N.d.C.]. In ciò era stato protetto dal degiacc Zaudi Hagos della banda di Akele Guzai e gli italiani, nel timore di una rivolta, non fecero nulla. I di­ sertori avevano raggiunto Macallè e avevano ottenuto libero passaggio verso sud da Hailé Selassié Gugsa per intervento del Nevraid, ma solo dopo aver consegnato gli autocarri e le armi. Erano stati rimandati dal bituoded Macon­ nen verso Dessiè e attaccati dagli Azebò Galla in prossimità di Cobbo per or­ dine di Hailé Selassié Gugsa; raggiunta Dessiè, Aqa Selebà fu promosso dal­ l’imperatore e, portato in volo dal suo pilota Asfau Ali, ad aiutare il degiacc Ighezzù nell’organizzazione di una guardia nella capitale. 3. Alla fine della guerra, la vedova del bituoded Maconnen, principessa Yasciuscià Uorq, fece riseppellire il corpo nella cattedrale della S.S. Trinità di Addis Abeba. 4. Il Terzo Corpo d’Armata, la « Sila » e la « 23 Marzo » a cui Badoglio aveva fatto cambiare direzione allontanandole dall’Amba Alagi, mentre il Corpo d’Ar­ mata eritreo di Pirzio Biroli, al completo delle forze, doveva sferrare l’attacco principale al passo Uarieu. 5. Un gruppo di seicento uomini attaccò di sorpresa un campo di genieri a nord di Axum: vennero massacrati circa settanta genieri disarmati. Ras Immirù la considerò un’impresa vittoriosa, gli italiani una atrocità. Va comunque ricordato che i genieri italiani erano anche « legionari » arruolati nella « mi­ lizia stradale » sottoposti a una disciplina in parte militare e portavano anch’essi la camicia nera. Sarebbe stato in effetti troppo pretendere che i sol­ dati etiopici distinguessero tra legionari combattenti e non combattenti. 6. In questa battaglia il Secondo Corpo d’Armata era formato da due divisioni regolari e una di Camicie nere, la « Gavinana », la «Gran Sasso», e la « 21 Aprile », oltre a numerose bande, Terza Brigata eritrea e uno squadrone li­ bico; e oltre 170 cannoni. Il Quarto Corpo d’Armata era molto più esiguo, la « Cosseria » e la « 1° Febbraio», rinforzate da un solo battaglione eritreo.

NOTE AL CAPITOLO DECIMO

1. La « 1° Febbraio », guidata da Terruzzi, capo ministeriale della Milizia, non subì nemmeno una perdita in tutta la campagna. Infatti, se l’autore di que­ sto libro non commette errori, non ebbe occasione di sparare nemmeno un col­ po nel corso dei combattimenti. 2. Da parte etiopica le stime riguardo le perdite nello Scirè ammontavano a 1.300 italiani e 3.000 etiopi ed è probabile che questa stima sia effettiva­ mente esatta. 3. L’ufficio politico e il capitano De Sarno avevano distribuito più di sei mila fu­ cili agli Azebò e ai Raià Galla. 4. La prima colonna, guidata dal generale Cubeddu, era composta oltre che dagli eritrei del colonnello Rao Torres, da otto cannoni e dal Gruppo Bande Alto­ piano. Starace disponeva di 3.400 uomini (un reggimento di bersaglieri e un battaglione di Camicie nere), di 433 autocarri, 20 carri armati, 6 cannoni trai­ nati da trattori e di 83 motociclisti con mitragliatrici sul manubrio. Quando il 18 marzo la colonna giunse a Om Ager, poco prima cioè di attraversare la frontiera eritrea per sconfinare in territorio nemico, le truppe furono riu­ nite e vennero arringate dal loro comandante. « Noi siamo una nazione po­ vera » gridò Starace. « Ciò è positivo, perché contribuisce a mantenere’ saldi muscoli e in forma i nostri corpi ». Era un ginnasta fanatico e aveva imposto ai segretari fascisti di recarsi al lavoro in bicicletta e incominciare la giornata con alcuni esercizi ginnici. « Le nazioni ricche mangiano troppo, ingrassano e hanno digestione difficile. Questo è il caso di molti inglesi. Inoltre una digestione diffìcile spesso fa lavorare male il cervello. È l’unica spiegazione che possiamo dare dell’atteggiamento che gli inglesi hanno assunto verso di noi. Credevano di poter riunire la loro flotta nel Mediterraneo e che Musso­ lini si sarebbe tolto tanto di cappello inchinandosi con rispetto e sottomis­ sione. Invece no! Mussolini ha reagito come un purosangue e ha inviato i soldati in Africa con la sua flotta ». Il 23 marzo cadeva il diciassettesimo anniversario della fondazione dei fasci e, mentre le colonne procedevano len­ tamente, giunse voce che alcune truppe si stavano ammassando a Gallabat e che il governo inglese era pronto a considerare quello di Gondar un casus belli. Gli italiani di Starace si sentirono « bellicosi e pronti a tutto » e si dis­ sero decisi a sparare a vista su qualsiasi inglese o sudanese che avesse attraver­ sato il loro cammino. Ma non lo fece nessuno. 5. Il comportamento di Aialeu è in effetti un vero punto interrogativo. Gli italia­ ni parlano continuamente dei suoi rapporti con loro; è certo che egli oppones­ se una resistenza molto tiepida nei loro confronti. Nella battaglia dello Scirè i suoi uomini erano rimasti immobili a guardare le truppe di ras Immirù at­ taccare e contrattaccare, finché suo figlio, il fitaurari Zaudi Aialeu, incapace di sopportare ancora quella immobilità, portò i suoi uomini nella battaglia ' in difesa di ras Immirù. Per quale ragione non si unì apertamente alle truppe italiane? Astuzia e doppio gioco? O il motivo consisteva nel fatto che nessun capo etiopico della sua generazione e della sua fama si sarebbe sottomesso completamente all’invasore, per quanto quest’idea potesse allettarlo? 7. « Les Italiens ignorent l’Histoire de l’Ethiopie et ses Empereurs » diceva il testo del comunicato. « Il n’y a pas d’exemple dans l’histoire éthiopienne où un monarque ait songé à quitter son pays et ce n’est pas Hailé Selassié celui qui commettrait une semblable lâcheté », parole queste che in seguito suoneranno

molto diversamente. 6. Ras Immirù non lesse mai questo messaggio. Il corriere venne intercettato dai soldati italiani e fu Badoglio a ricevere la lettera.

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NOTE AL CAPITOLO UNDICESIMO

1. Secondo alcuni gli italiani avrebbero circondato le loro fortificazioni con una densa cortina di gas tossici, impedendo in effetti alle loro stesse pattuglie di scorgere prima gli etiopi. 2. In realtà il generale Pesenti, della Prima divisione eritrea, nelle sue memorie fornisce una descrizione molto diversa della potenza delle colonne etiopiche e dei loro comandanti. Secondo lui infatti, la prima colonna composta da 15-20 mila uomini, era guidata dal ligaba Tasso e da ras Chebedde, la seconda, formata da 30-35 mila uomini da degiacc Adefrisau e da ras Ghetacciù e la terza colonna guidata dal fitaurari Burru UoldeGabriel. L’Imperatore al passo di Agumbert aveva tremila uomini e trecento mitragliatrici, mentre dietro a lui a Quoram erano spiegate le forze del cagnasmacc Mukria, compren­ denti milleduecento uomini e l’artiglieria e infine, sul fianco sinistro, in ri­ serva, disposti tra Socotà e Quoram, seimila uomini guidati da ras Cassa, ras Seyum e degiacc Hailè Chebedde. 3. Secondo Pesenti, la Guardia imperiale non attaccò prima di mezzogiorno, gui­ data dal degiacc Aberrà Tedia. Egli inoltre riferisce che il primo attacco ne­ mico fu condotto da tutte e tre le colonne quasi simultaneamente alle prime luci dell’alba, mentre il secondo venne sferrato intorno alle dieci del mattino, seguito dal contrattacco della Seconda divisione eritrea, e il terzo dopo mez­ zogiorno. Alle 2 e 30 del pomeriggio il contrattacco della sua Prima divisione eritrea. Il suo libro Storia della Prima Divisione Eritrea fu pubblicato nel­ l’agosto del 1937, per cui deve essere stato scritto subito dopo questi av­ venimenti; ma le battaglie sono sempre molto confuse anche per i generali.

NOTE AL CAPITOLO DODICESIMO

1. In questo periodo «la linea Maginot» era simbolo di ostacolo insormontabile non di enorme stupidità. 2. Anche per la capitale fu una terribile giornata. Il 21 aprile 2690’ anni­ versario della fondazione di Roma c’erano stati momenti di terrore perché si era diffusa la voce che Mussolini avesse scelto questo giorno per occupare Addis Abeba.

NOTE AL CAPITOLO TREDICESIMO

1. Che egli aveva già armato con fucili e che era un balabat del distretto Volisò, 30 miglia a sud-ovest di Addis Abeba, sulla strada per Gimma. 2. Sembrò che gli italiani avessero giocato prontamente e con successo il loro ruolo di liberatori dei Galla. Molto presto i loro aerei cominciarono a far cadere volantini sul territorio di Gurassù Duché sollecitando i Galla « liberati » ad ucciderlo. Ma sebbene egli fosse un Amhara aveva sposato una donna galla. La distinzione fra i Galla e gli Amhara non era così netta come gli italiani avrebbero voluto, almeno a livello della nobiltà e dei Balabat fra cui c’erano stati molti matrimoni misti. 3. Equivalente alla « petite noblesse de campagne » o forse ai proprietari ter­ rieri inglesi. 4. Probabilmente il padre del comandante della guardia degiacc Mukria. 5. Ad essere onesti, gli italiani avevano le loro buone ragioni. Quando ’’monaci del genere di Negga sparavano ai loro ufficiali o cercavano di corrompere potenziali Giuditte per sedurre i loro Oloferne, quando mitragliatrici di fab­ bricazione cecoslovacca erano nascoste negli altari e i buchi sul pavimento delle chiese erano nascosti come trappole per elefanti, è comprensibile come lo spirito dell’ecumenismo non fosse eccessivamente diffuso. 6. Le altre due colonne erano condotte secondo Starace da due capi « rivoluzio­ nari » chiamati Belai e Assegè, nomi mai conosciuti prima né citati altrove, pro­ babilmente inesatti. 7. I Goggiami erano probabilmente stati informati che ras Hailù era ad Addis Abeba con gli italiani. È molto difficile che l’ufficio politico non sia riuscito a fare ciò.

NOTE AL CAPITOLO QUATTORDICESIMO

1. Lessona fu nominato ministro poco dopo il suo ritorno a Roma avvenuto I’ll giugno. Egli riferisce che il Duce non era minimamente interessato alle storie avventurose che avevano accompagnato la conquista dell’impero, volle quale governatore Pirzio Biroli ma lasciò al nuovo ministro la libertà di scegliere per le altre cariche. Fu subito assediato dalle richieste di nomine da parte di membri del partito e della milizia. Quella che doveva essere definita più tardi da un ufficiale italiano come « la divisione del bottino » stava incominciando. 2. Il principio fu stabilito al primo punto della direttiva del 5 agosto « Nessun po­ tere ai ras; l’Italia non governa a mezzadria». Era tuttavia possibile impiega­ re i ras come capi delle bande; essi non dovevano ancora essere disarmati. Gli altri punti fondamentali riguardavano i rapporti fra gli italiani e gli indigeni e l’atteggiamento nei confronti della Chiesa. Per quanto concerne i primi « la razza bianca deve imporsi affermando nella pratica la sua superiorità ». Le famiglie dovevano essere mandate nelle co­ lonie, qualsiasi funzionario che coabitasse con gli indigeni sarebbe stato rim­ patriato, per le truppe dovevano essere organizzate case chiuse con donne bianche. Addio ai sogni erotici celebrati dalla canzone. Per quanto riguardava la Chiesa: « i rapporti con Y Abuna Kyrillos devono essere improntati alla più grande formalità. Egli potrebbe facilmente essere uno strumento dello spio­ naggio inglese ». Gli italiani avevano un eccessivo rispetto per i servizi di spio­ naggio inglese come diverrà chiaro nel corso di questi avvenimenti storici. 3. Il testo del telegramma era: Vi ho dato tutto me stesso ma ora liberatemi perché non ne posso più. 4. In tutto questo Colonna, che occupò tutto il Beghemder e la maggior parte del Goggiam subì 9 perdite e 9 uomini furono feriti. Aialeu Burru dopo aver po­ sto condizioni per la sua resa ed essere entrato a Debrà Tabor fu più che intimidito dalla minaccia di « radere al suolo Debrà Tabor in 15 minuti » per sottomettersi e offrire la sua collaborazione per la cattura dell’ex ras Immirù. Debrà Marcos cadde il 20 maggio. Sembra che ras Immirù con circa 1.000 uomini quasi tutti Scioani si fosse allontanato da essa quel giorno mentre le tre colonne di ribelli goggiami si avvicinavano. Starace ebbe la soddisfazione di ottenere a Debrà Marcos ciò che Ciano non era riuscito ad avere ad Addis Abeba. Informato che c’era il rischio di un combattimento fra Ghessesse Belù e gli altri due capi ribelli, fermò le altre due colonne e decise di raggiungere Debrà Marcos in aereo, in modo che la città non dovesse essere « liberata da­ gli stessi Goggiami ». Sfortunatamente l’aereo atterrò 3 ore prima che arrivassero gli uomini di Ghes­ sesse. I 3 italiani, nessuno dei quali parlava amharico, si trovarono circondati da una massa di uomini armati appena uscirono dall’aereo. Deve essere stato un momento imbarazzante ; fortunatamente un ex ascaro sopraggiunse e su ordi­ ne di Starace gridò in amarico a trenta passi dalla folla : « Come vostro go­ vernatore sono venuto per ordine del Duce a liberare il Goggiam dagli oppres­ sori ». Ciò ebbe l’effetto voluto. Starace fece poi issare una bandiera italiana e gridò «Viva il Re, Viva il Duce! » Il grido fu riecheggiato spontaneamente da tutti i presenti e Starace si recò a dare ordini opportuni alla costruzione del forte Dux al posto del ghebbì di ras Hailù. Tale è almeno il suo racconto. Ë difficile non rammaricarsi per il fatto che ras Immirù non abbia resistito per qualche altra ora; col segretario del partito fascista nelle mani del reg­ gente dell’Etiopia gli avvenimenti politici in Europa avrebbero potuto avere una svolta diversa. 5. Con l’insistenza Badoglio ricevette notevoli ricompense materiali. Bottai go­ vernatore di Roma, aveva promesso al suo comandante in capo una villa co-

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me una « douceur » ma Mussolini non fu d’accordo. Alla fine Lessona ottenne 5 milioni di lire con cui Badoglio comprò una villa in via Grazioli. Insistendo egli riuscì perfino ad ottenere gli emolumenti di viceré, un posto da lui occu­ pato per 12 giorni, per tutta la vita. Ottenne anche, sebbene il re fosse riluttan­ te a concederlo, il titolo di duca di Addis Abeba ma non il motto che deside­ rava « Veni Vidi Vici » che fu sostituito dal motto più modesto « come falco giunsi ». L’anno successivo il figlio del nuovo duca Mario sposò una contessa e sua figlia Maria un marchese e tuttavia Badoglio non fu mai fascista. Hailé Selassié aveva telegrafato al governo inglese prima di raggiunger Haifa chiedendo il permesso di raggiungere Londra e garantendo che « durante il nostro soggiorno a Londra ci asterremo da ogni atto di continuazione della guerra in Etiopia ». Baldwin mandò l’incrociatore Capetown a condurlo at­ traverso il Mediterraneo, perché erano stati espressi timori che la marina italia­ na potesse tentare un colpo di mano durante il viaggio. L’Imperatore con UoldeGiorgis e un piccolo gruppo di persone inclusi i suoi tre figli maggiori lasciò Haifa il 23 maggio. Giunto a Gibilterra il 29 maggio, pranzò al Government House e si imbarcò sul vapore Oxford delle linee orientali per Southampton. Fra le migliaia di persone che Io accolsero a Waterloo c’erano il ministro Mar­ tin con cui si recò in macchina alla sede della legazione in Prince’s Gate, un gruppo di vecchi amici e conoscenti tra cui Colson il suo consigliere ameri­ cano, Auberson il consigliere svizzero, George Steer il corrispondente di The Times che era rimasto fino all’ultimo ed era stato espulso dagli italiani, Von Rosen il giovane pilota svedese e una nuova e devota ammiratrice che egli non aveva mai incontrato prima ma di cui aveva sentito spesso parlare: Sylvia Pankhurst. « Siamo stati molto felici » disse Hailé Selassié molto commosso « per il modo in cui siamo stati ricevuti dal popolo inglese. » La Pankhurst tuttavia non amava una tale modestia e scrisse : « In quegli irresistibili occhi brucia l’insopprimibile fiamma dell’eroe che mai viene meno alla sua causa ». Nei giorni se­ guenti ricevette la visita di Eden, poi del duca di Gloucester, presenziò al pranzo di Foyle, tenne una festa a Prince’s Gate a cui parteciparono alcuni ambasciatori accreditati alla corte di St James, trascorse un fine settimana in Scozia ospite di lord Inverclyde al castello di Wemyss e fu raggiunto da Blattenguetà Herouy e dal degiacc Maconnen Endellacciù giunti da Gerusalemme. L’imperatrice Menen e i due figli più piccoli - la principessa Tsahai e il princi­ pe Sahle - arrivarono il 20 settembre; ci fu un enorme ritardo alla dogana pri­ ma che il suo fox-terrier dal pelo ruvido fosse lasciato passare. Verso la fine dell’anno i più penosi problemi che affliggono gli ex monarchi erano vissuti an­ che da suo marito. Il piatto d’argento imperiale fu venduto all’asta, 16.000 once, da Puthick & Simpson. Per l’anno e mezzo seguente il denaro e il clima furono le più grosse preoccupazioni dell’Imperatore. Egli si trovò implicato in una serie di azioni legali: la banca di Etiopia contro la banca Nazionale d’E­ gitto, l’Imperatore contro la compagnia Cable & Wireless Ldt. e una terza azione concernente i dividendi, questa volta sulla ferrovia Franco-Etiopica in Francia. Inoltre una causa per diffamazione contro Γ Evening Standard che aveva pubblicato un articolo basato su uno dei libri di Henri de Monfreid che descriveva come Hailé Selassié avesse fatto rompere dal dr. Hanner le ossa femorali di ras Hailù durante la detenzione di quest’ultimo. Queste lun­ ghe azioni legali in molte delle quali intervenne il governo italiano come ter­ za parte, significarono un po’ di danaro ma non molto. Per il clima, l’Impe­ ratrice si ammalò durante l’inverno e dovette tornare a Gerusalemme. I bam­ bini erano divisi e passarono la maggior parte del loro tempo viaggiando fra l’Inghilterra e la Palestina. Non fu certo un periodo né felice né glorioso. Ras Taken aveva poi condotto con sé in esilio il suo quarto figlio Asratè. L’ex addetto militare all’ambasciata italiana; la sua assenza da Addis Abeba era quindi durata meno di 6 mesi. Forse il fitaurari di ras Immirù, forse un seguace di ras Seyum. Nel 1938 21 «Fasci» in Eritrea, 13 in Somalia, 21 nello Scioa, 15 in Amha-

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ra, 16 nell’Harar, 8 nel Galla-Sidamo. Ci fu anche un tentativo di imporre lo stile delle organizzazioni fasciste giovanili agli indigeni; un esempio furono « i ragazzi del Beghemder ». 12. Quando Starace consegnò il nuovo governatorato dell’Amhara a Pirzio Biroli la sua forza, diffusa in tutte le 4 città di Gondar, Bahar Dar, Debrà Tabor, e Debrà Marcos consisteva in 3 battaglioni regolari di bersaglieri, 2 battaglioni di eritrei e solo uno di Camicie nere, il battaglione « Mussolini », più la banda Asseghè a Buriè, la banda Serae a Engiabara, la banda Gondar e la banda Bahar Dar del gruppo bande del lago Tana a Bahar Dar e la banda Debrà Tabor dello stesso gruppo a Debrà Tabor.

NOTE AL CAPITOLO QUINDICESIMO

1. Figlio del liquemanquas Abebè che era morto con ras Lui Seghed vicino ad Ancober. ’’Sposato” alla terza figlia dell’Imperatore, Tsahai, che si trovava con suo padre in Inghilterra. 2. « Io combatto unicamente per la mia patria » disse. 3. Sembra fosse stato consigliere militare di Hailé Selassié prima della guerra essendo arrivato come istruttore con il carro armato di Mussolini per l’inco­ ronazione del 1930. 4. Fikremariam e i suoi uomini raggiunsero Acachi il giovedì sera, trascorsero lì il venerdì e il sabato furono attaccati dalla banda del degiace Haptemikael e da altri due degiacc Liban e Debebe « che erano passati tutti agli italiani ». Bezuuork fratello di FirkreMariam restò isolato e Negga accorso in aiuto trovò FìkreMariam che assisteva ad una cerimonia religiosa. Di nuovo Negga lo rim­ proverò: «Sono qui solo fino alla comunione, Negga» disse FikreMariam con aria di rimprovero. Negga, allevato da suo zio come fanno (mezzo sciita e mez­ zo soldato) nel Goggiam, consigliò di ritirarsi poiché il sole e il vento erano contro di loro e persuade FìkreMariam ad abbandonare suo fratello Bezuuork: « Non ci interessano gli uomini da poco. Questo è quanto mio zio mi ha inse­ gnato ». Più tardi Bezuuork, ricomparve sano e salvo a Errer dove FìkreMariam, senza essere inseguito, si era ritirato. 5. I battaglioni che difendevano la capitale e di stanza ad Acachi (I e Vili) erano i battaglioni che avevano combattutto ad Adua contro l’imperatore Menelik. Gli italiani potevano quindi contare sulla loro lealtà. 6. Questa è la difficoltà quando si scrive di ras Hailù. Egli non lasciò scritti, e se lo fece non sono reperibili. I generali italiani naturalmente ponevano l’ac­ cento sull’importanza del loro ruolo e delle loro truppe ed erano riluttanti, soprattutto per la loro politica di governo diretto, ad accordare dei ruoli che non fossero minori ai loro collaboratori indigeni. Agli etiopi anche dopo una generazione da questi fatti, non piace parlare di quelli che non furono « Pa­ trioti » e quelli che combatterono contro ras Hailù sono tanto desiderosi di screditare la sua memoria, come i membri della sua famiglia e quelli che com­ batterono con lui sono desiderosi di consegnare questi eventi ad un discreto oblio. Sfortunatamente non ebbe al suo fianco alcun consigliere non etiope, in molti casi la sola fonte credibile per analizzare i fatti accaduti in Etiopia. 7. Graziani valutò le forze complessive di Aberrà Cassa nell’attacco ad Addis Abeba a 8.000 uomini e le forze di FikreMariam a poche centinaia.

NOTE AL CAPITOLO SEDICESIMO

1. Scrive Hodson che Abba Gifar: « mostrava un intelligente interesse per le recenti scoperte fatte in Egitto. Non riusciva a credere che Tutankamen fosse esistito prima di Maometto ». Nell’aspetto « obeso, i suoi abiti lerci e i suoi denti repellenti ». Quando gli venne mostrata una copia dello Sphere con le fotografìe della visita di ras Tafari in Europa, egli « guardò il ras e poi sfogliò le pagine finché i suoi occhi non caddero sulla fotografia di una ragazza ingle­ se particolarmente graziosa. Facendo schioccare le grosse tumide labbra dal piacere, cominciò a fare commenti allusivi e poi passò il giornale ai suoi con­ siglieri che fecero altrettanto. Questo per me fu veramente troppo... ». 2. Comunque l’Italia aveva da dire la sua in appoggio all’« indipendenza » del Gimma. Una ’’nota verbale” datata 23 giugno 1935 faceva « una riserva for­ male » nei confronti dell’azione scioana sulla base dei diritti derivanti dagli ac­ cordi stipulati direttamente solo l’anno prima con il sultano Abba Gifar. La nota era naturalmente una provocazione e fu respinta, ma questo serve a di­ mostrare che il Gimma aveva un’effettiva autonomia legale. 3. La loro zia Askale Mariam, aveva però sposato in seconde nozze il degiace Uolde Mariam, un’importante ufficiale della corte scioana che aveva combat­ tuto ad Adua, Sagallè e Mai Ceu ed era un governatore distrettuale sotto il degiacc Abebè Damteu nel profondo sud, oltre l’Omo, quando scoppiò la guerra. 4. Pare che per quanto i capi Galla fossero « fedeli » non ci si aspettasse che avrebbero condotto i loro giovani guerrieri al fronte, anche se forse degiacc HapteMariam Gabre Egziabher s’era unito per poco tempo al degiacc Nasibù ad Harar: la cosa non è però ben documentata. Aveva certo condotto un mi­ gliaio di uomini attraverso il Nilo nel Goggiam nel tentativo mal riuscito di liberare gli scioani assediati a Debrà Marcos e disperdere i ribelli di Ghessesse Belò. 5. Dopo Mai Ceu Von Rosen volò al Cairo, si incontrò con il segretario della Società a Ginevra ed era a Londra quando arrivò l’Imperatore. Qui sia la Croce Rossa Svedese che il capitano Brophil s’erano messi in contatto con lui. Ufficialmente la loro missione era di avere notizie dell’Unità della Cro­ ce Rossa Svedese che era con ras Destà ma di cui da parecchie settimane non si sapeva più nulla; si pensava che stessero vagando nel sud diretti al Sudan. Passarono infatti la frontiera del Kenia sani e salvi poco dopo che Von Rosen era arrivato nel sud-ovest. 6. Anche se Erskine aveva iniziato una farsesca corrispondenza, che aveva quasi rasentato il successo, con gli italiani a Addis Abeba nel tentativo di convin­ cerli a consegnare a lui i fondi della banca di Etiopia, che avrebbe poi prov­ veduto lui stesso a far recapitare a Londra. 7. Grazie all’influenza dell’intellighentia che, come Erskine riferì a Eden verso la metà di luglio, peccava di « idee socialiste, una delle quali era di assassinare l’imperatore ». 8. Il secondo figlio di Hailé Selassié e il preferito che all’epoca aveva 12 anni.

NOTE AL CAPITOLO DICIASSETTESIMO

1. Il nome di battaglia del Negus Mikael che ispirava ancora terrore e rispetto nello Scioa. 2. « Fui così commosso da questa espressione che la ripetei sempre » ricorda Negga. Naturalmente divenne famosa in tutta l’Etiopia come un detto che in due parole riassumeva il contrasto fra quelli che erano rimasti a combattere e quel­ li che erano fuggiti. Tadesse Zeualdé Io scelse come titolo del suo libro sulla resistenza nello Scioa. 3. Secondo Graziani progettarono anche di abbattere il Grande Ghebbì e distrug­ gere il Mausoleo imperiale. Indubbiamente l’idea era di fare della capitale un modello del fascismo col suo Viale Mussolini (ora Churchill Avenue), il suo palazzo dell’opera (ora il Cinema teatro Hailé Selassié), il palazzo del go­ verno civile (ora il Ghennet Hotel), la sede dei carabinieri (ora il Ras Hotel), l’ospedale italiano (ora ospedale Ras Destà Damteu). 4. Il 17 settembre ras Hailù aveva combattuto una vittoriosa battaglia ma preci­ samente dove e contro chi non è chiaro. 5. Negga stesso riuscì a sfuggire con uno stratagemma. Avendo sentito che gli italiani stavano per attaccare Yerer egli inviò una lettera dal suo letto al loro comandante così concepita: « Possa raggiungere l’esercito italiano. Come state? Ho 2.000 uomini. Incontriamoci dunque su una vasta pianura. Non nascon­ detevi in una fortezza ». Secondo Negga il comandante italiano rifiutò l’invi­ to a duello riflettendo: «non dobbiamo impegnarlo. Abbiamo sconfitto il degiacc FikreMariam; lasciamo che qualcun altro l’affronti». Sfortunatamente Negga non specifica se il suo antagonista fu il generale Gallina o il console Maz­ zetti, dice tuttavia che aveva solo 120 uomini. Questo stratagemma gli diede il tempo di fuggire oltre l’Auasc, assieme a Bezuuork fratello di FikreMariam e Assefà Demissiè. Mentre attraversava il fiume una donna vedendolo ferito disse: « Sta per cadere ». « Come bagnato vuol dire sale così uomo vuol dire Negga » egli rispose prontamente, tenedosi eretto. Era un altro detto che circolava. Egli aggiunge « lo fecero diventare un mio titolo ». 6. « Sono il tuo servo obbediente » egli giurò a ras Destà « che ti compiacerà do­ vunque lo mandi e per il futuro ti renderà felice dovunque mi manderai e io ti seguirò ». 7. Nella battaglia egli portò i suoi uomini all’attacco, impugnando la mitraglia­ trice. Aveva rifiutato di lasciare il paese in un aereo che l’Imperatore, prima di partire, gli aveva mandato per farlo partire con la sua famiglia. 8. Trasportava anche GabreMaskal, il radiotelegrafista eritreo di ras Immirù e Blatta Deressà che attraverso il commissario di distretto a Roseires inviò una ipocrita lettera al Foreign Office spiegando come la sua vita fosse stata dan­ neggiata dai suoi negoziati con gli inglesi. Il capitano Maurice, irato, s’era rifiutato di imbarcarli su un battello che partiva prima sebbene Erskine avesse dato loro un salvacondotto. « Plus vite que ça rentrez à Gore » egli aveva gri­ dato loro. Erskine poteva solo parlare a nome del Foreign Office non per il governo del Sudan. 9. Il 15 dicembre una colonna eritrea al comando del capitano De Rosa lasciò Saio per occupare Gambela dove 3 giorni più tardi un giovane tenente, il conte Senni, si era installato fianco a fianco del più esperto capitano Mauri­ ce. Con l’occupazione di Gambela, gli italiani dichiararono prematuramente che tutta l’Etiopia era sotto controllo. 10. Sua moglie, Uoizerò Chebbedesh, figlia di ras Seyum, e il figlio maggiore Amaha. Il figlio più piccolo Amdè fu nascosto da una balia e più tardi portato agli italiani e da ultimo mandato a raggiungere suo nonno a Roma.

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11. Furono rilasciati il mattino successivo. 12. L’11 settembre Graziani telegrafò a Pirzio Biroli: « Il Lasta è la fortezza dei fratelli Cassa per ora irreversibilmente ostili» (telegramma 3386) ed annullò il telegramma 15028 annunciando che stava mandando una lettera a Uondossen. La lettera non doveva essere spedita perché Uondossen era in aperta ribellione. 13. Si tratta di cifre italiane. 14. Sembra che ras Desta fosse stato obbligato a fare un giuramento dai nobili del Sidamo che non avrebbe mai lasciato la sua provincia. Si dice anche che rifiu­ tasse di sua spontanea volontà di fuggire al sicuro in Kenia sebbene molti gli avessero consigliato di farlo, compreso Negga per mezzo di lettera. 15. Se la terminologia del generale sembra esagerata, era, probabilmente, ben vera a penszrci. Ma quando l’esercito migliore rimasto di una nazione ha più civili che soldati e di questi soldati 7 su 8 sono solo armati di spade e lance, la frase suona molto strana. 16. Forse il degiacc Abebè, cioè Abebè Damteu. 17. Sua madre era la figlia della sorella di ras Maconnen. 18. La maggior parte dei conflitti che si verificarono furono per le armi. Demissiè, figlio del fitaurari Alemaiu Gosciù che era stato ucciso a Ualual fu egli stesso ucciso in uno di questi scontri. « Era un eroe, » dice Negga « tentai di prendergli le sue armi ma non ci riuscii ». Le armi degli eritrei erano par­ ticolarmente ambite. Prima gli abitanti cercarono di farsele dare con qualche trucco. « Sua moglie alla spada, egli alla pisola, la sua casa al fiammifero » proclamò Negga minacciosamente e gli abitanti rilasciarono gli eritrei e re­ stituirono le armi. Poi Ligg Girma voleva confiscarle per i suoi seguaci perso­ nali « le mitragliatrici non camminano sui sederi », obiettò Negga e gli fu impedito di attaccare Ligg Girma solo con l’intervento di Zaudi Aialeu.

VOLUME II NOTE AL CAPITOLO PRIMO

1. L’autore non si compiace affatto di indugiare su questi massacri. I lettori ita­ liani potranno ritenere che in questo volume si sia dedicato, ai saccheggi e agli incendi del febbraio 1936, uno spazio sproporzionato rispetto ai tre giorni di saccheggi e d’incendi del maggio 1935, cosi come sono descritti nel volume precedente. Ma ciò è motivato da tre ragioni: in primo luogo, molto semplice­ mente, dalla portata dei fatti: nel maggio del 1935 vi fu un minor numero di incendi e, soprattutto, un minor numero di uccisioni. In secondo luogo, la documentazione storica : vi è stata una sorta di congiura del silenzio, da parte italiana, sugli eventi del febbraio 1936. In terzo luogo, e quello che più conta, le conseguenze : l’anarchia immediatamente successiva alla par­ tenza dell’Imperatore fu un episodio isolato, mentre gli stermini che fecero seguito al tentato assassinio di Graziani influenzarono l’intera storia successi­ va del dominio italiano in Etiopia. 2. Anche se, a giudicare dagli effetti, le bombe dovevano essere italiane. Gli inglesi, che le sperimentarono anni dopo, constatarono come le bombe a ma­ no italiane esplodessero con centinaia di schegge, ma avessero molto di rado effetti letali. 3. Stando ad alcuni rapporti, Pallavicino, e soltanto Pallavicino, tra tutti i fun­ zionari italiani importanti, non era presente alla cerimonia, quel giorno. Ma ciò è contraddetto dalla dichiarazione di altri testimoni oculari. 4. Senza dubbio, gli eritrei erano molto sensibili ad ogni manifestazione formale di razzismo, poiché i princìpi razziali non erano mai stati applicati in Eritrea, colonia nella quale gli italiani vivevano in buona armonia con gli indigeni e di solito dormivano in buona armonia con le loro « madame ». Un gruppo di eritrei aveva disertato nel Tembien perché gli ufficiali della Milizia avevano seppellito i loro caduti, ma non i morti etiopi, i quali erano stati invece bru­ ciati - agli occhi degli eritrei una prova di discriminazione razziale. Dopo le leggi razziali del gennaio 1937 e dopo gli articoli pubblicati dalla stampa fascista sui pericoli di una razza mista e inferiore - una politica ispirata da Lessona — la questione si era acutizzata, e, senza alcun dubbio, Abraham Debotch e Mogus Asghedom sarebbero stati pronti come non mai a risentirsi. 5. Aveva dimenticato, a quanto pare, che il portatore del parasole delVAbuna, in piedi immediatamente dietro di lui, era rimasto ucciso; una circostanza che tende a smentire ogni complicità tra VAbuna e gli attentatori. 6. E forse anche il priore, Teklà Giorgis. 7. Un rimprovero ingiustificato, in quanto l’I o il 2 marzo Abraham Debotch si era già allontanato dal monastero per raggiungere sui monti il compagno Mogus Asghedom insieme ad Abebè Aregai. Sembra che gli scioani non si fidassero dei due eritrei : e, una volta di più, l’oscurità vela la loro fine. Stan­ do alla versione generalmente accettata, essi partirono congedandosi da Abebè Aregai e si diressero verso il confine del Sudan, ma, prima che avessero po­ tuto raggiungerlo, furono uccisi dagli uomini di una tribù locale nei pressi di Metemma. 8. Mussolini telegrafò la sua approvazione... tenuto conto delle cattive notizie dalla Spagna. I poteri occulti dei « medici-stregoni » abissini dovevano dav­ vero arrivare molto lontano.

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NOTE AL CAPITOLO SECONDO

1. II 2 novembre, la stele di Axum, alta venticinque metri e del peso di cento­ cinquanta tonnellate, venne eretta a Porta Capena, davanti al nuovo ministero dell’Africa Italiana, ove si trova tuttora. 2. E costituiscono ancor oggi il vanto dell’Etiopia. Un raffronto con il vicino Sudan, pianeggiante eppure, ancor oggi, impercorribile quasi ovunque nella stagione delle piogge, nonostante cinquant’anni di dominio britannico, è signi­ ficativo. Si dice che anche nell’esilio Hailé Selassié apprezzasse quanto stavano facendo gli italiani : rammaricandosi di non poter ricambiare un invito, si scusò cosi con il suo anfitrione : « Deve perdonarmi, ma ci sono lavoratori dappertutto in casa mia ». 3. Cioè ribelli; cosi sarà ormai opportuno chiamare i gruppi residui di coloro che continuavano a opporre resistenza. 4. Complessivamente quasi diecimila uomini: i reggimenti 1/10° e 1/11°, cia­ scuno dei quali formato da tre battaglioni di fanteria, compreso un batta­ glione di bersaglieri e il battaglione degli alpini « Uorc Amba », nonché un battaglione indipendente mitraglieri e un reggimento di artiglieria divisionale. 5. Ogni battaglione consisteva di quattro compagnie, due di fanteria autotraspor­ tata, una di carri armati pesanti e una di carri leggeri : ventiquattro ufficiali e seicentocinquanta uomini. 6. Dal punto di vista militare è per conseguenza estremamente difficile valutare le cifre relative agli effettivi delle Camicie nere indicate dalle autorità italiane. Esistevano ad esempio, nel gennaio del 1938, cinquantatré battaglioni di Ca­ micie nere nell’Africa Orientale Italiana, dieci dei quali giunti dall’Italia in dicembre. Ma questa cifra si riferisce soltanto alle truppe combattenti rego­ lari - le prime due categorie menzionate più sopra - o comprende anche le Legioni locali di militari « part-time »? Se così fosse, allora ciò significherebbe che nel gennaio del 1938 erano sempre presenti i quattordici battaglioni mo­ torizzati e i ventidue battaglioni locali, oltre a diciassette battaglioni « im­ portati » di fanteria regolare, per la maggior parte arrivati di recente. La ci­ fra, presumibilmente, non comprende i « legionari » delle strade, delle fer­ rovie e delle foreste. 7. Cinque, se si comprende il comando dei carabinieri: milleottocento italiani e tremilacinquecento indigeni. 8. A prima vista, è sorprendente che i nuovi conquistatori avessero favorito l’Islam e fatto così poco per giustificare il nobile grido del Nunzio Papale, monsignor Castellani, che, nell’ottobre del 1936, aveva esaltato « il paese de­ signato da Dio per portare ancor più in alto nel mondo la civiltà e la gloria della Chiesa ». Eppure, a parte l’espulsione di monsignor Jarosseau e la so­ stituzione dei Certosini francesi con i Lazzaristi italiani, le autorità non fecero alcun vero tentativo di imporre i missionari cattolici o anche soltanto la pro­ paganda cattolica. 9. « A tutta prima » disse Essayas « gli italiani non seppero da dove venissero questi banditi. Ma dopo quattro mesi se ne resero conto. Cominciarono a ra­ strellare la zona. La gente celava i propri pensieri e i Galla non rivelavano do­ ve noi ci trovassimo. Ma gli italiani incendiarono tutti i villaggi e ci ricaccia­ rono verso Ghindabarat, tra Uollega e il Goggiam ». Quanto ad Abebè 'fafari, egli venne tradito ad Addis Abeba da « una persona facoltosa che mi conosceva ». Arrestato da un capitano dei carabinieri, « rimase incatenato mani e piedi per dieci giorni. Fortunatamente, gli eccidi indiscriminati degli etiopi erano ormai cessati e più frequentemente di prima li si sottoponeva a una sorta di processo ». Lo mandarono a Danane.

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10. Là furono raggiunte da Abraham Debotch, che Uolde Johannes ricorda co­ me « molto coraggioso », e da Mogus Asghedom, « intelligente, ma infermo ». 11. Ligg Abiye Abebè, che si trovava con Mesfin Silescì, incontrò, dopo la guer­ ra, un interprete proveniente da Adua, il quale gli disse che il Commissario italiano, laggiù, sapeva della profezia. Nello Scioa, i funzionari italiani comin­ ciarono a proclamare: «siamo venuti per cento anni, non per cinque». Sem­ bra indubbio che la notizia della profezia si diffuse in tutta l’Etiopia e fece un’impressione enorme. 12. V’è un particolare curioso nella corrispondenza intercorsa tra lui e Aberrà Cassa. Invariabilmente, Abebè Aregai si firmava « ras », cosi come, altrettanto inva­ riabilmente, Aberrà Cassa si rivolgeva a lui, nelle risposte, come al « barambaras Abebè Aregai » : un esempio della suscettibilità e del senso della gerarchia che rendevano così difficile la collaborazione tra i nobili amarici in assenza di una gerarchia centrale, cioè dell’Imperatore. 13. « A detta imparammo i sistemi convenzionali per fare la guerra » notò Abe­ bè Tafari. « Gli svedesi non ci insegnarono nulla per quanto concerneva le tattiche della guerriglia. Se ce le avessero insegnate, avremmo potuto fare di più. Hailé MariamMammo, tuttavia, era naturalmente portato ai sistemi del­ la guerriglia, e fu lui a insegnarceli. Gli ufficiali svedesi ci insegnarono però che cos’era il patriottismo e i cadetti di Oletta devono essere ricordati per questo. Morirono quasi tutti, o in combattimento o in prigionia, e, su circa centoventi, ne sopravvissero soltanto venti ». 14. Al momento della cattura di ras Immirù, gli italiani avevano circondato an­ che lui, riducendo la sua banda a centotrenta uomini. Si dice che le sorti della battaglia mutarono quando uno dei suoi seguaci gli portò la testa di un co­ lonnello italiano - il colonnello fu poi decorato alla memoria dagli italiani. 15. Un altro autore italiano, amministratore civile a Dessiè, Di Lauro, scrisse: « la repressione fu orrenda ».

NOTE AL CAPITOLO TERZO

1. Erano anche i sistemi dello stesso Mussolini? Graziani sostenne durante il processo e nelle sue Memorie di aver sempre tentato di modificare gli ordini di severità e di repressione che gli venivano telegrafati da Roma; i documenti che lo dimostravano, disse, erano caduti nelle mani degli americani quando gli Alleati avevano occupato l’Italia, e si trovavano negli Stati Uniti. Il solo documento disponibile per confermare tale punto di vista è il telegramma di Stato n° 6496, datato 5 giugno 1936: «Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere fucilati. Mussolini ». Un telegramma che, in quanto non definisce la distinzione vitale tra ribelli e soldati nemici ancora alle armi (i quali dovreb­ bero implicitamente essere trattati come prigionieri di guerra), non è una prova conclusiva. In modo alquanto più persuasivo, Graziani sostenne inol­ tre che il secondo grave errore tale da condurre alla ribellione — la politica del governo diretto, anziché indiretto - gli era stato imposto da Lessona e contrastava con i suoi punti di vista. Eppure in Libia egli aveva dimostrato di essere altrettanto assetato di sangue e altrettanto centralizzatore, anche se su una scala meno vasta. 2. Stando alla versione di Lessona. Probabilmente, invece, il Duce si divertiva. 3. In un rapporto assai lodato di 31 pagine, presentato al dipartimento egiziano del Foreign Office alla fine dell’anno. 4. Compreso Abebè Tafari. « Mia madre mi informò in seguito che un giorno il Viceré italiano, il Duca di Aosta, si era recato ad Ailet ove lei e mio padre andavano ogni anno per i bagni. Là ella gli si era gettata ai piedi, supplican­ dolo di liberare il suo unico figlio. « Se non è morto » le assicurò il Viceré « lo farò liberare ». Si trattava senz’altro di una nuova atmosfera. A quasi tutti i prigionieri liberati, però, venne imposta una forma limitata di arresto a do­ micilio, anche ad Abebè Tafari all’Asmara. 5. E nell’istruzione. Il 5 giugno, Nasi diramò una circolare a tutti i commissari, residenti e vice-residenti del governatorato dello Harar, invitandoli a non esten­ dere l’istruzione elementare agli indigeni - esclusi i figli dei capi che sarebbe­ ro potuti essere i futuri interpreti. « Ê superfluo aggiungere che la presente direttiva ha un carattere molto confidenziale e deve essere attuata senza ren­ dere noto il vero motivo»; la direttiva venne confermata nell’ottobre 1939 dal Viceré, il quale voleva che a tutti gli scolari si insegnasse a diventare « coltivatori del suolo o operai qualificati (non specializzati) ». 6. Una decisione che causò furori in Italia. La plebaglia, a Messina, attaccò il consolato inglese, il Principe Ereditario Umberto si rifiutò di essere presente all’incoronazione - soltanto Grandi rappresentò l’Italia - e i cantanti lirici delVAida, che doveva celebrare il grande evento al Covent Garden, si misero in sciopero. 7. L’Imperatore gli aveva detto, soggiunse Halifax, che gli era stato offerto un milione di sterline dagli italiani per abdicare. « Ne dubito » annotò laco­ nicamente Vansittart. 8. L’altra clausola dell’accordo di « bon voisinage » riconfermava la Dichiara­ zione anglo-italiana del 2 gennaio 1937; garantiva la protezione degli interessi britannici nell’Africa Orientale Italiana e limitava il reclutamento di indigeni britannici da parte delle autorità italiane (che avevano reclutato ascari fra le tribù della Somalia inglese) ; vietava a entrambe le parti contraenti di fortificare le isole ex turche nel Mar Rosso, o di cercare una qualsiasi « posi­ zione privilegiata» nell’Arabia Saudita o nello Yemen; garantiva che ogtli parte contraente avrebbe avvertito l’altra di eventuali intenzioni di costruire nuove basi navali o aeree nel Mar Rosso o nel Mediterraneo a est della longi-

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tudine 19° Est (vale a dire a est di Bengasi) ; e, infine, impegnava entrambi i governi a scambiarsi annualmente informazioni su ogni eventuale importan­ te mutamento delle forze militari inglesi e italiane negli scacchieri del Medi­ terraneo, del Mar Rosso, del Golfo di Aden. Era un trattato di vasta portata, un trionfo della diplomazia, e forse i diplomatici d’oggi farebbero bene a stu­ diare la storia della sua successiva applicazione. Venne firmato anche dal­ l’Egitto che, appoggiato dall’Inghilterra, era entrato a far parte della Società delle Nazioni l’anno precedente, ed era tecnicamente una potenza indipenden­ te : si riconfermò l’uso senza impedimento del Canale di Suez, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra, così com’era stabilito nell’Accordo del 1888 — altro possibile campo di meditazione. La morte venne annunciata il 19 settembre. Si parlò in seguito di suicidio do­ po trattative segrete tra Blattenguetà Herouy e gli italiani. Sandford scrisse un lungo necrologio per il Times — « la contrarietà » del defunto Ministro de­ gli Esteri « ad agire frettolosamente » non era stata determinata da « ostru­ zionismo e arci-conservatorismo ». Fu questo un particolare in merito al quale il Foreign Office, dopo le oppor­ tune indagini, dovette essere in grado di rassicurare il coscienzioso amministra­ tore. In agosto, l’ex Imperatore aveva ricevuto da un benefattore privato e anonimo una somma calcolata per bastare alle sue necessità nei successivi cin­ que anni, oltre a seimila sterline per danni da diffamazione dai giornali di Beaverbrook. La Settima brigata, agli ordini di Gaibi, da Ambo; la Decima brigata, agli ordini di Tabellini, da Lechem ti; la Diciassettesima brigata (arabo-somala), agli ordini di Focanti, da Addis Abeba; una brigata mista, agli ordini di Lorenzini, da Ficcò; il battaglione alpini « Uorc-Amba », del Savoia Granatieri, dalle truppe di riserva nella capitale; e poi la Banda Criniti, la Banda Rollo, e il Gruppo Banda Ambo, agli ordini di Rocco, che erano presumibilmente le forze di ras Hailù. In precedenza sposata con Ligg Yasu e con degiacc Ighezzù. Uno dei venerabili anziani della storia etiopica - lo sceicco Cogiali del Beni Sciangul — rimase mortalmente ferito in uno scontro avvenuto in prossimità del confine sudanese, nelle vicinanze di Uombera. Dopo la partenza del ras Immirù da Gore, egli era stato nuovamente insediato dagli italiani, fatto Sultano dal Viceré e decorato con una medaglia d’argento al valore. Secondo la versione italiana, vi era stato, da parte di un gruppo di ribelli del Goggiam, tentativo di attraversare il Nilo a Sciogali, un tentativo sventato da Cogiali, ri­ masto gravemente ferito il 17 gennaio. Egli morì nell’ospedale italiano di Ad­ dis Abeba, all’età di quasi cent’anni dopo avere, nel corso della sua lunga esistenza, opposto gli scioani agli uomini del Goggiam, gli inglesi agli italiani, i suoi nemici gli uni contro gli altri e gli amici contro se stessi. Soltanto Mo­ hammed Yayo della Dancalia riuscì a sopravvivere più a lungo sotto regimi ancor più diversi - ma Mohammed Yayo dominava soltanto deserti di lava, mentre lo sceicco Cogiali aveva il controllo di qualcosa di assai più desiderabile, le miniere d’oro. Abiye Abebe dice che erano pervenute dall’Imperatore lettere le quali ordina­ vano di rifugiarsi nel Sudan. Uolde Johannes, l’unico giovane colto e che parlasse l’inglese tra i seguaci di Zaudiè Asfau, venne virtualmente rapito dal suo capo e costretto a riattraversare il Nilo e a intraprendere il quasi dispe­ rato viaggio di ritorno nello Scioa; ma è comprensibile che un capo montanaro come Zaudiè Asfau non volesse saperne di recarsi nel Sudan. Ma secondo un’altra versione, era stato Haile MariamMammo a incoronare Tsahai e a servirsi di lui nella sua lite con Abebè Aregai. Non è chiaro quale fosse il giuoco degli inglesi. I funzionari coloniali locali volevano assicurarsi il favore dei loro colleghi italiani e consideravano bandi­ ti tutti gli abissini; ma sembra improbabile che un commissario distrettuale avrebbe autorizzato gli autocarri italiani ad attraversare il confine senza aver

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avuto almeno l’autorizzazione del governatore della provincia, e probabilmente di Khartum. Se si fosse saputo in Inghilterra che profughi etiopi erano stati riconsegnati per essere senza dubbio giustiziati, lo scandalo sarebbe stato enor­ me - e questi nobili abissini possono probabilmente ringraziare la signora Pankhurst se sono ancora vivi.

NOTE AL CAPITOLO QUARTO

1. Non molto tempo dopo, Getahun Tessema attraversò il confine ancora più a nord, passando per Om Ager, e UoldeGiorgis Tedia, da un punto ancor più a settentrione, si portò nello Uolcait e nello Tsegghedè. 2. L’ultimissima fu un rastrellamento nel mese di giugno, al lato opposto della strada Gondar-Asmara, effettuato dalla colonna Tosti partita da Ifag, dalla colonna Angelini partita da Debrà Tabor, dalla colonna Barbacini partita da Debarec e dalla colonna Giagletti partita da Tucul Dingia. 3. Da non confondere con Galli. Galliani era stato colonnello nella 2“ Divi­ sione eritrea, comandata dal generale Pesenti, quale suo vice. 4. Giunsero inoltre notizie di un evento più lieto — dal punto di vista italiano — : la morte per malattia del « Piccolo Negus », Melaka Tsahai Yasu. La sua era stata una storia tragicamente breve; sembra che fosse effettivamente il figlio Ligg Yasu, ma avesse vissuto come un semplice pastorello sui monti, finché la verità sulle sue origini non era giunta alle orecchie dei capi ribelli, i quali avevano deciso di avvalersi di lui. Con la sua morte, scompare il terzo figlio di Ligg Yasu citato nella presente storia. Egli aveva potuto regnare breve­ mente e inaspettatamente nel suo remoto Impero sui monti dell’Ancoberino. 5. O Olika. 6. Telegramma di Stato n. 60008 « Segreto ». 7. Il 30 novembre 1938, dopo un discorso di Ciano alla Camera, i deputati italiani avevano intonato in coro « Tunisi, Corsica, Nizza, Savoia, Gibuti », un coro che compendiava le antiche rivendicazioni dei nazionalisti. Di qui la tensione. 8. Sia Lampson sia il Duca d’Aosta erano alti ben più di un metro e ottanta. Hailé Selassié era minuscolo. I primi due furono fotografati insieme; il Duca e Selassié sfortunatamente mai. 9. Vien fatto di domandarsi se il signor Bateman passò da una lingua all’altra, durante la conversazione, tanto per accertarsene. 10. In effetti, lo « Scioa era stato creato nel settembre 1938 (anche se poi aveva cessato di esistere soltanto in teoria) e suddiviso in un « settore occidentale » e in un « settore nord-orientale ». Ciò portava il numero dei governatori del­ l’Impero a sei: Eritrea, Somalia, Harar, Amhara, Galla-Sidamo e Scioa. Addis Abeba aveva un podestà, o sindaco. Nel 1939, per conseguenza, soltanto tre dei sei governatorati erano affidati a generali: Nasi nello Scioa, Frusci nell’Amhara e Gazzera nel Galla-Sidamo. 11. A proposito della nota di protesta consegnata da lord Perth, l’Ambasciato­ re inglese, Ciano scrisse : « sarebbe potuta essere redatta nel nostro ufficio ». Non ci si può stupire se le autorità fasciste consideravano gli inglesi una raz­ za pusillanime. 12. Knight Grand Cross of the British Empire. 13. E l'autore sarebbe l’ultimo a negare che egli continui ad essere all’altezza del­ la sua alquanto formidabile fama. 14. Platt, in questo caso, sottovalutava, tranne che per quanto concerne l’aviazio­ ne. Cavallero afferma che all’inizio del 1938 le forze terrestri dell’Impero con­ sistevano di quattordici battaglioni di fanteria regolare, cinquantatré di Camicie nere e ottantatré battaglioni indigeni, oltre a nove Gruppi bande, cinquantasette bande irregolari e sei gruppi di squadroni di cavalleria; a queste forze egli non fece che aggiungere per tutto l’anno nuovi battaglioni, nuove bande e altri reparti di cavalleria, per cui, già in giugno, (tenendo conto degli uomini di tutte e tre le armi) v’erano ottantottomila italiani e centoventicinquemila indigeni sotto le armi - un’altra prova dell’inefficienza del servizio

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informativo inglese. Platt, a quanto pare, si avvalse dei dati relativi alle forze armate dell’Impero resi noti pubblicamente alla Camera italiana. Vale a dire nessun forte potentato locale che conoscesse il mondo al di fuori della sua zona. In senso letterale si sbagliava: anche se risulta che ras Hailù partecipò in scarsa misura alle operazioni del 1938, dopo la partenza di Ca­ valiere il Duca d’Aosta e Nasi cominciarono il tentativo di capovolgere, o al­ meno tentarono di compiere i primi passi verso il capovolgimento della poli­ tica di Lessona del governo diretto. Ras Seyum fu richiamato dalla sua lunga «visita» in Italia; egli salpò da Napoli il 28 giugno; e così Aialeu Burrù. Pessima organizzazione dei servizi di sicurezza, vien fatto di supporre. Non ci si poteva permettere che degli etiopi si scatenassero agitando fucili. Giffard non durò a lungo dopo questa uscita. Venne sostituito durante l’estate dal mag­ gior generale D.P. Dickinson. L’ispettore generale esercitava il controllo sulle forze coloniali sia dell’Africa Orientale, sia dell’Africa Occidentale, ed era, per conseguenza, un personaggio molto importante in Africa, non certo sottoposto a semplici Governatori. «Non mi fu consentito di inviare agenti nel territorio italiano, sebbene tutti i nostri territori brulicassero di agenti italiani, né potei far nulla per mettermi in contatto con i ribelli etiopici, e così via... Tutti i Governatori fecero dell’ostruzionismo per quanto concerneva i miei agenti di passaggio » scrisse, e disse quasi l’esatta verità, il Comandante in capo nel Medio Oriente, Wavell, in seguito. Sembra che le autorità fossero state ciecamente cocciute, in particolare nel Sudan. Nonostante tutto ciò, ancora a metà luglio, Symes ri­ ferì che Nagradas Ballata era partito da Khartum « per unirsi agli scijtà di GabreMascal. Se verrà trovato nel territorio sudanese sarà arrestato, ma ab­ biamo ritenuto opportuno porvi a conoscenza dei fatti nel caso che il go­ verno italiano dovesse immaginare che siamo stati conniventi nel ritorno di lui ». Il commento del Foreign Office fu straordinariamente blando, tenuto conto delle circostanze: «In tal caso, buona fortuna a Nagradas! » Un reggimento formato da quattro battaglioni di Tirailleurs Sénégalais e un battaglione della Milizia indigena senegalese, oltre a una squadriglia di aerei Pothez e ad alcuni carri armati e mezzi corazzati. Una strana analisi, in quanto ammettevano altresì che la colonia era com­ pletamente bloccata e che nessun quantitativo di armi poteva passare.

NOTE AL CAPITOLO QUINTO

1. Il seguente brano di una lettera scritta da Newbold a Lord Lugar, il grande esponente del sistema del « governo indiretto » in Nigeria, sembra confermare tale punto di vista sulle intenzioni del Duca d’Aosta. È datata 11 novem­ bre 1939: « Gli italiani in Etiopia temono universalmente, tranne alcune teste calde, la guerra. Il paese non è ancora realmente pacificato e si trova in una tragica situazione economica. D’altro canto, gli italiani hanno nel Duca d’Aosta un Viceré davvero di prim’ordine, comprensivo e, sia detto di sfuggita, molto filo­ inglese. Mi incontrai con lui, durante il viaggio di ritorno, a Uadi Haifa, cinque giorni prima che la guerra venisse dichiarata, e mi sentii molto attrat­ to da! suo carattere e dai suoi scopi, sebbene le possibilità di creare la colo­ nia modello e felice nella quale spera dipendano dalla sua capacità di organiz­ zare un’amministrazione comprensiva ed esperta, cosa cui egli mira soprattut­ to... È un grande ammiratore del Sudan e legge con avidità libri coloniali inglesi, compresi i suoi. Mi disse: « Presumo che Bourdillon (Sir Bernard Bourdillon, Governatore della Nigeria, Governatore generale designato del Su­ dan) sia un lugardita », al che, naturalmente, io risposi: «Lo spero. » Questo giudizio favorevole sul Duca non era, osserviamo per inciso, univer­ salmente condiviso. In un rapporto compilato tre giorni prima di questa let­ tera, il console ad Addis Abeba riferì, a proposito degli ultimi decreti del Viceré : « Il Viceré, sebbene molto amato come appartenente alla Casa di Savoia, è considerato da molti troppo ’’bizzarro per poter essere un buon Governatore generale. Non fa che correre qua e là e si dice che sia troppo ossequiente nei confronti di Roma. Ma siccome è Roma a pagare, è logico che là vengano fatte le scelte” ». Esisteva un altro rapporto press’a poco analogo del console belga, Monsieur Beckers : « Depuis quelques temps le Vice-Roi se montre partisan de mesures qui, pour le moins qu’on puisse dire, sont assez bizarres ». Ad esempio, a nessuna donna era consentito guidare automobili, tenuto con­ to della scarsità di benzina. (Questo determinò il diffondersi dei calessi con ruote di gomma, che esistono tuttora in molti centri abitati dell’Etiopia). Stan­ do a Meekers, Patteggiamento generale del Duca era molto cambiato dopo il suo viaggio a Roma nell’agosto del 1939. Per quale ragione? Anche i suoi Ìntimi non lo sapevano. « D’une manière générale on n’est pas très satisfait de sa façon de gouverner. » 2. D’altro canto, il Viceré ricorse a un diverso tipo di minaccia. « Se la Chiesa etiopica rifiuta di dichiararsi indipendente » proclamò « sarà allora il Padre del Mondo, il Papa, ad amministrarla ». 3. Vedi The Spectator del 3 marzo e del 10 marzo 1939. Steer dava per dimo­ strata l’ipotesi della guerra con l’Italia e sosteneva che gli italiani avrebbero dovuto attaccare il Sudan perché, con riserve di viveri e di benzina per soli due o tre mesi, una politica difensiva avrebbe significato il suicidio. Poiché « i patrioti » non sarebbero stati in grado di opporsi a un’invasione del gene­ re, gli inglesi dovevano trasferire immediatamente una divisione nel Sudan. Un funzionario consolare, commentando gli articoli, si mostrò più scettico: per mancanza di rifornimenti, gli italiani non sarebbero stati in grado, a pa­ rer suo, di intraprendere un’invasione su vasta scala sia del Kenia sia del Sudan. 4. Madame Hugues, Rue Bertrand, 20, Parigi Vile. 5. Il maggiore Bentinck delle Goldstream Guards.

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6. Ligg Johannes rispose agli appelli a lui rivolti con orgoglio, ma anche con logica. 7. Forse, però, egli non morì fino ai primi mesi del 1941. Risulta che gli inglesi gli mandarono allora cinquanta fucili. Ma può trattarsi di una confusione di nomi. 8. « Eccellenza Teruzzi, Addis Abeba: Mancata sottomissione Abebè Aregai non mi sorprende affatto e questo perché io vi ho spesso manifestato miei dubbi sulla effettiva volontà di Abebè, il quale è molto probabilmente un puro e semplice agente francese. Se ritenete, come io penso, che la commedia sia du­ rata troppo a lungo senza che l’Alto Personaggio sia entrato in scena, e che il nostro prestigio ne abbia sofferto, non vi è che un mezzo per arrivare final­ mente allo scopo, e cioè l’azione militare immediata, dura, con impiego im­ ponente e risolutivo di uomini e armi, non esclusi i gas. « Per molte ragioni, anche di carattere europeo, non c’è più tempo da perdere, nemmeno un giorno. MUSSOLINI. » Il testo è riportato ne L’impero di Faccetta nera, di Carlo De Biase, pag. 141.

NOTE AL CAPITOLO SESTO

1. Dato che la presente storia sarà d’ora in poi costellata di riferimenti a brigate, divisioni e tutto l’altro armamentario della guerra moderna, sarà bene ricorda­ re al lettore non specializzato che cosa significavano tali termini. In linea ge­ nerale, un brigata, o reggimento, era la vera unità combattente : consisteva di circa tremila uomini ed era comandata in tutti gli eserciti, tranne quello inglese, da un « generale di brigata », e nell’esercito inglese da un brigadiere. (Questa è una delle ragioni per cui gli inglesi, astutamente, poterono van­ tarsi di aver avuto meno generali uccisi o fatti prigionieri che negli altri eserciti). Una brigata consisteva normalmente di tre battaglioni di fanteria, più qualche reparto di artiglieria, oltre ad alcuni carri armati o mezzi corazzati, ai servizi amministrativi, medici eccetera. Scendendo in ordine di importanza, il battaglione di fanteria, comandato da un colonnello, o, nell’eser­ cito italiano spesso da un maggiore, comprendeva dai cinquecento ai mille uomini. Il battaglione indigeno italiano era formato in teoria da diciassette ufficiali italiani, tre sottufficiali italiani, milleventiquattro uomini (con cento muli) suddivisi in tre compagnie fucilieri e in una compagnia mitraglieri; ma questi battaglioni, di rado, se non mai, raggiungevano il completo degli effet­ tivi. Risalendo, sempre in ordine di importanza, tre brigate (due nell’esercito italiano) formavano una divisione (da dieci a quindicimila uomini in tutto), e due divisioni formavano un corpo d’armata. Per quanto concerne il termi­ ne « squadriglia », esso si riferiva ai bombardieri e ai caccia in aviazione, e talora ai mezzi corazzati al suolo — di solito sei bombardieri o dieci caccia o dodici carri. 2. Cifre desunte principalmente da De Biase, op. cit. Poiché De Biase potè attingere ai documenti segreti di suo padre, i dati da lui citati possono essere considerati esatti, sia qui che altrove. 3. Più di altri centocinquanta apparecchi giunsero in volo nell’Etiopia dall’Italia, via Libia, una volta iniziate le ostilità. 4. Cfr. De Biase, op. cit., pag. 159 e segg., ove egli definisce l’Africa Orientale Italiana «un immenso magazzino militare» e cita dati: quanto ai mezzi di trasporto, sedicimila veicoli, comprendenti milleseicentoventicinque autocarri, ed enormi riserve di benzina e di nafta; quanto alle armi e alle munizioni, novecentottantaquattro cannoni e tre milioni e mezzo di proiettili, duecentosettantacinque mortai, quasi quattromila mitragliatrici pesanti, cinquemila mitragliatrici leggere, seicentosettantaduemilaottocento fucili con sedici mi­ lioni e mezzo di cartucce, e un milione e settecentocinquantamila bombe a mano. 5. Come riferisce De Biase, op. cit. 6. Questo timore di una rivolta generalizzata, incoraggiato dal Viceré per ragioni sue, era stato senza dubbio accresciuto da un rapporto straordinariamente pessimistico che era stato fatto circolare a Roma in aprile, un rapporto scrit­ to dall’ispettore generale della Milizia, Arconovaldo Bonacorsi. « In tutto l’Im­ pero » egli riferiva « la ribellione è latente e causerà una tragedia quando, se ci sarà guerra, inizieranno le ostilità. Se da una qualsiasi delle nostre fron­ tiere un solo reparto inglese o francese marcerà risolutamente nel nostro terri­ torio con la bandiera al vento, non gli occorreranno uomini armati, perché la maggior parte del popolo etiopico si unirà ad esso per battersi contro di noi e per scacciarci. Le nostre truppe sono coperte di stracci e a piedi nudi, e in una così deplorevole condizione di assoluta inferiorità in confronto agli etiopi che questi ultimi chiamano i soldati mendicanti. Milioni sono stati spesi nella costruzione di ville lussuose con mobili moderni, tappeti persiani

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e argenterie per i direttori generali del Governo e i vice Governatori ». Que­ sta frase e la seguente: «Passassimo dei nostri ufficiali, dall’aprile 1939 ad oggi, è divenuto un fenomeno normale », furono senza alcun dubbio il pa­ ragrafo che colpì i lettori; ma l’effetto era voluto. L’intero rapporto aveva lo scopo di accusare l’amministrazione civile di corruzione e di inefficienza e di proporre che il Partito, e soprattutto la Milizia, intervenissero imme­ diatamente. 7. Il 21 giugno il suo titolo venne modificato, ma non furono modificati i suoi compiti. Egli divenne vice Governatore generale (militare), e il dottor Daodiace diventò vice Governatore generale (civile).

NOTE AL CAPITOLO SETTIMO

1. Agli inizi del 1940 v’erano cinquemilaottocentosettantasei profughi etiopi nel Kenia, duemilatrecentotré dei quali uomini; e cinquecentoquarantanove diser­ tori eritrei, comprese dodici donne. Costoro, e i milleduecento che si trova­ no nella Somalia britannica, erano costati settantamila sterline all’anno per il mantenimento; e il Foreign Office e il Colonial Office da tempo stavano compiendo inutili tentativi per farli riaccettare dagli italiani. 2. Sulle alture vicino a El Ebeid, capitale della provincia del Kordofan, ove raggiunsero i sessanta italiani di Khartum già internati. Questi ultimi erano propensi a schernire gli uomini che li sorvegliavano e ad avvertirli che la guerra sarebbe finita di lì a due mesi. I soli italiani a non essere internati furono i sacerdoti e le suore: Newbold aveva accettato di lasciarli in libertà sulla parola quando, in precedenza, se ne era discussa la situazione, nell’even­ tualità di una guerra, con il Vescovo locale — un uomo il quale, saggiamente, aveva detto a Newbold che, a parer suo, Hitler era l’essere più satanico dopo Satana. 3. Per completare questa cronaca desolante di occasioni mancate : i quattro ri­ manenti sommergibili furono in ultimo richiamati, un anno dopo, a Bordeaux, occupata dai tedeschi. Quanto ai sette cacciatorpediniere italiani, soltanto una volta tentarono di attaccare un convoglio — nell’ottobre di quell’anno. Duran­ te l’azione che seguì, uno dei cacciatorpediniere, il Francesco Nullo venne re­ spinto sottocosta di un’isola vicino a Massaua e là bombardato e distrutto. Si ebbero, tuttavia, perdite anche nel campo opposto : la nave da guerra Kimberley fu colpita nel locale macchine e dovette essere rimorchiata a Por­ to Sudan. Ma, sui cinquecentonovanta convogli che passarono attraverso il Mar Rosso, quello fu l’unico a essere attaccato dal mare. Anche gli attacchi aerei risultarono pochi e inefficaci; tra giugno e dicembre, soltanto una nave venne affondata e un’altra danneggiata. 4. Una minuscola cittadina che egli descrisse in modo vivido, addirittura liri­ camente : « A volte andavamo ad Assab... Le case erano bianche e in stile orientale, e lungo le vie si allineavano palme da datteri, i cui dolci frutti ra­ gazzetti offrivano ai passanti. Separato dal villaggio si trovava il quartiere in­ digeno, che arrivava fino al mare, con piccole case bianche inframmezzate da centinaia di tucul. Nelle viuzze strette, ove si respirava l’odore acre degli in­ digeni, si incontravano tipi appartenenti a varie razze e religioni. Yemeniti della sponda asiatica, indiani con turbanti e sarong di mille colori diversi, somali seminudi ed etiopi vestiti soltanto di stracci. C’erano molte donne somale, ben fatte, dal dorso eretto e fiero, con le spalle rotonde e nude e sul capo gonfi otri pieni d’acqua; avevano i fianchi coperti da ampi sarong rossi e neri. Intorno al collo, ai polsi e alle caviglie portavano graziose colla­ ne gialle, braccialetti e cerchietti. Le donne amhara, invece, indossavano una semplice veste bianca che scendeva fino alle caviglie, stretta in vita da una fascia anch’essa bianca, e avevano il capo rivestito da una folta capigliatu­ ra splendente, unta di grasso, dall’odore disgustoso ». 5. La relativa clausola dell’armistizio diceva: « L’Italia avrà il pieno e costante diritto di servirsi del porto di Gibuti con tutti i suoi impianti, nonché del tratto francese della ferrovia Gibuti-Addis Abeba, per ogni genere di traspor­ ti ». Può sembrare stupefacente che gli italiani vittoriosi non avessero imposto condizioni più dure ai francesi, e non avessero insistito sull’annessione non soltanto di Gibuti, ma anche della Corsica, di Nizza e di Tunisi. Sembra che ciò fu dovuto alle pressioni esercitate da Hitler su Mussolini affinché accanto­ nasse tutti i problemi territoriali fino all’« imminente » Conferenza Europea

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per la Pace - e dal timore che pretese eccessive potessero indurre la vitale flotta francese a passare agli inglesi. « Bisogna essere moderati e non avere gli occhi più grandi dello stomaco » disse Ribbentrop a Ciano. Vedasi The Brutal Friendship, di F.W. Deakin, Cap. I. 6. E non mancano taluni osservatori, compreso Leonard Moseley, che si trovava allora nel Sudan, secondo i quali il Governatore generale e molti altri funzio­ nari ritenevano inevitabile l’occupazione italiana del Sudan : « Non è ingiusto aggiungere che si trattava di una prospettiva considerata da Symes e da mol­ ti funzionari civili del Sudan con una certa compiacenza ». Il Duca d’Aosta, asserisce Moseley, aveva assicurato a Symes che gli italiani non avrebbero distrutto l’amministrazione inglese nel Sudan. 7. « Non si vantò di essere mai riuscito a colpire ». Questo fu il primo scontro durante il quale gli inglesi fecero l’esperienza delle bombe a mano italiane, i piccoli « salvadanai » rossi e blu che potevano essere lanciati fino alla distan­ za di sessanta metri. « Esplodono all’urto » fecero rilevare gli inglesi « e produ­ cono uno strepito impressionante, ma soltanto di rado causano qualcosa di più di superficiali sforacchiamenti della pelle con i loro pallini e frammen­ ti metallici ». Le bombe a mano Mills impiegate dagli inglesi erano più le­ tali, ma si riusciva a lanciarle soltanto a breve distanza. Presentavano per­ tanto un grande svantaggio : potevano essere molto pericolose per chi le lanciava.

NOTE AL CAPITOLO OTTAVO

1. L’auagg era rivolto ai «Capi del popolo e guerrieri d’Etiopia» e iniziava di­ cendo : « Il giorno della liberazione è venuto. D’ora in poi la Gran Bretagna ci concede l’aiuto della sua incomparabile potenza militare per riconquistare la nostra completa indipendenza. Sto venendo da voi » ; e concludeva con le parole: «Gli inglesi... non bramano il nostro territorio. Sia che incontriate ufficiali inglesi o soldati inglesi, accoglieteli come amici e liberatori... Lunga vita all’Etiopia libera e indipendente! Lunga vita alla Gran Bretagna! ». 2. Il 3 giugno, Butler disse alla Camera dei Comuni che l’Inghilterra non rico­ nosceva più Vittorio Emanuele quale Imperatore d’Etiopia; ciò non equivale­ va a un nuovo riconoscimento di Hailé Selassie, ma era ovviamente un passo in tale direzione, e, da allora in poi, si sentì dire meno di frequente « ex Im­ peratore ». 3. Centocinquanta indigeni della tribù « di solito taciturna » degli Hadendoa, che aveva nome dal nazir dell’Hadendoa, cui era stato attribuito il nomignolo di « Frosty » (Gelido). 4. Ma le istruzioni impartite alla gente del posto sul modo di regolarsi con le bombe, causarono meno giubilo. Un uomo della tribù trovò, nella boscaglia, una bomba inesplosa. Aveva sentito dire che bisognava gettarsi a terra quando nelle vicinanze c’erano bombe, ma lui, dopo essersi gettato a terra, andando un pochino più in là delle istruzioni, la colpì con il bastone. La bomba esplose facendolo a pezzi. II fìglioletto di lui sopravvisse e potè così narrare quel che era accaduto perché era stato fatto allontanare di un certo tratto, in quanto suo padre non lo riteneva capace di rimanere fermo disteso a terra. 5. Secondo una teoria italiana, era stato soltanto un impulso sentimentale a in­ durre alla riconquista di Kassala, in origine italiana fino a quando non era stata ceduta, quarantatre anni prima, ai tempi del Mahdi, agli inglesi. 6. Con qualche successo finché le incursioni aeree non dimostrarono i limiti del loro potere. Il generale Tessitore e il colonnello Angelini, avendo come con­ sigliere un ex Governatore dell’Eritrea, Sua Eccellenza Gasperini, si recarono a far visita ai due nipoti di Sayed Sir Alì Mirghani, immediatamente dopo la loro cattura, e a quanto pare reinsediarono « i combattivi Ailaoui ». I due ni­ poti, Sayed Hassan el Mirghani e suo cugino Sayed Mohammed Othman, si dichiararono pronti a collaborare, a parole; ma per quanto concerneva i fatti, rimasero completamente passivi. In seguito, Newbold, alquanto ingenuamente, doveva lodare « la fedeltà e la fermezza dei due Sayed ». 7. In questa stessa zona, alcune settimane dopo, vi fu un episodio assai meno al­ legro. I missionari americani lungo il confine scrissero alle autorità italiane per far rilevare la loro presenza. Ricevettero una risposta che li invitava a sot­ tomettersi al « Governatorato del Gallo-Sidamo ». Dopo vari malintesi, gli italiani - così si espresse Newbold, « fecero una cosa bestiale » : bombarda­ rono e mitragliarono la sede della missione, uccidendo due missionari (com­ presa un’australiana, Miss Zilah Walsh), e ferendone altri due. Questa atro­ cità accadde il 23 agosto 1940. La «guerra dei gentiluomini» era finita.

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NOTE AL CAPITOLO NONO

1. II Corpo meharisti consisteva in una compagnia mitraglieri motorizzata, due compagnie motorizzate, due compagnie meharisti e un gruppo di pony - com­ plessivamente circa 600 uomini, con meno di 30 ufficiali inglesi. 2. Non v’è alcuna prova concreta del fatto che gli italiani si proponessero di impiegare il gas iprite contro i civilizzati francesi e inglesi come avevano fatto contro i barbari etiopi. Ma è, a dir poco, interessante il fatto che l’iprite esistesse ancora, disponibile per l’impiego in quella cosiddetta « guerra di gentiluomini ». 3. Ove godette lirici piaceri, lontano dalla ferocia della guerra. « A Harrar, in una valle ombrosa e verdeggiante vicino al guado al di là del torrente di monta­ gna, ho trovato un gruppo di splendide fanciulle somale, dalle vesti di cento colori diversi, che vendevano quelle grosse banane per le quali Harrar è rino­ mata. Circondato da queste aggraziate donne indigene con collane gialle ap­ pese intorno ai seni, ho acquistato la frutta offerta su ampie ceste dalle ven­ ditrici insistenti ». 4. Né furono aiutati nei loro tentativi da ciò di cui il comando italiano ancora non si era reso conto : le carte di cui si serviva, ricavate da una vecchia carta inglese del 1926, erano completamente errate e avevano confuso la pista SheikhLaferag con la strada Hargheisa-Berbera! Questa dimostrazione di incompeten­ za da parte degli ufficiali del comando fece fallire tutte le tentate manovre e contromanovre italiane sul terreno, inducendo i comandanti a non credere che gli inglesi potessero avere trovato posizioni difensive in profondità. È qua­ si impossibile sostenere battaglie vittoriose disponendo di carte imprecise, co­ me ben sa chiunque abbia un minimo di esperienza militare. 5. Anche se ventisei inglesi furono fatti prigionieri, compresi - ed è alquanto ver­ gognoso a dirsi - undici ufficiali (otto erano stati uccisi) ; inoltre, diciassette aerei con base a Aden erano stati abbattuti o gravemente danneggiati. Più di cinquemila fucili e centoventi autocarri caddero nelle mani degli italiani.

NOTE AL CAPITOLO DECIMO

1. Che egli fosse il più stimato da entrambe le parti lo si può dedurre da un progetto proposto in questo periodo del colonnello Natale, comandante della guarnigione italiana a Buriè. Natale calcolò che Mangascià Gimbirre avesse un seguito permanente di 4.000 uomini, 1.000 dei quali armati con fucili a ripetizione : un esercito almeno due volte più forte di quelli di tutti i suoi ri­ vali. E preparò un’azione di rastrellamento per eliminare tutti i ribelli del Goggiam: contro Belai Zellecà si sarebbe dovuta inviare una colonna di sei battaglioni coloniali, contro Negasc Bezibè soltanto cinque, ma contro Man­ gascià Gimbirre non meno di diciotto. Questo piano, datato 28 luglio, non fu mai attuato. 2. Inter alias, fucili del nuovo tipo con numerazione sul calcio, cinque penne stilografiche e inchiostro, sale, granturco e tessuti di cotone, zaini, borracce, cinturoni, pastrani, scovoli, olio lubrificante, e, per lui, giubba e calzoni da ufficiale tagliati su misura, buone scarpe, un berretto di pelo e un orologio. 3. Tuttavia, da altri brani di questa stessa lettera di Newbold, che sembrano contraddirsi, si può dedurre quanto fossero confusi i sentimenti delle perso­ nalità ufficiali di Khartum. « Domani cenerò di nuovo con l’Imperatore alla Clergy House - l’assistente del Vescovo gli offre un piccolo ricevimento, in quanto' questi tre giorni sono la grande festività etiopica della Santa Croce, chiamata Mascal. Ho per lui una grande ammirazione. Quasi tutti profughi degenerano, ma egli conti­ nua a essere dignitoso, mite e cortese, anche mentre ogni speranza è rinviata e non gli rimane che l’ombra di una Corte. Alcuni dei suoi seguaci possono essere barbari, ma lo erano anche quelli di Re Alfredo e i sassoni provenienti dalla Germania; inoltre, il paese apparteneva a loro e non minacciavano nes­ suno, ma Mussolini lo concupiva e voleva far colpo, per cui, con le bombe e con i gas scacciò il povero ometto dalla sua terra, che aveva una storia glo­ riosa come quella di Roma fino dai tempi della Regina di Saba. Spero che possa tornarvi e noi faremo del nostro meglio per lui ». Eppure: « Compatisco H.S. meno di quanto compatisca il Duca d’Aosta, che è un uomo molto colto e gentile, e un ottimo amministratore, e che ora si trova legato alla macchina nazista e vede la sua colonia gettata in una guer­ ra, con nemici all’interno oltre che all’esterno ». Non certo un tiranno, dun­ que; e, in questo caso, sembra esservi ben poca simpatia per i neo-garibaldi­ ni dalla pelle nera. 4. Si diceva che non mettesse mai piede fuori dell’accampamento con meno di mille uomini. Gli inglesi scambiarono la cosa, a torto, per un indizio di viltà. All’opposto, si trattava di un’abitudine che conferiva a Torelli un grande pre­ stigio presso la popolazione, abituata a giudicare tutti i grandi uomini dal numero dei loro seguaci armati. 5. Vien fatto di domandarsi se Hailé Selassié, nel periodo in cui era stato co­ stretto a sostare a Uadi Haifa, si fosse mai incontrato con la moglie dell’uomo che aveva dato tanto filo da torcere a Menelik. 6. Era inoltre presente un altro generale a Khartum, in quel periodo, anche se non credo che venne invitato alla conferenza. Si trovava là con uno pseudo­ nimo. Si trattava del generale Catroux, uno dei due Governatori militari schieratisi con la Francia Libera. Ma era stato estromesso dall’Indocina ancor più rapidamente di LeGentilhomme da Gibuti; da allora era divenuto il rap­ presentante e il leader della Francia Libera nel Medio Oriente, al fianco di Wavell.

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NOTE AL CAPITOLO UNDICESIMO

1. Per ordini di Eden e di Wavell in seguito a una richiesta di Hailé Selassié. In amarico arbegna e arbegnoc. Ma nel Kenia, e la cosa è abbastanza tipica, tutti, tranne l’avvilito Platt, continuarono a chiamarli sciftà. 2. Per due volte aveva subito bombardamenti a Bahar Dar. Ma, come sempre, la sua amarezza era stata moderata dalla bellezza dello scenario, una bellezza che egli non poteva non apprezzare e quasi ammirare. La prima volta era accaduto durante la notte. « La RAF, maligna, non vuole risparmiare nem­ meno quest’angolo dell’Africa; e stamane, alle 3.45, ha destato i dormienti facendoli trasalire e ha sganciato, come una doccia fredda, quasi dieci bom­ be, splendenti simili ad argento nei riflessi della luna ». La stessa cosa era avvenuta la volta successiva... « Veniamo destati da fucilate che danno l’al­ larme. La luna fa da complice all’aereo mentre ronza intorno intorno sopra di noi. È davvero un autentico inglese il pilota ai comandi; sembra non avere alcuna fretta; calmo, calcolatore, continua a girare sopra di noi, poveri uomi­ ni inerti, poi si allontana, ma soltanto per tornare dopo pochi minuti e lan­ ciare un razzo illuminante che, sospeso nell’aria, sembra far risplendere l’inte­ ra zona dei bersagli con la luce del giorno. L’aereo esegue passaggi ripetuti, sganciando una bomba alla volta, proprio come ad Assab. Viene investito dal­ le raffiche delle mitragliere contraeree e noi vediamo i traccianti intersecarsi da punti diversi del campo mentre mancano il bersaglio, non molto visibile. L’aereo sgancia alcuni spezzoni incendiari che ci irrorano con non so quale sostanza soffocante ; poi, a poco a poco, riviviamo nel nero silenzio che segue ».

NOTE AL CAPITOLO DODICESIMO

1. E, in seguito, l’esperienza gli consenti di confermare questo punto di vista. « I patrioti » scrisse « si battono bene soprattutto nella guerra di movimento. Mentre in essi lo spirito offensivo dovrebbe senz’altro venire incoraggiato, se la cavano meglio da soli. Le condizioni nelle quali si svolgono i loro attac­ chi sono tali da mettere a dura prova i nervi dei più incalliti ufficiali di car­ riera, ma ciò influenza positivamente i patrioti, che di norma sembrano essere ignari dei rischi spaventosi cui si espongono ». In altri termini, essi erano sem­ plicemente troppo coraggiosi per gli inglesi e anche la sola vista della loro te­ merarietà avrebbe fatto correre gelidi brividi lungo la spina dorsale delle truppe regolari. 2. In particolare per quanto concerne i suoi Centri Op. « Si riscontrò che i Cen­ tri Operativi, così come erano stati concepiti, potevano svolgere molti e di­ versi compiti, ma in pratica tali compiti erano risultati quasi sempre supe­ riori alle capacità degli ufficiali mediocri, o scadenti, prescelti. Lo standard dei sottufficiali era talmente basso che essi costituivano un impedimento. È diffìcile scorgere una giustificazione nell’invio di un gran numero di pessimi sottufficiali alla migliore scuola di guerra... Le esperienze fatte nel corso della campagna dimostrano che è preferibile disporre di una sola compagnia di prim’ordine anziché di una dozzina di battaglioni di buoni a niente. Ciò è particolarmente vero per quanto concerne la guerra dietro le linee nemiche, ove il bluff riveste una grande importanza ed è la qualità, più che la quantità dei colpi, a demoralizzare l’avversario ». 3. Lo spionaggio militare italiano, invero, riteneva che il piano fosse stato quel­ lo di fare attraversare la frontiera all’Imperatore e ai suoi uomini dopo l’oc­ cupazione di Gallabat-Metemma. Questo piano, se davvero esisteva - e sem­ bra possibile - venne naturalmente mandato a monte dall’insuccesso di Slim. 4. Altri commenti su Wingate, fatti all’autore da etiopi attualmente molto in vista, sono stati svariati, da « gli occhi di lui erano magnetici » (generale Aman Andom) a «era un uomo sciatto» (generale Gizau), «un uomo assai duro, ma mi piaceva moltissimo» (generale Abiye Abebè). 5. Non si trattava di un semplice tradimento e di doppio giuoco. In tutto il Beghemder i capi dei patrioti erano rimasti colpiti dagli ammonimenti di Blat­ ta Taclè, e si stavano preparando a battersi su due fronti, sia contro gli attuali occupanti, gli italiani, sia contro coloro che sospettavano sarebbero potuti divenire gli occupanti futuri, gli inglesi. Dall’Ermaciohò a Debrà Tabor erano, letteralmente, pronti ad attaccare gli inglesi se questi ultimi avessero dato a vedere in qualche modo di voler affondare radici. Ciò li coinvolgeva inevitabil­ mente in manovre complicate, gran parte delle quali incentrate sul personaggio imperiale di Ligg Johannes. 6. La qual cosa non è sorprendente, tenuto conto del suo carattere. Si tratta dello stesso uomo che, nel 1936, aveva abbandonato i cadetti e i loro ufficiali sve­ desi alla solitaria difesa di Ad Termaber contro l’avanzata di Badoglio. 7. Scrivo tra virgolette i titoli distribuiti dagli italiani, o quelli auto-conferiti, come nel caso di « ligg » Belai Zelleca. Ci si potrà domandare che cosa fos­ se stato degli altri due ras sottomessisi agli italiani. Ras Ghetacciù Abate, che non fu mai un grand’uomo come il padre, era stato impiegato in trattative fallite con Abebè Aregai... Ras Chebedde Mangascià si era dato al bere, se­ guendo l’esempio di molti nobili amhara.

NOTE AL CAPITOLO TREDICESIMO

1. Sembra che sia stato l’unico mercantile a giungere dall’estero in un porto dell’A.O.I; si trattò di una nave proveniente dal Giappone neutrale.

NOTE AL CAPITOLO QUATTORDICESIMO

1. Steer li osservò mentre venivano loro distribuiti i fucili. « Esagerando nel re­ citare, ciascun uomo aveva voluto a tutti i costi che gli si insegnasse a cari­ care e a sparare ». Ma quando i bersagli vennero collocati alla distanza di trecento metri, « ogni uomo piazzò nel centro del bersaglio tutte le pallot­ tole di un intero caricatore ». 2. Che si distinsero immediatamente attaccando e mettendo in fuga una pattu­ glia italiana a Om Ager, più a sud. Il figlio del generale Koenig era ufficiale subalterno in questo squadrone.

NOTE AL CAPITOLO DICIASSETTESIMO

1. Anche se, ancora Γ8 marzo, nuovi apparecchi giunsero in volo dalla Libia. 2. Che consistevano ora del Royal Sussex e del 4/16 Punjab, della Settima Bri­ gata di fanteria indiana, rafforzata con due battaglioni francesi provenienti dall’Africa Equatoriale Francese, con il 3° Battaglione Ciad di truppe colo­ niali, arrivato a piedi distintosi catturando il forte di Cub-Cub e facendo quasi cinquecento prigionieri, e con il battaglione comandato dal colonnello Mondar della famosa 13“ Demi-Brigade della Legione Straniera, che aveva circumnavigato il Capo fino a Port Sudan. 3. Il giorno in cui gli indiani, combattendo in prossimità della galleria ferro­ viaria, fecero prigioniero il comandante del Battaglione Bersaglieri dei Grana­ tieri di Savoia, il colonnello Fabiani.

NOTE AL CAPITOLO VENTESIMO

1. Cunningham spiegò che avrebbe garantito per l’incolumità, il vettovagliamen­ to e l’evacuazione dei civili solo se il Duca si fosse arreso incondizionatamente. In seguito la stessa tattica fu usata con successo a Gimma, contro Gazzera, da un altro generale britannico. 2. Era questo un fatto estremamente importante. Con Rommel nel deserto oc­ cidentale, la Germania che stava invadendo i Balcani e nel giro di pochi giorni, una ribellione in Iraq, le truppe britanniche al comando del gene­ rale Wavell erano ovunque sotto attacco - e gli italiani, isolati in Etiopia, si confortavano con la speranza di una sconfitta inglese e, addirittura, di una pronta via di scampo attraverso il deserto. Se non fosse stato cosi non avrebbero resistito come in realtà fecero. 3. Il maggiore Camelutti. 4. Il generale Aman Andom riferì in maniera molto vivida, all’autore, come egli, a quel tempo maggiore, fosse stato buttato fuori a calci, da un locale, da un sergente sudafricano. Il generale Aman Andom fu assassinato nel novembre del 1974 dai nuovi dit­ tatori militari dell’Etiopia, nel modo più vile. 5. Il generale Platt intendeva infatti, in un primo tempo, attaccare Nasi a Gondar. Alla fine comunque, Nasi fu lasciato per ultimo. 6. Aerei del 237° Squadrone (rhodesiano). I cannoni che tanto impressionarono il pilota erano quelli di due « Field Regiments of Artillery » al comando di Mayne.

BIBLIOGRAFIA

L’Autore ha compiuto un’ampia selezione di testi dalla estesa bibliografia di Richard Pankhurst « Provisional Bibliography on the Italian Invasion and Occupation and the Liberation of Ethiopia (1935-1941 ) », Londra, 1972.

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